MATERIALI E METODI
Esporre un romanzo
Il Museo dell’innocenza di Istanbul
di Anna Chiara Cimoli
I veri musei sono dei luoghi dove il Tempo si fa Spazio.
Orhan Pamuk, Il Museo dell’innocenza
1. Introduzione
Il romanzo Il Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk è stato pubblicato nel
2008. Nell’aprile del 2012 è stato inaugurato l’omonimo museo nel quartiere di
Çukurcuma, a Istanbul, in un edificio acquistato dallo scrittore diversi anni prima
e completamente ristrutturato. Il museo conserva ed espone gli oggetti raccolti
da Pamuk durante la stesura del romanzo, e qui descritti. Fotografie, ritagli di
giornale, scatole di fiammiferi, orologi, manifesti pubblicitari, video, bottiglie di
liquore e di profumo, cartoline, forbici, tazzine da caffè, abiti, cani di ceramica:
Pamuk ha raccolto un migliaio di oggetti investendo in questo progetto la maggior parte del guadagno del premio Nobel (J. Michael Kennedy, «The New York
Times», 29 aprile 2012).
Museo e romanzo, fin dalla loro concezione, rappresentano due declinazioni
di un’unica idea, nascono da una stessa ispirazione e raccontano, con strumenti
diversi, una medesima ossessione. Non esiste l’uno senza l’altro: o forse è più
corretto affermare che il museo è la trasposizione tridimensionale del romanzo,
mentre quest’ultimo è la traduzione lineare, o l’unico catalogo possibile, del
museo. A questo gioco di rimandi bisogna aggiungere che Pamuk ha scritto un
ulteriore libro, L’innocenza degli oggetti, a titolo di guida del museo1.
«Espongo qui, nel mio museo, la pubblicità che in quei giorni usciva sui
giornali della Meltem, la prima gassosa turca alla frutta, i filmati e alcune bot-
Il presente saggio è il frutto del progetto di ricerca MeLa – European Museums in an age of migrations, finanziato nell’ambito del Settimo Programma Quadro dell’Unione Europea (SSH-2010-5.2.2),
Grant Agreement n° 266757.
1
Mentre scrivo (ottobre 2012), il volume non è ancora disponibile in italiano; verrà pubblicato nel
novembre 2012 da Einaudi.
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STUDI CULTURALI - ANNO IX, N. 3, DICEMBRE 2012
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tiglie alla fragola, pesca, arancia e amarena» (Pamuk 2008, 28): fin dalle prime
pagine del romanzo apprendiamo che gli oggetti descritti sono stati raccolti dal
protagonista e poi esposti in un museo. Lungo il dipanarsi della narrazione familiarizziamo con un testo che scorre parallelo a quello della vicenda principale:
la formazione della collezione, nata in modo disordinato e poi sviluppata come
progetto coerente quando la finalità espositiva diventa prioritaria. Siamo, dunque,
dentro una finzione. La collezione nasce nel romanzo. Chi l’ha assemblata è il
suo protagonista, Kemal; il Museo dell’innocenza come luogo fisico discende da
un gesto puramente letterario.
Trascrivere in forma letteraria una collezione, il suo divenire nel tempo, la
sua fisionomia, e nello stesso tempo trasformare dapprima in collezione e poi in
museo un’opera letteraria: nell’andirivieni e nella contemporaneità di queste due
operazioni sta l’unicità del progetto. L’organismo fisico che ne è scaturito non è
né museo letterario (pur essendo modellato sulla matrice di un libro) né museo
di città (pur essendo Istanbul la protagonista della narrazione) né casa-museo
(pur mimando la realtà di una «vera» abitazione), quanto, piuttosto, museo di un
romanzo. In questo senso, l’affermazione secondo cui museo e romanzo sono
potenzialmente autosufficienti si rivela del tutto fuorviante, come un’ulteriore
finzione letteraria sovrapposta alle altre, in un meccanismo caleidoscopico2. Il
libro contiene in sé il museo, così come la storia del protagonista contiene quella dello scrittore: il tema del doppio permea di sé tutto il libro e ne rappresenta
l’asse portante. L’ambivalenza psicologica, la menzogna, il nascondimento fanno
da specchio al più generale senso di tensione di un’intera cultura di fronte a una
modernità arrembante ma temuta, che genera complessi e infelicità, invece che
liberazione.
Nel saggio Tensions in the Nations: Pamuk and Svevo, David M. Buyze
traccia un parallelismo fra Il Museo dell’innocenza e La coscienza di Zeno, sottolineando come in entrambi i romanzi il tema fondamentale sia «come immaginare
una vita che non sia strutturata e misurata solo attraverso la società» (Buyze 2012,
25). La questione dell’identità, definita da quella lotta dell’individuo contro le costrizioni sociali così centrale nella letteratura turca contemporanea (e non solo), è
onnipresente in questi due romanzi: è un’identità resa fragile dagli strattoni della
storia, interrogata dalla globalizzazione e dalla frammentazione sociale, religiosa
e culturale che essa ha provocato, con i relativi rigurgiti di nazionalismo, discorsi
razziali e fondamentalismo. Il nodo è quello del rapporto con la tradizione (dunque anche con la religione, quella islamica per Pamuk, quella ebraica per Svevo),
e dei modi per dissimulare la mancanza di devozione a questa tradizione, la sua
totale perdita di senso. Di fronte a categorie inadatte a descrivere il mondo come
2
Tale affermazione si trova espressa sul sito internet del museo, www.masumiyetmuzesi.org
(ottobre 2012).
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IL MUSEO DELL’INNOCENZA DI ISTANBUL
quelle di razza, nazione, credo religioso, Pamuk pone l’individuo con tutto il suo
dramma, la sua irrazionalità, la sua ambivalenza, eppure la sua grandezza: da
questo punto di vista Il Museo dell’innocenza, colossale romanzo della contemporaneità, ha un respiro classico, quasi da romanzo ottocentesco. Come scrive
Buyze, «l’andirivieni del discorso privato e intimo ha la capacità di sfiorare e riconfigurare la dominante retorica di massa della sfera pubblica e politica. In questo
senso, c’è una chiamata a vivere nel potere e nella presenza di una vita che possa
testimoniare la responsabilità di elevarsi al di sopra delle masse: Pamuk e Svevo
sono importanti fonti di ispirazione per una riflessione sulle possibilità illimitate
dell’immaginazione individuale nella vita e nella società»3. È fuorviante, continua
Buyze, «pensare a una tradizione che rimane stabile o rigida, perché essa è sempre
sollecitata non solo da fenomeni come l’immigrazione e l’esilio, ma anche, fatto
ancora più importante, dall’attività di reinvenzione dell’uomo, dalla sua capacità
immaginativa, dalla possibilità di rigenerare quello che considera significativo
attraverso processi culturali sempre attivi, dinamici e in trasformazione»4.
Mentre i musei europei si interrogano sempre di più sul tema del diverso, del
migrante, dell’altro, il Museo dell’innocenza mette sotto il microscopio un mondo
circoscritto, relativamente omogeneo al suo interno, cristallizzato nel tempo. Il
mantra dei musei europei è oggi l’inclusività; quello voluto da Pamuk è un museo
esclusivo, poiché espone emblemi, simboli, feticci propri di un solo luogo e di
un’epoca precisa, senza preoccuparsi di descriverli al visitatore, se non dietro una
sofisticata filigrana letteraria. La ricerca dell’identità, sofferta sul piano personale
e sociale come una lunghissima adolescenza, si traduce in un corpo espositivo
apparentemente anacronistico, eppure così attuale: quegli oggetti che nessuno
vuole più sono il cuore di un racconto struggente; quel sé in bilico si aggrappa a
ciò che sente autenticamente proprio, anche se ambiguo, doloroso, irrisolto.
Gli ideali della Rivoluzione francese, che Pamuk cita spesso come simboli
dell’identità europea, appaiono oggi vuoti emblemi di fronte all’incapacità di
assorbire un «altro». L’Europa vista dalla frontiera è più fragile di come essa paia
al suo interno. Durante il discorso di ringraziamento per il premio Sonning, ricevuto a Copenhagen lo scorso ottobre, Pamuk ha affermato: «Se permettiamo che
la paura dell’Islam offuschi i principi di libertà, uguaglianza e fraternità, avremo
un’Europa molto conservatrice ed omogenea dal punto di vista religioso ed
etnico»5. Di fronte a un’Europa spaventata dal confronto con l’ondata migratoria
da Paesi musulmani, la Turchia vede oggi allontanarsi il suo sogno di modernità,
tenuta ai margini da un continente che la teme, e Pamuk, da artista, interpreta
questo sentimento attraverso un museo che sceglie il linguaggio espositivo
3
Ivi, 41 (trad. mia).
Ivi, 32 (trad. mia).
5
Harris (2012). Ringrazio l’autrice per avermi fornito la traduzione inglese del suo articolo.
4
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ANNA CHIARA CIMOLI
dell’Ottocento (europeo), si concentra su un momento del passato, ma risponde
a un’urgenza contemporanea.
Tenendo sullo sfondo queste riflessioni sul significato del romanzo, nell’articolo si analizzeranno i suoi esiti museologici e museografici, ponendo l’accento
in particolare su tre aspetti: si analizzerà prima di tutto il rapporto fra il museo e
la città, mettendo in evidenza il tema del collezionismo come forma di riscatto
rispetto alla tristezza e al sentimento di perdita (il turco assomma queste declinazioni nel concetto di hüzün); si approfondirà poi il concetto di domesticità del
museo (da casa-museo a museo-casa); si inquadrerà infine il lessico espositivo
alla luce di alcuni momenti della recente museografia.
2. Istanbul: la tristezza riscattata da un museo
Il romanzo narra le vicende di Kemal Basmacı, esponente della ricca borghesia
industriale. Kemal abita con la famiglia nel quartiere di Nişantaşi e si sta preparando al matrimonio con Sibel, perfetta futura moglie – studi a Parigi, attenzione
alla moda europea, perdita della verginità prima del matrimonio – quando si imbatte per caso in una lontana cugina, Füsun, e per un breve periodo la incontra
quotidianamente in un appartamento di famiglia, intrecciando con lei un rapporto
dalla forte connotazione sessuale. Mentre la sua vita prosegue sui binari prestabiliti
dalle convenzioni sociali e dalle aspettative familiari, il sentimento verso Füsun si
manifesta con una forza tellurica che progressivamente spinge Kemal a rinunciare
a tutto, fino a un esito tragico. Questo esito è preparato lungo le oltre quattrocento pagine del libro da una serie di elementi: l’appartenenza a classi sociali
diverse, l’intempestività (Kemal porta avanti il proprio fidanzamento nonostante
la relazione con Füsun), le aspettative incompatibili (l’ambizione di diventare una
stella del cinema da parte di lei, la paura di perderla da parte di lui), un rapporto
malato con il tempo (quando non ci sono più ostacoli alla relazione non è più il
momento per viverla, i sentimenti sono inquinati, la vita è alle spalle).
Oltre a questa storia, il museo raccoglie ed espone anche i sedimenti della personale vicenda umana raccontata in Istanbul, dunque è museo anche di
quell’opera, in cui la formazione di Pamuk si intreccia con una serie di riflessioni
sulle rappresentazioni della città realizzate da scrittori, illustratori e pittori. In
questo senso, il Museo dell’innocenza è chiaramente autobiografico: «Cercando
di raccontare me stesso racconto Istanbul e raccontando Istanbul racconto me
stesso» (Pamuk 2003, 290)6.
6
Sulle rifrazioni autobiografiche nella produzione di Pamuk si veda in particolare McGaha
(2008).
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IL MUSEO DELL’INNOCENZA DI ISTANBUL
Ma c’è un altro tema che collega i due libri, ed è la rivincita sulla tristezza
attraverso l’atto di esporre. In questo senso, il Museo dell’innocenza non rappresenta solo il romanzo omonimo, ma riscatta anche l’infelicità raccontata in Istanbul.
L’atto di collezionare è una risposta vitale, un anticorpo contro la mediocrità e il
conformismo: una forma di intelligenza. Il collezionismo consapevole e orgoglioso, ricorda Pamuk, ovvero l’idea che gli oggetti possano illuminare la storia, è un
atto propriamente occidentale: «Nelle società non occidentali, o in quelle in cui
non c’è l’idea del museo […], la gente è imbarazzata dagli oggetti che colleziona,
perché gli oggetti simboleggiano solo i loro traumi, i loro cuori spezzati, i loro
problemi, gli aspetti imbarazzanti. Ma se tu esponi il tuo imbarazzo con orgoglio,
cosa che Kemal fa nel museo, il museo trasformerà la miseria in orgoglio»7. Collezionare vuol dunque dire uscire dalla miseria della propria malinconia e portare
fuori, elaborare, comporre una diversa narrazione sulla propria vita. L’arbitrio
personale, il gusto, la fisionomia della propria storia, se narrate con orgoglio,
hanno un potere dirompente contro il conformismo sociale8.
In Istanbul lo scrittore ricorda come, a vent’anni, criticasse «i ricchi di Istanbul» stigmatizzando «le loro false maniere per mostrarsi più occidentali possibile,
le loro figure estremamente insignificanti e il loro modo di vivere timoroso, senza
il sogno di una collezione o di un museo» (ivi, 196). Vivere senza il sogno di un
museo è vivere senza poesia, senza prospettiva, senza possibilità di riscatto. Ma
riscatto da che cosa?
Tutta l’opera dello scrittore è un colossale tentativo di risposta a questa domanda. La tristezza è il sentimento dominante che promana dalla città: «Il senso
di fallimento dell’impero ottomano, la desolazione e la tristezza generate dalle
rovine che occupavano la città, sono stati per me, per tutta la vita, la caratteristica
principale di Istanbul» (ivi, 7). Alla tristezza viene dedicato un intero capitolo di
Istanbul, in cui la si definisce come sentimento culturale, collettivo, che appartiene alla città stessa prima ancora che ai suoi abitanti: «A Istanbul, a differenza di
quanto succede nelle città occidentali con le vestigia dei grandi imperi del passato, i monumenti storici non sono reliquie protette ed esposte come in un museo
[…]. Ma le antenne della città ricordano ai suoi abitanti sensibili che la forza e la
ricchezza del passato sono scomparse insieme a quella cultura, e il presente è
povero e confuso e non si può confrontare col passato» (ivi, 99). La conseguenza di questo «sentimento della rovina» è un atteggiamento di arrendevolezza, di
pessimismo, di immobilismo rispetto alla storia:
7
Harris (2012).
Per una riflessione sul collezionismo moderno e sulla sua interpretazione alla luce degli studi
culturali si vedano in particolare Elsner e Cardinal (1994), Pearce (1992) e Pearce (1995). Un interessante
approfondimento sulle collezioni “biografiche” e sui problemi sollevati alla loro esposizione si trova in
Albano (2007) e in Hoskins (1998).
8
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ANNA CHIARA CIMOLI
La malinconia degli abitanti di Istanbul atrofizza ogni tipo di inventiva contro
le etichette della società, e induce all’omologazione e alla mediocrità. […]
Dal momento che mostra la sconfitta e la povertà non come un risultato ma
come una condizione di vita a cui si è stati predestinati, è un atteggiamento
sia dignitoso sia illusorio. Così la miseria, la confusione mentale e il dominio
del chiaroscuro, penetrati nell’anima di Istanbul alla stregua di un destino,
si vivono non come un insuccesso o una mancanza di capacità, bensì come
un onore (ivi, 102).
Come nota Isabella Pezzini, l’atto di fondazione del museo rappresenta una
potente forma di ribellione verso questo sentimento di decadenza e di passività.
La data di apertura del museo fissata da principio, poi non rispettata, era il 2010,
anno in cui Istanbul è stata Capitale Europea della Cultura: la storia ha compiuto un
ciclo. Lo scrittore, secondo la Pezzini, «sembra incarnare la continuità sotterranea
e privata delle peculiarità proprie dell’area culturale della sua città, quasi fosse il
lievito e l’aedo di un possibile riemergere dal dominio altrui o dalla decadenza:
una riemersione, un recupero della memoria che sarà il vero e proprio mezzo di
questo affrancamento. Un recupero di sé, dunque, come l’elaborazione di una
nuova soggettività, una trasformazione del passato» (Pezzini 2011, 137-138).
Gli oggetti contribuiscono a questa «riemersione»: le storie dei protagonisti
sono macchiate da omissioni e meschinità, da vergogna e ambizioni insoddisfatte,
mentre gli oggetti sono lì, fuori dal tempo reale, capaci di rievocare all’infinito la
perduta felicità. Anche la tensione consumistica verso l’Occidente viene purificata
e diventa innocente, se incarnata in un oggetto. Lo dice bene Pamuk nel testo La
questione Oriente-Occidente, il nazionalismo e lo scambio di visite in occasione
delle festività: «Però, in quell’occidentalismo puerile, ai pranzi di quelle passate
festività c’erano una speranza, un’innocenza e soprattutto una curiosità infantile
ormai scomparse» (Pamuk 2007, 263).
Il museo è il dispositivo che trasforma la vergogna in orgoglio. Lo spiega
Kemal alla fine del romanzo:
Quello che desidero insegnare con il mio museo, e non solo ai turchi ma a
tutti i popoli del mondo, è di essere orgogliosi della propria vita. Ho girato
parecchio, sa, e ho visto una cosa: mentre gli occidentali ne sono orgogliosi,
della propria vita intendo, il resto del mondo, perlopiù, se ne vergogna. Però,
se le cose di cui ci vergogniamo nelle nostre vite venissero esposte in un
museo, diventerebbero qualcosa di cui andare fieri (Pamuk 2008, 560-561).
Gli oggetti sono innocenti; i musei che espongono le collezioni amplificano questa innocenza e la trasformano in orgoglio; dunque il percorso che porta
dalla vita alla scrittura, dalla scrittura alla collezione e dalla collezione al museo
è un processo di riscatto, di liberazione e di guarigione, ed è un moto che parte
dall’individuo per investire tutta la collettività. Da qui il senso di felicità che emana
dal museo, nonostante la tristezza della storia che vi è narrata.
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IL MUSEO DELL’INNOCENZA DI ISTANBUL
3. A casa in un museo
Kemal Basmacı ha perso l’amore della sua vita e, non più giovane, si trasferisce al piano superiore della casa in cui Füsun ha abitato, dedicandosi all’allestimento di un museo in cui esporre una collezione di oggetti legati alla donna
e alla loro storia:
Capii che dovevo raccogliere in un unico luogo tutto ciò che riguardava
Füsun, sia quello che, senza esserne del tutto consapevole, avevo accumulato in nove anni, sia quel che ora trovavo nella sua camera o, addirittura,
nel resto della casa. Ma come fare? Trovai risposta a questa domanda solo
quando cominciai a viaggiare in giro per il mondo e a visitare i piccoli musei,
le collezioni private, le raccolte più eccentriche e particolari di cui fossi a
conoscenza (Pamuk 2008, 534).
Per fare ciò Kemal chiede aiuto a un personaggio che si chiama Orhan Pamuk, scrittore, già comparso nel romanzo in occasione della festa di fidanzamento
fra il protagonista e Sibel (ivi, 136). Pamuk compare nuovamente alla fine del
romanzo, quando Kemal gli propone di redigere il catalogo del suo museo:
Quella notte capii che il museo doveva possedere un catalogo dettagliato
dove registrare il passato di ogni singolo pezzo. Un catalogo che, considerato nel suo complesso, avrebbe raccontato la storia del mio amore per
Füsun.
[…] Come per Aristotele gli istanti indivisibili sono collegati dalla linea
del tempo, così per me gli oggetti sarebbero stati uniti da una storia, una
narrazione. Uno scrittore avrebbe dunque potuto redigere il catalogo del
mio museo, scriverlo come fosse un romanzo? Da parte mia io non volevo
nemmeno provarci a scrivere un libro del genere. Chi avrebbe potuto farlo
per me?
Così decisi di chiamare Orhan Pamuk, che con la mia autorizzazione ha
scritto questo libro utilizzando la prima persona. Suo padre e suo zio un
tempo erano stati in affari con mio padre. Proveniva da una ricca famiglia
di Nişantaşi che aveva perso tutto e, pertanto, avrebbe conosciuto alla
perfezione il contesto della mia storia (ivi, 554).
Pamuk afferma di aver realizzato l’unico caso a lui noto di «museo di un romanzo». Esistono alcuni rari musei dedicati a una specifica opera letteraria come,
per citare solo un esempio, la Buddenbrookhaus di Lubecca, rappresentazione
del tutto curatoriale dell’appartamento in cui abitavano i protagonisti del romanzo
all’interno della dimora originaria dei Mann (in cui lo scrittore non ha mai abitato).
Realtà storica e finzione narrativa convivono in questo progetto, ma sono tenute
ben distinte: come scrive il curatore Hans Wißkirchen, «fin dal primo momento
abbiamo scelto di non ricostruire gli spazi secondo una presunzione di “autenticità”, bensì di realizzare una messa in scena nel luogo autentico, separandola con
una parete di vetro dallo spazio espositivo […]. Non intendevamo riprodurre i
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ANNA CHIARA CIMOLI
modi dell’abitare al numero quattro della Mengstrasse in una ricostruzione basata
sulla storia della cultura, bensì dare materialità a un’opera d’arte o […] creare un
“romanzo percorribile”»9.
Il Museo dell’innocenza sceglie un’altra strada per fondere la realtà degli
spazi (rappresentata dalla soffitta dove Kemal ha abitato) e la dimensione narrativa
del romanzo. Protagonista è la collezione; solo il piano superiore è «casa»: non
còlta nel momento in cui è abitata da Füsun e dalla sua famiglia, bensì in quello
in cui Kemal, divenuto collezionista-curatore, vi si trasferisce dopo la morte della
donna per poter seguire da vicino l’allestimento del museo. L’esposizione in questo
stesso spazio del manoscritto del romanzo, però, nega subito ogni illusione di
domesticità: non è il «vero» letto in cui ha dormito Kemal, ma una proiezione del
romanzo, come una sua pagina pop-up. La soffitta del museo non è un pezzo di
casa in un museo, quanto piuttosto lo studio del curatore, dal quale egli organizza
la realtà attraverso i suoi reperti materiali. Siamo dunque lontanissimi dal concetto
della casa-museo, vicini piuttosto a quello che chiameremo museo-casa10.
In Istanbul il secondo capitolo, intitolato Le fotografie della casa-museo
buia, è dedicato alla rievocazione delle atmosfere di Palazzo Pamuk, in cui lo
scrittore è cresciuto: spazi cristallizzati nel tempo, espressione di un’eleganza
decadente e mortifera:
Mi intristivano […] le credenze sempre chiuse a chiave e piene zeppe di
porcellane cinesi, tazzine, servizi d’argento, zuccheriere, tabacchiere, bicchieri di cristallo, contenitori per l’acqua di rose, piatti, incensieri (e una
macchinina rimasta un giorno incastrata in mezzo), […] e io pensavo che
tutti questi oggetti che riempivano ogni buco del nostro palazzo fossero
esposti non per la vita, bensì per la morte (Pamuk 2003, 11).
In questa stessa pagina, Pamuk parla di soggiorni «organizzati come dei
piccoli musei, sistemati per ospiti immaginari di cui non si sapeva l’ora d’arrivo, e
non come luoghi rilassanti dove i proprietari della casa potessero passare il tempo
serenamente». Dietro queste soffocanti case-museo si nasconde quel desiderio
di occidentalizzazione che costituisce per Pamuk una delle principali fonti di
disagio tanto a livello personale quanto collettivo, essendo legato ai concetti di
ambivalenza e ipocrisia così diffusi fra i suoi concittadini: «Uno che non digiuna
9
Hans Wißkirchen, La «nuova» Casa Buddenbrook, luogo della memoria e museo letterario, in Kahrs
e Gregorio (2009, 214). Altri esempi di musei di romanzi sono quello sull’isola di Naoshima, in Giappone,
dedicato a L’uomo dal tatuaggio rosso di Raymond Benson, appartenente alla saga di James Bond, e quello
dedicato a Il buio oltre la siepe di Harper Lee a Monroeville, Alabama. Un caso meno noto è quello del
museo di Novhorod-Siverskiy, in Ucraina, dedicato al Canto della schiera di Igor, un poema slavo del
XII secolo. Ma se per «museo di un romanzo» intendiamo un museo di cui il romanzo è catalogo, allora
bisogna dare ragione a Pamuk: si tratta di un unicum. Un’interessante lettura del Museo dell’innocenza
rispetto al tema della «curatela dello spazio letterario» si trova in Larsen (2012).
10
A questo proposito, si vedano in particolare Bryant (2009), Pavoni (2001), Pavoni (2003) e De
Poli et al. (2006).
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IL MUSEO DELL’INNOCENZA DI ISTANBUL
durante il Ramadan si sente meno in colpa tra credenze e pianoforti rispetto a
uno che in casa si deve stendere su divani e cuscini» (ibidem).
Il pied-à-terre, che sia appartamento disabitato adibito a magazzino oppure
atelier, costituisce per Kemal-Orhan l’unica via di fuga vitale da questa mummificazione, rappresentando il luogo dell’eros e della produzione artistica. È l’appartamento «freddo e vuoto» del quartiere di Cihangir in cui Pamuk va a dipingere da
giovane (ivi, 267-268), oppure quello di Palazzo della Pietà usato dalla madre di
Kemal per stipare oggetti e cianfrusaglie, teatro dei primi incontri con Füsun.
Ma mentre un appartamento musealizzato comunica angoscia, il museo è
un luogo di vitalità: «Non ero consapevole dei cambiamenti interiori che stavo
vivendo, ma una cosa mi era chiara: ero felice solo quando entravo in un museo
e sognavo di poter narrare la mia storia attraverso gli oggetti che avevo raccolto»
(Pamuk 2008, 537). Il senso di sollievo che Kemal prova è imparentato con il
sentimento dell’anonimato, dello sciogliersi entro una storia altrui. Parlando di
Pamuk, dice: «Mi sforzavo di spiegargli il benessere che mi dava il loro silenzio,
il perché mi rendesse tanto felice nascondermi da tutti, anche dagli sguardi annoiati dei custodi della più sperduta collezione del mondo» (ivi, 557). Questo
senso di conforto e di contenimento viene già tratteggiato in Istanbul, quando
lo scrittore racconta i pomeriggi trascorsi con la sua prima fidanzata al Museo
di pittura e scultura di palazzo Dolmabahçe: «Ci eravamo abituati ad andare al
museo, perché era un luogo facile da raggiungere dalla sua scuola, con un taxi
collettivo, e riuscivamo a baciarci tranquillamente nelle sue stanze deserte, piene solo di quadri. Inoltre ci proteggeva dalla malinconia e dal freddo della città»
(Pamuk 2003, 328).
Il tema del museo che diventa casa del collezionista – non viceversa – viene
tratteggiato da Pamuk alla fine del Museo dell’innocenza. Dopo aver elencato
tutte le case-museo visitate, fra cui quella di Sigmund Freud, di John Soane, di
Maurice Ravel, e con particolare afflato quella di Gustave Moreau, il protagonista
afferma: «Certe persone riempiono le case in cui vivono di oggetti e poi, verso
la fine della loro vita, le trasformano in musei. Io, invece, con il mio letto, la mia
stanza e la mia presenza cercavo di trasformare un museo in una casa. Cosa può
esserci di più bello per una persona che dormire circondata dai ricordi e dagli
affetti più profondi?» (Pamuk 2008, 552). E ancora, facendo riferimento al collezionista tedesco Heinz Berggruen, che ha vissuto nel proprio museo berlinese, e
rivolgendosi alla mamma di Füsun: «Immagini un museo dove i visitatori possono imbattersi nel collezionista… Non sarebbe strano, zia Nesibe?» (ivi, 553)11. Il
collezionista non abbandona la sua creatura, a cui ha dato forma negli anni, con
fatica e sacrifici: la collezione è il suo abitacolo.
11
Si veda anche Pamuk (2008, 557-558).
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4. Come fate a dormire se gli oggetti vi parlano?
Nel corso del romanzo, Kemal-Orhan passa da amatore a collezionista, per usare
la definizione di Maurice Rheims (1959): da accumulatore compulsivo di tutti gli
oggetti venuti a contatto con la sua amata, a costo di rubarli, a loro catalogatore; da feticista a studioso. Per passare da una raccolta a un museo, dice Kemal,
«avrei dovuto cominciare a creare, assemblare e sistematizzare la mia collezione»
(Pamuk 2008, 531).
Il museo diventa così in sé una nuova opera d’arte. In questo senso non
siamo tanto nella linea storica del collezionismo tradizionale quanto in quella
del collezionismo d’autore o della collezione come forma d’arte (Grazioli 2012).
La messinscena degli oggetti operata da Pamuk è una coltissima opera d’arte: e
non sfugge l’assonanza con le boîtes di Marcel Duchamp, con le scatole di Joseph
Cornell o con l’Atlas di Gerhard Richter (e l’eco warburghiana che porta in sé:
in effetti il museo è a tutti gli effetti una «storia di fantasmi per adulti»), o ancora
con l’estetica di Christian Boltanski, di Lothar Baumgarten e di molti altri artisti
che, innestandosi sull’esperienza dadaista, hanno poi lavorato sull’accostamento
di oggetti e immagini, creando dei micro-musei personali12. Ma se, soprattutto
negli anni settanta, questo atteggiamento portava con sé un desiderio di reazione
ai musei «ufficiali», se «la collezione come forma è anche una risposta al museo
come istituzione, alla sua struttura rigida e autoreferenziale, […] tutta pubblica
e istituzionale piuttosto che, almeno dialetticamente, anche privata e intima»
(Grazioli 2012, 60), Pamuk salda invece nel museo questa componente privata e
intima, e lo fa in modo idiosincratico, innocente, quasi infantile13, finché, come
afferma Baudrillard, «la prosa quotidiana degli oggetti diventa poesia, discorso
incosciente e trionfale» (Baudrillard 1972, 112).
Il museo è un’opera in sé, da incontrare personalmente, e questo traspare
anche dalla scelta comunicativa: poche le immagini diffuse (se non nel volume
L’innocenza degli oggetti), abbastanza asciutto il sito, che si presenta più come
un manuale d’istruzioni, con struttura molto statica, che come una piattaforma
divulgativa. Il messaggio è «vieni e vedrai»: la complicità è la condizione necessaria
perché gli oggetti possano parlare.
Il visitatore che esibisca il volume entra gratuitamente al museo. Quella che
potrebbe sembrare una trovata di marketing ha in realtà un significato, come tutto
all’interno di questo progetto: un timbro a forma di farfalla, come l’orecchino
perso da Füsun all’inizio del libro, viene impresso sull’apposita pagina. L’oggetto
e il potere che emana vengono valorizzati nel museo, e il lettore ha il «diritto» di
12
Per un approfondimento sul concetto di collezione come forma d’arte si vedano anche DidiHuberman (2002), Didi-Hubeman (2010) e McShine (1999).
13
Nel senso spiegato nel testo L’autore implicito, in Pamuk (2007, 9-18).
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IL MUSEO DELL’INNOCENZA DI ISTANBUL
portarne un po’ via con sé. Il libro è la chiave di accesso al museo, ne è il lasciapassare, in senso letterale.
Nel libro sono descritte anche le regole di comportamento per i visitatori,
che vengono fatte rispettare alla lettera:
L’autentica funzione dei custodi è trasmettere ai visitatori la sensazione di
trovarsi in un tempio, un tempio dove sono richiesti, come in una moschea,
umiltà, rispetto e riverenza. I custodi del mio museo, così come impongono
lo spirito della collezione e il gusto di Füsun, indosseranno un completo in
velluto marrone scuro, una camicia rosa chiaro, la cravatta del museo con
sopra il ricamo degli orecchini di Füsun, e non dovranno mai rimproverare
i visitatori che masticano la gomma o che si baciano (Pamuk 2008, 562).
All’ingresso, un pannello espone i 4.213 mozziconi delle sigarette fumate
da Füsun fra il 1976 e il 1984, fissati con spilli su carta da parati, con didascalie
scritte a mano dallo stesso Pamuk; di fianco, un’installazione con video in bianco e nero di donne che fumano, realizzata dallo scrittore (Susanne Fowler, «The
International Herald Tribune», 3 maggio 2012). È la rappresentazione del tempo
aristotelico, che Pamuk descrive nel capitolo 54, evidenziando la differenza fra
il tempo inteso come sequenza di istanti e quella «linea che unisce questi istanti
indivisibili» (Pamuk 2008, 315). A terra, un motivo a spirale rimanda all’immagine
di un’orbita spaziale (ma anche alla circolarità del tempo rappresentata dai numerosi orologi esposti in tutto il museo), e riprende il tema del capitolo Come la
cagnetta nello spazio: restare da solo in ufficio avrebbe fatto sentire Kemal, alle
prese con la propria sofferenza, come Laika lanciata nello spazio.
Sui due livelli superiori sono esposti gli oggetti della collezione, organizzati
in ottantatré vetrine o «stazioni», una per ogni capitolo del libro (o meglio, ogni
capitolo è stato scritto per raccontare una vetrina), mentre all’ultimo piano si trova
la ricostruzione della soffitta. L’allestimento della collezione si snoda lungo i ballatoi che corrono intorno alla scala: da ogni punto si ha la percezione completa
dello spazio, in un rimando costante fra il singolo oggetto e il suo ruolo nella
storia, fra la materialità del reperto e la sua risonanza letteraria:
Non dimentichi una cosa, signor Orhan: l’aspetto più importante del mio
museo, la logica che sottende la sua struttura, è che da qualsiasi punto
dell’esposizione si può vedere l’intera collezione, – disse Kemal. – E dato
che tutti gli oggetti saranno visibili da qualsiasi angolazione, gradualmente i visitatori perderanno il senso del Tempo. Emanciparsi dal senso del
Tempo, trascendere il Tempo: è questa la più grande consolazione della
vita (ivi, 562).
L’allestimento delle vetrine condensa, attraverso la scelta degli oggetti, la
loro disposizione e la reciproca relazione, il contenuto di ogni capitolo. Pamuk,
che ha curato in prima persona il progetto del museo, avvalendosi della colla-
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ANNA CHIARA CIMOLI
borazione di Johanna Sunder-Plassmann con Carlotta Wiener per l’allestimento
e dello Studio Dinnebier+Blieske per il progetto illuminotecnico, ha scelto un
approccio quasi antropologico14. Così fa dire a Kemal:
Mi misi a riflettere su come avrei potuto spiegare ciò che provavo per Füsun
a chi non conosceva Istanbul, Nişantaşi e Çukurcuma. Mi mettevo nei panni
di quelle persone (spesso degli studiosi, degli antropologi) che vivono per
anni in un paese lontano e straniero. Anche per me era lo stesso: dovevo
fare come se avessi trascorso molto tempo fra gli indigeni della Nuova
Zelanda […]. E se ora avessi esposto, come un antropologo di ritorno a
casa, tutti gli oggetti raccolti in quegli anni di viaggio, sarei stato in grado
di raccontare la mia storia, ciò che avevo appreso, e darle un senso, un
significato (ivi, 537-538).
La tecnica espositiva ricorre ora al diorama, ora all’assemblaggio, ora alla
giustapposizione di oggetti simili, ricapitolando, si direbbe, la storia dell’allestimento del XIX e XX secolo, perlomeno prima dell’avvento del white cube15.
Le vetrine sono incassate in un’austera struttura di legno scuro, in cui si aprono
anche dei cassetti, che ricorda i musei di storia naturale ottocenteschi o i cabinets de curiosités, certamente non gli armadi domestici, a ribadire il distacco
dalla dimensione della casa-museo. Ogni vetrina parla un proprio linguaggio,
scegliendo ora l’isolamento dell’oggetto (nella prima è esposto solo l’orecchino
a farfalla, nella trentunesima solo la mappa disegnata da Kemal per individuare
le strade percorribili e quelle da evitare), ora la ridondanza (come nella vetrina
n. 15, in cui sono esposti ritagli di giornale con visi di donne abbandonate prima
del matrimonio per aver perso la verginità; oppure la n. 35, in cui sono mostrati
solo fermagli per capelli), ora la dimensione teatrale, con quinte di stoffa rossa
che fanno intravedere il contenuto (come nella n. 16, in cui è esposto un dipinto
che raffigura la prima casa di Füsun). Qua e là, fra gli oggetti sono inseriti dei
piccoli display che trasmettono dei video. In altri casi, degli oggetti-simbolo ricorrono da una vetrina all’altra: il cuore di ceramica rotto compare sia nella n. 53, Il
dolore di un cuore infranto e risentito non serve a nessuno, che nella n. 26, La
localizzazione anatomica della sofferenza amorosa, in cui la mappa del dolore
viene visualizzata tramite un manichino simile a quelli dei musei di anatomia.
Altre vetrine sono ancora in corso di realizzazione, schermate da tende cremisi
(così mi ha detto la curatrice: sarà un altro vezzo di Pamuk?).
Sono venuti prima gli oggetti o la storia? Ora l’uno ora l’altro; e quando
l’oggetto giusto non c’era, lo si è commissionato: così racconta lo scrittore a
14
Una descrizione analitica del museo nelle sue componenti museografiche si trova in Heilmayer
(2011); una lettura più personale ma altrettanto ricca di informazioni è quella contenuta in Batuman
(2012).
15
Nel senso inteso da Brian O’Doherty nella famosa serie di saggi pubblicati su «Artforum» dal
1976 al 1981.
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proposito della borsa Jenny Colon, fatta realizzare appositamente dai «falsari» di
borse di Istanbul. Di nuovo, il concetto di autenticità si estende fino a coprire la
categoria di ciò che doveva essere l’abbigliamento autentico di quella persona.
L’autenticità, tema tanto caro a Pamuk, non sta nel singolo reperto e nella sua
specifica storia, che il visitatore non conosce, ma nell’azione di esporre nel suo
complesso. I pezzi della collezione, scovati da rigattieri, privati, amici, e negli
ultimi anni anche su internet, sono scollegati fra loro, eclettici, incoerenti. È l’atto
di esporre che li rende veri testimoni di quella frazione di tempo nella storia, e
per estensione di un tempo astorico e collettivo.
È una vertigine di oggetti, fatti parlare fra loro, dentro le teche, fra una teca
e l’altra. Sono frammenti di mondo che rispecchiano il loro senso reciproco fino
a diventare veri, come vera è ogni creazione artistica. Sembra di guardare dentro
le valigie di Tulse Luper, l’alter ego di Peter Greenaway protagonista di un progetto articolato in vari film, una mostra itinerante, libri, un sito internet e un gioco
online16, che in 92 valigie ripercorre la propria storia personale e, indirettamente,
quella di gran parte del XX secolo. Ogni valigia contiene oggetti diversi, aperti
all’interpretazione: giocattoli, bottiglie di profumo, lettere d’amore, pesci, mappe
etc. Come dice Greenaway, il progetto The Tulse Luper Suitcases è una moderna
riscrittura delle storie di Sherazade: una struttura narrativa così potente da tenere
lontana la morte. Anche questa, una storia di fantasmi per adulti.
Un breve testo di Pamuk ci chiede: Come fate a dormire se gli oggetti vi
parlano? Gli oggetti con la loro anima, la loro verità, il loro potere, ci vengono a
parlare. Inutile resistere: ci sopravviveranno.
Perché soltanto io devo sentire a quest’ora il ticchettio delle piccole creature
nelle fondamenta dei muri e il verso dei gabbiani?
Avete mai visto le frange dei tappeti?
E i segni nascosti tra i loro motivi?
Come fa la gente a dormire mentre il mondo è un gran fermento di stranezze
e simboli? (Pamuk 2007, 37)
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16
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