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Sillabario veneto
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E-book211 pagine2 ore

Sillabario veneto

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Info su questo ebook

Le parole che ci accompagnano nell’infanzia, che veicolano le carezze, le sgridate, le prime scoperte della vita, non dovrebbero mai essere dimenticate. E, ancora di più, non dovremmo mai e poi mai vergognarci di quelle parole, perché parlano di noi (e noi parliamo di loro) più di ogni altra parola che potremo apprendere in seguito, a scuola, sui libri, al lavoro.

È da questa premessa che nasce l’urgenza di raccontare una terra attraverso le sue parole in modo da formare una geografia linguistica, che sfocia nella cultura di un popolo e di un territorio, che si fa concreta e diventa sostanza.

Le parole ci sembrano fisse, ben chiare, ancorate al loro significato. Ma non appena guardiamo alle loro spalle, non appena le spogliamo un po’, e le accarezziamo, ecco la magia.

Il profumo che emanano, la morbidezza del loro intimo, e la profondità dei loro sguardi... Non puoi più dire di conoscerle, e ti sfuggono, sono straniere, misteriose... Dannazione, le parole sono donne!
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2023
ISBN9791255670148
Sillabario veneto

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    Anteprima del libro

    Sillabario veneto - Paolo Malaguti

    L’autore

    Paolo Malaguti Nato a Monselice (Padova) nel 1978, è autore di Sul Grappa dopo la vittoria (Santi Quaranta 2009, 11 edizioni), Sillabario veneto (Santi Quaranta 2011, 7 edizioni), La reliquia di Costantinopoli (Neri Pozza 2015, finalista al Premio Strega), Nuovo sillabario veneto (BEAT 2016), Prima dell’alba (Neri Pozza 2017), Lungo la Pedemontana. In giro lento tra storia, paesaggio veneto e fantasie (Marsilio 2018) e L’ultimo carnevale (Solferino 2019). Per Einaudi ha pubblicato Se l’acqua ride (2020), entrato nella cinquina del Premio Campiello 2021, Il Moro della cima (2022, Premio Mario Rigoni Stern), Piero fa la Merica (2023).

    camera con vista – 37

    Bottega Errante Edizioni

    Via Pradamano 72

    33100 Udine

    www.bottegaerranteedizioni.it

    info@bottegaerranteedizioni.it

    Copyright © 2023 Bottega Errante Edizioni srl

    Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano

    Tutti i diritti sono riservati

    Prima edizione Editrice Santi Quaranta, 2011

    Settima edizione Editrice Santi Quaranta, 2020

    ISBN 979-12-55670-14-8

    È vietata la riproduzione totale e parziale del testo

    senza l’autorizzazione della casa editrice e degli aventi diritto

    Paolo Malaguti

    Sillabario veneto

    Bottega Errante Edizioni

    Introduzione

    Il Sillabario veneto è uscito nel 2011. Sono passati dodici anni, magari non tanti nell’arco di un’intera esistenza, ma nel mondo dei libri, dove a quanto si dice la vita media si misura in mesi, stiamo parlando di ere geologiche. Eppure eccoci qua, il Sillabario veneto ha fatto un po’ di strada e oggi ricompare in una nuova veste e in una nuova collana, grazie alla fiducia degli amici di Bottega Errante Edizioni che hanno raccolto la bella eredità della Santi Quaranta.

    Ho scritto il Sillabario sull’onda dell’ignoranza. Avevo appena portato a termine Sul Grappa dopo la vittoria, e avevo sudato quattro camicie per costruire i dialoghi in dialetto. Come mai, nonostante gli anni trascorsi in ambienti dialettofoni, non avevo digerito il veneto della mia famiglia? La risposta era semplice e triste: non me lo avevano insegnato. E non me lo avevano insegnato perché, stringi stringi, se ne vergognavano, e credevano di farmi un favore educandomi solo all’italiano.

    Nel momento in cui prendevo atto di questa verità (che pure mi era stata di fronte agli occhi per una vita intera) mia nonna era morta da un paio d’anni, e quindi non potevo recuperare con lei il terreno perduto. Allora ho iniziato a ricordare, ricordando scrivevo, e scrivendo ricordavo.

    La prima parola, lo ricordo bene, è stata ratatuja. Mentre la raccontavo accadeva qualcosa di strano, perché al tempo stesso ridevo e mi commuovevo, di fronte a quel mondo di cui ero figlio e orfano, e del quale credevo di essermi dimenticato.

    E invece quel mondo era ancora lì, mi aveva aspettato, sepolto sotto a tante cose venute dopo… ma quelle parole antiche eppure vicine, e le scene e gli spazi in cui avevano vissuto, tornavano a sciogliersi e a stendersi e ad accamparsi e a moltiplicarsi come se avessi salutato la sera prima i miei cugini nel cortile dei nonni dopo i giri in giostra per la sagra dei Santi Angeli a fine settembre.

    Per me il viaggio nella scrittura del Sillabario veneto è stato molto importante, oltre che divertente. Ma dopo che il libro è uscito è iniziato un altro viaggio, che dura da anni e ancora non si è concluso, durante il quale ho avuto la fortuna di accompagnare il libro in giro per il Triveneto, raccontandolo e ascoltando al tempo stesso le tante storie e le tante parole che le persone condividevano con me. Sono state occasioni preziose di confronto, di discussione anche animata attorno ai temi e ai problemi che fioriscono sempre quando si parla di lingua.

    Non ho ancora le idee chiare in merito, credo che una delle cose più belle della vita sia l’avere di fronte a sé una strada di apprendimento senza fine. Sono però convinto di un paio di aspetti, che forse, mentre scrivevo il Sillabario veneto, ancora avvertivo in modo confuso. Ecco, è con queste due piccole verità che auguro ai lettori del Sillabario veneto un buon viaggio di scoperta e riscoperta tra le parole!

    La prima: la famiglia è il primo ambiente di apprendimento linguistico di un essere umano. Le parole che ci accompagnano nell’infanzia, che veicolano le carezze, le sgridate, le prime scoperte della vita, non dovrebbero mai essere dimenticate. E, ancora di più, non dovremmo mai e poi mai vergognarci di quelle parole, perché parlano di noi (e noi parliamo di loro) più di ogni altra parola che potremo apprendere in seguito, a scuola, sui libri, al lavoro.

    La seconda: se ci piace scrivere, se proviamo piacere nell’intrecciare storie, non dovremmo accontentarci dell’italiano standard, di quel codice medio che imperversa sui mass media, ieri la televisione, oggi la rete, perché il mondo e la natura umana sono infinitamente più ricchi e sfaccettati, e quindi dobbiamo raccogliere la sfida della ricerca delle parole più adatte per le nostre pagine. Credo che il tempo presente ci diseduchi alla complessità, e invece non dobbiamo rinunciarvi. Se la storia che ho in mente me lo permette, credo che sia doppiamente bello andare a scavare nelle varianti dell’italiano letterario, dei gerghi, delle lingue speciali, e, ovviamente, dei dialetti.

    In primo luogo sarà bello per noi che scriviamo, perché ci renderemo conto di quanti colori potrà avere la nostra tavolozza linguistica, e perché scopriremo quanto una parola, ben lungi dall’essere un semplice strumento narrativo, è in realtà un motore del racconto: le parole generano storie, aprono porte inaspettate nella linea della trama.

    E in secondo luogo sarà bello per chi ci leggerà, perché non è vero che la letteratura buona debba essere facile. Anzi: credo che stia nella natura stessa di un testo letterario la necessità di ospitare dei misteri, di contenere delle porte che il lettore non può aprire subito. È proprio di fronte alla parola inattesa, di fronte al mistero linguistico, che il lettore fa ciò che di più nobile e di più libero la letteratura ci permette di fare: interpretare. Mettere noi stessi negli spazi vuoti che la pagina non ci permette di colmare.

    In questa sfida interpretativa il lettore si impadronirà del testo con una profondità ben maggiore di quella offerta da un testo linguisticamente liscio, senza deviazioni o asperità. Il diritto che la letteratura e l’arte in genere ci offrono di azzardare significati e interpretazioni si chiama polisemia, ma, in altre parole, si tratta della possibilità di scoprirsi liberi. Non solo liberi, ma anche dotati di una dignità intellettuale, di una responsabilità nei confronti del testo (e quindi del mondo) alla quale forse non siamo più tanto abituati.

    Questa perdita di piacere interpretativo, questa riduzione dell’autonomia linguistica del lettore di fronte al testo, a mio avviso è qualcosa di pericoloso, perché, in ultima analisi, si tratta di una perdita di libertà. E come spesso accade nelle tirannie politiche, anche nella tirannia del semplicismo pseudoletterario capita che ci troviamo a nostro agio. Quando il testo non ci interroga, quando non ci obbliga al salto nel vuoto dell’interpretazione, stiamo comodi, ci piace questa condizione di passività, abbiamo qualcuno che lavora per noi, noi non dobbiamo fare niente, ci pensano altri. Ma questa, ripeto, non è libertà.

    Se ci piace scrivere, dunque, credo che dovremmo compiere il bello sforzo di andare alla ricerca delle tante parole che giacciono nel mondo, o dentro le scatole della nostra memoria. Sarà un viaggio avventuroso che ci donerà sorprese inaspettate, e che ci renderà infinitamente ricchi.

    SILLABARIO VENETO

    Amia

    Viene dal latino amita, e si tratta della zia, preferibilmente paterna. Il Boerio precisa che il termine Sior’amia era utilizzato come presa in giro, scherno per le giovani fanciulle, in alternanza con un decisamente più espressivo pissota.

    Lo zio e la zia sono di origine greca, e sono giunti nella penisola solo nella tarda antichità. In veneto la zia è l’amia, lo zio è il barba. Il barba è un grado di parentela che comunica autorità e protezione. «Va’ da to barba» mi diceva il nonno, quando minacciava di picchiarmi perché magari gli avevo calpestato l’orto, quasi che questo barba misterioso mi dovesse offrire aiuto e riparo. Non da mia madre, non da mio padre, era il barba che aveva il compito di proteggermi. Restava da capire quale dei tanti zii era il mio barba, visto che non corrispondeva al santolo.

    L’amia, invece, è un’entità diversa e, chissà per quale ragione, è chiamata in causa negli insulti, almeno in quelli che un adulto può rivolgere a un bambino. Chea vaca dea to amia! è il più frequente. Tra l’altro, se rivolto da nonni o genitori, la domanda ovvia è perché essi insultino la loro figlia o sorella. Anche l’amia, come il barba, ha allora dei compiti educativi nei confronti del nipote, ed è naturale che, se quest’ultimo sbaglia, gli altri abbiano il diritto morale di chiamarla in causa, dicendole su.

    O forse insultare l’amia era un modo più leggero per riprendere qualcuno, e infatti, quando i miei nonni si imbestialivano, soprattutto tra di loro, la vaca di turno non era più l’amia, ma la mare. Resta però il dato di fatto: la famiglia di una volta era anche quella delle amie, e dei barba. In effetti, richiamando alla memoria le narrazioni di genitori e nonni circa le famiglie della loro infanzia e giovinezza, compaiono sempre figure di apparente contorno, di margine, verrebbe da dire. Però autorevoli, soprattutto infaticabili e determinanti nella gestione tout court della famiglia.

    Sono amie rimaste da sposare, madeghe per sempre. Oppure amie vedove, non importa se per la guerra, o per la malattia, o il lavoro all’estero, la cosa fondamentale è che senza il loro uomo non ce la fanno a tirare avanti, e allora vanno a vivere ospiti di questo o quel fratello.

    Altre ancora, invece, sono amie religiose, pie suore di uno dei tanti, tantissimi ordini che costellano, o perlomeno costellavano, il bianco Veneto dei seminari giganteschi e degli oratori allora sempre colmi. Queste suore periodicamente uscivano dal convento per andare a trovare la sorella o il fratello, portando le loro preghiere, la loro domestica santità, talvolta dolcetti un po’ antiquati per i nipoti, quasi sempre una buona dose di moralismo e di giudiziosità giudicante.

    A seconda della famiglia che si prende in esame, l’amia lascia di sé ricordi più o meno coloriti e positivi. C’è l’amia istruita, magari maestra, che nel lessico familiare viene chiamata Signorina con la S maiuscola, e che compare sempre per criticare o emettere sentenze inappellabili, nell’aneddotica di nonni e genitori; questa amia ha la lingua lunga, saputella e decisamente puntuta, ma può capitare che il fratello o il cognato, tornato ubriaco dall’osteria, o livido di rabbia dal lavoro nei campi, perda la tramontana e, presa la Signorina per i fianchi sottili, la metta a sedere nel luamaro, a meditare sulla verità profonda che il silenzio è d’oro almeno tanto quanto il luame è marrone.

    C’è l’amia devota, che salva tutta la famiglia con le sue ininterrotte preghiere, e della quale si racconta che abbia avuto contatti più o meno frequenti e ravvicinati con santi e diavoli, gli uni contenti della sua santità, gli altri invidiosi e intenti a vessarla come coi padri del deserto. Mi piace immaginarmela, questa amia, a ciacolare con sant’Antonio da Padova prima, a buscarsele da un Ciriatto o un Barbariccia dopo, ma invariabilmente, dopo il santo e dopo il diavolo, a tornarsene al lavoro in cucina o in orto, perché sarà pure più importante la vita eterna, ma finché si è di qua, nella valle di lacrime, il cibo non ti piove addosso.

    C’è l’amia manesca, abilissima a manovrare lunghe vis-ce di salice piangente sulle gambe nude dei nipoti, almeno fino al giorno in cui uno di essi, novello Davide, le frombolò da lontano un sasso in piena fronte, ricordandole che quando l’uomo con la vis-cia incontra l’uomo con la fionda, l’uomo con la vis-cia perde.

    C’è l’amia cuciniera, di cui sopravvivono di generazione in generazione le prodezze culinarie, il modo in cui faceva il brodo, o in cui insaporiva l’insalata con un intingolo misterioso, reso ancor più buono dal tempo, a scorno e invidia delle novelle spose, costrette, loro malgrado, a confrontarsi con questi intramontabili miti del focolare.

    E c’è addirittura l’amia partigiana, che faceva la staffetta da una brigata all’altra, e che, almeno così dicevano le ragazze invidiose del paese, in ogni brigata aveva un amante, o più d’uno, da far contento prima di ripartire in bicicletta, con gli ordini nascosti sotto la biancheria, dove i tedeschi, crucchi finché vuoi, ma quasi sempre corretti e gentili nell’immaginario popolare, non avrebbero mai messo mano.

    Ma tutte, sommando a fatica gli scorci di memoria, appaiono figure laboriose, di supporto potente e importante alla famiglia dell’aia, presenze fondamentali insomma.

    L’amia è forse una traccia della metamorfosi profonda e radicale della società veneta degli ultimi quarant’anni. Sono venuti meno dei legami. Delle strutture, che con sé portavano degli spazi e delle parole, sono scomparse, per far posto a nuove realtà, caratterizzate, forse, dalla mancanza di vincoli ampliati oltre le mura domestiche.

    L’ultima riunione familiare completa di cui ho memoria è stata davanti alla tomba di mio nonno materno. Sono passati tanti anni, andavo ancora a scuola. Eppure capii che qualcosa stava finendo, in quel momento. La tomba era a terra, la croce di legno, non ancora quella di pietra, che avrebbero messo di lì a poco. Sono così precarie, le tombe, sul primo momento, con la data di morte scritta sulla malta fresca dal dito incerto del pissegamorti, e l’impalcatura, le funi, le assi di legno…

    Percepii una fine, senza cogliere un nuovo inizio. Eravamo in piedi, e tirava vento dal mare, e pioggia fredda. L’aria sapeva quasi di salsedine, come spesso avviene dalle parti di Piove di Sacco, come ho realizzato solo dopo essermi trasferito dove l’aria sa di resina d’estate e di neve d’inverno.

    Eravamo tutti lì, gli zii, i cugini, gli zii degli zii, i cugini degli zii, i cugini dei cugini. Li fissavo in silenzio, e ripassavo quei nomi, che mia madre mi ripeteva, anno dopo anno, in macchina, guidando verso la casa della nonna. Ogni nome una storia, ogni faccia un’etichetta, un qualcosa da ricordare, un evento, un aneddoto. Oggi mi pare così strano dovermi ricordare fatti che riguardano gradi di parentela così distanti… all’epoca la cosa pareva giusta, e lo facevo con serenità.

    Il parente partigiano, quello che era caduto da cavallo, quello che si era addormentato in macchina ed era finito nel fosso. Chi aveva i maiali, chi aveva i campi, chi riparava i motori. In quella mattina mi resi conto che, morto il nonno, l’anello che mi teneva legato a quei volti si era infranto, e non era più nell’interesse nostro tentare di ricomporre quello strappo.

    Tacitamente uscimmo dal cimitero, ci salutammo timidamente, e ognuno salì sulla sua automobile. Non era già più il tempo delle amie.

    Bagigi

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