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Filosofia - Prof. Monti - a.s.

2016-2017 - Blaise Pascal

Blaise Pascal
1623 – 1662

1. IL GENIO ESISTENZIALE DI PASCAL

Di poco più vecchio di Spinoza, ma di quasi trent’anni più giovane di Cartesio è


proprio contro alcuni aspetti del pensiero di quest’ultimo che Pascal spende la sua vita
intellettuale.
Come avremo modo di vedere, anche Pascal è un grande scienziato, proprio come
Cartesio, pure egli tende a limitare la sfera d’azione del razionalismo cartesiano.
Per Pascal la ragione è, tutto sommato, incapace di comprendere la realtà e il
senso della vita. A suo avviso solo il cristianesimo rende comprensibile quel
“mostro incomprensibile” che è l’uomo. Solo la religione cristiana spiega ciò che la
pura ragione, e quindi la scienza e la filosofia, non sanno chiarire.
Tramite una sottile analisi della condizione umana, Pascal porta alla luce e scruta
caratteristiche e strutture permanenti della vita dell’uomo nel mondo: l’inquietudine
dell’animo, la brama insoddisfatta della felicità, l’incombere della morte, lo
stordimento e lo smarrimento di sé, la consapevolezza della propria miseria e
grandezza, il senso del mistero, la ricerca di Dio...

A dispetto del carattere non sistematico del suo pensiero, Pascal occupa un posto
rilevante nella filosofia e nella cultura dei moderni. Nonostante la curvatura e l’esito
marcatamente religioso della sua opera, egli, nella parte più propriamente filosofica
del suo pensiero, appare uno spirito universale, una di quelle voci che hanno avuto la
capacità di parlare in profondità a tutte le menti.

2. VITA E OPERE - PORTOREALE E IL GIANSENISMO

Nasce a Clermont. I suoi primi (e assai precoci!) interessi furono diretti alla
matematica e alla fisica. A sedici anni, dopo aver riscoperto da completo autodidatta
buona parte della geometria euclidea, scrisse un Trattato delle sezioni coniche; a
diciotto inventò una macchina calcolatrice, la cosiddetta “pascalina” e, in seguito,
compì numerose esperienze sulla pressione dell’aria e sul vuoto.
Anche quando la vocazione religiosa, nel 1654, divenne chiara, l’interesse per le
scienze non lo abbandonò: il calcolo delle probabilità e altre invenzioni lo tennero
occupato anche nei brevi anni della sua piena maturità.

Proprio dal 1654 Pascal entrò a far parte dei solitari di Portoreale. L’abbazia di Port-
Royal era stata ricostruita nel 1636 nella forma di una comunità religiosa, priva di
regole determinate, i cui membri si dedicavano alla meditazione, allo studio e
all’insegnamento.
Con Antonio Arnauld le idee di del vescovo Cornelio Giansenio si affermarono
decisamente fra questi solitari. Egli intendeva riformare la Chiesa mediante un ritorno
alle tesi fondamentali di Agostino. A suo avviso, la dottrina agostiniana implica che

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il peccato originale ha tolto all’uomo la libertà di volere e lo ha reso incapace del bene
e inclinato necessariamente al male. La salvezza è concessa solo agli eletti per i meriti
di Cristo. Queste tesi sono contrapposte da Giansenio alla rilassatezza della
morale ecclesiastica, specialmente gesuitica. Per questi ultimi la salvezza è sempre
alla portata dell’uomo che, in seno alla Chiesa, ha grazia sufficiente, unitamente alla
buona volontà, per la salvezza. Contro questa tesi il giansenismo prospettava un
rigorismo morale e religioso alieno ad ogni compromesso, facendo dipendere la
salvezza solo dall’azione efficace della grazia divina, comunque riservata a pochi.
Nel 1653 Innocenzo X condannò cinque proposizioni gianseniste. Arnauld e gli altri
seguaci accettarono la condanna, ma negarono che tali proposizioni appartenessero a
Giansenio e si ritrovassero nella sua opera. Ritennero che la condanna dunque non
concernesse la loro dottrina. Dopo qualche anno la disputa fu ripresa davanti alla
facoltà teologica di Parigi e in essa Pascal intervenne con le famose Lettere
provinciali (diciotto lettere). A partire dalla quinta lettera le critiche di Pascal si
rivolgono alla prassi dei gesuiti, alla condotta accomodante per cui essi tendono le
braccia a tutti: mettono a posto facilmente la coscienza dei peccatori con una casistica
di grande rilassatezza morale. Nell’ultima lettera ribadisce la dottrina agostiniana della
grazia. Tra i due punti di vista opposti, da una parte Calvino e Lutero e dall’altra il
gesuita Molina, bisogna per Pascal riconoscere che le azioni sono nostre a causa
del libero arbitrio e di Dio a causa della grazia, la quale fa sì che il nostro arbitrio
le produca. Dio ci fa fare ciò che gli piace facendoci volere ciò che, in virtù
appunto del libero arbitrio, potremmo non volere affatto. In questa dottrina Pascal
vede la vera tradizione della Chiesa.
Mentre pubblicava le lettere e attendeva al suo lavoro scientifico, Pascal andava
lavorando anche ad una Apologia del Cristianesimo. Non terminò però questo lavoro,
che avrebbe dovuto essere la sua grande opera. Le note rimaste furono ordinate e
pubblicate dai suoi amici portorealisti nel 1669 sotto il titolo di Pensieri.

3. IL PROBLEMA DEL SENSO DELLA VITA E LO SCHEMA DEL FILOSOFARE

Secondo Pascal la questione più importante e decisiva per l’uomo è la domanda


sul senso della vita, del cui mistero egli ebbe sempre una coscienza tormentosa ed
esasperata.

“Non so chi mi abbia messo al mondo, né cosa sia il mondo, né che cosa
io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto… Vedo quegli
spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato
in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono
collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo mi è
dato… Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un
atomo e come un’ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre.
Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è,
appunto, questa stessa morte, che non posso evitare”

Ritenendo che il problema di ciò che l’uomo è per se stesso sia il più vero e
importante, Pascal ritiene “mostruoso” che gli individui, occupati nelle mille
faccende del vivere e dalle vanità sociali, possano manifestare “indifferenza” nei
suoi confronti.

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Egli polemizza contro la cecità di coloro che non sentono l’assillo di questo problema.
Le tematiche esistenziali “c’interessano talmente, ci riguardano così profondamente,
che bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di venirne in chiaro”.
Lo studio dell’uomo e quello correlativo di Dio e dell’anima, dice con Agostino, è
il solo che sia appropriato all’uomo. Nei suoi confronti tutto il resto è “svago”,
“inutile curiosità”. Nello stesso tempo, e qui spunta la curvatura decisamente religiosa
del suo pensiero, Pascal è persuaso che l’enigma dell’uomo e della vita non possa
essere risolto al di fuori della fede.
Egli cerca di mostrare lo scacco della mentalità comune, della scienza e della
filosofia di fronte al problema dell’esistenza, e nel mettere in rilievo, di contro, la
capacità del cristianesimo di dare una risposta adeguata ad esso.

4. I LIMITI DELLA MENTALITÀ COMUNE: IL “DIVERTISSEMENT” O “STORDIMENTO DI SÉ”

Pascal ritiene che l’atteggiamento della mentalità comune nei confronti del
problema esistenziale sia quello del divertissement.
Questo termine francese non ha il senso volgare di sollazzo, ma quello filosofico di
oblio e stordimento di sé nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli
intrattenimenti sociali. Il “divertimento” è quindi una “fuga da sé”, ottenuta tramite
un’attività qualsiasi, lavorativa o ricreativa. Ma da che cosa fugge l’uomo? Da due
cose: dalla propria infelicità costitutiva e dai supremi interrogativi circa la vita e
la morte.

“Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno
creduto meglio, per essere felici, di non pensarci”

Fermo in se stesso, l’uomo sente il suo niente, il suo abbandono, la sua dipendenza e
impotenza. Il pregio fondamentale di tutte le occupazioni è proprio quello di
distrarre l’uomo dalla considerazione di sé e della sua condizione. Ognuno di noi
ricerca il trambusto che lo distrae. Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle
cose, non viviamo mai nel presente, ma in attesa del futuro.

“Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i


nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai,
ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è
inevitabile che non siamo mai tali”.

Ma il divertissement, essendo continua fuga da noi stessi nel tentativo illusorio di


raggiungere una situazione di completo appagamento, non genera certo felicità. Senza
il “divertimento” saremmo nella noia ed essa ci spingerebbe a cercare un mezzo più
solido per uscirne. Invece il “divertimento” ci riesce piacevole e così ci fa smarrire
ed arrivare insensibilmente alla morte. Tuttavia, il “divertimento” non è
l’alternativa propria e degna dell’uomo. L’uomo non deve chiudere gli occhi di
fronte alla miseria, ma deve accettare lucidamente la propria condizione. La
dignità dell’uomo sta tutta nel pensare ed egli deve pensare rettamente. Ma il
corretto ordine del pensiero, ritiene Pascal, esige che si cominci da sé...

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5. I LIMITI DEL PENSIERO SCIENTIFICO: “SPIRITO DI GEOMETRIA” E “SPIRITO DI FINEZZA”

Pur essendo uno scienziato e pur avendo grande interesse e considerazione per il
sapere esatto, Pascal è convinto che la scienza presenti alcuni limiti strutturali, sia
in sé medesima, sia in relazione ai problemi dell’uomo.
1. Il primo limite della scienza è l’esperienza. Sebbene questa, da un lato, sia
motivo di forza (Pascal è, non a caso, uno dei fautori del metodo sperimentale!)
dall’altro lato è pur sempre qualcosa che frena e circoscrive i poteri della ragione,
come tendeva a credere Cartesio.
2. Il secondo limite è costituito dalla non dimostrabilità dei suoi principi primi. Le
nozioni che stanno alla base del ragionamento scientifico (per esempio “spazio”,
“tempo”, “movimento”...) sfuggono al ragionamento stesso, poiché nel campo del
sapere non è mai possibile una regressione all’infinito dei concetti, ci si deve per forza
fermare a dei termini primi che rappresentano il punto dal quale si è costretti a partire.
Nello stesso dominio che le è proprio, dunque, la scienza trova dei limiti. Ma in
questo dominio è, comunque, la ragione scientifica ad essere sovrana.
Dove la ragione dimostra la sua totale e congenita incapacità è nel campo dei
problemi esistenziali. Alla ragione scientifica e dimostrativa, Pascal oppone
infatti la comprensione istintiva, o, come egli la chiama per lo più, il cuore, inteso
come l’organo capace di captare gli aspetti più profondi e problematici dell’esistere.
Lo spirito della geometria è la ragione scientifica, che ha per oggetto le cose
esteriori, mentre lo spirito di finezza ha per oggetto l’uomo e si fonda sul cuore,
sul sentimento e sull’intuito. Le cose di finezza si sentono e non si vedono: è difficile
farle sentire a chi non le sente da sé e non si possono mai dimostrare completamente.
Lo spirito di geometria ragiona tramite l’intelletto, lo spirito di finezza comprende
intuitivamente. Un certo grado di finezza però, ossia di comprensione, è necessario
anche per fondare il ragionamento geometrico. Anzi, i primi principi di cui si diceva
sono colti proprio dallo spirito di finezza, poiché, ad esempio, si sente che lo
spazio ha tre dimensioni, e si intuisce che i numeri sono infiniti.
La scienza, di fronte ai destini ultimi dell’individuo, risulta vana.

“Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze


esatte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia
condizione con l’approfondire lo studio che gli altri con
l’ignorarlo…”

La cosa più preziosa, per l’uomo, non è la scienza, ma la conoscenza dell’uomo stesso.

6. I LIMITI DELLA FILOSOFIA

A differenza della mentalità comune e della scienza, la filosofia si pone i massimi


problemi esistenziali e metafisici, e in ciò risiede la sua nobiltà, però non riesce a
risolverli. I filosofi hanno vanamente indagato intorno all’uomo e all’essere ed
hanno sterilmente cercato di dimostrare l’esistenza di Dio. La pretesa dei metafisici
di dimostrare Dio a partire dalla natura è falsa. La natura non prova di per sé
l’esistenza di Dio: essa appare opera divina solo agli occhi di chi già crede, mentre
chi non crede la interpreta senza Dio.

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“È davvero singolare che nessun autore canonico si sia mai servito


della natura per dimostrare l’esistenza di Dio. Tutti mirano a far sì
che io creda in Lui. Davide, Salomone... non hanno mai detto: non
esiste il vuoto; dunque c’è un Dio. Dovevano essere più savi dei savi
venuti dopo, che si servivano di tali argomenti”

Per Pascal l’esistenza del Creatore, razionalmente parlando, non è né chiara né


certa, ma almeno altrettanto oscura e problematica è la sua inesistenza.

“Dio esiste o non esiste, ma da quale parte inclineremo? La ragione qui non può
determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito”

Inoltre le prove metafisiche dell’esistenza di Dio hanno il limite di giungere a un


Dio puramente astratto, cioè ad un Dio dei filosofi e degli scienziati, che appare
inutile e lontano dall’uomo, essendo un puro ente di ragione.

“Il Dio dei Cristiani non è semplicemente un Dio autore delle verità matematiche e
dell’ordine cosmico: come quello dei pagani e degli epicurei… Il Dio di Abramo è
un Dio d’amore e di consolazione: un Dio che riempie l’anima e il cuore di coloro
che possiede...”

Incapace di risolvere la questione di Dio, la filosofia è altrettanto inabile a


spiegare la specifica condizione umana nel mondo e il nodo di grandezza e di
miseria che la costituisce. Il centro dell’analisi esistenziale di Pascal è la tesi della
posizione mediana dell’uomo nell’ordine delle cose.
A metà strada fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, l’uomo è nulla di
fronte al tutto e tutto di fronte al nulla, un misto di essere e non essere. Questa
“medietà”, questo stare tra massimo e minimo, trova un preciso riscontro anche
nell’ordine della conoscenza e nell’ordine pratico. Infatti, nella scala del conoscere,
l’intelletto occupa lo stesso posto del corpo nell’immensità della natura: in relazione al
sapere dunque si può dire che l’uomo sa e che non sa. È in una via di mezzo fra la
sapienza assoluta e l’ignoranza assoluta. L’uomo non può conoscere il principio e
il fine delle cose, ma deve accontentarsi di sapere qualche cosa della zona
mediana dell’universo. Infatti tutte le nostre capacità sono limitate da due
estremi, oltre i quali le cose ci sfuggono. I nostri sensi non percepiscono nulla di
estremo; le cose estreme sono per noi come se non ci fossero e noi siamo verso di loro
come se non ci fossimo; esse sfuggono a noi e noi ad esse. La stessa duplicità e
medietà che caratterizza l’uomo nell’ordine dell’essere ed in quello del conoscere,
lo qualifica in relazione al bene a alla felicità. L’uomo non fa che proporsi il bene
e inseguire la felicità totale, ma nello stesso tempo è inetto a realizzare il bene e ad
ottenere la felicità.

“L’uomo vuole essere felice, e vuole solo essere felice, e non può non
voler essere tale … la felicità è il movente di tutti gli uomini, anche di
quelli che si impiccano” eppure “Non occorre un’anima molto
elevata per comprendere che quaggiù non ci sono soddisfazioni veraci
e durature; che tutti i nostri piaceri sono vani e i nostri mali senza
numero”.

Tanto è vero che tutti si lamentano, giovani e vecchi, ricchi e poveri.

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Questa situazione esistenziale mediana determina, nell’uomo, uno scarto


incolmabile fra aspirazione e realtà e fa sì che egli, filosoficamente parlando, sia un
desiderio frustrato. Incapace sia di accontentarsi di quello che è, sia di attingere a
quello che vorrebbe essere, l’uomo pascaliano, preso fra volere e non potere, si
trova in uno strutturale dissidio con sé medesimo, dissidio che ha qualcosa di
tragico. Da ciò la sua miseria costitutiva.

“Desideriamo la verità e non troviamo in noi se non incertezza.


Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte. Siamo
incapaci di non aspirare alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di
certezza e felicità… Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto
stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi
all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre
sino agli abissi”.

Dall’altro lato, se nell’uomo vi è la spinta verso la verità assoluta, la nostalgia di


un bene totale, vuol dire che vi è in lui la vocazione naturale verso un ordine
superiore di essere e di valore, ossia un barlume di grandezza e di nobiltà. Inoltre
la stessa coscienza della propria miseria è un segno di grandezza, perché una
pianta o un verme, ad esempio, non sanno riconoscersi miseri. Anche la capacità
umana di pensare è grandezza, perché se l’uomo è nulla di fronte al tutto egli vale ben
più della materia e dei suoi meccanismi inconsapevoli.

“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una


canna che pensa... un vapore, una goccia bastano a ucciderlo. Ma,
quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre
più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e conosce la
superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa
nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero”.

L’essenza dell’uomo, la specificità della sua condizione, sta proprio in questa


ambigua compresenza di miseria e di grandezza, che fa di lui un “mostro
incomprensibile”, una “chimera”, un “prodigio”. Ma se la condizione umana è questa
duplicità ineliminabile di grandezza e di miseria, ogni tentativo di sottolineare un
aspetto a scapito dell’altro è destinato a fallire. Lo sbaglio e il dramma della
filosofia è di aver oscillato, in ogni tempo, fra la celebrazione della grandezza
dell’uomo (dogmatici), e la puntualizzazione della sua miseria (pirroniani).
Ma “poiché la miseria si inferisce dalla grandezza e questa dalla miseria, ciò che i
primi hanno detto per dimostrare la grandezza agli altri è servito da argomento per
affermare la miseria.”
È pericoloso far vedere all’uomo, dice Pascal, troppo la sua miseria senza la
grandezza, o viceversa.

La filosofia fallisce anche in un altro settore fondamentale: quello dei principi


pratico-morali e politici. Infatti gli uomini, sulla base della sola ragione, non hanno
saputo mettersi d’accordo sulle regole del vivere e del comportamento, e non sono
riusciti a elaborare un’etica universale e immutabile.

“Nulla si vede di giusto o di ingiusto che non muti qualità con il mutar del clima. Tre
gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza… nel giro di pochi anni le leggi
fondamentali cambiano”

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Così, su tutto ciò che si riferisce al bene, regna da sempre la massima confusione. Per
gli uomini comuni il bene sta nelle ricchezze, nelle cose esterne e nel divertimento. I
filosofi, pur contestando in genere queste cose, differiscono fra loro nel dire cosa sia il
bene. L’uno dice virtù, l’altro piacere, l’uno ragione e l’altro natura, l’uno dice vita
attiva, l’altro contemplazione…
Non appena si riflette su una qualunque norma etica si profilano dubbi insolubili. I
cosiddetti principi universali del comportamento non sono altro che frutto di
convenzioni, abitudini, interesse. “Non essendosi potuta rendere forte la giustizia, si è
giustificata la forza”. Pascal svela il sottile inganno per cui nella mente dell’uomo ciò
che è storico diviene naturale, ciò che è relativo assoluto, ciò che è interesse diventa
giustizia.
Se per Montaigne e per i libertini il relativismo è arma filosofica che fa da solvente
verso credenze sociali e religiose, per Pascal è solo strumento che mostra come la
ragione, con le sue sole forze, non è in grado di dare solide norme di
comportamento. L’uomo, senza la luce della fede, è destinato a vagare
nell’incerto e ad approdare allo scetticismo.

7. LA "META - FILOSOFIA" DI PASCAL E LA RAGIONEVOLEZZA DEL CRISTIANESIMO

I limiti della filosofia nei confronti del divino, della condizione esistenziale dell’uomo
e dei principi pratici sono i limiti stessi della ragione e il segno della sua impotenza di
fronte ai massimi problemi. L’unica vera filosofia è una sorta di meta-filosofia
(l’espressione, però, non è di Pascal!), consapevole dei limiti della filosofia.
“beffarsi della filosofia è filosofare davvero”, “il supremo passo della
ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la
sorpassano”.
La meta-filosofia di Pascal, essendo la cerniera che unisce religione e ragione, risulta
al servizio della fede e ne costituisce un originale preambolo, in quanto mette
dialetticamente capo al cristianesimo, visto come messaggio sovra-razionale che
risolve quei nodi che la ragione da sola non scioglie. La filosofia, pur essendo di per
sé "inconcludente", funge però da stimolo a cercare altrove le risposte, e
precisamente in quella superiore forma di conoscenza che è la rivelazione
religiosa. Pascal ritiene che l’uomo sia un problema la cui soluzione si trova solo
in Dio e nella religione. Per lui solo il cristianesimo è la vera religione, poiché solo
esso fornisce una risposta al problema dell’uomo che si accorda con i dati di fondo
della nostra condizione. Solo il cristianesimo, parlando di una caduta, spiega la
specifica condizione esistenziale di quello “squilibrato” che è l’uomo. Che un
soggetto accolga in sé due opposti o è una tragica assurdità oppure è il segno che
l’uomo non è come dovrebbe essere e che ora è privo di qualcosa che un giorno
possedeva. È come un sovrano decaduto, che in esilio ricorda l’antico splendore.
Dopo Adamo l’uomo ha perduto il Bene, la Verità, la Felicità, ma ne sente la
mancanza e li brama.
L’uomo incorrotto godrebbe di felicità e verità: se non lo fosse mai stato non potrebbe
avere nessuna idea di queste cose. Sentiamo in noi un’immagine della verità, ma
possediamo solo la menzogna. “Chi si sente infelice di non essere re, se non
un re spodestato?”

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La religione cristiana getta luce sulla grandezza e sulla bassezza dell’uomo, spiegando
la sua perenne inquietudine, la sua infinita ricerca, la sua dimenticanza del fatto che
solo Dio può colmare il vuoto abissale che porta dentro di sé.
Ma se il cristianesimo possiede la chiave esplicativa del mistero dell’uomo
significa che esso, pur non essendo un corpo razionale, è tuttavia ragionevole,
conforme a ragione. Il cristianesimo chiarisce ciò che la ragione non chiarisce,
sollecitando, da parte dell’intelletto, un’autonoma sottomissione. Per Pascal la fede
non è un salto nell’irrazionale, secondo l’interpretazione cara ai romantici, ma è
un credere in qualcosa che è meta-razionale, che spiega ciò che la ragione non
spiega.

8. LA "SCOMMESSA" SU DIO

Per mostrare ulteriormente la ragionevolezza della fede, Pascal, rivolgendosi ai liberi


pensatori, elabora il celebre argomento della scommessa. L’uomo deve scegliere tra
il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se non ci fosse; non scegliere è già la
scelta negativa. Visto che la ragione non aiuta, si tratta di una sorta di scommessa: si
deve valutare la perdita e la posta in palio. Chi scommette su Dio, se guadagna,
guadagna tutto, se perde, non perde nulla… La vincita possibile è infinitamente
superiore alla posta.
Questa dottrina, per quella sorta di cinismo matematico e utilitaristico con cui è
espressa, non è piaciuta alla cultura e alla filosofia moderna. È invece piaciuta la tesi
generale per cui l’uomo è obbligato a scommettere su Dio.
Pascal riconosce però che non si può credere a comando: anche ammettendo le
considerazioni della ragionevolezza, ci si può comunque sentire incapaci di
credere. Egli dice che bisogna lavorare a convincersi diminuendo le passioni che
ostacolano la fede e non già aumentando le prove dell’esistenza di Dio. Bisogna
entrare nel meccanismo della fede: far tutto come se si credesse... Ciò farà tacere i
dubbi e indurrà la fede. La ragione non basta a condurre alla fede, conducendo al più
alle soglie di essa: tutto l’uomo, che non è solo ragione, deve impegnarsi per avere
fede.
Trovato Dio anche la morale diventa salda, poiché i suoi precetti vengono derivati
dall’amore di Dio e fondati su di esso.

9. DALLA RAGIONE ALLA FEDE: IL "CUORE" E DIO

Che il Cristianesimo sia conforme alla ragione non significa che esso: 1) sia
completamente riportabile alla ragione e giustificabile del tutto con essa; 2) si
fondi sulla ragione.
Per ciò che riguarda il peccato originale, Pascal dichiara le difficoltà e persino le
“offese alla ragione” che vi sono implicite. Una tale trasmissione del peccato dal
primo uomo a noi sembra non solo impossibile, ma anche ingiusta. Eppure senza
questo mistero noi siamo incomprensibili a noi stessi.
- Per Pascal fra ragione e fede non vi è solo passaggio ma anche rottura e salto, poiché
la logica della fede è meta-razionale. Se le cose di natura trascendono la ragione che
dire di quello sovrannaturali? In alcuni casi la fede è addirittura contro-razionale,
almeno dal punto di vista dei nostri miserabili lumi.

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Poiché la fede, nonostante la sua ragionevolezza di base, è fondamentalmente


extra-razionale, il suo organo autentico è il cuore. “Il cuore e non la ragione sente
Dio. Ecco cos’è la fede: Dio è sensibile al cuore, e non alla ragione”. Ora, sebbene il
cuore di Pascal non è puramente emotivo e sentimentale, è pur sempre diverso dalla
ragione e va oltre il suo orizzonte.
Per il secondo punto, non si può certo dire che per Pascal la fede sia fondata dalla
ragione. “La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del
ragionamento”. “La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un
dono di Dio”.

10. RICERCA UMANA E GRAZIA DIVINA: LA CONTRADDIZIONE DI FONDO DI PASCAL

Questa concezione fa sì che l’opera di Pascal risulti globalmente ambigua. Da un


lato egli sembra dare grande importanza alla persuasione razionale degli intelletti,
al punto da delineare un’apologia del Cristianesimo. Dall’altro lato, proclamando
che la fede è un dono di Dio e non una conquista dell’uomo e della mente, sembra
mettere in forse il valore stesso dell’impegno apologetico. Tutto ciò si connette, e in
fondo discende, dalla sua ambigua concezione della grazia. Pascal, sulla scia del
modello agostiniano, afferma che le azioni dell’uomo da un lato sono sue, in virtù del
libero arbitrio che le produce, ma dall’altro sono anche di Dio, che, in virtù della
grazia, fa sì che la nostra volontà le generi.
La posizione di Pascal sulla grazia rimane fondamentalmente giansenista, e quindi
oggettivamente più vicina alle tesi protestanti. Questo spiega perché egli, nonostante
sembri valorizzare la ricerca umana, di fatto la annulli, come dimostra
emblematicamente la dottrina del Deus absconditus (il Dio nascosto) secondo cui
Dio si manifesta e si nasconde al tempo stesso. “Quel che in esso [nel mondo]
appare non indica né un’esclusione totale né una presenza manifesta della divinità,
ma la presenza di un Dio che si nasconde”. “C’è abbastanza luce per coloro che
desiderano solo di vedere, e abbastanza oscurità per coloro che si trovano nella
disposizione opposta”.
Tuttavia Pascal lascia intendere che i segni chiaro-scuri attraverso i quali Dio si
manifesta, pur essendo davanti a tutti, acquistano la loro effettiva rilevanza solo per gli
animi che avendo già in sé la grazia sono predisposti ad accoglierli. Dio, con la grazia,
ci dà l’occhio per vedere e l’orecchio per udire, cioè la sensibilità per captare le sue
manifestazioni, scegliendo pochi eletti nella gran “massa dei dannati”.
Tutto questo pare abolire ogni iniziativa o libera intrapresa dall’uomo. Ma in tal modo
la stessa costruzione apologetico-filosofica di Pascal, volta a persuadere lo scettico
della ragionevolezza del Cristianesimo e a predisporlo ad essa, rischia di essere
svuotata di senso. Certo, una “ipotesi di salvataggio” potrebbe essere quella per cui
Dio potrebbe aver voluto che alcuni ottenessero la fede mediante prove e apologie.

11. PASCAL NELLA CULTURA MODERNA

L’influenza di Pascal nella cultura moderna, filosofica e letteraria, è stata


vastissima. I Pensieri sono divenuti, con il tempo, uno dei classici filosofici più
diffusi. Alcuni dei pensieri pascaliani più celebri sono divenuti quasi proverbiali e
alcune teorie, come quella della scommessa, sono entrate nel repertorio comune delle
persone colte.
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Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis troviamo, nell’epistola del 20 marzo, uno dei
passi più significativi dei Pensieri. Ancor più rilevante l’incidenza di Pascal sullo
Zibaldone del Leopardi, le cui riflessioni sul rincorrere una felicità mai posseduta
ricalcano, talora anche verbalmente, quelle dei Pensieri. Il modo pascaliano di
recuperare la grandezza dell’uomo nell’universo, anche dopo la rivoluzione
astronomica, esercita invece un influsso manifesto su Kant. Le parole stesse con cui il
filosofo tedesco riassumerà parte della sua intuizione del mondo “Due cose riempiono
l’animo di ammirazione e venerazione sempre crescente… il cielo stellato sopra di me
e la legge morale dentro di me” recano un eco visibile di Pascal.
Isolato e poco conosciuto al suo tempo, Pascal viene alla ribalta nel Settecento,
con l’Illuminismo. Se questo, per la sua tendenza razionalistica e ottimistica fu poco
incline a simpatizzare con Pascal e finì per usarlo, pur riconoscendone la grandezza,
come antitesi ideale o di modello filosofico-religioso da combattere, il Romanticismo,
invece, si sentì più vicino al “genio infelice” della filosofia aperta al sentimento e ben
conscio delle lacerazioni del vivere e del bisogno umano dell’infinito.

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