Torino segreta dei Savoia
Di Laura Fezia
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Info su questo ebook
Torino per quasi un millennio è stata legata ai Savoia, che non solo ne hanno determinato la storia, ma hanno influenzato anche le caratteristiche degli abitanti, le loro abitudini, il loro temperamento, spesso così difficile da comprendere per chi non è nato e cresciuto all'ombra della Mole. Le vicende della famiglia sono alquanto intricate. Il grande pubblico, perfino quello torinese, conosce solo alcuni rappresentanti della dinastia e spesso unicamente di nome, grazie ai toponimi delle vie. Ma se oggi la città può vantare un passato glorioso e proporsi turisticamente come una tra le più intriganti e misteriose del mondo, lo deve ad alcuni personaggi di quel casato che ha fatto, certamente, la storia d'Italia, ma ancora di più ha inciso nelle pietre, nei monumenti, nei palazzi e nell'atmosfera di Torino quella magia che rende il capoluogo piemontese un luogo speciale. Un viaggio interessante, perché, per quanto forse meno celebrata e meno propensa al mecenatismo di altre famiglie, apparentemente più attenta al lato pratico dell'esistenza che all'arte, la dinastia sabauda riserva molte sorprese, capaci di incantare al di là del giudizio della storia, proprio come la città che ne fu la culla.
La storia regale di Torino nei fasti e nel potere di una famiglia
Tra i personaggi del libro
• Umberto Biancamano
• Adelaide di Susa
• Amedeo VII
• I principi d’Acaja
• Margherita di Valois
• Carlo Emanuele I
• Vittorio Amedeo I
• Madama Cristina
• Vittorio Amedeo II
• I principi di Carignano
• Carlo Emanuele IV
• Vittorio Emanuele II
Laura Fezia
È nata a Torino, dove vive e lavora. Studiosa del mistero in tutti i suoi aspetti, appassionata di cronaca giudiziaria, fa la consulente e la scrittrice. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 misteri di Torino (che non saranno mai risolti), Misteri, crimini e storie insolite di Torino, Il giro di Torino in 501 luoghi, Forse non tutti sanno che a Torino…, Alla scoperta dei segreti perduti di Torino e Torino segreta dei Savoia.
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Anteprima del libro
Torino segreta dei Savoia - Laura Fezia
INTRODUZIONE
Torino, nel bene e nel male, volente o nolente, per poco meno di un millennio è stata legata ai Savoia, che non solo ne hanno determinato la storia, ma hanno influenzato anche le caratteristiche dei suoi abitanti, le loro abitudini, il loro temperamento, spesso così difficile da comprendere per chi non è nato e cresciuto all’ombra della Mole.
Anche quando la capitale del Regno d’Italia fu trasferita dapprima a Firenze, poi a Roma, il capoluogo piemontese continuò, suo malgrado, a sentirsi sabaudo e solo con la proclamazione della Repubblica, nel 1946, si rassegnò con fatica ad abbandonare il proprio ruolo di sede della corte, nonostante Vittorio Emanuele iii avesse scritto, durante il ventennio fascista e il periodo di guerra, alcune tra le pagine più vergognose della Storia. Molti torinesi, anche tra coloro che avevano partecipato alla Resistenza, piansero quando il Re di maggio
, Umberto ii, all’indomani del referendum, partì in esilio per il Portogallo: erano convinti che se sul trono, al posto del padre, ci fosse stato lui, coadiuvato dalla moglie Maria José, le cose sarebbero andate molto diversamente… e forse non avevano torto!
Le vicende della dinastia sono alquanto intricate e soprattutto si fa in fretta a dire Savoia
: quali Savoia? Dai tempi del capostipite Umberto Biancamano, le cui origini sono, peraltro, alquanto fumose, è passata molta acqua sotto i ponti e soprattutto sono spuntati tanti rami cadetti, alcuni dei quali ormai estinti, mentre uno di essi è l’attuale (anche se virtuale) detentore del titolo reale, non senza polemiche.
Il grande pubblico, perfino quello torinese, conosce solo alcuni rappresentanti della dinastia e spesso unicamente di nome, grazie ai toponimi delle vie: ma se oggi la città può vantare un passato glorioso, godere di prestigiose eccellenze e proporsi turisticamente come tra le più intriganti e misteriose del mondo, lo deve soprattutto ad alcuni personaggi tra i meno noti di quel casato che ha fatto, certamente, la Storia d’Italia, ma ancora di più ha inciso nelle pietre, nei monumenti, nei palazzi e nell’atmosfera di Torino, quella magia che rende il capoluogo piemontese un posto speciale, ricco di una personalità difficilmente riscontrabile altrove.
E allora andiamo a conoscere alcuni di questi personaggi, partendo dall’inizio, quando ancora Torino era un grosso borgo ben lontano dall’immaginare il peso che avrebbe avuto nel disegnare la geografia politica e sociale italiana ed europea: scopriremo che se non ci fosse stata una donna, già passata attraverso due vedovanze, i Savoia non sarebbero riusciti a mettere le mani sulla città che mezzo millennio più tardi sarebbe diventata la capitale del ducato sabaudo.
Proseguiremo incontrando personaggi noti, le cui gesta hanno guadagnato un posto di rilievo nelle vicende italiche e altri quasi sconosciuti al grande pubblico, senza i quali, però, la Storia avrebbe preso un altro corso; ci soffermeremo a visitare i luoghi che costituirono le loro residenze, alcuni dei quali non esistono più, mentre altri sono stati rimaneggiati, trasformati, a volte rivoluzionati, ma conservano, comunque, la loro impronta. Inutile dire che molti di questi siti sono, secondo la leggenda, frequentati da fantasmi, che popolano la maggior parte degli antichi manieri di tutta Europa: soprattutto a Torino, potevamo forse farceli mancare?
Sarà certamente un viaggio interessante, perché, per quanto forse meno celebrata e meno propensa al mecenatismo di altre famiglie, apparentemente più attenta al lato pratico dell’esistenza che all’arte e alla cultura, la dinastia sabauda – soprattutto quella dei tempi antichi – riserva molte sorprese, capaci di incantare, intrigare, affascinare, al di là del giudizio della Storia, proprio come la città che ne fu la culla.
1. PRIMA DI INIZIARE, ASCOLTIAMO DUE VOCI AUTOREVOLI
Tutti o quasi sanno, ormai, che il nome di Torino non deriva da immaginarie mandrie di tori che, illo tempore , pascolavano tranquillamente ai piedi della Alpi, bensì dai Taurini, popolazione di ceppo celtico-ligure stanziata nel territorio ben prima che Giulio Cesare vi insediasse il castrum che avrebbe dato origine al capoluogo sabaudo: nello scegliere il toponimo della civitas , dapprima il dux romanorum e in seguito Ottaviano Augusto vollero celebrare i fieri uomini dei monti
per ringraziarli del ruolo svolto a favore dell’Urbe nel contrastare, con il loro sacrificio, l’avanzata di Annibale.
Invece sono in pochi a sapere perché la Savoia, regione dalla quale derivò la dinastia che vi regnò per quasi un millennio e fu l’artefice, nel bene e nel male, di gran parte della sua storia, si chiami così.
Per scoprirlo, lascio la parola a una voce autorevole, che meglio di chiunque altro può raccontare il passato remoto della famiglia della quale entrò a fare parte a pieno titolo l’8 gennaio 1930: si tratta di Maria José del Belgio, moglie di Umberto ii di Savoia, che fu l’ultima regina d’Italia, anche se solo dal 9 maggio al 18 giugno 1946 e dal suo esilio svizzero scrisse, nel tempo, una serie di libri su Le origini di casa Savoia:
Lo storico romano Ammiano Marcellino usa per la prima volta, intorno agli anni dal 370 al 380, il nome di Sapaudia
per indicare la regione limitata a nord dal lago Lemano, a ovest dal Rodano, a est dalle Alpi e a sud dal Delfinato. È l’odierna Savoia e anche di più, giacché può darsi che ne facesse parte anche la riva nord del Lemano; paese d’alte montagne in cui si aprono le valli selvagge della Moriana, della Tarantasia e del Faucigny e le basse vallate, dai fertili clivi e dai laghi severi o ridenti, della Comba di Savoia, del Chiablese e del Ginevrino. Di questo territorio, poco omogeneo, abitato da popolazioni diverse per origine e genere di vita, soltanto la volontà perseverante di una dinastia riuscirà a fare uno Stato.
Maria José aggiunge poi altre interessanti notizie:
Per effetto della sua posizione geografica, alla fine dell’Impero Roano la Sapaudia era diventata uno dei crocevia più importanti per le legioni che vegliavano alla sicurezza delle province dell’Italia e della Gallia. In Sapaudia si trovavano, inoltre, i principali colli che permettono di valicare le Alpi, quali il Montjoux (Piccolo San Bernardo) e il Moncenisio. Un intenso scambio si era stabilito tra i prodotti dell’antica Allobrogia e le merci venute dall’Italia e dall’Oriente.
In una nota, l’illustre autrice precisa che l’Allobrogia era una regione abitata dalla popolazione omonima, di origine celtica, sottomessa dai Romani a partire dal 121 d.C., che si trovava tra il Delfinato e la Savoia, per poi continuare:
Attraverso il valico nel quale sorgerà Chambéry e ove non esisteva ancora se non la stazione romana di Lemencum, passavano infatti le grandi strade di comunicazione che univano, toccando Milano e Aosta, l’Italia a Vienna e Lione, unite d’altra parte direttamente a Ginevra e alle frontiere del Reno.
Dunque tra il iii e iv secolo, al momento del crollo dell’Impero romano «sotto la spinta delle invasioni barbariche», la Sapaudia, che diventerà lo scenario nel quale la dinastia darà vita a se stessa e ricaverà il suo nome, «si presentava come una ricca e fiorente contrada coltivata da numerosi coloni».
Con il procedere del tempo e della Storia, attraverso il vorticoso passaggio di popoli, condottieri, re, imperatori e vescovi che si disputeranno quel prezioso territorio, Umberto Biancamano, grazie alle proprie doti di arrampicatore sociale e di astuto affarista, ne diventerà il padrone e i conti di Savoia riusciranno a mettere le mani sulla marca di Torino: vedremo come.
A proposito del capoluogo piemontese, ecco come lo presenta lo storico ottocentesco Luigi Cibrario, nel «libro i – capo i» del secondo volume della sua Storia di Torino, imprescindibile, prezioso, aulico e a tratti ingenuo punto di riferimento per chiunque decida di occuparsi della città:
La città di Torino è situata sul dolcissimo estremo pendio della riva sinistra del Po, là dove questo re de’ fiumi riceve le acque della Dora Riparia. Giace al grado 5° 21′ 25″ di longitudine orientale dall’Osservatorio Reale di Parigi, e 45° 4′ 81″ di latitudine boreale. Se la scaldano i raggi del sole d’Italia, i geli dell’Alpi, che si drizzano poco lontane, a ponente, causano improvvisi mutamenti di temperatura, e i lieti colli che incassano a levante il corso del Po, arrestando le esalazioni fluviali, le tramandano umidità, e la involgono spesso di nebbia.
Cibrario non può poi esimersi dal citare i Taurini, la cui capitale, Taurasia, si trovava presumibilmente dove oggi c’è il parco della Colletta, proseguendo poi con alcuni cenni presenti in ogni libro di scuola, ma fornendoci anche la fotografia di una Torino che attualmente si fatica a immaginare:
Turrita e murata anche prima de’ Romani esser dovea la città capitale de’ popoli Taurini, poiché vietò il passo ad Annibale l’anno 221 avanti l’era volgare.
Divenuta sotto Cesare colonia Romana, s’adornò di tutti que’ monumenti, di cui si vestivano, ad imitazione di Roma, i municipii e le colonie. Templi, teatri, anfiteatri, circhi, bagni pubblici, trofei, archi trionfali dovettero nobilitarla.
L’autore prosegue poi descrivendo la struttura della città, con quelle quattro porte di cui, già ai suoi tempi, esistevano solo più le «torri della porta settentrionale», ossia le Palatine, che – afferma – «il popolo chiamava […] il carcere d’Ovidio», aggiungendo perplesso:
Su che si fondi questa tradizione non è agevole il dirlo. Non appare che Ovidio sia mai venuto in Piemonte. Né si può supporre che qui passasse quando andò in esiglio, poiché non è la region subalpina la via di Tomi.
Prima di addentrarsi nei dettagli, lo scrittore fa una specie di riassunto di quanto ha appena terminato di raccontare:
Appare da questi riscontri manifesta la forma e l’estensione di Torino, quand’era colonia romana. Era quadrata, appunto, come un accampamento. le sue mura circoscrivevano lo spazio che corre tra il Palazzo Madama e la metà dell’isola de’ Gesuiti, le Torri del Vicariato e la casa del conte di Sant’Albano, nella via San Tommaso.
Quella qui descritta da Cibrario, che ci accompagnerà durante gran parte del viaggio che stiamo per intraprendere, è grosso modo la stessa Torino, «città piccola, ma forte per mura e per torri», poco dissimile dalla civitas di Ottaviano Augusto, che i Savoia trovarono quando riuscirono a entrarne pacificamente in possesso.
È ciò di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.
2. SE NON CI FOSSE STATA ADELAIDE…
I Savoia furono artefici non solo della Storia d’Italia, ma anche (e soprattutto) di quella di Torino, che li vide protagonisti anche dopo il trasferimento della capitale del regno prima a Firenze, poi a Roma.
Ma come giunsero nel capoluogo piemontese, nell’ambito del quale, direttamente o indirettamente, rimasero per un millennio? Non certo per nascita, né per conquista al termine di una guerra, bensì grazie a una donna.
Nel 1045, infatti, una certa Adelaide di Susa andò in sposa a Oddone, figlio secondogenito di Umberto Biancamano, considerato il capostipite della dinastia.
Ed è proprio intorno a quest’ultimo personaggio che iniziano i misteri sabaudi, poiché le notizie su di lui sono decisamente scarse e anche quelle poche non brillano per attendibilità, a partire dal nome Biancamano
, che si trova per la prima volta in un registro dell’abbazia di Hautecombe del 1342, quando ormai era passata molta acqua sotto i ponti del casato: alcuni studiosi sospettano la svista di un amanuense, che invece di albis moenibus (dalle bianche mura
di una fortezza o delle Alpi) scrisse albis manibus, dalle bianche mani
, soprannome con cui il capostipite dei Savoia passò alla Storia.
Brancolando nel buio, ma cercando di dissipare un po’ di nebbia, la maggior parte dei ricercatori non riesce ad andare oltre le ipotesi, affermando che non si sa con certezza né quando nacque (forse nel 980), né dove (forse a Chambéry), né di chi fosse figlio, né come vivesse prima di diventare conte di Savoia, titolo che gli venne attribuito – sembra – intorno al 1003, come risulta da un documento vescovile che reca tale data. Fu un suo discendente, Amedeo viii, nel xv secolo, a cercare di spazzare le ombre che offuscavano la figura dell’avo e assoldato un sedicente storico, tale Jean d’Orville (chiamato anche in altri modi a seconda delle fonti), forse uno di quegli intrallazzoni con un’infarinatura di erudizione che gravitavano intorno alle corti cercando di offrire i loro servigi ai potenti per procacciarsi di che vivere, gli ordinò di fare chiarezza. Costui, una volta assunto l’incarico, menò talmente il can per l’aia cercando di mantenere il più a lungo possibile quel posto di lavoro così redditizio, che impiegò una ventina d’anni a rimestare tra carte e documenti e ovviamente confezionò una conclusione che soddisfacesse il suo nobile sponsor. D’Orville scovò un certo Beroldo, «stirpe alemanna del duca Vitichindo di Sassonia, antagonista di Carlo Magno, capostipite del casato Wettin», di cui Biancamano sarebbe stato il figlio, non si sa se legittimo o meno. Esistono però altre versioni che fanno discendere il nostro uomo da Ugo Capeto, o da Bosone di Provenza, o dai duchi di Borgogna. Insomma: i dubbi restano, nonostante gli sforzi dei discendenti per conferire lustro a un casato che, con ogni probabilità, non ebbe un’origine cristallina.
A conferma di ciò, confusione e contraddizioni regnano sovrane anche per ciò che riguarda le opere di Umberto. Primo rappresentante della progenie a potersi fregiare del titolo di conte, anche se non sappiamo come riuscì a ottenerlo, nel leggere la sua biografia nasce il sospetto che rincorse a lungo un riscatto sociale dovuto, forse, a umili o incerti natali e si ingegnò con tanta caparbietà che il successo gli arrise: infatti fu un abile maneggione e uno spregiudicato uomo d’affari (oggi le cronache lo definirebbero faccendiere
), tanto che, grazie a continui cambiamenti di fronte alla ricerca dell’alleanza più conveniente, riuscì a ottenere da Corrado ii il Salico non solo le contee di Moriana, di Belley, d’Aosta e il Chiablese, ma anche, particolare ben più importante, il controllo esclusivo sui valichi alpini del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Ciò significò poter imporre pedaggi per il transito di mercanti e pellegrini, ma anche la facoltà di favorire il passaggio solo agli eserciti disposti a concedere favori al proprietario o ai suoi alleati. In tal modo, i Savoia iniziarono ad accumulare ricchezze e impararono a diventare disinvolti maestri nell’arte della diplomazia e del tornaconto personale.
Umberto ebbe quattro figli maschi legittimi: Amedeo, Oddone, Burcardo e Aimone; alla sua morte, il primogenito, che la Storia ricorda come Amedeo i di Savoia, ne ereditò le terre, il patrimonio e i titoli, ma essendo deceduto senza prole nel 1051, fu sostituito dal fratello Oddone, che in realtà non ricoprirebbe un ruolo determinante se non per un particolare: fu grazie a lui che i Savoia misero le mani su Torino.
E qui torna in scena Adelaide, perché senza di lei il destino del capoluogo sabaudo e della Storia avrebbero preso un altro corso.
Il pubblico sa poco di questa signora, senza la quale, forse, oggi a Torino parleremmo francese o spagnolo: magari la immagina come una donnetta insignificante che passivamente andò in sposa a Oddone per ragioni di opportunità e si ritirò a fare la calzetta nel suo castello in attesa delle attenzioni del marito, sfornando rampolli che potessero garantire la continuità dinastica.
Invece la storia di Adelaide di Susa è molto diversa.
Quello con Oddone di Savoia fu il terzo matrimonio della nobildonna, che in precedenza aveva già dovuto indossare per due volte gli abiti a lutto: nata presumibilmente nel 1016, ancora giovinetta era andata sposa a Ermanno duca di Svevia, figliastro dell’imperatore Corrado ii il Salico, che però morì di peste cinque o sei anni dopo, non senza averla resa madre per tre volte. Alla dama toccò quindi riaccasarsi con Enrico, marchese di Monferrato, ma rimase di nuovo vedova nel 1045: Adelaide andava, allora, per la trentina e non era più considerata adatta a sposare l’esponente di una dinastia di prestigio, per cui il requisito essenziale di una nubenda era rappresentato da un’età tale da poter fungere da fattrice. I Savoia, però, sempre attenti al lato pratico dell’esistenza, si fecero due conticini e considerarono che la non più freschissima signora era portatrice di una dote succulenta: senza nemmeno attendere la fine del lutto, Oddone la sposò ed entrò in possesso delle sue proprietà, ossia della marca di Torino.
Questa era una zona molto più vasta di quanto il nome potrebbe far supporre: era stata istituita nel 941 da Ugo di Provenza per ragioni di opportunità politica e da lui affidata, nel 962 (ma la data è controversa), ad Arduino il Glabro, che già governava la Valle di Susa da quando vi aveva scacciato i saraceni; comprendeva, oltre al territorio comitale del futuro capoluogo piemontese, anche le contee di Alba, Albenga, Asti e Ventimiglia. Ad Arduino successe il figlio Olderico Manfredi i, che a sua volta cedette lo scettro all’erede Olderico Manfredi ii, il padre della marchesa Adelaide, colei che, primogenita femmina di Olderico, il cui unico erede maschio era morto in giovane età, nel 1045 andò in sposa a Oddone con tutta la sua cospicua dote, facendo realizzare ai Savoia il colpo grosso della loro vita dinastica. Inoltre, smentendo le previsioni delle malelingue, pronte a fare dell’ironia sull’età della sposa, la coppia ebbe cinque figli, che garantirono la prosecuzione del casato.
Oddone non diede molto lavoro ai biografi, che di lui ci forniscono scarse e incerte notizie, al punto che anche la data della sua morte (come quella della sua nascita, del resto) è preceduta da un forse
: sembra che morì nel 1057, dodici anni dopo il suo redditizio matrimonio, lasciando Adelaide di nuovo vedova.
L’indomita dama, che fin dall’infanzia era stata abituata dal padre a indossare la corazza e a maneggiare le armi, sopravvisse al marito per oltre trent’anni: morì a Canischio, un piccolo villaggio nella valle dell’Orco, dove si era ritirata, il 19 dicembre 1091. Durante la sua lunga vita, sia prima, sia dopo la dipartita di Oddone, si impegnò certamente nelle consuete opere cui erano dedite le aristocratiche dei suoi tempi, come occuparsi dei numerosi figli, fondare conventi e monasteri, favorire le arti, soccorrere i derelitti, ma esercitò anche il potere con fermezza e determinazione, facendo, all’occorrenza, la voce grossa con vescovi e personaggi di spicco.
C’è un episodio, in particolare, che ne descrive la personalità. Come accadeva in tutte le nobili famiglie (e non solo nel buio Medioevo), le figlie femmine, pur essendo inutili per la successione e il proseguimento, se non come fattrici, della dinastia, costituivano un prezioso patrimonio che doveva essere messo a frutto per stringere alleanze e fornire vantaggi al casato. Le due rampolle di Oddone e Adelaide non fecero eccezione: una (Adelaide, come la madre) nel 1067 sposò Rodolfo di Svevia, divenendo duchessa e quando il marito, dieci anni più tardi, fu eletto re di Germania, poté fregiarsi del titolo di regina consorte. La terzogenita Berta, così chiamata in onore della nonna materna Berta Obertagna, contessa di Milano, sposò, invece, Enrico iv di Franconia, in precedenza Rex romanorum e dal 1084 imperatore del Sacro Romano Impero, divenuto celebre soprattutto per l’umiliazione di Canossa. A proposito di questo episodio, che si inquadra nell’ambito della lotta per le investiture, i libri di scuola ricordano il ruolo di Matilde, indicandola come l’artefice della riconciliazione tra l’imperatore e papa Gregorio vii, ma in realtà fu l’energica Adelaide a convincere il recalcitrante genero a quel passo che, pur obbligandolo a una penitenza sgradita, gli avrebbe portato notevoli vantaggi. Suocera e genero si misero dunque in viaggio per raggiungere il pontefice ospite di Matilde, che pare non ebbe grande voce in capitolo, limitandosi a mettere a disposizione il suo castello: anche in questo caso, però, sembra fu Adelaide, imparentata con la contessa di Canossa, a ottenere il favore dalla nobildonna.
Mentre Enrico, dal 25 al 27 gennaio 1077, rimase in attesa della clemenza papale fuori dal castello, esposto al freddo e alle intemperie, Adelaide (anche se la Storia diede in seguito il merito a Matilde) perorò la causa del genero e lo fece con tanta determinazione che Gregorio vii si decise, bontà sua, a revocare la scomunica e a perdonare il reo. L’operazione – dando ragione alla saggezza sabauda – si rivelò un’astuta mossa diplomatica, che restituì a Enrico la possibilità di rialzare la testa e scalfì l’autorevolezza pontificia. Poco più tardi, attraverso peripezie storiche che ogni libro scolastico può raccontare, Enrico entrò in conflitto con il cognato Rodolfo di Rheinfelden, duca di Svevia, anche lui genero di Adelaide: non risulta, però, che la nobildonna si immischiò in questa seconda contesa. Di certo, nel giro di soli sette anni Enrico iv di Franconia riuscì a far fuggire Gregorio vii da Roma, obbligandolo a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo; sul Soglio di Pietro salì come antipapa Guiberto da Ravenna, che assunse il nome pontificio di Clemente iii: fu lui a incoronare Enrico imperatore del Sacro Romano Impero, non si sa con quanto gradimento della suocera, che conosceva bene l’indole fumantina di quel genero.
Anche i tre figli maschi di Adelaide e Oddone di Savoia servirono la causa del casato, se si eccettua il primogenito Pietro, morto in giovane età senza aver potuto procreare eredi, mentre il terzogenito Oddone divenne vescovo di Asti: un’ottima sistemazione! Anche il secondogenito Amedeo, salito al trono (se di trono si può parlare) dopo la prematura dipartita del fratello, non ebbe vita lunga, ma fece in tempo ad accasarsi con Giovanna di Ginevra e a mettere al mondo un figlio, cui, in onore del nonno paterno, venne imposto il nome di Umberto: sarà proprio lui, Umberto ii, detto Il Rinforzato, a continuare la dinastia sabauda attraverso il figlio Amedeo iii.
A Susa, esiste ancora il castello della contessa Adelaide, anche se il suo aspetto è molto cambiato nel tempo. La sua data di costruzione è, tanto per cambiare, incerta, ma si suppone che il primo nucleo possa risalire al periodo in cui la zona era abitata dai Cozi, una popolazione celto-ligure stanziata nell’area alpina cui avrebbero dato il nome, almeno fin dai tempi del passaggio di Annibale. Non si sa quali furono le trasformazioni e le vicissitudini di cui fu protagonista prima che Olderico Manfredi i vi si stabilisse e nemmeno come ne venne in possesso: si sa solo che diede i natali ad Adelaide, che vi videro la luce i figli nati dal suo matrimonio con Oddone di Savoia e che i suoi discendenti continuarono ad abitarlo per lungo tempo. Di certo, le cronache riportano interessanti informazioni relativamente a questa antica costruzione, che può a buon diritto essere annoverata tra le residenze sabaude, anzi, fu la prima, anche se la meno nota.
Un racconto a metà tra storia e leggenda afferma che nel 1214 ospitò Francesco d’Assisi, di passaggio per Susa diretto in Francia attraverso la via francigena e il valico del Moncenisio. Ospite di Beatrice di Savoia, moglie di Tommaso i, si narra che il futuro patrono d’Italia fece dono alla nobildonna di una manica del proprio saio e la incoraggiò a costruire un convento, che ancora oggi è a lui intitolato e dove si conserva la preziosa reliquia. Nel chiostro di quello stesso convento, il 2 febbraio 1365 fu trovato cadavere il domenicano Pietro Cambiani di Ruffia, «inquisitor haereticae pravitatis» (inquisitore della malvagità eretica), personaggio di spicco del tribunale della Santa Inquisizione, incaricato da ben tre papi (Clemente vi, Innocenzo vi e Urbano v) di stanare gli eretici in Piemonte e in Liguria. I suoi assassini rimasero sempre impuniti e sul fattaccio vennero avanzate molte ipotesi: c’è chi ritiene che l’agguato a padre Cambiani fu concertato e portato a termine dai parenti di qualcuno finito sul rogo a causa del «piissimo, zelante nel suo ufficio, instancabile» domenicano, altri insinuano che si trattò di una faida interna all’Ordine, un omicidio commissionato da qualche confratello che, roso dall’invidia, ambiva a prendere il suo posto, ma c’è anche chi afferma che nell’esecuzione dell’inquisitore ci fu la mano di una donna o di un gruppo di donne, certamente streghe o presunte tali, che vollero vendicare, in tal modo, le tante compagne arse sulle pire della superstizione e della paura.
Oltre che di leggende, il castello di Adelaide è anche ricco di storia: per esempio, ospitò i firmatari della pace di Cateau-Cambrésis, che nel 1559 pose fine a una delle numerose guerre tra Francia e Spagna e restituì a Emanuele Filiberto di Savoia i possedimenti al di qua delle Alpi, compresa Torino, che di lì a pochi anni sarebbe diventata la capitale del ducato. Sembra, inoltre, che nel xvii secolo (forse nel 1629) abbia ospitato a lungo Luigi xiii e il cardinale Richelieu.
Il sito internet della Città di Susa, avverte i visitatori:
Le parti antiche sono oggi assai limitate in seguito ai vari interventi che si sono succeduti nei secoli.
L’aspetto attuale gli deriva dalla ristrutturazione effettuata nel 1750 in occasione delle nozze tra Carlo Emanuele iii e l’infanta Maria Antonia, mentre dell’antica costruzione medievale non rimangono che le bifore e le caditoie (buchi dai quali si lanciavano i sassi) sulle pareti che si affacciano sul centro storico.
Continua poi:
Caduto progressivamente in abbandono, nel 1806, con un decreto napoleonico, il Castello è stato tolto ai sabaudi e affidato alla municipalità, con l’obbligo di aprire al suo interno delle scuole, e dopo il