L ATTARULO (Salvatore Francesco), « “A te convien tenere altro viaggio”. La
funzione Dante nelle rotte infernali della tarda narrativa di Dino Buzzati »,
Revue des études dantesques, n° 7, 2023
DOI : 10.48611/isbn.978-2-406-16569-9.p.0077
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L ATTARULO (Salvatore Francesco), « “A te convien tenere altro viaggio”. La
funzione Dante nelle rotte infernali della tarda narrativa di Dino Buzzati »
RÉSUMÉ – L’essai analyse la “fonction-Dante” dans l'œuvre de Dino Buzzati. Le
cas le plus évident de réutilisation par l'écrivain de Bellune du modèle de la
Comédie dans une tonalité contemporaine est certainement la longue nouvelle
(presque un court roman) Voyage aux enfers du siècle. De nouveaux éléments de
comparaison avec le premier cantique du poème médiéval sont ici mis en
relief, à partir de ce texte bien connu. Décidément originale, la tentative de
relire aussi le roman de Buzzati Un amour dans une perspective “infernale”
montre l'histoire d'une passion charnelle et désespérée qui peut rappeler le
vice de la luxure choisi par Dante pour représenter la première rencontre réelle
avec le péché.
MOTS-CLÉS – Dino Buzzati, Voyage aux enfers du siècle, Un amour, fonctionDante, luxure
L ATTARULO (Salvatore Francesco), « “A te convien tenere altro viaggio”. The
Dante-function in the infernal routes of Dino Buzzati’s late fiction »
ABSTRACT – The essay analyzes the “Dante-function” in Dino Buzzati’s works.
The most evident case of reuse by Buzzati of the Comedy model in a
contemporary key is certainly the long story, almost a short novel, Viaggio agli
inferni del secolo. New elements of comparison with the first canticle of the
medieval poem are highlighted here from this well-known text. Completely
new is also the attempt to read from an “infernal” perspective Buzzati’s novel
A love affair, the story of a carnal and desperate passion, which can recall the
vice of lust, chosen by Dante to represent the first actual encounter with sin.
KEYWORDS – Dino Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo, A love affair, Dantecode, lust
«A TE C
ONVIEN TENERE ALTRO VIAGGIO»
La funzione Dante nelle rotte infernali
della tarda narrativa di Dino Buzzati
E l’inferno è certo
Eugenio Montale, da Le occasioni.
La citazione montaliana posta in epigrafe è una cometa che può
illuminare il senso di marcia d
ell’opera di Dino Buzzati. Si tratta
dell’idea, di cui si impossessa l’immaginario prevalente novecentesco,
che l’inferno non sia un postulato teologico, un dogma di fede1, né
tanto meno un’ipostasi metafisica o u n’astrazione della mente, bensì un
concreto e sensibile hic et nunc a misura d ell’uomo del nostro tempo. A
voler c oniare un neologismo, sul metro di neoformazioni linguistiche
in voga da alcuni decenni, quali Antrocene/Antropocene (Revkin,
Stoermer, Crutzen), Omogenocene (Samways) o Capitalocene (Moore),
si potrebbe indicare in figura il secolo dei due c onflitti mondiali c ome
‘Infernocene’ (inglesizzato in “Hellocene”).
Nel momento in cui l’inferno viene trasferito sulla terra, trascinato
sul piano d ell’immanente, traslato in realtà de facto2 tende, in linea di
1
2
Buzzati non crede nella nozione vulgata di inferno normata dalla dottrina della Chiesa
cattolica: «sarebbe assurdo che uno mi mette al mondo, mi crea e poi mi castiga, se io
mi c omporto male… Sarebbe crudele, anche, perché il c oncetto d ell’Inferno, quale ce lo
hanno insegnato (sia il concetto dell’Inferno di fuoco, o dell’Inferno semplicemente come
privazione della c onoscenza e della vista di Dio, cioè della miseria d ell’uomo) è di una
crudeltà inaudita» (Buzzati, 1973, p. 88). In generale, egli tende a «immaginare un aldilà
capace di rispondere, anche c on le sue ambiguità e c ontraddizioni, alla sua sete di trovare
un’alternativa a ll’aldilà descritto dalla tradizione cristiana» (Giannetto, 2005, p. 359).
«Dopo la c onclusione della Seconda guerra mondiale il modello di Dante viene usato
sempre più frequentemente c ome metro di paragone, […] rispetto a una realtà che ha
superato gli orrori “immaginari” dell’Inferno: i nuovi Inferni sono tutti terreni» (Casadei,
2010, p. 49).
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massima, in un simile processo di riduzione in scala, a perdere la littera
notabilior del suo alone mistico ed essere trascritto senza più divina enfasi
con la ‘i’ minuscola. Il segno che l’inferno sia un dato incastrato nelle
strette maglie dell’attualità mostra altresì proprio la tendenza del secolo
breve a trattarlo c ome un nome di uso c omune. Ciò non vuol dire che
esso connoti genericamente soltanto uno stato di sofferenza indicibile,
che si sia cristallizzato, e dunque banalizzato, in una mera metafora
corriva per alludere iperbolicamente all’area semantica del male e del
dolore. Anche quando il termine indica espressamente il tradizionale
toponimo biblico, come in Viaggio agli inferni del secolo, il testo buzzatiano
di più perspicuo richiamo dantesco, l’iniziale capitale non è una norma
tipografica assoluta ma oscillante (Inferno/inferno), a meglio indicare
la piega desacralizzante che il luogo eponimo del racconto ha assunto
nell’arte della nostra epoca. Di quanto secolarizzata sia in questo evo
la visuale dell’erebo cristiano, trapiantato stabilmente nel tessuto delle
società avanzate, è altrettanto rivelatrice la lezione di Italo Calvino. Per
lui l’inferno non è un che di là da venire ma è «quello che è già qui»
in forma di abituale dimora del quotidiano esistere a onta o meno di
ogni possibile c onsapevolezza che se ne abbia3. L’inferno non è la sede
opaca dei morti, ma la limpida comunità dei viventi.
Questa prospettiva apparirebbe sulle prime inconciliabile c on
il modello dantesco, che separa distintamente ciò che sta “di qua”
dall’evanescente ciò che sta “di là”. Buzzati ironizza, da par suo, in Poema
a fumetti sulla presunta insanabile dicotomia tra l’idea di inferno che
oggigiorno «ciascuno porta con sé» e «il pallido Averno» corrispondente
a «come diceva Dante» (2017, p. 72). Nondimeno, questi attraversa in
carne e ossa il regno della c ondanna eterna e incontra anime vane che
sembrano persone vere, vicine a lui per periodo storico e collocazione
geografica: c oncittadini, conterranei, c onoscenti, parenti, amici e nemici,
figure che per il loro aspetto familiare e terreno rendono meno estraneo
3
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono
per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l ’inferno e diventarne parte fino
al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento
continui: cercare e saper riconoscere c hi e cosa, in mezzo a ll’inferno, non è inferno, e farlo
durare, e dargli spazio»: è il pensiero finale di Marco Polo, in replica alla battuta del
Gran Kan («Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed
è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente») che sigilla
Le città invisibili (Calvino, 1993, p. 160).
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e soprannaturale l ’ambiente dove sono assegnate per sempre al tormento.
Non per niente lo stesso Buzzati, che in Poema a fumetti finge di dubitare
della possibilità di attualizzare il sacro poema, altrove immagina Dante
come un “cronista” in tempo reale dell’altro mondo: «quando è andato
all’Inferno, non ha mica incontrato delle anime astrattamente inventate,
ha incontrato il vicino di casa, il tizio Caio o Sempronio, insomma, tutta
gente della sua vita; ha cronisticizzato questa fantasia folle» (Buzzati,
1973, p. 168-169). E, del resto, Dante rappresenta il luogo del castigo
perpetuo a guisa di una cinta e presidiata città medievale, con tanto di
porte, mura e torri. Nell’arcipelago letterario contemporaneo è proprio il
coercitivo e asfissiante spazio urbano moderno, e Buzzati non fa eccezione
in questo, a rappresentare lo scenario plutonio di elezione4. L’exemplum
dantesco funge da guida unanimemente comprovata per aggirarsi tra i
lividi labirinti dei nuovi agglomerati industriali nell’era d ell’atomica.
Non diversamente da una diffusa coeva temperie culturale5, per
Buzzati l’inferno è u n’evidenza tangibile del vivere presente, una verità
solida che permea l’esperienza giornaliera dell’individuo entro l’orlo esatto
e noto di questo mondo. L’inferno si annida ovunque, dentro e fuori il
soggetto, si spalanca dove e quando uno meno se lo aspetta, nelle crepe
più riposte e impensate d
ell’ordinario, nei dettagli più insignificanti
del fenomenico (dietro un uscio chiuso, oltre un’imposta serrata, allo
svoltare di un vicolo cieco, n ell’edificio di fronte, n ell’isolato attiguo, nel
cortile del vicino, nel tinello di casa), al punto da diventare un’ossessione
permanente della mente ansiosa6. Tale insistente rovello d
ell’anima
non può che tradursi con effetto deflagrante in una costante narrativa,
riassumibile tout-court nella seguente formula: «rappresentare l ’Inferno
nella vita stessa che stiamo facendo tutti quanti» (Buzzati, 1973, p. 44).
4
5
6
«Per chi immagina un inferno moderno, la città è evidentemente più adatta ad ambientarlo che non una campagna o una montagna. Non lo si può mettere neanche in riva al
mare…» (Buzzati, 1973, p. 44).
«In generale, la tendenza a individuare nel poema dantesco una sorta di paradigma
utilizzabile per saggiare i destini moderni, individuali e collettivi, si afferma sempre più
largamente nel corso del Novecento» (Casadei, 2010, p. 50).
«Ogni epoca ricostruisce il proprio oltretomba e lo identifica, di volta in volta, con la
rappresentazione ad essa più affine. Se Dante smarrisce inspiegabilmente la “diritta via”
introducendo in un’atmosfera surreale, al limite tra sogno e realtà, il proprio Inferno, a
Buzzati basterà aprire una porta o semplicemente affacciarsi a una finestra per riconoscere il ritmo ammaliante e implicitamente devastante del vizio e del peccato moderni»
(Tambasco, 2016, p. 28).
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Con il presente saggio si vuole sondare la presenza di questo motivo
segnatamente in due testi narrativi d ell’autore cronologicamente molto
vicini tra loro, pubblicati nella prima parte degli anni Sessanta. Sotto
questa angolazione, il meglio studiato è stato chiaramente il più recente,
il già menzionato racconto lungo Viaggio agli inferni del secolo, di cui
l’analisi puntuale segnalerà ulteriori elementi di c ontatto con la fonte
dantesca. Il lavoro precedente, il romanzo Un amore, è invece pressappoco
nuovo a essere riletto dal punto di vista che qui interessa, e tuttavia
l’esame attento farà emergere un’insospettabile filigrana “infernale”.
Il binomio di esempi c onsiderati appartiene alla fase tarda d ell’opera
buzzatiana. Nel decennio finale della sua produzione sembra infatti catalizzarsi l ’attenzione «verso le catabasi dei luoghi infernali» (Dell’Aquila,
2009, p. 141). L’accentuarsi di un siffatto interesse in questo torno di
tempo è peraltro comprovato nel caso di Buzzati anche al di fuori della
narrativa propriamente detta, cui si farà riferimento solo in cenno. Si
pensi soprattutto a ll’esperimento nel versante del graphic novel c on il su
menzionato Poema a fumetti, edito nel 1969, una sorta di visual book del
libro della “visione” per eccellenza in chiave orfica. A completamento di
tale sintetico quadro si possono aggiungere le tavole ex voto commentate
dei Miracoli di via Morel, apparse nel 1971, e prima ancora Il maestro
del Giudizio Universale, un’introduzione al catalogo L’opera completa di
Bosch (1966)7, prove estreme in cui si c ondensa vieppiù la riflessione
intorno al trascendente8; un mondo con il quale l’autore, forse anche
per l’approssimarsi della morte, si sarà deciso a fare i conti in modo più
serrato a fine carriera9.
È senz’altro sintomatico che anche nel meno buzzatiano, per dir
così, dei romanzi di Buzzati, si possa cogliere una traccia cospicua
dell’assillante refrain infernale. In genere, il canto del cigno del Buzzati
romanziere, Un amore, uscito da Mondadori nel 1963, passa per essere un
libro c ommerciale, «di cassetta» (2015, p. xiii), per via di una preponderante coloritura realistico-sentimentale che sembra mettere in mora
7
8
9
Sul topos del giudizio finale delle anime si incardina il racconto Il sacrilegio della prima
raccolta (1942) di Buzzati, I sette messaggeri.
Nel campo della passione per il sovrannaturale rientrano le prose giornalistiche dei
Misteri d’Italia risalenti al 1965 e raccolte postume in volume (1978).
Una ricostruzione delle tappe iniziali dell’iter letterario di Buzzati n ell’ambito ultraterreno
fino ad arrivare agli esiti ultimi è affrontata da Giannetto, 2005.
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«A te convien tenere altro viaggio»
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se non tentare di liquidare la c ongeniale vena allucinata, visionaria e
straniante che è valsa a ll’autore la risaputa etichetta, «così c omoda, ma
anche così imprecisa, di Kafka italiano» (Arslan, 1974, p. 38). Fatto
sta che l’inusitata carica erotomane, c onfinante c on il pornografico, di
questo Buzzati sui generis non impedisce al romanziere di inserire riferimenti sulfurei di ascendenza dantesca tanto più anomali in quanto
maggiormente pertinenti a ll’usuale repertorio del grottesco e del fantastico. Perciò, proprio perché meno prevedibili, siffatti echi d’oltretomba
costituiscono, per converso, un interessante banco di prova e di verifica
dell’argomento che si sta prendendo in esame. Come osserva Stefano
Lazzarin:
n ell’ultima fase della carriera letteraria di Buzzati Dante – e sia pure un Dante
modernizzato – sembra divenire una presenza fissa. Indagando un po’ più
in profondità, risalendo nella cronologia, non sarebbe difficile mostrare che
la svolta avviene all’altezza dell’ultimo romanzo, Un amore (1963), nel quale
troviamo tracce di interesse notevoli, soprattutto a livello lessicale (2003, p. 53).
Già il nome della precoce adolescente prostituta, Laide, che fa perdere la testa a uno stimato e maturo professionista d ell’alta borghesia
milanese, Antonio Dorigo, è un credibile ammicco a Taide, «la puttana»
di Inferno XVIII, 130-13510. Vero è che l’interpretazione onomastica nella
direzione di u n’impronta dantesca incorre in qualche obiezione. Intanto,
l’appellativo Laide è perfettamente spiegabile c ome nomen loquens, dal
momento che rinvia a una sporcizia etica propria del mestiere esercitato.
Inoltre «laido» è aggettivo usato una volta nel libro a proposito di uno
squallido «studio fotografico» (Buzzati, 2015, p. 32) elencato di passata
in una delle tante prolisse carrellate verbali di sordidi squarci della
periferia cittadina tra cui spicca qualche riga dopo anche il nome della
maliziosa lolita, quasi a suggerire al lettore una sottesa etimologia. E
per giunta Laide non è una cortigiana di lusso ma una sciacquetta di
bassa c ondizione sociale, che viene da un malfamato e lurido suburbio
del capoluogo lombardo di cui conserverebbe l’unzione battesimale. Ci
sono allora riscontri diagnostici esaustivi (in nomine omen) per non battere piste alternative. È altrettanto vero però che Laide è un sinonimo
talmente raro anagraficamente da attrarre l ’attenzione del colto Dorigo
che evidentemente fruga inconsciamente nella sua memoria letteraria
10 Cfr. nel merito Lorenzin, 2003, p. 54.
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di artista raffinato alla ricerca di qualche lontana suggestione capace di
stimolare anche la fantasia di noi interpreti. La derivazione da Adelaide
che si affaccia alle labbra dello stesso Dorigo quasi c ome un’ovvietà ha
il suono finanche di un depistaggio sornione, teso magari a fuorviare
il destinatario dell’opera. Se non che, l’origine presunta d ell’idionimo
può celare un ulteriore sottinteso: la provenienza da Ade, il pagano
mondo dei defunti11? Una parte della critica si è comunque c oncentrata
sull’omofonia con Taide. Solo che di personaggi omonimi la letteratura
sia moderna che antica ne annovera più d ’uno: a c ominciare dalle fonti
classiche che sono il serbatoio di Dante, d all’Eunuco (III 1) di Terenzio,
al De amicitia (26) di Cicerone, al Liber Esopi12, agli Epigrammi (IV 84) di
Marziale per arrivare almeno, in anni più recenti, alla Thaïs di Anatole
France, dove salta a ll’occhio l’eponimia della protagonista13.
«Nessun modello preciso, dunque, o se proprio vogliamo indicare
un modello, più esattamente un mediatore, direi che Dante potrebbe
fare al caso nostro» (Lazzarin, 2003, p. 55). La supposizione, ancorché
avanzata con cautela, non è poi così avventurosa se si tengono in c onto,
a mio avviso, altri elementi14. Primo: Un amore è la storia di una passione carnale, morbosa e disperata, che può riconvocare il vizio della
lussuria scelto per inscenare tragicamente il primo effettivo incontro di
Dante c on il peccato nella cantica iniziale del poema. Secondo: Taide è
confinata nella seconda bolgia d ell’ottavo cerchio quale lascivo prototipo
di adulatrice e lusingatrice dell’altro sesso, tratti che si c onfanno alla
Laide buzzatiana, la cui dote principale è ingannare spudoratamente con
cento astuzie l’ingenuo amante. Terzo: la più icastica nota fisica della
11 La conturbante gigoletta è infatti di «una categoria a sé, completamente separata dal
restante genere umano», di «un regno sconosciuto» (Buzzati, 2015, p. 15 e p. 32).
12 Cfr.: Alighieri, 1988, p. 275, nota ad v. 133; Barchiesi, 1963; Raimondi, 1965.
13 Il romanzo, storia di u n’etera egizia redenta e beatificata che seduce un prete di nome
Pafnuzio, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1890 e uscito in Italia nel 1911
da Sonzogno tradotto da Amintore Galli (quindi nel 1938 da Francesco Chiesa per
Mondadori), è un cult book del filone erotico, che ha attirato anche l ’attenzione di Eugenio
Montale che vi allude in due madrigali privati (Nubi color magenta… e Da un lago svizzero)
de La bufera e altro. Sul punto si rinvia a: Montale, 1998, p. 15; Pacca, 2012, p. 267-268.
Si pensi inoltre a La tomba di Taide, un madrigale seicentesco del poeta marinista Paolo
Zazzaroni: «Taide qui posta fu, la più perfetta / dispensiera de’ gusti al molle amante. /
Lettor, s’ardi d ’amor, fatti qui inante, / ché stesa in questo letto ella t ’aspetta».
14 Si consideri poi la potenza memorabile del passo dantesco che già indusse Francesco De
Sanctis a sentenziare che «la Taide di Malebolge è più viva e più poetica di Beatrice»
(19642, p. 34).
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Taide dantesca è l’essere «scapigliata» (Inf. XVIII, 130), un’allusione
alla sua natura scostumata e sregolata, dettaglio non trascurabile che
la avvicina alla Laide scarmigliata e scomposta di cui reiteratamente si
narra che «soprattutto colpivano i capelli neri, lunghi, sciolti giù per le
spalle», che specialmente risaltava «il nero dei lunghi capelli sparsi»,
che massimamente Antonio adorava, vittima di u n’estenuata tricofilia,
«i capelli neri», i quali, nel vagheggiato momento dell’amplesso, «si
spanderanno intorno come l’inchiostro da un bottiglione infranto»
(Buzzati, 2015, p. 13, p. 26 e p. 75), indizio della sfrenata natura lubrica
della baby escort15. E, in ultimo, se si ammette che il sostantivo «fante»
adoperato da Dante nel medesimo v. 130 per designare Taide possa
appunto riferirsi all’età acerba della meretrice (‘in/fante’), il confronto
con Laide, «ninfetta», «ragazzina», «puttanella», etc., a seconda dei
vari epiteti che le sono ascritti nel libro, risulterebbe vieppiù calzante.
A corroborare l’ipotesi che questo tardo romanzo buzzatiano sia
concepito come un simbolico sprofondamento nel cerchio dei ‘lussuriosi’
militano alcune scelte verbali16. È inutile dire che l’area lessicale ad hoc
che vi presenzia («lussuria/-e/-ose/-osi») di per sé non prova granché ai
fini della nostra indagine, eccezion fatta, forse, per la sequela «pietà,
gelosia, ira, lussuria» (ivi, p. 136-137), dietro cui si può intravedere a
tinte sfumate un decalogo spurio di vizi e virtù proprio di certa didattica edificante medievale. Più stringenti, a parer mio, sarebbero invece
le occorrenze linguistiche di «inferno/-ale». Benché se ne computino
poco meno di una decina in tutto e non proprio tutte pregnanti, una
parte parte di esse merita di essere messa a frutto. Rimuginando sulla
sua non più giovanissima età, che non gli impedisce al contempo di
essere ancora fertile e virile, Antonio si domanda ironico: «in genere più
di quarantacinque quarantasei non mi danno e poi all’inferno sono in
grado di fecondare o no?» (ivi, p. 157). Il protagonista, dunque, è nel
pieno della sua maturità come Dante al momento del suo perdimento;
15 E cfr. «una ragazzina che ballava il rock-and-roll coi capelli neri giù per le spalle» (Buzzati,
2015, p. 243).
16 Lazzarin fornisce una stringata lista di potenziali dantismi, di cui però solo l’eco del
famosissimo «trasumanar» di Paradiso I.70 mi sembra un rimando convincente (2003,
p. 53-54, nota 119). Si tratta della locuzione «trasumanata in vizi strani e brucianti»
(Buzzati, 2015, p. 7). Quel che mi pare notevole in questa ripresa è che l’autore abbia
‘infernalizzato’ la sincrasi lessicale del modello desublimandola: la perdita delle sembianze
umane non avvicina l’essere mortale a Dio bensì a Satana (detorsio in diabolicum).
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ha, cioè, sì una decina di anni in più rispetto a quelli del poeta fiorentino
all’epoca dei fatti narrati ma è pur sempre «nel mezzo» del suo tragitto
esistenziale se si considera l’incremento dell’aspettativa di vita di un
uomo novecentesco rispetto a quella di uno del medioevo. Esasperato
dall’ambigua c ondotta di Taide, l’innamorato in cuor suo «pregava
Dio di togliergli quell’inferno di dosso» (ivi, p. 172). La sua mantenuta è un’«infernale ragazzina» (ivi, p. 185). Lo stato di prostrazione
interiore d ell’amante tradito equivale a «una cosa infernale dentro nel
petto, batticuore affanno devastazione vanghe infuocate che scavano»
(ivi, p. 194). E quando lo spettro dell’infedeltà si materializza dietro la
porta ermeticamente c hiusa d
ell’amasia in un crescendo di angoscia,
ecco che Buzzati c ommenta: «Mentre nel petto l’inferno sale sale, e il
cuore martella, suona una seconda volta a lungo, a lunghissimo. Niente»
(ivi, p. 217). E infine, sognando di spiare Taide copulare con uno sconosciuto, una similitudine eloquente si proietta nella mente annebbiata
di Antonio: «La scena orrenda, tante volte fantasticata, come l’inferno,
la distruzione della sua vita stessa, eccola là» (ivi, p. 229). È proprio
nelle fasi più concitate che decretano la fine della delirante infatuazione
in cui il protagonista si è a lungo puerilmente adagiato che l’autore
rilancia l’analogia tra la perdizione dei sensi e l’archetipo luciferino:
«Eppure per lui è forse l’ora decisiva della vita, ed è un inferno» (ivi,
p. 240). Persino quando la coppia si ricongiunge alla fine del libro sotto
le lenzuola, calata la coltre obliante del tempo sui furibondi trascorsi
della tempestosa relazione, l’uomo fa ancora i c onti c on lo spirito del
maligno: «Quanti mesi sono passati? Antonio la contempla. In quel
corpicino può stare c hiuso l ’inferno?» (ivi, p. 251). Il fatto che l ’uso della
terminologia infernale si addensi nell’ultima parte del libro va di pari
passo c on il moltiplicarsi degli sbagli del protagonista (errare humanum
est, perseverare diabolicum), che si inanellano in una ferrigna catena che
lo trascina sempre più in basso, nell’abisso della colpa17. Dopotutto
17 Segnalo, in ultimo, questo passo: «Nella notte si guarda intorno. Dio Dio che c os’e quella
torre grande e nera che sovrasta? La vecchia torre che gli era sempre rimasta sprofondata
nell’animo da quando era ragazzo. Della terribile torre però poco fa, nel turbine, si
era completamente dimenticato, la velocità il precipizio gli avevano fatto dimenticare
l’esistenza della grande torre inesorabile nera. Come aveva potuto dimenticare una cosa
così importante, la più importante di tutte le cose? Adesso era là di nuovo si ergeva
terribile e misteriosa c ome sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Sì
l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte» (Buzzati, 2015,
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Un amore, se interpretato nel solco che fin qui si è cercato di tracciare,
verterebbe in c ontroluce sul tema c onvenzionale d ell’intreccio tra eros e
inferno che pochi anni dopo Buzzati sfrutterà in Poema a fumetti, versione
ammodernata del mito ctonio di Orfeo e Euridice.
Non è però mica scontato che c hi dice inferno dica Dante ipso facto18.
La mania di Buzzati per Dante corre il rischio di diventare un c hiodo
della critica, poiché certi automatismi esegetici possono indurre frettolosamente a rivestire di un’illustre patina letteraria ciò che ormai fa
prosaicamente parte del senso comune. Tuttavia all’Alighieri è universalmente attribuita nello specifico una paternità ideale che ne fa se non
sempre la fonte diretta quanto meno il filtro nobile, ora inconscio ora
premeditato, di siffatta materia. Sicché Buzzati, «raffinato sperimentatore di forme narrative, o riscrittore talora perfino cerebrale di codici,
e topoi della tradizione», c on ogni probabilità «trovava agevolmente»
ispirazione per la sua poetica “infernale” «nel più importante autore
della nostra tradizione, nonché auctoritas quanto mai prestigiosa su
tutto ciò che riguarda i regni d ell’aldilà, Dante» (Lazzarin, 2003, p. 39
e p. 43). Oltretutto il fondale della torbida trama di Un amore è quella
capitale del Nord Italia che, c ome tutte le megalopoli dei nostri giorni, è
l’anti-paradiso terrestre. Le prime note dello spartito narrativo ci introducono nel fosco grigiore della città ambrosiana, stipata ai margini di
«cumuli di detriti immondi» (Buzzati, 2015, p. 4) che danno dell’anello
contermine del cuore urbano l’idea di una spaventosa e immensa cloaca
che stringe d ’assedio l’onorabile beau monde meneghino, trincerato nel
decoro chic degli eleganti palazzi residenziali. Questo caos verminoso
del capoluogo lombardo è notoriamente per Buzzati l’epicentro fisso di
p. 261). In Inferno IX, 34-36 lo sguardo di Dante è attratto «ver’ l’alta torre a la cima
rovente» su cui appaiono le tre furie. Come Antonio ha incautamente perso di vista il
minaccioso torrione, così il poeta rischierebbe di non accorgersi d ell’imminente pericolo
che pende sulla sua testa se di colpo non decidesse di sottrarsi alla spiegazione di Virgilio
a proposito della palude stigia che circonda la città di Dite. Per Buzzati la torre è segno
della morte incombente; parimenti la vita di Dante è in un tale frangente a repentaglio
per l’evenienza che dall’alto si palesi la Gorgone la cui vista potrebbe pietrificarlo. La
pagina buzzatiana ha ispirato il titolo del volume di Asquer, 2002.
18 Lo scritto giornalistico Ci scrivono dall’inferno, ad esempio, cronaca immaginifica di una
corrispondenza epistolare spedita dagli avelli delle vittime dell’ultima tragedia bellica,
vuole senza sottintesi rifarsi all’Antologia di Spoon River, il long seller di Edgar Lee Masters:
«Autobiografiche epigrafi in un cimitero di vivi. Spoon River, che pure è una cosa stupenda,
impallidisce al paragone. Un genio, prodigioso genio, sarebbe lo scrittore che con la sola
forza della fantasia avesse scritto queste pagine tali e quali» (Buzzati, 1998, p. 1411).
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ogni inferno domestico. «Nero, nero, lo so, c ome il carbone» (ivi, p. 3) è
la rassicurante premonizione telefonica della signora Ermelina (Ermes?
Il dio psicopompo? La guida delle anime dei defunti?), la tenutaria
della casa di appuntamenti dove Antonio incontrerà Taide, mascherata
da interno di sartoria. Poco importa che la mezzana e il cliente stiano
parlando in codice della tinta di una stoffa per abiti. Quel che pesa
è che la scelta cromatica si allinea con la cappa plumbea e caliginosa
della città che sta per essere teatro della dannazione del protagonista,
(complice «quella straordinaria ragazzina che lo ha fatto dannare», ivi,
p. 242), della sua discesa nelle tenebre infere («un male d ’inferno», ivi,
p. 241), in u n’«ambigua e crudele selva» (ivi, p. 254). L’enigmatica frase
di Ermelina è, in filigrana, irta di «parole di colore oscuro» (Inf. II, 10)
come quelle che Dante legge sulla sommità della ianua inferi, l’entrata
nel pozzo senza luce.
In Un amore si riattiva un intricato nesso tematico, d all’«ineluttabile
perverso fascino», assai caro a ll’intellettuale bellunese, ovvero «un
pattern a tre elementi: donna-città-inferno» (Giannetto, 1997, p. 12).
Memorie dantesche possono rifluire occasionalmente anche tra sfondi
paesaggistici, quelli particolarmente intensi del primissimo Buzzati,
il cui imprimatur narrativo si colloca negli anni Trenta c on Bàrnabo
tra le montagne e Il segreto del Bosco Vecchio, incentrati sul «viaggio di
conoscenza e di ascesa spirituale (tipico della tradizione medievale,
vedi Dante)» (Asquer, 2002, p. 85)19. Pur volendo c onvenire ancora
con Lazzarin che quella per Dante sia una passione senile di Buzzati,
«dopo i categorici rifiuti di gioventù» (2003, p. 53)20, questo non
dispensa da rinvenire anche agli albori della sua produzione artistica influenze del poeta fiorentino. È il caso di un poemetto puerile,
Nembrotte Nembrotte che viene la notte ai camosci per le strade rotte dei monti21,
composto nel 1920 a soli quattordici anni, che canta le gesta del mitico
gigante cacciatore all’inseguimento perenne dell’abile arrampicatore a
19 Sul «valore allegorico» dei primi due romanzi di Buzzati cfr. anche Ramella, 2011-2012,
p. 191.
20 Lo studioso rimanda in nota a due lettere (una del 30 settembre 1923, l’altra del 26 luglio
1924) inoltrate al compagno di studi Arturo Brambilla: «Quanto più vado avanti tanto
più entro nell’opinione che Dante è troppo vecchio e bisognerebbe chiuderlo via e che
il 95% dicono che Dante è bello perché a dire che non val niente sono detti ignoranti e
scemi» (Buzzati, 1985, p. 139); «D’altronde anche il Paradiso di Dante è “un’inevitabile
pezzata” ed ora è ben difficile che trovi qualcosa bello» (ivi, p. 151).
21 Il testo è riportato ivi, p. 23-24, n ell’introduzione al volume.
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«A te convien tenere altro viaggio»
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quattro zampe dalle corna uncinate tra scoscesi altipiani che ricordano
le amate rocce dolomitiche. Si tratta del robustus venator, fondatore di
Babilonia e ideatore della torre di Babele, di cui si parla nelle sacre
scritture. La mediazione di Dante, che lo cita per ben tre volte nella
Commedia (Inferno XXXI, 77, Purgatorio XII, 34, Paradiso XXVI, 126),
riservandogli un posto anche nel De vulgari eloquentia (I. VII. 4), non
si può a mio parere escludere22.
D’altro canto, come ognun sa, in Buzzati la fantasmagoria infernale
si acclimata per definizione n ell’alienazione metropolitana, nel «dolce
abisso brulicante di luci», per esempio, di Ragazza che precipita (Buzzati,
2015a, p. 199), parabola di un principio di verticalità architettonica
che è caduta e non ascesi23. Viaggio agli inferni del secolo, edito a metà
degli anni Sessanta in Il Colombre e altri cinquanta racconti, è quasi una
dimostrazione programmatica di questo topos24. Malgrado ciò, la chiave
non è un mero atto d ’accusa c ontro lo spersonalizzante degrado della
vita urbana e i suoi frenetici e mefitici intrecci sociali. Lo sguardo
dell’autore si appunta su un più largo giro d ’orizzonte che si estende a
una meditazione circa «il crollo del mondo moderno» e la «corruzione
dell’umanità» (Ayyildiz, 2017, p. 223) a ll’acme della crescita demografica e dello sviluppo edilizio: «Questa non è la descrizione della città.
È un viaggio all’Inferno» (Buzzati, 1973, p. 45). Qui Buzzati è a tutti
gli effetti un Dante del ventesimo secolo, che intende ‘testualmente’
rifare il verso alla prima cantica del capolavoro trecentesco («girando
gli sguardi, notai su di un tavolino una vecchia edizione della Divina
22 Cfr. anche l ’epistola a Brambilla del 12 settembre 1930: «Il cielo di Milano, le sue case,
le sue vie, i suoi tram mi appaiono di piombo. Ma il mondo di Nembrotte, di Ezdubar,
di Horus, di Anubis, ci visse dentro e ancora, se pur diverso, dovrà rivivere, per la nostra
serenità» (Depaoli, 1991, p. 56).
23 All’uopo si veda Geerts, che, facendo sua una locuzione di André Gide, parla di
«composizione in abisso» (1976, p. 6). Di sicuro interesse per noi è il racconto buzzatiano
Sette piani: Giuseppe Corte, ricoverato quasi sano all’ultimo piano di una clinica-purgatorio
(stupisce la corrispondenza con le altrettante cornici della montagna della seconda cantica
dantesca), è costretto via via a scendere di livello in livello fino a trovare la morte una volta
toccato il pianterreno. Capovolgendo la struttura piramidale, il nosocomio si trasforma
perciò in un inferno: a mano a mano che Corte arriva ai reparti inferiori la gravità degli
ammalati aumenta progressivamente, come le sofferenze dei dannati danteschi.
24 L’odeporica extramondana è affrontata da Buzzati anche nella sceneggiatura di Viaggio
di G. Mastorna, un film rimasto irrealizzato di Federico Fellini, un tentativo abbozzato
di declinazione del dantesco itinerarium mentis in Deum. Sul punto si veda, almeno, di
recente Fabbri, 2016.
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SALVATORE FRANCESCO LATTARULO
Commedia illustrata dal Doré. Era aperta là dove si vedono da lontano
Dante e Virgilio i quali, tra roccioni sinistri si avviano alla bocca nera
dell’abisso», Buzzati, 2016, p. 256). Significativo è il cenno a una copia
del divino poema corredato dalle tavole ottocentesche di Gustave Doré,
un testo di c ulto del Dante visuale, cui sarà stato debitore l ’estro iconico
buzzatiano25, messo in pratica in Poema a fumetti e nei Miracoli di Val
Morel, opere che insieme a Viaggio agli inferni compongono alfine una
sorta di trilogia del soprannaturale.
Il dantismo qua e là strisciante e chiaroscurato di Buzzati esce adesso
decisamente allo scoperto per disporsi all’arduo cimento con il classico
per antonomasia della nostra letteratura. Quel Dante talvolta ‘implicito’
stavolta è un Dante ‘esplicito’. Buzzati opta, com’è
nel suo stile ibrido,
per un registro tragicomico, in cui l ’impasto drammatico è farcito c on
sapide manciate di humor26. Il nuovo Dante discende nel sottosuolo del
capoluogo insubre, «crogiuolo della vita moderna» (Lazzarin, 2008,
p. 95), per documentare in veste di reporter la presenza di un surreale
regno infernale venuto alla luce sotto il piano stradale durante i lavori
di scavo della metropolitana, «wich, as public transport system, embodies all the alienating features of the modern industrial city» (Siddel,
2006, p. 103). In questo controcanto all’Inferno27 Buzzati gioca la carta
truccata del realismo in una partita esistenziale («una decisione che
poteva coinvolgere la mia vita», ivi, p. 251, espressione ammiccante
all’explicit dell’arcinoto incipit della Commedia) con l’inammissibile
(«l’inverosimiglianza complessiva», ivi, p. 254; «un’assurdità simile», ivi,
p. 256), marcando la differenza con il modello celebre («gli uomini sono
25 Ai «famosi disegni di Doré» si allude anche nella prosa breve Il primo giorno in Paradiso
(Buzzati, 2020, p. 39).
26 «Accorse una ragazzina sui diciotto, il volto ancora da bambina, il labbro superiore tirato
in su dalla tensione della pelle giovanetta, gli occhi ingenui e stupefatti. Inferno fin che
si vuole, pensai, ma non sarà poi questo gran disastro se popolato da bestiole simili»
(ivi, p. 264). L’autore «prende in giro l’avventura dantesca paragonandola con la sua;
da un altro lato, invece, critica la solitudine dell’uomo in questo mondo terrestre e in
quello oltre mondano» (Ayyldiz, 2017, p. 219). «L’umorismo è, d’altra parte, una delle
chiavi di lettura delle più articolate riscritture d ell’aldilà dantesco in un aldiquà in cui
rintracciare o gli esatti equivalenti dei peccati infernali e purgatoriali già catalogati nel
capolavoro medievale, o colpe individuali e sociali del tutto nuove e sostitutive di quelle,
ritenendo così di poter ‘aggiornare’ o reinterpretare l’indagine morale, e lato sensu politica,
di Dante» (Pegorari, 2012, p. 386).
27 «Viaggio agli inferni del secolo si propone come una sorta di antimodello della Commedia»
(Tambasco, 2016, p. 28).
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di carne ed ossa, mica c ome quelli di Dante», ivi, p. 254; e cfr. supra),
mostrando o fingendo di ignorare, al c ontempo, la ben nota lezione di
Erich Auerbach, che mette l’accento proprio sul «fenomeno stupefacente,
paradossale, che si chiama il realismo dantesco» per cui «l’imitazione
della realtà è imitazione d ell’esperienza sensibile» (1956, p. 207).
Lo scrittore deve fare a meno di un odierno Virgilio, benché ne
chieda appositamente l’ausilio («Niente Virgilio? – No», Buzzati, 2016,
p. 254), per perlustrare il grottesco imbuto nero di Satana. Il viator
contemporaneo, che vive in un’epoca in cui nessuna guida maestra
può più indicargli la ‘diritta via’ («… potrebbe essersi smarrito…»,
ibid.) è chiamato a dialogare da solo con i fantasmi della sua coscienza.
Nell’ipogeo metropolitano pullula un microcosmo urbano parallelo
che è proiezione del caos indiavolato della città reale negli anni turbinosi del cosiddetto miracolo economico. Esso non è che il prototipo di
molti possibili averni (una pluralità di ‘inferni’, donde il titolo, rispetto
all’unicum dantesco) spalancati nelle profondità di altre zone densamente
popolate della terra («Certo, Milano. E anche Amburgo, a anche Londra,
e anche Amsterdam, Chicago e Tokio nello stesso tempo», ivi, p. 265),
all’insegna di una trasversalità planetaria che prospetta un’equazione
ante litteram tra inferno e global village. Lo scenario infero, che ricalca e
congiuntamente amplifica quello della prima cantica della Commedia, si
accampa ovunque il progresso civile ha messo radici, in scia con altre
inquietanti catabasi letterarie del canone novecentesco28.
Fatta salva la cornice d’insieme che salda il tutto in otto capitoli,
quasi mini-racconti all’interno di un racconto-madre, assimilabile a un
romanzo breve o minimo, l’autore piazza un po’ a casaccio una serie
di tessere dantesche che ricreano in modo assolutamente frammentario e parziale il mosaico originario. Si parte c on l’impenetrabile scelta
dell’inviato speciale cui assegnare il delicato reportage nel sottosuolo
milanese. Il designato è tra i componenti della redazione colui che
meno si aspetta di essere il predestinato («Perché a nch’io»?, Buzzati,
2016, p. 251). Il protagonista è convinto di non aver particolari meriti
rispetto ai suoi colleghi, c omportandosi c ome Dante che a Virgilio non
28 «Il viaggio n
ell’oltretomba acquista anche toni di nekuia o di mistero primitivo, ma è
sempre un passaggio nel soprannaturale e nel fantastico irreale, con il solito seguito di
attesa, tensione, incertezza, fascino, c onflitto e vittoria finale d
ell’altra dimensione»
(Bonifazi, 1982, p. 150).
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SALVATORE FRANCESCO LATTARULO
nasconde il suo imbarazzo di prescelto per andare nell’oltre-mondo
(«Ma io, perché venirvi?», Inf. II, 31). Il motivo della nomina è che il
giornalista «è uno specialista» (Buzzati, 2016, p. 253) di casi del genere
(allusione al curriculum letterario d
ell’autore), per cui l’investitura gli
viene dal vertice della testata, dal direttore. Anche nel caso di Dante
la carriera di poeta gli conferisce le referenze adatte per adempiere a
un mandato che gli viene ugualmente prescritto dalle alte sfere (le tre
donne beate). Insomma, in entrambi i casi non siamo difronte a una
decisione autonoma del candidato ma a ll’ottemperanza a una volontà
superiore. Per Dante è un provvidenziale disegno divino, per Buzzati
«la mano pelosa del destino» (ibid., p. 252). Ogni inferno che si rispetti,
e Dante docet, deve avere una porta. Solo che «la porta dell’inferno»
(ivi, p. 253) rinvenuta da un lavoratore della ferrovia sotterranea non è
quella monumentale e solenne che Dante vede davanti a sé ma «una
specie di porticina» (ibid.). Dinanzi alla soglia maledetta Buzzati è
colto da spavento ed esitazione («Mi rendevo conto che la famosa porta
stava aprendosi. Non potevo decentemente rifiutare, sarebbe stata una
diserzione ignobile», ivi, p. 254)29 come il suo predecessore («Qui si
convien lasciare ogne sospetto; / ogne viltà convien che qui sia morta»,
Inf. III, 14-15). La notizia d ell’inferno nascosto nelle viscere di Milano
ha «parecchi punti oscuri» (Buzzati, 2016, p. 254) che strizzano l’occhio
alle «parole di colore oscuro» d ell’iscrizione letta d all’esule fiorentino
(Inf. III, 10). Varcare l’ingresso dell’inferno non è uno scherzo, meglio non
farsi troppe illusioni («Chi entra da noi deve subire tutte le conseguenze
fino in fondo», Buzzati, 2016, p. 264) come ammonisce inesorabilmente
l’ormai proverbiale ultimo rigo dell’epigrafe incisa ab æterno («Lasciate
ogne speranza, voi c h’intrate», Inf. III.9). Il giornalista lombardo si inoltrerà da solo nel suo irrituale itinerario, privo di scorta: «Lasciapassare
non esiste» (Buzzati, 2016, p. 253), lo avverte il suo capo. Egli non potrà
fruire, cioè, di quel salvacondotto che autorizza Dante ad attraversare
il regno del male costituito dalla parola d ’ordine veicolata da Virgilio
(«vuolsi così colà» c on quel che segue, Inf. III, 94-96; V, 22-24). Mentre
Dante è un privilegiato che giunge all’inferno per una via non ordinaria, Buzzati sembra servirsi di un accesso comune a tutti i dannati,
29 E cfr. anche: «Si narra che personaggi grossi e fortissimi, di fronte a ciò che massimamente
avevano desiderato nella vita, quando si presentò tremarono, diventando macilenti, piccoli
e meschini» (Buzzati, 2016, p. 253).
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«A te convien tenere altro viaggio»
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una normale «scaletta» (2016, p. 263). Se il primo viene dissuaso da
Caronte a proseguire («pàrtiti da cotesti che son morti», Inf. III, 89), il
secondo, una volta dentro, è costretto ad addentrarsi («Avanti, signore,
mi segua», Buzzati, 2016, p. 263). A fare le veci del nocchiero acheronteo
è una donna a nome Pentesilea, l’eroina virgiliana citata da Dante nel
limbo (Inf. IV, 124). Rispunta così l ’analogia tipicamente buzzatiana tra
infernale e femminino. Similmente Rosella è figura vicaria di Minosse,
il giudice guardiano che è una sorta di mostruoso archivio in costante
aggiornamento delle colpe dei dannati da assegnare nei vari gradi di
pena: la ragazza, gaia e allegra, di tutt’altro aspetto da quello terrificante
e serioso del demone del secondo cerchio, tiene uno schedario elettronico
dei residenti all’inferno dei quali conosce vita, opere e miracoli. Per
quanto Buzzati si ritenga un «intruso clandestino» (2016, p. 263) deve
arrendersi difronte all’evidenza che il suo nome è già nel registro nero:
«E io… Io dunque sarei dannato? – […] Tu sei dannato perché sei fatto
così. I tipi come te l ’inferno se lo portano dentro fin da bambini…» (ivi,
p. 266). La difformità rispetto allo status morale del poeta toscano, cui
Caronte preconizza la salvezza, non poteva essere più netta. Per Dante
la certezza salda è il purgatorio, per Buzzati l’inferno. Che l’inferno
mondano sia, all’opposto, il regno penitenziale che fa da anticamera
alla gloria celeste non può che essere un abbaglio momentaneo: «E se
fosse il purgatorio invece? C’era puzza di zolfo? Ha visto le fiamme?»
(ivi, p. 259). L ’approdo finale di questo polittico narrativo, Il giardino,
si regge infatti sull’inganno di capitare nell’eden adamitico che Dante
colloca sulla vetta del colle della purificazione30. Questa «stupefacente
isoletta di pace», irradiata di «luce pura», protetta «dalle pestilenze e
dai furori d ell’aria circostante», che induce a credere che «non è tutto
infernale a ll’Inferno», a ragionare che «L’Inferno non esisterebbe […]
se prima non ci fosse il Paradiso» (ivi, p. 289-290), vanisce ben presto,
sotto l’azione micidiale delle ruspe che espiantano alberi e aiuole per
costruire un’autorimessa31. In fondo, questa sosta ultima, è una tregua
30 Si veda il finale della parabola Il primo giorno in Paradiso: «Sei nella reggia della luce
eterna, voli, divori, manna, partecipi a ll’infinito amore. Ma tu non hai dimenticato. Hai
la suprema grazia, ma ricordi. E ricordando soffri. È il purgatorio» (Buzzati, 2020, p. 41).
31 È curioso che Autorimessa Erebus sia il titolo di uno dei racconti de Il crollo della Baliverna
(Buzzati, 2018a). In un angusto budello cittadino si trova Erebus Garage, una specie di
antro infernale gestito da un anziano tipo misterioso, Onofrio, incarnazione del «Grande
Nemico» (ivi, p. 47). L’io autobiografico è un borghese attempato così male in arnese che
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SALVATORE FRANCESCO LATTARULO
breve – come il limbo luminoso e verdeggiante che Dante si lascia alle
spalle per riconficcare gli occhi nel buio dei martiri – evaporata la quale,
Buzzati si ritrova vis-à-vis con la signora diavolessa dall’inequivoco nome
di Belzeboth, alias Pentesilea, la dea ex machina (Proserpina?), la sinistra
appaltatrice della grande multinazionale infernale32.
Non deve sorprendere, infine, che nella preminente tematica infera
di Buzzati33 si apra anche il fronte dell’opzione purgatoriale, la quale
in certe sue pagine incrocia l’altra prospettiva generando a bella posta
ambiguità e malintesi. Ciò che in effetti nella rigida e gerarchica visuale
medievale è nettamente distinto e separato, nella fluida e permeabile
ottica c ontemporanea appare confusamente ibridato e incerto34. Tutto ciò
contribuisce a ispessire la patina di arcana indeterminatezza che riveste la
scrittura di Buzzati in chiave escatologica. La seconda alternativa, quella
purgatoriale, è invero consentanea al motivo in lui protocollare dello
“stare sospesi”, che trova la sua più nitida messa a fuoco ne Il deserto dei
Tartari, ove «il mondo finzionale appare trasfigurato dall’imminenza
di un eventum spasmodicamente atteso» (Puglia, 2020, p. 248). Uno
studio recente ha c oncentrato lo sguardo s ull’«atmosfera purgatoriale di
tutto il libro» e sulla «sua struttura cherigmatica che vuole in ultimo la
rivelazione» (Lisciani Petrini, 2020, p. 179); una serie di intertestualità
ivi esplorate porterebbero alla c onclusione che «tra le rielaborazioni
del Purgatorio, Il deserto dei Tartari si rivela una delle più icastiche della
letteratura del Novecento» (ivi, p. 180). Se è vero che il tema del tempo
che passa attendendo la propria occasione è più pertinente al secondo
non può essere utile nemmeno a ll’inferno («Perfino il diavolo mi ha sbattuto la porta in
faccia», ivi, p. 48). Si pensi agli ignavi che «né lo profondo inferno li riceve, / c h’alcuna
gloria i rei avrebber d ’elli» (Inf. III, 41-42).
32 «L’inferno – nel panorama letterario novecentesco – è talmente inquinante da inglobare
anche il paradiso, di cui non si parla quasi mai e quando lo si fa è per sottolineare la
vana attesa e il senso di sconfitta» (Anselmi e Ruozzi, 2003, p. xiii).
33 Come osserva Giannetto, in seno al tema più volte frequentato da Buzzati «del viaggio
nell’oltretomba» ciò che è «più caratteristicamente suo» è «quello del mondo infero»
(2005, p. 361).
34 Nella novella Nuovi strani amici (da Paura alla scala), il defunto Stefano Martella sopraggiunge in un incantevole centro abitato che assomiglia in tutto e per tutto all’Elisio, salvo
al termine esserne scacciato, come i nostri progenitori, e sbattuto all’inferno. Si pensi
poi al Domenico Molo de Il sacrilegio, che, dopo aver sognato di essere giunto da morto
nell’aldilà affinché la sua anima sia salvata o dannata, si risveglia in un letto d’ospedale
con «l’idea che quello fosse l’inferno» (Buzzati, 2018, p. 187).
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«A te convien tenere altro viaggio»
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regno, in quanto il tempo d ell’inferno è immobile, non c oncede speranze (come in Poema a fumetti), va però anche detto che la metafora
più pregnante del romanzo maggiore di Buzzati, il ‘deserto’, sembra il
calco di una topica tanto infernale quanto purgatoriale. Il «gran diserto»
di Inferno I, 64 e la «piaggia diserta» di qualche terzina prima (v. 29)
s’imprimono, credo, nel ricordo dei lettori di ogni tempo con non meno
forza dell’«aspro diserto» di Purgatorio XI.14 se non altro per l ’incisiva
restituzione per traslato della condizione di solitudine infinita in cui è
immerso il poeta medievale proprio a ll’inizio del suo fatale percorso. Il
suo destino si decide qui, in mezzo a un paesaggio desertificato, inabitato,
segno di un inaridimento interiore che richiede e prospetta pur sempre
un soccorso spirituale per mutare il corso della sua esistenza. Per Drogo
non c’è nessun salvatore ad aspettarlo ai limiti dell’enorme distesa di
niente, nonostante il senso di verticalità dell’immagine ricorrente del
cielo stellato, elemento non trascurabile di redenzione35. Il deserto, nella
sua atona piattezza, è uno spazio di transizione e attesa ma anche di
disorientamento e perdita di sé. In quanto disabitato e nudo, esso dilata
il perimetro desolato e spettrale della fortezza Bastiani. A
ll’interno delle
sue spoglie mura, Drogo fa più amara esperienza del vuoto e dell’assenza
che già in passato, «anche da bambino», lo hanno portato a sentirsi
«smarrito» (Buzzati, 1998, p. 33) c ome in una metaforicamente ubiqua
ingens silva; è una condizione non dissimile da quella in cui si disorienta
il quasi omonimo Dorigo di Un amore: «Eppure anche a cinquant’anni
si può essere bambini, esattamente deboli smarriti e spaventati come
il bambino che si è perso nel buio della selva» (Buzzati, 2015, p. 79).
Salvatore Francesco Lattarulo
Università di Bari
35 Ci si c oncentri in particolare s ull’immagine del capitolo quarto «e Drogo vide brillare le
stelle» (Buzzati, 1998, p. 34), per cui cfr. l ’emistichio dantesco di Purgatorio I.23: «e vidi
quattro stelle». Si c onsideri inoltre il ruolo che le stelle assumono nella seconda parte del
racconto Di notte in notte, tratto da I sette messaggeri: esse scortano come familiari numi
tutelari il protagonista, partito a tarda sera in guerra, infondendogli una fiducia destinata
a non tramontare nemmeno quando la sua essenza immateriale volerà in cielo.
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SALVATORE FRANCESCO LATTARULO
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