UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI
TRENTO
FACOLTA’ DI SOCIOLOGIA
Anno accademico 2011-2012
Seminario di credito
INTRODUZIONE AL RAGIONAMENTO
SCIENTIFICO
Settembre-novembre 2011
Prof. Claudio Tugnoli
Filosofia della verità. Nota in margine al volume di
Franca D’Agostini, Introduzione alla verità,
Boringhieri, Torino 2011.
Non si è mai discusso tanto di verità come nelle epoche in cui essa
è in crisi. La nostra epoca è una di queste. Tutti vogliono sapere la
verità sul prossimo, ma si guardano bene dal farla trapelare, così
nuda e cruda, su se stessi. Un certo esibizionismo spudorato di chi
frequenta i social network non deve trare in inganno, giacché il
modo migliore di nascondersi alla vista del prossimo è quello di
mescolarsi conformisticamente agli usi del tempo. Oggi la moda
della trasgressione pregiudica ogni trasgressione della moda,
l’infrazione del conformismo è conformistica, ma pur sempre
rassicurante. Qualità e valori indiscutibili – verità, autenticità,
identità – passano in secondo piano rispetto al problema ritenuto
più urgente, quello del riconoscimento. Ora, ogni riconoscimento
presuppone un soggetto che è riconosciuto e uno che riconosce. E
può essere riconosciuto chi possiede un’identità riconoscibile, ma
oggi ci si accontenta della sola identità che deriva,
tautologicamente, dal fatto di essere riconosciuti su qualche
palcoscenico, reale o virtuale; alla fatica di costruire se stessi e di
lavorare alla propria unicità si preferiscono scorciatoie mediatiche
e interazioni fittizie, pur di avere la sensazione del
riconoscimento. Tutto questo riguarda da vicino la verità, su cui ci
si interroga quando sorge il sospetto o la possibilità della
menzogna. Infatti la verità deve importare a qualcuno che possa
contare su di un’esistenza propria e non solo riflessa o virtuale.
Inoltre la nozione di verità presuppone l’esistenza di una realtà
indipendente dai molteplici punti di vista che su di essa diversi
soggetti possono esprimere. Il riconoscimento è possibile solo in
ragione del fatto che il soggetto riconosciuto esiste prima del
riconoscimento stesso; e questo è sufficiente a dimostrare che i
modi molteplici in cui esso appare non possono coincidere con
ciò che egli è in se stesso. Ciò che il soggetto è in se stesso, la sua
identità indipendente dal fatto di essere riconosciuta in diversi
momenti e circostanze, è indispensabile per comprendere il fatto
stesso del riconoscimento. Senza il riferimento a un’identità
sommersa e mai coincidente con le sue apparizioni o
manifestazioni, i diversi soggetti formerebbero un guazzabuglio
indistinto, poiché le uniformi modalità di percezione non danno
conto dell’intrinseca irripetibilità di ogni segmento dell’esperienza
individuale relativa a individui o eventi.
Ogni giorno si rinnovano attestazioni nostalgiche riguardo
la verità, la dea più amata e detestata dai comuni mortali, quasi a
compensare i ripetuti, talora dolosi talora involontari tradimenti
che si consumano continuamente ai suoi danni. Una certa
letteratura filosofica ha adottato come professione il discredito
della verità, accumulando ragioni che ne raccomandano
l’esclusione dall’orizzonte mediatico ed epistemologico.
Curiosamente, la negazione dell’esistenza di una verità oggettiva e
condivisa viene posta come condizione della stessa democrazia,
come se lo scetticismo relativizzante fosse il miglior antidoto alla
minaccia rappresentata da “metafisici dogmatici”, ancora
affezionati alla nozione di oggettività, respinta come paravento
ideologico del totalitarismo. Eppure, per gli esseri umani,
qualunque sia il mezzo con cui si scambiano ipotesi e punti di
vista, la verità è un presupposto fondamentale e la sua
determinazione rimane pur sempre il fine ultimo e l’esigenza
imprescindibile di tutti coloro, e sono la maggioranza, che
rinunciano all’autolimitazione solipsistica. Perciò non si può che
essere d’accordo con il programma che Franca D’Agostini
enuncia nell’Introduzione al suo saggio, illustrando i
fraintendimenti da cui è necessario sgombrare il campo: per
cominciare, l’idea che la verità sia una prerogativa dei dogmatici,
delle Chiese o dei Partiti e che quindi essa sia inutile o pericolosa;
la difficoltà di comprendere che la verità non è un concetto
qualsiasi, ma un concetto-condizione, uno della nota triade
trascendentale unum (o esse), verum, bonum, e che quindi è
impossibile farne a meno, come dimostrano le proposizioni “la
verità è relativa” oppure “la verità non esiste”, manifestamente
autocontraddittorie. Riconoscere l’innegabilità o l’irriducibilità
della nozione di vero non implica alcuna adesione al dogmatismo.
L’ubiquità trascendentale della nozione di vero non significa che
possiamo conoscere e stabilire la verità su qualsiasi cosa. Non c’è
ragionamento che non contenga un riferimento implicito alla
verità e nessuna indagine di carattere etico o politico o di altro
genere, può prescindere dalla condizione di verità. La verità è
espressamente chiamata in causa quando persistono dubbi da
risolvere o incertezze da colmare. Verità e realtà sono nozioni
imprescindibili ed esigenze irriducibili in qualsiasi contesto, come
dimostra l’avversione incondizionata verso la menzogna, la
finzione, l’illusorietà di tutto ciò che ci riguarda direttamente. Non
possiamo separare etica, logica e metafisica, come vorrebbe una
certa filosofia del Novecento, tutta impegnata a proclamare, più
che a dimostrare realmente, la necessità di emancipare la filosofia
da compromissioni metafisiche e ontologiche. L’esperienza
concreta di fatti ben documentati, spesso richiamata come vigile
supervisore e censore di ogni forma di conoscenza, si è dimostrata
insufficiente rispetto alla complessità delle connessioni di logica,
etica e pragmatica; e l’antimetafisica si è rivelata una forma
implicita di metafisica non dichiarata. L’arte propone delle
finzioni, riconoscibili come tali e ben distinte dalla fattualità della
vita: se così non fosse, non avrebbe senso distinguere l’arte dalla
vita e le interpretazioni dai fatti di cui esse sono, appunto,
interpretazioni.
“Vero” è un predicato, al pari di qualsiasi altro: indica una
proprietà, come “intelligente” o “verde”. Sappiamo che in alcuni
casi la proprietà indicata da un certo predicato può rivelarsi
inesistente o non posseduta da un determinato oggetto. Quindi si
dovrà stabilire preliminarmente, spiega D’Agostini, a quali oggetti
possiamo applicare il predicato “vero” e quale proprietà essi
devono possedere per essere chiamati “veri”. Ci sono diverse
teorie sulla verità: teorie robuste che definiscono il significato di
“vero”, teorie non robuste che negano l’esistenza di requisiti
dell’essere vero simili a quelli fisici che valgono per l’essere rosso
o certi tratti comportamentali che identificano la proprietà di
essere intelligente (p. 36). Vi sono poi teorie metafisiche ed
epistemiche: le prime concepiscono il predicato “vero” come
riferito a qualcosa che esiste in se stesso, le seconde lo
considerano in rapporto a noi esseri umani. In questo secondo
caso stabilire che cosa significa la verità per gli esseri umani non
comporta alcuna pretesa di oggettività in senso metafisico. Proprio
questa distinzione tra l’approccio epistemico e quello metafisico
comporta una divergenza sul piano logico: infatti, avverte
D’Agostini, se ci si limita a considerare il significato di “vero”
come ciò che è vero per noi, si dovrà fare i conti con la
conseguente violazione del principio di non contraddizione,
giacché numerose proposizioni “per noi” non sono né vere né
false (p. 37). La logica dunque parrebbe giustificata unicamente in
base al presupposto dell’esistenza di qualcosa che è vero in sé.
Solo se esiste qualcosa che è vero in sé, il non vero equivale al
falso, tertium non datur.
Il significato di “vero” in determinati contesti fa riferimento
all’autenticità (vero oro, vero amico, ma anche vero e proprio
inferno, una vera e propria catastrofe, un vero bugiardo). Il
predicato “vero” si dice in senso proprio delle proposizioni, ma
per trasposizione può essere impiegato per indicare una certa cosa
o una sua proprietà. Se con Frege distinguiamo tra enunciati e
proposizioni, possiamo riconoscere portatore di verità in senso
stretto la proposizione, che possiamo enunciare e comprendere
solo in riferimento a qualcosa di realmente esistente, comunque
inteso, anche se non immediatamente percepito. Tuttavia,
nonostante la sua apparente fondatezza, la teoria della verità come
corrispondenza è stata oggetto di critiche note, di cui D’Agostini
presenta e discute il repertorio:
1. L’obiezione del regresso della verità, già formulata dagli
scettici antichi e ripresa da Kant e Frege, mostra che, non potendo
risalire a tutti gli accertamenti degli accertamenti necessari per
stabilire la verità di una determinata proposizione, la verità non
può essere accertata;
2. una seconda obiezione è il diallele o circolo della verità,
anch’essa nota agli scettici antichi e ripresa da Frege e Kant.
Austin ne ha dato una formulazione utile in questo contesto: se p è
vera perché corrisponde a uno stato di cose e uno stato di cose è
reale se corrisponde a p, definiamo circolarmente la verità in base
alla realtà e la realtà in base alla verità;
3. quale corrispondenza potrà mai esserci tra cose eterogenee
come fatti e proposizioni, i discorsi e gli stati di cose tra cui
dovrebbe esserci corrispondenza? Possiamo istituire una
corrispondenza tra due serie di oggetti, ad esempio una nave e il
suo modello in scala 1: 10.000, oppure tra due rappresentazioni,
vale a dire tra cose omogenee.
4. Wittgenstein propone di considerare la proposizione come
immagine dei fatti, ma opportunamente D’Agostini si chiede che
cosa raffigurano proposizioni come “non c’è un bicchiere sul
tavolo” o “se p allora q”; Francis Bradley ha limpidamente
esposto il problema osservando che l’accordo tra verità,
conoscenza e realtà risulterà sempre problematico se partiamo dal
presupposto che questi tre termini siano originariamente separati
(pp. 52-53);
5 nessuna proposizione sussiste come entità singolare
corrispondente a un singolo stato di cose, ma semmai vi
corrisponde insieme ad altre proposizioni, probabilmente a tutte le
altre proposizioni, in qualche modo, donde il termine olismo,
impiegato per indicare l’obiezione di Quine, secondo la quale «le
nostre asserzioni sul mondo esterno affrontano il tribunale
dell’esperienza non individualmente, ma come un tutto unico» (p.
53);
6 infine, la questione riguardante la natura e l’esistenza dei fatti
sembra la più difficile e complicata; se pensiamo ai fatti partendo
dalle proposizioni con cui li pensiamo, abbiamo certamente
qualche difficoltà a individuare fatti condizionali, universali o
negativi, sulla falsariga di enunciati condizionali, universali e
negativi.
Si tratta di capire se le proposizioni, ossia i pensieri strutturati ed
esprimibili in enunciati, siano quod cognoscimus oppure, invece,
quo cognoscimus. In altri termini solo la realtà intenzionata è
oggetto di conoscenza, mentre le proposizioni sono il veicolo, lo
strumento con cui conosciamo. La teoria corrispondentista ha il
difetto fondamentale di istituire una relazione simmetrica tra fatti
e proposizioni, immettendosi fatalmente in un vicolo cieco, infatti
la distinzione tra quod cognoscimus e quo cognoscimus può valere
anche per la struttura degli enunciati, indipendentemente dal loro
riferimento alla realtà. Ma è la pragmatica del linguaggio negli usi
discorsivi che ci riporta all’asimmetria della relazione
linguaggio/realtà, per cui la lingua è strumento di conoscenza e
può divenire oggetto di conoscenza solo in senso secondario e per
analogia. Il paradosso evidente consiste nel fatto che oggetto di
conoscenza non è la lingua, seppure visibile, ma la realtà,
chiaramente invisibile, quindi il rimando proposizionale ad essa
sembra dover sfociare nel diallele o nel regresso all’infinito.
La teoria della verità come corrispondenza presuppone che
esista una realtà separata dal pensiero, ma nel pensiero non
afferriamo nulla che non sia già pensiero: se la distinzione tra il
pensiero e la realtà in se stessa è possibile solo all’interno del
pensiero, se tutto ciò che esiste è innanzi tutto un pensato e
dunque sarà un pensato anche ciò che è posto al di fuori del
pensiero stesso, siamo posti dinanzi alla necessità di un dilemma
stringente, perché da un lato non possiamo rinunciare alla
distinzione fondamentale tra l’essere in sé e l’essere per noi,
dall’altro risulta velleitario e aporetico collocare l’in sé al di fuori
del pensiero; e se l’in sé è interno al pensiero, perde ogni ragion
d’essere e consistenza la distinzione tra la realtà in sé e la realtà
per noi, tra la realtà esistente, ma non pensata e la realtà pensata e
non esistente. La teoria della verità come corrispondenza deve fare
i conti da una parte con una corrispondenza controllabile ma
precostituita nel pensiero, e dall’altra con una corrispondenza sì
autentica, ma problematica, con una realtà inaccessibile. Nella
misura in cui la realtà è accessibile al pensiero, è pensata e dunque
non è più esterna al pensiero; e nella misura in cui rimane esterna
al pensiero (condizione questa affinché si dia una corrispondenza
sintetica e non tautologica), quella realtà risulterà inaccessibile,
vanificando ogni possibilità di corrispondenza. L’aporia, del resto,
è inevitabile, poiché per definizione ciò che renderebbe effettiva la
corrispondenza – la realtà in sé – la rende insieme inverificabile.
Naturalmente la stessa realtà potrebbe esistere in se stessa e
insieme essere pensata, ma tra le due, per definizione, non
sappiamo quale rapporto ci sia, essendo la prima ignota.
La tesi coerentista sostiene che una certa proposizione è
vera solo se è coerente con un insieme di proposizioni
riconosciute come vere. Che la distanza della terra dalla luna è di
circa 384.400 km, non lo crediamo vero in base a una
corrispondenza o a una verifica diretta, ma perché ci fidiamo delle
misurazioni laser effettuate dagli scienziati del settore. Sia il
coerentismo idealista che quello empirista ammettono
l’impossibilità di stabilire una corrispondenza tra una credenza e
lo stato di cose corrispondenti ponendosi da un punto di vista
esterno alla credenza stessa. Il coerentismo idealista si richiama
all’olismo, per cui nessuna credenza è vera in se stessa, ma
sempre come parte di un sistema di credenze. Per il coerentista
empirista le proposizioni si confronteranno con proposizioni, i
giudizi con giudizi, essendo assurda la pretesa di fare riferimento
a una presunta realtà in se stessa (pp. 56-57). La teoria coerentista
presenta qualche problema. Joachim sostiene che la verità richiede
completezza, ma nota Russell, «se nessuna verità parziale è
completamente vera, allora anche “nessuna verità parziale è
completamente vera” è completamente vera», dato che si tratta
evidentemente di una verità parziale (p. 59). Ma poi è tutto da
vedere che cosa si debba intendere con “coerenza”: accordo
intersoggettivo, non contraddittorietà oppure vero e proprio
monismo, per cui ogni giudizio è vero in rapporto a tutti gli altri
della stessa teoria? E se lo stesso criterio si applicasse al
pluralismo delle teorie, ne conseguirebbe che nessuna teoria è vera
in se stessa, ma solo in relazione alle altre. Il che non significa
misconoscere le differenze sostanziali tra una teoria e l’altra, ma
riconoscere che il significato di una teoria, la sua accettabilità e
consistenza sono messi alla prova dal confronto con tutte le altre,
e fare i conti con le loro obiezioni.
La teoria pragmatista della verità prevede che una
proposizione p è vera se assumere p permette di conseguire il
successo sperato o si rivela efficace per scopi pratici o scientifici.
Come ricorda D’Agostini, possedere la verità per un pragmatista
significa possedere strumenti di azione, per cui qualcosa è vero
perché è utile. La determinazione della verità riguarda il futuro:
quando si pone un problema di verità, questo accade perché siamo
in attesa di verificare la fondatezza o attendibilità di una certa
ipotesi; e solo un certo risultato pratico ci permetterà di stabilire
che quell’ipotesi risulta essere stata vera o falsa. La verifica diretta
mediante il raffronto con la realtà non solo non è possibile che in
rari casi, ma non è neppure necessaria, perché di fatto viviamo a
credito: la maggior parte delle nostre credenze le crediamo vere (o
crediamo di sapere che sono vere) esclusivamente perché ci
fidiamo delle nostre fonti d’informazione. Le verità eterne, o
universali e necessarie, sono anch’esse tali in virtù dell’utilità che
presentano; come tutte le verità, sono costruite linguisticamente
per ragioni di utilità pratica.
Anche il concetto di vero come “utile” presenta non poche
difficoltà, e anzi potrebbe presentarne di maggiori rispetto alla
nozione di verità. Inoltre, scrive D’Agostini, «”utile” è comunque
un predicato diverso da “vero” semplicemente perché può essere
vero qualcosa di profondamente inutile anzi controproducente,
mentre può essere utile credere in qualcosa che è totalmente falso»
(p. 65). L’osservazione è importante, ma rimette in gioco la
questione del significato di vero e utile, infatti presuppone non la
coincidenza, bensì una differenza essenziale tra i significati dei
due termini “utile” e “vero”. Se dico che qualcosa può essere utile
pur essendo una credenza falsa, è solo perché conosco il
significato di vero e utile come termini ben distinti, quando invece
così non è. Per alcuni l’intersezione di vero e utile è vuota, talché
le due nozioni si escludono; per altri l’intersezione non è vuota e
quindi non si può escludere che una credenza possa essere insieme
utile e vera; infine per altri ancora, i pragmatisti, vero e utile sono
semplicemente coincidenti (esisterebbe una corrispondenza
biunivoca tra gli elementi dei due insiemi). Al pragmatista non
interessa il vero, ma l’utile; egli crede in tal modo di aver risolto il
problema della verità, ma l’ha solo aggirato. Infatti quante cose
sono utili nello stesso senso per individui diversi? Che cosa è
l’utile in sé?
Affine al pragmatismo è l’esistenzialismo, che proietta nel
futuro la verità. Entrano in gioco così le condizioni e le
implicazioni legate al concetto di verità, in particolare la libertà −
in Heidegger l’apertura − che lascia apparire l’essere come è.
D’Agostini cita Sull’essenza della verità (1943) di Heidegger in
cui si sostiene che l’essenza della verità è la libertà. La verità
come disvelarsi e autorivelazione ha come condizione la libertà.
Quindi il luogo della verità, per Heidegger, non è l’asserzione cui
si conviene il predicato “vero”, bensì l’azione dell’Esserci,
l’apertura dell’essere umano, che è libertà. Ma, si chiede
D’Agostini, come può Heidegger sfuggire allo stesso pregiudizio
logico che denuncia, per il quale “vero” e “falso” si applicano a
enunciati dichiarativi? (p. 69). D’altra parte Heidegger può avere
inteso dire che “vero” e “falso” non convengono originariamente
ed essenzialmente a enunciati dichiarativi.
Per alcune teorie non robuste della verità “vero” non è un
predicato in senso stretto, ma un operatore che enfatizza
determinati enunciati. Tarski nel suo Sul concetto di verità nei
linguaggi formalizzati (1933) specifica quello che egli stesso
chiama il criterio di adeguatezza materiale per la verità, la cui
adozione dovrebbe consentire di aggirare le difficoltà del criterio
aristotelico, che si fonda sulla corrispondenza di un enunciato con
la realtà. Tarski enuncia così il suo criterio: l’enunciato “p” è vero
se e solo se p. Tarski insomma stabilisce un’equivalenza tra un
enunciato e l’asserto che ne dichiara la verità, tra “è vero che p” e
“p”. La conseguenza sarà che il predicato di verità è dispensabile
(p. 71). Secondo Tarski il predicato V è ubiquo nel nostro
linguaggio, solo che può essere esplicito o implicito, espresso o
espunto. Per superare le antinomie come quella del mentitore
(dovute secondo Tarski alla caratteristica del linguaggio di essere
chiuso), il logico propone l’introduzione della regola per cui il
linguaggio deve essere aperto, cioè non deve includere il proprio
predicato di verità; si dovrà quindi far valere una rigorosa
distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio. La
stratificazione del linguaggio proposta da Tarski (“p è vero nel
metalinguaggio se e solo se p non è vero nel linguaggio oggetto”)
è volta a impedire le antinomie.
Il deflazionismo riguardo la nozione di verità presenta due
versioni: ridondanza e minimalismo. Tarski propone la prima
versione, Paul Horwich la seconda. Secondo Horwich il predicato
“vero” è utile come indicatore (dico che un certo discorso
pronunciato da un tale è vero evitando di ripeterlo enunciato per
enunciato) o generalizzatore (come quando sostengo che tutto quel
che dice il papa è vero). In tutti gli altri casi si può prescindere dal
termine “vero”. Ma a ben vedere, commenta D’Agostini, la
proposta di Horwich, apparentemente brillante, suscita serie
obiezioni. Infatti V nell’accezione da lui difesa può voler dire due
cose diverse: sono d’accordo con quel discorso oppure quel
discorso è vero, nonostante io non sia d’accordo. E allora di nuovo
siamo alle prese con la questione riguardante il senso in cui
diciamo che qualcosa è vero in se stesso. D’Agostini richiama la
soluzione data da Austin, il quale respinge come insufficiente la
concezione deflazionista di V, negando come inaccettabile
l’equivalenza di “p” e “è vero che p”. L’esempio di Austin è il
seguente: Jones viene processato per calunnia per aver detto che
Smith è un ladro ma esce vincitore dal processo: allora era vero
che Smith è un ladro. Subito dopo Smith viene processato in
seguito a una denuncia per furto, e viene condannato: dunque
Smith è un ladro. Tra i due enunciati “è vero che Smith è un
ladro” e “Smith è un ladro” la differenza è netta secondo Austin
(p. 80). Nel primo caso il processo dissolve l’accusa di calunnia e
quindi nega che sia falso, cioè afferma che è vero che Smith è un
ladro, per logica inferenza. Nel secondo caso il processo stabilisce
che Smith è un ladro. Ma anche in questo secondo caso si
potrebbe osservare che, secondo il processo di primo grado, è vero
che Smith è un ladro, mentre potrebbe non esserlo più se si
facesse un altro processo, di secondo grado. È difficile sostenere
che il richiamo esplicito alla verità sia un orpello dispensabile.
Affermare il vero di p può a) esprimere la volontà di negare la
falsità di p, b) confermare la verità di p messa in dubbio in
precedenza, c) sostenere che p è vero in se stesso oppure d)
chiarire che si è d’accordo con chi sostiene che p. Se la distinzione
tra ciò che è vero per noi e la verità in se stessa, così come tra ciò
che appare vero e ciò che è vero non fosse universalmente
condivisa, non avrebbe alcun senso il ricorso al “ridondante” “è
vero che”, il cui uso fa emergere significativamente la distinzione
suddetta. La distinzione tra ciò che è vero per noi e ciò che è vero
in sé è il miglior antidoto contro il dogmatismo, oltre che contro il
relativismo. La distinzione è di metodo, non di contenuto. Il
dogmatico è colui che difende una verità particolare, storicamente
determinata e fissata, come assoluta verità in sé, facendo passare
per eterne configurazioni contingenti e acquisizioni provvisorie.
L’equivoco può essere evitato solo ammettendo un relativismo
metodologico che si accompagna al riconoscimento di una realtà
indipendente dai soggetti impegnati nel perseguimento della
verità. In tal modo si può evitare di confondere la coerenza con il
dogmatismo: coerente è la disponibilità ad abbandonare la propria
posizione se si rivela errata, dogmatica è la difesa pervicace di una
forma storica e relativa della verità come se fosse assoluta.
Cambiare idea riconoscendo i propri errori è un omaggio alla
verità in sé e il miglior antidoto al relativismo. La malafede
consiste nel rinfacciare a qualcuno di aver cambiato idea,
accusandolo di incoerenza con se stesso, mentre la sola vera
incoerenza è quella di non riconoscere il proprio errore e quindi
negare di fatto l’esistenza di una verità in sé.
La nozione di verità come corrispondenza presuppone il
riferimento a una qualche realtà extralinguistica, nel senso che se
non ci fosse qualcosa che rende vera una certa proposizione, essa
non sarebbe neppure falsa, ma priva di senso. La domanda giusta
allora non è se esista un ordine del genere, ma solo se sia possibile
farne esperienza non linguistica. Qualsiasi realtà extramentale
diventa mentale – relativa al soggetto conoscente − non appena sia
conosciuta. Che debba esserci qualcosa che rende vera una certa
proposizione, è un’esigenza condivisa da autori di diverso
orientamento quali Russell, Austin, James, Bradley: «L’idea
preliminare, scrive D’Agostini, è che la verità è ontologicamente
fondata: impossibile parlare di verità senza ammettere l’esistenza
di qualche realtà che renda vero quel che si dice essere vero» (p.
81). Ma esaminando il significato di “rendere vero” ci si accorge
ben presto che esso implica una teoria sulla realtà e quindi una
metafisica. Se è lecito ammettere, con D’Agostini, che vero non
sia solo un concetto semantico o epistemico, dalla nozione di
verità ontologicamente fondata sorgono tuttavia seri problemi,
come l’esistenza di fatti negativi che rendono vere proposizioni
negative. È certamente bizzarra l’idea che “Socrate non c’è” sia
reso vero dall’assenza di Socrate, come scrive D’Agostini. Ma
possiamo chiederci se sia legittimo parlare di fatti negativi. Quale
fatto potrebbe rendere vera (o falsa) la proposizione “il mondo
non esiste”? E quale fatto rende vero che il mondo esiste? Inoltre
quale fatto può rendere vera una proposizione quale: “il
movimento è impossibile”, oppure “tutte le cose sono uno”?
Inutile prendersela troppo con la logica, il fatto è che la stessa
possibilità di concepire la totalità degli enti o entità puramente
astratte, come quelle della logica o della matematica, espone
all’impossibilità di riscontrare fatti corrispondenti, per definizione.
****
Contro l’epistemicismo, per il quale la verità richiede conoscenza
(procedure di dimostrazione, controllo, verifica), il realismo
aletico sostiene che p è vero o falso indipendentemente dal fatto
che qualche essere intelligente ne sia a conoscenza. I sostenitori
del realismo riconducono la verità al suo significato classico.
D’Agostini non si limita a rispolverare un luogo comune della
storia della filosofia laddove coglie nell’irriducibilità la
caratteristica più straordinaria della nozione di verità. Ed
effettivamente risulta impossibile disfarsi della verità: se diciamo
che “non c’è verità alcuna”, allora ammettiamo che,
incontrovertibilmente, “è vero che non c’è verità” o inversamente,
non è vero, quindi non si può sostenere che “non c’è verità”. Ne
conseguirà anche, aggiungiamo noi, che “è vero che non è vero
che non c’è verità”; da cui “è vero che non c’è verità”; e quindi,
per autocontraddizione, “c’è verità”. Insomma ci sono tesi che
sviluppano un’autocontraddizione per il solo fatto di sostenerle: ad
esempio non posso sostenere che nulla esiste, dal momento che
l’affermazione presuppone l’esistenza del sostenitore della tesi e
della tesi medesima; impossibile, anche, sostenere che niente è
bene, perché se dico questo, ammetto che sia bene pensarlo, nel
senso di giusto e veritiero (pp. 95-96). Ma anche dire che tutto è
vero è impossibile, come spiega Aristotele nel IV libro della
Metafisica, perché chi sostiene che tutto è vero, dovrà riconoscere
come vera anche la tesi opposta contraria, che qualcosa non è
vero. Così si contraddice sia chi dice che tutto è vero, sia chi
sostiene che niente è vero. L’impossibilità di affermare che tutto
sia vero o niente sia vero obbliga a riconoscere che alcune
proposizioni sono vere e altre sono false, proprio perché l’essere
vera o falsa di una proposizione presuppone il riferimento a una
realtà corrispondente che sussiste in modo separato e autonomo
rispetto a qualsiasi enunciazione. L’enunciato non crea la realtà,
ma la rappresenta; e qui entra in gioco la verità dell’enunciato, a
seconda di come rappresenta la realtà. Tolta l’indipendenza della
realtà – la sola misura della verità – l’enunciato potrà
corrispondere solo a se stesso, né si potrà dire che esso enuncia
qualcosa intorno a qualche soggetto. L’autocontraddizione che
nasce dal fatto di affermare che tutto è vero o che niente è vero, è
il segno inequivocabile dell’impossibilità di rimuovere la realtà
come decisore della verità, indipendente dall’enunciato stesso. Per
questo concordo con la critica serrata che D’Agostini conduce alla
tesi per cui non esiste alcuna realtà oggettiva indipendente dal
soggetto che enuncia qualcosa su di essa. La tesi del giovane
Nietzsche, che il linguaggio è menzogna, si può confutare
osservando che, se “le parole sono menzognere”, lo saranno anche
le parole che Nietzsche usa per sostenere la sua tesi, perciò non
abbiamo motivo di credergli.
Secondo D’Agostini l’irriducibilità di vero si può collegare
al funzionamento dello schema T, con i due movimenti, capture e
release. La tradizione attribuisce a Protagora la confutazione della
tesi che “tutto è vero”, che si svolge nei seguenti passaggi: 1.
Tutto è vero; 2. È vero anche che qualcosa non è vero; 3. Dunque
qualcosa non è vero (release). La confutazione che “niente è vero”
(sostenuta in via ipotetica da Gorgia), in Aristotele assume la
forma seguente: 1. Niente è vero; 2. Non è vero che niente è vero;
3. Dunque qualcosa è vero (release). D’Agostini ricorda anche un
altro modo di confutare il nichilista: 1. Niente è vero; 2. È vero
che niente è vero (capture); 3. Dunque qualcosa è vero (pp. 9798). Secondo D’Agostini le procedure di confutazione del
nichilismo si basano sul movimento di scomparsa/ricomparsa di
“vero” negli enunciati. Possiamo aggiungere che i due movimenti
di capture e release sono la conseguenza del fatto che nessun
enunciato avrebbe senso e quindi non potrebbe essere detto né
vero né falso se non fosse in rapporto con una realtà indipendente;
il movimento di capture corrisponde quindi al risveglio del
rapporto che sempre sussiste implicitamente tra enunciato e realtà.
Se dico “è vero che” non mi riferisco solo all’enunciato (ad
esempio “tutto è vero”), bensì alla relazione tra l’enunciato e la
realtà. Nell’esempio riportato la realtà è rappresentata dagli
enunciati in genere, di cui si dice che sono tutti veri, per poi
precisare che, essendoci tra questi anche l’enunciato contrario che
qualcosa non è vero, la corrispondenza di “tutto è vero” con la
realtà fa difetto. Il movimento di capture non sarebbe giustificato
se “è vero” riguardasse solo l’enunciato di cui predica la verità. Se
così fosse “è vero” sarebbe un vuoto pleonasmo, che non
aggiungerebbe nulla al valore di verità dell’enunciato stesso. La
ragione per cui “è vero” rappresenta una differenza importante
consiste nella sua funzione di portare l’attenzione sul rapporto tra
l’enunciato e la realtà di riferimento, per verificarne la
consistenza. L’equivoco peggiore, a questo punto, sarebbe quello
di mettere al bando la discussione filosofica per la semplice
ragione che esiste una realtà oggettiva, esterna e indipendente dal
soggetto che indaga la realtà, come se il suo accertamento fosse
compito esclusivo della scienza. Pessima sarà dunque la filosofia
che, per giustificare lo spazio dell’argomentazione filosofica e la
legittimità della teoresi, pone surrettiziamente la condizione
dell’inesistenza di una realtà indipendente, come se l’indagine
filosofica reclamasse l’esistenza del solo soggetto. Ma se esiste
solo il soggetto e se qualsiasi posizione è per principio soggettiva,
come facciamo a saperlo? Non è forse vero che non avrebbe senso
l’uso di termini quali “soggettivo” o “parziale” se non fosse
disponibile una sfera complementare dell’oggettività e della
totalità? L’indagine sulla verità è un processo di accertamento
continuo, che non può fare a meno di presupporre una realtà
indipendente dal soggetto, ma non ancora nota. Sappiamo che
deve esserci una sfera autonoma e a se stante, ma sappiamo anche
che la sua verifica è possibile solo partendo dal soggetto. Ecco che
cosa giustifica la discussione, il confronto tra diversi soggetti
impegnati nella ricerca sul significato dell’unica realtà. Se non
esistesse nulla al di fuori del soggetto, non potremmo neppure
comparare tra loro le diverse teorie sulla realtà (negata) per
stabilire che si tratta di differenti interpretazioni, tutte legittime.
Se non ci fosse una realtà esterna, non potremmo neppure negarne
l’esistenza partendo dalla molteplicità delle prospettive. Anzi, se
non ci fosse una realtà esterna indipendente, una molteplicità di
soggetti mancherebbe di quel riferimento ad unum che ne è il
fondamento: una pluralità di soggetti senza alcun criterio d’ordine
interno potrebbe essere giustificata solo dalla possibilità di
riferimento a un quid che valga per tutti.
Lo stesso Aristotele, avverte D’Agostini, sostiene che
l’argomentazione antiscettica confuta ma senza dimostrare. Così,
sostenere con argomenti l’irriducibilità di vero non significa
dimostrare l’utilità del medesimo o che sia un predicato che
indichi una qualche proprietà reale. Se “vero” fosse privo di
riferimento come “causa di sé” o “quadrato rotondo”? Se così
fosse, ci troveremmo nella strana situazione di non poterne fare a
meno (p. 101). Il predicato “vero” non si applica a fatti, ma a
proposizioni, quando esiste uno stato di cose che corrisponde al
contenuto della proposizione e la rende vera. Ma come
identifichiamo lo stato di cose se non attraverso un’altra
proposizione? L’idea che si possa proseguire all’infinito senza mai
incontrare uno stato di cose se non nella modalità proposizionale
non confuta l’esistenza di una realtà indipendente, ma semmai la
presuppone come criterio esterno di riferimento. Sta di fatto che,
come sottolinea D’Agostini, Vero è dispensabile e ubiquo:
possiamo farne a meno e non menzionarlo mai; e tuttavia non c’è
asserzione che non lo contenga implicitamente. La stessa
considerazione vale per tutti i super concetti trascendentali: «In
tutti i casi, non sarà possibile dichiarare, o anche solo pensare,
che non c’è V, o che non c’è realtà, o che niente è bene: perché se
lo diciamo, potrà essere vero o falso che non c’è verità, e che le
cose stanno in modo tale che non ci sono cose, e che è bene dire
che niente è bene” (p. 102). Tarski e Quine, richiamati da
D’Agostini, concordano nel ritenere che Vero è un predicato che il
linguaggio usa per riferirsi a se stesso, non appartiene al livello
linguistico o a quello fattuale. Questo spiega perché sia invisibile:
il rapporto tra fatti e proposizioni non è visibile, può essere solo
pensato e ragionato. Vero presenta dunque il carattere di
riflessività che si può riscontrare anche in altri concetti
fondamentali, come ad esempio realtà: «Nel parlare di “realtà” io
mi sollevo dalla considerazione dei singoli enti reali per guardare
a ciò che hanno in comune; nel pensare al bene non considero
tanto le azioni, ma le relazioni che esse hanno con noi,
individualmente e collettivamente» (p. 104).
Rimane significativo che il predicato “vero” sia richiamato
per rispondere a qualcuno che mette in dubbio le nostre
affermazioni oppure, in forma negativa, per contestare le
affermazioni che qualcuno sta facendo. Certezza ed evidenza
immediate non hanno alcuna necessità di richiamarsi al “vero”,
che dunque interviene per ripianare dubbi e incertezze o, in forma
negativa, per demolire contenuti apparentemente incontestabili.
Per questo “vero” è bifronte e inquietante, rassicura e terrorizza.
Apre la strada alla dimostrazione o alla confutazione, dunque
all’esposizione di argomenti che convalidano una proposizione
discutibile o disarcionano definitivamente il cavaliere che portava
trionfante il vessillo di una certa tesi. L’uso del predicato “vero”,
positivo o negativo, è necessariamente preceduto dal dubbio o da
una difficoltà di connessione. Esempio: qualcuno mi dice di esser
stato a Roma il giorno prima, ma se sono sicuro di averlo visto a
Trento nelle stesse ore in cui lui asserisce di essere stato a Roma,
posso chiedergli di spiegarsi e costringerlo ad ammettere che la
sua asserzione non era vera. Non ho bisogno di accertare la sua
presenza a Roma, mi basta istituire una relazione tra diversi asserti
e un dato di fatto della mia esperienza diretta per inferire con
certezza che lui a Roma non il giorno prima non c’è stato. La
coerenza è una metaregola della comunicazione in generale, da cui
non si può prescindere nel modo più assoluto. Possiamo pensare
concordemente la stessa cosa, al di fuori di qualsiasi scetticismo
programmatico, in virtù del fatto che non possiamo pensare né
agire senza rispettare regole comuni, tra cui quella che nega la
possibilità che qualcuno possa trovarsi in due luoghi diversi nello
stesso istante.
****
Se prendiamo in considerazione la logica e la semantica di Vero,
possiamo osservare che non ci sono solo enunciati veri o falsi in
senso esclusivo, ma anche enunciati né veri né falsi (es.: “La serie
dei numeri primi è infinita”) che fanno riferimento a uno stato di
cose che non conosciamo); enunciati veri e falsi insieme (es.: a.
l’enunciato b è vero; b. l’enunciato a è falso: se a è vero, allora b è
vero e quindi a è falso; dunque a è vero e falso insieme); la classe
di enunciati veri e falsi insieme nell’ermeneutica psicoanalitica o
religiosa o filosofica o nel simbolismo onirico (es.: un dente che
cade è un parente che muore, ecc.); enunciati quasi veri o veri se
sono soddisfatte certe condizioni definitorie (l’impiego di
predicati dal significato vago, come “ricco”, “giovane”, ecc.,
comporta la costruzione di asserti quasi veri o veri da un certo
punto di vista); enunciati probabilmente veri (gli enunciati relativi
alla vita ordinaria e alla scienza sono solo probabilmente veri). A
questo elenco di D’Agostini aggiungerei enunciati che sono
impropriamente veri dal momento che fanno riferimento non a un
sapere ma alla fede. La maggior parte degli enunciati delle varie
scienze sono tenuti per veri in base al presupposto metodologico
che il loro contenuto potrebbe essere verificato, direttamente o
indirettamente, da esperimenti di laboratorio o osservazioni
empiriche. Nessuno pensa che il movimento della terra intorno al
sole sia una mera credenza, alla quale ciascuno è libero di credere
o non credere: fino a prova contraria, noi sappiamo e sappiamo di
sapere che il nostro pianeta si muove in un certo modo intorno al
sole. Le verità di fede non solo non possono essere empiricamente
dimostrate da un qualche esperimento, ma respingono qualsiasi
contaminazione con la sfera del sapere profano, che
dichiaratamente trascendono. Le verità di fede sono credenze
destinate a rimanere tali, per chi non crede. Per chi crede, nulla è
più vero, incontrovertibilmente vero, di ciò in cui crede. Sono
enunciati veri o falsi a seconda dell’orientamento religioso e, per
le stesse persone, veri solo finché o a partire dal momento in cui
essi credono. Le professioni di fede esprimono qualcosa che è
oggettivamente un atto di fede (quindi in senso stretto asserti non
suscettibili di essere stabiliti come veri o falsi) ma che
soggettivamente sono assolutamente, apoditticamente veri). Nella
professione di fede certezza e verità coincidono.
Paradossi e antinomie, secondo Tarski, Russell e altri logici,
sorgono solo se il linguaggio fa riferimento a se stesso e se
valgono le leggi logiche di non contraddizione e terzo escluso.
Una delle due condizioni è sufficiente per far sorgere l’antinomia:
dato che è impossibile fare a meno del principio di non
contraddizione, per evitare l’insorgere di antinomie si dovrà
fissare la regola per cui il linguaggio non deve parlare di se stesso;
si dovrà quindi escludere l’autoriferimento. D’Agostini mostra che
il divieto dell’autoriferimento non funziona sempre, come nel
paradosso di Yablo, dove nessun enunciato si riferisce a se stesso,
ma nonostante questo emerge una contraddizione simile a quella
del mentitore (p. 137). D’Agostini mostra che l’impossibilità di
violare la legge di non contraddizione, principium firmissimum, si
fonda su tre piani: 1. Sul piano epistemico la legge di non
contraddizione è una norma di razionalità per la quale non è
possibile essere razionali e credere che p e insieme non-p. Per un
dialeteista (sostenitore della doppia verità) però questo è possibile
se esiste un’evidenza che p e non-p. A questo punto, con
D’Agostini ci si chiede se esiste davvero questa evidenza, se la
contraddizione sia reale o se non sia dovuta a un errore di
valutazione. 2. Infatti sul piano ontologico o metafisico la legge di
non contraddizione esclude che esistano realmente e che possano
essere attestate evidenze di contraddizioni. D’altra parte i
dialeteisti sostengono che la legge di non contraddizione è una
regola fondamentale che ammette eccezioni come la norma “non
uccidere” che in guerra si autosospende (p. 151). L’esempio a dire
il vero risulta problematico, poiché ci si potrebbe chiedere se chi
uccide in guerra stia violando la regola di non uccidere, oppure ne
abbia adottata un’altra, quella prescritta dal codice militare. Un
altro esempio classico è quello delle armi avute in prestito: se
vengo a sapere che chi mi ha prestato le armi nel frattempo è
andato completamente fuori di senno e il termine prescritto del
prestito è scaduto, devo restituire le armi al legittimo proprietario
oppure trattenerle, in considerazione delle mutate circostanze, ma
violando la regola che impone la restituzione di ciò che si è avuto
in prestito a tempo debito? Anche qui, evidentemente, non
restituendo le armi adotto una regola di precauzione che potrebbe
rivelarsi lungimirante: non mettere un uomo nella condizione di
poter nuocere a sé o ad altri. 3. La legge di non contraddizione
vale anche sul piano logico, stabilendo, con Aristotele, che
nessuna proposizione può essere vera e falsa nello stesso tempo e
sotto un medesimo rispetto. I dialeteisti però non accettano il
principio per cui le violazioni della legge di non contraddizione si
collocano fuori della logica e vanno quindi corrette. I dialeteisti
sostengono che si tratterebbe in tal caso di snaturare il linguaggio
nelle sue forme logiche in ossequio a una regola la cui validità
oggettiva non è così solida come si pretende, se si considerano
casi come il paradosso di Yablo. Il linguaggio e la logica sono una
creazione dell’uomo e quindi non sono intoccabili, sostengono i
dialeteisti; ma questo non implica necessariamente che la legge di
non contraddizione sia una creazione umana, relativa e
modificabile. Non è forse vero che i dialeteisti, nel sostenere
questa loro tesi, si arrabbierebbero molto se qualcuno li accusasse
di dire e non dire la stessa cosa insieme? Essi negano la validità
assoluta della legge di contraddizione, di cui fanno uso nell’atto
stesso in cui la negano; la respingono e la invocano insieme.
Affermando e negando insieme la stessa cosa forniscono un
esempio concreto di doppia verità, ma non sarebbero contenti se
qualcuno lo rilevasse, asserendo che essi sostengono e negano
insieme la stessa cosa. Ma già Aristotele nel IV libro della
Metafisica aveva avvertito che ammettere la violazione del
principio di non contraddizione è del tutto assurdo, giacché senza
di esso non è possibile dire alcunché.
I dialeteisti rispondono agli argomenti di Aristotele
osservando, come fa Priest, che la disamina aristotelica fa
riferimento a una prospettiva che non si limita ad ammettere
alcune contraddizioni, ma mette in conto che sia possibile
contraddirsi sempre e comunque. I dialeteisti invece riconoscono
solo alcune doppie verità, e non ammettono che tutto sia vero e
falso; e Aristotele non si misura con la posizione dei dialeteisti, di
cui sostanzialmente riconosce l’esistenza. A questo punto però,
prosegue D’Agostini, sorge il problema noto per cui, ammettendo
anche solo poche contraddizioni, tutto risulterà vero; e se tutto è
vero, tutto è contraddittorio, giacché per ogni p vera sarà vera
non-p. In conclusione, se si ammette una sola doppia verità,
derivano infinite verità e quindi infinite contraddizioni.
L’argomento a sostegno di questa conclusione è il teorema dello
Pseudo-Scoto, per il quale da una contraddizione può derivare
qualsiasi proposizione. Il compito dei dialeteisti non è solo quello
di dimostrare che il teorema dello Pseudo-Scoto non può essere
valido, ma anche quello di chiarire il significato della negazione,
visto che per i dialeteisti non-p non esclude p. D’Agostini riporta e
discute le risposte che i dialeteisti danno alle questioni sollevate.
Per quanto riguarda l’argomento dello Pseudo-Scoto, che si può
sintetizzare nell’espressione “p e non p, dunque q”, i dialeteisti
ritengono che sia del tutto privo di senso. La sola ragione per la
quale l’inferenza dello Pseudo-Scoto, che dal punto di vista della
logica della rilevanza non ha alcun senso, funziona, spiega
D’Agostini, è l’applicazione del sillogismo disgiuntivo, che vale
solo se p è vero e non p è falso, cioè se vale la legge di non
contraddizione. «Se invece p ha due valori, ossia appunto è vero e
falso, la formula “p o q” sarebbe vera anche se q fosse falso.
Questo ci dice che per giustificare l’ECQ (ex contradictione
quodlibet) ci occorre aver già accettato la legge di non
contraddizione, e perciò l’ex contradictione quodlibet non può
essere invocato per salvare la LNC (legge di non contraddizione)»
(p. 155). La questione della negazione è la seguente: quale
rapporto deve esserci tra p e non p, se devono poter essere
compatibili? A questo proposito Priest distingue due modi di
intendere la negazione: 1. Come cancellazione, nel senso che non
p cancella il contenuto di p e ne prende il posto; 2. Come
complementazione, nel senso che non p ha un contenuto che è il
complemento di p. Da una contraddizione intesa nella prima
accezione non deriva niente, perché essa consiste nel porre e nel
togliere qualcosa ripristinando quindi la situazione di partenza.
«Nel caso del mentitore però è difficile usare la metafora della
cancellazione; quel che sta facendo il mentitore è precisamente un
mettere-togliere simultaneo: cancella quel che sta dicendo, e dice
quel che cancella» (p. 156). Se intendiamo la negazione come
complementazione, negare p significa assumere tutto ciò che non
è p, quindi prendere insieme l’intero universo. In questo senso
affermare una contraddizione significa prendere una cosa e poi
metterle accanto tutto quello che la cosa non è, cioè tutto il resto.
Di conseguenza il contenuto di una contraddizione sarà tutto. Lo
Pseudo-Scoto afferma proprio questo: da una contraddizione
segue qualsiasi cosa. Tuttavia, obietta D’Agostini, «il mentitore
rimane ancora inspiegato, nell’ottica della negazionecomplementazione: non si può ragionevolmente dire che chi dice
di mentire dica tutto» (p. 156). Quindi, ricapitolando, dalla
negazione intesa come cancellazione non deriva nulla, mentre
dalla negazione intesa come complementazione deriva tutto.
Esiste una soluzione intermedia, che Priest preferisce, per cui “p e
non p” ha un contenuto parziale, come qualsiasi proposizione e il
contenuto di una contraddizione in tal modo può essere qualificato
come parziale. Se sto attraversando la soglia di una stanza posso
dire di essere dentro e fuori: non dico tutto ma neppure nulla. Non
dico che i cavalli volano o che un uomo è una trireme. Secondo la
teoria dialeteista, «la negazione è l’artificio logico che evidenzia
la relazione di contraddizione tra due enunciati, ma va distinta di
principio dall’operazione che consiste nell’accettare o rifiutare un
certo contenuto epistemico. Nell’accettare che l’enunciato del
mentitore α sia vero e falso io non sto accettando-e-rifiutando α,
ma sto assumendo tanto α quanto la sua negazione» (p. 157).
A questo punto però, avverte D’Agostini, il dialeteista ha il
compito di spiegare quali doppie verità si debbano mettere in
conto. Anche ammettendo che esistano evidenze di
contraddizioni, come i paradossi della forma “α se e solo se non
α”, sono solo queste le doppie verità o ve ne sono altre?
D’Agostini distingue tre posizioni nella logica paraconsistente: 1.
Le contraddizioni sono nella conoscenza o nell’esperienza, ma
non nella realtà (paraconsistenti deboli); 2. Le contraddizioni ci
sono, ma solo in mondi possibili; 3. Le contraddizioni esistono
nella realtà attuale (dialeteisti). I dialeteisti riconoscono che si
devono specificare il contesto e la modalità di tali contraddizioni.
Non posso entrare e uscire da una stanza, ma se entro c’è un
momento di durata infinitesimale in cui mi trovo fuori e dentro. Le
contraddizioni vere sono poche: il mentitore e tutti gli enunciati
che si riferiscono a confini e situazioni di passaggio. Ad esempio
l’enunciato “X è dentro la stanza” è vero e falso nell’istante in cui
X si trova sulla soglia (p. 158).
In una prospettiva antirealista “è vero che p” non significa
asserire l’esistenza di uno stato di cose corrispondente a p, ma
semplicemente assicurare che p è una credenza giustificata; p è
vero in quanto è confermato/dimostrato. Ma se il senso è questo,
avverte D’Agostini, “non è vero che α” non equivale a “è vero che
non-α”: il fatto di non aver confermato α non implica che abbiamo
confermato non-α. La posizione antirealista determina
conseguenze rilevanti nell’ambito della logica, secondo una
proposta teorica che va sotto il nome di intuizionismo,
l’orientamento filosofico cui ha dato vita Luitzen Brouwer.
D’Agostini ricostruisce e discute le conseguenze che Michael
Dummett trae dalle implicazioni filosofiche dell’intuizionismo. La
tesi di Dummett si basa sulla distinzione tra la verità intesa in
senso realistico e la verità in senso logico-epistemico. Le due
concezioni danno origine a logiche diverse. Dummett è convinto
che gran parte dei problemi nell’uso di “vero” dipendano
dall’adozione dogmatica della logica classica fondata sul realismo.
La tesi filosofica dell’intuizionismo è che la conoscenza, e in
particolare la conoscenza matematica, sia essenzialmente
costruttiva; tesi che si richiama a Kant, per il quale gli oggetti
matematici dell’aritmetica e della geometria sono interamente
costruiti in base alle intuizioni pure; le forme a priori hanno per
Kant un ruolo decisivo anche nella costituzione degli oggetti
sensibili, composti di una forma e di una materia, per cui Kant
parla appunto di intuizioni sensibili. Per l’intuizionismo gli oggetti
matematici (numeri, funzioni, enti geometrici) sono costrutti delle
nostre intuizioni pure, quindi non ci sono realmente (p. 161). Sul
piano logico la tesi di Dummett comporta una differenza
importante rispetto al realismo, infatti “vero” non potrà dirsi in
senso fattuale, ma solo in base a una metodologia inferenziale e
costruttivistica, dal momento che non esiste alcuna realtà data in
se stessa. Alla domanda: esiste la radice di due? Si può procedere
costruendo un triangolo rettangolo con i cateti che misurano 1 e
quindi vedere chiaramente che l’ipotenusa è data dalla radice di
due. Dunque è vero che esiste la radice di due, dove “vero”
significa “dimostrato” o “confermato per costruzione o
ricostruzione” (p. 162). Ci sono tuttavia proposizioni che non sono
dimostrate (come “la serie dei numeri primi è infinita”), così come
non sono dimostrate le loro negazioni. L’intuizionista concluderà
che siamo in presenza della violazione di uno dei principi della
logica classica, tertium non datur, per il fatto che si tratta di
proposizioni che, non essendo state dimostrate o confermate, non
sono né vere né false. Per un realista invece una certa
proposizione è sempre vera o falsa, che lo sappiamo o non lo
sappiamo. Per un realista vale sempre la regola del terzo escluso,
perché per lui il valore di verità di p non dipende dal suo
riconoscimento da parte di un soggetto. L’intuizionista invece vi
dirà che, essendo non dimostrato il valore di verità di p, p non è né
vero né falso. Solo che per il realista “dimostrato” significa
“trovato”, mentre per l’intuizionista significa “costruito”,
determinato da un’operazione che può essere eseguita oppure no.
L’intuizionista introduce un terzo valore di verità per una
proposizione che non è stata ancora dimostrata. Se p non è stato
dimostrato non sarà né vero né falso. Ma se fosse stata dimostrata
la sua indimostrabilità? Quante sono le proposizioni di cui si può
dimostrare l’indimostrabilità? “Dio non esiste” è indimostrabile,
mentre esistono numerose prove dell’esistenza di Dio.
L’indimostrabilità di “Dio non esiste” si può ottenere ricordando
che, per definizione, Dio è invisibile. La dimostrazione
dell’indimostrabilità dell’esistenza degli enti non sensibili sembra
dunque scontata. Se “Dio non esiste” fosse dimostrata
indimostrabile, un realista direbbe che, in se stessa, tale
proposizione deve essere vera o falsa; un intuizionista obietterà
che, proprio perché indimostrabile, dunque non suscettibile di una
costruzione razionale, la stessa proposizione non è né vera né
falsa. Infatti la dimostrazione dell’indimostrabilità di p non è una
dimostrazione che riguardi direttamente il contenuto di p. D’altra
parte Dio c’è o non c’è. L’intuizionista può giustificare le sue
riserve nel caso della matematica, dato il presupposto da cui parte,
che la realtà degli oggetti matematici è costruita, quindi il
contenuto delle proposizioni non ancora dimostrate non esiste di
fatto. Ma dinanzi all’indimostrabilità? Proprio l’intuizionista, in
base al suo presupposto, dovrebbe assegnare il valore di verità
falso a p, se p si rivela indimostrabile: non solo l’oggetto
corrispondente non esiste a priori, ma è acclarato che non può
neppure essere costruito. Per il realista le cose stanno
diversamente: Dio esiste o non esiste indipendentemente dal fatto
di poterlo dimostrare, quindi p, “Dio non esiste” nel nostro
esempio è vero o falso: anche se potessi dimostrarlo non
aggiungerei nulla al valore di verità di p, conformemente
all’esistenza o non esistenza di Dio. L’esistenza di Dio è qualcosa
che sussiste o meno in se stessa, al di là delle procedure
utilizzabili per dimostrarla. L’intuizionista decide che p è vero se
può costruirne l’oggetto, quindi l’impossibilità accertata di
costruirne l’oggetto dovrebbe essere sufficiente per decidere che p
è falso. L’intuizionismo mantiene una certa plausibilità in
matematica, ma se p si riferisce al mondo esterno e la nozione di
verità dev’essere oggettiva, la soluzione terza del “né vero né
falso” non regge. Il non vero non implica il falso solo se la realtà è
costruita e non semplicemente riconosciuta.
D’Agostini osserva che le due posizioni del realista e
dell’epistemicista non sono necessariamente incompatibili. Si può
ammettere che ci sia una realtà esterna non ancora conosciuta
perfettamente. D’Agostini esamina un caso della vita quotidiana
in cui la combinazione di epistemicismo (per cui vero equivale a
giustificato) e di realismo (per cui se una proposizione è vera,
allora le cose stanno esattamente nel modo corrispondente al
contenuto di p), conduce a una vera e propria aberrazione.
Partiamo dal presupposto che io non conosca il mio vicino di casa.
Mettiamo che p sia: “il mio vicino è una brava persona”. Avremo
allora: 1. Non so se p; 2. Dunque p non è giustificato e non è vero
(per l’equivalenza di vero e giustificato); 3. Se non è vero p, allora
non p (rilascio); 4. Se non p, allora è vero che non p (cattura); 5.
Ma se è vero che non p, allora non p è giustificato (per
l’equivalenza di vero e giustificato); 6. Sono autorizzato a credere
che il mio vicino di casa non sia una brava persona. Tuttavia,
commenta D’Agostini, l’inferenza da “non ho ragioni per credere
che p” a “ho ragioni per credere che non p”, è un esempio di
fallacia ad ignorantiam (p. 165).
Si può osservare che l’inferenza è possibile per
l’equivalenza di vero e giustificato, senza la quale il fatto che p
non sia giustificato implica che neppure non p è giustificato. C’è
un solo modo in cui le cose stanno, il che non esclude che lo stato
delle cose sia inaccessibile, al di là delle diverse procedure
conoscitive messe in atto per determinarlo. Tra p e lo stato delle
cose il rapporto è anche temporale. La verifica di una
corrispondenza tra p e lo stato delle cose al quale fa riferimento si
può concepire come confronto simultaneo tra p e lo stato delle
cose. Se dico che piove mentre sta piovendo, è facile che io possa
far passare per vero p mediante la corrispondenza con lo stato
delle cose, in tempo reale, per così dire. Ma se lo stato delle cose è
un insieme di eventi accaduti in passato, l’allineamento
simultaneo non è possibile e quindi avrò l’onere di dimostrare,
con l’aggiunta di altri riferimenti e testimonianze, che p è vero.
Tuttavia, le testimonianze che si riferiscono al passato non sono
mai inconfutabili e p può essere giustificato, senza tuttavia che la
sua verità possa essere sostenuta con certezza. Se lo stato delle
cose è futuro, p non è vero né falso, può tuttavia essere giustificato
induttivamente o in base a una certa teoria circa la natura della
realtà. In ogni caso, che domani piova oppure no, si potrà
verificare solo domani. A posteriori, si potrà dire che p era vero o
falso, in base ai fatti; e ora possiamo dire che p, se pioverà, sarà
vero o falso. Quel che non possiamo dire, è che p sia vero adesso,
se i fatti ai quali si riferisce devono ancora accadere. In sostanza,
se i fatti sono passati o futuri, p potrà essere solo giustificato e il
grado di giustificazione dipenderà da ricordi e testimonianze dei
soggetti coinvolti. Solo in relazione ai fatti che accadono ora, nel
presente istantaneo, possiamo mostrare che p è vero o falso, ma
solo per un istante. Ad esempio in questo momento sto parlando
ed è vero che sto parlando. “Essere vero” quindi riferito a p
potrebbe significare “essere vero adesso in rapporto al presente
stato di cose” in riferimento a p. Quindi quando diciamo che p è
vero sosteniamo che in un certo tempo t era vero che p in rapporto
a un determinato stato di cose, che ora è irreversibilmente passato.
Dire che p è vero adesso quindi non è possibile, a meno che non
possiamo verificare una connessione con lo stato di cose che è
sotto i nostri occhi. Tuttavia, anche ammettendo che la verità di p
sia sostanzialmente inverificabile, non si può negare l’esistenza
passata di uno stato di cose tale che, se fosse completamente
accertabile o fosse presente, renderebbe vero p. In tal modo
possiamo superare l’equivalenza di vero e giustificato.
Quando si affronta il tema della verità non si può trascurare
la vaghezza. La vaghezza è assenza di precisione sul piano della
semantica nominale. Il sorite, antico paradosso che si rifà al
cumulo, o mucchio, è un esempio di indecidibilità che deriva dalla
vaghezza di determinati termini. Il cumulo di sabbia (quanti
granelli ci danno un cumulo?), il calvo (con quanti capelli un
uomo non è più calvo?) sono esempi noti fin dall’antichità. Oggi
la tolleranza delle minime variazioni si presenta per termini come
quello di persona: quando un embrione inizia ad essere persona?
Tutte le questioni di bioetica – nascita, morte, naturale, artificiale,
cura, accanimento terapeutico – nascono dalla difficoltà di
stabilire un confine oggettivo e condiviso. Nonostante la logica
detta fuzzy − la soluzione proposta da Zadeh, un ingegnere
elettrico degli anni settanta, che assegna cinque valori di verità tra
0 e 1, tra falso e vero – D’Agostini con Rosanna Keefe sostiene
che la vaghezza è intrinseca al nostro linguaggio e che non potrà
mai essere eliminata del tutto (p. 170), come mostrano le
situazioni di confine: sano/malato; giovane/vecchio, ecc. Una
volta stipulata una convenzione, il valore di confine apre a due
possibilità: l’enunciato è una doppia verità e quindi ha ragione sia
chi lo afferma, sia chi lo nega; oppure non sappiamo se
l’enunciato sia vero o falso e quindi hanno torto entrambi.
Le enunciazioni della vita quotidiana si basano per lo più su
inferenze induttive, in contesti nei quali chi enuncia non ha il
pieno controllo della situazione. D’Agostini invita a distinguere
tra due tipi di inferenza, a seconda che abbiamo o non abbiamo la
conoscenza della totalità del contesto in rapporto al quale
facciamo le nostre inferenze. Un esempio del primo tipo è un
normale mazzo di carte di cui conosciamo perfettamente i
componenti; un esempio del secondo tipo è un mazzo di carte di
cui non conosciamo perfettamente né le caratteristiche, né
l’articolazione, né se sia finito o infinito. In questo secondo caso
le inferenze non sono sicure e i calcoli relativi sono sempre
rivedibili, ma non possiamo dire che non sia legittima alcuna
inferenza relativa al mazzo di carte, dato che possiamo osservare
comunque la frequenza con cui si presentano determinate
combinazioni e rimane sempre aperta la possibilità di stabilire un
ordine matematico tra le carte, in modo che certi risultati
diventino necessari. La fisica moderna si fonda esattamente sulla
correlazione tra i risultati matematici e le osservazioni
sperimentali (p. 181).
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Rimane sempre aperta la questione fondamentale del rapporto tra
etica e ontologia. Come stanno le cose del mondo? Esiste una
realtà indipendente verificabile da chiunque? Esistono verità e
conoscenza nell’etica? Il realismo sostiene che la realtà (materiale,
spirituale o di altro tipo) esiste indipendentemente dalla
conoscenza che ne abbiamo. La tesi realista è metafisica, secondo
D’Agostini, giacché riguarda il modo d’essere dell’essere. La tesi
empirista invece è epistemologica, poiché riguarda la conoscenza:
essa sostiene che l’evidenza empirica è la base della conoscenza e
di ogni nostra credenza. Il concetto di esperienza è tuttavia ampio
e può includere le idee, l’immediatezza sensoriale, o anche la
memoria e la storia (p. 191). Sono possibili quindi vari tipi di
empirismo, a seconda dell’accezione in cui è intesa l’esperienza.
Ma l’essenziale è che per l’empirismo in genere non si possa
sostenere l’esistenza di una realtà che vada oltre l’esperienza,
comunque intesa, che possiamo certificare. Eppure la stessa
consapevolezza dei limiti e della varietà delle nostre esperienze
dovrebbe di per sé rappresentare la premessa di una logica
conclusione riguardo l’esistenza di un mondo esterno
indipendente dal modo e dalla misura in cui riusciamo a produrne
delle rappresentazioni. Realismo ed empirismo possono coesistere
benissimo e non si vede quale alternativa abbia l’empirismo
rispetto alla posizione di complementarità necessaria con il
realismo: Kant docet. E questo lo riconosce anche D’Agostini, che
parafrasa Kant così: «Tutto incomincia con la realtà che agisce sui
nostri sensi, dunque con la nostra ricettività, ma non tutto si riduce
alla ricettività, c’è anche la spontaneità creativa e “costitutiva” del
soggetto» (p. 194). La combinazione di realismo ed empirismo ha
avuto molti eredi, il più autorevole dei quali è stato Husserl, che si
è adoperato, partendo da Kant, ad approfondire i meccanismi della
costituzione trascendentale della nostra attività conoscitiva. Un
empirista può essere antirealista e un realista antiempirista. Il
semicostruzionismo kantiano può essere un modo persuasivo di
comporre la disputa, dato che il predicato Vero si applica non alla
realtà in sé, ma alla semicostruzione preliminare che risulta
dall’interazione tra la mia soggettività trascendentale e la realtà
esterna. Tuttavia, avverte D’Agostini, esiste una difficoltà
fondamentale, che riguarda l’esistenza di una realtà in sé non solo
indipendente, ma anche separata dalla conoscenza e quindi
inaccessibile, essendo in sé e non per noi. D’Agostini si chiede se
Kant abbia chiarito questo punto fondamentale: esiste davvero una
realtà in sé? Come Dio secondo Locke (per il quale possiamo
dimostrare l’esistenza di Dio, ma non la sua essenza, e lo stesso
vale per l’essenza di qualsiasi altra cosa), per Kant l’esistenza di
una realtà indipendente dal soggetto che fornisca la materia alle
forme a priori mettendo la soggettività trascendentale nella
condizione di operare, è una deduzione necessaria, così come è
una deduzione necessaria l’inconoscibilità della cosa in sé, dal
momento che, per definizione, la realtà che conosciamo è un
costrutto, una combinazione di forma e materia (e questo Kant lo
fa valere già nell’estetica trascendentale, quando discute dello
spazio e del tempo come forme a priori della sensibilità).
Sostenere che la cosa in sé è direttamente conoscibile,
significherebbe contraddire lo stesso impianto della filosofia
kantiana. Perché dovrebbe esserci contraddizione tra
l’indipendenza e l’inaccessibilità della realtà? La realtà che
conosco con l’esperienza non è qualcosa di ultimo e immediato,
ma un costrutto. E se non ci fosse nulla di indipendente, la realtà
conosciuta sarebbe solo quella costruita solipsisticamente dal
soggetto, dotato di strutture conoscitive a priori (intuizioni pure,
schemi, concetti, categorie), le quali non possono essere concepite
che come una realtà oggettiva, anche se questa è solo presunta,
giacché per definizione non possiamo accedere a tali strutture per
capire che cosa sono in se stesse. La filosofia kantiana non
giustifica il disarmo della ragione e la relativizzazione della verità.
I cattivi interpreti di Kant hanno inteso che la cosa in sé si sottrae
all’abbraccio della conoscenza, che di volta in volta dovrà
accontentarsi di non-verità, essendo la cosa in sé inaccessibile.
Come D’Agostini fa osservare, il disarmo scettico in
rapporto alla verità risale alla filosofia antica. Sesto Empirico
rappresenta una fonte straordinaria, certamente la più importante,
per la ricostruzione dettagliata degli argomenti degli scettici.
Quali erano gli argomenti decisivi addotti dagli scettici per
dimostrare che la verità è inconoscibile? Da Enesidemo ad
Agrippa a Sesto Empirico, i tropi scettici si riducono
essenzialmente a tre: pluralità (per ogni proposizione p affermata
come vera si possono addurre possibilità contrarie), regresso
all’infinito (per giustificare p ricorro a q, per giustificare q devo
introdurre r, che a sua volta ha bisogno di una giustificazione e
così via all’infinito) e circolo (diallele, quando q giustifica p e p
giustifica q). Lo scettico enuncia quindi l’epoché, la sospensione
del giudizio, che consiste nel non affermare né negare alcunché.
Con quali argomenti lo scettico potrà difendere l’epoché? Non
certo con quelli ordinari, che ricadrebbero nel trilemma ricordato e
darebbero luogo all’autoconfutazione. Una prima soluzione è
quella proposta da Sesto Empirico, per cui le tesi scettiche vanno
intese come purganti, che tolgono se stessi insieme alle impurità
dell’organismo. Lo scettico non mira a enunciare delle verità, fa
uso della verità, ma solo per disfarsene; il suo scopo non è la
teoresi, ma la pratica della vita, il vivere bene e senza passioni,
posto che i giudizi sono all’origine di quelle. E poiché la filosofia
come attività teoretica è inconcepibile senza l’argomentazione, lo
scettico, demolendo ogni possibilità dell’argomentare in generale,
abolisce la stessa filosofia come attività intellettuale, togliendole
ogni ragion d’essere, almeno nella misura in cui i tropi scettici non
sono confutati. Ma, daccapo, se qualsiasi confutazione è
assoggettata inesorabilmente ai tropi scettici, il solo modo per
salvare la teoresi filosofica consisterà nel rovesciare la posizione
dello scettico, ad esempio dimostrandogli che la sua tesi è
insostenibile per qualche motivo. Già Aristotele e poi Hegel hanno
mostrato che lo scettico non fa quel che dice di fare, perché è
impossibile vivere senza giudicare e preferire una cosa a un’altra.
A questo punto, ricorda D’Agostini, la seconda mossa dello
scettico consiste nel presentare una versione moderata di
scetticismo, per cui si deve sospendere il giudizio non in senso
assoluto, ma solo in rapporto alle cose non evidenti. Quando però
si tratta di indicare quali sono le cose non evidenti, se riguardano
questioni di gusto o di valore o credenze religiose, sorge il
problema di stabilire se e come una teoria delle cose non evidenti
ricade nel trilemma e se la stessa teoria riguarda cose evidenti
oppure no (p. 202). Lo scetticismo moderato quindi sembra
oscillare tra l’irrilevanza e l’autocontraddizione. D’Agostini fa
osservare giustamente che, a questo punto, se lo scettico cerca di
stabilire quali sono le cose non evidenti in rapporto alle quali è
doveroso sospendere il giudizio, allora si deve ammettere che
abbiamo di fronte un filosofo vero e proprio che dirige la sua
indagine sulle questioni fondamentali dell’etica e dell’ontologia.
Possiamo quindi riprendere la posizione espressa da Hegel nello
scritto del 1802, Rapporto dello scetticismo con la filosofia: lo
scettico radicale non è nemico della ragione filosofica, che si
alimenta di scetticismo. Il trilemma confutatorio dello scettico è
per Hegel assolutamente vero, giacché rappresenta le tre forme in
cui si sviluppa il dialogo critico. In un saggio del 2007,
Scetticismo. Una vicenda filosofica, Mario De Caro ed Emidio
Spinelli, sostengono che lo scetticismo antico, equivalente alla
prassi sofistica e a quella socratica, esprime l’esigenza
intellettuale di una ricerca incessante che metta in movimento
qualsiasi tesi o posizione, ma in funzione di un’indagine che mira
in ogni caso alla determinazione della verità. In questo senso lo
scetticismo è l’essenza stessa dell’indagine filosofica, il suo
motore necessario. Lo scetticismo moderno e contemporaneo,
invece, secondo i due studiosi, indica non la mobilizzazione di
verità acquisite, ma il dubbio conclusivo (non transitorio),
artificiale (limitato all’ambito filosofico come artificio tecnico) e
radicale (assoluto) (p. 205).
Per capire il senso in cui lo scetticismo è essenziale alla
filosofia, D’Agostini trae da Hegel alcune riflessioni. In primo
luogo il metodo scettico − la ricerca (sképsis) − caratterizza la
filosofia, che indaga anche i presupposti e tutto mette in
discussione; la ricerca filosofica si presenta con una radicalità che
non appartiene né alla scienza né alla religione. Inoltre Hegel
spiega che lo scetticismo si pone a un livello “superiore” alle tesi
contrapposte. La posizione dello scettico sarebbe metametateorica, nel senso che, nell’interpretazione di Hegel, «lo
scettico-filosofo ci dice come funziona il nostro rapporto con le
teorie, come dobbiamo valutarle, e come incontriamo successi e
fallimenti nel valutarle» (p. 206). Lo scettico-filosofo insomma ci
dice come funziona la verità, come dialetticamente e
oggettivamente si svolge il pensiero nella costruzione delle teorie.
In terzo luogo, il trilemma non è un ostacolo alla discussione su
qualsiasi argomento controverso, giacché la pluralità di ipotesi
non è un limite ma una risorsa, il regresso si arresta quando i
disputanti raggiungono un accordo e il circolo non desta alcuna
preoccupazione quando esprime l’interconnessione delle nostre
credenze. Il trilemma è da prendersi sul serio in situazioni
eccezionali di totale disaccordo tra i disputanti. Lo scetticismo
quindi non va inteso come la prova del fuoco alla quale la filosofia
si sottopone risultando infine perdente e decretando la propria
fine, ma come la battaglia che la stessa filosofia si riserva di
combattere per affermare positivamente il proprio ruolo nella
ricerca della verità. Lo scetticismo non è la prova del fallimento
nella ricerca della verità e della fine della filosofia, al contrario la
critica radicale della verità conduce a una riabilitazione della
verità e a una riaffermazione della validità della ricerca condotta
con il metodo scettico. Il nichilismo è l’interpretazione puramente
negativa dello scetticismo. D’Agostini suggerisce una
connessione, neppure tanto nascosta, tra il nichilismo del senso
comune, come resa e complicità con il potere criminale, e il
nichilismo filosofico, un atteggiamento distruttivo generale che si
esprime in proposizioni la cui conseguenza è la rassegnazione
all’impotenza e la rinuncia all’intelligenza del vero e alla prassi
secondo giustizia.
“Niente è vero”, “Non esiste realtà”, “Non ci sono principi
né valori”, “Niente ha senso” sono enunciazioni del nichilismo a
tutto campo. Al nichilista non importa sapere che si
autocontraddice nel dire che “non esiste alcuna verità”, se
pretende di asserire qualcosa di vero e non privo di senso, perché
il suo obiettivo è solo quello di distruggere e togliere valore e
senso a tutto, compreso quello che dice lui stesso. Il nichilista non
nega la verità, ma la stessa filosofia, il sapere in generale e
l’esistenza di se stesso. Il nichilista infatti rifiutando
l’autocontraddizione di “nulla esiste” (perché se fosse vero che
nulla esiste non esisterebbe neppure il soggetto che lo enuncia),
respinge l’unica obiezione inconfutabile alla sua tesi e preferisce il
suicidio inteso come autoannientamento. Il nichilista estremo fa
dell’autocontraddizione una prova dell’inconfutabilità della
propria tesi: se la conseguenza di “nulla esiste” è che non esista
neppure il soggetto che enuncia questa proposizione, ebbene, sia
pure che non esista il soggetto che enuncia la proposizione; se la
proposizione non esiste perché manca chi la enuncia, questo è una
prova del fatto che nulla esiste, senza bisogno di dirlo, giacché per
dirlo si dovrebbe enunciare l’impossibilità di farlo. Per il
nichilista, che nulla esiste non è confutato, ma dimostrato
dall’autocontraddizione del soggetto che lo enuncia. Per il
nichilista è l’obiezione alla sua tesi che risulta contradittoria;
infatti dal suo punto di vista rinfacciargli che, se fosse vero che
nulla esiste, non esisterebbe neppure lui, significherebbe
affermare surrettiziamente l’esistenza di qualcosa partendo dalla
proposizione “nulla esiste”, la quale non dice affatto che devono
esistere la stessa proposizione e il soggetto che la enuncia. Se non
ci fosse nulla, prosegue il nichilista, se fosse vero che nulla esiste,
non ci sarebbero neppure la proposizione e il soggetto che la
enuncia. E se fosse così, nessuno potrebbe dimostrare niente,
neppure che non c’è niente o che deve esserci qualcosa. Se
partiamo dal presupposto che qualcosa deve esistere, conclude il
nichilista, allora potrà valere l’obiezione allo scettico, come se
fosse in gioco la sua stessa esistenza, che egli stesso non potrebbe
mai negare. Ma la proposizione “nulla esiste” può benissimo non
essere enunciata da alcun soggetto, e pur tuttavia essere vera in se
stessa. “Nulla esiste” vuol proprio dire che nulla esiste e che
nessun presupposto di esistenza è compatibile con il contenuto di
questa proposizione. In fondo il nichilista stabilisce il primato
meontologico rispetto a ogni discorso possibile: il nulla precede
ogni discorso o teoria del nulla, compresa qualsiasi considerazione
metateorica. Evidentemente il nichilista non pretende di
dimostrare con argomenti razionali che nulla esiste, ma si limita
ad affermare l’indimostrabilità della tesi opposta, che qualcosa
esiste. Quindi, se l’obiettore pretende di coglierlo in
contraddizione con argomenti razionali, il nichilista può mostrare
che a contraddirsi è lo stesso interlocutore che volesse dimostrare
qualcosa di indimostrabile. L’indimostrabile, che non può essere
dimostrato, sarà necessariamente vero, secondo il nichilista. Il
quale non pretende di dimostrare, ma di mostrare che nulla esiste.
Che nulla esista è vero, anche facendo a meno del mostrare e di
qualcuno che mostri; infatti la verità è tale in quanto sussiste in se
stessa, senza bisogno di un soggetto che la enunci. Per il nichilista
la verità di “nulla esiste” possiede tutti i requisiti della realtà in sé,
in quanto esprime la perfetta coincidenza di verità e realtà, nel
senso di uno stato di cose che sussiste indipendentemente dal
soggetto che lo riconosce. Che nulla esiste può essere vero senza
che sia realmente esistente qualcosa come il soggetto o la
proposizione stessa: il nichilismo è coerente solo in virtù del suo
realismo negativo, per il quale in principio c’è il nulla, che azzera
ogni differenza di soggetto e oggetto, di forma e materia, e
inghiotte preventivamente qualsiasi proposizione che lo riguarda.
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D’Agostini denuncia l’inconsistenza antifilosofica del nichilismo
ricordando con Wittgenstein che “chi volesse dubitare di tutto,
non arriverebbe neanche a dubitare” (p. 208). Si deve riconoscere
tuttavia che il nichilismo si propone come un’esperienza che è
impossibile dimostrare, perché ha la certezza di sé anteriore a
qualsiasi enunciazione o ragionamento. L’indimostrabilità di tale
esperienza non è una dimostrazione che nulla esiste, ma solo la
rivelazione di qualcosa che si illustra da sé. Per questo il nichilista
può rovesciare il tavolo e sostenere che a contraddirsi è il suo
confutatore, il quale pretende di dimostrare ciò che il nichilista si
limita a illustrare nella sua immediatezza e indimostrabilità.
“Nulla esiste” non è una proposizione, ma un’esperienza:
possiamo confutare razionalmente un’esperienza? Di qui l’errore
di chi pensa di confutare lo scettico avvertendolo che si
contraddice. Se volesse trarsi d’impaccio definitivamente, lo
scettico, trascinato suo malgrado nell’argomentazione dialettica,
potrebbe sempre fare un’opzione: dopo aver appreso che la verità
di “nulla esiste” e la sua stessa esistenza di scettico sono
incompatibili, potrebbe uscire di scena preferendo la non
esistenza. E se lui non esiste, anche tutto il resto può essere
azzerato dalla non esistenza. Non possiamo confutare
un’esperienza, né col ragionamento né con un’altra esperienza.
Indubbiamente il nichilismo è antifilosofico e rappresenta bene il
risultato della trasformazione della via scettica, risorsa
metodologica per il filosofare, in attività fine a se stessa.
In Nietzsche, come ricorda D’Agostini, il nichilismo è un
modo d’essere di uomini che si preparano al passaggio verso
un’altra umanità. In generale si può riconoscere nel nichilismo
l’espressione della volontà di distruggere tutti i presupposti, di
azzerare tutto, ma non allo scopo di contemplare il nulla, bensì per
dare inizio a un nuovo mondo, per rifondare la realtà. Il nichilista
sgancia la sua furia demolitrice per togliere di mezzo tutta la
tradizione sedimentata, tutta la storia passata, giacché la realtà che
nega non è che la concrezione e la rivelazione permanente di un
lungo passato e di una vetusta tradizione culturale. Togliersi di
dosso il peso del passato: a questo mira realmente il nichilista, che
contrappone il pensiero all’azione, li dichiara reciprocamente
incompatibili, mettendo al bando la conoscenza in nome
dell’azione, della prassi, della volontà di potenza. Il fine dunque è
la prassi, la filosofia nella sua radicalità essenzialmente scettica è
un’attività provvisoria e distruttiva, per restituire alle persone una
totale libertà di azione, di esperienza e di lotta. Sì, di lotta, perché
un’azione vitalisticamente intesa che può finalmente fare a meno
di principi, di valori, di razionalità, in ultima analisi: di verità,
potrà appellarsi unicamente alla forza e alla ricchezza materiale
per ottenere ragione, per avere la meglio, per sopravvivere nella
moltitudine di soggetti impegnati a combattersi con la stessa
logica di esclusione. Ogni uscita dalla filosofia si rivela pericolosa
e ambigua. Il nichilismo è la distruzione a priori di ogni
presupposto del filosofare, la pretesa di sostituire la filosofia con
la vita stessa, nell’illusione che la verità coincida perfettamente
con la realtà in se stessa, senza bisogno di alcuna mediazione
teoretica, come se il pensare fosse un ostacolo alla verità e alla
vita, che si vogliono immediatamente coincidenti. All’estremo
opposto del nichilismo però non troviamo la ricerca filosofica,
bensì lo scetticismo come pratica filosofica di analisi formale
dell’argomentazione, come indugio compiaciuto e permanente nel
labirinto delle antitesi, delle autocontraddizioni e delle antinomie.
Se il nichilismo discredita e abbandona definitivamente la teoresi
filosofica nell’illusione di immettersi completamente nella
corrente della vita e dell’esperienza, lo scetticismo filosofico
coltiva il progetto di rimanere definitivamente all’interno della
filosofia, praticando di conseguenza l’astensione da ogni prassi e
contatto diretto con la realtà, come se la filosofia fosse un “vizio
assurdo” da cui evadere risulta impossibile, se si applica il
principio di ragione sufficiente. Nel primo caso la verità è cercata
fuori della filosofia, nel secondo all’interno della filosofia e negli
artifici del pensiero. Ma la verità non è una proprietà
dell’argomentazione, né del mondo là fuori. Il solo senso
plausibile in cui parliamo di verità è quello che mette in relazione
rappresentazione e realtà, pensiero e azione, teoria e prassi. Ecco
perché nichilismo e scetticismo sono opposti. La filosofia deve
preparare alla vita (e alla morte) e dunque non può certamente
ridursi a ruminare senza interruzione teorie e ragionamenti, tesi,
obiezioni e controbiezioni, senza diventare insensata. Sono due i
modi in cui la filosofia perde il suo senso: rinunciando alla scepsi
e rimanendovi rinchiusa. Il solo modo di rinunciare alla filosofia
senza contraddirsi, come vuole il famoso argomento aristotelico, è
quello di mettere a tacere la lingua e la ragione. La vera rinuncia
alla filosofia non è il rifiuto di filosofare, è quell’abbrutimento che
consiste nella rinuncia al pensiero. All’estremo opposto troviamo
una pratica filosofica chiusa in un verbalismo autarchico e in una
compiaciuta tergiversazione scettica che non raggiunge mai la vita
e la realtà del mondo. Una filosofia autentica persegue
l’intelligenza della realtà attraverso il pensiero, allenandosi a
tenere congiunti senza confonderli i due poli di coscienza e
mondo, soggetto e oggetto. Una filosofia che rinuncia a
confrontarsi con l’esperienza è un pensiero senza contenuto, un
soggetto senza oggetto.
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D’Agostini, accogliendo un’indicazione di Franco Volpi, concede
al nichilismo un compito terapeutico, quello della liberazione non
dai valori, ma dei valori dalle rigide convenzioni; se inteso in
questo senso, il nichilismo sarebbe l’esercizio di una critica
filosofica volta a smascherare le versioni ufficiali e pubbliche del
Vero, del Giusto, ecc., allo scopo di preservare l’autenticità dei
valori da qualsiasi contaminazione delle circostanze contingenti.
D’Agostini cita quale esempio di epistemologia radicale, nel senso
di un riabilitato nichilismo, il saggio Elusive Knowledge (1996) di
David K. Lewis, il quale sostiene che la teoria della conoscenza
distrugge la conoscenza, nel senso che mobilizza apparati teorici e
li infrange per raggiungere progressivamente una migliore
comprensione della realtà – una realtà che è sempre in evoluzione
e irriducibile agli schemi del pensiero scientifico, che la filosofia
ha il compito appunto di smantellare, tesi sostenuta già da Pavel
Florenskij. Secondo Lewis, per sapere oltre ogni dubbio che p è
vera, dovrei aver escluso tutte le possibilità alternative, condizione
impossibile da soddisfare, perché per ogni p che ritengo vera
possono esserci infinite altre proposizioni, vere a mia insaputa,
che implicano non-p. Quindi non abbiamo mai conoscenza vera,
pur avendo una gran quantità di informazioni vere in molti settori.
Si deve ammettere allora che molte possibilità contrarie non
possono essere escluse, ma possono essere ignorate. Le alternative
rilevanti si possono determinare in base ad alcune regole
metodologiche (attualità, credenza, somiglianza, affidabilità).
Mettiamo che qualcuno sostenga che p e un altro che non p
e che entrambi adducano argomenti convincenti, tali che
potrebbero dare loro ragione. Il paradosso consiste nel fatto che,
secondo logica, la verità di p implica la falsità di non p, mentre
qui p e non p sembrano entrambe vere. Possiamo accettare due
verità opposte, in nome della tolleranza e partendo dall’apparente
indecidibilità tra p e non p? La violazione del principio di non
contraddizione può vestire i panni della politica ed essere
acclamata come virtù suprema di apertura, tolleranza,
benevolenza. Il relativismo è l’accettazione di una pluralità di
posizioni, diverse tra loro e spesso incompatibili, la cui
coesistenza si pensa che non abbia alternative in un sistema
democratico e liberale. Per di più, alle tesi accolte in nome del
pluralismo democratico non si chiede il passaporto di validità
degli argomenti addotti da coloro che le sostengono,
semplicemente sono ascoltate e accettate per il semplice fatto che
esprimono una posizione di qualcuno. Tutte le opinioni si
equivalgono, hanno diritto di cittadinanza, in base al principio
della libertà di pensiero, di stampa e diffusione delle proprie idee
da parte di chiunque. Il relativismo sembra quindi inevitabile. Del
resto la contraddizione tra p e non p potrebbe essere irrilevante, se
si potesse dimostrare che p escludendo non p, oppure che non p
escludendo p. Se p sta per “la terra è un pianeta più grande di
Giove” e non p sta per “il pianeta terra è più piccolo di Giove”,
certamente la verità di non p spazza via p senza controversie di
sorta. Se accettassimo entrambe in nome del pluralismo,
cadremmo nel ridicolo. Infatti pretendiamo di poter verificare,
empiricamente o per via argomentativa, quale delle due, se p o
non p, sia vera. Lo stesso non accade per posizioni che riguardano
l’etica, i rapporti sociali, la politica, dove il relativismo ammette
qualsiasi posizione, purché non sia criminale in qualsiasi modo,
senza preoccuparsi del conflitto per incompatibilità che sussiste
tra tesi opposte. In determinati settori ciascuno può far valere
qualsiasi posizione e quindi agire di conseguenza (ad esempio
riguardo alle scelte sessuali, all’uso di droghe, ecc.), senza che gli
sia imposto l’obbligo di dimostrare di aver ragione. A chi sostiene
p e a chi sostiene non p nell’ambito dei diritti umani non è
richiesta alcuna giustificazione o dimostrazione, perché si parte
dal presupposto che la sua tesi debba essere rispettata e accolta
come vera, in nome della libertà originaria della persona. Ma la
teoria delle molte verità, avverte D’Agostini, equivale a sostenere
che “tutto è contraddittorio” e “tutto è vero”: una posizione già
difesa dai sofisti greci, ma autocontraddittoria, perché se fosse
vera implicherebbe anche che esiste qualche p vera la cui
negazione è falsa (p. 219). Avremmo in sostanza una teoria che
implica la propria negazione. Bisogna quindi distinguere, ma con
quale criterio di selezione? Dato che il pluralismo delle tesi può
comportare anche la differenza massima, cioè l’opposizione e il
conflitto, deve essere possibile ridurre a due le alternative,
qualunque sia il numero di proposizioni asserite. In rapporto alla
conoscenza e alla vita associata, spiega D’Agostini, è importante
verificare quali tesi sono incompatibili con p, una volta che p sia
stata accettata e convalidata in quanto indiscutibile (p. 221). A
questo punto è fin troppo facile osservare che su fatti evidenti si
può trovare un accordo mediante una verifica. Ma quando si tratta
di valutare gli stessi fatti, mettendoli in relazione a valori, il
disaccordo può essere insanabile. Nessuno dubita che Saddam
Hussein è stato giustiziato mediante impiccagione, ma può esservi
disaccordo insuperabile riguardo alla pena di morte che gli è stata
inflitta e alla pena di morte in generale. Sulla base di una verità
fattuale unanimemente riconosciuta, è possibile esprimere
valutazioni contrastanti ovvero interpretazioni. Il ruolo
dell’interpretazione è rilevante, ma non tale da occupare tutto il
campo, spazzando via tutti i fatti, come vorrebbe l’ermeneutica di
Gianni Vattimo. Le interpretazioni presuppongono qualcosa che
non lo sono, così come le valutazioni fanno capo a descrizioni di
fatti oggettivamente intesi. Nell’esempio citato, la pena di morte
inflitta a Saddam Hussein è un fatto oggettivo. Il giudizio è
soggettivo: è stato giusto infliggerla a Saddam? Ma il valore di
riferimento, la giustizia, è formalmente lo stesso, declinato nelle
diverse, talora opposte accezioni (ritorsione/vendetta, risarcimento
del danno, rieducazione/perdono) La diversità dei giudizi è anche
la conseguenza del modo in cui i giudizi sono formulati, secondo
la loro struttura di rapporto soggetto-predicato. Ogni giudizio
stabilisce un rapporto sintetico tra entità differenti, come un certo
fatto e un certo valore, i cui concetti sono separati. Qualcosa di
simile accade nel giudizio estetico, che stabilisce ogni volta un
rapporto tra un certo valore, la bellezza, e un certo oggetto, l’opera
d’arte; e i giudizi differiscono da un soggetto all’altro per la
semplice ragione che l’idea di bellezza non contiene
analiticamente i concetti delle opere d’arte ritenute belle. Ciò che
è bello, come ciò che è giusto o buono non lo è analiticamente, ma
sinteticamente: nessun concetto di un oggetto contingente è
contenuto a priori in una nozione più ampia. Solo l’esperienza
soggettiva introduce l’elemento che fa la differenza; e nella
misura in cui le esperienze soggettive sono simili, avremo giudizi
convergenti, ma senza universalità in senso proprio, giacché
quella è possibile solo con i giudizi analitici, la cui verità
prescinde dai singoli soggetti. Un’osservazione va fatta a
integrazione dell’analisi di D’Agostini: la proprietà o la forza non
sono valori in sé, ma solo dei dati di fatto in chi li possiede. Invece
il diritto di proprietà o l’inviolabilità della proprietà è un valore
nel senso che esprime il diritto di ciascuno a vedersi riconosciuta
l’integrità personale in tutte le sue estensioni e determinazioni. Il
diritto all’autodifesa è quindi universale; l’inviolabilità della
proprietà vale per tutte le concezioni di natura ideologico-politica,
comprese quelle che prevedono la soppressione della proprietà
privata; in questi ultimi il diritto di proprietà rimane un valore
assoluto, ma ristretto alla sfera fisico-corporea e spirituale. La
lealtà è un valore in qualsiasi regime o sistema, solo che può
subire ampliamenti o restrizioni a seconda della situazione
sociopolitica in cui è richiesta o fatta valere: un regime dispotico
prevede infatti la delazione come autentica forma di lealtà al
potere costituito, l’opposto accade nei sistemi liberali, dove si
mette in primo piano la tutela della persona e la lealtà tra
individui. Qualunque sia la questione affrontata, si può osservare
che la difesa della propria posizione viene condotta in diversi
contesti in base ad argomenti che fanno appello a valori
universali, ma applicati in base a diverse accezioni.
D’Agostini cita l’esempio di Martha Nussbaum, la quale
sostiene che il divieto dell’uso del burqa nei luoghi pubblici, è un
provvedimento ingiusto, perché discriminatorio, imposto da
alcuni stati europei con il pretesto della sicurezza e con
l’argomento che il burqa sarebbe espressione dell’oppressione
maschile. Anche qui vediamo che il disaccordo riguarda giudizi di
valore, fermo restando che la non discriminazione, la sicurezza e
l’emancipazione dal potere maschile sono comunque confermati
come valori assolutamente condivisi, sia da chi condanna sia da
chi approva il provvedimento riguardante il burqa. Il disaccordo
non riguarda né il provvedimento relativo al burqa come dato di
fatto, né i valori fondamentali in rapporto ai quali alcuni
condannano, altri approvano quella misura restrittiva. Può essere
di aiuto al superamento del disaccordo la consapevolezza che
ciascuno deve avere del carattere controvertibile del proprio
giudizio di valutazione, in rapporto alla necessità di tener conto
anche del giudizio degli altri. Il disaccordo sui giudizi di valore
non è tale da implicare che uno dei due è in errore; la differenza di
valutazione non è un errore in sé, lo è se il giudizio riguarda
l’esistenza o non esistenza di determinati fatti o circostanze
oggettive. Ad alcuni uomini piacciono le bionde, ad altri le more:
c’è forse un difetto di comprensione dell’idea di bellezza negli uni
o negli altri? No, semplicemente un’innocua differenza di gusto,
certamente non una contraddizione nel senso della logica. Per
questo è discutibile la tesi di D’Agostini riguardo ai giudizi di
gusto, dove il disaccordo, a suo avviso, comporterebbe vere e
proprie contraddizioni; e si tratterebbe quindi di adattarsi all’idea
di dover ammettere che una proposizione sia vera e anche la sua
negazione. La logica sarebbe allora in conflitto con la tolleranza
della differenza? Proviamo invece a distinguere tra giudizi
d’esistenza e giudizi di valutazione: i primi possono essere veri o
falsi, i secondi né veri né falsi, dacché essi fanno valere
un’interpretazione, un punto di vista, che come tale non può
proporsi come suscettibile di essere vero o falso. Come ho già
fatto osservare, il disaccordo tra giudizi di valutazione è
fisiologico e insuperabile (naturale e necessario, si potrebbe dire):
qui non esiste contraddizione in senso stretto, ma solo contrasto e
idiosincrasia, il che non impedisce la pacifica convivenza, almeno
nella maggior parte dei casi.
I giudizi che chiamo d’esistenza riguardano i fatti, la realtà
indipendente dal soggetto; l’antirealismo interpreta l’indipendenza
nei termini di inaccessibilità. Le ragioni per cui questo accade
sono poche, secondo D’Agostini: la molteplicità delle immagini o
punti di vista dello stesso oggetto può creare l’illusione o credenza
ingiustificata che esista un oggetto in sé, differente dalle
prospettive in cui è conosciuto e quindi assolutamente
inconoscibile; la difficoltà di stabilire se sia vero ciò che ci sembra
vero; la solitudine dell’io, per cui ogni esperienza è solo sua, non
condivisibile, assunto che è all’origine del fenomenismo, la teoria
secondo la quale accessibile è solo l’apparenza, non la realtà in se
stessa. La distinzione tra apparenza e realtà all’origine della
posizione antirealista, è tuttavia il risultato di un’inferenza, non è
empiricamente fondata, come invece si è indotti a credere. Se
veniamo a sapere che a un Tizio, conosciuto come persona onesta,
è attribuito un crimine x, aggiungiamo un “in realtà Tizio ha
commesso x”, come se la seconda forma di conoscenza del
medesimo soggetto ci offrisse quel che lui è veramente. Ma può
essere che la prima e la seconda e tutte le altre apparizioni di quel
soggetto siano rappresentazioni successive, tutte attendibili e
incoerenti tra loro, della stessa persona. Non abbiamo alcun
bisogno, a rigore, di stabilire una realtà dietro l’apparenza, tranne
la necessità di ordine pratico di fissare l’identità stabile del
soggetto con cui abbiamo a che fare. Per quanto riguarda la
solitudine del soggetto e l’incomunicabilità della sua esperienza,
si può osservare che se la solitudine del soggetto fosse una
condizione assoluta, non avrebbe quel nome e quel significato.
Possiamo definirci soli nella misura in cui siamo consapevoli delle
mosse che possiamo effettuare per uscire dalla nostra condizione
di solitudine, cui non siamo condannati. Deve esserci quindi una
condizione di non solitudine rispetto alla quale “solitudine”
acquista un significato preciso.
I sostenitori del primato dell’interpretazione, per cui i fatti
non esistono, combattono l’ontologismo con l’accusa di
metafisica. Sì, perché la cultura della non verità, per usare
l’espressione di D’Agostini, aborrisce la metafisica, che vede
ovunque si parli di verità, realtà, fatti, oggettività, essere, ecc. Il
relativismo antimetafisico pretende di dissolvere ogni riferimento
preciso, ogni senso univoco e ogni oggettività possibile. Se esiste
una realtà indipendente, allora sarà intrinsecamente inattingibile:
così taglia corto l’antimetafisico e antirealista (come Putnam,
Rorty, Vattimo) per il quale ci sono tante verità, vale a dire punti
di vista quanti sono i soggetti sul pianeta. Ma, tanto per intenderci,
non c’è peggior metafisico di chi perora la causa
dell’antimetafisica. In fondo l’antirealista sostiene una visione del
mondo, a parte il fatto che alla sua pretesa si può rivolgere la
vecchia e consueta obiezione: se la proposizione “ci sono molte
verità” è una di quelle verità, allora tra queste ci sarà anche la sua
negazione. Dunque sostenere che ci sono molte verità implica
necessariamente che esista una sola verità, quella che viene
enunciata riguardo l’esistenza di molte verità. Anche mettendo il
veto all’autoriferimento, l’esistenza di molte verità dipende da una
sola proposizione la cui verità è incontrovertibile. Infatti la stessa
proposizione con la quale poniamo il veto all’autoriferimento
stabilisce qualcosa di incontrovertibile, che viene fatto valere
universalmente e invariabilmente.
D’Agostini riporta la tesi di Putnam, per cui l’ontologia è
“un cavallo morto”. In polemica con Quine, Putnam sostiene che
cercare un fondamento metafisico dell’etica o della matematica è
sbagliato, perché non c’è una sola realtà; inoltre l’ontologia
presuppone che ci sia un solo significato del termine “esiste”,
mentre la storia della scienza dimostra che non è così; infine chi si
comporta come se vi fosse una realtà indipendente, non si rende
conto che sta cavalcando un cavallo morto da un pezzo, il
“cadavere maleodorante” dell’ontologia (p. 247). Con D’Agostini
possiamo obiettare che la tesi di Putnam, per cui non c’è un solo
modo in cui stanno le cose e che non esiste una sola realtà,
indipendente dal soggetto, è a sua volta una tesi ontologicometafisica. Ci troviamo di fronte a un esempio di circolarità
procedurale: in base a un’ontologia preliminare, assunta
acriticamente, Putnam esprime il suo giudizio di condanna
dell’ontologia tradizionale. Con Kant si deve ricordare che la
metafisica ha un carattere inevitabilmente problematico; inoltre
una dichiarata rinuncia alla metafisica comporta l’adesione a un
dogmatismo metafisico che taglia corto, senza discutere, con
qualsiasi questione riguardante un qualche tipo di esistenza delle
entità della vecchia metafisica. «È solo una certa concezione
dell’essere, conclude D’Agostini, (del modo d’essere dell’uomo, e
del mondo), assunta inconsapevolmente e dogmaticamente, che ci
permette di dire che la correlazione tra discorsi e realtà è
impropria o addirittura, come sostiene Putnam, “pericolosa”» (p.
251).
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Nella quarta parte del volume D’Agostini esamina l’uso del
predicato Vero in alcuni contesti particolari, mostrando come il
concetto di Vero diventi esplicito quando la verità non è
riconosciuta e persiste una situazione d’incertezza e di
contraddizione tra i diversi discorsi sulla verità. D’altra parte
l’argomentazione scettica mette alla prova la nozione e l’esistenza
della verità. La storia della filosofia mostra come l’esercizio della
ragione filosofica sia essenzialmente una versione dello
scetticismo. L’obiezione ai concetti fondamentali di vero, giusto,
buono viene posta allo scopo di mostrare la loro inconfutabilità.
Se tutto è vero, allora niente è vero e quindi qualcosa non è vero.
La riflessività dei concetti fondamentali permette di confutare
definitivamente il relativismo, che pretende non esservi alcuna
verità o giustizia.
Il rapporto della verità con la politica e la religione è
certamente problematico e non esente da equivoci. Chi abbraccia
una fede aderendo acriticamente al dogma costituito si espone al
conflitto che nasce dalla duplice esigenza di mantenersi fedeli al
credo prescelto e al tempo stesso di metterlo in discussione e di
riformarlo, al limite di abbandonarlo, qualora l’esperienza e nuove
conoscenze obbligassero una mente razionale alla revisione critica
dei contenuti precedentemente condivisi. La verità è un principio
guida, un’aspirazione mai completamente soddisfatta, non una
dottrina chiusa e immobile. Se il sapere riguarda la realtà e se non
c’è realtà al di fuori dell’esperienza, allora anche la verità del
sapere si costruisce nel tempo. La verità che si costruisce nel
tempo è un mettere alla prova, vivere e rivivere ciò in cui si crede,
rinnovandone ogni volta il senso. Un sistema di credenze rimane
sterile se è concepito astrattamente, nella sua univocità semantica,
come un insegnamento immobile, quasi che il discente avesse
quale suo unico compito quello di impadronirsene con l’intelletto.
Al contrario, l’essere vero è un diventar vero, un inverarsi di
insegnamenti che sono vissuti ogni volta come nuovi. Il rapporto
con la verità degenera e decade in una falsità imbellettata se si
limita alla venerazione di una teoria già archiviata come
inconfutabile, mentre la vita evolve e va oltre assumendo nuove
forme. Il rapporto autentico con la verità è ogni volta
un’esperienza che coinvolge il cuore e la sensibilità: il significato
della dottrina rimane lo stesso, ma il suo senso è ogni volta
diverso. Di volta in volta, l’applicazione dello stesso principio –
ad esempio: “essere occasione di riscatto o liberazione per il
prossimo” − può dar luogo a comportamenti opposti; in un caso la
fedeltà al principio può comportare l’elargizione di un bene
materiale (quando quell’aiuto possa rappresentare per il
beneficiario la sola possibilità di acquisire maggiore libertà e
autonomia), in un altro caso la stessa fedeltà al principio ricordato
potrebbe consigliare il rifiuto di qualsiasi adempimento in tal
senso (se l’aiuto concesso nel caso specifico non favorisse
l’emancipazione autentica, ma accentuasse la dipendenza e la
passività del potenziale beneficiario).
La ricerca autentica della verità ha indotto Simone Weil a
dichiararsi favorevole alla soppressione dei partiti politici.
D’Agostini riporta l’argomento esposto da Simone Weil nel
Manifesto per la soppressione dei partiti politici, per cui i seguaci
di un partito si trovano presto nell’impossibilità di rimanere fedeli
al programma politico e al tempo stesso rispettare la verità che
emerge da nuove evidenze. Alla domanda su quale sia il modello
dei partiti politici europei, che difendono una posizione utile alla
conquista e al mantenimento del potere, Simone Weil risponde: la
Chiesa Cattolica, che nella sua lotta contro l’eresia avrebbe
introdotto “il meccanismo di oppressione spirituale e mentale
proprio dei partiti” (p. 272). In tal modo l’adesione a un partito
obbliga a venir meno al dovere di prendersi cura della propria
libertà di pensiero e di seguire una ricerca personale. L’obbligo di
credere nel dogma, se assecondato, assicura una condizione di
schiavitù spirituale e una negazione della verità nel senso
autentico del termine, quello che è in relazione con la costruzione
della propria persona. Ecco la sfida: essere se stessi attraverso gli
altri, essere uno e molti, portarsi fuori e rimanere all’interno di se
stessi, rinnovarsi ad ogni nuova esperienza e tuttavia non
rinnegarsi, sapendo che non si è una totalità immobile e
indipendente, ma neppure una marionetta mossa dai fili del
burattinaio. Il bisogno di appartenenza e stabilità è soddisfatto
dalle chiese e dai partiti, ma al tempo stesso rimane irriducibile
un’esigenza di autonomia critica rispetto alla verità, senza la quale
le persone non esisterebbero, mentre chiese e partiti
manifesterebbero tutta la loro natura totalitaria. L’obiettivo della
critica filosofica di Simone Weil quindi, secondo D’Agostini, è
stato quello di mantenere vivo il senso della verità, in rapporto alla
politica e alla religione. I partiti e le chiese non hanno interesse a
escludere lo spirito critico e a punire il dissenso, giacché la storia
dimostra che il dogmatismo autoritario apre fatalmente la strada
alla dissidenza e alla secessione. La verità è sempre emergente, è
sempre in cammino, come la vita stessa. L’apertura alla verità non
va confusa con lo scetticismo relativizzante che, come è stato
osservato, è un atteggiamento mentale insieme dogmatico e
autocontraddittorio. Dogmatismo e autocontraddizione
troviamo anche nei programmi di partiti e chiese.
che
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Ricapitolando le conclusioni della sua ricerca, D’Agostini
enumera le caratteristiche della nozione di verità. In primo luogo
la sua dispensabilità: invece di dire “è vero che Dio esiste” posso
dire “Dio esiste”, senza alcun cambiamento di significato; ma
quando la verità di un enunciato è messa in discussione, allora la
prima formulazione diventa inevitabile, e può precedere
l’esposizione di una prova di verità (nel nostro esempio, le prove
dell’esistenza di Dio). Altra caratteristica del concetto di vero è la
sua ubiquità: qualsiasi asserto può essere pronunciato senza alcun
riferimento alla verità di ciò che viene asserito. Ogni nostro
asserto postula la verità di quanto viene detto, di qualsiasi cosa si
tratti. Persino un enunciato la cui falsità è universalmente
riconosciuta si presenta postulando il proprio esser vero, prima di
essere smascherato come falsificazione intenzionale oppure come
errore involontario. Come rileva D’Agostini, a questa
caratteristica si può ricondurre la refrattarietà alla confutazione
propria dei superconcetti (essere, bene, vero) il loro essere
anelenctici: «Impossibile dire che “nulla esiste”, perché per dirlo
occorre esistere; impossibile dire niente è bene, perché allora deve
comunque essere bene (veritiero, giusto) dirlo, impossibile dire
che la verità non esiste perché allora deve essere vero che la verità
non esiste» (p. 333). E dato che l’innegabilità non è un mero gioco
sintattico privo di contenuto, la caratteristica della trasversalità di
Vero sottolinea il riferimento ai fatti, sulla cui verità può essere
trovato un accordo, in base a varie testimonianze. La nozione di
vero mostra così la sua inaggirabilità qualunque sia l’argomento
oggetto di discussione: è sempre sui fatti che si decide la verità,
tutti cercheranno di capire quale sia la proposizione che aderisce
alla realtà dei fatti, quella che corrisponde a come stanno le cose.
Ora, sul fatto che ci sia un modo in cui stanno le cose, molto si è
discusso e opposte sono le conclusioni. Potrebbe non esserci alcun
modo indipendente dall’interpretazione del soggetto. Oppure
potrebbe esserci una realtà indipendente, sia essa data per
conoscibile o inconoscibile. Il concetto di vero è strettamente
correlato all’esistenza di una realtà indipendente, giacché se non
esiste una realtà in sé, il valore di verità della proposizione che
l’afferma e di quella che la nega diviene per ciò stesso indecidibile
e non varranno più i principi di contraddizione e terzo escluso.
L’uso del linguaggio ci presenta proposizioni che non sono né
vere né false, oppure vere e false al tempo stesso. D’Agostini
ricorda che, secondo alcuni, non ci sono proposizioni né vere né
false, tranne quelle il cui valore di verità non può essere deciso a
causa di nostri limiti conoscitivi (ad esempio un certo evento che
accade su Marte, ma di cui non sappiamo nulla, neppure se
accade, può esprimersi in una proposizione che, di conseguenza,
non sarà né vera né falsa). Inoltre, accettando la proposta del
dialeteismo, possiamo ammettere che in taluni casi certe
proposizioni siano vere e false al tempo stesso: l’argomento vale
per le situazioni di confine, come quando diciamo che,
attraversando il confine dall’Italia alla Francia e per il tempo in
cui non siamo più in Italia e non siamo ancora in Francia, è vero e
falso che siamo in Francia. Se la situazione descritta è
inverificabile, allora la proposizione che la descrive è vera e falsa.
Se fosse vera la tesi che esiste una realtà indipendente e
inaccessibile, allora la nozione di vero sarebbe priva di senso. Ma
si tratta appunto di dimostrare che la realtà indipendente è
inaccessibile. Se ammettiamo che ogni nostra percezione della
realtà è determinata dalla situazione corporea, psicologica e
ambientale in cui ci troviamo di volta in volta e che quindi ogni
realtà conosciuta è qualcosa di particolare, legato al qui e ora e
alle proprietà della nostra persona, allora la realtà, nella misura in
cui è indipendente, è anche inconoscibile. Il limite della
soggettività percettiva riguarda il singolo individuo nei suoi
diversi stati (dormiente, sveglio, malato, sano, giovane, vecchio,
maschio, femmina, ecc.), ma coinvolge anche le differenze tra gli
individui della stessa specie e persino quelle tra le abilità
percettive di specie diverse. Come è noto gli scettici antichi hanno
elaborato tropi ingegnosi per illustrare il limite insuperabile
rappresentato dalle diverse modalità conoscitive strettamente
dipendenti dalla costituzione soggettiva. Ma gli argomenti dello
scettico sono metodologicamente utili per approdare a un realismo
critico, non per retrocedere a un nichilismo rinunciatario.
D’Agostini sottolinea la coerenza del nichilismo con la cultura
della non verità. Senza ripetere le autocontraddizioni delle tesi
nichiliste, si può osservare che l’affermazione dell’esistenza di
una realtà indipendente non è incompatibile con una vasta
pluralità di posizioni percettive e teoriche su di essa, come
ciascuno di noi può sperimentare facendo esperienze diverse, ogni
giorno o in momenti differenti del tempo, della medesima realtà. Il
che dimostra che le modalità soggettive non sono un ostacolo
assoluto alla conoscenza della realtà, al contrario offrono buoni
motivi per comprendere che ogni nostra conoscenza può essere
oggettiva e incompleta, approssimata eppure in crescita costante.
La verità, come tutti i trascendentali, entra in gioco quando,
scetticamente, qualcuno insinua il dubbio, si dichiara in
disaccordo, mette in discussione e chiede di capire meglio il
significato dei termini impiegati dall’interlocutore. Sollevo la
questione della giustizia quando osservo qualche violazione di ciò
che io ritengo essere la giustizia. Chiedo spiegazioni sulla nozione
di bene quando metto in discussione un giudizio ascoltato su
qualcosa che sarebbe bene, ma che per me è l’esatto opposto.
«Tutti i superconcetti filosofici, conclude D’Agostini, sono
strutture critico-scettiche, costituiscono in un certo senso nomi di
problemi, e servono precisamente a orientare i ragionamenti in
casi di perplessità e divergenze» (p. 338). I superconcetti sono i
principi guida del pensiero critico, le armi alle quali la coscienza
critica ricorre per difendersi dalla violenza, dalla sopraffazione,
dall’ingiustizia del mondo. Dunque è un grave errore, secondo
l’autrice, assegnare i superconcetti (vero, essere, buono, giusto,
bello, ecc.) alle istituzioni della scienza, della religione, della
politica, dell’arte; ma, aggiungiamo noi, neppure a individui
concreti o a qualsivoglia entità del mondo, perché i trascendentali
non designano qualità di cose esterne alla mente, essi sono
elementi dell’attività del pensiero. In epoca moderna il nichilismo
appare la conseguenza del crollo di istituzioni politiche e religiose
che erano identificate con i superconcetti. Nella fase
postilluministica, la coscienza individuale ha subito quel crollo
delle istituzioni come smarrimento dei superconcetti. Liberata dal
giogo di istituzioni che si annunciavano come incarnazioni dei
superconcetti, la coscienza individuale ha vacillato a lungo
disorientata perché priva di stampelle rappresentate dalle
istituzioni. La vastità inaudita del sapere congiunta all’assenza di
criteri d’ordine e di orientamento, avrebbe predisposto la
coscienza comune al nichilismo scettico (p. 339). Lo scetticismo
non è riuscito a demolire la nozione di verità, al contrario l’arma
che le puntava alla tempia ha prodotto effetti opposti: la verità si è
rivelata indistruttibile in vari modi, come mostra l’impossibilità di
asserire senza contraddizione la verità di “io non esisto”, giacché
evidentemente se fosse vero che non esisto, non potrei asserire
alcunché. E questo dipende dal fatto che i superconcetti
appartengono al lavoro del pensiero, non alla realtà e l’attività
dello scettico non è altro che puro pensiero pensante. L’attività di
pensiero dell’io conferma l’esistenza di un essere pensante che
dubita dei trascendentali per confermarli. E tuttavia, liberata dal
giogo di poteri falsificatori della verità e del bene, rivelatisi vuoti
simulacri, la coscienza comune ha dovuto affrontare il calvario
scettico ritrovando in se stessa l’origine e il vero significato dei
superconcetti. Il confronto tra soggetti in disaccordo ma tutti
convergenti nell’interesse comune di una ricerca del bene e della
verità, è un esercizio di filosofia e di cittadinanza democratica.
1 marzo 2012
Claudio Tugnoli