Francesco d’Assisi e la tradizione ascetica ortodossa:
alcune fondamentali convergenze
In questo breve studio mi propongo di mostrare i legami esistenti tra la vita di Francesco d’Assisi e
la tradizione ascetica ortodossa e presentare, attraverso ciò, le basi principali della stessa
Ortodossia. La mia analisi non è nuova1 ma ha un suo particolare approccio preferendo concentrarsi
su pochi essenziali punti che, a mio avviso, hanno una profonda eloquenza interconfessionale: il
valore della tradizione, la fuga mundi, la pratica dell’orazione personale e della liturgia comunitaria,
l’amore per il creato.
Faccio una precisazione iniziale: non sono un esperto di Francesco d’Assisi, per quanto conosca il
quadro generale della sua storia e, soprattutto, della storia della Chiesa della sua epoca. Non
analizzerò, dunque, i molteplici aspetti della vicenda del Poverello ma il rapporto tra lui è l’antica
tradizione ascetica della Chiesa indivisa. A tal fine, si possono fare le seguenti domande:
l’atteggiamento di Francesco può avere dei riscontri analoghi tra i santi del mondo bizantino? In che
modo l’antica tradizione ascetica e spirituale, vive nel poverello di Assisi?
Prima di rispondere è bene sgombrare il campo da qualche errata considerazione. Innanzitutto si
devono evitare due erronee letture: quella che porta a considerare Francesco esattamente come se
fosse un santo bizantino – assorbendolo in un mondo che non era suo – e quella che lo ritiene
assolutamente estraneo dalla santità ortodossa.
Per quanto riguarda la prima lettura, forse fatta inconsapevolmente da chi sottovaluta le vicissitudini
storiche e le mentalità proprie ad ogni Chiesa, credo che la storia ci può offrire un valido aiuto.
Francesco vive nel tredicesimo secolo, un tempo di radicali cambiamenti. Non è solo la Chiesa a
cambiare, ma tutta la società che, da agricola e sedentaria, si trasforma in cittadina e attiva. Non a
caso il padre di Francesco è un commerciante e il nome che gli viene dato si riferisce alla Francia,
importante per il suo commercio, non a qualche località vicina o a qualche santo tradizionale
vissuto nell’ambiente circostante. In questa nuova situazione, anche la Chiesa occidentale cambia
adattandosi ai nuovi tempi. Il monachesimo, in quanto modo di vita e riferimento centrale e comune
nella Chiesa, comincia lentamente a tramontare, anche a causa di un suo forte degrado, ed emerge la
figura del chierico. Ciò determinerà la presenza sempre più marcata di un certo clericalismo 2. Alla
fuga mundi e al ritiro nel chiostro, si affianca e comincia a prevalere un altro modello religioso più
proiettato nella vita attiva e cittadina. Parallelamente, alla sapienza coltivata nella pratica monastica,
si affianca ed emerge l’università che analizza logicamente il sapere teologico. Al tempo di
Francesco i riferimenti monastici, come vedremo, sono ancora forti, ma i tempi non sono più quelli
dell’alto medioevo e questo richiederà molti adattamenti, sovente non indolori, allo stesso
movimento francescano già all’indomani della morte del Poverello.
Anche la seconda lettura, quella per cui Francesco non ha nulla in comune con la santità bizantina,
opinione che può essere sostenuta all’interno di qualche ambiente ortodosso, non è precisa3.
Francesco, come si è detto, viveva in un’epoca di cambiamento ma anche di continuità. In questo
senso, la sua storia è fondamentale per capire il suo tempo, un tempo nel quale vive il passato ma si
affaccia anche il futuro.
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3
Si veda SPITERIS Y., Francesco e l’Oriente cristiano. Un confronto, Istituto storico dei Cappuccini, Roma 1999.
Possiamo trovare dei riferimenti, in tal senso, in CONGAR Y., L’Eglise. De saint Augustin à l’époque moderne, Les
Editions du Cerf, Paris 2007, pp. 101; 151-155; 170-173. “Le Haut Moyen Age avait été à prédominance
monastique. Le XIe siècle, avec la reforme grégorienne et le dévelopment de la vie canoniale sous le patronage de
saint Augustin, a mis au premier rang la cléricature et le sacerdoce”. Ibid., p. 170.
Si osservi, ad esempio, MACRIS G., A Comparison: Francis of Assisi and St. Seraphim of Sarov, in “Synaxis:
Orthodox Christian Theology in the 20th Century”, 2, Saint Nectarios Press, Seattle, pp. 39-56. Quest’autore
espone le sue critiche partendo da dati biografici piuttosto posteriori alla vita di Francesco d’Assisi e da I Fioretti,
scritti diverso tempo dopo la sua morte, non da fonti a lui contemporanee. Quest’articolo si trova al seguente
indirizzo web: http://www. orthodoxinfo.com/praxis/francis_sarov.aspx (data di consultazione: 26 dicembre 2009).
1
Egli, allora, è sicuramente un personaggio-chiave: in lui è presente la tradizione antica della Chiesa
e, nello stesso tempo, si scorgono degli elementi nuovi. Tra questi, una novità già introdotta da
Bernardo di Chiaravalle o poco prima di lui: la devozione all’umanità di Cristo, alla sua vita di
sofferenza che culmina con la passione e morte in croce. Questa novità, precedentemente
sconosciuta4, fu vissuta e resa ampiamente popolare proprio dal Poverello5.
È necessaria ancora un’altra precisazione metodologica che può, forse, parere ovvia, ma di fatto non
lo è. Quando si esamina la vita di Francesco o alcuni suoi dettagli, non è opportuno dare eccessivo
peso a biografie o letture posteriori perché queste, pur con le migliori intenzioni, tendono ad
allontanarsi dalla verità storica ricercata. Ciò significa che è importante distinguere la letteratura su
Francesco dalla sua figura storica, argomento già discusso da Paul Sabatiér 6 tra la fine del XIX e i
primi decenni del XX secolo7. Per questo motivo, mi riferirò al periodo in cui visse Francesco o agli
anni immediatamente posteriori alla sua morte.
Fatte queste precisazioni, che giustificano le scelte e i limiti con le quali è stata fatta
quest’esposizione, mi concentro sugli elementi di continuità tra Francesco e l’antica tradizione
occidentale e orientale. Tali elementi sono molto importanti perché sottolineano un’ortoprassi
comune all’Oriente e all’Occidente cristiano del tempo. È attraverso questa base comune che
possiamo capire pure cos’è l’Ortodossia oggi.
Il primato della tradizione8
Giacomo da Vitry (1170-1240), teologo, storico e cardinale, definito come “il più acuto osservatore
della vita canonica e monastica del suo tempo”9 ci presenta “un quadro perfetto del mondo religioso
di allora con tutte le sue ramificazioni” 10. Egli è una fonte esterna all’ordine francescano ma
contemporanea a Francesco e può aiutare ad osservare il francescanesimo. Per Giacomo, questa
religio ha restaurato la vita monastica precedente andata perduta e non presenta, dunque, nulla di
nuovo in questo senso. Francesco non rappresenta certo una rottura con il monachesimo tradizionale
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“È importante notare che Bernardo si muove nella corrente di un nuovo stile di pietà che s’era imposto in Europa
già prima di lui, a partire dalla metà del secolo XI. Caratteristico di questo nuovo stile era un modo diverso di
accostarsi a Gesù Cristo. Fino ad allora c’era stata in primo piano l’adorazione della divinità di Cristo, com’era
comune nell’ambito romanico e bizantino (e com’è di fatto comune fino ad oggi nelle chiese ortodosse). […] Ora
invece l’attenzione dei cercatori di Dio si volgeva al destino terreno di Gesù Cristo”. SCHELLENBERGER B.,
Bernardo di Chiaravalle in RUHBACH G.- SUDBRACK J. (a cura di), Grandi mistici dal 300 al 1900, Bologna, 2003,
p. 139-140.
Per Yves Congar, questo fatto o gli evidenti rivolgimenti nel secolo di Francesco non toccano assolutamente la
sostanza del Cristianesimo. Cfr., ad es., CONGAR Y., L’Église. De saint Augustin à l’époque moderne, p. 101.
Viceversa qualche altro studioso, riferendosi alla spiritualità di Francesco (VANNINI M., Storia della mistica
occidentale, 163-167), ritiene che questi cambiamenti sono segno di un adattamento ad un gusto che porterà novità
sempre più antropocentriche in seno al Cristianesimo occidentale rappresentando di fatto una frattura sostanziale
col passato. Pur indicandone l’esistenza, non entro in merito a queste opposte interpretazioni. Mi limito solamente a
segnalare che Francesco si situa effettivamente tra due mondi: uno di orientamento e gusto ancora monastico ed
eremitico e un altro per cui è sempre più importante essere presenti nella vita cittadina per l’incontro e
l’evangelizzazione di uomini sempre più immersi nei commerci delle città.
CAUSSE M., Paul Sabatiér et la question franciscaine, in "Revue d'histoire et de philosophie religieuses", 67/2
(1987), pp. 113-135.
È tuttavia necessario aggiungere che, per quanto Sabatier operasse un’analisi critica alla letteratura agiografica su
Francesco d’Assisi, egli stesso tendeva a cadere in una lettura influenzata dai suoi presupposti religiosi e culturali,
vedendo nel Poverello una specie di antesignano della Riforma luterana. Questo suo limite, d’altronde, fu
individuato assai presto. Vedi AUVRAY L., Paul Sabatier. Vie de saint François d’Assise, in "Bibliothèque de
l’École de Chartres", 55 (1894), pp. 675-681.
Intendo, per tradizione, quella di tipo ascetico-monastico ma vi includo anche quella intesa in senso ampio: la
Tradizione evangelica e quella ecclesiale. Questo concetto ampio di tradizione è comune al mondo bizantino e a
quello di Francesco d’Assisi.
SCHREIBER G., Gemeinschaften des Mittelalters, Münster 1948, p. 402.
Ibid., p. 408.
2
ma con quello uscito dalle riforme monastiche cluniacensi e cistercensi, oramai decaduto e
impoverito spiritualmente. In questo contesto si può comprendere l’osservazione di Giacomo da
Vitry per cui: “[il movimento francescano] più che aggiungere una nuova regola rinnovò quella
vecchia”11. Francesco proponeva, dunque, un modo di vivere che contrastava con quello dei grandi
ordini monastici di allora in quanto questi non manifestavano più l’antica prassi religiosa potendo
dare addirittura l’impressione di disprezzarla.
Possiamo, perciò, dedurre che il primato all’interno del primitivo ordine francescano – e quindi
nella vita del Poverello – non è dato dalla novità per se stessa, ma dalla rivivificazione della
tradizione evangelica e dell’antica regola monastica basata su di essa. Non è la persona con la sua
comprensione individuale a cambiare o adattare la tradizione, nata per servire e realizzare il
vangelo, ma è la tradizione con le sue forti esigenze ascetiche a cambiare la persona che la segue.
Questo principio si situa all’opposto della cultura e della religiosità individualistica odierna 12 ma è
comune a Francesco di Assisi e al monachesimo ortodosso. Infatti, per l’Ortodossia, “La Tradizione
non è un principio che lotta per ripristinare il passato utilizzandolo come norma per il presente.
Questo concetto di Tradizione è respinto dalla storia stessa e dalla coscienza della Chiesa. La
Tradizione è autorità ed autenticità nell'insegnamento, potestas magisterii, diritto di testimonianza
della verità. La Chiesa porta la testimonianza della verità, non in forza di avvenimenti ricordati o
per parole che altri hanno detto, ma per la sua stessa vita, per l’esperienza ininterrotta, per la sua
universale completezza. Questa è la ‘Tradizione della verità’, traditio veritatis, della quale ha
parlato Sant’Ireneo. Secondo lui, la Tradizione è legata al charisma veritatis certum;
‘l’insegnamento degli Apostoli’ è per Sant’Ireneo non tanto un esempio che dovrebbe restare
immutato, che dovremmo ripetere ed imitare, quanto una vita perpetua, una fonte di vita e
d’ispirazione sempre colma, inesauribile. La Tradizione è la permanenza stabile, la dimora costante
dello Spirito, non solo un ricordo di parole. La Tradizione non è un principio storico ma
carismatico”13. Questa splendida definizione di George Florovsky manifesta un concetto di
tradizione quale vita alla quale l’individuo deve conformarsi pena la sua rottura dalla comunione
ecclesiale14. Infatti, la tradizione rivela la realtà della Chiesa e la realtà della Chiesa è rivelata dalla
tradizione per cui si può dire che “la Chiesa vive e funziona solo in quanto assume senza sosta e
dinamicamente le esistenze individualistiche e oggettivate per trasfigurarle in unità di vita, di
relazione personale e di comunione”15. Perciò il monaco ortodosso non propone un proprio
insegnamento, un suo individuale modo d’intendere, ma si forma docilmente alla scuola della
tradizione evangelica proposta nel monastero in povertà, castità e obbedienza per anticipare in lui,
già su questa terra, quanto sarà in Cielo. È proprio per il primato della tradizione che la Regula
sancti Benedicti, perfettamente inserita in questa linea, si apre con le parole: “Ascolta, o figlio, i
precetti del maestro, porgi attento il tuo cuore, ricevi di buon animo i consigli di un padre che ti
vuole bene e mettili risolutamente in pratica, per ritornare con la fatica dell’obbedienza a Colui dal
quale ti eri allontanato per l’accidia della disobbedienza”16. Tutto nasce da questa parola, “ascolta”,
ossia non ascoltare te stesso e le tue supposte ragioni, ma ascolta chi ti ha preceduto e si è formato
da chi lo ha preceduto, in una catena ininterrotta che raggiunge gli Apostoli e Cristo stesso. Ecco il
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GIACOMO DA VITRY , Historia occidentalis, in Fonti Francescane, Movimento francescano, Assisi 1978, p. 1910.
D’ora in poi Fonti Francescane verrà abbreviato come FF.
Per questo tipo di religiosità valgono le seguenti riflessioni: “In una monade umana, l’individualità ha per principio
interno della sua indipendenza una capacità di auto rappresentazione dovuta all’azione riflessa della ragione. […]
Dispiegandosi nel mondo sulla base delle proprie autodeterminazioni, la monade umana si determina anche in
senso razionale e soggettivo”. Cfr. LAURENT A., Storia dell’individualismo, Il Mulino, Bologna 1994, p. 41.
FLOROVSKY G., Sobornost: la cattolicità della Chiesa in La Chiesa di Dio, Un Simposio anglo-russo, Ε.Ι. Mascall,
Londra 1934, pp. 64-65.
Francesco mostrerà chiaramente che, rompendo con la pratica della tradizione, si rompe anche con la comunione
ecclesiale: “Quei frati, poi, che non vorranno osservare queste cose, non li ritengo cattolici, né miei frati: io non li
voglio vedere, non ci voglio parlare finché non abbiano fatto penitenza” FRANCESCO D’ASSISI , Lettera al Capitolo
generale e a tutti i frati, in FF, p. 166.
YANNARAS CH., Verità e unità della Chiesa, Cens-Iterlogos, Milano-Schio 1995, p. 92.
Regula Sancti Benedicti, prologo, in GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e La Regola, Cittanuova, Roma
1979, p. 127.
3
valore della tradizione per l’Ortodossia, valore intimamente legato a quello della cristificazione del
singolo cristiano.
Oltre all’ascolto, Francesco d’Assisi esorterà i frati a conservare e predicare fino alla fine quanto
egli ha scritto17. La riforma cristiana, proposta nella vita del Poverello non poteva dunque attingere
da un modello culturale di tipo individualistico, inesistente al suo tempo, ma da un modello
totalmente tradizionale. Così, egli “più che aggiungere una nuova regola rinnovò quella vecchia” 18.
L’originalità del movimento francescano sta nell’aver proposto tale realtà tradizionale, anche se in
una nuova forma che sfuggiva agli schemi del diritto canonico dell’epoca.
La fuga mundi
Il cambiamento della persona, la sua cristificazione, è il fine a cui deve tendere la tradizione e
spiega la presenza della Chiesa stessa. Attraverso l’ascolto e l’obbedienza, l’uomo inizia la sua
conversione, altro punto importante che in greco è definito metanoia.
“Il processo di conversione, visto come una rottura col mondo per poter entrare nella nuova vita
dietro a Francesco, è descritto con molta precisione da Thomas Turcus” 19 – monaco domenicano –
“nell’esperienza di frate Pacifico, ch’egli stesso aveva conosciuto: prima era ancora dedito alla
vanità, ma poi, come convertito (conversus) divenne un eccellente seguace di s. Francesco. Più o
meno il distacco dal mondo e l’inizio della nuova vita dovette svolgersi nello stesso modo per tutti i
primi compagni del santo. Il segno esterno della rottura definitiva con il mondo era la rinuncia
totale ai beni terreni o mondani”20.
È necessario chiarire che questa pratica non è intesa come qualcosa di superficiale, di moralistico o,
peggio, di accessorio; non si riferisce ad una sorta di compravendita della salvezza offerta da Dio: è
intimamente collegata con il senso della tradizione e con la veridicità stessa della Chiesa. Per questo
nel 1224 il Chronicon Montis Sereni, scritto da un ignoto premostratense del monastero di
Lauternerg presso Halle, fa l’amara constatazione che gli antichi Ordini sono caduti in tale disistima
da non essere ritenuti sufficienti per la salvezza da coloro che vogliono abbandonare il mondo.
Allora, quelli che volevano realmente lasciare il mondo si rivolgevano ai nuovi Ordini dei Minori e
dei Predicatori21 nei quali, evidentemente, ravvisavano l’autentica atmosfera della Chiesa.
Francesco stesso, dopo aver descritto la sua conversione nel Testamento, termina con una frase
molto significativa: “uscii dal mondo” 22. Lui e chiunque lo segue voltano le spalle al mondo per
dedicarsi a una nuova vita che, per essere integralmente conforme al Vangelo, non deve aver più
niente a che vedere con la vita del mondo, nemmeno con una vita cristiana da esso influenzata 23. Di
sé e dei suoi Francesco afferma: “da che abbiamo abbandonato il mondo” 24. Per l’uomo medievale
questo non ha altro significato se non quello di una vita religiosa in senso stretto 25, e Francesco ce
ne dà conferma con questa significativa formulazione: “i religiosi, i quali hanno rinunciato al
mondo”26.
È necessario precisare che esiste una differenza fondamentale tra l’abbandono del mondo, la fuga
mundi, e il disprezzo del mondo, il contemptus mundi.
La fuga mundi è assolutamente tradizionale all’interno del mondo monastico occidentale ed
orientale. La si vede prefigurata nelle parole dell’apostolo Paolo: “È apparsa infatti la grazia di Dio,
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Cfr. FRANCESCO D’ASSISI , Lettera a tutti i custodi, in FF, p. 170.
GIACOMO DA VITRY , Historia occidentalis, in FF, p. 1910.
Cfr. ESSER K., Origini e inizi del movimento e dell’ordine francescano, Jaca Book, Milano 1975, p. 26.
Ibid.
Ibid.
FRANCESCO D’ASSISI , Testamento, in FF, p. 131.
FRANCESCO D’ASSISI, Regola non bollata, 2, 8 e 22 in FF, pp. 100, 106-107, 117; ID., Regola bollata,10 in FF, p.
129.
FRANCESCO D’ASSISI, Regola non bollata, 22, in FF, p. 117.
Cfr. ESSER K., Origini e inizi del movimento e dell’ordine francescano, p. 26.
FRANCESCO D’ASSISI, Lettera a tutti i fedeli, 6, in FF, p. 154.
4
apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri
mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e
della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 11-13). La
fuga mundi è platealmente praticata immediatamente dopo la proclamazione del Cristianesimo
quale religione di Stato dal monachesimo, movimento di laici religiosamente impegnati, nato quasi
come una protesta davanti ad una possibile secolarizzazione della Chiesa e come una vigorosa
testimonianza e memoria, dinamica e concreta, della separazione della Chiesa dal mondo per il bene
del mondo. In questo senso, “il monachesimo diverrà il modello ed il metro della spiritualità dei
cristiani”27 nella misura in cui cercherà di conservare il radicalismo delle prime comunità cristiane.
Il contemptus mundi si nota soprattutto nell’ultima parte del medioevo latino perché mostra un
disprezzo platonizzante del corpo e della materialità, disprezzo non molto lontano da certi aspetti
espressi dal manicheismo. Evidentemente ciò è stato possibile laddove è stato posto un accento
eccessivo al dolore, alla decadenza e alla morte dell’uomo oscurando, contemporaneamente, la
gioia della resurrezione28.
Ma la fuga mundi, operata da Francesco, ha un importante significato nel mondo tradizionale del
suo tempo: rappresenta il ritiro della mente dalla dispersione della realtà mondana per vivere con
l’Unico necessario, secondo quanto insegnato da Cristo: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per
molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le
sarà tolta” (Lc 10, 41-42). Detto diversamente, “per Francesco la ‘pietra filosofale’ non era qualcosa
di inesplorato, fuori dall’uomo, che bisognava trovare rivoluzionando le leggi della natura. La pietra
filosofale era dentro di lui, era il suo cuore. E così con questo miracolo di ‘mistica alchimia’ […]
egli ha liberato l’uomo dal bisogno, ha trasformato dentro di sé in spirito illuminante la materia tutta
intera”29.
La fuga mundi e il ritiro nell’eremo fisico e in quello del proprio cuore era per Francesco qualcosa
di estremamente importante. Quando non c’era la possibilità di stare in un vero e proprio eremo
bisognava portarlo dentro di sé: “Nel nome del Signore, andate due a due per le strade, con dignità,
mantenendo il silenzio dal mattino fino a dopo l’ora terza, pregando nei vostri cuori il Signore.
Nessun discorso frivolo e vacuo tra di voi, giacché, sebbene siate in cammino, il vostro
comportamento deve essere raccolto come foste in un eremo o in una cella. Dovunque siamo o ci
muoviamo, portiamo con noi la nostra cella: fratello corpo; l’anima è l’eremita che vi abita dentro a
pregare Dio e meditare. E se l’anima non vive serena e solitaria nella sua cella, ben poco giova al
religioso una cella eretta da mano d’uomo”30.
La fuga mundi è, dunque, un momento importante per incarnare e interiorizzare il Cristianesimo in
Francesco31. Nel passato, essa aveva caratterizzato la formazione umana e spirituale, non solo dei
monaci egiziani della Tebaide, ma degli stessi Padri della Chiesa i quali, accanto ad una solida
formazione culturale, avevano volentieri praticato l’isolamento dal mondo, almeno per alcuni anni
della loro vita. Nel monachesimo ortodosso la fuga mundi si attua sostanzialmente con tre rinunce:
“La prima rinuncia equivale all’abbandono corporeo delle ricchezze e dei beni di questo mondo. La
seconda corrisponde all’abbandono delle passioni e delle abitudini del passato, tanto quelle del
corpo quanto quelle dell’anima. La terza, infine, esige il distacco dell’intelletto da ogni realtà
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YANNARAS CH., Verità e unità della Chiesa, p. 101.
Cfr. D’ANTIGA R., L’uomo e il libro della natura, conferenza tenuta a Terni all’apertura del III Convegno
Ecumenico Nazionale (5-7 giugno 2006). Il testo è inedito. Cfr. pure D’ANTIGA R., Introduzione, in LOTARIO DI
SEGNI, Il disprezzo del mondo, Torino 1994, p. 9-21.
SPITERIS Y., Francesco e l’Oriente cristiano. Un confronto, p. 25.
Leggenda perugina, 80, in FF, p. 1246. Tale documento, anche se un po’ troppo posteriore alla vita di Francesco è
considerato d’indiscusso valore biografico.
Il medesimo atteggiamento si nota in uno tra i più scrupolosi discepoli della regola stabilita da Francesco, Angelo
Clareno, il quale scrive: “Quando dunque qualcuno desidera abbracciare questa vita [religiosa], coloro che hanno il
compito dell’accoglienza debbono in primo luogo verificare se egli sia disposto a morire al mondo e alla propria
volontà e se sia pronto, per la via che sceglie, a morire a se stesso, in quanto dovrà vivere per la fede e non per le
sue inclinazioni naturali, per la legge di Cristo e non per la sua libertà, nel rigore e nella penitenza e non nella
concupiscenza e i desideri carnali”. ANGELO CLARENO, Lettera 36, in ACCROCCA F., Angelo Clareno. Seguire Cristo
povero e crocifisso, Edizioni Messaggero, Padova 1994, p. 135.
5
visibile e temporale per consentire allo spirito di immergersi nella contemplazione di ciò che è
invisibile ed eterno”32. Di rinuncia al mondo ne parla chiaramente Giovanni il Climaco il quale
aggiunge: “Nel banchetto nuziale del cielo non entrerà per essere coronato se non colui che abbia
fatto la prima, la seconda e la terza rinuncia: la prima che ha per oggetto tutti gli affanni, gli uomini,
persino i genitori; la seconda che riguarda il rinnegamento della propria volontà; la terza che
consiste nella rinunzia alla vanagloria, frutto dell’obbedienza” 33. La vita del monachesimo
ortodosso si può esprimere pure con le seguenti parole di sant’Antonio il Grande: “Come i pesci
muoiono se restano all’asciutto, così i monaci che si attardano fuori dalla cella, o si trattengono tra i
mondani, snervano il vigore dell’unione con Dio. Come dunque il pesce al mare, così noi dobbiamo
correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di costruire il di
dentro”34.
La pratica dell’orazione personale e della liturgia comunitaria
La fuga dal rumore e dai traffici mondani è finalizzata al ritiro della propria mente nel cuore, luogo
dell’incontro con Dio, secondo i famosi passi evangelici per cui: “il Regno di Dio è dentro di voi” 35
(Lc 17, 21), e “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). La scoperta della presenza di Dio non avviene, però,
senza che non vi sia, da parte umana, una disposizione data dalla preghiera. La preghiera, secondo
l’antica prassi patristica, non è un modo per attirarsi la benevolenza di Dio, né è necessaria a Dio
dal momento che, come recita il salmo, “la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la
conosci tutta” (Sl. 138, 4). La preghiera, piuttosto, favorisce l’orientamento dello spirito umano
verso Dio e ne allontana l’oblio. Per questo è indispensabilmente unita alla fuga mundi. San Paolo,
nei riguardi della preghiera, è perentorio: “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di
preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza” (Ef 6, 18).
Francesco d’Assisi eredita e incarna questo tipo di tradizione fino a divenire un uomo fatto
preghiera: “Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando
all’interno le potenze [le forze] esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tal modo dirigeva tutta
la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto
piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” 36. E ancora: “Quando, invece, pregava
nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva
con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad
alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico,
scherzava amabilmente con lo Sposo”37. Lo stile di Francesco passò inevitabilmente ai suoi primi
discepoli. Tommaso da Eccleston dichiara che i frati dei primi tempi erano così fervorosi nella
preghiera che “alcuni si trovavano sempre nella cappella a pregare a qualsiasi ora anche della
notte”38. La preghiera del Poverello era non solo notevole quantitativamente ma pure
qualitativamente. In essa doveva applicarsi la fuga mundi, come sopra ricordato, ossia doveva
essere praticata senza distrazioni, nel senso che il pensiero non doveva disperdersi nella molteplicità
della realtà esteriore ma servire solo l’Unico necessario. Perciò, egli “credeva di peccare
gravemente, se mentre pregava era disturbato da vani fantasmi. Quando ciò capitava, ricorreva alla
confessione per accusarsene subito. L’aveva resa così abituale questa premura, che molto raramente
era tormentato da questo genere di ‘mosche’” 39. Tommaso da Celano racconta che una volta
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39
SOFRONIO S. (Archimandrita), Ascesi e contemplazione, Servitum-Iterlogos, Sotto il Monte-Schio 1998, p. 24.
GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso. Secondo discorso, Cittanuova, Roma 1995, p. 58.
Vita e detti dei padri del deserto, II, a cura di L. Mortari, Cittanuova, Roma 1975, p. 61.
Il passo segue la traduzione del vangelo in uso nella Chiesa bizantina dove il termine ἐντὸς significa “dentro” (di
voi), non “in mezzo” (a voi), com’è invece possibile trovare in molte traduzioni odierne.
TOMMASO DA CELANO, Vita seconda, 95, in FF, p. 630.
Ibid.
TOMMASO DA ECCLESTON, L’approdo dei frati minori in Inghilterra, V, Edizioni O.R., Milano 1979, p. 37.
TOMMASO DA CELANO, Vita seconda, 97, in FF, p. 630-631.
6
Francesco, mentre pregava, fu momentaneamente distratto dalla presenza di un vaso da lui stesso
realizzato. Al termine della preghiera se ne dolse talmente che decise di distruggerlo 40. Quel vaso
era stato la causa di una momentanea fuga della sua mente dal cuore in cui risiede la presenza
divina, per dirla con linguaggio esicasta41. È utile anche accennare che la preghiera per Francesco
non era un’attività senza rapporto con il corpo, dal momento che anche il corpo doveva
accompagnare l’adorazione dello spirito. Comunemente alla prassi fino ad allora seguita anche nella
Chiesa latina42, è assai probabile che Francesco accompagnasse la sua preghiera con profonde
prostrazioni, come si fa ancora oggi nella Chiesa ortodossa. D’altronde, egli raccomandava:
“Udendo il nome del Quale, adoratelo con reverente timore proni verso terra: Signore Gesù Cristo,
Figlio dell’Altissimo è il suo nome, che è benedetto nei secoli”43.
Quanto detto fino ad ora per l’orazione personale di Francesco, si può ritrovare anche nella
tradizione ascetica ortodossa. In particolare, per quanto riguarda la preghiera continua o ininterrotta
san Gregorio Nazianzeno scrive: “Bisogna ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo, e, se è
possibile dirlo, non bisogna fare altro che questo. Anche io sono tra quelli che approvano le parole
che prescrivono di ‘esercitarsi giorno e notte’, di ‘raccontarlo a sera, al mattino e a mezzogiorno’ e
di ‘benedire il Signore in ogni circostanza’; se bisogna anche ripetere le parole di Mosè, ‘quando
riposiamo a letto, quando ci alziamo e quando siamo in viaggio’ mentre facciamo qualunque altra
cosa, conformandosi alla purezza ricordandoci di Lui”44. Successivamente al Nazianzeno, questa
raccomandazione - che non fa altro che riprendere il passo paolino suaccennato e la prassi dei Padri
del deserto -, è ripetuta da molti altri. San Giovanni il Climaco, ad esempio, dice: “L’anima che di
giorno si occupa senza interruzione del pensiero di Dio, ne ha familiare il ricordo durante il
sonno”45. Il dottore esicasta, san Gregorio Palamas, vissuto posteriormente a Francesco d’Assisi,
riprende tutta la grande tradizione ascetica bizantina e la sistematizza. Riguardo alla preghiera
continua egli così esorta i fedeli: “Affrettiamoci, fratelli, […] a ricambiare la divina adorazione con
l’amore per Dio […], liberandoci da tutte le cose terrene, con una continua preghiera, la salmodia e
con un impegno costantemente partecipe”46.
Abbiamo visto che Francesco, mentre pregava, piangeva. Le lacrime di compunzione esistono
anche nella tradizione ascetica ortodossa, che segue, come già accennato, la linea stabilita dai Padri
del deserto e da quelli della Chiesa. Queste lacrime non devono essere intese in senso sentimentale
e romantico, bensì nel modo specificato dagli antichi scritti ascetici: esse esprimono la gioia e la
dolcezza della presenza del Signore così come l’angoscia per la distanza dell’uomo da Dio. La
Scrittura, d’altronde, ricorda che “uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e
umiliato, Dio, tu non disprezzi”47 mentre il salmista scrive d’inondare ogni notte di pianto il suo
giaciglio (cfr. Sl. 6, 7). Facendo eco a ciò, i Padri ripetono l’esperienza biblica raccomandandola. In
Occidente nella Regula Sancti Benedicti è scritto: “Sappiamo inoltre che non ci faranno esaudire le
molte parole, ma la purezza del cuore e la compunzione del pianto” 48. Gregorio Nazianzeno parla
delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico, avvenuto nell’acqua del Mar
Rosso, di Mosè (cfr. 1 Cor 10,2), quello solamente penitenziale di Giovanni Battista, quello di
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Cfr. Ibid. p. 632. Tommaso da Celano aggiunge che il vaso fu fatto da Francesco nei “ritagli di tempo e per non
perdere neanche un istante”. In questo fugace appunto si nota il senso del lavoro per il Poverello: obbligare la
mente ad un impegno per non disperdersi inutilmente. Siamo ben lungi da quella mentalità che considera il lavoro
quale valore per se stesso.
L’Esichìa, o quiete, era ricercata da coloro che, fuggendo dal mondo, si ritiravano in eremi e monasteri. Nel mondo
bizantino si creò un vero e proprio movimento esicasta il cui personaggio di spicco fu san Gregorio Palamas (12961359).
Vedi, a tal proposito, SCHMITT J.C., Il gesto nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 275-282.
FRANCESCO D’ASSISI , Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati, in FF, p. 162.
GREGORIO NAZIANZENO , Orazione 27, in ID., Tutte le Orazioni, a cura di Claudio Moreschini, Bompiani, Milano
2000, p. 647.
GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso. Ventesimo discorso, p. 220.
GREGORIO PALAMAS, Omelia 47, in Id., Che cos’è l’Ortodossia. Capitoli, Scritti ascetici, Lettere, Omelie,
Bompiani, Milano 2006, p. 1454.
Sl. 50, 19.
Regula sancti Benedicti 20, 8, in GREGORIO MAGNO , Vita di san Benedetto e La Regola, p. 187.
7
Cristo avvenuto nello Spirito Santo e quello dei martiri che avviene nel sangue: il battesimo delle
lacrime “è un battesimo più impegnativo, perché è quello che bagna ogni notte di lacrime il proprio
letto e il proprio giaciglio”49. Ma, giungendo quasi ai nostri giorni, non è possibile non citare
l’esempio di san Silvano l’Atonita (1866-1938) il quale, pregando per il mondo intero, piangeva. Lo
possiamo capire da queste righe che riflettono la sua esperienza: Il Signore “a volte fa il dono
all’anima di amare il mondo. Allora, essa piange per il mondo intero e implora il Maestro buono e
misericordioso di diffondere la Sua grazia su ogni anima avendo pietà di essa” 50. In una sua poesia
si trova scritto: “La mia anima ha sete del Signore / e con lacrime io Lo cerco”51.
Pure l’attenzione alla preghiera, che abbiamo visto caratterizzare Francesco di Assisi, è fortemente
raccomandata dai Padri52. Questo è ben presente nell’Ortodossia. Un esempio odierno ci è fornito
dall’Anziano Paisios del Monte Athos (1924-1994) il quale era solito raccomandare di tenere la
testa “nel frigorifero”, ossia in un modo da congelare tutti i pensieri che possono disturbare la vita
religiosa e la preghiera. Egli raccomandava: “Non dobbiamo trascurare la preghiera [continua del
nome] di Gesù. Quando abbiamo l’occasione, la dobbiamo recitare. La nostra mente non deve
disperdersi inutilmente. Con questa preghiera l’intelletto si riposa e gioisce”53.
Per quanto riguarda la preghiera comunitaria, Francesco dispose che i suoi seguissero la liturgia in
uso nella Chiesa di Roma54, sia per la Messa che per il Breviario, differenziandosi così dagli usi e
dalle liturgie locali di allora. Per il nostro discorso è importante notare il modo in cui veniva
eseguita questa liturgia nelle prime comunità francescane. Oltre a contraddistinguersi per pietà ed
attenzione, essa aveva alcune modalità molto simili a quelle bizantine. La prassi liturgica
dell’ordine in Inghilterra, durante le Veglie notturne nelle solennità, può benissimo essere
paragonata ad una agripnia bizantina odierna. Tommaso da Eccleston descrive con gioia e
meraviglia il fervore dei frati nella recita dell’Ufficio divino: “Nelle principali feste dell’anno
cantavano l’ufficio con tanto fervore, che le veglie si prolungavano qualche volta per tutta la notte;
e quando non erano che tre o quattro o al massimo sei, cantavano con solennità e con
accompagnamento musicale”55. Si tratta, dunque, di un ufficio notturno cantato. Chi ha pratica della
vita liturgica tradizionale, laddove essa viene ancora eseguita, sa quanto sia difficile mantenere
delle ufficiature cantante, dal momento che richiedono una certa applicazione e una particolare
specializzazione musicale. Per questo oggi è piuttosto raro trovare delle comunità religiose in cui
questa consuetudine sia praticata. E se è difficile trovare chi esegua in canto le ufficiature diurne, è
quasi impossibile incontrare chi canti quelle notturne. Alla luce di ciò, la testimonianza di Tommaso
da Eccleston è particolarmente significativa. Non solo ravvisa un notevole fervore, da parte dei
frati, ma nota pure la capacità, addirittura nel caso in cui ci siano solo tre religiosi, di far rivivere
l’antica tradizione di un’ufficiatura notturna cantata. Perciò, sotto tale aspetto, questi primi discepoli
di Francesco possono essere benissimo paragonati con il mondo monastico orientale.
Inoltre, Tommaso da Eccleston ci fa sapere che i frati recitavano l’ufficio sempre in piedi e ricorda
un ministro provinciale che rimproverò aspramente un frate seduto durante la recita delle ore
canoniche56. Questa modalità di celebrare la liturgia delle ore, era una consuetudine praticata dallo
stesso Francesco57. Ciò riporta alla mente quanto dice, a tal proposito, san Giovanni Climaco: “Chi
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Cfr. GREGORIO NAZIANZENO , Orazione 39, p. 917. Si noti come Gregorio riprende alla lettera il salmo succitato.
Cfr. LARCHET J.-C., Saint Silouane de l’Athos, Éditions du Cerf, Paris 2001, p. 167.
SOFRONIO, Archimandrita, Ascesi e contemplazione, Servitium-Interlogos, Sotto il Monte-Schio 1998, p. 61.
Si veda a titolo di puro esempio: GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso, 118, Cittanuova, Roma 1995, p. 217;
Regula sancti Benedicti 19, 7 in GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e La Regola, p. 187; ISACCO DI NINIVE ,
Grammatica di vita spirituale, Discorso 7, San Paolo, Roma 2009, pp. 162-169.
TATSIS D., Non cercate una santità a buon mercato, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, p. 68.
La liturgia romana, in quel tempo, aveva molti elementi in comune con il mondo cristiano orientale. Ne
accenniamo solamente due: il battesimo era ancora effettuato esclusivamente per immersione e il segno della croce
avveniva non con la mano distesa, ma in modo simile a quello bizantino, per indicare la confessione dell’unità nella
trinità divina. Vedi RIGHETTI M., Storia Liturgica, 1, Marietti, Torino, pp. 369-370; Ibid., 4, p. 109.
TOMMASO DA ECCLESTON, L’approdo dei frati minori in Inghilterra, V, pp. 37-38.
TOMMASO DA ECCLESTON, L’approdo dei frati minori in Inghilterra, Ibid., XIV, p. 88.
TOMMASO DA CELANO, Vita seconda di san Francesco d’Assisi, 62, in FF., p. 631.
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intende stare sensibilmente alla presenza del Signore nell’intimo del cuore pregherà certo in
posizione eretta ed immobile come una colonna, senza mai farsi illudere da qualcuno di tali demoni
[dello sbadiglio e del riso durante la preghiera]”58. Ma, per giungere ai giorni nostri, ricordo
chiaramente come, durante una veglia notturna di alcuni anni fa’ in un monastero del Monte Athos,
un monaco mi indicò, come esempio, un altro monaco molto anziano giunto anche lui nel
katholikon59 per un panighiri60. Quell’anziano aveva la caratteristica di rimanere in piedi per tutta la
preghiera, incurante della sua veneranda età. Così, mentre io verso le tre di mattina mi coricai, lui
era ancora là e là lo ritrovai alcune ore dopo, verso le sette, in occasione della Divina Liturgia. Egli
era visibilmente stremato, ma tenacemente in piedi. La figura del monaco che prega “eretto e
immobile come una colonna” non mi è stata data solo da quell’anziano ma anche da un monaco
serbo, fiero e statuario, assorto in preghiera, in un altro contesto di luogo e di tempo. Dunque questa
consuetudine, che si riscontra nelle testimonianze relative a Francesco d’Assisi e ai suoi primi
discepoli, è ancora viva nel mondo ortodosso.
Nella storia iniziale del movimento francescano, si può trovare un ultimo particolare degno di nota:
l’esistenza di un frate cantore61, il cui compito doveva consistere nell’eseguire in modo appropriato
l’Ufficio divino. È un poco quanto avviene nelle comunità monastiche bizantine in cui esiste il
cosiddetto protopsaltis62 che svolge il medesimo compito.
L’amore per il creato e gli animali
Francesco è diffusamente ricordato per il suo amore verso il creato e gli animali. Quest’immagine è
stata tramandata dalla Chiesa cattolica ed è assai popolare. Viene presentata anche agli studenti: uno
dei primi testi in volgare citato nella storia della letteratura italiana è proprio il Cantico delle
Creature composto dal Poverello tra il 1224 e il 1226 63. Nel Cantico è esaltato “il valore elementare
[delle creature], di supporto corporale all’uomo, e insieme il valore illuminante, di illuminazione
anche spirituale: il tutto chiuso dalla ‘sora nostra morte corporale’, che avvia all’incoronazione
divina, attraverso il perdono in nome dell’amore di Dio, attraverso l’infermità e la tribolazione,
serenamente sopportate”64. Davanti a questo scritto si deve immediatamente fare una precisazione:
non può essere letto in chiave sentimentale o romantica. Infatti, non è stato redatto da Francesco
sull’onda di un sentimentalismo prorompente, ma per aver osservato il creato con fede evangelica e
con cuore rinnovato. “La fede di Francesco non fa parte di quella dotta, non si sofferma in dispute
teologiche, ma non è neppure semplicemente popolare, intessuta di sentimento” 65. È vero che in lui
si ravvisa anche l’atteggiamento dell’uomo medioevale che, davanti ai fenomeni della natura era
spontaneamente estatico e ne traeva il significato religioso. Ma questo è insufficiente per poter
spiegare il modo proprio a Francesco di relazionarsi con il creato. Francesco non si situa in una
realtà religiosa tradizionale semplicemente perché segue le linee fondamentali della tradizione
ascetica sopra ricordata, ma perché risente di tutta un’atmosfera che lo ha preceduto e che lo spinge
ad osservare il creato in modo, non solo religioso, ma mistico. Infatti, la rigorosa prassi ascetica
seguita dal Poverello non poteva non creargli occhi nuovi nell’osservare la creazione e nel
relazionarsi con essa. Così egli poteva “vedere di nuovo non soltanto il sorriso dell’universo, come
lo vedeva Adamo nella situazione edenica ma […] il sorriso stesso di Dio, e nella bontà del creato
58
GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso, Cittanuova, Roma 1995, p. 217.
La chiesa principale del monastero.
60
Solennità liturgica.
61
Cfr. ESSER K., Origini e inizi del movimento e dell’ordine francescano, p. 132.
62
Letteralmente: “primo cantore” o “cantore principale”.
63
Cfr., ad es., ASOR ROSA A. (a cura di), Letteratura italiana. Le origini, il Duecento, il Trecento, 1, Einaudi, Torino
2007, pp. 15-25.
64
Ibid., 21.
65
MESSA P., Le fonti patristiche negli scritti di Francesco d’Assisi, Edizioni Porziuncola, Assisi 2006, pp. 116-117.
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9
[…] contemplare con saporosa gioia la bontà del Padre, e nella bellezza delle opere divine la
bellezza stessa del Creatore”66.
Nel Cantico delle creature riecheggia la memoria delle Sacre Scritture e, precisamente, la struttura
dei salmi di lode67. In esso emerge il senso di Dio nella bellezza delle creature il che fa risalire il suo
compositore da un puro amore del creato a un ardente amore del Creatore. “La letizia è, per lui,
sorella della povertà volontaria, perché questa è anche assenza di preoccupazioni e dissipazioni
esterne e impedisce al corpo di appannare la sua esperienza con Dio. E così tutta la realtà esteriore,
le creature visibili, gli eventi coinvolgenti il suo corpo [la sofferenza e la morte…] si trasformano
[…] in fonti di letizia e di autentico lirismo nel Cantico delle creature composto in un periodo di
indicibili sofferenze”68.
La predica di Francesco agli uccelli e l’ammansimento del feroce lupo di Gubbio sono altri elementi
che rilevano il profondo amore dell’umile frate nei riguardi della creazione 69. Tutti questi elementi,
tuttavia, lo collegano con un mondo passato da lui riattualizzato70.
In questo contesto è molto importante rilevare la trasformazione interiore del Poverello. È questa
che gli permette di vedere un mondo trasfigurato: solo fuggendo dal mondo Francesco ha potuto
assumere dei nuovi occhi con i quali, ritornandovi, ha ravvisato l’autentica dignità e bellezza in
ogni cosa.
Quanto esposto è una peculiarità comune all’Oriente cristiano. Infatti, l’insegnamento tradizionale
monastico non spingeva l’uomo a proiettarsi fuori di sé, disperdendo il suo pensiero, ma a volgersi
alla sua interiorità col fine di fissarla in Dio e, attraverso Dio, fargli conoscere il proprio cuore e il
cosmo in modo spirituale, più che fenomenico. Per questo, agli occhi di un cuore ascetico anche la
più insignificante realtà del cosmo riluce di bellezza.
Lo vediamo, ad esempio, in Gregorio di Nissa per il quale quant’è materiale partecipa al divino 71.
Tuttavia il mondo materiale è di ostacolo all’uomo solo nel caso in cui quest’ultimo è un essere
meschino. In questa situazione l’uomo si chiude in una comprensione puramente materialistica del
reale ed è incapace di osservare il senso e il fondamento di se stesso e del mondo 72. Non deve quindi
meravigliare che la fuga mundi sia sempre stata considerata dal monachesimo e dai Padri della
Chiesa il momento iniziale per cominciare a risorgere da una comprensione puramente carnale 73
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73
POMPEI A., Francesco di Assisi in G. RUHBACH - J. SUDBRACK (a cura di), Grandi mistici dal 300 al 1900, Bologna,
2003, p. 188.
Vedi, in particolare , il salmo 148.
POMPEI A., Francesco di Assisi, 191.
Vedi il capitolo “L’amore per la creazione” in GOBRY I., San Francesco, Roma, 2004, p. 271-276. Vedi anche
PEDROTTI F., Ecologia e natura in s. Francesco d’Assisi, in FAMIGLIE FRANCESCANE TOSCANE , Convegno. Il
messaggio di s. Francesco e l’Ecologia, La Verna (Arezzo), 1982, p. 137-148.
Prima di Francesco nei racconti delle Vitæ e nelle raccolte dei Miracula sanctorum non era così raro trovare santi
che ammansivano e beneficavano gli animali. Cfr., a tal proposito, ANTI E., Santi e animali nell’Italia Padana.
Secoli IV-XII, Bologna, 1988. Da questo libro notiamo che, ad esempio, i santi Faustino e Giovita, con un segno di
croce su due inferociti tori, riescono ad ammansirli al punto che gli animali si gettano ai loro piedi come miti
agnelli (p. 99-100); la ferocia dei lupi viene momentaneamente placata dalla presenza dell’uomo di Dio san
Colombano (p. 164-167); san Simeone, giunto ad un ponte sul Ticino nei pressi di Vercelli, risana miracolosamente
un cavallo che si era fratturato una zampa impedendo al suo padrone di recarsi in pellegrinaggio a Roma (p. 78).
Più spesso i santi intervengono anche per placare condizioni meteorologiche avverse come nel caso di alluvioni e
siccità (p. 59; 70). L’atteggiamento che hanno gli animali verso Francesco fa ricordare quello avuto dagli stessi
verso gli antichi santi. Gualfardo era un santo eremita vissuto presso le rive dell’Adige nel XII secolo. Il suo nome
era l’italianizzazione di “Wallfahrer”, cioè “pellegrino”. Egli “appare caratterizzato, come tutti gli eremiti, dalla
capacità di instaurare una profonda comunione con il creato. Così, quando scende alla riva del fiume per lavarsi le
mani e attingere un po’ d’acqua, ecco accorrere subito una moltitudine di pesci che a gara gli saltano nella tazza, e
gli lambiscono le mani. […] Il creato e i piccoli animali che lo abitano non hanno più paura di lui, anzi, lo cercano
e si affidano senza timore alle sue mani, rifiutando addirittura di allontanarsene. Gualfardo, novello Adamo, ha
restaurato l’armonia che regnava nel mondo prima del peccato originale” (p. 146).
GREGORIO DI NISSA, La grande catechesi, VI , (collana di testi patristici 34), a cura di M. Naldini, Roma, 1990, p.
61.
Vedi ID., L’anima e la resurrezione, Città Nuova, Roma 1992 pp. 42-43.
“Carne” e “spirito” nel linguaggio patristico non sono necessariamente delle realtà in dualistica contrapposizione,
quanto modalità differenti secondo le quali si può vivere ma anche comprendere la vita e il vangelo. Questo,
d’altronde, è il linguaggio che si ritrova anche in san Paolo, specialmente in Rom 8, 4-8, un linguaggio che ha
10
della realtà ad una comprensione spirituale e divina. Grazie a questa fuga, anche nel mondo
ortodosso recente sono emerse personalità singolari, in grado d’intrattenere con il creato un rapporto
amorevole e di farsi pure intendere dagli stessi animali.
Padre Paisios del monte Athos diceva: “Gli animali selvatici sentono quando li amiamo e allora si
avvicinano all’uomo. Credevo, però, che questo non succedesse con i serpenti. Ma più tardi ho visto
che anche loro sentono l’amore. Una volta una vipera mi è venuta vicino e mi mostrava la sua
lingua fischiando. Aveva sete perché l’estate era molto calda e cercava dell’acqua. Le ho messo un
po’ di acqua in una lattina ed ha bevuto. La vipera nei confronti delle altre bestie è come una capra
tra le pecore”74.
Lo stesso Anziano viveva con un gatto, un’aquila e un serpente, si faceva da loro intendere e li
amava. In questo, rinnovava con la sua vita un detto antico di Isacco il Siro: “L’umile si avvicina
agli animali selvaggi e, quando questi lo vedono, la loro selvatichezza si tranquillizza, gli si
accostano come ad un padrone, gli piegano le loro teste e gli leccano le mani e i piedi, perché hanno
avvertito in lui lo stesso profumo emanato da Adamo prima del peccato”75.
Conclusioni
Nel corso di quest’esposizione abbiamo visto alcune principali convergenze tra la spiritualità
assunta da Francesco d’Assisi e il fondamentale orientamento della tradizione ascetico-monastica
comune al mondo monastico latino tradizionale e a quello bizantino. Il Poverello, vissuto in un
periodo di diffusa decadenza spirituale, ha saputo rivivificare l’antica prassi monastica latina
incarnandola in una forma nuova ma lasciandone intatte le forti esigenze evangeliche. Con la sua
vita, egli ha tornato a ricordare:
1) il primato della tradizione, di fronte alla tentazione del rilassamento e a possibili interpretazioni
troppo personali;
2) la fuga mundi di fronte alla tentazione di un adattamento alla mentalità cittadina, tutta incentrata
nel commercio e nel guadagno;
3) la pratica rigorosa della preghiera personale e della liturgia, di fronte ad un formalismo o ad
un’interpretazione eccessivamente allegorica della liturgia stessa.
Tutto ciò ha trasformato Francesco unendolo in mistica relazione con tutto il creato.
Uno dei discepoli più rigorosi all’insegnamento di Francesco, Angelo Clareno (1245-1337),
personalità da alcuni discussa ma anche stimato e venerato per la sua vita ascetica, ebbe modo di
notare personalmente come l’ortoprassi seguita dal santo di Assisi avesse dei chiari riscontri nella
Chiesa bizantina. Durante un periodo difficile e pericoloso della sua esistenza, il Clareno trovò
ospitalità e rifugio in un monastero ortodosso nell’isola di Trixonìa. Qui, “a contatto dei monasteri
bizantini, Angelo aveva scoperto con stupore che il monachesimo orientale primitivo rappresentava
il suo ideale francescano molto meglio che la vita religiosa latina medioevale” 76. Così, in Oriente
“notò quegli ideali ascetici tramandati dai primi Frati Minori, per i quali stava rischiando la propria
vita, come scrisse in una delle sue epistole pervenuteci”77.
Lo stesso Clareno, conoscitore del greco e lettore dei Padri greci, vede negli scritti ascetici di san
Basilio, ai quali s’ispira il monachesimo ortodosso, quanto poi aveva sintetizzato Francesco nei tre
74
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77
riferimenti antropologici biblico-semitici.
TATSIS D., Non cercate una santità a buon mercato. Vita e insegnamenti dal Monte Athos, Edizioni dehoniane,
Roma 1997, p. 133.
ISACCO IL SIRO , Opere ascetiche, Rigopoulos, s.l., 1977, p. 78.
SCHMITT C., Angelo da Chiarino, in Dizionario degli istituti di perfezione, edizioni paoline, Roma 1974, col. 640.
Cfr. RESTAGNO I., Messaggio di saluto ortodosso al Convegno “Assisi Nuovo Oriente”, 25 ottobre 2008, Sacro
Convento della Basilica di san Francesco, Assisi. Il Messaggio è inedito.
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fondamentali consigli indicati all’inizio della sua Regola: osservare il vangelo, vivendo in
obbedienza, senza nulla di proprio e in castità78.
Se i minori francescani, ai quali Clareno apparteneva, erano combattuti da alcuni loro confratelli a
causa del loro rigore giudicato eccessivo, furono anche valorizzati e coinvolti nei dialoghi d’unione
con la Chiesa greca, proprio grazie alla stima che essi seppero attirare per la loro santa vita. È
sempre il Clareno a rivelarcelo quando, descrivendo quei francescani che applicavano letteralmente
la vita del Poverello, dice che attiravano la stima dei cristiani ortodossi i quali, evidentemente, vi
ravvisavano diverse similitudini con il modo d’essere di alcuni loro santi monaci79.
Il riconoscimento da entrambe le parti – cattolica e ortodossa – di elementi spirituali comuni pare
essere particolarmente eloquente oggi, in cui si cerca una via d’unità tra l’Occidente e l’Oriente
cristiano e, nello stesso tempo, un modo per vivificare la pratica cristiana, spesso intiepidita,
trasformata in individualismo religioso o in attivismo sociale80. Francesco e la tradizione ascetica
condivisa con il mondo bizantino mi paiono, in tal senso, più interessanti che mai e sono riferimenti
da prendere in seria considerazione.
PIETRO CHIARANZ
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2015 © Chiaranz Pietro
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80
Vedi ANGELO CLARENO, Commento alla Regola dei Frati minori, in ACCROCCA F., Angelo Clareno. Seguire Cristo
povero e crocifisso, pp. 162-163.
“[Frate Giovanni] fu fatto oggetto di tale rispetto e stima per la santità di vita e la divina sapienza da parte
dell’imperatore, del patriarca e dei loro religiosi e da tutto il clero e il popolo, che non credevano di vedere un
uomo qualsiasi prudente e dotto, ma uno degli antichi padri e dottori, o uno dei discepoli di Cristo”. ANGELO
CLARENO, Liber chronicarum sive tribulationum ordinis minorum, Edizioni Porziuncola, Assisi 1998, pp. 185-189.
Cfr. NESTI A., A cosa credono quelli che dicono di credere, Meltemi, Roma 2002, pp. 63-76.
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