Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
L’ESEGETA APPASSIONATO Studi in onore di Crescenzo Formicola a cura di Olga Cirillo e Mario Lentano MIMESIS mimesis eDiZioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Collana: Filosofie n. 624 Isbn: 9788857556369 © 2019 – mim eDiZioni srl Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383 INDICE Tabula graTulaToria 7 PrefaZione 9 servio e la Poesia elegiaca di Giancarlo Abbamonte 13 testo e liturgia nel centone De ecclesia di Sergio Audano 23 note Di lettura all’eneiDe: su una moDalità Dell’uso Di aT in virgilio di Antonella Borgo 39 un caso Di allusività metrica: oviDio e catullo di Lucio Ceccarelli 57 la catabasi Di orfeo Dalla narraZione tragica Delle bassariDi al culex di Olga Cirillo 73 stesure Provvisorie e coPie Definitive nella biblioteca Della villa Dei PaPiri Di ercolano di Gianluca Del Mastro 91 breve nota a cicerone, acaDemica posTeriora, 8, 32-9, 33 (Varro) di Daniele Di Rienzo 103 a ProPosito Di braTTeaTus in seneca di Paolo Esposito 111 il riuso Dei classici nella Poesia Di manilio cabacio rallo di Giuseppe Germano 121 niTiDum VelabaT purpura pecTus. la vestiZione Di aDone nel De horTis hesperiDum Di Pontano di Antonietta Iacono 139 lettere Di Pascal, giarratano, terZaghi, lenchantin De gubernatis aD achille vogliano di Giovanni Indelli, Francesca Longo Auricchio 153 l’assenZa che brilla. una nota a tacito, annales, 3, 76 di Mario Lentano 173 ancient greek musicology at vittorino Da feltre’s school di Angelo Meriani 189 realtà e utoPia negli uccelli Di aristofane di Michele Napolitano 207 lucreZio in coPernico. Per il lessico tra geocentrismo eD eliocentrismo di Mariantonietta Paladini 227 latinisti a naPoli fra cinque e seicento di Giovanni Polara 251 bellorum ciVilium fax: un’immagine Della storiografia Di floro di Chiara Renda 261 animali e numeri nel liber abaci Di leonarDo fibonacci di Nicoletta Rozza 273 talia e i burgunDi: rifraZioni classiche e meccanismi Di intertestualità in siDonio aPollinare, carmina, 12 di Stefania Santelia 285 bibliografia selettiva Di crescenZo formicola 309 sergio auDano TESTO E LITURGIA NEL CENTONE DE ECCLESIA Nel 2017 sono trascorsi, alquanto silenziosamente, 150 anni da quando il filologo olandese Willem Suringar, nel 1867, pubblicò a Rotterdam, per la prima volta nella sua interezza, il centone De ecclesia, che, tra tutti i Vergiliocentones cristiani, si distingue per l’ampio spazio riservato alla dimensione liturgica1. In questa sede prescindiamo dalla problematica sezione finale dei vv. 111-116, separati dal resto del testo da un breve inserto in prosa dalla tormentata esegesi, dove a torto si è pensato di poter ricostruire il nome del presunto autore, Mavorzio2. È, in ogni caso, opportuno riaffermare la sostanziale unità di tutto il centone3, nel suo incontro, culturale oltre che let1 2 3 W.H.D. Suringar, Anonymi cento Vergilianus de ecclesia, Trajecti ad Rhenum 1867. Mi permetto di rimandare a S. Audano, Congettura diagnostica all’inserto in prosa del centone De ecclesia (AL 16 R2), in “Sileno”, a. XLII, n. 2, 2016, pp. 1520, con discussione di tutta la precedente bibliografia (a iniziare dall’importante contributo di L. Zurli, Che cosa sta dietro la lez. abortio (16a R) del Salmasiano?, in “AL. Rivista di Anthologia Latina”, a. III, 2012, pp. 67-73, che propone una soluzione differente, ma in ogni caso tesa a escludere la possibilità di ricavare dal tormentato lacerto prosastico il nome di Mavorzio). Unità contestata, ad esempio, da A. Fassina, Ipotesi sul centone cristiano De ecclesia: problemi testuali, paternità e datazione, in “Paideia”, a. LXII, 2007, pp. 361-376, che considera i vv. 111-116 (che già A. Riese, fin dalla sua prima edizione di Anthologia Latina, vol. I, Leipzig 1869, aveva considerato autonomi rispetto al De ecclesia denominando questa seziona “16a”) la conclusione del centone Alcesta (si veda quanto scrivono, invece, nelle rispettive edizione di questo centone, P. Paolucci, Il centone virgiliano Alcesta dell’Anthologia Latina, Hildesheim 2015, pp. LVI-LXVI, e più di recente A.M. Wasyl, Alcestis barcelońska oraz centon Alcesta. Późnoantyczne spojrzenie na mit i gatunek, Kraków 2018, pp. 108-115). Si pone in una linea analoga di contestazione dell’unità del De ecclesia anche L. Mondin in L. Mondin, L. Cristante, Per la storia antica dell’Antologia Salmasiana, in “AL. Rivista di Anthologia Latina”, a. I, 2010, pp. 303-345, il quale circoscrive i centoni mitologici 10-16a dell’Anthologia Latina come un libellus da attribuire a un non meglio precisato Mavorzio (sintetiche, ma puntuali notizie su questo problematico personaggio sono state fornite da M.T. Galli in I Vergiliocentones minores del codice Salmasiano, Firenze 2014, pp. 99-100). 24 L’esegeta appassionato terario, tra risemantizzazione cristiana dell’ipotesto virgiliano nella prima parte e riflessione metapoetica nella seconda. Ugualmente non entreremo all’interno del sermo pronunciato da un sacerdos ai vv. 13-98, che occupa di fatto quasi tre quarti dell’intero centone: quest’ampia sezione contiene, come noto, le tappe salienti della storia umana e divina di Cristo, dall’incarnazione al giudizio universale, allo scopo di esortare i fedeli a perseverare, anche a costo della vita, nella fede cristiana. Lo stretto contatto con la liturgia è riscontrabile, invece, in forma più allusiva e generica nei primi dodici versi e, con un legame ancor più stringente, nei vv. 99-110, in cui entrano in scena direttamente elementi riconducibili, anche se non sempre in modo chiaro e facilmente decodificabile, a una vera e propria azione liturgica. L’autore del centone si dimostra indubbiamente molto competente in materia: appare evidente il suo sforzo di condurre il processo di risemantizzazione dell’ipotesto virgiliano entro i canoni dell’ortodossia dottrinaria, anche a costo di qualche forzatura semantica, giustificata però dalla dialettica costante con la Sacra Scrittura, che, nell’ottica del centonario, acquista un’auctoritas per lo meno analoga a quella dello stesso Virgilio. Non è, dunque, da escludere, come ha persuasivamente sostenuto Maria Lisa Ricci, che l’autore del De ecclesia sia anch’egli un sacerdos4, magari impegnato, come ho cercato di dimostrare in altri miei contributi su questo centone, a tutelare il proprio componimento dal rischio di eventuali contaminazioni ereticali, come nel caso della difesa della duplice natura, umana e divina, del Cristo, della piena giustificazione teologica del descensus ad inferos e del compimento, in un tempo non definibile dall’uomo, del giudizio universale5. L’autore del De ecclesia è, quindi, indubbiamente un autentico defensor fidei, ma senza chiusure dogmatiche preconcette, soprattutto nei confronti della cultura pagana: proprio per questo il centone non rischia di perdere, come ha di recente sostenuto Daniel Vallat, la sua natura di “texte pacifique, plutôt léger”6. 4 5 6 M.L. Ricci, Motivi ed espressioni bibliche nel centone De ecclesia, in “Studi italiani di filologia classica”, a. XXXV, 1963, pp. 161-185, in particolare p. 184. Anche qui mi permetto di rimandare per il motivo del descensus ad inferos al mio Intrecci teologici e tecnica centonaria: per l’esegesi della sequenza del Descensus Christi ad Inferos (vv. 51-67) nel centone De ecclesia, in M.T. Galli, G. Moretti (a cura di), Sparsa colligere et integrare lacerata. Centoni, pastiches e la tradizione greco-latina del reimpiego testuale, Trento 2014; per il giudizio universale cfr. quanto scrivo in I signa del giudizio nel centone De ecclesia (AL 16 R2): testo ed esegesi dei vv. 89-91, in “Sileno”, a. XXXVIII, 2012, pp. 55-87. D. Vallat, Les centons virgiliens: de la matière première à la transsubstantiation générique, in F. Garambois, D. Vallat (a cura di), Varium et mutabile. Mémoires et métamorphoses du centon dans l’Antiquité, Saint-Etienne 2017, p. 153. S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 25 I primi dodici versi del De ecclesia, qui di seguito riportati, possono essere definiti “pre-liturgici” o forse, meglio ancora, “para-liturgici”: Tectum augustum, ingens, centum sublime columnis, religione patrum laetum et venerabile templum, hoc dedit esse suum superi regnator Olympi. Nam deus omnipotens, qui res hominumque deumque aeternis regit imperiis, “quo tenditis?” inquit “hic domus est nobis, haec ara tuebitur omnis”. Hic matres puerique simul mixtaeque puellae sacra canunt pariterque oculos ad sidera tollunt; hic exaudiri voces, hic vota precesque: noctes atque dies ferit aurea sidera clamor. Postquam prima quies et facta silentia tectis, incipit effari divino ex ore sacerdos. 5 10 Non troviamo, infatti, precisi riferimenti a specifiche azioni liturgiche, ma il centonario è, in ogni caso, attento a definire il contesto generale entro cui sta per compiersi il rito di cui darà conto nei versi seguenti. Si tratta dell’ecclesia, nella sua duplice accezione, come vedremo, di “tempio”, quindi di edificio sacro finalizzato ad accogliere il popolo cristiano per la contingenza della celebrazione, ma anche, in senso più ampio, di istituzione voluta da Dio e destinata a garantire la salvezza eterna per ogni buon fedele. In assenza di un’attestazione nell’ipotesto virgiliano, manca in tutto il centone la menzione esplicita del lessema ecclesia. Adriana Damico, nel suo pregevole commento del 20107, sostiene persuasivamente che l’evocazione della chiesa sia garantita da venerabile templum del v. 2, espressione, secondo la studiosa, più dell’eredità giudaica che di quella cristiana 7 A. Damico, De ecclesia. Cento Vergilianus, Acireale-Roma 2010. Tutte le citazioni del De ecclesia seguono il testo stabilito in questa edizione (che rientra nel progetto, portato a termine da Giovanni Salanitro e dalla sua scuola, di realizzare edizioni aggiornate della poesia centonaria virgiliana, importanti testimoni, oltre che della cultura scolastica e religiosa di cui sono portatori, anche di utili informazioni in merito alla tradizione del testo virgiliano e alla valutazione delle sue non poche, e talora significative, varianti). Si è naturalmente tenuto conto anche delle edizioni “storiche” e ancora oggi imprescindibili, che sono di volta in volta menzionate nel corso di questo lavoro: oltre alla princeps di Suringar e alle due edizioni Riese (oltre alla prima, citata supra alla nota 1, è di riferimento la seconda, Leipzig 1894 per il vol. I e 1906 per il vol. II), sono da prendere in considerazione anche E. Baehrens, Poetae Latini minores, vol. IV, Leipzig 1882 e C. Schenkl, Poetae Christiani Minores, Vindobonae 1888. 26 L’esegeta appassionato in senso stretto8. Ma, a mio avviso, sono possibili ulteriori approfondimenti, sempre nella linea indicata da Damico e, prima di lei, anche da Laura Della Torre e da Francesca Formica, nei loro commenti rimasti finora inediti9. Il primo verso ricalca integralmente (tranne qualche errore di copiatura nel Salmasiano, con la vox nihili gentum al posto di centum e l’erroneo columnes per l’atteso ablativo columnis) Aeneis, 7, 170, con la descrizione della reggia del re Latino. Ma, per usare la felice nozione di réminiscence conductrice, così ben valorizzata da Martin Bažil nei suoi numerosi contributi10, è forse opportuno allargare la prospettiva sull’ipotesto, prendendo in considerazione non solo la singola stringa del verso modello, ma l’intero contesto di partenza (vv. 170-176): Tectum augustum ingens, centum sublime columnis, urbe fuit summa, Laurentis regia Pici, horrendum silvis et religione parentum. Hic sceptra accipere et primos attollere fasces regibus omen erat, hoc illis curia templum, hae sacris sedes epulis, hic ariete caeso perpetuis soliti patres considere mensis. Si può subito notare come già in Virgilio la descrizione della monumentalità spaziale dell’edificio, che si ricava dal primo verso (ingens, centum sublime columnis), risulti strettamente associata al senso di ancestrale timore religioso che incute all’esterno, come confermato dal v. 172: horrendum silvis et religione parentum. Proprio il secondo emistichio, come evidenziato da Formica11, stimola il centonario alla creazione del secondo verso del De ecclesia (religione patrum laetum et venerabile templum), nato, come vorrebbe Suringar, dalla sommatoria di ben quattro frammenti (religione patrum da Aeneis, 2, 715 o 8, 598; laetum 8 9 10 11 A. Damico, op. cit., p. 56. L. Della Torre, Commento ai centoni Iudicium Paridis e De ecclesia, diss. Padova 1993; F. Formica, Il centone virgiliano De ecclesia, diss. Napoli 2002 (di Francesca Formica è rilevante anche l’articolo Il riuso di Virgilio nel centone cristiano De ecclesia, in “Vetera Christianorum”, a. XXXIX, 2002, pp. 235-255, che illustra con ricchezza di documentazione le modalità del riuso virgiliano operato dal nostro centonario). In modo particolare nella densa monografia Centones Christiani. Métamorphoses d’une forme intertextuelle dans la poésie latine chrétienne de l’Antiquité tardive, Paris 2009. F. Formica, op. cit., p. 88. S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 27 da Aeneis, 10, 738, con cui condivide la medesima sede metrica; venerabile da Aeneis, 6, 408 o da 12, 767; templum da Aeneis, 4, 457 o 7, 174), o, come propone Schenkl, dall’unione di Aeneis, 8, 598, con la mutazione di late dell’ipotesto in laetum, e di Aeneis, 6, 408 o 12, 767, con la sostituzione rispettivamente di donum o di lignum con templum. Ma quest’ultimo lessema, se consideriamo la pericope del settimo libro, ritorna proprio al v. 174, come già Suringar aveva indicato, così come si riscontra, immediatamente associata nel medesimo contesto, la menzione degli antichi reges, che in quel tempio assumevano il potere, e dei patres, che sedevano a mensa dopo aver compiuto un rito che prevedeva il sacrificio di un ariete. La scena virgiliana offre, quindi, al centonario i materiali per la costruzione della sequenza iniziale del De ecclesia: la monumentalità dell’edificio, la sua antica e veneranda sacralità, garantita dal culto già praticato dai patres, il suo essere insieme dimora regale e divina, oltre che sede di riti secolari. Non sarebbe, inoltre, da escludere che proprio la menzione dei reges del v. 174 suggerisca l’immediato passaggio nel centone alla lunga perifrasi con cui è indicato Dio al v. 4, definito non a caso regnator nel verso precedente. La chiesa, dunque, si manifesta, in primo luogo, nella solidità della sua costruzione: tectum come sineddoche per templum è già attestato in Virgilio (Aeneis, 6, 13, con riferimento agli aurea tecta di Trivia). Tuttavia, nella continua dialettica con i testi sacri tipica di questo centone, il tectum è anche la parte terminale della costruzione che Cristo ha affidato a Pietro, e per sineddoche esprime di fatto l’ecclesia, contro cui nulla potranno le potenze del male, come si legge in Matteo, 16, 18: tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam. Si noti, non a caso, come l’idea della protezione dal male offerta dalla chiesa, e in particolare dal suo luogo simbolo, l’altare dove si compie liturgicamente il sacrifico eucaristico, sia ben allusa nel nostro centone dal secondo emistichio del v. 6: haec ara tuebitur omnis. I primi versi alludono, quindi, in questa costante opera di risemantizzazione dell’ipotesto virgiliano, alla doppia natura della chiesa: luogo che ha una sua identità, una sua fisicità ben definita, ma anche istituzione consacrata dalla tradizionale e perenne devozione dei fedeli, che si traduce in modo particolare nella dimensione rituale e liturgica praticata dall’intera comunità dei credenti. E tutto ciò provoca la laetitia dei fedeli: non a caso il centonario inserisce al centro del secondo verso, in posizione di rilievo, laetum, che qualifica il tempio allo stesso modo di aggettivi come augustum, ingens, sublime, venerabile. Laetum è una vera e propria parola chia- 28 L’esegeta appassionato ve del centone12: ritorna, infatti, anche ai vv. 13 e 110 e non è da escludere che possa fornire suggerimenti, come vedremo, anche in merito allo specifico liturgico del De ecclesia, visto che gioia e letizia sono soprattutto caratteristiche della Pasqua e dell’intero periodo pasquale. La sezione dei vv. 7-12 può offrire qualche indicazione più concreta in merito alla prassi liturgica, che troverà poi compiuta realizzazione alla conclusione del centone. Si prenda in particolare il v. 7: hic matres puerique simul mixtaeque puellae. Si tratta di un verso ancora una volta composto da diversi frustula virgiliani (i commentatori ne segnalano almeno cinque)13, a conferma della difficoltà di adattare l’ipotesto a una materia nuova e radicalmente diversa. Anche in questo caso è, tuttavia, possibile individuare una precisa scena dell’Eneide, da cui il centonario ricava le sequenze “grezze” che andrà poi ad affinare, sul piano compositivo, nella ricerca delle stringhe testuali più opportune. Si tratta con ogni probabilità dei vv. 215217 dell’undicesimo libro: Hic matres miseraeque nurus, hic cara sororum pectora maerentum puerique parentibus orbi dirum exsecrantur bellum Turnique hymenaeos. Il contesto allude al lutto delle donne latine, madri, spose, sorelle, e dei figli rimasti orfani che piangono i loro cari morti in guerra, maledicendo la guerra funesta e le nozze di Turno14. Il centonario ritrova in questi versi una sequenza trimembre al femminile (matres, nurus, sorores), che nel testo di arrivo finisce per condensare, contrapponendo in base all’età e al ruolo parentale le madri ai figli (puerique del v. 216) e alle puellae. Questo è l’uni- 12 13 14 Sulla sua importanza insiste opportunamente F. Formica, ivi, pp. 91-94, che giustamente coglie il nesso anche con la dimensione liturgica, come puntualizza a p. 93 e note 308 e 309, richiamandosi anche a citazioni tratte rispettivamente dai Sacramenta Romanae ecclesiae (PL 74, 1113) e dal Missale mixtum (PL 85, 487): “il sentimento di letizia è sovente associato al concetto di celebrazione, in particolar modo di quella pasquale, come si evince, per esempio, dalle seguenti formule tratte da testi liturgici: sacrificia, Domine, paschalibus gaudiis immolamus; exultemus et laetemur hodie: resurrexit Rex”. A. Damico, op. cit., p. 162, segnala, ovviamente sulla base di comunanza di posizione metrica, Aeneis, 11, 215 per hic matres, Aeneis, 11, 476 per puerique, Georgica, 3, 473 per simul, Aeneis, 5, 293 per mixtique (poi adattato dal centonario in mixtaeque) e Aeneis, 3, 307 per puellae. Nota nel suo commento K.W. Gransden (Virgil, Aeneid. Book XI, Cambridge 1991, p. 91) che in questi versi Virgilio “gives his most powerful anti-war sentiments”. S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 29 co lessema assente nella scena dell’ipotesto, ma che il centonario evoca dalla fusione di nurus e di sorores, ovviamente più giovani rispetto alle matres. E non è da escludere che per la clausola mixtaeque puellae il nostro autore abbia in mente non tanto Virgilio, dove non risulta attestata, quanto piuttosto Ovidio, e precisamente il v. 217 del primo libro dell’Ars amatoria (spectabunt laeti iuvenes mixtaeque puellae), dove il preannunciato trionfo di Augusto viene presentato come occasione di festa e di incontro (si noti anche qui la presenza di laeti)15. Se la memoria intertestuale ovidiana può avere una sua plausibilità e, soprattutto, una sua funzione, essa consiste nel capovolgere il tono luttuoso dell’ipotesto virgiliano per trasformarlo nel momento gioioso della partecipazione e della condivisione della liturgia. Il contesto del centone è, infatti, del tutto diverso: l’anafora di hic collega strettamente il v. 7 a quello precedente, hic domus est nobis, haec ara tuebitur omnis, in cui Dio garantisce, come detto, la protezione dal male, essendo la chiesa la casa comune che Egli condivide con tutti i fedeli (a maggior ragione, al v. 6, pare opportuno conservare la lezione nobis del Salmasiano, evitando la normalizzazione dell’ipotesto in vobis da Aeneis, 5, 638). Il v. 7 ci fornisce un’indicazione preziosa: la celebrazione liturgica pare riservata a donne sposate, forse anche vedove univirae, quindi non risposate, con i propri figli di entrambi i sessi, mentre sembrano esclusi gli uomini (se non dalla partecipazione al rito, cosa che parrebbe davvero eccessiva, almeno da una funzione attiva). Ciò sembrerebbe in contraddizione con il v. 14, quando il sacerdos, nell’allocuzione della sua omelia, si rivolge genericamente a matres atque viri, pueri innuptaeque puellae. Ma in realtà la menzione dei viri sembra alludere non tanto a un gruppo specifico di fedeli, quanto piuttosto ai graves aetate ministri del v. 100, ai proceres e agli antistites del v. 107, che avranno poi uno specifico ruolo nella sezione propriamente liturgica. I versi seguenti lasciano trasparire, pur attraverso rapidi accenni, alcuni aspetti del rito, come l’allusione al canto con lo sguardo rivolto al cielo, come si deduce dal v. 8 (sacra canunt pariterque oculos ad sidera tollunt), molto probabilmente un canto di gioia e di ringraziamento in una posizione abbastanza comune durante una celebrazione, come il sollevare in alto lo sguardo o anche le mani. Con molta prudenza avanzerei l’ipotesi che si possa far riferimento al canto del Gloria, che segue la sezione penitenziale 15 “Il trionfo come occasione di festa” è un motivo posto in giusta evidenza da E. Pianezzola nel suo commento a Ovidio, L’arte di amare, Milano 2015, p. 215, il quale, nell’àmbito della medesima tematica, individua interessanti paralleli anche in Orazio (Carmina, 4, 2, 41-42) e in Properzio (3, 4, 14-15). 30 L’esegeta appassionato del Kyrie recitata solitamente a capo chino: ad sidera può essere, infatti, alluso dalla sequenza in excelsis Deo, quando abitualmente i fedeli sollevano lo sguardo verso l’alto, accompagnati, secondo la prassi liturgica, dal gesto delle mani alzate del celebrante. E se ciò fosse vero, troveremmo un’ulteriore indicazione per collocare il nostro rito in occasione della Pasqua, poiché la recita del Gloria è ammissibile da parte di un semplice sacerdos solo in questo giorno, come specifica l’Ordo Romanus Primus (p. 130 Atchley, dicitur Gloria in excelsis Deo, si episcopus fuerit, tantummodo die dominico sive diebus festis; a presbyteris autem minime dicitur nisi solo in Pascha). È interessante notare che i due fontes virgiliani abitualmente segnalati per ad sidera, ovvero Aeneis, 9, 637 e 10, 262, contengono entrambi il lessema clamor16, riusato dal centonario al v. 10 e da lui risemantizzato, come ben traduce Damico, nel senso di “intense invocazioni”, che trovano ascolto ed esaudimento in Dio insieme con le preghiere più intime e personali del v. 9 (voces, vota, preces). Non è da escludere che qui il centonario stia compiendo, sul piano testuale, l’espansione di un versetto dei Salmi (101, 2, Domine exaudi orationem meam et clamor meus ad te veniat), solitamente utilizzato durante la liturgia. Impossibilitato a utilizzare il lessema oratio, in quanto difficilmente rientrante nello schema dell’esametro (e per di più non attestato in Virgilio), l’autore del De ecclesia riesce a recuperare, grazie al primo emistichio di Aeneis, 4, 460 (hinc exaudiri voces), il verbo exaudire e a intensificare retoricamente l’ascolto paziente e misericordioso da parte di Dio delle richieste dei fedeli, sia quelle individuali sia quelle della comunità, quest’ultime realizzate col termine clamor. I fedeli hanno dunque uno spazio definito e un ruolo attivo durante la celebrazione: potrebbe la prassi liturgica fornire una soluzione per un problema testuale relativo alla conclusione del v. 11? Si tratta della scelta tra la lezione noctis del Salmasiano, mai presente nell’ipotesto a fine verso, o tectis che si trova in Aeneis, 1, 730 (a Belo soliti; tum facta silentia tectis). Il fons allude alla coppa d’oro e di gemme di Belo e dei suoi discendenti che Didone utilizza nel banchetto con Enea per libare in onore degli dèi: il silenzio cala sulla sala prima che la regina pronunci le sue parole rituali. Di recente tanto Formica quanto Damico (sebbene quest’ultima in 16 Nel primo caso, per la precisione, l’attestazione dell’ablativo clamore ricorre al verso precedente, il v. 636. A. Damico, op. cit., p. 162, segnala, invece, come possibile occorrenza dell’ipotesto Aeneis, 11, 37, che, a mio parere, non pare il fons tenuto presente dal centonario poiché il contesto allude, in un’atmosfera totalmente negativa, all’ingens gemitus durante il compianto per la morte di Pallante. S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 31 modo più problematico) hanno preferito la lezione del Salmasiano17: le argomentazioni addotte dalle studiose sono ingegnose e ben costruite, poiché è indubbiamente vero che la clausola silentia noctis, se non virgiliana, è perlomeno presque virgilienne, come confermato, ad esempio, dalla Tebaide di Stazio, 1, 44118, che la impiega nella medesima sede metrica del centone, così come è altrettanto certo che molte celebrazioni, come le veglie, si svolgevano, allora come adesso, di sera inoltrata. Ritengo, tuttavia, preferibile ritornare, con i precedenti editori, a tectis per una serie di motivazioni. In primo luogo è plausibile, come ha ben argomentato Paola Paolucci19, che noctis possa costituire un errore del copista, tratto in inganno dal riecheggiamento del contesto (noctes atque dies del v. 10; prima quies all’inizio del v. 11). Tuttavia, al di là dell’errore più o meno meccanico, è proprio la struttura del modello virgiliano a essere chiaramente evocata nel suo insieme dal centonario. Infatti, in entrambi i testi cala il silenzio su una sala affollata e animata per dare il massimo della visibilità a un personaggio (in Virgilio Didone, nel centone il sacerdos), che pronuncia un discorso di alta densità religiosa, come l’evocazione delle divinità, seguito poi da un rito (al v. 736 la regina compie, infatti, la libagione rituale: dixit et in mensam laticum libavit honorem). Leggere tectis, dunque, non vuol dire, in questo caso, appiattire il centone sull’auctoritas dell’ipotesto, come tante volte accade in situazioni analoghe20. Infatti, anche dal punto di vista del rito praticato nel De ecclesia, il silenzio calato nella chiesa pone al massimo dell’evidenza la figura del sacerdos, che inizia il suo sermone, come specificato al v. 12, ispirato direttamente da Dio. E il silenzio, prima solo diffuso (prima quies), poi generalizzato in tutta l’assemblea, ben si adatta alla consuetudine delle omelie, quando i fedeli, una volta af17 18 19 20 F. Formica, op. cit., pp. 125-127 (che a p. 126 ricorda anche la proposta, ingegnosa ma troppo azzardata, di Schenkl di leggere silentia linguis, sul fondamento del v. 585 di Proba, secondo lo studioso tenuto come modello per questo verso del De ecclesia: suspiciens caelum. tum facta silentia linguis); A. Damico, op. cit., pp. 62-63. Ulteriori attestazioni, oltre a quella staziana, di questa clausola, da Lucrezio e Ovidio fino a Silio Italico, sono registrate da A. Damico, op. cit., p. 63. P. Paolucci, Il soffio di Zefiro e la Vergine. Emendamento al centone De ecclesia, in “Exemplaria Classica”, a. XI, 2007, pp. 157-166, in particolare p. 158, nota 5. Sul punto sono imprescindibili metodologicamente le osservazioni formulate più volte da G. Salanitro, ottimamente sintetizzate nella Silloge dei Vergiliocentones minori, Acireale-Roma 2009, p. 17, in cui lo studioso mette in guardia dal rischio di normalizzare sistematicamente il testo dei centoni sulla vulgata virgiliana, ricordando che “i centoni hanno spesso andamento ellittico e brachilogico, talora anche non privo di aporie, ma tutto ciò va tollerato e rispettato”. 32 L’esegeta appassionato fidato a Dio il clamor delle loro preghiere, si pongono devotamente all’ascolto del celebrante. Abbiamo già avuto modo di constatare come questa sezione, che abbiamo definito “para-liturgica” perché gli elementi del rito sono allusi piuttosto che descritti, dialoghi di frequente con la sequenza più propriamente liturgica, che si trova alla conclusione del De ecclesia, ovvero i vv. 99-110: Haec ubi pro meritis, finem dedit ore precandi. succedunt alii graves aetate ministri: pars in frustra secant onerantque altaria donis; tum demum pueri et pavidae longo ordine matres stant circum. Quos ubi confertos manu circumtulit omnes, sic prior adgreditur mensas atque incipit ipse. Et postquam primus summo tenus adtigit ore, accipiunt proceres pariterque antistites omnes et pueri rudes: sequitur tunc cetera pubes. Protinus ad reditum quisquis, ad tecta domorum tendimus et laetum semper celebramus honorem. 100 105 110 Le linee generali del testo risultano abbastanza chiare, anche se permangono ancora delle oscurità circa la reale identificazione di alcuni personaggi menzionati, come i proceres del v. 107, o la loro effettiva funzione all’interno del rito. La sequenza può essere agevolmente suddivisa in quattro scene: ai vv. 99-103, una volta terminata l’omelia del sacerdos, la funzione prosegue con la presentazione dei doni liturgici da parte di ministri autorevoli per la loro età, accompagnati da fanciulli (in procinto di ricevere un sacramento per la prima volta, o l’eucarestia oppure il battesimo) e dalle matres, da identificare probabilmente non tanto con le madri dei fanciulli, quanto con l’ordo viduarum21. Segue poi un breve inter21 Sull’importanza delle vedove e del loro ministero nella Chiesa antica cfr. la monografia di B.B. Thurston, The widows: a women’s ministry in the early church, Philadelphia 1989; interessante anche per gli aspetti giuridici J.E. Grubbs, Virgins and widows, show-girls and whores: late Roman legislation on women and Christianity, in R.W. Mathisen (a cura di), Law, society and authority in late Antiquity, Oxford 2001, pp. 220-241. Sulla figura della vedova nella cultura cristiana sono di notevole rilevanza anche i numerosi contributi di A.V. Nazzaro, in particolare La vedovanza nel cristianesimo antico, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli”, a. XXVI, 1983-84, pp. 103-132, e Figure di donne cristiane: la vedova, in R. Uglione (a cura di), La donna nel mondo antico, Torino 1988, pp. 197-219. Le vedove avevano un posto particolare nelle assemblee liturgiche, come testimoniato dal De exhortatione castitatis di Tertullia- S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 33 mezzo, ai vv. 104-105, in cui il sacerdote, dopo aver compiuto un gesto non del tutto chiaro anche a causa dei problemi testuali del v. 104 (su cui si tornerà in dettaglio in seguito), dà inizio alla celebrazione del rito eucaristico. Ai vv. 106-108 si descrive la distribuzione dell’eucarestia secondo un preciso ordine gerarchico, dai proceres e gli antistites, forse i laici più autorevoli della comunità accompagnati ciascuno da un sacerdote, ai pueri ancora rudes, ovvero che non avevano per il momento ricevuto ancora il sacramento dell’eucarestia (ipotesi, a mio avviso, forse preferibile, in questo contesto, rispetto a chi riscontra, invece, l’assenza del battesimo, sul fondamento del De catechizandis rudibus agostiniano)22, per finire con l’insieme di tutti i fedeli. I vv. 109-110 indicano, invece, la conclusione della liturgia, con l’invito ai partecipanti a ritornare alle proprie case conservando, in coerenza con i versi iniziali (si noti al v. 110 la ripresa, come già accennato, di laetum del v. 2), la laetitia provata durante la celebrazione. Molte delle difficoltà derivano dal fatto che la poesia centonaria, soprattutto cristiana, è in larga misura allusiva, non meramente descrittiva, e pertanto, sul piano del metodo, la sua corretta esegesi richiede la collaborazione attiva del lettore/interprete. Si prenda l’esempio del v. 99, il primo della sequenza; il passaggio dall’omelia del sacerdos alla ripresa del rito è parso a qualche interprete particolarmente brusco, anche a causa della forte brachilogia del primo emistichio haec ubi pro meritis. In realtà il centonario sta attuando una condensazione del seguito del sermo, che si concludeva con l’esortazione diretta ai fedeli a difendere la fede a costo della morte, 22 no (11, 2, stabis ergo ad dominum cum tot uxoribus quot in oratione commemores et offeres pro duabus et commendabis illas duas per sacerdotem de monogamia ordinatum aut etiam de virginitate sancitum, circumdatum viduis univiris?); cfr. anche R. Gryson, Il ministero della donna nella Chiesa antica: un problema attuale nelle sue radici storiche, Roma 1974, pp. 53-55, che ricorda come le vedove avessero un seggio nelle assemblee liturgiche subito dopo i presbiteri. Come ben precisa A.M. Velli (in Agostino, La catechesi ai principianti, Milano 2005, p. 13), la valenza semantica di rudis, nell’accezione cristiana (e agostiniana), è ben diversa da quella classica, poiché sta ora a indicare non l’individuo privo di educazione, ma chi è “digiuno di cultura cristiana, ignorante dei principi della fede, non educato, sensibilizzato, raffinato nello spirito della morale e della dottrina della cultura cristiana”. Sul punto si era espressa con chiarezza anche F. Formica, op. cit., p. 130, che identifica i rudes nei “battezzandi”, che ricevevano questo sacramento durante la veglia pasquale. La studiosa, inoltre, alle pp. 299-300, evidenzia (seguita in questo da A. Damico, op. cit., p. 155) come rudis sia un’innovazione del centonario, in quanto non trova riscontro nell’ipotesto. 34 L’esegeta appassionato anche in questo caso con animo laetus, nella certezza di un reditus al cielo. L’espressione pro meritis è stata interpretata di recente in vario modo, dai “meriti del sacerdote”, come suggeriscono, in maniera tra loro indipendente, Della Torre e Formica23, ai “meriti” che otterrà il fedele in ricompensa per aver combattuto per Cristo, come ha proposto, invece, Damico24. A mio avviso è possibile un’altra lettura, che forse ci può fornire anche qualche suggerimento in merito alla prassi compositiva del centone. Il discorso del sacerdos termina quando costui allude ai praemia Christi conseguiti dai martiri, che evidentemente sono proposti al fedele come modello cui adeguarsi, pur non essendo esplicitamente menzionati. La valenza allusiva è, in ogni modo, facilmente rilevabile proprio dal termine merita, che ritorna sempre in associazione ai martiri in molta letteratura agiografica, come risulta, ad esempio, dalle numerose attestazioni negli epigrammi di Damaso (si veda, anche qui tra i tanti esempi possibili, il noto epigramma 20 Ferrua, in onore degli apostoli Pietro e Paolo, al v. 4: sanguinis ob meritum Christumque per astra secuti)25. Il centonario, quindi, attraverso il ricorso a un lessema dalla forte carica evocativa, condensa la parte, evidentemente più scontata, relativa al parallelo con l’esempio dei martiri, che ogni lettore cristiano era in grado di ricostruire autonomamente, poiché il nostro autore si dimostra interessato a concentrare le ultime parole in forma diretta del sermo alla vigorosa parenesi dei vv. 96-98, dall’impatto retorico ed emotivo sicuramente più efficace. Più complessa e articolata risulta, invece, l’interpretazione del v. 104: quos ubi confertos manu circumtulit omnes. Il verso risulta dalla fusione di due fontes virgiliani: Aeneis, 2, 347, quos ubi confertos audere in proelia vidi, con allusione ai Teucri pronti a combattere in difesa della propria città, e Aeneis, 6, 229, idem ter socios pura circumtulit unda. Se il primo emistichio non pone problemi compositivi, nel secondo si deve, invece, riscontrare un certo numero di controversie. Per maggiore facilità di comprensione il verso è qui riprodotto con un apparato di servizio, costruito in larga misura sul fondamento dell’edizione Damico: 23 24 25 L. Della Torre, op. cit., p. 172 (anche se la studiosa pone la sua interpretazione in forma dubitativa); F. Formica, op. cit., p. 290, secondo cui la locuzione equivale a “secondo le capacità trasfuse nel sacerdos da Dio, ispiratore del sermo”. A. Damico, op. cit., p. 148. Sul meritum sanguinis in relazione ai praemia Christi cfr. U. Reutter, Damasus, Bischof von Rom (366-384): Leben und Werk, Tübingen 2009, pp. 134-135 (e in particolare, con riferimento al citato epigramma 20, anche nota 252). Utile anche D.E. Trout, Damasus of Rome: the epigraphic poetry, Oxford 2015, pp. 121-122. S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 35 quos ubi confertos manu circumtulit omnes manu s1 Schenkl: -us S (= Salmasianus) Suringar (qui et panem con. in app.) et Baehrens munus Riese || omnes circumtulit unda vel socios circumtulit unda con. Suringar in app. ex fonte Vergiliano (Aen. 6, 229, idem ter socios pura circumtulit unda). Il centonario sostituisce pura con manus (corretto in manu già nel Salmasiano) e unda con omnes. Tanto manus quanto manu pongono un problema prosodico, poiché la quantità breve della penultima sillaba non si concilia, nel contesto del verso, con la struttura dell’esametro, ma, come è stato più volte notato26, la prosodia del centone non segue quella classica ed è possibile supporre anche in questo caso (come del resto ai vv. 36, 49, 100, 108) un allungamento non in arsi della quantità. Ancor meno congruente la congettura di Suringar, che, pur conservando manus nella sua edizione (come farà anche Baehrens dopo di lui), ne suggerisce la correzione in panem, che però, oltre a non avere attestazioni virgiliane, mal si concilia con la prima parte del verso, dove sarebbe necessario il ricorso a una preposizione, come ad o per, davanti a confertos, da legare poi per iperbato al successivo omnes. Riese, volendo ovviare alla difficoltà prosodica, propone di leggere munus (sul fondamento di Bucolica, 8, 60, dove la parola è attestata nella medesima sede metrica: deferar; extremum hoc munus morientis habeto), che verrebbe qui ad assumere la valenza di “dono eucaristico”27, ovvero l’eucarestia che passa tra le mani dei sacerdoti presenti prima di finire tra quelle del celebrante. La lettura più convincente, e ora recepita nelle più recenti edizioni, è, in ogni caso, manu, fatta sua già da Schenkl, che ha un innegabile vantaggio sul piano sintattico rispetto a manus, poiché permette, come nota giustamente Della Torre28, di disporre di un unico soggetto per tutti i predicati, garantendo inoltre, sul piano del rito, la centralità del ruolo del sacerdos, in coerenza con tutta la struttura del centone. Ma a quale momento della celebrazione liturgica si riferisce questo verso? Già Suringar ipotizzava la benedizione pronunciata dal sacerdote, che tende le mani davanti alla mensa eucaristica. Una simile lettura può conciliarsi na26 27 28 Ad esempio da S. Condorelli nella sua recensione all’edizione Damico in “Bollettino di studi latini”, a. XL, 2010, pp. 812-814. Un puntuale regesto delle infrazioni metriche del De ecclesia è stilato nella sua edizione dalla stessa Damico, op. cit., pp. 33-34. Mi rifaccio qui all’interpretazione di F. Formica, op. cit., pp. 296-297, che in ogni caso legge manu. L. Della Torre, op. cit., p. 177. 36 L’esegeta appassionato turalmente con l’adozione di manus, ma se, come pare opportuno, si opta per manu si devono prendere in esame altre situazioni. Formica, seguita da Damico, rileva nel verso un richiamo alla chirotonia, ovvero la purificazione dei fedeli mediante l’imposizione delle mani sui fedeli dall’altare e la loro benedizione29. È un’ipotesi interessante e coerente sia col testo sia con lo svolgimento della celebrazione, ma forse si può supporre un diverso momento liturgico, valorizzando ulteriormente la memoria virgiliana del secondo emistichio (tratto, come detto, da Aeneis, 6, 229). È opportuno ricordare brevemente il contesto: il verso in questione si trova all’interno del rito funebre che i Troiani compiono in onore di Miseno rimasto insepolto. Corineo, dopo averne raccolto le ossa in un’urna di bronzo, gira per tre volte intorno ai suoi compagni, bagnandoli con lievi stille col ramo di un ulivo. Si tratta, pertanto, di un rito di purificazione, come del resto confermato da Servio nel commento ad locum, il quale glossa circumtulit come purgavit, ricorrendo anche ad esempi linguistici di Plauto e Giovenale: Ter socios aut saepius, aut re vera ter: licet enim a funere contraxerint pollutionem, tamen omnis purgatio ad superos pertinet, unde et ait inparem numerum: aut quia hoc ratio exigit lustrationis. Circumtulit purgavit. Antiquum verbum est. Plautus “pro larvato te circumferam” [fr. 179 Lindsay], id est purgabo: nam lustratio a circumlatione dicta est vel taedae vel sulphuris. Iuvenalis “si qua darentur sulphura cum taedis” [Saturae, 2, 157-158]. Mi pare ipotizzabile che il centonario possa voler conservare questa dimensione rituale, come aveva già immaginato lo stesso Suringar che, tra le sue proposte di correzione, scrive anche omnes circumtulit unda oppure socios circumtulit unda, con l’intento di salvaguardare la presenza dell’acqua come elemento di purificazione. Anche in questo caso la mediazione allusiva del lettore può contribuire, a mio avviso, a ripristinare proprio il rito purificatorio dell’abluzione delle mani del celebrante, di particolare rilievo anche simbolico nella fase di passaggio tra la liturgia della parola e la consacrazione eucaristica. La risemantizzazione dell’ipotesto potrebbe essere, in questo caso, facilitata proprio dalla rara e specifica accezione di circumferre, come confermato dalla glossa serviana, nel senso di “purificare”; se intendiamo manu non come complemento di mezzo, ma di limitazione, e consideriamo il singolare come una necessità contingente per l’impossibilità oggettiva sul piano metrico di utilizzare il plurale, il senso del verso potrebbe essere “il sacerdote purificò nelle mani quanti erano riuniti intorno 29 F. Formica, op. cit., pp. 295-296; A. Damico, op. cit., p. 152. S. Audano - Testo e liturgia nel centone De ecclesia 37 a lui”, con riferimento, facilmente intuibile da parte di ogni lettore, al rito della lavanda delle mani (pienamente codificato nella liturgia, come attestato, tra gli altri, dalla Catechesi mistagogica di Cirillo di Gerusalemme 5, 2-11)30. Se questa proposta interpretativa ha la sua plausibilità (in raccordo quanto sostenuto in precedenza, in particolare circa la collocazione a Pasqua della celebrazione narrata nel De ecclesia), avremmo un’ulteriore conferma della capacità del nostro centonario di riusare con sagacia l’ipotesto virgiliano in dialogo con la cultura cristiana, anche nello specifico della liturgia e della ritualità, segno concreto di una capacità di confronto tra mondi diversi, ma che trovavano ancora nel culto di Virgilio un fondamentale e condiviso punto di riferimento. 30 Ricavo l’indicazione da Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, a cura di V. Saxer, Milano 1994, p. 610: “avete visto il diacono porgere l’acqua per l’abluzione al vescovo e ai presbiteri che circondano l’altare di Dio. Non la porgeva certo loro per lavare la sporcizia del corpo; non è così: non certo con il corpo sporco fin dall’inizio siamo entrati nella Chiesa. L’abluzione delle mani è simbolo della necessaria purificazione da tutti i peccati e trasgressioni. Le mani infatti sono simbolo dell’agire e lavandole alludiamo alla purezza e irreprensibilità del nostro agire. Avete udito il beato Davide spiegare questo mistero dicendo: ‘Laverò tra gli innocenti le mie mani e circonderò il tuo altare, Signore’ (Sal 25,6)? L’abluzione delle mani dunque è simbolo dell’immunità dal peccato”. Ulteriori materiali sul rito della lavanda delle mani nel contesto liturgico sono reperibili in G. Mura (a cura di), La teologia dei Padri, vol. IV, Roma 19822, pp. 157-178.