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Il Pesce Volante AI NOSTRI LETTORI Chi fosse interessato a ricevere gratuitamente e periodicamente il catalogo aggiornato delle nostre pubblicazioni è pregato di inviare una e-mail a lindau@lindau.it, indicando le proprie generalità e i recapiti postale, telefonico e di posta elettronica. Oppure può spedire una lettera a Lindau s.r.l., via B. Galliari 15 bis - 10125 Torino o telefonare allo 011/669.39.10 - 669.39.24 (dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18, dal lunedì al venerdì) o inviare un fax allo 011/669.39.29. In conformità alla legge 31.12.1996 n. 675 i dati personali saranno conservati presso l’archivio informatico di Lindau s.r.l.; i titolari, qualora desiderassero consultarli, modificarli, cancellarli, opporsi al loro utilizzo per qualsiasi finalità, o anche ottenere informazioni sulle iniziative di cui eventualmente saranno resi partecipi, potranno indirizzare una comunicazione scritta al nostro Responsabile Dati. In copertina: Burgess Meredith in «Tempo di leggere», episodio della serie Ai confini della realtà (1959). © 2002 Lindau s. r. l. Via Bernardino Galliari 15 bis - 10125 Torino Tel. 011/669.39.10 - fax 011/ 669.39.29 http://www.lindau.it e-mail: lindau@lindau.it Prima edizione ISBN 88--7180-406-6 Diego Del Pozzo AI CONFINI DELLA REALTÀ Cinquant’anni di telefilm americani prefazione di Franco La Polla Ringraziamenti Sento la necessità di fare alcuni ringraziamenti. A Mino Argentieri (maestro, non soltanto di cinema), Franco La Polla (imprescindibile modello critico); e poi, Simone Arcagni, Ciro Ascione, il mio amico Claudio Bovino (esploratore instancabile di nuovi mondi), Valerio Caprara, Alberto Castellano, Biagio Coscia (per il contributo «musicale»), Leo Damerini e l’ufficio stampa Mediaset, Francesco de Core, Raffaele De Fazio e Dino De Matteo dell’Infinity Shop, Goffredo Fofi, Pasquale Iaccio, Roy Menarini, Ezio Quarantelli e tutta la redazione Lindau, Romolo Runcini, Angelo Salvatori, Nunziante Valoroso, lo staff di Vera Comunicazione (www.veracomunicazione.it), Alessandro Zaccuri; e ancora, i miei cari amici Pippo Cascone, Enzo Esposito ed Elvina Russo (per il sostegno continuo) e mio fratello Marco (per la grande «pazienza»). Un ringraziamento speciale alla mia Ida, compagna di vita e di visioni, per i preziosi suggerimenti, per il contributo al paragrafo su X-Files e per tante altre cose ancora. Ringrazio, infine, i miei genitori Antonio e Maria, ai quali questo libro è dedicato. Di cuore, a tutti. Diego Del Pozzo Napoli, ottobre 2001 Prefazione di Franco La Polla Caro Diego, con la tua usuale delicatezza mi hai chiesto una prefazione al tuo studio sulle serie tv americane (telefilm, se preferisci). Per di più, mi indichi come un «riferimento imprescindibile» in questo tipo di ricerche. Come faccio a dirti di no? Lasciami allora scegliere almeno la forma (il formato?) di queste righe introduttive: che è epistolare. Non so, mi sembra più adeguato a un rapporto affettuoso, amichevole, confidente. Quasi che esse rimangano solo fra noi. So bene che non è così, ma resta la sensazione di uno spazio che almeno in minima parte si configura come privato. Ti ho già detto a suo tempo che la qualifica di telefilm fantastico mi sembra mal si adatti al tuo testo nella sua interezza e che, nella seconda metà, tu affronti prodotti di altro tipo e natura (non necessariamente spin off di opere originariamente di fantasia). Credo che questo non dipenda da imprecisione o malintesi, ma da una tua dedizione assoluta al vastissimo ambito della narrazione televisiva americana. Come certi critici cinematografici pionieristici di tanto tempo fa, i quali accostavano fra loro prodotti non sempre di facile omologazione perché, in fin dei conti, essi rispondevano a un loro bisogno di conoscenza e di studio. Per di più, il tuo taglio – sul quale concordo completamente – è di carattere culturale, nel senso che ciò che ti ha mosso è l’intenzione di collegare questi prodotti a una società e al suo immaginario. Ma l’immaginario di una società non si misura mica soltanto su uno specifico genere (tele)filmico. E dunque, ecco che tutto quel che poteva aiutarti a chiarire sempre più i contorni e i contenuti del referente primario di quelle opere diventava ben accetto, utile, degno di curiosità e di studio. Per la stessa ragione, la non molta critica che se n’è occupata l’hai accolta con entusiasmo, persino quando qualcuno (come il pur bravo Omar Calabrese) faceva di ogni erba un fascio: so benissimo che tu, 8 AI CONFINI DELLA REALTÀ come me, non definiresti mai «identici» Star Trek e Galactica. Ma i problemi sono altrove, e di ben più ampia portata. Il problema maggiore è lo statuto culturale del telefilm (come vedi adotto anch’io, ancorché con riluttanza, la tua dizione). Tu non sei certo il tipo da scrivere approfonditamente su un argomento che disprezzi (c’è chi l’ha fatto), e nemmeno sei il tipo da difendere un prodotto della cultura mass-mediologica a scapito della cultura che ha tenuto banco per qualche millennio (c’è chi ha fatto e fa anche questo). Il punto è che occorrono sempre più seri studi che mostrino una semplice verità, verso la quale sento correnti di antipatia arrivare da destra e da sinistra: che la cultura mass-mediologica del telefilm non è poi tanto diversa dalla grande cultura popolare del secolo XIX; che fra un bell’episodio di Star Trek e un’opera lirica ottocentesca non ci sono affatto enormi differenze di sollecitazione dell’immaginario popolare. Si tratta di generi e mezzi molto diversi, certo, e se è per questo popolarizzati in termini che non possono sostenere una comparazione. Ma l’effetto su sentimenti, speranze, conoscenze, sul modo generale di concepire il mondo non è affatto così diverso come i parrucconi vogliono far credere. Ma pensa, Balzac non era forse un grande romanziere popolare? E Dickens non era altrettanto? Perché bisogna sempre parlare di Sue o di Mastriani o della Invernizio, per poter pensare a un pubblico di lettori di non particolare raffinatezza? Ti risponderanno: ma quegli altri erano autori leggibili a più livelli. Tali cioè da soddisfare un lettore colto e intellettuale così come un altro infinitamente meno attrezzato. Giusto. Vale anche per Shakespeare. E io credo valga anche per una buona serie tv. Tu dici e dimostri chiaramente che la prima serie di Rod Serling, nei suoi prodotti migliori, era così. E secondo me hai ragione. Allo scadere degli anni ’50 (un’epoca quasi preistorica in termini televisivi) la serie The Twilight Zone civettò non poco con riferimenti, allusioni, citazioni connessi alla Cultura letteraria, ponendosi le stesse domande metafisiche che ritroviamo nei grandi autori di ogni tempo e latitudine, Shakespeare compreso. È importante chiarire che non si tratta qui di piccole lacerazioni high brow nel tessuto di testi decisamente low o middle. Se è infatti vero che non basta un titolo azzeccato per fare alta cultura, è altrettanto vero che interrogarsi, poniamo, sulla natura umana non è unico appannaggio di Shakespeare, Balzac o Dickens. Naturalmente la bontà dell’operazione non si giudica semplicemente dalla risposta. Se una cosa la Letteratura ci ha insegnato è che, per parafrasare il von Hofmannsthal di Il cavaliere della rosa, «nel come, nel come sta la differenza». E quale «come» ha da offrire una serie televisiva? Che cosa, all’interno di un programma costretto nei limiti di un preciso formato e con vincoli dovuti a sponsorizzazioni pubblicitarie o peggio, potrà dirci anche solo formalmente di PREFAZIONE 9 ciò che siamo o potremmo essere o non saremo mai? Un episodio di quella serie da te non citato, «Canto il corpo elettrico» (facciamo notare ai parrucconi, per quel che serve, che si tratta di una citazione da Walt Whitman), fa venire i brividi per la profondità del sentire, non diversa, del resto, da quella di un altro episodio che invece citi, «Solitudine». Naturalmente i brividi vengono a chi li sente. Ma possiamo consolarci: sappiamo bene che, durante la Restaurazione, Shakespeare non veniva tenuto in gran considerazione e che gli si preferivano John Dryden e figure anche minori di questi. Ecco, basta una frase come questa per prestare il fianco ai raffinati intellettuali che si vantano di non avere nemmeno un televisore in casa propria. Come se parlare di valore significasse necessariamente e sempre, implacabilmente, lo stesso grado di valore. Come se affermare che un certo telefilm è culturalmente serio e profondo comportasse illico et immediate una equiparazione alla grandezza di Shakespeare. No, il punto è un altro. Il punto è che purtroppo la televisione, americana o no, ci versa addosso, da decenni, vagonate di letame e che, come sempre accade in questi casi, ne fanno le spese anche le non molte cose che meriterebbero attenzione, rispetto, studio, ammirazione. Lo so, tu lo dici nel tuo libro: anche i telefilm brutti sono interessanti, anch’essi hanno molto da dirci sulla società che li produce e li consuma. E anche questo è vero. Anzi, il tuo studio parla prima di tutto di questo. Perciò io qui mi soffermo in un angolo più in ombra, quello del valore, della bellezza, dell’emozione. Che anche il piccolo schermo può dare. E non parlo dell’indulgenza che anche persone di provata cultura sfoderano davanti a infinite soap opera, avvinte da una curiosità che con la bellezza non ha nulla a che vedere, ma che piuttosto solletica il loro versante narratologico (decostruzionista o meno che sia), e dunque in ultima istanza la loro sofisticatezza teorica e formale. Questo, sia chiaro, va benissimo. Ma io parlo del tempo, ormai più che maturo, in cui la televisione prenderà il suo posto fra le grandi, importanti forze e forme della narrativa popolare (intesa non alla Invernizio, ma alla Balzac). Ha già occasionalmente dimostrato di saperlo fare, perché non potrebbe farlo regolarmente? Il mio discorso, lo so bene, è tutto sommato astratto: ci vuole una centrale di intelligenza per sfornare intelligenza, laddove chi trova più conveniente – economicamente, ideologicamente, politicamente ecc. – produrre letame, be’, va da sé che continuerà a produrre letame. È davvero un peccato, perché mai come oggi il piccolo schermo ci ha fornito e ci sta fornendo materiale utilissimo per capire. In America, almeno, sembrano pensarla diversamente. È di soli tre anni fa un testo critico non poco 10 interessante di Sherrie A. Innes, intitolato Tough Girls, che studia la presenza femminile nei canali mass-mediologici e che concede spazio a cose come Charlie’s Angels, The Bionic Woman, Xena ecc. È vero che laggiù buttano spesso tutto nell’ormai ammuffito ripostiglio dei gender studies (che, chissà perché, continuano a contrabbandare come cultural studies), ma è anche vero che un occhio intelligente può ritrovare, in tale continua e caratterizzata presenza, formidabili connessioni con i cambiamenti sociali e sociologici che da tanto tempo si stanno susseguendo a una velocità così vertiginosa da farci dubitare sulla nostra capacità di stare al passo – anche solo in linea teorica – con i tempi. E che dire dell’insorgenza, ormai annosa, di serie che contaminano l’ecologia con la fantasy (ad esempio, The Beastmaster)? Ormai il mondo dell’immaginario telefilmico si è articolato in modi talmente ramificati e poliedrici che probabilmente non basterebbe l’impegno che la critica cinematografica odierna, vecchia e giovane, profonde nei confronti dei prodotti hollywoodiani destinati al grande schermo (in realtà e in ultima analisi, come sappiamo, al piccolo schermo) per metterci in condizione di fare un po’ di chiarezza. Tu stai tentando, insieme a pochi altri, nei quali però non sempre colgo il necessario spirito critico, ma piuttosto la simpatica esaltazione che tutti proviamo – magari in un’età nella quale la critica non sapevamo nemmeno che cosa fosse – davanti a qualcosa che ha fatto parte dei nostri primi passi nel mondo dell’immaginario narrativo. Ma stai molto attento: forse presto, un giorno, potresti ritrovarti a essere un «imprescindibile riferimento»… AI CONFINI DELLA REALTÀ Introduzione Azione pura quasi scarnificata, ritmi che non lasciano riprendere fiato, narrazione frazionata in episodi conseguenti tra loro o chiusi ciascuno in sé, abilità nel rendere sempre imperdibile il successivo appuntamento: sono queste le caratteristiche principali dei telefilm, i prodotti di fiction seriale catodica capaci – più e meglio degli altri tipi di show televisivi – di avvincere gli spettatori e trattenerli davanti al piccolo schermo, riuscendo a entrare addirittura nel ciclo stesso delle loro (nostre) esistenze quotidiane (potere della serialità!). I telefilm più amati e conosciuti, quelli dalla qualità media più elevata produttivamente e artisticamente, arrivano senza dubbio dagli Stati Uniti; e, dagli anni ’50 a oggi, hanno conquistato i palinsesti televisivi di tutto il mondo, proiettando i valori dell’american way of life nelle coscienze di miliardi di uomini e donne, in modo ben più insinuante ed efficace di quanto non sia riuscito a fare il cinema hollywoodiano. E proprio il telefilm si propone come lo specchio migliore nel quale gli americani riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario nazionale. Serie televisive «commerciali» come, per esempio, Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959), Star Trek (id., 1966), XFiles (The X-Files, 1993) o Buffy (Buffy - The Vampire Slayer, 1997) dicono molto di più – e lo dicono in modo più chiaro – sui tanti volti del «modo di vita americano» e sul suo inevitabile lato oscuro, rispetto a presuntuose ricognizioni «d’autore» e a seriosi trattati. Probabilmente, poi, è proprio il genere fantastico – in un format tipicamente postmoderno com’è il telefilm (caratterizzato dal pastiche e dalla contaminazione) – a saper metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso 14 AI CONFINI DELLA REALTÀ irrazionali, che attraversano la società americana nella seconda metà del XX secolo. «A un certo punto della storia del ’900 – scrive Gianni Canova, all’inizio di un suo bel libro – la cultura occidentale scopre con disagio che i vecchi capisaldi del progetto moderno (la razionalità, la funzionalità, l’efficienza) funzionano male, che rischiano il blackout, che non riescono più non solo a rappresentare il mondo e dargli una forma tendenzialmente organica, ma neppure a comprenderlo e a capirlo» 1. Perciò, il fantastico diventa la chiave interpretativa più adatta per la comprensione di un mondo frammentato, inefficiente, irrazionale e non decodificabile altrimenti. Tra l’altro, nella fiction seriale americana, germi fantastici sbocciano anche dove meno ci aspetterebbe, come vedremo in più di un capitolo: per esempio, in sit-com come Lucy ed io (I love Lucy, 1951), in un celebre episodio, nel quale Lucy incontra Superman; e Happy Days (id., 1974), con l’alieno Mork che arriva sulla Terra per rapire Richie e, poi, diventa protagonista di un nuovo show tutto per sé, Mork e Mindy (Mork & Mindy, 1978); oppure in avventurosi iperpatinati come Baywatch (id., 1989), che «partorisce» la fanta-serie gemella Baywatch Nights (id., 1995). Naturalmente, generi «forti» come il poliziesco privilegiano – ancor di più in televisione, va detto – un realismo quasi esasperato; anche se un fanta-horror di successo come X-Files presenta tutti gli elementi fondamentali del thriller investigativo, fin dalla coppia mista di detective. Coerentemente, quindi, anche nel libro la divisione dei capitoli per generi propone diverse eccezioni e alcuni scavalcamenti di confini comunque incerti: uno per tutti è l’inserimento di I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks, 1990) nella sezione dedicata alle serie «familiari» delle quali è un’agghiacciante rilettura «in negativo». Qualche altra avvertenza. L’unica categoria di fiction seriale americana che non ho affrontato è quella delle soap opera, che se da un lato portano alle estreme conseguenze le leggi proprie della serialità, dall’altro propongono una staticità e modi di narrazione differenti che rimandano a uno specifico a parte. Dopo un breve capitolo teorico iniziale, poi, nel quale accenno alle varie «forme» di serialità e alle diverse tipologie di telefilm, ho preferito non seguire la distinzione «purista» tra serie (con episodi autoconclusivi e personaggi e situazioni sempre uguali a se stessi) e serial (con evoluzione costante e trame continuative), considerando i due termini come sinonimi: sia per evitare inutili ripetizioni nel corso del libro sia perché, in fin dei conti, tutti i telefilm godono di una propria continuity interna e – nel ferreo rispetto della «legge» fondamentale delle INTRODUZIONE 15 narrazioni popolari («Tutto cambia affinché nulla cambi realmente») – di un’apparente evoluzione senza sosta di trame e personaggi. I telefilm americani dopo l’11 settembre Proprio mentre sto per completare il capitolo dedicato a X-Files e ai telefilm fanta-horror degli anni ’90, si verifica un fatto che sembra uscito dalla fantasia del più ingegnoso creatore di fiction 2. È martedì 11 settembre 2001: gli Stati Uniti sono sconvolti dall’attentato al World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington, le Twin Towers crollano su se stesse modificando per sempre lo «skyline» di Manhattan, i morti sono migliaia, molti pensano che la storia del mondo stia per cambiare. Negli Stati Uniti le ripercussioni si fanno sentire anche sull’industria dello spettacolo: contemporaneamente al moltiplicarsi di iniziative benefiche a sostegno delle vittime e delle loro famiglie, infatti, i film che parlano di terrorismo sono rinviati a tempi migliori, alcuni sono rimontati con l’eliminazione di sequenze che potrebbero offendere la sensibilità del pubblico ed entrano in produzione diversi progetti cinematografici che – a supporto della reazione militare statunitense in Afghanistan – trasudano patriottismo da tutti i pori. In ambito televisivo, per la prima volta nella loro storia, gli Emmy Awards (gli Oscar del piccolo schermo), in programma la domenica successiva al disastro, sono rinviati di oltre un mese in segno di lutto. Tra le migliaia di vittime della catastrofe c’è anche un celebre autore di sit-com: David Angell, co-creatore e sceneggiatore di serie amatissime dagli americani come Cheers (Cin Cin, 1982), Wings (id., 1990) e Frasier (id., 1993). Angell e la moglie erano in volo su uno dei due aerei schiantatisi sulle Torri gemelle di New York: si recavano a Los Angeles proprio per la cerimonia degli Emmy, dove Frasier aveva – come quasi ogni anno, d’altra parte – parecchie nomination. Anche la televisione americana si adegua al momento critico e cancella o rinvia film e telefilm giudicati «di cattivo gusto». In particolare, i network rimandano la partenza di tre attese nuove serie che, in un modo o nell’altro, sarebbero potute risultare inopportune per una platea che ha appena conosciuto – ma per davvero! – gli orrori che di lì a qualche giorno avrebbero riempito il piccolo schermo. Così, la CBS rinvia l’inizio di The Agency, serie prodotta da Wolfgang Petersen e dedicata alle avven- 16 AI CONFINI DELLA REALTÀ ture d’un gruppo di agenti della CIA: nell’episodio pilota, infatti, è mostrato un tentativo del Governo di sventare un atto terroristico, mentre in una successiva puntata viene fatto un chiaro riferimento – immediatamente eliminato in un nuovo montaggio – all’inafferrabilità del terrorista Osama bin Laden. La Fox si comporta allo stesso modo nei confronti di 24, serratissimo telefilm d’azione creato da Robert Cochran e interpretato da Kiefer Sutherland nel ruolo dell’agente governativo Jack Bauer che, in sole 24 ore (da mezzanotte a mezzanotte: con ogni episodio a coprire un’ora esatta di trama), deve impedire che un terrorista uccida un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. La ABC, da parte sua, rimette mano alle date di lancio di quello che sarà, poi, il grande successo della sua stagione 2002: la deliziosa «thriller comedy» spionistica Alias, ideata da J.J. Abrams e imperniata sulle gesta di Sidney Bristow, un’avvenente studentessa di college reclutata dalla CIA come agente segreto (la interpreta Jennifer Garner, che diventa una diva proprio con questa serie). Ai vertici dei principali network televisivi ricominciano a circolare con sempre maggiore frequenza termini come «censura» e «autocensura», applicati a quei prodotti di fiction che più direttamente potrebbero urtare la sensibilità d’una platea ancora sotto shock. A tale proposito, sono indicative alcune dichiarazioni di John Wells, produttore esecutivo del notissimo «medical drama» E.R. - Medici in prima linea (E.R., 1994). «Per tutti noi che lavoriamo nel business televisivo delle serie drammatiche, l’attacco ha provocato molti cambiamenti. Dovremo autoimporci restrizioni nel creare violenza anche sullo schermo; e prodotti come E.R. saranno meno facili da proporre ai network. D’altra parte, la NBC ha espresso già in passato non poche perplessità su questo tipo di produzioni che, come sappiamo, sono piene di sangue e di procedure chirurgiche d’emergenza.» 3 Ma, dopo un primo periodo di shock e spaesamento collettivo, l’industria televisiva della fiction seriale riesce a elaborare il lutto nazionale molto meglio di quanto non sappia fare il cinema hollywoodiano. Così, i creatori di fiction più sensibili iniziano a dire la loro sull’attacco dell’11 settembre, che diventa imprescindibile elemento drammaturgico di alcune tra le proposte più belle viste, in anni recenti, sui network statunitensi. Lo stesso John Wells di E.R., per esempio, scrive uno struggente episodio triplo della serie Squadra emergenza (Third Watch, 1999), altra sua creazione (in collaborazione con Edward Allen Bernero). La puntata speciale – trasmessa dalla NBC in tre parti, il 15, 22 e 29 ottobre 2001, con i titoli «In INTRODUZIONE 17 Their Own Words» (un’ora di reportage con testimonianze reali della tragedia newyorkese), «September Tenth» e «After Time» (i due veri e propri episodi di fiction) 4 – si lascia apprezzare per l’estrema sobrietà e compostezza mostrate nell’affrontare l’argomento, senza mai calcare i toni o tentare di spettacolarizzare la narrazione. Sotto l’obiettivo degli autori, infatti, finiscono – coerentemente con lo spirito della serie – anzitutto le tormentate quotidianità dei protagonisti: pompieri, paramedici e poliziotti di New York, impegnatissimi – al pari di tanti loro concittadini – a conciliare i piccoli e grandi eroismi quotidiani tipici dei loro mestieri con qualcosa che va oltre la loro stessa comprensione. La trama prende il via alle 21,15 del 10 settembre, in una calda sera di fine estate apparentemente simile a tante altre: il turno di notte – il «Third Watch» del titolo originale – procede normalmente, tra una richiesta d’aiuto, un falso allarme e le lunghe attese dell’alba. Durante le interminabili ore notturne i tanti personaggi principali – è una serie corale – cercano di fare i conti anche con i propri «demoni» interiori: così i poliziotti John «Sully» Sullivan (Skipp Sudduth), Ty Davis (Coby Bell), Faith Yokas (Molly Price) e Maurice «Bosco» Boscorelli (Jason Wiles); i paramedici Monte «Doc» Parker (Michael Beach), Carlos Nieto (Anthony Ruivivar), Bobby Caffey (Bobby Cannavale) e Kim Zambrano (Kim Raver); i pompieri Jimmy Doherty (Eddie Cibrian) e Alex Taylor 5 (Amy Carlson). Il disastro del World Trade Center resta opportunamente «fuori campo» e viene raccontato soltanto attraverso i volti di coloro che attraversano la metropoli in una mattina che credevano normale. Dopo una lenta dissolvenza in nero, la narrazione riprende il 21 settembre: i protagonisti hanno visto l’inferno dritto negli occhi, hanno conosciuto la perdita e il lutto, ma anche la commovente riconoscenza d’una comunità grata ai suoi «eroi» quotidiani (è davvero struggente il momento della fiaccolata con la quale l’intero quartiere saluta, all’esterno della caserma, il recupero del corpo di un pompiere morto a «Ground Zero» 6). Al termine d’un episodio che, probabilmente, resterà nella storia della televisione statunitense, echeggiano nelle orecchie le parole – agghiaccianti nella loro semplicità – di un dialogo tra due protagonisti di Squadra emergenza: «Credi che un giorno tornerà tutto normale?», «Normale come?», «Com’era prima», «No». Nei mesi successivi, poi, diverse altre serie televisive «realistiche» dedicano ampio spazio agli eventi del 11 settembre e alla nuova fobia statunitense per il terrorismo: da The West Wing (1999) – creata da Aaron Sorkin, ambientata alla Casa Bianca e interpretata da Martin Sheen e Stockard Channing, nei panni rispettivamente del presidente democratico Josiah 18 AI CONFINI DELLA REALTÀ Bartlet e di sua moglie Abby – alle «storiche» E.R. e NYPD - New York Police Department (N.Y.P.D. Blue, 1993: senz’altro la più famosa tra quelle ambientate nella «Grande Mela»). E ci sono evidenti riferimenti al terrorismo – nonché a possibili deviazioni di apparati governativi occulti! – anche in una tra le serie fantastiche più spettacolari e avvincenti lanciate durante la stagione televisiva «post 11 settembre»: Mutant X, creata dal celebre fumettista Howard Chaykin, con Adam Haight, Jay Firestone, Rick Ungar e Avi Arad come produttori esecutivi. Nei primi due episodi – «The Shock of the New» e «I Sing the Body Electric», andati in onda il 6 e il 13 ottobre 2001 e sceneggiati direttamente da Chaykin – viene inquadrato il contesto ambientale della serie e si fa la conoscenza con i personaggi principali: Jesse Kilmartin (Forbes March), Shalimar Fox (Victoria Pratt), il misterioso Adam (John Shea), Emma DeLauro (Lauren Lee Smith), Brennan Mulwray (Victor Webster); tutti mutanti (dotati di poteri più che umani, di natura genetica) riuniti nel gruppo noto come «Mutant X». Fin dalla prima puntata, il loro antagonista – responsabile di un segretissimo progetto governativo per la creazione di «nuovi mutanti», da utilizzare a scopo militare – è il terribile Mason Grey Eckhart (Tom McCamus). In Mutant X, temi importanti – ancora di più, dopo l’attentato alle Twin Towers e la reazione statunitense in Afghanistan – come la diffidenza/intolleranza nei confronti del diverso e l’importanza di «fare gruppo» per superare difficoltà apparentemente insormontabili sono ben trasfigurati in una serie che sa far proprie alcune tra le suggestioni narrative più coinvolgenti del popolarissimo serial fumettistico Marvel degli X-Men (e, in ciò, conta molto la formazione dell’ideatore Howard Chaykin). Senza, per questo, rinunciare all’indispensabile rispecchiamento tra la realtà circostante e la sua rilettura, grazie alla «lente deformante» del genere fantastico. Insomma, anche nel momento tanto delicato del «dopo 11 settembre», le serie televisive si confermano sensibilissimi «termometri» attraverso i quali misurare gli «sbalzi» sempre più imprevedibili della «temperatura mentale» della società statunitense. E, conseguentemente, di quella occidentale. Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano 2000, pp. 6-7. Un’espressione ricorrente, nei giorni immediatamente successivi al crollo delle Twin Towers, era la seguente: «La realtà ha superato la fantasia». Al di là 1 2 INTRODUZIONE 19 di ogni forma retorica, ancor più dannosa in simili momenti, sappiamo bene come – per fortuna! – la cosa non sia affatto vera. 3 Dichiarazioni pubblicate dal quotidiano «Denver Post» il 29 ottobre 2001. 4 In Italia, gli episodi speciali sono trasmessi da Italia Uno in un’unica serata, col titolo complessivo «11 settembre». 5 Personaggio che, a otto mesi dalla tragedia, ritrova il corpo del padre scomparso sotto le macerie, nell’episodio «Two Hundred and Thirty-Three Days» – con riferimento ai giorni trascorsi dall’11 settembre – andato in onda il 6 maggio 2002. 6 Dopo il disastro, è chiamata così l’area dove sorgevano le Twin Towers. PARTE PRIMA TEORIE E STORIE Qualche appunto di teoria Serialità e televisione La serialità è diventata, sempre di più negli ultimi anni, la categoria dominante nell’universo delle immagini in movimento, tra cinema, televisione, Internet, videogames, DVD e nuove tecnologie. Ed è assolutamente legittimo sostenere – come fa con acutezza Roy Menarini, nel saggio introduttivo di un bel dossier sul tema pubblicato dalla rivista «Segnocinema» – che proprio questa sembra essere «l’unica struttura in grado di fronteggiare la frantumazione delle opere e la loro sopravvivenza all’interno di media sempre diversi, assumendo magari connotazioni non dissimili a quelle di genere» 1. Ma è altrettanto vero che la televisione – attraversata, per sua stessa natura, da flussi ininterrotti di immagini ciclicamente (ri)proposte – resta il luogo privilegiato in cui la serialità si dispiega, quello ideale per tutto ciò che non può e non deve avere mai fine. E, all’interno di questo medium, proprio il genere fiction è il più adatto al pieno manifestarsi delle caratteristiche della «Serial TV». Negli Stati Uniti, la fiction televisiva è fortemente connotata in senso seriale fin dagli anni ’50, quando assume come suoi modelli di riferimento i radiodrammi a puntate, i racconti dei pulp magazines (a fumetti e non) e i serial cinematografici di serie B. In Italia, invece, la TV dei primi decenni guarda in altre direzioni per allestire i propri teleromanzi, preferendo proporre testi narrativi unici e ben riconoscibili, spesso di derivazione teatrale o letteraria: è la tradizione del classico sceneggiato «all’italiana». Il passaggio da questo tipo di prodotti di fiction a quelli seriali – come hanno sottolineato quasi tutti gli studiosi del fenomeno (e basti qui 24 AI CONFINI DELLA REALTÀ un esempio illuminante come quello di Gian Paolo Caprettini 2) – va considerato come uno tra gli elementi decisivi nel passaggio dalla cosiddetta «veterotelevisione» alla «neotelevisione» 3. Un momento centrale in tale processo è rappresentato dalla trasmissione italiana di uno storico serial americano come Dallas (id., 1978). Il racconto delle vicissitudini della famiglia Ewing viene mandato in onda per la prima volta dalla RAI, nel febbraio del 1981, come un qualsiasi sceneggiato televisivo nostrano: senza rispettarne la cronologia e rimontando insieme più puntate originali, secondo logiche tipiche della «veterotelevisione» che stanno iniziando a perdere efficacia. Il fallimento è clamoroso e lo diventa ancora di più quando l’emittente privata Canale 5 ricompra i diritti del programma per trasmetterlo secondo la sequenza e la scansione originaria, in prima serata, due volte la settimana a partire da settembre: proprio l’enorme successo di Dallas su Canale 5 rappresenta un importante punto di svolta per il decollo dell’emittenza televisiva privata in Italia. Anzi, nella prima metà degli anni ’80, la trasmissione da parte dei neonati network privati italiani di un cospicuo numero di telefilm americani dalla forte impronta seriale – elemento di opposizione «ideologica» dichiarata rispetto agli sceneggiati RAI – contribuisce a cementare il rapporto di frequenza quotidiana tra questi nuovi canali e gli spettatori. Tra il 1980 e il 1983 arrivano sui teleschermi italiani (ormai anche sulle reti RAI, però) tantissimi prodotti televisivi americani 4, telefilm «in cui le singole puntate si vanno ad agganciare l’una all’altra in una successione ininterrotta, senza che si possano stabilire né criteri di unicità e riconoscibilità del singolo testo né inizi e conclusioni definitivi. […] Questi programmi tornano tutti i giorni alla stessa ora e all’interno di una stessa sequenza, seguendo i ritmi della giornata e determinando una conseguente ritualità» 5. Anche in Italia si realizza, dunque, quanto verificatosi negli Stati Uniti della seconda metà degli anni ’50, con il passaggio dalla TV in diretta realizzata a New York ai telefilm hollywoodiani preregistrati: la serialità conquista i teleschermi e la TV si avvicina ai ritmi della vita quotidiana, ritualmente li «mima», vi si adatta e li adatta a sé e ai suoi programmi. Serie e serial La fiction televisiva di derivazione statunitense – quella dalla qualità media più elevata e che esercita il richiamo più forte sull’immaginario collettivo mondiale – assume la serialità come suo elemento fon- QUALCHE APPUNTO DI TEORIA 25 dante. Tradizionalmente è possibile distinguere questi telefilm in due categorie: serie e serial. La serie può coincidere con il telefilm «classico» – un esempio calzante è quello di Colombo (Columbo, 1968-1971) – e si basa sulla ripetizione di una struttura narrativa sempre uguale nei vari episodi, con personaggi fissi e con poche varianti a giustificare la distinzione tra una puntata e l’altra; le vicende terminano con i titoli di coda e i personaggi sono sempre uguali a se stessi. Il serial, invece, «è articolato in puntate conseguenti l’una dall’altra, in una struttura completamente aperta, senza confini» 6, con numerosi fili narrativi che s’intrecciano e i vari personaggi in continua evoluzione. A proposito dell’inadeguatezza di una divisione troppo rigida e schematica tra serie e serial, però, risulta ancora decisiva la «postilla teorica» di Umberto Eco, secondo cui questa seconda categoria «è sempre una serie mascherata. In essa, a differenza della serie, i personaggi cambiano (cambiano in quanto si sostituiscono gli uni agli altri e in quanto invecchiano): ma in realtà essa ripete, in forma storicizzata, celebrando in apparenza il consumo del tempo, la stessa storia, e rivela all’analisi una fondamentale astoricità e atemporalità» 7. Il discorso, ovviamente, può essere pure rovesciato, a dimostrazione di quanto siano affini (e spesso indistinguibili) tra loro le due tipologie. Un ottimo esempio, tra i tantissimi possibili, è offerto da un recente telefilm americano di grande successo: Buffy. La giovane protagonista – una studentessa che, nottetempo, difende il mondo dalle forze del male – viene inserita dal creatore della serie, Joss Whedon, in situazioni che si ripetono ciclicamente: la lotta contro un nemico soprannaturale (uno diverso per ogni annata), i problemi di cuore, le relazioni turbolente con gli amici, la famiglia e la scuola. E tutto ciò, nonostante il tempo del racconto scorra in modo piuttosto evidente: i personaggi, infatti, si diplomano e vanno al college, crescono e sembra (sembra, appunto) persino che maturino in seguito alle esperienze precedenti (che sono richiamate in continuazione, anche a distanza di anni). È proprio la capacità di ibridazione continua tra serie e serial – come spiega bene Omar Calabrese, «il saper essere a un tempo una narrazione a puntate e una narrazione finita e soddisfacente» 8 – a costituire uno tra i motivi di maggiore seduzione di questo telefilm e di tanti altri simili, sempre americani. Tali prodotti riescono a soddisfare tutti i possibili tipi di fruizione, «quella occasionale, che deve avere possibilità di soddisfazione di almeno un segmento narrativo; quella seriale discontinua, che può avere un nucleo di puntate chiuse come soddisfacimento narrativo; quella cultuale, che non perde neppure un episodio» 9. 26 AI CONFINI DELLA REALTÀ Sono proprio le loro caratteristiche seriali – con il meccanismo formale del ritorno dell’identico nella sequenza – a far sì che i telefilm americani siano particolarmente adatti per integrarsi nei ritmi della vita quotidiana, anch’essa basata sulla ripetizione di unità modulari come la giornata (con le sue diverse parti), la settimana, il mese. Il «replicante» è migliore dell’originale Nel 1984 Omar Calabrese riprende 10 la metafora centrale di Blade Runner (id., 1982) di Ridley Scott: quella dei «replicanti». E lo fa mettendola al servizio di una vera e propria «estetica della ripetizione», da contrapporre a quella idealista che vorrebbe la ripetitività e la serialità al polo opposto dell’originalità e dell’artisticità. All’interno del romanzo originario di Philip K. Dick e del film di Scott, i «replicanti» sono robot uguali agli uomini, dei quali migliorano alcune caratteristiche meccaniche (la forza, l’agilità, la velocità) fino a farsi preferire dal punto di vista estetico e persino sentimentale. Allo stesso modo, secondo Calabrese, in un’analisi dei prodotti di finzione delle comunicazioni di massa, i «replicanti» – nel nostro caso, i telefilm – «nascono come prodotto di meccanica ripetizione e ottimizzazione del lavoro, ma il loro perfezionamento produce un’estetica. Appunto, un’estetica della ripetizione» 11. Parlando di serie e serial, dei loro vari gradi di ibridazione (magari secondo le coordinate di quel «macrogenere» che è oggi il fantastico), nonché dei rapporti tra le due categorie di telefilm, Omar Calabrese distingue, dunque, diverse tipologie di fiction seriali basate, innanzitutto, sulla «variazione di un identico» (quando il punto di partenza – esempio perfetto: Colombo – è un prototipo moltiplicato in situazioni differenti) e sull’«identità di più diversi» (prodotti che nascono come differenti da un originale ma, invece, risultano identici: per esempio, Star Trek e Galactica, Battlestar Galactica, 1978 oppure Perry Mason, id. 1957, e Ironside, id., 1967); e ancora, basate sull’«accumulazione» (le classiche serie, in cui le vicende si ripetono ciclicamente e non è mai messo in gioco un tempo dell’intera serie) e sulla «prosecuzione» (i serial, con l’azione che avanza e i personaggi che mutano, magari in vista di un obiettivo finale da raggiungere); infine, su tre livelli delle varie ripetizioni/differenziazioni: figurativo (in Buffy, l’eroina è bionda con gli occhi azzurri), statico (lo scontro tra il bene -Buffy e il male-i vampiri) e dinamico (situazioni-tipo QUALCHE APPUNTO DI TEORIA 27 che si ripetono: l’inseguimento dei vampiri tra le lapidi del cimitero, le difficoltà con i ragazzi, l’affetto per gli amici). In relazione a tutte le categorie elencate, comunque, restano questioni centrali la gestione del tempo – attraverso il rapporto tra ritmo e schema – e la dialettica tra identità e ripetizione. Il «grado di serialità» di queste opere audiovisive può essere «misurato» più agevolmente ricercandolo all’interno di alcuni loro «luoghi»: i titoli, i personaggi e i modi in cui la singola trama viene costantemente ricondotta al genere di appartenenza. Il primo momento, in un telefilm, corrisponde a quello della sigla, ben più importante rispetto ai titoli di un film «perché deve veicolare informazioni chiave del quadro: presentare i protagonisti, introdurre i temi della serie attraverso immagini esemplificative che raramente sono introduttive al singolo episodio, ma che di solito preludono appunto alla delimitazione dei confini del frame entro il quale si muove la serie» 12. I personaggi, poi, in un testo fortemente serializzato acquistano, di solito, le caratteristiche dello stereotipo, tanto da poter essere facilmente individuati e distinti, per esempio attraverso soprannomi. Anche la trama seriale, infine, viene ingabbiata abbastanza rigidamente entro schemi di maggiore o minore aderenza al quadro di genere: «Sono sì possibili varianti, alcune anche potenzialmente molto pericolose per la stabilità del quadro (come ad esempio la sostituzione di un attore nel ruolo di un personaggio, evento assai comune nelle soap), ma queste finiscono sempre per essere riassorbite all’interno del quadro dominante» 13. Film e telefilm: «vampirizzazioni postmoderne» Nel nome della serialità e delle sue regole si fanno sempre più stretti e frequenti i rapporti tra cinema e televisione, con quest’ultima che fornisce continuamente alle produzioni per il grande schermo modelli narrativi e figurativi. E sembra un processo inarrestabile la trasformazione in senso seriale di un numero sempre maggiore di prodotti cinematografici. A tale proposito Francesco Casetti propone tre «assi della pluralità», che possono essere tranquillamente applicati anche ai film per il cinema: la «ripetizione (certi elementi di contenuto o certi schemi formali ritornano pressoché identici in testi diversi), la serializzazione (dei testi diversi si organizzano in una successione ordinata, o comunque in una famiglia comune), la dilatazione (i testi, riunendosi tra loro, formano un insieme di lunghezza indefinita; anzi, tendenzialmente infinita)» 14. Casi cinema- 28 AI CONFINI DELLA REALTÀ tografici perfetti per essere inquadrati secondo queste categorie sono facilissimi da trovare: per esempio, c’è ripetizione nei film della serie dell’agente 007, serializzazione in quelli della serie di «Jurassic Park» di Steven Spielberg, dilatazione nelle «Guerre Stellari» di George Lucas. L’interesse di Hollywood per le vecchie serie televisive – meglio se scelte tra quelle «di culto» 15 – è cresciuto sempre di più in anni recenti, con un aumento esponenziale delle pellicole cinematografiche tratte da/ispirate a telefilm: a parte il ciclo di pellicole da Star Trek (già nove, con la decima in preparazione), si pensi soltanto ai casi di The Untouchables - Gli intoccabili (The Untouchables, 1987) e Mission: Impossible (id., 1996) di Brian De Palma, La famiglia Addams (The Addams Family, 1991) e Wild Wild West (id., 1999) di Barry Sonnenfeld, Lost in Space - Perduti nello spazio (Lost in Space, 1998) di Stephen Hopkins, Il santo (The Saint, 1997) di Phillip Noyce, The Avengers - Agenti speciali (The Avengers, 1998) di Jeremiah Chechik. Alla base di operazioni che vengono quasi sempre premiate da buon successo di pubblico c’è l’ormai acquisita consapevolezza – da parte dei dirigenti di studios sempre più a corto di idee davvero nuove – delle enormi possibilità commerciali derivanti dallo sfruttamento dei meccanismi mentali di affezione e nostalgia del pubblico, americano ma non solo, nei confronti delle serie televisive con le quali, spesso, è cresciuto. Si tratta del medesimo processo che, per esempio, ha fatto includere il «mitico» giubbotto di pelle nera indossato da Henry Winkler/Fonzie in Happy Days tra i patrimoni culturali della storia nazionale americana all’interno dello Smithsonian Institute. La «vampirizzazione», però, è reciproca, «a doppio senso», dato che anche la televisione – e sempre di più negli ultimi tempi – trae ispirazione continua per nuove serie da film per il cinema, a dimostrazione di come il sistema dei media e dell’entertainment – lungo il ponte che unisce Hollywood a Wall Street – sia davvero totalmente integrato per ragioni che sono, ovviamente, soprattutto economiche 16: così è accaduto per Le avventure del giovane Indiana Jones (The Young Indiana Jones Chronicles, 1992), prequel della «trilogia» spielberghiano-lucasiana; per Stargate SG-1 (id., 1997), dallo Stargate (id., 1994) cinematografico di Roland Emmerich; differente è il caso di uno tra i «fanta-hit» degli anni ’90, tratto dalla pessima pellicola omonima (di nessun successo) Buffy - L’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer, 1992) di Fran Rubel Kuzui. Anticipatori di tali dinamiche produttive possono già essere considerati due progetti televisivi come M.A.S.H. (M*A*S*H, 1972) dal film di Robert Altman di due anni prima e Saranno famosi (Fame, 1982) da QUALCHE APPUNTO DI TEORIA 29 quello di Alan Parker, sempre precedente di due anni. Gli esempi sarebbero anche qui numerosi. Può sembrare persino ovvio, ma andrebbe comunque sempre ribadito che non è possibile porsi criticamente nel medesimo modo di fronte a un film e a un telefilm, anche quando trattano lo stesso soggetto. A parte le naturali differenze di carattere produttivo, infatti, dal punto di vista linguistico è inevitabile che un tempo della narrazione diverso – di solito, due ore al cinema e 30 minuti oppure un’ora in TV – produca risultati imparagonabili per respiro narrativo, ritmo delle sequenze, cura dei dettagli, approfondimento delle psicologie dei personaggi, ricostruzione delle atmosfere attraverso il piano scenografico, soluzioni stesse di ripresa: senza voler, con questo, necessariamente stilare una graduatoria di merito nei confronti delle due tipologie di racconto per immagini. E poi – particolare decisivo – un film è strutturato per essere fruito come un unicum, mentre l’episodio di una serie televisiva è realizzato già pensando alle interruzioni pubblicitarie che lo spezzetteranno, influenzandone in modo decisivo la struttura 17 (e i modi della fruizione). «Il formato, insomma, impone un modo di racconto invece di un altro» 18, proprio come accade in letteratura quando si mettono a confronto tra loro un romanzo e una novella breve: sono semplicemente prodotti differenti. Il telefilm, quindi, non è un «film breve» prodotto per la televisione – come, ancora oggi, il senso comune lascia credere persino a quegli spettatori medi che, quotidianamente, s’imbottiscono di fiction seriale catodica (restando, però, all’oscuro dei meccanismi che ne regolano l’esistenza) – ma, invece, un’opera che risponde a sue leggi specifiche e che produce un universo sensoriale diversissimo da quello degli altri media. Al tempo stesso, i telefilm, in quanto prodotti seriali tipici dell’era digitale, riescono a essere perfettamente inseriti, più dei film per il grande schermo, nell’ampio e irrimediabilmente frammentato «sistema» mediatico della post-modernità. 1 Roy Menarini, Il cinema moltiplicato. La serialità sullo schermo in epoca contemporanea, «Segnocinema», n. 109, maggio-giugno 2001, p. 18. 2 Gian Paolo Caprettini, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 34 sgg. «Lo schema del passaggio dalla paleo o veterotelevisione alla neotelevisione si presta dunque bene a descrivere l’evoluzione del linguaggio della televisione italiana dalle origini a oggi. […] In particolare si lavorerà su tre livelli del linguag- 30 gio audiovisivo: le forme espressive della rappresentazione (la costruzione del tempo e dello spazio televisivi), i contenuti narrativi e retorici (la costruzione del racconto e le forme di interazione tra i personaggi televisivi e tra questi e lo spettatore) e gli accordi tra schermo e spettatore (la costruzione di un rapporto di fiducia tra televisione e spettatore, in particolare attraverso il meccanismo dei generi)». 3 In Italia il primo a utilizzare il termine «neotelevisione» è stato Umberto Eco, in un suo articolo del 1983 (oggi presente in: Umberto Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, pp. 163 sgg.). 4 Tra i più celebri: Charlie’s Angels, Starsky & Hutch, Magnum P.I., Cuore e batticuore, Wonder Woman, Hill Street giorno e notte, Le strade di San Francisco, Sulle strade della California, New York New York. 5 Gian Paolo Caprettini, La scatola parlante cit., pp. 44-45. 6 Federica Villa, La forma della fiction televisiva, in Francesco Casetti, Federica Villa (a cura di), La storia comune. Funzioni, forma e generi della fiction televisiva, RAI-Nuova Eri, Roma-Torino 1992, p. 62. 7 Umberto Eco, Tipologia della ripetizione, in Francesco Casetti (a cura di), L’immagine al plurale, Marsilio, Venezia 1984, p. 28. 8 Omar Calabrese, I replicanti, in Francesco Casetti (a cura di), L’immagine al plurale cit, p. 73. 9 Ivi, p. 78. 10 Ivi, pp. 63, 83. 11 Ivi, p. 63. 12 Orio Menoni, Generi, riconoscibilità, memoria. Il cinema e la serializzazione della forma, «Segnocinema», n. 109, maggio-giugno 2001, pp. 20-21. 13 Ivi, p. 21. 14 Francesco Casetti, Il sapere del telefilm, in Francesco Casetti (a cura di), Un’altra volta ancora. Strategie di comunicazione e forme di sapere nel telefilm americano in Italia, Eri, Torino 1984, p. 13. 15 Martin Winckler, nel suo dizionario Les Séries Télé, introduce così questa categoria di telefilm: «Il termine di culto designa le opere che hanno generato intorno a loro un importante movimento di appassionati, numerose manifestazioni collegate, fan club, articoli e commenti senza fine». Il brano è citato in Mauro Gervasini, Una Hollywood poco serial, «Segnocinema», n. 109, maggio-giugno 2001, p. 29. 16 Il concetto fondamentale è diventato quello di sfruttare fino in fondo – sui diversi mass media connessi tra loro in gruppi multinazionali – un «franchise» amato dal pubblico. L’esempio più calzante può essere quello di Batman e dell’uso «spregiudicato» che ne stanno facendo, attraverso le varie società del gruppo, i vertici del colosso Time-Warner al quale appartengono i diritti del personaggio: tra fumetti (DC Comics), film per il cinema (Warner Bros.), serie di cartoni animati (Warner Television e Home Video), videogiochi, merchandising; in attesa, probabilmente, del momento giusto per il grande ritorno dell’uomo pipistrello in un suo telefilm, dopo il divertente serial degli anni ’60. 17 Non a caso, quando si parla di telefilm di mezz’ora o di un’ora s’intende conteggiato anche il tempo riservato alla pubblicità, mentre la durata reale delle fiction è, rispettivamente, di 23 e di 45 minuti circa. 18 Franco La Polla, Star Trek al cinema, PuntoZero, Bologna 1999, p. 6. Le origini del telefilm americano I serial prima della televisione Quando, negli anni ’50, i produttori televisivi iniziano a riempire i palinsesti dei network con un’enorme quantità di fiction, hanno ben chiare le regole del gioco e sanno con esattezza a quali modelli rifarsi, per avvincere un pubblico sempre più desideroso di storie seriali. Dall’inizio del ’900, infatti, la moderna industria culturale, particolarmente fiorente proprio negli Stati Uniti, inizia ad avere un bisogno sempre più pressante di prodotti d’intrattenimento che siano fortemente codificati e standardizzati secondo le regole di un determinato «genere» narrativo e che, al tempo stesso, sappiano tenere avvinti i propri fruitori, dando loro efficacemente appuntamento all’avventura successiva. Radio e carta stampata sono i mass media che, negli Stati Uniti degli anni ’30, sperimentano meglio di altri le dinamiche proprie della narrazione seriale, attraverso i format del radiodramma a puntate e della striscia quotidiana a fumetti. Naturalmente, in entrambi i casi, il precedente mediale più diretto – senza voler risalire a modalità narrative antichissime come, per esempio, la saga – è il feuilleton ottocentesco, che ha caratteristiche molto simili a quelle della fiction seriale radiofonica, fumettistica e, poi, televisiva: la segmentazione in varie puntate, la lunga durata del percorso narrativo, il rapporto stretto e interattivo tra lettori e scrittore (attraverso le tante lettere spedite al giornale che ospita la storia), gli spunti provenienti spesso dalla realtà quotidiana. In particolare, il radiodramma è eletto a modello anche perché ottimo terreno di invasione per il mercato pubblicitario, attraverso spot e sponsorizzazioni: proprio in radio, per esempio, nascono le soap opera – il 32 AI CONFINI DELLA REALTÀ nome del nuovo genere deriva dagli sponsor dei programmi: note industrie del sapone – che in seguito approderanno in televisione, come la celebre Sentieri (The Guiding Light, 1937, creata da Irna Phillips; in TV dal 1951). La fiction televisiva seriale si rifà ai fumetti pubblicati sui principali quotidiani statunitensi, poi, per quel che concerne la distinzione in vari generi (western, sit-com, polizieschi, fantascienza), per la ripetizione di personaggi e luoghi tipici che diventano familiari al pubblico e persino per i fenomeni di fanatismo da parte degli appassionati. «Uno degli esempi più celebri nella storia dei fumetti è rimasto quello di Flattop, un piccolo gangster deforme, nemico di Dick Tracy – il celebre investigatore di Chester Gould – che era cattivo ma simpatico ai lettori. Quando Gould lo fece morire ricevette moltissimi telegrammi di ammiratori che volevano tributargli solenni onoranze funebri; nel Connecticut gli venne organizzata anche una veglia funebre» 1. Proprio radio e fumetti – è di fine anni ’30 la nascita, sulle pagine degli albi DC National, dei due eroi seriali più popolari (e multimediali) di tutti i tempi: il Superman di Jerry Siegel e Joe Schuster e il Batman di Bob Kane – influenzano la forma stessa dei primi telefilm americani, quelli degli anni ’50, caratterizzati da secchezza narrativa, azioni molto concentrate, sequenze brevi sottolineate da roboanti stacchi musicali (quasi l’equivalente sonoro delle scritte onomatopeiche presenti nei comics), montaggio rapidissimo, numerose ellissi narrative, dialoghi estremamente sintetici, scarsi compiacimenti descrittivi (presenti, invece, nei titoli sempre molto immaginifici). Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli show televisivi della prima metà dei ’50 riprenda progetti già collaudati alla radio – basti pensare soltanto a Lucy ed io e Dragnet (id., 1952) – e sulla carta stampata (ad esempio Superman). Tra i «progenitori» del telefilm propriamente inteso, però, ci sono anche i serial cinematografici di serie B che riempiono le sale americane tra gli anni ’10 e i ’40. «Conosciuti commercialmente come Chapterplays (da “chapter”, “capitolo” e “screenplay”, “sceneggiatura”), questi serial prevedevano personaggi e trame suscettibili di continuazione, e ogni episodio finiva con una situazione pericolosa e irrisolta. Uno degli espedienti più comuni era quello di lasciare l’eroe o l’eroina di turno appesi a una finestra o in bilico su un precipizio: il classico finale detto in gergo “cliffhanger” (letteralmente, “che ti appende a una parete di roccia”).» 2 In questo tipo di produzione si distingue, soprattutto negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, la casa di produzione Republic. I marchi di fabbrica dei suoi serial sono ritmo veloce, effetti sonori inconfondibili, LE ORIGINI DEL TELEFILM AMERICANO 33 modellini in scala molto curati e ottimi effetti meccanici, spettacolari acrobazie affidate a stunt di talento come il «mitico» Yakima Canutt, travolgente commento sonoro, buon livello della fotografia e degli interpreti, soprattutto trame semplici ma appassionanti. La direzione di Herbert Yates (detto «il Vecchio») assicura, insomma, prodotti curati realizzati con budget bassissimi (compresi tra i 140.000 e i 180.000 dollari per un serial in 12 puntate). I primi produttori di fiction seriale per la televisione, dunque, hanno un immenso serbatoio di esperienze precedenti, già ben radicate nell’immaginario collettivo del paese, al quale attingere. Il telefilm è pronto per conquistare il piccolo schermo e, quindi, le case (e le coscienze) di milioni di americani. La «Golden Age» e la fiction televisiva in diretta La cosiddetta «Golden Age» della televisione statunitense (più o meno, la prima metà degli anni ’50), tradizionalmente, non è ricordata come tale per i suoi telefilm, ma per i «drammi antologici» irradiati in diretta dagli studi newyorkesi dei vari network televisivi: si tratta di lavori scritti da commediografi di formazione teatrale molto attenti alla critica sociale, basati sul buon livello recitativo di attori poi resi celebri dal cinema (come parecchi registi che in questi anni si fanno le ossa nella «palestra» delle produzioni per il piccolo schermo: si pensi semplicemente, tra i tanti, ad Arthur Penn e Sidney Lumet). Proprio il passaggio dalla televisione in diretta a quella registrata e, quindi, da New York a Hollywood, intorno alla metà del decennio, segna un fondamentale momento di rottura nel modo stesso di concepire il nuovo medium, da parte degli spettatori e degli addetti ai lavori. Non a caso, il passaggio è accompagnato da un forte dibattito sulle principali riviste americane, con il ruolo dello scrittore televisivo come oggetto dell’accesa contesa. «Se mai sono esistiti momenti memorabili in televisione – scrive, per esempio, Rod Serling nel 1957 – il merito va agli spettacoli in diretta. Se mai sono nate tecniche proprie della televisione sono quelle in diretta. […] A New York e Chicago, non certo a Los Angeles. […] Lo scrittore di televisione filmata non è mai stato, come non lo è neppure adesso, un nome identificabile agli occhi del pubblico. Ciò è in netto contrasto con lo scrittore per la televisione di New York, al quale sono garantiti un’identità, un’importanza e un rispetto secondi solamente a quelli del 34 AI CONFINI DELLA REALTÀ commediografo vero e proprio.» 3 Tra l’altro, proprio Serling – a differenza dei vari Gore Vidal, Paddy Chayefsky, Robert Alan Arthur, Horton Foote – è l’unico grosso calibro della «live television» newyorkese a resistere anche quando la produzione di fiction catodica si sposta a Hollywood e inizia a fare riferimento direttamente alle majors cinematografiche o alle loro società consociate: da scrittore di drammi televisivi di qualità ed enorme successo popolare, come Patterns e Requiem for a Heavyweight, infatti, diventa il «deus ex machina» del celebre telefilm fantastico Ai confini della realtà. E, nel capitolo seguente, vedremo come il rapporto tra questo programma e quelli precedenti realizzati da Serling sia più complesso di quanto si possa credere. Comunque, la parabola artistico-produttiva di Rod Serling diventa indicativa del tramonto di un’era: quella degli storici programmi antologici «di qualità» come Philco Television Playhouse (generalmente finanziati da un unico sponsor e basati, di volta in volta, su un differente dramma originale girato in diretta e della durata di un’ora), accantonati per ragioni economiche e, in ogni caso, legate alla crescita inarrestabile del nuovo mezzo di comunicazione. Rispetto alla fine degli anni ’40, infatti, la televisione è ormai diffusa in quasi tutto il paese e non più soltanto nelle grandi metropoli della costa orientale 4; ed è già percepita come un business di notevoli proporzioni: per questo motivo, diventa più scomodo e meno redditizio continuare a realizzare fiction in diretta, mentre uno show registrato può essere mandato in onda nelle varie zone dell’enorme Nazione sempre nella fascia di «prime time» (quella di massimo ascolto e redditività per gli inserzionisti). Inoltre, un programma registrato può essere agevolmente interrotto da più spot pubblicitari – anzi, viene concepito già in funzione delle numerose interruzioni commerciali – con conseguente aumento dei possibili sponsor: si passa, così, dagli show legati al marchio di un unico inserzionista, che ha voce in capitolo anche sui contenuti, a quelli strutturati per essere interrotti da differenti messaggi promozionali, con considerevole aumento degli utili derivanti dalla pubblicità. Sono proprio le logiche interne al mercato pubblicitario, tra l’altro, a consigliare una strutturazione iniziale della televisione americana pedissequamente ricalcata sui palinsesti della radio, dove determinati meccanismi erano già consolidati: «Segmenti – scrive Russel Nye – di un quarto d’ora, mezz’ora e un’ora; distribuzione della giornata in mattina (talk shows e giochi), pomeriggio (le serie) e sera (prima serata); le interruzioni pubblicitarie collocate negli stessi momenti e con lo stesso LE ORIGINI DEL TELEFILM AMERICANO 35 linguaggio; gli stessi programmi nelle stesse proporzioni, cioè 75% di spettacolo, 25% di servizi per il pubblico, informativi, religiosi, educativi e di programmi per i bambini. Prima della fine degli anni ’50 la televisione aveva sviluppato un tipo di palinsesto giornaliero che poi ha mantenuto senza mutamenti di rilievo» 5. Crisi del cinema o «boom» della televisione? Gli anni ’50 sono un periodo di grande fermento per l’industria cinematografica hollywoodiana. E proprio il telefilm diventa un utilissimo strumento interpretativo dei controversi rapporti tra cinema e televisione, sia dal punto di vista artistico che economico. Un anno cruciale è il 1948, quando l’industria televisiva pone le basi per un monopolio che, con qualche aggiustamento, dura ancora oggi, mentre quella cinematografica assiste allo sfaldamento della sua struttura monopolistica. La sentenza antitrust del 1948, il cosiddetto «Decreto Paramount», spezza il ciclo integrato di produzione, distribuzione ed esercizio con il quale le majors di Hollywood dominano il mercato – costringendole a vendere le proprie catene di sale – e mette la parola fine all’era classica dello Studio System, facendo entrare la «Mecca del cinema» in una profonda crisi economica e di identità che può essere solo parzialmente spiegata con la contemporanea esplosione della televisione. Nello stesso anno, però, il Governo federale emette una sentenza di segno diametralmente opposto per regolamentare il nascente mercato televisivo: la FCC (Federal Communication Commission), infatti, decide di bloccare per quattro anni (fino al 1952) l’attribuzione delle frequenze televisive, dopo averle assegnate agli enti radiofonici NBC, CBS e ABC. Il provvedimento, di fatto, impedirà per decenni l’ingresso di altri gruppi nel già fiorente comparto: più che mai, poi, quello degli studios hollywoodiani, da sempre interessati al business della televisione, ma politicamente piuttosto deboli perché appena colpiti dalla sentenza antimonopolio 6. In una simile situazione, il telefilm acquista un’importanza fondamentale, perché è il prodotto attraverso il quale gli studios hollywoodiani cercano, entrando nella produzione diretta di fiction seriale per la TV (e in quella dei «Made for Television Movies», i film realizzati appositamente per il piccolo schermo) di fronteggiare la crisi. La paura delle majors di non riuscire a distribuire come prima i propri film in sale non 36 AI CONFINI DELLA REALTÀ più controllate direttamente, infatti, ha come conseguenza diretta un rilevante calo della produzione cinematografica: «Crollò soprattutto la produzione dei film di serie B, cioè di quelle pellicole a basso costo e senza divi che le majors imponevano, nei “pacchetti” che confezionavano per il noleggio alle sale, per la programmazione tra un film ad alto costo e l’altro. Come è facile intuire, buona parte del mercato si reggeva su questa produzione minore» 7. Accanto all’inedita pratica della vendita di vecchie pellicole ai canali televisivi – attuata da metà anni ’50, dopo un primo momento di sdegnoso rifiuto 8 – gli studi hollywoodiani, già dagli albori del decennio, iniziano a ridefinire la produzione in direzione del piccolo schermo, che diventa il loro principale canale distributivo: si spiega anche così il passaggio dalla televisione in diretta realizzata a New York a quella registrata a Hollywood, nei vecchi teatri di posa cinematografici. I legami tra case di produzione cinematografica e network televisivi diventano sempre più stretti. Già nel 1951, la Columbia inizia a produrre telefilm di mezz’ora attraverso la sua succursale Screen Gems; nel 1954, Walt Disney realizza per la ABC la serie Disneyland, utilizzata pure come strumento pubblicitario del nuovo parco omonimo costruito in California nello stesso periodo; l’anno dopo, la Warner produce, sempre per la ABC, telefilm storici come Casablanca (id., 1955) Cheyenne (id., 1955) e King’s Row, che si alternano ogni settimana sotto l’intestazione «Warner Brothers Presents» per l’intera stagione 1955-1956; nel 1957, la MGM coglie un grosso successo con L’uomo ombra (The Thin Man), prodotto per la NBC. Sempre nello stesso anno, inoltre, si verifica un episodio destinato a sancire, simbolicamente, il definitivo mutamento nei rapporti di forza tra cinema e televisione: la Desilu Production di Desi Arnaz e Lucille Ball (è loro la «hit» Lucy ed io) acquista la RKO e i suoi studi di Hollywood e Culver City, dove si girò Via col vento (Gone with the Wind, 1939). Al momento dell’acquisizione, la Desilu da sola produce più delle principali cinque majors cinematografiche messe assieme e controlla 35 teatri di posa, un back lot di oltre 40 acri, un autentico motion picture center: insomma, è una tra le più grandi strutture produttive della Terra. Ma non va dimenticato – pur tenendo presente il fisiologico momento di crisi del cinema americano – che è il doppio intervento governativo del 1948 a creare l’asimmetria di potere nel rapporto tra industria cinematografica e televisiva: permette, infatti, ai network di accedere al mercato dei film, mentre nega agli studios l’accesso alle frequenze catodiche. Sono tanti gli interessi socio-economici che «giustificano» il com- LE ORIGINI DEL TELEFILM AMERICANO 37 portamento del Governo: mentre il cinema produce un tipo di narrazione fine a se stessa, infatti, la televisione cerca di fornire un contesto soddisfacente e seducente ai messaggi pubblicitari. Quindi, se è vero che l’avvento del telefilm registrato segna il passaggio della produzione di immagini da New York a Hollywood, è altrettanto vero che rappresenta pure il primo esplicito punto di contatto tra l’ideologia hollywoodiana e quella di Wall Street. Il telefilm, inoltre, si consolida come format perfetto attraverso il quale i tre network riescono a esercitare un controllo quasi assoluto sulle varie reti affiliate locali che trasmettono nelle diverse zone del paese. «In un’industria – scrive lo studioso Robert Vianello, in un suo saggio sulla nascita del telefilm – che doveva sfornare un’enorme quantità di prodotti ogni anno, i programmi filmati offrivano un margine economico rispetto alla “diretta”. Una volta che la strategia dei programmi “in diretta” ebbe assolto il suo compito, dopo aver consolidato la struttura a stazioni affiliate, venne abbandonata» 9. Alla fine degli anni ’50, i telefilm occupano il 70% dei palinsesti nelle ore di massimo ascolto. 1 Aldo Grasso, prefazione a Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti, Milano 2001, p. III. 2 Sandra Curtis, Sotto il segno di Zorro, Sperling & Kupfer, Milano 1998, p. 78. 3 Rod Serling, TV in the Can Versus TV in the Flesh, «New York Times Magazine», 24 novembre 1957, pp. 49-54. 4 Tra il 1946 e il 1958, la percentuale delle abitazioni in cui è presente un apparecchio televisivo sale dal 2 all’83%: da 8.000 a quasi 42 milioni. Nello stesso periodo, la frequenza settimanale di pubblico nelle sale cinematografiche cala da 90 milioni di spettatori a 40. 5 Citato in Bruno Cartosio, Anni inquieti, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 218. 6 Il quarto network, la DuMont, chiude i battenti nel 1955 e, per il primo vero cambiamento nel panorama dei network televisivi statunitensi, bisogna attendere il 1986, quando nasce Fox News, il network della Twentieth Century Fox. A metà anni ’90, poi, nascono Warner Brothers Network e United Paramount Network; e, nel 1997, la ABC si fonde con la Disney, ufficializzando un rapporto che, per la verità, è saldissimo fin dagli anni ’50. Un discorso a parte meriterebbero i canali via cavo «di qualità» come HBO e Showtime. 7 Bruno Cartosio, Anni inquieti cit., p. 216. 8 Tra il 1941 e il 1971, la storia dei film in televisione attraversa diverse fasi: all’inizio, c’è chiusura totale da parte di Hollywood; in un secondo momento, sono vendute ai network le pellicole realizzate prima del 1948; poi, dal 1961, arriva il tempo dell’approdo nel prime time di film posteriori al 1948; infine, dal ter- 38 mine degli anni ’60, i canali televisivi iniziano a commissionare agli studios lavori destinati direttamente alla trasmissione catodica. 9 Robert Vianello, La nascita del telefilm, in Adriano Aprà (a cura di), Hollywood verso la televisione, Marsilio, Venezia 1983, pp. 184-185. PARTE SECONDA VIAGGIO NELLA «ZONA DEL CREPUSCOLO» Rod Serling e l’«età dell’oro» del fantastico televisivo Nel corso di tutti gli anni ’50 è la demografia stessa degli Stati Uniti a mutare profondamente, con massicci trasferimenti della popolazione di ceto medio dai centri delle grandi città alle zone suburbane: tra le conseguenze dirette c’è pure la crisi delle sale cinematografiche cittadine (ne chiudono più di seimila, tra il 1949 e il 1959), solo parzialmente attutita dalla continua apertura di drive-in – tremila circa, nello stesso periodo – rivolti soprattutto a un pubblico giovane e spesso aperti solo nel periodo estivo, nelle periferie e nei pressi dei nuovi, enormi Mall (i centri commerciali resi celebri da tanto cinema e TV del periodo). Il desiderio principale dell’americano medio, dopo gli anni della guerra, diventa quello di una casa di proprietà per la famiglia, con tanto di giardino; e, in subordine, quello dell’automobile e della vacanza in giro per il paese (ciò spiega anche lo sviluppo di giganteschi parchi dei divertimenti come quello di Disneyland). Ed è proprio il rapporto dicotomico tra questa nuova esigenza di mobilità e la voglia di rinchiudersi nel proprio privato a favorire un medium come la televisione – che riesce, da solo, a penetrare direttamente nel tinello domestico e a seguire (o influenzare) lo spettatore persino in vacanza – piuttosto che il cinema. Gli anni ’50 e la «Fanta-TV» Nei mass media, il fantastico e l’orrore rappresentano, probabilmente, le chiavi di lettura più efficaci per tentare di decodificare i nevrotici Stati Uniti del fondamentale periodo a cavallo tra anni ’50 e ’60: un paese irrimediabilmente scisso tra una linda facciata «perbene» razionalmente ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 43 visione trovò terreno di isteria e intolleranza altrettanto fertile che nel cinema. […] Nel 1951, infatti, i networks, costantemente sotto tiro da parte degli ultrà di destra, decisero che era ora di darsi un’autoregolamentazione: in tal modo si sarebbe evitato che fossero le leggi federali a imporne una, probabilmente molto più severa e restrittiva» 3. Questo codice prevedeva poche e semplici norme: 1) gli spettacoli non mostreranno simpatia per il male; 2) gli spettacoli non degraderanno l’onestà, la bontà e l’innocenza; 3) non si dovranno mettere in ridicolo le figure che esercitano un’autorità legale; 4) chi infrange la legge non può andarsene impunito. Anche quando sembra completamente assente, insomma, è proprio l’ideologia dominante del periodo (un certo tipo di ideologia, quantomeno) a permeare per intero i palinsesti televisivi dell’epoca e a dar loro un’organicità persino sinistra, con particolare raffinatezza – come visto – proprio all’interno di quei prodotti seriali di finzione, apparentemente innocui perché rivolti al pubblico dei ragazzi (che, in realtà, è quello più influenzabile da determinati «messaggi», soprattutto se drammatizzati come semplici giochi infantili). A differenza di ciò che si verifica nei telefilm di genere bellico o spionistico, infatti, l’anticomunismo di fondo della fantascienza televisiva non emerge in modo altrettanto chiaro. In Rod Brown of the Rocket Rangers, per esempio, il protagonista agisce rispettando un giuramento di fedeltà a principi comportamentali che, fondamentalmente, sono «una secolarizzazione dei Dieci Comandamenti, secondo le direttive della politica americana dei primi anni ’50» 4: i valori espressi dal decalogo dello «space ranger» Rod Brown sono quelli tipici dell’american way of life, opposti – anche se l’Unione Sovietica non viene mai nominata esplicitamente – a quelli caratteristici, invece, del Nemico che da dietro la Cortina di ferro potrebbe, da un momento all’altro, insinuarsi nei tranquilli quartieri suburbani statunitensi per corrompere le vite dei «bravi cittadini» yankee 5. In realtà, quindi, l’immagine della fantascienza televisiva americana «pre-Serling» come prodotto prevalentemente infantile e ingenuo, non è del tutto esatta, soprattutto dal punto di vista contenutistico, poiché essa agisce – in modo adeguato al tipo di pubblico cui è destinata – come strumento di propaganda ideologica piuttosto potente: non a caso, Fred MacDonald definisce opportunamente le serie fantascientifiche dell’epoca «fantasie stilizzate della Guerra Fredda» 6. Per comprendere fino in fondo l’ottimo riscontro che accompagna i telefilm fantastici in TV, però, bisogna allargare il discorso anche all’ambito del fumetto, citando perlomeno quell’autentico fenomeno di costume costituito dalle tante testate fanta-horror pubblicate fino a metà anni ’50 44 AI CONFINI DELLA REALTÀ dalla EC Comics dell’editore William Gaines (lo stesso di Mad Magazine). Le cifre di diffusione dei comic books, già nel 1950, fanno letteralmente impressione: 50 milioni di albi stampati e distribuiti ogni mese, letti prevalentemente da adulti e, per un quarto della produzione totale, contenenti storie del terrore 7; popolarissime sono proprio le testate di Gaines «Tales From the Crypt» (1950-1955), «The Vault of Horror» (1950-1954) e «The Haunt of Fear» (1950-1954). La crociata anti-comics condotta dallo psichiatra Fredric Wertham e culminata nella strombazzatissima pubblicazione, nel 1954, del suo pseudo-saggio scandalistico Seduction of the Innocent manda in crisi, però, questo tipo di produzione e porta alla creazione, anche in ambito fumettistico, di un codice di autoregolamentazione dell’industria, molto più articolato e restrittivo di quello della televisione: il «famigerato» Comics Code Authority 8. Il fanta-horror, però, ha piantato radici ben salde nel terreno della cultura popolare statunitense, producendo le prime crepe di un certo rilievo. «Mentre i sarcastici maestri di cerimonie dell’orrore – sottolinea David J. Skal, in un suo saggio fondamentale – erano diventati una specie in via di estinzione sulla stampa, il nuovo medium televisivo non ricadeva sotto la giurisdizione del Comics Code Authority, ed era inevitabile che il formato albo trovasse un equivalente catodico» 9. Il discorso di Skal è ancora più valido se, dall’horror, lo si applica al più ampio ambito del fantastico, che riesce – con i suoi stessi anticorpi – ad avere la meglio sui controlli più o meno rigidi che, come detto, pure i prodotti del piccolo schermo si trovano a dover fronteggiare. Le prime avvisaglie di cambiamento, rispetto alle atmosfere delle serie fantascientifiche citate in precedenza, si hanno nella primavera del 1954, con una trasmissione, The Vampira show, che inizia alle undici di sera sull’affiliata di Los Angeles della ABC (la KABC-TV); un programma in cui vengono trasmessi vecchi classici dell’orrore cinematografico, introdotti da una lugubre ma sensuale figura a metà strada tra Marlene Dietrich e la Morticia di La famiglia Addams 10: si tratta della trentunenne ex spogliarellista Maila Nurmi, in arte… Vampira. L’anomala presentatrice diventa, per qualche anno, un autentico fenomeno nazionale, con il suo volto spigoloso che campeggia dalle copertine delle riviste più lette (e il suo ritorno alla ribalta è di pochi anni fa, grazie all’omaggio tributatole da Tim Burton nel 1994 con il bellissimo Ed Wood, id.). Proprio Vampira – e, prima di lei, i vari «Host Monsters» dei fumetti EC – ispira i tanti anfitrioni che, appena qualche anno più tardi, prendono l’abitudine di introdurre e chiudere ogni episodio dei più popolari telefilm antologici fanta-horror. ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 45 Durante gli anni ’50, comunque, è la concezione stessa del fantastico e dell’orrore (non soltanto televisivi) a cambiare inevitabilmente, rispetto ai decenni precedenti. «Il pubblico postbellico – sottolinea ancora Skal – era ancora interessato ai mostri, ma il leggiadro Mefisto dal mantello nero non era più un’immagine terrificante per il moderno frequentatore di cinema. La minaccia draculina di una flebile invasione venosa era molto stiracchiata in confronto alle spaventose violazioni dei limiti cui il mondo aveva assistito da così poco. Un mantello avvolgente non era più un’immagine paurosa. Ma la nube lasciata da un fungo sì. La minaccia di una distruzione di massa era più forte che mai nella mente degli americani. Negli anni ’50 i mostri si presentavano essenzialmente sotto due forme: giganteschi mutanti dal passo pesante, risultato lampante di esperimenti atomici; e invasori alieni, talvolta anch’essi un po’ cresciutelli, ma sostanzialmente dediti a qualche genere di lavaggio del cervello o controllo ideologico. I mostri degli anni ’50 personificavano la Bomba e al contempo la Guerra Fredda.» 11 Proprio questi temi e atmosfere «animano», a partire dal 1959, le puntate di Ai confini della realtà. Rispetto alle produzioni di pochi anni prima, dunque, il rovesciamento operato dal progetto di Serling è totale; anche se il suo telefilm non può essere completamente ascritto al genere fantascientifico, dato che molti episodi sono mistery, appunto horror o, più sottilmente, appartengono al più ampio ambito del fantastico. Nelle pagine successive analizzeremo dettagliatamente proprio il telefilm serlinghiano, assieme ad altri due ottimi esempi di «Fanta-TV» del periodo: due «Anthology Series» per molti aspetti più orrorifiche, come Thriller e The Outer Limits. In Ai confini della realtà – anche se siamo, ormai, alla fine degli anni ’50 – ci si può permettere persino di essere ipercritici con il maccartismo, come dimostra un episodio addirittura paradigmatico come «Mostri in Maple Street» (ma è soltanto l’esempio più eclatante). L’uomo responsabile di questo cambiamento epocale nella concezione del fantastico in televisione è Rod Serling. Rod Serling, «signore del fantastico» Edward Rodman «Rod» Serling, americano di Syracuse (New York), appartiene a quel gruppetto di scrittori che, negli anni ’50 e ’60, produce la quasi totalità dei più affascinanti show «in diretta» per la TV della «Golden Age». 46 AI CONFINI DELLA REALTÀ Serling nasce il 25 dicembre del 1924 e, pur non manifestando precoci capacità letterarie, cresce leggendo insieme con il fratello maggiore Robert riviste pulp come «Astounding Stories» e «Weird Tales» e divorando, al contempo, molti film. Il giorno dopo il diploma all’High School, Serling entra nei paracadutisti (Undicesima divisione aeronautica dell’esercito degli Stati Uniti) e, dopo l’addestramento di base (nel corso del quale fa in tempo a vincere 17 incontri di boxe su 18 disputati) va a combattere nelle Filippine, durante la seconda guerra mondiale. Dopo il congedo, nel 1946, entra all’Antioch College di Yellow Springs, Ohio, dove si laurea in Educazione fisica. Studia anche lingua e letteratura e inizia ben presto a scrivere, dirigere e recitare per le produzioni settimanali della stazione radiofonica locale. Nel 1949, riesce a vendere per cento dollari il suo primo soggetto televisivo, Grady Everett for the People, alla Stars Over Hollywood, mentre è ancora uno studente. L’anno precedente, intanto, aveva sposato Caroline Louise Kramer. Dopo la laurea, la coppia si trasferisce a Cincinnati, dove Rod diventa soggettista all’interno dello staff della stazione radio Wlw, collezionando nel frattempo diversi rifiuti per parecchi progetti. Il suo destino cambia nel momento in cui decide di mettersi a scrivere a tempo pieno: tra il 1951 e il 1955 più di 70 suoi soggetti televisivi vengono realizzati, conquistando i favori di pubblico e critica. Scrive diverse sceneggiature, adatta romanzi di fantascienza per il piccolo schermo e riesce, grazie all’elevata professionalità, ad assicurarsi un grande rispetto nel mondo della televisione. Nel 1955, raggiunge il definitivo successo con una storia intitolata Patterns, definita dalla critica «un trionfo di creatività» e premiata con il primo dei sei Emmy Awards conquistati in carriera. Si tratta di una sua pièce originale adattata per il piccolo schermo, con Van Heflin ed Everett Sloane come protagonisti (e trasposta per il cinema, nel 1956, da Fielder Cook – in Italia uscì come I giganti uccidono): al centro della vicenda ci sono gli spietati rapporti di potere che si sviluppano tra gli alti livelli dirigenziali e gli impiegati di una tipica società statunitense. Nello stesso periodo, realizza diverse sceneggiature per la MGM, scrive anche The Comedian, Playhouse 90 e, soprattutto, Requiem for a Heavyweight, dramma sulla patetica storia di un ex pugile di successo (Jack Palance) ridotto a fare il lottatore di wrestling in incontri truccati per sopravvivere; in particolare, questo TV movie colpisce come un maglio l’immaginario dell’epoca e si guadagna a sua volta una versione cinematografica diretta da Ralph Nelson nel 1962 (in Italia esce come Una faccia piena di pugni, con ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 47 Anthony Quinn). In questi primi lavori emerge un tratto che sarà proprio anche di Ai confini della realtà, cioè il «progressismo ideologico» (molto newyorkese) di un autore che porta avanti un’idea di impegno sociale tipica della sinistra liberal americana: non a caso, in un momento di diffuso (e propagandato) benessere economico del paese, da molti episodi di Ai confini della realtà emergono domande inquietanti su ciò che si cela dietro il «miracolo» Usa e su quali «fantasmi» si aggirano sotto la (apparentemente) linda superficie di una società «moderna». Il merito fondamentale degli script di Serling è di instillare domande nelle coscienze dei telespettatori, pur inserendole nel contesto di spettacoli di pura evasione. Il primo incontro professionale di Rod Serling con la fantascienza risale al 1956, quando adatta il romanzo Forbidden Area di Pat Frank. Ne derivano, evidentemente, tracce profonde poiché, nel 1957, l’autore lascia Playhouse 90, rattristando più di un fan. Decide, infatti, di tornare proprio alla fantascienza (ma sarebbe più giusto dire al fantastico) per creare, nel 1959, la serie The Twilight Zone, che in Italia uscirà con il titolo di Ai confini della realtà. Nei cinque anni successivi la CBS manda in onda 156 episodi del telefilm, di cui 92 scritti direttamente da Serling, che però fa anche da supervisore alle sceneggiature di altri grossi nomi come Charles Beaumont, Richard Matheson, Ray Bradbury (i quali scriveranno – insieme con altri «big» della fantascienza letteraria come Theodore Sturgeon, Clifford D. Simak e Harlan Ellison – anche diverse puntate dell’altra storica fanta-serie antologica della TV statunitense, The Outer Limits). Lo show diventa, negli anni, uno tra i prodotti più amati e rispettati nella storia della televisione e conquista un posto permanente tra i campioni più rappresentativi della cultura popolare americana del ’900, grazie all’intrigante frase d’apertura immediatamente riconoscibile, al tema musicale di Bernard Herrmann e alle stringate introduzioni dello stesso Serling. The Twilight Zone e The Outer Limits diventano, tra l’altro, autentici trampolini di lancio verso Hollywood per future stelle come Robert Redford, Burt Reynolds, Dennis Hopper, Martin Sheen e tanti altri. Non pago di questo successo, che porta il fantastico (in tutte le sue forme) nella stragrande maggioranza delle case statunitensi (ma non solo), Serling si cimenta – una volta terminata la produzione di Ai confini della realtà, nel 1964 – anche in numerose sceneggiature cinematografiche, fra cui è doveroso ricordare almeno il film di fantapolitica Sette giorni a maggio (Seven Days in May, 1964), diretto da John Frankenheimer, e un classico della fantascienza su grande schermo come Il pianeta delle scimmie 48 AI CONFINI DELLA REALTÀ (Planet of the Apes, 1968). Più tardi, viene coinvolto in una nuova serie televisiva, Mistero in galleria (Rod Serling’s Night Gallery, 1969-1970), che guarda ancora meno alla fantascienza, privilegiando invece fantasy e soprannaturale in senso lato. Prodotto dalla NBC, Mistero in galleria, girato non sotto il controllo assoluto di Serling, appare, in molti episodi, solo una versione annacquata di Thriller, «Anthology Series» degli anni ’60 con Boris Karloff come anfitrione. Non mancano, però, anche per Mistero in galleria, episodi interessanti: basti l’esempio del terrificante «Boomerang», tratto da un racconto di Oscar Cook, in cui un insetto entra nell’orecchio del cattivo di turno, iniziando a mangiarne il cervello; riuscirà a uscire dall’altro orecchio, senza fare troppi danni, ma non prima di avergli lasciato una sorpresa raccapricciante 12. Da sempre politicamente impegnato, Serling prende, ben presto, una posizione pubblica contraria alla guerra in Vietnam. Non invecchia bene, però, «divorato» com’è dai ritmi forsennati del suo lavoro e dalle troppe sigarette (fino a quattro pacchetti al giorno): viene operato d’urgenza, infatti, dopo un infarto e muore il 28 giugno 1975, a Rochester (New York), per complicazioni seguite all’operazione. Nella sua breve esistenza – scompare prima di compiere 51 anni – fa in tempo, comunque, a ridefinire i confini del fantastico, non soltanto in televisione. Ai confini della realtà: benvenuti nella «zona del crepuscolo» Esiste una regione tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la dimensione dell’immaginazione, è una regione che potrebbe trovarsi… ai confini della realtà. È questa la celeberrima introduzione che apre gli episodi italiani della serie The Twilight Zone, tradotta come Ai confini della realtà. Trasmessa dalla CBS tra il 1959 e il 1964, la «Anthology Series» – che giunge in Italia nel 1962, in un momento pionieristico della nostra televisione, ancora tutta in bianco e nero e con un solo canale nazionale – copre tutti gli ambiti del fantastico, con maturità e inventiva invidiabili. Gli episodi, più che racconti di fantascienza propriamente detti, sono vere e proprie short stories del mistero, dell’ignoto, del grotesque, dell’orrore anche; storie brevi ambientate in un universo che non ha più punti di riferimento o certezze e nel quale la realtà esterna stessa si confonde e sovrappone con quella ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 49 psichica: il mondo è davvero come mi appare? Oppure sono io che, di volta in volta, lo rendo ciò che è? Attraverso le sue storie fantastiche, l’ideatore/sceneggiatore/produttore Rod Serling cerca sempre di proporre un suo commento morale sulla natura umana e, soprattutto, sulle sue tante manchevolezze. Lo sguardo dell’autore è, per questo, sarcastico, pessimistico e tocca quelle corde della sensibilità umana che più di altre teniamo nascoste innanzitutto a noi stessi: le corde, cioè, della paura e dell’inconscio, di tutto ciò che ci spaventa e che releghiamo negli angoli più remoti della nostra coscienza. Dal punto di vista concettuale la serie antologica di Serling affonda le sue radici nella ricca tradizione letteraria che va dalle allegorie di Nathaniel Hawthorne al grottesco «dark» e al mistery di Edgar Allan Poe, mixati con la shockante e sfrenata creatività dei pulp magazines dei decenni ’30 e ’40. Fondamentale, nell’economia del progetto, risulta essere la durata breve degli episodi (ciascuno di 30 minuti, compresa la pubblicità), che consente tocchi fulminanti ed estremamente incisivi: non è un caso, dunque, che il declino del telefilm inizi a partire dalla quarta stagione, quando il network decide di allungare a 60 minuti la durata di ogni episodio. Lo stile visivo – fondamentale per creare la sensazione di immersione in una realtà «altra» – si rifà esplicitamente alle ombre rivelatrici e alle angolazioni bizzarre della macchina da presa tipiche del cinema espressionista tedesco di quarant’anni prima, con il magnifico bianco e nero di una fotografia volutamente ambigua e dai contorni spesso incerti, perfetta per restituire il «look» della «zona del crepuscolo». Da tutti i punti di vista, chi apprezza oggi X-Files e dintorni non può e non deve ignorare il fatto che alcune decine di anni fa, nell’essenzialità del bianco e nero, un «signore delle illusioni» di nome Rod Serling raccontava già appassionanti storie dell’inconsueto, trasmettendo emozioni inusuali per l’epoca e colpendo la fantasia e la sensibilità del vasto pubblico televisivo. L’autore, tra l’altro, introduce personalmente ogni puntata, alla maniera dei mostruosi «Host» resi celebri dai fumetti «maledetti» della EC Comics di Bill Gaines: inserito nella scenografia stessa del racconto che sta per cominciare, Serling dà le coordinate di partenza per l’esplorazione della «Twilight Zone» e, al termine, aspetta il telespettatore per ricondurlo sano e salvo nel tinello di casa propria, naturalmente solo fino al successivo «viaggio» fantastico. Ai confini della realtà ha un efficace prologo in «The Time Element», un episodio pilota che confluisce, nel 1958, all’interno della serie antologica Westinghouse Desilu Playhouse e risulta il più visto e apprezzato del- 50 AI CONFINI DELLA REALTÀ l’intera stagione: già qui sono presenti tematiche e «filosofia» serlinghiane, che emergono dalla strana storia di uno psicologo che si trova a dover visitare un misterioso paziente, collegato in qualche modo al bombardamento giapponese della base militare di Pearl Harbor nelle Hawaii. L’autentico pilot della serie, comunque, è «La barriera della solitudine» («Where is Everybody?»), in onda il 10 febbraio 1959, scritto dallo stesso Serling, diretto da Robert Stevens e interpretato da Earl Holliman (che, in seguito, sarà il collega dell’agente Pepper di Angie Dickinson nella serie Pepper Anderson agente speciale, Police Woman, 1974). Ne è protagonista Mike Ferris (Holliman), un astronauta che, al risveglio, si ritrova completamente da solo in una tranquilla cittadina della provincia americana: l’uomo attraversa il desolante scenario in preda a un’angoscia sempre maggiore, quasi come se stesse vivendo un incubo a occhi aperti; soltanto alla fine, grazie al tipico colpo di scena «alla Serling», scopriamo che lo «svuotamento» della città è stato provocato da un test per verificare le reazioni umane alla solitudine durante i voli spaziali. Nonostante la conclusiva spiegazione razionale, non soddisfacente nemmeno per l’autore, l’episodio indica in modo chiaro quelli che saranno i temi portanti del telefilm: lo sviluppo inarrestabile della tecnologia, soprattutto con riferimento a quella aerospaziale e, quindi, ai viaggi nello Spazio; la presenza ossessiva della Morte; il Gioco inteso come beffa e sberleffo inatteso, ma anche scommessa sull’incerto futuro che attende la società statunitense. L’epoca storica del telefilm è fortemente caratterizzata dai primi esperimenti spaziali americani e dalla continua competizione tra tecnologia astronautica statunitense e sovietica. Lo Sputnik, primo satellite artificiale sovietico, è del 1957; nel 1961 Gagarin e Shephard sono i primi uomini tornati vivi dallo spazio (molti cosmonauti russi, prima di Gagarin, non sono sopravvissuti al rientro nell’atmosfera). In questi anni, poi, il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy annuncia al mondo l’avvio «ufficiale» della sfida che, il 21 luglio 1969, porta l’equipaggio dell’Apollo 11 a calpestare per primo il suolo lunare (ed è curioso notare come, in Italia, la RAI trasmetta proprio due episodi di Ai confini della realtà, «Ore perdute» e «Chi è il vero marziano?», per riempire adeguatamente l’attesa del fatidico momento dello sbarco sulla Luna). Gli anni ’60 sono segnati, dunque, dalla conquista dello spazio ed è comprensibile, evidentemente, come gran parte degli episodi della serie risenta dell’attenzione che il mondo ha nei confronti del cosmo. In particolare, il tema dei marziani o extraterrestri che ci spiano, ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 51 condizionano e prendono anche un po’ in giro, è presente in molti episodi. E la loro comparsa non è quasi mai rassicurante, ma evidenzia un senso d’inquietudine per ciò che l’uomo avrebbe trovato una volta al di fuori dell’atmosfera terrestre. Allo stesso tempo, però, la relativa vicinanza agli orrori dell’ultimo conflitto mondiale – che tiene vivi i sensi di colpa per le esplosioni atomiche sul Giappone – e la sua conclusione vittoriosa che autorizza grande speranza nel futuro degli Stati Uniti, fa sì che nell’americano medio cresca la voglia di una «guida» capace di condurlo in una nuova era e verso un progresso che percepisce come inarrestabile: magari proprio un essere «Not of This World», superumano (Kennedy?). C’è tanta paura, quindi, nel suo animo, ma anche tanta speranza in un futuro sempre più all’insegna del «modo di vita americano»: paura e speranza sono proprio i due poli tra i quali oscilla la maggior parte delle puntate di Ai confini della realtà. In «Gli invasori» («The Invaders») – scritto da Richard Matheson, diretto da Douglas Heyes e interpretato da una straordinaria Agnes Moorehead – l’invasione aliena è descritta in modo inusuale e persino scherzoso, con un rovesciamento finale di cui sicuramente si ricorderà lo stesso Serling quando scriverà Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner. Minuscoli extraterrestri, simili a pupazzetti di plastica, invadono la baracca in cui vive una selvaggia megera, che tenta di scacciarli a colpi d’ascia. La «donna» pronuncia solo suoni gutturali quasi bestiali e tenta di difendersi in ogni modo. Nel finale, dopo un messaggio inviato via radio verso la Terra e dopo che viene inquadrata la scritta «USA» sulla navicella, capiamo improvvisamente che gli invasori sono, in realtà, terrestri capitati su un pianeta popolato da giganti. Il tema dell’attacco alieno è visto in modo diversissimo in un altro episodio, tra i più polemici dell’intera serie: «Mostri in Maple Street» («The Monsters are Due on Maple Street»), scritto da Rod Serling e diretto da Ron Winston (con Claude Akins, Jack Wagner e Ben Erway). In un tranquillo quartiere suburbano, un’improvvisa mancanza di elettricità fa scatenare la paranoia verso i propri vicini, col terrore che dietro il guasto si nasconda, in realtà, un subdolo tentativo di invasione aliena. Nessuno si fida più di nessun altro e il quartiere (come tanti altri adiacenti) è messo, letteralmente, a ferro e fuoco. Nella sequenza conclusiva, è inquadrato un gruppo di extraterrestri che, dalla sommità di una vicina collina, guarda con soddisfazione la «guerra di tutti contro tutti», constatando come, per conquistare la Terra, non sia nemmeno necessario attaccare gli umani che – se adeguatamente provocati – possono annientarsi l’uno con l’altro. 52 AI CONFINI DELLA REALTÀ L’episodio rappresenta un’agghiacciante, anche se fin troppo didascalica, metafora della cosiddetta «caccia alle streghe» condotta negli anni ’50 dal senatore Joseph McCarthy nei confronti di chiunque fosse anche solo sospettato di simpatie verso il partito comunista. Il maccartismo – particolarmente duro proprio verso le comunità artistiche di cinema e televisione 13 – è tra le ragioni di quel diffuso conformismo sociale che fa ricordare il decennio in questione come «Silent Fifties», con influenze decisive oltre che sulla produzione artistica anche sulla vita quotidiana degli americani. Anche uno tra gli episodi più famosi della serie, «È bello quel che piace» («The Eye of the Beholder», scritto da Serling e diretto da Heyes, con William B. Gordon e Donna Douglas), può essere letto in chiave anti-maccartista: in una strana clinica creata da un regime totalitario futuristico (che ha nell’omologazione il valore primario), una donna con il volto fasciato si prepara a verificare la riuscita dell’ennesima operazione effettuata per renderla… uguale agli altri. Lei si sente brutta (ed è trattata come tale), perché – come si scopre al termine della puntata – è, in realtà, l’unica non sfigurata (è, anzi, bellissima) in un mondo popolato da mostri tutti uguali e con la faccia simile a quella dei maiali: anche qui, la metafora è fin troppo evidente. Ma, tornando alle tematiche «aerospaziali», un terzo esempio di come sono trattate in Ai confini della realtà può essere l’episodio «Solitudine» («The Lonely», scritto da Serling, diretto da Jack Smight e interpretato da Jack Warden, Jean Marsh e John Dehner) che, peraltro, porta anche al secondo tema della serie, la morte. In «Solitudine», un uomo deve scontare la propria pena su un lontano asteroide, completamente isolato nello spazio. L’anomalo «carcerato», però, riceve periodicamente le visite del suo sorvegliante che, un giorno, con molta compassione, decide di portargli dalla Terra una donna-robot, in tutto simile a un essere umano. Dopo l’iniziale diffidenza, tra i due nasce un amore che va oltre ogni differenza strutturale. Ma, alla fine, il destino decide di separare sadicamente i due «amanti», nel momento in cui all’uomo è «concessa» l’opportunità di completare la propria reclusione sulla Terra: l’angusta astronave che deve riportarlo sul pianeta natio, infatti, non può contenere il robot che, quindi, pur in apparenza così umano, sarà ucciso/distrutto freddamente dai carcerieri e abbandonato sull’asteroide. L’inquadratura finale è inquietante perché rivela l’ingannevole natura di puro simulacro della donna metallica: il suo vero volto è di metallo, non di carne. Echeggiano, nell’episodio, tematiche e atmosfere molto simili a quelle che, nel 1982, saranno al centro di Blade Runner di Ridley Scott (imper- ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 53 niato sul dilemma della vera natura dei «replicanti») oppure, nel 1987, di una serie televisiva come Star Trek - The Next Generation (id., 1987), attraverso il personaggio del «Pinocchio» androide Data. L’altro tema portante presente nella serie è, come detto, quello della morte, riconducibile non alla paura di un’assenza dell’Aldilà ma, al contrario, alla descrizione di un Aldilà inquietante e, a volte, davvero tremendo. Viene trattato piuttosto frequentemente proprio il momento decisivo del trapasso, spesso non avvertito da chi lo subisce (un buon esempio è «L’autostoppista», «The Hitch-hiker», scritto da Serling e diretto da Alvin Ganzer) e, quindi, subito affiancato dalla difficoltà a prendere coscienza della propria morte: un esorcismo, forse, un modo per rimuovere la fine della vita attraverso storie che indicano, tra la vita e la morte, una continuità nel corpo, nelle sensazioni personali, nell’ambiente. La morte diventa, insomma, un altro livello di vita o un’autentica, nuova esistenza parallela. E il terrore del riconoscimento della propria morte viene così mitigato dalla consapevolezza che niente è finito ma che, anzi, tutto continua. «Un discorso per gli angeli» («One for the Angels», scritto da Rod Serling e diretto da Robert Parrish, con Ed Wynn e Murray Hamilton) propone una rappresentazione davvero insolita della morte, che ha l’aspetto di un piccolo burocrate indaffaratissimo e preoccupato di non mancare gli appuntamenti segnati sulla propria agendina. In particolare, nell’episodio, ne ha uno con un venditore ambulante che, però, cerca in ogni modo di ritardare il momento della propria «partenza» (così è definito l’arrivo della fine), contrattando il tempo che gli rimane con l’oscuro emissario giunto per portarlo via. Riuscirà a ottenere di «partire» solo dopo aver fatto il discorso che ha sempre desiderato, un discorso in grado di commuovere persino gli angeli: ma, come si sa, nessuno può permettersi di ingannare la morte, nemmeno l’abile venditore ambulante. In «Il sole a mezzanotte» («The Midnight Sun», scritto da Serling, diretto da Anton Leader e interpretato da Lois Nettleton, Betty Garde e Jason Wingreen) la morte è presente in ogni inquadratura, poiché la storia parla di un pianeta Terra ormai condannato che, uscito dalla propria orbita, s’avvicina sempre più velocemente al Sole, con la temperatura che aumenta in modo insopportabile. Anche qui un rovesciamento completo, nel finale, muta il contesto ma non l’apocalittico risultato: la Terra è destinata a scomparire, ma per il troppo freddo invece che per il troppo caldo (la beffa!). Tra gli episodi più belli, ancora una volta in bilico tra il tema della morte e quello del gioco, c’è «Ore perdute» («The After 54 AI CONFINI DELLA REALTÀ Hours»), scritto sempre da Serling e diretto da Heyes (con Anne Francis, Elizabeth Allen e James Millholin). Qui, una bellissima ragazza (la Francis) di nome Marsha White visita il piano inesistente (il nono) di un grande magazzino a otto piani sempre gremito di clienti. Al termine di altre incredibili vicissitudini, vissute in un’atmosfera quasi kafkiana, la fanciulla ricorda la sua vera natura: è un manichino smemorato. Ogni mese, infatti, i manichini del negozio hanno diritto a un solo giorno da vivere come umani (quasi come gli americani medi, schiavi del proprio lavoro e con sempre meno tempo libero a disposizione); e la «ragazza» ha semplicemente dimenticato che il suo «turno da essere umano» è terminato: adesso le tocca «morire» di nuovo e ritornare a essere, nonostante il tentativo di ribellione alle leggi non scritte della sua società, poco meno che un giocattolo privo di anima. Terzo tema portante è quello del gioco, nell’accezione più ampia del termine: basti, tra i tanti, l’esempio di un episodio come «La febbre» («The Fever») scritto da Serling, diretto da Ganzer e interpretato da Everett Sloane. Ma, più in generale, il gioco in Ai confini della realtà è inteso come rischio e sfida all’ignoto: in questi casi, o si usa il cervello e la ragione – il cui sonno, com’è noto, genera mostri – oppure si viene sopraffatti. Soltanto attraverso un sano e attento esercizio della razionalità, dunque, si può sfuggire alla dipendenza da elementi assolutamente imprevisti e in grado d’insinuarsi persino tra le pieghe della tranquilla e agiata esistenza dell’«homo americanus»: l’irrazionale, il lato primordiale dell’uomo, però, non può mai essere messo a tacere in modo definitivo e – l’esempio migliore arriva dai film di fantascienza del decennio, con mostri mutanti che si ribellano alle violenze di una società sempre meno attenta alla «naturalità» – torna appena può per far sentire il proprio grido, più forte di qualunque regola, moda, imposizione o corsa verso il successo e il progresso. Il gioco, però, è anche beffa e sberleffo, in diversi capitoli della serie; come nel bellissimo «Tempo di leggere» («Time Enough at Last») – scritto da Serling, diretto da John Brahm e interpretato da Burgess Meredith – che lo intreccia mirabilmente con la tematica della morte e con quella del controverso rapporto con il progresso tecnologico. Protagonista del segmento – forse il più amato in assoluto, assieme a «È bello quel che piace» – è Henry Bemis, un mite impiegato di banca, occhialuto e di mezz’età, il quale cerca di leggere tutte le volte che può. Né la moglie a casa, però, né il capufficio al lavoro glielo permettono a cuor leggero: la sua è un’attività «non produttiva» e, per questo, malvista da una società già molto competitiva. Ma in segui- ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 55 to all’esplosione di un ordigno nucleare, l’omino sarà l’unico sopravvissuto sulla Terra e, perciò, avrà a sua disposizione tutto il tempo che gli serve per dedicarsi al suo hobby. Non sa, il poveretto, che la beffa l’attende dietro l’angolo: proprio nel momento in cui, tra le macerie, trova un’enorme biblioteca pubblica, ormai deserta e quindi a sua completa disposizione, gli cadono gli occhiali, che si rompono lasciandolo «al buio» in un mondo senza più vita. In definitiva, il principale messaggio «politico» di Ai confini della realtà – «eversivo» da più di un punto di vista – potrebbe essere: ecco le stranezze che s’insinuano nel benessere troppo ordinato (omologato?) della nostra società e delle nostre vite; sono presenti tra le pieghe del reale, anche se fingiamo di non accorgercene, e influenzano persino le nostre percezioni. Forse, dunque, non bisognerebbe essere troppo sicuri di nulla e, anzi, sarebbe più opportuno ridiscutere meglio ogni cosa, a cominciare dal giusto ruolo dell’uomo in un mondo che è molto più ricco e sfaccettato di quanto lontanamente immagini: in un’epoca di troppe certezze, come i primi anni ’60, la serie di Serling, quindi, rappresenta un autentico «elogio del chiaroscuro» (reso benissimo anche dall’inconfondibile stile visivo «ambiguo» della serie). Trasmesso proprio al termine della cosiddetta «Golden Age» della televisione americana – nel momento cruciale del passaggio dalla «Live Television» ai programmi registrati che segnano il definitivo trionfo dei network – lo show è importante anche da un altro punto di vista, come fa notare William Boddy in un saggio tradotto anche in Italia. «Per molti versi – scrive, infatti, Boddy – Twilight Zone rappresenta un compromesso fra l’impostazione drammaturgica e riformistica della Golden Age televisiva e le strutture del telefilm di 30 minuti. La struttura di Twilight Zone, nel contesto della stagione televisiva, ha più a che vedere con i lavori teatrali singoli dell’inizio e della metà degli anni ’50 che con il tipico serial che ripropone gli stessi personaggi; il programma è infatti privo di personaggi o ambienti e perfino di trame standard. Il tema generale di Twilight Zone è organizzato con estrema libertà e ha ben poco a che spartire con il tradizionale genere della fantascienza televisiva, che negli anni ’50 era una forma studiata soprattutto per un pubblico giovanissimo. Similmente, Twilight Zone presenta evidenti continuità di voce narrante, di caratterizzazioni, e ha quel tono un po’ didattico d’impronta liberale di cui è permeata tutta l’opera di Serling durante gli anni ’50.» 14 Un remake della serie classica è realizzato a metà degli anni ’80, e la regia venne affidata, tra gli altri, a cineasti del calibro di Joe Dante, Wes 56 AI CONFINI DELLA REALTÀ Craven, William Friedkin. Se ne parla in un prossimo capitolo, anche se va immediatamente detto che il risultato complessivo – come quello del film del 1983, Ai confini della realtà (The Twilight Zone: The Movie), con quattro episodi diretti da Steven Spielberg (anche produttore), John Landis, Joe Dante e George Miller – non riesce mai a eguagliare i picchi del telefilm di venticinque anni prima, sbilanciando gli esiti più sul versante dello spavento fine a se stesso che su quello dell’emozione, ben più destabilizzante, della serie originale. L’importanza storica di telefilm come Ai confini della realtà, Thriller e The Outer Limits risiede nell’aver avvicinato la middle class americana al fantastico e alle sue tematiche di base, familiarizzando la vasta audience televisiva con concetti come le invasioni aliene, le realtà alternative, i viaggi nel tempo e le manipolazioni genetiche. Certamente il successo di queste serie è servito a piantare nelle menti dei telespettatori il seme della fantascienza, destinato a germogliare nel 1966, con l’avvento di Star Trek e, soprattutto, con i grandi film che, a partire dalla metà degli anni ’70, modificano per sempre l’immaginario collettivo di appassionati che però, come detto, sono già in grado di sospendere la propria credulità ed entrare in un altro mondo situato «oltre i limiti» oppure «ai confini della realtà». «Thriller» e «The Outer Limits» «Anthology Series» programmate, rispettivamente, sulla NBC e sulla ABC per contrastare il successo del telefilm di Rod Serling, Thriller e The Outer Limits sono interessanti per più di un motivo. Thriller va in onda tra il 13 settembre 1960 (episodio «The Twisted Image») e il 30 aprile 1962 («The Specialists») per un totale di 67 puntate da un’ora, di cui alcune multiple (infatti, le storie narrate, in totale, sono 78). Secondo molti espert Thriller è la migliore serie fanta-horror mai trasmessa in TV (almeno fino all’avvento di X-Files). «Era il periodo – scrive Stephen King, in una sua appassionata rievocazione – in cui la televisione non veniva ancora accusata di enfatizzare la violenza, violenza che iniziò con l’assassinio di Kennedy e crebbe dopo gli assassinii di Robert Kennedy e di Martin Luther King e, alla fine, fece scadere i programmi a una sciropposa miscela di commediole. Oltre a Thriller erano programmati anche altri bagni di sangue settimanali; era il tempo di Gli intoccabili, con Robert Stack nel ruolo dell’imperturbabile Eliot ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 57 Ness e quelle sanguinose, innumerevoli morti di cattivi senza nome (1950-1963); Peter Gunn (1958-1961) e Cain’s Hundred (1961-1962), per fare solo pochi nomi. L’era della TV violenta.» 15 Thriller è una serie antologica le cui puntate, come nella migliore tradizione del genere, vedono la partecipazione di una figura ricorrente – gli americani dicono «Host» – che le introduce e conclude: in questo caso, è interpretata addirittura da Boris Karloff 16. Soprattutto nel periodo compreso tra il gennaio 1961 (a partire, cioè, dalla sequenza di episodi formata da «The Hungry Glass», «The Poisoner» e «Man in a Cage») e l’aprile 1962, per 52 episodi, Thriller diventa davvero qualcosa di speciale e che non si sarebbe più rivisto in televisione: un progetto che – grazie anche all’accorta produzione di William Frye e Hubbell Robinson – pesca a piene mani nell’inestimabile patrimonio di «gemme nere» pubblicate, decenni prima, su riviste come «Weird Tales». «Una delle cose più significative – ricorda, a tale proposito, ancora Stephen King – era che le storie venivano sempre più spesso scritte dagli autori che avevano pubblicato su “Weird Tales”; gli stessi che negli anni ’20, ’30 e ’40 avevano cominciato a togliere l’horror dalle storie di fantasmi vittoriane seguite fino ad allora, e a incanalarlo verso la nostra moderna percezione di cosa è un racconto dell’orrore. […] Magari non sarà stata arte, ma nei vari episodi erano apprezzate queste qualità: una storia colta e il desiderio di terrorizzare a morte lo spettatore» 17. Così, non è raro assistere a telefilm scritti da Cornell Woolrich e Robert Bloch (memorabile, per esempio, è il suo «The Cheaters», in onda il 27 dicembre 1960, in cui il protagonista – grazie a occhiali molto speciali – vede i volti dei suoi amici trasformarsi in quelli di orrende mostruosità: proprio come accadrà, molti anni dopo, in Essi vivono, They Live, 1988 di John Carpenter), oppure adattati da testi originali di Robert E. Howard ed Edgar Allan Poe. Rispetto a Ai confini della realtà, l’operazione è più dichiaratamente orrorifica, fin dalle paradigmatiche apparizioni dell’ormai settantaquattrenne Karloff (che, oltre a presentare, interpreta alcuni episodi); anche per la minore durata della serie, poi, la qualità complessiva è più elevata e, soprattutto, meno altalenante, grazie principalmente al pathos contenuto nelle storie di riferimento, dall’indiscutibile origine letteraria ma, in realtà, già perfette per una trasposizione in immagini. The Outer Limits, invece, va avanti sulla ABC dal settembre 1963 al gennaio 1965 per un totale di 49 episodi di 60 minuti: a differenza della nuova serie degli anni ’90 (Oltre i limiti, 1995), è inedita in Italia. Creata da Leslie Stevens con lo sceneggiatore di Psyco (Psycho, 1960, di Alfred 58 AI CONFINI DELLA REALTÀ Hitchcock), Joseph Stefano, come direttore di produzione, la «Anthology Series» fa propria la «lezione» di Ai confini della realtà e s’affida, a sua volta, a nomi noti della fantascienza – scrittori come Clifford D. Simak, Harlan Ellison, lo stesso Richard Matheson (per un certo periodo impegnato in entrambe le serie) – per mantenere uno standard qualitativo delle storie decisamente elevato. Le tematiche sono simili a quelle del rivale della CBS: realtà parallele alternative alla nostra, invasioni aliene, eventi inspiegabili, viaggi nello spazio e nel tempo, mutazioni del corpo e della mente, creature orribili risvegliate per caso e così via. Anche qui, poi, c’è una voce che introduce e commenta ogni storia, la Control Voice di Vic Perrin, che all’inizio avverte minacciosamente: «There is nothing wrong with your television set…» («Non c’è nessun guasto nel vostro televisore…»). Già l’incipit dai contenuti più tecnologici, però, è indicativo delle differenze sostanziali che separano The Outer Limits dallo show di Serling: il tono complessivo della serie, infatti, è più cupo, meno ironico e didascalico; le tematiche sono molto spesso orrorifiche oppure puramente fantascientifiche (per esempio, con molti episodi incentrati su invenzioni tecnologiche futuristiche e, soprattutto, sulle presenze aliene); al tempo stesso, poi, c’è meno mistery e contaminazione tra i diversi ambiti del fantastico. Le sceneggiature, inoltre, trattano anche argomenti religiosi e problemi filosofici, arrivando persino a toccare temi scottanti come l’ingerenza del governo nelle vite quotidiane dei cittadini e la continua corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Non è un caso, quindi, che molti commentatori considerino la creatura di Leslie Stevens come la diretta anticipatrice di Star Trek e, decenni dopo, di XFiles. In particolare è degno di essere approfondito il rapporto tra gli show di Stevens e quelli di Gene Roddenberry, vista anche la presenza ricorrente del «papà» dell’Enterprise sui set di The Outer Limits. Nella loro esauriente guida alla serie, David J. Schow e Jeffrey Frentzen riportano diverse testimonianze sulla questione: è esemplificativa quella di Tom Selden, assistente di Joseph Stefano alla produzione. «In realtà, Star Trek deriva da The Outer Limits – racconta Selden, forse esagerando un po’ –. Gene Roddenberry, infatti, guardava sempre il nostro girato del giorno e rispondeva anche a parecchie telefonate dalla nostra stanza degli sceneggiatori. In questo modo dava stimoli continui alla sua creatività e, allo stesso tempo, imparava osservando il nostro accurato controlloqualità. Mi sono domandato spesso perché fosse sempre lì: ma proprio ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 59 quello era il periodo durante il quale stava sviluppando le idee per realizzare Star Trek» 18. È un dato di fatto, in ogni caso, che molti tra coloro che sono impegnati in The Outer Limits entrano, dopo pochissimo tempo, nella squadra del nuovo telefilm di Roddenberry: gli attori William Shatner, Leonard Nimoy, James Doohan e Grace Lee Whitney; gli addetti alla produzione Robert Justman e Claude Binyon Jr.; il truccatore Fred Phillips e il responsabile degli effetti speciali Wah Chang; il regista Gerd Oswald. E persino la ricca e innovativa scrittura sinfonica della colonna sonora di Dominic Frontiere influenza profondamente il lavoro del compositore Alexander Courage per Star Trek. Insomma, i legami tra i team creativi dei due show sono molto stretti. The Outer Limits parte «alla grande», con una stagione inaugurale davvero notevole, prima che Joseph Stefano prenda la decisione d’abbandonare il progetto. «Stefano aveva un’idea molto chiara sulla natura del programma. Voleva in ogni episodio un “orso”, una specie di creatura mostruosa che doveva apparire prima dell’interruzione pubblicitaria che segnava la metà della trasmissione. In certi casi non era pericoloso per natura, ma si poteva scommettere che prima della fine qualche forza esterna – in genere uno scienziato pazzo e malvagio – l’avrebbe fatto imbestialire.» 19 L’episodio pilota, trasmesso il 16 settembre 1963, è «The Galaxy Being», in cui il tecnico di una stazione radio inventa un televisore 3D che è in grado di metterlo in contatto con un essere proveniente da Andromeda e formato da energia pura. A causa dell’intervento di un impiegato maldestro, però, la comunicazione tra i due mondi si trasforma in qualcosa di cataclismatico: lo strano essere, infatti, è risucchiato sulla Terra e la minaccia di distruzione; per fortuna, viene ucciso attraverso un sovraccarico energetico. In molti episodi è affrontato il tema, modernissimo per l’epoca, della mutazione del corpo umano e dei suoi rapporti con la mente. Nella seconda puntata («The One Hundred Days of the Dragon»), per esempio, una droga speciale permette di rimodellare il proprio aspetto a seconda delle esigenze; così come in «The Sixth Finger» un esperimento accelera l’evoluzione di un uomo che entra in possesso di spaventosi poteri mentali; oppure, in «The Mutant», un essere umano, che vive isolato su un pianeta appena scoperto, è bombardato da una tempesta di isotopi che lo rende capace di uccidere con il solo tocco della mano; in «Expanding Human» c’è, addirittura, una rilettura della vicenda letteraria stevensoniana del dottor Jeckill e di mister Hyde: uno scienziato inventa una droga in grado di conferirgli poteri straordinari e intelli- 60 AI CONFINI DELLA REALTÀ genza sopra la media, ma anche di alterare i suoi principi morali. È molto bello, poi, sempre in tema di mutazioni, anche l’episodio «The Chameleon» nel quale il protagonista interpretato da Robert Duvall inizia a trasformarsi geneticamente dopo essere stato graffiato da alcuni alieni: diventato sempre più simile a loro, decide di seguirli. E proprio gli alieni, come anticipato, sono i grandi protagonisti della serie classica di The Outer Limits: dal falso extraterrestre creato in laboratorio in «The Architects of Fear» ai due invasori che vedono i propri pensieri intercettati mentalmente dal protagonista terrestre di «Corpus Earthling», dagli abitanti del pianeta Zanti che inviano sulla Terra i loro criminali («The Zanti Misfits») all’alieno orribile che accetta uno scambio «alla pari» con un terrestre («The Mice»), fino ai due marziani che studiano i delitti commessi sulla Terra analizzandoli grazie a una macchina del tempo portatile (nel divertente «Controlled Experiment»). Alieno – in quanto proveniente da un «Altrove» che non è il nostro mondo presente – può essere, però, considerato anche il mutato protagonista di «The Man Who was Never Born», episodio imperniato sulla vendetta dell’essere giunto dal futuro nei confronti del responsabile di un disastro biologico avvenuto (o destinato ad avvenire) nella sua era. E il viaggio dal futuro a ritroso fino al nostro presente – con tutte le sue stravaganti conseguenze – è al centro di alcuni tra gli episodi più interessanti dell’intera serie: basti pensare al «soldato di domani» che rivela tutto sugli orrori a venire in «Soldier» (scritto da Harlan Ellison), oppure al crononauta con un computer di vetro al posto della mano protagonista di «Demon With a Glass Hand» (ancora scritto da Ellison e, secondo molti, il miglior episodio in assoluto). Un altro tipo di ritorno – oltre a quelli dal futuro – avviene dalla morte che in The Outer Limits non necessariamente è definitiva: in «Production and Decay of Strange Particles» (con Leonard Nimoy), per esempio, uno scienziato crea, all’interno della centrale atomica in cui lavora, un nuovo isotopo in grado di riportare in vita chi è appena morto, con orribili conseguenze; oppure, in «The Forms of Things Unknown», due donne uccidono un uomo malvagio durante un picnic ma, poco dopo, devono vedersela con un misterioso McCallum che, nel suo castello, porta avanti esperimenti per far tornare l’uomo indietro dalla morte, grazie a un sofisticato dispositivo temporale. E proprio i due temi del viaggio nel tempo e di quello oltre la morte si intersecano nell’episodio «The Premonition» (il penultimo del ciclo), in cui un pilota e sua moglie scampano per miracolo alla morte grazie, appunto, a un’anomalia temporale. ROD SERLING E L’«ETÀ DELL’ORO» DEL FANTASTICO TELEVISIVO 61 Il 16 gennaio 1965 The Outer Limits si conclude con «The Probe», una storia imperniata su alcuni sopravvissuti a un incidente aereo nell’Oceano Pacifico: verranno salvati – e questo è davvero significativo e in linea con il percorso complessivo della serie – da un’astronave aliena il cui intervento risulterà decisivo per evitargli un orribile destino. Gli extraterrestri, dunque, non sono più necessariamente ostili ma possono anche adoperarsi per salvare il genere umano. Proprio questa è la premessa migliore alla serie che, di lì a un anno, rivoluzionerà la fantascienza televisiva statunitense, Star Trek, anticipata anche dal sincero pacifismo di un episodio come «I, Robot», nel quale l’automa protagonista cerca di liberarsi del suo creatore, appena scopre che questi vuole trasformarlo in una macchina da guerra. Dal 1945 al 1950, il numero di apparecchi televisivi venduti negli Usa sale da 6.500 a sette milioni e mezzo. Nel 1958, come detto nel precedente capitolo, la TV è presente in 42 milioni di abitazioni. 2 «La classe media includeva un segmento sociale che andava dai redditi operai più alti, fino ai livelli dirigenziali inferiori: la parte della popolazione che fu allora protagonista dei traslochi in massa dai quartieri urbani alle aree residenziali suburbane; dagli appartamenti alle casette unifamiliari» (Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, Giunti, Firenze 1992, p. 133). 3 Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino 1999, p. 235. 4 J. Fred MacDonald, Television and the Red Menace: The Video Road to Vietnam, Praeger, New York 1985. 5 È fin troppo ovvio – e perciò inutile – citare in questa sede la quasi totalità del cinema di fantascienza del decennio, grondante suggestioni di questo tipo. 6 Citato in Franco La Polla, L’età dell’occhio cit., p. 240. 7 Questi dati sono contenuti in Mike Benton, The Comic Book in America: An Illustrated History, Taylor Publishing Company, Dallas 1989, p. 48. 8 Fortemente voluto, comunque, dalle case editrici rivali della EC – con in testa la potente DC National – per frenare l’incredibile successo degli albi di Gaines. L’ondata moralizzatrice, dunque, diventa un’occasione preziosa da cogliere al volo. 9 David J. Skal, The Monster Show. Storia e cultura dell’horror, Baldini&Castoldi, Milano 1998, p. 205. 10 Serie di cui si parla nel capitolo sui telefilm per famiglie, dei quali è un’acutissima presa in giro. 11 David J. Skal, The Monster Show cit., pp. 215-216. 12 L’insetto in questione è una femmina e, a sorpresa, deposita milioni di uova nella testa del malcapitato. 13 Sull’argomento si vedano, perlomeno, due saggi ottimamente documentati 1 62 come: Giuliana Muscio, Lista nera a Hollywood, Feltrinelli, Milano 1979 e Larry Ceplair-Stephen Englund, Inquisizione a Hollywood, Editori Riuniti, Roma 1981. 14 William Boddy, Dopo la Golden Age: Rod Serling e il passaggio alla televisione hollywoodiana, in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood in Progress, Marsilio, Venezia 1984, p. 243. 15 Stephen King, Danse Macabre, Theoria, Roma-Napoli 1992, p. 228. 16 Il quale, già in anni precedenti, era andato in onda come «presentatore» di celebri serie televisive horror: Starring Boris Karloff (1949) e Mistery Playhouse Starring Boris Karloff. 17 Stephen King, Danse Macabre cit., p. 230. 18 David J. Schow, Jeffrey Frentzen, The Outer Limits: The Official Companion, Ace Science Fiction Books, New York 1986, p. 361. 19 Stephen King, Danse Macabre cit., pp. 232-233. «Spazio, ultima frontiera» «Star Trek»: la serie classica Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale diretta all’esplorazione di nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà; fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima. È l’8 settembre 1966: la NBC manda in onda l’episodio «The Man Trap» («Trappola umana») di un nuovo telefilm di fantascienza intitolato Star Trek e destinato a cambiare per sempre le coordinate del genere. Più di 35 anni dopo, la serie ideata e prodotta da Gene Roddenberry sotto il marchio della Desilu – la compagnia di Lucille Ball e Desi Arnaz 1 – ha «figliato» quattro show catodici, una decina di film per il grande schermo, un cartone animato, centinaia di libri, riviste, fan club, siti web, giochi di ruolo, infiniti gadget: insomma, i viaggi a velocità curvatura della Flotta Stellare della Federazione Unita dei Pianeti si sono trasformati in autentico fenomeno culturale (e commerciale), proponendosi al tempo stesso quali efficacissime letture metaforiche delle contrastanti dinamiche proprie delle società occidentali del XX secolo. La cui complessità è resa alla perfezione proprio dall’articolato e variegato universo di fantasia della serie, fatto di razze aliene e pianeti sconosciuti, esplorazioni di remoti angoli della Galassia ma anche «incursioni» nei più reconditi recessi dell’animo umano: è davvero profonda, insomma, l’aderenza alle caratteristiche «mentali» di un pubblico cresciuto in una società sempre più tesa verso il progresso tecnologico e il superamento continuo del limite precedente, per arrivare – proprio come fanno i protagonisti di Star 64 AI CONFINI DELLA REALTÀ Trek – «là dove nessun uomo è mai giunto prima». D’altra parte, quelli di «frontiera» e di «viaggio» sono concetti fondamentali per la cultura americana, centrali all’interno di due generi fortemente codificati e abbastanza simili tra loro, come il western e la fantascienza: e quale viaggio può essere più affascinante di quello attraverso le ignote profondità di un nuovo «Selvaggio West» com’è lo Spazio esterno? Così Star Trek narra «i viaggi della nave stellare Enterprise» in un futuribile XXIII secolo, alla ricerca di nuovi mondi da esplorare – si badi bene: non da conquistare! – per accrescere sempre di più la conoscenza umana dell’universo. Sul ponte di comando dell’Uss Enterprise NCC 1701 di classe Constitution dirigono le operazioni l’aitante e impulsivo capitano James Tiberius Kirk (William Shatner), per gli amici Jim; il suo primo ufficiale Spock (Leonard Nimoy), per metà terrestre e metà vulcaniano, con il viso scarno e spigoloso, le inconfondibili orecchie a punta, l’assoluta razionalità abbinata a un totale controllo delle proprie emozioni; il sanguigno ufficiale medico Leonard «Bones» McCoy (DeForest Kelley): personaggi che sono entrati a far parte dell’immaginario di milioni di telespettatori in tutto il mondo, assumendo quasi i tratti leggendari degli antichi eroi omerici. Accanto a loro, però, altri caratteri rendono più corale la struttura del telefilm, arricchendolo: dall’efficientissimo ingegnere-capo Montgomery Scott detto «Scotty» (James Doohan) al sensuale tenente Uhura (Nichelle Nichols, prima donna di colore presente sul ponte di comando, con compiti di controllo sulle comunicazioni), dal bizzarro signor Hikaru Sulu (George Takei) all’attendente Janice Rand (Grace Lee Whitney) e all’infermiera Christine Chapel (Majel Barrett, la moglie di Roddenberry), fino al guardiamarina russo Pavel Andreievich Cechov (Walter Koenig), personaggio-simbolo del disgelo in corso nei confronti dell’Unione Sovietica. Rispetto alla fantascienza televisiva degli anni ’50, infatti, il rovesciamento tematico è quasi totale: d’altra parte, i «Silent Fifties» sono terminati da un pezzo, le paranoie da Guerra Fredda sembrano (sembrano…) superate, i campus universitari sono già in fermento, la speranza degli americani in una società migliore non è stata spezzata nemmeno dallo shock per l’omicidio del presidente Kennedy, il sempre più inarrestabile progresso tecnologico inizia a essere vissuto con minor sospetto e timore. Così, anche nei palinsesti dei network televisivi si crea lo spazio per una serie di fantascienza dai presupposti innovativi, che sappia proporre personaggi dall’inedita carica umana e, sorprendentemente, un rispetto per «l’altro da sé» e per la vita in ogni sua «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 65 forma, anche la più strana e lontana dal senso comune: «IDIC» – ovvero «Infinite Diversità in Infinite Combinazioni» – diventa l’acronimo che meglio esprime il «sentire» dello show e che, ben presto, assurge ad autentica filosofia di vita, portatrice di un messaggio di pace e fratellanza universale e di una visione ottimistica del futuro. Dal punto di vista formale, la serie di Roddenberry non presenta novità di rilievo e segue abbastanza fedelmente le regole della televisione seriale più tradizionale: un’infinità di primi e primissimi piani sui vari personaggi, con le inquadrature che ogni tanto s’allargano quando questi giungono su pianeti sconosciuti oppure interagiscono con razze aliene; scenografie planetarie piuttosto povere e che quando entrano nell’obiettivo si rivelano addirittura risibili; efficace commento sonoro sinfonico (di Alexander Courage) a conferire ulteriore pathos alle vicende. Il fascino estremo del telefilm, dunque, risiede altrove: precisamente nella sua capacità di familiarizzare i telespettatori con i protagonisti, che ben presto entrano a far parte della quotidianità degli americani che seguono lo show, quasi come se fossero membri aggiunti delle loro famiglie. E se da un lato anche questo processo d’iterazione non fa che rispettare una regola basilare della serialità, dall’altro propone differenze profonde, perché i personaggi non rappresentano soltanto generici valori simbolici come possono essere, per esempio, il coraggio e la responsabilità per Kirk, la logica e la freddezza per Spock e l’umanità e l’impulsività per McCoy, ma sono innanzitutto ciascuno fedele a se stesso, con i propri tic, debolezze, ossessioni: «Tutto ciò, insomma, che conferisce loro – scrive Franco La Polla, in quella che è la più acuta monografia critica dedicata a Star Trek – le proporzioni della verità. […] Quella che è tipica della poesia e del mito, una sorta di accordo tacito fra opera e pubblico per cui ogni azione, ogni dettaglio nel comportamento di un personaggio fa parte di un rituale suo personale che contribuisce a riconoscerlo in quanto diverso dagli altri, ma anche in quanto individuo proprio per questo in stretta relazione con gli altri, che di lui conoscono perfettamente ciò che lo qualifica e caratterizza» 2. Questi motivi, ovviamente, emergeranno con il trascorrere degli episodi. Lo Star Trek classico, però, suscita un’enorme impressione sugli appassionati americani di fantascienza già al suo esordio, nel 1966. È indicativo, per esempio, il racconto che Allan Asherman fa della sua esperienza alla World Science Fiction Convention di Cleveland, Ohio, dove ha l’occasione di vedere in anteprima, il 4 settembre, il primissimo episodio presentato pubblicamente. «Non c’era niente di infantile – scri- 66 AI CONFINI DELLA REALTÀ ve nell’introduzione alla sua Guida alla serie – nell’episodio “Oltre la galassia”. Ci aspettavamo un ragazzino o un robot dalla battuta facile, ma non comparvero. Perfino la musica era cupa, seria e spettacolare. Ci dovevano essere più di cinquecento spettatori quel giorno. Quando l’Enterprise raggiunse i confini della galassia mille occhi si spalancarono. Il respiro di cinquecento persone si fece più rapido, per quel meraviglioso piacere che tutti gli appassionati provano quando vedono il loro argomento preferito trattato come si deve. […] Era la serie televisiva fantascientifica che tutti noi volevamo vedere. L’impressione fu enorme. […] Dopo la proiezione non riuscivamo ad alzarci. […] Finalmente Gene Roddenberry interruppe il silenzio. Chiese l’opinione del pubblico; noi ci alzammo in piedi ad applaudire. Ci fece un sorriso che ricambiammo prima di assalirlo. Per poco non ce lo caricammo sulle spalle per portarlo in trionfo. Da quel momento la Convention si spaccò in due fazioni. Quelli di noi che avevano ammirato “Oltre la galassia” 3 non parlavano d’altro. Chi non aveva ancora visto la luce pensava che fosse strano riversare tanta attenzione sull’episodio di una serie televisiva» 4. Come già detto all’inizio del precedente capitolo, infatti, la fantascienza nella televisione americana degli anni ’50 e dei primi ’60 è concepita per un pubblico essenzialmente infantile; gli stessi più maturi The Science Fiction Theatre (1955), L’uomo e la sfida (The Man and the Challenge, 1959), Men Into Space (1959), The New People (1959) e One Step Beyond (1959) restano ben lontani dall’inusitata profondità tematica di Star Trek; mentre Ai confini della realtà va considerato come appartenente al più ampio ambito del fantastico, piuttosto che allo specifico fantascientifico. Anche nel periodo durante il quale Star Trek è concepito e poi mandato in onda – mentre il cinema dell’età kennediana continua ad aprirsi a numerose elaborazioni fantastiche «mature» di temi come, per esempio, la paura del conflitto atomico: si pensi soltanto a Il Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick – la televisione seriale statunitense riesce a offrire, per ciò che concerne la fantascienza pura, soltanto produzioni avventurose, spettacolari ma abbastanza fini a se stesse, come quelle di Irwin Allen (definito dai critici a stelle e strisce «il Jules Verne della Science Fiction catodica»): Viaggio in fondo al mare (Voyage to the Bottom of the Sea, 1964), Lost in Space (1965), Kronos (The Time Tunnel, 1966) e La terra dei giganti (Land of the Giants, 1968). L’unico autentico progenitore di Star Trek, insomma, può essere considerato, come detto, l’antologico The Outer Limits di Leslie Stevens. «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 67 Il telefilm di Gene Roddenberry, quindi, è percepito subito come qualcosa di diverso. Riesce, infatti, a produrre una sintesi popolare efficacissima di questioni decisamente significative: per esempio, la rappresentazione futuristica di temi classici della mitologia antica e degli schemi simbolici della «ricerca» e del «viaggio» (lo Spazio – secondo lo slogan della serie – diventa l’autentica, ultima frontiera per i nuovi pionieri di domani: come detto, il «Selvaggio West» del lontano futuro); la messa in scena, in piena «esplosione» del Movimento per i diritti civili, della profonda crisi che investe i rapporti tradizionali tra razze diverse negli Stati Uniti (attraverso la composizione di un equipaggio realmente multietnico, nel quale occupa un ruolo di primissimo piano un mezzosangue alieno); la rievocazione del recente passato paranoide della Guerra Fredda e del «muro contro muro» tra superpotenze all’insegna delle armi nucleari. Ma sono tante le problematiche etiche e persino filosofiche che emergono nel corso della serie, d’altra parte concepita partendo da un preciso imperativo morale: quello della non interferenza nelle vicende delle culture «altre» incontrate sui pianeti visitati di volta in volta dall’Enterprise (anche se Kirk e compagni non sempre si attengono a quella che è chiamata «Prima Direttiva»). «L’altro», il diverso non coincide più con il nemico da temere e, magari, soggiogare: va compreso, conosciuto (magari studiato, suggerisce implicitamente la serie...), ma mai (o quasi mai) combattuto. In Star Trek, l’unica razza aliena davvero ostile – innanzitutto dal punto di vista politico – è quella dei Klingon, il cui Impero è in guerra aperta con la Federazione Unita dei Pianeti. Per il resto, molto spesso, quelli che sembrano «cattivi» all’inizio di un episodio si rivelano, poi, semplicemente creature in lotta per la sopravvivenza propria e dei propri simili: come il Gorn di «Arena» (id.) oppure la «tenera» Horta – una mamma aliena preoccupata per i suoi piccini – di «Il mostro dell’oscurità» («The Devil in the Dark»). L’assunto della serie diventa, così, uno «strumento» molto efficace per esplorare questioni di carattere etico-giuridico, nell’ambito dei rapporti tra culture in contatto e identità umane differenti. Tutto ciò, inoltre, è reso ancora più ricco e affascinante dalla scelta di caratterizzare i vari personaggi in modo più accurato rispetto agli standard delle produzioni televisive (pur nel rispetto dell’essenzialità tipica di un format di durata breve com’è il telefilm), proprio per riuscire a dare maggiore efficacia al «trattamento» che viene fatto delle tante istanze, spesso contraddittorie, degli Stati Uniti della seconda metà del ’900. Space opera umanistica nel senso più profondo del termine, Star Trek 68 AI CONFINI DELLA REALTÀ deve molto del proprio fascino pluri-decennale ai personaggi presenti sul ponte di comando dell’Enterprise e ai modi in cui essi interagiscono: dai confronti ricorrenti tra i membri della «triade» di protagonisti – ben più che semplici referenti simbolici, come detto, al pari di tanti altri di serie precedenti e successive, ma «caratteri» identificabili innanzitutto in quanto se stessi: Kirk, Spock, McCoy – alle tante gustose «variazioni» con i vari Scotty, Sulu, Uhura e così via. Il «palcoscenico» ricorrente dello show è l’astronave-casa Enterprise, luogo-simbolo che si propone come imprescindibile punto di coesione tra razze e culture tanto differenti, come sono quelle dei membri della «famiglia» (perché di questo si tratta) di Star Trek; essa diventa l’indispensabile «collante» tra le loro personalità, il riferimento certo, l’approdo sicuro sempre pronto – alla stregua di un ventre materno – ad accogliere in sé i propri «figli» nel momento del pericolo e dell’incertezza. La nave spaziale assurge, così, al ruolo di autentica coprotagonista, differenziandosi da tutto ciò che s’è visto fino a quel momento, sia al cinema che in televisione: è molto più di un semplice elemento scenografico, ma assume un valore simbolico importantissimo nel processo di familiarizzazione tra i vari personaggi e in quello tra loro e gli spettatori. «Spesso coinvolto in una continua ricerca dell’Eden, l’equipaggio ha in ultima analisi il suo vero Eden nell’Enterprise, per cui non meraviglia che Scotty, in “Animaletti pericolosi” 5, sopporti qualsiasi insulto dai Klingon tranne quelli pronunciati contro l’astronave; né che Spock, in “La ragnatela tholiana” 6, tenti di portare in salvo la nave davanti a un McCoy che gli inveisce contro perché Kirk potrebbe essere ancora vivo da qualche parte nello spazio.» 7 E proprio Kirk – com’è ovvio che sia, essendo il capitano – vive il rapporto più profondo e complesso con l’Enterprise, da lui apertamente considerata quasi come la sua donna in più d’un episodio: per esempio, in «L’espediente della carbonite» («The Corbomite Maneuver») e «Io, Mudd» («I, Mudd»); ma la prima volta accade già nel quarto episodio, il bellissimo «Al di là del tempo» («The Naked Time»), quando un Kirk contaminato dal misterioso virus «ubriacante» che risveglia sensazioni primordiali in vari membri dell’equipaggio – persino Spock, in modo commovente, vive un conflitto tra natura umana e vulcaniana, dopo che l’infermiera Christine Chapel ammette di amarlo – viene lacerato interiormente, come un amante geloso, dai sentimenti che prova verso la sua nave: la odia perché gli impedisce di condurre un’esistenza normale, ma sa di non poterne fare a meno, perché è il vero punto focale del suo amore. Non è un caso, dunque, che lo stesso Kirk, in un «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 69 altro episodio giustamente celebre come «Umiliati per forza maggiore» («Plato’s Stepchildren»), baci proprio Uhura, la quale rappresenta quasi l’incarnazione stessa dell’Enterprise, in quanto addetta alle comunicazioni e quindi sua «portavoce». Quello tra Kirk e Uhura, tra l’altro, è in assoluto il primo bacio interrazziale mostrato all’interno dello show di un network statunitense. È il 22 novembre 1968 e, ancora una volta, Star Trek riesce a essere specchio fedele delle contraddizioni della società e, al tempo stesso, prodotto modernissimo e anticipatore: il bacio tra bianchi e neri, infatti, costituisce sì un’assoluta novità per la TV a stelle e strisce, ma nella trama dell’episodio è «giustificato» (nel senso di dato sotto coercizione e inserito tra le tante «umiliazioni» che i personaggi sono costretti a subire da parte dei perversi alieni Platoniani). Proprio in quanto fedele specchio degli Stati Uniti del periodo, comunque, Star Trek riflette anche altrove le tante tendenze contraddittorie che attraversano la società americana, proponendo diverse situazioni che, riviste oggi, possono apparire persino reazionarie: si pensi alla dura presa di posizione verso il movimento hippie presente in «Viaggio verso Eden» («The Way to Eden»), oppure al fiero colpo inferto alle istanze femministe dell’epoca contenuto nel conclusivo «L’inversione di rotta» («Turnabout Intruder»). Spesso il telefilm si sofferma sulla natura duplice dell’essere umano, diviso tra spinte primordiali e aneliti razionali. In tal senso appare persino paradigmatico un episodio come «Il duplicato» («The Enemy Within»), quinto della serie e scritto dal grande Richard Matheson: si tratta dell’ennesima variazione sul mito stevensoniano del dottor Jeckyll e del signor Hyde, con Kirk scisso fisicamente in due metà di se stesso – in seguito a una disfunzione del meccanismo per il teletrasporto – che incarnano ciascuna il suo lato buono e quello cattivo. La nota inquietante che permea l’intera vicenda è rappresentata dal fatto che tutte le capacità di comando del capitano appartengono alla sua parte oscura, mentre quella «positiva» si mostra man mano sempre più debole e incapace di prendere qualsiasi decisione, anche a rischio della vita stessa dei propri uomini. Come a dire, semplificando, che Bene e Male sono più simili tra loro di quanto comunemente si possa e voglia credere, e che in ciascun aspetto dell’animo umano convivono elementi contraddittori ma non necessariamente inconciliabili. «Il duplicato», però, è un episodio importante anche da un altro punto di vista, per l’importanza drammaturgica e metaforica ricoperta dal congegno per il teletrasporto. Kirk, infatti, si ritrova sdoppiato in 70 AI CONFINI DELLA REALTÀ seguito a un malfunzionamento del meccanismo, che serve a scomporre i corpi per ricomporli altrove e, viceversa, di nuovo sull’Enterprise. Tale processo, in Star Trek, può essere letto anche come metafora del pastiche postmoderno tra generi differenti, tanto comune nella fiction seriale televisiva e, in particolar modo, chiaramente riscontrabile nel telefilm di Roddenberry, in onda tra il 1966 e il 1969, cioè quando la Hollywood classica dello Studio System e dei suoi modi di produzione standardizzati per forme e contenuti è già morta da un bel pezzo. In molti episodi, allora, è come se la materia narrativa si scomponesse, attraverso un immaginario teletrasporto, per ricomporsi poi in modi e forme inattesi: si pensi al gangster movie di «Cicago anni ’20» 8 («A Piece of the Action»), all’horror gotico di «Il ritorno degli arconti» («The Return of the Archons») e «Il gatto nero» («Catspaw»), al western di «Lo spettro di una pistola» («Spectre of the Gun») oppure al peplum di «Nell’arena coi gladiatori» («Bread and Circuses»). Esempio perfetto di estetica neobarocca, per le sue caratteristiche metalinguistiche e autoreferenziali, è inoltre un episodio come «L’ammutinamento» («The Menagerie»), di lunghezza doppia e, quindi, andato in onda diviso in due parti: la trama fa tornare in scena il capitano Pike (interpretato da Jeffrey Hunter), predecessore di Kirk alla guida dell’Enterprise e già protagonista del primissimo pilot di Star Trek, «Lo zoo di Talos» («The Cage»), realizzato nel 1964 ma bocciato dal network perché giudicato «troppo oscuro e cerebrale». Ed è proprio il girato di questo pilota mai trasmesso a essere inserito in «L’ammutinamento»: le immagini – giustificate da una cornice narrativa che dà loro la necessaria coerenza – «vengono rimontate, con un intelligente piano rielaborativo dei materiali, e producono inevitabilmente un mix metalinguistico. Un tipico anticipo dei mescolamenti “neobarocchi” degli anni ’80, che rivela anche le intime voglie riflessive della serie: la vita come sogno, la dialettica vita/morte, il sottile discrimine tra realtà e fantasia. […] C’è insomma, nella series, una sorta di “taylorizzazione” del prodotto filmico, per cui le forme tradizionali e i generi tradizionali vengono frammentati e ricomposti in una nuova catena di aggregazioni e in un nuovo modello di efficienza. Vengono in mente le analisi di Fredric Jameson sul pastiche – idea mutuata dalla scuola di Francoforte – come combinazione di generi, convergenza di culture e media diversi, in un universo iconico multilaterale postmoderno. […] Nella series si ricompongono in maniera nuova, si smaterializzano e rimaterializzano le particelle atomizzate nel processo di esplosione del genere» 9. Viaggio di nuova concezione anche tra i generi, dunque, oltre che «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 71 nelle profondità dell’universo. Ma novità sostanziali – nella fantascienza televisiva secondo Roddenberry – si manifestano pure in relazione a quello che è un altro «topos» della Science Fiction: il viaggio nel tempo. Nello straordinario «Uccidere per amore» («The City on the Edge of Forever») – scritto da Harlan Ellison e, secondo molti, il miglior episodio della serie – Kirk e Spock tornano indietro nel tempo, attraverso un portale nel quale si è tuffato poco prima McCoy, per cercare di impedire che le azioni del loro amico nel passato possano cambiare il presente dell’Enterprise: così, buona parte della puntata è ambientata all’inizio degli anni ’30, nella New York della Grande depressione. Qui, Kirk s’innamora di una ragazza, Edith Keeler (interpretata da Joan Collins), che però, in futuro, sarà inconsapevolmente responsabile della morte di milioni di esseri umani: così, per amore di Edith e dell’umanità, il capitano prende la decisione più difficile e sacrifica la donna amata pur di salvare il futuro del mondo. La grrande novità di quest’episodio è rappresentata dalla concezione stessa del tempo – non più inteso semplicemente in modo lineare – e, soprattutto, dal battesimo televisivo «ufficiale» 10 del seminale concetto di «paradosso temporale», che dà la possibilità a un ipotetico crono-viaggiatore di tornare indietro nel passato per modificare il futuro attraverso le sue azioni: l’idea, com’è noto, farà sentire la propria influenza su un’infinità di pellicole fantastiche dei decenni a venire; bastino i celeberrimi esempi di due film-chiave degli anni ’80, come Terminator (The Terminator, 1984) di James Cameron e Ritorno al futuro (Back to the Future, 1985) di Robert Zemeckis, con i loro rispettivi sequel. Nonostante la ricchezza incredibile di temi e suggestioni, la serie classica di Star Trek, però, riesce a restare in onda soltanto per tre stagioni e 78 episodi, fino al 3 giugno 1969; con un discreto successo, ma che non riesce comunque a evitarne la cancellazione e che, soprattutto, non lascia minimamente presagire la nascita del «culto» che si svilupperà di lì a qualche anno. Sono le continue repliche sulle frequenze di una NBC subissata da lettere di protesta e su vari canali privati, infatti, a tener vivo l’interesse nei confronti dello show per tutti gli anni ’70, mentre Gene Roddenberry tenta più volte di realizzare una nuova serie catodica. Tra giugno e novembre 1977 il produttore sembra essere riuscito a convincere i vertici della Paramount e inizia a lavorare a Star Trek: Phase II, programma che dovrebbe inaugurare il nuovo network televisivo della major californiana. Le cose cambiano nuovamente, però, e così la space opera riesce a tornare in vita «soltanto» in formato cinematografico, alla 72 AI CONFINI DELLA REALTÀ fine del 1979, con un pubblicizzatissimo kolossal diretto da Robert Wise e prodotto sempre dalla Paramount, Star Trek (Star Trek: The Motion Picture), che incassa più di cento milioni di dollari solo negli Stati Uniti e dà vita a due sequel nel giro di pochi anni: Star Trek II. L’ira di Khan (Star Trek: The Wrath of Khan, 1982) e Star Trek III. Alla ricerca di Spock (Star Trek III: The Search for Spock, 1984). Il successo crescente e il rinnovato interesse per i personaggi di Roddenberry rende, dunque, finalmente maturi i tempi per il grande ritorno della serie anche in televisione. Una nuova generazione di eroi, più problematici C’è ancora tempo per il successo di un altro capitolo cinematografico con l’equipaggio della serie classica – Star Trek IV. Rotta verso la Terra (Star Trek IV: The Voyage Home, 1986), che incassa centodieci milioni di dollari ed è ben accolto anche dalla critica – prima che si realizzi l’evento televisivo più atteso del decennio (almeno dai trekkers): il ritorno sui teleschermi statunitensi di una nuova serie di Star Trek, vent’anni dopo quella originale. Il 28 settembre 1987, quindi, gli Stati Uniti si fermano per assistere alla messa in onda delle due ore di «Incontro a Farpoint» («Encounter at Farpoint»), lungo episodio pilota del nuovo telefilm ideato da Gene Roddenberry: Star Trek - The Next Generation. La prima novità è di carattere produttivo e distributivo, poiché i diritti di trasmissione della nuova serie restano in mano alla produttrice Paramount, che decide di mandarla in onda al di fuori delle programmazioni dei network, in syndication, vendendola, cioè, a 170 stazioni televisive locali che la irradiano sul 94% del territorio statunitense. «Sono contento – sbotta Roddenberry, memore del difficile rapporto di ventun’anni prima con i vertici NBC – che non dipendiamo dalla rete, così non me la devo vedere con un altro stadio di censura e cose del genere. Porto ancora i segni di alcune di quelle battaglie del 1966!» 11. La partenza stavolta è lanciatissima e sui fondamentali mercati di Los Angeles, Dallas, Seattle, Miami e Denver il nuovo show ha nettamente la meglio su tutti i concorrenti della fascia di prime time. Da questo momento, il successo della Next Generation diventa inarrestabile 12 e si prolunga per 176 episodi e sette stagioni, fino al 23 maggio 1994. Alla serie inizia a collaborare, con il ruolo di coproduttore esecutivo, il personaggio che, in tempi brevi, è destinato a raccogliere l’eredità di Gene Roddenberry come padre-padrone dell’universo di Star «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 73 Trek: Rick Berman. Le musiche sono di Jerry Goldsmith (sulla base di quelle di Alexander Courage), mentre gli ottimi effetti speciali vengono affidati all’Industrial Light & Magic di George Lucas. Gli americani e il loro paese sono molto diversi, rispetto a vent’anni prima: il trauma del Vietnam, la crisi economica, il «riflusso», il reaganismo hanno cambiato troppe cose per far sì che un creatore di entertainment intelligente come Roddenberry possa riproporre la medesima «ricetta» della serie originale. Così, pur nel pieno rispetto di quella che è ormai percepita – dai fan, innanzitutto – come un’autentica filosofia di vita, The Next Generation (che d’ ora in poi, per comodità, chiameremo TNG) viaggia su binari molto diversi da quelli del prototipo con Kirk e Spock. «Star Trek ci ha ritratto – sottolinea, all’epoca, Gary Christenson sul settimanale “TV Guide” – nella nostra temeraria gioventù, con il capitano di un’astronave capace di domare lo spazio con lo stesso vigore con cui noi rivendicavamo il futuro. […] Star Trek - The Next Generation mostra che il bambino è cresciuto, un po’ meno grezzo ma anche più soddisfatto di se stesso. E tanto meglio se c’è un tocco di grigio e qualche ruga.» 13 Già da una semplice analisi dei personaggi principali, balzano all’occhio evidenti differenze tra i due show. Innanzitutto, qui la struttura si fa molto più corale e i protagonisti salgono dal trio più o meno allargato della «Classic» a otto-nove: il capitano Jean-Luc Picard (Patrick Stewart), il comandante William Thomas Riker (Jonathan Frakes), l’androide tenente comandante Data (Brent Spiner), la dottoressa Beverly Crasher (Gates McFadden) e suo figlio Wesley (Wil Wheaton), la consigliera betazoide Deanna Troi (Marina Sirtis), il tenente comandante Geordi La Forge (LeVar Burton), il tenente klingon Worf (Michael Dorn), il tenente Natasha Yar (Denise Crosby). La presenza femminile è molto spiccata, con tre elementi, di cui due come Crusher e Troi davvero importanti (Tasha Yar, invece, muore ben presto: ed è il primo personaggio ricorrente della saga a subire tale destino); il giovane Wesley Crusher incarna il classico adolescente americano sveglissimo e decisamente più a suo agio con le nuove tecnologie, rispetto agli adulti; il nemico di ieri, l’Impero Klingon, è presente addirittura sul ponte di comando federale con un suo esponente, Worf; La Forge – che, tra l’altro, è afroamericano – rappresenta, poi, un’altra minoranza che, nel corso degli anni ’80, fa sentire con sempre più forza la propria voce sui mass media, quella dei portatori di handicap: infatti, è cieco e può vedere soltanto attraverso uno speciale visore elettronico. Poi c’è Data, che incarna «l’occhio alieno» della nuova serie, come prima di lui aveva fatto Spock: anche lui, 74 AI CONFINI DELLA REALTÀ come il vulcaniano, non prova emozioni, ma – proprio come un novello Pinocchio – persegue il desiderio di diventare umano e, allo scopo, spesso imita goffamente i comportamenti dei compagni; a lui sono affidati i commenti usuali sulla stranezza del genere umano e dei modi di essere (magari, con la divertita complicità del klingon Worf). È il capitano Jean-Luc Picard, però, che fa capire meglio degli altri come il tempo sia passato: le differenze con Kirk sono tante ed evidentissime, dall’aspetto fisico – Picard è più maturo, calvo e dall’espressione solitamente corrucciata e quasi arcigna – al carattere, incline alla riflessione più che all’azione, coraggioso ma prima di tutto saggio perché forgiato da precedenti esperienze che s’indovinano sofferte. Particolare non trascurabile, poi, è quello della nazionalità del «nuovo» capitano: non più tipico «yankee» kennediano ma problematico europeo (francese) colto, dalla personalità sfaccettata e dai molteplici interessi (tra l’altro, è un appassionato lettore di Shakespeare, con evidente riferimento-omaggio alla prestigiosa carriera teatrale dell’interprete Patrick Stewart; anche questa diversissima da quella più televisiva di William Shatner). A Kirk si avvicina molto di più il personaggio di William T. Riker: i due, infatti, hanno in comune – oltre all’iniziale del secondo nome – il «physique du rôle» da uomini d’azione, il fascino brillante, la sfrontatezza e un forte appeal sull’altro sesso. Fondamentale e indicativo, però, è il fatto che Riker non sia il capitano della nave, come a dire che tempi nuovi e più complessi – gli anni ’80 e, ancor di più, i ’90 – richiedono maggiore sottigliezza e diplomazia nell’esercizio della delicata «arte» del comando. Le avventure della TNG sono ambientate un’ottantina d’anni nel futuro rispetto a quelle della serie classica. La Federazione ha stipulato un trattato di pace con l’Impero Klingon ed esplorato porzioni maggiori di Galassia (dal 4% si è arrivati al 19%). La tecnologia è notevolmente migliorata, rendendo la vita ancora più confortevole: anche le navi della Flotta Stellare, dunque, sono più spaziose e meno «marziali», con ampie zone dedicate alle famiglie e ai civili. È il caso pure della nuova Uss Enterprise NCC 1701-D di classe Galaxy, la nave stellare capitanata da Jean-Luc Picard, dotata di uno spazio interno otto volte superiore rispetto a quella di Kirk, per permettere agevolmente il trasporto di un elevato numero di persone. Tra i nuovi ambienti dell’astronave spicca la zona bar del Ten-Forward, gestita dalla saggia ultracentenaria Guinan (interpretata da Whoop Goldberg), unica superstite della razza el-auriana; e, soprattutto, l’Holodeck, cioè il Ponte Ologrammi, capace «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 75 di riprodurre un’infinità di ambienti e situazioni differenti per scopi ricreativi 14 e che, spesso, acquista vita propria fino a mettere in guai seri l’equipaggio (il culmine arriva con il terzultimo episodio, «Una nuova vita», «Emergence», nel quale l’Enterprise stessa acquista una sua rudimentale forma di intelligenza): proprio l’Holodeck – soprattutto grazie all’utilizzo che ne fa Data – permette anche il pieno dispiegarsi dell’aspetto citazionista postmoderno di TNG, sulla scia della serie classica; esemplificativi, da questo punto di vista, sono episodi transgender come il western di «Per un pugno di Data» («A Fistful of Datas») e il noir di «Il grande addio» («The Big Goodbye»). Altro personaggio capace di produrre improvvise variazioni ambientali è il semidivino di Q (che ha il volto di John De Lancie), misterioso alieno dall’antica saggezza e dalle bizze spesso incomprensibili, appartenente alla razza del Continuum (una sorta di Olimpo galattico): il bizzarro carattere accompagna il viaggio dell’Enterprise di Picard fin dall’episodio pilota, «Incontro a Farpoint», quando costringe l’equipaggio a rivivere le violenze disseminate lungo la storia del genere umano, prima di dare il via a un grottesco processo nei confronti di un’umanità da lui ritenuta indegna e immatura; Picard, però, dimostrerà che gli umani hanno imparato molto dagli sbagli del loro passato e che, quindi, sono degni di continuare a esistere. Col procedere della serie, gli interventi di Q diventano sempre più giocosi e quasi fumettistici, anche se mettono regolarmente l’Enterprise in situazioni senza speranza, veri e propri test che creano competizione continua tra lui e Picard: è proprio Q, però, a tirar fuori dal pericolo i suoi «amici» della Flotta Stellare, con interventi degni del «deus ex machina» della tragedia greca. Insomma, Q incarna il Destino proponendone, però, la rappresentazione perfetta per l’età postmoderna: all’insegna, cioè, della commistione tra tragico e comico. È proprio un infantile scatto d’ira di Q a scagliare l’Enterprise in un settore lontano e sconosciuto dello spazio (quello denominato J25), dove s’imbatte per la prima volta in coloro che diventeranno i «cattivi» principali del telefilm, nonché le creature più sinistre e temibili (e interessanti) prodotte dalla fantascienza per immagini degli ultimi quindici anni: i Borg. Prima dell’episodio in questione, «Chi è Q?» («Q-Who?»), le basi per il loro ingresso nella serie vengono create già al termine della stagione inaugurale, in «La zona neutrale» («The Neutral Zone»), puntata che mostra il primo contatto tra Federazione e Impero Romulano dopo 53 anni di silenzio: l’occasione è offerta dalla misteriosa distruzio- 76 AI CONFINI DELLA REALTÀ ne di alcuni avamposti creati da entrambe le civiltà nella zona neutrale istituita col trattato di pace che chiuse, nel passato del «Trek Universe», le Guerre Romulane. Responsabili dell’attacco – ma si capirà soltanto in seguito – sono proprio i Borg. Questa razza rappresenta tutto ciò che si oppone, in linea di principio e sostanzialmente, alla filosofia trekkiana e – nella finzione dello show – a quella della Federazione: i Borg sono creature tecnorganiche in continuo movimento lungo la Galassia, col solo scopo di assimilare le conoscenze delle civiltà che incontrano nel corso dei loro viaggi, per poi distruggerle completamente. Il fine, quindi, è lo stesso dell’Enterprise – l’accrescimento della conoscenza – ma il rovesciamento di segno è evidentissimo: i Borg, infatti, non tollerano l’alterità, ma l’annullano dopo averne sfruttato fino in fondo le peculiarità. Essi stessi, inoltre, sono privi di ogni forma d’individualità e uniti, attraverso una coscienza collettiva, in un unico organismo che, quindi, in battaglia riesce ad agire come l’esercito perfetto; è difficilissimo combatterli, poi, perché sono in grado di assimilare qualsiasi nuova conoscenza con cui vengono in contatto: perciò, una tecnica d’attacco può andare a buon fine soltanto la prima volta. L’impossibilità di un dialogo tra loro e l’Enterprise è dovuta alle caratteristiche strutturali stesse dei Borg, che uniscono all’avanzatissimo livello tecnologico tipico delle forme di vita superiori una totale mancanza di motivazioni che non siano quelle elementari d’assimilazione e autoconservazione proprie degli organismi primitivi. «I Borg – secondo Franco La Polla – sono fini a se stessi. Essi non hanno nessun progetto politico di potere, né alcuna idea (e tantomeno obiettivo) di colonialismo. […] Sono davvero un’invenzione straordinaria, nel senso che danno corpo a una episteme di non facile figurazione, quella di una tecnologia onnivora che è riuscita a fondarsi come entità sulla base di un principio inconcepibile per lo spirito e la cultura americani: la negazione dell’individualità. […] E non a caso il mezzo più efficace per contrastarli si rivelerà l’immissione di un senso d’individualità in uno di loro» 15. Ciò avviene in un bell’episodio della quinta stagione, «Io, Borg» («I, Borg»), imperniato sul ritrovamento di un membro di questa razza da parte dell’equipaggio dell’Enterprise: gli uomini di Picard – che, in precedenza (tra terza e quarta stagione: «L’attacco dei Borg», «The Best of Both Worlds», in due parti), era stato a sua volta assimilato e ribattezzato Locutus – riescono a separarlo dalla coscienza collettiva e, pian piano, a immettergli barlumi d’individualismo, incoraggiandolo a riferirsi a se stesso col pronome «io» invece che col «noi». In perfetto spirito «trekkie», poi, i mem- «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 77 bri della Flotta Stellare evitano d’inserire in Hugh – hanno chiamato così il giovane Borg, perché in inglese la pronuncia è simile a «You» – un chip che saboterebbe la coscienza collettiva della razza di parassiti tecnorganici: il loro ospite, infatti, ha ora una propria soggettività che ne fa una persona degna d’affetto e rispetto. «Dopo questa storia – sottolinea Jeri Taylor, responsabile della rifinitura dello script – non si possono più trattare i Borg allo stesso modo» 16: quando tutti pensano che sia normale, quasi dovuto, odiarli, dunque, TNG rimette in discussione, per l’ennesima volta, i pregiudizi di protagonisti e spettatori. Proprio dal punto di vista dell’approccio etico-filosofico, comunque, la seconda serie riesce a spingersi ancora più in là rispetto a quella classica, rivelandosi ben più problematica e, così, adattissima alla maggiore complessità della società circostante e alla sempre più evidente perdita di certezze ontologiche tipica della fine degli anni ’80 e, soprattutto, dell’inizio dei ’90. Assieme ai Borg, lo stesso personaggio di Data – senz’altro il più amato dagli spettatori – sa fornire spunti infiniti, soprattutto col suo desiderio fortissimo di diventare umano e provare emozioni. Nell’intenso episodio «La misura di un uomo» («The Measure of a Man» in onda nel febbraio 1989), per esempio, l’androide deve affrontare una prova durissima, quando un cinico esperto di cibernetica della Flotta Stellare, Tom Maddox, ne mette in discussione addirittura i diritti come essere senziente, per smontarlo, studiarlo e replicarlo in serie come mero schiavo meccanico. Nel corso di un serrato processo, il capitano Picard difende davanti alla corte suprema della Federazione il diritto di Data a venir considerato alla stregua di un essere vivente: e la vittoria dà il crisma dell’ufficialità a una situazione di cui nessuno – sull’Enterprise e davanti al teleschermo – aveva mai dubitato. Data è davvero un personaggio modernissimo, per come arricchisce di ulteriore umanità i già tormentati profili dei replicanti bladerunneriani, in un decennio del cinema statunitense che si sofferma con insistenza su temi affini come l’incerta percezione del corpo e dell’identità propri e altrui, l’insorgere kinghiano delle macchine senzienti, l’interfaccia inestricabile tra biologico e tecnologico, il rapporto dicotomico tra corpo e mente. A cavallo tra i decenni ’80 e ’90, insomma, diventa più che mai importante interrogarsi su quella che è, davvero, «la misura di un uomo». Altri problemi di carattere etico sono quelli derivanti dal rispetto della cosiddetta Prima Direttiva, cioè il precetto secondo il quale l’Enterprise non deve mai interferire con lo sviluppo, gli usi e le tradizioni delle civiltà incontrate nel corso dei suoi viaggi d’esplorazione 78 AI CONFINI DELLA REALTÀ galattica. Il soggetto meno sicuro e più frammentato, rispetto a quello degli anni ’60, fa sì che le decisioni da prendere siano molto più sofferte di quelle affrontate da Kirk. L’universo di Star Trek – come gli Stati Uniti e il mondo reale – è diventato ben più complesso e articolato: non esiste più il «muro contro muro» che ha caratterizzato quasi tutto il secondo dopoguerra (nella serie l’Impero Klingon è diventato un alleato) e la caduta del muro di Berlino ha dato inizio davvero a un mondo nuovo, anche dal punto di vista geopolitico, con il panorama internazionale (galattico) affollato da tante civiltà diverse che spesso riescono a convivere soltanto grazie a sottili mediazioni diplomatiche. In un simile contesto sociale e politico, il rispetto della Prima Direttiva fa nascere ogni volta enormi problemi morali e, allo stesso tempo, rappresenta – nella percezione dei telespettatori – una continua messa alla prova e persino una ridefinizione dei valori fondanti della società americana stessa, a partire da quello chiaramente colonialista della «Frontiera»: adesso ciò che conta è l’arricchimento interiore che arriva da un confronto non superficiale con «l’Altro». E più costui è diverso e costringe a prendere decisioni difficili e sofferte, più provocherà una crescita che, in definitiva, servirà poi come autentico elemento di contatto e vicinanza. C’è un episodio in particolare, «Il giudizio» («Justice»), che mette Picard di fronte a una difficilissima scelta: restare coerente con i propri principi, oppure salvare la vita del giovane Wesley Crusher che – su un pianeta che punisce tutti i crimini con la pena di morte – rischia d’essere giustiziato per aver calpestato inavvertitamente una pianta? Dopo un lungo travaglio interiore, molto diverso da quelli di Kirk, il tormentato capitano capisce che «non ci può essere giustizia fino a quando le leggi sono assolute. La vita stessa – conclude, riferendosi sia alle norme del popolo alieno che alla Prima Direttiva – è un esercizio pieno di eccezioni». È all’insegna dell’inadeguatezza di precetti troppo rigidi, dunque, che il relativismo culturale di TNG si manifesta nelle situazioni più spinose: quando la sottile arte della negoziazione interpersonale e interculturale s’affianca (e, qualche rara volta, si sostituisce), nel concreto, al principio teorico della Prima Direttiva. I cambiamenti della società statunitense – pienamente multietnica, proprio come l’equipaggio della nuova Enterprise che, però, ne rappresenta un campione-esempio assolutamente privo di conflitti – si riflettono in TNG anche per quanto riguarda il nuovo modo di guardare alla sessualità. Così, se nel 1968 aveva destato scandalo il bacio interrazziale tra Kirk e Uhura, nella seconda serie l’androide Data fa sesso con la bionda e «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 79 mascolina Tasha Yar già nel secondo episodio, «Contaminazione» («The Naked Now»); più avanti, poi, in «L’ospite» («The Host») e «Il diritto di essere» («The Outcast») vengono affrontati in modo esplicito – ma non del tutto soddisfacente – temi connessi all’omosessualità, attraverso le vicissitudini di parassiti alieni che occupano, di volta in volta, corpi differenti: in Star Trek - Deep Space Nine (id., 1993) si andrà oltre, ma qui è importante che il ghiaccio sia stato rotto. D’altra parte, una serie attenta alle minoranze emergenti, com’è TNG, non poteva che dare piena voce – seppure in modo contraddittorio – anche alle esigenze di un «terzo sesso» sempre più numeroso e influente nella società americana del periodo. Nel corso delle sette stagioni in cui s’articola la Next Generation altri eventi caratterizzano l’universo di Star Trek: in due nuovi film per il grande schermo – Star Trek V: L’ultima frontiera (Star Trek V: The Final Frontier, 1989) e Star Trek VI: Rotta verso l’ignoto (Star Trek VI: The Undiscovered Country, 1991) – torna in scena il cast della serie classica; il 24 ottobre 1991, a 70 anni, muore Gene Roddenberry, il «Grande Uccello della Galassia» creatore del «Trek Universe»; già dalla terza stagione della TNG, Rick Berman occupa un ruolo sempre più importante e centrale; nel corso delle annate entrano nel gruppo di lavoro alcuni sceneggiatori-produttori – Michael Piller, Jeri Taylor, Brannon Braga, Ronald D. Moore – destinati a lasciare un segno indelebile nella storia di Star Trek; all’inizio del 1993 inizia ad andare in onda la terza serie televisiva Star Trek - Deep Space Nine e, per due stagioni, i teleschermi americani ospitano una doppia razione di avventure «trekkie». Il 23 maggio 1994, poi, con l’episodio «Ieri, oggi, domani» («All Good Things…»), la TNG termina la propria corsa in modo trionfale, ottenendo il miglior indice d’ascolto di tutti i tempi per una serie trasmessa in syndication. A novembre, quindi, il cast completo della Next Generation incontra sul grande schermo quello della serie classica, per il passaggio di consegne ufficiale anche al cinema: il film si intitola Generazioni (Star Trek: Generations, 1994) e si conclude con il doppio shock della morte di James Kirk e dell’esplosione della Uss Enterprise NCC 1701-D 17. Qualcosa di speciale: «Deep Space Nine» Come evitare di rendere ripetitivo un nuovo telefilm di Star Trek, quando sui teleschermi statunitensi va ancora in onda l’amato Next Generation? A questa domanda, gli ideatori e produttori Rick Berman e 80 AI CONFINI DELLA REALTÀ Michael Piller rispondono ambientando non su un’astronave in movimento per la Galassia bensì su una stazione stellare ferma in orbita attorno a un pianeta la loro nuova serie del «Trek Universe», la prima realizzata dopo la morte di Gene Roddenberry: Star Trek - Deep Space Nine, trasmessa ancora una volta in syndication a partire dal 4 gennaio 1993 – con l’episodio in due parti «L’emissario» («Emissary») – e andata in onda per 175 puntate fino al 23 maggio 1999 («What You Leave Behind», episodio in due parti, al momento inedito in Italia). Si tratta di una serie molto diversa rispetto alle due precedenti, dal punto di vista strutturale e dei contenuti. Al centro degli episodi, naturalmente, c’è sempre l’idea trekkiana di famiglia-società multiculturale (stavolta più che mai, anzi) e di confronto continuo con «l’altro da sé», anche se Star Trek - Deep Space Nine (che, d’ora in poi, chiameremo DS9) si propone come decisamente più complessa e sfaccettata dal punto di vista «politico», prestando grande attenzione a rendere più solide e coerenti le basi cosmologiche dell’universo di Star Trek, «riletto» come sempre più privo di punti di riferimento certi e, soprattutto, con toni più cupi e oscuri. «Abbiamo iniziato – racconta, a tale proposito, Rick Berman – con l’idea di espandere, non di cambiare, l’universo di Roddenberry. Eravamo del tutto consapevoli della responsabilità di non duplicare ST: TNG, ma anzi di aggiungervi qualcosa. Per questo ci siamo detti: che cosa possiamo fare per dare nuovo acume a questo universo?» 18. È presto detto: basta uno sguardo allo scenario nel quale è ambientato il nuovo show. La serie si svolge nel XXIV secolo, contemporaneamente ai viaggi dell’Enterprise di TNG. La mappa della Galassia è divisa in quattro quadranti: Alfa, Beta, Gamma, Delta, con la zona a cavallo tra i primi due – è qui, tra l’altro, che si trova la Terra – che coincide con la porzione finora esplorata dalla Flotta Stellare della Federazione Unita dei Pianeti. Lo Spazio federale confina a Est con quello degli imperi Klingon e Romulano, mentre i Borg arrivano da Nord, dall’altra parte della Galassia, lo sconosciuto quadrante Delta. All’estremità occidentale dello Spazio federale si trova un pianeta di secondaria importanza, Bajor, appena sottratto al feroce dominio cardassiano, durato oltre cinquant’anni 19: la Federazione ha sottoscritto un accordo di pace formale con l’Unione Cardassiana, cedendo alcune colonie nelle quali si attiva ben presto la resistenza armata dei Maquis, ex ufficiali della Flotta in disaccordo con la politica federale, anche perché i cardassiani, in barba agli accordi, proseguono in ripetute incursioni oltre i territori federali di confine. Questo quadro politico estremamente complesso va colto come la fin troppo evidente metafora di un «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 81 mondo reale che, nel corso degli anni ’90, gli Stati Uniti non riescono più a decodificare attraverso gli stessi strumenti interpretativi del passato anche recente: privati del loro tradizionale avversario, l’Unione Sovietica, si trovano sempre più coinvolti in spinose situazioni internazionali come quelle dei Balcani e del Medio Oriente, dove le armi della diplomazia diventano fondamentali ma, spesso, non sufficienti ad assicurare stabilità ed equilibrio (tra l’altro, sappiamo bene come i recenti sviluppi abbiano reso la situazione internazionale ancora più tragicamente ingarbugliata, ben oltre i limiti della fantasia di qualsiasi sceneggiatore televisivo). È in un simile contesto, dunque, che la Federazione assegna il comandante Benjamin Sisko (è l’apprezzato attore teatrale Avery Brooks) alla guida dell’ex stazione stellare cardassiana Terok Nor, ribattezzata Deep Space Nine. L’avamposto si trova nell’orbita del pianeta Bajor, ma anche a ridosso di un misterioso tunnel spaziale stabile che mette in comunicazione il quadrante Alfa con quello Gamma. La missione di Sisko e dei suoi uomini, quindi, è doppiamente delicata: controllare il tunnel e gestire la situazione di una porzione di Spazio politicamente esplosiva come poche altre. Con lui, reggono le sorti della Deep Space Nine il maggiore Kira Nerys (Nana Visitor) di razza bajoriana, nonché ex prigioniera di guerra e «terrorista» nelle guerre di resistenza cardassiane; l’impulsivo ma professionale medico di bordo Julian Bashir (Siddig El Fadil); il capo ingegnere Miles Edward O’Brien (Colm Meaney), irlandese purosangue proveniente dall’Enterprise di TNG; l’affascinante tenente Jadzia Dax (Terry Farrell), che in realtà è un simbionte alieno vecchio di trecento anni, ospitato nel corpo di una bellissima ragazza; il conestabile Odo (Rene Auberjonois), capo della sicurezza, mutaforma proveniente anche lui dalla milizia bajoriana, ma dalle vere origini misteriose. Completano il cast regolare della serie i due alieni Ferengi Quark (Armin Shimerman) e Nog (Aron Eisenberg) e l’adolescente Jake (Cirroc Lofton), figlio del comandante Sisko. Dopo la chiusura di TNG, poi, anche il klingon Worf viene trasferito in DS9. Nonostante l’universo finzionale sia il medesimo della Next Generation, DS9 propone un ulteriore passo avanti lungo il sentiero del relativismo culturale. Dei dieci caratteri del cast regolare, infatti, soltanto quattro sono umani: due bianchi e due neri (Sisko e suo figlio). Gli altri sono alieni di razze e culture diversissime, a significare come ormai non ci sia nemmeno più bisogno di mettere in evidenza l’aspetto esteriore dell’altro, perché è già parte di noi: la personalità e l’interiorità dei personaggi fanno dimenticare completamente il loro aspetto esteriore. 82 AI CONFINI DELLA REALTÀ E, da questo punto di vista, la Deep Space Nine si propone come autentico crocevia multiculturale, proprio come avviene nello stesso periodo in un altro celebre telefilm di fantascienza ambientato a bordo di una stazione spaziale: Babylon 5 (id.), creato nel 1992 dall’abile sceneggiatore Joe Michael Straczynski e andato avanti per cinque stagioni e 110 episodi. Anche qui, il nome della serie coincide con quello della stazione orbitante dove sono ambientate quasi tutte le vicende; anche qui, poi, la trama ruota attorno a conflitti interplanetari – in particolare, quello tra Alleanza terrestre e alieni Minbari – e diplomazia interstellare; anche qui, infine, i tanti personaggi interagiscono tra loro nei modi meno usuali e più originali. La differenza sostanziale è che Straczynski pensa Babylon 5 già con un inizio e una fine ben definiti, proprio come accade per le telenovele sudamericane, realizzando quindi un’unica «maxiserie» dall’arco narrativo lungo cinque stagioni. Proprio questa caratteristica strutturale di Babylon 5 influenza non poco DS9, soprattutto a partire dalla terza annata (e, d’altra parte, tra i team produttivi dei due show sono più volte volate accuse reciproche di plagio). Con Babylon 5, dunque, DS9 ha in comune un elemento rivoluzionario nell’ambito dell’universo di Star Trek: il differente rapporto col concetto di serialità, dato che le varie trame si sovrappongono l’una con l’altra e procedono anche per parecchi episodi, con una continua evoluzione di situazioni e personaggi. L’esempio migliore arriva dall’ottimo e serratissimo arco narrativo conclusivo, «The Final Chapter», che si sviluppa in ben dieci puntate. «Una delle cose di cui vado più fiero circa il mio lavoro per DS9 – sottolinea il coproduttore esecutivo del telefilm, Ira Behr –, è la possibilità di creare una storia in continua evoluzione. Noi portiamo i personaggi e le vicende su strade che nessuna serie percorrerebbe mai, ancorate come sono, tutte o quasi, settimana dopo settimana, al modello di sempre, al riparo da ogni rischio. Il nostro programma, invece, è estremamente fluido. […] È l’unico, nella storia di Star Trek, compreso Voyager [Star Trek - Voyager, id., 1995], che non si basa su “qualsiasi cosa succeda possiamo lasciarcela alle spalle e andare avanti con la prossima avventura”. Qui ci dobbiamo destreggiare in continuazione con le azioni e le loro ripercussioni» 20. Behr prosegue, paragonando il suo show alla Next Generation: «TNG, che è sempre stato presentato come complesso, soprattutto per la sua affettazione, è in realtà un programma semplicissimo: di solito si apre con un problema e si chiude con la soluzione. In DS9, invece, non ci sono problemi così chiari e definiti; noi lavoriamo sul modo di renderli più ingarbugliati possibile! I protagonisti sono tratteggiati con «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 83 un certo spessore, non sono solo eroi, come quelli visti nelle altre serie che, sebbene avessero le loro fragilità, sembravano tutti John Wayne: nonostante talvolta avessero qualche sciocca debolezza, erano fondamentalmente e indiscutibilmente eroi. Su DS9, questi personaggi sono le persone con cui interagiamo, e la qualità “mitica” viene meno, almeno in parte» 21. Il confronto dei protagonisti con i tanti nemici che affollano la porzione di universo conosciuto si sviluppa come grandioso intreccio fantapolitico e non come sequenza di incontri episodici: Berman, Piller e il loro staff muovono sapientemente le numerose pedine, senza paura d’intaccare lo scenario dell’intero progetto di Star Trek. Così, chiamano in scena tutti i soggetti politici conosciuti: Klingon, Romulani e Vulcaniani, Cardassiani, Federazione e i nuovi nemici mortali del Dominion, intrecciandoli in un serrato gioco di alleanze e tradimenti, invasioni e resistenza armata, spionaggio intergalattico, corruzione, guerre fredde e combattimenti «caldissimi» che culminano col bombardamento della Terra. Al centro di questi precari equilibri di potere c’è il mondo di Bajor, reduce da decenni di dominazione straniera e sempre sull’orlo del colpo di stato e dell’avvento al potere di fazioni legate all’integralismo religioso: e qui la metafora è sinistramente chiara e, purtroppo, tragicamente attuale. E proprio la civiltà bajoriana offre l’occasione per porre l’accento su un’altra novità assoluta proposta da DS9, rispetto alla tradizione di Star Trek: la presenza di una spiccata sensibilità religiosa e di tematiche «forti» connesse all’argomento; cosa del tutto assente altrove. Fin dalla serie classica, infatti, Roddenberry porta avanti una visione del suo universo narrativo in cui non c’è spazio per gli dèi del passato, del presente o del futuro. Un esempio calzante arriva dall’episodio «classic» «Dominati da Apollo» («Who Mourns for Adonais?»), che ritrae l’ex dio terrestre – ora costretto a una vita di solitudine in un mondo lontano – come esponente di una razza aliena capricciosa e tipicamente illogica. Nella Next Generation, poi, l’incredibile personaggio di Q e la bizzarra civiltà del Continuum di cui questi fa parte danno la possibilità di vedere in azione creature eterne e dai poteri divini, ma quasi imbarazzanti per il loro infantilismo e la «difettosa» umanità. O ancora, sempre negli episodi della TNG, la religione è ripetutamente attaccata da una posizione laica e razionalistica, liquidata come mero meccanismo sociologico o, addirittura, ciarlataneria: per esempio, in puntate come «Prima Direttiva» («Who Watches the Watchers?»), «Il diavolo» («Devil’s Due») e «Il ritorno di Kahless» («Rightful Heir»). Questo perché, sottolinea 84 AI CONFINI DELLA REALTÀ opportunamente Franco La Polla, «la scintilla del divino che percepiamo in Star Trek viene dall’uomo e da nient’altro. Ovvero: il divino è l’uomo. […] Un pensiero che viene da un’epoca di certezze ed entusiasmi che lo ha permesso e originato» 22. Al tempo della messa in onda di Deep Space Nine – come ripetuto più volte – siamo, però, in un’epoca completamente diversa degli Stati Uniti e del mondo: in un decennio, gli anni ’90, che vede l’emergere di numerose sette e, tra l’altro, è attraversato da correnti di carattere irrazionalistico come, per esempio, la «New Age»; inoltre, la sempre più prossima scadenza del passaggio dal secondo al terzo millennio provoca inevitabili «riscoperte» della propria e altrui spiritualità. Così, DS9 presta molta attenzione a ciò che nelle altre due serie della saga non è mai stato affrontato in modo approfondito: ciò che si nasconde tra le pieghe (e magari oltre) di un universo solo in apparenza regolato da leggi razionali ma che, in realtà, non può essere spiegato fino in fondo con il semplice ricorso alla ragione. Lo spunto narrativo che permette di affrontare il lato spirituale dell’universo di Star Trek è offerto dal complesso sistema religioso bajoriano, imperniato sul «mistero» dei Profeti: questi, all’inizio della serie, sembrano quasi essere tratteggiati come i soliti esseri alieni semionnipotenti che dimorano, in questo caso, nel vicino tunnel spaziale; in seguito, però, ogni cosa inizia a essere meno comprensibile razionalmente, come quando attraverso i sacri cristalli i Profeti inviano strane «visioni» a tutti quelli che mostrano la propria fede. Indicativa è, in tal senso, la parabola esistenziale di Benjamin Sisko, dapprima tipico uomo del suo tempo, scettico razionale, in un secondo momento sempre più coinvolto da questa nuova realtà, fino a mettere in discussione le proprie certezze e a scendere a patti col suo inedito ruolo di uomo di fede, allorquando riceve addirittura il titolo di Emissario dei Profeti. Quello di Sisko è l’unico caso, nella lunga storia di Star Trek, di un personaggio principale tanto combattuto tra fede (nel suo ruolo di Emissario) e ragione (in quello di ufficiale della Flotta Stellare): le tensioni e i dubbi che vive sulla sua pelle, nel corso di episodi sempre più complessi e avvincenti, sono gli stessi di fronte ai quali si trovano molti americani negli anni ’90. Anche il conflitto interplanetario senza quartiere, che mette a ferro e fuoco il quadrante Alfa, è combattutto su due piani contemporaneamente: mentre gli eserciti si sterminano a vicenda, infatti, profezie e visioni, atti di fede e «consigli» semidivini influenzano le sorti della guerra, in modo persino più decisivo di quanto gli stessi attori riescano a percepire e sospettare. E sono permeati da un senso profondo di reli- «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 85 giosità pure i nemici principali della serie, cioè i mutaforma del popolo dei Fondatori: sono descritti, infatti, come esseri superiori dai modi quasi sacerdotali; vivono in una specie di pianeta-santuario, dove condividono il «Grande Legame» e pianificano la loro spietata «guerra santa» di conquista dell’universo; sono, se possibile, ancora più «alieni» degli stessi Borg, perché coscientemente crudeli e non solo fedeli alla propria «natura», come gli esseri tecnorganici. I Fondatori sono la specie dominante del Dominion, una potente alleanza del quadrante Gamma che esiste da almeno duemila anni: sotto il comando dei mutaforma Fondatori, la razza dei Vorta gestisce il sistema burocratico-amministrativo dell’alleanza, mentre i Jem’Hadar – i primi a entrare in contatto con le forze federali che si spingono dall’altra parte del tunnel spaziale, nell’episodio conclusivo della seconda stagione, «I Jem’Hadar» («The Jem’Hadar») – costituiscono la forza bellica del Dominion, soggiogati dai Fondatori tramite la somministrazione controllata del ketracel bianco, una droga che permette agli stessi Jem’Hadar di restare in vita. Il controllo del Dominion si estende su centinaia di mondi del quadrante Gamma, assoggettati grazie all’efficienza e alla forza: diventa naturale per i terribili mutaforma, quindi, partire alla conquista del quadrante Alfa, appena si crea una «fessura permanente» attraverso il tunnel spaziale di collegamento tra i due settori della Galassia. La guerra contro il Dominion fa letteralmente decollare la qualità di DS9, a partire dall’inizio della terza stagione, col doppio episodio «In cerca dei Fondatori» («The Search»), che mostra l’assegnazione all’equipaggio di Deep Space Nine della navetta stellare Defiant, per entrare nel quadrante Gamma e combattere il nemico; nel fondamentale segmento, si scopre anche la vera origine del mutaforma Odo – il responsabile della sicurezza sulla stazione della Federazione – che appartiene a sua volta proprio alla razza dei signori del Dominion. Per descrivere il conflitto – che va avanti, lungo e logorante, fino alla conclusione della serie, in uno scenario sempre più ampio, tentacolare e imprevedibile – gli autori utilizzano toni cupi e profondamente drammatici, mettendo in scena una «guerra sporca» fatta di spionaggio e infiltrazioni, ma anche di battaglie che producono miliardi di vittime civili e situazioni al di là dell’immaginazione: e quando i Fondatori tornano in scena per la seconda volta, già al termine della terza stagione, nell’episodio «Il vero nemico» («The Adversary»), uno di loro può permettersi di dire, sprezzante, a Odo: «È troppo tardi… Noi siamo dappertutto». È indicativo, d’altronde, che il nemico più temibile, nella percezione degli americani, sia ora quello 86 AI CONFINI DELLA REALTÀ capace di alterare la propria forma e d’infiltrarsi nello stesso territorio statunitense, per sabotarlo dal suo interno. Il nemico per eccellenza diventa, allora, il terrorismo senza volto – come i recenti fatti hanno tragicamente confermato – più che una nazione diversa (magari perché comunista, com’era l’Unione Sovietica) dagli Stati Uniti: insomma, DS9 è perfettamente calato nel proprio tempo, nel momento in cui propone come terribili avversari i subdoli mutaforma del Dominion piuttosto che l’Impero Klingon della prima serie o la civiltà tecnorganica Borg della seconda. Per le grosse differenze rispetto al «franchise» classico di Star Trek, DS9 ha sempre subito molte critiche da parte degli appassionati, fino a venir spesso considerata – in modo ingiusto e ingeneroso – come la serie trekkiana più «debole». L’idea, purtroppo, è ancora più radicata tra i fan italiani, che non hanno avuto la possibilità di seguire lo show come avrebbe meritato e, soprattutto, non hanno ancora avuto modo di vedere le sue stagioni migliori. Nel frattempo, negli stessi anni di messa in onda di DS9, l’equipaggio della Next Generation è protagonista di altre due pellicole cinematografiche più o meno fedeli allo spirito Trek, alle quali partecipa anche un Worf in «licenza» dalla stazione spaziale: si tratta di Primo contatto (Star Trek First Contact, 1996) e Star Trek L’insurrezione (Star Trek Insurrection, 1998) di Jonathan Frakes. Quando DS9 termina – semplicemente per la naturale conclusione del suo lungo arco narrativo – la quarta serie che, per qualche anno, ne ha accompagnato la programmazione sui teleschermi statunitensi, porta avanti da sola «l’eredità» di Star Trek: lo show s’intitola Voyager. Da «Voyager» a ritroso verso «Enterprise» Il 16 gennaio 1995 Star Trek - Voyager inaugura ufficialmente le trasmissioni del nuovo, atteso network televisivo UPN, con cui la Paramount fa il suo ingresso in pompa magna nel mercato televisivo: l’indice d’ascolto è subito notevolissimo e ripaga gli sforzi produttivi del network, che ha investito 23 milioni di dollari nel solo episodio pilota della serie, «Dall’altra parte dell’universo» («The Caretaker»), di durata doppia. La conclusione della serie arriverà soltanto il 23 maggio 2001, dopo 172 puntate, con la seconda parte di un altro episodio doppio, «Endgame», in cui torna la sinistra regina Borg interpretata da Alice Krige e già vista nel film Primo contatto. Il nuovo telefilm è ideato e prodotto dal trio composto da Rick «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 87 Berman, Michael Piller e Jeri Taylor che nel 1998, però, abbandona il gruppo per disaccordi con «l’astro nascente» Brannon Braga (che la sostituisce immediatamente). L’ambientazione temporale è la stessa della Next Generation e di Deep Space Nine, il XXIV secolo; cambia, però, qualla spaziale. Ciò accade in seguito alla premessa della serie, quando la nave stellare Uss Voyager NCC-74656 di classe Intrepid – una tra le più avanzate dell’intera Flotta Stellare – viene inviata nella misteriosa nebulosa delle Badlands, all’inseguimento di una nave dei ribelli Maquis (già apparsi in TNG e, soprattutto, in DS9). Le due astronavi vengono intercettate da un raggio tetrionico d’immensa potenza e inglobate all’interno di un’onda di dislocazione spazio-temporale che le spinge attraverso la Galassia, a più di 70.000 anni luce di distanza dai territori federali, fino a un sistema stellare situato nel remoto quadrante Delta. Causa di tutto sembrerebbe un essere senziente potentissimo detto il Guardiano, attraverso una struttura meccanica tecnologicamente avanzatissima che può mettere in contatto tra loro i vari quadranti galattici. In seguito a un attacco dei feroci alieni Kazon – che mettono fuori uso la navetta dei Maquis, subito ospitati a bordo della Voyager – l’equipaggio federale decide di distruggere il manufatto del Guardiano in applicazione della Prima Direttiva, per impedire un passaggio dei Kazon nel quadrante Alfa. È per questo motivo, dunque, che la Voyager col suo doppio equipaggio si trova impossibilitata a compiere il tragitto a ritroso e resta isolata nello spazio profondo: da questo momento, le frizioni tra federali e Maquis (che, comunque, sono ex soldati della Federazione) vengono messe da parte, perché la missione primaria diventa quella di tornare a casa. Sul ponte di comando della Voyager c’è, per la prima volta nella storia di Star Trek, una donna: il capitano Kathryn Janeway (Kate Mulgrew), che assume immediatamente un atteggiamento materno nei confronti del resto dell’equipaggio. Al suo fianco, c’è l’ombroso comandante Chakotay (Robert Beltran), un nativo americano che, dopo essere stato ufficiale della Flotta Stellare, era passato tra le fila dei ribelli, in seguito al discusso trattato tra Federazione e Unione Cardassiana. Gli altri personaggi ricorrenti sono: il tenente comandante vulcaniano Tuvok (Tim Russ), di pelle nera, a indicare che anche su Vulcano ci sono varie etnie; il tenente Tom Paris (Robert Duncan McNeill), impulsivo e persino un po’ sbandato, ma ansioso di rimediare agli errori del suo passato; il guardiamarina asiatico Harry Kim (Garrett Wang), responsabile delle comunicazioni nonché ufficiale scientifico della nave; il tenente B’Elanna Torres, metà umana e metà klingon, già al seguito di Chakotay nella 88 AI CONFINI DELLA REALTÀ milizia Maquis; i misteriosi alieni (fidanzati tra loro) Neelix (Ethan Phillips) e Kes (Jennifer Lien), che appartengono a questa parte della Galassia. Infine, «l’occhio alieno» della serie che – dopo Spock, Data e Odo – è rappresentato dal personaggio del Dottore Olografico (Robert Picardo), il quale s’attiva automaticamente nel momento in cui muore il vero medico di bordo: rispetto ai suoi tre predecessori, lui non è nemmeno vivente, dato che in realtà è un ologramma; così, acquistano ancora maggiore bizzarria le osservazioni che fa sul comportamento degli altri membri dell’equipaggio. Con Voyager prende corpo il tentativo di Berman e compagni di tornare al tema dell’esplorazione galattica – dopo la «pausa» di DS9 – su basi nuove, anche se ciò significa fare «tabula rasa» del passato, per dare libero sfogo alla propria fantasia di creatori alla ricerca continua di freschezza e novità: e, da questo punto di vista, lo stratagemma dell’astronave sperduta in una porzione sconosciuta dello Spazio, senza nessun contatto con l’universo già noto, offre inedite possibilità drammaturgiche; fermo restando, ovviamente, il rispetto delle regole basilari della «filosofia» trekkiana. Così, l’equipaggio si trova realmente davanti a «nuovi mondi e nuove civiltà», cosa non più possibile in una parte della Galassia che, dopo i conflitti interplanetari di DS9, appare davvero affollatissima. I viaggi della Voyager, anzi, non offrono più nessun punto di riferimento agli spettatori, proprio come accadeva ai tempi della serie classica: quasi tutto ciò che s’incontra è nuovo e/o accade per la prima volta. Per questo motivo, forse, elementi noti e rassicuranti vengono forniti attraverso personaggi che – per esempio rispetto a quelli «eversivi» di DS9 – ricalcano maggiormente altri già noti dalle serie precedenti: c’è di nuovo un klingon, c’è un vulcaniano, tornano i Borg; gli stessi membri dell’equipaggio «giocano» con tipi caratteriali già ampiamente metabolizzati dai fan. Proprio dal coinvolgimento dei Borg, però, arriva la maggiore novità: nell’importante episodio doppio «Il patto dello scorpione» («Scorpion»), che chiude la terza stagione e apre la quarta, la Voyager incrocia una quindicina di navi-cubo della razza tecnorganica, mentre cerca di attraversare il loro territorio procedendo verso la Terra. Le navi sono in fuga da qualcosa di ancora più temibile: la Specie 8472. Si tratta di una civiltà extradimensionale, che comunica telepaticamente e vive in uno Spazio fluido dove rappresenta l’unica forma di vita; appena è attaccata dai Borg, acquista la consapevolezza dell’esistenza dell’alterità e – seguendo il precetto: «Il debole soccomberà» – arriva nella nostra dimensione, lan- «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 89 ciandosi in una durissima reazione contro gli stessi Borg e devastando centinaia di loro mondi. La Specie 8472, infatti, è immune al processo d’assimilazione Borg e, quindi, non li teme. Soltanto il «patto dello scorpione» stretto tra Voyager e Borg riesce a respingere questo primo attacco, anche se la Specie 8472 torna altre volte, nel corso della serie, persino con mire di conquista nei confronti dello Spazio federale. Il doppio episodio, però, porta una conseguenza ancora più duratura allo show, con l’ingresso nella navetta capitanata da Kathryn Janeway di un nuovo, inatteso personaggio che risolleva immediatamente gli ascolti un po’ in ribasso di Voyager: una procace e spaesata giovane Borg chiamata Sette di Nove e interpretata da Jeri Ryan. «Gli autori – spiega proprio la Ryan, a proposito del suo ruolo – hanno creato un personaggio molto forte, che vive una situazione di conflitto fra la sua natura Borg e la sua innata umanità, e hanno previsto un ritorno a essa molto lento e difficile» 23. In ogni caso, proprio Sette di Nove diventa subito il personaggio più amato dai telespettatori e, comunque, si conferma come quello senz’altro più interessante e meglio approfondito del telefilm. D’altra parte, Voyager delude non poco proprio dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi: quasi tutti poco carismatici, ripetitivi e dotati di minor spessore rispetto a quelli della serie classica e della Next Generation, ma pure rispetto a quelli tormentati e innovativi di Deep Space Nine. Probabilmente – checché ne dicano i «trekkers» di ferro – è proprio Voyager la più debole tra le quattro serie di Star Trek, sia dal punto di vista drammaturgico che per quanto riguarda il rapporto con la «filosofia» trekkiana, applicata in modo formale e poco problematico. In realtà, con Voyager siamo di fronte soprattutto a una «variazione sul tema» di Star Trek, un «gioco» autoreferenziale – più o meno riuscito, più o meno raffinato – tutto rivolto al passato ultradecennale del «franchise», nonostante la forma esteriore dei singoli episodi proponga l’esplorazione di una porzione nuova e mai vista della Galassia: forse è proprio questa l’unica cosa mai vista, in un prodotto che, tutto sommato, non aggiorna il «mito» della saga di Roddenberry. Con la conclusione dello show a maggio 2001, però, non appare più possibile né realistica, ormai, un’assenza di Star Trek dai teleschermi statunitensi, anche perché il marchio resiste come uno tra i più popolari dell’intera industria hollywoodiana dell’intrattenimento multimediale e, in tempi difficili, aveva letteralmente salvato dal fallimento la stessa Paramount. Così, dopo appena qualche mese, il 26 settembre 2001 prende il via, sempre sul network UPN, la strombazzatissima (e attesissima) 90 AI CONFINI DELLA REALTÀ quinta serie che, ancora una volta, prova a conciliare le ormai centrali esigenze commerciali con la voglia di stupire il pubblico con qualcosa di diverso che, però, possa rispettare – almeno parzialmente – lo spirito della saga: ne sono ideatori e coproduttori Rick Berman e il suo controverso pupillo Brannon Braga. La prima grossa novità del nuovo progetto arriva già dal titolo, che non presenta più il nome «Star Trek» seguito da qualcos’altro, ma recita semplicemente Enterprise. Si chiama, dunque, direttamente come la storica nave stellare lo show che prova a rivitalizzare il «Trek Universe»: ma l’Enterprise del titolo è la prima in assoluto. Le coordinate cronologiche della quinta serie, infatti, si spostano all’indietro di oltre cent’anni rispetto alla serie classica, fino al XXII secolo, poco prima della fondazione della Federazione Unita dei Pianeti: e lo Spazio esterno ritorna a essere sconosciuto, come nella serie classica e anche di più; insomma, secondo quello che è lo slogan studiato per il lancio di Enterprise, «l’ultima frontiera ha un nuovo inizio». E la maggior parte del fascino della nuova serie risiede proprio nel paragone continuo – meccanismo costitutivo dei prequel, d’altra parte – tra quest’inizio e tutto ciò che verrà dopo e che gli spettatori già hanno assimilato come facente parte del «mito»: il piacere del testo, quindi, diventa interamente autoreferenziale, proseguendo lungo la strada aperta da Voyager e puntando su un aspetto del «franchise» comunque sempre presente anche nelle prime tre serie, ma di secondaria importanza rispetto, per esempio, al carattere di (ri)lettura metaforica della società circostante. È indicativa, per meglio comprendere lo «spirito» di Enterprise, una dichiarazione rilasciata da Rick Berman nel corso della conferenza stampa ufficiale di presentazione del nuovo progetto: «Crediamo che l’elemento più divertente della serie, specialmente per gli appassionati, sarà vedere tutte quelle cose che loro sanno essere lo Star Trek nelle fasi infantili, essere in grado di scoprire lo sviluppo di cose come il teletrasporto e i phaser o i raggi traenti ecc. E ci divertiamo molto a vedere queste cose quando ancora non operano alla perfezione, mentre sono ancora in corso di sviluppo e perfezionamento» 24. Le vicende della nuova serie – nell’episodio inaugurale «Broken Bow» – iniziano sulla Terra il 16 aprile 2151, quando l’astronave Enterprise NX01 è in procinto di partire per una missione esplorativa. Poco prima del momento del decollo, però, una nave spaziale klingon precipita presso la base di Broken Bow in Oklahoma: il suo occupante, Klaang, si salva per miracolo. Superando l’opposizione dei vulcaniani – qui ancora nel ruolo di tutori della razza umana e che, nello specifico, sottolineano come il «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 91 gesto sarebbe considerato un atto di disonore per i klingon – i terrestri decidono di riportare, proprio con l’Enterprise, l’alieno sul suo pianeta di origine, Qo’noS. L’equipaggio della nave terrestre è guidato dal capitano Jonathan Archer (Scott Bakula), affiancato dalla sensuale prima ufficiale vulcaniana T’Pol (Jolene Blalock), dall’ufficiale medico di una misteriosa razza aliena Phlox (John Billingsley), dall’addetto alla sicurezza Malcom Reed (Dominic Keating), dall’ufficiale alle comunicazioni Hoshi Sato (Linda Park), dal navigatore Travis Mayweather (Anthony Montgomery) e dall’ingegnere Charlie Tucker (Connor Trenneer). Il viaggio verso il pianeta dell’Impero Klingon, così, diventa soltanto il primo tra i tanti che, già nel solo anno 2151, l’Enterprise si trova a dover compiere, nel periodo immediatamente precedente lo scoppio delle Guerre Romulane. Per l’equipaggio capitanato da Archer tutto è nuovo e misterioso, in un universo che non ha ancora nessun punto di riferimento certo. «È un luogo terrificante – spiega Brannon Braga – perché tutto è ignoto al nostro equipaggio. La Terra è messa molto meglio di come l’abbiamo vista in Primo contatto, nel senso che la povertà, il crimine, le malattie, la fame sono state tutte eliminate, o quasi. Ma la Federazione non è ancora stata formata. Ci vorrà ancora molto tempo. La Flotta Stellare è molto molto giovane, e questo equipaggio ha incontrato ben poche specie aliene da quando i Vulcaniani sono arrivati. Quindi l’universo è davvero sconosciuto per queste persone» 25. E Rick Berman aggiunge opportunamente: «I Picard e persino i Kirk del mondo tendono a dare per scontato l’incontro con gli alieni. È il loro lavoro quotidiano. Per queste sette persone è invece un’occasione che ha qualcosa di misterioso. Gli incontri sono accompagnati sempre da un’aria di meraviglia ed eccitazione, oltre che di paura e trepidazione, perché loro sono molto più simili a noi. Se noi ci trovassimo nei loro panni in situazioni in cui ci stiamo per incontrare con una specie aliena, sarebbe una cosa davvero spaventosa e certamente non una cosa che capita tutti i giorni come succede a Picard o a Janeway» 26. Inserendolo nel contesto appena delineato direttamente dagli autori, allora, si riesce a spiegare perfettamente, per esempio, anche un comportamento che – agli occhi dei telespettatori più fedeli – può avere dell’incredibile se tenuto da un ufficiale di bordo dell’Enterprise: nel terzo episodio della serie («Fight or Flight»), infatti, una Hoshi Sato in preda al panico, dopo il ritrovamento di quindici umanoidi morti a bordo di una navetta aliena, chiede al capitano Archer di riportarla a terra; naturalmente, però, la missione prosegue e, nel finale, la Sato supera le proprie paure come nei migliori romanzi di formazione. 92 AI CONFINI DELLA REALTÀ Enterprise può essere compresa ancora meglio, tenendo presenti alcune date fondamentali di questo periodo della cronologia Trek: innanzitutto, quella del 4 aprile 2063, quando lo scienziato inventore del motore a curvatura Zefram Cochrane – che appare in flashback anche nel pilot della nuova serie, interpretato come nel film Primo contatto da James Cromwell – lancia da un vecchio sito missilistico nel Montana la Phoenix, prima nave a curvatura della storia umana. Il giorno seguente, 5 aprile, l’astronave vulcaniana T’Plana-Hath stabilisce il «mitico» Primo Contatto con i terrestri, atterrando nei pressi del sito di lancio della Phoenix. È l’inizio della ricostruzione della Terra, col fondamentale aiuto dei vulcaniani, nonché la prima pietra in vista della costituzione della Federazione. Gli anni passano, la Terra si riprende dalle guerre che l’avevano sconvolta e si dà un unico governo mondiale in grado di superare le divisioni tra i suoi abitanti. L’Enterprise inizia i suoi viaggi esplorativi – come si vede nella serie omonima – nel 2151 e, appena cinque anni dopo, la Terra si trova a dover affrontare un nuovo, terribile conflitto, stavolta interplanetario, contro l’Impero Stellare Romulano, che attacca senza preavviso né provocazione alcune colonie terrestri. Le Guerre Romulane si concludono nel 2160, con la battaglia di Cheron che vede il quasi totale annientamento della flotta aliena e un trattato di pace che sancisce la creazione di una Zona Neutrale, il cui attraversamento da parte di una qualunque nave delle due parti assume il valore di una dichiarazione di guerra. L’anno seguente, 2161, sul planetoide di Babel, i rappresentanti dei governi di Terra, Vulcano, Alpha Centauri, Andoria e Tellar firmano l’Atto Costitutivo della Federazione Unita dei Pianeti, sancendone ufficialmente la nascita. La Federazione ha lo scopo di «preservare la pace», «sviluppare relazioni armoniche fra i popoli», «espandere la conoscenza». Nello stesso momento, viene stabilito che l’attività esplorativa e di difesa sarà affidata a un’unica agenzia denominata Flotta Stellare, il cui motto sarà: «Per arrivare dove nessuno è mai giunto prima». Si capisce bene – già dai fugaci ma doverosi accenni ai fondamenti della complessa mitologia e cronologia di Star Trek – quali enormi possibilità di crescita possa avere la nuova serie Enterprise, se ben gestita da parte degli autori. Al di là di un’accoglienza decisamente contrastata da parte di critica e pubblico – con i maggiori favori rivolti al protagonista Scott Bakula e l’accusa ricorrente, alla produzione, di pensare più al marchio commerciale della saga che alla reale qualità del prodotto – sta all’abilità di Berman e Braga cercare di non ridurre la nuova serie a un «SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA» 93 puro «esercizio di stile», ma sviluppare il passato del «mito» con il senno di poi, cogliendo meglio che potranno gli infiniti spunti narrativi offerti da oltre 35 anni di storia fantastica. Sarà acquistata il 15 febbraio 1967 dalla Paramount che, così, si troverà un «tesoro» in casa: la possibilità di sfruttare commercialmente – assieme all’autore – i diritti di Star Trek. E proprio gli enormi proventi dello show di Roddenberry, anni dopo, salveranno lo studio dal fallimento. 2 Franco La Polla, Star Trek. Foto di gruppo con astronave, PuntoZero, Bologna 1996, pp. 14-15. 3 Titolo originale: «Where No Man has gone Before». 4 Allan Asherman, Guida ufficiale a Star Trek serie classica, Fanucci, Roma 1997, pp. 10-11. 5 Titolo originale: «The Trouble With Tribbles». 6 Titolo originale: «The Tholian Web». 7 Franco La Polla, «Star Trek» cit., p. 17. 8 Il titolo italiano riporta il nome della città di Chicago scritto proprio così. 9 Vito Zagarrio, Il cavaliere, la morte, il diavolo. Ontologia di Star Trek, in Franco La Polla (a cura di), Star Trek. Il cielo è il limite, Lindau, Torino 1998, p. 26. 10 In realtà, con meno sistematicità, il concetto è già al centro di un paio di episodi di The Outer Limits. 11 Larry Nemecek, Guida a Star Trek - The Next Generation, Fanucci, Roma 1997, p. 10. 12 Al termine della stagione inaugurale, si piazza al primo posto tra le serie da un’ora più viste e al terzo assoluto dietro i quiz The Wheel of Fortune e Jeopardy. 13 Gary D. Christenson, Focus On Star Trek - The Next Generation, «TV Guide», 23 luglio 1988, p. 40. 14 L’idea e la fantasiosa tecnologia sono identiche a quelle della celebre «Danger Room», la «Stanza del pericolo» utilizzata dagli X-Men nei loro albi a fumetti: gli scopi, però, sono profondamente diversi, dato che il congegno fumettistico serve per simulare gli ambienti in cui si svolgono i duri allenamenti dei mutanti più famosi del mondo. 15 Franco La Polla, Star Trek. Foto di gruppo con astronave cit., pp. 121-122. 16 Larry Nemecek, Guida a Star Trek - The Next Generation cit., p. 211. 17 La sceneggiatura del film è di Brannon Braga, che probabilmente è l’autore più odiato dai fan della serie: il suo marchio di fabbrica, infatti, è di far esplodere le Enterprise. E il botto di Generazioni non rappresenta un caso isolato. 18 Rick Berman, Trentacinque anni di storia, «Star Trek Magazine», speciale n. 1, novembre 1999, p. 30. 19 Le problematiche della civiltà bajoriana sono affrontate, per la prima volta, all’interno della TNG (di cui, quindi, DS9 è uno spin-off), nell’episodio «Il guardiamarina Ro» («Ensign Ro»). Qui, viene introdotto il bel personaggio di Ro Laren (Michelle Forbes), che serve per far filtrare le prime notizie sullo sfortunato destino del pianeta Bajor sotto la dittatura cardassiana. 1 94 Deborah Fisher, Gli autori di Deep Space Nine, «Star Trek. La rivista ufficiale» n. 8, aprile 1998, Fanucci, Roma, p. 17. 21 Ivi, p. 18. 22 Franco La Polla (a cura di), Star Trek. Il cielo è il limite cit., p. 11. 23 AA.VV., Riflettori su… «Star Trek Voyager», «Star Trek. La rivista ufficiale», n. 9, giugno 1999, Fanucci, Roma, p. 10. 24 Gabriella Cordone, Enterprise, «Inside Star Trek Magazine», n. 9, settembreottobre 2001, pp. 10-11. 25 Ivi, p. 13. 26 Ivi, p. 13. 20 Interludio. I supereroi, dai fumetti alla TV Cos’è un supereroe Gli albi a fumetti imperniati sulle storie avventurose di superuomini in sgargianti calzamaglie sono un prodotto tipico della cultura popolare statunitense del ’900. La loro diffusione inizia intorno alla metà degli anni ’30, con gli Stati Uniti immersi nella disastrosa crisi economica causata dalla crisi del 1929, in seguito alla quale, tra le altre cose, aumenta in modo esponenziale la presenza del crimine organizzato nelle grandi città. In un tale contesto sociale si diffonde, tra il pubblico in cerca d’evasione, la passione per i cosiddetti «pulp magazines», riviste di poco prezzo stampate su carta scadente e imperniate sulle storie di eroi positivi in lotta contro il male: è sempre in questo periodo che la narrativa «di genere» vede la nascita , tra gli altri, di eroi popolari come Conan il barbaro e Doc Savage, oltre che dei «duri» detective Sam Spade e Philip Marlowe; tutti «ospitati» tra le pagine di storiche testate quali «Weird Tales» e «Black Mask», dedicate ai mille volti della narrativa d’azione. È naturale, quindi, che anche il panorama dell’editoria a fumetti cerchi di proporre personaggi più adatti ai tempi. E il nuovo genere supereroistico – nel formato comic book, invece che nella classica strip – va proprio incontro a quest’esigenza, unendo insieme elementi di fantascienza, giallo investigativo e avventura classica, in un riuscito cocktail dove l’azione e il fantastico giocano un ruolo predominante. Nel giro di pochi anni, nasce un’infinità di nuovi personaggi, i cui albi sono costantemente premiati da vendite elevate e da un grosso seguito popolare. Questi nuovi eroi della «Golden Age» dei comics statunitensi – che si 96 AI CONFINI DELLA REALTÀ conclude con la fine degli anni ’40 – hanno caratteristiche ricorrenti: un costume attillato e coloratissimo, superpoteri unici e fortemente caratterizzanti, un’identità segreta. Non deve sorprendere il fatto che le storie di supereroi, fin dall’inizio, abbiano trovato la loro piena realizzazione principalmente nei fumetti, dato che è senz’altro più semplice rendere con efficacia le loro azioni sovrumane e molto spettacolari disegnandole su carta, piuttosto che descrivendole nelle pagine di un romanzo o riproducendole al cinema, dove perfino gli effetti speciali più sofisticati non riescono (o meglio, non riuscivano fino all’avvento del digitale) a riprodurre la dinamicità di certe sequenze a fumetti. Nonostante le difficoltà di una resa efficace, però, il supereroe approda spesso – partendo proprio dalle pagine dei comic books – anche in televisione e, da qui, al cinema. Sono diversi, infatti, i telefilm statunitensi imperniati su protagonisti dotati di superpoteri, dagli anni ’50 fino ai giorni nostri. Superman Il primo personaggio che «guadagna» una sua versione catodica non può essere altri che il capostipite e il più potente fra tutti i supereroi: Superman. Creato nel 1938, dalla fertile fantasia di Jerry Siegel e Joe Shuster, il kriptoniano (poiché la sua origine è aliena: viene dal pianeta Kripton, appunto) cela la propria identità dietro quella di un impacciato e timido giornalista del «Daily Planet» di Metropolis, l’occhialuto Clark Kent, perennemente messo in difficoltà dalla ben più agguerrita collega Lois Lane, della quale è innamorato da sempre e che, in anni molto più recenti, finisce per sposare. Poco tempo dopo gli esordi sulla testata «Action Comics», pubblicata dalla DC Comics, Superman approda in radio nel 1940 (con la voce di Bud Collyer), con un drama nel corso del quale vengono introdotti elementi come il nome del giornale presso cui lavora Clark Kent e, nel 1945, la kriptonite, l’unica debolezza del personaggio, inserita nei fumetti solo a partire dal 1949. In televisione – dopo il breve e misconosciuto ciclo di film interpretati da Kirk Alyin – il personaggio è protagonista di Le avventure di Superman (Superman, 1951), col volto dell’attore George Reeves (che poi si suiciderà misteriosamente, il 16 giugno 1959). Trasmesso dal 19 settembre 1952 (episodio «Superman on Earth») al 28 aprile 1958 (il conclusivo «All That Glitter»), il telefilm – prodotto da I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV 97 Robert Maxwell e Bernard Luber, pronto già nel 1951, ma mandato in onda soltanto dall’anno successivo, quando la Kellogg lo sponsorizza – va avanti, con ottimo successo, per 104 episodi. Gli appuntamenti televisivi sono preceduti dalla messa in onda, nel dicembre 1951, del film Superman and the Mole Men, proiettato anche al cinema e che, nella versione per il piccolo schermo, fa da pilot della serie. Le prime due stagioni sono realizzate in bianco e nero, mentre dalla terza – rinviata al 1955, ma anticipata l’anno precedente dallo speciale «Stamp Day for Superman» – ogni puntata è, invece, a colori. La serie ha effetti speciali che oggi appaiono piuttosto grossolani, ma che in realtà sono fuori dal comune per l’epoca, soprattutto in relazione al basso costo dello show (li realizza Thol Simonson). Le avventure di Superman, però, si lascia apprezzare soprattutto per come dà spazio ai rapporti quotidiani tra i vari personaggi, innanzitutto tra Clark/Superman e Lois Lane: e proprio il rapporto uomo/donna è tra gli elementi più interessanti del telefilm, con la Lois tratteggiata da Phyllis Coates prima e da Noel Neill poi, perfetta come emblema della donna in carriera che si affaccia sulla scena della società iniziando a minare le certezze del maschio americano medio (il quale, solo trasformandosi in «superuomo», forse, può recuperare la propria centralità: non a caso, infatti, Lois prende costantemente in giro l’imbranato alter ego umano di Superman). Vanno segnalati i bellissimi titoli di alcuni episodi: «Czar of the Underworld» («Zar del sottosuolo»), «The Clown Who Cried» («Il pagliaccio che piangeva»), «The Boy Who Hated Superman» («Il ragazzo che odiava Superman»), «Through the Time Barrier» («Attraverso i confini del tempo»), fino al penultimo «The Perils of Superman» («I travagli di Superman») che cita fin dal titolo i celebri serial cinematografici avventurosi degli anni ’10, tra i modelli dichiarati della narrazione seriale televisiva e rievocati, per esempio, poco tempo prima dal film La storia di Pearl White (The Perils of Pauline), diretto nel 1947 da George Marshall. In modo ancora più evidente, è impostato sui rapporti personali tra i protagonisti e su vicende calate nella loro quotidianità (benché stravagante) il piacevole e ben più recente Lois & Clark - Le nuove avventure di Superman (Lois & Clark: The New Adventures of Superman, 1993), curato da Deborah Joy Levine e trasmesso dalla ABC tra il 12 settembre 1993 e il 14 giugno 1997 (per un totale di 86 episodi più il pilot). Già il titolo è indicativo di quelle che sono le caratteristiche del nuovo show, con l’accento posto sui nomi propri dei due personaggi principali piuttosto che 98 AI CONFINI DELLA REALTÀ su quello di Superman; ed è oltremodo appropriato il fatto che il momento centrale del telefilm sia il matrimonio tra Lois e Clark, evento che «costringe» anche gli sceneggiatori delle serie a fumetti ad adeguarsi (nell’episodio conclusivo, addirittura, i coniugi decidono di avere un figlio, nonostante siano «biologicamente incompatibili»). Appare subito azzeccatissima la scelta dei due attori protagonisti, l’aitante e simpatico Dean Cain come Clark Kent/Superman e soprattutto l’ironica e naturalmente sensuale Teri Hatcher come Lois Lane; in particolare, la Hatcher diventa l’autentico punto di forza dello show. John Shea, invece, interpreta l’arcinemico di Superman, Lex Luthor, protagonista a sua volta di una lunga trama romantica con Lois Lane. Proprio l’aspetto romantico, come detto, è quello dominante negli episodi di Lois & Clark e calamita, ben presto, su di sé l’attenzione degli spettatori (il solo fidanzamento tra i due personaggi principali dura ben 35 puntate). Non mancano, comunque, trame più fantascientifiche e avventurose, con argomenti come i viaggi nel tempo, i rapimenti alieni, la realtà virtuale e la clonazione, la miniaturizzazione del proprio corpo. Il telefilm degli anni ’90 è preceduto dalle quattro versioni cinematografiche interpretate dallo sfortunato Christopher Reeve – Superman (id., 1978) di Richard Donner, gli ironici Superman II (id., 1980) e Superman III (id., 1983) di Richard Lester, Superman IV (Superman IV: The Quest for Peace, 1987) di Sidney J. Furie – e da un telefilm, Superboy (id., 1988), prodotto da Ilya Salkind, in 100 episodi: qui «l’uomo d’acciaio» (interpretato da John Haymes Newton nella prima stagione e da Gerard Christopher per il resto della serie) è raccontato ai tempi del college, quando inizia ad avere coscienza dei suoi superpoteri e, al tempo stesso, dell’amore verso l’amica Lana Lang (Stacy Haiduk). Recentissima, poi, è la nuova serie Smallville, partita nell’autunno 2001 sul network della Warner (specializzato in telefilm giovanilistici di successo). Il titolo riprende il nome della località di provincia (in Kansas) nella quale il piccolo Clark cresce assieme ai suoi genitori adottivi. Adesso il ragazzo (interpretato da Tom Welling) è un teenager come gli altri… o quasi. Accanto ai primi amori e alle difficoltà della crescita, infatti, sta scoprendo anche come utilizzare al meglio quelle che già percepisce come capacità superumane. Indubbiamente, lo show creato da Alfred Gough e Miles Millar rappresenta un modo interessante per avvicinare il pubblico più giovane al supereroe più tradizionale. I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV 99 Batman Controparte perfetta di Superman e suo oscuro rovescio della medaglia, Batman nasce un anno dopo (nel 1939) rispetto all’uomo d’acciaio, sulle pagine di «Detective Comics», grazie al talento di Bob Kane. Fin dai primi albi, il personaggio è caratterizzato come cupo, tenebroso e ossessionato dalla lotta contro il crimine. Nella vita «normale» si cela dietro l’identità del miliardario Bruce Wayne ma, rispetto a molti altri supereroi, il suo profilo psicologico è invertito, con Batman che – nel loro «rapporto» – assume il ruolo dominante. L’uomo pipistrello non è dotato di superpoteri, ma di capacità fisiche e mentali superiori alla norma e forgiate attraverso decenni di durissimo addestramento, col solo scopo di vendicare il traumatizzante omicidio dei suoi genitori attraverso un’eterna battaglia contro il crimine. Con intenti anche propagandistici (siamo negli anni della seconda guerra mondiale), l’eroe creato da Bob Kane approda al cinema già nel 1943, per merito della Columbia, con un serial di 15 episodi in cui Lewis Wilson è Batman, Douglas Croft è Robin e J. Carrol Naish l’arcinemico dottor Daka, spia orientale al servizio di un’organizzazione che cerca di debellare le forze armate statunitensi. Sei anni dopo, sempre la Columbia produce un altro serial (ancora di 15 episodi) con Robert Lowey e John Duncan nei panni, rispettivamente, di Batman e Robin. Col tempo, il Batman del fumetto cambia parecchio rispetto alle origini, grazie agli apporti di autori come Jerry Robinson, Jim Mooney e Carmine Infantino, i quali si riallacciano alle trame di Kane ma, ben più spesso, snaturano il personaggio. In particolare, nel corso degli anni ’50, le sue storie – dopo gli inizi quasi gotici – diventano persino strampalate e piene di spunti derivanti dalla fantascienza più dozzinale; anche l’arrivo del personaggio di Robin contribuisce ad «alleggerire» il tono delle vicende. E il Batman di questi anni è proprio quello che serve da fonte d’ispirazione per la celebre serie di telefilm che parte nel 1966: la cosa strana è che, intanto, già dal 1963, l’arrivo del supervisore Julius Schwartz alla DC Comics consente di ridare ossigeno a un character ormai ridotto a caricatura di se stesso. Ma l’ottimo «restyling» promosso da Schwartz – che rende nuovamente l’eroe più adulto e notturno, più detective e meno saltimbanco – non colpisce il produttore televisivo William Dozier, che per la sua nuova serie di telefilm si ispira all’ingenua versione del decennio precedente. Trasmesso sulla ABC dal 12 gennaio 1966 al 14 marzo 1968 (per 100 AI CONFINI DELLA REALTÀ un totale di 120 episodi), Batman (id.) incontra comunque un successo enorme e travolgente, nonostante i chiari intenti parodistici (o, forse, proprio per questo motivo): costumi coloratissimi, scenografie fantasiose, recitazione perennemente sopra le righe, dialoghi irreali e spesso demenziali sono considerati dal produttore Dozier gli elementi tipici del fumetto, che viene restituito sul piccolo schermo anche attraverso le caratteristiche onomatopee da Pop Art («Bang!», «Smack!», «Crash!» e così via). Il ruolo di Batman/Bruce Wayne è affidato al pacioso e tranquillizzante Adam West, affiancato da Burt Ward come Robin/Dick Grayson, da Alan Napier nei panni del maggiordomo Alfred Pennyworth e da Neil Hamilton in quelli del commissario Jim Gordon. Ma a rendere indimenticabile il telefilm è, soprattutto, la straordinaria e stravagante galleria dei cattivi, tutti folli, improbabili e impegnati in misfatti che sembrerebbero concepiti sotto l’effetto di un acido: vanno ricordati perlomeno il Joker (interpretato da Cesar Romero), la Donna Gatto (Julie Newmar), l’Enigmista (Frank Gorshin), il Pinguino (Burgess Meredith), Zelda (Anne Baxter), il Menestrello (Van Johnson), Testa d’uovo (Vincent Price), la Vedova Nera (Tallulah Bankhead). Il successo della serie produce, nel 1966, anche un film per il cinema: Batman (id.), diretto da Leslie Martinson e che ripropone attori e stile dello show televisivo; molti lo considerano, addirittura, un piccolo gioiello della Pop Art. Il telefilm degli anni ’60, in ogni caso, rappresenta un tradimento dello spirito più autentico del personaggio; spirito che viene recuperato – nelle testate a fumetti – prima attraverso il tratto allucinato del grande Neal Adams e poi, nel 1986, grazie al lavoro di un giovane e rivoluzionario autore, Frank Miller. Con il suo capolavoro Il ritorno del cavaliere oscuro (The Dark Knight Returns), Miller riedifica le fondamenta stesse del fumetto supereroistico statunitense – in un periodo di profonda crisi di vendite e idee – e, allo stesso tempo, rivitalizza il mito di Batman devastandolo: il suo, infatti, è un eroe invecchiato e incattivito, quasi preda del suo lato oscuro; un eroe che si muove in un mondo impazzito e che combatte la violenza con altra violenza; un eroe che scende sullo stesso piano dei criminali combattuti. Tutto riparte dalla pietra miliare milleriana, tenuta nel giusto conto anche da Tim Burton quando, nel 1989 e nel 1992, dirige i suoi due cupissimi film sul personaggio: Batman (id.) e Batman - Il ritorno (Batman Returns): l’eroe di Burton ha il volto di Michael Keaton ed è reso ancora più vulnerabile e nevrotico, quasi uno psicopatico solitario, con gli eter- I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV 101 ni temi della maschera e del doppio trattati con grande intelligenza dal regista californiano. Straordinaria è anche la Gotham City dei due film, neogotica e al tempo stesso postmoderna, grazie alle impressionanti scenografie di Anton Furst e Peter Young. Anche qui sono i «cattivi», però, a catturare l’attenzione, ben più del protagonista: il Joker di Jack Nicholson, il Pinguino di Danny De Vito e la Catwoman di Michelle Pfeiffer non si dimenticano tanto facilmente. Burton lascia il testimone a Joel Schumacher, regista dei due onesti ma chiaramente inferiori Batman Forever (id., 1995) e Batman & Robin (id., 1997), dove l’uomo pipistrello ha il volto, rispettivamente, di Val Kilmer e George Clooney. Altri supereroi Oltre ai due «mostri sacri» della DC Comics, altri noti personaggi del fumetto supereroistico statunitense hanno goduto di trasposizioni televisive, più o meno convincenti. È il caso, per esempio, di Wonder Woman, l’eroina creata nel 1941 da Charles Moulton sulle pagine di «All-Star Comics» (altra testata della DC). Le origini del personaggio si rifanno, piuttosto liberamente, alla mitologia greca: l’immortale amazzone Diana abbandona l’Isola del Paradiso per vivere nel mondo moderno (gli Stati Uniti), accanto all’amato tenente dell’aviazione americana Steve Trevor, e assume l’identità di Diana Prince per combattere il male grazie alla sua forza e agilità e con l’ausilio di un aereo invisibile, un braccialetto antiproiettile e un lazo magico. Dopo un disastroso TV movie del 1973 – con il ruolo della protagonista affidato a una Cathy Lee Crosby in tenuta sportiva – Wonder Woman conosce la definitiva consacrazione catodica grazie alla serie che va in onda a partire dal 21 aprile 1976 (ma già il 7 novembre dell’anno precedente era stato trasmesso il convincente film pilota) sulla CBS. Il telefilm va avanti per 59 episodi, fino al 1979, conquistandosi uno «zoccolo duro» di appassionati. Buona parte del merito va, senz’altro, all’attrice che dà volto alla principessa Diana: la statuaria e affascinante Linda Carter, già famosa come Miss Usa e Miss Mondo al momento dell’inizio dello show; praticamente identica all’iconografia del personaggio, la Carter riesce a sembrare autentica perfino nella ridicola divisa che è costretta a indossare. Le molte sequenze d’azione del telefilm, comunque, sono affidate alla collaudata «stunt-woman» Jeannie Epper. L’elemento più interes- 102 AI CONFINI DELLA REALTÀ sante e a suo modo rivoluzionario di Wonder Woman (id., 1976) è il rovesciamento di ruoli tra eroe e «bella» da salvare: qui, infatti, è quasi sempre Diana a correre in aiuto dell’amato Steve Trevor (l’attore Lyle Waggoner), bravissimo a mettersi nei guai e perennemente bisognoso di interventi salvifici. Sempre nello stesso periodo, cioè dal 19 aprile 1977 al 6 luglio 1979 (per soli 17 episodi, compresi due film pilota), va in onda sulla CBS il telefilm The Amazing Spiderman (inedito in Italia), dedicato all’Uomo Ragno, una tra le più fortunate creature fumettistiche di Stan Lee e della Marvel Comics (la rivale storica della DC). Il protagonista del serial è Nicholas Hammond, nei panni di Peter Parker, studente e fotoreporter che, dopo essere stato morso da un ragno radioattivo, ne acquisisce i poteri – riesce ad arrampicarsi su qualunque superficie, ha forza e agilità sovrumane, è dotato di uno speciale «senso di ragno» che gli permette di sentire in anticipo i pericoli; a tutto ciò aggiunge la speciale ragnatela sintetica che crea grazie alle proprie conoscenze scientifiche – che decide di utilizzare nella lotta contro il crimine; la «mitica» Zia May è interpretata da Irene Tedrow, mentre lo scorbutico direttore del quotidiano «Daily Bugle» (dove lavora Peter) è Robert F. Simon. La versione televisiva delle avventure dell’arrampicamuri, però, è priva del ritmo del fumetto e ne fraintende l’ironia, nonostante gli effetti speciali non proprio disprezzabili. In particolare, si perde l’aspetto più problematico della personalità del protagonista, tipico esempio della «poetica» – sintetizzata nella definizione: «Supereroi con superproblemi» – con cui Stan Lee rivoluziona, nella Marvel dei primi anni ’60, il fumetto supereroistico del periodo (dando avvio alla cosiddetta «Silver Age of Comics»), modernizzando i vari personaggi e rendendoli più vulnerabili e, quindi, interessanti (altri esempi «made in Marvel» sono quelli di Devil, Hulk e di supergruppi come i Fantastici Quattro e gli X-Men). Un altro personaggio marvelliano che arriva in televisione – con esiti appena più convincenti rispetto a quelli del telefilm sull’Uomo Ragno – è il gigantesco mostro verde Hulk, protagonista della serie L’incredibile Hulk (The Incredible Hulk), in onda sulla CBS dal 4 novembre 1977 al 12 maggio 1982 per 85 episodi. Hulk è creato nel 1962 da Stan Lee assieme al disegnatore Jack Kirby che realizza una variazione sul tema di Jekyll e Hyde, «riletto» alla luce delle nuove inquietudini dell’era atomica: il gigante di giada, infatti, altri non è che lo scienziato Bruce Banner, accidentalmente investito dall’esplosione della bomba gamma (inventata proprio da lui), che lo trasforma in un mostro fortis- I SUPEREROI, DAI FUMETTI ALLA TV 103 simo ma poco intelligente; ogni volta che il pacifico dottore perde la pazienza si trasforma in Hulk che, quindi, incarna il suo lato selvaggio e irrazionale. Nel telefilm Bill Bixby ha il ruolo di David Bruce Banner, mentre il culturista sordomuto Lou Ferrigno (di origini italiane) è Hulk. Rispetto al fumetto spariscono tutti i personaggi di contorno della serie e la vicenda si articola in tanti episodi slegati tra loro e ambientati in punti sempre diversi degli Stati Uniti, con Banner/Hulk in perenne fuga dopo l’ennesimo disastro provocato dai suoi scatti di rabbia. Anche in questo caso – pur con il fascino del road movie – il telefilm si mantiene ben lontano dal livello del fumetto Marvel, soprattutto dalla versione più matura che ne dà lo sceneggiatore Peter David durante gli anni ’80 e ’90, quando rivoluziona completamente i presupposti di base dello storico personaggio. All’inizio degli anni ’90, infine, un altro importante supereroe – stavolta appartenente alla «scuderia» DC Comics – approda in televisione, con una serie tutta sua: si tratta del «fulmine scarlatto» (dal colore del suo costume), l’uomo più veloce del mondo, protagonista del breve ma riuscito telefilm Flash (The Flash), prodotto da Danny Bilson e Paul De Meo con le musiche affidate al musicista preferito di Tim Burton, Danny Elfman. La serie è trasmessa sulle frequenze della CBS dal settembre 1990 al maggio 1991, con un ottimo pilot costato sei milioni di dollari, seguito soltanto da altri 22 episodi. A indossare il costume di Flash e i più comuni abiti del suo alter ego Barry Allen c’è un buon attore come John Wesley Shipp, mentre Amanda Pays interpreta la dottoressa Tina McGee, una scienziata che conosce l’identità segreta di Allen e lo aiuta a controllare il suo superpotere. La serie – che segue, in prevalenza, gli stilemi del «fanta-action» di qualità medio-alta (anche per quel che riguarda gli effetti speciali) – è ambientata a Central City, dove il velocissimo supereroe aiuta la polizia locale a fronteggiare il crimine e, per conto proprio, si oppone alle mire di potere di alcuni supercriminali, come l’arcinemico Trickster (che ha il volto di Mark Hamill). Tra gli episodi più riusciti, va segnalato quello, raffinatamente metalinguistico, che propone il ritorno in scena del «superprotettore» di Central City prima di Flash, durante gli anni ’50: un eroe afroamericano che si fa chiamare «L’ombra della notte» (è tradotto proprio così il titolo originale «Ghost in the Machine»). A un certo punto, l’uomo, ormai piuttosto avanti con l’età, spiega al giovane Barry Allen il bello del loro «lavoro»: «L’emozione della notte, la paura della maschera dipinta sul volto dei criminali. Scusa, devo aver letto – si affretta, però, ad aggiungere, 104 con amara ironia – troppi fumetti di supereroi. Ma tu sai cosa voglio dire». E, in chiusura dell’episodio, cerca di far capire a un Flash sempre più sfiduciato quale può essere il modo più sano per gestire la sua doppia esistenza: «La maschera che indossi – gli dice – è solo un costume. Non ti rende un uomo migliore di quello che sei». Conta, insomma, chi si cela sotto quella maschera. Ormai, il notevolissimo miglioramento degli effetti speciali visivi, seguito all’avvento del digitale, permette di realizzare produzioni sempre più accurate dalle storie di supereroi: personaggi amati e conosciuti – quindi «vendibili» presso un ampio pubblico – che, grazie al progresso tecnologico, possono sperare in trasposizioni abbastanza fedeli delle loro imprese sovrumane. Per questo motivo, però, i migliori soggetti supereroistici approdano al cinema e non più in televisione: casi emblematici recenti sono quelli del cacciatore di vampiri Blade (id., 1998, di Stephen Norrington) e dei mutanti X-Men (id., 2000, di Bryan Singer), per tacere dell’attesissimo kolossal Spiderman (id., 2002) dedicato da Sam Raimi all’Uomo Ragno. «X-Files» e il fanta-horror anni ’90 Visioni fantastiche dagli anni ’80 La generazione di cineasti che, dalla seconda metà degli anni ’70, fa riemergere Hollywood dalla crisi che l’attanaglia, trova nei codici del genere fantastico lo strumento espressivo più efficace per realizzare un cinema intimamente legato al mondo circostante e che, al tempo stesso, riesca a catturare nuovamente gli spettatori puntando sul «sense of wonder» che pareva smarrito: grande spettacolo – favorito dagli enormi passi avanti negli effetti speciali e nelle tecnologie digitali – e maggiore coscienza del proprio ruolo nella società. Lungo tutti gli anni ’80, proprio il cinema horror e di fantascienza diventa preponderante all’interno della produzione hollywoodiana. Naturalmente, però, i film propongono innovazioni sostanziali rispetto al passato, dato che i generi «puri» non esistono più da tempo: dissolti, contaminati, trasformati irrimediabilmente. E il fantacinema americano del periodo va considerato una tra le espressioni artistiche postmoderne più compiute, per come miscela pratiche e modelli differenti e utilizza i meccanismi (dichiarati o meno) del sequel e del remake, perseguendo una serialità sempre più spinta; e, ovviamente, per come si fa metanarrativo, guardando con sempre maggiore insistenza, tra le altre cose, all’idea mitica di passato – in particolare gli anni ’50 e ’60 – ricostruita e tramandata proprio attraverso il cinema, i fumetti e la televisione. Ed è appunto «quel tipo» di passato – quando, secondo i cliché, gli Stati Uniti non avevano ancora perduto la propria innocenza – a coincidere col momento della formazione di gusti e coscienze della nuova generazione che va al potere a Hollywood: un folto gruppo di giovani 106 AI CONFINI DELLA REALTÀ dotati che, nei decenni ’80 e ’90, riversa sul grande e piccolo schermo le suggestioni metabolizzate trent’anni prima, quando i vari Steven Spielberg (nato nel 1947), George Lucas (1944), John Carpenter (1948), Joe Dante (1948), David Lynch (1946), George Romero (1940), John Landis (1950), Robert Zemeckis (1952), Chris Carter (1956), Tim Burton (1958) formano il proprio immaginario nutrendosi – come la maggior parte degli adolescenti cresciuti nei decenni ’50 e ’60 – di fumetti horror, riviste di fantascienza, pellicole di serie B, programmi televisivi come Ai confini della realtà, Thriller e The Outer Limits. È indicativa, in tal senso, la dichiarazione di George Romero resa a un intervistatore che gli chiedeva conto della predilezione verso il fanta-horror: «Sono un appassionato di questo genere fin da quando, ancora piccolo, leggevo avidamente un’enorme quantità di libri e di pulp, pieni di storie inverosimili e fantastiche. Così, appena ho potuto, ne ho fatto una delle mie ragioni di vita, mettendo il fantastico dentro i miei film» 1. Alla stessa generazione e, quindi, al medesimo humus culturale appartengono altre personalità di spicco della «Fanta-Pop Culture» degli anni ’80, come Stephen King e il fumettista Frank Miller. Anche nell’ambito della fiction televisiva, il decennio ’80 fa segnare un ritorno di fiamma – all’inizio piuttosto timido, per la verità – nei confronti del genere fantastico. Pure sul piccolo schermo, però, diventa quasi automatico guardare al passato, soprattutto a classiche serie antologiche come quelle prodotte da Rod Serling e Leslie Stevens. Esempi perfetti di quest’atteggiamento dei network (e degli autori!) sono due show del 1985: il deludente remake a colori di Ai confini della realtà (The Twilight Zone) – preceduto di due anni dall’omonimo (e altrettanto deludente) film in quattro episodi prodotto da Steven Spielberg – e Storie incredibili (Amazing Stories), ideato da Spielberg. Di questa seconda serie, la NBC manda in onda 45 episodi dal settembre 1985 all’aprile 1987, prima di abbandonare il progetto. Peccato, perché il «Re Mida» di Hollywood riesce a coinvolgere nella realizzazione tanti nomi di ottimo livello oltre a se stesso (che dirige due puntate e ne scrive diverse altre), sia tra i registi (Joe Dante, Tim Burton, Clint Eastwood, Tobe Hooper, Martin Scorsese, Robert Zemeckis, Paul Bartel) che tra gli interpreti (Harvey Keitel, Kevin Costner, Charlie Sheen, Drew Barrymore, Kiefer Sutherland, Patrick Swayze, tra i tanti) che, persino, tra gli autori delle musiche (John Williams, Jerry Goldsmith, Danny Elfman, Michael Kamen). Il successo della serie è buono, ma inferiore alle enormi aspettative dei vertici NBC: così, dopo due stagioni, Storie X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 107 incredibili è cancellato senza aver avuto, probabilmente, il tempo necessario per la definitiva esplosione. Gli episodi riusciti, comunque, sono diversi: su tutti, forse, spicca «The Mission» diretto da Spielberg e il celebre «Vanessa in the Garden» di Clint Eastwood. Nel primo, «The Mission», Kevin Costner è il comandante di un aereo americano impegnato durante un bombardamento nella seconda guerra mondiale: un incidente in volo imprigiona un suo uomo nella «pancia» del velivolo e costringe il capitano a una scelta terribile; per fortuna, sarà aiutato, in modo originalissimo, da un membro dell’equipaggio che di mestiere fa… il disegnatore di fumetti. «Vanessa in the Garden», poi, è un piccolo capolavoro – scritto dallo stesso Spielberg – e rappresenta l’ulteriore conferma della statura di Eastwood come regista: il protagonista Harvey Keitel interpreta un pittore al quale muore la moglie Vanessa, la sua modella preferita; l’uomo disperato smette di dipingere, finché scopre che, ogni volta che «fissa» l’amata consorte in un suo quadro, può farla tornare in vita. Qui, in particolare, appare davvero mirabile la fusione tra elementi fantastici e melodrammatici. Ben peggiori, invece, sono gli esiti artistici della nuova Ai confini della realtà, realizzata dalla CBS sotto la supervisione del produttore Philip DeGuere. Del telefilm vanno in onda 24 episodi da un’ora e 49 da mezz’ora, con diversi remake di puntate della serie originale. Il progetto fallisce miseramente, però, nonostante il coinvolgimento di un grande autore della fantascienza statunitense come Harlan Ellison (che, comunque, abbandona ben presto) e di alcuni ottimi registi come Wes Craven, Joe Dante, Atom Egoyan, John Milius, Peter Medak e William Friedkin. Proprio Friedkin, comunque, dirige magistralmente quello che è in assoluto il miglior episodio della serie, nonché uno tra i punti più alti della fiction televisiva fanta-horror degli anni ’80: «I serpenti della notte» («Nightcrawlers»), tratto da un tagliente racconto dello scrittore Splatterpunk 2 Robert McCammon, mandato in onda per la prima volta nel 1985 senza nessuno stacco pubblicitario. La storia inizia con un agitatissimo reduce del Vietnam, Price, in fuga notturna attraverso le «highways» americane: piove a dirotto, così l’uomo si rifugia in una stazione di servizio solitaria e mal frequentata. All’interno, quasi in preda a delirio, spiega ai pochi presenti di non potersi assolutamente addormentare, altrimenti le sue ossessioni di guerra si materializzerebbero intorno a loro. Ovviamente, l’esausto veterano non viene creduto, finché, per pochi secondi, chiude gli occhi: immediatamente, lo sgangherato locale è assaltato e messo a ferro e fuoco da orde di vietcong e persino il paesag- 108 AI CONFINI DELLA REALTÀ gio circostante del deserto americano si trasforma in una giungla tropicale, devastata da napalm ed esplosioni. Insomma, Price – forse perché alterato chimicamente nel corso della guerra – ha acquisito veri e propri poteri mentali che, però, non è in grado di controllare completamente: e proprio attraverso la sua psiche, dal suo interno quindi, gli orrori bellici si materializzano nella realtà quotidiana degli Stati Uniti. «I serpenti della notte» è un esempio perfetto delle enormi differenze esistenti tra la nuova serie di Ai confini della realtà e il ciclo classico di Serling. L’America è cambiata, nuovi orrori e inquietudini si fanno largo negli animi e nei luoghi, soprattutto un’inedita frattura ha segnato indelebilmente le coscienze della Nazione: la guerra del Vietnam. «Da un certo punto di vista – scrive Paul M. Sammon, in un’introduzione al racconto di Robert McCammon ispiratore del telefilm – questa storia è semplicemente un ulteriore esempio di proiezione di demoni interni, da un altro è una scomoda metafora dell’enorme colpa americana creata dal disastroso coinvolgimento degli Stati Uniti nell’Asia sudorientale» 3. L’episodio di Friedkin arriva pochi anni dopo i capolavori cinematografici sull’argomento – Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978) di Michael Cimino e Apocalypse Now (id., 1979) di Francis Ford Coppola – e quasi in contemporanea con il plurivincitore dell’Oscar Platoon (id., 1986) di Oliver Stone; è sorprendente, però, soprattutto il modo in cui anticipa le tematiche di quello che sarà, nel 1990, il miglior film diretto da Adrian Lyne, cioè il cupo e inquietante Allucinazione perversa (Jacob’s Ladder), straordinaria miscela di horror, film di guerra e apologo fantapolitico. Ma «I serpenti della notte» è importante principalmente per il modo in cui riesce a concentrare quasi tutti i temi portanti dell’horror letterario e cinematografico del decennio nel formato ristretto della short story. Molti archetipi narrativi sono mutuati, senza dubbio, da Stephen King (l’ambientazione quotidiana dell’America profonda, pronta per essere sconvolta dall’irruzione del soprannaturale) e John Carpenter (l’assedio da parte di un male senza volto e la difesa del proprio «fortino», come in tanti suoi film, a partire da Distretto 13 - Le brigate della morte, Assault on Precint 13, 1976). Tuttavia, il tormentato rapporto tra mente e corpo, con quest’ultimo che sfugge al controllo della prima, fa venire in mente buona parte del cinema di David Cronenberg, per esempio Scanners (id., 1981) e La zona morta (The Dead Zone, 1983), non a caso tratto dal romanzo omonimo di Stephen King; mentre la visione del corpo come allucinazione rimanda agli incubi suburbani prossimi venturi di I segreti di Twin Peaks e alla mancanza di certezze ontologiche di X-Files: che, tra X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 109 l’altro, in un episodio della seconda stagione, «Insonnia» («Sleepless»), riprenderà quasi alla lettera la trama di «I serpenti della notte», con un gruppo di reduci dal Vietnam sottoposti ad atroci esperimenti di manipolazione genetica che hanno provocato un’insonnia incurabile e la terribile capacità di evocare e rendere concreti gli incubi della guerra indocinese. Lo stesso tema, sempre in questi anni, è sorprendentemente al centro di un episodio quasi identico del fumetto horror «Hellblazer», realizzato dagli inglesi Jamie Delano e John Ridgway e pubblicato dalla divisione Vertigo della DC Comics. E, sempre in ambito fumettistico, non si può fare a meno di notare un riferimento piuttosto evidente – a partire dal titolo originale «Nightcrawlers» – a quella che è la serie di comics più letta del periodo, cioè «The Uncanny X-Men» (in Italia «Gli incredibili X-Men»): Nightcrawler, infatti, è il nome di uno dei personaggi più amati e popolari di un fumetto imperniato sulle drammatiche vicende di un gruppo di mutanti dotati di straordinarie capacità fisiche e/o mentali (proprio come il protagonista del telefilm di Friedkin); eroi e reietti al tempo stesso, gli X-Men sono costantemente in fuga da un’umanità che li teme e li disprezza, e sono costretti – al pari dei reduci del Vietnam negli Stati Uniti degli anni ’80 – a sentirsi come stranieri in casa propria. Quello del conflitto asiatico «è uno spettro che nasce immortale da una lesione profonda dell’anima americana e la cui invisibile presenza è in grado di far “continuare” la guerra sul suolo patrio, ormai invaso da demoniache e sordide presenze» 4. In ogni caso, come visto in precedenza, il «fanta-evento» della televisione seriale degli anni ’80 risale al 1987, quando fa il suo esordio – 21 anni dopo la serie originale – l’attesissima Star Trek - The Next Generation. Il successo del nuovo telefilm di Gene Roddenberry – assieme a quello inarrestabile di un numero sempre maggiore di pellicole hollywoodiane – fa sì che l’industria superi le proprie diffidenze verso il genere fantastico, anche per quel che riguarda i prodotti per il piccolo schermo (nonostante i risultati non esaltanti di Ai confini della realtà e Storie incredibili). Nel 1988, per esempio, Wes Craven porta nei tinelli delle case americane la sua più celebre creatura cinematografica orrorifica: il Freddy Krueger del ciclo di Nightmare. Il mostro con l’uncino, infatti, diventa protagonista della serie Freddy’s Nightmares (id.) che riesce ad andare in onda per 44 episodi nonostante i continui attacchi della critica, che la definisce «la più violenta della stagione televisiva 1989». Proprio come al cinema, il terribile Freddy (interpretato sempre da Robert Englund) continua anche in TV ad «animare» gli incubi degli 110 AI CONFINI DELLA REALTÀ adolescenti della tranquilla provincia americana, tra sogno e realtà, humour nerissimo e visionarietà splatter; cerca di contrastarlo, nella cittadina di Springwood, il tenente Blocker (Ian Patrick Williams). Alla regia dei vari episodi, con lo stesso Craven, si alternano diversi registi dell’horror hollywoodiano del periodo, come Tobe Hooper, Mick Garris, Renny Harlin, Tim Hunter. Nel 1992, sempre Wes Craven firma un nuovo progetto televisivo, più deludente, intitolato Nightmare Café (id.). E tre anni prima, delude a sua volta anche un’altra serie, nonostante sia ideata da cineasti del calibro di Richard Donner, Walter Hill e Robert Zemeckis, e parta dall’ottima idea di riprendere storie, suggestioni e persino il titolo di una celebre testata di fumetti horror degli anni ’50. Racconti di mezzanotte (Tales from the Crypt, 1989) va avanti per 93 episodi che spesso, però, si riducono a esercizi di stile e nulla più. È con l’inizio dei ’90, comunque, che si verifica – anche grazie all’approssimarsi del passaggio epocale dal secondo al terzo millennio, con le conseguenti ansie irrazionali derivanti dalla scadenza – la definitiva esplosione del fanta-horror a un livello di massa, con esiti quantitativi e qualitativi, pure in televisione, superiori persino a quelli pur notevoli dei decenni ’50 e ’60. La decade è degnamente inaugurata dalla rivoluzionaria e seminale «gemma oscura» di David Lynch e Mark Frost, I segreti di Twin Peaks, della quale si parla diffusamente in un successivo capitolo. Ma – dopo qualche precedente interessante pur se di breve durata, come Oltre la realtà (Beyond Reality, 1991; prodotto da Hans Beimler) e la «soap opera vampiresca» L’ombra della notte (Dark Shadows, 1991; prodotta da Dan Curtis, proprio come la serie originale omonima del 1966) – l’anno della vera svolta è il 1993, quando la Fox TV trasmette, all’inizio senza troppa convinzione, l’episodio pilota di uno strano serial intitolato X-Files. X-Files X-Files (The X-Files) va in onda per la prima volta il 10 settembre 1993, sul network Fox; in Italia arriva l’anno successivo, il 29 giugno 1994 su Canale 5. Oggi – giunto alla nona stagione e dopo il lusinghiero successo della versione cinematografica 5 – lo show creato da Chris Carter è molto più d’un semplice programma televisivo d’intrattenimento: si è trasformato, infatti, in autentico fenomeno della cultura popolare contemporanea, seguendo la scia dei «classici» del fantastico catodico. «È quasi come un sogno – racconta, a tale proposito, lo stesso X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 111 Carter – poiché non s’inizia a fare un lavoro con l’idea d’invadere la cultura popolare. Semplicemente accade, così com’è accaduto che X-Files abbia iniziato a ottenere un’influenza sempre maggiore sulle persone, o almeno una certa capacità di attrazione». Fin dalle prime puntate, Chris Carter miscela un cocktail irresistibile di thriller-noir, horror e fantascienza paranoide; e delinea, in modo netto, quello che sarà il tema portante della serie: il doppio complotto, extraterrestre e governativo. Il segreto obiettivo della cospirazione è, da un lato, arrivare alla creazione di una nuova razza ibrida alieno-umana da utilizzare per un’invasione silenziosa della Terra; dall’altro, celare all’opinione pubblica mondiale le prove della presenza extraterrestre, al fine di sfruttarne di nascosto le avanzatissime tecnologie (per scopi militari?), magari evitando l’asservimento del genere umano. Ovviamente, le cose non sono così lineari e – otto stagioni (è in programmazione la nona) e molti misteri dopo – tante domande aspettano ancora una loro risposta. Già nell’episodio pilota «Al di là del tempo e dello spazio» («The X-Files - The Pilot») e nel successivo «Il prototipo» («Deep Throat»), comunque, l’argomento UFO e quello della congiura occulta s’intrecciano tra loro in modo inestricabile. Ed è proprio la serie di Carter, tra l’altro, a far entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo di fine millennio la cosiddetta «Teoria del complotto», qui unita a una chiara vena antigovernativa che ha provocato contrastanti letture politiche di X-Files. Alieni a parte, infatti, è proprio il Governo degli Stati Uniti a portare avanti, nel telefilm, cospirazioni che sottintendono terribili atrocità e oscure manovre. Ma il serial rivela ben presto la poliedricità delle tematiche affrontate e, già con il terzo episodio, «Omicidi del terzo tipo» («Squeeze»), dimostra quanto siano vaste le fonti d’ispirazione a cui può attingere, iniziando a prendere spunto, pian piano, da tutti gli ambiti del fantastico, inteso come macrogenere narrativo (protagonista dell’episodio in questione è Eugene Tooms, una specie di mutante elastico divoratore di fegati). Il telefilm di Carter, insomma, fin dall’inizio si presenta «come il più pervasivo, dirompente episodio di divulgazione del credo terrifico che si ricordi a memoria d’uomo. […] Uno schedario del fantastico in formato catodico, un’antologia che rompe i confini del «terrore-come-genere» e trova la via per attivare anche le sinapsi terrifiche più sonnolente. Con il semplice linguaggio della persuasione, costruendo personaggi e scenari di rara credibilità, per i quali sarebbe difficile trovare degni concorrenti nell’epos della fiction televisiva americana» 6. È esemplificativo, in tal senso, il denso elenco dei bizzarri argomenti affrontati dalla serie: «Clonazioni extrater- 112 AI CONFINI DELLA REALTÀ restri, serial-killer che scelgono le vittime via Internet, fantasmi dall’aldilà in cerca di vendetta, treni che scompaiono nel nulla, uomini che leggono il futuro, diavoli di provincia, scarafaggi che uccidono, rapimenti alieni, teenager con poteri telecinetici, possessioni diaboliche, mostri in fondo al lago, esperimenti segreti sui piloti della seconda guerra mondiale. […] Assassini alieni invisibili, villaggi di provincia dediti a omicidi di massa, fotografie che rivelano i segreti della personalità, vittime ritrovate prive di pigmentazione cutanea, pericolosi culti religiosi, cliniche che praticano test su esseri umani, organismi vermiformi che si annidano nel cervello» 7. Secondo Franco La Polla, «X-Files riassume il magazzino dell’horror e della SF cinetelevisivi americani del passato, senza una linea riconoscibile, un’influenza precisa e identificabile» 8. E si spinge ancora più in là, nella sua lettura, Stefano Masi, per il quale «gli sceneggiatori di X-Files hanno a disposizione duemila anni e più di miti da rileggere e riversare dentro le loro storie, perché questo serial televisivo si è assunto il compito, quasi senza volerlo, di reinterpretare il cammino precedente dell’umanità, come tocca fare all’alba di ogni nuova epoca» 9. Quindi, cronaca e scienza, medicina e complotti politici, astronomia e genetica, Bibbia e ufologia, antiche maledizioni egizie e leggende tradizionali tibetane o Navajo: tutto ciò fornisce a X-Files infiniti spunti concreti, da rileggere all’insegna della fantasia. Le premesse d’ogni avventura, però, sono sempre scientificamente credibili e le ambientazioni e i «modi» della narrazione puntano su un registro realistico (il primo episodio, non a caso, si apre con la scritta: «Questa storia è ispirata a fatti reali e documentati», con rimando ideale allo storico poliziesco Dragnet); ma i punti d’arrivo – al contrario di ciò che accade nella maggior parte dei telefilm – non forniscono mai tutte le spiegazioni dei vari casi affrontati. La caratteristica strutturale della serie, infatti, fin dall’esordio, è la «non fine» degli episodi, il loro non essere mai conclusi, il non dare risposte, ma lasciare di ghiaccio, senza chiarire completamente ciò di cui si sta parlando. Le note inquietanti del tema musicale di Mark Snow, sui titoli di coda, non spazzano via i dubbi con finali esplicativi e consolatori; e, in tal modo, il pubblico è mantenuto in uno stato di tensione costante e priva di cadute, col materiale narrativo che continua a germinare tra una puntata e l’altra: insomma, è portato alle estreme conseguenze – e, al tempo stesso, rovesciato – l’escamotage seriale del cliffhanger. A un dirigente della Fox TV che gli chiedeva finali più espliciti, Chris Carter una volta rispose: «Non c’è nessun significato da capire! Il significato lo darà ognuno degli spettatori» 10. X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 113 Protagonisti di X-Files (che è il nome del dipartimento dell’FBI specializzato nei casi inspiegabili, catalogati appunto con una «X») sono due agenti speciali: Fox Mulder e Dana Scully, magistralmente interpretati da David Duchovny e Gillian Anderson; sempre alla ricerca della verità, che – come recita la frase di lancio dell’intero progetto – è là fuori. E la verità è davvero là fuori, in un fuori che vuol dire Aldilà, oltre il «dicibile»: per i due detective non c’è alcuna possibilità di dirla completamente, così come da parte degli autori non c’è la volontà di mostrarla con chiarezza attraverso le immagini. Fox Mulder, agente FBI, è laureato in psicologia ed è tra i detective più abili dell’intero Federal Bureau. Convinto che la sorella Samantha sia stata rapita dagli extraterrestri, crede nell’esistenza di forze paranormali ed è quasi certo che gli alieni controllino il nostro pianeta, forse aiutati dal Governo. Questo gli ha fatto guadagnare il soprannome di «Spooky» («spettrale»). Della sua vita privata non si hanno molte notizie: forse non ne ha una, tutto preso dal suo lavoro, nella speranza di scoprire qualcosa della sorella. Ha regolari rapporti personali soltanto con l’agente Dana Scully. Quest’ultima è laureata in medicina e, decisamente scettica rispetto alla questione UFO, non condivide le convinzioni del collega, nonostante sia stata a sua volta vittima di un misterioso rapimento (alieno?). All’inizio della serie è assegnata alla sezione «X-Files» con il preciso compito di controllare l’agente Mulder, forte del suo scetticismo (i due incarnano, rispettivamente, fede e ragione). Il rapporto tra gli agenti speciali è rivoluzionario, nell’ambito della fiction seriale televisiva, perché per molto tempo esclude programmaticamente «derive» sentimentali e sessuali: Mulder e Scully, infatti, contraddicono la prima legge non scritta dei telefilm «di coppia», secondo la quale i protagonisti di sessi diversi, prima o poi, finiscono a letto insieme. Carter, invece, segue una strada originale, anche se – con il passare degli anni – la caratteristica ambiguità e la disarmante ironia del rapporto tra Mulder e Scully si perde per strada, fino alla sorprendente gravidanza di Dana e alla rivelazione romantica che chiude l’ottava stagione, rendendo esplicita la storia d’amore tra i due. Naturalmente, nel corso delle varie stagioni, tante altre premesse della serie saranno completamente stravolte, poiché in X-Files la continuity è sempre in evoluzione, così come le esistenze dei personaggi stessi. I due protagonisti sottostanno alla supervisione del vicedirettore Walter S. Skinner (l’attore Mitch Pileggi), che fa la sua prima apparizione soltanto nel ventesimo episodio, «Creatura diabolica» («Tooms»), ma acquista sempre maggiore importanza man mano che lo show va avan- 114 AI CONFINI DELLA REALTÀ ti. Almeno un paio di volte, Skinner è costretto dai suoi superiori a chiudere il dipartimento «X-Files», ma lo riapre di sua iniziativa e, nonostante non condivida i metodi un po’ bizzarri di Mulder, spesso s’adopera per aiutarlo. Fino alla settima stagione – l’ottava porta, infatti, enormi cambiamenti – il misteriosissimo villain della serie è «L’uomo che fuma» («Smoking Man»), figura inquietante e sinistra che compare già nel pilot, senza dire una sola parola (la sua voce si sentirà, per la prima volta, nel già citato ventesimo episodio «Creatura diabolica»). Carter ha dichiarato che intendeva sin dall’inizio mantenere viva l’enigmaticità del personaggio interpretato da William B. Davis, e che non avrebbe mai creduto che negli episodi successivi questi sarebbe arrivato a parlare tanto. Si tratta di un uomo dal grande potere, ambiguamente collocato tra le alte gerarchie dei servizi segreti, dai mai chiariti rapporti con Mulder, Scully e gli «X-Files». In alcuni episodi, non senza una punta d’ironia, Carter suggerisce addirittura che intere trame della storia statunitense e mondiale dell’ultimo trentennio recano la sua firma. Già al termine del pilot, comunque, «L’uomo che fuma» dà un’idea chiara di quanto sia potente e pericoloso: si reca, infatti, in uno sterminato deposito sotterraneo dell’FBI, dove nasconde l’unica prova dell’indagine appena conclusa da Mulder e Scully, su uno scaffale che – come si evince appena l’inquadratura si allarga – è affiancato da centinaia di altri simili, tutti strapieni di reperti «top secret». Dopo che se ne sono scoperte origini e motivazioni, «Smoking Man» muore drammaticamente al termine della settima stagione, anche se – come ama dire spesso lo stesso Chris Carter – «nulla è certo o definitivo nell’universo di X-Files». È decisamente interessante, poi, anche la scelta di ambientare le avventure degli agenti Mulder e Scully in località spesso periferiche degli Stati Uniti, con prevalenza di cittadine di provincia situate negli sterminati stati interni della grande Nazione: anche in ciò – oltre che nell’atmosfera generale di onnipresente mistero in cui sono immerse le trame – è esplicito il rimando a I segreti di Twin Peaks di David Lynch, d’altra parte omaggiato con chiarezza e onestà fin dall’episodio pilota. In «Al di là del tempo e dello spazio», infatti, la coppia di protagonisti si trova a indagare su una serie di misteriosi rapimenti alieni che si verificano a Bellefleur, una piccola cittadina dell’Oregon nord-occidentale, nei pressi del confine canadese: proprio dove Lynch, cioè, piazza la sua immaginaria Twin Peaks. E il contesto ambientale è quasi identico: con boschi che circondano minacciosamente il caseggiato e che, in entrambi i casi, celano il miste- X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 115 ro; con sguardi ostili e diffidenti verso gli «stranieri»; con orrori che strisciano subdolamente, sia per Lynch che per Carter, all’interno di famiglie insospettabili (quella di Laura Palmer e del detective Miles e di suo figlio Billy). D’altra parte, per quello che all’inizio è il target di riferimento dello show – cioè un pubblico giovane, di cultura e ceto sociale medio-alto, residente soprattutto nelle grandi città, come tutti gli americani non troppo interessato a ciò che accade nel resto del mondo – buona parte del fascino della serie risiede proprio nell’esotismo di località come la citata Bellefleur (Oregon), Ellens (Idaho), Sioux City (Iowa), Townsend (Wisconsin) o Raleigh (North Carolina), volendone citare solo alcune dai primi episodi. E poi, proprio l’interno degli Stati Uniti – nella finzione come nella realtà – è da sempre perfetto ricettacolo per sette religiose ultra-ortodosse, milizie militari indipendentiste, misteri innominabili celati dal deserto americano (uno per tutti, per restare proprio in tema UFO, la famigerata base militare «top secret» denominata «Area 51» che sarebbe situata in una remota zona del Nevada). Sempre per ciò che concerne le ambientazioni, va sottolineato come il particolarissimo look della serie debba molto, per le prime cinque stagioni, alla scelta di girarla a Vancouver, in Canada: dal sesto anno in poi, invece, il telefilm è realizzato a Los Angeles, con evidenti mutamenti tecnico-produttivi ma anche estetici. Dopo le prime stagioni di «assestamento» – con tanti episodi di grande interesse e ottima qualità, comunque – quella che è definita «mitologia» della serie inizia a emergere con maggiore chiarezza e continuità nel corso della terza stagione. Questa si apre con un’agghiacciante sequenza di episodi che s’aggancia a quello conclusivo dell’anno precedente – la saga, in tre parti, si intitola significativamente «Il file da non aprire»: in originale «Anasazi», «The Blessing Way», «Paper Clip» – e cala gli spettatori nel cuore stesso della cospirazione rivelando che: esiste un misteriosissimo Consorzio (del quale fa parte «L’uomo che fuma») che agisce nell’ombra, probabilmente in combutta con diversi governi mondiali, con lo scopo di controllare gli esperimenti di ibridazione alienoumana, sfruttando persino le ricerche compiute dagli scienziati nazisti nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale; il padre di Mulder, Bill (a sua volta agente FBI), ha avuto un ruolo di primo piano in questo progetto, è amico di vecchia data di «Smoking Man» e proprio i suoi compiti sono all’origine del rapimento della figlia Samantha; in un immenso archivio sotterraneo, si nascondono le prove della schedatura genetica della popolazione statunitense, effettuata con il pretesto di ope- 116 AI CONFINI DELLA REALTÀ razioni di vaccinazione di massa; Dana Scully, infine, scopre di avere un microchip nel collo, impiantatole durante un precedente sequestro. La svolta è significativa, soprattutto perché proprio il personaggio interpretato da Gillian Anderson perde gran parte dello scetticismo degli inizi e, dopo i traumatici eventi, si lascia coinvolgere sempre di più dalla «visione» di Mulder (e sempre più intimamente, dato che l’anno dopo, nel bellissimo episodio «Il male oscuro», «Memento Mori», Scully scopre addirittura che l’innesto del chip le ha procurato – come a tante altre donne che hanno subito la sua stessa sorte – un misterioso cancro apparentemente incurabile: la malattia che ogni anno uccide più americani fa irruzione nella serie, in modo clamoroso e dolorosissimo). Fox Mulder e Dana Scully lavorano all’interno dell’FBI, ma sono costretti a lottare contro questa stessa istituzione, corrotta come tante altre, persino ai suoi vertici. E il reiterato senso d’accerchiamento – crescente nel corso della quarta stagione – non fa che cementare ulteriormente il rapporto tra i due. Ormai, non ci si può fidare più di nessuno – e proprio «Trust No One» è tra i più significativi slogan della serie – dato che bene e male sono praticamente indistinguibili. Rispetto alla fantascienza paranoide degli anni ’50, la maggiore differenza sta proprio nel modo in cui viene descritta l’autorità costituita: non più semplicemente ottusa e cieca verso il pericolo strisciante proveniente dall’esterno («From Outer Space»), ma corrotta e forse addirittura indirizzata da infiltrati alieni mimetizzati al suo interno. L’invasione non può essere fermata, semplicemente perché è già avvenuta; l’ibridazione tra alieni e umani sembra un processo irreversibile: da questo punto di vista, appare esplicito il riferimento allo spirito di uno tra i film americani più eversivi degli ultimi decenni, cioè Essi vivono di John Carpenter. La mancanza di certezze domina su tutto e rende X-Files uno dei «termometri» più sensibili per catturare la temperatura emozionale della società statunitense contemporanea, ancora di più dopo l’atroce atto terroristico dell’11 settembre 2001, che ha cancellato le torri gemelle del World Trade Center, fatto migliaia di vittime ed eliminato per sempre la sola sicurezza che restava agli americani: quella dell’inviolabilità delle proprie metropoli da parte di un nemico esterno. In un periodo di crisi come quello attuale, dunque, la «creatura» di Chris Carter si carica di valenze metaforiche. I nemici non hanno un volto né un nome e nemmeno le leggi della fisica arrivano in soccorso dei due sempre più isolati protagonisti; persino la percezione dei corpi, in XFiles, diventa incerta e relativa. Chiunque, infatti, può essere rapito e X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 117 sottoposto inconsapevolmente a innesti o esperimenti agghiaccianti che ne violano la corporeità (così come fanno le ricorrenti autopsie); molti extraterrestri, poi, mutano aspetto e sesso in continuazione, spesso sono persino privi di una propria faccia; gli stessi alieni che si vedono in diversi episodi, sono sempre inquadrati in penombra, lasciando vivo il dubbio sulla loro identità di creature non del nostro mondo oppure risultanti da ibridazioni genetiche mal riuscite; sotto pelle, nelle cavità orali o negli occhi, può nascondersi il terribile «cancro nero» di origine aliena o altri virus sconosciuti e pronti a devastare i corpi ospiti. Tutto ciò appare ancora più terribile perché avviene all’interno di scenari assolutamente quotidiani, tra le strade notturne delle metropoli, in isolate fattorie degli Stati interni, proprio mentre la vita «normale» scorre inconsapevole e quasi monotona. Nel corso della quinta stagione Carter prepara il terreno per il primo film cinematografico tratto da X-Files (X-Files - Il film, The X-Files: Fight the Future, 1998, di Rob Bowman) e, allo stesso tempo, sperimenta sempre più spesso con autentiche «divagazioni» intorno alla struttura tradizionale del telefilm. Si spiegano in questo modo alcuni episodi originali e molto belli come, per esempio, «Prometeo postmoderno» («Post Modern Prometheus»; sceneggiato e diretto proprio da Chris Carter) – un malizioso e sentito omaggio, in bianco e nero, al mito di Frankenstein – o «Chinga» (id.) e «Intelligenza artificiale» («Kill Switch»), scritti rispettivamente da due «big» del fantastico come Stephen King e William Gibson. Tra le due puntate, entrambe di buon livello, si lascia preferire quella ideata da Gibson. Lo scrittore cyberpunk 11, infatti, con la collaborazione di Tom Maddox (i due scriveranno anche un episodio della settima stagione: «High Tech», «First Person Shooter»), riesce a fondere alla perfezione le proprie ossessioni tematiche con il contesto e le atmosfere di X-Files, coinvolgendo gli agenti speciali Mulder e Scully in un caso imperniato sulla morte di un genio del computer e sul tentativo da parte della sua creatura informatica di prendere vita: l’indagine si sviluppa tra la nostra realtà e i cupi scenari virtuali tipici di tanta produzione gibsoniana; l’episodio provvede, inoltre, a colpire gli spettatori con un paio di sequenze nelle quali a Mulder vengono tagliate braccia e gambe (naturalmente nella realtà virtuale). La puntata scritta da Stephen King, invece, è tutta incentrata su una bambola assassina che riesce a fare in modo che le sue vittime si uccidano da sole: anche qui, ritornano – forse un po’ banalizzati, però – tanti temi cari allo scrittore del Maine. Al cinema, Mulder e Scully arrivano «traumatizzati» da una nuova 118 AI CONFINI DELLA REALTÀ chiusura degli «X-Files», nonché travolti da altre rivelazioni sconcertanti sulla cospirazione alieno-governativa. Per buona parte della sesta stagione, poi 12, sono ancora fuori dalla sezione «X», sostituiti dagli agenti Diane Fowley (Mimi Rogers) e Jeffrey Spender (Chris Owens): la prima è un’ex «fiamma» di Fox, il secondo scoprirà d’essere il figlio del famigerato «Smoking Man». Al termine della settima stagione – aperta con la rivelazione di presunte origini aliene di Mulder e «animata» pure dalle continue incursioni dell’ambiguo doppiogiochista Alex Krycek (interpretato da Nicholas Lea) – sembra, invece, che il cerchio sia destinato a chiudersi, anche perché David Duchovny si dice stanco del ruolo di Fox Mulder e manifesta l’intenzione di abbandonare la serie per lavorare con maggiore regolarità sul grande schermo. Così, il bellissimo episodio conclusivo dell’annata, «Requiem» (id., scritto da Chris Carter e diretto da Kim Manners), riporta i personaggi sui luoghi della prima storica avventura: a Bellefleur, Oregon. Qui, gli agenti Mulder e Scully ritrovano i ragazzi rapiti dagli alieni sette anni prima, con in testa Billy Miles, il figlio dello sceriffo locale: il giovane sarà nuovamente portato via dagli extraterrestri, ma stavolta a fargli compagnia ci sarà addirittura Fox Mulder. Contemporaneamente, Krycek assassina «L’uomo che fuma» e Dana Scully, sterile, scopre di essere misteriosamente incinta: al termine dell’episodio, l’ex scettica e il vicedirettore Skinner – entrambi sono stati testimoni del rapimento alieno di Mulder e adesso, finalmente, «hanno visto» – giurano solennemente che ritroveranno il loro collega. Il cataclismatico finale rappresenta un autentico shock (l’ennesimo!) per gli spettatori americani (ma non solo), dato che Duchovny è di gran lunga l’interprete più popolare e amato del telefilm. La sua scomparsa, però, apre nuove possibilità di sviluppo per X-Files, anche se per molti fan della prima ora «lo spirito originale della serie è andato perduto irrimediabilmente». L’inizio della stagione numero otto, comunque, chiarisce immediatamente le intenzioni di Carter, fin dall’episodio d’esordio «Arrivare» («Within»): un nuovo attore affianca Gillian Anderson e la sua sola presenza serve per ridefinire le coordinate dell’intera serie. Si tratta del carismatico Robert Patrick – già notissimo come iper-tecnologico villain di Terminator 2 - Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment Day, 1991, di James Cameron) – che interpreta l’agente speciale John Jay Doggett. Adesso è Scully a incarnare la fede, mentre Doggett le oppone analisi razionali molto spesso smentite dai fatti. Nel corso della stagione, Mulder riappare e – nel crescendo inarrestabile che porta al travagliato parto di Scully – la coppia diventa trio, X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 119 con magnifiche e inedite possibilità drammaturgiche per la serie, sfruttate al meglio anche grazie all’ottimo livello dei tre interpreti. I due episodi che concludono l’ottava serie – «Essence» (id.) ed «Existence» (id.), scritti da Chris Carter e diretti da Kim Manners – sono imperniati addirittura su un quintetto di protagonisti, grazie alla presenza sempre più centrale del vicedirettore Skinner e al ritorno in scena dell’agente speciale Monica Reyes (Annabeth Gish), personaggio che entra nel cast regolare dalla stagione successiva. Dana Scully è soltanto una donna impaurita, quasi certa d’essere in procinto di mettere al mondo un mostro, un alieno o chissà cos’altro; John Doggett, ormai pienamente coinvolto dal punto di vista emotivo e professionale, è il partner affidabile che chiunque vorrebbe avere; Fox Mulder cerca in tutti i modi di salvare la «sua» Dana e il bimbo che porta in grembo, dato che gli alieni vorrebbero impedirne la nascita perché il piccolo potrebbe essere l’unico in grado di fermare la loro invasione della Terra. L’atmosfera è di messianica attesa – nella notte spunta anche una cometa, che conduce Mulder da Scully – e la paura per ciò che sta per accadere aumenta. Nel bellissimo finale, però, Dana dà alla luce un bambino apparentemente normale (fino a futura prova contraria, almeno) e, nella romantica e struggente sequenza conclusiva, bacia finalmente il «suo» Fox e, con lui, guarda in faccia per la prima volta la verità: a far davvero paura agli indomiti agenti era soltanto l’evidenza dei reciproci sentimenti; i due si amano e il neonato – normale o no, alieno o umano (o, forse, primo della nuova razza ibrida) – è loro e di nessun altro. Si tratta, probabilmente, del turning point tanto temuto dai fan della prima ora; dell’addio dei personaggi alla serie, dato che, nel frattempo, anche Gillian Anderson manifesta la volontà di abbandonare il telefilm al quale deve la propria fama. Dalla nona stagione – come conferma il produttore esecutivo Frank Spotniz – «X-Files diventa una nuova serie, da molti punti di vista». Sui casi contrassegnati dalla «X» continuano a indagare soprattutto John Doggett e Monica Reyes, mentre fanno il loro ingresso nel cast nuovi personaggi interpretati da Cary Elwes (nel ruolo del vicedirettore Brad Follmer, parigrado di Skinner e, in passato, fidanzato dell’agente Reyes) e dall’ex protagonista di Xena - Principessa guerriera (Xena: Warrior Princess, 1995) Lucy Lawless. La nona stagione ruota attorno al mistero del neonato di Scully e gli stessi cambiamenti nella composizione del cast regolare portano, comunque, lo show a guardare verso direzioni inedite: «Per far percepire al pubblico un certo senso di freschezza 120 AI CONFINI DELLA REALTÀ rispetto al passato», precisa ancora Spotniz. Il «disegno» di Chris Carter e del suo team, probabilmente, è quello di ripercorrere la strada seguita da Star Trek dopo il 1987: la Next Generation in televisione e i personaggi classici in avventure realizzate per il cinema. D’altra parte, sia Duchovny che la Anderson hanno dato piena disponibilità a riprendere i loro personaggi in versioni per il grande schermo. L’impatto di X-Files sulla televisione statunitense è stato devastante e ha modificato per sempre il modo di realizzare fiction seriale di genere fantastico. Se molti appassionati hanno notato differenze qualitative minime tra il primo film per il cinema e gli episodi televisivi, è per l’elevato livello visivo di questi ultimi, inusuale per i prodotti catodici: nebbie, ombre, violenti tagli di luce, sequenze notturne, effetti speciali sempre più sofisticati e una fotografia «contrastata» di livello cinematografico rendono lo stile della serie davvero unico nel panorama televisivo mondiale. Inevitabilmente, però, l’enorme successo che rilancia il fanta-horror anche in TV produce come risultato, per tutti gli anni ’90, la nascita di numerosi telefilm che assumono come modello di riferimento proprio la «creatura» di Chris Carter. Il fanta-horror dopo «X-Files» Nel 1996, per esempio, i produttori Bryce Zabel e Brent Friedman creano per la NBC – ansiosa di contrastare X-Files della Fox – un telefilm che sembra avere tutte le carte in regola per entrare nei cuori degli appassionati: Dark Skies - Oscure presenze (Dark Skies). L’argomento, come per lo show di Chris Carter, è ancora una volta l’invasione «silenziosa» da parte degli alieni; e, ancora una volta, protagonisti della serie sono due giovani agenti governativi di sesso diverso, coinvolti in trame occulte; la colonna sonora, inoltre, è composta dal riconoscibilissimo Mark Snow. Tanto basta per segnare il destino del progetto, nonostante differenze piuttosto evidenti tra i due telefilm. La critica americana, infatti, fa letteralmente a pezzi Dark Skies, che diventa oggetto di un vero e proprio boicottaggio, persino da parte del network che lo programma: così, anche se originariamente articolata lungo cinque stagioni, la serie viene mandata in onda per soli 18 episodi, tra l’altro sempre trasmessi in modo discontinuo e poco razionale. Peccato, perché il serial della NBC mostra subito un buon livello qualitativo e indubbie potenzia- X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 121 lità; e, soprattutto, non merita di essere ridotto a semplice «clone» di XFiles. La struttura temporale del telefilm di Zabel e Friedman, innanzitutto, è decisamente più complessa e articolata rispetto a quella delle avventure di Mulder e Scully. L’azione, infatti, inizia nel 1961 e – nel corso delle cinque stagioni che erano state messe in preventivo – si sarebbe dovuta concludere soltanto il 31 dicembre 1999, dopo aver percorso quasi quarant’anni di storia degli Stati Uniti, con molti celebri episodi «riletti» in linea con lo spirito «fanta-paranoide» della serie. Addirittura, attraverso diversi flashback, la trama di Dark Skies parte dal 1947, anno del mitico «UFO Crash» di Roswell, nel New Mexico. Anche i personaggi principali mutano, maturano, invecchiano molto di più rispetto a quanto accade di solito nella fiction televisiva a puntate. Protagonisti sono John Loengard e Kim Sayers (interpretati da Eric Close e Megan Ward), due giovani californiani che nel 1961 decidono di trasferirsi a Washington, al termine del college, per sperimentare da vicino la «Nuova Frontiera Americana» di John F. Kennedy. Nella capitale – dove Kimberly trova lavoro presso l’ufficio della First Lady, Jackie – si trovano ben presto coinvolti, però, nel segretissimo progetto governativo denominato «Majestic-12», dal nome dell’organizzazione occulta istituita dal presidente Truman nel 1947, dopo i fatti di Roswell. Alla guida del gruppo «MJ-12» c’è il capitano Frank Bach (J.T. Walsh), pronto a occultare ogni prova della presenza extraterrestre e guidato da una grande ambizione. All’improvviso, dunque, la speranza e la fiducia nel futuro da parte della giovane coppia svanisce, la realtà inizia ad apparir loro totalmente diversa da quella che credevano di conoscere: gli alieni esistono, sono ostili e si preparano alla colonizzazione della Terra, magari proprio con l’aiuto dei governi terrestri. L’episodio pilota «Majestic-12» («The Awakening») – costato quasi cinque milioni di dollari e diretto da Tobe Hooper – ricostruisce ottimamente l’atmosfera dell’America kennediana d’inizio «Sixties», il cui spirito è ben presente nei due ingenui protagonisti. «Kimberly Sayers e John Loengard – spiega uno dei due produttori esecutivi, Brent Friedman – incarnano l’innocenza degli anni ’60, e partono per un viaggio nel corso del quale la perderanno, esattamente come è accaduto agli Stati Uniti a quell’epoca.» 13 Entra maggiormente nei dettagli l’interprete di John Loengard, cioè Eric Close: «All’inizio, dovevo conferire al mio eroe un’aria fiduciosa, ingenua, squisitamente kennediana. Loengard non conosce quasi nulla di ciò che lo attornia, ma impara in fretta… A Washington però i suoi sogni si frantumano in mille pezzi, quando scopre la verità 122 AI CONFINI DELLA REALTÀ sulle cospirazioni, le menzogne e i presunti incidenti. Nell’episodio pilota, la realtà che crede di conoscere si ribalta davanti ai suoi occhi, e così John diviene sempre più duro, più cinico, più disincantato» 14. Tutto muta a partire dall’abduction (il rapimento alieno) di cui resta vittima Kimberly, alla quale viene impiantato in testa un dispositivo di controllo mentale a distanza: la ragazza sopravvive all’esperienza del terzo tipo e, una volta riuscita a rimuovere lo strano aggeggio, sviluppa persino poteri telepatici che le permettono di percepire l’ingerenza aliena nella mente di altre persone. Proprio lanciandosi alla ricerca della compagna, John Loengard inizia a spalancare, una dopo l’altra, le tante porte che celano la verità nascosta dietro la facciata della «Storia ufficiale»: da Roswell all’assassinio di Kennedy, dalla guerra del Vietnam allo scandalo Watergate, per citare soltanto gli eventi più radicati nell’immaginario dell’americano medio. Di conseguenza, nel corso della serie, fanno la loro apparizione diversi personaggi storici famosi, tra cui lo stesso JFK, suo fratello Bob, Jack Ruby, i Beatles, Allen Dulles, Colin Powell, Norman Schwarzkopf. Com’è facile comprendere, insomma, la serie vanta parecchi motivi d’interesse – tra cui anche il buon livello della recitazione e la notevole fattura complessiva della confezione – e, probabilmente, col procedere delle stagioni, avrebbe potuto esprimere in pieno le sue potenzialità. Forse, però, Dark Skies è concepito fin dall’inizio come «troppo colto» per sperare di ottenere il successo che, invece, ha arriso a X-Files: l’elaborata struttura cronologica, la raffinata ma provocatoria rilettura della storia americana, i personaggi troppo umani per gli standard della televisione commerciale rappresentano altrettanti ostacoli per un pubblico sempre in cerca di rassicuranti certezze e che rifugge istintivamente dalle novità e dal rischio. Inoltre, è anche possibile che il telespettatore occasionale si sia trovato disorientato di fronte alle tante parole-chiave che attraversano gli episodi: un autentico glossario specialistico con termini come «Paziente zero» (un contadino che, nel corso di un’autopsia nel 1962, presenta un ganglio alieno nella bocca: prima prova dell’invasione in corso), «ART» (la tecnica per rimuovere i gangli, simbionti alieni, dagli umani), «Progetto Blue Book» (varato dal Governo per fronteggiare i tanti avvistamenti, civili e militari, di UFO durante gli anni ’50), «Hive» (in italiano «L’Alveare», a indicare le capacità di comunicazione telepatica degli extraterrestri). In ogni caso, l’originalità della serie è fuori discussione; anche rispetto a X-Files le differenze sono sostanziali. I presupposti di partenza dei due telefilm, addirittura, sono agli antipodi: mentre Chris Carter X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 123 lascia solo intravedere una verità sempre incerta e al massimo la svela pian piano nel corso delle stagioni (la presenza aliena sulla Terra e le connessioni con i governi mondiali), Bryce Zabel e Brent Friedman la mostrano fin dall’inizio come qualcosa di certo e come il motore stesso per lo svolgimento della trama; inoltre, se in X-Files i personaggi sono il cuore dell’intero progetto, in Dark Skies essi sono funzionali all’analisi degli eventi che si trovano a dover fronteggiare di volta in volta. La prematura chiusura di Dark Skies, comunque, ha fatto nascere agguerriti fans club in giro per il mondo e non è escluso che la loro pressione continua possa convincere, prima o poi, i vertici della NBC – o, più realisticamente, quelli di una Cable Television dalla programmazione più «mirata» – a dare una nuova chance a un telefilm intelligente che ha dimostrato abbondantemente di meritarla. Un altro serial fanta-horror che – in maniera ancor più diretta – deve la sua stessa esistenza al successo di X-Files è Millennium (id., 1996), creato e prodotto proprio dal «papà» di Mulder e Scully, e in onda sempre su Fox TV dal 25 ottobre 1996. Col suo nuovo titolo, Chris Carter decide di oltrepassare qualsiasi limite imposto dalla televisione, dal punto di vista visivo e contenutistico, estremizzando le caratteristiche dello show che gli ha dato la fama. Stavolta, lo sceneggiatore-produttore non vuole parlare più di UFO e complotti governativi, bensì di serial killer e attese millenaristiche di una nuova era, che coinciderebbe con il passaggio dal secondo al terzo millennio: si capisce bene, dunque, l’abilità con cui Carter «sfrutta» artisticamente e commercialmente le ansie irrazionali crescenti un po’ dovunque, nel periodo. L’idea-guida di Millennium, ancor più che in X-Files, è: nessuno può sentirsi al sicuro. A opporsi a criminali che sembrano uccidere senza altro scopo che non sia la dimostrazione dell’esistenza del male nel mondo, ci sono i membri di una misteriosa organizzazione che risale addirittura ai primordi del Cristianesimo, il Gruppo Millennium, rimesso in piedi durante la seconda guerra mondiale dall’allora capo dell’FBI J. Edgar Hoover, con la collaborazione di un ristrettissimo nucleo di agenti segreti. Protagonista assoluto della serie, però, è Frank Black (che ha il volto tagliente e inconfondibile di Lance Henriksen), un ex agente FBI con il dono – o, come ripete egli stesso, «la condanna» – di calarsi direttamente nel cuore del male, riuscendo a «vedere» attraverso gli occhi degli assassini. In Millennium il male non coincide più con perversioni politiche o complotti come in X-Files, ma diventa autentica «metastasi» – e, in quanto tale, inspiegabile – che dimora negli angoli meno visibili di una società 124 AI CONFINI DELLA REALTÀ sempre più schizofrenica e che divora dall’interno l’animo umano. Tale impostazione è tipica di quasi tutti i film e romanzi del periodo, imperniati sulla figura del serial killer. Ma, come nota lo scrittore Valerio Evangelisti in un suo approfondito e polemico saggio sull’argomento, il rischio connesso è quello di rifiutare di capire. «Non si tratta, a ben guardare, di una rivisitazione – scrive Evangelisti – delle tematiche esplorate decenni fa da Robert Bloch, in romanzi a giusto titolo memorabili. Per lo più i risvolti psicologici sono scomparsi o si sono fatti marginali: al centro delle storie stanno ora le inenarrabili atrocità compiute dal mostro, che è tanto più mostro quanto più le sue azioni appaiono insensate. Una sorta di grottesco insetto omicida che, acquattato nelle pieghe della società, è destinato a essere, più che neutralizzato, schiacciato» 15. Al termine della sua lunga escursione critica su quest’aspetto della percezione dell’incubo americano, il creatore dell’inquisitore Nicolas Eymerich cerca di isolare alcune cause in grado di spiegare, almeno in parte, l’indubbio proliferare del serial killer nella cultura e nella società statunitensi a cavallo tra secondo e terzo millennio: le imposizioni dell’etica protestante come «pensiero unico», l’ipercompetitività sociale assurta a cieco dogma, la frammentazione della famiglia a partire da un ruolo materno sempre più «insidiato», il disprezzo per il perdente e il diritto del cacciatore propagandati come suggestivi modelli di vita. Gli intenti di Millennium, tuttavia, sono altri; e rimandano inevitabilmente a seminali capolavori cinematografici del genere come Manhunter - Frammenti di un omicidio (Manhunter, 1986) di Michael Mann, Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991) di Jonathan Demme e Seven (Se7en, 1995) di David Fincher, con i primi due tratti a loro volta dai fondamentali romanzi di Thomas Harris. Il male – in queste pellicole come nel telefilm di Carter – è contemporaneamente dentro e fuori la società, terribilmente concreto e in grado di provocare dolore appena entra in contatto col resto di un contesto sociale subito più che realmente vissuto: è un male che giudica e che, magari, si rifà a una personalissima lettura della Bibbia per dare motivazione alle proprie azioni. La terribile concretezza di questo male è ben restituita, in Millennium, dalle fitte lancinanti che sconvolgono Frank Black ogni volta che cerca di entrare nelle menti degli assassini: per questo motivo, tra l’altro, una tra le più grandi preoccupazioni del personaggio deriva dalla consapevolezza che anche la figlioletta Jordan (Brittany Tiplady) possa essere dotata del suo stesso «dono». La trama prende il via quando Black – ex agente dell’FBI specializzato in omicidi seriali, ma che ha lasciato il servizio e si è trasferito nella «sua» X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 125 Seattle dopo misteriose minacce di morte rivolte alla moglie Catherine (Megan Gallagher) e alla figlioletta – decide di tornare in azione e d’iniziare a collaborare con il misterioso Gruppo Millennium, per provare a risolvere una serie di atroci delitti connessi, secondo lui, con la svolta epocale del Duemila. L’ambiente ricorrente nel quale Black agisce è malsano, cupo, umido: buio, pioggia, fioche luci al neon di una metropoli che sembra in procinto di disgregarsi; e poi, improvvisi «squarci» del «profondo rosso» di una violenza apparentemente cieca e che, invece, potrebbe rispondere a un disegno più ampio e perverso. È indicativo, dunque, oltre al commento sonoro del «solito» Mark Snow, il modo in cui il direttore della fotografia Robert McLachlan accentua la dicotomia tra l’oscura esistenza esterna dell’ex agente federale e i toni giallo pastello della sua abitazione-rifugio: «più Black si allontanerà da casa sua – spiega McLachlan –, dipinta di giallo per accentuare la solarità che vi regna tutt’attorno, più si troverà avvolto dalle tenebre e da coloro che difficilmente colpiscono alla luce del sole» 16. Proprio l’indirizzo privato dell’agente Black offre l’opportunità per sottolineare un’altra interessante caratteristica di Millennium: l’ossessiva presenza di citazioni tratte dalla Bibbia (la casa, per inciso, si trova al numero 1910 di Ezechiel Drive, con chiaro riferimento ai minacciosi versi 19,10 del Libro di Ezechiele: «Tua madre è radicata nel tuo sangue come una vite nel fiume. Era feconda di frutti e rigogliosa di rami grazie a cotanta acqua»; allusione ai pericoli incombenti su Catherine e Jordan, conseguentemente al «dono» di Frank). Soprattutto durante la prima stagione del telefilm, la Bibbia è considerata – scrive Alessandro Zaccuri, in un raffinato saggio critico sull’argomento – «anzitutto in quanto testo letterario, in perfetta consonanza con la tradizione culturale angloamericana, anch’essa […] ampiamente sfruttata dal citazionismo degli autori. Ma questo, come nel caso del Vangelo secondo Luca, non impedisce che le Sacre Scritture vengano manipolate in modo da suggerire l’effettiva presenza di una minaccia soprannaturale che incombe sul mondo. […] Erudite soltanto in apparenza, le citazioni di Millennium obbediscono in realtà a un codice facilmente decifrabile da parte dello spettatore al quale si rivolgono. Esse confidano su una sorta di preconoscenza dei testi i quali, a causa del contesto del tutto inusuale in cui vengono collocati, assumono un significato nuovo e niente affatto rassicurante» 17. La Bibbia – proprio come i versetti scritti dai serial killer a commento dei loro delitti (a cominciare dal «Francese», protagonista dell’episodio pilota) – serve, a quell’abilissimo manipolatore della cultura popolare che è Chris Carter, per portare il pubblico televisivo 126 AI CONFINI DELLA REALTÀ in un’oscura «Zona del crepuscolo» priva di certezze e punti di riferimento, attraverso l’utilizzo delle parole di quelle che, pur molto diverse tra loro, vengono tutte percepite dall’americano medio come «poesie »: cioè, «un insieme di parole dal suono misterioso e arcano, che esprimono il retaggio di una sapienza perduta e probabilmente pericolosa» 18. Dalla seconda stagione, però, «clima» e contenuti di Millennium subiscono una brusca sterzata verso le atmosfere di X-Files, per provare a porre rimedio – nonostante il plauso quasi incondizionato della critica – a indici d’ascolto inferiori rispetto alle previsioni e agli investimenti per l’imponente campagna promozionale orchestrata dalla Fox. Così, il Gruppo Millennium viene implicato, a sua volta, in un complotto apocalittico che potrebbe essere addirittura alla base della misteriosa epidemia che uccide Catherine, la moglie di Frank nel frattempo fatta uscire di scena. In seguito, il tormentato protagonista decide pure di rientrare nei ranghi dell’FBI, proprio per combattere i misteriosi arconti dell’organizzazione occulta; si trova persino ad agire in coppia con un’agente donna che poi – con un ulteriore capovolgimento – entra a far parte del Millennium. Alla fine, il nostro potrà contare soltanto sull’aiuto della figlioletta Jordan che, nel frattempo, ha pienamente rivelato i propri poteri paranormali. Il serial chiude, in ogni caso, dopo la terza stagione e – pur da considerare come un interessante tentativo di superare alcune convenzioni della fiction seriale televisiva statunitense (stimolanti, per esempio, i tanti riferimenti alla visione e alla sua possibile «manipolazione» dall’esterno) – lascia un pizzico d’amaro in bocca per ciò che avrebbe potuto essere e, invece, non è stato. Un telefilm molto simile a Millennium, rispetto al quale va in onda circa un mese prima, è Profiler - Intuizioni mortali (Profiler, 1996), ideato da Cynthia Saunders con musiche di Angelo Badalamenti. Protagonista è la bionda psicologa criminale Sam Waters (interpretata dall’affascinante Ally Walker), anche lei – come il Frank Black del serial di Carter – capace di «vedere» nelle menti dei criminali, grazie a capacità paranormali. Per questa sua abilità, la Waters si rende decisamente utile all’unità investigativa Violent Crimes Task Force, attiva ad Atlanta e capeggiata dal suo vecchio amico Bailey Malone (Robert Davi). L’anomala detective – che vive con la figlioletta Chloe (Caitlin Wachs) e l’amica del cuore Angel Brown (Erica Gimpel) – è tormentata dai sensi di colpa per non aver saputo impedire, tre anni prima, l’omicidio del suo compagno, da parte di un misterioso killer che si fa chiamare semplicemente Jack (Dennis Christopher) e che continua a perseguitarla. Pur con uno spunto di partenza quasi identico, però, X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 127 Profiler è uno show diversissimo da Millennium, innanzitutto per il modo in cui sviluppa le proprie trame (meno «crudo» e disturbante, più vicino al poliziesco che all’horror) e poi per lo stile iper-patinato della messa in scena, assolutamente coerente, d’altra parte, con la levigatezza della protagonista (soprattutto se rapportata alle cicatrici e al volto «squadrato» e inquietante di Lance Henriksen). L’elegante confezione e un buon gruppo di attori, comunque, riescono ad assicurare a Profiler un successo più prolungato rispetto a quello ottenuto dalla serie di Chris Carter. Nel 1995, poi, passa come una meteora sui teleschermi americani un altro ottimo «fanta-telefilm» che, se meglio supportato, avrebbe potuto lasciare una traccia ben più profonda e duratura nell’immaginario dei telespettatori: lo sconvolgente American Gothic (id., 1995), ideato da Shaun Cassidy e prodotto da Sam Raimi. Dalla collaborazione tra i due scaturisce un riuscito e affascinante mix tra le suggestioni e le tematiche di storici serial come Ai confini della realtà, I segreti di Twin Peaks e X-Files. «Volevamo – spiega proprio il creatore della serie, Cassidy – qualcosa di nuovo e di antico insieme, una serie che ricordasse certi racconti di Stephen King, come It o Shining. Un telefilm che provocasse paura, che facesse balzare sulla sedia o chiudere gli occhi per il terrore, che sorprendesse lo spettatore senza un briciolo di violenza. E questo, vista la televisione di oggi, potrebbe essere il vero aspetto scioccante» 19. E, infatti, il vero punto di forza di American Gothic è proprio l’atmosfera di inquietudine e terrore strisciante che impregna Trinity, la cittadina situata nel Sud Carolina dove sono ambientate le trame del telefilm. Qui il tempo sembra essersi addirittura fermato e la nevrotica società contemporanea delle metropoli collassanti e affollatissime – ma anche del progresso – sembra lontana anni luce, di fronte ai valori tradizionali del «Glorioso Sud», dominanti rispetto a ogni altra cosa. A reggere le fila della propria comunità, quasi come una divinità incarnata, c’è lo sceriffo locale Lucas Buck (interpretato da Gary Cole), personaggio straordinario che sembra uscito direttamente dalle pagine grondanti sangue di uno tra i fumetti più amati e discussi del decennio: l’oscuro «Preacher», creato dagli inglesi Garth Ennis e Steve Dillon per la divisione Vertigo della DC Comics 20. Grazie allo sceriffo Buck, a Trinity la legge domina su ogni altra cosa e, in effetti, i crimini sono quasi inesistenti: tutto ciò ha, però, un suo prezzo altissimo, dato che l’osservatore non distratto o plagiato farebbe ben poca fatica a notare come l’intera popolazione locale sembri totalmente e innaturalmente soggiogata dallo sceriffo. E Buck, d’altra parte, pare essere a conoscenza del passato, pre- 128 AI CONFINI DELLA REALTÀ sente e futuro dei suoi concittadini, che amministra secondo una legge privata e la sua personalissima morale. Il serial mostra, dunque, come il personaggio sia dotato di poteri paranormali, probabilmente di origini diaboliche, attraverso i quali può fare da sceriffo, giudice, giuria e boia contemporaneamente, senza temere alcuna opposizione. Prova a contrastarlo, infatti, la famiglia del piccolo Caleb Temple (Lucas Black), al quale vengono uccisi il padre e la sorella Merlyn (Sarah Paulson): e, così, proprio il bambino resisterà come unico, autentico avversario di Buck (del quale, si scopre, potrebbe essere una sorta di figliastro); perché gli altri personaggi subiscono tutti, indistintamente, il perverso fascino del male, in una sorta di diabolico incantamento. Due esempi perfetti della debolezza e inutilità di qualunque opposizione arrivano dall’alcolizzato medico del paese, Matt Crower (Jake Weber), e dalla cugina di Caleb, Gail Emory (Paige Turco), che finirà addirittura a letto con «l’odiato» sceriffo. Ad aiutare Caleb nella sua lotta, in definitiva, c’è soltanto il fantasma della sorella morta, che gli appare di volta in volta per metterlo in guardia. Insomma, tra visioni e incubi, omicidi e ritorni dall’aldilà (addirittura dall’inferno), a Trinity l’«American Dream» si trasforma in «American Scream», l’urlo americano delle tante vittime di un sogno mai del tutto (mai per tutti) coincidente con la realtà. Il concetto centrale di American Gothic – mai titolo fu più azzeccato – è che il male esercita sempre un fascino irresistibile sull’animo umano: non a caso, dunque, l’unico personaggio veramente interessante e tridimensionale, nella piccola cittadina, è proprio quello dello sceriffo Buck, il quale – nonostante ricatti, uccida, imbrogli, aggredisca chiunque osi ostacolarlo (o, forse, appunto per questo) – è, al di là di tutto, l’indiscutibile leader della comunità, senza alcun dubbio in merito. Di fronte a lui, tutti gli altri scompaiono letteralmente. Purtroppo, però, American Gothic si rivela fin troppo ardito e raffinato per il palato del consumatore medio di fiction televisiva e, per questo, non ottiene i risultati sperati e – per decisione del network – non conoscerà mai una seconda stagione di programmazione. Anche così, in ogni caso, resta uno tra i migliori prodotti televisivi seriali fanta-horror del decennio. Il grande successo di X-Files crea nuovo spazio nei palinsesti dei network statunitensi anche per il rilancio delle serie fantastiche antologiche, tipiche dei primi decenni della televisione e riproposte – per un breve periodo e con esiti non particolarmente felici – nel corso degli anni ’80. In particolare, dal 26 marzo 1995 (col pilot intitolato «The Sandkings»), ritorna sui teleschermi americani uno show molto amato durante il decennio ’60: The Outer Limits. La nuova edizione – prodotta da Pen Densham, X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 129 Jonathan Glassner, Richard B. Lewis e John Watson e arrivata anche in Italia con il titolo di Oltre i limiti – guarda con maggiore attenzione all’originale ideato da Leslie Stevens, rispetto a quanto fatto dieci anni prima dai produttori del nuovo Ai confini della realtà. Riprende parecchi episodi dal prototipo, per realizzarne i remake, ma è anche in grado di aggiornare con efficacia il campionario degli orrori da portare sul piccolo schermo. I temi frequentati dal macrogenere fanta-horror, infatti, sono molto cambiati e così, nel nuovo show, trovano opportunamente spazio argomenti di «scottante» attualità come la realtà virtuale, gli esperimenti di ingegneria genetica, pericolosissimi virus pronti a sterminare il genere umano; ma anche più classiche «ghost stories», vicende imperniate su robot, poteri paranormali e viaggi nel tempo. Però, il tema dominante – poiché siamo negli anni di X-Files e la televisione tende a replicare all’infinito ciò che incontra successo – è senz’altro quello degli extraterrestri, presenti in un’infinità di episodi. La Control Voice che introduce e commenta ciascuna puntata è affidata a Kevin Conway, e rappresenta l’ennesimo elemento di continuità con l’originale. Oltre i limiti riesce a superare quantomeno quantitativamente – cioè per ciò che concerne la durata della programmazione – l’edizione anni ’60 e, attualmente, ha oltrepassato di slancio i 130 episodi e le sei stagioni di messa in onda. Il fanta-horror, in ogni caso, è tra i generi più massicciamente frequentati dalla televisione seriale degli anni ’90, in ogni sua forma e, com’è ovvio, con alterni risultati. L’esempio più recente – ancora da valutare pienamente, però, per come saprà dispiegare il proprio arco narrativo – arriva dal cupo telefilm futuristico Dark Angel (2000), ideato e prodotto da James Cameron e Charles H. Eglee, trasmesso su Fox TV dal 3 ottobre 2000. Lo show mescola insieme tutti gli ingredienti del «perfetto successo catodico»: una protagonista sexy e malinconica, un’ambientazione che strizza l’occhio a classici del grande schermo come Blade Runner, una trama che rimastica con abilità i cliché del genere, effetti speciali all’avanguardia, temi attuali come quello delle biotecnologie. E, infatti, Dark Angel ottiene fin dall’inizio indici di ascolto sensazionali, con una media di oltre quindici milioni di telespettatori. Il telefilm è imperniato sulle avventurose vicende dell’ennesima «Bad Girl» proposta da Hollywood nella seconda metà degli anni ’90: la sexy e letale al tempo stesso, nonché geneticamente modificata, Max Guevara (e il cognome dice già molto sulle caratteristiche del personaggio…), interpretata dalla diciannovenne texana Jessica Alba, «astro nascente» della TV a stelle e strisce, dai tratti latinoamericani e perfetta 130 AI CONFINI DELLA REALTÀ rappresentante del miscuglio di etnie che caratterizza gli Stati Uniti del terzo millennio. «Ho scelto lei – ama raccontare James Cameron – per non cadere nella trappola del superman ariano che i film di fantascienza ci hanno propinato». E l’approccio multiculturale dell’autore è confermato dalle caratteristiche di altri due personaggi principali: il giamaicano Herbal Thought (Alimi Ballard) e la lesbica afroamericana Original Cindy (Valarie Rae Miller), amica del cuore di Max. Le loro storie sono ambientate negli Stati Uniti del 2020, messi in ginocchio da un evento cataclismatico che ha riportato il mondo in una sorta di apocalittico Medioevo d’impronta chiaramente cyberpunk. Qui agisce la sensuale Max, che da bambina, nell’anno 2009, è scappata assieme ad altri suoi coetanei dalla segretissima installazione militare di Manticore, tra le montagne del Wyoming, dove era stata sottoposta a una serie di esperimenti genetici atti a potenziarla per scopi militari. Dieci anni dopo, con l’aiuto del «cybergiornalista» Logan Cale (Michael Weatherly), cerca di ritrovare gli altri compagni di sventura e, al tempo stesso, di sfuggire al colonnello Donald Lydecker (John Savage), che cerca in tutti i modi di riportarla alla base. Il tema centrale di Dark Angel è, come accennato, quello delle biotecnologie, con le questioni morali connesse al loro sviluppo e, più in generale, ai continui mutamenti tecnologici che investono la società americana e, conseguentemente, l’intero pianeta. La centralità di un personaggio femminile forte e carismatico com’è Max, poi, non fa che confermare una tendenza molto presente nella nuova televisione seriale statunitense, nei fumetti popolari e, persino, al cinema: quella che propone antieroine forti, sicure di sé e dei propri mezzi fisici e mentali, «Bad Girls» dominanti e, sempre più spesso, superiori ai personaggi maschili. Gli esempi possibili sarebbero tantissimi: bastino quelli televisivi dell’ammazzavampiri Buffy Summers e della Dana Scully di X-Files, quelli fumettistici di albi come «Witchblade» o «Lady Death», quelli cinematografici della Ripley (Sigourney Weaver) della «saga di Alien» 21 e della Trinity (CarrieAnn Moss) di Matrix (The Matrix, 1999; di Andy e Larry Wachowski), quelli digitali della Lara Croft del videogioco Tomb Raider (non a caso, portata al cinema da Angelina Jolie, l’attrice-icona che meglio incarna, dal punto di vista fisico e caratteriale, i tratti di questo genere). Così, anche Max è estremamente sexy – con Cameron che ci tiene, furbescamente, a evidenziarlo in numerose sequenze – e ben più che umana: a causa dell’ibridazione con un DNA felino, infatti, è dotata di straordinaria agilità, velocità ed equilibrio, capacità di vedere al buio e udito acutissimo; quan- X-FILES E IL «FANTA-HORROR» ANNI ’90 131 do – inguainata in completi di pelle nera – si mette sinuosa alla guida della sua moto tecnologicamente avanzatissima fa certamente un grosso effetto dal punto di vista visivo. Dark Angel è in tutto e per tutto un prodotto di nuova generazione, tra l’altro produttivamente piuttosto oneroso (il solo episodio pilota è costato dieci milioni di dollari), con il quale James Cameron cerca di non ripetere i flop televisivi di altri grandi registi cinematografici come Steven Spielberg (ancora scottato, per fare un solo esempio, dall’immeritata tiepida accoglienza del pubblico nei confronti del suo invece notevole kolossal seriale fantastico-avventuroso del 1993, SeaQuest, SeaQuest DSV). Il pericolo sembra scongiurato, però, come appare persino ovvio d’altra parte, in un prodotto che dà chiara l’impressione d’essere stato freddamente pianificato a tavolino. Va detto, in ogni caso, che la confezione è di buon livello, anche se il maggior elemento di fascino è offerto, senz’altro, dalle caratteristiche della protagonista e, in parte, dall’ambientazione (peraltro, ben poco originale). A meno di clamorose svolte nelle nuove stagioni, quindi, Dark Angel va considerato come un prodotto televisivo di medio livello che, nonostante la notevole risposta del pubblico, rappresenta un passo indietro nella carriera di James Cameron. 1 Sergio Giuffrida, Il re del macabro: intervista-lampo a George Romero, «Segnocinema», n. 21, gennaio-febbraio 1986. 2 Il movimento letterario dell’horror estremo fondato nel 1988 da John Skipp, Craig Spector e David Schow, col neologismo che unisce «lo spavento del grottesco schizzo di sangue celebrato cinematograficamente nell’onomatopeico “splatter” con l’irriducibilità del “punk”, ovvero di colui che si pone come antagonista a qualsiasi forma di riduzione sociale» (Daniele Brolli, postfazione a: John Skipp, Craig Spector, In fondo al tunnel, Einaudi Vertigo, Torino 1997). Tra gli autori di punta del movimento, spiccano Joe Lansdale, Ray Garton, Richard Christian Matheson (figlio d’arte), Mick Garris e l’illustratore J.K. Potter. 3 Paul M. Sammon, Fuorilegge, in AA.VV., Splatterpunk. Extreme Horror, Mondadori, Milano 1995. 4 Danilo Arona, Nuova guida al Fantacinema, PuntoZero, Bologna 1997, p. 128. 5 X-Files - Il film (The X-Files: Fight the Future), diretto nel 1998 da Rob Bowman, uno dei registi più impiegati anche nella serie televisiva. 6 Gianmaria Contro, Il mercato del terrore. Mostri e maestri dell’horror, Feltrinelli, Milano 1998, p. 18. 7 Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti, Milano 2001, p. 627. 8 Franco La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino 1999, p. 245. 132 Stefano Masi, X-Files, Gremese, Roma 1997, p. 11. Brian Lowry, The Truth is Out There. La guida ufficiale a The X-Files, Bompiani, Milano 1996, p. 23. 11 Si chiama così la corrente di fantascienza cupa e iper-tecnologica dominante nel corso degli anni ’80. Ispiratosi alle opere di geniali anticipatori come lo scrittore Philip K. Dick e alle atmosfere di un film seminale come Blade Runner diretto da Ridley Scott nel 1982 (e tratto proprio da un romanzo di Dick), il movimento ha in Bruce Sterling e William Gibson gli autori di punta, e nel libro dello stesso Gibson Neuromante (Neuromancer, 1984) l’opera più celebre. 12 X-Files - Il film è perfettamente inserito nella continuity della serie, tra la fine della quinta stagione e l’inizio della sesta, proprio come se fosse un episodio «speciale». 13 Jim Swallow, Gli angeli di Dark Skies, «Sfx» (edizione italiana), n. 13, maggio 1997, p. 71. 14 Ivi, p. 72. 15 Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2000, p. 47. 16 Cit. in Leopoldo Damerini-Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, cit., pp. 364-365. 17 Alessandro Zaccuri, Citazioni pericolose. Il cinema come critica letteraria, Fazi, Roma 2000, pp. 20-21. 18 Ivi, p. 13. 19 Citato. in Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 22. 20 La Vertigo – già citata in precedenza, a proposito di «Hellblazer» – è la linea «For Mature Readers» della DC Comics. Grazie all’accorta supervisione dell’editor Karen Berger e a un gruppo di ottimi sceneggiatori – quasi tutti di origini britanniche – come Neil Gaiman («Sandman»), Grant Morrison («Doom Patrol» e «The Invisibles»), i citati Delano ed Ennis, Warren Ellis («Transmetropolitan»), la Vertigo rivoluziona completamente, nel corso degli anni ’90, il panorama fumettistico statunitense, attraverso la proposizione di storie dall’elevata qualità letteraria e dalle tematiche sofisticate e «adulte» (horror, noir, arcano, thriller paranoide, rilettura revisionista e postmoderna di classici personaggi supereroistici…), rivolte prevalentemente a un pubblico che di solito non legge i fumetti. In Italia, la quasi totalità degli albi Vertigo è tradotta dalla casa editrice Magic Press. 21 Quattro titoli: Alien (id., 1979) di Ridley Scott, Aliens - Scontro finale (Aliens, 1986) di James Cameron, Alien 3 (id., 1992) di David Fincher e Alien - La clonazione (Alien Resurrection, 1997) di Jean-Pierre Jeunet. 9 10 Buffy, Dawson e l’orrore della crescita Un filone particolarmente fiorente nel panorama della fiction seriale programmata dai network nel corso degli anni ’90 è quello basato sulle commistioni tra gli stilemi del fanta-horror e quelli del genere giovanilistico. Il decennio, d’altra parte, è inaugurato da due telefilm che aspettano soltanto di essere uniti insieme, per produrre qualcosa di nuovo e mai visto prima: da un lato, l’oscuro I segreti di Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost (più volte evocato e di cui parleremo nel prossimo capitolo); dall’altro, il «glamorous» Beverly Hills 90210 (id., 1990) di Darren Star. Il primo serial è responsabile del «ritorno di fiamma», da parte dei network, nei confronti del fantastico, e anticipa atmosfere e inquietudini di X-Files e di tutto ciò che verrà dopo; il secondo genera uno spin-off altrettanto popolare come Melrose Place (id., 1992), fa scoppiare fenomeni d’isteria collettiva tra gli adolescenti dell’intero pianeta – che, particolare decisivo, «consumano» come mai prima il vastissimo merchandising legato alla serie – e, in un certo senso, crea i presupposti per la nascita di uno show ben più maturo ma tematicamente affine come Dawson’s Creek (id., 1998). Un decisivo punto di svolta arriva nel 1996, quando Wes Craven – partendo da un’ottima sceneggiatura del giovane Kevin Williamson – dirige Scream (id.), film che si propone come riflessione metanarrativa (iper-citazionista) sul genere horror e che, al tempo stesso, cerca di rinnovare il filone attraverso commistioni col college movie e la commedia per teenagers (secondo molti detrattori, però, segna anche la definitiva morte dell’orrore cinematografico). Il clamoroso successo della pellicola – confermato da altre due di poco successive, ancora scritte da 134 AI CONFINI DELLA REALTÀ Williamson: il sequel-remake Scream 2 (id., 1997) e So cosa hai fatto (I Know What You Did Last Summer, 1997) – si rivela decisivo per convincere i vertici dei network a sfruttare fino in fondo un filone che potrebbe rivelarsi estremamente redditizio 1. In particolare, mostrano ottimo tempismo i dirigenti del network della Warner Bros., The WB, poiché mettono subito in produzione diverse serie televisive basate su spunti di questo tipo e sulla presenza di giovani interpreti sexy e accattivanti 2. Si inaugura, così, una vera e propria tendenza, con diverse serie di nuova concezione che si riallacciano a una tradizione pluridecennale, rileggendola all’insegna di una postmodernità caratterizzata dal definitivo smascheramento della loro funzione di prodotti seriali d’intrattenimento e, conseguentemente, da una buona dose d’ironia. In quest’ambito lo stesso Kevin Williamson si vede approvare un suo progetto – di genere realistico, però – che poi diventerà Dawson’s Creek. Il primo telefilm basato sul mix tra tematiche adolescenziali e atmosfere horror, citazionismo metalinguistico e (auto)ironia postmoderna, in ogni caso, è realizzato da un giovane sceneggiatore-produttore di nome Joss Whedon. Buffy Qualche anno prima infatti Whedon sceneggia un trascurabilissimo film intitolato Buffy - L’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Slayer, 1992), diretto da Fran Rubel Kuzui e interpretato da Kristy Swanson, Donald Sutherland e Rutger Hauer. Nonostante il fallimento totale del progetto, però, lo sceneggiatore intuisce le potenzialità di storia e personaggi e ne rileva i diritti di sfruttamento. Inizia, così, a lavorare sull’idea di una serie televisiva basata su presupposti simili a quelli del film ma che, al tempo stesso, sia in grado di utilizzare gli elementi che hanno appena decretato il successo delle saghe di Scream e So cosa hai fatto. La Warner approva il progetto di Whedon e, nel 1997, trova uno spazio nel suo palinsesto per gli episodi della stagione inaugurale del nuovo telefilm: Buffy. Rispetto al film di cinque anni prima, le novità immediatamente percepibili riguardano il cast principale: per il ruolo della sedicenne protagonista Buffy Summers, infatti, è scelta la biondina Sarah Michelle Gellar; al suo fianco, sono inseriti altri giovani attori tra i più interessanti della loro generazione, da Nicholas Brendon (Xander Harris) ad Alyson Hannigan (Willow Rosenberg), da Charisma Carpenter (Cordelia Chase) a David Boreanaz (il vampiro buono Angel), BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 135 capeggiati da due più maturi come Kristine Sutherland (Joyce, la mamma di Buffy) e l’inglese Anthony Stewart Head nel ruolo del bibliotecario Rupert Giles. Le azzeccatissime scelte di casting sono uno tra i principali punti di forza dello show, grazie alla «chimica» perfetta che si crea tra i vari interpreti e, conseguentemente, tra i diversi personaggi. Con questo ruolo, Sarah Michelle Gellar diventa un’autentica star e una delle giovani attrici più richieste a Hollywood. L’antefatto della nuova serie riprende le vicende viste nel film, con l’irrequieta Buffy Summers costretta a lasciare Los Angeles, assieme alla mamma divorziata, dopo essere stata cacciata dalla scuola che frequentava, per aver dato fuoco alla palestra. In realtà, la ragazza è riuscita faticosamente a sventare una strage da parte di un gruppo di vampiri, dopo aver scoperto di essere la «Slayer», la Cacciatrice: cioè colei che è predestinata – e ne esiste soltanto una per ogni generazione – a combattere i vampiri e le forze delle tenebre e a difendere il genere umano. Buffy, dunque, lascia Los Angeles anche per voltare le spalle a un destino che, probabilmente, percepisce come troppo gravoso per la sua giovane età. È ovvio, però, che i suoi problemi siano soltanto all’inizio, dato che già nel pilot del telefilm – «Benvenuti al college» («Welcome to the Hellmouth») – scopre che la tranquilla cittadina di provincia dove si è appena stabilita con la mamma, la ridente Sunnydale, è soprannominata «Hellmouth», «Bocca dell’Inferno», perché edificata in un punto di convergenze mistiche che la rendono particolarmente appetibile per vampiri e demoni assortiti, i quali proprio da lì potrebbero partire alla conquista della Terra. Più che mai, dunque, Buffy deve rinunciare alla spensieratezza tipica della sua età e prendere sulle proprie spalle un fardello che non ha mai chiesto di portare. A guidarla nella sua crociata c’è il bibliotecario Rupert Giles che, in realtà, appartiene a una millenaria società occulta, gli Osservatori, il cui compito è di fare da maestri alle cacciatrici. Gli amici del cuore di Buffy, la rossa timida e «secchiona» Willow e l’ingenuo e generoso Xander, scoprono ben presto l’identità della ragazza e l’affiancano spesso nelle sue battaglie notturne. Dopo pochi episodi, al gruppo s’unisce la ricca e viziata Cordelia e, soprattutto, il misterioso e affascinante Angel, un vampiro (ha quasi trecento anni) che – in seguito alla maledizione scatenatagli contro da una zingara – ha riacquistato la propria anima e, quindi, è dilaniato interiormente dalla sofferenza per gli orrori che ha provocato nei secoli passati. Tra Angel e Buffy, tra il vampiro e l’ammazzavampiri, nasce ben presto una problematica storia d’amore. Con Buffy, Joss Whedon – che, per il cinema, ha sceneggiato Toy Story 136 AI CONFINI DELLA REALTÀ - Il mondo dei giocattoli (Toy Story, 1995) e Alien - La clonazione (Alien Resurrection, 1997) – mostra tutta la sua abilità di scrittore seriale e realizza un telefilm linguisticamente molto sofisticato, ben oltre l’aspetto esteriore da prodotto medio televisivo (che, anzi, serve per far avvicinare allo show il più elevato numero possibile di spettatori). Peculiare del suo lavoro di scrittura e supervisione per la serie è la capacità di caratterizzare con poche pennellate personaggi che appaiono sempre credibili anche nelle situazioni più assurde (e la serie ne è piena), di scrivere dialoghi scoppiettanti e ironici, capaci di alleggerire la tensione senza provocare mai alcuna caduta di ritmo, soprattutto di far sviluppare archi narrativi lunghissimi e perfettamente coerenti tra loro anche a distanza di anni. Solitamente, infatti, ogni stagione di Buffy – attualmente è in corso la sesta, dopo il polemico cambio di network di cui parleremo più avanti – è caratterizzata da un’unica lunga trama, della quale diventa motore il «cattivo» di turno: finora, nelle cinque annate già terminate, la Cacciatrice se l’è vista col Maestro, un pericoloso «signore del male» che cerca di liberarsi dalla sua prigione sotterranea (primo anno); con la coppia di vampiri formata da Spike (James Marsters) e Drusilla (un’inquietante Juliet Landau), affiancati da Angel che torna momentaneamente al suo lato oscuro (secondo anno); con il sindaco di Sunnydale, che utilizza le energie arcane insite nella città per preparare la propria ascensione a demone (terza stagione); con il super-cyborg Adam, assemblato con pezzi di demoni uccisi dagli uomini di un’organizzazione governativa occulta denominata «Progetto Iniziativa» (quarta stagione); addirittura, con la perversa dea Glory (Clare Kramer), pronta ad aprire le porte che separano la Terra dal suo mondo popolato da terribili divinità di stampo lovecraftiano (quinta annata). Per fermare Glory, Buffy sacrifica se stessa, uccidendosi pur di impedire l’apertura del portale extradimensionale, nel centesimo episodio («The Gift») che è anche l’ultimo trasmesso dalla Warner, prima del passaggio al network UPN, durante l’estate 2001. Dopo alcuni mesi di roventi polemiche tra i vertici dei due canali televisivi 3, dunque, Buffy riprende la sua programmazione sulle frequenze del network Paramount, che lo strappa alla concorrenza e l’affianca al lancio della nuova Enterprise: all’inizio della sesta stagione, in un nuovo ottimo pilot lungo due ore, Buffy torna in vita e si proietta verso nuove avventure, in un serial potenziato dal cospicuo aumento del budget e che, per quanto riguarda l’avvio della nuova annata, fa nascere addirittura lusinghieri paragoni – da parte della critica dotata di minori pregiu- BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 137 dizi – con le serie di qualità prodotte dalla HBO 4. Tra gli altri personaggi ricorrenti che fanno il loro esordio nel corso delle varie stagioni, vanno segnalati ancora almeno Oz (Seth Green), un giovane chitarrista che, per qualche tempo, diventa il ragazzo di Willow e che ha la condanna d’essere affetto da licantropia (sì, è proprio un lupo mannaro); Faith (Eliza Dushku), un’altra cacciatrice che, però, si lascia corrompere dal fascino delle tenebre; Riley Finn (Marc Blucas), il fidanzato di Buffy durante la quarta serie; Anya Emerson (Emma Caulfield), un’ex demonessa che, tornata umana dopo aver perso i propri poteri, diventa la nuova innamoratissima compagna di Xander; Tara (Amber Benson), la ragazza con la quale Willow inizia una relazione sentimentale omosessuale; Dawn (Michelle Trachtenberg), la misteriosa sorella minore di Buffy, apparsa, senza alcun preavviso, all’inizio della quinta stagione. E proprio i modi dell’ingresso in scena del personaggio di Dawn sono indicativi dell’intelligenza con cui Whedon gioca con tutti gli stereotipi tipici del racconto seriale televisivo, rovesciandoli a suo favore: nella sequenza finale del primo episodio del quinto anno, «Il morso del vampiro» («Buffy Vs. Dracula»), infatti, la protagonista è inquadrata assieme alla sorella e si comporta come se l’avesse avuta sempre accanto, nonostante fino a quel momento gli spettatori l’avessero conosciuta come figlia unica. Sciatteria degli autori? Come mai, in quattro anni, non è mai fatto nemmeno un accenno a questa sorellina e adesso tutti si comportano come se fosse sempre esistita? Si potrebbe pensare che, d’altra parte, simili situazioni accadono con molta frequenza, all’interno delle fiction seriali, dove i personaggi appaiono e scompaiono come se entrassero e uscissero da porte girevoli sempre in movimento. La realtà, però, è ben diversa, come emerge dagli episodi successivi: Dawn, infatti, non è altro che «energia pura» incarnata e capace di rimodellare la percezione stessa del reale e quella di coloro che la circondano; una misteriosa «chiave» che può mettere in contatto la Terra con altri piani dimensionali. Viene incanalata in un involucro umano e inviata alla Cacciatrice dagli ultimi adepti di una setta antichissima, affinché possa essere adeguatamente protetta dalle mire della folle dea Glory. Dunque, ancora una volta, la spiegazione c’è, assolutamente incredibile ma perfettamente coerente con quelle che sono le premesse della serie e col patto di «sospensione dell’incredulità» che l’autore stringe con il suo pubblico. E ancora una volta, in Buffy, il fantastico riesce ad agire in profondità sulle strutture stesse del reale e del quotidiano, proponendosi come chiave interpretativa per una sua rilettura. 138 AI CONFINI DELLA REALTÀ La complessa e sfaccettata cosmogonia messa insieme da Joss Whedon, infatti, è calata in un contesto ambientale di assoluta normalità: i personaggi, all’inizio della serie, sono comuni liceali sedicenni che devono confrontarsi con le difficoltà della crescita, i primi amori, i litigi con gli amici, la difficoltà di essere accettati dagli altri, il tormentato rapporto col mondo degli adulti, come in un qualsiasi telefilm adolescenziale. I personaggi adulti, tra l’altro, sono quasi del tutto assenti, o dipinti in modi mai completamente positivi, con la sola eccezione del bibliotecario-osservatore Giles (il depositario del sapere 5), che nei confronti della sua protetta si pone come il padre che lei non ha più. La mamma della protagonista, infatti, è divorziata, superapprensiva nonostante, in realtà, sembri più presa dalla carriera che dalla figlia (si accorge soltanto dopo diversi anni delle occupazioni «alternative» di Buffy); il preside del liceo locale è un sadico «bacchettone»; i professori si trasformano spesso in mostri; il sindaco aspira a diventare un demone potentissimo attraverso una strage di studenti da attuare nel giorno della consegna dei diplomi; all’università – perché, con la quarta stagione, i protagonisti ormai diplomati s’iscrivono al College di Sunnydale – la dura ma stimata professoressa Walsh si rivela la mente senza scrupoli del progetto governativo occulto mirato alla creazione di un cyborg ibrido umanodemoniaco. L’esempio perfetto di un tale atteggiamento arriva da un episodio della terza serie, «Le streghe di Sunnydale» («Gingerbread»), nel corso del quale tutti i genitori della cittadina, posseduti da un’entità maligna, si scatenano in una vera e propria «caccia alle streghe», contro i loro stessi figli: viene coinvolta anche Willow, che si sta avvicinando sempre più alla magia e che, nel corso delle stagioni, diventa una potente strega buona. Il ribaltamento dei ruoli tradizionali tra genitori e figli, insomma, è totale, con questi ultimi che si battono affinché il male non contamini il mondo di adulti che non riescono più – tranne che nell’unico caso di Giles – a educarli e proteggerli. Sunnydale, dunque, sembra la classica cittadina californiana di provincia, il tipico sfondo di tante serie americane impostate sul dominio dei buoni sentimenti: i problemi delle metropoli sono lontani; le famiglie – tutte rigorosamente bianche – vivono nelle loro villette unifamiliari con steccato e cagnolino, al liceo si prepara l’annuale ballo di fine corso, il Bronze è l’unico locale decente dove ci s’incontra la sera con gli amici, per bere qualcosa e ascoltare buona musica. Questa realtà, però, ne nasconde un’altra più oscura – proprio come in I segreti di Twin Peaks – che rappresenta il suo doppio quasi inevitabile; quando cala la notte, BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 139 infatti, a Sunnydale arriva il momento dell’orrore: i vampiri emergono dalle proprie tombe – il cimitero cittadino è il vero ambiente ricorrente della serie, assieme al liceo e al Bronze – per attaccare i vivi e attentare alle esistenze della Cacciatrice e dei suoi amici. Nella seconda parte dell’episodio italiano «Il sentiero degli amanti» (cioè quello che, in originale, si intitola «The Wish») 6, il duplice volto di Sunnydale è reso esplicito attraverso una storia che si svolge in una cupa realtà alternativa, nella quale Buffy non è mai giunta in città e il Maestro e i suoi adepti hanno il controllo assoluto: con un tocco gustosissimo, persino Willow e Xander, i due personaggi più positivi dello show, diventano feroci vampiri punkeggianti. Quella della Willow vampira – personaggio che ritorna anche in un altro episodio, mostrando la bravura di Alyson Hannigan – è soltanto una tra le tante variazioni proposte da Whedon nel corso della serie. Non mancano, infatti, le puntate nelle quali lo sceneggiatore-produttore si diverte a sperimentare sulla struttura tradizionale del suo telefilm: un ottimo esempio è quello di «L’urlo che uccide» («Hush»), in cui alcune creature magiche, simili al Nosferatu del film di Murnau, rubano la voce all’intera cittadina, creando lo spunto per l’unico episodio interamente muto nella storia della (parlatissima) televisione americana; oppure, «Superstar» (id.), che vede l’inetto liceale Jonathan trasformarsi, per incanto, nell’ammirato supereroe di Sunnydale; o ancora, «La casa stregata» («Where the Wild Things Are»), discusso segmento col quale Whedon – lasciando Buffy e Riley a letto a fare l’amore, per l’intero episodio – risponde ironicamente alle pressioni del network, piovutegli addosso dopo la strage nel liceo di Columbine (la serie, infatti, propone spesso situazioni di violenza estrema, inserite in contesti scolastici). Il culmine della sperimentazione, però, arriva con la sesta stagione, nel corso della quale l’autore apre a una puntata tutta realizzata come un musical classico: piena di numeri di danza e con i dialoghi interamente cantati. Ottime variazioni – narrativamente fondamentali nell’economia della serie, però – sono anche quelle degli episodi retrospettivi nei quali vengono rivelate le origini dei personaggi di Angel e Spike, prima delle loro vampirizzazioni: il più bello è il doppio «L’inizio della storia» («Becoming»), a cavallo tra seconda e terza stagione, che inizia nell’Irlanda del 1753 e si conclude nella Los Angeles degli anni ’90, al tempo delle vicende narrate dal film del 1992. Buffy, in realtà, è una serie che si regge su poche idee, nemmeno troppo originali 7, sviluppate però in modo egregio. «I vampiri e i cacciatori di 140 AI CONFINI DELLA REALTÀ vampiri immaginati da Joss Whedon […] hanno la loro genesi in un’infanzia e un’adolescenza solitaria, trascorsa con il naso affondato nei fumetti di supereroi, nelle storie dell’orrore, nei racconti fantastici. Un bagaglio di riferimenti che con Bram Stoker e i vampiri classici hanno una parentela un po’ annacquata, ma che mantengono la stessa forza evocativa: il potere del sangue, la vita oltre la morte, le doti sovrumane di pochi, isolati, affascinanti e misteriosi mostri» 8. Il riferimento più diretto, da questo punto di vista, appare proprio quello ai fumetti di supereroi, genere fantastico-avventuroso da sempre molto in voga negli Stati Uniti. In particolare, la serie di Whedon è ricalcata sugli stessi schemi narrativi e formali di quella fumettistica dell’Uomo Ragno, il popolare personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko per la Marvel Comics nel 1962: la cosa, però, è dichiarata, dato che in più d’un episodio personaggi «normali», come Xander, si rivolgono a Buffy dicendole: «Mi sembri proprio l’Uomo Ragno». Lo Spiderman dei fumetti è l’emblema di quelli che l’ideatore del Marvel Universe, Stan Lee, definisce «supereroi con superproblemi», con uno slogan che indica la volontà di proporre ruoli meno monolitici e unidimensionali rispetto al classico Superman. La grande novità della Marvel degli anni ’60, infatti, è quella di dare ai propri personaggi poteri che sono vissuti come una condanna più che come un dono e che, inevitabilmente, condizionano la quotidianità dei loro alter ego. Lo stesso Spiderman, per esempio, è soltanto un adolescente come tanti, Peter Parker, appassionato di scienze e fotografo per diletto: da quando viene morso da un ragno radioattivo acquisisce la forza e l’agilità dell’insetto e diventa un essere più che umano che, però, deve rinunciare a un pizzico di spensieratezza e a tante cose che per ogni adolescente possono sembrare normali, perché – secondo un altro celebre slogan ideato da Lee per il suo personaggio – «da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Le avventure dell’Uomo Ragno sono ambientate in una New York quotidiana e descritta in modo molto realistico, sono arricchite da figure di contorno sempre ben delineate, sono caratterizzate da un perfetto mix di tragedia e ironia. Inoltre, propongono una continuity interna alla serie, nel senso che i vari personaggi crescono, mutano, imparano dalle precedenti esperienze: e questa è un’altra differenza enorme rispetto ai classici supereroi della «Golden Age of Comics» (gli anni ’30). Ebbene, in Buffy, questi elementi sono riproposti fedelmente. Dal punto di vista strutturale, anzitutto, con una continuità nelle trame e un’accentuazione esasperata dei meccanismi della serialità. Da quello dei contenuti e dell’ambientazione, poi, con lo stridente contrasto tra l’am- BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 141 biente liceale diurno e le tensioni di quello notturno, quando Sunnydale diventa un campo di battaglia; la coesistenza tra superpoteri e problemi dovuti alla crescita; la solitudine dell’eroe (eroina) che deve far fronte alle proprie responsabilità; la sua fragilità dovuta alla difficoltà di accettare la propria particolarissima condizione; un gruppo di amici che spesso non capiscono fino in fondo cosa voglia dire essere predestinati; il complicato rapporto con l’altro sesso e quello tormentato con il mondo degli adulti. Anche la scelta di trasformare l’eroe in eroina si spiega meglio attraverso un riferimento fumettistico, dato che una tra le tendenze dominanti nell’industria statunitense anni ’90 dei comic books è – come visto nel precedente capitolo – quella degli albi imperniati sulle cosiddette «bad girls». Il cerchio si chiude, quindi, allorquando Buffy Summers diventa un personaggio a fumetti, in una serie sceneggiata dallo stesso Joss Whedon che, così, può soddisfare una sua antica passione. Anche il carattere disegnato, come quello televisivo, mantiene gli stessi tratti di ragazza pienamente calata nella realtà sociale degli Stati Uniti che s’affacciano al 2000. Merita qualche parola a parte, per concludere, il controverso rapporto sentimentale tra Buffy e Angel, tra la vita-apportatrice-di-morte e la morte-in-vita, soprattutto in riferimento agli eventi di due particolari episodi della seconda stagione: «Sorpresa» (Surprise») e «Un attimo di felicità» («Innocence», scritto e diretto proprio da Whedon), caratterizzati dal nuovo ritorno di Angel al suo lato oscuro, quello del terribile vampiro Angelus, in seguito al riattivarsi della maledizione zingara che gli preannunciava la perdita dell’anima appena avesse assaporato un solo attimo di felicità. E il momento arriva quando il non-morto fa l’amore con la Cacciatrice, nel preciso momento del raggiungimento dell’orgasmo sessuale. L’evento lascia trasparire, però, un’ideologia alquanto reazionaria, quasi a suggerire che l’amore tra adolescenti può andar bene solamente finché non si trasforma in sesso. D’altra parte, la stessa Willow, a sua volta desiderosa della «prima volta», è fidanzata con un focoso lupo mannaro: anche qui, quasi un monito rivolto agli adolescenti, a far attenzione alle brutte sorprese in campo sessuale. Il personaggio di Angel, comunque, diventa amatissimo dal pubblico dello show e, con il finire della seconda stagione, raggiunge la stessa Buffy in cima alle preferenze. È per questo motivo che, dalla fine dell’annata successiva, Whedon e il co-sceneggiatore David Greenwalt creano uno spin-off tutto dedicato al personaggio interpretato da David Boreanaz (Angel, 1999; ancora inedito in Italia). L’ambientazione è differente, dato che il vampiro buono (nel frattempo ha riacquistato la pro- 142 AI CONFINI DELLA REALTÀ pria anima) lascia Sunnydale per Los Angeles, dove apre un’anomala agenzia investigativa per aiutare tutti quelli che normalmente sono trascurati dalle forze dell’ordine: diventa così una sorta di campione dei derelitti e dei perseguitati, in avventure dal sapore chandleriano e, naturalmente, vissute sempre «ai confini della realtà». Lo aiutano la bella Cordelia, che a sua volta lascia la serie principale e si scopre dotata della capacità di avere visioni premonitrici; Wesley Wyndam-Pryce (Alexis Denisoff), un ex osservatore che, per pochissimo tempo, aveva sostituito Giles accanto a Buffy; il cupo cacciatore di vampiri Charles Gunn (J. August Richards). Questa, però, è davvero un’altra storia. Alieni e streghe: anche loro adolescenti innamorati Dopo l’horror, anche la fantascienza delle invasioni aliene viene riletta in chiave romantico-adolescenziale. Nel 1998, infatti, Jason Katims adatta per la televisione i romanzi del ciclo Roswell High di Melinda Metz, per l’ennesimo «fanta teen show» del network Warner. Il titolo – sulle note della hit pop di Dido, Here With Me – è semplicemente Roswell (Roswell High, 1999), dal nome della località del New Mexico che, nel 1947, avrebbe visto schiantarsi al suolo un fantomatico disco volante alieno. Se la prima parte della stagione inaugurale appare chiaramente rivolta a un pubblico adolescenziale e femminile (nelle stesse dichiarazioni programmatiche degli executive Warner), lo sviluppo delle trame diventa man mano più «adulto», finché dalla seconda annata il coinvolgimento, in veste di coproduttore esecutivo e sceneggiatore, di Ronald D. Moore (uno tra i più dotati scrittori della Next Generation di Star Trek) garantisce maggior spazio all’azione e a tematiche ancora più spiccatamente fantascientifiche. Ne vien fuori, già dalla seconda metà della prima stagione, un telefilm di buon livello, dal punto di vista visivo (particolarmente curati sono gli effetti speciali e, soprattutto, la fotografia; grazie al budget non proprio irrilevante) e recitativo, con buone performance di alcuni giovani attori piuttosto promettenti: su tutti, i tre «adolescenti alieni» interpretati da Jason Behr, Katherine Heigl e Brendan Fehr, cioè i fratelli Max e Isabel Evans e il loro amico Michael Guerin. Accanto a loro recitano Shiri Appleby, la timida Liz Parker fidanzata di Max; Majandra Delfino, nei succinti panni dell’esuberante Maria De Luca, che vive una tormentata relazione con Michael; il figlio d’arte Colin Hanks, come Alex Whitman, da sempre innamoratissimo BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 143 di Isabel; l’ottimo caratterista William Sadler, che è lo sceriffo locale Jim Valenti; Nick Wechsler, suo figlio Kyle, ex ragazzo di Liz e, all’inizio, rivale di Max; infine, Emilie De Ravin, l’enigmatica quarta aliena Tess Harding che si unisce al trio verso la fine della prima stagione. Il necessario antefatto vede Roswell tratteggiata come la più classica cittadina americana di provincia, situata nel deserto del New Mexico; qui, gli abitanti hanno imparato a convivere con la leggenda del presunto «UFO Crash» del 1947, utilizzandolo addirittura come attrazione turistica: così, al Crashdown Café si servono piatti a tema e, una volta all’anno, tutta la città si maschera per la tradizionale festa locale, una sorta di carnevale alieno. La storia prende il via proprio durante la festa annuale, quando la figlia dei proprietari del Crashdown, Liz Parker, è accidentalmente ferita, in modo grave, da un colpo di pistola: le salva la vita, col solo tocco della mano, il suo compagno di liceo Max Evans. E da questo momento, nulla è più come prima, per nessuno dei personaggi principali e, sostanzialmente, per l’intera cittadina. I ragazzi alieni – rimasti in animazione sospesa dal 1947, svegliatisi soltanto da pochi anni e adottati, nella loro forma umana, da inconsapevoli famiglie della zona – iniziano una ricerca delle proprie origini, mentre agenti di speciali sezioni dell’FBI danno loro la caccia, in una Roswell rivoltata come un guanto. Dopo un primo periodo d’incomprensione, lo sceriffo Valenti diventa un prezioso alleato del gruppo formato da Max, Isabel, Michael (il più impulsivo tra i tre), in seguito Tess; e dagli umani Liz, Maria e Alex. Con l’ingresso di Ron Moore nello staff produttivo, la serie guadagna in dinamicità, i personaggi vengono tratteggiati in modo meno banale, le storie sono risolte nel corso di più episodi, attraverso archi narrativi lunghi e complessi. Il tono delle trame diventa decisamente più fantascientifico, pur non trascurando le interazioni – soprattutto di carattere sentimentale – tra i personaggi principali. Così, il mutaforma alieno Nasedo (una specie di «guardia del corpo» dei ragazzi) è misteriosamente ucciso nei primi episodi del secondo anno, proprio quando Moore rende più insidiosa l’atmosfera di Roswell e introduce un’altra specie aliena, nemica di quella alla quale appartengono i protagonisti e capace di camuffarsi persino nelle più alte sfere delle gerarchie governative: gli altri extraterrestri, che si chiamano Skin, sono alla ricerca di una misteriosa sostanza che permette loro di adattarsi all’atmosfera terrestre. Con la terza stagione – e il passaggio dal network Warner a quello Paramount – le caratteristiche della serie subiscono un’ennesima con- 144 AI CONFINI DELLA REALTÀ trosterzata: dal punto di vista strutturale, iniziano a essere privilegiati archi narrativi più brevi e lineari; per quanto riguarda i contenuti, gli autori decidono di concentrarsi nuovamente sulle interiorità dei singoli personaggi e sulle loro vicissitudini sentimentali, proponendo meno azione fantascientifica pura. Non è un caso, quindi, che entrino a far parte dello staff di sceneggiatori anche l’autrice dei romanzi ispiratori, Melinda Metz, e la sua collaboratrice Laura Burns. Ogni volta che si guarda uno di questi telefilm, si capisce una volta di più quanto sia stata realmente «seminale» – già a metà degli anni ’80 – una serie di genere completamente diverso come Miami Vice (id., 1984), con la quale Michael Mann ripensa dalle basi il concetto stesso di telefilm, all’insegna delle suggestioni del postmoderno: la levigatezza delle superfici, rese ancor più brillanti da violenti riverberi di luce, si riflette sui personaggi e sugli ambienti, il look e il design complessivo di uno show diventano elementi basilari, la colonna sonora assume un ruolo diversissimo rispetto al passato (grazie all’inserimento di celebri brani pop e rock, spesso eseguiti in scena dagli stessi interpreti: cosa che capita con frequenza, per esempio, in Buffy), il montaggio tradizionale si concede «divagazioni» come il sempre più frequente ralenti, dall’interno stesso della narrazione emergono elementi d’un discorso teorico sulle leggi della serialità e sulle derive della «Pop Culture». Naturalmente, però, di Michael Mann ce n’è uno e, quindi, non sempre i risultati sono all’altezza delle intenzioni, soprattutto in un genere come quello horroradolescenziale. È il caso, per esempio, di un telefilm come Streghe (Charmed, 1998), ideato da Constance M. Burge e prodotto da Aaron Spelling, a partire da alcuni spunti – però, rovesciati di segno – contenuti in una pellicola di poco precedente come Giovani streghe (The Craft, 1996) di Andrew Fleming. A differenza del film, le fattucchiere della serie televisiva non cercano nessun tipo di vendetta e, ben presto, affondano nella melassa nonostante i loro poteri: l’idea di partenza, stimolante, delle tre sorelline streghe, sexy e capricciose, si perde, infatti, in trame «buoniste» e preoccupate soprattutto di non suscitare emozioni troppo forti. In definitiva, Streghe è più una commedia sentimentale (banalotta, però) «condita» con poche spruzzate di fantastico, piuttosto che il prodotto di una commistione autentica e profonda tra generi diversi: qui – a differenza di Roswell ma, soprattutto, di Buffy – non c’è nulla di bizzarro, nessun «freak linguistico» pronto a rompere i monotoni schemi del telefilm medio(cre); tutto accade come deve, in modi a volte persino piacevoli, ma totalmente inoffensivi. BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 145 La serie è ambientata a San Francisco, città magica per eccellenza, dove – in un’enorme casa a più piani, con tanto di misteriosa soffitta – vivono le tre sorelline Halliwell: Prue (Shannen Doherty), Piper (Holly Marie Combs) e Phoebe (Alyssa Milano). In una notte buia e tempestosa scoprono di essere le ultime discendenti di una famiglia di streghe e che, se resteranno insieme, potranno evocare il «Potere del Trio» (sic!) e combattere il male. Così, decidono di superare i conflitti che rischiano di dividerle – soprattutto Prue e Phoebe, sono dotate di caratterini quantomeno pepati, come le loro interpreti, d’altra parte – e di restare a vivere insieme, nella grande casa di famiglia. Ciascuna di loro ha una particolare abilità: Prue, la più grande, può spostare cose e persone; Piper, la seconda, ha la possibilità di bloccare lo scorrere del tempo; Phoebe, la «piccola» di casa, può vedere nel futuro. Anche in Streghe le trame fantastiche sono accompagnate – in questo caso, anzi, letteralmente schiacciate – da quelle sentimentali, con le disavventure amorose delle tre sorelline, dovute soprattutto alla paura che il grande amore di una di loro possa allontanarle e spezzare la perfezione mistica del trio, con conseguente vittoria delle forze del male sempre in agguato. Prue, Piper e Phoebe, infatti, se la vedono con mostri e demoni assortiti, stregoni malvagi e creature extradimensionali, sempre certissime di essere dalla parte del Bene e in lotta contro il Male (le maiuscole, ovviamente, sono volute, dato che qui la cosa più sorprendente, in modo negativo, è il manicheismo a sfondo mistico-religioso di cui è impregnata la serie: non a caso, spesso le tre eroine si alleano con veri e propri angeli custodi). Al termine della terza stagione Prue muore in seguito a un violentissimo attacco demoniaco di cui sono vittime le sorelle Halliwell 9: il trio si rompe, ma soltanto per poco. Con la quarta serie, infatti, entra nel cast delle protagoniste l’attrice Rose McGowan, nel nuovo ruolo di Paige, la quarta sorella mai conosciuta prima, perché adottata da un’altra famiglia. La ragazza arriva a casa Halliwell proprio in occasione del funerale di Prue e – essendo a sua volta dotata di capacità soprannaturali – ne prende ben presto il posto, portando il telefilm verso direzioni inedite: adesso è lei la sorellina minore, mentre l’eccentrica Phoebe deve necessariamente mostrarsi più matura. Comunque, Streghe resta uno show incentrato unicamente sul glamour delle protagoniste, levigate e «patinate» come quasi tutte le superfici e gli ambienti della serie (non a caso, la presenza dominante di Shannen Doherty nelle prime tre stagioni rimanda immediatamente a Beverly Hills 90210). 146 AI CONFINI DELLA REALTÀ Quando il rapporto tra quotidiano e fantastico viene privato di qualunque suo elemento anche minimamente inquietante perde quasi del tutto di efficacia, pure come chiave di lettura della società esterna alla fiction televisiva. Non si può che concordare con lo scrittore Michele Serio, infatti, quando afferma che «l’horror sta ormai dilagando in molti altri generi, da quelli più strettamente contigui ad altri meno sospetti [e] che tra pochissimi anni sarà questo il vero collante tra tutte quante le categorie estetiche della società di massa» 10: ecco spiegato il travolgente successo dei telefilm fanta-horror durante gli anni ’90 ed ecco perché Buffy è un’ottima serie e Streghe, invece, no. Dawson: il cinema, la vita, gli amori Adolescenti alle prese con i problemi tipici della loro età: il difficile rapporto con i genitori, la scuola, la «prima volta»; ma anche temi sociali come la dipendenza dalla droga, l’alcolismo, il razzismo, l’AIDS. I telefilm con simili contenuti «esplodono» nel 1990, con l’ormai storico Beverly Hills 90210 e con il suo spin-off più «adulto» Melrose Place: le due serie lanciano giovani divi come, volendone nominare soltanto alcuni, la già citata Shannen Doherty, Jason Priestley, Luke Perry, Tiffany Amber-Thiessen; creano, inoltre, un vero e proprio filone narrativo che, nel corso del decennio, si arricchisce – oltre che di show «contaminati» da «germi» fantastici – di diversi altri esempi di tipo realistico. Il punto d’arrivo e di nuova ripartenza per il genere è, nel 1998, Dawson’s Creek, scritto e prodotto dallo sceneggiatore Kevin Williamson, a partire dalle sue esperienze adolescenziali. Il telefilm è ambientato nella piccola e tranquilla Capeside, nel Massachussets. Qui, quattro quindicenni si confrontano con quello che, per loro, rappresenta il vero orrore della vita: l’età della crescita. Iniziano ad affacciarsi alla vita adulta sospesi a metà tra voglia di mostrarsi grandi prima del tempo – è curioso, tra l’altro, come nei serial americani di questo tipo personaggi quindici-sedicenni siano interpretati sempre da attori ventenni o poco più – e desiderio di rifugiarsi addirittura nell’età mitica dell’infanzia per sfuggire a un processo che, comunque, percepiscono come strappo violento e doloroso. Protagonisti della storia sono il biondo Dawson Leery (James Van Der Beek), il classico «all american boy», ingenuo e generoso, col grande sogno di diventare regista cinematografico e ripercorrere le orme del BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 147 suo idolo Steven Spielberg (non a caso, il cineasta che meglio di tutti sa interrogarsi sul controverso rapporto tra infanzia, eterna adolescenza ed età adulta); la brunetta Joey Potter (Katie Holmes), proveniente da una famiglia difficile e più povera di quelle tipiche da serial adolescenziali di provincia, che vive sulla propria pelle cosa voglia dire sentirsi messi ai margini; Pacey Witter (Joshua Jackson), l’eccentrico miglior amico di Dawson, ovviamente impiegato in una videoteca; Jennifer Lindley (Michelle Williams), bionda e travolgente, appena arrivata da New York in cerca di un po’ di sana tranquillità provinciale; a loro si aggiunge Jack (Kerr Smith), personaggio che, ben presto, dichiara la propria omosessualità, vissuta come un trauma dalla sua famiglia. Le loro esistenze s’intrecciano indissolubilmente, tra sentimenti forti, «cameratismi», triangoli amorosi (Dawson-Joey-Pacey) e crisi di crescita, sullo sfondo di una cittadina che appare, a sua volta, sempre uguale a se stessa. Oltre che sull’ambiguo rapporto tra adolescenza e maturità, però, Dawson’s Creek è imperniato anche su un’altra dicotomia, quella tra vita reale e cinema, incarnata soprattutto nel personaggio di Dawson: lui più degli altri, infatti, vive nel mito della «Fabbrica dei sogni»; cerca, addirittura, d’impostare la sua esistenza secondo le regole dei generi cinematografici, in cerca della rassicurazione che soltanto una buona sceneggiatura sa offrire. Proprio Dawson è l’emblema di un’America adolescenziale che ha quasi paura d’affacciarsi su una realtà che non riconosce più come umana e fruibile senza perdere parte della propria identità: cosa ci sarà dopo il liceo? E al termine del college? Forse, allora, è meglio rifugiarsi tra le prevedibili regole che scandiscono le storie dei film amati, provando in tal modo a rendere reale quello che, da sempre, è un desiderio primario dell’essere umano: bloccare il tempo in un’eterna età della giovinezza. Non a caso lo strappo più traumatico dell’intera serie si verifica al termine della quarta stagione di messa in onda, quando tutti i protagonisti – nel frattempo cresciuti attraverso esperienze più o meno «forti» – si diplomano, in un clima dolce-amaro che prelude al disfacimento del gruppo di amici inteso come corpo unico, ormai inevitabilmente corrotto dal virus del cambiamento. La High School è terminata ed è tempo per Dawson di seguire i propri sogni iscrivendosi alla «mitica» scuola universitaria di cinema della USC di Los Angeles; dovrà dividersi da Joey, però, destinata al Worthington College di Boston, dall’altra parte degli Stati Uniti; Pacey, invece, cerca il proprio futuro entrando, sempre a Boston, nel mondo del lavoro: trova impiego in un risto- 148 AI CONFINI DELLA REALTÀ rante, in attesa di capire quale potrà essere il suo futuro. Jen e Jack vanno a studiare al Boston Bay College. La mancanza degli amici di sempre si trasforma in un ennesimo trauma, che rende ancor più difficile l’ingresso nel «mondo reale». Dal punto di vista linguistico, Dawson’s Creek è il perfetto serial postmoderno, per come fa propria l’estetica del frammento e della citazione, per come riflette sul suo stesso farsi narrazione seriale (e sul senso ultimo della serialità), per come mette in relazione le immagini ottimamente confezionate con una colonna sonora infarcita di autentiche hit (tra le altre, quelle di Chumbawamba, Savage Garden, Sophie B. Hawkins, Semisonic, Garbage, Tori Amos), per il modo in cui utilizza le tante citazioni come fondamentali elementi di sviluppo drammaturgico, per com’è intriso d’ironia anche quando affronta tematiche scomode come il sesso, la pornografia, la dipendenza dall’alcool e dalle droghe, l’omosessualità. A proposito di citazionismo, poi, non si può fare a meno di soffermarsi sul bellissimo episodio ambientato in un venerdì 13 che Dawson decide di animare con un horror party a sorpresa per i suoi amici: peccato che, negli stessi giorni, un pericoloso serial killer s’aggiri nei dintorni di Capeside. Finzione e realtà, dunque, iniziano a intrecciarsi tra loro – anche a causa del non previsto intervento di un gelosissimo ragazzo, la cui stramba fidanzata è stata invitata al party da Pacey – e a sfuggire completamente alla regia del giovane «cineasta»: nell’ipercitazionismo dell’episodio, Kevin Williamson non resiste, tra l’altro, a una gustosa autocitazione, riproponendo in maniera testuale la tesissima sequenza iniziale di Scream (forse la più citata degli ultimi anni), con Michelle Williams al posto di Drew Barrymore. In buona parte della fiction seriale degli anni ’90 – che, da parte sua, guarda eternamente a un passato percepito sempre come mitico e irripetibile – crescere e cambiare diventa il vero orrore, anche se – come Joey spiega al disorientato amico Dawson – «persino Spielberg ha superato la sindrome di Peter Pan». Col senno di poi, appare seminale anche un film stroncatissimo all’epoca della sua uscita: Classe 1999 (Class of 1999), diretto nel 1990 da Mark L. Lester e incentrato sulla lotta degli studenti del Liceo «Ronald Reagan» contro tre ferocissimi professori-cyborg. Non a caso, quindi, proprio Kevin Williamson ne scrive una sorta di remake (ben superiore all’originale, però) con The Faculty (id., 1998), diretto da Robert Rodriguez e nel quale i docenti sono sostituiti 1 BUFFY, DAWSON E L’ORRORE DELLA CRESCITA 149 silenziosamente da «ultracorpi» alieni che progettano di far partire l’invasione della Terra dal più classico college americano. 2 Il genere produce immediatamente la nascita di un nuovo tipo di Stardom, con giovani interpreti che si specializzano in film e telefilm di questo tipo: Sarah Michelle Gellar, Neve Campbell, Jennifer Love Hewitt, Courteney Cox, Rose McGowan, Ryan Phillippe, Freddie Prinze Jr., Alyson Hannigan, David Arquette, per citare soltanto i più noti. 3 I quali si punzecchiano, per tutta l’estate, sugli organi di stampa americani, definendo il proprio canale concorrente, rispettivamente, «Without Buffy» (The WB: «Senza Buffy») e «Used Parts Network» (UPN: «Network dei pezzi usati»), a ulteriore testimonianza del successo e della stima che – anche a livello dirigenziale – circonda la creatura di Joss Whedon. 4 L’esempio migliore arriva dalla recensione di Ken Tucker su «Entertainment Weekly» del 27 settembre 2001: «Prese insieme, le due ore del pilot mostrano come si possa narrare una leggenda come se fosse la prima volta. Chi avrebbe mai pensato che la modesta UPN, tanto citata da quando è diventata la nuova casa di Buffy, avrebbe rialzato la testa e si sarebbe proposta allo stesso livello della HBO? Oggi, infatti, possiede una serie dotata della stessa forza emozionale di I Soprano (sì, con buona pace dei più snob tra voi)». Toni entusiastici sono pure quelli usati dalla rivista «Spectrum» (n. 27, agosto 2001), secondo cui «nomination agli Emmy Awards o no, Buffy è diventato uno show straordinario e deve essere considerato tra i migliori serial fantastici di tutti i tempi». 5 Tra l’altro Buffy è uno tra i telefilm americani dove i libri sono più presenti e hanno un ruolo drammaturgicamente importante. 6 Per un discreto periodo, la programmazione italiana della serie, su Italia 1, viene fatta accorpando due episodi alla volta, sotto l’unico titolo del primo segmento. Per questo motivo, le puntate che vanno in onda come seconde non hanno un loro titolo italiano. 7 Già negli anni ’50, infatti, i drive-in si riempiono di giovani coppie urlanti, di fronte alle sequenze di irresistibili pellicole horror-giovanilistiche come, per esempio, I Was a Teenage Werewolf (1957) di Gene Fowler Jr. e La strage di Frankenstein (I Was a Teenage Frankenstein, 1957) di Herbert L. Strock. 8 Luisella Angiari, Dai cinevampiri ai televampiri, «Duel», n. 87, marzo-aprile 2001, p. 68. 9 In realtà, la Doherty rompe definitivamente con il resto del cast e, in particolare, con una Alyssa Milano sempre più «dominante». Così, la produzione prende una posizione netta: decide di cacciare Shannon – poiché il personaggio di Alyssa è nettamente il più apprezzato dai fan – facendo morire bruscamente il carattere che interpreta. 10 Citato in Danilo Arona, Nuova guida al Fantacinema, PuntoZero, Bologna 1997, p. 34. PARTE TERZA AI CONFINI DEL CREPUSCOLO Focolari televisivi (con il «mostro» dietro lo specchio) Gli Stati Uniti degli anni ’50 e la sit-com televisiva Negli Stati Uniti degli anni ’50 la produzione artistica, soprattutto quella cinematografica e televisiva, è «segnata» in modo evidente dalle pulsioni contrastanti che attraversano una società il cui lato meno rispettabile – quello oscuro e di cui, magari, vergognarsi – resta regolarmente nascosto dietro la facciata da mostrare in pubblico ed è ben metaforizzato, come visto, attraverso fumetti, film e telefilm fantastici. Dalla commedia televisiva americana – peraltro, spesso «contaminata» in modi inattesi da «germi» di fantastico – arriva, invece, «l’immagine» che ancora oggi consideriamo «tipica» del decennio: quella di «un mondo fatto solo di piccole questioni tra persone simpatiche – bianche – che non avevano problemi seri e che abitavano felici in casette suburbane, fianco a fianco con altri come loro, in un paese che non si vedeva mai, ma che si indovinava felice. Anche se non mancarono alcune eccezioni, la famiglia di quel tipo fu la protagonista assoluta della commedia televisiva. E i ruoli, al suo interno, ripetevano quelli che vita e cultura attribuivano a marito e moglie nella società» 1. Secondo il critico americano Gilbert Seldes, la commedia è addirittura l’asse intorno al quale ruota tutta la televisione. Essa arriva sul piccolo schermo a partire da precedenti modelli radiofonici e si «distribuisce» tra sketch e monologhi da varietà e situation comedy più articolate, della durata abituale di mezz’ora; ben presto sono proprio queste ultime a prevalere nettamente. Si codificano in tempi strettissimi, poi, i tratti ricorrenti delle commedie televisive che sono – come ben sintetizza Bruno Cartosio in un suo ottimo libro – «la prevedibilità dei comporta- 154 AI CONFINI DELLA REALTÀ menti fondata sulla coerenza dei caratteri, la dimensione domestica dell’equivoco o fatto che mette in moto la commedia, l’isolamento sociale in cui la coppia o la famiglia (o le due coppie o famiglie) vive la situazione e il rapido e felice scioglimento finale della complicazione iniziale. Tempi e modi dello svolgimento materiale della storia sono legati alle interruzioni pubblicitarie, esattamente come nel caso dei drammi. Inoltre la psicologia dei personaggi è estremamente semplificata» 2. Dal punto di vista formale, le caratteristiche essenziali del genere – immutate ancora oggi – prevedono inquadrature frontali di ambienti e personaggi in campo medio (quasi come su di un palco teatrale, magari alternate ad altre in piano americano e a primi piani, in campo/controcampo, per accentuare le smorfie facciali degli interpreti), un fitto dialogare che scandisce il ritmo dell’azione ed è sottolineato dalle celebri risate off preregistrate, un’ambientazione in interni con le inquadrature degli esterni a fungere da semplici raccordi. Gli ambienti ricorrenti sono la cucina e il salotto, con centralità assoluta concessa al divano, in quanto oggetto multifunzionale e autentico proscenio dal quale pronunciare le battute più divertenti. Protagoniste di tutti questi telefilm sono famiglie bianche, protestanti, di classe media, suburbane e felici. E proprio l’ambientazione suburbana – adattissima perché sempre uguale a se stessa e lontana anni luce dalle contraddizioni della politica, delle razze, delle classi o dei sessi – caratterizza alcune tra le sit-com più note degli anni ’50: si pensi soltanto a grandi successi come The Adventures of Ozzie and Harriet (concepito e realizzato da Ozzie Nelson per la ABC e andato in onda – dopo una precedente, lunga vita radiofonica – dal 1952 al 1966, per 435 puntate), oppure il successivo Leave It to Beaver (sulla CBS nelle stagioni 1957 e 1958, sulla ABC dal 1958 al 1963). In particolare, poi, The Adventures of Ozzie and Harriet presenta diversi motivi di interesse, innanzitutto per la perfetta corrispondenza tra le identità dei personaggi e degli attori che li interpretano: Ozzie Nelson è davvero Ozzie Nelson – come tutta la sua famiglia – e, assieme alla moglie Harriet, diventa un autentico simbolo della vita familiare americana del decennio. Nelle avventure della famiglia Nelson, dunque, non c’è finzione come si intende tradizionalmente, ma ciascun episodio – attraverso un percorso teso sempre verso una morale, un «messaggio» – schematizza un mondo immaginario che, però, lascia intendere agli spettatori di ricalcare il quotidiano «reale» dei Nelson e, quindi, degli americani tutti (o meglio, il quotidiano come essi vorrebbero che fosse). FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 155 Uno tra i luoghi comuni più forti, presenti nelle commedie televisive del periodo, riguarda la donna. «Lo stereotipo della donna affettuosa e serena, dedita alla casa e alla famiglia, ma capace anche di interessi esterni – i club femminili, le associazioni di beneficenza e simili – ma non estranei alla famiglia, insomma la donna depositaria di tutte le virtù domestiche, attraversò come una spina dorsale le decine di situation comedy dalle origini agli anni ’60. E anche in questo caso era un modello che veniva proposto alla società nel suo insieme. La televisione idealizzava la moglie-madre casalinga bianca, di classe media, che abitava nella casa suburbana. Il codice fu ferreo. Fu incrinato solamente nelle due serie The Honeymooners e Lucy ed io. Tuttavia, se i personaggi di Alice Kramden e Lucy Ricardo furono anche qualcosa di più, lo si dovette in parte a Audrey Meadows e a Lucille Ball che li impersonavano e in parte a quel che furono quelle stesse commedie nel loro insieme» 3. Non è un caso che entrambi questi telefilm siano ambientati nella caotica e ben più concretamente definita New York, invece che in un sobborgo qualunque (come, per esempio, la più tradizionale «saga» rosa dei Nelson). Soprattutto Lucy ed io è importante per alcune sue innovazioni tecniche e contenutistiche e perché dà il via al filone familiar-sentimentale, sulla CBS, fin dal 15 ottobre 1951, quando è trasmesso l’episodio inaugurale «The Girls Want to Go to a Nightclub». La serie – girata davanti a un pubblico vero e ripresa con un rivoluzionario sistema a tre telecamere – va in onda per sei stagioni e 180 puntate di mezz’ora fino al 6 maggio 1957 («The Ricardos Dedicates a Statue»), incontrando sempre un enorme successo popolare. La regia è di Ralph Levy (e, in seguito, William Ashner e James V. Kern), su testi di Jess Oppenheimer, Bob Carroll Jr. e Madelyn Pugh; la fotografia è addirittura di Karl Freund, il grande direttore della fotografia di tante pellicole espressioniste tedesche, poi anche regista a Hollywood di un classico dell’orrore come La mummia (The Mummy, 1932). Le menti che si celano dietro il successo di Lucy ed io, però, sono quelle degli attori Lucille Ball e Desi Arnaz, sposati anche nella vita reale e protagonisti nei panni dei coniugi Lucy e Ricky Ricardo, nonché produttori attraverso la loro società Desilu (destinata, in pochi anni, a diventare un’autentica major). I due sono affiancati sul set da un nutrito cast, in cui spiccano Vivian Vance e William Frawley (nella finzione sono gli amici e vicini di casa dei Ricardo, Ethel e Fred Mertz), Richard Keith, Keth Thibodeaux, Elizabeth Patterson e Doris Singleton. Ma Lucy ed io diventa famosa anche per le tante comparsate 156 AI CONFINI DELLA REALTÀ di prestigio: da Orson Welles a William Holden, da Rock Hudson a Richard Widmark e tanti altri ancora. Lucy e Ricky vivono a New York, dove lei è casalinga (con un passato da stenografa) e lui guadagna 150 dollari la settimana suonando musica latinoamericana al Club Tropicana. Come accennato poco fa, è proprio l’ambientazione urbana – ben restituita dalla scelta di non limitarsi soltanto a riprese in quello che, comunque, rimane l’ambiente dominante, cioè la casa – a caratterizzare profondamente situazioni e personaggi di Lucy ed io, soprattutto per quel che riguarda le figure femminili: rispetto a quello incarnato da Harriet nella sit-com sui Nelson, infatti, il tipo di donna «alla Lucy» è più emancipato, meno accomodante e tradizionale. Insomma, semplificando, si può senz’altro affermare che Lucy ben rappresenta la «nuova» donna di città, mentre Harriet è l’emblema della tranquilla mamma/moglie suburbana. Il rispecchiamento tra finzione e realtà, comunque, è meno pedissequo rispetto a The Adventures of Ozzie and Harriet ed è insaporito da raffinati tocchi surreali, anche per ciò che concerne le schermaglie domestiche. «La “battaglia tra i sessi” è il grande tema di Lucy ed io. È trattato in modo farsesco e Lucy è sempre sconfitta: ma cade sempre in piedi ed è sempre pronta a ricominciare. […] Rispetto agli Honeymooners e alle altre situation comedy del tempo, in Lucy ed io diminuiscono le componenti realistiche e aumentano quelle più astratte della farsa. Qui più che da ogni altra parte il movimento interno alla molecola si fa vertiginoso e incredibile. La fantasia strappa le briglie alla routine» 4. In definitiva, la «Imitation of Life» in Lucy ed io è comunque forte ma procede su due piani differenti: il primo, più astratto e surreale, guarda con interesse persino a stravaganti contaminazioni col fantastico – si pensi solo all’episodio del 14 gennaio 1957, in cui Lucy Ricardo incontra addirittura Superman («Lucy and Superman»), in un «crossover» tra due serie amatissime dal grande pubblico – all’insegna dell’accentuazione caricaturale e dell’estremizzazione proprie della commedia farsesca; il secondo, invece, più concreto, mette in gioco il rapporto tra le esistenze dei personaggi e quelle degli interpreti (e anche qui basta citare un unico episodio, persino paradigmatico: «Lucy is Enceinte», dell’8 dicembre 1952, messo in programmazione perché Lucille Ball era, nella realtà, incinta 5). E, a proposito d’arte che si specchia nella vita (e viceversa), il vero rapporto di coppia tra gli apparentemente affiatatissimi Ball e Arnaz, finito col divorzio nel 1960, è in profonda crisi fin dalle primissime puntate del loro telefilm. L’attrice-produttrice, però, resta lega- FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 157 ta al personaggio di Lucy, ripreso in forme differenti, fin quasi alla morte: in The Lucy Show (id., 1962-1968; 198 episodi nei quali interpreta Lucy Carmichael), in Here’s Lucy (1968-1974; 144 puntate come Lucille Carter), infine in Life with Lucy (1986-1987; a 75 anni, nel ruolo di Lucy Carter). La Ball rappresenta una tra le poche, autentiche attrici comiche del cinema e della televisione americani. Nella «sua» sit-com domina letteralmente la scena, con smorfie da clown e tempi perfetti; inoltre, riesce a ironizzare efficacemente sulle caratteristiche di devozione, indipendenza e ingenuità della donna yankee, rovesciandole letteralmente di senso attraverso i continui disastri combinati dal suo straordinario personaggio. Due famiglie «in nero»: gli Addams e i Munsters La tipica famiglia americana di fine anni ’50 – che tanto bene è promossa attraverso commedie televisive come Lucy ed io – viene letteralmente fatta a fettine, con eleganza ma anche consistenti dosi di veleno (seppure dal retrogusto dolciastro) in due telefilm che contaminano la comedy più classica con atmosfere e iconografia dell’horror (però, rivisto attraverso la lente deformante della parodia): La famiglia Addams (The Addams Family) e I Mostri (The Munsters). Andati in onda quasi contemporaneamente nel 1964, i due show si contendono l’audience, fin dalle prime puntate, a colpi di risate «nere» e gustosi rimandi cinefili, ma anche di tutto sommato spietate radiografie degli zuccherosi quadretti familiari tanto propagandati dai mass media del periodo. In entrambi i casi, comunque, il pubblico risponde a meraviglia. Trasmesso sulla NBC dal 18 settembre 1964 («La famiglia Addams va a scuola», «The Addams Family Goes to School») all’8 aprile 1966 («La carriera di Ofelia», «Ophelia’s Career») – per un totale di 64 episodi da 30 minuti ciascuno – La famiglia Addams deriva dalla popolarissima striscia a fumetti pubblicata dal disegnatore Charles «Chas» Addams sulle pagine del prestigioso settimanale «The New Yorker» fin dalla fine degli anni ’30. Nella versione disegnata, gli Addams sono molto diversi da quelli televisivi, più inquietanti e sinistri e – pur provocando il sorriso – lo fanno in modo assolutamente non consolatorio, bensì macabro e spietato. «Il giovane Chas non voleva esorcizzare il male né addomesticarlo, come faceva Walt Disney. La sua intenzione era quella di far scattare il divertimento attraverso la geniale e grottesca 158 AI CONFINI DELLA REALTÀ rappresentazione del lato oscuro della comicità, evitando gli ammiccamenti e le facili scorciatoie per accattivarsi la complicità dei lettori» 6; insomma, uno humour nero raffinato e sarcastico e una vena surrealistica degna di André Breton. La famiglia Addams televisiva – verrebbe da dire, ovviamente – è meno destabilizzante e cinica: sembra più una commedia sofisticata classica, fotografata come «in negativo». Il casting dello show appare decisamente azzeccato, con attori perfetti per ciascun personaggio: i due coniugi Addams, l’avventuriero Gomez e la sensuale «dark» Morticia, sono tratteggiati magnificamente da John Astin e Carolyn Jones; i loro diabolici pargoli Mercoledì e Pugsley sono, invece, i piccoli Lisa Loring e Ken Weatherwax; poi, truccatissimi, recitano Ted Cassidy nei panni del gigantesco maggiordomo «simil-Frankenstein» Lurch, l’ex bambino prodigio Jackie Coogan come Zio Fester, Blossom Rock nel ruolo della streghesca nonna Frump e Felix Silla in quello del peloso cugino Itt. L’originale quadretto è completato dal «cucciolo» di casa, cioè – letteralmente – «Mano» (che, in originale, si chiama «Thing», «Cosa»). Nel corso della loro carriera catodica, gli Addams devono vedersela con alieni, agenti segreti, artisti, beatnik; ma anche – più prosaicamente – con gli insegnanti dei figli, alcuni vicini troppo curiosi o con semplici medici. Esemplificativo delle atmosfere del telefilm è, per esempio, l’episodio «La malattia di Zio Fester» («Uncle Fester’s Illness»), andato in onda il 22 gennaio 1965: qui, il pallidissimo personaggio di Coogan deve assolutamente guarire da una misteriosa malattia che potrebbe compromettere una già programmata gita familiare. Gomez e Morticia, allora, decidono di far visitare Fester da uno specialista e, appurata l’indisponibilità del medico di famiglia (un «normalissimo» stregone africano specializzato in riti voodoo!), chiamano – a malincuore – un per loro bislacco dottore che, in realtà, ha un’aria decisamente affidabile. Tra equivoci e malintesi, comunque, il distinto professionista riesce a guarire Fester per puro caso, nel momento in cui questi decide di mangiare il mercurio del termometro. Il segreto di questi impagabili personaggi, in definitiva, risiede nella loro costante capacità di irridere le convenzioni sociali, attraverso reiterate provocazioni dei luoghi comuni più usurati dell’american way of life, mascherate sotto la patina horror di superficie. «In un paese sempre più lanciato verso un’irreversibile modernizzazione, gli Addams vanno sempre controcorrente: oppongono il legno decrepito alla fòrmica, privilegiano la ruvida pietra alla plastica e ai laminati, provano orrore – è proprio il caso di dirlo – per tutto ciò che è asettico, deodorato, colorato e FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 159 standardizzato. Sotto sotto, il loro è un rifiuto ante litteram di una società asfissiante e angosciosa, basata sui consumi, sul successo e sull’aggressività» 7. Non è casuale, d’altronde, nonostante l’apparente orrore delle loro vite, il fatto che gli Addams siano davvero felici. La settimana dopo l’esordio di La famiglia Addams, la CBS controbatte mandando in onda – dal 24 settembre, con l’episodio «Munster Masquerade» – le avventure tra horror e commedia di un’altra stravagante famiglia: i Munsters. Il loro telefilm – che in Italia viene tradotto come I Mostri – dura due stagioni, fino al 12 maggio 1966 («A Visit from the Teacher»), per un totale di 70 puntate (da 30 minuti l’una) più alcune «riprese» successive, anche sotto forma di film per il cinema. Le situazioni di I Mostri sono davvero molto simili a quelle della famiglia rivale, con alcune trame che – a distanza di poche settimane – si richiamano tra di loro con più di qualche rimando, tra bambini trasformati in scimpanzé, robot, astronauti, beatnik, amnesie. La differenza principale, però, risiede nel fatto che, mentre gli Addams sono umani (o quasi) seppure molto strani, i Munsters sono autentici mostri che, anzi, si rifanno decisamente all’iconografia cinematografica classica (quella della Universal, per intenderci): il protagonista, Herman Munster (interpretato da Fred Gwynne), richiama il make-up del mostro di Frankenstein ideato da Jack Pierce; la moglie Lily (Yvonne De Carlo) appartiene, invece, a una stirpe di vampiri, come dimostra suo padre (l’attore Al Lewis), buffa caricatura del Dracula di Bela Lugosi; i due pargoli della coppia, Eddie e Marilyn, sono interpretati da Butch Patrick e Pat Priest. Poi, a differenza dei comunque costantemente ansimanti e sovraeccitati Gomez e Morticia Addams, Herman e Lily Munster vengono persino mostrati concretamente a letto insieme: un tabù televisivo inespugnabile in precedenza. E, per qualche strano motivo, la censura catodica permette alle due mostruose famiglie allusioni sessuali che sarebbero state «tagliate» in qualsiasi altro contesto. Ancora una volta, dunque, i mostri fanno il miracolo e diventano, in un certo senso, strumenti di libertà. Il genere fantastico si contamina con quello comico anche in altre due celebri serie familiari di metà anni ’60, imperniate su amabili (e inoffensive) fattucchiere da tinello domestico: Vita da strega (Bewitched, 1964) con Elizabeth Montgomery nei panni della simpatica fattucchiera borghese Samantha, e Strega per amore (I Dream of Jeannie, 1965) con Barbara Eden nel ruolo di una bellissima e sexy «genietta» della bottiglia. 160 AI CONFINI DELLA REALTÀ Vent’anni dopo: da Lucy a Mary Gli anni ’70 della televisione statunitense sono caratterizzati da una massiccia presenza di sit-com, nei palinsesti dei network. Tra queste, alcune di grande successo riprendono e aggiornano «l’eredità» di Lucy ed io, provando a dire la loro sulla nuova condizione della famiglia e della donna americane, in una società molto cambiata rispetto a vent’anni prima. Il successo catodico più clamoroso del periodo è rappresentato dal premiatissimo Mary Tyler Moore Show (id., 1970), in onda sulla CBS per 168 episodi e proclamato, nel 1993, «lo show di prima serata più importante della storia televisiva americana», attraverso un referendum promosso dalla prestigiosa rivista «Entertainment Weekly». Anche stavolta, come per Lucy ed io, a tenere saldamente le redini in mano ci sono la star del progetto, l’attrice Mary Tyler Moore, e suo marito Grant Tinker, produttori con la loro società MTM Enterprises e ideatori assieme a James L. Brooks e Allan Burns. Per capire quanto il telefilm sia amato dai telespettatori americani, basti semplicemente il dato della successiva nascita di altre tre serie di successo, derivanti dall’originale: le sitcom Rhoda (id., 1974) e Phyllis (id., 1975), e il dramma giornalistico Lou Grant (id., 1977), tutte e tre a loro volta premiate da un enorme successo di critica e pubblico. Il personaggio principale del Mary Tyler Moore Show è la trentenne Mary Richards (la Moore), che vive da sola in un piccolo appartamento di Minneapolis e lavora al telegiornale di un canale televisivo locale, la WJM. Del suo microcosmo fanno parte figure bizzarre, nevrotiche e piene di tic: il freddo capo di Mary, il giornalista-produttore Lou Grant (Edward Asner, poi protagonista della serie dedicata al «suo» Lou); i due redattori del telegiornale, il simpatico Murray Slaughter (Gavin MacLeod, che dal 1977 è al centro di Love Boat) e l’egocentrico Ted Baxter (Ted Knight); l’inquilina del piano di sopra Rhoda Morgenstern (Valerie Harper, anche lei destinata a uno show tutto per sé), di origine ebraica e frustrata perché single suo malgrado; la padrona di casa, nervosa e sognatrice, Phyllis Lindstrom (Cloris Leachman, a sua volta interprete principale dello spin-off sul suo personaggio). Ciascuno di loro ha un ruolo tipico e fisso, come deve essere in ogni sit-com che si rispetti; tuttavia, i vari caratteri sono attraversati da più d’una contraddizione: così, per esempio, Rhoda è vittima di una madre ossessiva e possessiva, ma si pone in modo materno nei confronti di Mary; e Lou, FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 161 apparentemente freddo e burbero, ha, in realtà, un cuore d’oro e diventa ben presto il migliore amico della protagonista. I cambiamenti che interessano la società americana appaiono evidenti proprio considerando le differenze sostanziali tra Lucy ed io e il Mary Tyler Moore Show. Qui, infatti, la protagonista è single per sua volontà, vive da sola, lavora e, soprattutto, crea con i suoi vicini e amici una sorta di famiglia allargata, nella quale Lou ha il ruolo del «padre», Rhoda quello della «madre», Ted quello del «figlio immaturo». Di mezzo ci sono stati gli anni ’60, i conflitti generazionali dei «ribelli-senza-una-causa», il ’68: il nucleo familiare «classico» vive un momento di profondo ripensamento, se non ancora di aperta crisi. Pure nel Mary Tyler Moore Show il processo di dissoluzione – persino di una famiglia tanto anomala – appare inarrestabile, soprattutto quando i vari personaggi di contorno lasciano la serie principale per passare ciascuno all’interno di un suo proprio show individuale. Proprio Mary, in ogni caso, cerca di proporsi come autentico collante di tutte le situazioni che si sviluppano nella strana comunità: è la spalla perfetta sulla quale andare a piangere, la confidente sincera e fidata; e casa sua diventa la calamita capace di attirare a sé, costantemente, i vari personaggi (e, quindi, di portarli di scena). Appare accurato, dunque, il ritratto che di Mary Richards fa Giorgio Cremonini, in un suo classico saggio sulla commedia televisiva a stelle e strisce: «Non più giovanissima, si è trovata ad affrontare la vita da sola in un mondo che alle donne concede ben poco (un tema frequente nella TV degli anni ’70). Il suo atteggiamento è fiducioso, ottimista, gentile, accomodante, disponibile; il suo unico desiderio è non contraddire gli altri, non creare complicazioni, adattarsi a tutto ciò che le viene chiesto. Dice di essere “una che prima di andare dal parrucchiere si fa lo shampoo”. Da un lato è come l’uomo vorrebbe che fosse la donna dopo il trauma del femminismo. Dall’altro accetta l’indipendenza che il mondo le impone e si sforza di farla diventare parte del proprio carattere. È insomma combattuta tra due opposti modelli, ovvero vive in prima persona le contraddizioni del mondo» 8. E, principalmente, di una società statunitense che – ben prima di tutte le altre – prova a prendere coscienza del coinvolgimento sempre maggiore delle donne nel suo sistema produttivo e lavorativo. Da questo punto di vista, il «filo rosso» di un’ironica inconciliabilità con il mondo unisce nelle intenzioni – ma separa irrimediabilmente negli esiti – i personaggi di Lucy Ricardo (anni ’50), Mary Richards (anni ’70) e Ally McBeal (anni ’90). 162 AI CONFINI DELLA REALTÀ Altre famiglie decisamente anomale sono al centro di due telefilm «casalinghi» diversissimi tra di loro: uno precede di quattro anni il Mary Tyler Moore Show, l’altro lo segue di sette. Si tratta di Tre nipoti e un maggiordomo (Family Affair, 1966) e Tre cuori in affitto (Three’s Company, 1977). Con il mieloso Tre nipoti e un maggiordomo – ideato e prodotto da Don Fedderson ed Edmund L. Hartman, e andato in onda per 138 episodi – siamo ancora in un contesto sociale più vicino agli anni ’50 che ai ’70. Tuttavia, qui come altrove, il nucleo familiare tradizionale brilla per l’assenza (anche se forzata): poiché un tragico incidente ha ucciso i loro genitori, infatti, tre orfanelli vengono adottati da un ricco scapolo fratello di una delle vittime, l’industriale dal cuore d’oro Bill Davis (interpretato da Brian Keith), che li cresce nel suo lussuoso attico di Manhattan con l’aiuto del barbuto e bonario maggiordomo inglese Giles French (Sebastian Cabot). I ragazzini sono due gemelli dell’età di sei anni, la bionda Buffy (Anissa Jones) e il lentigginoso Jody (Johnnie Whitaker), e la loro sorella quindicenne Cissy (Kathy Garver). Il maggiordomo li cresce come farebbe la più stereotipata tra le mamme: resta sempre in casa con loro, li accompagna a scuola, è responsabile diretto dell’educazione del trio, copre con complicità le loro tante marachelle. Lo zio Bill, invece, torna a casa soltanto di sera (dopo aver lavorato tutto il giorno) e, in una famiglia completamente asessuata, si comporta come un «dongiovanni» impenitente che cerca altrove ciò che sa di non poter ottenere tra le mura domestiche. Col senno di poi, il telefilm si carica di ulteriore senso grazie a una raffinata (e non gratuita) citazione di cui è stato oggetto, nel corso degli anni ’90. Uno tra gli autori televisivi più dotati della sua generazione, il Joss Whedon creatore della «horror comedy» Buffy The Vampire Slayer, riprende nomi e alcune caratteristiche di due personaggi di Tre nipoti e un maggiordomo, per dire la sua – meglio di tante vuote parole – sui mutamenti profondi della società americana nel corso della seconda metà del ’900: la dolcissima Buffy che nel 1966 è soltanto un’orfanella spaurita e bisognosa di affetto, allora, trent’anni più tardi diventa un’aggressiva liceale dotata di superpoteri, unica speranza del genere umano nella lotta contro demoni e nosferatu; e non sembra un caso, quindi, che il mentore della bionda e atletica ammazzavampiri interpretata da Sarah Michelle Gellar – colui che le fa da padre putativo, in una società quasi senza più famiglie – sia inglese e si chiami Rupert Giles, proprio come il maggiordomo-genitore Giles French della serie di tre decenni prima. L’atmosfera di Tre cuori in affitto – ideata e prodotta da Don Nicholl, FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 163 Michael Ross e Bernie West, e andata in onda sulla ABC dal 1977, per sette stagioni e 172 episodi – è completamente diversa e più spregiudicata, in linea con i cambiamenti che hanno interessato i costumi degli americani. Così, a fine anni ’70 diventa normale persino per gli standard dei network televisivi a stelle e strisce che, all’interno di una sit-com, si possa parlare apertamente di omosessualità, giocando continuamente con doppi sensi e allusioni erotiche. Il plot deriva dalla serie inglese Un uomo in casa (Man About the House, 1973) e ruota attorno alle buffe disavventure di Jack Tripper (interpretato da John Ritter), un aspirante cuoco e playboy che diventa il compagno d’appartamento di due ragazze, la brunetta Janet Wood (Joyce De Vitt) e la biondina sexy e svampita Chrissy Snow (Suzanne Somers). Nello stabile di Santa Monica (California), dove i tre vivono sotto lo stesso tetto, abitano anche gli onnipresenti padroni di casa Stanley e Helen Roper (rispettivamente, Norman Fell e Audra Lindley: i loro personaggi diventano protagonisti, nel 1979, di uno spin-off intitolato I Roper, The Ropers), petulante e impotente lui, ipercritica e sessualmente insoddisfatta lei. Jack si finge omosessuale agli occhi dei vicini per dividere senza problemi l’appartamento con le affascinanti fanciulle (che lo assecondano nella bugia); e poi, è proprio lui a fare da «angelo del focolare» mentre le ragazze vanno a lavorare, con un rovesciamento completo dei ruoli presenti in tutte le sit-com. Proprio questo elemento, tra l’altro, rende credibile, agli occhi di persone dalla mentalità antiquata come i Roper, l’omosessualità del personaggio («Un vero uomo non resterebbe mai in casa a sbrigare le faccende domestiche e a cucinare!») e provoca una serie infinita di equivoci e situazioni divertenti, conseguenza soprattutto dei reiterati tentativi di Tripper d’affascinare le coinquiline. «Il tema ricorrente è l’opposizione desiderio/frustrazione: il desiderio di Jack per le ragazze e il loro rifiuto che condiziona la permanenza nell’appartamento; il desiderio della signora Roper cui risponde l’impotenza del marito. In ogni caso il desiderio non viene soppresso, ma solo dilazionato, perché il meccanismo fondante è appunto quello della frustrazione» 9. È curioso, a tale proposito, il nome stesso del personaggio principale, quasi a voler suggerire una sottotraccia inquietante in relazione ai suoi rapporti con l’altro sesso: Jack Tripper, infatti, nella lingua inglese ha la stessa pronuncia di Jack The Ripper, lo storico «squartatore» che terrorizzò la Londra vittoriana facendo strage di prostitute, anche lui a suo modo schiavo della dicotomia desiderio/frustrazione nei confronti del sesso e delle figure femminili. Come a voler dire, forse, 164 AI CONFINI DELLA REALTÀ che più di cent’anni dopo un maniaco assassino può ancora albergare nelle profondità dell’animo persino del più inoffensivo e simpatico dei cittadini medi (d’altra parte, al tempo dello squartatore – la cui identità rimase sconosciuta – i sospetti coinvolsero proprio diversi membri della buona borghesia londinese, persino vicini alla Corona: esponenti della classe media, quindi). E a proposito di americani medi, il loro ritratto più scomodo e graffiante arriva da quello che è il più grande successo degli anni ’70, assieme al Mary Tyler Moore Show, cioè la famosissima sit-com Arcibaldo (All in the Family, 1971; 202 episodi), creata da Johnny Speight e prodotta, tra gli altri, dal geniale Norman Lear. Lo show – noto in Italia anche come Tutti a casa – si regge quasi per intero sul personaggio principale, interpretato da uno straordinario Carroll O’Connor nel ruolo di Archie Bunker, un cinquantenne caposquadra ai docks della Pendergast Tool and Die Company: iper-conservatore, razzista xenofobo, egoista, maschilista, puritano, ignorante, completamente chiuso nel suo piccolo universo che coincide con le pareti del soggiorno di casa, Archie incarna tutto ciò che l’uomo della strada non vorrebbe mai sentirsi dire. Insomma, quello di Arcibaldo è il mondo come dovrebbe essere nelle sitcom, cioè un’esagerazione iperbolica e caricaturale di quello reale, ma come in definitiva non appare quasi mai nelle situation comedy americane, sempre troppo impegnate a mettere in scena un’idea perfetta (e falsissima) di società. A completare il personaggio di Archie c’è quello della sottomessa moglie Edith (Jean Stapleton), casalinga che vive unicamente in funzione del marito; e poi, la figlia Gloria (Sally Struthers) e il marito Mike Stivic (Rob Reiner), di origini polacche e per questo motivo continuamente vessato dall’insopportabile suocero. L’enorme successo dello show produce anche due spin-off: Maude (id., 1972), imperniato sul personaggio di una cugina di Edith, e soprattutto I Jefferson (The Jeffersons, 1975; 253 episodi), sui vicini di casa neri della famiglia Bunker e autentica versione «black» delle loro avventure. Ma il decennio propone diverse altre sit-com «anomale» come, per esempio, Giorno per giorno (One Day at a Time, 1975; 200 episodi) di Norman Lear, imperniata su una famiglia fatta di sole donne (una madre divorziata e le sue due figlie: situazione tipica del periodo); la sferzante Mary Hartman, Mary Hartman (id., 1976; 325 episodi), ideata ancora da Norman Lear e interpretata da Louise Lasser nel ruolo di una donna che vive come se si trovasse in una soap opera; Alice (id., 1976; 202 episodi), creata da Robert Getchel a partire dal film di Martin Scorsese dell’anno FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 165 precedente (Alice non abita più qui, Alice Doesn’t live Anymore, 1975), e interpretata da Linda Lavin nel ruolo di una cameriera trentacinquenne vedova con figlio a carico; Taxi (id., 1978; 113 episodi), con comici oggi famosissimi come Danny De Vito e il compianto Andy Kaufman; il celeberrimo show di La famiglia Bradford (Eight is Enough, 1977; 114 episodi), con le disavventure del giornalista Tom Bradford (Dick Van Patten) alle prese con i suoi otto figli d’età compresa tra i sette e i ventitré anni; l’ideologicamente discutibilissimo Harlem contro Manhattan (Different Strokes, 1978; 189 episodi), con i «mitici» – soprattutto in Italia, per la verità, dov’è nota anche con il titolo Il mio amico Arnold – fratellini neri Arnold e Willis (Gary Coleman e Todd Bridges) adottati dal ricco industriale bianco Philip Drummond (Conrad Bain) e omologati senza scampo, quindi, alla «cultura dominante». Anche la TV sta cambiando: s’inizia a parlare di conflitti interrazziali, droga, violenze sui minori persino nelle sit-com. C’è, però, chi preferisce guardare ancora all’indietro: come al solito, agli anni ’50. Ritorno agli «Happy Days» Negli anni ’70, gli Stati Uniti si trovano a vivere un periodo piuttosto critico per la guerra del Vietnam, l’inflazione, le tensioni sociali che attraversano la società, l’aumento della violenza nelle strade. E, inevitabilmente, la situazione influenza anche il mondo dello spettacolo, che – in cerca di evasione da «dare in pasto» al pubblico – sposta i contenuti di molti suoi prodotti di fiction indietro nel tempo, verso una mitica età passata che appare priva dei gravi problemi del presente, con il paese che non ha ancora perso la propria innocenza, simbolicamente in frantumi nel 1963 con l’omicidio del presidente Kennedy. Si giustifica anche così, dunque, il revival nostalgico di un periodo come gli anni ’50. Nel 1970, però, la ABC prova ad andare ancora più indietro, con la convinzione che gli anni ’30 possano essere ancora «migliori» dei ’50: mette in produzione, infatti, la nuova edizione di una popolarissima trasmissione di quell’epoca, I Remember Mama, della cui progettazione viene incaricato l’autore cinematografico e televisivo Garry Marshall. Inaspettatamente, però, Marshall rifiuta dicendosi poco interessato a quel decennio e rilancia con un suo progetto imperniato su una tipica famiglia americana dei «Fifties», che sente come i «suoi» anni: nasce così – in un pilot di mezz’ora, intitolato «A New Family in Town» – la 166 AI CONFINI DELLA REALTÀ famiglia Cunningham, con Ron Howard, Marion Ross, Anson Williams nei personaggi che conosciamo ancora oggi, mentre Harold Gould interpreta il ruolo del signor Cunningham. L’esito di questo telefilm, però, è abbastanza deludente e la ABC decide di utilizzarlo come episodio della romantica serie antologica Love, American Style (id., 1969), con il titolo «Love and Happy Days» (in onda il 25 febbraio 1972). La situazione cambia dopo qualche anno, quando il revival dei decenni passati prende maggiormente piede, grazie al successo del musical teatrale Grease di Jim Jacobs e Warren Casey e del film American Graffiti (id., 1973) di George Lucas, che a sua volta trae l’ispirazione proprio dal già citato episodio di «Love, American Style» e, non a caso, sceglie Ron Howard per la sua pellicola. In tale contesto, dunque, il progetto di Marshall, pur concepito qualche anno prima, può essere definitivamente realizzato. La ABC spinge l’autore a riprendere la sua idea del 1970, «consigliando» alcune modifiche: in particolare, suggerisce di inserire temi alla moda, come quello delle «bande giovanili» e delle automobili. Così, nel gennaio 1974, va in onda per la prima volta Happy Days (id.), che l’ideatore Garry Marshall produce assieme a Thomas L. Miller e Edward K. Milkis. Dopo il primo ciclo di prova lungo 16 episodi (stagione televisiva 1973-1974), ne saranno trasmesse, per 11 stagioni, ben 255 puntate da 30 minuti l’una, a riprova di un successo che si rivela superiore a qualunque previsione della vigilia. Alla base del progetto c’è l’esigenza di rivolgersi agli adolescenti (il segmento più vasto di consumatori) senza affrontare temi scabrosi e tragicamente presenti nella quotidianità, come per esempio la droga. E, da questo punto di vista, gli anni ’50 sono il periodo perfetto per parlare dei travagli tipici dei giovani, evitando quei richiami alla contemporaneità che sarebbero necessari per dare realismo all’insieme. Marshall e il suo staff decidono, dunque, quali devono essere i temi intorno ai quali sarebbero ruotate le storie: innanzitutto, la famiglia; e poi, i problemi adolescenziali, soprattutto per ciò che concerne il rapporto con l’altro sesso e l’ansia di crescere. Al personaggio di Fonzie, unica concessione al tema delle «bande giovanili», sono affidati i cosiddetti «momenti di riflessione» che non riguardino temi squisitamente familiari. Per il ruolo del «teppista dal cuore d’oro» – che, all’inizio, Marshall immagina biondo e ben messo – viene scelto Henry Winkler, che impressiona tutti per la rispondenza al ruolo. Secondo le direttive dell’autore, Fonzie è un ragazzo che ha appena lasciato la scuola, più vecchio ed esperto degli altri; un FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 167 ex membro della banda dei Falcons (ex poiché non si sarebbero potute mostrare risse o atti di teppismo in TV) che adesso lavora come meccanico: il suo vero nome è Arthur Fonzarelli, con evidenti origini italiane. Dopo l’episodio inaugurale, la ABC impone alcune modifiche al personaggio – approfittando di un viaggio di Marshall alle Hawaii – e gli toglie il caratteristico giubbotto di pelle nera, giudicato poco rassicurante per i telespettatori. Al suo ritorno, però, l’autore rimette tutto a posto, rendendo in ogni caso Fonzie sempre più buono, con forti valori tradizionali e un suo codice morale. Come protagonista femminile, per la parte della signora Marion Cunningham, è confermata l’attrice Marion Ross, convincente già nel pilot di qualche anno prima; mentre suo marito Howard assume il volto di Tom Bosley, «normale» quanto basta ma anche attore già rodato e in grado di gestire i rapporti con un cast quasi tutto molto giovane. La spigliata Erin Moran ha la parte della loro figlia minore Joanie, detta «Sottiletta»; mentre Ron Howard – anche lui già presente nell’episodio pilota – «ridiventa» il figlio maggiore Richie, vero protagonista accanto a Fonzie e simbolo del tipico adolescente americano di classe media, timido e impacciato, ma leale e generoso. Gli amici di Richie, cioè l’imbranato Potsie Weber e il divertente Ralph Malph, sono interpretati rispettivamente da Anson Williams e dal rosso e lentigginoso Donny Most. Altri personaggi di una certa importanza sono Arnold (Pat Morita) e Alfred (Al Molinaro), i due simpatici cuochi che si succedono alla gestione del locale dove si riuniscono i ragazzi (il celeberrimo Arnold’s); e, in un secondo momento, entra nel gruppo Chachi (Scott Baio), un giovane cugino di Fonzie. Se l’ambientazione temporale è quella degli anni ’50, per quella geografica Marshall opta per Milwaukee, sorta di compromesso tra l’America dell’Est e quella dell’Ovest, nonché tra realtà rurale e urbana. Tuttavia, gli ambienti restano abbastanza neutri e senza riferimenti troppo precisi, anche per facilitare il lavoro degli sceneggiatori che, altrimenti, avrebbero di volta in volta dovuto confrontare le caratteristiche di ogni singolo luogo negli anni ’50 con quelle attuali. Dopo il successo della prima serie, Garry Marshall pensa di rendere il telefilm più divertente, attraverso alcune modifiche: innanzitutto, essendo l’umorismo più controllabile durante le riprese in interni, decide di ridurre al minimo gli esterni; in secondo luogo, per favorire la resa recitativa degli attori, comincia a girare di fronte a un pubblico vero. Il successo è ancora maggiore, ma Marshall viene costretto a reimpostare 168 AI CONFINI DELLA REALTÀ nuovamente i presupposti del telefilm, quando – alla vigilia della terza serie – la nuova «parola d’ordine» della ABC diventa: «Dare più spazio a Fonzie», nel frattempo diventato il beniamino del pubblico anche grazie alle espressioni inventate sul set da Winkler (come il celebre «Hey, hey, hey!»). La soluzione migliore che non snaturi il personaggio (molto amato anche da Marshall) ma lo renda più presente, è quella di trasferire Fonzie nella casa dei Cunningham, in un appartamento costruito sopra il loro garage. Gli spettatori, già dal primo episodio della terza stagione, iniziano a vederlo sempre più come un autentico eroe – il punto di riferimento per l’intero gruppo di amici – e meno come un semplice «duro»: è proprio questo «restyling» a produrre, per esempio, un episodio tra i più famosi dell’intera serie, cioè quello in cui Fonzie realizza il nuovo record del salto dei bidoni con la moto. Gli Stati Uniti degli anni ’50 tratteggiati da Happy Days si rifanno direttamente alle rappresentazioni televisive di vent’anni prima (edulcorate e semplificate), più che all’immagine reale del paese. Situazioni e personaggi delle commedie televisive familiari dei «Fifties» sono resi eccessivi e, in alcuni casi, spinti al limite della parodia. La musica diventa un elemento essenziale di caratterizzazione, con una colonna sonora piena di hit del rock ’n roll per restituire gli umori dell’epoca. I luoghi sono ridotti essenzialmente a due, entrambi altamente simbolici: la casa della famiglia Cunningham – anzi, quasi sempre il salotto, cioè lo spazio di rappresentanza: una sorta di palco teatrale sul quale mettere in scena le proprie esistenze – e il pub dove si ritrova il gruppo di amici che anima i vari episodi. Questi luoghi, con rarissimi esterni (a parte le ricorrenti facciate di casa Cunningham e di Arnold’s), incarnano proprio i due temi e i due momenti centrali del telefilm: quello dei rapporti familiari (aspetto privato) e l’altro delle questioni giovanili (aspetto pubblico); mondi che, in Happy Days, non si toccano quasi mai tra loro ma procedono parallelamente e, quando convergono, lo fanno per generare conflitti (come nell’episodio che vede Joanie scappare di casa e unirsi alla rockstar Leather Tuscadero, interpretata da un’autentica «diva» del rock come Suzi Quatro). Il nucleo familiare proposto dal telefilm di Marshall è ancora quello tradizionale «cinquantesco», però i genitori non sanno mai ciò che fanno realmente i propri figli, quando sono al drive-in oppure al fast food; questi ultimi, da parte loro, trovano nell’amico teppista il confidente ideale, piuttosto che nei genitori. Va detto, comunque, che tutti i conflitti, in Happy Days, trovano una loro zuccherosa ricomposizione. FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 169 Sull’onda inarrestabile del suo successo, la serie di Garry Marshall produce ben tre spin-off: Laverne e Shirley (Laverne & Shirley, 1976; 178 episodi e successo quasi pari alla serie di origine), la sit-com «fantastica» Mork e Mindy (95 puntate e altro grande successo) e il pessimo Jenny e Chachi (Joanie Loves Chachi, 1982; soli diciassette episodi). In particolare, Mork e Mindy è interessante perché rappresenta il trampolino di lancio per Robin Williams, attore destinato poi a raggiungere le vette di Hollywood, e per l’efficacia con cui contamina il genere fantastico e quello comico. Mork è un alieno proveniente dal pianeta Ork, giunto sulla Terra in un episodio di Happy Days, per rapire Richie Cunningham. Il clamoroso gradimento che ne accompagna l’esilarante apparizione (con tanto di «duello» con Fonzie) convince Marshall a dare al personaggio una serie tutta sua. Nel nuovo show, davvero molto divertente, l’extraterrestre si stabilisce in casa della giovane commessa Mindy McConnell (interpretata da Pam Dawber); i due diventano amici e, nel corso delle stagioni, finiscono per sposarsi, andare in luna di miele su Ork e avere persino un figlio che nasce alla maniera «orkiana»: da un uovo e già anziano, per poi ringiovanire. Mork e Mindy si conclude nel 1982, proprio nell’anno in cui un altro celebre alieno – stavolta cinematografico – viene ospitato da una dimora del nostro Pianeta, in E.T. l’Extra-Terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial) di Steven Spielberg. Negli anni ’90, poi, a partire dal 1996, l’idea alla base di Mork e Mindy viene portata alle estreme conseguenze nell’ottima fanta-sit-com Una famiglia del 3o tipo (3rd Rock from the Sun), imperniata addirittura su un intero gruppo di alieni che, per studiare meglio i terrestri, si incarnano in una tipica famigliola middle class della provincia americana: il bizzarro spunto di partenza dà l’occasione per affrontare anche temi inusuali per la fiction comica televisiva come, per esempio, la guerra oppure la disparità nei salari dei lavoratori. La serie è ideata dai coniugi Bonnie e Terry Turner e ha tra gli interpreti John Lithgow e Kristen Johnston. Dalle risate anni ’80 alla «sit-com nera»: Welcome to Twin Peaks Per gli autori di commedie televisive a sfondo familiare, il clima degli anni ’80 rappresenta l’ideale per proseguire lungo strade collaudate e poco rischiose, con poche eccezioni intelligenti come Cin Cin (270 episodi) con Ted Danson e Shelley Long, Casa Keaton (Family Ties, 1982; 170 AI CONFINI DELLA REALTÀ 165 episodi) con Michael J. Fox e I Robinson (The Cosby Show, 1984; 197 episodi) con Bill Cosby. In particolare, i principali motivi di interesse di Casa Keaton – ideato dall’ex hippie Gary David Goldberg – risiedono nel modo in cui il conflitto genitori/figli diventa esplicitamente politico oltre che generazionale: con i primi, ex sessantottini e figli dei fiori, democratici e di idee progressiste; e i secondi, perfetti esemplari dell’era reaganiana, arrivisti, cinici, di posizioni repubblicane e conservatrici, nonché aspiranti capitalisti (in tal senso, appare riuscitissimo il personaggio di Alex, interpretato da Fox). Insomma, gli Stati Uniti sono cambiati per sempre: una mutazione antropologica che non concede più tempo e spazio agli ideali degli anni ’60, in una società sempre più protesa verso il successo materiale. L’evoluzione perfetta di Casa Keaton è, nel 1996, l’esilarante Spin City (id.), sit-com che ha proprio la politica come argomento centrale, dato che si svolge all’interno del Municipio di New York: il merito del progetto è ancora del duo formato da Gary David Goldberg (ideatore assieme a Bill Lawrence) e Michael J. Fox, interprete di un personaggio che è come una ripresa di Alex di Casa Keaton, cresciuto e reso ancora più cinico dalla vita. L’arrivo degli anni ’90 segna una piccola rivoluzione per quel che riguarda i serial di genere familiare, non necessariamente comici. La decade, infatti, è aperta da una «gemma oscura» che porta sotto l’obiettivo «l’altra faccia» della famiglia a stelle e strisce, il suo lato oscuro e terribile. Per effettuare questo tuffo nell’Incubo Americano, basta spostarsi da Columbus, Ohio, dove vive la famiglia Keaton, fino a una piccola e tranquilla cittadina (immaginaria) quasi al confine col Canada: Twin Peaks. Qui il regista David Lynch e il produttore Mark Frost ambientano un progetto televisivo per molti versi rivoluzionario rispetto alla tradizione della serialità catodica statunitense: I segreti di Twin Peaks, in onda sulla ABC dall’aprile 1990 e considerato all’epoca come «il primo grande esempio di televisione “d’autore”» 10. Il cartello di benvenuto nella placida cittadina recita un beneaugurante «Welcome to Twin Peaks», lungo una strada statale alberata che costeggia pescosi laghi di montagna. Siamo a poco più di cinque miglia dal confine canadese e la piccola Twin Peaks sembra un autentico paradiso, orgoglioso delle sue antiche tradizioni e di una prosperità economica nata e sviluppatasi sul commercio del legname; una realtà, insomma, fatta di concretezza del lavoro materiale quotidiano e di legami familiari decisamente solidi, di torte di mele e feste scolastiche al chiaro FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 171 di luna. Sembra proprio di trovarsi lontano dalle nevrosi degli anni ’90, catapultati come d’incanto – con lo stesso effetto straniante subìto dal Marty McFly protagonista di Ritorno al futuro (Back to the Future, 1985, di Robert Zemeckis) – in un classico contesto suburbano degli anni ’50. Ma tutto ciò non è altro che una mera facciata. Con I segreti di Twin Peaks, infatti, David Lynch smaschera definitivamente – perché, si badi bene, lo fa in televisione – le ipocrisie del «Sogno americano», che ha prosperato per decenni proprio sull’immaginario derivante dalle sit-com televisive come Lucy ed io. Lo fa manipolando e mixando sapientemente gli stilemi di generi che rimandano alla «Golden Age» della TV statunitense, come la soap e il poliziesco, rovesciando del tutto i concetti cardine delle sit-com tradizionali (il riso in pianto, la gioia in dolore…) e rifacendosi per diversi altri elementi a classici del grande schermo come Passaggio a Nord-Ovest (Northwest Passage, 1940, di King Vidor) e, soprattutto, I peccatori di Peyton (Peyton Place, 1957, di Mark Robson), richiamato fin dal titolo. «Un pesante marchio di Lynch è la predilezione per gli anni ’50, a cui tutti i suoi film in qualche modo rimandano. Non a caso, è il periodo in cui il regista stesso usciva dall’infanzia. […] In I segreti di Twin Peaks la galleria dei personaggi comprende vari modelli – dal ribelle solitario a quelli riuniti in gang, dalla capricciosa figlia di papà agli amanti clandestini, dagli avidi uomini d’affari ai poliziotti integerrimi – fortemente radicati nell’immaginario collettivo degli anni ’50. Il modo in cui Lynch rievoca questo periodo merita una riflessione: dando sfogo agli impulsi sotterranei, repressi, ipocritamente negati dell’America di allora, permette anche ai suoi valori autentici – il suo spirito d’avventura, il suo ingenuo pragmatismo, il non arrendersi – di risultare senza apparenza di inganno» 11. Ma qui, comunque, ciò che l’autore vuole mostrare sui teleschermi è soprattutto il lato oscuro della famiglia yankee, quello meno confessabile, con tutte le perversioni e violenze (fisiche e psicologiche) tenute sempre serrate sotto chiave nei prodotti seriali del passato. E dunque, a innervare il tessuto sociale di Twin Peaks – come si scopre con l’evolversi degli episodi – ci sono forti conflitti generazionali, persino incestuosi all’interno delle varie famiglie; ammirate reginette di bellezza del liceo locale che, in realtà, si rivelano ninfomani e cocainomani; storie d’amore infarcite di tradimenti, anche multipli; rispettabili uomini d’affari che nascondono trame inconfessabili; psicoanalisti drogati e insospettabili avvocati schizofrenici, con i nervi distrutti e persino posseduti da entità maligne. 172 AI CONFINI DELLA REALTÀ La chiave di ingresso per entrare in questo mondo oscuro e dalla doppia morale è rappresentata dal ritrovamento del cadavere di Laura Palmer (Sheryl Lee), la bionda e apparentemente irreprensibile reginetta del liceo cittadino, il cui corpo nudo emerge all’improvviso dalle acque del lago. L’avvenimento luttuoso dà il via a una serie di vicende destinate a sgretolare, letteralmente, la «placida» Twin Peaks, passata al setaccio nel corso delle sue indagini – con fare quasi da entomologo – dal giovane agente FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan). A uno sguardo superficiale, I segreti di Twin Peaks può apparire, dunque, come un serial poliziesco, anche se piuttosto anomalo. In realtà, ciò che interessa davvero a Lynch non è la risoluzione del mistero in cui ha calato l’attonito spettatore, bensì «l’annegamento» del suo pubblico in un clima, un’atmosfera di malsana inquietudine, da cui sembra non esserci via di scampo. «“Chi ha ucciso Laura Palmer?” non è tanto il quiz da risolvere, quanto la formula iniziatica che permette l’accesso a un mondo di mistero. Il “piacere”, il motivo di interesse, si sposta dall’attesa della soluzione alla moltiplicazione delle domande, dall’estinguersi dei segreti al loro allargarsi verso sempre più numerosi aspetti della vita dei personaggi. Saperne di più, insomma, significa rendersi conto che anche quanto appare normale cela il mistero» 12. E il riferimento alle sitcom degli anni ’50 – con la loro «realtà normale», edulcorata e semplificata – diventa, a questo punto, quasi obbligatorio e fortemente eversivo. D’altra parte, il rovesciamento perseguito da Lynch diventa ancora più evidente se si pensa all’uso ossessivo che egli fa di alcuni elementi tipici del suo modo di narrare, come, per esempio, le lacrime: come, infatti, nelle sit-com classiche il sorriso – a volte anche un po’ forzato – è centrale e onnipresente; così, all’opposto, in I segreti di Twin Peaks si piange tanto e l’identità stessa dei vari personaggi è definita proprio attraverso il dolore. «Raramente, o forse mai, si sono viste versare tante lacrime (cinque scene con uomini che piangono nella prima mezz’ora sono una specie di record): una situazione melodrammatica tipica della soap opera viene proposta qui con tanta intensità da risultare quasi insostenibile. Ancora una volta, siamo al limite di quella che potremmo chiamare “pornografia del dolore”» 13. E ancora, mentre la morte è addirittura bandita dalle situation comedy (ed è mostrata rigorosamente fuori campo visivo nelle soap), qui funge da punto di partenza e «motore» stesso dell’intera vicenda (Laura Palmer è già stata uccisa, all’inizio), ne è l’antefatto, il presupposto che muove tutti i personaggi. Anche i conflitti generazionali, sempre ben occultati nelle sit-com degli anni ’50 14, sono morbosamente FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 173 portati in scena da Lynch, fino all’eccesso dell’incesto, come ben esemplificano perlomeno un paio di sequenze: nella prima, Leland Palmer (Ray Wise) si getta sulla bara della figlia Laura mentre sta per essere calata sottoterra, facendo spezzare il meccanismo della carrucola e costringendo la cassa a sussultare su e giù sotto il proprio peso, come durante un atto sessuale; nel secondo caso, poi, la sensuale Audrey Horne (Sherilyn Fenn) decide di andare a lavorare nel bordello di cui è cliente anche suo padre, il miliardario Benjamin (Richard Beymer), che nella seconda serie non potrà fare a meno d’incontrarla. E anche dal punto di vista strutturale, I segreti di Twin Peaks propone non poche innovazioni rispetto al passato. La dimensione temporale della narrazione, innanzitutto, è essa stessa allucinogena e allucinata, poiché l’eterno presente della serialità catodica è costantemente sabotato con reiterati cortocircuiti tra passato e futuro che vi fanno irruzione, come flash quasi subliminali, mutandolo di segno (e di senso). La musica «eccentrica» di Angelo Badalamenti «agisce» spesso per contrasto rispetto alle immagini (si pensi all’importante sequenza dell’episodio pilota, ambientata nel Roadhouse, con Julee Cruise che canta un brano romantico e struggente mentre, sullo sfondo, è in atto una violenta scazzottata). L’ipnotica lentezza con cui Lynch gira, poi, contravviene qualunque regola del prime time televisivo (la fascia oraria in cui va in onda Twin Peaks), tutto improntato solitamente a ritmi concitati e serrati, per paura di annoiare e, quindi, far perdere potenziali clienti agli inserzionisti dei vari programmi. E proprio lo stacco per la pubblicità è spesso previsto – altra piccola, grande «rivoluzione» – su immagini programmaticamente prive di tensione drammatica e anzi fini a se stesse (il contrario, insomma, del cliffhanger). Altro elemento peculiare di I segreti di Twin Peaks – e che si rivelerà seminale, per i serial televisivi degli anni successivi – è, poi, costituito dall’irruzione di «schegge» impazzite di fantastico nel tessuto realistico della quotidianità (basti pensare, tra i tanti possibili esempi, ai soli personaggi di Killer Bob e dell’Uomo-da-un-altro-spazio). Così, durante un suo bel libro-intervista, Chris Rodley fa notare allo stesso David Lynch come «da Twin Peaks in poi si è verificato un evidente incremento di programmi concentrati sul paranormale, gli UFO e altre stranezze: Wild Palms, American Gothic, X-Files. A quanto pare Twin Peaks ha inaugurato un filone. […] Determinati argomenti o determinate storie non figuravano regolarmente nella programmazione televisiva, né erano popolari come lo sono oggi. Col senno di poi, potremmo affermare che 174 AI CONFINI DELLA REALTÀ Twin Peaks ha contribuito a creare una certa bramosia per questo genere di materiale» 15. In particolare, come visto nelle pagine dedicate a XFiles, sembra abbastanza stretto il legame con quest’ultima serie, come dimostrano le atmosfere e l’ambientazione dell’episodio pilota del telefilm ideato da Chris Carter (che, tra l’altro, vede uno dei due protagonisti, David Duchovny, impegnato in una comparsata «en travesti» proprio all’interno di I segreti di Twin Peaks). Insomma, pescando nel vastissimo territorio dell’immaginario compreso tra Stephen King e Peyton Place, David Lynch porta, per la prima volta all’interno dei tinelli domestici, «un incrocio multidirezionale tra testi diversissimi e generi disparati, usando come unico collante il fanta-horror. E usandolo, si badi bene, con una durezza di linguaggio così efficace che, pur non frequentando per ovvi motivi lo “splatter” (non ci si dimentichi mai della specifica natura del pubblico televisivo), più di un passaggio risulta particolarmente disturbante» 16. E proprio «disturbante» può essere l’aggettivo che meglio definisce un altro telefilm di poco successivo rispetto a I segreti di Twin Peaks e a questo direttamente ispirato: La famiglia Brock (Picket Fences, 1992), ideato e prodotto da David E. Kelley e andato in onda per 88 episodi. La cittadina fittizia di Rome nel Wisconsin fa da cornice alle vicende – prive di elementi fantastici, però, a differenza della serie di David Lynch – di personaggi torbidi, che nascondono scandali e segreti dietro la facciata di un’apparente tranquillità tipicamente provinciale. Protagonista dello show è la famiglia dello sceriffo locale, Jimmy Brock (Tom Skerritt), con la moglie Jill (Kathy Baker) e i figli Kimberly (Holly Marie Combs), Matthew (Justin Shenkarow) e Zachary (Adam Wylie). Tra i temi affrontati nel corso dei vari episodi, spiccano argomenti «forti» come la pedofilia, il nazismo, l’omosessualità, la religione e, addirittura, il parricidio; con «infiltrazioni» provenienti da generi differenti come il poliziesco, il dramma socio-politico, la sit-com satirica. Non basta più, dunque, un unico registro narrativo per dar conto delle inedite complessità di un tessuto sociale e familiare che, finalmente, anche la televisione cerca di mostrare con il suo vero volto e non, come in passato, con quello che si vorrebbe fosse reale. Ancora famiglie problematiche di provincia, ma stavolta di estrazione assolutamente diversa, sono quelle protagoniste della serie «di qualità» con la quale – alla fine degli anni ’90 – ha conquistato la notorietà lo sceneggiatore-produttore italoamericano David Chase (vero nome David DeCesare): I Soprano (The Sopranos, 1999), prodotta e man- FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 175 data in onda dalla HBO con indici d’ascolto impensabili per una televisione via cavo a pagamento (una media di undici milioni di telespettatori). Il telefilm ideato da Chase è ambientato in un New Jersey che mai prima era stato restituito per immagini con una tale efficacia (forse, soltanto attraverso le canzoni di Bruce Springsteen): in questo contesto di quotidianità quasi monotona s’intrecciano le esistenze dei vari personaggi. Con un’avvertenza: sono tutti italoamericani e la maggior parte di loro appartiene alla mafia. Il protagonista assoluto, interpretato da un bravissimo James Gandolfini, è Tony Soprano, boss della zona che si esercita a fare l’essere umano e che cerca di barcamenarsi tra i problemi delle sue due «famiglie», quella vera – con la moglie e i due figli, i litigi e le piccole e grandi ipocrisie di tutti i giorni – e l’altra, mafiosa. Nell’episodio pilota, Tony è costretto addirittura a rivolgersi a una psicanalista, l’affascinante dottoressa Jennifer Melfi (Lorraine Bracco), per cercare di porre rimedio a una serie di attacchi d’ansia sempre più frequenti. Se lo spunto di partenza è simile a quello del film Terapia e pallottole (Analyze This, 1999) di Harold Ramis, gli intenti di Chase sono altri, ben oltre le fortissime polemiche che continuano ad accompagnare la messa in onda della serie (gli italoamericani si dicono offesi per come sono ritratti; le associazioni dei genitori protestano per la troppa violenza, le scene osé e le parolacce). «Questa è – spiega l’autore – una storia sull’America. Chiunque la segue con un briciolo d’intelligenza lo capisce subito. È una storia che riguarda tutti. Chi si lamenta è un fanatico dell’etnia» 17. E, nel descrivere lo show, tocca i tasti giusti anche Stephen Holden, nell’introduzione a una monografia curata dalla redazione del «New York Times»: «I Soprano, più di qualsiasi programma televisivo americano, ha il colore e il sapore della vita vera, come la si vive negli Stati Uniti, nel mondo sovraffollato di Internet, dei centri commerciali, della musica rap e delle speculazioni in borsa. Basta guardarne un episodio per ritrovarsi con la sensazione nauseante di avere ingurgitato un’abbondante porzione di realtà, con la sua surreale commistione di ricchezza e brutalità. Tony, questo boss mafioso del New Jersey, non è un re esotico e ferocissimo recluso nella propria inaccessibile fortezza di pietra. È un signor Rossi tormentato, che ha superato la quarantina e che, fatta eccezione per il suo lavoro, non è affatto diverso da noi» 18. È, infatti, un uomo tranquillo, un borghese come tanti: ama la propria famiglia, si preoccupa per le inquietudini dei figli adolescenti, porta avanti col buon senso del ragioniere l’attività del suo strip-bar, cerca di 176 AI CONFINI DELLA REALTÀ tener testa a un parentado piuttosto turbolento, mantiene segretamente la sua amante in un appartamentino fuori città, vive di piccole e grandi menzogne. Insomma, Tony è un personaggio normale e, a tratti, persino simpatico. Lo scandalo di I Soprano, però, arriva proprio da qui: dalla capacità che ha Chase di guardare dritto negli occhi il male, per descriverlo in tutta la sua agghiacciante normalità, attraverso «un realismo comico dalla grana sottile, caratterizzato da una complessità e un verismo che non era mai stato visto prima in televisione» 19. Non deve meravigliare, quindi, che Tony sia capace – nello stesso episodio – di accompagnare, ansioso e amorevole, la figlia nel Maine per la scelta del futuro college da frequentare e, non visto, di uccidere a sangue freddo un informatore dell’FBI incontrato per caso sulla propria strada (e le immagini mostrano tutto, senza nessuna ellissi che suonerebbe fasulla e giustificatoria); oppure, di rincorrere un suo debitore e ridurlo quasi in fin di vita a mani nude e poi, tornato a casa, immalinconirsi perché i figli forse hanno scoperto che lui non si occupa davvero di riciclaggio dei rifiuti: il termine «famiglia», insomma, per i Soprano ha un significato molto particolare. La serie, tra le altre cose, ha l’enorme merito di schierare uno straordinario gruppo di interpreti: accanto a Gandolfini e Lorraine Bracco, infatti, Edie Falco ricopre il ruolo di Carmela, la moglie di Tony; Jamie Lynn Sigler è la ribelle figlia Meadow; Robert Iler, suo fratello minore Anthony Jr.; Dominic Chianese è zio Junior, il fratello del padre di Tony, perennemente insoddisfatto della sua posizione nel clan; David Proval, è il malvagio Richie Aprile, che finisce male per mano di Janice (Aida Turturro), la sorella di Tony; e poi, Jerry Adler è Hesh Rabkin; Michael Imperioli, Christopher Moltisanti, un nipote di Tony indeciso tra la carriera di mafioso e quella di sceneggiatore cinematografico (di film di mafia, ovviamente); Vincent Pastore è lo scagnozzo «Big Pussy» Bompensiero; «Little» Steven Van Zandt – sì, proprio il «mitico» chitarrista di Springsteen – è un altro amico di Soprano, il ristoratore Silvio Dante; Tony Sirico, l’altro scagnozzo Paulie Walnuts. Su tutti, però, si staglia quella grande attrice che è stata Nancy Marchand – purtroppo scomparsa da poco, all’età di 72 anni –, la quale interpreta Livia Soprano, l’indimenticabile mamma di Tony, che odia il figlio e cerca in tutti i modi di farlo uccidere dal cognato Junior: è lei la vera «anima nera» della famiglia Soprano, sempre acida e brontolona, permalosa, suscettibile, pericolosissima; ha mitizzato il violento marito Johnny Boy FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 177 soltanto dopo la sua morte, e non fa che rimpiangerlo. Chase ha scelto il nome Livia ispirandosi a quello della madre di Cesare Augusto, sfrenata complottatrice di corte. Mai come in I Soprano, la famiglia – con tutte le sue varie generazioni – sembra un’istituzione priva di qualsiasi ragion d’essere e che, ormai, può sopravvivere soltanto se retta sulla menzogna. Oppure tra litigi continui, come accade nella premiatissima sit-com Innamorati pazzi (Mad About You, 1992), interpretata da Helen Hunt e Paul Raiser nei panni dei coniugi Jamie e Paul Buchman. La definitiva dissoluzione della famiglia: «Friends» Stati Uniti, anni ’90: la famiglia tradizionale, in pratica, non esiste più. Il tessuto sociale sempre più disgregato ha la sua prima «vittima» proprio nel nucleo che – nella percezione comune – ne rappresenterebbe il punto di partenza e il fine ultimo: quello familiare costituito da padre, madre, figli, magari simpatici animaletti. Record di divorzi, figli sempre prima fuori dalle mura domestiche per studiare oppure (provare a) lavorare, intere vite da single coerenti con la scelta di privilegiare le carriere rispetto agli affetti, unioni omosessuali e «famiglie di fatto» provocano una mutazione completa nella percezione stessa dell’istituzione che, dai tempi dei padri fondatori al secondo dopoguerra, si credeva inattaccabile. Anticipato, per certi versi, dall’ottima serie di Marshall Herskovitz e Edward Zwick Thirty Something (id., 1987), il programma televisivo che meglio fotografa tale situazione è, naturalmente, una sit-com, genere «casalingo» per eccellenza: si tratta di Friends (id., 1994), creato da David Crane e Marta Kauffman, prodotto dalla Warner Bros. per la NBC, che lo trasmette a partire dal 9 settembre 1994. È fin dall’inizio un grande successo di critica e, soprattutto, di pubblico, a dimostrazione di quanto lo show sia ben inserito nel proprio tempo. Attualmente, addirittura, l’audience media per ogni episodio si aggira sui 25 milioni di spettatori e fa entrare Friends regolarmente nella «Top Five» dei programmi più visti degli Stati Uniti. Al centro del telefilm c’è, appunto, una famiglia allargata in perfetto stile anni ’90. La compongono i sei giovani protagonisti: la cameriera bionda Rachel Karen Green (interpretata da Jennifer Aniston), il nevrotico paleontologo divorziato Ross Geller (David Schwimmer), la sua 178 AI CONFINI DELLA REALTÀ maniacale sorella cuoca (nonché coinquilina di Rachel) Monica Velula Geller (Courteney Cox), la svampita e bizzarra cantautrice «new age» Phoebe Buffay (Lisa Kudrow), il simpatico Chandler Bing (Matthew Perry) con problemi nei confronti dell’altro sesso e il suo belloccio coinquilino aspirante attore Joey Tribbiani (Matt LeBlanc). I ragazzi, trentenni, vivono a New York, nella zona del Village, dove si trovano, l’uno di fronte all’altro, l’appartamento di Rachel e Monica e quello di Joey e Chandler, ma anche il ritrovo abituale del gruppo: il Central Perk, il locale dove si esibisce Phoebe e il cui stesso nome è fonte di divertenti giochi di parole. Friends ridà nuova linfa al genere sit-com e ne detta le regole per l’immediato futuro, nell’unico modo ormai possibile: giocando col pluridecennale passato della commedia televisiva, con i suoi cliché e «tipi» ormai entrati nella quotidianità degli spettatori. «Amori, amicizie, lavoro, rapporti con i genitori, omosessualità vengono presentati a un pubblico smaliziato con la tecnica del sottotesto esplicito, cioè mettendo in evidenza i meccanismi e giocando con i generi frequentati» 20. È così che le tematiche classiche della sit-com, quella della famiglia in primis, vengono rielaborate all’insegna della contemporaneità. Quindi, diventa normale lo spostamento di fuoco, evidentissimo fin da un titolo che «testimonia l’affermarsi della tendenza di mettere in primo piano le famiglie clan, gruppi di amici solidali che si sostengono e si consigliano nei momenti di bisogno, dividendo gioie e problemi» 21. D’altra parte, il processo è chiarissimo: la famiglia-tipo americana degli anni ’50 – i Nelson, più che i Ricardo – inizia a scricchiolare sinistramente vent’anni dopo, quando Happy Days la descrive con la sensibilità settantesca e, per esempio, fa entrare nel salotto buono il classico teppista con tanto di giubbotto di pelle nera (anche se Fonzie è un bullo dal cuore d’oro); nel decennio ’90, infine, il gruppo di amici – che già nella serie di Garry Marshall diventava, spesso, la causa scatenante di piccole frizioni tra i Cunningham – si sostituisce completamente al nucleo familiare tradizionale: la ribelle Joanie – più che suo fratello Richie – è cresciuta, ha abbandonato il giovane marito Chachi e lasciato Milwaukee per New York, dove cerca di arrangiarsi come può, sia in campo lavorativo che in quello affettivo; la famiglia è lontana e, in caso di bisogno, può contare soltanto sui propri fedeli amici. Il carattere di sequel generazionale di Happy Days, d’altra parte, Friends lo dichiara fin dal primo episodio, «Matrimonio mancato» («The One Where Monica Gets a New Roommate»), dove Rachel – poco dopo essere fuggita dal- FOCOLARI TELEVISIVI (CON IL «MOSTRO» DIETRO LO SPECCHIO) 179 l’altare (ancora in abito bianco) ed essersi rifugiata in casa di Monica – s’immalinconisce guardando l’ultima puntata del telefilm di vent’anni prima, cioè proprio quella in cui Joanie e Chachi si sposano. I tempi sono cambiati, dunque: mentre prima si convolava a nozze felici, adesso è il momento di ridefinire amore e amicizia su basi completamente differenti. La post-modernità di Friends, in ogni caso, si evince anche da altri particolari: dai titoli di ciascun episodio, per esempio, che iniziano sempre con «The One Where…» («Quello dove…») oppure «The One With…» («Quello con…»), proprio per giocare con la situazione-tipo del fan che, quando ricorda un episodio della sua serie preferita, non lo fa mai attraverso il titolo ma dall’avvenimento contenuto in quel segmento (nel caso di Happy Days, un buon esempio potrebbe essere «Quello con la sfida tra Mork e Fonzie»); oppure, dalle tante comparsate di notissimi attori hollywoodiani, spesso nei panni di se stessi (tra i tanti, basti citare Julia Roberts, Robin Williams, Isabella Rossellini). Ma anche la celeberrima sigla I’ll Be There for You cantata dai Rembrandts, oltre che come classica canzone d’amore può essere letta pure come invito rivolto ai telespettatori più o meno fedeli, per chieder loro di sintonizzarsi sullo show anche la settimana successiva. I versi, infatti, tradotti in italiano, recitano: «Sarò là per te, come lo sono stato prima; sarò là per te, perché anche tu sei là per me»; quasi un aforisma teorico sul senso ultimo della serialità. Insomma, per quanto riguarda i telefilm d’ambientazione e argomento familiare – dal punto di vista linguistico e del reciproco gioco di specchi con la società statunitense – Friends chiude il cerchio e suggerisce nuove direzioni. Bruno Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei, Giunti, Firenze 1992, pp. 147-148. Bruno Cartosio, Anni inquieti, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 222. 3 Ivi, pp. 227-228. 4 Ivi, pp. 233-234. 5 Si tratta di una novità assoluta per la TV statunitense. Per attutirne l’effetto rivoluzionario, però, la CBS non accetta che si utilizzi il termine «pregnant», di uso comune, sostituito nei dialoghi dell’episodio da un più neutro «expectant». Nel titolo, poi, la scelta cade su «enceinte», parola francese insolita e, quindi, incomprensibile per la maggior parte dei telespettatori. 6 Renato Genovese, Quella pazza famiglia Addams, in Graziano Frediani (a cura di), Almanacco della paura 1998, Sergio Bonelli Editore, Milano 1998, p. 160. 1 2 180 Ivi, pp. 164-166. Giorgio Cremonini, All in the Family, Thema, Bologna 1988, p. 47. 9 Ivi, p. 58. 10 Definizione discutibile, però, se si pensa a tanti telefilm del passato, personalissimi come – per citarne soltanto due – Alfred Hitchcock Presenta (Alfred Hitchcock Presents, 1955-1962) oppure Ai confini della realtà. 11 Alessandro Camon, David Lynch e I segreti di Twin Peaks; supplemento a «Ciak», n. 1, 1991, p. 61. 12 Ivi, pp. 51-52. 13 Ivi, p. 53. 14 In modo persino stridente, rispetto a un contesto sociale attraversato dai fermenti – ben incarnati pure dalla prima ondata del rock ’n roll – destinati a concretizzarsi nella seconda metà degli anni ’60. 15 Chris Rodley, Lynch secondo Lynch, Baldini&Castoldi, Milano 1998, p. 256. 16 Danilo Arona, Nuova guida al Fantacinema, PuntoZero, Bologna 1997, p. 56. 17 Cit. in Silvia Bizio, I Soprano, mafia per fiction, «la Repubblica», martedì 22 maggio 2000, p. 45. 18 Stephen Holden, introduzione a: AA. VV., I Soprano. Dietro le quinte del serial culto, Sperling & Kupfer, Milano 2001, p. XI. 19 Ivi, p. IX. 20 Andrea Bordoni, Matteo Marino, Tutto quello che avreste voluto sapere su… Friends, Lindau, Torino 2000, p. 9. 21 Ivi. 7 8 Avventure nel «possibile» Il «Selvaggio West» televisivo degli anni ’50 e ’60 Quello di «avventura» è un concetto che – soprattutto quando si parla di fiction seriale per il piccolo schermo – va ben oltre l’indicazione di un singolo genere narrativo, per «spalmarsi», in un modo o nell’altro, sulla quasi totalità della produzione di telefilm. Detto nei precedenti capitoli, però, di quelle avventure che hanno come ambiente privilegiato lo spazio profondo (Star Trek), cupi scenari urbani insidiati da invasioni aliene o serial killer senza volto (X-Files e Millennium) e per protagonisti fumettistici superuomini in calzamaglia (i supereroi) oppure agguerrite adolescenti che si confrontano anzitutto con se stesse (Buffy), è il momento di fare nuovamente un passo indietro e – per meglio cogliere gli elementi costitutivi del telefilm avventuroso – tornare nuovamente ai cruciali anni ’50 e alla forma archetipica del genere negli Stati Uniti: quella ambientata tra le sterminate praterie del «Selvaggio West», spesso «contaminate» a loro volta da inattesi «germi» fantastici. All’inizio del decennio ’50 il genere cinematografico americano per eccellenza attraversa una fase di mutazione profonda, aprendosi a rielaborazioni critiche «d’autore» e a dolenti riletture crepuscolari. Tuttavia, nella scacchiera dei generi classici, sembra ancora inattaccabile e, anzi, in un breve lasso di tempo, propone fin troppi capolavori di registi come – per limitarsi a due soli nomi, tra i tanti possibili – John Ford e Anthony Mann. Il successo del western, inoltre, è ben testimoniato dagli show radiofonici e dalle tempestive trasposizioni a fumetti di cui godono molti film e i primi telefilm: tra gli altri, la Dell Comics pubblica i comic books di «Lone Ranger», «Maverick», «Bat Masterson» 182 AI CONFINI DELLA REALTÀ e «Rawhide»; il potente gruppo editoriale Fawcett, il popolarissimo «Gunsmoke». Molti titoli di questi albi riprendono quelli delle nuove serie televisive che, derivando per qualità estetiche e modi di produzione direttamente dai western cinematografici prodotti dai «B-Departments» degli studios hollywoodiani per tutti gli anni ’30 e ’40, adattano al formato del piccolo schermo situazioni e personaggi già estremamente familiari allo spettatore medio. Ma l’ancor più breve durata di ogni episodio, il budget spesso irrisorio e i tempi di produzione velocissimi diventano elementi decisivi per la forma stessa dei primi serial western della televisione americana, caratterizzati, perciò, da un’estrema semplificazione dei classici topoi del genere – il duello, l’assedio, il ritorno dell’eroe, l’assalto degli indiani, la rissa nel saloon, il momento sentimentale, la «spalla» comica del protagonista – e da ambientazioni ridotte all’essenziale, quasi «scarnificate» e private di ogni possibile orpello. E, se è vero che il genere western «può essere diviso in due grandi categorie narrative: quella che racconta un itinerario spazio-temporale, e quella che concentra la propria fabula in un luogo fisico da costruire o da difendere» 1, è indubbio che la televisione privilegi in maniera chiarissima la seconda tipologia. Anche in TV, comunque, i western risultano ben presto tra i programmi più seguiti, soprattutto nella seconda parte degli anni ’50; la prima, infatti, è dominata da serial polizieschi come, per esempio, il Dragnet di Jack Webb. Il passaggio di testimone tra i due generi può essere giustificato dai mutamenti nella demografia del pubblico. «I film western e gangster – spiega, infatti, Colin McArthur – hanno un rapporto particolare con la società americana. Entrambi affrontano momenti critici della storia americana. Si potrebbe dire che essi rappresentano l’America che parla con se stessa: nel caso dei western, del suo passato agrario e nel caso dei film gangster del suo presente tecnologico urbano» 2. Da questo punto di vista, dunque, appare persino ovvio che i polizieschi dominino la programmazione televisiva quando per i network è ancora vantaggioso rivolgersi esclusivamente al pubblico delle grandi città 3. La situazione muta verso la metà del decennio, quando la televisione riesce ad arrivare nelle sterminate zone agricole interne e diventa «un’esperienza culturale autenticamente nazionale» 4, con i programmi registrati che sostituiscono quelli in diretta e i western che superano i polizieschi nel gradimento di un pubblico molto più vasto e diversificato di quello di qualche anno prima. Non deve meravigliare, dunque, se nella prima metà del decennio, accanto a Bonanza (id., 1952), soltanto un altro telefilm western riesce ad AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 183 avere un certo impatto sui telespettatori. Il personaggio, però, è già noto per essere stato protagonista di un precedente serial cinematografico, proiettato nelle sale tra il 1935 e il 1948: dall’anno successivo Hopalong Cassidy (id., 1949) arriva anche in televisione, sulle frequenze della NBC. Il carattere principale veste sempre di nero e cavalca un destriero bianco, ha i capelli grigi ed è interpretato da William Boyd, anche produttore dello show; nelle sue avventure, è accompagnato dal fedele Red Connors (Edgar Buchanan), lungo tutti i 52 capitoli della saga. Il «boom» del western in televisione, però, si verifica dal 1955 in poi, per merito di telefilm come Gunsmoke (id., 1955), Cheyenne (id., 1955), Le leggendarie imprese di Wyatt Earp (The Life and Legend of Wyatt Earp, 1955), Carovane verso il West (Wagon Train, 1957), Maverick (id., 1957), Ricercato vivo o morto (Wanted - Dead or Alive, 1958), Rawhide (id., 1959). In particolare, Gunsmoke – creato da Charles Marquis Warren e prodotto, prima in radio e poi in TV, da Norman MacDonnell – è il telefilm western dalla vita più lunga in assoluto: va in onda, infatti, sempre nel prime time della CBS, per ben 635 episodi (prima in bianco e nero, poi a colori), attraverso tre diversi decenni. La trama ruota attorno a Matt Dillon (interpretato da James Arness), sceriffo nella turbolenta Dodge City, in Kansas. Per il ruolo, il produttore MacDonnell contatta inizialmente John Wayne che, però, rifiuta e si limita a una breve introduzione che precede l’episodio inaugurale: il notissimo attore spiega ai telespettatori, come se il suo fosse un «marchio di garanzia», che stanno per assistere a uno show differente da tutti gli altri, più «adulto» rispetto ai western televisivi visti fino a quel momento. E, va detto, la serie mantiene le promesse, miscelando azione di buon livello a dramma puro, magari alleggerito da un pizzico d’ironia. D’altra parte, già la premessa appare molto suggestiva, con il protagonista che inizia tutti gli episodi della prima stagione dall’interno del cimitero di Dodge City. Accanto a Dillon agiscono regolarmente l’affascinante proprietaria del Long Branch Saloon, Kitty Russell (Amanda Blake); l’aiutante dello sceriffo, lo sciancato Chester B. Goode (Dennis Weaver); l’irascibile Doc Adams (Milburn Stone), il medico della cittadina. Naturalmente, però, in una saga di tali dimensioni cronologiche, tanti altri personaggi positivi e negativi interagiscono, nei modi più diversi, con le esistenze dei protagonisti. Sempre nello stesso 1955, poi, iniziano ad andare in onda Le leggendarie imprese di Wyatt Earp e Cheyenne, entrambi sulla ABC. E se il primo propone ancora una volta, per i suoi 226 episodi prodotti da Robert F. Sisk, le avventure di un altro sceriffo – Wyatt Earp (Hugh O’Brian), il più famoso 184 AI CONFINI DELLA REALTÀ del West, realmente esistito e al centro pure di innumerevoli versioni cinematografiche, prima e dopo –, è col secondo telefilm che il punto di vista sulla «Frontiera» viene completamente rovesciato: in Cheyenne, infatti, protagonista non è più il legale rappresentante della legge, bensì un vagabondo addirittura sangue misto. Interpretato da Clint Walker, il personaggio di Cheyenne Bodie vaga attraverso il West senza una meta apparente e imbattendosi continuamente in fuorilegge, guai di vario tipo, ma anche tante belle donne. Stavolta, però, è lui ad andare incontro a sparatorie e scazzottate, mentre negli altri due show è sempre il crimine a invadere il territorio gestito dagli sceriffi, Dodge City oppure Tombstone. Il successo del telefilm prodotto da William T. Orr – andato in onda per 107 puntate – fa nascere anche lo spin-off Bronco (1959), imperniato sul personaggio di Bronco Layne (Ty Hardin), già visto per un’intera stagione in Cheyenne. La critica statunitense è concorde nell’affermare che proprio a Gunsmoke, Wyatt Earp e Cheyenne si debba la nascita del western cosiddetto adulto, naturalmente per ciò che concerne la televisione. Sulla loro scia ottengono un meritato successo anche altre serie di poco successive. Carovane verso il West, per esempio, è il più visto nella stagione televisiva 1961-1962 e va avanti per 284 episodi prodotti da Howard Christie e ispirati al film di John Ford La carovana dei mormoni (Wagon Master, 1950): le storie della serie sono ambientate lungo la linea ferroviaria che nell’800 univa il Missouri alla California, e propongono una continua marcia d’avvicinamento alla «terra promessa» contrappuntata soprattutto dai buoni sentimenti. Maverick, poi, vede James Garner nel ruolo dell’ironico e chiacchierone giocatore d’azzardo Bret Maverick, protagonista di un telefilm – prodotto da William L. Stewart, per 124 puntate – che prende amabilmente in giro i western catodici «troppo» seri come Gunsmoke; accanto al protagonista, si distinguono altre figure di truffatori, come il cugino inglese Beau (Roger Moore), il fratello Bart (Jack Kelly), l’amica Samantha Crawford (Diane Brewster). Infine, Rawhide – creato dallo specialista Charles Marquis Warren e durato 217 episodi – mostra un nuovo viaggio «on the road», tra le praterie del deserto americano, dal Texas al Missouri: alla guida della carovana, stavolta ci sono Gil Favor (Eric Fleming) e, soprattutto, il duro Rowdy Yates interpretato da Clint Eastwood (la cui carriera decolla proprio con questa serie). Il telefilm ha anche il grosso merito, durante gli anni ’60, di proporre agli spettatori il primo attore di colore tra i protagonisti di un western televisivo: si tratta di Raymond St. Jacques, nel ruolo di Simon Blake. Fin dal 1952, però, va in onda quello che è il serial western più longe- AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 185 vo della televisione statunitense, dopo Gunsmoke: il notissimo anche in Italia Bonanza, ideato e prodotto da David Dortort, andato in onda sempre a colori per tutti i suoi 430 episodi. Il telefilm è ricordato anche per le molte puntate dirette da Jacques Tourneur e, soprattutto, da un giovane Robert Altman. Al centro delle trame c’è la vera e propria saga della famiglia Cartwright, ambientata nel 1860 a Virginia City e, soprattutto, nel loro enorme Ponderosa Ranch. La serie presenta diverse novità: anzitutto, il fatto che i protagonisti non sono più pionieri diretti verso la nuova frontiera, ma proprietari terrieri che hanno già fatto fortuna; poi, un gruppo unitissimo (in questo caso, quello familiare) che annulla la solitudine dell’individuo di fronte alle asperità di un territorio spesso senza pietà. Il capofamiglia è Ben, interpretato da Lorne Greene; con lui, ci sono i tre figli Adam (Pernell Roberts), Hoss (Dan Blocker) e Little Joe (Michael Landon), nati da tre donne diverse: le mogli morte di Ben che, quindi, è ancora una volta vedovo. E, in una saga di stampo prevalentemente maschile, alle figure femminili sono affidati soltanto ruoli di contorno e sempre iper-tradizionali. Bonanza, però, propone numerosi altri personaggi secondari, tratteggiati in modi spesso gustosissimi e come apportatori di sorprendenti e inattese variazioni rispetto alla tipicità figurativa del telefilm di genere western (che, peraltro, mostra comunque tutti i suoi elementi caratterizzanti, dalle pistole al saloon, dagli indiani ai cowboy, dalle praterie alle fattorie): se è vero, infatti, che a Virginia City e al Ponderosa c’è spazio per classiche figure come lo sceriffo Roy Coffee (Ray Teal) o lo sbandato Jamie Hunter (Mitch Vogel), già il cuoco Hop Sing (Victor Sen Hung) propone una simpatica variante, al pari di altri caratteri occasionali come, per esempio, un pugile venuto dall’Inghilterra oppure un pistolero ammalato agli occhi. E se la coralità di molte situazioni rende Bonanza piuttosto moderno, gli autori – e, in questo, Altman ha certamente grande merito – iniziano a confrontarsi coscientemente anche con il concetto di serialità insito nel loro prodotto, lavorando in modo perfino sofisticato sulla struttura cronologica dei singoli episodi e su quella dell’intera serie. «Non esiste – spiega Omar Calabrese – solo un semplice appuntamento settimanale che si può perdere senza che nulla accada. Esiste anche un appuntamento vincolante, senza però che la storia perda significato anche per lo spettatore occasionale. […] La flessibilità di Bonanza è davvero archetipica: sa creare addirittura diversi dislivelli temporali, come la storia sempre compiuta nel singolo episodio, la storia aperta della serie, e un modello intermedio consistente nella storia aperta per un numero finito di puntate, di 186 AI CONFINI DELLA REALTÀ solito non più di tre. Il modello Bonanza è trasmigrato con vari perfezionamenti fino ai giorni nostri» 5. Il tempo dell’intera serie, d’altra parte, è influenzato già dall’idea di partenza: quella di non proporre il viaggio verso un obiettivo che lo spettatore possa percepire come fine ultimo della storia, ma di inserire i personaggi in un contesto statico, destinato a subire modificazioni impreviste che, a loro volta, apportano mutamenti ai vari caratteri e, conseguentemente, alla fruizione spettatoriale. Variazioni «per famiglie», ai confini della «Frontiera» L’ambientazione del West caratterizza anche alcune celebri serie avventurose degli anni ’50, molto amate soprattutto dal pubblico più giovane. Per esempio Rin Tin Tin (Adventures of Rin Tin Tin, 1954) e Furia (Fury, poi The Brave Stallion, 1955). I due telefilm hanno in comune diversi elementi e rispondono a un unico modello: «quello fondato sulla presenza di un ragazzo, protetto da un animale intelligente […] e da un facente-funzioni-di-padre molto eroico nonché un facente-funzioni-di-zio burbero ma bonario. […] La struttura delle puntate è sempre analoga: ogni episodio è finito in una storia, e la serie non è dotata di storia (non si sa, per esempio, qual è l’origine di Rusty in Rin Tin Tin, né quale sarà il suo destino)» 6. La differenza sostanziale risiede, invece, nell’ambientazione: il più classico dei fortini del Settimo Cavalleggeri assediato dagli indiani nel primo caso, un tranquillo ranch degli Stati Uniti interni di metà ’900 nel secondo. E se il coraggiosissimo pastore tedesco Rin Tin Tin – il suo telefilm va avanti per 164 episodi – agisce comunque in un contesto tipicamente western già ben metabolizzato dagli spettatori, è interessante soffermarsi con maggiore calma sul telefilm con lo stallone nero, proprio perché le sue trame si svolgono nella stessa epoca del pubblico che le segue da casa. I 116 episodi di Furia vanno in onda sulla NBC dall’ottobre 1955 al settembre 1966. Gli sterminati e assolati spazi interni degli Stati Uniti sono diversissimi rispetto a un secolo prima, anche se lo sono molto meno se raffrontati con le grandi metropoli contemporanee: la «Frontiera» è stata raggiunta da tempo e, ormai, ognuno ha il suo ranch, dove può continuare a vivere in contatto con una natura sempre meno selvaggia e più addomesticata. E pure il piccolo Joey, un orfanello piuttosto sveglio e vivace adottato da una giovane coppia, vive in un bel ranch nel West del 1955. Alla fattoria, il Broken Wheel Ranch, il ragazzino fa amicizia con Furia, un bellissimo stallone nero che, superata l’iniziale diffidenza, diventa il suo AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 187 migliore «amico» e l’inseparabile compagno d’avventure, mettendo un freno all’originario spirito ribelle. Il simpatico ma statico quadretto – formato dal cavallo e dal suo padroncino (il mini-attore Bobby Diamond), insieme con il tutore Jim Newton (il Peter Graves destinato a diventare famoso con la serie Missione impossibile, Mission: Impossible, 1966) e sua moglie Harriett (Nan Leslie), che ha il compito di istruire Joey, più il fattore del ranch, Pete (William Fawcett) – è, di volta in volta, reso più movimentato da un cacciatore di frodo che incendia il vicino bosco, da una coppia di evasi che cerca rifugio durante la fuga, da un selvaggio stallone bianco che provoca disastri tutt’intorno; sempre «fratture», insomma, che – di fronte alle regolari «defaillance» degli umani adulti – vengono ricomposte dal coraggio del piccolo Joey e, soprattutto, dall’intervento risolutore del cavallo Furia, autentico «deus ex machina» che entra in gioco in caso di pericolo, ingiustizie, incidenti e altre situazioni complicate: dove non arriva la cultura, cioè l’uomo, ci pensa dunque la natura, cioè il cavallo, che, tra le altre cose, serve anche a fare da tramite tra il mondo del ragazzo e quello degli adulti, in un periodo che vede le famiglie americane sempre più lacerate da conflitti generazionali di vario tipo (ancora sotterranei, ma destinati a esplodere nel corso degli anni ’60). Gli intenti del telefilm – rivolto innanzitutto a un pubblico di adolescenti («pensati», comunque, davanti al teleschermo assieme ai loro genitori) – sono chiaramente formativi, come traspare da quello che è il messaggio centrale di tutta la serie: la campagna è l’ultimo rifugio dei valori tradizionali che, invece, in città iniziano a mostrare i loro cedimenti. Così, ogni episodio può essere considerato un modello di comportamento, imperniato sulla solidarietà e il rispetto delle leggi e dell’autorità costituita. Sono indicative, a tale proposito, le soluzioni di ripresa di un episodio in cui Joey viene investito della responsabilità di aiuto ranger, per dare una mano a prevenire gli incendi nel bosco. A un certo punto, il capo dei ranger locali gli mostra le regole da rispettare, su cartelli disegnati e inquadrati in primo piano frontalmente, con le scritte che comunicano – sostanzialmente al pubblico a casa – precetti come: «Un bravo cittadino deve saper rispettare la natura», «Non bisogna gettare rifiuti tra gli alberi», «Un americano onesto non lascia fuochi accesi nel bosco» e così via. Ma in realtà è sempre il cavallo Furia a garantire la concreta messa in pratica dell’insegnamento. Merita una citazione conclusiva la bislacca e travolgente canzoncina dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, cantata da Mal come sigla della versione italiana del telefilm: si deve anche a questo motivetto l’enorme successo di Furia in Italia. 188 AI CONFINI DELLA REALTÀ Altro telefilm ambientato in un West diversissimo dal solito – la California del 1820, ancora sotto la sovranità della Spagna (è annessa agli Stati Uniti soltanto nel 1848) – è La spada di Zorro (Zorro, 1957), dove il paesaggio, però, serve soltanto per ospitare le scorribande e le acrobazie del protagonista. Proprio le molte sequenze d’azione, spesso in spazi aperti, e i tanti inseguimenti a cavallo affidati ad abili cascatori professionisti, testimoniano di un livello produttivo della serie superiore rispetto ad altri prodotti del periodo. Trasmessa dalla ABC tra il 10 ottobre 1957 e il 2 aprile 1961 – per un totale di 82 episodi, tutti di 30 minuti tranne gli ultimi quattro, lunghi un’ora ciascuno – La spada di Zorro è prodotta con molta convinzione dalla Disney e fortemente voluta da Walt Disney in persona, che affida il ruolo del protagonista mascherato e del suo alter ego, don Diego de la Vega, all’attore Guy Williams che, ancora oggi, è mentalmente associato al personaggio di Zorro, grazie allo straordinario successo dello show. Nei panni del buffo sergente Garcia è messo Henry Calvin, mentre il muto servitore Bernardo, Don Alejandro (il padre dell’eroe) e Anna Maria Verdugo (la sua fidanzata) sono interpretati, rispettivamente, da Gene Sheldon, George J. Lewis e Jolene Brand. Ma la versione Disney del personaggio deve fare i conti con la sua storia precedente: anzitutto con l’originale creato dallo scrittore Johnston McCulley nel 1919, nel romanzo La maledizione di Capistrano (The Curse of Capistrano), pubblicato a puntate sulla rivista «All-Story Weekly». Ne è protagonista don Diego de la Vega, nobile spagnolo inviato dal padre nella California meridionale per contrastare l’iniquo governatore della regione; assunta l’identità segreta di uno spadaccino mascherato soprannominato «El Zorro» (che in spagnolo significa la Volpe), il giovane si trova a condurre una duplice esistenza: «aristocratico timido e riservato in privato, audace e coraggioso quando veste maschera e mantello per marchiare con la “Z” le vittime di duelli a senso unico» 7. Da questo punto di vista è visivamente molto efficace, nel telefilm Disney, la scelta di far montare due differenti cavalli a Zorro/Diego: il nero Tornado, fedele compagno d’avventure; il bianco Phantom, quando indossa abiti civili. Al romanzo di McCulley, comunque, si ispira dapprima il cinema, fin da Il segno di Zorro (The Mark of Zorro, 1920) di Fred Niblo con Douglas Fairbanks. Il film ha innumerevoli remake, tra cui il più celebre, nel 1940, diretto da Rouben Mamoulian e interpretato da Tyrone Power. La fama «multimediale» del personaggio, però, si consolida attraverso i tanti serial in pellicola (ciascuno in 12 o 13 episodi) prodotti, negli anni ’30 e ’40, dalla Republic. «Zorro Rides Again uscì nelle sale il 3 dicembre 1937, AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 189 primo serial a episodi basato sul personaggio di Zorro. Ogni puntata di un serial Republic durava 19 minuti, tranne il primo, di 30 minuti. Nel serial John Carroll interpretava James Vega, pronipote dello Zorro originale, e l’ambientazione era molto distante dal pueblo di McCulley. Gli sceneggiatori inserirono la Volpe in un western moderno, con treni, autocarri, telefoni e aerei. Anche questo Zorro era abilissimo con la pistola e la frusta, ma gli mancavano l’inconfondibile mantello e la spada. Fedele alla regola, ogni episodio del serial terminava con un finale cliffhanger» 8. A Zorro Rides Again seguono altri sei titoli: Zorro’s Fighting Legion (1939), Zorro’s Black Whip (1944), Son of Zorro (1947), La sfida di Zorro (Ghost of Zorro, 1949), Don Daredevil Rides Again (1951) e Man with the Steel Whip (1954). Ma, come detto, lo Zorro per eccellenza diventa, poco dopo, quello interpretato in televisione da Guy Williams. Gli episodi della prima stagione del telefilm Disney sono divisi in tre cicli di 13 puntate ciascuno, in cui Zorro che deve vedersela, in ognuna delle saghe, con lo stesso avversario: «Zorro vs. Captain Monastario», «Zorro vs. the Magistrado» e «Zorro vs. the Eagle». Dalla seconda stagione (cioè dal quarantesimo episodio), lo schema è meno rigido, con episodi autoconclusivi e brevi sequenze unite dal medesimo argomento (per esempio, «The Secret of El Zorro», «Zorro and the Mistery of Don Cabrillo», «The Mountain Man»). La terza e conclusiva stagione è inserita, invece, all’interno del programma Walt Disney Presents e composta da soli quattro episodi, però lunghi un’ora ciascuno. Williams incarna alla perfezione le caratteristiche del personaggio, tratteggiandolo con un’irresistibile, beffarda vena ironica che serve a umiliare il nemico piuttosto che, semplicemente, a sconfiggerlo. Ogni episodio – dopo innumerevoli peripezie, inseguimenti a cavallo, duelli in punta di fioretto – si conclude, immancabilmente, con il segno di Zorro, la sua «zeta», a marcare anche in modo visivo e grafico la superiorità dell’eroe nei confronti degli antagonisti: spesso, il simbolo del giustiziere mascherato fa bella mostra di sé sul voluminoso didietro del goffo sergente Garcia, vittima predestinata, piuttosto che semplice avversario, dello Zorro più goliardico. E «la Volpe» difende i deboli e s’oppone ai prepotenti con coraggio e destrezza, proponendosi come autentico «uomo della provvidenza» e conquistando i ragazzi di un’intera Nazione; una Nazione che – dopo la placida agiatezza dei «Silent Fifties» – si prepara all’elezione del presidente della «Nuova frontiera», quel John F. Kennedy che, col suo sorriso quasi sfacciato e il carisma indiscutibile, tanto ricorda proprio l’amato eroe-spadaccino impersonato in TV da Guy Williams. 190 AI CONFINI DELLA REALTÀ Con l’aria nuova degli anni ’60, tra l’altro, arriva sul piccolo schermo il più ardito e originale tentativo di commistione mai tentato tra western e fantastico: Quel selvaggio West (The Wild, Wild West, 1965), creato da Michael Garrison e andato in onda per 104 episodi. Il telefilm propone un pazzesco mix tra situazioni e suggestioni alla Jules Verne, parodia della spy story alla James Bond, spruzzi di fantascienza Steampunk 9 ante litteram, ambientazioni tipicamente «Old West» e tanta, tanta ironia. Protagonisti della storia, ambientata sul finire del XIX secolo, sono James West (Robert Conrad) e Artemus Gordon (Ross Martin), due agenti segreti inviati direttamente dal presidente Ulysses S. Grant (James Gregory) nel cuore del «Selvaggio Ovest». I due – West più uomo d’azione, Gordon scienziato geniale – si muovono a bordo di un treno avveniristico e dotato d’impensabili marchingegni tecnologici; essi stessi, poi, girano sempre equipaggiati con gadget come palle di biliardo che emettono gas soporifero, fibbie di cinte che contengono dispositivi ipnotici, una sorta di motocicletta denominata «Nitrocycle». Solitamente, devono vedersela con pazzoidi assortiti, folli scienziati in attesa di conquistare il mondo (e a loro volta dotati di macchinari fantascientifici), persino con un trio di alieni venusiani atterrati in piena prateria alla ricerca di benzina per il loro disco volante: insomma, una fauna che nessuno avrebbe mai immaginato potesse popolare il West. Per l’eleganza inappuntabile dei due protagonisti, i loro modi affettati e l’insensibilità nei confronti del fascino femminile – nonostante le tante belle donne, spesso molto sexy, che incontrano durante le loro missioni – Quel selvaggio West è letto anche in chiave gay, come la prima serie apertamente omosessuale della televisione americana (l’anno dopo, lo stesso destino tocca anche alla versione catodica di Batman e Robin). Lo show ispira, nel 1999, un deludente kolossal cinematografico, Wild Wild West, diretto da Barry Sonnenfeld. La «British Invasion» e le sue tante spie pop I Beatles e la musica pop, la moda colorata della «Swinging London», James Bond e i suoi tanti epigoni. La prima metà degli anni ’60 propone al nuovo pubblico di riferimento dell’industria americana dell’entertainment, quello dei giovani 10, una serie di elementi di grande fascino provenienti dalla Gran Bretagna. Si tratta di una vera e propria «invasione culturale» britannica degli Stati Uniti, con le sonorità beatlesiane e le avventure spionistiche a fare da originali e irresistibili teste di ponte. AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 191 Già a metà degli anni ’50, però, un telefilm di produzione inglese ottiene ottimi riscontri di pubblico negli Stati Uniti: si tratta di Robin Hood (The Adventures of Robin Hood), in onda sulla CBS dal 26 settembre 1955 al 12 novembre 1960, per 143 episodi. Nel ruolo dell’arciere di Sherwood c’è Richard Greene, con Archie Duncan come Little John e Alexander Gauge nei panni di fra’ Tuck; Alan Wheatley interpreta lo sceriffo di Nottingham, mentre Lady Marian ha il volto di Bernadette O’Farrell e poi di Patricia Driscoll; è addirittura Donald Pleasance a dare vita al principe Giovanni. Nonostante chiari elementi di matrice britannica, il telefilm risente indubbiamente dei precedenti cinematografici statunitensi e in particolare di quello con Errol Flynn. Robin è il classico eroe senza macchia e senza paura, sempre pronto a intervenire in difesa dell’amata Marian o per proteggere i bisognosi. Le riprese sono realizzate prevalentemente in studio, con buona ricostruzione dei castelli dei vari personaggi (come la dimora dello sceriffo di Nottingham); gli esterni si limitano soprattutto a sequenze ambientate nel bosco di Sherwood, mostrato raramente (soltanto durante qualche cavalcata) e spesso ricostruito in studio. In ogni caso, la formula «Made in Britain» che miscela avventura, intrigo e sberleffo ironico verso i «cattivi» funziona e conquista pure il pubblico americano. Ma, come detto, è con gli anni ’60 che i ragazzi americani iniziano a essere sempre più attratti da tutto quello che profuma d’Inghilterra, grazie a James Bond e, soprattutto, ai Beatles. E non deve meravigliare il ruolo centrale della musica pop, in tale processo, dato che, accanto a una sempre maggiore integrazione tra industria cinematografica e televisiva, è di questo periodo l’intreccio evidentissimo con quella discografica: nel 1965, la ABC affida a Dick Clark, già responsabile del «classico» American Bandstand, una nuova trasmissione musicale intitolata Where the Action is, interamente registrata sulle spiagge della California meridionale e imperniata sulle esibizioni di pop band per teenagers. Nasce proprio in questo modo, per esempio, il grande successo dei Monkees, band creata per la serie televisiva omonima (I Monkees, The Monkees, 1966, prodotta dalla Screen Gems della Columbia per la NBC) fortemente ispirata ai due film inglesi dei Beatles diretti da Richard Lester: Tutti per uno (A Hard Day’s Night, 1964) e Aiuto! (Help!, 1965). Il primo titolo è commissionato, con estremo tempismo, dalla United Artists, prima ancora che i «Fab Four» diventino famosi al di fuori dei confini patri. L’esplosione arriva proprio nel 1964, con il primo tour americano e la storica esibizione al programma televisivo The Ed Sullivan Show: Tutti per uno esce preceduto 192 AI CONFINI DELLA REALTÀ dalla colonna sonora (che vende un milione e mezzo di copie nelle prime due settimane) e, sulla scia della popolarità della band, riesce a incassare l’incredibile cifra di dieci milioni in un anno. Due anni prima, però, sempre la United Artists aveva co-prodotto il primo film di James Bond, Agente 007, licenza di uccidere (Dr. No, 1962), tratto dal romanzo spionistico di Ian Fleming e primo di una lunga serie che, dato l’enorme successo, si ripropone con cadenza annuale: anche per questo tipo di progetto, sono ottimamente sfruttate tutte le suggestioni tipiche della scena culturale inglese. Al pari della moda britannica e della musica pop, dunque, il genere spionistico viene velocemente assimilato dal cinema e dalla televisione statunitensi. Nel 1961, un anno prima dell’uscita nelle sale americane di Agente 007, licenza di uccidere, viene prodotta una serie come Secret Agent, mentre, sulla scia di James Bond, Agente speciale (The Avengers, 1961), Simon Templar (The Saint, 1962) e Il prigioniero (The Prisoner, 1967) diventano i primi telefilm stranieri a essere trasmessi in prima serata dai network statunitensi. «Due di queste serie vengono adattate per la TV americana. […] Inoltre, la CBS realizza un sequel della serie The Saint intitolato Return of the Saint [1978; in Italia, Il ritorno di Simon Templar, N.d.R.]. Accanto a queste serie televisive pullulano quelle spionistiche più disparate prodotte a Hollywood: da The Man from UNCLE (1964-68) a I, Spy (1965-68) [in Italia, Le spie, N.d.R.], dalla parodia Get Smart (1965-70) [in Italia, Get Smart - Un detective tutto da ridere, N.d.R.] alla doppia parodia del film di spionaggio e del western Wild, Wild West (196569), a Mission: Impossible (1966-73). In sostanza, negli anni ’60, le mirabolanti imprese degli agenti segreti d’ambo i sessi sono sempre più oggetto d’ironia. […] La “quotidianità” e le convenzioni comiche della televisione statunitense contribuiscono allo sviluppo di questo genere.» 11 Agente speciale è la prima serie inglese a conquistare il prime time americano. Ne sono protagonisti Patrick Macnee, nei panni dell’agente John Steed (in impeccabile divisa da lord inglese, con tanto di bombetta nera), e la super-sexy Diana Rigg (che sostituisce Honor Blackman) come Emma Peel, affascinante avventuriera, cintura nera di karate, perennemente fasciata in tutine attillate e coloratissime. La coppia deve indagare su una serie di casi a cavallo tra il fantastico e la detection pura; così si confronta, di volta in volta, con strani uomini-falco, umanoidi, robot-replicanti, scienziati pazzi, cybernauti e psicopatici d’ogni tipo. Nel corso delle 160 puntate della serie, John Steed e le sue partner – dopo la Cathy Gale di Honor Blackman e la Emma Peel di Diana Rigg, infatti, è affiancato dalla Tara King interpretata da Linda Thorson – sono aiutati da «Mamma» (è l’atto- AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 193 re Patrick Newell), il loro misterioso superiore paralizzato alle gambe e che adotta i luoghi più impensati come ufficio segreto. Agente speciale incarna alla perfezione quello che, a posteriori, è considerato lo «spirito» degli anni ’60, grazie all’estrema cura per i particolari (soprattutto per l’abbigliamento) e un’ironia quasi surrealista e molto, molto «british». Il film del 1998 con Ralph Fiennes e Uma Thurman, The Avengers - Agenti speciali (The Avengers), riesce a restituire, purtroppo, solo l’aspetto esteriore della serie ispiratrice, senza coglierne veramente l’essenza più profonda. Il personaggio del Santo, protagonista del telefilm Simon Templar, invece, è quello che più s’avvicina, come caratteristiche, al James Bond di Ian Fleming, pur non essendo un agente segreto ma un impenitente avventuriero. Non a caso, il suo interprete storico, Roger Moore, sostituisce Sean Connery proprio nei panni dell’Agente 007. La serie, nei suoi 118 episodi, ripropone il sofisticato ed elegante giramondo creato nel 1928 da Leslie Charteris: una simpatica canaglia sempre pronta a schierarsi dalla parte dei più deboli ma anche di belle fanciulle in pericolo. Ogni puntata, piena d’azione e ironia, è introdotta dallo stesso Templar/Moore che, rivolgendosi allo spettatore, si sofferma su qualche particolare aspetto della natura umana. Anche in questo caso, risulta piuttosto deludente la versione cinematografica, con Val Kilmer nel ruolo del Santo, diretta di recente da Philip Noyce: Il Santo (The Saint, 1997). Gli aspetti inquietanti dei ’60, invece, sono al centro di un’altra serie inglese, straordinaria e modernissima, di grande successo anche negli Stati Uniti attraversati dai mutamenti del ’68: si tratta di Il prigioniero, prodotto e interpretato da Patrick McGoohan per le sue 17 puntate. La trama, inquietante e misteriosa, racconta le vicissitudini di un agente governativo, catturato e trasportato su un’isola in cui tutti gli abitanti perdono il proprio nome e vengono caratterizzati unicamente con un numero: lui diventa il Numero Sei. Per non essere sottoposto a un trattamento che gli azzererà la memoria (non prima di avergli sottratto utili informazioni), il protagonista tenta la fuga in ogni episodio, ma viene fermato tutte le volte. Il punto di forza di Il prigioniero è costituito dall’atmosfera di mistero inestricabile e di oppressione, a metà strada tra Kafka e Orwell, con un approccio non banale ai temi della libertà e della coercizione, della perdita d’identità e del contrasto tra ciò che si è davvero e la «maschera» che la società impone di indossare. Durante la trasmissione della serie negli Stati Uniti, nelle stagioni 1968 e 1969, la CBS non manda in onda un episodio dichiaratamente anti-bellico, nel quale il Numero Sei si rifiuta d’impugnare una pistola: la spiegazione ufficiale per il «salto» della puntata è che parla di droghe leggere. 194 AI CONFINI DELLA REALTÀ Il successo degli ironici telefilm inglesi spionistici produce, immediatamente, la risposta dell’industria statunitense che mette in cantiere diverse serie dello stesso genere. La giustamente celebre Le spie è rivoluzionaria per come affida a un attore nero, per la prima volta, un ruolo da protagonista in una serie d’azione. L’interprete in questione è Bill Cosby, nei panni di Alexander Scott, detto Scotty, un agente segreto americano specializzato in missioni internazionali; al suo fianco recita Robert Culp, nel ruolo dell’altra spia Kelly Robinson: i due girano il mondo sotto la copertura delle due identità fittizie di un giocatore professionista di tennis (Robinson) e del suo allenatore (Scott). La caratteristica peculiare della serie è data certamente dalle tante location che ospitano le avventure dei due personaggi: dal Giappone al Messico, dal Marocco a Hong Kong fino all’Italia. Le spie va avanti, prodotto da Sheldon Leonard, per 82 episodi sempre premiati da un ottimo successo popolare. Il più famoso tra tutti i telefilm americani di genere spionistico-avventuroso, però, è probabilmente Missione impossibile, ideato da Bruce Geller e durato ben 171 puntate. L’autore frulla insieme abilmente «thriller, azione mozzafiato, colpi di scena a ripetizione, intrecci complessi e intriganti» 12, per dar vita a un cocktail dal ritmo scatenato e dall’elevata spettacolarità. Buona parte del successo della serie, tuttavia, lo si deve al cast straordinario messo insieme dalla produzione: Peter Graves è Jim Phelps, il capo della squadra speciale «IMF» («Impossible Mission Force»), colui che riceve le missioni dal Governo (attraverso il leggendario «nastro ad autodistruzione rapida») e che pianifica ogni missione fin nei minimi dettagli; Greg Morris è Barney Collier, il tecnico-inventore del gruppo, sempre pronto a risolvere le situazioni più disperate grazie ai suoi originalissimi marchingegni; Barbara Bain interpreta Cinnamon Carter, perfetta per sedurre gli agenti nemici, grazie al suo fascino fuori dal comune; Martin Landau è Rollin Hand, l’uomo dai mille volti, mago dei travestimenti che riesce a infiltrarsi ovunque; Peter Lupus, infine, ha il ruolo di Willy Armitage, il «braccio armato» del team, pronto a trovare l’equipaggiamento necessario e a utilizzare la forza fisica quando occorre. Nella prima stagione, poi, a capo della IMF c’è Steven Hill, nel personaggio di Dan Briggs, sostituito da Graves dall’anno successivo. Lalo Schifrin è autore del trascinante e notissimo motivo musicale che fa da sigla allo show e che va in testa alle classifiche dei dischi più venduti in America addirittura per 14 settimane: ancora oggi, Missione impossibile è identificato con le sonorità di Schifrin. E il telefilm rappresenta anche il raro caso di prodotto televisivo «di culto» che riesce, in anni recenti, a godere di AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 195 una buona trasposizione cinematografica; in questo caso, poi, i film sono addirittura due, interpretati da Tom Cruise e, per fortuna, entrambi riusciti: Mission: Impossible (id., 1996) di Brian De Palma e Mission: Impossible2 (id., 2000) di John Woo. La parabola di un «avventuriero»: da «Supercar» a «Baywatch» Se gli anni ’70 sono praticamente dominati dai telefilm di genere poliziesco e dalle sit-com, con l’inizio degli ’80 i vertici dei network e i produttori televisivi «indipendenti» promuovono un ritorno ad atmosfere più spensieratamente avventurose, magari spingendo sul pedale della commistione tra moduli narrativi differenti. Si spiegano così prodotti difficilmente classificabili all’interno di un unico genere di riferimento, come può essere, per esempio, la divertente «crime comedy» Magnum P.I. (id., 1980) ideata da Donald P. Bellisario e Glen A. Larson e imperniata sulle avventure hawaiiane di Thomas Magnum (Tom Selleck), un veterano del Vietnam che accetta di fare da guardiano alla villa di un misteriosissimo e ricchisismo scrittore di gialli. Oppure, un altro show emblematico del decennio, come Supercar (Knight Rider). Il telefilm creato e prodotto ancora da Glen Larson nel 1982, infatti, contamina in modo piuttosto ardito elementi da poliziesco action con suggestioni fantastiche e tocchi ironici. Su tutto, però, predomina un’atmosfera generale spiccatamente avventurosa, che rende la serie una tra le più popolari degli anni ’80. Il protagonista Michael Knight – primo ruolo di un certo rilievo per David Hasselhoff – è un perfetto cavaliere buono (lo indica anche il suo cognome, d’altra parte) che, con il supporto della misteriosa Fondazione diretta da Devon Miles (Edward Mulhare), combatte il male ovunque si manifesti. L’elemento originale è costituito dal suo «destriero» metallico, Kitt: una fantascientifica automobile nera munita di modernissimo computer umanizzato e parlante. Come il cavallo per il cavaliere, così Kitt diventa un autentico prolungamento del corpo di Knight: e proprio l’interazione tra uomo e computer – negli stessi anni in cui nasce il movimento letterario cyberpunk – è tra i punti di forza del telefilm, assieme alle ottime sequenze d’azione. Inoltre, anche qui con grande modernità, tra Michael e Kitt si sviluppa – dopo una prima, giustificabile diffidenza (reciproca!) – un rapporto di sincera amicizia, con continue battute e confidenze tra i due. Per il ruolo centrale ricoperto dalla specialissima automobile, è logico che in ogni episo- 196 AI CONFINI DELLA REALTÀ dio di Supercar abbiano una fondamentale importanza le sequenze d’inseguimento automobilistico, con Kitt che, in un modo o nell’altro, ha sempre la meglio sul ben più ordinario veicolo del cattivo di turno. La «superauto» – modello Knight 2000, una Pontiac Firebird Trans-Am «modificata» – è in grado di raggiungere i 400 chilometri l’ora, di volare a 15 metri da terra ed è dotata di congegni elettronici sofisticatissimi che le permettono di aiutare al meglio il suo partner umano (un ex agente segreto che, dopo essere stato quasi ucciso, è misteriosamente rimesso in sesto da un miliardario che gli dona una nuova identità e la fantastica vettura). La struttura di ogni singolo episodio mostra un crimine che si sviluppa prima della sigla iniziale. Michael, reduce da una precedente missione o sorpreso a rilassarsi chiacchierando con Kitt, viene contattato da Devon Miles che – dopo essersi fatto raggiungere dal duo nella «postazione mobile» (un camion nero col simbolo del cavallino bianco e con il portello posteriore che s’abbassa e lascia entrare, al volo, l’auto) – fa il punto della situazione prima di lasciarli all’azione. Dopo un breve momento investigativo, in cui il protagonista umano contatta le vittime superando le loro diffidenze, inizia lo scontro, più o meno palese, con il cattivo del momento. Tra inseguimenti, scazzottate, sparatorie, sotterfugi vari e continui colpi di scena l’azione si sviluppa fino all’inevitabile conclusione positiva, con Michael che assicura il criminale alla giustizia e, poi, scherza – al termine dell’episodio – con le persone che ha appena aiutato; dopo l’inevitabile siparietto «leggero» dedicato al dialogo conclusivo con Kitt, il «cavallo di ferro» e il suo «cavaliere» s’allontanano verso l’orizzonte, al suono dell’inconfondibile colonna sonora. Nell’economia dei vari episodi, hanno un ruolo importante – e molto divertente – anche le pause brillanti affidate al confronto tra Kitt e l’ambiente esterno: di solito, Michael la parcheggia per strada ed entra in un palazzo per le sue indagini; alcuni sconosciuti si avvicinano, per un motivo o per l’altro, all’auto, che inizia a parlare e a dissuadere gli improvvisati ed esterrefatti «interlocutori»; al ritorno di Michael il computerino esterna le proprie perplessità sulle stramberie tipiche del genere umano, rifacendosi dichiaratamente ad alcuni commenti del vulcaniano Spock nei confronti dei suoi compagni dell’Enterprise, all’interno della serie classica di Star Trek. Tra gli innumerevoli esempi di buffe interazioni tra Kitt e gli umani, ricorre spesso il tentativo di furto da parte di un ladruncolo di strada; ma vanno segnalate anche situazioni più originali, come in un episodio ambientato nel mondo della moda, con la gustosa scenetta di un fotografo con modella che utilizza Kitt come sfondo per le proprie foto: in que- AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 197 st’occasione, la macchina dà il meglio di sé, starnutendo a ripetizione e fornendo consigli sull’obiettivo migliore da utilizzare per i vari scatti. Supercar è, come detto, un’originale commistione tra commedia d’azione, poliziesco e fanta-telefilm. È anche, però, un’efficace «cartina di tornasole» di un paese in mutazione grazie alla «cura» reaganiana, con umani sempre meno umani e pronti, forse, a essere sostituiti dalle macchine: l’anno seguente, 1983, lo stesso Glen A. Larson prosegue sulla stessa strada con un’altra serie tutta costruita sull’ibridazione tra elemento umano e tecnologico, Automan (id.). L’elemento di maggior forza in Supercar, però, è fornito proprio dal contrasto spiazzante tra l’ambientazione realistica della serie – con la concretezza dei tipici paesaggi americani visitati da protagonisti in continuo movimento – e i tratti futuristici di Kitt, tipica auto da film di James Bond ma – e questa è la vera idea originale del telefilm – resa coprotagonista e non semplice strumento. Supercar offre il pretesto per seguire la carriera di un attore-produttore che, per tutti gli anni ’80 e ’90, s’inserisce nel ristretto giro dei più potenti di Hollywood, nonostante la giovane età. Sì, proprio il David Hasselhoff protagonista del telefilm di Larson, infatti, è la «mente» dietro quello che diventa uno tra i più clamorosi successi televisivi di tutti i tempi: Baywatch. Il serial va in onda in oltre 140 nazioni, è seguito dall’80% della popolazione mondiale ed è secondo per visibilità al solo Star Trek. Ma è proprio Hasselhoff che lo salva dall’ira dei vertici della NBC, che vogliono cancellarlo dopo una prima stagione di programmazione conclusasi con risultati pessimi in termini artistici e, soprattutto, di audience: così, l’attore rileva i diritti, impone diverse modifiche al format e fa partire un nuovo ciclo di episodi dalla stagione 1991. Il successo è clamoroso, grazie a una formula ormai consolidata che unisce «sex appeal» di tutti i protagonisti a vicende scandite da brani pop da classifica e realizzate con stile visivo iper-patinato. «Avventure mozzafiato on the beach, salvataggi pericolosi tra le onde, amori e gelosie in riva al mare, bellezze californiane e tematiche sociali […] come la delinquenza minorile, la violenza sessuale, il razzismo» 13: sono questi i contenuti dei vari episodi. Le storie si svolgono sulle spiagge californiane di Malibu, dove Mitch Buchannon (David Hasselhoff) lavora a capo di un gruppo di bagnini e guardiacoste più simili, però, in molti frangenti, a poliziotti privati: belli, atletici, scattanti, sempre pronti a intervenire fregandosene dell’incolumità personale; ma anche tormentati, competitivi, spesso vittime del loro stesso ruolo. Del gruppo di pronto intervento, accanto a Buchannon, fanno parte la formosa C.J. Parker (la sexy e discussa Pamela Anderson), 198 AI CONFINI DELLA REALTÀ gli affascinanti Matt Brody e Logan Fowler (David Charvet e Jaason Simmons), Stephanie Holden (Alexandra Paul), Cody Madison (David Chokachi), le bellissime Caroline Holden e Neely Capshaw (Yasmine Bleeth e Gena Lee Nolin, quest’ultima sostituta della Anderson), Lani McKensie (Carmen Electra), Jordan Tate (Traci Bingham), Donna Marco (Donna D’Errico); in un cast che, però, ha nella coralità la sua caratteristica principale. Quasi tutte le avvenenti protagoniste femminili, tra l’altro, hanno posato nude sulle pagine delle più note riviste maschili, contribuendo anche in questo modo a far parlare della serie. Dal punto di vista stilistico, Baywatch estremizza l’attenzione rivolta al look della serie e dei singoli personaggi che, in altro ambito, Miami Vice rende elemento drammaturgico già nel corso degli anni ’80. Anche qui, come nel serial di Michael Mann, c’è molto pop e rock a fare da commento sonoro alle varie vicende; però, stavolta, i momenti musicali non provocano semplicemente una dilatazione del ritmo narrativo, ma si risolvono in quelli che diventano veri e propri video-clip: in ogni episodio, infatti, a un certo punto l’azione inizia a essere ripresa al ralenti, il montaggio si fa ellittico e allusivo, parte il brano pop del momento e, senza accorgersene, lo spettatore si ritrova immerso in un video musicale. Nel 1995, sulla scia del successo paranormale di X-Files, anche il telefilm dei bagnini più famosi del mondo inizia a confrontarsi con il lato oscuro e misterioso dell’esistenza, nello spin-off intitolato Baywatch Nights, sempre ideato da David Hasselhoff. Il suo personaggio, Mitch, decide di aprire un’agenzia investigativa a Los Angeles, per aiutare tutti coloro che vengono trascurati dalla polizia; si fa aiutare dal compagno di avventure in spiaggia Garner Ellerbee (Greg Alan-Williams) e da tre bellissime ragazze: Ryan McBride (Angie Harmon), Destiny Desimone (Lisa Stahl) e Donna Marco (Donna D’Errico, che poi si trasferisce in Baywatch). Nel corso delle loro indagini, i cinque s’imbattono anche in vampiri, fantasmi, licantropi, tutti poco convincenti. Così com’è il risultato complessivo dell’intera serie. Postilla «cronologica»: in viaggio nel tempo Alcune tra le avventure televisive seriali più coinvolgenti sono quelle imperniate sui viaggi nel tempo. Da sempre, infatti, la possibilità di tornare indietro nel passato – magari per provare a modificare il futuro, Star Trek docet – è tra i sogni proibiti dell’essere umano. E, naturalmente, la televisione non può fare a meno di drammatizzare l’umanissimo desiderio. AVVENTURE NEL «POSSIBILE» 199 Se l’esempio più famoso del sottogenere fantastico arriva dall’Inghilterra – con il serial del «Time Lord» per eccellenza, il Doctor Who (id., 1963) – la televisione americana di fine anni ’80 offre, sul tema, una serie godibilissima e intelligente, ironica e avvincente: Quantum Leap - In viaggio nel tempo (Quantum Leap, 1989), ideata e prodotta da Donald P. Bellisario e conclusasi dopo 96 ottimi episodi 14. «I viaggi nel tempo – spiega proprio Bellisario – di solito provocano problemi. Noi li abbiamo voluti eleggere a occasioni da sfruttare al meglio» 15. Protagonista del telefilm è il dottor Samuel Beckett (e il nome è già tutto un programma), interpretato da Scott Bakula: lo scienziato trova un modo per viaggiare nel tempo lasciando il proprio corpo nel presente; ma il marchingegno, ancora difettoso, lo costringe a un’infinità di salti spazio-temporali, in epoche diverse, dove si incarna di volta in volta in personaggi sempre differenti, assumendone l’aspetto fisico. Ogni volta Beckett, con le informazioni a sua disposizione, tenta di evitare che qualcuno muoia, aiutato nell’impresa dall’ex tenente colonnello dell’esercito Al Calavicci (Dean Stockwell), che lo guida dal presente e che lo segue in forma olografica visibile soltanto a lui. È bella, in Quantum Leap, soprattutto la sottolineatura – e qui molto merito va a un interprete come Bakula – che fa capire come nonostante i disagi del mancato ritorno a casa, in realtà, Beckett impari continuamente e arricchisca se stesso a ogni nuovo passaggio cronologico. Passaggi che danno un senso di continuità alla serie, dato che ogni episodio si conclude con il protagonista che, lasciato il corpo ospite al centro della storia appena terminata entra in quello che «interpreterà» nella puntata successiva: insomma, la più efficace delle anteprime trasformata in decisivo elemento drammaturgico (il finale con cliffhanger). Quantum Leap, con l’ironia che caratterizza la serie, dedica estrema attenzione alla storia novecentesca degli Stati Uniti, attraverso le «irruzioni» del personaggio di Bakula in periodi cruciali come gli anni ’50 e i primi ’60: per esempio, una volta Beckett s’incarna in Lee Harvey Oswald; un’altra nell’autista di Marilyn Monroe, destinato però a non poterle salvare la vita; e ancora, arriva nella New York del 1964, in stato d’assedio per la prima esibizione americana dei Beatles; e, un’altra volta, in un episodio memorabile, fa la conoscenza con un ragazzino di provincia appassionato di storie dell’orrore, al quale piace scrivere e che la mamma chiama Stevie: soltanto alla fine dell’episodio, lo sbalordito crono-viaggiatore capisce di essersi trovato di fronte a Stephen King adolescente. Insomma, la serie offre un’infinità di spunti interessanti ed elementi di riflessione su ciò che gli Stati Uniti stanno diventando (sono 200 diventati) nell’ultimo quarto del ’900, ma anche sul senso stesso della serialità e – questione fondamentale nella realizzazione di un buon telefilm – sulla corretta gestione del tempo della narrazione. Aldo Viganò, Western in cento film, Le Mani, Genova 1994, p. 12. Cit. in Paul Kerr, Guardare i detectives, in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood in Progress, Marsilio, Venezia 1984, pp. 227-228. 3 Nel 1947, i 14.000 apparecchi televisivi venduti sono presenti soprattutto nelle grandi città; e lo stesso accade ancora nel 1950, quando i quattro milioni di televisori e le stazioni televisive locali concentrate prevalentemente in aree urbane impediscono di raggiungere la sterminata platea rurale. 4 Paul Kerr, Guardare i detectives, in Vito Zagarrio (a cura di), Hollywood in Progress cit., p. 228. 5 Omar Calabrese, I replicanti, in Francesco Casetti (a cura di), L’immagine al plurale, Marsilio, Venezia 1984, p. 73. 6 Ivi, p. 70. 7 Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti, Milano 2001, p. 527. 8 Sandra Curtis, Sotto il segno di Zorro, Sperling & Kupfer, Milano 1998, pp. 80-81. 9 La corrente letteraria della fantascienza che prevede l’immissione di elementi fantastici e tecnologicamente futuristici in un contesto storico che spesso coincide con quello della Londra ottocentesca dell’età vittoriana. Già nel neologismo «Steampunk», infatti, il termine «steam» – cioè «vapore» – evoca immediatamente l’atmosfera dell’epoca della Rivoluzione industriale. Il più noto autore appartenente a questo filone è Paul Di Filippo. 10 Categoria che emerge prepotentemente come campione culturale specifico a partire dalla seconda metà degli anni ’50, e che – tra film da drive-in, fumetti horror e rock ’n roll – incarna ben presto il principale segmento di mercato al quale inizia a far riferimento l’industria dello spettacolo. 11 James Hay, Cinema e televisione, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. II, Gli Stati Uniti, tomo II, Einaudi, Torino 2000, pp. 1706-1707. 12 Federico Chiacchiari, La Serie TV, «Sfx» n. 6, ottobre 1996, p. 32. 13 Leopoldo Damerini-Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 60. 14 Lo show si lascia preferire, soprattutto per la raffinata ironia, ad altri sullo stesso tema, realizzati negli anni ’90 come, per esempio, Seven Days (id., 1998) di Christopher Crowe con Jonathan La Paglia. Citazione d’obbligo, infine, per il classico Kronos di Irwin Allen. 15 Citato in Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 286. 1 2 PARTE QUARTA OLTRE IL CREPUSCOLO, CALATI NEL REALE Professionisti nella «città nuda»: medici, avvocati, poliziotti Medici, avvocati e poliziotti, fin dalla «Golden Age of Television», sono i «professionisti» più presenti all’interno dei telefilm americani realistici (anche se il poliziesco-thriller-noir si presta – per la sua stessa natura di «macrogenere», seppur molto codificato – a interessanti commistioni con il fantastico). È doverosa, però, una prima distinzione tra le tre categorie: solitamente, infatti, i telefilm medici e legali sono girati quasi per intero in interni e spesso su set riciclati da altre produzioni o da un episodio all’altro; quelli polizieschi, al contrario, «vivono» prevalentemente tra le strade della città, respirano i suoi umori (spesso malsani), si confrontano con i mille problemi, i soprusi e le violenze della metropoli. Nei primi due casi, il «fuori» della città – che, quando «è in scena», viene descritta sempre con notevole realismo, soprattutto nelle serie più recenti – preme letteralmente sulle pareti degli ospedali e dei tribunali, facendo percepire di continuo la propria presenza (minacciosa) attraverso le storie dei tanti pazienti da curare e dei clienti da tutelare legalmente: suoi «figli» e, al tempo stesso, vittime spesso incolpevoli e inconsapevoli. Nel genere poliziesco, invece, nonostante le tante tipologie che lo caratterizzano, i protagonisti affrontano più o meno direttamente – ma, comunque, all’esterno – la città e i suoi mille volti, si confrontano con la drammaticità delle storie dell’americano medio, che li sente – proprio per la concreta presenza tra le strade – più vicini e simili a sé, rispetto ai «super-medici» e ai «super-avvocati» percepiti come appartenenti a un altro mondo, superiore al loro di parecchie spanne: è una cosa completamente diversa, infatti, confrontarsi con le storie della «città nuda» dall’interno di un’aula di tribunale o di un ospedale – in un certo senso, barriere protettive e «filtri», anche in serial moder- 204 AI CONFINI DELLA REALTÀ nissimi e iperrealistici come E.R. - Medici in prima linea – e «sporcarsi le mani» direttamente nel cuore dell’inferno metropolitano. Da questo punto di vista, allora, appare drammaturgicamente geniale l’idea di una serie come Law & Order - I due volti della giustizia (Law & Order, 1990) che, in ciascun episodio, presenta una prima parte dedicata alla detection e imperniata su personaggi polizieschi in azione e una seconda in aula, con gli avvocati che portano a termine il lavoro. Ma c’è anche una serie che, caso rarissimo, propone storie contemporanee di medici, avvocati e poliziotti, miscelando con buoni risultati gli stilemi dei tre generi: si tratta di Chicago Story (id., 1982), che ha l’ambizione – come si evince dal titolo – di raccontare le tante facce di una metropoli, attraverso le sue professioni più rappresentate sul piccolo schermo. A causa del loro rapporto con la città – concretamente presente oppure soltanto percepita fuori campo – personaggi come i medici, gli avvocati e i poliziotti fanno da autentici osservatori delle magagne della società statunitense: molto spesso, dunque, è proprio al loro punto di vista che gli autori (o a volte, purtroppo, i vertici dei network) affidano il messaggio o il giudizio morale che intendono far arrivare ai telespettatori. L’azione drammatica, di solito, ruota intorno all’abilità professionale dei caratteri principali, all’abnegazione nell’esercizio dei rispettivi lavori, al tempo sottratto all’aspetto privato delle loro esistenze, all’adamantina condotta morale (anche se per il poliziesco è necessario qualche distinguo). Si tratti di eroici medici impegnati in corsia, di risoluti avvocati attivissimi nelle aule di tribunale oppure di tormentati detective calati nel ventre della metropoli, c’è sempre un nemico da combattere, un duello senza fine da vincere: quello indefinito e dai confini incerti condotto contro la malattia, il secondo ben più concreto contro avversari in carne e ossa come i procuratori distrettuali o i criminali, il terzo comune a tutti contro i tanti aspetti della burocrazia, nei rispettivi campi d’azione. Ciò che paga, infatti, in corsia come in aula come tra le strade (così come, un secolo prima, nel «Selvaggio West»), è sempre l’iniziativa dell’individuo americano – o del gruppo d’individui americani –, meglio se associata a un pizzico di ben accetto talento personale. Kildare e i suoi colleghi Il personaggio del dottor James Kildare ha già una lunga e gloriosa storia alle spalle, prima di fare il suo esordio in televisione con il tele- PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 205 film Dottor Kildare (Dr. Kildare), prodotto da Norman Felton e trasmesso dalla NBC a partire dal 21 settembre 1961. L’abile medico paladino dei buoni sentimenti, infatti, nasce tra le pagine di una serie di romanzi popolari scritti da Max Brand (pseudonimo di Frederick Schiller Faust), durante gli anni ’30. Il lusinghiero successo porta Kildare sul grande schermo, nel 1937: l’esordio avviene all’interno di una produzione Paramount, La figlia perduta (Internes Can’t Take Money, 1937) di Alfred Santell, con Joel McCrea nel ruolo principale; ma è la MGM a dare la definitiva popolarità al personaggio, attraverso un ciclo di nove film interpretati da Lew Ayres a partire da Il giovane dottor Kildare (Young Dr. Kildare, 1938) diretto da Harold S. Bucquet. Dal 1939, il sempre più noto carattere esordisce anche in serial radiofonici che, anni dopo, rendono quasi inevitabile il suo approdo pure sul piccolo schermo casalingo della televisione. Bisogna aspettare, però, fino al 1961, anno dell’esordio del telefilm Dottor Kildare. Il ruolo del protagonista va a Richard Chamberlain, che si rivela perfetto nel tratteggiare quello che è un vero e proprio eroe della «nuova frontiera» kennediana: d’altra parte, la data della partenza dello show non lascia spazio a dubbi, sui significati di cui viene «caricato» il personaggio. Raymond Massey dà il proprio volto a Leonard Gillespie, il medico più maturo che sprona continuamente Kildare quasi come un figlio; e poi, Jud Taylor e Steven Bell sono i dottori Gerson e Lowry, Lee Kurty e Jean Inness le infermiere Lawton e Fain. L’ambiente ricorrente del serial è quello del Blair General Hospital, dove s’intrecciano tra loro vicende di casi clinici e casi umani, che spesso si dipanano lungo diversi episodi (a volte, anche per cinque o sei consecutivi). Nel microcosmo dell’ospedale agisce James Kildare, emblema dell’uomo che guarda al futuro e che fa propria l’idea di progresso (nel suo caso, quello della medicina moderna). Il dottore, impegnato e puntiglioso, magari un po’ ingenuo, ha sempre una parola buona per tutti e, in ogni momento, è pronto a intervenire per dare conforto e assistenza agli ammalati: «un buon medico ma anche un caro amico – lo definisce Aldo Grasso – pronto a dire sempre la parola giusta, a infondere coraggio e serenità anche nei momenti più disperati» 1, conscio che la medicina non è fatta soltanto di diagnosi, prognosi, cure e medicamenti ma, soprattutto, di comprensione. La sceneggiatura del telefilm, naturalmente, prevede sempre rigorosissimi happy end, con la problematicità dei vari episodi che viene «affogata» in un mare di buoni sentimenti. L’ottima risposta di pubbli- 206 AI CONFINI DELLA REALTÀ co, in ogni caso, fa sì che la serie – scritta, tra l’altro, dallo stesso autore del personaggio letterario – prosegua la sua corsa fino al 1966, per un totale di 132 puntate in bianco e nero da un’ora e 58 a colori da 30 minuti. È superfluo dire che, grazie al ruolo di Kildare, Richard Chamberlain diventa una star e irrompe nell’immaginario di più di una generazione di americani (ma non solo). Addirittura, cantando la sigla iniziale del programma (Three Stars Will Shine Tonight), riesce anche a entrare nella «Top Ten» discografica, nel 1963. Non a caso, nel 1972, fallisce miseramente il tentativo di ridar vita a Kildare in una nuova serie con un altro attore, Mark Jenkins, al posto di Chamberlain. Sempre nel 1961, dal 2 ottobre, la ABC inizia a trasmettere gli episodi di quello che diventa immediatamente il più serio rivale del dottor Kildare: il telefilm s’intitola Ben Casey (id.), proprio come il suo protagonista; è creato da quello stesso James Moser che già nel 1954 aveva provato, con Medic, a portare l’argomento in una serie catodica. Il Ben Casey del titolo, interpretato da Vince Edwards, è un neurochirurgo che lavora presso il County General Hospital, assieme al suo superiore David Zorba (Sam Jaffe) e ai colleghi Maggie Graham (Bettye Ackerman) e Ted Hoffman (Harry Landers). Rispetto al Dottor Kildare, Ben Casey punta maggiormente su un tipo di narrazione corale, utilizzando meglio l’interazione tra più personaggi ricorrenti; e poi, ricerca il realismo delle situazioni, cercando di restituire agli spettatori le sensazioni e le atmosfere della vita insonne e scombussolata che si fa all’interno di un ospedale metropolitano. C’è, quindi, nelle trame, anche una maggior propensione al dramma puro, spesso evocato attraverso la costruzione di situazioni che sembrano pensate apposta per suscitare scalpore sui mass media statunitensi (anche perché tra i due medical drama la concorrenza è forte e molto sentita dai rispettivi staff): un buon esempio arriva dall’episodio che mostra Casey iniziare una relazione sentimentale con una ragazza uscita dal coma dopo tredici anni. I temi toccati dal telefilm, d’altra parte, sono spiegati anche con il tentativo degli autori di tener fede a quello che è l’ambizioso slogan con cui si apre ogni puntata: «L’uomo, la donna, la nascita, la morte, l’infinito». Anche Ben Casey va avanti per cinque stagioni, per un totale di 153 episodi in bianco e nero. Altro notissimo medico televisivo del periodo è Marcus Welby, protagonista del telefilm omonimo, ideato da David Victor, in onda dal 1969 per 172 episodi e differente da Dottor Kildare e Ben Casey sotto molti punti di vista: anzitutto per l’età del personaggio principale, poi per come affronta parecchi temi «scottanti» degli anni ’70. Il serial che pren- PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 207 de il nome dal suo protagonista, Marcus Welby (Marcus Welby, M.D.), è imperniato, infatti, sulle vicende di un anziano dottore di Santa Monica (interpretato da Robert Young), sempre disponibile, gentile e pronto ad alleviare i mali dello spirito oltre che del corpo. Nel corso delle sue avventure, Welby si confronta con le tematiche sociali tanto in voga nel decennio ’70 e, tra l’altro, s’imbatte in questioni mediche «forti» come la dipendenza da LSD, la leucemia, i tumori, l’autismo infantile. Il paese televisivo «all’acqua di rose» di Kildare e Casey, dunque, inizia a mutare in modo evidente. La prima serie televisiva di una certa importanza che punta, fin dal titolo, sul gruppo anziché sul singolo è, sempre nel 1969, Medical Center (id.), prodotta da Herbert F. Solow e andata avanti per ben 171 episodi. L’ambiente dove si svolgono le storie è un centro medico universitario situato in un’autentica metropoli come Los Angeles: e la città fa sentire la propria presenza, anche se il lieto fine è ancora obbligatorio. Sullo schema di Dottor Kildare, i due protagonisti sono medici di generazioni differenti: il più anziano primario Paul Lochner (James Daly) e il suo giovane e decisamente affascinante assistente Joe Gannon (Chad Everett), con la specializzazione in chirurgia. S’affiancano a loro quattro infermiere che uniscono, a loro volta, il fascino all’abilità professionale: Chambers (Jayne Meadows), Wilcox (Audrey Totter), Courtland (Chris Hutson) e Holmby (Barbara Baldavin). Il genere medical, comunque, viene declinato in un’infinità di modi differenti, nella televisione americana, naturalmente tenendo ben fermi alcuni capisaldi. Così, è possibile assistere anche a brillanti contaminazioni, per esempio con la sit-com: è il caso di Doogie Howser (Doogie Howser M.D.), ideato nel 1989 da Steven Bochco e David E. Kelley e imperniato sulle avventure del ragazzo prodigio del titolo (interpretato da Patrick Harris), il più giovane medico di tutti gli Stati Uniti d’America a soli sedici anni. Ma commistioni avvengono anche con altri generi, come il poliziesco: si pensi semplicemente a Quincy (Quincy, M.E.), creato nel 1976 da Glen A. Larson, Donald P. Bellisario e Lou Shaw: la storia è quella di un medico legale, Quincy appunto (Jack Klugman), che s’improvvisa detective per risolvere il mistero di molte (troppe) morti misteriose che si trova di fronte sul suo tavolo dell’autopsia; il protagonista deve vedersela, oltre che con i criminali, anche con l’invidia di molti poliziotti e, come al solito, con le lungaggini della burocrazia. Gli anni ’90 si aprono con un telefilm che diventa ben presto «di culto»: Un medico tra gli orsi (Northern Exposure, 1990), creato da Joshua 208 AI CONFINI DELLA REALTÀ Brand e John Falsey – già autori, nel 1982, dell’A cuore aperto di cui si parla più avanti – con Henry Bromell come produttore esecutivo. Le avventure dei 113 avvincenti episodi hanno inizio quando un giovane medico newyorkese, il ventisettenne Joel Fleischman (Rob Morrow), viene inviato a fare praticantato in Alaska, presso uno sperduto villaggio di nome Cicely. Qui è, ovviamente, l’unico medico a disposizione e, come tale, si troverà a dover dipanare le situazioni più aggrovigliate e originali. È molto bello il modo in cui gli autori descrivono l’approccio dell’inesperto cittadino di fronte a una realtà diversissima da quella alla quale è abituato. Tra i tanti bizzarri personaggi che Fleischman incontra durante il suo soggiorno in Alaska, va segnalata almeno l’affascinante padrona di casa Maggie O’Connell (Janine Turner), che riesce a conquistare; e poi, tra gli altri, l’ex astronauta Maurice Minnifield (Barry Corbin) e il sindaco-barista Holling Vincoeur (John Cullum). L’inferno del pronto soccorso Gli anni ’90, però, apportano profonde e decisive innovazioni al genere medico: il processo, che arriva a compimento con le due serie rivali E.R. e Chicago Hospital (Chicago Hope, 1994), ha il suo inizio con un ottimo serial andato in onda già nel 1982. Il telefilm in questione s’intitola A cuore aperto (St. Elsewhere, 1982) e, come accennato poco fa, è merito di Joshua Brand e John Falsey. Va in onda fino al 1988, quando uno stupefacente episodio conclusivo lascia a bocca aperta tutti gli appassionati statunitensi e fa da degnissimo congedo per uno show originale come pochi altri d’argomento medico: dopo 137 episodi, infatti, gli autori decidono di mettere la parola fine con un’incredibile sequenza che presenta un bambino intento a giocare con il modellino di un ospedale racchiuso in una palla di vetro con la neve finta; arriva il padre, gli toglie il giocattolo di mano dicendogli di andare a dormire perché ormai è tardi. Insomma, l’intera saga che ha avvinto gli americani per sei anni non è altro che il gioco creato dall’immaginazione di un bambino. Questo «gioco», però, ha le tinte angoscianti e drammatiche della vita quotidiana com’è all’interno dell’ospedale di una grande città: il Sant’Eligio di Boston. Qui, lavora un’équipe di medici pronta a fronteggiare qualsiasi emergenza ma che, a differenza dei predecessori televisivi, molto spesso non può contare sul lieto fine. Direttore dell’ospedale è PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 209 il dottor Donald Westphall (Ed Flanders), che ha un figlio autistico (Tommy, interpretato da Chad Allen); a capo del reparto di chirurgia c’è, invece, Mark Craig (William Daniels), con il suo «braccio destro» Victor Ehrlich (Ed Begley Jr.) e gli altri medici Jack Morrison (David Morse) e Wayne Fiscus (Howie Mandel); Denzel Washington interpreta il dottor Philip Chandler. Nelle esistenze del folto personale del Sant’Eligio irrompono, di volta in volta, suicidi e omicidi, mali come l’AIDS o il cancro. Dal punto di vista strutturale, poi, A cuore aperto è decisamente sofisticato, con flashback anche di cinquant’anni, sequenze oniriche montate come videoclip musicali, numerose citazioni da altri film e telefilm. Anche nella forma, dunque, oltre che nei contenuti, lo show di Brand e Falsey anticipa quello di Michael Crichton. Il 18 settembre 1994, però, la messa in onda di E.R. sulla NBC è anticipata di un giorno da quella di un altro serial di argomento medico e che appare subito molto simile a quello di Crichton: si tratta di Chicago Hospital, creato dal prolifico David E. Kelley che lo produce assieme a John Tinker e Bill D’Elia. In realtà, i due telefilm – tra i quali si scatena un’immediata rivalità, tenuta in piedi attraverso una lunga «battaglia» a colpi di premi e record di ascolto – sono abbastanza diversi, pur trattando lo stesso argomento ed essendo ambientati entrambi in un ospedale di Chicago. Il telefilm di Kelley, per esempio, persegue un taglio quasi da reportage, con minori concessioni romanzate rispetto a quelle di E.R.: più che il rapporto privato tra i vari personaggi, qui ciò che conta veramente è la funzione di ciascuno, il suo compito in relazione all’organismo di cui fa parte. Certo che, tra mille problemi ed emergenze continue, il personale del moderno Chicago Hope Hospital sembra davvero sempre attrezzato per fronteggiare il peggio e, di conseguenza, infonde grande fiducia anche agli spettatori. «La scelta di mostrare l’efficienza di un’equipe medica – spiega però l’autore – può risultare stridente in un momento in cui la popolazione degli Stati Uniti chiede riforme sanitarie in grado di agevolare i più bisognosi. In realtà lo scopo non era quello di dimostrare l’inaccessibilità economica di certi enti, ma di far vedere come all’interno di essi, nonostante molte difficoltà, i “miracoli” siano assolutamente realizzabili» 2. Le contrastanti spinte socio-economiche degli Stati Uniti degli anni ’90 sono ben presenti in Chicago Hospital: basti pensare, semplicemente, al memorabile episodio che mostra il licenziamento contemporaneo di quattro medici molto stimati, in seguito a cambiamenti nella «politica dell’ospedale»; sicuramente una situazione familiare a buona parte della platea 210 AI CONFINI DELLA REALTÀ televisiva del programma. Protagonisti delle vicende, nell’ambito di un cast foltissimo, sono il chirurgo Aaron Shutt (Adam Arkin) e sua moglie infermiera Camille (Roxanne Hart), i dottori Jeffrey Geiger (Mandy Patinkin) e Arthur Thurmond (E.G. Marshall), il primario dell’ospedale Phillip Watters (Hector Elizondo), l’infermiera Maggie Atkisson (Robyn Lively) e il dottor Dennis Hancock (Vondie Curtis-Hall). Ma, tra i tanti altri interpreti ricorrenti, spiccano pure Christine Lahti, Peter Berg, Mark Harmon, Eric Stoltz, Carla Cugino, Lauren Holly, Barbara Hershey. Il giorno dopo, rispetto a Chicago Hospital, debutta sulla NBC quello che entra negli annali come uno tra i serial televisivi emblematici dell’intero decennio: E.R. - Medici in prima linea, creato dal romanziere Michael Crichton (ex studente di medicina a Harvard) e prodotto, tra l’altro, dalla Amblin Television di Steven Spielberg. Gli stessi Crichton e Spielberg firmano da produttori esecutivi, assieme a John Wells (co-ideatore della serie e regista di diversi episodi), Carol Flint e Lydia Woodward, provenienti dalla positiva esperienza dell’ottimo China Beach (id., 1988), ambientato in un ospedale da campo durante la guerra del Vietnam. Si svolgono, invece, nella Emergency Room (il Pronto Soccorso) del Cook County General Hospital di Chicago le tante storie che s’intrecciano regolarmente tra loro negli episodi di E.R.. Qui, sono impegnati in una dura lotta quotidiana contro la morte e la malattia diversi personaggi diventati, ormai, inseparabili compagni d’avventura di milioni di appassionati telespettatori: il pacato e responsabile aiuto primario Mark Greene (Anthony Edwards), il passionale e imprevedibile pediatra Doug Ross (George Clooney), la sfortunata dottoressa Susan Lewis (Sherry Stringfield), il giovane John Carter (Noah Wyle), fresco di tirocinio con l’abile assistente chirurgo Peter Benton (Eriq La Salle), la capo-infermiera Carol Hathaway (Julianna Margulies); e poi, dalle stagioni successive, altri caratteri importanti come la nuova responsabile amministrativa della struttura Kerry Weaver (Laura Innes), l’assistente medico Jeanie Boulet (Gloria Reuben), la dottoressa inglese Elizabeth Corday (Alex Kingston), l’irruente medico jugoslavo Luka Kovac (Goran Visnjic, nuovo «bel tenebroso» del gruppo, dopo l’addio di Clooney). Attorno a loro – in un ambizioso contesto che, fin dall’inizio (già in sede di sceneggiatura, quindi), prevede l’intreccio tra 87 differenti situazioni e ben 100 ruoli recitanti – trovano il giusto spazio, però, tanti altri personaggi ottimamente caratterizzati e spesso affidati a volti noti del cinema e della televisione statunitensi come, per esempio, Maria Bello, Michael Ironside, William H. Macy e CCH Pounder. Com’è ovvio in questi casi, naturalmente, il cast PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 211 si trasforma in un girotondo continuo e – sulla scia dell’enorme successo conseguito – parecchi tra i protagonisti iniziali lasciano la serie, nel corso delle stagioni, per partecipare a progetti cinematografici: da Clooney alla Margulies, dalla Stringfield a Edwards e La Salle. La straordinaria chimica tra i tanti personaggi ricorrenti è, senz’altro, un motivo del successo di E.R. (che oggi veleggia sicuro – e dominante negli indici d’ascolto – verso la nona stagione). Ma non è l’unico e nemmeno il più importante. «Quello che fa di E.R. un capolavoro (nel suo genere, certo) – fa notare il come sempre acutissimo critico televisivo che si nasconde dietro lo pseudonimo di Als Ob – è la scrittura: quella dei dialoghi e delle storie, ma anche e soprattutto delle immagini. Invece di abbassare il livello di attenzione degli spettatori, invece di assecondarne le pigrizie ed esaltarne le banalità, la regia […] punta sulla complessità, sull’intreccio di volti e ambienti, su una circolarità che non s’attarda a scrutare scene madri, situazioni forti, personaggi dominanti. Per dirla tutta, non è “facile” seguire quel che accade dentro il pronto soccorso, nelle sue vicinanze immediate, nelle case di alcuni tra i protagonisti e, ogni tanto, in trasferte anche impegnative. […] La vita corre come e più che nella realtà. A metterla in marcia, appunto, è la qualità letteraria dei dialoghi, ma ancora di più la scelta di un montaggio di qualità cinematografica. Ci sono, in E.R., piani-sequenza elaboratissimi, e tanto ben realizzati che l’occhio dello spettatore neppure li avverte. Semplicemente, si lascia prendere nel loro flusso, che ricrea la totalità della vita e che, insieme, non schiaccia mai gli individui e i caratteri» 3. Ob, quindi, conclude soffermandosi su quella che, secondo lui, è la «grandezza della serie»: la «capacità di rendere giustizia ai singoli, di mostrarli nella loro autonomia morale, buoni o perfidi, intelligenti o stupidi che siano. Per dirla tutta: E.R. è la dimostrazione che la tivù non è, di necessità, uno strumento di rimbambimento “totalitario”, ma che addirittura può contrastarlo, quel rimbambimento» 4. In effetti, il telefilm di Michael Crichton è un esempio perfetto della cosiddetta «Quality TV» seriale che emerge con sempre maggiore nitidezza nel corso degli anni ’90 rendendoli, a tutti gli effetti, l’autentica «Golden Age» della televisione statunitense; questo, grazie a caratteristiche come: la moltiplicazione dei piani narrativi, il considerevole affinamento del livello di scrittura di situazioni e personaggi, la spiccata sensibilità metanarrativa tipicamente postmoderna, cast regolari sempre più folti per dare maggiore coralità alle vicende, confini tra i generi molto più sfumati, «esasperazione» dei meccanismi seriali; ma anche 212 AI CONFINI DELLA REALTÀ l’introduzione di un maggiore realismo grazie alla presenza nelle trame di argomenti drammatici e problematici, fino a poco prima considerati «tabù» per il piccolo schermo. Così, in E.R., c’è ampio spazio – attraverso le molteplici vicissitudini dei personaggi – per discorsi non banali su temi «forti» come l’AIDS, l’aborto, l’omosessualità, la donazione degli organi, la violenza familiare sui minori, la droga, il suicidio, le diagnosi sbagliate, il rapporto con la religione, l’aumento delle disparità sociali, la violenza crescente. «Ogni malato – sottolinea Aldo Grasso – è insieme portatore di un evento, il più traumatico, e di un discorso; gli americani non amano fare prediche sull’educazione civile, preferiscono mettere in scena i tormenti che li affliggono e renderli in questo modo casi esemplari, ricordi incancellabili» 5. Da questo punto di vista, E.R. rappresenta una tra le più stupefacenti e fedeli radiografie della vita in una metropoli americana nel corso degli anni ’90. Perry Mason, l’avvocato del diavolo Con La parola alla difesa (The Defenders) – creato nel 1961 da Reginald Rose e in onda per 132 puntate, imperniate spesso su temi «scomodi», con notevole coraggio per l’epoca – il telefilm «legale» («Courtroom Drama») più famoso dei primi decenni della televisione statunitense è certamente Perry Mason, la serie classica trasmessa dalla CBS tra il 21 settembre 1957 (episodio «The Case of the Restless Redhead») e il 22 maggio 1966 («The Case of the Final Fade-Out») e seguita, qualche anno fa, da un ciclo di TV movie a colori, inaugurato nel 1985 da Il ritorno di Perry Mason (il telefilm, naturalmente, è in bianco e nero, tranne che per un unico episodio). Tra i segni distintivi dello show, c’è l’indimenticabile sigla musicale composta da Fred Steiner. La struttura dei singoli episodi, con poche variazioni, è fissa e tutta giocata sulla rispondenza piena tra psicologie dei personaggi e intreccio da sviluppare. Di solito, nella prima mezz’ora si verifica un omicidio (senza che gli spettatori ne scoprano il colpevole), la polizia arresta quella che presumibilmente è la persona sbagliata e l’avvocato Perry Mason viene assunto per occuparsi della sua difesa. Inizia il processo, durante il quale si alternano le arringhe difensive di Perry in tribunale e le indagini del suo aiutante, l’investigatore Paul Drake, alla ricerca delle prove che dovranno servire per scagionare il loro cliente (regolarmente, durante il processo, la polizia e l’accusa sono confuse dallo scal- PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 213 tro lavoro sul campo di Perry e del suo staff). Alla fine, il caso si risolve positivamente, col colpevole che confessa proprio mentre Perry lo incalza sul banco dei testimoni e col cliente che torna libero. Prima dei titoli di coda, i protagonisti dell’episodio si ritrovano insieme e, in un’atmosfera ben più rilassata, commentano l’accaduto, con l’avvocato che svela il modo in cui è giunto alla soluzione dell’intrigo. Per il ruolo del quasi invincibile protagonista è scelto l’attore Raymond Burr, mentre la fidata segretaria Della Street è tratteggiata con efficacia da Barbara Hale e William Hopper impersona il detective Paul Drake, titolare dell’omonima agenzia investigativa. Sull’altro versante, è schierato William Talman nel ruolo del procuratore distrettuale Hamilton Burger, l’avversario più frequente di Perry Mason (che lo batte sempre); mentre come poliziotti recitano Ray Collins, Wesley Tau e Richard Anderson. Ma, nei singoli episodi, appaiono di volta in volta parecchi attori famosi (o destinati a diventarlo); tra gli altri: Julie Adams, James Coburn, Bette Davis, Angie Dickinson, Ryan O’Neal, Robert Redford, Burt Reynolds, Fay Wray, il «Batman» Adam West, Leonard «Spock» Nimoy. Raymond Burr dà all’«avvocato del diavolo» Perry Mason le caratteristiche che ancora oggi lo contraddistinguono: un giovane penalista assolutamente infallibile, dalla figura possente e dai metodi personalissimi, pronto ad accettare un caso anche gratis se si rende conto dell’innocenza dell’eventuale cliente. La rispondenza di Burr al ruolo fu tra le cause del fallimento della serie anni ’70 con Monte Markham nei panni di Mason. Burr, di origini canadesi (è nato il 21 maggio 1917 a New Westminister, una cittadina non lontana da Vancouver), inizia a lavorare nel 1936 durante una tournée teatrale in Gran Bretagna con la compagnia del regista Anatole Litvak. All’enorme sfortuna nella vita privata – la prima moglie Annette muore in un tragico incidente aereo durante la seconda guerra mondiale (nel corso della quale lui viene ferito allo stomaco); con la seconda moglie, Isabella, arriva subito a un amaro divorzio; mentre la terza, Laura, muore quasi subito per un cancro, lasciando l’attore a occuparsi da solo del figlio di primo letto, Michael, affetto da leucemia (il bambino scompare poco dopo, a soli undici anni) – l’attore riesce ad affiancare un indubbio successo professionale che lo porta, nel decennio compreso tra il 1946 e il 1956, a interpretare ben 90 film, solitamente nel ruolo di «cattivo» (indimenticabile quello dell’hitchcockiano La finestra sul cortile, Rear Window, 1954). Proprio nel 1956, tra l’altro, Burr appare nella versione «americanizzata» del monster movie 214 AI CONFINI DELLA REALTÀ nipponico Godzilla (Gojira, 1954; distribuito in tutto il mondo, nell’edizione americana di due anni dopo, dalla Paramount: Godzilla King of the Monsters). Grazie all’esperienza nel ruolo «legale» di Un posto al sole (A Place in the Sun, 1951), dove recita accanto a Liz Taylor e Montgomery Clift, riesce a procurarsi il provino per il telefilm che lo rende famoso: per aggiudicarsi la parte, deve superare, però, la concorrenza di William Holden, Richard Egan, Jack Carlson, Efrem Zimbalist Jr. e Fred Mac Murray che, a differenza degli altri candidati selezionati dalla produttrice esecutiva Gail Jackson, piace molto al creatore del personaggio, Erle Stanley Gardner. Dopo aver perso qualche chilo, comunque, proprio Raymond Burr convince anche lo scrittore che, al termine di un provino, gli dice: «In venti minuti hai catturato Perry Mason meglio di quanto io abbia fatto in vent’anni». Il ruolo è suo. E Burr si tuffa nel nuovo impegno con ritmi da autentico stakanovista. Chiunque lavori con lui in Perry Mason lo descrive, infatti, come «serio, preparato e molto generoso, anche fuori dal set» (dove l’attore è impegnato in numerose battaglie sociali). Nel rapportarsi al personaggio, Burr – che «viaggia» al ritmo di dodici pagine di dialoghi imparati ogni giorno, per sei giorni alla settimana – integra la visione che il creatore di Perry Mason, Erle Stanley Gardner, ha del «suo» avvocato: senza famiglia, idee politiche, moglie; vive e dorme da solo e ha un numero di telefono sconosciuto; tra le sue rare frequentazioni sociali c’è la segretaria Della Street. Su questa base, Burr innesta elementi apprezzati anche dallo stesso Gardner e rende l’avvocato Mason duro e imprevedibile, quello che si vorrebbe avere anche come migliore amico; uno che a volte corre rischi che qualcuno considererebbe folli; uno che, come detto, nonostante abbia una parcella piuttosto costosa, spesso lavora gratis se il cliente non può permettersi di pagarlo; in pratica, un perfetto eroe dell’era kennediana, l’altra faccia di Zorro (anche se, per esempio nell’episodio «The Case of Sausalito Sunrise», rischia quasi d’essere ucciso da un killer, fermato giusto in tempo dalla polizia). Ma è il tribunale il regno di Perry Mason, il luogo in cui egli diventa una sorta di mago, un illusionista che, per convincere la corte della verità, può ricorrere a qualunque mezzo: utilizzare uomini vestiti da donne, provare che un crimine è stato commesso a quaranta miglia di distanza (usando, nella dimostrazione, Paul alla guida di un elicottero), condurre due casi in due aule contemporaneamente. La sua frase-tormentone diventa: «Obiezione, vostro onore», preceduta da una piccola pausa o pronunciata con foga. E, nonostante le urla dell’avversario Hamilton PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 215 Burger, è raro che un giudice lo fermi mentre porta avanti le sue teatrali dimostrazioni. «Il tribunale diventa un perfetto set cine-televisivo; e attraverso questi telefilm il pubblico italiano familiarizza con le formule ricorrenti che si usano nelle aule americane» 6. Soprattutto nei primi episodi del telefilm, le clienti di Mason sono quasi sempre belle donne bionde, con cui lui flirta discretamente (nell’episodio inaugurale, per esempio, l’avvocato sottolinea spesso «i grandi occhi blu» della cliente Evelyn Bagby). Nonostante le tante opportunità, però, Perry non costruisce rapporti sociali con nessun’altra donna oltre Della. Man mano che la serie va avanti, comunque, il personaggio diventa più maturo e compassato. Lo stesso Erle Stanley Gardner diventa col tempo un fan sempre più convinto di Raymond Burr che – secondo lo scrittore – «potrebbe essere un avvocato incredibilmente bravo». Anche il pubblico lo apprezza senza mezze misure e il successo è straordinario: Burr vince pure due Emmy Awards come miglior attore televisivo, nel 1959 e nel 1961. Ma, dopo diverse stagioni vissute a ritmi infernali, l’attore si dice stanco del personaggio di Perry Mason e, dopo un’estenuante trattativa con la CBS, fa concludere lo show nella stagione 1965-66 (dopo 271 episodi), per riposare un po’ dopo tanto lavoro. Nel 1967, però, l’attore lascia il suo «dorato rifugio» nelle isole Fiji per rituffarsi in un’altra serie TV, per la NBC: Ironside, in cui è l’ex capo della polizia di San Francisco, paralizzato su una sedia a rotelle dopo un incidente ma sempre attivissimo nella lotta al crimine come consulente della squadra omicidi. Il telefilm va avanti per 196 episodi complessivi, fino al 1975. Due anni dopo, con Kingston: Dossier paura (Kingston: Confidential, 1977), Raymond Burr lavora nella sua ultima serie televisiva, prima dei film TV in cui riprenderà il personaggio dell’avvocato che, anni prima, lo ha reso famoso. Una nuova generazione di avvocati Dopo il successo di Perry Mason, la televisione statunitense comincia a entrare sempre più spesso nelle aule di tribunale, per narrare vicende di avvocati più o meno intrepidi, più o meno dotati. Il genere legal acquisisce sempre maggiore autonomia, e le vicende dei protagonisti vengono declinate in mille modi possibili. Tra le variazioni più interessanti c’è senz’altro, nel 1974, quella di Petrocelli (id.), telefilm creato da Harold Buchman e Sidney J. Furie, con Edward K. Milkis e Thomas L. Miller come produttori esecutivi e le 216 AI CONFINI DELLA REALTÀ sonorità inconfondibili di Lalo Schifrin per colonna sonora. Anomalo protagonista è il giovane avvocato italoamericano Tony Petrocelli (interpretato da Barry Newman, che riprende il personaggio dal TV movie del 1970 The Lawyer, inedito in Italia), neolaureato a Harvard e desideroso di «farsi le ossa» sul campo. Per questo motivo, si trasferisce nel Sud degli Stati Uniti assieme alla moglie (che ha il volto di Susan Howard): qui la coppia si stabilisce in un camper, poiché non se la passa troppo bene dal punto di vista economico. Il lavoro per Tony non manca, ma l’avvocato incarna il tipico idealista degli anni ’70 e, quindi, non fa troppi problemi quando molti suoi clienti, solitamente di ceto medio-basso, non hanno la possibilità di pagargli la parcella: l’importante, infatti, è che alla fine di ciascun episodio (ne vanno in onda 48) la giustizia trionfi. Tra gli altri personaggi ricorrenti, ci sono l’aiutante di Petrocelli, Pete Ritter (Albert Salmi), e il tenente John Ponce (David Huddleston). Stilisticamente, la caratteristica più interessante di un telefilm che, comunque, può vantare diversi motivi d’originalità – a partire dal protagonista italoamericano – è la possibilità di rivivere da differenti punti di vista una stessa situazione, attraverso i ricorrenti flash-back in soggettiva dei tanti testimoni che l’avvocato interroga nel corso delle sue indagini. Si rifà più direttamente al personaggio di Perry Mason, invece, Benjamin Matlock, avvocato difensore interpretato da Andy Griffith nella serie Matlock (id., 1986), creata da Dean Hargrove (anche produttore esecutivo assieme a Fred Silverman) e mandata in onda dalla NBC per 195 episodi. «L’avvocato del diavolo» serve da modello, anzitutto, per il modo di portare avanti il dibattimento in tribunale e, soprattutto, per come Matlock riesce a scagionare i propri clienti sempre all’ultimo minuto e spesso in modi sorprendenti e originali; anche qui, poi, c’è una figura femminile ricorrente – quella di Charlene (Linda Purl), la figlia del legale – e un attivissimo investigatore che affianca Matlock nelle indagini, Tyler, interpretato da Kene Holliday. L’ambientazione è piuttosto insolita per una serie televisiva americana: una città come Atlanta, mai sfruttata in precedenza e, quindi, «tabula rasa» dalle infinite possibilità drammaturgiche. Il telefilm diventa famoso anche per come coinvolge – in modo modernissimo e anticipando «l’interattività» di tanta televisione degli anni ’90 – direttamente i telespettatori nella realizzazione delle sue trame: il 16 febbraio 1988, infatti, va in onda un episodio col finale deciso attraverso le telefonate del pubblico, che aveva scelto in una rosa di tre conclusioni girate in precedenza. Su forme e contenuti dei telefilm giudiziari degli ultimi decenni, in PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 217 ogni caso, hanno una grande influenza i tanti legal thriller prodotti a Hollywood nei decenni ’80 e ’90, spesso tratti da romanzi di «specialisti» come John Grisham: in tutte queste pellicole, la realtà esterna delle metropoli americane è mutata irrimediabilmente e si è fatta più composita e meno decifrabile dall’interno dei tribunali. Di conseguenza, i «nuovi avvocati» non sono più infallibili come Perry Mason; spesso sbagliano, portano le proprie inquietudini private in aula e preferiscono lavorare in team per compensare le rispettive insicurezze. I grandi studi protagonisti delle serie legali degli anni ’90 servono quasi a «costruire» le personalità di autentici «super-avvocati», con ciascuno dei membri della squadra che incarna un aspetto del carattere del «perfetto legale» di una volta ma che, in aggiunta, rende il quadro più interessante grazie ai propri umanissimi difetti. Di metà anni ’80 è una serie per molti versi innovativa come L.A. Law - Avvocati a Los Angeles (L.A. Law), ideata da Steven Bochco e Terry Louise Fisher e trasmessa dal 1986 per 173 puntate. Il progetto propone molti punti di contatto con la più celebre creatura seriale di Bochco assieme a NYPD - New York Police Department, cioè Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues, 1981): un cast corale, il commento musicale di Mike Post, l’intreccio continuo di più storie parallele in uno stesso episodio, l’alternanza di humour e dramma come accade nella vita quotidiana. Al centro dello show ci sono le alterne vicende di un prestigioso studio d’avvocati di Los Angeles, l’agenzia McKenzie, Brackman, Chaney & Kuzak, i cui membri sono impegnati ogni giorno tra le strade della metropoli e sempre pronti a confrontarsi con casi spesso di scottante attualità. Così, tra le trame di L.A. Law fanno capolino temi come l’AIDS, la droga, la pena di morte, la corruzione delle autorità, i conflitti razziali, le violenze sui minori. E, proprio come succede nella realtà, gli avvocati protagonisti spesso perdono (anche nelle occasioni importanti), si lasciano travolgere dalle passioni fino a compromettere il proprio lavoro, addirittura a volte non esitano a scavalcare i propri principi morali. Non mancano gli intrighi, dato che già nell’episodio pilota viene trovato morto il quarto socio dello studio, Chaney. Gli altri tre sono interpretati da Richard Dysart (Leland McKenzie, il partner di maggioranza della società), Alan Rachins (Douglas Brackman, figlio di un co-fondatore dello studio) e Harry Hamlin (l’abile penalista Michael Kuzak). Con i tre titolari, lavorano la civilista Ann Kelsey (è l’attrice Jill Eikenberry), l’avvocato divorzista Arnie Becker (Corbin Bernsen), il fiscalista Stuart Markowitz (Michael Tucker), il procuratore legale Victor Sifuentes (Jimmy Smits, che 218 AI CONFINI DELLA REALTÀ in seguito abbandona la serie per entrare nel cast di NYPD), Abby Perkins (Michelle Greene), la vice-procuratrice distrettuale Grace Van Owen (Susan Dey) e la segretaria Roxanne Melman (Susan Ruttan). Tra molti personaggi, con l’evolversi della serie, si sviluppano anche intrecci amorosi: basti, come esempio, il controverso rapporto che nasce tra Michael Kuzak e Grace Van Owen. E, naturalmente, al cast di partenza s’aggiunge una miriade di volti nuovi, nel corso delle diverse annate del telefilm: tra tutti, vanno segnalati Eli Levinson e Denise Iannello (interpretati da Alan Rosenberg e Debi Mazar), interessanti perché provenienti da un’altra serie legale in cui Bochco è produttore esecutivo, appena questa viene cancellata dal network ABC: si tratta di Civil wars (Civil Wars). Creato da William M. Finkelstein e andato in onda dal 1991 per 36 episodi, il telefilm narra le avventure di un gruppo di avvocati specializzati in questioni familiari e diventa famoso, negli Stati Uniti, per l’episodio in cui il personaggio di Mariel Hemingway (l’avvocatessa Sydney Guilford) accetta di posare nuda per un fotografo, mostrando buona parte del suo sedere agli sbalorditi telespettatori americani. Gli anni ’90, però, si aprono con le trasmissioni – dal 1990, sul network NBC – di una serie destinata a fare epoca dal punto di vista innanzitutto stilistico, inaugurando quel filone di esasperato realismo che, tre anni dopo, sarà portato al definitivo successo in televisione dalla seminale NYPD. Il telefilm s’intitola Law & Order - I due volti della giustizia e, tanto per cambiare, ha tra i suoi ambienti ricorrenti le aule di tribunale. L’ideatore Dick Wolf – con l’aiuto dei due produttori esecutivi Ed Sherin e Rene Balcer – punta, per caratterizzare il proprio show, su tre elementi che si rivelano fondamentali (assieme alle musiche di Mike Post e alla fotografia di livello cinematografico): dialoghi costruiti con un linguaggio crudo e realistico, che porta alle estreme conseguenze l’intuizione avuta da Jack Webb negli anni ’50 per il classico poliziesco Dragnet; un ritmo serratissimo della narrazione, grazie al montaggio frenetico e all’utilizzo regolare della telecamera a mano; infine, un gruppo d’interpreti di notevole livello e carisma, spesso pescati tra i «caratteristi» più noti a Hollywood. La «Legge» e l’«Ordine» del titolo hanno entrambi il giusto spazio all’interno di ciascun episodio, equamente diviso in una prima parte dedicata alle indagini dei poliziotti impegnati a scovare i criminali di turno e ad arrestarli, e in una seconda imperniata sul lavoro in aula dei pubblici ministeri che cercano di farli condannare. E l’ibrido tra poliziesco e legal drama è, senz’altro, tra i motivi di maggior fascino dell’operazione di Dick PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 219 Wolf. L’azione – con molti spunti che arrivano direttamente dalla cronaca nera oppure dai ritagli dei giornali – è ambientata nel «ventre» di New York, restituita ai telespettatori in tutta la sua cupa, violenta ma vitalissima complessità, poco prima che il sindaco Rudolph Giuliani la trasformasse in una sorta di asettica Disneyland per turisti danarosi (ma prima ancora che l’atroce attentato terroristico al World Trade Center ne ridefinisse per sempre lo spirito e, persino, lo «Skyline»). In tutte le vicende domina l’ambiguità, con i confini tra bene e male, innocenza e colpevolezza che diventano sempre più sfumati e meno definiti. In netta controtendenza rispetto ad altre importanti serie del periodo, poi, sotto l’obiettivo resta quasi esclusivamente l’aspetto pubblico delle esistenze dei personaggi principali, tutti seguiti minuziosamente nell’esercizio delle loro professioni ma dalle vite private piuttosto misteriose: quasi come se, nella «Grande Mela» d’inizio anni ’90, fosse pericoloso portare al di fuori delle mura domestiche il proprio privato. Il cast dei personaggi principali è equamente diviso tra poliziotti e legali: nel primo gruppo, ci sono i detective Lenny Briscoe (interpretato da Jerry Orbach), «Rey» Curtis (Benjamin Bratt), Mike Logan (Chris Noth) e Phil Cerreta (Paul Sorvino, presente solo nella prima stagione), il tenente Anita Van Buren (S. Epatha Merkerson), il capitano John Cragen (Dann Florek), il sergente Max Greevey (George Dzundza); nel secondo, invece, i vice-procuratori generali Jamie Ross (Carey Lowell), Ben Stone (Michael Moriarty), Jake McCoy (Sam Waterston), Claire Kincaid (Jill Hennessy), Paul Robinette (Richard Brooks) e il procuratore-capo Adam Schiff (Steven Hill). È ancora più stretto e diretto il legame tra il cinema hollywoodiano e un’altra celebre serie legale degli anni ’90: J.A.G. - Avvocati in divisa (JAG), ideata dal produttore Donald P. Bellisario e trasmessa a partire dal 1995. La fonte d’ispirazione diretta, infatti, arriva dal film di Rob Reiner Codice d’onore (A Few Good Men, 1992). Anche qui, come nella pellicola con Tom Cruise e Demi Moore, i protagonisti sono due avvocati della Marina militare americana, un uomo e una donna: i tenenti Harmon Rabb Jr. (interpretato da David James Elliott) e Meg Austin (Tracey Needham), sostituita nella seconda annata dal maggiore Sarah MacKenzie (Catherine Bell). La coppia – inserita in un contesto che mescola sapientemente ambientazione militare e modi da serial legale – deve risolvere casi spinosi all’interno delle caserme situate su tutto il territorio degli Stati Uniti («nonnismo», omicidi, presunti incidenti, spionaggio tra i Marines), ma si trova costretta ad agire spesso anche in alcune zone «calde» del piane- 220 AI CONFINI DELLA REALTÀ ta, dove sono impegnate le forze armate statunitensi: e, soprattutto in questi casi, i personaggi devono fare sfoggio di tutto il loro autocontrollo e di notevoli dosi di discrezione e diplomazia, poiché si trovano invischiati in complicate trame di politica estera che potrebbero essere compromesse persino da una sola parola sbagliata. A fare da filo conduttore dell’intera serie c’è la ricerca, da parte del giovane tenente Harmon Rabb, di suo padre, scomparso quando questi aveva soltanto sei anni. L’avvocato secondo David E. Kelley Due tra i telefilm legali più intriganti e acclamati degli anni ’90 sono ideati dal produttore-sceneggiatore David E. Kelley, non a caso ex giurista, già coinvolto nella produzione della storica L.A. Law - Avvocati a Los Angeles. Si tratta degli ottimi Ally McBeal (id., 1997) e The Practice Professione avvocati (The Practice, 1997). Gli show, diversissimi tra loro per atmosfere e suggestioni, anche se entrambi hanno per scenario la città di Boston, puntano gran parte delle proprie «cartucce» sull’interazione tra i tanti personaggi dei rispettivi cast e sul continuo intreccio di pubblico e privato, in cui le vicende personali acquistano persino più importanza rispetto ai casi dibattuti in aula. Ally McBeal è un originalissimo ibrido di sit-com e parodia del legal drama, dove ciò che conta davvero sono i problemi di cuore dell’irresistibile protagonista: un’avvocatessa tanto sicura e determinata in tribunale, quanto goffa, stralunata e sfortunata nella vita privata. La interpreta Calista Flockhart, attrice brava e sensibile, che risulta perfetta per un ruolo dalle mille sfaccettature. La serie va avanti dal 1997 (è giunta alla quinta stagione): ha ottenuto tutti i riconoscimenti possibili e immaginabili e, ormai, è un autentico fenomeno di costume negli Stati Uniti. Man mano che trascorrono le stagioni del telefilm, le trame si sbilanciano sempre più sul privato dei protagonisti. Dal punto di vista della scrittura, Ally McBeal è diversissima dal classico prodotto seriale televisivo: accanto a dialoghi taglienti ed esilaranti, infatti, osa e rischia notevolmente proponendo tecniche di linguaggio davvero inusuali per il piccolo schermo. «Ally pensa a voce alta, fuori campo, in modo che la voce possa essere presa a prestito da chi la guarda e ne condivide l’ansia esistenziale» 7: inoltre, allo spettatore è data la rara possibilità di assistere alla visualizzazione dei pensieri, sogni e desideri della protagonista, con effetti spesso di spiazzante e PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 221 irresistibile comicità. Un ruolo importante è ricoperto dalle musiche di Vonda Shepard e dalle tante canzoni sempre pronte a commentare le vicende narrate: in particolare, appare acutissima l’idea di Kelley – ottimamente incarnata nel personaggio dell’avvocato John Cage – di trasformare molte arringhe legali in autentici spettacoli, musicali (soprattutto sulle note di Barry White, idolo di Cage; con la giuria che, di colpo, si trasforma in coro blues) o teatrali. In questi momenti, l’aula di tribunale diventa un vero e proprio palcoscenico, rendendo finalmente esplicita quella che – da Perry Mason in avanti – è la caratteristica peculiare dei telefilm sugli avvocati, cioè l’istrionismo dei suoi protagonisti; al tempo stesso, portando tale aspetto alle estreme conseguenze (in questo caso, sfacciatamente comiche). A volte, poi, sembra quasi d’essere all’interno di un cartone animato della Warner, come quando Ally è sorpresa in una situazione intima, assieme all’amore di sempre Billy (Gil Bellows), dalla di lui moglie Georgia (Courtney Thorne-Smith), tra l’altro anche sua amica: l’avvocatessa strabuzza gli occhi – con un sorprendente effetto speciale visivo – proprio come avrebbe fatto Bugs Bunny o Duffy Duck di fronte a una situazione di pericolo. Proprio la tragicomica storia d’amore con Billy fa da filo conduttore dell’intera serie, fin dal flashback freudiano che li vede, ragazzini di sette anni, scambiarsi il primo bacio; i due, poi, studiano insieme, al liceo e all’università, finché un giorno lui preferisce la carriera all’amore della dolce Ally. Così, la bionda protagonista decide di tuffarsi nel lavoro e diventa un’avvocatessa di successo: ovviamente, ritrova Billy – con gli esiti che sono facili da immaginare – nello studio legale che l’assume dopo l’ennesima disavventura. Il motivo principale del successo del telefilm risiede nell’efficacia con cui il personaggio interpretato da Calista Flockhart riesce a rappresentare l’insicurezza generazionale di fine ’900, soprattutto quella delle sempre più numerose giovani donne americane «in carriera», impegnate in un continuo confronto «con i codici dell’amore, della lealtà, del lavoro, dell’etica e del cosiddetto “comportamento adeguato” nel mondo reale» 8. Assieme all’abilità di sceneggiatore di David E. Kelley, gran parte del merito va alla Flockhart, che «interpreta alla perfezione, con i picchi della parodia, una giovane donna che evidenzia tutte le ansie, le paranoie e gli incubi di chi vive con la testa tra le nuvole, di chi ha visto abbattere uno a uno tutti i propri ideali, di chi pensa che gli uomini siano tutti uguali» 9 («Sono come la gomma americana: una volta assaggiata una – sbotta Ally – le hai assaggiate tutte»). A completare un quadro in molti momenti dav- 222 AI CONFINI DELLA REALTÀ vero surreale, ci sono altri personaggi difficili da dimenticare: il titolare dello studio di Ally, l’ex compagno di studi Richard Fish (Greg Germann); la coinquilina di colore Renée Radick, spigliata e femminista (Lisa Nicole Carson), il già citato avvocato ballerino John Cage (Peter MacNicol), innamorato perso delle canzoni di Barry White e sempre pronto a trasformare ogni arringa in uno show, la segretaria Elaine Vassal (Jane Krakowski), la bella e brillante collega Nelle Porter (Portia De Rossi), l’algida e al tempo stesso «bollente» orientale Ling Woo (Lucy Liu), Mark Albert (James LeGros). Ma c’è un altro «personaggio» ricorrente negli episodi di Ally McBeal che, più d’una volta, terminano con la protagonista al sicuro tra le pareti del proprio appartamento: è in questi momenti che, cercando di non pensare alla sfortuna che la perseguita in amore, lei inizia a ballare in modo molto intimo con quello che sembra l’uomo ideale per le attenzioni che le dedica e per come si lascia coccolare senza ribellarsi. Peccato, però, che si tratti di una bambola gonfiabile a grandezza naturale: solo un simulacro, dunque, in una società che – con grande sofferenza dell’ipersensibile Ally – privilegia la carriera rispetto al calore dell’amore vero. The Practice - Professione avvocati, invece, è un legal drama puro, mandato in onda dal 4 marzo 1997 sul network Fox e, dal 1999, trasmesso dalla ABC, sempre con enorme successo di critica e pubblico. Il livello di scrittura è elevato, proprio come in Ally McBeal, ma l’atmosfera è diversissima, fortemente drammatica; le trame sono d’impianto ancora più corale e il loro perfetto funzionamento è assicurato dal notevole gruppo di interpreti: da Dylan McDermott (il giovane titolare dello studio legale, Robert «Bobby» Donnell) a Steve Harris (il socio penalista dello studio, Eugene Young), da Camry Manheim e Kelli Williams (le altre due socie, rispettivamente Ellenor Frutt e Lindsay Dole) a Lara Flynn Boyle (il procuratore distrettuale Helen Gamble, ex fiamma di Bobby) e Alan Lowe (l’altro procuratore distrettuale Ron Livingston); e poi, Michael Badalucco (Jimmy), Lisa Gay Hamilton (Rebecca) e Marla Sokoloff (la segretaria Lucy Hatcher). Al centro dei vari episodi c’è la professione stessa dell’avvocato, con le sue dinamiche e i suoi dubbi e compromessi spesso inevitabili: e diventa sempre più difficile praticarla, in un contesto come quello degli Stati Uniti a cavallo tra secondo e terzo millennio. Certo, Boston non è New York o Los Angeles: ma anche qui i personaggi devono confrontarsi continuamente con una realtà che sembra impazzita e che solo raramente vede trionfare la vera giustizia. Ciascuno di loro fa del proprio meglio, PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 223 secondo la consapevolezza che ogni essere umano ha il diritto di essere ben rappresentato legalmente: ma fino a quando, sarà possibile difendere con convinzione clienti che spesso sono davvero colpevoli, senza perdere la propria umanità? La professione legale, in The Practice, è rappresentata come una vera e propria giungla, dove sono i rapporti umani, in più di un’occasione, ad avere la peggio. Dubbi crescenti si fanno largo negli animi dei vari personaggi, man mano che lo studio legale Donnell, Young, Dole & Frutt prosegue nella propria crescita. Così, nell’episodio «La confessione» («The Confession»), Jimmy – forse il più sensibile tra i membri dello studio – rischia quasi la vita (entra in coma, dopo essere stato colpito da diversi colpi di pistola) per cercare di dimostrare l’innocenza di un sacerdote accusato ingiustamente di omicidio, nonostante questi non voglia rivelare il nome del vero assassino per non tradire il sacramento della confessione; alla fine, sarà Bobby a estorcere con la forza – durante un violentissimo scatto d’ira – la verità al colpevole, tornato nell’ospedale dove Jimmy è ricoverato per finire il lavoro lasciato in sospeso. In un’altra occasione, Eugene cerca di far capire al proprio perplesso figlioletto che anche il sicuro assassino da lui difeso in aula ha diritto a essere trattato secondo le regole; contemporaneamente, Bobby si scontra duramente in aula con il procuratore distrettuale Helen – i due lavorano dai lati opposti della barricata, nonostante un passato da amanti – sull’opportunità o meno di far processare «da adulto» un sedicenne che ha ucciso la madre con un’arma da fuoco: entrambi gli avvocati sono sconfitti in aula ma, nel corso di un intimo faccia a faccia tra le pareti dello studio di cui sono soci, si fanno forza reciprocamente, consapevoli dell’importanza di lottare per assicurare a chiunque la possibilità di essere difeso. Un’altra volta, quindi, è Ellenor che entra in una profonda crisi esistenziale quando, per aiutare un proprio cliente in un caso piuttosto banale, non rispetta le regole: quali sono, dunque, i limiti oltre i quali non bisognerebbe mai andare? E che senso ha una professione che, fondamentalmente, ha come scopo quello di trovare scappatoie per aggirare le norme del sistema giudiziario statunitense? Lo stesso Bobby, in un momento di forte crescita per il suo studio, si vergogna quasi nel mostrare i rinnovati locali al padre, umile fattorino nel più importante studio legale della città: cosa fare, si chiede il giovane protagonista, per non diventare come quegli «avvocatoni» che hanno sempre ignorato gli sforzi quotidiani – e, spesso, persino la presenza – di un uomo dall’enorme dignità com’è suo padre? È solo la straordinaria passione per il 224 AI CONFINI DELLA REALTÀ suo lavoro a far andare avanti Bobby e i suoi colleghi/amici. D’altra parte, lo sforzo resta quasi disumano, dato che – confessa a un certo punto dell’episodio il personaggio interpretato da Dylan McDermott – «il resto della mia vita è davvero desolante: non ho figli né famiglia ed erano sette anni che non dicevo a mio padre quanto gli volessi bene e fossi orgoglioso di lui». E, a proposito di intrecci tra pubblico e privato, alcuni tra i momenti di maggiore tensione emotiva della serie arrivano dal complesso rapporto tra Bobby e Helen, ex amanti adesso in feroce competizione nelle aule del tribunale (mitigata, comunque, da stima reciproca, affetto e attrazione ancora vivi): avvocato difensore lui, procuratore distrettuale lei; entrambi abilissimi nel proprio campo. Proprio Helen, per il suo delicato ruolo di pubblica accusa, è un altro personaggio spesso dilaniato da forti dubbi morali, come quando si trova costretta a dover decidere se far testimoniare o meno in aula un bambino di quattro anni, unico testimone contro l’assassino della sua tata; deciderà di risparmiare al piccolo l’atroce esperienza del controinterrogatorio, ma pagherà con il proscioglimento di un sicuro omicida. Come a dire: nessuna scelta è semplice e priva di conseguenze, spesso anche terribili; ma scegliere è, forse, ciò che ci rende (ancora) umani. Con The Practice, dunque, David E. Kelley utilizza la professione di avvocato come metafora e chiave interpretativa del funzionamento dell’intera società e, soprattutto, dei suoi lati più oscuri e problematici. Ally McBeal, invece, risulta essere un ottimo strumento per entrare nell’animo di una donna modernissima, fragile e risoluta, emblema delle tante professioniste che, negli Stati Uniti di oggi, vivono sulla propria pelle la tensione tra un successo sempre crescente nella carriera e l’esigenza mai sopita di una femminilità compiutamente vissuta. In questo, ma non solo, Ally McBeal risulta molto più interessante di un telefilm solo superficialmente «dalla parte delle donne» come Sex and the City (id., 1998), fasullo perché sa troppo di progetto costruito a tavolino per portare avanti una tesi preconfezionata. I primi polizieschi televisivi: da «Dragnet» ad «Alfred Hitchcock Presenta» Tra le prime serie televisive poliziesche prodotte negli Stati Uniti degli anni ’50, conquista immediatamente un enorme successo di pubblico Dragnet, grazie al taglio quasi documentaristico – «confermato» dalla voce fuori campo che, in ogni episodio, assicura circa la veridicità dei fatti PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 225 narrati – e al realismo utilizzato nella descrizione del lavoro quotidiano del protagonista, il sergente della polizia di Los Angeles Joe Friday (promosso tenente al termine della prima serie), interpretato dall’attore Jack Webb, che è anche produttore, regista e sceneggiatore del telefilm. Dragnet deriva da una precedente trasmissione radiofonica e va in onda dal 16 dicembre 1951 al 6 settembre 1959. Accanto al protagonista, s’alternano diversi partner (gli attori Barton Yarborough, Barney Philips, Ben Alexander), dando inizio a quella che diventerà una caratteristica ricorrente del poliziesco in televisione (e poi al cinema): la coppia di detective intercambiabili e complementari tra loro. Sono pochissime, invece, le presenze femminili all’interno della serie, soprattutto «fidanzate» di turno di Friday. Ma è quasi normale, in un mondo fatto di pochissimo tempo per la vita privata e dominato dal virile gergo poliziesco, dalle «cartacce» burocratiche e da intense investigazioni nella città ostile. Il progetto di Jack Webb influenza parecchi telefilm a venire – per certi versi addirittura fino al recente, acclamato NYPD New York Police Department – e gode, a sua volta, di diverse riprese nel corso degli anni: dalla seconda serie (con Joe Friday «retrocesso» di nuovo a sergente) trasmessa tra il 12 gennaio 1967 e il 10 settembre 1970 (ovviamente a colori) fino a quella del 1990, The New Dragnet. Altrettanto importante, in questo periodo, è La città in controluce (Naked City, 1958), show televisivo di Stirling Silliphant ispirato al film omonimo – La città nuda (Naked City) – diretto nel 1948 da Jules Dassin. Girato interamente a New York, è tra i migliori polizieschi catodici degli anni ’50, caratterizzato dall’estrema varietà delle vicende narrate: dall’omicidio inspiegabile al «caso umano», dal tentativo misterioso di suicidio alla sanguinosa rapina in banca (non a caso la frase introduttiva – anch’essa ripresa dal film di Dassin – dice, nella traduzione italiana: «Ci sono otto milioni di storie nella “città in controluce”; quella che segue è una di queste»). In onda dal 30 settembre 1958 al 29 settembre 1959 (con episodi di 30 minuti l’uno) e dal 12 ottobre 1960 all’11 settembre 1963 (con puntate di un’ora ciascuna), Naked City rientra tra le pietre miliari della TV statunitense dei primordi, sia per l’atmosfera che caratterizza le sue storie, sia per l’ottimo parco di interpreti coinvolti: James Franciscus (detective Jim Halloran), John McIntire (tenente Dan Muldoon), Horace McMahon (tenente Mike Parker) e Harry Bellaver (sergente Frank Arcaro); affiancati da «guest star» del calibro di Walter Matthau, Peter Falk, Gene Hackman, James Coburn, Abbe Lane, George Segal, George C. Scott. Straordinari anche i titoli di molti episodi: basti pensare solo a 226 AI CONFINI DELLA REALTÀ pazzeschi capolavori di inventiva come «La termite ben vestita», «Il giorno che quasi affondò l’isola», «La notte in cui il santo perse l’aureola», «Lasciami morire prima di svegliarmi». Anche questa serie è ripresa alla fine degli anni ’60, con i personaggi di McMahon (Mike Parker) e Bellaver (Frank Arcaro) affiancati da quelli di Paul Burke (detective Adam Flint) e Nancy Malone (la sua ragazza); e pure per questa «ripresa» abbondano gli ospiti illustri, da Robert Redford e Dustin Hoffman a Peter Fonda e Jon Voight. Altri importanti telefilm polizieschi della «Golden Age», giunti anche sui teleschermi italiani, sono Il tenente Ballinger (M Squad, 117 episodi dal 1957; con Lee Marvin e le musiche di Count Basie), Indirizzo permanente (77 Sunset Strip, 205 episodi dal 1958; con Efrem Zimbalist Jr.) e la celeberrima «Anthology Series» Alfred Hitchcock Presenta (Alfred Hitchcock Presents, 1955). Trasmessa sulla CBS e poi sulla NBC tra il 2 ottobre 1955 (episodio «Revenge») e il 10 maggio 1965 («Off Season») – per un totale di 361 puntate in bianco e nero di 30 e 60 minuti ciascuna – la serie ideata da Alfred Hitchcock (che cura anche la regia d’una ventina di episodi, nel periodo compreso tra Caccia al ladro e Gli uccelli) è composta da singole storie autoconclusive e slegate tra loro, accomunate dall’atmosfera complessiva e dalla presenza evidente, in molti casi, delle ossessioni tematiche tipiche del cinema hitchcockiano: il peccato e la colpa, l’innocenza ingiustamente (e sadicamente) perseguitata, il reale e la sua rappresentazione (vero/falso), il problematico rapporto tra i due sessi, il continuo cortocircuito tra «natura» e «cultura», per citarne solo alcuni. «L’umorismo nero e la suspense creavano un “perfect plot”, un ordito straordinariamente rigoroso nelle sue prerogative di paura e comicità. La parola a Hitch: “Si tratta, secondo me, di un umorismo tipicamente inglese, o addirittura londinese. Ricorda la barzelletta di quell’uomo condannato al patibolo che, quando è condotto davanti alla forca, si accorge che è stata costruita con un’intelaiatura fragile. Chiede allarmato: ’Eh, ma sarà sicura?’”.» 10 Dal punto di vista stilistico, i telefilm – soprattutto quelli diretti dallo stesso Hitchcock che, comunque, mantiene sempre la supervisione artistica – sono autentici saggi di messa in scena, impressionante per la sua essenzialità, con l’idea scarnificata, «nuda» e spesso destinata a trovare poi la sua forma più raffinata nel cinema. Il tono della serie è quello dei raccontini del terrore e del mistero, con ritmo sincopato tutto giocato sull’alternanza di suspense prolungata (con la complicità dello spettatore, PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 227 alle «spalle» dei personaggi, «come a voler sollecitare chi guarda a mettere sull’avviso chi è in pericolo» 11) e sorpresa (l’improvviso colpo di scena, non previsto e prevedibile né dal pubblico né dai personaggi e svelato solo alla fine, spesso tramite un completo rovesciamento delle presunte certezze «messe in campo» fino a quel momento). In ogni storia, comunque, il mondo rappresentato non è mai nettamente diviso tra «buoni» e «cattivi», bene e male; ma è privo di certezze e sempre pronto allo sberleffo anche sadico. Proprio il sadismo hitchcockiano e l’ironia onnipresente caratterizzano un progetto che si distingue, fin dalle prime puntate, per la sua unicità (avvicinabile, al massimo, ad alcuni esiti felici di Ai confini della realtà). A rendere famoso Alfred Hitchcock Presenta, poi, contribuiscono anche la notissima marcetta musicale che fa da sigla (la Marcia funebre di una marionetta di Gounod, arrangiata da Dave Kahn), il profilo stilizzato del regista – autentico logo dell’intera serie – e, soprattutto, i sardonici siparietti introduttivi e conclusivi dello stesso Hitch, a fare da cornice di ciascun episodio: rapidi e geniali, ironici e paradossali (scritti da James Allardice) servono a dare la chiave di lettura della storia ma, spesso, anche a prendere in giro tic, caratteristiche e limiti del nuovo mezzo di comunicazione e, persino, gli sponsor dello show. La «Anthology Series» gode di una nuova «incarnazione» a colori tra il 5 maggio 1985 e il 22 luglio 1989, con un ulteriore ciclo di 80 episodi più quattro pilot: per la maggior parte si tratta di remake tratti dalla serie classica, introdotti e chiusi da un Hitchcock «colorizzato». Tenenti atipici: Colombo e Kojak Mentre gli anni ’60 registrano, come visto, il «boom» dei telefilm di genere ospedaliero (Ben Casey e Dottor Kildare, su tutti) e di quelli fantastici, il poliziesco torna in auge nei palinsesti delle televisioni statunitensi all’inizio del decennio successivo, quando fanno la loro comparsa, tra gli altri, due personaggi destinati a scavare un solco piuttosto profondo nell’immaginario dei telespettatori: entrambi tenenti della polizia, rispondono ai nomi di Colombo (ma, nella versione originale, il nome è Columbo) e Kojak. Proprio il tenente Colombo – caratterizzato in modo sublime dall’attore newyorkese Peter Falk (nato il 16 settembre 1927 e, nel corso d’una lunghissima carriera cinematografica, «nominato» due volte all’Oscar) – 228 AI CONFINI DELLA REALTÀ è tra i characters più amati e popolari nella storia della TV americana. Il poliziotto losangelino dall’aria perennemente malinconica e «sfigata» – ma, in realtà, acutissimo detective – è creato da Richard Levinson e William Link. Colombo, però, non nasce con gli episodi televisivi, dato che le sue prime tracce risalgono al breve racconto May I Come In, che si conclude proprio con l’arrivo della polizia; il personaggio appare per la prima volta in un successivo adattamento – curato da Levinson e Link – per un episodio del The Chevy Mistery Show («Enough Rope», dove il tenente ha il volto, però, di Bert Freed). La stessa sceneggiatura viene poi portata a Broadway, con il titolo Prescription: Murder e il ruolo di Colombo passa a Thomas Mitchell. La serie di telefilm inizia la sua programmazione, sulla NBC, il 15 settembre 1971 fino al 1 settembre 1978: in totale sono realizzati 43 episodi, alcuni da 96 minuti e altri da due ore, preceduti dai due film pilota Prescrizione omicidio (Prescription: Murder, 1967) e Riscatto per un uomo morto (Ransom for a Dead Man, 1971), entrambi diretti da Richard Irving. La serie torna in produzione nel 1989, per altri 22 episodi, andati in onda fino al 1998. Alcuni elementi innovativi per un poliziesco televisivo caratterizzano fin dalle prime puntate la serie Colombo. La durata di ciascun episodio, anzitutto, ne fa un autentico film televisivo. Poi, i modi apparentemente da inetto del tenente – resi ancora più «spettacolari» dall’abbigliamento trascuratissimo e, in particolare, dall’impermeabile perennemente stropicciato – ingannano regolarmente i criminali che, all’inizio di ogni episodio, commettono l’omicidio da cui si dipana la trama. Solo alla fine, si accorgono d’aver ingiustamente sottovalutato Colombo che, per tutta la puntata, non fa altro che giocare come il gatto col topo con gli indiziati. Il divertimento maggiore per gli spettatori – che, fin dall’inizio, conoscono l’identità del colpevole – sta proprio nello scoprire «come» il tenente verrà a capo del mistero. Tra le altre note caratteristiche del personaggio, va sottolineata l’assenza di un nome proprio (che non viene mai pronunciato e si intuisce, forse, solo da un suo documento mostrato nell’episodio «Dead Weight», «La pistola di madreperla»: è Frank? O forse Joseph?), la passione per il chili con i crackers, l’inusuale e cadente automobile – una Peugeot 403 del 1959 – guidata con affetto e passione, lo scarsissimo ricorso alla pistola (una sola volta, nell’episodio «Playback»), il fatto di chiamare il proprio cane «Cane» (poiché non riesce a trovare un nome che gli piaccia), gli amati sigari, soprattutto i continui riferimenti a una moglie mai mostrata nel corso del telefilm (nel PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 229 1979, la signora Colombo è poi protagonista di una serie propria, durata solo 13 episodi). Si comprendono, da quanto detto, i motivi per cui Colombo si staglia immediatamente nel panorama dei polizieschi televisivi degli anni ’70, forte di un’indiscutibile originalità. Fino alla sua conclusione nel 1978, la serie è tra quelle di maggior successo e più costose – il solo Peter Falk arriva a guadagnare 125.000 dollari a episodio (il più pagato tra i divi televisivi dell’epoca) – e può giovarsi anche della partecipazione di grandi attori – da John Cassavetes a Janet Leigh, da Mirna Loy a Ida Lupino e Ray Milland – e dell’apporto di molti scrittori di successo (tra tutti, Steven Bochco) e di alcuni tra i più importanti registi di Hollywood (bastino i nomi di Steven Spielberg – che ha l’onore di dirigere il primo episodio, «Un giallo da manuale», «Murder by the Book» –, Richard Quine, Jonathan Demme e dello stesso Cassavetes, con lo pseudonimo di Nicholas Colasanto). È quasi logico, dunque, che il personaggio sia ripreso a partire dal 1989, stavolta sul network ABC. Altra figura di poliziotto eccentrico è quella di Theo Kojak, tenente newyorkese della squadra omicidi di Manhattan South dal cranio perfettamente rasato e con la passione per i lecca lecca e i gilet dai colori estrosi. Il personaggio, creato da Abby Mann, è al centro della serie Kojak (id.), prodotta dalla Universal e trasmessa dal 24 ottobre 1973 (data dell’ottimo pilot «The Marcus Nelson Murders») al 15 aprile 1978, per complessivi 115 episodi da un’ora (tranne tre, di un’ora e mezza). Kojak è interpretato da Telly Savalas, ex produttore televisivo e attore spesso impegnato in ruoli di «cattivo», che caratterizza il personaggio con una recitazione «gigioneggiante». Al suo fianco, recitano il fratello George e Vince Conti nei panni, rispettivamente, dei detective Stavros e Rizzo; Mark Russell come detective Saperstein, Dan Frazier (capo detective Frank McNeil) e Kevin Dobson (tenente Bobby Crocker). A differenza di Colombo, il tenente Kojak porta avanti le sue inchieste grazie a un ottimo lavoro di squadra e, proprio lo spazio dato ai diversi poliziotti, serve agli autori del telefilm per descrivere realisticamente i diversi aspetti della vita nella cupa metropoli che è diventata New York. Proprio per il suo realismo, tra l’altro, Kojak ha il plauso di molti esponenti di punta della polizia newyorkese. Come in molti altri serial degli anni ’70 – nella tradizione di polizieschi come Naked City e Dragnet – è la città, probabilmente, l’autentica protagonista del telefilm: un luogo che di notte mostra il suo volto più pericoloso e che, dietro le sue mille luci, nasconde pericoli inimmaginabili. In questo scenario, il tenente Kojak e i suoi colleghi 230 AI CONFINI DELLA REALTÀ avanzano senza guardare in faccia nessuno e il personaggio di Terry Savalas – ben oltre la sua aria svagata e perennemente ironica – si mostra sempre intelligentissimo e, soprattutto, estremamente efficace. Anche questa serie, come Colombo, ospita parecchie «guest star», soprattutto per quanto riguarda attori come Eli Wallach, Maria Schell, Sylvester Stallone, Richard Gere e la futura star del poliziesco TV Chips (id., 1977) Erik Estrada. «Azione!»: sbirri in coppia o in squadra Come detto, gli anni ’70 segnano il prepotente ritorno dei telefilm polizieschi, caratterizzati spesso da un elemento che diventerà ancor più comune nel decennio successivo: il ricorso a una coppia di protagonisti, magari due sbirri anticonvenzionali, in grado di completarsi tra loro dal punto di vista caratteriale e professionale. Tra il 1972 e il 1973 escono due telefilm polizieschi dai titoli italiani e dalle atmosfere molto simili: Le strade di San Francisco (The Streets of San Francisco) e Sulle strade della California (Police Story). In particolare, la prima serie va in onda tra il 16 settembre 1972 e il 23 giugno 1977, per un totale di 119 episodi, preceduti da un ottimo film pilota diretto da Walter Grauman. Per i due ruoli principali, i creatori Quinn Martin e Edward Hume scelgono due attori di sicuro talento come Karl Malden (Mike Stone, veterano del dipartimento di polizia criminale di San Francisco) e il giovane figlio d’arte Michael Douglas (il suo impetuoso assistente, Steve Keller). Al centro delle vicende sono messi proprio i conflitti generazionali e caratteriali tra i due personaggi, differenti per età e stile di vita. C’è molta cura nell’ambientazione urbana, restituita attraverso sceneggiature interessanti e un buon livello di regia e fotografia. Il telefilm è caratterizzato da molta azione, inseguimenti, sparatorie, colpi di scena improvvisi per non lasciare mai al pubblico il tempo di respirare. Sulle strade della California, invece, ha una struttura differente, senza personaggi fissi e con un realismo ancora più esasperato delle vicende narrate. Scritta dall’ex poliziotto losangelino (poi anche romanziere) Joseph Waubaugh, la serie esplora sia il lato professionale sia quello privato del lavoro in polizia, partendo dalle esperienze dirette dell’autore. Il telefilm va in onda tra il 2 ottobre 1973 e il 23 agosto 1977, per un centinaio di episodi e – nonostante la grande cura dei dettagli e la tanta azione con molti stuntmen – proprio la mancanza di personaggi PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 231 ricorrenti, in cui il pubblico possa identificarsi, porta alla sua cancellazione. Nell’ambito di Sulle strade della California sono trasmessi i pilot di Pepper Anderson agente speciale e Joe Forrester (id., 1975). La più celebre tra le serie incentrate su coppie di detective – almeno fino a Miami Vice – è certamente Starsky & Hutch (id.), creata nel 1975 da William Blinn. Il suo successo è addebitabile, anzitutto, al carisma e alla sfacciata simpatia dei due interpreti principali: il «riccio» Paul Michael Glaser nel ruolo di Dave Starsky e il «biondo» David Soul in quello di Ken «Hutch» Hutchinson. Si tratta di due poliziotti di Los Angeles – città, evidentemente, ideale per il «lato action» del poliziesco televisivo – in azione spesso sotto copertura, per assicurare alla giustizia i criminali più pericolosi. Al loro fianco ci sono anche Bernie Hamilton nei panni del capitano Harold Dobey e Antonio Fargas in quelli di Huggy Bear, il loro informatore. Trasmesso tra il 10 settembre 1975 e il 21 agosto 1979 (92 episodi di un’ora), Starsky & Hutch ha una partenza folgorante – al ritmo del tema musicale composto da Lalo Schifrin – fin dalle prime puntate, con atmosfere «dark» ed esplosioni di violenza inusuali per un prodotto televisivo; dalla seconda stagione, i ritmi diventano ancora più serrati, l’atmosfera si alleggerisce lievemente e le trame restano comunque interessanti e ricche d’azione e di acrobazie (caratteristiche del telefilm sono anche le tante auto fracassate in spericolati inseguimenti). A partire dalla terza stagione, però, la campagna anti-violenza di quegli anni costringe gli autori ad attenuare alcuni tra gli elementi portanti della serie, accentuando il lato privato delle storie e dando più spazio, quindi, ai casi personali dei due protagonisti, con una forte iniezione di romanticismo e sentimentalismo. Il fascino di Starsky & Hutch, però, rimane intatto nei confronti del pubblico, grazie al carisma di due attori sempre più affiatati tra loro, calati in un contesto urbano restituito sullo schermo in tutta la sua forza e complessità, grazie alla musica funky, alla moda variopinta del periodo, alle notti illuminate dai neon dei quartieri malfamati. Si passa dalla coppia al trio – per giunta tutto femminile – nel 1976, quando Ivan Goff e Ben Roberts scrivono Charlie’s Angels (id.), in onda dal 22 settembre 1976 al 19 agosto 1981 per 109 episodi prodotti da Aaron Spelling per la ABC. Tre splendide ragazze, diplomate all’Accademia di polizia, sono assunte dall’agenzia investigativa Townsend Organisation, gestita dal misteriosissimo Charlie Townsend (nel telefilm non si vede mai e comunica con le ragazze – e con i telespettatori – solo attraverso un interfono o il telefono). Le tre sono note come «Gli angeli di Charlie» (le 232 AI CONFINI DELLA REALTÀ «Charlie’s Angels», appunto) e devono barcamenarsi tra situazioni rischiosissime di ogni tipo. All’inizio, sono selezionate come protagoniste la modella Farrah Fawcett, Kate Jackson e Jaclyn Smith; ma il trio non dura a lungo, poiché dopo poco Cheryl Ladd sostituisce la Fawcett e, dopo la terza stagione, anche la Jackson è sostituita da Shelley Hack, cui subentra poi Tanya Roberts. La bellezza delle varie attrici, comunque, assieme a trame quasi sempre avvincenti e spettacolari, decretano il successo del telefilm, originale perché «animato» da anomale investigatrici in grado di ben figurare in bikini molto sexy o in scollatissimo abito da sera e sottovesti di seta ma, al tempo stesso, di lottare corpo a corpo con pericolosi criminali e sostenere scatenati inseguimenti automobilistici a tutto gas oppure spericolati dribbling in skateboard per evitare i cattivissimi avversari di turno. Il trio originale è composto da Sabrina Duncan (cioè, come detto, l’attrice Kate Jackson), Jill Munroe (la Fawcett) e Kelly Garrett (la Smith), tutte perfettamente a proprio agio con l’atmosfera piacevolmente «glamour» di un telefilm godibile sia per gli intrecci polizieschi, spesso condotti a ritmi mozzafiato, sia per le mìse altrettanto mozzafiato delle splendide protagoniste. Un «ritorno di fiamma» nei confronti del telefilm è provocato dal recente film per il cinema tratto dalla serie (Charlie’s Angels, id., 2000), diretto dall’esordiente McG e interpretato da Drew Barrymore (anche produttrice), Cameron Diaz e Lucy Liu. Altre popolari coppie di detective, stavolta «miste» uomo/donna, sono protagoniste di due telefilm che uniscono le atmosfere poliziesche a quelle della commedia sofisticata: Cuore e batticuore (Hart to Hart) – creato da Sidney Sheldon nel 1979 (andato in onda fino al 1984) e imperniato sul rapporto sentimentale e professionale, molto «high class», tra Jonathan (Robert Wagner) e Jennifer Hart (Stephanie Powers) – e Moonlightning (id., 1985-1989) di Allan Arkush con Cybill Sheperd (è la top model Maddie Hayes) e Bruce Willis (David Addison). Anche in Hunter (id., 1984-1990) la coppia di poliziotti protagonisti è formata da un uomo e una donna – l’Hunter di Fred Dryer e la Dee Dee McCall di Stephanie Kramer –, ma il tono della serie è quello classico del poliziesco, con punte anche piuttosto dure. Un riuscito mix tra i romanzi di Ed McBain sull’Ottantasettesimo distretto, Sulle strade della California e una soap opera: ecco quel che sembra, fin dal suo primo episodio del 15 gennaio 1981, un telefilm per molti aspetti rivoluzionario come Hill Street giorno e notte, creato dallo specialista Steven Bochco. Ambientato in un quartiere degradato di una non specificata metropoli statunitense, il serial si differenzia per molti PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 233 aspetti da ciò è stato fatto in passato: non soltanto perché racconta con toni realistici la vita di tutti i giorni all’interno di un distretto di polizia, ma in particolare perché dedica, fin dall’inizio, molto spazio alle vicende private dei vari agenti, ai loro rapporti interpersonali e persino al loro tempo libero. L’autore definisce la sua «creatura» come «un grande spettacolo, pazzo, commovente, pieno di calore e confusione, che non parla tanto di delitti e criminali quanto di poliziotti visti come esseri umani» 12. Il variegato gruppo di protagonisti è assemblato mettendo insieme Daniel J. Travanti (il capitano Frank Furillo, capo del distretto), Veronica Hamel (la fredda avvocatessa Joyce Davenport), Michael Conrad (il sergente Phil Esterhaus), Bruce Weitz (il ruvido detective Mike Belder), James Sikking (il reazionario tenente Howard Hunter), Kiel Martin (Johnny «J.D.» La Rue), Betty Thomas (Lucy Bates) e Jon Cypher (l’ambizioso capo della polizia Fletcher Daniels). Il riscontro di pubblico e critica è notevole, grazie al riuscito incrocio tra simpatia e umorismo, realistiche descrizioni di un disperato ghetto urbano, complessità degli intrecci tra i numerosi personaggi. E, grazie a questi dosati ingredienti, Hill Street giorno e notte vince anche otto Emmy Awards nel 1982, seguiti da altri cinque nel 1984. Verso la metà degli anni ’80, irrompe nei palinsesti televisivi statunitensi Miami Vice, un altro telefilm che può essere considerato rivoluzionario rispetto al passato. In onda per quattro stagioni, a partire dal 16 settembre 1984, la serie ideata da Michael Mann e Anthony Yerkovich è lo specchio perfetto degli Stati Uniti degli anni ’80, irrimediabilmente scissi tra «edonismo reaganiano» e violenza metropolitana sempre più inarrestabile; dal punto di vista stilistico, inoltre, anticipa molte suggestioni visive di quello che – anni più tardi – è definito «stile MTV»: interi episodi, riguardandoli oggi, sembrano girati come autentici videoclip musicali, grazie a un attento e raffinato utilizzo della colonna sonora – dalle partiture originali di Rick Conrad, Jan Hammer e Tim Truman, fino ai tanti brani rock inseriti nello score – combinato con le tinte glamorous della fotografia di Duke Callaghan, James A. Contner, Tom Priestley Jr. e Oliver Wood e con i virtuosismi del montaggio di Buford F. Hayes e Douglas Ibold. Miami Vice, in definitiva, sostituisce la centralità delle trame, fondamentale nei telefilm polizieschi realizzati fino a quel momento, con una nuova importanza concessa alle scenografie e al «look» complessivo dello show. Protagonisti del telefilm sono due agenti della squadra narcotici di Miami, James «Sonny» Crockett (Don Johnson) e Ricardo Tubbs (Philip Michael Thomas), specializzati in azioni «sotto copertura», molto 234 AI CONFINI DELLA REALTÀ spesso in aperto contrasto con il loro superiore, il tenente Martin Castillo (Edward James Olmos). Va notato subito come la coppia sia interrazziale, composta dal bianco Crockett (biondo e tipicamente wasp) e dall’afroamericano di colore Tubbs, mentre il loro tenente è di origini ispaniche. «Sonny» Crockett, divorziato e inguaribile playboy, vive su un battello assieme al suo alligatore Elvis, gira con abiti firmati costosissimi e va in giro con una scintillante Ferrari; Ricardo Tubbs, invece, viene da New York e si è fatto trasferire in Florida solo per scovare gli assassini di suo fratello. Entrambi sono inseriti in vicende molto spettacolari, con frequentissimi inseguimenti per le strade di Miami e violente scazzottate conclusive. La spettacolarità delle trame, però, a volte implode e si fa – in Miami Vice – riflessione dolente e crepuscolare sui rapporti ambivalenti tra forma e contenuto (nella vita e nella sua messa in scena), sui ritorni imprevisti di un passato che si crede dimenticato, sugli eventuali patti da stringere con il proprio «lato oscuro» (basti pensare alla bellissima saga che vede Crockett quasi risucchiato dal personaggio in cui si è calato nel corso dell’ennesima operazione da infiltrato tra i narcotrafficanti), con dilatazioni che vedono tante volte i dialoghi tra i vari personaggi sostituiti dalla musica e dai suoni della città; una città irrimediabilmente «sdoppiata», scissa tra la scintillante immagine diurna e il suo inevitabile «negativo» notturno. Tra i registi che hanno diretto episodi di Miami Vice molti sono approdati a Hollywood: Craig Bolotin, Rob Cohen, Christopher Crowe, Bill Duke, il grande «maledetto» Abel Ferrara, lo stesso «Castillo» Edward James Olmos, per concludere col produttore esecutivo Michael Mann. Per quanto riguarda gli interpreti, sarebbe troppo lunga la lista delle «guest star» intervenute nella serie: quasi tutti gli attori che oggi vanno per la maggiore hanno fatto – chi prima, chi dopo – una «capatina» a Miami. L’ultimo «grido» in fatto di telefilm polizieschi è rappresentato da NYPD - New York Police Department (N.Y.P.D. Blue), che la ABC manda in onda dal 21 settembre 1993. La serie – ideale per un decennio come quello ’90 – rappresenta l’ennesimo «parto» dello specialista Steven Bochco e riprende alcuni meccanismi già alla base del successo di Hill Street Blues (richiamato, d’altronde, fin dal titolo), a partire dalla coralità delle storie e dall’iperrealismo della narrazione. Ambientato tra le strade di New York, N.Y.P.D. Blue descrive le vite e il lavoro dei membri del Quindicesimo distretto di polizia, impegnati a mantenere l’ordine in una realtà urbana sempre più frammentata e degenerata; ma, al tempo stesso, impegnati anche a impedire che le loro esistenze private PROFESSIONISTI NELLA «CITTÀ NUDA»: MEDICI, AVVOCATI, POLIZIOTTI 235 vadano a rotoli. Il tono realistico ma anche fortemente drammatico e il linguaggio crudo e intriso di «slang» di molti personaggi rende questa serie un prodotto decisamente «adulto». Il notevole (e folto) gruppo di attori protagonisti propone David Caruso (il disilluso detective John Kelly), Dennis Franz (il suo compagno, il veterano ex alcolizzato Andy Sipowicz), Jimmy Smits (il detective franco-portoghese Bobby Simone, che sostituisce Kelly nella seconda stagione); e poi, tra i tanti che s’alternano nel corso delle annate, Gordon Clapp (detective Greg Medavoy), Kim Delaney (Diane Russell), Sharon Lawrence (Sylvia Costas, assistente del procuratore distrettuale e, poi, moglie di Sipowicz), James McDaniel (tenente Arthur Fancy), Andrea Thompson (detective Jill Kirkendall), Nicholas Turturro (il giovane investigatore James Martinez), Sherry Stringfield (poi in E.R.; qui interprete dell’avvocatessa Laura Hughes Kelly, ex moglie di John). NYPD - New York Police Department, dal punto di vista del linguaggio – sottolinea il critico televisivo Aldo Grasso – «è ricco di invenzioni: telecamera inquieta, montaggi serrati, ritmi calibrati, sequenze girate splendidamente, con una luce fredda, quasi livida. E soprattutto storie incrociate alla perfezione. […] I profili psicologici dei personaggi sono addirittura approfonditi (cosa rara soprattutto in un telefilm), i soggetti sono credibili, le storie sembrano autentiche e i problemi seri; il tutto sullo sfondo della città più cinematografica e televisiva del mondo» 13. Stavolta, dunque, Bochco porta alle estreme conseguenze i presupposti di partenza del suo classico Hill giorno e notte, per quel che riguarda l’impianto corale e, più in generale, il rapporto con le leggi della serialità. In definitiva, si può tranquillamente affermare che proprio NYPD - New York Police Department è il serial che ha il merito d’aver ridefinito completamente i parametri dei telefilm americani – non soltanto polizieschi: l’esempio migliore è E.R. – degli anni ’90, per quanto riguarda lo stile e i contenuti. Per concludere, va aggiunto che un simile poliziesco poteva essere ambientato soltanto in una città come New York, data la sua capacità di penetrazione nel profondo delle viscere della metropoli, per restituirne gli umori sul piccolo schermo televisivo. La «Grande Mela», infatti, si sviluppa verticalmente e, quindi, diventa l’ambiente ideale per prodotti di fiction – in televisione come al cinema – che vogliano a loro volta andare in profondità, nelle psicologie di personaggi e luoghi. Dal canto suo, invece, Los Angeles ha uno sviluppo chiaramente orizzontale e – sempre per restare nell’ambito del poliziesco televisivo – è perfetta per 236 essere «tagliata» dagli scatenati inseguimenti in auto propri del lato d’azione dei telefilm di detection. In entrambi i casi, però, la città – penetrata verticalmente o attraversata orizzontalmente – è protagonista al pari degli esseri umani che la vivono: tra le sue strade, così come in una corsia di ospedale o in un’aula di tribunale. Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2000, p. 131. Cfr. Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm, Garzanti, Milano 2001, pp. 104-105. 3 Als Ob, E.R., in barba al rimbambimento, «Sole 24 Ore», 29 aprile 2001, p. XIV. 4 Ivi, p. XIV. 5 Aldo Grasso, Storia della televisione italiana cit., p. 624. 6 Ivi, p. 81. 7 Ivi, p. 694. 8 Da un articolo della rivista «Life», citato in Aldo Grasso, Storia della televisione italiana cit., p. 694. 9 Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 19. 10 Natalino Bruzzone, Valerio Caprara, I film di Alfred Hitchcock, Gremese, Roma 1982, p. 279. 11 Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 14. 12 Citato in Leopoldo Damerini, Fabrizio Margaria, Il dizionario dei telefilm cit., p. 267. 13 Aldo Grasso, Storia della televisione italiana cit., pp. 608-609. 1 2 APPENDICI Venti «creatori» seriali Una breve premessa, prima di passare alle schede degli autori. La selezione che segue non ha alcun intento enciclopedico (che lascio volentieri ai compilatori di dizionari), ma intende offrire al lettore un supporto alla lettura dei capitoli precedenti. Per questo motivo, ho privilegiato gli autori delle serie che hanno avuto maggiore spazio all’interno del libro. Il mio elenco, però, comprende soltanto coloro che sono ricordati principalmente per i loro lavori televisivi: ecco spiegate, dunque, le assenze di Alfred Hitchcock (Alfred Hitchcock Presents), Steven Spielberg (Amazing Stories), Garry Marshall (Happy Days), Michael Mann (Miami Vice), David Lynch (I segreti di Twin Peaks), Sam Raimi (American Gothic), Michael Crichton (E.R.), Kevin Williamson (Dawson’s Creek), tutti notissimi innanzitutto in ambito cinematografico e/o letterario (Crichton). Ho cercato, inoltre, di includere nomi noti agli appassionati italiani: e ciò spiega esclusioni come quelle dei pur importanti Irwin Allen (Lost in Space), Dan Curtis (Night Shadows) e Joe Michael Straczynski (Babylon 5), ascrivibili soprattutto all’ambito del «culto». Per il resto, com’è ovvio, ho seguito il mio gusto personale, coerentemente, comunque, con lo spazio dato nei vari capitoli a determinati telefilm piuttosto che ad altri. Desi Arnaz e Lucille Ball Desiderio Alberto Arnaz y De Acha III nasce il 2 marzo 1917 a Santiago, nell’isola di Cuba. Dopo la rivoluzione di Batista, la sua famiglia si trasferisce negli Stati Uniti, dove Desi diventa un musicista di 240 AI CONFINI DELLA REALTÀ successo che rende popolari molti ritmi latini. Nel 1940, incontra Lucille Ball – nata Lucille Desirée Ball il 6 agosto 1911 a Celeron (New York) e all’epoca già apparsa in un’infinità di pellicole, più o meno importanti, fin dal 1933 – sul set del musical Too Many Girls. I due artisti si sposano poco dopo e, nel 1951, fondano la loro casa di produzione: la celebre Desilu. Sotto questo marchio, realizzano la prima sit-com di successo della televisione statunitense: Lucy ed io, di cui sono anche protagonisti nei ruoli di Ricky e Lucy Ricardo, marito e moglie pure davanti alle telecamere. Nel 1962, Arnaz – che, due anni prima, ha divorziato dalla Ball – produce The Lucy Show, sempre con l’ex moglie come protagonista; ma, nonostante qualche altra apparizione in televisione come attore, fa vita piuttosto ritirata fino alla morte (2 dicembre 1986, a Del Mar in California). Lucille Ball, invece, dopo il divorzio tiene per sé la Desilu (che, ormai, è una major) e continua a produrre e interpretare sit-com seguendo una formula collaudata; è attiva per tutti gli anni ’70 e ’80, soprattutto in televisione, fino alla serie del 1986 Life with Lucy. Muore il 26 aprile 1989 a Los Angeles. Donald P. Bellisario Nato nel 1938, alla fine degli anni ’50 è nei Marines: l’esperienza sarà presente poi in molti suoi script. I primi lavori televisivi risalgono agli anni ’70: alcune sceneggiature e regie per Kojak, Switch! (id., 1975) e Galactica. Da allora, incrocia spesso la strada di Glen A. Larson, con il quale crea e produce Magnum P.I., grande successo degli anni ’80. Nel 1982 prende spunto dallo spielberghiano I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981) per il serial avventuroso I predatori dell’idolo d’oro (Tales of the Gold Monkey) e, due anni dopo, è autore e produttore del «fanta-bellico» Supercopter (Airwolf, 1984). I risultati migliori, però, Bellisario li ottiene a fine decennio, con la brillante commedia fantastica sui viaggi temporali Quantum Leap - In viaggio nel tempo, che diventa ben presto un telefilm «di culto». Nel 1992 realizza una serie che genera anche un sequel italiano: si tratta di Tequila e Bonetti (Tequila and Bonetti). Al 1995, infine, risale la sua creazione più recente, J.A.G. Avvocati in divisa. VENTI «CREATORI» SERIALI 241 Steven Bochco Nasce il 16 dicembre 1943 a New York. È, senza dubbio, il «re» del poliziesco televisivo americano, colui che lo ha profondamente rinnovato. Dopo la laurea a Carnegie Tech si trasferisce a Hollywood, dove lavora dodici anni come sceneggiatore alla Universal (scrivendo anche per Colombo). Nel 1978 passa alla MTM Enterprises che gli dà carta bianca per creare un suo serial, il rivoluzionario poliziesco Hill Street giorno e notte. Accusato di cattiva gestione del budget, però, è licenziato nel 1985; ma trova subito posto presso la NBC, per la quale crea e produce L.A. Law - Avvocati a Los Angeles e Doogie Howser. Dal 1988, firma un contratto da quindici milioni di dollari con la ABC, per la creazione di dieci serie televisive in dieci anni: nascono così, in una sequenza impressionante, Cop Rock (id., 1990), Civil wars, Capitol Critters (1992), la straordinaria e premiatissima NYPD - New York Police Department, The Byrds of Paradise (1994), Murder One (id., 1995), Public Morals (1996), Brooklyn South (id., 1997), Total Security (1997), City of Angels (2000) e Philly (2001). Stephen J. Cannell Nato il 2 maggio 1941, è tra i più apprezzati autori statunitensi di polizieschi televisivi d’azione fin dagli anni ’70. Il suo primo lavoro risale al 1968, come sceneggiatore per alcuni episodi di Adam-12 (id.). Negli anni seguenti crea numerose serie di successo, tutte anche prodotte e spesso sceneggiate; l’elenco è impressionante: Agenzia Rockford (The Rockford Files, 1974) e Baretta (id., 1975), innanzitutto; e poi, la sit-com fantastica Ralph Supermaxieroe (The Greatest American Hero, 1981), l’ironico «action» A-Team (id., assieme a Frank Lupo nel 1983), Hardcastle and McCormick (id., 1983), Hunter, Riptide (id., 1984), 21 Jump Street (id., 1987) e il suo spin-off Booker (id., 1989). Per molti di questi show Cannell sceglie Mike Post (compositore preferito anche di Steven Bochco) e Pete Carpenter come autori delle musiche. Nel corso degli anni ’90, crea altri serial dal marchio inconfondibile, come il sexy e iper-patinato Omicidi d’elite (Silk Stalkings, 1991), Renegade (id., 1992), Cobra Investigazioni (Cobra, 1993). Il suo progetto più recente è quello di un film per il cinema tratto da A-Team. 242 AI CONFINI DELLA REALTÀ Chris Carter Nasce il 13 ottobre 1956 a Bellflower (California). Dopo la laurea in giornalismo, conseguita nel 1979, dirige la rivista specializzata «Surfing» (è, infatti, praticante e grande appassionato di surf). Nel 1987 lavora alla sit-com Cinque ragazze e un miliardario (Rags to Riches), mentre due anni dopo è scrittore e produttore esecutivo della serie A Brand New Life (1989). La svolta avviene nel 1993, quando il suo progetto fanta-horror X-Files riesce a raggiungere i teleschermi, dopo parecchie incertezze: il successo di critica e pubblico è clamoroso e gli cambia la vita. Carter cura ogni minimo dettaglio della serie e riesce anche a scrivere e dirigere molti episodi, riservandosi solitamente quelli iniziali e conclusivi di ciascuna stagione. Nel 1996, sulla scia del successo di X-Files, crea l’ancor più cupa e disperata Millennium, con risultati altrettanto buoni. Gli va peggio, invece, con Harsh Realm (1999). Ma, tra mille cambiamenti e dopo il buon riscontro del primo capitolo cinematografico, X-Files è ormai entrato di diritto nell’immaginario collettivo mondiale. David Chase David DeCesare, italoamericano, nasce il 22 agosto 1945 a Mount Vernon (New York) e cresce nel New Jersey. Dopo aver scritto, all’inizio degli anni ’70, alcuni film televisivi di nessuna rilevanza, nel 1974 entra nello staff di sceneggiatori del telefilm Agenzia Rockford. Qui lavora con Stephen J. Cannell per tutto il decennio e diventa ben presto anche produttore dello show, continuando a scriverne alcuni tra gli episodi più belli e originali. Nel 1988 realizza l’ambizioso serial di sole 13 puntate Quasi adulti (Almost Grown) e, nei successivi tre anni, lavora come sceneggiatore e produttore esecutivo a Un medico tra gli orsi e Io volerò via (I’ll Fly Away, 1991), entrambi premiati con vari Emmy e Golden Globe. Al tempo stesso, però, continua a proporre progetti personali ai vari network, ricevendo sempre risposte negative per la troppa audacia dei suoi script. La svolta avviene nel 1999, quando la rete via cavo HBO decide di credere nell’originale sit-com mafiosa I Soprano: il successo è clamoroso e oggi Chase è tra gli autori più hot della televisione statunitense. VENTI «CREATORI» SERIALI 243 David Hasselhoff David Michael Hasselhoff nasce il 17 luglio 1952 a Baltimora (Maryland). Volto notissimo di telefilm come Supercar e Baywatch, in realtà va considerato – secondo un’azzeccata definizione del popolare settimanale «TV Guide» – «uno tra i dieci uomini più potenti della televisione a stelle e strisce». È proprio lui, infatti, che salva il telefilm delle bagnine-modelle quando, dopo una sola stagione, viene cancellato per gli scarsi ascolti. Hasselhoff acquista i diritti di Baywatch, ricalibra il progetto e ne diventa produttore esecutivo: dal 1991, la «nuova» serie ottiene un successo clamoroso e oggi è seconda soltanto a Star Trek per numero di Paesi che la trasmettono (ben 140!). Nel 1995, firma sempre da produttore esecutivo lo spin-off fantastico Baywatch Nights che, però, incontra meno fortuna del prototipo (in entrambi gli show, interpreta il personaggio di Mitch Buchannon). Come attore, raggiunge il successo già nel 1973, con il ruolo di William «Snapper» Foster nella soap opera Febbre d’amore (The Young and the Restless, 1972); poi, nel 1982, è Michael Knight in Supercar. Dal 1988 è anche acclamato cantante pop, con nove album all’attivo. È sposato con l’attrice Pamela Bach. David E. Kelley Nasce il 4 aprile 1956 a Waterville (Maine). Dopo la laurea in legge, è avvocato presso un grande studio legale di Boston. Nel 1986, però, entra nello staff di sceneggiatori del telefilm L.A. Law - Avvocati a Los Angeles, creato da Steven Bochco e Terry Louise Fisher (che cercavano scrittori con conoscenze legali). Dopo tre stagioni, Kelley diventa anche produttore esecutivo dello show. Nel 1992, crea lo scottante La famiglia Brock, seguito due anni dopo da Chicago Hospital, il più serio rivale di E.R. Medici in prima linea. Nel gotha della TV statunitense, però, Kelley entra nel 1997, con uno tra i telefilm più innovativi e originali del decennio, Ally McBeal e con l’ottimo «legal drama» The Practice - Professione avvocati: con le due serie, diventa il primo produttore a vincere nello stesso anno, il 1999, l’Emmy Award nelle categorie «Comedy» e «Drama». Dopo la gradevole Spie (Snoops, 1999), firma, nel 2000, Boston Public. Per il cinema, scrive e produce A Gillian per il suo compleanno (To Gillian on Her 37th Birthday, 1996), Lake Placid (id., 1999) e Mistery, Alaska (id., 1999). Dal 1993 è sposato con Michelle Pfeiffer. 244 AI CONFINI DELLA REALTÀ Glen A. Larson Nato nel 1937, ha come marchio di fabbrica l’avventura per famiglie. Lavora in televisione fin dagli anni ’60, come sceneggiatore della serie Il fuggiasco (The Fugitive, 1963) e produttore associato di Operazione ladro (It Takes a Thief, 1968). È alla produzione anche in Switch! e Quincy. Nel 1978, tenta il primo «botto» con la space opera Galactica, con il risultato di farsi far causa da George Lucas per le troppe similitudini con Guerre Stellari (Star Wars, 1977). Da quel momento, però, Larson inanella un successo dopo l’altro, diventando l’autore di punta dell’avventura seriale televisiva anni ’80: crea, produce e scrive, infatti, Magnum P.I. (con Donald P. Bellisario), Professione pericolo (The Fall Guy, 1981), Supercar, Automan. Tra i suoi lavori più recenti spicca Hawaii missione speciale (One West Waikiki, 1994), che ripropone i consueti ingredienti delle sue produzioni: storie semplici, personaggi carismatici, poca violenza, colpi di scena a ripetizione e divertenti ammiccamenti sessuali. Norman Lear Nasce a New Haven (Connecticut) il 27 luglio 1922. Lavora in televisione fin dalla metà degli anni ’50, quando è produttore esecutivo di The Martha Raye Show (1955). Quattro anni dopo è autore di una sit-com intitolata Band of Gold (1959), nella quale James Franciscus e Suzanne Pleshette impersonano una coppia diversa in ogni episodio: giudicato troppo sperimentale, il progetto è bocciato e non va mai in onda. Tutta la produzione seguente di Lear, comunque, ripropone simili caratteristiche d’intelligenza e originalità, nel corso di un’infinità di commedie televisive spesso «baciate» da enorme successo di pubblico e critica. I suoi titoli più noti sono quelli degli anni ’70: da Arcibaldo (All in the Family, 1971) ai suoi spin-off Maude (id., 1972) e I Jefferson, da Sanford and Son (id., 1972) a Good Times (id., 1974) e Giorno per giorno, fino a Mary Hartman, Mary Hartman e All that Glitters (1977). Continua a essere attivissimo, in ogni caso, per tutti gli anni ’80 e ’90. Richard Levinson e William Link Inseparabili fin dai tempi dell’università (quella di Pennsylvania, VENTI «CREATORI» SERIALI 245 nella natia Philadelphia), Levinson e Link – nati nel 1937 – sono i creatori del tenente più originale della TV americana: l’amatissimo Colombo, personaggio che da solo basterebbe a consegnarli alla storia della televisione. Entrambi arrivano al loro titolo più famoso, però, dopo essersi «fatti le ossa» in serie come Il fuggiasco e Honey West (id., 1965). I loro polizieschi si riconoscono immediatamente per la bizzarria e l’assoluta unicità dei personaggi, intrisi d’ironia e lontanissimi dal classico eroe catodico: bastino, oltre a Colombo, i due esempi di Ellery Queen (id., 1975) e La signora in giallo (Murder, She Wrote, 1984). Sceneggiatori e produttori di innumerevoli TV movie, i due creano anche una serie come Mannix (id., 1967) e scrivono spesso e volentieri anche per produzioni seriali altrui, come nei casi di Stone (id., 1980) e dell’antologico La camera oscura (Darkroom, 1981). Levinson muore, per un male incurabile, il 12 marzo 1987 a Los Angeles. Quinn Martin Vero nome Martin Cohn. Nasce il 22 maggio 1922 a New York. Attivo come produttore televisivo fin dagli anni ’50 e ’60 – con titoli ormai entrati quasi nel mito, come Gli intoccabili, Il fuggiasco, F.B.I. (The F.B.I., 1965), The Invaders (id., 1967) – nel corso di tutti gli anni ’70 diventa il dominatore assoluto nell’ambito dei serial d’azione, tra avventura e detection. Più di una generazione, infatti, ha amato telefilm come Cannon (id., 1971), Le strade di San Francisco, Detective anni ’30 (Banyon, 1972), Barnaby Jones (id., 1973), Il cacciatore (The Manhunter, 1974), Bert D’Angelo Superstar (id., 1976), Most Wanted (1976), Ai limiti dell’incredibile (Tales of the Unexpected, 1977). A quest’elenco, però, vanno aggiunti innumerevoli film per la televisione (una trentina). Martin muore il 6 agosto 1987, a Rancho Santa Fe in California. Gene Roddenberry Eugene Wesley Roddenberry nasce il 19 agosto 1921 a El Paso (Texas). Inizia a scrivere per la televisione nel 1955, per il telefilm poliziesco La pattuglia della strada (Highway Patrol), con lo pseudonimo di Robert Wesley. Nel 1963, produce e scrive la serie The Lieutenant. Tre anni dopo realizza il progetto che lo consegna alla storia: Star Trek, serie asso- 246 AI CONFINI DELLA REALTÀ lutamente innovativa nel panorama della fantascienza catodica. Seguirà amorevolmente la sua creatura per tutta la vita, tra cartoni animati, film per il cinema, fumetti e volumi d’avventura. Nel 1987 è autore della nuova serie Star Trek - The Next Generation, destinata a eguagliare il successo degli episodi classici. Dopo la sua morte – il 24 ottobre 1991, per infarto – arrivano a concreta realizzazione, per merito della moglie Majel Barrett, altri progetti tenuti per anni nel cassetto: Pianeta Terra - Cronaca di un’invasione (Gene Roddenberry’s Earth: Final Conflict, 1997) e Gene Roddenberry’s Andromeda (2000). Oltre, naturalmente, sotto la supervisione del suo «erede» Rick Berman, alle altre tre serie di Star Trek - Deep Space Nine, Star Trek - Voyager e la recentissima Enterprise. Rod Serling Edward Rodman «Rod» Serling nasce il 25 dicembre 1924 a Syracuse (New York). Dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale inizia a coltivare con regolarità la passione per la scrittura. Nella prima metà degli anni ’50 vende più di settanta soggetti a vari network televisivi. La popolarità arriva nel 1955, quando scrive Patterns, originale televisivo che gli frutta il primo dei sei Emmy Awards vinti in carriera. Sempre nello stesso periodo, è autore di altri successi catodici come The Comedian, Playhouse 90 e Requiem for a Heavyweight. Nel 1959, torna alla passione giovanile per il fantastico e, con la serie antologica Ai confini della realtà, entra definitivamente nella storia della televisione: nei cinque anni successivi, ne sceneggia ben 92 episodi su 156 totali, sempre supervisionando l’intero progetto. Per il cinema, è autore degli script di Sette giorni a maggio (Seven Days in May, 1964) di John Frankenheimer e Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner. Fa il suo ritorno in Tv con la serie Mistero in galleria. Muore il 28 giugno 1975, a Rochester (New York). Aaron Spelling Nasce il 22 aprile 1923 a Dallas (Texas). È tra i più potenti produttori hollywoodiani, a capo del colosso Spelling Entertainment Inc. che comprende la Spelling Television, la World Vision (compravendita diritti), la Hamilton Projects (merchandising) e la Republic Pictures. VENTI «CREATORI» SERIALI 247 Inizia a lavorare in televisione, negli anni ’50, come comparsa (in Dragnet, Gunsmoke e Lucy ed io) e poi come scrittore per le serie Carovane verso il West e Westinghouse Desilu Playhouse. A partire dagli anni ’60, fino a tutt’oggi, produce un numero incredibile di TV movie e serial, quasi tutti baciati da enorme successo. La «formula» dei suoi telefilm prevede avventura iper-patinata con colpi di scena a ripetizione, oppure passioni e intrighi; spesso con protagonisti piuttosto sexy. Tra le sue tantissime produzioni seriali vanno segnalate, quantomeno, Mod Squad (id., 1968), A tutte le auto della polizia (The Rookies, 1972), Starsky & Hutch (creata da William Blinn), Charlie’s Angels, Love Boat, Cuore e batticuore, Dynasty (id., 1981), Hotel (id., 1983), Beverly Hills 90210, Melrose Place, Streghe. Jack Webb John Randolph Webb nasce il 2 aprile 1920 a Santa Monica (California). Prima di sfondare in televisione ha già una buona carriera di attore in radio e al cinema, dove recita in Egli camminava nella notte (He Walked by Night, 1948), Uomini (The Men, 1950) e Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950). È il «padrone assoluto» del primo, grande telefilm poliziesco della TV statunitense: Dragnet, mutuato dal precedente show radiofonico omonimo e ideato, scritto, diretto e interpretato (nei panni del sergente Joe Friday) dallo stesso Webb, che lo produce attraverso la sua società Mark VII. La serie approda pure sul grande schermo (Mandato di cattura, Dragnet, 1954) e gode di una nuova incarnazione, stavolta a colori, a partire dal 1967. Successivamente – dopo altri ruoli d’attore al cinema, in film come Tempo di furore (Pete Kelly’s Blues, 1955) e Faccia di bronzo (The Last Time I Saw Archie, 1961) – firma come creatore e produttore altri due telefilm di successo, come Adam-12 e il semi-documentaristico Squadra emergenza (Emergency!, 1972), puntando sempre sul minuzioso realismo delle vicende raccontate. Lo stronca un attacco cardiaco, il 23 dicembre 1982 a West Hollywood (California). Joss Whedon Nato il 23 giugno 1964, ha la scrittura seriale nel sangue, poiché è nipote di John Whedon e figlio di Tom, entrambi sceneggiatori televisi- 248 vi di successo, rispettivamente negli anni ’50 (Leave It to Beaver) e ’70 (Alice). Joss è a proprio agio nei territori del fantastico, al cinema come in TV. Per il grande schermo scrive il rivoluzionario cartoon digitale Toy Story (id., 1995), Alien - La clonazione (Alien: Resurrection, 1997), l’altro film d’animazione Titan A.E. (id., 2000). In televisione, inizia sceneggiando episodi delle sit-com Pappa e ciccia (Roseanne, 1988) e Fra nonni e nipoti (Parenthood, 1990); ma la sua creazione più celebre è, nel 1997, il telefilm Buffy, perfetto congegno narrativo – basato sul pessimo film del 1992, Buffy - L’ammazzavampiri – che miscela horror e commedia adolescenziale inaugurando un filone. È del 1999 lo spin-off Angel, interamente dedicato al vampiro buono coprotagonista dello show precedente. Whedon – che è al lavoro sulla serie animata di Buffy – è, da qualche tempo, anche apprezzato sceneggiatore di fumetti. Dick Wolf Nato nel 1947, inizia piuttosto tardi a lavorare in televisione. Soltanto nel 1981, infatti, entra nello staff di scrittori della storica Hill Street giorno e notte, sceneggiandone ottimamente diversi episodi. Alla fine degli anni ’80, è impegnato come soggettista e produttore esecutivo di No Man’s Land (1987) e Masquerade (id., 1988). Ma è con l’inizio dei ’90 che la sua carriera ha la svolta decisiva, poiché proprio nel 1990 crea e produce uno tra i migliori serial del periodo: Law & Order - I due volti della giustizia, iper-realistico ibrido di legal drama e poliziesco. Da questo momento diventa ricercatissimo ed è impegnato nella creazione e produzione di molte nuove serie, sempre poliziesche, tra cui Crime & Punishment (1993), Miami Beach (South Beach, 1993), New York Undercover (id., 1994), Swift - Il giustiziere (Swift Justice, 1996), Deadline (2000); e in vari progetti legati alla sua più celebre creatura, come Law & Order: Special Victims Unit (id., 1999) e Law & Order: Criminal Intent (2001). Strani suoni dal piccolo schermo. Appunti per una semiotica della colonna sonora di Biagio Coscia La cultura musicale occidentale ci ha fornito una serie di codici che noi tutti utilizziamo inconsciamente quando ascoltiamo la musica. In nessun campo come quello dei film e dei telefilm – dove l’azione è sempre legata a un commento musicale – questi codici sono tanto forti. Così, bastano poche battute della colonna sonora di un telefilm che non conosciamo – magari ascoltate separatamente dalle immagini – per capire come la musica sottolinei il momento d’azione di un poliziesco, una scena d’amore o una situazione di suspense. Il margine d’errore è veramente minimo. Cosa spinge, allora, la nostra immaginazione a legare una musica a una situazione? Se sono sufficienti poche note per farci pensare «sembra una musica da film di Hitchcock», oppure «adesso arrivano i nostri» o ancora «questa è una scena d’amore», deve esserci qualche meccanismo inconscio che «s’attiva». In realtà i «luoghi comuni musicali» vengono evocati da codici che ormai fanno parte della nostra cultura. Ciò vale in particolare nel mondo della televisione, dove niente capita per caso. Sono, infatti, specifiche tecniche di composizione che riescono a dare alla musica la forza necessaria per evocare certe emozioni e sensazioni. E il fruitore abituale della televisione è stato per anni la «cavia» principale di quest’utilizzo della musica che, negli ultimi vent’anni, si è accentuato in maniera logaritmica e ha trovato poi uno scopo finale, e il suo sfruttamento subliminale, nei jingle pubblicitari. Le regole di questi codici semiotici non sono una novità di pochi decenni, ma si sono evolute nel corso degli ultimi secoli. Per esempio, le scene dei brindisi nei melodrammi di Giuseppe Verdi – si veda La Traviata, il Macbeth o marce trionfali come quella dell’Aida – sono tutte costruite con una tecnica analoga a quella oggi utilizzata per la maggior 250 AI CONFINI DELLA REALTÀ parte dei jingle di bibite e liquori o, nel caso dell’Aida, per sigle di nuovi partiti al governo o marce che annunciano battaglie intergalattiche di fantasia. Insomma, certe melodie che sembrano quasi casuali, in realtà sono costruite ad arte con regole dell’armonia e, appunto, della melodia, molto semplici per chi abitualmente scrive musica. Per una spiegazione grossolana, basti sapere che le melodie sono caratterizzate dalla distanza che separa tra loro le note. La tecnica di utilizzare sequenze d’intervalli tipici (cioè che evocano determinate sensazioni) consente, con qualche piccola variazione, di dare a qualsiasi motivo o canzonetta l’atmosfera richiesta. Tornando all’esempio precedente sui brindisi, se analizzassimo le partiture dei jingle della Coca Cola, del Martini, del Gatorade ci accorgeremmo che in tutti prevale un intervallo di sesta maggiore: proprio come nel «Libiamo…!» della Traviata o in «Si colmi il calice» del Macbeth. L’enfasi creata dall’intervallo di sesta, in una determinata posizione della melodia, crea quell’indefinibile sensazione di festa ed evoca il gesto del brindisi. Il medesimo discorso può essere fatto per le ninnenanne di tutti i tempi. Nei jingle di pannolini e prodotti per bambini, così come nelle sigle di sit-com che ospitano personaggi «under 14», infatti, la tecnica utilizzata è la stessa. Le musiche non sono ninnenanne ma, nascosto nella melodia, c’è l’intervallo di seconda, tipico di tutte le musiche rivolte all’infanzia. E anche qui non c’è nessun mistero: l’intervallo di seconda è il più semplice da cantare e, quindi, più naturale per i bambini. I piccoli realizzano, secondo tale schema, arrangiamenti personali di tutte le canzoni che ascoltano e, quando c’è un televisore acceso che trasmette una bella musichetta costruita ad arte, la loro attenzione rimane automaticamente calamitata. Un esempio per tutti arriva dalla sigla scritta da Frank DeVol per la serie televisiva Family Affair, nota in Italia come Tre nipoti e un maggiordomo, che ha un cast formato per tre quinti da ragazzini e un tema musicale al cento per cento di intervalli di seconda. Insomma, con le ovvie eccezioni, sono una decina le regole fondamentali che giustificano la genesi e la vita stessa di colonne sonore capolavoro della televisione. Certi temi particolarmente efficaci introducono, fin dalle prime note, alla storia che stiamo per seguire e, magari, consentono di recuperare una scena persa attraverso una sorta di subliminale «riassunto delle puntate precedenti». Un altro elemento di riconoscimento è l’orchestrazione. I telefilm western e le grandi epopee familiari hanno sempre una melodia ad ampio respiro e il tema esposto da una sezione di fiati con i corni in STRANI SUONI DAL PICCOLO SCHERMO 251 primo piano. Per i polizieschi, il discorso è analogo, con ampio riferimento al jazz come suono della metropoli. Rara eccezione sono i celebri telefilm prodotti da Alfred Hitchcock, introdotti da un brano di musica classica come la Marcia funebre di una marionetta di Charles Gounod e poi da un commento sonoro di routine. Le produzioni televisive seriali dell’ultimo decennio sono condizionate dalla grande quantità di canali esistenti e dalla crescente richiesta di nuovi show. Ritmi produttivi un tempo impensabili, quindi, hanno sacrificato per prima proprio la musica. Così, è raro riscontrare, oggi, una vera attenzione per la colonna sonora che, ormai, è realizzata in serie, proprio come una soap opera. Attualmente ai compositori viene richiesta, a prescindere dalla sceneggiatura, soltanto la necessaria serie di musiche «a effetto»: mediamente, per una serie di telefilm occorrono, oltre al tema conduttore, tre melodie per scene d’amore, altrettante per sequenze d’azione, due temi per un’agnizione e una dozzina per le scene drammatiche. Poi, in fase di montaggio e sonorizzazione, la tecnologia digitale consente di unire i pattern combinandoli in vari modi. E il gioco è fatto. Di tutt’altro spessore è, invece, il lavoro dei musicisti che si ritrovarono a sonorizzare le serie televisive degli anni ’50 e, soprattutto, ’60. Tre esempi fondamentali della qualità e della ricerca del giusto effetto possono essere la sigla di La famiglia Addams di Vic Mizzy, quella di Batman di Neal Hefti e quella di Missione impossibile di Lalo Schifrin. Tre telefilm diversi per genere e stile, con soundtrack a loro volta differenti, ma che dimostrano come spesso la musica possa superare la fama della serie per la quale è stata realizzata. Le musiche di Vic Mizzy, elaborate per i 64 episodi della Famiglia Addams, sono di grande complessità e in qualche momento ricordano per creatività quelle che Carl Stalling aveva realizzato per i cartoons della Warner Brothers. Le variazioni barocche e contrappuntistiche del tema d’apertura, in soli due minuti, preparano lo spettatore alle atmosfere surreali e gotiche del telefilm. Indimenticabile, in uno degli episodi, un tango suonato con la spinetta e il basso continuo, realizzato per uno dei primi episodi e poi riutilizzato con altre variazioni. Anche la musica scritta da Neal Hefti per Batman è tutt’altro che banale. Il compositore e trombettista americano, collaboratore pure dell’orchestra di Count Basie, è stato uno dei più prolifici autori di standard per big band (tra i suoi capolavori Lil’Darlin’). Il suo tema di Batman fu riarrangiato da molti altri musicisti doo woop e di rock’n’roll 252 AI CONFINI DELLA REALTÀ che ne fecero hit da classifica negli Stati Uniti: i Marketts arrivarono al diciassettesimo posto, ma ebbero grande successo anche Jan & Dean, i Ventures, gli Who. Tra le altre musiche per la televisione scritte da Neal Hefti, ci sono i jingle per un varietà con Frank Sinatra. La scia del suo Batman è ripercorsa, qualche decennio dopo e senza gli stessi risultati artistici, dalle colonne sonore che accompagnano le avventure di tutti gli altri supereroi. Durante la trasmissione della serie Missione impossibile, invece, furono pubblicati due album con le musiche dei telefilm (ora riunite in un unico CD). Le vendite superarono ogni aspettativa e le musiche di Lalo Schifrin diventarono il sinonimo melodico di Missione impossibile. Il successo dura fino a oggi, se si pensa che i Portishead – gruppo di punta della scena musicale di Bristol – hanno ripescato le musiche di uno degli episodi («Danube incident») per realizzarne un hit mondiale. Come per Neal Hefti, anche per Lalo Boris Schifrin, compositore e arrangiatore argentino, le radici sono nel jazz. Pianista, tra i più apprezzati del quintetto di Dizzy Gillespie, deve la sua impronta riconoscibile alla militanza per un certo periodo con Quincy Jones. Da notare che oltre a scrivere le musiche per Missione impossibile, Schifrin è stato autore delle colonne sonore di altre serie come Mannix e di film come Cincinnati Kid (The Cincinnati Kid, 1965) ma, soprattutto, Bullitt (id., 1968) che ha subìto la stessa sorte di Missione impossibile, restando impigliato tra le maglie della nuova musica pop di Bristol. Anche se non sono rimaste nella memoria collettiva, sono tante altre le sigle televisive realizzate da grandi autori, autentici miti della musica pop contemporanea o grandi compositori di colonne sonore per il cinema. La sigla di Mary Hartman, Mary Hartman, per esempio, è di Barry White; mentre l’autore delle musiche di Cimarron Strip (id., 1967) è Maurice Jarre e quello di L’uomo da sei milioni di dollari (The Six Million Dollar Man, 1974) un altro genio del jazz come Oliver Nelson. Quincy Jones, invece, si occupò della colonna sonora di Ironside. Come prevedibile, le colonne sonore dei telefilm seguono tutti i luoghi comuni della cultura musicale occidentale. Anche se negli ultimi anni si è perso quel sapore artigianale che contraddistingueva certe produzioni e i meccanismi produttivi si rispecchiano più che altro nella scelta delle canzoni: così, le musiche per la televisione seriale (ma anche quelle per il cinema) sono diventate più attente a un risultato di «cassetta» che alla reale esigenza di commento musicale. Poche le eccezioni, e lontane dalle ultime produzioni. Un isolato buon esempio recente STRANI SUONI DAL PICCOLO SCHERMO 253 arriva dalla splendida colonna sonora della serie animata dei Simpson (The Simpsons, 1989), scritta da Danny Elfman sullo stile di un moderno Carl Stalling. Esemplare del modo odierno di assemblare la colonna sonora per telefilm – con canzoni pop di moda più un tema specifico – è, invece, Wild Palms (id., 1993), la serie di Oliver Stone con musiche di Ryuichi Sakamoto; ma anche I Soprano di David Chase ha una soundtrack di tipo cinematografico, nel senso che propone canzoni in voga accanto a un tema portante. Sono lontani, dunque, i tempi di Perry Mason e del tema Park Avenue Beat di Fred Steiner (uno della «gang» di Star Trek), capolavoro che in tempi più recenti è stato quasi raggiunto soltanto dalle due colonne sonore scritte da Barry Goldenberg per Kojak. Efficaci ma più di routine, invece, quelle di telefilm «storici» come Magnum P.I. – scritta da Mike Post e Pete Carpenter – e Hawaii Squadra Cinque Zero (Hawaii Five-0, 1968), di Mort Stevens, ripresa dai Ventures che la portarono al quarto posto delle classifiche americane. Tra gli autori televisivi più prolifici c’è l’italoamericano Bill Conti, che ha scritto la musica per Dinasty, New York, New York (Cagney & Lacey, 1982), Falcon Crest (id., 1981); e, soprattutto, il già citato Mike Post, compositore, tra i suoi tanti lavori, pure in L.A. Law - Avvocati a Los Angeles, Hardcastle and McCormick, Hunter, La squadriglia delle pecore nere (Baa Baa Black Sheep, 1976) e Hill Street giorno e notte. È interessante, per concludere, il caso della colonna sonora composta da Alexander Courage per Star Trek, caricatasi – come quelle di altri telefilm classici, d’altra parte – di significati legati ai personaggi dei quali sottolineava le gesta, resistendo nell’immaginario collettivo all’inesorabile velocità con la quale la televisione brucia i migliori prodotti e proponendosi come «leit motiv» transgenerazionale. Le otto note che compongono il tema principale sono parte, ormai, di una cultura catodica planetaria con la quale hanno dovuto fare i conti tutti i successivi compositori di colonne sonore, anche ben oltre il solo genere fantascientifico. Ma Star Trek si è avvalso anche dei contributi di altri pregevoli compositori, mentre Courage si dedicava alle musiche di un’altra serie, Al banco della difesa (Judd for the Defense, 1967): a sottolineare le gesta del capitano Kirk e del suo equipaggio, infatti, pensarono pure George Duning, Jerry Fielding, Gerald Fried, Sol Kaplan, Samuel Matlovsky, Joseph Mullendore e Fred Steiner. Da notare che lo stesso massiccio uso di musica sinfonica – quindi costosa da realizzare per una serie tutto sommato a basso budget – si è verificato già qualche anno prima, in The Outer Limits, che ha molti punti in comune con la serie di Gene Roddenberry. 254 AI CONFINI DELLA REALTÀ Una discografia La più completa e curata raccolta di colonne sonore di telefilm è quella realizzata nel 1996 dalla Edel: sette compact disc, divisi per anni e per generi, con tutte le possibili sigle di programmi televisivi angloamericani prodotti dagli anni ’50 al 1996 circa. I primi due volumi hanno l’inequivocabile titolo Television’s Greatest Hits. In seguito, visto il successo di vendite, dal terzo volume le raccolte hanno acquisito sottotitoli come Black & White Classics, In Living Color, Remote Control e Cable Ready, con ovvi riferimenti ai progressi tecnologici della televisione. Della stessa serie esiste anche un ottavo volume, dedicato ai jingle della pubblicità americana e inglese. Ma più interessante e facilmente reperibile è, invece, il CD che seleziona alcuni brani tratti dai primi sette volumi, l’unico distribuito in edizione italiana, nel 1997: Television Greatest Hits, col booklet in italiano e spiegazioni essenziali e che, oltre alle colonne sonore dei telefilm, include anche quelle di molti cartoni animati, per un totale di 42 tracce. Degne di nota sono anche le tre raccolte edite dalla britannica Silva Screen Record, reperibili solo sul mercato estero. Su tutte prevale The Cult Files, doppio CD che oltre a colonne sonore di film include divertenti versioni di sigle TV raccolte per argomenti, come UK 1960’s/70’s TV Themes, UK Sci-fi TV Themes o US Detective TV Themes. Anche questa raccolta ebbe un successo tale quando uscì, nel 1996, che l’anno successivo fu pubblicato un seguito dal titolo The Cult Files: Re-opened. La seconda uscita della Silva Screen Record ha copertina tridimensionale con tanto di occhialini speciali in allegato. Il booklet della seconda edizione raggruppa le sigle dei telefilm per produzione: per esempio, The World of Gerry Anderson o The World of Irwin Allen. Tra le operazioni discografiche più divertenti e documentate c’è quella dell’americana Rhino, che nel 2000 ha messo in commercio, in edizione limitata, Brain in a Box, raccolta di cinque CD contenuti in una scatola con copertina olografica e accompagnati da un ricco volume di duecento pagine, Brain in a Book. Tra i CD, soltanto uno è dedicato alle colonne sonore dei telefilm, tutti di fantascienza; e, nel volumetto allegato, c’è una buona selezione di fotografie rare e una serie di approfondimenti sulla storia della fantascienza televisiva americana. Tra i CD che, con vari intenti, raccolgono sigle TV è da segnalare Mission Accomplished, della Hip-o Record, pubblicato solo negli Stati Uniti dalla MCA; e poi, TV Town. Prime Time Tunes from the Tube, della Capitol, STRANI SUONI DAL PICCOLO SCHERMO 255 distribuito anche in Italia dalla EMI. Della stessa serie, è anche The Crime Scene. Spies, Things & Private Eyes, Capitol EMI. Due le raccolte significative riservate agli autori: un cult è quella di Lalo Schifrin che contiene tutte le musiche dei telefilm Mission: Impossible (One Way Records, solo d’importazione), saccheggiata in più punti dai Portishead; ottima anche l’altra, Great TV & Film Hits of John Barry della Columbia (catalogo Sony Music). Un discorso a parte merita Star Trek, che ha sviluppato una discografia autonoma e generosa. Tutte le raccolte della Silva Screen, citate finora, contengono musiche dalla serie di Gene Roddenberry: gli ultimi due capitoli The Cult Files: Re-opened e Space and Beyond dedicano, anzi, alle serie di Star Trek intere sezioni, con le musiche di tutte le versioni, incluse quelle cinematografiche. Ma, della prima storica serie televisiva, esistono addirittura CD con la colonna sonora completa di singoli episodi. La Varese Sarabande, per esempio, ha in catalogo un CD con le musiche di quattro episodi – «Charlie X», «The Corbomite Maneuver», «Mudd’s Women» e «The Doomsday Machine» – eseguite dalla Royal Philarmonic Orchestra diretta da Fred Steiner (quello della colonna sonora di Perry Mason). Meno interessante musicalmente, ma autentica «chicca» per gli appassionati (perché tratto direttamente dalla traccia internazionale dei telefilm con l’audio mono e, quindi, assolutamente originale), è il CD della Crescendo con le musiche dagli episodi «The Cage» e «Where No Man Has Gone Before» – ovvero i primi due pilot della serie classica – diretti dallo stesso compositore Alexander Courage. Bibliografia AA. VV., I Soprano. Dietro le quinte del serial-culto, Sperling & Kupfer, Milano 2001. AA.VV., Splatterpunk. Extreme Horror, Mondadori, Milano 1995. 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Tv Town. Prime Time Tunes from the Tube (Capitol – Emi, 8534092). The Crime Scene. Spies, Things & Private Eyes (Capitol – Emi, 8361292). Great Tv & Film Hits of John Barry (Columbia – Sony Music, 467956-2). Star Trek: Charlie X, The Corbomite Maneuver, Mudd’s Women, The Doomsday Machine (Varese – Sarabande, vcd 47235). Star Trek: The Cage and Where No Man Has Gone Before (Crescendo, Gnpd 8006). Indice 7 Prefazione di Franco La Polla 13 Introduzione I telefilm americani dopo l’11 settembre, 15 21 PARTE PRIMA. TEORIE E STORIE 23 Qualche appunto di teoria Serialità e televisione, 23 Serie e serial, 24 Il «replicante» è migliore dell’originale, 26 Film e telefilm: «vampirizzazioni postmoderne», 27 31 Le origini del telefilm americano I serial prima della televisione, 31 La «Golden Age» e la fiction televisiva in diretta, 33 Crisi del cinema o «boom» della televisione?, 35 39 PARTE SECONDA. VIAGGIO NELLA «ZONA DEL CREPUSCOLO» 41 Rod Serling e «l’età dell’oro» del fantastico televisivo Gli anni ’50 e la «Fanta-TV», 41 Rod Serling, «signore del fantastico», 45 Ai confini della realtà: benvenuti nella «zona del crepuscolo», 48 «Thriller» e «The Outer Limits», 56 63 «Spazio, ultima frontiera» «Star Trek»: la serie classica, 63 Una nuova generazione di eroi, più problematici, 72 Qualcosa di speciale: «Deep Space Nine», 79 Da «Voyager» a ritroso verso «Enterprise», 86 95 Interludio. I supereroi, dai fumetti alla TV Cos’è un supereroe, 95 Superman, 96 Batman, 99 Altri supereroi, 101 105 «X-Files» e il fanta-horror anni ’90 Visioni fantastiche dagli anni ’80, 105 X-Files, 110 Il fanta-horror dopo «X-Files», 120 133 Buffy, Dawson e l’orrore della crescita Buffy, 134 Alieni e streghe: anche loro adolescenti innamorati, 142 Dawson: il cinema, la vita, gli amori, 146 151 PARTE TERZA. AI CONFINI DEL CREPUSCOLO 153 Focolari televisivi (con il «mostro» dietro lo specchio) Gli Stati Uniti degli anni ’50 e la sit-com televisiva, 153 Due famiglie «in nero»: gli Addams e i Munsters, 157 Vent’anni dopo: da Lucy a Mary, 160 Ritorno agli «Happy Days», 165 Dalle risate anni ’80 alla «sit-com nera»: Welcome to Twin Peaks, 169 La definitiva dissoluzione della famiglia: «Friends», 177 181 Avventure nel «possibile» Il «Selvaggio West» televisivo degli anni ’50 e ’60, 181 Variazioni «per famiglie», ai confini della «Frontiera», 186 La «British Invasion» e le sue tante spie pop, 190 La parabola di un «avventuriero»: da «Supercar» a «Baywatch», 195 Postilla «cronologica»: in viaggio nel tempo, 198 201 PARTE QUARTA. OLTRE IL CREPUSCOLO, CALATI NEL REALE 203 Professionisti nella «città nuda»: medici, avvocati, poliziotti Kildare e i suoi colleghi, 204 L’inferno del pronto soccorso, 208 Perry Mason, l’avvocato del diavolo, 212 Una nuova generazione di avvocati, 215 L’avvocato secondo David E. Kelley, 220 I primi polizieschi televisivi: da «Dragnet» ad «Alfred Hitchcock Presenta», 224 Tenenti atipici: Colombo e Kojak, 227 «Azione!»: sbirri in coppia o in squadra, 230 237 APPENDICI 239 Venti «creatori» seriali 249 Strani suoni dal piccolo schermo. Appunti per una semiotica della colonna sonora, di Biagio Coscia 257 BIBLIOGRAFIA Il Pesce Volante Gherardo Casale, L’incantesimo è compiuto. Shakespeare secondo Orson Welles Piero Calò, Giuseppe Grosso Ciponte, Gola profonda. La pornografia prima e dopo Linda Lovelace Sergio Bassetti, La musica secondo Kubrick Roberto Pastore, Sulle strade della fiction. Le serie poliziesche americane nella storia della televisione Finito di stampare nel mese di giugno 2002 presso Global Print s.r.l. - Gorgonzola (Milano) per conto di Lindau s.r.l. - Torino