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sileno direttori michele r. cataudella (resp.) casimiro nicolosi giovanni salanitro comitato scientifico géza alföldi† filippo di benedetto enrico flores hans-joachim gehrke gian franco gianotti didier marcotte redazione serena bianchetti, adalberto magnelli, carmela mandolfo, gabriele marasco†, giuseppe mariotta, ida mastrorosa, vincenzo ortoleva, annamaria pavano, maria rosaria petringa, anna quartarone salanitro Direzione Prof. Michele R. Cataudella Università di Firenze - Dipartimento di Storia via San Gallo 10 - 50129 Firenze Tel. 055 2757902/3/4/5 Redazione Dott.ssa Anna Quartarone Salanitro via Andrea Costa 8 - 95129 Catania Tel. 095 532591 sileno rivista semestrale di studi classici e cristiani fondata da quintino cataudella anno xxxviii 1-2/2012 Agorà & Co. Laborem saepe Fortuna facilis sequitur sileno è una pubblicazione semestrale condizioni di abbonamento: € 75,00 costo di un numero (due fascicoli): € 80,00 Per gli abbonamenti e gli acquisti rivolgersi a: licosa s.p.a. via duca di calabria 1/1 i-50125 firenze telefono +39(0)556483201 - fax +39(0)55641257 e-mail: laura.mori@licosa.com Volume pubblicato con il concorso del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dell’Università degli Studi di Catania «Sileno» is an International Peer-Reviewed Journal ©2012 AGORÀ & CO. Lugano E-mail: infoagoraco@gmail.com proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale e parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico issn 1128-2118 sommario articoli ilenia achilli Diod. Sic. 20,43,7. Percorsi polibiani nella Biblioteca storica 1 carmen arcidiacono Il contributo dei versus ad gratiam domini alla ricostruzione dell’ipotesto virgiliano 21 sergio audano I signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 R2): testo ed esegesi dei vv. 89-91 55 silvia canton Cultura classica e ascetismo cristiano in san Girolamo: incontro o scontro? 89 alessandra coppola Diodoro 16.91-93: la morte di Filippo II 109 claudio faustinelli Sul valore semantico di depilati in Non. 36, 26 = Lucil. 845 M. 125 carmela mandolfo Sulla Praefatio programmatica delle formulae spiritalis intellegentiae e sulla terminologia esegetica di Eucherio di Lione 151 francesco mari La destra del Re 181 note ilenia achilli Sullo scrittoio dello storico: in margine a D. Pausch (ed.), stimmen der Geschichte. funktionen von reden in der antiken Historiographie 205 carmen arcidiacono Il tema della ides nei versus ad gratiam domini 213 vii sommario sergio audano Le molte strade del centone virgiliano cristiano: in margine a tre recenti edizioni 225 manuela callipo Nota a Τέχνη γραμματική, GG 1/1 32, 1: il nome dell’accusativo 257 carmelo crimi Nazianzenica XVIII. Le donne di Massimo il Cinico 265 Paolo fedeli L’inno ad Ercole nella chiusa di Prop. 4,9 273 silvia fenoglio Omero, l’Oceano fonte del sapere: i proemi ai commentari all’iliade e all’odissea di Eustazio di Tessalonica 283 lellida todini Mostri, ninfe ed elefanti a Samo: Euagon e le Neidi 297 Pietro Zaccaria Plu. mor. 734 b e le efemeridi di Alessandro 313 cronache sergio audano Presentazione del centone versus ad gratiam domini. (Chiavari, 13 febbraio 2012) 319 ricordi umberto Bultrighini Racconto di un Maestro: Domenico Musti (1934-2010) 325 didier marcotte André Laronde (1940-2011) 351 Giovanni salanitro Mario Geymonat (Torino 1941 - Venezia 2012) 355 viii sommario recensioni menandro, Lo scudo, cura di P. ingrosso (P. cipolla) 359 m. Paladini, Lucrezio e l’epicureismo tra Riforma e Controriforma, (c. mandolfo) 366 lucio anneo seneca, La clemenza, Apocolocyntosis, Epigrammi, Frammenti, a cura di l. de Biasi et alii (a. a. raschieri) 372 aa.vv., Lo spazio letterario di Roma antica. I testi: la poesia, vol. vi, direttore P. Parroni (G. salanitro) 377 f. feraco, Ammiano geografo. Nuovi Studi (v. sineri) 379 m. callipo, Dionisio Trace e la tradizione grammaticale (l. spina) 383 Ricordo di Delino Ambaglio, a cura di m. t. Zambianchi (r. trevisan) 386 notiziario bibliografico 391 iX i SIGNA del GiudiZio nel centone DE ECCLESIA (AL 16 r2): testo ed eseGesi dei vv. 89-91 sergio audano il De ecclesia rappresenta, come noto, l’unico centone virgiliano di argomento cristiano tramandato dal Codex Salmasianus, che ne costituisce il solo testimone manoscritto1: dopo le canoniche edizioni di K. schenkl, che per primo pubblicò insieme i quattro centoni virgiliani cristiani nella sua raccolta dei Poetae Christiani Minores2, e di a. riese3, da poco disponiamo di un nuovo lavoro, l’edizione critica commentata a cura di adriana da- 1 Per un’analisi puntuale del Salmasianus sotto l’aspetto codicologico cfr. m. spallone, Il Par. Lat. 10318 (Salmasiano): dal manoscritto alto-medievale ad una raccolta enciclopedica tardo-antica), «imu» 25, 1982, 1-71, con ricca bibliograia, ora completato sul piano dell’analisi graica da P. Paolucci, Quale graia a monte del codice Salmasiano?, «al. riv.» 1, 2010, 293-302; sulle vicende storico-testuali del manoscritto si rimanda al documentato l. Zurli, Apographa Salmasiana, 2. Il secolo d’oro di ‘anthologia Salmasiana’ (continuazione e ine), Hildesheim 2010, mentre per quanto riguarda la storia antica del corpus poetico presente nel codice, con innovative ipotesi sulla genesi dell’antologia salmasiana, si rimanda a l. mondin - l. cristante, Per la storia antica dell’Antologia Salmasiana, «al. riv.» 1, 2010, 303-345. 2 K. schenkl, Poetae Christiani Minores (csel 16, 1), vindobonae 1888; ai ini della presente discussione è opportuno ricordare anche alcune precedenti edizioni, in particolare W. H. d. suringar, Anonymi cento Vergilianus de ecclesia, trajecti ad rhenum 1867, ed e. Baehrens, Poetae Latini minores, iv, lipsiae 1882, poi di fatto superate da schenkl e da riese. 3 a. riese - f. Bücheler, Anthologia Latina, i, 1-2, lipsiae 1894-19062. 55 sergio audano mico4. la studiosa ha riproposto il testo con un rinnovato e più completo apparato «redatto sulla scorta non soltanto delle altre edizioni del centone, ma principalmente del codice stesso»5, corredandolo con la prima traduzione in italiano e con un ricco commento nel quale largo spazio è dedicato all’esegesi analitica di ogni verso, soprattutto nell’ottica della tensione dialettica tra l’ipotesto virgiliano di partenza e il contesto d’arrivo, ormai dichiaratamente cristiano: si avverte, in particolare, la giusta esigenza di illustrare e motivare la risemantizzazione di immagini, allusioni o anche singoli termini, avviando un fecondo percorso critico che ofre indubbi stimoli per ulteriori proposte, a conferma del grande interesse che possono suscitare, se adeguatamente curati, testi a lungo bistrattati come i centoni6. il De ecclesia si articola in 116 versi, disposti in due parti tra loro inframmezzate da un breve, quanto problematico inserto in prosa che potrebbe forse contenere il nome dell’autore, mavorzio, acclamato con l’epiteto di Maro iunior dopo la sua performance poetica7. la seconda sezione, che già 4 a. damico, De ecclesia. Cento Vergilianus, acireale – roma 2010: questo lavoro inaugura la serie delle edizioni dei quattro centoni virgiliani cristiani nell’àmbito di un progetto di ricerca coordinato da Giovanni salanitro, che proprio di recente ha trovato conclusione con c. arcidiacono, Il centone virgiliano cristiano «Versus ad gratiam Domini». Introduzione, edizione critica, traduzione e commento, alessandria 2011; e. Giampiccolo, De Verbi incarnatione. Cento Vergilianus, acireale - roma 2011; e v. sineri, Il centone di Proba, acireale - roma 2011. È degna di segnalazione, per diversi spunti interessanti nel commento, anche l’inedita dissertazione di laurea, discussa a Padova sotto la guida di Giorgio Bernardi-Perini, di l. della torre, Commento ai centoni «Iudicium Paridis» e «De ecclesia», diss. Padova 1993, che viene qui utilizzata per la prima volta. 5 damico, cit., 29. merito dell’editrice è indubbiamente quello di aver privilegiato la possibilità di salvaguardare la paradosi del manoscritto (secondo una linea di metodo già indicata da G. salanitro, Silloge dei vergiliocentones minori, acireale – roma 2009, 17), evitando tanto la scorciatoia della facile congettura quanto il ricorso a soluzioni «normalizzatrici» sul fondamento della vulgata virgiliana. 6 questi elementi sono stati comunemente rilevati dalla maggioranza delle recensioni inora apparse: tra queste mi limito a segnalare (oltre al sottoscritto, in «sileno» 37, 2011, 266-274) s. condorelli, rec. ad a. damico, De ecclesia. Cento Vergilianus, «Bsl» 40/2, 2010, 812-814, molto attenta alle problematiche di ordine metrico, e f. formica, Il centone virgiliano cristiano de ecclesia, «vichiana» 13/2, 2011, 284-303, per la discussione accurata e ulteriormente propositiva. 7 in realtà la restituzione del nome è meramente congetturale a fronte del tràdito abortio: storia del problema e delle varie proposte di soluzione in della torre, cit., 184-185, e in damico, cit., 27 (che, sulla scorta di Baehrens e schenkl, stampa abortio con crux). novità in merito all’interpretazione di 16a r. e all’emendamento della lezione tràdita abortio sono 56 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) riese numerava separatamente come 16a, composta dai sei versi conclusivi (vv. 111-116), è da molti studiosi ritenuta estranea al centone cristiano soprattutto per ragioni metrico-prosodiche8, anche se non mancano quanti, più prudentemente, propendono, al contrario, per l’unità complessiva del centone9. la prima parte (vv. 1-110) si struttura, invece, per larga misura, nella forma di un sermo pronunciato da un sacerdos nel corso di una funzione liturgica10: dopo il preambolo iniziale di un narratore esterno, da identiicare nell’autore (vv. 1-12), segue l’omelia vera e propria, pronunciata in prima persona dal sacerdos (vv. 13-98), che enumera le tappe principali della vita e della missione redentrice di cristo (dal concepimen- previste nell’edizione critica del centone Alcesta a cura di P. Paolucci, attualmente in c.d.s. per i tipi di olms verlag (ringrazio l’autrice per questa e altre segnalazioni bibliograiche). 8 discussione in damico, cit., 27-28 e 157-158, con bibliograia; in tempi più recenti propendono per la non attribuzione del De ecclesia a mavorzio, per ragioni di diversa tecnica compositiva rispetto al Iudicium Paridis e all’Alcesta, a. fassina, Ipotesi sul centone cristiano de ecclesia: problemi testuali, paternità e datazione, «Paideia» 62, 2007, 370-376, che considera 16a la chiusa di quest’ultimo centone, e, limitatamente al confronto col solo Iudicium Paridis, della torre, cit., 191-195 e 205 (molto attenta, però, a valorizzare la differenza tematica tra i due centoni e l’oggettiva diicoltà del poeta cristiano ad adattare l’ipotesto virgiliano all’esigenza di veicolare concetti culturalmente diversi, come quelli evangelici), e m. Bažil, Centones Christiani. Métamorphoses d’une forme intertextuelle dans la poésie latine chrétienne de l’Antiquité tardive, Paris 2009, 224-230 (che compie una sistematica comparazione globale di entrambi i testi sotto l’aspetto stilistico, discutendo anche la bibliograia precedente). Più articolata la posizione di l. mondin, in mondin-cristante, cit., 318-319, il quale ritiene che «all’interno della sequenza dei centoni il gruppo AL 10-16a sembra circoscrivere il libellus mitologico (in cui il carme AL 16 De ecclesia è stato verosimilmente inserito per errore) di un non meglio identiicato mavorzio» (318). da segnalare la peculiare posizione di s. mcGill, Vergil recomposed, oxford 2005, 10-11, il quale, pur senza prendere una decisa posizione sul tema, richiama un parallelo (non menzionato né da fassina né da mondin) tra i vv. 4-6 di AL 16a con la Medea di osidio Geta: «lines 4-6 of this passage are remarkably similar to a passage in Hosidius Geta’s cento Medea, so much as that they suggest a deliberate act of imitation of Geta». 9 una motivata difesa dell’unità del centone in G. salanitro, Osidio Geta. Medea, roma 1981, 56 n. 255, ribadita in id., Osidio Geta e la poesia centonaria latina, «anWr» 2.34.3, 1997, 2354, e ripresa da damico, cit., 28 e 157-158. 10 la dimestichezza dell’autore con la dimensione religiosa e liturgica ha indotto, forse plausibilmente, qualche studioso a ritenere che fosse un chierico (cfr. m. l. ricci, Motivi ed espressioni bibliche nel centone cristiano «De Ecclesia», «sifc» 35, 1963, 184); altrettanto probabile è la sua attenzione, ma in posizione di difesa dell’ortodossia, verso le discussioni teologiche relative al concepimento virginale di maria, su cui P. Paolucci, Il soio di Zeiro e la Vergine. Emendamento al centone de ecclesia, «exclass» 11, 2007, 160. 57 sergio audano to al Giudizio inale), col ine di esaltarne il valore salviico per l’umanità e di esortare i fedeli presenti a difendere la fede a costo della vita. l’ultima sequenza (vv. 99-110), nuovamente narrata dall’esterno, descrive i successivi momenti della liturgia (benedizione, distribuzione dell’eucarestia) e il congedo dei partecipanti all’assemblea. l’ultima sezione del sermo, prima della parenesi conclusiva (vv. 96-98), ha come oggetto il Giudizio universale dell’umanità (vv. 89-95)11: di questa parte ci sofermeremo ad analizzare la prima sequenza (vv. 89-91), dedicata alla descrizione dei signa che preannunziano e accompagnano la venuta di cristo alla ine dei tempi12; si riporta qui di seguito il testo secondo l’edizione damico, limitando però l’apparato al v. 89, che sarà oggetto di una speciica proposta testuale, e, con una lieve modiica, al successivo v. 90, che pone diverse problematiche di varia natura, mentre il v. 91 ricalca ad litteram, senza alcun tipo di variante, Aen. 7.74: huius in aduentum cernes a sedibus imis eruere summas arces et moenia uerti atque omnem ornatum lamma crepitante cremari. 89 cernes edd.: certis S || 90 eruere S: eruere et Suringar Baeh. et ruere dubitanter Sch. in app.conruere Brandes (apud Sch. in app.); crucem apposuit Rie. | summas arces edd.: -ae acies S al v. 89 tutti gli editori accettano la correzione di suringar del tràdito certis del Salmasianus in cernes, per l’esigenza sintattica di un verbo che regga i successivi accusativi e ininiti. Prudentemente damico, pur adottando il testo emendato, avanza anche l’ipotesi che «gli ininiti dei versi 90-91 potrebbero interpretarsi come ininiti narrativi, non introdotti da nessun verbo principale esplicito»13, ma, a mio avviso, è comunque opportuno ripristinare un verbo reggente poiché un’idea, come quella del Giudizio inale, proiettata in ogni caso al futuro nella prospettiva sia dei fedeli che Per il puntuale commento di questa sezione rimando a damico, cit., 137-144. su questi medesimi versi è recentemente apparso un contributo di l. Zurli, alla cui discussione è dedicato l’Addendum posto al termine di questo articolo. 13 damico, cit., 138 n. 147, portando come esempio il primo emistichio del v. 79, ire iterum in lacrimas!, che, come del resto la stessa studiosa ammette, è un ininito esclamativo, pertanto di diversa natura rispetto a un narrativo; sulla stessa posizione anche della torre 1993, 163. 11 12 58 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) ascoltano il sermo sia, a maggior ragione, dei lettori del centone, mal si concilierebbe, pur nella peculiarità della lingua poetica, con l’uso dell’ininito narrativo che «équivaut d’ordinaire à un imperfait ou à un present historique»14. Pur godendo di una sua plausibilità paleograica15, la proposta di suringar, che può anche vantare dei riscontri puntuali nell’ipotesto virgiliano16, presta, tuttavia, il ianco a qualche obiezione: tutte le sequenze in cui si articola il sermo sono interamente narrative, prive, quindi, dell’inserzione di un destinatario privilegiato, rimarcabile con l’utilizzo della seconda persona singolare, come sarebbe qui attesa, e/o plurale. fanno eccezione l’incipit, col ricorso agli imperativi accipite e aduertite al v. 13 e discite al v. 15, dove sono però pienamente giustiicati dalla funzione didascalica che il sacerdos assegna alla propria omelia e dal monito rivolto ai fedeli perché accolgano la verità della parola divina, e il inale uos…moriamur et…ruamus (vv. 96-97), in cui l’anacoluto, tra l’altro presente anche nel fons virgiliano17, rimarca con eicacia l’esortazione a difendere il nome di cristo ino all’estremo sacriicio. nei pochissimi casi sopra esposti ritroviamo, quindi, solo voci al plurale (quasi sempre seconde persone e del tutto generiche), mai al singolare; vista la loro precisa collocazione nella geometria strutturale del discorso, l’unità narrativa del sermo è, in conclusione, spezzata solo in apparenza. come si motiva, invece, cernes? forse si potrebbe ipotizzare l’inlusso del «tu» generico, d’origine diatribica18, peraltro assai ricorrente nell’omiletica contemporanea per riunire collettivamente l’insieme dei fedeli e «coinvolgere il pubblico chiamando in causa a. ernout – f. homas, Syntaxe Latine, Paris 19892, 270. damico, cit., 138, che pensa a una svista del copista che dapprima avrebbe malamente interpretato la –n- del verbo in una –t- e poi adattato la desinenza al successivo sedibus imis. 16 Cernes, nella stessa sede metrica del v. 89, è riscontrabile in Geo. 1.460 e in Aen. 4.47. 17 il verso si modella su Aen. 9.146-147: giustamente damico, cit., 145, rimarca la perizia del centonario nel trasferire al nuovo contesto religioso il pathos che virgilio attribuisce al discorso di turno, da cui mutua la formula allocutiva. Più in generale, per il riuso virgiliano nella poesia centonaria, è imprescindibile il citato saggio di mcGill, anche se non dedica spazio notevole all’analisi del De ecclesia. 18 la conoscenza della diatriba di matrice cinica e stoica, nei suoi risvolti linguistici e stilistici, è attestata già in Paolo, come documentato da a. Grilli, Una pagina diatribica dell’apostolo Paolo, in Storia, poesia e pensiero nel mondo antico. Studi in onore di Marcello Gigante, napoli 1994, 279-283. 14 15 59 sergio audano ogni singolo osservatore»19, ma in realtà questo stilema si ritrova di solito unito all’anafora del pronome personale, mentre nel caso in esame siamo di fronte a un hapax, per di più senza l’esplicitazione del «tu», elementi che rendono, di conseguenza, poco plausibile anche questa possibilità. e lo stesso si può afermare circa l’uso del cosiddetto «tu generico», con valore di terza persona impersonale, solitamente con sfumatura potenziale, anch’esso mai ricorrente nel centone. vorrei, quindi, avanzare una proposta alternativa che si fonda ancora più da vicino sul testo del Salmasianus e può trovare motivati riscontri sia nel modello virgiliano, sia nelle sacre scritture, che nel caso di un centone cristiano richiedono, anche metodologicamente, uguale attenzione formale e sostanziale20: il certis del manoscritto potrebbe derivare da certumst (con aferesi per certum est)21, che il copista ha banalizzato poiché tratto in errore, o mentre copiava o per un lapsus di memoria mentre trascriveva il verso, dalla desinenza in ablativo del successivo a sedibus imis. il nesso certum est è attestato tre volte in virgilio: in Buc. 10.52 (certum est in siluis inter spelaea ferarum) ed Aen. 9.153 (luce palam certum est igni circumdare muros), dove però non occupa la stessa posizione metrica del centone, e in Aen. 3.686 (nei teneant cursus:…certum est dare lintea retro), in cui la sede è proprio la medesima22. della torre, cit., 167. in questa prospettiva, attenta quindi a valorizzare l’apporto scritturale e la sua dialettica con l’ipotesto virgiliano sia sul piano testuale sia, in generale, in una più ampia dimensione storico-culturale, risultano particolarmente stimolanti, anche se non dedicati espressamente al nostro passo, f. formica, Il riuso di Virgilio nel centone virgiliano de ecclesia, «vetcrist» 39, 2002, 235-255, e f. formica, Il suicidio di Giuda nel centone de ecclesia, «auctores nostri» 4, 2006, 351-371. 21 l’aferesi è un fenomeno prosodico molto raro nel centone (si trova attestato solo al v. 20) e questo può aver contribuito all’errore, mnemonico e/o scritto, del copista. 22 Per i loci virgiliani si fa riferimento all’edizione di m. Geymonat (P. Vergilii Maronis Opera, edita anno 1973 iterum rec. m. Geymonat, romae 2008), integrata dalla teubneriana di G. B. conte per l’Eneide (Aeneis, edidit G. B. conte, lipsiae 2009). il testo virgiliano di Aen. 3.686, così tràdito dalla maggioranza dei testimoni, risulta trasmesso in maniera problematica solo nel ms. mediceo laurenziano lat. XXXiX, 1 (correntemente siglato con M): la piena restituzione del verso è dovuta all’intervento di Pomponio leto; non è, tuttavia, mancato chi ha avanzato improbabili congetture (come H. Köstlin, Zu Vergilius, Aen. III 682 f.; XII 513 f., «Philologus» 40/1, 1881, 180, che, al posto di certum est, propone certent). conte ad loc. legge il verso scrivendo all’inizio ni al posto di nei ed eliminando i puntini di sospensione di Geymonat, senza menzionare in apparato alcuna variante per certum est. 19 20 60 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) questa soluzione, oltre che dal fondamento del testo virgiliano, trova conforto anche da altri elementi che concorrono a rinsaldare l’unità interna del De ecclesia dal punto di vista strutturale e tematico. non pare, ad esempio, casuale che al v. 16 il sacerdos abbia iniziato la narrazione premettendo la formula haut incerta cano23: ovviamente il senso profondo di una simile espressione, che rappresenta la garanzia della verità di quanto si sta per raccontare e del suo reale accadimento, non si limita alla prima sequenza del sermo, che ha per tema l’incarnazione, ma si estende a tutto il centone, che canta l’intera vicenda umana e divina di cristo, di cui il Giudizio rappresenta l’epilogo inale col nuovo, e deinitivo, aduentus di chi ha realmente redento tutta l’umanità24. e poiché si tratta, a diferenza degli altri, di un evento ancora futuro, pur se già prestabilito, il suo compimento è, in ogni caso, assicurato dalle parole della scrittura e dello stesso cristo, il quale ha più volte ricordato, soprattutto a scopo di monito, l’ineluttabilità del Giudizio e, come attestano i sinottici, anche il manifestarsi premonitore dei suoi signa. come vedremo in seguito, è molto probabile che il centonario, per i versi in esame, abbia tenuto speciicamente presente la versione oferta dall’evangelista luca (21.25-27)25, integrata da passi limitroi dello stesso evangelista, che saranno indicati di volta in volta nel prosieguo della discussione. ma è opportuno procedere, in maniera preliminare, a un riesame, testuale ed esegetico, del retroterra virgiliano di questa sequenza del De ecclesia: troveremo, così, un’ulteriore conferma dell’abilità del nostro autore nell’u- Per la compiuta analisi di questa espressione, in relazione sia al rapporto col modello (Aen. 8.49) sia alla sua funzione nel contesto del centone, cfr. damico, cit., 65, e anche della torre, cit., 89-90, che discute una serie di proposte circa la corretta interpunzione del verso. 24 il latino aduentus traduce il greco παρουσία, su cui f. Bovon, L’Évangele selon saint Luc (19,28 – 24,53), Genève 2009, 154 n. 103; sulla risemantizzazione cristiana cfr. damico, cit., 141, con ricca documentazione lessicale. 25 sull’utilizzo dei vangeli nel De ecclesia, oltre ai già citati contributi di ricci e di formica, spunti interessanti sono oferti da J. l. vidal, ‘Christiana Vergiliana’, I: Vergilius Eucharistiae cantor, in Studia Vergiliana. Actes del VIè Simposi d’estudis clàssics (Barcelona 11-13 de febrer de 1981), Barcelona 1985, 207-216, che purtroppo nel suo contributo non si occupa dei versi in esame. il testo di luca (e di altri libri scritturali) sarà citato secondo l’edizione della Vulgata di colunga – turrado (Biblia Sacra Vulgatae Editionis, curr. a. colunga – l. turrado, cinisello Balsamo 1995). 23 61 sergio audano tilizzo dell’intertestualità quale strumento non solo per proiettare allusivamente la materia «pagana» nel nuovo contesto cristiano26, ma anche, e in maniera soisticata, per garantire la perfetta ortodossia degli elementi dottrinari dal pericolo di contaminazioni ereticali, in particolare circa l’interpretazione impropria dei signa da parte di alcuni gruppi che pronosticavano, nello spirito del difuso «millenarismo» dei primi secoli cristiani, la ine del mondo come imminente27. il v. 90 rappresenta, nell’àmbito della tecnica centonaria, il classico esempio di quei versi «composti con vari frustula virgiliani»28, derivati, quindi, dalla giustapposizione di frammenti diversiicati29: stando ai fontes menzionati da schenkl, della torre, Bažil e damico30, risulterebbe formato dalla sommatoria di Aen. 4.443 (eruere inter se certant: it stridor et altae), Aen. 2.615 (iam summas arcis Tritonia, respice, Pallas), Aen. 11.506 (tu pedes ad muros subsiste et moenia serua) e, inine, Aen. 7.309 (quae potui infelix, quae memet in omnia uerti). in quest’ultimo caso, come ha ben rilevato della torre31, il centonario ha operato, rispetto al modello, un mutamento morfologico di modo, tempo e diatesi, giocando sull’omonimia delle voci (dalla prima persona singolare dell’indicativo perfetto attivo in virgilio si passa qui a un ininito presente dal valore «medio-passivo»), ragion per cui sono stati proposti come paralleli, pur con diversa dislocazione metrica, sia Aen. 5.810 (nube caua rapui, cuperem cum uertere ab 26 sulla pratica intertestuale nella poesia centonaria ampie rilessioni, anche sotto l’aspetto teoretico, in Bažil, cit., in particolare 34-42 (con puntuale disanima delle posizioni precedenti) e 59-72 (con elaborazione di modelli strutturali che, in qualche punto, possono suscitare perplessità per la loro codiicazione eccessivamente normativa e a rischio di astrazione, se non adeguatamente corroborati da un’adeguata attenzione ai problemi di tradizione dei testi e, più in generale, di storia culturale). 27 Per un approfondito e documentato esame del problema rimando a c. mazzucco, Il millenarismo cristiano delle origini (II-III sec.), in r. uglione (cur.), «Millennium»: l’attesa della ine nei primi secoli cristiani. Atti delle III Giornate Patristiche Torinesi (Torino, 23-24 ottobre 2000), torino 2002, 145-182, con ricca bibliograia. 28 m. vallozza, Rilievi di tecnica compositiva nei centoni tramandati con la ‘Medea’ dal Codice Salmasiano, «sileno» 10, 1984, 335. 29 cfr. salanitro, Silloge cit., 62, che parla di «combinazione di vari segmenti, o brandelli, o frustuli di versi», rimandando anche a r. lamacchia, Tecnica centonaria e critica del testo (a proposito della medea di Osidio Geta), «atti acc. naz. lincei» 1958, 274. 30 schenkl, cit., 625; della torre, cit., 164; Bažil, cit., 336-337; damico, cit., 171. 31 della torre, cit., 165. 62 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) imo) sia soprattutto Aen. 2.625 (Ilium et ex imo uerti Neptunia Troia), su cui si tornerà a breve. non è stato, però, inora mai notato come anche per l’iniziale eruere, che ha suscitato non poche discussioni in sede critica, sia, in realtà, disponibile un ulteriore parallelo, anch’esso collocato nella medesima sede metrica: si tratta, infatti, di Aen. 2.628 (eruere agricolae certatim, illa usque minatur), un verso che appartiene alla lunga similitudine (Aen. 2.626-631) con cui virgilio compara la tormentata distruzione in iamme di troia alla laboriosa caduta di un’antiqua ornus per i continui colpi di scure assestati a gara dagli agricolae. e il verbo richiama simmetricamente il primo elemento della similitudine, ovvero la rovina assoluta della città: poco sopra (vv. 611-612) si dice, infatti, che nettuno col suo tridente totamque a sedibus urbem / eruit. questo nuovo riscontro mi pare corrobori la bontà della lezione del Salmasianus, variamente corretta per ragioni di ordine metrico-prosodico e sintattico: risulta, infatti, problematica la quantità breve dell’ultima sillaba (eruerĕ) in una sede dove sarebbe invece attesa la lunga, ma anche le possibili alternative, come l’et ruere proposto dubitativamente da schenkl, urtano contro la medesima diicoltà, del resto facilmente risolvibile grazie a un’analisi più ponderata dell’usus scribendi del centonario32, tra cui va annoverato anche il ricorso frequente all’allungamento in arsi, soprattutto in cesura tritemimera, come nel nostro caso33. la correzione di schenkl si motiva anche per la diicoltà di correlare agli altri ininiti uerti e cremari il transitivo eruere, motivo che avrebbe indotto riese ad apporre la crux nella sua edizione, convinto dell’impossibilità di ogni soluzione34: mi pare, tutnon va certo in questa direzione la proposta di suringar, eruere et, ripresa poi anche da Baehrens, un intervento che si motiva solo con l’esigenza di normalizzare pesantemente il testo del centone alle regole formali della prosodia virgiliana, anche a scapito delle peculiarità storico-culturali (e quindi anche linguistiche) di questo tipo di produzione poetica, che andrebbero, al contrario, attentamente valorizzate (come, a buon diritto, ricorda salanitro, Silloge cit., 14). 33 un prospetto delle infrazioni metriche del centone in damico, cit., 33-34; da notare come dei dieci allungamenti in arsi segnalati quelli in cesura tritemimera siano ben quattro (oltre al v. 90 anche i vv. 65, 66 e 69). sulle anomalie metrico-prosodiche del De ecclesia cfr. anche la già citata recensione di condorelli, 813-814. 34 della torre, cit., 164-165, non coglie il problema, limitandosi alla diicoltà metrica (che peraltro supera con l’allungamento in arsi) e ritenendo che la forma tràdita «si regge bene sia nella sintassi che nel signiicato», ma sottolinea giustamente, sul versante formale, il mantenimento della struttura a chiasmo del verso. 32 63 sergio audano tavia, plausibile la spiegazione oferta da damico, la quale ritiene che l’autore, anche a costo di una forzatura sul piano sintattico, preferisca utilizzare, per motivazioni di tecnica centonaria, eruere, di cui può recuperare due esempi a inizio verso (il già segnalato Aen. 4.443 e ora anche Aen. 2.628, forse il vero fons), attribuendogli però un valore intransitivo che sarebbe proprio di altri verbi corradicali, ma indisponibili nell’ipotesto virgiliano, come deruere35. questo verbo, però, non compare in nessuna forma nel modello e, pertanto, mi pare più verosimile il conruere postulato da Brandes (e riportato dall’apparato di schenkl), non tanto per l’unica attestazione in Aen. 10.488, peraltro anch’essa a inizio esametro pur se in diversa forma (corruit in uulnus, sonitum super arma dedere)36, quanto piuttosto per la ricorrenza in un notissimo passo del libro biblico di Giosuè, la presa di Gerico grazie al suono miracoloso delle trombe che provoca il crollo delle mura (Ios. 6.5: et muri funditus corruerunt ciuitatis), seguito poi, anche in questo caso, dall’incendio totale della città (Ios. 6.24: urbem autem, et omnia quae erant in ea, succenderunt): questo celebre brano costituisce, infatti, l’archetipo, visivo e simbolico, delle scene di conquista nelle sacre scritture ed ha, pertanto, una notevole rilevanza evocativa. da una prima analisi dei dati che sono inora emersi appare, quindi, evidente che il centonario, per la composizione del v. 90, ha tenuto principalmente presente il secondo libro dell’Eneide, da cui ricava la quasi totalità degli elementi costitutivi. si tratta, tuttavia, non di una generica memoria, ma del richiamo puntuale e intenzionale a una porzione deinita del testo che spazia dal v. 608 al v. 631, con cui si conclude la similitudine: questa sequenza coincide con la piena presa di consapevolezza da parte di enea, grazie alle parole della madre venere che lo esorta a fuggire, della violenza dell’incendio che sta provocando il crollo dell’intera troia. ma altrettanto interessante, e non privo di interesse per il centonario, che deve in questo punto cantare l’aduentus di cristo, è il fatto che in questa sezione si faccia riferimento alla manifestazione reale di tre divinità, nettuno al v. 611, Pal- damico, cit., 140, che raccoglie un catalogo di esempi sull’uso intransitivo di deruere nel latino postclassico e cristiano, con citazioni da apuleio (Met. 2.30), tertulliano (Coron. 1) e, soprattutto, Gregorio di tours (Franc. 4.31, 5.20, 5.33 e Stell. 9). 36 È il celebre esametro che descrive, insieme col seguente, la morte di Pallante: corruit è la lezione abitualmente adottata, ma sappiamo che tiberio claudio donato leggeva conruit (Geymonat, ed. cit., ad loc.). conte, ed. cit., non segnala nulla in apparato, ma muta la punteggiatura e pone tra parentesi tonda il secondo emistichio dopo la cesura semiquinaria, sonitum super arma dedere. 35 64 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) lade al v. 625 e la stessa venere che dialoga col iglio, come facilmente poteva intuire qualsiasi conoscitore di virgilio, trattandosi di uno dei brani più noti del poema, che, molto probabilmente, era anche abituale oggetto di apprendimento scolastico37. riporto qui di seguito il testo virgiliano (Aen. 2.608-631), illustrando poi in dettaglio il riuso compiuto dal centonario e la sua tecnica compositiva38: ‘Hic, ubi disiectas moles auolsaque saxis saxa uides mixtoque undantem puluere fumum, Neptunus muros magnoque emota tridenti fundamenta quatit totamque a sedibus urbem eruit. Hic Iuno Scaeas saeuissima portas prima tenet sociumque furens a nauibus agmen ferro accincta uocat [saeuasque accendit ad iras]. Iam summas arces Tritonia, respice, Pallas insedit nimbo efulgens et Gorgone saeua. Ipse pater Danais animos uiresque secundas suicit, ipse deos in Dardana suscitat arma. Eripe, nate, fugam inemque impone labori; nusquam abero et tutum patrio te limine sistam’. Dixerat et spissis noctis se condidit umbris. Apparent dirae facies inimicaque Troiae numina magna deum. Tum uero omne mihi uisum considere in ignis Ilium et ex imo uerti Neptunia Troia: ac ueluti summis antiquam in montibus ornum cum ferro accisam crebrisque bipennibus instant eruere agricolae certatim, illa usque minatur 610 615 620 625 37 sulla fruizione scolastica del secondo libro dell’Eneide, con particolare attenzione all’interpretazione di servio, si rimanda al recente a. cignarella, Virgilio a scuola. Servio e il secondo libro dell’Eneide, foggia 2011, con ampia documentazione bibliograica. È interessante notare come la prima esegesi cristiana, testimoniata dalle lettere pastorali di Paolo, interpretasse l’aduentus di cristo (cioè la παρουσία) non solo nel senso di «venuta», ma anche di «ἐπιφάνεια», quindi «manifestazione visibile» (cfr. Bovon, cit., 154). 38 sono evidenziati e sottolineati, per una più pronta visualizzazione da parte del lettore, tutti i termini oggetto della successiva discussione. si precisa, inoltre, che i vari frustuli saranno menzionati, nel prosieguo dell’analisi, nella forma in cui si trovano attestati e, pertanto, non saranno «normalizzati» al nominativo. Per questa sezione seguo il testo di Geymonat, ed. cit., con qualche minimo mutamento graico: per i punti speciici della discussione non emergono varianti signiicative nell’edizione di conte. 65 sergio audano et tremefacta comam concusso uertice nutat, uolneribus donec paulatim euicta supremum congemuit traxitque iugis auolsa ruinam. 630 Già per la clausola conclusiva del v. 89 del centone, a sedibus imis, per il quale gli studiosi hanno concordemente indicato la derivazione da Aen. 1.84 (incubuere mari totumque a sedibus imis), è forse opportuno ipotizzare un procedimento più articolato sul piano strettamente tecnico, ma più coerente nel suo rapporto col modello. infatti la presenza di un puntuale parallelo ha di fatto oscurato la possibilità di una mutuazione anche da Aen. 2.611, resa forse più probabile dall’immediata contiguità, in entrambi i casi mediante enjambement, con eruit (in virgilio) / eruere (nel centone). Per ovvie ragioni di adattamento al nuovo contesto, l’autore del De ecclesia aveva la necessità di sostituire l’urbem dell’ipotesto e di modiicare all’ininito il verbo (che, come visto, recupera dall’eruere del v. 628, punto di contatto nella similitudine), con, in aggiunta, l’urgenza di utilizzare uerti, sempre all’ininito. il centonario ha, quindi, proceduto mediante una soisticata tecnica a intarsio, che in questo caso non risponde a una precisa regola compositiva, ma al disegno consapevole di indicare con chiarezza al lettore la diretta derivazione della sequenza proprio da un puntuale passo virgiliano, una sorta di «réminiscence conductrice», per usare la felice deinizione formulata da Bažil, la quale, come vedremo, «établit un parallèle entre une image (scène, personnage, etc.) virgilienne et une image biblique»39. volendo, infatti, ampliicare l’immagine del crollo totale delle summas arces (che, come detto, recupera in questa forma dal initimo v. 615), il poeta ha gioco facile, per quel che riguarda il già citato v. 625, a smembrare imo da uerti. quest’ultimo è l’ininito di cui necessita (e, pertanto, risulta meno pregnante il tradizionale riferimento a Aen. 7.309, dove il verbo, pur metricamente nella medesima posizione, risulta palesemente diforme, in quanto, come visto, è utilizzato con funzione di prima persona del perfetto indicativo), al quale viene unito l’accusativo moenia, che il centonario recupera formalmente dal menzionato parallelo di Aen. 11.506, dove si trova nella stessa sede metrica, ma forse tenendo presente anche Bažil, cit., 178, che analizza questa tipologia soprattutto in rapporto al centone di Proba (la deinizione di questa modalità, col supporto di altri precedenti, è a 116). questa prospettiva è ripresa, e ulteriormente sviluppata con appropriati esempi, da damico, cit., 31, che parla di funzione «richiamo» dei versi virgiliani, e più di recente anche da sineri, cit., 27, che mantiene la medesima terminologia parlando di «reminiscenze guida». 39 66 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) muros del precedente v. 610, il cui riuso diretto risulta, però, metricamente inammissibile. quanto a imo, viene unito e concordato a sedibus per esprimere icasticamente la distruzione totale della città, forse per suggestione con fundamenta sempre del v. 611 e per l’impossibilità di ricorrere all’avverbio funditus. l’apparente parcellizzazione del v. 90 (anzi dei vv. 89-90, uniti logicamente e poeticamente dall’enjambement) può, quindi, trasformarsi nella spia di una tecnica compositiva ricercata e soisticata: i vari tasselli si aggregano in una coerente, e ben identiicabile, «réminiscence conductrice», che permette al centonario di poter valorizzare la propria abilità artistica nel momento in cui la memoria virgiliana del lettore, così sollecitata40, entra in dialogo col contesto cristiano d’arrivo e, di conseguenza, con un altro ipotesto altrettanto rilevante, ovvero le sacre scritture41. e, come già anticipato, proprio il gioco erudito dell’intertestualità virgiliana consente al poeta di ribadire la propria ortodossia di fede, poiché in questo punto il centone sembra risentire delle discussioni animate circa il corretto riferimento dei signa del Giudizio, di cui abbiamo una notevole testimonianza in diversi scritti di agostino (a partire dal ventesimo libro del De ciuitate Dei), il quale, come vedremo, paventando un loro distorto utilizzo da parte degli eretici (ma anche di autorevoli esponenti del clero), proponeva una puntuale rilettura comparata delle fonti evangeliche sull’argomento42. È, quindi, necessario procedere ora all’analisi della sequenza sotto il versante cristiano: i commentatori ritengono concordemente che il centonario, per la raigurazione dei signa premonitori del nuovo aduentus di cristo, si sia richiamato in maniera quasi esclusiva al libro dell’Apocalisse, con i vv. 89-90 che descriverebbero gli efetti devastanti di uno spaventoso ter- sul momento, deinito col termine di recognitio, in cui autore e lettore del centone si incontrano «l’uno come alter ego dell’altro», buone osservazioni in Giampiccolo, cit., 24. 41 sulle modalità della tecnica del centonario in rapporto ai testi sacri e del riuso cristiano di virgilio risulta particolarmente utile formica, Il riuso di Virgilio cit., che, con numerosi esempi, dimostra e giustiica le innovazioni compiute rispetto all’ipotesto pagano al ine di armonizzarlo compiutamente al nuovo contesto cristiano. 42 non pare, questo, l’unico punto di contatto tra il centone e un retroterra religioso ancora animato da dispute teologiche di cui agostino, nella sua sterminata produzione, ofre la versione più ortodossa: avevo individuato un altro aspetto, questa volta relativo alla determinazione del numero di coloro che cristo avrebbe liberato dagli inferi al momento della descensio, discutendo il v. 58 del De ecclesia nella mia già cit. rec., 272-273 n. 23. 40 67 sergio audano remoto e il v. 91, su cui torneremo in dettaglio più avanti, la conlagrazione inale dell’universo. della torre, ad esempio, dopo aver menzionato il sisma seguito all’apertura del sesto sigillo (Apc. 6.12: et uidi cum aperuisset sigillum sextum: et ecce terraemotus magnus factus est)43, riporta l’ipotesi di ricci secondo cui «in a sedibus imis eruere summas arces del centone sono trasferite le parole omnis mons et insulae de locis suis motae sunt»44, tratte dal successivo versetto 6.14, ma con l’omissione delle insulae e l’inserzione di moenia uerti che rappresenterebbero l’adattamento di un passo successivo, relativo a un altro terremoto ancora più devastante, provocato dal versamento nell’aria della coppa dell’ira divina da parte del settimo angelo (Apc. 16.18-19: et terraemotus factus est magnus, qualis numquam fuit,…, et ciuitates gentium ceciderunt); della torre, però, giustamente si domanda se le arces del centone possano davvero equivalere alle cime dei monti dell’Apocalisse, avanzando, senza però alcun supporto, l’alternativa, in realtà pienamente corretta, che in questo caso indichino «le rocche, le città alte fortiicate»45. la proposta di ricci è accettata anche da damico46, la quale nel commento non prende esplicita posizione in merito al valore di arces47, ma, a ulteriore sostegno del ruolo centrale dell’Apocalisse, riporta altri due brani che menzionano il terremoto all’interno di un più completo repertorio di signa: Apc. 8.5 (et accepit angelus turibulum et impleuit illud de igne altaris et misit in terram; et facta sunt tonitrua et uoces et fulgura et terraemotus) e Apc. 11.19 (et facta sunt fulgura et uoces et terraemotus et grando magna). la studiosa cita, inine, anche una pericope del Vangelo di matteo, precisando come non si possa capire se riferita alla ine di Gerusalemme o del mondo (Mt. 24.7: consurget enim gens in gentem, et regnum in regnum, et erunt fames et terrae motus per loca), ma senza ulteriori approfondimenti. anche per quanto riguarda il successivo v. 91 (atque omnem ornatum lamma crepitante cremari), che descrive l’altro signum del Giudizio, interpretato come la grande conlagrazione universale, viene comunemen- della torre, cit., 163-164. ricci, cit., 178-179. 45 della torre, cit., 164. 46 damico, cit., 140-141. 47 traduce, tuttavia, summas arces con «la sommità delle rocche» (damico, cit., 51), lasciando così intendere di accettare solo i paralleli testuali oferti dalla ricci, ma non l’intera sua esegesi. 43 44 68 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) te accettato il richiamo all’Apocalisse, in particolare alla scena degli efetti spaventosi provocati dal suono della tromba da parte del primo dei sette angeli (Apc. 8.7: et primus angelus tuba cecinit, et facta est grando, et ignis, mixta in sanguine, et missum est in terram et tertia pars terrae combusta est, et tertia pars arborum concremata est, et omne foenum viride combustum est)48. secondo ricci, tanto ignis quanto concremata est avrebbero facilmente evocato alla memoria il fons virgiliano49: quest’ultimo consiste, come detto, in Aen. 7.74, che viene trapiantato nel centone senza adattamenti testuali50, ma con la risemantizzazione cristiana di ornatus, che, come documentato prima da ricci51, e poi ulteriormente ribadito da della torre, formica e damico52, qui starebbe a esprimere l’equivalente del greco κόσμος, l’universo nella sua armoniosa bellezza, mentre nell’Eneide indicava l’insieme degli ornamenti di lavinia (o quelli del suo abbigliamento o, più probabilmente, quelli propri della sua condizione regale, come si deduce dai seguenti vv. 75-76: regalisque accensa comas, accensa coronam / insignem gemmis)53, che prendono prodigiosamente fuoco lasciando però incolume la donna. 48 lo menzionano anche della torre, cit., 165, e damico, cit., 141 (che aggiunge anche Apc. 16.9, quando il quarto angelo riversa la quarta coppa sul sole perché incendi gli uomini: et aestuarunt homines aestu magno et blasphemarunt nomen Dei). 49 ricci, cit., 179. 50 sulla possibilità di trapiantare nei centoni (con particolare riferimento ai Versus ad gratiam Domini) versi virgiliani che potessero richiamare facilmente passi biblici e sulle modalità dei riadattamenti cristiani, ottime rilessioni in arcidiacono, cit., 57-58. 51 ricci, cit., 179, che cita a supporto cic. Ac. 2.38.119: nulla senectus diuturnitate temporum exsistere ut hic ornatus unquam dilapsus occidat (preciso che si tratta del par. 119 e non 115, come d’abitudine riportato), e Plin. Nat. 2.8: namque et Graeci nomine ornamenti appellauere eum et nos a perfecta absolutaque elegantia mundum. 52 della torre, cit., 165, che aggiunge un esempio del iv sec., Hilar., Trin. 1.7 (pulchrum itaque caelum, aether, terra, maria et uniuersitas omnis est, quae ex ornatu suo, ut etiam Graecis placet, digne κόσμος, id est mundus nuncupari uidetur), e damico, cit., 142 e n. 156, che menziona e accoglie una proposta avanzata da f. formica nella sua ancora inedita tesi di dottorato, discussa nel 2000, secondo cui ornatus è utilizzato nel libro biblico della Genesi per indicare il creato (Gn. 2.1: igitur perfecti sunt caeli et terra et omnis ornatus eorum). 53 forse si tratta del velo e del copricapo, come sostiene della torre, cit., 165 (probabilmente sulla base del celebre commento di fordyce, che però non risulta menzionato), mentre n. Horsfall (in virgil, Aeneid 7, leiden – Boston – Köln 2000, 93, a cui si rimanda per l’analisi dell’intero verso) ritiene che «here the reference would appear to be to the jewelled corona of 75». a titolo di mera curiosità aggiungo che in un recentissimo romanzo della scrittrice ursula le Guin (pubblicato in traduzione italiana nell’ottobre 2011 e dal 69 sergio audano mi domando, però, pur a fronte di paralleli indubbiamente afascinanti e ben argomentati, se non sia possibile individuare un percorso alternativo rispetto all’Apocalisse, in grado di deinire con maggiore eicacia la funzione dell’ipotesto, nella forma della «réminiscence conductrice» di cui si è detto sopra, nel dialogo, come vedremo piuttosto articolato, con le scritture. Per i vv. 89-90 del centone, il richiamo virgiliano alla distruzione totale delle summas arces di troia rimanda, a mio avviso in maniera più immediata, alla rovina di una città provocata da un assedio o da un evento bellico, piuttosto che da un terremoto, pur nella somiglianza dei loro devastanti efetti che il centonario, come vedremo, è abile a intrecciare visivamente. È vero che ci troviamo di fronte a immagini che sono comuni al repertorio della letteratura apocalittica (la distruzione di città, i terremoti, gli incendi, la stessa conlagrazione inale, ad esempio, ricorrono, e in gran numero, anche nella raccolta degli Oracula Sibyllina, assai conosciuti e largamente menzionati in questo periodo)54 ed è altrettanto vero che il nostro centone, a prescindere dalla valutazione della qualità artistica del prodotto inale, è un’opera prima di tutto di poesia, e non di teologia. tuttavia, la natura stessa del De ecclesia, strutturato come sermo sulla funzione salviica di cristo all’interno di una funzione liturgica, lascia supporre che il suo autore e, di rilesso, i suoi lettori correlassero in modo naturale le immagini oferte dall’ipotesto virgiliano in primis alla narrazione dei vangeli piuttosto che ad altri libri sacri, soprattutto a quelli, come l’Apocalisse, guardati ancora con un certo sospetto, nonostante il loro accoglimento nel canone del nuovo testamento55. titolo Lavinia), che ricostruisce la vicenda umana e sentimentale della terza moglie di enea (di cui in efetti l’Eneide si limita ad accenni non particolarmente caratterizzanti), si scrive che l’incendio provoca la bruciatura della parte superiore della toga che ricopre il capo, propendendo quindi per la prima interpretazione. 54 Per un inquadramento generale degli Oracula Sibyllina rimando all’edizione degli Oracoli sibillini curata da m. monaca, roma 2008, in part. a 36-37 per i prodigi e i segni della ine dei tempi, e a 38 per una rassegna dei vari scrittori in lingua greca e latina, ebrei e cristiani, che menzionano e riutilizzano questa raccolta. sulla cristianizzazione della sibilla cfr. anche n. Brocca, La tradizione della Sibilla tiburtina e l’acrostico della Sibilla eritrea tra oriente e occidente, tardantichità e medioevo: una «collezione» profetica?, in s. Gioanni – B. Grévin (curr.), L’antiquité tardive dans les collections médiévales. Textes et représentations, roma 2008, 225-260. 55 sul travagliato ingresso dell’Apocalisse nel canone del nuovo testamento al commento di G. Biguzzi (Apocalisse, nuova versione, introduzione e commento di G. Biguzzi, milano 20112), 44-45. 70 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) i sinottici, infatti, come detto, riferiscono le parole di cristo sul Giudizio inale a conclusione di una lunga sezione profetica che, concordemente nei tre evangelisti, inizia con il preannuncio della distruzione del tempio e la ine di Gerusalemme (Mt. 24.1-20; Mc. 13.1-10; 12-18; Lc. 21.5-24)56; i signa che accompagnano questa parte risultano, però, di ambigua associazione, poiché sono riferibili sia alla rovina della città (e quindi anche del tempio) sia alla ine del mondo concomitante col nuovo aduentus di cristo e col Giudizio divino; fa, tuttavia, eccezione luca, il quale, al contrario di matteo e marco, pare operare una più chiara distinzione, riconosciutagli autorevolmente, come vedremo, da agostino. Per molte ragioni proprio luca si candida come riferimento evangelico per il centonario: costui, con la precisa indicazione huius in aduentum, posta, non a caso, all’inizio della sequenza al v. 89, evita attentamente ogni possibile equivoco tra i due episodi, ma, al ine valorizzare al meglio l’efetto allusivo della reminiscenza virgiliana, sfrutta abilmente un dettaglio che è solo di luca. quest’ultimo, infatti, è l’unico tra i sinottici a menzionare la desolatio di Gerusalemme e l’aduentus di cristo senza determinazioni temporali, a diferenza di matteo e marco, i quali collocano entrambi la seconda venuta del messia dopo la grande tribolazione della città santa (Mt. 24.29: post tribulationem dierum illorum e Mc. 13.24: post tribulationem illam). tuttavia, se sul piano storico i due eventi sono distinti, su quello teologico «per luca la ine di Gerusalemme è la preigurazione dell’ultimo giudizio»57. il centonario, pertanto, si preigge lo scopo di esprimere visivamente, e al massimo grado, la devastazione del mondo abitato, con la garanzia del conforto dell’auctoritas evangelica di luca, proiettando l’immagine, debitamente ampliicata retoricamente, della caduta di Gerusalemme (e del tempio), garantita dalla parola di cristo in tutte le fonti evangeliche (pur con qualche distinguo narrativo, come testimonia agostino)58, 56 Per la comparazione di questi passi cfr. m. J. lagrange, Sinossi dei quattro evangeli secondo la sinossi greca, milano 1985, 196-200. 57 l. saborin, Il Vangelo di Luca: introduzione e commento, roma 1989, 322. 58 Ep. CXCIX 9.25: signa quae in Euangelio futura praedicta sunt (...) secundum Lucam, eadem sunt secundum Matthaeum, et secundum Marcum. Hi enim tres narrant quae dixerit Dominus, cum interrogatus esset a discipulis suis, quando futura essent quae de templi euersione praedixerat, et quod signum esset aduentus eius, et consummationis saeculi Non enim discrepant rebus, si alius aliquid dicit quod alius tacet, aut alio modo dicit: magis autem collata inuicem iuuant, ut legentis intellectus regatur. 71 sergio audano ma senza riferirla speciicamente a questo evento, ed evitando, inoltre, di eccedere in dettagli minuziosi di signa premonitori che potevano rimandare con facilità a quella letteratura apocalittica e «millenaristica», nei cui confronti settori rilevanti della chiesa nutrivano prudenza, se non avversione59. il poeta mette, di conseguenza, a buon frutto l’analogia del tutto intuitiva tra la sequenza virgiliana, con la caduta di troia, e quella evangelica, col riferimento alla distruzione sistematica, in dalle fondamenta, del tempio, di cui non rimarrà più «pietra su pietra», come concordemente attestano i sinottici (ad es. Lc. 21.6: haec quae uidetis, uenient dies in quibus non relinquentur lapis super lapidem, qui non destruatur), e alla desolatio di Gerusalemme (si noti, ad esempio, il comune uso del poliptoto per esprimere la concretezza icastica dell’immagine del crollo, aulsaque saxis / saxa in Aen. 2.608-609, e in luca lapis super lapidem…destruatur). e, non a caso, è sempre solo luca a precisare che queste calamità furono determinate dall’assedio di un esercito (Lc. 21.20: cum autem uideritis circumdari ab exercitu Ierusalem, tunc scitote quia appropinquauit desolatio eius)60, consentendo in questo modo un ulteriore, puntuale parallelo con il ben noto contesto della sequenza virgiliana. si aggiunga, inoltre, che la menzione delle summas arces, nella loro natura di rocche fortiicate, distrutte a causa di un evento militare come nella troia virgiliana, trova, a mio avviso, ulteriore riscontro dal fatto che la parte più antica di Gerusalemme, la rocca di sion, nota appunto con l’appellativo di «città di davide», fosse designata nei testi biblici col termine arx61, come, tra gli altri, testimoniano 2Sam. 5.7 (cepit autem Dauid ar- come nota, ad esempio, agostino (Ep. CXCIX 8.23) le eresie tanto plures erunt magisque abundabunt, quanto magis appropinquantur ad inem. 60 È sempre agostino a puntualizzare poco dopo l’unicità di luca nel riferire questo dettaglio (Ep. CXCIX 9.27: Quis enim non uideat ad illam ciuitatem pertinere quod dictum est: cum autem uideritis circumdari ab exercitu ierusalem, tunc scitote quia appropinquauit desolatio eius). la peculiarità è stata acutamente sottolineata anche da alcuni interpreti moderni, ad esempio Bovon, cit., 150, secondo cui «luc raconte ici la prise de Jérusalem et il fait en termes plus militaires que religieux», precisando subito dopo che «le texte lucanien maintient strictement le caractére historique du sort de Jérusalem». 61 l’arx appare dotata tra l’altro di possenti baluardi difensivi, come attesta un versetto del Salmo 47 (Ps. 47.13: circumdate Sion, et complectemini eam; / narrate in turribus eius), su cui cfr. la nota seguente. 59 72 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) cem Sion, haec est ciuitas Dauid) e il contiguo 2Sam. 5.9 (habitauit autem Dauid in arce et uocauit eam ciuitatem Dauid), quest’ultimo ripreso quasi ad litteram anche da 1Cron. 11.7 (habitauit autem Dauid in arce et idcirco appellata est ciuitas Dauid)62. la profezia di cristo trovò, inine, il suo compimento «terreno», preannuncio veritiero di quello «celeste», con la conquista romana del 70 d. c., durante la quale, come noto, insieme con la città, andò quasi completamente distrutto il tempio, a causa di un rovinoso incendio che bruciò tutti i ricchi ornamenti che lo decoravano63: questo elemento storico, ben conosciuto dai lettori del centone, avrebbe potuto trovare facile evocazione nei nostri vv. 89-90 del De ecclesia grazie al richiamo ai già citati vv. 624-625 dell’ipotesto virgiliano, che associano incendio e crollo della città (tum uero omne mihi uisum considere in ignis / Ilium et ex imo uerti Neptunia Troia)64. 62 che sion altro non sia che una forma metonimica per indicare l’intera Gerusalemme è attestato da diversi testi, tra cui proprio il Salmo 47, un inno di ringraziamento per la liberazione della città che esalta lo stretto rapporto tra dio e sion, diventando «una specie di inno nazionale dello stato teocratico ebraico» (G. magnani, Tu sei il Cristo. Cristologia storica, roma 2002, 270). nel primo libro dei Maccabei con arx si designa, invece, la fortezza dell’ «acra», costruita dal re di siria antioco iv epifane molto probabilmente nelle vicinanze del tempio e poi distrutta da simone maccabeo: tuttavia, alcune recenti scoperte archeologiche sembrano testimoniare che alcuni resti di strutture dell’ «acra» siano state distrutte dal re erode, quindi di fatto negli stessi anni della presenza storica di cristo, per creare una piazza pubblica di fronte al cancello principale della spianata del tempio (per un’analisi della documentazione archeologica cfr. m. Ben-dov, he Seleucid Akra — South of the Temple Mount, «cathedra» 18, 1981, 22-35). 63 la sottolineatura della ricchezza del tempio e della sua bellezza è anch’esso un elemento esclusivo di luca; nota a. Plummer, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. Luke, new York 1914, 477: «matthew and mark say nothing about the rich oferings, which were many and various, from princeps and private individuals». 64 da notare, sul versante formale, una sorta di chiasmo nelle immagini: in virgilio è menzionato prima l’incendio e poi il crollo, nel centone accade, invece, il contrario. il motivo della distruzione della città aveva da tempo assunto una valenza anche simbolica ed era ricorrente nella prima età imperiale, anche all’interno di una prospettiva escatologica di matrice stoica, come attestato più volte da seneca: oltre al lavoro complessivo di l. castagna, Vecchiaia e morte del mondo in Lucrezio, Seneca e san Cipriano, «aevant» 13, 2000, 239-263, un buon repertorio di passi petroniani e senecani, sobriamente ma puntualmente commentati, è reperibile nella tesi di dottorato, guidata da luciano cicu, di c. alias, La società neroniana nell’opera di Seneca e di Petronio, diss. sassari 2009, 183-185. 73 sergio audano se, come pare possibile, l’autore del De ecclesia scrive il suo centone indicativamente nella prima metà del v sec. d. c.65, avrà indubbiamente avuto sentore della discussione animata, talora polemica, sull’interpretazione dei signa nell’esegesi cristiana, proprio a causa della diicoltà di riferirli con precisione alla distruzione della Gerusalemme terrena oppure al giudizio inale: i sinottici, infatti, non sono né chiari né concordi al proposito, e questa sostanziale ambiguità favoriva il gioco di quei settori che alimentavano, magari anche con l’approvazione di qualche autorevole esponente del clero, l’attesa della ine interpretando ogni fenomeno (guerra, terremoto, calamità naturale) come manifestazione visibile dell’inizio imminente della distruzione del mondo66. ne abbiamo testimonianza in un brano del De ciuitate Dei di agostino, in cui il vescovo di ippona nota la diicoltà esegetica dei testi evangelici, richiamando la necessità di un confronto puntuale tra i passi dei sinottici e rimandando a un suo scritto sul tema, la lettera al vescovo dalmata esichio, la già citata Epistula CXCIX, forse ascrivibile agli anni 419/420, nota anche col titolo di sintesi del suo contenuto, datogli dallo stesso agostino, De ine saeculi (Ciu. 20.5.4: multa praetereo, quae de ultimo iudicio ita dici uidentur, ut diligenter considerata reperiantur ambigua vel magis ad aliud pertinentia, sive scilicet ad eum Saluatoris aduentum, quo per totum hoc tempus in Ecclesia sua uenit, hoc est in membris suis, particulatim atque paulatim, quoniam tota corpus est eius; siue ad excidium terrenae Hierusalem; quia et de illo cum loquitur, plerumque sic loquitur, tamquam de ine saeculi atque illo die iudicii nouissimo et magno loquatur; ita ut dignosci non possit omnino, nisi ea, quae apud tres Euangelistas Matthaeum, Marcum et Lucam de hac re similiter dicta sunt, inter se omnia conferantur. Quaedam quippe 65 damico, cit., 28, propende con prudenza a collocare la composizione del centone tra il iv e il v secolo. sulla medesima posizione anche suringar, cit., vi; ricci, cit., 162; vidal, cit., 210-212 e della torre, cit., 195; se risulta attendibile un probabile rilesso della disputa millenaristica, non escluderei di circoscrivere il periodo alla prima metà del v sec. 66 non è questa la sede per approfondire la discussione relativa alle reazioni di fronte al fenomeno del «chiliasmo» o «millenarismo»; come con ottima sintesi spiega Biguzzi, cit., 17, «il chiliasmo fu combattuto e per allora soprafatto a opera degli allegoristi alessandrini, soprattutto a opera di origene, che accusava i chiliasti di basarsi su un’interpretazione letterale e quindi angusta della scrittura, di Girolamo che a sua volta li accusava di giudaizzare, e poi ancora di ticonio e della sua interpretazione spiritualizzante dell’apocalissi, e inine a opera di agostino, per il quale il regno millenario di ap. 20 è iniziato con l’annunzio evangelico». 74 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) alter obscurius, alter explicat planius, ut ea, quae ad unam rem pertinentia dicuntur, appareat unde dicantur. Quod facere utcumque curaui in quadam epistula, quam rescripsi ad beatae memoriae uirum Hesychium, Salonitanae urbis episcopum, cuius epistolae titulus est: De ine saeculi)67. nel corso della lettera, invece, agostino aveva esposto in modo più articolato i punti che successivamente nel De ciuitate Dei si limiterà a riassumere68: in particolare, però, polemizza, con garbo nella forma ma decisione nel merito, contro le tesi del suo confratello, il quale, facendosi anche lui forte dell’auctoritas di luca (Lc. 21.26), insisteva, in disaccordo con le tesi agostiniane, sul fatto che la ine del mondo fosse vicina poiché si constatava la realizzazione di quanto predetto, proprio per la difusione generale di alizioni e sciagure (Ep. CXCIX 11.36: sed coniteri nos, inquis, poena nostra compellit adesse iam inem, dum impletur quod praenuntiatum est: arescentibus hominibus prae timore et exspectatione quae supervenient universo orbi [Lc. 21.26]. Nullam, inquis, patriam, nullum locum nostris temporibus non aligi aut tribulari certum est). a questo tipo di interpretazione si era poco prima opposto agostino, il quale aveva precisato che signa tradizionali come la guerra fossero in realtà ricorrenti in ogni epoca e che, a buon diritto, si è sempre pensato, ad esempio durante le spedizioni barbariche nei territori romani al tempo dell’imperatore Gallieno, che potessero preannunciare in quel momento la ine del mondo: pertanto è impossibile ipotizzare la natura e l’intensità delle guerre che, invece, la precederanno realmente (Ep. CXCIX 10.35: bellis autem per diuersa interualla temporum et locorum quando non terra contrita est? Nam, ut nimis anti- Per il De ciuitate Dei si fa riferimento all’edizione dombart – Kalb (Sancti Aurelii Augustini episcopi De ciuitate Dei, curr. B. dombart - a. Kalb, i-ii, lipsiae 19294); la consapevolezza della ine dei tempi e del giudizio universale rende urgente per ogni uomo «il dovere di entrare nella città di dio» (d. maraioti in sant’agostino, La città di dio, a cura di d. maraioti, i-ii, milano 2011, lXXiii). 68 Per il testo dell’Epistula CXCIX si fa riferimento all’edizione di a. Goldbacher, S. Aureli Augustini Hipponiensis episcopi epistulae IV (csel 57, 4), vindobonae 1911, 243-292; per un’analisi della lettera, nel contesto della corrispondenza con esichio e della loro divergenza teologica si rimanda allo studio approfondito di J.-P. Bouhot, Hesychius de Salone et Augustin: Lettres 197-198-199, in m. de la Bonnardière (cur.), Saint Augustin et la Bible, Paris 1986, 229-250; sulle caratteristiche generali dell’epistolario agostiniano, con particolare attenzione alla tipologia dei destinatari, è utile m. caltabiano, Storie di uomini, lettere e libri nella corrispondenza di S. Agostino, in f. e. consolino (cur.), L’adorabile vescovo di Ippona. Atti del convegno di Paola (24-25 maggio 2000), soveria mannelli 2001, 73-96 (per un inquadramento particolare della nostra lettera cfr. 96). 67 75 sergio audano qua praeteream, sub imperatore Gallieno, cum Romanas prouincias barbaries usquequaque peruaderet, quam multos fratres nostros qui tunc erant in carne, putamus propinquum inem credere potuisse, quoniam longe post ascensionem Domini factum est! ac per hoc etiam ista qualia futura sint, cum fuerit omnino inis proximus, ignoramus). appare, quindi, evidente quanto distante fosse la posizione di agostino rispetto a quella di tanti suoi contemporanei, inclini, invece, «di fronte al moltiplicarsi di avvenimenti catastroici, ad interpretarli come segni sicuri dell’imminenza della ine»69: è un dibattito aperto all’interno della chiesa, la cui eco non giunge forse estranea alle orecchie del centonario. questo forse spiega l’intento di rimanere coerentemente nel solco dei sinottici, in particolare di luca che agostino, sempre nella medesima lettera, deinisce come l’evangelista che ha saputo meglio distinguere la prospettiva storica della ine di Gerusalemme da quella profetica della ine del mondo (Ep. CXCIX 9.29: Lucas ergo patefecit quod esse posse incertum non ad saeculi inem, sed ad expugnationem Ierusalem pertinere)70. il centonario, in conclusione, recupera nei vv. 89-90, a livello di immagine, il richiamo alla distruzione della città santa, ma, come detto, non lo riferisce più a questo evento: forte del fatto che si tratta di un signum diverso per qualità da quelli tradizionali, reso tale dalla stessa parola di cristo che ne ofre quindi la più alta garanzia di verità, il poeta ampliica visivamente, grazie all’analogia virgiliana con la caduta di troia, la potenza evocatrice dell’immagine nel simbolo stesso della distruzione totale del mondo abitato, che si realizzerà esclusivamente nel momento del nuovo aduentus del messia. 69 G. filoramo, L’escatologia di Agostino tra tempo ed eternità, in r. uglione (cur.), «Millennium» cit., 297. Per l’atteggiamento di agostino nei confronti dell’Apocalisse, in particolare circa il rapporto tra millenarismo e redenzione, sono utili anche P. fredriksen, Apoclaypse and Redemption: from John of Patmos to Augustine to Hippo, «vigchr» 45, 1991, 151-183, ed ead., Tyconius and Augustine on the Apocalypse, in r. K. emmerson – B. mcGinn (curr.), he Apocalypse in the Middle ages, cornell university 1992, 20-37 (per il ventesimo libro del De ciuitate Dei e l’Epistula CXCIX cfr. 30 e n. 31); sulla prospettiva storico-teologica scaturita dalla lettura agostiniana del millenarismo e sulla sua ricezione nella cultura religiosa medievale e moderna si rimanda a r. landes, he Historiographical Fear of an 1000: Augustinian History Medieval and Modern, «speculum» 75, 2000, 97-145 (per l’inlusso speciico dell’Epistula CXCIX cfr. 104 n. 26). 70 cfr. anche supra, n. 60. 76 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) infatti, come la venuta del cristo storico ha avuto l’efetto di realizzare la caduta della Gerusalemme terrena, concordemente profetizzata dai vangeli, il nuovo arrivo del Filius hominis provocherà allo stesso modo, e in maniera deinitiva, la distruzione delle città umane (l’arx di sion si moltiplica poeticamente nelle arces del mondo). si prospetta, quindi, uno scenario catastroico, nel quale si sommano gli efetti di tutti i signa tradizionali, guerre e terremoti, che non sono più i consueti a causa della portata cosmica della loro azione distruttrice. questa dimensione di straordinarietà è attestata, però, in maniera più puntuale, ancora una volta solo da luca, il quale è l’unico tra i sinottici a deinire magni i terraemotus che, variamente distribuiti nelle zone del mondo, preannunziano la ine, e magna i signa della sfera celeste (Lc. 21.10-11: tunc dicebat illis: surget gens contra gentem, et regnum aduersus regnum. Et terraemotus magni erunt per loca, et pestilentiae, et fames, terroresque de caelo, et signa magna erunt)71, così come è il solo a inserire nel repertorio anche i terrores de caelo, dettaglio su cui torneremo in seguito. questo brano, come ha notato il biblista G. rossé, «anticipa la descrizione dei successivi vv. 25-26 e pone il lettore direttamente di fronte ai segni politici, naturali e cosmici che precedono la ine. ora, infatti, si tratta davvero di segni che precedono la Parusia: tutto è ampliato»72. È, in deinitiva, possibile individuare nei testi evangelici, e in particolare in quello di luca, un retroterra alternativo rispetto al tradizionale riferimento all’Apocalisse, con cui pure condivide indubbie analogie: anche qui, come visto, è menzionato un terraemotus magnus (Apc. 8.5), che peraltro riprende la sequenza individuata da della torre, su cui dovremo ritornare in seguito (Apc. 6.12). ma la proposta, se plausibile, di individuare come referente privilegiato il Vangelo di luca aggiunge forse il vantaggio di poter collocare il centone nel quadro di un dibattito religioso di più alta portata storico-culturale, proprio grazie alla deinizione e alla speciica negli altri due sinottici si parla genericamente di terraemotus per loca (Mt. 24.7 e Mc. 13.8); matteo deinirà, invece, magnus il terremoto che annuncia la risurrezione di cristo (Mt. 28.2), unico tra i sinottici a riportare questo evento. l’immagine di un «grande» sisma, così potente da scuotere le fondamenta, oltre che nell’Apocalisse, si ritroverà anche negli Atti degli Apostoli con riferimento alla liberazione miracolosa dal carcere di Paolo e sila a filippi (Act. Ap. 16.26: subito uero terraemotus factus est magnus, ita ut mouerentur fundamenta carceris), scena che luca, ordinariamente considerato autore degli Atti, modella chiaramente sul proprio testo evangelico. 72 G. rossé, Vangelo secondo Luca, roma 20072, 222. 71 77 sergio audano valorizzazione di un più circostanziato intertesto virgiliano che, pur nella diversità di prospettiva, intreccia, almeno a livello di immagine, un dialogo fecondo e coerente con le sacre scritture. ma anche per il successivo v. 91 è possibile identiicare un diverso itinerario che può anch’esso approdare nel Vangelo di luca: a mio parere, l’immagine complessiva non si riferisce al ben noto signum della distruzione violenta del mondo col fuoco, che ritorna in tutta la letteratura apocalittica e troverà il suo suggello nella celebre sequenza medievale del Dies irae (soluet saeculum in fauilla / teste Dauid cum Sibylla). qualche perplessità, in realtà, era già stata timidamente avanzata da della torre, la quale aveva notato come l’Apocalisse non ponga in relazione immediata la conlagrazione e il terremoto «a diferenza del centone dove i due fenomeni si succedono e diventano quasi complementari»73, ma subito dopo accetta l’esegesi oferta da ricci col richiamo ad Apc. 8.7; la necessità di un legame tra la distruzione dei vv. 89-90 e questa scena di incendio è avvertita anche da damico, la quale trova il trait d’union nel precedente versetto di Apc. 8.5, sopra menzionato, secondo cui «vi è qui un collegamento tra il fuoco del braciere d’oro e i tuoni, i clamori, i lampi e i terremoti che seguirono dopo che l’angelo lo scagliò sulla terra»74. Premessa la doverosa precisazione che tutti «i fenomeni che sembrano sconvolgere il cosmo intero non sono da prendere nel loro senso letterale, essendo dei motivi convenzionali propri del genere profetico e apocalittico»75, il parallelo suggerito da ricci non risulta, in ogni caso adeguato, a esprimere l’idea di una conlagrazione di tutto l’universo (tra l’altro è proprio la studiosa, come detto, a proporre per prima la risemantizzazione di ornatus nel senso del greco κόσμος): l’insistenza sulla «terza parte» (Apc. 8.7: et tertia pars terrae combusta est, et tertia pars arborum concremata est) rimanda all’interesse di Giovanni (o chi per lui) per «una tripartizione teologica della realtà di cui sta parlando»76, che a sua volta della torre, cit., 165. damico, cit., 141. 75 a. lancellotti, in Apocalisse, a cura di a. lancellotti, cinisello Balsamo 200611, 88. 76 e. lupieri, in L’Apocalissi di Giovanni, a cura di e. lupieri, milano 20054, 161, che precisa subito dopo come la tripartizione si manifesti «con la distruzione di una delle tre parti»; circa l’insistenza sul «terzo» (che ritorna anche in Apc. 12.4) doglio 2012, 94, scrive che «si tratta di un ritornello che quantiica le parti interessate dalle distruzioni. È un indizio simbolico di parzialità e limitatezza». sul problema dell’attribuzione dell’Apocalissi all’evangelista Giovani cfr. sempre lupieri, cit., lvii-lXvii e lancellotti, cit., 7-9 (entram73 74 78 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) si richiama a una tradizione biblica attestata dal profeta ezechiele a cui l’autore dell’Apocalisse chiaramente, e in maniera intenzionale, si riallaccia77. il numero «tre» è pertanto un elemento funzionale, e non meramente accessorio, al discorso teologico, come sicuramente sapeva il centonario, e pertanto il parallelo risulta di fatto inutilizzabile per esprimere un fenomeno universale, benché sia reso attraente dall’analogia lessicale, forse più casuale che intenzionale, tra concremata est e il cremari del centone. anche il versetto di Apc. 8.5, proposto da damico, risulta di fatto poco pertinente: il fuoco riversato dall’angelo provoca sulla terra e nel cielo una serie di fenomeni (i già menzionati tonitrua et uoces et fulgura et terraemotus) «che si possono chiamare teofanici»78, ma nessuno di questi coincide con la conlagrazione di cui si dovrebbe parlare al v. 91, visto che anche il fuoco dell’incensiere risulta essere lo strumento che scatena, una volta riversato, i diversi elementi, non il mezzo in sé totalmente distruttivo dell’universo. merita, invece, di essere riconsiderato il locus indicato sfuggevolmente da della torre (Apc. 6.12-14)79, poiché apre una serie di importanti considerazioni: la studiosa si limita, tuttavia, a citare il versetto 12, non tutto, ma solo, come visto, nel punto relativo al terremoto successivo all’aper- bi con ampi riferimenti bibliograici); distinguono Giovanni dall’autore del vangelo Biguzzi, cit., 39 (ricca documentazione e discussione della problematica a 33-39), che ricorre alla formula convenzionale «Giovanni di Patmos», e c. doglio (in Apocalisse, introduzione, traduzione e commento di c. doglio, cinisello Balsamo 2012, 25-28), che però a 27 considera plausibile «ammettere un unico ambiente d’origine e una comunità profeticoapocalittica nella quale sono nate, in momenti diversi e con intenti e sfumature diferenti, le varie opere giovannee». 77 Ez. 5.12: tertia pars tui peste morietur, et fame consumetur in medio tui, et tertia pars tui in gladio cadet in circuitu tuo; tertiam uero partem tuam in omnem uentum dispergam, et gladium euaginabo post eos. sull’inlusso di ezechiele in questi passi dell’Apocalisse cfr. anche lancellotti, cit., 96-97. 78 Biguzzi, cit., 199, il quale trova dei paralleli con altre tre analoghe scene dell’Apocalisse (4.5, 11.19 e 16.18) tutte costruite sul modello di un passo dell’Esodo (Es. 19), in cui i segni indicavano l’approssimarsi di dio all’accampamento degli israeliti.; in questo contesto indicherebbero l’approvazione divina nei confronti del gesto compiuto dall’angelo. invece, lupieri, cit., 160-161, associa più strettamente il terremoto (e i vari segni) alla caduta del fuoco, propendendo per una lettura più «allegorizzante» secondo cui qui «è adombrata la caduta del satana e dei suoi accoliti, precipitati dal cielo sulla terra»; inine, adotta una prospettiva meramente teologica doglio, cit., 94, secondo cui il terremoto starebbe a «indicare il radicale cambiamento operato dall’intervento di dio». 79 cfr. supra n. 43. 79 sergio audano tura del sesto sigillo, e il versetto 14, a sua volta già utilizzato anche da ricci. sarebbe stato, a mio parere, più utile riportare per intero il versetto 12 (Apc. 6.12: et uidi cum aperuisset sigillum sextum: et ecce terraemotus magnus factus est, et sol factus est niger tamquam saccus cilicinus: et luna tota facta est sicut sanguis) e unirlo al contiguo versetto 13, quest’ultimo, stranamente, omesso del tutto dai commentatori (Apc. 6.13: et stellae de caelo ceciderunt super terram, sicut icus emittit grossos suos cum a uento magno mouetur). il topico terraemotus magnus è qui unito a una serie di altri signa che sconvolgono l’intero universo, dalle eclissi di sole e di luna alla caduta delle «stelle», cioè la totalità degli astri: quest’ultimo è un evento che, come ampiamente difuso nelle fonti antiche sui fenomeni naturali, si manifesta visivamente in forma di «incendio» del cielo80. questo brano dell’Apocalisse è, dunque, interessante perché si pone come la summa degli eventi catastroici che accompagnano il Giudizio: il terremoto, nella sua entità smisurata e non più quantiicabile secondo parametri umani, colpisce tutta la terra, mentre l’universo celeste è in preda al fuoco provocato dalla caduta degli astri; come nota il biblista G. Biguzzi «ogni devastante mutazione negli elementi e nella struttura del cosmo è segno che la sua stabilità è scossa e che la ine si avvicina»81. il legame tra terremoto e conlagrazione, giustamente ricercato da della torre e da damico, sta, quindi, nel fatto che il primo si manifesta tra gli uomini sulla terra, con la devastazione e il crollo delle loro città, mentre la seconda avviene nel cielo, coin- filoni consistenti della letteratura meteorologica greco-latina assegnavano agli astri una natura ignea che talora si manifestava in forme di «incendio» del cielo: una testimonianza emblematica, ma anche sintetica dell’ampio dibattito culturale (ilosoico e scientiico) intorno a questo tema, è ovviamente oferta dalle senecane Naturales Quaestiones (buona discussione dossograica in a. setaioli, Seneca e i Greci. Citazioni e traduzioni nelle opere ilosoiche, Bologna 1988, 441-448), dove troviamo un interessante esempio di questo «incendio» del cielo; a Nat. 1.15.5 seneca ricorda che di frequente le storie riportavano notizia del fatto che il cielo apparve infuocato (frequenter in historiis legimus caelum ardere uisum) e, a sua volta, menziona l’esempio, per lui più recente, di una vampa celeste che aveva colpito ostia al tempo dell’imperatore tiberio, assumendo l’apparenza di un incendio di tali proporzioni da necessitare dell’intervento delle cohortes dei vigili (sub Tiberio Caesare cohortes in auxilium Ostiensis coloniae concurrerunt tamquam conlagrantis, cum caeli ardor fuisset per magnam partem noctis parum lucidus, crassi fumidique ignis). Per l’analisi di questo passo cfr. d. vottero, in lucio anneo seneca, Questioni naturali, a cura di d. vottero, milano 1990, 272 nn. 11-13 (lo studioso legge <ut> crassi fumidique ignis), e P. Parroni, in seneca, Ricerche sulla natura, a cura di P. Parroni, milano 2002, 499. 81 Biguzzi 20112, 179. 80 80 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) volgendo astri, stelle, sole e luna, in forma di ἐκπύρωσις celeste. in questo modo l’intero ornatus si distrugge portando a compimento, nel promesso giorno del Giudizio inale, il percorso iniziato al momento della creazione (Gn. 2.1: igitur perfecti sunt caeli et terra et omnis ornatus eorum), come molto probabilmente il centonario intende alludere82. e pochi versetti più avanti, sempre l’Apocalisse riferisce un ulteriore elemento interessante, ovvero la reazione degli uomini, diversi per condizione sociale ma qui accomunati dal medesimo sentimento di paura, di fronte ai signa, tale da indurli a ricercare rifugio nelle caverne e tra i monti per ripararsi dall’ira divina (Apc. 6.15: et reges terrae, et principes, et tribuni, et diuites et fortes, et omnis seruus, et liber absconderunt se in speluncis, et in petris montium). si tratta di un dettaglio signiicativo che ritorna anche nei versi immediatamente successivi del De ecclesia (vv. 92-93: tunc autem innumerae gentes populique frequentes / terrentur uisu subito), sebbene stranamente i commenti non menzionino questo parallelo83, in cui trova pertanto ulteriore conferma il parallelo con la Genesi avanzato da f. formica e menzionato supra alla n. 52. secondo saborin, cit., 326, «questi sconvolgimenti cosmici tendono a mostrare che quando dio cessa di sostenerlo, l’ordine della creazione è minacciato e rischia di crollare». la diferenza tra la visione apocalittica e l’ἐκπύρωσις stoica è ben spiegata da Bovon, cit., 154, secondo cui: «les apocalypticiens imaginent une sorte d’anticréation, non une disparition par le feu comme l’attendaient les stoïciens, une ἐκπύρωσις, mais une catastrophe universelle, dont seul dieu allait pouvoir tirer un proit eschatologique en envoyant le fils de l’homme». un ottimo esempio di descrizione della conlagrazione inale dal punto di vista stoico è rappresentato da un celebre passo posto alla conclusione della Consolatio ad Marciam (Marc. 26.6), che seneca utilizza (in questo distaccandosi dalla topica del genere che solitamente prevedeva, alla ine di uno scritto consolatorio, la compartecipazione del defunto alla vita ultraterrena, e pertanto utilizzandolo come vero e proprio strumento di consolazione, come argomenta castagna, cit., 241. seneca qui «afferma esplicitamente la dissoluzione di tutte le anime nella conlagrazione cosmica», come giustamente sostiene setaioli 2000, 304) per estraniare l’animo di marcia dal dolore per la perdita del iglio. secondo viansino, in seneca, Dialoghi, vol. ii, a cura di G. viansino, milano 1990, 544, il paragrafo andrebbe distinto in due sezioni: la prima (dall’inizio ino a mortalia) farebbe allusione a una catastrofe terrestre generalizzata, mentre all’ἐκπύρωσις vera e propria, di carattere quindi universale, si riferirebbe solo la seconda (su cui infra n. 90); per una lettura del passo all’interno dell’escatologia senecana cfr. G. mazzoli, Genesi e valore del motivo escatologico in Seneca. Contributo alla questione posidoniana, «ril» 101, 1969, 203, e, nel quadro della visione dell’oltretomba in seneca, si rimanda ad a. setaioli, Facundus Seneca, Bologna 2000, 297-307. 83 della torre, cit., 166-167, non ofre alcun parallelo scritturale, ma nota però a 167 «il repentino cambio di tempo verbale», col passaggio al presente rispetto al precedente 82 81 sergio audano «sconvolgimenti cosmici e gruppi umani in preda al panico sono in voluto parallelo, probabilmente non solo per gioco estetico, ma per parlare delle motivazioni e degli efetti dei cataclismi»84. questa sezione dell’Apocalisse, per la compresenza dei signa in terra e in cielo e per la conseguente reazione di terrore difuso avrebbe, quindi, potuto rappresentare un buon presupposto per il nostro centone; tuttavia, come si è visto inora, tutti gli elementi ricorrono allo stesso modo proprio nel testo di luca: analizzando Lc. 21.11, abbiamo già notato la peculiarità dell’evangelista nel menzionare, e al massimo grado, subito dopo il segno della sollevazione e della guerra universale del versetto precedente (Lc. 21.10: surget gens contra gentem, et regnum aduersus regnum), la catastrofe terrena con i terraemotus magni per loca (oltre alle pestilentiae et fames) e i cataclismi celesti, che al contrario gli altri sinottici non riportano. l’espressione terrores de caelo et magna signa traduce, infatti, il greco φόβητρὰ τε καὶ ἀπ’ οὐρανοῦ σημεῖα μεγάλα, che, come notato dal biblista americano a. Plummer (il cui commento, seppur datato, è tra i pochi con un taglio eminentemente ilologico e testuale piuttosto che teologico e/o pastorale), «luke alone mentions»85. non mi pare, quindi, improbabile che il terrentur del v. 93 del centone sia stato evocato proprio da questo passo, caratterizzato dalla peculiare ricorrenza di terrores86: la difusa paura è determi- «quadro narrativo al passato», sottolineando come questa incoerenza sia «uno strumento tecnico impiegato come ausilio delle semplici parole nella comunicazioni di pensieri e stati d’animo». damico, cit., 143, dopo una puntuale analisi della tecnica compositiva e del rapporto con virgilio, porta, invece, come riferimento Apc. 14.6, dove l’angelo annuncia l’arrivo della ine dei tempi ed esorta tutti i popoli a redimersi, ma in questo brano manca ogni accenno alla reazione di paura da parte di tutti gli uomini che, invece, è propria dei versi in esame. 84 Biguzzi, cit., 179; più attenti a cogliere le reminiscenze profetiche lancellotti, cit., 89 nn. 15 e 16, che sottolinea come le classi sociali enunciate nel testo siano «sette», il numero favorito dall’autore dell’Apocalisse, e soprattutto lupieri, cit., 151-152, che trova un parallelo anche in un passo di luca, riportato peraltro solo da questo evangelista, riferibile a una profezia pronunziata da cristo mentre viene condotto al Golgota con allusione forse alla ine di Gerusalemme o forse del mondo stesso (Lc. 23.30: tunc incipient dicere montibus: Cadite super nos, et collibus: Operite nos). 85 Plummer, cit., 479. 86 il fons virgiliano concordemente menzionato nei commenti (della torre, cit., 166, e damico, cit., 143) è Aen. 8.109 (terrentur uisu subito cunctisque relictis), dove si fa riferimento al turbamento di evandro, Pallante e altri nobili cittadini provocato dall’improvviso apparire delle vele troiane. 82 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) nata sia dall’improvvisa visione di cristo giudice sia anche dal manifestarsi altrettanto repentino dei signa che l’accompagnano, il grande terremoto insieme con i fatti spaventosi e i grandi segni che provengono dal cielo, che sono a loro volta generatori di terrore tra tutti gli uomini. il versetto 11, come detto, sarà poco dopo ripreso in larga misura nella già citata scena dell’aduentus (Lc. 21.25-27: et erunt signa in sole, et luna, et stellis, et in terris pressura gentium prae confusione sonitus maris, et luctuum: arescentibus hominibus prae timore et expectatione quae superuenient uniuerso orbi: nam uirtutes caelorum mouebuntur et tunc uidebunt Filium hominis uenientem in nube cum potestate magna et maiestate), dove troviamo ancora una volta insieme i medesimi elementi, ma in una forma ancora più esplicita, arricchita da ulteriori riferimenti alla tradizione profetica. le parole di cristo, infatti, garantiscono che ci saranno signa nel sole, nella luna e nelle stelle87, oltre a catastroi marine che danneggeranno ulteriormente la terra; compare, come nell’Apocalisse, la menzione del difuso timore tra gli uomini, spaventati dai signa che già vedono (in terris pressura gentium prae confusione sonitus maris, et luctuum) e dall’attesa di quanto sta per capitare all’universo (arescentibus hominibus prae timore et expectatione quae superuenient uniuerso orbi)88. il nam associa strettamente, proprio come nel centone, e a diferenza dell’Apocalisse (dove la scena questo linguaggio «is common in the Profets», come argomenta Plummer, cit., 483, con numerosi esempi. 88 damico, cit., 143, adduce come esempio di locus scritturale, che esprime l’idea dell’universalità della paura al momento dell’aduentus di cristo, Apc. 14.6 (et uidi alterum angelus uolantem per medium caelum habentes euangelium aeternum ut euangelizaret sedentibus supra terram et super omnem gentem et tribum et linguam et populum dicens magna uoce: ‘timete Deum’), in cui l’angelo annuncia l’arrivo della ine dei tempi ed esorta tutti i popoli a convertirsi. tuttavia, a mio avviso, se è pur vero che questo passo presenta con una certa enfasi l’immagine della globalità (che è indubbiamente espressa dal v. 92 del De ecclesia), non si può dire che rappresenti un parallelo puntuale di quanto dice il centone, ovvero che tutti gli uomini provano terrore da sé, e non per efetto di un angelo, a causa del catastroico e improvviso spettacolo cui sono costretti ad assistere, idea, al contrario, ben espressa dal brano di luca, dove, peraltro, non manca, come detto, anche il riferimento alla dimensione universale (prima gentium, poi hominibus, inine uniuerso orbi). aggiungo tangenzialmente l’osservazione di ricci, cit., 184 n. 2, ripresa da della torre, cit., 166, secondo cui il tunc d’esordio del v. 92 starebbe al posto di un atteso tum, segno inequivocabile di una confusione linguistica propria dell’età tarda: non escluderei, però, pur con la necessaria prudenza, l’inlusso del nostro passo evangelico, dove tunc è utilizzato per introdurre proprio l’aduentus di cristo, vero motivo del terror degli uomini. 87 83 sergio audano è articolata in più versetti, ma chiaramente si avverte la stretta aderenza al modello evangelico), il sentimento della paura al movimento catastroico delle uirtutes caelorum, che nella tradizione profetica stanno a indicare gli astri (ulteriore espansione dei già citati terrores de caelo et magna signa)89, e all’epifania trionfale di cristo, ponendosi come provocato da entrambi. mi pare, quindi, molto probabile che il v. 91 del centone non si riferisca a una generica conlagrazione, quanto piuttosto a una sorta di generale incendio del cielo provocato proprio dallo spostamento vorticoso del complesso del cosmo che si traduce visivamente nell’immagine, terrorizzante per la sua straordinarietà e per gli efetti catastroici sugli uomini, della «caduta delle stelle»90. È, quindi, il pendant celeste della totale distruzione delle città degli uomini sulla terra per efetto di fenomeni mai sperimentati dagli uomini (e, come tali, non manifestabili, come volevano i millenaristi, nelle forme dei signa abitualmente ricorrenti nella storia), una generale rovina anticipata dalla drammatica caduta di Gerusalemme che realizza sul piano storico la profezia di cristo, contribuendo quindi ad avvalorarne ulteriormente la portata anche per quel che riguarda il giorno del Giudizio. sulle uirtutes caelorum per designare gli astri cfr. Plummer, cit., 484, e saborin, cit., 326, che rimandano a diversi luoghi dell’antico testamento, da un puntuale passo dei salmi (Ps. 32.6: uerbo Domini caeli irmati sunt; et spiritu oris eius omnis uirtus eorum), a due brani di isaia, dove però si riscontra il sinonimo militia (Is. 34.4: et tabescet omnis militia caelorum, et complicabuntur sicut liber caeli, et omnis militia, et omnis militia eorum deluet; e Is. 40.26: qui educit in numero militia eorum, et omnes ex nomine uocat). Più in generale lo sconvolgimento del cielo è associato a quello dell’intero universo davanti al cospetto divino in un passo del Siracide (Sir. 16.18: ecce caelum et caeli caelorum, abyssus, et uniuersa terra, et quae in eis sunt, in conspectu illius commouebuntur). 90 come nota Bovon, cit., 153-154, «ici c’est le ciel qui est ébranlé. et pas seulement le ciel comme part de la création visible, mais aussi les ‘puissances’ invisibles qui l’habitent. le cosmos sera donc puissamment secoué». l’idea della catastrofe cosmica, intesa come caduta e scontro di astri, è ampiamente documentata anche nella letteratura pagana, in particolare in seneca, dalla già citata Consolatio ad Marciam (Mar. 26.6: et cum tempus aduenerit, quo se mundus renouaturus extinguat, uiribus ista se suis caedent et sidera sideribus incurrent et, omni lagrante materia uno igni, quidquid nunc ex disposto lucet ardebit), al sesto libro del De beneiciis (Ben. 6.22: subita confusione rerum sidera sideribus incurrant, et rupta rerum concordiam diuina labuntur): una sintetica, ma acuta, analisi di questi due brani, visti come fondamenti della visione catastroica della storia in lucano con l’associazione tra ἐκπύρωσις e guerra civile, è fornita da e. narducci, Lucano. Un’epica contro l’impero, roma-Bari 2002, 44-46; in àmbito greco un riferimento interessante è oferto da nonno (Dion. 38.347-409), mentre per quel che riguarda la letteratura apocalittica il motivo ritorna più volte negli Oracula Sibyllina (3.82-92; 3.672-701; 5.512-532). 89 84 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) È indubbiamente vero quanto sostiene damico, secondo cui la ricerca esasperata di un luogo preciso delle sacre scritture risulta spesso deludente «poiché il De ecclesia, non essendo una parafrasi del testo biblico, si rapporta a esso soltanto in chiave allusiva»91, ma talora un’analisi più serrata può portare a esiti interessanti, soprattutto quando l’ipotesto virgiliano, oltre al suo classico ruolo prettamente tecnico e «meccanico» di bacino di prelevamento dei versi, ha la funzione di dirimere ogni possibile dubbio circa la perfetta ortodossia di quanto viene scritto, in una prospettiva culturale di più ampio respiro in cui il riuso dell’ «antico» si colloca nelle tensioni del «presente» di chi scrive e di chi legge92, e, quindi, nell’ottica ormai compiutamente cristiana del centonario e del suo pubblico. svmmarivm - Versuum 89-91 centonis de ecclesia, qui de iudicii diuini signis tractant, noua interpretatio exponitur. Materia et argumenta ad Lucae Euangelium plus quam ad apocalypsis librum referunt. Ad u. 89 certumst pro cernes omnium editorum fortasse coniciendum. addendum su questi medesimi versi è recentemente apparso un contributo di l. Zurli, Un luogo poetico del de ecclesia (16 R. 89-91) sconciato dagli editori, «al. riv.» 2, 2011, 37-42, di cui ho preso visione solo a correzione di bozze: lo studioso propone il ripristino radicale del testo del salmasiano, a suo avviso deturpato dalle correzioni dei ilologi moderni. in particolare Zurli valuta genuino il certis del v. 89 che il centonario avrebbe ripreso da verg. Geo. 1.394, verso che precede il richiamo al bagliore delle stelle (stellis acies) e alla luna che non brilla di luce propria, attestati nel successivi vv. 395-396. queste immagini astrali, presentate da virgilio in forma negativa, sarebbero tornate alla mente dell’autore del De ecclesia in richiamo a feno- damico, cit., 133. sul ruolo che la poesia virgiliana poteva assumere anche al ine di «cogliere e interpretare la dottrina religiosa» di cui erano profusi i centoni cristiani buone osservazioni in damico, cit., 20. 91 92 85 sergio audano meni analoghi attestati dagli evangelisti (Zurli cita mt. 24.29, mc. 13.24-25 e lc. 21.25-26), come la caduta delle stelle o l’oscuramento della luna, che preannuncerebbero l’aduentus Filii hominis. secondo questa interpretazione, non sarebbero corretti solo certis e summae acies (che lo studioso interpreta come «stelle» per sineddoche), ma risulterebbe pienamente giustiicato l’utilizzo dell’ininito senza verbo reggente (che Zurli, sulla scorta di Hofmann, deinisce «descrittivo»). Pertanto traduce la sequenza dei vv. 89-90 nel seguente modo: «all’avvento di questi le stelle del cielo rovinano giù dalle sedi loro issate», dopo aver legato al v. 89 per anastrofe certis con a sedibus e interpretato imis come «dativo di direzione». la proposta di Zurli, acuta e stimolante, fornisce indubbiamente un utile contributo alla piena intelligenza del testo e rappresenta, dal punto di vista del metodo, un monito ineccepibile contro gli eccessi, talora ingiustiicati, di interventi congetturali sui testi dei centoni (come, peraltro, da tempo sostiene anche Giovanni salanitro). nel merito, tuttavia, permangono, a mio avviso, una serie di diicoltà: 1) Zurli lavora esclusivamente sulla sequenza in parola, come se fosse un dato isolato, tralasciando la valutazione dei versi nel contesto del sermo e, più in generale, nell’economia strutturale dell’intero centone. ciò porta, quindi, a perdere di vista la speciicità di questa sequenza che narra un evento destinato ancora ad accadere, come il Giudizio inale, per quanto garantito dalla parola divina (e ciò spiega al v. 94 il ricorso ai futuri dabit e subiget): non a caso suringar, giusta o sbagliata che sia la sua correzione (ed è sbagliata sia per Zurli sia per me), postulava anche in questo caso un futuro come cernes. e questa particolarità distingue questa scena da tutte le precedenti, dove il sacerdos racconta, invece, eventi della vita di cristo che, dal punto di vista del narratore (e dell’ascoltatore/lettore), risultano già compiuti (e questo giustiica la prevalenza nei versi anteriori di verbi al passato). come sopra scritto, l’ininito descrittivo o narrativo (o storico) non pare suiciente a rendere con eicacia questo radicale mutamento di prospettiva temporale, visto che solitamente esso rimanda al passato, o, al massimo, al presente, ma non al futuro: a mio parere, quindi, è necessaria la presenza di un verbo reggente che, come cerco di argomentare, si nasconde proprio sotto certis; 2) il v. 89 risulta composto da vari frammenti e l’inserzione di elementi isolati richiede di norma la stessa sede metrica dell’ipotesto: in questo caso certis si trova in cesura pentemimera in virgilio, ma in cesura etemimera nel centone (come peraltro lo stesso Zurli ammette a 42, n. 17); 3) summae acies (che io interpreterei più come metafora che come sineddoche) potrebbe essere in sé plausibile, benché in virgilio acies sia al singolare (sarebbe da valorizzare l’elegante antitesi imis 86 i signa del giudizio nel centone de ecclesia (al 16 r2) ~ summae), ma il nesso sedibus imis risulta familiare al centonario che lo usa, nella stessa sede metrica, già al v. 69: mi pare poco probabile che pochi versi dopo il poeta separasse logicamente i due elementi e assegnasse a ciascuno di essi sia casi diversi (ablativo sedibus, dativo imis) sia funzioni sintattiche opposte (provenienza il primo, direzione il secondo). tuttavia, al di là della diferenza di risultati (saranno i futuri editori del De ecclesia a trarre le loro conclusioni), mi piace mettere soprattutto in luce gli elementi che accomunano il mio lavoro a quello di uno studioso di grande autorevolezza come loriano Zurli, autentica auctoritas in questo settore della ilologia latina: la valorizzazione della paradosi del salmasiano, il richiamo alla risemantizzazione dell’ipotesto virgiliano, che porta spesso i lessemi (e lo studioso menziona opportunamente l’esempio di eruere al v. 90) ad ampliare «signiicazione e forma» (Zurli, 40), il riconoscimento dei vangeli (e non dell’apocalisse) come richiamo privilegiato per il centonario. 87 questo volume è stato composto con i caratteri minion disegnati da robert slimbach nel 1990 per adobe systems e stampato presso la tipografia digital print service s.r.l. di milano nel mese di novembre del 2011 Autorizzazione del Tribunale di Catania n. 435 del 14 gennaio 1975 Direttore responsabile Michele R. Cataudella