Il Teatro Di Simone Weil
Il Teatro Di Simone Weil
Il Teatro Di Simone Weil
Giuliano Campo
Dall’attenzione alla via negativa. Simone Weil/Jouvet/Grotowski
1. Premessa
2. Corpo-mente/lavoro-valore
3. L’attenzione
4. L’attesa
5. Le lezioni di Louis Jouvet
6. Jouvet
7. Conclusioni. Apocalypsis cum figuris-Grotowski e Simone Weil
Legenda
1. Premessa
Simone Weil visse brevemente e intensamente, dedicandosi con radicalità e
costanza al continuo superamento dei propri limiti, fisici e intellettuali.
Simone Weil agiva in maniera teatrale. La sua vita è stata teatro, sebbene la sua
esperienza, da lei continuamente analizzata e raccontata, sia stata sostanzialmente
distante dal teatro comunemente inteso.
Oltre il centro della ricerca ci sono gli elementi che nella storia giustificano questa
ricostruzione: la vocazione teatrale di Simone Weil nata al Vieux Colombier dalle
letture pubbliche di Jacques Copeau, “lettore meraviglioso” perchè sincero nella vita,
come spiegava il suo allievo Charles Dullin; l’amicizia, stretta, con la figlia di
Copeau, Edi, nel momento della conversione di entrambi, e che come conseguenza
ha tra l’altro avuto la “conversione del teatro” di Copeau, dal centro alla fuoriuscita
dal centro; le riflessioni prettamente teatrali di Simone Weil, anche stimolate dalle
visioni di spettacoli, in particolare di Louis Jouvet; l’operazione teatralmente
rilevante del tentativo di miglioramento della vita dei lavoratori delle fabbriche,
perseguito offrendo loro del nutrimento spirituale per mezzo di suoi sforzi teatrali,
gli articoli scritti per la rivista “Entre nous”; la scrittura di Venezia Salva, come
operazione esclusivamente spirituale sul sé lungo il percorso della trascendenza;
infine le conseguenze del discorso weiliano e i suoi effetti sul teatro, dalle lezioni di
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Jouvet al Conservatoire National d’Art Dramatique del 1950, alla recitazione del
weiliano “Prologo” nell’ultimo spettacolo di Grotowski Apocalypsis cum figuris, esso
stesso prologo della fuoriuscita grotowskiana dal centro apparente del teatro verso
la sua “rivelazione” attraverso lo strumento parateatrale gia’ inscritto nello
spettacolo, che infatti accompagnava le aperture delle sessioni parateatrali a partire
dal 1975.
Il tema centrale, evidente proprio perchè quasi nascosto, come traccia sotterranea,
è il teatro in sé e per sé e la possibilità di sperimentare un percorso di ricerca storica
e teorica sul teatro pur non avendo come oggetto esplicito una specifica attivita’
teatrale.
In questa maniera si vuole fare emergere all’evidenza della lettura il punto di vista
teatrale come categoria del pensiero, non solo all’interno della vita e dell’opera
presa in considerazione, ma anche nella stessa azione critica e di ricerca che
dispone gli elementi a un’osservazione di carattere teatrale.
Brani sono di volta in volta commentati per costituire un corpus parallelo a quello
della Weil, che consenta di rivelarne l’organicita’ e l’utilizzabilita’ in ambito teatrale.
È qualità dell’opera dei grandi autori quella di potere essere letta nei modi più
diversi, da differenti punti di vista, e di essere ancora capace di evocare e rivelare e
proporre sempre temi e problemi ai lettori nelle varie epoche e situazioni.
Gotthold Ephreim Lessing è noto tra gli studiosi di estetica soprattutto per il geniale
Lacoonte, che nell’eterno dibattito sulla fusione o sulla separazione delle arti ha
segnato una svolta in senso antidogmatico, facendo riflettere sulla legge generale
della missione dell’artista, la verità e l’espressione, sul tempo, lo spazio, le azioni,
semplici e collettive, la grazia come bellezza in movimento, nella poesia, nella
[1]
pittura e, anche, in parte, nella scultura .
Ma ancora più rilevante è un’opera meno citata, soprattutto in Italia, del traduttore
tedesco di Riccoboni, la Drammaturgia d’Amburgo, ispirata dal lavoro del grande
riformatore teatrale Konrad Ekhof, nella quale si spiega il principio per cui “le
modificazioni dell’anima, quando hanno come conseguenza delle modificazioni nel
fisico, vengono a loro volta determinate da queste”, e l’azione dell’attore viene
paragonata a un tessuto, nel quale, nella stessa sostanza, esiste sia la stoffa che il
ricamo.
È rappresentazione della dualità o dualismo, che l’arte rivela per mezzo del suo
“oggetto particolare”, l’uomo, giacchè “il vero gusto è quello universale” e “la
funzione dell’arte è di operare per noi questa selezione nel dominio del bello, e
facilitarci il concentramento della nostra attenzione”, su una compresenza di
[2]
particolare e universale .
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Alla fine del ‘700 Joann Jacob Engel scrisse le Lettere intorno alla mimica, un
trattato che prendeva in considerazione la figura dell’attore musico, sulla base di ciò
che si immagina dell’arte greca, nella quale confluivano musica, danza, poesia e
canto. La recitazione è qui forza in azione nel tempo, l’arte dell’occhio, dello spazio,
è legata alla durata, ciò che è plastico modella il tempo, e così fa la musica: l’arte
dell’attore è un’arte energetica.
Vediamo che la pratica del dualismo nel processo psicofisico dell’uomo scavalca
l’arte e propone un lavoro sul sé e sull’essere e il mondo. Questa è ciò qualifica il
teatro del Novecento, è il suo “scandalo”. La questione della verità è il centro della
ricerca con il teatro.
Tra le due dimensioni, che sono immanenti, e costituiscono un unico doppio, c’è un
collegamento possibile, il veicolo dell’arte di Grotowski, ma anche Amore, daimon,
che Simone Weil ha ritrovato nei greci, in Platone, ed è anche su questo,
sull’attenzione, “la forma più rara e pura di generosità”, che l’attore Louis Jouvet ha
parlato riferendosi a Simone Weil e, indirettamente, ad Artaud.
Se il teatro del Novecento è una specie del teatro, inteso come laboratorio di vita,
dove praticare un lavoro su di sé, per essere compreso nei suoi vari livelli è
necessario aprirsi allo studio dei contemporanei del tempo, e soprattutto, dell’anima,
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dei maestri che lo hanno fondato. È per questo che potrà apparire valido uno studio
su Simone Weil, maestro nel Novecento oltre la dimensione dell’arte, che pure ha
incrociato ma che, soprattutto, ha rivelato per una via parallela. In altre parole, se al
livello delle forme i performer sono incomparabili, mentre lo sono al livello delle
tecniche e dei principi, al livello dell’essere (come bios e come valore) che è il
terreno di Simone Weil, vi è un rapporto di identità, più che di parentela, che
oltrepassa il mestiere e l’arte stessa, che però da lì ha da generarsi, e che quindi è
da investigare.
Un fatto che risulta evidente ed è piuttosto impressionante, è che Simone Weil, che
muore a Londra nel 1943 a trentaquattro anni, quindi prima di potere avere avuto
una nozione, né vaga né precisa, di ciò che noi sappiamo, e dopo aver prodotto una
quantità enorme di scritti di ogni genere, aveva già compreso moltissimo e
addirittura previsto in maniera puntuale, nel dettaglio, gli eventi futuri fino a quelli
che stiamo vivendo ancora oggi. Per farlo ha adoperato un approccio critico di analisi
che noi possiamo definire di “via negativa”, per una rivoluzione interiore che deriva
dalla conoscenza del mistero della doppia natura dell’uomo (e della realtà), e nel
contempo una ricerca delle radici culturali dell’uomo occidentale che ha provocato
come risposta un movimento verso la riunificazione della scienza, dell’arte e della
filosofia e contemporaneamente la verifica dell’identità con culture orientali o
antiche e scomparse, le quali tutte si riferiscono ad una unica verità oggettiva
conoscibile attraverso un percorso verticale di trascendenza rispetto all’apparenza
[8]
sensibile del mondo. Rileggendo Antonin Artaud , che pure Simone non conosceva
direttamente, non si può non notare l’identità di orientamento, e, per molti versi, di
storia personale.
2. Corpo-mente/lavoro-valore
Come Artaud, Simone Weil auspicava una riunificazione di scienza e arte, e, così, di
corpo e anima, tramite il lavoro. Nell’epoca contemporanea infatti le varie parti
dell’attività umana, prima legate organicamente, sia fra di esse, che con il mondo,
sono andate frammentandosi, e vanno ricomposte.
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interviene nella vita materiale. La decadenza dello stato della civiltà contemporanea
[9]
è dato dallo sfasamento di azione e pensiero (cfr. QI: 131) .
Il metodo di lavoro che Simone Weil in una prima fase cerca, e già propone, è
fondato sull’analogia perché essa obbliga a ripensare sempre (cfr. QI: 115,116).
“L’arte. Il trionfo dell’arte è nel condurre ad altro che se stessi: alla vita, in funzione
della piena coscienza del patto che lega lo spirito al mondo. Faust, parte seconda.
Inutile dunque invidiare gli artisti. Una fuga di Bach, un quadro di Leonardo, una
poesia, indicano ma non esprimono. [E tuttavia…]. L’arte è conoscenza. Meglio,
l’arte è esplorazione. Il grande artista apprende cose che purtroppo non comunica.
Leonardo… (cfr. il suo Trattato). La grandezza dell’uomo consiste sempre nel
ricreare la sua vita. Ricreare ciò che gli è dato. Forgiare anche ciò che subisce.
Mediante il lavoro produce la propria esistenza naturale. Mediante la scienza ricrea
l’universo per mezzo di simboli. Mediante l’arte ricrea l’alleanza tra il suo corpo e la
sua anima (cfr. il discorso di Eupalino). Notare che ciascuna di queste tre creazioni è
qualcosa di povero, vuoto e vano, preso in sé e fuori dal rapporto con le altre due.
Unione delle tre: cultura “operaia”… Dobbiamo tenere presenti al nostro spirito due
preoccupazioni: 1 salvarci – vale a dire non delirare in mezzo a un mondo in delirio.
È già molto. 2 fare tutto il possibile per preparare… senza illusioni sull’efficacia dei
nostri sforzi… ‘Non serve sperare…’ (Guglielmo di Taciturno: ‘Non è necessario
sperare per intraprendere, né riuscire per perseverarè)… Fare l’inventario della
civiltà attuale, che ci schiaccia… Riflettere da soli. Senza divisione del lavoro, senza…
Tuttavia ricercare il concorso di tutti coloro… Cercare di chiarire in modo preciso la
trappola che ha fatto dell’uomo lo schiavo delle proprie creazioni. In che modo
l’incoscienza si è infiltrata nel pensiero e nell’azione metodica. L’evasione nella vita
selvaggia è una soluzione pigra. Ritrovare il patto originario tra lo spirito e il mondo
attraverso la civiltà stessa in cui viviamo. Del resto è un compito impossibile da
realizzare, a causa della brevità della vita umana e dell’impossibilità della
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collaborazione e della successione. Non è una ragione per non intraprenderlo. Tutti,
anche i più giovani, siamo in una situazione analoga a quella di Socrate, quando
attendeva la morte nella sua prigione e imparava a suonare la lira. Del resto, anche
senza collaborazione, sono possibili scambi. Bisognerebbe che studiosi, tecnici,
operai qualificati, tentassero di dominare scienza e tecnica… Il fatto essenziale è
questo: il discredito del lavoro porta alla fine della civiltà. Questo è il vero
materialismo. La forma di sfruttamento non è un fenomeno materiale. Quel che vi è
di materiale nella storia è la tecnica, non l’economia.” (QI: 157-159).
Queste riflessioni sparse, che nel tempo vanno a costituire un progetto unificato,
sono state scritte in maniera frammentaria tra il 1933 e il 1940. Si accompagnano a
una lunga lista di questioni da risolvere, di esercizi da fare e di cronache di processi
intellettuali di formazione. È un periodo non meno importante, da mettere in
relazione con i tanti scritti e le varie esperienze di vita, in un certo senso
preparatorio rispetto alle grandi visioni che Simone Weil elabora negli ultimi tre anni,
sull’attenzione e l’attesa. Qualcosa è accaduto, è avvenuta una “realizzazione
ascendente”, a cui non può che fare seguito una “realizzazione discendente”. Il
progetto allora si è incarnato nell’atto; la scrittura è lineare, limpida, priva di
correzioni e di domande, pura testimonianza, esperienza reale di una rinascita, di
una ricreazione di sé.
3. L’attenzione
“Le génie, c’est l’attention.” (LF:319)
Si ritrova spesso negli scritti di Simone Weil la convinzione che esiste un rapporto
d’identità tra il genio e l’attenzione. Il genio è perciò un’attività, non un fattore dato.
“Oggi sembra che lo si ignori, ma lo scopo reale e l’interesse quasi unico degli studi
è quello di formare la facoltà dell’attenzione. La maggior parte degli esercizi
scolastici hanno anche un certo interesse intrinseco; ma è un interesse secondario.
Tutti gli esercizi che fanno veramente appello alla nostra capacità d’attenzione sono
interessanti al medesimo titolo e quasi nella stessa misura.” (AD:75)
I vari esercizi nell’ambito delle facoltà intuitive sono tutti strumenti che hanno
l’obiettivo di formare la facoltà superiore dell’attenzione.
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“A quattordici anni sono caduta in uno di quegli stati di disperazione senza fondo
propri dell’adolescenza, e ho seriamente pensato alla morte, a causa delle mie
mediocri facoltà naturali. Le doti straordinarie di mio fratello, che ha avuto
un’infanzia e una giovinezza paragonabili quelle di Pascal, mi obbligavano a
rendermene conto. Non invidiavo i suoi successi esteriori, ma il non poter sperare di
entrare in quel regno trascendente dove entrano solamente gli uomini di autentico
valore, e dove abita la verità. Preferivo morire piuttosto che vivere senza di essa.
Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d’improvviso e per sempre la certezza che
qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressochè nulle,
penetra in questo regno della verità riservato al genio, purchè desideri la verità e
faccia un continuo sforzo d’attenzione per raggiungerla: in questo modo diventa egli
pure un genio, anche se per mancanza di talento non può apparir tale
esteriormente. Più tardi, quando le emicranie fecero pesare sulle mie scarse facoltà
una paralisi che mi sono subito immaginata con ogni probabilità definitiva, fu proprio
quella certezza a indurmi a perseverare per dieci anni in sforzi d’attenzione che non
erano sorretti da quasi nessuna speranza di qualche risultato. Il concetto di verità
comprendeva per me anche la bellezza, la virtù e ogni sorta di bene, di modo che, a
mio parere, si trattava di un rapporto fra grazia e desiderio. Avevo acquisito la
certezza che quando si desidera pane non ci vengono date pietre.” (AD:38,39)
Simone Weil ha praticato gli esercizi per formare la facoltà d’attenzione sin
dall’adolescenza, ed è grazie a queste sue esperienze che è in grado di guidare un
percorso di formazione. L’attenzione-genio porta alla verità, che è anche bellezza e
bene. Per raggiungerla è necessario desiderarla.
[10]
“I lampi di attenzione non sono altro che lampi di genio ” (OC I: 392)
Il regno della verità è riservato al genio, ma chiunque, attraverso degli sforzi
d’attenzione ben orientati, può penetrarlo.
“Percepire puramente, senza mescolarvi elementi di sogno (la mia idea a 17 anni)”
(SP: 56,57;QIII: 76)
Si vede che il tema dell’attenzione è sempre stato centrale non solo nelle riflessioni,
ma anche nelle pratiche di Simone Weil durante tutto il suo percorso di conoscenza
e di scrittura, sin dall’adolescenza. Inizialmente legato alle nozioni della tradizione
cartesiana, filtrate attraverso gli insegnamenti di Lagneau e, direttamente, di Alain,
come espressione di pensiero puro capace di disvelare l’essenza oltre l’apparenza,
viene presto da Simone applicato anche per molteplici verifiche delle sue personali
esperienze di apprendimento intellettuale e materiale, spirituale e sociale, sul
metodo, sull’azione politica e, soprattutto, pedagogica.
“L’ATTENZIONE.
Inizio. Importanza dell’argomento
L’attenzione fa tutta la differenza tra l’uomo e gli animali.
Appartiene allo spirito o al corpo?
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Dunque, quanto ai pensieri, ‘Conosci te stessò significa: ‘Non confonderti con i tuoi
pensierì.
Ad esempio, il matematico si perde spesso nei suoi teoremi, formule, ecc.
La scienza attuale arriva ad essere priva di coscienza.
b) Nell’ambito del sentimento: bisogna distaccarsi dalle proprie affezioni.
Esempio di Turenne: ‘Tu tremi, carcassa…’.
Formula del Fedone: ‘L’anima, con i suoi desideri, i suoi timori, le sue collere,
dialoga come con cose estraneè. Il perdono è un atto consistente nel separarsi dal
proprio odio o rancore.
c) Nel campo dell’azione: separare l’io dal me nelle azioni consiste nel giudicare le
proprie azioni, nel non perdersi mai nell’azione.
Bisogna considerare le proprie azioni non più rispetto a sé, ma oggettivamente.
Esempio: un ladro considera un furto come un arricchimento; il suo errore consiste
nel vedere il suo atto solo in rapporto a sé.” (LF:226, 228-229)
La pratica dell’attenzione è quindi una via negativa, riguarda l’identificazione dell’io
attraverso un lavoro di conoscenza, e la sua separazione rispetto al ‘mè. Riguarda
tutti gli ambiti di esperienza dell’uomo, che sono la mente (pensiero, intelletto), il
cuore (sentimento, affezioni) il corpo (nel senso dell’azione). Nell’ambito del
pensiero è consussistente all’operazione del dubbio.
“Il fine della cultura è… la formazione dell’attenzione… il primo dovere della scuola è
quello di sviluppare nei bambini la facoltà di attenzione, mediante gli esercizi
scolastici, è ovvio, ma ricordando loro incessantemente che devono essere attenti
per poter essere più tardi giusti.” (EL:160,177)
“Quel che conta in una vita umana non sono gli eventi che vi dominano il corso degli
anni – o dei mesi – e nemmeno dei giorni. È il modo con il quale ogni minuto si
connette al minuto seguente e quel che a ognuno costa, nel corpo, nel cuore,
nell’anima – e al di sopra di tutto nell’esercizio della facoltà di attenzione – compiere
minuto per minuto quella connessione”. (JDU in OC II/2: 267)
Queste righe sono scelte tra le tante scritte nel periodo del lavoro in fabbrica su
questo argomento. A causa del macchinismo e della attuale divisione del lavoro, è
impossibile per il lavoratore esercitare fruttuosamente la facoltà d’attenzione,
perché impegnata costantemente a seguire il ritmo imposto dalle macchine
automatiche e dai tempi del ciclo produttivo.
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Gli scritti del periodo di lavoro in fabbrica confermano l’orientamento espresso nelle
Réflexions e la centralità del tema della facoltà d’attenzione, che ha un carattere
spirituale ed è la più importante delle risorse umane: i lavoratori hanno innanzi tutto
bisogno del “pane spirituale”. Ma le sue sono proposte concrete, fondate su un
metodo critico di analisi della realtà materiale delle condizioni del lavoro. Questo
metodo stesso è fondato e si esercita con l’attenzione.
Per Simone Weil “il metodo è indissociabile dall’esperienza che lo alimenta e dalla
dottrina che lo rende chiaro. Ha la funzione di restituire, ai fini dell’analisi e
dell’organizzazione dell’azione, gli ingranaggi e le molle del meccanismo sociale.
Simone Weil gli affida un doppio oggetto: le strutture e il cambiamento. Il metodo è
‘materialistà, in tanto che gli si imputano le forme della società che possiede delle
forze; è allo stesso tempo ‘dualistà, in quanto distingue radicalmente le forze che
agiscono e il pensiero che le governa. La materia è sottomessa alla necessità e
all’ordine. Il pensiero ordina le relazioni e percepisce i limiti. L’attenzione è un atto di
pensiero che innanzitutto permette di discernere le forme e i fini attraverso i quali la
realtà rende testimonianza dell’ordine; come atto d’unione, acconsente alla materia
e alla forza. Intelletto e volontà allora si fondono.” (Saint~Sernin: 98)
“La chiave di una concezione cristiana degli studi è che la preghiera esige
attenzione, esige che venga orientata verso Dio tutta l’attenzione di cui l’anima è
capace. La qualità dell’attenzione è strettamente collegata alla qualità della
preghiera. Il calore del sentimento non può supplire.
Soltanto la parte più elevata dell’attenzione entra in contatto con Dio, quando la
preghiera è sufficientemente intensa e pura perché si possa stabilire un simile
contatto; ma tutta l’attenzione è rivolta a Dio.
Gli esercizi scolastici sviluppano, certo, una parte meno elevata dell’attenzione,
tuttavia essi hanno una loro efficacia per accrescere quel potere dell’attenzione che
sarà disponibile al momento della preghiera; però devono essere eseguiti a questo
scopo e soltanto a questo scopo.” (AD:75)
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s’identifica con la preghiera, entra in contatto con Dio, ma essa ha bisogno anche
del supporto dell’altro tipo di attenzione.
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Questi brani tratti dalle “Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici al fine dell’amore
di Dio” sono probabilmente tra i più significativi per una conoscenza autentica del
pensiero sull’attenzione di Simone Weil. È straordinario il fatto che Simone abbia di
fatto, da sola, raggiunto una consapevolezza pratica sugli esercizi di meditazione
concentrativa che in alcune parti dell’oriente hanno una storia millenaria. “In primo
luogo deve essere compiuta la meditazione della calma dimorante. La calma
dimorante è quello stato in cui la mente ha superato la distrazione provocata dagli
oggetti esterni e in cui si rivolge spontaneamente e costantemente all’oggetto della
meditazione con beatitudine e flessibilità” (Kamalashila, Bhavanakrama, in DALAI
LAMA:2001, 141)
“La via ascendente della REPUBBLICA è quella dei gradi di attenzione. L’occhio
dell’anima è l’attenzione.” (QIII:232)
“L’attenzione rivolta a ciò che può essere presente senza attenzione non è pura; vi è
mescolanza di attenzione e impressione. L’attenzione assolutamente pura,
l’attenzione che è solo attenzione, è l’attenzione volta verso Dio, perché egli è
presente unicamente nella misura in cui c’è attenzione.
Come il bene che non è altro che bene, che non ha altro essere che essere bene, è
Dio, così l’attenzione che non è altro che attenzione è preghiera.
Ciò che coglie la realtà è l’attenzione, cosicchè più il pensiero è attento, più l’oggetto
si riempie d’essere.
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I rapporti matematici non sono gran cosa senza attenzione (ma sono pur sempre
qualcosa; Dio solo è niente senza attenzione). Ancor più per i rapporti tra questi
rapporti (pensare la coincidenza tra due proprietà del cerchio avendo presente la
loro dimostrazione). E così di seguito secondo un’architettura fatta di disegni
sovrapposti verticalmente. Quando si è così pervenuti al limite dell’attenzione,
fissare lo sguardo dell’anima su questo limite con il desiderio di ciò che è al di là.
(Non è forse questa la soglia della caverna?).
La grazia farà il resto. Farà ascendere e uscire.
L’attenzione è legata al desiderio. Non alla volontà, ma al desiderio. (Più
precisamente al consenso; essa è consenso. Per questo è legata al bene).
L’Amore istruisce gli dei e gli uomini, perché nessuno apprende senza desiderio di
apprendere. La verità è cercata non in quanto verità, ma in quanto bene.
Ogni cosa cercata è cercata non in sé stessa, ma in quanto bene. Solo il bene è
cercato in sé stesso. Dunque solo il bene è assoluto.” (QIII:232-233)
L’attenzione è pura solo quando non è mescolata con l’impressione (con il “me”), ed
è quindi indirizzata esclusivamente verso colui che è niente senza attenzione. Traina
lungo un tragitto verticale al di là del quale solo la grazia può portare. C’è qui
coincidenza di consenso e desiderio, di realtà, verità e bene. “L’attenzione non è uno
stato, ma un orientamento dell’anima, suscettibile a ogni istante d’essere
compromesso. In effetti ‘noi nasciamo e cresciamo nella menzogna. La verità non ci
viene che da fuori e ci viene sempre da Dio” (EL:202). Tuttavia, Simone Weil pensa
che l’anima, quando non è stata pietrificata dalla malheur o dalla forza, si orienti
spontaneamente verso il vero, come la bussola verso il polo. In questo consiste ai
suoi occhi la funzione dell’ ‘attenzione creatricè, che, a dire il vero, non crea niente,
ma riconosce la creazione.” (Saint-Sernin: 99).
“Eschilo.
Zeus, chiunque, il pensiero volto a lui, invocherà la sua vittoria,
Quello otterrà la pienezza della saggezza. Eschilo, Agamennone, 174-175.”
(QIII:156)
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Così come il meccanismo dell’attenzione obbliga Dio (il bene secondo la Weil) a
discendere verso l’uomo, così, dopo un certo tempo della sua pratica, diventa per
l’uomo impossibile non volgersi verso Dio. Vale anche l’inverso: senza attenzione
l’uomo si allontana da Dio (l’allontanamento è il male). Il riferimento alla Gita rivela
che anche nella tradizione indiana è l’approccio, il lavoro, a determinare il valore
nell’uomo, che può e deve trascendere, e non la semplice verifica della giustezza di
una direzione che appartiene a una dimensione consueta.
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Dignità superiore dell’arte delle armi, dovuta forse in parte al fatto che i movimenti
sono modellati sul simile. (QI:353,354)
Il movimento naturale, organico, si fonda sul disequilibrio delle forze, che sono tutte
pendolari, cioè regolari, in relazione a un baricentro, e che tendono a decadere. Si
tratta di sintonizzarsi ad esso, e per farlo è necessaria l’azione non-agente
dell’attenzione, il vuoto che permette di seguire o di produrre, ma non agendo, un
ritmo conforme al mondo, che non disperda in direzioni disorganiche i moti di
compensazione e realizzi e coordini i raccordi necessari (e solo quelli). Questo nella
vita come nell’arte, nelle relazioni sociali come nelle attività fisiche, con il pensiero
immobile, con l’attenzione che, trasformando l’individuo in polo immobile di
movimenti ciclici, lo porta alla sintonia ritmica con il baricentro. Le arti marziali
esercitano l’uomo alle relazioni di equilibri e disequilibri, legati alla forza e allo
sforzo, in maniera adeguata perché organiche, modellate cioè sul confronto con un
altro essere umano naturamente identico, rispondente alle medesime leggi ritmiche.
Giunti alla sintonia perfetta, il decadimento non può essere valutato se non nei
termini del tendenzialmente infinito (il sanscrito amrta rinvia al concetto di
immortalità, è l’imperituro –Krsna della Gita- ma anche nome di Siva o di Visnu,
nonché corpo collettivo degli immortali e liberazione finale. Alcuni fanno risalire a
questa radice il termine latino amor. Balya in sanscrito indica ciò che dà forza).
Fedro. L’amato reso alato dall’ammirazione che l’altro ha della sua bellezza (il flusso
della bellezza va negli occhi dell’amante, ma una parte ricade sull’amato e scalda la
parte dell’anima dalla quale spuntano le ali).
Energia, perché c’è calore?
Clorofilla spirituale?
La bellezza come fonte di energia spirituale? Oppure apparecchio trasformatore,
rigradatore? Uno di questi effetti si produce di certo. Piuttosto il secondo. (QII:277)
L’eucarestia opera una trasformazione reale, in coloro che ne sono capaci, perché
muove direttamente l’attenzione sulla sostanza energetica divina che è in noi
[acqua+luce=chicco d’uva=vino=sangue; materia inerte+luce=chicco di
grano=pane=carne (come per fotosintesi clorofilliana)]. Questa attenzione è
sostanza d’amore, al di là della percezione e della logica. È esattamente il legame di
Dio con l’uomo: energia nell’acqua e nella materia inerte. Questo legame può essere
altrimenti indicato simbolicamente, con un segno trascendentale nel senso di
universale, ma appartenente a questa dimensione, quindi immaginario. Dio può
discendere producendo un simbolo (immaginario che viene dall’esterno, di primo
ordine). Oppure può essere prodotto dall’uomo, che con sforzo d’attenzione può
riqualificare l’immaginario di secondo ordine (prodotto da lui) in immaginario di
primo ordine (di ordine divino), giungendo al suo limite e superandolo, e di fatto
aprendo la porta a Dio. Le meditazioni del buddismo tibetano sono questo, e così
degli adeguati percorsi d’attore. Più di questo l’uomo non può fare. Il sentimento
della realtà è sempre sentimento dell’immaginario, salvo l’intervento della grazia.
Allora si ottiene il sentimento della realtà vera e propria. Quando il corpo (i sensi, gli
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La grandezza estrema del cristianesimo è dovuta al fatto che non cerca un rimedio
soprannaturale contro la sofferenza, ma un uso soprannaturale di essa. È necessario
far uso della sofferenza in quanto contraddizione provata. Quest’uso la rende
mediatrice, e quindi redentrice. È necessario usarne in quanto smembramento. Il
bello è l’apparenza manifesta del reale. Il reale è essenzialmente la contraddizione.
Perché il reale è l’ostacolo, e l’ostacolo di un essere pensante è la contraddizione. In
matematica il bello risiede nella contraddizione. L’incommensurabilità, logoi alogoi
[ragioni irrazionali, o rapporti senza rapporto], è stato il primo risplendere del bello
in matematica.
Nicom., II, XIX: Armonia de patos ex enantion ginetai esti gar armonia polumigeon
enosis kai dixa froneonton sumfronesis.
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Aver fede nella realtà di qualcosa – se si tratta di una cosa che non è né contestabile
né dimostrabile, significa solamente accordare a questa cosa una certa qualità di
attenzione. La fede nell’incarnazione è la pienezza dell’attenzione accordata alla
pienezza dell’armonia…
La divinità ha posto sulla natura il sigillo della similitudine. Sigillo che permette a
Elettra di riconoscere Oreste… immagini del riconoscimento di Dio attraverso
l’uomo… il sigillo è il bello. Riconoscere non equivale ad apprendere uno stato civile.
Elettra, dopo aver visto il sigillo, guardando Oreste, vede manifestamente,
immediatamente che è lui quello di cui si ricordava (memoria degli Orfici e del
Fedro), lo credeva morto, ma ora che le è davanti non vuole più lasciarlo.
I Greci sono stati ossessionati dall’idea della grazia. Il ratto di Core. Karis biaios
(“grazia violenta”, Agamennone, 182) di Eschilo (kai par’akontas sofronein,
“saggezza entrata in essi loro malgrado”, Agamennone, 180,181). Caverna e Fedro
di Platone.
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questa memoria. Gli Orfici, Platone, Eschilo e i Greci in generale indicavano tale
realtà. Simone pensa di creare un ordine religioso informale, esoterico, che ne
segua le orme. In un certo senso questo, storicamente, nel Novecento e oltre, è il
teatro “povero” che crea comunità dal basso e svolge il lavoro sul sé, alla ricerca
delle sorgenti della creatività. Alla sorgente c’è l’azione di Dio, dello Spirito Santo
sull’anima dell’uomo, che si può pensare come possessione, violenza fisica, sessuale
(il seme divino inserito con violenza, che espandendosi consuma l’io), e uccisione
(sparizione in questo mondo della parte divina dell’anima, morte spirituale). Le
rappresentazioni di questi atti nel mondo sono illegittime, crimini, e infatti non
trovano posto sulla scena del teatro classico, che di fatto opera uno spostamento
rispetto agli antichi rituali.
En to aiskro udepote gennesei (“Nel brutto mai genererà”, Platone, Simposio, 209b).
non si genera mai nel brutto. Non c’è creazione senza gioia. La fonte della gioia non
può essere che una realtà.
L’attenzione esige una durata; per questo non è possibile fare attenzione a ciò che
cambia. (Esperienza: guardare nell’acqua). In pratica vi si perviene trascurando le
piccole differenze; ma allora non si è nella verità.
Certo una pagina coperta di segni a matita non è un oggetto più bello dell’universo;
ma è un oggetto a nostra misura.
Notte oscura. In ogni cosa, solo ciò che ci viene dal di fuori, gratuitamente, di
sorpresa, come un dono della sorte, senza averlo cercato, è gioia pura.
Parallelamente, il bene reale non può venire che dal di fuori, mai dal nostro sforzo.
Noi non possiamo mai, in nessun caso, fabbricare qualcosa che sia migliore di noi.
Dunque lo sforzo realmente teso verso il bene deve fallire; è solo dopo una tensione
lunga e sterile in cui si finisce col disperare, quando non ci si attende più niente, che
dal di fuori, dono gratuito, meravigliosa sorpresa, viene il dono. Questo sforzo ha
distrutto una parte della falsa pienezza che è in noi. Il vuoto divino più pieno della
pienezza è venuto a installarsi in noi. (QIII:237,238)
La gioia pura della presenza del vuoto divino (cioè dell’opposto della presenza e
della pienezza umana e mondana) può arrivare solo di sorpresa, dopo che ogni
sforzo per cercarlo è fallito e ha creato il vuoto dentro di noi, che l’unica condizione
possibile per questo contatto. Lo sforzo d’attenzione può prodursi in continui
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montaggi di coppie di piani di segni contrari, fino all’estremo limite. È così nelle
meditazioni e nell’arte di alto livello. Il silenzio, il vuoto, la lentezza, la quiete, sono
necessari per mantenere duratura l’attenzione, giacchè i cambiamenti ne rendono
vano lo sforzo. Raggiunto per Amore (cioè con lo sforzo d’attenzione) il Bene che è
nel bello esso genera per nostro tramite. Dopo l’ascensione vi è la ridiscesa, che
mantiene intatte le facoltà rendendo appropriate le azioni ai propri oggetti
(V.QIII:350).
Una vita pubblica in cui fosse possibile leggere le verità soprannaturali in tutti i
lavori, in ciascuno degli atti del lavoro, in tutte le feste, in tutti i rapporti di gerarchia
sociale, in tutta l’arte, in tutta la scienza, in tutta la filosofia…
L’energia solare entra nei vegetali sotto forma di passaggio dalla coppia acqua-
carbonio allo zucchero. Essa viene distrutta da noi sotto forma di ritorno dello
zucchero allo stato acqua-carbonio. La linfa, il succo d’uva, ecc., è acqua più fuoco.
L’acqua è la Madre, il fuoco è il Padre della vita, la quale è aria, soffio (anima,
pneuma), e in effetti la respirazione è questo passaggio. Gli Indù consideravano la
respirazione un atto sacro, come noi il cibo della comunione. La distruzione
dell’energia solare ci fornisce la nostra energia… Noi assorbiamo idrati di carbonio.
La dissociazione dell’idrogeno e del carbonio (che si associa all’idrogeno) libera
energia, sole… l’energia intera procede dal sole. Il fuoco unisce l’idrogeno e il
carbonio. La loro dissociazione ci restituisce il fuoco, che noi possiamo impiegare in
un altro lavoro di unione dei contrari.
Ogni distruzione, ogni disunione dei contrari, libera energia. Questa energia può
essere abbandonata alla degradazione, ovvero captata e orientata. Il dolore libera
energia, e l’utilizzazione di questa energia è gioia. Poiché qualche perdita è sempre
inevitabile, c’è spreco se l’energia non è utilizzata per qualcosa di più elevato di ciò a
cui serviva.
La stessa energia solare lavora nel chicco, nello stelo del grano e nel contadino che
ara…
I Greci assimilavano all’amore quello shock che provano, in presenza l’uno dell’altro,
coloro che sono destinati a essere maestro e discepolo…
Che cosa c’è di più forte del più forte? L’estrema debolezza: un morto o un neonato.
Prometeo incatenato è più forte di Zeus…
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stata forse una rivelazione quella di Cam? La maledizione che l’ha colpito non è forse
quella della sventura che attende ogni contatto tra l’uomo e Dio, ogni purezza
umana? (Cfr. Ippolito di Euripide). Sem e Jafet non hanno avuto parte alla
rivelazione. (Si direbbe proprio che gli Elleni abbiano ricevuto tutta la rivelazione dai
popoli mediterranei tra i quali arrivarono. I Romani non ne hanno avuta…
…paragone dell’Egitto con l’Albero della Vita del Paradiso terrestre. E l’Albero della
Vita non è il Verbo? “Nel Verbo era la vita” (Giovanni, I, 4). Non è indicare la santità
dell’Egitto, la sua missione iniziatica? E fors’anche l’incarnazione che ha avuto luogo
in Egitto… In Israele, interdizione dei sacrifici sui luoghi elevati e ai piedi degli alberi.
Tutto ciò che si riferisce alla mediazione era loro interdetto… La storia di Israele
inizia con una prostituzione. Impurità originaria…
Un’armonia tiene sotto chiave le nostre potenze contrarie. Noi siamo rinchiusi tra di
esse. Il dolore gira la chiave, apre la porta. Se non ci muoviamo, le nostre potenze
si dissipano. Dobbiamo alzarci, camminare, superare la porta, richiudere dal di fuori.
Siamo allora in un’altra stanza. C’è un’altra porta. Si ricomincia. Noi viaggiamo così
nella nostra anima di camera in camera fino alla camera centrale dove Dio ci
attende da tutta l’eternità…
L’energia che noi chiamiamo spirituale, o sottile, è l’energia solare. Essa è contenuta
in oggetti armonici, unioni di contrari, la cui rottura ne provoca la fuoriuscita. Questa
rottura avviene in noi con l’operazione del mangiare e del respirare, e l’utilizzo
dell’energia prodotta con il fare attenzione alla vita stessa che scorre dentro di noi.
In questo modo si entra in contatto direttamente con il sole. Altrimenti questa
energia non viene utilizzata e si degrada o è dissipata nell’inerzia. Invece, una volta
identificata, grazie al dolore, una rottura, e utilizzata l’energia che l’oggetto
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Marco, IX, 48-50: “La Geenna, dove il loro verme non morirà e il fuoco non si
estinguerà. Perché ogni essere è salato con il fuoco. È una buona cosa il sale. Se il
sale diventa insipido (analon, non salato), con che cosa lo condirete? (? artusete).
Abbiate in voi il sale e siate in pace gli uni con gli altri”.
Di fatto, la carne viene salata e affumicata; s’impiega il sale e il fuoco. Il sale cattura
il corruttibile e lo rende incorruttibile e nutrimento. Bisogna uccidere l’anima in sé, e
nel momento in cui sta per imputridire, la si catturi e la si renda incorruttibile dal
sale. Questo sale è il fuoco dello Spirito Santo, quello stesso della Geenna.
Se Adamo, dopo la caduta, avesse mangiato il frutto dell’albero della vita nell’Eden,
sarebbe diventato simile al diavolo. È per la sua salvezza che è stato scacciato, per
preservarlo.
“Tutto ciò che è privo di valore fugge la luce” [cfr. Giovanni, III, 19-20]. Quaggiù ci
si può nascondere sotto la carne. Da morti non si può più. Si è esposti nudi alla luce.
Ed è, secondo i casi, inferno, purgatorio o paradiso. (QIII:308,309)
Bisogna uccidere l’anima tagliandola in due, lasciando l’io da solo con l’energia
vegetativa e l’altra parte, la parte trascendentale, l’acqua, in attesa della luce divina,
il fuoco che sala e cauterizza. Per operare il taglio, bisogna orientare costantemente
l’attenzione verso l’Uno. Poi, dopo aver provato la sofferenza suprema della croce,
cioè dopo aver toccato l’altra dimensione, che nella Passione del Cristo è carnevale,
travestimento, teatro, si deve orientare tutta l’attenzione così riqualificata di luce
diretta verso quella parte dell’anima esterna all’io per preservarla, con la grazia dello
Spirito Santo, dell’energia divina, affinchè non si perda nell’attesa dell’estinzione
della carne, schermo tra l’uomo e Dio. È la via discendente. C’è da notare che anche
nella tradizione talmudica, ispirata a Isaia si trova l’analisi della sofferenza
redentrice e il simbolo corrispondente del sale.
Marx. Unità del lavoro manuale e del lavoro intellettuale. Questa unità può
procedere solo da un piano che trascenda ambedue…
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La stessa invenzione tecnica implica che vengano sciolti quei legami precostituiti che
sono in noi attitudini e non rapporti.
Il rapporto autentico implica l’unità dei contrari, cioè del legame e della separazione
dei termini. Si ottiene mediante la rappresentazione di un rapporto che resta lo
stesso per una varietà illimitata di coppie di termini, di un termine che è materia di
una varietà illimitata di rapporti. Tuttavia l’invariante limita la varietà.
Obbligo e amore. L’obbligo è rispetto all’amore ciò che per i religiosi sono le ore fisse
degli uffizi rispetto alla preghiera. È una necessità per fare violenza al male che è in
noi.
Non uccidere; non rubare; non mentire; castità. Si tratta sempre di costringersi con
la violenza a riconoscere che gli altri esistono.
Così pure il punto di svolta in musica. Bisogna che a catturare l’attenzione sia quello
in alto, non quello in basso.
Il puro mezzo è un surrogato del fine assoluto a causa della sua generalità.
Il denaro è un’immagine.
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Musica? (QIII:327-329)
La forza sta nella pressione di ciò che costringe su ciò che è costretto. Se vi è una
legge, una necessità, non vi è forza ma docilità, obbedienza, debolezza di fronte alla
legge. Obbligarsi volontariamente al rispetto di una regola significa operare secondo
debolezza contro l’io in favore degli altri. Si tratta di osservare i limiti e gli ambiti, di
ricercarne le leggi, e di seguirle. Al culmine della ricerca, si trova l’equilibrio sopra la
gravità, espresso secondo alcuni procedimenti nell’arte oggettiva, nella musica e
nell’architettura. È la rappresentazione del rapporto esistente, in un determinato
ambito, tra la variazione e l’invariante, che si conosce per contemplazione, giacchè
solo le attitudini permettono di conoscere le unità dei contrari, di inventare, mentre i
rapporti legano elementi singoli di una delle due parti in due binari separati o tra di
loro, ma sullo stesso livello (o legame o separazione dei termini). L’invariante è
trascendente rispetto ad essi, ma si conosce facendo attenzione alle variazioni. Il
principio trascendentale dell’eternità del movimento può, come tutto ciò che è
derivato da un contatto con il trascendente, risolversi in due opposti: manifestazione
del bene (bello, monotonia del cerchio, del canto gregoriano), o del male
(monotonia del pendolo, trance di basso livello).
Il passo del Timeo sulla consonanza concerne il rapporto tra il cerchio e le serie di
multipli. È grazie ai movimenti circolari in noi che le serie di multipli sono a noi
sensibili. L’analogia è con i cerchi celesti e i numeri del tempo, 1, 28, 364.
Spiegazione meccanica dell’”aritmetica dell’anima che conta senza sapere che conta”
[formula di Leibniz, con la quale egli definiva la musica].
Nel pensiero di Platone, una nota produce un’oscillazione nel midollo che va dal
cervello al fegato, il cui periodo dipende dall’altezza della nota; tanto più rapido
quanto più alta è la nota. Così una nota alta e una nota bassa è come un ritmo
rapido e un ritmo lento. Il movimento dall’acuto al grave è propriamente musicale. Il
suono è ritmo della nostra stessa vita mentre l’ascoltiamo. I rapporti di questo ritmo
intimo si combinano con quelli più esteriori della cadenza.
Il movimento discendente del suono è per un verso discendente, perché nella voce
una nota tenuta a lungo discende naturalmente. Per un altro verso ascendente,
perché è nel passaggio da una nota più acuta a una più grave – essendo il rapporto
tra esse semplice – che si produce il movimento verso l’unione dei contrari che è
l’essenza dell’ascesa. È l’immagine di un’ascesa senza sforzo, di un’inclinazione
all’ascesa. Ma anche l’immagine di una discesa che è contraria invece di essere
conforme alla gravità, amore e non caduta. L’immagine della grazia.
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Questi movimenti discendenti, specchi della grazia, sono l’essenza della musica. Il
resto serve solo a incastonarli.
Non c’è niente al di là del bello. Solo il bene è più del bello, ma non è al di là, è
all’estremità del bello come il punto terminale di un segmento di retta.
Combinazioni delle note e del ritmo. Note brevi e rapide dal grave all’acuto, note
lente dall’acuto al grave.
Il ritmo della musica tocca il nostro ritmo interiore, che combina con il ritmo
esteriore della cadenza. L’essenza della musica è nei movimenti discendenti, che
sono un’immagine della via discendente, giacchè per grazia, pur scendendo,
permettono di ascendere, seguendo una legge che è l’opposto della legge di gravità.
L’ascesa delle note è sensibile, la discesa spirituale, e deve essere lenta e a intervalli
ravvicinati. È in tale discesa che si produce il movimento verso l’unione dei contrari.
Tra l’ascesa e la discesa ci deve essere la pausa, il silenzio. Unica funzione dell’arte
del musicista è di rendere possibile l’orientamento dell’attenzione sull’immediato.
Dio uno, puramente uno, è cosa. Antico Testamento – Corano. Dio uno e tre è
pensiero…
Trinità indù. Dio conservatore, Brahma. La Parola sacra. Ordine del mondo. È il
Verbo, Dio creatore. Visnu. È il Padre. Dio distruttore. Dio della decreazione. Siva. È
lo Spirito.
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Lavoro: movimento discendente. L’uomo deve farsi cosa affinchè la cosa si faccia
energia umana. (Allo stesso modo Dio che si fa uomo affinchè l’uomo si faccia
Dio…). (QII:202)
L’amore puro delle creature; non amore in Dio, ma amore che è passato attraverso
Dio come attraverso il fuoco. Amore che si distacca completamente dalle creature
per ascendere a Dio, e ne ridiscende associato all’amore creatore di Dio.
Così si uniscono i due contrari che lacerano l’amore umano: amare l’essere amato
così com’è, e volerlo ricreare. (QIII:350)
Gli uomini nella caverna vanno sempre verso qualcosa. Contemplare dei rapporti dai
quali la forza e l’utilità siano escluse, significa esercitare il movimento rotatorio nel
cervello, che non va da nessuna parte.
Concepire i rapporti significa concepire limiti, invarianti che dominano variazioni,
un’obbedienza.
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[l’aritmetica acquista tutto il suo senso solo se applicata non a oggetti distinti, ma al
continuo; così pure la geometria applicata al liquido e non al solido.
Bisogna utilizzare l’attenzione con un desiderio diverso da quello che s’indirizza alla
ricerca di qualcosa. Si deve obbedire ai limiti, a ciò che è invariante, dopo averlo
trovato, e da lì contemplare la variazione, allora si rimane immobili nel presente e si
attende senza desiderare un fine. Così il pensiero ruota in cerchio, riqualificando
l’energia per raggiungere il centro, da cui dipendono invariante e variazione.
Il presente non ammette la finalità. Neppure il futuro, perché esso è solo ciò che
sarà presente. Ma lo si ignora. Il rifiuto del presente è evidente. Se si volge sul
presente la punta di quel desiderio che in noi corrisponde alla finalità, essa si apre
un passaggio fin nell’eterno.
In questo consiste l’uso della disperazione che distoglie dal futuro. (QIII:352,353)
Dal desiderio che s’indirizza verso un fine, spostare l’ultima parte verso il presente,
che non ammette finalità. Per questo, usare anche la disperazione, che se è senza
consolazione, rimane immobile nel presente, e diventa eterno. Così si aprono delle
porte nel percorso dello spirito.
Il bello non può che essere corretto, perché esiste solo se costringe l’attenzione al
presente e permette il distacco dall’io. Si pensi al tempo-ritmo giusto di
Stanislavskij.
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Vi sono solo due specie di necessità. Quella che corrisponde ai fini rappresentabili e
quella che corrisponde al bello. I fini rappresentabili sono fini che sono al livello della
necessità. Ma allo stesso tempo non sono fini. Sono mezzi. Gli altri sono
trascendenti rispetto alla necessità. (QIII:362)
I fini della necessità sono in realtà mezzi. Non c’è fine nella necessità che non sia
trascendente, e per questo è il bello, metaxu.
Dio solo può subire l’ingiustizia senza che questo gli faccia alcun male. Per essere
perfettamente giusti, si deve poter subire l’ingiustizia senza riceverne alcun male.
Altrimenti si diventa presto ingiusti sotto l’oppressione. Il giusto perfetto può essere
solo Dio incarnato.
L’estetica è la chiave delle verità soprannaturali perché studia le leggi che in questo
mondo corrispondono all’altro, e la maniera di agirvi in conseguenza. Per questo, per
esempio, ciò che è stato realizzato a teatro con Il principe costante, l’attore santo,
ha un grande valore estetico, e ha rivelato il funzionamento dell’incarnazione, la via
del giusto che si offre agli altri in seguito a un processo oppressivo scelto con piena
coscienza, che non lo modifica.
[San Tommaso. Due processioni in Dio, quella dell’intelligenza, da cui nasce il Figlio,
quella della volontà da cui nasce lo Spirito. Esattamente come in Eschilo. Presso
Zeus sono la sua parola e il suo atto (Supplici)].
San Tommaso; “Omnis res quae non est divina essentia est creatura. Sed relatio
realiter competit Deo. Si ergo non est divina essentia, erit creatura, et ita ei non erit
adoratio latriae exhibenda… Relatio realiter in Deo existens, idem est essentiae
secundum rem. Non differt autem nisi secundum rationem, quod relatio importat
respectum ad oppositum, essentia autem non… non sequitur quod in Deo, praeter
relationem, sit aliquid aliud secundum rem”.
San Tommaso: “Usus quo Pater et Filius se invicem fruuntur convenit cum proprio
Spiritus Sancti”.
Lo Spirito è l’attenzione.
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San Tommaso. “Omnia dona gratiae pertinent ad Spiritum Sanctum”. Secondo San
Paolo, 1 Cor., XII, panta tauta energhei to en kai to auto neuma, “lo stesso Spirito
unico opera tutte queste cose”.
Lo Spirito Santo è Amore. Per San Tommaso, che cita Boezio, ciò che produce la
relazione di Dio con Dio, e che permette a Dio di amarsi, conoscendosi, nei suoi vari
aspetti della Trinità, è lo Spirito. Si tratta di una relazione che si identifica con
l’essenza, di cui il termine correlativo fa parte, non è cioè indirizzato verso qualche
altra cosa. È esattamente l’attenzione del livello più alto; l’attenzione è lo Spirito
Santo, ed è Amore. Infatti “tutti i doni della grazia appartengono allo Spirito Santo”,
ed è l’attenzione che lega l’uomo a Dio, per sua grazia, cioè per grazia dello Spirito,
che mette in relazione Dio con Dio. Dio, Uno e Molteplice, i cui rapporti interni sono
dati dallo Spirito Santo, lo vediamo nel bello, attraverso l’invariante nelle variazioni e
nei loro rapporti. Il bello è nella necessità perché essa trascende rispetto ai suoi
rapporti di causa-effetto quando ne contempliamo la qualità dei fini, che sono in
realtà mezzi per altri fini, e perciò hanno come principio l’invariante, la finalità, non i
fini stessi, apparenti.
[Realizzare nel tempo l’annullamento della prospettiva come nello spazio. Eternità.
Da qui il potere del ricordo, delle cose antiche, ecc. (QIII:407)
Un piano orizzontale sta alle sue due facce, come la necessità sta al dominio e
all’obbedienza.
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Bellezza, gioia pura: complicità del corpo e della parte naturale dell’anima con la
facoltà di consenso soprannaturale. Indispensabile, anche per quelli che hanno come
vocazione la Croce.
Sentimento del bello, sentimento sensibile alla parte carnale dell’anima e anche al
corpo, che questa necessità che è costrizione è anche obbedienza a Dio…
Influenza misteriosa (ma senza violazione delle leggi), sulla natura, della potenza
dell’amore soprannaturale.
Filolao. Chiave.
Filebo. Dolore e gioia. Dolore e rivelazione della bellezza del mondo: Giobbe.
L’attenzione permette al pensiero di essere creatore, per via della necessità che
agisce. Lo Spirito (attenzione) aderisce all’intelligenza, che arriva a intuire (a
ricostruire) la necessità che trasporta verso il consenso, Amore, in una catena di
relazioni per analogia, che permette il salto dei piani dal distacco dall’illusione dell’io
fino alla conoscenza della realtà. La Bellezza è il movimento in alto dell’intelligenza
verso la necessità e in basso dell’incarnazione in Amore nel mondo (nelle tre forme
di giustizia, compassione e gratitudine).
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I quattro imbecilli (folklore di Schoharie Hills) – Quella che porta il forno al pane per
cuocerlo. Quella che porta la botte di cedro in cucina in cui si trova il barattolo da
cedro. Quello che porta un pò di sole nel fienile invece di mettere fuori al sole il
fieno. Quello che tenta di entrare nei suoi pantaloni saltandovi dentro, invece di
infilarseli.
Via discendente.
Noi dobbiamo scegliere quaggiù tra il tempo e l’eternità. In un certo senso questa
scelta corrisponde alla scelta tra gioia e dolore. E tuttavia non in modo visibile.
Perché?
Non abbiamo bisogno di credere nella vita eterna – perché l’unica prova di una
simile vita sono i presentimenti di eternità che abbiamo quaggiù. E questi
presentimenti sono di per sé sufficienti. Certo, presuppongono la pienezza della vita
eterna. Ma non necessariamente per noi.
La ricerca della gioia ci attacca al tempo. La gioia è la nostra evasione fuori dal
tempo.
Nuova nascita. Mentre il seme serve a generare un altro essere, essa serve a
generare una seconda volta lo stesso essere. Ritorno su se stessi, circuito chiuso,
cerchio.
“Chi non è generato dall’alto non entrerà nel regno dei cieli” (Giovanni, III, 3).
Bisogna discendere dal cielo per potervi risalire.
“Dall’acqua e dallo spirito” (Giovanni, III, 5 e 8). La prima generazione è dal sangue.
(QIV:91-92)
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Ogni azione che implica un rapporto di un essere umano con gli altri o di un essere
umano con le cose contiene effettivamente un rapporto originale e specifico con Dio
che va scoperto.
Il fatto che in ogni attività una parte dell’anima si ritrae e si concentra in Dio è una
cosa buona come tappa, ma non è il termine. Occorre un legame molto diverso tra
la parte spirituale dell’anima e l’attività profana. Ogni attività profana deve essere
esercitata in modo che vi appaia il significato con cui Dio l’ha creata.
La parte dell’anima che è fatta per Dio deve dapprima ritrarsi dall’universo, anche
mentre il resto dell’anima è occupato in cose terrestri, per cercare di vedere Dio; ma
poi deve guardare la faccia superiore delle cose di quaggiù, la faccia che le cose di
quaggiù presentano a Dio. Solo così l’anima intera è restituita a Dio.
Noi siamo di fronte a Dio come un ladro al quale la bontà di colui che egli vuole
derubare permette di portare via l’oro. Quest’oro, dal punto di vista del legittimo
proprietario, è un dono; dal punto di vista del ladro, è un furto. Questi deve tornare
indietro e restituirlo. Così è per il nostro essere. Abbiamo rubato un pò d’essere a
Dio per impossessarcene. Dio ce l’ha donato. Ma noi l’abbiamo rubato. Bisogna
restituirlo.
L’anima giunta a vedere la luce deve prestare la sua vista a Dio e volgerla verso il
mondo.
Il nostro io, sparendo, deve diventare un foro attraverso il quale Dio e la creazione
si guardano.
La parte dell’anima che ha visto Dio deve quindi trasformare ciascuna delle nostre
relazioni con una creatura in una relazione tra una creatura e Dio. (QIV:313,314-
315)
Via discendente.
Nell’ordine della materia, cose che non differiscono in nulla tra di loro possono
essere differenti. Per esempio è possibile concepire in astratto due sassi identici.
Ma nell’ordine del bene ciò che è identico è uno. Due cose sono due soltanto se
differiscono.
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Ma nell’ordine del bene c’è solo discesa e non ascesa. Dio è sceso per abitare in
questo uomo.
Il nostro potere in questa operazione è limitato a una tecnica simile alla magia
simpatica. Gli stregono australiani versano l’acqua a terra per provocare la pioggia.
Così noi possiamo discendere per indurre Dio a discendere in noi. È questa la virtù di
umiltà.
Solo i movimenti discendenti sono in nostro potere. I movimenti ascendenti sono
immaginari.
Tutti i misteri concernenti Dio sono chiariti grazie alla distinzione tra l’ordine del
bene e l’ordine dell’esistenza.
Dio ha abdicato alla sua onnipotenza divina e si è svuotato. Abdicando alla nostra
piccola potenza umana diventiamo, nel vuoto, uguali a Dio.
Il Verbo divino era uguale a Dio nella divinità. Si è svuotato ed è diventato schiavo.
Noi possiamo diventare uguali al Verbo divino nel vuoto e nella schiavitù.
“Nessuno va al Padre se non per me” (Giovanni, XIV, 6), vale a dire che l’umanità è
l’unica strada.
L’Incarnazione è solo una figura della Creazione. Dio ha abdicato dandoci l’esistenza.
Noi abdichiamo e diventiamo così simili a Dio rifiutandola.
Dio ci ha creati a sua immagine, vale a dire che ci ha dato il potere di abdicare in
suo favore come egli ha abdicato per noi.
4. L’attesa
L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile,
vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero,
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I beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi. L’uomo, infatti, non può
trovarli con le sue sole forze, e se si mette a cercarli troverà al loro posto dei falsi
beni di cui non saprà neppure riconoscere la falsità…
posizione dell’anima che, con la lampada ben fornita di olio, attende lo Sposo con
fiducia e desiderio. Ogni giovane ben animato, mentre fa una versione latina,
dovrebbe augurarsi di avvicinarsi a poco a poco, con questo esercizio, all’istante in
cui diventerà veramente quello schiavo che, mentre il suo padrone è a una festa,
veglia e sta in ascolto accanto alla porta per aprire appena sente bussare. Il padrone
allora farà sedere lo schiavo a tavola e lo servirà personalmente.
L’infinità dello spazio e del tempo ci separa da Dio. Come potremmo cercarlo? Come
potremmo andare verso di lui? Anche se si camminasse per secoli e secoli, non si
farebbe altro che girare intorno alla terra. Anche in aereo. Non siamo in grado di
muoverci verticalmente. Non possiamo fare neppure un passo verso il cielo. Dio
attraversa l’universo e viene fino a noi.
Al di là dello spazio e del tempo infinito, l’amore infinitamente più infinito di Dio
viene ad afferrarci. Viene quando è la sua ora. Noi abbiamo la facoltà di
acconsentire ad accoglierlo o di rifiutare. Se restiamo sordi, egli torna e ritorna
ancora, come un mendicante; ma un giorno, come un mendicante, non torna più.
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Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che la
salvezza sta nello sguardo. Il serpente di bronzo è stato innalzato affinchè gli uomini
che giacciono mutilati al fondo della degradazione lo guardino e siano salvati.
Lo sguardo rivolto alla purezza perfetta ha la massima efficacia proprio nei momenti
in cui si è, come si suol dire, mal disposti, in cui ci si sente incapaci di
quell’elevazione dell’anima che si addice alle cose sacre, poiché allora il male, o
piuttosto la mediocrità, affiora alla superficie dell’anima, nella posizione migliore per
essere bruciata al contatto col fuoco.
Ma in quei momenti, anche guardare diventa quasi impossibile, perché tutta la parte
mediocre dell’anima, temendo la morte con un timore più violento di quello ispirato
dalla morte fisica, si ribella e inventa menzogne per difendersi.
Lo sforzo per non ascoltare quelle menzogne sebbene non si possa fare a meno di
crederci, lo sforzo per guardare la purezza, è allora qualcosa di molto violento;
tuttavia è assolutamente diverso da tutto ciò che di solito viene definito sforzo,
violenta rivolta a se stessi, atto di volontà. Sarebbero necessarie altre parole per
parlarne, ma il linguaggio non ne ha.
Lo sforzo grazie al quale l’anima si salva è simile a quello di colui che guarda, di
colui che ascolta, a quello di una sposa che dice sì. È un atto di attenzione, di
consenso, mentre ciò che si intende per volontà è qualcosa di analogo allo sforzo
muscolare.
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La volontà è al livello della parte neutrale dell’anima. Il buon uso della volontà è una
delle condizioni della salvezza, necessaria senza dubbio, ma non immediata, bensì
secondaria, molto subordinata, puramente negativa…
Gli sforzi della volontà sono fuori posto quando non si debbono adempiere obblighi
inderogabili…
Lo sforzo di volontà verso il bene è una delle menzogne che la parte mediocre del
nostro io crea per paura di essere distrutta…
Ci sono individui che cercano di elevare la loro anima come un uomo che salti
continuamente a piedi uniti, nella speranza che a forza di saltare sempre più in alto,
un giorno, invece di ricadere, riuscirà a salire fino in cielo. Ma mentre è tutto preso
da questi tentativi egli non può guardare il cielo. Noi non possiamo fare nemmeno
un passo verso il cielo: la direzione verticale ci è preclusa. Ma se guardiamo a lungo
il cielo, Dio discende e ci rapisce. Ci rapisce facilmente. Come dice Eschilo, “ciò che è
divino è senza sforzo”…
Nelle grandi immagini della mitologia e del folclore, nelle parabole del Vangelo, è Dio
che cerca l’uomo. “Quaerens me sedisti lassus.” In nessuna parte del Vangelo si
parla di una ricerca intrapresa dall’uomo. L’uomo non fa un passo, se non è spinto
oppure espressamente chiamato. La parte della futura sposa è l’attesa. Lo schiavo
aspetta e veglia, mentre il padrone è alla festa. Il viandante non si invita da sé al
pranzo di nozze, non chiede di essere invitato; vi è introdotto quasi di sorpresa; a lui
spetta soltanto di indossare un abito conveniente. L’uomo che ha trovato una perla
in un campo vende tutti i suoi beni per acquistare quel campo; non ha bisogno di
vangare tutto il campo per dissotterrare la perla, gli basta vendere tutti i suoi beni.
Desiderare Dio e rinunciare a tutto il resto: in ciò soltanto consiste la salvezza.
L’atteggiamento da cui viene la salvezza non ha nulla a che fare con l’attività. La
parola greca che lo esprime è hypomoné, che patientia traduce piuttosto male. È
l’attesa, l’immobilità vigile e fedele che dura all’infinito e nessun evento può
scuotere. Lo schiavo che sta in ascolto vicino alla porta, per aprire non appena il
padrone bussa, ne è l’immagine migliore. Egli deve essere pronto a morire di fame e
di sfinimento anzichè mutare atteggiamento. Bisogna che i suoi compagni possano
chiamarlo, parlargli, picchiarlo, senza che egli nemmeno volga la testa. Anche se gli
dicono che il padrone è morto e anche se egli ci crederà, rimarrà immobile. Se gli
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dicono che il padrone è irritato contro di lui e che al suo ritorno lo picchierà, anche
se lo crede, rimarrà immobile.
La ricerca attiva è nociva non solo all’amore ma anche all’intelligenza, le cui leggi
imitano quelle dell’amore. Bisogna semplicemente attendere che la soluzione di un
problema di geometria, che il senso di una frase latina o greca balzino alla mente. A
maggior ragione questo vale per una nuova verità scientifica, un bel verso. La
ricerca conduce all’errore.
Questo avviene per qualsiasi bene che sia veramente tale. L’uomo non deve far altro
che attendere il bene e allontanare il male. Solo per non vacillare di fronte al male,
deve fare uno sforzo muscolare.
Nel rovesciamento dei valori proprio della condizione umana, la virtù autentica in
tutti i campi è cosa negativa, almeno in apparenza. Ma questa attesa del bene e
della verità è qualcosa di più intenso di ogni ricerca.
Tutte le grandi tradizioni concordano nel rilevare che lo sforzo per la trascendenza è
puramente negativo, e che ogni passaggio di livello avviene grazie all’attesa
protratta nell’attenzione e all’intuizione improvvisa, e non alla volontà esercitata
attivamente. L’attività passiva è l’unione dei contrari, è la “danza delle energie”,
incoerenza coerente, seconda natura dell’attore come rilevata dall’antropologia
teatrale, è la “via negativa” dell’attore di Grotowski. Nell’ambito della dinamica di
controllo e precisione, è grazie solamente all’umiltà che si pongono le condizioni di
esistenza simultanea di entrambi questi elementi, perché senza la ricerca di una
conoscenza di secondo livello non si può che rimanere attivi e evitare l’attesa, che è
estenuante, di qualcosa di cui non abbiamo idea. Ma per l’attore, il seme può essere
innestato solo nel momento della sua azione non agente, nel quale la partitura
oltremodo conosciuta viene ripetuta ad oltranza con la massima attenzione
nell’attesa che qualcos’altro accada. E ciò avviene grazie all’ispirazione, che apre il
canale della verticalità senza sforzo d’immaginazione né di volontà, che deve essere
stata esaurita nelle fasi precedenti, quella dell’obbedienza alla necessità, anche
artistica e espressiva, della costruzione della partitura e quella dell’apprendimento
per via di ripetizione.
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Nel periodo preparatorio, l’anima ama a vuoto, non sa se al suo amore risponde
qualcosa di reale. Può credere di saperlo; ma credere non è sapere e una simile
credenza non è d’aiuto. L’anima sa con certezza soltanto che ha fame. L’importante
è che gridi questa sua fame. Un bambino non smette di gridare se gli si dice che
forse non c’è pane: continua a gridare.
Il pericolo consiste non nel fatto che l’anima dubiti se il pane c’è o no, ma che si
persuada con una menzogna di non aver fame. Può persuadersene soltanto con una
menzogna, perché la realtà della sua fame non è una credenza ma una certezza.
Tutti sappiamo che non esiste il bene quaggiù, che tutto quanto si presenta quaggiù
come un bene è cosa finita, limitata, si esaurisce e, una volta esaurita, lascia
apparire a nudo la necessità. Ogni essere umano durante la sua vita ha senz’altro
conosciuto parecchi momenti in cui ha chiaramente confessato a se stesso che
quaggiù non esiste il bene. Ma non appena ha intuito questa verità la ricopre di
menzogna. Molti si compiacciono persino di proclamarla, cercando nella tristezza un
godimento morboso, ma non hanno mai potuto sopportare di guardarla in faccia per
più di un secondo. Gli uomini sentono che c’è pericolo mortale nel soffermarsi a
guardare in faccia questa verità. Ed è vero. Questa conoscenza è più mortale di una
spada, infligge una morte che fa più paura della morte fisica. Col tempo essa uccide
in noi tutto ciò che chiamiamo “io”. Per sostenerla, bisogna amare la verità più della
vita. Quelli che ne sono capaci si distolgono con tutta l’anima, secondo l’espressione
di Platone, da ciò che è transitorio.
Non si volgono verso Dio. Come potrebbero farlo nelle tenebre assolute? Dio stesso
imprime loro l’orientamento opportuno, pur non mostrandosi se non dopo lungo
tempo. Essi hanno solo da restare immobili, senza distogliere lo sguardo, senza
cessare di stare in ascolto, in attesa, senza sapere di che cosa, sordi alle
sollecitazioni alle minacce, incrollabili sotto i colpi. Se Dio, dopo una lunga attesa,
lascia vagamente intravedere la sua luce, o anche si rivela di persona, è questione di
un attimo, perché poi bisogna restare di nuovo immobili, attenti, e aspettare,
chiamando soltanto quando il desiderio è troppo forte.
Non dipende dall’anima credere nella realtà di Dio, se Dio stesso non le rivela questa
realtà...
Lo stato di non credenza è allora ciò che san Giovanni della Croce chiamava notte.
La credenza è verbale, non penetra nell’anima. In un’epoca come la nostra
l’incredulità può forse essere un equivalente della notte oscura di san Giovanni della
Croce, se l’incredulo ama Dio, se è come il bambino che non sa se c’è del pane da
qualche parte, ma che grida di avere fame...
colui al quale Dio si è rivelato può, senza inconvenienti, mettere in dubbio questa
realtà. È un dubbio puramente verbale, un esercizio utile all’intelligenza. Invece,
mettere in dubbio che Dio sia la sola cosa che meriti di essere amata e distoglierne
lo sguardo è un delitto di tradimento già prima di una tale rivelazione, e tanto più
dopo. L’amore è lo sguardo dell’anima: significa smettere per un attimo di
attendere, di stare in ascolto.
Elettra non cerca Oreste, l’attende. Quando crede che egli non esista più, che in
nessuna parte del mondo esista più alcuna cosa che sia Oreste, non per questo si
riavvicina alla sua gente; anzi, se ne discosta con maggior repulsione: preferisce
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l’assenza di Oreste alla presenza di qualunque altro. Oreste doveva liberarla dalla
schiavitù, dai suoi stracci, dal lavoro servile, dalla sporcizia, dalla fame, dalle
percosse e da innumerevoli umiliazioni. Non lo spera più, ma nemmeno per un
attimo pensa di potersi procurare una vita fastosa e onorata se per ottenere questo
deve riconciliarsi con i più forti. Non vuole ottenere l’abbondanza e il rispetto se non
è Oreste che glieli procura. Non concede nemmeno un pensiero a tali cose: il suo
unico desiderio è di cessare di esistere, dal momento che Oreste non esiste più.
A questo punto Oreste non si trattiene più: le rivela il proprio nome e dà la prova
certa di essere Oreste. Elettra lo vede, lo ascolta, lo tocca. Non si domanderà più se
il suo salvatore esiste.
Colui al quale è toccata l’avventura di Elettra, colui che ha veduto, inteso, toccato
con l’anima stessa, riconosce in Dio la realtà di quegli amori indiretti che erano come
dei riflessi. Dio è la pura bellezza…
Per mezzo dell’intuizione si può arrivare a ricevere l’impressione della bellezza, che
procede per vari livelli di silenzi, fino al silenzio assoluto del contatto con Dio.
L’orientamento verso la bellezza, verso Dio, non è dato dalla credenza, ma dal
desiderio. Poiché il desiderio è senza oggetto, è a vuoto, il giusto orientamento
arriva per grazia, per intuizione, normalmente dopo lunga attesa. Il giusto
orientamento giunge quindi a uno stadio avanzato del periodo preparatorio del
sacramento, della via verso la trascendenza e della uccisione dell’”io”. Prima, è utile
seguire le indicazioni fornite dai segni dell’amore indiretto di Dio, come la bellezza
della natura o l’amicizia.
Noi siamo nell’irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra illusione di essere situati al
centro, rinunciarvi non solo con l’intelligenza, ma anche con la parte immaginativa
dell’anima, significa aprire gli occhi alla realtà, all’eternità, vedere la vera luce,
sentire il vero silenzio. (ADD:120)
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Silenzio di Dio. I rumori di quaggiù imitano questo silenzio. Non vogliono dire nulla.
Chartier non ha proprio capito in che cosa consiste il valore della necessità pura.
È solo quando abbiamo bisogno fino allo spasimo di un rumore che voglia dire
qualcosa, quando gridiamo per ottenere una risposta ed essa non ci è concessa, è
proprio allora che tocchiamo il silenzio di Dio.
La nostra immaginazione di solito mette delle parole nei rumori, come ci si diverte
pigramente a scorgere delle forme nella biancheria sgualcita o nel fumo. Ma quando
siamo troppo sfiniti, quando non abbiamo la forza di giocare, allora abbiamo bisogno
di parole vere. Gridiamo per averne. Il grido ci lacera le viscere. Non otteniamo altro
che il silenzio.
Dopo essere passati per questa prova, alcuni si mettono a parlare con se stessi,
come i folli. E allora, qualunque cosa facciano, bisogna avere solo pietà di loro. Altri,
poco numerosi, offrono tutto il cuore al silenzio.
Forse molti esseri umani arrivano alla morte senza mai essere passati per questa
prova. Ma chi può dirlo? È il segreto dei cuori.
Il Verbo, da cui tutto proviene, è in realtà silenzio. Esso è in noi, ma noi non
possiamo riconoscerlo e entrare in comunicazione con lui, possiamo solo offrirci
completamente a lui. Se gridiamo per sentire il Verbo, per scuoterlo, esso comunque
non risponde, non può rispondere, e questo è accaduto a Cristo morente in Croce.
Tutto il resto, anche il silenzio nel mondo, è illusorio. I due mondi sono
completamente separati, e non vi è alcuna comunicazione possibile tra i due. Questo
è il fatto. Poi c’è l’attesa, che infatti è a vuoto. Allora, può darsi, dopo che l’io è
scomparso, è morto, che la grazia arrivi e avvenga la discesa di Dio dall’altra parte
del mondo.
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Per rendere palpabile la verità cristiana, bisogna mostrare che essa è implicitamente
racchiusa, in una forma degradata, anche nelle passioni più basse. Ciò di cui vi
parliamo è quello stesso che desiderate con tutta la vostra anima, in questo
momento, nel vostro stato presente. Ma voi lo chiamate con un falso nome. Non
adottate il nome che noi vi proponiamo. Smettete semplicemente di nominarlo.
Perseverate in questo silenzio interiore. E un giorno udrete una voce in voi che vi
dirà il vero nome. (QIII:389,390)
Karpoforusin en upomone.
Upomeno – Essi porteranno frutti nell’attesa. (Luca, VIII, 15).
(attendere – sostenere uno shock). (QIII:404)
L’attesa consente di preparare fisicamente il nostro organismo a un forte shock, che
come spiega Gurdjieff, determina un passaggio di livello, è un varco.
La malheur mette in relazione la parte non divina dell’essere umano con la sua parte
divina, perché impone, con la sofferenza, un movimento permanente dell’anima a
vuoto. E nel vuoto c’è il silenzio del Verbo. È la domanda senza risposta di Cristo in
croce.
Uno dei piaceri più deliziosi dell’amore umano, servire l’essere amato senza che egli
lo sappia, nell’amore di Dio è possibile solo mediante l’ateismo.
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opposti, il loro continuo movimento, la danza dell’energia, è allo stesso tempo una
manifestazione di unità e coerenza, di immobilità, di pura presenza, pre-espressiva.
Per raggiungere la verità è necessario lavorare sui dettagli, su ciò che abbiamo a
portata di mano, e non immaginare la trascendenza, che non possiamo conoscere in
nessun modo direttamente. È l’insegnamento di maestri come Stanislavskij o Dullin.
Così, una pratica adeguata nella direzione del contatto trascendentale, può essere,
per esempio, l’”agire come l’acqua” dei taoisti, l’ateismo, l’amore carnale.
Tra queste, esemplari sono le lezioni di Louis Juvet, che ha insegnato agli allievi del
Conservatoire prendendo direttamente spunto da Attesa di Dio, e Jerzy Grotowski,
che nel suo ultimo spettacolo ha inserito, leggermente modificata, una buona parte
del Prologo, la poesia poi pubblicata nei Cahiers e all’inizio de La connaissance
surnaturelle.
Le lezioni che Louis Juvet dedica al testo weiliano sono del 21 novembre 1950.
Queste serie di lezioni hanno la forma della conferenza aperta alle domande degli
studenti, e più che alle tecniche di recitazione sono dedicate ai principi, funzionali ed
etici, del teatro, indirizzate alla comprensione dell’essenza del teatro e della natura
dell’attore.
Traduco di seguito quella parte del testo, rivisto dall’autore stesso, esplicitamente
riferito a Simone Weil e al tema dell’attenzione:
Era una Israelita morta cinque o sei anni fa a Londra, che non si è convertita al
cattolicesimo, ma di cui ha trattato dei punti abbastanza importanti, i quali
sarebbero stati condannati da una Corte Romana del 17º secolo, ma che ora sono
commentati e parafrasati da religiosi, e in particolare dai Domenicani. Era
professoressa di filosofia.
Oggi sembra che lo si ignori, ma lo scopo reale e l’interesse quasi unico degli studi è
quello di formare la facoltà dell’attenzione. La maggior parte degli esercizi scolastici
hanno anche un certo interesse intrinseco; ma è un interesse secondario. Tutti gli
esercizi che fanno veramente appello alla nostra capacità d’attenzione sono
interessanti al medesimo titolo e quasi nella stessa misura.
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Vedete che cosa ha detto qui degli esercizi che gli allievi del liceo devono fare; il loro
valore intrinseco non è così interessante, e lo sapete da voi stessi: sebbene non
siate lontani dai vostri studi avete dimenticato quasi tutto quello che avete
imparato. D’altronde non è importante quello che avete fatto, ma la crescita in voi
stessi di quella facoltà d’attenzione, di recettività, che è il solo mezzo per vivere e
lavorare.
Molto spesso si confonde l’attenzione con una specie di sforzo muscolare. Se si dice
a degli allievi: “E ora fate attenzione”, ecco che aggrottano le sopracciglia,
trattengono il respiro, contraggono i muscoli. Se dopo due minuti si domanda loro a
che cosa stanno facendo attenzione, non sanno rispondere: non hanno fatto
attenzione a nulla, non hanno fatto attenzione; hanno soltanto contratto i muscoli.
Spesso, negli studi, ci si disperde in questo sforzo muscolare. E siccome alla fine ci
si sente stanchi, si ha l’impressione di aver lavorato. Ma ci si illude – dice Simone
Weil – la stanchezza non ha nulla a che vedere con il lavoro.
Il lavoro è lo sforzo utile, che sia stancante o no. Nello studio, questo sforzo
muscolare è del tutto sterile, anche se ben intenzionato.
Sapete bene, da voi stessi, che ci sono certi momenti nei quali non potete fare
niente di buono, ed è perché non c’è attenzione, che non ne siete capaci: siete in
uno stato che si rifiuta di essere ricettivo.
Ecco un passaggio importante sul quale è bene meditare perché qui c’è il segreto,
per coloro che sanno mettersi in uno stato di ricettività:
La volontà non ha quasi alcuna parte nello studio. L’intelligenza può essere guidata
soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio dev’esserci anche piacere e gioia.
L’intelligenza si accresce e dà frutti solo nella gioia.
È proprio vero. Rileggo questo passaggio, è molto importante; è per questo che
all’inizio del corso vi ho detto che era meglio non venire affatto piuttosto che
assistere annoiati:
La volontà non ha quasi alcuna parte nello studio. L’intelligenza può essere guidata
soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio dev’esserci anche piacere e gioia.
L’intelligenza si accresce e dà frutti solo nella gioia.
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L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma uno sforzo negativo.
Avete capito?
Quando andate a teatro con la voglia di vedere qualche cosa, il momento più
straordinario della rappresentazione è quando la sala è piena e gli spettatori sono in
uno stato di euforia, di piacere che nemmeno comprendono: il sipario che si muove,
la ribalta che s’accende, quest’attesa appena impaziente perché felice. Questo è uno
stato d’attenzione che non comporta sforzo.
L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma uno sforzo negativo. Di
per sé non comporta fatica. Quando questa si fa sentire, non è più possibile
l’attenzione, a meno che uno non sia già molto esercitato; allora è meglio lasciarsi
andare, cercare una distensione e ricominciare un pò più tardi: rilassarsi e
riprendersi, come si inspira e si espira.
Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono infinitamente più di tre ore
di applicazione con la fronte aggrondata che fa dire, con il sentimento del dovere
compiuto: “Ho lavorato sodo”.
Non è vero? Vedete che è una questione di preparazione. L’importante nel lavoro, è
la preparazione, lo stato nel quale si deve essere per assistere a una
rappresentazione o a una classe.
Ma, contrariamente a quanto sembra, ciò è anche molto più difficile. C’è nella nostra
anima qualcosa che rifugge dalla vera attenzione molto più violentemente di quanto
alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto più vicino al male che non la
carne. Ecco perché ogni volta che facciamo veramente attenzione distruggiamo una
parte di male in noi stessi. Se impegniamo l’attenzione con questo scopo, un quarto
d’ora di essa vale molte opere buone.
L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile,
vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero,
ma a un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite
che si è costretti a utilizzare. Il pensiero, rispetto a tutti i pensieri particolari
preesistenti, deve essere come un uomo su una montagna, che fissando lontano
scorge al tempo stesso sotto di sé, pur senza guardarle, molte foreste e pianure.
(È un bel paragone).
E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma
essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi.
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Tutti gli errori nelle versioni, tutte le assurdità nelle soluzioni dei problemi di
geometria, tutte le improprietà stilistiche e le incoerenze nel concatenamento delle
idee nei compiti di lingua, tutto dipende dal fatto che il pensiero si è gettato
affrettatamente su qualcosa, ed essendosi così impegnato prematuramente, non è
stato più disponibile per la verità. La causa di ciò sta sempre…
Capite? Non c’è bisogno che il pensiero vada più veloce; si deve seguire un testo e
non precederlo.
Il primo dovere verso gli scolari e gli studenti sta nel far loro conoscere questo
metodo.
Senza dubbio conoscete la storia di Galileo; era un uomo pio – cosa che non gli ha
impedito di avere dei guai con l’Inquisizione – ; si trovava un giorno in chiesa e vide
accendersi la lampada del santuario, che pendeva dalla cupola centrale, e che si
mise a oscillare. Non c’è volontà quando si è in uno stato di sensibilità religiosa, e
Galileo in quel momento era distratto; in quello stato di attenzione, ricevette la
sensazione di quella oscillazione, e solo più tardi quella immagine lo portò tutto d’un
colpo alla soluzione del fenomeno del pendolo, che è alla base di una serie di
importanti scoperte, in particolare quella della rotazione della terra.
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6. Jouvet
È utile qui riportare alcune esperienze esemplari provenienti dal mondo del teatro
per meglio chiarire i punti essenziali nei quali si evidenzia la pertinenza del lavoro di
Simone Weil in ambito teatrale.
Si tratta di interventi altresì significativi per rendere più agevole la comprensione del
pensiero dell’autrice, giacchè rivelando l’identità dei principi funzionali operanti nelle
azioni e nel pensiero delle figure prese in considerazione, che si chiarisce
accostandone i processi, risulta evidente l’efficacia dei principi weiliani trasposti in
ambito teatrale e viceversa, di principi teatrali nell’opera weiliana.
Ciò che accomuna le due figure non è solo la vocazione della ricerca trascendentale,
cioè la scelta di una direzione presa per raggiungere un contatto diretto con lo
spirito universale, ma la constatazione che tale percorso si può svolgere, è doveroso
che si svolga, in un ambito non separato dalla vita “laica”, quindi nel disordine della
vita mondana, diverso dall’ordine della religione.
Simone Weil ha rifiutato sia il battesimo che l’abito, per non separarsi dall’umanità
sofferente e senza Dio.
Jouvet allo stesso modo persegue una via mistica nel teatro che è per natura un
luogo impuro, nel quale il rischio, se non l’origine, è proprio nell’impurità, e nella
vanità del piacere dell’”ego”.
C’è compassione e generosità nella scelta del teatro o nella vita non strettamente
religiosa che scelse Simone Weil portando criticamente il percorso verticale dello
spirito alla sua massima conoscenza.
L’essere umano, e poi l’attore, parte dal desiderio, che è impuro, attaccato com’è a
ciò che è “basso”.
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È il desiderio che per partire, per agire, non può che essere attaccato all’oggetto e al
sé, per poi purificarsi nella pratica dell’amore orientato verso la trascendenza, la
pratica dell’amore a vuoto. Distaccato, come dice Simone Weil, “non condizionato”.
Tutto quello che scrivo sono solo sensazioni che ricevo quando recito o quando
provo, che riguardano qualsiasi cosa. Queste sensazioni nascono dentro di me grazie
a quello che faccio, a quello che fanno gli altri, ma sono sensazioni effimere mai
descritte sufficientemente. Si illuminano dentro di me in forma di idee, ma allo stato
nascente, imprecise, nebulose. L’emozione che sento fa sì che esse rimangano
troppo vicine allo stato fisico e non riesco a fermarmi per pensarle veramente e
maturarle. Ho la sensazione di un’improvvisa rivelazione e, nella mia gioia, mi
affretto a fissarla sulla pagina, a prenderne nota con un’avidità febbrile. Ma non
sono che abbozzi, apparenze di idee, difficili da trascrivere tanto sono ancora
imprecise, avvolte nelle scorie dello stato fisico, e il fatto di prenderne nota
sottolinea ancor di più quello che c’è di informe e di inesistente per lo spirito in
queste sensazioni. È un brulichio ininterrotto di associazioni d’idee, di scoperte, di
brusche illuminazioni riguardo ai problemi più diversi… chi è lo scriba? È il comédien
o sono io? (105,106)
…io non faccio altro che indicare ciò che mi accade, e credo d’aver scoperto
raccontandole le regole del mestiere così come l’ho praticato e come mi sforzo di
insegnarlo. (141)
L’osservazione di stamane che questa sera mi ha fatto scrivere tanto non è poi
straordinaria, tuttavia …mi sembra che vi sia qualcosa come un segreto
professionale. (144)
…il comédien… giunge al sacerdozio e alla vocazione alla fine della sua carriera
(invece che al debutto, trasposizione, ribaltamento), quando esercita sul pubblico,
grazie ai suoi atteggiamenti equilibrati e a un risultato finale, una vera e propria
influenza.
Arriva al mestiere solo grazie a una perfezione finale cercata lungo tutto l’arco della
sua carriera, e il segreto che scoprirà quando i suoi mezzi lo abbandoneranno e
quando il suo stile, il suo genere saranno passati di moda, quel segreto non sarà
utile agli altri; potrà solo descrivere il meccanismo e solo nella misura in cui egli
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avrà creduto di scoprirlo dentro di sé; potrà scrivere una filosofia del mestiere,
confessarsi, e come ogni filosofia e ogni spiegazione, servirà a colui che vorrà
comprenderla solo per crearsene una nuova.
Difficile ritagliare il tempo libero per ricopiare gli appunti, spulciarli, classificarli,
cinque o sei annotazioni diverse e divergenti a proposito di una stessa idea. Senti
che non avrai neppure il tempo di darne una scorsa, che sarà troppo breve, che è
troppo tardi e finisci con l’apporre la parola mistero in calce a queste meditazioni
frettolose, o la parola segreto per giustificare la tua impotenza e l’amarezza, la
delusione che provi.
Per sapere, bisogna vivere a lungo, pensare spesso, riflettere ogni giorno, ma
l’oggetto delle tue riflessioni ti disperde su piste differenti. Dedicarsi a Tartufo, o ad
Alceste, a Molière, a Giraudoux, a Claudel è una caccia sfiancante e in definitiva
rimani di fronte all’opera che hai raggiunto, intendo dire quella che reciti tutte le
sere; sei immerso dentro quell’opera senza aver avuto il tempo di prender coscienza
del tuo lavoro, senza aver avuto la possibilità reale di provare, riconoscere dentro di
te, o la forma in cui ti sei comportato per raggiungerla, o le sensazioni e le idee che
senti nell’eseguirla. (150)
Nessuno di noi può negare come abbia iniziato, dobbiamo confessare le ragioni
iniziali di quella che chiamiamo (impropriamente) la vocazione. Ma non puoi
rimanere fermo in quel punto. Bisogna confessarsi, constatare che non si fugge da
tutto quel che ti umilia o ti opprime nella vita (secolare); in questo mestiere scopri
repulsioni diverse; non si è quei personaggi, non si è altro da sé – essere altro da sé
è la grande idea che tutti esprimono anche se in maniera diversa nelle loro
dichiarazioni – si è se stessi in una piacevole distrazione, ma un se stessi orientati; è
un mestiere.
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Questo uso di sé, questo comportamento dell’attore (è il titolo più chiaro di queste
dissertazioni) è, in definitiva, il problema essenziale… prendere attentamente in
considerazione il modo in cui l’attore si sdoppia, e i risultati del suo sdoppiamento.
Vivere nella passione e nella lucidità, nella perdita di ogni remora, di ogni freno,
nella liberazione di se stessi, e nel controllo, nella coscienza di sé, trattenendo,
frenando, organizzando questo primo stato obbligato.
La sincerità è un limite ideale verso il quale tutti orientano i propri sforzi in assoluta
buonafede o malafede ma dove nessuno giungerà mai.
È una pienezza impossibile, che prelude alla distruzione, alla perdita della vita,
sarebbe infatti uno sforzo che ha raggiunto il suo scopo, uno slancio che giunge alla
meta.
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Sincerità, una certa posizione, un certo atteggiamento nei confronti degli altri, di ciò
che vive al di fuori di sé.
Antropologia.
Determinazione dei valori che devono orientare l’azione.
Il comedién esiste e vive la propria vita quotidiana tra l’essere e l’apparire, tra
l’abbandono e il dominio di sé, in un controllo più o meno sapiente, più o meno
segreto e in cui penetrare è particolarmente arduo. (48)
Questi stati di crisi nei quali il comédien si sfigura e talvolta si trasfigura, queste
mistificazioni che organizza, nelle quali si nega e si confessa, nelle quali si dichiara e
ritratta al tempo stesso…
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Quel che Diderot chiama sdoppiamento, e definizioni diverse di questa dualità che
vive nell’attore (intelligenza sensibile o sensibilità intelligente).
Un attore si può fare anche più facilmente, quest’è certo… (contraddizione,
mostruosità di questa natura, carattere pernicioso di queste occupazioni, tutto
questo dà ragione dei rigori della Chiesa).
La facoltà del comédien, che è di sentire, gli sottrae ogni mezzo d’espressione. La
sua qualità più alta è la capacità di conservare un certo controllo nel momento in cui
ha perduto quel controllo.
Tutti gli attori possiedono questo dono, ma certuni non ne hanno una conoscenza
esatta o addirittura non lo conoscono affatto. Molti lo sperimentano recitando senza
tuttavia esserne consapevoli al punto da prenderne coscienza e farne un mezzo di
perfezione.
Fino a questo momento l’attore aveva voluto recitare per essere altro o più di se
stesso. Ora invece recita per essere meglio. Sente che l’opera che recita non è un
esercizio di abilità, uno strumento di seduzione o di successo personale, bensì lo
scopo stesso della sua vita. Il teatro diventa allora una metamorfosi temporanea,
una disciplina provvisoria; recitare diviene una preparazione all’intuizione del
personaggio o di un’opera. (63)
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Bisogna far sì che egli concentri l’attenzione sui propri sentimenti, risvegliare in lui la
visione di un personaggio, e al contempo la coscienza della propria sensibilità. È
necessario che egli scopra dentro di sé la dualità che gli servirà da un lato a
costruire un modo d’esecuzione perfettibile e dall’altro a individuare un mezzo di
perfezionamento di se stesso…
Tutto quel che può sviluppare questa coscienza, abbozzare questo sentimento di
dualità è ottimo, affinchè il principiante arrivi all’idea, alla nozione della sensazione
pura, del sentimento immediato, base del lavoro d’espressione e di concezione…
Sappiamo, noi altri comedien, che recitare è propriamente una distruzione di sé, una
demolizione, è un disordine obbligato, l’impossibilità di una vita interiore. (37)
Tieniti dritta; esponiti allo sguardo del pubblico come allo sguardo di Nerone; posa
gli occhi sulla sala e offrici la testimonianza, ossia l’espressione, di cos’è Junia
dinanzi a Nerone. (75)
Recitare è venire al posto del personaggio, testimoniare per lui davanti al pubblico.
Non significa assumerlo e goderselo per proprio conto…
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Quando esegui un ruolo, a volte sei tu a guidarlo; a volte è il ruolo a portarti con sé.
Vi sono momenti in cui non nutri affatto il sentimento del ruolo; ma entri in scena
forte di una tecnica che ti darà quel sentimento; procedi sui binari del testo, e dopo
un certo tempo ti accorgi che le parole, la mimica e il compagno ti danno il
sentimento, che la meccanica del ruolo ti trasmette il comportamento, il sentimento
del ruolo. È il ruolo che ti guida. (76)
Renditi conto che il tuo lavoro deve essere generoso. Come dicono certi attori, devi
“attivarti” in scena… Questo termine “attivare”, proviene dalla parola azione che è
alla base del nostro mestiere…
Il sentimento viene dopo l’esecuzione. Quando avrai eseguito nella maniera giusta,
quando cioè, in una scena, avrai detto nella maniera giusta, sia dal punto di vista
della dizione, che da quello del movimento, il sentimento seguirà da solo, anche se è
puramente meccanico. Alla decima, alla quindicesima volta, vedrai che d’un tratto
avrai il sentimento giusto… Nel lavoro che fai, devi sempre prendere le frasi nella
loro ampiezza e nella loro dizione, non iniziare mai una scena dal sentimento,
perché finirai con annegarci dentro…
Tu lavori con il procedimento inverso, che consiste nel prendere il testo e innaffiarlo
di quella salsa alla vaiglia che è il tuo sentimento personale. (86-87)
È un momento piacevole; lo spettacolo è andato bene sotto tutti gli aspetti; è bello
essere solo, ancora tutto unto di cerone, a metà strada tra il teatro e la vita “laica”…
Condizione intermedia tra l’azione e il pensiero, ed è logico che tutto quello che
annoto non sia preciso. Si tratta di sensazioni… (98-99)
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Per trovare il sentimento drammatico però il comédien deve partire dal suo “me”, è
mosso dall’egoismo.
L’ambizione del comédien è quella di entrare nella pelle di un ruolo per trarne un suo
profitto. Simile al paguro bernardo, egli espropria il personaggio a proprio
vantaggio.
Un egoismo mostruoso gli fornisce una mostruosa sincerità. (54)
In questa prima fase, tutte le preoccupazioni del comédien sono nel sentire o nel
provare dentro di sé, nel lasciarsi allucinare dalle sensazioni e dai sentimenti,
nell’immaginare d’essere altro, nel vuotarsi di sé, nell’evadere da sé. Tutto si
traduce in slanci egoistici e in atteggiamenti fisici, una stimolazione corporale, un
bisogno disordinato di dire o di esprimere. (55)
Il teatro è una categoria del pensiero che accompagna la storia dell’uomo. Al centro
c’è l’attore, che è un uomo che pratica con assiduità un lavoro attivo sull’istinto che
tutti possiedono naturalmente di modificare la propria esistenza per viverla
pienamente e elevarla nella qualità spirituale, attraverso una fuoriuscita dal sé.
Noi consideriamo il teatro in quel che c’è di attivo, di vivo, di efficace nell’azione;
mentre essi [la critica e altri commentatori] lo considerano a partire dagli effetti e
nell’esito a cui tende attraverso una specie di invecchiamento nel suo valore
letterario e tradizionale. (102)
La prima fase del comédien è quella della vocazione, la fase in cui egli vive in una
totale ignoranza di se stesso, la fase della sincerità. L’illusione di voler essere altro
offusca la sua personalità e la sua esistenza. Per conquistarsi un’identità nuova, egli
cerca di fuggire, di evadere, crede ingenuamente che Oreste, Amleto o Alceste
attendano per animarsi che egli finalmente presti loro la sua anima. L’amore degli
eroi di Racine è il suo, la malinconia di de Musset è la sua. Ogni cosa del teatro –
crede – inizia da lui e grazie a lui.
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È allora che scopre la convenzione del teatro, le contraintes del suo mestiere, è
allora che intuisce il suo complesso ruolo di strumento e strumentista, comprende
che il suo esercizio sulla scena è in funzione del pubblico che lo ascolta, dei
compagni che gli danno la battuta e del personaggio che deve recitare.
Scopre la menzogna nella quale egli vive. Riconosce e confessa la sua insincerità.
Comprende di essere doppio: di vivere tra l’essere e l’apparire, in una dislocazione
forzata e che quello che all’inizio chiamava arte è innanzi tutto una pratica, un
mestiere.
Trovando il senso del proprio mestiere, può allora dar senso alla propria vita. (53-
54)
Prima di entrare in scena l’attore deve imporsi un “silenzio interiore” e ottenere nello
stesso tempo una decontrazione fisica. Non potrà veramente essere il suo
personaggio se non è rilassato. Ma, una volta in scena, il comédien deve potersi
mettere in un altro stato e controllare questo stato quasi medianico. (44)
Il “trac” degli attori (dal quale alcuni non hanno saputo difendersi) è un aiuto, una
specie di preparazione all’anestesia scenica, una preparazione necessaria
all’ispirazione per accogliere la “grazia” senza la quale non esiste grande comédien.
È di questa grazia che parlava Mounet-Sully quando, uscendo di scena, una sera in
cui si sentì inferiore a se stesso, disse: “Questa sera Dio non è venuto.” (45)
Non devi assumere il ruolo per succhiare Rossana o Andromaca. Devi assumere il
ruolo nel tuo bisogno di esprimere. Ora tu non hai bisogno di recitare quel
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personaggio, perché tu lo reciti a te stessa; a te fai piacere, non lo reciti per noi, è
questa la differenza che è importante…
Sono stato incaricato di osservarvi per dirvi cosa succede nel vostro intimo, per far
sì che troviate voi stessi, questo comportamento particolare proprio dell’attore,
essere se stesso ed essere un altro in una stretta dipendenza, con l’onestà
professionale che è la fonte stessa di ogni perfezione possibile… (70, 71, 72, 73)
“Quando l’attore drammatico arriva al massimo della sua espressione, c’è la trance,
c’è un momento catalettico. Non può avere del sentimento da esprimere,
l’espressione (nuance) arriva dalla potenza dell’espressione interiore.” (JOUVET
1968:80)
“Documenti clinici dello spirito ansioso di un uomo per il quale l’amore del teatro è
inseparabile da un sentimento di fraternità. L.J.” (JOUVET 2002:7)
In che modo ottenere dentro di sé, come spesso accade di vedere, la trasformazione
che subiamo nell’entrare in una chiesa, in un salone, questo rinfrancarsi dopo la
fatica e l’abbattimento, questa modificazione interiore grazie alla quale ci è possibile
orientarci per ascoltare, percepire, uscire da noi stessi ed essere disponibili verso gli
altri (per meglio possedere noi stessi grazie al sentimento d’essere più che mai se
stessi), verso la disposizione di un altro? L’esproprio di te stesso che il sentimento di
un’esistenza più viva, più reale, ti provoca, esproprio del me, per lasciar sgorgare e
apparire il sé interiore che la nostra ansia e i nostri ragionamenti troppo spesso
relegano in fondo a noi stessi, addomesticato, disprezzato, eppure molto più a
conoscenza di tutti i segreti della casa di quanto non lo sia il padrone.
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scelte, accovacciarsi, inginocchiarsi per un avvio che sarà dato da un segno che
ancora non conosciamo, ma che sappiamo ci deve giungere e che riconosceremo.
Un qualche cosa anche della formica o del piccione viaggiatore o dell’animale che
conosce la propria strada e il cui meccanismo deve essere simile.
Aspettare, - essere pronto per… - una sorta di meditazione di primo grado prima nel
corpo che trascina lo spirito (e penso a tutti i mistici dell’India e delle religioni),
unico utile e fecondo atteggiamento; l’ansia, la ricerca, la messa in movimento del
corpo, dello spirito, delle sensazioni e dei sentimenti, sono contrarie alle vere
fecondità della concezione. Il comédien recita troppo. (153)
Questo esercizio va dal commercio alla cerimonia; dalla simulazione a una forma
superiore di rappresentazione – da un falso reale a un reale istituito,
all’identificazione – partecipazione cosciente e lucida negli scopi che si prefigge.
tristezza di sé, povertà di sé, ci si rifugia con gioia in un qualsiasi altro da sé; è una
fuga permanente persino da se stessi, un’inquietudine amplificata che si placa un
poco solo in questo artificio ricercato.
È una condizione particolare per l’attore, ma normale nella vita sociale; è da questa
condizione che nascono le inclinazioni, il senso di solitudine, di segreto.
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Per metà imitazione (facoltà d’imitazione), per metà duttile sensibilità; il resto non
sono che doni fisici, sviluppati, amplificati con l’esercizio, un guscio di fasullo di
fittizio, per ornarlo e incorniciarlo. (All’inizio occorre una grande dose di vanità, di
disperazione o di ambizione, una grande instabilità dello spirito e della sensibilità, in
altre parole l’insincerità).
Tutto proviene da una condizione fisica che egli riesce ad acquisire, una condizione
fisica che, in modi diversi, si irradia nella sensibilità, conformemente al tipo
strumentale che rappresenta, alle abitudini e all’educazione ricevute… (127)
La nostra vita spirituale non si colloca al di fuori della nostra vita organica.
Questa conoscenza di sé è dunque conoscenza di quel che devo essere, uno sforzo
verso il dover essere, piuttosto che constatazione di ciò che sono. (120-121)
Nello spettacolo di Grotowski il testo era adoperato verso la fine, in maniera quasi
integrale, con delle leggere modifiche dovute a motivi drammaturgici, detto dal
personaggio di Giovanni interpretato da Stanislaw Scierski e rivolto al personaggio
dell’Innocente interpretato da Ryszard Cieslak.
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Per Grotowski, dell’incontro avuto nell’ambito del teatro dello spettacolo, luogo
impuro per definizione, e delle conseguenze di questo incontro, nel momento
dell’abbandono.
Il 1968 è anche l’anno della prima uscita del suo libro “Per un teatro povero”, nel
quale si racconta di questo incontro avvenuto per il tramite di Ryszard Cieslak come
protagonista del “Principe Costante”, spettacolo appena “chiuso” nel trionfo
internazionale e mai più ripresentato. Lì si parlava della “via negativa”, che poteva
portare al contatto trascendentale per mezzo della conoscenza dell’essere.
Poi si parlerà della “via discendente”, che permette all’essere così individuato di
progredire costantemente nella scala della verticalità mantenendo
permanentemente il contatto trascendentale, pur vivendo (proprio vivendo) in piena
coscienza la dimensione ordinaria.
Ora, vediamo con le parole di Grotowski quali sono i punti qualificanti di contatto tra
di lui e Simone Weil nel corso della sua esperienza teatrale e pedagogica e in che
modo questa consonanza si è mantenuta costante per tutto il lavoro successivo del
maestro polacco con se stesso e con i suoi allievi.
Sul pensiero:
L’intelletto, cioè nous, è diverso da dianoia, cioè la ragione e bisogna essere
estremamente prudenti per distinguerlo, discernerlo. L’intelletto non ha la funzione
di formulare le concezioni astratte o di arrivare a delle conclusioni attraverso
ragionamenti deduttivi. L’intelletto comprende attraverso la strada della esperienza
immediata per intuizione o semplice cognizione, che era il termine utilizzato da San
Isacco il Siriano. L’intelletto si assorbe, si fonde completamente nelle profondità
dell’anima, l’intelletto costituisce l’aspetto potente del cuore – è la citazione di San
Diadoco –, l’intelletto è l’organo di contemplazione e in Makarian Comilies – è un
altro dei padri del deserto – si dice che l’intelletto è l’occhio del cuore.
Vediamo che è molto lontano dalla nozione della macchina per pensare. (202)
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Gli indù che pongono il centro profondo come hridayam, il cuore nel senso di
“questo è il centro”, sottolineano sempre che non è il centro, il cakra del cuore. Gli
indù hanno tutta un’anatomia speciale con centri che sono in diversi punti del corpo,
secondo l’asse della colonna vertebrale e della testa. Allora qui, nel centro del petto,
c’è un cakra del cuore, cioè anahata. Coloro che parlano di hridayam dicono: non è
anahata. Se c’è il fenomeno energetico che va dal basso della colonna vertebrale
fino al di sopra della testa, è come se ci fosse una curva che poi va verso hridayam.
È un’immagine molto semplice, un pò embrionale; è come se si vedesse un
embrione in una certa fase, c’è la testa, c’è già la linea della colonna vertebrale ed è
evidente che il centro è fra i due.
Le stesse persone che dicono che hridayam non è anahata sottolineano che la
topografia corporale di questo “cuore-centro” è molto relativa, che lo si può sentire
al tempo stesso attorno al corpo, dentro questo cuore attorno e in un enorme spazio
vasto. Dicono che è soltanto perché avete l’immagine del corpo che lo potete
mettere in certi luoghi. Ma se vi dissociate dall’immagine del corpo, già non ha più
alcun senso. Non esiste più il luogo del cuore, ma esiste la radice dell’io. è molto
intelligente come definizione: “la radice dell’io”. Tocca questa domanda sostanziale:
“chi sono io?”. (186)
Sull’attenzione:
Quando il mio collega Huichol ha voluto spiegare agli europei come comportarsi… ha
utilizzato la parola “concentrazione”; ha detto precisamente quale posizione
associare con quale movimento, ha mostrato ciò e ha detto: “Avete concentrazione”.
“Ah” – mi sono detto – “è una parola che non è del suo vocabolario.” E gli ho detto:
“Ascolta, cosa vuol dire ‘concentrazioné?” e lui ha detto: “Attenzione”. “Questo” – mi
sono detto – “è molto più vicino al suo vocabolario, ma non è ancora preciso.” E ho
detto: “Ma che cosa significa ‘avere attenzioné?” e lui ha dato la migliore definizione
che io abbia mai sentito, la migliore soggettivamente, per me. Ha detto: “I piedi
sono ben poggiati sulla terra; tu guardi e vedi e non guardi soltanto, tu vedi; tu
ascolti e senti (entends) e non ascolti soltanto, tu senti.” Sì, è proprio questo: avere
i piedi ben poggiati sulla terra, o, se volete, avere il corpo ben poggiato sulla terra;
vedere e sentire: è l’attenzione.
L’attenzione la possiamo dirigere con l’accento sul mondo, come diciamo, esterno,
ma è anche possibile dirigerla verso il mondo interno.
È la stessa cosa che ha fatto quel bizzarro yogin indù, quello che da giovane ha
cominciato a immobilizzarsi totalmente, cosa che nella nostra civiltà sarebbe intesa
come catatonia. Ma non era catatonia. Perché? Perché la sua attenzione era
vigilante. Soltanto, non era rivolta verso l’esterno. È tutto.
Allora, l’attenzione è qualcosa di molto più modesto che non la trance, come parola.
Ma questo fa sì che le cose divengano meno misteriose ed elevate e molto più
semplici e naturali e comprensibili.
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Allora direi che tramite il veicolo dello zikr, come tramite il veicolo della filocalia o
del mantra, si può arrivare a una perfetta fissazione dell’attenzione e che questa
attenzione è allo stesso tempo vigilante, organica, centrata. Centrata, questo è
importante: è, esattamente, questo spostamento dell’io verso il sé o, se volete, l’io
superiore. Ma, evidentemente, potete utilizzare molte altre categorie. Per esempio è
possibile utilizzare categorie senza alcun soggetto: l’attenzione sta movendosi dal
centro che noi chiamiamo “l’io” verso la coscienza trasparente. Là non c’è soggetto.
Non è necessario utilizzare una parola che la definisca: “l’io superiore”, “il sé”, etc. È
giusto l’io abbastanza decontratto, “disincrespato” (decrispé). (136-138)
Sulla “via discendente”, e l’attore come weiliano metaxu (pontifex per Grotowski):
Ne L’arte come veicolo l’impatto sull’attuante è il risultato. Ma questo risultato non è
il contenuto; il contenuto sta nel passaggio dal pesante al sottile.
Il punto non è rinunciare a una parte della nostra natura; tutto deve tenere il suo
posto naturale: il corpo, il cuore, la testa, qualcosa che sta “sotto i nostri piedi” e
qualcosa che sta “sopra la testa”. Tutto come una linea verticale, e questa verticalità
deve essere tesa fra l’organicità e the awarness. Awarness, vuol dire la coscienza
che non è legata al linguaggio (alla macchina per pensare), ma alla Presenza.
(Grotowski 2001:268-269)
Nella tradizione indù si parla di vratias (le orde ribelli). Un vratia, è qualcuno che è
sul cammino per conquistare la conoscenza. L’uomo di conoscenza dispone del
doing, del fare e non di idee o di teorie. Cosa fa per l’apprendista il vero teacher?
Dice: fa’ questo. L’apprendista lotta per comprendere, per ridurre lo sconosciuto a
conosciuto, per evitare di farlo. Per il fatto stesso di voler capire oppone resistenza.
Può capire solo se fa. Fa o non fa. La conoscenza è questione di fare…
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(nel senso di the conscience) è qualcosa che appartiene all’essenza, e che è del
tutto differente dal codice morale che appartiene alla società. Se infrangi il codice
morale, ti senti colpevole, ed è la società che parla in te. Ma se fai un atto contro
coscienza, senti rimorso – questo è fra te e te, e non fra te e la società. Poiché quasi
tutto quello che possediamo è sociologico, l’essenza sembra poca cosa, ma è tua…
con l’età, si può passare dal corpo-e-essenza al corpo dell’essenza. Ciò in seguito a
una difficile evoluzione, evoluzione personale che, in qualche modo, è il compito di
ciascuno. La domanda-chiave è: qual è il tuo processo? Gli sei fedele oppure lotti
contro il tuo processo? Il processo è come il destino di ciascuno, il proprio destino
che si sviluppa (o: che semplicemente si svolge) nel tempo. Allora: qual è la qualità
della tua sottomissione al tuo proprio destino? Si può captare il processo se ciò che
si fa è in rapporto con noi stessi, se non si odia ciò che si fa. Il processo è legato
all’essenza e, virtualmente, conduce al corpo dell’essenza. Quando il guerriero è nel
breve tempo dell’osmosi corpo-e-essenza deve captare il suo processo. Quando ci
adattiamo al processo, il corpo diventa non-resistente, quasi trasparente. Tutto è
leggero, tutto è evidente. Nel Performer il performing può diventare molto prossimo
al processo.
L’Io-Io
Si può leggere nei testi antichi: Noi siamo due. L’uccello che becca e l’uccello che
guarda. Uno morirà, uno vivrà. Ebbri d’essere nel tempo, preoccupati di beccare, ci
dimentichiamo di far vivere la parte di noi stessi che guarda. C’è allora il pericolo di
esistere solo nel tempo e in nessun modo fuori del tempo. Sentirsi guardati dall’altra
parte di se, quella che è come fuori del tempo, dà l’altra dimensione. Esiste un Io-
Io. Il secondo Io è quasi virtuale; non è, dentro di noi, lo sguardo degli altri, né il
giudizio: è come uno sguardo immobile, presenza silenziosa, come il sole che
illumina le cose – e basta. Il processo di ciascuno può compiersi solo nel contesto di
questa immobile presenza. Io-Io: nell’esperienza la coppia non appare come
separata, ma piena, unica.
Nella via del Performer, si percepisce l’essenza quando essa è in osmosi con il corpo,
poi si lavora il processo sviluppando l’Io-Io. Lo sguardo del teacher può a volte
funzionare come lo specchio del legame Io-Io (questo legame non essendo ancora
tracciato). Quando il collegamento Io-Io è tracciato, il teacher può sparire e il
Performer continuare verso il corpo dell’essenza. È ciò che si può riconoscere nella
foto di Gurdjieff vecchio seduto su una panchina a Parigi…
L’Io-Io non vuol dire essere tagliati in due ma essere in doppio. Si tratta di essere
passivi nell’agire e attivi nello sguardo (al contrario delle abitudini). Passivo vuol dire
essere ricettivo. Attivo essere presente. Per nutrire la vita dell’Io-Io, il Performer
deve sviluppare non un organismo-massa, organismo dei muscoli, atletico, ma un
organismo canale attraverso cui le forze circolano…
Uno degli accessi alla via creativa consiste nello scoprire in se stessi una corporeità
antica alla quale si è collegati da una relazione ancestrale forte. Non ci si trova allora
né nel personaggio, né nel non-personaggio…
Con uno sfondamento, aprendo una breccia – come nel rientro di un esule – si può
toccare qualcosa che non è più legato alle origini ma – se oso dirlo – all’origine?
Credo di si. L’essenza sta dietro la memoria? Non ne so nulla. Quando lavoro in
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Per questo sono non-nato, e secondo il mio modo di non-nato non posso morire.
Quello che sono secondo la mia nascita morirà e si annienterà, perché è devoluto al
tempo e marcirà con il tempo. Ma nella mia nascita nacquero anche tutte le
creature. Tutte provano il bisogno di elevarsi dalla loro vita alla loro essenza.
Quando rientro, questo sfondamento è ben più nobile della mia uscita. Nello
sfondamento – là – sono al di sopra di tutte le creature, né Dio, né creatura; ma
sono quello che ero, quello che devo restare ora e per sempre. Quando arrivo là,
nessuno mi domanda da dove vengo, né dove sono stato. Là sono quello che ero,
non cresco né diminuisco, perché sono, là una causa immobile, che fa muovere tutte
le cose. (GROTOWSKI:1988)
…nella percezione di qualcuno tutto può essere connesso, come un fiume che scorre
dalla vitalità fino a questa sottilissima energia che qualcuno può percepire dietro la
testa e più su, ancora più su, fino a toccare qualcosa che non ha più a che fare
solamente con il quadro fisico, ma che è come al di sopra del quadro fisico. Come se
una certa sorgente, quando viene toccata, si attivasse, e qualcosa come una pioggia
leggerissima scendesse e lavasse ogni cellula del corpo. Questo viaggio da una
qualità di energia, densa e vitale, su e su verso una qualità molto sottile di energia,
e poi questo sottile qualcosa che ridiscende nella fisicità di base…
…non pensa più in maniera tecnica, lascia che le qualità vibratorie discendano in lui
mentre segue la sua linea di azioni. E poiché la partitura di azione comincia a
contattare in modo naturale certe associazioni, svegliando in lui qualcosa della sua
vita e della sua memoria, il canto comincia a entrare in questo, e a farci qualcosa.
Può iniziare a far sì che quella risorsa di vita che si sta accumulando salga, ascenda.
Ora, come attuante, la mia attenzione va insieme a questa ascensione interiore
dell’energia. Lascio che la mia attenzione primaria vada con questo. In qualche
modo lascio che il mio “io” vada con questo, il mio “dove sono” vada con questo, e
lascio la partitura di azioni andare quasi da sé. La partitura è già stata dominata,
memorizzata, e il corpo – e non solo il corpo – compie la linea di azioni. Ma tu, tu
vai con questo viaggio verticale verso il sottile. Le due cose cominciano a attuarsi
simultaneamente, come se tu avessi la partitura orizzontale – legata alla linea di
azioni, al contatto con i partners, al susseguirsi delle azioni – e qualcosa come una
partitura verticale, legata a questa “azione interiore”, all’itinerario verticale, a quale
qualità di energia è con te ora...
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attorno – non solo dentro, ma anche attorno in modo molto ampio, attorno al
quadro fisico. Può inglobare anche il tuo compagno di lavoro e il suo fare, inglobare
il suo dentro e il suo fuori. E si può dire che sia quasi lo spazio tra i due che ascende
in qualità di energia, e che qualcosa di sottile discende in esso, in loro.
(RICHARDS:1995)
In realtà molti altri ancora sono i temi di riflessione comuni a Simone Weil e
Grotowski, per esempio: il battesimo, la trasmissione della conoscenza, la gnosi,
l’alchimia, i legami della cultura cristiana con quella greca, il bacino del Mediterraneo
come “culla” della civiltà, di origine camitica, i “misteri”, greci e medioevali, il
cristianesimo non eterodosso che si riferisce all’esperienza diretta, ai limiti
dell’eresia, l’analisi della tripartizione dell’essere umano e le pratiche che ne
conseguono, orientate alla verticalità e all’organicità, come la preghiera, la musica, il
canto e altre “tecniche personali dell’attore”, le tecniche personali nel confronto tra
oriente e occidente, la nozione di sesso, lo studio dei centri energetici dell’uomo, lo
studio di vicende e figure chiave come San Francesco, Maestro Eckhart, San
Giovanni della Croce, il Vangelo di San Giovanni, i Catari.
Con il Prologo, secondo l’autrice, sarebbe dovuto iniziare un libro con la raccolta dei
suoi ultimi pensieri.
Con esso si è conclusa l’esperienza nel teatro dello spettacolo di Jerzy Grotowski.
Con questo testo concludo dunque il mio saggio.
Entrò nella mia camera e disse: “Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai
nulla. vieni con me e t’insegnerò cose che neppure sospetti”. Lo seguii.
Mi fece uscire e salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra
aperta tutta la città, qualche impalcatura in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni
venivano scaricate. Nella stanza c’erano solo un tavolo e due sedie. Mi fece sedere.
Eravamo soli. Parlò. Talvolta qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne
andava.
Non era più inverno. Non era ancora primavera. I rami degli alberi erano nudi, senza
gemme, in un’aria fredda e piena di sole.
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Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era
costruita quella città.
Non ho mai tentato di ritrovarla. Capii che era venuto a cercarmi per errore. Il mio
posto non è in quella mansarda. Esso è ovunque, nella segreta di una prigione, in
uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della
stazione. Ovunque, ma non in quella mansarda.
Qualche volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un pò di ciò
che egli mi ha detto. Come sapere se mi ricordo esattamente? Egli non è qui per
dirmelo.
So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me
qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che
forse, malgrado tutto, mi ama.
LEGENDA
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Grotowski, Jerzy, Tecniche Originarie dell’Attore, a cura di Luisa Tinti, Istituto del
Teatro e dello Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, 1983.
Grotowski, Jerzy, il Performer, in Teatro e Storia n.4, Il Mulino, Bologna, 1988.
Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, Fondazione Pontedera Teatro,
Pontedera, 2001.
Essere un uomo totale, Titivillus, Corazzano, 2005.
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[1]
Cfr. G.E.Lessing, Lacoonte, Firenze, Sansoni, 1925, p.18, 201 e segg. e 225 e segg.
[2]
Cfr. G.E.Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, Bari, Laterza, 1956, xxxi, pp.6, 22, 312-3.
[3]
S’intende qui ontologico l’oggetto della ricerca, l’essenza della cosa, e non il punto di
vista, il metodo, che è critico. Simone Weil ha chiarito bene il punto nelle sue lezioni di
filosofia: “Non c’è altro studio filosofico che la metafisica. Ma occorre capire bene che ci sono
due modi di concepire la ricerca metafisica: il punto di vista ontologico e il punto di vista
critico. Rapporti tra i punti di vista scientifico, ontologico, critico: Scienza: rapporti
quantitativi tra i fenomeni. Punto di vista ontologico: ci si pone dal punto di vista di Dio. Si
suppone di conoscere le cose in sé e le si confronta con la conoscenza che se ne ha. Punto di
vista critico: si cerca di prendere coscienza di quello che si fa quando si fa scienza, ecc. Il
punto di vista critico cerca di confrontare la scienza così com’è col metodo perfetto che
abbiamo in noi. Questo punto di vista è perfettamente legittimo, mentre il punto di vista
ontologico è assurdo. Filosofi critici: Platone, Descartes, Kant che ha inventato il termine.
(LDF:232)
[4]
Johann Jacob Engel, Lettere intorno alla mimica, Milano, Pirotta, 1820, p.16.
[5]
ibid., p.5 e 11. È una ripresa di Lessing, che commenta Le comédien di P. Rémond de
Sainte-Albine. Da notare la corrispondenza con l’esempio del fiore di Zeami.
[6]
Ibid., p.13.
[7]
Non è difficile rilevare straordinarie similitudini tra il pensiero di Alain-Lagneau e la
“psicologia” buddista. Per esempio, la percezione proviene dalla mente, non dalle cose: è la
vacuità, l’inesistenza intrinseca della realtà dell’oggetto. Libertà è volontà (opposto di
desiderio e passione): la mente è pura e cognitiva, il lavoro di meditazione la libera dal
guscio dei difetti mentali. Vi è una differenza tra l’essere e l’apparire. Poichè questo è anche
un punto di vista cristiano, ma anche musulmano, induista e taoista, si può dire che ci
troviamo di fronte a un sentiero di “misticismo”, ed è a questo che guardano, più o meno
consapevolmente, i tanti maestri e pedagoghi del teatro del Novecento, ed è con questo che
anche noi dobbiamo fare i conti. Già in quell’epoca ci provò, con acume, anche se non senza
una buona dose di approssimazione e di sarcasmo, il giovane Bertrand Russell, un
“avversario” di questa via (ma in realtà di Hegel e Bergson) , che però aiuta a chiarirsi le
idee: “La metafisica, ossia il tentativo di concepire il mondo come un tutto per mezzo del
pensiero, si è sviluppata fin dall’inizio grazie all’incontro e al conflitto di due impulsi umani
diversissimi, uno dei quali spinge gli uomini verso il misticismo, l’altro verso la scienza …i più
grandi filosofi hanno sentito la necessità sia della scienza sia del misticismo: il tentativo di
armonizzare le due cose ha riempito la loro vita; ed è ciò che, in tutta la sua ardua
incertezza, fa sì che tanti considerino la filosofia qualcosa di superiore sia alla scienza sia alla
religione… in Platone esiste lo stesso duplice impulso, anche se l’impulso mistico è
decisamente il più forte dei due, e conquista la vittoria finale allorchè il conflitto si fa acuto.
La sua descrizione della caverna è l’espressione classica della fede in una conoscenza e in
una realtà più vere e più reali di quelle dei sensi… La filosofia mistica, in tutte le epoche e in
tutte le parti del mondo, è caratterizzata da alcuni convincimenti… in primo luogo, vi è la
fede nell’intuito contrapposto alla conoscenza analitica deduttiva: la fede in una forma di
saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva, in contrasto con lo studio lento e fallibile delle
apparenze esterne. Basato su una scienza poggiante interamente sui sensi. Chiunque sia
capace di abbandonarsi a un’intima passione deve aver sperimentato a volte lo strano senso
di irrealtà che promana dagli oggetti comuni, la perdita di contatto con le cose quotidiane, lo
smarrirsi della solidità del mondo esterno, quando l’anima, nella sua completa solitudine,
pare estrarre dalle proprie stesse profondità la folle danza di fantasmi che fino allora
sembravano possedere una realtà e una vita indipendenti. Questo è il lato negativo
dell’iniziazione del mistico: il dubbio circa la conoscenza comune, che prepara la strada a
quella che sembra una saggezza superiore. Molte persone alle quali è familiare questa
esperienza negativa non vanno oltre, ma per il mistico essa rappresenta soltanto la porta
d’ingresso verso un mondo più ampio… Il primo e più diretto risultato dell’istante di
illuminazione è la fede nella possibilità di una via verso la conoscenza che può prendere il
nome di rivelazione o di intuito o di intuizione, in contrapposizione ai sensi, alla ragione,
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all’analisi, considerati guide cieche che conducono nel pantano dell’illusione. Strettamente
connessa a questa fede è la concezione di una realtà che sta dietro al mondo delle
apparenze ed è completamente differente da esso… Il poeta, l’artista e l’innamorato sono
alla ricerca di quella gloria: l’incitante bellezza che essi perseguono è il debole riflesso del
suo sole. Ma il mistico vive nella luce piena della visione: ciò che gli altri cercano
faticosamente egli lo sa, grazie a una conoscenza al cui confronto ogni altra conoscenza è
ignoranza. La seconda caratteristica del misticismo è la fede nell’unità, il rifiuto di ammettere
l’opposizione o la divisione. Abbiamo sentito Eraclito dire: “il bene e il male sono una cosa
sola”; ed egli dice ancora: “la strada che sale e la strada che scende sono un’unica e identica
cosa”. Lo stesso atteggiamento appare nell’asserzione simultanea di enunciati contraddittori,
come: “entriamo e non entriamo negli stessi fiumi; siamo e non siamo”. L’asserzione di
Parmenide, che la realtà è una e indivisibile, deriva dallo stesso impulso verso l’unità. In
Platone questo impulso è meno evidente, essendo tenuto a freno dalla teoria delle idee; ma
ricompare, nella misura in cui la logica lo consente, nella dottrina della priorità del bene. Una
caratteristica di quasi tutti i metafisici mistici è la negazione della realtà del tempo. È una
conseguenza del rifiuto della divisione; se tutto è uno, la distinzione tra passato e futuro
dev’essere illusoria. Abbiamo visto dominare questa dottrina in Parmenide; e tra i moderni
essa è fondamentale nei sistemi di Spinoza e di Hegel. L’ultima dottrina mistica che
dobbiamo prendere in considerazione è la convinzione che tutto il male sia mera apparenza,
un’illusione prodotta dalle divisioni e dalle contrapposizioni dell’intelletto analitico. Il
misticismo non sostiene che cose come la crudeltà, per esempio, siano buone, ma nega che
siano reali: appartengono a quel mondo inferiore di fantasmi dal quale dobbiamo liberarci
grazie alla contemplazione della visione. A volte, per esempio in Hegel e almeno verbalmente
in Spinoza, non soltanto il male, ma il bene stesso è considerato illusorio, anche se
l’atteggiamento sentimentale verso ciò che si sostiene essere la realtà è quale verrebbe
naturale associare alla convinzione che la realtà’ sia buona. In ogni caso, l’aspetto
eticamente caratteristico del misticismo è l’assenza di indignazione e di protesta, la gioiosa
accettazione, il rifiuto di ammettere come verità ultima la divisione in due campi ostili, il
bene e il male. Questo atteggiamento è conseguenza diretta della natura dell’esperienza
mistica: al suo senso di unità è legato un sentimento di pace infinita. Si può anzi sospettare
che sia il sentimento di pace a produrre, come avviene nei sogni, l’intiero sistema di
convinzioni collegate che costituisce il corpo della dottrina mistica. Ma è una questione
difficile, sulla quale non si può sperare che l’umanità raggiunga l’accordo. Si pongono così
quattro domande, nel giudicare la verità o la falsità del misticismo, e cioè: 1 Esistono due
modi di conoscere, che si possono rispettivamente chiamare ragione e intuizione? E se è
così, l’uno va preferito all’altro? 2 Ogni pluralità e divisione è illusoria? 3 Il tempo è irreale? 4
Che tipo di realtà attiene al bene e al male? Mentre il misticismo come dottrina globalmente
sviluppata mi sembra errato, penso tuttavia che per ciascuna di queste quattro domande,
introducendo le opportune limitazioni, vi sia da apprendere dal modo di sentire mistico un
elemento di saggezza che non appare raggiungibile in nessun’altra maniera. Se questo è
vero, il misticismo va apprezzato come un atteggiamento verso la vita, non come un credo
circa il mondo.” Da B. Russell, Misticismo e logica, ed. Longanesi, Milano 1970, pp.3, 5, 9-
12. C’è da rilevare che il teatro del Novecento va apprezzato proprio nel senso che preferisce
Russell, come un atteggiamento (un lavoro) verso la vita.
[8]
Emanuele Trevi ha notato, recentemente, questa identità, recensendo la nuova antologia
che Marco Dotti ha curato per Mimesis: …Nessun “ritorno” ad Artaud, dunque, inteso in
senso quietamente umanistico e archeologico: semmai, a ogni lettura, il sentimento di
essere ancora lì, di aggirarci ancora nel solco, nella ferita e nella particolare “prospettiva
della ferita” che si spalanca nella sua opera. Come quello di Simone Weil, il pensiero di
Artaud esige collaborazione, piena e responsabile complicità, condivisione del rischio. La loro
scrittura è rivolta al futuro, è una promessa di futuro proprio perchè implica e disegna una
figura di lettore “a venire”, una possibilità di incontro sempre aperta. Non a caso,
l’incompiutezza è la cifra più evidente di questi due grandi spiriti, cosi come il “quaderno”
(anche nel senso dell’umile, dozzinale manufatto scolastico) è il luogo più adatto al
movimento, mai lineare, del loro pensiero. È possibile che dalla fucina ardente dei quaderni,
allora, possa essere eventualmente ricavato un testo, una formulazione memorabile, un
qualche tipo di slogan: ma si tratta di una conseguenza secondaria. È insomma la stessa
nozione canonica di “testo” ad essere messa in crisi (come già in Pascal) da una “gnosi
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