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Brusca caduta
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Brusca caduta
E-book291 pagine3 ore

Brusca caduta

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Info su questo ebook

Mia madre, riferendosi all’amore, è solita dire: «Più grossi sono, più fanno rumore quando cadono.»
Non sono mai stato innamorato, ma ciò non mi impedisce di giocare a fare il Cupido per i miei amici. Chi sospetterebbe che un atleta di fama mondiale, come me, adori immischiarsi nella vita sentimentale altrui? Amo l’amore, soprattutto se non sono io quello innamorato…

«No, grazie.»
Ecco cosa mi ha risposto Hollis Westbrooke quando le ho chiesto un appuntamento. Be’, in realtà era più una proposta piccante, ovviamente per scherzo; solo che non ha trovato la cosa divertente. Ho lo stomaco sottosopra: questa ragazza potrebbe piacermi davvero, ma… Oltre al danno, la beffa! Il padre di Hollis è il mio capo, e lei non esce con i giocatori.
Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono… Diamine, il giocatore più grosso sono io!
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2022
ISBN9788855314749
Brusca caduta

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Anteprima del libro

Brusca caduta - Sara Ney

Capitolo 1

Hollis

«Grazie per il pranzo, papà.» Mi sporgo in avanti e bacio mio padre sulla guancia. È abbronzata, grazie al tempo speso sul campo da golf.

«Sono solo contento di averti vista. Negli ultimi tempi sei troppo impegnata per il tuo vecchio.»

Vecchio? Non si direbbe. Mio padre sembra l’emblema della giovinezza e della vitalità, per merito di un po’ di chirurgia plastica, qualche punturina e del botox ben piazzato. Lui e mia madre, da cui ha divorziato dieci anni fa, possono a stento muovere la faccia, ma chi sono io per giudicare?

Papà sorride, o almeno ci prova.

«Ti va di accompagnarmi in ufficio, tesoro?»

Getto uno sguardo verso l’entrata dello stadio di baseball, dal finestrino della mia auto – un regalo di laurea – e gemo tra me e me. No, non mi va affatto di accompagnarlo, ci metteremo almeno un’altra intera ora. Dovrò salutare ogni inserviente, assistente amministrativo, leccapiedi, allenatore, giocatore e membro dello staff che incontreremo lungo il cammino verso il suo ufficio, situato ai confini della Terra, in fondo al corridoio e poi a destra.

Uffa! «Sì, certo, ne ho il tempo.»

In realtà non ce l’ho, ma non posso dire di no a mio padre.

E no, non voglio rischiare di imbattermi in Marlon Daymon, primo difensore e mio ex-ragazzo. Ragazzo? Eh, definirlo così è un po’ troppo, considerando che uscire con lui è stato estenuante dal punto di vista emotivo, ha alimentato tutte le mie insicurezze e mi ha fatto sentire uno schifo, alla fine.

Dimenticava sempre il portafoglio, guarda caso. Ci metteva ore a rispondere ai messaggi. Era sempre in ritardo. Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso? Ha preso in prestito la mia macchina ed è stato fotografato mentre adescava una prostituta. Ma chi volete che se ne sia accorto? Oh, solo i giornali e milioni di lettori, ecco chi! Menomale che nessuno sapeva quella fosse la mia auto, almeno il mio nome non è stato trascinato nel fango, però poteva succedere.

Per fortuna, Marlon non è più un mio problema, non è più il mio ragazzo e non ho alcuna voglia di rischiare di rivederlo in questo edificio, né ieri, né oggi, né domani.

Merda, merda, merda.

Papà si slaccia la cintura di sicurezza ed esce dal mio fuoristrada bianco, fa cenno a una guardia di avvicinarsi e parcheggiare l’auto, e nel frattempo io afferro borsa, telefono e una bottiglina d’acqua.

Tengo giù la gonna del mio vestito mentre scendo a mia volta dalla vettura, poi seguo mio padre. Come al solito, fuori dai cancelli sono radunate un po’ di persone che sperano di intravedere o incontrare un qualsiasi giocatore. Qualcuno ha dei poster, uno o due di loro delle magliette. Tutti fanno degli enormi sorrisi quando vedono papà avvicinarsi, con il suo completo grigio che luccica sotto il sole.

Stringe qualche mano e posa per delle foto.

Quando siamo finalmente dentro, mi poggia una mano sulla schiena per guidarmi oltre la sicurezza, dopo che ho sistemato borsa, acqua e telefono sul nastro di trasporto per il controllo. Li riprendo e seguo papà per il piano terra.

Siamo sul retro dell’edificio, dal lato opposto a quello aperto al pubblico, e ci stiamo facendo strada verso l’ascensore che ci condurrà agli uffici della direzione. Il cemento sotto i nostri piedi provoca il ticchettio dei miei tacchi, che riecheggiano nei corridoi quasi vuoti.

È venerdì e i Chicago Steam hanno una settimana di riposo. Magari sono nell’edificio per allenarsi, ma di sicuro non si trovano qui per giocare, perciò dovrebbero esserci solo impiegati dell’ufficio in giro. Forse.

Si spera.

Incrocio le dita dietro la schiena mentre attendiamo l’ascensore, dopo di che saliamo fino al corridoio vetrato che ospita l’ufficio di papà. Ci sono vetrate, vetrate e ancora vetrate. Apre la porta e la tiene per farmi passare.

«Grazie, papino.» Lo chiamo così, di tanto in tanto, giusto per fargli provare un brivido, come se fossi di nuovo una bambina e lui si stesse prendendo cura di me, anche se ormai sono un’adulta, con un vero lavoro da adulta, che si paga le sue bollette da sola, a cui capita di godersi un pranzo gratis, ogni tanto.

Come biasimarmi?!

Veniamo salutati da chiunque, per lo più leccaculo che provano a rimanere nelle grazie di mio padre, non sapendo che in realtà lui non ha un lato buono. Da quando i suoi affari sono esplosi e, con loro, sono aumentati i soldi, è diventato un vero pallone gonfiato. Dopo aver fatto la gavetta e aver soddisfatto a sufficienza mio nonno, è riuscito a ottenere il ruolo di dirigente generale dei Chicago Steam e il suo ego ha raggiunto dimensioni epiche.

Per mia fortuna, non mi faccio mantenere da mio padre e, pertanto, non devo baciargli il culo come tutti gli altri. Come mia sorella, Fiona, o mio fratello, Lucian: papà li tiene in pugno, entrambi sono alla mercé del suo portafoglio.

Io no.

Non sono affatto ricca o benestante – neanche un po’ – ma me la cavo più che bene; ho un piccolo appartamento tutto mio, pago le bollette, non lavoro per i miei genitori.

Oltrepasso la soglia e mi dirigo verso una sedia comoda dall’altro lato della sua scrivania. Mi ci lascio cadere sopra e mi guardo intorno, poi mi allungo in avanti, per giocherellare con un fermacarte di metallo sulla scrivania. Tiro indietro una delle sfere e la osservo ticchettare avanti e indietro come un pendolo.

Tic, tic, tic.

«Hollis, smettila, per cortesia.»

Ecco il papà che conosco: adesso che siamo dietro a una porta chiusa, la sua impazienza viene a galla.

«Se non vuoi che venga toccato, perché lo tieni sulla scrivania?» Non riesco a smettere di punzecchiarlo, è davvero troppo facile.

«Quel pezzo d’arte è costosissimo.»

Piego il capo e increspo le labbra. «Sul serio? Perché giuro che ne vendono uno identico da Sharper Image, a circa trenta dollari.»

Il viso di papà diventa paonazzo. «Hollis Maxine.»

Sospiro, lasciando cadere la sfera argentata un’ultima volta prima di fermare il pendolo, mentre alzo gli occhi al cielo. Papà è così rigido.

Si siede, armeggiando già con dei documenti. Infila un paio di occhiali da lettura prima di guardarmi. «Che programmi hai per il resto della giornata?»

Ah. È stato lui a invitarmi dentro e vuole già liberarsi di me. Ho fatto il mio dovere: una manciata di persone l’ha visto comportarsi da padre affettuoso e ormai non gli servo più. Scusate se suono acida, ma mio padre è uno stronzo.

Mi trattengo dall’alzare ancora gli occhi al cielo e stiro con la mano il tessuto della mia gonna. «Be’, visto che ho dovuto chiedere un permesso per pranzare con te, magari tornerò al lavoro.»

Papà alza lo sguardo. «Questo non sarebbe un problema se lavorassi per la società, come tuo fratello e tua sorella.»

Neanche per sogno. «Sto bene così, ma grazie.» Preferisco vivere la mia vita, senza che tutto mi sia rinfacciato e venga usato come ricatto emotivo.

Lui grugnisce. «Cos’è che fai, di preciso?»

Sento le narici dilatarsi e la schiena irrigidirsi. «Sono una editor junior per una casa editrice.»

Ne abbiamo parlato non meno di un milione di volte, e io non sono una che esagera. Cosa accidenti pensa che faccia tutto il giorno? So che sa che non mi paga l’affitto o la benzina per l’auto. Sì, sì, me l’ha comprata lui, ma cosa avrei dovuto fare, rifiutarla? Solo un folle non accetterebbe una macchina gratis... più soldi in banca pour moi.

«Che significa junior?»

«Vuol dire...» Esito per riordinare i pensieri. «Che non ho ancora tanti clienti tutti miei e che qualcuno deve controllare quello che faccio e i libri che seleziono, ma ho comunque molta libertà di scelta.» La mia risposta è vaga, ma so che tanto non mi sta ascoltando, quindi perché preoccuparsi di dargli una vera spiegazione?

Grugnisce di nuovo.

Non sarà il lavoro prestigioso che voleva per me, ma è abbastanza rispettabile da non farlo vergognare di me con amici e colleghi, anche se ha provato a farmi sposare con qualche terribile erede di suddetti colleghi e amici.

Al contrario, a mia madre non potrebbe importare di meno di quello che scelgo di fare come lavoro, basta che io sia felice. Questo è uno dei motivi per cui lei e papà hanno divorziato: hanno vedute palesemente diverse sull’educazione dei figli, sulla dedizione alla famiglia e sul matrimonio.

Lei non avrebbe mai dovuto sposarlo. Lui è lo stesso di trent’anni fa e sarà così fino alla sua morte.

Cosa mi rende felice? Leggere. Scoprire nuovi talenti tra gli scrittori. A volte la parte della revisione fa schifo. Spesso gli autori non vogliono ascoltare i commenti, alcuni se la prendono per i suggerimenti o i cambiamenti alla trama o quando faccio loro notare delle incongruenze ma, nel complesso, amo il mio lavoro.

Guardo mio padre lavorare per qualche minuto, ha la testa china. Osservo la sua stempiatura, i capelli assottigliati, le rughe sulla fronte. Ecco cosa provocano lo stress e un caratteraccio, rifletto, premendomi le dita contro la pelle per massaggiarmi le tempie.

Niente preoccupazioni, niente rughe.

Sorrido e mi alzo. «Bene, caro papino, è arrivata l’ora di scappare.» Vado dal suo lato della scrivania, gli stampo un bacio veloce sulla guancia e gli arruffo i capelli, con sua grande irritazione. «Ci sarai per cena questo weekend?»

Dopotutto, è la Festa del Papà, ma non c’è garanzia che il padre sia presente in questa famiglia, non se ha in programma di lavorare. Ci riposeremo da morti, dice sempre. Anche se, in effetti, di quanto riposo può aver bisogno quando ha gente che lo serve e riverisce e sta seduto in un ufficio a fare telefonate tutto il giorno?

Papà annuisce. «Dovrei esserci.»

Già, dovresti, ma di sicuro non ci sarai.

Tengo la bocca cucita. Gli faccio un piccolo cenno di saluto con la mano, fischiettando mentre esco fuori, e rilascio un sospiro quando arrivo in corridoio.

Giro a sinistra. Trovo l’ascensore libero. Premo un pulsante e sollevo lo sguardo sulla parete, osservando i numeri diventare sempre più piccoli. Nove.

Cinque.

Due.

Qualche secondo dopo, sento un ding che mi segnala di aver raggiunto la mia destinazione e metto piede sul pavimento di cemento senza guardare.

Mi lancio un’occhiata intorno.

«Merda.» È il piano sbagliato. Devo aver spinto il pulsante scorretto quando sono entrata in ascensore. Niente di grave.

Premo il tasto con la freccia che va verso l’alto e faccio un passo indietro fissando le porte di metallo dell’ascensore, che è probabile stia tornando all’ultimo piano, e aspetto con un sospiro.

Batto un piede a terra.

Tiro fuori il telefono e...

«Ti sei persa, dolcezza?»

Dolcezza?

Bleah.

Ruoto sui tacchi e mi volto.

È un giocatore, ne sono certa. Alto, spalle larghe. Presuntuoso, arrogante. La bocca perfetta curvata in un sorrisino compiaciuto.

Wilson qualcosa? Walters? Lo chiamano...

Mettiamola così: lo conosco, più o meno.

Ho sentito parlare di lui, vagamente. Per certi versi conosco ogni giocatore della squadra, di default. Vedete, in quanto dirigente, mio padre in pratica è il capo di tutti. Ma, prima che passasse a lui, la carica di dirigente era di mio nonno, Thomas Westbrooke Senior, che adesso possiede la squadra.

Ah, non c’è niente di meglio di un po’ di caro, vecchio nepotismo.

«Mi hai appena chiamata dolcezza?» Cavolo, vorrei davvero ricordare il nome di questo idiota, così potrei fargli il culo per quel nomignolo sessista e antiquato.

Non sono affatto dolce, e di sicuro non sono la sua dolcezza.

Trace


Il suo vestito è elegante e appropriato.

Ma quando l’ho vista davanti all’ascensore si stava tirando su le spalline, a disagio, e traballava sui tacchi, quindi scommetto un bel centone che è pronta a togliersi entrambi.

Posso aiutarla a risolvere il problema.

«Mi hai appena chiamata dolcezza?» richiede.

«Mi sembri dolce, tesoro.»

«Oh mio Dio, disgustoso.» Dà un colpo al pulsante per salire, impaziente di allontanarsi da me. Peccato che debba salire anche io.

«Chiamare qualcuno dolcezza non è un crimine.»

«No, ma non mi conosci e io lo trovo offensivo e condiscendente.»

«Lascia che ti porti a cena fuori per farmi perdonare.»

«No, grazie.»

«Che palle.» Tossisco nella mano per mascherare le parole ma non lo faccio abbastanza bene, perché lei si volta e mi guarda male.

«Cosa hai appena detto?»

«Niente.» Ridacchio. Cristo, quanto è facile far scattare questa tipa? Non le piace sentire cose carine?

La ragazzina alza gli occhi azzurri al cielo. «Davvero, i ragazzi facevano così quando andavo alle medie. Tossivano per coprire qualsiasi idiozia stessero sparando, per fingere di non aver detto niente. Ma eravamo in prima media, anche se...» Mi guarda dal basso verso l’alto. «Non mi sorprende che tu lo faccia.»

«Ahia, credo.» Era un insulto quello? Difficile a dirsi. Non mi sta più guardando, sta fissando le porte dell’ascensore, probabilmente pregando che si apra e la ingoi tutta intera.

L’ascensore arriva, le porte si aprono ed entriamo entrambi. «A quanto pare siamo diretti nello stesso posto.» Mi sposto dall’altro lato del vano, per darle spazio; sembra proprio che voglia darmi un calcio nelle palle e mandarmi al tappeto.

«Evviva.» Sarcastica, muove a mo’ di festeggiamento le dita smaltate di rosa vicino alla testa.

Wow. Okay, forse dopotutto non è così dolce.

«Ehi... scusa se ti ho chiamato dolcezza. Non avevo capito che in realtà sei super acida.»

Questo commento le fa sfrecciare le sopracciglia verso l’alto. «Smettila di parlare e basta.»

Ma non posso. È troppo carina, io sono un malato di attenzioni e lei mi sta ignorando adesso, e questo peggiora la mia logorrea.

«Scherzavo a proposito della cena.»

«Be’, non ci sarei venuta, quindi...» Fa spallucce, ancora non mi guarda.

«Non sei il mio tipo» ribatto d’impulso.

La sua risatina sottovoce suggerisce che non mi crede.

In effetti, lei è il mio tipo: soltanto perché non esco con donne dall’aspetto genuino, non significa che non apprezzi quelle che lo sono. È solo che non riesco mai a convincere donne perbene e rispettabili a uscire con me.

Festaiole, sì. Frequentatrici di locali, sì. Arrampicatrici sociali, sì.

Eleganti donne in carriera? Già, per niente.

Secondo Tripp è colpa della mia pessima reputazione, perché nessuna di quelle donne vuole finire spiattellata sui giornali, con il rischio di rovinarsi la carriera dopo essere stata fotografata insieme a me. E questo è uno schifo perché, prima o poi, vorrei rendere i miei genitori orgogliosi dando i natali a Buzz Wallace Junior, mio successore nel baseball, sangue del mio sangue.

Cazzo, mia madre mi ucciderebbe se portassi a casa la ragazza immagine di qualche discoteca. Una volta, ho frequentato una che per lavoro vendeva shottini e passava le sue serate con le tette di fuori e dei bastoncini luminosi intorno al collo; per carità, tutto molto bello, ma non è il tipo di donna che mia madre vorrebbe sfornasse i suoi nipotini.

Questa piccola sadica grida brava ragazza e rispettabilità da tutti i pori, anche se scommetterei tutto quello che ho sul fatto che dica un sacco di parolacce.

«Scusa, non ho afferrato il tuo nome» ci riprovo, affidandomi al mio fascino.

Alza di nuovo gli occhi al cielo. «Non l’ho detto.»

Sfrontata.

Mi piace.

«Come ti chiami?» Ecco. Ora prova a eludere questa domanda.

«Non te lo dico.»

L’ascensore arriva a destinazione pochi istanti dopo, le porte si aprono con un ding ed entrambi usciamo nel parcheggio.

Mi guarda male mentre la seguo. «Smettila di pedinarmi.»

Pfft. «Non lo sto facendo. Devo prendere una cosa in macchina.» La bugia sarebbe più credibile se avessi le chiavi in mano o in tasca, ma non è così.

«Come ti pare.» Il vento si alza, sollevando l’orlo del suo bel vestito a fiori e scoprendole le gambe abbronzate. Lisce. Magre. Gambe grandiose. «Piantala di fissarmi, maniaco.»

Maniaco? Ma che...

Oltrepassiamo la guardiola della vigilanza e faccio un cenno di saluto a Karl, la guardia, rallentando il passo mentre mi dirigo alla mia auto, visto che in realtà non posso entrarci. Ho bisogno che lei arrivi alla sua macchina e vada via, prima di arrivare io alla mia, così non scoprirà che sono un bugiardo.

Ha un portamento sicuro, lo sguardo fisso davanti a sé, non sul cellulare, mentre passa in rassegna il parcheggio con in mano la chiave elettronica di... un fuoristrada di lusso.

Bella macchina. Belle gambe. Lingua lunga.

Lancia uno sguardo alle sue spalle, incrociando i miei occhi prima di agguantare un paio di occhiali da sole e infilarseli, poi apre la portiera dell’auto e ci entra. Non mi riserva nessun’altra occhiata dopo, nemmeno una, cazzo.

Che scortese!

Trascinando i piedi come uno sfigato, torno indietro dopo aver finto di dover prendere qualcosa dall’auto e risaluto Karl, che ha la testa che sbuca fuori dalla guardiola.

«Le piace la signorina Westbrooke?»

«Chi?»

«La signorina che è andata via ora. È la figlia minore di Thomas Westbrooke. Non viene spesso qui, ma la signorina Hollis è di sicuro carina.»

I miei occhi si spostano sull’auto che se ne sta andando, con la freccia accesa per girare a destra e uscire dal parcheggio, e che a quanto pare è guidata dalla figlia del dirigente. Ciò la rende la nipote del proprietario della squadra e mi fa sembrare un vero cazzone.

Santo cielo, ci ho appena provato con la figlia del dirigente.

Grazie a Dio, lei non sa chi sono, o sarei un uomo morto...

Capitolo 2

Hollis

«Sei certa che il tipo che ci ha provato con te allo stadio fosse Buzz Wallace?» Madison, la mia migliore amica, allunga una mano sul bancone della cucina e arraffa una patatina fritta, poi scava nella busta di carta marrone e se ne infila in bocca tre in una volta sola.

Quando sono arrivata a casa, stava dando un’occhiata ai social seduta in veranda, ad aspettare che tornassi per prepararle la cena, come un gatto randagio, con la voglia di farsi una chiacchierata veloce – soprattutto per scroccarmi da mangiare, visto che sembra essere sempre al verde – e del tutto annoiata. Come al solito. Conosco Madison dal college ed è sempre stata la tipa che deve essere intrattenuta, tenuta impegnata. Mai ferma, sempre irrequieta.

È agitata anche adesso, china sul bancone della mia cucina a rubare il cibo che ero troppo pigra per preparare. Afferro anche io una patatina e mastico. Succhio via il sale dalle dita e inarco un sopracciglio.

«Sì, sono sicura fosse Buzz Wallace.» Trace Wallace, secondo la sua biografia online. «Ero curiosa, quindi ho cercato i membri della squadra online. È un tale idiota.»

«Ma è così sexy» controbatte lei, rubando il mio cheeseburger per dargli un morso, mentre il formaggio sciolto cola da un lato. Mi acciglio, riprendendomelo.

«Compratene uno tuo! Se avessi saputo che ti avrei trovata qui al mio ritorno, te ne avrei preso uno.» Il panino non è abbastanza grande per condividerlo, non quando sono così affamata. «Va’ a farti una pizza surgelata» dico tagliente.

«Non mi piacciono le pizze piene di roba che compri tu.» Tira su con il naso, prendendo di soppiatto un altro po’ della mia cena. Madison non è una da pizza con carne, tanta verdura e formaggio extra, come me;

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