Mercanzie di racconti
Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
di Andrea Piras
1. Premessa
La mia appartenenza disciplinare non è certo un ostacolo o un
limite all’argomento trattato – nonostante la angustia di un termine
come «orientalista», tanto dilatato e vago quanto potrebbe essere,
specularmente, quello di «occidentalista». A riprova di ciò, nel dettaglio delle specifiche filologie vi sono circostanze e fenomenologie
letterarie che infatti autorizzano feconde intersezioni, tra discipline
che indagano quegli impervi e sconnessi cammini di viaggi testuali,
in cui sono circolati, dall’oriente all’Europa, una moltitudine di storie
e racconti, in una affollata transumanza di narrazioni e di generi.
2. Alla fiera delle parole
Occuparsi del mito al tempo dei mercanti, come titola questo fascicolo, significa trattare un argomento che stimola oltremodo la mia
partecipazione, vista una delle situazioni letterarie più interessanti dei
contesti storici che mi pertengono, e che significativamente collima
con una realtà e un immaginario fortemente segnati da attività e
mentalità nettamente mercantili: nelle loro pratiche di vita quotidiana,
come nei linguaggi e nelle metafore utlizzate per descrivere al meglio
le intenzionalità sottese a forme e stilemi che esprimono gesti e consuetudini di società con una forte indole commerciale, quali furono
quelle dell’Asia e delle rotte mercantili su cui transitarono – insieme
a spezie, preziosi e tessuti – idee e messaggi religiosi e filosofici.
Il mercato non è solo fòmite di ricchezza ma anche dimensione
esistenziale di individui e gruppi che formano una corporazione,
attiva in un modo di produzione che può generare un immaginario,
veicolare suggestioni e proiezioni mentali che rinviano a valori culturali, morali e sociali. Se teniamo presente quelle valenze economiche,
riconducibili nella loro essenza allo scambio, presenti nelle tematiche
INTERSEZIONI / a. XXXI, n. 2, agosto 2011
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storico-religiose e in un cospicuo numero di sistemi di pensiero, sarà
più facile comprendere lo specifico culturale di letterature esemplate
su messaggi religiosi con una loro «economia della salvezza», centrata su un immaginario pratico e concreto di metafore forgiate con
lemmi quali «valore», «stima», «prezzo», «riscatto», «debito» e «credito». La densità semantica di questo lessico economico quotidiano
dello scambio, nelle sue ascendenze classiche e in più remoti snodi
e intrecci di una cultura europea, riconducibile a quella variegata
trama di storia linguistica indo-europea, è stata acutamente esaminata da Émile Benveniste nel primo volume del suo Vocabolario delle
istituzioni indeuropee. Opera a cui rimando e dunque mi astengo dal
soffermarmici oltre, a parte servirmene come ancoraggio terminologico da cui protendersi verso altri livelli di indagine e renderli più
comprensibili nei loro linguaggi, riconducibili a un idioma segnico
ed espressivo comune. La raffinatezza della simbologia economica
del cristianesimo, nel suo lessico metaforico dello scambio sacrificale,
inteso come immolazione, offerta e riscatto di redenzione (liberazione dalla schiavitù del male) sono ugualmente dei temi ampiamente
dibattuti, per cui rinvio a compiute trattazioni: non ultima, quella
di un collega oggi presente1 che qui utilizzo volgendola a mio uso,
per mostrarne le analogie con scenari diversi ma affini per sensibilità
e profondità di riflessione. Nei percorsi asiatici in cui il cristianesimo si diffuse, ben oltre il Levante mediterraneo del bacino di
gestazione ebraico ed ellenistico, ebbe la fortuna di incontrarsi con
altri messaggi di salvezza dotati di una simbolica affine per quanto
riguarda l’economia e il commercio e le loro traslazioni semantiche e
metonimiche, in base alla simbologia dello scambio come relazione/
offerta/sacrificio.
3. Parabole e fiabe sulla Via della Seta
I messaggi in questione sono quelli del manicheismo e del buddhismo che insieme al cristianesimo formarono una triade di religioni
universali e missionarie, fortemente connotate nel segno dell’apostolato confessionale. Nel caso del manicheismo, religione eclettica di tipo
gnostico con una forte componente di esperienza mistico-devozionale,
incentrata su una cristologia sofferta e ricca di pathos – che ebbe
un impatto considerevole sul primo Agostino, uditore manicheo per
nove anni – la sua ricca simbolica mercantile si intreccia col richiamo
alla figura di Paolo, esempio di fervore missionario e di inesausta
peregrinazione apostolica.
1
Cf. estesamente il terzo capitolo di L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra
Antichità e Medioevo, Roma, Viella, 2002, pp. 105 ss.
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Questo è il punto focale: la missione, la dimensione itinerante di
pellegrinaggio apologetico e di predicazione che si svolse in quelle
stesse vie percorse dai traffici, al punto che spesso la figura del religioso e del mercante si confondono nelle pratiche e negli idiomi. Il
tempo non è più soltanto scandito dal lavoro del contadino e del pastore – attività che intrinsecamente si prestano a rassicuranti metafore
spirituali, di agricola operosità (semina e raccolta; tralci e potatura)
o di custodia vigile degli armenti (gregge di fedeli). Diversamente da
contadini e pastori, e al pari del cristiano come «buon cambiavalute»
che discerne il bene dal male, il maestro spirituale e benefattore, in
quanto guida del suo «carico» umano, è detto – in un inno commemorativo per un alto dignitario manicheo: «zelante capocarovaniere
(sartwa) che hai condotto la tua carovana (sart) attraverso deserti,
steppe, montagne e gole» (M6, partico).
Non sorprende quindi di trovare disseminate nei testi una frequenza di metafore appartenenti a un linguaggio simbolico che mediante
il Tesoro, la Perla, il Mercante intessono narrazioni e apologhi raffiguranti una preziosità morale e spirituale che arride a colui che dopo
strenua ricerca e vagabondaggio ottiene il premio ambito dei doni
dello spirito, della conoscenza redentiva e salvifica che arricchisce e
rasserena. Perciò un autore siriaco come Teodoro bar Kōnay parla
di «una merce di tranquillità e di pace» per rappresentare le valenze
etiche dei tesori spirituali accumulati dal discepolo, intraprendente
nel suo peregrinare avventuroso, avveduto e parsimonioso come un
mercante che batte strade e porti alla ricerca di beni. Il materiale letterario asiatico è quindi ricco di apologhi e parabole congegnate per
assolvere a finalità pedagogiche, di ammaestramento e di convincente
predicazione, grazie a una modalità narrativa che manipolava favole,
storie, leggende rivisitate e adattate alle intenzioni confessionali e
missionarie, tradotte in parole e in generi quali l’omelia e il sermone,
utilizzati per catturare l’attenzione con racconti edificanti. Ma oltre
alla fruizione narrativa vi è da rilevare una morfologia, comune sia
al buddhismo che al cristianesimo e al manicheismo, che è stata ben
caratterizzata dagli studiosi come «evangelism-entertainement», per
una coinvolgente messa in scena2 di testi in performances gestuali,
grazie a pannelli illustrati, musiche e maschere, in drammaturgie e
teatralità di piazza, della corte e dei conventi.
L’incontro fra questi tre messaggi nelle regioni centroasiatiche
avvenne quindi nel segno di convergenze importanti, per le forme
della cultura e il loro utilizzo: se il cristianesimo già nel suo nascere
portava in dote quel vocabolario dell’economia della salvezza, decli2
Su questa concezione, cfr. A. Piras, Bardi, poeti e cantastorie: la narrazione per immagini
nella cultura iraniana di oggi e di ieri, in Iran: fasti di Persia o “asse del male”?, a cura di A.
Panaino et al., Milano-Udine, Mimesis, 2010, pp. 108-109.
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nato in raffinate metafore delle pratiche di un «sacro commercio»
e di una moneta dello spirito, fusa nella matrice del «valore», del
«riscatto» e del «prezzo» di una vicenda umana e divina. E se il
manicheismo esprimeva nella dimensione itinerante del predicatorecapocarovana la cifra di un apostolato di successo, paragonabile a
«un mercante che accumula tesori», il buddhismo non era da meno
nel presentare il commercio come una degna attività, propiziatrice di
meriti e di fortuna in questo mondo e nell’altro. Ciò avviene sin dagli
eventi originari e fondativi della sua storia, come l’illuminazione di
Siddharta che diviene il buddha, lo «svegliato», quando tra le prime
genti chiamate da tutto il mondo divino in festa, che accorrono per
omaggiarlo, non ci sono re, nobili, sacerdoti e guerrieri ma piuttosto
due mercanti battriani, Trapusha e Bhallika3.
Questo elemento agiografico è in realtà una spia della vocazione
buddhista a insediarsi e prosperare nella vicinanza di strade, vie e
porti, in aperta comunicazione con transiti di mercanti e di carovane,
con tipologie umane operose (artigiani, fabbri, carpentieri, muratori,
scribi, banchieri, dottori e sarti) e sensibili a un messaggio esteso a
chiunque, oltre le differenze e i vincoli castali del rigido e chiuso
sistema sociale indiano. In questa vivacità di scambi e di mestieri,
anche il modo di diffondere un insegnamento universale si avvaleva
dell’astuzia suggerita dal continuo adattamento a luoghi e consuetudini, favorendo una mentalità elastica e versatile; oltre a quel comportamento buddhista della «abilità nei mezzi» che tanta parte ebbe
nel successo e nella diffusione di un messaggio in cui i laici venivano
esortati alla responsabilità personale e all’austerità, perseguita anche
con donazioni, elemosine, gesti di solidarietà e di munificenza.
Nella varietà di mezzi espressivi impiegati per convertire divertendo, catturando l’attenzione con stratagemmi discorsivi, narrativi
e gestuali, il corpus di storie edificanti utilizzava un repertorio mitologico e favolistico reimpostato secondo preoccupazioni morali e
finalizzate alla redenzione e alla catechesi dei fruitori. Storie come Il
foratore di perle La scimmia e la volpe (un rimaneggiamento di un
motivo esopico), Il racconto dei tre pesci, Il mercante e lo spirito, Il
pesce kar, la Parabola sul tesoro nel cadavere, la Parabola sul buono
e cattivo raccolto, la Parabola dei mercanti che ammassano tesori e
altri componimenti, sono tutti esempi di quella «felicità narrativa»
che secondo Elio Provasi4 caratterizzò una religione letteraria come
il manicheismo; nella sua espansione dall’Africa alla Cina, in quanto
3
Vedi l’interessante trattazione di G. Verardi, The Buddhist, the Gnostics and the Antinomistic Society, or the Arabian Sea in the First-Second Century AD, in «Annali dell’Istituto
Universitario Orientale», 57, 1997, pp. 329-332.
4
Cf. E. Provasi, Testi medio-iranici III: Parabole, in Il Manicheismo, vol. III. Il mito e la
dottrina. Testi manichei dell’Asia Centrale e della Cina, a cura di G. Gnoli, con l’assistenza di
A. Piras, Milano, Mondadori, 2008, pp. 118-149, per una eccellente traduzione e commento
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Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
vettore di testi, di rimaneggiamenti e variazioni di materiali preesistenti, rimescolando da occidente a oriente una varietà di forme,
temi, motivi e trame greco-ellenistiche, bibliche e neo-testamentarie,
insieme a passaggi di storie indiane o buddhiste, come quelle della
raccolta di favole del Pañcatantra, del Kalila e Dimnah e del Barlaam
e Josaphat.
4. Barlaam e Josaphat: dall’Asia Centrale al Mediterraneo
Detto ciò, e anzi a causa di ciò, premetto che a differenza dei
miei colleghi, italianisti, classicisti e storici dell’arte, non mi soffermerò sulla Genealogia e sul valore della mitologia come ricettacolo della
sapienza pagana trasmessa ai posteri. Pur occupandomi di tematiche
«pagane» esaminerò un motivo noto del Decamerone, riconducibile
a una trafila complessa e variegata posta sotto l’egida di un’opera
– o meglio di una costellazione di opere racchiuse nell’effigie di
due nomi, Barlaam e Josaphat – che ha avuto la fortuna di essere
veicolata lungo i tragitti mercantili, per divenire un bene culturale
tramandato nei secoli, merce di merito spendibile nei punti nevralgici
delle vie marittime. O in quelle stazioni e caravanserragli della Via
della Seta, dove insieme a questa stoffa sontuosa e pregiata scorrevano miti, canzoni, racconti, storie, apologhi di letterature sapienziali,
fioriti sia indipendentemente, nei roseti dell’antichità classica e biblica, sia in riusciti innesti di nuove e originali gemmazioni di testi che
migravano nell’un verso e nell’altro dell’Asia e dell’Europa.
Una dettagliata ricognizione sulla completa filiera testuale del Barlaam e Josaphat (BJ) è scopo che esula dalla relazione di un convegno
che mi vede presente come outsider, manchevole per giunta della
necessaria padronanza critica e filologica (romanza, latina e volgare)
di quest’opera utilizzata anche dal Boccaccio. Quanto mi propongo è
invece rendere noto ai colleghi specialisti alcuni studi del côté orientalistico di questi ultimi vent’anni che bilanciano, in una diversa prospettiva – indipendente e in apparenza per nulla sinergica con l’altra,
e perciò di maggiore interesse per cogliere sintonie metodologiche
– le importanti acquisizioni raggiunte nell’ambito «occidentale» della
italianistica e della filologia medio-latina o romanza. L’una e l’altra
prospettiva si occupano del Barlaam e Josaphat nell’intrico delle sue
diramazioni, spesso confuse e sovrapposte in una varietà di traduzioni
e adattamenti che testimoniano la fortuna di un libro «sacro a più di
venti popoli di circa trenta lingue e dieci diverse confessioni», come
di un’antologia di parabole manichee, a cui rinvio il lettore interessato per esplorare questa
narrativa pedagogica e sapienziale.
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ricordava Giovanna Dapelo, nell’esordio di un suo contributo dedicato alla seconda versione latina dell’opera (BHL 979, o vulgata)5.
Storia originariamente buddhista, pervenuta all’occidente grecobizantino per tramite di una versione georgiana6, il Balavariani, esemplata su una araba (punto di estuario di materiali indiani e iranici),
il lettore italiano può accedervi grazie a una traduzione di Silvia
Ronchey e Paolo Cesaretti per i tipi della Rusconi7; oppure inoltrarsi
nella documentazione specialistica di Paolo Chiesa, Giovanna Dapelo
e Giovanna Frosini8. Quest’ultima ha dedicato uno studio sulle intersezioni del BJ nel Novellino e nel Decameron, mentre Gianni Cicali
si è occupato del Barlaam e Josafat del Pulci (che utilizzò anche la
Legenda aurea di Jacopo da Varagine, un’epitome della seconda versione latina), evidenziando le sue realizzazioni drammaturgiche nella
Firenze del ’400 e le implicazioni politiche di un sottotesto encomiastico di adulazione rivolto alla corte medicea (e alla esaltazione del
giovane Lorenzo-Josafat), allo scopo di mostrare il volto rassicurante
di un potere non ostentato e invadente ma dissimulato – in un sottile reticolo di panegirici e lusinghe, di messaggi politici obliqui e di
allusioni – quindi benevolo e guidato da alti principi civici, religiosi
e morali che vennero rappresentati nel 1474 sub specie theatri9.
5. Barlaam e Josaphat fra testualità, arte e iconografia
Il romanzo non è soltanto importante per la nostra storia letteraria
ma anche per l’arte, esito riuscito di una traduzione visiva e iconografica del dettato testuale nelle modalità architettoniche e figurative
(mosaico, sculture, affreschi) di importanti edifici religiosi come
la Cattedrale di Otranto, il Battistero di Parma, la Basilica di San
Marco, il Duomo di Ferrara, l’Abbazia delle Tre Fontane (Roma). A
cui si aggiunga una dimora laica come il Palazzo Corboli di Ascia5 G. Dapelo, Il romanzo latino di Barlaam e Josaphat (BHL 979): preparando l’edizione, in
«Filologia mediolatina», 8, 2001, p. 179.
6 È nel Balavariani che si trova la forma georgiana Yodasap‘ – esito di una svista tra i
grafemi <b> e <y> dell’arabo, distinti solo da uno e due punti – da cui derivano il greco
Ioasaph e il latino Josaphat.
7 S. Ronchey e P. Cesaretti, Vita bizantina di Barlaam e Joasaph, Milano, Rusconi, 1980. Una
riedizione è prevista per la collana della Nuova Universale Einaudi.
8 P. Chiesa, Ambiente e tradizioni nella prima redazione latina della leggenda di Barlaam e
Josaphat, in «Studi medievali», 24, 2, 1983, pp. 521-544; G. Dapelo, Il romanzo latino, cit.; G.
Frosini, Fra donne, demoni e papere. Motivi narrativi e trame testuali a confronto nella Storia
di Barlaam e Iosafas, nel Novellino e nel Decameron, in «Medioevo letterario d’Italia», 3, 2006,
pp. 9-36.
9 G. Cicali, L’occultamento del principe. Lorenzo il Magnifico e il Barlaam e Josafat di
Bernardo Pulci, in «Quaderni di italianistica», 27, 2, 2006, pp. 57-70. Cicali sottolinea che un
certo interesse per tematiche narrative, percepite come «orientali», poteva essere un effetto del
concilio fiorentino tra le Chiese di Oriente e Occidente del 1439, voluto da Cosimo il Vecchio,
che lasciò nell’ambiente cittadino delle curiosità per suggestioni «esotiche».
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Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
no (Siena), magistralmente studiato da Maria M. Donato 10, al cui
interno il motivo della «ruota di Barlaam», simbolo di una ciclicità
di eventi transeunti, fa da monito alla caducità delle glorie terrene
e da ispirazione verso gli ideali etici che propiziano il buon governo
della municipalità: ammaestramento qui adombrato in una iconografia
politica tardo-medievale che rinvia a nozioni di una pedagogia civile
e sociale, attinte da un patrimonio letterario facilmente riconoscibile
per la sua ampia diffusione11.
All’interno di un volume dedicato al Battistero di Parma, Alberto
Siclari ha ripercorso le tematiche dell’opera nella sua eterogenea
composizione, soffermandosi con acume e puntualità di informazione
sugli aspetti originariamente asiatici dei valori spirituali (ascetismo,
rinuncia, meditazione), che avrebbero poi trovato piena ricezione
e consonanza nell’occidente cristiano: nella letteratura degli exempla, le cui intenzioni morali e religiose concordano mirabilmente
con quegli stessi principi buddhisti di distacco dalle passioni e di
elevazione dell’anima. Siclari12 rimarca molto opportunamente non
solo un insieme di opere buddhiste, che avrebbero fornito trame
e spunti narrativi al ciclo del BJ, ma quella grande enciclopedia
epica dell’induismo, il Mahābhārata, da cui provengono gran parte
degli adattamenti e delle elaborazioni buddhiste: e soprattutto quella
conclusa metafora, testuale e poi iconografica, de «l’uomo nella cisterna» che come un emblema si è diffusa, con fortuna di riuscite
suggestioni impressionistiche, tanto nell’oriente che nell’occidente.
Questi sono i tratti salienti del Mahābhārata: in una immensa foresta
(simbolo dell’esistenza) si aggira un uomo spaventato che cade in
un pozzo avvolto di liane, con un drago nel mezzo e un elefante sul
bordo; tra le fronde le api producono miele che gocciola dai favi e
stilla sulle labbra di quest’uomo intrappolato a testa in giù, eppure
stordito e traviato dal miele, nonostante i pericoli che ha intorno
(drago ed elefante); avvinto nel groviglio di un albero che alle sue
radici è rosicchiato incessantemente da topi bianchi e neri (simbolo
del tempo), mentre al limite dell’invalicabile selva una donna orrenda
(la vecchiaia) aspetta implacabile.
Non sorprende che la potenza icastica di questo straordinario
cammeo evocativo, sintesi di molteplici valenze in attrito – tese fra
10 M.M. Donato, Un ciclo pittorico ad Asciano (Siena), Palazzo pubblico e l’iconografia
“politica” alla fine del Medioevo, in «Annali della Scuola Normale di Pisa», 3, 18, 1988, pp.
1105-1271. Vedi anche la sintesi della Donato per la voce Barlaam e Iosafat nell’Enciclopedia
dell’arte medievale, vol. III, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1992, pp. 99-102.
11 Gli echi del ciclo di BJ ad Asciano rimandano all’importanza del giardino in Boccaccio,
come spazio di opulenza e produttività, insieme al valore della città e alle sue istanze di saggezza politico-amministrativa e di buon governo, raffigurate in questo ciclo pittorico senese.
12 A. Siclari, L’apologo del Barlaam e Joasaph e la letteratura agiografica degli exempla, in
Il Battistero di Parma: iconografia, iconologia, fonti letterarie, a cura di G. Schianchi, Milano,
Vita e Pensiero, 1999, pp. 368-369.
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gli inebrianti piaceri mondani e i timori di passioni istintuali che minacciano la vita, inesorabilmente corrosa dal tempo e dalla vecchiaia
– abbia incontrato il gusto estetico ed etico dell’occidente medievale,
suggerendo ogni variazione dei codici di riferimento e dei registri
formali (verbali o iconici) che meglio potessero favorire la comprensione delle allegorie sottese alla parabola rappresentata. L’esempio più
lampante è il cambio dell’elefante in unicorno che si verifica a partire
dalla traduzione greca della versione georgiana del Balavariani – in
cui vi è ancora l’elefante, commutato poi in un animale meraviglioso
che più rispondeva alle implicazioni morali della zoologia fantastica
dei Bestiari, e che è attestato nella tradizione figurativa italiana: come
in quella dell’Antelami al Battistero di Parma, la più antica testimonianza non letteraria ma artistica del BJ e del suo celeberrimo quarto
apologo dell’Uomo e dell’Unicorno che si ritroverà anche nel Duomo
di Ferrara e in molti altri luoghi13.
Motivo dunque ecumenico quanti altri mai, l’uomo nel pozzo è
una sorta di incunabolo della esistenza umana, in bilico tra i due
abissi che si spalancano verso il basso del magma caotico delle pulsioni ferine o verso le altezze adamantine dello spirito: un’immagine
di essenziale pregnanza facile da essere continuamente reiterata e
modificata nel tempo e nello spazio. Come nell’apologo buddhista
zen dell’uomo inseguito da una tigre che si butta in un dirupo, afferrando un cespuglio di vite selvatica; al di sotto del precipizio un’altra
tigre lo aspetta famelicamente14, ma nonostante la minaccia incombente, del vuoto e della belva, l’uomo si distrae – con buddhista imperturbabilità – dal terrore per la propria vita, gustando la dolcezza
di una fragola mentre due topi, uno bianco e uno nero, rosicchiano
l’arbusto a cui si sostiene. Ma in tale caso le istanze raffigurate non
sono tanto morali, quanto piuttosto centrate sull’impassibilità: il fine
ultimo dell’ascesi buddhista fondata sull’illusorietà di ogni emozione,
paura o calma, che il sapiente deve trascendere. La globalizzazione
di questo aneddoto rimanda alla popolarità di un tema che giustifica
non solo una certa affinità di gusti con l’Asia estrema: ma che spiega anche una reciprocità di interessi, e una curiosità degli studiosi
giapponesi per la nostra letteratura medievale, in merito a questo
simbolo testuale-iconico. Come è provato da un saggio di Hideichi
Matsubara15, comparso nella rivista della Società giapponese di lingua
e letteratura francese, significativamente dedicato alla «pérégrination»
13 Rimando alla compiuta disamina di F. Tagliatesta, Les représentations iconographiques du
IVe apologue de la légende de Barlaam et Josaphat dans le Moyen Âge italien, in «Arts Asiatiques», 64, 2009, pp. 3-26, per la diffusione del motivo dell’uomo e dell’unicorno nel medioevo
artistico italiano, in relazione al BJ e al Kalila e Dimnah.
14 N. Senzaki e P. Reps, 101 storie zen, Milano, Adelphi, 1973, p. 35, numero 18.
15 H. Matsubara, A propos du «Dit de l’Unicorne», pérégrination d’un avadana, in «La
Société Japonaise de Langue et Litterature Françaises», 22, 1973, pp. 1-10.
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della narrativa buddhista di edificazione (appartenente al genere degli
avadāna) verso l’occidente, nella ramificata efflorescenza del Barlaam
e Josaphat.
6. Metamorfosi letterarie di figure dell’ascesi: India, Islam e cristianesimo
Nelle articolate fasi di commitenza ed esecuzione artistica – commisurata a questi ideali spirituali e pedagogici, di edificazione morale
e sapienziale, vividamente tradotti in immagine – venivano a incrociarsi sintesi culturali di provenienza biblica (Proverbi, Sapienza, Ecclesiaste) col patrimonio mitologico-fiabesco della tradizione classica;
in cui si innervarono poi antiche tradizioni dell’India, della Persia e
della Siria, rifuse in nuovi stampi nel medioevo islamico e propagate
nel Mediterraneo bizantino16, insieme a quei componimenti cortesi
degli specula principum che assolvevano alla educazione perfetta dei
sovrani. Uno di questi libri chiama in causa ibn al-Muqaffa‘, autore musulmano dell’VIII secolo, non solo per la traduzione del suo
Galateo maggiore (Adab al-kabı̄r), ad opera di Patrizia Spallino17, ma
per la maggior rinomanza della sua traduzione del Kalila e Dimnah,
summa fiabesca della narrativa sapienziale-allegorica tramandata nei
secoli, in cui è incluso appunto quel motivo dell’uomo nel pozzo
che le diverse versioni del Barlaam e Josafat hanno ulteriormente
diffuso.
In due diverse occasioni François de Blois si è interessato a questo
racconto dell’uomo nel pozzo, inserendone l’analisi nella sua trattazione del Kalila e Dimnah: il Kalila e Dimnah arabo di ibn al-Muqaffa‘
è il punto di convergenza di un originale in pahlavi (medio-persiano)
perduto, composto nel VI secolo da Burzōy, medico della corte
sassanide del Re dei re Cosroe I (contemporaneo di Giustiniano),
dal titolo Karı¯rak ud Damanak e a sua volta risultante da apporti
di una variegata provenienza, sia dalla raccolta del Pañcatantra (da
cui vennero tratte cinque storie) che dal Mahābhārata; anche se non
si esclude che il medico Burzōy possa aver attinto da altri repertori
della narrativa gnomica-sapienziale dell’India brahmanica o buddhista
venuti a sua conoscenza durante il suo viaggio in India18.
Da questo livello a imbuto, in cui confluirono diversi racconti
indiani tradotti in pahlavi, si sarebbe poi realizzata la versione araba
16 Cf. F. Conca, Novelle bizantine, Milano, Rizzoli, 2004, per una antologia di racconti, tratti
dal Libro di Syntipas e di varia provenienza orientale (indo-persiana, araba, siriaca).
17 Ibn al-Muqaffa‘, Il Galateo Maggiore, a cura di P. Spallino, Palermo, Schede Medievali,
2007.
18 F. de Blois, Burzōy’s Voyage to India and the Origin of the Book of Kalı̄lah wa Dimnah,
London, Royal Asiatic Society, 1990, pp. 34-37.
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di ibn al-Muqaffa‘, nell’VIII secolo, focus di irradiazione di una decina di versioni, nell’arco di tempo che va dal secolo X al XIII: una
versione siriaca, una greca, una persiana, una araba versificata, una
ebraica più antica (da cui una latina) e una ebraica più recente, una
spagnola e un’altra araba. Nell’intreccio di prestiti e contaminazioni,
tra il Kalila e Dimnah e altri componimenti, rientra il ciclo di BJ, con
l’inserimento dell’apologo dell’uomo nel pozzo e con un percorso
testuale che de Blois ha successivamente indagato, nelle sue varie
intersecazioni di generi e provenienze che confermano, nel versante
orientale di questa trasmissione, una pari vividezza e popolarità di
questo episodio, comune sia al BJ sia al Kalila e Dimnah, ugualmente
diffuso nell’arte, nell’iconografia e nella miniatura asiatiche oltre che
europea19.
Ma per quali circostanze fortuite, e accadimenti letterari, il Buddha divenne un santo cristiano? Per de Blois il processo di trasformazione della fisionomia originaria, modellata in rimaneggiamenti
successivi, fino all’icona terminale di un santo cristiano, avvenne per
mediazione di un autore musulmano del X sec. che rivisitò la storia
del virtuoso bodhisattva in chiave islamica, sulla base di quell’afflato
mistico-devozionale del primo sufismo e delle sue marcate caratteristiche ascetiche, non ancora segnate dalla evoluzione filosoficospeculativa del più tardo sufismo dell’epoca di ibn-Arabi. A ciò si
univa un’enfasi profetica e universalistica (Dio rivela nei secoli la
religione grazie a differenti profeti e libri diversi: quindi scritti in
varie lingue) che di certo promosse il successo dell’opera nella sua
migrazione e trasformazione in più idiomi e versioni, con una linea
di ricezione e trasmissione che riguardò anche il manicheismo. Nella
documentazione di lingua araba20 vanno ricordate le due versioni del
Libro di Bu¯dhāsf e Bilawhar, una delle quali – nella variante mufrad,
cioè «separata» – a cura di un islamista e persianista di chiara fama,
19 Vedi di recente A. Chraïbi, L’homme dans le puits et l’homme dans l’arbre, in «Journal
Asiatique», 294, 1, 2006, pp. 81-89. Come trattazioni pregresse, cf. J. Leroy, Un nouveau manuscrit arabe-chrétien illustré du roman de Barlaam et Joasaph, in «Syria» 32,1-2, 1955, pp. 101122, per le illustrazioni (tra cui quella dell’uomo nel pozzo) del ciclo di BJ in un manoscritto
arabo-cristiano; e vedi J.W. Einhorn, Das Einhorn als Sinnzeichen des Todes: Die Parabel vom
Mann im Abgrund, in «Frühmittelalterliche Studien» 4, 1972, pp. 381-417, per il repertorio
iconografico finale, molto attento alle tradizioni figurative asiatiche oltre che europee.
20 Cf. A. van Tongerloo, La leggenda di Barlaam e Josaphat, in Il Manicheismo, vol. III, cit.,
pp. 248-257, per le versioni arabe dell’apologo sul principe e il cadavere. Vedi M. Tardieu, Les
livres de paraboles: nouveaux matériaux pour l’étude du «roman de Barlaam» (recension d’Ibn
Bā¯bū ya), in «Annuaire du Collège de France», 100, 1999-2000, pp. 547-560, sulla versione
breve di Ibn Bā¯būyah. Per la linea della trasmissione manichea, cf. F. de Blois, On the sources
of the Barlaam Romance, or How the Buddha became a Christian saint, in Literarische Stoffe
und ihre Gestaltung in mitteliranischer Zeit, Kolloquium anlässlich des 70. Geburtstages von
Werner Sundermann, a cura di Desmond Durkin-Meisterernst et al., Wiesbaden, Harrassowitz,
2009, pp. 23-24, e G. Scarcia, Storia di Josaphat senza Barlaam, Soveria Mannelli, Rubbettino,
1998, pp. 20 e 32. I due autori sono più inclini a sfumarne l’importanza, rispetto all’opinione
di Lang, Henning, Asmussen e Klimkeit.
278
Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
come Gianroberto Scarcia, occupatosi del BJ in diversi studi, ha
avuto una meritevole accoglienza nella serie editoriale di «Medioevo
Romanzo e Orientale».
8. Buddha, Barlaam e Boccaccio
Quanto arriva al Boccaccio, nell’introduzione alla quarta giornata
del Decameron, è una minima anche se significativa ricezione di uno
dei tanti frammenti di morale che traspaiono dal BJ e che sono stati
adattati alla novella21 di Filippo Balducci, il ricco signore che perde
l’amata moglie e decide di ritrarsi dal mondo per questo lutto inconsolabile, dandosi al servizio di Dio e al perseguimento di qualità
spirituali, vivendo in romitaggio e di elemosine insieme al figlio. Almeno sino al giorno in cui, dietro richiesta del figlio, non si recano
in città e non incontrano una leggiadra compagnia di giovani donne,
adornate di eleganza e bellezza, che ammaliano il figlio nell’incoercibile rapimento dei sensi, vincendo ogni inutile resistenza del padre
che pur chiamandole «papere» e non «donne» non riuscirà a stornare
la trepida attrazione del figlio per queste «male cose». Una recente
disamina di Frosini riassume i punti più rilevanti della critica che
pongono in risalto la continua attenzione di Boccaccio all’opera, sia
nelle redazioni latine, anche compendiate, sia nella tradizione italiana
del volgarizzamento del manoscritto R1422, di origine pisana e di
circolazione toscana, probabilmente legato a un grande centro culturale come quello domenicano di Santa Caterina in Pisa. In questo
ambiente si elaborò un testo che forse già risentiva delle suggestioni
iconografiche dei due affreschi del Trionfo della Morte e della Tebaide
nel Camposanto di Pisa22, in cui si possono ugualmente cogliere ispirazioni e sintonie buddhiste nel forte contrasto tra mondanità e ascesi: nel primo ciclo, per la corrispondenza con la cavalcata di Iosafas,
che esce dal palazzo col suo seguito e durante una battuta di caccia
incontra un lebbroso, un cieco, un vecchio gobbo; nel secondo, per
il motivo della donna-diavolo che tenta un anacoreta.
È specialmente il tema della fascinazione femminile a ritornare,
come motivo-guida, nella cultura medievale quanto in quella buddhista, perno simbolico che condensa una pluralità di immagini
e di riverberi semantici comuni sia all’occidente sia all’oriente: la
tentazione, la forza dei sensi e il tumulto delle passioni, la potenza
dispersiva dell’eros che insidia la continenza e il raccoglimento asce21
Le osservazioni di Vittore Branca, in nota all’edizione del Decameron, Torino, Einaudi,
19916, pp. 462-463, n. 5, tengono debitamente conto della problematica orientale dell’opera,
nella sua bibliografia essenziale.
22
G. Frosini, Fra donne, demoni e papere, cit., pp. 30-33.
279
Andrea Piras
tico, in cui si illumina l’anima in una sovrana padronanza. Logico
quindi incontrare una vasta casistica letteraria di donne demoniache
e tentatrici in quelle varianti del BJ di elaborazione asiatica, come
una recente traduzione di un frammento manicheo centroasiatico
in turco uiguro23, in cui si narra – nella cornice del dialogo fra il
re e suo figlio che non accetta i compiti del trono e gli obblighi
mondani – del connubio necrofilo tra un uomo e un cadavere che
gli appare come un corpo di donna. Stordito dall’ebbrezza del vino
e dei piaceri, sviato dalla coscienza e dalla ragione, l’uomo è preda
di ignoranza e torpore quando entra in un sepolcro e lo scambia per
un gineceo, dove è avvinto dalle illusorie lusinghe dei sensi fino ad
abbracciare un cadavere, sprofondando nei suoi umori di putrefazione e deliziandosi nel miraggio di una felicità morbosa; al momento
dell’alba si ridesta alla consapevolezza dell’orrido giaciglio funebre e
immondo in cui è caduto, per poi fuggire nauseato e buttarsi in uno
stagno di purificazione.
Questa potenza dell’illusione dei sensi, e il brusco infrangersi dei
suoi miraggi che si ribalta nella subitanea resipiscenza di una desta
consapevolezza, è la cifra che accomuna i diversi contesti che abbiamo esaminato e che giustifica una prospettiva di ricerca, attenta non
solo a riannodare le trame di sparse filiazioni di intertestualità ma ad
affrescare uno sfondo morfologico di analogie e somiglianze. Gli assunti etico-spirituali di contrizione, rinuncia ed ascesi, di meditazione
e preghiera, formano un palinsesto di tracciati dalle molteplici tinte
e densità ma tutti centripeti verso la stilizzazione di una tipologia di
comportamento e di figure rispondenti alle sopracitate istanze celebrate da una pluralità di messaggi: cristiani, buddhisti e manichei.
Ma anche ebraici e islamici, se teniamo presente quale fu il ruolo
dei mistici musulmani, i sufi, nella propagazione di insegnamenti
improntati alla devozione, alla pietà e all’ascetismo, in una diffusione intercontinentale che dall’Oriente al Mediterraneo promosse la
circolazione e la popolarità di opere che rispondevano sia alla istruzione che al gusto, alla conoscenza dottrinale come all’estetica della
fruizione letteraria.
La valutazione dell’Islam non è solo d’obbligo per ricostruire la
trafila degli snodi testuali da oriente a occidente, come si diceva più
sopra, a riprova dell’egemonia della cultura musulmana come focus
di espansione della cultura antica trasmessa in età medievale. Ma è
altresì fondamentale sottolineare la tipologia dei sufi come maestri itineranti e portatori di una sapienza fatta di libri e di scrittura – visto
il rango dell’alfabetizzazione per la lettura coranica: quindi di inclinazione al lavoro scribale, alla produzione e compilazione di mano23
280
A. van Tongerloo, La leggenda di Barlaam e Josaphat, cit., p. 251.
Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
scritti, alla costruzione di biblioteche. La dimensione esistenziale della
peregrinazione missionaria ci aiuta a delineare una rete capillare di
percorsi e di passaggi di opere: in precedenza poteva essere il pellegrino buddhista, il missionario cristiano oppure manicheo – viandanti
dell’assoluto e suoi appassionati narratori nelle contrade dell’Asia
Centrale – la cui opera viene ora completata da nuove figure di eremiti, di santi e di asceti (oltre che eruditi, filosofi e scienziati) di un
Islam che dal VII secolo in poi, dalla Spagna al Turkestan, assimilò,
perpetuò, tradusse e rielaborò il sapere dell’epoca e del passato.
9. Chiostri e scriptoria: ricchezza, donazioni e opere di merito
La mia considerazione del valore culturale, oltre che confessionale,
di queste tipologie umane concorda – a mio parere – con alcune
valutazioni di Frosini24 sul ruolo culturale degli ordini mendicanti e
dell’ambiente domenicano nell’Italia medievale del Duecento e del
Trecento, epoca di una «civiltà di traduttori» che accolse e seppe diffondere opere che rispondevano al gusto per l’avventura oltre che ad
intenti pedagogici. In questo caso, il Barlaam e Josaphat, al pari del
Milione, poteva soddisfare l’interesse per l’avventura e per l’esotico,
nonostante il tono agiografico, spirituale e didascalico. Sia l’aspetto
stanziale dei due grandi luoghi conventuali di San Domenico (Genova) e di Santa Caterina (Pisa), sia la dimensione itinerante dei frati
predicatori e mendicanti, portatori di libri, di conoscenze e di abitudini scrittorie e linguistiche, rivelano interessanti somiglianze morfologiche con diverse e lontane geografie storico-culturali dell’Asia,
ugualmente caratterizzate in un duplice senso: claustrale-monastico e
itinerante-predicatorio.
L’una condizione e l’altra, sedentaria e mobile, rappresentano due
aspetti di un’unica tensione confessionale e missionaria, fatta di propagazione e di impulso: questo giustifica anche per le società orientali
quella cura per la traduzione, al punto che potremmo estendere la
definizione di «civiltà di traduttori» anche alle realtà comunitarie asiatiche e ai loro aneliti ecumenici di propagazione di messaggi universali,
diffusi in una pluralità di lingue e di scritture. Le vestigia dei grandi
complessi monastici di Turfan, nel Turkestan cinese (l’attuale Xin
Jiang), testimoniano ancora oggi la grandiosità d’intenti e di opere realizzati dal cristianesimo, dal buddhismo e dal manicheismo, nei luoghi
24
G. Frosini, Il principe e l’eremita. Sulla tradizione dei testi italiani della storia di «Barlaam
e Iosafas», in «Studi medievali», 37, 1, 1996, pp. 33-42; G. Frosini, Dinamiche della traduzione,
sistemi linguistici e interferenze culturali nei volgarizzamenti italiani della lingua d’oc della Storia
di Barlaam e Iosafas, in «Hagiographica», 10, 2003, pp. 219 ss.; G. Frosini, Fra donne, demoni
e papere, cit., pp. 33-34.
281
Andrea Piras
da cui provengono – non a caso – anche quei testi del ciclo del BJ
(e di altri affini al Pañcatantra, al Kalila e Dimnah, alla Vita Aesopii).
L’attività culturale dei monasteri promuoveva la copiatura di testi
utilizzati per varie occasioni (catechesi, adunanze festive o liturgiche)
e per generi come sermoni e omelie che intercalavano alla dottrina
apologhi e parabole, tratte da un repertorio quotidiano di narrazioni. Anche in questa modalità di produzione ed esecuzione del
testo possiamo cogliere un’analogia con quanto descritto da Frosini,
sui propositi di divulgazione ideologica e religiosa per la cultura
volgare del nostro Due-Trecento, realizzati con un uso sapiente dei
meccanismi della narrativa popolare e con un ben calcolato intento
di propaganda diretta al laicato, mediante le raccolte di agiografie
e di exempla che agevolavano il compito educativo dei predicatori.
L’ammonizione spirituale acquisiva così una vesta letteraria autonoma
e autorevole, diffondendo racconti esemplari e modelli di comportamento. Direi quindi che le mie osservazioni precedenti sulla diade
evangelizzazione-intrattenimento, come tipologia e dispositivo di esecuzione e rappresentazione del testo nelle società asiatiche, possono
servire a tracciare nessi e simmetrie fra due universi culturali lontani
(anche se riuniti nella sporadica e intermittente rete di contatti): ma
concordi nell’impiego della cultura letteraria come mezzo di edificazione, affidata all’attività dei copisti monastici come a quella di
predicatori itineranti, utilizzata con finalità di proselitismo e con un
allettamento del pubblico, in una varietà di luoghi (piazza, mercati,
fiere, corti e chiostri) e come vigile e persistente monito alle coscienze dei religiosi e dei laici.
Infine, non sarà inutile riannodare gli sparsi fili di quanto esaminato al tema di questo convegno su Boccaccio e sul mito al tempo
dei mercanti, proprio perché è davvero questa dimensione mercantile
a giustificare nuove esigenze, gusti e interessi di una società che prospera, si articola e si differenzia sull’onda di uno sviluppo economico
e di nuovi soggetti umani, i mercanti, che sono direttamente interessati alla letteratura e ne promuovono la diffusione, come infatti si
verificò nella Costantinopoli della prima redazione latina del Barlaam
e Josaphat25. E non solo al tempo di Boccaccio e nei luoghi cittadini
di delizie mondane che seducono il giovane figlio di Filippo Balducci:
anche nelle società dei regni orientali (come quello centroasiatico di
Qocho), nelle corti e nei monasteri che si costruiscono nelle vicinanze
di strade trafficate, lo spirito d’impresa e del commercio è ugualmen-
25
Cf. P. Chiesa, Ambiente e tradizioni nella prima redazione latina della leggenda di Barlaam
e Josaphat, cit., p. 543, per l’ambiente costantinopolitano del sec. XI, formato da una cerchia
di mercanti (italiani e amalfitani) che promuoveva traduzioni dal greco al latino per proprî
interessi culturali.
282
Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
te propulsivo di stili di vita, di abitudini, di prodotti culturali che
riflettono valenze di ottimismo, di liberalità e di patrocinio.
La ricchezza viene così messa in circolo ed elargita in gesti e
comportamenti di donazione, che servono ad ottenere «merito» -– un
concetto buddhista di tesaurizzazione morale che facilita esiti ultraterreni gloriosi – e che promuovono, grazie al mecenatismo, il lavoro
degli scriptoria, in cui si vergano e si miniano testi, per educare con
la scrittura e con l’immagine, offrendo in dono la propria fatica di
scriba e di illustratore-miniaturista, allo scopo di procurarsi il giusto merito, frutto di una oblazione di sè alla comunità dei fedeli,
arricchita dal lascito di sacri testi. La città, la reggia, il monastero,
il caravanserraglio, sono tutti luoghi di residenza e di transito, spazi
comunitari di molteplici professioni, al cui interno si sviluppano
occupazioni e cultura. E in questa situazione la cultura diviene veramente una forma artigianale della comunicazione, che crea e inventa
le sue narrazioni a partire dalla quotidianità dei mestieri – come ben
scrisse Walter Benjamin, con fine intuizione quanto mai attinente il
nostro oggetto di studio.
10. Epilogo: stime e rendiconti narrativi
Per avviarmi alle conclusioni mi servirò quindi di nomi eccelsi,
come quello di Benjamin e di Calvino. Quanto dice Calvino, nella
appendice26 alle sue cinque Lezioni americane, richiamandosi al saggio
di Benjamin sul ruolo del narratore nell’opera di Leskov, è infatti di
sorprendente pertinenza ai nostri fini: chi racconta storie è colui che
trasmette esperienze e che attinge a un patrimonio di memoria e di
conoscenza sul senso della vita, possa essere il lavoro del contadino,
i segreti dei mestieri dell’artigiano, l’esperienza dei viaggi di mercanti
e marinai. Calvino, citando Auerbach, si sofferma sulla novità del
Boccaccio e sull’immagine di una società ideale che fa da cornice alle
novelle del Decameron, in cui il mondo dei mercanti è presente: nelle
esperienze raccontate, nella morale pratica e spiccia, nelle arguzie27,
nelle abilità e nei sotterfugi messi in opera nella vitale società (e
nelle situazioni di rischio e di avverse fortune da scongiurare) che si
rispecchiano nella letteratura. E questo, aggiungo, vale non solo per
Boccaccio ma anche per le culture orientali, della sua epoca e prece-
26
I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori,
2002, pp. 145-149; il saggio sul narratore è in W. Benjamin, Schriften, 1955, trad. it. Angelus
Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 19822, pp. 256-266.
27
Per rimanere nel tema di questo fascicolo, teniamo sempre presente Hermes – dio dei
ladri, dei viandanti, del commercio, del linguaggio e della comunicazione – come un sigillo
mitico, e direi programmatico, di quanto è stato trattato e di possibili future investigazioni.
283
Andrea Piras
denti, già da tempo innervate nel medioevo europeo avido e curioso
di mirabilia e di ricchezze come quelle favoleggiate nel Milione.
Nella nuova società, che subentra alle istituzioni prettamente
feudali, la comunicazione delle storie raccontate avviene in un circuito simile a un mercato più che a un torneo, in un meccanismo di
scambio in cui ognuno ha qualcosa da dare e da prendere, e non è
più solo uno spettatore passivo del clangore di giostre, di cavalli e di
armi. In queste mutate condizioni sociali anche le modalità di produzione e narrazione dei testi vengono a cambiare: sono le astuzie della
pratica del commercio che si declinano nella capacità di raccontare
e nel sapere attrarre e sedurre il pubblico, con la scaltra retorica imbonitrice e magniloquente del venditore, che invita ad avvicinarsi al
banco delle mercanzie per valutarne e acquistarne i prodotti, esposti
e ostentati con la gestualità e l’eloquio suadente e ammaliatore di chi
promette mirabolanti ricchezze.
Questa capacità retorica e suasiva può accomunare il banditore,
il mercante, il predicatore e il missionario: tutti impegnati, ad ogni
modo, nel commercio di beni, tangibili e intangibili, oggetti pregiati
di censo sociale o segni di una preziosità che rimanda ai tesori della
parola28 e dello spirito, a gemme di incorruttibile virtù dell’anima.
Come quella perla – goccia di cangiante splendore e di purezza
– che molto spesso si incontra nei più avvincenti racconti della letteratura universale: dalla Parabola del foratore di perle29 – allegoria
dell’anima, del corpo e della pietà – alla incorruttibile perla vegliata
da un dragone malefico e riconquistata da un principe, figlio del Re
dei Re, in quella suggestiva fiaba gnostica di redenzione, nota come
Inno della Perla, incastonata nell’apocrifo neo-testamentario degli Atti
di Tommaso; sino al poema anglosassone Pearl, delicata elegia cortese
in cui il narratore-gioielliere che ha smarrito la sua perla incontra in
sogno una fanciulla-perla che lo guida alla rinascita spirituale e alla
salvezza della sua preziosa anima30.
Bibliografia essenziale
I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 2002.
A. Chraïbi, L’homme dans le puits et l’homme dans l’arbre, in «Journal Asiatique»
294, 1, 2006, pp. 81-89.
28
Ulteriori nessi tra «parola» e «ricchezza» sono, infatti, impliciti nel vocabolo thesaurus
come scrigno lessicale. Ricordo che nell’ebraismo la Genizah (tesoreria) è il deposito delle sacre
scritture; nel mandeismo Ginza (tesoro) è il titolo di un testo sacro; nel manicheismo il Tesoro
(Tesoro di Vita, Tesoro dei Viventi) è una delle opere attribuite al fondatore.
29
E. Provasi, Testi medio-iranici III: Parabole, cit., pp. 118-120.
30
E. Giaccherini, Perla, Parma, Pratiche, 1989.
284
Echi di una novella buddhista nel Boccaccio
F. de Blois, Burzōy’s Voyage to India and the Origin of the Book of Kal^lah wa
Dimnah, London, Royal Asiatic Society, 1990.
F. de Blois, On the sources of the Barlaam Romance, or How the Buddha became a
Christian saint, in Literarische Stoffe und ihre Gestaltung in mitteliranischer
Zeit, Kolloquium anlässlich des 70. Geburtstages von Werner Sundermann,
a cura di Desmond Durkin-Meisterernst et al., Wiesbaden, Harrassowitz,
2009, pp. 7-26.
D. Gimaret, Le livre de Bilawhar et Budasf selon la version arabe ismaélienne,
Genève-Paris, École Pratique des Hautes Études, 1971.
Ibn al-Muqaffa‘, Le livre de Kalila et Dimna, a cura di A. Miquel, Paris, Klincksieck,
1980.
Pañcatantra, a cura di G. Bechis, Milano, Guanda, 1983.
E. Provasi, Testi medio-iranici III: Parabole, in Il Manicheismo, vol. III. Il mito e la
dottrina. Testi manichei dell’Asia Centrale e della Cina, a cura di G. Gnoli,
con l’assistenza di A. Piras, Milano, Mondadori, 2008, pp. 111-157.
G. Scarcia, Storia di Josaphat senza Barlaam, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998.
F. Tagliatesta, Les représentations iconographiques du IVe apologue de la légende de
Barlaam et Josaphat dans le Moyen Âge italien, in «Arts Asiatiques», 64,
2009, pp. 3-26.
M. Tardieu, Les livres de paraboles: nouveaux matériaux pour l’étude du «roman de
Barlaam» (recension d’Ibn Bā¯būya), in «Annuaire du Collège de France», 100,
1999-2000, pp. 547-560.
A. van Tongerloo, La leggenda di Barlaam e Josaphat, in Il Manicheismo, vol. III,
cit., pp. 244-257.
Abstract: Merchandise Stories. Echoes of a Buddhist Tale in Boccaccio
Boccaccio’s Decamerone shows an interesting case of employ of a literary piece
belonging to the narrative cycle of Barlaam and Josaphat, a didactic and admonitory
corpus with ethical and religious tenets, broadly spread around the european Middle
Age. The literary history of such a romance goes far from its christian shaping and
varnish, being in origin a buddhist story involved in a knotty textual circulation,
together with other tales which have been diffused from India to ancient Persia,
and through the Islamic world until Byzance and onwards.
Keywords: Merchants, Religion, Buddhism, Islam, Byzance
Andrea Piras, Università degli Studi di Bologna, andrea.piras2@unibo.it
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