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I diritti fondamentali

Panoramica sui diritti fondamentali - la lezione tenuta il 12 e 13 marzo per gli studenti presenti e per coloro che pur assenti intenderanno conoscerne i contenuti.

Università degli studi di Bari – Facoltà di Economia e Commercio Cattedra di diritto pubblico dell’economia/diritto amministrativo Prof. Luca R. Perfetti Lezioni del 12 – 13 marzo Avv. Vincenzo Renna. Come preannunciato riporto su academia.edu l’oggetto della lezione di giovedi e venerdi uu.ss. *** *** *** Tocca a me il compito arduo, specie perché successivo alle lezioni di un grande Maestro contemporaneo del diritto, come Luca Perfetti, di avviare con voi una conversazione sul tema dei principi costituzionali. Parlare di principi è di per sé complicato e diciamo da subito che coinvolge nella riflessione argomentazioni di natura filosofica giacché è evidente come sul tema che ci occupa, ne abbiano discusso i filosofi sin dai tempi dei grandi classici Platone Aristotele, Socrate, fino ad arrivare ai tempi moderni a Kant ed Hegel. Il dovermi riferire ai principi costituzionali mi aiuta ad evitare di approfondire una tematica sin troppo vasta, però prima di concentrarmi sulla Costituzione e sul diritto pubblico contemporaneo, mi sia consentito una piccola digressione. Pensiamo ad un principio di tipo generale, quale può essere quello relativo alla giustizia, credo che a molti di noi verrebbe subito in mente la massima “a ciascuno il suo”, che altro non è se non la riformulazione del principio di giustizia distributiva di derivazione aristotelica. Chiunque di noi si riconosce in questa massima; ma, purtroppo, a voler guardare bene la stessa appare, come un principio formale, di per sé, privo di contenuto, influenzabile soggettivamente, insomma una scatola vuota, come tutte le scatole vuote si presta ad essere riempita a proprio piacimento. Per questo, è quasi impossibile non essere d’accordo con questa formula, che contiene un precetto per cui ciascuno di noi a prescindere dal contenuto del proprio agire potrebbe dimostrare di aver rispettato. Facendo degli esempi di applicazione della massima, prima citata, possiamo pensare a: “San Martino che incontrando un povero ignudo scese dal cavallo e divise in due il proprio mantello, appunto a ciascuno il suo,; Dante nella divina commedia all’ingresso dell’inferno sentenzia “perdete ogni speranza voi che entrate……” Oppure la stessa massima “a ciascuno il suo” è stata scritta in giudaico nel campo di concentramento nazista di Buchenwald “quale messaggio di benvenuto agli ospiti ebrei”. Come tutte le formule assolute “a ciascuno il suo” appare vuota di significato, quello che non è detto è che cosa sia il suo, cioè quel che ognuno si merita, Chi determinerà l’indeterminato? E come si determinerà? l’assoluto è di per sé vuoto invece è vero l’esatto contrario ciò che è pieno è relativo per cui si presta ad interpretazioni soggettive diverse. Torniamo al punto di partenza ossia al diritto inteso, non già, come concetto assoluto, ma relativo e, quindi, per antonomasia, suscettibile di essere interpretato. Giusto per sollecitare, ancora per un attimo, la vostra attenzione sul tema del relativismo ermeneutico sui principi, che di per sé si prestano o meglio che sembrano apparentemente prestarsi a considerazioni assolutistiche, pensiamo: al “Crucifige”, ossia al grido della folla del sinedrio, che democraticamente ed irreversibilmente portò alla morte Gesù Cristo, di fatto una persona colpevole di nulla, al più di aver recato del bene con innumerevoli azioni filantropiche. Vediamo come la letteratura è piena di esempi eclatanti di giustizia assoluta e quindi (sommaria) di ingiustizia, come nel caso della dicotomia: Sacerdoti del Sinedrio – ed autorità romana impersonata da Pilato, che lavandosene le mani rinuncia all’esercizio unilaterale della propria autorità, pur consentito dalle leggi romane di allora, per accomodarsi nell’esercizio democratico dell’ingiustizia del Crucifige, sentenza di condanna emanata da una folla condizionata e suggestionata dalla volontà dei sacerdoti del Sinedrio mossi da finalità di mero potere e non certo di giustizia Torniamo al tema che ci occupa ed in astratto possiamo dire che i principi si pongono nel mezzo tra valori e regole, non esiste, infatti, regola che non risponde ad un principio e non c’è principio che non rimandi ad un valore, la regola che impone il lato destro (o eventualmente, il sinistro come in UK) nella circolazione dei veicoli, presuppone il principio della necessaria disciplina uniforme del traffico a protezione dell’incolumità della salute e/o vita delle persone come valore ed ancora la regola che vieta la tortura presuppone il principio dell’intangibilità della dignità della persona e quest’ultimo rinvia alla persona umana come valore. Possiamo ben dire quindi che, se questa catena di implicazioni da cui la regola dipende, si interrompe, a causa di una rottura derivata da una violazione della stessa, la regola si troverebbe spoglia di qualsiasi significato, priva della benché minima giustificazione (irragionevole, arbitraria, manifestamente ingiusta) e conseguentemente verrebbe rimossa dall’ordinamento attraverso i mezzi di tutela dallo stesso previsto, il principale dei quali è il controllo di costituzionalità delle leggi. Ecco perché normalmente i principi sono contenuti in norme costituzionali e le regole in norme legislative. Possiamo pervenire, pertanto, ad una prima conclusione che, il nesso di congruenza tra valori, principi e regole è di per sé costitutivo del diritto; un assioma che in quanto tale precede il diritto costituzionale positivo; è qualcosa che viene prima dello stesso potere di fare una costituzione. Ricordate quanto detto dal Prof. Perfetti nella prima lezione a proposito dell’art. 2 della Costituzione e dell’importanza fondamentale del verbo riconoscere, che attesta la preesistenza di determinati diritti alla stessa carta costituzionale? I principi rappresentano un link tra diritto e cultura e data la loro flessibile capacità di interagire tra loro adempiono a quella funzione d’integrazione sociale che le regole, data la loro logica di reciproca esclusione non possiedono. Essi sono la forma giuridica dello stato costituzionale e quest’ultimo non può fare a meno dei principi. Saranno sempre i principi e non le regole ad essere messi sui piatti della bilancia. 2 La costituzione si è prestata e si presta ad una miriade di definizioni, ma il carattere insieme di garanzia e di rigidità della stessa può essere racchiuso nella definizione secondo la quale: “la costituzione è ciò che un popolo si dà nel momento in cui è sobrio a valere per il tempo in cui sarà ebbro” definizione del grande giudice della corte costituzionale Gustavo Zagrelbesky. La costituzione rischia di apparire un pezzo di carta, magari più difficile di cestinare rispetto ad altri se non si incarna “nel dna”, nella storia viva di un popolo, nella storia di una comunità e non diventa parte costitutiva della sua cultura. Mi sembra interessante, a tal uopo, richiamare la vostra attenzione su un recente scritto del Professore Perfetti che potrete leggere interamente su www.academia.edu I DIRITTI SOCIALI COME DIRITTI FONDAMENTALI e che di seguito ad una attenta disamina delle varie teorie, che si sono succedute e contrapposte sul tema perviene alla conclusione di ritenere i diritti sociali nell’area dei diritti fondamentali della persona, in ragione della pertinenza ad essa della sovranità, assicurando protezione attraverso il sistema delle garanzie secondarie ed in particolare della generale azionabilità delle pretese sostanziali assicurata dall’art. 24 della costituzione. Buona parte della dottrina ritiene che i diritti sociali sarebbero relativi a pretese di prestazione nei confronti dello Stato e quindi la loro struttura viene modellata sulla categoria dei diritti di prestazione e quindi di diritti finanziariamente condizionati (ossia collegati ad una scelta dell’autorità in ordine all’investimento di risorse etc…) che vale a sottrarre loro i caratteri del diritto soggettivo ed in particolare i poteri nei confronti dei terzi e l’azionabilità in giudizio sconfinando quindi in una dimensione prettamente politica di attuazione del precetto , di relazione tra effettività e validità. Il prof. Perfetti perviene alla conclusione prima citata di considerare i diritti sociali come diritti fondamentali in quanto estrinsecazione diretta del principio di sovranità che non compete esclusivamente allo Stato ma al popolo (art. 1 costituzione). Per cui i diritti sociali sono porzioni della sovranità delle persone, che non si distribuiscono lungo la linea dell’esercizio nelle forme e nei limiti della Costituzione, ma che si trattengono nella sovranità individuale, come tipico dei diritti fondamentali – art. 2 cost, che sono riconosciuti e non accordati dall’ordinamento nel momento in cui esso si costituisce. In base a ciò non c’è ragione per sostenere che: i diritti sociali siano posizioni condizionate che si sostanziano in una attesa di prestazione da parte di soggetti pubblici; essi sono invece, per struttura analoghi alle libertà direttamente azionabili in giudizio come i diritti soggettivi. -------------------------------------Veniamo quindi alle definizioni e contenuti sui principi che troverete nei testi suggeriti per lo studio della materia, ho ritenuto estrapolare le parti più importanti onde facilitare lo studio e la comprensione. In particolare: leggerete in ordine ai principi costituzionali e principi legislativi. nonché ai principi del diritto comunitario ed internazionale i quali stanno acquisendo un sempre maggiore rilievo e, specialmente alcuni di essi (come quelli in tema di completezza 3 dell’istruttoria, di motivazione, ecc.), in virtù del loro attuale riconoscimento a livello planetario, sono stati definiti “principi del diritto pubblico globale”. I principi assolvono essenzialmente a quattro funzioni: a) servono quale parametro di legalità o legittimità della fonte subordinata o degli atti amministrativi, essendone stata sovente riconosciuta dalla giurisprudenza l’immediata precettività (ad esempio, con riferimento ai principi enunciati dall’art. 97 Cost., vedi Cons. Stato, sez. V, 1° aprile 2009, n. 2070); b) guidano l’interprete nell’esegesi delle norme e rilevano, tra l’altro, anche per la valutazione ex ante della sussistenza dei presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale o di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia; c) secondano l’evoluzione giuridica prestando materia e supporto ermeneutico alle c.d. “interpretazioni adeguatrici” delle norme di rango primario, “orientandole” in senso conforme a Costituzione o al diritto eurounitario; c) concorrono, con finalità integrativa, a colmare la lacune dell’ordinamento (mediante l’analogia iuris dell’art. 12 disp. prel. c.c.). Principi costituzionali Si richiama la lettura dell’art. 97 della costituzione il cui disposto merita di essere riportato per esteso (nella versione vigente a decorrere dal 1° gennaio 2014, mercé le modifiche ad esso apportate dalla l. cost. n. 1/2012): “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.”. Da questa norma discendono i tre macroprincipi della legalità, del buon andamento e della imparzialità delle pubbliche amministrazioni. Principio di legalità Il principio di legalità, coessenziale allo Stato di diritto, si compendia nell’affermazione del primato della legge, manifestazione della sovranità popolare, rispetto all’amministrazione. Il principio ha indubbiamente una valenza garantista, configurandosi come un vincolo per la discrezionalità amministrativa, la quale non potrà mai estrinsecarsi in atti o attività che si discostino dai limiti e dai fini ricavabili dal paradigma normativo. E’ importante ricordare la sentenza n. n. 115/2011 della Corte costituzionale con la quale si è affermato solennemente che l'art. 97 Cost. impone che la legge fissi all’amministrazione dei limiti, che non siano genericamente finalistici, posto che l'imparzialità dell'agire amministrativo deve trovare, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge in modo che quest’ultima riesca ad offrire una copertura, ancorché elastica, a ogni potere amministrativo quanto a finalità, contenuto e modalità di esercizio; diversamente ne risulterebbe leso il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, a 4 causa di un comune parametro legislativo che consenta di valutare la ragionevolezza dell’esercizio di ogni forma di discrezionalità amministrativa. In forza del processo di asintotica convergenza tra il diritto dell’Unione europea e gli ordinamenti dei singoli Stati membri e considerato il progressivo intrecciarsi di relazioni tra l’ordinamento nazionale e quello internazionale, il concetto di conformità alla legge include ormai, nel suo alveo semantico e precettivo, anche il rispetto delle norme e dei principi del diritto sovranazionale e di quello internazionale. Non va poi dimenticato quanto sopra accennato circa il fatto che il principio di legalità, al pari degli altri menzionati dall’art. 97 Cost., si riferisce sia all’attività sia all’organizzazione amministrativa: in relazione a quest’ultima, la legalità impone, non soltanto che le strutture essenziali di un qualunque modello organizzativo pubblico siano determinate dalla legge (prospettiva statica), con indicazione delle rispettive competenze, ma anche, in chiave dinamica, che il concreto disegno organizzativo di ogni amministrazione sia funzionalmente il più adatto a conseguire i fini istituzionali delle singole amministrazioni (la c.d. mission), siccome di volta in volta individuati dalla legge. Diretti corollari del canone di legalità sono i principi di nominatività e di tipicità dei provvedimenti amministrativi autoritativi. Il principio di buon andamento Nel suo significato basilare l’idea di “buon andamento” esprime il dovere di ogni amministrazione di curare e gestire l’interesse pubblico, di volta in volta indicato dalla legge, nel miglior modo possibile. Sennonché il canone di buon andamento, più degli altri principi costituzionali, si connota per l’esistenza di una moltitudine di corollari in cui esso è declinabile. Il “buon andamento” implica che l’azione amministrativa debba essere efficiente, efficace, economica (sono questi i principi delle tre “e” di matrice aziendalistica), trasparente, proporzionata (nel senso che i mezzi impiegati devono essere idonei e non eccedere quanto necessario al raggiungimento dello scopo prefissato o, in altri termini, che l’amministrazione deve adottare tutte, ma solo, le misure più adeguate al fine della corretta ed effettiva realizzazione dell’interesse pubblico, curando altresì che il sacrificio eventualmente imposto al privato non superi quanto sia strettamente necessario per conseguire il fine avuto di mira dall’amministrazione; in ambito sovranazionale, vedi C.G.U.E. 12 novembre 1996, in c. C84/94, Regno Unito c. Consiglio), non aggravata da adempimenti non indispensabili, orientata al raggiungimento di un risultato utile ed effettivo. Soprattutto, in quest’ultima accezione, il principio del buon andamento è stato potenziato dai più recenti interventi legislativi e la sua valorizzazione ha costituito l’essenziale strumento di contrasto della crisi dell’amministrazione, una delle cui cause va individuata nell’autoreferenzialità formalistica delle burocrazie, del loro essere cioè attente più ad un output valutato in termini di atti adottati (“amministrazione per atti”) che al raggiungimento degli obiettivi (“amministrazione per risultati”). All’insegna del principio di buon andamento è stato modificato, a partire dalla prima metà degli anni ’90 del secolo scorso, il regime dei controlli amministrativi. In particolare, in ragione del maggior rilievo attribuito all’efficienza amministrativa piuttosto che al rispetto della legalità astratta, il sistema dei controlli ha registrato la riduzione di quelli preventivi di legittimità e, parallelamente, il potenziamento di quelli volti alla verifica dei risultati della gestione pubblica, con l’introduzione al contempo di meccanismi, sempre più sofisticati, di misura dell’attività 5 delle pubbliche amministrazioni. Dei controlli sono state così sviluppate le valenze collaborative e correttive in luogo di quelle, tradizionali, di tipo interdittivo. Mirano alla concorrente attuazione del principio di legalità e di quello di buon andamento le discipline sul termine di conclusione dei procedimenti (vedi gli artt. 2 e 2-bis della l. n. 241/ 1990), la cui finalità è di accelerare l’azione amministrativa, analogamente alle normative sull’implementazione della telematica nell’attività e nell’organizzazione amministrativa, sulla pubblicità e la trasparenza e sulla semplificazione procedimentale. Un principio-corollario del buon andamento è quello di continuità dell’azione amministrativa che allude alla necessità che le funzioni amministrative, per loro natura tendenzialmente inesauribili, fluiscano senza stasi e regolarmente (si parla, nel gergo curiale, anche di “correntezza”) verso il raggiungimento degli obiettivi per esse prestabiliti dall’ordinamento. Sul versante dell’attività il principio richiama, ovviamente, l’esigenza del rispetto dei termini prescritti per l’avvio e la conclusione del procedimento; molte sono le ricadute del principio anche sul piano organizzativo, potendosi ricondurre ad esso i vari istituti volti ad assicurare la continuità delle funzioni amministrative nei casi in cui venga meno la regolare costituzione dell’organo (si pensi alle regole sulle supplenze, sulle reggenze vicarie, ai poteri sostitutivi e, ancora, alla c.d. “prorogatio”, ora disciplinata in via generale, onde contenerne i pregressi abusi, dal D.L. n. 293/1994, convertito in L. n. 444/1994). Riporta direttamente al buon andamento anche il divieto (art. 1, comma 2, della l. n. 241/1990) di aggravare inutilmente il procedimento. Ha costituito specifica attuazione del principio del buon andamento la riforma, in parte rimasta lettera morta, della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazione, operata con la L. n. 15/2009 (c.d. “Legge Brunetta”) e il D.Lgs. n. 150/2009, ispirata alla finalità di introdurre principi, criteri, norme e strumenti di pianificazione e programmazione, volti ad ottimizzare la produttività del lavoro attraverso il ricorso a innovativi sistemi di valutazione degli uffici e delle persone (il c.d. “ciclo della performance”), l’uso di meccanismi premianti e incentivanti del “merito”, l’innalzamento del livello complessivo di trasparenza della macchina burocratica, insieme a rafforzate misure disciplinari Il principio di imparzialità e la neutralità. Sul versante dell’attività amministrativa il principio di imparzialità impone, in linea generale, che ogni amministrazione persegua i fini istituzionali ad essa assegnati dalla legge, senza operare discriminazioni tra i soggetti e tra gli interessi coinvolti nella sua azione. Tale principio, pertanto, costituisce una specifica declinazione del canone fondamentale di uguaglianza (art. 3 Cost.) e implica che l’amministrazione, nel provvedere, non dia luogo a disparità di trattamento in presenza di situazioni uguali oppure, specularmente, che non tratti in maniera identica situazioni obiettivamente differenti. L’imparzialità va garantita a partire dalla determinazione delle regole alle quali l’amministrazione deve autovincolare il futuro esercizio della sua discrezionalità, necessità dalla quale discende, tra l’altro, l’obbligo, positivamente stabilito (vedi l’art. 12 della l. n. 241/1990), di fissare ex ante i criteri per l’attribuzione di ogni sorta di utilità da essa dispensata, nonché di attenersi, nello svolgimento dei relativi procedimenti, a detti criteri (in tal senso, si richiama la nutritissima giurisprudenza amministrativa, in materia di concorsi pubblici o di procedure di affidamento di contratti, che impone alle stazioni appaltanti di rispettare gli atti indittivi – bando di gara o lettera di invio – alla stregua di una lex specialis, 6 la cui stretta osservanza è reputata condizione indispensabile della garanzia di pari trattamento, o par condicio, tra i concorrenti; ex multis, Cons. Stato, sez. V, 28 aprile 2014, n. 2201, secondo cui le regole di gara prevalgono, diversamente da quel che si ritiene in via generale per tutti gli altri procedimenti, anche sull’eventuale ius superveniens). Sul versante organizzativo il principio comporta che, allo scopo di assicurare e di migliorare l’efficienza e l’efficacia amministrativa, i pubblici impiegati operino nell’esclusivo interesse della Nazione (art. 98, primo comma, Cost.) e che essi siano selezionati in base al merito e alle capacità professionali dimostrate (e, quindi, anche il principio di concorsualità si presenta come un corollario dell’imparzialità; art. 97, terzo comma, Cost.) e non in virtù di differenti criteri, come quelli di natura politica. In questa prospettiva, pertanto, la lettura applicativa dell’art. 97 Cost., da un lato, giustifica la separazione delle funzioni di indirizzo-politico e di controllo da quelle di gestione e, dall’altro lato, impone il coordinamento con i principi di parità di accesso agli uffici pubblici di cui all’art. 51, primo comma, Cost. Ancora, sul versante organizzativo, il principio di imparzialità esige che il pubblico funzionario non adotti alcun atto in relazione a fattispecie rispetto alle quali, per vari motivi, possa risultare portatore di un interesse proprio: per tale ragione, di recente, è stato recepito in via legislativa mercé l’art. 6-bis della l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 41 della l. n. 190/2012, il principio - da sempre enunciato dalla giurisprudenza - secondo cui il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici, competenti ad adottare pareri, valutazioni tecniche, atti endoprocedimentali o il provvedimento finale, devono astenersi quando si trovino in posizione di incompatibilità, segnalando ogni situazione di conflitto, anche solo potenziale. Costituisce una specifica declinazione dell’imparzialità anche la regola della composizione prevalentemente tecnica delle commissioni di concorso. Direttamente riconducibili al canone fondamentale di imparzialità dell’amministrazione, e rilevanti sia sul piano organizzativo sia su quello proprio dell’attività, sono anche i principi di pubblicità e di trasparenza, nonché tutte le discipline volte a prevedere incompatibilità rispetto ad alcuni incarichi pubblici o comunque dirette a scongiurare potenziali conflitti di interesse (tra le quali va ricordato, per ampiezza ed incisività, il recente d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39 recante disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, in attuazione della delega contenuta nella l. 6 novembre 2012, n. 190). L’imparzialità ha difatti assunto anche una peculiare connotazione, e anzi quasi un valore giuridico autonomo, nei termini di neutralità dell’azione amministrativa, concetto comunque riconducibile all’art. 97 Cost. Le Autorità indipendenti non sono infatti portatrici di uno specifico interesse pubblico istituzionale, in quanto la loro azione amministrativa non è equiparabile a quella posta in essere dalle amministrazioni tradizionali: invero esse non sono “attori” – come gli altri soggetti, inclusi quelli pubblici, operanti nei vari campi disciplinati dal diritto amministrativo - ma si atteggiano piuttosto a “gestori indipendenti” di singoli settori economici, all’uopo investiti di varie funzioni e poteri (di regulation, di adjudication o di enforcement), al fine di garantire e promuovere l’attuazione di valori costituzionali, rimanendo tuttavia sempre in condizione di terzietà rispetto all’azione degli operatori appartenenti ai settori dalle stesse presidiati e pure riguardo agli eventuali conflitti insorgenti tra detti operatori o tra questi e le altre amministrazioni (non indipendenti); le Autorità indipendenti sono dunque i “garanti delle regole” fissate dall’ordinamento generale. I principi di equilibrio dei bilanci e di sostenibilità del debito pubblico 7 A norma dell'art. 2 della l. cost. 20 aprile 2012, n. 1 è stato inserito, nell’art. 97 Cost., un nuovo primo comma, applicabile a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014, secondo cui: “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.”. La norma si coordina con il nuovo testo dell’art. 81 Cost., novellato dalla medesima legge costituzionale, con la quale la Repubblica italiana ha inteso dare attuazione al Trattato «sulla stabilità, sul coordinamento e sul sistema di governo (governance) della Unione Economica e Monetaria», noto anche come «Fiscal compact», o “Patto di bilancio”, firmato il 2 marzo 2012 dagli Stati membri dell'Unione Europea, fatta eccezione per il Regno Unito e la Repubblica Ceca, ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013. L'art. 3, paragrafo 2, del Fiscal compact dispone infatti che le regole in esso contenute (sul pareggio o avanzo di bilancio) producano effetti nei diritti interni degli Stati membri, tramite disposizioni di carattere «preferibilmente» costituzionale. Il significato precettivo del nuovo primo comma dell’art. 97 Cost. è che ogni singola amministrazione deve gestire la propria attività economico-finanziaria in modo da non pregiudicare né rendere più difficile il raggiungimento e il mantenimento dell'equilibrio dei conti pubblici e della sostenibilità del debito pubblico o, in altri termini, tutte le amministrazioni pubbliche devono concorrere al perseguimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio. A tal fine e, più in dettaglio, ogni amministrazione dovrebbe procurare che i propri conti siano in pareggio o, quantomeno, che siano tendenzialmente tali, ossia che l’eventuale indebitamento rispetti, quale obiettivo di medio termine, la condizione della sostanziale equivalenza finale tra le entrate e le spese (c.d. “saldo strutturale”). La violazione di tali regole dovrebbe quindi determinare l’illegittimità degli atti amministrativi con esse in contrasto. L’interpretazione applicativa del nuovo primo comma dell’art. 97 Cost. va innanzitutto ricercata nella l. 24 dicembre 2012, n. 243, legge rinforzata con la quale si è data attuazione alla novella dell’art. 81 Cost. Negli artt. 3 e 4 di tale legge sono stati, rispettivamente, precisati i concetti di “equilibrio dei bilanci” e di “sostenibilità del debito” delle amministrazioni pubbliche. In materia la Corte costituzionale (sentenza n. 88/2014) ha già avuto occasione di chiarire che i vincoli imposti alla finanza pubblica, se hanno come primo destinatario lo Stato, coinvolgono necessariamente tutti i soggetti istituzionali che concorrono alla formazione di quel “bilancio consolidato delle pubbliche amministrazioni”, in relazione al quale va verificato il rispetto degli impegni assunti dalla Repubblica italiana in sede europea e sovranazionale. La riforma poggia dunque anche sugli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., oltre che – e soprattutto − sui princìpi fondamentali di unitarietà della Repubblica (art. 5 Cost.) e di unità economica e giuridica dell’ordinamento (art. 120, secondo comma, Cost.), unità che già nel precedente quadro costituzionale era sottesa alla disciplina della finanza pubblica e che nel nuovo ha accresciuto la sua pregnanza. Il principio di responsabilità dell’amministrazione Si ricava dall’art. 28 Cost., secondo il quale, accanto alla responsabilità personale dei funzionari persone fisiche, sussiste anche una responsabilità solidale dello Stato e delle amministrazioni pubbliche in genere: ciò allo scopo di rafforzare la garanzia dei cittadini interessati a ricevere un ristoro, in caso di lesioni delle loro situazioni giuridiche soggettive, ascrivibili a condotte colpose o dolose delle amministrazioni. Di tale canone costituzionale è un precipitato la 8 responsabilità civile per violazione di interessi legittimi e anche il principio dell’indennizzabilità dei meri ritardi delle pubbliche amministrazioni nella conclusione dei procedimenti, di recente implementato nell’ordinamento con il comma 1-bis dell’art. 2-bis della l. n. 241/1990, aggiunto dall'art. 28, comma 9, del d.l. n. 69/2013. Il principio della responsabilità della pubblica amministrazione per la lesione di interessi legittimi si è affermato definitivamente nel corso degli anni ’90 del secolo scorso, in forza della valorizzazione esegetica di alcune innovative disposizioni normative (quali l’art. 13 della L. n. 142/1992 e l’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998) e, soprattutto, in virtù del radicale ribaltamento del paradigma dell’irresponsabilità delle amministrazioni per i pregiudizi causati dall’esercizio di pubblici poteri, operato dalla rivoluzionaria sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 500/1999. Il diritto umano a una “buona amministrazione”. Si è accennato alla circostanza che l’art. 41 della Carta di Nizza, nel testo adattato il 12 dicembre 2007 a Strasburgo (versione alla quale l’attuale art. 6 TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei trattati), prevede il diritto a una buona amministrazione; in dettaglio, tale articolo dispone: “1. Ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell'Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: - il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti sia adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio, - il diritto di ogni persona di accedere al fascicolo che la riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale; - l'obbligo per l'amministrazione di motivare le proprie decisioni. 3. Ogni persona ha diritto al risarcimento da parte della Comunità dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri. 4. Ogni persona può rivolgersi alle istituzioni dell'Unione in una delle lingue del trattato e deve ricevere una risposta nella stessa lingua”. Principi legislativi la Legge n. 241/1990 La L. 7 agosto 1990, n. 241, che è la legge fondamentale sul procedimento e sull’attività amministrativa. Centrale in questa prospettiva è l’art. 1 della legge, per l’appunto rubricato “Principi generali dell’attività amministrativa”, secondo il quale: “L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princìpi dell'ordinamento comunitario.”. Numerosi altri principi del diritto amministrativo possono trarsi dalle altre disposizioni della l. n. 241/1990. • la preferenza per il diritto privato nell’adozione di atti di natura non autoritativa (art. 1, comma 1-bis) - al quale si è già accennato – fermo restando il dovere di ogni 9 amministrazione di conseguire comunque l’interesse pubblico a prescindere dallo strumentario giuridico in concreto utilizzato; • l’obbligo del rispetto dei principi dell’azione amministrativa anche da parte dei soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative (art. 1, comma 1-ter); • il non aggravamento del procedimento (art. 1, comma 2); • l’obbligo di concludere ogni procedimento con un provvedimento espresso entro un termine predeterminato dalla legge o dai regolamenti (art. 2), anche a fronte di istanze manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate, così come attualmente stabilisce il comma 1, secondo periodo, dell’art. 2, come modificato dall’art. 1, comma 38, della L. n. 190/2012; • la risarcibilità del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 2-bis; a tal riguardo va segnalato che la giurisprudenza amministrativa ha anche riconosciuto la risarcibilità del ritardo in sé, a prescindere cioè dalla sussistenza di un'effettiva lesione di un interesse legittimo: vedi C.g.a.r.s., sez. giurisd., n. 1368/2014); • l’indennizzabilità del mero ritardo in caso di inosservanza del termine di conclusione di un procedimento avviato ad istanza di parte, secondo quanto disposto dal comma 1-bis dell’art. 2-bis, aggiunto dall'art. 28, comma 9, del D.L. n. 69/2013 (sebbene possa invero dubitarsi della stabilità di detto principio in quanto il comma 10 del citato art. 28 del D.L. n. 69/2013 ha disposto che la previsione sull’indennizzabilità si applichi in via sperimentale e dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, ai soli procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa, iniziati successivamente alla medesima data); • l’obbligo di motivazione, anche solo per relationem, di ogni provvedimento amministrativo, fatti salvi gli atti normativi e quelli aventi carattere generale, con l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che abbiano determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (art. 3); • il doveroso uso della telematica nei rapporti interni tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati (art. 3-bis); • l’obbligo di individuare nominativamente un responsabile per ogni procedimento, onde contrastare la spersonalizzazione del rapporto tra cittadino e amministrazione e la conseguente deresponsabilizzazione dei pubblici funzionari (art. 6). Tra i principi e gli istituti attinenti alla partecipazione procedimentale vanno ricordati: • l’obbligo di una preventiva comunicazione personale, fatti salvi i casi di particolari esigenze di celerità, dell’avvio del procedimento a tutti gli interessati, nella quale siano indicati: l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, l’ufficio e la persona responsabile, la data di conclusione del procedimento e i rimedi eventualmente esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione (artt. 7 e 8); • il riconoscimento di diritti dei partecipanti al procedimento e, segnatamente, del diritto di prendere visione degli atti e di presentare memorie scritte e documenti, con il corrispondente obbligo di valutazione gravante sull’amministrazione procedente (ove le memorie siano pertinenti; art. 10); • l’istituto della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di un’istanza, nei procedimenti a iniziativa di parte (art. 10-bis); • il riconoscimento della potestà delle amministrazioni pubbliche di concludere motivati accordi con gli interessati, al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale o in sostituzione di quest’ultimo (accordi integrativi e sostitutivi del 10 provvedimento; art. 11), da stipulare per iscritto a pena di nullità e assoggettati ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili; • la regola secondo cui ogni provvedimento attributivo di un vantaggio economico debba essere preceduto dalla predeterminazione da parte delle amministrazioni, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità alle quali le amministrazioni stesse intendano attenersi (art. 12). Tra i principi e gli istituti relativi alla semplificazione procedimentale meritano menzione: • la regola della generale applicazione dell’istituto della conferenza dei servizi nelle sue varie tipologie disciplinate dalla legge (conferenza istruttoria, decisoria, telematica, preliminare, ecc.; artt. 14 e ss.) quale modulo di raccordo di procedimenti interferenti in relazione a una medesima fattispecie, ma di competenza di differenti amministrazioni, così da pervenire a un’unica determinazione pluristrutturata finale; • la previsione, all’insegna del principio di consensualità, della possibilità per le amministrazioni di concludere accordi anche tra loro (oltre che con i privati), per disciplinare lo svolgimento, in collaborazione, di attività di interesse comune (art. 15); • la qualificazione come facoltativi di tutti i pareri endoprocedimentali, fatto salvo il dovere di richiedere quelli previsti in via obbligatoria (da rendere comunque entro un certo termine; art. 16) e con l’eccezione di quelli che debbano essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini; • la possibilità di devolvere ad altre amministrazioni, provviste di adeguata qualificazione tecnica, le valutazioni, da acquisire in via obbligatoria preventiva, ma eventualmente non rese dagli organi competenti (art. 17); • la generale applicazione degli istituti di autocertificazione e la regola dell’obbligatoria acquisizione d’ufficio, da parte delle autorità procedenti, di tutti documenti comunque in possesso dell’apparato pubblico (art. 18); • la generale applicazione, in disparte le ipotesi di espressa esclusione, dell’istituto della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) in tutti i casi in cui l’amministrazione debba emanare un atto di assenso, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e di presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale (art. 19), con facoltà per il soggetto interessato di iniziare l’attività oggetto della segnalazione a decorrere dalla data di presentazione di quest’ultima all’amministrazione competente e fatti salvi i poteri di interdizione della stessa amministrazione (qualora tempestivamente esercitati) e quelli di autotutela; • la generale applicazione, ad esclusione dei procedimenti definibili con la SCIA e di quelli espressamente esclusi in cui siano coinvolti interessi sensibili, della regola del silenzio con valore di provvedimento di accoglimento della domanda ogni qualvolta l’amministrazione non provveda, entro il termine stabilito, al rilascio di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell’interessato (art. 20). Si rinvengono altresì nella l. n. 241/1990 i principi generali in materia di accesso ai documenti amministrativi, disciplina la cui trama generale poggia sul riconoscimento in capo agli interessati all’ostensione (compresi i portatori di interessi pubblici o diffusi) del diritto di prendere visione e di estrarre copia, su richiesta motivata, di tutti documenti detenuti stabilmente dalle amministrazioni, dalle aziende autonome speciali, dagli enti pubblici e dai gestori di pubblici servizi (artt. 23 e ss.). A seguito degli interventi modificativi del 2005, la l. n. 241/1990 reca anche i principi in tema di efficacia e invalidità del provvedimento amministrativo e pure in materia di autotutela (revoca e annullamento d’ufficio), divenendo così la legge generale sul procedimento e sul 11 provvedimento amministrativo. Dalle disposizioni del Capo IV-bis della legge sono desumibili i seguenti principi: • la regola della natura recettizia di tutti i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati, giacché in grado di acquisire efficacia nei confronti di ciascun destinatario soltanto con la loro comunicazione nelle forme stabilite (art. 21-bis); • la limitazione della esecutorietà dei provvedimenti recanti obblighi per i destinatari ai soli casi previsti dalla legge e secondo le modalità ivi stabilite (si tratta di una specifica declinazione del principio di legalità; art. 21-ter); • l’immediata eseguibilità dei provvedimenti amministrativi, fatte salve le ipotesi di sospensione dell’efficacia di essi per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario (art. 21-quater); • la generale revocabilità in autotutela dei provvedimenti amministrativi, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico o per mutamento della situazione di fatto, e comunque a condizione che siano indennizzati i soggetti pregiudicati dalla revoca stessa (se la revoca fosse illegittima, l’interessato avrebbe diritto al risarcimento del danno; art. 21-quinquies); • l’innovativo istituto della nullità del provvedimento amministrativo che manchi degli elementi essenziali o che sia viziato da difetto assoluto di attribuzione oppure che sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies); • la generale annullabilità del provvedimento amministrativo emanato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole (artt. 21-octies); • l’eccezione al predetto principio di generale annullabilità degli atti viziati, secondo cui non è annullabile il provvedimento, pur adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti (e anche nel caso di omessa comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento), per il quale sia nondimeno palese (oppure l’amministrazione dimostri) l’assenza di un atto alternativo legittimo, ovvero quando risulti che il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo differente da quello in concreto adottato (artt. 21-octies e 21-nonies). È quest’ultimo un principio attraverso la cui introduzione il Legislatore ha inteso dequotare i vizi di carattere meramente formale, riducendoli a illegittimità non invalidanti e, quindi, non comportanti annullabilità di sorta; • la convalidabilità del provvedimento annullabile, per ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole (art. 21-nonies). Il principio del giusto procedimento Di matrice anglosassone (due process of law), ma di origine antichissima e comune alla gran parte degli attuali ordinamenti occidentali (audiatur et altera pars), il principio del giusto procedimento - evolutosi da quello del contraddittorio e oggi solidamente innestato nell’art. 41 della Carta di Nizza - comporta che, prima di provvedere (specialmente se in senso negativo), l’amministrazione debba sempre sentire anche l’interessato o gli interessati. Oltre a ciò il principio implica logicamente altre regole del procedimento amministrativo “giusto” come quelle sull’obbligo della tempestiva comunicazione dell’avvio, sulle garanzie partecipative da assicurare agli interessati, sull’obbligo dell’amministrazione procedente di considerare le eventuali controdeduzioni, sulla previsione della facoltà di accesso ai documenti, nonché – last but non least – la regola secondo la quale l’amministrazione è tenuta a concludere ogni 12 procedimento entro un termine ragionevole, con l’adozione di un provvedimento espresso e motivato. La pubblicità, la trasparenza, l’accesso civico e la disciplina sul contrasto alla corruzione. Per la rilevanza che hanno assunto in tempi recenti, i principi di pubblicità e di trasparenza, menzionati dall’art. 1 della l. n. 241/1990, meritano una separata, brevissima disamina. Il primo principio, che può essere considerato un corollario dell’imparzialità, impone all’amministrazione di rendere conoscibili le proprie attività e la propria organizzazione, di modo che ne sia possibile un controllo diffuso da parte dei cittadini. Da un differente punto di vista, la pubblicità accresce la responsabilizzazione delle burocrazie e, seppure indirettamente, rafforza il fondamento democratico dell’amministrazione. Affine al principio di pubblicità, ma ad esso non sovrapponibile sul piano precettivo, è quello di trasparenza, ora enunciato solennemente dall’art. 1 del d.lgs. n. 33/2013, secondo cui: “1. La trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche. 2. La trasparenza, …, concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione. Essa è condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino.”. La trasparenza, stante la sua rilevanza, integra un livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche. Funzionale alla massima realizzazione della trasparenza è la previsione, da parte del ridetto d.lgs. n. 33/2013, di un sistema articolato di obblighi di pubblicazione posti a carico delle amministrazioni e aventi ad oggetto documenti, dati e informazioni di vario tipo. L’imposizione di tali obblighi ha lo scopo di agevolarne la giustiziabilità, essendo stato introdotto, contestualmente, il nuovo istituto dell’accesso civico per il cui esercizio, in sede amministrativa o giurisdizionale, non occorre avere né dimostrare uno specifico interesse alla conoscibilità di quanto eventualmente non pubblicato. Concorrono a garantire la trasparenza dell’amministrazione anche il tradizionale istituto dell’accesso (che permane accanto a quello civico di nuova introduzione), disciplinato in via generale dalla l. n. 241/1990; l’obbligo di motivare i provvedimenti, onde rendere intelligibile l’iter logico-giuridico percorso dall’amministrazione, e i diritti di partecipazione al procedimento. Non va poi dimenticato che la trasparenza è anche considerata un’arma di contrasto della maladministration e, non a caso, la delega in attuazione della quale è stato poi emanato il d.lgs. n. 33/2013 si rinviene nell’art. 1, commi 35 e 36, della l. n. 190/2012, c.d. “Legge Severino”, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione. Sia la trasparenza sia la prevenzione e il contrasto dell’illegalità, oltre ad essere dei principi giuridici, sono anche degli obiettivi di medio e lungo periodo e, quindi, correttamente il Legislatore del 2012 ha indicato anche gli strumenti programmatori e le soluzioni organizzative responsabilizzanti necessarie per governare consapevolmente i relativi processi di attuazione. L’amministrazione digitale e le regole sulla documentazione amministrativa 13 Sebbene la l. n. 241/1990 conservi un ruolo centrale nella dinamica evolutiva dei principi del diritto amministrativo, va però dato atto della formazione di alcuni sistemi normativi paralleli che ne completano la disciplina fondamentale. Si è già accennato al recente d.lgs. n. 33/2013 che costituisce una sorta di testo unico sulla trasparenza; occorre inoltre menzionare il d.p.r. n. 445/2000, che è il provvedimento di riferimento sulla documentazione amministrativa e, soprattutto, sulla semplificazione in materia (dichiarazioni sostitutive, acquisizione d’ufficio di documentazione, ecc.), nonché il Codice dell’amministrazione digitale (CAD), ossia il d.lgs. n. 82/2005, sulle cui disposizioni poggia il processo di informatizzazione dell’amministrazione italiana, compresa l’implementazione delle tecnologie telematiche nei rapporti tra cittadini e amministrazioni, e pure la recente strategia dell’Agenda digitale (d.l. n. 69/2013). Diritto comunitario – internazionale Tra le fonti del diritto internazionale un ruolo del tutto particolare, attesa la rilevanza del suo contenuto e del sistema di tutela da essa previsto (con la previsione di ricorsi proponibili da parte di individui e non di Stati), riveste la più volte citata Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la l. n. 848/1955. Per effetto dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° gennaio 2009, è stata prevista l’adesione dell’Unione alla CEDU e i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione (avente lo stesso valore giuridico dei Trattati) e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri - sono stati dichiarati principi generali dell’Unione. In virtù di tale sopravvenienza i giudici nazionali, specialmente quelli amministrativi (Cons. Stato, sez. IV, n. 1220/2010), hanno provato a sostenere la tesi dell’assimilabilità quoad effectum (ad esempio, per i fini della disapplicazione della norma interna in conflitto con la Convenzione) della CEDU al diritto dell’Unione, ma tale impostazione è stata ripudiata dalla Corte costituzionale la quale, anche in tempi recenti (tra le altre, Corte cost. n. 80/2011, n. 236/2011 e n. 264/2012), ha ribadito la posizione già assunta in occasione delle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, secondo cui l’antinomia tra la CEDU e l’ordinamento interno non può essere risolta con la disapplicazione, ma – laddove l’incompatibilità non possa essere superata con un’interpretazione orientata in linea con la Convenzione - attraverso la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (e non dell’art. 11 Cost.), atteso che le norme della CEDU integrano, quali norme interposte, il richiamato parametro costituzionale nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: così la Corte ha riconosciuto alla Convenzione il ruolo di fonte superiore alla legge, nonché di parametro interposto di costituzionalità, pur non riconoscendone la diretta applicabilità, diversamente da quanto avviene, invece, per il diritto dell’Unione (e ciò anche in considerazione del fatto che l’adesione della Unione alla CEDU non si sarebbe ancora perfezionata). La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Tra i formanti del diritto dell’Unione europea un ruolo centrale occupa la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. L’art. 267 TFUE assegna difatti alla Corte di Giustizia l’esclusiva competenza in materia di interpretazione dei Trattati, nonché di scrutinio sulla validità degli atti, anche di natura normativa, delle altre Istituzioni eurounitarie. Onde 14 rafforzare tale sindacato accentrato, strumentale all’obiettivo dell’uniforme applicazione del diritto sovranazionale in tutto il territorio dell’Unione, è preclusa ai giudici degli Stati membri la libera esegesi del diritto dell’Unione: i giudici nazionali, piuttosto, qualora nutrano dubbi circa l’interpretazione del diritto europeo (o sulla possibilità che tale diritto osti a norme vigenti negli ordinamenti degli Stati membri), sono legittimati (se di prima istanza) oppure obbligati (qualora si tratti di giudici nazionali di unica o di ultima istanza) a rinviare la questione ermeneutica alla Corte di Giustizia, avente sede in Lussemburgo, per ricevere da quest’ultima la soluzione del dubbio sollevato. Va ricordato che la Corte di Giustizia non si pronuncia mai sulla compatibilità delle norme interne con il diritto dell’Unione europea, ma si limita a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione, rilevanti in riferimento al caso oggetto del rinvio pregiudiziale, affinché sia lo stesso giudice nazionale a pronunciarsi sulla compatibilità della norma interna con quella europea (C,G.C.E. 29 giugno 1978, in c. C-154/77, Dechmann) e a risolversi di conseguenza, con l’eventuale disapplicazione della prima. La Corte di Giustizia esclude l’obbligo del rinvio, da parte dei giudici nazionali di ultima istanza, solo nei casi in cui la questione sia irrilevante ai fini della decisione, sia identica ad altra già decisa dalla stessa Corte oppure sia manifestamente insussistente al cospetto di una norma del diritto dell’Unione talmente chiara e la cui corretta interpretazione sia così evidente, da non sollevare alcun dubbio esegetico (c.d. teoria dell’”acte clair”). Le principali fonti del diritto eurounitario. La soft law sovranazionale. I procedimenti nazionali sulla formazione e sulla attuazione della normativa dell’Unione europea. Il diritto originario è costituito dai Trattati istitutivi e da quelli modificativi intervenuti successivamente, dalla Carta di Nizza e, secondo l’opinione maggioritaria, anche dai principi del diritto dell’Unione europea. Il diritto derivato è invece costituito da tutte le altre fonti dell’ordinamento sovranazionale. La superiorità dei Trattati rispetto alle fonti derivate è ricavabile dall’art. 263, par. 2, TFUE (vedi infra) che prevede l’impugnabilità, appunto per la violazione dei trattati, degli atti delle Istituzioni dell’Unione e, quindi, anche di quelle che concorrono a costituire il diritto derivato. Dal 2009, con l’entrata in vigore del Tratto di Lisbona, i Trattati fondamentali si individuano nel Trattato sull’Unione europea (TUE) e nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE): il primo è dedicato all’organizzazione fondamentale dell’Unione, mentre nel secondo sono essenzialmente contenute le norme di funzionamento dell’Unione e le discipline delle singole politiche. I Trattati, pur essendo accordi internazionali (con la particolarità, tuttavia, che le relative norme non si applicano solo agli Stati, ma anche alle persone), assumono all’interno degli ordinamenti degli Stati membri, in forza del principio di primazia, il valore sostanziale di norme costituzionali (pur essendo fallito nel 2005, a causa della mancata ratifica da parte della Francia e dell’Olanda, in seguito all’esito negativo di referendum popolari, il tentativo di varare una vera e propria Costituzione per l’Europa). Le tipologie di atti che costituiscono il diritto derivato dell’Unione europea, attuativo cioè dei Trattati, sono, come elencati nell’art. 288 TFUE: a) i regolamenti; b) le direttive; c) le decisioni; d) le raccomandazioni ed e) i pareri. I regolamenti, che costituiscono la principale fonte del diritto derivato, hanno portata generale e, quindi, recano norme generali e astratte che si impongono automaticamente all’osservanza di tutti i soggetti dell’ordinamento sovranazionale, Stati membri e privati; sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili, fatta salva l’eventuale necessità di adottare misure meramente esecutive di competenza delle Istituzioni dell’Unione o dei singoli Stati membri. 15 Inoltre i regolamenti hanno efficacia sia verticale sia orizzontale, così che le situazioni giuridiche soggettive da essi previste possono esser fatte valere nei confronti sia degli Stati membri (efficacia verticale) sia di altri privati (efficacia orizzontale). Le direttive, alle quali il Legislatore europeo ricorre allorquando la disciplina da introdurre non abbia un sufficiente grado di uniformità, non hanno portata generale, essendo dirette soltanto agli Stati membri, non sono direttamente applicabili, occorrendo che il loro recepimento nei vari ordinamenti nazionali tramite adeguati atti normativi (cioè con una fonte di rango primario o secondario, a seconda del livello delle corrispondenti fonti degli ordinamenti di volta in volta incise dalle direttive), né sono immediatamente efficaci, perché vincolano gli Stati membri solo in relazione al risultato da raggiungere e al termine di recepimento, ma non anche con riguardo alle forme e ai modi per la loro attuazione nei singoli ordinamenti. Le direttive sono dunque utilizzate per il ravvicinamento delle legislazioni dei vari Stati membri. In questo senso le direttive nemmeno sono obbligatorie in tutti i loro elementi: il punto però va precisato perché si deve distinguere tra a) le direttive “non dettagliate”, le quali lasciano agli Stati membri margini di discrezionalità nell’attuazione (ossia differenti opzioni normative o possibilità di specificare previsioni generiche) e che, quindi, sono per l’appunto obbligatorie soltanto quanto a risultato da perseguire e a rispetto del termine di recepimento e b) le direttive “dettagliate” le quali, per contro, recando norme molto precise, non lasciano agli Stati membri alcun margine di reale discrezionalità nell’attuazione, con la conseguenza che – una volta scaduto il termine di recepimento senza che uno Stato membro abbia provveduto alla relativa trasposizione nel rispettivo ordinamento - le direttive dettagliate acquisiscono immediata efficacia (verticale). In ogni caso, anche le direttive non dettagliate, fin dal momento della loro entrata in vigore, obbligano gli Stati membri a non approvare norme in contrasto con esse (c.d. “obbligo di standstill”) e vincolano pure i giudici nazionali a interpretare il diritto interno in modo conforme ad esse (C.G.C.E. 10 aprile 1984, in c. C-1/83, Von Colson). Inoltre, per evitare che gli Stati membri non rispettino il termine di recepimento o che attuino le direttive in modo non corretto, si è previsto che: a) l’eventuale inadempimento nel recepire le direttive tempestivamente (id est, entro il temine da esse stabilito) oppure l’inadempimento consistito nell’attuazione di esse in maniera incompleta o inesatta comporta l’insorgere di una responsabilità degli Stati membri nei confronti dell’Unione (C.G.C.E. 5 aprile 1979, in c. C148/78, Ratti); b) talune direttive (“direttamente applicabili”; C.G.C.E. 4 dicembre 1974, in c. C41/74, Van Duyn) possano comunque produrre, una volta scaduto il termine di recepimento, effetti diretti, sia pur soltanto verticali (nel senso cioè che i privati potranno far valere le situazioni giuridiche previste da dette direttive nei confronti degli Stati membri), a condizione che si tratti di direttive: 1) chiare e precise nella determinazione di diritti; 2) le cui norme siano suscettibili di applicazione immediata, senza necessità di attuazione; 3) non residuino margini di discrezionalità degli Stati membri nel loro recepimento. Va, infine, considerato che la mancata trasposizione delle direttive - al pari di ogni altro atto normativo dell’Unione che richieda di esser recepito - siano esse dettagliate o meno, direttamente efficaci o meno, è un’inerzia che l’ordinamento sovranazionale comunque stigmatizza perché lesiva della certezza del diritto (sull’obbligo degli Stati membri di dare comunque attuazione alle direttive: C.G.C.E 6 maggio 1980, in c. C-102/79, Commissione c. Belgio). L’inadempimento agli obblighi di recepimento, oltre a generare la responsabilità dello Stato membro nei confronti dell’Unione (alla quale si è testé accennato), dà luogo anche all’insorgere di una responsabilità dello stesso Stato nei confronti dei privati per il risarcimento dei danni eventualmente derivanti dalla mancata attuazione o, comunque, dalla violazione del diritto europeo (e purché la norma sovranazionale abbia conferito diritti ai singoli ed esista un nesso di causalità tra la violazione 16 dell’obbligo incombente sullo Stato membro e il pregiudizio subito dai cittadini): è questa una ipotesi di responsabilità da fatto illecito dello Stato, sottoposta alla disciplina dell’art. 2947 c.c., con prescrizione quinquennale (art. 4, comma 43, della l. n. 183/2011); tale responsabilità fu riconosciuta dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea con la celeberrima sentenza sul caso “Francovich” (19 novembre 1991, nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90). Un’altra rilevante ipotesi di responsabilità (indiretta) dello Stato membro per violazione del diritto dell’Unione può sorgere allorquando un giudice di ultima istanza (in Italia la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti) non effettui, ove prescritto, un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267, par. 3, TFUE oppure quando non disapplichi una norma dell’ordinamento interno manifestamente contraria al diritto dell’Unione, così frustrando il principio del massimo effetto utile di quest’ultimo. Le decisioni sono atti obbligatori in tutti i loro elementi e, pertanto, vincolanti, ma soltanto per i destinatari (ai quali le decisioni debbono essere notificate), determinanti o determinabili, che possono essere Stati membri, imprese o individui e, quindi, le decisioni non hanno portata generale né richiedono atti di recepimento, sebbene possano avere come contenuto anche l’obbligo, per lo Stato membro che ne sia il destinatario, di adottare un atto normativo. Esse hanno efficacia di titolo esecutivo allorquando rechino obblighi di pagamento. Le raccomandazioni sono atti non vincolanti, come i pareri, e si risolvono in un invito di una qualunque Istituzione dell’Unione europea, indirizzato agli Stati membri o ai privati, a tenere un certo comportamento. Esse possono concorrere all’interpretazione delle norme nazionali o eurounitarie; inoltre da esse scaturisce il c.d. “effetto di liceità”, ossia l’effetto di rendere lecito il comportamento dei soggetti che abbiano conformato la loro azione a una raccomandazione. I pareri sono resi dalle Istituzioni comunitarie (ad esempio, dalla Corte di Giustizia) e hanno la funzione immediata di chiarire la posizione della medesima Istituzione rispetto a una specifica questione, nonché assolvono all’ulteriore funzione, mediata, di orientare le condotte dei richiedenti o di terzi soggetti. Le raccomandazioni e i pareri non sono atti vincolanti. Non va, infine, dimenticato che, accanto alle fonti tipiche (delle quali si è dato conto), esiste, anche nel diritto dell’Unione europea, una ricca e variegata tipologia di atti di c.d. “soft law”, quali le risoluzioni del Consiglio, le comunicazioni della Commissione, le note interpretative, gli orientamenti, ecc., le quali – pur prive di efficacia vincolante - comunque incidono sull’esegesi e sullo sviluppo del diritto europeo. Stanti l’enorme mole del diritto sovranazionale da recepire e l’esigenza di assicurare il costante adeguamento ad esso dell’ordinamento nazionale, fu introdotto nel 1989, mercé la l. n. 86/1989 (c.d. “Legge La Pergola”), lo strumento della legge comunitaria, avente la precipua finalità di trasporre periodicamente, con frequenza tendenzialmente annuale, le fonti comunitarie non direttamente applicabili (i regolamenti non richiedono recepimento; anzi, una loro trasposizione negli ordinamenti interni attraverso un atto normativo nazionale configurerebbe un illecito, in quanto oscurerebbe l’origine sovranazionale della relativa disciplina, così mettendo a rischio la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e l’obiettivo dell’interpretazione uniforme a livello europeo al quale essa è preordinata; C.G.C.E., 31 gennaio 1978, in c. C-94/77, Zerbone). Il meccanismo di recepimento, rivisto nel 2005 (con la l. n. 11/2005, c.d. “legge Buttiglione”), è stato completamente rivoluzionato per effetto dell’entrata in vigore della l. 24 dicembre 2012, n. 234, recante norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea. In particolare, con la l. n. 234/2012 si è sdoppiata la “vecchia” legge comunitaria in due distinti atti normativi, da approvare ogni anno: la legge di delegazione europea e la legge europea (artt. 17 29 e 30 della l. n. 234/2012). La finalità della riforma va ricercata nell’esigenza di scongiurare il prodursi dei gravi ritardi che, in passato, rallentarono enormemente l’iter di approvazione della legge comunitaria. Nel nuovo regime il Parlamento, con la legge di delegazione europea, potrà conferire speditamente al Governo le deleghe legislative e le autorizzazioni all’adozione di regolamenti, o di altri atti amministrativi, occorrenti all’adempimento degli obblighi di recepimento, il tutto nel rispetto di principi e di criteri generali, integrabili con specifici principi e criteri a seconda della materia interessata; alla legge europea è, invece, assegnato il compito di dare attuazione - attraverso dirette modifiche o abrogazioni della legislazione e pure, se del caso, mediante l’esercizio di poteri sostitutivi da parte dello Stato (artt. 120 Cost. e 41 della l. n. 234/2012) - a detti obblighi di recepimento, nonché ad ogni altro obbligo gravante sulla Repubblica italiana in forza del diritto sovranazionale I principi del diritto dell’Unione europea. Come già accennato, i principi del diritto dell’Unione europea sono quelli ricavabili dalle fonti di quell’ordinamento e un particolare rilievo ricoprono quelli enunciati (o, rectius, creati) dalla Corte di Giustizia nelle sue decisioni. Si è pure ricordato sopra che, in accordo con l’opinione maggioritaria, essi hanno lo stesso valore dei Trattati. Siffatti principi talvolta si trovano enunciati direttamente dalle fonti del diritto originario, ma molto più frequentemente sono frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione europea e dei Tribunali dell’Unione e sono estratti dal diritto positivo, anche derivato, dell’Unione europea oppure sono ricostruiti sulla base delle tradizioni giuridiche comuni agli Stati membri (un accenno a quest’ultima categoria si rinviene nell’art. 340, par. 2, TFUE). Dei principi dell’Unione europea si distinguono, in generale, tre categorie: - quelli comuni agli ordinamenti degli Stati membri quali la certezza del diritto, la tutela del legittimo affidamento, la c.d. “rule of law”, ecc.; - quelli propri del diritto europeo come il principio di primazìa, quello dell’effetto utile e quello di non discriminazione in base alla nazionalità (art. 18 TFUE), ecc.; - quelli collegati al contenuto dei diritti fondamentali dell’Uomo (art. 6 TFUE). I principi costituiscono nel loro insieme il c.d. “diritto non scritto” dell’Unione europea. Appartengono ai principi dell’Unione anche i diritti umani e, segnatamente, quelli enunciati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Anche nell’ordinamento giuridico sovranazionale i principi assolvono essenzialmente a tre funzioni fondamentali: - sono utilizzati dai giudici dell’Unione come parametro di valutazione della legittimità degli atti dell’Unione medesima e, analogamente, dai giudici degli Stati membri per verificare la conformità degli ordinamenti nazionali a quello europeo; - consentono di orientare l’interpretazione giudiziaria del diritto positivo dell’Unione e dei singoli Stati membri; - permettono di integrare e completare le eventuali lacune del diritto scritto. Attualmente i principi del diritto dell’Unione europea influenzano e conformano pressoché ogni settore del diritto amministrativo interno, imponendone comunque un’interpretazione eurounitariamente conforme. Al pari delle norme del diritto dell’Unione anche i principi del diritto europeo costituiscono altrettanti parametri di legittimità dei provvedimenti e degli atti amministrativi di diritto interno, sebbene l’eventuale conflitto tra quanto disposto dall’amministrazione e il riferimento sovranazionale non dia luogo, di per sé, a forme più gravi 18 di invalidità attizia (quale la nullità, come si era in passato sostenuto) né le relative illegittimità devono essere fatte valere secondo regole del diritto processuale interno difformi da quelle generalmente applicate. Fondamentali principi del diritto dell’Unione sono, tra gli altri, quello di non discriminazione in base alla nazionalità, di garanzia dell’effetto utile e del primato del diritto dell’Unione, di sussidiarietà, di proporzionalità, di precauzione in materia ambientale, di giusto procedimento, di tutela del legittimo affidamento, di pari protezione delle situazioni giuridiche soggettive di origine eurounitaria (nel senso cioè che la tutela, anche in via cautelare, di dette situazioni deve essere agevole e comunque assicurata in misura non inferiore a quella prevista per le posizioni soggettive del diritto interno) e di risarcibilità delle pretese (diritti soggettivi e interessi legittimi) violate dalle pubbliche amministrazioni. L’implementazione di tali principi ha comportato una rilettura applicativa adeguatrice di principi già conosciuti dal nostro ordinamento e, in taluni casi, una vera e propria innovazione dei formanti nazionali. I settori del diritto amministrativo in cui maggiormente si avverte l’influenza del diritto dell’Unione sono senza dubbio quelli dei contratti pubblici - appalti di lavori, servizi di forniture e concessioni - e quello della contabilità pubblica. Il diritto dell’Unione ha anche contribuito sensibilmente all’evoluzione, in senso funzionale, del concetto di pubblica amministrazione (si pensi alle nozioni di “organismo di diritto pubblico” e di “impresa pubblica”), secondo un’impostazione che prescinde dagli aspetti meramente formali, al contrario tradizionalmente valorizzati, almeno in passato, dalla dogmatica italiana. Va poi ricordato che, a livello di fonti primarie, per effetto di quanto disposto dall’art. 1 della l. n. 241/1990, tutti i principi del diritto dell’Unione sono da considerare automaticamente come principi del diritto interno: con tale disposizione è stato, insomma, legificato il c.d. “effetto di spill over”, in virtù del quale i principi valevoli nell’ordinamento dell’Unione, divenendo principi generali anche degli ordinamenti amministrativi degli Stati membri, si estendono pure a fattispecie estranee al perimetro di applicazione del diritto sovranazionale. In linea con il descritto effetto di spill over è l’art. 53 della l. n. 234/2012 (“Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell'ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell'ordinamento italiano ai cittadini dell'Unione europea.”) attraverso il quale si è, per l’appunto, riconosciuta, per un verso, l’accennata tendenza espansiva del diritto dell’Unione, per cui le regole da esso promananti, sebbene applicabili in una determinata materia, si proiettano inevitabilmente in altri settori dell’ordinamento interno e, per altro verso, si è posto rimedio al rischio di discipline asimmetriche, ossia alle c.d. “discriminazioni al contrario”, in danno cioè dei soggetti dell’ordinamento interno qualora la normativa nazionale sia meno favorevole di quella europea. Qualche parola in più merita di esser spesa a proposito del principio del legittimo affidamento, elaborato dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo fin dai primi anni della sua attività (C.G.C.E., 12 luglio 1957, nelle cause riunite C-7/56, C-3/57 e C-7/57, Algera) e, di recente, massicciamente richiamato nelle pronunce dei giudici amministrativi nazionali quale vincolo alle scelte discrezionali dell’amministrazione: discende infatti da esso l’obbligo, per tutte le autorità amministrative, di determinarsi, tenendo sempre conto - soprattutto qualora siano adottati atti di contenuto negativo o comunque sfavorevole per i destinatari - delle aspettative nutrite dagli interessati e, più in particolare, salvaguardando dette aspettative, se “legittimamente” formatesi, rispetto ad atti che siano espressione del potere di ritiro in autotutela. Al riguardo si è affermato (Cons. Stato, sez. V, 14 maggio 2013, n. 2603) che 19 l'interesse pubblico idoneo a giustificare l’adozione di un provvedimento di autotutela va comparato con la misura raggiunta dall’affidamento formatosi nel soggetto privato, destinatario dell’atto di ritiro, in merito alla stabilità e alla legittimità del vantaggio da quegli ottenuto e che siffatto affidamento è tutelabile purché esso poggi a) su di un atto avente carattere definitivo e non precario; b) sulla convinzione da parte del destinatario della legittimità del vantaggio acquisito; c) sul decorso di un apprezzabile periodo di tempo, che abbia consentito la stabilizzazione dell'utilità portata dal provvedimento favorevole suscettibile di ritiro. La legittimità dell’affidamento dell’interessato, secondo le ricostruzioni giurisprudenziali e dottrinali, riposerebbe dunque, oltre che sulla buona fede (oggettiva più che soggettiva), anche sull’entità del tempo decorso, laddove non “ragionevolmente” breve (vedi l’art. 21-nonies della l. n. 241/1990), dall’acquisizione del vantaggio messo in pericolo dal nuovo esercizio di potestà amministrativa. Sotto questo profilo il principio del legittimo affidamento mira ad assicurare la stabilità dei rapporti e delle situazioni giuridiche soggettive, specialmente quelle di vantaggio, e quindi si configura come una declinazione del generale canone di legalità, colto dal punto di vista della certezza del diritto. La tutela del legittimo affidamento, all’interno del nostro ordinamento, poggia anche sui principi di solidarietà (art. 2 Cost.) e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) ed è stato considerato un elemento essenziale dello Stato di diritto (Corte cost. 23 febbraio 2011, n. 71). Va, però, segnalato che la giurisprudenza amministrativa (ma anche il Legislatore: vedi l’art. 1, comma 136, della l. n. 311/2004) continua a considerare il legittimo affidamento recessivo rispetto ad un obbligo di ripetizione di denaro pubblico indebitamente o non opportunamente erogato (per tutti, Cons. Stato, sez. IV, 2 maggio 1995, n. 275). 20