DOCUMENTI
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In copertina: Giacomo Boni dottore di Lettere all’Università di Oxford, di “Hills e Souders” (Archivio Fotografico SSBAR).
SOPRINTENDENZA SPECIALE PER I BENI ARCHEOLOGICI DI ROMA
GIACOMO BONI E
LE ISTITUZIONI STRANIERE
APPORTI ALLA FORMAZIONE DELLE DISCIPLINE
STORICO-ARCHEOLOGICHE
Atti del Convegno Internazionale
Roma, Museo Nazionale Romano-Palazzo Altemps
25 giugno 2004
a cura di
Patrizia Fortini
FONDAZIONE G. BONI-FLORA PALATINA
Roma 2008
Cura redazionale
Patrizia Fortini, Martina Bizzi
Realizzazione grafica, impaginazione e copertina
Martina Bizzi
Grafica e stampa
Tipografia Giammarioli Frascati
© Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Fondazione G. Boni-Flora Palatina, Roma 2008.
SOMMARIO
INTRODUZIONE
Patrizia Fortini
Il coinvolgimento dei “cultori della civiltà romana” di tutta Europa nel programma
operativo di Giacomo Boni..........................................................................................
9
TESTI
Federico Guidobaldi
Le carte dell’Archivio Boni-Tea all’Istituto Lombardo di Milano.
Cenni sul ritrovamento, sulla consistenza e sullo stato della pubblicazione ..............
23
Andrea Paribeni
Personalità e istituzioni straniere dalle carte dell’Archivio Boni-Tea .........................
33
Klaus S. Freyberger
Giacomo Boni ed il suo rapporto scientifico con l’Istituto Archeologico Germanico ......
49
Christina Huemer
Giacomo Boni e i borsisti americani a Roma .............................................................
57
Henry Hurst
Giacomo Boni seen from a British viewpoint, then and now ....................................
71
Teresa Ciapparoni La Rocca
Giacomo Boni e il Giappone ......................................................................................
79
Paolo Fancelli
Restauro e antichità tra Ruskin e Boni ......................................................................
85
Amedeo Bellini
Giacomo Boni ed il restauro architettonico tra istanze ruskiniane e compiutezza formale
105
Marco Pretelli
L’influsso della cultura inglese su Giacomo Boni: John Ruskin e Philip Webb ..........
123
Marina Fresa
Giacomo Boni nel cantiere di restauro del Palazzo Ducale di Venezia .......................
139
Annarosa Cerutti Fusco
Flora e antiche vestigia: da Luigi Canina a Giacomo Boni nel contesto della cultura
anglosassone ...............................................................................................................
155
Sofia Varoli Piazza
Tempo storico del monumento e della natura nel paesaggio archeologico. La lezione
di Giacomo Boni ........................................................................................................
191
Elisabetta Carnabuci
Gli scavi Hülsen e Boni alla Regia: due metodologie di indagine a confronto ..........
209
Alessandra Tomassetti
Il viaggio di Giacomo Boni in Irlanda ........................................................................
231
Veronica Romoli
Giacomo Boni e l’Africa romana ................................................................................
247
Stéphane Verger
Il reperto archeologico oggetto da collezione o campione per analisi. Un’esperienza
franco-italiana di fine Ottocento ................................................................................
273
BIBLIOGRAFIA ..............................................................................................................
279
INTRODUZIONE
IL COINVOLGIMENTO DEI
“CULTORI DELLA CIVILTÀ ROMANA” DI TUTTA EUROPA
NEL PROGRAMMA OPERATIVO DI GIACOMO BONI
Patrizia Fortini
Nel 1904 Giacomo Boni invia una relazione al ministro della Istruzione Pubblica Vittorio
Emanuele Orlando, affinché “voglia o sappia tener conto […] di ciò che […] l’Italia ha da
apprendere dalle nazioni straniere, e del come guardarsi dagli errori che altrove si commisero
o si commettono […]” riguardo al patrimonio storico-artistico nazionale. La relazione sarà
pubblicata il 19 gennaio 1905 nel Bollettino Ufficiale del ministero.
Boni la concepisce a seguito del viaggio compiuto in Europa, passando dall’Irlanda alle
regioni bagnate dai confluenti illirici del Danubio; dalle isole Aran nell’Atlantico abitate dai
Celti, sino all’interno della Bosnia, dove “un prezioso materiale archeologico torna in luce ad
indicarci il percorso che le tradizioni e i riti mantengono ininterrotto, dalle falde del Caucaso
alla casa delle Vestali”1 seguendo il filo della umana realtà.
Il confronto con il mondo scientifico e con le testimonianze archeologiche europee, così
varie ma pur sempre affini, lo stimolano a riflettere sul livello della ricerca e sul grado di salvaguardia delle presenze storico-archeologiche raggiunti in Italia. Nel condurre quest’analisi
non si limita a delinearne, sterilmente, le pecche ma ne esplora le potenzialità, e su queste si
concentra.
Come primo risultato del viaggio, Boni riconosce confermata la validità del “criterio
che regola la conservazione dei monumenti”. Ha notato infatti che mentre il nostro paese ha
fatto “qualche progresso sulla via di rispettare l’autenticità delle opere antiche”, presso altre
nazioni, seppure
“più inoltrate nella cultura elementare della storia e dell’arte, perdurano sistemi di restauro
che distruggono la condizione fondamentale dei pregi che le opere d’arte posseggono quali
documenti di una civiltà, quali titoli nobiliari di una nazione, e li trasformano in falsi modelli,
disgustosi per la stonatura dei moderni rappezzi con l’armonia dei colori, dispensata dai secoli
alle antiche pietre”.
1
Sul viaggio in Irlanda si rimanda alla comunicazione di A. Tomassetti su questo stesso volume.
10
PATRIZIA FORTINI
Quando riscontra simili interventi, fortunatamente isolati, sul suolo italiano, li imputa
ad una sostanziale mancanza di cultura: unico rimedio possibile per evitare il loro riproporsi
in futuro, avvicinare le giovani generazioni all’arte. Allora come sempre solo sperimentando
la Bellezza si può creare Bellezza.
Anche “rispetto al metodo delle esplorazioni archeologiche” l’Italia sembra aver poco
da invidiare alle nazioni visitate. Boni riferisce infatti di aver assistito a scavi condotti
“da archeologi, o anche da dilettanti, i quali, provvisti di cultura puramente filologica, limitata
alla sola civiltà e al periodo cui volgono le indagini, lasciano inavvertito tutto ciò che, ad essere
riconosciuto e apprezzato, richiede cognizione dei materiali e del lavoro umano, e delle modificazioni che gli agenti atmosferici e tellurici recano ai materiali stessi giacenti, per diverso tempo,
in strati fisicamente diversi”.
Per non parlare dello “scempio” perpetrato da archeologi che, non credendo nell’antropologia, decontestualizzano i corredi.
“Ebbi a deplorare più volte - racconta - che gli oggetti raccolti in un sepolcreto primitivo, che
custodiva intatta tanta parte dei riti domestici e funebri dei primi civilizzatori d’Europa, venissero raggruppati, per ordine industriale, in un museo, mentre i crani erano riuniti e riordinati
in un altro”.
Al contrario Boni non solo si perita di farsi assistere da eminenti antropologi durante lo
scavo delle sepolture, ma promuove lo studio dei resti ossei e ne pubblica i risultati all’interno
delle relazioni scientifiche di scavo. Emblematico in tal senso il suo operato al Foro Romano
dove indagando la necropoli rinvenuta presso il Tempio di Antonino e Faustina documenta
lo stato delle sepolture con tale dovizia di dati da consentirgli di riproporre l’articolazione
delle tombe negli stessi ambienti del museo. Arriva persino a concepire di musealizzare i
resti degli inumati lasciandoli nel pane di terra che li conteneva, come nel caso del cd. Equus
Domitiani.
Lo avvicina invece ai colleghi europei il principio di serbare le antiche tombe integre ed
in situ e, qualora non fosse possibile, di custodire gli oggetti in vicinanza dello scavo anziché
“disperderli nei grandi musei centrali dove aumenterebbero il numero delle urne o delle
fibule o delle punte di lancia ivi già esposte”. Idea di un museo diffuso di contro ai grandi
contenitori centralizzati, oggi comune patrimonio delle coscienze civiche.
Tra gli aspetti che connotano negativamente l’operato del nostro paese, Boni annovera il
disinteresse delle autorità verso l’esecrabile fenomeno della dispersione del patrimonio culturale attuato dalle esportazioni illecite e dai furti, alimentati per lo più dal mercato antiquario.
Queste le accorate parole di denuncia rivolte al ministro Orlando:
“Ora, mentre le altre nazioni mostrano di trovare nella relativa penuria di taluni patri ricordi,
d’ordine più elevato, la ragione e la forza con cui difendono ciò che posseggono, sembra toccare
all’Italia, appunto per la ricchezza delle memorie storico-artistiche del suo passato, di essere la
più spogliata di tutte e la meno capace di porre un argine alla continua spogliazione. Né vale a
renderci rassegnati il pensiero che noi possediamo molti capolavori tra gli oggetti d’arte mobili,
IL COINVOLGIMENTO DEI “CULTORI DELLA CIVILTÀ ROMANA” DI TUTTA EUROPA
11
e che gli edifici monumentali più sontuosi non possono venire abbattuti e venduti a pezzi allo
straniero, poiché essi appartengono già al demanio pubblico, o, nel caso estremo, faremmo
eroico sforzo per riscattarli. Tutto o quasi tutto […] viene schiodato, strappato, segato dal posto
in cui, con eloquente manifestazione di amor patrio, l’antico mercante o l’antica corporazione
d’artefici l’avevano dedicato ai Genii della città nostre”.
Analoga incuria investe anche il patrimonio archeologico. Infatti, si lamenta Boni
“si è rovistato, come luogo nemico, il sotto suolo, per togliere dai sepolcri gli oggetti che potevano avere valore commerciale. […] i grandi musei francesi, inglesi, berlinesi, viennesi abbondano di […] esemplari di arte arcaica, la più squisita, provenuti, ai dì nostri, dai sepolcreti
italici della Sabina, dell’Umbria, e del Piceno; oggetti che tutti ritengono di buono acquisto, a
cominciare dagli incettatori stranieri che li pagano in denaro”.
Il danno che ne consegue non è solo patrimoniale; con gli oggetti si smarrisce per sempre la memoria storica del popolo che li ha prodotti:
“Non si considera che [gli oggetti, nda] erano parti organiche di ciascuna tomba, unità che comprendeva la struttura, la disposizione dello scheletro, gli avanzi del pasto, dei parentalia e di altri
riti funebri, dei quali l’avido ricercatore non seppe mai o non volle tener conto; né si considera che
quelle unità riunite costituivano un sepolcreto, vale a dire il documento riflesso nella vita d’oltre
tomba di una stirpe umana, dell’esser suo, della sua razza, delle sue credenze, dei suoi costumi. Né
si considera, infine, che lo studio comparativo dei varii sepolcreti, e delle vestigia dei luoghi di abitazione, di mercato, d’amministrazione della giustizia, o d’esercizio del culto delle razze italiche è
assolutamente necessario per conoscere le origini e lo sviluppo della nostra civiltà”.
Questo ultimo punto acquista ancor più valenza negativa comparando la cura con cui
paesi quali l’Austria e la Germania si preoccupano di esumare e illustrare le vestigia del limes,
i campi militari che rivelano la grandezza di Roma e la vastità e la sapienza dei suoi ordinamenti, con l’indolenza nel promuovere indagini sugli antichi siti italiani: “non una delle città
della Sabina umbilicus Italiae, non una dell’antico Lazio, della Magna Grecia fu ancora esplorata” sottolinea alla fine.
Boni deplora anche il disinteresse dello Stato per il patrimonio demo-antropologico
quel “complesso di costumi e forme ereditate dalla più remota antichità” che, spaziando dalla
struttura della capanna o del casolare domestico sino alla foggia d’abbigliamento, all’utensile
da cucina o di lavoro, “ricordano quella meravigliosa varietà di stirpi che costituivano, sino
dai tempi preromulei, la popolazione d’Italia”2.
Non può essere addotta a scusante di tale indolenza la penuria di edifici progettati allo
scopo. Infatti, sottolinea Boni, i più importanti musei stranieri ebbero umilissime origini. E
prosegue:
2
Boni confessa al ministro Orlando che spesso durante quel viaggio dovette rammaricarsi in silenzio “del
poco che si è fatto […] per lo studio dell’etnologia nazionale”, così mentre i musei etnografici europei conservavano ben ordinate le testimonianze di vita delle popolazioni locali, i piccoli musei italiani raccoglievano per lo
più esotiche curiosità appannaggio di “visitatori domenicali, lieti di constatare la esistenza di popoli selvaggi”.
12
PATRIZIA FORTINI
“anche oggi, tra popoli che hanno in mano i destini commerciali e industriali del mondo, molti
grandi affari sono trattati entro poveri e angusti ambienti troppo umili agl’infimi impiegati delle
nostre amministrazioni provinciali. Ricordo, invece, le grandiose ma aride fontane, erette da
una città pugliese morta di sete e bisognosa d’un tubo che le portasse un po’ d’acqua”.
L’interesse costante e profondo per la cultura italiana e per la storia di Roma riscontrato
nei suoi ospiti e le molteplici testimonianze romane esaminate durante il viaggio, lo convincono ancor più della necessità di trasformare il Foro Romano in un centro di studi della
civiltà romana. Per questo Boni si rivolge direttamente al ministro, perché, valutati i risultati
di quell’esperienza e la natura dei principi su cui intende basare il suo operato, condivida il
proposito di:
- coordinare le scoperte sulle fasi più antiche della storia di Roma con le indagini avviate in territori interessati da culture affini a quella della antica civiltà laziale;
- promuovere le indagini scientifiche che possano chiarire le origini delle culture che
hanno dato contributo alla formazione della civiltà europea;
- raccogliere la documentazione di monumenti romani (testi, riproduzioni, facsimili,
calchi, fotografie) presenti in Europa oppure trovati a Roma e sparsi dovunque, che
possano fornire “dati di confronto per apprezzare quanto s’è scoperto e si scoprirà in
Italia”.
Il Museo del Foro
È intento di Boni accompagnare le indagini archeologiche in corso nel Foro Romano
con l’allestimento di un museo che aiuti il pubblico nella comprensione del sito quale emblematica espressione della cultura romana.
Il Foro Romano - si legge nelle pagine di La Gazzetta del 1901 - “è molto ma non è tutto;
esso raccolse innumerevoli monumenti e forma, come chi dicesse, un immenso palinsesto in
cui gli edifici abbattuti diedero posto a nuove fabbriche monumentali”. Nel Museo del Foro
dovranno pertanto trovare posto non solo i reperti recuperati dagli scavi, ma ogni forma di
documentazione disponibile:
“Raccogliere il raccoglibile nel Museo del Foro corrisponde alla resurrezione non d’una pagina
o di una serie di pagine relative all’antichità romana, ma a riunire una somma parte di quest’antichità. E poiché leggendo un frammento, leggendo un’iscrizione calcando un pezzo di vita forense, facile è il richiamo a monumenti e documenti nati sotto la stessa aspirazione, il trovare nel
Museo del Foro il fatto che appaga tale richiamo non vale semplice soddisfazione temporanea,
ma corrisponde ad elemento di studio utile a sciogliere quesiti, solleggiare [sic] questioni non
nutrite di solo sentimentalismo”.
A tal fine Boni si preoccupa di affiancare alle sale espositive:
una biblioteca di consultazione che raccolga le migliori edizioni critiche degli autori
classici, i più importanti trattati moderni di mitologia, di storia, di topografia, di numismatica
e d’arte romana;
IL COINVOLGIMENTO DEI “CULTORI DELLA CIVILTÀ ROMANA” DI TUTTA EUROPA
13
una collezione di atlanti e carte murali che illustrino la geografia antica, l’estensione e i
mutamenti subiti dall’Impero romano, le vie di comunicazione, le colonie;
una collezione di facsimili di tutte le monete romane, che illustrino la storia degli scambi
commerciali, con speciale riguardo a quelle che rappresentino la inaugurazione o la dedica
dei monumenti di Roma, dalle sue origini fino alla caduta dell’impero;
una collezione di calchi di tutte le antiche gemme e pietre dure, con incisi emblemi,
motti, raffigurazioni mitologiche, o ritratti di personaggi romani;
una collezione fotografica di tutti i monumenti e ruderi architettonici, di frammenti
scultorei e avanzi pittorici romani, che sopravvivino non solo in Europa, ma anche in Africa
settentrionale e nell’Asia minore;
una collezione di disegni e rilievi architettonici, dei grandi maestri del XV e XVI, che si
riferiscano agli edifici monumentali romani; nonché le immagini delle più importanti pitture
del Rinascimento, e le incisioni e le acqueforti che riproducano il Foro;
“una collezione di fotografie e stampe riproducenti le migliori opere d’arte d’ogni tempo e scuola, ispirate dalla storia romana, in special modo da avvenimenti svoltisi nella valle
forense”3.
Progetto grandioso, ma difficile da realizzare con le sole sue forze. Boni ne è pienamente
cosciente. Per questo rivolge un pubblico appello a studiosi e comuni cittadini di ogni nazionalità, “cultori della civiltà romana”. Chiede loro di aderire al suo progetto incentrato sulla
condivisione della conoscenza: inviando al Museo del Foro foto, disegni, riproduzioni di
opere d’arte e testi bibliografici che hanno per oggetto o rapporto con le testimonianze romane, ognuno potrà contribuire al progresso delle scienze storico-archeologiche che sappiamo
trarre dal confronto dei dati il principale alimento4.
Il coinvolgimento e l’apporto di forze europee e d’Oltre Oceano nel promuovere la
conoscenza e la valorizzazione del nostro patrimonio storico-culturale costituisce un evidente
antecedente di un modus operandi che ancora oggi vede istituzioni culturali straniere impiegate in attività di ricerca e studio nel Foro stesso e sull’intero territorio nazionale5.
Per dare la massima diffusione all’appello, Boni si rivolge alla stampa nazionale6 ed
estera7. Il successo è notevole. Foto, pubblicazioni, disegni, stampe, calchi giungono da tutta
l’Europa. Per conoscere i nomi di quanti si adoperarono in favore del Museo del Foro e la
3
Gran parte di queste sezioni costituiscono il patrimonio documentario della Soprintendenza.
R. ARTIOLI, “Giacomo Boni ed il mondo Romano”, in Arte e Storia, febbraio 1905.
5
Si rimanda in particolare a quanto emerge dagli articoli presentati in questo stesso volume.
6
Lo Spettatore, giornale diretto da principe Scipione Borghese e Errico De Marinis deputati al Parlamento, del 24 settembre 1905 dove si sottolinea l’importanza di unire al Museo la Biblioteca.
7
Ricordiamo ad esempio il giornale di Vienna Das Vaterland del 4 dicembre 1904; la rivista Deutsche Literaturzeitung del 10 dicembre 1904; l’inglese Spectator che nell’accogliere l’invito dichiara: “The above letter has
been sent to us for publication by Signor Boni, the distinguished italian archeologist, whose wonderful work in
the forum has done so much to illuminate the early history of Rome. The sympathy which has always existed between the British and the Italian peoples, as sympathy never strong and more active than today, will, we are sure,
cause Signor Boni's letter to recived the widest possible attention, and will, we trust, lesd to practical results”.
4
14
PATRIZIA FORTINI
congerie di materiali inviati è sufficiente sfogliare le pagine dei quotidiani usciti tra il 1904 ed
il 1907. Boni stesso annota dettagliatamente su un apposito registro le adesioni8.
Romolo Artioli, nell’articolo “Giacomo Boni ed il mondo romano” edito nella rivista
fiorentina Arte e storia del febbraio 1905 così riferisce:
“Molto ha già incontrato l’idea del Boni, e tutto il giorno, nella severa stanza geniale di lavoratore, è un giunger di pacchi, di cassette, di rotoli: con volumi, disegni, fotografie, negative
fotografiche, ed intuisco, preveggo che il concorso sarà continuo, solenne”.
Apprendiamo così che all’indomani dell’istituzione con decreto ministeriale del Museo
del Foro nei locali dell’ex convento di Santa Francesca Romana, Luca Beltrami dona un interessante disegno del XVIII secolo. La descrizione sulle pagine del quotidiano Patria del 23
febbraio 1905 nell’articolo intitolato “Al Foro Romano”, anch’esso a firma dell’Artioli.
“[il disegno, nda] eseguito a inchiostro di china, su carta bianca tesa a telaio, […] rappresenta
l’Arco di Tito veduto dalla parte del Colosseo come era prima del restauro (del resto sapiente)
che l’architetto Valadier, per ordine di Pio VII, eseguì nel 1821. […] Il disegno è opera dell’architetto bergamasco Giacomo Quarenghi9, eseguito nel terzo quarto del ‘700, prima che
l’artista partisse per andare a Pietroburgo chiamatovi dalla imperatrice Caterina”10.
Su La Tribuna del 19 gennaio 1904 Boni ringrazia pubblicamente l’amico Beltrami per
il suo aiuto (fig. 1)11 e per il danaro elargito a sostegno dello scavo dell’Heroon di Cesare;
queste le parole:
“Sapevo che tu non mancheresti al mio appello, ma godo che tu sia stato il primo ad incoraggiarmi coll’invio al Museo Forense delle illustrazioni di alcuni monumenti della Lombardia.
E grazie della generosa offerta per l’Heroon di Cesare. Se il tuo nobile esempio venisse seguito
da coloro i quali dovrebbero dare i nobili esempi, non avrei più bisogno di vedermi in schiavitù,
col dar lezioni e conferenze negli Stati Uniti d’America per poter liberare da sotto agli zoccoli
ispano-cileni dei frati Mercenari di Sant’Adriano, le aule inesplorate dell’antico Senato romano:
la curia Julia e la Hostilia”.
Sul finire del 1905 giunge al museo anche la riproduzione al vero di un dipinto rimesso
in luce nella Casa di Livia al Palatino, donato dallo stesso pittore che lo eseguì poco dopo
8
È nostra intenzione nell’immediato futuro avviare lo studio completo della documentazione conservata
presso la Soprintendenza così da ricostruire questa importante pagina di storia culturale europea. Per il momento ci limitiamo ad accennare a quanto possiamo dedurre dallo spoglio, parziale, dei quotidiani.
9
L’artista visse tra il 1744 e il 1817.
10
Il disegno è riportato nel Registro SSBAR n. 8.
11
Lo studioso ha contribuito in vario modo al progetto del Boni. Sappiamo da La Tribuna del 1904 che
dona “una cartella di antichi disegni e incisioni di edifici romani” costituita da “riproduzioni delle 80 tavole
del Bramantino che rappresentano le rovine di Roma al principio del secolo XVI (Ms. dell’Ambrosiana)” e un
“rotolo di disegni dei ruderi romani rinvenuti nei lavori stradali di Milano”. Nel Registro SSBAR sono segnalati
ai nn. 1-12.
IL COINVOLGIMENTO DEI “CULTORI DELLA CIVILTÀ ROMANA” DI TUTTA EUROPA
Fig. 1 - Immagine donata da L. Beltrami nel 1907 (Archivio Fotografico SSBAR).
15
16
PATRIZIA FORTINI
la scoperta, l’architetto Ludovico Poliaghi12. L’articolo “Pel Museo Forense” uscito sul La
Tribuna del 21 novembre 1905 così descrive il dipinto attraverso il quale Boni intendeva illustrare all’interno del museo la “pittura decorativa dei Cesari”:
“Riproduce la pennellata sicura e grandiosa dell’opera augustea che rappresenta su uno sfondo
bianco con squadrature rosse e nere un festone di fronde e frutta. È mirabile l’intreccio delle
foglie ritratte in scorcio con tinta verde azzurrognola; nel mezzo campeggia un melograno e a
destra e a sinistra del festone, pere, cotogne, prugne e nocciole. S’armonizza alla colorazione
delle fronde e delle frutta un nastro rosso cupo ad estremità svolazzanti dal quale pende una
testa di fauno”.
Anche Corrado Ricci risponde all’invito del Boni con immagini dei resti romani più importanti di Ravenna, compresi gli antichi frammenti usati negli edifici del periodo bizantino13;
questo riporta l’articolo “Pel Museo Forense” di La Tribuna del 3 gennaio 1905.
Fotografie promisero e inviarono anche importanti case editrici fotografiche come Alinari, Anderson, Brogi, Moscioni e la stessa Società Fotografica Italiana14.
I nomi dei sostenitori stranieri li ritroviamo tra l’altro su La Tribuna del 3 gennaio 190515;
apprendiamo così che:
“M.r H.E. Buxton di Great Yarmouth ha inviato otto fotografie di Burgh Castle, (castello romano di Gariononum, nel Suffolk, Inghilterra), dell’acquedotto di Estrelles (Frejus) e delle mura
Theodosiane di Costantinopoli16.
Mr. Th. Asbhy jun, M.A., vice direttore della British School of Rome ha messo a disposizione
del Museo forense la sua ricca collezione di fotografie archeologiche, comprese quelle dei più
recenti scavi di Caerwent (Venta Silurum), di Heusesteads, di Silchester, e della muraglia di
Adriano al settentrione dell’Inghilterra”17.
Lo studioso ha donato anche le sue pubblicazioni e una copia dei “disegni del Cinquecento, conservati nel Soave Museum di Londra, e raffiguranti edifici e ornamenti architettonici romani”, editi nel secondo volume dei Papers of the British School at Rome, (London
Macmillian, 1904).
L’anno precedente il signor A.H. Albers Scoenberg di Amburgo aveva donato “una cartella di 14 fotografie come saggio della sua raccolta di riproduzioni dei monumenti romani”18.
12
Notizie su La Tribuna del 10 ottobre 1905 nell’articolo intitolato “Museo Forense”.
Registro SSBAR nn. 43-64.
14
Sono riportate nel Registro SSBAR le foto Alinari ai nn. 366-374, 999-1352; quelle Anderson ai nn. 665998; quelle Brogi ai nn. 149-201, 427-664, quelle Moscioni ai nn. 2060-2073; quelle della Società Fotografica
Italiana ai nn. 355-361.
15
L’elenco dei doni di fotografie, stampe, disegni e libri inviati al Museo del Foro da 1904 al 1907 sono
dettagliatamente elencati in un apposito registr, vd. supra.
16
La Tribuna del 19 gennaio 1904; Registro SSBAR nn.13-20.
17
Nel Registro SSBAR al n. 92 si specifica che lo studioso ha “Prestato n. 900 negative fotografiche, perché
l’Ufficio possa tirarne la positiva e ritenerla”. Altri doni ai nn. 68-90, 1380, 1821.
18
Registro SSBAR nn. 22-35.
13
IL COINVOLGIMENTO DEI “CULTORI DELLA CIVILTÀ ROMANA” DI TUTTA EUROPA
17
Fig. 2 - Arco di Tiberio ad Orange. Fotografia inviata dalla signora A. Bulteau (Archivio Fotografico SSBAR).
18
PATRIZIA FORTINI
E il resoconto prosegue costante. Sappiamo ad esempio che (settembre del 1904) “a Budapest la Società Geografica Ungherese ha messo a sua disposizione la superba sua collezione
per qualunque studio o riproduzione abbisogni”; che il “dott. Ernesto Steinmann, direttore
del Museo di Schaverin, ha inviato un calco del busto di Omero rinvenuto a Terracina e una
fotografia del paesaggio romano di Paolo Brill, esistente nella galleria di Monaco”19; che la
signora “Corrie ha inviato la fotografia delle mura di Dax (Francia)”20; mentre il “dott. E.
Brenia del Museo d’Antichità d’Alessandria di Egitto ha inviato dieci fotografie di monumenti romani e cave romane e l’opera che illustra i poderi imperiali di Kom e Chonfrey”. La
signora “A. Bulteau di Parigi” manda le fotografie dell’Arco trionfale di Tiberio, della facciata
e dell’interno del teatro romano d’Orange (fig. 2)21.
Da Bruxelles il sig. Charles Buls, ex-borgomastro, invia a Boni una lettera, resa pubblica
il 24 gennaio 1905, nella quale esprime la sua adesione e si impegna a spedire immagini delle
testimonianze romane presenti in Belgio. E mantenne l’impegno. Nel registro SSBAR sono
infatti segnati 10 estratti e 16 foto (nn. 302-328).
La documentazione delle antichità greco-romane d’Egitto gli viene offerta da E. Breccia, Direttore del Museo di Alessandria d’Egitto il quale coinvolge in questa iniziativa anche
Herz Bey e Schweinfurth i quali dovranno fornire rispettivamente documenti sul “«castello
romano» del Cairo” e foto sulle antichità greco-romane22.
La Tribuna del 4 agosto 1905 segnala che “Mr. Sthephen Leech, segretario della legazione britannica a Copenaghen ha inviato dieci volumi d’antiche edizioni dei classici e di trattati
d’archeologia romana”23. Il 7 settembre 1905 giunge alla stessa redazione un comunicato spedito il giorno precedente da Londra per informare che “La casa Macmillan prima tra le grandi case editrici inglesi dà il buon esempio […]” con una prima spedizione che “comprende
le ricche edizioni critiche della storia degli annali di Tacito, del Holbrooke e dello Spooner;
i libri sulla storia dell’arte di Plinio, illustrati da Jex-Blake e Sellers, i volumi di storia della
società romana di Samuel Dill, la storia di Roma dello Shuckburgh, i manuali di numismatica
romana di Hill, il trattato sulle festività romane di W. Fowler, e le principali grammatiche
della lingua latina da Plauto a Svetonio”.
Per incrementare il fondo del Museo del Foro Giacomo Boni prepara alcune serie di
conferenze o incontri pubblici da tenere durante viaggi all’estero, nei paesi che possiedono
monumenti romani. Offrendo quale compenso delle riproduzioni dei suddetti monumenti
“spera di destare nell’animo delle persone più colte un senso di emulazione nel procurare
che i gruppi di monumenti siano sempre meglio illustrati”24. Ed è così che in occasione della
19
Quest’ultima nel Registro SSBAR al n. 272
Registro SSBAR n. 206.
21
Registro SSBAR nn. 65-67.
22
E. Breccia invia foto di Tebe e Alessandria d’Egitto nonché due pubblicazioni (Registro SSBAR nn. 207-218).
Per i contatti di Boni con l’Africa romana si rimanda allo scritto di V. Romoli in questo volume.
23
Registro SSBAR nn. 341-349.
24
Le notizie riportate in questa relazione sono tratte da quanto della rassegna stampa redatta dallo stesso
Boni si conserva presso la SSBAR. Un altro nucleo della stessa si trova nel fondo Boni-Tea conservato a Milano
per il quale si rimanda all’articolo di E. Paribeni in questo stesso volume.
20
IL COINVOLGIMENTO DEI “CULTORI DELLA CIVILTÀ ROMANA” DI TUTTA EUROPA
19
conferenza da lui tenuta, nel 1907, all’università di Oxford, ottiene per la biblioteca del Museo testi editi dalla Clarendon Press. Anche di questo informa la stampa. Su La Tribuna del
10 luglio 1907 scrive:
“due anni or sono tornando dall’Irlanda, dissi della opportunità di svolger conferenze nelle
terre che hanno monumenti e colonie romane. L’esperimento è ben riuscito a vantaggio di una
istituzione utile a tutti quale la biblioteca romana del Museo Forense.
Tornato a Roma trovai una lettera della Oxford University press nella quale mi annuncia la
spedizione delle opere da essa pubblicate che riguardano la lingua, la lessicografia ed epigrafia
latina, le edizioni critiche dei poeti romani, la storia ed i Fasti di Roma i volumi di Hodgkien
sugli invasori d’Italia e su Teodosio.
Un’altra lettera della University press di Cambridge mi annuncia la spedizione delle opere del
Conway sui dialetti italici, i commentari di Gaius, ed altre edizioni importanti di autori latini e
di diritto romano.
In tanto io vado formando i primi nuclei per la biblioteca, preparo l’occorrente per la sezione di
geografia antica che sarà allestita alla fine di quest’anno. Oltre alle migliori edizioni degli scritti
a noi pervenuti dai geografi dell’antichità che parlarono di Roma, oltre ai trattati e dizionari moderni, questa sezione comprenderà i migliori atlanti e carte murali archeologiche del Lazio, dell’Italia, delle province dell’impero romano, e la raccolta fotografica dei monumenti romani”.
Attualmente il museo del Foro attende di ritornare a svolgere la sua funzione catalizzatrice per la quale era stato concepito. Per la sua rinascita dovranno sicuramente attendere
anche quelle istituzioni culturali straniere che da anni contribuiscono all’approfondimento
della conoscenza storica e topografica del Foro e di Roma.
TESTI
LE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
ALL’ISTITUTO LOMBARDO DI MILANO
CENNI SUL RITROVAMENTO SULLA CONSISTENZA
E SULLO STATO DELLA PUBBLICAZIONE
Federico Guidobaldi
Alla cara memoria di
Nadia Facchetti-Guigla
Poiché la comunicazione che presento e quella di Andrea Paribeni, che la segue immediatamente, attingono ampiamente a materiali dell’Archivio inedito di Giacomo Boni, cioè
a quella parte delle carte dell’archeologo che restarono in proprietà della sua assistente prediletta, Eva Tea, mi sembra opportuno – e anche necessario – premettere qualche cenno su
questo insieme di documenti da me rinvenuto a Milano dopo ricerche relativamente tortuose
e del quale sto per pubblicare la parte più cospicua appunto in collaborazione con lo stesso
Andrea Paribeni.
Quello che abbiamo definito Archivio Boni-Tea è di fatto un insieme assai voluminoso
di scritti e altri materiali personali del celebre archeologo incisivamente integrato e commisto
con altri testi, note, appunti, trascrizioni, ecc. dalla Tea che lo ha detenuto per oltre quarantacinque anni prima di cederlo, con atto privato e all’insaputa del mondo scientifico romano
(col quale la Tea stessa ha avuto pessimi rapporti), alla biblioteca dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, adiacente a Brera, che l’aveva ospitata per anni nei suoi studi.
Dato che di questa scoperta avevo dato solo una breve segnalazione in una miscellanea
di studi dedicata a Marcello Paribeni1 che ha avuto una diffusione certo relativamente limitata, ho voluto approfittare di questa sede, in cui Boni è veramente il padrone di casa, per dare
un cenno più dettagliato sia del ritrovamento che della consistenza dell’Archivio Boni-Tea,
anche in previsione della imminente presentazione del primo volume dell’inventario critico
ormai già in bozze.
In tempi davvero remoti, cioè negli anni ’70, lavorando con Franco Astolfi ed Alberto
Pronti negli Horrea Agrippiana per una riedizione del monumento2, mi sono imbattuto, per
la prima volta in concreto, in uno scavo piuttosto esteso di Giacomo Boni del quale però non
risultava nulla di pubblicato anche se la data (di inizio ’900) corrispondeva al periodo forse
più intenso e fecondo delle sue pubblicazioni.
Venne allora spontaneo cercare gli eventuali “diari di scavo” che furono in effetti rinvenuti nell’archivio della Soprintendenza Archeologica di Roma, ma risultarono redatti dagli
1
2
GUIDOBALDI 1994.
ASTOLFI, GUIDOBALDI, PRONTI 1978, pp. 31-100.
24
FEDERICO GUIDOBALDI
Fig. 1 - Trascrizione ad opera di Eva Tea di una lettera di Boni a Netty Roller del giorno 11 marzo 1922 (Milano,
Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Roller).
LE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA ALL’ISTITUTO LOMBARDO DI MILANO
25
“assistenti” e quindi utili solo dal punto di vista della progressione e volumetria dei lavori.
Nessuna traccia trovammo comunque nel famoso “metodo stratigrafico” per cui Boni era
giustamente celebrato anche se alcune cassette di materiali di scavo dei magazzini del Foro
Romano, con l’indicazione “Scavi dietro S. Maria Antiqua” e altre etichette di analogo significato, ci avevano fatto sperare bene, in un primo momento.
Le speranze, in effetti, furono subito deluse quando ci rendemmo conto che il materiale era compreso tra il rinascimento e l’età imperiale con abbondanze più o meno simili per
le diverse epoche e con l’assortimento tipico di un campionario diacronico degli oggetti di
maggior interesse trovati a varie profondità e quindi più da musealizzare che da usare come
riferimento archeologico.
Dato che l’unica pubblicazione sullo scavo – o meglio sullo sterro – degli Horrea Agrippiana era quella di Alfonso Bartoli3 che aveva continuato e concluso lo scavo Boni senza
alcuna attenzione – come era suo costume – per la stratigrafia del terreno, ci restava solo la
speranza di rinvenire eventuali appunti inediti – e possibilmente autografi – di Boni. Studiando l’interessante biografia di Giacomo Boni in due volumi scritta da Eva Tea4 non era difficile
intravedere la concreta possibilità di una sopravvivenza delle “carte” di Giacomo Boni, che
sembravano essere state in possesso della Tea la quale ne faceva frequenti menzioni nella
biografia e in altre sue opere.
La Tea però era morta proprio in quegli anni, nel 1971, senza eredi, nella sua natale
Verona e, per di più, il ricordo di persone che l’avevano conosciuta ci rendeva certi che la sua
mente fosse comunque allora, già da qualche tempo in stato confusionale. L’ipotesi di una
dispersione, se non di una distruzione dell’archivio sembrava sempre più probabile, quando
ebbi il recapito, attraverso conoscenze di famiglia5, di una persona che era stata molto vicina
alla Tea negli ultimi anni e che, essendo assai più giovane di età, poteva essere ancora vivente. Da questa persona riuscii finalmente a sapere che, assai prima di morire, Eva Tea aveva
destinato tutte le carte in suo possesso alla biblioteca dell’Istituto Lombardo Accademia di
Scienze e Lettere di Milano. Immediatamente mi rivolsi a quell’Istituto e ne ebbi conferma.
Quando andai la prima volta a vedere il materiale lo trovai depositato da parecchi anni in una
soffitta della biblioteca, posto in polverose scaffalature (e senza ordine), così come era giunto
dal momento dell’acquisizione.
La quantità delle buste allora mostratemi dal Cancelliere dell’Istituto e responsabile
della biblioteca, dr.ssa Robbiati Bianchi, ancora operante in quell’Istituto e che qui ringrazio
vivamente, era notevole ma non impressionante e una prima indagine mi aveva permesso di
constatare che i materiali prevalenti erano semplici schede bibliografiche di una calligrafia
che ben presto identificai come quella di Eva Tea (fig. 1); a fianco di queste schede però si
3
BARTOLI 1921, cc. 373-402.
TEA 1932.
5
Le informazioni più utili mi sono state fornite da Nadia Facchetti-Guiglia, madre di mia moglie Alessandra, che aveva conosciuto Eva Tea e riuscì a rintracciare una sua amica più stretta, Maria Teresa Segala, veronese come la Tea, dalla quale ebbi poi le più precise informazioni che mi permisero di rintracciare l’Archivio
Boni-Tea. Mi è gradita l’occasione per inviare un affettuoso pensiero alla memoria della cara Nadia a cui dedico
questa comunicazione.
4
26
FEDERICO GUIDOBALDI
Fig. 2 - Lettera di Boni a Baddeley del 14 luglio 1899 (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Baddeley).
LE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA ALL’ISTITUTO LOMBARDO DI MILANO
27
trovavano non di rado sia fascicoli o fogli autografi di Boni (fig. 2), fittamente riempiti con
la sua calligrafia minuta e con qualche schizzo e qualche riproduzione di epigrafi, sia minute
originali ed anch’esse autografe di articoli editi ed inediti (alcuni in buona parte pubblicati
poi postumi dalla Tea).
La mia proposta di riordinare l’intero insieme documentario e di pubblicarne un inventario critico fu allora sostenuta da Marcello Paribeni direttore dell’Organo CNR che ora
è a lui intitolato e di cui sono responsabile attualmente. L’Istituto Lombardo, detentore dei
documenti, ci dette subito il suo beneplacito per mezzo del prof. Maurizio Vitale, tuttora
Conservatore della biblioteca ed al quale rivolgo un sentito ringraziamento per la disponibilità dimostrataci.
Purtroppo il lavoro, cominciato sotto buoni auspici, si dimostrò più difficile del previsto
e ciò per varie ragioni.
Il primo problema, che di fatto costrinse poi alla revisione totale della prima fase di
spoglio e classificazione, fu l’inadeguatezza dei collaboratori allora prescelti che risultarono, a
distanza di tempo, non abbastanza qualificati per poter affrontare in modo fruttuoso e oggettivo l’analisi di quel particolare materiale: un insieme di documenti di contenuto complesso e
variatissimo che, per essere giustamente inquadrati e classificati, richiedevano una conoscenza abbastanza approfondita non solo di varie lingue, ma anche della politica, della cultura e
della storia di fine ’800 e dei primi decenni del ’900.
La seconda causa di rallentamento del lavoro fu poi la relativa inamovibilità dei documenti, che, peraltro, solo in alcuni casi ci è stato permesso di fotocopiare: la conseguenza è
stata quella di dover eseguire gli studi a Milano con costi di trasferta piuttosto incisivi che
limitavano le possibilità di uno svolgimento intenso e continuo.
La terza difficoltà è stata quella della necessità di una continua riprogrammazione dei
tempi: in effetti, man mano che si proseguiva il lavoro, gli addetti della biblioteca trovavano
nuovi fascicoli che, nel corso dell’immagazzinamento preliminare, erano finiti in altre stanze.
Si giunse così in breve tempo a quadruplicare il numero delle buste a cui si aggiungevano
anche libretti, bozze, manoscritti originali editi e inediti, ritagli di giornali e un ricchissimo
carteggio originale o in copia tra Boni e moltissime personalità dell’epoca. Insieme ai nuovi
fascicoli emersero infine anche gli indici delle cartelle che confrontati con i documenti della
donazione ci permisero di quantizzare meglio il lavoro e di classificarlo in coerenza con quanto aveva a suo tempo prestabilito la Tea.
A questo punto l’inventario critico è ripartito dall’inizio sulla base di una nuova e definitiva classificazione degli svariatissimi materiali. Risolutiva è stata in questa fase la scelta
del collaboratore principale, il qui presente prof. Andrea Paribeni, che in qualche modo
potremmo dire “predestinato”, poiché figlio del citato Marcello e, peraltro, nipote di Roberto Paribeni, il fondatore del Museo Nazionale Romano, che era proprio uno dei principali
collaboratori di Giacomo Boni al Foro.
Ad Andrea, che unisce alla cultura artistica e archeologica, quella più vasta di carattere
storico umanistico, debbo la riuscita di questa impresa che, da solo, non avrei mai potuto
completare e che ora sta per dare il suo primo frutto con la pubblicazione della parte più estesa dell’archivio, nella quale l’opera di Andrea Paribeni è decisamente predominante poiché
28
FEDERICO GUIDOBALDI
Fig. 3 - Foto con dedica di Anatole France a Giacomo Boni, maggio 1903 (da TEA 1932, II, p. 129).
Fig. 4 - Giacomo Boni, schizzi per modelli di contenitori della marmellata di melangolo (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, E - Marmellata italiana).
LE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA ALL’ISTITUTO LOMBARDO DI MILANO
29
sia la prima classificazione, che era tutta da rivedere per i motivi già descritti, sia la seconda,
a cui io stesso avevo partecipato, sono state riordinate, aggiornate ed ampliate in funzione dei
nuovi documenti emersi e dei nuovi criteri di redazione che, solo dopo aver preso visione di
tutto il materiale ed avere sperimentato la metodologia d’inventario, potevano essere fissati
in modo definitivo.
Prima di lasciare appunto la parola ad Andrea Paribeni per le “spigolature”, come sempre assai gustose ed interessanti che vi proporrà sul tema del nostro incontro, voglio solo
darvi, perché resti agli atti, un elenco sintetico e puramente indicativo del contenuto dell’Archivio Boni-Tea, premettendo che i materiali specificatamente archeologici sono volumetricamente un po’ inferiori alle aspettative, ma l’insieme documentario, una volta espunte le
schede bibliografiche della Tea, è ricchissimo di squarci profondi e significativi, sia sulla vita,
le amicizie e l’opera di Giacomo Boni, sia – e soprattutto – sulla cultura dei decenni a cavallo
tra XIX e XX secolo che vanno dalla prima maturazione dell’Italia Unita ai primissimi anni
del ventennio fascista (Giacomo Boni muore nel 1925) che lo vide senatore del Regno, anche
se per pochissimo tempo.
L’archivio, come oggi ci risulta, si compone di oltre 150 voluminose buste di contenuti
variatissimi; seguendo l’ordine che riteniamo sia stato fissato già da Boni e integrato dalla
Tea, individuiamo circa 70 cartelle, numerate con numeri romani. Tra queste le prime 37,
di prevalente carattere archeologico, contengono appunti spesso legati a un tema specifico
che compare come titolo della cartella e non di rado anche da disegni e fotografie (da I a
XXXVII); i titoli non sempre sono di immediata utilizzazione: citiamo ad esempio: “ascia”,
“muffe e tarli”, “solarium”, “quadrantal”, ecc. Seguono le buste contenenti un ricco epistolario (da XXXVIII a LXIII) comprendente sia lettere autografe sia di Boni che dirette a
Boni corredato da un indice (LXIV) e da uno schedario di estratti dalle lettere (LXV). Molte
lettere sono anche trascrizioni recuperate pazientemente dalla Tea presso i destinatari. I nomi
sono spesso importantissimi: ricordo quelli di Blanc, Beltrami, Baddeley, Baccelli, De Stefani,
Mussolini, Ojetti, Nogara, Pisani-Dossi, Petrignani, Ricci, Roberson, Anatole France (fig. 3),
Ruskin, Morris, Webb, J.B. Shaw, Pio XI, ecc. Le altre cartelle fino al n. LXX sono raccolte di libretti di appunti anche minuscoli, agende e blocchi notes, pieni di citazioni da testi
classici o comunque letterari oppure con notazioni matematiche o chimiche spesso relative
alla conservazione e anche con qualche diario di viaggio, il tutto, spesso, anche in calligrafia
minutissima.
Segue la serie di cartelle non numerate con titoli svariatissimi e talvolta riferiti a contenuti imprevedibili come ad esempio “Fichi d’India”, “Marmellata italiana” (fig. 4), “Bettole
e scuole”, “Arse verse”, “Carillon”, “Carburante sesti”, “Difese invernali”, “Mnemosine”,
“Neptunalia”, “Vinismo”, “Paries Craticius”, “Vita femminile”, “Vivai”, ecc. In queste cartelle, non di rado, si rinvengono preziosi disegni o appunti anche del periodo più antico, cioè
di quello veneziano, come un bellissimo saggio di studio di Palazzo Ducale di carattere sia
artistico che archeologico (fig. 5) in cui si vedono i germi del metodo stratigrafico che sarà
maturato al Foro Romano.
Le caratteristiche più incisive dell’intero materiale sono comunque la relativa disomogeneità e l’ordinamento molto personalizzato e spesso non del tutto comprensibile di argomenti
30
FEDERICO GUIDOBALDI
Fig. 5 - Giacomo Boni, sezione stratigrafica delle fondazioni di Palazzo Ducale a Venezia, particolare (Milano,
Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A - Calchi e Disegni).
LE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA ALL’ISTITUTO LOMBARDO DI MILANO
31
incredibilmente variati. Numerosissimi e importantissimi sono anche i ritagli di giornali, quasi tutti scritti e “imposti” da Boni e quindi tali da costituire un vero diario di scavo di Boni
stesso.
Tuttavia, anche se esistono cartelle destinate specificatamente ad essi, come pure alle
lettere, alle fotografie e ai disegni, tutti questi materiali si trovano anche dispersi a centinaia
nelle varie cartelle a seconda degli argomenti (e non sempre).
Ciò ci ha convinto, nella pubblicazione, a lasciare intatto l’ordine-disordine in cui abbiamo trovato il materiale lasciando agli indici il compito di ricostituire un ordine per soggetto,
per tipologia, per nomi e per luoghi.
Il primo volume, come dicevo, è già in bozze e riguarda la parte più cospicua e disordinata cioè le cartelle numerate e non numerate escluso l’epistolario, i libretti, gli appunti e i
ritagli di giornali che saranno oggetto delle pubblicazioni che seguiranno.
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE
DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
Andrea Paribeni
Pur tenendo conto di alcuni limiti oggettivi, come la decisa preponderanza di documenti relativi agli ultimissimi anni di vita dell’archeologo veneziano, i materiali conservati
presso l’Istituto Lombardo, con la loro ricchezza e varietà di tematiche, offrono preziose
testimonianze sui rapporti intessuti da Giacomo Boni con personalità di spicco del mondo
accademico e culturale internazionale (fig. 1). Se si scorrono anche rapidamente le cartelle
tematiche dedicate all’archeologia, alla flora e ai temi di rilevanza economica e sociale, se a
ciò si aggiunge un ancor più rapido spoglio dei faldoni contenenti la corrispondenza, sarà
facile imbattersi in citazioni, interventi e memorie di studiosi, intellettuali, rappresentanti
della politica e della diplomazia delle più diverse nazionalità; si tratta soprattutto di uomini
e donne legati a Boni da vincoli di sincera amicizia e che professano per lui profonda stima
e ammirazione.
Tale entusiastica unanimità di pareri è in parte dovuta al controllo dei documenti
condotto dalla Tea nella sua più che trentennale attività di edizione della vita e delle opere di Boni; controllo sistematico, selettivo, talvolta fuorviante se non addirittura mistificatorio, che ha portato ad escludere ovviamente qualsiasi voce di dissenso e a proporre
di Boni un’immagine oleografica, adattata ai sentimenti di devota religiosità e di docile
acquiescenza al verbo fascista nutriti dalla biografa; pure, questa testimonianza, come si
vedrà dagli esempi che verranno proposti qui di seguito, riflette la notorietà e l’autorità
che Boni raccoglieva all’estero e che egli stesso aveva promosso e coltivato, forse come
antidoto alle chiusure e alle ostilità nutrite nei suoi confronti da certa parte dell’ambiente
accademico nazionale.
L’importanza dei rapporti di Boni con gli stranieri – soprattutto negli anni di formazione
giovanile – era stata tale da suggerire alla Tea di consacrare ad essi studi specifici: così, oltre
alle numerose ricorrenze nelle pagine della ponderosa biografia in due tomi edita nel 19321,
1
TEA 1932, I-II. Sull’Archivio Boni-Tea, conservato presso l’Istituto Lombardo di Milano, rimando al
contributo di Federico Guidobaldi in questo medesimo volume.
34
ANDREA PARIBENI
Fig. 1 - Giacomo Boni, Maxim Gorkji e Giovanni
Cena seduto sotto l’Arco di Tito (TEA 1932, II).
compaiono già nel 1926 un breve saggio su William Morris e Boni2 e, più tardi, selezioni della
corrispondenza con Philip Webb3 e con William Douglas Caröe4.
Con una certa sorpresa, abbiamo dovuto constatare che tra le carte dell’Archivio i materiali relativi a questi personaggi sono purtroppo estremamente scarsi, limitandosi per William
Morris essenzialmente ad una lettera autografa del gennaio del 1892 inviata da Kelmscott5 e
per Philip Webb ad un breve carteggio tra Eva Tea e gli eredi dell’architetto inglese circa la
concessione delle lettere da pubblicarsi e la loro successiva restituzione6.
2
TEA 1926, pp. 514 ss. Tra la foltissima bibliografia relativa a William Morris segnalo VALLANCE 1897;
MACKAIL 1995; PARRY 1996; MIELE 1996; FAULKNER, PRESTON 1999.
3
TEA 1940-1941, pp. 127-145; TEA 1941-1942, pp. 135-209. Sulla poliedrica personalità di questo architetto esponente dell’Arts and Crafts Movement e membro fondatore della S.P.A.B. (Society for the Protection of
Ancient Buildings) cfr. LETHABY 1935; BURNAM 1999, pp. 1-23; KIRK 2005.
4
TEA 1959b, pp. 234-254. Per una ampia panoramica sull’attività e il ruolo di questo architetto cfr. ora
FREEMAN 1990.
5
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Morris. La lettera è riprodotta in TEA
1932, I, tavv. IX-XII tra pp. 192 e 193. Faccio presente che per questa, come per le altre segnalazioni di documenti tratti dai faldoni della Corrispondenza di Boni depositati presso l’Istituto Lombardo, non sono al
momento disponibili numeri di inventariazione dettagliati, in quanto tutto questo lotto di documenti è ancora
in fase di studio e di classificazione.
6
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Webb.
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
35
Fig. 2a - Giacomo Boni riproduzioni di qualità di marmo impiegate nella basilica di San Marco a Venezia (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Caröe).
Fig. 2b - Giacomo Boni riproduzioni di qualità di marmo impiegate nei restauri della basilica di San Marco a
Venezia (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Caröe).
36
ANDREA PARIBENI
Qualcosa di più esiste invece riguardo a Caröe: anche se mancano all’appello i dodici
pacchetti di lettere spediti nel 1929 alla Tea dal segretario di Caröe – evidentemente restituiti
al mittente dopo la loro pubblicazione – resta invece un minuscolo ma prezioso cartoncino,
dipinto ad acquerello su entrambi i lati, dove Boni aveva esercitato il suo talento e la sua approfondita conoscenza dei marmi, riproducendo, intorno al 1880, esemplari antichi e mettendoli a confronto con le moderne contraffazioni con le quali i restauratori di San Marco volevano sostituirli (fig. 2a); scrive Boni: “Ho copiato in una pagina un pezzo di verde antico della
chiesa: notate le macchie bianche; sono così belle nel verde antico! Dall’altra parte ho dipinto
il frammento marmoreo, che sono tanto ansioso di rimettere a posto a S. Marco. Coraggio,
caro amico, voltate pagina (fig. 2b) e troverete il nuovo verde di Susa (Genovese) sostituito al
verde antico, nel fondo dei pilastri che decorano il portale di centro della fronte occidentale.
Non si può a lungo sopportarne la vista. La natura stessa lo lascia deperire rapidamente e al
suo confronto il nuovo marmo greco della fronte restaurata ha un certo colore monotono e
una venatura meno irritante: starebbe assai bene a coprire un tavolino da caffè”7.
Della cerchia di artisti inglesi dimoranti a Venezia faceva parte John Wharlton Bunney
che copiava per conto di Ruskin i mosaici di San Marco. Si conserva a Milano una sua lettera a
Boni del 18828, trascritta dalla Tea, in cui il pittore si rammaricava di non poterlo raggiungere
a Ravenna perché troppo impegnato “a finire il San Marco”, da riconoscersi senz’altro in quel
grandioso olio su tela (cm 144,60 x 226) conservato presso la Ruskin Gallery, una delle ultime
fatiche dell’artista9.
Naturalmente anche i rapporti con John Ruskin sono stati oggetto di approfondimenti
e rivisitazioni sia da parte dello stesso Boni10, sia dalla Tea, nella sua biografia. Il lavoro della Tea è essenzialmente basato sulle quindici lettere autografe del Maestro inglese ancora
conservate nell’Archivio, dove si trovano anche, in una cartella di materiali grafici raccolti
indistintamente e senza indicazioni di provenienza11, calchi e disegni di particolari architettonici, sculture decorative, iscrizioni monumentali – ancora in fase di studio – alcuni dei quali
potrebbero corrispondere a quelli realizzati da Boni, Angelo Alessandri e lo stesso Ruskin nel
7
Il cartoncino con gli acquerelli (cm 12 x 6,5) si trova assieme ad altri materiali ancora in attesa di riordino, tra le lettere, gli appunti e gli schizzi dell’architetto inglese: Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea,
Corrispondenza, Caröe. Il passo citato sopra è riportato in TEA 1932, I, pp. 33-34. La passione per i marmi
antichi, fondata su approfondite conoscenze dei litotipi tanto dal punto di vista antiquariale che da quello geologico, emerge costantemente nell’opera di Giacomo Boni e in special modo in quella giovanile, basti ricordare
il ricchissimo contributo sui marmi della basilica marciana: BONI 1888a. In altre occasioni Boni intervenne su
quotidiani locali in merito a questioni riguardanti la tutela dei valori materici e cromatici dei marmi antichi messi
a rischio da improvvidi restauri: cfr. BONI 1880a, BONI 1885a, p. 471; BONI 1887c.
8
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Bunney. Sui contatti con questo artista
cfr. TEA 1932, I, pp. 13, 15, 19, 45, 172.
9
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Ruskin. Tutte le lettere sono state riportate, quasi per esteso, nella biografia boniana, cfr. TEA 1932, I, pp. 38-39, 50-52, 60, 70-77.
10
Cfr. BONI 1919, pp. 317-320. Sulla genesi e la lunga e faticosa esecuzione dell’opera, commissionata al
Bunney dallo stesso Ruskin nel 1877 e oggi conservata a Sheffield, Ruskin Gallery, The Guild of St. George
Collection, vedi HEWISON 1978, pp. 103-105; WILCOX 1997, n. 82, p. 380, fig. a, pp. 256-257.
11
Cfr. Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A - Calchi e Disegni.
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
37
Fig. 3 - Lettera di Boni a Baddeley datata 1905 con
schizzo del calefactorium dalla tomba Y del Sepolcreto
arcaico del Foro (Milano, Istituto Lombardo, Archivio
Boni-Tea, Corrispondenza, Baddeley).
famoso viaggio a Pisa del novembre del 1882, che segnò il primo incontro diretto tra l’anziano autore delle Stones of Venice e il dear fellow veneziano12.
Ci muoviamo ancora nel prediletto ambiente delle conoscenze inglesi con le numerose
lettere inviate a Welbore St. Clair Baddeley che coprono in particolare gli anni dal 1899 al
1902, cruciali per le scoperte archeologiche succedutesi nel Foro Romano. Anche questi testi
sono in gran parte noti, formando essi l’ossatura della ricostruzione delle fasi di scavo nella
biografia della Tea – la quale aveva addirittura carezzato l’idea di una pubblicazione integrale
di essi sulla falsariga delle edizioni dei carteggi Boni-Webb e Boni-Caröe13; più di recente,
molte delle lettere di Boni sono state riportate per esteso, oppure parafrasate, nel penetrante
studio che Timothy Peter Wiseman ha dedicato a Baddeley14, testimone diretto e divulgatore
12
Notizie su questo incontro pisano, nel corso del quale Boni dimostrò di possedere una marvellous head
for heights, oltre che dallo scarno resoconto della Tea (TEA 1932, I, pp. 46-47), si possono trovare in DEARDEN
1961, p. 54; CLEGG 1981, p. 88; BRADLEY, OUSBY 1987, pp. 454, 459 e 488. Sui rapporti tra Boni e Ruskin vedi da
ultimo BELLINI 2007 e i contributi Amedeo Bellini e Paolo Fancelli in questo medesimo volume.
13
In una lettera dell’ 11 marzo del 1927, Baddeley comunicava a Eva Tea che l’editore Macmillan aveva
mostrato scarso interesse al progetto di una pubblicazione dell’epistolario tenuto con Boni. Cfr. Milano, Istituto
Lombardo, Archivio Boni-Tea - A.XXV, Ercolano e Nemi, doc. 14.
14
WISEMAN 1985-1986, pp. 119-149.
38
ANDREA PARIBENI
oltremanica delle scoperte forensi dell’archeologo veneziano, di cui prese con risolutezza le
parti nelle querelles sorte con altri studiosi – in primis il Lanciani – in ciò rientrando in una
sorta di partito angloamericano sostenitore di Boni e, per suo tramite, della linea politica del
ministero Baccelli, di cui faceva parte anche Richard Norton, direttore in quegli anni della
School of Classical Studies in Rome15.
Resta dunque poco di insondato nelle lettere a Baddeley tuttora presso l’Archivio e
possiamo giusto mostrare alcune di queste corrispondenze boniane (fig. 3), vergate con la
consueta minutissima calligrafia e talvolta corredate di rapidi schizzi per illustrare le aree di
scavo e i più singolari e interessanti reperti scaturiti nei sondaggi16. Inedita e in un certo qual
modo interessante per ricostruire la rete delle conoscenze internazionali di Boni, è invece una
lettera che Baddeley scrisse ad Eva Tea nel marzo del 192717: rispondendo a una richiesta di
chiarimenti su episodi e personaggi legati a Boni avanzata dalla Tea, in quegli anni già al lavoro per la sua biografia, l’oramai settantunenne Baddeley, in un curioso italiano forse rispolverato per l’occasione, ricordava una cena dell’aprile del 1900 all’albergo Eden di Roma cui
furono presenti tra gli altri, oltre ovviamente a Boni, l’archeologo Charles Waldstein accompagnato dal fratello, l’alpinista Francis Tuckett18 e Lawrence Alma-Tadema; quest’ultimo, tre
giorni prima aveva conosciuto Boni, auspice Baddeley, in una passeggiata che aveva toccato il
Comizio, il tempio di Vesta, l’arco di Tito e il Colosseo, da dove il pittore inglese aveva colto
l’ispirazione per un suo quadro; potrei azzardare che si dovesse trattare di un soggetto per
le scene del Coriolano di Shakespeare commissionategli da Sir Henry Irving, alla cui realizzazione Alma-Tadema lavorò alacremente tra 1900 e 190119, ma non essendo questo il mio
campo mi astengo da qualsiasi sorta di caccia al tesoro e lascio ad altri il compito di scovare
tra la ricca produzione di Alma-Tadema l’opera che eventualmente potrebbe essere messa in
correlazione con questo episodio20.
Tra i commensali dell’Eden era presente, come detto sopra, Charles Waldstein, che Boni
aveva conosciuto nel 1894 negli scavi di Argo – secondo la Tea traendone ispirazione per le
15
Si veda a questo proposito il lungo articolo pubblicato da Norton sul Times il 9 gennaio del 1899, dal
titolo The Condition of Historical Buildings in Italy, nel quale, con argomenti e perfino con un lessico che, volto
in inglese, ricorda a tratti la prosa boniana, vengono tessute le lodi per le più recenti scoperte archeologiche
registratesi nel Foro, per le quali viene reso merito al ministro Baccelli e a Boni “one of the most competent of
the Government officials”. L’articolo di Norton è riportato per esteso in LANCIANI 1988, pp. 241-247.
16
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Baddeley. Proprio sulle comunicazioni
fornite dalle lettere inviategli da Boni, oltre che sulla documentazione presa direttamente sul posto, si fondò
Baddeley per la stesura del suo memoriale relativo alle più recenti scoperte archeologiche nel Foro Romano: cfr.
BADDELEY 1904.
17
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Baddeley.
18
Francis Fox Tuckett (1834-1913), primo a scalare la vetta dell’Aletschhorn nel 1859. Memorie di questa
e di altre sue ascensioni in TUCKETT 1873-1874; TUCKETT 1920.
19
Tra le monografie più recenti su Alma-Tadema segnalo SWANSON 1990 e BARROW 2001, pp. 165-166, ove
si potranno trovare notizie sulla sua attività in questi anni e sul suo coinvolgimento nella realizzazione delle scenografie del Coriolano, la cui prima commissione risaliva addirittura agli anni ’80 del XIX secolo.
20
La documentazione “sul campo” serviva all’artista anche per rintuzzare le accuse di scarso senso filologico che taluni critici rivolgevano alle scenografie da lui curate: vedi BARROW 2001, p. 167 per un esempio di
queste recensioni negative. Per il rapporto di Alma Tadema con la città di Roma vedi ora PRETTEJOHN 2002.
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
39
future esplorazioni del Foro21 – e che rincontrerà in particolare nel 1907, in occasione della polemica sorta attorno al grandioso scavo internazionale ad Ercolano progettato dall’archeologo americano già dalla fine del 1903 e preliminarmente accettato da una commissione
appositamente nominata, per poi venir respinto negli anni immediatamente successivi per
gli interventi di Corrado Ricci, all’epoca Direttore Generale delle Antichità, di Primo Levi e
dello stesso Giacomo Boni. Quest’ultimo levò alta la sua voce sugli organi di stampa con un
articolo dal titolo Il patrio suolo e al grido di “l’Italia farà da sé”, condannò in maniera repentina e senza mezzi termini la faraonica operazione che avrebbe defraudato la nazione dei
tesori della antica città romana e dell’onore di riscoprirli22. Esiste nell’Archivio una cartella
dedicata all’affaire Ercolano23, dove sono contenute alcune lettere scambiate tra Boni e Waldstein, nelle quali l’archeologo inglese cerca di chiarire i malintesi sorti con Boni, urtato nella
propria suscettibilità per non esser stato subito informato e coinvolto nell’impresa, e protesta
la sua sincera intenzione di voler lasciare, nella conduzione degli scavi, un ruolo alle autorità
italiane, mentre Boni ribadisce che la sua opposizione nasceva principalmente dall’imbarazzo
di accettare che uno scavo del genere venisse condotto con stanziamenti stranieri e di vedere
Waldstein “pitoccando, per disdoro d’Italia, tra non italiani”24.
Il dissidio tra i due si ricompose nello stesso anno, in occasione del viaggio di Boni
in Inghilterra per il conferimento della laurea honoris causa ad Oxford25, ma l’episodio è
interessante perché mette in evidenza le istanze fortemente nazionalistiche dell’archeologia
21
Cfr. TEA 1932, I, p. 469.
Cfr. BONI 1907a.
23
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A.XXV - Ercolano e Nemi.
24
La citazione è presa da BONI 1907a ed è riportata pure in TEA 1932, II, pp. 210-211. Analoghe argomentazioni ritornano nei documenti - articoli di giornale, lettere, ecc. - del ricco dossier raccolto da Waldstein sulle
polemiche sorte attorno al progetto di scavo e pubblicato in calce alla sua monografia su Ercolano (WALDSTEIN
1908, pp. 187-254; il dossier è intitolato Documents Relating to the International Scheme of Excavation 1903 to
1907). Mi sembrano interessanti in particolare, per meglio comprendere il comportamento apparentemente
ambiguo tenuto da Boni nella vicenda, i due articoli firmati Archaeologist e Excavator e apparsi rispettivamente
sul Times del 7 e del 10 gennaio del 1905 (riportati integralmente in WALDSTEIN 1908, pp. 201-202; un breve
passo di uno di essi anche in TEA 1932, II, p. 210), nei quali l’anonimo elzevirista faceva il nome di Boni come
figura di riferimento nell’ambiente dell’archeologia italiana cui affidare un ruolo di primo piano nella organizzazione e nella conduzione degli scavi di Ercolano; è assai probabile che tali articoli fossero stati concepiti o
quanto meno suggeriti dallo stesso Boni, o da personalità a lui vicine, per sondare il terreno nell’ipotesi di un suo
coinvolgimento nel grandioso progetto archeologico. Circa le ragioni che spinsero poi Boni ad un tale repentino
e drastico pronunciamento contro il progetto di scavo, non è escluso che esse siano da ricercarsi nel diverso
orientamento politico espresso dal nuovo governo Giolitti, insediatosi nel maggio del 1906: non è un caso,
difatti, che fu anche Corrado Ricci, di fresca nomina alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti con
l’auspicio del ravennate Luigi Rava nuovo Ministro della Pubblica Istruzione, ad intervenire contro il progetto
Waldstein, segnando un brusco mutamento di giudizio nei confronti degli scavi ercolanesi, verso i quali ancora
nel settembre di quell’anno parte della pubblica opinione guardava con simpatia (cfr. JANNI 1906, articolo riportato in WALDSTEIN 1908, pp. 241-244). Boni avrebbe quindi aderito al nuovo indirizzo dettato dal Ministero,
prestando la sua autorevole voce dalle colonne de La Tribuna. Per maggiori lumi sulla parallela e per certi versi
comune attività politica e culturale di Ricci e Rava vedi ora Per la bellezza di Ravenna 2003.
25
Una vivace, anche se un po’ romanzata ricostruzione dell’incontro e del chiarimento tra Boni e Waldstein
si trova in TEA 1932, II, pp. 211-214.
22
40
ANDREA PARIBENI
Fig. 4 - Busto di Giove Serapide, già presso il Sacrario di Giuturna (Milano, Istituto Lombardo,
Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Parsons).
nostrana di quel periodo: già in passato, del resto, Boni era andato in rotta di collisione con
archeologi stranieri sulla base di supposte indebite ingerenze negli scavi del Foro: ancora in
una lettera dell’Archivio inviata nel giugno del 1899 al Ministro Baccelli, Boni riferisce di non
aver permesso a Christian Hülsen di prendere calchi della “iscrizione di Romolo” (ovvero
quella del niger Lapis), fintanto che non fossero completati quelli in gesso dell’Accademia
dei Lincei, pensando di interpretare in tal modo il pensiero “romanamente italiano di Sua
Eccellenza”26.
In generale sono pochi i contatti che dalle carte dell’archivio emergono con archeologi
sia italiani che stranieri, e questo anche mettendo in conto le frequentazioni con personaggi
la cui attività si poneva al limite tra l’interesse antiquariale e il commercio più o meno lecito
di reperti archeologici. In questi casi Boni, da sempre ostile agli ambienti di quelli che già
26
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A.XXV - Ercolano e Nemi, doc. 9. Sulle limitazioni
imposte da Boni alle ricognizioni di Hülsen cfr. anche Archivio Centrale dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale, AA.BB.AA. III versamento, II parte 1898-1907, fasc. 1138.1 Roma. Foro Romano. Stele
con iscrizione arcaica rinvenuta negli scavi.
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
41
in passato aveva definito “iene antiquarie” e “coccodrilli archeofagi”27, interveniva in primo
luogo per difendere i reperti di pregio artistico e materiale del Foro e tentare di recuperare
marmi e altri manufatti eventualmente trafugati dagli scavi; in questa chiave va interpretata
una lettera indirizzata nel dicembre del 1921 a Harold W. Parsons, un inglese agente a Roma
per conto di diversi musei statunitensi, che si muoveva in stretto contatto con altri antiquari
e mercanti d’arte come Ludwig Pollak28. Nella lettera, scritta in inglese con un tono apparentemente bonario e suadente che cercherò di restituire nella traduzione, Boni, dopo aver
espresso la riconoscenza di Giuturna nei confronti di Parsons per aver favorito due anni addietro la restituzione della protome equina appartenente al gruppo dei Dioscuri e trafugata
da ignoti nel 191229, prosegue:
“Ora la ninfa è nuovamente in lacrime perché un busto di Giove (fig. 4) è stato rubato
dal sacrario, ma ella non dispera che voi possiate avere un colloquio con Mercurio, che conosceva gli scaltri ladri delle vecchie rovine meglio di quanto la polizia conosca quelli ben
più audaci dei nostri tempi, e che possa aiutarci nel recuperare il busto”; segue un invito al
Foro nei giorni successivi per avere “a friendly talk”30. Il pianto di Giuturna questa volta
rimase inascoltato, perché il busto, di Serapide per la precisione, risulta tuttora disperso ed
è unicamente noto da poche riproduzioni dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza Archeologica31, cui si può aggiungere questa nuova fotografia dell’Archivio Boni-Tea. Il motivo
della relativa assenza di scambi e relazioni continue con colleghi archeologi, sia italiani che
stranieri, sempre più evidente con il trascorrere degli anni, credo vada ricercato nel carattere
peculiare della formazione di Boni, prettamente tecnica e consolidata con una serie di studi
filologici e umanistici condotti solo come autodidatta e senza una rigorosa sistematicità: da
non accademico, Boni incontrava non lievi difficoltà di comunicazione e scarsa accoglienza
in quel mondo e finiva quindi per privilegiare interlocutori non accademici, colti certamente
27
Il riferimento è ovviamente agli articoli scritti da Boni in difesa del patrimonio archeologico e artistico
messo in pericolo dallo strapotere del mercato internazionale: BONI 1905c, p. 332; BONI 1905d, p. 450. Vedi anche BONI 1904a. Sull’episodio trattato in quest’ultimo articolo vedi ora MANIERI ELIA, TUCKER 2001, pp. 21-36.
28
Su Harold Parsons e i suoi traffici nel mercato antiquariale romano in favore di musei americani come
quelli di Cleveland e di Kansas City, cfr. POLLAK 1994, pp. 68-69, ove si parla proprio di marmi trafugati dagli
scavi del Foro (cfr. infra).
29
Su questa scultura cfr. HARRI 1989, pp. 177-232, in part. pp. 177-198. Nella scheda dedicata alla protome
equina non si fa cenno all’episodio del furto. Altre allusioni a questo furto si trovano in Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A.X - Aedes Vestae, doc. 1 e A.XXXI - Nike, doc. 23, che contiene un trafiletto dal titolo
Archaeology in Rome. The Palatine Excavations, tratto da un giornale non identificato ma datato 20 novembre
1919, in cui viene ricordata la restituzione della protome da parte dell’incauto acquirente, ovvero il Parsons.
30
“Dear Mister Parsons, Juturna is grateful to you for the horse head you generously gave her back two
years ago. Now the Nimphe (sic) is in sorrow again because a bust of Jupiter has been stolen from the Sacrarium
but she does not despair that you may have a talk with Mercurius who knew the quick thieves of old ruins better
than the police knows the far more audacious of modern days…and that you may help us in recovering the bust.
I hope you may come up here some days, for a friendly talk. Believe me your sincerely Giacomo Boni”. Milano,
Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Parsons. Si tratta per la precisione di una copia della
lettera di Boni trascritta dalla Tea forse direttamente dalla minuta e accompagnata dalla fotografia del busto di
Serapide.
31
HARRI 1989, pp. 210-212.
42
ANDREA PARIBENI
Fig. 5 - Roma, Cimitero Acattolico, tomba di Olga
Steinmann (da TESCHE 2002).
e versati nei campi più disparati ma raramente veri e propri archeologi32. Meglio ancora se
questi interlocutori erano stranieri, poiché Boni ne guadagnava in prestigio personale e in
un certo senso riusciva a svincolarsi da qualsiasi giudizio locale, ponendosi in un consesso
internazionale di alto profilo culturale; non a caso sarcasmo e perplessità verso i riconoscimenti raccolti all’estero furono tra gli argomenti maggiormente usati dai detrattori del valore
scientifico dell’opera di Boni33.
32
Al caso di Baddeley sopra esaminato si possono affiancare quello di Mrs. Burton Brown, dalla Tea seccamente definita, con un certo malcelato fastidio, “scrittrice con qualche gusto per l’arte” (TEA 1932, II, p.
168. Vedi anche WISEMAN 1985-1986, p. 143), cui Boni avrebbe concesso, per venire incontro alle sue necessità
economiche, di pubblicare una guida del Foro a scopo divulgativo (BURTON-BROWN 1904). Da quanto è dato
ricavare dallo spoglio dei documenti dell’Archivio Boni-Tea, nel novero dei contatti epistolari con colleghi archeologi sono comunque più frequenti le voci che provengono dall’estero, non solo dalla beneamata Inghilterra
(si vedano per esempio i biglietti e le lettere di William Ridgeway e Alfred Hudd a proposito della scoperta del
Mundus sul Palatino in A.VII - Mundus, docc. 38-39), ma anche da altri paesi europei (estratto con dedica di
von Bildt in A.I - Fori imperiali e altri appunti archeologici, doc. 22; estratto con lettera di accompagno da parte
di F. Hofer, in A.XXVII.b - Casa Romuli - Riproduzioni di case, docc. 14e-14f) e americani (si veda l’epistolario
con Frank Tenney a proposito del ventilato progetto di scavo del Circo Massimo tra 1924 e 1925 in A.XXVI.b
- Circo Massimo - Appunti, docc. 2a-2b).
33
Sulle preferenze accordate da Boni a personalità straniere nella divulgazione di scoperte archeologiche
si sofferma anche AUGENTI 2000, pp. 39-46, in part. p. 42. Va tenuto presente peraltro che nemmeno in ambito
internazionale le inclinazioni scientifiche e i metodi di lavoro di Boni incontrarono indistintamente l’approvazio-
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
43
Fig. 6 - Giacomo Boni presso le macerie del Campanile di San Marco a Venezia (Milano, Istituto Lombardo,
Archivio Boni - Tea, Campanile di San Marco).
In questa chiave assumono quindi per lo meno in parte un certo significato i forti e profondi legami di amicizia con i membri del cenacolo che a Roma ruotava attorno a Henrietta
Hertz, proprietaria a partire dal 1904 di Palazzo Zuccari in cui sarebbe sorta in seguito la
Biblioteca Hertziana, di cui facevano parte Ludwig Mond, valente chimico e marito di Frida
Löwenthal e soprattutto i coniugi Steinmann34.
A proposito di questi ultimi restano nell’Archivio, trascritte dalla Tea, alcune lettere di
Boni a loro indirizzate35, contenenti per lo più argomenti di carattere privato, rapide informazioni sull’andamento degli scavi nonché dei suoi studi scientifici e sull’incremento delle
piantagioni al Foro e al Palatino, cui gli Steinmann contribuivano saltuariamente con qualche
ne generale, come dimostrano da un lato le critiche mosse da de Grüneisen alla conduzione degli scavi di Santa
Maria Antiqua (DE GRÜNEISEN 1911, p. 56), dall’altro quelle rivolte alle piantagioni di specie arboree e floreali
nel Foro Romano in LUCAS 1938, p. 227.
34
Sulla nascita della Biblioteca e sui personaggi che ruotarono attorno a questa iniziativa cfr. ora TESCHE
2002.
35
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Steinmann.
44
ANDREA PARIBENI
Fig. 7 - Srinagar, veduta delle abitazioni lungo il fiume (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Barnes).
offerta; se la corrispondenza con Olga, nata von Gerstfeld, cessa nel 1910 con la scomparsa
della cagionevole cultrice di studi musicali e artistici, quella con il marito Ernst, autorevole
studioso di Michelangelo e primo direttore dell’Hertziana36, proseguì negli anni, proprio nel
ricordo comune di Olga, alla cui memoria Boni offrì piantagioni di ficus repens e altri fiori da
collocare presso la sua tomba nel Cimitero Acattolico alla Piramide37 (fig. 5).
Traendo spunto dalla corrispondenza con Olga Steinmann, vorrei concludere questa
rassegna di voci straniere prendendo in esame brevemente qualche altra figura femminile
le cui frequentazioni con Boni hanno lasciato traccia nell’Archivio Boni-Tea. A metà strada
tra l’Italia e gli Stati Uniti, Amy Allemand Bernardy, figlia del console americano a Firenze,
durante i suoi studi universitari frequentò il Foro Romano seguendo gli scavi di Boni, finché nel 1903 si trasferì negli Stati Uniti con l’incarico di lettrice e quindi di Direttrice dello
36
TESCHE 2002, passim.
“Ho pregato il buon Ciacchi di accompagnare Nuccitelli per piantare il ficus repens accanto alla tomba
della cara Olga tua”. Da una lettera datata al 1913. Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Steinmann.
37
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
45
Smith College, occupandosi in particolare di tematiche legate all’immigrazione femminile38.
Anche al di là dell’Oceano, la Bernardy seguì i lavori di Boni39, sensibilizzando la comunità
italiana per lo sgombero delle macerie (fig. 6) e la ricostruzione del campanile di San Marco40
e tenendosi aggiornata sulle novità degli scavi del Foro, di cui nelle lettere si trova qualche
descrizione – in particolare del Sepolcreto e del cd. Equus Domitiani – e anche informazioni
di una certa importanza, come nella lettera del 17 agosto del 1901, in cui Boni conferma di
aver trovato le tre famose e discusse monete di Giustino II sotto la base di una delle colonne
di S. Maria Antiqua41, ritrovamento grazie al quale sarebbe possibile datare al terzo quarto
del VI secolo la trasformazione dell’ambiente in luogo di culto cristiano42.
Ma, nelle sue confidenze con la Bernardy, Boni preferisce soprattutto diffondersi su
aspetti più mondani, come le visite dei reali di Germania e di Inghilterra e di scrittori di fama
38
Sulla Bernardy cfr. CAVAZZA 1997, pp. 57, 88-89 note 311-316; TIRABASSI 1998, pp. 149-161 e, da ultimo,
GANDOLFO 2003, pp. 125-142, in part. p. 127 per la segnalazione della raccolta di lettere, scritti e altri materiali
della Bernardy attualmente presso l’Istituto Statale d’Arte di Firenze e di cui è in corso lo studio.
39
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Bernardy.
40
Come è noto, Boni svolse un ruolo di grande rilievo nelle operazioni di recupero dei materiali e di indagine strutturale del monumentale campanile crollato il 14 luglio del 1902, allorché venne posto alla direzione
del commissariato Ufficio dei Monumenti del Veneto. L’impegno di Boni nell’opera di soccorso è testimoniata,
oltre che dalle puntuali notizie nelle biografie di Beltrami e della Tea, anche nelle sue pubblicazioni tra le quali
segnalo BONI 1904b, pp. 585-610; BONI 1912a, pp. 3-21; BONI 1912b, pp. 27-65. Di notevole interesse è anche il
corposo fascicolo milanese, ricco di relazioni, lettere, disegni e fotografie (Milano, Istituto Lombardo, Archivio
Boni-Tea, C - Campanile di San Marco), che documentano l’attività di Boni per il campanile e, più in generale,
anche per tutti i principali monumenti di Venezia e del Veneto. Sul disastroso crollo del campanile e sulle cause
che lo provocarono cfr. MACCHI 1999, pp. 143-164, con bibl. precedente.
41
“Quanto a Santa Maria Antiqua le esplorazioni nel sottosuolo hanno fruttato la scoperta della piscina
ch’Ella già conosce e di altri avanzi del Palazzo Imperiale del primo secolo (Caligola?) che aveva un orientamento alquanto diverso da quello Adrianeo, ma corrispondente alle linee oblique segnate nel frammento della
Forma Urbis di Vespasiano, che ho riprodotto a illustrazione di Juturna. Altro risultato importante delle esplorazioni fatte nella Chiesa Palatina è quello ch’essa fu modificata architettonicamente per ridurla al culto cristiano i
primi anni del sesto secolo (Teodorico?); sotto la base di una delle colonne allora sostituite ai pilastri di mattoni
dell’impluvium imperiale rinvenni tre monete di Giustino. I frammenti architettonici rimanenti nello scavo e che
possono aver appartenuto alla decorazione della chiesa non sono più antichi del secolo sesto. Lo strato di pitture che riposa sull’intonaco imperiale ha caratteri spiccatissimi del sesto secolo”. Milano, Istituto Lombardo,
Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Bernardy. Evidentemente, in base ad una prima lettura Boni riteneva che le
monete fossero di Giustino I (518-527) - pertanto coeve di Teodorico, morto nel 526 - e non già di Giustino II
(565-578) come si sarebbe affermato in seguito (cfr. nota successiva).
42
Come è noto la presenza di queste monete di Giustino II (cfr. TEA 1937a, pp. 19 e 362) è stata molto discussa dagli studiosi che si sono occupati di Santa Maria Antiqua: cfr. WRIGHT 1975, in part. pp. 16-17; OSBORNE
1987, pp. 186-223, in part. p. 188, nota 11; KITZINGER 1989, p. 166 nota 4; AUGENTI 2000, p. 44 nota 53) alcuni
dei quali, diffidando della notizia del rinvenimento non suffragata dalla conservazione dei reperti, hanno preferito non tenerne conto, a dispetto delle opportunità che esse offrivano per circoscrivere il momento in cui l’aula
palatina sarebbe stata trasformata in chiesa. Circa la sorte delle monete sono state fatte diverse congetture da
coloro che danno per buona la notizia del loro recupero, tra le quali segnalo quella del Reece, il quale propone
che esse siano confluite nel gruppo delle circa 1300 monete dell’Antiquarium palatino indicate come “provenienti dalla Fonte di Giuturna”, due delle quali sono certamente di Giustino II: REECE 1982, pp. 116-145. Cfr.
anche BERTOLDI 1997.
46
ANDREA PARIBENI
internazionale come Anatole France43. Scrive Boni nel maggio del 1903: “Sono pieno di visite
– e di una certa categoria ne ho pienissime le tasche ma pazienza – serve a dare importanza al
lavoro che ormai sarebbe difficile di far sospendere, per quanta brama ne avessero taluni”44,
dichiarazione che suona come un’ulteriore dimostrazione del talento che mostrava Boni nel
convogliare l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi che lo interessavano, grazie ad un
uso talvolta persino spregiudicato dei “media”. Un’altra curiosa figura di corrispondente esotica, che non troviamo nella “Bibbia” della Tea ma di cui resta un certo numero di lettere, è
senz’altro Maria Eugenia Barnes, per molti anni avventurosa studiosa ed esploratrice del subcontinente indiano, dalla cui esperienza trasse un libro di memorie pubblicato nel 192445.
Con Boni, conosciuto in alcune visite agli scavi del Foro, la Barnes condivide gli interessi
per il sanscrito e la cultura indiana antica e a lui invia di tanto in tanto lettere corredate da
riproduzioni fotografiche di abitazioni tradizionali dell’India46 (fig. 7) – che a Boni servivano come elemento di comparazione con i tipi di urne a capanna rinvenute nel Sepolcreto –
oppure disegni di asce bipenni e altri oggetti simili, in uso ancora nelle campagne indiane;
anche in questo caso esse dovevano servire da confronto per gli studi sui riti di espiazione e
dedicazione sub ascia che Boni riconnetteva alla forma delle grappe di fissaggio per i blocchi
delle mura serviane47.
La carrellata di personaggi potrebbe ancora andare avanti48 e probabilmente nuove testimonianze milanese ancora non completamente esaminati, in grado forse di colmare
la“assenza” utili per questo e altri temi potranno emergere da quegli incartamenti del fondo
delle voci di alcune personalità straniere che, per affinità di carattere e comunanza di interessi, ci si attenderebbe di trovare rappresentati nei carteggi e nella corrispondenza di Boni49.
43
Sugli stretti rapporti tra Boni e Anatole France cfr. TEA 1932, II, pp. 61-64. Per inciso, ricordo che, in
seguito all’incontro con Boni e alle sue esperienze nella suggestiva ambiance del Foro e del Palatino, lo scrittore
francese farà di Giacomo Boni un personaggio di rilievo nella sua Pierre blanche del 1904.
44
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Bernardy. Lettera datata 11 maggio
1903.
45
BARNES 1924.
46
Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A.XXVII.b - Casa Romuli - Riproduzioni di case, docc.
4.a-4.b.
47
BONI 1910, pp. 495-513. Vedi inoltre i documenti raccolti nel fascicolo Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, A.XXX - Ascia.
48
Cito solo il faldone con le trascrizioni delle lettere che Giacomo Boni inviò ad Augustine Bulteau (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, Corrispondenza, Bulteau), che conferma l’amichevole consuetudine
che il Nostro mantenne con la scrittrice ed editorialista francese (1860-1922), già plume ispirée del marito Jules
Ricard, quindi autrice in proprio di romanzi, saggi e articoli soprattutto sul Figaro. Nella biografia di Boni, Eva
Tea riporta molte delle lettere di Boni alternandole a quelle, inquiete e percorse talvolta da accenti appassionati,
che a lui inviò l’instancabile epistolografa (una media di dieci lettere al giorno per una trentina d’anni circa inviate alle maggiori personalità del mondo culturale francese e internazionale) dal suo salotto parigino in Avenue
Wagram o da Palazzo Doria a Venezia, ove ella cominciò a risiedere dopo il 1896 e la separazione dal marito,
assieme alla contessa de la Baume-Pluviniel. Sulla scrittrice francese vedi ora PERRY 2006.
49
Mi vengono in mente soprattutto due nomi: quello di Clarence Bicknell, cultore di archeologia e soprattutto di botanica e di avifauna - su cui cfr. Clarence Bicknell: la vita e le opere 2003 - da cui ci si sarebbe aspettati
una presenza nell’Archivio milanese ben maggiore del semplice biglietto del dicembre del 1913 che accompagnava un’offerta di semi per la Flora Palatina (cfr. Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni-Tea, B.XXXV.
PERSONALITÀ E ISTITUZIONI STRANIERE DALLE CARTE DELL’ARCHIVIO BONI-TEA
Fig. 8 - Giacomo Boni, Cavana (Milano, Istituto Lombardo, Archivio Boni - Tea, A.XXVI - Casa Romuli).
47
48
ANDREA PARIBENI
Un’ultima parola per ribadire il carattere del tutto particolare dell’Archivio Boni-Tea: un
archivio che contiene numerosissimi documenti boniani, taluni di una non trascurabile importanza e anche persino di un certo pregio artistico (fig. 8), ma indubbiamente condizionato
dalle scelte operate da chi per primo si occupò di sistemarlo50.
Della consistenza di queste scelte abbiamo tenuto debitamente conto nel nostro lavoro
di riordino, puntando a rivedere solo per il minimo indispensabile l’ordine dei documenti
così come Eva Tea ce li aveva trasmessi. La speranza è che, una volta compiutamente classificati, i documenti dell’Archivio Boni-Tea siano in grado di gettare nuova luce sull’archeologo,
sull’appassionato botanico, sul teorico del restauro, sul cultore di Virgilio e Dante, degli studi
ariani e dei poeti giapponesi medievali, sull’osservatore politico abbagliato dal fascismo e
dall’eugenica, sull’intransigente proibizionista, sul bizzarro cultore di tecnicismi protesi al
miglioramento delle condizioni di vita dei più deboli ed esposti, personaggi che convivono,
tutti, in Giacomo Boni51.
4- Flora - Lettere, doc. 8.n; per contro nel Museo Bicknell si conservava l’opuscolo di Boni sul metodo dello
scavo archeologico, come sottolinea MANACORDA 1982a, pp. 104-105); e quello di Joseph Whitaker già appassionato ornitologo (WHITAKER 1905), in seguito archeologo dilettante e “scopritore”, a partire dal 1906, della città
di Mozia (cfr. WHITAKER 1921) ove creò un Museo che, per concezione e criterio espositivo, mostra molte affinità
con quello che Boni volle per il Foro Romano. Su Whitaker cfr. SILVESTRI 1995.
50
Una situazione non dissimile è stata riscontrata nei riguardi dell’archivio Beltrami, cfr. BELLINI 1999, pp.
75-82.
51
Su questi diversi aspetti della personalità di Boni rimando ad alcune delle cartelle tematiche dell’Archivio: B.XXXV 1-6 - Flora; C - Conservazione dei monumenti; D - Virgilio; D - Dante; D - Traduzioni da Kenko;
G - Emblema fascista; G - Fascismo purificatore; G - Eugenìa e proletariato; E - Vinismo; F - Tecnicismo e semplificazioni burocratiche; E - Carburante Sesti; E - Difese invernali. Va da sé che per gli interessi archeologici andranno
prese in considerazioni tutte le cartelle numerate (da I a XXXIV) più molte altre di quelle non numerate, che
sono prevalentemente dedicate agli scavi del Foro e del Palatino.
GIACOMO BONI ED IL SUO RAPPORTO SCIENTIFICO
CON L’ISTITUTO ARCHEOLOGICO GERMANICO
Klaus S. Freyberger
Introduzione
Con l’arrivo di G. Boni (fig. 1) sulla scena archeologica romana inizia una nuova era
della storia della ricerca del Foro Romano. Gli scavi da lui effettuati dal 1898 al 1914 nell’area centrale e occidentale del Foro, per la loro estensione e le metodologie adottate nonché
per il numero e l’importanza dei monumenti, mettono in ombra tutte le indagini precedenti
di questo sito. Durante gli scavi vennero portati alla luce non solo edifici di età imperiale,
ma anche monumenti da strati precedenti che risalgono fino alla storia arcaica di Roma. Il
nuovo materiale ottenuto rivedeva in maniera decisiva il quadro che si aveva, all’epoca, del
Foro Romano, fornendo dunque anche nuove conoscenze fondamentali sulla storia di Roma
antica. Le scoperte avvennero in un periodo in cui diversi paesi in Europa, tra cui anche
l’Italia, avevano sposato l’ideologia nazionale e fascista. In questo clima politico-culturale i
monumenti di età regia scoperti da G. Boni, come il sepolcreto arcaico1, il niger Lapis2 (fig. 2),
il Comizio3, il Lacus Iuturnae4 ed il Lacus Curtius5 si prestavano egregiamente ad essere strumentalizzati per la propaganda politica. I nazionalisti italiani elevarono questi monumenti a
testimoni eloquenti che dovevano non solo sublimare la propria storia patria, ma mettere in
discussione la storiografia critica moderna in Germania rappresentata da T. Mommsen (fig.
3) e B.G. Niebuhr. Venne coinvolto nel conflitto anche l’Istituto Archeologico Germanico di
Roma, di cui si schizzerà brevemente il rapporto con l’Italia, paese ospite, in questi anni. In
considerazione del dibattito scatenato dagli scavi di Boni, va tematizzata anche la questione
del giudizio di questo personaggio dalla prospettiva attuale.
1
BONI 1902; BONI 1903b; BONI 1905b; BONI 1906.
BONI 1899c; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, IV, Roma 1999, pp. 295-296,
sv. Sepulcrum Romuli, (F. COARELLI).
3
BONI 1900c; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, I, Roma 1993, pp. 309-314,
sv. Comitium, (F. COARELLI).
4
BONI 1900b; BONI 1901a; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E. M. Steinby, III, Roma 1996,
pp. 168-170, sv. Lacus Iuturnae, (E.M. STEINBY).
5
Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, III, Roma 1996, pp. 166-167, sv. Lacus
Curtius, (C.F. GIULIANI).
2
50
KLAUS S. FREYBERGER
Fig. 1 - G. Boni nel suo studio sul Palatino (Archivio Fotografico SSBAR).
Il conflitto tra il paese ospite e l’Istituto Archeologico Germanico di Roma
Lo scontro polemico culminò nella lettura e interpretazione e dell’iscrizione arcaica rinvenuta sul niger Lapis6 (fig. 4). Gli attacchi verbali portati avanti con toni sciovinisti dal gruppo di eruditi intorno a G. Boni, che aveva come portavoce L. Ceci, dovevano raggiungere
un pubblico più vasto rispetto agli ipercritici, le cui opinioni e scritti erano destinati ad una
cerchia ristretta di specialisti.
A tale scopo i “patrioti” pubblicarono i loro scritti in organi di pubblicazione nazionali, come Il Popolo di Roma o la Rivista d’Italia, il cui tenore era tutt’altro che neutrale e
scientifico7. Alcuni brevi brani saranno sufficienti come testimonianze. L. Ceci, professore di
linguistica a Roma, incaricato della lettura dell’iscrizione arcaica del niger Lapis, assume una
posizione chiara: “La scoperta del cippo non contrassegna la vera e propria bancarotta della
critica moderna, in particolare di quella tedesca, ma certamente farà vacillare la fiducia di nu-
6
7
COARELLI 1983, pp. 3-5; WICKERT 1979, p. 151.
COARELLI 1983, p. 4.
GIACOMO BONI ED IL SUO RAPPORTO SCIENTIFICO CON L’ISTITUTO ARCHEOLOGICO GERMANICO
51
Fig. 2 - Niger Lapis, cippo quadrangolare con iscrizione in latino arcaico (Archivio Fotografico SSBAR).
merosi studiosi nelle parole di un Niebuhr o Mommsen e rafforzerà le speranze di coloro che
erano rimasti fedeli all’autorità di Livio e alle basi storiche della tradizione”. Toni ancora più
aspri verranno usati da Padre De Cara, che, in La Civiltà Cattolica nr. 1192, asserisce “da ora
in poi colui che non crederà alla verità della storia regia romana non deve essere considerato
un Italiano ma un vigliacco”8.
La risposta a tali affermazioni non si fece attendere. “Difensore” e portavoce degli studiosi tedeschi fu C. Hülsen (fig. 4), allievo di Mommsen, dal 1887 al 1908 Secondo Segretario
dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Con l’entrata in scena di Hülsen anche l’Istituto entrò nel conflitto tra i “patrioti” italiani e gli “ipercritici”.
Significative sono non solo le affermazioni ma anche il comportamento di Hülsen, che si
rifiutò di entrare a far parte della Commissione per gli scavi sul Foro – una nomina che gli era
stata conferita dal Ministro italiano – quando gli venne negata la possibilità di studiare più attentamente l’iscrizione arcaica sul cippo del niger Lapis. Interessante è anche il suo commento
su questo avvenimento: “Quando all’inizio di luglio uscì la pubblicazione ministeriale, scrissi
8
HOLZAPFEL 1905, p. 269.
52
KLAUS S. FREYBERGER
Fig. 3 - Th. Mommsen, ritratto, 1900.
un articolo sul reperto in una rivista specialistica tedesca. Non potei fare a meno di caratterizzare brevemente la mancanza di valore del lavoro dell’interprete (il professor Ceci) scelto dal
Ministro e biasimare il tono insolente con cui vengono attaccati i ricercatori tedeschi.
Il professor Ceci ha risposto in diversi articoli sul Popolo di Roma, che allego. Il tono
impertinente degli stessi mi esime dalla necessità di rispondere”9.
La guerra di opinioni che toccò direttamente il rapporto dell’Istituto con il paese ospite
durò a lungo e venne portata avanti con grande fervore. I segretari dell’Istituto, tuttavia, malgrado il contrasto carico di grandi emozioni, si sforzarono sempre di avere un atteggiamento
cortese nei confronti del paese ospite.
Questa intenzione è chiaramente espressa in una relazione di Hülsen: “…la spiacevole
polemica contro la ricerca tedesca che prende lo spunto dai nuovi rinvenimenti non ci deve
impedire di riconoscere con gratitudine i meriti oggettivi dell’amministrazione degli scavi ed
augurare un buon proseguimento alla stessa per tutti gli sforzi mirati ad un serio avanzamento
della scienza”.
Malgrado il clima surriscaldato da movimenti nazionali e patriottici vi era però tutta una
serie di colleghi italiani che continuarono a stimare l’Istituto Archeologico Germanico ed i
9
WICKERT 1979, p. 152.
GIACOMO BONI ED IL SUO RAPPORTO SCIENTIFICO CON L’ISTITUTO ARCHEOLOGICO GERMANICO
53
Fig. 4 - C. Hülsen, ritratto, 1905.
suoi studiosi. Una testimonianza di questo apprezzamento si può desumere da un’osservazione di Dessau in una lettera a Hülsen dell’anno 1905: “Mi congratulo di cuore con Lei per
la Sua nomina a socio estero dei Lincei. È certo anche un segno del fatto che l’incresciosa
situazione venutasi a creare nel corso degli anni comincia ad accomodarsi”. Hülsen come
migliore conoscitore della topografia romana godeva di grande prestigio presso i colleghi del
paese ospite. Nel 1906 il Ministero delle Poste gli chiese di guidare i delegati di un Congresso
dell’Unione postale universale sul Palatino, a Villa Adriana e Villa d’Este10.
Valutazione degli scavi di G. Boni
Dall’ottica attuale i risultati sono comprensibili solamente se visti nel loro contesto
temporale. F. Coarelli ha fatto notare che in quell’epoca vi erano gruppi di archeologi romani
che affondavano le proprie radici nelle scienze antiquarie del XVII e XVIII sec.11. Per loro il
nazionalismo ed il fascismo costituivano l’humus ideale che dava loro la possibilità di esporre
i monumenti della storia di Roma e quindi la propria storia in maniera acritica, trasformando
10
11
Vd. supra nota 9.
COARELLI 1983, pp. 4-5.
54
KLAUS S. FREYBERGER
questi monumenti in santuari nazionali. Anche alcuni rappresentanti della scuola ipercritica,
come E. Pais, trovarono la propria realizzazione politica nella cerchia del fascismo. Pare addirittura ironico che E. Pais, non ha torto, parli di “archeologia patriottica” e “archeologia
elettorale”. Come ha giustamente sottolineato U. Wickert, non vi fu una discussione storicocritica12. Questa lacuna si delinea anche negli attacchi verbali contro la storiografia tedesca,
che infatti venivano lanciati solo quando gli studiosi tedeschi osavano mettere in dubbio
l’interpretazione dei reperti del “sublime passato” di Roma e così mettevano in discussione la
prospettiva storica dei patrioti.
Considerata la situazione, si pone la questione della valutazione attuale della persona
di G. Boni e dei suoi scavi. Come i suoi compagni di lotta, anche G. Boni si formò durante
l’epoca del nazionalismo e agli albori del fascismo.
Bisogna notare che, come attore principale e coordinatore degli scavi sul Foro Romano,
non partecipò mai pubblicamente agli attacchi verbali contro gli “ipercritici”. Tuttavia era
della stessa opinione dei suoi collaboratori, dai quali si faceva rappresentare. Il grande merito
di G. Boni è lo scavo di un materiale archeologico che portò importanti conoscenze per la storia di Roma arcaica. Il suo interesse era rivolto soprattutto ai metodi delle tecniche di scavo,
che aveva certamente fatto proprie in ambiente inglese13. Il veneziano, aperto alla cerchia culturale mittel e nordeuropea, si dedicò come architetto al restauro di numerosi monumenti14.
Il suo amore per l’architettura dei giardini lo spinse a risistemare i Giardini della Farnesina sul Palatino creando un vivaio-giardino15. Nella collaborazione interdisciplinare con
rappresentanti dell’antropologia e della paleontologia si dimostrò uno straordinario organizzatore e manager. Notevolmente scarso fu però il suo interesse per la storia. Documentò
il vastissimo materiale da lui stesso scavato in numerosi articoli, ma restò in debito con la
scienza in quanto al lavoro propriamente archeologico, all’interpretazione ed analisi storica
dei reperti archeologici. Molto materiale andò perduto per la scienza, per cui dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale monumenti e ritrovamenti dovettero essere studiati ex novo16.
Questa circostanza fatale vale non solo per il materiale del Foro Romano, ma anche per gli
scavi dell’“area di Sant’Omobono”17. Negli ultimi decenni vi hanno lavorato molto soprattutto archeologi italiani ed anche colleghi di altri paesi, ma i lavori sono ancora lungi dall’essere
conclusi. A questi progetti intende partecipare anche l’Istituto Archeologico Germanico di
Roma, con il previsto studio del materiale della Basilica Aemilia18.
Dovranno essere analizzati sistematicamente i reperti archeologici concernenti tutti gli
elementi architettonici e le sculture conservate in situ e nei magazzini nonché il materiale
12
WICKERT 1979, p. 150.
CARRETTONI 1976.
14
PARIBENI 1994.
15
CAZZATO 1990.
16
BIANCHI BANDINELLI 1976, p. 98.
17
Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, II, Roma 1995, pp. 281-285, sv. Fortuna et
Mater Matuta, Aedes, (G. PISANI SARTORIO).
18
Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, I, Roma 1993, pp. 183-187, sv. Basilica
Paul(l)i, (H. BAUER).
13
GIACOMO BONI ED IL SUO RAPPORTO SCIENTIFICO CON L’ISTITUTO ARCHEOLOGICO GERMANICO
55
proveniente dagli scavi di Boni. Inoltre dovranno essere incluse nello studio tutte le testimonianze epigrafiche e le notizie di autori antichi e collegate con i fatti archeologici. Non solo
la Basilica Aemilia, ma anche altri edifici e reperti provenienti da quegli scavi devono essere
interpretati storicamente dagli studiosi di scienze dell’antichità per poter cogliere appieno i
frutti del lavoro di G. Boni.
GIACOMO BONI E
I BORSISTI AMERICANI A ROMA
Christina Huemer
Alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento, esistevano a Roma due
scuole americane: la Scuola Americana d’Architettura (American School of Architecture in
Rome), fondata nel 1894 e rinominata Accademia Americana (American Academy in Rome)
nel 1897, e la Scuola Americana di Studi Classici (American School of Classical Studies in
Rome), che risale al 1895. Quindi, i borsisti americani a Roma erano gli studenti di tutte due
le Scuole1, che si riuniranno solo nel 1913 e si trasferiranno al Gianicolo nel 1914, nella sede
che occupano tutt’oggi, sotto il nome di Accademia Americana2.
Nel 1895, anno di fondazione della Scuola Americana di Studi Classici, la sede per entrambe le Scuole era la Villa Aurora al Pincio. Gli studi archeologici furono ideati da Arthur
Frothingham jr.3, vice-direttore della Scuola in quell’anno, e da Allan Marquand4, che insegnò storia dell’arte l’anno successivo. Entrambi provenivano da Princeton University, dove
avevano creato, all’epoca, il più avanzato corso di studi sulla storia dell’arte negli Stati Uniti5.
Gli studenti a Roma seguivano anche i corsi di topografia romana di Christian Hülsen all’Istituto Germanico e di Rodolfo Lanciani all’Università La Sapienza. Lanciani, sposato con
un’americana6, era vecchio amico di Frothingham e Marquand7 e stava lavorando, all’epoca,
alla Forma Urbis Romae (1893-1901).
Una testimonianza dell’insegnamento di Lanciani viene dal carteggio di Howard Crosby
Butler, studente nel 1897/98. Butler scrive a Marquand, che sarebbe tornato a Princeton
dopo il suo anno a Roma, di essere deluso delle lezioni di Hülsen ma di apprezzare molto
quelle di Lanciani – tre volte la settimana – “e ancora migliori sono le gite private con Lanciani nella città e (una volta alla settimana) a qualche sito antico nelle montagne. Ho avuto la
fortuna di conoscere il professore sotto i migliori auspici e mi ha invitato a partecipare alle
1
Uso qui il termine “borsisti” sia per i “Fellows”, che vinsero la borsa di studio, che per gli altri studenti
che frequentavano le Scuole nei primi anni, a spese proprio o con le borse degli altri istituzioni.
2
Per la storia dell’Accademia Americana, vd. VALENTINE, VALENTINE 1973 e SCOTT 1993c.
3
Per Frothingham, vd. FOWLER 1923 e DE PUMA 1976.
4
Per Marquand, vd. LAVIN 1993, pp. 7-10.
5
LAVIN 1983.
6
Mary Ellen Rhodes of Providence, Rhode Island, in prime nozze.
7
Cfr. BARNABEI 1991, pp. 435, 451 n. 12, 463-464, 478 n. 11-12.
58
CHRISTINA HUEMER
Fig. 1 - Richard Norton
(da KELSEY 1919, p. 328).
gite che fa ogni mercoledì, alle quali partecipano il borsista di Oxford in archeologia8, un
giovane entusiasta della legazione britannica9, Mr. Bulwer10, e io stesso. Normalmente non
siamo più di sei persone – prendiamo un treno in prima mattinata, torniamo tardi, e ‘viviamo
l’archeologia’ per tutta la giornata”11.
8
Presumabilmente Thomas Ashby, che beneficiò della Craven Travelling Fellowship.
Non ancora identificato.
10
Possibilmente Archibald Bedford Bulwer (1821-1904), morto a Roma e sepolto a Napoli.
11
1897 - dicembre, 2 - Roma. Lettera: “Hülsen’s lectures [...] are a little disappointing as you get nothing
but Hülsen, all other authorities counting for naught, so that a constant granum salis is necessary. But Lanciani’s
lectures are thorough and I have three of these a week - best of all are the private trips with Lanciani about the
city and once a week for the day out at some ancient site in the mountains. I was fortunate enough to meet the
Professor under very charming auspices and he soon invited me to join his regular Wednesday excursions made
up of the Oxford fellow in archaeology, a young and enthusiastic member of the British legation, Mr. Bulwer and
myself. We are seldom more than six - we take an early train and return by a late one and have archaeology all
the time…” (Princeton University Library, Special Collections, Marquand papers, CO269, Box 11, folder 76).
Dopo un anno a Roma, Butler andò in Siria per condurre un’indagine scientifica dei monumenti antichi, poi diventò direttore degli scavi a Sardis in Turchia (1910-1914) e fondatore della scuola di architettura a Princeton.
9
GIACOMO BONI E I BORSISTI AMERICANI A ROMA
59
Il professor Lanciani aiutò il giovane Butler a selezionare l’argomento per lo studio approfondito: gli acquedotti romani come monumenti di architettura12.
Per quanto sappiamo, i primi contatti con Giacomo Boni erano cominciati nello stesso
1897, con l’arrivo di Richard Norton come professore di archeologia alla Scuola Americana.
Boni aveva conosciuto suo padre, il grande dantista Charles Eliot Norton, prima per
corrispondenza, tramite John Ruskin, e poi in persona, a Venezia, probabilmente nel 188113.
Sappiamo dalla Tea che alla fine del 1897 Richard Norton e la moglie Edith alloggiarono
nell’appartamento di Boni in Via Genova 30, mentre Boni era in viaggio in Sicilia per alcune
settimane14. Possiamo immaginare che un rapporto nato da questa cortesia diventasse subito
amicizia. Norton e Boni avevano tanti interessi in comune, nonostante la differenza di età
(Boni aveva 38 anni all’epoca, Norton solo 25). Norton era archeologo, formato negli scavi di
Charles Waldstein nell’heraion di Argos, conoscitore di antichità, e critico d’arte (fig. 1)15.
A partire del 1897/98, il nome di Giacomo Boni appare in quasi ogni rapporto annuale
della Scuola Americana. La prima notizia è il dono di un gesso (soggetto non specificato).16
Un anno dopo, viene evidenziato per la prima volta che gli studenti potevano assistere (senza
partecipare) agli scavi di Boni nel Foro Romano17. Su suggerimento di Norton, Boni fu anche
invitato a fare una comunicazione alla Scuola, nell’ambito di una serie di conferenze alle quali
partecipavano anche Lanciani e Luigi Borsari18. All’epoca, la Scuola si trovava nella Villa Cheremeteff-Story, all’angolo tra via Gaeta e via Palestro (l’edificio ospita oggi un albergo), e le
conferenze avevano luogo nella biblioteca. Il direttore, Tracy Peck, fu entusiasta del rapporto
con Boni: “Passando frequentemente alla sede della Scuola, [Boni] aveva potuto conoscere
tutti i borsisti, e non risparmiava ne tempo ne erudizione nei colloqui che concedeva loro
durante i suoi lavori di tanto successo. Uno dei migliori avvenimenti dell’anno, a mio avviso,
è il fatto che i nostri studenti abbiano avuto l’occasione di sviluppare i rapporti professionali
e personali, quasi a livello intimo, con due studiosi italiani così meticolosi e cortesi come i
signori Boni e Borsari”19. Uno degli studenti di quell’anno che sicuramente ne approfittò fu
Anna Spalding Jenkins, che scelse come argomento di studio i Plutei Traiani rinvenuti nel
Foro Romano nel 187220.
12
BUTLER 1901.
TEA 1932, I, pp. 46, 104-105. Incorraggiato da Charles Eliot Norton, Boni pubblicò un saggio sugli studi
danteschi in America nella Rivista d’Italia nel 1898 (BONI 1898; cfr. TEA 1932, I, pp. 564-565).
14
TEA 1932, I, p. 559.
15
Per Norton, vd. KELSEY 1919.
16
ASCSR Annual Report, 1897-1898, p. 526.
17
ASCSR Annual Report, 1898-1899, pp. 687, 707.
18
ASCSR Annual Report, 1898-1899, p. 705.
19
ASCSR Annual Report, 1898-1899, p. 707: “By frequent calls at the home of the School, he made the
personal acquaintance of all its members, and stinted neither time nor learning in repeatedly allowing them to
interview him in the midst of his very successful labors. I consider it one of the very best incidents of the year
that our students had the opportunity of coming into almost intimate personal as well as professional relations
with two such thorough and modest scholars and fine Italian gentlemen as Signori Boni and Borsari.”
20
JENKINS 1901.
13
60
CHRISTINA HUEMER
Fig. 2 - Scuola Americana di Studi Classici in villa Bonghi, 1909 (American Academy in Rome, Photographic
Archive, Academy Buildings Collection, 114).
Boni continuò a fare lezioni o comunicazioni ogni anno alla Scuola e continuò a permettere la presenza dei borsisti agli scavi. Fu una consolazione, almeno in parte, per il fatto che il
governo italiano all’epoca non aveva concesso alle accademie straniere il permesso di dirigere
scavi in Italia per conto loro21.
Quando Richard Norton fu promosso da professore a direttore della Scuola nel 1899, i
contatti si intensificarono. Nello stesso tempo, i rapporti con Lanciani diventarono tesi. Norton scrisse un articolo sugli scavi di Boni per il Times di Londra nel 1899, seguito da un paio
21
I tentativi di ottenere per la Scuola Americana un’autorizazione a scavare cominciarono con Frothingham e continuarono con Norton, senza successo. Le autorità italiane temevano (con qualche giustificazione)
l’esportazione dei reperti verso i musei americani, e le critiche di Norton nel 1899-1900 peggiorarono la situazione. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale fu concesso all’Accademia Americana l’autorizzazione di condurre
scavi, sotto la direzione di Frank E. Brown. Vd. DYSON 1998 per una sintesi della storia degli scavi americani in
Italia.
GIACOMO BONI E I BORSISTI AMERICANI A ROMA
61
Fig. 3 - Studenti della Scuola Americana di Studi Classici a Gabii, 1902 o 1903 (American Academy in Rome,
Photographic Archive, Academy Events Collection, 684).
di lettere nel 190022. Queste comunicazioni erano molto critiche sugli scavi precedenti (compresi quelli di Lanciani) e sulla gestione delle antichità da parte del governo italiano. Così
Norton portò nelle pagine del Times un’attacco personale a Lanciani, che rispose a sua volta
nella stessa sede. Il contenzioso fra i due professori non poteva sfuggire all’attenzione degli
studenti. Norton, tuttavia, non esitò a dare credito a chi lo meritasse – per esempio, a Charles
James O’Connor, studente alla Scuola Americana nel 1900, per il suo tentativo di identificare
il Tribunal Aurelium23. Per Giacomo Boni, Norton aveva solo lodi e, da allora in poi, Boni
prese il posto di Lanciani come tramite fra gli studenti americani e l’archeologia italiana.
Nel dicembre 1901, la Scuola Americana si trasferì a un altro palazzo, Villa Bonghi, exresidenza del ministro e giornalista Ruggero Bonghi, all’angolo di via Vicenza e via dei Mille
(fig. 2). Boni continuò a frequentare la scuola e ad aiutare gli studenti. Nel 1904, Norton
22
23
Ristampati in LANCIANI 1988, pp. 241-247, 298-303.
LANCIANI 1988, p. 298, e O’CONNOR 1900.
62
CHRISTINA HUEMER
racconta nel suo rapporto che Boni invitò i borsisti americani “a vedere l’inaugurazione della
pietra angolare del Palazzo di Domiziano – eravamo noi gli unici stranieri invitati”24.
Nel 1907, nel suo ultimo rapporto, Norton scrisse: “Il Commendatore Boni, come sempre, ha dimostrato molta cortesia e interesse nei confronti della Scuola. Non solo ha parlato
agli studenti nel Foro e davanti gli scavi della base della Colonna Traiana, ma li ha anche
aiutati più di una volta nelle loro ricerche. Inoltre, quando è morto Carducci, ha parlato alla
Scuola sulla vita e sulle opere del poeta. Questo discorso è un buon esempio delle opportunità che arrivano ai nostri studenti per coltivare i loro gusti [...]”25. I buoni rapporti con Boni
continuarono anche dopo la partenza di Norton e l’arrivo di Jesse Benedict Carter come
direttore della Scuola26.
Per giudicare l’influenza di Boni sui giovani classicisti americani, prendiamo in considerazione due dei migliori studenti: Charles Rufus Morey e Esther van Deman.
Charles Rufus Morey (fig. 3, in piedi a sinistra) venne a Roma nel 1900 come borsista di
archeologia cristiana. Aveva già conseguito la laurea dall’Università di Michigan e continuava
i suoi studi a Princeton. Il suo arrivo a Roma capitò in un momento magico per la storia dell’archeologia cristiana: la scoperta della chiesa di Santa Maria Antiqua nel Foro Romano.
Iniziati nel gennaio 1900, gli scavi erano a buon punto quando Morey arrivò nell’autunno. Erano stati messi in luce la pianta e gran parte della muratura in elevato. Nell’aprile
del 1901, fu scoperto un sarcofago paleocristiano, pubblicato da Orazio Marucchi27. Morey
riprese l’argomento e diede un’interpretazione diversa, pubblicata nel primo volume dei Supplementary papers of the American School of Classical Studies in Rome (1905)28. Fu coraggioso,
in quanto Marucchi era considerato un esperto e, inoltre, era ben conosciuto alla Scuola29.
24
ASCSR Annual Report, 1903-1904, p. 36: “Commendatore Boni spoke on the Forum and also invited us
to see the opening of the corner-stone of the House of Domitian - we being the only outsiders invited…”.
25
ASCSR Annual Report, 1906-1907, pp. 28-29: “Comm. Boni, as always, showed great kindliness and
interest in the School. He not only lectured to the students in the Forum and at his excavations at the base of
Trajan’s Column, but helped them again and again when they were pursuing their own private researches. Furthermore, at the time of Carducci’s death he spoke at the School about the poet and his works. Such a lecture is
a good example of the opportunities that come to our students to cultivate their taste on lines closely connected
with their regular work, but yet apt to be neglected and forgotten owing to the more obvious claims of their
daily tasks”.
26
Alcuni esempi dai rapporti di Carter: ASCSR Annual Report, 1907-1908, p. 28: “Commendatore Boni
talked to the students in the Forum on the most recent excavations at the Summa Sacra Via…”.
ASCSR Annual Report, 1908-1909, p. 152: “…the School once again enjoyed the opportunity of hearing
Commendatore Boni speak in the Forum, this time on the newly discovered Republican House”.
ASCSR Annual Report, 1911-1912, p. 229: “…Commendatore Boni lectured in the Forum on the new discoveries, and in the School Library on the Flora of the Palatine”.
27
MARUCCHI 1901.
28
MOREY 1905. Non fu questa la sua prima pubblicazione, come è stato detto, in quanto Morey aveva già
pubblicato una serie di iscrizioni, risultato del lavoro della sua prima estate a Roma (1901): C.R. MOREY, “Note
supplementari al De Rossi: Inscriptiones Christianae Urbis Romae, vol. 1”, in Nuovo Bullettino di Archeologia
Cristiana, 8 (1902), pp. [55]-71.
29
Marucchi, curatore di antichità egizie al Vaticano, dava lezioni d’archeologia alla Scuola e guidava gli
studenti nelle catacombe nel periodo 1895-1901 e di nuovo dal 1911 al 1912. Quindi la valutazione di Marucchi da parte di Morey (“His suggestions regarding the provenience of the monument are very interesting and
GIACOMO BONI E I BORSISTI AMERICANI A ROMA
63
Fig. 4 - Esther Van Deman, Thomas Ashby, Albert van Buren e altri a Frascati, 1903 (American Academy in
Rome, Photographic Archive, van Deman Collection, 942).
Anche il problema della datazione e dello sviluppo degli stili nella pittura a Santa Maria
Antiqua interessava Morey, che riprese l’argomento negli anni Venti, quando tornò a Roma
nella veste di professore all’Accademia Americana. Insieme con Myrtilla Avery, una sua studentessa e borsista all’Accademia nel 1925/26, avanzò una teoria d’ellenismo altomedievale
(“early Medieval Hellenism”) nell’arte bizantina, con Alessandria come fonte30. Questa teoria
non è più accettata, ma rimane importante dal punto di vista storiografico, in seguito riconosciuta da Per Jonas Nordhagen31 nella sua analisi del saggio fondamentale di Morey intitolato
“The Sources of Mediaeval Style” (1924)32. Nordhagen cita inoltre l’importanza di Santa
Maria Antiqua nella storiografia dell’epoca quando scrive che “molti dei concetti alla base
ingenious, but his description of it is incomplete and his interpretation of the scenes seems to me extravagant”MOREY 1905, p. 148) rappresenta una critica piuttosto sconsiderata per un giovane studioso.
30
AVERY 1925.
31
NORDHAGEN 1992.
32
MOREY 1924.
64
CHRISTINA HUEMER
dell’arte altomedievale furono inventati dagli studiosi che scrissero le prime analisi di questa
chiesa”33.
È un peccato che Charles Rufus Morey non ci abbia lasciato i suoi appunti sugli scavi di
Boni, perchè sarebbe stato interessante conoscere le sue impressioni. La formazione di Morey
nell’archeologia cristiana a Roma fu alla base di una carriera brillante. Morey è considerato
uno dei “padri” della storia dell’arte in America: professore a Princeton e fondatore del College Art Association e dell’Art Bulletin (1913)34. A Princeton nel 1917 fondò anche una famosa banca dati ante litteram, l’Index of Christian Art. Molti anni più tardi, dopo la Seconda
Guerra Mondiale, quando tornò di nuovo a Roma come addetto culturale americano, fu uno
degli ideatori e primo presidente (1946-1950) dell’Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma35. Non possiamo immaginare un po’ della visione
intellettuale e dello spirito internazionale di Giacomo Boni in tutte queste iniziative?
Esther van Deman (fig. 4, seduta a destra) non fu la prima studentessa alla Scuola Americana36, ma è quella meglio conosciuta della sua generazione37. Van Deman arrivò a Roma
nel autunno del 1901, dopo alcuni anni di insegnamento in America. Aveva 39 anni, quindi
era più anziana degli altri studenti e aveva già scelto l’argomento che voleva studiare: il culto
di Vesta nel Foro e le relative iscrizioni. Richard Norton riconobbe l’importanza delle sue
ricerche, definendole “il più importante lavoro fatto da uno studente” nell’anno accademico
1902/0338. Dopo il ritorno della van Deman negli Stati Uniti, la Carnegie Foundation rinnovò
il sostegno finanziario che permisero alla studiosa di tornare alla Scuola come borsista nel
1906 e di rimanere a Roma fino alla sua morte nel 1937.
Per documentare il suo lavoro, Esther van Deman diventò una fotografa di primo livello, come dimostrano le sue immagini dell’Atrium Vestae (fig. 5), fra le tante. Studiava e
fotografava i particolari della tecnica della costruzione laterizia per datare le varie fasi del
monumento, e le sue foto sono una testimonianza importante. Nel 1907, fu la prima donna
a dirigere le gite dei borsisti della Scuola Americana. Nel 1908-1909, van Deman pubblicò i
risultati dei suoi studi sull’Atrium Vestae, illustrandoli con le sue foto39.
Negli anni seguenti, continuò le sue ricerche sulle tecniche costruttive romane, mirate
alla pubblicazione di un Handbook. In questa iniziativa, l’esempio del metodo scientifico di
Giacomo Boni fu fondamentale. Esther van Deman fu uno degli primi archeologi americani
33
NORDHAGEN 1988, p. 594: “…many of the concepts that governed Early Medieval art, were invented by
those who wrote the early literature on this particular church”.
34
C.H. SMYTH, “Charles Rufus Morey (1877-1955): Roma, archeologia, e storia dell’arte”, in Roma, centro
ideale della cultura 1989, pp. 14-20. Versione inglese: “Concerning Charles Rufus Morey (1877-1955)”, in Early
years 1993, pp. 111-123.
35
Early years 1993, pp. 111-123, e SJÖKVIST 1956.
36
Le prime donne furono ammesse come studenti speciali nel 1896, mentre la prima donna che vinse una
borsa di studio (con diritto, quindi, di chiamarsi “Fellow” ) fu Mabel Douglas Reid da Cornell University, nel
1900. Anna Spalding Jenkins (vd. sopra), da Smith College, fu la prima a pubblicate i risultati delle sue ricerche
(JENKINS 1901).
37
Esther B. van Deman 1991; CAPODIFERRO 2002.
38
ASCSR Annual Report, 1902-1903, p. 30.
39
VAN DEMAN 1908a; VAN DEMAN 1908b; VAN DEMAN 1909.
GIACOMO BONI E I BORSISTI AMERICANI A ROMA
65
Fig. 5 - Esther van Deman, Atrium Vestae, 1909 (American Academy in Rome, Photographic Archive, van
Deman Collection, 569).
Fig. 6 - Edgar Williams, ricostruzione dell’Atrium Vestae, sezione, 1910 (American Academy in Rome, Photographic Archive, Fellows’ Work Collection, 369).
66
CHRISTINA HUEMER
ad affiancare lo studio letterario tradizionale dei monumenti con lo studio rigoroso dei materiali e delle tecniche, basato sull’analisi scientifica. Anche se non è mai riuscita a completare il
suo Handbook, ci rimangono le altre pubblicazioni e più di 2700 foto nell’Archivio Fotografico dell’Accademia Americana.
Nel 1910, Esther van Deman aiutò un giovane architetto, Edgar I. Williams, autore di
una serie di bellissimi disegni di ricostruzione dello stesso monumento (fig. 6). È un esempio
di collaborazione fra artista e studiosa che anticipò la fusione fra le due scuole americana tre
anni dopo. Giacomo Boni invitò non solo studiosi ma anche architetti a visitare il Foro Romano. Sappiamo dal suo racconto che il ministro Bacelli gli chiese di utilizzare gli scavi come
ispirazione per la rinascita dell’architettura italiana: “Guido Bacelli mi poneva la mano sulla
spalla, dicendomi: ‘Trasforma il Foro Romano in un gabinetto sperimentale d’architettura.’
Così ho tentato di fare, assecondato dai migliori pensionati della Francia, del Belgio, dell’Olanda, della Scozia, del Canadà, e dell’Australia. Studiavano da mattina a sera, non come
si suole studiare tra le carte e i disegni di vecchie Accademie o su logori calchi, che non hanno
più espressione alcuna, ma come studiavano Leon Battista Alberti, Donatello, il Ghirlandaio,
i Da Sangallo, il Pollaiuolo, Fra Giocondo e Baldassare Peruzzi, che dalle pietre antiche sorbivano l’arte quale vibrazione di vita”40. Curiosamente, Boni non menziona i borsisti degli Stati
Uniti, ma ci furono anche loro! Purtroppo abbiamo poche documentazioni grafiche degli
studi dei borsisti americani di architettura prima del 1910. Esistono ancora alcuni bei disegni negli archivi americani, ma a Roma sono rimaste solo le riprese fotografiche, conservate
nell’Archivio Fotografico dell’Accademia Americana. Queste illustrano uno stile di disegnare
derivato dai metodi dell’École des Beaux Arts, con le “relevés” (disegni misurati), gli studi
dei particolari, e la rappresentazione sia dello stato attuale del monumento che della ricostruzione quanto più fedele possibile dell’aspetto originale.
I giovani architetti e gli artisti americani non seguirono le lezioni formali, in quanto avevano già completato gli studi di base, ma lavorarono indipendentemente sotto la direzione
generale del direttore dell’Accademia. Con gli anni le borse di studio erano estese da un anno
a due o tre anni. Il programma di studio stabilito per gli architetti41 prescriveva una serie di
disegni di un monumento antico nel primo anno e di un edificio rinascimentale nel secondo
anno. Nel terzo anno erano previsti viaggi in Sicilia e in Grecia alla ricerca di altri modelli
antichi da misurare e imitare. La creatività fu permessa solo nei “collaborative problems”,
competizioni annuali nelle quali ogni architetto collaborò su un progetto con un pittore e un
scultore, sempre in uno stile classico o neo-rinascimentale.
Alcuni degli architetti scelsero i monumenti del Foro Romano per gli esercizi di disegno.
Già nel 1894, Harold Van Buren Magonigle, uno dei primi tre borsisti della Scuola Americana
d’Architettura, studiò l’Arco di Tito e produsse un disegno in prospettiva che fu pubblicato42.
Dopo il suo ritorno agli Stati Uniti, Magonigle diventò un architetto di successo a New York,
meglio conosciuto per i monumenti commemorativi o celebrativi che per gli edifici.
40
41
42
TEA 1932, II, p. 158.
YEGUL 1991, pp. 11, 37-40.
Envois 1902, pl. 11.
GIACOMO BONI E I BORSISTI AMERICANI A ROMA
67
Fig. 7 - Joseph Herendeen Clark in
cima all’Arco di Tito, 1910 (da CLARK
1974, p. 38b).
Fig. 8 - William J.H. Hough, ricostruzione del Palazzo di Domiziano, 1916 (American Academy in Rome, New
York office, Archive).
68
CHRISTINA HUEMER
Nel 1906, l’Accademia Americana si trasferì a Villa Mirafiori sulla via Nomentana, ma i
borsisti continuarono a frequentare il Foro. Nel 1908 Ernest Lewis fece una serie di disegni
del Tempio di Castore e Polluce43. Richard Haviland Smythe studiò la Basilica Aemilia nel
1910/1144. Joseph Herendeen Clark, coetaneo di Smythe e McKim Fellow nel 1910/11, scelse
(come Magonigle nel 1894) l’Arco di Tito per il suo progetto e percorse ogni giorno i cinque
chilometri dalla Villa Mirafiori a piedi o con il tram. Racconta nelle sue memorie come avesse
trovato aiuto da Giacomo Boni:
“Il Comm. Boni [...] mi fornì, gratuitamente, un piccolo ufficio ed un ‘castello’, cioè una
torre di 50 piedi, una specie di ponteggio con le scale [...] che si poteva spostare sulle ruote
intorno all’Arco [...] Dall’inizio d’ottobre fino a Natale, ho potuto misurare, disegnare, fotografare e studiare l’intero arco, da piattaforme ad altezze diverse. Ho annotato dettagli dei
capitelli, della chiave di arco, dei rilievi, e dell’iscrizione sulla fronte dell’attico dove le lettere
di bronzo furono attaccate in passato. Ho tracciato le sagome delle modanature tramite dei
fili sottili di piombo da cui venivano poi trasferite le forme sulla carta. [...]
Un giorno, seguendo un mio suggerimento, un gruppo di operai italiani, lavorando lentamente e con cautela sotto la supervisione del Curatore Boni, hanno sollevato una grande
lastra di marmo dalla facciata sud dell’Arco, e lì sotto, tra frantumi antichi, hanno scoperto
una scala a chiocciola, di cemento, che portava all’attico, che era vuoto. Questa scala risale
ai giorni della caduta dell’impero romano, quando i vandali avevano attaccato e conquistato
Roma. A quell’epoca l’Arco di Tito faceva parte delle mura difensive interiori, e le scale come
queste venivano usate dai difensori romani. [...] Quando le campane suonavano le sei di sera
e gli operai sono andati via, ho esaminato il reperto ancora una volta e sono salito alla cima
per guardare intorno. C’era un tramonto spettacolare, che illuminava tutte le rovine con un
effetto memorabile.
Il risultato di tutte le mie ricerche è stato un grande disegno in china e matita dell’Arco
di Tito come doveva apparire nella Roma Antica. Naturalmente ho messo anche la famosa
iscrizione, originalmente in bronzo: SENATUS POPULUSQUE ROMANUS DIVO TITO DIVI VESPASIANI F VESPASIANO AUGUSTO”45.
Purtroppo non sappiamo oggi che fine abbia fatto il disegno di Clark che, però, ha lasciato una fotografia di se stesso in cima all’arco (fig. 7).
Giacomo Boni continuò ad aiutare gli architetti americani dopo il trasferimento dell’Accademia alla nuova sede sul Gianicolo (1914) e durante la Prima Guerra Mondiale. Ne è
esempio la serie di disegni fatti da William J.H. Hough del “Palazzo di Domiziano”, o Domus
43
Due sono illustrati in YEGUL 1991, pp. 192-193.
SCOTT, ROSENTHAL 1996, p. 49.
45
CLARK 1974, pp. 44-45: “[Comm. Boni …] supplied me, without expense, with a small office and with
a 50 high ‘castello’ or tower - a sort of scaffolding with ladders […] which could be moved around the Arch
on its wheels. From early October until Christmas, operating from platforms at different heights, I was able to
measure, sketch, photograph, and observe the entire Arch of Titus. I captured details of the column caps, of
the ornamental keystone and bas relief figures, even the incised inscription on the face of the ten foot high attic
face where raised bronze letters once were attached. Full size profiles of all mouldings were traced by bending
narrow strips of lead over each moulding and transferring the resulting shapes to heavy detail paper […]”.
44
GIACOMO BONI E I BORSISTI AMERICANI A ROMA
69
Flavia, sul Palatino, nel 1916 (fig. 8). Gorham Phillips Stevens, direttore della divisione artistica dell’Accademia all’epoca, ricorda nei suoi diari l’aiuto di Boni a Hough e gli altri contatti
con Boni in quel periodo46.
Così la visione di Giacomo Boni diventò la visione di tanti architetti, artisti e studiosi
americani nella prima metà del Novecento, e così l’archeologia romana diventò il fondamento
delle loro discipline, sia nella storia dell’arte e nell’architettura che negli studi classici. Solo
un secolo dopo cominciamo a capire l’influenza dell’esperienza romana sulla cultura artistica
e storiografica americana del Novecento. Chissà che Giacomo Boni non abbia anche imparato qualcosa a sua volta dai giovani americani che lo ascoltavano con tanto entusiasmo e tanta
freschezza?
46
“One day at my suggestion, working slowly and carefully under supervision of Curator Boni, an excited
group of Italian workmen pried a large panel of marble from the south façade of the Arch, and there, surrounded with ancient rubble, was exposed a spiral stairway of concrete, which could be seen running up to
the hollow attic. This recalled the days of the Fall of the Roman Empire when Vandals attacked and took over
Rome. At that time the Arch of Titus was made part of the inner defense wall, and stairs such as these were used
by Roman defenders. When the nearby campanile bells struck six and the workmen left, I examined the find
and then climbed to the top to look around. The sunset was spectacular, and the glowing effect on the ruins was
even more memorable”.
GIACOMO BONI SEEN FROM A BRITISH VIEWPOINT
THEN AND NOW
Henry Hurst
Giacomo Boni’s death and funeral were reported in the London Times of July 11th and
13th 1925. ‘An archaeologist of genius’ says the subhead of an appreciation published with
the announcement of his death on July 11th, and the article refers to him as the ‘well-known
archaeologist’ and gives a brief account of his career and major discoveries and comments
warmly on his attractive personal qualities. Boni was known to the educated British public
through the reports of his discoveries in the Forum by his friend W. St. Clair Baddeley in a
newspaper called The Globe1 (and he had published a book about the Forum excavations2),
and he himself had provided a foreword to an English guidebook to the Forum by Mrs Burton-Brown3; his work was also reported to a (partly) non-archaeological readership through
the Notes from Rome sent at regular intervals by Rodolfo Lanciani to the art-historical journal The Athenaeum4, while a series of articles by Thomas Ashby in The Classical Review
described his discoveries for a specialist readership5. He had been made an Honorary Fellow
of the Society of Antiquaries of London in 1900 and before that an Associate of the Royal
Institute of British Architects and from his early career in Venice he was a well-known figure
to the Society for the Protection of Ancient Buildings.
Boni had British friends and he kept up a correspondence with a number of them but
his intellectual links to British culture really cluster around two episodes, his time as a young
man starting on his career in Venice in the early 1880s, and the concentrated period of activity
between 1898 and 1903 when he was in charge of the Forum excavations in Rome. Recent
publications in Italy have set us a sort of agenda in thinking about Boni, and I’d like to focus
my comments now around issues raised in two of these; Daniele Manacorda’s “Cento anni di
ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo”, in Quaderni di Storia 16, 1982, and
Andrea Augenti’s “Giacomo Boni, gli scavi di Santa Maria Antiqua e l’archeologia medievale
a Roma all’inizio del novecento”, in Archeologia Medievale XXVII, 2000. A common theme
1
The Globe and Traveller, London. For citations of Baddeley’s articles see WISEMAN 1992, pp. 126-127,
129-136, 138, 156.
2
BADDELEY 1904.
3
BURTON-BROWN 1904.
4
LANCIANI 1988.
5
See note 30, below.
72
HENRY HURST
to both these studies is Boni, as a pioneer in what we now accept as a scientific approach to
excavation and the recording of monuments – systematic, stratigraphic excavation, the recording of information in a systematic way and its presentation graphically and photographically, where appropriate.
Both authors refer directly or indirectly to what Augenti calls ‘l’ambiente scientifico
anglosassone’ as a factor in Boni’s approach. Manacorda writes about the revival of Boni-type
methodology in contemporary Italian archaeology again partly stimulated through British
contacts, as has been articulated more directly by Andrea Carandini6.
One might then look for some archaeological contact in Boni’s early career, which helped
to set him on the path of publishing the first drawn section of a structure – the campanile of
St Mark’s – in 18857 and then (after many years in which he was concerned with the architectural conservation of standing structures) on his overtly stratigraphic approach to the Forum
excavations in Rome8. I think there may be such a contact, but it is a suprising one, which
makes us to some extent look with new eyes at the history of British archaeology.
As is well-known, Boni’s British ‘teacher’ was John Ruskin – a great intellectual figure
in many areas, but not particularly associated with archaeology and its methodology. Boni’s
first direct contact with Ruskin seems to have been in 1881 when he sent him a drawing with
a view to being taken on as a draftsman by Ruskin9. They met the following year when Boni
joined Ruskin’s expedition to record buildings in Pisa and elsewhere in Tuscany, travelling
for the first time well outside his home area of Venice10. Ruskin was then 63 (Boni 23) and he
had already suffered the first two bouts of the madness which afflicted his later years. One
of Ruskin’s favourite students from Oxford called William Gershom Collingwood, then aged
28, accompanied him as secretary and assistant. Collingwood was a considerable artist and
draftsman in his own right and was in due course to become one of the best-known archaeologists of the North of England, the author of a standard work on the pre-Norman Christian
crosses of the North of England11 and many papers12 (He was the father of a well-known
philosopher and Romano-British archaeologist, R.G. Collingwood). At the time of his contact with Boni he was involved with work on a geological publication, The Limestone Alps of
Savoy: a Study in Physical Geology, which appeared in 1884. This had been a project Ruskin
6
For example, CARANDINI 1979, p. 304 ss.
BONI 1885b.
8
As BONI 1900; see the comment of CARANDINI 1979, pp. 303-304.
9
A pencil, water colour and body colour drawing by Boni of the Palazzo Dario in Venice, forming part
of the Ruskin Art Collection now held by the Ashmolean Museum, Oxford, and illustrated by HEWISON 1978,
fig. 105, may have been sent to Ruskin in 1881. Ruskin’s letter in response to Boni’s approach, dated 30 August
1881 (RUSKIN 1903-1912, vol. XXXVII, p. 374) is cited by TEA 1932, I, p. 128; by HEWISON 1978, p. 102, and
by CLEGG 1981, p. 188.
10
In a passage cited by Clegg (1981, p. 189) from an unpublished letter to Joan Severn dated 4 november
1882, Ruskin says of Boni” ... he has scarcely ever been ten miles from Venice in his life - and he sees Pisa, Lucca
and Florence now for the first time”.
11
COLLINGWOOD 1927.
12
Obituary of W.G. COLLINGWOOD, in Transactions of the Cumberland and Westmorland Archaeological Society, NS, XXXIII (1933), pp. 308-312; see also MORLEY 1983, pp. 56-58; CLEGG, TUCKER 1993, pp. 154-155.
7
GIACOMO BONI SEEN FROM A BRITISH VIEWPOINT THEN AND NOW
73
Fig. 1 - ‘Analysis of the Breson: seen from the west’ from W.G. Collingwood, The Limestone Alps of Savoy: a
Study in Physical Geology, Orpington 1884. F = Flysch, U = Urgonian, N = Neocomian
himself had intended to carry through, inspired by what we could call a Ruskinian principle
that as mountains are one of the most noble and beautiful of God’s creations, so we should
understand them both aesthetically and scientifically, the latter part of which meant geology
and mineralogy.
Ruskin sets this out in his introduction to Collingwood’s book, going on to comment
that most geologists could not do the aesthetic part, but Collingwood could do both that
and (instinctively) the science: “To my (somewhat unreasonable) surprise I found his instinct
for the lines expressing the action of the beds far more detective than my own [...]” Collingwood’s more analytical approach to drawing “[...] often enabled him to see the real direction
of original movement in the mountain mass, where I saw only the effects of time and weather
on the superinduced cleavages [...]”13 fig. 1 is a drawing of the type Ruskin is referring to,
which also shows the strata of superimposed geological periods. Collingwood had been doing
these drawings in the earlier stages of the journey to Tuscany, so it seems probable that Boni
saw some of them and talked about the work with him14.
13
Introduction, pp. XVI-XVII.
In referring to this association I am not trying to suggest that Collingwood ‘taught’ Boni stratigraphic
recording, but rather that the approach of this study combining aesthetics and scientific analysis, including
14
74
HENRY HURST
Apart from his painting, which included landscapes and portraits15, Collingwood also
wrote a well-received book about the Lake District16 (where both Ruskin and he lived) and
later turned his hand to novels, including Thorstein of the Mere, A Saga of the Northmen in
Lakeland17, which was the favourite childhood reading of another English novelist, Arthur
Ransome. Perhaps it isn’t too fanciful to see this wide-ranging cultural response in Boni himself, who followed his intensive period of Forum excavations with a visit to Ireland in the
summer of 1904 resulting in an unusual antiquarian and ethnographic study, Hibernica18, and
he was criticised shortly after his death in the Corriere della Sera for being too dispersive in
his interests19. Collingwood’s career then reminds us that the ways into archaeology in the late
19th century were more varied than mainstream histories of the subject might let us suppose,
and this looks to be similar to the route Boni himself followed.
Boni’s other involvements with British culture in the 1880s, through his contacts with
the circle of William Morris and, in particular, the architect Philip Webb, with Morris one
of the founder-members of the Society for the Protection of Ancient Buildings, are better
known and so only need a brief mention20.
His own views about the restoration of the Doge’s palace and St Mark’s Church at Venice – and those of his Venetian colleagues Alessandri and Zorzi – fitted exactly the principles
of the society which had been set up in Britain in response to the over-zealous and destructive
restoration of medieval churches21. In the correspondence between Boni and Webb one sees
geological stratigraphy, and possibly the style of illustration, is likely to have appealed to him. (AUGENTI 2000,
n. 54) indeed refers to discussion by Italian scholars as to whether Boni learnt stratigraphic methodology from
British contacts or from Italian palaeoethnology, but this seems as fruitless as trying to decide who invented the
motor car, since what is clear about Boni is his responsiveness to manifold influences and the individual way he
digested them and subsequently expressed himself. Boni’s ink and watercolour section of the strata in the excavation along the foundation of the Doge’s Palace at Venice in the Archivio Boni-Tea at the Istituto Lombardo
in Milan, which was shown at the Incontro di Studio as an illustration to F. Guidobaldi’s paper, seemed at first
sight (I have not examined the archive) to be stylistically close to the drawings Collingwood and others were
doing for Ruskin in their Tuscany expedition of 1882 (cfr. CLEGG, TUCKER 1993).
15
Among them a well-known painting of Ruskin in his study, 1881, held in the Ruskin Museum, Coniston
along with other items illustrating the lives of both Ruskin and Collingwood.
16
COLLINGWOOD 1902.
17
COLLINGWOOD 1895.
18
BONI 1905a.
19
Corriere della Sera, 25 July 1925, cited by CLEGG 1981, p. 223, n. 7: “Today it would be a crusade against
drunkenness and wine; tomorrow a plan to reclaim the desert by planting broom, or to divide uncultivated land
up among the poor; the day after it would be propaganda for introducing dancing into schools, or an improved
system for fertilising the soil by fixing nitrogen from the atmosphere ... or for managing the waters of the Venetian lagoon ...”
20
The relationship is summarised from the British end in Lethaby’s biography of Webb (LETHABY 1935,
pp. 163-171).
21
In May 1888 Boni wrote to Webb telling him that he had been called to Rome as architect of the General
Direction of Monuments and requesting the statutes of S.P.A.B. In a letter of 19 May he says, “Ten years ago
I wrote a passionate paper which no Venetian journal cared to publish. Some parts I published in 1882, being
my first utterance on the subject of monuments”. On 8 June, he writes of his interest in the S.P.A.B. material
which he had received, adding ‘While reading, I worked out what seemed to me general principles, of which I
am in search in order to prepare a law for the preservation of monuments in Italy. [...] I feel what I owe to the
GIACOMO BONI SEEN FROM A BRITISH VIEWPOINT THEN AND NOW
75
the community of views being expressed and a friendly exchange of experience, advice and
ideas22. And there are hints of other bonds too: Webb, like Morris, was an ardent believer in
Socialism and one of the first publications which Webb supplied to Boni in their friendship
was a copy of Commonweal, the monthly journal of the Socialist League, whose first issue
(financed with a loan from Morris) appeared in February 188523.
That period of the 1880s is the golden one for the interaction between Boni and British
culture, with rewarding results on both sides – apart from Boni’s personal charm, which delighted even such a difficult man as John Ruskin, and no doubt provided an enriching experience for other British visitors to Venice, the Society for the Protection of Ancient Buildings
was pleased to open an Italian front, not always to the pleasure of the Venetian authorities,
but there were big issues at stake – the care of an exceptional built heritage, the communication of knowledge about the visual heritage to the mass population of an industrialised country, the engagement of that population in their cultural world more broadly.
By contrast, for all that it covers the period of the great archaeological discoveries, the
interaction between Boni and the British when he was in Rome, seems lesser in all respects.
Perhaps the most positive result which can be partly attributed to it was the creation of the
British School at Rome24. This followed a visit to Rome in the spring of 1898 by a group including Henry Pelham, the Camden Professor of Classical History at Oxford, Francis Haverfield who was to succeed him, Wellbore St. Clair Baddeley, who was to become Boni’s friend
and the communicator of his discoveries to a British audience, and they were joined by Thomas Ashby, the archaeologist and his father, a major benefactor of the British School, and
Rodolfo Lanciani. The idea of establishing centres for research by British scholars at Athens
and Rome had been under active consideration for some 20 years previously and a school had
been established at Athens from 1886. In Rome Lanciani had brought detailed awareness of
the archaeology of Rome to an English-speaking public through several books and his Notes
from Rome, which were published in The Athenaeum at regular intervals between 1876 and
1913. Awareness of the scale of Boni’s work, which was in its first year in 1898, and the likely
discoveries and potential for scholarly research that it would bring, seems to have been the
catalyst in making Pelham and others push on to establishing the British School and making
another Oxford scholar, Gordon McNeil Rushforth, the Director. The school for its first few
help and encouragement of those friends who contributed to develop my views on the subject of monuments”
(LETHABY 1935, pp. 167-168). For Alessandri and Zorzi and their relationship with Ruskin, including Ruskin’s
involvement in the publication of Zorzi’s Osservazioni intorno ai restauri interni ed esterni della basilica di San
Marco in 1877, see CLEGG 1981, pp. 184-187.
22
Apart from the references in Lethaby, Boni’s and Webb’s correspondence was published extensively by
TEA 1940-1941; TEA 1941-1942. A substantial part of it is archived with the Webb papers held at the Courtauld
Institute of Art in London.
23
Webb seems to have met Boni for the first time in March 1885, while he was on a prolonged stay in Italy
for health reasons. He wrote shortly after to Morris requesting a copy of Commonweal for Boni, whom he described as an excellent young man but excitable, saying that he feared he would lose his job [as Clerk of Works
at the Doge’s palace] - he’s not rich (letter cited in TEA 1940-1941).
24
For the remainder of this paragraph I have drawn heavily from WISEMAN 1990.
76
HENRY HURST
years was housed in the Palazzo Odescalchi in the Piazza Santi Apostoli, moving to its present
building in 1915.
Rushforth had a wide range of interests represented by publications ranging from Latin
epigraphy to medieval documents to fifteenth-century Italian painting25. In the first volume of
the Papers of the British School he realised the hopes of the visiting group of 1898 by publishing a detailed study of the newly-discovered Church of Santa Maria Antiqua26. In this he acknowledges the friendly collaboration of Boni, although he was restricted from publishing a
full photographic record of the paintings. His work, though still containing valuable insights
from his scholarly knowledge, was superseded by the more lavish production of Grüneisen,
which appeared only a few years later27, and ultimately by the monograph of Boni’s pupil,
E. Tea, which appeared after Boni’s death28.
The first scholar of the new British School was Thomas Ashby, aged 25 in 1900. He was
later to become its Director and a major figure in Roman archaeology through his work in the
Campagna outside Rome, the Topographical Dictionary of Ancient Rome, co-authored with
Samuel Platner, and his study of the aqueducts of Rome published after his death in 1931
– the remainder of that first volume of the Papers of the British School was taken up with his
‘The classical topography of the Roman Campagna – part 1’29. Ashby wrote detailed resumés
of the new discoveries in Rome, which appeared in the Classical Review once, twice or even
three times a year between 1899 and 190630, and thus was the key communicator of Boni’s
discoveries to an English-speaking academic readership. He had friendly relations with Giacomo Boni, and the Ashby archive at the British School contains abundant photographs
of the Forum excavations, which he was able to take, and copious notes on the discoveries
(both published in 1989 in Archeologia a Roma nelle fotografie di Thomas Ashby 1891-193031).
Ashby was a student at Oxford of Francis Haverfield, the father of modern Romano-British
archaeology, best known from his book, The Romanization of Roman Britain, and in these
years of Boni’s activity in the Forum each summer Ashby returned to take part in the excavations at the Romano-British town of Caerwent in South Wales32. Ashby – as emerges from a
glance at his list of publications and from contemporary accounts – was one of those driven
archaeologists, brilliant and highly productive, admired and loved, despite not always being
so strong on the human quality of tact. In those Classical Review pieces he is unable to conceal
a developing disapproval of aspects of Boni’s work. There are purely academic differences of
opinion, but by 1903 criticism is being directed at the lack of publication and, to an extent,
a lack of focus caused by Boni’s absence in Venice to deal with the collapse of the Campanile
25
Rushforth’s career and personality are described in ‘Rediscovering a Benefactor’ (WISEMAN 1992, pp.
149-170).
26
RUSHFORTH 1902.
27
DE GRÜNEISEN 1911.
28
TEA 1937a.
29
ASHBY 1902.
30
These are listed in GELOSIA 1989, p. 15.
31
Archeologia a Roma 1989.
32
HODGES 2000, chap. 2.
GIACOMO BONI SEEN FROM A BRITISH VIEWPOINT THEN AND NOW
77
of San Marco. A slightly critical tone reappears from time to time, with the concluding entry
for 1906 saying “More recently Commendatore Boni’s attention has been devoted to investigation of the base of the Column of Trajan”33 – a neutral enough statement in itself, but not
without a suggestion of disappointment that he should have been diverted.
Ashby’s tone is reproduced almost exactly in the obituary notice Rushforth wrote for
Boni in the Antiquaries Journal for 1925: “... Boni was a born explorer and excavator. A great
opportunity was put in his way and he used it to the full with all the insight, courage and
thoroughness required in such enterprises. When it came to the drudgery of recording his
results, he was less happy, though his accounts in the Notizie degli Scavi of some of the earlier
discoveries which especially interested him, such as the Lacus Iuturnae, and notably the series
of reports on the archaic cemetery of the Forum, which appeared in the same publication
between 1902 and 1911, are admirable in their completeness. After that no more information about the progress of the work appeared in print, and it is to be feared that much of his
personal knowledge of the excavations has died with him...”34.
Rushforth elsewhere in that obituary writes with warmth about Boni’s personal qualities
and achievements, but it is difficult to escape the sense that with these two leading figures of
the British School there was simply not the meeting of minds which Boni had enjoyed with
Ruskin’s group and with Philip Webb. Those very qualities of total response to his surroundings, which led Boni in his Forum years to be working at the same time on the restoration of
monuments, the creation of a new museum at the convent of S. Francesca Romana, including
setting up a reference collection of photographs from all parts of the Roman world, the planting of flowers and trees to set off the monuments in a naturally harmonious and aesthetically
pleasing manner, his diversion to deal with the disaster which had hit his native Venice and
his immersion in 1904 in the archaeology and folklore of Ireland, would probably have been
seen as natural and appropriate by the Ruskin group, but they found less favour with the academics of the British School. Not surprisingly, Boni’s particular British friend of these years
was someone of a comparably wide-ranging turn of mind, even if a lesser figure. Wellbore
St. Clair Baddeley was from a comfortably-off family, and from his childhood had often passed
the winter season in Rome. He set off to be a poet and writer, producing excruciatingly bad
verse, but from the 1890s was being drawn into archaeology from his family’s social contacts
with Rodolfo Lanciani. He became an enthusiastic follower of Boni’s work, writing articles
for a now-defunct newspaper called The Globe. As Peter Wiseman says in his entertaining account of him35, had he lived a bit later he would probably have had success as a TV presenter,
being well-informed in a not very critical way, self-important, articulate and opinionated.
Some of his articles highlight in a rather trivial manner the rivalry between Boni and Lanciani,
with Baddeley ardently taking Boni’s side against his former teacher. Baddeley evidently had
33
ASHBY 1906, p. 279.
RUSHFORTH 1925, p. 442.
35
‘With Boni in the Forum’: WISEMAN 1992, pp. 111-148. I have drawn heavily from that for this paragraph, but first encountered Baddeley’s not always clear writings on Gloucester many years ago.
34
78
HENRY HURST
a social ease which Ashby, for example, lacked and was no doubt a charming friend, but his
place in the story is essentially as a journalistic presenter of Boni’s findings.
To return, then, to the two recent Italian studies mentioned at the beginning, we can
see British influence on Boni’s archaeological method, but not quite what one might expect,
since this too seems to be ‘School of Ruskin’ possibly with the figure of W.G. Collingwood
exerting an influence at a critical moment of his development. Boni’s enterprise in the Forum
can be seen to have stimulated the formation of the British School at Rome, but while there
was amicable contact, no great further intellectual flowering seems to have resulted from his
relations with members of the School.
GIACOMO BONI E IL GIAPPONE
Teresa Ciapparoni La Rocca
La curiosità intellettuale di Giacomo Boni ha fatto sì che tra le sue frequentazioni non
mancasse qualche rappresentante del paese fonte del fenomeno artistico più rilevante sviluppatosi a cavallo dei due secoli: il japonisme. Dai suoi scritti infatti apprendiamo che non solo
conobbe ma ebbe ospite nella sua casa un giapponese:
“Ebbi allora, per alcuni mesi, ospite gradito, un filosofo dell’estremo Oriente che, respinto dai diplomatici suoi connazionali, s’era volto a me con fiducia istintiva, già quasi scomparsa nella specie umana, ma di cui rimane traccia in alcune razze canine non ancora del tutto
imbestialite dalla convivenza coll’uomo.
Mentre insegnavo all’ospite i primi rudimenti di alcune lingue europee, egli mi decifrava
i cinquemila ideogrammi del Tao-te-king di Lao-tse, pensatore più antico e più universale di
Socrate. Tale puro lavacro intellettuale mi schiuse gli occhi alla Via suprema delle umane cogitazioni e, scendendo, nel 1898, nella valle del Foro, per cercarvi la Via Sacra ed il Sepolcreto
Romuleo ed i sacrari di stato ed altri monumenti delle origini nostre, li seppi raggiungere
evitando per quanto era possibile di scomporre le pieghe misteriose e permalose al grave
involucro patentato della scienza accademica”1.
Nel passo riportato Boni attribuisce alla sua conoscenza del testo orientale, avvenuta per
tramite di quell’originale ospite occasionale, la capacità di superare le difficoltà che il chiuso
mondo accademico gli frapponeva nel momento della sua scoperta più importante ma anche
più rivoluzionaria. Ma chi era questo “filosofo”? Boni ci informa che si chiamava Tanaka (lo
chiamava ‘tanacqua’ perché astemio) Masutaro2 ma ad oggi non sappiamo la sua vera identità
sociale e la sola cosa possibile, la quale comporta una lunga digressione, è spiegare quale fosse
il Giappone che quel giovane intellettuale rappresentava3.
Nel corso degli anni cinquanta dell’Ottocento il Giappone era costretto dalle potenze
occidentali, Stati Uniti d’America in testa seguiti da Gran Bretagna, Francia, Russia e Olanda,
ad aprire alle navi straniere i propri porti sia come tappa verso la Cina e il sud-est asiatico sia
1
Citato in TEA 1932, I, p. 519.
I nomi giapponesi sono dati secondo la tradizione con il cognome che precede il nome personale.
La trascrizione segue il criterio: consonanti all’inglese, vocali all’italiana. Ad es.: Moriyoshi, vedi dopo, si legge
“moriyosci”.
3
Desidero fare ammenda per l’inevitabile incompletezza del quadro storico e delle notizie fornite di seguito, ma non credo che al lettore di queste note possa interessare se non lo schema dei fatti. Per ogni approfondimento, rimando ai testi citati nelle note.
2
80
TERESA CIAPPARONI LA ROCCA
come aree di nuovo mercato. Infatti, sin dai primi anno del XVII secolo, era interdetto agli
stranieri lo scalo nei porti giapponesi, pena la morte; soltanto olandesi e cinesi, sotto regole
molto strette, potevano accedere ad un attracco nel golfo di Nagasaki: questo perché dopo
l’arrivo dei missionari cattolici verso la metà del XVI secolo il governo militare aveva voluto
evitare che il paese fosse colonizzato da Spagna o Portogallo, come era accaduto altrove, ed
evitare che i floridi commerci, che non riusciva a ricondurre sotto il proprio controllo, rendessero troppo forti i potentati locali. Per questo il Giappone si apriva solo allora, almeno
come paese e non come élite governativa, ai contatti con l’Occidente. Non solo si apriva ma,
dopo un primo periodo molto contrastato sulla posizione da prendere: rischiare i cannoneggiamenti delle potenti “navi nere” degli stranieri chiudendo i porti o accettare l’ingombrante
presenza, il governo prendeva l’iniziativa di lanciare il paese alla “rincorsa” degli stranieri,
spingendo per la più accelerata, strabiliante e riuscita modernizzazione-occidentalizzazione
di un paese allo stadio feudale.
Premessa all’incontro di Boni con Tanaka Masutaro è la breve storia dei rapporti del
neonato stato italiano con il Giappone4: spinta da una crisi della produzione sericola per
una malattia dei bachi da seta e sulla scia delle nazioni citate, l’Italia chiede e ottiene un accordo con il Giappone nel 1866 e l’anno seguente si insedia nella Legazione a Yokohama il
primo Ministro Plenipotenziario. È Vittorio Sallier de La Tour (1827-1894), che dedica ogni
suo sforzo al compito primario della missione da lui guidata: l’acquisizione da parte dei semai italiani del migliore seme-bachi. Quando nel 1870 lo sostituisce Alessadro Fé d’Ostiani
(1825-1905), ottimi rapporti sono già instaurati tra i due stati e il commercio va a gonfie vele.
D’altro canto, esaurita la rivolta interna, il governo è impegnato a mutar pelle al paese: il nuovo Ministro italiano suggerisce una scuola d’arte e nasce così nel 1876 la Scuola di Belle Arti,
inserita peraltro nel Collegio Tecnologico5, dove sono chiamati a insegnare pittura, scultura
e architettura rispettivamente Antonio Fontanesi (1818-1882), Vincenzo Ragusa (1841-1927)
e Giovanni Vincenzo Cappelletti (1843-1887 ca.). Chiamato due anni prima direttamente
dal governo come esperto di carta-moneta, è in Giappone il genovese Edoardo Chiossone
(1833-1898): questa piccola élite di italiani ha un grande successo e l’Italia diventa mèta non
più soltanto di giapponesi interessati al commercio della seta, ma di artisti e intellettuali, tutti
membri della nuova classe dirigente e per questo spesso assunti presso le rappresentanze durante il soggiorno o ospitati dai loro membri.
Boni dichiara di aver avuto con sé il giapponese quando era intento agli scavi del Foro
e lo stesso Tanaka ci attesta che erano proprio quelli i mesi in cui era ospite; in un ricordo
dell’amico italiano dice infatti: “Quando fu scoperto il Lapis Niger, il suo volto ardeva di
gioia, perché aveva ricevuto una rivelazione divina, la notte avanti, in sogno”6. L’espressione
4
Al riguardo vedi ISHII 2004.
Questo era stato fondato nel 1872 sotto l’egida del Ministero dell’Ingegneria, ciò che chiarisce perché poi
nel 1882 chiude ed è sostituita dalla Scuola d’Arte di Tokyo, emanazione del Ministero dell’Educazione. Mentre
la prima istituzione mirava all’acquisizione delle tecniche occidentali, considerando quindi sotto quell’ottica le
arti, la seconda mirava a valorizzare la tradizione nazionale.
6
Citato in TEA 1932, I, p. 521, ma non è indicata la fonte.
5
GIACOMO BONI E IL GIAPPONE
81
Tanaka Masutaro (da TEA 1932, I, p. 385).
“il suo volto ardeva di gioia” indica la presenza accanto all’archeologo in quel momento e
possiamo quindi datare la visita a Roma di Tanaka intorno al 10 gennaio 1899. A quei tempi,
il Giappone era già molto cambiato: dopo l’ossessione della modernizzazione era subentrato,
negli anni Ottanta, un movimento di rinnovato nazionalismo e la quasi totalità delle migliaia
di esperti stranieri era stata rispedita in patria. Continuava incessante il flusso degli artisti, ora
decisamente con mète diverse dall’Italia grazie anche alla politica miope seguita dal nostro
governo non appena risolta la crisi della seta, e di viaggiatori non più membri dell’establishment ma figure di ogni estrazione che il rivolgimento della società aveva liberato dallo stato
sociale dettato dalla nascita.
Di Tanaka sappiamo chi lo fece giungere alla porta di Boni: si tratta di uno degli artisti
di maggior rilievo di quegli anni, lo scultore Naganuma Moriyoshi (1857-1942). Egli, nato
in una povera regione del nord da una famiglia di samurai, cioè di buono stato sociale ma
all’epoca fortemente impoverito nel suo insieme, si era trasferito a Tokyo negli anni in cui Fé
82
TERESA CIAPPARONI LA ROCCA
d’Ostiani era Ministro. Questi si era impietosito del giovane giapponese che voleva a tutti i
costi lavorare in Legazione e imparare l’italiano, così gli aveva concesso ufficialmente lo status
di impiegato e un piccolo mensile, anche se ne traeva poco vantaggio7. Nelle sue memorie
Naganuma ricorda quelle lontane liberalità che gli avrebbero concesso in un secondo tempo
di realizzare il suo sogno di venire in Italia. Lo fece riuscendo in parte a “scroccare” il viaggio
al seguente ministro italiano, Raffaele Ulisse Barbolani (1818-1900), quando egli concluse il
mandato e tornò in Italia nel 1881.
Naganuma si reca a Venezia e nel gennaio 1882 si iscrive al Regio Istituto di Belle Arti,
mantenendosi con un esiguo stipendio come professore di lingua giapponese presso la Scuola Superiore di Commercio: il corso era stato aperto anche grazie a Fé d’Ostiani, che aveva
suggerito alla missione giapponese venuta in Italia nel 18738 di aprire nella città lagunare un
Consolato in Italia. Naganuma continua a frequentare l’Istituto di Belle Arti sino al 1885, per
ritornare in Giappone nell’agosto del 1887, ricevendo in più occasioni attestati di merito e
quindi sarà stato necessariamente conosciuto agli altri studenti. Tra di essi, sappiamo, proprio in quegli anni c’è Giacomo Boni che nel 1881 aveva iniziato a frequentare il suo ultimo
anno come studente di architettura: giovane, sarà stato ancor più curioso, aperto alla novità,
e dunque verso quel collega esotico e, sicuramente, squattrinato. Naganuma era maestro a
farsi “adottare”, come abbiamo visto, e così forse fu anche con il giovane Boni. Tanto da indicarlo come sicuro sostegno in caso di necessità all’amico, anch’esso squattrinato e amante
dell’Italia, Tanaka Masutaro. Egli era forse un conterraneo e questo spiegherebbe la notazione di Boni “respinto dai diplomatici suoi connazionali”: Naganuma era originario del nord,
mentre il nuovo corso del Giappone, la politica di “rincorsa”, era stata sostenuta e poi gestita
da ex feudatari del ricco sud; egli stesso aveva ricevuto sostegno non dai suoi connazionali
ma dai Ministri italiani. Ciò che era avvenuto peraltro in tempi, come si è detto, animati per
tutti da uno spirito diverso: apertissimi al Giappone gli italiani, apertissimi al cambiamento i
giapponesi.
Ricerche in Giappone potrebbero portare qualche notizia su Tanaka, ma per questo
forse sarebbe utile se esistesse quel libretto sull’Italia che secondo Boni stava scrivendo, forse
mai pubblicato: perché del Bel Paese ormai si sapeva quasi tutto (i giapponesi, a differenza degli italiani, hanno approfondito subito in quegli anni la conoscenza dei paesi di loro
interesse) e difficilmente le impressioni di un outsider su chi si era ormai defilato potevano
interessare un Giappone ora intento a riflettere sulla propria potenza e sul proprio ruolo
internazionale9. Certo sarebbe interessante sapere qualcosa di più su colui che ha proposto
a Boni la traduzione di uno dei classici più importanti per la cultura, prima che per la letteratura, giapponese. Infatti fra le carte conservate c’è un saggio di traduzione dello Hôjôki10,
7
Della poca soddisfazione di Fé d’Ostiani per i servizi resigli vedi NAGANUMA 1936.
Sulla missione vedi IWAKURA 1994.
9
Il paese aveva appena trionfato sulla Cina nel 1895, suscitando sorpresa e rispetto in Occidente.
10
Opera di Kamo no Chômei (1153?-1216), scritta agli inizi del XIII secolo. È pervasa di spirito buddhista,
predicando l’impermanenza delle cose (mujō), e per questo ritenuta molto rappresentativa del suo secolo, nel
quale l’affermarsi della conflittualità sociale legata all’ascesa della classe guerriera vedeva in ogni dove disordini,
rovina e morte.
8
GIACOMO BONI E IL GIAPPONE
83
un testo assai rappresentativo sia per la lingua, un misto di sino-giapponese che costituisce la
base del giapponese moderno, sia per i contenuti, ispirati dal Buddhismo. In esso il principio
della caducità di ogni cosa, dell’impermanenza della vita umana, la cui coscienza porta all’atteggiamento di distacco proprio di quel credo, è espresso con vigore e intensità emotiva. Un
testo che sarà poi pubblicato ripetutamente, in diverse traduzioni11, ma soltanto nel 1930 per
la prima volta. Se quindi – seppure con l’aiuto del suo ospite – Boni avesse portato avanti quel
suo impegno, sarebbe stato il primo “orientalista” a presentare l’opera in italiano, impresa
che comunque sembra aver affrontato per primo.
L’amicizia di Boni con Naganuma non era comunque un episodio dei bei tempi andati,
un ricordo di gioventù: essa fu alimentata certamente da altri incontri avvenuti più tardi,
quando il giapponese aveva conquistato una sua visibilità sociale. Egli infatti, proprio per
l’esperienza acquisita nel soggiorno italiano, viene inviato nel 1897 a Venezia, dove giunge a
febbraio, per la preparazione dell’esposizione giapponese nel 1898 alla Seconda Biennale di
Venezia. Non è un incarico governativo, perché l’iniziativa era stata accettata ma non promossa dal governo giapponese, tuttavia prestigioso. Boni allora non è più in movimento per
l’Italia come ispettore ma a Roma, impegnato nel Foro; questo non avrà tuttavia impedito
se non un incontro, assai probabile, almeno dei contatti epistolari più frequenti. Lo scultore
giapponese sarà poi ancora in Italia, questa volta a Roma dove era anche il suo amico italiano,
dalla fine del 1910 sino al 1912: questa volta, divenuto membro della Commissione Nazionale
per l’Arte, come responsabile governativo del padiglione giapponese all’Esposizione Universale del 1911. Anche qui sarebbe necessario rintracciare in Giappone documenti dell’artista
per trovare tracce di un possibile e più che probabile rinsaldarsi dell’antica amicizia.
Un altro personaggio giapponese con cui Boni ebbe un contatto diretto, ancora una
volta conosciuto attraverso Naganuma, è l’uomo considerato il primo grande architetto del
Giappone moderno: Tatsuno Kingo (1854-1919)12, uno dei primi quattro laureati del Collegio Tecnologico, la stessa istituzione dove era stata inserita la Scuola di Belle Arti suggerita
da Fé d’Ostiani e quindi variamente connessa con la rappresentanza italiana. Tatsuno aveva
iniziato gli studi nel 1872 e nel ’79 venne in Europa per completare la sua preparazione studiando in istituzioni britanniche a Londra; per un anno, da marzo 1882 a maggio ’83, viaggia
in Francia e in Italia, dove risulta aver indirizzato una cartolina a Naganuma, ancora a Venezia, tra il dicembre ’82 e il gennaio ’83: possibile che sia avvenuto allora il primo incontro
con Boni. Il soggiorno veneziano influenzò i primi progetti di Tatsuno, che sono di uno stile
in cui si mescolano aspetti di gotico e di neo-rinascimento, con influenze derivate da Ruskin.
In realtà, l’opera del geniale inglese fu introdotta in Giappone soltanto alla sua morte13, nel
1900, ma come abbiamo visto l’architetto giapponese aveva vissuto e lavorato a Londra dal
1879 al 1882, recependone quindi direttamente l’influenza. È interessante notare come, provenienti da mondi tanto diversi e agendo in ambiti in qualche modo opposti: il recupero della
11
12
13
Per le traduzioni vedi CIAPPARONI LA ROCCA 1996.
Sul rinnovamento dell’architettura giapponese vedi DE MAIO 1995.
NAKAJIMA 1990.
84
TERESA CIAPPARONI LA ROCCA
classicità a fronte del rinnovamento della tradizione, i due si siano incontrati e quindi trovati
vicini per sensibilità e ideali.
Tatsuno ebbe ancora occasioni di incontro, anzi di consuetudine come egli stesso ci dice,
con lo studioso italiano, forse in conseguenza del legame con Naganuma: inviato all’estero
nel 1886, questa volta con un incarico della Banca del Giappone, viaggia negli Stati Uniti e
in Europa sino all’ottobre del 1889. Un articoletto apparso su La Tribuna del 23 Settembre
190514 riporta una dichiarazione di Boni in relazione a problemi strutturali in caso di terremoto, in cui egli afferma: “C’è una terra dell’Estremo Oriente molto vulcanica e soggetta ai
terremoti. … Frequentai anni sono, per mia ventura, l’architetto Fatsuno [sic] scienziato di
colà, reduce dallo studiare costruzioni moderne, in acciaio, cemento armato, ecc. negli Stati
Uniti”. E questo per riferire di un parere richiestogli dalla “Accademia di Tokio”, termine che
potrebbe riferirsi al Collegio Tecnologico, divenuto nel 1886 Facoltà di Ingegneria dell’Università Imperiale di Tokyo, dove lo stesso Tatsuno era divenuto nel ’98 Rettore ed Professore
Emerito nel 1903. Dunque una frequentazione legata a comuni interessi, più vicini di quelli
condivisi con Naganuma, con scambio di importanti informazioni scientifiche.
Boni ebbe anche occasione, per le sue competenze, di fare da guida al Foro Romano
sia al principe imperiale Arisugawa15, in visita nel 1905, che addirittura al futuro imperatore
Hirohito, nel 192116. Ma gli incontri che contano sono con i personaggi citati prima: Tanaka,
Naganuma, Tatsuno – questi due ultimi personalità importantissime in Giappone – perché
avvengono in anni cruciali della formazione e della maturità e si può pensare che abbiano
avuto un ruolo positivo sul suo modo di essere, anche al di là delle affermazioni dello stesso
Boni. La possibilità di approfondire la conoscenza dello scambio di idee tra loro, che avvenisse magari attraverso il ritrovamento della corrispondenza intercorsa, speranza probabilmente
destinata a rimanere tale, avrebbe grande interesse non soltanto per meglio chiarire il debito
reciproco ma anche per meglio conoscere la storia intellettuale del “giovane Giappone”17.
14
Subito dopo quindi il terremoto che investì la Calabria la notte tra il 7 e l’8 settembre dello stesso anno.
Arisugawa Takehito (1862-1913), membro di una delle quattro casate denominate shin’ōmiya, cioè principi imperiali. Da non confondere col fratello primogenito, Arisugawa Taruhito (1853-1895), venuto pure in
Italia nel 1882, figura politica di primo piano cui fu concessa l’onorificenza del Collare dell’Annunziata. Dalle
cronache risulta essere giunto a Roma la sera del 6 maggio, avere reso onore ai reali sepolti al Pantheon e, dopo
la visita della città, aver proseguito l’11 maggio per rappresentare l’imperatore del Giappone, suo cugino, alle
nozze di un principe reale in Germania.
16
Su questo evento cfr. CAROLI 2003.
17
Young Japan è il titolo delle memorie di William Blake, un americano testimone a Yokohama degli eventi
che hanno segnato i primi anni del Giappone aperto agli stranieri.
15
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
Paolo Fancelli
A Cesare D’Onofrio i.m.
L’argomento che qui propongo, certamente a suo modo assai specifico, coinvolge peraltro numerosi fra gli intrecci tematici che concernono, tutta intera, l’intensissima e poliedrica
attività, non solo italiana, di John Ruskin, nonché quella del suo più o meno presunto allievo
veneziano, Giacomo Boni. Oltre a ciò, ovviamente, il soggetto attiene, ancora, alle relazioni
fra i due personaggi, riguardate soprattutto sotto gli angoli visuali, distinti e non, dell’antichistica e del restauro. Ma la lettura di queste relazioni, nondimeno, se, da un canto, potrà trovare lumi in ragione della messa a fuoco di ognuna fra le due figure, dall’altro, potrà rivelarsi
feconda per la medesima, duplice messa a fuoco appena ipotizzata.
Inizierò il discorso, comunque, dalla vasta questione dell’antichità (e del suo studio),
di portata più ampia, forse, ed anche, in certa misura, propedeutica rispetto all’altra, voglio
dire quella del restauro. È risaputo che la dizione stessa del vocabolo prescelto, rispetto ad
altri contermini (come archeologia, ad esempio), implica delle, inevitabili, e più o meno consapevoli, opzioni critiche e storiografiche, interpretative insomma, di campo1. Delle opzioni,
le quali, oltretutto, potrebbero non attagliarsi appieno ad almeno uno dei due personaggi
coinvolti, o peggio, alla fine, a nessuno fra i due, magari collocandosi, in definitiva, come al
centro fra due estremi distanti, alla fine antitetici. E, nei casi in esame, si verifica appunto
sostanzialmente proprio tale ultima situazione, sebbene resti vero che entrambe le figure di
cui al titolo vadano pur sempre riguardate ciascuna, come ognora, nei rispettivi svolgimenti
diacronici, nelle loro eventuali contraddizioni interne e, su un tale sfondo, nella dialettica dei
loro vicendevoli rapporti, per forza di cose, difficilmente costanti con il tempo.
A meno di non intendere l’antico in senso estremamente lato o generico, in effetti, il
termine, con i significati e le scelte critiche che coinvolge, individua già una sorta di nervo
scoperto nel cuore stesso dell’impostazione ruskiniana. Non che ci sia totale sordità o pieno
disinteresse, nel letterato inglese, per l’intero arco cronologico, magari, in ipotesi, indifferenziatamente visto, anteriore al medioevo. Non è così. E ciò, in primo luogo, in rapporto se
non altro all’amore per gli scrittori ed i miti classici pur sempre manifestato da Ruskin, con
1
Per un ampio inquadramento storico internazionale del più generale tema qui implicitamente invocato,
cfr. TRIGGER 1996.
86
PAOLO FANCELLI
le derivanti, inevitabili preferenze del caso2. In secondo luogo, appunto in sintonia con le
connesse, nette predilezioni che, altresì nel campo delle arti e dell’architettura in particolare,
Ruskin esprime, quasi a priori (ed in affinità stavolta con E.E. Viollet-le-Duc3), a favore della
Grecia, rispetto a Roma4.
Anzi, quest’ultima si può dire, senza perifrasi, che sia non solo osteggiata, ma sostanzialmente detestata da Ruskin. E ciò è vero in concordanza con plurimi aspetti e significati
coinvolti dal discorso5.
Dato il tema da me proposto, un breve affondo, almeno, su Roma è inevitabile. Ma
che cos’è più precisamente Roma, entro una simile cornice? Ecco, allora, che l’argomento
rischia di allargarsi indefinitamente, proprio in attinenza vuoi alle molteplici articolazioni
e sfaccettature del pensiero di Ruskin, anche in merito, vuoi alle diverse, svariate accezioni
con cui intendere un’espressione sintetica quale “Roma”: come nucleo urbano, in quanto
centro del maggiore impero dell’antichità, con le concatenate espressioni architettoniche, ma
pure come sede del Rinascimento maturo e come culla del Barocco; infine, last but not least,
come capitale del cattolicesimo (dunque, del papismo). Resta fermo che, dati l’impostazione
estetico-etico-letteraria di Ruskin, la sua asistematicità nello scrivere, il suo spesso ansioso e
disorganico divagare, i suoi scarti discorsivi ed argomentativi, nonché le sue folgoranti illuminazioni ermeneutiche, un’attenzione da archeologo, pure inteso in senso lato, ai reperti ed
ai residui dell’antichità rimane a lui comunque del tutto estranea. Gli abbaglianti e splendidi
disegni del Maestro, a loro volta, ben riflettono un’atmosfera sublime di decadenza e di disfacimento a cui abbandonarsi, ma sono rivolti ad ulteriori temi, ad elementi e squarci naturali
(come in V.-l.-D., ma con spirito ben differente: in R., con sofferta e vivida partecipazione
sentimentale, emotiva; in Viollet, soprattutto con ammirevole scrupolo di analisi conoscitiva, anche in chiave geologica, nel senso tecnico6) ed in primis all’amata Venezia7, ma pure a
2
Cfr., ad esempio, RUSKIN 1987, con specifico riguardo alla Prefazione del curatore (Il pensiero e l’opera di
John Ruskin), pp. 1-144, ma 3-6. Si veda pure RUSKIN 1869.
3
Sulla questione, insiste giustamente TAGLIAVENTI 1976, pp. 65-82.
4
Così, ad esempio, in RUSKIN 1974, p. 14. Sul rapporto Ruskin-Roma, ringrazio Claudio Varagnoli, per
preventivi ed interessanti scambi di opinioni.
5
RUSKIN 1974, p. 144. Ma su Roma, cfr. lo specifico capitolo in RUSKIN 1983-1984, vol. II, pp. 27-47. Comunque, si veda pure, ad esempio, EVANS 1954, pp. 71, 76, 337-338, 347-348 (in sintesi: “Rome itself was too
great for Ruskin’s comprehension”, p. 71); LANDOW 1971, pp. 277-279 (in particolare, sul cattolicesimo romano); ASSUNTO 1978, pp. 117-120; DE VICO FALLANI 1988, p. 25. Ma si veda, per il più generale rapporto fra gli intellettuali britannici dell’epoca e Roma, PRAZ 2000, pp. 341-365. Inoltre, a titolo esemplificativo, sull’approccio
della cultura inglese di allora a Roma, vd. pure la trad it. DICKENS 2000.
6
Per un primo, rapido confronto fra le due personalità, vd. anzitutto PEVSNER 1969. Cfr., oltre a quanto
menzionato alla nota 4, altresì WHITTICK 1976; QUILL, WINDSOR 2001; Ruskin e Venezia 2001; NORWICH 2003,
pp. 72-102.
7
Per il caso specifico di S. Marco, cfr., poi, DALLA COSTA 1983, passim; UNRAU 1984; DALLA COSTA 1987;
TOMASELLI 2002, pp. 47-52, 156 (note).
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
87
Verona8, a Firenze, a Pisa ed a Lucca9, oltre che a Padova10 (per restare all’Italia), e così via.
Certo, taluni grafici ruskiniani11 concernono altresì e persino degli angoli di Roma12, pure la
“nobilissima” (sic) Fontana di Trevi, ad esempio, ma comunque non S. Pietro (il “salone da
ballo”, definito anche “giocattolo”13).
Ma restano, in ogni modo, casi sparuti ed eccezionali, trattati, peraltro, con un’impalpabile, insolita freddezza, senza con questo acquisire in caratura scientifica14 (figg. 1-2). Dunque,
la propensione archeologica, come ribadisco, rimane aliena rispetto all’approccio di Ruskin,
ma, certo, non a quello di Boni. Aliena, tuttavia, non solo in ragione delle predilezioni e delle
connesse, partigiane ostilità e preferenze tematico-epocali di Ruskin, ma, forse per lo meno
altrettanto, in rapporto all’avance appunto archeologica, proprio in quanto metodo tendenzialmente dotato di rigore gnoseologico (oltre che come oggetto di ricerca). Si potrebbe ritenere, tuttavia, per converso, che il rudero antico sia in grado potenzialmente di riservare, in
ogni caso e pur sempre, emozioni sublimi, malinconiche, letterarie e se si vuole pittoresche
(il pittoresco naturale, o nobile, di contro a quello superficiale15), rispetto ad un’originaria eppure riconoscibile, trascorsa grandezza, comunque evocata dai lacerti. Ed in qualche modo
ravvisata da Ruskin ed alla quale rivolgere, se non altro, un doveroso onore delle armi.
Ma, pure stavolta, non c’è da illudersi. Il gusto della rovina, il quale, in prima battuta,
sembra derivare alla nostra cultura filtrato dalla pittura di paesaggio, soprattutto di N. Poussin e di C. Lorrain, e dalla letteratura romantica, resta, se non per tutto, prevalentemente
alla classicità. E si mantiene su questa dimensione, a cui Ruskin neppure qui riesce davvero,
se non fuggevolmente ed occasionalmente, a concedersi, per via di una sorta di ripulsa e di
ostilità preconcette e manichee. Molti ispirati discorsi che Ruskin stesso per primo sviluppa
sul fascino delle architetture dirute, insomma sui relitti, potrebbero risultare applicabili serenamente, in via di ipotesi, a quelle classiche per prime. E, tuttavia, fuor di metafora, ciò non
accade o non accade appieno, in presenza di una riserva mentale anticlassica, particolarmente
8
Cfr. Ruskin a Verona 1966; A. RIGHETTI, Ruskin e le pietre di Verona, in Ruskin e Venezia 2001, pp. 133-146.
Vd. in prima battuta, RUSKIN 1925; RUSKIN 1996. Cfr., inoltre, Ruskin e la Toscana 1993. In particolare,
per Pisa, vd., ora, BLASUCCI 2003, pp. 325-342. È appena uscito, poi, il vol. L’eredità di John Ruskin 2006.
10
Si guardi RUSKIN 2001.
11
Sul Maestro ed il disegno, cfr. anzitutto RUSKIN 1938. Sui disegni di R., vd., poi, WALTON 1972; LEVI,
TUCKER 1997.
12
Cfr. RUSKIN 1985 (ove sono riprodotti vari disegni italiani, su Roma in particolare pp. 38-58; RUSKIN
1992a: su Roma pp. 38-62.
13
Riguardo alle distinte citazioni, cfr., per la Fontana di Trevi (17 dicembre 1840), RUSKIN 1985, p. 53 (trad.
con “fonte stupenda” e fig. a p. 51); RUSKIN 1992a, p. 51. Per S. Pietro, circa il primo giudizio (29 novembre 1840),
vd. RUSKIN 1992a, p. 39; circa il secondo (6 dicembre 1840), cfr. RUSKIN 1985, p. 45; RUSKIN 1992a, p. 44.
14
Cfr. RUSKIN 1985, figg. a pp. 42-43 (l’Aventino, datato 1841); fig. a p. 48 (chiostro di S. Giovanni in Laterano); fig. a p. 51 in alto (il Campidoglio dai Fori); fig. a p. 52 in alto (Villa Borghese); fig. a p. 52 in basso (Piazza
S. Maria del Pianto: c.d. Casa dei Manili); fig. a p. 57 (tempio di Saturno e Colosseo dal Campidoglio); fig.
a p. 61 (Piazza del Popolo dal Corso, part.); fig. a pp. 62-63 (“The Corso”, 1866, due scorci gen.).
15
Cfr. CALVANO 1996, p. 197 (pittoresco naturale). Ma, sul concetto di pittoresco, vd. altresì MILANI 1996;
COPLEY, GARSIDE 1999, anche con riferimenti a Ruskin, in particolare nel saggio inclùsovi di MODIANO 1999, pp.
227-232 (p. 228: pittoresco nobile e pittoresco superficiale) ed in quello di ANDREWS 1999, pp. 317-318, 320-321,
323, 325-328.
9
88
PAOLO FANCELLI
Fig. 1 - J. Ruskin, Il Campidoglio dai Fori (da RUSKIN 1985, p. 51 in alto, Ashmolean Museum, Oxford).
Fig. 2 - J. Ruskin, Il tempio di Saturno e il Colosseo dal Campidoglio (da RUSKIN 1985, p. 57).
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
89
antiromana16. Del resto, è pur vero, per converso, che “L’amore è ciò che segna il divario più
netto tra il gusto della rovina greco-romana e quello per la rovina medievale che diviene la
prediletta dei Romantici di stretta osservanza”17.
È chiaro che quanto or ora descritto si colloca in accordo anche con taluni aspetti attinenti alla cultura britannica tra Sette ed Ottocento: quelli della natura, del paesaggio stesso, della campagna, del giardino. Tutti fattori riguardati, nel Regno Unito, in termini assai
distanti da quelli, per esempio, italiani. E ciò, pur avendo a mente il paradosso secondo cui
l’ambiente ‘naturale’ inglese dal ’700, in effetti, invera una, più o meno riuscita, trasposizione
in giardino della campagna romana18.
Insomma, una specifica immagine italiana-antiquaria di ritorno. La varia e graduale fusione tra il giardino medesimo ed il tessuto agreste, l’aspetto apparentemente fortuito dell’uno
e dell’altro, la mimetizzazione dei confini pur esistenti (gli ha-ha), fra le varie individualità
paesistiche, sono tutte sembianze che connotano nettamente il panorama britannico.
E ciò in piena antitesi con la rigorosa e geometricamente innervata caratterizzazione
del giardino italiano vero e proprio, impiantato come tale. Evidentemente, il rudero classico,
che, pure, può ben sussistere nella stessa Inghilterra, precisamente sotto forma di finta rovina
(fenomeno, quest’ultimo, presente, certo, anche in Italia, ma con sue peculiari contestualizzazioni e dinamiche interne), richiama alla mente in ogni caso un’originaria, sorgiva architettura. Intesa, quest’ultima, come simmetrica (ma, sulla specularità, esistono forti contraddizioni
interne nel pensiero di Ruskin19), modulare, scrupolosamente assemblata e preordinata.
Ed evoca prevalentemente, perciò in Ruskin, fastidiose, sgradevoli suggestioni classicistiche, ben oltre le fattezze ruinistiche e, malgrado tutto, pittoresche, con cui esso si può pur
presentare alla ricezione. Chiarito che, riguardo al concetto di pittoresco, Ruskin prefigura
comunque delle distinzioni in positivo ed in negativo20, si prospetta, anche qui, l’eterno di-
16
Cfr. quanto di pertinente menzionato alle note precedenti ed in particolare alla nota 5 (e 12 e 13). Ma
vedi pure M. WHEELER, “Ruskin among the ruins: tradition and the temple”, in WHEELER, WHITELEY 1992, pp.
79-80, 95 (nota); J.B. BULLEN, “Ruskin and the tradition of Renaissance historiography”, in WHEELER, WHITELEY
1992, pp. 64-65. Per una biografia aggiornata, vd., poi, HILTON 2002.
Per quanto attiene, poi, a Poussin, cfr., in prima battuta, THUILLIER 1974; Nicolas Poussin 1977; MÉROT 1990
(contemporanea all’ed. franc.); Nicolas Poussin 1998.
Per Lorrain, invece, vd. RÖTHLISBERGER, CECCHI 1975; Claude Lorrain 1982.
17
NEGRI 1965, p. 197. Sul vasto tema del rudero, in Roma nella fattispecie, vd. DE CAPRIO 1987. Per l’argomento più in generale, con le relative implicazioni estetico-filosofiche, cfr., tra l’altro, il n. monografico “Estetica
delle rovine”, in Rivista di Estetica, XXI (1981), fasc. 8, nonché i recenti CARDI 2000; TAVANI 2001; SPERONI 2002;
FANCELLI 2006; TORTORA 2006.
18
Cfr., in proposito, CALVANO 1996, pp. 34-39.
19
Vd., ad esempio, RUSKIN 1998, vol. I, pp. 625-627. Ma, tra l’altro, si guardi pure, in opposizione, RUSKIN
1982, pp. 250-251.
20
RUSKIN 1998, vol. II, tutto il cap. Turner e il pittoresco, pp. 1230-1244, in part. 1236, 1239.
90
PAOLO FANCELLI
lemma tra il vedere ed il sapere21. Là dove è il primo a venire senz’altro privilegiato da Ruskin22. Ma una postilla specificatrice, in proposito, diviene qui effettivamente necessaria.
Com’è palese, di sicuro l’osservazione oculare è strumento di comprensione ed è anche
un tramite fondamentale di conoscenza. Ma non è l’unica forma cognitiva ed è anzi, talora,
fallace, ingannevole. In altri termini, può risultare fuorviante. In ogni modo, gli ulteriori sensi
compartecipano a loro volta alla ricezione, più o meno, a seconda delle circostanze. E la arricchiscono, precisandola e/o correggendola.
Se pure la mera visione non ce lo suggerisca, accade che, qualora sappiamo per certo
che un oggetto ha delle parti significative integrate mimeticamente (appunto, per definizione,
di fatto inavvertibili, se non forse all’occhio ravvicinato del conoscitore), ebbene, tale sensazione di disagio è in grado di pervadere indifferenziatamente la fruizione dell’oggetto intero,
conferendo all’insieme un diffuso senso di inautenticità. E qui si fa avanti, prepotentemente,
il discorso ruskiniano circa la sincerità, la verità ed, insomma alla fine, intorno alla dimensione
etica dell’arte. Un terreno, quest’ultimo, già dissodato, del resto, sin dall’estetica greca e non
solo di matrice strettamente platonica. Ma se Ruskin privilegia il vedere, egli allora, almeno
qui, si allontana da una concezione platonica dell’arte stessa, riguardando, alla fine, l’opera
nella sua univoca concretezza e datità materiale (e peribilità), ben oltre un’astratta ed imperitura idea (o previsione progettuale) della medesima.
Ruskin, pur nelle forti oscillazioni del suo inquieto pensiero anche al riguardo, ha in
mente, che lo si ammetta o no, il rudero gotico, sebbene, come ho accennato, i suoi ragionamenti estetici circa il disfacimento sublime (ove si può distinguere fra “s. tragico” e “s.
naturale”, optando piuttosto per quest’ultimo23) delle vestigia siano da parte nostra anche
applicabili, magari forzosamente, altresì ai residui classici.
È poi innegabile che, in essi, le native regolarità, puntuale scansione delle componenti,
commisurazione, simmetria, sono fattori ancora decrittabili pure in quanto potenzialmente in
grado di far reintegrare mentalmente l’oggetto primevo.
Poco disponibile e poco consentaneo quest’ultimo, nel caso, nei riguardi di un apprezzamento pittoresco, proprio in ragione di uniformità, organizzazione e nitore originari. Comunque sempre richiamati, malgrado tutto, dal rudero e dalla sua partecipe ricezione attiva,
cognitiva. Ma il discorso potrebbe articolarsi diversamente, per via del sorgivo, purissimo
assetto litico e lineare dell’architettura greca, rispetto all’impianto tettonico romano. In qualche modo, il primo è decodificabile e restituibile retrospettivamente, come tale, pure negli
attinenti brani più o meno sparsi, in quanto questi sono e restano fortemente evocativi, nei
riguardi della serrata consequenzialità primeva. In ragione, all’opposto, dell’impianto massivo, cementizio, dei monumenti e degli avanzi della romanità, questi possono presentarsi,
21
Per il tema generale qui adombrato, cfr., in primis, BERKELEY 1995. Ma cfr., ora, oltre al fondamentale
M. DUFRENNE, L’oeil et l’oreille. Essai, Montréal 1987, ora in trad. it. L’occhio e l’orecchio, a cura di C. Fontana,
Milano 2004, il recentissimo CURI 2004.
22
RUSKIN 1998, vol. I, pp. 558-562.
23
Cfr. ancora, in merito, CALVANO 1996, pp. 187-190, in riferimento a W. Turner. Più in generale, si veda,
inoltre, CASSANI 1992.
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
91
Fig. 3 - Il Foro Romano nel 1901 (da TEA 1932, II, tav. III).
per dette connotazioni, ben più informi e più confusamente allusivi, nei rispetti della nativa,
tutt’affatto diversa, compiutezza, ancorché, per converso, magari più pittoreschi.
Inoltre, se si presta un attimo attenzione alla storia della pittura di paesaggio con rovine,
ebbene, fatte salve le eccezioni anche notevoli, come in un M. van Heemskerck24, ivi i relitti,
ancorché romani, mostrano soprattutto residui di portici, di basi, di colonnati, di trabeazioni,
di timpani, di edicole (ma, per contro, pure di arcate). Vale a dire pressoché tutte componenti
lapidee applicate, sì, agli impianti costruttivi appunto romani, ma non proprio esemplificative
appieno della connotazione muraria, né della spazialità, dell’edilizia repubblicana o imperiale
come tale.
D’altra parte, il pittoresco è, insieme, una sensazione ottica e, nel contempo, un genere
letterario. Questi aspetti si fondono mirabilmente in un’atmosfera altamente sublime come
quella veneziana, ove la decadenza abbacinata viscontianamente si palesa come un fattore
consustanziale, un elemento irrinunciabile ed insopprimibile del contesto; a meno, appunto,
di interventi di restauro mimetici, ripristinatori. Che, come tali, annullano, nella loro forzosa
uniformità, le sottili variazioni cromatiche, il senso verace della materia già formata e poi
vissuta, i vibranti e cangianti profili architettonici e decorativi consumati dall’acqua, dalla
salsedine, dal tempo.
24
Su questa figura, cfr., ora, FILIPPI 1990; DACOS 1995, pp. 33-42 e passim.
92
PAOLO FANCELLI
Ecco, sfioro qui un punto fondamentale dell’approccio ruskiniano. Quello del colore,
ma anche quello del lavoro umano e quello, connesso, dell’ornamento25.
Nell’ambito di un’estetica contemporaneamente contrassegnata ed in senso etico ed in
senso epicureo, oltre che in chiave, a suo modo, sociale26 (ma ben più tale ultimo aspetto è
valorizzato in W. Morris27), Ruskin rimane influenzato, tra l’altro, da A.A.C. Shaftesbury, W.
H. Wackenroder, Novalis28.
Ma Novalis agisce ancor più su A.W.N. Pugin29, cattolico convertito e portato ad
un’identificazione senza residui fra il cattolicesimo, appunto, ed il gotico, con contraddittori
e controversi influssi su Ruskin. L’ideale diviene, dunque, per Ruskin stesso, la convergenza,
non sempre immediata, fra i due aspetti-base, quello morale e quello edonistico. In definitiva,
da un lato, c’è la valutazione dell’autenticità (e, pertanto, l’ostilità verso i restauri di allora,
pressoché uniformemente ripristinatori) e l’apprezzamento del fare artigiano (come quello
dello scalpellino, ancora riscontrabile in tracce, in corpore vili). Anche se manca un esplicito
e diretto apprezzamento della praxis, intesa come esercizio dotato di piena dignità gnoseologica. Dall’altro, si attua l’abbandono alle sensazioni, all’idea di caducità delle cose di questa
terra, ad un passato nel suo valore di memento. Ma non un tempo trascorso purchessia, bensì
quello più consono alle idealità ed, ammettiamolo, ai gusti del Maestro (giustificati, poi, a
posteriori).
Un passato, dunque, tuttora presente nel suo creduto antimacchinismo preindustriale (vedasi l’esaltazione dell’operosità manuale e della decorazione medievale). Ma rivissuto ed idealizzato, se non mitizzato, persino inconsapevolmente “inventato” come utopia retrospettiva, e
comunque preconcetto, insomma strumentale. Ben lontano, dunque, nei confronti di quanto
riconfigurabile, sulla scorta di un atteggiamento rigorosamente filologico-storicistico.
Fino a qui, si vengono esponendo punti in cui, per larga parte, l’accostamento Ruskin30
Boni risulta, in effetti, piuttosto stridente, malgrado la (peraltro difforme) visionarietà di
entrambi.
25
Cfr. BERNABEI 1981, oltre all’intero vol. (VI cap. di RUSKIN 1982).
Sull’estetica, in chiave filosofica, dell’ornamento, in linea generale, cfr., a parte i ben noti capisaldi bibliografici, il n. monografico “Ornamento”, Rivista di estetica, XXII (1982), 12; CARBONI 1996; COSTA 2000. Per una
panoramica moderna nell’arte, TRILLING 2001.
26
Così, ad esempio, RUSKIN 1980. Ma cfr., sul tema di cui al testo, LUX 1971; PETRELLA 1987.
27
MORRIS 1963 ed ora il più ampio MORRIS 1985. Cfr., inoltre, in ambito italiano, LA REGINA 1974, pp. 75149; MANIERI ELIA 1976; MARINO 1993. Vd., infine, in ambito britannico, William Morris and the Middle Ages. A
collection of essays, together with a catalogue of works, Catalogo della Mostra, Manchester 28 settembre-8 dicembre 1984, a cura di J. Banham, J. Harris, Manchester 1984; FIELL, FIELL 1999 (testo in ingl., ted. e franc.).
28
Cfr., in sintesi, VENTURI 1964, rispettivamente alle pp. 153-154, 183-187, 187. Vd., poi, distintamente,
COOPER 1962; WACKENRODER 1967; VON HARDENBERG (NOVALIS) 1995.
29
Su Pugin, cfr., ad esempio, CLARK 1970, pp. 116-143 (tutto lo specifico cap. VII, ma vd. pure il cap.
X, pp. 187-208, dedicato a Ruskin); WATKIN 1982, pp. 9-35; PUGIN 1994. Quanto agli scritti di questo autore,
cfr. PUGIN 1978; PUGIN 1990.
30
Cfr. anzitutto MICHELINI 1993. Ma si veda altresì BONI 1919, pp. 317-320. Il più recente ROSSI PINELLI
1996, enfatizza il legame Boni-Ruskin, in riferimento alla fase veneziana del primo (pp. 18-20).
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
93
Di certo, sull’antico e l’archeologia, Boni, almeno dal momento in cui s’insedia a Roma,
da antesignano aspira (in vero, piuttosto che conseguirla appieno), ad una scientificità del
tutto spuria, rispetto all’insegnamento ruskiniano. Sia pure tra cadute di tono folcloriche,
ingenuità conoscitive e concessioni retoriche e patriottiche (quando non peggio), tipiche della temperie, Boni, in realtà, palesa, ad esempio, spiccati interessi antropologici e tendenze
metodiche, sistematiche, nell’approccio all’antico non solo classico. Interessi che già si manifestano sin dalle esplorazioni a tappeto nel terreno pertinente al campanile veneziano di S.
Marco31, senza contare il problema, a parte, della sua ‘ricostruzione’. Egli rivela, inoltre, oculata attenzione alla vita quotidiana ed alle attestazioni-veicoli documentari pertinenti, come
i pozzi e le fondazioni degli edifici, da cui ricavare preziose informazioni storiche, a saperli
oculatamente intendere32. Con ciò, Boni contribuisce a mettere a punto il noto metodo dello
scavo stratigrafico – con interesse alle “compenetrazioni” spettanti33 – ancor oggi attualissimo
ed anzi finalmente applicato – dopo la pausa idealistica – anche a più largo raggio, come a periodi più recenti (il Medio evo e non solo), oltre che agli elevati architettonici. In ogni modo,
l’influenzabile e non sempre lucidamente razionale Boni, approdato a Roma, apprezzerà i
ruderi antichi come tali, pure sotto il profilo pittoresco (fig. 3).
E ciò, quanto all’antico, in palese antitesi con Ruskin. Le prevenzioni antiromane non
fanno parte del bagaglio conoscitivo di Boni, architetto ed autodidatta vulcanico, latino, mediterraneo. Ed, in qualche misura, inventore a suo modo, “positivista” e tuttologo.
Certo, l’occuparsi a pieno spettro dello scibile intero parrebbe caratteristica pure di
Ruskin, ma in questi l’esplicita diffidenza, se non altro almeno nei confronti delle scienze
esatte, o fisico-matematiche che dir si voglia, è piuttosto marcata. Là dove, per lui, le scienze
stesse conducono a svelare una “verità di aspetto”, mentre l’arte penetrerebbe, dispiegandola
ed incarnandola, una “verità di essenza”34. E ciò allorché in Boni, al contrario, un’attenzione
tecnico-scientifica (se si vuole, pur venata da foga rapsodica e dilettantesca), ad esempio alle
esperimentazioni di prodotti conservativi da impiegare sui monumenti, è sicuramente acclarata35. Anche in ambito etico e religioso, peraltro, a prescindere dalla specifica e diversa confessione, con i connessi, attinenti disincanti di ognuno dei due (rispettivamente, nei riguardi
dell’ anglicanismo e del cattolicesimo), vi sono differenze significative. In Ruskin, prevalgono
una certa qual severità ed un’inflessibilità di fondo, pur a petto dei suoi umori mutevoli altresì
in questo campo. In Boni, invece, si palesa un atteggiamento sempre spartano ma piuttosto
mistico, dissimile da quello, ancora mistico, ruskiniano, in quanto più naïf ed, in certa misura,
ierofanico o panteistico. E, poi, in Boni non possono essere presenti quei motivi di anticattolicesimo e di correlato antiromanismo che sono di sicuro fortemente radicati in Ruskin.
31
BONI 1912a.
BONI 1901b; BONI 1913b.
33
BONI 1901b, p. 312. Cfr., ora, CAPODIFERRO, FORTINI 2003.
34
RUSKIN 1974, p. 161, al cap. VII, 8 (La malizia dell’orgoglio). Si guardi, in proposito, FORTI 1983, p. 132.
35
Cfr. CALABRETTA, GUIDOBALDI 1986; PARIBENI 1994, pp. 228-229, 231, 242; TOMASELLI 2002, pp. 138-139,
166 (note). Ma vd. pure TEA 1959b, p. 236.
32
94
PAOLO FANCELLI
Né c’è, per converso, quell’ostilità preconcetta nei confronti di periodi, neppure “pagani”, del passato “antico”, rintracciabile ancora in Ruskin ed aliena, insomma, dal pragmatismo-empirismo, peraltro bizzarro, di Boni, oltretutto assai distante, quest’ultimo, da una vera
impostazione teorica. La quale, ancorché non pienamente e non puramente filosofica in senso
stretto, pervade, al contrario, l’insegnamento di Ruskin, in parte, acuto ed austero precorritore, soprattutto nel campo dei più rigoristi fondamenti dottrinari inerenti al restauro.
Come accennavo, comunque, con le varie differenze pertinenti al riguardo altresì negli
esiti operativi che distintamente se ne traggono, vi è però pur sempre qualche concordanza
di idee e di atteggiamenti tra i due personaggi; almeno, ad esempio, nella valutazione e nella
propensione per il colore in architettura36.
Questa tendenza comune, com’è risaputo, si estrinseca, però, in Ruskin, nella predilezione
per le costruzioni medievali, in particolare quelle gotiche, soprattutto veneziane, oltre che per le
valenze, le vibrazioni e le irregolarità cromatico-ornative indotte dal tempo sugli edifici37.
Il che si trova in pieno accordo vuoi con la sua posizione Anti-scrape, vuoi con il suo
ostracismo nei rispetti del Rinascimento, soprattutto quello maturo38.
In Boni, l’apprezzamento coloristico è più generico ed anche meno letterario e si colloca
più coerentemente in sintonia con il suo periodo veneziano, oltre che con le sue posizioni più
prudenzialmente conservative di allora39. Invece, nella fase romana, più massicciamente escavatoria, operativa, antichistica e restaurativa, quando non ripristinatoria, i valori cromatici si
salderanno, piuttosto, agli inserimenti del verde. Quest’ultimo costituirà, anzi, un versante di
grande impegno di Boni e che non trova particolari corrispondenze in Ruskin. Un impegno
di conoscenza filologica circa le arcaiche piantumazioni romane e, su detta base, una correlata
attività ripropositiva sui pertinenti monumenti e contesti ambientali. E ciò, fatte salve le debite distinzioni (non senza mende) tra verde nocivo per la conservazione delle architetture e
dei reperti, da un canto, e verde prospettabile, in quanto innocuo e comunque non invasivo,
non pericoloso, dall’altro40.
36
Così, ad esempio, RUSKIN 1849, cap. IV (Lampada della Bellezza), XXXV-XL, pp. 169-176; quanto a
Boni, cfr. BONI 1883a.
37
Per Ruskin ed il gotico, cfr., oltre a RUSKIN 1981 ed a CLARK 1970, pp. 187-208, altresì BROOKS 1989, con
particolare riguardo alle pp. 112-177; BROOKS 1999, pp. 297-305. Ma vd. pure Il neogotico in Inghilterra, Conferenze organizzate dall’Accademia Nazionale dei Lincei in collaborazione con la British Academy, Roma 1978, nella
fattispecie MOURDAUNT CROOK, “Italian Influence on Victorian Gothic”, pp. 39-65.
38
Sulla posizione del Maestro circa il restauro, cfr. anzitutto RUSKIN 1849, pp. 219-220, 225-230 (La lampada della memoria).
Per un inquadramento di tale posizione rispetto alle altre ed alle prassi non solo britanniche al riguardo, vd.
PEVSNER 1976; TSCHUDI-MADSEN 1976, pp. 44-51, 106-119; CARBONARA 1997, pp. 161-178 (Restauro, antirestauro
e romanticismo).
In particolare, quanto a studi specifici intorno a Ruskin ed il restauro, cfr. DI STEFANO 1969; ROCCHI 1974;
BELLINI 1984; MARAMOTTI POLITI 1996.
39
Sul colore in Boni, cfr., oltre a quanto di pertinente menzionato alla nota 36, pure FRESA 1988, pp. 257263. Circa Boni a Venezia ed il restauro, si veda BONI 1889, oltre a PERTOT 1988, pp. 45-46.
40
Su tale filone di lavoro per il veneziano, cfr. BONI 1917b. Per i contributi critici in merito, si veda, tra
l’altro, DE VICO FALLANI 1988; CAZZATO 1990; DE VICO FALLANI 1990; DE VICO FALLANI 1992, pp. 52, 54, 199, 200,
206, 210, 211; MORGANTI 1999, pp. 412-415, 417; GAUDIO 2001, pp. 55-57 (e nota 2).
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
95
Qui, del resto, il discorso sul restauro appare di nuovo coinvolto, per via degli scopi
stessi degli inserimenti vegetali. I quali sono finalizzati, oltretutto, ad un decisivo ausilio e
supporto per una sorta di “restituzione mentale” delle opere41. Qui originalmente perseguita
appunto con il verde, lungo una linea di larga massima ideale, non so quanto consapevolmente ripercorsa e ricercata, che procede da J.J. Winckelmann, a G.A. Guattani, ad A. Canova42.
Linea ripresa, in anni più vicini a noi e magistralmente, specificamente riversata in ambito
pittorico, da R. Longhi. Un registro, quello delle essenze, il quale, come fin qui accennato,
non ha molto a che vedere con l’insegnamento di Ruskin, positivamente sordo a suggestioni
e lusinghe ripristinatorie di sorta, ancorché inverate, appunto, non sempre da reintegrazioni
architettoniche, nel senso squisitamente murario del termine, sebbene piuttosto, almeno stavolta, da risarcimenti botanici. Ma le attinenti applicazioni architettonico-archeologiche di A.
Muñoz, come nel restauro del tempio di Venere e Roma ad esempio, sono di sicuro debitrici
di Boni43.
Comunque, tornando al tema di fondo, si può affermare che le tesi di Ruskin sul restauro stesso, certo sin da allora più o meno condivisibili, ma di sicuro assai anticipatrici e chiaroveggenti (ancorché ciò si verifichi piuttosto sul piano dei principii, ma poco nella pratica),
rispetto agli sviluppi seriori, non si confanno se non ad una prima fase soltanto, non a quella
matura, dell’attività di Boni. Ed anzi, si caratterizzano, soprattutto nelle Seven Lamps, peraltro tradotte in italiano da Boni stesso44, per una loro esposizione alta eppure assai rigorosa e
coerente, secondo una procedura discorsiva consequenziale, di certo non ognora rilevabile e
non proprio abituale nello scrittore.
Invece, in Boni, si leggono pragmatici ammiccamenti, più o meno ambigui, confusi e
commisti, a tutto intero l’ampio ventaglio delle impostazioni restaurative, anche antitetiche,
di allora. Si vedano in più, in proposito, le sue “imbarazzate” istruzioni pertinenti45.
Un personaggio, al riguardo, suggestionabile ed incoerente (ovvero coerente a modo
suo), dunque. E che va dall’estremo di una conservazione assoluta e vagamente umanistica,
ma in lui dotata, in più, come nei ruskiniani oltre Manica (ma non in Ruskin), di innegabili,
importanti implicazioni scientifiche o, meglio, scientiste e tecniche (cfr. le esperienze con i
silicati per il mantenimento dei materiali; si vedano gli interessi per il metallo inossidabile),
al restauro “filologico”, a quello “storico”, sino al ripristino vero e proprio alla V.-l.-D., senza
ormai mezze misure46. Si osservino, in merito, soprattutto la prefigurazione grafica dei suc41
BONI 1917b, p. 29. Ma vd. pure MORGANTI 1997, pp. 146-147; MARINO, GAUDIO 1997, p. 303.
Mi si consenta qui di menzionare, in sintesi, FANCELLI, TOMARO 2000, pp. 231, 234 (nota 12).
43
Cfr., ora, BELLANCA 2003, pp. 178-186.
44
Come si rammenta in BONI 1919, p. 317. È da notare che è sempre di G. Boni la Prefazione all’edizione
italiana di RUSKIN 1923, pp. III-VII.
45
DE VICO FALLANI 1988, pp. 26-27. Cfr. pure PARIBENI 1994, pp. 259-260.
46
Cfr. le voci di cui alla nota 36. Ma, in primis, si veda BONI 1913a. Senz’altro originale ed alquanto ardita
è la tesi di fondo di MORGANTI 2006.
Tra gli studi recenti, fra l’altro relativi al restauro ed allo scavo archeologico (e la connessa scienza dell’antichità) in Boni, vedi, poi, MIARELLI MARIANI 1980, p. 18; MARINO 1982, pp. 142-144 (e note); PALLOTTINO 1994,
pp. 730, 736-739; INFRANCA 1999, pp. 17-18; TRECCANI 2000, pp. 50 e passim; PERTOT 2000, pp. 111, 116-118;
per le note, 159, 161-163; MORETTI 2004.
42
96
PAOLO FANCELLI
cessivi lavori di c.d. “liberazione” per la Curia Senatus a Roma ed il caso dell’arco di Marco
Aurelio a Tripoli47.
Si potrà dire, certo, che (altra differenza fra i due personaggi) l’uno è dedito alla speculazione, alla dottrina, alla critica militante, alla predicazione ed all’apprezzamento, letterario,
fra l’etico e l’estetico. Mentre l’altro, culturalmente un curioso, generoso ed appassionato self
made man, con tutte le lacune formative del caso, è impegnato, con assoluta dedizione, nelle
istituzioni di tutela e nell’operatività conseguente (Boni agisce attivamente a lungo altresì
con frequenti ispezioni, in svariate aree dell’Italia meridionale48). Ma ciò non mitiga, anzi,
rinvigorisce e corrobora ogni conclusione circa le diversità, indubbie e consistenti (e del tutto
legittime, ovviamente), rilevabili fra i due autori.
Al di là della coeva (ed immediatamente successiva), fitta bibliografia apologetica, provinciale e/o commemorativa su Boni49 ed al di là di quella talora assai severa e, se si vuole, non
sempre magnanima, meno remota50, spicca comunque, per equilibrio e per acume critico, il
misurato parere di B. Croce51. Ma, in ogni caso, proprio sul rapporto Ruskin-Boni, già dianzi
si esprime, con perspicacia, L. Beltrami, oltretutto amico di Boni stesso e certamente molto
documentato in proposito (ancorché testimone coinvolto, inevitabilmente non distaccato),
soprattutto, ma non soltanto, sul versante del restauro52.
Ebbene, Beltrami tende a ridurre ed a circoscrivere la portata dell’influsso ruskiniano
– peraltro, entro ristretti limiti, indubitabile – sul vulcanico Boni: il che è quanto sinora cerco
di dimostrare. In effetti, i meriti e le innovazioni maggiori di Boni stesso, come accennato,
attengono prevalentemente alla codificazione ed alla sistematizzazione dello scavo stratigrafico in quanto metodica, per un verso (con studio preventivo e collaterale che risale alle fonti
scritte), ed alla connessa attenzione e classificazione antropologica e paleontologica delle tracce e dei sedimenti, per l’altro. E questo è doverosamente e puntualmente riconosciuto dalla
47
Vd., rispettivamente, BONI 1917a; BONI 1915. Ringrazio Stefano Gizzi, per le discussioni su questi argo-
menti.
48
Cfr., ad esempio, MICHELINI 1993, pp. 59-61 (nota 21). In particolare, per le Puglie, cfr. ora GUARNIERI
2004.
49
Giacomo Boni, estr. da Nuova Antologia (16 Aprile) 1923, pp. 1-3; ARTIOLI 1925, pp. 243-258; MATTIROLO
1925, pp. 1-8; GIGLIOLI 1925; GIORDANO 1925; COX-MCCORMACK 1929; TEA 1932; ARTIOLI 1938; BIORDI 1955.
50
BIANCHI BANDINELLI 1968, p. XVII; BIANCHI BANDINELLI 1976, pp. 78-79; COARELLI 1976-1977, 1-2, pp.
346-347 (e nota 2); COARELLI 1983, p. 5; GUZZO 1993, pp. 86-90, 92-93, 107, 117.
51
CROCE 1957, pp. 195-199. Interessante e rivelatore è pure il classico FRANCE 1991, pp. 997-1007, 1445,
1462-1470. Utile, a sua volta, è BARNABEI 1991, pp. 24, 239, 247, 251, 254, 255, 277, 281, 285, 287, 296, 300, 304,
323, 326, 355, 360, 368, 386, 390, 391, 392, 395, 399.
Sul piano storico-critico, ponderato mi pare il lavoro di MANACORDA, TAMASSIA 1985, pp. 23, 149-150, 156165. Ma, nella stessa chiave, vd. pure il precedente DE ROSSI 1983, pp. 30-36, 53. Cfr., infine, TORELLI 1986, p.
196. Per il reperimento di alcuni testi su Boni, desidero ringraziare Angela Quattrocchi.
52
BELTRAMI 1926, soprattutto pp. 24-26. Cfr. BELTRAMI 1927b. Sul legame Boni-Beltrami, cfr. l’intervento di
Bellini, in questo stesso Convegno, oltre che in LAMBERINI 2006, pp. 3-30.
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
Fig. 4 - Ricostruzione della Festa delle Palilie, nel 1902 (da GIULIANO 2000, p. 47, fig. 13).
Fig. 5 - G. Boni e B. Mussolini all’Ara di Cesare (da TEA 1932, II, tav. XV).
97
98
PAOLO FANCELLI
letteratura a noi più prossima53, la quale, tuttavia, talora si avvicina con azzardo al precipizio
di un forzoso revisionismo persino encomiastico, quasi a priori54.
Comunque, i contributi di Boni su ulteriori fronti, ancorché a loro modo originali, come
quello circa il verde nei monumenti, quello intorno al restauro anche dei mosaici e dei reperti
di scavo55, quello sull’ “istituzione di un gabinetto fotografico presso il Ministero dell’istruzione e di un catalogo dei monumenti”56 e quello sulle normative nel campo, aggiornate agli
sviluppi conoscitivi di allora57, sono, nell’insieme, relativamente secondari.
Anche se significativi in sé e rivelatori di una personalità impegnata a tutto tondo sull’intero e più ampio spettro del settore. Là dove, d’altra parte, le sue polemiche, ad esempio
quella con R. Lanciani58, nonché le sue invenzioni-riesumazioni, tra le quali spicca quella del
fascio littorio, con tanto di connesso travestimento in prima persona da antico romano, lasciano perplessi e sgomenti59 (fig. 4).
E svelano una dimensione umana forse passiva di fronte ai presunti bagliori del potere60,
magari in nome di un male inteso patriottismo, in verità, piuttosto un esasperato nazionalismo etnico-razzistico di matrice lombrosiana (fig. 5).
53
ROMANELLI 1959; ROMANELLI 1970, pp. 75-77; CARANDINI 1975, pp. 147-151; CARETTONI 1976; CARANDINI
1979, pp. 48, 300-304; QUILICI 1979, pp. 14-15, 18; BRACCO 1979, pp. 232-238; CONTI 1981, pp. 91-93; MANACORDA 1982a, pp. 89-91; MANACORDA 1982b; CONTI 1983, pp. 27, 32-37, 49, 51-52, 58-59; RAMIERI 1983, p. 27;
QUILICI 1983, pp. 67, 70; DE SANTIS 1983, pp. 77-82; STEINBY 1985; URBAńCZYK 1986, pp. 198 e soprattutto 225;
MANACORDA 1988, pp. 22-23; CARAFA 1990, p. 53; CARNABUCI 1991; PERONI 1992, p. 54; RACHELI 1995, pp. 70,
90, 256-257; BARBANERA 1998, pp. XV, XVII, XX, 32, 39, 80, 82-86, 89, 91-92, 106-107, 111, 152-153, 172, 216b,
217; JOKILEHTO 1999, pp. 199-200; SETTE 2001, pp. 160-162.
54
Così, per un verso, il filone “progressista”, CARANDINI 1981, p. 32; SETTIS 1993a, pp. 330-331. Per l’altro,
quello “conservatore”, BRACCO 1983, pp. 28-31, compresa la Presentazione di M. Pallottino, pp. 7-8, ma 8.
55
Cfr. PARIBENI 1996. Ma si risalga pure a BONI 1913a.
56
ROMANELLI 1970, p. 75.
57
Cfr. le citazioni della mia nota 45.
58
Cfr. il saggio, molto documentato, di WISEMAN 1987, pp. 132 e passim. Ma vd. pure, ad esempio, CIANCIO
ROSSETTO, “La ‘passeggiata archeologica’”, in Roma Capitale 1983, pp. 79, 81, 86; DE VICO FALLANI 1988; NISTA
2004, pp. 78-79; PALOMBI 2006, pp. 68-73.
59
Cfr. al riguardo, BIANCHI BANDINELLI 1965, p. 764 (la fotografia con Boni); GIULIANO 2000, p. 47 (per la
medesima foto I.C.C.D.). In particolare, per il fascio littorio, vedi GIARDINA, VAUCHEZ 2000, p. 167.
60
Cfr. CROCE 1957. Comunque, sulla passività degli intellettuali, anche oggi, nei confronti del potere costituito, si potrebbe discorrere a lungo. È certo che gli intellettuali stessi dovrebbero avere e sentire maggiori
responsabilità, in merito, rispetto ai comuni cittadini, se non altro per l’influenza che sono in grado di esercitare.
Inoltre, lo spirito critico dovrebbe essere parte costitutiva del loro lavoro. Di fatto, le cose stanno diversamente,
al di là e ben oltre il caso di Boni. Per la vicenda, connessa, del mancato giuramento di soli 12 (su 1250) Professori ordinari nei confronti del fascismo, cfr., ora, BOATTI 2001. R. Bianchi Bandinelli (cfr. la nota 59), ben noto
ed autorevolissimo innovatore nelle metodologie della storia dell’arte antica, ma non tanto dell’archeologia escavatoria militante come tale, è un severo censore di G. Boni. In effetti, e parlo qui in linea del tutto generale, egli
porta alla ribalta esigenze interpretative rinnovate rispetto al chiuso mondo di quel settore di studi, come allora
si presenta. Tuttavia, l’impronta dei suoi lavori è, ormai, datata e gli stessi archeologi anche marxisti (come lui),
riscoprono oggi la figura di Boni (nota 52), a volte pure eccedendo nella rivalutazione (nota 53), in relazione alla
stratigrafia come metodo - di cui Boni stesso sarebbe precursore - nonché alla derivante apertura al Medio Evo
e ad epoche più lontane (la preistoria) e più vicine a noi (sino all’archeologia industriale).
Lo stesso Bianchi Bandinelli, sia pure obtorto collo, aderisce purtroppo al fascismo anche accompagnando A. Hitler e B. Mussolini nella visita del primo in Italia (Roma, Napoli e Firenze) durante il 1938. Una fotografia dell’evento
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
99
Che, chiudendo il cerchio, si salda, del resto, ai suoi menzionati interessi antropologici.
E che si ripercuote nei suoi atteggiamenti avversi nei confronti di scuole archeologiche allogene, come quella, prestigiosa, teutonica61.
Anche su quanto espresso or ora, Ruskin è diverso ed a suo modo anticonformista;
certo, con tutte le eclatanti contraddizioni del caso. Lui vittoriano-aristocratico ed, insieme,
socialisteggiante ed utopista, poi non a caso apprezzato anche dal Mahatma M.K. Gandhi62.
Lui intellettuale raffinato, altezzoso e malaticcio e, nel contempo, sensibile al fascino ed all’humus dei prodotti della fatica umana (e, su quest’ultimo aspetto, certo Boni concorda con
convinzione, sebbene con minore snobismo). Lui retrogrado, moralista e medievaleggiante
(vedasi il pieno coinvolgimento con i preraffaelliti63) ed, allo stesso tempo, acceso fautore di
J.M.W. Turner (ma non delle altre correnti feconde della pittura moderna64).
Lui assoluto rigorista antirestaurativo (anche perché, in quanto letterato, per sua natura
discosto dalla pratica professionale e comunque operativa in merito). Ma coinvolto (come
anche Boni, del resto), fino al gran rifiuto, nel raggio d’azione del Royal Institute of British
Architects65, con una serie di sconcertanti contatti pure con restauratori “in stile”, a loro volta
attenti, peraltro, così G.E. Street e G.G. Scott, alla questione del colore66.
Lui, legato alla meritoria ed autorevole attività, di vigilanza e di denuncia contro i malaccorti restauri, anche in sede internazionale, della S.P.A.B.67, e però, alla fine, controproè in BORSA 2000, p. 154, ma cfr. pure il vol. di Battista 2007, pp. 47, 87-88, 108, 171-173. Insomma, pure un rigoroso
e brillante caposcuola, Maestro di generazioni, come Bianchi Bandinelli è un peccatore, il che, poi, non gli impedirà
di essere inflessibile nella critica anche più che fondata. Per amore di verità, cfr. comunque, in proposito, la sua diretta
voce in BIANCHI BANDINELLI 1996 (ed. con i diari inediti 1961-1974), pp. 112-136. E si veda pure il recente Ranuccio
Bianchi Bandinelli 2000, pp. 79-80 (schede 196-200, con fotografia) e, poi, in particolare p. 83 (schede 212-213), per i
rapporti con Giovanni Gentile. Cfr. da ultimo, al riguardo, il corposo e documentato BARBANERA 2003, pp. 141, 167170 e passim, nonché PERFETTI 2004, pp. 5, 13, 80, 105, 112-113; PAOLETTI 2005, pp. 40, 64-65, 122, 160-165, 191-200,
204-205, 279, 286, 288. Per il contesto in cui si verifica il delitto Gentile, cfr. CANFORA 1985.
Comunque, in termini più vasti, sul rapporto tra gli intellettuali ed il regime, illuminanti sono i recentissimi
CANFORA 2005, nonché SERRI 2005 (su R.B.B., pp. 153, 287, 299-300, 307, 341).
61
Cfr. BONI 1918, p. 509.
Cfr. anche, per aspetti connessi, OJETTI 1920, p. 64. Sull’ambiente germanico di allora, in Roma, cfr. ora
MARCONI 2004, con i riferimenti del caso.
62
Vedi ROCCHI 1974, pp. 63-64 e nota 72.
63
Cfr. RUSKIN 1998 (vedi indice dei nomi) nonché la raccolta italiana RUSKIN 1992b. Ma, sul tema, si consulti, in più, FINIZIO 1977; BENEDETTI 1984; Burne-Jones 1986; Ruskin, Turner and the Preraphaelites 2000.
64
Su Turner, vd., oltre alle prime due voci ed all’ultima di cui alla nota precedente, Turner in the North 1996.
In particolare, poi, per Turner e Roma, cfr. comunque ASHBY 1922; ASHBY 1925.
65
Ruskin, ad onor del vero, rifiuta, nel 1874, di ricevere dalle stesse mani di G.G. Scott, allora Presidente
del R.I.B.A. (Royal Institute of British Architects), una medaglia d’oro, così reagendo per protesta contro il vandalismo degli architetti-restauratori dell’epoca, come ricordato da TSCHUDI MADSEN 1976, p. 57.
66
Cfr. TSCHUDI MADSEN 1976, pp. 52-62; JOKILEHTO 2001, pp. 181-183; SETTE 2001, pp. 64-66.
67
Su tale Associazione, cfr., ad esempio, LA REGINA 1974; BOSCARINO 1977, pp. 1-9 (numeraz. mia), ripubbl. in BOSCARINO 1985; LAVAGETTI 1997; LAMBERINI 1998, pp. 7-44 (ove si rammenta l’episodio del rifiuto di
Ruskin, di cui qui alla nota 65), p. 16 (nota 20): ringrazio Daniela Lamberini per il generoso impulso fornito, nel
2000, alla presente ricerca, sul rapporto tra Ruskin e Boni.
Cfr. pure, per i nostri temi, “Annual Report of the Society for the Protection of Ancient Buildings”, Annual
Report of the Commnittee, 1883 (Giugno), 6, pp. 3-5, 25.
100
PAOLO FANCELLI
Fig. 6 - La tomba di G. Boni, al Viridarium Palatinum: l’ara in peperino è antica.
Fig. 7 - Il Ninfeo ‘de li Spechi’ al Palatino, nella sistemazione datane da G. Boni, dopo la scoperta del 1914.
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
101
ducente nei fatti, a cagione del pur lucidissimo e coerente estremismo delle sue posizioni
iperconservative.
Che cosa ha a che fare con tutto ciò un Boni, al contrario di come recitano i luoghi comuni al riguardo? Quanto al gusto del pittoresco, certo di originaria matrice estetica britannica, ebbene, si può dire che Boni stesso per primo è un personaggio pittoresco a suo modo.
Ruskin, per suo conto, è un fine, ispirato ed ipersensibile intellettuale, fuor di dubbio pregno
di forti antinomie concettuali (si vedano, tra le altre, le sue oscillazioni sull’idea di sublime68),
ma sempre entro una costante impostazione di fondo letteraria (se si vuole, nel bene e nel
male). Boni, invece, pur con i suoi riconosciuti meriti, indubbiamente, nel campo archeologico, in chiave metodologico-escavatoria (per influenza, tra l’altro, della geologia, valutata altresì da Ruskin, ma non in termini direttamente scientifici), e ben oltre il classicismo in senso
stretto, ma pure al di là di un atteggiamento meramente “antiquario”, appare, in definitiva, un
personaggio alla buona. In sostanza, approssimativo, con tutto il suo “positivismo” di fondo
(ed a dispetto della sua controversa acribia), ancorché, certo, pieno di slanci, tutt’altro che
meschino, anzi, fattivo ed anche funzionario probo e capace. Boni, “genialoide”69, come viene
definito, è comunque ben lontano da un’avvertita consapevolezza estetica e, più in generale,
da un orizzonte teoretico.
Lo dimostra anche, ad abundantiam, la sua ripresa della distinzione, del tutto empirica
e pregna di corrispondenti conseguenze restaurative, fra “monumenti vivi” e “monumenti
morti”, già propugnata dal belga L. Cloquet70. Differenziazione la quale avrà successo tra gli
operatori del campo e tra gli ordinatori di principii (come G. Giovannoni, soprattutto71), ma
non fra i pensatori più lucidi e veri. In Boni, di sicuro, al di là della sua codificazione stratigrafica-escavatoria, che è teoria in senso troppo lato, c’è una gran voglia di fare, di menare
le mani, un notevole, appassionato, candido e dispersivo spirito pratico. Ed, in quest’ultimo
senso, ma non, appunto, nella dispersività di per sé, la distanza rispetto all’aristocratico Ruskin appare netta.
Certo, pure in Ruskin si hanno entusiasmi ed abbandoni, come, del resto, anche in Boni
ci sono lampi intuitivi, a cui seguono subitanee perdite di interesse. Boni, poi però, è dotato, per converso, di un atteggiamento più propositivo e progettuale (fig. 5), anche rispetto
all’ambiente testimoniale nel suo insieme, con un apprezzabile tentativo di conciliazione fra
archeologia ed urbanistica72. Là dove Ruskin, per suo conto, non si commuove per davvero
nemmeno di fronte ai residui abbacinati e toccanti della via Appia73.
68
Per un inquadramento estetico sul tema generale del sublime in età moderna, cfr., a parte i noti classici,
MONK 1935, 1991; CASERTANO 1983; oltre al n. monografico Sul sublime, Rivista di estetica, XXVII (1988), 26-27
ed al recente SAINT GIRONS 1993; SAINT GIRONS 2006. Circa il paesaggio sublime, vd., poi, Le paysage 1997.
69
BIANCHI BANDINELLI 1976, p. 78.
70
Per quest’ultimo, cfr. CLOQUET 1894, p. 44. Per la ripresa del concetto, vd. BONI 1918, p. 507.
71
GIOVANNONI 1945, pp. 39-40 (e n. 1, p. 39, ove - per la verità - si ricordano i debiti contratti sul tema).
72
Cfr. ZUCCONI 1993, 3, pp. 121-138.
73
Cfr. RUSKIN 1985, p. 59; RUSKIN 1992a, p. 63. Ma vedi pure WHEELER 1992, pp. 79-80, 95 (nota). Più in
generale, sulla Campagna romana, vd. RUSKIN 1998, vol. I, sez. II, cap. II, pp. 233-234 e passim (sul paesaggio
classico vol. II, parte IX2, cap. V, Claude e Poussin pp. 1980-1988, ma 1983-1984: “l’ideale del paesaggio classi-
102
PAOLO FANCELLI
Il cosmo entro cui agisce Ruskin, insomma, è certo asistematico, ma è vissuto – talora, in
modo irrequieto, travagliato e disordinato – pur sempre lungo la direttrice fondamentale di
una concezione etico-estetica della storia. Boni, di sicuro ammirevolmente informato, attento
alle novità del mondo circostante (ad esempio, è aperto all’impiego, nel restauro, dei materiali
moderni, come il cemento74, circa i forti limiti del quale, specie nel consolidamento, solo vari
decenni dopo interverranno posizioni davvero critiche), rimane più pedestre, quasi fagocitato – insieme generoso e passivo, insomma, disarmato – dall’ambiente in cui vive ed opera.
È, alla fine, un ostaggio inconsapevole. Nel primo, emerge, come protagonista, la poesia utopica del rimpianto; nell’altro, c’è un amore indifferenziato e retorico, piuttosto da inventore,
per pressoché tutto lo scibile, compreso il passato stesso, tuttavia, riguardato con un’impronta talora visionariamente funzionale ad un presente oltretutto enfatico e bellicista. Forse, proprio il sostanziale solipsismo autodidattico e, per converso, il relativo successo in vita di Boni
(divenuto, alla fine, senatore) segnano la sua esistenza, incidendo notevolmente su questa ed
asseverando alcune scelte che (come quelle in favore del Vittoriano di G. Sacconi75), magari,
egli in prima persona potrebbe, facilitato ed invogliato da circostanze differenti, verificare
con maggiore, più solerte e pacato spirito meditativo critico ed autocritico.
Resta senz’altro l’affetto per il Maestro britannico ed il suo insegnamento (ma si vedano pure i rapporti con Ph.Webb e con W. Morris76). Ma, e ciò va forse a maggior merito di
Boni, dopotutto, i contributi più originali ed innovativi del genius loci del Palatino (fig. 6)
sono effettivamente – a parte la velleitaria ed ingenua lotta contro l’etilismo, ad esempio, o
l’ideazione di appositi stivali per i militari combattenti (magari ispirati alla “caliga romana”77) –
suoi propri.
Dunque, di sicuro non sic et simpliciter derivati, tanto meno, da Ruskin in particolare.
Ma ascrivibili all’indubbia prontezza con cui egli sa intelligentemente e precocemente interpretare esigenze (che, pur allora minoritarie in ambito archeologico tout court, sono nell’aria), di ricerca e di documentazione scientifica sull’antichità (riguardata, oltretutto, senza
aprioristiche gerarchizzazioni) (fig. 7), tanto da porle effettivamente in essere in un campo
co […] il fascino che questo ideale generalmente possiede deve essere forte solo nelle menti deboli o di seconda
qualità.”); ASSUNTO 1978, pp. 117-118; MAGISTRI 1997.
Rosario Assunto mette molto bene a fuoco l’atteggiamento ruskiniano nei rispetti di Roma. E constata, anche
in ciò, affinità con la Recherche di M. Proust (p. 118), oltretutto pure inquadrando in termini più generali la
questione. Sui rapporti Ruskin-Proust, basti qui menzionare RUSKIN 1971; PROUST 1982.
Tra i contributi critici in proposito, vd., se non altro, lo specifico AUTRET 1957, nonché il più recente CALLU
2001, pp. 396-397.
74
BONI 1913a, p. 58. Cfr., inoltre, GIZZI 1991, p. 16; PARIBENI 1994, p. 247; PERTOT 2000, p. 118.
75
Cfr., tra l’altro, MANIERI ELIA 1976, pp. 137-138, ma 138. Sul Vittoriano, poi, cfr., oltre a quanto di attinente già menzionato alla mia nota 61, pure, tra l’altro, VENTUROLI 1956; Processo all’Altare della Patria 1986; Il
Vittoriano. 1986, 1988; BRICE 1996.
76
MANIERI ELIA 1976, p. 137. In particolare, per i rapporti con Ph. Webb, cfr. TEA 1940-41; TEA 1941-42.
77
Cfr ROMANELLI 1970, p. 77.
RESTAURO E ANTICHITÀ TRA RUSKIN E BONI
103
di esperimentazione unico al mondo: i Fori di Roma classica (ma altresì i resti della Roma
primo-repubblicana e precedenti)78.
Il personaggio, certo, si fa prendere decisamente la mano, con le sue “febbrili” furie
escavatorie, come in S. Maria Antiqua (stavolta, con propedeutiche demolizioni, tutt’altro
che ruskiniane, dunque)79 ed in numerose ulteriori, per tanti versi anche meritevoli (per le
scoperte derivanti, se non altro), circostanze.
Documentate, del resto, da testi scritti (tuttavia, in forma non di resoconti dettagliati e
compiuti, ma di appunti, oltretutto caratterizzati da digressioni) che taluno constata rimasti
non pubblicati80. Ma i quali, comunque, giacciono presso gli archivi della Soprintendenza
deputata e sono inediti forse non sempre e non del tutto per sola negligenza di Boni stesso81,
per definizione iper-attivo e super-impegnato su mille, anche troppi, fronti82.
Ma chi altri, in quella data e pervasiva temperie storica, sarebbe al suo posto in grado di
resistere sdegnosamente alle sirene esumatrici – magari cadendo, tutto sommato, in una sorta
di oscurantismo al riguardo – se non proprio ed in primis (oltre gli appagati archeologi specialisti di Roma tardo-repubblicana ed imperiale) una figura come quella di John Ruskin83?
78
Cfr., oltre a VAGLIERI 1903, pp. 6, 12, 33, 69 (nota 1), 71, 125, 150, 152-154; ed a BURTON BROWN 1904
(con Prefazione di G. Boni, pp. VI-VIII), pp. 19, 36, 53, 149, 211, soprattutto GHIRARDINI 1912, pp. 30, 60 (e
nota 2). Ma vd. pure, tra l’altro, TEA 1952, pp. 272-307 e TEA 1953, pp. 133-173, 301-328 e TEA 1954, pp. 150170; PISANI SARTORIO 1970; DELPINO 1976, p. 103; GIULIANI, VERDUCHI 1980, pp. 9-11, 35-45; GIULIANI 1985,
p. 12; D’ELIA, LE PERA 1985, p. 91; CARANDINI et alii 1986, pp. 429-431; GIULIANI, VERDUCHI 1987, pp. 33, 50,
53-64, 73, 95, 98, 113, 117-118, 122, 127-128, 133-142, 144, 165, 172, 176; ZEVI 1989, p. 7; CARNABUCI 1991;
UNGARO 1996, p. 39; COARELLI 2004, pp. 62-68 (Foro Romano), pp. 82-83 (Palatino) (S. Sisani); TURCHETTI 2004,
con riscontri.
79
Su tale tema, cfr. lo studio specifico di MORGANTI 2004 (ringrazio l’autore per la possibilità fornitami
di leggere in anteprima il documentato contributo). Ma cfr. pure MARUCCHI 1900, p. 285; CARETTONI 1976,
p. 52; H. HURST, J. OSBORNE, D. WHITEHOUSE, Santa Maria Antiqua. Problemi e proposte, in Roma. Archeologia
nel centro 1985, p. 93; G. MORGANTI, M.A. TOMEI, Il Palatino da luogo segregato a parco archeologico, in Forma
1985, p. 74; OSBORNE 1987, pp. 187, 190-191, 222; E. PALLOTTINO, I modi ricostruttivi nel restauro dell’antico:
obiettivi, criteri di valutazione e precedenti storici nell’area romana, in SEGARRA LAGUNES 1997, p. 160; GIZZI 1999,
p. 15; AUGENTI 2000, pp. 39-46; MORGANTI 2001, pp. 142-143; AUGENTI 2004 (da confrontare con il testo del
2000). Sono debitore, per la disponibilità bibliografica, di Patrizia Fortini.
In corso di stampa, su un altro intervento di Boni, è il lavoro di GONZALES LONGO, THEODOSSOPOULOS 2003;
ma vd. ora specie GALLIO 2006, il VI ed ultimo cap. (1900-1910: I restauri di Giacomo Boni).
Circa le operazioni, poi, sulla Colonna Traiana, cfr. il recente ed aggiornato PERTOT 2000, p. 118.
80
BIANCHI BANDINELLI 1976, p. 79; ROMANELLI 1970, p. 76; CASTAGNOLI 1975, p. 187; CARETTONI 1976, pp.
51, 56; AMMANNATO 1984, pp. 245-248; PERTOT 2000, p. 118.
81
Cfr. soprattutto ARTIOLI 1938, p. 5; GUIDOBALDI 1994.
82
Si veda, ad esempio, tra gli innumerevoli scritti pertinenti, BONI 1907b, pp. 1-2; BONI 1914, pp. 369-380;
BONI 1917c, pp. 191-195.
83
Sull’ambiente britannico all’epoca di Ruskin (attivo nel pieno dell’età vittoriana), argomento su cui mi
lascia spunti il compianto Gaetano Miarelli Mariani, cfr., in ogni caso, nella sterminata bibliografia, GAUNT 1962.
Vd., inoltre, GAUNT 1975 (già 1952); MARX 2001.
Sulla personalità del Maestro, vd., oltre a quanto già dianzi menzionato, BELL 1990; BERNABEI 1995, pp. 350360; BERNABEI 1996, pp. 89-111: Un autore sintomatico: John Ruskin; SCHAMA 1997, pp. 517-525.
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
TRA ISTANZE RUSKINIANE E COMPIUTEZZA FORMALE
Amedeo Bellini
Premessa
Il tema che mi accingo a trattare, cioè quale sia il pensiero di Giacomo Boni sul restauro architettonico, sembra essere fra quelli che più vengono esplorati meno si chiariscono. Il
complesso di documenti ai quali è possibile fare riferimento è ampio ma sfuggente. Le affermazioni di Boni riflettono le molte contraddizioni che sono caratteristiche del personaggio,
lasciano il dubbio che egli stesso non avesse la precisa percezione della portata di alcune di
esse, che vanno comunque comprese tenendo conto di un’enfasi espressiva che è un dato
costituzionale della sua personalità.
Neppure perfettamente conclusivo l’esame dei documenti che riguardano interventi di
restauro da lui seguiti, perché non è definibile con esattezza il suo ruolo nell’amministrazione,
al di là delle qualifiche burocratiche: non manca almeno una presa di posizione in cui egli
forse distingue la sua posizione da quella dell’ufficio.
Cenni biografici
L’attività operativa di Giacomo Boni è scandita da periodi segnati da distacchi piuttosto
netti che non rendono del tutto confrontabili le posizioni teoriche espresse in ciascuno di
essi, nonostante le evidenti contiguità e la rivendicazione del carattere strumentale di certe
suddivisioni di competenza disciplinare, per esempio tra architetto ed archeologo, che sono
avanzate, a sua postuma lode, da Luca Beltrami1. È indubbio che le modalità d’uso del manufatto rendano molto diversi gli scopi del restauro architettonico, cui egli si dedica in un
primo momento, a fronte di quello archeologico, attività che inevitabilmente affianca quella
di scoperta e scavo che lo impegna nella maturità fino alla morte; qui la possibilità di attuare
istanze conservative è in genere molto più elevata.
Possiamo distinguere un periodo giovanile a Venezia, con il tirocinio in uno studio d’architettura, interessi rivolti ai monumenti di quella città, con significativa intersezione tra un
atteggiamento romantico per l’arte, la natura, l’adesione all’estetismo ruskiniano in tutta la
1
BELTRAMI 1929b.
106
AMEDEO BELLINI
sua estensione e lo studio delle tecniche costruttive, i tentativi di dare contenuto concreto
all’aspirazione alla conservazione con i mezzi offerti dalla ricerca sperimentale. Un momento
che si colloca, escludendo la prima formazione scolastica, fra il 1877 ed il 1888, ed è caratterizzato dagli incontri con John Ruskin e Philip Webb con cui rimarrà in corrispondenza,
dall’associazione alla S.P.A.B. nel 1885, ma anche dalla conoscenza di Luca Beltrami e con
le persone che direttamente o indirettamente appartengono al suo ambiente culturale, come
Carlo Pisani Dossi, Vittore Grubicy, Primo Levi a cui deve la collaborazione al quotidiano di
Crispi “La Riforma” e, probabilmente, anche i contatti politici con ambienti conciliatoristi;
ed ancora con Domenico Gnoli che lo chiamerà a collaborare a “Archivio storico dell’arte”,
di cui Beltrami stesso è cofondatore.
Un secondo periodo è quello dell’attività romana, presso la Direzione Generale di Antichità e Belle Arti diretta da Giuseppe Fiorelli, dal 1888 al 1899, anno in cui il suo lavoro nei Fori
Romani, iniziato nel 1895, diviene esclusivo. Al ministero, ove era giunto per interessamento di
Primo Levi, è occupato soprattutto nel controllo degli interventi sui monumenti delle regioni
meridionali, la Puglia in particolare. In quei luoghi compie numerosi e lunghi viaggi contribuendo in maniera molto rilevante alla formazione del catalogo delle opere che, secondo i criteri del
momento, appaiono di valore storico o artistico e quindi ritenute degne di tutela, talora con vere
e proprie scoperte, spesso mettendo in luce le qualità di architetture misconosciute. Non mancano studi di carattere generale, sul tema del catalogo dei monumenti, proposte per definire i
contenuti di una possibile legge organica di tutela, che si dovrà attendere fino al 1904. In quegli
anni continuano i contati con l’ambiente inglese, ma anche quelli con alcuni protagonisti del
restauro dei monumenti in Italia: Del Moro, d’Andrade, Sacconi, ma soprattutto Luca Beltrami
con cui si consolida una stretta amicizia; egli lo considera maestro di restauro, esprimerà spesso
il desiderio di averne i pareri laddove le scelte gli appaiono molto difficili, a lui si affida per ottenere un valido collaboratore nei restauri della Cattedrale di Nardò, ottenendo Olinto Armanini,
milanese formatosi a Brera con Gaetano Moretti ed in quegli anni pensionato dell’Accademia a
Roma per perfezionarsi, collaboratore di Beltrami negli studi del Pantheon. Con Beltrami condivide la polemica verso l’amministrazione: per i metodi di gestione, per la discontinuità degli
indirizzi culturali, per una politica del personale che tiene scarsamente conto delle competenze,
ma senza accenti antistituzionali, anche se, su di un piano politico più generale, la scarsa moralità delle strutture amministrative è posta in relazione con aspetti di costume che egli ritiene
difetto congenito del parlamentarismo, e cioè il prevalere della mediocrità e della demagogia,
frutto inevitabile della necessità di ricercare il consenso, di una lotta politica che diviene fine a
se stessa e perde di vista i problemi concreti, si vale della corruzione2.
Le affermazioni sul restauro
Le definizioni di restauro rintracciabili negli scritti di Boni sono tutte di derivazione
ruskiniana. Esso è, dice ponendo il testo tra virgolette e quindi avvertendo che si tratta di
2
Si veda in particolare: BONI 1923, in occasione del “Natale di Roma”.
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
107
citazione, ma non indicando la fonte, “totale distruzione di un edificio, distruzione che non
permette raccogliere niun rimasuglio, distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della
cosa distrutta. Non illudiamoci su questo importante argomento; è impossibile, impossibile
come far rialzare un morto, il ristaurar cosa qualsiasi che fu grande e bella in architettura. La
vita dell’insieme, quello spirito che è dato soltanto dalla mano dall’occhio dell’artefice, non
può essere richiamato […]. Non parliamo dunque di restauro. La cosa è menzogna da capo
a fondo”3. Inoltre egli afferma che se il restauro è necessità, ciò significa che la distruzione è
necessaria: meglio quindi compierla con franchezza4.
La dichiarata impossibilità di far rivivere “lo spirito del primitivo artista” fa parte della
citazione da Ruskin e va quindi intesa come duplice rifiuto: sia del procedimento indicato da
Viollet-Le-Duc, cioè di individuazione dei principi razionali che sono posti come matrice dell’opera, sia come raggiungimento di un’empatia, di una consonanza di sentimenti che permetta oggi di agire come aveva fatto il primo produttore dell’opera. Ed infatti, coerentemente,
Boni afferma spesso l’assoluto divieto di modificazione della materia lavorata dall’artista5.
La copia è considerata falsa descrizione. Anche la più elaborata è un semplice modello,
freddo, una bugia, non soltanto per l’assenza del fondamentale carattere di autenticità, ma
anche perché essa richiede inevitabilmente congetture e quindi tradisce la verità6. “Non sappiamo che farcene della copia o della imitazione di un carattere architettonico […] vogliamo
l’antico, per modo che gli uomini di oggi possano giudicarne come di cosa autentica”, affermazione anch’essa ruskiniana7.
L’edificio è considerato un prodotto collettivo, creazione della volontà inseparabile di
molti uomini che lavorano nello stesso tempo, così come nello stesso tempo e nello stesso
modo vivono. Senza queste condizioni, ovviamente irriproducibili, neppure una pietra può
essere restaurata8 e d’altronde è vietato mettere la menzogna al posto del vero9 affermazione
che sembra escludere anche la riproduzione di ciò che fosse eventualmente andato distrutto,
rafforzata dall’altra che sottolinea l’inevitabile morte del monumento che non deve essere
privato degli uffici della memoria10.
3
BONI 1882, p. 8, ma traduzione pressoché letterale di affermazioni di John Ruskin, si veda RUSKIN 1849
ai paragrafi XVIII e XIX. Si noti che il carattere alquanto improprio della citazione che unisce in un’unica frase
passi collocati in luoghi diversi.
4
Cfr. nota 3, tanto nella mia citazione di Boni quanto nella sua fonte.
5
Per esempio: BONI 1887c, pp. 19-20.
6
BONI 1882, p. 8, ma anche: BONI 1884a, p. 17, e BONI 1883a, ed in RUSKIN 1849, paragrafo XVIII, ove egli
osserva anche che soltanto in un caso gli fu dato di vedere interventi, quelli al Palazzo di Giustizia di Rouen, in
cui il restauro era teso alla massima fedeltà possibile.
7
TEA 1932, I, pp. 133-134, che cita da Massime di un restauratore giudizioso 1887; la studiosa, a p. 134,
comicamente attribuisce ad una influenza di Boni una sorta di formulario-guida per i restauri pubblicata dal
R.I.B.A. nel 1888, ignorando l’esclusiva provenienza dalla cultura inglese delle sue asserzioni.
8
BONI 1893, p. 8.
9
BONI 1882, p. 8.
10
BONI 1882, p. 9, all’interno della già citata ripresa da RUSKIN 1849, paragrafo XIX.
108
AMEDEO BELLINI
Il restauro è visto anche come palestra di ostentazione dell’abilità dei restauratori11 e
non manca l’accusa che l’assenza di manutenzione, più che negligenza sia spesso il motivo per
dar luogo ad un più ampio intervento12.
In Boni si registra anche la riprovazione per ciò che eccede lo stretto necessario: “I restauratori non si fermarono a domandarsi cos’era sufficiente alla ricostruzione del palazzo,
ma bramarono di migliorare gli intagli bizantini e la lavorazione dei marmi”13. Il restauro
quindi finisce per sostituire pezzo per pezzo l’opera antica e la distrugge, affermazione costante di Boni ben al di là del periodo di maggior interesse per l’argomento14, denuncia di
un fatto ritenuto gravissimo e non suscettibile di compromessi quantitativi perché “[…] la
piccola modifica è una grande perdita”15.
Boni condanna anche l’amputazione di parti per raggiungere effetti di uniformità16 e
sembra rifiutare del tutto la ricostruzione che riconduca il rudere alla possibilità di riuso,
eventualmente si potrà produrre una copia a latere: “Se per l’uso ed il valore valga la pena
di perpetuarlo, se ne costruirà una copia e se ne conserverà il rudere”, senza produrre falsi
storici17. Questa affermazione, che comunque apre ad un riconoscimento di valore verso la
ricostruzione per copia o sulla base di dati attendibili, pone il dubbio se egli pensi possibile il
completamento del monumento lacunoso, al limite del rudere, in cui la copia a latere sia una
parte dell’edificio che si affianca alla superstite antica. Il problema, affrontato con qualche
contraddizione anche da altri che si ispirarono alle tesi ruskiniane18, non ha un preciso riscontro negli scritti del maestro inglese, ma certamente la dichiarazione dell’assenza di qualsiasi
valore nella copia sembra escludere la possibilità della reintegrazione, la cui volgarità si riverbera anche su ciò che è autentico e lo svilisce “[…] ogni parte sostituita diminuisce il valore
del monumento, e persino la parte antica superstite sembra patire per la presenza dei restauri”19. Si potrebbe dunque concludere che il falso storico si produca soltanto quando si agisce
sulla materia originale e la si deformi, la si distragga da un processo evolutivo di arricchi-
11
BONI 1893, p. 8.
BONI 1882, p. 15, ma anche RUSKIN 1849, paragrafo XIX.
13
BONI 1887c, p. 19; il concetto generale è in RUSKIN 1849, paragrafo XIX.
14
BONI 1913b, p. 44.
15
BONI 1882, p. 16.
16
BONI 1882, p. 15.
17
BONI 1887a, citato da: TEA 1932, I, p. 131; con parole molto simili in BONI 1882, p. 7; Boni indica comunque il caso riferibile a monumenti “rarissimi”.
18
Si veda a questo proposito la posizione assunta da Tito Vespasiano Paravicini, il più complesso tra i
cultori della conservazione ispirati dal pensiero di John Ruskin, che tuttavia apprezza la funzione della copia,
come strumento in grado di mantenere la conoscenza della produzione di un’epoca, di dare una certa conoscenza assimilabile a quella offerta dall’originale; egli ne tratta a proposito del borgo Medievale del Valentino e
dell’opera di Alfredo d’Andrade. Si vedano: PARAVICINI 1884, pp. 612-617, ed in Atti del Collegio degli Ingegneri
ed Architetti in Milano, XVII, fascc. II-IV, 1884, pp. 61-66, ma anche in estratto, Milano 1884; BELLINI 2000, pp.
71-72, 74 (n. 77), o, in forma più sintetica, in BELLINI 1992.
19
Vedi TEA 1932, I, p. 346; la questione del valore dell’aggiunta per copia ha singolare rilevanza, come
vedremo, in rapporto a qualche momento dell’operatività di Boni ed alle tendenze della tutela istituzionale che
sembra confermarne l’ammissibilità con la fondamentale circolare di Giuseppe Fiorelli del 1892.
12
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
109
mento/distruzione legittimato dalla naturalità20. Non si comprende quindi come possa avere
un significato una ricostruzione, che sarebbe diversa anche se fosse fatta dai redivivi primi
operatori e che forse essi stessi non vorrebbero realizzare più mutate le circostanze storiche21,
visto che non può riprodurre quelle differenze che caratterizzano ogni frazione della superficie, le mutazioni introdotte dal trascorrere del tempo. Ammetterlo significherebbe assegnare
un significato alla forma intesa come pura geometria, agli elementi architettonici come documento di un modo, di un tipo, di un assieme astratto dalla materialità. La reintegrazione
sarebbe allora in grado di dare al monumento il suo posto in una serie individuata di tipi, di
astrazioni, di modelli, in definitiva, di appartenenza ad uno stile in un determinato momento
storico, ad una sua varietà temporalmente e geograficamente definita. Tutto ciò, che non è affatto conforme alle proposte di Ruskin, appare invece comprensibile nel contesto di un’altra
affermazione di Boni, certamente non originale ma riferibile sostanzialmente a tutti coloro
che pensarono al restauro come fatto positivo, e cioè il paragone tra il documento scritto ed
il monumento, che più del primo può dare notizie, essere fonte della storia, che deve essere
indagato con metodo storico, con un riferimento all’opera di Ludovico Muratori22.
La storia del restauro ha dimostrato ad usura quanto sia pericolosa quella correlazione
quando se ne traggano, come è stato fatto con frequenza, meccaniche conseguenze, senza
considerare che l’interpretazione dello scritto non dà luogo a manipolazioni del dato materiale, come invece è prassi del restauratore.
Tuttavia questa stessa linea di tendenza è contraddetta dall’affermazione che “[…] se
si costruiscono modelli congetturali sostituiti agli avvenimenti […] [essi] non hanno alcun
valore, nemmeno come ricordo”23. È evidente che la frase può essere ancora una volta intesa
come diretta contro la ricostruzione puramente congetturale, e quindi non basata su di una
rigorosa documentazione, ma anche, ancora una volta, al fatto che ci si rivolga ad una realtà
“originaria”, negatrice della dimensione temporale, insussistente anche dal punto di vista del
più maturo storicismo, per esempio quello espresso da Riegl, che riconosce nel trascorrere del
tempo un fattore di modificazione dell’opera nella sua materialità, ma anche nella sua realtà
spirituale, effetto prodotto anche dal rapporto con il fruitore, dalla coscienza dei modi con i
quali essa è percepita variabilmente nel tempo accrescendo le sue connotazioni, i suoi valori
testimoniali.
Tutte queste affermazioni, ciascuna delle quali è in contesto che non smentisce le altre,
devono essere viste in un quadro complessivo di apprezzamento dei monumenti: nelle loro
singolari particolarità; nei colori; nelle imperfezioni; nelle irregolarità geometriche, inevitabili
laddove l’uomo opera guidato dall’occhio e dalla mano; negli elementi caratteristici; nelle
20
BONI 1882, p. 6.
BONI 1882, p. 15.
22
BONI 1892, p. 8.
23
TEA 1932, I, p. 346; il concetto si può collegare con l’acerba condanna dell’opera di restauro compiuta
a Londra all’abbazia di Westminster: “Mr Pearson, attuale architetto […] adottò l’idea di fare un restauro congetturale della crociera di tramontana. Ammesso pure che il lavoro del settecento non valesse molto come opera
indipendente di architettura, era però stato fatto da uomini i quali vi avevano introdotto qualche loro pensiero,
per poco che fosse […]” il che non è riconosciuto alla riproduzione ipotetica.
21
110
AMEDEO BELLINI
eventuali correzioni ottiche. Tutte valutazioni espresse con un linguaggio che deve sempre
essere depurato da un eccesso di passione, da un romanticismo che sembra compiacersi della
frase ad effetto, gonfia di sentimento che sfugge alle regole della ragione. Queste osservazioni
lo conducono anche ad una critica, molto attuale, verso i tecnici che tendono a leggere le
strutture antiche attraverso schemi propri della scienza moderna, riducendole a dati geometrici, ad uniformità e simmetria, considerando errore ogni deviazione, per esempio, dalla
verticalità (e Boni individua molte situazioni in cui il presunto errore è ricerca di correzione
ottica, applicazione di concetti statici meno elementari, assestamento che ha condotto ad una
situazione di sostanziale equilibrio). Valutazioni che vanno coniugate con interessi tecnici
che lo conducono a ricerche di vario genere per la conservazione dei materiali che formano i
manufatti, in particolare pietre e metalli.
Le relazioni di Boni sui monumenti dell’Italia meridionale visitati durante la sua prima
attività romana confermano tutte queste indicazioni ed è facile trovare per ciascuna di esse un
applicazione a qualche monumento o sua parte24.
Tutte le frasi qui citate possono essere ben comprese soltanto se correlate ad un contesto
temporale nel quale la parola “restauro” non aveva l’ampiezza di significato assunta in seguito, soprattutto a muovere dagli anni ’50 del secolo scorso, quando essa sembra applicarsi ad
ogni problema di architettura che comporti l’affrontare il tema del rapporto tra moderno ed
antico.
Si indica strettamente un’operazione che vorrebbe ripristinare le qualità perdute di
un’opera d’arte o di una testimonianza rilevante della storia, cioè di un processo evolutivo
razionale che si svolge e si descrive cronologicamente. Si applica quindi su ciò che ha connotazione formale, come una scultura, una decorazione geometrica se eseguita con particolare
finitura, un particolare tecnico costruttivo come la lavorazione delle superfici, delle giunture.
Non è quindi in alcun modo “restauro” la copia; con ciò si afferma implicitamente che essa
non raggiunge l’obbiettivo che l’operatore ingenuo gli affiderebbe, il ripristino del valore
d’arte, ma nello stesso tempo quell’operazione sembra sfuggire, in Boni e in chi come lui si
riferisce alla predicazione di John Ruskin, alla censura che colpisce la manipolazione dell’antico.
L’autenticità è indicata da Boni come la condizione per la sussistenza di qualsiasi quali25
tà ; l’affermazione reiterata con frequenza, è alla lettera propria di Ruskin26, e sembra estendersi alla materia connotata dal tempo, al colore dei monumenti, alle patine27, ma forse, di
fatto, alle sole opere di rilevanza storico-artistica, definite con i limiti che abbiamo visto, come
da un lato fanno credere specifici esempi portati da Boni; tuttavia non mancano negli scritti,
24
Per esempio, le sostituzioni inutili di paramenti e l’alterazione delle superfici antiche, a proposito della
cattedrale di Ruvo e di Castel del Monte; l’intervento statico inutile, a Minervino; la stratificazione contemporanea distruttiva, ad Andria; l’intervento secondo parametri stilistici “inventati”, a Giovinazzo (si veda: TEA 1959a
particolarmente alle pp. 8, 10, 26-28, 32-34). Naturalmente questo si riscontra anche negli scritti sui monumenti
veneziani in particolare a proposito di San Marco, BONI 1882.
25
BONI 1887a citato da: TEA 1932, I, p. 133.
26
RUSKIN 1849, paragrafo XVIII.
27
BONI 1892, p. 7.
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
111
nelle appassionate e sensibili descrizioni di Venezia nei suoi caratteri più minuti, riferimenti
a quanto sfuggirebbe a questa ristretta descrizione. Spesso la patina, i segni del tempo, sono
indicati come una presenza che certifica l’autenticità28.
Gli accenti di romantica esaltazione che Boni sparge ovunque descriva un monumento
antico, soprattutto se veneziano giacché allora alla passione per l’arte si uniscono le esperienze personali, sono riservate anche alla descrizione di una breve esperienza diretta di restauro,
condotta con Avondo, d’Andrade, Pastoris nel castello di Issogne, riuniti quasi in cenacolo/
laboratorio artigiano29, che ci viene raccontato come un intervento puramente conservativo.
Non abbiamo motivo di dubitarne per la parte limitata che egli ci descrive, ma qualche incertezza si può insinuare se pensiamo all’attività complessiva, di Avondo e di d’Andrade in
particolare, i campioni del restauro stilistico, proclamato dagli autori fondato su rigorose basi
filologiche, ma assai spesso largamente inventivo, e non sempre a latere, come vorrebbero le
parole di Boni.
L’esame della questione dal punto di vista della contrapposizione tra restauro filologico
ed intervento stilistico non sembra chiarire il problema delle possibili modalità di selezione
che può essere esaminato anche facendo riferimento ai valori del pittoresco, tema ben connesso a quello dei segni determinati dal trascorrere del tempo. In effetti quando Boni esalta
i valori salvaguardati ad Issogne contrappone la sopravvivenza dell’antico, ivi realizzata, al
restauro di Pierrefonds, opera di Viollet-Le-Duc, che egli giudica esatto in ogni sua parte,
quindi filologicamente corretto, ma tuttavia con “un falso aspetto teatrale che gli scema sincerità […]”30. L’osservazione, che effettivamente coglie l’aspetto che più lascia perplessi in un
intervento che concretizza appieno le tesi del francese, non può che riferirsi alle imponenti
aggiunte che non trovano censure sotto l’aspetto della fedeltà. E tuttavia è proprio Boni a
scrivere che il valore storico richiede esattezza di documentazione, il che non può prescindere dall’autentico come lui stesso l’aveva definito accogliendo Ruskin, e quindi accettando
i segni del tempo che diminuiscono “la politezza”, la cui perdita tuttavia amplia le qualità
pittoresche che a loro volta esaltano i valori estetici. John Ruskin definisce il pittoresco un carattere sublime e “parassitario”31, ovvero “bellezza aggiunta ed accidentale incompatibile con
la conservazione del carattere originario [...]”32 ed a lui Boni fa riferimento con la consueta
totale aderenza33.
La sua posizione dunque appare incrinata da qualche contraddizione, e, come vedremo,
darà luogo a dure polemiche sulla reale influenza del pensiero ruskiniano. Una condizione
28
BONI 1892, p. 15.
BONI 1892, pp. 18-19. Il testo non lascerebbe di per sé dubbi sulla posizione di Boni, che descrive un
accurato lavoro di conservazione, anche se gli aspetti tecnici soccombono di fronte alle effusioni sentimentali, in
cui i tre protagonisti quasi loro malgrado si decidono a risarcire un “solo braccio” di intonaco per superare una
discontinuità formale. Se ne tratta come di una colpa da giustificare, un fatto che pur nella sua tenuità richiede
uno scrupoloso esame di coscienza.
30
BONI 1892, p. 19.
31
RUSKIN 1849, paragrafo XII, ma soprattutto XV, XVI.
32
RUSKIN 1849, paragrafo XVI.
33
BONI 1887c, p. 13; BONI 1892, pp. 11-12; BONI 1893, p. 8.
29
112
AMEDEO BELLINI
simile, con diverso grado di intensità, si può riscontrare anche negli altri cultori del restauro
che all’inglese guardarono, per le evidenti difficoltà, di applicare all’architettura nella sua
concretezza le tesi di un esteta che non ne conosceva, se non debolmente, gli aspetti tecnici,
da un lato, ma anche perché nessuno degli italiani esce del tutto dall’ambito di un pensiero
della storia a cui il restauro, inteso come recupero di un vero che è essenzialmente concetto, è
funzionale. Nel caso di Boni la mancanza di una trattazione teorica sistematica, indipendente
dai casi pratici o definita generalizzando l’osservazione empirica (che di per sé potrebbe essere un non piccolo merito), rende il rapporto con Ruskin esclusivo: non si registra in sostanza
alcuna effettiva differenziazione comunque giustificata34.
Boni e Ruskin, una controversia
Le valutazioni dell’influenza del pensiero di Ruskin su Giacomo Boni sono fondamentalmente due, fra di loro del tutto contraddittorie. Eva Tea, nei numerosi scritti dedicati al
veneziano35, spesso agiografici, ne fa un motivo fondamentale della sua formazione, un dato
che ne permea tutta la personalità, una costante dalla prima formazione alla grande stagione
dell’attività come funzionario della tutela e come archeologo.
34
Tra coloro che si fanno portavoce del pensiero di Ruskin sul restauro, in ambiente veneziano, ZORZI
1877a, critica severamente i lavori ed elenca una serie di errori che consentono di individuare un pensiero. Si
conferma tuttavia che il modo con il quale è percepito il divieto di restauro non è così rigido quanto le enunciazioni generali farebbero supporre, infatti se si stigmatizza l’eccessiva eliminazione del colore, l’eccesso nell’uso
di copie in sostituzione degli originali, alcune eliminazione non necessarie, si segnalano anche difformità nella
riproduzione di alcuni elementi architettonici senza stigmatizzare la copia in sé, errori tecnici con esiti formali
non accettabili, come quelli relativi alla segatura di nuove lastre di marmo, ma soprattutto l’aver lavorato i mosaici con completamenti in pasta vitrea e non in pietra, che sembra essere posizione contraria al criterio della
riconoscibilità dell’intervento. Zorzi assume una posizione originale istituendo una distinzione tra restaurare e
conservare applicando il primo termine a ciò che ha rilevanza artistica ma non archeologica, mentre la conservazione deve essere esercitata laddove esistano meriti particolari, superiori all’arte, al gusto, ai precetti della regolare disposizione, quindi in sostanza un valore di documentazione storica complessa. Una visione che sembra
riduttiva del significato di arte che si riduce in un ambito puramente formale. Una posizione più complessa è
quella di Paravicini 1884.
35
TEA 1932, I, pp.133-134; una biografia monumentale con amplissime citazioni dagli scritti a stampa e
dalle corrispondenze, del tutto priva di note e di indicazioni sulla collocazione dei materiali presentati. Un’opera che, nonostante il carattere agiografico, è indispensabile per la conoscenza di Boni per il fatto di basarsi su
materiali originali e per la quantità di notizie altrimenti irrecuperabili che fornisce. Oltre a questo, di particolare
interesse per i documenti riportati: TEA 1937b; TEA 1937c; TEA 1959a; TEA 1952, pp. 127-131, cui segue la
pubblicazione di 11 lettere di Boni a Webb, precedute da un’altra di Webb a Morris. I primi scritti fra quelli
qui citati riproducono relazioni di Boni o lettere connesse alla sua attività alla Direzione Generale di Antichità e
Belle Arti in cui ebbe ad occuparsi dei monumenti dell’Italia meridionale, con meritorie opera di ricognizione,
identificazione degli edifici da tutelare, promozione di interventi, controllo dei restauri in corso di esecuzione. I
documenti trascritti sono citati in forma alquanto generica con l’indicazione “Archivio di Stato” e n. di cartella,
del tutto inutile a prescindere dal fondo in cui esse si trovano. Si trattava dell’Archivio di Stato di Roma presso
il quale era allora depositato il fondo di carte del Ministero per la Pubblica Istruzione, Direzione Generale di
Antichità e Belle Arti, oggi all’Archivio Centrale dello Stato, dove le corrispondenze di Boni sono contenute in
parte preponderante nel II versamento, II parte.
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
113
Al contrario Luca Beltrami tende a svalutare questo contributo36 rilevando in Boni un
duplice aspetto: quello di una personalità fortemente romantica, appassionata, cultrice della
bellezza, affascinata dalle parole di Ruskin e dal loro pathos (come vedremo è interpretazione
anche di Ruskin oltre che del suo influsso sull’“allievo” veneziano) e quello dell’uomo pratico, alla ricerca dei mezzi concreti per ottenere la conservazione del patrimonio d’arte e di
storia, in grado di sintetizzare molti aspetti dell’ampio spettro di conoscenze richieste all’archeologo, volitivo e capace di indicare vie nuove alla disciplina, nello scavo, nella gestione,
nella tutela in generale, nella connessione tra conservazione del ritrovamento e pianificazione
urbana37. Egli lo difende dagli attacchi dell’accademia ed in particolare dall’accusa di essere
incompetente per formazione, essendo architetto, rivendicando da un lato l’insussistenza di
rigide divisioni di competenza nell’azione pratica e dall’altro la funzione positiva della formazione originaria di Boni come momento qualificante della sua successiva specializzazione
di archeologo. L’influenza di Ruskin appare a Luca Beltrami un dato non privo di caratteri
negativi, accentuando in lui un certo eccesso di sentire, quasi una febbre interiore che talora
lo porta su sentieri poco ragionevoli e che gli fa perdere la serena e realistica visione della vita
che gli derivava dall’apprezzamento dei valori della classicità, quelli che Ruskin non aveva saputo capire38. Un aspetto che permette di afferrare il senso della violenta polemica fra Eva Tea
e Luca Beltrami a proposito della conoscenza della lingua greca da parte di Boni, che l’una
attribuisce ad una sollecitazione di Ruskin, l’altra ad un impulso personale giovanile, molto
anteriore all’incontro tra il veneziano e l’inglese39.
36
Principalmente: BELTRAMI 1926 (le pagine da 24 a 27 sono dedicate ai rapporti tra Ruskin e Boni) ma
anche: BELTRAMI 1892; BELTRAMI 1927a; BELTRAMI 1927b; BELTRAMI 1927c; BELTRAMI 1929a; BELTRAMI 1929b, testi
che esaminano questioni scientifiche. A questi si può aggiungere: BELTRAMI 1922 (pseudonimo con il quale Luca
Beltrami firma i suoi scritti in francese), racconto satirico per deplorare calunniose accuse contro Boni a fronte
delle quali il ministero, per iniziativa del Direttore Generale di Antichità e Belle Arti aveva preso provvedimenti
cautelativi in forma che lasciava trasparire una profonda avversione per Boni, senza attendere il poco tempo che
fu sufficiente a mostrare l’assoluta infondatezza delle accuse. Vedi anche nota 39.
37
BELTRAMI 1929b.
38
BELTRAMI 1926, ove a p. 26 “…si potrebbe quasi attribuire a questi [Ruskin] un effetto negativo, avendo
acuìto, senza che fosse necessario, quella sentimentalità innata nel Boni, già manifestata colla nota affettiva per
la sua Venezia. L’influsso dell’esteta-sociologo inglese doveva invece apparire più tardi: quando, indebolita dalle
contrarietà e dalla malattia, l’attività di Boni offrì maggior presa a quel sentimentalismo – fatto di aspirazioni,
anzi di eccessive illusioni nella perfettibilità umana – che negli ultimi anni di vita doveva nel Boni avere il sopravvento sulla limpida, direi quasi olimpica visione, ch’egli ebbe del mondo antico”.
39
BELTRAMI 1927d; in BELTRAMI 1927e appare una lettera di Eva Tea cui segue una replica di Luca Beltrami.
Il tema, oltre a riguardare l’influenza effettiva di Ruskin su Boni, il rapporto con la classicità, può avere un risvolto di natura politica. Alla morte di Boni, che aveva lasciato il compito di raccogliere carte e scritti ad Eva Tea,
la studiosa milanese aveva dato all’azione per la conoscenza dell’opera del maestro e la salvaguardia della sua
eredità scientifica e morale anche un’impronta chiaramente politica, con la fondazione di un istituto che si era legato al fascismo, Mussolini tra i fondatori. Ella aveva anche cercato di incontrare Luca Beltrami, probabilmente
per ottenerne l’appoggio o forse per l’interesse del suo carteggio tra con Boni e le amichevoli relazioni personali
tra i due. Quello che è certo è che Beltrami si sottrae ad ogni contatto e rifiuta più volte di incontrarla senza
esplicitare le ragioni che probabilmente sono da ricondurre alla strumentalizzazione del nome di Boni, peraltro
ben legato al fascismo. Luca Beltrami invece, pur uomo che si era vantato di sedere in parlamento “sui desueti
banchi della destra” era tra i 43 firmatari dell’ordine del giorno Ruffini contro la proposta di legge governativa
114
AMEDEO BELLINI
È da sottolineare infine che Luca Beltrami svaluta anche la raffigurazione poetica dei
lavori di Boni al Foro Romano compiuta da Anatole France dopo una visita40: egli considera
la rievocazione dello scrittore francese del tutto astratta, senza reali nessi con la concretezza
di ciò che si eseguiva, pura letteratura, rappresentazione romantica del fascino delle rovine
dell’antichità e del suggestivo ambiente naturale che le circondava. Questo incontro è ricordato nelle lettere di Boni a Beltrami con accenti di grande nostalgia e di apprezzamento; egli
sembra ignorare la reale posizione di Beltrami, che più tardi proprio facendo riferimento ad
Anatole France ed alle parole che egli attribuisce al poeta Nozière in visita a Pierrefond si
dichiara ancora una volta oppositore di ogni interpretazione del restauro come fenomeno
negativo. Le tesi conservazioniste gli appaiono “sentite” ma astratte e del tutto convenzionali, frutto di un atteggiamento di sfiducia che se fosse ascoltato porterebbe in breve la nostra
civiltà ad essere del tutto priva di presenze antiche. La critica in realtà è a Ruskin, e si estende
al filologismo, ad ogni schematizzazione o riduzione a categorie del restauro, ed è alla base
della difesa di Boni architetto-archeologo, cui abbiamo già fatto cenno41.
Boni e Luca Beltrami
La stima di Luca Beltrami per Boni è più che ricambiata, non soltanto sul piano personale, ove si esprime con accenti che, nuovamente, vanno collocati all’interno di quella sensiper la riforma delle rappresentanze elettorali che pose di fatto fine ad ogni parvenza di democrazia. Si associava
dunque alle più belle personalità della cultura liberale autentica, quali Luigi Albertini, Benedetto Croce, Luigi
Einaudi, per citare i più noti. Egli è anche tra i 39 che effettivamente lo votarono in aula, tra i 46 che votarono
contro l’ordine del giorno di Raffaele Garofalo che approvava i criteri della riforma.
Un aspetto suscettibile di ampie considerazioni e da collegare con l’appoggio al fascismo di tanta parte dell’ambiente culturale che alle polemiche anticapitaliste aveva preso parte, di molte correnti di pensiero vicine al
pauperismo, al francescanesimo. Sul piano delle questioni legate al mondo dell’arte restano irrisolti in Eva Tea
i temi della dipendenza culturale di Boni rispetto a Ruskin, nonostante che da un lato vi sia una posizione del
tutto anticlassica e dall’altro una attenzione verso il mondo della romanità che non si sottrae alla strumentalizzazione politica di marca fascista. Evidentemente le affinità politiche appaiono più importanti e si evita di dare
evidenza ad una profonda diversità culturale.
40
Boni aveva ricevuto, nel 1902, Anatole France in visita agli scavi del Foro, motivo per rinverdire i ricordi
ancora recenti della partecipazione alle battaglie dell’Antiscrape; casualmente è presente Bernard Shaw, la cui polemica sociale appare spesso una continuazione di quelle di Morris e Ruskin. Boni ricorderà più tardi quell’incontro
e vorrà rievocare le parole espresse dallo scrittore francese in quell’occasione, confidando a Beltrami la difficoltà di
riprodurre in italiano il linguaggio del poeta, rammaricandosi di non avere “il [suo] talento”, e la sua conoscenza
della lingua. A questo proposito si può ricordare che se a Boni manca la conoscenza del francese egli traduce per
l’amico, che pure dell’inglese aveva nozioni non superficiali, gli scritti in lingua inglese. La visita è ricordata nel
volume di FRANCE 1991. Egli si era recato con il romanziere francese in visita alla Cappella Sistina in compagnia di
Bernard Shaw “… che i ricordi di Morris e dell’ «Antiscrape» legavano d’affetto a Boni” come scrive TEA 1932,
II, p. 61. In una lettera di Boni a Beltrami (nelle carte di Luca Beltrami rimaste in raccolta privata già a Roma, oggi
a Milano [Archivio privato “Luca Beltrami” (APLB)]), Ep. XIV, Boni, n. 116, 12 ottobre 1922 si legge: “Tentai di
ricordare la conversazione di France sull’Arte […], ma sono passati molti anni, ed è assai difficile dire in italiano
quello che France dice con le sfumature della sua lingua né io ho il talento tuo per comunicare nella lingua di Voltaire”; si veda anche APLB, Ep. XIV, Boni, n. 117, 15 ottobre 1922; note sull’argomento anche in Beltrami 1901.
41
BELTRAMI 1929b.
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
115
bilità romantica ed enfasi espressiva che sono sue caratteristiche42, ma anche su quello professionale. Poche indicazioni sintetiche sono sufficienti a darne un’idea. Giacomo Boni loda con
entusiasmo i progetti di Luca Beltrami per il castello di Soncino (1884), che non sono soltanto
del tutto all’interno della tradizione del restauro stilistico, ma risentono anche degli studi in
Francia di Luca Beltrami, conchiusi nel 1880, quindi dell’influenza di Viollet-Le-Duc che è
rilevabile anche nei modi con i quali è analizzata l’architettura militare. La supposizione che
l’apprezzamento sia quello dovuto ad un progetto che pur avendo basi culturali assai diverse
da quelle sostenute da Boni cade quando si osservi che egli chiede a Luca Beltrami di inviargli
i disegni perché intende presentarli alla Spab che, egli ritiene, saprà apprezzarli43. Non siamo
lontani dagli anni nei quali Morris pubblicava, con grande scandalo della burocrazia della
tutela e degli ambienti politici ad essa vicini, una lettera da Milano contro l’attività di restauro
compiuta dagli uffici dello stato44.
Beltrami viene lodato per i restauri progettati per i piloni del Duomo di Milano45, in
effetti molto apprezzabili per l’impostazione tecnica rigorosa, ma certamente non facilmente
inquadrabili nel concetto ruskiniano che indica la preferenza per una puntellazione esterna
a qualsiasi sostituzione di materiali46. Beltrami è sostenuto nella battaglia per la ricostruzione
del campanile di San Marco, dopo il crollo del 190247, che non ebbe per il vero troppi avversari ma che avrebbe potuto suscitare qualche perplessità in un ruskiniano che aveva dichiara42
“Vorrei aggiungere alla tua vita i pochi anni o mesi o giorni di vita che mi rimangono da vivere, e sarebbe
un modo per vivere sempre teco, come desidero” Giacomo Boni a Luca Beltrami, lettera datata a Roma il 5
novembre 1922, in APLB, Ep. XIV, Boni, n. 121. Gli accenti ricordano quelli delle corrispondenze personali fra
diversi protagonisti di quel tempo, si vedano in particolare quelle di Gabriele d’Annunzio con il grande amico
Costanzo Ciano.
43
Nella prima delle lettere di Boni conservate fra le carte di Beltrami egli loda i restauri a Soncino e si dichiara speranzoso di farli apprezzare “all’Istituto di Londra”, che non può essere altro che la SPAB, unica entità
con la quale egli poteva avere contatti che non fossero propri anche di Beltrami. Uno dei motivi di apprezzamento espressi da Boni è la capacità di Beltrami di “stringere”, di concretizzare in interventi le premesse teoriche e
i risultati dello studio, giudizio che indubbiamente coglie una delle sue migliori qualità. È inoltre da notare che
si tratta di interventi nei quali Beltrami più sente l’influenza di Viollet-Le-Duc, sia sul piano storiografico ed
analitico, sia su quello del restauro. Si veda in APLB, Ep. XIV, Boni, n.1, 14 gennaio 1886: ringrazia per il volume “…sull’architettura militare del medioevo” (Beltrami 1884) e soggiunge: “Spero di poter fare apprezzare
le sue opere all’Istituto di Londra”. La lettera è intestata con un “Illustre signore” che lascerà presto il posto a
interlocuzioni più familiari, poi ad altre che esprimono affetto, dal 1889. Beltrami invierà molto spesso proprie
pubblicazioni a Boni.
44
Si veda la lettera di Morris, che si firma come segretario onorario della S.P.A.B., pubblicata sotto il titolo
“Vandalism in Italy”, nel Times del 12 aprile 1882. Egli fa riferimento ad una comunicazione di Tito Vespasiano
Paravicini che lamenta una serie di vandalismi eseguiti o proposti a Milano, in parte poi attuati, come quelli alle
chiese di San Calimero e di San Babila. Per maggiori informazioni vedi: BELLINI, pp. 58-61.
45
BONI 1893, pp. 10-11.
46
RUSKIN 1849, paragrafo XIX, ma anche altrove.
47
BONI 1903a, pubblicata il giorno successivo anche dalla Perseveranza e dalla Gazzetta di Venezia. Al campanile si fanno cenni anche in corrispondenze personali, sempre con vivi apprezzamenti: APLB, Ep. XIV, Boni,
n. 25, 10 luglio 1902; n. 26, 20 novembre 1902; n. 27, 30 gennaio 1903. n. 28, 2 marzo 1903; n. 30, 5 aprile 1903;
n. 31, 20 aprile [1903]; n. 32, 25 aprile 1903 (si augura che la città di Venezia sia in grado di apprezzare il valore
di Beltrami); n. 33, 25 maggio 1903; n.35, 10 giugno 1903; n. 40, senza data ma da collocarsi nell’aprile/maggio
del 1903; Ep. XIV, Boni, n. 37, 27 ottobre 1903; n. 43, 10 ottobre 1904.
116
AMEDEO BELLINI
to ora irrilevante ora dotata di qualche potere revocatorio la copia, ma soltanto nel caso di un
documento dalle caratteristiche eccezionali. Pareva evidente che il campanile di San Marco
avesse un valore fondamentalmente nell’ambito dell’integrità ambientale della piazza, quindi
certamente più vicina alle tesi inglesi l’ipotesi di Boito, favorevole alla costruzione di un campanile moderno nella posizione di quello antico, avversata da Beltrami con taglienti ironie48.
Questi è lodato per il recupero del Castello Sforzesco di Milano49 opera invero magistrale, ma
selettiva, ricostruttiva per analogia, assai poco rispettosa dell’originale a rudere e tesa invece
a dare un’integrità organica all’organismo edilizio.
Il favore di Boni verso Beltrami non può ridursi ad un fatto personale, alla stima per un
amico geniale, alla persona apprezzata per la sua strenua lotta a favore della tutela del patrimonio artistico, ma si estende alla cerchia delle persone che egli poteva considerare a ragione
suoi allievi, che alla sua impostazione ispiravano la propria opera. Ed infatti Boni si dichiara
a favore della presenza di Moretti a Venezia, con le funzioni di soprintendente, proprio per
garantire con la sua presenza ed i suoi orientamenti culturali la ricostruzione del campanile50.
Possiamo citare ancora, fra i molti esempi possibili, le affermazioni di Boni, che, di fronte ai
complessi problemi della cattedrale di Nardò, di cui tratteremo ancora successivamente, respinge alcuni progetti richiamando le norme ministeriali per il restauro51 mentre, poco dopo,
inviando le sue indicazioni, non manca di citare John Ruskin52 senza avvertire una possibile
contraddizione. Comunque quando egli ha bisogno di avere indicazioni per maestranze che
possano operare con competenza si rivolge a Del Moro53, quando gli occorrono competenze
progettuali interpella Beltrami e Moretti accogliendo Olinto Armanini, che presso di loro, il
48
Vedi in BELLINI 1997, pp. 104-105.
Per esempio, e per rimanere nell’ambito dei documenti che saranno qui citati, vedi Archivio Centrale
dello Stato (ACS), Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II
parte, b. 156, dedicata alla Cattedrale di Nardò, lettera di Boni al Vescovo della città Giuseppe Ricciardi del 2
novembre 1892.
50
Gaetano Moretti aveva collaborato con Luca Beltrami dopo il concorso di secondo grado per la facciata
del Duomo di Milano costruendo il modello ligneo con responsabilità anche nello sviluppo dei particolari, divenendone in seguito tra i principali collaboratori nell’ufficio regionale per la conservazione dei monumenti della
Lombardia e succedendogli nella carica di direttore dal 1985. Moretti, che con Beltrami si lega da profonda
amicizia e verso il quale avrà sempre una certa devota soggezione, prosegue i metodi di restauro del maestro con
cui è spesso in stretto contatto.
51
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, relazioni di Boni, dall’agosto 1892 alla fine dell’anno. Qui si trovano i documenti principali delle fasi di
restauro del corpo principale della chiesa mentre ciò che riguarda il campanile, fin dal 1895, ed i lavori della
chiesa più tardi, principalmente la costruzione del nuovo ciborio e le decorazioni pittoriche, si trovano nello
stesso fondo, III versamento, II parte, busta 584.
52
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, relazione di Giacomo Boni sui lavori in corso e prescrizioni per il proseguimento, 2 gennaio 1893, al
terzo foglio.
53
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, in più luoghi, per esempio, per esteso, relazione di Boni a Bongioannini, senza data, collocata tra un
documento del 21 marzo 1892 ed un altro del 24 settembre dello stesso anno, ma di poco successiva al primo.
49
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
117
secondo soprattutto, si era formato, e che con il primo stava allora lavorando a Roma54; questi avrà una funzione molto rilevante nella definizione dei restauri. Quando il problema del
trattamento degli archi della navata principale, appartenenti a fasi diverse, gli appare difficile,
scrive a Luca Beltrami per averne consiglio definendolo“uno dei sommi in Europa”55.
Tuttavia il documento più rilevante degli equivoci concettuali in cui cade Boni è costituito dal fatto che quando Luca Beltrami scrive di John Ruskin56 e ne sminuisce grandemente
la figura57 di ringraziamento58, che eventualmente potrebbe essere interpretata come un’adesione del pensiero di Beltrami, e quindi un sostanziale rifiuto di quello di Ruskin, la riduzione
di tutte le sue espressioni ad un semplice richiamo romantico a favore della conservazione
dei monumenti, da intendersi in senso generico, semplice contrapposizione alla filosofia “del
piccone demolitore”.
Un esempio: la cattedrale di Nardò ed il suo restauro
Fra i molti interventi sui quali Giacomo Boni esercitò azioni direttive e di sorveglianza
dal ministero, spicca quello per la Cattedrale di Nardò59 anche per la particolare relazione di
stima che si era istituita con il vescovo della cittadina pugliese, appassionato promotore dei
54
Olinto Armanini, giovane e promettente architetto, diplomato all’Accademia di Brera, quindi allievo di
Gaetano Moretti per quanto riguardava l’insegnamento dell’architettura, aveva vinto un pensionato a Roma,
compiuto dal 1892 e quasi concluso al momento della morte nel 1896 a soli 26 anni, durante il quale aveva collaborato agli studi di Luca Beltrami sul Pantheon, eseguendo rilievi e disegni molto apprezzati negli anni 18921893. Per notizie vedi: BELTRAMI 1896, pp. 78-79; BELTRAMI 1898. Inoltre: BOITO 1898. Il volume si compone
di una biografia scritta da Camillo Boito a cui seguono tre tavole di progetti dell’Armanini; un saggio a firma
di monsignor Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò e promotore dei restauri della cattedrale sui quali scrive
Gaetano Moretti con particolare riguardo ai progetti del giovane scomparso di cui si pubblicano i rilievi; segue
ancora uno scritto di Gaetano Moretti sulla cascina Pozzobonello a Milano, anch’essa rilevata da Armanini. TEA
1959a, p. 207, lo definisce senz’altro allievo di Beltrami.
55
Ne riferisce TEA 1959a, p. 205.
56
BELTRAMI 1897, ripubblicato in Rivista per le signorine, n. 16, Milano 1897 (in entrambi i casi firmando
con lo pseudonimo“Polfilo”); BELTRAMI 1906 (in occasione della pubblicazione dell’opera in lingua francese
con l’introduzione di Robert De la Sizeranne, ancora con lo pseudonimo di Polifilo). È a questo testo che farà
riferimento Boni, cfr. nota 58.
57
Negli articoli in cui Beltrami tratta di Ruskin, compreso quello del 1906 che pure è più benevolo dei
precedenti, appare una radicale riduzione della rilevanza dell’esteta inglese, il cui valore consisterebbe nell’aver
reso cosciente la civiltà moderna e meccanica della fondamentale importanza della presenza del bello, ma incapace di dare un orientamento pratico, di essere guida alle decisioni in materia di tutela dell’arte, qualità che non
manca invece, vi si afferma, a Giacomo Boni.
58
APLB, Ep. XIV, Boni, n. 55, 10 gennaio 1906, in un post-scriptum: “… mi è giunto il tuo bellissimo articolo su Ruskin, veramente bello, sai. Ti sono tanto, tanto grato”. Boni dunque implicitamente non soltanto
si dichiara consenziente ma ringrazia enfaticamente Beltrami ritenendo evidentemente lo scritto, oltre che un
elogio nei suoi confronti a cui tuttavia non fa cenno, una interpretazione corretta dei suoi rapporti culturali con
Ruskin, un omaggio ad una figura che probabilmente gli appariva dimenticata”.
59
Sulla cattedrale di Nardò fondamentale il testo di TAFURI DI MELIGNANO 1944; le relazioni di Giacomo
Boni in TEA 1959a, pp. 199-224.
118
AMEDEO BELLINI
restauri60. I lavori alla cattedrale erano iniziati nel 1892, scongiurandosi un progetto di demolizione integrale che si motivava muovendo da un misconoscimento delle qualità architettoniche della chiesa, dalle sue condizioni statiche la cui gravità era sopravvalutata, dall’ignorare
che al disotto dei rifacimenti barocchi si trovavano varie fasi di epoca antica, dalla normanna
alla romanica, dai consueti intendimenti di esaltazione della rilevanza della località che pareva a taluni raggiungibile soltanto con una costruzione grandiosa e nuova, dalle ambizioni di
cospicue famiglie del luogo61.
Non mancano neppure cenni alla tesi che l’edificio fosse da demolirsi perché la pesantezza degli interventi che si sarebbero resi necessari per il suo restauro ne avrebbero fatto un
inaccettabile simulacro di una struttura antica, perduta di fatto nella sua qualità, nella sua
autenticità, contestando le modalità con le quali si eseguivano i primi saggi, rovesciando su
chi operava l’accusa di inadempienza alle norme ministeriali62, mentre già si era detto che se
60
Il vescovo di Nardò, Giuseppe Ricciardi, dopo i primi sopralluoghi di Boni, nell’aprile 1892, rimane in
costante corrispondenza con il ministero, scrivendogli direttamente o indirizzando a Bongioannini. In questo
caso sono costanti gli elogi per Boni, per l’acume dimostrato nel comprendere l’organismo della chiesa, la
capacità di illustrarne le varie parti, per la competenza tecnica, la sicurezza con la quale era stato in grado di
indirizzare i restauri; con frequenza Ricciardi lo richiede sul posto, gli sottopone problemi, gli chiede pareri su
quanto altri propongono; la stessa ottima opinione il vescovo si forma a proposito di Armanini.
61
Una sintesi degli avvenimenti che precedono è qui dedotta da documenti in ACS, Ministero Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte, b. 156, in alcuni documenti iniziali
riassuntivi. . Una proposta di demolizione della chiesa è formulata già nel 1880 dal barone Filippo Bacile, patrono della Chiesa e persona influente, fratello del Priore di San Nicola di Bari, architetto autodidatta, preposto
ai lavori per la cattedrale che di fatto sono diretti da un ingegner Tarantino. Il progetto è respinto dal Consiglio
Superiore dei Lavori Pubblici nel novembre 1881, ma nel 1888 lo stesso “architetto” presenta il disegno di
nuova chiesa, una confusa commistione di vari stili neorinascimentali. La nuova iniziativa subisce la stessa sorte
della precedente, con decisione del 1 ottobre dello stesso anno che invita anche all’esecuzione di un restauro
che riconduca l’edificio allo stato originario. Una pubblicazione, probabilmente promossa dallo stesso Bacile
(Risposta al voto del Consiglio superiore dei LL. PP. sul progetto della nuova Cattedrale di Nardò per l’ing.Tarantino, in ACS, busta qui indicata) difende il progetto, ma senza esito. Fra liti, intromissioni di tecnici esterni alla
comunità (ingegneri Rossi, padre e figlio di Caserta che ottengono l’assenso del Consiglio Superiore ma non
quello di una commissione locale) alcuni modesti lavori, nel 1892, portano in luce tracce antiche che inducono il
nuovo vescovo, Giuseppe Ricciardi, a rivolgersi al ministero. Un primo sopralluogo permette a Boni di ampliare
le scoperte, di intuire la rilevanza architettonica di quanto celato dall’architettura barocca, di avviare presso il
ministero le pratiche per il restauro.
La sue prime relazioni sono estremamente significative per comprendere le sue straordinarie capacità di
analisi e di intuizione; si vedano in ACS, busta qui citata, i documenti autografi dell’aprile 1892, in particolare le
relazione al ministero dei giorno 4 e 5 aprile, riportati anche da TEA 1959a, pp. 200-205.
62
Lo afferma Filippo Bacile in una lettera al prefetto di Taranto, evidentemente nella sua qualità di presidente della Commissione Conservatrice, e da questi trasmessa al ministero (ACS, Ministero Pubblica Istruzione,
Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte, b. 156, lettera del 12 agosto 1892). Egli lamenta
presenze in cantiere di persone esterne all’ambiente locale, interventi non conformi alle “Norme per la Conservazione dei Monumenti”, in particolare alla seconda parte dell’articolo 9. Il riferimento è al “Regolamento per
il servizio degli Uffici regionali per la Conservazione dei Monumenti e Norme per la Conservazione dei Monumenti” trasmesso dal ministero ai componenti degli organismi di tutela nel marzo 1892 (vedi ACS, Ministero
Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III versamento, I parte, b. 201; per una disanima
ed ulteriori riferimenti: DALLA NEGRA 1992, in particolare pp. 111-120. L’articolo 9, di fatto senza una divisione
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
119
la presenza delle stratificazioni barocche fosse stata determinata da necessità statiche esse
avrebbe dovuto necessariamente conservarsi63.
Boni, nel momento in cui si occupa della cattedrale64 intuisce quanto potevano nascondere le opere seicentesche, compie i primi saggi, diviene punto costante di riferimento, guida
da Roma il complesso dei restauri che, non essendo questo il luogo di una dettagliata analisi,
possiamo sintetizzare ricordando: la totale eliminazione di ciò che appare “recente” relativamente ai nuclei “originari” dell’edificio; gli imponenti scavi che conducono alla totale
distruzione dei pavimenti; il largo rifacimento di murature interne, specialmente nella navata
principale, per ottenere un “rinsaldo”; la ricostruzione della parte absidale su traccia, opera
di Olinto Armanini65; la ricostruzione sulla base di tracce degli archetti ciechi, della cornice
esterna del muro della navata principale emergente al di sopra delle navatelle secondo esempi
coevi e congeneri che l’architetto Bernich66 raccoglie, rileva, utilizza per trarne ispirazione.
Il tutto avviene in costante contatto con la Direzione Generale, quasi sempre con Boni che
chiosa ai margini le comunicazioni; anche se in talune fasi egli appare meno presente, e il
vescovo se ne lamenta, non si hanno tracce di una sua eventuale opposizione o dissociazione.
È comunque proprio Boni a consentire l’eliminazione delle antiche capriate della copertura
e nel contempo ad individuare e rilevare accuratamente, nelle loro catene, tracce di pitture
risalenti al XIV secolo67; è Boni che ne autorizzerà poi la collocazione in altro luogo del complesso monumentale, la sacrestia, con la necessità di ridurne la dimensione68.
In un solo caso egli sembra prendere le distanze da quanto stava avvenendo: respinge
una comunicazione che gli proveniva dal cantiere, a lui personalmente diretta da Bernich,
chiedendo che ogni lettera, di qualsiasi natura, venisse inviata impersonalmente alla Direzione Generale di Antichità e Belle Arti, anche perché non si confondessero mai le sue posizioni
in parti, si riferisce alle condizioni che rendono ammissibile la demolizione di parti aggiunte al monumento, alle
modalità operative.
63
Vedi: Risposta al voto del Consiglio superiore dei LL. PP. sul progetto della nuova Cattedrale di Nardò per
l’ing.Tarantino, cfr. nota 61.
64
L’impostazione generale del restauro e moltissime indicazioni per problemi particolari, un vero e proprio progetto non ancora formalizzato nei disegni, in ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale
Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte, b. 156, lunga relazione di Boni al Vescovo Ricciardi del 2 dicembre
1893.
65
Un elenco dei disegni di rilievo e progetto dell’Armanini in ACS, in allegato alla lettera di Bernich citata
in nota 66.
66
Bernich appare prima come “architetto incaricato dal Ministero dell’Istruzione del restauro della Cattedrale di Bitonto e altri monumenti della provincia di Bari”, come si legge nell’intestazione della sua carta da lettera (per esempio in ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento,
II parte, b. 156, lettera del 27 settembre 1894, con la quale egli risponde positivamente all’invito ministeriale di
recarsi a Nardò per un suo primo sopralluogo); più tardi opera per conto dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti della Puglia con sede a Taranto.
67
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, in vari fogli tra i quali di particolare interesse la relazione di Boni datata 16 novembre 1895.
68
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, in varie carte, ma specialmente lettere di Boni del 6 maggio e 29 giugno 1896.
120
AMEDEO BELLINI
personali da quelle dell’ufficio che egli rappresentava69, ma è difficile capire fino a che punto
si tratti di una dissociazione o di una legittima preoccupazione di correttezza formale tesa
anche a garantire la legittimatà delle sue decisioni, che avrebbe potuto essere messa in dubbio
a fronte di una sua risposta ufficiale ad una richiesta indirizzatagli personalmente.
Complessivamente i restauri a Nardò non differiscono da uno dei tanti interventi stilistici in corso in Italia in quegli anni; Boni fin dall’inizio pensa ad operazioni di ripristino, giudica molto positivamente gli studi compiuti da Armanini ed i suoi esiti nelle ricostruzioni70.
Il versante ruskiniano del suo operare è dato dagli acerbi rimproveri quando si era provveduto, senza che gliene fosse stata chiesta autorizzazione, alla eliminazione di lacune nei
capitelli scolpiti aggiungendo materia lavorata ex novo con un criterio mimetico. Egli impone
la copia per calco di quanto superstite, l’aggiunta ben distinta ai fini di evitare una falsificazione71, ma è acquisizione tipica del filologismo nel restauro. La scelta vale per una superficie
decorata, direttamente lavorata dall’artista, non si applica all’integrazione delle murature,
dei partiti architettonici, pure altamente formalizzati, degli archetti della muratura esterna:
questo porta quanto meno a concludere che non è considerata di per sé negativa l’integrazione e che, se è doloroso farla, essa assume comunque una connotazione positiva rispetto
all’assenza. Il che è concetto che si può attribuire anche a Beltrami, che, quando si oppone ad
un conservazionismo che gli appare rinuncia, rivendica il senso positivo del restauro; è posizione teorica di Boito che, quando afferma la necessità di eliminare la necessità del restauro
attraverso la manutenzione e la riparazione lieve, non nega tuttavia la sua funzione positiva
quando esso sia oramai l’ultima ratio per perpetuare il ricordo dell’edificio, per salvaguardarne alcuni valori.
Ben diversa la posizione di Paravicini quando denuncia invece il restauro stilistico72,
opera degli organismi di tutela e soprattutto quando analizza la circolare di Fiorelli, 188273, e
cioè le norme di chi aveva in effetti impostato la tutela con un’impronta che dura anche oltre
la sua effettiva gestione, rilevandone talune ambiguità. In particolare possiamo fare nostre le
osservazioni sull’integrazione, notando la costante presenza nella cultura del restauro italiana,
e non soltanto, di un’aspirazione alla compiutezza delle forme, al recupero di una sperimentabilità del testo originario, a fare del monumento il documento di una fase della storia, quella
69
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, nota di Boni del 26 dicembre 1895.
70
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, per esempio, lettera di Boni al Vescovo Riccardi, 1 aprile 1894. Non ci sono invece approvazioni esplicite
degli studi e dei disegni di ripristino del fianco destro proposte da Bernich in alternativa a quelli di Armanini:
durante la loro formazione le corrispondenze con Nardò sono tenute, da parte ministeriale, da Costantini.
71
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II parte,
b. 156, senza data ma fra il 1 ed il 4 aprile dello stesso anno, lunga relazione di Boni per il vescovo Riccardi.
72
Vedi nota 44.
73
In essa l’archeologo napoletano, secondo Paravicini, ma non sapremmo dargli torto, oscilla fra posizioni
antitetiche, affermando la necessità di conservare i monumenti antichi nella loro integrità ma anche la possibilità
di spogliarli delle parti aggiunte e di ripristinarli aggiungendovi le parti distrutte. “In conclusione il Fiorelli tentenna fra le giuste esigenze dell’archeologia moderna e le vecchie idee; in fatto lascia libero il campo e legalizza
i soliti vandalismi”.
GIACOMO BONI ED IL RESTAURO ARCHITETTONICO
121
di cui rappresenta un’espressione esemplare, che supera ogni richiamo alla plurisignificanza
del documento, alla complessità del dato testimoniale stratificato. Boni non sfugge a questo
atteggiamento di fondo e non sembra aver avuto il bisogno di confrontare questa sua scelta
razionale a fronte delle espressioni di un animo perturbato e di un “sentire” delle cose che lo
circondavano e testimoniavano del bello.
In effetti egli approva le norme per il restauro emanate dal ministro Villari nel 1892,
qui già richiamate74, che mantengono tutte le ambiguità della circolare Fiorelli del 1882, in
particolare a proposito della possibilità del ripristino. Egli ritiene nel 1905 che il restauro dei
monumenti abbia compiuto passi verso una corretta impostazione, deplorando le falsificazioni che si compivano all’estero e quindi ritenendo giustificate le ricostruzioni che in Italia
erano la regola costante, probabilmente perché non più costituite dalle immaginarie visioni di
chi voleva “porsi nello spirito dell’antico artista” ma fondate con un certo studio filologico, su
ricerche storiche, applicative di un metodo analogico di cui non si riconoscono di fatto i limiti. E tuttavia anche in questo caso egli ribadisce essere il restauro produttore di falsi modelli75.
Non avrebbe fondamento l’obbiezione che a quella data Boni poteva avere abbandonato i
sentieri tracciati da Ruskin, non solo per la presenza di affermazioni successive, ma soprattutto perché simili concetti erano già stati espressi nel 1886, con gli stessi accenti nazionalistici e
la persuasione che il restauro in Italia si facesse via via sempre più corretto76.
Sembra dunque possibile concludere che in realtà Boni si debba considerare un esponente del restauro italiano in cui, al di là di ogni enunciazione sentimentale, prevalgono interessi chiari verso il recupero del monumento nella sua compiutezza formale, come testimone
di un epoca, quella che vede la sua nascita, soltanto eccezionalmente da salvaguardare nella
sua realtà diacronica, compiuto nella sua forma, riproducibile in tutte quelle parti che non
abbiamo propria connotazione d’arte, intesa come effetto di un operatività singolare che
agisce direttamente sulla materia. Boni, come egli stesso afferma in più luoghi, muove da una
considerazione prevalente per i valori artistici dell’architettura a quella più attenta ai valori
storici, e non sembra rendersi conto che l’apprezzamento dei segni del tempo nelle tesi di
Ruskin, a cui fa costante riferimento, non può ridursi ad un fatto formale separato dalla storicità dell’opera, che nell’esteta inglese è concetto ben diverso da quello della cultura storicista
italiana.
74
BONI 1892, pp. 3; per le norme vedi nota 61.
“Relazione del comm. Giacomo Boni a S. E. l’on. Orlando, ministro dell’Istruzione Pubblica”, in Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Istruzione Pubblica, anno XXXII, vol. I, n. 3 - Roma 19 gennaio 1905, pp. 148153: “Per restringermi al campo dei miei studi, io son lieto di far noto a V.E. che quanto al criterio che regola
la conservazione dei monumenti, l’Italia ha fatto in questi ultimi anni qualche progresso sulla via di rispettare
l’autenticità delle opere antiche; dovechè presso altre nazioni, più di noi inoltrate nella cultura elementare della
storia e dell’arte, perdurano sistemi di restauro che distruggono la condizione fondamentale dei pregi che le
opere d’arte posseggono quali documenti di una civiltà […] e li trasformano in falsi modelli disgustosi per la
stonatura dei moderni rappezzi con l’armonia dei colori, dispensata dai secoli alle antiche pietre.”
76
TEA 1932, I, p. 133 riferisce di una lettera di Boni a Webb in cui egli protesta per un articolo sul Times
di Ouida contro i restauri dei mosaici di San Marco asserendo che non si operavano sostituzioni ma soltanto
rinsaldi ed affermando: “Nella conservazione dei monumenti l’Italia è ormai sulla giusta via”.
75
122
AMEDEO BELLINI
In Boni è rilevantissima la capacità di comprendere la tecnica dell’architettura, che è
propria anche dei contemporanei con cui è in contatto (Beltrami, Sacconi, d’Andrade, Del
Moro, e tanti altri) ma che in lui si unisce ad una sensibilità ed ad una capacità di lettura
rievocativa del monumento che fanno della sua formazione ruskiniana un dato saliente, capace di esaltare doti personali, fra i quali non è possibile comprendere razionalità e coerenza
complessiva.
In questo senso Boni, nei fatti, sembra vivere Ruskin come un perenne richiamo alle
ragioni della bellezza, al fascino della natura, al rapporto intimo che essa assume con l’architettura per effetto del tempo, ma le cui aspirazioni hanno limiti oggettivi in esigenze vitali e
politiche, quasi realizzando in sé il giudizio riduttivo formulato da Luca Beltrami.
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI
JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
Marco Pretelli
“Great nations write their autobiography in three manuscripts;-the book
of their deeds, the book of their words, and the book of their art. Not
one of these books can be understood unless we read the two others; but
of the three, the only quite trustworthy one is the last. The acts of a nation may be triumphant by its good fortune; and its words mighty by the
genius of a few of its children: but its art, only by the general gifts and
common sympathies of the race”
John Ruskin
(da St. Mark’s Rest. The History of Venice Written for the Help of the
Few Travellers Who Still Care for Her Monuments, George Allen, Sunnyside, 1877, pag. V)
Diversamente da quanto accaduto alla gran parte degli studiosi impegnati nella difesa
del patrimonio storico-architettonico del nostro Paese, che si avvicinarono alle problematiche della sua tutela provenendo dallo studio della storia dell’arte e dell’architettura, il cammino che Boni percorse fu inverso. Il suo interesse nacque dapprima nel precoce confronto
che egli ebbe con quelle testimonianze del terzo libro a cui John Ruskin faceva riferimento
nella citazione posta in apertura; nelle esperienze di cantiere, che egli fece1; esperienze che
si svilupparono nel particolare clima della Venezia di fine Ottocento, pervasa dagli influssi
della cultura conservativa inglese, che in città aveva avuto modo di esercitarsi soprattutto
attraverso l’opera di John Ruskin2 e l’azione della Society for Protection of Ancient Buildings
di William Morris3.
1
Ci si riferisce alle prime esperienze fatte da Boni, poco più che quindicenne, nello studio di un ingegnere
veneziano, Cadel; ed al ruolo di assistente alla direzione dei lavori nel cantiere di restauro del Palazzo Ducale
di Venezia, affidato all’ingegner Annibale Forcellini, ruolo svolto in veste più o meno ufficiale fin dal 1878. Su
questi argomenti si vedano il saggio di Marina Fresa su questo stesso volume e una testi di laurea svolta a Venezia presso l’Università I.U.A.V. (Luca Scappin, Il restauro di Palazzo Ducale, tesi di laurea, prima sessione A.A.
1996-’97, IUAV, Venezia).
2
Sullo stretto rapporto che intercorse tra John Ruskin e la città lagunare si vedano, tra gli altri, i saggi di
HEWISON 1978 e di CLEGG 1981.
3
Per ciò che concerne Venezia, l’ampia attività svolta ha come risvolto più noto la polemica contro i
restauri della Basilica di San Marco, progettati e diretti da G.B. Meduna nel terzo quarto dell’Ottocento,
124
MARCO PRETELLI
Proprio a partire dall’influenza culturale inglese è possibile comprendere l’atteggiamento del veneziano che, basandosi sulla riconosciuta necessità di conservare le testimonianze del
passato in modo da preservarne il più possibile intatta l’autenticità, rivolse la sua attenzione
soprattutto verso le tematiche della operatività dell’intervento, dedicando gran parte della
sua attenzione all’individuazione di soluzioni tecniche utili al raggiungimento dell’obiettivo
sopra citato; manifestando sempre un forte interesse per la fisicità materiale dei monumenti.
Tenendo sempre ben presente che la cerchia degli studiosi inglesi, esponenti di quella
cultura conservativa, con i quali Boni ebbe rapporti fu ampia e variata4, è possibile individuare, tra coloro che più incisero sullo studioso, due personaggi: John Ruskin e Philip Webb.
I due, in tempi diversi ed in modo differente tra loro, ebbero un importante ruolo nel formare
la personalità culturale e nell’orientarlo – ma sarebbe meglio dire nel favorirne l’orientamento –
nelle politiche di tutela.
John Ruskin e Giacomo Boni: le premesse e l’incontro
Coloro che si sono occupati specificamente dell’intenso rapporto instauratosi tra la città
lagunare e John Ruskin sono concordi nell’identificare nel “terzo periodo veneziano”, che
convenzionalmente va dal viaggio del 1869 all’ultimo soggiorno del 1888, il periodo nel quale
la presenza dell’inglese assunse un significato nuovo e più rilevante rispetto alle vicende cittadine5. In tale nuovo inquadramento maturò il rapporto anche con Giacomo Boni, rapporto
che proseguì quasi fino alla morte dell’inglese. Furono principalmente due le circostanze che
fecero sì che Ruskin esercitasse una profonda influenza sul veneziano:
- da un lato, la nuova direzione che, fin dalla metà dell’Ottocento, aveva preso il pensiero e l’azione dell’inglese verso un più deciso impegno sociale;
- dall’altro, in dipendenza di tale nuovo orientamento, l’ampliarsi dei contatti tra il grande scrittore inglese e numerosi e perlopiù giovani studiosi, accomunati tra di loro dal fatto di
frequentare l’Accademia di Belle Arti cittadina.
A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento gli interessi di Ruskin si erano ormai
concentrati soprattutto sugli studi e sulle iniziative a carattere più specificatamente sociale. Si
cfr. BOSCARINO 1977. Si veda l’importante ruolo svolto, all’interno della S.P.A.B. dall’architetto Philip Webb,
amico personale e socio di William Morris.
4
Tra Boni ed il mondo culturale inglese vi fu sempre un forte feeling, forse favorito dall’avvicinamento
del veneziano già durante gli studi superiori alla lingua inglese. Gli studiosi di vari settori del sapere d’oltremanica che egli frequentò o con i quali ebbe rapporti epistolari o collaborò furono numerosi e quasi sempre
qualificati.
Se ve ne fosse bisogno, a riprova dell’esistenza di un rapporto privilegiato sono l’affiliazione di Boni, in qualità di socio onorario alla S.P.A.B.; la successiva al R.I.B.A.; le due lauree honoris causa conferitegli dalle università
di Cambridge ed Oxford.
Si noti come anche il particolare percorso formativo di Boni è in qualche modo assimilabile a quello che
contraddistingue il percorso degli architetti nell’area culturale anglosassone, nella quale il titolo di architetto era
acquisito innanzitutto in forza del tirocinio praticato presso altri professionisti già accreditati.
5
Cfr. CLEGG 1981.
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
125
Una fotografia di John Ruskin degli anni Novanta dell’Ottocento. In questo periodo il grande intellettuale inglese, nato nel 1819, aveva ormai già
dato in più occasioni segni di squilibrio mentale.
Proprio ad un periodo di poco precedente il 1890
risale la conoscenza diretta tra Boni e Ruskin.
(da John Ruskin, The Ethics of the Dust, Donohue, Henneberry & Co., Chicago s.d. ma riferibile al 1890).
è soliti indicare nell’anno dell’Esposizione Universale di Londra, il 1851, l’anno della svolta,
l’anno della rottura con il «compromesso vittoriano»6. Il “...raffinato esteta, l’uomo brillante
ammirato ed ascoltato dall’establishment come maestro d’arte e di storia...”7 in questi anni
attua una scelta di campo definitiva, denunciando lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Fin
dal 1854 aveva cominciato a tenere lezioni al Working Men’s College di Londra; a questo
periodo risalgono anche numerosi interventi di argomento sociale di fronte ai più diversi uditori: associazioni di lavoratori, di amatori d’arte, allievi e insegnanti di scuole d’arte...8. Tra il
1860 e il 1866 vennero pubblicati i saggi Unto this Last, Essays on Political Economy, Sesame
and Lilies e The Crown of Wild Olive, tutti scritti di soggetto economico-sociale. Nel 1871
6
CHESTERTON 1945. Chesterton indica con «compromesso vittoriano» quell’alleanza tra cultura e potere
economico che aveva spinto, negli anni della rivoluzione industriale, il Paese a divenire la più grande potenza
mondiale.
7
BERNABEI 1981, p. 24.
8
Non tutti questi interventi furono pubblicati; ma parte di essi confluì in tre volumi: Lectures on Architecture and Painting (1854); The Political Economy of Art (1857) e The Two Paths (1859).
126
MARCO PRETELLI
usciva il primo numero del periodico Fors Clavigera: Letters to the Workmen and Labourers
of Great Britain9.
Alla rivista è collegata anche l’iniziativa della Guild of Saint George, un progetto teso a
fondare comunità indipendenti dalla economia capitalista e dai suoi metodi di produzione,
nelle quali, attraverso l’istruzione impartita in scuole autogestite, doveva avere inizio la formazione dell’ “Uomo nuovo”. Anche nell’interesse per Venezia si registrava frattanto un mutamento, che in parte rifletteva la scelta di impegnarsi più apertamente nel campo sociale. Ruskin spostava sempre più il suo interesse dall’oggetto artistico al significato che quell’oggetto
aveva per gli uomini che lo avevano creato, e al senso storico che quelle vicende potevano
avere: “le due nazioni (Venezia e Inghilterra, n.d.r.) venivano comparate non per quello che esse
rappresentavano allora ma, per come erano giunte ai loro rispettivi periodi di maggior potere e
prosperità”10. Se a partire dalle Seven Lamps, ma soprattutto nelle Stones egli individua quel
legame tra arte e società che diverrà il tema centrale del resto della sua opera11, oltrepassando
i limiti della critica d’arte per dire qualcosa sulla stessa società (quella nella quale erano stati
creati gli oggetti studiati, quella a lui contemporanea), in questo periodo egli pare spostare il
centro dei suoi interessi ancor più verso la ricerca di una nuova concezione della storia, e su
come l’essenza di tale concezione potesse essere letta nelle coeve rappresentazioni artistiche e
nella fisicità delle testimonianze d’arte. Come afferma Jeanne Clegg, non più lo squallido presente contrapposto alle trascorse Età dell’Oro, ma l’Età dell’Oro stessa attira in prima istanza
l’attenzione dell’inglese. Egli si concentra sulla profonda unità sociale, sul sentire collettivo,
sulla civiltà che fecero emergere quei comportamenti, quelle parole, quell’arte12.
Dietro questi cambiamenti, dietro questo modo di illustrare la città, sta la maturazione
di una idea, di una convinzione: che la storia delle cose, quella più prettamente politica, militare, economica, non possa avere se non scarso significato; e che invece sia la Storia delle
9
Il mensile apparirà continuativamente fino al 1878, sporadicamente fino al 1884. Nel primo numero
Ruskin annunciava il suo rifiuto a continuare a sopportare senza proteste quello stato di cose, passivamente...
per un’altra ora... [“to put up with this state of things, passively... an hour longer”]; e lo stato delle cose a cui
alludeva esplicitamente nello scritto era quello in cui la prosperità di pochi riduceva molti alla povertà costringendoli a vivere in condizioni di vita degradanti, talvolta a commettere crimini.
10
CLEGG 1981, p. 2, “the two nations are compared not for what they represent at present, but for their
achievement at their times of greatest power and prosperity”.
11
Cfr. HEWISON 1978, p. 42.
12
Come si legge nella citazione iniziale, Ruskin afferma che “Ogni grande nazione affida la propria autobiografia a tre libri: quello delle azioni, quello delle parole, quello dell’arte sua. Non s’intende alcuno di questi libri
ove non si leggano gli altri due; il solo, però, cui si possa prestare piena fede è l’ultimo... Perciò la testimonianza
di questo terzo libro è essenziale per la conoscenza della vita di una nazione, quale che sia; e la storia di Venezia
è appunto affidata principalmente a questo manoscritto...”. Con queste considerazioni inizia St. Mark’s Rest.
(St. Mark’s Rest. The History of Venice Written for the Help of the Few Travellers Who Still Care for Her Monuments, George Allen, Sunnyside, 1877, p. V, traduzione del redattore). Ciò non comporta la rinuncia ad attaccare il degrado che la modernità aveva apportato anche alla città lagunare: “Qualche pallido riflesso di quella
magnificenza si poteva ancora vedere vent’anni or sono nelle vele variopinte… che si affollavano… là dove ora
il progredire della civiltà manda soltanto dei neri vapori... velando di fuliggine il Palazzo Ducale e rodendone le
sculture con l’acido solforico...” (Ibid., p. 5).
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
127
Idee il vero motore, la vera giustificazione di tutto13. Segni dell’interesse crescente di Ruskin
non più solo per i monumenti veneziani, ma anche per l’ambiente sociale della città e del
conseguente incremento dell’influenza che egli andava man mano esercitando sono la pubblicazione, a sue spese, dell’opera di Giovan Battista Lorenzi nel 1868, intitolata Monumenti
per servire alla storia del palazzo ducale di Veneziani14; la vicenda del 1869 relativa alla richiesta di tradurre in italiano le Stones of Venice (vicenda che si concluse con il rifiuto da parte
dell’inglese di autorizzare Niccolò Barozzi a tradurre l’opera; un comportamento certamente
curioso da parte dell’inglese, ma omogeneo, ad esempio, a quello tenuto nei confronti di chi
gli chiedeva di ripubblicare l’opera in una nuova edizione inglese)15; infine, la scelta di far
spostare nel 1870 da Firenze a Venezia John Whalton Bunney, un pittore che gli si era legato
durante gli anni al Working Men’s College, che Ruskin stipendiava per riprodurre dipinti
antichi e per documentare le antiche architetture italiane. Così, quando, nel lungo periodo
trascorso a Venezia, tra il settembre del 1876 e il maggio del 1877, egli mostrò interesse per il
mondo culturale dell’Accademia di Belle Arti, attorno a lui, spontaneamente, si raccolse un
gruppo di giovani studiosi16.
13
Tale convinzione è esplicitamente spiegata in una lezione, stesa dall’inglese nel 1870 ma mai tenuta,
The Tortoise of Aegina: “Ricordatevi, in tutte le vostre investigazioni storiche, che ve ne sono di due branche,
totalmente distinte tra loro. Una riguarda la storia degli Atti degli uomini; l’altra, la storia dei loro Pensieri. In
generale, di questo al futuro importa poco, se paragonato a cosa gli uomini hanno fatto; ma importa sapere
perchè lo hanno fatto. Perchè l’evento per loro, e per noi, dipende sempre non semplicemente dal fatto, ma
dall’intenzione; cosicché anche la verità del fatto in sé è poca cosa, paragonata al suo risultato”. [“Remember, in
all your historical investigations, there are two entirely distinct branches of them. One is the history of the Acts
of men; the other, the history of their Thoughts. In general, it matters to the future very little, comparatively,
what men did; but it matters everything to know why they did it. For the event to them, and to us, depends
always not on the deed merely, but the intent of it; so that even the truth of the deed itself is often of little importance, compared with the result of it.”] (XX, 381-382). Una concezione che Boni mostrerà di condividere,
cercando nei resti dell’antichità la testimonianza dei loro pensieri. In Dalle Origini scrive: “scorrendo i volumi
ricchi d’erudizione e dottrina profonda, che indagano i più vitali problemi della storia e della topografia del
Foro ai tempi di Roma imperiale, parevami che mai non si fosse raggiunto e, talvolta, neppur lontanamente sospettato, che si potesse un giorno raggiungere, l’intima, la vera, l’unica essenza del soggetto in esame, traendo in
luce l’intera vita della valle del Foro Romano, così della età repubblicana, come della monarchica e della prisca
latina. Parevami invece che, spesso, si continuasse a discutere vane e talvolta casuali esteriorità... Sulla via del
vero mi posero quatto anni di lente e minute indagini, di laboriose ricerche sul terreno, stratificato a guisa delle
pagine di un volume; nella tradizione, o cristallizzata nei miti, o frammentaria nelle formole rituali, materiale
logorato dall’uso incessante, ma sinceramente genuino... E ciò feci non per sforzarmi di accertar date ambigue,
o nomi oscuri, o classificare esteriorità...(quelli definiti da Ruskin come Acts of Men, n.d.r.) ma per giungere
sino all’anima stessa delle cose... investigare quale la vita, quali i costumi dei prischi latini; con quali uomini e
con quali mezzi, tra le pareti domestiche, o sul campo, nacque e crebbe la potenza romana...” per giungere al
“pensiero delle stirpi italiche, che ai fondatori di Roma diedero origine...”.
14
Si tratta dei Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia ovvero serie di atti pubblici dal
1253 al 1797 che variamente lo riguardano tratto dai veneti archivi, Venezia 1868. La pubblicazione si potè fare
proprio grazie al finanziamento di John Ruskin, a cui il Lorenzi dedicò l’opera.
15
Nel 1869, Niccolò Barozzi, poi direttore della Collezione Correr, durante un soggiorno dell’inglese a
Verona, gli chiese il permesso di tradurre in italiano le Stones of Venice.
16
Risale tra gli altri a questo soggiorno la conoscenza con Alvise Pietro Zorzi, l’autore delle note Osservazioni sopra i restauri di San Marco. Frutto di quel soggiorno fu anche una Guide to the Principal Pictures in
the Academy of Fine Arts at Venice, scritta nello stile impetuoso e apodittico dell’inglese. Immaginiamo quale
128
MARCO PRETELLI
La sua influenza, più che tra personaggi di reputazione ormai consolidata, che a Venezia
risentivano da tempo degli influssi dell’universo culturale tedesco17, si andava espandendo
nella generazione dei giovani artisti e ricercatori, a cui Ruskin offriva protezione, consigli e
commissioni; un rapporto che, iniziatosi quando era impegnato a redigere le Stones of Venice, con richieste ad artisti locali di calchi, riproduzioni e misurazioni di opere e monumenti
veneziani, si era molto sviluppato nel corso del tempo. Ma con il crescere della sua fama in
città, il ruolo di alcuni giovani, tra i quali spiccano i nomi di Raffaele Carloforti, Alvise Pietro
Zorzi e Angelo Alessandri, passò da quello di semplici salariati, a quello di discepoli che, oltre
ad essere spesso aiutati economicamente a mantenersi (Carloforti venne sostenuto per alcuni anni agli studi) condividevano con lui il pensiero e, come nel caso di Zorzi e dei restauri
alla Basilica di San Marco, anche l’azione. È facile comprendere come il “vecchio fanciullo”
potesse far breccia con le sue idee soprattutto in menti giovani, aperte e prive di pregiudizi
quanto la sua18.
Proprio in questo clima doveva avviarsi un rapporto tra il già famoso e ormai anziano
studioso inglese e il giovane Giacomo Boni, all’epoca semplice assistente disegnatore presso
il cantiere di Palazzo Ducale. Persona di umili origini che doveva alla sua curiosità e capacità
di ragionamento tutto ciò che sapeva sull’architettura, egli era particolarmente sensibile al
fascino di quel personaggio, in particolare alle idee che era venuto maturando dopo il 185019.
Quell’inglese, capace di collegare nei suoi scritti problemi di carattere sociale e di carattere
artistico e morale; di tuonare contro la mercificazione della città, ricordandone il glorioso e
mitico passato; di raccontare Venezia, mostrando per la sua storia materiale e spirituale più
rispetto di quanto non ne dimostrassero la gran parte dei veneziani, era capace di andare dritto al cuore del giovane, tanto da assumere per lui un ruolo ben superiore a quello di semplice
maestro.
potesse essere l’effetto di un tale volume e dei giudizi che esso conteneva relativamente all’arte e alla cultura
veneziane sugli studenti più sensibili dell’Accademia. Particolare da non trascurare, la guida poneva spesso in
relazione i soggetti rappresentati nei dipinti con la tradizione artistica e architettonica cittadina: di Carpaccio e di
Gentile Bellini Ruskin dice che essi danno “...la perfetta rappresentazione di ciò che l’architettura di Venezia era
nei suoi tempi gloriosi” [“...the perfectly true representation of what the Architecture of Venice was in her glorious
time...”](RUSKIN 1903-1912, XXIV, 163). Altrove, Ruskin invita il visitatore a rendersi conto dell’“architectural
idea” di Carpaccio attraverso la visita ad una “piccola, desolata corte della Scuola di S. Giovanni evangelista”
[“desolate little courtyard of the School of St. John the Evangelist”]; e, durante il viaggio di ritorno all’Accademia,
da fare in gondola, di sforzarsi ad immaginare l’Accademia senza i recenti “improvements”, l’odiato ponte in
ferro costruito negli anni ‘50 e la pavimentazione in pietra delle corti (RUSKIN 1903-1912, XXIV, 172).
17
È questo il caso, ad esempio, di Pietro Selvatico Estense, all’epoca influentissimo personaggio nella vita
culturale cittadina e, ancor più, nell’Accademia: “Aveva subito la influenza diretta della critica tedesca...” dirà
Boito di lui (BOITO 1876). Sono documentati i suoi contatti con il movimento dei Nazareni e con Friedrich Overbeck. Sul tema dell’influenza tedesca sull’universo culturale veneziano in quegli anni, cfr. ZUCCONI 1997.
18
Fenomeno analogo per alcuni versi a quello che portò alla nascita, in Gran Bretagna, della cerchia preraffaellita.
19
Questa interpretazione risale addirittura a Luca Beltrami, personaggio che non nascose mai la sua
avversione per il pensiero del Maestro di Brantwood. Quasi a voler giustificare l’amico veneziano per
l’attenzione al suo insegnamento, egli adduceva il fatto che Boni fosse sostanzialmente un autodidatta
(cfr. BELTRAMI 1926, p. 21).
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
129
Giacomo Boni non aveva avuto modo di conoscere direttamente John Ruskin durante
il suo soggiorno del 1876-7, ma l’incontro avvenne proprio attraverso un personaggio della
cerchia di giovani studiosi che con Ruskin aveva avuto allora modo di dialogare, Angelo Alessandri. Curiosamente, non avvenne a Venezia.
Nell’autunno del 1882 l’inglese fece un altro viaggio in Italia, senza visitare Venezia.
Giunto a Pisa, chiese ad Alessandri di raggiungerlo per aiutarlo nel lavoro di riproduzione di
vari dipinti e dei particolari architettonici di alcuni monumenti della città toscana, e di portare con sé il suo giovane amico, Giacomo Boni appunto, di cui aveva avuto modo di apprezzare l’abilità nel rilievo dell’architettura attraverso alcune tavole, quasi certamente inviategli da
Bunney; egli probabilmente riteneva Boni la persona più adatta per aiutarlo nelle misurazioni
e nei rilievi dell’inclinazione del Duomo e del Battistero della città toscana20. Dopo il primo
incontro pisano, si avviò una corrispondenza tra i due. Si tratta, nella parte che ci è rimasta, di
una corrispondenza non particolarmente significativa sotto l’aspetto scientifico, ma che pone
in evidenza la dipendenza intellettuale che il giovane veneziano aveva maturato nei confronti
dell’anziano e prestigioso studioso anglosassone.
Boni inviava all’inglese note sullo stato di alcuni restauri o semplicemente su alcuni monumenti veneziani; lo teneva aggiornato sulla sua attività di diffusione delle teorie ruskiniane
attraverso letture pubbliche della sua opera; gli forniva informazioni sulle battaglie contro
i restauri e contro la spoliazione della città21. Ruskin, sempre più frequentemente vittima
della sua malattia mentale, scriveva a Boni lettere piuttosto generiche, in cui gli raccomandava, come un anziano genitore, di avere cura della propria salute e lo assicurava che, se si
fosse trovato in difficoltà, avrebbe sempre potuto contare sul suo aiuto22. Non vi è dunque
nella corrispondenza significativo confronto o scambio intellettuale; solo alcune notazioni,
ad esempio sulla flora23 o sul ruolo della guerra nelle vicende umane. Questo fatto è facilmente comprensibile se solo si consideri il diverso ruolo pubblico e la situazione personale
20
Ruskin aveva ricevuto alcuni disegni di Ca’ Dario, realizzati a matita ed acquerello. Tali disegni, non firmati ma attribuibili a Boni, sono attualmente conservati ad Oxford, presso l’Ashmolean Museum. John Whalton
Bunney ebbe dunque un importante ruolo nel fare incontrare John Ruskin a Boni. Secondo Eva Tea, la conoscenza del veneziano con Bunney avvenne casualmente nel cantiere della Basilica o in Piazza San Marco. L’inglese, allora impegnato a riprodurre la facciata e i mosaici della Basilica, passava gran parte delle sue giornate in
Piazza o sulle impalcature, a poca distanza quindi dal luogo dove anche Boni svolgeva il suo lavoro (dal ’79 era
già impegnato nel cantiere di Palazzo Ducale). Particolare importante: attraverso Bunney passava la distribuzione degli scritti di Ruskin a Venezia. Boni, che frequentò la casa del pittore inglese fino alla sua morte (avvenuta
nel 1882), doveva avere quindi grande facilità a reperire tutti gli scritti del Maestro. Cfr. TEA 1932, I, p. 13.
21
O poco più: in una lettera di Boni a Ruskin, conservata presso la Houghton Library di Harvard, datata
27 giugno 1888 (scritta quindi a meno di tre mesi dal suo trasferimento a Roma) Boni comunica lo stato di avanzamento di alcuni esperimenti sul consolidamento dei marmi e ringrazia Ruskin dell’anticipo ottenuto (a mezzo
Alessandri) per lavori che ancora doveva svolgere per conto dell’inglese.
22
La corrispondenza tra Boni e Ruskin individuata nel corso di una ricerca di dottorato, è stata solo
parzialmente pubblicata da Eva Tea. Essa è costituita da una ventina di lettere, in parte conservate presso
l’I.L.A.S.L. di Milano (quindici lettere di Ruskin a Boni), in parte presso la Pierpont Morgan Library di New
York (cinque lettere di Boni a Ruskin).
23
Sull’importanza di Ruskin nel guidarlo alla scoperta della flora Boni tornerà più volte nel corso della sua
vita; ad esempio, in Terra Mater, dove afferma di aver parlato con l’inglese “allorchè m’era guida nello stilizzare
130
MARCO PRETELLI
dei due: da un lato un giovane, di poco più di vent’anni, ancora agli inizi della sua carriera;
dall’altra un uomo anziano, famosissimo, che per di più, come si è detto, all’epoca aveva
già dato in più occasioni segni di una progressiva perdita dell’equilibrio mentale. Le lettere
rivelano però una forte affinità di pensiero e soprattutto di sentimento. I due si sarebbero
rincontrati in due sole ulteriori occasioni: di nuovo a Pisa nel 1886 e nel corso dell’ultimo
soggiorno a Venezia dell’inglese, nell’ottobre 1888. Fu l’ultimo un incontro davvero breve
poiché Ruskin, ormai vicino alla follia, dopo pochi giorni fu costretto a lasciare la città, in
preda a deliri paranoici24.
Se l’ammirazione collettiva e personale, di cui si è cercato di spiegare l’origine, costituiva
la base del “culto” di Boni per John Ruskin e la sua opera, vi era un altro fattore molto importante che contribuì indubbiamente ad avvicinarlo all’inglese.
Come è stato sottolineato dalla critica, l’approccio di Ruskin alle questioni architettoniche, e più in generale all’arte, rappresentava una effettiva novità, un modo di affrontare
l’architettura del tutto estraneo alla tradizione che, partendo da Leon Battista Alberti, era
giunta fino a Quatremère de Quincy. Si tratta di un approccio simmetrico rispetto a quello dei grandi trattatisti: se quelli muovevano dalla definizione di regole astratte, dall’individuazione di rapporti numerici e di proporzioni per giungere ad individuare le regole della
composizione architettonica, Ruskin prendeva le mosse dall’esame del prodotto dello sforzo
umano, dall’architettura nella sua materialità, per comprendere, prima delle astratte leggi
compositive, le motivazioni morali e le condizioni sociali che avevano guidato gli artigiani
nella realizzazione25.
Questo approccio, che antepone l’opera e l’autore materiale dell’opera d’arte a qualunque speculazione intellettuale, rispecchiava in qualche modo il percorso personale che Boni
aveva svolto e stava ancora svolgendo, dal cantiere ai libri. Il giovane fu probabilmente colpito anche dalla particolare sensibilità verso il trascendente mostrata dell’autore delle Seven
Lamps; sensibilità che la madre (certamente su un piano ben diverso) aveva alimentato in lui,
fin da bambino26; la formazione architettonica, iniziata sulle impalcature e solo successivamente, controvoglia, coltivata all’Accademia; l’abitudine ad osservare e a toccare fisicamente i
monumenti della città, spesso gotici, scarsamente o nient’affatto interpretabili sulla base della
trattatistica classica, tutto ciò portò inevitabilmente il veneziano verso Ruskin.
le piante...” della linaria disegnata da Cima da Conegliano in una pala conservata alla chiesa della Madonna
dell’Orto.
24
Cfr. CLEGG 1981.
25
Nel Secondo Aforisma delle Seven Lamps Ruskin afferma: “Tutte le leggi pratiche non sono che il riflesso
di leggi morali”. Nel capitolo dedicato alla Natura del Gotico, Ruskin individua le qualità dello stile proprio
suddividendole in qualità dei costruttori e qualità dell’architettura.
26
Questa sensibilità fa parte della tradizione critica di Boni, tradizione abbondantemente alimentata dai
suoi racconti e dai suoi scritti. Eva Tea ci racconta di un sogno profetico che, “come al solito”, nel 1882, aveva
messo Boni sulla via “che doveva percorrere durante l’intera sua vita...” (TEA 1932, I, p. 41). Ma dalla scoperta
del niger Lapis a quella del Sepolcreto, l’aneddotica sulla sensibilità che potremmo definire paranormale di Boni è
ampia e ricca di aneddoti.
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
131
Dietro la teoria della conservazione: John Ruskin
Al di là delle frequenti citazioni tratte dall’opera dell’inglese sparse nei testi del veneziano e dell’atteggiamento generale verso le manifestazioni dell’arte e dell’architettura antica,
sono numerosi e profondi gli aspetti anche umani che avvicinano Boni a Ruskin.
Il primo aspetto, il più generale, è rappresentato dal loro pronunciato eclettismo, dalla
varietà degli interessi. L’atteggiamento di Boni pare riflettere, pur con sensibili differenze dal
punto di vista della capacità speculativa, la ricchezza di curiosità dell’inglese. In un articolo
celebrativo di Giacomo Boni senatore, apparso su un quotidiano poche settimane prima della
sua scomparsa, il giornalista tentava di riepilogare i settori dello scibile in cui il veneziano si
era impegnato nel corso delle sue ricerche: dalla lotta contro l’alcoolismo ai piani per rendere
fertili le plaghe desertiche; dalla promozione della conoscenza musicale a scuola ai metodi per
ottenere fertilizzanti dal riciclaggio dei rifiuti urbani; dalle questioni inerenti il risanamento
della laguna di Venezia alla soluzione dei problemi legati alla guerra di montagna27, la vita di
Boni fu, come quella dell’inglese, un continuo susseguirsi di nuovi entusiasmi ed interessi28.
Questo fatto trova giustificazione in una semplice considerazione: nonostante le apparenze, il
centro degli interessi dei due non era né l’Arte, né la Storia, ma l’Uomo: tutto ciò che parlava
o avrebbe potuto parlare dell’Uomo interessava tanto l’uno quanto l’altro29.
Si può poi affermare, in maniera schematica, che Boni tentò di estendere a ritroso l’analisi che Ruskin aveva fatto del Medio Evo30. Egli spostò all’indietro nel tempo il ragionamento
dell’inglese e applicò le categorie interpretative di quest’ultimo all’antichità31.
27
Corriere della Sera, 25 giugno 1925. Il riassunto è evidentemente lacunoso; consultando la bibliografia
dell’autore, emerge una ricchezza di interessi molto più ampia. Più divertente è, nella descrizione, Adolfo Venturi, che così ricorda il veneziano, per breve periodo suo collega alla Direzione Generale Antichità e Belle Arti:
“Ospitai nella mia stanza Giacomo Boni, sempre intento a mille idee, che ronzavano come sciame di api intorno
alla sua testa: ora la fotografia a colori, ora un silicato a impedire lo sfaldarsi delle scolture all’aperto, ora la
bicicletta volante per lo sminuirsi dell’attrito, o la calcografia, o la fusione dei bronzi nel Medioevo, o le cortine
delle muraglie dall’antichità ai tempi moderni. Dal tumulto dei pensieri e delle indagini passava al ristoro di un
testo greco, o a scaldarsi alle fiammate del Ruskin...” (in VENTURI 1927).
28
Nuovi interessi spesso peraltro coincidenti con quelli di Ruskin: contro l’abbrutimento delle classi più
povere; per l’infertilimento dei versanti delle valli alpine...
29
Arte e Storia risultano inestricabilmente collegate nel pensiero di entrambi proprio per il tramite rappresentato dall’Uomo; ma Arte per entrambi vuol significare τέχνη; dunque una scultura o un’architettura vale
quanto un muro, poiché, scrive Boni, “ben più dei nomi e delle date senza corpo e senz’anima ci può dare
talvolta una giusta idea di ciò che fosse un popolo antico anche un solo avanzo di muro...” (BONI 1892). Ma è
anche l’Uomo in sè, con i suoi dolori e le sue gioie, ad interessare i due.
30
Ruskin dà frequentemente giudizi sull’arte classica, ma il suo apprezzamento per essa doveva essere
impedito da quella che potremmo definire una “pregiudiziale ideologica” la conoscenza che ne aveva non era
neppure lontanamente comparabile a quella delle architetture del Medio Evo. L’attenzione che le dedicò fu
sempre poca e, nel corso dei suoi viaggi , se si esclude una visita a Paestum, non si spinse mai tanto a sud da poterla apprezzare in situ. L’amore per il gotico e l’antipatia per l’influenza che, nel corso dei secoli, l’architettura
classica aveva esercitato anche sulla cultura architettonica inglese dovevano costituire un ostacolo formidabile
perché egli potesse affrontarne lo studio senza pregiudizi.
31
Il percorso, iniziato negli anni veneziani con la lettura dei classici della romanità, subì un’inevitabile
accelerazione con l’arrivo a Roma e con l’ampliarsi degli impegni sui monumenti dell’antichità. Il processo,
132
MARCO PRETELLI
Report annuale dell’attività svolta dalla S.P.A.B., giugno 1885; frontespizio e pagina tratta dall’elenco degli
iscritti. Nel report compare per la prima volta il nome di Giacomo Boni, citato come membro onorario che è
domiciliato a Venezia, in Palazzo Ducale.
Al pari di quello, Boni associò nelle sue trattazioni la accurata descrizione del monumento alla sua interpretazione storica; la citazione tratta dagli autori classici alla leggenda,
al racconto popolare o all’aneddoto, muovendosi contemporaneamente su piani concettuali
differenti e talvolta distanti32. Ha giustamente sottolineato Chiara Michelini che Boni iniziò
che traspare soprattutto nella corrispondenza con Webb, di cui si dirà più avanti, in cui il centro dell’interesse
scivola man mano dall’architettura medievale a quella classica, viene sottolineato dalla Tea, che, attraverso l’esame di documenti autografi, giunge a scrivere: “...I monumenti medievali occupavano ancora il meglio della sua
attività, ma chi l’avesse seguito nel suo lavorìo interiore del pensiero avrebbe notato... una maggior cura portata
volontariamente sugli avanzi della classicità, una preferenza per gli autori, latini o greci o arii, che avessero avuto
rapporto con la vita romana, un ricorrere più frequente di provvedimenti per la conservazione dei ruderi...”
(TEA 1932, I, p. 419).
32
Gli esempi sono numerosi. Nelle descrizioni di scavo quest’attitudine trova numerosi esempi. In Scavi
nel Foro Romano. Aedes Vestae Boni descrivendo il Sacrario di Vesta, in poche pagine ripercorre tutte le molteplici storie che in quel reperto si potevano riscontrare: la storia degli scavi del Foro, e della incapacità che avevano
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
133
il lavoro al Foro con “attenzione tutta «ruskiniana» alle «pietre di Roma»”33. Era proprio
Ruskin ad aver inaugurato quel genere di trattazione, tutta basata sull’intreccio di storia e
arte, proiettandone gli esiti sulla questione del destino dell’umanità34. Se ne può desumere
che per Boni fosse necessario chiudere all’indietro il cerchio aperto dal Maestro, terminare
l’opera iniziata mostrando l’universalità di quel ragionare, estendendone la logica di indagine
all’antichità35.
Boni, avendo compreso che la relazione stretta tra società, arte e cultura che era certamente esistita anche nell’antichità era stata sempre troppo sbrigativamente trattata, tentò con
il suo lavoro di mostrare le linee di tale rapporto prendendo spunto da ciò che aveva fatto
Ruskin per il Medio Evo; egli però non seppe imitare l’inglese nel rievocarne lo spirito e le
immagini con il fuoco di cui quest’ultimo era capace; né, d’altro lato, seppe giungere alla
sofisticata speculazione condotta, ad esempio, sull’arte tardo-antica da Alois Riegl. Seguendo
l’esempio dato dal Maestro con la sua analisi dei rapporti tra società e arte veneziane, egli volle leggere nelle caratteristiche della società della Roma repubblicana dei tempi più antichi e in
quella del primo Impero, la capacità di produzione di una grande arte; tale arte, man mano,
con l’imbastardimento delle etnie che si ritrovarono a vivere all’interno dell’Impero romano
e con la conseguente dissoluzione dei costumi, venne guastandosi36. Strettamente connessa a
questo aspetto è la tensione etica che sempre muove Boni; essa è strettamente apparentata a
quella che segna l’opera dell’inglese; e se l’incapacità di scindere critica e morale aveva reso
complessa la vita di John Ruskin, non semplificò di certo quella di Boni37.
avuto gli archeologi a studiare quel rudere; la storia particolare che nell’antichità aveva segnato quel particolare
monumento, che templum non era (per non esser stato mai inaugurato); la storia leggendaria dell’area su cui
l’Aedes sorgeva; il significato simbolico collegato alla scelta di quel luogo. Quindi descriveva fisicamente il monumento e il suolo su cui esso sorgeva, elencando la natura degli strati geologici sottostanti la fabbrica e deducendo dall’analisi dei materiali considerazioni sull’epoca della costruzione e sugli interventi che nel corso dei secoli
lo avevano interessato. Dalla “cura diligente e illuminata per la stabilità dell’edificare”, giungeva a conclusioni
sulla qualità morali dei Romani della Repubblica e dei primi tempi dell’Impero “quando Augusto encomiava
un amico per la cura da lui spesa nell’edificare la propria casa, quasi Roma dovesse durare eterna...”. Infine con
l’esame dei reperti, dai resti di carbone dei fuochi votivi e delle ossa degli animali sacrificati a quello dei fittili,
Boni svolgeva considerazioni sull’evoluzione dei riti e della società.
33
MICHELINI 1993, p. 60.
34
In questo Ruskin rimase insuperato, riscuotendo certamente un successo incomparabilmente superiore
a quello del veneziano, innanzitutto per la maggiore capacità letteraria ed evocativa; ma le sue descrizioni,
comunque di elevata qualità sul piano scientifico, sono spesso inferiori a quelle di Boni. Si vedano ad esempio le
documentate e dettagliate relazioni sugli scavi pubblicate dal veneziano sulla rivista Notizie degli Scavi a cavallo
tra Ottocento e Novecento.
35
Si tratta di un percorso anche questo inverso a quello che era comune agli studiosi di Roma antica, che
non manca di venir sottolineato dalla Tea: “essere risalito a Roma attraverso la comprensione del medioevo,
anzichè per le consuete e battute vie della cultura umanistica” (TEA 1940-1941, p. 131).
36
Questa lettura rientra in un quadro più generale di studi nel campo etnografico di cui fanno parte anche
gli studi sui sistemi di sepoltura e inumazione dei popoli dell’antichità; e quelli sulle corrispondenze di rito tra
popoli geograficamente lontani (India, Italia, Irlanda...).
37
L’intransigenza morale che segna tutta la vita del veneziano pareva essere un carattere saliente della sua
figura, tanto da venire esplicitamente apprezzata, ad esempio da Luca Beltrami, uno studioso talvolta lontano
scientificamente dalle posizioni di Boni, ma che era accomunato sotto questo aspetto a Boni.
134
MARCO PRETELLI
Lettera di Boni al Times datata 24 settembre 1886.
L’articolo sarebbe comparso, con numerose aggiunte e modifiche, il successivo 1 ottobre. Si noti la carta
intestata del Metropolitan Board of Works di Londra
(l’Ufficio presso il quale era impiegato Philip Webb) e
la grafia, non riferibile a Boni. Evidentemente l’articolo,
dopo essere stato steso dal veneziano, veniva rivisto e
corretto dall’architetto inglese prima di essere inviato
al quotidiano per la pubblicazione (lettera conservata
presso gli archivi della Society for Protection of Ancient
Buildings di Londra).
Anche l’interesse manifestato da Boni per l’elemento vegetale è certamente da ricondurre all’insegnamento di Ruskin; l’attenzione ad un suo uso positivo, per proteggere il patrimonio monumentale38, è da vedere come una declinazione della specifica complementarietà
della flora rispetto all’elemento umano, in una visione panteista del creato di derivazione
ruskiniana, anche se declinata in una versione più laica39. È in quest’ottica di stretto legame
tra flora, monumenti ed artefici di questi ultimi che diviene meglio comprensibile la lotta di
Boni a favore della flora tradizionale perchè spontanea del Foro e dell’Italia, contro l’invasione
vegetale che aveva travolto la specificità del paesaggio romano e italiano con piante importate
quali gli ailanti, le robinie, gli eucalipti...
38
Come interpretare la passione maniacale che Boni dimostrò sempre verso la “regolamentazione” della
crescita dei vegetali sui monumenti se non nel senso di una regolamentazione del rapporto tra Uomo e
Natura?
39
BERNABEI 1981, p. 16.
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
135
L’attenzione alla flora è ovviamente strettamente collegata a quella per il paesaggio, elemento in cui si incontrano l’opera dell’uomo e quella della natura40.
Vi sono poi aspetti meno evidenti del suo interesse verso i monumenti, chiaramente
riferibili a John Ruskin. Uno di questi è l’attenzione che sempre Boni dedicò ad una delle caratteristiche più immateriali dell’architettura, il suo colore41; colore estremamente impiegato,
non a caso, nell’architettura gotica42; e la cui individuazione sull’ architettura classica divenne
argomento successivo di studio per il veneziano.
Infine, un rapporto conflittuale con le scienze esatte, di cui sia Ruskin sia Boni fecero
ampio uso (entrambi si avvalsero frequentemente di esse per dare oggettività e forza ai loro
ragionamenti), ma di cui deprecavano l’uso strumentale fatto dalla maggioranza degli studiosi, in forza del quale l’universo dei fenomeni era destinato a trasformarsi da organismo
unitario in Meccanismo inanimato, rubando all’uomo la capacità di “vedere con gli occhi” a
favore di calcoli e ragionamenti astratti, o ancora peggio, di calcoli economici43.
Vi sono poi analogie nel carattere di frammentarietà dell’opera che contraddistingue il
modo di studiare e di scrivere dei due autori, analogie dovute probabilmente ad affinità psicologiche tra due persone che vissero sempre in precario equilibrio tra speranzoso ottimismo
e sfiduciata depressione44.
Ruskin portò a compimento pochissime delle numerose opere in cui si era impegnato,
passando da uno studio all’altro, senza riuscire a terminare il precedente. Allo stesso modo
Boni non riuscì mai a portare a termine nessuno dei grandi studi in cui si impegnò, neppure
quella opera sugli scavi al Foro, in cui fu occupato per più di venti anni e sui quali produsse
invece un’infinità di brevi interventi e relazioni, e una enorme mole di materiale documenta-
40
E che perciò andrà considerato sia sotto l’aspetto umano, sia sotto quello scientifico. Significativo al
proposito è un rapporto, inviato da Boni al Ministero, relativo alla conservazione del paesaggio della roccia
basaltica di Bolsena, detto delle “pietre lanciate”: esso, dice, è importante tanto per il paesaggista, quanto per il
geologo (TEA 1932, I, p. 414).
Una questione certamente allora agli inizi e studiata ancora da pochi, ma che di lì a pochi anni sarebbe emersa
in tutta la sua problematicità, sia riferita al paesaggio agrario sia a quello urbano, fino a portare all’elaborazione
di una normativa specifica, la legge 29 giugno 1939 n. 1497.
41
BONI 1883a; BONI 1887e.
42
BONI 1893.
43
Sono noti gli studi scientifici di Ruskin sulle formazioni geologiche delle Alpi, come pure le considerazioni più di dettaglio, sul genere di quella relativa all’effetto del fumo dei vaporini sui monumenti veneziani.
Boni, che pure non mancava di corredare i suoi scritti di note tecnico-scientifiche, si oppose sempre a quella
che egli stesso definiva “l’ignoranza pseudo-scientifica”, ma sostenne parallelamente l’utilità del tecnicismo (cfr.
BONI 1920). D’altra parte, se Ruskin aveva rifiutato la visione economicistica tesa a spiegare gli avvenimenti
storici della Serenissima come di qualunque altra nazione, così Boni si rifiutò sempre di accettare giustificazioni
meccanicistiche di alcuni particolari atteggiamenti degli antichi. “Il dotto Henzen attribuisce tutto questo al
timore che il fico rovinasse il tempio” dirà ad esempio Boni a proposito dell’avversione degli antichi romani per
quella specie vegetale “ma è chiaro trattarsi invece di una cerimonia di purificazione dal contatto di un albero
immondo o sinistro o di mal augurio...” (BONI 1897).
44
Per Boni, significative al proposito sono le contrastanti reazioni che egli mostra a riguardo delle numerose
e tumultuose novità che nel campo sociale contrassegnano l’epoca in cui egli si trova a vivere, di cui è possibile
leggere in varie lettere e, talvolta, anche nelle comunicazioni alla Direzione Generale Antichità e Belle Arti.
136
MARCO PRETELLI
tivi mai pubblicato45; la necessità di tornare più volte sugli studi già fatti, rimaneggiando in
riedizioni variamente antologiche le opere, fino a ripubblicare più volte scritti sul medesimo
soggetto, appena o per niente rivisti.
Ma è proprio nella scrittura che emerge la forte affinità nel modo di sentire dei due autori: ad esempio, nei continui passaggi dalla minuziosa descrizione didattica al tono più acuto
dell’ispirazione profetica46.
Analogie nel vedere e nel sentire che fanno oscillare continuamente gli interessi di entrambi “...tra natura come scenario o come razza e clima, fra storia sociale e civile dei diversi
centri di produzione artistica e individualità del produttore che l’arte deve rispettare fino in
fondo...”47.
Dietro la pratica della conservazione: Philip Webb
Si è detto che John Ruskin esercitò un’influenza profonda fin dalla giovinezza su Giacomo Boni. Un altro personaggio inglese, Philip Webb48, meno noto del precedente, lo accompagnò negli anni della sua azione “sul campo”. Questo architetto gode di una buona fama
nel panorama della cultura architettonica contemporanea grazie soprattutto al lusinghiero
giudizio che di lui diede Nikolaus Pevsner49.
Ma, nel caso di Webb, le qualità di architetto e designer erano ben piantate su una solida
base di conoscenze storiche e dei caratteri tradizionali dell’architettura, non solo inglese. Proprio per queste qualità Webb divenne, fin dalla costituzione, l’anima operativa della Society
for Protection of Ancient Buildings (S.P.A.B.), l’associazione fondata da William Morris nel
1877 per tutelare le architetture storiche dalla minaccia di distruzione rappresentata dai restauratori50. Proprio con questo studioso di grande qualità, depositario di conoscenze riferite
sia all’architettura tradizionale inglese sia alle più recenti esperienze scientifiche applicate
45
Quasi una maledizione, anche il tentativo fatto dalla Tea di riorganizzare e pubblicare quel materiale
fallì, questa volta a causa del bombardamento di Milano del 1943. Nell’evento bellico vennero distrutti tutti i
piombi (il libro era ormai giunto alle prime bozze) e le ultime speranze di dare seguito alle disposizioni testamentarie dello studioso.
46
BERNABEI 1981, p. 10.
47
BERNABEI 1981, p. 49.
48
A Philip Webb (1831-1915) si è già fatto cenno nelle pagine che precedono. Nato ad Oxford, fu architetto e designer. Si formò professionalmente nella sua città natale, presso lo studio di George E. Street,
dove conobbe il giovane William Morris di cui rimase amico per tutta la vita, fino a progettare per lui la lapide
tombale a Kelmscott. Fu autore di numerosi nuovi edifici in Inghilterra ed in Scozia. Sempre presente tra i soci
delle diverse imprese costituite da Morris, vi svolgeva la funzione più vicina a quella di architetto: a lui veniva
affidata la definizione formale e tecnologica degli spazi costruiti; agli altri soci spettava lo studio dei programmi
decorativi e di arredo.
49
PEVSNER 1936. Pevsner scrive della Red House di Webb, la casa che l’architetto progettò per William
Morris: “Red House as a whole is a building of a surprisingly independent character, solid and spacious looking
and yet in the least pretentious…”. Sull’opera di Webb si veda anche il contributo di LETHABY 1935.
50
Si racconta che William Morris, leggendo sul giornale del mattino la notizia di un nuovo incarico di
restauro affidato a George G. Scott, decise di fondare la S.P.A.B.; cfr. MIELE 1996.
L’INFLUSSO DELLA CULTURA INGLESE SU GIACOMO BONI: JOHN RUSKIN E PHILIP WEBB
137
alle problematiche della conservazione dei materiali storici, Boni intrattenne una lunghissima
corrispondenza51.
“I shall squeeze out… all the juice from your letters, letting it ferment, mixing vitriol
with it and distil out of it a few drops of a liquid in comparison with which acetic acid or
concentrated ammonia will prove as offensive to the nostrils of the restorers as rose-water and
you will be responsible for the squeezing…”52 scriveva Boni a Webb nel 1890.
Da queste parole si può cogliere quale fu, per un lungo periodo, il rapporto tra Boni e
Webb. All’inglese, più anziano ed esperto, il veneziano si rivolgeva come ad una persona le
cui conoscenze specifiche rappresentavano un autorevolissimo riferimento nel campo della
conservazione, soprattutto in funzione antirestaurativa. L’impegno in tal senso di Webb risaliva a ben prima di quanto non fosse iniziato quello di Boni.
L’inglese si era dedicato da tempo allo studio degli antichi monumenti e alla battaglia
contro il restauro; in tal senso gran parte dei suoi sforzi erano dedicati alla individuazione di
soluzioni pratiche di conservazione delle antiche architetture della sua patria. Aveva condotto
studi sui problemi di conservazione dei materiali, fossero essi la pietra, gli intonaci o i metalli;
sull’impiego di sistemi di consolidamento basati sull’adozione di leghe inossidabili per evitare
i rischi collegati alla corrosione53; e su altri aspetti particolari, tutti connessi alla pratica dell’intervento, più che alle teorie ad essa sottese.
Un’analoga propensione per la pratica dell’intervento fu costantemente presente nel percorso di Boni: dagli studi sui materiali e sulle metodologie del restauro, come quelli sul ferro
inossidabile, o sui solventi per la pulitura del legno o ancora sul ponteggio trasportabile per
l’esame degli edifici alti54, alla questione del risanamento di Venezia, affrontata privilegiando
la soluzione di questioni tecniche spesso invisibili (come ad esempio nel caso del ripristino
del sistema delle fognature e degli antichi canali sotterranei veneziani; o in quello dei sistemi
di drenaggio da adottare per rendere maggiormente salubri le nuove abitazioni) Boni mostra
sempre grande attenzione verso la dimensione del fare, in analogia a quanto faceva Webb55.
Si può affermare che, in realtà, l’approccio allo studio degli interventi di restauro di
Boni, nel quale egli voleva tenere unita l’analisi storica dei fenomeni con l’individuazione delle questioni più propriamente tecniche, è in tutto analogo a quello praticato dall’inglese. Così,
scorrendo la corrispondenza tra i due, si può ritrovare traccia di gran parte dei temi trattati da
Boni nel suo impegno di ispettore e nei suoi scritti56; e l’atteggiamento tenuto dal veneziano
pare ricalcare quello del collega e amico inglese.
51
La corrispondenza tra Giacomo Boni e Philip Webb è stata in gran parte pubblicata a cura di Eva Tea su
due volumi della rivista Annales Institutorum (TEA 1940-1941; TEA 1941-1942).
52
Lettera LXVI, in TEA 1941-1942.
53
Di tali studi, condotti per lo più attraverso le esperienze di cantiere, Webb informa continuativamente
Boni nelle sue lettere.
54
Argomento sul quale chiede informazioni a Webb in una lettera del 1890.
55
Interessanti al proposito sono alcune lettere scritte da Boni a Webb, nelle quali il veneziano chiedeva
consigli e a cui sottoponeva proposte di intervento per una valutazione (lettere del 9 e del 12 dicembre 1889).
56
Si vedano gli scritti di BONI 1884a; BONI 1886a; BONI 1887b; BONI 1888b.
138
MARCO PRETELLI
Persino nella polemica spicciola contro l’operato dei restauratori l’italiano pare essere
debitore dell’inglese in alcuni dei suoi più fortunati aforismi, come la definizione di restauratore o quella di autenticità. A proposito della prima Boni scrive a Webb che “Your aphoristic
definition of restorers is perfect: men who have behind them fortunes accumulated at the
expense of the veracity of our historical buildings”57.
Dietro a queste similitudini si nasconde una comunanza profonda di atteggiamento verso le antiche architetture che privilegia la veridicità della testimonianza storica, l’autenticità;
uno degli argomenti più frequentemente utilizzati contro l’operato dei restauratori, inglesi o
italiani che fossero, termine che spessissimo ricorre nelle pagine dell’inglese e dell’italiano.
Sarebbe utile continuare ad indagare sull’importanza di Webb per Boni anche in considerazione del fatto che l’inglese veniva interpellato anche in relazione a problematiche di
carattere legislativo e normativo specificatamente italiane, come nel caso delle leggi Villari e
Martini (mai approvate) sulla tutela dei monumenti58.
Un ruolo dunque certamente rilevante, di cui ancora non sono definitivamente chiari i
limiti e che si spera di approfondire in un prosieguo della ricerca.
57
Lettera LXIII, in TEA 1941-1942.
“I gave to the Minister both the laws for the preservation of anc. Buil. and explanatory notes; it consists
of XII articles…” , Lettera LXIII, in TEA 1941-1942.
58
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO
DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
Marina Fresa
Ripercorrendo i documenti d’archivio1 relativi al cantiere marciano (1875-1890) si incontra spesso il nome di Boni accompagnato da varie qualifiche e da notazioni particolari,
sicuramente diverse da quelle che accompagnano qualsiasi altra figura professionale presente
nei registri dei pagamenti.
Quelle rapide notazioni d’archivio, a volte contraddittorie, a volte evocatrici di scenari
più complessi e lontani dalla laguna, sono state le tracce per ricostruire attraverso una sorta
di paradigma indiziario la presenza di Giacomo Boni nel cantiere marciano.
Il grande cantiere veneziano, dove sotto la direzione dell’ingegner Forcellini2 dal 1875
per più di un decennio si smontano e si ricompongono in maniera tecnicamente ineccepibile
le facciate esterne del Palazzo Ducale, rappresenta un tassello significativo nel mosaico della
storia della disciplina del restauro e delle istituzioni di tutela del patrimonio culturale3.
1
I documenti d’archivio consultati sono quelli istituzionali relativi ai lavori di restauro delle facciate del
Palazzo Ducale, diretti dall’ingegnere Annibale Forcellini e realizzati dal 1875 al 1990. Sono conservati rispettivamente presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e presso l’Archivio storico della Soprintendenza BAP/
PSAD di Venezia e Laguna. Per quanto riguarda invece i documenti relativi al Palazzo Ducale, eventualmente
presenti nell’Archivio Boni-Tea conservato presso l’Istituto Lombardo, si rimane in attesa della pubblicazione
dell’inventario a cura di F. Guidobaldi e A. Paribeni. Cfr. in questo stesso volume A. PARIBENI, Personalità e
istituzioni straniere dalle carte dell’Archivio Boni-Tea e F. GUIDOBALDI, Le carte dell’Archivio Boni-Tea all’Istituto
Lombardo di Milano: cenni sul ritrovamento, sulla consistenza e sullo stato della pubblicazione.
2
Su Annibale Forcellini, citato da Camillo Boito come valoroso e modesto ingegnere, cfr. BOITO 1893, pp.
33-48; ZORZI 1977, p. 209; ROMANELLI 1988, passim; FRESA 1992, pp. 215-225; FRESA 1993b, pp. 70-78 ; SCAPPIN
2003, p. 141; SORTENI 2005, pp. 87-95.
3
Il gran numero di pubblicazioni sul Palazzo Ducale coeve al cantiere marciano è sintomatico della consapevolezza dell’importanza di quel restauro. Dalla stampa d’epoca emergono sia la rilevanza tecnica dell’intervento che le implicazioni teoriche e normative a quello sottese. L’interesse per le tematiche e le fasi del cantiere
non riguarda esclusivamente gli addetti ai lavori, ma coinvolge anche la nascente opinione pubblica e il ceto
politico.
MALVEZZI 1874; FORCELLINI 1880; BOITO 1884. Lo scritto su Palazzo Ducale è però del 1882; BONI 1882; BONI
1883a; Anonimo, “Palazzo Ducale”, in L’Adriatico, 2 luglio 1883; BONI 1883b; BONI 1884a; BONI 1884b; FORCELLINI 1887; BONI 1887d; BONI 1889; BOITO 1893, pp. 33-48; C. BOITO, Il Palazzo Ducale di Venezia, Relazione a S.E
il Ministro della P.I., Roma 19 febbraio 1899; PAOLETTI 1899, pp. 9-10; BOITO 1899; SACCARDO 1899.
Successivamente, dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, nelle pubblicazioni di settore sono cominciati
a comparire studi e riflessioni sui restauri di fine Ottocento a Venezia e anche il cantiere di Palazzo Ducale è
uscito dagli archivi. FONTANA 1987, pp. 50-57; PERTOT 1988, pp. 41-43; FONTANA 1989, pp. 217-221; LA REGINA
140
MARINA FRESA
Proprio in quegli anni infatti si andavano costituendo e definendo attraverso decreti,
regolamenti, carte e dibattiti sia disciplinari che parlamentari le norme e gli indirizzi culturali
che il giovane Stato unitario avrebbe adottato nella gestione e tutela del patrimonio artistico
e storico presente sul territorio nazionale4.
Il restauro delle facciate del Palazzo Ducale si colloca in una particolare congiuntura
spazio-temporale che fa sì che attorno a esso si coagulino aspettative, contrasti tra differenti
partiti culturali, sperimentazioni sui materiali e le tecniche di intervento, conflitti tra uffici
e organismi istituzionali, e che ripetutamente diventi caso esemplare per deprecare “i veti
dei più rigidi conservatori”5 e “la nefasta egemonia culturale delle società straniere”6 o, al
contrario, per perorare la causa del conservare versus il restaurare. Da pochi anni Venezia
era tornata italiana e il tema della salvezza dei patri monumenti abbandonati all’incuria dai
governi stranieri, anche se non suffragato da dati oggettivi, è presente nel dibattito parlamentare che accompagna la redazione della legge speciale che nel 1875 prevede lo stanziamento
di 750.000 lire da ripartirsi in dieci annualità quale Spesa straordinaria per lavori di restauro
generale del Palazzo Ducale di Venezia7. Nello stesso anno in cui si vara la legge speciale per
il Palazzo Ducale, si concludono i lavori al versante meridionale della basilica di S. Marco. Le
polemiche che ne seguono segnano in laguna il declino del “violletleduchismo”8 delle sostituzioni dei materiali originari, delle “esuberanti reinvenzioni” e delle “riscritture stilistiche”
come pratica corrente nel restauro9. Non solo, ma a Venezia, la presenza di Ruskin che commissiona disegni di architetture o finanzia pubblicazioni specialistiche costituisce un punto di
riferimento prestigioso e affascinante per alcuni giovani intellettuali e artisti che interverranno polemicamente e fattivamente sulle vicende del restauro dei monumenti veneziani10.
Questo sinteticamente fin qui descritto è quindi il panorama culturale e disciplinare in
cui Giacomo Boni, ventenne, fa il suo ingresso in Palazzo Ducale. È il 1879 e al momento
1992, p. 85; FRESA 1993a, pp. 37-47; FRESA 1993b, pp. 70-78; FRESA 1994, pp. 23-27; SCHULLER 2000, pp. 351-427;
SCAPPIN 2003, p. 141; LERMER 2003, pp. 335-374; FRESA 2004, pp. 205-222.
4
Sul tema della formazione degli organismi e delle norme di tutela in Italia alla fine del XIX secolo, cfr.
BENCIVENNI, DALLA NEGRA, GRIFONI 1987 e BENCIVENNI, DALLA NEGRA, GRIFONI 1992. Per gli specifici aspetti
normativi relativi al cantiere del Palazzo Ducale, cfr. FRESA 2004.
5
FORCELLINI 1886, pp. 225-226.
6
Camera dei Deputati. Atti Parlamentari. Sessione 1884 seduta del 23 maggio 1884, p. 8100. Dibattito sulla
effettiva necessità di sostituire molti (troppi) capitelli originari del portico del Palazzo Ducale. Sulla vicenda
delle sostituzioni dei “capitelli originali istoriati”, cfr. FRESA 1994, pp. 23-27 e LERMER 2003, pp. 335-374.
7
Legge n. 2507 del 27 maggio 1875. Per il dibattito parlamentare relativo vedi invece Camera dei Deputati.
Atti Parlamentari. Sessione 1874-1875. Documenti, progetti di leggi, relazioni. Progetto di Legge n. 54.
8
Sulla definizione, coniata all’epoca da Giovannoni cfr. GIOVANNONI 1945, p. 28; VASSALLO 1996, pp. 73-97.
9
Sul dibattito relativo alla querelle sui restauri nella basilica di S. Marco cfr. ZORZI 1877a; La basilica di S.
Marco in Venezia, nel suo passato e nel suo avvenire, Venezia 1883; ROBOTTI 1976; DALLA COSTA 1983; ROBOTTI
1999.
10
Non soltanto nelle vicende relative al restauro della Basilica Marciana troviamo impegnati Alvise
P. Zorzi insieme a altri artisti e giovani intellettuali veneziani, ma anche nella battaglia contro la demolizione
della facciata della chiesa di S. Moisé e più in generale a favore della conservazione dell’esistente. Cfr. LORENZI
1868; ZORZI 1877b; BONI 1882. Sulla presenza di Ruskin a Venezia cfr. Ruskin e Venezia 2001.
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
141
Fig. 1 - Palazzo Ducale di Venezia. Tavola allegata alla relazione finale del 1889 n. 148. Porzione della loggia
superiore meridionale. In rosso gli elementi lapidei sostituiti nel corso dei lavori, in ACS, Ministro Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 630, f. 1182,1, tavola II.
si sta ancora realizzando il primo lotto dei lavori, all’angolo sud-ovest quello dove più gravi
sono i dissesti statici e che “minacciava rovina”.
Già nel primo lotto dei lavori sono presenti tutti i temi e le specifiche opere che caratterizzano il restauro delle facciate: utilizzo di impalcature seriali e premontate, progettate ad
hoc in modo da poter essere spostate man mano che proseguono i lavori e atte a sostenere
l’intero carico delle murature esterne e dei solai dei loggiati per consentire lo smontaggio di
capitelli e colonne; rifacimento del solaio ligneo e della relativa pavimentazione delle logge;
smontaggio degli elementi lapidei, consolidamento e rimontaggio; sostituzione di tutti i tiranti di ferro con altri progettati ad hoc; sostituzione di molti elementi lapidei (fig. 1).
Giacomo Boni viene registrato nei giornali dei lavori e nei registri dei pagamenti come
“il disegnatore Giacomo Boni” o “l’assistente disegnatore” o, più sbrigativamente “ il signor
Boni”.
Ma sicuramente Giacomo non è un semplice disegnatore se già nell’estate del 1880,
quando si smonta la parte superiore delle impalcature del primo lotto dei lavori, all’angolo
142
MARINA FRESA
Fig. 2 - Palazzo Ducale di Venezia. Capitello del loggiato rimosso nel corso dei restauri 1875/90. Sopra il collarino e nella seconda sezione della modanatura dell’abaco, sono evidenti le lacune create per l’inserimento delle
cerchiature metalliche di consolidamento e le tracce della successiva ossidazione del ferro. Purtroppo nei tanti
spostamenti e interventi di restauro che i capitelli hanno subito dall’epoca della loro rimozione, sono andate
perdute quasi tutte le tracce degli interventi precedenti. Così nel tempo, una dietro l’altra sono sparite le cerchiature metalliche, le grappe che le connettevano alla pietra, le colature di piombo, i residui dei trattamenti
utilizzati come protettivi della pietra, le tracce dell’ossidazione delle cerchiature.
Foto F.M. Fresa, 1991 (prima dei restauri realizzati nel corso dei successivi anni Novanta).
sud-ovest, scrive sui restauri del Palazzo Ducale. Il lungo articolo suddiviso in tre parti viene
pubblicato sul quotidiano L’Adriatico nei giorni in cui i lavori realizzati nei precedenti cinque
anni diventano visibili alla città.
Nell’articolo affiora l’entusiasmo del giovane studente dell’Accademia che per la prima
volta opera in un grande cantiere, a contatto con maestranze esperte e con una direzione dei
lavori di provata capacità tecnica. Un cantiere dove era presente “quanto di più intelligente e
di più pratico vantano l’architettura e le arti meccaniche; dall’occhio sagace che crea e dirige
a quello vigile che sopraintende, alla mano che eseguisce”11. Ma l’entusiasmo non impedisce
a Boni di individuare nel cantiere, già nell’estate del 1880, il tema che soltanto quattro anni
11
BONI 1880b.
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
143
più tardi diventerà terreno di scontro tra conservatori e restauratori e getterà un’ombra persistente sui “generali restauri delle principali facciate del palazzo Ducale”12.
Nel corso di precedenti interventi di restauro, dal secolo XVI in poi, molti capitelli
originari del portico e del loggiato del Palazzo Ducale erano stati “robustati” con cerchiature
di ferro all’abaco e al collarino (fig. 2), ma nel corso del tempo, l’ossidazione del ferro aveva
compromesso l’efficacia delle cerchiature. “Ora, non è più possibile togliere le cinte esterne
perché rimarrebbe la bruttura dell’incasso, lasciandole continuerebbe il guasto. Per i capitelli
che quantunque spezzati, anche in parecchie direzioni non hanno la piaga delle cinture esterne, si è già trovato il rimedio: i soliti pezzi a doppio T o a corona circolare che si applicano ai
piani di contatto dopo tolta la barra ossidata e prima di riporli in opera. In tal modo furono
salvati. Mancano ora quelli in peggiori condizioni e per questi si tratta di aguzzare l’ingegno”13. Nella terza parte del suo articolo Boni – nonostante il ruolo subordinato e marginale
che svolgeva nel cantiere marciano – propone una soluzione operativa per risolvere il problema della conservazione dei capitelli originari e la motiva “entrando in questioni di principio”.
Poiché le cerchiature sono ormai presenti nella percezione che il pubblico ha del palazzo, così
presenti che “qualcuno non le ha forse nemmeno avvertite”, Boni propone di applicare ai
capitelli nuove cerchiature in rame in sostituzione di quelle in ferro ormai irrimediabilmente
ossidate. I nuovi presidi si sarebbero ricollocati nel medesimo incasso già realizzato nel corso
dei precedenti interventi, “scongiurando cosi, intanto i danni della ruggine, mentre resteranno i danni subiti sino a ora”14.
Questi ultimi però, precisa Boni, con accenti ruskiniani, sono parte di quell’incessante
lavoro prodotto sui monumenti dal trascorrere del tempo. Al contrario, “sui capitelli pesa,
nuova spada di Damocle, la minaccia della rinnovazione”. Adottando le nuove cerchiature in
rame “si lascerà quel capitello così com’è: un capricorno senza testa, una figurina senza braccio …”. Del resto, questo è l’unico partito praticabile in quanto “già riprodurre l’originale è
impossibile, che sarà dove l’originale non esiste affatto?”. A sostegno delle sue argomentazioni contro il risarcimento delle tante parti mancanti nel ricco apparato decorativo dei capitelli,
Boni cita l’esempio di Michelangelo che rifiuta l’incarico del restauro dell’Ercole Farnese perché considera impossibile quel completamento. L’articolo si conclude con un appassionato
appello a “chi ha la responsabilità di queste opere, affinché ne tragga le conseguenze”15.
Per quanto lo riguarda, Boni si metterà d’impegno a studiare le caratteristiche costruttive dei singoli elementi lapidei che costituiscono l’apparato decorativo del Palazzo Ducale
e a verificare sperimentalmente l’efficacia delle modalità e delle tecniche atte a impedire
12
Si tratta della sostituzione dei capitelli originari del palazzo con copie che riproducevano più o meno
perfettamente l’iconografia trecentesca e quattrocentesca. Le polemiche che accompagnano la scelta della sostituzione rimbalzano dalla Laguna fino in Parlamento. Sull’argomento cfr. A. FORCELLINI, Rapporto sulle censure
fatte nel Parlamento ai restauri, Venezia 24 giugno 1884, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 625, f. 1178,21; SACCARDO
1899; FRESA 1994, pp. 23-27; LERMER 2003, pp. 335-374.
13
BONI 1880c.
14
BONI 1880c. Il corsivo è di Boni.
15
BONI 1880d.
144
MARINA FRESA
l’ossidazione degli elementi metallici di connessione tra le parti. Proprio i processi di ossidazione si erano rivelati la causa principale della rottura dei capitelli: ricomporli e consolidarli
con presidi metallici efficaci protetti in maniera duratura dall’ossidazione diventava l’unico
strumento per evitarne la sostituzione con copie. Nel 1884, nell’opuscolo Il ferro inossidabile,
Giacomo Boni espone il risultato dei suoi studi dove gli apporti della contemporanea esperienza di cantiere sono determinanti16.
Nel procedere dei lavori, com’è noto, per molti elementi lapidei si adotterà l’opzione
della sostituzione. I criteri d’intervento che guidano le decisioni della Direzione dei lavori
e della Commissione di vigilanza ai restauri sono diversi dalla conservazione intesa come il
risultato di una “cura tenera, reverente continua” auspicata da Boni17. La scelta di “non perigliare l’avvenire di così importanti e dispendiosi lavori per conservare alcun pezzo, il quale
non dia sicurezza di longeva durata […] e pel quale avessero poi a riuscire inevitabili novelli
provvedimenti resi forse più malagevoli […] e certamente assai costosi”18 conduce alla collocazione in opera delle copie ottocentesche di 13 capitelli nel portico e di 28 nel loggiato e
alla sostituzione di moltissimi altri elementi lapidei: cornici, peducci, basi, l’architrave della
porta della Carta, conci degli archi19.
La documentazione di supporto alle sostituzioni degli elementi lapidei, così come le
polemiche e gli articoli coevi, riguardano esclusivamente la sostituzione dei capitelli istoriati
che, in quanto manufatti d’arte, erano oggetto di una riflessione sull’opportunità e sul valore
della loro sostituzione. Al contrario, il rifacimento ex novo di molti elementi architettonici
e strutturali dell’edificio (la sostituzione di tutti i solai del piano delle logge, di tutte le basi
delle colonne del primo e secondo livello, di quasi tutta la balaustra lapidea) non fu mai elemento di dibattito pubblico né oggetto di specifiche relazioni che ne motivassero l’assoluta
necessità.
Al contrario l’attenzione alla conservazione dei materiali originari del monumento nella
loro globalità si ritrova in un appunto redatto da Giacomo Boni per la Commissione Permanente di Belle Arti che dovrà esaminare la consueta relazione annuale sui lavori in corso in
Palazzo Ducale.
“Le basi delle colonne superiori continuano a rinnovarsi, per tagliarsi in un solo masso
colla cornice sottostante, per cui a restauro finito non resterebbe una sola base antica né un
pezzo di cornice originale a posto. Veda la Commissione permanente di Belle Arti se sia il
16
BONI 1884a. Il tema del trattamento del ferro per il restauro è al centro dell’attenzione nel cantiere di
Palazzo Ducale ben prima dell’arrivo di G. Boni, cfr. FORCELLINI 1880; SCAPPIN 2004, pp. 261-288.
17
BONI 1882, p. 9.
18
Lettera del 22 settembre 1878 con cui il Prefetto accompagna l’invio al Ministero della Pubblica Istruzione delle foto di “9 capitelli antichi” che nel primo lotto dei restauri “vennero già rinnovati, o sono in via di
rifacimento, o “attendono la superiore approvazione”. ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale
Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 618, f. 1173,23.
19
Per un’immagine sintetica delle sostituzioni realizzate nel corso dei lavori, cfr. i disegni allegati in FORCELLINI 1887 dove sono indicati tutti gli elementi sostituiti fino al 1887; LERMER 2003; SCAPPIN 2003, pp. 141160. In particolare sulle caratteristiche costruttive degli elementi decorativi originari del Palazzo Ducale cfr. il
fondamentale saggio di SCHULLER 2000, pp. 351-427.
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
145
caso d’ordinare che per alcune delle colonne verso il molo, non ancora manomesse si debbano conservare le antiche basi e qualche tratto della cornice. Risponderebbe più al carattere
monumentale dell’edificio e alla sincerità architettonica del 1300 il lasciare le basi poggianti
sulla cornice, potendosi d’altronde, con opportuna spianatura della superficie di contatto
mettere i due strati di pietra in buone condizioni di stabilità anche dove qualche frattura fosse
avvenuta in causa dell’imperfetto combaciamento”20.
Mai prima d’allora, una richiesta di parere era stata trasmessa alla Commissione Permanente con una relazione così puntuale e dettagliata sugli elementi di criticità del progetto da
esaminare. È il Maggio 1888, Giacomo Boni ha appena iniziato la sua attività romana presso
la Direzione Generale di Antichità e Belle Arti e si ritrova a occuparsi ancora di Venezia e del
Palazzo Ducale; lo fa con l’ingenuità, il rigore e l’inefficacia di un appassionato restauratore
capitato in un apparato burocratico di cui non conosce i complessi, rigidi e a un tempo vacui
meccanismi. Qualche mese dopo, sulla stessa minuta Giacomo scriverà: “i lavori controindicati sono già compiuti. Diventa quindi inutile chiedere il voto della Commissione”.
I documenti d’archivio relativi all’attività di Boni in Palazzo Ducale sembrano essere
inversamente proporzionali alla sua effettiva presenza in cantiere. Mentre Giacomo lavora
in cantiere, negli archivi, come documentazione di una sua presenza continuativa, troviamo
soltanto le attestazioni del pagamento delle gratificazioni annuali di cinquanta lire21.
Una notazione più specifica si trova nel Registro dei pagamenti riferibili ai lavori di restauro della porta della Carta eseguiti nell’anno 1883 dove Giacomo Boni compare alla voce
“riscuotente” della “spesa di silicatizzazione dei marmi”. Per conoscere più in dettaglio il
suo intervento dobbiamo ricorrere alla relazione del direttore dei lavori e ai disegni che
l’accompagnano (figg. 3 e 4).
“I capitelli delle colonnette della trifora ed altre parti in marmo carrarese della ricca
decorazione della porta della Carta hanno qual più qual meno sofferto dall’azione della luce
e della salsedine, in modo che alcune di esse erano per un certo spessore in stato di decomposizione molto avanzata. Dopo gli studi e gli esperimenti fatti dal Boni sull’uso dei preparati
della casa Ramsome di Londra, i capitelli vennero silicatizzati e a quanto può dirsi finora, con
ottimo risultato. Per essi l’operazione fu fatta passando e ripassando i liquidi col mezzo di
pennelli sulla superficie.
20
Roma, Maggio 1888. Appunti alla relazione del 1887, in ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione
Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 631, f. 1182,1-2. Si tratta di una minuta autografa di
Giacomo Boni, allegata alla Relazione annuale sui lavori del 1887 trasmessa come ogni anno al Ministero dal
Direttore dei Lavori, come previsto dalla legge speciale che finanziava i restauri del Palazzo Ducale.
21
Negli archivi da me consultati non ho trovato documenti autografi di Giacomo Boni precedenti al 1888,
anno del suo trasferimento da Venezia a Roma. Da quel momento in poi, sulle lettere provenienti da Venezia o
sulle minute delle lettere che prima siglerà Fiorelli e poi firmerà il Ministro, si trovano invece molti appunti autografi di Boni. Eva Tea data al 1879 l’inizio dell’attività di Boni in Palazzo Ducale. Il primo documento d’archivio
da me individuato dove compare Giacomo Boni è del 1881, ma fa riferimento a un mandato di pagamento “a favore di Giacomo Boni come remunerazione per l’opera straordinaria da lui prestata nell’assistenza ai lavori per
l’anno 1880”, mentre l’ultima traccia della sua presenza in cantiere è del 4 marzo 1888. ACS, Ministero Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 626, f. 1178,26.
146
MARINA FRESA
Fig. 3 - Palazzo Ducale di Venezia. Disegno della porta della Carta. ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 626, f. 1178, 26. Allegati grafici, tavola V.
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
147
Fig. 4 - Palazzo Ducale di Venezia. Disegno della porta della Carta. ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 626, f. 1178, 26. Allegati grafici, tavola VI.
148
MARINA FRESA
Fig. 5 - Venezia. Scuola vecchia della Misericordia. Sulla facciata sopra il portone sono evidenti le tracce del
bassorilievo rimosso. Foto Soprintendenza BAP/PSAD di Venezia.
Per altri parti della decorazione, come per quelle foglie a fiamma e per quei putti che
salgono con esse sul dosso delle curve a doppio flesso del cimiero, l’imbibizione fu fatta mediante un polverizzatore”22.
22
Venezia, 31 dicembre 1883, A. Forcellini, Relazione sui lavori del 1883, in ACS, Ministero Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 631, f. 1182,1-2. È probabile,
però che sia esistita una qualche documentazione redatta da Giacomo Boni relativamente alle sue esperienze di
utilizzo di silicati e fluosilicati per il consolidamento di elementi lapidei in Palazzo Ducale. Anche la biografa
Eva Tea ne doveva essere convinta dato che nel dicembre del 1927 scrive alla Soprintendenza ai Monumenti
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
149
Fig. 6 - Bartolomeo Bon, Madonna della Misericordia, foto Victoria & Albert Museum - South
Kensington - London.
Si tratta di un intervento conosciuto. Se ne scrive già all’epoca, proprio mentre il consolidamento è in corso23. Eppure anche in un caso come questo, dove la presenza di Giacomo
Boni con un ruolo da protagonista è indubitabile, non si trovano tra le carte d’archivio relazioni, minute, appunti autografi di Boni che documentino la sua attività. Per trovare degli
scritti di Boni sul lavoro svolto alla porta della Carta e sull’utilizzo dei fluosilicati per il
restauro del marmo microcristallino bisogna ricorrere alle brevi notazioni contenute negli
articoli che pubblica nel 1883 e alle lettere private indirizzate a Ruskin e a Caröe.
di Venezia chiedendo notizie di “una relazione di Boni del 1883 sui restauri dei marmi di Palazzo Ducale con
fluoro-silicatizzazioni”. Archivio Storico della Soprintendenza BAP/PSAD di Venezia e Laguna, “Boni. Comm.
Giacomo - Consegna temporanea dell’Ufficio”, b. A, 37.
23
BONI 1883b; [Anonimo], “Palazzo Ducale”, in L’Adriatico, 2 luglio 1883; ANTONELLI 1979; CALABRETTA,
GUIDOBALDI 1986; PARIBENI 1998, e la relativa bibliografia ivi contenuta. Devo alla cortesia di Eugenio Vassallo,
la segnalazione di un analogo utilizzo dei fluosilicati per il consolidamento dei materiali lapidei da parte di Viollet-le-Duc che già nel 1853, descrive la sperimentazione da lui fatta eseguire nel Palazzo del Louvre.
150
MARINA FRESA
In una delle sue lettere private, descrivendo l’intervento che sta realizzando alla porta
della Carta, Boni esprime la propria contrarietà al progettato ripristino del gruppo statuario
del Doge Foscari e del leone marciano che aggettava sopra l’architrave fino al 1797. Nelle sue
parole si colgono accenti di condanna, non solo per il ripristino di un elemento decorativo
perduto, ma più in generale per la politica culturale italiana. Mentre si finanzia con molte migliaia di lire la realizzazione della copia di una scultura del XV secolo, non si trovano poche
centinaia di lire per conservare in posto, sulla facciata della Scuola vecchia della Misericordia
un bassorilievo di Bartolomeo Bon che è in vendita sul mercato antiquario (figg. 5 e 6). A
conclusione della sua lettera Boni sottolinea ironicamente che anche la porta della Carta è di
Bartolomeo Bon, ma ciò che è andato perduto non è più recuperabile, mentre il compito di
chi vive nel XIX secolo è di conservare ciò che è arrivato fino a loro, senza apportarvi più
ulteriori distruzioni o dispersioni.
Al contrario, nel 1885 sulla porta della Carta restaurata viene collocata la copia del gruppo statuario del doge Foscari mentre la Madonna della Misericordia, acquistata da mercanti
inglesi, si può ammirare nel museo di Kensington24.
Nonostante il suo punto di vista sulla conservazione dei monumenti e sulle azioni da
intraprendere per garantirne “l’avvenire” non coincida con la prassi delle istituzioni culturali,
Giacomo Boni sembra godere la stima dei responsabili degli uffici istituzionali. In una nota
del Marzo 1885, inviata al Ministero per richiedere l’ autorizzazione dei pagamenti per i restauri in corso a Palazzo Ducale, il Prefetto di Venezia scrive che “il giovane disegnatore Giacomo Boni continua ad occuparsi lodevolmente nelle rappresentazioni grafiche dei lavori”.
Nel Dicembre dello stesso anno, il Prefetto, su sollecitazione del Direttore dei Lavori
e della relativa Commissione di Vigilanza, chiede al Ministero un sussidio per consentire “al
signor Giacomo Boni, assistente ai restauri del Palazzo Ducale di Venezia, il quale da vario
tempo si occupa con molto successo della ricerca dei mezzi per conservare i materiali degli
antichi monumenti, […] di recarsi all’estero allo scopo di fare alcuni importanti studi concernenti l’oggetto delle sue indagini”. Nonostante la richiesta fosse fatta propria dal Fiorelli, il
Ministero non finanzierà il viaggio di studio di Boni25.
Proprio quando Giacomo Boni abbandona il cantiere marciano e inizia a lavorare a
Roma presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, nei documenti d’archivio relativi
al Palazzo Ducale sono presenti suoi appunti e scritti autografi o lettere a firma del Ministro
che si possono con ragionevole certezza ipotizzare come dettate da lui.
24
La lettera citata è in TEA 1959b, pp. 248-249.
La vendita sul mercato antiquario del bassorilievo di Bortolomeo Bon è soltanto un tassello nel grande mosaico della dispersione del patrimonio artistico italiano. Dispersione che Boni cerca di contrastare pubblicando
sul Times un articolo di condanna per chi, per supposto amore della cultura, danneggia irrimediabilmente l’integrità delle opere d’arte rimuovendole dal contesto per il quale furono create. sulla dispersione del patrimonio
artistico italiano, cfr. HASKELL 1981; V. FARINELLA (a cura di), Viva Barga, abbasso Parigi. Artisti in Toscana fra
Otto-Novecento, Roma 2003 (Ricerche di Storia dell’arte, 78).
25
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b.
525, f. 5722.
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
151
Alla fine del 1888, le sostituzioni dei capitelli originari procedono ancora a ritmo serrato, nonostante più volte siano state oggetto di discussioni e di giudizi più o meno critici.
Una lettera del Prefetto che riporta il parere della veneziana Commissione di Vigilanza
ai restauri del Palazzo Ducale chiede l’autorizzazione a integrare le lacune degli unici due
capitelli originari conservati in posto nel lato sud-est del portico dove, eliminando le tamponature cinquecentesche, si è già ripristinata l’immagine medievale del palazzo. Si vogliono
reintegrare i capitelli scalpellati nel corso dei restauri cinquecenteschi. In particolare si chiede
l’autorizzazione ministeriale per poter “supplire alle mancanze rifacendo le figure giusta i modelli fatti in seguito a scrupoloso esame delle forme e dello stile delle rimanenti antiche parti,
[…] scolpendo le modellazioni sui nuovi capitelli e sulle parti tassellate dei vecchi”26.
Si tratta in realtà soltanto dell’ultimo atto di una vicenda iniziata già due anni prima.
Nel 1886 mentre si discuteva sull’opportunità dello smuramento delle ultime arcate terrene del palazzo Ducale un articolo anonimo, apparso sul periodico La Difesa avversava il
ripristino anche perché avrebbe comportato “il rifare i preziosi e storici capitelli che sono
impegnati nelle muraglie di otturazione” e definiva “deplorevole audacia il sostituire nuovi
capitelli rifatti alle opere antiche preziosissime per l’arte e per la storia”. L’articolo, a mio avviso, è scritto da Giacomo Boni che, stipendiato dalla Direzione Lavori, non poteva esporsi in
una questione così delicata, che all’epoca era ancora in attesa dell’approvazione ministeriale.
Le argomentazioni sono quelle che si ritrovano in altri scritti firmati da Boni; ma soprattutto
è la conoscenza puntuale dei lavori in corso nel palazzo e dei relativi meccanismi amministrativi decisionali manifestata nell’articolo che ne consente una sicura attribuzione. Com’è noto,
anche nel caso dello smuramento delle ultime arcate terrene del palazzo Ducale le ragioni della
conservazione sono sconfitte e l’azione di Boni risulta inefficace27.
Quando nel 1888 la richiesta prefettizia di autorizzazione alla riproduzione dei partiti
decorativi originari arriva sul tavolo di Boni, lo sconcerto dell’architetto deve essere stato
grande.
Naturalmente il parere di Boni al proposito è completamente negativo, ma quei capitelli
di cui si chiede l’integrazione, sono solo gli ultimi di una lunga serie che è stata già reintegrata
nelle lacune, sostituita, antichizzata. Ciononostante Giacomo non riesce a scrivere un parere
favorevole e sulla lettera veneziana, l’assegnazione “ingegner Boni” è cassata con un segno
blu e a lato è scritto “prendere atto, sta bene. Architetto Montini”. A questo laconico appunto fa seguito la rituale autorizzazione ministeriale.
La vicenda relativa ai capitelli non è purtroppo ancora conclusa. Nel Maggio del 1890
una lettera riservata di Federico Berchet, responsabile dell’Ufficio Regionale veneziano comunica che nel corso della posa in opera delle ultime copie dei capitelli trecenteschi, a seguito
di una caduta accidentale, uno dei capitelli si spezzò e, all’insaputa del direttore dei lavori,
26
Commissione di vigilanza ai restauri del Palazzo Ducale, verbale dell’adunanza del 10 settembre 1888,
ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 629,
f. 1180,13. Sulle vicende relative alla riapertura delle arcate, tamponate nel 1578, cfr. FRESA 1993b, pp. 70-78 e la
bibliografia ivi contenuta. Sull’epilogo delle sostituzioni dei capitelli istoriati, cfr. FRESA 2004, pp. 205-222.
27
BONI 1886b.
152
MARINA FRESA
venne consolidato con perni di rame e sigillature di piombo. Nel sopralluogo che segue alla
scoperta, il Delegato regionale e il direttore dei lavori accertano che l’intervento è stato ben
eseguito e che il capitello consolidato è in grado di sostenere tutto il carico soprastante.
La laconica lettera di risposta è scritta a margine nella minuta grafia di Boni:
“Questo ministero, in merito al fatto, confida che la saldatura e l’isolamento della parte
spaccata eviteranno maggiori inconvenienti e che non avranno a lamentarsi consimili deplorevoli avarie negli altri capitelli rinnovati con tanta spesa e con tanto sacrificio dell’autenticità
del monumento”28.
Però mentre “prende atto dell’accaduto” Boni si adopera perché in futuro gli interventi
sul grande edificio storico seguano esclusivamente un approccio di tipo conservativo.
Poiché il restauro delle facciate esterne è ormai compiuto, ma molti altri lavori si dovranno realizzare nel resto del complesso, il Ministro delega Giacomo Boni a tornare a Venezia per “mettere d’accordo il delegato Berchet e l’ingegnere capo del Genio Civile su tutto ciò
che si dovrà fare nell’avvenire in palazzo Ducale”29.
Il risultato di quella missione veneziana si legge in una lunga lettera che il delegato regionale Federico Berchet scrive alla Direzione Generale esponendo “gli opportuni accordi presi
col signor ingegner Giacomo Boni ispettore di codesto Ministero della I.P. e col Cav. Perosini
Ingegnere capo di questo Genio Civile circa i lavori di restauro del palazzo Ducale per evitare
che si facciano innovazioni dannose alla autenticità storica ed artistica”30.
I toni usati non sono quelli abituali negli scritti di Federico Berchet, anzi, tra le frasi
utilizzate dal delegato regionale compaiono esattamente, quasi una citazione non dichiarata,
le espressioni e i termini che ricorrono invece in tutti gli scritti veneziani di Boni31. Gli accordi
presi sono molto dettagliati: riguardano sia l’utilizzo di singole parti del Palazzo Ducale, sia
alcuni indirizzi generali da seguire sempre nei futuri lavori che si realizzeranno nel palazzo. È
interessante notare come l’opzione teorica della conservazione si concretizzi nelle “istruzioni”
di Boni in pratiche di gestione e destinazione d’uso estremamente attente alle caratteristiche
costruttive e storico artistiche non solo dell’edificio nel suo complesso, ma addirittura dei vari
locali e dei singoli manufatti del palazzo.
28
Venezia, Palazzo Ducale. Riapertura degli archi dell’angolo S-E, ACS, Ministero Pubblica Istruzione,
Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 624, f. 1180,21. Sulla cartellina di cartone è
scritto col lapis blu “ing. Boni”.
29
Venezia, luglio 1890, Lettera di Giacomo Boni a Francessco Bongioannini, in ACS, Ministero Pubblica
Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie, b. 629, f. 1180,21.
30
Venezia, 20 Agosto 1890, Lettera del Delegato Regionale Federico Berchet al Ministero dell’Istruzione
Pubblica, in ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie,
b. 629, f. 1181,3.
31
È evidente che per il progettista del “restauro” del veneziano Fondaco dei Turchi il concetto di autenticità non rappresenti certo uno dei valori da perseguire intervenendo su un edificio storico. La difficoltà del
dialogo tra Boni e Berchet è evidente se si rammentano i giudizi di Boni sul restauro del Fondaco dei Turchi.
Berchet inoltre fa parte della Commissione di vigilanza ai restauri di Palazzo di Ducale (1875-1890) che autorizza entusiasticamente tutte le sostituzioni e i ripristini che, al contrario, il disegnatore Boni negli stessi anni cerca
di contrastare. Cfr. BERCHET, SAGREDO 1860; BONI 1887c; BERCHET 1893.
GIACOMO BONI NEL CANTIERE DI RESTAURO DEL PALAZZO DUCALE DI VENEZIA
153
“Quanto poi al museo terreno dove sono raccolti in così gran numero le colonne, i
capitelli e le sculture rinnovate con tanta spesa e tanto sacrificio dell’autenticità del monumento e dove sarebbero anche da trasportarsi i pezzi più pesanti del museo archeologico
del palazzo Ducale che gravano sulle impalcature dei piani superiori; fu riconosciuto che
aggiungendovi anche i locali dell’antico magistrato all’armar, fino all’androne della porta
del Frumento ora occupati dall’appartamento dei vigili pompieri, si avrebbe uno spazio
sufficiente e forse il museo potrebbe avere separata e decorosa entrata dalla porta storica
del 1632 in Piazzetta […]”32.
Quello che Berchet indica come “museo terreno” è poco più che un deposito, dove sono
affastellati tutti gli elementi lapidei sostituiti nel corso dei lavori di restauro. Infatti, come
recita la carta del restauro del 1883, le parti originarie rimosse sono state conservate e Boni si
adopera affinché abbiano una adeguata sistemazione che ne consenta la fruizione pubblica.
Non solo, ma in considerazione del fatto che molti locali del palazzo sono utilizzati in modo
improprio per la conservazione, Boni prevede lo spostamento al piano terreno di quei grandi
reperti del museo archeologico, all’epoca localizzato al primo piano del palazzo, che si configuravano come eccessivi carichi concentrati sulla travatura lignea quattrocentesca.
Gli accordi comprendono sia indicazioni generali quali la raccomandazione a “evitare,
nei successivi restauri, la rinnovazione delle antiche sculture e a conservarle a posto anche
se manomesse, rispettando soprattutto l’autenticità del monumento” e istruzioni specifiche
sulle modalità di intervento e di conservazione dei materiali. Non solo, Boni mette a disposizione le sue conoscenze acquisite nel corso delle ispezioni fatte in giro per l’Italia, perché i
materiali originari del palazzo possano conservarsi in opera al meglio33.
La lettera di Federico Berchet, si conclude con la richiesta di “conferire al Delegato
Regionale pei monumenti del Veneto uno speciale incarico pel palazzo Ducale di Venezia”.
Accanto a quell’ultimo capoverso Boni traccia a matita un grande punto interrogativo e la
risposta che arriva a Venezia a firma del Ministro è un’altra puntuale azione di tutela nei confronti del palazzo. Infatti nella minuta, scritta a lato della lettera del Berchet, Boni individua
un iter autorizzativo che, attraverso un controllo incrociato sui destini futuri del palazzo,
possa contenere l’aspirazione al rispristino che contraddistingue la gestione della tutela del
Delegato Regionale34.
32
Venezia, 20 Agosto 1890, Lettera del Delegato Regionale Federico Berchet al Ministero dell’Istruzione
Pubblica, in ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti., II versamento, II
serie, b. 629, f. 1181,3 citata in nota 30.
Il corsivo è di chi scrive, per evidenziare come la frase di Berchet, sia esattamente la stessa scritta da Boni
pochi mesi prima nella ministeriale di cui alla nota 28.
33
“Primieramente si convenne essere preferibile di impiegare pel restauro della copertura del palazzo
lastre di piombo battuto della officina di Loreto, usando un suo capomastro e facendo ridurre i piombi vecchi
affinché sia conservata la tinta e lo stesso materiale.” E ancora “(re)impiegare i vecchi piombi del coperto, utilizzando un capomastro dell’officina di Loreto e lastre di piombo battuto di quell’officina per le indispensabili
aggiunte”. ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II versamento, II serie,
b. 629, f. 1181,3.
34
“[...] riguardo ai lavori che saranno da eseguirsi in Palazzo Ducale, la loro direzione tecnica è affidata
all’ingegnere capo cavalier Perosini. Il regio Delegato rivolgerà specialmente le sue cure a tutto ciò che riguarda
154
MARINA FRESA
Quando, come in questo caso, gli archivi ci restituiscono documenti certi dell’opera di
Boni, è possibile ricostruire le sue effettive modalità di esercizio della tutela che, in Palazzo
Ducale, risultano modernamente consapevoli della complessità dell’azione di salvaguardia
del patrimonio architettonico.
La “cura tenera, reverente, continua” che negli scritti di Boni potrebbe essere letta come
una semplice suggestione raskiniana, al contrario, nel suo operare in Palazzo Ducale, si concretizza in progetti e provvedimenti che hanno nella conservazione del manufatto storico
– nella sua integrità di materiali e tecniche costruttive – il principio ispiratore modulato sulla
complessa trama delle competenze istituzionali italiane.
la parte storico artistica del monumento mentre ogniqualvolta che, come nel caso presente, non sia intervenuto direttamente il Ministero, le proposte di nuovi lavori dovranno prima essere presentate alla Commissione
Conservatrice per parere”. ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II
versamento, II serie, b. 629, f. 1181,3.
La sfiducia di Boni nei confronti di Federico Berchet emergerà anche in altri episodi che riguardano sia interventi specifici in Palazzo Ducale che in altri “monumenti del Veneto”. Per quanto riguarda il Palazzo Ducale,
cfr. FRESA 1988, pp. 257-263.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA
DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
NEL CONTESTO DELLA CULTURA ANGLOSASSONE
Annarosa Cerutti Fusco
Introduzione
Per inserire nel contesto anglosassone Giacomo Boni gardener, si possono seguire diversi percorsi, in effetti saldamente interconnessi. Dalle diverse relazioni del Convegno è emerso
quanto la fama e la reputazione di Boni conservatore ed archeologo, tra la fine dell’Ottocento
e il primo Novecento, fosse ampiamente diffusa, e raggiungesse le più alte istituzioni accademiche in Italia, ed anche in Inghilterra, a Londra, Cambridge e Oxford (ove fu addottorato),
e negli Stati Uniti1.
La poetica di Boni che concerne “flora e ruine” è stata trattata autorevolmente nel Convegno e, in precedenza, altrettanto autorevolmente, da Massimo de Vico Fallani (1990) e
Vincenzo Cazzato (1990), i cui saggi costituiscono il riferimento d’obbligo, a cui si rimanda
essendo qui sottinteso, per delineare la figura di Boni giardiniere, osservata da un versante
prevalentemente italiano2. L’indagine relativa ai restauri dei ruderi considerati in relazione all’elemento vegetale, con particolare riguardo alle rovine del Palatino, è stato affrontata da Patrizio Pensabene (1990) e approfondita in modo particolare da Giuseppe Morganti (1999)3.
Massimo de Vico Fallani ha sottolineato la specificità del lavoro di Boni sugli Orti Farnesiani, sia per il carattere ormai pubblico del sito, sia in quanto è stato un intervento su una
preesistenza prestigiosa, antica e al contempo moderna. Il colle Palatino costituisce infatti un
contesto culturale densissimo4 e, fatto singolare per un’area archeologica, trovandosi inserito
1
Grazie ad una selezionata rete di fedeli amici ed estimatori, nella vivace stampa periodica inglese e statunitense un vasto, colto o soltanto curioso pubblico anglosassone poteva leggere notizie attendibili e critiche
(talvolta persino quotidianamente), sempre più spesso corredate da illustrazioni, degli scavi in ogni parte del
mondo, dei restauri, e partecipare agli accesi dibattiti relativi all’architettura, alla storia, alla conservazione, al
restauro e all’archeologia in genere.
2
Sul panorama italiano di veda TAGLIOLINI 1990; MORGANTI 1999; FAGIOLO, GIUSTI 1997.
3
Tali contributi sono fondamentali per il tema in questione, per la dovizia di selezionati e ampi rimandi
bibliografici, specialmente dedicati agli scritti di Boni, e per le considerazioni relative ad argomenti complementari rispetto al tema che intendiamo affrontare, argomenti che quindi non tratteremo ulteriormente in questo
scritto. Si vedano inoltre SETTIS 1993b; PENSABENE, FALZONE 2001; COARELLI 2004, pp. 81-83 (S. Sisani).
4
AUGENTI 1996; AUGENTI 1999; CATALLI 1997; GIAVARINI 1998; CECAMORE 2002.
156
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
nel cuore stesso del tessuto urbano di una città capitale, solleva problemi specifici5. E forse
si potrebbe qui sottolineare anche l’affezione personale che Boni aveva per il luogo, di cui
avvertiva una sorta di sacralità primitiva6.
Egli infatti attribuiva al locus amoenus degli Horti Farnesiorum il valore di un sito eccezionalmente carico di preistoria, di storia e di vocazioni naturalistiche, un valore del tutto
speciale e per così dire privato, intimo ed esclusivo: ivi non solo lavorava, bensì anche teneva
“circolo” sotto una pergola di rose, passeggiava lungo le spalliere di melograni, studiava, trascorrendo sul Palatino la maggiorparte delle sue giornate romane, in solitudine facendo l’eremita, o in compagnia degli amici, conversando o ascoltando la musica e il canto. Nello stesso
luogo il destino e tutta Roma volle fosse deposto per riposare in una eterna pace cristiana.
Vincenzo Cazzato ha, da parte sua, puntualmente ricostruito sia la poetica di Boni riguardo alla flora e alle rovine, sia i numerosissimi riferimenti di Boni alla concezione che gli
antichi avevano della natura7. Per indagare tale aspetto dell’antichità Giacomo si fondava
innanzitutto sugli studi classici: l’amore per le fonti letterarie (ad esempio le opere di Virgilio,
l’Eneide e soprattutto le Georgiche), particolarmente care all’archeologo veneto, costituiva
una delle affinità che lo legavano agli amici inglesi, come Morris e Webb. Inoltre Boni ricorreva anche all’iconografia nota (gli affreschi pompeiani, e in particolare la decorazione a temi
vegetali della Villa di Livia a Prima Porta), per captare una immagine fedele del giardino romano antico8. L’esperienza degli scavi (a Roma, come a Pompei ed Ercolano9), la conoscenza
delle tendenze in atto nel campo dell’arte dei giardini inglesi, lo studio della cultura materiale,
geologica, botanica, avifaunistica, geografica, lo guidavano poi nella scelta della vegetazione
da inserire nel contesto archeologico. Con tali strumenti multidisciplinari, in cui la trama
della storia costituisce un supporto a criteri compositivi10, Boni intendeva predisporre un
metodo di intervento complesso (per poi presentarlo al Ministero), che fosse in grado di proteggere i ruderi (anche dalla vegetazione infestante e dalla flora parassitaria) e, al contempo,
di “adornarli”. Questa seconda finalità, utile al pieno godimento dei risultati ottenuti con gli
scavi, secondo Boni, consisteva nella ricerca di un equilibrio, in continuo e faticoso divenire,
tra vegetazione e vestigia, in un contesto stratificato da millenni, come il Foro Romano e il Pa-
5
Diversa la questione, molto dibattuta in quel tempo, del verde pubblico a Roma e nelle altre capitali europee: sull’argomento RACHELI 1999.
6
TEA 1932, II, p. 300: in una lettera ad Alessandri Boni scriveva: “Vorrei nell’autunno dare al Palatino prati
di timo, di issopo e maggiorana, di convolvoli mauritani e d’altre belle piante perenni in luogo dell’erba comune,
che qua non può vivere d’estate per la grande arsura. Così io continuo a vivere nell’illusione di fare qualcosa che
non sia male, mentre Dio sa a qual uso servirà tutto questo in altre mani”.
7
Si vedano i contributi più recenti di Horti Romani 1998 e soprattutto TOMEI 1992 e TOMEI 1998. Si segnalano inoltre anche CARROLL 2003, nonché i contributi su Villa Adriana di Wilhelmina Jashemski e Eugenia Salza
Prina Ricotti del 1987 e 1992. Di quest’ultima si veda, Villa Adriana: il Sogno di un Imperatore, Roma 2001.
8
Boni elencò le specie di piante riconosciute a Pompei, nella Villa di Livia a Prima Porta e sul Palatino in
Flora dei Monumenti, Roma 1896. Si veda: SETTIS 2002.
9
Reminescenze di scorci o vedute di Pompei sono frequentissimi dei giardini inglesi sette-ottocenteschi.
10
I due punti di vista della letteratura sull’arte dei giardini erano infatti da un lato l’approccio in chiave
storica, come disciplina autonoma, e dall’altro la riflessione sui criteri e sui nuovi orientamenti di progetto di
giardini di qualità.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
157
latino11. Il Colle era caratterizzato da una spiccata vocazione a giardino e a Viridarium12, che
Boni volle ricreare come strumento per proteggere la flora italiana e specialmente locale13. Fu
particolarmente soddisfatto quando anche gli archi acuti di Villa Mills furono schermati dalle
trasparenze dell’edera, pianta che interpretava l’architettura di Walter Scott semplicemente
come supporto e impalcatura dei suoi inviluppi14. Ed anche la Vigna Barberini, oggetto di
recente attenzione, costituiva un ulteriore angolo verde sul Palatino, occupato nella sua zona
centrale dalla Domus Flavia e Augustana circondate da spazi verdi15.
Occorreva tuttavia esplicitare precisi criteri in materia di progetto degli elementi naturali da inserire in presenza di ruderi antichi ed eventualmente tardo antichi o medievali. L’architetto-archeologo doveva acquisire un’adeguata competenza di storia, giardinaggio, orticultura, geologia e botanica, e persino una buona conoscenza ecologica, per operare una meditata
scelta di erbe, arbusti, piante e fiori, tratti prevalentemente dal repertorio del sapere e della
tradizione degli antichi, ma non solo, anche dalla tradizione del sito. L’indagine relativa alla
flora ruderale e spontanea rilevabile sui monumenti romani non era nuova: forse l’esempio
più studiato nel tempo, in assoluto, è stata la vegetazione del Colosseo, oggetto di un inventario floristico fin dal 1643: ci riferiamo al Plantarum amphitheatralium catalogus, Romae 1643,
opera da Domenico Panaroli. Con il contributo del botanico inglese Richard Deakin, Flora
of the Colosseum of Rome, London 1855, opera che Boni probabilmente conosceva, si individuarono ben 418 specie diverse16. Le rovine, in quanto emergenze, dovevano essere percepite
dal visitatore con l’emozione di una continua dilettevole scoperta, sullo sfondo di una cornice
vegetale ricca di forme e di colori vivaci immerse in un ambiente suggestivo, in un registro
intessuto di storia, natura ed arte.
11
CATALLI 1997.
TEA 1932, II, p. 293. “Tra tanti centenari (Boni) non volle dimenticato quello dei semi di acacia indica
farnesiana, germogliati la prima volta sul Palatino, nel 1611. ‘Non è anniversario trascurabile’ scriveva Boni,
“quando pensi che l’ottimo Cardinale Odoardo inaugurava così l’importazione di piante americane”. Boni poi
sottolinea (p. 294) il ruolo svolto dagli Horti Farnesiani nel diffondere piante commestibili, come ad esempio
il pomodoro (che Boni da botanico istruito con l’herbarium linneum cita con corretto nome latino: solanum
lycopersicum), provenienti dalle Americhe.
13
TEA 1932, II, p. 299. Boni raccomandava: “Protegga ciascun paese la propria flora” e non si ripeta ovunque il solito “campionario” di piante esotiche. Il Viridarium doveva ospitare le piante cantate da Virgilio e quelle
raffigurate nella casa di Livia. Boni dichiarava “Vorrei far ricca la flora palatina, vorrei far sentire l’influenza educativa del rispetto alle piante. Così Boni enunciava il suo nuovo programma, che non era soltanto abbellimento
delle rovine, ma educazione degli uomini. Il giardiniere diventa apostolo”.
14
TEA 1932, II, p. 300. In una lettera inviata a Frolin Boni scrive: “I suoi bossi prosperano in modo degno
del donatore e le edere cominciano a salire su villa Mills, per inverdire i pilastri pseudo-gotici, che una volta ben
avviluppati di verde saranno belli a vedere. Così il fato eterno aveva stabilito che le costruzioni walterscottiane
di Ms. Mills servissero da intelaiatura di sostegno alle edere froliniane”.
15
VILLEDIEU 2001; ROYO 1999; HOFFMANN WULF 2004.
16
CANEVA 2004. Ricordiamo la pubblicazione di A. SEBASTIANI, Romarum plantarum fasciculus alter. Accedit
enumeratio plantarum sponte nascentium in ruderibus amphitheatri Flavii, Roma 1815 e Florae romanae prodromus exhibens centurias…, Roma 1818. Nel caso del Colosseo e data l’importanza storica della vegetazione presente, può sorgere il problema di una conservazione estesa agli elementi botanici. Il tema della flora spontanea
a Roma, stimata a circa 1300 specie, è stato di recente affrontato in GRAPOW 1995.
12
158
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Secondo Boni era poi necessario che l’architetto si occupasse in prima persona della
progettazione, dell’impianto, della cura e della manutenzione del sito archeologico. Questo
interesse e questo impegno lo avvicinavano al dibattito relativo al giardino inglese edoardiano. Si potrebbe ipotizzare anche, con una certa forzatura, che Boni abbia avuto, tra i primi
archeologi in Italia, l’intuizione profetica di cominciare a dissodare un terreno poi destinato,
pur con notevoli discontinuità, a svilupparsi nella cultura post-moderna17.
La cultura anglosassone nell’ambito dei giardini e Boni
Considerati nel contesto anglosassone18, i percorsi intellettuali e le idee del Boni riguardo
al rapporto privilegiato e “guidato” tra la flora e le vestigia antiche, devono opportunamente
essere riportati alle discussioni sorte in Inghilterra e rimbalzate anche oltreoceano, intorno ai
principi che presiedono all’allestimento dei giardini, e soprattutto intorno al problema della
valorizzazione e salvaguardia dei ruderi con la pertinente flora (un tema più volte affrontato
autorevolmente da Marcello Fagiolo e da Paolo Fancelli).
Il dibattito sul giardino inglese tra Ottocento e Novecento si esemplifica con efficacia
ricordando la critica edoardiana al giardino vittoriano, rivolta alle sue rigide forme geometriche e stereotipe, ai modelli esterofili e alle opere artefatte o meccanizzate19, alla sovrabbondanza di elementi architettonici (come le grandi serre o le aranciere in ghisa e vetro), all’utilizzo dei parterres di fiori stagionali, e ripetitivi nel loro effetto multicolore e nei prevedibili
accostamenti convenzionali. Su tali argomenti sorgevano appassionanti diatribe, seguite da
un folto pubblico: basti citare, come esempio fra tanti, la querelle tra William Robinson e Reginald Blomfield20, l’uno contro, e l’altro a favore, dell’opportunità di inserire terrazzamenti
nei parchi21.
17
Proprio alla fine dell’Ottocento si moltiplicano gli studi sulla storia botanica delle piante nelle grandi
capitali europee, in particolare Parigi, Londra e Roma, studi che oggi consentono una lettura dei cambiamenti
della flora urbana, con particolare riguardo ai ruderi e alle mura della città. Ci riferiamo all’approccio storico
e filologico al verde urbano al problema della migrazione e diffusione delle piante, e alla geografia botanica,
vista in rapporto alla conservazione della flora, del patrimonio della natura e delle memorie di una città e di una
nazione.
18
Si semplifica molto escludendo influenze ed apporti dalla Francia e dalla Germania, che non vengono
qui presi intenzionalmente trattati dati i limiti a disposizione.
19
Ad esempio l’uso della falciatrice meccanica inventata da Edwin Beard Budding consentiva un taglio
radente e rapido (ma anche duro e innaturale) ed alleggeriva il lavoro del giardiniere.
20
Uno dei precursori, per quanto concerne la difesa della natura e le linee guida del garden design, del movimento dell’Arts and Crafts cui si ispirava Boni, Robinson (che si avvaleva di opere di carattere botanico come
quella di MOORE 1867 o WATSON 1847-1859) aveva scritto diversi libri tra cui vanno citati The alpine flowers for
english gardens (1870) con lo studio del giardino roccioso, e specialmente The wild garden or, our groves and
shrubberies made beautiful by the naturalization of hardy exotic plants wuth a chapter of British wild Gardens,
London 1870, ora riproposto in Il giardino naturale, Padova 1990. Reginald Blomfield era fautore della via classica e storicistica, nel rispetto della tradizionale vittoriana dell’arte dei giardini.
21
Due posizioni polemiche opposte, che tuttavia sul piano pratico, nell’attuazione effettiva dei giardini e
dei parchi, si stemperavano in reciproche concessioni.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
159
Fig. 1 - L. Carrogis, detto Carmontelle, raffigurazione della consegna delle chiavi del Parc Monceau (Les Folies
de Chartres), Parigi proprietà del Duca di Chartres.
Le dispute non erano aliene da argomenti di etica, riscontrabili, ad esempio, nell’insistenza sul valore morale e didattico dello studio, della conservazione della natura22 e dell’allestimento dei giardini in quanto english wild gardens, considerati uno strumento, anche di
carattere politico, per dare nuovo impulso alla ricerca dell’identità e della cultura nazionale.
Gli argomenti di estetica del giardino, indagati dagli studiosi di filosofia dell’arte, venivano
riflessi nella trattatistica (tra i landscape architects prevaleva tuttavia uno scetticismo riguardo alle teorizzazionie) e soprattutto nell’analisi della percezione visiva23. In pittura, un’arte
che esercitò una notevole influenza sulla concezione dei giardini inglesi, si riscontrava una
tendenza al naturalismo: carattere dominante e centrale della riflessione filosofica dell’Ottocento, si delineava in rapporto e in contrasto con le correnti neoclassiche, post-romantiche
e positivistiche. Questa tendenza nell’arte dei giardini non era esente da inclinazioni verso il
revival dell’arte dei paesaggisti seicenteschi e settecenteschi, e si ispirava a realizzazioni, come
Parc Monceau, dovute al genio di pittori24 (fig. 1).
22
A Venezia, ad esempio, l’Orto Botanico di San Giobbe era stato smantellato alla fine degli anni Ottanta
dell’Ottocento e trasformato in un silurificio di fabbrica prussiana.
23
MOSSER, NYS 1995. Da ultimo M. FAGIOLO, “La bellezza della natura”, in SISINNI 2003, pp. 119-127.
24
Parc Monceau, situato presso un villaggio vicino a Parigi, proprietà del Duca di Chartres (Louis Philippe Joseph, poi denominato Philippe Duca d’Orléans, dal 1785), fu sottoposto ad una fase di nuovo allestimento,
160
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Le discussioni in merito erano particolarmente vivaci, per antica consuetudine, nella
cultura britannica, anche se poi gli artefici dei giardini finirono per trovare nella pratica, a
fronte dell’apparente rigidità delle posizioni polemiche, compromessi ragionevoli, vie intermedie e uno stile pragmatico e sperimentalista: questi comportamenti furono adottati sia
dagli architetti paesaggisti e dalle donne pittrici e giardiniere, come Gertrude Jekyll, la quale
si ispirava alla concezione di William Robinson, dall’altro dai committenti stessi, non di rado
coautori delle sistemazioni a verde intorno alle loro ville, ed essi stessi giardinieri dilettanti.
Come ha magistralmente dimostrato Patetta (1991) nei suoi studi, la cultura dei giardini non era neppure esente dalla diatriba sorta nel campo della progettazione architettonica
intorno alla questione della scelta di uno stile (revivalism), oppure in alternativa di più stili
del passato (ecletticism, historicism). Problema simile sorgeva intorno alla legittimità o meno
di inventare ex novo o di reinventare un inedito stile proprio del secolo diciannovesimo.
Nell’epoca vittoriana l’approccio sostanzialmente eclettico, con oscillazioni coesistenti o conflittuali tra rivalutazione del gotico come culmine dell’epoca medievale, e rivalutazione del
rinascimento come espressione di una classicità moderna, aveva introdotto temi analoghi nel
dibattito sull’arte dei giardini: in Inghilterra venivano riproposti interi brani di giardini francesi, olandesi o all’italiana, mentre, parallelamente, si adottavano vaste porzioni di giardino
pittoresco all’inglese in Europa25. Specialmente nell’Italia ottocentesca era sorta una vera e
propria moda (l’anglomania), influenzata anche dalla letteratura e dalle puntuali teorizzazioni
del Conte Ercole Silva, Dell’arte dei giardini inglesi, Milano 1801 (2a edizione ampliata, 1813),
opera nella quale il giardino è considerato una forma di arte di fondamentale valore26.
Per quanto riguarda le connessioni tra Boni, amante del connubio tra flora e vestigia
antiche, e la cultura anglosassone (si tratta di una vicenda in continua evoluzione nell’arco
della vita dell’architetto archeologo), si deve certamente distinguere il periodo veneziano di
contatto iniziale con il circolo di Ruskin (1819-1900), da quello romano, più maturo e specifico, sottolineando continuità e fratture di posizioni e pensiero.
affidata al pittore Carmontelle, realizzata dal 1773 al 1778, con l’aiuto dell’architetto Poyet. Il programma era
quello di riunire in un solo giardino “straordinario” tutti i tempi e tutti i luoghi. Presenta elementi tratti dalla
storia dell’architettura: l’obelisco, la piramide, la naumachia, il ponte romano, false rovine, cui poi si aggiunsero l’arco di trionfo, il tempio sull’isola nel lago ed altre fabbriche. Si riscontrano segni ispirati al linguaggio
della massoneria, essendo Philippe d’Orléans (soprannominato Egalité Gran Maestro d’Oriente). Il giardino
divenne pubblico durante il periodo della rivoluzione, e poi, restituito al proprietario, definitivamente nel 1860,
acquistato dal comune di Parigi. Non va forse ignorata una attuale (sorta alla fine del Novecento) tendenza, in
Inghilterra, al revival of landscape painting, che si rifà alla secolare tradizione della pittura inglese. Questa cultura
neoromantica apre la via alla rivalutazione, da lungo attesa, della storia del secolo diciannovesimo.
25
BAGATTI-VALSECCHI, KIPAR 1996; WEST 1999.
26
Sulla tracce di Hirschfeld, autore del primo sistematico studio in cinque volumi, Theorie der Gartenkunst
(1779-1785). Da segnalare anche l’opera di C. PERCIER, P. FONTAINE, Choix des plus célebre maisons de plaisance
de Rome er de ses environs, Paris 1809, e W.P. TUCKERMANN, Die Gartenkunst der italienischer Renaissance-Zeit,
Berlin 1884. L’opera di Silva, nella versione ampliata del 1813, è stata riedita da Gabriella Guerci, Chiara Nenci,
Lionella Scazzosi con apparati a cura di Laura Pelissetti, Firenze 2002. Sul giardino romantico in Italia: BENTIVOGLIO, FONTANA 2001; VENTURI-FERRIOLO 1998.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
161
Boni a Venezia: Ruskin, Webb e Morris
Occorre dunque in primo luogo risalire all’ambiente veneto, in cui si erano ormai consolidati sia l’interesse per il pittoresco e il naturalistico, sia anche un’attenzione agli aspetti più
propriamente botanici dell’ambiente: basti qui ricordare i rapporti di sinergia che, sul tema
della conservazione diffusa, relativa al verde e al costruito storico, si stabilirono, fin dal primo
incontro, tra Ruskin, Zorzi, e lo stesso Boni. Personalità spiccate e caratteri indipendenti,
dotati di talento e ingegno, come Boni, Ruskin, Morris consentivano soprattutto reciproca
amicizia, stima, moti affettivi ed intese intenzionalmente limitate dalla consapevolezza di appartenere a mondi, quello nordico e quello latino, profondamente diversi per cultura, storia,
clima, costumi27. Condivisa era tuttavia l’ansia di Boni e dei “ruskiniani” riguardo al futuro e
alla conservazione delle architetture vetuste medievali di Venezia, minacciate da sventramenti
e demolizioni28. Comune era la voglia di combattere battaglie scomode e dure per tali ideali
(soprattutto, ma non solo, a mezzo della stampa internazionale), a prima vista utopistici, e comune la volontà di prolungare quanto possibile, nel paesaggio urbano e rurale, un equilibrio
fragile, tra spinta al rinnovamento e difesa delle preesistenze. Era acuta la consapevolezza
dei rischi di operazioni di consolidamento e di interventi subdolamente invasivi, camuffati
dalla parola altisonante, positiva e suadente di “restauro” o di “ripristino”: critiche mosse dal
Movimento Arts and Crafts e dalla Society for the Protection of Ancient Buildings, due associazioni fondate negli anni Settanta dell’Ottocento, specialmente da William Morris, di rilevanza
fondamentale per il sostegno dato alle idee del giovane Boni, o al patrizio Alvise Zorzi, o a
quanti, come l’irlandese Deans, condividevano gli stessi principi29. I programmi di restauro
creavano grandi aspettative, ma nella pratica si rivelavano invece operazioni irreversibili, e
non di rado risultavano poi promesse non mantenute, o addirittura interventi inutilmente
demolitori e devastanti.
In un certo senso l’interesse per il giardino, come luogo del governo dei mutamenti
biologici ed architettonici, e come opera viva e metamorfica, frutto dell’incessante cura e del
paziente esercizio dell’arte (a garanzia dell’integrità e sopravvivenza del manufatto polimaterico e biologico corrispondente ad un’idea originale), aveva delle assonanze, non casuali, con
l’acuta sensibilità dei “ruskiniani” per i problemi connessi con le rapide e spesso incontrollabili trasformazioni, percepite in negativo, della città e della civiltà ottusamente meccanica
ottocentesca, volta a soddisfare con ingordigia cieche, egoistiche esigenze.
27
TEA 1932. Inoltre, riguardo a Ruskin, si vedano le relazioni al convegno di Federico Guidobaldi e Paolo
Fancelli pubblicate in questi Atti.
28
Boni aveva tradotto tempestivamente la lettera aperta di Morris relativa alla situazione veneziana, e personaggi di spicco, come Gladstone (il primo ministro che giocò un ruolo politico fondamentale per cercare di
risolvere la questione dei cattolici irlandesi) e Disraeli, appoggiarono le proteste presso il governo italiano per la
situazione di pericolo cui erano sottoposti i monumenti di Venezia.
29
TEA 1932, I, p. 29, lettera di Deans a Boni: “Mantenere un edificio in efficienza è cosa difficile, La mano
del tempo opera col suo morbido tocco in concerto con l’abilità dell’artista originale. Il nuovo, per quanto ben
condotto, non è che un misero surrogato dell’antico, e quando vengono mischiati insieme, sorge dubbio sull’autenticità delle singole parti, e tutto l’interesse dell’opera è perduto”.
162
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Non c’è dubbio che furono intensi i rapporti di reciproca influenza tra Italia e Inghilterra nel campo dell’arte dei giardini: gli italiani furono soggetti ad una forte anglomania e ad un
nuovo culto per il landscape garden, mentre gli anglosassoni rincorrevano il mito del giardino
rinascimentale italiano30. Gli anglo-americani, trapiantati in Italia, crearono magnifici giardini
otto-novecenteschi nella penisola, e soprattutto in Toscana: basti citare la Villa I Tatti, ispirata
ad una rivalorizzazione dei principi del giardino all’italiana. La scelta fu forse ispirata alla recente opera della statunitense Edith Wharton (1862-1937), amica di Berenson, committente
della Villa fiesolana31, autrice di un importante volume dedicato ai giardini storici, dal titolo
Italian Villas and Gardens, illustrated with pictures by Maxfield Parrish (1904), recentemente
studiata da Vivian Russel (1997)32. Nel libro, destinato a notevole successo, Edith Warton,
sosteneva però anche, riecheggiando temi del dibattito inglese, che ci apprestiamo a trattare,
lo stretto legame tra fiori e giardino, sottolineando addirittura che la grazia del giardino dipendeva proprio dalla bellezza dei suoi fiori33. Del resto il richiamo ai giardini rinascimentali
30
BULLEN 1994; I giardini delle Regine 2004.
Mary Pearsall-Smith coniugata Costelloe (1864-1945), sposò in seconde nozze nel 1900 Bernard Berenson, di cui era stata alunna: studiosa di arte italiana, insieme al marito creò uno stupendo giardino nello stile
neorinascimentale toscano intorno alla Villa de I Tatti a Settignano (acquistata nel 1905). L’architetto Cecil Ross
Pinsent - il paesaggista che sarà chiamato dalla marchesa Iris Origo a progettare il giardino della Villa La Foce,
Chianciano Terme, Siena, dal 1927 al 1939 - progettò un giardino di delizie, anche grazie all’inventiva di Geoffrey Scott (1883-1929), in parte con caratteri tipici dell’english garden, quali il prato verdeggiante (assicurato
dall’acqua di una capace cisterna), e dell’italian garden, con parti costruite, parterres, nemora tonsilia, walks,
scale e terrazzamenti. Insieme a Fiesole e Vincigliata, Pratolino, gli Orti Oricellari, il Parco Puccini di Scornio,
opera di Luigi Cambray Digny, con il diruto tempio di Pitagora, le ville toscane erano particolarmente apprezzate dai visitatori anglosassoni, come anche le ville liguri, in particolare il Giardino Durazzo Pallavicini (allestito
dal 1840, inaugurato nel 1846, opera dell’architetto teatrale, pittore e scenografo Michele Canzio (1788-1868),
situato sulla collina di San Martino a Pegli, pertinenza della Villa (oggi Museo Civico di Archeologia Ligure). Il
Parco fu voluto da Ignazio Alessandro Pallavicini, nipote e unico erede di Clelia Durazzo Grimaldi, insigne botanica e promotrice dell’orto botanico. Il giardino acquistò presto una risonanza internazionale per la ricchezza
dei suoi ambienti, che sembrano tratti da scenografie teatrali e in parte ispirate agli interventi di Canina per la
riqualificazione e ampliamento di Villa Borghese: in particolare il Tempio di Flora e il Viridario con la Silfide
alata, e il Tempietto di Diana, la cascata con il coccodrillo e l’aquila, il castello trecentesco, l’arco di trionfo, le
sponde rocciose del lago, le grotte, il parco dei divertimenti, il Mausoleo del Capitano, e la cappellina - edicola
della Madonna. I Tatti ospitano oggi una sede della Harvard University, in quanto Center for Italian Renaissance
Studies. Sono diversi gli autori che trattano del tema: da ultimo P. GRASSONI, F.V. BESSI in, Artifici d’acque e di
giardini 1999, pp. 284-289 e DOMINICI 1995. Si veda WEAVER 1997.
32
Occorre anche ricordare l’opera di Charles A. Platt, citata da COFFIN 1999. Coffin ricostruisce le tappe
fondamentali della cultura angloamericana primonovecentesca (fino al 1925) sul tema del giardino italiano e all’italiana, da Pray a Hamlin, da Forbes a Eden, da Jekyll a Sitwell, da Triggs a Elgood, da Le Blond a Cartwright
fino a Marie Luise Gothein, grande ammiratrice di Ruskin, Geschichte der Gartenkunst, in due volumi riccamente illustrati (più di seicento immagini), Jena 1914 (2a ediz. tedesca 1926, 1a inglese 1928). Coffin inoltre cita i
contributi di Gnoli, Ashby, Hülsen, Dami, Williams, Ponti, Pauly, Gromort, Faure, Eberlein, Praz, Shepherd e
Jellicoe, ma ignora molti autori italiani, tra cui, per quanto riguarda Roma e i primi quindici anni del Novecento,
la figura di Giacomo Boni (la Flora Palatina) e Rodolfo Lanciani (i dintorni di Roma).
33
BROWN 1989, p. 310, n. 1; MAZZANTI 1995.
31
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
163
italiani non era stato estraneo alla cultura vittoriana, che era avversata da Robinson per quanto riguarda le sue espressioni più elaborate, artificiali ed esterofile34.
Grazie, infatti, all’approccio sperimentalista ed eclettico che si era imposto intorno alla
metà dell’Ottocento, nei giardini inglesi vi erano molto di frequente interi settori di giardini
all’italiana, gli italian renaissance gardens. Molti architetti giardinieri edoardiani però non
intendevano più imitare semplicemente le forme del giardino rinascimentale italiano, bensì,
semmai, lo spirito del Rinascimento nell’arte dei giardini35, ma non mancavano mecenati originali come William Waldorf Astor (1848-1919) I Visconte, finanziere americano, anglofilo
e filoitaliano, ambasciatore in Italia dal 1881 al 1885, che addirittura acquistò dal Principe
Borghese una balaustrata della Villa Pinciana, ormai in procinto di essere venduta (apertura
al pubblico il 12 luglio 1903)36. Gli elementi furono trasportati nel 1896 a Cliveden, Buchinghamshire, per essere rimontati ad hoc, in modo da costituire una terrazza ai piedi delle scale
scenografiche di accesso37.
Boni a Roma e l’eredità del Canina
Occorre a questo punto riflettere sul clima romano in cui Boni si inserì a partire dagli
ultimi anni Ottanta. A Roma Giacomo si doveva infatti riorientare in un diverso contesto,
accogliendo tendenze che, per affinità, riportavano, a nostro avviso, ad alcuni aspetti della
34
Lo scozzese John Claudius Loudon (1783-1843), grande estimatore dei giardini all’italiana, e delle teorie di Uvedale Price e Humphry Repton, con la sua celebre opera Enciclopaedia of gardening (1822), tentò di
introdurre nel giardino vittoriano ad impianto formale nuovi elementi di pittoresco considerato un carattere
distintivo dell’englishness, mentre il suo interesse per le specie esotiche lo spinse a progettare serre, limonaie ed
aranciere. Questi edifici venivano utilizzati molto anche in Italia: celebri erano le serre del Giardino di Boboli a
Firenze e a Roma quelle in Vaticano e quella per coltivare gli ananas al Quirinale. Secondo i principi di Loudon
era da preferire una disposizione isolata delle piante pregiate, che potesse valorizzarle, al fine di distinguere il
parco dal paesaggio naturale e campestre, e veramente riconoscere nella composizione un’opera d’arte. Per
molti anni dal 1833 al 1838 lavorò al suo progetto Arboretum et Fructicetum Britannicum, uno studio di dendrologia affidato a molti artisti e collaboratori, pubblicato poi in otto volumi nel 1838, con più di 2000 incisioni:
fu un vero disastro dal punto di vista economico, ma estremamente utile sotto il profilo scientifico e pratico,
ed esemplare nella ricca veste editoriale. L’influenza di Loudon si fece sentire soprattutto attraverso le riviste
specializzate, quali il Garden’s Magazine e Gardener’s Gazette, in quanto giornalista di ortocultura. Tra i giardini
realizzati da Loudon basti qui citare il Derby Arboretum e i Birmingham Botanic Gardens.
35
OTTEWILL 1989.
36
L’accesso libero e gratuito alla Villa (sebbene per tradizione fin dalle origini concesso dalla Casa Borghese ai cittadini in tempi predeterminati e probabilmente i giardini segreti, ricchi di piante esotiche e pregiate,
erano preclusi ai normali visitatori), e al suo sconfinato patrimonio architettonico, scultoreo, botanico e avifaunistico certamente fu un avvenimento di eccezionale interesse anche per gli appassionati di arte dei giardini e
diede una prima risoluzione alla richiesta di verde pubblico nella Capitale del Regno d’Italia.
37
La proprietà era molto vasta ed era stata acquisita da Astor nel 1893. La villa, edificata nella seconda
metà del Seicento per il II Duca di Buckingham dall’architetto William Winde, fu rimaneggiata da Thomas Archer e infine ridisegnata da Charles Berry in uno stile italiano per i nuovi proprietari, i duchi di Sutherland. Si
ergeva in posizione dominante sul Tamigi, costituendo una sorta di basis villae, su una sotruzione, edificata da
Berry. La struttura è costituita da un portico di 28 arcate che funge anche da contrafforte al terrapieno su cui è
poggiata la piattaforma, da cui è possibile godere di una vista panoramica sul paesaggio. WAYMARK 2003, p. 11.
164
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
figura di Canina (1795-1856)38, il più autorevole maestro nel campo storico architettonico
(Commissario delle antichità dal 1849), insieme a Fea, Stern, Valadier, Gaspare Salvi, Poletti e Vespignani. Scomparso ormai alcuni decenni prima del trasferimento di Boni a Roma,
Canina, alla cui scuola era stato formato Pietro Rosa39, era sicuramente considerato a livello
internazionale e soprattutto in ambito anglosassone un’autorità insuperata nel settore dell’archeologia e specialmente nella topografia, un campo di studi particolarmente frequentato
dagli antiquari e dagli archeologi italiani e britannici40.
Canina, come Boni, aveva una straordinaria capacità di comunicare con il disegno l’immagine architettonica dell’antico, e al tempo stesso anche una immaginaria forma urbana e
paesaggistica, non solo quando presentava la Roma imperiale, ma anche altre culture di differenti momenti storici, antiche o italiche.
Diversamente dal più rapsodico Boni, l’architetto casalese aveva potuto offrire alle
stampe una produzione letteraria e grafica notevolissima e sistematica, grazie anche alla sua
instancabile capacità di concretizzare e far conoscere in tempi rapidi il proprio lavoro, divulgato dalla tipografia di cui era proprietario. Attraverso la tecnica della restituzione grafica
Luigi esprimeva e comunicava, con disegni particolarmente accurati, in genere planimetrie e
proiezioni ortogonali, la sua interpretazione di un supposto stato originario degli edifici e dei
siti (e in taluni casi anche dei mutamenti intervenuti in successive fasi storiche), non senza
dimostrare una certa attenzione all’elemento vegetale pittoresco41. Dopo la metà dell’Ottocento, sempre più spesso, i cartografi, i topografi e i geografi si avvalsero della fotografia come
strumento conoscitivo e di analisi, e dal primo Novecento in poi utilizzarono i rilievi elaborati con l’ausilio delle foto aeree42. Questa nuova tecnica, impiegata anche nei libri dedicati
ai giardini, si aggiungeva alla necessaria documentazione grafica per illustrare gli scavi e la
stratigrafia: Boni, sempre molto occupato in attività di scavo, perlustrazione, studio e restauro, coordinava con difficoltà una folta schiera di validi disegnatori professionali e dilettanti, i
quali lavoravano con scarsissima retribuzione.
Inoltre Boni, col suo carattere perfezionista allungava i tempi per la pubblicazione di
una progettata opera magna sui Fori e sul Palatino, che non vide la luce, proprio perché egli
attendeva per avere una documentazione completa e scientificamente valida. Accurati rilievi
del Foro Romano erano, su richiesta di Boni, in genere condotti anche con l’ausilio della
38
DI MICELI 2004.
Negli scavi del Palatino e degli Orti Farnesiani Rosa era stato precursore di Giacomo Boni, e come lui
poco prolifico nel comunicare i risultati degli scavi.
40
QUILICI, QUILICI-GIGLI 2004.
41
PELLEGRINI 1863; CANINA 1851.
42
Tali rilievi erano in genere condotti con l’ausilio della strumentazione e degli esperti del Genio Civile e
Militare, cui si rivolgeva, a tempo debito, lo stesso Giacomo Boni, quando sollecitava in tal senso il Ministero,
per attuare una precisa cartografia del Foro Romano. Sul tema N. MANCASSOLA, F. SAGGIORO, “Il contributo della fotografia aerea alla comprensione dei paesaggi antichi medievali”, in Archeologia Medievale, XXVI (1999),
PDF format, http:/medievalarchaeology.unisi.it.
39
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
165
Scuola di Applicazione per Ingegneri e con la strumentazione degli esperti del Genio Civile
e Militare43.
Boni, quindi, poteva ormai avvalersi anche della fotografia per documentare il proprio
lavoro di scavo, che conduceva con metodo tendenzialmente più rigoroso e scientifico rispetto a quello adottato dal Canina. Data la necessità di presentare (anche graficamente) una stratigrafia relativa anche ad epoche prerepubblicane, l’attività di sterro nelle aree archeologiche
più importanti di Roma, dal Foro Romano (dal 1898, prima affidata a Rodolfo Lanciani) al
Palatino (dal 1907), raggiungeva livelli notevoli di profondità. Ciò provocava un ammasso di
terreno e grande dovizia di materiali erratici pressoché ingovernabili, non di rado addirittura
indebitamente sottratti alla catalogazione per scopi di lucro o collezionismo personale.
Inoltre, per la stessa ragione, si producevano notevoli sovvertimenti nel terreno dissodato, con gravi conseguenze per l’aspetto del sito archeologico. In tal modo si deludeva l’aspettativa dei visitatori (spesso sovrani o dignitari), che fantasticava un romantico “paesaggio con
rovine”, simile ai dipinti di genere del Sei-Settecento, molto suggestivo e romantico44.
Boni intravide la possibilità, almeno teorica, di ricreare un ambiente allusivo all’antico.
Le preoccupazioni di Boni nei riguardi della flora, della conservazione dell’aspetto pittoresco
e più autentico delle aree scavate, proprio a causa dell’alto rischio di distruggere un delicato
equilibrio tra natura e ruderi, erano molto più gravi, di quelle paventate dal Canina che, con
uno scavo poco profondo, agiva molto più in superficie, limitandosi spesso a congetturare
sulla carta ipotesi ricostruttive, o a reintegrare con una certa libertà inventiva.
Canina e la cultura accademica inglese
Esponente di spicco della Pontificia Accademia di San Luca (ove era professore della
Classe di Architettura), archeologo (membro della Pontificia Accademia di Archeologia), architetto e pubblicista molto prolifico, Canina era stato in rapporto stretto con gli accademici
colleghi britannici, secondo una tradizione di lontane radici45. Le più prestigiose istituzioni
43
CAPODIFERRO, FORTINI 2003, dai documenti d’archivio risulta che Giacomo Boni sollecitava in tal senso il
Ministero, per attuare una precisa cartografia del Foro Romano.
44
Su tale affascinante argomento Gilbert Laing Meason scrisse un libro destinato ad avere, nonostante
l’esiguo numero di copie vendute, una grande influenza nel mondo anglosassone: On the Landscape Architecture
of Great Painters in Italy, London 1828.
Meason definì con un nuovo termine un modo di progettare il paesaggio, che attraverso le reinterpretazioni
di John Claudius Loudon e di Andrew Jackson Downing, di Patrick Geddes e Thomas Mawson, fino a Frederick Law Olmstead (autore, insieme a Calvert Vaux, del progetto per Central Park, New York), fu fortemente
influenzato da William Robinson. Si impose nel mondo anglosassone, persino nelle istituzioni (si pensi all’Institute of Landscape Architects, 1929), stabilendo persino un ambito autonomo della professione di architetto.
45
Canina, principe perpetuo dell’Accademia di San Luca, era stato accolto in trionfo a Londra per esaminare i marmi del Partenone, conservati nel British Museum, e il suo parere relativo al mantenimento, all’autenticità delle metope, e la rinuncia ai restauri era stato seguito, pur dopo un acceso dibattito.
166
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Fig. 2 - L. Canina. Roma, Villa Borghese. Propilei egizi. La foto (dell’autrice) è stata eseguita subito dopo i
restauri. L’ aspetto pittoresco immaginato da Canina per i propilei egizi, stravolto dal tanto deprecato, tuttora
sussistente “taglio”. Interessante il confronto con due raffigurazioni di Landesio e Rosa.
britanniche, orientate verso una corrente classicista, come la Royal Academy of Arts46, avevano una profonda stima per i colleghi italiani loro contemporanei.
La pressoché totale fedeltà alla cifra classica di Canina era invece motivo di un certo
criticismo da parte dei colleghi inglesi47, che lo ritenevano vittima di pregiudizi nei confronti dell’età medievale, atteggiamento che le generazioni successive di eruditi britannici non
avrebbero potuto rimproverare a Boni48. Nel nuovo clima della Restaurazione si tendeva, in
Italia e in Inghilterra, a passare sotto silenzio l’importante contributo dato dalla cultura francese negli anni del dominio napoleonico nello Stato Pontificio, proprio a proposito del verde
46
DENIS, TRODD 2000, in particolare: R.C. DENIS, Academicism, imperialism and national identity,
pp. 53-70; P. DURO, The lure of Rome, pp. 133-149; M. GIEBELHAUSEN, Academic orthodoxy versus Pre-Raphaelite
heresy, pp. 164-178; C. TRODD, Academic cultures: the Royal Academy and the commerce of discourse in victorian
London, pp. 179-193. Il pittore e letterato Joshua Reynolds, primo presidente, e cofondatore dell’accademia,
attiva dal 1768, tra i diversi discorsi accademici ne aveva dedicato uno proprio all’arte dei giardini: “Discourse
XIII” (1786), Discourses on Art, New Haven & London 1997. Tra i professori di architettura sono da ricordare
Soane e Cockerell. Su quest’ultimo WATKIN, HARRIS, LAING 1987.
47
Donaldson, in BENDINELLI 1953, p. 423.
48
W. OECHSLIN, “Per una ripresa degli studi su Luigi Canina e sul classicismo”, in SISTRI 1995, pp. 10-11.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
167
Fig. 3 a-b - Roma 1842. Vedute principali della Villa Borghese, delineate da E.L. e P.R (Eugenio Landesio e
Pietro Rosa), Propilei Egizi e Arco del Lago.
168
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Fig. 4 - Luigi Canina, “Idea di un pubblico Circo per le corse /proposto a farsi fuori di Porta del Popolo nella
parte inferiore dell’Orto del Drago e della Vigna Virgili / Terreni di proprietà dell’Ecc. ma Casa Borghese /
Pensiero di variazione di Variazione del Giardino nello stile Anglo-Cinese / già disegnato sui medesimi / Terreni
per unirli alla Villa Pinciana, Scala di Metri 200 di 1 / 1000 per 1 Metro / Scala di palmi romani 1200”, (18241825), 690 x 965, penna, inchiostri colorati e acquarello su carta bianca pesante. Biblioteca Casanatense, Fondo
Canina, 20 A I 46 d.
urbano a disposizione dei cittadini. Per risolvere il problema della carenza di passeggiate e
di parchi pubblici, erano stati prodotti nei brevi anni della dominazione francese tanti improbabili e magniloquenti progetti ineseguiti. Però era sotto gli occhi di tutti la realizzazione
scenografica del Pincio e della forma moderna di Piazza del Popolo, opera del Valadier, con
l’ausilio di decisivi suggerimenti progettuali francesi.
Canina, allievo di Valadier, era stato autore di rilevanti progetti e proposte, come quelle
per il Tuscolo e per la Via Appia, ed era particolarmente apprezzato per i rilievi, i restauri
grafici e per le sue brillanti “restaurations”, come quelle per la Villa Laurentina descritta da
Cecilio Plinio il Giovane (1840) o per la Villa Adriana49. Quei bellissimi e accurati disegni,
49
Va ricordato, in proposito, anche il modo personalissimo del Canina di visualizzare, con una serie di
planimetrie articolate e di raffigurazioni, complessi di alto valore archeologico, come appunto la villa adrianea
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
169
Fig. 5 - Luigi Canina, “Idea di un pubblico Circo [...]” citato alla fig. 4.
pubblicati dallo stesso Canina, per Villa Adriana, o per Villa Borghese, costituirono per lungo
tempo il punto di massima creatività nello sforzo di valorizzare le rovine antiche, e di stimolare un dialogo costruttivo tra mitica eredità classica e nuovi percorsi archeologici.
L’architetto casalese possedeva un gusto molto raffinato per la raffigurazione dei paesaggi della campagna romana (ritmati dai ruderi degli acquedotti) e della natura spontanea:
particolarmente suggestivi erano i suoi disegni del territorio della Tuscia, o dei luoghi etruschi
intorno a Veio50.
(1856). Si tratta di un modo raffinato e pittoresco, ma al contempo più fedele alla realtà delle rovine e delle
presenze vegetali, rispetto alle restituzioni grafiche di un Ligorio, di Contini, o anche, in tale specifico caso del
visionario Piranesi, che pure era stato, come sempre, magistrale, ma forse troppo fantasioso, oppure ancora di
un Luigi Rossini. La ricostruzione ideale delle ville pliniane interessò molti architetti. Qui si limitiamo a citare
le illustrazioni di Karl Friedrich Schinkel. Sull’argomento si veda COFFIN 1999. Lo studioso sottolinea come alla
fine dell’Ottocento lo studio dei giardini italiani sia divenuto oggetto di studio prevalente da parte della cultura
anglosassone (p. 28). Le ville pliniane, in particolare il Laurentinum presso Ostia, fu oggetto di diverse restituzioni grafiche, da Scamozzi a Robert Castell a Schinkel, Pierre de la Ruffinière du Prey, fino alle realizzazioni
ispirate all’antico, come Monticello di Thomas Jefferson.
50
La curiosità di Canina e di Nibby (come di Fea, di Angelini, di Uggeri) per i paesaggio dell’agro romano, per i dintorni di Roma e per i siti archeologici che si snodavano lungo le vie consolari, in una sequenza
170
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Per comprendere la stretta relazione tra l’opera di Canina e il tema in oggetto, in quanto
premessa di argomenti poi affrontati con maggiore incisività da Boni, e per mettere in evidenza la complessità degli intrecci che si venivano a determinare tra flora e vestigia, basti riflettere
come, a proposito del Tuscolo51, Canina avesse il compito di scavare nei giardini di una villa
rinascimentale, per riesumare rovine antiche. Una volta riemersi, i ruderi entravano a far parte dell’allestimento del giardino, modificandolo e rendendolo più prezioso52.
È indubbia l’apertura di Canina al dibattito internazionale e sono noti i suoi stretti legami con il mondo anglosassone, in particolare con Charles Robert Cockerell (1788-1863),
famoso architetto vittoriano, che si muoveva nella cerchia della Royal Academy of Arts53. La
ricomposizione, piuttosto inventiva, delle rovine e dei frammenti erratici dei sepolcri della
Via Appia, gli scavi e gli interventi nel Tuscolo del Canina segnano un gusto architettonico
un po’ eclettico54 che si potrebbe definire storicistico, rivelatosi già chiaramente nella riqua-
ininterrotta di natura e arte, l’interesse per l’Etruria, le “escavazioni” di Veio e le indagini sulla Tuscia, gli studi
dei monumenti della Sabina (già avviati dal Guattani), aprivano campi di interesse e di indagine ancora relativamente poco esplorati. Nei loro tradizionali Tour nella penisola, gli inglesi, e fra loro specialmente gli architetti
archeologi, non potevano che apprezzare tali paesaggi mediterranei aridi e densi di storia. Particolarmente
suggestivi e come apparentemente immobili nel passato erano i territori del Lazio, della Magna Grecia, della
Campania, ricchi di memorie antiche, come i luoghi dell’Asia Minore, della Grecia liberata dai Turchi, delle
colonie dell’Impero, ove gli archeologi angloamericani conducevano le loro ricerche, ben attrezzate e finanziate,
ad amplissimo ventaglio.
51
Nella Tenuta della Ruffinella gli scavi avviati da Biondi vennero continuati dal Canina (Gli edifici antichi
dei contorni di Roma cogniti per alcune reliquie, descritti e dimostrati nella loro intera architettura, VI, Roma
1858), che si occupò anche del giardino Luigi Biondi aveva avviato degli scavi intorno agli anni Venti-Trenta
dell’Ottocento, promossi pochi anni prima da Luciano Bonaparte, per il re Carlo Felice di Savoia e la regina
Maria Cristina di Borbone: molti reperti furono inviati al Castello di Aglié (Sala Tuscolana). Oltre alle indagini
di Maurizio Borda, segnaliamo gli studi di Lorenzo e Stefania Quilici Gigli.
52
L’interesse spiccato di Canina per l’architettura domestica, destinato ad assumere sempre maggiore rilevanza in Inghilterra e in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, è stato giustamente sottolineato da Oechslin:
l’architetto casalese individuava nella domus romana, in particolare nelle pertinenti decorazioni pompeiane,
validi paradigmi per una visione innovativa della tipologia della casa moderna, strutturata con colonne di ferro e
ghisa. Si veda OECHSLIN 1995, pp. 10-11. Nell’opera Particolare genere di Architettura proprio degli usi domestici
(1852), Canina proponeva l’impiego di nuovi materiali, come la ghisa, rifacendosi però alle forme antiche delle
colonne pompeiane (a suo avviso un modello fino ad allora trascurato). Apre dunque, pur con una mentalità
eclettica, un capitolo che sarà fondamentale nella storia dell’architettura al volgere del secolo, quello dell’attenzione alla vita domestica, cui egli tenta di dare una forma architettonica inserita nei registri classicistici, non
tacciabili a priori come retrogradi, poco flessibili e antimoderni.
53
Ivi, rivestito il ruolo prestigioso di professore (dal 1839), nelle sue celebri lezioni (tenute dal 18411856), Cockerell sosteneva l’unità delle arti del disegno, in sostanziale affinità con l’impostazione canoviana
dell’insegnamento statale impartito dall’Accademia di San Luca. Come afferma ancora Oechslin Canina fu, tra
i suoi contemporanei, l’esponente più avanzato dei trionfi dell’archeologia classica, nella Roma della Seconda
Restaurazione, da Pio VII a Pio IX. Forse può essere interessante ricordare che Canina fu coautore, con C.R.
Cockerell e John Scandrett Harford of Blaise Castle, del The illustrations architectural and pictorial of the Genius
of Michel Angelo Buonarroti, Londra 1857: con i disegni di Luigi Canina Cockerell presenta un commento di
dodici pagine. Con l’opera, dedicata al San Pietro di Michelangelo, i due autori intendevano dimostrare come i
progetti originali del Buonarroti fossero estremamente più interessanti di quelli poi realizzati, così da suscitare
attenzione anche per il manierismo italiano, in genere criticato e sottovalutato. Si veda: BROUCKE1993.
54
La villa fu acquisita nel 1902/3 e nel 2003 si è festeggiato il centenario del possesso pubblico della villa.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
171
lificazione, attuata a partire dalla fine degli anni Venti, del giardino di Villa Borghese55. Ivi,
come architetto paesaggista prescelto dalla nobile famiglia romana, più tardi Canina realizzò
per Marcantonio V (1814-1886)56 un capolavoro di adattamento al preesistente giardino romantico57. Canina inserì percorsi e grandi viali segnati da presenze architettoniche evocatrici
di monumenti antichi, egizi58, greci e romani, secondo una prassi, che trova rispondenza nel
picturesque garden e nel landscape garden vittoriano britannico (figg. 2-3).
È a questo punto interessante segnalare un disegno poco studiato (una scheda è stata
redatta da S. Pasquali per la recente mostra Villa Borghese) in cui Canina inserisce, nei pressi
del Muro Torto, contiguo ai propilei greci del nuovo ingresso alla Villa dalla Porta del Popolo, un circo all’antica59, un tema che era stato studiato da Bianconi e Fea e illustrato da Angelo
Uggeri60 (figg. 4-5).
Il circo evidentemente avrebbe costituito un’ulteriore presenza qualificante, in quanto
spazio modellato sull’antico, forse avrebbe rappresentato un nuovo Circo Flaminio, oppure
un circo allusivo a quello della Via Appia (di recente studiato dallo stesso Canina), di pertinenza dei Palazzi Imperiali, i quali erano appunto caratterizzati dalla presenza di un Ippodromo.
Anche le finte rovine facevano parte del repertorio utilizzato da Canina, sulla scia delle
tante sperimentazioni inglesi ed europee: false antiche sculture, “follies”, teatri in rovina,
templi, rocce, architetture decadenti e dissestate, erano parte integrante e irrinunciabile dei
giardini italiani e nella pittura di genere, con sempre maggiore insistenza a partire dal XVII
secolo.
55
Dopo gli interventi del landscape painter Jacob More (1740-1793), chiamato (intorno al 1780) dal Principe Marcantonio IV Borghese a produrre un dipinto per la Galleria e a creare, in collaborazione con l’architetto
Antonio Asprucci, coadiuvato dal figlio Mario, un giardino inglese. Sull’argomento: P. ANDREW, “Jacob More e
Villa Borghese”, in CAMPITELLI 2003, pp. 95-97. Apprezzato persino da J. Reynolds, il “roman” More, divenuto
accademico di San Luca, collaborò con Allan Ramsay al saggio sulla Villa di Ovidio a Licenza, ospite al castello
Orsini. Si veda J. HALLOWAY, Jacob More 1740-1793, Edinburgh 1987.
56
Su Villa Borghese si veda il recente CAMPITELLI 2003, con contributi in particolare di S. PASQUALI, “Gli
architetti al servizio dei principi Borghese tra il 1775 e il 1856: Antonio Asprucci, Mario Asprucci e Luigi Canina”, pp. 77-88; P. ANDREW, “Jacob More e Villa Borghese”, pp. 95-97; A. CAMPITELLI, “Il passaggio della Villa al
Comune di Roma”, pp. 167-168. Inoltre DIXON-HUNT 2002.
57
Egli puntava soprattutto su uno stile che, utilizzando la terminologia di J.C. Loudon, si potrebbe definire una via di mezzo tra il gardenesque (una disposizione planimetrica a carattere decisamente artificiale, con
architetture da giardino ed utilizzo di piante esotiche), e il landscape husbandry (ove l’attenzione si rivolge anche
al dettaglio).
58
Attraverso il “taglio” oggi scorre il traffico veloce dei bus e taxi (con attraversamenti pericolosi) e la fermata di autobus è a ridosso dei propilei. Negli spazi interni e le superfici utilizzate a scopi diversi dall’originale
già oggi sono visibili nuovi guasti, del tutto simili a quelli precedenti il restauro.
59
S. PASQUALI, “Gli architetti al servizio dei principi Borghese tra il 1775 e il 1856: Antonio Asprucci, Mario Asprucci e Luigi Canina”, in CAMPITELLI 2003, pp. 77-88.
60
Descrizione dei circhi, particolarmente quello di Caracalla e dei giuochi in essi celebrati: opera postuma del
Consigliere Gio. Ludovico Bianconi, ordinata e pubblicata con note e versione francese dall’Avvocato Carlo Fea e
corredata di tavole rettificate e compite su la faccia del luogo dall’Architetto Angelo Uggeri Milanese, Roma 1789.
172
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
L’amicizia di Boni con i principi Borghese, Scipione, con il quale viaggiò molto in Africa,
in Lombardia e sulle Alpi, e la consorte donna Anna Maria61 suggerisce, da parte del Boni,
una conoscenza approfondita della Villa e del suo ultimo coautore.
Canina e il tema della Campagna romana
L’acquisizione più interessante per i virtuosi anglosassoni della generazione del primo
Ottocento furono probabilmente i primi risultati della ricerca degli archeologi italiani e inglesi, molto fruttuosa, dedicata a Veio, all’Etruria meridionale, all’Umbria (Tuscia) e soprattutto
alla Toscana etrusca. Queste indagini andarono a saldarsi con l’interesse dell’Academy of a
British School at Rome per la campagna romana, interesse che al tempo di Boni era coltivato
specialmente da Thomas Ashby62. Anche il tema del Latium Vetus era condiviso da molti archeologi, topografi e dagli acquarellisti.
Proprio i nuovi ritrovamenti e gli scavi delle cospicue rovine romane e medievali costituivano un ulteriore pretesto, per “i pittori della mal’aria”, per raffigurare temi agresti e di
costume, itinerari alla scoperta di inediti paesaggi disseminati di ruderi veri ed immaginari.
I pittori italiani e stranieri, anche inglesi, si dedicavano con passione alla raffinata tecnica dell’acquarello (mentre la Royal Academy sosteneva la preminenza della pittura a olio),
e condividevano un sentimento post-romantico per la natura rustica e le vedute pastorali:
basti pensare a Giulio Aristide Sartorio (amico di Boni), Enrico Coleman, Onorato Carlandi,
Ettore Roezler Franz, Nino Costa, Ludovico Caracciolo e il figlio Francesco (illustratori di
paesaggi della Tuscia e di Veio), molto apprezzati in Gran Bretagna63. Alcuni di essi diedero
vita all’Associazione degli Acquarellisti, e più tardi, nel 1904, fondarono i XXV della Campagna Romana. Il circolo di appassionati, insieme alla Società degli Amatori e Cultori delle Belle
Arti in Roma, trovava una perfetta corrispondenza nella Old Water Colour Society, che da giovane Ruskin ebbe modo di frequentare e di cui divenne membro onorario nel 1873. Si potevano definire pittori di soggetti relativi alla topografia, pittori di paesaggi, di soggetti botanici
e di architettura64. Erano artisti del calibro di Samuel G. Prout (1783-1852), molto ammirato
da Ruskin, che lo lodò nel suo più influente scritto: Modern Painters: their superiority in the
art of landscape painting to all the Ancient masters proved by example of the True, the Beatiful,
and the Intellectual, from the works of modern artists, especially those of J.M.W. Turner, London 184365. Acquarellista, membro della Old Watercolour Society, Prout ritrasse le fabbriche
e i paesaggi urbani di molte città del Continente, e in particolare Venezia e Roma, con i quali
illustrò l’opera The Tourist in Italy, il primo di una serie di volumi curati da Thomas Roscoe,
61
TEA 1932, II, p. 44.
HODGES 2000.
63
DELPINO 1991, pp. 161-176. Ludovico Caracciolo (1761-1842) era legato da amicizia ai Duchi di Devenshire, presso cui andava ospite quando soggiornava in Inghilterra: sull’argomento si vedano gli scritti di Mary
Jane Cryan.
64
WILTON, LYLES 1993.
65
HEWISON, WARREL, WILDMAN 2000.
62
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
173
e pubblicato a Londra nel 1831, che inaugura un genere di turismo colto e laico, a portata
di molti66. Innumerevoli pittori di professione, come John Mallord William M.W. Turner, o
dilettanti, erano spesso impegnati a scrivere e a dare alle stampe teorie artistiche personali o
a inserirsi in una corrente di pensiero, in cui inquadrare e valorizzate i propri lavori. Questa
attività pubblicistica influenzò poi il pensiero di molti altri artisti e letterari.
Degli stessi anni sono opere, quali le Journées pittoresques des édifices antiques dans
les environs de Rome par l’abbé Ange Uggeri, Roma 1800-1828 e Viaggio pittorico della Villa
Adriana di Agostino Penna, in quattro volumi, Roma 1831-1836 e tanti altri libri ampiamente
illustrati da fotografie e incisioni sempre più raffinate, che descrivevano entusiasticamente le
innumerevoli escursioni antiquarie raccomandate nel Lazio. Non mancavano guide divulgative che presentavano meno istruttivi itinerari e meno didattiche e “metodiche” passeggiate da
compiere in ogni angolo della penisola67.
Tra le infinite mete possibili nei dintorni, o contorni, negli environs o vicinity di Roma,
Villa Adriana costituiva un esempio paradigmatico di parco archeologico, stratificatosi nella
storia, una vera e propria palestra per un eventuale restauro dei giardini storici antichi o di
Landscape Archaeology68.
Come poi Boni anche Canina fu accolto con onori in Inghilterra e fece visita a Londra in
diverse occasioni: nel 1845 ebbe proficui contatti con Cockerell e Donaldson. Dopo il lungo
soggiorno a Roma, durante il quale si occupò nel 1850 del Foro Romano, in particolare della
Basilica Giulia, si recò ancora a Londra nel 1851, per l’Esposizione Universale.
Tra il 1850 e il 1853 si dedicò alla Via Appia, acquistando una tale fama da essere insignito del titolo di nobile romano. Ritornò a Londra nel 1855, e infine nuovamente nel 1856. In
quel periodo Algernon Percy, IV Duca di Northumberland, che nel 1853 aveva soggiornato a
Roma ed era appassionato dell’arte italiana, commissionò a Canina un progetto di ristrutturazione degli interni del turrito neomedievaleggiante (su consiglio di Sir Walter Scott era stata
aggiunta una torre centrale) Alnwick Castle69.
66
Si tratta di un itinerario, illustrato da 26 incisioni, dedicato al paesaggio, alla storia e all’archeologia, temi
di grande interesse per i viaggiatori del Grand Tour. L’opera va considerata nella scia di una vasta produzione di
genere: basti citare, ad esempio, Selected Views di John ‘Warwick’ Smith della fine del Settecento (1792-1799);
Italian Scenery from drawings made in 1817 by Miss Elisabeth Frances Batty (Londra 1817-1820); A Picturesque
Tour of Italy from drawings made in 1816-1817 by James Hakewill archt.(Londra 1820).
67
Roma, Venezia, la Toscana, la Sicilia, la Campania e le Alpi erano mete del Grand Tour, amate anche da
Boni.
68
Il tema dei giardini dell’antichità romana appassionò particolarmente gli studiosi tra Ottocento e Novecento ed è sicuramente tornato ad essere oggi un argomento da indagare con rinnovato interesse.
69
L’incarico assunto da Canina anche in segno di riconoscenza verso il Cardinal Antonelli, che lo aveva
introdotto nel circolo di Percy, era prestigioso in quanto nella dimora avevano lavorato architetti di prima qualità, come James Paine, Robert Adam (allievo di Charles-Luis Clérisseau, si era distinto nella raffigurazione delle
rovine immerse in un verde spontaneo, in particolare a Villa Adriana, ove si era recato in compagnia del pittore
Allan Ramsay e di Piranesi), nonché il celeberrimo landscape designer Lancelot alias “Capability” Brown, nativo
del luogo, trasformato ad arte in un pittoresco paesaggio agreste.
174
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Durante il viaggio di ritorno dall’Inghilterra, Luigi, forse abusando di una medicina di
cui non conosceva la pericolosità ad alte dosi (stricnina) spirò a Firenze70, lasciando così in
eredità al suo assistente Montiroli il compito di concludere i lavori per il duca71.
Amico ed estimatore del Canina era il suo contemporaneo Thomas Leverton Donaldson
(1795-1885), membro del Royal Institute of British Architects (ufficialmente attiva dal 1837),
primo professore di Architettura (dal 1841 al 1865) presso il University College di Londra72.
Sull’onda della tradizione, e dei grandi maestri, da Paolo Posi a Francesco Pannini, da
Giuseppe e Francesco Piranesi, da Antonio de Romanis a Seroux D’Agincourt, a Giovan
Battista Cipriani, nella seconda metà dell’Ottocento gli architetti incisori, quali Luigi Rossini,
Agostino Penna, lo stesso Canina, Antonio Sarti, riuscirono a influenzare l’immaginario collettivo riguardo alle antichità di Roma, indissolubilmente legate ad una rigogliosa vegetazione
spontanea, nonché a raffigurare con eguale poesia anche paesaggi medievali (si pensi alla
Roma Sparita di Ettore Roesler Franz).
Boni, Lanciani, Ashby e la Campagna Romana
Tramontata la generazione dei Fea e Angelini, dei Canina e dei Nibby, Roma dovette
superare il trauma della caduta definitiva del potere temporale dei Papi, la crisi dell’Accademia di San Luca e delle vecchie istituzioni, per divenire una capitale “adolescente”. Architetti e archeologi si impegnarono ad iniettare nuova linfa indispensabile all’ammodernamento
della città, dotandola di adeguati spazi e giardini pubblici. Dal punto di vista della cultura
architettonica, del restauro e della tutela, nonché dell’archeologia (Giovan Battista De Rossi
ebbe un ruolo rilevante nel settore dell’antichità cristiana), che tentava di darsi un assetto
disciplinare più scientifico, le esperienze del Canina non potevano andare perdute, e mentre
gli scavi di Pietro Rosa e di Rodolfo Lanciani al Foro suscitarono talvolta qualche perplessità,
il casalese restò un protagonista in positivo della stagione della prima metà dell’Ottocento,
e del tramonto del periodo papalino, accanto a Luigi Poletti, a Pietro Camporese e Virginio
Vespignani.
Come un tempo Ruskin73, Boni, Lanciani e tanti altri patiti esploratori instancabili delle
bellezze della campagna romana, alla fine dell’Ottocento e inizio del Novecento, dedicarono
molto del loro tempo, come i loro predecessori, allo studio dei dintorni di Roma, sempre più
70
Fu sepolto in Santa Croce. Monumento (1873) opera dello scultore Pietro Santo Varn: BENDINELLI 1953,
p. 231.
71
Disegni pertinenti nel Fondo Montiroli, conservati nell’Archivio Storico dell’Accademia di San Luca,
n. 2944 e pubblicati in MARCONI, CIPRIANI, VALERIANI 1970. La prosecuzione dei lavori poi affidata a Anthony
Salvin si concluse nel 1867. BENDINELLI 1953, pp. 418 - 423.
72
Donaldson trattava argomenti relativi alle belle arti e all’arte della costruzione dell’antica Grecia, avendo
rilevato diversi monumenti in Sicilia, e come Canina e Cockerell si occupava di Storia dell’architettura. Fu proprio Donaldson a scrivere una Brief Memoir in ricordo del Commendator Canina, pubblicata sul The Builder,
RIBA, 1856.
73
MAGISTRI 1997; J. DIXON-HUNT, “Ruskin and the poetry of Lanscape architecture”, in SLADEK 2000, pp. 15- 34.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
175
alla portata dei visitatori, grazie ai nuovi mezzi di trasporto, il treno prima, e poi l’automobile
privata74.
Nel 1845 Canina aveva pubblicato a Roma La campagna romana esposta nello stato antico e moderna nella scala 1: 60.000, e si era occupato di Villa Adriana (1856): l’esito fu di gran
lunga superiore agli studi di planimetrie dei Ligorio, Giovan Battista Contini e Piranesi, e la
planimetria servì come base alle indagini successive.
Nell’assolvere ai suoi incarichi romani come ispettore architetto del Ministero della
Pubblica Istruzione, a partire dal 1888, Boni profuse nelle sue indagini del territorio una
passione straordinaria, ispezionando vaste zone della penisola alla ricerca di edifici e ambienti
naturali da preservare. L’interesse che gli suscitava la visione della campagna romana e della
natura era fondato su una ponderata riflessione, che andava maturando da anni, proprio a
contatto con i monumenti da difendere. Una immediata critica sorse quando si rese conto
della brutalità e del guasto fatto dagli estirpatori delle erbe che fiancheggiavano la Via Appia.
Eva Tea riporta il rammarico del Boni e la sua attenta distinzione tra vegetazione infestante e
vegetazione che abbellisce75. Boni tentò anche di precisare il significato del termine pittoresco, del tutto aderente ad un preciso carattere tipico della categoria dell’englishness (Pevsner
1956) distinguendo “tra pittoresco architettonico, opera della natura sull’opera dell’uomo e
il pittoresco poetico, facoltà di fissare e animare gli aspetti naturali”76.
Thomas Ashby, fotografo e archeologo di grande fama attivo soprattutto a Roma, si dedicò specificatamente alla topografia antica, o classica, della campagna romana, pubblicando
diverse opere, e promuovendo tali studi presso la British School at Rome, la cui nuova sede
era stata riqualificata con un magniloquente classico prospetto disegnato da Edwin Lutyens.
Nei Wanderings in the Roman Campagna (Londra 1909), Rodolfo Lanciani conduceva
invece il lettore attraverso la storia secolare dei luoghi e indagava le bellezze naturali, paesistiche ed architettoniche dei dintorni della Capitale. Come Boni Lanciani era collegato alla
cultura archeologica britannica, ma apparteneva al versante cattolico e conservatore, opposto
a quello di inclinazione progressista di Boni. Lanciani, come Boni, pur interessato alla conservazione di ogni espressione artistica e architettonica, si soffermava in modo particolare
sulle antichità, sulle ville repubblicane ed imperiali, e aveva una particolare predilezione per
Villa Adriana. Ripercorrendone le vicende, dai primi studi e rilevamenti, agli scavi del pittore
archeologo Gavin Hamilton, alle illustrazioni di Giambattista e Francesco Piranesi, Lanciani
ricordava la prima piantagione dei pini e dei cipressi “che tanto contribuiscono all’aspetto
pittoresco di oggi”, voluti dal Conte Giuseppe Fede nel 1730. Ricordava con soddisfazione
l’acquisizione della Villa da parte del giovane stato e gli scavi più estesi e sistematici condotti
da Pietro Rosa, soprintendente alle attività della provincia di Roma, fino ad osservare con
74
La costruzione delle strade ferrate era percepita come fattore negativo da Webb: TEA 1932, I, p. 349.
TEA 1932, I, pp. 216-217; inoltre, II, p. 284, Boni ricorda come, proprio lungo la via consolare avesse
provveduto a piantare cento cipressi e pini e mirti, ma avesse poi dovuto rinunciare a proseguire l’impresa.
76
TEA 1932, I, p. 113.
75
176
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
tristezza lo stato di abbandono della Villa dopo il 189077. Come Boni Lanciani, caro al pubblico anglosassone, aveva sviluppato una sensibilità particolare nei confronti del paesaggio
campestre, e prediligeva una vegetazione spontanea e autoctona78.
Intanto, in quei primi anni del Novecento, i legami di stima tra Boni e Welbore St. Clair
Baddeley, magistralmente studiati da Timothy Peter Wiseman (1985), si alimentavano nella
comune apprensione per ogni minimo segnale di modernizzazione funzionalista, dai giardini
alle strade, all’incolumità delle stesse rovine. Sullo sfondo, per quanto riguarda l’archeologia,
restava aperta la questione del primato e del predominio culturale di una nazione rispetto ad
un’altra, in un clima competitivo che vedeva la presenza a Roma di studiosi di lingua tedesca,
francese, e inglese dibattere e confrontarsi, anche all’interno delle stesse scuole. Appassionato, con Lanciani e Ashby delle escursioni nella Campagna Romana, Baddeley ben presto
si avvide della rivalità di Boni e Lanciani e si adoperò per amplificarla, parteggiando per
Giacomo – di cui condivideva anche l’interesse per la coltivazione dei fiori (gelsomini e rose
piantate presso l’Atrium Vestae)79 – a tutto vantaggio del pubblico della stampa periodica,
avido di polemiche e retroscena80.
Boni e Philip Webb e William Robinson
La stretta amicizia con l’architetto Philip Speakman Webb (1831-1915) costituiva per
Boni una verifica e un sostegno alle proprie idee e simpatie verso il movimento Arts and
Crafts, tendente a valorizzare le tradizioni artigianali e perfino contadine, che rischiavano di
scomparire. Il movimento, per quanto riguarda l’aspetto dei giardini, si era formato intorno
all’irlandese, già citato, William Robinson (1838-1935), autore del The English Flower Gar77
Edizione in lingua italiana: 1980, pp. 140-141: per cui “si teme che presto sarà privata dell’armoniosa
combinazione del pittoresco e dell’interesse archeologico […] Non esistono più le grandiose scenografie rese
vive e palpitanti dai grandi palazzi, dalle grandi esedre rivestite di marmi policromi; la vista non è più rallegrata
dalle aiuole piene di fiori variopinti. La cornice dei pini, dei cipressi, degli olivi è l’unico sfondo di oggi e questo,
anche se incomparabile, non può reggere al confronto dello scenario antico”.
78
Ibidem, p. 297. Si veda il brano a proposito del Laurentum, in cui Lanciani passa dalla storia alla botanica e
viceversa:
“L’enorme pineta, nella quale troneggiano i pini mediterranei dalla chioma gigantesca (pinus pinea) ed i pini
marittimi (pinus pinaster) di minore altezza, offre alcuni recessi arcadici, così ombrosi e quasi misteriosi, che
incantano la vista e rallegrano l’anima. Qualche volta la quiete è rotta dall’apparizione furtiva di cinghiali, cervi,
daini che, dopo essersi fermati un attimo a fiutare l’intruso, spariscono di colpo nel fitto della boscaglia. Nel
1796, il canonico Luigi Petit Radel, che esplorò questa pineta alla ricerca di esemplari rari per il suo giardino di
botanica che curava nel chiostro di San Pietro in Vincoli, ci ha lasciato l’elenco di oltre venti specie di arbusti
rari tra cui il mirto, il rosmarino selvatico, il ginepro, l’alloro, il terebinto (sic!), l’erica, il viburno e due qualità
di Dafne. All’inizio della primavera, quando tutte queste piante sono in boccio, i loro profumi uniti, portati dalle
brezze, arrivano fino alle navi, che navigano ad una considerevole distanza dalla costa e nell’entroterra arrivano
sino ai quartieri rivolti al mare della città eterna”.
79
WISEMAN 1985-1986, p. 140.
80
L’immaginazione di Baddeley rimase colpita nella memoria, a distanza di tempo, dai colori, dal fascino e
dall’atmosfera dei luoghi magici della Campagna Romana, e da quelle superstiti, ancor vive, presenze del passato, preziose quando ormai gli scavi del Foro sembravano aver infranto un equilibrio delicato.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
177
den (1883), un libro il cui strepitoso successo è provato dalle continue ristampe pressoché
annuali81. L’opera, critica nei confronti dell’arte dei giardini vittoriana, costituì la premessa
e poi il modello di un nuovo modo di concepire il giardino. Robinson, promotore di vari
periodici tra cui il mensile, dal 1903 al 1905, Flora and Sylva (che nel titolo sembra riecheggiare l’opera di John Evelyn Sylva82) enfatizzava gli aspetti vernacolari, la cultura costruttiva
e materiale propria delle diverse regioni del Regno Unito, senza tralasciare al tempo stesso i
caratteri distintivi nazionali. Il giardino ideale di Robinson si rifaceva a Bacone, sia nella proposta di dedicare parte del giardino a frutteto (orchard) nel richiamo alla presenza di qualcosa
di incolto e brullo, naturalmente selvatico, quindi tipico del luogo e, almeno teoricamente,
bisognoso di poca manutenzione, dall’altro alla concezione pittorica, che poneva in primo
piano gli aspetti cromatici, frutto di una certa casualità e spontaneità degli accostamenti e
delle infinite possibili combinazioni di piante esotiche, indigene, occasionali o naturalizzate,
senza pregiudizi, per ottenere contrasti di colori vivaci, caldi e freddi, in ricche gradazioni
e sfumature. Al proprio giardino dedicò un volume Gravetye Manor or Twenty Years Work
round an Old Manor House Being an Abstract from Tree and Garden Book of Gravetye Manor
Sussex, kept by the owner, London 1911, una sorta di diario che, illustrando l’english natural
garden, sorto intorno ad una villa tardo-cinquecentesca elisabettiana (acquistata da Robinson
nel 1884) rivela quanto fosse impegnativo e irto di difficoltà orchestrare il processo di edificazione di un’opera vivente, fragile e metamorfica come un luogo di delizie.
Il già accennato dibattito tra Robinson e Blomfield (quest’ultimo rappresentava la continuità con tradizione vittoriana) verteva anche sulla competenza o meno degli architetti a
progettare giardini. Furono numerosi i professionisti inglesi che trovarono la via per riappropriarsi di un tema spesso da loro stessi trascurato, attraverso un più approfondito studio
di ortocultura, una maggiore conoscenza della botanica, e soprattutto dei fiori, delle erbacee
perenni e delle piante ornamentali83.
Se va ricordato Reginald Blomfield per la sua difesa del giardino formale, un cenno almeno di sfuggita merita l’opera Thomas Mawson (1861-1933), fotografo, vivaista, l’autore di
Art and Craft of Garden Making (5 edizioni tra il 1901 e il 1926, e una riedizione nel 2001),
che insieme a Harold Ainsworth Peto fu uno dei più celebri garden designers del suo tempo84.
L’approccio di Mawson e di Peto era molto più architettonico che botanico-ornamentale o
81
Robinson aveva scritto altri libri precedentemente: si veda nota 4, ivi. Robinson si occupò anche dell’allestimento del verde nei cimiteri, e degli apporti francesi e italiani al giardinaggio inglese.
82
Sylva or a Discourse of Forest Trees and Propagation of Timber in his Majesties Dominion, London 1664.
L’opera, riccamente illustrata, conteneva anche altri saggi dedicati ad argomenti di ortocultura, quali Pomona e
Kalendarium Hortense. Riedita più volte, fino al 1825, fu poi ristampata in fac simile recentemente. Boni sembra rieccheggiare questo tema quando in una lettera a Beltrami, commenta la foresta di abeti e faggi visitata a
Hienheim, e la paragona al Duomo di Milano: TEA 1932, II, p. 280.
83
BROWN 1989, pp. 113-177, e p. 311, n. 6. Margareth Richardson, in un recente saggio ha giustamente
sottolineato il ruolo svolto nel campo del landscape design da alcuni studi professionali condotti da validissimi
architetti, da Richard Norman Shaw a Ernest Newton, da Thomas Mawson ad Harold Peto: M. RICHARDSON
(a cura di), The Architects of the Arts and Crafts Movement, London 1983 (RIBA Drawning Series).
84
Mawson, primo presidente dell’Institute of Lanscape Architects (1929), si sentiva in parte affine alle teorie
Arts and Crafts, sebbene ammirasse anche Edward Kemp, giardiniere e scrittore, che si era mosso sulla traccia
178
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Fig. 6 - Buscot Park, Faringdon Oxfordshire, per Alexander Henderson, poi I Lord Faringdon. Progetto di
Harold Peto (primi anni del Novecento): Italianate Water Garden (Architectural Review, Aprile 1913).
Fig. 7 - Munstead Wood, Surrey. Bordure restaurate secondo la poetica di Gertrude Jekyll, con fioriture colorate disposte secondo sequenze. Si realizza una percezione dinamica del percorso lungo il viottolo che ha come
sfondo un gruppo isolato di piante di diversa altezza.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
179
pittoresco. L’opera esemplare di Mawson può essere considerato Graythwaite Hall Gardens,
Cumbria, mentre Peto, appassionato di giardini all’italiana, firmò il suo capolavoro a Iford
Manor, Wiltshire, e Buscot Park, Oxfordshire. La proprietà acquistata da Lord Faringdon
nel 1889 conteneva una dimora ampliata da Ernest George Paternship, di cui faceva parte anche Harold Peto, cui fu poi affidato il compito, tra altri abbellimenti, di collegare la terrazza
nord della dimora con il lago: venne creato il Water Garden, in stile italiano (fig. 6).
Gli esiti più interessanti del movimento Arts and Crafts si devono al sodalizio (nato nel
1889) tra Gertrude Jekyll, che aveva particolarmente subito l’influenza delle teorie di Robinson, e Edwin L. Lutyens (1869-1944), a cominciare dalla caratteristica dimora famigliare di
Gertrude, Munstead Wood, Godalming, Surrey85: la pianta del cottage, su progetto (18921893) di Lutyens, aperta a U, instaura un immediato, intenso e reciproco rapporto con la
natura circostante, anch’essa organizzata secondo un flusso continuo di spazi interrelati e
filtranti. Il giardino (c. 1896 e oltre), disegnato nel suo impianto da Lutyens, era un campo
di sperimentazione ideale per creare ambienti vegetali, attraverso cui la proprietaria studiava
le applicazioni della poetica dell’Arts and Crafts: i percorsi (walks), le originali composizioni
botaniche, la prevalenza del criterio pittorico del colore, ora nella scelta del fogliame, ora
delle fioriture delle erbacee perenni86 (fig. 7).
Quanto a Boni, egli sentì particolarmente, come noto, soprattutto l’influenza di Ruskin
e Morris. Le due figure carismatiche avevano costituito un’autorevole guida teorica e pratica
per la nuova generazione (quella di Giacomo) di architetti giardinieri, i quali non solo progettarono tenendo conto delle maestranze e degli artigiani locali, ma si dedicarono spesso personalmente alla cura dei giardini. Sebbene l’obiettivo dichiarato fosse la semplicità e la scala
domestica, le complesse raffinate esigenze estetiche dei “ruskiniani”, che investivano anche
l’interior design in stile floreale, finirono per limitare l’applicazione dei principi dell’Arts and
Crafts ad una ristretta cerchia di amici ed intellettuali benestanti. La finalità ultima di giardinieri, architetti e mecenati era di creare un’armonia dinamica tra edificio, spesso frutto di una
riqualificazione o di un restauro di un antico maniero medievale o rinascimentale87 e la vegetazione accuratamente scelta, per specie, colori, contrasti, secondo un gusto quasi pittorico.
Non è possibile menzionare qui i numerosissimi giardini riconducibili al movimento Arts and
Crafts (1890-1914), di cui possiamo qui solamente elencare alcuni caratteri distintivi: il prato
fiorito e i rampicanti multicolori, la presenza di un hortus conclusus di separazione tra due
ambienti, il contrasto tra aree soggette a principi formali, ed aree pittoresche e liberamente in-
della tradizione vittoriana. Si trovò ad essere uno dei commissari che giudicarono il progetto di Olmsted e Vaux
per Central Park, New York. Si veda WAYMARK 2003. Non va taciuta l’opera di John D. Sedding 1892.
85
GRAHAM-TANKARD, WOOD 1998; BROWN 1989, pp. 126-127.
86
Jekyll e Lutyens, consapevoli della interdisciplinarità necessaria all’invenzione e cura del giardino, lavorarono con successo in diverse occasioni. Basti qui citare Hestercombe (1904), Somerset, capolavoro di Lutyens,
che amava introdurre elementi formali, terrazze, scalee, pergole, canali fiancheggiati da iris, Deanery Garden
(1899-1901), Sonning, Berkshire, Ammerdown (1902), Somerset.
87
Si rileva un cambiamento notevole rispetto alla controversia tra il landscape gardener Humphry Repton e
Lady Burrell, l’uno intenzionato a costruire una nuova residenza, l’altra affezionata alla propria antica dimora,
confortevole e carica di memorie.
180
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
terpretate, l’interpenetrazione tra casa e giardino, con la presenza di logge, pergolati e portici,
dislivelli risolti da semplici terrazzi, la varietà dei materiali utilizzati, la ricerca di una scala a
misura d’uomo, il giardino spontaneo o bordure di piante erbacee, l’orto-frutteto, sono tutti
elementi distintivi della nuova poetica dell’arte del giardino inglese edoardiano, documentata
dai disegni della raccolta R.I.B.A. e da fotografie artistiche in bianco e nero (Brown 19).
Giacomo Boni strinse una particolare lunga amicizia con William Webb, raffinato architetto inglese, gentiluomo di simpatie preraffaellite, uno dei fondatori della Morris Firm, con
cui collaboravano Edward Burne Jones (1833-1898), Peter Paul Marshall, Edmund Street,
Dante Gabriel Rossetti, Charles Faulkner. L’amicizia fraterna tra i due era sorta a Venezia,
da secoli meta preferita del Grand Tour degli anglosassoni. Webb costruì diversi cottages e
disegnò oltre a mobili, vetrate, decorazioni e lavori metallici, ceramiche, e anche giardini.
La lunga frequentazione di Boni e Webb, per lo più epistolare e sempre molto affettuosa, si
mantenne anche quando Boni giunse a Roma per trattenervisi da allora in poi con incarichi
prestigiosi88.
In quegli anni, molti eruditi e studiosi inglesi superarono una certa antica diffidenza (riscontrabile ancora anche nello stesso Ruskin), che in genere avevano coltivato, per secoli, nei
confronti della Capitale del “papismo” o del “gesuitismo”. Tuttavia profondi cambiamenti
erano avvenuti dopo l’Unità d’Italia: il Pontefice aveva perduto definitivamente il potere temporale e in Inghilterra si andava allentando la secolare tensione tra Chiesa Anglicana e Chiesa
Cattolica Romana. La costituzione dell’United Kindom (che riuniva Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda settentrionale), aveva costituito la premessa per il Roman Catholic Emancipation
Act, del 1829, una legge che permetteva finalmente ad esponenti di religione cattolica, eletti
dalla società irlandese (i cattolici costituivano la maggioranza dei cittadini in Irlanda89), di
essere membri del Parlamento.
Successivi provvedimenti di tolleranza dello stato liberale britannico avevano progressivamente aperto ai cattolici le porte delle Università90, e diverse cariche pubbliche prima
loro precluse, non senza destare però aspre polemiche. Anche il movimento oxfordiano dei
teologi denominati Tractarians, un fenomeno che può essere considerato un aspetto complementare della cultura medievalista post-romantica del primo Ottocento inglese, aveva avuto
come conseguenza un avvicinamento del culto anglicano a quello cattolico romano, per lo
meno sul piano formale, ossia del recupero di alcune tradizioni liturgiche del passato91.
88
Proprio grazie a Webb Giacomo poté pubblicare uno studio relativo alla Ca’ d’Oro sul R.I.B.A.
(Royal Institue of British Architects), fatto in occasione di un restauro del 1885 e forse anche la sua elezione nel
S.P.A.B. di Londra, di fronte alla quale tenne un discorso sull’autenticità destinato a fare scuola. Sulla fondazione del R.I.B.A. si veda SALMON 1996.
89
Boni aveva avuto rapporti di stima con Deans, soprintendente ai Monumenti Nazionali d’Irlanda: TEA 1932,
I, p. 29.
90
Del resto solo nel 1833 venne abolita la schiavitù nel British Empire, che a partire dal 1867 (con il Canada
che da semplice “colonia” venne eretto a “dominio autonomo”), fino al 1944 (il primo incontro ufficiale tra i
primi ministri dei domini), subì un processo di trasformazione che doveva portare ad una nuova entità politica
ed economica, il Commonwealth.
91
TEA 1932, I, pp. 566-568. Proprio a queste vicende accenna Eva Tea quando sinteticamente ricorda il
rapporto tra Boni e una figura emblematica di questo mutamento profondo di mentalità, ovvero John Henry
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
181
Fig. 8 - Kelmscott Manor, presso Lechlade, nel Gloucestershire, proprietà di Morris.
Se Ruskin era stato un punto di riferimento teorico per una estetica del restauro e della
natura, Morris e Webb, l’uno un letterato e artista designer, l’altro un architetto sensibile alla
storia e innovativo, si muovevano su un piano pratico più affine al carattere e alla professione
di Boni. Morris (1834-1896) nei suoi scritti sociali e politici presentava un approccio pseudo
rivoluzionario, che oggi si potrebbe meglio definire utopistico ed ecologico per l’affermazione di una intransigente conservazione della natura, e tentava di cogliere i rapporti di interdipendenza tra il capitalismo, il mondo del lavoro, il processo di industrializzazione da un
lato, e dall’altro l’inevitabile degrado del paesaggio (fino ad esprimersi drammaticamente con
la celebre espressione “murder of trees”), ove barbari sovvertimenti minacciavano di abolire
spontanea bellezza della natura.
Il dibattito relativo alla concezione (estetica e al tempo stesso scientifica) della natura e
del giardino è stato sempre un sintomo di una particolare cultura in evoluzione, ricca di conflitti e di contrasti. Nell’arco cronologico di tempo che va dal 1870 al 1914 (dall’Unità d’Italia
alla Prima Guerra Mondiale), lo studio dei giardini si dota di nuovi strumenti di indagine e
Newman, convertitosi al cattolicesimo, designato poi Cardinale, il quale sognava di creare a Oxford una Università Cattolica come a Lovanio.
182
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
risente della mutata situazione geopolitica, tanto nel Regno Unito, quanto in Italia. Le situazioni dei due stati erano profondamente diverse, ma se vogliamo, complementari, secondo
una prospettiva che derivava da lunga tradizione di scambi e di stimoli. La solidarietà tra i
governi inglese e italiano si era rafforzata nella memoria della comune opposizione all’imperialismo napoleonico e nella gratitudine per l’incoraggiamento dato dall’Inghilterra ai moti
risorgimentali92.
In Gran Bretagna lo sviluppo incontrollato del capitalismo e l’impatto della rivoluzione
industriale sui centri urbani in abnorme crescita (si pensi agli slums) aveva prodotto guasti
e determinato costi altissimi in termini di degrado ambientale (donde la richiesta per una
preservation of amenities) e di pessimo stile di vita urbana e lavorativa (da cui la pressante
richiesta di dwellings for the working class and labouring poors e per i garden suburbs). I lussi
riservati ad una esigua elite dirigente, propri dell’età vittoriana, non erano proponibili ad una
classe emergente ma meno ricca, che anzi cercava lontano dai centri urbani un proprio stile
domestico e una propria identità nazionale anche per quanto riguarda i giardini e la flora93.
Il concetto di nazione, per gli inglesi, era diventato piuttosto sfuggente da quando il Regno Unito aveva aggregato in sé quattro aree di cultura eterogenea e non di rado in conflitto
reciproco, anche per motivi religiosi.
L’Italia, con il suo immenso e disseminato patrimonio di vegetazione e di edifici civili e
di culto, non aveva subito gli assalti demolitori di recenti guerre o della rivoluzione francese,
né l’abbandono traumatico, voluto nel Cinquecento dalla riforma anglicana, della tradizione cattolica precedente. Non si erano neppure verificate le demolizioni otto-novecentesche
attuate sotto la spinta dell’urbanizzazione delle classi operaie. Di conseguenza la penisola
appariva agli inglesi un paese ospitale, mediterraneo, con un clima dolce e paesaggi rurali
attraenti, in parte ancora intatti.
Anche nei centri urbani della penisola la vita di ampi strati di popolazione continuava a
mantenere ritmi tollerabili e non di rado piacevoli, nonostante la povertà diffusa. Nelle città
e nelle campagne permanevano tracce profonde delle tradizioni e delle consuetudini del passato, anche perché la società era arretrata e quindi ancora espressa da un paesaggio agrario e
non industriale o meccanizzato94. Si poteva dunque forse attuare un’opera di conservazione
sistematica e di salvaguardia dei monumenti del passato, considerati patrimonio comune di
tutte le genti, grazie alla teoria ruskiniana e alle tesi della già citata Society for the Protection
of Ancient Buildings, secondo l’assunto esposto da Morris nel dodicesimo incontro annuale
dell’Istituzione: ogni edificio antico, per questo suo stesso carattere, indipendentemente dalla
qualità riconosciutagli, era degno a priori del massimo rispetto. Per tal motivo avrebbero potuto paradossalmente essere addirittura più deleteri dell’incuria i tentativi di restauri aggres92
TEA 1932, I, p. 192. In una lettera a Pisani Dossi, Boni afferma: “Dissi che le simpatie degli inglesi per l’Italia hanno un’origine più remota e più pura di quella supposta dal giornale genovese. Parlai di Byron, di Shelley,
ricordai che a Giuseppe Mazzini, esule a Londra, si presentava Swinburne in ginocchio a baciargli la mano”.
93
WATSON 1859.
94
Dal punto di vista della modernizzazione l’Italia si affacciava ancora timidamente alle soglie della rivoluzione industriale e quindi il territorio era ancora, almeno in teoria, preservabile dagli eccessi e dalle rovinose
storture del così detto progresso tecnologico.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
183
sivi, ossia l’ “over restoration”. Del resto, come era universalmente riconosciuto, nonostante la
reticenza ed il silenzio di taluni storici contemporanei, l’Italia, e lo Stato Pontificio in particolare, erano stati la culla, in Europa, delle teorie di tutela del patrimonio artistico e architettonico del passato, e luogo della pratica secolare dell’arte del restauro95. Che lo si riconoscesse
o no, Roma (ma anche Venezia) costituiva la prova inequivocabile dell’attenzione continua
alla conservazione, pur se nella prassi tante fabbriche avevano perduto importanti caratteri
originali e talvolta la loro autenticità per un eccesso di zelo, per l’abuso di interventi in chiave
storicistica e puramente imitativa di stili del passato, per incompetenza, o per il desiderio di
aggiornare, riqualificare o cancellare, con inutile brutalità, architetture e spazi urbani.
Occorreva invece agire con il massimo della cautela e della coscienza storico-critica,
utilizzando tecniche e materiali compatibili. La cultura anglosassone, attenta alla situazione
delicata e fragile della penisola, esercitava un profondo fascino sugli italiani membri di quella
repubblica delle lettere che, di generazione in generazione, rendeva attivi gli scambi intellettuali, attraverso la stampa periodica, i viaggi, i contatti istituzionali, sollecitando critiche
e proposte, che rimbalzavano dal Continente alla Gran Bretagna e viceversa. La forma del
paesaggio, la cultura del territorio, la piccola proprietà concepita come luogo della possibile
realizzazione, in miniatura, di un ideale equilibrio tra insediamenti umani e natura selezionata
e potenziata dall’uomo, diventarono strumenti di una ricerca del bello nazionale. La bellezza, naturale e artificiale, doveva essere diffusa e direi quasi capillare, intesa quindi nel senso
di un imperativo etico, come un diritto da richiedere e un dovere da rispettare di carattere
democratico, perché esercitabile, almeno teoricamente, da un sempre più grande numero di
cittadini.
Il giardino Arts and Crafts
In questo senso va interpretata l’influenza sul dibattito intorno al giardino esercitata dal
movimento Arts and Crafts, che ci riconduce non solo a William Morris, ma anche a BurneJones e a Philip Webb.
Col tempo si formò un vero e proprio stile a carattere nazionale (English Flower Garden
o Arts and Crafts Movement, anche definito New Georgian, Natural or Wild Style). Protagonista assoluta di questa corrente fu proprio Gertrude Jekyll (1843-1932). La sua collaborazione
con il più giovane e brillante architetto Edwin Lutyens (1869-1944) ebbe un grandissimo successo, in quanto le loro competenze erano complementari e armoniche: Gerturde si occupava
degli aspetti botanici in chiave estetica, e delle piante ornamentali, mentre Edwin progettava
la struttura architettonica e idraulica del giardino. Il loro capolavoro, come già accennato fu
Munstead.
95
All’avanguardia nel settore della salvaguardia delle preesistenze, lo Stato Pontificio elaborò norme avanzatissime, rispetto all’Europa, specialmente a partire dal primo decennio dell’Ottocento, dopo lo shock del trattato di Tolentino. Sull’argomento si veda CERUTTI FUSCO 2003, in particolare sul tema si vedano pp. 124-126.
184
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Indubbiamente però furono Ruskin, Webb, Morris e il movimento Arts and Crafts ad
esercitare l’influenza più decisiva su Boni gardener .
L’aspetto più originale, che Boni con i propri comportamenti mostrò di condividere con
il movimento di Arts and Crafts, era sottolineare il diletto, non tanto di godere del giardino
fiorito, ricco di specie indigene, spesso tratte dalla tradizione dell’antichità greco-romana,
ed anche selvatiche, bensì il processo stesso di impiantare e incessantemente curare personalmente il giardino. Il piacere e la fatica del gardening, il cui esito era da considerare una
forma di arte applicata, in sintonia con i dettati estetico morali dei “ruskiniani”. Anche gli
scambi avvenuti tra studiosi ed eruditi inglesi e italiane sul tema propriamente del giardino,
del paesaggio, del territorio, e della geografia storica Toscana, attraverso periodici di alto
profilo intellettuale quale la Nuova Antologia (1866) e attraverso circoli quali il fiorentino
Gabinetto letterario e scientifico G.P. Vieusseux. Del resto il Pre-Raphaelite Brotherhood e la
cultura anglosassone avevano costruito intorno a Firenze un vero e proprio mito letterario e
avevano identificata nella neonata, ma purtroppo transitoria, Capitale di una Nazione in fieri,
una delle mete privilegiate dei viaggiatori anglosassoni96. Ma vanno considerati anche celebri
figure di anglosassoni, contemporanei di Boni, nati a Firenze da famiglie cosmopolite (gli
anglo-fiorentini), che costituivano una comunità di elite, oggi molto più ampia, innamorati
dell’Italia97.
A Firenze Ruskin aveva dedicato un bellissimo e conciso libretto dal titolo Mornings
in Florence (Orpington 1875-1877): la città era ideale per suggerire, più di Venezia stessa, il
trapasso tra medioevo e rinascimento98. Le due culture, per contrasto ed affinità (si pensi ai
diversi paladini del revival dell’evo di mezzo rispetto all’evo moderno), destavano l’interesse
e il dibattito nella cultura eclettica e storicista (intrisa di tendenze neomedievale e neorinascimentali) del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Considerata giardino d’Europa, la neonata Capitale del Regno d’Italia, fu al centro
dell’attenzione internazionale soprattutto per i suoi caratteri rinascimentali, ribaditi da una
prassi architettonica ottocentesca incline alla ripresa dei temi quattro-cinquecenteschi locali,
e del repertorio classicistico, quale stile ideale della nazione.
Nell’opera si fa riferimento a diversi lavori di Ruskin, tra cui Sesame and Lilies, relativo
ai giardini tardo-ottocenteschi italiani e inglesi, si intreccia con il dibattito sul ruolo del genere femminile nella società britannica vittoriana (nelle diverse opposte prospettive, in cui non
96
CASTERAS, GRAIG FAXON 1995.
Basti qui citare, per quanto riguarda la sensibilità degli anglosassoni al contado fiorentino, John Singer
Sargent, acquarellista straordinario, e Violet Page, letterata e fine narratrice di paesaggi naturali italiani. Sargent (1856-1825), nativo di Firenze da genitori statunitensi, ritornò dopo periodi all’estero in Italia alla fine
dell’Ottocento, utilizzando sempre più l’acquarello come mezzo espressivo nel quale il colore (e non la matita
per tracciare i contorni) svolgeva un ruolo predominante, per ritrarre nuovamente Venezia, la Toscana, in particolare soffermandosi a Firenze, per raffigurare i tanti angoli del giardino di Boboli, e nel Lazio per ritrarre, le
Ville Tuscolane, a Roma, per fermare nella memoria visiva Villa Torlonia, Villa Giulia, e tanti altri luoghi magici
della città eterna. Violet Paget (1856-1935), in arte Vernon Lee, amica d’infanzia di Sargent, scrisse delle note
ai suoi itinerari verdi italiani dal titolo Genius Loci (London 1899), dedicando la sua attenzione soprattutto alle
strade di Lucca.
98
SMITH 2001.
97
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
185
mancavano tratti di misogenia, che venivano sostenute con verve polemica), un dibattito che
darà i suoi frutti migliori nel Novecento. Il titolo della mostra trae spunto da un’opera di Ruskin, Lilies of Queens Gardens (1865) una delle due conferenze note sotto il nome di Sesame
and Lilies, un racconto fortemente critico, etico ed allegorico, in cui sembra non manchino
riferimenti alla Regina Vittoria. Il tema, oggetto di una mostra in corso a Firenze, Galleria degli Uffizi, dal titolo I giardini delle Regine: il mito di Firenze nell’ambiente preraffaellita e nella
cultura americana fra Ottocento e Novecento (2004)99. Lo scritto profetizza il forte impegno
delle donne nell’interpretazione della natura, nella loro possibile funzione di ponte verso le
future generazioni. Proprio le donne, pittrici e paesaggiste, scrittrici e giornaliste, illustratrici
di libri di scienze naturali, appassionate di botanica, già si erano distinte in epoca vittoriana
per il loro impegno in parte scientifico in parte divulgativo e didattico nel campo dello studio della natura, che grazie anche all’impulso notevole delle teorie di scienziati del calibro
di Darwin, aveva visto spalancarsi nuove frontiere di indagine. Per quanto riguarda l’arte
dei giardini, collegata anche all’aspetto scientifico del dato naturale, nell’era post-vittoriana
numerosissime donne, committenti o esperte paesaggiste, in Inghilterra e negli Stati Uniti, si
dedicarono alla realizzazione di tanti piccoli Eden, curati personalmente insieme ai membri
della propria famiglia, che disponevano con paziente sollecitudine intorno a modeste ma deliziose dimore storiche, disseminate nel contado e nel tessuto urbano, tanto in Toscana, quanto
nelle verdi e meno aride regioni del Regno Unito. In effetti anche Boni si avvaleva spesso per
la sua flora palatina di delicate mani femminili, ed era particolarmente aperto ai contributi
intellettuali che, nel campo, provenivano da gentildonne capaci di condividere i suoi ideali.
Red House e Kelmscott Manor
Si possono citare almeno due siti che rispecchiarono i principi di Morris nei riguardi
della vegetazione e dei giardini: il primo riguarda Red House, in Bexleyheath, dimora in
semplici e poco pretenziosi laterizi rossi, progettata, intorno al 1859, per Morris da Webb.
Sia nella Villa che nel giardino, disegnato secondo una voluta e totale rinuncia ad ogni pretesa di auto-celebrazione vittoriana, vi sono notevoli anticipazioni del gusto edoardiano per
il wild garden. Fu molto ammirata da Muthesius per la coerenza con cui lo spazio interno ed
esterno sono trattati armonicamente. La Casa Rossa, nel Kent, commissionata da Morris a
Webb intorno al 1859, era stata definita da Dante Gabriel Rossetti “piuttosto un poema che
una casa”. Edificata in mattoni e mattonelle rosse, rispecchiava l’ideale del giardino intimo
e domestico e dell’ arte del costruire, che per Webb era “la perfetta naturalizzazione di ogni
motivo d’arte”100.
Il secondo giardino riguarda Kelmscott Manor, presso Lechlade, nel Gloucestershire:
Kelmscott Manor è una dimora tardo-cinquecentesca, con aggiunte successive, che divenne
99
Si veda Giardini delle Regine 2004. Sull’opera di Ruskin: S. ARONOFSKY WELTMAN, Ruskin’s mythic
Queen. Gender Subversion in Victorian Culture, Athens, Ohio, 1998. Nel testo si fa riferimento a diversi lavori
di Ruskin, tra cui Sesame and Lilies.
100
TEA 1932, I, pp. 124, 129, 121-122.
186
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
famosa per essere residenza del designer William Morris101, accanto a cui sorse poi il centro
tipografico e artistico (fig. 8).
Dal 1871 in poi Morris spese il resto della sua esistenza a Kelmscott Manor, fino alla
morte, avvenuta nel 1896. Il giardino rappresentava il gusto Arts and Crafts, che con la sua
semplicità tutta autenticamente inglese e selvaticamente rurale, ma studiata ad arte, si oppone
alla ridondanza artificiale ed eclettica e ai prestiti dei revivals tipici dei giardini vittoriani. La
scelta delle piante si rivolgeva alla presenza di specie indigene, i materiali erano locali. Nel
1889, in occasione di un viaggio a Londra Boni visitò Kelmscott, un luogo molto semplice ed
ameno presso il Tamigi, che poteva offrire anche il piacere della pesca. Boni fu sedotto dal
modo di vivere semplice di Morris, della sua famiglia e dei suoi amici: se l’ospitalità era stata
affettuosa, la divisione organizzata del lavoro domestico fu giudicata da Boni esemplare102.
A Kelmscott Manor Boni trascorse bellissime giornate che rimasero impresse nella sua
memoria.
Tra le opere di Morris particolarmente amate da Boni era il News from Nowhere, a
utopian romance, apparso per la prima volta nel 1890, ricchissimo di allusioni (cap. XIX) a
Kelmscott, ai piccoli raffinati giardini ricolmi di fiori, immaginati dal letterato pittore e da
lui poi disegnati in mille colori e forme nelle decorazioni tessili Arts and Crafts. Nel capitolo
XXXI Morris descrive la gioiosa scoperta di una vecchia casa, su una collina, ove la protagonista del racconto Ellen decide di fermarsi per sempre103. La stessa dimora è presente nel The
Erthly Paradise (1868), in cui si descrive un bellissimo luogo immaginario, identificabile con
la campagna del Surrey. Proprio l’anelito ad una costante armonia ecologica tra l’uomo e la
natura, ora che il Paradise Lost appariva ancora più lontano, poteva forse ancora realizzarsi
nel country side. Questo nuovo piccolo Eden poteva ispirare anche Boni, in quanto in Italia
non erano evidenti i guasti all’ambiente determinatisi in Inghilterra, e la campagna romana
era sovraccarica di valori pittoreschi e in qualche modo anacronistici.
101
Acquistata nel 1871 con Dante Gabriele Rossetti, con quale coabitò fino al 1874, non va confusa con
Kelmscott House, Upper Mall, Hammersmith, e Kelmscott Press, il luogo ove Morris aveva la tipografia.
102
L’impegno politico da radicale era vissuto con coerenza: nel poema “The day is cominig for the
Socialist League” così Morris declamava: “Nay, what save the lovely city, and the little house on the hill; / And
the wastes and the woodland beauty, and the happy fields we till; / And the homes of ancient stories, the tombs
of the mighty dead; / And the wise men seeking out marvels, and the poet’s teeming head; / And the painter’s
hand of wonder; and the marvelous fiddle-bow; / And the banded choirs of music: all those that do and know”
(vv. 21-25, trad. in TEA 1932, I, p. 258).
103
“Once again Ellen echoed my thoughts as she said: Yes, friend, this is what I came out for to see; this
many-gabled old house built by the simplest of country-folk of the long-past times, regardless of all the turmoil
that was going on in cities and courts, is lovely still amidst all the beauty which these latter days have created;
and I do not wonder at our friends tending it carefully and making much of it. It seems to me as if it had waited
for these happy days, and held in it the gathered crumbs of happiness of the confused and turbulent past”. News
from Nowhere (1857), or An Epoch of Rest Being Some Chapter from a Utopian Romance, Cap. XXXI, An old
House amongst New Folk.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
187
Webb e il culto delle rovine inglesi: Tintern, Fountains, Rievaulx
Boni conosceva anche altri scritti di Morris, come l’operetta A dream of John Ball (1888),
ricevuta in dono da Webb, nella quale il letterato inglese era riuscito a travasare tutta la sua
mitica passione per una immaginaria Inghilterra medioevale. Castelli e conventi, cattedrali
e chiese medievali, erano stati abbandonati, con atto di spregio e finalità economiche spicciole e immediate, al loro destino di inesorabile lenta decadenza: fin dalla riforma anglicana,
l’architettura, persa ogni utilità funzionale, era stata convertita a nuovi scopi, o si era gradualmente ridotta a relics, acquistando a poco a poco le sembianze della natura circostante,
nell’accogliere benevolmente vegetazione spontanea e fauna locale104. Se in Italia il paesaggio
era segnato dalle rovine classiche, in Inghilterra erano gli edifici monastici e i manieri immersi
nel verde a creare effetti simili ai monumenti sepolcrali, tanto da ispirare mausolei come false
rovine (figg. 9-10)105.
Appassionava tanto Webb quanto Boni il culto delle rovine, di antica tradizione, era diventato addirittura una moda nel Settecento in tutta Europa106. Quale esempio raffinato basti
qui citare i giardini (in Germania) di Sanspareil e dell’Eremitage, che ebbero un momento
culminante alla metà del Settecento.
Per fare all’amico italiano cosa gradita, con una lettera del 6 Ottobre 1889 Philip inviava a Giacomo delle fotografie di siti archeologici107. Nel resto della lettera Webb rievoca tre
maestose abbazie situate in luoghi isolati ma ricchi di acque, Tintern, Fountains, Rievaulx,
di fondazione benedettina, poi ricostruite dai cistercensi secondo il gusto gotico: la prima
ubicata nel sud del Galles, la seconda e la terza nello Yorkshire. Come altri centri monastici
(si stimano a circa ottocento) le tre abbazie furono soppresse in seguito alla Dissolution of
Monasteries, una disposizione ordinata da Henry VIII ed applicata a partire dal 1536 prima
ai piccoli conventi poi, nei successivi tre anni, ai più grandi. I monasteri vennero quindi
ridotti in romantiche ma ancora imponenti rovine (Rievaulx è attualmente oggetto di interessanti scavi archeologici), emergenti sullo sfondo di verdi prati e contornate di vegetazione,
104
Spesso solo i letterati nelle loro descrizioni di viaggi di studio dilettevole e i visitatori curiosi in cerca di
svago ne conservavano memoria, ma dalla metà dell’Ottocento la mobilità era facilitata da infrastrutture e mezzi
di locomozione rapidi e tempo disponibile per un sempre maggior numero di persone.
105
Senza ripercorre le tappe che portano da John Evelyn a Batty Langley, basti qui citare il progetto per il
Mausoleo di Fredrick, Principe di Galles, del 1751, disegnato da Sir William Chambers, evidentemente ispirato
alla pittura di paesaggio: l’estetica del decay aveva toccato il suo culmine nella prospettiva visionaria fornita da
Joseph M. Gandy, della Bank of England as a ruin, in uno stato di rudere (dopo il periodo di Soane 1788-1833,
subentrò Cockerell, fautore di un revival classico, come architetto soprintendente).
106
WOODWARD 2002.
107
TEA 1932, II, pp. 263-264: “Non è un gran tributo del suolo d’Inghilterra, certo: sebbene taluna delle sue
bellezze occhieggi dai vecchi edifici rappresentati in sole. Per darvi il puro e inalterato lavoro medievale, scelgo di
necessità delle rovine, piuttosto che degli edifici completi, affinché non si veda la maledetta mano del restauratore.
Sono certo che voi vi rallegrerete con me al lavoro singolarmente puro e dilettoso dei monaci cistercensi, i quali
possedevano la grazia delle proporzioni come un dono di Dio, in modo che potevano fare a meno delle sculture;
eppure la loro mano d’opera non era triviale [...] Il nostro Enrico VIII (il gran vedovo come lo chiamano i nostri
ragazzi di scuola) aveva non meno bisogno di moneta che di mogli e piegò la sua religione al profitto, e divenne
protestante utilitario, e quegli avidi dei suoi assistenti non si vergognavano di tenergli bordone...”.
188
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
Fig. 9 - Sanspareil, Wonsees, Bayern. Teatro in rovina, punto culminante del giardino. Probabile opera di Joseph Saint-Pierre (1747), commissionato da
Wilhelmina di Brandeburgo-Bayreuth, sorella di Federico il Grande.
Fig. 10 - Eremitage, Bayreuth, Parco Storico settecentesco, proprietà di Wilhelmina di BrandeburgoBayreuth. Tomba in rovina cadente (allegoria del
decadimento e della spietata azione del tempo) per
il fedele cane da caccia Folichon.
FLORA E ANTICHE VESTIGIA: DA LUIGI CANINA A GIACOMO BONI
189
immerse in suggestivi paesaggi campestri, luoghi ancor oggi meta del turismo colto108. Webb
era stato lungimirante visto che i ruderi delle tre abbazie segnalate a Boni sono attualmente
oggetto di un programma di conservazione e sono visitate da migliaia di visitatori. Il sito più
interessante è attualmente Studley Royal Gardens e Fountains Abbey, in cui si può ravvisare
il tema dell’archaeology of gardens109.
L’epilogo e il lascito di Boni
Boni nella Flora Palatina profuse proprie energie fisiche ed intellettuali, e nelle ristrettezze economiche in cui doveva operare spesso agì a proprie spese110. Le ultime volontà testamentarie comprendevano anche una somma depositata su un apposito libretto di risparmio
per prolungare la vita della sua Flora Palatina e un piccolo premio per i giardinieri111.
L’esperienza di Boni sul Palatino, intessuta tra senso del reale e aspirazione all’ideale, tra
incessante sforzo creativo e sogno di un piccolo brano di Paradiso Terrestre112. La continua
costruzione di un Eden indicato come esempio paradigmatico, in sintonia con lo spirito del
luogo, si interrompeva fatalmente con lo spegnersi della vita stessa dell’anziano e ormai infermo archeologo, assorto in una visione di paesaggio naturale e soprannaturale, alla ricerca
di una sorta di armonia immaginaria tra mondo botanico e scena pastorale. Intervistato da
un giornalista del giornale Figarò, Boni si difese dagli attacchi di Maurice Denis, che lo aveva
accusato di essere un “distruttore dell’antico”, un “giardiniere maniaco, che riseppelliva gli
scavi sotto la verzura”: “Di che si dolgono? Gli alberi hanno sempre popolato il Foro, dalla
108
In Italia il fenomeno, che si verificò durante la dominazione francese ebbe proporzioni più ridotte ed
effetti meno devastanti, rispetto al fenomeno inglese.
109
Edificata circa nel 1132, l’abbazia fu ceduta dalla Corona Inglese a un ricco mercante e poi passò a
diverse famiglie, che edificarono una dimora elisabettiana tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento, con
materiale di reimpiego proveniente dalla stessa abbazia. Le rovine del complesso cistercense furono successivamente acquistate, nel 1767, da William, figlio di John Aislabie, proprietario del Studley Royal Estate. Questa
vasta proprietà si stava gradualmente trasformando, di generazione in generazione, in un magnifico landscape
garden di carattere tardo settecentesco. Oggi il complesso costituisce un esempio (elaborato dal National Trust
e dall’English Heritage), paradigmatico, di continua manutenzione e cura degli edifici storici, dei ruderi, del
paesaggio naturale e antropico, della flora, con particolare riguardo a quella spontanea e selvatica, della qualità
e caratteristiche idrogeologiche, e della fauna, per il mantenimento di un buon equilibrio tra i succitati aspetti
dell’ambiente. Il programma enormemente costoso, si è poi esteso alla Valley of Seven Bridges (ed è stato completato solo nel 2002). I giardini, acquisitati nel 1983 dal National Trust e inseriti tra i World Heritage Sites, sotto
l’egida del responsabile per i giardini Michael Ridsdale, sono stati recentemente restaurati, con strascichi polemici non meno accesi delle dispute già richiamate tra vittoriani ed edoardiani, relative alla selezione dei diversi
caratteri storici da rispettare e alla migliore gestione da condurre.
110
TEA 1932, II, p. 582. In una lettera all’amico Thompson, ringraziandolo di una sottoscrizione a favore
della Flora Palatina: “Quest’inverno dovrò adoperare il mio danaro per provvedere il concime, onde salvare la
Flora Palatina, dove tanti poveri alberi non hanno di che nutrirsi, come nell’estate non hanno di che bere”.
111
TEA 1932, II, p. 613.
112
TEA 1932, II, p. 484. “Se tu fossi a Roma - (Boni) scriveva a Rigobon - vedresti il Paradiso terrestre sul
Palatino, bello come quello visto da Matelda”. Matelda è il solo essere umano che abiti in modo permanente il
Paradiso Terrestre di Dante (Purgatorio XXXVIII, 40).
190
ANNAROSA CERUTTI FUSCO
origini sino a Nerone. Per me, che ho smosso sì a lungo questa terra carica di memorie, posso
riposare gli occhi sui grappoli lilla delle glicine, senza che il mio spirito sia impedito a rievocare Sulla, ritto sulla folla, assistente dall’alto tribunale, nel Tempio dei Dioscuri, alle stragi da
lui ordinate […] Come il lago di Albano è più misterioso, visto traverso il fogliame tremante
degli olivi, così il Foro sfigurato dai secoli, ritrova un aspetto sorridente sotto la trasparenza
delle piante. Sapete quali erano ai primi tempi i simboli della libertà romana? Le erbe dei
campi, le semplici erbe; le «erbe pure» di cui il vento o gli uccelli trasportavano i semi a germinare nelle crepe dei tufi della cittadella!”113.
113
TEA 1932, II, pp. 484-485.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA
NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
LA LEZIONE DI GIACOMO BONI
Sofia Varoli Piazza
Il paesaggio si configura come un sistema complesso di relazioni, temporali e spaziali, di
ordine fisico, biologico ed umano.
La disciplina paesistica si occupa di quest’insieme di fattori, presi di per sé e nei loro
reciproci rapporti tra forme organiche e inorganiche in funzione delle attività antropiche che
interagiscono con essi.
I dinamismi relativi alle forme biologiche si accompagnano, a loro volta, a specifiche
qualità percettive dovute alle singole specie e al mutevole corso dei fenomeni naturali e climatici.
Attraverso l’evoluzione dei sistemi abitativi e produttivi, degli scambi e delle comunicazione che hanno modificato i territori originari, si sono depositate innumerevoli segni di
memoria naturale e umana all’interno del sistema-paesaggio tanto che questo può essere assimilato ad un “palinsesto” (Archeologia del Paesaggio), i cui frammenti vanno riconosciuti,
decodificati, studiati, conservati e valorizzati.
Dall’avvicendarsi delle ere geologiche, all’evoluzione degli ambienti vegetali, alle prime
indicazioni di insediamenti umani, quelli che noi oggi chiamiamo paesaggi naturali e paesaggi
antropici hanno subito incessanti trasformazioni.
Tutti i paesaggi, più di ogni altro bene culturale-ambientale, rappresentano la storia,
sono la Storia.
Nella definizione di sito, si afferma che i siti sono opere dell’uomo o creazioni congiunte
dell’uomo e della natura, ivi comprese le zone archeologiche, quelle d’interesse artistico, storico, etnografico, scientifico, letterario, o leggendario che giustificano una protezione e una
valorizzazione
In Inghilterra, uno dei primi paesi dove la conservazione dei monumenti e dei siti è stata
considerata un’arte e una scienza, il movimento per la conservazione dei paesaggi storici non
ha avuto origine da un’iniziale esposizione della teoria, ma dall’impegno di gruppi diversi
che hanno dedicato i loro sforzi per promuovere azioni pratiche e di conseguenza formulare
principi operativi.
La Convenzione Europea del Paesaggio, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel luglio del 2000, mette in relazioni il paesaggio con le aspirazioni delle po-
192
SOFIA VAROLI PIAZZA
polazioni ed i loro contesti di vita, valutando come patrimonio da salvaguardare sia i territori
degradati come quelli di grande qualità, le zone considerate eccezionali come quelle della vita
quotidiana.
Altro obiettivo fondamentale della Convenzione Europea del Paesaggio è la sensibilizzazione, il coinvolgimento, la responsabilità della comunità umana: “Il paesaggio appartiene
in parte ad ogni cittadino, che ha il dovere di averne cura”.
Le conclusioni, anche sul piano giuridico, e gli obiettivi a cui sono arrivati gli estensori
della Convenzione hanno radici lontane e sono il frutto di studi, ricerche e dibattiti pluridecennali.
Il termine di “paesaggio d’interesse storico” può includere anche lo specifico archeologico legato a siti e a parchi di tale denominazione e presuppone da parte dei responsabili
della tutela e della valorizzazione una formazione pluridisciplinare e sopratutto un lavoro di
gruppo1.
“Dall’antichità ci giungono segni materiali e segni immateriali… La tutela dell’antichità
non è solo un procedere tecnico atto a conservare i segni materiali: ma, per produrre risultati
efficaci nel rispetto dell’oggetto del proprio interesse, dev’essere informata dai segni immateriali dell’antico”2.
I metodi dell’archeologia sono i più adatti per la lettura e per lo studio degli elementi
di paesaggio che si sono stratificati e che si sono conservati in tempi di durata tanto varia e
imprevedibile quanto lo sono i materiali, i suoli, il clima, gli agenti atmosferici, le azioni umane.
Più di un secolo fa Giacomo Boni aveva anticipato tali principi innovativi che investivano proprio il territorio-ambiente-paesaggio, individuando i problemi nevralgici legati ai
valori della storia e della natura.
Le sue intuizioni “profetiche”, gli appassionati convincimenti, le osservazioni scientifiche e le applicazioni sul campo potrebbero oggi rappresentare una traccia per la formazione
ideale dell’architetto paesaggista in campo storico: riuniva nella sua persona l’arte, la scienza
e le competenze di più professioni.
L’importanza che egli dava agli studi e alle ricerche delle discipline antropologiche è del
tutto attuale, come si evince dalla Convenzione Europea del Paesaggio e dai documenti ultimi
sulla conservazione di parchi e giardini di interesse storico.
Anche il valore che Boni dava alla “storia dei sentimenti umani” che si leggeva sui resti dell’antichità non escludeva rigore scientifico e tecnico. “Memoria, diligenza, tecnicismo
sono perciò qualità sacre: oblio e negligenza, sintomi e sinonimi di male”3.
1
L’istituzione dei Parchi Archeologici è avvenuta con circolare n. 52, del 16.05.91: “Come già fatto presente con Circolare n. 12059 del 15 novembre 1990, il ‘Parco Archeologico’, inteso quale Museo all’aperto e pertanto scientificamente, didatticamente organizzato, è parte essenziale del “Piano Nazionale per l’Archeologia”.
In particolare il “Parco Archeologico” consiste in “un ambito territoriale caratterizzato da evidente carattere
archeologico, storico, monumentale e ambientale, in cui le presenze archeologiche costituiscono la peculiarità
prevalente dell’area”.
2
GUZZO 1991.
3
TEA 1932, I, p. 111.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
193
Le sue competenze di architetto e di archeologo, la straordinaria conoscenza dei materiali, la comprensione dei fenomeni biologici, insieme a una vasta cultura geografica e storica
sui luoghi e sui monumenti, gli consentivano di dialogare, da fortunato poliglotta, con studiosi a livello internazionale.
Se la natura è il primo modello dell’arte-tecnica del paesaggio, dei parchi e dei giardini
“La natura… si propone come archétipo di bellezza, più alta, proprio perché spontanea” – secondo
la felice intuizione di Rosario Assunto4 – ecco che gli archetipi della storia e dei luoghi in cui
la storia si è svolta rivivono nella materia ciclica delle piante e delle stagioni.
Il botanico
La conoscenza della flora “prediletta dagli antichi” che corrispondeva nella maggior
parte alle specie spontanee o naturalizzate dell’area mediterranea, veniva a Giacomo Boni
dalla conoscenza dei testi classici e dalla personale pratica orticola unita ad una vera passione
giardiniera. Le specie che aveva in animo di preservare o di seminare tra i gloriosi reperti
archeologici erano rose canine, vitalbe, viburni, corbezzoli, papaveri, margheritine, anemoni,
asfodeli, giunchiglie, rose, viole, crochi, e poi lauri, mirti, cipressi, tassi, ginepri, ornielli, tigli,
oleastri, melograni, sicomori, le piante erbacee, arbustive ed arboree dell’ambiente mediterraneo5.
La “Flora dei monumenti” ebbe una lunga gestazione, ma “l’occasione immediata ad occuparsene – scrive Eva Tea – gli venne anche dal notare il danno che l’estirpazione per mezzo
di appaltatori arrecava ai monumenti della Via Appia. Strappando l’erba superficialmente, si
facilita lo sviluppo delle radici e l’internarsi della terra vegetale nelle connessure delle pietre”.
In un suo articolo successivo Giacomo Boni scriveva: “Importa però distinguere fra l’opera
della natura che abbellisce e quella che distrugge. Le muraglie pelasgiche sfidano le radici
degli alberi di alto fusto, gli intarsi delicati dell’architettura dei Cosmati temono i licheni e i
più lievi tocchi di musco (sic!)”6.
All’inizio degli anni Novanta spiegava a proposito della necessità che i ruderi fossero
conservati come ruderi: “…il rudero può rimanere tal quale e considerarsi come una lezione,
un esempio, un ammonimento; regolando, ma non sopprimendo, la vegetazione propria dei
ruderi non si toglie ad essi quello ch’è in molti casi una naturale difesa, o almeno una causa
di equilibrio (il più stabile che loro sia dato d’avere) e ch’è in ogni caso contributo essenziale
alla più alta e nobile forma dell’aspetto pittoresco, derivante dall’opera secolare della natura
sull’opera secolare dell’uomo”7.
4
5
6
7
ASSUNTO 1988, p. 84.
TEA 1932, I, p. 529.
TEA 1932, I, p. 217.
TEA 1932, I, p. 333.
194
SOFIA VAROLI PIAZZA
A Villa Adriana negli ultimi mesi del 1896 aveva provato a sperimentare la difesa dei
ruderi mediante zolle erbose, anziché riducendo a nudo, come si era fatto fini ad allora, gli
avanzi dei muri della villa imperiale8.
La Flora doveva non solo rendere “vive” le vestigia dell’antichità, ma doveva favorire la
coesione delle antiche pietre e impedirne gli sgretolamenti superficiali: “L’estirpamento dell’erba, come si continua a farlo oggigiorno – affermava Giacomo Boni – priva gli antichi ruderi dell’aspetto pittoresco, unico compenso dato dalla natura ai guasti avvenuti; li espone a
tutte le vicissitudini che sono comuni ai muri privi di copertura. L’acqua vi filtra e vi ristagna,
il gelo li gonfia e li disgrega … Suggerii di coprire di terra e zolle erbose la volta del Ninfeo di
Egeria, ch’era stata denudata e spogliata di ogni vegetazione durante gli ultimi restauri”9.
Egli giudicava preferibile integrare i ruderi con un albero o un’erba, cara ai romani anzi
che con una falsificazione muraria; avrebbe voluto piantare attorno alle antiche tombe e ad
altri ruderi monumentali, la flora prediletta dagli antichi, invece di piantarvi le agavi americane come fu fatto a Villa Adriana10.
Spargeva, al Foro Romano e sulle macerie della via Appia Antica, semi di papavero che
l’amico Alberto Pisani Dossi gli aveva mandato dalla Grecia.
Alle ortiche e ai rovi sostituiva le rose, le viole, i gigli, i fiordalisi, i papaveri, gli anemoni,
le pratoline, gli iris, i narcisi, le orchidee, i crocus e altre piante selvatiche11.
Intanto crescevano anche gli “Amici della Flora”: siamo negli ultimissimi anni dell’Ottocento. Il Re mise a disposizione la sua tenuta di Castel Porziano dove Boni si recò a prelevare
ginepri, corbezzoli, eriche, dafne ed altre piante mediterranee.
Ditte italiane e straniere offrivano a gara collezioni di semi e di bulbi.
Aveva, nel suo progetto di rinverdire con la flora classica le aree archeologiche, l’appoggio del prof. Pirotta, fondatore e direttore dell’Istituto Botanico e dell’Orto Botanico di Villa
Corsini a Roma. In Romualdo Pirotta egli vedeva riunite “con nuova armonia la competenza,
il sapere, la pratica dello scienziato, del botanico e del paesaggista”12.
Da scienziato Boni voleva applicare sul campo le sue teorie: coltivava sulle falde del
Palatino anche le graminacee in uso presso gli antichi, farro, avena, frumento, per lo stesso
bisogno di sperimentare le cose nella realtà, “di sostituire alla parola un fatto”13.
L’interesse del botanico si estendeva non solo alla flora autoctona ma anche a quelle specie che attraverso i secoli erano arrivata fino a noi, fino a naturalizzarsi nei nostri ambienti.
Sul Palatino volle ricordare le specie esotiche arrivate negli Horti Farnesiani. Nel festeggiare, nel 1911, il centenario della prima fioritura dell’Acacia farnesiana (dai semi inviati
dall’isola di S. Domingo spuntarono nel 1611 i primi rami, i tre anni dopo la pianta fiorì) in-
8
9
10
11
12
13
TEA 1932, I, p. 487.
TEA 1932, I, p. 530.
TEA 1932, I, pp. 528-529.
TEA 1932, I, p. 531.
TEA 1932, I, p. 514.
TEA 1932, II, p. 138.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
195
sisteva nel dare valore al Palatino non solo come centro di civiltà, ma anche come luogo dove
erano state sperimentate piante nuove e utili all’uomo14.
Il paesaggista
Scriveva all’amico architetto Philip Webb, nel 1893 dopo una perlustrazione nell’ambiente della campagna romana: “Se aveste solo un’idea della temperatura della campagna
romana in luglio, del numero e della vastità delle ruine di templi, tombe, strade, ville, acquedotti e simili costruzioni antiche, tra le quali mi aggiro a piedi o a cavallo, o in carrozza … Se
sapeste la bellezza e l’importanza dei tipi di murature romane che ho la fortuna di scoprire e
di fotografare!”15.
Andava convincendo lo stesso prof. Pirotta, suo collega nella commissione per la Flora
italica delle Pontine, di allargare l’intervento di salvaguardia e di propagazione delle specie
della “Flora italica primitiva” a larga scala nella Campagna romana16.
Conosceva l’arte di comporre sulle pareti soleggiate delle zone archeologiche le piante
amanti della luce e dei terreni asciutti come l’artemisia, la cineraria marittima, la centaurea;
nei recessi umidi e ombrosi inseriva felci, cimbalaria ed altre piante amanti dei luoghi freschi.
Al Congresso di Parigi sul Paesaggio nel 1909 vi tenne il discorso inaugurale come rappresentante del governo italiano.
Scrive Eva Tea: “Nella relazione, rimasta inedita, si pronunciò contro i piani regolatori,
che in alcune città, come Venezia non sono richiesti, né sono a priori desiderabili … Più di
ogni altro, valgono le leggi non scritte, che l’educazione coltiva nell’animo umano. Pur nel
proteggere le bellezze naturali del paese natio … non si trascuri l’aiuto di rappresentazioni
educative. A Worshworth, a Turner, a Ruskin ed a Kipling deve l’Inghilterra molto del rispetto per gli alberi, prati, sorgenti, corsi d’acqua, uccelli, per ogni ornamento terrestre. Nei
luoghi di educazione, accanto alle carte geografiche ed ai doveri fondamentali dell’uomo
– concludeva – siano riprodotte le precipue opere dell’arte e della natura d’Italia”.
La sua eccezionale capacità di osservare, di scrutare, di esaminare le cose gli consentiva
di padroneggiare tanto i caratteri, le tecniche e i materiali dell’architettura e dell’archeologia,
quanto gli accrescimenti, la morfologia e i segreti degli elementi naturali.
Era un grande maestro di scavo e di disegno: insegnava ai suoi allievi ad analizzare e
rappresentare, a scavare e a restaurare con metodo scientifico. Dimostrava come “si potesse
far parlare la matita, indicando il carattere di ciascun elemento costruttivo e la qualità dei
materiali”17.
14
15
16
17
TEA 1932, II, p. 293.
TEA 1932, I, pp. 432-433.
TEA 1932, I, p. 530.
TEA 1932, I, pp. 489-490.
196
SOFIA VAROLI PIAZZA
L’artista giardiniere
Giacomo Boni conosceva per esperienza diretta la vita delle piante; egli stesso coltivava
un suo giardino sulla terrazza di via Genova che attraverso la sua diretta testimonianza così ci
appare alla fine di novembre del 1896: “Tre alberi di aranci sono la decorazione più cospicua,
al presente: insieme con due gelsomini, soavi nei loro fiori che sembrano stelle noncuranti
nelle notti già fredde. Ho tre rosai carichi di rose e garofani e crisantemi. Un melograno, un
ciliegio, un pesco, sei viti, due oleandri, e cinquanta varietà di rose aspettano la primavera,
che qui comincia a gennaio. M’interesso molto a sorvegliare lo sviluppo dei bulbi di giacinti,
narcisi, tulipani, anemoni e infinite altre specie, già collocate in vaso”18. Dalla terrazza dominante tutta Roma godeva aria e sole, albe e tramonti, la luna e le stelle; come in un giardino
sperimentale poteva veder germinare i semi, conoscere nuove piante da fiori o da frutto19.
Si coricava qualche volta sopra una stuoia per contemplare e disegnare le costellazioni e da
quella terrazza poteva anche soddisfare un’altra sua grande passione, la conoscenza e la compagnia degli uccelli.
Da artista della natura scopriva la sottile idea di bellezza che il suo amico Tanaka, un
filosofo di Tokio che ospitò per alcuni mesi nella sua casa, vedeva in una pietra, in una foglia
o in altri oggetti naturali “quasi finestre aperte sull’infinito.”
Nella sua terrazza fiorivano piante selvatiche della nostra flora e piante esotiche, quelle
in voga nei giardini dell’epoca come rose, astri, garofani, gelsomini, plumbago, coreopsis,
mina lobata (ipomea), begonie, reseda, vaniglie, verbene, salvie, piante che testimoniano la
tipologia dei giardini tra Ottocento e Novecento. Scriveva agli amici della gioia delle fioriture
e dei frutti di ogni stagione; ancora nel mese di novembre godeva del profumo degli aranci e
dei gelsomini20.
Continuò la consuetudine di studiare le “armonie cromatiche” dei fiori che riuniva sempre in straordinarie composizioni, per suo unico piacere, anche quando si trasferì nella dimora sul Palatino traboccante di storia.
“Il Palatino esaltò il suo attaccamento alla terra – scrive Eva Tea – e l’archeologo si
sdoppiò nella persona di un giardiniere. L’amore dell’humus fertile si aggiunse a quello delle
pietre antiche e delle idee in esse cristallizzate. Egli toccava finalmente le origini, non soltanto
di Roma, ma della stessa società umana. Onorare la terra significava ricondurre l’uomo verso
l’innocenza primitiva…”21.
18
19
20
21
TEA 1932, I, p. 534.
TEA 1932, I, p. 517.
TEA 1932, I, pp. 533-534.
TEA 1932, II, p. 274.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
Fig. 1 - Roma, Villa Blanc, prospetto dal giardino.
Fig. 2 - Roma, Villa Blanc, veduta dall’interno.
197
198
SOFIA VAROLI PIAZZA
L’ architetto
La costruzione di Villa Blanc fu per Giacomo Boni “delizia e tormento” fra gli anni ’95 e
’97: “…era finalmente il puro lavoro architettonico, per lui sognato da Ruskin. Egli vi si buttò
con tutta la passione accumulata in una lunga attesa”22 (figg. 1-2).
Boni come “architetto” era curioso di sperimentare e di mettere in pratica principi e
tecniche che andava scoprendo negli antichi monumenti. Lo interessavano anche sistemi innovativi di costruzione come le voltine di vetro e le strutture in ferro: egli si accinse a sperimentare tecniche e materiali nuovi nelle parti costruttive e ornamentali, come l’impiego del
ferro, della ghisa, del vetro e i rivestimenti maiolicati.
“Villa Blanc è l’incunabolo dell’architettura del ferro e del vetro in Italia”, scrive Eva
23
Tea .
Riferendosi alle osservazioni di Ruskin e di Morris e a quel rinnovato studio delle forme della natura e delle sue interpretazioni strutturali e simboliche, Giacomo Boni si accinse
a partire dalle esperienze primarie: “Tosto che seppi il desiderio del Barone (Blanc), portai i
miei ragazzi della scuola d’arte nei campi, e considerammo insieme per molti giorni come la
Natura avesse soddisfatto alle sue esigenze. Cicoria, margheritine, convolvoli, e altre piante
furono da noi raccolte e studiate in modo, da poter dire quali fossero le linee strutturali e
architettoniche e le forme d’assieme di ciascuna di esse. Ne derivammo basi, capitelli e fregi,
qual naturale prodotto dello studio dei campi, pur serbando il dovuto rispetto alle proporzioni tradizionali”24.
Come compenso G. Boni chiese al barone Blanc di poter ricomporre nella sua Villa sulla
via Nomentana un monumento funerario che era stato scavato a Tor di Quinto i cui marmi
stavano per essere venduti come anticaglie. Boni però non fu contento se non quando lo vide
fiorito con la flora delle ruine: “Capperi, violaciocche, amorini, papavero, bocca di leone,
garofani, artemisia, fiordaliso, linaria, polypodium ed altre parietarie dell’antica Flora del
Colosseo”25.
Allora lo dedicò al barone Blanc, con queste parole: “Lei ha contribuito alla flora dei
monumenti romani, dando, insieme con i fiori, un monumento”26.
La scoperta dei resti di quel monumento lo portarono a descrivere con nostalgia un
frammento di paesaggio romano, a nord della città sulla riva sinistra del Tevere, in parte riconoscibile ancora oggi per la morfologia accidentata della collina e per la presenza di un’antica
macchia di lecci.
L’immagine evoca una scena di quella pittura di paesaggio che fiori proprio intorno a
Roma e nel Lazio, intorno al XVII secolo.
22
23
24
25
26
TEA 1932, I, p. 501.
TEA 1932, I, p. 502.
TEA 1932, I, p. 502.
TEA 1932, I, p. 513.
TEA 1932, I, p. 513.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
199
“La rupe dei Parioli, coronata d’elci neri che arricchiscono di un riflesso profondo l’acqua sabbiosa del Tevere, tra la foce dell’Aniene e Ponte Milvio, conservava tracce di camere
sepolcrali, scavate nell’epoca repubblicana. Una di queste, rivestita di elegantissimi stucchi
nell’epoca imperiale, tutt’ora rimane. La cavernosità della rupe, lungo la quale il fiume s’era
scavato un passaggio da tempo immemorabile, rappresenta molte pagine di storia, di quella
che non si scrive. Passò sulla rupe dei Parioli lo spirito moderno, spianandola a declivio regolare, come quello di una trincea ferroviaria piantata di robinie americane”27.
Villa Blanc rappresenta un momento unico della nostra storia artistica e architettonica,
alla fine dell’Ottocento, un modello di sperimentazione legato alla figura di Boni assolutamente innovativo. Villa Blanc – continua Eva Tea – era un’anticipazione dell’architettura del
ferro e del vetro in Italia, di quasi trent’anni rispetto ad altri paesi.
Fu quello anche l’ultimo tentativo di coniugare le conoscenze costruttive dell’architettura con quelle organiche della natura. Per lui la natura era doppiamente maestra: modello per
le strutture dell’edificio e aiuto con “la sua opera armonizzatrice sull’opera dell’uomo”.
Tempo della natura e tempo della storia
Esiste un’affinità tra la natura e l’oggetto antico che pare recuperare il significato profondo della sua origine, in un tempo, che sembra annullare la morte, impresso sulle pietre
scolpite, sulle rocce ricoperte di muschio, sui tronchi degli alberi, nel flusso delle acque.
Esiste una relazione antica tra pietra e vegetazione, tra roccia e vegetazione, tra grottaacqua e vegetazione, tra rudere e vegetazione.
I modelli venivano dalla natura e gli autori classici li hanno ampiamente descritti; i primi
ninfei erano infatti delle grotte naturali. Così Ulisse vestito da mendicante ed il fido Eumeo
quando si dirigono verso la reggia, scendendo lungo una strada sassosa, già vicini al paese,
“alla fonte dalla bella corrente arrivarono, a cui i cittadini attingevano … e intorno era un
bosco di acquatici pioppi, ad anello, e l’acqua scorreva gelata dall’alto giù dalla roccia, e un
altare di Ninfe era sopra, sul quale immolavano tutti i viandanti…”28.
Nel caso più comune dei giardini romani, il ninfeo era composto semplicemente da un
masso coperto di muschio e di capelvenere sul quale scorreva l’acqua della fontana29.
Nei trattati sull’arte dei giardini dalla metà del secolo XVIII agli inizi del secolo XIX si
consigliavano le rovine sparse pittorescamente in un paesaggio; anche grotte, fonti e alberi di
bell’effetto erano necessari per il giardino pittoresco. Le rovine in particolare quando erano
miste ad erbe e a boscaglia rappresentavano la natura che finalmente aveva ripreso il suo
dominio.
Whately nel suo Observation on modern garden del 1770 scriveva: “Le rocce formano
sempre il carattere dominante … per mettere in risalto le irregolarità le più strane di un bo-
27
28
29
TEA 1932, I, pp. 512-513.
Omero, Odissea, XVII, 204-212, traduzione di G.A. Privitera, Milano 1985.
GRIMAL 1990, p. 297.
200
SOFIA VAROLI PIAZZA
Fig. 3 - Roma, Palatino, Tempio della Magna Mater.
Fig. 4 - Roma, Palatino, Horti Farnesiani, giardino dei
melangoli.
sco e di un terreno … di un corso d’acqua … che non sarebbero accettabili in una campagna
coltivata, e abbelliscono perfezionandole le scene così pittoresche”.
Il concetto di pittoresco era alla base del giardino inglese del Settecento, William Kent
l’aveva colta nei quadri di paesaggio romano già alla fine del XVII secolo.
Questi ambienti unici si conservavano nei luoghi boscosi e impervi del Lazio, presso sorgenti o corsi d’acqua, segnati dalla presenza di grotte, di antiche rovine e di borghi arroccati.
Sono i modelli della pittura di paesaggio del ’600: pianori, vallette, speroni tufacei, acquitrini,
cascate, macchie boscose, vedute in lontananza di monti azzurrini, con scene mitologiche o
bibliche, intrise di quella particolare luminosità del “paesaggio classico ideale”, unico irripetibile, solo rappresentato nei luoghi del Lazio intorno a Roma; un paesaggio silvo-pastorale,
lo specifico del pittoresco che diventerà modello per il giardino del XVIII secolo.
Bisognerà indagare sul concetto di pittoresco come lo intendevano Boni e i suoi contemporanei (Ruskin era contrario all’espressione di universale decadenza). Boni distingueva
– riporta Eva Tea – tra il pittoresco architettonico, opera della natura sull’opera dell’uomo, e
il pittoresco poetico, facoltà di fissare e animare gli aspetti naturali. “Il pittoresco non è che la
ripresa di possesso delle forze naturali sulla materia, in cui l’uomo ha impresso i segni della
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
201
Fig. 5 - Roma, Palatino, Horti Farnesiani, Uccelliere.
propria intelligenza. Oltre che un fattore di bellezza, esso è un documento di autenticità,
quando proviene dall’azione secolare degli agenti naturali sopra l’opera d’arte … Dipendendo dal tempo – cioè da un fattore ultra umano – è infinitamente prezioso e insostituibile”30.
Parchi archeologici
La conservazione dei giardini così detti storici non può essere riconosciuta se non all’interno del tema più ampio dei paesaggi di interesse storico. Tanto più lo sono i parchi archeologici e i parchi archeologici-naturalistici che vanno considerati come parte di paesaggi
storicamente stratificati.
Più che di restauro – termine poco adatto alla materia vivente dei parchi – dovremmo
parlare di recupero, gestione e manutenzione.
Ambiente e paesaggio mediterraneo costituiscono gli archetipi interiorizzati della nostra storia, dai quali non possiamo prescindere quando operiamo con la loro natura e la loro
storia. Alloro, leccio, mirto, ulivo… non sono solo piante indicatrici di particolari ambienti
climatici e vegetali, ma anche evocatrici di luoghi, di memorie, di sentimenti… “Vibra il cupo
30
TEA 1932, I, pp. 111-113.
202
SOFIA VAROLI PIAZZA
fogliame del lauro e del verde pallido ulivo” cantava Anacreonte, e “molte mele Cidonie… e
molti rami di mirto, e ghirlande di rose e coroncine fitte di viole” dedicava Stesicoro ad Elena.
Roma è il più grandioso Parco archeologico che esista e insieme riserva della Biosfera
d’importanza comunitaria: per questo è necessario avviare studi e ricerche a tutela dei monumenti, del patrimonio vegetale e del tessuto urbano interagendo con rigore metodologico tra
gli aspetti archeologici-storici, biologici-ambientali, artistici ed estetici (figg. 4-5).
Il Palatino è il cuore di questo straordinario patrimonio archeologico, e, sul Palatino, uno
dei luoghi mitici e significativi per il rapporto tra monumento e vegetazione è il Tempio di Cibele o della Magna Mater con l’antico leccio che sovrasta ed abbraccia i resti dell’edificio sacro
(fig. 3).
Il culto di Cibele, “Madre di tutti gli dei e di tutti gli uomini”, proveniente dall’Asia
Minore, dove veniva venerata sotto forma di una pietra nera, di forma conica allungata, probabilmente un meteorite, fu introdotto a Roma alla fine del III sec. a.C. e perdurò fino al V
sec. d.C.
Cibele è la Grande Madre asiatica, la divinità legata al mondo vegetale e all’energia
racchiusa nella terra, il cui culto si confonde, nei tempi più antichi e in tutte le regioni, con
quello della fecondità.
Da quarant’anni si segue “sasso dopo sasso” questa pratica, il monumento respira,
quando l’edera viene “pettinata” e contenuta, così l’alloro, il sambuco, perfino il fico in certe
situazioni vengono rispettati: la pianta rappresenta il divenire della vita, il monumento il divenire della storia.
Tra le molteplici interazioni tra vegetazione e monumento si possono incontrare particolari situazioni non dannose per le strutture murarie e per i reperti archeologici, ma che
spesso rappresentano un mutuo sostegno al consolidamento dei manufatti, purchè avvenga
una costante cura e manutenzione. Si possono incontrare associazioni ruderali di pregio per
la presenza di specie rare o in via di estinzione, inoltre essi rappresentano un importante rifugio – sopratutto nel caso dei parchi archeologici di interesse anche naturalistico – per piccoli
mammiferi, uccelli, insetti, che contribuiscono all’incessante vitalità del sistema biologico.
Un parco-paesaggio archeologico mediterraneo è il “Giardino della Kolymbetra” dove
accanto al valore inestimabile della Valle dei Templi di Agrigento (proprietà della Regione
Siciliana, affidata in concessione al FAI) si sta salvando e valorizzando uno dei caratteri peculiari del paesaggio siciliano, appunto un “giardino” produttivo: l’archeologia sposata alla
storia del paesaggio agrario.
Il territorio di Viterbo, parco storico-archeologico-ambientale, è disseminato di siti archeologi straordinari per la natura stessa dei luoghi e per le memorie storiche e artistiche che
in essi si conservano: con legge regionale n. 60/96 è stato infatti istituito il “Parco Storicoarcheologico e Ambientale d’Europa” che copre la Provincia di Viterbo e che dalla Provincia
dovrebbe essere gestito.
Tra le aree di maggiore interesse tutta l’ampia Piana dei Bagni di Viterbo che comprende la famosa caldera del Bulicame non è difesa e valorizzata come meriterebbe. L’area del
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
203
Bullicame è interessata dalla manifestazione di numerose sorgenti poste nel raggio di alcune
centinaia di metri.
La zona fa parte del bacino idrotermale viterbese lungo un’asse di circa 12 chilometri
dove sono attive 17 sorgenti accompagnate dai resti di edifici romani in corrispondenza dell’
antico tracciato della via Cassia.
Il paesaggio del Bullicame è quasi privo di piante, solo l’ampia chioma di alcuni alberi di
fico selvatico infossati nelle concavità del terreno, gruppi grigi di elicriso, giunchi presso le piscine e poche altre piante riescono a sopravvivere, mentre pioppi e salici ombreggiano il fosso
dal nome suggestivo della “Madonna degli occhi bianchi”, a fianco della collina biancastra.
Non distante si trovano le rovine di Castel d’Asso a dominio della confluenza di due torrenti con la necropoli etrusca scavata nella parete rocciosa immersa in un paesaggio solitario
e solenne, e Ferento la città prima etrusca, poi romana, di cui rimangono il teatro e le terme.
A Norchia è il paesaggio delle forre che ingloba il parco archeologico: patrimonio archeologico e patrimonio naturale sono connaturati.
Il Dennis nella sua prima visita, alla metà del XIX secolo, alla necropoli di Norchia e ai
ruderi dell’antico insediamento etrusco lo aveva descritto come “un’anfiteatro di tombe” nascoste dalla vegetazione selvaggia: “Le forre profonde ed orride sembrano difendere Norchia
e la sua necropoli da ogni contatto e da ogni profanazione umana. La impenetrabilità delle
sue macchie sembra proteggerla nel suo isolamento sublime e nel suo silenzio immenso, rotto
soltanto dal gridio acuto del falco che lentamente ruota alto nel cielo azzurro, e dal mormorio
eterno del ruscello in fondo alla valle. Solennità e mistero, più che in qualsiasi altro luogo
etrusco, sono qui presenti”31.
Recuperare, valorizzare, progettare sono azioni che si relazionano sempre con un luogo.
Gli antichi sapevano scegliere i luoghi in cui costruire. “Ogni luogo aveva un’intima,
peculiare qualità. Questo in, l’interiorità del luogo, è l’anima del luogo. Ciò si manifesta in
parte ai nostri sensi, al nostro corpo attraverso i sensi”32.
I sentimenti che proviamo di fronte ai veri messaggi della natura e della storia sono universali, sono anch’essi patrimonio dell’umanità. Abbiamo bisogno di riscoprire la sacralità ed
il mistero della terra.
I riti di fondazione delle città antiche servivano infatti per imprimere sacralità al luogo
dove doveva incominciare una nuova storia urbana.
I paesaggi di interesse storico, i paesaggi archeologici, sono fari di riferimento che la
filosofia del paesaggio indica come necessità di “antichissimi e nuovi” comportamenti etici
che l’arte può di nuovo svelare.
L’artista è il più vicino alla natura e alle culture materiali. Giacomo Boni impersonificava
questa figura di artista-scienziato.
Una figura a lui affine che ha operato in Grecia nella prima metà del XX secolo, l’architetto Dimitri Pikionis, ha realizzato, tra gli anni 1954-1957, un progetto innovativo e di
attento rispetto per la tradizione del luogo, i famosi “Sentieri” di fronte all’Acropoli di Atene,
31
32
DENNIS 1984, p. 155.
HILLMAN 2004, p. 91.
204
SOFIA VAROLI PIAZZA
Fig. 6 - D. Pikionis. Studi per la vegetazione ai margini dei sentieri (da LUCIANI, BOSCHIERO, LATINI 2003).
dove egli ha esaltato uno dei patrimoni archeologici più importanti della nostra storia occidentale (figg. 6-7).
“Nei suoi sentieri ateniesi, Pikionis ha dato forma a un luogo nel quale vive la sua idea di
un’Armonia universale, di un pathos che mette in relazione tra loro tutte le cose del mondo, e
di un Numero per misurarle, … trasmetterle, come aveva preannunciato, nel 1935, scrivendo
Topografia estetica”33. In quell’occasione Pikionis scriveva: “O terra, tu riporti tutto a te stessa, come all’unità di misura. Veramente tu sei il modulus che entra in ogni cosa. Sei stata tu a
dare forma alla Città e alle sue istituzioni. Tu hai modulato i suoni della lingua. Tu hai stabilito
le arti della parola e della forma”34. Il suo lavoro è ancorato ad un controllo della forma e dei
materiali con una padronanza artigianale di ogni singolo particolare. Nello stesso tempo è il
paesaggio il suo riferimento costante. In uno dei suoi primi discorsi, nel 1928, sulla questione
del paesaggio scriveva: “La forma di un luogo è la scoperta della sua essenza più profonda
… Se nostro dovere è la tutela dei monumenti archeologici dalla distruzione, dovere di pari
importanza è la difesa del paesaggio naturale che li circonda”35.
33
34
35
LUCIANI, BOSCHIERO, LATINI 2003, p. 7.
A. PAPAGEORGIOU, in LUCIANI, BOSCHIERO, LATINI 2003, p. 23.
FERRO 2004, pp. 25-28.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
205
Fig. 7 - Atene, Acropoli, I sentieri progettati da D. Pikionis (da LUCIANI, BOSCHIERO, LATINI 2003).
Per Boni e per Pikionis non c’è separazione fra tradizione e contemporaneità, tra progetto urbano e paesaggio, tra elemento costruttivo ed elemento vegetale.
Giacomo Boni appena terminata la scuola, s’iniziò praticamente alle scienze costruttive,
alla mineralogia e alla geologia. Osservava attentamente l’opera del murare e dello scalpellare,
le proprietà delle pietre e dei terreni; in seguito, riconosceva in quel tirocinio umilissimo una
ragione di superiorità sui costruttori teorici e citava la sentenza di Ruskin: “Nessun architetto
può pretendere al titolo di autorità e di maestro se non ha lavorato lui stesso alla testa dè suoi
operai”36.
Egli nel tradurre un capitolo di Teofrasto sui legnami da costruzione, ammirava come
nei Greci il sentimento del bello accompagnava le operazioni manuali più semplici37.
Conclusione
La natura e la storia con i suoi cicli e i suoi ritorni alla vita aiutano l’uomo a contenere
il mistero, ad immaginare un “tempo” che va oltre la morte. Anche per questo abbiamo bisogno di ricorrere al mito, quando il tempo era scandito dalle Ore, le primitive divinità della
36
37
TEA 1932, I, pp. 11-12.
TEA 1932, I, p. 80.
206
SOFIA VAROLI PIAZZA
Natura e delle Stagioni, che evocano il significato del germinare, del crescere e del fruttificare.
Non a caso Pan, il dio dei boschi e della natura universale generativa, ama la loro compagnia.
I parchi archeologici potrebbero chiamarsi parchi mitologici, vivificati dalle passioni e dai
sentimenti che richiamano gli dei pagani nei loro luoghi di origine.
Lungo il corso del Rio Maggiore, a nord-est dell’abitato di Civita Castellana, (l’antica
Falerii), la presenza di acque sorgive con proprietà salutari, di caverne naturali e di ripari
profondi sotto la roccia sporgente, immersi in una foresta lussureggiante, avevano dato
origine ad un centro di culto documentato già dall’età del Bronzo finale (XII sec. a.C.), ma
forse più antico, legato al significato magico-sacrale dell’acqua e alla sua reale proprietà
terapeutica.
Un complesso sistema ipogeo di alimentazione collegava “l’acqua sacra” ad una vasca
di raccolta intorno alla quale sorse il santuario falisco di Giunone Curite, cantato da Ovidio,
e collegato a Falerii con un tortuoso e arduo percorso che scendeva attraverso la tagliata
conosciuta come Cava del Lupo. Ovidio che aveva partecipato alle celebrazioni in onore di
Giunone insieme alla sua seconda moglie falisca, dopo che Camillo aveva conquistato Falerii
nel 395-394 a.C. le descrive nel terzo libro degli Amores :
“Poichè la mia sposa è nata nella terra dei Falisci ricca / di frutta, siamo andati nella città
vinta da te, o Camillo. / Le sacerdotesse preparavano la pura festa di Giunone / con giochi affollati e il sacrificio di una giovenca indigena /... Si erge un bosco antico e tenebroso fitto di alberi; /
guardalo, ammetterai che un dio abiti qui. / Un’ara riceve le preghiere e gli incensi votivi dei
fedeli, / un’ara fatta senz’arte da mani antiche…”.
L’importanza del culto praticato in epoche remote è attestato dalla presenza di numerosi
ex-voto rinvenuti all’interno di due ampie caverne.
L’origine sacra del luogo venne ereditata dalla religione cristiana che si innestò sulle antiche rovine riutilizzate per il complesso di S. Anselmo che comprendeva la grotta del santo
e altri ambienti ipogei. Il sistema dei cunicoli ancora attivo nel Medioevo doveva alimentare
una vasca a cui attingevano gli eremiti del soprastante santuario rupestre.
Il parco archeologico-mitologico può estendersi idealmente alla totalità del paesaggio
storico per vivificarlo attraverso il riconoscimento della sacralità dei luoghi che non separa i
miti dalla religiosità, il tempo dalla natura, il monumento dalla sua storia e dalla partecipazione affettiva dei cittadini.
Altri testi consultati
M. DE VICO FALLANI, I parchi archeologici di Roma. Aggiunta a Giacomo Boni: la vicenda
della “flora monumentale” nei documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, [Roma] 1988.
P. GOODCHILD, “La conservazione dei paesaggi, parchi e giardini storici in Gran Bretagna: alcuni principi fondamentali”, in Il giardino e il tempo, a cura di M. Boriani e L. Scazzosi,
Milano 1992, pp. 93-94.
Gli Orti Farnesiani sul Palatino, Atti del convegno Roma, École Française de Rome, 28-30
novembre 1985, a cura di G. Morganti, [Roma] 1990.
TEMPO STORICO DEL MONUMENTO E DELLA NATURA NEL PAESAGGIO ARCHEOLOGICO
207
J. RYKWERT, L’ idea di città: antropologia della forma urbana nel mondo antico, a cura di
Giuseppe Scattone, Milano 2002.
L. SCAZZOSI (a cura di), Politiche e culture del Paesaggio. Esperienze internazionali a confronto, Roma 1999.
M. VENTURI FERRIOLO, Etiche del paesaggio, Roma 2002.
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA
DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
Elisabetta Carnabuci
Questo contributo si propone di considerare l’esplorazione condotta nel 1899 da Giacomo Boni alla Regia1, inquadrata alla luce dei risultati della precedente indagine diretta 10
anni prima da Christian Hülsen2. Occorre premettere che il presente lavoro è basato sul più
ampio studio, condotto da chi scrive e giunto ormai in corso di pubblicazione, incentrato sull’analisi della documentazione manoscritta, grafica e fotografica, relativa allo scavo realizzato
dal Boni alla Regia e alla rete viaria circostante (fig. 1); tali documenti, ancora in gran parte
inediti, sono contenuti nella Cartella n. 14 conservata presso gli Uffici della Soprintendenza
Archeologica di Roma3.
Allo stato attuale il monumento scavato dal Boni risulta essere, nel suo insieme, difficilmente comprensibile, innanzitutto a causa delle spoliazioni medievali e rinascimentali,
che determinarono lo smantellamento pressoché totale degli alzati della Regia, precludendo
ogni possibilità di ricostruire con sufficienti sicurezze l’entità dei volumi originari. Un altro
elemento, che ha concorso ad ostacolare una completa lettura delle strutture della Regia, è
stato, senza dubbio, la mancanza di interventi di scavo organici e sistematici; l’edificio è stato
scavato, infatti, in vari momenti e con metodi e finalità diverse, e gli importanti risultati scientifici, conseguiti al termine delle esplorazioni, sono stati divulgati, anche in anni più recenti,
sotto forma di articoli preliminari, e devono essere considerati ancora sostanzialmente inediti.
1
Vd. BONI 1899a; BONI 1899b; BONI 1900a; GATTI 1899a; GATTI 1899b.
HÜLSEN 1889, pp. 228-253; HÜLSEN 1902; cfr. DE RUGGIERO 1913, pp. 252 ss.
3
La Cartella di appunti Boni sulla Regia è completata dalla relativa documentazione grafica e fotografica,
recuperata presso gli Archivi della Soprintendenza Archeologica di Roma, l’Archivio Fotografico della British
School at Rome, l’Archivio della Fototeca Unione e l’Archivio Fotografico della Sezione di Topografia Antica
dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Sulle complesse vicende dell’edizione dei manoscritti del
Boni sugli scavi al Foro Romano, si veda ARTIOLI 1938, pp. 5 ss.; CARNABUCI 1991, pp. 253 ss.; un primo gruppo
di rilievi fatti eseguire dal Boni e conservati presso gli Archivi della Soprintendenza Archeologica di Roma sono
ora pubblicati in CAPODIFERRO, FORTINI 2003. Per la grande disponibilità mostrata nel mettere a disposizione
tutto il materiale documentario necessario alla ricerca, ringrazio sentitamente la dott.ssa Irene Iacopi; per le
utilissime discussioni sulla figura di Giacomo Boni sono altresì molto grata alla dott.ssa Patrizia Fortini. Un
ringraziamento particolare è indirizzato ad Alessandro Zampiglia, al quale peraltro si deve la realizzazione delle
riprese fotografiche del monumento, perché senza il suo quotidiano incoraggiamento questo lavoro non sarebbe
stato completato.
2
210
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 1 - Pianta generale del Foro Romano (dis. Modus).
Fig. 2 - Il lato orientale del Foro Romano negli anni 1872-1873 (Fototeca Unione, n. inv. 13269 F).
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
211
Tali fattori, uniti ad alcune discutibili operazioni di scavo e di restauro4, hanno contribuito
a creare una generale mancanza di connessioni topografiche tra la Regia e i complessi edilizi
adiacenti; la stessa rete viaria che, fino all’epoca degli scavi Lanciani, ancora costeggiava i lati
S, O e N del monumento, risulta essere, allo stato attuale, quasi del tutto smantellata.
In questa situazione, i documenti del Boni esaminati forniscono un complesso di nuovi
dati archeologici, costituendo l’unica testimonianza della rimozione o della manipolazione,
talvolta risultata arbitraria, di una serie di strutture murarie, avvenuta nel corso dello scavo
del 1899. Sulla base del recupero e dell’interpretazione della documentazione archeologica, riesaminata anche alla luce delle successive esplorazioni, è possibile dunque fornire un
importante contributo alla conoscenza delle vicende edilizie del monumento.
L’esame della Cartella di appunti del Boni ha permesso altresì di ricavare i successivi
interventi di scavo e di restauro, in particolare quelli condotti negli anni 1964-1965 da Frank
E. Brown5. Anche di queste operazioni, talvolta eseguite senza il sostegno di una documentazione adeguata, si è persa successivamente la memoria, dato che non furono presentate in
pubblicazioni scientifiche. Sulla base di questa analisi, è stato possibile proporre, dunque,
una nuova lettura delle evidenze di età repubblicana e imperiale, che risultano attualmente
isolate dall’originario contesto topografico, se non addirittura rimosse.
Consideriamo ora lo scavo diretto nel 1889 da Christian Hülsen6.
Tale intervento può essere più agevolmente compreso se è posto a confronto con le precedenti indagini condotte nel sito della Regia, a partire da quelle dirette da Pietro Rosa subito
dopo la proclamazione di Roma Capitale del Regno d’Italia7. In quella occasione furono per
la prima volta riportate alla luce alcune porzioni degli alzati superstiti del monumento (fig.
2), in particolare quelli del settore occidentale prospicienti il Tempio del Divo Giulio. La
sistemazione finale dell’area di scavo vedeva, infatti, il lato orientale del Forum propriamente
detto ancora obliterato dal terrapieno della via, che collegava la Chiesa di S. Lorenzo in Miranda, fondata entro il Tempio di Antonino e Faustina, con quella di S. Maria Liberatrice,
situata ai piedi del Palatino. In tale contesto, tuttavia, gli elevati della Regia, parzialmente
obliterati dall’alta scarpata della strada dove si arrestò lo sterro del Rosa, non furono attribuiti
all’edificio.
Questo imponente terrapieno, “largo 20 metri alto 10”8, venne rimosso nel 1882 da
Rodolfo Lanciani (fig. 3). Al termine dell’intervento, lo studioso non riconobbe ancora le
murature della Regia, pur ora isolate ed emergenti davanti al Tempio di Antonino e Faustina
4
Ci si riferisce soprattutto alla costruzione di cemento gettata all’interno dell’ambiente occidentale della
Regia al termine dello scavo Brown (cfr. infra); al di sopra furono allora collocati il pavimento di tufo e la base
di cappellaccio, asportati nel corso dei sondaggi in profondità.
5
Cfr. BROWN 1935, pp. 67-88; BROWN 1967, pp. 47-64; BROWN 1973, p. 115; BROWN 1974-1975, pp. 15-36.
Vd. anche SCOTT 1988, pp. 18-23; BROCATO 1990, pp. 59 ss.; SCOTT 1991; SCOTT 1993a; SCOTT 1993b.
6
Cfr. nota 2.
7
ROSA 1873, pp. 57-60; LANCIANI 1871, pp. 260-271; BRIZIO 1872, pp. 230-236. Sulla figura e l’opera di
Pietro Rosa si veda da ultima TOMEI 1999.
8
LANCIANI 1882, p. 216; sugli interventi di scavo realizzati dal Lanciani lungo il lato orientale della piazza,
cfr. CARNABUCI 1991, pp. 268-269.
212
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 3 - Pianta del Foro Romano al termine degli scavi Lanciani (da LANCIANI 1897).
Fig. 4 - L’area della Regia al termine degli scavi Lanciani (Fototeca Unione, n. inv. 12575 F).
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
213
Fig. 5 - La zona della Regia al termine dello scavo Lanciani. Cartolina d’epoca.
(fig. 4), ritenendo che il monumento fosse stato distrutto dall’incendio neroniano e mai più
ricostruito9, o che fosse stato completamente rasato durante i saccheggi rinascimentali10; di
conseguenza egli attribuì alla Regia repubblicana le strutture sottostanti la cd. Porticus Margaritaria11.
Ricordiamo che lo sterro del lato orientale del Forum propriamente detto, condotto
dal Lanciani fino ai livelli di età imperiale, lasciò ancora inesplorate le fondazioni dei piloni
dell’Arco di Augusto (fig. 5), riportate alla luce da Otto Richter sei anni dopo, situate ad un
livello più basso di soli 25 cm. rispetto a quello raggiunto dal Lanciani nel 188212.
Il successivo, grande rammarico per la mancata scoperta della Regia e dell’Arco di Augusto traspare in molti scritti del Lanciani13; dei rimproveri a lui rivolti dagli studiosi a questo
9
LANCIANI 1882, pp. 227-228; cfr. DE RUGGIERO 1913, p. 250.
LANCIANI 1897, pp. 221-228.
11
Per un’esposizione più completa della storia degli scavi del Foro Romano, si rimanda a AA.VV.,
“La riscoperta del Foro nel secolo XIX”, in Forma 1985, pp. 63-68, con bibliografia relativa.
12
Sul rinvenimento dell’Arco di Augusto si veda CARNABUCI 1991, in particolare p. 269.
13
Citati in CARNABUCI 1991, p. 269, n. 7.
10
214
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 6 - Pianta generale della Regia (da NICHOLS 1887a).
proposito, si veda il polemico appunto di Eva Tea espresso con l’efficace inciso “com’era da
attendersi”14.
A seguito della corretta identificazione topografica della Regia pubblicata da Francis
Morgan Nichols nel 1886 (fig. 6), nello stesso anno venne condotto il primo scavo in profondità all’interno del monumento, diretto dall’A. assieme a Henri Jordan15 (fig. 7); tale intervento interessò soltanto il settore centrale dell’edificio, essendo circoscritto in una trincea
14
TEA 1952, p. 286.
NICHOLS 1886; NICHOLS 1887a; NICHOLS 1887b; NICHOLS, in Athenaeum n. 3047, 20-3-1886 e n. 3057,
29-5-1886; JORDAN 1886; cfr. DE RUGGIERO 1913, pp. 251 ss.; TEA 1952, p. 286.
15
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
Fig. 7 - Pianta generale della Regia (da JORDAN 1886).
215
216
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 8 - Pianta generale della Regia (da HÜLSEN 1889).
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
217
Fig. 9 - Assonometria dei tramezzi tra l’ambiente centrale e quello orientale della Regia (da NICHOLS 1887a).
di scavo larga m. 2 ca., aperta tra il Tempio di Antonino e Faustina e il Tempio di Vesta. Il
sondaggio, nel contesto dei dati acquisiti dall’esplorazione, permise agli Autori di negare la
presenza di una strada tra la Regia e l’Atrium Vestae, riferibile alle epoche di costruzione degli
edifici, poiché questo esiguo spazio si presentava invece ingombro di strutture e dunque non
transitabile16.
In questa situazione, due anni dopo, venne condotto dallo Hülsen17 il primo scavo sistematico della Regia (fig. 8), che ebbe senza dubbio il merito di riportare in luce in maniera pressoché totale il perimetro dell’edificio e gran parte dell’articolazione interna degli ambienti.
L’esplorazione dello Hülsen si arrestò al livello della pavimentazione marmorea del monumento, laddove era ancora presente, attribuibile alla ricostruzione operata nel 36 a.C. da
16
Cfr. NICHOLS, in Athenaeum n. 3057, 29-5-1886; NICHOLS 1887a, p. 232; MIDDLETON 1888, pp. 505-506.
Sul complesso sistema viario del lato orientale del Foro Romano, cfr. CARNABUCI 1991, pp. 296 ss.
17
Cfr. nota 2.
218
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 10 - Pianta generale della Regia al termine dello scavo Boni (Archivio Disegni SSBAR, n. inv. 33/627-2).
Cn. Domizio Calvino18, tramandata da Cassio Dione19. Per quanto riguarda il contesto dei
tre ambienti allineati della Regia, disposti lungo il muro perimetrale meridionale del monumento, è possibile osservare che, fino al 1889, il vano occidentale, in particolare, conservava
ancora i consistenti resti di questa pavimentazione in lastre marmoree.
Quanto poi al corpo settentrionale della Regia, nelle lacune del lastricato marmoreo,
determinate da spoliazioni post-antiche, lo Hülsen riportò alla luce, in particolare, alcune
porzioni della sottostante pavimentazione in tufo di Monteverde e il basamento di cappellaccio posto lungo il lato occidentale; l’area della cisterna in opera quadrata, posta quasi al
18
19
RE, V, p. 43, sv. Domitius. Cfr. DE RUGGIERO 1913, pp. 271 ss; SHIPLEY 1931, p. 22.
Dio Cass., XLVIII, 42.
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
219
Fig. 11. Veduta delle strutture all’interno del cd. Vicus Vestae (AF Top., n. inv. 39/178).
centro del cortile, non venne rinvenuta, probabilmente perché coperta dagli strati di preparazione sui quali era posto in opera il lastricato marmoreo. Anche l’angolo nord-occidentale
del monumento rimase allora inesplorato, essendo obliterato da un’imponente massicciata di
calcestruzzo rinvenuta in posizione di crollo, ritenuta dallo studioso pertinente al Tempio del
Divo Giulio20.
20
HÜLSEN 1889, pp. 245-247.
220
ELISABETTA CARNABUCI
Ancora dopo gli scavi Hülsen, dunque, la Regia appariva in gran parte caratterizzata da
consistenti sopravvivenze riferibili alla prima età imperiale, quali, in particolare, il lastricato
pavimentale marmoreo e i preziosi resti di elevati, realizzati con filari sovrapposti di blocchi
di marmo bianco (fig. 9).
Dieci anni dopo, precisamente il 28 Maggio 189921, fu ripreso lo scavo della Regia e della
rete stradale circostante, condotto da Giacomo Boni22 (fig. 10). Lo studioso intraprese l’esplorazione dell’edificio dopo aver assunto, l’anno precedente, la Direzione degli Scavi del Foro
Romano, incarico mantenuto fino al 1922 e successivamente ampliato all’area palatina23.
Occorre innanzitutto premettere che il Boni, allo scopo di raggiungere l’obiettivo principale che si era prefissato, ossia l’indagine delle stratificazioni preesistenti alla sistemazione
augustea del monumento, dovette necessariamente procedere all’asportazione di gran parte
delle lastre marmoree pavimentali, operazione purtroppo eseguita senza fornire un’adeguata
documentazione scientifica24.
In questo contesto venne altresì portata a termine la rimozione dei consistenti basolati
stradali di età imperiale che ancora costeggiavano la Regia lungo i lati Nord e Sud, erroneamente ritenuti dal Boni di epoca post-antica.
L’esplorazione del Boni fu intrapresa dapprima a Sud dell’edificio (fig. 11), nell’area
delimitata dalla Regia stessa e dal témenos di Vesta25.
Dopo aver rimosso il basolato ancora conservato, lo studioso raggiunse il livello mediorepubblicano del sito, occupato da un pozzo, rivestito da filari sovrapposti di lastre di tufo, e
da alcune strutture in opera quadrata di cappellaccio e di tufo; conclusa l’indagine di questo
settore, fu resa nota soltanto una planimetria riportata dal Vaglieri26.
Per tutta l’estate dello stesso anno, lo scavo proseguì verso Nord. Fu così tolta la pavimentazione marmorea dei tre ambienti allineati della Regia, databile alla prima età imperiale,
riportando alla luce, in particolare, la complessa sistemazione repubblicana dell’ambiente
occidentale, pavimentato con lastre di tufo dell’Aniene e dotato all’interno di una struttura
circolare realizzata con lastre di cappellaccio; sulla base di una preziosa puntualizzazione del
Boni presente alla p. 533 del fasc. I del ms., sappiamo che il pavimento di tufo dell’Aniene
era posto in opera ad un livello più basso di m. 0,70 rispetto a quello marmoreo asportato nel
21
Cfr. WISEMAN 1985-1986.
In generale, sulla complessa figura di Giacomo Boni, cfr. BELTRAMI 1926; TEA 1932; ARTIOLI 1938; ROMANELLI 1959; ROMANELLI 1970; MANACORDA 1982a; COARELLI 1983, pp. 3 ss.; DE SANTIS 1983; D’ELIA, LE PERA
1985, p. 91; WISEMAN 1985-1986; CARNABUCI 1991; BARBANERA 1998, pp. 82 ss., 152-154; MICHELINI 1993; AUGENTI 2000; IACOPI 2003.
23
DE SANTIS 1983, p. 76; Archeologia a Roma 1989, pp. 19 ss.
24
Cfr. VAGLIERI, “Rassegna Archeologica”, in Fanfulla della Domenica, 11 giugno 1899; TEA 1932, II,
pp. 31-32; BROWN 1935, pp. 84-85.
25
Secondo la precisazione del Baddeley, l’esplorazione del cd. Vicus Vestae precedette quella della Regia
(BADDELEY 1904-1905, p. 377); in generale, sullo scavo Boni nell’area in questione, cfr. GATTI 1899a, pp. 144-149;
GATTI 1899b, p. 128; BADDELEY 1904-1905, p. 377; una ripresa fotografica complessiva degli scavi Boni è pubblicata in Archeologia a Roma 1989, p. 23, fig. 8.
26
VAGLIERI 1903, fig. 17. Per un confronto con lo stato di conservazione attuale delle strutture scavate dal
Boni, si veda SCOTT 1988, p. 21, figg. 5-8.
22
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
221
Fig. 12 - “Prospettiva assonometria della parte orientale della Regia e dei manufatti sottostanti”, dis. T. Ciacchi
(Archivio Disegni SSBAR, n. inv. 630/5).
1899. È necessario ricordare che per primo il Boni riconobbe nel vano occidentale il Sacrarium Martis27, menzionato dagli autori antichi come il luogo dove erano custoditi gli ancilia
dei Salii, realizzati dal leggendario fabbro Mamurio Veturio, consacrati alla divinità28. In seguito fu asportata la stratificazione più superficiale del cortile antistante gli ambienti allineati,
non scavata dallo Hülsen, al di sotto della quale furono rinvenuti, in particolare (fig. 12), il
lastricato pavimentale di tufo di Monteverde, due pozzi rivestiti da filari sovrapposti di lastre
27
Cfr. BONI 1901-1902, p. 146; BONI 1904-1907b, p. 521; per una puntuale definizione del termine sacrarium, cfr. CASTAGNOLI 1984a, p. 6. Tale identificazione incontrò il favore di un gran numero di studiosi, quali
ASHBY 1899, pp. 466-467; GATTI 1899a, p. 145; LANCIANI 1900, pp. 32 ss.; BADDELEY 1904, pp. 31-32; BADDELEY
1904-1905, pp. 378-380; TEA 1920, p. 159; TEA 1927a; TEA 1932, II, pp. 31-32; TEA 1952, fasc. 3-4, p. 289; contra
vd. HÜLSEN 1902, p. 62 e DE RUGGIERO 1913, pp. 255-256.
28
Un’esauriente rassegna delle fonti letterarie è in DE RUGGIERO 1913, pp. 263-265; sulla figura di Mamurio Veturio, artefice, secondo le fonti letterarie pervenute, dei dodici ancilia custoditi nella Regia e portati nelle
processioni dai Salii, cfr. C. AMPOLO, Periodo IV B (640/30-580 a.C.), in Formazione della città 1980, pp. 173 ss.;
G. COLONNA, Ibid., p. 209; COLONNA 1988, pp. 310-311. Di grande interesse è il ritrovamento, avvenuto durante
gli scavi Brown della Regia, di frammenti marmorei pertinenti ad un rilievo raffigurante uno scudo (cfr. IACOPI
1979, p. 34).
222
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 13 - Livello stradale basolato tra la Regia e il Tempio di Antonino e Faustina, ricomposto dal Boni (Archivio
Fotografico SSBAR, n. inv. 7/6133).
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
223
Fig. 14 - Livello stradale basolato tra la Regia e il Tempio di Antonino e Faustina, rimosso nel 1899 (Archivio
Fotografico SSBAR, n. inv. 6/6132).
di cappellaccio e la cisterna a pseudo-cupola in blocchi di cappellaccio, quasi perfettamente
conservata.
Lo scavo fu successivamente allargato al lato settentrionale della Regia, rimuovendo il
livello raggiunto dal Lanciani nel 188229, che corrispondeva al gradino più alto della scalea
marmorea del monumento. Furono così riportati alla luce i tre lunghi gradini della Regia (fig.
13), asportando, però, almeno due basolati stradali sovrapposti (fig. 14), delimitati dalla Regia
e dal Tempio di Antonino e Faustina (vd. infra).
Come si è detto, Giacomo Boni realizzò il primo scavo stratigrafico della Regia: per evidenziare la particolare considerazione attribuita dall’Autore allo studio e all’esplorazione archeologica del monumento, riportiamo un passo tratto dalla p. 127 del fasc. VI del ms.: “[…]
riconobbi nel basamento circolare una reliquia del sacrarium delle hastae martiae, nel tholos
e nell’altare due reliquie di Ops Consiva. Pieno di riverente trepidazione rivolsi il pensiero
alla natura e allo scopo di questi sacrari, parendomi contenessero la soluzione dei più nobili
problemi di archeologia romana che dopo quello del niger lapis mi fosse dato di studiare”.
La metodica d’indagine archeologica adottata dal Boni venne applicata a tutte le sequenze stratigrafiche individuate nel sito, non soltanto, dunque, ai livelli arcaici e repubblicani, ma
anche a quelli imperiali e tardo-antichi.
29
LANCIANI 1882.
224
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 15 - Sezione stratigrafica all’interno del cortile della Regia (rilievo inedito riportato alla p. 555 della Cartella
del Tempio di Vesta).
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
225
Fig. 16 - Veduta dell’architrave con l’iscrizione dei Kalatores Pontificum et Flaminum (Foto A. Zampiglia).
Tali stratificazioni furono analizzate in particolare dal Gjerstad, il quale ebbe la possibilità di consultare le inedite schede dei singoli livelli stratigrafici, accuratamente individuati e
scavati dal Boni, conservate presso gli uffici della Soprintendenza Archeologica di Roma30.
Nelle schede erano state riportate dal Boni tutte le informazioni essenziali rilevate nel
corso dello scavo, vale a dire una sommaria descrizione dello strato, le relative localizzazioni
planimetriche e altimetriche, i componenti, il colore, nonché una sintetica interpretazione;
si veda, a questo proposito, la sezione stratigrafica riprodotta (fig. 15), che rappresenta un
eloquente esempio della tecnica di scavo impiegata dal Boni alla Regia. Ad ogni reperto archeologico, proveniente dalle varie stratificazioni, venne apposto un numero di inventario,
corrispondente alle relative schede di strato: in seguito tale materiale è stato raccolto in appositi scaffali, collocati nell’Antiquarium forense31.
Da rilevare, in questo contesto, che un contributo davvero importante, fornito dal ms.
Boni per una maggiore conoscenza dell’esplorazione del 1899, risulta essere la specificazione
dei quattro sondaggi stratigrafici in profondità, riportata alla p. 534 del fasc. I.
30
Per l’elenco completo dei livelli stratigrafici della Regia, scavati dal Boni, cfr. GJERSTAD 1960, pp. 295-297;
IACOPI 1982, p. 40.
31
Cfr. PISANI SARTORIO 1970.
226
ELISABETTA CARNABUCI
Fig. 17 - Particolare del lato settentrionale della Regia (Foto A. Zampiglia).
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
Fig. 18 - Lo scavo dei basolati tra la Regia e il Tempio di Antonino e Faustina (da BONI 1899a).
227
228
ELISABETTA CARNABUCI
Al termine delle esplorazioni, il Boni realizzò una serie di interventi di restauro e di
consolidamento delle strutture riportate alla luce, rimasti a tutt’oggi pressoché inediti, che
modificarono, spesso arbitrariamente, l’aspetto originario del contesto32.
I lavori interessarono, in primo luogo, l’area del cd. Vicus Vestae, delimitata dalla Regia e
dall’Atrium Vestae; in questo ambito al Boni deve essere attribuita la composizione del livello
pavimentale dell’area, i restauri eseguiti sulla sommità del pozzo e la realizzazione della muratura in blocchi situata in corrispondenza dell’estremità occidentale del muro perimetrale
meridionale della Regia.
A questo periodo risale anche la sistemazione dell’ambiente a pianta trapezoidale posto
lungo il lato postìco della Regia, riconosciuto dal Boni33 come la Schola Kalatorum Pontificum
et Flaminum, ipotesi basata soprattutto sul fortuito ritrovamento della parte terminale di un
architrave marmoreo iscritto34 (fig. 16), inglobato in una struttura ritenuta di età post-antica,
demolita nel 1899, che insisteva sul muro orientale di questo ambiente35. Questa iscrizione
completava quella incisa nell’altra metà dello stesso architrave, perduta, rinvenuta nel XVI
secolo ad viam Sacram36. Già lo Hülsen37 per primo dubitò di tale attribuzione del Boni, che,
comunque, non trovò grande credito tra gli studiosi38; infatti, a questa teoria furono opposti
vari argomenti, quali soprattutto la ristrettezza dell’ambiente rispetto all’eccessiva lunghezza
dell’architrave (m. 3,50 ca.).
Come si è detto, profonde modifiche furono apportate, ancora, nell’area prospiciente
la lunga gradinata settentrionale della Regia, di fronte al Tempio di Antonino e Faustina.
Un’emblematica testimonianza di questi interventi (fig. 17) è costituita dai due basoli ancora
ben visibili sotto la colonna di cipollino, situata presso l’angolo N-O della Regia; tali resti attestano lo sterro condotto dal Boni di un livello pavimentale della strada compresa tra la Regia
e il Tempio di Antonino e Faustina, con tutta probabilità riferibile all’età flavia39.
Sembra molto probabile, inoltre, che l’attuale basolato, posto tra la Regia e il Tempio
di Antonino e Faustina, non sia mai esistito a quel livello, ma che sia stato arbitrariamente
posto in opera dal Boni, come dimostrerebbe la fotografia riportata (fig. 18), probabilmente
reimpiegando i basoli pertinenti ai soprastanti selciati da lui stesso rimossi40.
32
Sulle metodologie di restauro dei contesti archeologici impiegate dal Boni, si veda PARIBENI 1994.
BONI 1899b, p. 220; BONI 1904-1907, p. 523; cfr. ASHBY 1899, pp. 321-322; GATTI 1899a, p. 146.
34
CIL, VI, 4, 3, 37167.
35
BARNABEI 1899, pp. 192-193; GATTI 1899b, p. 128; LANCIANI 1903, p. 200; VAGLIERI 1903, pp. 46-47.
36
CIL., VI, 4, 2, 31426.
37
HÜLSEN 1902, pp. 65-66.
38
Cfr. DE RUGGIERO 1913, pp. 257-258; PLATNER, ASHBY 1929, pp. 440-444; BROWN 1935, pp. 80-82; DEGRASSI 1945-1946, pp. 74-75.
39
PALOMBI 1988, pp. 80-81. Brevi riferimenti ai basolati rimossi dal Boni nell’area tra la Regia e il Tempio
di Antonino e Faustina sono in ASHBY 1899, p. 186; ASHBY 1901, p. 139; BONI 1899a, p. 13; BONI 1899b, p. 220;
COMPARETTI 1899, p. 263.
40
PALOMBI 1988, citato alla nota precedente. Per una più articolata discussione sulla definizione cronologica della rampa della Regia e dei livelli stradali adiacenti, si rimanda al già citato studio monografico elaborato
da chi scrive, di prossima pubblicazione.
33
GLI SCAVI HÜLSEN E BONI ALLA REGIA: DUE METODOLOGIE DI INDAGINE A CONFRONTO
229
L’asportazione indiscriminata dei tratti stradali che fiancheggiavano la Regia deve essere
inquadrata nel più vasto contesto degli sterri della Via Sacra “medioevale” e dei suoi diverticoli; tale operazione, condotta dal Boni, che pure è stato senza dubbio il precursore, in Italia,
della moderna esplorazione stratigrafica, rappresenta il più famoso errore di scavo mai compiuto nell’area del Foro Romano.
Il risultato di questo incredibile equivoco è visibile in tutti i grandi edifici imperiali che
si affacciano sulla Via Sacra che, infatti, non si elevano più dall’originario livello di frequentazione, ma sembrano quasi sospesi per aria, con le fondazioni in vista41. Il paradosso è che
il Boni42 si mostrò piuttosto polemico con il metodo utilizzato nei precedenti scavi JordanNichols e Hülsen, opponendo loro proprio la mancata comprensione delle relazioni cronologiche tra le costruzioni allora rinvenute e i livelli delle strade adiacenti.
Al Nichols e allo Hülsen fu imputata, ancora, da parte dell’entourage legato al Boni, la
errata interpretazione dei muri perimetrali della Regia, ritenuti fondazioni e non alzati, e dunque pertinenti alla ristrutturazione augustea43. Questo rimprovero è in parte ingiusto, dato
che già il Nichols, in particolare, riteneva che la faccia esterna del muro meridionale della Regia “was exposed to view”44. Di rimando, lo Hülsen, pur ammettendo che lo scavo Boni aveva
rimesso in luce le sopravvivenze più antiche della Regia, dichiarava di aver già individuato le
tre fasi principali dell’edificio: repubblicana, augustea, medioevale45.
Lo studio delle indagini archeologiche, condotte sul sito della Regia nell’ambito degli ultimi tre decenni del XIX secolo, è dunque incentrato sulle due campagne più importanti, dirette da Ch. Hülsen e da Giacomo Boni. L’una deve essere considerata la prima esplorazione
sistematica ed estensiva del monumento, rispettosa delle fasi tardo-imperiali e delle superfetazioni post-antiche, evidentemente giudicando importanti tutte le molteplici trasformazioni
edilizie che, pur non modificando gli elementi essenziali del primitivo impianto planimetrico,
hanno ugualmente alterato le caratteristiche formali della Regia, inserendola successivamente
all’interno di una più vasta organizzazione edilizia. L’altra, ancora più innovativa negli aspetti
metodologici, è stata la prima indagine in profondità condotta con il metodo stratigrafico, che
ha necessariamente portato alla rimozione delle sopravvivenze di età imperiale e medievale,
operazione condotta spesso in maniera frettolosa e non sempre adeguatamente documentata;
ciò nonostante, l’esplorazione di Giacomo Boni ha fornito una straordinaria quantità di dati,
spesso verificati dalle successive ricerche, ancora oggi indispensabili per la lettura diacronica
delle evidenze archeologiche del monumento46.
41
CARNABUCI 1991, pp. 273 ss.
BONI 1899a, p. 26.
43
Cfr. COMPARETTI 1899, p. 263.
44
NICHOLS 1887a, p. 232.
45
HÜLSEN 1902, pp. 62-64.
46
L’apparato bibliografico del presente contributo è aggiornato al giugno del 2004; per inderogabili esigenze editoriali, non è stato possibile esaminare gli studi pubblicati dopo questa data.
42
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
Alessandra Tomassetti
Giacomo Boni non fu solo un archeologo innovativo e tenace, ma anche un personaggio poliedrico, un osservatore attento e curioso, studioso degli usi e dei costumi dei popoli
antichi e moderni. Durante i suoi numerosi viaggi effettuati in Italia ed all’estero, per ragioni
di servizio e non, dimostrò una innata capacità di cogliere quell’essenza delle realtà locali,
sempre intimamente legate alle tradizioni culturali, persistenti fin dalle epoche antiche.
Boni era solito fermare le sue personali impressioni di questi viaggi in puntuali articoli
che faceva pubblicare su giornali e riviste a diffusione nazionale, trattando i più svariati argomenti.
Una ricerca in questo senso è stata da poco intrapresa da chi scrive1, consultando in
dettaglio le maggiori testate giornalistiche del periodo, con alcune delle quali Boni collaborò
assiduamente; in particolare fin dal 1887 fu corrispondente del quotidiano La Riforma2, i cui
argomenti, ispirati da questi suoi viaggi, pongono l’accento proprio sulle tracce ancora presenti delle tradizioni antiche negli usi quotidiani.
Interesse particolare per Boni fu il problematico rapporto tra le etnie europee antiche e
la loro diffusione sul territorio, e proprio in questo senso le considerazioni espresse in seguito
ad un viaggio in Irlanda, riportate in una trattazione pubblicata in Italia e nel Regno Unito,
sono particolarmente indicative ed interessanti.
1
Il presente contributo è una breve anticipazione di uno studio tutt’ora in corso, che intende analizzare
il rapporto che l’archeologo veneziano aveva con l’opinione pubblica e l’editoria, ed il modo in cui questa era
utilizzata per la diffusione delle notizie sugli scavi e gli avvenimenti salienti che riguardarono la sua attività nel
Foro Romano e Palatino.
Desidero qui ringraziare la dott.ssa Irene Iacopi per avermi permesso la consultazione e la pubblicazione del
materiale che fa parte della raccolta di documenti conservati presso l’ufficio Direzione Foro Romano e Palatino.
Sono molto grata alla dr.ssa Patrizia Fortini, impareggiabile collega ed amica, per il sostegno accordatomi nell’elaborazione di questo lavoro, le cui osservazioni ed il confronto sono state il motore di questo elaborato.
2
La Riforma fu un giornale politico quotidiano (1 settembre 1871- 4 agosto 1896) fondato come giornale
della Sinistra Italiana. Si interessava prevalentemente di politica estera, ma fu un vero e proprio giornale di informazione in senso moderno. MAJOLO MOLINARI 1963, II, pp. 773-775.
Boni firmava i suoi articoli inizialmente con il suo nome o con lo pseudonimo di “Un Veneziano”; dal 1888,
come “Monaco Bigio”, cioè l’anagramma del suo nome. Riguardo a questo problema accenna in BONI 1921, p.
79: «Sotto l’anagramma: MONACO BIGIO, dedicavo a Francesco Crispi, con le mie prime traduzioni veneziane
dall’antico dialetto dorico-siculo, la difesa della laguna di Venezia minacciata da nuovi ponti».
232
ALESSANDRA TOMASSETTI
Giacomo Boni effettuò il viaggio nell’estate del
1904, su invito della Royal Dublin Society, per la quale
tenne una conferenza intitolata Recent Discoveries in the
Forum. Eva Tea3 riporta la notizia secondo la quale fu
Waldstein a raccomandare Boni a Sir Plunkett, eminente studioso e uomo politico4. Questi era un personaggio
molto influente nella Dublino dell’inizio del secolo: era
allora vice-presidente del Dipartimento dell’agricoltura e
della istruzione tecnica, nonché fondatore di una delle
prime latterie cooperative a Ballyhahill, nella contea di
Limerick (fig. 1).
Plunkett presentò Boni al mondo accademico e scientifico irlandese, accompagnandolo in molte delle escursioFig. 1 - Sir Horace Plunkett.
ni effettuate nei più significativi siti di importanza storica
ed archeologica, e mantenendo nel corso degli anni un solido rapporto epistolare5.
Tornato in Italia, benché assorbito dagli scavi del Foro Ulpium6, Boni elaborò uno studio
comparativo tra le primitive popolazioni che abitarono l’area forense e quelle dell’Irlanda, in
una articolata pubblicazione edita dalla rivista Nuova Antologia nel Marzo 1905, tradotta in
inglese l’anno successivo, e pubblicata con una prefazione di Sir Horace Plunkett7.
Come si è accennato Boni illustrò in una conferenza svoltasi nel Teatro della Royal Dublin Society a Leinster House8, scoperte e studi sui primitivi abitanti della valle del Foro9,
evento che ebbe un riscontro e consenso notevole, come attestano due articoli usciti nel Regno Unito di lì a qualche giorno10.
Il primo articolo uscì nell’edizione del 31 Agosto 1904 del quotidiano The Times di Lon11
dra , in cui l’autore si sofferma sui particolari della conferenza, ripercorrendo in dettaglio gli
argomenti salienti della lettura.
3
TEA 1932, II, pp. 180-187.
WEST 1986; BOYLAN 1988, pp. 328-329.
5
TEA 1932, II, pp. 547-549. Boni alcuni anni dopo il suo viaggio intervenne sulla questione dell’indipendenza dell’Irlanda, ed in particolare sul valore dell’«home rule».
6
BONI 1907c, pp. 361-427.
7
BONI 1905a; BONI 1906b, p. 3.
8
La Royal Dublin Society è un antica istituzione irlandese tutt’ora molto presente sul territorio, la cui fondazione risale al 1731; l’Ente si propone di promuovere lo sviluppo dell’Agricoltura, delle Arti, delle Scienze e
dell’Industria in Irlanda. Nell’archivio dell’istituzione non risultano presenti documenti che riportino l’evento:
colgo tuttavia l’occasione per ringraziare Mrs. Mary Kelleher della Library per la gentilezza accordatami.
9
La Tea riferisce che Boni volle fortemente il viaggio in Irlanda perché egli aveva intuito che fosse determinante la conoscenza diretta delle popolazioni celtiche per meglio comprendere le caratteristiche peculiari degli
abitanti del Foro riscontrate con le scoperte del sepolcreto arcaico (TEA 1932, II, p. 180).
La cosa è confermata da Plunkett nella sua prefazione in BONI 1906b, p. 3.
10
La maggior parte degli articoli esaminati in questo contributo fanno parte della raccolta editoriale parte
del Fondo Boni, e conservati presso la Soprintendenza Archeologica di Roma.
11
Il documento in Archivio Storico SSBAR.
4
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
Fig. 2 - Il sito archeologico di Tara (Celti 1991).
Fig. 3 - La Round Tower (Celti 1991).
233
234
ALESSANDRA TOMASSETTI
Nell’articolo viene dato molto risalto alla cordiale introduzione di Sir Plunkett12, che
confermò il legame profondo degli studi di Boni sulle popolazioni primitive del Foro e quelli
effettuati sugli abitanti dell’isola da studiosi irlandesi, molti dei quali presenti alla conferenza,
e che con entusiasmo incontrarono l’archeologo italiano13.
Durante la serata quindi ebbe modo di fare la conoscenza dei più noti e validi ricercatori
ed esperti di antichità iberiche: tra questi George Coffey, membro della Royal Irish Academy,
nonché direttore della raccolta archeologica della stessa Accademia, incarico che mantenne
dal 1904 al 1914. Interessante il cursus vitae dello studioso: iniziando con collaborazioni con
varie istituzioni accademiche come disegnatore tecnico, si diplomò presso il Trinity College
in Antichità; divenuto membro dell’Accademia nel 1890, si occupò prevalentemente di problematiche preistoriche legate alla cultura materiale, tanto che nel 1904 fu quasi scontata la
sua nomina a direttore della raccolta di antichità14.
Conobbe Thomas Johnson Westropp, studioso degli insediamenti antichi e medievali,
autore tra l’altro di saggi sui forti, e sulle primitive chiese irlandesi15, e Francis Joseph Bigger,
personaggio interessante e poliedrico come lo stesso Boni. Membro anch’egli della Royal Irish
Academy e della Queen’s University, fondò la Gaelic League nel 1893, la libera associazione
che aveva come lo scopo la conservazione e utilizzazione della lingua irlandese quale idioma
nazionale, nonché studiare e diffondere la letteratura indigena. Fu inoltre editore dello Ulster
Journal of Archaeology dal 1894 al 1914: promosse restauri di castelli e chiese, fu un attivista
del Fronte Nazionale, concedendo la sua dimora a Belfast Ardrigh, in Antrium Road, come
centro di riunioni politiche.
Alla sua morte, avvenuta nel 1926, la sua vasta e dotta raccolta libraria fu donata per suo
volere al Belfast Central Library16.
Durante la conferenza Boni, dopo aver ringraziato le istituzioni accademiche irlandesi
per la collaborazione prestata nella organizzazione del suo discorso pubblico, in particolar
modo la Royal Dublin Society, la Royal Hibernian Academy e la Royal Society of Antiquaries,
illustrò con foto a tema i luoghi e i materiali rinvenuti nel Foro Romano, per la cui comprensione si ripropose proprio in questa sede di prendere spunto dallo studio di alcuni passi del
Book of Leinster, che riportano gli usi funerari dei popoli d’Irlanda.
Qualche giorno dopo un secondo articolo17 riportò con numerosi e precisi dettagli le
escursioni effettuate da Boni durante il viaggio, documento questo di particolare importanza
12
Plunkett fu sicuramente il personaggio più eminente che Boni frequentò durante tutto il viaggio, e che
lo stesso archeologo italiano ringraziò citandolo in BONI 1905a, p. 4 nota 1.
13
«In the course of his research Signor Boni had been struck with some strong in resemblance between
what he had thus learned about the prehistoric Italian peoples and what had so far been brought to light about
the earliest peoples in their own island. He had now come to Ireland for the first time in order to get into touch
with their archaeologists and with the subject matter of their work»: articolo citato.
14
MITCHELL 1985, pp. 147-151.
15
WESTROPP 1900-1902, pp. 100-180; WESTROPP 1904, pp. 267-276; FITZGERALD 2000.
16
BOYLAN 1988, p. 23.
17
N. Whig del 3 settembre 1904: Ireland and Italy, Their Kindred Antiquities. Commendator Boni in the
North. Anche questo articolo fa parte della raccolta di giornali conservata presso la SSBAR.
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
Fig. 4 - Il Newgrange (da BONI 1905).
Fig. 5 - Il Newgrange. Lo stato attuale.
235
236
ALESSANDRA TOMASSETTI
in quanto rappresenta una preziosa testimonianza della stima e considerazione che gli studiosi locali ebbero nei confronti del Nostro archeologo, oltre a fornire elementi utili a comprendere la genesi degli studi comparativi di Boni.
La prima tappa fu a Dublino, recandosi a visitare la sede della Royal Irish Academy, ed
il Trinity Collage18, in cui ebbe modo di visionare attentamente il celebre Book of Leinster, il
manoscritto del XII secolo, ivi conservato, dal quale ampiamente prese spunto per elaborare
le sue considerazioni sui popoli antichi19.
Si recò successivamente a visitare il National Museum, che comprende ancora oggi una
ricchissima collezione di antichità risalente al periodo protostorico, che Boni osservò con
molta attenzione, cercando spunti per le sue considerazioni: in particolare fu colpito dai resti
di una sepoltura ad incinerazione conservati in un contenitore in pietra racchiudente un’urna,
del tutto simile a quelli che egli stesso aveva recuperato presso il Sepolcreto del Foro20. In
particolare fu colpito dalla ricostruzione espositiva della sepoltura, perché l’urna cineraria era
stata posta capovolta, nella stessa collocazione dell’avvenuto ritrovamento21.
Tappa successiva nella Valle del Boyne nella Contea di Meath, per visitare il complesso
archeologico di Tara (fig. 2): il luogo fu per secoli capitale dei re di Meath o di Tara, probabilmente con un carattere prettamente simbolico, e sede di riunioni e riti tribali22. Del vasto
complesso comprendente circa ventiquattro siti, tra terrapieni, tumuli, aree recintate e presunta viabilità, sono state investigate sistematicamente solo tre aree, databili all’Età del Ferro
celtica. Sono a tutt’oggi visibili le opere difensive in terra, sulla cima di una collinetta, costituite da un doppio cerchio di fossati, e qualche traccia delle fondazioni del villaggio e della
fortezza reale23. Fu abbandonato dopo l’interdetto lanciato da St. Rúadhán nel 56324.
18
Università fondata dalla regina Elisabetta I nel 1592, custode di una delle più importanti raccolte di
manoscritti antichi.
19
Il manoscritto fu composto intorno al 1150: vi si presenta un’ampia trattazione del mito irlandese, di
storia, genealogia, poesia e grammatica. È stato pubblicato in edizione critica nel 1954 a cura del Dublin Institute for Advanced Studies, e ne fu completata la redazione nel 1983, con l’aggiunta del VI volume a cura di
A. O’SULLIVAN. R.I. BEST, O.J. BERGIN, M.A. O’BRIEN (a cura di), The Book of Leinster, formerly Lebor Na Núachongbála, 1, Dublin 1954 (Dublin Institute for Advanced Studies).
Boni in particolare si soffermò sul mito di Carman: BONI 1905a, pp. 5-9.
20
Boni redasse 7 rapporti annuali sulle esportazioni del Sepolcreto del Foro Romano pubblicati a cura dell’Accademia dei Lincei in Notizie degli Scavi di Antichità dal 1902 al 1911; inoltre considerazioni più generali
furono espresse in altre sue pubblicazioni, volte ad un pubblico non specialistico, edite a cura della rivista Nuova Antologia di Roma, con la quale collaborò fin dal Luglio del 1899, redigendo i cosiddetti “sunti popolari”, in
molti casi unici resoconti delle sue scoperte: BONI 1904b, pp. 3-22; BONI 1904c, pp. 3-17.
21
La tomba fu scoperta casualmente nel 1891 ad opera di un contadino nei pressi di Tallagt, che trovò
l’urna capovolta come un coperchio posta sulle ossa cremate; forse si trattava di una sepoltura ad incinerazione
primaria: Journal of Royal Society Antiquity of Ireland 1898, p. 70.
22
Si ricorda l’investitura rituale di un re nelle sue prerogative divine che contraeva matrimonio con la terra
per assicurare fecondità delle messi e fertilità degli armenti.
23
Il sito conosciuto come Rath Na Seanaid (Forte dei Sinodi) ebbe carattere sepolcrale e residenziale. Sono
stati trovati resti di materiale attribuibile ai primi tre secoli d.C.
24
Da sempre gli aspiranti al presunto Alto Regno d’Irlanda, ambirono al regno di Tara, riconoscendo al
sito il valore simbolico anche dopo l’abbandono ed il relativo decadimento. HARBISON 1982, pp. 144-145; 192194; MACALISTER 1931; SWAN 1978, pp. 51-66.
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
237
Fig. 6 - La fortificazione di Dún Aengus: lo Chevaux-de-frise (da HARBISON 1988).
Passata la notte presso il Castello di Killen, ospite del duca e della duchessa di Fingall25,
il giorno successivo fu nuovamente nella Valle del Boyne, visitando la zona del Navan, e la
Round Tower di Donaghmore, monumento che lo colpì molto per la somiglianza con i campanili cilindrici del Ravennate26. Questi monumenti si svilupparono in Italia nella seconda
metà del IX secolo, maturando architettonicamente nel corso del X e XI secolo; è interessante come Boni riuscì a cogliere prontamente il parallelismo tra i due tipi monumentali,
evoluzione di un comune modello architettonico: per quanto riguarda i campanili ravennati,
probabilmente derivano dalle torri della cinta muraria romana, ovvero dalle più recenti torri
scalari di accesso al Matroneo delle chiese della città. A tale proposito è notevole il caso di
S. Vitale (del X secolo?) in cui l’edificio è stato impiantato proprio nella torre scalare. Per le
Round Tower irlandesi si deve pensare ad una imitazione di modelli importati dal continente,
adattati a costruzioni indigene27 (fig. 3).
25
HARBISON 1982, p. 187: il castello comprende anche una chiesa del XV secolo.
HARBISON 1982, pp. 18-19: l’antico nome di queste torri era Cloigtheach, o torre della campana, e la loro
principale funzione era quella di “torre campanaria” o campanile per richiamare i monaci dal lavoro dei campi;
ma erano utilizzate come luoghi di rifugio, come suggerisce la collocazione della porta al di sopra rispetto al
piano del terreno.
27
Per i campanili cilindrici ravennati sono fondamentali gli studi di: MAZZOTTI 1958, pp. 85-93; MAZZOTTI
1959, pp. 366-402; BOVINI 1973-1974, pp. 71-86; BOVINI 1974, pp. 47-52.
26
238
ALESSANDRA TOMASSETTI
Fig. 7 - Il cottage irlandese: l’interno (da EVANS 1945).
Nella stessa giornata si recò in visita al Castello di Slane (in cui tra l’altro godé dell’ospitalità dei proprietari per il pranzo), per osservare la raccolta di corna dell’alce irlandese (praticamente estinto), e di quadri di epoca guglielmina28. Nei pressi del castello si conservano
ancora i resti dell’Eremo di St. Erc, uno dei più antichi dell’Irlanda, la cui fondazione viene
fatta risalire a St. Patrick (433 d.C.) o St. Erc; nel 1512 vi fu istituito il convento francescano,
che successivamente passò ai frati cappuccini, mantenendolo fino al 1631, anno del suo abbandono definitivo29.
La giornata si concluse con la visita notturna al tumulo di Newgrange, una delle mete
principali del viaggio, con la guida di esperti della Dowth House (fig. 4). Boni rimase colpito
e affascinato dalla bellezza del luogo, reso ancora più suggestivo dalla visione serale.
28
29
HARBISON 1982, p. 191.
HARBISON 1982, pp. 191-192.
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
239
Fig. 8 - La baia di Whitepark (da BONI 1905).
Analoga atmosfera caratterizzò la visita all’altro grande tumulo della valle del Boyne,
quello di Dowth. La visita ai tumuli della vallata ispirarono a Boni il ricordo dell’area del
Campo Marzio a Roma, un luogo così simile al sito in cui si trovava in quel momento, perché
in entrambi erano situati i sepolcri delle genti più nobili appartenenti alle rispettive civiltà;
infatti così come a Roma lungo la riva destra del Tevere furono innalzati i monumenti sepolcrali di principi e condottieri, allo stesso modo lungo il fiume Boyne si elevavano i possenti
verdeggianti tumuli preistorici30.
Nella Valle del Boyne tra il IV ed il III millennio a.C. sviluppò una vasta necropoli,
comprendente poco più di una trentina di tombe, alcune delle quali tumuli di grandi dimensioni come quello di Knowth, Newgrange e Dowth; il toponimo gaelico è Bru na Bòinne,
che significa Palazzo sul Boyne. Il tumulo di Newgrange, il più grande, conosciuto e meglio
conservato, fu scoperto accidentalmente nel 1699, in seguito a lavori effettuati lungo la strada
che lo costeggia31 (fig. 5).
Il sito consiste in un terrapieno di pietra ed erba, largo circa 85 metri e alto quasi 14.
Alla base del terrapieno vi sono 97 pietre decorate con diversi motivi a spirali e losanghe: la
più famosa di queste pietre, chiamata Threshold Stone, si trova all’ingresso32. Nel terrapieno
30
BONI 1905a, pp. 10-12, 16-18.
Newgrange è un luogo pieno di fascino e mistero. Alcuni pensano che qui venissero sepolti i “Re di Tara”
ossia i Re dell’età preistorica. Una leggenda dice che invece fosse la casa dei Tuatha de Danann, cioè il popolo
del Dio Danu, antica divinità irlandese. Un’altra ancora sostiene che Newgrange aveva precise conoscenze astronomiche: infatti il giorno del solstizio d’inverno, il 21 Dicembre, intorno alle nove del mattino il sole, passando
attraverso il corridoio, arriva ad illuminare la camera sepolcrale, per circa venti minuti. Il fenomeno è molto
suggestivo e attira ogni anno migliaia di visitatori.
32
Decorata con un motivo a tripla spirale.
31
240
ALESSANDRA TOMASSETTI
è scavato un corridoio lungo 19 metri che conduce alla camera sepolcrale; davanti all’ingresso 12 pietre, ma originariamente erano 38, formano un circolo di 104 metri di diametro. La
camera sepolcrale è a forma di croce, mentre nella stanza principale si aprono tre nicchie; il
soffitto è alto sei metri, e le pareti sono decorate con motivi geometrici33.
Il viaggio proseguì successivamente ad Ovest verso le isole Aran, per visitare il sito di
Dùn Aengus34, fortificazione situata sulla scogliera a picco sull’Oceano Atlantico (fig. 6). Il
sito ha una forma semicircolare ed è circondato da tre giri di mura, restaurati alla fine del
1800; sono state riconosciute due fasi costruttive, alla prima delle quali appartiene il Chevaux
de frise (Cavallo di Frisia) in pietra: si tratta di un’opera difensiva consistente in una concentrazione di pietre appuntite incuneate nella roccia madre in posizione verticale o inclinate
verso l’esterno. Il sistema protettivo potrebbe risalire al I millennio a.C., mentre il complesso
monumentale fu in uso tra il I ed il IV secolo35.
Scendendo a Sud visitò le scogliere di Clare ed il Promontorio di Dingle: qui Boni ebbe
modo di osservare la tipica architettura a nido d’ape delle chiese risalenti a non più tardi il
XII secolo sviluppatesi nella Contea di Kerry36.
Giunse così a Belfast, per recarsi successivamente a Antrim e a Rathmore, dove visitò
castello e chiesa, entrambi risalenti al XV secolo37. Nei pressi Boni si soffermò in un tipico
cottage irlandese (fig. 7): ammirò la costruzione primitiva ma solida formata da una copertura
di canne e paglia sostenute da travi trasversali portate da assi verticali incastrate nelle spesse
mura; al centro un grosso camino a riscaldare l’ambiente centrale, naturale evoluzione di
33
La monumentalità di queste costruzioni, che probabilmente ha comportato un grosso impegno di mezzi
e personale, potrebbe essere un segnale di grosse disuguaglianze sociali, legittimate dal simbolismo rituale.
Ampia bibliografia sui tumuli della Valle del Boyne: FAGAN 1999; O’KELLY 1982; SWETMANN 1985, pp. 195-221;
O’KELLY, O’KELLY, CLEARY, LEGANE 1983, POWELL 1994, pp. 85-96.
Dal 1962 si svolgono accurate indagini archeologiche nell’area del complesso monumentale a cura dell’Office of Public Works che ha istituito il parco archeologico: tali indagini e le analisi del radiocarbonio hanno
permesso di indicare una datazione intorno al 4500 BP. Lo stesso tipo di analisi indicano per lo scavo effettuato
da O’Kelly una datazione intorno al 2000 a.C, come risultarono i nove campioni prelevati dall’autore dalla
campagna di scavo. Le evidenze indicano inoltre che il grande circolo di pietre è più tardo del circolo messo in
luce dallo scavo O’Kelly, ed è per tale ragione associato con la ceramica dell’insediamento e non contemporaneo
alla tomba come era stato supposto da O’Kelly.
Per quanto riguarda l’interpretazione si pensa che sia una celebrazione rituale dell’economia agricola: infatti i corredi della necropoli non rivelano consistenti differenze qualitative, che potrebbero far ipotizzare un
organizzazione sociale di tipo elitaria (chiefdoms), ma al contrario questo tipo di sepolture sono coeve alle prime
tracce di dissodamento rinvenute in Irlanda, come “arature rituali” sono state trovate al di sotto alcuni tumuli
ed aree sacre. GUIDI 2000, pp. 133-139, RENFREW 1987.
Per i siti di Dowth e Knowth si veda: O’KELLY 1983, pp. 135-190; MAY 2003, pp. 328-334.
34
Sull’isola ci sono altre due costruzioni simili a questa: Dun Dubhchathair la più antica, e Dùn Eochla la
più piccola.
35
RAFTERY 1991, p. 613. Sui Chevaux-de-frise si veda: HARBISON 1971, pp. 195-225.
36
Le chiese più conosciute sono quelle di Skellig Michael e il Gallarus Oratory, quest’ultimo datato al IX
secolo. HARBISON 1982, pp. 60-62.
37
La chiesa è dedicata a St. Lawrence, nell’ala sud-orientale si trovano la sacrestia e gli alloggi; strutturalmente il complesso è molto simile a quello di Killen: HARBISON 1982, p. 190.
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
241
una forma abitativa più arcaica38. Qui Boni decise di soggiornare, accettando l’ospitalità dei
Signori Campbell di Rathmore.
Tappa successiva l’abbazia di Muckamore, e il sito archeologico presso il lago di Sixmile
(oggi di Neagh), struttura sotterranea a doppia camera, in compagnia del Reverendo Smith
di Antrim.
Visitata la Round Tower di Antrim, si recò a Ballymena, dove conobbe William James
Knowles, il noto paletnologo ed esperto conoscitore dei siti preistorici della costa, luoghi in
cui lo studioso irlandese raccolse nel corso dei suoi studi un numero impressionante di manufatti in pietra, successivamente ordinati e catalogati nelle varie differenti tipologie. Boni
rimase favorevolmente impressionato dai materiali e dal lavoro effettuato da Knowles, e si
deve pensare che il loro incontro, con il relativo scambio di opinioni ed informazioni, sia stato
estremamente proficuo per entrambi. In particolare Boni fu colpito dalla notizia del ritrovamento avvenuto sette anni prima di una sepoltura neolitica con individuo adulto in posizione
rannicchiata, giacente sul lato sinistro, con la testa rivolta a Sud, ritrovamento che egli mise in
relazione con la posizione delle deposizioni ad inumazione scoperte nel Sepolcreto del Foro,
che sono tutte in posizione supina39.
Nella stessa giornata accompagnato dal Reverendo Ford-Hutchinson e dalla di lui consorte si recò a Stranocum, dove visitò in notturna il Rath40. Durante il lungo viaggio Boni ebbe
modo di visitare la maggior parte dei monumenti archeologici irlandesi, che egli così divise:
«raths, cosiddetti fortilizi cioè, rotondi, cinti di fossa e murus terreus ed i carns, tumuli, pur
tondeggianti, di scheggiosi litici ricoperti di terra e recinti di massi lapidei41». Riguardo i raths,
Boni riteneva che fossero nati come monumenti sepolcrali, riferibili a personaggi importanti
della comunità, utilizzati anche come luoghi per assemblee pubbliche ed all’occorrenza per
rifugio. Si tratta in realtà di limitate aree circolari racchiuse da terrapieno, con diametro variabile tra i 30 ed i 100 metri; all’interno un edificio abitativo, inizialmente circolare anch’esso,
38
EVANS 1945, pp. 57-78. Non può sfuggire una certa somiglianza tra il modello tipico del cottage con la
tipologia delle urne a capanna trovate negli scavi forensi.
39
KNOWLES 1901, pp. 331-389. Knowles era uno studioso molto noto, il quale nel corso della sua lunga
carriera aveva raccolto parte durante scavi, e parte in ricognizioni sul territorio, circa 5000 esemplari tra punte
di frecce, di lance e raschiatoi, che conservava in un suo piccolo museo privato presso la città di Ballymena.
Boni aveva compreso che esistesse un valore ideologico e sociale nella scelta di collocare l’inumato in posizione
rannicchiata o supina in una sepoltura. Le tombe della necropoli situata presso il tempio di Antonino e Faustina
da lui investigata hanno l’individuo deposto steso sul dorso, e cronologicamente appartengono tutte al periodo
dell’Età del Ferro del II Periodo Laziale (inizio IX a.C.). Vi è dunque un notevole intervallo temporale tra le
sepolture forensi e quelle irlandesi; Boni attribuiva la diversa collocazione dell’inumato all’appartenenza ad una
specifica etnia, mentre invece il motivo è prettamente rituale. BONI 1905a, pp. 19-20. Per il periodo preistorico
(dal Paleolitico al Neolitico): HARBISON 1988 (con ampia bibliografia); FAGAN 1999.
40
Gli Hutchinson erano una nobile ed antica dinastia irlandese, proprietari dell’ampia e ricca dimora di
Stranocum Hall costruita nella metà del XVIII; la dimora, rimasta alla famiglia senza eredi maschi nel 1856,
passò a William Ford, lontano parente, a condizione che conservasse il nome degli Hutchinson.
Stranocum Hall caduta in stato di abbandono intorno agli anni cinquanta del XX secolo, è stata recentemente
acquistata da un privato che restauratala, ne ha permesso l’accesso ai visitatori.
41
BONI 1905a, p. 9; sul significato di carn (cairn) si veda: Dizionario di Preistoria 1992, p. 107.
242
ALESSANDRA TOMASSETTI
poi a comune pianta rettangolare. Gli scavi recenti hanno permesso di recuperare materiale
archeologico tipico di fruitori dediti all’agricoltura autosufficienti e benestanti42.
Per alcuni siti scavi relativamente recenti hanno dimostrato l’esistenza di aree sepolcrali
associate a quelle con carattere strettamente abitativo e difensivo43. Boni comprese l’importanza della terminazione della natura di questi monumenti, così profondamente diffusi in
tutto il territorio irlandese: il suo auspicio, espresso più volte e in varie sedi fu che si svolgessero indagini archeologiche sistematiche in questi siti, in particolare nella zona centrale, ed in
corrispondenza del fossato e della recinzione, per determinare, attraverso un attento esame
stratigrafico, le fasi di attività che vi si erano succedute44.
A Stranocum il fortilizio circolare faceva sicuramente parte di un complesso stanziamento antico risalente al IV secolo ed attivo fino a circa all’anno mille. Era associato ai cosiddetti
souterrains, alloggiamenti sotterranei formati da camere costruite sotto il livello del suolo con
i muri di pietra a secco, in cui si accedeva attraverso lunghi e stretti corridoi, che includevano
anche elementi difensivi; essi servivano da rifugio alla popolazione nei momenti di attacco.
La giornata terminò con un’escursione nella Valle di Glensheck, per visitare la Round Tower
di Armoy, e le rovine della chiesa di S. Goban45.
Per Boni un’esperienza indimenticabile fu sicuramente la sosta nella regione di Benmore nel sito archeologico di Lough na Crannagh sul litorale a Nord di Antrim, dove si trova il
villaggio palafitticolo46. Infatti i crannogh sono siti tipici delle zone paludose, e consistono in
isolotti artificiali costruiti con tronchi, torba e pietre, su cui si ergevano abitazioni, generalmente di alto status, sviluppatisi a partire dalla tarda età del bronzo, per alcuni la frequentazione perdurò quasi fino al XVII secolo47.
Tappa successiva la baia di Whitepark (fig. 8), dove insieme a Knowles e Welch effettuarono un accurato sopralluogo nella zona, raccogliendo materiale di superficie48. Il giorno
42
In alcuni siti proviene ceramica proveniente dal Mediterraneo Orientale del V-VI secolo: O’RIORDAN
1942, si riferisce al sito di Garranes nella contea di Cork.
43
Una variante del rath è il cashel, la cui fortificazione è costruita in pietra invece che in terra.
44
BONI 1905a, p. 13: «A me piacerebbe che si coordinasse il risultato delle esplorazioni nei fortilizi d’Irlanda e si iniziassero ricerche metodiche in taluni rath, non manomessi ancora e ricchi di ben distinte particolarità,
tuttora inesplicate. Importantissimo il riconoscere ed analizzare, in sino al terreno vergine, una sezione stratigrafica del tumulo centrale, dei bastioni e della circostante fossa. Il che direbbe se esistono stratificazioni anteriori
al rath o se, d’un tratto, fu scavato e raccolto od offre distinta ed ininterrotta successione di residui del vivere o
del funebre culto; e quali tra essi sono preponderanti od iniziali».
45
La Valle di Glenshesk si trova sul versante orientale del monte Knocklayde. La serata si concluse con la
visita alla fabbrica di giocattoli di Mrs. Riddel.
46
«I would rather spend a day here than a week at Killarney»: articolo citato.
47
Anche in questo caso Boni trovò un interessante parallelismo tra il mondo ibernico e quello italiano: grazie
alla sua esperienza sul territorio accumulata nel corso della sua attività di ispettore ai monumenti, comprese la
possibilità di mettere in relazione il caso del crannogs di Macknavin distrutto dagli inglesi nel 1610, con quello
del villaggio sul lago Santo alle foci del Po, abbandonato perché in contrasto con la città di Comacchio: BONI
1905a, p. 24.
48
«Raccolsi, in breve ora, nella stazione neolitica presso la baja di Whitepark, discreto numero di raschiatoi
e residui di lavorazione d’utensili silicei e frammenti di vasi in terracotta striati, di conchiglie commestibili, di
ossa e denti bovini e ovini. Numerosi e perfetti coltelli, punte di lancia o di freccia, quivi rinvenute, stanno nella
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
243
successivo fu seguita la strada costiera che da Ballycastle arriva a Belfast passando per i Glens.
Nei pressi della capitale trovò il Giant’s Ring, che confermò nuovamente in Boni la convinzione della validità della sua teoria riguardo alla destinazione ed utilizzazione sepolcrale e
pubblica dei dolmen megalitici49. Giunto a Belfast consultò a lungo il materiale raccolto nella
Biblioteca Pubblica50.
Sostò due giorni a Downpatrich ospite del Colonnello Wallace, uomo colto e di ingegno, ispezionando attentamente la zona in compagnia anche di Sir Horace Plunkett e Mr
Holland51: tappe fondamentali la cattedrale, la tomba di S.Patrizio, il rath di Erenach, e lo
Hillfort di Skreen52. Ultime tappe della giornata furono il castello di Myra53, e quello di epoca
normanna appartenente alla famiglia dei Walsh.
Tornato il giorno seguente a Dublino, da qui ripartì per l’Italia54.
splendida raccolta del Knowles ricca di oltre cinquemila esemplari, raggruppati secondo le forme, a foglia, a
rombo, a triangolo»: BONI 1905a, p. 19.
49
This great heart work, with its central cromleac, further convinced Signor Boni of the accuracy of the
theory he advocated.
«With a widespread, unobstructed green
For the hosts who repaired there to occupy it,
On which they contracted their noble races.
It is the cemetery of noble, valiant kings,
The dearly-loved of admiring hosts.
There are many under the meeting mounds
Of their ever-loved departed ancestors.
...
No pursuit of profit could they pursue
For ardent love of noble Erinn»: articolo citato.
Boni comprese che fosse esistito un comune denominatore tra le popolazioni che innalzarono i dolmen, ed
attribuì ciò all’appartenenza ad una razza comune diffusa a partire dal Portogallo e la Spagna occidentale.
Ricorda inoltre la presenza delle cd. “pietre bucate” (lapis pertusus), particolari menhir forati, monumenti con
chiaro significato apotropaico: BONI 1905a, pp. 22-24.
Per la definizione di dolmen si veda: Dizionario di Preistoria 1992, pp. 197-198.
50
Linen Hall Library: fu istituita nel 1788 con lascito dal Canonico Grainger: attualmente ospita archivi
storici e più di 26000 libri di politica e teatro.
La sera dello stesso giorno ad Ardrie Boni si intrattenne con il noto fabbricatore di pipe Mr. O’Mealy, con il
quale, pensiamo affrontò l’argomento della persistenza della tradizione di deporre tali oggetti sulle tombe, dopo
aver celebrato il wake (la veglia funebre irlandese). A tal proposito si veda BONI 1905a, pp. 33-35.
51
Era stato segretario del Financial Relations Committee.
52
Dal sito di Downpatrick sono venuti alla luce resti di abitazioni circolari con focolare centrale associato
alla ceramica delle “urne cordonate”, le cui analisi con il radiocarbonio a permesso di datare l’insediamento tra
il 1845 ed il 1315 a.C.: HARBISON 1988, p. 110. Sugli hillforts: CUNLIFFE 1991, pp. 581-586.
53
Ancora oggi possiede uno splendido parco.
54
Da Dublino si recò a Londra e da qui si fermò nel Mackemburgo, presso il lago di Schwerin: qui potè
assistere allo scavo di una sepoltura neolitica grazie all’intervento di Steinmann. In Italia arrivò dalla parte della
Dalmazia: TEA 1932, II, pp. 186-187. A Madame Steinmann inviò brevi rendiconti del suo viaggio irlandese:
«I prati sono verdi, piove, tira un vento freddo. Ecco la prima impressione dell’Irlanda, dove sono appena
arrivato…». Ed ancora scrive: «Per una ragione o per l’altra l’Irlanda si è arrestata negli antichi tempi a quello
sviluppo o progresso civile che poteva presentare la valle del Foro nell’età romulea, ed è questa la ragione per
cui mi interessa tanto lo studio dell’antichità celto-iberniche».
244
ALESSANDRA TOMASSETTI
Qualche mese più tardi l’articolo di Amy A. Bernardy, insegnante di italiano presso lo
Smith College, intitolato The Irish Italian. Why Patrick and Giuseppe are so much alike, analizzò compiutamente e dettagliatamente gli scavi del foro ed i relative riti, visti in un’ottica
particolare, cioè quella irlandese, un po’ come aveva tentato di fare la stesso Boni55.
L’articolo pubblicato qualche giorno dopo l’uscita dl saggio di Boni sulla rivista Nuova
Antologia, affermava l’idea più interessante espressa dallo stesso archeologo: e cioè in considerazione del fatto che la topografia del foro, che stava in quel periodo venendo alla luce,
comprendeva significati simbolici oltre a quello evidente dei monumenti emersi, l’Irlanda
avendo conservato molto del suo aspetto e del suo rituale primitivo, offriva un esclusivo punto di riferimento per gli studi forensi.
Boni che applicò sempre nella ricerca archeologica gli studi comparativi, trovò nella
lettura delle fonti antiche irlandesi l’anello mancante delle sue riflessioni: il mito di Carman,
letto nel Book of Leinster, e nel Book of Ballymote56. La maga celtica del Sud-Est dell’Irlanda,
dopo aver scelto il luogo della sua sepoltura, volle che quello stesso divenisse sede di fiera e
mercati57. Tutto ciò, rapportato all’ambiente italico, spiegava il perché della presenza della
necropoli nella valle forense, il perché della concentrazione di edifici di rilevante importanza
politica, economica, religiosa e sociale nella stessa, la diffusione delle cerimonie e dei giochi
rituali. Secondo Boni, volutamente, sul sito della necropoli si sviluppò il centro pubblico della città, portando con sé tutto il retaggio di riti e pratiche primitive.
L’Irlanda dell’inizio del secolo XX appariva a Boni una terra integra delle tradizioni
celtiche, e le molte manifestazioni di collettività popolare erano del tutto simili a quelle della
Roma più antica58.
Il viaggio in Irlanda per Boni fu una fonte continua di riflessioni e suggestioni, per la
singolarità dei siti visitati, per lo scambio culturale con il mondo accademico irlandese, e soprattutto per gli interessanti incontri con la gente comune.
Andando in giro per i villaggi parlò con gli abitanti, partecipò a serate di intrattenimento con danze e giochi caratteristici, conversò con artigiani produttori di manufatti tipici,
55
St. August, del 5 aprile del 1905: The Irish Italians. Why Patrick and Giuseppe are so much alike
«Giacomo Boni, the Explorer of the Forum, Finds in Ireland Many Proofs That the Race Which Settled Italy
in Pre-Romulean Day Emigrated Afterward to Ireland - Many Roman Customs, Including the Location of the
Forum and the Necropolis, Explained - Even the “Wake” Is an Old Latin Institution» by Amy A. Bernardy,
Professor of Italian, Smith College. Articolo in Archivio Storico SSBAR Fondo Boni. Amy Bernardy ebbe rapporti epistolari con Boni, e la precisione delle sue argomentazioni riguardo al pensiero dell’archeologo, dimostrano che a tal proposito vi era stato uno scambio di idee.
56
Quest’ultimo conservato presso la sede della Royal Irish Academy.
57
«Fair and market» intesi come luoghi pubblici dedicati a tutte le attività sociali ed economiche della
comunità.
58
Le “pietre bucate” derivazione del lapis pertusus; i “ragazzi di paglia” della torcia nuziale; la tradizione delle giovani donne sposate di mantenere il proprio nome, retaggio di una società matriarcale (anche se
quest’ultima sicuramente non caratteristica della civiltà celtica); i currach (barche dalla chiglia stretta e rivestite
di catrame tipiche delle isole Aran), che per la forma potrebbe derivare dal mezzo anfibio composto da slitta e
zattera. Ed ancora il wake, la veglia funebre che in Irlanda persisteva ancora con l’usanza di bere e fumare presso
il defunto prima della deposizione, derivazione del silicernum antico.
IL VIAGGIO DI GIACOMO BONI IN IRLANDA
245
assistette a riti pubblici di carattere gioioso (matrimoni) e doloroso (veglie funebri). Queste
differenti e variegate esperienze lo stimolarono fortemente, e lo indussero a considerazioni
di carattere generale su riti e usanze indigene considerandole sicure persistenze di antiche
cerimonie, riconducibili, in qualche modo, ad un mondo arcaico scomparso altrove, ma in
Irlanda ancora duraturo.
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA*
Veronica Romoli
Tra gli innumerevoli contatti che Giacomo Boni ebbe con l’estero, forse non si è valutato sufficientemente il suo interesse per la terra d’Africa, collegato agli studi sull’espansione
coloniale romana, che lo portarono più volte in quelle regioni. L’attenzione per la tematica coloniale era anche legata alla situazione politica italiana che, dopo il raggiungimento dell’unità
nazionale mirava, in quegli anni, ad un’espansione economica nel Mediterraneo ispirata, per
quanto riguarda l’aspetto propagandistico, al mito dell’antica romanità.
La passione per i viaggi era sicuramente dettata, in Giacomo Boni, dalla sua intelligenza
curiosa ed avida di confronti e collegamenti tra le varie realtà storiche e comprendeva anche le testimonianze antropologiche ed etnografiche delle regioni che visitava; non sono rari
appunti, fotografie e schizzi relativi a simili tematiche, che si ritrovano tra le sue carte e che
contribuiscono a far emergere con vivacità la poliedrica intelligenza dello studioso1.
Eva Tea parla di un primo viaggio in Africa quando Boni partì per esplorare le coste
della Tunisia e dell’Algeria nel 19042. Una seconda esplorazione lo porterà quattro anni più
tardi nell’Egitto romano.
∗
Sono grata alla cara amica Patrizia Fortini, che mi ha spinto ad intraprendere questo studio dandomi la possibilità di pubblicare i primi risultati in questa sede. Ringrazio anche la dr.ssa Irene Iacopi Direttrice del Foro
Romano e Palatino per la disponibilità, e tutte le persone che con la loro competenza e gentilezza hanno in vari
modi contribuito all’elaborazione del lavoro: Martina Bizzi, Maura Tollis e Bruno Angeli al quale si devono le
riproduzioni delle foto della SSBAR. Un pensiero riconoscente va infine alla dr.ssa Carla Nardi ed al personale
dell’Archivio Centrale dello Stato per la cortese collaborazione.
1
Il rinvenimento tra gli appunti miscellanei raccolti nell’Archivio Storico della Soprintendenza Speciale
per i Beni Archeologici di Roma (da ora Archivio Storico SSBAR) di alcune note riguardanti i viaggi di Boni in
Africa e di alcune immagini fotografiche di monumenti egiziani, sono stati lo spunto per intraprendere questo
studio sicuramente suscettibile di approfondimenti futuri. Oltre alle immagini ed agli appunti, sono stati presi in
esame una serie di articoli apparsi su quotidiani dell’epoca che riportavano gli itinerari, gli obiettivi di ricerca, i
risultati raggiunti e la documentazione raccolta. Tali articoli fanno parte di una rassegna realizzata da Boni stesso
ed attualmente conservata tra le carte Boni dell’Archivio Storico SSBAR, sotto forma di ritagli con sottolineature e notazioni della data o del quotidiano da cui erano stati tratti. Come è noto, la stampa seguiva costantemente
Boni nei suoi numerosi viaggi. Gran parte degli articoli erano redatti su appunti e notazioni rigorosamente
fornite dallo stesso studioso, si veda in proposito IACOPI 2003, p. 17 e da ultimo lo scritto di P. Fortini in questo
volume. Alcuni documenti sono raccolti in una cartella contrassegnata dalla rubrica: “Africa. Appunti storici,
topografici, archeol.” e forse avrebbero costituito materiale per una pubblicazione o per una conferenza.
2
TEA 1932, II, pp. 233-234.
248
VERONICA ROMOLI
Nel 1914 infine Boni fu inviato a Tripoli come perito insieme all’architetto Lucio Mariani, dal Ministero Istruzione della Pubblica, per coadiuvare Salvatore Aurigemma, ispettore
presso la colonia di Libia3, nel progetto di isolamento e restauro dell’Arco di Marco Aurelio
e Lucio Vero4.
Il primo contatto diretto con il mondo africano risale al luglio 1890, allorché Boni,
ancora in carica come ispettore presso il ministero, viene incaricato di accompagnare la delegazione dell’ambasciatore del Marocco, Mohammed Bennani, in visita in Italia5. L’episodio
senz’altro si colloca entro la corrente colonialistica europea degli anni a cavallo tra la fine
del secolo XIX ed il primo decennio del XX secolo6. Di tale evento restano alcuni articoli
da quotidiani dell’epoca raccolti dallo stesso studioso, che ne riportano dettagliatamente la
cronaca. La visita prevedeva un itinerario che da Livorno avrebbe raggiunto Firenze, Venezia
e poi La Spezia.
Vale la pena di riportare alcuni stralci che riguardano la visita cui si tratteggia il vivace
interesse per l’organizzazione agricola delle campagne toscane:
Firenze, 10 luglio 1890: “L’architetto Boni […] che accompagna la Missione per incarico del
Ministero, ha combinato col conte Guicciardini, oltre una gita sui Colli, una escursione in campagna, per vedere le tenute, che tanto interessano i marocchini, appassionati per l’agricoltura.
La Missione guardava avidamente la campagna, accennando con ammirazione alle colline di
Empoli e di Pontedera. Cadendo il giorno mentre erasi in treno, l’ambasciatore s’inginocchiava
verso Oriente, con le mani al petto, pregando e facendo scorrere una corona di perle fra le dita.
L’Ambasciatore parla ripetutamente di re Umberto e della sua affabilità. All’architetto Boni,
che gli illustrava le caratteristiche della nostra famiglia reale, l’ambasciatore rispose: «Beato
il paese che possiede un tale padre, che inspira fiducia alle altre Nazioni, e intorno al quale
gl’Italiani si possono raccogliere nel giorno del dolore». Così dicendo, stringeva le mani del
Boni, tenendole a lungo tra le sue […]”. La mattina del 10 l’ambasciatore visita gli Uffizi e nel
pomeriggio è ricevuto dal Duca d’Aosta.
Firenze 12 luglio 1890: La Missione marocchina visita il Palazzo del Bargello. In seguito “desideroso di rendersi esatto conto della nostra agricoltura, l’ambasciatore visitò la bella tenuta
Fenzi […] dove esaminò […] gli animali da tiro, gli oliari, i sistemi diversi della coltivazione
della vite, il grano mietuto e le arature. L’Ambasciatore espresse l’intenzione di introdurre nel
Marocco le macchine agricole, e specialmente le trebbiatrici”.
Venezia, 17 luglio 1890: La legazione visita Venezia ammirando in gondola i canali e il ponte di
Rialto, sotto cui suonava un’orchestra galleggiante sopra una piattaforma circondata da altre
gondole. Visita poi il Palazzo Ducale e la basilica di S. Marco, le isole di Murano e Burano ed
infine Chioggia.
Spezia, 2 agosto 1890: La Missione riparte: “L’ammiraglio Racchia e l’architetto Boni accompagnarono su una lancia a vapore, a bordo della regia nave Ettore Fieramosca, l’ambasciatore, il
3
Lucio Mariani (1865-1924), figlio del pittore Cesare, insegnò archeologia nelle università di Pavia, Pisa
e Roma dove diresse i Musei Capitolini. In seguito all’annessione della Libia fu incaricato di organizzarvi il servizio archeologico (BARNABEI 1991, p. 238, n. 25).
4
TEA 1932, II, pp. 296-297; IACOPI 2003, p. 15.
5
TEA 1932, I, pp. 306-309.
6
L’Italia cercava da tempo il suo sbocco coloniale nei territori dell’Africa settentrionale e, perduta la Tunisia, ormai colonia francese, stava tentando una penetrazione pacifica in Libia.
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
249
segretario del Sultano […]. Le ultime parole dell’ambasciatore furono di benedizione dell’Italia
e di augurio che il Marocco abbiala sempre amica nei consigli e sorella nelle industrie e nei commerci. […]. Prima di lasciare la Spezia l’ambasciatore mandò al Ministero degli Esteri 1500 lire
in oro da ripartirsi fra l’asilo infantile di Schio e un altro istituto pei bimbi a Venezia”.
Tunisia ed Algeria
Gli studi incessanti sul mondo romano ben presto conducono Boni ad interessarsi al
tema storico e topografico del limes romano ed allo studio dei monumenti di committenza
imperiale nelle province conquistate7.
Nel 1904 Boni si reca in Africa, in compagnia del principe Scipione Borghese8, “per
studiarvi i sistemi struttivi di quella provincia romana”9.
Secondo il racconto della Tea, Boni sbarcò in Tunisia, a Cartagine per poi visitare numerose altre località tra Tunisia ed Algeria, le antiche province dell’Africa proconsolare e della
Numidia. Da Algeri scrive una cartolina ad Angelo Alessandri10 dove si ripropone di effettuare un giro nel deserto per poi raggiungere Susa, Biskra, Timgad e nuovamente Cartagine11.
L’amore di Boni per quella terra d’Africa, immaginata in tutto il suo rigoglio all’epoca
della sua maggiore ricchezza, è poeticamente espresso nelle frasi di esordio del suo scritto
Urania12, che tratta della fine dell’impero romano d’occidente all’indomani delle invasioni dei
popoli germanici, dove rievoca un episodio di quel viaggio: “Nel percorrere il deserto di Iol,
capitale della Mauritania Caesarensis, ricca anticamente di città, da molti secoli distrutte, attraversai gli avanzi di un bosco incendiato. Sopra un tronco di quercia carbonioso superstite
nella desolazione di sabbia […] si posò a volo un “cantore d’Africa”, zaffiro vivo, di colore
più intenso del cielo. Quasi mosso da ricordi nostalgici, modulava lenti gruppi di note esprimenti la tristezza della Terra dinnanzi alle sorde ed occulte forze naturali, che, distruggendo
7
Nell’ambito dello studio sul limes, Boni intraprende tra il 1903 ed il 1904 viaggi in Germania e nei Balcani,
si veda TEA 1932, II, pp. 204-205.
8
Scipione Borghese (1871-1927). Consigliere della Società per gli studi della malaria, fondata nel dicembre
1898, il Borghese incoraggiò vaste opere di bonifica nell’Agro romano. Fondò e diresse con E. De Marinis Lo
Spettatore rivista ispirata a concetti democratici ed anticlericali, non priva di accenti colonialisti. Divenne famoso in qualità di viaggiatore. Nel 1900 aveva compiuto una traversata tra la Siria e la Mesopotamia e dalla Persia
al Pacifico, percorrendo anche zone non note. Dal gennaio al marzo 1912 prese parte attiva all’azione di guerra
in Libia. Si arruolò volontario nella prima guerra mondiale, fu decorato con la medaglia bronzo al v. m. e con
due croci di guerra; si veda RIOSA 1970.
9
TEA 1932, II, p. 233.
10
Angelo Alessandri: pittore nato a Venezia nel 1854, dove insegnò figura all’Accademia. Protetto di J.
Ruskin per il quale eseguì molte copie di dipinti del ‘500 veneziani. Lavorò molto come copista. Morì a Venezia
nel 1931; si veda VALCANOVER 1900.
11
TEA 1932, II, p. 233, “[…] Spero che Don Scipione venga a raggiungermi coll’auto ad Algeri per fare un
po’ di deserto insieme. Vado qualche giorno dai Kabili. Tuo Giacomo.
Ho visitato Cartagine, ma tornerò domani prima di partire per Susa e Bistra e Timgad e Cartagine.
Salutami tutti”.
12
BONI 1922.
250
VERONICA ROMOLI
l’assiduo lavoro di lunghe generazioni umane, la costringono a rifecondare i germi di nuove
civiltà, a lor volta moriture”13.
Il viaggio nel Magreb si svolge nel maggio 1904. Il giorno 6, Boni si trova a Tunisi14 dove
visita le rovine di Cartagine ed altre località teatro di eventi collegati con le guerre puniche; da
lì prosegue sulla costa verso Sousse, l’antica Hagrumentum, ed all’interno fino a Kairouan15.
Quindi si reca ad El-Djem per visitare l’anfiteatro di Thysdrus, del III secolo16. Poi, “attraverso territori ricchi di memorie”, raggiunge Biskra17 e Timgad in Algeria. Altre notizie del viaggio giungono intorno alla metà di maggio, quando oramai Boni era giunto in Algeria18. Il 12
maggio si trova a Costantina, dove visita i resti delle mura di Cirta, restaurate da Costantino,
per tornare all’interno e raggiungere i siti archeologici di Lambaesis19, Timgad20 città fondata
da Traiano (nel 100) in qualità di colonia, e Tebessa21. Così viene ricordato l’operato del Boni
in quelle giornate:
“A Lambaesis, dove al principio del II secolo fu trasferita la terza legione Augusta, riconobbe
nelle strutture pseudo-laterizie il tipo coevo italico, e nel triplice tempio capitolino riconobbe
strutture traianee, senza alcun vestigio di sigle e di simboli augurali.”.
13
Vd. anche TEA 1932, II, pp. 233-234.
La Tribuna, “Boni e le rovine di Cartagine”, 7 maggio 1908.
15
Città dalla forte connotazione religiosa, sede di pellegrinaggi, sorge al centro di una pianura predesertica
a circa 50 chilometri dalla costa.
16
Donato alla città dalla ricca famiglia dei Gordiani, questo non era l’unico anfiteatro, il primo infatti risaliva alla tarda repubblica ed era stato edificato conformando ad ellisse l’unico colle esistente in mezzo alla vasta
pianura. Il poderoso “colosseo” sorge al centro dell’attuale città, leggermente al di sotto del livello stradale, è in
pietra rossa delle cave di Sullectum, il podio era rivestito di marmi colorati, mentre il pavimento di un ambiente
presso l’ingresso era in mosaico; MANSUELLI 1981, p. 166.
17
“[…], quindi, giungerà per Biskra alle ruine di Timgad, dove sono mirabili avanzi dei templi, basiliche
e archi trionfali di Traiano e , visitate le fortificazioni romane del IV secolo di Costantina, andrà a Jol Caesarea,
la capitale della Mauritania Caesariensis per imbarcarsi ad Algeri e ripartire verso l’Italia”.
18
Si tratta di due articoli pubblicati su La Tribuna nella rubrica “Arte, lettere e scienze”: il primo del 14
maggio 1904, dal titolo “Le ricerche di Boni in Algeria. Il mistero del rito dell’ascia”; il secondo, del 18 maggio
1904, intitolato “L’escursione del prof. Boni in Africa”.
19
Stanziamento definitivo della III legione Augusta sotto Adriano e sede del comando militare delle province africane. Enorme campo militare con elementi monumentali come le vie colonnate ed i poderosi avancorpi, i Principia, un edificio a due ordini posto all’incrocio fra le due vie principalis e praetoria. MANSUELLI 1981,
pp. 154-156.
20
L’antica Thamugadi. L’impianto regolare è stato interpretato come castrense, simile a quello di Lambaesi,
ma lo schema non aveva un’origine militare, la disposizione delle strade principali a T è dovuto alla presenza del
foro all’incrocio del cardo con il decumano. Inoltre l’impianto ha subito precoci variazioni dovute ad interventi
pubblici e privati che ne hanno modificato l’originaria omogeneità. (MANSUELLI 1981, pp. 154-155). Principali
monumenti sono l’arco di Traiano, di tardo II secolo; il capitolium del tipo nord africano con tempio italico
poggiato contro il muro di fondo del recinto quadrangolare con colonne su tre lati (WARD-PERKINS 1979, p. 129);
il mercato ispirato a quello di Leptis Magna (8 a.C.) con padiglione centrale circolare coperto (WARD-PERKINS
1979, p. 139); il teatro.
21
Theveste. Risalgono all’epoca di Caracalla l’arco trionfale quadrifronte (214 d.C.) il cui fornice è preceduto da una doppia coppia di colonne aggettanti - caratteristica architettonica romano-africana - ed il tempio di
Minerva con doppio fregio plastico dall’intento decisamente decorativo (MANSUELLI 1981, pp. 167-168).
14
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
251
Giunto a Timgad “la cosiddetta Pompei africana, fondata per quanto si crede dall’imperatore Traiano”, Boni subito riconosce che le strutture traianee si sovrappongono ad altre
precedenti della prima età imperiale:
“[…] la biblioteca, il teatro e soprattutto il tempio Capitolino, conservano strutture cesaree o
augustee. Nel considerare lo stereobate del grande tempio di Giove, dalle magnifiche colonne
corinzie alte 14 metri, il comm. Boni si accorse che i blocchi di grès (arenaria silicea miocenica,
qui usata dai romani come materiale del luogo corrispondente al tufo della campagna laziale),
hanno dimensione multiple del piede e sono apparentemente collegate da incassatura in forma
delle cosiddette doppie code di rondine. Queste incassature hanno forma d’ascia-bipenne22 e
sono identiche a quelle conosciute nelle costruzioni dell’Ara pacis, nelle mura di Roma dell’età
sillana, e negli stilobati di templi, inaugurati nel primo secolo e dedicati alla Concordia, a Castore, a Polluce. Desideroso di sapere se i legionari di Augusto rispettavano i patrii istituti soprattutto per ciò che riguarda i riti augurali, il commendator Giacomo Boni chiese a M. Gergie
Barry, direttore degli scavi algerini, di aiutarlo […]. Si trattava di spostare provvisoriamente due
blocchi dello stereobate di fondazione del tempio capitolino per verificare se altre incassature
di forma dell’ascia bipenne fossero nascoste sotto i massi non mai toccati dell’epoca della prima
costruzione dei templi numidici […], furono alzati i blocchi di arenaria. Sotto uno di essi fu
trovata un’incassatura a forma di ascia, dentro la quale venti secoli orsono, era colata un po’ di
colla di calce […]. Sotto l’altro blocco apparvero due incassature a forma di ascia bipenne, le
quali contenevano un po’ di terriccio, avanzo di lavorazioni del grès; nessuna traccia di metallo.
Queste indagini confermano il risultato delle scoperte fatte a Roma dal Boni e cominciano a
gettar luce sul rito misterioso dell’ascia nominata centinaia di volte nelle epigrafi romane della
Gallia, rito arcano anche per gli antichi […]”.
Secondo quanto riportato nell’ultimo articolo, apparso su La Tribuna23, Boni è ad Algeri
(la romana Icosium) il 17 maggio: vi si trattiene due giorni per visitare il museo e studiare la
carta archeologica dell’Algeria in preparazione a cura dell’Istituto Geografico Francese sotto
la direzione del prof. Gsell, “allievo dell’École de Rome”. È iniziato il viaggio di ritorno che si
svolgerà a bordo di un “piroscafo della Compagnie transatlantique sostando nelle principali
località storiche della costa mauritanica e numidica”. Da Orano, ad ovest di Algeri, Boni
avrebbe dunque raggiunto, in varie tappe, i siti romani, “cabotando” la costa fino a Tunisi ed
addentrandosi, di volta in volta, per visitare i siti dell’entroterra.
Secondo quanto riportato da La Tribuna, la prima tappa sarebbe stata Cartena (Cartennae), l’antico porto fenicio sul litorale mauritano, colonia di veterani sotto Augusto24, dove
erano i resti di “cisterne romane e sepolcri”. L’itinerario prevedeva, a questo punto, una serie
22
TEA 1932, II, p. 204; Sub ascia. Le tracce di grappe a doppia ascia nei blocchi di tufo delle mura serviane
scoperte a Termini sembrano risalire all’antico rito di fondazione espresso nelle fonti latine con la formula sub
ascia dicavit che Boni confrontava con tracce simili rinvenute in altre località. Scriveva in quel periodo a Netty
Roller, scrittrice, figlia del geologo inglese Huxley: “Il mio scopo era di visitare la Numidia e la Mauritania, come
province dell’Impero romano e controllare una mia ipotesi sulla doppia ascia come simbolo di riti inaugurali”,
si veda TEA 1932, II, p. 234.
23
La Tribuna del 18 maggio 1904, “L’escursione del prof. Boni in Africa”.
24
MANSUELLI 1981, p. 135.
252
VERONICA ROMOLI
di quindici tappe in rapida successione prima di arrivare a Biserta, in Tunisia. Ogni luogo
viene brevemente caratterizzato nell’articolo, riportando i monumenti romani da visitare. Innanzitutto “le terme, l’anfiteatro, il circo e il teatro” di Iol, ribattezzata Cesarea da Iuba II,
re di Mauritania, che fu in quel periodo la capitale del regno, annesso all’impero romano nel
40 d.C. La città era stata concepita dal sovrano - uomo coltissimo, educato a Roma - secondo
una concezione urbanistica audace e genialmente adattata alla conformazione naturale del
terreno, comprendendo una cinta muraria con prospettiva scenografica e porte monumentali.
All’interno, la parte bassa della città seguiva lo schema ortogonale, gravitante sul foro, con
l’anfiteatro, il circo, il teatro e le successive terme, inseriti tra la parte alta e quella bassa della
città25. Poi si recherà ad ammirare
“le fortificazioni, il tempio dedicato al Genio del municipio di Cissi, le terme ed il mausoleo
di Rusuccuru26, gli acquedotti di Azzeffoun e di Saldae27, le terme e le cisterne di Tubusuctu; le
mura di Choba e di Mileum; il porto cartaginese ed i sepolcri scavati nella roccia di Igilgili, altra
colonia augustea; lo scalo fenicio, poi colonia romana di Colco, celebre anticamente per le sue
tintorie di porpora; il teatro, le sculture ed i mosaici di Rusicade28, una delle colonie costituenti
la federazione cirtea; il ponte romano e le terme di Hippo Regius29, diocesi di Agostino al finire
del secolo IV. Anche visiterà il porto di Tuniza, ancora frequentato da italiani pescatori del corallo, ed il porto di Thabraca dove i romani imbarcavano il giallo antico (marmor numidicum).
Lo si estraeva dalle cave di Shemtù (Simitthu)30 collegate alla spiaggia mediante una strada di
cinquanta chilometri munita dall’imperatore Adriano nell’anno 129. Presso alle cave celeberrime sono gli avanzi del ponte a cinque archi costruito da Traiano sul fiume Medjerda”.
Così sono descritte le tappe del viaggio - 850 chilometri, da Cherchel a Cartagine - che
Boni avrebbe effettuato lungo le coste algerine, prima di giungere in Tunisia e visitare Biserta,
la colonia di Hippo Diarrytus, già porto fenicio e punico, presso il suggestivo Capo Bianco.
A tale viaggio probabilmente si riferiscono alcuni appunti inediti, di mano del Boni, che
comprendono una cartina topografica approssimativa dell’Africa settentrionale (costa algerina e Tunisia) redatta a matita, con l’indicazione delle località in cui esistono testimonianze
monumentali romane, con alcune notazioni storiche ad esse relative31 (fig. 1).
I toponimi sono ben 47, molti di più di quelli citati negli articoli che documentano il
viaggio. Non è possibile sapere se, oltre alle località citate negli itinerari pubblicati, il viaggio
avesse previsto anche altre tappe, alcune delle quali indicate sul foglio di appunti. Certo è
che Boni si era ben documentato prima della partenza ed aveva appuntato un itinerario di
25
MANSUELLI 1981, p. 136.
L’attuale Tigzirt (Algeria).
27
L’attuale Bejaia (Algeria). Anche questa colonia faceva parte del programma augusteo di urbanizzazione
dell’Africa settentrionale insieme a Igilgili, Cartena, Banasa (MANSUELLI 1970, pp. 135-136).
28
L’attuale Philippeville (Algeria).
29
Attuale Annaba, Bona (Algeria).
30
Colonia di epoca augustea, impiantata sul suolo scosceso sistemato a terrazze.
31
Archivio Storico SSBAR.
26
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
253
Fig. 1 - G. Boni. Schizzo della costa tra Algeria e Tunisia (Archivio Storico SSBAR).
massima da percorrere. Inoltre è possibile che nel corso del viaggio, abbia aggiunto notizie e
siti all’itinerario pianificato (forse le aggiunte e le cancellature a matita).
L’elenco di località prevede un percorso da Cartennae, situata sopra ad Algeri, per discendere verso est lungo la costa, quindi volgere all’interno della Tunisia e ritornare sulla
costa da Sousse, a Biserta ed infine a Tunisi, da cui ripartire. L’itinerario, come appare, non
coincide con quello riportato sui giornali se non in parte, forse in quanto troppo lungo per essere effettuato entro il periodo previsto. Inoltre pare verosimile che gli appunti riportati non
siano tanto un vero e proprio itinerario, quanto delle notizie tratte dai suoi studi bibliografici
sull’Africa settentrionale in vista del viaggio.
Boni amava la fotografia e soprattutto ne apprezzava le potenzialità documentarie; durante i viaggi ed i sopralluoghi, è sempre stato accompagnato da un apparecchio fotografico.
Del suo viaggio in Tunisia ed Algeria, non sono state rinvenute le fotografie o le diapositive
che sicuramente erano state scattate a documentazione dei monumenti e siti archeologici
incontrati. Di tali immagini Boni si serviva per illustrare i temi storici e le sue scoperte in svariate conferenze che incessantemente organizzava o improvvisava nelle occasioni più varie ed
i cui proventi regolarmente devolveva alle attività del Foro Romano, come ricorda Eva Tea:
“un altro modo per divulgare le scoperte fatte e ricavare i mezzi per farne di nuove erano le
conferenze”32.
32
TEA 1932, II, p. 170.
254
VERONICA ROMOLI
Secondo il resoconto della Tea e di alcune testate dell’epoca, Boni organizzò anche alcune conferenze riguardanti proprio le province africane da poco visitate. Il 15 novembre
1894 tiene una conferenza sulla diga di Assuan e i monumenti romani dell’Alto Egitto33. Il
29 aprile 1905, in occasione del Quinto Congresso Coloniale, Boni tiene una conferenza sul
tema delle colonie romane34, esordendo con l’accenno al Milliarum aureum ed all’Umbilicus
Urbis quali centro dell’Urbe e dell’irraggiamento della civiltà romana nell’orbe35.
Tra il 1908 ed il 1910 si susseguono le conferenze sul tema della colonizzazione romana
dell’Africa: nel luglio 1908 Boni è a Volterra dove improvvisa una conferenza sul suo recente
viaggio in Numidia e sulle relative ricerche. L’incontro, organizzato dalla Società “Dante Alighieri”, fu tenuto nel gremito teatro Persio, per conoscere
“[…] le recenti scoperte a gli studi fatti sui monumenti romani della Numidia. […] A momenti
il pubblico si credeva trasportato nell’interno dell’Africa romana, nelle colonie augustee confinanti col Sahara, da Cartagine, a Tebessa, a Cirta; da Tamugadi a Lambesi, ed aveva l’illusione
di ascoltare l’adlocutio famosa pronunciata da Adriano, dieciotto secoli fa, nel pretorio della
terza legione augusta […]”36.
In una vivace intervista ad un gruppo di giovani studenti romani il “poeta del Foro […]
aveva cominciato a parlarci subito del suo viaggio recente nell’Africa settentrionale, delle
ipotesi, delle speranze, delle ricerche pazienti e de’ risultati. Mentre ci faceva scorrere innanzi
agli occhi le fotografie portate dai paesi lontani […]”37.
A settembre di quello stesso anno, a Trento, in un intervento sulla Colonna Traiana,
Boni proietta una serie di fotografie sull’Africa romana. Introducendo l’argomento con la
lettura di un’iscrizione del II sec. d.C. “che riproduce un discorso dell’Imperatore Adriano ai
soldati dell’Africa, […]”, egli trasporta l’uditorio
“con una lunga serie di riuscitissime proiezioni, nella terra del sole infocato e dalla lussuriosa
vegetazione e ci presenta il cardo e il decumanus, le vie principali, le terme, il teatro, il mercato,
le arcuazioni gigantesche, qualche mosaico tra i molti venuti alla luce, un colle Capitolino, i
templi e gli archi di Traiano e Settimio Severo e un completo pretorio, tutto l’aspetto vario e
interessante d’una città romano-africana […]”38.
Risale infine al 1910 la conferenza tenuta da Boni presso il Circolo Militare, il 14 aprile,
sulle colonie ed istituzioni militari romane, dal titolo Dalla Numidia alla Dacia:
33
TEA 1932, II, p. 474.
“I congressisti al Foro Romano”, 29 aprile 1905: “Ai piedi del clivo capitolino, tra il tempio di Saturno
ed i rostri […] erano raccolti i congressisti coloniali che ascoltavano con religioso silenzio la conferenza che
Giacomo Boni faceva loro sopra un tema molto appropriato alla circostanza, le colonie romane”.
35
La nota così si conclude: “Quando Boni ebbe finito di parlare sembrava ad ognuno ch’egli dovesse
continuare, dimenticando che il sole era già tramontato da tempo”.
36
La Tribuna , 6 luglio 1908, “Mura megalitiche a Volterra”.
37
La Tribuna , 20 luglio 1908, “Un colloquio col poeta del Foro” a firma di V. Anderloni-Mercanti.
38
La Domenica, 19-20 settembre 1908.
34
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
255
“con l’aiuto di splendide proiezioni […] dalla Mauritania e dalla Numidia e con quelle illustranti le campagne di Traiano nella Dacia, Giacomo Boni trattò della costituzione dell’esercito
romano e degli accampamenti […]. La conferenza, durata due ore ed ascoltata con religioso
silenzio, fu salutata da una vera ovazione di applausi e congratulazioni vivissime […]”39.
La Tea ricorda che “nulla rimane di questo lavoro”.
Gli appunti sull’Africa
Tra le carte dell’Archivio storico della SSBAR, sparsi tra le raccolte miscellanee, sono
stati notati quattordici fogli manoscritti40, di mano dello stesso Boni, che riportano appunti
riguardanti le regioni africane all’indomani della colonizzazione romana, che viene analizzata
nei suoi diversi aspetti, testimoniando il lavoro di studio ed approfondimento che Boni dedicava alla presenza romana in Africa. I fogli sono vergati con il suo consueto corsivo fitto
e veloce, con frequenti correzioni ed aggiunte. Numerosi sono i riferimenti bibliografici che
evidentemente erano stati consultati durante le ricerche. Innanzitutto lo scritto ricorda le
fonti romane che sono alla base degli studi sull’Africa romana e primo fra tutti Corippo, nell’edizione del Pauly-Wissowa, la cui opera, Iohannes, è “importantissima fonte per gli antichi
Berberi”. Boni ricorda poi che:
“Certo buona guida sono gli antichi, specialmente commentati ed illustrati da dotti moderni,
come il Detlefsen con la ricerca delle fonti antiche in Plinio e Strabone ed il Winkler con l’ampia trattazione della parte Africana della tabula Peutingeriana […]”.
“E degli abitanti del paese?”: interessatissimo appare all’aspetto etnologico, in particolare riguardo all’etnia berbera. Sulla questione dell’origine di questa popolazione alcuni
studiosi la ritengono proveniente dall’Europa centro-meridionale per via della
“sporadica apparizione del tipo biondo fra di essi, e sull’affinità d’alcuni nomi di luogo
africani ed europei. Altri inversamente vedono, sulla falsariga dell’indagine linguistica dei
nomi di luoghi e di famiglie, un’irradiazione della razza libica in Spagna, e sulle coste occidentali del Mediterraneo”.
Boni affronta poi il problema della colonizzazione romana dell’Africa:
“Ma in un paese d’aride sabbie il problema della colonizzazione doveva essere arduo quanto mai?!
La colonizzazione certamente si collega con il problema gravissimo della ricerca e distribuzione
dell’acqua. In tutta la provincia africana, oltre le città e i piccoli nuclei indigeni, erano immensi
latifondi di proprietà imperiale o privata che dovevano esser messi in valore con la coltivazione, specialmente dell’ulivo, vite e cereali. E quanto fosse intensiva ed estesa la coltura ce ne
dà esempio bellissimo il paese di Dougga, visitato e studiato dal Dr. Carton, le cui indagini e
39
TEA 1932, II, p. 259.
Si tratta dei fogli nn. 87-100 della raccolta documentaria dell’Archivio Storico della SSBAR, raccolti
nella cartellina “Africa. Appunti storici, topografici, archeol.”, vd. supra.
40
256
VERONICA ROMOLI
risultati sono riassunti nella ‘Colonisation romaine dans le pays de Dougga’, con ottime carte
per la topografia delle proprietà.
Numerosissime, nelle parti esplorate della provincia sono le rovine di villaggi e fattorie […] ed
a questo si aggiungono le molte iscrizioni, importantissime per la storia dell’economia rurale,
rintracciate e studiate già fin dal 1850 […].
Felicemente quindi e largamente dovevano aver risolto il problema dell’irrigazione e adacquamento. […] Centinaia di rilievi ci fanno conoscere le numerosissime e differenti località di
raccolta e distribuzione d’acqua, cisterne entro e fuori la città, assai spesso di considerevoli
dimensioni; pozzi trasversali al letto dei corsi d’acqua; sbarramenti per trattenere le sovrabbondanti acque invernali; canali, acquedotti per distribuire l’acqua conservata”.
Boni non manca di ricordare i numerosi mosaici che documentano l’aspetto rigoglioso
della regione africana in epoca imperiale rinvenuti presso alcune delle numerose ville che
punteggiavano il territorio:
“presso Tebessa in una circoscrizione di circa 12 mila Kmq si trovano 600 avanzi di fattorie. Ed
è veramente curioso l’aspetto di fortilizi di queste ville con torri ai quattro angoli dell’edificio
principale racchiudente il vasto cortile. E questi mosaici sono preziosi anche per la conoscenza
della vita dei, chiamiamoli così, castellani e coloni; gli uni occupati in caccie [sic!], pesche e
divertimenti campestri, gli altri sempre intenti alla coltivazione dei campi, tenuti di preferenza
a vigneti, frutteti, oliveti”.
Passa poi a parlare del limes:
“Verso l’interno come erano delimitati e difesi i confini? […] Il Limes tripolitanus, secondo l’Itinerarium Antonini giungeva da Turris Tamellani sulla riva meridionale dello Schott el Dscherid
fino a Leptis Magna. Corona le alture attornianti la Syrtis minor, ed è guarnito di castelli, di
preferenza innanzi ai passaggi dai quali i Berberi potevano comunicare col ricco paese costiero,
e di burgi, simili a quelli nel Danubio”.
Cita poi la pubblicazione del Malthuisieaux, A travers la Tripolitanie:
“In una delle carte si dà il tratto del limes sulla catena di Nefusa, la fortificazione orientale del
Dsch. Dahar tunisino, che ad occidente si spinge da Leptis Magna al mare, conducendo il limes
a questo suo punto estremo. Ora rimangon ancora da riunire i due tratti, il tunisino con l’orientale, per avere tutto intero il limes tripolitano.
Ed è interessante il fatto che i nomi delle stazioni e castelli del limes per lo più sopravvivono
ancor oggi”.
Infine Boni riprende a parlare del limes titolando gli appunti “Limes tripolitanus” in
questi termini:
“si promosse molto negli ultimi anni lo studio del lato sud-ovest della provincia (Africa proconsolare) del limes tripolitanus che secondo l’It. Ant. Giungeva da Turris Tamellani sulla riva
sud di Schott el Dscherid fino a Leptis Magna (Lebda). Il limes è anche qui una strada guarnita
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
257
di castelli. Sta nella cresta delle alture attornianti la Leptis Minor. I castelli or grandi or piccoli
stanno innanzi ai passaggi dai quali i Berberi del deserto potevano comunicare col ricco paese
della Leptis Minor. Oltre i castelli propriamente detti, si trova un piccolo campo simile ai castelli […] ossia piccole case raffigurate con cortile aperto, gli odierni Bórdsch. […]. Già Commodo
aveva spinto innanzi un castello (Tisavour) verso est sulla linea del Limes. Sett. Sev. ne seguì
l’esempio col castello di Sionen, Aless. Severo costruì ancor più al sud i castelli del limes tripolino[…]. Per la geografia moderna interessa il fatto che Dsch. Nefusa non è proprio una catena di
monti ma soltanto il margine scosceso alto circa 300 m. dell’altipiano […], una conformazione
fisica che ricorda l’altipiano scandente in terrazze verso la costa di Cirene […]. Della colonizzazione del paese, oggi quasi deserto, al sud est della Reggenza, l’antica Byzacena, ha portato
lume lo studio delle opere idrauliche romane. Tutta la costa tra Sousse e Sfax dev’essere stata
tutta un uliveto. Ci s’incontra dovunque in ruine di fattorie e villaggi, mentre qui oggi restano
soltanto tre misere località. E ciò si doveva soltanto al diligente adacquamento. Sulla colonizzazione del sud esterno dà notizia la relazione di viaggio di P. Blanchet e l’inchiesta sulle opere
idrauliche […]. Si trovano qui, in una circoscrizione di circa 12 mila kmq 600 rovine antiche,
20 per kmq, che lasciano concludere per una popolazione di circa 200 per kmq. Anche qui la
popolazione viveva della coltivazione dell’olio […]. Da centinaia di rilievi si impara a conoscere
qui le numerose e differenti località per usufruire e distribuire l’acqua allora come oggi preziosa: cisterne dentro e fuori le città, spesso di grandi dimensioni, pozzi, trasversali al letto dei
fiumi invernali e sopra il pendio di muri, per mezzo dei quali le acque furono trattenute ed in
parte portate innanzi, sbarramenti per trattenere la sovrabbondanza d’acqua invernale, canali,
acquedotti per la distribuzione dell’acqua conservata[…]. D’altra parte resta ben fermo che la
provvista sotterranea delle acque è stata ristretta dal disboscamento. La parte pianeggiante del
paese era coperta di ville signorili.
Dell’aspetto del paese ci danno un’idea le rappresentazioni dei mosaici. Per lo più sono costruzioni quadrangolari circondate da un cortile e guardate da torri […]”.
Egitto
“Inteso che Boni desiderava compiere il censimento dei monumenti romani nell’Africa,
Enrichetta Herz41, organizzò […] un viaggio sul Nilo”42 al quale partecipò anche Roberto
Mond43. Il viaggio riscosse l’interesse di numerose testate che documentarono con dovizia di
dettagli le tappe e gli argomenti di ricerca affrontati dallo studioso. È importante sottolineare
che il percorso scelto toccava solo i siti di epoca romana.
Tra le mete Boni si propone di raggiungere le antiche cave di granito rosso e quelle del
“lapis porphyreticus, il porfido rosso […] in larga scala estratto dai romani i quali lo chiama-
41
Enrichetta Herz, intellettuale inglese, proprietaria di Palazzo Zuccari a Venezia dove fondò una biblioteca pubblica, TEA 1932, II, p. 318.
42
TEA 1932, II, p. 251.
43
Mond, naturalista inglese interessato all’egittologia, aveva intrapreso alcuni scavi in quella terra, soggiornando sul suo yacht Nilo ormeggiato sul fiume.
258
VERONICA ROMOLI
vano il lapis romanus per eccellenza”44. Una foto scattata da Boni in Egitto, mostra, scavato
entro un territorio desertico, un ampio fronte di una di queste cave (fig. 2).
Boni, quale architetto e tecnico rigoroso, considerava fondamentale lo studio e l’analisi
dei materiali da costruzione e, fin dai suoi studi a Venezia, si interessava alle cave utilizzate
nell’antichità ed ai mutamenti avvenuti nelle tecniche costruttive nel corso dei secoli45. Durante il viaggio in Egitto pertanto egli si spinge
“fino alle cave antiche dalle quali i romani traevano il materiale artistico. Principalissimo tra
questi è il granito roseo – lapis pyropecilus – del quale son fatti gli obelischi. Di questo materiale
sono appunto degli italiani che hanno continuato l’estrazione, per costruire le dighe della prima
cataratta del Nilo, grandiosa opera lunga due chilometri, che ha permesso di rialzare di 30 metri
il livello del Nilo. Mentre gli antichi egiziani estraevano il granito e lo adoperavano […], i Romani si sono per primi accorti di un altro materiale più duraturo, più bello, più nobile, il porfido
rosso, il più prezioso dei porfidi – il lapis porphyreticus - in larga scala estratto ed esercitato fino
ai tempi di Massenzio; i Romani lo chiamavano addirittura il lapis romanus per eccellenza. Le
cave principali di granito sono a destra del Nilo, come la breccia silicea di Hammamad, quella
del granito bianco e nero di Um Etgal, quelle del porfido di Dukhan. Queste cave sono ora
raggiungibili soltanto in cammello attraverso il deserto. Ma sarebbero facilmente sfruttabili
ancora, qualora si riattivasse la via romana del mar Rosso. Il prof. Boni le ha visitate: vi si vedono ancora grossi blocchi di materiale preparato per essere estratto, con i distintivi dei Cesari:
all’intorno si vedono gli avanzi delle case dei cavatori e degli operai, e le distrutte abitazioni
delle coorti romane alla guardia delle cave. Arrivano fino ai tempi di Traiano”.
L’interesse di Boni nei confronti del tema delle antiche cave risale al 1891 allorché lo
studioso inizia a sollecitare, tramite il ministro Fiorilli, la raccolta di frammenti di materiali
originari traendoli da monumenti sottoposti a restauri, per costituire una campionatura utile
strumento didattico per “l’istruzione e l’educazione degli artisti e dei conservatori di monumenti”46. A tale scopo vengono sensibilizzati i vari ispettori locali invitati a segnalare le cave o
le miniere presenti sul territorio di loro competenza e ad inviare un campione del materiale.
La Tea ricorda con poche, ma eloquenti parole l’arrivo, presso la sede della Direzione Generale, dei campioni lapidei:
“Questi inviti fecero piovere da ogni parte d’Italia pezzi di marmi, pietre, alabastri, brecce, di
cui ben presto la stanza di Boni fu letteralmente zeppa, tanto ch’egli fu obbligato ad emigrare
in altro ufficio”47.
44
La Tribuna del 4 maggio 1909 dal titolo “L’Egitto provincia romana. Gli studi di G. Boni”.
Resoconto finale del viaggio in Egitto nell’articolo di La Tribuna del 4 maggio 1909.
46
TEA 1932, I, p. 336.
47
Le segnalazioni di cave, miniere ed aree boschive, richieste agli ispettori locali, dovevano servire inoltre a
completare una carta dei giacimenti, ideata da Boni, dove fossero indicate con campiture di diverso colore “con
i segni convenzionali dei geologi” le aree dei giacimenti, con il loro nome storico ed attuale nonché i mutamenti
occorsi nell’impiego dei materiali nel tempo; TEA 1932, I, 337.
45
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
259
Fig. 2 - Foto Boni. Egitto. Fronte di cava con tracce di sfruttamento (Archivio Fotografico SSBAR).
Ancora nel 189548 viene rinnovata la proposta dello studioso al Ministero circa la raccolta di testimonianze sulle “antiche cave esistenti nelle varie regioni d’Italia” insieme all’invio
di “un campione del materiale tipico estratto da ciascun gruppo di cave”49. Nel corso degli
anni, erano giunti presso la sede del Ministero, numerosi campioni di materiali lapidei che,
all’epoca della missiva, risultavano “rimasti negli scantinati della Minerva”. Nel 1901, l’allora
ministro Fiorilli, scrive all’Economo del Ministero che
“Il Direttore degli Scavi al Foro Romano […], l’on. G. Boni, ha espresso il desiderio di ritirare
dai magazzini del Ministero, ove egli dice che sono stati depositati, i campioni delle antiche cave
italiane da lui raccolti, a fine di esporli in uno dei locali secondari del Museo del Foro Romano[…]” e lo sollecita a “ prendere accordi per il ritiro dei campioni”50.
Da una lettera successiva apprendiamo che il ministro ha inviato a Boni sessantaquattro
campioni “che si trovavano nella stanze degli impiegati di questa Direzione Generale per
uso di sopraccarte [!]”51. La collezione, per tanti anni faticosamente ed entusiasticamente
raccolta, al tempo dell’edizione dello scritto di Eva Tea, risulta dispersa “per incuria dei successori”52.
48
È possibile seguire in parte la vicenda del reperimento dei campioni giunti al Ministero da un fascicolo
di incartamenti conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, nel fondo Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale AA.BB.AA., Div. I (1908-1924), b. 99, fasc. 2159, Affari Generali. Materiali delle
Antiche Cave Italiane.
Nel fascicolo è contenuta anche una copia dell’estratto dal Bollettino Ufficiale, 7 febbraio 1985, Antiche
cave italiane (provenienza e distribuzione dei materiali impiegati negli edifici monumentali) dell’allora ministro
Costantini.
49
In funzione dell’esposizione dei materiali inviati, Boni fornisce anche le misure secondo le quali alcuni
scalpellini dovrebbero ridurli per ottenere una collezione morfologicamente omogenea: cm. 12x18x3. Era uso
comune ridurre i campioni lapidei in tessere di dimensioni uniformi come testimoniano le varie raccolte più o
meno coeve.
50
Lettera del 21 giugno 1901.
51
Lettera del 3 agosto 1901.
52
TEA 1932, I, p. 337.
260
VERONICA ROMOLI
In Egitto Boni era anche interessato a studiare la reale entità dell’influenza alessandrina
sulla cultura materiale romana attraverso il confronto tra i reperti rinvenuti durante gli scavi
del Foro53 ed il materiale egiziano osservato direttamente dagli scavi intrapresi in quegli anni.
“Le dirò fin da ora che la raccolta di materiale e di fotografie che sarà fatta, fornirà l’argomento di future conferenze di geografia romana e anderà intanto ad arricchire la raccolta iniziata
nell’Antiquarium forense”: così Boni al giornalista.
Da Luxor, l’ inviato di La Tribuna comunica che:
“il professor Boni è qui giunto e si è trattenuto alcuni giorni per fotografare l’abside romana
con pitture costantiniane del tempio di Amen e due costruzioni augustee di Karnak. Al di là
del Nilo fotografò le iscrizioni neroniane ed adrianee del colosso di Memnona, le volte degli
horrea o granai della XVIII dinastia attigui al tempio funerario di Ramses II, un monumento di
Antonino Pio e le pseudo volte del tempio di Hafshepsu […]”.
Anche in Egitto, come qualche anno prima in Numidia e Mauritania, Boni voleva cercare tracce, entro i blocchi lapidei di fortificazioni urbane, degli incassi per le grappe di
collegamento “a forma di ascia bipenne”, da lui ritenuti simbolici e da collegarsi ai riti di
fondazione54. In questo caso, approfitta di un intervento di smantellamento dei blocchi di
coronamento di un portale tolemaico presso Der-el-Medina, riuscendo a trovare non solo i
famosi incassi, ma anche la grappa originale, in legno di sicomoro55. Dopo la sosta a Luxor,
Boni ripartirà per
“la prima cataratta, fermandosi ad Esne dove c’è un tempio di Vespasiano, […], alle cave romane di Sittilia che portano i nomi di Tiberio e di Claudio, al tempio di Kôm Ombo, compiuto
da Vespasiano e, giunto ai confini dell’impero romano nell’alto Egitto e visitati gli avanzi della
civiltà latina nell’isola di Elefantina e di Philae56, ridiscenderà il Nilo fino a Dendera […]”.
Di ritorno al Cairo, avrebbe studiato il sistema di acquedotti romani e la fortezza di Babylon, sede di una delle tre legioni romane d’Africa.
L’altro argomento, di carattere più prettamente storico, che attirava l’interesse di Boni in
quegli anni era, come già ricordato, quello dell’estensione del limes. Dalle notizie dell’epoca
sappiamo che Boni trovò tracce della colonizzazione romana “oltre il confine ufficiale della
provincia che era a Konosso, di fronte all’isola di Phylae […] fino a Kartum, fino al Sudan,
probabilmente, perché molto più in là dal confine si trovano tracce dell’architettura egizioromana”.
53
Nell’articolo si fa riferimento, in particolare, al “vasellame trovato nella casa repubblicana in corso di
esplorazione presso l’arco di Tito”.
54
Vd. supra.
55
Secondo il cronista anche a Tebe Boni avrebbe trovato lo stesso tipo di incasso nei blocchi dei più antichi templi.
56
Isola presso la prima cataratta del Nilo. Nel 1970 le strutture architettoniche dell’isola originaria furono
spostate sull’isola di Agilkia, a nord ovest, in seguito alla costruzione della diga di Assuan quando Philae fu
sommersa, vd. LLOYD 2001, pp. 40-44.
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
261
Un ultimo articolo del 7 maggio 190957, ormai terminato il viaggio, riporta un elenco
dettagliato, con relativa documentazione storica, dei monumenti di epoca romana visitati da
Boni a partire dall’epoca augustea fino a Diocleziano. Di epoca augustea sono menzionati il
tempio di Iside ed il Typhonium di Dendera, il sacrario di Koptos, i templi di Debot, di Talamis, di Dendur ed il pronao di Pselkis. All’età di Tiberio che “fu liberale verso l’Egitto” risalgono il porticato del tempio di Kom-Ombo, con bassorilievi dell’imperatore in atteggiamento
ieratico, il “peribolo di Apollinis parva ed una colonnata a Philae”, l’ultima fase del tempio
tolemaico di Koptos nonché i pronai di Tentyra e di Athribis. Degli anni di Galba e Otone
rimane il tempietto di Medinet Habu a Tebe. All’epoca flavia risalgono i templi di Karamis
(Vespasiano), di Latopolis e di Ammon-Ra nell’oasi di Daknel (Tito), di Iside a Kum-er-Resnes, il muro di Kysis ed il ponte di Koptos eretti da Domiziano. Successivamente Traiano
“spiegò singolare attività architettonica […] erigendo il propileo di Panopolis e di Dendera, un
tempio nell’isola Elefantina, il grandioso chiosco di Philae (ora non più accessibile che in barca
e tra breve sommerso fino ai ricchi capitelli delle colonne), nei pronai di Talmis e di Kysis, nel
tempio di Giove Helios al monte Claudiano, nella fortificazione di Babylon e nel canale navigabile che dal Nilo conduceva al mar Rosso” (figg. 3-6).
Suggestiva e fotografica è la descrizione di Antinoupolis di cui “rimangono sulla destra
del Nilo, a mezzo percorso tra Menfi e Tebe, le vaste rovine […]. Rigogliosi ciuffi di palme
crescono tra le mura di mattoni crudi sconvolte dai fellah che cercano il terreno concimante
e buttan da parte i cocci delle anfore romane ancora spalmate di pece, e le tavolette di verde
antico e di marmo pentelico dei rivestimenti e lastricati policromi”.
Gli Antonini, prosegue lo scritto,
“hanno spiegato in Egitto un’attività in ordine sparso, che va dall’antisala di un tempietto tebano, vero gioiello di policromia, sino al tempio di Busiris ed alla ricostruzione di quello di Anteopolis, opere di Marco Aurelio, sino al tempio di Pnepheros a Karamis, dedicato da Commodo
ed alla recinzione monumentale del tempio di Latopolis, eretta da Caracalla e che porta inciso,
ultimo gruppo di segni geroglifici, il nome dell’imperatore Decius. L’arco di Diocleziano, che
tanto contribuiva all’aspetto pittoresco dell’isola di Philae, è già sommerso, ma sulle ruine del
tempio di Serapide ad Alessandria sorge ancora la grandiosa colonna eretta in onore di quell’imperatore”.
Le stesse notizie giornalistiche compaiono anche su alcuni appunti vergati da Boni58;
oltre ad uno schizzo della regione lungo il Nilo con accanto l’indicazione dei toponimi più
importanti, che forse era servito allo studioso per pianificare l’itinerario, vi è un elenco di foto
scattate ai monumenti egiziani con relative notizie. Le fotografie citate nel documento, scritto
in lingua inglese, sono quasi certamente quelle ricordate negli articoli di giornale. Scattate dal
57
La Tribuna, 7 maggio 1909, articolo “Boni e l’Egitto romano”. Vd. anche TEA 1932, II , p. 251 dove viene
riportata parte dell’intervista a Boni del 7 maggio 1909.
58
Archivio Storico SSBAR.
262
VERONICA ROMOLI
Fig. 3 - Foto Boni. Egitto. Philae veduta del colonnato occidentale, del primo pilone del tempio di Iside e del
chiosco di Traiano, già semisommersi dalle acque (Archivio Fotografico SSBAR).
Fig. 4 - Foto Boni. Egitto Philae. Veduta prospettica del tempio di Iside (Archivio Fotografico SSBAR).
Boni stesso facevano parte della raccolta del Museo del Foro relativa ai monumenti romani
delle province.
Racconta Eva Tea che Boni “riportò da quel viaggio il bel campionario di vetri orientali,
che formò per tanti anni la delizia sua e l’educazione coloristica de’ suoi discepoli”59.
Tripolitania
Quando Boni fu chiamato a collaborare con Lucio Mariani e Salvatore Aurigemma per
l’isolamento ed il restauro dell’arco di Marco Aurelio a Tripoli, era il 1912 e la Tripolitania era
appena stata occupata dalle truppe italiane (1911). L’interesse dell’Italia per un’espansione
coloniale nell’Africa settentrionale risaliva agli ultimi due decenni del XIX secolo quando,
sulla scia del colonialismo europeo, era stato individuato nelle terre magrebine un possibile sbocco espansionistico60. Nel 1872 il conte Luigi Campo Fregioso scrive nel suo libro
Del primato italiano sul Mediterraneo61: “L’Egitto, Tunisi, Tripoli , Algeri giacciono a breve
59
60
61
TEA 1932, II , p. 253.
Vd. DEL PIANO 1964.
Torino 1872, pp. 169, 177 cit. in SEGRÉ 1978, p. 5.
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
263
distanza innanzi alle nostre terre, come nostre naturali colonie. Gittiamoci in questo mare
che è lì pronto, deioso di riceverci […]. Egli è il solo nostro fido e vero amico.” In seguito,
vista sfumare la possibilità di un’espansione verso Tunisia ed Algeria, ormai controllate dalla
Francia62, l’Italia, attraverso l’attività economica del Banco di Roma, aveva iniziato una “penetrazione pacifica” della Libia:
“Il governo italiano, fin dal 1905, solennemente dichiarava che, interessando all’Italia occupare
economicamente il paese della Libia, non volendo per ora occuparlo militarmente, occorreva
fare una politica di penetrazione con mezzi economici e con potenti iniziative”63.
Il movimento nazionalista, attraverso l’Associazione Nazionalista Italiana, sollecita la ripresa dell’espansionismo coloniale attraverso iniziative che coinvolgano il più possibile l’opinione pubblica64. Uno dei rappresentanti di questo movimento, Enrico Corradini65, si reca in
Libia ed invia a L’Idea nazionale ed al Marzocco le relazioni del suo viaggio66, decantando la
fertilità del paese e vedendo nella conquista di quelle terre la soluzione ai problemi del meridione italiano: “risolvere la questione meridionale e occupare la Tripolitania non sono due
atti diversi”67. Ma un altro forte motivo di attrazione verso la Libia è il richiamo del passato
imperiale di Roma.
Durante il viaggio in questo territorio, Corradini contrappone l’arretrata economia turca alla ricca ed evoluta opera civilizzatrice romana:
“Trovammo pozzi romani. E le massicciate romane, le dighe di sassi giù per i pendii degli uadi
per trattenere il terreno buono. Ed i serbatoi romani e le altre opere idrauliche. E finalmente
il castello romano che proteggeva dalle cime i lavori agricoli. Tutto, per così dire, lo scheletro
della stupenda amministrazione romana sta ancora nelle solitudini della Cirenaica, dicontro alla
capanna e al gregge dell’inerzia araba, dicontro a quel filo del telegrafo, unico istituto dell’Impero Ottomano che ruina”68.
Nella propaganda nazionalistica di quegli anni si inquadra anche il panorama culturale
sotteso alle iniziative previste per la celebrazione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, nel
62
Nel 1881 la Francia stabilisce il suo protettorato sulla Tunisia; ROMANELLI 1937, p. 115.
Il Banco di Roma aveva già aperto sedi ad Alessandria d’Egitto e a Malta. SEGRÉ 1978, p. 39. Sulla politica economica del Banco di Roma in Libia vd. anche BARBANERA 1998, pp. 97-98.
64
Il movimento nazionalista di quegli anni tuttavia non è omogeneo ed accanto agli afflati classicheggianti,
si ritrovano atteggiamenti modernisti, rappresentati dal futurismo, che avversavano tutto quanto fosse riferito al
passato, all’archeologia ed all’antiquaria; MUNZI 2001, pp. 19-20.
65
E. Corradini: imperialista, nazionalista, fa parte dell’Associazione Nazionalista Italiana che ha come
obiettivo quello di indirizzare l’opinione pubblica sulla questione della Libia. A tale proposito, Corradini insieme a Federzoni, Maraviglia, Forges Davanzati e Coppola, fonda il 1 marzo a Roma, il settimanale L’Idea nazionale, il giornale del movimento nazionalista. Vd. SEGRÈ 1978, p. 52.
66
Esse poi verranno raccolte nel libro: E. CORRADINI, L’ora di Tripoli, Milano 1911, contenente tutte le
motivazioni che giustificherebbero la conquista.
67
SEGRÈ, p. 54.
68
SEGRÈ, p. 54: Conferenza di Corradini; MUNZI 2001, p. 22.
63
264
VERONICA ROMOLI
Fig. 5 - Foto Boni. Egitto. Philae. Il chiosco di Traiano da nord ed il tempio di Hathor (Archivio Fotografico
SSBAR).
1911. In tale ambito i programmi, di tipo imperialistico, prevedevano a Roma l’allestimento
della Esposizione Archeologica Internazionale, all’interno dei locali ristrutturati delle Terme
di Diocleziano. Rodolfo Lanciani, Presidente della I Sezione di Archeologia, incaricato di
organizzare l’esposizione alle Terme, non esita ad annoverare tra gli obiettivi della mostra le
copiose testimonianze che la civiltà romana aveva lasciato in “ciascuna delle XXXVI province”69. A tale proposito egli più volte ribadisce l’importanza delle ricerche archeologiche
italiane all’estero e sollecita con successo i paesi stranieri coinvolti nella mostra ad inviare
materiali originali, riproduzioni e plastici70. In questa direzione si muove l’intera comunità
archeologica italiana, con evidente riferimento all’incipiente spedizione militare in Libia71.
69
Vd. PALOMBI 2006, p. 185.
PALOMBI 2006, pp. 188-189: “All’appello da noi rivolto ai paesi che rappresentano una o più provincie
dell’Impero, hanno risposto con simpatia e con notevoli contribuzioni le tre Gallie, le due Germanie, le due
Pannonie, le due Mesie, la Dacia, le tre Spagne, la Mauritania, la Numidia, la Britannia, la Belgica, la Batavia,
l’Egitto. […] apparirà come tutti questi paesi che già furono antiche nostre provincie, siano ancora governati
dalle leggi romane, e come i loro abitanti battano ancora le strade da noi costruite, valichino i monti attraverso
i passi da noi aperti, i fiumi per via dei ponti da noi gettati, bevano le acque da noi allacciate, cerchino salute
nelle sorgenti che tuttora alimentano le terme da noi costruite, e trovino rifugio pei loro navigli, sia in pace che
in guerra, nei porti da noi fondati”.
71
Come giustamente ricorda il Palombi. Cita a questo proposito il discorso augurale di Gherardo Ghirardini, docente di archeologia all’Università di Bologna, durante la V Riunione della Società italiana per il
70
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
265
Boni stesso, nell’autunno 1911, paragona con enfasi la guerra in Libia alla guerra ritenuta
dai romani quale “atto religioso”72. All’indomani delle prime vittorie italiane in Tripolitania73,
lo studioso volge entusiasticamente il suo interesse ai luoghi che un tempo accolsero la civiltà
romana e che ora, dopo secoli di dominazione turca, gli appaiono desolati ed impoveriti, con
le rovine coperte di calcinacci e sabbia74. Nell’aprile 1914 Boni si reca a Tripoli inviato dal
ministero per una consulenza sul consolidamento dell’Arco di Marco Aurelio75. La vicenda
dell’arco quadrifronte di Tripoli (l’antica Oea) prende le mosse dai primi interventi dell’Italia
nella nuova colonia all’indomani della conquista. Per sovrintendere ai beni archeologici della
regione viene inviato a Tripoli, con l’incarico di Ispettore, Salvatore Aurigemma, già ispettore
al Museo archeologico di Napoli76, che subito si prodiga per valorizzare il monumento e per
liberarlo dalle superfetazioni realizzate nel corso dei secoli e che ne rendevano poco leggibile
la struttura77.
progresso delle scienze, tenuta a Roma il 14 ottobre 1911. Se ne riportano alcuni stralci: “felici risultati abbiamo
finalmente diritto di attendere da future indagini in quel lembo di terra africana, ove con animo commosso
[…] vediamo rinnovarsi per l’opera dell’eroico esercito nostro i fasti di Roma […]”. Riguardo alla ideologia del
diritto storico dell’Italia sulla Libia, si veda anche MUNZI 2001, pp. 10-11, in particolare per quanto concerne il
ruolo dell’archeologia.
72
Scrisse alla Franciosi: “Penso alla guerra compiuta dai romani come un atto religioso e ricordo la IV
Pythia del 466 a.C. sublime tra i poemi dedicati ad Archesialo”; vd. TEA 1932, II, p. 296.
73
La guerra ebbe inizio il 29 settembre 1911: “L’Italia e la Turchia sono da oggi, 29 settembre 1911, alle
ore 14,30, in istato di guerra”. SEGRÈ p. 76.
74
Fu dolorosamente sorpreso dalle condizioni desolate del paese, impoverito durante l’inerte dominio
turco. “Dove vede palme e aiuole – scriveva in una cartolina a Ciacchi – sono calcinacci e sabbia, nelle quali si
affonda, ma nell’albergo c’è un po’ di pulizia. Spero ripartire di qui giovedì e suppongo che in questi giorni le
rose belle comincino a fiorire. Ma ne darà notizia al ritorno”. TEA 1932, II, p. 296.
75
TEA 1932, II, pp. 296 e 339.
76
BARBANERA 1998, p. 98. PETRICIOLI pp. 123-125 e 135-137, sull’invio di A. a Bengasi nel 1910 insieme a
Beguinot. Giunti a Bengasi nel 1910 per provvedere alla sistemazione della sede della missione archeologica e a
ricerche nelle immediate vicinanze della città: nel 1911, a pochi km da Tripoli, in loc. Ain Zara fu scoperta una
necropoli cristiana intatta.
Salvatore Aurigemma si insedia definitivamente a Tripoli nel febbraio del 1912, come risulta dalle relazioni
da lui costantemente inviate al Ministro. È datato 18 febbraio il primo di questi rapporti (Archivio Centrale
dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale AA.BB.AA, b. 4, fasc. 36, Affari Generali 1912.
Tripolitania a Cirenaica. Monumenti e scavi.): “Tripoli, 18 febbraio 1912. Eccellenza, ho l’onore di informare
personalmente l’E. V. che nel pomeriggio dello scorso martedì, 13 corrente, sono sbarcato felicemente a Tripoli,
e che ho subito iniziato col Comando della Piazza le opportune trattative per poter cominciare al più presto a
disimpegnare le mie funzioni di Ispettore […]”.
77
L’arco era totalmente inglobato in costruzioni posteriori ed il suo interno era stato adattato a sala cinematografica. Lo stato di degrado dell’arco è descritto in AURIGEMMA 1914, p. 8, dove è anche pubblicata una
fotografia (fig. 2), scattata dal Battaglione Specialisti del Genio Militare, in cui si vede il fornice chiuso, sormontato dall’insegna: “Cinematografo”.
Di quel periodo, relativamente all’attività dello studioso in qualità di Ispettore degli scavi e monumenti di
Tripoli, rimangono alcune testimonianze presso Archivio Centrale dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale AA.BB.AA., Div. I (1908-1924), b. 617, fascc. 3640 - 3644 e b. 4, fasc. 36, Affari Generali 1912.
Tripolitania a Cirenaica. Monumenti e scavi. Nel fascicolo 36, sono conservate le relazioni dell’Aurigemma sulla
situazione dell’Arco e sulle questioni relative all’esproprio ed al conseguente abbattimento delle abitazioni ad
esso addossate notando “che però occorre procedere a detta demolizione con la maggiore possibile cautela […]
266
VERONICA ROMOLI
Agli inizi del 1912, era giunta al Governo Giolitti la proposta, da parte del generale (ris.)
Giuseppe Perrucchetti, di elevare l’arco di Marco Aurelio e monumento nazionale. Con una
lettera, alla quale allegava anche il ritaglio di un suo articolo pubblicato sul Corriere della
Sera78, il generale proponeva:
“l’opportunità ad urgenza di decretare ‘Monumento Nazionale’ l’Arco di Marco Aurelio in
Tripoli ed ‘opera di pubblica utilità’ il suo restauro e lo sgombero delle casupole e negozi che
lo deturpano. Parmi che tale provvedimento sia richiesto non solo dalla dignità nazionale ma
dalla ragione politica avuto riguardo alla leggenda araba secondo la quale il prestigio dei Turchi
tramonterà per sempre quando questo monumento romano sarà rimesso in onore.[…]”79.
a tal uopo è necessario la direzione e la sorveglianza da parte di un apposito ingegnere il quale dovrebbe anche
suggerire i lavori, opere di incatenamento, che sembra occorrano per meglio conservare il monumento […]”.
Chiede pertanto che gli venga affiancato un ingegnere “del nostro personale” o un ingegnere del Genio Civile.
[Rapporto Aurigemma del 5 luglio 1912, indirizzato al ministro delle Colonie, Sua Eccellenza Caneva ]. Questo
fu il primo intervento urbanistico a Tripoli riguardante un monumento archeologico (MUNZI 2001, p. 34).
78
L’articolo, del 16 dicembre del 1911, si intitola L’arco romano di Tripoli. “Fra le vestigia romane, testimoni della grandezza e prosperità di un’epoca civile, nelle nuove province africane, merita oggi soprattutto di
essere segnalato per i gloriosi ricordi che evoca e per il posto che occupa, l’arco trionfale di Tripoli: stridente
contrasto fra lo splendore passato e l’abbrutimento e la desolazione presente, dovuti alle spogliazioni ed all’oscurantismo dei Vandali, dei Berberi e dei Turchi.
Il monumento ricorda l’opera di Marco Aurelio, del più giusto, serio, clemente, benefico imperatore romano: del condottiero valoroso di eserciti in ogni parte del mondo fino al remoto paese dei Parti (progenitori dei
beduini Arabi) che domò; dell’uomo che vinse anche se stesso e fu celebre come scrittore e filosofo per le sue
riflessioni sopra se stesso; dell’uomo che estese i benefici della civiltà nella Tripolitania e nella Cirenaica, elevandone il livello morale per modo da rendere possibile al suo successore (Settimio Severo, nato a Leptis Magna,
presso Homs) la concessione a quelle popolazioni dei privilegi e degli onori della cittadinanza romana.
Tanto ricordo glorioso per l’Italia antica e per la nuova, pieno di promesse per le province africane, merita
un culto speciale ed è opera doverosa restituirlo all’antico splendore, isolarlo dalle casupole che lo rinserrano,
liberarlo dagli abituri che ammassatisi sotto il grand’arco, lo deturpano, sgombrare l’interramento che ne nasconde una parte. Miglioramenti tutti di poca entità. Sarà di buon augurio per le nuove province e per le antiche
rimettere in onore tanto monumento. La grande anima di quel Marco Aurelio il quale, unico tra gli imperatori
dell’antica Roma, occupa ancora oggi e conserva da secoli sul Campidoglio il primo posto d’onore, eleggerà
protettrice e promettitrice su questa era della patria.
Sulle pareti dell’arco quadrifronte maestoso nella sua elegante semplicità, dovranno trovar degno posto e
porteranno ai posteri i nomi dei nuovi eroi che pari ai più gloriosi fra gli antichi legionari di Roma hanno in
questi giorni onorato il nome italiano versando il loro sangue per restituire alla patria dopo quasi quindici secoli,
terre già una volta conquistate, redente e rese prospere in altri cinque secoli dai nostri padri.
I nobili soldati di terra e di mare, i futuri presidi di Tripoli, i cittadini redenti delle nuove province passando
sotto l’arco gioiranno per antiche e per nuove memorie, leveranno i cuori e benediranno l’Italia.
Torino, 8 dicembre 1911. G. Perrucchetti”
79
Lettera del gen. Giuseppe Perrucchetti a S. E. il Cav. Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dei
Ministri, Torino 29 gennaio 1912.
Dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la proposta viene girata al Ministero della Pubblica Istruzione
con lettera datata Roma 7 febbraio 1912: “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Segreteria. No 44 T. / All’On
Ministero P. I. / Oggetto: Proposta del Generale nella Riserva Giuseppe Perrucchetti per fare dichiarare monumento nazionale l’Arco di Marco Aurelio in Tripoli.” / [A matita è scritto: “Prof. Boni”].
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
267
Fig. 6 - Tripoli. Arco di Marco Aurelio. disegni di Luigi Turba (da AURIGEMMA 1933).
In risposta, Giolitti scrive di aver comunicato al Ministro della Pubblica Istruzione la
proposta di Perrucchetti e che il ministro stesso, “nel fare plauso ai sentimenti cui è ispirata
tale proposta, ha avvertito che è già stato provveduto alla pubblicazione di un elenco di edifici
di carattere monumentale nella Libia […]80” e che l’arco di Tripoli sarebbe stato “restituito a
condizioni più decorose”81.
Della consulenza di Boni sul restauro dell’arco quadrifronte di Marco Aurelio e Lucio
Vero a Tripoli rimane fortunatamente un’accurata relazione, redatta nel maggio del 1914 da
Boni e da Lucio Mariani, indirizzata all’allora ministro delle Colonie Caneva. Boni era stato
chiamato a Tripoli per verificare la stabilità dell’arco in seguito ai lavori eseguiti l’anno prima.
Archivio Centrale dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Genenerale AA.BB.AA., Div. I (190824), b. 617, fasc. 3644 ed in Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1912, fasc. 11, T,
Carte varie riguardanti l’occupazione della Libia, prot. 450.
80
Si tratta dell’opuscolo a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, Elenco degli edifici monumentali,
LXX, Tripolitania, Cirenaica, Marmarica, Eritrea, Somalia, Roma 1912; a p. 37: “Tripolitania. A) Tripoli e dintorni. / Tripoli. Arco di Marco Aurelio. / Quattro statue romane, nel cortile del Circolo degli Ufficiali. / Pilastrino /
iscritto, due basi di trapezoforo ed altri frammenti architettonici, nel palazzo del Governatore. / Mura e castello
spagnolo”.
81
Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, T, Carte varie riguardanti l’occupazione della Libia, prot. 450, Roma 26 febbraio 1912.
268
VERONICA ROMOLI
Infatti l’arco, per ordine della Dir. Gen AA.BB.AA., prima, e del Min. delle Colonie82 poi,
era stato liberato dalle costruzioni che gli si addossavano, ma rimaneva ancora “interrato fino
sopra la quarta assisa dei blocchi per m. 3,05 sul piano antico. Fu perciò deciso di sterrarlo
per rimetterlo tutto in luce”. Per evitare lesioni alla struttura si decise di realizzare, secondo la
proposta degli ingegneri del Genio Civile, in via del tutto provvisoria, una “cintura di cemento armato che stringe l’arco tutto intorno all’altezza della cornice d’imposta” e nel gennaio del
1915 l’arco era stato dissotterrato completamente. Tuttavia prima di rimuovere la cintura di
cemento fu richiesta la perizia di Boni che si recò a Tripoli dove rimase fino al 25 maggio. Per
verificare la natura del terreno sottostante e lo stato delle fondazioni del monumento, venne
eseguito uno scavo intorno allo spigolo nord-orientale dell’arco ad opera del “dott. Aurigemma, colla nostra assidua assistenza”. Lo scavo mise in evidenza l’originario livello di spiccato
dell’arco e la platea di fondazione in calcestruzzo e blocchi calcarei, poggiante su “uno strato
di sabbia marina compressa, contenente alcuni pali carbonizzati” forse di una costruzione
precedente, come ipotizzato dal Boni nella relazione. Inoltre furono rinvenute altre strutture di epoca posteriore come una fogna che attraversava la platea di fondazione, un pozzo
quadrato, anch’esso tagliato parzialmente nel calcestruzzo e datato tra il VII ed il IX secolo
insieme ad alcune tombe rinvenute intorno all’arco. Infine fu scoperta parte di “una platea
o sostruzione di blocchi […] che si dirige verso l’antico bastione del porto e crediamo possa
essere la base di una muraglia che ha incorporato l’arco nelle fortificazioni della città […]”.
Grande interesse mostrano i due periti per la tecnica con cui è realizzata la cupola di
coronamento dell’arco: “una calotta ottagonale, impostata con singolare espediente sopra la
sommità rettangolare dell’arco, e formante al di sotto quattro pennacchi vuoti attraversati
da grossi architravi”. Infine, poiché l’arco è mancante della parte terminale che, secondo i
confronti con monumenti consimili doveva terminare con un attico riportante l’iscrizione
dedicatoria, i due propongono una copertura a protezione della calotta, da realizzarsi con
82
Il Ministero delle Colonie fu istituito con la legge del 6 luglio 1912 (p. 3) e fu poi sostituito da quello
dell’Africa Italiana: vd. PRINCIVALLE 1912. La tutela e la giurisdizione del patrimonio archeologico in un primo
momento continuarono a dipendere dal Ministero della Pubblica Istruzione, sotto un unico Ispettorato per la
Tripolitania e Cirenaica.
Due primi decreti in materia di tutela, vennero emanati dal generale Carlo Caneva, comandante del corpo
di spedizione, il 14 ed il 23 gennaio del 1912: con il primo si vietavano le ricerche abusive ed il commercio di
antichità, obbligando chi detenesse materiale archeologico a denunciarlo alle autorità. Con il secondo decreto, si
autorizzava il Comandante della Piazza di Tripoli ad acquisire l’edificio “chiamato Arco di Marco Aurelio” e le
costruzioni che gli si addossavano provvedendo all’espropriazione. In seguito all’istituzione del Ministero delle
Colonie e la divisione della Tripolitania e della Cirenaica in due governi distinti, il regio decreto del 24 settembre 1914, n.1271, contiene la definitiva organizzazione archeologica coloniale ordinata in 13 articoli. Vennero
create due Soprintendenze distinte, dipendenti dal Ministero e dall’amministrazione coloniale locale. Inoltre vi
si ribadisce il “principio fondamentale di queste disposizioni archeologiche che rappresenta una novità nella legislazione italiana in materia di antichità, è che la demanialità del sottosuolo archeologico ecc. non appartiene a
chi l’ha scoperto e nemmeno al proprietario del terreno, ma unicamente allo stato”. Le disposizioni consentono
al Governo di intraprendere scavi ed esplorazioni nelle proprietà private. Vd., Ministero delle Colonie. Roma
- Royaume d’Italie Ministère des Colonies, Dix annue d’activitè archèologique en Libye (MCMXII-MCMXXII)
(comunication faite à la session de l’Institut colonial International tenue à Rome en Avril 1924) Roma 1924,
pp. 3-5 e MUNZI 2001, pp. 35-38.
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
269
un tetto su capriate lignee e ricoperto di tegole. “Tale espediente” riferiscono gli studiosi “si
basa sull’effetto artistico prodotto dalla costruzione rustica applicata alle rovine, la quale non
viola l’integrità del monumento […]” e “potrà permettere la visita della cima dell’arco, interessantissima per lo studio della tettonica romana. Vi si vedono infatti particolari nuovi della
costruzione, perduti in quasi tutti i monumenti consimili dell’antichità […]”.
In vista dell’intervento sull’arco, Boni decide di visitare che “gli analoghi monumenti
romani di Leptis e di Sabrata […] per stabilire opportuni confronti” notando che tutti erano
fondati sul banco di arenaria presente lungo la costa83. Lo studioso nella relazione auspica
un rilievo tecnico del monumento, che fu poi commissionato al “Sig. Turba, disegnatore,
già addetto al Genio Militare, raccomandato dall’Ufficio delle Opere Pubbliche, il quale ha
incominciato il lavoro durante la nostra dimora a Tripoli” (p. 33)84. Inserito nel nuovo Piano
regolatore della città, l’arco, “che è un caposaldo della topografia antica della città”, dovrebbe, nella proposta di Boni e Mariani, essere isolato completamente “con la espropriazione
e demolizione delle case vicine che è in corso85, con l’abbassamento ed ampliamento delle
strade circostanti […]” nonché “l’esplorazione profonda ed esauriente del sottosuolo circostante all’arco, almeno per l’ambito di una strada progettata […]86. Del progetto del Piano
Regolatore, restano documenti sparsi87 ed uno schizzo effettuato dal Genio Civile (fig. 7)88.
Nel 1931 fu compiuta una nuova sistemazione dell’arco e della zona adiacente ad opera
dell’architetto Michele Marelli, sotto la supervisione della Soprintendenza alle Antichità della
Tripolitania. In seguito a questi lavori furono pubblicati una nuova relazione a cura di Marelli
ed un articolo di Salvatore Aurigemma sul coronamento dell’arco, dove sono riportati i rilievi
83
BONI, MARIANI 1915, p. 22.
I rilievi sono stati poi pubblicati da AURIGEMMA 1933, pp. 135-161; altri se ne trovano in CAPUTO 1940.
Sull’attività di Luigi Turba, vd. AURIGEMMA 1933, p. 138, n. 3: “dal 1914 al 1919 e poi successivamente nella
primavera del 1923, il Turba ha eseguito una serie assai ricca e minuta e coscienziosa di rilievi e di disegni pei
quali la struttura dell’arco potrà ricevere - speriamo - un’illustrazione quasi completa. È mio debito segnalare
l’importanza di tale collaborazione, che apparirà notevole anche nella parte più specialmente decorativa del
monumento”.
85
Sulle vicende relative agli espropri ed alle demolizioni degli edifici addossati all’arco di Marco Aurelio.
86
BONI, MARIANI 1915, p. 34.
87
Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1912, T, fascc. 7-9, prot. 44, Tripolitania e Cirenaica. Fasc. 7: contiene la relazione al comandante del Corpo di Occupazione del direttore degli
Affari Civili del 13 giugno 1912. “[…] sono ora pervenute le risoluzioni del Governo Centrale confermative
delle proposte circa l’espropriazione o l’acquisto degli immobili che occorrerà demolire per allargare la via per
la Dogana e delle casette addosso all’arco di Marco Aurelio […]” e la copia di una lettera dell’Amministrazione
Straordinaria della città di Tripoli alla Direzione dei Servizi Civili di Tripoli in cui si fa presente che “l’impellente
necessità di avere una seconda rotabile [oltre alla via della marina … ] consiglia la costruzione della nuova strada
che dall’arco di Marco Aurelio conduce a Porta Nuova, passando per la Piazzetta, ove ha sede il Banco di Roma
e per l’attuale via della Chiesa Cattolica […]”.
88
Archivio Centrale dello Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale AA.BB.AA., Div. I
(1908-24), b. 617, fasc. 3644, Corte Reale del Genio Civile. Ufficio di Tripoli. Piano regolatore delle adiacenze
dell’Arco di Marco Aurelio. Scala all’1:2000: schizzo a matita su di un piccolo foglio con evidenziata l’area di
rispetto intorno all’arco (in rosso) e la viabilità circostante.
84
270
VERONICA ROMOLI
Fig. 7 - Tripoli. Schizzo planimetrico dell'Ufficio del Genio Civile per il P. R. di Tripoli, adiacenze dell'Arco di
Marco Aurelio (Archivio Centrale dello Stato).
del geometra Turba, citati nella relazione Boni-Mariani89. Lo studio dell’Aurigemma tratta
del coronamento dell’arco che, come è stato detto, risulta mancante della parte superiore. Secondo l’ipotesi di Boni e Mariani, l’arco avrebbe avuto un terminazione ad attico, come altri
esempi africani, poi perduto. Ma, riferisce Aurigemma, durante gli scavi effettuati per
“creare lo spazio attorno all’arco, giungendo sino sotto il piano stradale dell’età romana sui
lati est e nord, […] nulla è stato assolutamente rinvenuto che sia con certezza pertinente ad un
attico. Anche i pilastrini scanalati di marmo caristio e il frammento di cornice, dei quali il Boni
ed il Mariani fanno cenno, non mi pare possano in alcun modo essere invocati a conforto della
opinione che un attico sorgesse sul giano di Tripoli”.
L’analisi diretta del monumento e delle sue vicende costruttive porta lo studioso ad affermare che l’iscrizione onoraria dell’arco, posta di solito sull’attico, venne incisa invece sul fregio
e sull’architrave della trabeazione, dove era prevista la sola decorazione vegetale che risulta
scalpellata in alcuni punti per accogliere l’iscrizione. Secondo il suo studio, inoltre, basato oltre
che sulle indagini del 1912, anche su alcune antiche vedute di Tripoli del XVI secolo90, e sul89
MARELLI 1933, AURIGEMMA 1933.
Le vedute sono due stampe del ‘500 dove l’arco appare isolato e coronato da un tamburo sormontato
da una cupola. La prima: Il vero disegno del porto, della Citta, della fortezza et del sito dove e posta Tripoli di
90
GIACOMO BONI E L’AFRICA ROMANA
271
l’analisi di alcune fonti medievali e moderne arabe e francesi91, viene rappresentato e descritto
l’arco sormontato da costruzioni elevate, sovrapposte al dado inferiore, di forma spigolosa (forse un ottagono), simile ad un edificio religioso arabo perché coronata da una calotta o cupola.
Secondo Aurigemma non si tratterebbe di una struttura posteriore, di epoca islamica, ma di un
coronamento simile a quelli presenti su alcuni monumenti funerari romani come il Mausoleo
dei Giulii a Saint Rémy o la tomba detta “La Conocchia” presso Santa Maria Capua Vetere. Di
tale coronamento architettonico l’autore fornisce anche una ricostruzione ipotetica92.
Qualche anno dopo, in occasione del viaggio di Mussolini, previsto per il maggio 1937,
il Governatore Balbo decise di attuare la sistemazione urbanistica della zona intorno all’Arco
di Marco Aurelio ed il restauro dell’arco stesso93. Così, tra il novembre 1936 ed il marzo 1937,
sotto la direzione dell’allora soprintendente della Libia Giacomo Caputo94, furono “risarcite
alcune parti, come la massa interna di calcestruzzo, rinforzati i piloni con colature di cemento
Barbaria, Ven(ezia) l’anno 1567. Alla libraria della Colonna, già pubblicata dall’Aurigemma in “Le fortificazioni
della città di Tripoli”, in Notiziario Archeologico del Ministero delle Colonie, II, Roma 1916, tav. I. La stampa
è contenuta nella raccolta: De’ disegni delle più illustri città e fortezze del mondo parte I la quale ne contiene
cinquanta…raccolta da M. Giulio Ballino, in Vinegia appresso Bolognino Zaltieri. MDLXIX (n. 45 veduta di
Tripoli). La seconda stampa è della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, contenuta nel vol II dell’opera
Tavole moderne di geografia de la maggior parte del mondo, di diversi autori, raccolte e messe secondo l’ordine di
Tolomeo, con i disegni di molte città et fortezze di diverse provintie, stampate in rame, con studio et diligentia, in
Roma, 3 voll. in folio. Sulla costola del vol II è impresso l’anno 1560.
91
La prima: Viaggio di al-‘Abdarī (Abū Muhammed Muhammed [sic] b. Muhammed b. ‘Alī b. Ahmed
b. Su’ūd) dell’anno 1289 (il 688 dall’E.) manoscritto inedito, in mano a privati del quale L’A. non può fornire
altre indicazioni.
La seconda: Viaggio dello scech at-Tîg’ânî, che soggiornò a Tripoli dal 16 dicembre del 1307 al 6 giugno del
1309. Vd. Voyage du Scheikh et-Tidjani dans la régence de Tunis pendant les années 706-707 et 708 de l’hégire
(1306-1309 d. C.). Traduit de l’arabe par M. Alphonse Rousseau, in Journal Asiatique, 1853 (Veme série, t. I),
pp. 153-154.
La terza: del XVI secolo: Les quatres premier livres des navigations et pérégrinationsorientales de N. de Nicolay Dauphinois… avec les figures au naturel tant d’hommes que de femmes selon la diversité des nations et de
leur port, maintien, et habits, Lyon, par Guillaume Roville, 1568.
L’ultima descrizione è dell’anonimo chirurgo francese, catturato dai corsari e detenuto a Tripoli dal 1668 al
1676: Histoire chronologique de Tripoly de Barbarie, conservata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (Mss. nn.
12219-12220). Su di lui Aurigemma: Il castello di Tripoli di Barberia, in La rinascita della Tripolitania. Memorie e
studi sui quattro anni di governo del Conte Giuseppe Volpi di Misurata, vol. I, Milano 1926.
al-‘Abdarī parlava di una qubba inferiore e di una altra qubba alta e costruzioni elevate; at-Tîg’ânî, parla di una
cappella costruita audjourd’hui sul monumento, il de Nicolay riferisce di una torre quadrata che sovrasta l’arco
ed infine l’anonimo non parla di strutture sopra il dado (p. 152).
92
AURIGEMMA 1933, fig. 13, dis. Rivani-Finamore, veduta prospettica della fronte nord; fig. 14: dis. TurbaFinamore, sez. est-ovest.
93
CAPUTO 1940, p. 46. Italo Balbo, in accordo con il suo programma propagandistico, intraprende oltre
al restauro dell’Arco di Marco Aurelio a Tripoli e la sistemazione urbanistica dell’area circostante, altre due
iniziative archeologiche: lo scavo della basilica e del foro severiani di Leptis Magna ed il restauro del teatro di
Sabratha (MUNZI 2001, pp. 91-92).
94
Giacomo Caputo, già archeologo della Scuola Archeologica di Atene, era stato chiamato a dirigere gli
scavi in Cirenaica ed in seguito alla prematura morte del soprintendente della Tripolitania, Giacomo Guidi,
guidò l’unificata Soprintendenza della Libia fino al 1951 (MUNZI 2001, p. 50 e n. 45).
272
VERONICA ROMOLI
e si è gettato un cordolo armato attorno alla base della cupola”95. All’epoca di tale restauro,
nell’estate del 1936, l’arco appariva in un “disastroso stato di conservazione96. A tal fine già
nel 1934 era stato chiamato in missione a Tripoli per studiare i problemi statici dell’arco, l’arch. Italo Gismondi, in quegli anni attivo in Cirenaica97.
Gli interventi di Caputo sono dettagliatamente esposti nella pubblicazione del 1940.
Ciò che colpisce maggiormente confrontando il lavoro svolto neanche un ventennio prima
dall’equipe Boni - Mariani - Aurigemma, e quelli del ’36-’37, è l’atteggiamento di fondo totalmente diverso sotteso ai due interventi. Da una parte si nota la costante ricerca di approfondimento, studio, teorizzazione in poche parole un costante intento di indagine storico-scientifica, magari non del tutto priva di ingenuità, ma comunque rigorosa (si pensi all’attenzione
per la stratigrafia incontrata nel sondaggio al di sotto delle fondazioni, all’interesse per la
topografia originaria dell’area e alla ricerca di un restauro che non compromettesse l’autenticità storica del monumento), dall’altra si ha l’impressione di un lavoro totalmente finalizzato
alla propaganda ed al ritorno di immagine, all’impressione generale che avrebbe suscitato
la vista dell’arco, inquadrato in uno spazio falsamente creato a sottolineare la maestosità di
quell’antica opera a carattere onorario riutilizzata per celebrare un’altra epoca di potere assoluto. I risarcimenti effettuati con “materiale marmoreo antico, trovato sporadicamente” o con
stuccature che chiudessero “sconce buche” e riducessero “il grave problema del contrasto
tra il vecchio e il nuovo”98, come pura la collocazione “a titolo scenografico” di una colonna
rudentata estranea all’arco presso il fronte orientale, suggeriscono la volontà di ostentare la
monumentalità originaria del manufatto, trascurando invero il quello iato storico che più
realisticamente il Boni e l’Aurigemma avevano sempre cercato di documentare. D’altronde
un simile modus operandi era in atto negli scavi che il regime fascista stava finanziando tanto
a Leptis Magna quanto a Sabratha ed a Cirene, ma ancora più grave era il fatto che l’archeologia italiana avesse subito una battuta di arresto anche in madrepatria99.
Non stupisce in questo panorama culturale, che era stato forse inconsciamente preparato dagli studiosi più tradizionalisti, l’acredine talvolta tributata alle metodologie di Boni, né la
sua scarsa considerazione da parte del mondo archeologico nazionale, mentre appare sempre
più chiaro il suo appartenere ad un ambito scientifico più rigoroso e positivista che però non
avrebbe trovato spazio in Italia per diversi anni a venire.
95
CAPUTO 1940, p. 46.
CAPUTO 1940, p. 53.
97
I danni, secondo quanto riportato da Caputo, consistevano in “profonde cavernosità formatesi nella
massa di calcestruzzo dei quattro piloni e nella parte superiore attorno alla base della cupola”. Sull’attività di
Italo Gismondi in Cirenaica si veda ATTILIA 2007, pp. 27-28.
98
CAPUTO 1940, p. 58.
99
Riguardo a tale problematica si veda MUNZI 2001, pp. 52-53. A p. 55 viene riportato un commento di
Mortimer Wheeler riguardo all’archeologia italiana di regime i cui scavi e restauri, seppure interessanti e copiosi, erano portati avanti in funzione dell’ideale di splendore appartenuto a Roma e reincarnato nell’Italia fascista
e colonialista. Non mancano tuttavia, in questo panorama, ricerche e indagini di valore storico come i lavori del
Romanelli e del Corò (p. 57).
96
IL REPERTO ARCHEOLOGICO
OGGETTO DA COLLEZIONE O CAMPIONE PER ANALISI
UN’ESPERIENZA FRANCO-ITALIANA DI FINE OTTOCENTO
Stéphane Verger
I primi approcci degli archeologi francesi con la Protostoria italiana si ebberro attorno
al 1860, durante il soggiorno di Gabriel de Mortillet in Italia del Nord1, poi al Congresso
di Preistoria di Bologna nel 18712, e soprattutto durante il viaggio di studio che Alexandre
Bertrand, il direttore del nuovo Museo di Antichità Nazionali di Saint-Germain-en-Laye, effettua da maggio a luglio del 1873 lungo la via per recarsi al Congresso di Preistoria di Vienna.
Questo viaggio lo conduce successivamente nei siti attorno a Golasecca, nelle terramare del
Parmense e del Reggiano, nelle necropoli di Bologna e Marzabotto, nei musei di Firenze,
Perugia e Chiusi e nelle Alpi fino ad Hallstatt. Questa spedizione è conosciuta grazie ad
un’abondante documentazione conservata al museo di Saint-Germain-en-Laye e composta
da: diari di viaggio, corrispondenza, spese di viaggio, inventari dei pezzi acquistati e oggetti,
calchi, disegni vari raccolti nelle regioni visitate.
Il viaggio in Italia è stato fondamentale nella carriera scientifica dell’archeologo francese, il quale utilizzerà i dati raccolti in questo viaggio fino alla fine della sua vita: dai primi corsi
di Antichità Nazionali tenuti all’École du Louvre, di cui si conservano le note e gli appunti,
fino ad uno dei suoi ultimi libri pubblicato con Salomon Reinach e dedicato ai Celti nelle valli
del Po e del Danubio3.
Uno dei principali obiettivi del viaggio consiste nel raccogliere del materiale di qualità
per arricchire, con oggetti ed insiemi di riferimento, la sezione di archeologia comparata che
si sta costituendo a margine delle collezioni di Antichità Nazionali del museo (allegato 1). Per
compiere questo importante incarico, egli dispone di un budget sufficiente, ma non enorme,
5000 franchi concessigli dal Ministero della Pubblica Istruzione, allora diretto de Jules Simon. I due responsabili del museo, Alexandre Bertrand ed il suo assistente Gabriel de Mortillet, hanno senza dubbio, già da questo momento, due concezioni assai diverse di quello che
dovrà essere la sezione di archeologia comparata. Per Gabriel de Mortillet, si tratta di riunire
un campione rappresentativo delle antichità preistoriche di tutte le regioni e di tutte le epo-
1
2
3
Si veda per esempio, DE MORTILLET 1860a; DE MORTILLET 1860b; DE MORTILLET 1865; DE MORTILLET 1866.
Su questo aspetto, MORIGI GOVI, SASSATELLI 1984.
BERTRAND, REINACH 1894.
274
STÉPHANE VERGER
che, in vista di costituire una classificazione generale della Preistoria e della Protostoria, di
cui egli elabora una prima versione per l’esposizione internazionale di geografia del 1875. Per
Alexandre Bertrand, si tratta di scegliere degli oggetti atti a mettere in evidenza le grandi correnti di civilizzazione che traducono gli spostamenti e la successione dei popoli nelle diverse
regioni d’Europa, e più particolarmente le strette parentele tra le culture italiche e quelle della Gallia e dell’Europa centrale. Campionatura per una classificazione generale e selezione di
indicatori di appartenenza etnica sono i due obiettivi, ancora complementari, più tardi antagonisti, che determinano le scelte effettuate per la costituzione della collezione di Protostoria
comparata del museo di Saint-Germain-en-Laye. Conciliare l’approccio naturalista dell’uno
e la concezione storica dell’altro porta Bertrand a fare delle scelte che evidenziano la posizione fondamentalmente ambigua che occupano i reperti pre e protostorici nel quadro degli
studi antichi nella seconda metà del XIX secolo, rinvenimenti troppo poco spettacolari per
interessare il mercato delle antichità, ma raccolti ancora con troppo poco rigore per accedere
veramente allo statuto di specimens scientifici.
La tensione che esiste tra i due estremi, il reperto archeologico come oggetto da collezione o come campione da analizzare, è al centro delle preoccupazioni dei responsabili del
museo. Essa è particolarmente visibile nella prima richiesta di acquisizione che Alexandre
Bertrand trasmette ad un archeologo italiano, Giovanni Gozzadini, lo studioso bolognese, in
una lettera del 31 marzo 1873. Bertrand si interessa allora delle correnti di popolazioni tra i
due versanti delle Alpi. Egli cerca per il museo e per le sue pubblicazioni delle prove tangibili
di questi flussi e perciò chiede due cortesie al suo collega di Bologna. Da un lato, lo prega di
acquistare per lui, presso un mercante di antichità di Este, un certo Fortunati, due rasoi di
ignota provenienza, che gli paiono somigliare ai rasoi gallici, chiedendo espressamente che il
prezzo da pagare non fosse esagerato4. Dall’altro, gli chiede di selezionare con cura “dei frammenti di bronzo provenienti dai cimiteri di Villanova e di Marzabotto, dopo averli etichettati
con cura affinché non si ingeneri confusione”. Egli conta in seguito di affidarli al professore
Peligot, dell’Accademia delle Scienze, perché ne determini precisamente la composizione
nel laboratorio de La Monnaie di Parigi per confrontarla infine con quella dei bronzi greci,
etruschi, gallici ed egiziani.
È chiaro che ci troviamo di fronte a due procedimenti di acquisizione della prova assolutamente incompatibili, che derivano da due tradizioni di ricerca totalmente distinte, quella
della vecchia archeologia classica e quella della giovane storia naturale dell’uomo, le quali
impiegarono diversi decenni prima di trovare un terreno d’intesa.
Il viaggio in Italia costituisce per Alexandre Bertrand un importante terreno di sperimentazione. Le strategie di acquisto degli oggetti da esporre nelle vetrine del museo, che egli
4
A proposito dei rasoi, si vedano gli articoli di BERTRAND 1874a e BERTRAND 1874b. I rasoi riportati dall’Italia da Bertrand nel 1873 sono stati di recente al centro di un’importante discussione cronologica, a causa di un
errore di lettura dell’inventario di Saint-Germain-en-Laye rilevata da Raffaele De Marinis: l’esemplare entrato
nelle collezioni con il numero 20417 proviene dall’Etruria e non da Mörigen in Svizzera; non deve quindi più
essere preso in considerazione nel dibattito attorno alle correlazioni cronologiche tra le fasi del Tardo Bronzo
centro-europeo e l’Età del Ferro italiana, vd. DE MARINIS 2005 in particolare p. 30.
IL REPERTO ARCHEOLOGICO OGGETTO DA COLLEZIONE O CAMPIONE PER ANALISI
275
comincia a mettere in pratica allora, preannunciano quelle adottate in seguito nelle transazioni con archeologi e collezionisti francesi fino all’inizio del XX secolo, secondo modalità
adattate sempre meglio alle situazioni che gli si presentano.
Assai rapidamente si accorge che il mercato italiano delle antichità non è adatto a ciò
che cerca. Innanzitutto esso è globalmente troppo caro per i mezzi finanziari del museo. Un
archeologo e collezionista di Milano, Biondelli, che capisce che le risorse di Saint-Germain
sono limitate, gli propone semplicemente di servire da intermediario nella vendita al Louvre
di due vasi etruschi di Chiusi e Cortona, per una somma di 3500 franchi, cioè un pò meno del
costo complessivo della sua missione in Italia.
Inoltre, le antichità protostoriche interessano poco i mercanti a causa del loro valore
modesto. Lo stesso Biondelli vende così a Bertrand tutta la sua collezione di antichità delle
necropoli di Golasecca per 600 franchi solamente. Per la stessa ragione esse si trovano più
raramente sul mercato antiquario.
Per di più, gli oggetti in vendita sono spesso senza contesto noto, il che è molto limitante
per Bertrand. In Etruria egli non acquista quasi niente, ad eccezione di un vaso villanoviano,
per 25 franchi, solo perché il venditore gli precisa che esso proviene da una tomba a ciottoli
di Chiusi. Lo stesso mercante vende a Bertrand, ma a titolo personale, due orecchini ed un
anello con castone di vetro colorato per 800 franchi.
Per questi motivi, Bertrand si premura di andare alla fonte, cioè in quei villaggi da cui
provengono delle antichità conosciute attraverso le pubblicazioni scientifiche recenti. A Brig
in Svizzera, Pierre Briendler, un inbianchino del posto, gli vende: tre torques, un braccialetto, dei cocci ed un corno di bovide intagliato, di provenienza locale certa, per 35 franchi. A
Golasecca, egli acquista dei vasi e degli altri oggetti dal falegname Paolo Guazzoni per 100
franchi.
È senza dubbio durante il viaggio di andata che matura l’idea di effettuare egli stesso
degli scavi nei siti più prestigiosi, come Golasecca e più tardi Hallstatt. A riguardo, l’incontro
con i risponsabili dei nuovi musei dell’Italia del Nord è determinante. Mentre visita il sito
di San Polo nel Reggiano, domanda all’abate Chierici quanto costerebbe lo scavo di una terramare: per 300 mq scavati da un metro a un metro e mezzo di profondità, bisogna contare
sei operai per 20 giorni a 1,2-1,4 franchi al giorno secondo la stagione. A Bologna ammira
gli scheletri esposti sul pane di terra con il quale sono stati prelevati e sembra esservi molto
interessato per il suo museo. Così sulla via del ritorno si ferma nella regione di Golasecca e, in
una giornata, fa scavare quattro tombe dell’Età del Ferro, da alcuni operai posti sotto la direzione di Paolo Guazzoni, che aveva conosciuto durante il viaggio di andata. Recupera quindi
i corredi che mette in due casse, numera tutte le lastre che racchiudono le urne e invia il tutto
col treno a Saint-Germain. Abel Maître, il suo assistente che lo accompagna nel viaggio, fa i
disegni delle tombe che sono sia dei rilievi archeologici, sia delle piante di rimontaggio per la
ricostituzione delle sepolture nel museo. C’è in questi bei disegni tecnici qualcosa che preannuncia i rilievi di Giacomo Boni del sepolcreto del Foro Romano.
Un altro scavo è effettuato da Bertrand nella grande necropoli di Hallstatt, alla fine del
suo viaggio di andata. Il racconto che egli fa della giornata passata sul sito permette di valuta-
276
STÉPHANE VERGER
re con precisione le ambiguità di una spedizione che sta a metà tra la gita culturale romantica
e la sperimentazione scientifica:
“Siamo accolti benissimo all’albergo Seeauer. Le due figlie del proprietario, due belle fanciulle di 18 e 20 anni, le signorine Fanny e Lina, parlano francese, la più grande anche benissimo. Ci fanno da cicerone.
Il direttore della manufattura, successore di Ramsauer, ci accoglie anche lui benissimo.
Saliamo alle tombe, accompagnati dalle signorine Fanny e Lina nonché della signorina Ottelie
Sattler. Un impiegato delle miniere di Engel ci fa da guida. Siamo sul luogo degli scavi alle nove
e mezza.
Le tombe sono in un bosco di abeti senza segni esterni – appena una piccola collina di
terra.
La prima che vediamo aprire è a 1,50 m di profondità. Troviamo le ossa della testa e del
braccio in cattivo stato di conservazione. Un braccialetto di bronzo è estratto da Fanny Seeauer.
L’impiegato delle miniere ci dice a proposito dei cocci di vasi che raccogliamo che le ceramiche sono nelle tombe molto più numerose di quello che crediamo. Ma sono in uno stato talmente
scadente che le lasciano quasi sempre. Chiediamo che d’ora in poi, i cocci siano raccolti.
Do 20 franchi per gli operai.
L’impiegato sembra imbarrazzato quando vogliamo portare via gli oggetti scoperti e ci fa
delle difficoltà. Gli prometto di parlare col suo capo.
Visitiamo, scendendo, una capanna dei minatori del sale. È esattamente la caratteristica
capanna gallica col focolare in mezzo su una pietra rialzata”.
In Italia, Bertrand incontra i principali archeologi della piana del Po nel momento in cui
essi stanno costituendo e organizzando i loro musei: Luigi Pigorini a Parma, Gaetano Chierici
a Reggio, Zannoni a Bologna. Apprende molto da loro sul modo di classificare le antichità
preistoriche, cosa che Gabriel de Mortillet conosceva bene già da una decina d’anni. Ma soprattutto è da loro che raccoglie gran parte del materiale da esporre o da conservare: del bel
materiale prelevato con tutto il rigore voluto.
Come aveva fatto de Mortillet prima di lui, costituisce per il museo una collezione di
cocci raccolti direttamente sulle terremare5. Pigorini e Chierici gli danno anche dei campioni
dei loro musei, a titolo di scambio (allegato 2). Si tratta di fusaiole, cocci vari, figurine di maiali, ma anche frammenti di vasi di bronzo per analisi. In alcuni casi scelgono una campionatura
di cocci rappresentativa di una sequenza stratigrafica completa.
Ma soprattutto Bertrand organizza un vero e proprio traffico di calchi di oggetti importanti dell’Età del Ferro italiana. È un capitolo noto dell’archeologia europea del XIX secolo,
ma anche in questo caso è particolarmente ben documentato grazie agli archivi conservati a
5
Diario del viaggio di Alexandre Bertrand in Svizzera, Italia ed Austria dal 24 maggio al 3 luglio 1873,
archivio del Musée d’Archéologie Nationale di Saint-Germain-en-Laye, II, p. 14 [il testo del diario, in francese,
è stato tradotto] «Raccogliamo sul terreno della cava un certo numero di frammenti di ceramiche tra cui alcune
anse a lunula».
IL REPERTO ARCHEOLOGICO OGGETTO DA COLLEZIONE O CAMPIONE PER ANALISI
277
Saint-Germain-en-Laye. Abel Maître, che accompagna Bertrand, è il restauratore e il disegnatore del museo. Costui effettua sia i calchi in gesso degli oggetti che i disegni a colori che
gli permettono di riprodurne poi esattamente l’aspetto esteriore. I rilievi degli oggetti hanno
quindi una funzione più tecnica che scientifica. Si tratta certamente di replicare degli oggetti,
ma soprattutto, quando sia possibile e utile, di ricostituire corredi interi attraverso copie,
come nel caso della grande tomba di guerriero di Sesto Calende conservata a Milano, che impressionò Bertrand al suo arrivo in Italia. Quando Abel Maître non poteva eseguire lui stesso
i calchi, bisognava rivolgersi anche ad artigiani italiani. Ciò suppose in seguito una gravosa
organizzazione per il rimpatrio delle casse a Saint-Germain.
Alexandre Bertrand aveva un interesse particolare per la metallurgia antica del bronzo.
Raccoglie quindi con priorità quei pezzi che gli permettono di conoscerla meglio e lo fa in tre
maniere differenti, acquisendo: dei campioni di metallo da analizzare, come abbiamo visto,
degli oggetti sui quali si distinguono chiaramente le tracce di fabbricazione, come alcune
fibule di Golasecca dove il nucleo di argilla è ben visibile, e soprattutto prediligendo produzioni moderne di oggetti di bronzo simili a quelli antichi. Nei suoi diari di viaggio, Bertrand
descrive due volte con estrema precisione la fabbricazione degli spilloni che le donne della
Lombardia portano nei capelli. Egli ne ha potuto osservare la fabbricazione secondo tecniche
differenti in due ateliers di Galarate. Ne compra quindi diversi esemplari per le collezioni del
museo, ricordando che anche le donne di Hallstatt ne portavano e che esse dovevano usarle
esattamente come le donne che aveva visto in Lombardia. A Murano acquista, sempre per il
museo, un centinaio di perle di vetro di un tipo prodotto per l’esportazione in Africa, perché
gli ricordano le perle galliche.
La collezione di archeologia comparata è anche, si sa, una collezione di etnografia comparata. Così, il 14 giugno 1873, de Mortillet annuncia a Bertrand, allora in Italia, che il museo
di Saint-Germain aveva appena acquistato presso il museo di Storia Naturale un costume in
piume, attaccato dagli insetti, ed un costume completo eschimese.
Nella sua ricerca di antichità protostoriche d’Italia, Bertrand è insieme pragmatico e inventivo, praticando contemporaneamente l’acquisto sul mercato antiquario, lo scavo scientifico, la campionatura per analisi, lo scambio tra musei, la replica fedele di pezzi di riferimento
e la raccolta curiosa di oggetti etnografici.
Mi sembra quindi che sia su questo sfondo composito che si viene formando una cultura
europea della collezione di Protostoria comparata che coinvolge rapidamente gli archeologi
di tutti paesi. È su questa tradizione originale, già in atto a partire dal congresso di Preistoria
di Bologna del 1871, che Giacomo Boni, meglio di altri, ha costruito una pratica rigorosa
dell’archeologia protostorica, sia scientifica che storica, che riconcilia gli imperativi spesso
inconciliabili di una disciplina che si trova al limite tra la storia naturale dell’uomo e l’archeologia classica.
278
STÉPHANE VERGER
ALLEGATO 1
Estratto dell’inventario del Musée d’Archéologie Nationale di Saint-Germain-en-Laye, lotti di oggetti
riportati dal viaggio in Svizzera, Italia e Austria del 1873:
“[...]
20309-20310
20416-20417
Don de M.E. Desor de Neuchatel, lacustres d’Auvernier (Suisse) lac de Neuchâtel, mai 1873.
Don de M. le Comte Gozzadini, de Bologne, pour M. Alex. Bertrand. Remis le 4 juillet
1873, Rasoirs en bronze.
20418-20422
Don de M. le professeur E. Desor, de Neuchatel (Suisse) rapporté par M. Al. Bertrand, le
4 juillet 1873.
20423-20429
Achats faits par M. Alexandre Bertrand, pendant un voyage en Italie et en Suisse, remis le
4 juillet 1873.
dont: 20427-20429 chat fait à Brig (Valais) 35fr.
20447-20474
Don de M. Luigi Pigorini, directeur du Musée de Parme, à M. Al. Bertrand, lors de son
voyage en Italie et récoltes faites ensemble dans les terramares du Parmesan. Juin 1873.
20475-20499
Achat fait par M. Al. Bertrand, à Milan, à M. le professeur Biondelli.
Arrivé le 18 juillet 1873. Prix 600 fr.
20500-20503
Achat fait par M. Al. Bertrand, à Galeante, Lombardie. Objets en argent faisant partie de
la coiffure des femmes.
20504-20574
Remis par M. le professeur Chanoine Chierici, de Reggio à M. Alexandre Bertrand, à son
passage en cette ville, arrivé le 18 juillet 1873.
20599-20615
Objets moulés à Milan faits par M. Pietro Pierotti reconnus le 4 août 1873. Le tout est du
Musée Brera à Milan, sauf le dernier numéro.
20750-20751
Moulages faits par M. Abel Maître, pendant le voyage en Italie de M. Al. Bertrand, en
1873. Entrés le 9 septembre 1873.
20752
Don de M. le Comte Gozzadini, de Bologne, 9 septembre 1873.
20755-20762
Fouilles de M. Al. Bertrand avec l’aide de M. Maître, à Golasecca (Lombardie). Voyage de
juillet 1873, entré le 11 septembre 1873.
20764-20765
Achat fait à Chiusi, Toscane, par M. Al. Bertrand pendant la mission en Italie, juin 1873
avec les fonds de la mission. Enregistré le 16 septembre 1873.
20766-20774
Don de M. le Comte Giancarlo Conestabile, de Pérouse, par l’intermédiaire de M. Al.
Bertrand, pour sa mission en Italie, juin 1873.
20775-20776
Don de M. Joseph Bellucci, de Pérouse, apporté par M. J. Calderoni le 12 septembre 1873.
20777-20813
Mission de M. Alexandre Bertrand en Italie, juin et juillet 1873. Remis le 20 septembre
1873. Golasecca près Somma, Lombardie.
[...]”
ALLEGATO 2
Note associate ad alcuni oggetti:
“20522-20524
20530
20531-20534
20535
20539
20559
20560
20570
20572
Puits funéraires de San Polo de Reggio.
Fusaïoles de l’age du bronze. Station de Falconara.
Poterie de la palafitte du Bronze dite Montata près Reggio.
terramare du bronze – Campegine de Reggio.
Castellarano de Reggio – terramare du bronze.
Terramare di Monte Venera de Reggio.
Cappane [sic] di Albinea (Âge de la pierre) (Reggio) (Commune d’Albinea). Les cabanes
sont près du Crostolo rivière de Reggio sur le bord ancien de la rivière qui est plus élevé de
3 m que la rive actuelle et à trois cent mètres environ du lit actuel.
Champ de Servirola – San Polo de Reggio.
Puits funéraires de San Polo d’Enza (de Reggio)”.
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Giugno 2008
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