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Magic. A Darker Shade of Magic
Magic. A Darker Shade of Magic
Magic. A Darker Shade of Magic
E-book428 pagine6 ore

Magic. A Darker Shade of Magic

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Info su questo ebook

Un'autrice numero 1 nelle classifiche del New York Times

«Incredibile!»
The Guardian

«Meraviglioso!»
Publishers Weekly

«Ipnotico!»
The Independent

Kell è uno degli ultimi maghi della specie degli Antari ed è capace di viaggiare tra universi paralleli e diverse versioni della stessa città: Londra. Ci sono la Rossa, la Bianca, la Grigia e la Nera, nelle quali accadono cose diverse in epoche differenti. È cresciuto ad Arnes, nella Londra Rossa, e ufficialmente è un ambasciatore al servizio dell’Impero Maresh, in viaggio alla corte di Giorgio III nella Londra Grigia, la più noiosa delle versioni di Londra, quella priva di magia. Ma Kell in verità è un fuorilegge: aiuta illegalmente le persone a vedere piccoli scorci di realtà ai quali, solo con le proprie forze, non avrebbero mai accesso. Si tratta di un hobby molto rischioso, però, e Kell comincia a rendersene conto. Dopo un’operazione di trasporto illegale andata storta, Kell fugge nella Londra Grigia e si imbatte in Delilah, una strana ragazza che prima lo deruba, poi lo salva da un nemico mortale, e infine lo convince a seguirla in una nuova avventura. Ma la magia è un gioco pericoloso e se vuoi continuare a giocare prima di tutto devi imparare a sopravvivere…

Il nuovo talento della letteratura americana
Da questo libro sarà presto tratto un film

«Con una meravigliosa scrittura, l’autrice ha costruito un’avventura esaltante tra i diversi mondi.»
Publishers Weekly

«Magic è un libro intelligente, divertente e sexy... La Schwab sa gestire sapientemente una trama ricca di colpi di scena e questo la rende la naturale erede al trono del fantasy contemporaneo.»
The Independent

«I lettori rimarranno incantati da questa storia magica, dal ritmo velocissimo, con un protagonista intrigante e un’eroina coraggiosa.»
Kirkus Reviews
V.E. Schwab
È un’autrice di romanzi per ragazzi e YA. Molto amata da critica e pubblico, sta attualmente collaborando con la Sony Pictures alla stesura della sceneggiatura per il film tratto dal suo romanzo Magic.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2017
ISBN9788822713032
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    Anteprima del libro

    Magic. A Darker Shade of Magic - V.E. Schwab

    e-narrativa.jpg

    1750

    Questo romanzo è un’opera di finzione.

    I personaggi, gli accadimenti e i dialoghi descritti

    sono frutto della fantasia dell’autrice.

    Ogni somiglianza con eventi, luoghi o persone reali,

    vive o defunte, è puramente casuale.

    Titolo originale: A Darker Shade of Magic

    Copyright © 2015 by Victoria Schwab

    Published in agreement with the author,

    c/o BAROR INTERNATIONAL, INC.,

    Armonk, New York, U.S.A.

    All rights reserved.

    Traduzione dalla lingua inglese di Clara Serretta e Angela Ricci

    Prima edizione ebook: ottobre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-1303-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    V.E. Schwab

    MAGIC

    A Darker Shade of Magic

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A coloro che sognano mondi sconosciuti

    Indice

    I. IL VIAGGIATORE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    II. I REALI ROSSI

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    III. IL LADRO GRIGIO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    IV. IL TRONO BIANCO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    V. LA PIETRA NERA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    VI. INCONTRO FRA LADRI

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    VII. L’INSEGUITORE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    VIII. UN ACCORDO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    IX. FESTA E FIAMME

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    X. UNA TORRE BIANCA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    XI. IL BALLO IN MASCHERA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    XII. IL SANTUARIO E IL SACRIFICIO

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    XIII. IL RE IN ATTESA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    XIV. L’ULTIMA PORTA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Ringraziamenti

    Questo è il dilemma quando si tratta di magia: non è una questione di forza, ma di equilibrio. Perché se il potere è troppo esiguo, diventiamo deboli. Se è troppo grande, diventiamo qualcosa di completamente diverso.

    Tieren Serense,

    primo sacerdote del Santuario di Londra

    I. Il viaggiatore

    Capitolo 1

    Kell indossava un cappotto molto particolare.

    Non aveva né un solo verso, come sarebbe stato normale, né due, che sarebbe stato insolito ma plausibile, bensì numerosi, il che era – ovviamente – impossibile.

    La prima cosa che faceva quando metteva un piede fuori da una Londra per andare in un’altra era sfilare il cappotto e rivoltarlo una o due volte (o addirittura tre) fino a quando non trovava il verso di cui aveva bisogno. Non tutti erano alla moda, ma ognuno di essi aveva uno scopo. C’erano quelli fatti per confondersi, quelli fatti per risaltare, e quelli che non servivano a nulla ma a cui lui era particolarmente affezionato.

    Così, quando Kell passò attraverso il muro del palazzo nell’anticamera, si fermò un istante per stabilizzarsi – ha il suo prezzo da pagare, muoversi fra i mondi – poi si sfilò il cappotto rosso dal bavero alto e lo rigirò da destra a sinistra per trasformarlo in una semplice giacca nera. O meglio, una semplice giacca nera elegantemente bordata da un filo argentato e abbellita da due file scintillanti di bottoni, anch’essi d’argento. Il solo fatto di adottare una palette di colori più modesta quando era all’estero (non volendo né offendere i reali locali, né attirare l’attenzione) non significava che dovesse sacrificare lo stile.

    Ah, i re, pensò Kell mentre abbottonava il cappotto. Iniziava a ragionare come Rhy.

    Sul muro alle sue spalle, riusciva appena a distinguere la traccia simile a un fantasma lasciata dal suo passaggio. Come un’impronta sulla sabbia, stava già scomparendo.

    Non si era mai preoccupato di segnare la porta da questo lato, semplicemente perché non sarebbe mai tornato indietro da lì. La distanza fra Windsor e Londra era davvero scomoda considerato che, quando viaggiava fra i mondi, Kell poteva spostarsi solo da un luogo al suo doppio identico e speculare. Il che era un problema, perché non c’era nessun castello di Windsor a un giorno di viaggio da Londra Rossa. Infatti, Kell aveva appena attraversato il muro di pietra di un cortile appartenente a un ricco gentiluomo in una città chiamata Disan. Disan era, nel complesso, un luogo molto piacevole.

    Windsor, invece, no.

    Notevole, senz’altro. Ma non piacevole.

    Un ripiano di marmo correva lungo il muro, e sopra lo aspettava una bacinella d’acqua, come sempre. Immerse la mano sporca di sangue e la corona d’argento che aveva usato per il passaggio, poi fece scivolare la corda a cui era appesa sopra la testa e tornò a infilare la moneta sotto il colletto. Nella sala dinanzi, riusciva a sentire lo strascichio dei piedi, il basso mormorio di domestici e guardie. Aveva scelto l’anticamera proprio per evitarli. Sapeva molto bene quanto poco il Principe reggente gradisse la sua presenza lì, e l’ultima cosa che Kell voleva era un pubblico, un ammasso di orecchie e occhi e bocche che riferissero a chi occupava il trono i dettagli sulla sua visita.

    Sopra il ripiano e la bacinella era appeso uno specchio dalla cornice dorata, e Kell vi controllò rapidamente il proprio riflesso – i capelli, di un castano rossiccio, gli erano finiti su un occhio e lui non li aveva sistemati, sebbene si fosse preso la briga di lisciarsi le spalle del cappotto – dopo di che attraversò una serie di porte per incontrare il suo ospite.

    Nella stanza c’era un caldo soffocante – le finestre erano serrate, nonostante fosse una bella giornata di ottobre – e un fuoco ardeva intenso nel camino.

    Giorgio III sedeva lì accanto, una vestaglia che faceva sembrare ancor più piccole le membra avvizzite e un vassoio con del tè ancora intonso sulle ginocchia. Quando Kell varcò la soglia, il re afferrò i bordi della propria sedia.

    «Chi va là?», urlò senza voltarsi. «Rapinatori? Fantasmi?»

    «Dubito che un fantasma risponderebbe, vostra maestà», rispose Kell, annunciandosi.

    Il re malato sfoderò un sorriso in decomposizione. «Maestro Kell», disse. «Mi hai fatto aspettare».

    «Non più di un mese», replicò l’altro, facendo un passo avanti.

    Re Giorgio strizzò gli occhi ciechi. «È passato più tempo, ne sono sicuro».

    «Ve lo giuro, no».

    «Forse non per te», sottolineò il re. «Il tempo non è lo stesso per il pazzo e per il cieco».

    Kell sorrise. Il re era in forma quel giorno. Non accadeva sempre. Non era mai certo di come avrebbe trovato sua maestà. Forse era sembrato che fosse passato più di un mese, perché l’ultima volta che Kell era stato lì, il re era in uno dei suoi momenti di crisi, e Kell era stato a malapena in grado di placare i suoi fragili nervi abbastanza a lungo da riferire il proprio messaggio.

    «Forse è l’anno a essere cambiato», proseguì il re. «E non il mese».

    «No, l’anno è lo stesso».

    «E che anno è questo?».

    Kell si accigliò. «1819».

    Una nuvola passò sul volto di re Giorgio, poi il sovrano scosse la testa e disse: «Tempo», come se quell’unica parola potesse essere la causa di ogni cosa. «Avanti, siediti», aggiunse, indicando la stanza. «Deve esserci un’altra sedia da qualche parte».

    Non c’era. La camera era sorprendentemente vuota, e Kell era certo che le porte della sala venissero chiuse e aperte dall’esterno, non dall’interno.

    Il re tese una mano nodosa. Gli avevano portato via gli anelli, per impedirgli di ferirsi da solo, e le sue unghie erano state tagliate cortissime.

    «La mia lettera», disse, e per un attimo Kell vide un barlume del Giorgio che era un tempo. Regale.

    Kell si tastò le tasche del cappotto e realizzò di aver dimenticato di tirare fuori gli appunti prima di cambiare verso. Si sfilò la giacca e tornò per un momento alla versione rossa, affondando le mani nelle pieghe finché non trovò la busta. Quando la consegnò nelle mani del re, questi la sfiorò e accarezzò il sigillo di cera – l’emblema rosso del trono, un calice con un sole che sorge – poi avvicinò la carta al naso e inspirò.

    «Rose», disse nostalgico.

    Si riferiva alla magia. Kell non aveva mai notato il vago profumo aromatico di Londra Rossa che gli rimaneva attaccato ai vestiti, ma ogni volta che viaggiava, qualcuno gli diceva che profumava di fiori freschi appena tagliati. Alcuni parlavano di tulipani. Altri di gigli. Crisantemi. Peonie. Per il re d’Inghilterra, erano sempre rose. Kell era contento di sapere che era un profumo piacevole, anche se non riusciva a sentirlo. Era in grado di riconoscere quello di Londra Grigia (fumo) e di Londra Bianca (sangue), ma per lui Londra Rossa sapeva semplicemente di casa.

    «Aprila per me», gli ordinò il re. «Ma non rovinare il sigillo».

    Kell fece quanto gli era stato detto, e tirò fuori il contenuto dalla busta. Per una volta, era grato del fatto che il re non riuscisse più a vedere, così non avrebbe saputo quanto breve fosse la lettera. Appena tre righe. Una cortesia resa a una figura di rappresentanza ormai malata, ma nulla di più.

    «È della mia regina», spiegò Kell.

    Il re annuì. «Vai avanti», comandò, ostentando una solenne espressione del viso che contrastava con il suo aspetto fragile e la sua voce fiacca. «Vai avanti».

    Kell deglutì. «Saluti a vostra maestà, re Giorgio III», lesse, «da un trono vicino».

    La regina non parlava di trono rosso, né aveva inviato i saluti da Londra Rossa (anche se la città era in realtà abbastanza cremisi, per via della luce ricca e piena del fiume), perché non la considerava in quel modo. Per lei, e per chiunque avesse abitato in una sola Londra, non c’era bisogno di distinguerle. Quando i governanti di una conversavano con quelli di un’altra, semplicemente le chiamavano le altre o quelle vicine, o talvolta (e soprattutto nel caso di Londra Bianca) in termini ancor meno lusinghieri.

    Solo i pochi che riuscivano a spostarsi fra le diverse Londra avevano bisogno di chiamarle in modo diverso. E così Kell – ispirato dalla città perduta che tutti conoscevano come Londra Nera – aveva assegnato un colore a ciascuna capitale restante.

    Grigio per la città meno magica.

    Rosso per il ricco impero.

    Bianco per il mondo affamato.

    In verità, le città stesse si somigliavano a malapena l’una con l’altra (e i Paesi intorno ancora meno). Il motivo per cui tutte venissero chiamate Londra era di per sé un mistero, sebbene la teoria prevalente sostenesse che una di esse aveva preso il nome molto tempo addietro, prima che le porte fossero tutte sigillate e le uniche cose che avevano il permesso di spostarsi fossero le lettere fra re e regine. In merito a quale città avesse per prima rivendicato il nome, nessuno riusciva a mettersi d’accordo.

    «Ci auguriamo che stiate bene», continuava la lettera della regina, «e che la stagione sia propizia nella vostra città come è nella nostra».

    Kell fece una pausa. Non c’era scritto altro, a parte la firma. Re Giorgio si torse le mani.

    «Tutto qui?», chiese.

    Kell esitò. «No», disse ripiegando la lettera. «È soltanto l’inizio».

    Si schiarì la gola e inizio a camminare avanti e indietro mentre raccoglieva i pensieri e li traduceva in parole della regina. «Grazie per aver chiesto della nostra famiglia, dice. Io e il re stiamo bene. Il principe Rhy, d’altro canto, continua a impressionarci e farci infuriare in ugual misura, ma almeno è passato un mese senza che si rompesse il collo o prendesse in sposa una donna non adeguata. Il nostro ringraziamento va al solo Kell, per avergli impedito di fare l’una e l’altra cosa».

    Kell aveva ogni intenzione di lasciare che la regina si soffermasse sui suoi meriti, ma proprio in quel momento l’orologio sul muro segnò le cinque, e lui imprecò a mezza voce. Stava facendo tardi.

    «Fino alla mia prossima lettera», si affrettò a concludere, «siate felice e state bene. Con affetto. Sua Altezza Emira, Regina di Arnes».

    Kell attese che il re dicesse qualcosa, ma i suoi occhi ciechi avevano un’espressione immobile, lontana, e Kell temette di averlo perduto. Aveva riposto la lettera ripiegata sul vassoio del tè e percorso metà strada verso il muro quando lui parlò.

    «Non ho una lettera per lei», mormorò.

    «Va bene», disse Kell con dolcezza. Il re non riusciva a scriverne una da anni. Per qualche mese aveva tentato, trascinando la piuma a caso per la pergamena, poi aveva insistito che Kell trascrivesse quello che lui gli dettava, ma la maggior parte delle volte aveva semplicemente detto a Kell il messaggio da riferire, e lui aveva promesso di ricordarsene.

    «Vedi, non ho tempo», aggiunse il re, cercando di salvare le ultime vestigia della propria dignità. Kell glielo lasciò fare.

    «Capisco», rispose. «Porterò alla famiglia reale i vostri saluti».

    Kell si voltò di nuovo per andarsene, e di nuovo il vecchio re gli intimò di fermarsi.

    «Aspetta, aspetta», disse. «Torna qui».

    Kell si bloccò. Lo sguardo si posò sull’orologio. Era tardi, sempre di più. Immaginò il principe reggente seduto al suo tavolo a St James, aggrappato alla sedia, che sbuffava. Il pensiero fece sorridere Kell, quindi si voltò verso il re mentre questi, con le dita che gli tremavano, tirava fuori qualcosa dalla vestaglia.

    Era una moneta.

    «Sta sbiadendo», disse il re, con le mani segnate dal tempo messe a coppa, tenendo il pezzo di metallo quasi fosse prezioso e fragile. «Non riesco più a sentire la magia. Non riesco a sentirne l’odore».

    «Una moneta è una moneta, vostra maestà».

    «Non è così e tu lo sai», brontolò il vecchio re. «Rivoltati le tasche».

    Kell sospirò. «Mi metterete nei guai».

    «Forza, forza», aggiunse il re. «Il nostro piccolo segreto».

    Kell affondò la mano in una tasca. La prima volta che aveva fatto visita al re d’Inghilterra, egli gli aveva dato una moneta come prova di chi era e da dove proveniva. La storia delle altre Londra era affidata alla corona e tramandata di erede in erede, ma erano anni ormai che non si vedeva un viaggiatore. Re Giorgio aveva lanciato un’occhiata a quel ragazzino e gli aveva teso la mano carnosa, e Kell aveva messo la moneta nel suo palmo. Era semplice, simile a uno scellino grigio, solo che c’era una stella rossa anziché il volto di un membro della famiglia reale. Il re aveva chiuso il pugno sulla moneta e l’aveva avvicinata al naso, annusandola. E poi aveva sorriso, infilandola nel proprio cappotto, e dando il benvenuto a Kell.

    Da quel giorno, ogni volta che Kell gli faceva visita, il re insisteva dicendo che la magia aveva abbandonato la moneta, e lo convinceva a scambiarla con un’altra, nuova e fresca di tasca. Ogni volta Kell diceva che era proibito (come in effetti era), e ogni volta il re insisteva perché fosse il loro piccolo segreto, così Kell sospirava e prendeva un pezzetto di metallo nuovo dal suo cappotto.

    Ora prese la vecchia moneta dal palmo del re e la sostituì con una nuova, chiudendo con cura le nodose dita di Giorgio su di essa.

    «Sì, sì», cinguettò il re malato alla moneta che aveva nel palmo.

    «Prendetevene cura», si raccomandò Kell voltandosi.

    «Sì, sì», disse il re, mentre la sua presenza di spirito andava sparendo finché non si ritrovò lontano dal mondo e dai suoi ospiti.

    Le tende si incontravano all’angolo della stanza, e Kell tirò di lato il pesante tessuto rivelando un segno sulla tappezzeria decorata. Un semplice cerchio, tagliato a metà da una linea, tracciato nel sangue un mese prima. Su un altro muro in un’altra stanza in un altro palazzo, ce n’era uno uguale. Erano come maniglie sui lati opposti della medesima porta.

    Il sangue di Kell, se associato a quel simbolo, gli permetteva di muoversi fra i mondi. Non aveva bisogno di specificare un luogo perché ovunque andasse, era dove sarebbe dovuto essere. Ma per creare una porta dentro un mondo, entrambi i lati dovevano essere marchiati con lo stesso identico segnale. Che fosse simile non era sufficiente. Kell lo aveva imparato nel modo peggiore.

    Il simbolo sul muro era ancora ben visibile dalla sua ultima visita, solo i bordi erano leggermente sbiaditi, ma non aveva importanza. Bisognava rifarlo.

    Arrotolò una manica e liberò il coltello che teneva legato all’avambraccio. Era un bell’oggetto, quel coltello, un’opera d’arte, argento dalla punta all’impugnatura e decorato con le lettere K e L.

    L’unica reliquia di un’altra vita.

    Una vita che non conosceva. O almeno, che non ricordava.

    Kell accostò la lama all’avambraccio. Aveva già intagliato una linea quel giorno, per la porta che l’aveva condotto fino a lì. Ora ne disegnò una seconda. Il suo sangue, di un ricco rosso rubino, sgorgò fuori, al che lui ripose il coltello nel fodero e toccò con le dita il taglio e poi il muro, ritracciando il cerchio e la linea che lo attraversava. Kell srotolò la manica sulla ferita – avrebbe curato tutti i tagli una volta tornato a casa – e lanciò un’ultima occhiata al balbettante re, prima di premere il palmo sul segno nel muro.

    Mormorò un incantesimo.

    «As Tascen», disse. Trasferimento.

    La tappezzeria si increspò, si ammorbidì e cedette al suo tocco; Kell fece un passo avanti e la attraversò.

    Capitolo 2

    Tra una falcata e l’altra, la cupa Windsor divenne l’elegante St James. Una stanza soffocante lasciò il posto a tappezzerie vivaci e argenti lucidati, e i brontolii del re pazzo vennero rimpiazzati da una quiete pesante e un uomo dall’aria davvero molto irritata, che sedeva al capo di un tavolo riccamente ornato, stringendo un calice di vino.

    «Sei in ritardo», osservò il principe reggente.

    «Le mie scuse», disse Kell con un inchino troppo breve. «Avevo una faccenda da sbrigare».

    Il principe reggente posò la sua coppa. «Credevo di essere io la tua faccenda, maestro Kell».

    Kell si raddrizzò. «Vostra altezza, ho l’ordine di andare a trovare prima il re».

    «Desidero che tu non perda tempo con lui», ribatté il principe reggente, anch’egli di nome Giorgio (Kell trovava ridondante e disorientante il fatto che i figli di Londra Grigia avessero l’abitudine di prendere il nome dei propri padri), con uno sprezzante gesto della mano. «Lo mette di buonumore».

    «È una cosa negativa?», chiese Kell.

    «Per lui, sì. Più tardi si lascerà prendere dalla foga. Danzerà sui tavoli parlando di magia e delle altre Londra. Che trucco hai fatto per lui stavolta? Lo hai convinto che può volare?».

    Solo una volta Kell aveva fatto quello sbaglio. Alla visita successiva aveva scoperto che il re d’Inghilterra si era quasi buttato da una finestra. Al terzo piano. «Vi assicuro che non ho dato alcuna dimostrazione».

    Il principe Giorgio si pizzicò il naso. «Non riesce più a tenere a freno la lingua come un tempo. È per questo che è confinato nei suoi alloggi».

    «È imprigionato, dunque?».

    Il principe Giorgio lasciò correre la mano lungo il bordo dorato del tavolo. «Windsor è un luogo del tutto rispettabile in cui essere trattenuti».

    Una prigione rispettabile resta pur sempre una prigione, pensò Kell, tirando fuori una seconda lettera dalla tasca del cappotto. «La vostra corrispondenza».

    Il principe lo costrinse a restare lì in piedi mentre leggeva il biglietto (non commentava mai il fatto che profumasse di fiori), poi tirò fuori dalla tasca interna del cappotto una risposta finita a metà e la completò. Stava chiaramente perdendo tempo per fare un dispetto a Kell, ma a quest’ultimo non importava. Si teneva occupato tamburellando le dita sul bordo del tavolo dorato. Ogni volta che passava dal mignolo all’indice, una delle tante candele della stanza si spegneva.

    «Deve essere una bozza», disse sovrappensiero mentre la presa del principe reggente stringeva la piuma. Quando finì di scrivere, ne aveva rotte due ed era di cattivo umore, mentre Kell si scopriva molto più ben disposto di prima.

    Porse la mano per prendere la lettera, ma il principe reggente non gliela consegnò. Invece, si alzò dal tavolo. «Sono stufo di stare seduto. Facciamo una passeggiata».

    Kell non ne aveva voglia, ma visto che non poteva andarsene a mani vuote, fu costretto a obbedire. Non prima però di essersi messo in tasca l’ultima piuma ancora intonsa lasciata sul tavolo dal principe.

    «Tornerai direttamente indietro?», chiese il principe mentre conduceva Kell verso una porta al riparo da sguardi indiscreti, quasi nascosta da una tenda.

    «Presto», rispose Kell, staccandolo di un passo. Due membri della guardia reale si erano uniti a loro nella sala e ora si muovevano con fare furtivo alle loro spalle, come ombre. Kell riusciva a sentire i loro occhi su di sé, e si chiedeva quanto sapessero del loro ospite. Ovviamente i reali sapevano chi era, ma potevano decidere cosa era opportuno che sapessero coloro che erano al loro servizio.

    «Credevo che il tuo unico impegno fosse con me», riprese il principe.

    «Ammiro la vostra città», rispose Kell con delicatezza. «E quello che faccio è sfiancante. Mi farò una passeggiata e prenderò un po’ d’aria fresca, poi tornerò indietro».

    La bocca del principe era una linea sottile e arcigna. «Temo che l’aria qui in città non sia ritemprante come in campagna. Com’è che ci chiami… Londra Grigia? Ultimamente è un nome fin troppo adatto. Resta per cena». Il principe concludeva quasi ogni frase con un punto fermo. Anche le domande. Rhy faceva lo stesso, e Kell pensò che doveva semplicemente trattarsi di una conseguenza del non essersi mai sentiti dire un no.

    «Te la passerai meglio qui», insistette il principe. «Permettimi di farti riprendere con del vino e un po’ di compagnia».

    Sembrava un’offerta abbastanza gentile, ma il principe reggente non faceva nulla per gentilezza.

    «Non posso fermarmi», disse Kell.

    «Insisto. La tavola è pronta».

    E chi sta arrivando?, si chiese Kell. Cosa voleva il principe? Metterlo in mostra? Kell spesso sospettava che gli sarebbe piaciuto molto, se non altro perché il giovane Giorgio trovava i segreti scomodi, preferendo lo spettacolo. Ma al netto di tutte le sue colpe, il principe non era un pazzo, e solo un pazzo avrebbe dato a uno come Kell la possibilità di distinguersi. Londra Grigia aveva dimenticato la magia molto tempo prima. Non sarebbe stato certo Kell a ricordargliela.

    «Una gentilezza squisita, vostra altezza, ma preferisco restare spettatore che dare spettacolo». Kell scosse la testa così che i capelli color rame lasciassero scoperti gli occhi, rivelando non solo l’azzurro freddo del sinistro, ma anche il duro nero del destro. Un nero che correva da un angolo all’altro, riempiendo sia il bianco che l’iride. Non c’era nulla di umano in quell’occhio. Era pura magia. Il marchio di un mago del sangue. Di un Antari.

    Kell assaporò quanto vide negli occhi del principe reggente quando questi cercò di sostenere il suo sguardo. Cautela, disagio… e paura.

    «Sapete perché i nostri mondi sono tenuti separati, vostra altezza?». Non aspettò la risposta del principe. «È per tenere il vostro al sicuro. Vedete, c’è stato un tempo, secoli fa, in cui non erano così lontani. Le porte correvano fra il vostro mondo e il mio, e chiunque avesse un pizzico di potere poteva attraversarle. La magia stessa poteva. Ma il punto, con la magia», aggiunse Kell, «è che prende di mira i decisi e i deboli, e uno dei mondi non è riuscito a fermarsi. Le persone si sono nutrite della magia e la magia si è nutrita di loro, fino a che non ha divorato i loro corpi, le loro menti e, infine, le loro anime».

    «Londra Nera», sussurrò il principe reggente.

    Kell annuì. Non aveva dato lui a quella città il suo colore distintivo. Tutti – almeno, tutti quelli di Londra Rossa e di Londra Bianca – conoscevano la leggenda di Londra Nera. Era una storia della buonanotte. Una favola. Un avvertimento. Che parlava di una città – e di un mondo – che non esisteva più.

    «Sapete cosa hanno in comune la vostra città e Londra Nera, vostra altezza?». Gli occhi del principe reggente si ridussero a una fessura, ma lui non lo interruppe. «Entrambe mancano di sobrietà», spiegò Kell. «Entrambe hanno fame di potere. L’unica ragione per cui la vostra Londra esiste ancora è perché è stata tagliata fuori. Ha imparato a dimenticare. Voi non volete che ricordi». Quello che Kell non disse era che nelle vene di Londra Nera scorreva un fiume di magia, mentre Londra Grigia non ne aveva quasi per niente; voleva mettere a segno un punto. E a quanto pareva, c’era riuscito. Questa volta, quando porse la mano per prendere la lettera, il principe non si rifiutò, né provò a opporre resistenza. Kell nascose la pergamena in tasca insieme alla piuma rubata.

    «Vi ringrazio, come sempre, per la vostra ospitalità», disse prodigandosi in un inchino esagerato.

    Il principe reggente chiamò una guardia con un singolo schiocco delle dita. «Assicurati che maestro Kell riesca ad andare dove deve». E poi, senza aggiungere altro, si voltò e si allontanò a grandi passi.

    Le guardie reali lasciarono Kell al limitare del parco. St James Palace incombeva alle sue spalle. Londra Grigia si stendeva dinanzi ai suoi occhi. Egli trasse un respiro profondo e assaporò il fumo nell’aria. Desideroso com’era di tornare a casa, aveva alcuni affari di cui occuparsi, e dopo aver sopportato i malanni del re e l’atteggiamento del principe, poteva concedersi una bevuta. Si pulì le maniche, raddrizzò il colletto e s’incamminò verso il cuore della città.

    I piedi lo condussero attraverso St James Park, giù per un tranquillo e sporco sentiero che costeggiava il fiume. Il sole stava tramontando, l’aria era frizzante, anche se non pulita, e una brezza autunnale gli faceva svolazzare i bordi del cappotto nero. S’imbatté in un ponte pedonale di legno che attraversava il fiume, e i suoi stivali rimandarono un suono morbido mentre lo attraversava. Kell si fermò sulla sommità del ponte, Buckingham House illuminata dalle lanterne alle sue spalle e il Tamigi davanti. L’acqua sciabordava dolcemente sotto le assi di legno. Si appoggiò con i gomiti sulla ringhiera e guardò in basso. Quando piegò le dita sovrappensiero, la corrente si fermò, l’acqua immobile, liscia come vetro, sotto di lui.

    Osservò il proprio riflesso.

    Non sei poi così bello, avrebbe detto Rhy, come faceva ogni volta che trovava Kell intento a guardarsi allo specchio.

    Non mi basto mai, avrebbe risposto Kell, anche se non si guardava mai davvero, non nella sua interezza: solo il suo occhio. Il destro. Anche a Londra Rossa, dove la magia prosperava, quell’occhio lo distingueva dagli altri. Lo marchiava sempre come un diverso.

    Una risata argentina esplose alla destra di Kell, seguita da un grugnito, e da alcuni altri rumori, meno distinti; la tensione abbandonò la sua mano e il fiume riprese a muoversi sotto di lui. Kell proseguì fino a che il parco non lasciò il posto alle strade di Londra, e poi all’incombente sagoma di Westminster. Era affezionato all’abbazia, e lanciò nella sua direzione un cenno di saluto, quasi fosse una vecchia amica. Nonostante la fuliggine e la sporcizia, il disordine e i poveri, quella città aveva qualcosa che mancava a Londra Rossa: la resistenza al cambiamento. La riconoscenza per ciò che dura, e lo sforzo necessario perché qualcosa possa farlo.

    Quanti anni ci erano voluti per costruire l’abbazia? Quanti altri sarebbe rimasta in piedi? A Londra Rossa, le mode cambiavano più spesso delle stagioni, e con loro i palazzi venivano eretti e abbattuti e di nuovo eretti in fogge diverse. La magia rendeva le cose semplici. A volte, pensò Kell, "rende le cose troppo semplici".

    Quando era a casa c’erano state notti in cui gli sembrava di essere andato a letto in un posto e di essersi svegliato in un altro.

    Ma qui l’abbazia di Westminster restava sempre in piedi, pronta ad accoglierlo.

    S’incamminò verso la struttura torreggiante in pietra, per le strade affollate di carrozze, e giù lungo una stradina stretta che abbracciava il cortile del rettore, cinta da un muro in pietra coperto di muschio. La viuzza diventava sempre più angusta, fino a fermarsi di fronte a una taverna.

    E lì si fermò anche Kell e si sfilò il cappotto. Lo rivoltò un’altra volta da destra a sinistra, passando dal capo nero con i bottoni d’argento a un look più sobrio e modesto: una giacca marrone dal colletto alto con gli orli sfilacciati e consumata all’altezza dei gomiti. Tastò le tasche e, soddisfatto di essere pronto, entrò.

    Capitolo 3

    Il Tiro di Schioppo era una taverna piccola e strana.

    I muri erano sporchi e i pavimenti macchiati, e Kell sapeva per certo che il proprietario, Barron, annacquava i drink, ma nonostante tutto continuava a tornarci.

    Lo affascinava, quel posto, perché malgrado l’aspetto lercio e i clienti ancora più lerci, il fatto era che – per fortuna o per intenzione – il Tiro di Schioppo era sempre lì. Il nome cambiava, ovviamente, e così anche i drink che serviva, ma in quel punto preciso, a Londra Grigia, Rossa e Bianca, c’era una taverna. Non era una sorgente di per sé, come il Tamigi, o Stonehenge, o le decine di fonti luminose di magia meno conosciute sparse per il mondo, ma era qualcosa. Un fenomeno. Un punto fermo.

    E dal momento che Kell conduceva i propri affari nella taverna (sia che l’insegna indicasse il Tiro di Schioppo, o il Sole al Tramonto, o l’Osso Bruciato), lui stesso si sentiva un punto fermo.

    Poche persone ne avrebbero apprezzato la poesia. Forse Holland. Se Holland avesse apprezzato qualcosa.

    Ma poesia a parte, la taverna era un luogo perfetto per fare affari. I pochi credenti di Londra Grigia – quella manciata di strambi che si aggrappava all’idea di magia, che ne afferrava un bisbiglio o una traccia – gravitavano lì, attirati dal senso di qualcos’altro, qualcosa di più. Anche Kell ne era attratto. La differenza era che lui sapeva cosa li stava trascinando lì.

    Ovviamente, gli avventori del Tiro di Schioppo che avevano un’inclinazione per la magia non erano attratti solo dalla subdola e profonda spinta del potere, o dalla promessa di qualcosa di differente, di qualcosa di più. Erano attratti anche da lui. O almeno, dalle voci che giravano sul suo conto. Il passaparola aveva una sua forma di magia, e lì, al Tiro di Schioppo, la parola del mago passava sulle labbra dei clienti più spesso della birra annacquata.

    Studiò l’ambra liquida nella sua coppa.

    «’Sera, Kell», disse Barron, fermandosi per riempirgli il bicchiere fino all’orlo.

    «’Sera, Barron», ricambiò Kell.

    Era più o meno tutto quello che si erano mai detti.

    Il proprietario del Tiro di Schioppo sembrava un muro di mattoni – se un muro di mattoni si fosse fatto crescere

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