Il Pesce Volante
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In copertina: Burgess Meredith in «Tempo di leggere», episodio della serie Ai confini della
realtà (1959).
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Prima edizione
ISBN 88--7180-406-6
Diego Del Pozzo
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Cinquant’anni di telefilm americani
prefazione di
Franco La Polla
Ringraziamenti
Sento la necessità di fare alcuni ringraziamenti. A Mino Argentieri (maestro, non soltanto di cinema), Franco La Polla (imprescindibile modello critico); e poi, Simone
Arcagni, Ciro Ascione, il mio amico Claudio Bovino (esploratore instancabile di nuovi
mondi), Valerio Caprara, Alberto Castellano, Biagio Coscia (per il contributo «musicale»), Leo Damerini e l’ufficio stampa Mediaset, Francesco de Core, Raffaele De Fazio e
Dino De Matteo dell’Infinity Shop, Goffredo Fofi, Pasquale Iaccio, Roy Menarini, Ezio
Quarantelli e tutta la redazione Lindau, Romolo Runcini, Angelo Salvatori, Nunziante
Valoroso, lo staff di Vera Comunicazione (www.veracomunicazione.it), Alessandro
Zaccuri; e ancora, i miei cari amici Pippo Cascone, Enzo Esposito ed Elvina Russo (per
il sostegno continuo) e mio fratello Marco (per la grande «pazienza»).
Un ringraziamento speciale alla mia Ida, compagna di vita e di visioni, per i preziosi
suggerimenti, per il contributo al paragrafo su X-Files e per tante altre cose ancora.
Ringrazio, infine, i miei genitori Antonio e Maria, ai quali questo libro è dedicato.
Di cuore, a tutti.
Diego Del Pozzo
Napoli, ottobre 2001
Prefazione
di Franco La Polla
Caro Diego,
con la tua usuale delicatezza mi hai chiesto una prefazione al tuo studio sulle
serie tv americane (telefilm, se preferisci). Per di più, mi indichi come un «riferimento imprescindibile» in questo tipo di ricerche. Come faccio a dirti di no?
Lasciami allora scegliere almeno la forma (il formato?) di queste righe introduttive: che è epistolare.
Non so, mi sembra più adeguato a un rapporto affettuoso, amichevole, confidente. Quasi che esse rimangano solo fra noi. So bene che non è così, ma resta la
sensazione di uno spazio che almeno in minima parte si configura come privato.
Ti ho già detto a suo tempo che la qualifica di telefilm fantastico mi sembra
mal si adatti al tuo testo nella sua interezza e che, nella seconda metà, tu affronti prodotti di altro tipo e natura (non necessariamente spin off di opere originariamente di fantasia). Credo che questo non dipenda da imprecisione o malintesi, ma da una tua dedizione assoluta al vastissimo ambito della narrazione
televisiva americana. Come certi critici cinematografici pionieristici di tanto
tempo fa, i quali accostavano fra loro prodotti non sempre di facile omologazione perché, in fin dei conti, essi rispondevano a un loro bisogno di conoscenza e
di studio. Per di più, il tuo taglio – sul quale concordo completamente – è di
carattere culturale, nel senso che ciò che ti ha mosso è l’intenzione di collegare
questi prodotti a una società e al suo immaginario. Ma l’immaginario di una
società non si misura mica soltanto su uno specifico genere (tele)filmico. E dunque, ecco che tutto quel che poteva aiutarti a chiarire sempre più i contorni e i
contenuti del referente primario di quelle opere diventava ben accetto, utile,
degno di curiosità e di studio. Per la stessa ragione, la non molta critica che se
n’è occupata l’hai accolta con entusiasmo, persino quando qualcuno (come il
pur bravo Omar Calabrese) faceva di ogni erba un fascio: so benissimo che tu,
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
come me, non definiresti mai «identici» Star Trek e Galactica. Ma i problemi
sono altrove, e di ben più ampia portata.
Il problema maggiore è lo statuto culturale del telefilm (come vedi adotto
anch’io, ancorché con riluttanza, la tua dizione). Tu non sei certo il tipo da scrivere approfonditamente su un argomento che disprezzi (c’è chi l’ha fatto), e nemmeno sei il tipo da difendere un prodotto della cultura mass-mediologica a scapito della cultura che ha tenuto banco per qualche millennio (c’è chi ha fatto e fa
anche questo).
Il punto è che occorrono sempre più seri studi che mostrino una semplice
verità, verso la quale sento correnti di antipatia arrivare da destra e da sinistra:
che la cultura mass-mediologica del telefilm non è poi tanto diversa dalla grande
cultura popolare del secolo XIX; che fra un bell’episodio di Star Trek e un’opera
lirica ottocentesca non ci sono affatto enormi differenze di sollecitazione dell’immaginario popolare. Si tratta di generi e mezzi molto diversi, certo, e se è per questo popolarizzati in termini che non possono sostenere una comparazione. Ma
l’effetto su sentimenti, speranze, conoscenze, sul modo generale di concepire il
mondo non è affatto così diverso come i parrucconi vogliono far credere.
Ma pensa, Balzac non era forse un grande romanziere popolare? E Dickens
non era altrettanto? Perché bisogna sempre parlare di Sue o di Mastriani o della
Invernizio, per poter pensare a un pubblico di lettori di non particolare raffinatezza? Ti risponderanno: ma quegli altri erano autori leggibili a più livelli. Tali
cioè da soddisfare un lettore colto e intellettuale così come un altro infinitamente
meno attrezzato. Giusto. Vale anche per Shakespeare. E io credo valga anche per
una buona serie tv. Tu dici e dimostri chiaramente che la prima serie di Rod
Serling, nei suoi prodotti migliori, era così. E secondo me hai ragione. Allo scadere degli anni ’50 (un’epoca quasi preistorica in termini televisivi) la serie The
Twilight Zone civettò non poco con riferimenti, allusioni, citazioni connessi alla
Cultura letteraria, ponendosi le stesse domande metafisiche che ritroviamo nei
grandi autori di ogni tempo e latitudine, Shakespeare compreso. È importante
chiarire che non si tratta qui di piccole lacerazioni high brow nel tessuto di testi
decisamente low o middle. Se è infatti vero che non basta un titolo azzeccato per
fare alta cultura, è altrettanto vero che interrogarsi, poniamo, sulla natura umana
non è unico appannaggio di Shakespeare, Balzac o Dickens. Naturalmente la
bontà dell’operazione non si giudica semplicemente dalla risposta. Se una cosa la
Letteratura ci ha insegnato è che, per parafrasare il von Hofmannsthal di Il cavaliere della rosa, «nel come, nel come sta la differenza».
E quale «come» ha da offrire una serie televisiva? Che cosa, all’interno di
un programma costretto nei limiti di un preciso formato e con vincoli dovuti a
sponsorizzazioni pubblicitarie o peggio, potrà dirci anche solo formalmente di
PREFAZIONE
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ciò che siamo o potremmo essere o non saremo mai? Un episodio di quella serie
da te non citato, «Canto il corpo elettrico» (facciamo notare ai parrucconi, per
quel che serve, che si tratta di una citazione da Walt Whitman), fa venire i brividi per la profondità del sentire, non diversa, del resto, da quella di un altro
episodio che invece citi, «Solitudine».
Naturalmente i brividi vengono a chi li sente. Ma possiamo consolarci: sappiamo bene che, durante la Restaurazione, Shakespeare non veniva tenuto in
gran considerazione e che gli si preferivano John Dryden e figure anche minori
di questi. Ecco, basta una frase come questa per prestare il fianco ai raffinati
intellettuali che si vantano di non avere nemmeno un televisore in casa propria.
Come se parlare di valore significasse necessariamente e sempre, implacabilmente, lo stesso grado di valore. Come se affermare che un certo telefilm è culturalmente serio e profondo comportasse illico et immediate una equiparazione alla grandezza di Shakespeare.
No, il punto è un altro. Il punto è che purtroppo la televisione, americana o no,
ci versa addosso, da decenni, vagonate di letame e che, come sempre accade in questi casi, ne fanno le spese anche le non molte cose che meriterebbero attenzione,
rispetto, studio, ammirazione.
Lo so, tu lo dici nel tuo libro: anche i telefilm brutti sono interessanti,
anch’essi hanno molto da dirci sulla società che li produce e li consuma. E
anche questo è vero. Anzi, il tuo studio parla prima di tutto di questo. Perciò
io qui mi soffermo in un angolo più in ombra, quello del valore, della bellezza,
dell’emozione. Che anche il piccolo schermo può dare. E non parlo dell’indulgenza che anche persone di provata cultura sfoderano davanti a infinite soap
opera, avvinte da una curiosità che con la bellezza non ha nulla a che vedere,
ma che piuttosto solletica il loro versante narratologico (decostruzionista o
meno che sia), e dunque in ultima istanza la loro sofisticatezza teorica e formale. Questo, sia chiaro, va benissimo. Ma io parlo del tempo, ormai più che
maturo, in cui la televisione prenderà il suo posto fra le grandi, importanti
forze e forme della narrativa popolare (intesa non alla Invernizio, ma alla
Balzac). Ha già occasionalmente dimostrato di saperlo fare, perché non potrebbe farlo regolarmente?
Il mio discorso, lo so bene, è tutto sommato astratto: ci vuole una centrale
di intelligenza per sfornare intelligenza, laddove chi trova più conveniente –
economicamente, ideologicamente, politicamente ecc. – produrre letame, be’, va
da sé che continuerà a produrre letame.
È davvero un peccato, perché mai come oggi il piccolo schermo ci ha fornito e ci sta fornendo materiale utilissimo per capire. In America, almeno, sembrano pensarla diversamente. È di soli tre anni fa un testo critico non poco
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interessante di Sherrie A. Innes, intitolato Tough Girls, che studia la presenza femminile nei canali mass-mediologici e che concede spazio a cose come
Charlie’s Angels, The Bionic Woman, Xena ecc. È vero che laggiù buttano
spesso tutto nell’ormai ammuffito ripostiglio dei gender studies (che, chissà
perché, continuano a contrabbandare come cultural studies), ma è anche vero
che un occhio intelligente può ritrovare, in tale continua e caratterizzata presenza, formidabili connessioni con i cambiamenti sociali e sociologici che da
tanto tempo si stanno susseguendo a una velocità così vertiginosa da farci
dubitare sulla nostra capacità di stare al passo – anche solo in linea teorica –
con i tempi. E che dire dell’insorgenza, ormai annosa, di serie che contaminano l’ecologia con la fantasy (ad esempio, The Beastmaster)? Ormai il mondo
dell’immaginario telefilmico si è articolato in modi talmente ramificati e poliedrici che probabilmente non basterebbe l’impegno che la critica cinematografica odierna, vecchia e giovane, profonde nei confronti dei prodotti hollywoodiani destinati al grande schermo (in realtà e in ultima analisi, come sappiamo, al
piccolo schermo) per metterci in condizione di fare un po’ di chiarezza.
Tu stai tentando, insieme a pochi altri, nei quali però non sempre colgo il
necessario spirito critico, ma piuttosto la simpatica esaltazione che tutti proviamo – magari in un’età nella quale la critica non sapevamo nemmeno che cosa
fosse – davanti a qualcosa che ha fatto parte dei nostri primi passi nel mondo
dell’immaginario narrativo. Ma stai molto attento: forse presto, un giorno,
potresti ritrovarti a essere un «imprescindibile riferimento»…
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Introduzione
Azione pura quasi scarnificata, ritmi che non lasciano riprendere fiato,
narrazione frazionata in episodi conseguenti tra loro o chiusi ciascuno in
sé, abilità nel rendere sempre imperdibile il successivo appuntamento:
sono queste le caratteristiche principali dei telefilm, i prodotti di fiction
seriale catodica capaci – più e meglio degli altri tipi di show televisivi – di
avvincere gli spettatori e trattenerli davanti al piccolo schermo, riuscendo
a entrare addirittura nel ciclo stesso delle loro (nostre) esistenze quotidiane (potere della serialità!).
I telefilm più amati e conosciuti, quelli dalla qualità media più elevata produttivamente e artisticamente, arrivano senza dubbio dagli
Stati Uniti; e, dagli anni ’50 a oggi, hanno conquistato i palinsesti televisivi di tutto il mondo, proiettando i valori dell’american way of life nelle
coscienze di miliardi di uomini e donne, in modo ben più insinuante ed
efficace di quanto non sia riuscito a fare il cinema hollywoodiano.
E proprio il telefilm si propone come lo specchio migliore nel quale
gli americani riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e
attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario nazionale. Serie televisive «commerciali» come, per esempio, Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959), Star Trek (id., 1966), XFiles (The X-Files, 1993) o Buffy (Buffy - The Vampire Slayer, 1997) dicono
molto di più – e lo dicono in modo più chiaro – sui tanti volti del «modo
di vita americano» e sul suo inevitabile lato oscuro, rispetto a presuntuose ricognizioni «d’autore» e a seriosi trattati. Probabilmente, poi, è
proprio il genere fantastico – in un format tipicamente postmoderno
com’è il telefilm (caratterizzato dal pastiche e dalla contaminazione) – a
saper metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
irrazionali, che attraversano la società americana nella seconda metà del
XX secolo. «A un certo punto della storia del ’900 – scrive Gianni
Canova, all’inizio di un suo bel libro – la cultura occidentale scopre con
disagio che i vecchi capisaldi del progetto moderno (la razionalità, la funzionalità, l’efficienza) funzionano male, che rischiano il blackout, che non
riescono più non solo a rappresentare il mondo e dargli una forma tendenzialmente organica, ma neppure a comprenderlo e a capirlo» 1.
Perciò, il fantastico diventa la chiave interpretativa più adatta per la
comprensione di un mondo frammentato, inefficiente, irrazionale e non
decodificabile altrimenti.
Tra l’altro, nella fiction seriale americana, germi fantastici sbocciano
anche dove meno ci aspetterebbe, come vedremo in più di un capitolo:
per esempio, in sit-com come Lucy ed io (I love Lucy, 1951), in un celebre
episodio, nel quale Lucy incontra Superman; e Happy Days (id., 1974),
con l’alieno Mork che arriva sulla Terra per rapire Richie e, poi, diventa protagonista di un nuovo show tutto per sé, Mork e Mindy (Mork &
Mindy, 1978); oppure in avventurosi iperpatinati come Baywatch (id.,
1989), che «partorisce» la fanta-serie gemella Baywatch Nights (id., 1995).
Naturalmente, generi «forti» come il poliziesco privilegiano – ancor di
più in televisione, va detto – un realismo quasi esasperato; anche se un
fanta-horror di successo come X-Files presenta tutti gli elementi fondamentali del thriller investigativo, fin dalla coppia mista di detective.
Coerentemente, quindi, anche nel libro la divisione dei capitoli per
generi propone diverse eccezioni e alcuni scavalcamenti di confini
comunque incerti: uno per tutti è l’inserimento di I segreti di Twin Peaks
(Twin Peaks, 1990) nella sezione dedicata alle serie «familiari» delle quali
è un’agghiacciante rilettura «in negativo».
Qualche altra avvertenza. L’unica categoria di fiction seriale americana che non ho affrontato è quella delle soap opera, che se da un lato
portano alle estreme conseguenze le leggi proprie della serialità, dall’altro propongono una staticità e modi di narrazione differenti che rimandano a uno specifico a parte. Dopo un breve capitolo teorico iniziale, poi,
nel quale accenno alle varie «forme» di serialità e alle diverse tipologie
di telefilm, ho preferito non seguire la distinzione «purista» tra serie (con
episodi autoconclusivi e personaggi e situazioni sempre uguali a se stessi) e serial (con evoluzione costante e trame continuative), considerando
i due termini come sinonimi: sia per evitare inutili ripetizioni nel corso
del libro sia perché, in fin dei conti, tutti i telefilm godono di una propria
continuity interna e – nel ferreo rispetto della «legge» fondamentale delle
INTRODUZIONE
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narrazioni popolari («Tutto cambia affinché nulla cambi realmente») – di
un’apparente evoluzione senza sosta di trame e personaggi.
I telefilm americani dopo l’11 settembre
Proprio mentre sto per completare il capitolo dedicato a X-Files e ai
telefilm fanta-horror degli anni ’90, si verifica un fatto che sembra uscito dalla fantasia del più ingegnoso creatore di fiction 2. È martedì 11 settembre 2001: gli Stati Uniti sono sconvolti dall’attentato al World Trade
Center di New York e al Pentagono di Washington, le Twin Towers crollano su se stesse modificando per sempre lo «skyline» di Manhattan, i
morti sono migliaia, molti pensano che la storia del mondo stia per
cambiare.
Negli Stati Uniti le ripercussioni si fanno sentire anche sull’industria
dello spettacolo: contemporaneamente al moltiplicarsi di iniziative
benefiche a sostegno delle vittime e delle loro famiglie, infatti, i film che
parlano di terrorismo sono rinviati a tempi migliori, alcuni sono rimontati con l’eliminazione di sequenze che potrebbero offendere la sensibilità del pubblico ed entrano in produzione diversi progetti cinematografici che – a supporto della reazione militare statunitense in Afghanistan
– trasudano patriottismo da tutti i pori.
In ambito televisivo, per la prima volta nella loro storia, gli Emmy
Awards (gli Oscar del piccolo schermo), in programma la domenica
successiva al disastro, sono rinviati di oltre un mese in segno di lutto.
Tra le migliaia di vittime della catastrofe c’è anche un celebre autore di
sit-com: David Angell, co-creatore e sceneggiatore di serie amatissime
dagli americani come Cheers (Cin Cin, 1982), Wings (id., 1990) e Frasier
(id., 1993). Angell e la moglie erano in volo su uno dei due aerei schiantatisi sulle Torri gemelle di New York: si recavano a Los Angeles proprio per la cerimonia degli Emmy, dove Frasier aveva – come quasi ogni
anno, d’altra parte – parecchie nomination.
Anche la televisione americana si adegua al momento critico e cancella o rinvia film e telefilm giudicati «di cattivo gusto». In particolare, i
network rimandano la partenza di tre attese nuove serie che, in un modo
o nell’altro, sarebbero potute risultare inopportune per una platea che ha
appena conosciuto – ma per davvero! – gli orrori che di lì a qualche giorno avrebbero riempito il piccolo schermo. Così, la CBS rinvia l’inizio di
The Agency, serie prodotta da Wolfgang Petersen e dedicata alle avven-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
ture d’un gruppo di agenti della CIA: nell’episodio pilota, infatti, è
mostrato un tentativo del Governo di sventare un atto terroristico, mentre in una successiva puntata viene fatto un chiaro riferimento – immediatamente eliminato in un nuovo montaggio – all’inafferrabilità del terrorista Osama bin Laden. La Fox si comporta allo stesso modo nei confronti di 24, serratissimo telefilm d’azione creato da Robert Cochran e
interpretato da Kiefer Sutherland nel ruolo dell’agente governativo Jack
Bauer che, in sole 24 ore (da mezzanotte a mezzanotte: con ogni episodio a coprire un’ora esatta di trama), deve impedire che un terrorista
uccida un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. La ABC, da parte
sua, rimette mano alle date di lancio di quello che sarà, poi, il grande
successo della sua stagione 2002: la deliziosa «thriller comedy» spionistica Alias, ideata da J.J. Abrams e imperniata sulle gesta di Sidney
Bristow, un’avvenente studentessa di college reclutata dalla CIA come
agente segreto (la interpreta Jennifer Garner, che diventa una diva proprio con questa serie).
Ai vertici dei principali network televisivi ricominciano a circolare
con sempre maggiore frequenza termini come «censura» e «autocensura», applicati a quei prodotti di fiction che più direttamente potrebbero
urtare la sensibilità d’una platea ancora sotto shock. A tale proposito,
sono indicative alcune dichiarazioni di John Wells, produttore esecutivo
del notissimo «medical drama» E.R. - Medici in prima linea (E.R., 1994).
«Per tutti noi che lavoriamo nel business televisivo delle serie drammatiche, l’attacco ha provocato molti cambiamenti. Dovremo autoimporci
restrizioni nel creare violenza anche sullo schermo; e prodotti come E.R.
saranno meno facili da proporre ai network. D’altra parte, la NBC ha
espresso già in passato non poche perplessità su questo tipo di produzioni che, come sappiamo, sono piene di sangue e di procedure chirurgiche d’emergenza.» 3
Ma, dopo un primo periodo di shock e spaesamento collettivo, l’industria televisiva della fiction seriale riesce a elaborare il lutto nazionale
molto meglio di quanto non sappia fare il cinema hollywoodiano. Così, i
creatori di fiction più sensibili iniziano a dire la loro sull’attacco dell’11 settembre, che diventa imprescindibile elemento drammaturgico di alcune
tra le proposte più belle viste, in anni recenti, sui network statunitensi. Lo
stesso John Wells di E.R., per esempio, scrive uno struggente episodio triplo della serie Squadra emergenza (Third Watch, 1999), altra sua creazione
(in collaborazione con Edward Allen Bernero). La puntata speciale – trasmessa dalla NBC in tre parti, il 15, 22 e 29 ottobre 2001, con i titoli «In
INTRODUZIONE
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Their Own Words» (un’ora di reportage con testimonianze reali della tragedia newyorkese), «September Tenth» e «After Time» (i due veri e propri
episodi di fiction) 4 – si lascia apprezzare per l’estrema sobrietà e compostezza mostrate nell’affrontare l’argomento, senza mai calcare i toni o tentare di spettacolarizzare la narrazione. Sotto l’obiettivo degli autori, infatti, finiscono – coerentemente con lo spirito della serie – anzitutto le tormentate quotidianità dei protagonisti: pompieri, paramedici e poliziotti di
New York, impegnatissimi – al pari di tanti loro concittadini – a conciliare i piccoli e grandi eroismi quotidiani tipici dei loro mestieri con qualcosa che va oltre la loro stessa comprensione. La trama prende il via alle
21,15 del 10 settembre, in una calda sera di fine estate apparentemente
simile a tante altre: il turno di notte – il «Third Watch» del titolo originale
– procede normalmente, tra una richiesta d’aiuto, un falso allarme e le lunghe attese dell’alba. Durante le interminabili ore notturne i tanti personaggi principali – è una serie corale – cercano di fare i conti anche con i
propri «demoni» interiori: così i poliziotti John «Sully» Sullivan (Skipp
Sudduth), Ty Davis (Coby Bell), Faith Yokas (Molly Price) e Maurice
«Bosco» Boscorelli (Jason Wiles); i paramedici Monte «Doc» Parker
(Michael Beach), Carlos Nieto (Anthony Ruivivar), Bobby Caffey (Bobby
Cannavale) e Kim Zambrano (Kim Raver); i pompieri Jimmy Doherty
(Eddie Cibrian) e Alex Taylor 5 (Amy Carlson). Il disastro del World Trade
Center resta opportunamente «fuori campo» e viene raccontato soltanto
attraverso i volti di coloro che attraversano la metropoli in una mattina
che credevano normale. Dopo una lenta dissolvenza in nero, la narrazione riprende il 21 settembre: i protagonisti hanno visto l’inferno dritto negli
occhi, hanno conosciuto la perdita e il lutto, ma anche la commovente riconoscenza d’una comunità grata ai suoi «eroi» quotidiani (è davvero struggente il momento della fiaccolata con la quale l’intero quartiere saluta,
all’esterno della caserma, il recupero del corpo di un pompiere morto a
«Ground Zero» 6). Al termine d’un episodio che, probabilmente, resterà
nella storia della televisione statunitense, echeggiano nelle orecchie le
parole – agghiaccianti nella loro semplicità – di un dialogo tra due protagonisti di Squadra emergenza: «Credi che un giorno tornerà tutto normale?», «Normale come?», «Com’era prima», «No».
Nei mesi successivi, poi, diverse altre serie televisive «realistiche» dedicano ampio spazio agli eventi del 11 settembre e alla nuova fobia statunitense per il terrorismo: da The West Wing (1999) – creata da Aaron Sorkin,
ambientata alla Casa Bianca e interpretata da Martin Sheen e Stockard
Channing, nei panni rispettivamente del presidente democratico Josiah
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Bartlet e di sua moglie Abby – alle «storiche» E.R. e NYPD - New York Police
Department (N.Y.P.D. Blue, 1993: senz’altro la più famosa tra quelle ambientate nella «Grande Mela»).
E ci sono evidenti riferimenti al terrorismo – nonché a possibili
deviazioni di apparati governativi occulti! – anche in una tra le serie fantastiche più spettacolari e avvincenti lanciate durante la stagione televisiva «post 11 settembre»: Mutant X, creata dal celebre fumettista
Howard Chaykin, con Adam Haight, Jay Firestone, Rick Ungar e Avi
Arad come produttori esecutivi. Nei primi due episodi – «The Shock of
the New» e «I Sing the Body Electric», andati in onda il 6 e il 13 ottobre
2001 e sceneggiati direttamente da Chaykin – viene inquadrato il contesto ambientale della serie e si fa la conoscenza con i personaggi principali: Jesse Kilmartin (Forbes March), Shalimar Fox (Victoria Pratt), il
misterioso Adam (John Shea), Emma DeLauro (Lauren Lee Smith),
Brennan Mulwray (Victor Webster); tutti mutanti (dotati di poteri più
che umani, di natura genetica) riuniti nel gruppo noto come «Mutant X».
Fin dalla prima puntata, il loro antagonista – responsabile di un segretissimo progetto governativo per la creazione di «nuovi mutanti», da
utilizzare a scopo militare – è il terribile Mason Grey Eckhart (Tom
McCamus). In Mutant X, temi importanti – ancora di più, dopo l’attentato alle Twin Towers e la reazione statunitense in Afghanistan – come la
diffidenza/intolleranza nei confronti del diverso e l’importanza di «fare
gruppo» per superare difficoltà apparentemente insormontabili sono
ben trasfigurati in una serie che sa far proprie alcune tra le suggestioni
narrative più coinvolgenti del popolarissimo serial fumettistico Marvel
degli X-Men (e, in ciò, conta molto la formazione dell’ideatore Howard
Chaykin). Senza, per questo, rinunciare all’indispensabile rispecchiamento tra la realtà circostante e la sua rilettura, grazie alla «lente deformante» del genere fantastico.
Insomma, anche nel momento tanto delicato del «dopo 11 settembre», le serie televisive si confermano sensibilissimi «termometri» attraverso i quali misurare gli «sbalzi» sempre più imprevedibili della «temperatura mentale» della società statunitense. E, conseguentemente, di
quella occidentale.
Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano 2000, pp. 6-7.
Un’espressione ricorrente, nei giorni immediatamente successivi al crollo
delle Twin Towers, era la seguente: «La realtà ha superato la fantasia». Al di là
1
2
INTRODUZIONE
19
di ogni forma retorica, ancor più dannosa in simili momenti, sappiamo bene
come – per fortuna! – la cosa non sia affatto vera.
3
Dichiarazioni pubblicate dal quotidiano «Denver Post» il 29 ottobre 2001.
4
In Italia, gli episodi speciali sono trasmessi da Italia Uno in un’unica serata,
col titolo complessivo «11 settembre».
5
Personaggio che, a otto mesi dalla tragedia, ritrova il corpo del padre scomparso sotto le macerie, nell’episodio «Two Hundred and Thirty-Three Days»
– con riferimento ai giorni trascorsi dall’11 settembre – andato in onda il 6
maggio 2002.
6
Dopo il disastro, è chiamata così l’area dove sorgevano le Twin Towers.
PARTE PRIMA
TEORIE E STORIE
Qualche appunto di teoria
Serialità e televisione
La serialità è diventata, sempre di più negli ultimi anni, la categoria
dominante nell’universo delle immagini in movimento, tra cinema, televisione, Internet, videogames, DVD e nuove tecnologie. Ed è assolutamente legittimo sostenere – come fa con acutezza Roy Menarini, nel saggio introduttivo di un bel dossier sul tema pubblicato dalla rivista
«Segnocinema» – che proprio questa sembra essere «l’unica struttura in
grado di fronteggiare la frantumazione delle opere e la loro sopravvivenza all’interno di media sempre diversi, assumendo magari connotazioni non dissimili a quelle di genere» 1.
Ma è altrettanto vero che la televisione – attraversata, per sua stessa
natura, da flussi ininterrotti di immagini ciclicamente (ri)proposte –
resta il luogo privilegiato in cui la serialità si dispiega, quello ideale per
tutto ciò che non può e non deve avere mai fine. E, all’interno di questo
medium, proprio il genere fiction è il più adatto al pieno manifestarsi
delle caratteristiche della «Serial TV».
Negli Stati Uniti, la fiction televisiva è fortemente connotata in senso
seriale fin dagli anni ’50, quando assume come suoi modelli di riferimento i radiodrammi a puntate, i racconti dei pulp magazines (a fumetti e
non) e i serial cinematografici di serie B. In Italia, invece, la TV dei primi
decenni guarda in altre direzioni per allestire i propri teleromanzi, preferendo proporre testi narrativi unici e ben riconoscibili, spesso di derivazione teatrale o letteraria: è la tradizione del classico sceneggiato «all’italiana». Il passaggio da questo tipo di prodotti di fiction a quelli seriali –
come hanno sottolineato quasi tutti gli studiosi del fenomeno (e basti qui
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
un esempio illuminante come quello di Gian Paolo Caprettini 2) – va considerato come uno tra gli elementi decisivi nel passaggio dalla cosiddetta «veterotelevisione» alla «neotelevisione» 3.
Un momento centrale in tale processo è rappresentato dalla trasmissione italiana di uno storico serial americano come Dallas (id., 1978). Il racconto delle vicissitudini della famiglia Ewing viene mandato in onda per
la prima volta dalla RAI, nel febbraio del 1981, come un qualsiasi sceneggiato televisivo nostrano: senza rispettarne la cronologia e rimontando
insieme più puntate originali, secondo logiche tipiche della «veterotelevisione» che stanno iniziando a perdere efficacia. Il fallimento è clamoroso e
lo diventa ancora di più quando l’emittente privata Canale 5 ricompra i
diritti del programma per trasmetterlo secondo la sequenza e la scansione
originaria, in prima serata, due volte la settimana a partire da settembre:
proprio l’enorme successo di Dallas su Canale 5 rappresenta un importante punto di svolta per il decollo dell’emittenza televisiva privata in Italia.
Anzi, nella prima metà degli anni ’80, la trasmissione da parte dei neonati network privati italiani di un cospicuo numero di telefilm americani
dalla forte impronta seriale – elemento di opposizione «ideologica» dichiarata rispetto agli sceneggiati RAI – contribuisce a cementare il rapporto di
frequenza quotidiana tra questi nuovi canali e gli spettatori. Tra il 1980 e il
1983 arrivano sui teleschermi italiani (ormai anche sulle reti RAI, però)
tantissimi prodotti televisivi americani 4, telefilm «in cui le singole puntate
si vanno ad agganciare l’una all’altra in una successione ininterrotta, senza
che si possano stabilire né criteri di unicità e riconoscibilità del singolo
testo né inizi e conclusioni definitivi. […] Questi programmi tornano tutti
i giorni alla stessa ora e all’interno di una stessa sequenza, seguendo i ritmi
della giornata e determinando una conseguente ritualità» 5. Anche in Italia
si realizza, dunque, quanto verificatosi negli Stati Uniti della seconda metà
degli anni ’50, con il passaggio dalla TV in diretta realizzata a New York ai
telefilm hollywoodiani preregistrati: la serialità conquista i teleschermi e la
TV si avvicina ai ritmi della vita quotidiana, ritualmente li «mima», vi si
adatta e li adatta a sé e ai suoi programmi.
Serie e serial
La fiction televisiva di derivazione statunitense – quella dalla qualità media più elevata e che esercita il richiamo più forte sull’immaginario collettivo mondiale – assume la serialità come suo elemento fon-
QUALCHE APPUNTO DI TEORIA
25
dante. Tradizionalmente è possibile distinguere questi telefilm in due
categorie: serie e serial.
La serie può coincidere con il telefilm «classico» – un esempio calzante è quello di Colombo (Columbo, 1968-1971) – e si basa sulla ripetizione di
una struttura narrativa sempre uguale nei vari episodi, con personaggi
fissi e con poche varianti a giustificare la distinzione tra una puntata e l’altra; le vicende terminano con i titoli di coda e i personaggi sono sempre
uguali a se stessi. Il serial, invece, «è articolato in puntate conseguenti
l’una dall’altra, in una struttura completamente aperta, senza confini» 6,
con numerosi fili narrativi che s’intrecciano e i vari personaggi in continua evoluzione. A proposito dell’inadeguatezza di una divisione troppo
rigida e schematica tra serie e serial, però, risulta ancora decisiva la
«postilla teorica» di Umberto Eco, secondo cui questa seconda categoria
«è sempre una serie mascherata. In essa, a differenza della serie, i personaggi cambiano (cambiano in quanto si sostituiscono gli uni agli altri e in
quanto invecchiano): ma in realtà essa ripete, in forma storicizzata, celebrando in apparenza il consumo del tempo, la stessa storia, e rivela all’analisi una fondamentale astoricità e atemporalità» 7. Il discorso, ovviamente, può essere pure rovesciato, a dimostrazione di quanto siano affini
(e spesso indistinguibili) tra loro le due tipologie. Un ottimo esempio, tra
i tantissimi possibili, è offerto da un recente telefilm americano di grande
successo: Buffy. La giovane protagonista – una studentessa che, nottetempo, difende il mondo dalle forze del male – viene inserita dal creatore
della serie, Joss Whedon, in situazioni che si ripetono ciclicamente: la lotta
contro un nemico soprannaturale (uno diverso per ogni annata), i problemi di cuore, le relazioni turbolente con gli amici, la famiglia e la scuola. E
tutto ciò, nonostante il tempo del racconto scorra in modo piuttosto evidente: i personaggi, infatti, si diplomano e vanno al college, crescono e
sembra (sembra, appunto) persino che maturino in seguito alle esperienze precedenti (che sono richiamate in continuazione, anche a distanza di
anni). È proprio la capacità di ibridazione continua tra serie e serial –
come spiega bene Omar Calabrese, «il saper essere a un tempo una narrazione a puntate e una narrazione finita e soddisfacente» 8 – a costituire
uno tra i motivi di maggiore seduzione di questo telefilm e di tanti altri
simili, sempre americani. Tali prodotti riescono a soddisfare tutti i possibili tipi di fruizione, «quella occasionale, che deve avere possibilità di soddisfazione di almeno un segmento narrativo; quella seriale discontinua,
che può avere un nucleo di puntate chiuse come soddisfacimento narrativo; quella cultuale, che non perde neppure un episodio» 9.
26
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Sono proprio le loro caratteristiche seriali – con il meccanismo formale del ritorno dell’identico nella sequenza – a far sì che i telefilm americani siano particolarmente adatti per integrarsi nei ritmi della vita quotidiana, anch’essa basata sulla ripetizione di unità modulari come la giornata (con le sue diverse parti), la settimana, il mese.
Il «replicante» è migliore dell’originale
Nel 1984 Omar Calabrese riprende 10 la metafora centrale di Blade
Runner (id., 1982) di Ridley Scott: quella dei «replicanti». E lo fa mettendola al servizio di una vera e propria «estetica della ripetizione», da contrapporre a quella idealista che vorrebbe la ripetitività e la serialità al
polo opposto dell’originalità e dell’artisticità.
All’interno del romanzo originario di Philip K. Dick e del film di
Scott, i «replicanti» sono robot uguali agli uomini, dei quali migliorano
alcune caratteristiche meccaniche (la forza, l’agilità, la velocità) fino a
farsi preferire dal punto di vista estetico e persino sentimentale. Allo
stesso modo, secondo Calabrese, in un’analisi dei prodotti di finzione
delle comunicazioni di massa, i «replicanti» – nel nostro caso, i telefilm
– «nascono come prodotto di meccanica ripetizione e ottimizzazione del
lavoro, ma il loro perfezionamento produce un’estetica. Appunto, un’estetica della ripetizione» 11.
Parlando di serie e serial, dei loro vari gradi di ibridazione (magari
secondo le coordinate di quel «macrogenere» che è oggi il fantastico),
nonché dei rapporti tra le due categorie di telefilm, Omar Calabrese
distingue, dunque, diverse tipologie di fiction seriali basate, innanzitutto, sulla «variazione di un identico» (quando il punto di partenza – esempio perfetto: Colombo – è un prototipo moltiplicato in situazioni differenti) e sull’«identità di più diversi» (prodotti che nascono come differenti da
un originale ma, invece, risultano identici: per esempio, Star Trek e
Galactica, Battlestar Galactica, 1978 oppure Perry Mason, id. 1957, e Ironside,
id., 1967); e ancora, basate sull’«accumulazione» (le classiche serie, in cui
le vicende si ripetono ciclicamente e non è mai messo in gioco un tempo
dell’intera serie) e sulla «prosecuzione» (i serial, con l’azione che avanza
e i personaggi che mutano, magari in vista di un obiettivo finale da raggiungere); infine, su tre livelli delle varie ripetizioni/differenziazioni:
figurativo (in Buffy, l’eroina è bionda con gli occhi azzurri), statico (lo
scontro tra il bene -Buffy e il male-i vampiri) e dinamico (situazioni-tipo
QUALCHE APPUNTO DI TEORIA
27
che si ripetono: l’inseguimento dei vampiri tra le lapidi del cimitero, le
difficoltà con i ragazzi, l’affetto per gli amici). In relazione a tutte le categorie elencate, comunque, restano questioni centrali la gestione del
tempo – attraverso il rapporto tra ritmo e schema – e la dialettica tra identità e ripetizione.
Il «grado di serialità» di queste opere audiovisive può essere «misurato» più agevolmente ricercandolo all’interno di alcuni loro «luoghi»: i titoli, i personaggi e i modi in cui la singola trama viene costantemente ricondotta al genere di appartenenza. Il primo momento, in un telefilm, corrisponde a quello della sigla, ben più importante rispetto ai titoli di un film
«perché deve veicolare informazioni chiave del quadro: presentare i protagonisti, introdurre i temi della serie attraverso immagini esemplificative
che raramente sono introduttive al singolo episodio, ma che di solito preludono appunto alla delimitazione dei confini del frame entro il quale si
muove la serie» 12. I personaggi, poi, in un testo fortemente serializzato
acquistano, di solito, le caratteristiche dello stereotipo, tanto da poter essere facilmente individuati e distinti, per esempio attraverso soprannomi.
Anche la trama seriale, infine, viene ingabbiata abbastanza rigidamente
entro schemi di maggiore o minore aderenza al quadro di genere: «Sono
sì possibili varianti, alcune anche potenzialmente molto pericolose per la
stabilità del quadro (come ad esempio la sostituzione di un attore nel
ruolo di un personaggio, evento assai comune nelle soap), ma queste finiscono sempre per essere riassorbite all’interno del quadro dominante» 13.
Film e telefilm: «vampirizzazioni postmoderne»
Nel nome della serialità e delle sue regole si fanno sempre più stretti e
frequenti i rapporti tra cinema e televisione, con quest’ultima che fornisce
continuamente alle produzioni per il grande schermo modelli narrativi e
figurativi. E sembra un processo inarrestabile la trasformazione in senso
seriale di un numero sempre maggiore di prodotti cinematografici.
A tale proposito Francesco Casetti propone tre «assi della pluralità»,
che possono essere tranquillamente applicati anche ai film per il cinema:
la «ripetizione (certi elementi di contenuto o certi schemi formali ritornano pressoché identici in testi diversi), la serializzazione (dei testi diversi
si organizzano in una successione ordinata, o comunque in una famiglia
comune), la dilatazione (i testi, riunendosi tra loro, formano un insieme
di lunghezza indefinita; anzi, tendenzialmente infinita)» 14. Casi cinema-
28
AI CONFINI DELLA REALTÀ
tografici perfetti per essere inquadrati secondo queste categorie sono facilissimi da trovare: per esempio, c’è ripetizione nei film della serie dell’agente 007, serializzazione in quelli della serie di «Jurassic Park» di Steven
Spielberg, dilatazione nelle «Guerre Stellari» di George Lucas.
L’interesse di Hollywood per le vecchie serie televisive – meglio se
scelte tra quelle «di culto» 15 – è cresciuto sempre di più in anni recenti, con
un aumento esponenziale delle pellicole cinematografiche tratte da/ispirate a telefilm: a parte il ciclo di pellicole da Star Trek (già nove, con la decima in preparazione), si pensi soltanto ai casi di The Untouchables - Gli intoccabili (The Untouchables, 1987) e Mission: Impossible (id., 1996) di Brian De
Palma, La famiglia Addams (The Addams Family, 1991) e Wild Wild West (id.,
1999) di Barry Sonnenfeld, Lost in Space - Perduti nello spazio (Lost in Space,
1998) di Stephen Hopkins, Il santo (The Saint, 1997) di Phillip Noyce, The
Avengers - Agenti speciali (The Avengers, 1998) di Jeremiah Chechik. Alla
base di operazioni che vengono quasi sempre premiate da buon successo
di pubblico c’è l’ormai acquisita consapevolezza – da parte dei dirigenti di
studios sempre più a corto di idee davvero nuove – delle enormi possibilità commerciali derivanti dallo sfruttamento dei meccanismi mentali di
affezione e nostalgia del pubblico, americano ma non solo, nei confronti
delle serie televisive con le quali, spesso, è cresciuto. Si tratta del medesimo processo che, per esempio, ha fatto includere il «mitico» giubbotto di
pelle nera indossato da Henry Winkler/Fonzie in Happy Days tra i patrimoni culturali della storia nazionale americana all’interno dello
Smithsonian Institute.
La «vampirizzazione», però, è reciproca, «a doppio senso», dato che
anche la televisione – e sempre di più negli ultimi tempi – trae ispirazione continua per nuove serie da film per il cinema, a dimostrazione di
come il sistema dei media e dell’entertainment – lungo il ponte che unisce Hollywood a Wall Street – sia davvero totalmente integrato per
ragioni che sono, ovviamente, soprattutto economiche 16: così è accaduto
per Le avventure del giovane Indiana Jones (The Young Indiana Jones
Chronicles, 1992), prequel della «trilogia» spielberghiano-lucasiana; per
Stargate SG-1 (id., 1997), dallo Stargate (id., 1994) cinematografico di
Roland Emmerich; differente è il caso di uno tra i «fanta-hit» degli
anni ’90, tratto dalla pessima pellicola omonima (di nessun successo)
Buffy - L’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer, 1992) di Fran Rubel
Kuzui. Anticipatori di tali dinamiche produttive possono già essere considerati due progetti televisivi come M.A.S.H. (M*A*S*H, 1972) dal film
di Robert Altman di due anni prima e Saranno famosi (Fame, 1982) da
QUALCHE APPUNTO DI TEORIA
29
quello di Alan Parker, sempre precedente di due anni. Gli esempi sarebbero anche qui numerosi.
Può sembrare persino ovvio, ma andrebbe comunque sempre ribadito che non è possibile porsi criticamente nel medesimo modo di fronte a un film e a un telefilm, anche quando trattano lo stesso soggetto. A
parte le naturali differenze di carattere produttivo, infatti, dal punto di
vista linguistico è inevitabile che un tempo della narrazione diverso –
di solito, due ore al cinema e 30 minuti oppure un’ora in TV – produca
risultati imparagonabili per respiro narrativo, ritmo delle sequenze,
cura dei dettagli, approfondimento delle psicologie dei personaggi,
ricostruzione delle atmosfere attraverso il piano scenografico, soluzioni
stesse di ripresa: senza voler, con questo, necessariamente stilare una
graduatoria di merito nei confronti delle due tipologie di racconto per
immagini. E poi – particolare decisivo – un film è strutturato per essere
fruito come un unicum, mentre l’episodio di una serie televisiva è realizzato già pensando alle interruzioni pubblicitarie che lo spezzetteranno, influenzandone in modo decisivo la struttura 17 (e i modi della fruizione). «Il formato, insomma, impone un modo di racconto invece di un
altro» 18, proprio come accade in letteratura quando si mettono a confronto tra loro un romanzo e una novella breve: sono semplicemente
prodotti differenti.
Il telefilm, quindi, non è un «film breve» prodotto per la televisione –
come, ancora oggi, il senso comune lascia credere persino a quegli spettatori medi che, quotidianamente, s’imbottiscono di fiction seriale catodica (restando, però, all’oscuro dei meccanismi che ne regolano l’esistenza) – ma, invece, un’opera che risponde a sue leggi specifiche e che produce un universo sensoriale diversissimo da quello degli altri media.
Al tempo stesso, i telefilm, in quanto prodotti seriali tipici dell’era digitale, riescono a essere perfettamente inseriti, più dei film per il grande
schermo, nell’ampio e irrimediabilmente frammentato «sistema» mediatico della post-modernità.
1
Roy Menarini, Il cinema moltiplicato. La serialità sullo schermo in epoca contemporanea, «Segnocinema», n. 109, maggio-giugno 2001, p. 18.
2
Gian Paolo Caprettini, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 34 sgg.
«Lo schema del passaggio dalla paleo o veterotelevisione alla neotelevisione si
presta dunque bene a descrivere l’evoluzione del linguaggio della televisione italiana dalle origini a oggi. […] In particolare si lavorerà su tre livelli del linguag-
30
gio audiovisivo: le forme espressive della rappresentazione (la costruzione del tempo
e dello spazio televisivi), i contenuti narrativi e retorici (la costruzione del racconto
e le forme di interazione tra i personaggi televisivi e tra questi e lo spettatore) e
gli accordi tra schermo e spettatore (la costruzione di un rapporto di fiducia tra televisione e spettatore, in particolare attraverso il meccanismo dei generi)».
3
In Italia il primo a utilizzare il termine «neotelevisione» è stato Umberto Eco,
in un suo articolo del 1983 (oggi presente in: Umberto Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, pp. 163 sgg.).
4
Tra i più celebri: Charlie’s Angels, Starsky & Hutch, Magnum P.I., Cuore e batticuore, Wonder Woman, Hill Street giorno e notte, Le strade di San Francisco, Sulle
strade della California, New York New York.
5
Gian Paolo Caprettini, La scatola parlante cit., pp. 44-45.
6
Federica Villa, La forma della fiction televisiva, in Francesco Casetti, Federica
Villa (a cura di), La storia comune. Funzioni, forma e generi della fiction televisiva,
RAI-Nuova Eri, Roma-Torino 1992, p. 62.
7
Umberto Eco, Tipologia della ripetizione, in Francesco Casetti (a cura di),
L’immagine al plurale, Marsilio, Venezia 1984, p. 28.
8
Omar Calabrese, I replicanti, in Francesco Casetti (a cura di), L’immagine al plurale cit, p. 73.
9
Ivi, p. 78.
10
Ivi, pp. 63, 83.
11
Ivi, p. 63.
12
Orio Menoni, Generi, riconoscibilità, memoria. Il cinema e la serializzazione della
forma, «Segnocinema», n. 109, maggio-giugno 2001, pp. 20-21.
13
Ivi, p. 21.
14
Francesco Casetti, Il sapere del telefilm, in Francesco Casetti (a cura di), Un’altra
volta ancora. Strategie di comunicazione e forme di sapere nel telefilm americano in
Italia, Eri, Torino 1984, p. 13.
15
Martin Winckler, nel suo dizionario Les Séries Télé, introduce così questa categoria di telefilm: «Il termine di culto designa le opere che hanno generato intorno a
loro un importante movimento di appassionati, numerose manifestazioni collegate, fan club, articoli e commenti senza fine». Il brano è citato in Mauro Gervasini,
Una Hollywood poco serial, «Segnocinema», n. 109, maggio-giugno 2001, p. 29.
16
Il concetto fondamentale è diventato quello di sfruttare fino in fondo – sui
diversi mass media connessi tra loro in gruppi multinazionali – un «franchise»
amato dal pubblico. L’esempio più calzante può essere quello di Batman e dell’uso «spregiudicato» che ne stanno facendo, attraverso le varie società del
gruppo, i vertici del colosso Time-Warner al quale appartengono i diritti del
personaggio: tra fumetti (DC Comics), film per il cinema (Warner Bros.), serie
di cartoni animati (Warner Television e Home Video), videogiochi, merchandising; in attesa, probabilmente, del momento giusto per il grande ritorno dell’uomo pipistrello in un suo telefilm, dopo il divertente serial degli anni ’60.
17
Non a caso, quando si parla di telefilm di mezz’ora o di un’ora s’intende conteggiato anche il tempo riservato alla pubblicità, mentre la durata reale delle fiction è, rispettivamente, di 23 e di 45 minuti circa.
18
Franco La Polla, Star Trek al cinema, PuntoZero, Bologna 1999, p. 6.
Le origini del telefilm americano
I serial prima della televisione
Quando, negli anni ’50, i produttori televisivi iniziano a riempire i
palinsesti dei network con un’enorme quantità di fiction, hanno ben
chiare le regole del gioco e sanno con esattezza a quali modelli rifarsi,
per avvincere un pubblico sempre più desideroso di storie seriali.
Dall’inizio del ’900, infatti, la moderna industria culturale, particolarmente fiorente proprio negli Stati Uniti, inizia ad avere un bisogno
sempre più pressante di prodotti d’intrattenimento che siano fortemente codificati e standardizzati secondo le regole di un determinato «genere» narrativo e che, al tempo stesso, sappiano tenere avvinti i propri
fruitori, dando loro efficacemente appuntamento all’avventura successiva. Radio e carta stampata sono i mass media che, negli Stati Uniti
degli anni ’30, sperimentano meglio di altri le dinamiche proprie della
narrazione seriale, attraverso i format del radiodramma a puntate e
della striscia quotidiana a fumetti. Naturalmente, in entrambi i casi, il
precedente mediale più diretto – senza voler risalire a modalità narrative antichissime come, per esempio, la saga – è il feuilleton ottocentesco,
che ha caratteristiche molto simili a quelle della fiction seriale radiofonica, fumettistica e, poi, televisiva: la segmentazione in varie puntate, la
lunga durata del percorso narrativo, il rapporto stretto e interattivo tra
lettori e scrittore (attraverso le tante lettere spedite al giornale che ospita la storia), gli spunti provenienti spesso dalla realtà quotidiana.
In particolare, il radiodramma è eletto a modello anche perché ottimo
terreno di invasione per il mercato pubblicitario, attraverso spot e sponsorizzazioni: proprio in radio, per esempio, nascono le soap opera – il
32
AI CONFINI DELLA REALTÀ
nome del nuovo genere deriva dagli sponsor dei programmi: note industrie del sapone – che in seguito approderanno in televisione, come la
celebre Sentieri (The Guiding Light, 1937, creata da Irna Phillips; in TV dal
1951). La fiction televisiva seriale si rifà ai fumetti pubblicati sui principali quotidiani statunitensi, poi, per quel che concerne la distinzione in
vari generi (western, sit-com, polizieschi, fantascienza), per la ripetizione
di personaggi e luoghi tipici che diventano familiari al pubblico e persino per i fenomeni di fanatismo da parte degli appassionati. «Uno degli
esempi più celebri nella storia dei fumetti è rimasto quello di Flattop, un
piccolo gangster deforme, nemico di Dick Tracy – il celebre investigatore
di Chester Gould – che era cattivo ma simpatico ai lettori. Quando Gould
lo fece morire ricevette moltissimi telegrammi di ammiratori che volevano tributargli solenni onoranze funebri; nel Connecticut gli venne organizzata anche una veglia funebre» 1.
Proprio radio e fumetti – è di fine anni ’30 la nascita, sulle pagine degli
albi DC National, dei due eroi seriali più popolari (e multimediali) di tutti
i tempi: il Superman di Jerry Siegel e Joe Schuster e il Batman di Bob Kane
– influenzano la forma stessa dei primi telefilm americani, quelli degli
anni ’50, caratterizzati da secchezza narrativa, azioni molto concentrate,
sequenze brevi sottolineate da roboanti stacchi musicali (quasi l’equivalente sonoro delle scritte onomatopeiche presenti nei comics), montaggio
rapidissimo, numerose ellissi narrative, dialoghi estremamente sintetici,
scarsi compiacimenti descrittivi (presenti, invece, nei titoli sempre molto
immaginifici). Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli show
televisivi della prima metà dei ’50 riprenda progetti già collaudati alla
radio – basti pensare soltanto a Lucy ed io e Dragnet (id., 1952) – e sulla
carta stampata (ad esempio Superman).
Tra i «progenitori» del telefilm propriamente inteso, però, ci sono
anche i serial cinematografici di serie B che riempiono le sale americane
tra gli anni ’10 e i ’40. «Conosciuti commercialmente come Chapterplays (da
“chapter”, “capitolo” e “screenplay”, “sceneggiatura”), questi serial prevedevano personaggi e trame suscettibili di continuazione, e ogni episodio finiva con una situazione pericolosa e irrisolta. Uno degli espedienti
più comuni era quello di lasciare l’eroe o l’eroina di turno appesi a una
finestra o in bilico su un precipizio: il classico finale detto in gergo
“cliffhanger” (letteralmente, “che ti appende a una parete di roccia”).» 2 In
questo tipo di produzione si distingue, soprattutto negli anni a cavallo
della seconda guerra mondiale, la casa di produzione Republic. I marchi
di fabbrica dei suoi serial sono ritmo veloce, effetti sonori inconfondibili,
LE ORIGINI DEL TELEFILM AMERICANO
33
modellini in scala molto curati e ottimi effetti meccanici, spettacolari acrobazie affidate a stunt di talento come il «mitico» Yakima Canutt, travolgente commento sonoro, buon livello della fotografia e degli interpreti,
soprattutto trame semplici ma appassionanti. La direzione di Herbert
Yates (detto «il Vecchio») assicura, insomma, prodotti curati realizzati con
budget bassissimi (compresi tra i 140.000 e i 180.000 dollari per un serial
in 12 puntate).
I primi produttori di fiction seriale per la televisione, dunque, hanno
un immenso serbatoio di esperienze precedenti, già ben radicate nell’immaginario collettivo del paese, al quale attingere. Il telefilm è pronto per conquistare il piccolo schermo e, quindi, le case (e le coscienze)
di milioni di americani.
La «Golden Age» e la fiction televisiva in diretta
La cosiddetta «Golden Age» della televisione statunitense (più o
meno, la prima metà degli anni ’50), tradizionalmente, non è ricordata
come tale per i suoi telefilm, ma per i «drammi antologici» irradiati in
diretta dagli studi newyorkesi dei vari network televisivi: si tratta di
lavori scritti da commediografi di formazione teatrale molto attenti alla
critica sociale, basati sul buon livello recitativo di attori poi resi celebri
dal cinema (come parecchi registi che in questi anni si fanno le ossa
nella «palestra» delle produzioni per il piccolo schermo: si pensi semplicemente, tra i tanti, ad Arthur Penn e Sidney Lumet).
Proprio il passaggio dalla televisione in diretta a quella registrata e,
quindi, da New York a Hollywood, intorno alla metà del decennio, segna
un fondamentale momento di rottura nel modo stesso di concepire il
nuovo medium, da parte degli spettatori e degli addetti ai lavori. Non a
caso, il passaggio è accompagnato da un forte dibattito sulle principali
riviste americane, con il ruolo dello scrittore televisivo come oggetto dell’accesa contesa. «Se mai sono esistiti momenti memorabili in televisione
– scrive, per esempio, Rod Serling nel 1957 – il merito va agli spettacoli in
diretta. Se mai sono nate tecniche proprie della televisione sono quelle in
diretta. […] A New York e Chicago, non certo a Los Angeles. […] Lo scrittore di televisione filmata non è mai stato, come non lo è neppure adesso, un nome identificabile agli occhi del pubblico. Ciò è in netto contrasto con lo scrittore per la televisione di New York, al quale sono garantiti un’identità, un’importanza e un rispetto secondi solamente a quelli del
34
AI CONFINI DELLA REALTÀ
commediografo vero e proprio.» 3 Tra l’altro, proprio Serling – a differenza dei vari Gore Vidal, Paddy Chayefsky, Robert Alan Arthur, Horton
Foote – è l’unico grosso calibro della «live television» newyorkese a resistere anche quando la produzione di fiction catodica si sposta a
Hollywood e inizia a fare riferimento direttamente alle majors cinematografiche o alle loro società consociate: da scrittore di drammi televisivi di
qualità ed enorme successo popolare, come Patterns e Requiem for a
Heavyweight, infatti, diventa il «deus ex machina» del celebre telefilm fantastico Ai confini della realtà. E, nel capitolo seguente, vedremo come il
rapporto tra questo programma e quelli precedenti realizzati da Serling
sia più complesso di quanto si possa credere.
Comunque, la parabola artistico-produttiva di Rod Serling diventa
indicativa del tramonto di un’era: quella degli storici programmi antologici «di qualità» come Philco Television Playhouse (generalmente finanziati da un unico sponsor e basati, di volta in volta, su un differente
dramma originale girato in diretta e della durata di un’ora), accantonati per ragioni economiche e, in ogni caso, legate alla crescita inarrestabile del nuovo mezzo di comunicazione.
Rispetto alla fine degli anni ’40, infatti, la televisione è ormai diffusa
in quasi tutto il paese e non più soltanto nelle grandi metropoli della
costa orientale 4; ed è già percepita come un business di notevoli proporzioni: per questo motivo, diventa più scomodo e meno redditizio continuare a realizzare fiction in diretta, mentre uno show registrato può essere mandato in onda nelle varie zone dell’enorme Nazione sempre nella
fascia di «prime time» (quella di massimo ascolto e redditività per gli
inserzionisti). Inoltre, un programma registrato può essere agevolmente
interrotto da più spot pubblicitari – anzi, viene concepito già in funzione
delle numerose interruzioni commerciali – con conseguente aumento dei
possibili sponsor: si passa, così, dagli show legati al marchio di un unico
inserzionista, che ha voce in capitolo anche sui contenuti, a quelli strutturati per essere interrotti da differenti messaggi promozionali, con considerevole aumento degli utili derivanti dalla pubblicità.
Sono proprio le logiche interne al mercato pubblicitario, tra l’altro, a
consigliare una strutturazione iniziale della televisione americana
pedissequamente ricalcata sui palinsesti della radio, dove determinati
meccanismi erano già consolidati: «Segmenti – scrive Russel Nye – di
un quarto d’ora, mezz’ora e un’ora; distribuzione della giornata in mattina (talk shows e giochi), pomeriggio (le serie) e sera (prima serata); le
interruzioni pubblicitarie collocate negli stessi momenti e con lo stesso
LE ORIGINI DEL TELEFILM AMERICANO
35
linguaggio; gli stessi programmi nelle stesse proporzioni, cioè 75% di
spettacolo, 25% di servizi per il pubblico, informativi, religiosi, educativi e di programmi per i bambini. Prima della fine degli anni ’50 la televisione aveva sviluppato un tipo di palinsesto giornaliero che poi ha
mantenuto senza mutamenti di rilievo» 5.
Crisi del cinema o «boom» della televisione?
Gli anni ’50 sono un periodo di grande fermento per l’industria cinematografica hollywoodiana. E proprio il telefilm diventa un utilissimo
strumento interpretativo dei controversi rapporti tra cinema e televisione, sia dal punto di vista artistico che economico.
Un anno cruciale è il 1948, quando l’industria televisiva pone le basi
per un monopolio che, con qualche aggiustamento, dura ancora oggi,
mentre quella cinematografica assiste allo sfaldamento della sua struttura monopolistica. La sentenza antitrust del 1948, il cosiddetto «Decreto
Paramount», spezza il ciclo integrato di produzione, distribuzione ed
esercizio con il quale le majors di Hollywood dominano il mercato –
costringendole a vendere le proprie catene di sale – e mette la parola fine
all’era classica dello Studio System, facendo entrare la «Mecca del cinema» in una profonda crisi economica e di identità che può essere solo
parzialmente spiegata con la contemporanea esplosione della televisione. Nello stesso anno, però, il Governo federale emette una sentenza di
segno diametralmente opposto per regolamentare il nascente mercato
televisivo: la FCC (Federal Communication Commission), infatti, decide
di bloccare per quattro anni (fino al 1952) l’attribuzione delle frequenze
televisive, dopo averle assegnate agli enti radiofonici NBC, CBS e ABC.
Il provvedimento, di fatto, impedirà per decenni l’ingresso di altri gruppi nel già fiorente comparto: più che mai, poi, quello degli studios hollywoodiani, da sempre interessati al business della televisione, ma politicamente piuttosto deboli perché appena colpiti dalla sentenza antimonopolio 6.
In una simile situazione, il telefilm acquista un’importanza fondamentale, perché è il prodotto attraverso il quale gli studios hollywoodiani cercano, entrando nella produzione diretta di fiction seriale per la TV
(e in quella dei «Made for Television Movies», i film realizzati appositamente per il piccolo schermo) di fronteggiare la crisi. La paura delle
majors di non riuscire a distribuire come prima i propri film in sale non
36
AI CONFINI DELLA REALTÀ
più controllate direttamente, infatti, ha come conseguenza diretta un
rilevante calo della produzione cinematografica: «Crollò soprattutto la
produzione dei film di serie B, cioè di quelle pellicole a basso costo e
senza divi che le majors imponevano, nei “pacchetti” che confezionavano per il noleggio alle sale, per la programmazione tra un film ad alto
costo e l’altro. Come è facile intuire, buona parte del mercato si reggeva
su questa produzione minore» 7. Accanto all’inedita pratica della vendita di vecchie pellicole ai canali televisivi – attuata da metà anni ’50, dopo
un primo momento di sdegnoso rifiuto 8 – gli studi hollywoodiani, già
dagli albori del decennio, iniziano a ridefinire la produzione in direzione del piccolo schermo, che diventa il loro principale canale distributivo:
si spiega anche così il passaggio dalla televisione in diretta realizzata a
New York a quella registrata a Hollywood, nei vecchi teatri di posa cinematografici. I legami tra case di produzione cinematografica e network
televisivi diventano sempre più stretti.
Già nel 1951, la Columbia inizia a produrre telefilm di mezz’ora attraverso la sua succursale Screen Gems; nel 1954, Walt Disney realizza per
la ABC la serie Disneyland, utilizzata pure come strumento pubblicitario
del nuovo parco omonimo costruito in California nello stesso periodo;
l’anno dopo, la Warner produce, sempre per la ABC, telefilm storici come
Casablanca (id., 1955) Cheyenne (id., 1955) e King’s Row, che si alternano
ogni settimana sotto l’intestazione «Warner Brothers Presents» per l’intera stagione 1955-1956; nel 1957, la MGM coglie un grosso successo con
L’uomo ombra (The Thin Man), prodotto per la NBC. Sempre nello stesso
anno, inoltre, si verifica un episodio destinato a sancire, simbolicamente,
il definitivo mutamento nei rapporti di forza tra cinema e televisione: la
Desilu Production di Desi Arnaz e Lucille Ball (è loro la «hit» Lucy ed io)
acquista la RKO e i suoi studi di Hollywood e Culver City, dove si girò
Via col vento (Gone with the Wind, 1939). Al momento dell’acquisizione, la
Desilu da sola produce più delle principali cinque majors cinematografiche messe assieme e controlla 35 teatri di posa, un back lot di oltre 40 acri,
un autentico motion picture center: insomma, è una tra le più grandi strutture produttive della Terra.
Ma non va dimenticato – pur tenendo presente il fisiologico momento di crisi del cinema americano – che è il doppio intervento governativo del 1948 a creare l’asimmetria di potere nel rapporto tra industria
cinematografica e televisiva: permette, infatti, ai network di accedere al
mercato dei film, mentre nega agli studios l’accesso alle frequenze catodiche. Sono tanti gli interessi socio-economici che «giustificano» il com-
LE ORIGINI DEL TELEFILM AMERICANO
37
portamento del Governo: mentre il cinema produce un tipo di narrazione fine a se stessa, infatti, la televisione cerca di fornire un contesto
soddisfacente e seducente ai messaggi pubblicitari. Quindi, se è vero
che l’avvento del telefilm registrato segna il passaggio della produzione di immagini da New York a Hollywood, è altrettanto vero che rappresenta pure il primo esplicito punto di contatto tra l’ideologia hollywoodiana e quella di Wall Street.
Il telefilm, inoltre, si consolida come format perfetto attraverso il
quale i tre network riescono a esercitare un controllo quasi assoluto
sulle varie reti affiliate locali che trasmettono nelle diverse zone del
paese. «In un’industria – scrive lo studioso Robert Vianello, in un suo
saggio sulla nascita del telefilm – che doveva sfornare un’enorme quantità di prodotti ogni anno, i programmi filmati offrivano un margine
economico rispetto alla “diretta”. Una volta che la strategia dei programmi “in diretta” ebbe assolto il suo compito, dopo aver consolidato
la struttura a stazioni affiliate, venne abbandonata» 9. Alla fine degli
anni ’50, i telefilm occupano il 70% dei palinsesti nelle ore di massimo
ascolto.
1
Aldo Grasso, prefazione a Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti, Milano 2001, p. III.
2
Sandra Curtis, Sotto il segno di Zorro, Sperling & Kupfer, Milano 1998, p. 78.
3
Rod Serling, TV in the Can Versus TV in the Flesh, «New York Times Magazine»,
24 novembre 1957, pp. 49-54.
4
Tra il 1946 e il 1958, la percentuale delle abitazioni in cui è presente un apparecchio televisivo sale dal 2 all’83%: da 8.000 a quasi 42 milioni. Nello stesso
periodo, la frequenza settimanale di pubblico nelle sale cinematografiche cala
da 90 milioni di spettatori a 40.
5
Citato in Bruno Cartosio, Anni inquieti, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 218.
6
Il quarto network, la DuMont, chiude i battenti nel 1955 e, per il primo vero
cambiamento nel panorama dei network televisivi statunitensi, bisogna attendere il 1986, quando nasce Fox News, il network della Twentieth Century Fox.
A metà anni ’90, poi, nascono Warner Brothers Network e United Paramount
Network; e, nel 1997, la ABC si fonde con la Disney, ufficializzando un rapporto che, per la verità, è saldissimo fin dagli anni ’50. Un discorso a parte meriterebbero i canali via cavo «di qualità» come HBO e Showtime.
7
Bruno Cartosio, Anni inquieti cit., p. 216.
8
Tra il 1941 e il 1971, la storia dei film in televisione attraversa diverse fasi: all’inizio, c’è chiusura totale da parte di Hollywood; in un secondo momento, sono
vendute ai network le pellicole realizzate prima del 1948; poi, dal 1961, arriva
il tempo dell’approdo nel prime time di film posteriori al 1948; infine, dal ter-
38
mine degli anni ’60, i canali televisivi iniziano a commissionare agli studios
lavori destinati direttamente alla trasmissione catodica.
9
Robert Vianello, La nascita del telefilm, in Adriano Aprà (a cura di), Hollywood
verso la televisione, Marsilio, Venezia 1983, pp. 184-185.
PARTE SECONDA
VIAGGIO NELLA «ZONA DEL CREPUSCOLO»
Rod Serling e l’«età dell’oro» del fantastico televisivo
Nel corso di tutti gli anni ’50 è la demografia stessa degli Stati Uniti
a mutare profondamente, con massicci trasferimenti della popolazione
di ceto medio dai centri delle grandi città alle zone suburbane: tra le
conseguenze dirette c’è pure la crisi delle sale cinematografiche cittadine (ne chiudono più di seimila, tra il 1949 e il 1959), solo parzialmente
attutita dalla continua apertura di drive-in – tremila circa, nello stesso
periodo – rivolti soprattutto a un pubblico giovane e spesso aperti solo
nel periodo estivo, nelle periferie e nei pressi dei nuovi, enormi Mall (i
centri commerciali resi celebri da tanto cinema e TV del periodo).
Il desiderio principale dell’americano medio, dopo gli anni della
guerra, diventa quello di una casa di proprietà per la famiglia, con tanto
di giardino; e, in subordine, quello dell’automobile e della vacanza in
giro per il paese (ciò spiega anche lo sviluppo di giganteschi parchi dei
divertimenti come quello di Disneyland). Ed è proprio il rapporto dicotomico tra questa nuova esigenza di mobilità e la voglia di rinchiudersi
nel proprio privato a favorire un medium come la televisione – che riesce, da solo, a penetrare direttamente nel tinello domestico e a seguire (o
influenzare) lo spettatore persino in vacanza – piuttosto che il cinema.
Gli anni ’50 e la «Fanta-TV»
Nei mass media, il fantastico e l’orrore rappresentano, probabilmente, le chiavi di lettura più efficaci per tentare di decodificare i nevrotici
Stati Uniti del fondamentale periodo a cavallo tra anni ’50 e ’60: un paese
irrimediabilmente scisso tra una linda facciata «perbene» razionalmente
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
43
visione trovò terreno di isteria e intolleranza altrettanto fertile che nel cinema. […] Nel 1951, infatti, i networks, costantemente sotto tiro da parte degli
ultrà di destra, decisero che era ora di darsi un’autoregolamentazione: in
tal modo si sarebbe evitato che fossero le leggi federali a imporne una,
probabilmente molto più severa e restrittiva» 3. Questo codice prevedeva
poche e semplici norme: 1) gli spettacoli non mostreranno simpatia per il
male; 2) gli spettacoli non degraderanno l’onestà, la bontà e l’innocenza;
3) non si dovranno mettere in ridicolo le figure che esercitano un’autorità
legale; 4) chi infrange la legge non può andarsene impunito.
Anche quando sembra completamente assente, insomma, è proprio l’ideologia dominante del periodo (un certo tipo di ideologia, quantomeno)
a permeare per intero i palinsesti televisivi dell’epoca e a dar loro un’organicità persino sinistra, con particolare raffinatezza – come visto – proprio all’interno di quei prodotti seriali di finzione, apparentemente innocui perché rivolti al pubblico dei ragazzi (che, in realtà, è quello più
influenzabile da determinati «messaggi», soprattutto se drammatizzati
come semplici giochi infantili). A differenza di ciò che si verifica nei telefilm di genere bellico o spionistico, infatti, l’anticomunismo di fondo della
fantascienza televisiva non emerge in modo altrettanto chiaro. In Rod
Brown of the Rocket Rangers, per esempio, il protagonista agisce rispettando un giuramento di fedeltà a principi comportamentali che, fondamentalmente, sono «una secolarizzazione dei Dieci Comandamenti, secondo
le direttive della politica americana dei primi anni ’50» 4: i valori espressi
dal decalogo dello «space ranger» Rod Brown sono quelli tipici dell’american way of life, opposti – anche se l’Unione Sovietica non viene mai nominata esplicitamente – a quelli caratteristici, invece, del Nemico che da dietro la Cortina di ferro potrebbe, da un momento all’altro, insinuarsi nei
tranquilli quartieri suburbani statunitensi per corrompere le vite dei
«bravi cittadini» yankee 5. In realtà, quindi, l’immagine della fantascienza
televisiva americana «pre-Serling» come prodotto prevalentemente infantile e ingenuo, non è del tutto esatta, soprattutto dal punto di vista contenutistico, poiché essa agisce – in modo adeguato al tipo di pubblico cui è
destinata – come strumento di propaganda ideologica piuttosto potente:
non a caso, Fred MacDonald definisce opportunamente le serie fantascientifiche dell’epoca «fantasie stilizzate della Guerra Fredda» 6.
Per comprendere fino in fondo l’ottimo riscontro che accompagna i
telefilm fantastici in TV, però, bisogna allargare il discorso anche all’ambito del fumetto, citando perlomeno quell’autentico fenomeno di costume
costituito dalle tante testate fanta-horror pubblicate fino a metà anni ’50
44
AI CONFINI DELLA REALTÀ
dalla EC Comics dell’editore William Gaines (lo stesso di Mad Magazine).
Le cifre di diffusione dei comic books, già nel 1950, fanno letteralmente
impressione: 50 milioni di albi stampati e distribuiti ogni mese, letti prevalentemente da adulti e, per un quarto della produzione totale, contenenti storie del terrore 7; popolarissime sono proprio le testate di Gaines
«Tales From the Crypt» (1950-1955), «The Vault of Horror» (1950-1954) e
«The Haunt of Fear» (1950-1954). La crociata anti-comics condotta dallo
psichiatra Fredric Wertham e culminata nella strombazzatissima pubblicazione, nel 1954, del suo pseudo-saggio scandalistico Seduction of the
Innocent manda in crisi, però, questo tipo di produzione e porta alla creazione, anche in ambito fumettistico, di un codice di autoregolamentazione dell’industria, molto più articolato e restrittivo di quello della televisione: il «famigerato» Comics Code Authority 8.
Il fanta-horror, però, ha piantato radici ben salde nel terreno della cultura popolare statunitense, producendo le prime crepe di un certo rilievo. «Mentre i sarcastici maestri di cerimonie dell’orrore – sottolinea
David J. Skal, in un suo saggio fondamentale – erano diventati una specie in via di estinzione sulla stampa, il nuovo medium televisivo non ricadeva sotto la giurisdizione del Comics Code Authority, ed era inevitabile che il formato albo trovasse un equivalente catodico» 9. Il discorso di
Skal è ancora più valido se, dall’horror, lo si applica al più ampio ambito
del fantastico, che riesce – con i suoi stessi anticorpi – ad avere la meglio
sui controlli più o meno rigidi che, come detto, pure i prodotti del piccolo schermo si trovano a dover fronteggiare. Le prime avvisaglie di cambiamento, rispetto alle atmosfere delle serie fantascientifiche citate in precedenza, si hanno nella primavera del 1954, con una trasmissione, The
Vampira show, che inizia alle undici di sera sull’affiliata di Los Angeles
della ABC (la KABC-TV); un programma in cui vengono trasmessi vecchi classici dell’orrore cinematografico, introdotti da una lugubre ma sensuale figura a metà strada tra Marlene Dietrich e la Morticia di La famiglia
Addams 10: si tratta della trentunenne ex spogliarellista Maila Nurmi, in
arte… Vampira. L’anomala presentatrice diventa, per qualche anno, un
autentico fenomeno nazionale, con il suo volto spigoloso che campeggia
dalle copertine delle riviste più lette (e il suo ritorno alla ribalta è di pochi
anni fa, grazie all’omaggio tributatole da Tim Burton nel 1994 con il bellissimo Ed Wood, id.). Proprio Vampira – e, prima di lei, i vari «Host
Monsters» dei fumetti EC – ispira i tanti anfitrioni che, appena qualche
anno più tardi, prendono l’abitudine di introdurre e chiudere ogni episodio dei più popolari telefilm antologici fanta-horror.
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
45
Durante gli anni ’50, comunque, è la concezione stessa del fantastico e dell’orrore (non soltanto televisivi) a cambiare inevitabilmente,
rispetto ai decenni precedenti. «Il pubblico postbellico – sottolinea
ancora Skal – era ancora interessato ai mostri, ma il leggiadro Mefisto
dal mantello nero non era più un’immagine terrificante per il moderno
frequentatore di cinema. La minaccia draculina di una flebile invasione
venosa era molto stiracchiata in confronto alle spaventose violazioni dei
limiti cui il mondo aveva assistito da così poco. Un mantello avvolgente non era più un’immagine paurosa. Ma la nube lasciata da un fungo
sì. La minaccia di una distruzione di massa era più forte che mai nella
mente degli americani. Negli anni ’50 i mostri si presentavano essenzialmente sotto due forme: giganteschi mutanti dal passo pesante, risultato lampante di esperimenti atomici; e invasori alieni, talvolta anch’essi un po’ cresciutelli, ma sostanzialmente dediti a qualche genere di
lavaggio del cervello o controllo ideologico. I mostri degli anni ’50 personificavano la Bomba e al contempo la Guerra Fredda.» 11
Proprio questi temi e atmosfere «animano», a partire dal 1959, le puntate di Ai confini della realtà. Rispetto alle produzioni di pochi anni prima,
dunque, il rovesciamento operato dal progetto di Serling è totale; anche
se il suo telefilm non può essere completamente ascritto al genere fantascientifico, dato che molti episodi sono mistery, appunto horror o, più sottilmente, appartengono al più ampio ambito del fantastico. Nelle pagine
successive analizzeremo dettagliatamente proprio il telefilm serlinghiano, assieme ad altri due ottimi esempi di «Fanta-TV» del periodo: due
«Anthology Series» per molti aspetti più orrorifiche, come Thriller e The
Outer Limits. In Ai confini della realtà – anche se siamo, ormai, alla fine
degli anni ’50 – ci si può permettere persino di essere ipercritici con il
maccartismo, come dimostra un episodio addirittura paradigmatico
come «Mostri in Maple Street» (ma è soltanto l’esempio più eclatante).
L’uomo responsabile di questo cambiamento epocale nella concezione
del fantastico in televisione è Rod Serling.
Rod Serling, «signore del fantastico»
Edward Rodman «Rod» Serling, americano di Syracuse (New York),
appartiene a quel gruppetto di scrittori che, negli anni ’50 e ’60, produce la quasi totalità dei più affascinanti show «in diretta» per la TV della
«Golden Age».
46
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Serling nasce il 25 dicembre del 1924 e, pur non manifestando precoci capacità letterarie, cresce leggendo insieme con il fratello maggiore
Robert riviste pulp come «Astounding Stories» e «Weird Tales» e divorando, al contempo, molti film. Il giorno dopo il diploma all’High School,
Serling entra nei paracadutisti (Undicesima divisione aeronautica dell’esercito degli Stati Uniti) e, dopo l’addestramento di base (nel corso del
quale fa in tempo a vincere 17 incontri di boxe su 18 disputati) va a combattere nelle Filippine, durante la seconda guerra mondiale. Dopo il congedo, nel 1946, entra all’Antioch College di Yellow Springs, Ohio, dove si
laurea in Educazione fisica. Studia anche lingua e letteratura e inizia ben
presto a scrivere, dirigere e recitare per le produzioni settimanali della
stazione radiofonica locale.
Nel 1949, riesce a vendere per cento dollari il suo primo soggetto
televisivo, Grady Everett for the People, alla Stars Over Hollywood, mentre è ancora uno studente. L’anno precedente, intanto, aveva sposato
Caroline Louise Kramer. Dopo la laurea, la coppia si trasferisce a
Cincinnati, dove Rod diventa soggettista all’interno dello staff della stazione radio Wlw, collezionando nel frattempo diversi rifiuti per parecchi progetti. Il suo destino cambia nel momento in cui decide di mettersi a scrivere a tempo pieno: tra il 1951 e il 1955 più di 70 suoi soggetti televisivi vengono realizzati, conquistando i favori di pubblico e critica. Scrive diverse sceneggiature, adatta romanzi di fantascienza per il
piccolo schermo e riesce, grazie all’elevata professionalità, ad assicurarsi un grande rispetto nel mondo della televisione. Nel 1955, raggiunge
il definitivo successo con una storia intitolata Patterns, definita dalla critica «un trionfo di creatività» e premiata con il primo dei sei Emmy
Awards conquistati in carriera. Si tratta di una sua pièce originale adattata per il piccolo schermo, con Van Heflin ed Everett Sloane come protagonisti (e trasposta per il cinema, nel 1956, da Fielder Cook – in Italia
uscì come I giganti uccidono): al centro della vicenda ci sono gli spietati
rapporti di potere che si sviluppano tra gli alti livelli dirigenziali e gli
impiegati di una tipica società statunitense. Nello stesso periodo, realizza diverse sceneggiature per la MGM, scrive anche The Comedian,
Playhouse 90 e, soprattutto, Requiem for a Heavyweight, dramma sulla
patetica storia di un ex pugile di successo (Jack Palance) ridotto a fare il
lottatore di wrestling in incontri truccati per sopravvivere; in particolare, questo TV movie colpisce come un maglio l’immaginario dell’epoca
e si guadagna a sua volta una versione cinematografica diretta da Ralph
Nelson nel 1962 (in Italia esce come Una faccia piena di pugni, con
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
47
Anthony Quinn). In questi primi lavori emerge un tratto che sarà proprio anche di Ai confini della realtà, cioè il «progressismo ideologico»
(molto newyorkese) di un autore che porta avanti un’idea di impegno
sociale tipica della sinistra liberal americana: non a caso, in un momento di diffuso (e propagandato) benessere economico del paese, da molti
episodi di Ai confini della realtà emergono domande inquietanti su ciò
che si cela dietro il «miracolo» Usa e su quali «fantasmi» si aggirano
sotto la (apparentemente) linda superficie di una società «moderna». Il
merito fondamentale degli script di Serling è di instillare domande nelle
coscienze dei telespettatori, pur inserendole nel contesto di spettacoli di
pura evasione.
Il primo incontro professionale di Rod Serling con la fantascienza
risale al 1956, quando adatta il romanzo Forbidden Area di Pat Frank. Ne
derivano, evidentemente, tracce profonde poiché, nel 1957, l’autore lascia
Playhouse 90, rattristando più di un fan. Decide, infatti, di tornare proprio
alla fantascienza (ma sarebbe più giusto dire al fantastico) per creare, nel
1959, la serie The Twilight Zone, che in Italia uscirà con il titolo di Ai confini della realtà. Nei cinque anni successivi la CBS manda in onda 156 episodi del telefilm, di cui 92 scritti direttamente da Serling, che però fa
anche da supervisore alle sceneggiature di altri grossi nomi come Charles
Beaumont, Richard Matheson, Ray Bradbury (i quali scriveranno – insieme con altri «big» della fantascienza letteraria come Theodore Sturgeon,
Clifford D. Simak e Harlan Ellison – anche diverse puntate dell’altra storica fanta-serie antologica della TV statunitense, The Outer Limits). Lo
show diventa, negli anni, uno tra i prodotti più amati e rispettati nella
storia della televisione e conquista un posto permanente tra i campioni
più rappresentativi della cultura popolare americana del ’900, grazie
all’intrigante frase d’apertura immediatamente riconoscibile, al tema
musicale di Bernard Herrmann e alle stringate introduzioni dello stesso
Serling. The Twilight Zone e The Outer Limits diventano, tra l’altro, autentici trampolini di lancio verso Hollywood per future stelle come Robert
Redford, Burt Reynolds, Dennis Hopper, Martin Sheen e tanti altri.
Non pago di questo successo, che porta il fantastico (in tutte le sue
forme) nella stragrande maggioranza delle case statunitensi (ma non
solo), Serling si cimenta – una volta terminata la produzione di Ai confini
della realtà, nel 1964 – anche in numerose sceneggiature cinematografiche,
fra cui è doveroso ricordare almeno il film di fantapolitica Sette giorni a
maggio (Seven Days in May, 1964), diretto da John Frankenheimer, e un
classico della fantascienza su grande schermo come Il pianeta delle scimmie
48
AI CONFINI DELLA REALTÀ
(Planet of the Apes, 1968). Più tardi, viene coinvolto in una nuova serie televisiva, Mistero in galleria (Rod Serling’s Night Gallery, 1969-1970), che guarda ancora meno alla fantascienza, privilegiando invece fantasy e soprannaturale in senso lato. Prodotto dalla NBC, Mistero in galleria, girato non
sotto il controllo assoluto di Serling, appare, in molti episodi, solo una versione annacquata di Thriller, «Anthology Series» degli anni ’60 con Boris
Karloff come anfitrione. Non mancano, però, anche per Mistero in galleria,
episodi interessanti: basti l’esempio del terrificante «Boomerang», tratto
da un racconto di Oscar Cook, in cui un insetto entra nell’orecchio del cattivo di turno, iniziando a mangiarne il cervello; riuscirà a uscire dall’altro
orecchio, senza fare troppi danni, ma non prima di avergli lasciato una
sorpresa raccapricciante 12.
Da sempre politicamente impegnato, Serling prende, ben presto, una
posizione pubblica contraria alla guerra in Vietnam. Non invecchia
bene, però, «divorato» com’è dai ritmi forsennati del suo lavoro e dalle
troppe sigarette (fino a quattro pacchetti al giorno): viene operato d’urgenza, infatti, dopo un infarto e muore il 28 giugno 1975, a Rochester
(New York), per complicazioni seguite all’operazione. Nella sua breve
esistenza – scompare prima di compiere 51 anni – fa in tempo, comunque, a ridefinire i confini del fantastico, non soltanto in televisione.
Ai confini della realtà: benvenuti nella «zona del crepuscolo»
Esiste una regione tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione,
tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la dimensione dell’immaginazione, è una regione che potrebbe trovarsi… ai confini della realtà.
È questa la celeberrima introduzione che apre gli episodi italiani della
serie The Twilight Zone, tradotta come Ai confini della realtà. Trasmessa
dalla CBS tra il 1959 e il 1964, la «Anthology Series» – che giunge in Italia
nel 1962, in un momento pionieristico della nostra televisione, ancora
tutta in bianco e nero e con un solo canale nazionale – copre tutti gli ambiti del fantastico, con maturità e inventiva invidiabili. Gli episodi, più che
racconti di fantascienza propriamente detti, sono vere e proprie short stories del mistero, dell’ignoto, del grotesque, dell’orrore anche; storie brevi
ambientate in un universo che non ha più punti di riferimento o certezze
e nel quale la realtà esterna stessa si confonde e sovrappone con quella
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
49
psichica: il mondo è davvero come mi appare? Oppure sono io che, di
volta in volta, lo rendo ciò che è? Attraverso le sue storie fantastiche, l’ideatore/sceneggiatore/produttore Rod Serling cerca sempre di proporre
un suo commento morale sulla natura umana e, soprattutto, sulle sue
tante manchevolezze. Lo sguardo dell’autore è, per questo, sarcastico,
pessimistico e tocca quelle corde della sensibilità umana che più di altre
teniamo nascoste innanzitutto a noi stessi: le corde, cioè, della paura e
dell’inconscio, di tutto ciò che ci spaventa e che releghiamo negli angoli
più remoti della nostra coscienza.
Dal punto di vista concettuale la serie antologica di Serling affonda le
sue radici nella ricca tradizione letteraria che va dalle allegorie di
Nathaniel Hawthorne al grottesco «dark» e al mistery di Edgar Allan
Poe, mixati con la shockante e sfrenata creatività dei pulp magazines dei
decenni ’30 e ’40. Fondamentale, nell’economia del progetto, risulta essere la durata breve degli episodi (ciascuno di 30 minuti, compresa la pubblicità), che consente tocchi fulminanti ed estremamente incisivi: non è
un caso, dunque, che il declino del telefilm inizi a partire dalla quarta stagione, quando il network decide di allungare a 60 minuti la durata di
ogni episodio. Lo stile visivo – fondamentale per creare la sensazione di
immersione in una realtà «altra» – si rifà esplicitamente alle ombre rivelatrici e alle angolazioni bizzarre della macchina da presa tipiche del cinema espressionista tedesco di quarant’anni prima, con il magnifico bianco
e nero di una fotografia volutamente ambigua e dai contorni spesso
incerti, perfetta per restituire il «look» della «zona del crepuscolo». Da
tutti i punti di vista, chi apprezza oggi X-Files e dintorni non può e non
deve ignorare il fatto che alcune decine di anni fa, nell’essenzialità del
bianco e nero, un «signore delle illusioni» di nome Rod Serling raccontava già appassionanti storie dell’inconsueto, trasmettendo emozioni inusuali per l’epoca e colpendo la fantasia e la sensibilità del vasto pubblico
televisivo. L’autore, tra l’altro, introduce personalmente ogni puntata,
alla maniera dei mostruosi «Host» resi celebri dai fumetti «maledetti»
della EC Comics di Bill Gaines: inserito nella scenografia stessa del racconto che sta per cominciare, Serling dà le coordinate di partenza per l’esplorazione della «Twilight Zone» e, al termine, aspetta il telespettatore
per ricondurlo sano e salvo nel tinello di casa propria, naturalmente solo
fino al successivo «viaggio» fantastico.
Ai confini della realtà ha un efficace prologo in «The Time Element»,
un episodio pilota che confluisce, nel 1958, all’interno della serie antologica Westinghouse Desilu Playhouse e risulta il più visto e apprezzato del-
50
AI CONFINI DELLA REALTÀ
l’intera stagione: già qui sono presenti tematiche e «filosofia» serlinghiane, che emergono dalla strana storia di uno psicologo che si trova a
dover visitare un misterioso paziente, collegato in qualche modo al bombardamento giapponese della base militare di Pearl Harbor nelle
Hawaii. L’autentico pilot della serie, comunque, è «La barriera della solitudine» («Where is Everybody?»), in onda il 10 febbraio 1959, scritto
dallo stesso Serling, diretto da Robert Stevens e interpretato da Earl
Holliman (che, in seguito, sarà il collega dell’agente Pepper di Angie
Dickinson nella serie Pepper Anderson agente speciale, Police Woman, 1974).
Ne è protagonista Mike Ferris (Holliman), un astronauta che, al risveglio, si ritrova completamente da solo in una tranquilla cittadina della
provincia americana: l’uomo attraversa il desolante scenario in preda a
un’angoscia sempre maggiore, quasi come se stesse vivendo un incubo
a occhi aperti; soltanto alla fine, grazie al tipico colpo di scena «alla
Serling», scopriamo che lo «svuotamento» della città è stato provocato
da un test per verificare le reazioni umane alla solitudine durante i voli
spaziali. Nonostante la conclusiva spiegazione razionale, non soddisfacente nemmeno per l’autore, l’episodio indica in modo chiaro quelli che
saranno i temi portanti del telefilm: lo sviluppo inarrestabile della tecnologia, soprattutto con riferimento a quella aerospaziale e, quindi, ai
viaggi nello Spazio; la presenza ossessiva della Morte; il Gioco inteso
come beffa e sberleffo inatteso, ma anche scommessa sull’incerto futuro
che attende la società statunitense.
L’epoca storica del telefilm è fortemente caratterizzata dai primi esperimenti spaziali americani e dalla continua competizione tra tecnologia
astronautica statunitense e sovietica. Lo Sputnik, primo satellite artificiale sovietico, è del 1957; nel 1961 Gagarin e Shephard sono i primi uomini
tornati vivi dallo spazio (molti cosmonauti russi, prima di Gagarin, non
sono sopravvissuti al rientro nell’atmosfera). In questi anni, poi, il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy annuncia al mondo l’avvio «ufficiale» della sfida che, il 21 luglio 1969, porta l’equipaggio dell’Apollo 11
a calpestare per primo il suolo lunare (ed è curioso notare come, in Italia,
la RAI trasmetta proprio due episodi di Ai confini della realtà, «Ore perdute» e «Chi è il vero marziano?», per riempire adeguatamente l’attesa
del fatidico momento dello sbarco sulla Luna). Gli anni ’60 sono segnati,
dunque, dalla conquista dello spazio ed è comprensibile, evidentemente,
come gran parte degli episodi della serie risenta dell’attenzione che il
mondo ha nei confronti del cosmo.
In particolare, il tema dei marziani o extraterrestri che ci spiano,
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
51
condizionano e prendono anche un po’ in giro, è presente in molti episodi. E la loro comparsa non è quasi mai rassicurante, ma evidenzia un
senso d’inquietudine per ciò che l’uomo avrebbe trovato una volta al di
fuori dell’atmosfera terrestre. Allo stesso tempo, però, la relativa vicinanza agli orrori dell’ultimo conflitto mondiale – che tiene vivi i sensi
di colpa per le esplosioni atomiche sul Giappone – e la sua conclusione
vittoriosa che autorizza grande speranza nel futuro degli Stati Uniti, fa
sì che nell’americano medio cresca la voglia di una «guida» capace di
condurlo in una nuova era e verso un progresso che percepisce come
inarrestabile: magari proprio un essere «Not of This World», superumano (Kennedy?). C’è tanta paura, quindi, nel suo animo, ma anche
tanta speranza in un futuro sempre più all’insegna del «modo di vita
americano»: paura e speranza sono proprio i due poli tra i quali oscilla
la maggior parte delle puntate di Ai confini della realtà.
In «Gli invasori» («The Invaders») – scritto da Richard Matheson,
diretto da Douglas Heyes e interpretato da una straordinaria Agnes
Moorehead – l’invasione aliena è descritta in modo inusuale e persino
scherzoso, con un rovesciamento finale di cui sicuramente si ricorderà lo
stesso Serling quando scriverà Il pianeta delle scimmie di Franklin J.
Schaffner. Minuscoli extraterrestri, simili a pupazzetti di plastica, invadono la baracca in cui vive una selvaggia megera, che tenta di scacciarli
a colpi d’ascia. La «donna» pronuncia solo suoni gutturali quasi bestiali
e tenta di difendersi in ogni modo. Nel finale, dopo un messaggio inviato via radio verso la Terra e dopo che viene inquadrata la scritta «USA»
sulla navicella, capiamo improvvisamente che gli invasori sono, in realtà,
terrestri capitati su un pianeta popolato da giganti. Il tema dell’attacco
alieno è visto in modo diversissimo in un altro episodio, tra i più polemici
dell’intera serie: «Mostri in Maple Street» («The Monsters are Due on
Maple Street»), scritto da Rod Serling e diretto da Ron Winston (con
Claude Akins, Jack Wagner e Ben Erway). In un tranquillo quartiere
suburbano, un’improvvisa mancanza di elettricità fa scatenare la paranoia verso i propri vicini, col terrore che dietro il guasto si nasconda, in
realtà, un subdolo tentativo di invasione aliena. Nessuno si fida più di
nessun altro e il quartiere (come tanti altri adiacenti) è messo, letteralmente, a ferro e fuoco. Nella sequenza conclusiva, è inquadrato un gruppo di extraterrestri che, dalla sommità di una vicina collina, guarda con
soddisfazione la «guerra di tutti contro tutti», constatando come, per conquistare la Terra, non sia nemmeno necessario attaccare gli umani che –
se adeguatamente provocati – possono annientarsi l’uno con l’altro.
52
AI CONFINI DELLA REALTÀ
L’episodio rappresenta un’agghiacciante, anche se fin troppo didascalica,
metafora della cosiddetta «caccia alle streghe» condotta negli anni ’50 dal
senatore Joseph McCarthy nei confronti di chiunque fosse anche solo
sospettato di simpatie verso il partito comunista. Il maccartismo – particolarmente duro proprio verso le comunità artistiche di cinema e televisione 13 – è tra le ragioni di quel diffuso conformismo sociale che fa ricordare il decennio in questione come «Silent Fifties», con influenze decisive oltre che sulla produzione artistica anche sulla vita quotidiana degli
americani. Anche uno tra gli episodi più famosi della serie, «È bello quel
che piace» («The Eye of the Beholder», scritto da Serling e diretto da
Heyes, con William B. Gordon e Donna Douglas), può essere letto in chiave anti-maccartista: in una strana clinica creata da un regime totalitario
futuristico (che ha nell’omologazione il valore primario), una donna con
il volto fasciato si prepara a verificare la riuscita dell’ennesima operazione effettuata per renderla… uguale agli altri. Lei si sente brutta (ed è trattata come tale), perché – come si scopre al termine della puntata – è, in
realtà, l’unica non sfigurata (è, anzi, bellissima) in un mondo popolato da
mostri tutti uguali e con la faccia simile a quella dei maiali: anche qui, la
metafora è fin troppo evidente.
Ma, tornando alle tematiche «aerospaziali», un terzo esempio di come
sono trattate in Ai confini della realtà può essere l’episodio «Solitudine»
(«The Lonely», scritto da Serling, diretto da Jack Smight e interpretato da
Jack Warden, Jean Marsh e John Dehner) che, peraltro, porta anche al
secondo tema della serie, la morte. In «Solitudine», un uomo deve scontare la propria pena su un lontano asteroide, completamente isolato nello
spazio. L’anomalo «carcerato», però, riceve periodicamente le visite del
suo sorvegliante che, un giorno, con molta compassione, decide di portargli dalla Terra una donna-robot, in tutto simile a un essere umano.
Dopo l’iniziale diffidenza, tra i due nasce un amore che va oltre ogni differenza strutturale. Ma, alla fine, il destino decide di separare sadicamente i due «amanti», nel momento in cui all’uomo è «concessa» l’opportunità di completare la propria reclusione sulla Terra: l’angusta astronave che deve riportarlo sul pianeta natio, infatti, non può contenere il
robot che, quindi, pur in apparenza così umano, sarà ucciso/distrutto
freddamente dai carcerieri e abbandonato sull’asteroide. L’inquadratura
finale è inquietante perché rivela l’ingannevole natura di puro simulacro
della donna metallica: il suo vero volto è di metallo, non di carne.
Echeggiano, nell’episodio, tematiche e atmosfere molto simili a quelle
che, nel 1982, saranno al centro di Blade Runner di Ridley Scott (imper-
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
53
niato sul dilemma della vera natura dei «replicanti») oppure, nel 1987, di
una serie televisiva come Star Trek - The Next Generation (id., 1987), attraverso il personaggio del «Pinocchio» androide Data.
L’altro tema portante presente nella serie è, come detto, quello della
morte, riconducibile non alla paura di un’assenza dell’Aldilà ma, al
contrario, alla descrizione di un Aldilà inquietante e, a volte, davvero
tremendo. Viene trattato piuttosto frequentemente proprio il momento
decisivo del trapasso, spesso non avvertito da chi lo subisce (un buon
esempio è «L’autostoppista», «The Hitch-hiker», scritto da Serling e
diretto da Alvin Ganzer) e, quindi, subito affiancato dalla difficoltà a
prendere coscienza della propria morte: un esorcismo, forse, un modo
per rimuovere la fine della vita attraverso storie che indicano, tra la vita
e la morte, una continuità nel corpo, nelle sensazioni personali, nell’ambiente. La morte diventa, insomma, un altro livello di vita o un’autentica, nuova esistenza parallela. E il terrore del riconoscimento della
propria morte viene così mitigato dalla consapevolezza che niente è
finito ma che, anzi, tutto continua.
«Un discorso per gli angeli» («One for the Angels», scritto da Rod
Serling e diretto da Robert Parrish, con Ed Wynn e Murray Hamilton)
propone una rappresentazione davvero insolita della morte, che ha l’aspetto di un piccolo burocrate indaffaratissimo e preoccupato di non
mancare gli appuntamenti segnati sulla propria agendina. In particolare, nell’episodio, ne ha uno con un venditore ambulante che, però, cerca
in ogni modo di ritardare il momento della propria «partenza» (così è
definito l’arrivo della fine), contrattando il tempo che gli rimane con l’oscuro emissario giunto per portarlo via. Riuscirà a ottenere di «partire»
solo dopo aver fatto il discorso che ha sempre desiderato, un discorso in
grado di commuovere persino gli angeli: ma, come si sa, nessuno può
permettersi di ingannare la morte, nemmeno l’abile venditore ambulante. In «Il sole a mezzanotte» («The Midnight Sun», scritto da Serling,
diretto da Anton Leader e interpretato da Lois Nettleton, Betty Garde e
Jason Wingreen) la morte è presente in ogni inquadratura, poiché la storia parla di un pianeta Terra ormai condannato che, uscito dalla propria
orbita, s’avvicina sempre più velocemente al Sole, con la temperatura
che aumenta in modo insopportabile. Anche qui un rovesciamento completo, nel finale, muta il contesto ma non l’apocalittico risultato: la Terra
è destinata a scomparire, ma per il troppo freddo invece che per il troppo caldo (la beffa!). Tra gli episodi più belli, ancora una volta in bilico tra
il tema della morte e quello del gioco, c’è «Ore perdute» («The After
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Hours»), scritto sempre da Serling e diretto da Heyes (con Anne Francis,
Elizabeth Allen e James Millholin). Qui, una bellissima ragazza (la
Francis) di nome Marsha White visita il piano inesistente (il nono) di un
grande magazzino a otto piani sempre gremito di clienti. Al termine di
altre incredibili vicissitudini, vissute in un’atmosfera quasi kafkiana, la
fanciulla ricorda la sua vera natura: è un manichino smemorato. Ogni
mese, infatti, i manichini del negozio hanno diritto a un solo giorno da
vivere come umani (quasi come gli americani medi, schiavi del proprio
lavoro e con sempre meno tempo libero a disposizione); e la «ragazza»
ha semplicemente dimenticato che il suo «turno da essere umano» è terminato: adesso le tocca «morire» di nuovo e ritornare a essere, nonostante il tentativo di ribellione alle leggi non scritte della sua società,
poco meno che un giocattolo privo di anima.
Terzo tema portante è quello del gioco, nell’accezione più ampia del
termine: basti, tra i tanti, l’esempio di un episodio come «La febbre»
(«The Fever») scritto da Serling, diretto da Ganzer e interpretato da
Everett Sloane. Ma, più in generale, il gioco in Ai confini della realtà è inteso come rischio e sfida all’ignoto: in questi casi, o si usa il cervello e la
ragione – il cui sonno, com’è noto, genera mostri – oppure si viene
sopraffatti. Soltanto attraverso un sano e attento esercizio della razionalità, dunque, si può sfuggire alla dipendenza da elementi assolutamente
imprevisti e in grado d’insinuarsi persino tra le pieghe della tranquilla e
agiata esistenza dell’«homo americanus»: l’irrazionale, il lato primordiale dell’uomo, però, non può mai essere messo a tacere in modo definitivo e – l’esempio migliore arriva dai film di fantascienza del decennio,
con mostri mutanti che si ribellano alle violenze di una società sempre
meno attenta alla «naturalità» – torna appena può per far sentire il proprio grido, più forte di qualunque regola, moda, imposizione o corsa
verso il successo e il progresso. Il gioco, però, è anche beffa e sberleffo, in
diversi capitoli della serie; come nel bellissimo «Tempo di leggere»
(«Time Enough at Last») – scritto da Serling, diretto da John Brahm e
interpretato da Burgess Meredith – che lo intreccia mirabilmente con la
tematica della morte e con quella del controverso rapporto con il progresso tecnologico. Protagonista del segmento – forse il più amato in
assoluto, assieme a «È bello quel che piace» – è Henry Bemis, un mite
impiegato di banca, occhialuto e di mezz’età, il quale cerca di leggere
tutte le volte che può. Né la moglie a casa, però, né il capufficio al lavoro glielo permettono a cuor leggero: la sua è un’attività «non produttiva»
e, per questo, malvista da una società già molto competitiva. Ma in segui-
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
55
to all’esplosione di un ordigno nucleare, l’omino sarà l’unico sopravvissuto sulla Terra e, perciò, avrà a sua disposizione tutto il tempo che gli
serve per dedicarsi al suo hobby. Non sa, il poveretto, che la beffa l’attende dietro l’angolo: proprio nel momento in cui, tra le macerie, trova
un’enorme biblioteca pubblica, ormai deserta e quindi a sua completa
disposizione, gli cadono gli occhiali, che si rompono lasciandolo «al
buio» in un mondo senza più vita.
In definitiva, il principale messaggio «politico» di Ai confini della
realtà – «eversivo» da più di un punto di vista – potrebbe essere: ecco le
stranezze che s’insinuano nel benessere troppo ordinato (omologato?)
della nostra società e delle nostre vite; sono presenti tra le pieghe del
reale, anche se fingiamo di non accorgercene, e influenzano persino le
nostre percezioni. Forse, dunque, non bisognerebbe essere troppo sicuri di nulla e, anzi, sarebbe più opportuno ridiscutere meglio ogni cosa,
a cominciare dal giusto ruolo dell’uomo in un mondo che è molto più
ricco e sfaccettato di quanto lontanamente immagini: in un’epoca di
troppe certezze, come i primi anni ’60, la serie di Serling, quindi, rappresenta un autentico «elogio del chiaroscuro» (reso benissimo anche
dall’inconfondibile stile visivo «ambiguo» della serie).
Trasmesso proprio al termine della cosiddetta «Golden Age» della
televisione americana – nel momento cruciale del passaggio dalla «Live
Television» ai programmi registrati che segnano il definitivo trionfo dei
network – lo show è importante anche da un altro punto di vista, come
fa notare William Boddy in un saggio tradotto anche in Italia. «Per molti
versi – scrive, infatti, Boddy – Twilight Zone rappresenta un compromesso fra l’impostazione drammaturgica e riformistica della Golden Age
televisiva e le strutture del telefilm di 30 minuti. La struttura di Twilight
Zone, nel contesto della stagione televisiva, ha più a che vedere con i lavori teatrali singoli dell’inizio e della metà degli anni ’50 che con il tipico
serial che ripropone gli stessi personaggi; il programma è infatti privo di
personaggi o ambienti e perfino di trame standard. Il tema generale di
Twilight Zone è organizzato con estrema libertà e ha ben poco a che spartire con il tradizionale genere della fantascienza televisiva, che negli
anni ’50 era una forma studiata soprattutto per un pubblico giovanissimo. Similmente, Twilight Zone presenta evidenti continuità di voce narrante, di caratterizzazioni, e ha quel tono un po’ didattico d’impronta
liberale di cui è permeata tutta l’opera di Serling durante gli anni ’50.» 14
Un remake della serie classica è realizzato a metà degli anni ’80, e la
regia venne affidata, tra gli altri, a cineasti del calibro di Joe Dante, Wes
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Craven, William Friedkin. Se ne parla in un prossimo capitolo, anche se
va immediatamente detto che il risultato complessivo – come quello del
film del 1983, Ai confini della realtà (The Twilight Zone: The Movie), con
quattro episodi diretti da Steven Spielberg (anche produttore), John
Landis, Joe Dante e George Miller – non riesce mai a eguagliare i picchi
del telefilm di venticinque anni prima, sbilanciando gli esiti più sul versante dello spavento fine a se stesso che su quello dell’emozione, ben
più destabilizzante, della serie originale.
L’importanza storica di telefilm come Ai confini della realtà, Thriller e
The Outer Limits risiede nell’aver avvicinato la middle class americana al
fantastico e alle sue tematiche di base, familiarizzando la vasta audience televisiva con concetti come le invasioni aliene, le realtà alternative, i
viaggi nel tempo e le manipolazioni genetiche. Certamente il successo di
queste serie è servito a piantare nelle menti dei telespettatori il seme
della fantascienza, destinato a germogliare nel 1966, con l’avvento di
Star Trek e, soprattutto, con i grandi film che, a partire dalla metà degli
anni ’70, modificano per sempre l’immaginario collettivo di appassionati che però, come detto, sono già in grado di sospendere la propria credulità ed entrare in un altro mondo situato «oltre i limiti» oppure «ai
confini della realtà».
«Thriller» e «The Outer Limits»
«Anthology Series» programmate, rispettivamente, sulla NBC e
sulla ABC per contrastare il successo del telefilm di Rod Serling, Thriller
e The Outer Limits sono interessanti per più di un motivo.
Thriller va in onda tra il 13 settembre 1960 (episodio «The Twisted
Image») e il 30 aprile 1962 («The Specialists») per un totale di 67 puntate da un’ora, di cui alcune multiple (infatti, le storie narrate, in totale,
sono 78). Secondo molti espert Thriller è la migliore serie fanta-horror
mai trasmessa in TV (almeno fino all’avvento di X-Files). «Era il periodo – scrive Stephen King, in una sua appassionata rievocazione – in cui
la televisione non veniva ancora accusata di enfatizzare la violenza, violenza che iniziò con l’assassinio di Kennedy e crebbe dopo gli assassinii
di Robert Kennedy e di Martin Luther King e, alla fine, fece scadere i
programmi a una sciropposa miscela di commediole. Oltre a Thriller
erano programmati anche altri bagni di sangue settimanali; era il tempo
di Gli intoccabili, con Robert Stack nel ruolo dell’imperturbabile Eliot
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
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Ness e quelle sanguinose, innumerevoli morti di cattivi senza nome
(1950-1963); Peter Gunn (1958-1961) e Cain’s Hundred (1961-1962), per
fare solo pochi nomi. L’era della TV violenta.» 15
Thriller è una serie antologica le cui puntate, come nella migliore tradizione del genere, vedono la partecipazione di una figura ricorrente –
gli americani dicono «Host» – che le introduce e conclude: in questo
caso, è interpretata addirittura da Boris Karloff 16. Soprattutto nel periodo compreso tra il gennaio 1961 (a partire, cioè, dalla sequenza di episodi formata da «The Hungry Glass», «The Poisoner» e «Man in a Cage»)
e l’aprile 1962, per 52 episodi, Thriller diventa davvero qualcosa di speciale e che non si sarebbe più rivisto in televisione: un progetto che – grazie anche all’accorta produzione di William Frye e Hubbell Robinson –
pesca a piene mani nell’inestimabile patrimonio di «gemme nere» pubblicate, decenni prima, su riviste come «Weird Tales». «Una delle cose
più significative – ricorda, a tale proposito, ancora Stephen King – era
che le storie venivano sempre più spesso scritte dagli autori che avevano pubblicato su “Weird Tales”; gli stessi che negli anni ’20, ’30 e ’40 avevano cominciato a togliere l’horror dalle storie di fantasmi vittoriane
seguite fino ad allora, e a incanalarlo verso la nostra moderna percezione di cosa è un racconto dell’orrore. […] Magari non sarà stata arte, ma
nei vari episodi erano apprezzate queste qualità: una storia colta e il
desiderio di terrorizzare a morte lo spettatore» 17. Così, non è raro assistere a telefilm scritti da Cornell Woolrich e Robert Bloch (memorabile,
per esempio, è il suo «The Cheaters», in onda il 27 dicembre 1960, in cui
il protagonista – grazie a occhiali molto speciali – vede i volti dei suoi
amici trasformarsi in quelli di orrende mostruosità: proprio come accadrà, molti anni dopo, in Essi vivono, They Live, 1988 di John Carpenter),
oppure adattati da testi originali di Robert E. Howard ed Edgar Allan
Poe. Rispetto a Ai confini della realtà, l’operazione è più dichiaratamente
orrorifica, fin dalle paradigmatiche apparizioni dell’ormai settantaquattrenne Karloff (che, oltre a presentare, interpreta alcuni episodi); anche
per la minore durata della serie, poi, la qualità complessiva è più elevata e, soprattutto, meno altalenante, grazie principalmente al pathos contenuto nelle storie di riferimento, dall’indiscutibile origine letteraria ma,
in realtà, già perfette per una trasposizione in immagini.
The Outer Limits, invece, va avanti sulla ABC dal settembre 1963 al
gennaio 1965 per un totale di 49 episodi di 60 minuti: a differenza della
nuova serie degli anni ’90 (Oltre i limiti, 1995), è inedita in Italia. Creata
da Leslie Stevens con lo sceneggiatore di Psyco (Psycho, 1960, di Alfred
58
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Hitchcock), Joseph Stefano, come direttore di produzione, la «Anthology
Series» fa propria la «lezione» di Ai confini della realtà e s’affida, a sua
volta, a nomi noti della fantascienza – scrittori come Clifford D. Simak,
Harlan Ellison, lo stesso Richard Matheson (per un certo periodo impegnato in entrambe le serie) – per mantenere uno standard qualitativo
delle storie decisamente elevato. Le tematiche sono simili a quelle del
rivale della CBS: realtà parallele alternative alla nostra, invasioni aliene,
eventi inspiegabili, viaggi nello spazio e nel tempo, mutazioni del corpo
e della mente, creature orribili risvegliate per caso e così via. Anche qui,
poi, c’è una voce che introduce e commenta ogni storia, la Control Voice
di Vic Perrin, che all’inizio avverte minacciosamente: «There is nothing
wrong with your television set…» («Non c’è nessun guasto nel vostro
televisore…»).
Già l’incipit dai contenuti più tecnologici, però, è indicativo delle differenze sostanziali che separano The Outer Limits dallo show di Serling:
il tono complessivo della serie, infatti, è più cupo, meno ironico e didascalico; le tematiche sono molto spesso orrorifiche oppure puramente
fantascientifiche (per esempio, con molti episodi incentrati su invenzioni tecnologiche futuristiche e, soprattutto, sulle presenze aliene); al
tempo stesso, poi, c’è meno mistery e contaminazione tra i diversi ambiti del fantastico. Le sceneggiature, inoltre, trattano anche argomenti religiosi e problemi filosofici, arrivando persino a toccare temi scottanti
come l’ingerenza del governo nelle vite quotidiane dei cittadini e la continua corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Non è un
caso, quindi, che molti commentatori considerino la creatura di Leslie
Stevens come la diretta anticipatrice di Star Trek e, decenni dopo, di XFiles.
In particolare è degno di essere approfondito il rapporto tra gli show
di Stevens e quelli di Gene Roddenberry, vista anche la presenza ricorrente del «papà» dell’Enterprise sui set di The Outer Limits. Nella loro
esauriente guida alla serie, David J. Schow e Jeffrey Frentzen riportano
diverse testimonianze sulla questione: è esemplificativa quella di Tom
Selden, assistente di Joseph Stefano alla produzione. «In realtà, Star Trek
deriva da The Outer Limits – racconta Selden, forse esagerando un po’ –.
Gene Roddenberry, infatti, guardava sempre il nostro girato del giorno
e rispondeva anche a parecchie telefonate dalla nostra stanza degli sceneggiatori. In questo modo dava stimoli continui alla sua creatività e,
allo stesso tempo, imparava osservando il nostro accurato controlloqualità. Mi sono domandato spesso perché fosse sempre lì: ma proprio
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
59
quello era il periodo durante il quale stava sviluppando le idee per realizzare Star Trek» 18. È un dato di fatto, in ogni caso, che molti tra coloro
che sono impegnati in The Outer Limits entrano, dopo pochissimo
tempo, nella squadra del nuovo telefilm di Roddenberry: gli attori
William Shatner, Leonard Nimoy, James Doohan e Grace Lee Whitney;
gli addetti alla produzione Robert Justman e Claude Binyon Jr.; il truccatore Fred Phillips e il responsabile degli effetti speciali Wah Chang; il
regista Gerd Oswald. E persino la ricca e innovativa scrittura sinfonica
della colonna sonora di Dominic Frontiere influenza profondamente il
lavoro del compositore Alexander Courage per Star Trek. Insomma, i
legami tra i team creativi dei due show sono molto stretti.
The Outer Limits parte «alla grande», con una stagione inaugurale
davvero notevole, prima che Joseph Stefano prenda la decisione d’abbandonare il progetto. «Stefano aveva un’idea molto chiara sulla natura del programma. Voleva in ogni episodio un “orso”, una specie di
creatura mostruosa che doveva apparire prima dell’interruzione pubblicitaria che segnava la metà della trasmissione. In certi casi non era
pericoloso per natura, ma si poteva scommettere che prima della fine
qualche forza esterna – in genere uno scienziato pazzo e malvagio – l’avrebbe fatto imbestialire.» 19 L’episodio pilota, trasmesso il 16 settembre
1963, è «The Galaxy Being», in cui il tecnico di una stazione radio inventa un televisore 3D che è in grado di metterlo in contatto con un essere
proveniente da Andromeda e formato da energia pura. A causa dell’intervento di un impiegato maldestro, però, la comunicazione tra i due
mondi si trasforma in qualcosa di cataclismatico: lo strano essere, infatti, è risucchiato sulla Terra e la minaccia di distruzione; per fortuna,
viene ucciso attraverso un sovraccarico energetico.
In molti episodi è affrontato il tema, modernissimo per l’epoca, della
mutazione del corpo umano e dei suoi rapporti con la mente. Nella
seconda puntata («The One Hundred Days of the Dragon»), per esempio, una droga speciale permette di rimodellare il proprio aspetto a
seconda delle esigenze; così come in «The Sixth Finger» un esperimento accelera l’evoluzione di un uomo che entra in possesso di spaventosi poteri mentali; oppure, in «The Mutant», un essere umano, che vive
isolato su un pianeta appena scoperto, è bombardato da una tempesta
di isotopi che lo rende capace di uccidere con il solo tocco della mano;
in «Expanding Human» c’è, addirittura, una rilettura della vicenda letteraria stevensoniana del dottor Jeckill e di mister Hyde: uno scienziato inventa una droga in grado di conferirgli poteri straordinari e intelli-
60
AI CONFINI DELLA REALTÀ
genza sopra la media, ma anche di alterare i suoi principi morali. È
molto bello, poi, sempre in tema di mutazioni, anche l’episodio «The
Chameleon» nel quale il protagonista interpretato da Robert Duvall inizia a trasformarsi geneticamente dopo essere stato graffiato da alcuni
alieni: diventato sempre più simile a loro, decide di seguirli.
E proprio gli alieni, come anticipato, sono i grandi protagonisti della
serie classica di The Outer Limits: dal falso extraterrestre creato in laboratorio in «The Architects of Fear» ai due invasori che vedono i propri
pensieri intercettati mentalmente dal protagonista terrestre di «Corpus
Earthling», dagli abitanti del pianeta Zanti che inviano sulla Terra i loro
criminali («The Zanti Misfits») all’alieno orribile che accetta uno scambio «alla pari» con un terrestre («The Mice»), fino ai due marziani che
studiano i delitti commessi sulla Terra analizzandoli grazie a una macchina del tempo portatile (nel divertente «Controlled Experiment»).
Alieno – in quanto proveniente da un «Altrove» che non è il nostro
mondo presente – può essere, però, considerato anche il mutato protagonista di «The Man Who was Never Born», episodio imperniato sulla
vendetta dell’essere giunto dal futuro nei confronti del responsabile di
un disastro biologico avvenuto (o destinato ad avvenire) nella sua era.
E il viaggio dal futuro a ritroso fino al nostro presente – con tutte le
sue stravaganti conseguenze – è al centro di alcuni tra gli episodi più
interessanti dell’intera serie: basti pensare al «soldato di domani» che
rivela tutto sugli orrori a venire in «Soldier» (scritto da Harlan Ellison),
oppure al crononauta con un computer di vetro al posto della mano protagonista di «Demon With a Glass Hand» (ancora scritto da Ellison e,
secondo molti, il miglior episodio in assoluto). Un altro tipo di ritorno –
oltre a quelli dal futuro – avviene dalla morte che in The Outer Limits non
necessariamente è definitiva: in «Production and Decay of Strange
Particles» (con Leonard Nimoy), per esempio, uno scienziato crea, all’interno della centrale atomica in cui lavora, un nuovo isotopo in grado di
riportare in vita chi è appena morto, con orribili conseguenze; oppure, in
«The Forms of Things Unknown», due donne uccidono un uomo malvagio durante un picnic ma, poco dopo, devono vedersela con un misterioso McCallum che, nel suo castello, porta avanti esperimenti per far
tornare l’uomo indietro dalla morte, grazie a un sofisticato dispositivo
temporale. E proprio i due temi del viaggio nel tempo e di quello oltre
la morte si intersecano nell’episodio «The Premonition» (il penultimo
del ciclo), in cui un pilota e sua moglie scampano per miracolo alla
morte grazie, appunto, a un’anomalia temporale.
ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO
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Il 16 gennaio 1965 The Outer Limits si conclude con «The Probe», una
storia imperniata su alcuni sopravvissuti a un incidente aereo
nell’Oceano Pacifico: verranno salvati – e questo è davvero significativo e in linea con il percorso complessivo della serie – da un’astronave
aliena il cui intervento risulterà decisivo per evitargli un orribile destino. Gli extraterrestri, dunque, non sono più necessariamente ostili ma
possono anche adoperarsi per salvare il genere umano. Proprio questa
è la premessa migliore alla serie che, di lì a un anno, rivoluzionerà la
fantascienza televisiva statunitense, Star Trek, anticipata anche dal sincero pacifismo di un episodio come «I, Robot», nel quale l’automa protagonista cerca di liberarsi del suo creatore, appena scopre che questi
vuole trasformarlo in una macchina da guerra.
Dal 1945 al 1950, il numero di apparecchi televisivi venduti negli Usa sale da
6.500 a sette milioni e mezzo. Nel 1958, come detto nel precedente capitolo, la
TV è presente in 42 milioni di abitazioni.
2
«La classe media includeva un segmento sociale che andava dai redditi operai più alti, fino ai livelli dirigenziali inferiori: la parte della popolazione che fu
allora protagonista dei traslochi in massa dai quartieri urbani alle aree residenziali suburbane; dagli appartamenti alle casette unifamiliari» (Bruno
Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, Giunti, Firenze 1992, p. 133).
3
Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino
1999, p. 235.
4
J. Fred MacDonald, Television and the Red Menace: The Video Road to Vietnam,
Praeger, New York 1985.
5
È fin troppo ovvio – e perciò inutile – citare in questa sede la quasi totalità del
cinema di fantascienza del decennio, grondante suggestioni di questo tipo.
6
Citato in Franco La Polla, L’età dell’occhio cit., p. 240.
7
Questi dati sono contenuti in Mike Benton, The Comic Book in America: An
Illustrated History, Taylor Publishing Company, Dallas 1989, p. 48.
8
Fortemente voluto, comunque, dalle case editrici rivali della EC – con in testa
la potente DC National – per frenare l’incredibile successo degli albi di Gaines.
L’ondata moralizzatrice, dunque, diventa un’occasione preziosa da cogliere al
volo.
9
David J. Skal, The Monster Show. Storia e cultura dell’horror, Baldini&Castoldi,
Milano 1998, p. 205.
10
Serie di cui si parla nel capitolo sui telefilm per famiglie, dei quali è un’acutissima presa in giro.
11
David J. Skal, The Monster Show cit., pp. 215-216.
12
L’insetto in questione è una femmina e, a sorpresa, deposita milioni di uova
nella testa del malcapitato.
13
Sull’argomento si vedano, perlomeno, due saggi ottimamente documentati
1
62
come: Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood, Feltrinelli, Milano 1979 e Larry
Ceplair-Stephen Englund, Inquisizione a Hollywood, Editori Riuniti, Roma 1981.
14
William Boddy, Dopo la Golden Age: Rod Serling e il passaggio alla televisione hollywoodiana, in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood in Progress, Marsilio, Venezia
1984, p. 243.
15
Stephen King, Danse Macabre, Theoria, Roma-Napoli 1992, p. 228.
16
Il quale, già in anni precedenti, era andato in onda come «presentatore» di
celebri serie televisive horror: Starring Boris Karloff (1949) e Mistery Playhouse
Starring Boris Karloff.
17
Stephen King, Danse Macabre cit., p. 230.
18
David J. Schow, Jeffrey Frentzen, The Outer Limits: The Official Companion, Ace
Science Fiction Books, New York 1986, p. 361.
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Stephen King, Danse Macabre cit., pp. 232-233.
«Spazio, ultima frontiera»
«Star Trek»: la serie classica
Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante
la sua missione quinquennale diretta all’esplorazione di nuovi mondi, alla
ricerca di altre forme di vita e di civiltà; fino ad arrivare là dove nessun
uomo è mai giunto prima.
È l’8 settembre 1966: la NBC manda in onda l’episodio «The Man
Trap» («Trappola umana») di un nuovo telefilm di fantascienza intitolato
Star Trek e destinato a cambiare per sempre le coordinate del genere.
Più di 35 anni dopo, la serie ideata e prodotta da Gene Roddenberry
sotto il marchio della Desilu – la compagnia di Lucille Ball e Desi Arnaz 1
– ha «figliato» quattro show catodici, una decina di film per il grande
schermo, un cartone animato, centinaia di libri, riviste, fan club, siti web,
giochi di ruolo, infiniti gadget: insomma, i viaggi a velocità curvatura
della Flotta Stellare della Federazione Unita dei Pianeti si sono trasformati in autentico fenomeno culturale (e commerciale), proponendosi al
tempo stesso quali efficacissime letture metaforiche delle contrastanti
dinamiche proprie delle società occidentali del XX secolo. La cui complessità è resa alla perfezione proprio dall’articolato e variegato universo
di fantasia della serie, fatto di razze aliene e pianeti sconosciuti, esplorazioni di remoti angoli della Galassia ma anche «incursioni» nei più reconditi recessi dell’animo umano: è davvero profonda, insomma, l’aderenza
alle caratteristiche «mentali» di un pubblico cresciuto in una società sempre più tesa verso il progresso tecnologico e il superamento continuo del
limite precedente, per arrivare – proprio come fanno i protagonisti di Star
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Trek – «là dove nessun uomo è mai giunto prima». D’altra parte, quelli di
«frontiera» e di «viaggio» sono concetti fondamentali per la cultura americana, centrali all’interno di due generi fortemente codificati e abbastanza simili tra loro, come il western e la fantascienza: e quale viaggio può
essere più affascinante di quello attraverso le ignote profondità di un
nuovo «Selvaggio West» com’è lo Spazio esterno?
Così Star Trek narra «i viaggi della nave stellare Enterprise» in un
futuribile XXIII secolo, alla ricerca di nuovi mondi da esplorare – si badi
bene: non da conquistare! – per accrescere sempre di più la conoscenza
umana dell’universo. Sul ponte di comando dell’Uss Enterprise NCC
1701 di classe Constitution dirigono le operazioni l’aitante e impulsivo
capitano James Tiberius Kirk (William Shatner), per gli amici Jim; il suo
primo ufficiale Spock (Leonard Nimoy), per metà terrestre e metà vulcaniano, con il viso scarno e spigoloso, le inconfondibili orecchie a punta,
l’assoluta razionalità abbinata a un totale controllo delle proprie emozioni; il sanguigno ufficiale medico Leonard «Bones» McCoy (DeForest
Kelley): personaggi che sono entrati a far parte dell’immaginario di
milioni di telespettatori in tutto il mondo, assumendo quasi i tratti leggendari degli antichi eroi omerici. Accanto a loro, però, altri caratteri rendono più corale la struttura del telefilm, arricchendolo: dall’efficientissimo ingegnere-capo Montgomery Scott detto «Scotty» (James Doohan) al
sensuale tenente Uhura (Nichelle Nichols, prima donna di colore presente sul ponte di comando, con compiti di controllo sulle comunicazioni), dal bizzarro signor Hikaru Sulu (George Takei) all’attendente Janice
Rand (Grace Lee Whitney) e all’infermiera Christine Chapel (Majel
Barrett, la moglie di Roddenberry), fino al guardiamarina russo Pavel
Andreievich Cechov (Walter Koenig), personaggio-simbolo del disgelo
in corso nei confronti dell’Unione Sovietica.
Rispetto alla fantascienza televisiva degli anni ’50, infatti, il rovesciamento tematico è quasi totale: d’altra parte, i «Silent Fifties» sono
terminati da un pezzo, le paranoie da Guerra Fredda sembrano (sembrano…) superate, i campus universitari sono già in fermento, la speranza degli americani in una società migliore non è stata spezzata nemmeno dallo shock per l’omicidio del presidente Kennedy, il sempre più
inarrestabile progresso tecnologico inizia a essere vissuto con minor
sospetto e timore. Così, anche nei palinsesti dei network televisivi si
crea lo spazio per una serie di fantascienza dai presupposti innovativi,
che sappia proporre personaggi dall’inedita carica umana e, sorprendentemente, un rispetto per «l’altro da sé» e per la vita in ogni sua
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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forma, anche la più strana e lontana dal senso comune: «IDIC» – ovvero «Infinite Diversità in Infinite Combinazioni» – diventa l’acronimo
che meglio esprime il «sentire» dello show e che, ben presto, assurge ad
autentica filosofia di vita, portatrice di un messaggio di pace e fratellanza universale e di una visione ottimistica del futuro.
Dal punto di vista formale, la serie di Roddenberry non presenta
novità di rilievo e segue abbastanza fedelmente le regole della televisione seriale più tradizionale: un’infinità di primi e primissimi piani sui
vari personaggi, con le inquadrature che ogni tanto s’allargano quando
questi giungono su pianeti sconosciuti oppure interagiscono con razze
aliene; scenografie planetarie piuttosto povere e che quando entrano
nell’obiettivo si rivelano addirittura risibili; efficace commento sonoro
sinfonico (di Alexander Courage) a conferire ulteriore pathos alle vicende. Il fascino estremo del telefilm, dunque, risiede altrove: precisamente nella sua capacità di familiarizzare i telespettatori con i protagonisti,
che ben presto entrano a far parte della quotidianità degli americani che
seguono lo show, quasi come se fossero membri aggiunti delle loro
famiglie. E se da un lato anche questo processo d’iterazione non fa che
rispettare una regola basilare della serialità, dall’altro propone differenze profonde, perché i personaggi non rappresentano soltanto generici
valori simbolici come possono essere, per esempio, il coraggio e la
responsabilità per Kirk, la logica e la freddezza per Spock e l’umanità e
l’impulsività per McCoy, ma sono innanzitutto ciascuno fedele a se stesso, con i propri tic, debolezze, ossessioni: «Tutto ciò, insomma, che conferisce loro – scrive Franco La Polla, in quella che è la più acuta monografia critica dedicata a Star Trek – le proporzioni della verità. […]
Quella che è tipica della poesia e del mito, una sorta di accordo tacito
fra opera e pubblico per cui ogni azione, ogni dettaglio nel comportamento di un personaggio fa parte di un rituale suo personale che contribuisce a riconoscerlo in quanto diverso dagli altri, ma anche in quanto individuo proprio per questo in stretta relazione con gli altri, che di
lui conoscono perfettamente ciò che lo qualifica e caratterizza» 2.
Questi motivi, ovviamente, emergeranno con il trascorrere degli episodi. Lo Star Trek classico, però, suscita un’enorme impressione sugli
appassionati americani di fantascienza già al suo esordio, nel 1966. È
indicativo, per esempio, il racconto che Allan Asherman fa della sua
esperienza alla World Science Fiction Convention di Cleveland, Ohio,
dove ha l’occasione di vedere in anteprima, il 4 settembre, il primissimo
episodio presentato pubblicamente. «Non c’era niente di infantile – scri-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
ve nell’introduzione alla sua Guida alla serie – nell’episodio “Oltre la
galassia”. Ci aspettavamo un ragazzino o un robot dalla battuta facile,
ma non comparvero. Perfino la musica era cupa, seria e spettacolare. Ci
dovevano essere più di cinquecento spettatori quel giorno. Quando
l’Enterprise raggiunse i confini della galassia mille occhi si spalancarono. Il respiro di cinquecento persone si fece più rapido, per quel meraviglioso piacere che tutti gli appassionati provano quando vedono il loro
argomento preferito trattato come si deve. […] Era la serie televisiva fantascientifica che tutti noi volevamo vedere. L’impressione fu enorme.
[…] Dopo la proiezione non riuscivamo ad alzarci. […] Finalmente Gene
Roddenberry interruppe il silenzio. Chiese l’opinione del pubblico; noi
ci alzammo in piedi ad applaudire. Ci fece un sorriso che ricambiammo
prima di assalirlo. Per poco non ce lo caricammo sulle spalle per portarlo in trionfo. Da quel momento la Convention si spaccò in due fazioni.
Quelli di noi che avevano ammirato “Oltre la galassia” 3 non parlavano
d’altro. Chi non aveva ancora visto la luce pensava che fosse strano
riversare tanta attenzione sull’episodio di una serie televisiva» 4.
Come già detto all’inizio del precedente capitolo, infatti, la fantascienza nella televisione americana degli anni ’50 e dei primi ’60 è concepita
per un pubblico essenzialmente infantile; gli stessi più maturi The Science
Fiction Theatre (1955), L’uomo e la sfida (The Man and the Challenge, 1959),
Men Into Space (1959), The New People (1959) e One Step Beyond (1959) restano ben lontani dall’inusitata profondità tematica di Star Trek; mentre Ai
confini della realtà va considerato come appartenente al più ampio ambito
del fantastico, piuttosto che allo specifico fantascientifico. Anche nel
periodo durante il quale Star Trek è concepito e poi mandato in onda –
mentre il cinema dell’età kennediana continua ad aprirsi a numerose elaborazioni fantastiche «mature» di temi come, per esempio, la paura del
conflitto atomico: si pensi soltanto a Il Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove, or: How I Learned
to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick – la televisione seriale statunitense riesce a offrire, per ciò che concerne la fantascienza pura, soltanto produzioni avventurose, spettacolari ma abbastanza fini a se stesse, come quelle di Irwin Allen (definito dai critici a stelle e
strisce «il Jules Verne della Science Fiction catodica»): Viaggio in fondo al
mare (Voyage to the Bottom of the Sea, 1964), Lost in Space (1965), Kronos (The
Time Tunnel, 1966) e La terra dei giganti (Land of the Giants, 1968). L’unico
autentico progenitore di Star Trek, insomma, può essere considerato, come
detto, l’antologico The Outer Limits di Leslie Stevens.
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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Il telefilm di Gene Roddenberry, quindi, è percepito subito come
qualcosa di diverso. Riesce, infatti, a produrre una sintesi popolare efficacissima di questioni decisamente significative: per esempio, la rappresentazione futuristica di temi classici della mitologia antica e degli schemi simbolici della «ricerca» e del «viaggio» (lo Spazio – secondo lo slogan della serie – diventa l’autentica, ultima frontiera per i nuovi pionieri di domani: come detto, il «Selvaggio West» del lontano futuro); la
messa in scena, in piena «esplosione» del Movimento per i diritti civili,
della profonda crisi che investe i rapporti tradizionali tra razze diverse
negli Stati Uniti (attraverso la composizione di un equipaggio realmente multietnico, nel quale occupa un ruolo di primissimo piano un mezzosangue alieno); la rievocazione del recente passato paranoide della
Guerra Fredda e del «muro contro muro» tra superpotenze all’insegna
delle armi nucleari. Ma sono tante le problematiche etiche e persino filosofiche che emergono nel corso della serie, d’altra parte concepita partendo da un preciso imperativo morale: quello della non interferenza
nelle vicende delle culture «altre» incontrate sui pianeti visitati di volta
in volta dall’Enterprise (anche se Kirk e compagni non sempre si attengono a quella che è chiamata «Prima Direttiva»). «L’altro», il diverso non
coincide più con il nemico da temere e, magari, soggiogare: va compreso, conosciuto (magari studiato, suggerisce implicitamente la serie...),
ma mai (o quasi mai) combattuto. In Star Trek, l’unica razza aliena davvero ostile – innanzitutto dal punto di vista politico – è quella dei
Klingon, il cui Impero è in guerra aperta con la Federazione Unita dei
Pianeti. Per il resto, molto spesso, quelli che sembrano «cattivi» all’inizio
di un episodio si rivelano, poi, semplicemente creature in lotta per la
sopravvivenza propria e dei propri simili: come il Gorn di «Arena» (id.)
oppure la «tenera» Horta – una mamma aliena preoccupata per i suoi
piccini – di «Il mostro dell’oscurità» («The Devil in the Dark»). L’assunto
della serie diventa, così, uno «strumento» molto efficace per esplorare
questioni di carattere etico-giuridico, nell’ambito dei rapporti tra culture in contatto e identità umane differenti. Tutto ciò, inoltre, è reso ancora più ricco e affascinante dalla scelta di caratterizzare i vari personaggi
in modo più accurato rispetto agli standard delle produzioni televisive
(pur nel rispetto dell’essenzialità tipica di un format di durata breve
com’è il telefilm), proprio per riuscire a dare maggiore efficacia al «trattamento» che viene fatto delle tante istanze, spesso contraddittorie, degli
Stati Uniti della seconda metà del ’900.
Space opera umanistica nel senso più profondo del termine, Star Trek
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
deve molto del proprio fascino pluri-decennale ai personaggi presenti sul
ponte di comando dell’Enterprise e ai modi in cui essi interagiscono: dai
confronti ricorrenti tra i membri della «triade» di protagonisti – ben più
che semplici referenti simbolici, come detto, al pari di tanti altri di serie
precedenti e successive, ma «caratteri» identificabili innanzitutto in
quanto se stessi: Kirk, Spock, McCoy – alle tante gustose «variazioni» con
i vari Scotty, Sulu, Uhura e così via. Il «palcoscenico» ricorrente dello
show è l’astronave-casa Enterprise, luogo-simbolo che si propone come
imprescindibile punto di coesione tra razze e culture tanto differenti,
come sono quelle dei membri della «famiglia» (perché di questo si tratta)
di Star Trek; essa diventa l’indispensabile «collante» tra le loro personalità, il riferimento certo, l’approdo sicuro sempre pronto – alla stregua di
un ventre materno – ad accogliere in sé i propri «figli» nel momento del
pericolo e dell’incertezza. La nave spaziale assurge, così, al ruolo di
autentica coprotagonista, differenziandosi da tutto ciò che s’è visto fino a
quel momento, sia al cinema che in televisione: è molto più di un semplice elemento scenografico, ma assume un valore simbolico importantissimo nel processo di familiarizzazione tra i vari personaggi e in quello
tra loro e gli spettatori. «Spesso coinvolto in una continua ricerca dell’Eden,
l’equipaggio ha in ultima analisi il suo vero Eden nell’Enterprise, per cui
non meraviglia che Scotty, in “Animaletti pericolosi” 5, sopporti qualsiasi
insulto dai Klingon tranne quelli pronunciati contro l’astronave; né che
Spock, in “La ragnatela tholiana” 6, tenti di portare in salvo la nave davanti
a un McCoy che gli inveisce contro perché Kirk potrebbe essere ancora vivo
da qualche parte nello spazio.» 7
E proprio Kirk – com’è ovvio che sia, essendo il capitano – vive il
rapporto più profondo e complesso con l’Enterprise, da lui apertamente considerata quasi come la sua donna in più d’un episodio: per esempio, in «L’espediente della carbonite» («The Corbomite Maneuver») e
«Io, Mudd» («I, Mudd»); ma la prima volta accade già nel quarto episodio, il bellissimo «Al di là del tempo» («The Naked Time»), quando
un Kirk contaminato dal misterioso virus «ubriacante» che risveglia
sensazioni primordiali in vari membri dell’equipaggio – persino Spock,
in modo commovente, vive un conflitto tra natura umana e vulcaniana,
dopo che l’infermiera Christine Chapel ammette di amarlo – viene lacerato interiormente, come un amante geloso, dai sentimenti che prova
verso la sua nave: la odia perché gli impedisce di condurre un’esistenza normale, ma sa di non poterne fare a meno, perché è il vero punto
focale del suo amore. Non è un caso, dunque, che lo stesso Kirk, in un
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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altro episodio giustamente celebre come «Umiliati per forza maggiore»
(«Plato’s Stepchildren»), baci proprio Uhura, la quale rappresenta quasi
l’incarnazione stessa dell’Enterprise, in quanto addetta alle comunicazioni e quindi sua «portavoce».
Quello tra Kirk e Uhura, tra l’altro, è in assoluto il primo bacio interrazziale mostrato all’interno dello show di un network statunitense. È il
22 novembre 1968 e, ancora una volta, Star Trek riesce a essere specchio
fedele delle contraddizioni della società e, al tempo stesso, prodotto
modernissimo e anticipatore: il bacio tra bianchi e neri, infatti, costituisce
sì un’assoluta novità per la TV a stelle e strisce, ma nella trama dell’episodio è «giustificato» (nel senso di dato sotto coercizione e inserito tra le
tante «umiliazioni» che i personaggi sono costretti a subire da parte dei
perversi alieni Platoniani). Proprio in quanto fedele specchio degli Stati
Uniti del periodo, comunque, Star Trek riflette anche altrove le tante tendenze contraddittorie che attraversano la società americana, proponendo
diverse situazioni che, riviste oggi, possono apparire persino reazionarie:
si pensi alla dura presa di posizione verso il movimento hippie presente
in «Viaggio verso Eden» («The Way to Eden»), oppure al fiero colpo inferto alle istanze femministe dell’epoca contenuto nel conclusivo
«L’inversione di rotta» («Turnabout Intruder»).
Spesso il telefilm si sofferma sulla natura duplice dell’essere umano,
diviso tra spinte primordiali e aneliti razionali. In tal senso appare persino paradigmatico un episodio come «Il duplicato» («The Enemy
Within»), quinto della serie e scritto dal grande Richard Matheson: si
tratta dell’ennesima variazione sul mito stevensoniano del dottor
Jeckyll e del signor Hyde, con Kirk scisso fisicamente in due metà di se
stesso – in seguito a una disfunzione del meccanismo per il teletrasporto – che incarnano ciascuna il suo lato buono e quello cattivo. La nota
inquietante che permea l’intera vicenda è rappresentata dal fatto che
tutte le capacità di comando del capitano appartengono alla sua parte
oscura, mentre quella «positiva» si mostra man mano sempre più debole e incapace di prendere qualsiasi decisione, anche a rischio della vita
stessa dei propri uomini. Come a dire, semplificando, che Bene e Male
sono più simili tra loro di quanto comunemente si possa e voglia credere, e che in ciascun aspetto dell’animo umano convivono elementi
contraddittori ma non necessariamente inconciliabili.
«Il duplicato», però, è un episodio importante anche da un altro
punto di vista, per l’importanza drammaturgica e metaforica ricoperta
dal congegno per il teletrasporto. Kirk, infatti, si ritrova sdoppiato in
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
seguito a un malfunzionamento del meccanismo, che serve a scomporre
i corpi per ricomporli altrove e, viceversa, di nuovo sull’Enterprise. Tale
processo, in Star Trek, può essere letto anche come metafora del pastiche
postmoderno tra generi differenti, tanto comune nella fiction seriale televisiva e, in particolar modo, chiaramente riscontrabile nel telefilm di
Roddenberry, in onda tra il 1966 e il 1969, cioè quando la Hollywood
classica dello Studio System e dei suoi modi di produzione standardizzati per forme e contenuti è già morta da un bel pezzo. In molti episodi,
allora, è come se la materia narrativa si scomponesse, attraverso un
immaginario teletrasporto, per ricomporsi poi in modi e forme inattesi:
si pensi al gangster movie di «Cicago anni ’20» 8 («A Piece of the Action»),
all’horror gotico di «Il ritorno degli arconti» («The Return of the
Archons») e «Il gatto nero» («Catspaw»), al western di «Lo spettro di una
pistola» («Spectre of the Gun») oppure al peplum di «Nell’arena coi gladiatori» («Bread and Circuses»). Esempio perfetto di estetica neobarocca,
per le sue caratteristiche metalinguistiche e autoreferenziali, è inoltre un
episodio come «L’ammutinamento» («The Menagerie»), di lunghezza
doppia e, quindi, andato in onda diviso in due parti: la trama fa tornare
in scena il capitano Pike (interpretato da Jeffrey Hunter), predecessore di
Kirk alla guida dell’Enterprise e già protagonista del primissimo pilot di
Star Trek, «Lo zoo di Talos» («The Cage»), realizzato nel 1964 ma bocciato dal network perché giudicato «troppo oscuro e cerebrale». Ed è proprio il girato di questo pilota mai trasmesso a essere inserito in
«L’ammutinamento»: le immagini – giustificate da una cornice narrativa
che dà loro la necessaria coerenza – «vengono rimontate, con un intelligente piano rielaborativo dei materiali, e producono inevitabilmente un
mix metalinguistico. Un tipico anticipo dei mescolamenti “neobarocchi”
degli anni ’80, che rivela anche le intime voglie riflessive della serie: la
vita come sogno, la dialettica vita/morte, il sottile discrimine tra realtà e
fantasia. […] C’è insomma, nella series, una sorta di “taylorizzazione” del
prodotto filmico, per cui le forme tradizionali e i generi tradizionali vengono frammentati e ricomposti in una nuova catena di aggregazioni e in
un nuovo modello di efficienza. Vengono in mente le analisi di Fredric
Jameson sul pastiche – idea mutuata dalla scuola di Francoforte – come
combinazione di generi, convergenza di culture e media diversi, in un
universo iconico multilaterale postmoderno. […] Nella series si ricompongono in maniera nuova, si smaterializzano e rimaterializzano le particelle atomizzate nel processo di esplosione del genere» 9.
Viaggio di nuova concezione anche tra i generi, dunque, oltre che
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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nelle profondità dell’universo. Ma novità sostanziali – nella fantascienza televisiva secondo Roddenberry – si manifestano pure in relazione a
quello che è un altro «topos» della Science Fiction: il viaggio nel tempo.
Nello straordinario «Uccidere per amore» («The City on the Edge of
Forever») – scritto da Harlan Ellison e, secondo molti, il miglior episodio della serie – Kirk e Spock tornano indietro nel tempo, attraverso un
portale nel quale si è tuffato poco prima McCoy, per cercare di impedire che le azioni del loro amico nel passato possano cambiare il presente
dell’Enterprise: così, buona parte della puntata è ambientata all’inizio
degli anni ’30, nella New York della Grande depressione. Qui, Kirk s’innamora di una ragazza, Edith Keeler (interpretata da Joan Collins), che
però, in futuro, sarà inconsapevolmente responsabile della morte di
milioni di esseri umani: così, per amore di Edith e dell’umanità, il capitano prende la decisione più difficile e sacrifica la donna amata pur di
salvare il futuro del mondo. La grrande novità di quest’episodio è rappresentata dalla concezione stessa del tempo – non più inteso semplicemente in modo lineare – e, soprattutto, dal battesimo televisivo «ufficiale» 10 del seminale concetto di «paradosso temporale», che dà la possibilità a un ipotetico crono-viaggiatore di tornare indietro nel passato
per modificare il futuro attraverso le sue azioni: l’idea, com’è noto, farà
sentire la propria influenza su un’infinità di pellicole fantastiche dei
decenni a venire; bastino i celeberrimi esempi di due film-chiave degli
anni ’80, come Terminator (The Terminator, 1984) di James Cameron e
Ritorno al futuro (Back to the Future, 1985) di Robert Zemeckis, con i loro
rispettivi sequel.
Nonostante la ricchezza incredibile di temi e suggestioni, la serie classica di Star Trek, però, riesce a restare in onda soltanto per tre stagioni e
78 episodi, fino al 3 giugno 1969; con un discreto successo, ma che non
riesce comunque a evitarne la cancellazione e che, soprattutto, non lascia
minimamente presagire la nascita del «culto» che si svilupperà di lì a
qualche anno. Sono le continue repliche sulle frequenze di una NBC
subissata da lettere di protesta e su vari canali privati, infatti, a tener vivo
l’interesse nei confronti dello show per tutti gli anni ’70, mentre Gene
Roddenberry tenta più volte di realizzare una nuova serie catodica. Tra
giugno e novembre 1977 il produttore sembra essere riuscito a convincere i vertici della Paramount e inizia a lavorare a Star Trek: Phase II, programma che dovrebbe inaugurare il nuovo network televisivo della
major californiana. Le cose cambiano nuovamente, però, e così la space
opera riesce a tornare in vita «soltanto» in formato cinematografico, alla
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
fine del 1979, con un pubblicizzatissimo kolossal diretto da Robert Wise
e prodotto sempre dalla Paramount, Star Trek (Star Trek: The Motion
Picture), che incassa più di cento milioni di dollari solo negli Stati Uniti e
dà vita a due sequel nel giro di pochi anni: Star Trek II. L’ira di Khan (Star
Trek: The Wrath of Khan, 1982) e Star Trek III. Alla ricerca di Spock (Star Trek
III: The Search for Spock, 1984). Il successo crescente e il rinnovato interesse per i personaggi di Roddenberry rende, dunque, finalmente maturi i
tempi per il grande ritorno della serie anche in televisione.
Una nuova generazione di eroi, più problematici
C’è ancora tempo per il successo di un altro capitolo cinematografico con l’equipaggio della serie classica – Star Trek IV. Rotta verso la Terra
(Star Trek IV: The Voyage Home, 1986), che incassa centodieci milioni di
dollari ed è ben accolto anche dalla critica – prima che si realizzi l’evento televisivo più atteso del decennio (almeno dai trekkers): il ritorno sui
teleschermi statunitensi di una nuova serie di Star Trek, vent’anni dopo
quella originale.
Il 28 settembre 1987, quindi, gli Stati Uniti si fermano per assistere
alla messa in onda delle due ore di «Incontro a Farpoint» («Encounter at
Farpoint»), lungo episodio pilota del nuovo telefilm ideato da Gene
Roddenberry: Star Trek - The Next Generation. La prima novità è di carattere produttivo e distributivo, poiché i diritti di trasmissione della nuova
serie restano in mano alla produttrice Paramount, che decide di mandarla in onda al di fuori delle programmazioni dei network, in syndication, vendendola, cioè, a 170 stazioni televisive locali che la irradiano sul
94% del territorio statunitense. «Sono contento – sbotta Roddenberry,
memore del difficile rapporto di ventun’anni prima con i vertici NBC –
che non dipendiamo dalla rete, così non me la devo vedere con un altro
stadio di censura e cose del genere. Porto ancora i segni di alcune di
quelle battaglie del 1966!» 11. La partenza stavolta è lanciatissima e sui
fondamentali mercati di Los Angeles, Dallas, Seattle, Miami e Denver il
nuovo show ha nettamente la meglio su tutti i concorrenti della fascia di
prime time. Da questo momento, il successo della Next Generation diventa inarrestabile 12 e si prolunga per 176 episodi e sette stagioni, fino al 23
maggio 1994. Alla serie inizia a collaborare, con il ruolo di coproduttore
esecutivo, il personaggio che, in tempi brevi, è destinato a raccogliere l’eredità di Gene Roddenberry come padre-padrone dell’universo di Star
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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Trek: Rick Berman. Le musiche sono di Jerry Goldsmith (sulla base di
quelle di Alexander Courage), mentre gli ottimi effetti speciali vengono
affidati all’Industrial Light & Magic di George Lucas.
Gli americani e il loro paese sono molto diversi, rispetto a vent’anni
prima: il trauma del Vietnam, la crisi economica, il «riflusso», il reaganismo hanno cambiato troppe cose per far sì che un creatore di entertainment intelligente come Roddenberry possa riproporre la medesima «ricetta» della serie originale. Così, pur nel pieno rispetto di quella che è ormai
percepita – dai fan, innanzitutto – come un’autentica filosofia di vita, The
Next Generation (che d’ ora in poi, per comodità, chiameremo TNG) viaggia su binari molto diversi da quelli del prototipo con Kirk e Spock. «Star
Trek ci ha ritratto – sottolinea, all’epoca, Gary Christenson sul settimanale “TV Guide” – nella nostra temeraria gioventù, con il capitano di un’astronave capace di domare lo spazio con lo stesso vigore con cui noi
rivendicavamo il futuro. […] Star Trek - The Next Generation mostra che il
bambino è cresciuto, un po’ meno grezzo ma anche più soddisfatto di se
stesso. E tanto meglio se c’è un tocco di grigio e qualche ruga.» 13
Già da una semplice analisi dei personaggi principali, balzano all’occhio evidenti differenze tra i due show. Innanzitutto, qui la struttura si
fa molto più corale e i protagonisti salgono dal trio più o meno allargato della «Classic» a otto-nove: il capitano Jean-Luc Picard (Patrick
Stewart), il comandante William Thomas Riker (Jonathan Frakes), l’androide tenente comandante Data (Brent Spiner), la dottoressa Beverly
Crasher (Gates McFadden) e suo figlio Wesley (Wil Wheaton), la consigliera betazoide Deanna Troi (Marina Sirtis), il tenente comandante
Geordi La Forge (LeVar Burton), il tenente klingon Worf (Michael Dorn),
il tenente Natasha Yar (Denise Crosby). La presenza femminile è molto
spiccata, con tre elementi, di cui due come Crusher e Troi davvero
importanti (Tasha Yar, invece, muore ben presto: ed è il primo personaggio ricorrente della saga a subire tale destino); il giovane Wesley Crusher
incarna il classico adolescente americano sveglissimo e decisamente più
a suo agio con le nuove tecnologie, rispetto agli adulti; il nemico di ieri,
l’Impero Klingon, è presente addirittura sul ponte di comando federale
con un suo esponente, Worf; La Forge – che, tra l’altro, è afroamericano
– rappresenta, poi, un’altra minoranza che, nel corso degli anni ’80, fa
sentire con sempre più forza la propria voce sui mass media, quella dei
portatori di handicap: infatti, è cieco e può vedere soltanto attraverso
uno speciale visore elettronico. Poi c’è Data, che incarna «l’occhio alieno» della nuova serie, come prima di lui aveva fatto Spock: anche lui,
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
come il vulcaniano, non prova emozioni, ma – proprio come un novello
Pinocchio – persegue il desiderio di diventare umano e, allo scopo, spesso imita goffamente i comportamenti dei compagni; a lui sono affidati i
commenti usuali sulla stranezza del genere umano e dei modi di essere
(magari, con la divertita complicità del klingon Worf).
È il capitano Jean-Luc Picard, però, che fa capire meglio degli altri
come il tempo sia passato: le differenze con Kirk sono tante ed evidentissime, dall’aspetto fisico – Picard è più maturo, calvo e dall’espressione solitamente corrucciata e quasi arcigna – al carattere, incline alla
riflessione più che all’azione, coraggioso ma prima di tutto saggio perché forgiato da precedenti esperienze che s’indovinano sofferte.
Particolare non trascurabile, poi, è quello della nazionalità del «nuovo»
capitano: non più tipico «yankee» kennediano ma problematico europeo
(francese) colto, dalla personalità sfaccettata e dai molteplici interessi
(tra l’altro, è un appassionato lettore di Shakespeare, con evidente riferimento-omaggio alla prestigiosa carriera teatrale dell’interprete Patrick
Stewart; anche questa diversissima da quella più televisiva di William
Shatner). A Kirk si avvicina molto di più il personaggio di William T.
Riker: i due, infatti, hanno in comune – oltre all’iniziale del secondo
nome – il «physique du rôle» da uomini d’azione, il fascino brillante, la
sfrontatezza e un forte appeal sull’altro sesso. Fondamentale e indicativo, però, è il fatto che Riker non sia il capitano della nave, come a dire
che tempi nuovi e più complessi – gli anni ’80 e, ancor di più, i ’90 –
richiedono maggiore sottigliezza e diplomazia nell’esercizio della delicata «arte» del comando.
Le avventure della TNG sono ambientate un’ottantina d’anni nel
futuro rispetto a quelle della serie classica. La Federazione ha stipulato
un trattato di pace con l’Impero Klingon ed esplorato porzioni maggiori di Galassia (dal 4% si è arrivati al 19%). La tecnologia è notevolmente migliorata, rendendo la vita ancora più confortevole: anche le navi
della Flotta Stellare, dunque, sono più spaziose e meno «marziali», con
ampie zone dedicate alle famiglie e ai civili. È il caso pure della nuova
Uss Enterprise NCC 1701-D di classe Galaxy, la nave stellare capitanata da Jean-Luc Picard, dotata di uno spazio interno otto volte superiore
rispetto a quella di Kirk, per permettere agevolmente il trasporto di un
elevato numero di persone. Tra i nuovi ambienti dell’astronave spicca
la zona bar del Ten-Forward, gestita dalla saggia ultracentenaria
Guinan (interpretata da Whoop Goldberg), unica superstite della razza
el-auriana; e, soprattutto, l’Holodeck, cioè il Ponte Ologrammi, capace
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
75
di riprodurre un’infinità di ambienti e situazioni differenti per scopi
ricreativi 14 e che, spesso, acquista vita propria fino a mettere in guai seri
l’equipaggio (il culmine arriva con il terzultimo episodio, «Una nuova
vita», «Emergence», nel quale l’Enterprise stessa acquista una sua rudimentale forma di intelligenza): proprio l’Holodeck – soprattutto grazie
all’utilizzo che ne fa Data – permette anche il pieno dispiegarsi dell’aspetto citazionista postmoderno di TNG, sulla scia della serie classica;
esemplificativi, da questo punto di vista, sono episodi transgender come
il western di «Per un pugno di Data» («A Fistful of Datas») e il noir di
«Il grande addio» («The Big Goodbye»).
Altro personaggio capace di produrre improvvise variazioni
ambientali è il semidivino di Q (che ha il volto di John De Lancie),
misterioso alieno dall’antica saggezza e dalle bizze spesso incomprensibili, appartenente alla razza del Continuum (una sorta di Olimpo
galattico): il bizzarro carattere accompagna il viaggio dell’Enterprise di
Picard fin dall’episodio pilota, «Incontro a Farpoint», quando costringe
l’equipaggio a rivivere le violenze disseminate lungo la storia del genere umano, prima di dare il via a un grottesco processo nei confronti di
un’umanità da lui ritenuta indegna e immatura; Picard, però, dimostrerà che gli umani hanno imparato molto dagli sbagli del loro passato e che, quindi, sono degni di continuare a esistere. Col procedere della
serie, gli interventi di Q diventano sempre più giocosi e quasi fumettistici, anche se mettono regolarmente l’Enterprise in situazioni senza
speranza, veri e propri test che creano competizione continua tra lui e
Picard: è proprio Q, però, a tirar fuori dal pericolo i suoi «amici» della
Flotta Stellare, con interventi degni del «deus ex machina» della tragedia greca. Insomma, Q incarna il Destino proponendone, però, la rappresentazione perfetta per l’età postmoderna: all’insegna, cioè, della
commistione tra tragico e comico.
È proprio un infantile scatto d’ira di Q a scagliare l’Enterprise in un
settore lontano e sconosciuto dello spazio (quello denominato J25), dove
s’imbatte per la prima volta in coloro che diventeranno i «cattivi» principali del telefilm, nonché le creature più sinistre e temibili (e interessanti) prodotte dalla fantascienza per immagini degli ultimi quindici
anni: i Borg. Prima dell’episodio in questione, «Chi è Q?» («Q-Who?»),
le basi per il loro ingresso nella serie vengono create già al termine della
stagione inaugurale, in «La zona neutrale» («The Neutral Zone»), puntata che mostra il primo contatto tra Federazione e Impero Romulano
dopo 53 anni di silenzio: l’occasione è offerta dalla misteriosa distruzio-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
ne di alcuni avamposti creati da entrambe le civiltà nella zona neutrale
istituita col trattato di pace che chiuse, nel passato del «Trek Universe»,
le Guerre Romulane. Responsabili dell’attacco – ma si capirà soltanto in
seguito – sono proprio i Borg. Questa razza rappresenta tutto ciò che si
oppone, in linea di principio e sostanzialmente, alla filosofia trekkiana e
– nella finzione dello show – a quella della Federazione: i Borg sono
creature tecnorganiche in continuo movimento lungo la Galassia, col
solo scopo di assimilare le conoscenze delle civiltà che incontrano nel
corso dei loro viaggi, per poi distruggerle completamente. Il fine, quindi, è lo stesso dell’Enterprise – l’accrescimento della conoscenza – ma il
rovesciamento di segno è evidentissimo: i Borg, infatti, non tollerano
l’alterità, ma l’annullano dopo averne sfruttato fino in fondo le peculiarità. Essi stessi, inoltre, sono privi di ogni forma d’individualità e uniti,
attraverso una coscienza collettiva, in un unico organismo che, quindi,
in battaglia riesce ad agire come l’esercito perfetto; è difficilissimo combatterli, poi, perché sono in grado di assimilare qualsiasi nuova conoscenza con cui vengono in contatto: perciò, una tecnica d’attacco può
andare a buon fine soltanto la prima volta.
L’impossibilità di un dialogo tra loro e l’Enterprise è dovuta alle
caratteristiche strutturali stesse dei Borg, che uniscono all’avanzatissimo
livello tecnologico tipico delle forme di vita superiori una totale mancanza di motivazioni che non siano quelle elementari d’assimilazione e
autoconservazione proprie degli organismi primitivi. «I Borg – secondo
Franco La Polla – sono fini a se stessi. Essi non hanno nessun progetto
politico di potere, né alcuna idea (e tantomeno obiettivo) di colonialismo.
[…] Sono davvero un’invenzione straordinaria, nel senso che danno
corpo a una episteme di non facile figurazione, quella di una tecnologia
onnivora che è riuscita a fondarsi come entità sulla base di un principio
inconcepibile per lo spirito e la cultura americani: la negazione dell’individualità. […] E non a caso il mezzo più efficace per contrastarli si rivelerà l’immissione di un senso d’individualità in uno di loro» 15. Ciò avviene in un bell’episodio della quinta stagione, «Io, Borg» («I, Borg»), imperniato sul ritrovamento di un membro di questa razza da parte dell’equipaggio dell’Enterprise: gli uomini di Picard – che, in precedenza (tra
terza e quarta stagione: «L’attacco dei Borg», «The Best of Both Worlds»,
in due parti), era stato a sua volta assimilato e ribattezzato Locutus – riescono a separarlo dalla coscienza collettiva e, pian piano, a immettergli
barlumi d’individualismo, incoraggiandolo a riferirsi a se stesso col pronome «io» invece che col «noi». In perfetto spirito «trekkie», poi, i mem-
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
77
bri della Flotta Stellare evitano d’inserire in Hugh – hanno chiamato così
il giovane Borg, perché in inglese la pronuncia è simile a «You» – un chip
che saboterebbe la coscienza collettiva della razza di parassiti tecnorganici: il loro ospite, infatti, ha ora una propria soggettività che ne fa una
persona degna d’affetto e rispetto. «Dopo questa storia – sottolinea Jeri
Taylor, responsabile della rifinitura dello script – non si possono più trattare i Borg allo stesso modo» 16: quando tutti pensano che sia normale,
quasi dovuto, odiarli, dunque, TNG rimette in discussione, per l’ennesima volta, i pregiudizi di protagonisti e spettatori.
Proprio dal punto di vista dell’approccio etico-filosofico, comunque,
la seconda serie riesce a spingersi ancora più in là rispetto a quella classica, rivelandosi ben più problematica e, così, adattissima alla maggiore
complessità della società circostante e alla sempre più evidente perdita
di certezze ontologiche tipica della fine degli anni ’80 e, soprattutto, dell’inizio dei ’90. Assieme ai Borg, lo stesso personaggio di Data – senz’altro il più amato dagli spettatori – sa fornire spunti infiniti, soprattutto col
suo desiderio fortissimo di diventare umano e provare emozioni.
Nell’intenso episodio «La misura di un uomo» («The Measure of a Man»
in onda nel febbraio 1989), per esempio, l’androide deve affrontare una
prova durissima, quando un cinico esperto di cibernetica della Flotta
Stellare, Tom Maddox, ne mette in discussione addirittura i diritti come
essere senziente, per smontarlo, studiarlo e replicarlo in serie come mero
schiavo meccanico. Nel corso di un serrato processo, il capitano Picard
difende davanti alla corte suprema della Federazione il diritto di Data a
venir considerato alla stregua di un essere vivente: e la vittoria dà il crisma dell’ufficialità a una situazione di cui nessuno – sull’Enterprise e
davanti al teleschermo – aveva mai dubitato. Data è davvero un personaggio modernissimo, per come arricchisce di ulteriore umanità i già
tormentati profili dei replicanti bladerunneriani, in un decennio del
cinema statunitense che si sofferma con insistenza su temi affini come
l’incerta percezione del corpo e dell’identità propri e altrui, l’insorgere
kinghiano delle macchine senzienti, l’interfaccia inestricabile tra biologico e tecnologico, il rapporto dicotomico tra corpo e mente. A cavallo tra
i decenni ’80 e ’90, insomma, diventa più che mai importante interrogarsi su quella che è, davvero, «la misura di un uomo».
Altri problemi di carattere etico sono quelli derivanti dal rispetto
della cosiddetta Prima Direttiva, cioè il precetto secondo il quale
l’Enterprise non deve mai interferire con lo sviluppo, gli usi e le tradizioni delle civiltà incontrate nel corso dei suoi viaggi d’esplorazione
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
galattica. Il soggetto meno sicuro e più frammentato, rispetto a quello
degli anni ’60, fa sì che le decisioni da prendere siano molto più sofferte
di quelle affrontate da Kirk. L’universo di Star Trek – come gli Stati Uniti
e il mondo reale – è diventato ben più complesso e articolato: non esiste
più il «muro contro muro» che ha caratterizzato quasi tutto il secondo
dopoguerra (nella serie l’Impero Klingon è diventato un alleato) e la
caduta del muro di Berlino ha dato inizio davvero a un mondo nuovo,
anche dal punto di vista geopolitico, con il panorama internazionale
(galattico) affollato da tante civiltà diverse che spesso riescono a convivere soltanto grazie a sottili mediazioni diplomatiche. In un simile contesto sociale e politico, il rispetto della Prima Direttiva fa nascere ogni
volta enormi problemi morali e, allo stesso tempo, rappresenta – nella
percezione dei telespettatori – una continua messa alla prova e persino
una ridefinizione dei valori fondanti della società americana stessa, a
partire da quello chiaramente colonialista della «Frontiera»: adesso ciò
che conta è l’arricchimento interiore che arriva da un confronto non
superficiale con «l’Altro». E più costui è diverso e costringe a prendere
decisioni difficili e sofferte, più provocherà una crescita che, in definitiva, servirà poi come autentico elemento di contatto e vicinanza. C’è un
episodio in particolare, «Il giudizio» («Justice»), che mette Picard di
fronte a una difficilissima scelta: restare coerente con i propri principi,
oppure salvare la vita del giovane Wesley Crusher che – su un pianeta
che punisce tutti i crimini con la pena di morte – rischia d’essere giustiziato per aver calpestato inavvertitamente una pianta? Dopo un lungo
travaglio interiore, molto diverso da quelli di Kirk, il tormentato capitano capisce che «non ci può essere giustizia fino a quando le leggi sono
assolute. La vita stessa – conclude, riferendosi sia alle norme del popolo
alieno che alla Prima Direttiva – è un esercizio pieno di eccezioni». È
all’insegna dell’inadeguatezza di precetti troppo rigidi, dunque, che il
relativismo culturale di TNG si manifesta nelle situazioni più spinose:
quando la sottile arte della negoziazione interpersonale e interculturale
s’affianca (e, qualche rara volta, si sostituisce), nel concreto, al principio
teorico della Prima Direttiva.
I cambiamenti della società statunitense – pienamente multietnica,
proprio come l’equipaggio della nuova Enterprise che, però, ne rappresenta un campione-esempio assolutamente privo di conflitti – si riflettono in TNG anche per quanto riguarda il nuovo modo di guardare alla sessualità. Così, se nel 1968 aveva destato scandalo il bacio interrazziale tra
Kirk e Uhura, nella seconda serie l’androide Data fa sesso con la bionda e
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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mascolina Tasha Yar già nel secondo episodio, «Contaminazione» («The
Naked Now»); più avanti, poi, in «L’ospite» («The Host») e «Il diritto di
essere» («The Outcast») vengono affrontati in modo esplicito – ma non del
tutto soddisfacente – temi connessi all’omosessualità, attraverso le vicissitudini di parassiti alieni che occupano, di volta in volta, corpi differenti:
in Star Trek - Deep Space Nine (id., 1993) si andrà oltre, ma qui è importante che il ghiaccio sia stato rotto. D’altra parte, una serie attenta alle minoranze emergenti, com’è TNG, non poteva che dare piena voce – seppure
in modo contraddittorio – anche alle esigenze di un «terzo sesso» sempre
più numeroso e influente nella società americana del periodo.
Nel corso delle sette stagioni in cui s’articola la Next Generation altri
eventi caratterizzano l’universo di Star Trek: in due nuovi film per il
grande schermo – Star Trek V: L’ultima frontiera (Star Trek V: The Final
Frontier, 1989) e Star Trek VI: Rotta verso l’ignoto (Star Trek VI: The
Undiscovered Country, 1991) – torna in scena il cast della serie classica; il
24 ottobre 1991, a 70 anni, muore Gene Roddenberry, il «Grande Uccello
della Galassia» creatore del «Trek Universe»; già dalla terza stagione
della TNG, Rick Berman occupa un ruolo sempre più importante e centrale; nel corso delle annate entrano nel gruppo di lavoro alcuni sceneggiatori-produttori – Michael Piller, Jeri Taylor, Brannon Braga, Ronald D.
Moore – destinati a lasciare un segno indelebile nella storia di Star Trek;
all’inizio del 1993 inizia ad andare in onda la terza serie televisiva Star
Trek - Deep Space Nine e, per due stagioni, i teleschermi americani ospitano una doppia razione di avventure «trekkie». Il 23 maggio 1994, poi,
con l’episodio «Ieri, oggi, domani» («All Good Things…»), la TNG termina la propria corsa in modo trionfale, ottenendo il miglior indice d’ascolto di tutti i tempi per una serie trasmessa in syndication. A novembre,
quindi, il cast completo della Next Generation incontra sul grande schermo quello della serie classica, per il passaggio di consegne ufficiale
anche al cinema: il film si intitola Generazioni (Star Trek: Generations, 1994)
e si conclude con il doppio shock della morte di James Kirk e dell’esplosione della Uss Enterprise NCC 1701-D 17.
Qualcosa di speciale: «Deep Space Nine»
Come evitare di rendere ripetitivo un nuovo telefilm di Star Trek,
quando sui teleschermi statunitensi va ancora in onda l’amato Next
Generation? A questa domanda, gli ideatori e produttori Rick Berman e
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Michael Piller rispondono ambientando non su un’astronave in movimento per la Galassia bensì su una stazione stellare ferma in orbita
attorno a un pianeta la loro nuova serie del «Trek Universe», la prima
realizzata dopo la morte di Gene Roddenberry: Star Trek - Deep Space
Nine, trasmessa ancora una volta in syndication a partire dal 4 gennaio
1993 – con l’episodio in due parti «L’emissario» («Emissary») – e andata in onda per 175 puntate fino al 23 maggio 1999 («What You Leave
Behind», episodio in due parti, al momento inedito in Italia).
Si tratta di una serie molto diversa rispetto alle due precedenti, dal
punto di vista strutturale e dei contenuti. Al centro degli episodi, naturalmente, c’è sempre l’idea trekkiana di famiglia-società multiculturale (stavolta più che mai, anzi) e di confronto continuo con «l’altro da sé», anche
se Star Trek - Deep Space Nine (che, d’ora in poi, chiameremo DS9) si propone come decisamente più complessa e sfaccettata dal punto di vista
«politico», prestando grande attenzione a rendere più solide e coerenti le
basi cosmologiche dell’universo di Star Trek, «riletto» come sempre più
privo di punti di riferimento certi e, soprattutto, con toni più cupi e oscuri. «Abbiamo iniziato – racconta, a tale proposito, Rick Berman – con l’idea di espandere, non di cambiare, l’universo di Roddenberry. Eravamo
del tutto consapevoli della responsabilità di non duplicare ST: TNG, ma
anzi di aggiungervi qualcosa. Per questo ci siamo detti: che cosa possiamo fare per dare nuovo acume a questo universo?» 18. È presto detto: basta
uno sguardo allo scenario nel quale è ambientato il nuovo show.
La serie si svolge nel XXIV secolo, contemporaneamente ai viaggi
dell’Enterprise di TNG. La mappa della Galassia è divisa in quattro quadranti: Alfa, Beta, Gamma, Delta, con la zona a cavallo tra i primi due – è
qui, tra l’altro, che si trova la Terra – che coincide con la porzione finora
esplorata dalla Flotta Stellare della Federazione Unita dei Pianeti. Lo
Spazio federale confina a Est con quello degli imperi Klingon e Romulano,
mentre i Borg arrivano da Nord, dall’altra parte della Galassia, lo sconosciuto quadrante Delta. All’estremità occidentale dello Spazio federale si
trova un pianeta di secondaria importanza, Bajor, appena sottratto al feroce dominio cardassiano, durato oltre cinquant’anni 19: la Federazione ha
sottoscritto un accordo di pace formale con l’Unione Cardassiana, cedendo alcune colonie nelle quali si attiva ben presto la resistenza armata dei
Maquis, ex ufficiali della Flotta in disaccordo con la politica federale,
anche perché i cardassiani, in barba agli accordi, proseguono in ripetute
incursioni oltre i territori federali di confine. Questo quadro politico estremamente complesso va colto come la fin troppo evidente metafora di un
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
81
mondo reale che, nel corso degli anni ’90, gli Stati Uniti non riescono più
a decodificare attraverso gli stessi strumenti interpretativi del passato
anche recente: privati del loro tradizionale avversario, l’Unione Sovietica,
si trovano sempre più coinvolti in spinose situazioni internazionali come
quelle dei Balcani e del Medio Oriente, dove le armi della diplomazia
diventano fondamentali ma, spesso, non sufficienti ad assicurare stabilità
ed equilibrio (tra l’altro, sappiamo bene come i recenti sviluppi abbiano
reso la situazione internazionale ancora più tragicamente ingarbugliata,
ben oltre i limiti della fantasia di qualsiasi sceneggiatore televisivo).
È in un simile contesto, dunque, che la Federazione assegna il comandante Benjamin Sisko (è l’apprezzato attore teatrale Avery Brooks) alla
guida dell’ex stazione stellare cardassiana Terok Nor, ribattezzata Deep
Space Nine. L’avamposto si trova nell’orbita del pianeta Bajor, ma anche
a ridosso di un misterioso tunnel spaziale stabile che mette in comunicazione il quadrante Alfa con quello Gamma. La missione di Sisko e dei
suoi uomini, quindi, è doppiamente delicata: controllare il tunnel e gestire la situazione di una porzione di Spazio politicamente esplosiva come
poche altre. Con lui, reggono le sorti della Deep Space Nine il maggiore
Kira Nerys (Nana Visitor) di razza bajoriana, nonché ex prigioniera di
guerra e «terrorista» nelle guerre di resistenza cardassiane; l’impulsivo
ma professionale medico di bordo Julian Bashir (Siddig El Fadil); il capo
ingegnere Miles Edward O’Brien (Colm Meaney), irlandese purosangue
proveniente dall’Enterprise di TNG; l’affascinante tenente Jadzia Dax
(Terry Farrell), che in realtà è un simbionte alieno vecchio di trecento
anni, ospitato nel corpo di una bellissima ragazza; il conestabile Odo
(Rene Auberjonois), capo della sicurezza, mutaforma proveniente anche
lui dalla milizia bajoriana, ma dalle vere origini misteriose. Completano
il cast regolare della serie i due alieni Ferengi Quark (Armin Shimerman)
e Nog (Aron Eisenberg) e l’adolescente Jake (Cirroc Lofton), figlio del
comandante Sisko. Dopo la chiusura di TNG, poi, anche il klingon Worf
viene trasferito in DS9.
Nonostante l’universo finzionale sia il medesimo della Next
Generation, DS9 propone un ulteriore passo avanti lungo il sentiero del
relativismo culturale. Dei dieci caratteri del cast regolare, infatti, soltanto quattro sono umani: due bianchi e due neri (Sisko e suo figlio). Gli
altri sono alieni di razze e culture diversissime, a significare come ormai
non ci sia nemmeno più bisogno di mettere in evidenza l’aspetto esteriore dell’altro, perché è già parte di noi: la personalità e l’interiorità dei
personaggi fanno dimenticare completamente il loro aspetto esteriore.
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
E, da questo punto di vista, la Deep Space Nine si propone come autentico crocevia multiculturale, proprio come avviene nello stesso periodo
in un altro celebre telefilm di fantascienza ambientato a bordo di una
stazione spaziale: Babylon 5 (id.), creato nel 1992 dall’abile sceneggiatore Joe Michael Straczynski e andato avanti per cinque stagioni e 110 episodi. Anche qui, il nome della serie coincide con quello della stazione
orbitante dove sono ambientate quasi tutte le vicende; anche qui, poi, la
trama ruota attorno a conflitti interplanetari – in particolare, quello tra
Alleanza terrestre e alieni Minbari – e diplomazia interstellare; anche
qui, infine, i tanti personaggi interagiscono tra loro nei modi meno
usuali e più originali. La differenza sostanziale è che Straczynski pensa
Babylon 5 già con un inizio e una fine ben definiti, proprio come accade
per le telenovele sudamericane, realizzando quindi un’unica «maxiserie» dall’arco narrativo lungo cinque stagioni. Proprio questa caratteristica strutturale di Babylon 5 influenza non poco DS9, soprattutto a partire dalla terza annata (e, d’altra parte, tra i team produttivi dei due
show sono più volte volate accuse reciproche di plagio).
Con Babylon 5, dunque, DS9 ha in comune un elemento rivoluzionario nell’ambito dell’universo di Star Trek: il differente rapporto col concetto di serialità, dato che le varie trame si sovrappongono l’una con l’altra e procedono anche per parecchi episodi, con una continua evoluzione
di situazioni e personaggi. L’esempio migliore arriva dall’ottimo e serratissimo arco narrativo conclusivo, «The Final Chapter», che si sviluppa in
ben dieci puntate. «Una delle cose di cui vado più fiero circa il mio lavoro per DS9 – sottolinea il coproduttore esecutivo del telefilm, Ira Behr –,
è la possibilità di creare una storia in continua evoluzione. Noi portiamo
i personaggi e le vicende su strade che nessuna serie percorrerebbe mai,
ancorate come sono, tutte o quasi, settimana dopo settimana, al modello
di sempre, al riparo da ogni rischio. Il nostro programma, invece, è estremamente fluido. […] È l’unico, nella storia di Star Trek, compreso Voyager
[Star Trek - Voyager, id., 1995], che non si basa su “qualsiasi cosa succeda
possiamo lasciarcela alle spalle e andare avanti con la prossima avventura”. Qui ci dobbiamo destreggiare in continuazione con le azioni e le loro
ripercussioni» 20. Behr prosegue, paragonando il suo show alla Next
Generation: «TNG, che è sempre stato presentato come complesso, soprattutto per la sua affettazione, è in realtà un programma semplicissimo: di
solito si apre con un problema e si chiude con la soluzione. In DS9, invece, non ci sono problemi così chiari e definiti; noi lavoriamo sul modo di
renderli più ingarbugliati possibile! I protagonisti sono tratteggiati con
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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un certo spessore, non sono solo eroi, come quelli visti nelle altre serie
che, sebbene avessero le loro fragilità, sembravano tutti John Wayne:
nonostante talvolta avessero qualche sciocca debolezza, erano fondamentalmente e indiscutibilmente eroi. Su DS9, questi personaggi sono le
persone con cui interagiamo, e la qualità “mitica” viene meno, almeno in
parte» 21.
Il confronto dei protagonisti con i tanti nemici che affollano la porzione di universo conosciuto si sviluppa come grandioso intreccio fantapolitico e non come sequenza di incontri episodici: Berman, Piller e il loro
staff muovono sapientemente le numerose pedine, senza paura d’intaccare lo scenario dell’intero progetto di Star Trek. Così, chiamano in scena
tutti i soggetti politici conosciuti: Klingon, Romulani e Vulcaniani,
Cardassiani, Federazione e i nuovi nemici mortali del Dominion, intrecciandoli in un serrato gioco di alleanze e tradimenti, invasioni e resistenza armata, spionaggio intergalattico, corruzione, guerre fredde e combattimenti «caldissimi» che culminano col bombardamento della Terra. Al
centro di questi precari equilibri di potere c’è il mondo di Bajor, reduce da
decenni di dominazione straniera e sempre sull’orlo del colpo di stato e
dell’avvento al potere di fazioni legate all’integralismo religioso: e qui la
metafora è sinistramente chiara e, purtroppo, tragicamente attuale.
E proprio la civiltà bajoriana offre l’occasione per porre l’accento su
un’altra novità assoluta proposta da DS9, rispetto alla tradizione di Star
Trek: la presenza di una spiccata sensibilità religiosa e di tematiche
«forti» connesse all’argomento; cosa del tutto assente altrove. Fin dalla
serie classica, infatti, Roddenberry porta avanti una visione del suo universo narrativo in cui non c’è spazio per gli dèi del passato, del presente o del futuro. Un esempio calzante arriva dall’episodio «classic»
«Dominati da Apollo» («Who Mourns for Adonais?»), che ritrae l’ex dio
terrestre – ora costretto a una vita di solitudine in un mondo lontano –
come esponente di una razza aliena capricciosa e tipicamente illogica.
Nella Next Generation, poi, l’incredibile personaggio di Q e la bizzarra
civiltà del Continuum di cui questi fa parte danno la possibilità di vedere in azione creature eterne e dai poteri divini, ma quasi imbarazzanti
per il loro infantilismo e la «difettosa» umanità. O ancora, sempre negli
episodi della TNG, la religione è ripetutamente attaccata da una posizione laica e razionalistica, liquidata come mero meccanismo sociologico o, addirittura, ciarlataneria: per esempio, in puntate come «Prima
Direttiva» («Who Watches the Watchers?»), «Il diavolo» («Devil’s Due»)
e «Il ritorno di Kahless» («Rightful Heir»). Questo perché, sottolinea
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
opportunamente Franco La Polla, «la scintilla del divino che percepiamo in Star Trek viene dall’uomo e da nient’altro. Ovvero: il divino è l’uomo. […] Un pensiero che viene da un’epoca di certezze ed entusiasmi
che lo ha permesso e originato» 22.
Al tempo della messa in onda di Deep Space Nine – come ripetuto più
volte – siamo, però, in un’epoca completamente diversa degli Stati Uniti
e del mondo: in un decennio, gli anni ’90, che vede l’emergere di numerose sette e, tra l’altro, è attraversato da correnti di carattere irrazionalistico come, per esempio, la «New Age»; inoltre, la sempre più prossima
scadenza del passaggio dal secondo al terzo millennio provoca inevitabili «riscoperte» della propria e altrui spiritualità. Così, DS9 presta molta
attenzione a ciò che nelle altre due serie della saga non è mai stato affrontato in modo approfondito: ciò che si nasconde tra le pieghe (e magari
oltre) di un universo solo in apparenza regolato da leggi razionali ma
che, in realtà, non può essere spiegato fino in fondo con il semplice ricorso alla ragione. Lo spunto narrativo che permette di affrontare il lato spirituale dell’universo di Star Trek è offerto dal complesso sistema religioso
bajoriano, imperniato sul «mistero» dei Profeti: questi, all’inizio della
serie, sembrano quasi essere tratteggiati come i soliti esseri alieni semionnipotenti che dimorano, in questo caso, nel vicino tunnel spaziale; in
seguito, però, ogni cosa inizia a essere meno comprensibile razionalmente, come quando attraverso i sacri cristalli i Profeti inviano strane «visioni» a tutti quelli che mostrano la propria fede. Indicativa è, in tal senso,
la parabola esistenziale di Benjamin Sisko, dapprima tipico uomo del suo
tempo, scettico razionale, in un secondo momento sempre più coinvolto
da questa nuova realtà, fino a mettere in discussione le proprie certezze
e a scendere a patti col suo inedito ruolo di uomo di fede, allorquando
riceve addirittura il titolo di Emissario dei Profeti. Quello di Sisko è l’unico caso, nella lunga storia di Star Trek, di un personaggio principale
tanto combattuto tra fede (nel suo ruolo di Emissario) e ragione (in quello di ufficiale della Flotta Stellare): le tensioni e i dubbi che vive sulla sua
pelle, nel corso di episodi sempre più complessi e avvincenti, sono gli
stessi di fronte ai quali si trovano molti americani negli anni ’90.
Anche il conflitto interplanetario senza quartiere, che mette a ferro e
fuoco il quadrante Alfa, è combattutto su due piani contemporaneamente: mentre gli eserciti si sterminano a vicenda, infatti, profezie e
visioni, atti di fede e «consigli» semidivini influenzano le sorti della
guerra, in modo persino più decisivo di quanto gli stessi attori riescano
a percepire e sospettare. E sono permeati da un senso profondo di reli-
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
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giosità pure i nemici principali della serie, cioè i mutaforma del popolo
dei Fondatori: sono descritti, infatti, come esseri superiori dai modi
quasi sacerdotali; vivono in una specie di pianeta-santuario, dove condividono il «Grande Legame» e pianificano la loro spietata «guerra
santa» di conquista dell’universo; sono, se possibile, ancora più «alieni»
degli stessi Borg, perché coscientemente crudeli e non solo fedeli alla
propria «natura», come gli esseri tecnorganici. I Fondatori sono la specie
dominante del Dominion, una potente alleanza del quadrante Gamma
che esiste da almeno duemila anni: sotto il comando dei mutaforma
Fondatori, la razza dei Vorta gestisce il sistema burocratico-amministrativo dell’alleanza, mentre i Jem’Hadar – i primi a entrare in contatto con
le forze federali che si spingono dall’altra parte del tunnel spaziale, nell’episodio conclusivo della seconda stagione, «I Jem’Hadar» («The
Jem’Hadar») – costituiscono la forza bellica del Dominion, soggiogati
dai Fondatori tramite la somministrazione controllata del ketracel bianco, una droga che permette agli stessi Jem’Hadar di restare in vita. Il controllo del Dominion si estende su centinaia di mondi del quadrante
Gamma, assoggettati grazie all’efficienza e alla forza: diventa naturale
per i terribili mutaforma, quindi, partire alla conquista del quadrante
Alfa, appena si crea una «fessura permanente» attraverso il tunnel spaziale di collegamento tra i due settori della Galassia.
La guerra contro il Dominion fa letteralmente decollare la qualità di
DS9, a partire dall’inizio della terza stagione, col doppio episodio «In
cerca dei Fondatori» («The Search»), che mostra l’assegnazione all’equipaggio di Deep Space Nine della navetta stellare Defiant, per entrare nel
quadrante Gamma e combattere il nemico; nel fondamentale segmento,
si scopre anche la vera origine del mutaforma Odo – il responsabile della
sicurezza sulla stazione della Federazione – che appartiene a sua volta
proprio alla razza dei signori del Dominion. Per descrivere il conflitto –
che va avanti, lungo e logorante, fino alla conclusione della serie, in uno
scenario sempre più ampio, tentacolare e imprevedibile – gli autori utilizzano toni cupi e profondamente drammatici, mettendo in scena una
«guerra sporca» fatta di spionaggio e infiltrazioni, ma anche di battaglie
che producono miliardi di vittime civili e situazioni al di là dell’immaginazione: e quando i Fondatori tornano in scena per la seconda volta, già
al termine della terza stagione, nell’episodio «Il vero nemico» («The
Adversary»), uno di loro può permettersi di dire, sprezzante, a Odo: «È
troppo tardi… Noi siamo dappertutto». È indicativo, d’altronde, che il
nemico più temibile, nella percezione degli americani, sia ora quello
86
AI CONFINI DELLA REALTÀ
capace di alterare la propria forma e d’infiltrarsi nello stesso territorio statunitense, per sabotarlo dal suo interno. Il nemico per eccellenza diventa,
allora, il terrorismo senza volto – come i recenti fatti hanno tragicamente
confermato – più che una nazione diversa (magari perché comunista,
com’era l’Unione Sovietica) dagli Stati Uniti: insomma, DS9 è perfettamente calato nel proprio tempo, nel momento in cui propone come terribili avversari i subdoli mutaforma del Dominion piuttosto che l’Impero
Klingon della prima serie o la civiltà tecnorganica Borg della seconda.
Per le grosse differenze rispetto al «franchise» classico di Star Trek,
DS9 ha sempre subito molte critiche da parte degli appassionati, fino a
venir spesso considerata – in modo ingiusto e ingeneroso – come la
serie trekkiana più «debole». L’idea, purtroppo, è ancora più radicata
tra i fan italiani, che non hanno avuto la possibilità di seguire lo show
come avrebbe meritato e, soprattutto, non hanno ancora avuto modo di
vedere le sue stagioni migliori. Nel frattempo, negli stessi anni di messa
in onda di DS9, l’equipaggio della Next Generation è protagonista di
altre due pellicole cinematografiche più o meno fedeli allo spirito Trek,
alle quali partecipa anche un Worf in «licenza» dalla stazione spaziale:
si tratta di Primo contatto (Star Trek First Contact, 1996) e Star Trek L’insurrezione (Star Trek Insurrection, 1998) di Jonathan Frakes. Quando
DS9 termina – semplicemente per la naturale conclusione del suo lungo
arco narrativo – la quarta serie che, per qualche anno, ne ha accompagnato la programmazione sui teleschermi statunitensi, porta avanti da
sola «l’eredità» di Star Trek: lo show s’intitola Voyager.
Da «Voyager» a ritroso verso «Enterprise»
Il 16 gennaio 1995 Star Trek - Voyager inaugura ufficialmente le trasmissioni del nuovo, atteso network televisivo UPN, con cui la
Paramount fa il suo ingresso in pompa magna nel mercato televisivo:
l’indice d’ascolto è subito notevolissimo e ripaga gli sforzi produttivi
del network, che ha investito 23 milioni di dollari nel solo episodio pilota della serie, «Dall’altra parte dell’universo» («The Caretaker»), di
durata doppia. La conclusione della serie arriverà soltanto il 23 maggio
2001, dopo 172 puntate, con la seconda parte di un altro episodio doppio, «Endgame», in cui torna la sinistra regina Borg interpretata da
Alice Krige e già vista nel film Primo contatto.
Il nuovo telefilm è ideato e prodotto dal trio composto da Rick
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
87
Berman, Michael Piller e Jeri Taylor che nel 1998, però, abbandona il
gruppo per disaccordi con «l’astro nascente» Brannon Braga (che la sostituisce immediatamente). L’ambientazione temporale è la stessa della
Next Generation e di Deep Space Nine, il XXIV secolo; cambia, però, qualla
spaziale. Ciò accade in seguito alla premessa della serie, quando la nave
stellare Uss Voyager NCC-74656 di classe Intrepid – una tra le più avanzate dell’intera Flotta Stellare – viene inviata nella misteriosa nebulosa
delle Badlands, all’inseguimento di una nave dei ribelli Maquis (già
apparsi in TNG e, soprattutto, in DS9). Le due astronavi vengono intercettate da un raggio tetrionico d’immensa potenza e inglobate all’interno
di un’onda di dislocazione spazio-temporale che le spinge attraverso la
Galassia, a più di 70.000 anni luce di distanza dai territori federali, fino a
un sistema stellare situato nel remoto quadrante Delta. Causa di tutto
sembrerebbe un essere senziente potentissimo detto il Guardiano, attraverso una struttura meccanica tecnologicamente avanzatissima che può
mettere in contatto tra loro i vari quadranti galattici. In seguito a un attacco dei feroci alieni Kazon – che mettono fuori uso la navetta dei Maquis,
subito ospitati a bordo della Voyager – l’equipaggio federale decide di
distruggere il manufatto del Guardiano in applicazione della Prima
Direttiva, per impedire un passaggio dei Kazon nel quadrante Alfa. È per
questo motivo, dunque, che la Voyager col suo doppio equipaggio si
trova impossibilitata a compiere il tragitto a ritroso e resta isolata nello
spazio profondo: da questo momento, le frizioni tra federali e Maquis
(che, comunque, sono ex soldati della Federazione) vengono messe da
parte, perché la missione primaria diventa quella di tornare a casa.
Sul ponte di comando della Voyager c’è, per la prima volta nella storia di Star Trek, una donna: il capitano Kathryn Janeway (Kate Mulgrew),
che assume immediatamente un atteggiamento materno nei confronti
del resto dell’equipaggio. Al suo fianco, c’è l’ombroso comandante
Chakotay (Robert Beltran), un nativo americano che, dopo essere stato
ufficiale della Flotta Stellare, era passato tra le fila dei ribelli, in seguito
al discusso trattato tra Federazione e Unione Cardassiana. Gli altri personaggi ricorrenti sono: il tenente comandante vulcaniano Tuvok (Tim
Russ), di pelle nera, a indicare che anche su Vulcano ci sono varie etnie;
il tenente Tom Paris (Robert Duncan McNeill), impulsivo e persino un
po’ sbandato, ma ansioso di rimediare agli errori del suo passato; il guardiamarina asiatico Harry Kim (Garrett Wang), responsabile delle comunicazioni nonché ufficiale scientifico della nave; il tenente B’Elanna
Torres, metà umana e metà klingon, già al seguito di Chakotay nella
88
AI CONFINI DELLA REALTÀ
milizia Maquis; i misteriosi alieni (fidanzati tra loro) Neelix (Ethan
Phillips) e Kes (Jennifer Lien), che appartengono a questa parte della
Galassia. Infine, «l’occhio alieno» della serie che – dopo Spock, Data e
Odo – è rappresentato dal personaggio del Dottore Olografico (Robert
Picardo), il quale s’attiva automaticamente nel momento in cui muore il
vero medico di bordo: rispetto ai suoi tre predecessori, lui non è nemmeno vivente, dato che in realtà è un ologramma; così, acquistano ancora maggiore bizzarria le osservazioni che fa sul comportamento degli
altri membri dell’equipaggio.
Con Voyager prende corpo il tentativo di Berman e compagni di tornare al tema dell’esplorazione galattica – dopo la «pausa» di DS9 – su
basi nuove, anche se ciò significa fare «tabula rasa» del passato, per
dare libero sfogo alla propria fantasia di creatori alla ricerca continua di
freschezza e novità: e, da questo punto di vista, lo stratagemma dell’astronave sperduta in una porzione sconosciuta dello Spazio, senza nessun contatto con l’universo già noto, offre inedite possibilità drammaturgiche; fermo restando, ovviamente, il rispetto delle regole basilari
della «filosofia» trekkiana. Così, l’equipaggio si trova realmente davanti a «nuovi mondi e nuove civiltà», cosa non più possibile in una parte
della Galassia che, dopo i conflitti interplanetari di DS9, appare davvero affollatissima. I viaggi della Voyager, anzi, non offrono più nessun
punto di riferimento agli spettatori, proprio come accadeva ai tempi
della serie classica: quasi tutto ciò che s’incontra è nuovo e/o accade per
la prima volta. Per questo motivo, forse, elementi noti e rassicuranti
vengono forniti attraverso personaggi che – per esempio rispetto a
quelli «eversivi» di DS9 – ricalcano maggiormente altri già noti dalle
serie precedenti: c’è di nuovo un klingon, c’è un vulcaniano, tornano i
Borg; gli stessi membri dell’equipaggio «giocano» con tipi caratteriali
già ampiamente metabolizzati dai fan.
Proprio dal coinvolgimento dei Borg, però, arriva la maggiore novità:
nell’importante episodio doppio «Il patto dello scorpione» («Scorpion»),
che chiude la terza stagione e apre la quarta, la Voyager incrocia una
quindicina di navi-cubo della razza tecnorganica, mentre cerca di attraversare il loro territorio procedendo verso la Terra. Le navi sono in fuga
da qualcosa di ancora più temibile: la Specie 8472. Si tratta di una civiltà
extradimensionale, che comunica telepaticamente e vive in uno Spazio
fluido dove rappresenta l’unica forma di vita; appena è attaccata dai
Borg, acquista la consapevolezza dell’esistenza dell’alterità e – seguendo
il precetto: «Il debole soccomberà» – arriva nella nostra dimensione, lan-
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
89
ciandosi in una durissima reazione contro gli stessi Borg e devastando
centinaia di loro mondi. La Specie 8472, infatti, è immune al processo
d’assimilazione Borg e, quindi, non li teme. Soltanto il «patto dello scorpione» stretto tra Voyager e Borg riesce a respingere questo primo attacco, anche se la Specie 8472 torna altre volte, nel corso della serie, persino
con mire di conquista nei confronti dello Spazio federale. Il doppio episodio, però, porta una conseguenza ancora più duratura allo show, con
l’ingresso nella navetta capitanata da Kathryn Janeway di un nuovo, inatteso personaggio che risolleva immediatamente gli ascolti un po’ in ribasso di Voyager: una procace e spaesata giovane Borg chiamata Sette di
Nove e interpretata da Jeri Ryan. «Gli autori – spiega proprio la Ryan, a
proposito del suo ruolo – hanno creato un personaggio molto forte, che
vive una situazione di conflitto fra la sua natura Borg e la sua innata umanità, e hanno previsto un ritorno a essa molto lento e difficile» 23.
In ogni caso, proprio Sette di Nove diventa subito il personaggio più
amato dai telespettatori e, comunque, si conferma come quello senz’altro più interessante e meglio approfondito del telefilm. D’altra parte,
Voyager delude non poco proprio dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi: quasi tutti poco carismatici, ripetitivi e dotati di
minor spessore rispetto a quelli della serie classica e della Next
Generation, ma pure rispetto a quelli tormentati e innovativi di Deep
Space Nine. Probabilmente – checché ne dicano i «trekkers» di ferro – è
proprio Voyager la più debole tra le quattro serie di Star Trek, sia dal
punto di vista drammaturgico che per quanto riguarda il rapporto con
la «filosofia» trekkiana, applicata in modo formale e poco problematico. In realtà, con Voyager siamo di fronte soprattutto a una «variazione
sul tema» di Star Trek, un «gioco» autoreferenziale – più o meno riuscito, più o meno raffinato – tutto rivolto al passato ultradecennale del
«franchise», nonostante la forma esteriore dei singoli episodi proponga
l’esplorazione di una porzione nuova e mai vista della Galassia: forse è
proprio questa l’unica cosa mai vista, in un prodotto che, tutto sommato, non aggiorna il «mito» della saga di Roddenberry.
Con la conclusione dello show a maggio 2001, però, non appare più
possibile né realistica, ormai, un’assenza di Star Trek dai teleschermi statunitensi, anche perché il marchio resiste come uno tra i più popolari dell’intera industria hollywoodiana dell’intrattenimento multimediale e, in
tempi difficili, aveva letteralmente salvato dal fallimento la stessa
Paramount. Così, dopo appena qualche mese, il 26 settembre 2001 prende il via, sempre sul network UPN, la strombazzatissima (e attesissima)
90
AI CONFINI DELLA REALTÀ
quinta serie che, ancora una volta, prova a conciliare le ormai centrali esigenze commerciali con la voglia di stupire il pubblico con qualcosa di
diverso che, però, possa rispettare – almeno parzialmente – lo spirito
della saga: ne sono ideatori e coproduttori Rick Berman e il suo controverso pupillo Brannon Braga. La prima grossa novità del nuovo progetto arriva già dal titolo, che non presenta più il nome «Star Trek» seguito
da qualcos’altro, ma recita semplicemente Enterprise.
Si chiama, dunque, direttamente come la storica nave stellare lo show
che prova a rivitalizzare il «Trek Universe»: ma l’Enterprise del titolo è la
prima in assoluto. Le coordinate cronologiche della quinta serie, infatti, si
spostano all’indietro di oltre cent’anni rispetto alla serie classica, fino al
XXII secolo, poco prima della fondazione della Federazione Unita dei
Pianeti: e lo Spazio esterno ritorna a essere sconosciuto, come nella serie
classica e anche di più; insomma, secondo quello che è lo slogan studiato per il lancio di Enterprise, «l’ultima frontiera ha un nuovo inizio». E la
maggior parte del fascino della nuova serie risiede proprio nel paragone
continuo – meccanismo costitutivo dei prequel, d’altra parte – tra quest’inizio e tutto ciò che verrà dopo e che gli spettatori già hanno assimilato come facente parte del «mito»: il piacere del testo, quindi, diventa
interamente autoreferenziale, proseguendo lungo la strada aperta da
Voyager e puntando su un aspetto del «franchise» comunque sempre presente anche nelle prime tre serie, ma di secondaria importanza rispetto,
per esempio, al carattere di (ri)lettura metaforica della società circostante. È indicativa, per meglio comprendere lo «spirito» di Enterprise, una
dichiarazione rilasciata da Rick Berman nel corso della conferenza stampa ufficiale di presentazione del nuovo progetto: «Crediamo che l’elemento più divertente della serie, specialmente per gli appassionati, sarà
vedere tutte quelle cose che loro sanno essere lo Star Trek nelle fasi infantili, essere in grado di scoprire lo sviluppo di cose come il teletrasporto e
i phaser o i raggi traenti ecc. E ci divertiamo molto a vedere queste cose
quando ancora non operano alla perfezione, mentre sono ancora in corso
di sviluppo e perfezionamento» 24.
Le vicende della nuova serie – nell’episodio inaugurale «Broken Bow»
– iniziano sulla Terra il 16 aprile 2151, quando l’astronave Enterprise NX01 è in procinto di partire per una missione esplorativa. Poco prima del
momento del decollo, però, una nave spaziale klingon precipita presso la
base di Broken Bow in Oklahoma: il suo occupante, Klaang, si salva per
miracolo. Superando l’opposizione dei vulcaniani – qui ancora nel ruolo
di tutori della razza umana e che, nello specifico, sottolineano come il
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
91
gesto sarebbe considerato un atto di disonore per i klingon – i terrestri
decidono di riportare, proprio con l’Enterprise, l’alieno sul suo pianeta di
origine, Qo’noS. L’equipaggio della nave terrestre è guidato dal capitano
Jonathan Archer (Scott Bakula), affiancato dalla sensuale prima ufficiale
vulcaniana T’Pol (Jolene Blalock), dall’ufficiale medico di una misteriosa
razza aliena Phlox (John Billingsley), dall’addetto alla sicurezza Malcom
Reed (Dominic Keating), dall’ufficiale alle comunicazioni Hoshi Sato
(Linda Park), dal navigatore Travis Mayweather (Anthony Montgomery)
e dall’ingegnere Charlie Tucker (Connor Trenneer). Il viaggio verso il pianeta dell’Impero Klingon, così, diventa soltanto il primo tra i tanti che, già
nel solo anno 2151, l’Enterprise si trova a dover compiere, nel periodo
immediatamente precedente lo scoppio delle Guerre Romulane.
Per l’equipaggio capitanato da Archer tutto è nuovo e misterioso, in
un universo che non ha ancora nessun punto di riferimento certo. «È un
luogo terrificante – spiega Brannon Braga – perché tutto è ignoto al nostro
equipaggio. La Terra è messa molto meglio di come l’abbiamo vista in
Primo contatto, nel senso che la povertà, il crimine, le malattie, la fame
sono state tutte eliminate, o quasi. Ma la Federazione non è ancora stata
formata. Ci vorrà ancora molto tempo. La Flotta Stellare è molto molto
giovane, e questo equipaggio ha incontrato ben poche specie aliene da
quando i Vulcaniani sono arrivati. Quindi l’universo è davvero sconosciuto per queste persone» 25. E Rick Berman aggiunge opportunamente:
«I Picard e persino i Kirk del mondo tendono a dare per scontato l’incontro con gli alieni. È il loro lavoro quotidiano. Per queste sette persone
è invece un’occasione che ha qualcosa di misterioso. Gli incontri sono
accompagnati sempre da un’aria di meraviglia ed eccitazione, oltre che di
paura e trepidazione, perché loro sono molto più simili a noi. Se noi ci trovassimo nei loro panni in situazioni in cui ci stiamo per incontrare con
una specie aliena, sarebbe una cosa davvero spaventosa e certamente non
una cosa che capita tutti i giorni come succede a Picard o a Janeway» 26.
Inserendolo nel contesto appena delineato direttamente dagli autori, allora, si riesce a spiegare perfettamente, per esempio, anche un comportamento che – agli occhi dei telespettatori più fedeli – può avere dell’incredibile se tenuto da un ufficiale di bordo dell’Enterprise: nel terzo episodio della serie («Fight or Flight»), infatti, una Hoshi Sato in preda al panico, dopo il ritrovamento di quindici umanoidi morti a bordo di una
navetta aliena, chiede al capitano Archer di riportarla a terra; naturalmente, però, la missione prosegue e, nel finale, la Sato supera le proprie
paure come nei migliori romanzi di formazione.
92
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Enterprise può essere compresa ancora meglio, tenendo presenti alcune date fondamentali di questo periodo della cronologia Trek: innanzitutto, quella del 4 aprile 2063, quando lo scienziato inventore del motore a curvatura Zefram Cochrane – che appare in flashback anche nel
pilot della nuova serie, interpretato come nel film Primo contatto da
James Cromwell – lancia da un vecchio sito missilistico nel Montana la
Phoenix, prima nave a curvatura della storia umana. Il giorno seguente,
5 aprile, l’astronave vulcaniana T’Plana-Hath stabilisce il «mitico» Primo
Contatto con i terrestri, atterrando nei pressi del sito di lancio della
Phoenix. È l’inizio della ricostruzione della Terra, col fondamentale
aiuto dei vulcaniani, nonché la prima pietra in vista della costituzione
della Federazione. Gli anni passano, la Terra si riprende dalle guerre che
l’avevano sconvolta e si dà un unico governo mondiale in grado di superare le divisioni tra i suoi abitanti. L’Enterprise inizia i suoi viaggi esplorativi – come si vede nella serie omonima – nel 2151 e, appena cinque
anni dopo, la Terra si trova a dover affrontare un nuovo, terribile conflitto, stavolta interplanetario, contro l’Impero Stellare Romulano, che
attacca senza preavviso né provocazione alcune colonie terrestri. Le
Guerre Romulane si concludono nel 2160, con la battaglia di Cheron che
vede il quasi totale annientamento della flotta aliena e un trattato di pace
che sancisce la creazione di una Zona Neutrale, il cui attraversamento da
parte di una qualunque nave delle due parti assume il valore di una
dichiarazione di guerra. L’anno seguente, 2161, sul planetoide di Babel,
i rappresentanti dei governi di Terra, Vulcano, Alpha Centauri, Andoria
e Tellar firmano l’Atto Costitutivo della Federazione Unita dei Pianeti,
sancendone ufficialmente la nascita. La Federazione ha lo scopo di «preservare la pace», «sviluppare relazioni armoniche fra i popoli», «espandere la conoscenza». Nello stesso momento, viene stabilito che l’attività
esplorativa e di difesa sarà affidata a un’unica agenzia denominata
Flotta Stellare, il cui motto sarà: «Per arrivare dove nessuno è mai giunto prima».
Si capisce bene – già dai fugaci ma doverosi accenni ai fondamenti
della complessa mitologia e cronologia di Star Trek – quali enormi possibilità di crescita possa avere la nuova serie Enterprise, se ben gestita da
parte degli autori. Al di là di un’accoglienza decisamente contrastata da
parte di critica e pubblico – con i maggiori favori rivolti al protagonista
Scott Bakula e l’accusa ricorrente, alla produzione, di pensare più al
marchio commerciale della saga che alla reale qualità del prodotto – sta
all’abilità di Berman e Braga cercare di non ridurre la nuova serie a un
«SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA»
93
puro «esercizio di stile», ma sviluppare il passato del «mito» con il
senno di poi, cogliendo meglio che potranno gli infiniti spunti narrativi offerti da oltre 35 anni di storia fantastica.
Sarà acquistata il 15 febbraio 1967 dalla Paramount che, così, si troverà un
«tesoro» in casa: la possibilità di sfruttare commercialmente – assieme all’autore – i diritti di Star Trek. E proprio gli enormi proventi dello show di
Roddenberry, anni dopo, salveranno lo studio dal fallimento.
2
Franco La Polla, Star Trek. Foto di gruppo con astronave, PuntoZero, Bologna
1996, pp. 14-15.
3
Titolo originale: «Where No Man has gone Before».
4
Allan Asherman, Guida ufficiale a Star Trek serie classica, Fanucci, Roma 1997,
pp. 10-11.
5
Titolo originale: «The Trouble With Tribbles».
6
Titolo originale: «The Tholian Web».
7
Franco La Polla, «Star Trek» cit., p. 17.
8
Il titolo italiano riporta il nome della città di Chicago scritto proprio così.
9
Vito Zagarrio, Il cavaliere, la morte, il diavolo. Ontologia di Star Trek, in Franco La
Polla (a cura di), Star Trek. Il cielo è il limite, Lindau, Torino 1998, p. 26.
10
In realtà, con meno sistematicità, il concetto è già al centro di un paio di episodi di The Outer Limits.
11
Larry Nemecek, Guida a Star Trek - The Next Generation, Fanucci, Roma 1997,
p. 10.
12
Al termine della stagione inaugurale, si piazza al primo posto tra le serie da
un’ora più viste e al terzo assoluto dietro i quiz The Wheel of Fortune e Jeopardy.
13
Gary D. Christenson, Focus On Star Trek - The Next Generation, «TV Guide», 23
luglio 1988, p. 40.
14
L’idea e la fantasiosa tecnologia sono identiche a quelle della celebre «Danger
Room», la «Stanza del pericolo» utilizzata dagli X-Men nei loro albi a fumetti:
gli scopi, però, sono profondamente diversi, dato che il congegno fumettistico
serve per simulare gli ambienti in cui si svolgono i duri allenamenti dei mutanti più famosi del mondo.
15
Franco La Polla, Star Trek. Foto di gruppo con astronave cit., pp. 121-122.
16
Larry Nemecek, Guida a Star Trek - The Next Generation cit., p. 211.
17
La sceneggiatura del film è di Brannon Braga, che probabilmente è l’autore
più odiato dai fan della serie: il suo marchio di fabbrica, infatti, è di far esplodere le Enterprise. E il botto di Generazioni non rappresenta un caso isolato.
18
Rick Berman, Trentacinque anni di storia, «Star Trek Magazine», speciale n. 1,
novembre 1999, p. 30.
19
Le problematiche della civiltà bajoriana sono affrontate, per la prima volta,
all’interno della TNG (di cui, quindi, DS9 è uno spin-off), nell’episodio «Il
guardiamarina Ro» («Ensign Ro»). Qui, viene introdotto il bel personaggio di
Ro Laren (Michelle Forbes), che serve per far filtrare le prime notizie sullo sfortunato destino del pianeta Bajor sotto la dittatura cardassiana.
1
94
Deborah Fisher, Gli autori di Deep Space Nine, «Star Trek. La rivista ufficiale»
n. 8, aprile 1998, Fanucci, Roma, p. 17.
21
Ivi, p. 18.
22
Franco La Polla (a cura di), Star Trek. Il cielo è il limite cit., p. 11.
23
AA.VV., Riflettori su… «Star Trek Voyager», «Star Trek. La rivista ufficiale», n.
9, giugno 1999, Fanucci, Roma, p. 10.
24
Gabriella Cordone, Enterprise, «Inside Star Trek Magazine», n. 9, settembreottobre 2001, pp. 10-11.
25
Ivi, p. 13.
26
Ivi, p. 13.
20
Interludio. I supereroi, dai fumetti alla TV
Cos’è un supereroe
Gli albi a fumetti imperniati sulle storie avventurose di superuomini in sgargianti calzamaglie sono un prodotto tipico della cultura popolare statunitense del ’900. La loro diffusione inizia intorno alla metà
degli anni ’30, con gli Stati Uniti immersi nella disastrosa crisi economica causata dalla crisi del 1929, in seguito alla quale, tra le altre cose,
aumenta in modo esponenziale la presenza del crimine organizzato
nelle grandi città.
In un tale contesto sociale si diffonde, tra il pubblico in cerca d’evasione, la passione per i cosiddetti «pulp magazines», riviste di poco
prezzo stampate su carta scadente e imperniate sulle storie di eroi positivi in lotta contro il male: è sempre in questo periodo che la narrativa
«di genere» vede la nascita , tra gli altri, di eroi popolari come Conan il
barbaro e Doc Savage, oltre che dei «duri» detective Sam Spade e Philip
Marlowe; tutti «ospitati» tra le pagine di storiche testate quali «Weird
Tales» e «Black Mask», dedicate ai mille volti della narrativa d’azione.
È naturale, quindi, che anche il panorama dell’editoria a fumetti cerchi di proporre personaggi più adatti ai tempi. E il nuovo genere supereroistico – nel formato comic book, invece che nella classica strip – va
proprio incontro a quest’esigenza, unendo insieme elementi di fantascienza, giallo investigativo e avventura classica, in un riuscito cocktail
dove l’azione e il fantastico giocano un ruolo predominante. Nel giro di
pochi anni, nasce un’infinità di nuovi personaggi, i cui albi sono costantemente premiati da vendite elevate e da un grosso seguito popolare.
Questi nuovi eroi della «Golden Age» dei comics statunitensi – che si
96
AI CONFINI DELLA REALTÀ
conclude con la fine degli anni ’40 – hanno caratteristiche ricorrenti: un
costume attillato e coloratissimo, superpoteri unici e fortemente caratterizzanti, un’identità segreta.
Non deve sorprendere il fatto che le storie di supereroi, fin dall’inizio, abbiano trovato la loro piena realizzazione principalmente nei
fumetti, dato che è senz’altro più semplice rendere con efficacia le loro
azioni sovrumane e molto spettacolari disegnandole su carta, piuttosto
che descrivendole nelle pagine di un romanzo o riproducendole al cinema, dove perfino gli effetti speciali più sofisticati non riescono (o
meglio, non riuscivano fino all’avvento del digitale) a riprodurre la
dinamicità di certe sequenze a fumetti. Nonostante le difficoltà di una
resa efficace, però, il supereroe approda spesso – partendo proprio dalle
pagine dei comic books – anche in televisione e, da qui, al cinema. Sono
diversi, infatti, i telefilm statunitensi imperniati su protagonisti dotati
di superpoteri, dagli anni ’50 fino ai giorni nostri.
Superman
Il primo personaggio che «guadagna» una sua versione catodica
non può essere altri che il capostipite e il più potente fra tutti i supereroi: Superman. Creato nel 1938, dalla fertile fantasia di Jerry Siegel e Joe
Shuster, il kriptoniano (poiché la sua origine è aliena: viene dal pianeta
Kripton, appunto) cela la propria identità dietro quella di un impacciato e timido giornalista del «Daily Planet» di Metropolis, l’occhialuto
Clark Kent, perennemente messo in difficoltà dalla ben più agguerrita
collega Lois Lane, della quale è innamorato da sempre e che, in anni
molto più recenti, finisce per sposare.
Poco tempo dopo gli esordi sulla testata «Action Comics», pubblicata dalla DC Comics, Superman approda in radio nel 1940 (con la voce di
Bud Collyer), con un drama nel corso del quale vengono introdotti elementi come il nome del giornale presso cui lavora Clark Kent e, nel 1945,
la kriptonite, l’unica debolezza del personaggio, inserita nei fumetti solo
a partire dal 1949. In televisione – dopo il breve e misconosciuto ciclo di
film interpretati da Kirk Alyin – il personaggio è protagonista di Le
avventure di Superman (Superman, 1951), col volto dell’attore George
Reeves (che poi si suiciderà misteriosamente, il 16 giugno 1959).
Trasmesso dal 19 settembre 1952 (episodio «Superman on Earth») al
28 aprile 1958 (il conclusivo «All That Glitter»), il telefilm – prodotto da
I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV
97
Robert Maxwell e Bernard Luber, pronto già nel 1951, ma mandato in
onda soltanto dall’anno successivo, quando la Kellogg lo sponsorizza –
va avanti, con ottimo successo, per 104 episodi. Gli appuntamenti televisivi sono preceduti dalla messa in onda, nel dicembre 1951, del film
Superman and the Mole Men, proiettato anche al cinema e che, nella versione per il piccolo schermo, fa da pilot della serie. Le prime due stagioni sono realizzate in bianco e nero, mentre dalla terza – rinviata al
1955, ma anticipata l’anno precedente dallo speciale «Stamp Day for
Superman» – ogni puntata è, invece, a colori. La serie ha effetti speciali
che oggi appaiono piuttosto grossolani, ma che in realtà sono fuori dal
comune per l’epoca, soprattutto in relazione al basso costo dello show
(li realizza Thol Simonson).
Le avventure di Superman, però, si lascia apprezzare soprattutto per
come dà spazio ai rapporti quotidiani tra i vari personaggi, innanzitutto
tra Clark/Superman e Lois Lane: e proprio il rapporto uomo/donna è
tra gli elementi più interessanti del telefilm, con la Lois tratteggiata da
Phyllis Coates prima e da Noel Neill poi, perfetta come emblema della
donna in carriera che si affaccia sulla scena della società iniziando a
minare le certezze del maschio americano medio (il quale, solo trasformandosi in «superuomo», forse, può recuperare la propria centralità:
non a caso, infatti, Lois prende costantemente in giro l’imbranato alter
ego umano di Superman). Vanno segnalati i bellissimi titoli di alcuni episodi: «Czar of the Underworld» («Zar del sottosuolo»), «The Clown
Who Cried» («Il pagliaccio che piangeva»), «The Boy Who Hated
Superman» («Il ragazzo che odiava Superman»), «Through the Time
Barrier» («Attraverso i confini del tempo»), fino al penultimo «The Perils
of Superman» («I travagli di Superman») che cita fin dal titolo i celebri
serial cinematografici avventurosi degli anni ’10, tra i modelli dichiarati
della narrazione seriale televisiva e rievocati, per esempio, poco tempo
prima dal film La storia di Pearl White (The Perils of Pauline), diretto nel
1947 da George Marshall.
In modo ancora più evidente, è impostato sui rapporti personali tra
i protagonisti e su vicende calate nella loro quotidianità (benché stravagante) il piacevole e ben più recente Lois & Clark - Le nuove avventure di
Superman (Lois & Clark: The New Adventures of Superman, 1993), curato da
Deborah Joy Levine e trasmesso dalla ABC tra il 12 settembre 1993 e il
14 giugno 1997 (per un totale di 86 episodi più il pilot). Già il titolo è
indicativo di quelle che sono le caratteristiche del nuovo show, con l’accento posto sui nomi propri dei due personaggi principali piuttosto che
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
su quello di Superman; ed è oltremodo appropriato il fatto che il
momento centrale del telefilm sia il matrimonio tra Lois e Clark, evento
che «costringe» anche gli sceneggiatori delle serie a fumetti ad adeguarsi (nell’episodio conclusivo, addirittura, i coniugi decidono di avere un
figlio, nonostante siano «biologicamente incompatibili»).
Appare subito azzeccatissima la scelta dei due attori protagonisti, l’aitante e simpatico Dean Cain come Clark Kent/Superman e soprattutto
l’ironica e naturalmente sensuale Teri Hatcher come Lois Lane; in particolare, la Hatcher diventa l’autentico punto di forza dello show. John
Shea, invece, interpreta l’arcinemico di Superman, Lex Luthor, protagonista a sua volta di una lunga trama romantica con Lois Lane. Proprio l’aspetto romantico, come detto, è quello dominante negli episodi di Lois &
Clark e calamita, ben presto, su di sé l’attenzione degli spettatori (il solo
fidanzamento tra i due personaggi principali dura ben 35 puntate). Non
mancano, comunque, trame più fantascientifiche e avventurose, con
argomenti come i viaggi nel tempo, i rapimenti alieni, la realtà virtuale e
la clonazione, la miniaturizzazione del proprio corpo.
Il telefilm degli anni ’90 è preceduto dalle quattro versioni cinematografiche interpretate dallo sfortunato Christopher Reeve – Superman
(id., 1978) di Richard Donner, gli ironici Superman II (id., 1980) e
Superman III (id., 1983) di Richard Lester, Superman IV (Superman IV: The
Quest for Peace, 1987) di Sidney J. Furie – e da un telefilm, Superboy (id.,
1988), prodotto da Ilya Salkind, in 100 episodi: qui «l’uomo d’acciaio»
(interpretato da John Haymes Newton nella prima stagione e da Gerard
Christopher per il resto della serie) è raccontato ai tempi del college,
quando inizia ad avere coscienza dei suoi superpoteri e, al tempo stesso, dell’amore verso l’amica Lana Lang (Stacy Haiduk).
Recentissima, poi, è la nuova serie Smallville, partita nell’autunno
2001 sul network della Warner (specializzato in telefilm giovanilistici di
successo). Il titolo riprende il nome della località di provincia (in Kansas)
nella quale il piccolo Clark cresce assieme ai suoi genitori adottivi.
Adesso il ragazzo (interpretato da Tom Welling) è un teenager come gli
altri… o quasi. Accanto ai primi amori e alle difficoltà della crescita, infatti, sta scoprendo anche come utilizzare al meglio quelle che già percepisce come capacità superumane. Indubbiamente, lo show creato da Alfred
Gough e Miles Millar rappresenta un modo interessante per avvicinare il
pubblico più giovane al supereroe più tradizionale.
I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV
99
Batman
Controparte perfetta di Superman e suo oscuro rovescio della medaglia, Batman nasce un anno dopo (nel 1939) rispetto all’uomo d’acciaio,
sulle pagine di «Detective Comics», grazie al talento di Bob Kane. Fin
dai primi albi, il personaggio è caratterizzato come cupo, tenebroso e
ossessionato dalla lotta contro il crimine. Nella vita «normale» si cela
dietro l’identità del miliardario Bruce Wayne ma, rispetto a molti altri
supereroi, il suo profilo psicologico è invertito, con Batman che – nel
loro «rapporto» – assume il ruolo dominante. L’uomo pipistrello non è
dotato di superpoteri, ma di capacità fisiche e mentali superiori alla
norma e forgiate attraverso decenni di durissimo addestramento, col
solo scopo di vendicare il traumatizzante omicidio dei suoi genitori
attraverso un’eterna battaglia contro il crimine.
Con intenti anche propagandistici (siamo negli anni della seconda
guerra mondiale), l’eroe creato da Bob Kane approda al cinema già nel
1943, per merito della Columbia, con un serial di 15 episodi in cui Lewis
Wilson è Batman, Douglas Croft è Robin e J. Carrol Naish l’arcinemico
dottor Daka, spia orientale al servizio di un’organizzazione che cerca di
debellare le forze armate statunitensi. Sei anni dopo, sempre la
Columbia produce un altro serial (ancora di 15 episodi) con Robert
Lowey e John Duncan nei panni, rispettivamente, di Batman e Robin.
Col tempo, il Batman del fumetto cambia parecchio rispetto alle origini, grazie agli apporti di autori come Jerry Robinson, Jim Mooney e
Carmine Infantino, i quali si riallacciano alle trame di Kane ma, ben più
spesso, snaturano il personaggio. In particolare, nel corso degli anni ’50,
le sue storie – dopo gli inizi quasi gotici – diventano persino strampalate e piene di spunti derivanti dalla fantascienza più dozzinale; anche
l’arrivo del personaggio di Robin contribuisce ad «alleggerire» il tono
delle vicende. E il Batman di questi anni è proprio quello che serve da
fonte d’ispirazione per la celebre serie di telefilm che parte nel 1966: la
cosa strana è che, intanto, già dal 1963, l’arrivo del supervisore Julius
Schwartz alla DC Comics consente di ridare ossigeno a un character
ormai ridotto a caricatura di se stesso.
Ma l’ottimo «restyling» promosso da Schwartz – che rende nuovamente l’eroe più adulto e notturno, più detective e meno saltimbanco –
non colpisce il produttore televisivo William Dozier, che per la sua
nuova serie di telefilm si ispira all’ingenua versione del decennio precedente. Trasmesso sulla ABC dal 12 gennaio 1966 al 14 marzo 1968 (per
100
AI CONFINI DELLA REALTÀ
un totale di 120 episodi), Batman (id.) incontra comunque un successo
enorme e travolgente, nonostante i chiari intenti parodistici (o, forse,
proprio per questo motivo): costumi coloratissimi, scenografie fantasiose, recitazione perennemente sopra le righe, dialoghi irreali e spesso
demenziali sono considerati dal produttore Dozier gli elementi tipici
del fumetto, che viene restituito sul piccolo schermo anche attraverso le
caratteristiche onomatopee da Pop Art («Bang!», «Smack!», «Crash!» e
così via). Il ruolo di Batman/Bruce Wayne è affidato al pacioso e tranquillizzante Adam West, affiancato da Burt Ward come Robin/Dick
Grayson, da Alan Napier nei panni del maggiordomo Alfred
Pennyworth e da Neil Hamilton in quelli del commissario Jim Gordon.
Ma a rendere indimenticabile il telefilm è, soprattutto, la straordinaria
e stravagante galleria dei cattivi, tutti folli, improbabili e impegnati in
misfatti che sembrerebbero concepiti sotto l’effetto di un acido: vanno
ricordati perlomeno il Joker (interpretato da Cesar Romero), la Donna
Gatto (Julie Newmar), l’Enigmista (Frank Gorshin), il Pinguino
(Burgess Meredith), Zelda (Anne Baxter), il Menestrello (Van Johnson),
Testa d’uovo (Vincent Price), la Vedova Nera (Tallulah Bankhead). Il
successo della serie produce, nel 1966, anche un film per il cinema:
Batman (id.), diretto da Leslie Martinson e che ripropone attori e stile
dello show televisivo; molti lo considerano, addirittura, un piccolo
gioiello della Pop Art.
Il telefilm degli anni ’60, in ogni caso, rappresenta un tradimento
dello spirito più autentico del personaggio; spirito che viene recuperato – nelle testate a fumetti – prima attraverso il tratto allucinato del
grande Neal Adams e poi, nel 1986, grazie al lavoro di un giovane e
rivoluzionario autore, Frank Miller. Con il suo capolavoro Il ritorno del
cavaliere oscuro (The Dark Knight Returns), Miller riedifica le fondamenta
stesse del fumetto supereroistico statunitense – in un periodo di profonda crisi di vendite e idee – e, allo stesso tempo, rivitalizza il mito di
Batman devastandolo: il suo, infatti, è un eroe invecchiato e incattivito,
quasi preda del suo lato oscuro; un eroe che si muove in un mondo
impazzito e che combatte la violenza con altra violenza; un eroe che
scende sullo stesso piano dei criminali combattuti.
Tutto riparte dalla pietra miliare milleriana, tenuta nel giusto conto
anche da Tim Burton quando, nel 1989 e nel 1992, dirige i suoi due cupissimi film sul personaggio: Batman (id.) e Batman - Il ritorno (Batman
Returns): l’eroe di Burton ha il volto di Michael Keaton ed è reso ancora
più vulnerabile e nevrotico, quasi uno psicopatico solitario, con gli eter-
I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV
101
ni temi della maschera e del doppio trattati con grande intelligenza dal
regista californiano. Straordinaria è anche la Gotham City dei due film,
neogotica e al tempo stesso postmoderna, grazie alle impressionanti scenografie di Anton Furst e Peter Young. Anche qui sono i «cattivi», però,
a catturare l’attenzione, ben più del protagonista: il Joker di Jack
Nicholson, il Pinguino di Danny De Vito e la Catwoman di Michelle
Pfeiffer non si dimenticano tanto facilmente. Burton lascia il testimone a
Joel Schumacher, regista dei due onesti ma chiaramente inferiori Batman
Forever (id., 1995) e Batman & Robin (id., 1997), dove l’uomo pipistrello ha
il volto, rispettivamente, di Val Kilmer e George Clooney.
Altri supereroi
Oltre ai due «mostri sacri» della DC Comics, altri noti personaggi
del fumetto supereroistico statunitense hanno goduto di trasposizioni
televisive, più o meno convincenti.
È il caso, per esempio, di Wonder Woman, l’eroina creata nel 1941 da
Charles Moulton sulle pagine di «All-Star Comics» (altra testata della
DC). Le origini del personaggio si rifanno, piuttosto liberamente, alla
mitologia greca: l’immortale amazzone Diana abbandona l’Isola del
Paradiso per vivere nel mondo moderno (gli Stati Uniti), accanto all’amato tenente dell’aviazione americana Steve Trevor, e assume l’identità
di Diana Prince per combattere il male grazie alla sua forza e agilità e
con l’ausilio di un aereo invisibile, un braccialetto antiproiettile e un
lazo magico. Dopo un disastroso TV movie del 1973 – con il ruolo della
protagonista affidato a una Cathy Lee Crosby in tenuta sportiva –
Wonder Woman conosce la definitiva consacrazione catodica grazie alla
serie che va in onda a partire dal 21 aprile 1976 (ma già il 7 novembre
dell’anno precedente era stato trasmesso il convincente film pilota)
sulla CBS. Il telefilm va avanti per 59 episodi, fino al 1979, conquistandosi uno «zoccolo duro» di appassionati.
Buona parte del merito va, senz’altro, all’attrice che dà volto alla
principessa Diana: la statuaria e affascinante Linda Carter, già famosa
come Miss Usa e Miss Mondo al momento dell’inizio dello show; praticamente identica all’iconografia del personaggio, la Carter riesce a
sembrare autentica perfino nella ridicola divisa che è costretta a indossare. Le molte sequenze d’azione del telefilm, comunque, sono affidate
alla collaudata «stunt-woman» Jeannie Epper. L’elemento più interes-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
sante e a suo modo rivoluzionario di Wonder Woman (id., 1976) è il rovesciamento di ruoli tra eroe e «bella» da salvare: qui, infatti, è quasi sempre Diana a correre in aiuto dell’amato Steve Trevor (l’attore Lyle
Waggoner), bravissimo a mettersi nei guai e perennemente bisognoso
di interventi salvifici.
Sempre nello stesso periodo, cioè dal 19 aprile 1977 al 6 luglio 1979
(per soli 17 episodi, compresi due film pilota), va in onda sulla CBS il
telefilm The Amazing Spiderman (inedito in Italia), dedicato all’Uomo
Ragno, una tra le più fortunate creature fumettistiche di Stan Lee e della
Marvel Comics (la rivale storica della DC). Il protagonista del serial è
Nicholas Hammond, nei panni di Peter Parker, studente e fotoreporter
che, dopo essere stato morso da un ragno radioattivo, ne acquisisce i
poteri – riesce ad arrampicarsi su qualunque superficie, ha forza e agilità sovrumane, è dotato di uno speciale «senso di ragno» che gli permette di sentire in anticipo i pericoli; a tutto ciò aggiunge la speciale
ragnatela sintetica che crea grazie alle proprie conoscenze scientifiche –
che decide di utilizzare nella lotta contro il crimine; la «mitica» Zia May
è interpretata da Irene Tedrow, mentre lo scorbutico direttore del quotidiano «Daily Bugle» (dove lavora Peter) è Robert F. Simon. La versione
televisiva delle avventure dell’arrampicamuri, però, è priva del ritmo
del fumetto e ne fraintende l’ironia, nonostante gli effetti speciali non
proprio disprezzabili. In particolare, si perde l’aspetto più problematico
della personalità del protagonista, tipico esempio della «poetica» – sintetizzata nella definizione: «Supereroi con superproblemi» – con cui Stan
Lee rivoluziona, nella Marvel dei primi anni ’60, il fumetto supereroistico del periodo (dando avvio alla cosiddetta «Silver Age of Comics»),
modernizzando i vari personaggi e rendendoli più vulnerabili e, quindi,
interessanti (altri esempi «made in Marvel» sono quelli di Devil, Hulk e
di supergruppi come i Fantastici Quattro e gli X-Men).
Un altro personaggio marvelliano che arriva in televisione – con
esiti appena più convincenti rispetto a quelli del telefilm sull’Uomo
Ragno – è il gigantesco mostro verde Hulk, protagonista della serie
L’incredibile Hulk (The Incredible Hulk), in onda sulla CBS dal 4 novembre
1977 al 12 maggio 1982 per 85 episodi. Hulk è creato nel 1962 da Stan
Lee assieme al disegnatore Jack Kirby che realizza una variazione sul
tema di Jekyll e Hyde, «riletto» alla luce delle nuove inquietudini dell’era atomica: il gigante di giada, infatti, altri non è che lo scienziato
Bruce Banner, accidentalmente investito dall’esplosione della bomba
gamma (inventata proprio da lui), che lo trasforma in un mostro fortis-
I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV
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simo ma poco intelligente; ogni volta che il pacifico dottore perde la
pazienza si trasforma in Hulk che, quindi, incarna il suo lato selvaggio
e irrazionale. Nel telefilm Bill Bixby ha il ruolo di David Bruce Banner,
mentre il culturista sordomuto Lou Ferrigno (di origini italiane) è Hulk.
Rispetto al fumetto spariscono tutti i personaggi di contorno della serie
e la vicenda si articola in tanti episodi slegati tra loro e ambientati in
punti sempre diversi degli Stati Uniti, con Banner/Hulk in perenne
fuga dopo l’ennesimo disastro provocato dai suoi scatti di rabbia.
Anche in questo caso – pur con il fascino del road movie – il telefilm si
mantiene ben lontano dal livello del fumetto Marvel, soprattutto dalla
versione più matura che ne dà lo sceneggiatore Peter David durante gli
anni ’80 e ’90, quando rivoluziona completamente i presupposti di base
dello storico personaggio.
All’inizio degli anni ’90, infine, un altro importante supereroe – stavolta appartenente alla «scuderia» DC Comics – approda in televisione,
con una serie tutta sua: si tratta del «fulmine scarlatto» (dal colore del
suo costume), l’uomo più veloce del mondo, protagonista del breve ma
riuscito telefilm Flash (The Flash), prodotto da Danny Bilson e Paul De
Meo con le musiche affidate al musicista preferito di Tim Burton,
Danny Elfman. La serie è trasmessa sulle frequenze della CBS dal settembre 1990 al maggio 1991, con un ottimo pilot costato sei milioni di
dollari, seguito soltanto da altri 22 episodi. A indossare il costume di
Flash e i più comuni abiti del suo alter ego Barry Allen c’è un buon attore come John Wesley Shipp, mentre Amanda Pays interpreta la dottoressa Tina McGee, una scienziata che conosce l’identità segreta di Allen
e lo aiuta a controllare il suo superpotere. La serie – che segue, in prevalenza, gli stilemi del «fanta-action» di qualità medio-alta (anche per
quel che riguarda gli effetti speciali) – è ambientata a Central City, dove
il velocissimo supereroe aiuta la polizia locale a fronteggiare il crimine
e, per conto proprio, si oppone alle mire di potere di alcuni supercriminali, come l’arcinemico Trickster (che ha il volto di Mark Hamill). Tra gli
episodi più riusciti, va segnalato quello, raffinatamente metalinguistico,
che propone il ritorno in scena del «superprotettore» di Central City
prima di Flash, durante gli anni ’50: un eroe afroamericano che si fa
chiamare «L’ombra della notte» (è tradotto proprio così il titolo originale «Ghost in the Machine»). A un certo punto, l’uomo, ormai piuttosto avanti con l’età, spiega al giovane Barry Allen il bello del loro «lavoro»: «L’emozione della notte, la paura della maschera dipinta sul volto
dei criminali. Scusa, devo aver letto – si affretta, però, ad aggiungere,
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con amara ironia – troppi fumetti di supereroi. Ma tu sai cosa voglio
dire». E, in chiusura dell’episodio, cerca di far capire a un Flash sempre
più sfiduciato quale può essere il modo più sano per gestire la sua doppia esistenza: «La maschera che indossi – gli dice – è solo un costume.
Non ti rende un uomo migliore di quello che sei». Conta, insomma, chi
si cela sotto quella maschera.
Ormai, il notevolissimo miglioramento degli effetti speciali visivi,
seguito all’avvento del digitale, permette di realizzare produzioni sempre più accurate dalle storie di supereroi: personaggi amati e conosciuti – quindi «vendibili» presso un ampio pubblico – che, grazie al progresso tecnologico, possono sperare in trasposizioni abbastanza fedeli
delle loro imprese sovrumane. Per questo motivo, però, i migliori soggetti supereroistici approdano al cinema e non più in televisione: casi
emblematici recenti sono quelli del cacciatore di vampiri Blade (id., 1998,
di Stephen Norrington) e dei mutanti X-Men (id., 2000, di Bryan Singer),
per tacere dell’attesissimo kolossal Spiderman (id., 2002) dedicato da
Sam Raimi all’Uomo Ragno.
«X-Files» e il fanta-horror anni ’90
Visioni fantastiche dagli anni ’80
La generazione di cineasti che, dalla seconda metà degli anni ’70, fa
riemergere Hollywood dalla crisi che l’attanaglia, trova nei codici del
genere fantastico lo strumento espressivo più efficace per realizzare un
cinema intimamente legato al mondo circostante e che, al tempo stesso,
riesca a catturare nuovamente gli spettatori puntando sul «sense of wonder» che pareva smarrito: grande spettacolo – favorito dagli enormi
passi avanti negli effetti speciali e nelle tecnologie digitali – e maggiore
coscienza del proprio ruolo nella società.
Lungo tutti gli anni ’80, proprio il cinema horror e di fantascienza
diventa preponderante all’interno della produzione hollywoodiana.
Naturalmente, però, i film propongono innovazioni sostanziali rispetto al
passato, dato che i generi «puri» non esistono più da tempo: dissolti, contaminati, trasformati irrimediabilmente. E il fantacinema americano del
periodo va considerato una tra le espressioni artistiche postmoderne più
compiute, per come miscela pratiche e modelli differenti e utilizza i meccanismi (dichiarati o meno) del sequel e del remake, perseguendo una
serialità sempre più spinta; e, ovviamente, per come si fa metanarrativo,
guardando con sempre maggiore insistenza, tra le altre cose, all’idea mitica di passato – in particolare gli anni ’50 e ’60 – ricostruita e tramandata
proprio attraverso il cinema, i fumetti e la televisione.
Ed è appunto «quel tipo» di passato – quando, secondo i cliché, gli
Stati Uniti non avevano ancora perduto la propria innocenza – a coincidere col momento della formazione di gusti e coscienze della nuova
generazione che va al potere a Hollywood: un folto gruppo di giovani
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
dotati che, nei decenni ’80 e ’90, riversa sul grande e piccolo schermo le
suggestioni metabolizzate trent’anni prima, quando i vari Steven
Spielberg (nato nel 1947), George Lucas (1944), John Carpenter (1948),
Joe Dante (1948), David Lynch (1946), George Romero (1940), John
Landis (1950), Robert Zemeckis (1952), Chris Carter (1956), Tim Burton
(1958) formano il proprio immaginario nutrendosi – come la maggior
parte degli adolescenti cresciuti nei decenni ’50 e ’60 – di fumetti horror,
riviste di fantascienza, pellicole di serie B, programmi televisivi come Ai
confini della realtà, Thriller e The Outer Limits. È indicativa, in tal senso, la
dichiarazione di George Romero resa a un intervistatore che gli chiedeva conto della predilezione verso il fanta-horror: «Sono un appassionato di questo genere fin da quando, ancora piccolo, leggevo avidamente
un’enorme quantità di libri e di pulp, pieni di storie inverosimili e fantastiche. Così, appena ho potuto, ne ho fatto una delle mie ragioni di
vita, mettendo il fantastico dentro i miei film» 1. Alla stessa generazione
e, quindi, al medesimo humus culturale appartengono altre personalità
di spicco della «Fanta-Pop Culture» degli anni ’80, come Stephen King e
il fumettista Frank Miller.
Anche nell’ambito della fiction televisiva, il decennio ’80 fa segnare
un ritorno di fiamma – all’inizio piuttosto timido, per la verità – nei
confronti del genere fantastico. Pure sul piccolo schermo, però, diventa
quasi automatico guardare al passato, soprattutto a classiche serie antologiche come quelle prodotte da Rod Serling e Leslie Stevens. Esempi
perfetti di quest’atteggiamento dei network (e degli autori!) sono due
show del 1985: il deludente remake a colori di Ai confini della realtà (The
Twilight Zone) – preceduto di due anni dall’omonimo (e altrettanto deludente) film in quattro episodi prodotto da Steven Spielberg – e Storie
incredibili (Amazing Stories), ideato da Spielberg.
Di questa seconda serie, la NBC manda in onda 45 episodi dal settembre 1985 all’aprile 1987, prima di abbandonare il progetto. Peccato,
perché il «Re Mida» di Hollywood riesce a coinvolgere nella realizzazione tanti nomi di ottimo livello oltre a se stesso (che dirige due puntate e ne scrive diverse altre), sia tra i registi (Joe Dante, Tim Burton, Clint
Eastwood, Tobe Hooper, Martin Scorsese, Robert Zemeckis, Paul Bartel)
che tra gli interpreti (Harvey Keitel, Kevin Costner, Charlie Sheen, Drew
Barrymore, Kiefer Sutherland, Patrick Swayze, tra i tanti) che, persino,
tra gli autori delle musiche (John Williams, Jerry Goldsmith, Danny
Elfman, Michael Kamen). Il successo della serie è buono, ma inferiore
alle enormi aspettative dei vertici NBC: così, dopo due stagioni, Storie
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
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incredibili è cancellato senza aver avuto, probabilmente, il tempo necessario per la definitiva esplosione. Gli episodi riusciti, comunque, sono
diversi: su tutti, forse, spicca «The Mission» diretto da Spielberg e il celebre «Vanessa in the Garden» di Clint Eastwood. Nel primo, «The
Mission», Kevin Costner è il comandante di un aereo americano impegnato durante un bombardamento nella seconda guerra mondiale: un
incidente in volo imprigiona un suo uomo nella «pancia» del velivolo e
costringe il capitano a una scelta terribile; per fortuna, sarà aiutato, in
modo originalissimo, da un membro dell’equipaggio che di mestiere
fa… il disegnatore di fumetti. «Vanessa in the Garden», poi, è un piccolo capolavoro – scritto dallo stesso Spielberg – e rappresenta l’ulteriore
conferma della statura di Eastwood come regista: il protagonista Harvey
Keitel interpreta un pittore al quale muore la moglie Vanessa, la sua
modella preferita; l’uomo disperato smette di dipingere, finché scopre
che, ogni volta che «fissa» l’amata consorte in un suo quadro, può farla
tornare in vita. Qui, in particolare, appare davvero mirabile la fusione
tra elementi fantastici e melodrammatici.
Ben peggiori, invece, sono gli esiti artistici della nuova Ai confini della
realtà, realizzata dalla CBS sotto la supervisione del produttore Philip
DeGuere. Del telefilm vanno in onda 24 episodi da un’ora e 49 da
mezz’ora, con diversi remake di puntate della serie originale. Il progetto
fallisce miseramente, però, nonostante il coinvolgimento di un grande
autore della fantascienza statunitense come Harlan Ellison (che, comunque, abbandona ben presto) e di alcuni ottimi registi come Wes Craven,
Joe Dante, Atom Egoyan, John Milius, Peter Medak e William Friedkin.
Proprio Friedkin, comunque, dirige magistralmente quello che è in assoluto il miglior episodio della serie, nonché uno tra i punti più alti della
fiction televisiva fanta-horror degli anni ’80: «I serpenti della notte»
(«Nightcrawlers»), tratto da un tagliente racconto dello scrittore
Splatterpunk 2 Robert McCammon, mandato in onda per la prima volta
nel 1985 senza nessuno stacco pubblicitario. La storia inizia con un agitatissimo reduce del Vietnam, Price, in fuga notturna attraverso le
«highways» americane: piove a dirotto, così l’uomo si rifugia in una stazione di servizio solitaria e mal frequentata. All’interno, quasi in preda a
delirio, spiega ai pochi presenti di non potersi assolutamente addormentare, altrimenti le sue ossessioni di guerra si materializzerebbero intorno
a loro. Ovviamente, l’esausto veterano non viene creduto, finché, per
pochi secondi, chiude gli occhi: immediatamente, lo sgangherato locale è
assaltato e messo a ferro e fuoco da orde di vietcong e persino il paesag-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
gio circostante del deserto americano si trasforma in una giungla tropicale, devastata da napalm ed esplosioni. Insomma, Price – forse perché
alterato chimicamente nel corso della guerra – ha acquisito veri e propri
poteri mentali che, però, non è in grado di controllare completamente: e
proprio attraverso la sua psiche, dal suo interno quindi, gli orrori bellici
si materializzano nella realtà quotidiana degli Stati Uniti.
«I serpenti della notte» è un esempio perfetto delle enormi differenze esistenti tra la nuova serie di Ai confini della realtà e il ciclo classico di
Serling. L’America è cambiata, nuovi orrori e inquietudini si fanno largo
negli animi e nei luoghi, soprattutto un’inedita frattura ha segnato indelebilmente le coscienze della Nazione: la guerra del Vietnam. «Da un
certo punto di vista – scrive Paul M. Sammon, in un’introduzione al racconto di Robert McCammon ispiratore del telefilm – questa storia è semplicemente un ulteriore esempio di proiezione di demoni interni, da un
altro è una scomoda metafora dell’enorme colpa americana creata dal
disastroso coinvolgimento degli Stati Uniti nell’Asia sudorientale» 3.
L’episodio di Friedkin arriva pochi anni dopo i capolavori cinematografici sull’argomento – Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978) di Michael
Cimino e Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola – e quasi in
contemporanea con il plurivincitore dell’Oscar Platoon (id., 1986) di
Oliver Stone; è sorprendente, però, soprattutto il modo in cui anticipa le
tematiche di quello che sarà, nel 1990, il miglior film diretto da Adrian
Lyne, cioè il cupo e inquietante Allucinazione perversa (Jacob’s Ladder),
straordinaria miscela di horror, film di guerra e apologo fantapolitico.
Ma «I serpenti della notte» è importante principalmente per il modo in
cui riesce a concentrare quasi tutti i temi portanti dell’horror letterario e
cinematografico del decennio nel formato ristretto della short story. Molti
archetipi narrativi sono mutuati, senza dubbio, da Stephen King (l’ambientazione quotidiana dell’America profonda, pronta per essere sconvolta dall’irruzione del soprannaturale) e John Carpenter (l’assedio da
parte di un male senza volto e la difesa del proprio «fortino», come in
tanti suoi film, a partire da Distretto 13 - Le brigate della morte, Assault on
Precint 13, 1976). Tuttavia, il tormentato rapporto tra mente e corpo, con
quest’ultimo che sfugge al controllo della prima, fa venire in mente
buona parte del cinema di David Cronenberg, per esempio Scanners (id.,
1981) e La zona morta (The Dead Zone, 1983), non a caso tratto dal romanzo omonimo di Stephen King; mentre la visione del corpo come allucinazione rimanda agli incubi suburbani prossimi venturi di I segreti di
Twin Peaks e alla mancanza di certezze ontologiche di X-Files: che, tra
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
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l’altro, in un episodio della seconda stagione, «Insonnia» («Sleepless»),
riprenderà quasi alla lettera la trama di «I serpenti della notte», con un
gruppo di reduci dal Vietnam sottoposti ad atroci esperimenti di manipolazione genetica che hanno provocato un’insonnia incurabile e la terribile capacità di evocare e rendere concreti gli incubi della guerra indocinese. Lo stesso tema, sempre in questi anni, è sorprendentemente al
centro di un episodio quasi identico del fumetto horror «Hellblazer»,
realizzato dagli inglesi Jamie Delano e John Ridgway e pubblicato dalla
divisione Vertigo della DC Comics. E, sempre in ambito fumettistico,
non si può fare a meno di notare un riferimento piuttosto evidente – a
partire dal titolo originale «Nightcrawlers» – a quella che è la serie di
comics più letta del periodo, cioè «The Uncanny X-Men» (in Italia «Gli
incredibili X-Men»): Nightcrawler, infatti, è il nome di uno dei personaggi più amati e popolari di un fumetto imperniato sulle drammatiche
vicende di un gruppo di mutanti dotati di straordinarie capacità fisiche
e/o mentali (proprio come il protagonista del telefilm di Friedkin); eroi
e reietti al tempo stesso, gli X-Men sono costantemente in fuga da un’umanità che li teme e li disprezza, e sono costretti – al pari dei reduci del
Vietnam negli Stati Uniti degli anni ’80 – a sentirsi come stranieri in casa
propria. Quello del conflitto asiatico «è uno spettro che nasce immortale da una lesione profonda dell’anima americana e la cui invisibile presenza è in grado di far “continuare” la guerra sul suolo patrio, ormai
invaso da demoniache e sordide presenze» 4.
In ogni caso, come visto in precedenza, il «fanta-evento» della televisione seriale degli anni ’80 risale al 1987, quando fa il suo esordio – 21
anni dopo la serie originale – l’attesissima Star Trek - The Next Generation.
Il successo del nuovo telefilm di Gene Roddenberry – assieme a quello
inarrestabile di un numero sempre maggiore di pellicole hollywoodiane
– fa sì che l’industria superi le proprie diffidenze verso il genere fantastico, anche per quel che riguarda i prodotti per il piccolo schermo
(nonostante i risultati non esaltanti di Ai confini della realtà e Storie incredibili). Nel 1988, per esempio, Wes Craven porta nei tinelli delle case
americane la sua più celebre creatura cinematografica orrorifica: il
Freddy Krueger del ciclo di Nightmare. Il mostro con l’uncino, infatti,
diventa protagonista della serie Freddy’s Nightmares (id.) che riesce ad
andare in onda per 44 episodi nonostante i continui attacchi della critica, che la definisce «la più violenta della stagione televisiva 1989».
Proprio come al cinema, il terribile Freddy (interpretato sempre da
Robert Englund) continua anche in TV ad «animare» gli incubi degli
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
adolescenti della tranquilla provincia americana, tra sogno e realtà,
humour nerissimo e visionarietà splatter; cerca di contrastarlo, nella cittadina di Springwood, il tenente Blocker (Ian Patrick Williams). Alla
regia dei vari episodi, con lo stesso Craven, si alternano diversi registi
dell’horror hollywoodiano del periodo, come Tobe Hooper, Mick Garris,
Renny Harlin, Tim Hunter. Nel 1992, sempre Wes Craven firma un
nuovo progetto televisivo, più deludente, intitolato Nightmare Café (id.).
E tre anni prima, delude a sua volta anche un’altra serie, nonostante sia
ideata da cineasti del calibro di Richard Donner, Walter Hill e Robert
Zemeckis, e parta dall’ottima idea di riprendere storie, suggestioni e
persino il titolo di una celebre testata di fumetti horror degli anni ’50.
Racconti di mezzanotte (Tales from the Crypt, 1989) va avanti per 93 episodi che spesso, però, si riducono a esercizi di stile e nulla più.
È con l’inizio dei ’90, comunque, che si verifica – anche grazie all’approssimarsi del passaggio epocale dal secondo al terzo millennio, con le
conseguenti ansie irrazionali derivanti dalla scadenza – la definitiva
esplosione del fanta-horror a un livello di massa, con esiti quantitativi e
qualitativi, pure in televisione, superiori persino a quelli pur notevoli dei
decenni ’50 e ’60. La decade è degnamente inaugurata dalla rivoluzionaria e seminale «gemma oscura» di David Lynch e Mark Frost, I segreti di
Twin Peaks, della quale si parla diffusamente in un successivo capitolo. Ma
– dopo qualche precedente interessante pur se di breve durata, come Oltre
la realtà (Beyond Reality, 1991; prodotto da Hans Beimler) e la «soap opera
vampiresca» L’ombra della notte (Dark Shadows, 1991; prodotta da Dan
Curtis, proprio come la serie originale omonima del 1966) – l’anno della
vera svolta è il 1993, quando la Fox TV trasmette, all’inizio senza troppa
convinzione, l’episodio pilota di uno strano serial intitolato X-Files.
X-Files
X-Files (The X-Files) va in onda per la prima volta il 10 settembre
1993, sul network Fox; in Italia arriva l’anno successivo, il 29 giugno
1994 su Canale 5. Oggi – giunto alla nona stagione e dopo il lusinghiero successo della versione cinematografica 5 – lo show creato da Chris
Carter è molto più d’un semplice programma televisivo d’intrattenimento: si è trasformato, infatti, in autentico fenomeno della cultura
popolare contemporanea, seguendo la scia dei «classici» del fantastico
catodico. «È quasi come un sogno – racconta, a tale proposito, lo stesso
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
111
Carter – poiché non s’inizia a fare un lavoro con l’idea d’invadere la cultura popolare. Semplicemente accade, così com’è accaduto che X-Files
abbia iniziato a ottenere un’influenza sempre maggiore sulle persone, o
almeno una certa capacità di attrazione».
Fin dalle prime puntate, Chris Carter miscela un cocktail irresistibile
di thriller-noir, horror e fantascienza paranoide; e delinea, in modo netto,
quello che sarà il tema portante della serie: il doppio complotto, extraterrestre e governativo. Il segreto obiettivo della cospirazione è, da un lato,
arrivare alla creazione di una nuova razza ibrida alieno-umana da utilizzare per un’invasione silenziosa della Terra; dall’altro, celare all’opinione
pubblica mondiale le prove della presenza extraterrestre, al fine di sfruttarne di nascosto le avanzatissime tecnologie (per scopi militari?), magari evitando l’asservimento del genere umano. Ovviamente, le cose non
sono così lineari e – otto stagioni (è in programmazione la nona) e molti
misteri dopo – tante domande aspettano ancora una loro risposta. Già
nell’episodio pilota «Al di là del tempo e dello spazio» («The X-Files - The
Pilot») e nel successivo «Il prototipo» («Deep Throat»), comunque, l’argomento UFO e quello della congiura occulta s’intrecciano tra loro in
modo inestricabile. Ed è proprio la serie di Carter, tra l’altro, a far entrare
prepotentemente nell’immaginario collettivo di fine millennio la cosiddetta «Teoria del complotto», qui unita a una chiara vena antigovernativa che ha provocato contrastanti letture politiche di X-Files. Alieni a parte,
infatti, è proprio il Governo degli Stati Uniti a portare avanti, nel telefilm,
cospirazioni che sottintendono terribili atrocità e oscure manovre.
Ma il serial rivela ben presto la poliedricità delle tematiche affrontate
e, già con il terzo episodio, «Omicidi del terzo tipo» («Squeeze»), dimostra quanto siano vaste le fonti d’ispirazione a cui può attingere, iniziando a prendere spunto, pian piano, da tutti gli ambiti del fantastico, inteso
come macrogenere narrativo (protagonista dell’episodio in questione è
Eugene Tooms, una specie di mutante elastico divoratore di fegati). Il telefilm di Carter, insomma, fin dall’inizio si presenta «come il più pervasivo,
dirompente episodio di divulgazione del credo terrifico che si ricordi a
memoria d’uomo. […] Uno schedario del fantastico in formato catodico,
un’antologia che rompe i confini del «terrore-come-genere» e trova la via
per attivare anche le sinapsi terrifiche più sonnolente. Con il semplice linguaggio della persuasione, costruendo personaggi e scenari di rara credibilità, per i quali sarebbe difficile trovare degni concorrenti nell’epos della
fiction televisiva americana» 6. È esemplificativo, in tal senso, il denso
elenco dei bizzarri argomenti affrontati dalla serie: «Clonazioni extrater-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
restri, serial-killer che scelgono le vittime via Internet, fantasmi dall’aldilà
in cerca di vendetta, treni che scompaiono nel nulla, uomini che leggono
il futuro, diavoli di provincia, scarafaggi che uccidono, rapimenti alieni,
teenager con poteri telecinetici, possessioni diaboliche, mostri in fondo al
lago, esperimenti segreti sui piloti della seconda guerra mondiale. […]
Assassini alieni invisibili, villaggi di provincia dediti a omicidi di massa,
fotografie che rivelano i segreti della personalità, vittime ritrovate prive di
pigmentazione cutanea, pericolosi culti religiosi, cliniche che praticano test
su esseri umani, organismi vermiformi che si annidano nel cervello» 7.
Secondo Franco La Polla, «X-Files riassume il magazzino dell’horror e
della SF cinetelevisivi americani del passato, senza una linea riconoscibile, un’influenza precisa e identificabile» 8. E si spinge ancora più in là,
nella sua lettura, Stefano Masi, per il quale «gli sceneggiatori di X-Files
hanno a disposizione duemila anni e più di miti da rileggere e riversare
dentro le loro storie, perché questo serial televisivo si è assunto il compito, quasi senza volerlo, di reinterpretare il cammino precedente dell’umanità, come tocca fare all’alba di ogni nuova epoca» 9. Quindi, cronaca e
scienza, medicina e complotti politici, astronomia e genetica, Bibbia e ufologia, antiche maledizioni egizie e leggende tradizionali tibetane o
Navajo: tutto ciò fornisce a X-Files infiniti spunti concreti, da rileggere
all’insegna della fantasia. Le premesse d’ogni avventura, però, sono sempre scientificamente credibili e le ambientazioni e i «modi» della narrazione puntano su un registro realistico (il primo episodio, non a caso, si
apre con la scritta: «Questa storia è ispirata a fatti reali e documentati»,
con rimando ideale allo storico poliziesco Dragnet); ma i punti d’arrivo –
al contrario di ciò che accade nella maggior parte dei telefilm – non forniscono mai tutte le spiegazioni dei vari casi affrontati.
La caratteristica strutturale della serie, infatti, fin dall’esordio, è la
«non fine» degli episodi, il loro non essere mai conclusi, il non dare risposte, ma lasciare di ghiaccio, senza chiarire completamente ciò di cui si sta
parlando. Le note inquietanti del tema musicale di Mark Snow, sui titoli
di coda, non spazzano via i dubbi con finali esplicativi e consolatori; e, in
tal modo, il pubblico è mantenuto in uno stato di tensione costante e
priva di cadute, col materiale narrativo che continua a germinare tra una
puntata e l’altra: insomma, è portato alle estreme conseguenze – e, al
tempo stesso, rovesciato – l’escamotage seriale del cliffhanger. A un dirigente della Fox TV che gli chiedeva finali più espliciti, Chris Carter una
volta rispose: «Non c’è nessun significato da capire! Il significato lo darà
ognuno degli spettatori» 10.
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
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Protagonisti di X-Files (che è il nome del dipartimento dell’FBI specializzato nei casi inspiegabili, catalogati appunto con una «X») sono due
agenti speciali: Fox Mulder e Dana Scully, magistralmente interpretati da
David Duchovny e Gillian Anderson; sempre alla ricerca della verità, che
– come recita la frase di lancio dell’intero progetto – è là fuori. E la verità
è davvero là fuori, in un fuori che vuol dire Aldilà, oltre il «dicibile»: per
i due detective non c’è alcuna possibilità di dirla completamente, così
come da parte degli autori non c’è la volontà di mostrarla con chiarezza
attraverso le immagini. Fox Mulder, agente FBI, è laureato in psicologia
ed è tra i detective più abili dell’intero Federal Bureau. Convinto che la
sorella Samantha sia stata rapita dagli extraterrestri, crede nell’esistenza
di forze paranormali ed è quasi certo che gli alieni controllino il nostro
pianeta, forse aiutati dal Governo. Questo gli ha fatto guadagnare il
soprannome di «Spooky» («spettrale»). Della sua vita privata non si
hanno molte notizie: forse non ne ha una, tutto preso dal suo lavoro, nella
speranza di scoprire qualcosa della sorella. Ha regolari rapporti personali soltanto con l’agente Dana Scully. Quest’ultima è laureata in medicina
e, decisamente scettica rispetto alla questione UFO, non condivide le convinzioni del collega, nonostante sia stata a sua volta vittima di un misterioso rapimento (alieno?). All’inizio della serie è assegnata alla sezione
«X-Files» con il preciso compito di controllare l’agente Mulder, forte del
suo scetticismo (i due incarnano, rispettivamente, fede e ragione). Il rapporto tra gli agenti speciali è rivoluzionario, nell’ambito della fiction
seriale televisiva, perché per molto tempo esclude programmaticamente
«derive» sentimentali e sessuali: Mulder e Scully, infatti, contraddicono la
prima legge non scritta dei telefilm «di coppia», secondo la quale i protagonisti di sessi diversi, prima o poi, finiscono a letto insieme. Carter, invece, segue una strada originale, anche se – con il passare degli anni – la
caratteristica ambiguità e la disarmante ironia del rapporto tra Mulder e
Scully si perde per strada, fino alla sorprendente gravidanza di Dana e
alla rivelazione romantica che chiude l’ottava stagione, rendendo esplicita la storia d’amore tra i due. Naturalmente, nel corso delle varie stagioni, tante altre premesse della serie saranno completamente stravolte, poiché in X-Files la continuity è sempre in evoluzione, così come le esistenze
dei personaggi stessi.
I due protagonisti sottostanno alla supervisione del vicedirettore
Walter S. Skinner (l’attore Mitch Pileggi), che fa la sua prima apparizione soltanto nel ventesimo episodio, «Creatura diabolica» («Tooms»), ma
acquista sempre maggiore importanza man mano che lo show va avan-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
ti. Almeno un paio di volte, Skinner è costretto dai suoi superiori a chiudere il dipartimento «X-Files», ma lo riapre di sua iniziativa e, nonostante non condivida i metodi un po’ bizzarri di Mulder, spesso s’adopera per aiutarlo. Fino alla settima stagione – l’ottava porta, infatti,
enormi cambiamenti – il misteriosissimo villain della serie è «L’uomo
che fuma» («Smoking Man»), figura inquietante e sinistra che compare
già nel pilot, senza dire una sola parola (la sua voce si sentirà, per la
prima volta, nel già citato ventesimo episodio «Creatura diabolica»).
Carter ha dichiarato che intendeva sin dall’inizio mantenere viva l’enigmaticità del personaggio interpretato da William B. Davis, e che non
avrebbe mai creduto che negli episodi successivi questi sarebbe arrivato a parlare tanto. Si tratta di un uomo dal grande potere, ambiguamente collocato tra le alte gerarchie dei servizi segreti, dai mai chiariti
rapporti con Mulder, Scully e gli «X-Files». In alcuni episodi, non senza
una punta d’ironia, Carter suggerisce addirittura che intere trame della
storia statunitense e mondiale dell’ultimo trentennio recano la sua
firma. Già al termine del pilot, comunque, «L’uomo che fuma» dà un’idea chiara di quanto sia potente e pericoloso: si reca, infatti, in uno sterminato deposito sotterraneo dell’FBI, dove nasconde l’unica prova dell’indagine appena conclusa da Mulder e Scully, su uno scaffale che –
come si evince appena l’inquadratura si allarga – è affiancato da centinaia di altri simili, tutti strapieni di reperti «top secret». Dopo che se ne
sono scoperte origini e motivazioni, «Smoking Man» muore drammaticamente al termine della settima stagione, anche se – come ama dire
spesso lo stesso Chris Carter – «nulla è certo o definitivo nell’universo
di X-Files».
È decisamente interessante, poi, anche la scelta di ambientare le
avventure degli agenti Mulder e Scully in località spesso periferiche degli
Stati Uniti, con prevalenza di cittadine di provincia situate negli sterminati stati interni della grande Nazione: anche in ciò – oltre che nell’atmosfera generale di onnipresente mistero in cui sono immerse le trame – è
esplicito il rimando a I segreti di Twin Peaks di David Lynch, d’altra parte
omaggiato con chiarezza e onestà fin dall’episodio pilota. In «Al di là del
tempo e dello spazio», infatti, la coppia di protagonisti si trova a indagare su una serie di misteriosi rapimenti alieni che si verificano a Bellefleur,
una piccola cittadina dell’Oregon nord-occidentale, nei pressi del confine
canadese: proprio dove Lynch, cioè, piazza la sua immaginaria Twin
Peaks. E il contesto ambientale è quasi identico: con boschi che circondano minacciosamente il caseggiato e che, in entrambi i casi, celano il miste-
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
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ro; con sguardi ostili e diffidenti verso gli «stranieri»; con orrori che strisciano subdolamente, sia per Lynch che per Carter, all’interno di famiglie
insospettabili (quella di Laura Palmer e del detective Miles e di suo figlio
Billy). D’altra parte, per quello che all’inizio è il target di riferimento dello
show – cioè un pubblico giovane, di cultura e ceto sociale medio-alto,
residente soprattutto nelle grandi città, come tutti gli americani non troppo interessato a ciò che accade nel resto del mondo – buona parte del
fascino della serie risiede proprio nell’esotismo di località come la citata
Bellefleur (Oregon), Ellens (Idaho), Sioux City (Iowa), Townsend
(Wisconsin) o Raleigh (North Carolina), volendone citare solo alcune dai
primi episodi. E poi, proprio l’interno degli Stati Uniti – nella finzione
come nella realtà – è da sempre perfetto ricettacolo per sette religiose
ultra-ortodosse, milizie militari indipendentiste, misteri innominabili
celati dal deserto americano (uno per tutti, per restare proprio in tema
UFO, la famigerata base militare «top secret» denominata «Area 51» che
sarebbe situata in una remota zona del Nevada). Sempre per ciò che concerne le ambientazioni, va sottolineato come il particolarissimo look della
serie debba molto, per le prime cinque stagioni, alla scelta di girarla a
Vancouver, in Canada: dal sesto anno in poi, invece, il telefilm è realizzato a Los Angeles, con evidenti mutamenti tecnico-produttivi ma anche
estetici.
Dopo le prime stagioni di «assestamento» – con tanti episodi di grande interesse e ottima qualità, comunque – quella che è definita «mitologia» della serie inizia a emergere con maggiore chiarezza e continuità nel
corso della terza stagione. Questa si apre con un’agghiacciante sequenza di episodi che s’aggancia a quello conclusivo dell’anno precedente –
la saga, in tre parti, si intitola significativamente «Il file da non aprire»:
in originale «Anasazi», «The Blessing Way», «Paper Clip» – e cala gli
spettatori nel cuore stesso della cospirazione rivelando che: esiste un
misteriosissimo Consorzio (del quale fa parte «L’uomo che fuma») che
agisce nell’ombra, probabilmente in combutta con diversi governi mondiali, con lo scopo di controllare gli esperimenti di ibridazione alienoumana, sfruttando persino le ricerche compiute dagli scienziati nazisti
nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale; il padre di
Mulder, Bill (a sua volta agente FBI), ha avuto un ruolo di primo piano
in questo progetto, è amico di vecchia data di «Smoking Man» e proprio
i suoi compiti sono all’origine del rapimento della figlia Samantha; in un
immenso archivio sotterraneo, si nascondono le prove della schedatura
genetica della popolazione statunitense, effettuata con il pretesto di ope-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
razioni di vaccinazione di massa; Dana Scully, infine, scopre di avere un
microchip nel collo, impiantatole durante un precedente sequestro. La
svolta è significativa, soprattutto perché proprio il personaggio interpretato da Gillian Anderson perde gran parte dello scetticismo degli
inizi e, dopo i traumatici eventi, si lascia coinvolgere sempre di più dalla
«visione» di Mulder (e sempre più intimamente, dato che l’anno dopo,
nel bellissimo episodio «Il male oscuro», «Memento Mori», Scully scopre
addirittura che l’innesto del chip le ha procurato – come a tante altre
donne che hanno subito la sua stessa sorte – un misterioso cancro apparentemente incurabile: la malattia che ogni anno uccide più americani fa
irruzione nella serie, in modo clamoroso e dolorosissimo).
Fox Mulder e Dana Scully lavorano all’interno dell’FBI, ma sono
costretti a lottare contro questa stessa istituzione, corrotta come tante
altre, persino ai suoi vertici. E il reiterato senso d’accerchiamento – crescente nel corso della quarta stagione – non fa che cementare ulteriormente il rapporto tra i due. Ormai, non ci si può fidare più di nessuno –
e proprio «Trust No One» è tra i più significativi slogan della serie – dato
che bene e male sono praticamente indistinguibili. Rispetto alla fantascienza paranoide degli anni ’50, la maggiore differenza sta proprio nel
modo in cui viene descritta l’autorità costituita: non più semplicemente
ottusa e cieca verso il pericolo strisciante proveniente dall’esterno
(«From Outer Space»), ma corrotta e forse addirittura indirizzata da
infiltrati alieni mimetizzati al suo interno. L’invasione non può essere
fermata, semplicemente perché è già avvenuta; l’ibridazione tra alieni e
umani sembra un processo irreversibile: da questo punto di vista, appare esplicito il riferimento allo spirito di uno tra i film americani più eversivi degli ultimi decenni, cioè Essi vivono di John Carpenter.
La mancanza di certezze domina su tutto e rende X-Files uno dei
«termometri» più sensibili per catturare la temperatura emozionale
della società statunitense contemporanea, ancora di più dopo l’atroce
atto terroristico dell’11 settembre 2001, che ha cancellato le torri gemelle del World Trade Center, fatto migliaia di vittime ed eliminato per
sempre la sola sicurezza che restava agli americani: quella dell’inviolabilità delle proprie metropoli da parte di un nemico esterno. In un
periodo di crisi come quello attuale, dunque, la «creatura» di Chris
Carter si carica di valenze metaforiche. I nemici non hanno un volto né
un nome e nemmeno le leggi della fisica arrivano in soccorso dei due
sempre più isolati protagonisti; persino la percezione dei corpi, in XFiles, diventa incerta e relativa. Chiunque, infatti, può essere rapito e
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
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sottoposto inconsapevolmente a innesti o esperimenti agghiaccianti che
ne violano la corporeità (così come fanno le ricorrenti autopsie); molti
extraterrestri, poi, mutano aspetto e sesso in continuazione, spesso sono
persino privi di una propria faccia; gli stessi alieni che si vedono in
diversi episodi, sono sempre inquadrati in penombra, lasciando vivo il
dubbio sulla loro identità di creature non del nostro mondo oppure
risultanti da ibridazioni genetiche mal riuscite; sotto pelle, nelle cavità
orali o negli occhi, può nascondersi il terribile «cancro nero» di origine
aliena o altri virus sconosciuti e pronti a devastare i corpi ospiti. Tutto
ciò appare ancora più terribile perché avviene all’interno di scenari
assolutamente quotidiani, tra le strade notturne delle metropoli, in isolate fattorie degli Stati interni, proprio mentre la vita «normale» scorre
inconsapevole e quasi monotona.
Nel corso della quinta stagione Carter prepara il terreno per il primo
film cinematografico tratto da X-Files (X-Files - Il film, The X-Files: Fight the
Future, 1998, di Rob Bowman) e, allo stesso tempo, sperimenta sempre
più spesso con autentiche «divagazioni» intorno alla struttura tradizionale del telefilm. Si spiegano in questo modo alcuni episodi originali e
molto belli come, per esempio, «Prometeo postmoderno» («Post Modern
Prometheus»; sceneggiato e diretto proprio da Chris Carter) – un malizioso e sentito omaggio, in bianco e nero, al mito di Frankenstein – o
«Chinga» (id.) e «Intelligenza artificiale» («Kill Switch»), scritti rispettivamente da due «big» del fantastico come Stephen King e William
Gibson. Tra le due puntate, entrambe di buon livello, si lascia preferire
quella ideata da Gibson. Lo scrittore cyberpunk 11, infatti, con la collaborazione di Tom Maddox (i due scriveranno anche un episodio della settima stagione: «High Tech», «First Person Shooter»), riesce a fondere alla
perfezione le proprie ossessioni tematiche con il contesto e le atmosfere
di X-Files, coinvolgendo gli agenti speciali Mulder e Scully in un caso
imperniato sulla morte di un genio del computer e sul tentativo da parte
della sua creatura informatica di prendere vita: l’indagine si sviluppa tra
la nostra realtà e i cupi scenari virtuali tipici di tanta produzione gibsoniana; l’episodio provvede, inoltre, a colpire gli spettatori con un paio di
sequenze nelle quali a Mulder vengono tagliate braccia e gambe (naturalmente nella realtà virtuale). La puntata scritta da Stephen King, invece, è tutta incentrata su una bambola assassina che riesce a fare in modo
che le sue vittime si uccidano da sole: anche qui, ritornano – forse un po’
banalizzati, però – tanti temi cari allo scrittore del Maine.
Al cinema, Mulder e Scully arrivano «traumatizzati» da una nuova
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
chiusura degli «X-Files», nonché travolti da altre rivelazioni sconcertanti sulla cospirazione alieno-governativa. Per buona parte della sesta stagione, poi 12, sono ancora fuori dalla sezione «X», sostituiti dagli agenti
Diane Fowley (Mimi Rogers) e Jeffrey Spender (Chris Owens): la prima
è un’ex «fiamma» di Fox, il secondo scoprirà d’essere il figlio del famigerato «Smoking Man». Al termine della settima stagione – aperta con la
rivelazione di presunte origini aliene di Mulder e «animata» pure dalle
continue incursioni dell’ambiguo doppiogiochista Alex Krycek (interpretato da Nicholas Lea) – sembra, invece, che il cerchio sia destinato a
chiudersi, anche perché David Duchovny si dice stanco del ruolo di Fox
Mulder e manifesta l’intenzione di abbandonare la serie per lavorare con
maggiore regolarità sul grande schermo. Così, il bellissimo episodio conclusivo dell’annata, «Requiem» (id., scritto da Chris Carter e diretto da
Kim Manners), riporta i personaggi sui luoghi della prima storica avventura: a Bellefleur, Oregon. Qui, gli agenti Mulder e Scully ritrovano i
ragazzi rapiti dagli alieni sette anni prima, con in testa Billy Miles, il
figlio dello sceriffo locale: il giovane sarà nuovamente portato via dagli
extraterrestri, ma stavolta a fargli compagnia ci sarà addirittura Fox
Mulder. Contemporaneamente, Krycek assassina «L’uomo che fuma» e
Dana Scully, sterile, scopre di essere misteriosamente incinta: al termine
dell’episodio, l’ex scettica e il vicedirettore Skinner – entrambi sono stati
testimoni del rapimento alieno di Mulder e adesso, finalmente, «hanno
visto» – giurano solennemente che ritroveranno il loro collega.
Il cataclismatico finale rappresenta un autentico shock (l’ennesimo!)
per gli spettatori americani (ma non solo), dato che Duchovny è di gran
lunga l’interprete più popolare e amato del telefilm. La sua scomparsa,
però, apre nuove possibilità di sviluppo per X-Files, anche se per molti
fan della prima ora «lo spirito originale della serie è andato perduto irrimediabilmente». L’inizio della stagione numero otto, comunque, chiarisce immediatamente le intenzioni di Carter, fin dall’episodio d’esordio
«Arrivare» («Within»): un nuovo attore affianca Gillian Anderson e la
sua sola presenza serve per ridefinire le coordinate dell’intera serie. Si
tratta del carismatico Robert Patrick – già notissimo come iper-tecnologico villain di Terminator 2 - Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment
Day, 1991, di James Cameron) – che interpreta l’agente speciale John Jay
Doggett. Adesso è Scully a incarnare la fede, mentre Doggett le oppone
analisi razionali molto spesso smentite dai fatti.
Nel corso della stagione, Mulder riappare e – nel crescendo inarrestabile che porta al travagliato parto di Scully – la coppia diventa trio,
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
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con magnifiche e inedite possibilità drammaturgiche per la serie, sfruttate al meglio anche grazie all’ottimo livello dei tre interpreti. I due episodi che concludono l’ottava serie – «Essence» (id.) ed «Existence» (id.),
scritti da Chris Carter e diretti da Kim Manners – sono imperniati addirittura su un quintetto di protagonisti, grazie alla presenza sempre più
centrale del vicedirettore Skinner e al ritorno in scena dell’agente speciale Monica Reyes (Annabeth Gish), personaggio che entra nel cast
regolare dalla stagione successiva. Dana Scully è soltanto una donna
impaurita, quasi certa d’essere in procinto di mettere al mondo un
mostro, un alieno o chissà cos’altro; John Doggett, ormai pienamente
coinvolto dal punto di vista emotivo e professionale, è il partner affidabile che chiunque vorrebbe avere; Fox Mulder cerca in tutti i modi di
salvare la «sua» Dana e il bimbo che porta in grembo, dato che gli alieni vorrebbero impedirne la nascita perché il piccolo potrebbe essere l’unico in grado di fermare la loro invasione della Terra.
L’atmosfera è di messianica attesa – nella notte spunta anche una
cometa, che conduce Mulder da Scully – e la paura per ciò che sta per
accadere aumenta. Nel bellissimo finale, però, Dana dà alla luce un bambino apparentemente normale (fino a futura prova contraria, almeno) e,
nella romantica e struggente sequenza conclusiva, bacia finalmente il
«suo» Fox e, con lui, guarda in faccia per la prima volta la verità: a far
davvero paura agli indomiti agenti era soltanto l’evidenza dei reciproci
sentimenti; i due si amano e il neonato – normale o no, alieno o umano
(o, forse, primo della nuova razza ibrida) – è loro e di nessun altro. Si
tratta, probabilmente, del turning point tanto temuto dai fan della prima
ora; dell’addio dei personaggi alla serie, dato che, nel frattempo, anche
Gillian Anderson manifesta la volontà di abbandonare il telefilm al
quale deve la propria fama.
Dalla nona stagione – come conferma il produttore esecutivo Frank
Spotniz – «X-Files diventa una nuova serie, da molti punti di vista». Sui
casi contrassegnati dalla «X» continuano a indagare soprattutto John
Doggett e Monica Reyes, mentre fanno il loro ingresso nel cast nuovi
personaggi interpretati da Cary Elwes (nel ruolo del vicedirettore Brad
Follmer, parigrado di Skinner e, in passato, fidanzato dell’agente Reyes)
e dall’ex protagonista di Xena - Principessa guerriera (Xena: Warrior
Princess, 1995) Lucy Lawless. La nona stagione ruota attorno al mistero
del neonato di Scully e gli stessi cambiamenti nella composizione del
cast regolare portano, comunque, lo show a guardare verso direzioni
inedite: «Per far percepire al pubblico un certo senso di freschezza
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
rispetto al passato», precisa ancora Spotniz. Il «disegno» di Chris Carter
e del suo team, probabilmente, è quello di ripercorrere la strada seguita da Star Trek dopo il 1987: la Next Generation in televisione e i personaggi classici in avventure realizzate per il cinema. D’altra parte, sia
Duchovny che la Anderson hanno dato piena disponibilità a riprendere i loro personaggi in versioni per il grande schermo.
L’impatto di X-Files sulla televisione statunitense è stato devastante
e ha modificato per sempre il modo di realizzare fiction seriale di genere fantastico. Se molti appassionati hanno notato differenze qualitative
minime tra il primo film per il cinema e gli episodi televisivi, è per l’elevato livello visivo di questi ultimi, inusuale per i prodotti catodici:
nebbie, ombre, violenti tagli di luce, sequenze notturne, effetti speciali
sempre più sofisticati e una fotografia «contrastata» di livello cinematografico rendono lo stile della serie davvero unico nel panorama televisivo mondiale.
Inevitabilmente, però, l’enorme successo che rilancia il fanta-horror
anche in TV produce come risultato, per tutti gli anni ’90, la nascita di
numerosi telefilm che assumono come modello di riferimento proprio
la «creatura» di Chris Carter.
Il fanta-horror dopo «X-Files»
Nel 1996, per esempio, i produttori Bryce Zabel e Brent Friedman
creano per la NBC – ansiosa di contrastare X-Files della Fox – un telefilm che sembra avere tutte le carte in regola per entrare nei cuori degli
appassionati: Dark Skies - Oscure presenze (Dark Skies).
L’argomento, come per lo show di Chris Carter, è ancora una volta l’invasione «silenziosa» da parte degli alieni; e, ancora una volta, protagonisti della serie sono due giovani agenti governativi di sesso diverso, coinvolti in trame occulte; la colonna sonora, inoltre, è composta dal riconoscibilissimo Mark Snow. Tanto basta per segnare il destino del progetto,
nonostante differenze piuttosto evidenti tra i due telefilm. La critica americana, infatti, fa letteralmente a pezzi Dark Skies, che diventa oggetto di
un vero e proprio boicottaggio, persino da parte del network che lo programma: così, anche se originariamente articolata lungo cinque stagioni,
la serie viene mandata in onda per soli 18 episodi, tra l’altro sempre trasmessi in modo discontinuo e poco razionale. Peccato, perché il serial
della NBC mostra subito un buon livello qualitativo e indubbie potenzia-
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lità; e, soprattutto, non merita di essere ridotto a semplice «clone» di XFiles. La struttura temporale del telefilm di Zabel e Friedman, innanzitutto, è decisamente più complessa e articolata rispetto a quella delle avventure di Mulder e Scully. L’azione, infatti, inizia nel 1961 e – nel corso delle
cinque stagioni che erano state messe in preventivo – si sarebbe dovuta
concludere soltanto il 31 dicembre 1999, dopo aver percorso quasi quarant’anni di storia degli Stati Uniti, con molti celebri episodi «riletti» in
linea con lo spirito «fanta-paranoide» della serie. Addirittura, attraverso
diversi flashback, la trama di Dark Skies parte dal 1947, anno del mitico
«UFO Crash» di Roswell, nel New Mexico.
Anche i personaggi principali mutano, maturano, invecchiano molto
di più rispetto a quanto accade di solito nella fiction televisiva a puntate. Protagonisti sono John Loengard e Kim Sayers (interpretati da Eric
Close e Megan Ward), due giovani californiani che nel 1961 decidono di
trasferirsi a Washington, al termine del college, per sperimentare da vicino la «Nuova Frontiera Americana» di John F. Kennedy. Nella capitale –
dove Kimberly trova lavoro presso l’ufficio della First Lady, Jackie – si
trovano ben presto coinvolti, però, nel segretissimo progetto governativo denominato «Majestic-12», dal nome dell’organizzazione occulta istituita dal presidente Truman nel 1947, dopo i fatti di Roswell. Alla guida
del gruppo «MJ-12» c’è il capitano Frank Bach (J.T. Walsh), pronto a
occultare ogni prova della presenza extraterrestre e guidato da una grande ambizione. All’improvviso, dunque, la speranza e la fiducia nel futuro da parte della giovane coppia svanisce, la realtà inizia ad apparir loro
totalmente diversa da quella che credevano di conoscere: gli alieni esistono, sono ostili e si preparano alla colonizzazione della Terra, magari
proprio con l’aiuto dei governi terrestri.
L’episodio pilota «Majestic-12» («The Awakening») – costato quasi
cinque milioni di dollari e diretto da Tobe Hooper – ricostruisce ottimamente l’atmosfera dell’America kennediana d’inizio «Sixties», il cui spirito è ben presente nei due ingenui protagonisti. «Kimberly Sayers e John
Loengard – spiega uno dei due produttori esecutivi, Brent Friedman –
incarnano l’innocenza degli anni ’60, e partono per un viaggio nel corso
del quale la perderanno, esattamente come è accaduto agli Stati Uniti a
quell’epoca.» 13 Entra maggiormente nei dettagli l’interprete di John
Loengard, cioè Eric Close: «All’inizio, dovevo conferire al mio eroe un’aria fiduciosa, ingenua, squisitamente kennediana. Loengard non conosce
quasi nulla di ciò che lo attornia, ma impara in fretta… A Washington
però i suoi sogni si frantumano in mille pezzi, quando scopre la verità
122
AI CONFINI DELLA REALTÀ
sulle cospirazioni, le menzogne e i presunti incidenti. Nell’episodio pilota, la realtà che crede di conoscere si ribalta davanti ai suoi occhi, e così
John diviene sempre più duro, più cinico, più disincantato» 14. Tutto muta
a partire dall’abduction (il rapimento alieno) di cui resta vittima Kimberly,
alla quale viene impiantato in testa un dispositivo di controllo mentale a
distanza: la ragazza sopravvive all’esperienza del terzo tipo e, una volta
riuscita a rimuovere lo strano aggeggio, sviluppa persino poteri telepatici che le permettono di percepire l’ingerenza aliena nella mente di altre
persone. Proprio lanciandosi alla ricerca della compagna, John Loengard
inizia a spalancare, una dopo l’altra, le tante porte che celano la verità
nascosta dietro la facciata della «Storia ufficiale»: da Roswell all’assassinio di Kennedy, dalla guerra del Vietnam allo scandalo Watergate, per
citare soltanto gli eventi più radicati nell’immaginario dell’americano
medio. Di conseguenza, nel corso della serie, fanno la loro apparizione
diversi personaggi storici famosi, tra cui lo stesso JFK, suo fratello Bob,
Jack Ruby, i Beatles, Allen Dulles, Colin Powell, Norman Schwarzkopf.
Com’è facile comprendere, insomma, la serie vanta parecchi motivi
d’interesse – tra cui anche il buon livello della recitazione e la notevole
fattura complessiva della confezione – e, probabilmente, col procedere
delle stagioni, avrebbe potuto esprimere in pieno le sue potenzialità.
Forse, però, Dark Skies è concepito fin dall’inizio come «troppo colto» per
sperare di ottenere il successo che, invece, ha arriso a X-Files: l’elaborata
struttura cronologica, la raffinata ma provocatoria rilettura della storia
americana, i personaggi troppo umani per gli standard della televisione
commerciale rappresentano altrettanti ostacoli per un pubblico sempre in
cerca di rassicuranti certezze e che rifugge istintivamente dalle novità e
dal rischio. Inoltre, è anche possibile che il telespettatore occasionale si sia
trovato disorientato di fronte alle tante parole-chiave che attraversano gli
episodi: un autentico glossario specialistico con termini come «Paziente
zero» (un contadino che, nel corso di un’autopsia nel 1962, presenta un
ganglio alieno nella bocca: prima prova dell’invasione in corso), «ART»
(la tecnica per rimuovere i gangli, simbionti alieni, dagli umani),
«Progetto Blue Book» (varato dal Governo per fronteggiare i tanti avvistamenti, civili e militari, di UFO durante gli anni ’50), «Hive» (in italiano «L’Alveare», a indicare le capacità di comunicazione telepatica degli
extraterrestri).
In ogni caso, l’originalità della serie è fuori discussione; anche
rispetto a X-Files le differenze sono sostanziali. I presupposti di partenza dei due telefilm, addirittura, sono agli antipodi: mentre Chris Carter
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
123
lascia solo intravedere una verità sempre incerta e al massimo la svela
pian piano nel corso delle stagioni (la presenza aliena sulla Terra e le
connessioni con i governi mondiali), Bryce Zabel e Brent Friedman la
mostrano fin dall’inizio come qualcosa di certo e come il motore stesso
per lo svolgimento della trama; inoltre, se in X-Files i personaggi sono
il cuore dell’intero progetto, in Dark Skies essi sono funzionali all’analisi degli eventi che si trovano a dover fronteggiare di volta in volta. La
prematura chiusura di Dark Skies, comunque, ha fatto nascere agguerriti fans club in giro per il mondo e non è escluso che la loro pressione
continua possa convincere, prima o poi, i vertici della NBC – o, più realisticamente, quelli di una Cable Television dalla programmazione più
«mirata» – a dare una nuova chance a un telefilm intelligente che ha
dimostrato abbondantemente di meritarla.
Un altro serial fanta-horror che – in maniera ancor più diretta – deve
la sua stessa esistenza al successo di X-Files è Millennium (id., 1996),
creato e prodotto proprio dal «papà» di Mulder e Scully, e in onda sempre su Fox TV dal 25 ottobre 1996. Col suo nuovo titolo, Chris Carter
decide di oltrepassare qualsiasi limite imposto dalla televisione, dal
punto di vista visivo e contenutistico, estremizzando le caratteristiche
dello show che gli ha dato la fama. Stavolta, lo sceneggiatore-produttore non vuole parlare più di UFO e complotti governativi, bensì di serial
killer e attese millenaristiche di una nuova era, che coinciderebbe con il
passaggio dal secondo al terzo millennio: si capisce bene, dunque, l’abilità con cui Carter «sfrutta» artisticamente e commercialmente le
ansie irrazionali crescenti un po’ dovunque, nel periodo.
L’idea-guida di Millennium, ancor più che in X-Files, è: nessuno può
sentirsi al sicuro. A opporsi a criminali che sembrano uccidere senza altro
scopo che non sia la dimostrazione dell’esistenza del male nel mondo, ci
sono i membri di una misteriosa organizzazione che risale addirittura ai
primordi del Cristianesimo, il Gruppo Millennium, rimesso in piedi
durante la seconda guerra mondiale dall’allora capo dell’FBI J. Edgar
Hoover, con la collaborazione di un ristrettissimo nucleo di agenti segreti. Protagonista assoluto della serie, però, è Frank Black (che ha il volto
tagliente e inconfondibile di Lance Henriksen), un ex agente FBI con il
dono – o, come ripete egli stesso, «la condanna» – di calarsi direttamente
nel cuore del male, riuscendo a «vedere» attraverso gli occhi degli assassini. In Millennium il male non coincide più con perversioni politiche o
complotti come in X-Files, ma diventa autentica «metastasi» – e, in quanto tale, inspiegabile – che dimora negli angoli meno visibili di una società
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
sempre più schizofrenica e che divora dall’interno l’animo umano.
Tale impostazione è tipica di quasi tutti i film e romanzi del periodo,
imperniati sulla figura del serial killer. Ma, come nota lo scrittore Valerio
Evangelisti in un suo approfondito e polemico saggio sull’argomento, il
rischio connesso è quello di rifiutare di capire. «Non si tratta, a ben guardare, di una rivisitazione – scrive Evangelisti – delle tematiche esplorate
decenni fa da Robert Bloch, in romanzi a giusto titolo memorabili. Per lo
più i risvolti psicologici sono scomparsi o si sono fatti marginali: al centro delle storie stanno ora le inenarrabili atrocità compiute dal mostro,
che è tanto più mostro quanto più le sue azioni appaiono insensate. Una
sorta di grottesco insetto omicida che, acquattato nelle pieghe della
società, è destinato a essere, più che neutralizzato, schiacciato» 15. Al termine della sua lunga escursione critica su quest’aspetto della percezione
dell’incubo americano, il creatore dell’inquisitore Nicolas Eymerich cerca
di isolare alcune cause in grado di spiegare, almeno in parte, l’indubbio
proliferare del serial killer nella cultura e nella società statunitensi a
cavallo tra secondo e terzo millennio: le imposizioni dell’etica protestante come «pensiero unico», l’ipercompetitività sociale assurta a cieco
dogma, la frammentazione della famiglia a partire da un ruolo materno
sempre più «insidiato», il disprezzo per il perdente e il diritto del cacciatore propagandati come suggestivi modelli di vita.
Gli intenti di Millennium, tuttavia, sono altri; e rimandano inevitabilmente a seminali capolavori cinematografici del genere come Manhunter
- Frammenti di un omicidio (Manhunter, 1986) di Michael Mann, Il silenzio
degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991) di Jonathan Demme e Seven
(Se7en, 1995) di David Fincher, con i primi due tratti a loro volta dai fondamentali romanzi di Thomas Harris. Il male – in queste pellicole come
nel telefilm di Carter – è contemporaneamente dentro e fuori la società,
terribilmente concreto e in grado di provocare dolore appena entra in contatto col resto di un contesto sociale subito più che realmente vissuto: è un
male che giudica e che, magari, si rifà a una personalissima lettura della
Bibbia per dare motivazione alle proprie azioni. La terribile concretezza
di questo male è ben restituita, in Millennium, dalle fitte lancinanti che
sconvolgono Frank Black ogni volta che cerca di entrare nelle menti degli
assassini: per questo motivo, tra l’altro, una tra le più grandi preoccupazioni del personaggio deriva dalla consapevolezza che anche la figlioletta Jordan (Brittany Tiplady) possa essere dotata del suo stesso «dono».
La trama prende il via quando Black – ex agente dell’FBI specializzato
in omicidi seriali, ma che ha lasciato il servizio e si è trasferito nella «sua»
X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90
125
Seattle dopo misteriose minacce di morte rivolte alla moglie Catherine
(Megan Gallagher) e alla figlioletta – decide di tornare in azione e d’iniziare a collaborare con il misterioso Gruppo Millennium, per provare a
risolvere una serie di atroci delitti connessi, secondo lui, con la svolta epocale del Duemila. L’ambiente ricorrente nel quale Black agisce è malsano,
cupo, umido: buio, pioggia, fioche luci al neon di una metropoli che sembra in procinto di disgregarsi; e poi, improvvisi «squarci» del «profondo
rosso» di una violenza apparentemente cieca e che, invece, potrebbe
rispondere a un disegno più ampio e perverso. È indicativo, dunque, oltre
al commento sonoro del «solito» Mark Snow, il modo in cui il direttore
della fotografia Robert McLachlan accentua la dicotomia tra l’oscura esistenza esterna dell’ex agente federale e i toni giallo pastello della sua abitazione-rifugio: «più Black si allontanerà da casa sua – spiega McLachlan
–, dipinta di giallo per accentuare la solarità che vi regna tutt’attorno, più
si troverà avvolto dalle tenebre e da coloro che difficilmente colpiscono
alla luce del sole» 16.
Proprio l’indirizzo privato dell’agente Black offre l’opportunità per sottolineare un’altra interessante caratteristica di Millennium: l’ossessiva presenza di citazioni tratte dalla Bibbia (la casa, per inciso, si trova al numero
1910 di Ezechiel Drive, con chiaro riferimento ai minacciosi versi 19,10 del
Libro di Ezechiele: «Tua madre è radicata nel tuo sangue come una vite nel
fiume. Era feconda di frutti e rigogliosa di rami grazie a cotanta acqua»;
allusione ai pericoli incombenti su Catherine e Jordan, conseguentemente
al «dono» di Frank). Soprattutto durante la prima stagione del telefilm, la
Bibbia è considerata – scrive Alessandro Zaccuri, in un raffinato saggio critico sull’argomento – «anzitutto in quanto testo letterario, in perfetta consonanza con la tradizione culturale angloamericana, anch’essa […] ampiamente sfruttata dal citazionismo degli autori. Ma questo, come nel caso del
Vangelo secondo Luca, non impedisce che le Sacre Scritture vengano
manipolate in modo da suggerire l’effettiva presenza di una minaccia
soprannaturale che incombe sul mondo. […] Erudite soltanto in apparenza, le citazioni di Millennium obbediscono in realtà a un codice facilmente
decifrabile da parte dello spettatore al quale si rivolgono. Esse confidano
su una sorta di preconoscenza dei testi i quali, a causa del contesto del
tutto inusuale in cui vengono collocati, assumono un significato nuovo e
niente affatto rassicurante» 17. La Bibbia – proprio come i versetti scritti dai
serial killer a commento dei loro delitti (a cominciare dal «Francese», protagonista dell’episodio pilota) – serve, a quell’abilissimo manipolatore
della cultura popolare che è Chris Carter, per portare il pubblico televisivo
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
in un’oscura «Zona del crepuscolo» priva di certezze e punti di riferimento, attraverso l’utilizzo delle parole di quelle che, pur molto diverse tra
loro, vengono tutte percepite dall’americano medio come «poesie »: cioè,
«un insieme di parole dal suono misterioso e arcano, che esprimono il
retaggio di una sapienza perduta e probabilmente pericolosa» 18.
Dalla seconda stagione, però, «clima» e contenuti di Millennium
subiscono una brusca sterzata verso le atmosfere di X-Files, per provare a porre rimedio – nonostante il plauso quasi incondizionato della critica – a indici d’ascolto inferiori rispetto alle previsioni e agli investimenti per l’imponente campagna promozionale orchestrata dalla Fox.
Così, il Gruppo Millennium viene implicato, a sua volta, in un complotto apocalittico che potrebbe essere addirittura alla base della misteriosa epidemia che uccide Catherine, la moglie di Frank nel frattempo
fatta uscire di scena. In seguito, il tormentato protagonista decide pure
di rientrare nei ranghi dell’FBI, proprio per combattere i misteriosi
arconti dell’organizzazione occulta; si trova persino ad agire in coppia
con un’agente donna che poi – con un ulteriore capovolgimento – entra
a far parte del Millennium. Alla fine, il nostro potrà contare soltanto sull’aiuto della figlioletta Jordan che, nel frattempo, ha pienamente rivelato i propri poteri paranormali. Il serial chiude, in ogni caso, dopo la
terza stagione e – pur da considerare come un interessante tentativo di
superare alcune convenzioni della fiction seriale televisiva statunitense
(stimolanti, per esempio, i tanti riferimenti alla visione e alla sua possibile «manipolazione» dall’esterno) – lascia un pizzico d’amaro in bocca
per ciò che avrebbe potuto essere e, invece, non è stato.
Un telefilm molto simile a Millennium, rispetto al quale va in onda
circa un mese prima, è Profiler - Intuizioni mortali (Profiler, 1996), ideato da
Cynthia Saunders con musiche di Angelo Badalamenti. Protagonista è la
bionda psicologa criminale Sam Waters (interpretata dall’affascinante Ally
Walker), anche lei – come il Frank Black del serial di Carter – capace di
«vedere» nelle menti dei criminali, grazie a capacità paranormali. Per questa sua abilità, la Waters si rende decisamente utile all’unità investigativa
Violent Crimes Task Force, attiva ad Atlanta e capeggiata dal suo vecchio
amico Bailey Malone (Robert Davi). L’anomala detective – che vive con la
figlioletta Chloe (Caitlin Wachs) e l’amica del cuore Angel Brown (Erica
Gimpel) – è tormentata dai sensi di colpa per non aver saputo impedire,
tre anni prima, l’omicidio del suo compagno, da parte di un misterioso killer che si fa chiamare semplicemente Jack (Dennis Christopher) e che continua a perseguitarla. Pur con uno spunto di partenza quasi identico, però,
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127
Profiler è uno show diversissimo da Millennium, innanzitutto per il modo
in cui sviluppa le proprie trame (meno «crudo» e disturbante, più vicino
al poliziesco che all’horror) e poi per lo stile iper-patinato della messa in
scena, assolutamente coerente, d’altra parte, con la levigatezza della protagonista (soprattutto se rapportata alle cicatrici e al volto «squadrato» e
inquietante di Lance Henriksen). L’elegante confezione e un buon gruppo
di attori, comunque, riescono ad assicurare a Profiler un successo più prolungato rispetto a quello ottenuto dalla serie di Chris Carter.
Nel 1995, poi, passa come una meteora sui teleschermi americani un
altro ottimo «fanta-telefilm» che, se meglio supportato, avrebbe potuto
lasciare una traccia ben più profonda e duratura nell’immaginario dei
telespettatori: lo sconvolgente American Gothic (id., 1995), ideato da
Shaun Cassidy e prodotto da Sam Raimi. Dalla collaborazione tra i due
scaturisce un riuscito e affascinante mix tra le suggestioni e le tematiche
di storici serial come Ai confini della realtà, I segreti di Twin Peaks e X-Files.
«Volevamo – spiega proprio il creatore della serie, Cassidy – qualcosa di
nuovo e di antico insieme, una serie che ricordasse certi racconti di
Stephen King, come It o Shining. Un telefilm che provocasse paura, che
facesse balzare sulla sedia o chiudere gli occhi per il terrore, che sorprendesse lo spettatore senza un briciolo di violenza. E questo, vista la
televisione di oggi, potrebbe essere il vero aspetto scioccante» 19. E, infatti, il vero punto di forza di American Gothic è proprio l’atmosfera di
inquietudine e terrore strisciante che impregna Trinity, la cittadina situata nel Sud Carolina dove sono ambientate le trame del telefilm. Qui il
tempo sembra essersi addirittura fermato e la nevrotica società contemporanea delle metropoli collassanti e affollatissime – ma anche del progresso – sembra lontana anni luce, di fronte ai valori tradizionali del
«Glorioso Sud», dominanti rispetto a ogni altra cosa.
A reggere le fila della propria comunità, quasi come una divinità
incarnata, c’è lo sceriffo locale Lucas Buck (interpretato da Gary Cole),
personaggio straordinario che sembra uscito direttamente dalle pagine
grondanti sangue di uno tra i fumetti più amati e discussi del decennio:
l’oscuro «Preacher», creato dagli inglesi Garth Ennis e Steve Dillon per la
divisione Vertigo della DC Comics 20. Grazie allo sceriffo Buck, a Trinity la
legge domina su ogni altra cosa e, in effetti, i crimini sono quasi inesistenti: tutto ciò ha, però, un suo prezzo altissimo, dato che l’osservatore
non distratto o plagiato farebbe ben poca fatica a notare come l’intera
popolazione locale sembri totalmente e innaturalmente soggiogata dallo
sceriffo. E Buck, d’altra parte, pare essere a conoscenza del passato, pre-
128
AI CONFINI DELLA REALTÀ
sente e futuro dei suoi concittadini, che amministra secondo una legge
privata e la sua personalissima morale. Il serial mostra, dunque, come il
personaggio sia dotato di poteri paranormali, probabilmente di origini
diaboliche, attraverso i quali può fare da sceriffo, giudice, giuria e boia
contemporaneamente, senza temere alcuna opposizione. Prova a contrastarlo, infatti, la famiglia del piccolo Caleb Temple (Lucas Black), al quale
vengono uccisi il padre e la sorella Merlyn (Sarah Paulson): e, così, proprio il bambino resisterà come unico, autentico avversario di Buck (del
quale, si scopre, potrebbe essere una sorta di figliastro); perché gli altri
personaggi subiscono tutti, indistintamente, il perverso fascino del male,
in una sorta di diabolico incantamento. Due esempi perfetti della debolezza e inutilità di qualunque opposizione arrivano dall’alcolizzato medico del paese, Matt Crower (Jake Weber), e dalla cugina di Caleb, Gail
Emory (Paige Turco), che finirà addirittura a letto con «l’odiato» sceriffo.
Ad aiutare Caleb nella sua lotta, in definitiva, c’è soltanto il fantasma della
sorella morta, che gli appare di volta in volta per metterlo in guardia.
Insomma, tra visioni e incubi, omicidi e ritorni dall’aldilà (addirittura
dall’inferno), a Trinity l’«American Dream» si trasforma in «American
Scream», l’urlo americano delle tante vittime di un sogno mai del tutto
(mai per tutti) coincidente con la realtà. Il concetto centrale di American
Gothic – mai titolo fu più azzeccato – è che il male esercita sempre un fascino irresistibile sull’animo umano: non a caso, dunque, l’unico personaggio veramente interessante e tridimensionale, nella piccola cittadina, è
proprio quello dello sceriffo Buck, il quale – nonostante ricatti, uccida,
imbrogli, aggredisca chiunque osi ostacolarlo (o, forse, appunto per questo) – è, al di là di tutto, l’indiscutibile leader della comunità, senza alcun
dubbio in merito. Di fronte a lui, tutti gli altri scompaiono letteralmente.
Purtroppo, però, American Gothic si rivela fin troppo ardito e raffinato per
il palato del consumatore medio di fiction televisiva e, per questo, non
ottiene i risultati sperati e – per decisione del network – non conoscerà mai
una seconda stagione di programmazione. Anche così, in ogni caso, resta
uno tra i migliori prodotti televisivi seriali fanta-horror del decennio.
Il grande successo di X-Files crea nuovo spazio nei palinsesti dei
network statunitensi anche per il rilancio delle serie fantastiche antologiche, tipiche dei primi decenni della televisione e riproposte – per un breve
periodo e con esiti non particolarmente felici – nel corso degli anni ’80. In
particolare, dal 26 marzo 1995 (col pilot intitolato «The Sandkings»), ritorna sui teleschermi americani uno show molto amato durante il decennio ’60: The Outer Limits. La nuova edizione – prodotta da Pen Densham,
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129
Jonathan Glassner, Richard B. Lewis e John Watson e arrivata anche in
Italia con il titolo di Oltre i limiti – guarda con maggiore attenzione all’originale ideato da Leslie Stevens, rispetto a quanto fatto dieci anni prima dai
produttori del nuovo Ai confini della realtà. Riprende parecchi episodi dal
prototipo, per realizzarne i remake, ma è anche in grado di aggiornare con
efficacia il campionario degli orrori da portare sul piccolo schermo. I temi
frequentati dal macrogenere fanta-horror, infatti, sono molto cambiati e
così, nel nuovo show, trovano opportunamente spazio argomenti di «scottante» attualità come la realtà virtuale, gli esperimenti di ingegneria genetica, pericolosissimi virus pronti a sterminare il genere umano; ma anche
più classiche «ghost stories», vicende imperniate su robot, poteri paranormali e viaggi nel tempo. Però, il tema dominante – poiché siamo negli anni
di X-Files e la televisione tende a replicare all’infinito ciò che incontra successo – è senz’altro quello degli extraterrestri, presenti in un’infinità di episodi. La Control Voice che introduce e commenta ciascuna puntata è affidata a Kevin Conway, e rappresenta l’ennesimo elemento di continuità
con l’originale. Oltre i limiti riesce a superare quantomeno quantitativamente – cioè per ciò che concerne la durata della programmazione – l’edizione anni ’60 e, attualmente, ha oltrepassato di slancio i 130 episodi e le
sei stagioni di messa in onda.
Il fanta-horror, in ogni caso, è tra i generi più massicciamente frequentati dalla televisione seriale degli anni ’90, in ogni sua forma e, com’è
ovvio, con alterni risultati. L’esempio più recente – ancora da valutare
pienamente, però, per come saprà dispiegare il proprio arco narrativo –
arriva dal cupo telefilm futuristico Dark Angel (2000), ideato e prodotto da
James Cameron e Charles H. Eglee, trasmesso su Fox TV dal 3 ottobre
2000. Lo show mescola insieme tutti gli ingredienti del «perfetto successo catodico»: una protagonista sexy e malinconica, un’ambientazione che
strizza l’occhio a classici del grande schermo come Blade Runner, una
trama che rimastica con abilità i cliché del genere, effetti speciali all’avanguardia, temi attuali come quello delle biotecnologie. E, infatti, Dark
Angel ottiene fin dall’inizio indici di ascolto sensazionali, con una media
di oltre quindici milioni di telespettatori.
Il telefilm è imperniato sulle avventurose vicende dell’ennesima
«Bad Girl» proposta da Hollywood nella seconda metà degli anni ’90: la
sexy e letale al tempo stesso, nonché geneticamente modificata, Max
Guevara (e il cognome dice già molto sulle caratteristiche del personaggio…), interpretata dalla diciannovenne texana Jessica Alba, «astro
nascente» della TV a stelle e strisce, dai tratti latinoamericani e perfetta
130
AI CONFINI DELLA REALTÀ
rappresentante del miscuglio di etnie che caratterizza gli Stati Uniti del
terzo millennio. «Ho scelto lei – ama raccontare James Cameron – per
non cadere nella trappola del superman ariano che i film di fantascienza ci hanno propinato». E l’approccio multiculturale dell’autore è confermato dalle caratteristiche di altri due personaggi principali: il giamaicano Herbal Thought (Alimi Ballard) e la lesbica afroamericana Original
Cindy (Valarie Rae Miller), amica del cuore di Max.
Le loro storie sono ambientate negli Stati Uniti del 2020, messi in
ginocchio da un evento cataclismatico che ha riportato il mondo in una
sorta di apocalittico Medioevo d’impronta chiaramente cyberpunk. Qui
agisce la sensuale Max, che da bambina, nell’anno 2009, è scappata
assieme ad altri suoi coetanei dalla segretissima installazione militare di
Manticore, tra le montagne del Wyoming, dove era stata sottoposta a
una serie di esperimenti genetici atti a potenziarla per scopi militari.
Dieci anni dopo, con l’aiuto del «cybergiornalista» Logan Cale (Michael
Weatherly), cerca di ritrovare gli altri compagni di sventura e, al tempo
stesso, di sfuggire al colonnello Donald Lydecker (John Savage), che
cerca in tutti i modi di riportarla alla base.
Il tema centrale di Dark Angel è, come accennato, quello delle biotecnologie, con le questioni morali connesse al loro sviluppo e, più in generale, ai continui mutamenti tecnologici che investono la società americana e, conseguentemente, l’intero pianeta. La centralità di un personaggio
femminile forte e carismatico com’è Max, poi, non fa che confermare una
tendenza molto presente nella nuova televisione seriale statunitense, nei
fumetti popolari e, persino, al cinema: quella che propone antieroine
forti, sicure di sé e dei propri mezzi fisici e mentali, «Bad Girls» dominanti e, sempre più spesso, superiori ai personaggi maschili. Gli esempi
possibili sarebbero tantissimi: bastino quelli televisivi dell’ammazzavampiri Buffy Summers e della Dana Scully di X-Files, quelli fumettistici di
albi come «Witchblade» o «Lady Death», quelli cinematografici della
Ripley (Sigourney Weaver) della «saga di Alien» 21 e della Trinity (CarrieAnn Moss) di Matrix (The Matrix, 1999; di Andy e Larry Wachowski),
quelli digitali della Lara Croft del videogioco Tomb Raider (non a caso,
portata al cinema da Angelina Jolie, l’attrice-icona che meglio incarna, dal
punto di vista fisico e caratteriale, i tratti di questo genere). Così, anche
Max è estremamente sexy – con Cameron che ci tiene, furbescamente, a
evidenziarlo in numerose sequenze – e ben più che umana: a causa dell’ibridazione con un DNA felino, infatti, è dotata di straordinaria agilità,
velocità ed equilibrio, capacità di vedere al buio e udito acutissimo; quan-
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131
do – inguainata in completi di pelle nera – si mette sinuosa alla guida
della sua moto tecnologicamente avanzatissima fa certamente un grosso
effetto dal punto di vista visivo.
Dark Angel è in tutto e per tutto un prodotto di nuova generazione, tra
l’altro produttivamente piuttosto oneroso (il solo episodio pilota è costato dieci milioni di dollari), con il quale James Cameron cerca di non ripetere i flop televisivi di altri grandi registi cinematografici come Steven
Spielberg (ancora scottato, per fare un solo esempio, dall’immeritata tiepida accoglienza del pubblico nei confronti del suo invece notevole
kolossal seriale fantastico-avventuroso del 1993, SeaQuest, SeaQuest
DSV). Il pericolo sembra scongiurato, però, come appare persino ovvio
d’altra parte, in un prodotto che dà chiara l’impressione d’essere stato
freddamente pianificato a tavolino. Va detto, in ogni caso, che la confezione è di buon livello, anche se il maggior elemento di fascino è offerto,
senz’altro, dalle caratteristiche della protagonista e, in parte, dall’ambientazione (peraltro, ben poco originale). A meno di clamorose svolte
nelle nuove stagioni, quindi, Dark Angel va considerato come un prodotto televisivo di medio livello che, nonostante la notevole risposta del pubblico, rappresenta un passo indietro nella carriera di James Cameron.
1
Sergio Giuffrida, Il re del macabro: intervista-lampo a George Romero, «Segnocinema»,
n. 21, gennaio-febbraio 1986.
2
Il movimento letterario dell’horror estremo fondato nel 1988 da John Skipp,
Craig Spector e David Schow, col neologismo che unisce «lo spavento del grottesco schizzo di sangue celebrato cinematograficamente nell’onomatopeico
“splatter” con l’irriducibilità del “punk”, ovvero di colui che si pone come antagonista a qualsiasi forma di riduzione sociale» (Daniele Brolli, postfazione a:
John Skipp, Craig Spector, In fondo al tunnel, Einaudi Vertigo, Torino 1997). Tra
gli autori di punta del movimento, spiccano Joe Lansdale, Ray Garton, Richard
Christian Matheson (figlio d’arte), Mick Garris e l’illustratore J.K. Potter.
3
Paul M. Sammon, Fuorilegge, in AA.VV., Splatterpunk. Extreme Horror,
Mondadori, Milano 1995.
4
Danilo Arona, Nuova guida al Fantacinema, PuntoZero, Bologna 1997, p. 128.
5
X-Files - Il film (The X-Files: Fight the Future), diretto nel 1998 da Rob Bowman,
uno dei registi più impiegati anche nella serie televisiva.
6
Gianmaria Contro, Il mercato del terrore. Mostri e maestri dell’horror, Feltrinelli,
Milano 1998, p. 18.
7
Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti,
Milano 2001, p. 627.
8
Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino
1999, p. 245.
132
Stefano Masi, X-Files, Gremese, Roma 1997, p. 11.
Brian Lowry, The Truth is Out There. La guida ufficiale a The X-Files, Bompiani,
Milano 1996, p. 23.
11
Si chiama così la corrente di fantascienza cupa e iper-tecnologica dominante
nel corso degli anni ’80. Ispiratosi alle opere di geniali anticipatori come lo
scrittore Philip K. Dick e alle atmosfere di un film seminale come Blade Runner
diretto da Ridley Scott nel 1982 (e tratto proprio da un romanzo di Dick), il
movimento ha in Bruce Sterling e William Gibson gli autori di punta, e nel
libro dello stesso Gibson Neuromante (Neuromancer, 1984) l’opera più celebre.
12
X-Files - Il film è perfettamente inserito nella continuity della serie, tra la fine
della quinta stagione e l’inizio della sesta, proprio come se fosse un episodio
«speciale».
13
Jim Swallow, Gli angeli di Dark Skies, «Sfx» (edizione italiana), n. 13, maggio
1997, p. 71.
14
Ivi, p. 72.
15
Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville, L’ancora del Mediterraneo,
Napoli 2000, p. 47.
16
Cit. in Leopoldo Damerini-Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, cit.,
pp. 364-365.
17
Alessandro Zaccuri, Citazioni pericolose. Il cinema come critica letteraria, Fazi,
Roma 2000, pp. 20-21.
18
Ivi, p. 13.
19
Citato. in Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit.,
p. 22.
20
La Vertigo – già citata in precedenza, a proposito di «Hellblazer» – è la linea
«For Mature Readers» della DC Comics. Grazie all’accorta supervisione dell’editor Karen Berger e a un gruppo di ottimi sceneggiatori – quasi tutti di origini britanniche – come Neil Gaiman («Sandman»), Grant Morrison («Doom Patrol» e
«The Invisibles»), i citati Delano ed Ennis, Warren Ellis («Transmetropolitan»), la
Vertigo rivoluziona completamente, nel corso degli anni ’90, il panorama fumettistico statunitense, attraverso la proposizione di storie dall’elevata qualità letteraria e dalle tematiche sofisticate e «adulte» (horror, noir, arcano, thriller paranoide, rilettura revisionista e postmoderna di classici personaggi supereroistici…), rivolte prevalentemente a un pubblico che di solito non legge i fumetti. In
Italia, la quasi totalità degli albi Vertigo è tradotta dalla casa editrice Magic Press.
21
Quattro titoli: Alien (id., 1979) di Ridley Scott, Aliens - Scontro finale (Aliens,
1986) di James Cameron, Alien 3 (id., 1992) di David Fincher e Alien - La clonazione (Alien Resurrection, 1997) di Jean-Pierre Jeunet.
9
10
Buffy, Dawson e l’orrore della crescita
Un filone particolarmente fiorente nel panorama della fiction seriale programmata dai network nel corso degli anni ’90 è quello basato
sulle commistioni tra gli stilemi del fanta-horror e quelli del genere giovanilistico.
Il decennio, d’altra parte, è inaugurato da due telefilm che aspettano soltanto di essere uniti insieme, per produrre qualcosa di nuovo e
mai visto prima: da un lato, l’oscuro I segreti di Twin Peaks di David
Lynch e Mark Frost (più volte evocato e di cui parleremo nel prossimo
capitolo); dall’altro, il «glamorous» Beverly Hills 90210 (id., 1990) di
Darren Star. Il primo serial è responsabile del «ritorno di fiamma», da
parte dei network, nei confronti del fantastico, e anticipa atmosfere e
inquietudini di X-Files e di tutto ciò che verrà dopo; il secondo genera
uno spin-off altrettanto popolare come Melrose Place (id., 1992), fa scoppiare fenomeni d’isteria collettiva tra gli adolescenti dell’intero pianeta
– che, particolare decisivo, «consumano» come mai prima il vastissimo
merchandising legato alla serie – e, in un certo senso, crea i presupposti per la nascita di uno show ben più maturo ma tematicamente affine
come Dawson’s Creek (id., 1998).
Un decisivo punto di svolta arriva nel 1996, quando Wes Craven –
partendo da un’ottima sceneggiatura del giovane Kevin Williamson –
dirige Scream (id.), film che si propone come riflessione metanarrativa
(iper-citazionista) sul genere horror e che, al tempo stesso, cerca di rinnovare il filone attraverso commistioni col college movie e la commedia
per teenagers (secondo molti detrattori, però, segna anche la definitiva
morte dell’orrore cinematografico). Il clamoroso successo della pellicola
– confermato da altre due di poco successive, ancora scritte da
134
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Williamson: il sequel-remake Scream 2 (id., 1997) e So cosa hai fatto (I Know
What You Did Last Summer, 1997) – si rivela decisivo per convincere i vertici dei network a sfruttare fino in fondo un filone che potrebbe rivelarsi estremamente redditizio 1. In particolare, mostrano ottimo tempismo i
dirigenti del network della Warner Bros., The WB, poiché mettono subito in produzione diverse serie televisive basate su spunti di questo tipo
e sulla presenza di giovani interpreti sexy e accattivanti 2. Si inaugura,
così, una vera e propria tendenza, con diverse serie di nuova concezione che si riallacciano a una tradizione pluridecennale, rileggendola
all’insegna di una postmodernità caratterizzata dal definitivo smascheramento della loro funzione di prodotti seriali d’intrattenimento e, conseguentemente, da una buona dose d’ironia. In quest’ambito lo stesso
Kevin Williamson si vede approvare un suo progetto – di genere realistico, però – che poi diventerà Dawson’s Creek. Il primo telefilm basato
sul mix tra tematiche adolescenziali e atmosfere horror, citazionismo
metalinguistico e (auto)ironia postmoderna, in ogni caso, è realizzato da
un giovane sceneggiatore-produttore di nome Joss Whedon.
Buffy
Qualche anno prima infatti Whedon sceneggia un trascurabilissimo
film intitolato Buffy - L’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer, 1992),
diretto da Fran Rubel Kuzui e interpretato da Kristy Swanson, Donald
Sutherland e Rutger Hauer. Nonostante il fallimento totale del progetto, però, lo sceneggiatore intuisce le potenzialità di storia e personaggi
e ne rileva i diritti di sfruttamento. Inizia, così, a lavorare sull’idea di
una serie televisiva basata su presupposti simili a quelli del film ma che,
al tempo stesso, sia in grado di utilizzare gli elementi che hanno appena decretato il successo delle saghe di Scream e So cosa hai fatto.
La Warner approva il progetto di Whedon e, nel 1997, trova uno spazio nel suo palinsesto per gli episodi della stagione inaugurale del
nuovo telefilm: Buffy. Rispetto al film di cinque anni prima, le novità
immediatamente percepibili riguardano il cast principale: per il ruolo
della sedicenne protagonista Buffy Summers, infatti, è scelta la biondina
Sarah Michelle Gellar; al suo fianco, sono inseriti altri giovani attori tra i
più interessanti della loro generazione, da Nicholas Brendon (Xander
Harris) ad Alyson Hannigan (Willow Rosenberg), da Charisma
Carpenter (Cordelia Chase) a David Boreanaz (il vampiro buono Angel),
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
135
capeggiati da due più maturi come Kristine Sutherland (Joyce, la
mamma di Buffy) e l’inglese Anthony Stewart Head nel ruolo del bibliotecario Rupert Giles. Le azzeccatissime scelte di casting sono uno tra i
principali punti di forza dello show, grazie alla «chimica» perfetta che si
crea tra i vari interpreti e, conseguentemente, tra i diversi personaggi.
Con questo ruolo, Sarah Michelle Gellar diventa un’autentica star e una
delle giovani attrici più richieste a Hollywood.
L’antefatto della nuova serie riprende le vicende viste nel film, con l’irrequieta Buffy Summers costretta a lasciare Los Angeles, assieme alla
mamma divorziata, dopo essere stata cacciata dalla scuola che frequentava, per aver dato fuoco alla palestra. In realtà, la ragazza è riuscita faticosamente a sventare una strage da parte di un gruppo di vampiri, dopo
aver scoperto di essere la «Slayer», la Cacciatrice: cioè colei che è predestinata – e ne esiste soltanto una per ogni generazione – a combattere i
vampiri e le forze delle tenebre e a difendere il genere umano. Buffy, dunque, lascia Los Angeles anche per voltare le spalle a un destino che, probabilmente, percepisce come troppo gravoso per la sua giovane età. È
ovvio, però, che i suoi problemi siano soltanto all’inizio, dato che già nel
pilot del telefilm – «Benvenuti al college» («Welcome to the Hellmouth»)
– scopre che la tranquilla cittadina di provincia dove si è appena stabilita
con la mamma, la ridente Sunnydale, è soprannominata «Hellmouth»,
«Bocca dell’Inferno», perché edificata in un punto di convergenze mistiche che la rendono particolarmente appetibile per vampiri e demoni
assortiti, i quali proprio da lì potrebbero partire alla conquista della Terra.
Più che mai, dunque, Buffy deve rinunciare alla spensieratezza tipica della
sua età e prendere sulle proprie spalle un fardello che non ha mai chiesto
di portare. A guidarla nella sua crociata c’è il bibliotecario Rupert Giles
che, in realtà, appartiene a una millenaria società occulta, gli Osservatori,
il cui compito è di fare da maestri alle cacciatrici. Gli amici del cuore di
Buffy, la rossa timida e «secchiona» Willow e l’ingenuo e generoso Xander,
scoprono ben presto l’identità della ragazza e l’affiancano spesso nelle sue
battaglie notturne. Dopo pochi episodi, al gruppo s’unisce la ricca e viziata Cordelia e, soprattutto, il misterioso e affascinante Angel, un vampiro
(ha quasi trecento anni) che – in seguito alla maledizione scatenatagli contro da una zingara – ha riacquistato la propria anima e, quindi, è dilaniato interiormente dalla sofferenza per gli orrori che ha provocato nei secoli passati. Tra Angel e Buffy, tra il vampiro e l’ammazzavampiri, nasce ben
presto una problematica storia d’amore.
Con Buffy, Joss Whedon – che, per il cinema, ha sceneggiato Toy Story
136
AI CONFINI DELLA REALTÀ
- Il mondo dei giocattoli (Toy Story, 1995) e Alien - La clonazione (Alien
Resurrection, 1997) – mostra tutta la sua abilità di scrittore seriale e realizza un telefilm linguisticamente molto sofisticato, ben oltre l’aspetto
esteriore da prodotto medio televisivo (che, anzi, serve per far avvicinare allo show il più elevato numero possibile di spettatori). Peculiare del
suo lavoro di scrittura e supervisione per la serie è la capacità di caratterizzare con poche pennellate personaggi che appaiono sempre credibili anche nelle situazioni più assurde (e la serie ne è piena), di scrivere
dialoghi scoppiettanti e ironici, capaci di alleggerire la tensione senza
provocare mai alcuna caduta di ritmo, soprattutto di far sviluppare archi
narrativi lunghissimi e perfettamente coerenti tra loro anche a distanza
di anni. Solitamente, infatti, ogni stagione di Buffy – attualmente è in
corso la sesta, dopo il polemico cambio di network di cui parleremo più
avanti – è caratterizzata da un’unica lunga trama, della quale diventa
motore il «cattivo» di turno: finora, nelle cinque annate già terminate, la
Cacciatrice se l’è vista col Maestro, un pericoloso «signore del male» che
cerca di liberarsi dalla sua prigione sotterranea (primo anno); con la coppia di vampiri formata da Spike (James Marsters) e Drusilla (un’inquietante Juliet Landau), affiancati da Angel che torna momentaneamente al
suo lato oscuro (secondo anno); con il sindaco di Sunnydale, che utilizza le energie arcane insite nella città per preparare la propria ascensione
a demone (terza stagione); con il super-cyborg Adam, assemblato con
pezzi di demoni uccisi dagli uomini di un’organizzazione governativa
occulta denominata «Progetto Iniziativa» (quarta stagione); addirittura,
con la perversa dea Glory (Clare Kramer), pronta ad aprire le porte che
separano la Terra dal suo mondo popolato da terribili divinità di stampo lovecraftiano (quinta annata). Per fermare Glory, Buffy sacrifica se
stessa, uccidendosi pur di impedire l’apertura del portale extradimensionale, nel centesimo episodio («The Gift») che è anche l’ultimo trasmesso dalla Warner, prima del passaggio al network UPN, durante l’estate 2001.
Dopo alcuni mesi di roventi polemiche tra i vertici dei due canali televisivi 3, dunque, Buffy riprende la sua programmazione sulle frequenze
del network Paramount, che lo strappa alla concorrenza e l’affianca al
lancio della nuova Enterprise: all’inizio della sesta stagione, in un nuovo
ottimo pilot lungo due ore, Buffy torna in vita e si proietta verso nuove
avventure, in un serial potenziato dal cospicuo aumento del budget e
che, per quanto riguarda l’avvio della nuova annata, fa nascere addirittura lusinghieri paragoni – da parte della critica dotata di minori pregiu-
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
137
dizi – con le serie di qualità prodotte dalla HBO 4. Tra gli altri personaggi
ricorrenti che fanno il loro esordio nel corso delle varie stagioni, vanno
segnalati ancora almeno Oz (Seth Green), un giovane chitarrista che, per
qualche tempo, diventa il ragazzo di Willow e che ha la condanna d’essere affetto da licantropia (sì, è proprio un lupo mannaro); Faith (Eliza
Dushku), un’altra cacciatrice che, però, si lascia corrompere dal fascino
delle tenebre; Riley Finn (Marc Blucas), il fidanzato di Buffy durante la
quarta serie; Anya Emerson (Emma Caulfield), un’ex demonessa che, tornata umana dopo aver perso i propri poteri, diventa la nuova innamoratissima compagna di Xander; Tara (Amber Benson), la ragazza con la
quale Willow inizia una relazione sentimentale omosessuale; Dawn
(Michelle Trachtenberg), la misteriosa sorella minore di Buffy, apparsa,
senza alcun preavviso, all’inizio della quinta stagione.
E proprio i modi dell’ingresso in scena del personaggio di Dawn
sono indicativi dell’intelligenza con cui Whedon gioca con tutti gli stereotipi tipici del racconto seriale televisivo, rovesciandoli a suo favore:
nella sequenza finale del primo episodio del quinto anno, «Il morso del
vampiro» («Buffy Vs. Dracula»), infatti, la protagonista è inquadrata
assieme alla sorella e si comporta come se l’avesse avuta sempre accanto, nonostante fino a quel momento gli spettatori l’avessero conosciuta
come figlia unica. Sciatteria degli autori? Come mai, in quattro anni, non
è mai fatto nemmeno un accenno a questa sorellina e adesso tutti si comportano come se fosse sempre esistita? Si potrebbe pensare che, d’altra
parte, simili situazioni accadono con molta frequenza, all’interno delle
fiction seriali, dove i personaggi appaiono e scompaiono come se entrassero e uscissero da porte girevoli sempre in movimento. La realtà, però,
è ben diversa, come emerge dagli episodi successivi: Dawn, infatti, non
è altro che «energia pura» incarnata e capace di rimodellare la percezione stessa del reale e quella di coloro che la circondano; una misteriosa
«chiave» che può mettere in contatto la Terra con altri piani dimensionali. Viene incanalata in un involucro umano e inviata alla Cacciatrice
dagli ultimi adepti di una setta antichissima, affinché possa essere adeguatamente protetta dalle mire della folle dea Glory. Dunque, ancora
una volta, la spiegazione c’è, assolutamente incredibile ma perfettamente coerente con quelle che sono le premesse della serie e col patto di
«sospensione dell’incredulità» che l’autore stringe con il suo pubblico. E
ancora una volta, in Buffy, il fantastico riesce ad agire in profondità sulle
strutture stesse del reale e del quotidiano, proponendosi come chiave
interpretativa per una sua rilettura.
138
AI CONFINI DELLA REALTÀ
La complessa e sfaccettata cosmogonia messa insieme da Joss
Whedon, infatti, è calata in un contesto ambientale di assoluta normalità: i personaggi, all’inizio della serie, sono comuni liceali sedicenni che
devono confrontarsi con le difficoltà della crescita, i primi amori, i litigi
con gli amici, la difficoltà di essere accettati dagli altri, il tormentato rapporto col mondo degli adulti, come in un qualsiasi telefilm adolescenziale. I personaggi adulti, tra l’altro, sono quasi del tutto assenti, o dipinti in modi mai completamente positivi, con la sola eccezione del bibliotecario-osservatore Giles (il depositario del sapere 5), che nei confronti
della sua protetta si pone come il padre che lei non ha più. La mamma
della protagonista, infatti, è divorziata, superapprensiva nonostante, in
realtà, sembri più presa dalla carriera che dalla figlia (si accorge soltanto dopo diversi anni delle occupazioni «alternative» di Buffy); il preside
del liceo locale è un sadico «bacchettone»; i professori si trasformano
spesso in mostri; il sindaco aspira a diventare un demone potentissimo
attraverso una strage di studenti da attuare nel giorno della consegna
dei diplomi; all’università – perché, con la quarta stagione, i protagonisti ormai diplomati s’iscrivono al College di Sunnydale – la dura ma stimata professoressa Walsh si rivela la mente senza scrupoli del progetto
governativo occulto mirato alla creazione di un cyborg ibrido umanodemoniaco. L’esempio perfetto di un tale atteggiamento arriva da un
episodio della terza serie, «Le streghe di Sunnydale» («Gingerbread»),
nel corso del quale tutti i genitori della cittadina, posseduti da un’entità
maligna, si scatenano in una vera e propria «caccia alle streghe», contro
i loro stessi figli: viene coinvolta anche Willow, che si sta avvicinando
sempre più alla magia e che, nel corso delle stagioni, diventa una potente strega buona. Il ribaltamento dei ruoli tradizionali tra genitori e figli,
insomma, è totale, con questi ultimi che si battono affinché il male non
contamini il mondo di adulti che non riescono più – tranne che nell’unico caso di Giles – a educarli e proteggerli.
Sunnydale, dunque, sembra la classica cittadina californiana di provincia, il tipico sfondo di tante serie americane impostate sul dominio
dei buoni sentimenti: i problemi delle metropoli sono lontani; le famiglie – tutte rigorosamente bianche – vivono nelle loro villette unifamiliari con steccato e cagnolino, al liceo si prepara l’annuale ballo di fine
corso, il Bronze è l’unico locale decente dove ci s’incontra la sera con gli
amici, per bere qualcosa e ascoltare buona musica. Questa realtà, però,
ne nasconde un’altra più oscura – proprio come in I segreti di Twin Peaks
– che rappresenta il suo doppio quasi inevitabile; quando cala la notte,
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
139
infatti, a Sunnydale arriva il momento dell’orrore: i vampiri emergono
dalle proprie tombe – il cimitero cittadino è il vero ambiente ricorrente
della serie, assieme al liceo e al Bronze – per attaccare i vivi e attentare
alle esistenze della Cacciatrice e dei suoi amici. Nella seconda parte dell’episodio italiano «Il sentiero degli amanti» (cioè quello che, in originale, si intitola «The Wish») 6, il duplice volto di Sunnydale è reso esplicito attraverso una storia che si svolge in una cupa realtà alternativa,
nella quale Buffy non è mai giunta in città e il Maestro e i suoi adepti
hanno il controllo assoluto: con un tocco gustosissimo, persino Willow
e Xander, i due personaggi più positivi dello show, diventano feroci
vampiri punkeggianti.
Quella della Willow vampira – personaggio che ritorna anche in un
altro episodio, mostrando la bravura di Alyson Hannigan – è soltanto
una tra le tante variazioni proposte da Whedon nel corso della serie.
Non mancano, infatti, le puntate nelle quali lo sceneggiatore-produttore si diverte a sperimentare sulla struttura tradizionale del suo telefilm:
un ottimo esempio è quello di «L’urlo che uccide» («Hush»), in cui alcune creature magiche, simili al Nosferatu del film di Murnau, rubano la
voce all’intera cittadina, creando lo spunto per l’unico episodio interamente muto nella storia della (parlatissima) televisione americana;
oppure, «Superstar» (id.), che vede l’inetto liceale Jonathan trasformarsi, per incanto, nell’ammirato supereroe di Sunnydale; o ancora, «La
casa stregata» («Where the Wild Things Are»), discusso segmento col
quale Whedon – lasciando Buffy e Riley a letto a fare l’amore, per l’intero episodio – risponde ironicamente alle pressioni del network, piovutegli addosso dopo la strage nel liceo di Columbine (la serie, infatti,
propone spesso situazioni di violenza estrema, inserite in contesti scolastici). Il culmine della sperimentazione, però, arriva con la sesta stagione, nel corso della quale l’autore apre a una puntata tutta realizzata
come un musical classico: piena di numeri di danza e con i dialoghi
interamente cantati. Ottime variazioni – narrativamente fondamentali
nell’economia della serie, però – sono anche quelle degli episodi retrospettivi nei quali vengono rivelate le origini dei personaggi di Angel e
Spike, prima delle loro vampirizzazioni: il più bello è il doppio «L’inizio
della storia» («Becoming»), a cavallo tra seconda e terza stagione, che
inizia nell’Irlanda del 1753 e si conclude nella Los Angeles degli
anni ’90, al tempo delle vicende narrate dal film del 1992.
Buffy, in realtà, è una serie che si regge su poche idee, nemmeno troppo originali 7, sviluppate però in modo egregio. «I vampiri e i cacciatori di
140
AI CONFINI DELLA REALTÀ
vampiri immaginati da Joss Whedon […] hanno la loro genesi in un’infanzia e un’adolescenza solitaria, trascorsa con il naso affondato nei
fumetti di supereroi, nelle storie dell’orrore, nei racconti fantastici. Un
bagaglio di riferimenti che con Bram Stoker e i vampiri classici hanno una
parentela un po’ annacquata, ma che mantengono la stessa forza evocativa: il potere del sangue, la vita oltre la morte, le doti sovrumane di pochi,
isolati, affascinanti e misteriosi mostri» 8. Il riferimento più diretto, da
questo punto di vista, appare proprio quello ai fumetti di supereroi, genere fantastico-avventuroso da sempre molto in voga negli Stati Uniti. In
particolare, la serie di Whedon è ricalcata sugli stessi schemi narrativi e
formali di quella fumettistica dell’Uomo Ragno, il popolare personaggio
creato da Stan Lee e Steve Ditko per la Marvel Comics nel 1962: la cosa,
però, è dichiarata, dato che in più d’un episodio personaggi «normali»,
come Xander, si rivolgono a Buffy dicendole: «Mi sembri proprio l’Uomo
Ragno». Lo Spiderman dei fumetti è l’emblema di quelli che l’ideatore del
Marvel Universe, Stan Lee, definisce «supereroi con superproblemi», con
uno slogan che indica la volontà di proporre ruoli meno monolitici e unidimensionali rispetto al classico Superman. La grande novità della
Marvel degli anni ’60, infatti, è quella di dare ai propri personaggi poteri
che sono vissuti come una condanna più che come un dono e che, inevitabilmente, condizionano la quotidianità dei loro alter ego. Lo stesso
Spiderman, per esempio, è soltanto un adolescente come tanti, Peter
Parker, appassionato di scienze e fotografo per diletto: da quando viene
morso da un ragno radioattivo acquisisce la forza e l’agilità dell’insetto e
diventa un essere più che umano che, però, deve rinunciare a un pizzico
di spensieratezza e a tante cose che per ogni adolescente possono sembrare normali, perché – secondo un altro celebre slogan ideato da Lee per
il suo personaggio – «da grandi poteri derivano grandi responsabilità».
Le avventure dell’Uomo Ragno sono ambientate in una New York quotidiana e descritta in modo molto realistico, sono arricchite da figure di
contorno sempre ben delineate, sono caratterizzate da un perfetto mix di
tragedia e ironia. Inoltre, propongono una continuity interna alla serie,
nel senso che i vari personaggi crescono, mutano, imparano dalle precedenti esperienze: e questa è un’altra differenza enorme rispetto ai classici
supereroi della «Golden Age of Comics» (gli anni ’30).
Ebbene, in Buffy, questi elementi sono riproposti fedelmente. Dal
punto di vista strutturale, anzitutto, con una continuità nelle trame e
un’accentuazione esasperata dei meccanismi della serialità. Da quello dei
contenuti e dell’ambientazione, poi, con lo stridente contrasto tra l’am-
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
141
biente liceale diurno e le tensioni di quello notturno, quando Sunnydale
diventa un campo di battaglia; la coesistenza tra superpoteri e problemi
dovuti alla crescita; la solitudine dell’eroe (eroina) che deve far fronte alle
proprie responsabilità; la sua fragilità dovuta alla difficoltà di accettare la
propria particolarissima condizione; un gruppo di amici che spesso non
capiscono fino in fondo cosa voglia dire essere predestinati; il complicato
rapporto con l’altro sesso e quello tormentato con il mondo degli adulti.
Anche la scelta di trasformare l’eroe in eroina si spiega meglio attraverso
un riferimento fumettistico, dato che una tra le tendenze dominanti nell’industria statunitense anni ’90 dei comic books è – come visto nel precedente capitolo – quella degli albi imperniati sulle cosiddette «bad girls».
Il cerchio si chiude, quindi, allorquando Buffy Summers diventa un personaggio a fumetti, in una serie sceneggiata dallo stesso Joss Whedon
che, così, può soddisfare una sua antica passione. Anche il carattere disegnato, come quello televisivo, mantiene gli stessi tratti di ragazza pienamente calata nella realtà sociale degli Stati Uniti che s’affacciano al 2000.
Merita qualche parola a parte, per concludere, il controverso rapporto sentimentale tra Buffy e Angel, tra la vita-apportatrice-di-morte e la
morte-in-vita, soprattutto in riferimento agli eventi di due particolari
episodi della seconda stagione: «Sorpresa» (Surprise») e «Un attimo di
felicità» («Innocence», scritto e diretto proprio da Whedon), caratterizzati dal nuovo ritorno di Angel al suo lato oscuro, quello del terribile
vampiro Angelus, in seguito al riattivarsi della maledizione zingara che
gli preannunciava la perdita dell’anima appena avesse assaporato un
solo attimo di felicità. E il momento arriva quando il non-morto fa l’amore con la Cacciatrice, nel preciso momento del raggiungimento dell’orgasmo sessuale. L’evento lascia trasparire, però, un’ideologia alquanto reazionaria, quasi a suggerire che l’amore tra adolescenti può andar
bene solamente finché non si trasforma in sesso. D’altra parte, la stessa
Willow, a sua volta desiderosa della «prima volta», è fidanzata con un
focoso lupo mannaro: anche qui, quasi un monito rivolto agli adolescenti, a far attenzione alle brutte sorprese in campo sessuale.
Il personaggio di Angel, comunque, diventa amatissimo dal pubblico dello show e, con il finire della seconda stagione, raggiunge la stessa Buffy in cima alle preferenze. È per questo motivo che, dalla fine dell’annata successiva, Whedon e il co-sceneggiatore David Greenwalt
creano uno spin-off tutto dedicato al personaggio interpretato da David
Boreanaz (Angel, 1999; ancora inedito in Italia). L’ambientazione è differente, dato che il vampiro buono (nel frattempo ha riacquistato la pro-
142
AI CONFINI DELLA REALTÀ
pria anima) lascia Sunnydale per Los Angeles, dove apre un’anomala
agenzia investigativa per aiutare tutti quelli che normalmente sono trascurati dalle forze dell’ordine: diventa così una sorta di campione dei
derelitti e dei perseguitati, in avventure dal sapore chandleriano e,
naturalmente, vissute sempre «ai confini della realtà». Lo aiutano la
bella Cordelia, che a sua volta lascia la serie principale e si scopre dotata della capacità di avere visioni premonitrici; Wesley Wyndam-Pryce
(Alexis Denisoff), un ex osservatore che, per pochissimo tempo, aveva
sostituito Giles accanto a Buffy; il cupo cacciatore di vampiri Charles
Gunn (J. August Richards). Questa, però, è davvero un’altra storia.
Alieni e streghe: anche loro adolescenti innamorati
Dopo l’horror, anche la fantascienza delle invasioni aliene viene riletta in chiave romantico-adolescenziale. Nel 1998, infatti, Jason Katims
adatta per la televisione i romanzi del ciclo Roswell High di Melinda Metz,
per l’ennesimo «fanta teen show» del network Warner. Il titolo – sulle note
della hit pop di Dido, Here With Me – è semplicemente Roswell (Roswell
High, 1999), dal nome della località del New Mexico che, nel 1947, avrebbe visto schiantarsi al suolo un fantomatico disco volante alieno.
Se la prima parte della stagione inaugurale appare chiaramente
rivolta a un pubblico adolescenziale e femminile (nelle stesse dichiarazioni programmatiche degli executive Warner), lo sviluppo delle trame
diventa man mano più «adulto», finché dalla seconda annata il coinvolgimento, in veste di coproduttore esecutivo e sceneggiatore, di
Ronald D. Moore (uno tra i più dotati scrittori della Next Generation di
Star Trek) garantisce maggior spazio all’azione e a tematiche ancora più
spiccatamente fantascientifiche. Ne vien fuori, già dalla seconda metà
della prima stagione, un telefilm di buon livello, dal punto di vista visivo (particolarmente curati sono gli effetti speciali e, soprattutto, la fotografia; grazie al budget non proprio irrilevante) e recitativo, con buone
performance di alcuni giovani attori piuttosto promettenti: su tutti, i tre
«adolescenti alieni» interpretati da Jason Behr, Katherine Heigl e
Brendan Fehr, cioè i fratelli Max e Isabel Evans e il loro amico Michael
Guerin. Accanto a loro recitano Shiri Appleby, la timida Liz Parker
fidanzata di Max; Majandra Delfino, nei succinti panni dell’esuberante
Maria De Luca, che vive una tormentata relazione con Michael; il figlio
d’arte Colin Hanks, come Alex Whitman, da sempre innamoratissimo
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
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di Isabel; l’ottimo caratterista William Sadler, che è lo sceriffo locale Jim
Valenti; Nick Wechsler, suo figlio Kyle, ex ragazzo di Liz e, all’inizio,
rivale di Max; infine, Emilie De Ravin, l’enigmatica quarta aliena Tess
Harding che si unisce al trio verso la fine della prima stagione.
Il necessario antefatto vede Roswell tratteggiata come la più classica
cittadina americana di provincia, situata nel deserto del New Mexico;
qui, gli abitanti hanno imparato a convivere con la leggenda del presunto «UFO Crash» del 1947, utilizzandolo addirittura come attrazione
turistica: così, al Crashdown Café si servono piatti a tema e, una volta
all’anno, tutta la città si maschera per la tradizionale festa locale, una
sorta di carnevale alieno. La storia prende il via proprio durante la festa
annuale, quando la figlia dei proprietari del Crashdown, Liz Parker, è
accidentalmente ferita, in modo grave, da un colpo di pistola: le salva la
vita, col solo tocco della mano, il suo compagno di liceo Max Evans. E
da questo momento, nulla è più come prima, per nessuno dei personaggi principali e, sostanzialmente, per l’intera cittadina. I ragazzi alieni –
rimasti in animazione sospesa dal 1947, svegliatisi soltanto da pochi
anni e adottati, nella loro forma umana, da inconsapevoli famiglie della
zona – iniziano una ricerca delle proprie origini, mentre agenti di speciali sezioni dell’FBI danno loro la caccia, in una Roswell rivoltata come
un guanto. Dopo un primo periodo d’incomprensione, lo sceriffo
Valenti diventa un prezioso alleato del gruppo formato da Max, Isabel,
Michael (il più impulsivo tra i tre), in seguito Tess; e dagli umani Liz,
Maria e Alex.
Con l’ingresso di Ron Moore nello staff produttivo, la serie guadagna in dinamicità, i personaggi vengono tratteggiati in modo meno
banale, le storie sono risolte nel corso di più episodi, attraverso archi
narrativi lunghi e complessi. Il tono delle trame diventa decisamente
più fantascientifico, pur non trascurando le interazioni – soprattutto di
carattere sentimentale – tra i personaggi principali. Così, il mutaforma
alieno Nasedo (una specie di «guardia del corpo» dei ragazzi) è misteriosamente ucciso nei primi episodi del secondo anno, proprio quando
Moore rende più insidiosa l’atmosfera di Roswell e introduce un’altra
specie aliena, nemica di quella alla quale appartengono i protagonisti e
capace di camuffarsi persino nelle più alte sfere delle gerarchie governative: gli altri extraterrestri, che si chiamano Skin, sono alla ricerca di
una misteriosa sostanza che permette loro di adattarsi all’atmosfera terrestre. Con la terza stagione – e il passaggio dal network Warner a quello Paramount – le caratteristiche della serie subiscono un’ennesima con-
144
AI CONFINI DELLA REALTÀ
trosterzata: dal punto di vista strutturale, iniziano a essere privilegiati
archi narrativi più brevi e lineari; per quanto riguarda i contenuti, gli
autori decidono di concentrarsi nuovamente sulle interiorità dei singoli personaggi e sulle loro vicissitudini sentimentali, proponendo meno
azione fantascientifica pura. Non è un caso, quindi, che entrino a far
parte dello staff di sceneggiatori anche l’autrice dei romanzi ispiratori,
Melinda Metz, e la sua collaboratrice Laura Burns.
Ogni volta che si guarda uno di questi telefilm, si capisce una volta
di più quanto sia stata realmente «seminale» – già a metà degli anni ’80
– una serie di genere completamente diverso come Miami Vice (id., 1984),
con la quale Michael Mann ripensa dalle basi il concetto stesso di telefilm, all’insegna delle suggestioni del postmoderno: la levigatezza delle
superfici, rese ancor più brillanti da violenti riverberi di luce, si riflette
sui personaggi e sugli ambienti, il look e il design complessivo di uno
show diventano elementi basilari, la colonna sonora assume un ruolo
diversissimo rispetto al passato (grazie all’inserimento di celebri brani
pop e rock, spesso eseguiti in scena dagli stessi interpreti: cosa che capita con frequenza, per esempio, in Buffy), il montaggio tradizionale si
concede «divagazioni» come il sempre più frequente ralenti, dall’interno stesso della narrazione emergono elementi d’un discorso teorico sulle
leggi della serialità e sulle derive della «Pop Culture». Naturalmente,
però, di Michael Mann ce n’è uno e, quindi, non sempre i risultati sono
all’altezza delle intenzioni, soprattutto in un genere come quello horroradolescenziale.
È il caso, per esempio, di un telefilm come Streghe (Charmed, 1998),
ideato da Constance M. Burge e prodotto da Aaron Spelling, a partire da
alcuni spunti – però, rovesciati di segno – contenuti in una pellicola di
poco precedente come Giovani streghe (The Craft, 1996) di Andrew Fleming.
A differenza del film, le fattucchiere della serie televisiva non cercano nessun tipo di vendetta e, ben presto, affondano nella melassa nonostante i
loro poteri: l’idea di partenza, stimolante, delle tre sorelline streghe, sexy
e capricciose, si perde, infatti, in trame «buoniste» e preoccupate soprattutto di non suscitare emozioni troppo forti. In definitiva, Streghe è più una
commedia sentimentale (banalotta, però) «condita» con poche spruzzate
di fantastico, piuttosto che il prodotto di una commistione autentica e
profonda tra generi diversi: qui – a differenza di Roswell ma, soprattutto,
di Buffy – non c’è nulla di bizzarro, nessun «freak linguistico» pronto a
rompere i monotoni schemi del telefilm medio(cre); tutto accade come
deve, in modi a volte persino piacevoli, ma totalmente inoffensivi.
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
145
La serie è ambientata a San Francisco, città magica per eccellenza,
dove – in un’enorme casa a più piani, con tanto di misteriosa soffitta –
vivono le tre sorelline Halliwell: Prue (Shannen Doherty), Piper (Holly
Marie Combs) e Phoebe (Alyssa Milano). In una notte buia e tempestosa
scoprono di essere le ultime discendenti di una famiglia di streghe e che,
se resteranno insieme, potranno evocare il «Potere del Trio» (sic!) e combattere il male. Così, decidono di superare i conflitti che rischiano di dividerle – soprattutto Prue e Phoebe, sono dotate di caratterini quantomeno
pepati, come le loro interpreti, d’altra parte – e di restare a vivere insieme, nella grande casa di famiglia. Ciascuna di loro ha una particolare abilità: Prue, la più grande, può spostare cose e persone; Piper, la seconda,
ha la possibilità di bloccare lo scorrere del tempo; Phoebe, la «piccola» di
casa, può vedere nel futuro.
Anche in Streghe le trame fantastiche sono accompagnate – in questo caso, anzi, letteralmente schiacciate – da quelle sentimentali, con le
disavventure amorose delle tre sorelline, dovute soprattutto alla paura
che il grande amore di una di loro possa allontanarle e spezzare la perfezione mistica del trio, con conseguente vittoria delle forze del male
sempre in agguato. Prue, Piper e Phoebe, infatti, se la vedono con
mostri e demoni assortiti, stregoni malvagi e creature extradimensionali, sempre certissime di essere dalla parte del Bene e in lotta contro il
Male (le maiuscole, ovviamente, sono volute, dato che qui la cosa più
sorprendente, in modo negativo, è il manicheismo a sfondo mistico-religioso di cui è impregnata la serie: non a caso, spesso le tre eroine si
alleano con veri e propri angeli custodi).
Al termine della terza stagione Prue muore in seguito a un violentissimo attacco demoniaco di cui sono vittime le sorelle Halliwell 9: il
trio si rompe, ma soltanto per poco. Con la quarta serie, infatti, entra nel
cast delle protagoniste l’attrice Rose McGowan, nel nuovo ruolo di
Paige, la quarta sorella mai conosciuta prima, perché adottata da un’altra famiglia. La ragazza arriva a casa Halliwell proprio in occasione del
funerale di Prue e – essendo a sua volta dotata di capacità soprannaturali – ne prende ben presto il posto, portando il telefilm verso direzioni
inedite: adesso è lei la sorellina minore, mentre l’eccentrica Phoebe deve
necessariamente mostrarsi più matura. Comunque, Streghe resta uno
show incentrato unicamente sul glamour delle protagoniste, levigate e
«patinate» come quasi tutte le superfici e gli ambienti della serie (non a
caso, la presenza dominante di Shannen Doherty nelle prime tre stagioni rimanda immediatamente a Beverly Hills 90210).
146
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Quando il rapporto tra quotidiano e fantastico viene privato di qualunque suo elemento anche minimamente inquietante perde quasi del
tutto di efficacia, pure come chiave di lettura della società esterna alla
fiction televisiva. Non si può che concordare con lo scrittore Michele
Serio, infatti, quando afferma che «l’horror sta ormai dilagando in molti
altri generi, da quelli più strettamente contigui ad altri meno sospetti [e]
che tra pochissimi anni sarà questo il vero collante tra tutte quante le
categorie estetiche della società di massa» 10: ecco spiegato il travolgente successo dei telefilm fanta-horror durante gli anni ’90 ed ecco perché
Buffy è un’ottima serie e Streghe, invece, no.
Dawson: il cinema, la vita, gli amori
Adolescenti alle prese con i problemi tipici della loro età: il difficile
rapporto con i genitori, la scuola, la «prima volta»; ma anche temi sociali come la dipendenza dalla droga, l’alcolismo, il razzismo, l’AIDS. I
telefilm con simili contenuti «esplodono» nel 1990, con l’ormai storico
Beverly Hills 90210 e con il suo spin-off più «adulto» Melrose Place: le due
serie lanciano giovani divi come, volendone nominare soltanto alcuni,
la già citata Shannen Doherty, Jason Priestley, Luke Perry, Tiffany
Amber-Thiessen; creano, inoltre, un vero e proprio filone narrativo che,
nel corso del decennio, si arricchisce – oltre che di show «contaminati»
da «germi» fantastici – di diversi altri esempi di tipo realistico.
Il punto d’arrivo e di nuova ripartenza per il genere è, nel 1998,
Dawson’s Creek, scritto e prodotto dallo sceneggiatore Kevin Williamson,
a partire dalle sue esperienze adolescenziali. Il telefilm è ambientato
nella piccola e tranquilla Capeside, nel Massachussets. Qui, quattro
quindicenni si confrontano con quello che, per loro, rappresenta il vero
orrore della vita: l’età della crescita. Iniziano ad affacciarsi alla vita adulta sospesi a metà tra voglia di mostrarsi grandi prima del tempo – è
curioso, tra l’altro, come nei serial americani di questo tipo personaggi
quindici-sedicenni siano interpretati sempre da attori ventenni o poco
più – e desiderio di rifugiarsi addirittura nell’età mitica dell’infanzia per
sfuggire a un processo che, comunque, percepiscono come strappo violento e doloroso.
Protagonisti della storia sono il biondo Dawson Leery (James Van
Der Beek), il classico «all american boy», ingenuo e generoso, col grande sogno di diventare regista cinematografico e ripercorrere le orme del
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
147
suo idolo Steven Spielberg (non a caso, il cineasta che meglio di tutti sa
interrogarsi sul controverso rapporto tra infanzia, eterna adolescenza ed
età adulta); la brunetta Joey Potter (Katie Holmes), proveniente da una
famiglia difficile e più povera di quelle tipiche da serial adolescenziali
di provincia, che vive sulla propria pelle cosa voglia dire sentirsi messi
ai margini; Pacey Witter (Joshua Jackson), l’eccentrico miglior amico di
Dawson, ovviamente impiegato in una videoteca; Jennifer Lindley
(Michelle Williams), bionda e travolgente, appena arrivata da New York
in cerca di un po’ di sana tranquillità provinciale; a loro si aggiunge Jack
(Kerr Smith), personaggio che, ben presto, dichiara la propria omosessualità, vissuta come un trauma dalla sua famiglia. Le loro esistenze
s’intrecciano indissolubilmente, tra sentimenti forti, «cameratismi»,
triangoli amorosi (Dawson-Joey-Pacey) e crisi di crescita, sullo sfondo di
una cittadina che appare, a sua volta, sempre uguale a se stessa.
Oltre che sull’ambiguo rapporto tra adolescenza e maturità, però,
Dawson’s Creek è imperniato anche su un’altra dicotomia, quella tra vita
reale e cinema, incarnata soprattutto nel personaggio di Dawson: lui
più degli altri, infatti, vive nel mito della «Fabbrica dei sogni»; cerca,
addirittura, d’impostare la sua esistenza secondo le regole dei generi
cinematografici, in cerca della rassicurazione che soltanto una buona
sceneggiatura sa offrire. Proprio Dawson è l’emblema di un’America
adolescenziale che ha quasi paura d’affacciarsi su una realtà che non
riconosce più come umana e fruibile senza perdere parte della propria
identità: cosa ci sarà dopo il liceo? E al termine del college? Forse, allora, è meglio rifugiarsi tra le prevedibili regole che scandiscono le storie
dei film amati, provando in tal modo a rendere reale quello che, da sempre, è un desiderio primario dell’essere umano: bloccare il tempo in
un’eterna età della giovinezza.
Non a caso lo strappo più traumatico dell’intera serie si verifica al
termine della quarta stagione di messa in onda, quando tutti i protagonisti – nel frattempo cresciuti attraverso esperienze più o meno «forti»
– si diplomano, in un clima dolce-amaro che prelude al disfacimento
del gruppo di amici inteso come corpo unico, ormai inevitabilmente
corrotto dal virus del cambiamento. La High School è terminata ed è
tempo per Dawson di seguire i propri sogni iscrivendosi alla «mitica»
scuola universitaria di cinema della USC di Los Angeles; dovrà dividersi da Joey, però, destinata al Worthington College di Boston, dall’altra parte degli Stati Uniti; Pacey, invece, cerca il proprio futuro entrando, sempre a Boston, nel mondo del lavoro: trova impiego in un risto-
148
AI CONFINI DELLA REALTÀ
rante, in attesa di capire quale potrà essere il suo futuro. Jen e Jack
vanno a studiare al Boston Bay College. La mancanza degli amici di
sempre si trasforma in un ennesimo trauma, che rende ancor più difficile l’ingresso nel «mondo reale».
Dal punto di vista linguistico, Dawson’s Creek è il perfetto serial postmoderno, per come fa propria l’estetica del frammento e della citazione,
per come riflette sul suo stesso farsi narrazione seriale (e sul senso ultimo della serialità), per come mette in relazione le immagini ottimamente confezionate con una colonna sonora infarcita di autentiche hit (tra le
altre, quelle di Chumbawamba, Savage Garden, Sophie B. Hawkins,
Semisonic, Garbage, Tori Amos), per il modo in cui utilizza le tante citazioni come fondamentali elementi di sviluppo drammaturgico, per
com’è intriso d’ironia anche quando affronta tematiche scomode come il
sesso, la pornografia, la dipendenza dall’alcool e dalle droghe, l’omosessualità. A proposito di citazionismo, poi, non si può fare a meno di
soffermarsi sul bellissimo episodio ambientato in un venerdì 13 che
Dawson decide di animare con un horror party a sorpresa per i suoi
amici: peccato che, negli stessi giorni, un pericoloso serial killer s’aggiri
nei dintorni di Capeside. Finzione e realtà, dunque, iniziano a intrecciarsi tra loro – anche a causa del non previsto intervento di un gelosissimo ragazzo, la cui stramba fidanzata è stata invitata al party da Pacey
– e a sfuggire completamente alla regia del giovane «cineasta»: nell’ipercitazionismo dell’episodio, Kevin Williamson non resiste, tra l’altro, a
una gustosa autocitazione, riproponendo in maniera testuale la tesissima sequenza iniziale di Scream (forse la più citata degli ultimi anni), con
Michelle Williams al posto di Drew Barrymore.
In buona parte della fiction seriale degli anni ’90 – che, da parte sua,
guarda eternamente a un passato percepito sempre come mitico e irripetibile – crescere e cambiare diventa il vero orrore, anche se – come
Joey spiega al disorientato amico Dawson – «persino Spielberg ha superato la sindrome di Peter Pan».
Col senno di poi, appare seminale anche un film stroncatissimo all’epoca
della sua uscita: Classe 1999 (Class of 1999), diretto nel 1990 da Mark L. Lester e
incentrato sulla lotta degli studenti del Liceo «Ronald Reagan» contro tre ferocissimi professori-cyborg. Non a caso, quindi, proprio Kevin Williamson ne
scrive una sorta di remake (ben superiore all’originale, però) con The Faculty
(id., 1998), diretto da Robert Rodriguez e nel quale i docenti sono sostituiti
1
BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA
149
silenziosamente da «ultracorpi» alieni che progettano di far partire l’invasione
della Terra dal più classico college americano.
2
Il genere produce immediatamente la nascita di un nuovo tipo di Stardom, con
giovani interpreti che si specializzano in film e telefilm di questo tipo: Sarah
Michelle Gellar, Neve Campbell, Jennifer Love Hewitt, Courteney Cox, Rose
McGowan, Ryan Phillippe, Freddie Prinze Jr., Alyson Hannigan, David Arquette,
per citare soltanto i più noti.
3
I quali si punzecchiano, per tutta l’estate, sugli organi di stampa americani,
definendo il proprio canale concorrente, rispettivamente, «Without Buffy»
(The WB: «Senza Buffy») e «Used Parts Network» (UPN: «Network dei pezzi
usati»), a ulteriore testimonianza del successo e della stima che – anche a livello dirigenziale – circonda la creatura di Joss Whedon.
4
L’esempio migliore arriva dalla recensione di Ken Tucker su «Entertainment
Weekly» del 27 settembre 2001: «Prese insieme, le due ore del pilot mostrano
come si possa narrare una leggenda come se fosse la prima volta. Chi avrebbe
mai pensato che la modesta UPN, tanto citata da quando è diventata la nuova
casa di Buffy, avrebbe rialzato la testa e si sarebbe proposta allo stesso livello
della HBO? Oggi, infatti, possiede una serie dotata della stessa forza emozionale di I Soprano (sì, con buona pace dei più snob tra voi)». Toni entusiastici sono
pure quelli usati dalla rivista «Spectrum» (n. 27, agosto 2001), secondo cui
«nomination agli Emmy Awards o no, Buffy è diventato uno show straordinario
e deve essere considerato tra i migliori serial fantastici di tutti i tempi».
5
Tra l’altro Buffy è uno tra i telefilm americani dove i libri sono più presenti e
hanno un ruolo drammaturgicamente importante.
6
Per un discreto periodo, la programmazione italiana della serie, su Italia 1,
viene fatta accorpando due episodi alla volta, sotto l’unico titolo del primo segmento. Per questo motivo, le puntate che vanno in onda come seconde non
hanno un loro titolo italiano.
7
Già negli anni ’50, infatti, i drive-in si riempiono di giovani coppie urlanti, di
fronte alle sequenze di irresistibili pellicole horror-giovanilistiche come, per
esempio, I Was a Teenage Werewolf (1957) di Gene Fowler Jr. e La strage di
Frankenstein (I Was a Teenage Frankenstein, 1957) di Herbert L. Strock.
8
Luisella Angiari, Dai cinevampiri ai televampiri, «Duel», n. 87, marzo-aprile
2001, p. 68.
9
In realtà, la Doherty rompe definitivamente con il resto del cast e, in particolare, con una Alyssa Milano sempre più «dominante». Così, la produzione
prende una posizione netta: decide di cacciare Shannon – poiché il personaggio di Alyssa è nettamente il più apprezzato dai fan – facendo morire bruscamente il carattere che interpreta.
10
Citato in Danilo Arona, Nuova guida al Fantacinema, PuntoZero, Bologna 1997,
p. 34.
PARTE TERZA
AI CONFINI DEL CREPUSCOLO
Focolari televisivi (con il «mostro» dietro lo specchio)
Gli Stati Uniti degli anni ’50 e la sit-com televisiva
Negli Stati Uniti degli anni ’50 la produzione artistica, soprattutto
quella cinematografica e televisiva, è «segnata» in modo evidente dalle
pulsioni contrastanti che attraversano una società il cui lato meno rispettabile – quello oscuro e di cui, magari, vergognarsi – resta regolarmente
nascosto dietro la facciata da mostrare in pubblico ed è ben metaforizzato, come visto, attraverso fumetti, film e telefilm fantastici. Dalla commedia televisiva americana – peraltro, spesso «contaminata» in modi
inattesi da «germi» di fantastico – arriva, invece, «l’immagine» che ancora oggi consideriamo «tipica» del decennio: quella di «un mondo fatto
solo di piccole questioni tra persone simpatiche – bianche – che non avevano problemi seri e che abitavano felici in casette suburbane, fianco a
fianco con altri come loro, in un paese che non si vedeva mai, ma che si
indovinava felice. Anche se non mancarono alcune eccezioni, la famiglia
di quel tipo fu la protagonista assoluta della commedia televisiva. E i
ruoli, al suo interno, ripetevano quelli che vita e cultura attribuivano a
marito e moglie nella società» 1.
Secondo il critico americano Gilbert Seldes, la commedia è addirittura l’asse intorno al quale ruota tutta la televisione. Essa arriva sul piccolo schermo a partire da precedenti modelli radiofonici e si «distribuisce»
tra sketch e monologhi da varietà e situation comedy più articolate, della
durata abituale di mezz’ora; ben presto sono proprio queste ultime a
prevalere nettamente. Si codificano in tempi strettissimi, poi, i tratti
ricorrenti delle commedie televisive che sono – come ben sintetizza
Bruno Cartosio in un suo ottimo libro – «la prevedibilità dei comporta-
154
AI CONFINI DELLA REALTÀ
menti fondata sulla coerenza dei caratteri, la dimensione domestica dell’equivoco o fatto che mette in moto la commedia, l’isolamento sociale in
cui la coppia o la famiglia (o le due coppie o famiglie) vive la situazione
e il rapido e felice scioglimento finale della complicazione iniziale.
Tempi e modi dello svolgimento materiale della storia sono legati alle
interruzioni pubblicitarie, esattamente come nel caso dei drammi.
Inoltre la psicologia dei personaggi è estremamente semplificata» 2. Dal
punto di vista formale, le caratteristiche essenziali del genere – immutate ancora oggi – prevedono inquadrature frontali di ambienti e personaggi in campo medio (quasi come su di un palco teatrale, magari alternate ad altre in piano americano e a primi piani, in campo/controcampo, per accentuare le smorfie facciali degli interpreti), un fitto dialogare
che scandisce il ritmo dell’azione ed è sottolineato dalle celebri risate off
preregistrate, un’ambientazione in interni con le inquadrature degli
esterni a fungere da semplici raccordi. Gli ambienti ricorrenti sono la
cucina e il salotto, con centralità assoluta concessa al divano, in quanto
oggetto multifunzionale e autentico proscenio dal quale pronunciare le
battute più divertenti.
Protagoniste di tutti questi telefilm sono famiglie bianche, protestanti, di classe media, suburbane e felici. E proprio l’ambientazione
suburbana – adattissima perché sempre uguale a se stessa e lontana
anni luce dalle contraddizioni della politica, delle razze, delle classi o
dei sessi – caratterizza alcune tra le sit-com più note degli anni ’50: si
pensi soltanto a grandi successi come The Adventures of Ozzie and Harriet
(concepito e realizzato da Ozzie Nelson per la ABC e andato in onda –
dopo una precedente, lunga vita radiofonica – dal 1952 al 1966, per 435
puntate), oppure il successivo Leave It to Beaver (sulla CBS nelle stagioni 1957 e 1958, sulla ABC dal 1958 al 1963). In particolare, poi, The
Adventures of Ozzie and Harriet presenta diversi motivi di interesse,
innanzitutto per la perfetta corrispondenza tra le identità dei personaggi e degli attori che li interpretano: Ozzie Nelson è davvero Ozzie
Nelson – come tutta la sua famiglia – e, assieme alla moglie Harriet,
diventa un autentico simbolo della vita familiare americana del decennio. Nelle avventure della famiglia Nelson, dunque, non c’è finzione
come si intende tradizionalmente, ma ciascun episodio – attraverso un
percorso teso sempre verso una morale, un «messaggio» – schematizza
un mondo immaginario che, però, lascia intendere agli spettatori di
ricalcare il quotidiano «reale» dei Nelson e, quindi, degli americani tutti
(o meglio, il quotidiano come essi vorrebbero che fosse).
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
155
Uno tra i luoghi comuni più forti, presenti nelle commedie televisive del periodo, riguarda la donna. «Lo stereotipo della donna affettuosa e serena, dedita alla casa e alla famiglia, ma capace anche di interessi esterni – i club femminili, le associazioni di beneficenza e simili – ma
non estranei alla famiglia, insomma la donna depositaria di tutte le
virtù domestiche, attraversò come una spina dorsale le decine di situation comedy dalle origini agli anni ’60. E anche in questo caso era un
modello che veniva proposto alla società nel suo insieme. La televisione idealizzava la moglie-madre casalinga bianca, di classe media, che
abitava nella casa suburbana. Il codice fu ferreo. Fu incrinato solamente nelle due serie The Honeymooners e Lucy ed io. Tuttavia, se i personaggi di Alice Kramden e Lucy Ricardo furono anche qualcosa di più, lo si
dovette in parte a Audrey Meadows e a Lucille Ball che li impersonavano e in parte a quel che furono quelle stesse commedie nel loro insieme» 3. Non è un caso che entrambi questi telefilm siano ambientati nella
caotica e ben più concretamente definita New York, invece che in un
sobborgo qualunque (come, per esempio, la più tradizionale «saga»
rosa dei Nelson).
Soprattutto Lucy ed io è importante per alcune sue innovazioni tecniche e contenutistiche e perché dà il via al filone familiar-sentimentale,
sulla CBS, fin dal 15 ottobre 1951, quando è trasmesso l’episodio inaugurale «The Girls Want to Go to a Nightclub». La serie – girata davanti
a un pubblico vero e ripresa con un rivoluzionario sistema a tre telecamere – va in onda per sei stagioni e 180 puntate di mezz’ora fino al 6
maggio 1957 («The Ricardos Dedicates a Statue»), incontrando sempre
un enorme successo popolare. La regia è di Ralph Levy (e, in seguito,
William Ashner e James V. Kern), su testi di Jess Oppenheimer, Bob
Carroll Jr. e Madelyn Pugh; la fotografia è addirittura di Karl Freund, il
grande direttore della fotografia di tante pellicole espressioniste tedesche, poi anche regista a Hollywood di un classico dell’orrore come La
mummia (The Mummy, 1932). Le menti che si celano dietro il successo di
Lucy ed io, però, sono quelle degli attori Lucille Ball e Desi Arnaz, sposati anche nella vita reale e protagonisti nei panni dei coniugi Lucy e Ricky
Ricardo, nonché produttori attraverso la loro società Desilu (destinata,
in pochi anni, a diventare un’autentica major). I due sono affiancati sul
set da un nutrito cast, in cui spiccano Vivian Vance e William Frawley
(nella finzione sono gli amici e vicini di casa dei Ricardo, Ethel e Fred
Mertz), Richard Keith, Keth Thibodeaux, Elizabeth Patterson e Doris
Singleton. Ma Lucy ed io diventa famosa anche per le tante comparsate
156
AI CONFINI DELLA REALTÀ
di prestigio: da Orson Welles a William Holden, da Rock Hudson a
Richard Widmark e tanti altri ancora.
Lucy e Ricky vivono a New York, dove lei è casalinga (con un passato da stenografa) e lui guadagna 150 dollari la settimana suonando
musica latinoamericana al Club Tropicana. Come accennato poco fa, è
proprio l’ambientazione urbana – ben restituita dalla scelta di non limitarsi soltanto a riprese in quello che, comunque, rimane l’ambiente
dominante, cioè la casa – a caratterizzare profondamente situazioni e
personaggi di Lucy ed io, soprattutto per quel che riguarda le figure femminili: rispetto a quello incarnato da Harriet nella sit-com sui Nelson,
infatti, il tipo di donna «alla Lucy» è più emancipato, meno accomodante e tradizionale. Insomma, semplificando, si può senz’altro affermare che Lucy ben rappresenta la «nuova» donna di città, mentre
Harriet è l’emblema della tranquilla mamma/moglie suburbana. Il
rispecchiamento tra finzione e realtà, comunque, è meno pedissequo
rispetto a The Adventures of Ozzie and Harriet ed è insaporito da raffinati tocchi surreali, anche per ciò che concerne le schermaglie domestiche.
«La “battaglia tra i sessi” è il grande tema di Lucy ed io. È trattato in
modo farsesco e Lucy è sempre sconfitta: ma cade sempre in piedi ed è
sempre pronta a ricominciare. […] Rispetto agli Honeymooners e alle
altre situation comedy del tempo, in Lucy ed io diminuiscono le componenti realistiche e aumentano quelle più astratte della farsa. Qui più che
da ogni altra parte il movimento interno alla molecola si fa vertiginoso
e incredibile. La fantasia strappa le briglie alla routine» 4.
In definitiva, la «Imitation of Life» in Lucy ed io è comunque forte ma
procede su due piani differenti: il primo, più astratto e surreale, guarda
con interesse persino a stravaganti contaminazioni col fantastico – si
pensi solo all’episodio del 14 gennaio 1957, in cui Lucy Ricardo incontra addirittura Superman («Lucy and Superman»), in un «crossover» tra
due serie amatissime dal grande pubblico – all’insegna dell’accentuazione caricaturale e dell’estremizzazione proprie della commedia farsesca; il secondo, invece, più concreto, mette in gioco il rapporto tra le esistenze dei personaggi e quelle degli interpreti (e anche qui basta citare
un unico episodio, persino paradigmatico: «Lucy is Enceinte», dell’8
dicembre 1952, messo in programmazione perché Lucille Ball era, nella
realtà, incinta 5). E, a proposito d’arte che si specchia nella vita (e viceversa), il vero rapporto di coppia tra gli apparentemente affiatatissimi
Ball e Arnaz, finito col divorzio nel 1960, è in profonda crisi fin dalle primissime puntate del loro telefilm. L’attrice-produttrice, però, resta lega-
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
157
ta al personaggio di Lucy, ripreso in forme differenti, fin quasi alla
morte: in The Lucy Show (id., 1962-1968; 198 episodi nei quali interpreta
Lucy Carmichael), in Here’s Lucy (1968-1974; 144 puntate come Lucille
Carter), infine in Life with Lucy (1986-1987; a 75 anni, nel ruolo di Lucy
Carter). La Ball rappresenta una tra le poche, autentiche attrici comiche
del cinema e della televisione americani. Nella «sua» sit-com domina
letteralmente la scena, con smorfie da clown e tempi perfetti; inoltre,
riesce a ironizzare efficacemente sulle caratteristiche di devozione, indipendenza e ingenuità della donna yankee, rovesciandole letteralmente
di senso attraverso i continui disastri combinati dal suo straordinario
personaggio.
Due famiglie «in nero»: gli Addams e i Munsters
La tipica famiglia americana di fine anni ’50 – che tanto bene è promossa attraverso commedie televisive come Lucy ed io – viene letteralmente fatta a fettine, con eleganza ma anche consistenti dosi di veleno
(seppure dal retrogusto dolciastro) in due telefilm che contaminano la
comedy più classica con atmosfere e iconografia dell’horror (però, rivisto attraverso la lente deformante della parodia): La famiglia Addams
(The Addams Family) e I Mostri (The Munsters). Andati in onda quasi contemporaneamente nel 1964, i due show si contendono l’audience, fin
dalle prime puntate, a colpi di risate «nere» e gustosi rimandi cinefili,
ma anche di tutto sommato spietate radiografie degli zuccherosi quadretti familiari tanto propagandati dai mass media del periodo. In
entrambi i casi, comunque, il pubblico risponde a meraviglia.
Trasmesso sulla NBC dal 18 settembre 1964 («La famiglia Addams
va a scuola», «The Addams Family Goes to School») all’8 aprile 1966
(«La carriera di Ofelia», «Ophelia’s Career») – per un totale di 64 episodi da 30 minuti ciascuno – La famiglia Addams deriva dalla popolarissima striscia a fumetti pubblicata dal disegnatore Charles «Chas»
Addams sulle pagine del prestigioso settimanale «The New Yorker» fin
dalla fine degli anni ’30. Nella versione disegnata, gli Addams sono
molto diversi da quelli televisivi, più inquietanti e sinistri e – pur provocando il sorriso – lo fanno in modo assolutamente non consolatorio,
bensì macabro e spietato. «Il giovane Chas non voleva esorcizzare il
male né addomesticarlo, come faceva Walt Disney. La sua intenzione
era quella di far scattare il divertimento attraverso la geniale e grottesca
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
rappresentazione del lato oscuro della comicità, evitando gli ammiccamenti e le facili scorciatoie per accattivarsi la complicità dei lettori» 6;
insomma, uno humour nero raffinato e sarcastico e una vena surrealistica degna di André Breton.
La famiglia Addams televisiva – verrebbe da dire, ovviamente – è meno
destabilizzante e cinica: sembra più una commedia sofisticata classica,
fotografata come «in negativo». Il casting dello show appare decisamente azzeccato, con attori perfetti per ciascun personaggio: i due coniugi
Addams, l’avventuriero Gomez e la sensuale «dark» Morticia, sono tratteggiati magnificamente da John Astin e Carolyn Jones; i loro diabolici
pargoli Mercoledì e Pugsley sono, invece, i piccoli Lisa Loring e Ken
Weatherwax; poi, truccatissimi, recitano Ted Cassidy nei panni del
gigantesco maggiordomo «simil-Frankenstein» Lurch, l’ex bambino prodigio Jackie Coogan come Zio Fester, Blossom Rock nel ruolo della streghesca nonna Frump e Felix Silla in quello del peloso cugino Itt.
L’originale quadretto è completato dal «cucciolo» di casa, cioè – letteralmente – «Mano» (che, in originale, si chiama «Thing», «Cosa»). Nel corso
della loro carriera catodica, gli Addams devono vedersela con alieni,
agenti segreti, artisti, beatnik; ma anche – più prosaicamente – con gli
insegnanti dei figli, alcuni vicini troppo curiosi o con semplici medici.
Esemplificativo delle atmosfere del telefilm è, per esempio, l’episodio
«La malattia di Zio Fester» («Uncle Fester’s Illness»), andato in onda il 22
gennaio 1965: qui, il pallidissimo personaggio di Coogan deve assolutamente guarire da una misteriosa malattia che potrebbe compromettere
una già programmata gita familiare. Gomez e Morticia, allora, decidono
di far visitare Fester da uno specialista e, appurata l’indisponibilità del
medico di famiglia (un «normalissimo» stregone africano specializzato
in riti voodoo!), chiamano – a malincuore – un per loro bislacco dottore
che, in realtà, ha un’aria decisamente affidabile. Tra equivoci e malintesi,
comunque, il distinto professionista riesce a guarire Fester per puro caso,
nel momento in cui questi decide di mangiare il mercurio del termometro. Il segreto di questi impagabili personaggi, in definitiva, risiede nella
loro costante capacità di irridere le convenzioni sociali, attraverso reiterate provocazioni dei luoghi comuni più usurati dell’american way of life,
mascherate sotto la patina horror di superficie. «In un paese sempre più
lanciato verso un’irreversibile modernizzazione, gli Addams vanno sempre controcorrente: oppongono il legno decrepito alla fòrmica, privilegiano la ruvida pietra alla plastica e ai laminati, provano orrore – è proprio il caso di dirlo – per tutto ciò che è asettico, deodorato, colorato e
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
159
standardizzato. Sotto sotto, il loro è un rifiuto ante litteram di una società
asfissiante e angosciosa, basata sui consumi, sul successo e sull’aggressività» 7. Non è casuale, d’altronde, nonostante l’apparente orrore delle
loro vite, il fatto che gli Addams siano davvero felici.
La settimana dopo l’esordio di La famiglia Addams, la CBS controbatte
mandando in onda – dal 24 settembre, con l’episodio «Munster
Masquerade» – le avventure tra horror e commedia di un’altra stravagante famiglia: i Munsters. Il loro telefilm – che in Italia viene tradotto come I
Mostri – dura due stagioni, fino al 12 maggio 1966 («A Visit from the
Teacher»), per un totale di 70 puntate (da 30 minuti l’una) più alcune
«riprese» successive, anche sotto forma di film per il cinema. Le situazioni di I Mostri sono davvero molto simili a quelle della famiglia rivale, con
alcune trame che – a distanza di poche settimane – si richiamano tra di
loro con più di qualche rimando, tra bambini trasformati in scimpanzé,
robot, astronauti, beatnik, amnesie. La differenza principale, però, risiede
nel fatto che, mentre gli Addams sono umani (o quasi) seppure molto strani, i Munsters sono autentici mostri che, anzi, si rifanno decisamente all’iconografia cinematografica classica (quella della Universal, per intenderci): il protagonista, Herman Munster (interpretato da Fred Gwynne),
richiama il make-up del mostro di Frankenstein ideato da Jack Pierce; la
moglie Lily (Yvonne De Carlo) appartiene, invece, a una stirpe di vampiri, come dimostra suo padre (l’attore Al Lewis), buffa caricatura del
Dracula di Bela Lugosi; i due pargoli della coppia, Eddie e Marilyn, sono
interpretati da Butch Patrick e Pat Priest. Poi, a differenza dei comunque
costantemente ansimanti e sovraeccitati Gomez e Morticia Addams,
Herman e Lily Munster vengono persino mostrati concretamente a letto
insieme: un tabù televisivo inespugnabile in precedenza. E, per qualche
strano motivo, la censura catodica permette alle due mostruose famiglie
allusioni sessuali che sarebbero state «tagliate» in qualsiasi altro contesto.
Ancora una volta, dunque, i mostri fanno il miracolo e diventano, in un
certo senso, strumenti di libertà.
Il genere fantastico si contamina con quello comico anche in altre
due celebri serie familiari di metà anni ’60, imperniate su amabili (e inoffensive) fattucchiere da tinello domestico: Vita da strega (Bewitched, 1964)
con Elizabeth Montgomery nei panni della simpatica fattucchiera borghese Samantha, e Strega per amore (I Dream of Jeannie, 1965) con Barbara
Eden nel ruolo di una bellissima e sexy «genietta» della bottiglia.
160
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Vent’anni dopo: da Lucy a Mary
Gli anni ’70 della televisione statunitense sono caratterizzati da una
massiccia presenza di sit-com, nei palinsesti dei network. Tra queste,
alcune di grande successo riprendono e aggiornano «l’eredità» di Lucy
ed io, provando a dire la loro sulla nuova condizione della famiglia e
della donna americane, in una società molto cambiata rispetto a vent’anni prima.
Il successo catodico più clamoroso del periodo è rappresentato dal
premiatissimo Mary Tyler Moore Show (id., 1970), in onda sulla CBS per
168 episodi e proclamato, nel 1993, «lo show di prima serata più importante della storia televisiva americana», attraverso un referendum promosso dalla prestigiosa rivista «Entertainment Weekly». Anche stavolta, come per Lucy ed io, a tenere saldamente le redini in mano ci sono la
star del progetto, l’attrice Mary Tyler Moore, e suo marito Grant Tinker,
produttori con la loro società MTM Enterprises e ideatori assieme a
James L. Brooks e Allan Burns. Per capire quanto il telefilm sia amato
dai telespettatori americani, basti semplicemente il dato della successiva nascita di altre tre serie di successo, derivanti dall’originale: le sitcom Rhoda (id., 1974) e Phyllis (id., 1975), e il dramma giornalistico Lou
Grant (id., 1977), tutte e tre a loro volta premiate da un enorme successo di critica e pubblico.
Il personaggio principale del Mary Tyler Moore Show è la trentenne
Mary Richards (la Moore), che vive da sola in un piccolo appartamento
di Minneapolis e lavora al telegiornale di un canale televisivo locale, la
WJM. Del suo microcosmo fanno parte figure bizzarre, nevrotiche e
piene di tic: il freddo capo di Mary, il giornalista-produttore Lou Grant
(Edward Asner, poi protagonista della serie dedicata al «suo» Lou); i
due redattori del telegiornale, il simpatico Murray Slaughter (Gavin
MacLeod, che dal 1977 è al centro di Love Boat) e l’egocentrico Ted
Baxter (Ted Knight); l’inquilina del piano di sopra Rhoda Morgenstern
(Valerie Harper, anche lei destinata a uno show tutto per sé), di origine
ebraica e frustrata perché single suo malgrado; la padrona di casa, nervosa e sognatrice, Phyllis Lindstrom (Cloris Leachman, a sua volta
interprete principale dello spin-off sul suo personaggio). Ciascuno di
loro ha un ruolo tipico e fisso, come deve essere in ogni sit-com che si
rispetti; tuttavia, i vari caratteri sono attraversati da più d’una contraddizione: così, per esempio, Rhoda è vittima di una madre ossessiva e
possessiva, ma si pone in modo materno nei confronti di Mary; e Lou,
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
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apparentemente freddo e burbero, ha, in realtà, un cuore d’oro e diventa ben presto il migliore amico della protagonista.
I cambiamenti che interessano la società americana appaiono evidenti proprio considerando le differenze sostanziali tra Lucy ed io e il Mary
Tyler Moore Show. Qui, infatti, la protagonista è single per sua volontà,
vive da sola, lavora e, soprattutto, crea con i suoi vicini e amici una sorta
di famiglia allargata, nella quale Lou ha il ruolo del «padre», Rhoda quello della «madre», Ted quello del «figlio immaturo». Di mezzo ci sono stati
gli anni ’60, i conflitti generazionali dei «ribelli-senza-una-causa», il ’68: il
nucleo familiare «classico» vive un momento di profondo ripensamento,
se non ancora di aperta crisi. Pure nel Mary Tyler Moore Show il processo
di dissoluzione – persino di una famiglia tanto anomala – appare inarrestabile, soprattutto quando i vari personaggi di contorno lasciano la serie
principale per passare ciascuno all’interno di un suo proprio show individuale.
Proprio Mary, in ogni caso, cerca di proporsi come autentico collante di tutte le situazioni che si sviluppano nella strana comunità: è la
spalla perfetta sulla quale andare a piangere, la confidente sincera e
fidata; e casa sua diventa la calamita capace di attirare a sé, costantemente, i vari personaggi (e, quindi, di portarli di scena). Appare accurato, dunque, il ritratto che di Mary Richards fa Giorgio Cremonini, in
un suo classico saggio sulla commedia televisiva a stelle e strisce: «Non
più giovanissima, si è trovata ad affrontare la vita da sola in un mondo
che alle donne concede ben poco (un tema frequente nella TV degli
anni ’70). Il suo atteggiamento è fiducioso, ottimista, gentile, accomodante, disponibile; il suo unico desiderio è non contraddire gli altri, non
creare complicazioni, adattarsi a tutto ciò che le viene chiesto. Dice di
essere “una che prima di andare dal parrucchiere si fa lo shampoo”. Da
un lato è come l’uomo vorrebbe che fosse la donna dopo il trauma del
femminismo. Dall’altro accetta l’indipendenza che il mondo le impone
e si sforza di farla diventare parte del proprio carattere. È insomma
combattuta tra due opposti modelli, ovvero vive in prima persona le
contraddizioni del mondo» 8. E, principalmente, di una società statunitense che – ben prima di tutte le altre – prova a prendere coscienza del
coinvolgimento sempre maggiore delle donne nel suo sistema produttivo e lavorativo. Da questo punto di vista, il «filo rosso» di un’ironica
inconciliabilità con il mondo unisce nelle intenzioni – ma separa irrimediabilmente negli esiti – i personaggi di Lucy Ricardo (anni ’50),
Mary Richards (anni ’70) e Ally McBeal (anni ’90).
162
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Altre famiglie decisamente anomale sono al centro di due telefilm
«casalinghi» diversissimi tra di loro: uno precede di quattro anni il Mary
Tyler Moore Show, l’altro lo segue di sette. Si tratta di Tre nipoti e un maggiordomo (Family Affair, 1966) e Tre cuori in affitto (Three’s Company, 1977).
Con il mieloso Tre nipoti e un maggiordomo – ideato e prodotto da Don
Fedderson ed Edmund L. Hartman, e andato in onda per 138 episodi –
siamo ancora in un contesto sociale più vicino agli anni ’50 che ai ’70.
Tuttavia, qui come altrove, il nucleo familiare tradizionale brilla per l’assenza (anche se forzata): poiché un tragico incidente ha ucciso i loro
genitori, infatti, tre orfanelli vengono adottati da un ricco scapolo fratello di una delle vittime, l’industriale dal cuore d’oro Bill Davis (interpretato da Brian Keith), che li cresce nel suo lussuoso attico di Manhattan
con l’aiuto del barbuto e bonario maggiordomo inglese Giles French
(Sebastian Cabot). I ragazzini sono due gemelli dell’età di sei anni, la
bionda Buffy (Anissa Jones) e il lentigginoso Jody (Johnnie Whitaker), e
la loro sorella quindicenne Cissy (Kathy Garver). Il maggiordomo li cresce come farebbe la più stereotipata tra le mamme: resta sempre in casa
con loro, li accompagna a scuola, è responsabile diretto dell’educazione
del trio, copre con complicità le loro tante marachelle. Lo zio Bill, invece, torna a casa soltanto di sera (dopo aver lavorato tutto il giorno) e, in
una famiglia completamente asessuata, si comporta come un «dongiovanni» impenitente che cerca altrove ciò che sa di non poter ottenere tra
le mura domestiche.
Col senno di poi, il telefilm si carica di ulteriore senso grazie a una
raffinata (e non gratuita) citazione di cui è stato oggetto, nel corso degli
anni ’90. Uno tra gli autori televisivi più dotati della sua generazione, il
Joss Whedon creatore della «horror comedy» Buffy The Vampire Slayer,
riprende nomi e alcune caratteristiche di due personaggi di Tre nipoti e
un maggiordomo, per dire la sua – meglio di tante vuote parole – sui
mutamenti profondi della società americana nel corso della seconda
metà del ’900: la dolcissima Buffy che nel 1966 è soltanto un’orfanella
spaurita e bisognosa di affetto, allora, trent’anni più tardi diventa un’aggressiva liceale dotata di superpoteri, unica speranza del genere umano
nella lotta contro demoni e nosferatu; e non sembra un caso, quindi, che
il mentore della bionda e atletica ammazzavampiri interpretata da Sarah
Michelle Gellar – colui che le fa da padre putativo, in una società quasi
senza più famiglie – sia inglese e si chiami Rupert Giles, proprio come il
maggiordomo-genitore Giles French della serie di tre decenni prima.
L’atmosfera di Tre cuori in affitto – ideata e prodotta da Don Nicholl,
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
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Michael Ross e Bernie West, e andata in onda sulla ABC dal 1977, per
sette stagioni e 172 episodi – è completamente diversa e più spregiudicata, in linea con i cambiamenti che hanno interessato i costumi degli
americani. Così, a fine anni ’70 diventa normale persino per gli standard
dei network televisivi a stelle e strisce che, all’interno di una sit-com, si
possa parlare apertamente di omosessualità, giocando continuamente
con doppi sensi e allusioni erotiche. Il plot deriva dalla serie inglese Un
uomo in casa (Man About the House, 1973) e ruota attorno alle buffe disavventure di Jack Tripper (interpretato da John Ritter), un aspirante cuoco
e playboy che diventa il compagno d’appartamento di due ragazze, la
brunetta Janet Wood (Joyce De Vitt) e la biondina sexy e svampita
Chrissy Snow (Suzanne Somers). Nello stabile di Santa Monica
(California), dove i tre vivono sotto lo stesso tetto, abitano anche gli
onnipresenti padroni di casa Stanley e Helen Roper (rispettivamente,
Norman Fell e Audra Lindley: i loro personaggi diventano protagonisti,
nel 1979, di uno spin-off intitolato I Roper, The Ropers), petulante e impotente lui, ipercritica e sessualmente insoddisfatta lei.
Jack si finge omosessuale agli occhi dei vicini per dividere senza
problemi l’appartamento con le affascinanti fanciulle (che lo assecondano nella bugia); e poi, è proprio lui a fare da «angelo del focolare»
mentre le ragazze vanno a lavorare, con un rovesciamento completo dei
ruoli presenti in tutte le sit-com. Proprio questo elemento, tra l’altro,
rende credibile, agli occhi di persone dalla mentalità antiquata come i
Roper, l’omosessualità del personaggio («Un vero uomo non resterebbe
mai in casa a sbrigare le faccende domestiche e a cucinare!») e provoca
una serie infinita di equivoci e situazioni divertenti, conseguenza
soprattutto dei reiterati tentativi di Tripper d’affascinare le coinquiline.
«Il tema ricorrente è l’opposizione desiderio/frustrazione: il desiderio
di Jack per le ragazze e il loro rifiuto che condiziona la permanenza nell’appartamento; il desiderio della signora Roper cui risponde l’impotenza del marito. In ogni caso il desiderio non viene soppresso, ma solo
dilazionato, perché il meccanismo fondante è appunto quello della frustrazione» 9. È curioso, a tale proposito, il nome stesso del personaggio
principale, quasi a voler suggerire una sottotraccia inquietante in relazione ai suoi rapporti con l’altro sesso: Jack Tripper, infatti, nella lingua
inglese ha la stessa pronuncia di Jack The Ripper, lo storico «squartatore» che terrorizzò la Londra vittoriana facendo strage di prostitute,
anche lui a suo modo schiavo della dicotomia desiderio/frustrazione
nei confronti del sesso e delle figure femminili. Come a voler dire, forse,
164
AI CONFINI DELLA REALTÀ
che più di cent’anni dopo un maniaco assassino può ancora albergare
nelle profondità dell’animo persino del più inoffensivo e simpatico dei
cittadini medi (d’altra parte, al tempo dello squartatore – la cui identità
rimase sconosciuta – i sospetti coinvolsero proprio diversi membri della
buona borghesia londinese, persino vicini alla Corona: esponenti della
classe media, quindi).
E a proposito di americani medi, il loro ritratto più scomodo e graffiante arriva da quello che è il più grande successo degli anni ’70, assieme al Mary Tyler Moore Show, cioè la famosissima sit-com Arcibaldo (All
in the Family, 1971; 202 episodi), creata da Johnny Speight e prodotta, tra
gli altri, dal geniale Norman Lear. Lo show – noto in Italia anche come
Tutti a casa – si regge quasi per intero sul personaggio principale, interpretato da uno straordinario Carroll O’Connor nel ruolo di Archie
Bunker, un cinquantenne caposquadra ai docks della Pendergast Tool
and Die Company: iper-conservatore, razzista xenofobo, egoista,
maschilista, puritano, ignorante, completamente chiuso nel suo piccolo
universo che coincide con le pareti del soggiorno di casa, Archie incarna tutto ciò che l’uomo della strada non vorrebbe mai sentirsi dire.
Insomma, quello di Arcibaldo è il mondo come dovrebbe essere nelle sitcom, cioè un’esagerazione iperbolica e caricaturale di quello reale, ma
come in definitiva non appare quasi mai nelle situation comedy americane, sempre troppo impegnate a mettere in scena un’idea perfetta (e
falsissima) di società. A completare il personaggio di Archie c’è quello
della sottomessa moglie Edith (Jean Stapleton), casalinga che vive unicamente in funzione del marito; e poi, la figlia Gloria (Sally Struthers) e
il marito Mike Stivic (Rob Reiner), di origini polacche e per questo motivo continuamente vessato dall’insopportabile suocero. L’enorme successo dello show produce anche due spin-off: Maude (id., 1972), imperniato sul personaggio di una cugina di Edith, e soprattutto I Jefferson
(The Jeffersons, 1975; 253 episodi), sui vicini di casa neri della famiglia
Bunker e autentica versione «black» delle loro avventure.
Ma il decennio propone diverse altre sit-com «anomale» come, per
esempio, Giorno per giorno (One Day at a Time, 1975; 200 episodi) di
Norman Lear, imperniata su una famiglia fatta di sole donne (una madre
divorziata e le sue due figlie: situazione tipica del periodo); la sferzante
Mary Hartman, Mary Hartman (id., 1976; 325 episodi), ideata ancora da
Norman Lear e interpretata da Louise Lasser nel ruolo di una donna che
vive come se si trovasse in una soap opera; Alice (id., 1976; 202 episodi),
creata da Robert Getchel a partire dal film di Martin Scorsese dell’anno
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
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precedente (Alice non abita più qui, Alice Doesn’t live Anymore, 1975), e interpretata da Linda Lavin nel ruolo di una cameriera trentacinquenne vedova con figlio a carico; Taxi (id., 1978; 113 episodi), con comici oggi famosissimi come Danny De Vito e il compianto Andy Kaufman; il celeberrimo show di La famiglia Bradford (Eight is Enough, 1977; 114 episodi), con le
disavventure del giornalista Tom Bradford (Dick Van Patten) alle prese
con i suoi otto figli d’età compresa tra i sette e i ventitré anni; l’ideologicamente discutibilissimo Harlem contro Manhattan (Different Strokes, 1978;
189 episodi), con i «mitici» – soprattutto in Italia, per la verità, dov’è nota
anche con il titolo Il mio amico Arnold – fratellini neri Arnold e Willis (Gary
Coleman e Todd Bridges) adottati dal ricco industriale bianco Philip
Drummond (Conrad Bain) e omologati senza scampo, quindi, alla «cultura dominante».
Anche la TV sta cambiando: s’inizia a parlare di conflitti interrazziali, droga, violenze sui minori persino nelle sit-com. C’è, però, chi preferisce guardare ancora all’indietro: come al solito, agli anni ’50.
Ritorno agli «Happy Days»
Negli anni ’70, gli Stati Uniti si trovano a vivere un periodo piuttosto critico per la guerra del Vietnam, l’inflazione, le tensioni sociali che
attraversano la società, l’aumento della violenza nelle strade. E, inevitabilmente, la situazione influenza anche il mondo dello spettacolo, che –
in cerca di evasione da «dare in pasto» al pubblico – sposta i contenuti
di molti suoi prodotti di fiction indietro nel tempo, verso una mitica età
passata che appare priva dei gravi problemi del presente, con il paese
che non ha ancora perso la propria innocenza, simbolicamente in frantumi nel 1963 con l’omicidio del presidente Kennedy. Si giustifica anche
così, dunque, il revival nostalgico di un periodo come gli anni ’50.
Nel 1970, però, la ABC prova ad andare ancora più indietro, con la
convinzione che gli anni ’30 possano essere ancora «migliori» dei ’50:
mette in produzione, infatti, la nuova edizione di una popolarissima
trasmissione di quell’epoca, I Remember Mama, della cui progettazione
viene incaricato l’autore cinematografico e televisivo Garry Marshall.
Inaspettatamente, però, Marshall rifiuta dicendosi poco interessato a
quel decennio e rilancia con un suo progetto imperniato su una tipica
famiglia americana dei «Fifties», che sente come i «suoi» anni: nasce
così – in un pilot di mezz’ora, intitolato «A New Family in Town» – la
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
famiglia Cunningham, con Ron Howard, Marion Ross, Anson Williams
nei personaggi che conosciamo ancora oggi, mentre Harold Gould
interpreta il ruolo del signor Cunningham. L’esito di questo telefilm,
però, è abbastanza deludente e la ABC decide di utilizzarlo come episodio della romantica serie antologica Love, American Style (id., 1969),
con il titolo «Love and Happy Days» (in onda il 25 febbraio 1972).
La situazione cambia dopo qualche anno, quando il revival dei
decenni passati prende maggiormente piede, grazie al successo del
musical teatrale Grease di Jim Jacobs e Warren Casey e del film American
Graffiti (id., 1973) di George Lucas, che a sua volta trae l’ispirazione proprio dal già citato episodio di «Love, American Style» e, non a caso, sceglie Ron Howard per la sua pellicola. In tale contesto, dunque, il progetto di Marshall, pur concepito qualche anno prima, può essere definitivamente realizzato. La ABC spinge l’autore a riprendere la sua idea
del 1970, «consigliando» alcune modifiche: in particolare, suggerisce di
inserire temi alla moda, come quello delle «bande giovanili» e delle
automobili.
Così, nel gennaio 1974, va in onda per la prima volta Happy Days
(id.), che l’ideatore Garry Marshall produce assieme a Thomas L. Miller
e Edward K. Milkis. Dopo il primo ciclo di prova lungo 16 episodi (stagione televisiva 1973-1974), ne saranno trasmesse, per 11 stagioni, ben
255 puntate da 30 minuti l’una, a riprova di un successo che si rivela
superiore a qualunque previsione della vigilia.
Alla base del progetto c’è l’esigenza di rivolgersi agli adolescenti (il
segmento più vasto di consumatori) senza affrontare temi scabrosi e tragicamente presenti nella quotidianità, come per esempio la droga. E, da
questo punto di vista, gli anni ’50 sono il periodo perfetto per parlare dei
travagli tipici dei giovani, evitando quei richiami alla contemporaneità
che sarebbero necessari per dare realismo all’insieme. Marshall e il suo
staff decidono, dunque, quali devono essere i temi intorno ai quali sarebbero ruotate le storie: innanzitutto, la famiglia; e poi, i problemi adolescenziali, soprattutto per ciò che concerne il rapporto con l’altro sesso e
l’ansia di crescere. Al personaggio di Fonzie, unica concessione al tema
delle «bande giovanili», sono affidati i cosiddetti «momenti di riflessione» che non riguardino temi squisitamente familiari. Per il ruolo del
«teppista dal cuore d’oro» – che, all’inizio, Marshall immagina biondo e
ben messo – viene scelto Henry Winkler, che impressiona tutti per la
rispondenza al ruolo. Secondo le direttive dell’autore, Fonzie è un ragazzo che ha appena lasciato la scuola, più vecchio ed esperto degli altri; un
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
167
ex membro della banda dei Falcons (ex poiché non si sarebbero potute
mostrare risse o atti di teppismo in TV) che adesso lavora come meccanico: il suo vero nome è Arthur Fonzarelli, con evidenti origini italiane.
Dopo l’episodio inaugurale, la ABC impone alcune modifiche al personaggio – approfittando di un viaggio di Marshall alle Hawaii – e gli
toglie il caratteristico giubbotto di pelle nera, giudicato poco rassicurante per i telespettatori. Al suo ritorno, però, l’autore rimette tutto a posto,
rendendo in ogni caso Fonzie sempre più buono, con forti valori tradizionali e un suo codice morale.
Come protagonista femminile, per la parte della signora Marion
Cunningham, è confermata l’attrice Marion Ross, convincente già nel
pilot di qualche anno prima; mentre suo marito Howard assume il volto
di Tom Bosley, «normale» quanto basta ma anche attore già rodato e in
grado di gestire i rapporti con un cast quasi tutto molto giovane. La spigliata Erin Moran ha la parte della loro figlia minore Joanie, detta
«Sottiletta»; mentre Ron Howard – anche lui già presente nell’episodio
pilota – «ridiventa» il figlio maggiore Richie, vero protagonista accanto
a Fonzie e simbolo del tipico adolescente americano di classe media,
timido e impacciato, ma leale e generoso. Gli amici di Richie, cioè l’imbranato Potsie Weber e il divertente Ralph Malph, sono interpretati
rispettivamente da Anson Williams e dal rosso e lentigginoso Donny
Most. Altri personaggi di una certa importanza sono Arnold (Pat
Morita) e Alfred (Al Molinaro), i due simpatici cuochi che si succedono
alla gestione del locale dove si riuniscono i ragazzi (il celeberrimo
Arnold’s); e, in un secondo momento, entra nel gruppo Chachi (Scott
Baio), un giovane cugino di Fonzie.
Se l’ambientazione temporale è quella degli anni ’50, per quella geografica Marshall opta per Milwaukee, sorta di compromesso tra
l’America dell’Est e quella dell’Ovest, nonché tra realtà rurale e urbana.
Tuttavia, gli ambienti restano abbastanza neutri e senza riferimenti troppo precisi, anche per facilitare il lavoro degli sceneggiatori che, altrimenti, avrebbero di volta in volta dovuto confrontare le caratteristiche di
ogni singolo luogo negli anni ’50 con quelle attuali.
Dopo il successo della prima serie, Garry Marshall pensa di rendere
il telefilm più divertente, attraverso alcune modifiche: innanzitutto,
essendo l’umorismo più controllabile durante le riprese in interni, decide di ridurre al minimo gli esterni; in secondo luogo, per favorire la resa
recitativa degli attori, comincia a girare di fronte a un pubblico vero. Il
successo è ancora maggiore, ma Marshall viene costretto a reimpostare
168
AI CONFINI DELLA REALTÀ
nuovamente i presupposti del telefilm, quando – alla vigilia della terza
serie – la nuova «parola d’ordine» della ABC diventa: «Dare più spazio
a Fonzie», nel frattempo diventato il beniamino del pubblico anche grazie alle espressioni inventate sul set da Winkler (come il celebre «Hey,
hey, hey!»). La soluzione migliore che non snaturi il personaggio (molto
amato anche da Marshall) ma lo renda più presente, è quella di trasferire Fonzie nella casa dei Cunningham, in un appartamento costruito
sopra il loro garage. Gli spettatori, già dal primo episodio della terza
stagione, iniziano a vederlo sempre più come un autentico eroe – il
punto di riferimento per l’intero gruppo di amici – e meno come un
semplice «duro»: è proprio questo «restyling» a produrre, per esempio,
un episodio tra i più famosi dell’intera serie, cioè quello in cui Fonzie
realizza il nuovo record del salto dei bidoni con la moto.
Gli Stati Uniti degli anni ’50 tratteggiati da Happy Days si rifanno
direttamente alle rappresentazioni televisive di vent’anni prima (edulcorate e semplificate), più che all’immagine reale del paese. Situazioni
e personaggi delle commedie televisive familiari dei «Fifties» sono resi
eccessivi e, in alcuni casi, spinti al limite della parodia. La musica
diventa un elemento essenziale di caratterizzazione, con una colonna
sonora piena di hit del rock ’n roll per restituire gli umori dell’epoca. I
luoghi sono ridotti essenzialmente a due, entrambi altamente simbolici: la casa della famiglia Cunningham – anzi, quasi sempre il salotto,
cioè lo spazio di rappresentanza: una sorta di palco teatrale sul quale
mettere in scena le proprie esistenze – e il pub dove si ritrova il gruppo
di amici che anima i vari episodi. Questi luoghi, con rarissimi esterni (a
parte le ricorrenti facciate di casa Cunningham e di Arnold’s), incarnano proprio i due temi e i due momenti centrali del telefilm: quello dei
rapporti familiari (aspetto privato) e l’altro delle questioni giovanili
(aspetto pubblico); mondi che, in Happy Days, non si toccano quasi mai
tra loro ma procedono parallelamente e, quando convergono, lo fanno
per generare conflitti (come nell’episodio che vede Joanie scappare di
casa e unirsi alla rockstar Leather Tuscadero, interpretata da un’autentica «diva» del rock come Suzi Quatro). Il nucleo familiare proposto dal
telefilm di Marshall è ancora quello tradizionale «cinquantesco», però i
genitori non sanno mai ciò che fanno realmente i propri figli, quando
sono al drive-in oppure al fast food; questi ultimi, da parte loro, trovano nell’amico teppista il confidente ideale, piuttosto che nei genitori. Va
detto, comunque, che tutti i conflitti, in Happy Days, trovano una loro
zuccherosa ricomposizione.
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
169
Sull’onda inarrestabile del suo successo, la serie di Garry Marshall
produce ben tre spin-off: Laverne e Shirley (Laverne & Shirley, 1976; 178 episodi e successo quasi pari alla serie di origine), la sit-com «fantastica»
Mork e Mindy (95 puntate e altro grande successo) e il pessimo Jenny e
Chachi (Joanie Loves Chachi, 1982; soli diciassette episodi). In particolare,
Mork e Mindy è interessante perché rappresenta il trampolino di lancio
per Robin Williams, attore destinato poi a raggiungere le vette di
Hollywood, e per l’efficacia con cui contamina il genere fantastico e quello comico. Mork è un alieno proveniente dal pianeta Ork, giunto sulla
Terra in un episodio di Happy Days, per rapire Richie Cunningham. Il clamoroso gradimento che ne accompagna l’esilarante apparizione (con
tanto di «duello» con Fonzie) convince Marshall a dare al personaggio
una serie tutta sua. Nel nuovo show, davvero molto divertente, l’extraterrestre si stabilisce in casa della giovane commessa Mindy McConnell
(interpretata da Pam Dawber); i due diventano amici e, nel corso delle
stagioni, finiscono per sposarsi, andare in luna di miele su Ork e avere
persino un figlio che nasce alla maniera «orkiana»: da un uovo e già
anziano, per poi ringiovanire. Mork e Mindy si conclude nel 1982, proprio
nell’anno in cui un altro celebre alieno – stavolta cinematografico – viene
ospitato da una dimora del nostro Pianeta, in E.T. l’Extra-Terrestre (E.T. the
Extra-Terrestrial) di Steven Spielberg.
Negli anni ’90, poi, a partire dal 1996, l’idea alla base di Mork e
Mindy viene portata alle estreme conseguenze nell’ottima fanta-sit-com
Una famiglia del 3o tipo (3rd Rock from the Sun), imperniata addirittura su
un intero gruppo di alieni che, per studiare meglio i terrestri, si incarnano in una tipica famigliola middle class della provincia americana: il
bizzarro spunto di partenza dà l’occasione per affrontare anche temi
inusuali per la fiction comica televisiva come, per esempio, la guerra
oppure la disparità nei salari dei lavoratori. La serie è ideata dai coniugi Bonnie e Terry Turner e ha tra gli interpreti John Lithgow e Kristen
Johnston.
Dalle risate anni ’80 alla «sit-com nera»: Welcome to Twin Peaks
Per gli autori di commedie televisive a sfondo familiare, il clima
degli anni ’80 rappresenta l’ideale per proseguire lungo strade collaudate e poco rischiose, con poche eccezioni intelligenti come Cin Cin (270
episodi) con Ted Danson e Shelley Long, Casa Keaton (Family Ties, 1982;
170
AI CONFINI DELLA REALTÀ
165 episodi) con Michael J. Fox e I Robinson (The Cosby Show, 1984; 197
episodi) con Bill Cosby.
In particolare, i principali motivi di interesse di Casa Keaton – ideato
dall’ex hippie Gary David Goldberg – risiedono nel modo in cui il conflitto genitori/figli diventa esplicitamente politico oltre che generazionale: con i primi, ex sessantottini e figli dei fiori, democratici e di idee
progressiste; e i secondi, perfetti esemplari dell’era reaganiana, arrivisti,
cinici, di posizioni repubblicane e conservatrici, nonché aspiranti capitalisti (in tal senso, appare riuscitissimo il personaggio di Alex, interpretato da Fox). Insomma, gli Stati Uniti sono cambiati per sempre: una
mutazione antropologica che non concede più tempo e spazio agli ideali degli anni ’60, in una società sempre più protesa verso il successo
materiale. L’evoluzione perfetta di Casa Keaton è, nel 1996, l’esilarante
Spin City (id.), sit-com che ha proprio la politica come argomento centrale, dato che si svolge all’interno del Municipio di New York: il merito del progetto è ancora del duo formato da Gary David Goldberg
(ideatore assieme a Bill Lawrence) e Michael J. Fox, interprete di un personaggio che è come una ripresa di Alex di Casa Keaton, cresciuto e reso
ancora più cinico dalla vita.
L’arrivo degli anni ’90 segna una piccola rivoluzione per quel che
riguarda i serial di genere familiare, non necessariamente comici. La
decade, infatti, è aperta da una «gemma oscura» che porta sotto l’obiettivo «l’altra faccia» della famiglia a stelle e strisce, il suo lato oscuro e terribile. Per effettuare questo tuffo nell’Incubo Americano, basta spostarsi
da Columbus, Ohio, dove vive la famiglia Keaton, fino a una piccola e
tranquilla cittadina (immaginaria) quasi al confine col Canada: Twin
Peaks. Qui il regista David Lynch e il produttore Mark Frost ambientano un progetto televisivo per molti versi rivoluzionario rispetto alla tradizione della serialità catodica statunitense: I segreti di Twin Peaks, in
onda sulla ABC dall’aprile 1990 e considerato all’epoca come «il primo
grande esempio di televisione “d’autore”» 10.
Il cartello di benvenuto nella placida cittadina recita un beneaugurante «Welcome to Twin Peaks», lungo una strada statale alberata che
costeggia pescosi laghi di montagna. Siamo a poco più di cinque miglia
dal confine canadese e la piccola Twin Peaks sembra un autentico paradiso, orgoglioso delle sue antiche tradizioni e di una prosperità economica nata e sviluppatasi sul commercio del legname; una realtà, insomma, fatta di concretezza del lavoro materiale quotidiano e di legami
familiari decisamente solidi, di torte di mele e feste scolastiche al chiaro
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
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di luna. Sembra proprio di trovarsi lontano dalle nevrosi degli anni ’90,
catapultati come d’incanto – con lo stesso effetto straniante subìto dal
Marty McFly protagonista di Ritorno al futuro (Back to the Future, 1985, di
Robert Zemeckis) – in un classico contesto suburbano degli anni ’50. Ma
tutto ciò non è altro che una mera facciata.
Con I segreti di Twin Peaks, infatti, David Lynch smaschera definitivamente – perché, si badi bene, lo fa in televisione – le ipocrisie del
«Sogno americano», che ha prosperato per decenni proprio sull’immaginario derivante dalle sit-com televisive come Lucy ed io. Lo fa manipolando e mixando sapientemente gli stilemi di generi che rimandano
alla «Golden Age» della TV statunitense, come la soap e il poliziesco,
rovesciando del tutto i concetti cardine delle sit-com tradizionali (il riso
in pianto, la gioia in dolore…) e rifacendosi per diversi altri elementi a
classici del grande schermo come Passaggio a Nord-Ovest (Northwest
Passage, 1940, di King Vidor) e, soprattutto, I peccatori di Peyton (Peyton
Place, 1957, di Mark Robson), richiamato fin dal titolo. «Un pesante
marchio di Lynch è la predilezione per gli anni ’50, a cui tutti i suoi film
in qualche modo rimandano. Non a caso, è il periodo in cui il regista
stesso usciva dall’infanzia. […] In I segreti di Twin Peaks la galleria dei
personaggi comprende vari modelli – dal ribelle solitario a quelli riuniti in gang, dalla capricciosa figlia di papà agli amanti clandestini, dagli
avidi uomini d’affari ai poliziotti integerrimi – fortemente radicati nell’immaginario collettivo degli anni ’50. Il modo in cui Lynch rievoca
questo periodo merita una riflessione: dando sfogo agli impulsi sotterranei, repressi, ipocritamente negati dell’America di allora, permette
anche ai suoi valori autentici – il suo spirito d’avventura, il suo ingenuo
pragmatismo, il non arrendersi – di risultare senza apparenza di inganno» 11. Ma qui, comunque, ciò che l’autore vuole mostrare sui teleschermi è soprattutto il lato oscuro della famiglia yankee, quello meno confessabile, con tutte le perversioni e violenze (fisiche e psicologiche)
tenute sempre serrate sotto chiave nei prodotti seriali del passato. E
dunque, a innervare il tessuto sociale di Twin Peaks – come si scopre
con l’evolversi degli episodi – ci sono forti conflitti generazionali, persino incestuosi all’interno delle varie famiglie; ammirate reginette di
bellezza del liceo locale che, in realtà, si rivelano ninfomani e cocainomani; storie d’amore infarcite di tradimenti, anche multipli; rispettabili
uomini d’affari che nascondono trame inconfessabili; psicoanalisti drogati e insospettabili avvocati schizofrenici, con i nervi distrutti e persino posseduti da entità maligne.
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
La chiave di ingresso per entrare in questo mondo oscuro e dalla
doppia morale è rappresentata dal ritrovamento del cadavere di Laura
Palmer (Sheryl Lee), la bionda e apparentemente irreprensibile reginetta del liceo cittadino, il cui corpo nudo emerge all’improvviso dalle
acque del lago. L’avvenimento luttuoso dà il via a una serie di vicende
destinate a sgretolare, letteralmente, la «placida» Twin Peaks, passata al
setaccio nel corso delle sue indagini – con fare quasi da entomologo – dal
giovane agente FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan).
A uno sguardo superficiale, I segreti di Twin Peaks può apparire, dunque, come un serial poliziesco, anche se piuttosto anomalo. In realtà, ciò
che interessa davvero a Lynch non è la risoluzione del mistero in cui ha
calato l’attonito spettatore, bensì «l’annegamento» del suo pubblico in
un clima, un’atmosfera di malsana inquietudine, da cui sembra non
esserci via di scampo. «“Chi ha ucciso Laura Palmer?” non è tanto il quiz
da risolvere, quanto la formula iniziatica che permette l’accesso a un
mondo di mistero. Il “piacere”, il motivo di interesse, si sposta dall’attesa della soluzione alla moltiplicazione delle domande, dall’estinguersi
dei segreti al loro allargarsi verso sempre più numerosi aspetti della vita
dei personaggi. Saperne di più, insomma, significa rendersi conto che
anche quanto appare normale cela il mistero» 12. E il riferimento alle sitcom degli anni ’50 – con la loro «realtà normale», edulcorata e semplificata – diventa, a questo punto, quasi obbligatorio e fortemente eversivo.
D’altra parte, il rovesciamento perseguito da Lynch diventa ancora
più evidente se si pensa all’uso ossessivo che egli fa di alcuni elementi
tipici del suo modo di narrare, come, per esempio, le lacrime: come, infatti, nelle sit-com classiche il sorriso – a volte anche un po’ forzato – è centrale e onnipresente; così, all’opposto, in I segreti di Twin Peaks si piange
tanto e l’identità stessa dei vari personaggi è definita proprio attraverso
il dolore. «Raramente, o forse mai, si sono viste versare tante lacrime (cinque scene con uomini che piangono nella prima mezz’ora sono una specie di record): una situazione melodrammatica tipica della soap opera
viene proposta qui con tanta intensità da risultare quasi insostenibile.
Ancora una volta, siamo al limite di quella che potremmo chiamare “pornografia del dolore”» 13. E ancora, mentre la morte è addirittura bandita
dalle situation comedy (ed è mostrata rigorosamente fuori campo visivo
nelle soap), qui funge da punto di partenza e «motore» stesso dell’intera
vicenda (Laura Palmer è già stata uccisa, all’inizio), ne è l’antefatto, il presupposto che muove tutti i personaggi. Anche i conflitti generazionali,
sempre ben occultati nelle sit-com degli anni ’50 14, sono morbosamente
FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO)
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portati in scena da Lynch, fino all’eccesso dell’incesto, come ben esemplificano perlomeno un paio di sequenze: nella prima, Leland Palmer
(Ray Wise) si getta sulla bara della figlia Laura mentre sta per essere calata sottoterra, facendo spezzare il meccanismo della carrucola e costringendo la cassa a sussultare su e giù sotto il proprio peso, come durante
un atto sessuale; nel secondo caso, poi, la sensuale Audrey Horne
(Sherilyn Fenn) decide di andare a lavorare nel bordello di cui è cliente
anche suo padre, il miliardario Benjamin (Richard Beymer), che nella
seconda serie non potrà fare a meno d’incontrarla.
E anche dal punto di vista strutturale, I segreti di Twin Peaks propone non poche innovazioni rispetto al passato. La dimensione temporale della narrazione, innanzitutto, è essa stessa allucinogena e allucinata,
poiché l’eterno presente della serialità catodica è costantemente sabotato con reiterati cortocircuiti tra passato e futuro che vi fanno irruzione,
come flash quasi subliminali, mutandolo di segno (e di senso). La musica «eccentrica» di Angelo Badalamenti «agisce» spesso per contrasto
rispetto alle immagini (si pensi all’importante sequenza dell’episodio
pilota, ambientata nel Roadhouse, con Julee Cruise che canta un brano
romantico e struggente mentre, sullo sfondo, è in atto una violenta scazzottata). L’ipnotica lentezza con cui Lynch gira, poi, contravviene qualunque regola del prime time televisivo (la fascia oraria in cui va in
onda Twin Peaks), tutto improntato solitamente a ritmi concitati e serrati, per paura di annoiare e, quindi, far perdere potenziali clienti agli
inserzionisti dei vari programmi. E proprio lo stacco per la pubblicità è
spesso previsto – altra piccola, grande «rivoluzione» – su immagini programmaticamente prive di tensione drammatica e anzi fini a se stesse (il
contrario, insomma, del cliffhanger).
Altro elemento peculiare di I segreti di Twin Peaks – e che si rivelerà
seminale, per i serial televisivi degli anni successivi – è, poi, costituito
dall’irruzione di «schegge» impazzite di fantastico nel tessuto realistico
della quotidianità (basti pensare, tra i tanti possibili esempi, ai soli personaggi di Killer Bob e dell’Uomo-da-un-altro-spazio). Così, durante
un suo bel libro-intervista, Chris Rodley fa notare allo stesso David
Lynch come «da Twin Peaks in poi si è verificato un evidente incremento di programmi concentrati sul paranormale, gli UFO e altre stranezze:
Wild Palms, American Gothic, X-Files. A quanto pare Twin Peaks ha inaugurato un filone. […] Determinati argomenti o determinate storie non
figuravano regolarmente nella programmazione televisiva, né erano
popolari come lo sono oggi. Col senno di poi, potremmo affermare che
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Twin Peaks ha contribuito a creare una certa bramosia per questo genere di materiale» 15. In particolare, come visto nelle pagine dedicate a XFiles, sembra abbastanza stretto il legame con quest’ultima serie, come
dimostrano le atmosfere e l’ambientazione dell’episodio pilota del telefilm ideato da Chris Carter (che, tra l’altro, vede uno dei due protagonisti, David Duchovny, impegnato in una comparsata «en travesti» proprio all’interno di I segreti di Twin Peaks). Insomma, pescando nel vastissimo territorio dell’immaginario compreso tra Stephen King e Peyton
Place, David Lynch porta, per la prima volta all’interno dei tinelli domestici, «un incrocio multidirezionale tra testi diversissimi e generi disparati, usando come unico collante il fanta-horror. E usandolo, si badi
bene, con una durezza di linguaggio così efficace che, pur non frequentando per ovvi motivi lo “splatter” (non ci si dimentichi mai della specifica natura del pubblico televisivo), più di un passaggio risulta particolarmente disturbante» 16.
E proprio «disturbante» può essere l’aggettivo che meglio definisce
un altro telefilm di poco successivo rispetto a I segreti di Twin Peaks e a
questo direttamente ispirato: La famiglia Brock (Picket Fences, 1992), ideato e prodotto da David E. Kelley e andato in onda per 88 episodi. La cittadina fittizia di Rome nel Wisconsin fa da cornice alle vicende – prive
di elementi fantastici, però, a differenza della serie di David Lynch – di
personaggi torbidi, che nascondono scandali e segreti dietro la facciata
di un’apparente tranquillità tipicamente provinciale. Protagonista dello
show è la famiglia dello sceriffo locale, Jimmy Brock (Tom Skerritt), con
la moglie Jill (Kathy Baker) e i figli Kimberly (Holly Marie Combs),
Matthew (Justin Shenkarow) e Zachary (Adam Wylie). Tra i temi affrontati nel corso dei vari episodi, spiccano argomenti «forti» come la pedofilia, il nazismo, l’omosessualità, la religione e, addirittura, il parricidio;
con «infiltrazioni» provenienti da generi differenti come il poliziesco, il
dramma socio-politico, la sit-com satirica. Non basta più, dunque, un
unico registro narrativo per dar conto delle inedite complessità di un
tessuto sociale e familiare che, finalmente, anche la televisione cerca di
mostrare con il suo vero volto e non, come in passato, con quello che si
vorrebbe fosse reale.
Ancora famiglie problematiche di provincia, ma stavolta di estrazione assolutamente diversa, sono quelle protagoniste della serie «di
qualità» con la quale – alla fine degli anni ’90 – ha conquistato la notorietà lo sceneggiatore-produttore italoamericano David Chase (vero
nome David DeCesare): I Soprano (The Sopranos, 1999), prodotta e man-
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data in onda dalla HBO con indici d’ascolto impensabili per una televisione via cavo a pagamento (una media di undici milioni di telespettatori). Il telefilm ideato da Chase è ambientato in un New Jersey che mai
prima era stato restituito per immagini con una tale efficacia (forse, soltanto attraverso le canzoni di Bruce Springsteen): in questo contesto di
quotidianità quasi monotona s’intrecciano le esistenze dei vari personaggi. Con un’avvertenza: sono tutti italoamericani e la maggior parte
di loro appartiene alla mafia.
Il protagonista assoluto, interpretato da un bravissimo James
Gandolfini, è Tony Soprano, boss della zona che si esercita a fare l’essere umano e che cerca di barcamenarsi tra i problemi delle sue due «famiglie», quella vera – con la moglie e i due figli, i litigi e le piccole e grandi ipocrisie di tutti i giorni – e l’altra, mafiosa. Nell’episodio pilota, Tony
è costretto addirittura a rivolgersi a una psicanalista, l’affascinante dottoressa Jennifer Melfi (Lorraine Bracco), per cercare di porre rimedio a
una serie di attacchi d’ansia sempre più frequenti. Se lo spunto di partenza è simile a quello del film Terapia e pallottole (Analyze This, 1999) di
Harold Ramis, gli intenti di Chase sono altri, ben oltre le fortissime polemiche che continuano ad accompagnare la messa in onda della serie (gli
italoamericani si dicono offesi per come sono ritratti; le associazioni dei
genitori protestano per la troppa violenza, le scene osé e le parolacce).
«Questa è – spiega l’autore – una storia sull’America. Chiunque la segue
con un briciolo d’intelligenza lo capisce subito. È una storia che riguarda tutti. Chi si lamenta è un fanatico dell’etnia» 17.
E, nel descrivere lo show, tocca i tasti giusti anche Stephen Holden,
nell’introduzione a una monografia curata dalla redazione del «New
York Times»: «I Soprano, più di qualsiasi programma televisivo americano, ha il colore e il sapore della vita vera, come la si vive negli Stati
Uniti, nel mondo sovraffollato di Internet, dei centri commerciali, della
musica rap e delle speculazioni in borsa. Basta guardarne un episodio
per ritrovarsi con la sensazione nauseante di avere ingurgitato un’abbondante porzione di realtà, con la sua surreale commistione di ricchezza e brutalità. Tony, questo boss mafioso del New Jersey, non è un
re esotico e ferocissimo recluso nella propria inaccessibile fortezza di
pietra. È un signor Rossi tormentato, che ha superato la quarantina e
che, fatta eccezione per il suo lavoro, non è affatto diverso da noi» 18. È,
infatti, un uomo tranquillo, un borghese come tanti: ama la propria
famiglia, si preoccupa per le inquietudini dei figli adolescenti, porta
avanti col buon senso del ragioniere l’attività del suo strip-bar, cerca di
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
tener testa a un parentado piuttosto turbolento, mantiene segretamente
la sua amante in un appartamentino fuori città, vive di piccole e grandi
menzogne. Insomma, Tony è un personaggio normale e, a tratti, persino simpatico.
Lo scandalo di I Soprano, però, arriva proprio da qui: dalla capacità
che ha Chase di guardare dritto negli occhi il male, per descriverlo in
tutta la sua agghiacciante normalità, attraverso «un realismo comico
dalla grana sottile, caratterizzato da una complessità e un verismo che
non era mai stato visto prima in televisione» 19. Non deve meravigliare,
quindi, che Tony sia capace – nello stesso episodio – di accompagnare,
ansioso e amorevole, la figlia nel Maine per la scelta del futuro college
da frequentare e, non visto, di uccidere a sangue freddo un informatore dell’FBI incontrato per caso sulla propria strada (e le immagini
mostrano tutto, senza nessuna ellissi che suonerebbe fasulla e giustificatoria); oppure, di rincorrere un suo debitore e ridurlo quasi in fin di
vita a mani nude e poi, tornato a casa, immalinconirsi perché i figli forse
hanno scoperto che lui non si occupa davvero di riciclaggio dei rifiuti:
il termine «famiglia», insomma, per i Soprano ha un significato molto
particolare.
La serie, tra le altre cose, ha l’enorme merito di schierare uno straordinario gruppo di interpreti: accanto a Gandolfini e Lorraine Bracco,
infatti, Edie Falco ricopre il ruolo di Carmela, la moglie di Tony; Jamie
Lynn Sigler è la ribelle figlia Meadow; Robert Iler, suo fratello minore
Anthony Jr.; Dominic Chianese è zio Junior, il fratello del padre di Tony,
perennemente insoddisfatto della sua posizione nel clan; David Proval,
è il malvagio Richie Aprile, che finisce male per mano di Janice (Aida
Turturro), la sorella di Tony; e poi, Jerry Adler è Hesh Rabkin; Michael
Imperioli, Christopher Moltisanti, un nipote di Tony indeciso tra la carriera di mafioso e quella di sceneggiatore cinematografico (di film di
mafia, ovviamente); Vincent Pastore è lo scagnozzo «Big Pussy»
Bompensiero; «Little» Steven Van Zandt – sì, proprio il «mitico» chitarrista di Springsteen – è un altro amico di Soprano, il ristoratore Silvio
Dante; Tony Sirico, l’altro scagnozzo Paulie Walnuts. Su tutti, però, si
staglia quella grande attrice che è stata Nancy Marchand – purtroppo
scomparsa da poco, all’età di 72 anni –, la quale interpreta Livia
Soprano, l’indimenticabile mamma di Tony, che odia il figlio e cerca in
tutti i modi di farlo uccidere dal cognato Junior: è lei la vera «anima
nera» della famiglia Soprano, sempre acida e brontolona, permalosa,
suscettibile, pericolosissima; ha mitizzato il violento marito Johnny Boy
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soltanto dopo la sua morte, e non fa che rimpiangerlo. Chase ha scelto
il nome Livia ispirandosi a quello della madre di Cesare Augusto, sfrenata complottatrice di corte.
Mai come in I Soprano, la famiglia – con tutte le sue varie generazioni – sembra un’istituzione priva di qualsiasi ragion d’essere e che, ormai,
può sopravvivere soltanto se retta sulla menzogna. Oppure tra litigi continui, come accade nella premiatissima sit-com Innamorati pazzi (Mad
About You, 1992), interpretata da Helen Hunt e Paul Raiser nei panni dei
coniugi Jamie e Paul Buchman.
La definitiva dissoluzione della famiglia: «Friends»
Stati Uniti, anni ’90: la famiglia tradizionale, in pratica, non esiste
più. Il tessuto sociale sempre più disgregato ha la sua prima «vittima»
proprio nel nucleo che – nella percezione comune – ne rappresenterebbe il punto di partenza e il fine ultimo: quello familiare costituito da
padre, madre, figli, magari simpatici animaletti. Record di divorzi, figli
sempre prima fuori dalle mura domestiche per studiare oppure (provare a) lavorare, intere vite da single coerenti con la scelta di privilegiare
le carriere rispetto agli affetti, unioni omosessuali e «famiglie di fatto»
provocano una mutazione completa nella percezione stessa dell’istituzione che, dai tempi dei padri fondatori al secondo dopoguerra, si credeva inattaccabile.
Anticipato, per certi versi, dall’ottima serie di Marshall Herskovitz
e Edward Zwick Thirty Something (id., 1987), il programma televisivo
che meglio fotografa tale situazione è, naturalmente, una sit-com, genere «casalingo» per eccellenza: si tratta di Friends (id., 1994), creato da
David Crane e Marta Kauffman, prodotto dalla Warner Bros. per la
NBC, che lo trasmette a partire dal 9 settembre 1994. È fin dall’inizio un
grande successo di critica e, soprattutto, di pubblico, a dimostrazione di
quanto lo show sia ben inserito nel proprio tempo. Attualmente, addirittura, l’audience media per ogni episodio si aggira sui 25 milioni di
spettatori e fa entrare Friends regolarmente nella «Top Five» dei programmi più visti degli Stati Uniti.
Al centro del telefilm c’è, appunto, una famiglia allargata in perfetto
stile anni ’90. La compongono i sei giovani protagonisti: la cameriera
bionda Rachel Karen Green (interpretata da Jennifer Aniston), il nevrotico paleontologo divorziato Ross Geller (David Schwimmer), la sua
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maniacale sorella cuoca (nonché coinquilina di Rachel) Monica Velula
Geller (Courteney Cox), la svampita e bizzarra cantautrice «new age»
Phoebe Buffay (Lisa Kudrow), il simpatico Chandler Bing (Matthew
Perry) con problemi nei confronti dell’altro sesso e il suo belloccio coinquilino aspirante attore Joey Tribbiani (Matt LeBlanc). I ragazzi, trentenni, vivono a New York, nella zona del Village, dove si trovano, l’uno di
fronte all’altro, l’appartamento di Rachel e Monica e quello di Joey e
Chandler, ma anche il ritrovo abituale del gruppo: il Central Perk, il locale dove si esibisce Phoebe e il cui stesso nome è fonte di divertenti giochi di parole.
Friends ridà nuova linfa al genere sit-com e ne detta le regole per
l’immediato futuro, nell’unico modo ormai possibile: giocando col pluridecennale passato della commedia televisiva, con i suoi cliché e «tipi»
ormai entrati nella quotidianità degli spettatori. «Amori, amicizie, lavoro, rapporti con i genitori, omosessualità vengono presentati a un pubblico smaliziato con la tecnica del sottotesto esplicito, cioè mettendo in
evidenza i meccanismi e giocando con i generi frequentati» 20. È così che
le tematiche classiche della sit-com, quella della famiglia in primis, vengono rielaborate all’insegna della contemporaneità. Quindi, diventa
normale lo spostamento di fuoco, evidentissimo fin da un titolo che
«testimonia l’affermarsi della tendenza di mettere in primo piano le
famiglie clan, gruppi di amici solidali che si sostengono e si consigliano
nei momenti di bisogno, dividendo gioie e problemi» 21.
D’altra parte, il processo è chiarissimo: la famiglia-tipo americana
degli anni ’50 – i Nelson, più che i Ricardo – inizia a scricchiolare sinistramente vent’anni dopo, quando Happy Days la descrive con la sensibilità settantesca e, per esempio, fa entrare nel salotto buono il classico
teppista con tanto di giubbotto di pelle nera (anche se Fonzie è un bullo
dal cuore d’oro); nel decennio ’90, infine, il gruppo di amici – che già
nella serie di Garry Marshall diventava, spesso, la causa scatenante di
piccole frizioni tra i Cunningham – si sostituisce completamente al
nucleo familiare tradizionale: la ribelle Joanie – più che suo fratello
Richie – è cresciuta, ha abbandonato il giovane marito Chachi e lasciato Milwaukee per New York, dove cerca di arrangiarsi come può, sia in
campo lavorativo che in quello affettivo; la famiglia è lontana e, in caso
di bisogno, può contare soltanto sui propri fedeli amici. Il carattere di
sequel generazionale di Happy Days, d’altra parte, Friends lo dichiara fin
dal primo episodio, «Matrimonio mancato» («The One Where Monica
Gets a New Roommate»), dove Rachel – poco dopo essere fuggita dal-
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l’altare (ancora in abito bianco) ed essersi rifugiata in casa di Monica –
s’immalinconisce guardando l’ultima puntata del telefilm di vent’anni
prima, cioè proprio quella in cui Joanie e Chachi si sposano. I tempi
sono cambiati, dunque: mentre prima si convolava a nozze felici, adesso è il momento di ridefinire amore e amicizia su basi completamente
differenti.
La post-modernità di Friends, in ogni caso, si evince anche da altri
particolari: dai titoli di ciascun episodio, per esempio, che iniziano sempre con «The One Where…» («Quello dove…») oppure «The One
With…» («Quello con…»), proprio per giocare con la situazione-tipo del
fan che, quando ricorda un episodio della sua serie preferita, non lo fa
mai attraverso il titolo ma dall’avvenimento contenuto in quel segmento (nel caso di Happy Days, un buon esempio potrebbe essere «Quello
con la sfida tra Mork e Fonzie»); oppure, dalle tante comparsate di notissimi attori hollywoodiani, spesso nei panni di se stessi (tra i tanti, basti
citare Julia Roberts, Robin Williams, Isabella Rossellini). Ma anche la
celeberrima sigla I’ll Be There for You cantata dai Rembrandts, oltre che
come classica canzone d’amore può essere letta pure come invito rivolto
ai telespettatori più o meno fedeli, per chieder loro di sintonizzarsi sullo
show anche la settimana successiva. I versi, infatti, tradotti in italiano,
recitano: «Sarò là per te, come lo sono stato prima; sarò là per te, perché
anche tu sei là per me»; quasi un aforisma teorico sul senso ultimo della
serialità.
Insomma, per quanto riguarda i telefilm d’ambientazione e argomento familiare – dal punto di vista linguistico e del reciproco gioco di
specchi con la società statunitense – Friends chiude il cerchio e suggerisce nuove direzioni.
Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, Giunti, Firenze 1992, pp. 147-148.
Bruno Cartosio, Anni inquieti, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 222.
3
Ivi, pp. 227-228.
4
Ivi, pp. 233-234.
5
Si tratta di una novità assoluta per la TV statunitense. Per attutirne l’effetto
rivoluzionario, però, la CBS non accetta che si utilizzi il termine «pregnant», di
uso comune, sostituito nei dialoghi dell’episodio da un più neutro «expectant». Nel titolo, poi, la scelta cade su «enceinte», parola francese insolita e,
quindi, incomprensibile per la maggior parte dei telespettatori.
6
Renato Genovese, Quella pazza famiglia Addams, in Graziano Frediani (a cura
di), Almanacco della paura 1998, Sergio Bonelli Editore, Milano 1998, p. 160.
1
2
180
Ivi, pp. 164-166.
Giorgio Cremonini, All in the Family, Thema, Bologna 1988, p. 47.
9
Ivi, p. 58.
10
Definizione discutibile, però, se si pensa a tanti telefilm del passato, personalissimi come – per citarne soltanto due – Alfred Hitchcock Presenta (Alfred
Hitchcock Presents, 1955-1962) oppure Ai confini della realtà.
11
Alessandro Camon, David Lynch e I segreti di Twin Peaks; supplemento a
«Ciak», n. 1, 1991, p. 61.
12
Ivi, pp. 51-52.
13
Ivi, p. 53.
14
In modo persino stridente, rispetto a un contesto sociale attraversato dai fermenti – ben incarnati pure dalla prima ondata del rock ’n roll – destinati a concretizzarsi nella seconda metà degli anni ’60.
15
Chris Rodley, Lynch secondo Lynch, Baldini&Castoldi, Milano 1998, p. 256.
16
Danilo Arona, Nuova guida al Fantacinema, PuntoZero, Bologna 1997, p. 56.
17
Cit. in Silvia Bizio, I Soprano, mafia per fiction, «la Repubblica», martedì 22
maggio 2000, p. 45.
18
Stephen Holden, introduzione a: AA. VV., I Soprano. Dietro le quinte del serial
culto, Sperling & Kupfer, Milano 2001, p. XI.
19
Ivi, p. IX.
20
Andrea Bordoni, Matteo Marino, Tutto quello che avreste voluto sapere su…
Friends, Lindau, Torino 2000, p. 9.
21
Ivi.
7
8
Avventure nel «possibile»
Il «Selvaggio West» televisivo degli anni ’50 e ’60
Quello di «avventura» è un concetto che – soprattutto quando si parla
di fiction seriale per il piccolo schermo – va ben oltre l’indicazione di un
singolo genere narrativo, per «spalmarsi», in un modo o nell’altro, sulla
quasi totalità della produzione di telefilm.
Detto nei precedenti capitoli, però, di quelle avventure che hanno come
ambiente privilegiato lo spazio profondo (Star Trek), cupi scenari urbani
insidiati da invasioni aliene o serial killer senza volto (X-Files e Millennium)
e per protagonisti fumettistici superuomini in calzamaglia (i supereroi)
oppure agguerrite adolescenti che si confrontano anzitutto con se stesse
(Buffy), è il momento di fare nuovamente un passo indietro e – per meglio
cogliere gli elementi costitutivi del telefilm avventuroso – tornare nuovamente ai cruciali anni ’50 e alla forma archetipica del genere negli Stati
Uniti: quella ambientata tra le sterminate praterie del «Selvaggio West»,
spesso «contaminate» a loro volta da inattesi «germi» fantastici.
All’inizio del decennio ’50 il genere cinematografico americano per
eccellenza attraversa una fase di mutazione profonda, aprendosi a rielaborazioni critiche «d’autore» e a dolenti riletture crepuscolari.
Tuttavia, nella scacchiera dei generi classici, sembra ancora inattaccabile e, anzi, in un breve lasso di tempo, propone fin troppi capolavori di
registi come – per limitarsi a due soli nomi, tra i tanti possibili – John
Ford e Anthony Mann. Il successo del western, inoltre, è ben testimoniato dagli show radiofonici e dalle tempestive trasposizioni a fumetti
di cui godono molti film e i primi telefilm: tra gli altri, la Dell Comics
pubblica i comic books di «Lone Ranger», «Maverick», «Bat Masterson»
182
AI CONFINI DELLA REALTÀ
e «Rawhide»; il potente gruppo editoriale Fawcett, il popolarissimo
«Gunsmoke».
Molti titoli di questi albi riprendono quelli delle nuove serie televisive che, derivando per qualità estetiche e modi di produzione direttamente dai western cinematografici prodotti dai «B-Departments» degli
studios hollywoodiani per tutti gli anni ’30 e ’40, adattano al formato del
piccolo schermo situazioni e personaggi già estremamente familiari allo
spettatore medio. Ma l’ancor più breve durata di ogni episodio, il budget
spesso irrisorio e i tempi di produzione velocissimi diventano elementi
decisivi per la forma stessa dei primi serial western della televisione americana, caratterizzati, perciò, da un’estrema semplificazione dei classici
topoi del genere – il duello, l’assedio, il ritorno dell’eroe, l’assalto degli
indiani, la rissa nel saloon, il momento sentimentale, la «spalla» comica
del protagonista – e da ambientazioni ridotte all’essenziale, quasi «scarnificate» e private di ogni possibile orpello. E, se è vero che il genere
western «può essere diviso in due grandi categorie narrative: quella che
racconta un itinerario spazio-temporale, e quella che concentra la propria
fabula in un luogo fisico da costruire o da difendere» 1, è indubbio che la
televisione privilegi in maniera chiarissima la seconda tipologia.
Anche in TV, comunque, i western risultano ben presto tra i programmi più seguiti, soprattutto nella seconda parte degli anni ’50; la prima,
infatti, è dominata da serial polizieschi come, per esempio, il Dragnet di
Jack Webb. Il passaggio di testimone tra i due generi può essere giustificato dai mutamenti nella demografia del pubblico. «I film western e
gangster – spiega, infatti, Colin McArthur – hanno un rapporto particolare con la società americana. Entrambi affrontano momenti critici della storia americana. Si potrebbe dire che essi rappresentano l’America che parla
con se stessa: nel caso dei western, del suo passato agrario e nel caso dei
film gangster del suo presente tecnologico urbano» 2. Da questo punto di
vista, dunque, appare persino ovvio che i polizieschi dominino la programmazione televisiva quando per i network è ancora vantaggioso
rivolgersi esclusivamente al pubblico delle grandi città 3. La situazione
muta verso la metà del decennio, quando la televisione riesce ad arrivare
nelle sterminate zone agricole interne e diventa «un’esperienza culturale
autenticamente nazionale» 4, con i programmi registrati che sostituiscono
quelli in diretta e i western che superano i polizieschi nel gradimento di
un pubblico molto più vasto e diversificato di quello di qualche anno
prima. Non deve meravigliare, dunque, se nella prima metà del decennio,
accanto a Bonanza (id., 1952), soltanto un altro telefilm western riesce ad
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
183
avere un certo impatto sui telespettatori. Il personaggio, però, è già noto
per essere stato protagonista di un precedente serial cinematografico,
proiettato nelle sale tra il 1935 e il 1948: dall’anno successivo Hopalong
Cassidy (id., 1949) arriva anche in televisione, sulle frequenze della NBC.
Il carattere principale veste sempre di nero e cavalca un destriero bianco,
ha i capelli grigi ed è interpretato da William Boyd, anche produttore
dello show; nelle sue avventure, è accompagnato dal fedele Red Connors
(Edgar Buchanan), lungo tutti i 52 capitoli della saga.
Il «boom» del western in televisione, però, si verifica dal 1955 in poi,
per merito di telefilm come Gunsmoke (id., 1955), Cheyenne (id., 1955), Le
leggendarie imprese di Wyatt Earp (The Life and Legend of Wyatt Earp, 1955),
Carovane verso il West (Wagon Train, 1957), Maverick (id., 1957), Ricercato
vivo o morto (Wanted - Dead or Alive, 1958), Rawhide (id., 1959). In particolare, Gunsmoke – creato da Charles Marquis Warren e prodotto, prima in
radio e poi in TV, da Norman MacDonnell – è il telefilm western dalla
vita più lunga in assoluto: va in onda, infatti, sempre nel prime time
della CBS, per ben 635 episodi (prima in bianco e nero, poi a colori),
attraverso tre diversi decenni. La trama ruota attorno a Matt Dillon
(interpretato da James Arness), sceriffo nella turbolenta Dodge City, in
Kansas. Per il ruolo, il produttore MacDonnell contatta inizialmente
John Wayne che, però, rifiuta e si limita a una breve introduzione che
precede l’episodio inaugurale: il notissimo attore spiega ai telespettatori, come se il suo fosse un «marchio di garanzia», che stanno per assistere a uno show differente da tutti gli altri, più «adulto» rispetto ai western
televisivi visti fino a quel momento. E, va detto, la serie mantiene le promesse, miscelando azione di buon livello a dramma puro, magari alleggerito da un pizzico d’ironia. D’altra parte, già la premessa appare molto
suggestiva, con il protagonista che inizia tutti gli episodi della prima stagione dall’interno del cimitero di Dodge City. Accanto a Dillon agiscono
regolarmente l’affascinante proprietaria del Long Branch Saloon, Kitty
Russell (Amanda Blake); l’aiutante dello sceriffo, lo sciancato Chester B.
Goode (Dennis Weaver); l’irascibile Doc Adams (Milburn Stone), il
medico della cittadina. Naturalmente, però, in una saga di tali dimensioni cronologiche, tanti altri personaggi positivi e negativi interagiscono, nei modi più diversi, con le esistenze dei protagonisti.
Sempre nello stesso 1955, poi, iniziano ad andare in onda Le leggendarie imprese di Wyatt Earp e Cheyenne, entrambi sulla ABC. E se il primo propone ancora una volta, per i suoi 226 episodi prodotti da Robert F. Sisk, le
avventure di un altro sceriffo – Wyatt Earp (Hugh O’Brian), il più famoso
184
AI CONFINI DELLA REALTÀ
del West, realmente esistito e al centro pure di innumerevoli versioni cinematografiche, prima e dopo –, è col secondo telefilm che il punto di vista
sulla «Frontiera» viene completamente rovesciato: in Cheyenne, infatti,
protagonista non è più il legale rappresentante della legge, bensì un vagabondo addirittura sangue misto. Interpretato da Clint Walker, il personaggio di Cheyenne Bodie vaga attraverso il West senza una meta apparente e imbattendosi continuamente in fuorilegge, guai di vario tipo, ma
anche tante belle donne. Stavolta, però, è lui ad andare incontro a sparatorie e scazzottate, mentre negli altri due show è sempre il crimine a invadere il territorio gestito dagli sceriffi, Dodge City oppure Tombstone. Il
successo del telefilm prodotto da William T. Orr – andato in onda per 107
puntate – fa nascere anche lo spin-off Bronco (1959), imperniato sul personaggio di Bronco Layne (Ty Hardin), già visto per un’intera stagione in
Cheyenne. La critica statunitense è concorde nell’affermare che proprio a
Gunsmoke, Wyatt Earp e Cheyenne si debba la nascita del western cosiddetto adulto, naturalmente per ciò che concerne la televisione.
Sulla loro scia ottengono un meritato successo anche altre serie di
poco successive. Carovane verso il West, per esempio, è il più visto nella
stagione televisiva 1961-1962 e va avanti per 284 episodi prodotti da
Howard Christie e ispirati al film di John Ford La carovana dei mormoni
(Wagon Master, 1950): le storie della serie sono ambientate lungo la linea
ferroviaria che nell’800 univa il Missouri alla California, e propongono
una continua marcia d’avvicinamento alla «terra promessa» contrappuntata soprattutto dai buoni sentimenti. Maverick, poi, vede James Garner
nel ruolo dell’ironico e chiacchierone giocatore d’azzardo Bret Maverick,
protagonista di un telefilm – prodotto da William L. Stewart, per 124
puntate – che prende amabilmente in giro i western catodici «troppo»
seri come Gunsmoke; accanto al protagonista, si distinguono altre figure di
truffatori, come il cugino inglese Beau (Roger Moore), il fratello Bart (Jack
Kelly), l’amica Samantha Crawford (Diane Brewster). Infine, Rawhide –
creato dallo specialista Charles Marquis Warren e durato 217 episodi –
mostra un nuovo viaggio «on the road», tra le praterie del deserto americano, dal Texas al Missouri: alla guida della carovana, stavolta ci sono
Gil Favor (Eric Fleming) e, soprattutto, il duro Rowdy Yates interpretato
da Clint Eastwood (la cui carriera decolla proprio con questa serie). Il
telefilm ha anche il grosso merito, durante gli anni ’60, di proporre agli
spettatori il primo attore di colore tra i protagonisti di un western televisivo: si tratta di Raymond St. Jacques, nel ruolo di Simon Blake.
Fin dal 1952, però, va in onda quello che è il serial western più longe-
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
185
vo della televisione statunitense, dopo Gunsmoke: il notissimo anche in
Italia Bonanza, ideato e prodotto da David Dortort, andato in onda sempre a colori per tutti i suoi 430 episodi. Il telefilm è ricordato anche per le
molte puntate dirette da Jacques Tourneur e, soprattutto, da un giovane
Robert Altman. Al centro delle trame c’è la vera e propria saga della famiglia Cartwright, ambientata nel 1860 a Virginia City e, soprattutto, nel
loro enorme Ponderosa Ranch. La serie presenta diverse novità: anzitutto, il fatto che i protagonisti non sono più pionieri diretti verso la nuova
frontiera, ma proprietari terrieri che hanno già fatto fortuna; poi, un
gruppo unitissimo (in questo caso, quello familiare) che annulla la solitudine dell’individuo di fronte alle asperità di un territorio spesso senza
pietà. Il capofamiglia è Ben, interpretato da Lorne Greene; con lui, ci sono
i tre figli Adam (Pernell Roberts), Hoss (Dan Blocker) e Little Joe (Michael
Landon), nati da tre donne diverse: le mogli morte di Ben che, quindi, è
ancora una volta vedovo. E, in una saga di stampo prevalentemente
maschile, alle figure femminili sono affidati soltanto ruoli di contorno e
sempre iper-tradizionali. Bonanza, però, propone numerosi altri personaggi secondari, tratteggiati in modi spesso gustosissimi e come apportatori di sorprendenti e inattese variazioni rispetto alla tipicità figurativa
del telefilm di genere western (che, peraltro, mostra comunque tutti i suoi
elementi caratterizzanti, dalle pistole al saloon, dagli indiani ai cowboy,
dalle praterie alle fattorie): se è vero, infatti, che a Virginia City e al
Ponderosa c’è spazio per classiche figure come lo sceriffo Roy Coffee
(Ray Teal) o lo sbandato Jamie Hunter (Mitch Vogel), già il cuoco Hop
Sing (Victor Sen Hung) propone una simpatica variante, al pari di altri
caratteri occasionali come, per esempio, un pugile venuto dall’Inghilterra
oppure un pistolero ammalato agli occhi.
E se la coralità di molte situazioni rende Bonanza piuttosto moderno,
gli autori – e, in questo, Altman ha certamente grande merito – iniziano
a confrontarsi coscientemente anche con il concetto di serialità insito nel
loro prodotto, lavorando in modo perfino sofisticato sulla struttura cronologica dei singoli episodi e su quella dell’intera serie. «Non esiste –
spiega Omar Calabrese – solo un semplice appuntamento settimanale
che si può perdere senza che nulla accada. Esiste anche un appuntamento vincolante, senza però che la storia perda significato anche per lo spettatore occasionale. […] La flessibilità di Bonanza è davvero archetipica: sa
creare addirittura diversi dislivelli temporali, come la storia sempre compiuta nel singolo episodio, la storia aperta della serie, e un modello intermedio consistente nella storia aperta per un numero finito di puntate, di
186
AI CONFINI DELLA REALTÀ
solito non più di tre. Il modello Bonanza è trasmigrato con vari perfezionamenti fino ai giorni nostri» 5. Il tempo dell’intera serie, d’altra parte, è
influenzato già dall’idea di partenza: quella di non proporre il viaggio
verso un obiettivo che lo spettatore possa percepire come fine ultimo
della storia, ma di inserire i personaggi in un contesto statico, destinato a
subire modificazioni impreviste che, a loro volta, apportano mutamenti
ai vari caratteri e, conseguentemente, alla fruizione spettatoriale.
Variazioni «per famiglie», ai confini della «Frontiera»
L’ambientazione del West caratterizza anche alcune celebri serie avventurose degli anni ’50, molto amate soprattutto dal pubblico più giovane.
Per esempio Rin Tin Tin (Adventures of Rin Tin Tin, 1954) e Furia (Fury,
poi The Brave Stallion, 1955). I due telefilm hanno in comune diversi elementi e rispondono a un unico modello: «quello fondato sulla presenza di
un ragazzo, protetto da un animale intelligente […] e da un facente-funzioni-di-padre molto eroico nonché un facente-funzioni-di-zio burbero ma
bonario. […] La struttura delle puntate è sempre analoga: ogni episodio è
finito in una storia, e la serie non è dotata di storia (non si sa, per esempio,
qual è l’origine di Rusty in Rin Tin Tin, né quale sarà il suo destino)» 6. La
differenza sostanziale risiede, invece, nell’ambientazione: il più classico
dei fortini del Settimo Cavalleggeri assediato dagli indiani nel primo caso,
un tranquillo ranch degli Stati Uniti interni di metà ’900 nel secondo. E se
il coraggiosissimo pastore tedesco Rin Tin Tin – il suo telefilm va avanti
per 164 episodi – agisce comunque in un contesto tipicamente western già
ben metabolizzato dagli spettatori, è interessante soffermarsi con maggiore calma sul telefilm con lo stallone nero, proprio perché le sue trame si
svolgono nella stessa epoca del pubblico che le segue da casa.
I 116 episodi di Furia vanno in onda sulla NBC dall’ottobre 1955 al settembre 1966. Gli sterminati e assolati spazi interni degli Stati Uniti sono
diversissimi rispetto a un secolo prima, anche se lo sono molto meno se
raffrontati con le grandi metropoli contemporanee: la «Frontiera» è stata
raggiunta da tempo e, ormai, ognuno ha il suo ranch, dove può continuare a vivere in contatto con una natura sempre meno selvaggia e più addomesticata. E pure il piccolo Joey, un orfanello piuttosto sveglio e vivace
adottato da una giovane coppia, vive in un bel ranch nel West del 1955.
Alla fattoria, il Broken Wheel Ranch, il ragazzino fa amicizia con Furia, un
bellissimo stallone nero che, superata l’iniziale diffidenza, diventa il suo
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
187
migliore «amico» e l’inseparabile compagno d’avventure, mettendo un
freno all’originario spirito ribelle. Il simpatico ma statico quadretto – formato dal cavallo e dal suo padroncino (il mini-attore Bobby Diamond),
insieme con il tutore Jim Newton (il Peter Graves destinato a diventare
famoso con la serie Missione impossibile, Mission: Impossible, 1966) e sua
moglie Harriett (Nan Leslie), che ha il compito di istruire Joey, più il fattore del ranch, Pete (William Fawcett) – è, di volta in volta, reso più movimentato da un cacciatore di frodo che incendia il vicino bosco, da una coppia di evasi che cerca rifugio durante la fuga, da un selvaggio stallone
bianco che provoca disastri tutt’intorno; sempre «fratture», insomma, che
– di fronte alle regolari «defaillance» degli umani adulti – vengono ricomposte dal coraggio del piccolo Joey e, soprattutto, dall’intervento risolutore del cavallo Furia, autentico «deus ex machina» che entra in gioco in
caso di pericolo, ingiustizie, incidenti e altre situazioni complicate: dove
non arriva la cultura, cioè l’uomo, ci pensa dunque la natura, cioè il cavallo, che, tra le altre cose, serve anche a fare da tramite tra il mondo del
ragazzo e quello degli adulti, in un periodo che vede le famiglie americane sempre più lacerate da conflitti generazionali di vario tipo (ancora sotterranei, ma destinati a esplodere nel corso degli anni ’60).
Gli intenti del telefilm – rivolto innanzitutto a un pubblico di adolescenti («pensati», comunque, davanti al teleschermo assieme ai loro genitori) – sono chiaramente formativi, come traspare da quello che è il messaggio centrale di tutta la serie: la campagna è l’ultimo rifugio dei valori
tradizionali che, invece, in città iniziano a mostrare i loro cedimenti. Così,
ogni episodio può essere considerato un modello di comportamento,
imperniato sulla solidarietà e il rispetto delle leggi e dell’autorità costituita. Sono indicative, a tale proposito, le soluzioni di ripresa di un episodio in cui Joey viene investito della responsabilità di aiuto ranger, per
dare una mano a prevenire gli incendi nel bosco. A un certo punto, il
capo dei ranger locali gli mostra le regole da rispettare, su cartelli disegnati e inquadrati in primo piano frontalmente, con le scritte che comunicano – sostanzialmente al pubblico a casa – precetti come: «Un bravo
cittadino deve saper rispettare la natura», «Non bisogna gettare rifiuti tra
gli alberi», «Un americano onesto non lascia fuochi accesi nel bosco» e
così via. Ma in realtà è sempre il cavallo Furia a garantire la concreta
messa in pratica dell’insegnamento. Merita una citazione conclusiva la
bislacca e travolgente canzoncina dei fratelli Guido e Maurizio De
Angelis, cantata da Mal come sigla della versione italiana del telefilm: si
deve anche a questo motivetto l’enorme successo di Furia in Italia.
188
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Altro telefilm ambientato in un West diversissimo dal solito – la
California del 1820, ancora sotto la sovranità della Spagna (è annessa agli
Stati Uniti soltanto nel 1848) – è La spada di Zorro (Zorro, 1957), dove il paesaggio, però, serve soltanto per ospitare le scorribande e le acrobazie del
protagonista. Proprio le molte sequenze d’azione, spesso in spazi aperti,
e i tanti inseguimenti a cavallo affidati ad abili cascatori professionisti,
testimoniano di un livello produttivo della serie superiore rispetto ad
altri prodotti del periodo. Trasmessa dalla ABC tra il 10 ottobre 1957 e il
2 aprile 1961 – per un totale di 82 episodi, tutti di 30 minuti tranne gli ultimi quattro, lunghi un’ora ciascuno – La spada di Zorro è prodotta con
molta convinzione dalla Disney e fortemente voluta da Walt Disney in
persona, che affida il ruolo del protagonista mascherato e del suo alter
ego, don Diego de la Vega, all’attore Guy Williams che, ancora oggi, è
mentalmente associato al personaggio di Zorro, grazie allo straordinario
successo dello show. Nei panni del buffo sergente Garcia è messo Henry
Calvin, mentre il muto servitore Bernardo, Don Alejandro (il padre dell’eroe) e Anna Maria Verdugo (la sua fidanzata) sono interpretati, rispettivamente, da Gene Sheldon, George J. Lewis e Jolene Brand.
Ma la versione Disney del personaggio deve fare i conti con la sua storia precedente: anzitutto con l’originale creato dallo scrittore Johnston
McCulley nel 1919, nel romanzo La maledizione di Capistrano (The Curse of
Capistrano), pubblicato a puntate sulla rivista «All-Story Weekly». Ne è
protagonista don Diego de la Vega, nobile spagnolo inviato dal padre
nella California meridionale per contrastare l’iniquo governatore della
regione; assunta l’identità segreta di uno spadaccino mascherato soprannominato «El Zorro» (che in spagnolo significa la Volpe), il giovane si
trova a condurre una duplice esistenza: «aristocratico timido e riservato in
privato, audace e coraggioso quando veste maschera e mantello per marchiare con la “Z” le vittime di duelli a senso unico» 7. Da questo punto di
vista è visivamente molto efficace, nel telefilm Disney, la scelta di far montare due differenti cavalli a Zorro/Diego: il nero Tornado, fedele compagno d’avventure; il bianco Phantom, quando indossa abiti civili.
Al romanzo di McCulley, comunque, si ispira dapprima il cinema, fin
da Il segno di Zorro (The Mark of Zorro, 1920) di Fred Niblo con Douglas
Fairbanks. Il film ha innumerevoli remake, tra cui il più celebre, nel 1940,
diretto da Rouben Mamoulian e interpretato da Tyrone Power. La fama
«multimediale» del personaggio, però, si consolida attraverso i tanti
serial in pellicola (ciascuno in 12 o 13 episodi) prodotti, negli anni ’30
e ’40, dalla Republic. «Zorro Rides Again uscì nelle sale il 3 dicembre 1937,
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
189
primo serial a episodi basato sul personaggio di Zorro. Ogni puntata di
un serial Republic durava 19 minuti, tranne il primo, di 30 minuti. Nel
serial John Carroll interpretava James Vega, pronipote dello Zorro originale, e l’ambientazione era molto distante dal pueblo di McCulley. Gli
sceneggiatori inserirono la Volpe in un western moderno, con treni,
autocarri, telefoni e aerei. Anche questo Zorro era abilissimo con la
pistola e la frusta, ma gli mancavano l’inconfondibile mantello e la
spada. Fedele alla regola, ogni episodio del serial terminava con un finale cliffhanger» 8. A Zorro Rides Again seguono altri sei titoli: Zorro’s Fighting
Legion (1939), Zorro’s Black Whip (1944), Son of Zorro (1947), La sfida di
Zorro (Ghost of Zorro, 1949), Don Daredevil Rides Again (1951) e Man with
the Steel Whip (1954). Ma, come detto, lo Zorro per eccellenza diventa,
poco dopo, quello interpretato in televisione da Guy Williams.
Gli episodi della prima stagione del telefilm Disney sono divisi in tre
cicli di 13 puntate ciascuno, in cui Zorro che deve vedersela, in ognuna
delle saghe, con lo stesso avversario: «Zorro vs. Captain Monastario»,
«Zorro vs. the Magistrado» e «Zorro vs. the Eagle». Dalla seconda stagione (cioè dal quarantesimo episodio), lo schema è meno rigido, con
episodi autoconclusivi e brevi sequenze unite dal medesimo argomento
(per esempio, «The Secret of El Zorro», «Zorro and the Mistery of Don
Cabrillo», «The Mountain Man»). La terza e conclusiva stagione è inserita, invece, all’interno del programma Walt Disney Presents e composta
da soli quattro episodi, però lunghi un’ora ciascuno. Williams incarna
alla perfezione le caratteristiche del personaggio, tratteggiandolo con
un’irresistibile, beffarda vena ironica che serve a umiliare il nemico piuttosto che, semplicemente, a sconfiggerlo. Ogni episodio – dopo innumerevoli peripezie, inseguimenti a cavallo, duelli in punta di fioretto – si
conclude, immancabilmente, con il segno di Zorro, la sua «zeta», a marcare anche in modo visivo e grafico la superiorità dell’eroe nei confronti degli antagonisti: spesso, il simbolo del giustiziere mascherato fa bella
mostra di sé sul voluminoso didietro del goffo sergente Garcia, vittima
predestinata, piuttosto che semplice avversario, dello Zorro più goliardico. E «la Volpe» difende i deboli e s’oppone ai prepotenti con coraggio
e destrezza, proponendosi come autentico «uomo della provvidenza» e
conquistando i ragazzi di un’intera Nazione; una Nazione che – dopo la
placida agiatezza dei «Silent Fifties» – si prepara all’elezione del presidente della «Nuova frontiera», quel John F. Kennedy che, col suo sorriso quasi sfacciato e il carisma indiscutibile, tanto ricorda proprio l’amato eroe-spadaccino impersonato in TV da Guy Williams.
190
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Con l’aria nuova degli anni ’60, tra l’altro, arriva sul piccolo schermo il
più ardito e originale tentativo di commistione mai tentato tra western e
fantastico: Quel selvaggio West (The Wild, Wild West, 1965), creato da
Michael Garrison e andato in onda per 104 episodi. Il telefilm propone un
pazzesco mix tra situazioni e suggestioni alla Jules Verne, parodia della
spy story alla James Bond, spruzzi di fantascienza Steampunk 9 ante litteram, ambientazioni tipicamente «Old West» e tanta, tanta ironia.
Protagonisti della storia, ambientata sul finire del XIX secolo, sono James
West (Robert Conrad) e Artemus Gordon (Ross Martin), due agenti segreti inviati direttamente dal presidente Ulysses S. Grant (James Gregory) nel
cuore del «Selvaggio Ovest». I due – West più uomo d’azione, Gordon
scienziato geniale – si muovono a bordo di un treno avveniristico e dotato d’impensabili marchingegni tecnologici; essi stessi, poi, girano sempre
equipaggiati con gadget come palle di biliardo che emettono gas soporifero, fibbie di cinte che contengono dispositivi ipnotici, una sorta di motocicletta denominata «Nitrocycle». Solitamente, devono vedersela con pazzoidi assortiti, folli scienziati in attesa di conquistare il mondo (e a loro
volta dotati di macchinari fantascientifici), persino con un trio di alieni
venusiani atterrati in piena prateria alla ricerca di benzina per il loro disco
volante: insomma, una fauna che nessuno avrebbe mai immaginato potesse popolare il West. Per l’eleganza inappuntabile dei due protagonisti, i
loro modi affettati e l’insensibilità nei confronti del fascino femminile –
nonostante le tante belle donne, spesso molto sexy, che incontrano durante le loro missioni – Quel selvaggio West è letto anche in chiave gay, come
la prima serie apertamente omosessuale della televisione americana (l’anno dopo, lo stesso destino tocca anche alla versione catodica di Batman e
Robin). Lo show ispira, nel 1999, un deludente kolossal cinematografico,
Wild Wild West, diretto da Barry Sonnenfeld.
La «British Invasion» e le sue tante spie pop
I Beatles e la musica pop, la moda colorata della «Swinging London»,
James Bond e i suoi tanti epigoni. La prima metà degli anni ’60 propone
al nuovo pubblico di riferimento dell’industria americana dell’entertainment, quello dei giovani 10, una serie di elementi di grande fascino provenienti dalla Gran Bretagna. Si tratta di una vera e propria «invasione
culturale» britannica degli Stati Uniti, con le sonorità beatlesiane e le
avventure spionistiche a fare da originali e irresistibili teste di ponte.
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
191
Già a metà degli anni ’50, però, un telefilm di produzione inglese
ottiene ottimi riscontri di pubblico negli Stati Uniti: si tratta di Robin
Hood (The Adventures of Robin Hood), in onda sulla CBS dal 26 settembre
1955 al 12 novembre 1960, per 143 episodi. Nel ruolo dell’arciere di
Sherwood c’è Richard Greene, con Archie Duncan come Little John e
Alexander Gauge nei panni di fra’ Tuck; Alan Wheatley interpreta lo sceriffo di Nottingham, mentre Lady Marian ha il volto di Bernadette
O’Farrell e poi di Patricia Driscoll; è addirittura Donald Pleasance a dare
vita al principe Giovanni. Nonostante chiari elementi di matrice britannica, il telefilm risente indubbiamente dei precedenti cinematografici
statunitensi e in particolare di quello con Errol Flynn. Robin è il classico
eroe senza macchia e senza paura, sempre pronto a intervenire in difesa
dell’amata Marian o per proteggere i bisognosi. Le riprese sono realizzate prevalentemente in studio, con buona ricostruzione dei castelli dei
vari personaggi (come la dimora dello sceriffo di Nottingham); gli esterni si limitano soprattutto a sequenze ambientate nel bosco di Sherwood,
mostrato raramente (soltanto durante qualche cavalcata) e spesso ricostruito in studio. In ogni caso, la formula «Made in Britain» che miscela
avventura, intrigo e sberleffo ironico verso i «cattivi» funziona e conquista pure il pubblico americano.
Ma, come detto, è con gli anni ’60 che i ragazzi americani iniziano a
essere sempre più attratti da tutto quello che profuma d’Inghilterra, grazie a James Bond e, soprattutto, ai Beatles. E non deve meravigliare il
ruolo centrale della musica pop, in tale processo, dato che, accanto a una
sempre maggiore integrazione tra industria cinematografica e televisiva,
è di questo periodo l’intreccio evidentissimo con quella discografica: nel
1965, la ABC affida a Dick Clark, già responsabile del «classico» American
Bandstand, una nuova trasmissione musicale intitolata Where the Action is,
interamente registrata sulle spiagge della California meridionale e
imperniata sulle esibizioni di pop band per teenagers. Nasce proprio in
questo modo, per esempio, il grande successo dei Monkees, band creata
per la serie televisiva omonima (I Monkees, The Monkees, 1966, prodotta
dalla Screen Gems della Columbia per la NBC) fortemente ispirata ai due
film inglesi dei Beatles diretti da Richard Lester: Tutti per uno (A Hard
Day’s Night, 1964) e Aiuto! (Help!, 1965). Il primo titolo è commissionato,
con estremo tempismo, dalla United Artists, prima ancora che i «Fab
Four» diventino famosi al di fuori dei confini patri. L’esplosione arriva
proprio nel 1964, con il primo tour americano e la storica esibizione al
programma televisivo The Ed Sullivan Show: Tutti per uno esce preceduto
192
AI CONFINI DELLA REALTÀ
dalla colonna sonora (che vende un milione e mezzo di copie nelle prime
due settimane) e, sulla scia della popolarità della band, riesce a incassare l’incredibile cifra di dieci milioni in un anno.
Due anni prima, però, sempre la United Artists aveva co-prodotto il
primo film di James Bond, Agente 007, licenza di uccidere (Dr. No, 1962), tratto dal romanzo spionistico di Ian Fleming e primo di una lunga serie che,
dato l’enorme successo, si ripropone con cadenza annuale: anche per questo tipo di progetto, sono ottimamente sfruttate tutte le suggestioni tipiche
della scena culturale inglese. Al pari della moda britannica e della musica
pop, dunque, il genere spionistico viene velocemente assimilato dal cinema e dalla televisione statunitensi. Nel 1961, un anno prima dell’uscita
nelle sale americane di Agente 007, licenza di uccidere, viene prodotta una
serie come Secret Agent, mentre, sulla scia di James Bond, Agente speciale
(The Avengers, 1961), Simon Templar (The Saint, 1962) e Il prigioniero (The
Prisoner, 1967) diventano i primi telefilm stranieri a essere trasmessi in
prima serata dai network statunitensi. «Due di queste serie vengono adattate per la TV americana. […] Inoltre, la CBS realizza un sequel della serie
The Saint intitolato Return of the Saint [1978; in Italia, Il ritorno di Simon
Templar, N.d.R.]. Accanto a queste serie televisive pullulano quelle spionistiche più disparate prodotte a Hollywood: da The Man from UNCLE
(1964-68) a I, Spy (1965-68) [in Italia, Le spie, N.d.R.], dalla parodia Get
Smart (1965-70) [in Italia, Get Smart - Un detective tutto da ridere, N.d.R.] alla
doppia parodia del film di spionaggio e del western Wild, Wild West (196569), a Mission: Impossible (1966-73). In sostanza, negli anni ’60, le mirabolanti imprese degli agenti segreti d’ambo i sessi sono sempre più oggetto
d’ironia. […] La “quotidianità” e le convenzioni comiche della televisione
statunitense contribuiscono allo sviluppo di questo genere.» 11
Agente speciale è la prima serie inglese a conquistare il prime time americano. Ne sono protagonisti Patrick Macnee, nei panni dell’agente John
Steed (in impeccabile divisa da lord inglese, con tanto di bombetta nera), e
la super-sexy Diana Rigg (che sostituisce Honor Blackman) come Emma
Peel, affascinante avventuriera, cintura nera di karate, perennemente
fasciata in tutine attillate e coloratissime. La coppia deve indagare su una
serie di casi a cavallo tra il fantastico e la detection pura; così si confronta,
di volta in volta, con strani uomini-falco, umanoidi, robot-replicanti, scienziati pazzi, cybernauti e psicopatici d’ogni tipo. Nel corso delle 160 puntate della serie, John Steed e le sue partner – dopo la Cathy Gale di Honor
Blackman e la Emma Peel di Diana Rigg, infatti, è affiancato dalla Tara
King interpretata da Linda Thorson – sono aiutati da «Mamma» (è l’atto-
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
193
re Patrick Newell), il loro misterioso superiore paralizzato alle gambe e che
adotta i luoghi più impensati come ufficio segreto. Agente speciale incarna
alla perfezione quello che, a posteriori, è considerato lo «spirito» degli
anni ’60, grazie all’estrema cura per i particolari (soprattutto per l’abbigliamento) e un’ironia quasi surrealista e molto, molto «british». Il film del
1998 con Ralph Fiennes e Uma Thurman, The Avengers - Agenti speciali (The
Avengers), riesce a restituire, purtroppo, solo l’aspetto esteriore della serie
ispiratrice, senza coglierne veramente l’essenza più profonda.
Il personaggio del Santo, protagonista del telefilm Simon Templar,
invece, è quello che più s’avvicina, come caratteristiche, al James Bond di
Ian Fleming, pur non essendo un agente segreto ma un impenitente
avventuriero. Non a caso, il suo interprete storico, Roger Moore, sostituisce Sean Connery proprio nei panni dell’Agente 007. La serie, nei suoi 118
episodi, ripropone il sofisticato ed elegante giramondo creato nel 1928 da
Leslie Charteris: una simpatica canaglia sempre pronta a schierarsi dalla
parte dei più deboli ma anche di belle fanciulle in pericolo. Ogni puntata, piena d’azione e ironia, è introdotta dallo stesso Templar/Moore che,
rivolgendosi allo spettatore, si sofferma su qualche particolare aspetto
della natura umana. Anche in questo caso, risulta piuttosto deludente la
versione cinematografica, con Val Kilmer nel ruolo del Santo, diretta di
recente da Philip Noyce: Il Santo (The Saint, 1997).
Gli aspetti inquietanti dei ’60, invece, sono al centro di un’altra serie
inglese, straordinaria e modernissima, di grande successo anche negli Stati
Uniti attraversati dai mutamenti del ’68: si tratta di Il prigioniero, prodotto e
interpretato da Patrick McGoohan per le sue 17 puntate. La trama, inquietante e misteriosa, racconta le vicissitudini di un agente governativo, catturato e trasportato su un’isola in cui tutti gli abitanti perdono il proprio nome
e vengono caratterizzati unicamente con un numero: lui diventa il Numero
Sei. Per non essere sottoposto a un trattamento che gli azzererà la memoria
(non prima di avergli sottratto utili informazioni), il protagonista tenta la
fuga in ogni episodio, ma viene fermato tutte le volte. Il punto di forza di Il
prigioniero è costituito dall’atmosfera di mistero inestricabile e di oppressione, a metà strada tra Kafka e Orwell, con un approccio non banale ai temi
della libertà e della coercizione, della perdita d’identità e del contrasto tra
ciò che si è davvero e la «maschera» che la società impone di indossare.
Durante la trasmissione della serie negli Stati Uniti, nelle stagioni 1968 e
1969, la CBS non manda in onda un episodio dichiaratamente anti-bellico,
nel quale il Numero Sei si rifiuta d’impugnare una pistola: la spiegazione
ufficiale per il «salto» della puntata è che parla di droghe leggere.
194
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Il successo degli ironici telefilm inglesi spionistici produce, immediatamente, la risposta dell’industria statunitense che mette in cantiere
diverse serie dello stesso genere. La giustamente celebre Le spie è rivoluzionaria per come affida a un attore nero, per la prima volta, un ruolo da
protagonista in una serie d’azione. L’interprete in questione è Bill Cosby,
nei panni di Alexander Scott, detto Scotty, un agente segreto americano
specializzato in missioni internazionali; al suo fianco recita Robert Culp,
nel ruolo dell’altra spia Kelly Robinson: i due girano il mondo sotto la
copertura delle due identità fittizie di un giocatore professionista di tennis (Robinson) e del suo allenatore (Scott). La caratteristica peculiare
della serie è data certamente dalle tante location che ospitano le avventure dei due personaggi: dal Giappone al Messico, dal Marocco a Hong
Kong fino all’Italia. Le spie va avanti, prodotto da Sheldon Leonard, per
82 episodi sempre premiati da un ottimo successo popolare.
Il più famoso tra tutti i telefilm americani di genere spionistico-avventuroso, però, è probabilmente Missione impossibile, ideato da Bruce Geller
e durato ben 171 puntate. L’autore frulla insieme abilmente «thriller, azione mozzafiato, colpi di scena a ripetizione, intrecci complessi e intriganti» 12, per dar vita a un cocktail dal ritmo scatenato e dall’elevata spettacolarità. Buona parte del successo della serie, tuttavia, lo si deve al cast
straordinario messo insieme dalla produzione: Peter Graves è Jim Phelps,
il capo della squadra speciale «IMF» («Impossible Mission Force»), colui
che riceve le missioni dal Governo (attraverso il leggendario «nastro ad
autodistruzione rapida») e che pianifica ogni missione fin nei minimi dettagli; Greg Morris è Barney Collier, il tecnico-inventore del gruppo, sempre pronto a risolvere le situazioni più disperate grazie ai suoi originalissimi marchingegni; Barbara Bain interpreta Cinnamon Carter, perfetta
per sedurre gli agenti nemici, grazie al suo fascino fuori dal comune;
Martin Landau è Rollin Hand, l’uomo dai mille volti, mago dei travestimenti che riesce a infiltrarsi ovunque; Peter Lupus, infine, ha il ruolo di
Willy Armitage, il «braccio armato» del team, pronto a trovare l’equipaggiamento necessario e a utilizzare la forza fisica quando occorre. Nella
prima stagione, poi, a capo della IMF c’è Steven Hill, nel personaggio di
Dan Briggs, sostituito da Graves dall’anno successivo. Lalo Schifrin è
autore del trascinante e notissimo motivo musicale che fa da sigla allo
show e che va in testa alle classifiche dei dischi più venduti in America
addirittura per 14 settimane: ancora oggi, Missione impossibile è identificato con le sonorità di Schifrin. E il telefilm rappresenta anche il raro caso
di prodotto televisivo «di culto» che riesce, in anni recenti, a godere di
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
195
una buona trasposizione cinematografica; in questo caso, poi, i film sono
addirittura due, interpretati da Tom Cruise e, per fortuna, entrambi riusciti: Mission: Impossible (id., 1996) di Brian De Palma e Mission: Impossible2 (id., 2000) di John Woo.
La parabola di un «avventuriero»: da «Supercar» a «Baywatch»
Se gli anni ’70 sono praticamente dominati dai telefilm di genere
poliziesco e dalle sit-com, con l’inizio degli ’80 i vertici dei network e i
produttori televisivi «indipendenti» promuovono un ritorno ad atmosfere più spensieratamente avventurose, magari spingendo sul pedale
della commistione tra moduli narrativi differenti.
Si spiegano così prodotti difficilmente classificabili all’interno di un
unico genere di riferimento, come può essere, per esempio, la divertente
«crime comedy» Magnum P.I. (id., 1980) ideata da Donald P. Bellisario e
Glen A. Larson e imperniata sulle avventure hawaiiane di Thomas
Magnum (Tom Selleck), un veterano del Vietnam che accetta di fare da
guardiano alla villa di un misteriosissimo e ricchisismo scrittore di gialli.
Oppure, un altro show emblematico del decennio, come Supercar (Knight
Rider). Il telefilm creato e prodotto ancora da Glen Larson nel 1982, infatti, contamina in modo piuttosto ardito elementi da poliziesco action con
suggestioni fantastiche e tocchi ironici. Su tutto, però, predomina un’atmosfera generale spiccatamente avventurosa, che rende la serie una tra le
più popolari degli anni ’80. Il protagonista Michael Knight – primo ruolo
di un certo rilievo per David Hasselhoff – è un perfetto cavaliere buono
(lo indica anche il suo cognome, d’altra parte) che, con il supporto della
misteriosa Fondazione diretta da Devon Miles (Edward Mulhare), combatte il male ovunque si manifesti. L’elemento originale è costituito dal
suo «destriero» metallico, Kitt: una fantascientifica automobile nera
munita di modernissimo computer umanizzato e parlante.
Come il cavallo per il cavaliere, così Kitt diventa un autentico prolungamento del corpo di Knight: e proprio l’interazione tra uomo e computer – negli stessi anni in cui nasce il movimento letterario cyberpunk – è
tra i punti di forza del telefilm, assieme alle ottime sequenze d’azione.
Inoltre, anche qui con grande modernità, tra Michael e Kitt si sviluppa –
dopo una prima, giustificabile diffidenza (reciproca!) – un rapporto di sincera amicizia, con continue battute e confidenze tra i due. Per il ruolo centrale ricoperto dalla specialissima automobile, è logico che in ogni episo-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
dio di Supercar abbiano una fondamentale importanza le sequenze d’inseguimento automobilistico, con Kitt che, in un modo o nell’altro, ha sempre la meglio sul ben più ordinario veicolo del cattivo di turno. La «superauto» – modello Knight 2000, una Pontiac Firebird Trans-Am «modificata» – è in grado di raggiungere i 400 chilometri l’ora, di volare a 15 metri
da terra ed è dotata di congegni elettronici sofisticatissimi che le permettono di aiutare al meglio il suo partner umano (un ex agente segreto che,
dopo essere stato quasi ucciso, è misteriosamente rimesso in sesto da un
miliardario che gli dona una nuova identità e la fantastica vettura).
La struttura di ogni singolo episodio mostra un crimine che si sviluppa prima della sigla iniziale. Michael, reduce da una precedente missione o sorpreso a rilassarsi chiacchierando con Kitt, viene contattato da
Devon Miles che – dopo essersi fatto raggiungere dal duo nella «postazione mobile» (un camion nero col simbolo del cavallino bianco e con il
portello posteriore che s’abbassa e lascia entrare, al volo, l’auto) – fa il
punto della situazione prima di lasciarli all’azione. Dopo un breve
momento investigativo, in cui il protagonista umano contatta le vittime
superando le loro diffidenze, inizia lo scontro, più o meno palese, con il
cattivo del momento. Tra inseguimenti, scazzottate, sparatorie, sotterfugi vari e continui colpi di scena l’azione si sviluppa fino all’inevitabile
conclusione positiva, con Michael che assicura il criminale alla giustizia
e, poi, scherza – al termine dell’episodio – con le persone che ha appena
aiutato; dopo l’inevitabile siparietto «leggero» dedicato al dialogo conclusivo con Kitt, il «cavallo di ferro» e il suo «cavaliere» s’allontanano
verso l’orizzonte, al suono dell’inconfondibile colonna sonora.
Nell’economia dei vari episodi, hanno un ruolo importante – e molto
divertente – anche le pause brillanti affidate al confronto tra Kitt e l’ambiente esterno: di solito, Michael la parcheggia per strada ed entra in un
palazzo per le sue indagini; alcuni sconosciuti si avvicinano, per un motivo o per l’altro, all’auto, che inizia a parlare e a dissuadere gli improvvisati ed esterrefatti «interlocutori»; al ritorno di Michael il computerino
esterna le proprie perplessità sulle stramberie tipiche del genere umano,
rifacendosi dichiaratamente ad alcuni commenti del vulcaniano Spock nei
confronti dei suoi compagni dell’Enterprise, all’interno della serie classica
di Star Trek. Tra gli innumerevoli esempi di buffe interazioni tra Kitt e gli
umani, ricorre spesso il tentativo di furto da parte di un ladruncolo di strada; ma vanno segnalate anche situazioni più originali, come in un episodio ambientato nel mondo della moda, con la gustosa scenetta di un fotografo con modella che utilizza Kitt come sfondo per le proprie foto: in que-
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
197
st’occasione, la macchina dà il meglio di sé, starnutendo a ripetizione e
fornendo consigli sull’obiettivo migliore da utilizzare per i vari scatti.
Supercar è, come detto, un’originale commistione tra commedia d’azione, poliziesco e fanta-telefilm. È anche, però, un’efficace «cartina di
tornasole» di un paese in mutazione grazie alla «cura» reaganiana, con
umani sempre meno umani e pronti, forse, a essere sostituiti dalle macchine: l’anno seguente, 1983, lo stesso Glen A. Larson prosegue sulla stessa strada con un’altra serie tutta costruita sull’ibridazione tra elemento
umano e tecnologico, Automan (id.). L’elemento di maggior forza in
Supercar, però, è fornito proprio dal contrasto spiazzante tra l’ambientazione realistica della serie – con la concretezza dei tipici paesaggi americani visitati da protagonisti in continuo movimento – e i tratti futuristici
di Kitt, tipica auto da film di James Bond ma – e questa è la vera idea originale del telefilm – resa coprotagonista e non semplice strumento.
Supercar offre il pretesto per seguire la carriera di un attore-produttore che, per tutti gli anni ’80 e ’90, s’inserisce nel ristretto giro dei più potenti di Hollywood, nonostante la giovane età. Sì, proprio il David
Hasselhoff protagonista del telefilm di Larson, infatti, è la «mente» dietro
quello che diventa uno tra i più clamorosi successi televisivi di tutti i
tempi: Baywatch. Il serial va in onda in oltre 140 nazioni, è seguito
dall’80% della popolazione mondiale ed è secondo per visibilità al solo
Star Trek. Ma è proprio Hasselhoff che lo salva dall’ira dei vertici della
NBC, che vogliono cancellarlo dopo una prima stagione di programmazione conclusasi con risultati pessimi in termini artistici e, soprattutto, di
audience: così, l’attore rileva i diritti, impone diverse modifiche al format
e fa partire un nuovo ciclo di episodi dalla stagione 1991. Il successo è clamoroso, grazie a una formula ormai consolidata che unisce «sex appeal»
di tutti i protagonisti a vicende scandite da brani pop da classifica e realizzate con stile visivo iper-patinato. «Avventure mozzafiato on the beach,
salvataggi pericolosi tra le onde, amori e gelosie in riva al mare, bellezze
californiane e tematiche sociali […] come la delinquenza minorile, la violenza sessuale, il razzismo» 13: sono questi i contenuti dei vari episodi.
Le storie si svolgono sulle spiagge californiane di Malibu, dove Mitch
Buchannon (David Hasselhoff) lavora a capo di un gruppo di bagnini e
guardiacoste più simili, però, in molti frangenti, a poliziotti privati: belli,
atletici, scattanti, sempre pronti a intervenire fregandosene dell’incolumità personale; ma anche tormentati, competitivi, spesso vittime del loro
stesso ruolo. Del gruppo di pronto intervento, accanto a Buchannon,
fanno parte la formosa C.J. Parker (la sexy e discussa Pamela Anderson),
198
AI CONFINI DELLA REALTÀ
gli affascinanti Matt Brody e Logan Fowler (David Charvet e Jaason
Simmons), Stephanie Holden (Alexandra Paul), Cody Madison (David
Chokachi), le bellissime Caroline Holden e Neely Capshaw (Yasmine
Bleeth e Gena Lee Nolin, quest’ultima sostituta della Anderson), Lani
McKensie (Carmen Electra), Jordan Tate (Traci Bingham), Donna Marco
(Donna D’Errico); in un cast che, però, ha nella coralità la sua caratteristica principale. Quasi tutte le avvenenti protagoniste femminili, tra l’altro, hanno posato nude sulle pagine delle più note riviste maschili, contribuendo anche in questo modo a far parlare della serie.
Dal punto di vista stilistico, Baywatch estremizza l’attenzione rivolta al
look della serie e dei singoli personaggi che, in altro ambito, Miami Vice
rende elemento drammaturgico già nel corso degli anni ’80. Anche qui,
come nel serial di Michael Mann, c’è molto pop e rock a fare da commento sonoro alle varie vicende; però, stavolta, i momenti musicali non provocano semplicemente una dilatazione del ritmo narrativo, ma si risolvono in quelli che diventano veri e propri video-clip: in ogni episodio, infatti, a un certo punto l’azione inizia a essere ripresa al ralenti, il montaggio
si fa ellittico e allusivo, parte il brano pop del momento e, senza accorgersene, lo spettatore si ritrova immerso in un video musicale.
Nel 1995, sulla scia del successo paranormale di X-Files, anche il telefilm dei bagnini più famosi del mondo inizia a confrontarsi con il lato oscuro e misterioso dell’esistenza, nello spin-off intitolato Baywatch Nights, sempre ideato da David Hasselhoff. Il suo personaggio, Mitch, decide di aprire un’agenzia investigativa a Los Angeles, per aiutare tutti coloro che vengono trascurati dalla polizia; si fa aiutare dal compagno di avventure in
spiaggia Garner Ellerbee (Greg Alan-Williams) e da tre bellissime ragazze:
Ryan McBride (Angie Harmon), Destiny Desimone (Lisa Stahl) e Donna
Marco (Donna D’Errico, che poi si trasferisce in Baywatch). Nel corso delle
loro indagini, i cinque s’imbattono anche in vampiri, fantasmi, licantropi,
tutti poco convincenti. Così com’è il risultato complessivo dell’intera serie.
Postilla «cronologica»: in viaggio nel tempo
Alcune tra le avventure televisive seriali più coinvolgenti sono quelle
imperniate sui viaggi nel tempo. Da sempre, infatti, la possibilità di tornare indietro nel passato – magari per provare a modificare il futuro, Star Trek
docet – è tra i sogni proibiti dell’essere umano. E, naturalmente, la televisione non può fare a meno di drammatizzare l’umanissimo desiderio.
AVVENTURE NEL «POSSIBILE»
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Se l’esempio più famoso del sottogenere fantastico arriva
dall’Inghilterra – con il serial del «Time Lord» per eccellenza, il Doctor
Who (id., 1963) – la televisione americana di fine anni ’80 offre, sul tema,
una serie godibilissima e intelligente, ironica e avvincente: Quantum Leap
- In viaggio nel tempo (Quantum Leap, 1989), ideata e prodotta da Donald P.
Bellisario e conclusasi dopo 96 ottimi episodi 14. «I viaggi nel tempo – spiega proprio Bellisario – di solito provocano problemi. Noi li abbiamo voluti eleggere a occasioni da sfruttare al meglio» 15. Protagonista del telefilm
è il dottor Samuel Beckett (e il nome è già tutto un programma), interpretato da Scott Bakula: lo scienziato trova un modo per viaggiare nel tempo
lasciando il proprio corpo nel presente; ma il marchingegno, ancora difettoso, lo costringe a un’infinità di salti spazio-temporali, in epoche diverse, dove si incarna di volta in volta in personaggi sempre differenti, assumendone l’aspetto fisico. Ogni volta Beckett, con le informazioni a sua
disposizione, tenta di evitare che qualcuno muoia, aiutato nell’impresa
dall’ex tenente colonnello dell’esercito Al Calavicci (Dean Stockwell), che
lo guida dal presente e che lo segue in forma olografica visibile soltanto a
lui. È bella, in Quantum Leap, soprattutto la sottolineatura – e qui molto
merito va a un interprete come Bakula – che fa capire come nonostante i
disagi del mancato ritorno a casa, in realtà, Beckett impari continuamente e arricchisca se stesso a ogni nuovo passaggio cronologico. Passaggi
che danno un senso di continuità alla serie, dato che ogni episodio si conclude con il protagonista che, lasciato il corpo ospite al centro della storia
appena terminata entra in quello che «interpreterà» nella puntata successiva: insomma, la più efficace delle anteprime trasformata in decisivo elemento drammaturgico (il finale con cliffhanger).
Quantum Leap, con l’ironia che caratterizza la serie, dedica estrema
attenzione alla storia novecentesca degli Stati Uniti, attraverso le «irruzioni» del personaggio di Bakula in periodi cruciali come gli anni ’50 e i
primi ’60: per esempio, una volta Beckett s’incarna in Lee Harvey
Oswald; un’altra nell’autista di Marilyn Monroe, destinato però a non
poterle salvare la vita; e ancora, arriva nella New York del 1964, in stato
d’assedio per la prima esibizione americana dei Beatles; e, un’altra volta,
in un episodio memorabile, fa la conoscenza con un ragazzino di provincia appassionato di storie dell’orrore, al quale piace scrivere e che la
mamma chiama Stevie: soltanto alla fine dell’episodio, lo sbalordito
crono-viaggiatore capisce di essersi trovato di fronte a Stephen King
adolescente. Insomma, la serie offre un’infinità di spunti interessanti ed
elementi di riflessione su ciò che gli Stati Uniti stanno diventando (sono
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diventati) nell’ultimo quarto del ’900, ma anche sul senso stesso della
serialità e – questione fondamentale nella realizzazione di un buon telefilm – sulla corretta gestione del tempo della narrazione.
Aldo Viganò, Western in cento film, Le Mani, Genova 1994, p. 12.
Cit. in Paul Kerr, Guardare i detectives, in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood
in Progress, Marsilio, Venezia 1984, pp. 227-228.
3
Nel 1947, i 14.000 apparecchi televisivi venduti sono presenti soprattutto nelle
grandi città; e lo stesso accade ancora nel 1950, quando i quattro milioni di televisori e le stazioni televisive locali concentrate prevalentemente in aree urbane
impediscono di raggiungere la sterminata platea rurale.
4
Paul Kerr, Guardare i detectives, in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood in
Progress cit., p. 228.
5
Omar Calabrese, I replicanti, in Francesco Casetti (a cura di), L’immagine al plurale, Marsilio, Venezia 1984, p. 73.
6
Ivi, p. 70.
7
Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti, Milano
2001, p. 527.
8
Sandra Curtis, Sotto il segno di Zorro, Sperling & Kupfer, Milano 1998, pp. 80-81.
9
La corrente letteraria della fantascienza che prevede l’immissione di elementi fantastici e tecnologicamente futuristici in un contesto storico che spesso
coincide con quello della Londra ottocentesca dell’età vittoriana. Già nel neologismo «Steampunk», infatti, il termine «steam» – cioè «vapore» – evoca
immediatamente l’atmosfera dell’epoca della Rivoluzione industriale. Il più
noto autore appartenente a questo filone è Paul Di Filippo.
10
Categoria che emerge prepotentemente come campione culturale specifico a
partire dalla seconda metà degli anni ’50, e che – tra film da drive-in, fumetti
horror e rock ’n roll – incarna ben presto il principale segmento di mercato al
quale inizia a far riferimento l’industria dello spettacolo.
11
James Hay, Cinema e televisione, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. II, Gli Stati Uniti, tomo II, Einaudi, Torino 2000, pp. 1706-1707.
12
Federico Chiacchiari, La Serie TV, «Sfx» n. 6, ottobre 1996, p. 32.
13
Leopoldo Damerini-Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 60.
14
Lo show si lascia preferire, soprattutto per la raffinata ironia, ad altri sullo
stesso tema, realizzati negli anni ’90 come, per esempio, Seven Days (id., 1998)
di Christopher Crowe con Jonathan La Paglia. Citazione d’obbligo, infine, per
il classico Kronos di Irwin Allen.
15
Citato in Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit.,
p. 286.
1
2
PARTE QUARTA
OLTRE IL CREPUSCOLO, CALATI NEL REALE
Professionisti nella «città nuda»: medici, avvocati, poliziotti
Medici, avvocati e poliziotti, fin dalla «Golden Age of Television»,
sono i «professionisti» più presenti all’interno dei telefilm americani realistici (anche se il poliziesco-thriller-noir si presta – per la sua stessa
natura di «macrogenere», seppur molto codificato – a interessanti commistioni con il fantastico).
È doverosa, però, una prima distinzione tra le tre categorie: solitamente, infatti, i telefilm medici e legali sono girati quasi per intero in interni e spesso su set riciclati da altre produzioni o da un episodio all’altro;
quelli polizieschi, al contrario, «vivono» prevalentemente tra le strade
della città, respirano i suoi umori (spesso malsani), si confrontano con i
mille problemi, i soprusi e le violenze della metropoli. Nei primi due casi,
il «fuori» della città – che, quando «è in scena», viene descritta sempre con
notevole realismo, soprattutto nelle serie più recenti – preme letteralmente sulle pareti degli ospedali e dei tribunali, facendo percepire di continuo
la propria presenza (minacciosa) attraverso le storie dei tanti pazienti da
curare e dei clienti da tutelare legalmente: suoi «figli» e, al tempo stesso,
vittime spesso incolpevoli e inconsapevoli. Nel genere poliziesco, invece,
nonostante le tante tipologie che lo caratterizzano, i protagonisti affrontano più o meno direttamente – ma, comunque, all’esterno – la città e i suoi
mille volti, si confrontano con la drammaticità delle storie dell’americano
medio, che li sente – proprio per la concreta presenza tra le strade – più
vicini e simili a sé, rispetto ai «super-medici» e ai «super-avvocati» percepiti come appartenenti a un altro mondo, superiore al loro di parecchie
spanne: è una cosa completamente diversa, infatti, confrontarsi con le storie della «città nuda» dall’interno di un’aula di tribunale o di un ospedale – in un certo senso, barriere protettive e «filtri», anche in serial moder-
204
AI CONFINI DELLA REALTÀ
nissimi e iperrealistici come E.R. - Medici in prima linea – e «sporcarsi le
mani» direttamente nel cuore dell’inferno metropolitano. Da questo
punto di vista, allora, appare drammaturgicamente geniale l’idea di una
serie come Law & Order - I due volti della giustizia (Law & Order, 1990) che,
in ciascun episodio, presenta una prima parte dedicata alla detection e
imperniata su personaggi polizieschi in azione e una seconda in aula, con
gli avvocati che portano a termine il lavoro. Ma c’è anche una serie che,
caso rarissimo, propone storie contemporanee di medici, avvocati e poliziotti, miscelando con buoni risultati gli stilemi dei tre generi: si tratta di
Chicago Story (id., 1982), che ha l’ambizione – come si evince dal titolo – di
raccontare le tante facce di una metropoli, attraverso le sue professioni
più rappresentate sul piccolo schermo.
A causa del loro rapporto con la città – concretamente presente oppure soltanto percepita fuori campo – personaggi come i medici, gli avvocati e i poliziotti fanno da autentici osservatori delle magagne della
società statunitense: molto spesso, dunque, è proprio al loro punto di
vista che gli autori (o a volte, purtroppo, i vertici dei network) affidano
il messaggio o il giudizio morale che intendono far arrivare ai telespettatori. L’azione drammatica, di solito, ruota intorno all’abilità professionale dei caratteri principali, all’abnegazione nell’esercizio dei rispettivi
lavori, al tempo sottratto all’aspetto privato delle loro esistenze, all’adamantina condotta morale (anche se per il poliziesco è necessario qualche
distinguo). Si tratti di eroici medici impegnati in corsia, di risoluti avvocati attivissimi nelle aule di tribunale oppure di tormentati detective
calati nel ventre della metropoli, c’è sempre un nemico da combattere,
un duello senza fine da vincere: quello indefinito e dai confini incerti
condotto contro la malattia, il secondo ben più concreto contro avversari in carne e ossa come i procuratori distrettuali o i criminali, il terzo
comune a tutti contro i tanti aspetti della burocrazia, nei rispettivi campi
d’azione. Ciò che paga, infatti, in corsia come in aula come tra le strade
(così come, un secolo prima, nel «Selvaggio West»), è sempre l’iniziativa
dell’individuo americano – o del gruppo d’individui americani –,
meglio se associata a un pizzico di ben accetto talento personale.
Kildare e i suoi colleghi
Il personaggio del dottor James Kildare ha già una lunga e gloriosa
storia alle spalle, prima di fare il suo esordio in televisione con il tele-
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
205
film Dottor Kildare (Dr. Kildare), prodotto da Norman Felton e trasmesso dalla NBC a partire dal 21 settembre 1961.
L’abile medico paladino dei buoni sentimenti, infatti, nasce tra le
pagine di una serie di romanzi popolari scritti da Max Brand (pseudonimo di Frederick Schiller Faust), durante gli anni ’30. Il lusinghiero
successo porta Kildare sul grande schermo, nel 1937: l’esordio avviene
all’interno di una produzione Paramount, La figlia perduta (Internes
Can’t Take Money, 1937) di Alfred Santell, con Joel McCrea nel ruolo
principale; ma è la MGM a dare la definitiva popolarità al personaggio,
attraverso un ciclo di nove film interpretati da Lew Ayres a partire da Il
giovane dottor Kildare (Young Dr. Kildare, 1938) diretto da Harold S.
Bucquet. Dal 1939, il sempre più noto carattere esordisce anche in serial
radiofonici che, anni dopo, rendono quasi inevitabile il suo approdo
pure sul piccolo schermo casalingo della televisione.
Bisogna aspettare, però, fino al 1961, anno dell’esordio del telefilm
Dottor Kildare. Il ruolo del protagonista va a Richard Chamberlain, che
si rivela perfetto nel tratteggiare quello che è un vero e proprio eroe
della «nuova frontiera» kennediana: d’altra parte, la data della partenza dello show non lascia spazio a dubbi, sui significati di cui viene
«caricato» il personaggio. Raymond Massey dà il proprio volto a
Leonard Gillespie, il medico più maturo che sprona continuamente
Kildare quasi come un figlio; e poi, Jud Taylor e Steven Bell sono i dottori Gerson e Lowry, Lee Kurty e Jean Inness le infermiere Lawton e
Fain. L’ambiente ricorrente del serial è quello del Blair General
Hospital, dove s’intrecciano tra loro vicende di casi clinici e casi umani,
che spesso si dipanano lungo diversi episodi (a volte, anche per cinque
o sei consecutivi). Nel microcosmo dell’ospedale agisce James Kildare,
emblema dell’uomo che guarda al futuro e che fa propria l’idea di progresso (nel suo caso, quello della medicina moderna). Il dottore, impegnato e puntiglioso, magari un po’ ingenuo, ha sempre una parola
buona per tutti e, in ogni momento, è pronto a intervenire per dare
conforto e assistenza agli ammalati: «un buon medico ma anche un caro
amico – lo definisce Aldo Grasso – pronto a dire sempre la parola giusta, a infondere coraggio e serenità anche nei momenti più disperati» 1,
conscio che la medicina non è fatta soltanto di diagnosi, prognosi, cure
e medicamenti ma, soprattutto, di comprensione.
La sceneggiatura del telefilm, naturalmente, prevede sempre rigorosissimi happy end, con la problematicità dei vari episodi che viene
«affogata» in un mare di buoni sentimenti. L’ottima risposta di pubbli-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
co, in ogni caso, fa sì che la serie – scritta, tra l’altro, dallo stesso autore
del personaggio letterario – prosegua la sua corsa fino al 1966, per un
totale di 132 puntate in bianco e nero da un’ora e 58 a colori da 30 minuti. È superfluo dire che, grazie al ruolo di Kildare, Richard Chamberlain
diventa una star e irrompe nell’immaginario di più di una generazione
di americani (ma non solo). Addirittura, cantando la sigla iniziale del
programma (Three Stars Will Shine Tonight), riesce anche a entrare nella
«Top Ten» discografica, nel 1963. Non a caso, nel 1972, fallisce miseramente il tentativo di ridar vita a Kildare in una nuova serie con un altro
attore, Mark Jenkins, al posto di Chamberlain.
Sempre nel 1961, dal 2 ottobre, la ABC inizia a trasmettere gli episodi di quello che diventa immediatamente il più serio rivale del dottor
Kildare: il telefilm s’intitola Ben Casey (id.), proprio come il suo protagonista; è creato da quello stesso James Moser che già nel 1954 aveva provato, con Medic, a portare l’argomento in una serie catodica. Il Ben Casey
del titolo, interpretato da Vince Edwards, è un neurochirurgo che lavora presso il County General Hospital, assieme al suo superiore David
Zorba (Sam Jaffe) e ai colleghi Maggie Graham (Bettye Ackerman) e Ted
Hoffman (Harry Landers). Rispetto al Dottor Kildare, Ben Casey punta
maggiormente su un tipo di narrazione corale, utilizzando meglio l’interazione tra più personaggi ricorrenti; e poi, ricerca il realismo delle
situazioni, cercando di restituire agli spettatori le sensazioni e le atmosfere della vita insonne e scombussolata che si fa all’interno di un ospedale metropolitano. C’è, quindi, nelle trame, anche una maggior propensione al dramma puro, spesso evocato attraverso la costruzione di
situazioni che sembrano pensate apposta per suscitare scalpore sui mass
media statunitensi (anche perché tra i due medical drama la concorrenza
è forte e molto sentita dai rispettivi staff): un buon esempio arriva dall’episodio che mostra Casey iniziare una relazione sentimentale con una
ragazza uscita dal coma dopo tredici anni. I temi toccati dal telefilm,
d’altra parte, sono spiegati anche con il tentativo degli autori di tener
fede a quello che è l’ambizioso slogan con cui si apre ogni puntata:
«L’uomo, la donna, la nascita, la morte, l’infinito». Anche Ben Casey va
avanti per cinque stagioni, per un totale di 153 episodi in bianco e nero.
Altro notissimo medico televisivo del periodo è Marcus Welby, protagonista del telefilm omonimo, ideato da David Victor, in onda dal 1969
per 172 episodi e differente da Dottor Kildare e Ben Casey sotto molti
punti di vista: anzitutto per l’età del personaggio principale, poi per
come affronta parecchi temi «scottanti» degli anni ’70. Il serial che pren-
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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de il nome dal suo protagonista, Marcus Welby (Marcus Welby, M.D.), è
imperniato, infatti, sulle vicende di un anziano dottore di Santa Monica
(interpretato da Robert Young), sempre disponibile, gentile e pronto ad
alleviare i mali dello spirito oltre che del corpo. Nel corso delle sue
avventure, Welby si confronta con le tematiche sociali tanto in voga nel
decennio ’70 e, tra l’altro, s’imbatte in questioni mediche «forti» come la
dipendenza da LSD, la leucemia, i tumori, l’autismo infantile. Il paese
televisivo «all’acqua di rose» di Kildare e Casey, dunque, inizia a mutare in modo evidente.
La prima serie televisiva di una certa importanza che punta, fin dal
titolo, sul gruppo anziché sul singolo è, sempre nel 1969, Medical Center
(id.), prodotta da Herbert F. Solow e andata avanti per ben 171 episodi.
L’ambiente dove si svolgono le storie è un centro medico universitario
situato in un’autentica metropoli come Los Angeles: e la città fa sentire
la propria presenza, anche se il lieto fine è ancora obbligatorio. Sullo
schema di Dottor Kildare, i due protagonisti sono medici di generazioni
differenti: il più anziano primario Paul Lochner (James Daly) e il suo
giovane e decisamente affascinante assistente Joe Gannon (Chad
Everett), con la specializzazione in chirurgia. S’affiancano a loro quattro
infermiere che uniscono, a loro volta, il fascino all’abilità professionale:
Chambers (Jayne Meadows), Wilcox (Audrey Totter), Courtland (Chris
Hutson) e Holmby (Barbara Baldavin).
Il genere medical, comunque, viene declinato in un’infinità di modi
differenti, nella televisione americana, naturalmente tenendo ben fermi
alcuni capisaldi. Così, è possibile assistere anche a brillanti contaminazioni, per esempio con la sit-com: è il caso di Doogie Howser (Doogie
Howser M.D.), ideato nel 1989 da Steven Bochco e David E. Kelley e
imperniato sulle avventure del ragazzo prodigio del titolo (interpretato
da Patrick Harris), il più giovane medico di tutti gli Stati Uniti d’America
a soli sedici anni. Ma commistioni avvengono anche con altri generi,
come il poliziesco: si pensi semplicemente a Quincy (Quincy, M.E.), creato nel 1976 da Glen A. Larson, Donald P. Bellisario e Lou Shaw: la storia
è quella di un medico legale, Quincy appunto (Jack Klugman), che s’improvvisa detective per risolvere il mistero di molte (troppe) morti misteriose che si trova di fronte sul suo tavolo dell’autopsia; il protagonista
deve vedersela, oltre che con i criminali, anche con l’invidia di molti
poliziotti e, come al solito, con le lungaggini della burocrazia.
Gli anni ’90 si aprono con un telefilm che diventa ben presto «di
culto»: Un medico tra gli orsi (Northern Exposure, 1990), creato da Joshua
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
Brand e John Falsey – già autori, nel 1982, dell’A cuore aperto di cui si
parla più avanti – con Henry Bromell come produttore esecutivo. Le
avventure dei 113 avvincenti episodi hanno inizio quando un giovane
medico newyorkese, il ventisettenne Joel Fleischman (Rob Morrow),
viene inviato a fare praticantato in Alaska, presso uno sperduto villaggio di nome Cicely. Qui è, ovviamente, l’unico medico a disposizione e,
come tale, si troverà a dover dipanare le situazioni più aggrovigliate e
originali. È molto bello il modo in cui gli autori descrivono l’approccio
dell’inesperto cittadino di fronte a una realtà diversissima da quella alla
quale è abituato. Tra i tanti bizzarri personaggi che Fleischman incontra
durante il suo soggiorno in Alaska, va segnalata almeno l’affascinante
padrona di casa Maggie O’Connell (Janine Turner), che riesce a conquistare; e poi, tra gli altri, l’ex astronauta Maurice Minnifield (Barry
Corbin) e il sindaco-barista Holling Vincoeur (John Cullum).
L’inferno del pronto soccorso
Gli anni ’90, però, apportano profonde e decisive innovazioni al genere medico: il processo, che arriva a compimento con le due serie rivali
E.R. e Chicago Hospital (Chicago Hope, 1994), ha il suo inizio con un ottimo
serial andato in onda già nel 1982.
Il telefilm in questione s’intitola A cuore aperto (St. Elsewhere, 1982) e,
come accennato poco fa, è merito di Joshua Brand e John Falsey. Va in
onda fino al 1988, quando uno stupefacente episodio conclusivo lascia
a bocca aperta tutti gli appassionati statunitensi e fa da degnissimo
congedo per uno show originale come pochi altri d’argomento medico:
dopo 137 episodi, infatti, gli autori decidono di mettere la parola fine
con un’incredibile sequenza che presenta un bambino intento a giocare
con il modellino di un ospedale racchiuso in una palla di vetro con la
neve finta; arriva il padre, gli toglie il giocattolo di mano dicendogli di
andare a dormire perché ormai è tardi. Insomma, l’intera saga che ha
avvinto gli americani per sei anni non è altro che il gioco creato dall’immaginazione di un bambino.
Questo «gioco», però, ha le tinte angoscianti e drammatiche della
vita quotidiana com’è all’interno dell’ospedale di una grande città: il
Sant’Eligio di Boston. Qui, lavora un’équipe di medici pronta a fronteggiare qualsiasi emergenza ma che, a differenza dei predecessori televisivi, molto spesso non può contare sul lieto fine. Direttore dell’ospedale è
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il dottor Donald Westphall (Ed Flanders), che ha un figlio autistico
(Tommy, interpretato da Chad Allen); a capo del reparto di chirurgia c’è,
invece, Mark Craig (William Daniels), con il suo «braccio destro» Victor
Ehrlich (Ed Begley Jr.) e gli altri medici Jack Morrison (David Morse) e
Wayne Fiscus (Howie Mandel); Denzel Washington interpreta il dottor
Philip Chandler. Nelle esistenze del folto personale del Sant’Eligio
irrompono, di volta in volta, suicidi e omicidi, mali come l’AIDS o il cancro. Dal punto di vista strutturale, poi, A cuore aperto è decisamente sofisticato, con flashback anche di cinquant’anni, sequenze oniriche montate come videoclip musicali, numerose citazioni da altri film e telefilm.
Anche nella forma, dunque, oltre che nei contenuti, lo show di Brand e
Falsey anticipa quello di Michael Crichton.
Il 18 settembre 1994, però, la messa in onda di E.R. sulla NBC è anticipata di un giorno da quella di un altro serial di argomento medico e
che appare subito molto simile a quello di Crichton: si tratta di Chicago
Hospital, creato dal prolifico David E. Kelley che lo produce assieme a
John Tinker e Bill D’Elia. In realtà, i due telefilm – tra i quali si scatena
un’immediata rivalità, tenuta in piedi attraverso una lunga «battaglia» a
colpi di premi e record di ascolto – sono abbastanza diversi, pur trattando lo stesso argomento ed essendo ambientati entrambi in un ospedale
di Chicago. Il telefilm di Kelley, per esempio, persegue un taglio quasi
da reportage, con minori concessioni romanzate rispetto a quelle di E.R.:
più che il rapporto privato tra i vari personaggi, qui ciò che conta veramente è la funzione di ciascuno, il suo compito in relazione all’organismo di cui fa parte.
Certo che, tra mille problemi ed emergenze continue, il personale del
moderno Chicago Hope Hospital sembra davvero sempre attrezzato per
fronteggiare il peggio e, di conseguenza, infonde grande fiducia anche agli
spettatori. «La scelta di mostrare l’efficienza di un’equipe medica – spiega
però l’autore – può risultare stridente in un momento in cui la popolazione degli Stati Uniti chiede riforme sanitarie in grado di agevolare i più
bisognosi. In realtà lo scopo non era quello di dimostrare l’inaccessibilità
economica di certi enti, ma di far vedere come all’interno di essi, nonostante molte difficoltà, i “miracoli” siano assolutamente realizzabili» 2. Le
contrastanti spinte socio-economiche degli Stati Uniti degli anni ’90 sono
ben presenti in Chicago Hospital: basti pensare, semplicemente, al memorabile episodio che mostra il licenziamento contemporaneo di quattro
medici molto stimati, in seguito a cambiamenti nella «politica dell’ospedale»; sicuramente una situazione familiare a buona parte della platea
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
televisiva del programma. Protagonisti delle vicende, nell’ambito di un
cast foltissimo, sono il chirurgo Aaron Shutt (Adam Arkin) e sua moglie
infermiera Camille (Roxanne Hart), i dottori Jeffrey Geiger (Mandy
Patinkin) e Arthur Thurmond (E.G. Marshall), il primario dell’ospedale
Phillip Watters (Hector Elizondo), l’infermiera Maggie Atkisson (Robyn
Lively) e il dottor Dennis Hancock (Vondie Curtis-Hall). Ma, tra i tanti altri
interpreti ricorrenti, spiccano pure Christine Lahti, Peter Berg, Mark
Harmon, Eric Stoltz, Carla Cugino, Lauren Holly, Barbara Hershey.
Il giorno dopo, rispetto a Chicago Hospital, debutta sulla NBC quello
che entra negli annali come uno tra i serial televisivi emblematici dell’intero decennio: E.R. - Medici in prima linea, creato dal romanziere Michael
Crichton (ex studente di medicina a Harvard) e prodotto, tra l’altro, dalla
Amblin Television di Steven Spielberg. Gli stessi Crichton e Spielberg firmano da produttori esecutivi, assieme a John Wells (co-ideatore della
serie e regista di diversi episodi), Carol Flint e Lydia Woodward, provenienti dalla positiva esperienza dell’ottimo China Beach (id., 1988),
ambientato in un ospedale da campo durante la guerra del Vietnam.
Si svolgono, invece, nella Emergency Room (il Pronto Soccorso) del
Cook County General Hospital di Chicago le tante storie che s’intrecciano regolarmente tra loro negli episodi di E.R.. Qui, sono impegnati in una
dura lotta quotidiana contro la morte e la malattia diversi personaggi
diventati, ormai, inseparabili compagni d’avventura di milioni di appassionati telespettatori: il pacato e responsabile aiuto primario Mark Greene
(Anthony Edwards), il passionale e imprevedibile pediatra Doug Ross
(George Clooney), la sfortunata dottoressa Susan Lewis (Sherry
Stringfield), il giovane John Carter (Noah Wyle), fresco di tirocinio con
l’abile assistente chirurgo Peter Benton (Eriq La Salle), la capo-infermiera
Carol Hathaway (Julianna Margulies); e poi, dalle stagioni successive,
altri caratteri importanti come la nuova responsabile amministrativa
della struttura Kerry Weaver (Laura Innes), l’assistente medico Jeanie
Boulet (Gloria Reuben), la dottoressa inglese Elizabeth Corday (Alex
Kingston), l’irruente medico jugoslavo Luka Kovac (Goran Visnjic, nuovo
«bel tenebroso» del gruppo, dopo l’addio di Clooney). Attorno a loro – in
un ambizioso contesto che, fin dall’inizio (già in sede di sceneggiatura,
quindi), prevede l’intreccio tra 87 differenti situazioni e ben 100 ruoli recitanti – trovano il giusto spazio, però, tanti altri personaggi ottimamente
caratterizzati e spesso affidati a volti noti del cinema e della televisione
statunitensi come, per esempio, Maria Bello, Michael Ironside, William
H. Macy e CCH Pounder. Com’è ovvio in questi casi, naturalmente, il cast
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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si trasforma in un girotondo continuo e – sulla scia dell’enorme successo
conseguito – parecchi tra i protagonisti iniziali lasciano la serie, nel corso
delle stagioni, per partecipare a progetti cinematografici: da Clooney alla
Margulies, dalla Stringfield a Edwards e La Salle.
La straordinaria chimica tra i tanti personaggi ricorrenti è, senz’altro, un motivo del successo di E.R. (che oggi veleggia sicuro – e dominante negli indici d’ascolto – verso la nona stagione). Ma non è l’unico
e nemmeno il più importante. «Quello che fa di E.R. un capolavoro (nel
suo genere, certo) – fa notare il come sempre acutissimo critico televisivo che si nasconde dietro lo pseudonimo di Als Ob – è la scrittura: quella dei dialoghi e delle storie, ma anche e soprattutto delle immagini.
Invece di abbassare il livello di attenzione degli spettatori, invece di
assecondarne le pigrizie ed esaltarne le banalità, la regia […] punta
sulla complessità, sull’intreccio di volti e ambienti, su una circolarità
che non s’attarda a scrutare scene madri, situazioni forti, personaggi
dominanti. Per dirla tutta, non è “facile” seguire quel che accade dentro
il pronto soccorso, nelle sue vicinanze immediate, nelle case di alcuni
tra i protagonisti e, ogni tanto, in trasferte anche impegnative. […] La
vita corre come e più che nella realtà. A metterla in marcia, appunto, è
la qualità letteraria dei dialoghi, ma ancora di più la scelta di un montaggio di qualità cinematografica. Ci sono, in E.R., piani-sequenza elaboratissimi, e tanto ben realizzati che l’occhio dello spettatore neppure
li avverte. Semplicemente, si lascia prendere nel loro flusso, che ricrea
la totalità della vita e che, insieme, non schiaccia mai gli individui e i
caratteri» 3. Ob, quindi, conclude soffermandosi su quella che, secondo
lui, è la «grandezza della serie»: la «capacità di rendere giustizia ai singoli, di mostrarli nella loro autonomia morale, buoni o perfidi, intelligenti o stupidi che siano. Per dirla tutta: E.R. è la dimostrazione che la
tivù non è, di necessità, uno strumento di rimbambimento “totalitario”,
ma che addirittura può contrastarlo, quel rimbambimento» 4.
In effetti, il telefilm di Michael Crichton è un esempio perfetto della
cosiddetta «Quality TV» seriale che emerge con sempre maggiore nitidezza nel corso degli anni ’90 rendendoli, a tutti gli effetti, l’autentica
«Golden Age» della televisione statunitense; questo, grazie a caratteristiche come: la moltiplicazione dei piani narrativi, il considerevole affinamento del livello di scrittura di situazioni e personaggi, la spiccata
sensibilità metanarrativa tipicamente postmoderna, cast regolari sempre più folti per dare maggiore coralità alle vicende, confini tra i generi
molto più sfumati, «esasperazione» dei meccanismi seriali; ma anche
212
AI CONFINI DELLA REALTÀ
l’introduzione di un maggiore realismo grazie alla presenza nelle trame
di argomenti drammatici e problematici, fino a poco prima considerati
«tabù» per il piccolo schermo. Così, in E.R., c’è ampio spazio – attraverso le molteplici vicissitudini dei personaggi – per discorsi non banali su temi «forti» come l’AIDS, l’aborto, l’omosessualità, la donazione
degli organi, la violenza familiare sui minori, la droga, il suicidio, le diagnosi sbagliate, il rapporto con la religione, l’aumento delle disparità
sociali, la violenza crescente. «Ogni malato – sottolinea Aldo Grasso – è
insieme portatore di un evento, il più traumatico, e di un discorso; gli
americani non amano fare prediche sull’educazione civile, preferiscono
mettere in scena i tormenti che li affliggono e renderli in questo modo
casi esemplari, ricordi incancellabili» 5. Da questo punto di vista, E.R.
rappresenta una tra le più stupefacenti e fedeli radiografie della vita in
una metropoli americana nel corso degli anni ’90.
Perry Mason, l’avvocato del diavolo
Con La parola alla difesa (The Defenders) – creato nel 1961 da Reginald
Rose e in onda per 132 puntate, imperniate spesso su temi «scomodi»,
con notevole coraggio per l’epoca – il telefilm «legale» («Courtroom
Drama») più famoso dei primi decenni della televisione statunitense è
certamente Perry Mason, la serie classica trasmessa dalla CBS tra il 21
settembre 1957 (episodio «The Case of the Restless Redhead») e il 22
maggio 1966 («The Case of the Final Fade-Out») e seguita, qualche anno
fa, da un ciclo di TV movie a colori, inaugurato nel 1985 da Il ritorno di
Perry Mason (il telefilm, naturalmente, è in bianco e nero, tranne che per
un unico episodio). Tra i segni distintivi dello show, c’è l’indimenticabile sigla musicale composta da Fred Steiner.
La struttura dei singoli episodi, con poche variazioni, è fissa e tutta
giocata sulla rispondenza piena tra psicologie dei personaggi e intreccio da sviluppare. Di solito, nella prima mezz’ora si verifica un omicidio (senza che gli spettatori ne scoprano il colpevole), la polizia arresta
quella che presumibilmente è la persona sbagliata e l’avvocato Perry
Mason viene assunto per occuparsi della sua difesa. Inizia il processo,
durante il quale si alternano le arringhe difensive di Perry in tribunale
e le indagini del suo aiutante, l’investigatore Paul Drake, alla ricerca
delle prove che dovranno servire per scagionare il loro cliente (regolarmente, durante il processo, la polizia e l’accusa sono confuse dallo scal-
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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tro lavoro sul campo di Perry e del suo staff). Alla fine, il caso si risolve
positivamente, col colpevole che confessa proprio mentre Perry lo incalza sul banco dei testimoni e col cliente che torna libero. Prima dei titoli
di coda, i protagonisti dell’episodio si ritrovano insieme e, in un’atmosfera ben più rilassata, commentano l’accaduto, con l’avvocato che
svela il modo in cui è giunto alla soluzione dell’intrigo.
Per il ruolo del quasi invincibile protagonista è scelto l’attore
Raymond Burr, mentre la fidata segretaria Della Street è tratteggiata con
efficacia da Barbara Hale e William Hopper impersona il detective Paul
Drake, titolare dell’omonima agenzia investigativa. Sull’altro versante, è
schierato William Talman nel ruolo del procuratore distrettuale Hamilton
Burger, l’avversario più frequente di Perry Mason (che lo batte sempre);
mentre come poliziotti recitano Ray Collins, Wesley Tau e Richard
Anderson. Ma, nei singoli episodi, appaiono di volta in volta parecchi
attori famosi (o destinati a diventarlo); tra gli altri: Julie Adams, James
Coburn, Bette Davis, Angie Dickinson, Ryan O’Neal, Robert Redford,
Burt Reynolds, Fay Wray, il «Batman» Adam West, Leonard «Spock»
Nimoy.
Raymond Burr dà all’«avvocato del diavolo» Perry Mason le caratteristiche che ancora oggi lo contraddistinguono: un giovane penalista
assolutamente infallibile, dalla figura possente e dai metodi personalissimi, pronto ad accettare un caso anche gratis se si rende conto dell’innocenza dell’eventuale cliente. La rispondenza di Burr al ruolo fu tra le
cause del fallimento della serie anni ’70 con Monte Markham nei panni
di Mason. Burr, di origini canadesi (è nato il 21 maggio 1917 a New
Westminister, una cittadina non lontana da Vancouver), inizia a lavorare nel 1936 durante una tournée teatrale in Gran Bretagna con la compagnia del regista Anatole Litvak. All’enorme sfortuna nella vita privata – la prima moglie Annette muore in un tragico incidente aereo durante la seconda guerra mondiale (nel corso della quale lui viene ferito allo
stomaco); con la seconda moglie, Isabella, arriva subito a un amaro
divorzio; mentre la terza, Laura, muore quasi subito per un cancro,
lasciando l’attore a occuparsi da solo del figlio di primo letto, Michael,
affetto da leucemia (il bambino scompare poco dopo, a soli undici anni)
– l’attore riesce ad affiancare un indubbio successo professionale che lo
porta, nel decennio compreso tra il 1946 e il 1956, a interpretare ben 90
film, solitamente nel ruolo di «cattivo» (indimenticabile quello dell’hitchcockiano La finestra sul cortile, Rear Window, 1954). Proprio nel 1956, tra
l’altro, Burr appare nella versione «americanizzata» del monster movie
214
AI CONFINI DELLA REALTÀ
nipponico Godzilla (Gojira, 1954; distribuito in tutto il mondo, nell’edizione americana di due anni dopo, dalla Paramount: Godzilla King of the
Monsters). Grazie all’esperienza nel ruolo «legale» di Un posto al sole (A
Place in the Sun, 1951), dove recita accanto a Liz Taylor e Montgomery
Clift, riesce a procurarsi il provino per il telefilm che lo rende famoso:
per aggiudicarsi la parte, deve superare, però, la concorrenza di William
Holden, Richard Egan, Jack Carlson, Efrem Zimbalist Jr. e Fred Mac
Murray che, a differenza degli altri candidati selezionati dalla produttrice esecutiva Gail Jackson, piace molto al creatore del personaggio, Erle
Stanley Gardner. Dopo aver perso qualche chilo, comunque, proprio
Raymond Burr convince anche lo scrittore che, al termine di un provino,
gli dice: «In venti minuti hai catturato Perry Mason meglio di quanto io
abbia fatto in vent’anni». Il ruolo è suo.
E Burr si tuffa nel nuovo impegno con ritmi da autentico stakanovista. Chiunque lavori con lui in Perry Mason lo descrive, infatti, come
«serio, preparato e molto generoso, anche fuori dal set» (dove l’attore è
impegnato in numerose battaglie sociali). Nel rapportarsi al personaggio, Burr – che «viaggia» al ritmo di dodici pagine di dialoghi imparati
ogni giorno, per sei giorni alla settimana – integra la visione che il creatore di Perry Mason, Erle Stanley Gardner, ha del «suo» avvocato: senza
famiglia, idee politiche, moglie; vive e dorme da solo e ha un numero di
telefono sconosciuto; tra le sue rare frequentazioni sociali c’è la segretaria Della Street. Su questa base, Burr innesta elementi apprezzati anche
dallo stesso Gardner e rende l’avvocato Mason duro e imprevedibile,
quello che si vorrebbe avere anche come migliore amico; uno che a volte
corre rischi che qualcuno considererebbe folli; uno che, come detto,
nonostante abbia una parcella piuttosto costosa, spesso lavora gratis se
il cliente non può permettersi di pagarlo; in pratica, un perfetto eroe dell’era kennediana, l’altra faccia di Zorro (anche se, per esempio nell’episodio «The Case of Sausalito Sunrise», rischia quasi d’essere ucciso da
un killer, fermato giusto in tempo dalla polizia).
Ma è il tribunale il regno di Perry Mason, il luogo in cui egli diventa
una sorta di mago, un illusionista che, per convincere la corte della verità,
può ricorrere a qualunque mezzo: utilizzare uomini vestiti da donne,
provare che un crimine è stato commesso a quaranta miglia di distanza
(usando, nella dimostrazione, Paul alla guida di un elicottero), condurre
due casi in due aule contemporaneamente. La sua frase-tormentone
diventa: «Obiezione, vostro onore», preceduta da una piccola pausa o
pronunciata con foga. E, nonostante le urla dell’avversario Hamilton
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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Burger, è raro che un giudice lo fermi mentre porta avanti le sue teatrali
dimostrazioni. «Il tribunale diventa un perfetto set cine-televisivo; e
attraverso questi telefilm il pubblico italiano familiarizza con le formule
ricorrenti che si usano nelle aule americane» 6. Soprattutto nei primi episodi del telefilm, le clienti di Mason sono quasi sempre belle donne bionde, con cui lui flirta discretamente (nell’episodio inaugurale, per esempio, l’avvocato sottolinea spesso «i grandi occhi blu» della cliente Evelyn
Bagby). Nonostante le tante opportunità, però, Perry non costruisce rapporti sociali con nessun’altra donna oltre Della. Man mano che la serie va
avanti, comunque, il personaggio diventa più maturo e compassato. Lo
stesso Erle Stanley Gardner diventa col tempo un fan sempre più convinto di Raymond Burr che – secondo lo scrittore – «potrebbe essere un
avvocato incredibilmente bravo». Anche il pubblico lo apprezza senza
mezze misure e il successo è straordinario: Burr vince pure due Emmy
Awards come miglior attore televisivo, nel 1959 e nel 1961.
Ma, dopo diverse stagioni vissute a ritmi infernali, l’attore si dice
stanco del personaggio di Perry Mason e, dopo un’estenuante trattativa
con la CBS, fa concludere lo show nella stagione 1965-66 (dopo 271 episodi), per riposare un po’ dopo tanto lavoro. Nel 1967, però, l’attore
lascia il suo «dorato rifugio» nelle isole Fiji per rituffarsi in un’altra serie
TV, per la NBC: Ironside, in cui è l’ex capo della polizia di San Francisco,
paralizzato su una sedia a rotelle dopo un incidente ma sempre attivissimo nella lotta al crimine come consulente della squadra omicidi. Il telefilm va avanti per 196 episodi complessivi, fino al 1975. Due anni dopo,
con Kingston: Dossier paura (Kingston: Confidential, 1977), Raymond Burr
lavora nella sua ultima serie televisiva, prima dei film TV in cui riprenderà il personaggio dell’avvocato che, anni prima, lo ha reso famoso.
Una nuova generazione di avvocati
Dopo il successo di Perry Mason, la televisione statunitense comincia
a entrare sempre più spesso nelle aule di tribunale, per narrare vicende
di avvocati più o meno intrepidi, più o meno dotati. Il genere legal
acquisisce sempre maggiore autonomia, e le vicende dei protagonisti
vengono declinate in mille modi possibili.
Tra le variazioni più interessanti c’è senz’altro, nel 1974, quella di
Petrocelli (id.), telefilm creato da Harold Buchman e Sidney J. Furie, con
Edward K. Milkis e Thomas L. Miller come produttori esecutivi e le
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
sonorità inconfondibili di Lalo Schifrin per colonna sonora. Anomalo
protagonista è il giovane avvocato italoamericano Tony Petrocelli (interpretato da Barry Newman, che riprende il personaggio dal TV movie del
1970 The Lawyer, inedito in Italia), neolaureato a Harvard e desideroso di
«farsi le ossa» sul campo. Per questo motivo, si trasferisce nel Sud degli
Stati Uniti assieme alla moglie (che ha il volto di Susan Howard): qui la
coppia si stabilisce in un camper, poiché non se la passa troppo bene dal
punto di vista economico. Il lavoro per Tony non manca, ma l’avvocato
incarna il tipico idealista degli anni ’70 e, quindi, non fa troppi problemi
quando molti suoi clienti, solitamente di ceto medio-basso, non hanno la
possibilità di pagargli la parcella: l’importante, infatti, è che alla fine di
ciascun episodio (ne vanno in onda 48) la giustizia trionfi. Tra gli altri
personaggi ricorrenti, ci sono l’aiutante di Petrocelli, Pete Ritter (Albert
Salmi), e il tenente John Ponce (David Huddleston). Stilisticamente, la
caratteristica più interessante di un telefilm che, comunque, può vantare diversi motivi d’originalità – a partire dal protagonista italoamericano – è la possibilità di rivivere da differenti punti di vista una stessa
situazione, attraverso i ricorrenti flash-back in soggettiva dei tanti testimoni che l’avvocato interroga nel corso delle sue indagini.
Si rifà più direttamente al personaggio di Perry Mason, invece,
Benjamin Matlock, avvocato difensore interpretato da Andy Griffith
nella serie Matlock (id., 1986), creata da Dean Hargrove (anche produttore esecutivo assieme a Fred Silverman) e mandata in onda dalla NBC
per 195 episodi. «L’avvocato del diavolo» serve da modello, anzitutto,
per il modo di portare avanti il dibattimento in tribunale e, soprattutto,
per come Matlock riesce a scagionare i propri clienti sempre all’ultimo
minuto e spesso in modi sorprendenti e originali; anche qui, poi, c’è una
figura femminile ricorrente – quella di Charlene (Linda Purl), la figlia
del legale – e un attivissimo investigatore che affianca Matlock nelle
indagini, Tyler, interpretato da Kene Holliday. L’ambientazione è piuttosto insolita per una serie televisiva americana: una città come Atlanta,
mai sfruttata in precedenza e, quindi, «tabula rasa» dalle infinite possibilità drammaturgiche. Il telefilm diventa famoso anche per come coinvolge – in modo modernissimo e anticipando «l’interattività» di tanta
televisione degli anni ’90 – direttamente i telespettatori nella realizzazione delle sue trame: il 16 febbraio 1988, infatti, va in onda un episodio col finale deciso attraverso le telefonate del pubblico, che aveva
scelto in una rosa di tre conclusioni girate in precedenza.
Su forme e contenuti dei telefilm giudiziari degli ultimi decenni, in
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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ogni caso, hanno una grande influenza i tanti legal thriller prodotti a
Hollywood nei decenni ’80 e ’90, spesso tratti da romanzi di «specialisti» come John Grisham: in tutte queste pellicole, la realtà esterna delle
metropoli americane è mutata irrimediabilmente e si è fatta più composita e meno decifrabile dall’interno dei tribunali. Di conseguenza, i
«nuovi avvocati» non sono più infallibili come Perry Mason; spesso sbagliano, portano le proprie inquietudini private in aula e preferiscono
lavorare in team per compensare le rispettive insicurezze. I grandi studi
protagonisti delle serie legali degli anni ’90 servono quasi a «costruire»
le personalità di autentici «super-avvocati», con ciascuno dei membri
della squadra che incarna un aspetto del carattere del «perfetto legale»
di una volta ma che, in aggiunta, rende il quadro più interessante grazie ai propri umanissimi difetti.
Di metà anni ’80 è una serie per molti versi innovativa come L.A. Law
- Avvocati a Los Angeles (L.A. Law), ideata da Steven Bochco e Terry Louise
Fisher e trasmessa dal 1986 per 173 puntate. Il progetto propone molti
punti di contatto con la più celebre creatura seriale di Bochco assieme a
NYPD - New York Police Department, cioè Hill Street giorno e notte (Hill
Street Blues, 1981): un cast corale, il commento musicale di Mike Post,
l’intreccio continuo di più storie parallele in uno stesso episodio, l’alternanza di humour e dramma come accade nella vita quotidiana. Al centro dello show ci sono le alterne vicende di un prestigioso studio d’avvocati di Los Angeles, l’agenzia McKenzie, Brackman, Chaney & Kuzak,
i cui membri sono impegnati ogni giorno tra le strade della metropoli e
sempre pronti a confrontarsi con casi spesso di scottante attualità. Così,
tra le trame di L.A. Law fanno capolino temi come l’AIDS, la droga, la
pena di morte, la corruzione delle autorità, i conflitti razziali, le violenze
sui minori. E, proprio come succede nella realtà, gli avvocati protagonisti spesso perdono (anche nelle occasioni importanti), si lasciano travolgere dalle passioni fino a compromettere il proprio lavoro, addirittura a
volte non esitano a scavalcare i propri principi morali. Non mancano gli
intrighi, dato che già nell’episodio pilota viene trovato morto il quarto
socio dello studio, Chaney. Gli altri tre sono interpretati da Richard
Dysart (Leland McKenzie, il partner di maggioranza della società), Alan
Rachins (Douglas Brackman, figlio di un co-fondatore dello studio) e
Harry Hamlin (l’abile penalista Michael Kuzak). Con i tre titolari, lavorano la civilista Ann Kelsey (è l’attrice Jill Eikenberry), l’avvocato divorzista Arnie Becker (Corbin Bernsen), il fiscalista Stuart Markowitz
(Michael Tucker), il procuratore legale Victor Sifuentes (Jimmy Smits, che
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
in seguito abbandona la serie per entrare nel cast di NYPD), Abby
Perkins (Michelle Greene), la vice-procuratrice distrettuale Grace Van
Owen (Susan Dey) e la segretaria Roxanne Melman (Susan Ruttan). Tra
molti personaggi, con l’evolversi della serie, si sviluppano anche intrecci amorosi: basti, come esempio, il controverso rapporto che nasce tra
Michael Kuzak e Grace Van Owen. E, naturalmente, al cast di partenza
s’aggiunge una miriade di volti nuovi, nel corso delle diverse annate del
telefilm: tra tutti, vanno segnalati Eli Levinson e Denise Iannello (interpretati da Alan Rosenberg e Debi Mazar), interessanti perché provenienti da un’altra serie legale in cui Bochco è produttore esecutivo, appena
questa viene cancellata dal network ABC: si tratta di Civil wars (Civil
Wars). Creato da William M. Finkelstein e andato in onda dal 1991 per 36
episodi, il telefilm narra le avventure di un gruppo di avvocati specializzati in questioni familiari e diventa famoso, negli Stati Uniti, per l’episodio in cui il personaggio di Mariel Hemingway (l’avvocatessa Sydney
Guilford) accetta di posare nuda per un fotografo, mostrando buona
parte del suo sedere agli sbalorditi telespettatori americani.
Gli anni ’90, però, si aprono con le trasmissioni – dal 1990, sul
network NBC – di una serie destinata a fare epoca dal punto di vista
innanzitutto stilistico, inaugurando quel filone di esasperato realismo
che, tre anni dopo, sarà portato al definitivo successo in televisione dalla
seminale NYPD. Il telefilm s’intitola Law & Order - I due volti della giustizia e, tanto per cambiare, ha tra i suoi ambienti ricorrenti le aule di tribunale. L’ideatore Dick Wolf – con l’aiuto dei due produttori esecutivi
Ed Sherin e Rene Balcer – punta, per caratterizzare il proprio show, su
tre elementi che si rivelano fondamentali (assieme alle musiche di Mike
Post e alla fotografia di livello cinematografico): dialoghi costruiti con
un linguaggio crudo e realistico, che porta alle estreme conseguenze l’intuizione avuta da Jack Webb negli anni ’50 per il classico poliziesco
Dragnet; un ritmo serratissimo della narrazione, grazie al montaggio frenetico e all’utilizzo regolare della telecamera a mano; infine, un gruppo
d’interpreti di notevole livello e carisma, spesso pescati tra i «caratteristi» più noti a Hollywood.
La «Legge» e l’«Ordine» del titolo hanno entrambi il giusto spazio
all’interno di ciascun episodio, equamente diviso in una prima parte dedicata alle indagini dei poliziotti impegnati a scovare i criminali di turno e
ad arrestarli, e in una seconda imperniata sul lavoro in aula dei pubblici
ministeri che cercano di farli condannare. E l’ibrido tra poliziesco e legal
drama è, senz’altro, tra i motivi di maggior fascino dell’operazione di Dick
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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Wolf. L’azione – con molti spunti che arrivano direttamente dalla cronaca
nera oppure dai ritagli dei giornali – è ambientata nel «ventre» di New
York, restituita ai telespettatori in tutta la sua cupa, violenta ma vitalissima complessità, poco prima che il sindaco Rudolph Giuliani la trasformasse in una sorta di asettica Disneyland per turisti danarosi (ma prima
ancora che l’atroce attentato terroristico al World Trade Center ne ridefinisse per sempre lo spirito e, persino, lo «Skyline»).
In tutte le vicende domina l’ambiguità, con i confini tra bene e male,
innocenza e colpevolezza che diventano sempre più sfumati e meno
definiti. In netta controtendenza rispetto ad altre importanti serie del
periodo, poi, sotto l’obiettivo resta quasi esclusivamente l’aspetto pubblico delle esistenze dei personaggi principali, tutti seguiti minuziosamente nell’esercizio delle loro professioni ma dalle vite private piuttosto
misteriose: quasi come se, nella «Grande Mela» d’inizio anni ’90, fosse
pericoloso portare al di fuori delle mura domestiche il proprio privato.
Il cast dei personaggi principali è equamente diviso tra poliziotti e legali: nel primo gruppo, ci sono i detective Lenny Briscoe (interpretato da
Jerry Orbach), «Rey» Curtis (Benjamin Bratt), Mike Logan (Chris Noth)
e Phil Cerreta (Paul Sorvino, presente solo nella prima stagione), il
tenente Anita Van Buren (S. Epatha Merkerson), il capitano John Cragen
(Dann Florek), il sergente Max Greevey (George Dzundza); nel secondo,
invece, i vice-procuratori generali Jamie Ross (Carey Lowell), Ben Stone
(Michael Moriarty), Jake McCoy (Sam Waterston), Claire Kincaid (Jill
Hennessy), Paul Robinette (Richard Brooks) e il procuratore-capo Adam
Schiff (Steven Hill).
È ancora più stretto e diretto il legame tra il cinema hollywoodiano e
un’altra celebre serie legale degli anni ’90: J.A.G. - Avvocati in divisa (JAG),
ideata dal produttore Donald P. Bellisario e trasmessa a partire dal 1995.
La fonte d’ispirazione diretta, infatti, arriva dal film di Rob Reiner Codice
d’onore (A Few Good Men, 1992). Anche qui, come nella pellicola con Tom
Cruise e Demi Moore, i protagonisti sono due avvocati della Marina militare americana, un uomo e una donna: i tenenti Harmon Rabb Jr. (interpretato da David James Elliott) e Meg Austin (Tracey Needham), sostituita nella seconda annata dal maggiore Sarah MacKenzie (Catherine
Bell). La coppia – inserita in un contesto che mescola sapientemente
ambientazione militare e modi da serial legale – deve risolvere casi spinosi all’interno delle caserme situate su tutto il territorio degli Stati Uniti
(«nonnismo», omicidi, presunti incidenti, spionaggio tra i Marines), ma
si trova costretta ad agire spesso anche in alcune zone «calde» del piane-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
ta, dove sono impegnate le forze armate statunitensi: e, soprattutto in
questi casi, i personaggi devono fare sfoggio di tutto il loro autocontrollo e di notevoli dosi di discrezione e diplomazia, poiché si trovano invischiati in complicate trame di politica estera che potrebbero essere compromesse persino da una sola parola sbagliata. A fare da filo conduttore
dell’intera serie c’è la ricerca, da parte del giovane tenente Harmon Rabb,
di suo padre, scomparso quando questi aveva soltanto sei anni.
L’avvocato secondo David E. Kelley
Due tra i telefilm legali più intriganti e acclamati degli anni ’90 sono
ideati dal produttore-sceneggiatore David E. Kelley, non a caso ex giurista, già coinvolto nella produzione della storica L.A. Law - Avvocati a
Los Angeles. Si tratta degli ottimi Ally McBeal (id., 1997) e The Practice Professione avvocati (The Practice, 1997). Gli show, diversissimi tra loro
per atmosfere e suggestioni, anche se entrambi hanno per scenario la
città di Boston, puntano gran parte delle proprie «cartucce» sull’interazione tra i tanti personaggi dei rispettivi cast e sul continuo intreccio di
pubblico e privato, in cui le vicende personali acquistano persino più
importanza rispetto ai casi dibattuti in aula.
Ally McBeal è un originalissimo ibrido di sit-com e parodia del legal
drama, dove ciò che conta davvero sono i problemi di cuore dell’irresistibile protagonista: un’avvocatessa tanto sicura e determinata in tribunale, quanto goffa, stralunata e sfortunata nella vita privata. La interpreta Calista Flockhart, attrice brava e sensibile, che risulta perfetta per
un ruolo dalle mille sfaccettature. La serie va avanti dal 1997 (è giunta
alla quinta stagione): ha ottenuto tutti i riconoscimenti possibili e immaginabili e, ormai, è un autentico fenomeno di costume negli Stati Uniti.
Man mano che trascorrono le stagioni del telefilm, le trame si sbilanciano sempre più sul privato dei protagonisti.
Dal punto di vista della scrittura, Ally McBeal è diversissima dal
classico prodotto seriale televisivo: accanto a dialoghi taglienti ed esilaranti, infatti, osa e rischia notevolmente proponendo tecniche di linguaggio davvero inusuali per il piccolo schermo. «Ally pensa a voce
alta, fuori campo, in modo che la voce possa essere presa a prestito da
chi la guarda e ne condivide l’ansia esistenziale» 7: inoltre, allo spettatore è data la rara possibilità di assistere alla visualizzazione dei pensieri,
sogni e desideri della protagonista, con effetti spesso di spiazzante e
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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irresistibile comicità. Un ruolo importante è ricoperto dalle musiche di
Vonda Shepard e dalle tante canzoni sempre pronte a commentare le
vicende narrate: in particolare, appare acutissima l’idea di Kelley – ottimamente incarnata nel personaggio dell’avvocato John Cage – di trasformare molte arringhe legali in autentici spettacoli, musicali (soprattutto sulle note di Barry White, idolo di Cage; con la giuria che, di colpo,
si trasforma in coro blues) o teatrali. In questi momenti, l’aula di tribunale diventa un vero e proprio palcoscenico, rendendo finalmente esplicita quella che – da Perry Mason in avanti – è la caratteristica peculiare
dei telefilm sugli avvocati, cioè l’istrionismo dei suoi protagonisti; al
tempo stesso, portando tale aspetto alle estreme conseguenze (in questo caso, sfacciatamente comiche).
A volte, poi, sembra quasi d’essere all’interno di un cartone animato della Warner, come quando Ally è sorpresa in una situazione intima,
assieme all’amore di sempre Billy (Gil Bellows), dalla di lui moglie
Georgia (Courtney Thorne-Smith), tra l’altro anche sua amica: l’avvocatessa strabuzza gli occhi – con un sorprendente effetto speciale visivo
– proprio come avrebbe fatto Bugs Bunny o Duffy Duck di fronte a una
situazione di pericolo. Proprio la tragicomica storia d’amore con Billy fa
da filo conduttore dell’intera serie, fin dal flashback freudiano che li
vede, ragazzini di sette anni, scambiarsi il primo bacio; i due, poi, studiano insieme, al liceo e all’università, finché un giorno lui preferisce la
carriera all’amore della dolce Ally. Così, la bionda protagonista decide
di tuffarsi nel lavoro e diventa un’avvocatessa di successo: ovviamente,
ritrova Billy – con gli esiti che sono facili da immaginare – nello studio
legale che l’assume dopo l’ennesima disavventura.
Il motivo principale del successo del telefilm risiede nell’efficacia con
cui il personaggio interpretato da Calista Flockhart riesce a rappresentare l’insicurezza generazionale di fine ’900, soprattutto quella delle sempre
più numerose giovani donne americane «in carriera», impegnate in un
continuo confronto «con i codici dell’amore, della lealtà, del lavoro, dell’etica e del cosiddetto “comportamento adeguato” nel mondo reale» 8.
Assieme all’abilità di sceneggiatore di David E. Kelley, gran parte del
merito va alla Flockhart, che «interpreta alla perfezione, con i picchi della
parodia, una giovane donna che evidenzia tutte le ansie, le paranoie e gli
incubi di chi vive con la testa tra le nuvole, di chi ha visto abbattere uno
a uno tutti i propri ideali, di chi pensa che gli uomini siano tutti uguali» 9
(«Sono come la gomma americana: una volta assaggiata una – sbotta Ally
– le hai assaggiate tutte»). A completare un quadro in molti momenti dav-
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
vero surreale, ci sono altri personaggi difficili da dimenticare: il titolare
dello studio di Ally, l’ex compagno di studi Richard Fish (Greg
Germann); la coinquilina di colore Renée Radick, spigliata e femminista
(Lisa Nicole Carson), il già citato avvocato ballerino John Cage (Peter
MacNicol), innamorato perso delle canzoni di Barry White e sempre
pronto a trasformare ogni arringa in uno show, la segretaria Elaine Vassal
(Jane Krakowski), la bella e brillante collega Nelle Porter (Portia De
Rossi), l’algida e al tempo stesso «bollente» orientale Ling Woo (Lucy
Liu), Mark Albert (James LeGros). Ma c’è un altro «personaggio» ricorrente negli episodi di Ally McBeal che, più d’una volta, terminano con la
protagonista al sicuro tra le pareti del proprio appartamento: è in questi
momenti che, cercando di non pensare alla sfortuna che la perseguita in
amore, lei inizia a ballare in modo molto intimo con quello che sembra
l’uomo ideale per le attenzioni che le dedica e per come si lascia coccolare senza ribellarsi. Peccato, però, che si tratti di una bambola gonfiabile a
grandezza naturale: solo un simulacro, dunque, in una società che – con
grande sofferenza dell’ipersensibile Ally – privilegia la carriera rispetto al
calore dell’amore vero.
The Practice - Professione avvocati, invece, è un legal drama puro, mandato in onda dal 4 marzo 1997 sul network Fox e, dal 1999, trasmesso
dalla ABC, sempre con enorme successo di critica e pubblico. Il livello
di scrittura è elevato, proprio come in Ally McBeal, ma l’atmosfera è
diversissima, fortemente drammatica; le trame sono d’impianto ancora
più corale e il loro perfetto funzionamento è assicurato dal notevole
gruppo di interpreti: da Dylan McDermott (il giovane titolare dello studio legale, Robert «Bobby» Donnell) a Steve Harris (il socio penalista
dello studio, Eugene Young), da Camry Manheim e Kelli Williams (le
altre due socie, rispettivamente Ellenor Frutt e Lindsay Dole) a Lara
Flynn Boyle (il procuratore distrettuale Helen Gamble, ex fiamma di
Bobby) e Alan Lowe (l’altro procuratore distrettuale Ron Livingston); e
poi, Michael Badalucco (Jimmy), Lisa Gay Hamilton (Rebecca) e Marla
Sokoloff (la segretaria Lucy Hatcher).
Al centro dei vari episodi c’è la professione stessa dell’avvocato, con
le sue dinamiche e i suoi dubbi e compromessi spesso inevitabili: e diventa sempre più difficile praticarla, in un contesto come quello degli Stati
Uniti a cavallo tra secondo e terzo millennio. Certo, Boston non è New
York o Los Angeles: ma anche qui i personaggi devono confrontarsi continuamente con una realtà che sembra impazzita e che solo raramente
vede trionfare la vera giustizia. Ciascuno di loro fa del proprio meglio,
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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secondo la consapevolezza che ogni essere umano ha il diritto di essere
ben rappresentato legalmente: ma fino a quando, sarà possibile difendere con convinzione clienti che spesso sono davvero colpevoli, senza perdere la propria umanità? La professione legale, in The Practice, è rappresentata come una vera e propria giungla, dove sono i rapporti umani, in
più di un’occasione, ad avere la peggio. Dubbi crescenti si fanno largo
negli animi dei vari personaggi, man mano che lo studio legale Donnell,
Young, Dole & Frutt prosegue nella propria crescita.
Così, nell’episodio «La confessione» («The Confession»), Jimmy –
forse il più sensibile tra i membri dello studio – rischia quasi la vita
(entra in coma, dopo essere stato colpito da diversi colpi di pistola) per
cercare di dimostrare l’innocenza di un sacerdote accusato ingiustamente di omicidio, nonostante questi non voglia rivelare il nome del
vero assassino per non tradire il sacramento della confessione; alla fine,
sarà Bobby a estorcere con la forza – durante un violentissimo scatto
d’ira – la verità al colpevole, tornato nell’ospedale dove Jimmy è ricoverato per finire il lavoro lasciato in sospeso. In un’altra occasione,
Eugene cerca di far capire al proprio perplesso figlioletto che anche il
sicuro assassino da lui difeso in aula ha diritto a essere trattato secondo
le regole; contemporaneamente, Bobby si scontra duramente in aula
con il procuratore distrettuale Helen – i due lavorano dai lati opposti
della barricata, nonostante un passato da amanti – sull’opportunità o
meno di far processare «da adulto» un sedicenne che ha ucciso la madre
con un’arma da fuoco: entrambi gli avvocati sono sconfitti in aula ma,
nel corso di un intimo faccia a faccia tra le pareti dello studio di cui sono
soci, si fanno forza reciprocamente, consapevoli dell’importanza di lottare per assicurare a chiunque la possibilità di essere difeso.
Un’altra volta, quindi, è Ellenor che entra in una profonda crisi esistenziale quando, per aiutare un proprio cliente in un caso piuttosto
banale, non rispetta le regole: quali sono, dunque, i limiti oltre i quali
non bisognerebbe mai andare? E che senso ha una professione che, fondamentalmente, ha come scopo quello di trovare scappatoie per aggirare le norme del sistema giudiziario statunitense? Lo stesso Bobby, in
un momento di forte crescita per il suo studio, si vergogna quasi nel
mostrare i rinnovati locali al padre, umile fattorino nel più importante
studio legale della città: cosa fare, si chiede il giovane protagonista, per
non diventare come quegli «avvocatoni» che hanno sempre ignorato gli
sforzi quotidiani – e, spesso, persino la presenza – di un uomo dall’enorme dignità com’è suo padre? È solo la straordinaria passione per il
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
suo lavoro a far andare avanti Bobby e i suoi colleghi/amici. D’altra
parte, lo sforzo resta quasi disumano, dato che – confessa a un certo
punto dell’episodio il personaggio interpretato da Dylan McDermott –
«il resto della mia vita è davvero desolante: non ho figli né famiglia ed
erano sette anni che non dicevo a mio padre quanto gli volessi bene e
fossi orgoglioso di lui». E, a proposito di intrecci tra pubblico e privato,
alcuni tra i momenti di maggiore tensione emotiva della serie arrivano
dal complesso rapporto tra Bobby e Helen, ex amanti adesso in feroce
competizione nelle aule del tribunale (mitigata, comunque, da stima
reciproca, affetto e attrazione ancora vivi): avvocato difensore lui, procuratore distrettuale lei; entrambi abilissimi nel proprio campo. Proprio
Helen, per il suo delicato ruolo di pubblica accusa, è un altro personaggio spesso dilaniato da forti dubbi morali, come quando si trova costretta a dover decidere se far testimoniare o meno in aula un bambino di
quattro anni, unico testimone contro l’assassino della sua tata; deciderà
di risparmiare al piccolo l’atroce esperienza del controinterrogatorio,
ma pagherà con il proscioglimento di un sicuro omicida. Come a dire:
nessuna scelta è semplice e priva di conseguenze, spesso anche terribili; ma scegliere è, forse, ciò che ci rende (ancora) umani.
Con The Practice, dunque, David E. Kelley utilizza la professione di
avvocato come metafora e chiave interpretativa del funzionamento dell’intera società e, soprattutto, dei suoi lati più oscuri e problematici. Ally
McBeal, invece, risulta essere un ottimo strumento per entrare nell’animo di una donna modernissima, fragile e risoluta, emblema delle tante
professioniste che, negli Stati Uniti di oggi, vivono sulla propria pelle la
tensione tra un successo sempre crescente nella carriera e l’esigenza mai
sopita di una femminilità compiutamente vissuta. In questo, ma non
solo, Ally McBeal risulta molto più interessante di un telefilm solo
superficialmente «dalla parte delle donne» come Sex and the City (id.,
1998), fasullo perché sa troppo di progetto costruito a tavolino per portare avanti una tesi preconfezionata.
I primi polizieschi televisivi: da «Dragnet» ad «Alfred Hitchcock Presenta»
Tra le prime serie televisive poliziesche prodotte negli Stati Uniti degli
anni ’50, conquista immediatamente un enorme successo di pubblico
Dragnet, grazie al taglio quasi documentaristico – «confermato» dalla
voce fuori campo che, in ogni episodio, assicura circa la veridicità dei fatti
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
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narrati – e al realismo utilizzato nella descrizione del lavoro quotidiano
del protagonista, il sergente della polizia di Los Angeles Joe Friday (promosso tenente al termine della prima serie), interpretato dall’attore Jack
Webb, che è anche produttore, regista e sceneggiatore del telefilm.
Dragnet deriva da una precedente trasmissione radiofonica e va in
onda dal 16 dicembre 1951 al 6 settembre 1959. Accanto al protagonista,
s’alternano diversi partner (gli attori Barton Yarborough, Barney
Philips, Ben Alexander), dando inizio a quella che diventerà una caratteristica ricorrente del poliziesco in televisione (e poi al cinema): la coppia di detective intercambiabili e complementari tra loro. Sono pochissime, invece, le presenze femminili all’interno della serie, soprattutto
«fidanzate» di turno di Friday. Ma è quasi normale, in un mondo fatto
di pochissimo tempo per la vita privata e dominato dal virile gergo
poliziesco, dalle «cartacce» burocratiche e da intense investigazioni
nella città ostile. Il progetto di Jack Webb influenza parecchi telefilm a
venire – per certi versi addirittura fino al recente, acclamato NYPD New York Police Department – e gode, a sua volta, di diverse riprese nel
corso degli anni: dalla seconda serie (con Joe Friday «retrocesso» di
nuovo a sergente) trasmessa tra il 12 gennaio 1967 e il 10 settembre 1970
(ovviamente a colori) fino a quella del 1990, The New Dragnet.
Altrettanto importante, in questo periodo, è La città in controluce
(Naked City, 1958), show televisivo di Stirling Silliphant ispirato al film
omonimo – La città nuda (Naked City) – diretto nel 1948 da Jules Dassin.
Girato interamente a New York, è tra i migliori polizieschi catodici degli
anni ’50, caratterizzato dall’estrema varietà delle vicende narrate: dall’omicidio inspiegabile al «caso umano», dal tentativo misterioso di suicidio alla sanguinosa rapina in banca (non a caso la frase introduttiva –
anch’essa ripresa dal film di Dassin – dice, nella traduzione italiana: «Ci
sono otto milioni di storie nella “città in controluce”; quella che segue è
una di queste»). In onda dal 30 settembre 1958 al 29 settembre 1959 (con
episodi di 30 minuti l’uno) e dal 12 ottobre 1960 all’11 settembre 1963
(con puntate di un’ora ciascuna), Naked City rientra tra le pietre miliari
della TV statunitense dei primordi, sia per l’atmosfera che caratterizza le
sue storie, sia per l’ottimo parco di interpreti coinvolti: James Franciscus
(detective Jim Halloran), John McIntire (tenente Dan Muldoon), Horace
McMahon (tenente Mike Parker) e Harry Bellaver (sergente Frank
Arcaro); affiancati da «guest star» del calibro di Walter Matthau, Peter
Falk, Gene Hackman, James Coburn, Abbe Lane, George Segal, George
C. Scott. Straordinari anche i titoli di molti episodi: basti pensare solo a
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AI CONFINI DELLA REALTÀ
pazzeschi capolavori di inventiva come «La termite ben vestita», «Il
giorno che quasi affondò l’isola», «La notte in cui il santo perse l’aureola», «Lasciami morire prima di svegliarmi». Anche questa serie è ripresa
alla fine degli anni ’60, con i personaggi di McMahon (Mike Parker) e
Bellaver (Frank Arcaro) affiancati da quelli di Paul Burke (detective
Adam Flint) e Nancy Malone (la sua ragazza); e pure per questa «ripresa» abbondano gli ospiti illustri, da Robert Redford e Dustin Hoffman a
Peter Fonda e Jon Voight.
Altri importanti telefilm polizieschi della «Golden Age», giunti
anche sui teleschermi italiani, sono Il tenente Ballinger (M Squad, 117 episodi dal 1957; con Lee Marvin e le musiche di Count Basie), Indirizzo
permanente (77 Sunset Strip, 205 episodi dal 1958; con Efrem Zimbalist
Jr.) e la celeberrima «Anthology Series» Alfred Hitchcock Presenta (Alfred
Hitchcock Presents, 1955).
Trasmessa sulla CBS e poi sulla NBC tra il 2 ottobre 1955 (episodio
«Revenge») e il 10 maggio 1965 («Off Season») – per un totale di 361
puntate in bianco e nero di 30 e 60 minuti ciascuna – la serie ideata da
Alfred Hitchcock (che cura anche la regia d’una ventina di episodi, nel
periodo compreso tra Caccia al ladro e Gli uccelli) è composta da singole
storie autoconclusive e slegate tra loro, accomunate dall’atmosfera
complessiva e dalla presenza evidente, in molti casi, delle ossessioni
tematiche tipiche del cinema hitchcockiano: il peccato e la colpa, l’innocenza ingiustamente (e sadicamente) perseguitata, il reale e la sua rappresentazione (vero/falso), il problematico rapporto tra i due sessi, il
continuo cortocircuito tra «natura» e «cultura», per citarne solo alcuni.
«L’umorismo nero e la suspense creavano un “perfect plot”, un ordito
straordinariamente rigoroso nelle sue prerogative di paura e comicità.
La parola a Hitch: “Si tratta, secondo me, di un umorismo tipicamente
inglese, o addirittura londinese. Ricorda la barzelletta di quell’uomo
condannato al patibolo che, quando è condotto davanti alla forca, si
accorge che è stata costruita con un’intelaiatura fragile. Chiede allarmato: ’Eh, ma sarà sicura?’”.» 10
Dal punto di vista stilistico, i telefilm – soprattutto quelli diretti dallo
stesso Hitchcock che, comunque, mantiene sempre la supervisione artistica – sono autentici saggi di messa in scena, impressionante per la sua
essenzialità, con l’idea scarnificata, «nuda» e spesso destinata a trovare
poi la sua forma più raffinata nel cinema. Il tono della serie è quello dei
raccontini del terrore e del mistero, con ritmo sincopato tutto giocato sull’alternanza di suspense prolungata (con la complicità dello spettatore,
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
227
alle «spalle» dei personaggi, «come a voler sollecitare chi guarda a mettere sull’avviso chi è in pericolo» 11) e sorpresa (l’improvviso colpo di
scena, non previsto e prevedibile né dal pubblico né dai personaggi e svelato solo alla fine, spesso tramite un completo rovesciamento delle presunte certezze «messe in campo» fino a quel momento).
In ogni storia, comunque, il mondo rappresentato non è mai nettamente diviso tra «buoni» e «cattivi», bene e male; ma è privo di certezze
e sempre pronto allo sberleffo anche sadico. Proprio il sadismo hitchcockiano e l’ironia onnipresente caratterizzano un progetto che si distingue, fin dalle prime puntate, per la sua unicità (avvicinabile, al massimo,
ad alcuni esiti felici di Ai confini della realtà). A rendere famoso Alfred
Hitchcock Presenta, poi, contribuiscono anche la notissima marcetta musicale che fa da sigla (la Marcia funebre di una marionetta di Gounod, arrangiata da Dave Kahn), il profilo stilizzato del regista – autentico logo dell’intera serie – e, soprattutto, i sardonici siparietti introduttivi e conclusivi dello stesso Hitch, a fare da cornice di ciascun episodio: rapidi e
geniali, ironici e paradossali (scritti da James Allardice) servono a dare
la chiave di lettura della storia ma, spesso, anche a prendere in giro tic,
caratteristiche e limiti del nuovo mezzo di comunicazione e, persino, gli
sponsor dello show. La «Anthology Series» gode di una nuova «incarnazione» a colori tra il 5 maggio 1985 e il 22 luglio 1989, con un ulteriore ciclo di 80 episodi più quattro pilot: per la maggior parte si tratta di
remake tratti dalla serie classica, introdotti e chiusi da un Hitchcock
«colorizzato».
Tenenti atipici: Colombo e Kojak
Mentre gli anni ’60 registrano, come visto, il «boom» dei telefilm di
genere ospedaliero (Ben Casey e Dottor Kildare, su tutti) e di quelli fantastici, il poliziesco torna in auge nei palinsesti delle televisioni statunitensi all’inizio del decennio successivo, quando fanno la loro comparsa,
tra gli altri, due personaggi destinati a scavare un solco piuttosto
profondo nell’immaginario dei telespettatori: entrambi tenenti della
polizia, rispondono ai nomi di Colombo (ma, nella versione originale, il
nome è Columbo) e Kojak.
Proprio il tenente Colombo – caratterizzato in modo sublime dall’attore newyorkese Peter Falk (nato il 16 settembre 1927 e, nel corso d’una
lunghissima carriera cinematografica, «nominato» due volte all’Oscar) –
228
AI CONFINI DELLA REALTÀ
è tra i characters più amati e popolari nella storia della TV americana. Il
poliziotto losangelino dall’aria perennemente malinconica e «sfigata» –
ma, in realtà, acutissimo detective – è creato da Richard Levinson e
William Link. Colombo, però, non nasce con gli episodi televisivi, dato
che le sue prime tracce risalgono al breve racconto May I Come In, che si
conclude proprio con l’arrivo della polizia; il personaggio appare per la
prima volta in un successivo adattamento – curato da Levinson e Link –
per un episodio del The Chevy Mistery Show («Enough Rope», dove il
tenente ha il volto, però, di Bert Freed). La stessa sceneggiatura viene poi
portata a Broadway, con il titolo Prescription: Murder e il ruolo di
Colombo passa a Thomas Mitchell.
La serie di telefilm inizia la sua programmazione, sulla NBC, il 15
settembre 1971 fino al 1 settembre 1978: in totale sono realizzati 43 episodi, alcuni da 96 minuti e altri da due ore, preceduti dai due film pilota Prescrizione omicidio (Prescription: Murder, 1967) e Riscatto per un uomo
morto (Ransom for a Dead Man, 1971), entrambi diretti da Richard Irving.
La serie torna in produzione nel 1989, per altri 22 episodi, andati in
onda fino al 1998.
Alcuni elementi innovativi per un poliziesco televisivo caratterizzano fin dalle prime puntate la serie Colombo. La durata di ciascun episodio, anzitutto, ne fa un autentico film televisivo. Poi, i modi apparentemente da inetto del tenente – resi ancora più «spettacolari» dall’abbigliamento trascuratissimo e, in particolare, dall’impermeabile perennemente stropicciato – ingannano regolarmente i criminali che, all’inizio di
ogni episodio, commettono l’omicidio da cui si dipana la trama. Solo alla
fine, si accorgono d’aver ingiustamente sottovalutato Colombo che, per
tutta la puntata, non fa altro che giocare come il gatto col topo con gli
indiziati. Il divertimento maggiore per gli spettatori – che, fin dall’inizio,
conoscono l’identità del colpevole – sta proprio nello scoprire «come» il
tenente verrà a capo del mistero. Tra le altre note caratteristiche del personaggio, va sottolineata l’assenza di un nome proprio (che non viene
mai pronunciato e si intuisce, forse, solo da un suo documento mostrato nell’episodio «Dead Weight», «La pistola di madreperla»: è Frank? O
forse Joseph?), la passione per il chili con i crackers, l’inusuale e cadente
automobile – una Peugeot 403 del 1959 – guidata con affetto e passione,
lo scarsissimo ricorso alla pistola (una sola volta, nell’episodio
«Playback»), il fatto di chiamare il proprio cane «Cane» (poiché non riesce a trovare un nome che gli piaccia), gli amati sigari, soprattutto i continui riferimenti a una moglie mai mostrata nel corso del telefilm (nel
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
229
1979, la signora Colombo è poi protagonista di una serie propria, durata solo 13 episodi). Si comprendono, da quanto detto, i motivi per cui
Colombo si staglia immediatamente nel panorama dei polizieschi televisivi degli anni ’70, forte di un’indiscutibile originalità.
Fino alla sua conclusione nel 1978, la serie è tra quelle di maggior
successo e più costose – il solo Peter Falk arriva a guadagnare 125.000
dollari a episodio (il più pagato tra i divi televisivi dell’epoca) – e può
giovarsi anche della partecipazione di grandi attori – da John
Cassavetes a Janet Leigh, da Mirna Loy a Ida Lupino e Ray Milland – e
dell’apporto di molti scrittori di successo (tra tutti, Steven Bochco) e di
alcuni tra i più importanti registi di Hollywood (bastino i nomi di
Steven Spielberg – che ha l’onore di dirigere il primo episodio, «Un giallo da manuale», «Murder by the Book» –, Richard Quine, Jonathan
Demme e dello stesso Cassavetes, con lo pseudonimo di Nicholas
Colasanto). È quasi logico, dunque, che il personaggio sia ripreso a partire dal 1989, stavolta sul network ABC.
Altra figura di poliziotto eccentrico è quella di Theo Kojak, tenente
newyorkese della squadra omicidi di Manhattan South dal cranio perfettamente rasato e con la passione per i lecca lecca e i gilet dai colori
estrosi. Il personaggio, creato da Abby Mann, è al centro della serie Kojak
(id.), prodotta dalla Universal e trasmessa dal 24 ottobre 1973 (data dell’ottimo pilot «The Marcus Nelson Murders») al 15 aprile 1978, per complessivi 115 episodi da un’ora (tranne tre, di un’ora e mezza). Kojak è
interpretato da Telly Savalas, ex produttore televisivo e attore spesso
impegnato in ruoli di «cattivo», che caratterizza il personaggio con una
recitazione «gigioneggiante». Al suo fianco, recitano il fratello George e
Vince Conti nei panni, rispettivamente, dei detective Stavros e Rizzo;
Mark Russell come detective Saperstein, Dan Frazier (capo detective
Frank McNeil) e Kevin Dobson (tenente Bobby Crocker). A differenza di
Colombo, il tenente Kojak porta avanti le sue inchieste grazie a un ottimo lavoro di squadra e, proprio lo spazio dato ai diversi poliziotti, serve
agli autori del telefilm per descrivere realisticamente i diversi aspetti
della vita nella cupa metropoli che è diventata New York. Proprio per il
suo realismo, tra l’altro, Kojak ha il plauso di molti esponenti di punta
della polizia newyorkese. Come in molti altri serial degli anni ’70 – nella
tradizione di polizieschi come Naked City e Dragnet – è la città, probabilmente, l’autentica protagonista del telefilm: un luogo che di notte mostra
il suo volto più pericoloso e che, dietro le sue mille luci, nasconde pericoli inimmaginabili. In questo scenario, il tenente Kojak e i suoi colleghi
230
AI CONFINI DELLA REALTÀ
avanzano senza guardare in faccia nessuno e il personaggio di Terry
Savalas – ben oltre la sua aria svagata e perennemente ironica – si mostra
sempre intelligentissimo e, soprattutto, estremamente efficace. Anche
questa serie, come Colombo, ospita parecchie «guest star», soprattutto
per quanto riguarda attori come Eli Wallach, Maria Schell, Sylvester
Stallone, Richard Gere e la futura star del poliziesco TV Chips (id., 1977)
Erik Estrada.
«Azione!»: sbirri in coppia o in squadra
Come detto, gli anni ’70 segnano il prepotente ritorno dei telefilm
polizieschi, caratterizzati spesso da un elemento che diventerà ancor
più comune nel decennio successivo: il ricorso a una coppia di protagonisti, magari due sbirri anticonvenzionali, in grado di completarsi tra
loro dal punto di vista caratteriale e professionale.
Tra il 1972 e il 1973 escono due telefilm polizieschi dai titoli italiani e
dalle atmosfere molto simili: Le strade di San Francisco (The Streets of San
Francisco) e Sulle strade della California (Police Story). In particolare, la
prima serie va in onda tra il 16 settembre 1972 e il 23 giugno 1977, per
un totale di 119 episodi, preceduti da un ottimo film pilota diretto da
Walter Grauman. Per i due ruoli principali, i creatori Quinn Martin e
Edward Hume scelgono due attori di sicuro talento come Karl Malden
(Mike Stone, veterano del dipartimento di polizia criminale di San
Francisco) e il giovane figlio d’arte Michael Douglas (il suo impetuoso
assistente, Steve Keller). Al centro delle vicende sono messi proprio i
conflitti generazionali e caratteriali tra i due personaggi, differenti per
età e stile di vita. C’è molta cura nell’ambientazione urbana, restituita
attraverso sceneggiature interessanti e un buon livello di regia e fotografia. Il telefilm è caratterizzato da molta azione, inseguimenti, sparatorie, colpi di scena improvvisi per non lasciare mai al pubblico il tempo
di respirare. Sulle strade della California, invece, ha una struttura differente, senza personaggi fissi e con un realismo ancora più esasperato delle
vicende narrate. Scritta dall’ex poliziotto losangelino (poi anche romanziere) Joseph Waubaugh, la serie esplora sia il lato professionale sia quello privato del lavoro in polizia, partendo dalle esperienze dirette dell’autore. Il telefilm va in onda tra il 2 ottobre 1973 e il 23 agosto 1977, per
un centinaio di episodi e – nonostante la grande cura dei dettagli e la
tanta azione con molti stuntmen – proprio la mancanza di personaggi
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231
ricorrenti, in cui il pubblico possa identificarsi, porta alla sua cancellazione. Nell’ambito di Sulle strade della California sono trasmessi i pilot di
Pepper Anderson agente speciale e Joe Forrester (id., 1975).
La più celebre tra le serie incentrate su coppie di detective – almeno
fino a Miami Vice – è certamente Starsky & Hutch (id.), creata nel 1975 da
William Blinn. Il suo successo è addebitabile, anzitutto, al carisma e alla
sfacciata simpatia dei due interpreti principali: il «riccio» Paul Michael
Glaser nel ruolo di Dave Starsky e il «biondo» David Soul in quello di
Ken «Hutch» Hutchinson. Si tratta di due poliziotti di Los Angeles –
città, evidentemente, ideale per il «lato action» del poliziesco televisivo
– in azione spesso sotto copertura, per assicurare alla giustizia i criminali
più pericolosi. Al loro fianco ci sono anche Bernie Hamilton nei panni
del capitano Harold Dobey e Antonio Fargas in quelli di Huggy Bear, il
loro informatore. Trasmesso tra il 10 settembre 1975 e il 21 agosto 1979
(92 episodi di un’ora), Starsky & Hutch ha una partenza folgorante – al
ritmo del tema musicale composto da Lalo Schifrin – fin dalle prime
puntate, con atmosfere «dark» ed esplosioni di violenza inusuali per un
prodotto televisivo; dalla seconda stagione, i ritmi diventano ancora più
serrati, l’atmosfera si alleggerisce lievemente e le trame restano comunque interessanti e ricche d’azione e di acrobazie (caratteristiche del telefilm sono anche le tante auto fracassate in spericolati inseguimenti). A
partire dalla terza stagione, però, la campagna anti-violenza di quegli
anni costringe gli autori ad attenuare alcuni tra gli elementi portanti
della serie, accentuando il lato privato delle storie e dando più spazio,
quindi, ai casi personali dei due protagonisti, con una forte iniezione di
romanticismo e sentimentalismo. Il fascino di Starsky & Hutch, però,
rimane intatto nei confronti del pubblico, grazie al carisma di due attori
sempre più affiatati tra loro, calati in un contesto urbano restituito sullo
schermo in tutta la sua forza e complessità, grazie alla musica funky, alla
moda variopinta del periodo, alle notti illuminate dai neon dei quartieri malfamati.
Si passa dalla coppia al trio – per giunta tutto femminile – nel 1976,
quando Ivan Goff e Ben Roberts scrivono Charlie’s Angels (id.), in onda dal
22 settembre 1976 al 19 agosto 1981 per 109 episodi prodotti da Aaron
Spelling per la ABC. Tre splendide ragazze, diplomate all’Accademia di
polizia, sono assunte dall’agenzia investigativa Townsend Organisation,
gestita dal misteriosissimo Charlie Townsend (nel telefilm non si vede
mai e comunica con le ragazze – e con i telespettatori – solo attraverso un
interfono o il telefono). Le tre sono note come «Gli angeli di Charlie» (le
232
AI CONFINI DELLA REALTÀ
«Charlie’s Angels», appunto) e devono barcamenarsi tra situazioni
rischiosissime di ogni tipo. All’inizio, sono selezionate come protagoniste
la modella Farrah Fawcett, Kate Jackson e Jaclyn Smith; ma il trio non
dura a lungo, poiché dopo poco Cheryl Ladd sostituisce la Fawcett e,
dopo la terza stagione, anche la Jackson è sostituita da Shelley Hack, cui
subentra poi Tanya Roberts. La bellezza delle varie attrici, comunque,
assieme a trame quasi sempre avvincenti e spettacolari, decretano il successo del telefilm, originale perché «animato» da anomale investigatrici
in grado di ben figurare in bikini molto sexy o in scollatissimo abito da
sera e sottovesti di seta ma, al tempo stesso, di lottare corpo a corpo con
pericolosi criminali e sostenere scatenati inseguimenti automobilistici a
tutto gas oppure spericolati dribbling in skateboard per evitare i cattivissimi avversari di turno. Il trio originale è composto da Sabrina Duncan
(cioè, come detto, l’attrice Kate Jackson), Jill Munroe (la Fawcett) e Kelly
Garrett (la Smith), tutte perfettamente a proprio agio con l’atmosfera piacevolmente «glamour» di un telefilm godibile sia per gli intrecci polizieschi, spesso condotti a ritmi mozzafiato, sia per le mìse altrettanto mozzafiato delle splendide protagoniste. Un «ritorno di fiamma» nei confronti del telefilm è provocato dal recente film per il cinema tratto dalla
serie (Charlie’s Angels, id., 2000), diretto dall’esordiente McG e interpretato da Drew Barrymore (anche produttrice), Cameron Diaz e Lucy Liu.
Altre popolari coppie di detective, stavolta «miste» uomo/donna,
sono protagoniste di due telefilm che uniscono le atmosfere poliziesche
a quelle della commedia sofisticata: Cuore e batticuore (Hart to Hart) –
creato da Sidney Sheldon nel 1979 (andato in onda fino al 1984) e imperniato sul rapporto sentimentale e professionale, molto «high class», tra
Jonathan (Robert Wagner) e Jennifer Hart (Stephanie Powers) – e
Moonlightning (id., 1985-1989) di Allan Arkush con Cybill Sheperd (è la
top model Maddie Hayes) e Bruce Willis (David Addison). Anche in
Hunter (id., 1984-1990) la coppia di poliziotti protagonisti è formata da
un uomo e una donna – l’Hunter di Fred Dryer e la Dee Dee McCall di
Stephanie Kramer –, ma il tono della serie è quello classico del poliziesco, con punte anche piuttosto dure.
Un riuscito mix tra i romanzi di Ed McBain sull’Ottantasettesimo
distretto, Sulle strade della California e una soap opera: ecco quel che
sembra, fin dal suo primo episodio del 15 gennaio 1981, un telefilm per
molti aspetti rivoluzionario come Hill Street giorno e notte, creato dallo
specialista Steven Bochco. Ambientato in un quartiere degradato di una
non specificata metropoli statunitense, il serial si differenzia per molti
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
233
aspetti da ciò è stato fatto in passato: non soltanto perché racconta con
toni realistici la vita di tutti i giorni all’interno di un distretto di polizia,
ma in particolare perché dedica, fin dall’inizio, molto spazio alle vicende private dei vari agenti, ai loro rapporti interpersonali e persino al
loro tempo libero. L’autore definisce la sua «creatura» come «un grande spettacolo, pazzo, commovente, pieno di calore e confusione, che
non parla tanto di delitti e criminali quanto di poliziotti visti come esseri umani» 12. Il variegato gruppo di protagonisti è assemblato mettendo
insieme Daniel J. Travanti (il capitano Frank Furillo, capo del distretto),
Veronica Hamel (la fredda avvocatessa Joyce Davenport), Michael
Conrad (il sergente Phil Esterhaus), Bruce Weitz (il ruvido detective
Mike Belder), James Sikking (il reazionario tenente Howard Hunter),
Kiel Martin (Johnny «J.D.» La Rue), Betty Thomas (Lucy Bates) e Jon
Cypher (l’ambizioso capo della polizia Fletcher Daniels). Il riscontro di
pubblico e critica è notevole, grazie al riuscito incrocio tra simpatia e
umorismo, realistiche descrizioni di un disperato ghetto urbano, complessità degli intrecci tra i numerosi personaggi. E, grazie a questi dosati ingredienti, Hill Street giorno e notte vince anche otto Emmy Awards
nel 1982, seguiti da altri cinque nel 1984.
Verso la metà degli anni ’80, irrompe nei palinsesti televisivi statunitensi Miami Vice, un altro telefilm che può essere considerato rivoluzionario rispetto al passato. In onda per quattro stagioni, a partire dal 16 settembre 1984, la serie ideata da Michael Mann e Anthony Yerkovich è lo
specchio perfetto degli Stati Uniti degli anni ’80, irrimediabilmente scissi
tra «edonismo reaganiano» e violenza metropolitana sempre più inarrestabile; dal punto di vista stilistico, inoltre, anticipa molte suggestioni
visive di quello che – anni più tardi – è definito «stile MTV»: interi episodi, riguardandoli oggi, sembrano girati come autentici videoclip musicali, grazie a un attento e raffinato utilizzo della colonna sonora – dalle
partiture originali di Rick Conrad, Jan Hammer e Tim Truman, fino ai
tanti brani rock inseriti nello score – combinato con le tinte glamorous della
fotografia di Duke Callaghan, James A. Contner, Tom Priestley Jr. e Oliver
Wood e con i virtuosismi del montaggio di Buford F. Hayes e Douglas
Ibold. Miami Vice, in definitiva, sostituisce la centralità delle trame, fondamentale nei telefilm polizieschi realizzati fino a quel momento, con
una nuova importanza concessa alle scenografie e al «look» complessivo
dello show. Protagonisti del telefilm sono due agenti della squadra narcotici di Miami, James «Sonny» Crockett (Don Johnson) e Ricardo Tubbs
(Philip Michael Thomas), specializzati in azioni «sotto copertura», molto
234
AI CONFINI DELLA REALTÀ
spesso in aperto contrasto con il loro superiore, il tenente Martin Castillo
(Edward James Olmos). Va notato subito come la coppia sia interrazziale, composta dal bianco Crockett (biondo e tipicamente wasp) e dall’afroamericano di colore Tubbs, mentre il loro tenente è di origini ispaniche. «Sonny» Crockett, divorziato e inguaribile playboy, vive su un battello assieme al suo alligatore Elvis, gira con abiti firmati costosissimi e va
in giro con una scintillante Ferrari; Ricardo Tubbs, invece, viene da New
York e si è fatto trasferire in Florida solo per scovare gli assassini di suo
fratello. Entrambi sono inseriti in vicende molto spettacolari, con frequentissimi inseguimenti per le strade di Miami e violente scazzottate
conclusive. La spettacolarità delle trame, però, a volte implode e si fa – in
Miami Vice – riflessione dolente e crepuscolare sui rapporti ambivalenti
tra forma e contenuto (nella vita e nella sua messa in scena), sui ritorni
imprevisti di un passato che si crede dimenticato, sugli eventuali patti da
stringere con il proprio «lato oscuro» (basti pensare alla bellissima saga
che vede Crockett quasi risucchiato dal personaggio in cui si è calato nel
corso dell’ennesima operazione da infiltrato tra i narcotrafficanti), con
dilatazioni che vedono tante volte i dialoghi tra i vari personaggi sostituiti dalla musica e dai suoni della città; una città irrimediabilmente
«sdoppiata», scissa tra la scintillante immagine diurna e il suo inevitabile «negativo» notturno. Tra i registi che hanno diretto episodi di Miami
Vice molti sono approdati a Hollywood: Craig Bolotin, Rob Cohen,
Christopher Crowe, Bill Duke, il grande «maledetto» Abel Ferrara, lo
stesso «Castillo» Edward James Olmos, per concludere col produttore
esecutivo Michael Mann. Per quanto riguarda gli interpreti, sarebbe troppo lunga la lista delle «guest star» intervenute nella serie: quasi tutti gli
attori che oggi vanno per la maggiore hanno fatto – chi prima, chi dopo
– una «capatina» a Miami.
L’ultimo «grido» in fatto di telefilm polizieschi è rappresentato da
NYPD - New York Police Department (N.Y.P.D. Blue), che la ABC manda
in onda dal 21 settembre 1993. La serie – ideale per un decennio come
quello ’90 – rappresenta l’ennesimo «parto» dello specialista Steven
Bochco e riprende alcuni meccanismi già alla base del successo di Hill
Street Blues (richiamato, d’altronde, fin dal titolo), a partire dalla coralità delle storie e dall’iperrealismo della narrazione. Ambientato tra le
strade di New York, N.Y.P.D. Blue descrive le vite e il lavoro dei membri del Quindicesimo distretto di polizia, impegnati a mantenere l’ordine in una realtà urbana sempre più frammentata e degenerata; ma, al
tempo stesso, impegnati anche a impedire che le loro esistenze private
PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI
235
vadano a rotoli. Il tono realistico ma anche fortemente drammatico e il
linguaggio crudo e intriso di «slang» di molti personaggi rende questa
serie un prodotto decisamente «adulto».
Il notevole (e folto) gruppo di attori protagonisti propone David
Caruso (il disilluso detective John Kelly), Dennis Franz (il suo compagno, il veterano ex alcolizzato Andy Sipowicz), Jimmy Smits (il detective franco-portoghese Bobby Simone, che sostituisce Kelly nella seconda stagione); e poi, tra i tanti che s’alternano nel corso delle annate,
Gordon Clapp (detective Greg Medavoy), Kim Delaney (Diane Russell),
Sharon Lawrence (Sylvia Costas, assistente del procuratore distrettuale
e, poi, moglie di Sipowicz), James McDaniel (tenente Arthur Fancy),
Andrea Thompson (detective Jill Kirkendall), Nicholas Turturro (il giovane investigatore James Martinez), Sherry Stringfield (poi in E.R.; qui
interprete dell’avvocatessa Laura Hughes Kelly, ex moglie di John).
NYPD - New York Police Department, dal punto di vista del linguaggio –
sottolinea il critico televisivo Aldo Grasso – «è ricco di invenzioni: telecamera inquieta, montaggi serrati, ritmi calibrati, sequenze girate
splendidamente, con una luce fredda, quasi livida. E soprattutto storie
incrociate alla perfezione. […] I profili psicologici dei personaggi sono
addirittura approfonditi (cosa rara soprattutto in un telefilm), i soggetti sono credibili, le storie sembrano autentiche e i problemi seri; il tutto
sullo sfondo della città più cinematografica e televisiva del mondo» 13.
Stavolta, dunque, Bochco porta alle estreme conseguenze i presupposti di partenza del suo classico Hill giorno e notte, per quel che riguarda l’impianto corale e, più in generale, il rapporto con le leggi della
serialità. In definitiva, si può tranquillamente affermare che proprio
NYPD - New York Police Department è il serial che ha il merito d’aver
ridefinito completamente i parametri dei telefilm americani – non soltanto polizieschi: l’esempio migliore è E.R. – degli anni ’90, per quanto
riguarda lo stile e i contenuti.
Per concludere, va aggiunto che un simile poliziesco poteva essere
ambientato soltanto in una città come New York, data la sua capacità di
penetrazione nel profondo delle viscere della metropoli, per restituirne
gli umori sul piccolo schermo televisivo. La «Grande Mela», infatti, si
sviluppa verticalmente e, quindi, diventa l’ambiente ideale per prodotti di fiction – in televisione come al cinema – che vogliano a loro volta
andare in profondità, nelle psicologie di personaggi e luoghi. Dal canto
suo, invece, Los Angeles ha uno sviluppo chiaramente orizzontale e –
sempre per restare nell’ambito del poliziesco televisivo – è perfetta per
236
essere «tagliata» dagli scatenati inseguimenti in auto propri del lato d’azione dei telefilm di detection. In entrambi i casi, però, la città – penetrata verticalmente o attraversata orizzontalmente – è protagonista al
pari degli esseri umani che la vivono: tra le sue strade, così come in una
corsia di ospedale o in un’aula di tribunale.
Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2000, p. 131.
Cfr. Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti,
Milano 2001, pp. 104-105.
3
Als Ob, E.R., in barba al rimbambimento, «Sole 24 Ore», 29 aprile 2001, p. XIV.
4
Ivi, p. XIV.
5
Aldo Grasso, Storia della televisione italiana cit., p. 624.
6
Ivi, p. 81.
7
Ivi, p. 694.
8
Da un articolo della rivista «Life», citato in Aldo Grasso, Storia della televisione
italiana cit., p. 694.
9
Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 19.
10
Natalino Bruzzone, Valerio Caprara, I film di Alfred Hitchcock, Gremese, Roma
1982, p. 279.
11
Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 14.
12
Citato in Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit.,
p. 267.
13
Aldo Grasso, Storia della televisione italiana cit., pp. 608-609.
1
2
APPENDICI
Venti «creatori» seriali
Una breve premessa, prima di passare alle schede degli autori. La
selezione che segue non ha alcun intento enciclopedico (che lascio volentieri ai compilatori di dizionari), ma intende offrire al lettore un supporto alla lettura dei capitoli precedenti.
Per questo motivo, ho privilegiato gli autori delle serie che hanno
avuto maggiore spazio all’interno del libro. Il mio elenco, però, comprende soltanto coloro che sono ricordati principalmente per i loro
lavori televisivi: ecco spiegate, dunque, le assenze di Alfred Hitchcock
(Alfred Hitchcock Presents), Steven Spielberg (Amazing Stories), Garry
Marshall (Happy Days), Michael Mann (Miami Vice), David Lynch (I
segreti di Twin Peaks), Sam Raimi (American Gothic), Michael Crichton
(E.R.), Kevin Williamson (Dawson’s Creek), tutti notissimi innanzitutto
in ambito cinematografico e/o letterario (Crichton). Ho cercato, inoltre,
di includere nomi noti agli appassionati italiani: e ciò spiega esclusioni
come quelle dei pur importanti Irwin Allen (Lost in Space), Dan Curtis
(Night Shadows) e Joe Michael Straczynski (Babylon 5), ascrivibili soprattutto all’ambito del «culto». Per il resto, com’è ovvio, ho seguito il mio
gusto personale, coerentemente, comunque, con lo spazio dato nei vari
capitoli a determinati telefilm piuttosto che ad altri.
Desi Arnaz e Lucille Ball
Desiderio Alberto Arnaz y De Acha III nasce il 2 marzo 1917 a
Santiago, nell’isola di Cuba. Dopo la rivoluzione di Batista, la sua famiglia si trasferisce negli Stati Uniti, dove Desi diventa un musicista di
240
AI CONFINI DELLA REALTÀ
successo che rende popolari molti ritmi latini. Nel 1940, incontra Lucille
Ball – nata Lucille Desirée Ball il 6 agosto 1911 a Celeron (New York) e
all’epoca già apparsa in un’infinità di pellicole, più o meno importanti,
fin dal 1933 – sul set del musical Too Many Girls. I due artisti si sposano
poco dopo e, nel 1951, fondano la loro casa di produzione: la celebre
Desilu. Sotto questo marchio, realizzano la prima sit-com di successo
della televisione statunitense: Lucy ed io, di cui sono anche protagonisti
nei ruoli di Ricky e Lucy Ricardo, marito e moglie pure davanti alle telecamere. Nel 1962, Arnaz – che, due anni prima, ha divorziato dalla Ball
– produce The Lucy Show, sempre con l’ex moglie come protagonista;
ma, nonostante qualche altra apparizione in televisione come attore, fa
vita piuttosto ritirata fino alla morte (2 dicembre 1986, a Del Mar in
California). Lucille Ball, invece, dopo il divorzio tiene per sé la Desilu
(che, ormai, è una major) e continua a produrre e interpretare sit-com
seguendo una formula collaudata; è attiva per tutti gli anni ’70 e ’80,
soprattutto in televisione, fino alla serie del 1986 Life with Lucy. Muore
il 26 aprile 1989 a Los Angeles.
Donald P. Bellisario
Nato nel 1938, alla fine degli anni ’50 è nei Marines: l’esperienza sarà
presente poi in molti suoi script. I primi lavori televisivi risalgono agli
anni ’70: alcune sceneggiature e regie per Kojak, Switch! (id., 1975) e
Galactica. Da allora, incrocia spesso la strada di Glen A. Larson, con il
quale crea e produce Magnum P.I., grande successo degli anni ’80. Nel
1982 prende spunto dallo spielberghiano I predatori dell’arca perduta
(Raiders of the Lost Ark, 1981) per il serial avventuroso I predatori dell’idolo d’oro (Tales of the Gold Monkey) e, due anni dopo, è autore e produttore del «fanta-bellico» Supercopter (Airwolf, 1984). I risultati migliori,
però, Bellisario li ottiene a fine decennio, con la brillante commedia fantastica sui viaggi temporali Quantum Leap - In viaggio nel tempo, che
diventa ben presto un telefilm «di culto». Nel 1992 realizza una serie
che genera anche un sequel italiano: si tratta di Tequila e Bonetti (Tequila
and Bonetti). Al 1995, infine, risale la sua creazione più recente, J.A.G. Avvocati in divisa.
VENTI «CREATORI» SERIALI
241
Steven Bochco
Nasce il 16 dicembre 1943 a New York. È, senza dubbio, il «re» del
poliziesco televisivo americano, colui che lo ha profondamente rinnovato. Dopo la laurea a Carnegie Tech si trasferisce a Hollywood, dove
lavora dodici anni come sceneggiatore alla Universal (scrivendo anche
per Colombo). Nel 1978 passa alla MTM Enterprises che gli dà carta
bianca per creare un suo serial, il rivoluzionario poliziesco Hill Street
giorno e notte. Accusato di cattiva gestione del budget, però, è licenziato
nel 1985; ma trova subito posto presso la NBC, per la quale crea e produce L.A. Law - Avvocati a Los Angeles e Doogie Howser. Dal 1988, firma
un contratto da quindici milioni di dollari con la ABC, per la creazione
di dieci serie televisive in dieci anni: nascono così, in una sequenza
impressionante, Cop Rock (id., 1990), Civil wars, Capitol Critters (1992), la
straordinaria e premiatissima NYPD - New York Police Department, The
Byrds of Paradise (1994), Murder One (id., 1995), Public Morals (1996),
Brooklyn South (id., 1997), Total Security (1997), City of Angels (2000) e
Philly (2001).
Stephen J. Cannell
Nato il 2 maggio 1941, è tra i più apprezzati autori statunitensi di
polizieschi televisivi d’azione fin dagli anni ’70. Il suo primo lavoro risale al 1968, come sceneggiatore per alcuni episodi di Adam-12 (id.). Negli
anni seguenti crea numerose serie di successo, tutte anche prodotte e
spesso sceneggiate; l’elenco è impressionante: Agenzia Rockford (The
Rockford Files, 1974) e Baretta (id., 1975), innanzitutto; e poi, la sit-com
fantastica Ralph Supermaxieroe (The Greatest American Hero, 1981), l’ironico «action» A-Team (id., assieme a Frank Lupo nel 1983), Hardcastle and
McCormick (id., 1983), Hunter, Riptide (id., 1984), 21 Jump Street (id., 1987)
e il suo spin-off Booker (id., 1989). Per molti di questi show Cannell sceglie Mike Post (compositore preferito anche di Steven Bochco) e Pete
Carpenter come autori delle musiche. Nel corso degli anni ’90, crea altri
serial dal marchio inconfondibile, come il sexy e iper-patinato Omicidi
d’elite (Silk Stalkings, 1991), Renegade (id., 1992), Cobra Investigazioni
(Cobra, 1993). Il suo progetto più recente è quello di un film per il cinema tratto da A-Team.
242
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Chris Carter
Nasce il 13 ottobre 1956 a Bellflower (California). Dopo la laurea in
giornalismo, conseguita nel 1979, dirige la rivista specializzata «Surfing»
(è, infatti, praticante e grande appassionato di surf). Nel 1987 lavora alla
sit-com Cinque ragazze e un miliardario (Rags to Riches), mentre due anni
dopo è scrittore e produttore esecutivo della serie A Brand New Life
(1989). La svolta avviene nel 1993, quando il suo progetto fanta-horror
X-Files riesce a raggiungere i teleschermi, dopo parecchie incertezze: il
successo di critica e pubblico è clamoroso e gli cambia la vita. Carter cura
ogni minimo dettaglio della serie e riesce anche a scrivere e dirigere
molti episodi, riservandosi solitamente quelli iniziali e conclusivi di ciascuna stagione. Nel 1996, sulla scia del successo di X-Files, crea l’ancor
più cupa e disperata Millennium, con risultati altrettanto buoni. Gli va
peggio, invece, con Harsh Realm (1999). Ma, tra mille cambiamenti e
dopo il buon riscontro del primo capitolo cinematografico, X-Files è
ormai entrato di diritto nell’immaginario collettivo mondiale.
David Chase
David DeCesare, italoamericano, nasce il 22 agosto 1945 a Mount
Vernon (New York) e cresce nel New Jersey. Dopo aver scritto, all’inizio
degli anni ’70, alcuni film televisivi di nessuna rilevanza, nel 1974 entra
nello staff di sceneggiatori del telefilm Agenzia Rockford. Qui lavora con
Stephen J. Cannell per tutto il decennio e diventa ben presto anche produttore dello show, continuando a scriverne alcuni tra gli episodi più
belli e originali. Nel 1988 realizza l’ambizioso serial di sole 13 puntate
Quasi adulti (Almost Grown) e, nei successivi tre anni, lavora come sceneggiatore e produttore esecutivo a Un medico tra gli orsi e Io volerò via
(I’ll Fly Away, 1991), entrambi premiati con vari Emmy e Golden Globe.
Al tempo stesso, però, continua a proporre progetti personali ai vari
network, ricevendo sempre risposte negative per la troppa audacia dei
suoi script. La svolta avviene nel 1999, quando la rete via cavo HBO
decide di credere nell’originale sit-com mafiosa I Soprano: il successo è
clamoroso e oggi Chase è tra gli autori più hot della televisione statunitense.
VENTI «CREATORI» SERIALI
243
David Hasselhoff
David Michael Hasselhoff nasce il 17 luglio 1952 a Baltimora
(Maryland). Volto notissimo di telefilm come Supercar e Baywatch, in
realtà va considerato – secondo un’azzeccata definizione del popolare
settimanale «TV Guide» – «uno tra i dieci uomini più potenti della televisione a stelle e strisce». È proprio lui, infatti, che salva il telefilm delle
bagnine-modelle quando, dopo una sola stagione, viene cancellato per
gli scarsi ascolti. Hasselhoff acquista i diritti di Baywatch, ricalibra il progetto e ne diventa produttore esecutivo: dal 1991, la «nuova» serie ottiene un successo clamoroso e oggi è seconda soltanto a Star Trek per numero di Paesi che la trasmettono (ben 140!). Nel 1995, firma sempre da produttore esecutivo lo spin-off fantastico Baywatch Nights che, però, incontra meno fortuna del prototipo (in entrambi gli show, interpreta il personaggio di Mitch Buchannon). Come attore, raggiunge il successo già
nel 1973, con il ruolo di William «Snapper» Foster nella soap opera
Febbre d’amore (The Young and the Restless, 1972); poi, nel 1982, è Michael
Knight in Supercar. Dal 1988 è anche acclamato cantante pop, con nove
album all’attivo. È sposato con l’attrice Pamela Bach.
David E. Kelley
Nasce il 4 aprile 1956 a Waterville (Maine). Dopo la laurea in legge, è
avvocato presso un grande studio legale di Boston. Nel 1986, però, entra
nello staff di sceneggiatori del telefilm L.A. Law - Avvocati a Los Angeles,
creato da Steven Bochco e Terry Louise Fisher (che cercavano scrittori
con conoscenze legali). Dopo tre stagioni, Kelley diventa anche produttore esecutivo dello show. Nel 1992, crea lo scottante La famiglia Brock,
seguito due anni dopo da Chicago Hospital, il più serio rivale di E.R. Medici in prima linea. Nel gotha della TV statunitense, però, Kelley entra
nel 1997, con uno tra i telefilm più innovativi e originali del decennio,
Ally McBeal e con l’ottimo «legal drama» The Practice - Professione avvocati: con le due serie, diventa il primo produttore a vincere nello stesso
anno, il 1999, l’Emmy Award nelle categorie «Comedy» e «Drama».
Dopo la gradevole Spie (Snoops, 1999), firma, nel 2000, Boston Public. Per
il cinema, scrive e produce A Gillian per il suo compleanno (To Gillian on
Her 37th Birthday, 1996), Lake Placid (id., 1999) e Mistery, Alaska (id., 1999).
Dal 1993 è sposato con Michelle Pfeiffer.
244
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Glen A. Larson
Nato nel 1937, ha come marchio di fabbrica l’avventura per famiglie.
Lavora in televisione fin dagli anni ’60, come sceneggiatore della serie
Il fuggiasco (The Fugitive, 1963) e produttore associato di Operazione ladro
(It Takes a Thief, 1968). È alla produzione anche in Switch! e Quincy. Nel
1978, tenta il primo «botto» con la space opera Galactica, con il risultato
di farsi far causa da George Lucas per le troppe similitudini con Guerre
Stellari (Star Wars, 1977). Da quel momento, però, Larson inanella un
successo dopo l’altro, diventando l’autore di punta dell’avventura
seriale televisiva anni ’80: crea, produce e scrive, infatti, Magnum P.I.
(con Donald P. Bellisario), Professione pericolo (The Fall Guy, 1981),
Supercar, Automan. Tra i suoi lavori più recenti spicca Hawaii missione
speciale (One West Waikiki, 1994), che ripropone i consueti ingredienti
delle sue produzioni: storie semplici, personaggi carismatici, poca violenza, colpi di scena a ripetizione e divertenti ammiccamenti sessuali.
Norman Lear
Nasce a New Haven (Connecticut) il 27 luglio 1922. Lavora in televisione fin dalla metà degli anni ’50, quando è produttore esecutivo di
The Martha Raye Show (1955). Quattro anni dopo è autore di una sit-com
intitolata Band of Gold (1959), nella quale James Franciscus e Suzanne
Pleshette impersonano una coppia diversa in ogni episodio: giudicato
troppo sperimentale, il progetto è bocciato e non va mai in onda. Tutta
la produzione seguente di Lear, comunque, ripropone simili caratteristiche d’intelligenza e originalità, nel corso di un’infinità di commedie
televisive spesso «baciate» da enorme successo di pubblico e critica. I
suoi titoli più noti sono quelli degli anni ’70: da Arcibaldo (All in the
Family, 1971) ai suoi spin-off Maude (id., 1972) e I Jefferson, da Sanford and
Son (id., 1972) a Good Times (id., 1974) e Giorno per giorno, fino a Mary
Hartman, Mary Hartman e All that Glitters (1977). Continua a essere attivissimo, in ogni caso, per tutti gli anni ’80 e ’90.
Richard Levinson e William Link
Inseparabili fin dai tempi dell’università (quella di Pennsylvania,
VENTI «CREATORI» SERIALI
245
nella natia Philadelphia), Levinson e Link – nati nel 1937 – sono i creatori del tenente più originale della TV americana: l’amatissimo Colombo,
personaggio che da solo basterebbe a consegnarli alla storia della televisione. Entrambi arrivano al loro titolo più famoso, però, dopo essersi
«fatti le ossa» in serie come Il fuggiasco e Honey West (id., 1965). I loro
polizieschi si riconoscono immediatamente per la bizzarria e l’assoluta
unicità dei personaggi, intrisi d’ironia e lontanissimi dal classico eroe
catodico: bastino, oltre a Colombo, i due esempi di Ellery Queen (id., 1975)
e La signora in giallo (Murder, She Wrote, 1984). Sceneggiatori e produttori di innumerevoli TV movie, i due creano anche una serie come Mannix
(id., 1967) e scrivono spesso e volentieri anche per produzioni seriali
altrui, come nei casi di Stone (id., 1980) e dell’antologico La camera oscura (Darkroom, 1981). Levinson muore, per un male incurabile, il 12
marzo 1987 a Los Angeles.
Quinn Martin
Vero nome Martin Cohn. Nasce il 22 maggio 1922 a New York.
Attivo come produttore televisivo fin dagli anni ’50 e ’60 – con titoli
ormai entrati quasi nel mito, come Gli intoccabili, Il fuggiasco, F.B.I. (The
F.B.I., 1965), The Invaders (id., 1967) – nel corso di tutti gli anni ’70 diventa il dominatore assoluto nell’ambito dei serial d’azione, tra avventura
e detection. Più di una generazione, infatti, ha amato telefilm come
Cannon (id., 1971), Le strade di San Francisco, Detective anni ’30 (Banyon,
1972), Barnaby Jones (id., 1973), Il cacciatore (The Manhunter, 1974), Bert
D’Angelo Superstar (id., 1976), Most Wanted (1976), Ai limiti dell’incredibile (Tales of the Unexpected, 1977). A quest’elenco, però, vanno aggiunti
innumerevoli film per la televisione (una trentina). Martin muore il 6
agosto 1987, a Rancho Santa Fe in California.
Gene Roddenberry
Eugene Wesley Roddenberry nasce il 19 agosto 1921 a El Paso
(Texas). Inizia a scrivere per la televisione nel 1955, per il telefilm poliziesco La pattuglia della strada (Highway Patrol), con lo pseudonimo di
Robert Wesley. Nel 1963, produce e scrive la serie The Lieutenant. Tre anni
dopo realizza il progetto che lo consegna alla storia: Star Trek, serie asso-
246
AI CONFINI DELLA REALTÀ
lutamente innovativa nel panorama della fantascienza catodica. Seguirà
amorevolmente la sua creatura per tutta la vita, tra cartoni animati, film
per il cinema, fumetti e volumi d’avventura. Nel 1987 è autore della
nuova serie Star Trek - The Next Generation, destinata a eguagliare il successo degli episodi classici. Dopo la sua morte – il 24 ottobre 1991, per
infarto – arrivano a concreta realizzazione, per merito della moglie Majel
Barrett, altri progetti tenuti per anni nel cassetto: Pianeta Terra - Cronaca
di un’invasione (Gene Roddenberry’s Earth: Final Conflict, 1997) e Gene
Roddenberry’s Andromeda (2000). Oltre, naturalmente, sotto la supervisione del suo «erede» Rick Berman, alle altre tre serie di Star Trek - Deep
Space Nine, Star Trek - Voyager e la recentissima Enterprise.
Rod Serling
Edward Rodman «Rod» Serling nasce il 25 dicembre 1924 a
Syracuse (New York). Dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale inizia a coltivare con regolarità la passione per la scrittura. Nella
prima metà degli anni ’50 vende più di settanta soggetti a vari network
televisivi. La popolarità arriva nel 1955, quando scrive Patterns, originale televisivo che gli frutta il primo dei sei Emmy Awards vinti in carriera. Sempre nello stesso periodo, è autore di altri successi catodici
come The Comedian, Playhouse 90 e Requiem for a Heavyweight. Nel 1959,
torna alla passione giovanile per il fantastico e, con la serie antologica
Ai confini della realtà, entra definitivamente nella storia della televisione:
nei cinque anni successivi, ne sceneggia ben 92 episodi su 156 totali,
sempre supervisionando l’intero progetto. Per il cinema, è autore degli
script di Sette giorni a maggio (Seven Days in May, 1964) di John
Frankenheimer e Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner. Fa il suo
ritorno in Tv con la serie Mistero in galleria. Muore il 28 giugno 1975, a
Rochester (New York).
Aaron Spelling
Nasce il 22 aprile 1923 a Dallas (Texas). È tra i più potenti produttori hollywoodiani, a capo del colosso Spelling Entertainment Inc. che
comprende la Spelling Television, la World Vision (compravendita
diritti), la Hamilton Projects (merchandising) e la Republic Pictures.
VENTI «CREATORI» SERIALI
247
Inizia a lavorare in televisione, negli anni ’50, come comparsa (in
Dragnet, Gunsmoke e Lucy ed io) e poi come scrittore per le serie Carovane
verso il West e Westinghouse Desilu Playhouse. A partire dagli anni ’60,
fino a tutt’oggi, produce un numero incredibile di TV movie e serial,
quasi tutti baciati da enorme successo. La «formula» dei suoi telefilm
prevede avventura iper-patinata con colpi di scena a ripetizione, oppure passioni e intrighi; spesso con protagonisti piuttosto sexy. Tra le sue
tantissime produzioni seriali vanno segnalate, quantomeno, Mod Squad
(id., 1968), A tutte le auto della polizia (The Rookies, 1972), Starsky & Hutch
(creata da William Blinn), Charlie’s Angels, Love Boat, Cuore e batticuore,
Dynasty (id., 1981), Hotel (id., 1983), Beverly Hills 90210, Melrose Place,
Streghe.
Jack Webb
John Randolph Webb nasce il 2 aprile 1920 a Santa Monica
(California). Prima di sfondare in televisione ha già una buona carriera
di attore in radio e al cinema, dove recita in Egli camminava nella notte
(He Walked by Night, 1948), Uomini (The Men, 1950) e Viale del tramonto
(Sunset Boulevard, 1950). È il «padrone assoluto» del primo, grande telefilm poliziesco della TV statunitense: Dragnet, mutuato dal precedente
show radiofonico omonimo e ideato, scritto, diretto e interpretato (nei
panni del sergente Joe Friday) dallo stesso Webb, che lo produce attraverso la sua società Mark VII. La serie approda pure sul grande schermo (Mandato di cattura, Dragnet, 1954) e gode di una nuova incarnazione, stavolta a colori, a partire dal 1967. Successivamente – dopo altri
ruoli d’attore al cinema, in film come Tempo di furore (Pete Kelly’s Blues,
1955) e Faccia di bronzo (The Last Time I Saw Archie, 1961) – firma come
creatore e produttore altri due telefilm di successo, come Adam-12 e il
semi-documentaristico Squadra emergenza (Emergency!, 1972), puntando
sempre sul minuzioso realismo delle vicende raccontate. Lo stronca un
attacco cardiaco, il 23 dicembre 1982 a West Hollywood (California).
Joss Whedon
Nato il 23 giugno 1964, ha la scrittura seriale nel sangue, poiché è
nipote di John Whedon e figlio di Tom, entrambi sceneggiatori televisi-
248
vi di successo, rispettivamente negli anni ’50 (Leave It to Beaver) e ’70
(Alice). Joss è a proprio agio nei territori del fantastico, al cinema come
in TV. Per il grande schermo scrive il rivoluzionario cartoon digitale Toy
Story (id., 1995), Alien - La clonazione (Alien: Resurrection, 1997), l’altro film
d’animazione Titan A.E. (id., 2000). In televisione, inizia sceneggiando
episodi delle sit-com Pappa e ciccia (Roseanne, 1988) e Fra nonni e nipoti
(Parenthood, 1990); ma la sua creazione più celebre è, nel 1997, il telefilm
Buffy, perfetto congegno narrativo – basato sul pessimo film del 1992,
Buffy - L’ammazzavampiri – che miscela horror e commedia adolescenziale inaugurando un filone. È del 1999 lo spin-off Angel, interamente dedicato al vampiro buono coprotagonista dello show precedente. Whedon
– che è al lavoro sulla serie animata di Buffy – è, da qualche tempo, anche
apprezzato sceneggiatore di fumetti.
Dick Wolf
Nato nel 1947, inizia piuttosto tardi a lavorare in televisione. Soltanto
nel 1981, infatti, entra nello staff di scrittori della storica Hill Street giorno e notte, sceneggiandone ottimamente diversi episodi. Alla fine degli
anni ’80, è impegnato come soggettista e produttore esecutivo di No
Man’s Land (1987) e Masquerade (id., 1988). Ma è con l’inizio dei ’90 che la
sua carriera ha la svolta decisiva, poiché proprio nel 1990 crea e produce uno tra i migliori serial del periodo: Law & Order - I due volti della giustizia, iper-realistico ibrido di legal drama e poliziesco. Da questo momento diventa ricercatissimo ed è impegnato nella creazione e produzione di
molte nuove serie, sempre poliziesche, tra cui Crime & Punishment
(1993), Miami Beach (South Beach, 1993), New York Undercover (id., 1994),
Swift - Il giustiziere (Swift Justice, 1996), Deadline (2000); e in vari progetti
legati alla sua più celebre creatura, come Law & Order: Special Victims
Unit (id., 1999) e Law & Order: Criminal Intent (2001).
Strani suoni dal piccolo schermo.
Appunti per una semiotica della colonna sonora
di Biagio Coscia
La cultura musicale occidentale ci ha fornito una serie di codici che noi
tutti utilizziamo inconsciamente quando ascoltiamo la musica. In nessun
campo come quello dei film e dei telefilm – dove l’azione è sempre legata
a un commento musicale – questi codici sono tanto forti.
Così, bastano poche battute della colonna sonora di un telefilm che
non conosciamo – magari ascoltate separatamente dalle immagini – per
capire come la musica sottolinei il momento d’azione di un poliziesco, una
scena d’amore o una situazione di suspense. Il margine d’errore è veramente minimo. Cosa spinge, allora, la nostra immaginazione a legare una
musica a una situazione? Se sono sufficienti poche note per farci pensare
«sembra una musica da film di Hitchcock», oppure «adesso arrivano i
nostri» o ancora «questa è una scena d’amore», deve esserci qualche meccanismo inconscio che «s’attiva». In realtà i «luoghi comuni musicali» vengono evocati da codici che ormai fanno parte della nostra cultura. Ciò vale
in particolare nel mondo della televisione, dove niente capita per caso.
Sono, infatti, specifiche tecniche di composizione che riescono a dare alla
musica la forza necessaria per evocare certe emozioni e sensazioni. E il
fruitore abituale della televisione è stato per anni la «cavia» principale di
quest’utilizzo della musica che, negli ultimi vent’anni, si è accentuato in
maniera logaritmica e ha trovato poi uno scopo finale, e il suo sfruttamento subliminale, nei jingle pubblicitari.
Le regole di questi codici semiotici non sono una novità di pochi
decenni, ma si sono evolute nel corso degli ultimi secoli. Per esempio, le
scene dei brindisi nei melodrammi di Giuseppe Verdi – si veda La
Traviata, il Macbeth o marce trionfali come quella dell’Aida – sono tutte
costruite con una tecnica analoga a quella oggi utilizzata per la maggior
250
AI CONFINI DELLA REALTÀ
parte dei jingle di bibite e liquori o, nel caso dell’Aida, per sigle di nuovi
partiti al governo o marce che annunciano battaglie intergalattiche di
fantasia. Insomma, certe melodie che sembrano quasi casuali, in realtà
sono costruite ad arte con regole dell’armonia e, appunto, della melodia,
molto semplici per chi abitualmente scrive musica. Per una spiegazione
grossolana, basti sapere che le melodie sono caratterizzate dalla distanza che separa tra loro le note. La tecnica di utilizzare sequenze d’intervalli tipici (cioè che evocano determinate sensazioni) consente, con qualche piccola variazione, di dare a qualsiasi motivo o canzonetta l’atmosfera richiesta. Tornando all’esempio precedente sui brindisi, se analizzassimo le partiture dei jingle della Coca Cola, del Martini, del Gatorade
ci accorgeremmo che in tutti prevale un intervallo di sesta maggiore:
proprio come nel «Libiamo…!» della Traviata o in «Si colmi il calice» del
Macbeth. L’enfasi creata dall’intervallo di sesta, in una determinata posizione della melodia, crea quell’indefinibile sensazione di festa ed evoca
il gesto del brindisi.
Il medesimo discorso può essere fatto per le ninnenanne di tutti i
tempi. Nei jingle di pannolini e prodotti per bambini, così come nelle
sigle di sit-com che ospitano personaggi «under 14», infatti, la tecnica utilizzata è la stessa. Le musiche non sono ninnenanne ma, nascosto nella
melodia, c’è l’intervallo di seconda, tipico di tutte le musiche rivolte
all’infanzia. E anche qui non c’è nessun mistero: l’intervallo di seconda è
il più semplice da cantare e, quindi, più naturale per i bambini. I piccoli
realizzano, secondo tale schema, arrangiamenti personali di tutte le canzoni che ascoltano e, quando c’è un televisore acceso che trasmette una
bella musichetta costruita ad arte, la loro attenzione rimane automaticamente calamitata. Un esempio per tutti arriva dalla sigla scritta da Frank
DeVol per la serie televisiva Family Affair, nota in Italia come Tre nipoti e
un maggiordomo, che ha un cast formato per tre quinti da ragazzini e un
tema musicale al cento per cento di intervalli di seconda. Insomma, con
le ovvie eccezioni, sono una decina le regole fondamentali che giustificano la genesi e la vita stessa di colonne sonore capolavoro della televisione. Certi temi particolarmente efficaci introducono, fin dalle prime note,
alla storia che stiamo per seguire e, magari, consentono di recuperare una
scena persa attraverso una sorta di subliminale «riassunto delle puntate
precedenti».
Un altro elemento di riconoscimento è l’orchestrazione. I telefilm
western e le grandi epopee familiari hanno sempre una melodia ad
ampio respiro e il tema esposto da una sezione di fiati con i corni in
STRANI SUONI DAL PICCOLO SCHERMO
251
primo piano. Per i polizieschi, il discorso è analogo, con ampio riferimento al jazz come suono della metropoli. Rara eccezione sono i celebri
telefilm prodotti da Alfred Hitchcock, introdotti da un brano di musica
classica come la Marcia funebre di una marionetta di Charles Gounod e poi
da un commento sonoro di routine.
Le produzioni televisive seriali dell’ultimo decennio sono condizionate dalla grande quantità di canali esistenti e dalla crescente richiesta
di nuovi show. Ritmi produttivi un tempo impensabili, quindi, hanno
sacrificato per prima proprio la musica. Così, è raro riscontrare, oggi,
una vera attenzione per la colonna sonora che, ormai, è realizzata in
serie, proprio come una soap opera. Attualmente ai compositori viene
richiesta, a prescindere dalla sceneggiatura, soltanto la necessaria serie
di musiche «a effetto»: mediamente, per una serie di telefilm occorrono,
oltre al tema conduttore, tre melodie per scene d’amore, altrettante per
sequenze d’azione, due temi per un’agnizione e una dozzina per le
scene drammatiche. Poi, in fase di montaggio e sonorizzazione, la tecnologia digitale consente di unire i pattern combinandoli in vari modi.
E il gioco è fatto.
Di tutt’altro spessore è, invece, il lavoro dei musicisti che si ritrovarono a sonorizzare le serie televisive degli anni ’50 e, soprattutto, ’60.
Tre esempi fondamentali della qualità e della ricerca del giusto effetto
possono essere la sigla di La famiglia Addams di Vic Mizzy, quella di
Batman di Neal Hefti e quella di Missione impossibile di Lalo Schifrin. Tre
telefilm diversi per genere e stile, con soundtrack a loro volta differenti, ma che dimostrano come spesso la musica possa superare la fama
della serie per la quale è stata realizzata. Le musiche di Vic Mizzy, elaborate per i 64 episodi della Famiglia Addams, sono di grande complessità e in qualche momento ricordano per creatività quelle che Carl
Stalling aveva realizzato per i cartoons della Warner Brothers. Le variazioni barocche e contrappuntistiche del tema d’apertura, in soli due
minuti, preparano lo spettatore alle atmosfere surreali e gotiche del telefilm. Indimenticabile, in uno degli episodi, un tango suonato con la spinetta e il basso continuo, realizzato per uno dei primi episodi e poi riutilizzato con altre variazioni.
Anche la musica scritta da Neal Hefti per Batman è tutt’altro che
banale. Il compositore e trombettista americano, collaboratore pure dell’orchestra di Count Basie, è stato uno dei più prolifici autori di standard per big band (tra i suoi capolavori Lil’Darlin’). Il suo tema di
Batman fu riarrangiato da molti altri musicisti doo woop e di rock’n’roll
252
AI CONFINI DELLA REALTÀ
che ne fecero hit da classifica negli Stati Uniti: i Marketts arrivarono al
diciassettesimo posto, ma ebbero grande successo anche Jan & Dean, i
Ventures, gli Who. Tra le altre musiche per la televisione scritte da Neal
Hefti, ci sono i jingle per un varietà con Frank Sinatra. La scia del suo
Batman è ripercorsa, qualche decennio dopo e senza gli stessi risultati
artistici, dalle colonne sonore che accompagnano le avventure di tutti
gli altri supereroi.
Durante la trasmissione della serie Missione impossibile, invece, furono pubblicati due album con le musiche dei telefilm (ora riunite in un
unico CD). Le vendite superarono ogni aspettativa e le musiche di Lalo
Schifrin diventarono il sinonimo melodico di Missione impossibile. Il successo dura fino a oggi, se si pensa che i Portishead – gruppo di punta
della scena musicale di Bristol – hanno ripescato le musiche di uno degli
episodi («Danube incident») per realizzarne un hit mondiale.
Come per Neal Hefti, anche per Lalo Boris Schifrin, compositore e
arrangiatore argentino, le radici sono nel jazz. Pianista, tra i più apprezzati del quintetto di Dizzy Gillespie, deve la sua impronta riconoscibile
alla militanza per un certo periodo con Quincy Jones. Da notare che oltre
a scrivere le musiche per Missione impossibile, Schifrin è stato autore delle
colonne sonore di altre serie come Mannix e di film come Cincinnati Kid
(The Cincinnati Kid, 1965) ma, soprattutto, Bullitt (id., 1968) che ha subìto
la stessa sorte di Missione impossibile, restando impigliato tra le maglie
della nuova musica pop di Bristol.
Anche se non sono rimaste nella memoria collettiva, sono tante altre
le sigle televisive realizzate da grandi autori, autentici miti della musica
pop contemporanea o grandi compositori di colonne sonore per il cinema. La sigla di Mary Hartman, Mary Hartman, per esempio, è di Barry
White; mentre l’autore delle musiche di Cimarron Strip (id., 1967) è
Maurice Jarre e quello di L’uomo da sei milioni di dollari (The Six Million
Dollar Man, 1974) un altro genio del jazz come Oliver Nelson. Quincy
Jones, invece, si occupò della colonna sonora di Ironside.
Come prevedibile, le colonne sonore dei telefilm seguono tutti i luoghi comuni della cultura musicale occidentale. Anche se negli ultimi
anni si è perso quel sapore artigianale che contraddistingueva certe produzioni e i meccanismi produttivi si rispecchiano più che altro nella
scelta delle canzoni: così, le musiche per la televisione seriale (ma anche
quelle per il cinema) sono diventate più attente a un risultato di «cassetta» che alla reale esigenza di commento musicale. Poche le eccezioni,
e lontane dalle ultime produzioni. Un isolato buon esempio recente
STRANI SUONI DAL PICCOLO SCHERMO
253
arriva dalla splendida colonna sonora della serie animata dei Simpson
(The Simpsons, 1989), scritta da Danny Elfman sullo stile di un moderno
Carl Stalling. Esemplare del modo odierno di assemblare la colonna
sonora per telefilm – con canzoni pop di moda più un tema specifico –
è, invece, Wild Palms (id., 1993), la serie di Oliver Stone con musiche di
Ryuichi Sakamoto; ma anche I Soprano di David Chase ha una soundtrack di tipo cinematografico, nel senso che propone canzoni in voga
accanto a un tema portante.
Sono lontani, dunque, i tempi di Perry Mason e del tema Park Avenue
Beat di Fred Steiner (uno della «gang» di Star Trek), capolavoro che in
tempi più recenti è stato quasi raggiunto soltanto dalle due colonne sonore scritte da Barry Goldenberg per Kojak. Efficaci ma più di routine, invece, quelle di telefilm «storici» come Magnum P.I. – scritta da Mike Post e
Pete Carpenter – e Hawaii Squadra Cinque Zero (Hawaii Five-0, 1968), di
Mort Stevens, ripresa dai Ventures che la portarono al quarto posto delle
classifiche americane. Tra gli autori televisivi più prolifici c’è l’italoamericano Bill Conti, che ha scritto la musica per Dinasty, New York, New York
(Cagney & Lacey, 1982), Falcon Crest (id., 1981); e, soprattutto, il già citato
Mike Post, compositore, tra i suoi tanti lavori, pure in L.A. Law - Avvocati
a Los Angeles, Hardcastle and McCormick, Hunter, La squadriglia delle pecore
nere (Baa Baa Black Sheep, 1976) e Hill Street giorno e notte.
È interessante, per concludere, il caso della colonna sonora composta
da Alexander Courage per Star Trek, caricatasi – come quelle di altri telefilm classici, d’altra parte – di significati legati ai personaggi dei quali sottolineava le gesta, resistendo nell’immaginario collettivo all’inesorabile
velocità con la quale la televisione brucia i migliori prodotti e proponendosi come «leit motiv» transgenerazionale. Le otto note che compongono
il tema principale sono parte, ormai, di una cultura catodica planetaria
con la quale hanno dovuto fare i conti tutti i successivi compositori di
colonne sonore, anche ben oltre il solo genere fantascientifico. Ma Star
Trek si è avvalso anche dei contributi di altri pregevoli compositori, mentre Courage si dedicava alle musiche di un’altra serie, Al banco della difesa
(Judd for the Defense, 1967): a sottolineare le gesta del capitano Kirk e del
suo equipaggio, infatti, pensarono pure George Duning, Jerry Fielding,
Gerald Fried, Sol Kaplan, Samuel Matlovsky, Joseph Mullendore e Fred
Steiner. Da notare che lo stesso massiccio uso di musica sinfonica – quindi costosa da realizzare per una serie tutto sommato a basso budget – si
è verificato già qualche anno prima, in The Outer Limits, che ha molti
punti in comune con la serie di Gene Roddenberry.
254
AI CONFINI DELLA REALTÀ
Una discografia
La più completa e curata raccolta di colonne sonore di telefilm è
quella realizzata nel 1996 dalla Edel: sette compact disc, divisi per anni
e per generi, con tutte le possibili sigle di programmi televisivi angloamericani prodotti dagli anni ’50 al 1996 circa. I primi due volumi
hanno l’inequivocabile titolo Television’s Greatest Hits. In seguito, visto il
successo di vendite, dal terzo volume le raccolte hanno acquisito sottotitoli come Black & White Classics, In Living Color, Remote Control e Cable
Ready, con ovvi riferimenti ai progressi tecnologici della televisione.
Della stessa serie esiste anche un ottavo volume, dedicato ai jingle della
pubblicità americana e inglese. Ma più interessante e facilmente reperibile è, invece, il CD che seleziona alcuni brani tratti dai primi sette volumi, l’unico distribuito in edizione italiana, nel 1997: Television Greatest
Hits, col booklet in italiano e spiegazioni essenziali e che, oltre alle
colonne sonore dei telefilm, include anche quelle di molti cartoni animati, per un totale di 42 tracce.
Degne di nota sono anche le tre raccolte edite dalla britannica Silva
Screen Record, reperibili solo sul mercato estero. Su tutte prevale The
Cult Files, doppio CD che oltre a colonne sonore di film include divertenti versioni di sigle TV raccolte per argomenti, come UK 1960’s/70’s
TV Themes, UK Sci-fi TV Themes o US Detective TV Themes. Anche questa raccolta ebbe un successo tale quando uscì, nel 1996, che l’anno successivo fu pubblicato un seguito dal titolo The Cult Files: Re-opened. La
seconda uscita della Silva Screen Record ha copertina tridimensionale
con tanto di occhialini speciali in allegato. Il booklet della seconda edizione raggruppa le sigle dei telefilm per produzione: per esempio, The
World of Gerry Anderson o The World of Irwin Allen.
Tra le operazioni discografiche più divertenti e documentate c’è
quella dell’americana Rhino, che nel 2000 ha messo in commercio, in
edizione limitata, Brain in a Box, raccolta di cinque CD contenuti in una
scatola con copertina olografica e accompagnati da un ricco volume di
duecento pagine, Brain in a Book. Tra i CD, soltanto uno è dedicato alle
colonne sonore dei telefilm, tutti di fantascienza; e, nel volumetto allegato, c’è una buona selezione di fotografie rare e una serie di approfondimenti sulla storia della fantascienza televisiva americana.
Tra i CD che, con vari intenti, raccolgono sigle TV è da segnalare
Mission Accomplished, della Hip-o Record, pubblicato solo negli Stati Uniti
dalla MCA; e poi, TV Town. Prime Time Tunes from the Tube, della Capitol,
STRANI SUONI DAL PICCOLO SCHERMO
255
distribuito anche in Italia dalla EMI. Della stessa serie, è anche The Crime
Scene. Spies, Things & Private Eyes, Capitol EMI.
Due le raccolte significative riservate agli autori: un cult è quella di
Lalo Schifrin che contiene tutte le musiche dei telefilm Mission:
Impossible (One Way Records, solo d’importazione), saccheggiata in più
punti dai Portishead; ottima anche l’altra, Great TV & Film Hits of John
Barry della Columbia (catalogo Sony Music).
Un discorso a parte merita Star Trek, che ha sviluppato una discografia autonoma e generosa. Tutte le raccolte della Silva Screen, citate finora,
contengono musiche dalla serie di Gene Roddenberry: gli ultimi due
capitoli The Cult Files: Re-opened e Space and Beyond dedicano, anzi, alle
serie di Star Trek intere sezioni, con le musiche di tutte le versioni, incluse quelle cinematografiche. Ma, della prima storica serie televisiva, esistono addirittura CD con la colonna sonora completa di singoli episodi.
La Varese Sarabande, per esempio, ha in catalogo un CD con le musiche
di quattro episodi – «Charlie X», «The Corbomite Maneuver», «Mudd’s
Women» e «The Doomsday Machine» – eseguite dalla Royal Philarmonic
Orchestra diretta da Fred Steiner (quello della colonna sonora di Perry
Mason). Meno interessante musicalmente, ma autentica «chicca» per gli
appassionati (perché tratto direttamente dalla traccia internazionale dei
telefilm con l’audio mono e, quindi, assolutamente originale), è il CD
della Crescendo con le musiche dagli episodi «The Cage» e «Where No
Man Has Gone Before» – ovvero i primi due pilot della serie classica –
diretti dallo stesso compositore Alexander Courage.
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2000, 2001; Almanacco della fantascienza di Nathan Never 1993, 1994, 1996,
1998, 2000, 2001; Almanacco del giallo di Nick Raider 1996, 1997, 1998, 1999;
Star Trek Magazine Speciale 1.
Riviste americane e inglesi
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Numeri speciali: Cult Times Special 11, 14, 15, 18; Sci-Fi Invasion! 1997 Special;
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Indice
7
Prefazione di Franco La Polla
13
Introduzione
I telefilm americani dopo l’11 settembre, 15
21
PARTE PRIMA. TEORIE E STORIE
23 Qualche appunto di teoria
Serialità e televisione, 23
Serie e serial, 24
Il «replicante» è migliore dell’originale, 26
Film e telefilm: «vampirizzazioni postmoderne», 27
31 Le origini del telefilm americano
I serial prima della televisione, 31
La «Golden Age» e la fiction televisiva in diretta, 33
Crisi del cinema o «boom» della televisione?, 35
39
PARTE SECONDA. VIAGGIO NELLA «ZONA DEL CREPUSCOLO»
41 Rod Serling e «l’età dell’oro» del fantastico televisivo
Gli anni ’50 e la «Fanta-TV», 41
Rod Serling, «signore del fantastico», 45
Ai confini della realtà: benvenuti nella «zona del crepuscolo», 48
«Thriller» e «The Outer Limits», 56
63 «Spazio, ultima frontiera»
«Star Trek»: la serie classica, 63
Una nuova generazione di eroi, più problematici, 72
Qualcosa di speciale: «Deep Space Nine», 79
Da «Voyager» a ritroso verso «Enterprise», 86
95 Interludio. I supereroi, dai fumetti alla TV
Cos’è un supereroe, 95
Superman, 96
Batman, 99
Altri supereroi, 101
105 «X-Files» e il fanta-horror anni ’90
Visioni fantastiche dagli anni ’80, 105
X-Files, 110
Il fanta-horror dopo «X-Files», 120
133 Buffy, Dawson e l’orrore della crescita
Buffy, 134
Alieni e streghe: anche loro adolescenti innamorati, 142
Dawson: il cinema, la vita, gli amori, 146
151
PARTE TERZA. AI CONFINI DEL CREPUSCOLO
153 Focolari televisivi (con il «mostro» dietro lo specchio)
Gli Stati Uniti degli anni ’50 e la sit-com televisiva, 153
Due famiglie «in nero»: gli Addams e i Munsters, 157
Vent’anni dopo: da Lucy a Mary, 160
Ritorno agli «Happy Days», 165
Dalle risate anni ’80 alla «sit-com nera»: Welcome to Twin Peaks, 169
La definitiva dissoluzione della famiglia: «Friends», 177
181 Avventure nel «possibile»
Il «Selvaggio West» televisivo degli anni ’50 e ’60, 181
Variazioni «per famiglie», ai confini della «Frontiera», 186
La «British Invasion» e le sue tante spie pop, 190
La parabola di un «avventuriero»: da «Supercar» a «Baywatch», 195
Postilla «cronologica»: in viaggio nel tempo, 198
201
PARTE QUARTA. OLTRE IL CREPUSCOLO, CALATI NEL REALE
203 Professionisti nella «città nuda»: medici, avvocati, poliziotti
Kildare e i suoi colleghi, 204
L’inferno del pronto soccorso, 208
Perry Mason, l’avvocato del diavolo, 212
Una nuova generazione di avvocati, 215
L’avvocato secondo David E. Kelley, 220
I primi polizieschi televisivi: da «Dragnet» ad «Alfred Hitchcock
Presenta», 224
Tenenti atipici: Colombo e Kojak, 227
«Azione!»: sbirri in coppia o in squadra, 230
237
APPENDICI
239 Venti «creatori» seriali
249 Strani suoni dal piccolo schermo. Appunti per una semiotica della
colonna sonora, di Biagio Coscia
257
BIBLIOGRAFIA
Il Pesce Volante
Gherardo Casale, L’incantesimo è compiuto. Shakespeare secondo Orson Welles
Piero Calò, Giuseppe Grosso Ciponte, Gola profonda. La pornografia prima e dopo
Linda Lovelace
Sergio Bassetti, La musica secondo Kubrick
Roberto Pastore, Sulle strade della fiction. Le serie poliziesche americane nella storia
della televisione
Finito di stampare
nel mese di giugno 2002
presso Global Print s.r.l. - Gorgonzola (Milano)
per conto di Lindau s.r.l. - Torino