Emergenza abitativa
e conflitto sociale
Facoltà di Scienze politiche, Sociologia e Comunicazione
Corso di laurea in Scienze Sociali Applicate
Cattedra di Metodologie di valutazione e ricerca sociale applicata
Candidato
Alessandra Zunino
1509066
Relatore
Marina Ciampi
Correlatore
Carmelo Bruni
A/A 2014/2015
1
INDICE:
Introduzione p. 5
1 Che cos'è la città?
1.1 La città moderna nei classici della sociologia
p. 8
1.2 Il marxismo e la città p. 15
1.3 Dalla città moderna alla città contemporanea: sguardi critici p. 20
2 Abitare la città
2.1 L'abitare nella città moderna p. 33
2.1.1 Engels e la questione delle abitazioni p. 35
2.2 Studi sull'emergenza abitativa italiana nel secondo dopoguerra p. 40
2.3 La questione abitativa nella città contemporanea p. 47
2.3.1 La questione abitativa in Italia: peculiarità e contraddizioni p.51
3 Edilizia sociale e mercato immobiliare
3.1 La legislazione sulla casa in Italia p. 58
3.1.1 I primi passi dell'intervento pubblico nel settore immobiliare
Italiano p. 59
3.1.2 L'evoluzione delle politiche abitative: dal piano Fanfani alla crisi
dell'edilizia residenziale pubblica. p. 62
3.1.3 Le politiche abitative nel terzo millennio p. 69
3.2 La questione abitativa in Europa: i differenti modelli d'intervento
pubblico p. 73
2
4 Housing e movimenti sociali: il caso di Berlino
4.1 L'edilizia sociale in Germania: limiti e peculiarità del modello
Tedesco p. 79
4.2 Conflitto sociale e riqualificazione urbana nella Berlino di fine
secolo p. 81
4.3 Il volto di Berlino nel terzo millennio p. 87
4.4 Lotte urbane nella Berlino contemporanea p. 92
4.4.1 Lotte per la casa a Kreuzberg: il caso Kotti&co p. 98
4.4.2 L'occupazione abitativa più longeva di Berlino:
il caso Koepi 137 p. 104
5 Emergenza abitativa e conflitto sociale: il caso di Roma
5.1 Sviluppo urbanistico e politiche abitative a Roma dall'unità d'Italia alla
seconda guerra mondiale p. 112
5.2 Espansione incontrollata e speculazione edilizia: Roma dal secondo
dopoguerra ai giorni nostri p. 120
5.3 I movimenti per il diritto all'abitare Romani: evoluzione e
radicalizzazione del conflitto sociale p. 126
5.3.1 Un occupazione “giovanile”: lo studentato Degage p. 132
5.3.2 La luna è del popolo! L'esperienza di Metropoliz Lab p. 137
Conclusioni p. 141
Bibliografia p. 148
3
Introduzione
Questo lavoro di ricerca si propone di indagare il fenomeno dell’emergenza
abitativa e la conflittualità sociale ad esso collegata, attraverso la comparazione tra
due differenti contesti urbani: quello di Berlino e quello di Roma.
La scelta della tematica è legata all’importanza che la problematica riveste nello
scenario socio-politico attuale: tanto in Italia quanto in Germania, infatti, l’argomento
è al centro di un intenso dibattito; inoltre, esso rappresenta uno dei punti focali
attorno ai quali si articolano le rivendicazioni dei movimenti sociali.
Obiettivo di questa ricerca è, dunque, il portare alla luce le contraddizioni
strutturali che determinano la riproduzione della questione abitativa, osservando i
piani che la compongono, ovvero indagando le modificazioni relative al mercato
immobiliare, alle politiche pubbliche in materia di housing e all’incidenza della
conflittualità urbana nel tessuto sociale.
Al fine di contestualizzare adeguatamente la problematica, nella prima parte del
lavoro viene proposto un approfondimento sulla città moderna, nel quale si illustrano
alcune teorie sociologiche che affrontano il legame tra le diverse fasi della società
capitalistica e i processi di urbanizzazione; altresì, attraverso i numerosi studi che
hanno indagato la questione in chiave critica si osserva in modo specifico la tematica
dell’abitare. Si affronta, poi, nel terzo capitolo, il rapporto tra politiche pubbliche e
mercato immobiliare nel quadro di un excursus storico, in modo da ripercorrere le
tappe delle riforme italiane in materia di edilizia; vengono, inoltre, presi in
considerazione i differenti modelli di housing sperimentati nei paesi dell’Unione
Europea.
La seconda parte della ricerca è dedicata agli studi di caso: per entrambi i
contesti è stato preso in considerazione l’intreccio tra i cambiamenti nel mercato
immobiliare, le strategie di politiche pubbliche finalizzate al contenimento
4
dell’emergenza e l’azione dei movimenti per il diritto all’abitare. Attraverso l’analisi
dello scenario attuale, si indaga sulla composizione sociale delle categorie coinvolte
nella problematica e sul grado di conflittualità espresso. Per entrambe le città
vengono riportati, inoltre, due casi specifici di vertenze per la casa, grazie ai quali è
possibile comprendere adeguatamente le peculiarità dei due differenti contesti extraistituzionali, osservando altresì il grado d’integrazione delle istanze dei movimenti
nel quadro socio-politico generale.
La metodologia utilizzata nell’elaborazione della ricerca è di tipo qualitativo: lo
studio sulle città è stato effettuato da un lato analizzando i dati statistici e testuali
proposti dalle fonti ufficiali, dall’altro operando un’osservazione partecipata dei
contesti di movimento ed utilizzando lo strumento dell’intervista non strutturata; la
comparazione tra i due scenari è stata invece effettuata attraverso una cross analisys.
5
1. Che cos'è la città?
Al fine di elaborare un'analisi sistematica che sappia leggere i cambiamenti della
condizione abitativa all'interno del contesto metropolitano, appare di fondamentale
importanza partire da una ricostruzione del significato attribuito dalla letteratura
sociologica allo spazio urbano, intendendo con questo termine non soltanto la città in
quanto “insieme di case, strade e mura”1, ma un unità territoriale complessa, che si ristruttura continuamente in base al mutamento delle relazioni sociali, politiche ed
economiche degli individui al suo interno, ed all'interdipendenza col sistema sociale
nella sua totalità.
La questione dell'abitare appare dirimente per mettere a fuoco la correlazione tra
suddivisione dello spazio urbano e stratificazione sociale, in questo senso mi
interessa guardare alle modalità attraverso cui questa suddivisione si costruisce e si
cristallizza nel tempo, altresì al modo in cui essa, essendo prodotto dei rapporti
politico-economici contingenti, viene vissuta e percepita dagli attori sociali.
Se la struttura delle città è fortemente mutata, possiamo facilmente renderci
conto di quanto l'avvento della società capitalista sia stato il principale propulsore di
un cambiamento radicale che ha trasformato in maniera netta il ruolo, la connotazione
e l'estensione dello spazio urbano; un cambiamento situato all'interno di una
modificazione della distribuzione del potere territoriale, che pur mantenendo una sua
gerarchizzazione, si è formalmente ristrutturato su nuovi apparati amministrativi e
legislativi, allo stesso tempo è cambiato profondamente il modo di vivere la città e
nella città.
Sono ormai trascorsi diversi secoli dalla prima rivoluzione industriale, e il
capitalismo si è sostanziato sempre di più come un potente apparato produttivoideologico, capace di investire all'oggi praticamente tutto il globo; questo processo di
1
Il riferimento è alla definizione di città che Dennis Diderot da nel Encyclopedie del 1751
6
mondializzazione, lungi dall'essere lineare, si è verificato attraverso conflitti e
fratture, sul piano geopolitico come su quello strettamente territoriale.
In questo capitolo ci si propone di fornire un quadro sintetico sui processi che
hanno determinato l’evoluzione della città che noi oggi conosciamo, adottando una
prospettiva che metta in connessione dialettica le trasformazioni urbane con i
mutamenti della struttura economica e le conseguenti ripercussioni sulla realtà
sociale, ponendo la questione dell'abitare come elemento centrale per esplicitare
alcune delle contraddizioni intrinseche al modello di sviluppo capitalista e il loro
potenziale di rottura.
1.1. La città moderna nei classici della sociologia
Il processo con cui si arriva alla definizione di città moderna appare
particolarmente complesso e fortemente dipendente dalle specificità epistemologiche
correlate alle differenti discipline che se ne occupano; questo primo, banale dato se da
un lato è correlabile indissolubilmente alla definitiva settorializzazione del sapere che
si esplica con l'avvento della modernità, dall'altro lascia trapelare un antagonismo di
fondo tra differenti approcci teorici che guardano alla nascita e alla riproduzione dello
spazio urbano, e la conseguente impossibilità di giungere a un' univoca
interpretazione del fenomeno dell'urbanizzazione.
Tra i padri fondatori della sociologia, seppur secondo visioni differenti, sono
soprattutto Weber e Simmel ad affrontare la questione urbana: se il primo guarda
soprattutto al rapporto bidirezionale che si crea tra interazione sociale e transazione
economica, Simmel si concentra sul cambiamento della soggettività individuale in
rapporto a questo nuovo modello di organizzazione spaziale che non esita a definire
metropoli.
7
Entrambi i contributi2 risultano fondamentali per comprendere alcuni punti
cardine della struttura materiale della città moderna, e per iniziare a delineare il modo
in cui si costituisce il suo peculiare apparato di senso.
“Se si cerca di definire la città dal punto di vista meramente economico, sarebbe
un insediamento nel quale gli abitanti vivono prevalentemente non di proventi di
attività agricole, bensì di redditi industriali e commerciali. Non sarebbe però
conveniente chiamare «città» tutte le borgate di questa specie.
(..) Altra caratteristica che deve coesistere perché si possa parlare di «città» è
l'esistenza di uno scambio regolare e non solo occasionale di merci sul luogo
dell'insediamento quale elemento essenziale del guadagno e dell'approvvigionamento
degli abitanti: cioè l'esistenza del mercato. Però non tutti i «mercati» fanno
dell'abitato, in cui hanno luogo, una «città». (..) Noi vogliamo parlare di «città» nel
senso economico solo nei casi in cui la popolazione stabile, copre una parte
economicamente essenziale del suo fabbisogno giornaliero sul mercato locale ed in
particolare prevalentemente con prodotti che la popolazione locale e quella degli
immediati dintorni ha fabbricato oppure acquistato per la vendita sul mercato. Ogni
città nel senso qui usato è «luogo di mercato», ossia possiede un mercato locale
quale centro economico dell'insediamento, sul quale, in seguito all'esistente
specializzazione della produzione economica, anche la popolazione non cittadina
copre il suo fabbisogno di prodotti industriali o di articoli commerciali o di
entrambi3”
Questa la definizione che Max Weber dà del concetto di città economica nelle
prime pagine del saggio Die Stadt (la città), contenuto nell'opera postuma Economia
e Società4.
La prospettiva che attraversa il testo è certamente quella della sociologia
tipicamente weberiana; la base d'intenti che muove lo scritto è infatti quella di
2
3
4
I testi a cui ci si riferisce sono principalmente: G. Simmel, Le metropoli della vita e dello spirito, Roma 1995, e M.
Weber, La città, in Economia e Società, Milano 2014.
Max Weber, La Città, pp 15-17
Max Weber, Economia e Società, Einaudi, Milano 2014.
8
illustrare in che modo si è arrivati alla città occidentale dove vi è una “borghesia che
si amministra da se”5 mettendo a confronto le differenti forme assunte dalle comunità
cittadine in oriente e in occidente nel periodo dell'antichità e in quello medioevale.
Un punto focale su cui vale la pena riflettere è la centralità che Weber riconosce
al “mercato”: definendolo un elemento essenziale per la caratterizzazione della città
occidentale e ponendolo al centro di quella che è la sua strutturazione, Weber ci
spinge a sottolineare l'inscindibilità del rapporto tra il mutamento economico,
l'emergere della forma-stato e la conseguente burocratizzazione della società, la
connotazione dello spazio urbano e la sostanziazione di un senso comune atto a
legittimare e a dare linearità ai cambiamenti sociali.
È di fondamentale importanza ricordare come per Weber il capitalismo non sia
una conseguenza della “rivoluzione industriale”, al contrario, come magistralmente
illustrato nel testo più volte citato, egli rintraccia le sue origini nell’ epoca medioevale
e in quella antica.
Se la società dell'epoca greco-romana si basò sull'accumulazione di profitto
attraverso mezzi politico-militari, in una struttura spaziale dove la città era fulcro
economico, nell'epoca imperiale questa tendenza finì con l'essere schiacciata dalla
contraddizione tra un'economia sempre più orientata in senso agricolo e una struttura
di poteri amministrativo-militari dipendenti dall'economia monetaria. È nel medioevo
che la città riveste nuovamente un ruolo centrale tornando a rappresentare
quell'intersezione tra interesse economico, potere politico e potere religioso; in
quest'epoca, asserisce Weber, il cittadino della città continentale (in contrapposizione
alle città costiere, che per Weber sono in origine strutturate sul commercio a lunga
distanza e per questo più simili a quelle orientali) è già un homo oeconomicus.
All'interno della macro categoria di città economica, il sociologo tedesco
identitifica molteplici idealtipi, associabili sostanzialmente a due gruppi distinti,
quello delle città di consumatori e quello delle città di produttori, una differenza
basata sulla determinanza in termini di profitto della capacità d'acquisto di diversi
5
Vedi introduzione di Wilfred Nieppl in Max Weber, economia e Società, la città, Donzelli editore, Milano 2003.
9
gruppi sociali, tuttavia egli non fa una correlazione specifica tra idealtipi ed epoche
storiche.
Non è compito di questo lavoro addentrarsi nella complessa analisi sociologica
Weberiana, ciò nonostante nel Die Stadt troviamo un'interessante ricostruzione delle
tappe intercorse tra la città classica, quella che unisce polis, urbs e civitas, e la città
occidentale moderna, allo stesso tempo questo studio appare un contributo parziale e
purtroppo non sviluppato pienamente secondo le prerogative che lo stesso Weber si
era proposto di seguire nella stesura di un opera, Economia e Società, che alla sua
morte non era affatto completata.
Volgendo oltre il nostro sguardo, troviamo l'opera di Simmel; pur essendo stato
a lungo trascurato, il sociologo tedesco ci offre una importantissima interpretazione
della modernità, tanto da essere definito da alcuni come l'autore classico
effettivamente più vicino alle analisi contemporanee6.
Il pensiero di Simmel si articola in maniera non troppo uniforme, la difficoltà di
sistematizzazione dei suoi testi, insieme all'influenza dell'opera di Parsons La
struttura dell'azione sociale dalla quale il pensiero simmeliano è deliberatamente
escluso, sono tra i principali motivi della scarsa notorietà di cui gode l'opera di
Simmel, almeno fino alla sua riscoperta dagli anni settanta in poi.
Lo studio sul quale ci si soffermerà, Le metropoli della vita è dello spirito 7, è da
molti considerato emblematico per la comprensione dell'analisi che Simmel fa della
modernità; emerge chiaramente come per l'autore la realtà sociale sia un fluire
incessante fissato in forme attraverso l'effetto di reciprocità e i processi di sociazione;
la peculiarità della modernità è che il mutamento perenne qui diviene elemento
essenziale: è “un tempo in perpetuo divenire”.
L'obbiettivo di questo testo è, altresì, quello di comprendere le forme
dell'esperienza moderna; qui ritroviamo l'importanza che per Simmel ricopre la
metropoli; identificata come la conformazione spaziale propria dell'epoca, essa è per
6
7
Vedi P. Jedlowski, introduzione a G. Simmel, Le metropoli della vita e dello spirito, Armando editore, Roma 1995
Jedlowski, op. cit.
10
il sociologo tedesco tanto il luogo della massima espressione d'individualità quanto
l'espressione dell'ipertofia della Verstand8: Con questo termine Simmel intende “una
facoltà logico- combinatoria, eminentemente orientata alla calcolabilità. In questa
accezione è la più adattabile delle nostre facoltà.”.
Questo orientamento al calcolo che s'insinua nella coscienza individuale è
direttamente collegabile, sempre all'interno di un rapporto di reciprocità, alla
rilevanza estrema assunta dall'economia monetaria; in particolare Simmel osserva
come il denaro, una volta divenuto equivalente universale di valore, tende ad oscurare
la sensibilità verso ciò che è qualitativamente dissimile, influendo in maniera
determinante nella formazione di un tipo di personalità che lui chiama “individuo
blasè”, ovvero disincantato, colui che in reazione all'eccesso di stimoli che
caratterizza la vita metropolitana risponde con l'indifferenza.
Il secondo elemento particolarmente rilevante in questo saggio è la tendenza all'
individualizzazione che Simmel identifica come tipica dello spazio metropolitano;
seguendo la semplice equazione per cui maggiore è l'ampiezza di un gruppo sociale
maggiore è la possibilità di coltivare la propria singolarità rispetto agli altri membri
della cerchia, Simmel vede nella città moderna il luogo del trionfo dell'individualità;
questa tuttavia non è affatto assimilabile alla libertà incondizionata, è anzi sintomo di
una crescente separazione tra spirito oggettivo e spirito soggettivo. Questo
scollamento è direttamente connesso all'accrescimento spasmodico della cultura
depositata dall'uomo per l'uomo, una mole di sapere così imponente da superare di
gran lunga le capacità di elaborazione dell'individuo.
L'analisi di Simmel appare di notevole interesse nella misura in cui dai suoi
scritti sulla metropoli emerge in primo luogo la necessità di guardare ai rapporti di
reciprocità e di influenza tra fenomeni considerandoli come necessariamente
concatenati, un approccio che potrebbe essere definito9 “relazionale”; allo stesso
tempo ritengo che i tratti che egli individua come salienti nella personalità del
8
9
Jedlowski, op. cit.
Jedlowski op.cit.
11
cittadino metropolitano, lungi dall'essere obsoleti, rappresentano oggi una tendenza
estendibile alla società occidentale nel suo complesso.
Finora abbiamo visto studiosi che si occupano di città solo in maniera tangente,
guardando più ai complessi cambiamenti delle relazioni sociali nel corso delle epoche
storiche, sia Weber e Simmel sono inoltre pensatori europei praticamente
contemporanei: cosa succedeva oltreoceano?
Nel 1892 a Chicago nasce il primo dipartimento di studi sociologici americano
che intorno al 1920, attorno alla figura di Robert Park, si trasforma in una vera e
propria “scuola” di ricerca; due sono i punti cardine attorno al quale si sviluppano i
lavori di questi studiosi: la predilezione per le analisi “sul campo” svolte di solito
utilizzando la metodologia dell'osservazione partecipante e il fatto di incentrare tutti
gli studi nella città, rendendo di fatto questo elemento un punto focale delle ricerche
stesse, in quanto identificato come ambiente “naturale” dei gruppi sociali.
L'approccio che contraddistingue la scuola è dai più definito “ecologico”:
Il lavoro di R.E. Park e E.W. Burgess era basato sulla differenza tra quelle forze
che operano nella e sulla vita sociale indipendentemente dalla coscienza e
dall'azione degli attori, e il significato che questi ultimi assegnano a tali forze e
processi. Rifacendosi esplicitamente al lavoro di Warming e di Clement sull' ecologia
delle piante e a quello del pioniere dell'ecologia animale, C. Elton , Park e Burgess
si riferivano al primo tipo delle forze sociali come a un ordine “ecologico”. Questa
analogia tra l'ecologia vegetale e animale e la dimensione inintenzionale della vita
sociale umana venne sviluppata e applicata soprattutto nel campo della sociologia
urbana.10
Con questo sguardo particolare vengono condotte numerose ricerche sul tessuto
urbano cittadino, molte delle quali prendono in esame “gli ultimi” della società e
toccano da vicino argomenti allora scarsamente presenti nella letteratura sociologica,
affrontando la marginalità e il suo rapporto con la divisione dello spazio sociale. La
10 Dal dizionario delle scienze sociali, ed. italiana a cura di Paolo Jedlowski, Milano 1997.
12
città è inoltre il titolo di uno dei saggi più famosi della scuola 11, dal quale emerge
chiaramente l'idea di società urbana che contraddistingue gli studiosi.
Sicuramente centrale, nella struttura sociale della metropoli è l'elemento della
mobilità; questo termine non viene però utilizzato dandogli un significato univoco,
esso indica sia il movimento spaziale, sia la predisposizione al mutamento che, come
abbiamo già osservato in Simmel, anche qui viene annoverata tra gli elementi che
connotano l'individuo moderno: in quest'ottica si mostra come la forma che la città
assume nella modernità è possibile grazie alla mobilità (intesa in senso economicosociale); allo stesso tempo le metropoli, con la loro infinita serie di stimoli, sono il
luogo nel quale la mobilità è resa possibile (almeno apparentemente).
Tuttavia non si può certo dire che per Park l'esito di questi processi sia lineare,
pur con un'impostazione organicista, il sociologo americano pone l'accento su quelle
dinamiche che provocano l'esclusione sociale, considerandole in un rapporto
bidirezionale con la segmentazione dello spazio sociale. Per esprimere questo
concetto viene usato il termine distanza sociale, direttamente collegata alla struttura
territoriale, secondo Park, tipica delle città moderne:
Uno schema che, come spiegato nel saggio
Costituisce una rappresentazione ideale delle tendenze di una città qualsiasi,
grande o piccola, a espandersi radicalmente a partire dal quartiere commerciale
centrale indicato nel diagramma come il “centro”. Intorno al centro cittadino si
trova normalmente un'area di transizione che viene occupata da imprese
commerciali e da piccole industrie. Una terza area è abitata dagli operai
dell'industria che sono sfuggiti dall'area di deterioramento, ma che desiderano
abitare a breve distanza dal luogo di lavoro. Oltre questa zona vi è “l'area
residenziale” occupata da edifici con appartamenti di lusso o da quartieri
privilegiati e “chiusi”, con abitazioni monofamiliari. Più oltre, al di la dei confini
della città, vi è la zona dei lavoratori pendolari, costituita da aree suburbane città
11 R.Park, E. Burgess, R. Mckenzie, R. Rauty, A. De Palma, La città, Milano 1999.
13
satelliti e situata a mezz'ora o un'ora di viaggio dal quartiere commerciale centrale.12
Si nota subito come questo modello a cerchi concentrici non può essere riferibile
alle città del vecchio continente, allo stesso tempo il carattere prettamente funzionale
che gli studiosi di Chicago associano alla città è un elemento limitante, in quanto
appiattisce la complessità dei rapporti sociali tra vari “gruppi” urbani: se è vero che
nell'epoca moderna la mobilità sociale è possibile,
è vero anche che per
comprenderla affondo è necessario intrecciare all'analisi dello spazio urbano uno
studio serrato dei mutamenti relativi alle condizioni economiche e culturali delle
soggettività coinvolte nel processo non dando per scontato il legame tra spazio di vita
e ruolo sociale, ma piuttosto cogliendone contraddizioni e tendenze.
1.2. Il marxismo e la città
Fino ad ora abbiamo visto come la sociologia classica abbia affrontato la
questione dell'urbanizzazione moderna, nonostante gli autori trattati offrano tutti
prospettive diverse è chiaro che essi si situano in un dibattito interno ad una
disciplina specifica (la sociologia).
Volgendo oltre lo sguardo, anche nelle opere di Marx ed Engels l'elemento della
città moderna appare essenziale: essa rappresenta il punto emblematico per cogliere
l'intreccio tra forze produttive e rapporti di produzione nelle varie epoche storiche;
seguendo la prospettiva del materialismo dialettico, Marx nel suo tentativo di
delineare le tappe che portano alla piena affermazione del capitalismo, analizza a
fondo il rapporto tra città e campagna nei termini del cambiamento degli assetti
proprietari e della distribuzione del potere tra gli strati della popolazione, partendo
dalle modificazioni nella divisione del lavoro.
La questione del lavoro in Marx è direttamente connessa alla sua idea di
12 R. Park op. cit.
14
individuo come essere sociale: come scrive lo storico Hobsbawm nella prefazione
all'edizione del 1985 del testo “le forme economiche precapitaliste”13
l’uomo, o meglio gli uomini, compiono un lavoro, cioè creano e riproducono la
loro esistenza nell’attività quotidiana, respirando, creando cibo, ricovero, amore ecc.
Per Marx il primo lavoro dell'individuo è sicuramente quello di “costruire se
stesso”, interagendo con l'ambiente che lo circonda l'uomo diventa “animale sociale”,
contemporaneamente in base alle epoche storiche si sviluppano differenti forme di
divisione del lavoro nelle quali la specificazione delle mansioni (e dei ruoli sociali)
determina la possibilità che si crei un'eccedenza, ovvero la base dello scambio; in
Marx quindi parlare di produzione economica significa parlare di riproduzione
sociale, del modo di vita che si sviluppa attorno ad un determinato assetto produttivo.
Marx identificando un legame tra sviluppo della divisione del lavoro, differenze
tra lavoro e scambio e forme diverse di proprietà ripercorre le tappe storiche della
civiltà occidentale, mettendo appunto in connessione dialettica i vari aspetti che
compongono la realtà sociale e soprattutto andando a cogliere di volta in volta gli
elementi di conflitto e i rapporti di forza tra quelle che lui riconosce essere le classi
sociali in contrapposizione.
Marx passa in rassegna le forme economiche che gli uomini si sono dati nella
storia, iniziando da quell'assetto che lui definisce “tribale”
14
ovvero basato su
un'economia familiare di sussistenza con divisione dei ruoli all'interno, e una
sostanziale assenza di produzione, situazione che tende a mutare con l'aumento
estensivo della popolazione, le continue guerre tra “clan” che danno vita alla pratica
della schiavitù, e soprattutto l'avvento della produzione a fine di scambio che si
presenta in forma artigiana e commerciale, in contrapposizione alla coltivazione di
terre.
É in questo peculiare momento che nasce una vera e propria divisione del
lavoro, che si sostanzia sul piano politico con la nascita della città dall'unione dei vari
13 E. Hobsbawm introduzione a K. Marx, Le forme economiche precapitaliste, edizioni riunite 1985
14 K. Marx, op. cit.
15
gruppi, a questo passaggio per Marx corrisponde l'inizio della seconda fase, ovvero
quella della comunità antica e dello stato.
Se l'asse dicotomico che separa città e campagna inizia a delinearsi con la
nascita delle attività artigiane e commerciali, è in questa fase che questa
contrapposizione diventa un fatto compiuto: la città acquista infatti il ruolo di fulcro,
da una parte la forma di proprietà in questo periodo è sostanzialmente quella della
comunità contadina (inclusi gli schiavi), dall'altra essa diviene il centro politicomilitare della società; la campagna di fatto è schiacciata dal dominio della città
politica e ne è dipendente sotto tutti gli aspetti.
La terza fase, quella delle comunità germaniche a struttura feudale si produce da
conflitti interni alla città, che più che esplodere saranno spazzati via dall'avanzata dei
“barbari”, in questa fase la dicotomia con la campagna diventerà un vero e proprio
rapporto conflittuale: da una parte i rapporti di produzione si sviluppano sul modello
feudale, dall'altra si mantiene quella divisione del lavoro che riguarda i ceti
commercianti e artigiani, questo antagonismo tra rendita fondiaria e proprietà privata
sarà la tendenza predominante di questo momento storico e si risolverà col trionfo del
sistema urbano sul sistema feudale e il definitivo passaggio alla fase successiva,
ovvero la fase capitalistica.
La forma politica che legittima questa forma economica è quella dello stato
moderno, e i processi che attraversano e danno vita a questa fase sono frutto di una
serie di antagonismi: quello tra città e campagna, quello tra proprietà mobile e privata
e proprietà fondiaria e comunitaria, quello tra feudalesimo e borghesia; la peculiarità
del ragionamento Marxista sta nel modo in cui tutti questi livelli vengono messi in
connessione reciproca, abbandonando le logiche di causa- effetto e piuttosto
dimostrando il legame tra struttura socio-politica e produzione. È da sottolineare
ancora, che per Marx la produzione non si svolge soltanto sul piano materiale ma
anche su quello intellettuale: l'antagonismo tra città e campagna incarna, come punto
di sintesi questo duplice significato e ne è la trasposizione reale; una frattura
16
direttamente collegabile con la progressiva divisione delle classi sociali.
La dicotomia città/campagna è tuttavia per Marx destinata ad estinguersi nel
momento in cui nasce e diventa predominante il modo di produzione legato
all'industria moderna, il capitale diventa capitale industriale e l'universalizzazione
della concorrenza ne accelera concentrazione e circolazione; in questo modo anche
la stessa “natura” scompare sotto il peso dei nuovi rapporti di produzione plasmati
sulla grande industria.
Non è in questa sede che è possibile sviscerare con puntualità l'opera di Marx,
che come tutti sanno, oltre ad essere un' analisi peculiare di un modello economico di
cui al tempo poco o nulla si conosceva, è una serrata critica alle diseguaglianze
endemiche alla struttura del modo di produzione capitalista; inoltre il pensiero di
Marx, con il suo prefigurare che l'acuirsi dello scontro tra classi non può che portare
al un superamento della società capitalista e alla costruzione di una società comunista
ad opera del proletariato, diventerà di fatto la teoria rivoluzionaria che, alternando
livelli d'intensità, dalla sua nascita fino ai giorni odierni si contrapporrà all' “ideologia
capitalista”.
Ritengo che l'apporto dato dal pensiero Marxista allo studio della città sia
assolutamente fondamentale tanto sul piano micro quanto su quello macro
sociologico: infatti se nell'opera di Marx come abbiamo visto si guarda alla
complessità del processo storico e si analizzano criticamente i passaggi che ne
scandiscono le tappe, gli studi di Engels sulla realtà urbana inglese15 ci offrono una
descrizione analitica della nuova classe (il proletariato) che popola le città capitaliste
identificando i tratti che la caratterizzano e la rendono il motore riproduttivo del
sistema sociale.
Concetti come quello di atomizzazione o di alienazione sono pienamente intuiti
da Engels, ma ciò che ritengo ancora più importante è il suo concentrarsi sui modi di
vita delle classi subalterne per rendere visibili le contraddizioni della realtà urbana
15 Ci si riferisce qui alle opere F. Engels, La situazione della classe operaia in inghilterra, 1845 e F. Engels, La
questione delle abitazioni 1887.
17
quotidiana; questioni come quella degli alloggi allora diventano quindi emblematiche
per la messa in luce delle diseguaglianze: la situazione abitativa appare in qualche
modo lo specchio di uno sfruttamento che travalica i rapporti di produzione e si
impone sulla stessa esistenza individuale.
Guarderemo al testo La questione delle abitazioni più approfonditamente
affrontando le specificità dell'abitare moderno; rispetto alla definizione di città il
contributo di Engels è fortemente significativo altresì perché, attraverso la
comparazione di diversi modelli di città (inglesi) si offre una chiara visione del
legame tra struttura industriale e dimensione urbana, subendo le pratiche di
segregazione e di decomposizione del centro la classe operaia, che per Engels è la
categoria sociale più ampia, vive in spazi separati e occultati al resto della
popolazione urbana, di fatto una dissimulazione dello sfruttamento ad opera della
classe borghese.
Engels nota come all'ordine dell'industria moderna corrisponde un “disordine
urbano” direttamente collegato alla struttura economica capitalista: è attraverso il
sistema della concorrenza che lo spazio viene urbanizzato, e l'edilizia diventa
elemento centrale per la riproduzione di capitale, il centro cittadino si trasforma e le
classi lavoratrici vengono spostate ai margini dello spazio urbano, dove le abitazioni,
malsane e precarie, si ammassano indistintamente; queste caratteristiche risultano
emblematiche per cogliere come lo sfruttamento travalichi la condizione lavorativa e
si estenda alla totalità della vita quotidiana.
Alla riproduzione di questo “disordine urbano” contribuisce inoltre in maniera
determinante la caratteristica propria al modo di produzione capitalista di necessitare
di una “riserva” di mano d'opera da assorbire o espellere nel processo produttivo a
seconda dei cicli economici; in termini sociologici una massa di soggetti posti ai
margini della vita sociale che quando non occupati, soventemente si trasformano in
individui “devianti”.
Engels, seguendo l'approccio dialettico, connette strettamente la marginalità
18
sociale alle carenze strutturali del sistema economico, delineando con le sue analisi
l'ipotesi che la devianza è diretta conseguenza dello sfruttamento sistematico di una
classe (borghese) che detiene il potere non solo economico ma anche ideologico su
un'altra classe (lavoratrice), contemporaneamente essa, in virtù della sua peculiare
struttura spaziale, è anche il luogo privilegiato perché gli sfruttati si incontrino e
riflettano in senso rivoluzionario sulla loro condizione.
La questione del duplice ruolo della città moderna, come agente di sfruttamento
e come potenziale terreno di conflitto, è una costante del pensiero Marxista, che verrà
ripresa successivamente da coloro che si approcceranno alla questione urbana
seguendo le linee guida di questa scuola di pensiero.
Le scienze sociali hanno sempre avuto un duplice rapporto con le teorie di Marx
ed Engels sulla città: se da un lato in molti ne sono rimasti influenzati anche solo
tangentemente, la sociologia urbana ha iniziato a prendere in considerazione gli studi
marxisti solo a partire dagli anni sessanta, e grazie ai contributi di studiosi nettamente
diversi fra loro, come Manuel Castells, Henri Lefebre, Pierre Bordieu, e più tardi
David Harvey si è riusciti ad ampliare il bagaglio analitico di una disciplina tutt'altro
che definita.
1.3. Dalla città moderna alla città contemporanea: sguardi critici
Abbiamo visto nei precedenti paragrafi come la città e le sue trasformazioni
siano un elemento preponderante delle analisi che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo,
guardano alla comprensione della società capitalistica che inizia ad affermarsi con
forza; pur non potendo parlare per questi autori di studi in sociologia urbana i loro
lavori saranno alla base delle correnti di questa specifica disciplina che ancora oggi,
appare tutt'altro che chiaramente definibile.
Risulta infatti difficoltosa persino la ricostruzione delle tappe storiche che ne
scandiscono i mutamenti; in quanto disciplina particolarmente versatile infatti, la
19
sociologia urbana si compone di molte correnti differenti, che nel tempo si sono
sviluppate secondo paradigmi non riconducibili ad una sola origine teorica ma anzi
secondo una tendenza all'utilizzo di tecniche e tematiche d'indagine multidisciplinari.
Tuttavia per questo lavoro di ricerca è indispensabile una sistematizzazione,
seppure parziale e sintetica, delle principali scuole di pensiero che si formano nel
secolo scorso e che hanno come campo di riferimento lo spazio sociale e le sue
trasformazioni, questo perché ritengo non si possa adeguatamente comprendere il
fenomeno dell'emergenza abitativa nella metropoli contemporanea senza guardare al
modo in cui questo particolare modello spaziale è stato analizzato nel corso del
tempo.
Alfredo Mela nel manuale di sociologia urbana Sociologia delle città16
differenzia due tradizioni di ricerca: quella americana, improntata sulle teorizzazioni
della scuola di Chicago (vedi paragrafo 1.1.1.) e quella europea, che prende piede
invece un paio di decenni prima, a partire dal dibattito che si sviluppa su modernità e
industrializzazione, nel quale la città inizia ad essere rappresentata come lo spazio
dove si manifestano i caratteri sociali tipici dell'epoca: un'approccio definito
“dicotomico”.
Abbiamo osservato entrambi i punti di vista nel paragrafo dedicato a città e
classici della sociologia: per quanto riguarda il panorama statunitense il punto di vista
ecologico, alternando diverse fasi metodologiche, rimarrà dominante fino agli anni
'80, quando approcci come quelli più legati alla riproduzione culturale o quello della
“political economy” cominciano ad essere rilevanti; rispetto al panorama europeo
invece è necessario sottolineare come le diverse specificità degli stati abbiano
contribuito in maniera determinante allo sviluppo di sguardi diversificabili sulla base
delle differenze strutturali dei vari paesi.
Specialmente in Germania ritroviamo una forte influenza del pensiero di
Toennies, Weber e Durkheim, ovvero di quel tipo di sguardo che tende a descrivere la
16 A. Mela, Sociologia delle città, Milano 2006
20
realtà sociale e i processi di modernizzazione attraverso categorie dicotomiche in
contrapposizione, in questo modo alle varie epoche storiche sono associate strutture
economico-politiche e socio-spaziali opposte a quelle proprie dell'epoca moderna.
Un altro approccio che si impone nel corso del XX secolo nella letteratura sulla
città, è quello definito “critico” o “conflittualista”; esso ha origine dalla teoria
marxista e si sviluppa soprattutto in Europa in maniera assolutamente eterogenea,
tuttavia questi studi si muovono tutti all'interno dell'asse tracciato da Marx di
indagare la città nel suo rapporto di reciprocità con il capitale guardando a come gli
elementi in contraddizione possano trasformarsi in agenti di conflitto sociale.
Nei primi anni del novecento i pensatori marxisti non si occupano
specificatamente della questione urbana, tuttavia in maniera tangente autori come
Benjamin o Adorno affrontano la tematica della vita nelle città, leggendo il marxismo
in chiave anti-dogmatica e anti-deterministica allargano la portata della loro analisi
alla sfera della riproduzione culturale e comunicativa, rendendo l'immagine di una
società dove il capitalismo non è solo sistema economico, ma apparato ideologico
totale che si impone latentemente sull'individuo e ne condiziona ogni aspetto dell'
esistenza.
Una vera e propria contaminazione tra pensiero marxista e sociologia urbana si
avrà però solo a partire dalla seconda metà del secolo, quando la situazione sociale in
quasi tutto il globo inizia ad essere incandescente, e lo spazio urbano diviene
palesemente lo scenario entro cui si articola un'intensa stagione di lotte estese alle
categorie sociali più disparate, in questo quadro sono molti gli studiosi sociali che
riprendono in mano le categorie dell'analisi marxista, soprattutto in Francia, dove si
verifica una straordinaria contaminazione interdisciplinare.
Studiosi differenti che affrontano il rapporto tra capitalismo e realtà sociale
cogliendone in pieno la complessità e le contraddizioni, fornendo al contempo un
prezioso strumento per alimentare la formazione teorica dei movimenti e un
fondamentale contributo alle scienze sociali: è il caso del filosofo urbano Hernri
21
Lefebvre e dello studioso sociale Emmanuel Castells, che con premesse diverse
riportano l'analisi marxista all'interno del discorso sociologico.
Lefebvre parte da una prospettiva filosofica di marxismo dialettico, riletto in
chiave critica e anti-dogmatica, nella sua opera più nota, il diritto alla città17, egli si
sofferma sulla connessione tra capitale e spazio urbano, osservando come in tutte le
epoche storiche struttura spaziale e sistema economico si siano vicendevolmente
determinati, ed è all'interno dello spazio sociale che coesistono
entrando in
contraddizione l' ordine lontano, ovvero l'insieme di disposizioni che formano
l'apparato ideologico e di potere di una società, e l'ordine vicino, quell'insieme di
esperienze, bisogni, affetti che afferiscono alla sfera della vita quotidiana.
Secondo Lefebvre la società capitalista si contraddistingue per avere dato vita ad
uno spazio assoluto e completamente funzionale alle esigenze della produzione, a
questo secondo l'autore consegue un acuirsi dei conflitti sociali, che da condizione
latente iniziano ad essere vissuti come spinte rivendicative, in questo processo egli
intravede la possibilità che con le trasformazioni dell'assetto economico l'abitante sia
sempre più protagonista, al pari della figura operaia, di cicli di lotte improntati sui
bisogni materiali legati alla vita urbana.
Lefebvre dalla sua prospettiva pone una critica serrata al funzionalismo
parsoniano e alla sua influenza sull'urbanistica: per il filosofo francese infatti il
guardare alla città come a un sistema chiuso e autoreferenziale è il modo attraverso
cui rappresentare l'urbano come spazio di legittimazione del potere costituito, in
questo senso egli condanna le teorizzazioni degli urbanisti, soprattutto di quelli legati
alla scuola di Le Corbuasier, intendendo i loro studi come tentativi di trovare una
sintesi a due elementi inconciliabili, quell' ordine vicino e ordine lontano affrontati
precedentemente.
Egli rileva come il “progetto razionalista” di città funzionale sia fallito, in
quanto i mutamenti della struttura economica hanno determinato un saldamento tra
produzione industriale, consumo e circolazione di merci che rende di fatto la città
17 H. Lefebvre, Il diritto alla città, Padova 1970.
22
rappresentabile come un' “infrastruttura” modellata sulle esigenze del potere, diventa
allora decisivo quel rapporto di conflitto che si instaura tra la sfera della quotidianità
individuale, quella afferente a bisogni e desideri, e il tentativo delle strutture di potere
politico- economiche di plasmare soggetti integrati nella riproduzione materiale e
ideologica del capitale.
Il diritto alla città di cui l'autore parla allora, è identificabile da una parte nella
tendenza rivendicativa di bisogni e spazi urbani da parte dell'abitante della metropoli,
dall'altra nella possibilità di destrutturare la base materiale e simbolica del
capitalismo sulla quale si regge la riproduzione dello spazio sociale, ed in questo
senso egli nelle ultime pagine del testo immagina la possibilità della costruzione di
una “società urbana” a misura dei bisogni individuali, che può scaturire solo da un
processo rivoluzionario:
Solo il proletariato può investire la sua attività sociale e politica nella
realizzazione della società urbana. Parimenti esso solo può rinnovare il senso
dell'attività produttrice e creatrice distruggendo l'ideologia del consumo. Esso ha
dunque la capacità di produrre un nuovo umanesimo, differente dal vecchio
umanesimo liberale che sta terminando la sua corsa: l'umanesimo dell'uomo urbano
per il quale e per mezzo del quale la città e la sua propria vita quotidiana nella città
diventa opera, appropriazione, valore d'uso (e non valore di scambio) servendosi di
tutti i mezzi della scienza, dell'arte, della tecnica, del dominio sulla natura
materiale.18
L'altro studioso continentale che prenderemo in considerazione è Emmanuel
Castells, nel momento in cui viene edito il testo di Lefebvre un sociologo emergente,
vicino alla prospettiva dello strutturalismo marxista di Altousser 19 in netto contrasto
18 H. Lefebvre, op. cit.
19 Althusser è considerato il padre dello strutturalismo marxista, interpretazione che si pone in antitesi con la filosofia
francese degli anni '50- '60 nella quale, secondo Altousser vi è un' errata lettura di Marx che tende a porre come
oggetto del materialismo storico e dialettico l'individuo, incorrendo in derive umanistiche e storicistiche. al
contrario secondo la posizione strutturalista, soprattutto nei lavori maturi Marx da vita a un metodo scientifico
(materialismo storico e dialettico n.d.r) alla cui base c'è da una parte un'interpretazione della storia come processo
senza soggetti e senza fini predeterminati, che muta in relazione alla lotta tra classi, dall'altra una visione
epistemologica del sapere e dei meccanismi della sua produzione. Per approfondire il complesso panorama della
teoria strutturalista vedi: L. Althusser, leggere il capitale, Milano 1976; M. Godelier, L. Sève, Marxismo e
23
con la filosofia lefebvriana.
Castells, con il suo testo La questione urbana20 porta la prospettiva Marxista
all'interno della sociologia urbana, criticando aspramente le posizioni espresse ne il
diritto alla città accusa il filosofo francese di aver proposto una sorta di feticismo
dello spazio, nel quale la produzione del urbano assumeva un peso eccessivo a
discapito delle condizioni strutturali che sono alla base delle relazioni sociali, e
quindi delle forme urbane.
Castells critica quindi tutto l'impianto della sociologia urbana, definendolo un
prodotto dell'ideologia capitalista; egli non nega che la città sia effettivamente il
fulcro dei processi di produzione, vede però questo particolare dato come un prodotto
delle condizioni strutturali dell'emergente capitalismo:
è la necessità della
concentrazione di forza lavoro che determina la forma della città moderna, ed in
questo senso egli vuole partire dall'analisi del modo di produzione (intenso come il
complesso delle sfere dei rapporti sociali, economici, politici e ideologici) per
guardare alle contraddizioni che si manifestano nello spazio urbano a lui
contemporaneo.
Il sociologo catalano dedica la sua attenzione a quei movimenti sociali che
andavano affermandosi in molti paesi europei; Castells nota come l'elemento della
lotta per salario inizia ad essere affiancato e in alcuni casi sostituito da rivendicazioni
di salario indiretto indissolubilmente legate allo spazio urbano, tuttavia l'opera non va
ad analizzare nello specifico la composizione di classe interessata a questi fenomeni,
piuttosto si occupa di illustrare con sistematicità i passaggi strutturali che (a suo
avviso) ne determinano la presenza ed il potenziale conflittuale.
Il fulcro dello scontro nel capitalismo avanzato si riscontra per Castells sul piano
del consumo, egli ritiene che esso vada assumendo un ruolo sempre più determinante
nella produzione da un lato per il suo impatto nella realizzazione del plusvalore
dall'altro perché il consumo risulta centrale nei processi d'integrazione politica delle
strutturarlismo, Milano 1974; G. Rinzivillo, Karl Marx dialettica e memoria, Roma 2013.
20 E. Castells, La questione urbana, Venezia, 1974.
24
rivendicazioni di classe; questa maggiore importanza produce sia un intervento del
capitale monopolistico che razionalizza l'insieme dei consumi individuali sia
l'intervento dello stato che attraverso la pianificazione diventa “organizzatore” dei
consumi collettivi, rendendoli quindi direttamente politicizzati.
Per Castells il processo di consumo non risulta omogeneo, ma differenziato
storicamente e strutturalmente, nelle ipotesi del sociologo lo spazio urbano è inteso
come riproduzione collettiva della forza lavoro, e i relativi problemi sociali che ne
scaturiscono afferiscono alla sfera dei consumi collettivi;
in questo senso egli
definisce la pianificazione urbana come l'agire politico che tende a garantire la
riproduzione della forza lavoro e quindi la riproduzione strutturale del modo di
produzione, e i movimenti sociali urbani come:
Sistema di pratiche che risultano dall'articolazione di una congiuntura definita,
allo stesso tempo dall'inserimento di agenti - supporti nella struttura urbana e nella
struttura sociale e tale che il suo sviluppo tende oggettivamente a trasformare in
termini strutturali il sistema urbano o a modificare in modo sostanziale il rapporto di
forza nella lotta di classe, cioè in ultima istanza nel potere dello stato.21
Le teorizzazioni di Castells a mio avviso, sono particolarmente calzanti nella
descrizione di come l'articolazione della società urbana sia frutto dell'affermazione
del modo di produzione capitalista, allo stesso tempo ritengo fondamentale il
tentativo di demistificazione di una disciplina (la sociologia urbana appunto) che
appiattendosi sul modello funzionalista di fatto diventa un esercizio di legittimazione
della struttura economica politica e sociale nonché la base teorica affinché essa si
riproduca seguendo le esigenze del capitale.
Inoltre Castells, identificando la possibilità che le lotte per il salario si
trasformino in lotte urbane trascendendo la dimensione solo economica ed
estendendo le rivendicazioni ai bisogni materiali in senso ampio, riesce a cogliere con
largo anticipo quella che dalla fine degli anni settanta in poi diventerà una delle
caratteristiche peculiari dei movimenti sociali; tuttavia, come già accennato
21 op. cit. p. 404
25
precedentemente, egli non si occupa di svolgere un'analisi dettagliata della
composizione di classe che sarà interessata a questo processo, lasciando così scoperto
un grosso nodo problematico: se tra rivendicazioni salariali e proletariato c'è un nesso
storico chiaramente identificabile, la nuova soggettività che emergerebbe nel
capitalismo avanzato quali categorie sociali dovrebbe coinvolgere?
Certamente Castells sconta il limite nel quale troppo spesso incorre lo
strutturalismo: quello di focalizzare l'attenzione sulla produzione e riproduzione dei
modelli, senza prendere in considerazione quanto il soggetto storico è l'elemento che
funge da motore di questi processi: in negativo poiché il processo di strutturazione
del sé implica l'introiettamento di norme sociali e modelli comportamentali che
dipendono direttamente dall'ideologia dominante, a questo meccanismo di
soggettivazione però corrisponde sempre una tendenza alla contro- soggettivazione,
ovvero la possibilità per l'individuo di agire in positivo destrutturando le maglie del
reticolo di potere politico- economico nel quale si situa.
Chi riuscirà con la sua opera a colmare i limiti del paradigma strutturalista è
Michael Foucault, un teorico fondamentale nel panorama della teoria marxista e non
solo, un pensatore poliedrico e completo che attraverso i suoi studi darà vita ad una
vera e propria “rivoluzione epistemologica” Egli sovverte l' oggetto della ricerca
storiografica ed attraverso il metodo archeologico e genealogico indaga le strutture
epistemologiche intese come reticoli di poteri e saperi che operano definendo i
“confini discorsivi” della “verità” di un'epoca.22
Si può dire che l'opera di Foucault fece in Europa quello che fece l'arrivo delle
22 La letteratura che tratta l'opera di M. Foucault è sterminata, essendo egli considerato uno dei pensatori più
importanti del secolo scorso ed essendo enorme l'influenza del suo pensiero sulle scienze sociali e sulla filosofia,
non solo europea. Nello specifico rispetto ai suoi scritti li ritengo tutti egualmente significativi per la comprensione
completa del suo approccio teorico: i testi storia della follia, le parole e le cose e l'archeologia del sapere si
concentrano sull'aspetto archeologico della sua opera e mirano a svelare i meccanismi soggiacenti alla storia delle
idee e alle loro mutazioni analizzando i discorsi disciplinari. Nelle opere successive invece egli si concentra sulla
sfera del potere, ed attraverso il metodo genealogico, osserverà il modo in cui il discorso si fa verità. Una teoria
estremamente complessa che verrà chiamata “metafisica del potere”, profondamente anti-psicologista, che vede la
struttura stessa della società come un reticolo di poteri e resistenze, una realtà storica che si determina sulla base di
conflitti e che li riproduce costantemente in tutti i suoi livelli, e che per questo è impossibile da leggere
unitariamente. Per una trattazione di questi aspetti si veda tra gli altri P. Amato, la biopolitica, mimesis, Milano,
2004.
26
traduzione delle opere di Althusser negli Stati Uniti: aprire un dibattito in chiave
critica all'interno della disciplina, arricchendo il panorama della sociologia urbana di
posizioni che contribuirono ad alimentare la nascita di quel paradigma denominato
“urban political economy”, un approccio composito che Alfredo Mela 23 definisce
così:
La political economy urbana pone al centro dell'attenzione i meccanismi
economici di sviluppo della città e i relativi squilibri sociali, nonché il tema dei
rapporti di potere tra il governo urbano e le diverse categorie di soggetti sociali,
portatori di bisogni ed esigenze spesso conflittuali con gli interessi dominanti.
Sono molti gli studiosi, europei e statunitensi che guardano a queste tematiche,
attraverso studi differenti sia sul piano metodologico sia rispetto ai differenti aspetti
fenomenici, riproducendo un dibattito che ha dato vita, nel tempo, a correnti di
pensiero specifiche.
Ai fini di questo lavoro di ricerca si prenderà in considerazione la cosiddetta
scuola della “new urban sociology”24 e in particolare i lavori del noto geografo David
Harvey.
I suoi studi sono oggi considerati tra i contributi più importanti per la
comprensione del fenomeno della crisi finanziaria del 2008 e più in generale per
l'analisi del capitalismo contemporaneo; nonostante alla sua pubblicazione non abbia
riscosso molto successo, è a partire dal testo limit to the capital25 che Harvey sviluppa
in maniera compiuta il suo peculiare approccio di materialismo storico-geografico,
operando un confronto con i tre libri del classico di Marx egli tende ad osservare la
struttura del modo di produzione capitalista guardando allo spazio nel quale si dipana.
Harvey nota come alla base del rapporto tra dimensione spaziale e modo di
produzione capitalista vi sia una contraddizione profonda tra la tendenza
omogenizzante del processo di accumulazione e il suo esprimersi in forme differenti,
una dicotomia che egli definisce con la coppia concettuale omogeneo/differente; se
23 A. Mela, op. cit. p. 30
24 Definizione coniata da M. Gottdiener nel testo Social production of urban space, Dallas, 1994.
25 D. Harvey, Limit to the capital, Blackwell, Oxford, 1982
27
da un lato infatti il processo di riproduzione necessita di basarsi su mobilità e fluidità,
dall'altro esso ha ugualmente bisogno di strutturarsi in forme spaziali concrete, in
questo senso lo spazio rappresenta il frutto di un rapporto sociale antagonistico
nonchè “limite” del capitale perché frena il processo di accumulazione e spinge il
capitale ad un processo di restaurazione che esige il suo superamento.
Tutto questo contribuisce ad alimentare la fondamentale instabilità della
circolazione di capitale: essa per Harvey appare ineliminabile in quanto direttamente
dipendente da un'altra contraddizione endemica al processo di produzione, quella tra
lavoro vivo e innovazione tecnologica. Lo squilibrio tra questi due poli conduce a
situazioni di crisi che tendono a riassorbirsi su una delle due direttrici, tuttavia
Harvey è interessato ad osservare quei casi in cui la contraddizione lavoro
vivo/innovazione incontra una crisi strutturale: qui secondo il geografo può avvenire
una ristrutturazione secondo una direttrice temporale, che implica la creazione di
capitale fittizio in modo da dilazionare nel tempo lo squilibrio della produzione
(ovvero un processo di finanziarizzazione), altresì la ristrutturazione può avvenire sul
piano spaziale, ed è questo l'aspetto che più interessa il geografo.
Come abbiamo già detto per Harvey il capitale tende sempre al superamento
dello spazio, egli identifica questa particolare condizione con il termine spatial fix,
così spiegato in un piccolo saggio del 2001:
il capitalismo ha bisogno di fissare uno spazio (in strutture immobili di
trasporto e reti di comunicazioni, così come nella costruzione di fabbriche, strade,
case, acquedotti, e altre infrastrutture fisiche) per superare lo spazio (raggiungere la
libertà di movimento attraverso i bassi costi di trasporto e comunicazione). Questo
porta a una delle contraddizioni centrali del capitale: deve costruire uno spazio fisso
(fixed) necessario per il proprio funzionamento a un certo punto della sua storia
soltanto perché poi in un periodo successivo possa distruggerlo (e svalutare di molto
il capitale là investito) per fare spazio per un nuovo spatial fix (e aprire nuove
possibilità di accumulazione in altri luoghi e territori)26.
26 D. Harvey, Globalization and spazial fix, Geografische revue n 2, 2001 trad. P. Bianchi.
28
È a partire da questo che Harvey identifica l' obbiettivo di una teoria marxista
dello spazio, ovvero quello di inquadrare come le condizioni del processo di
accumulazione si esprimono temporaneamente in un dato equilibrio spaziale,
guardando più che alla riproduzione quotidiana dello spazio ad opera degli attori
sociali alle condizioni che ne determinano lo specifico andamento.
Nonostante possa sembrare che il geografo americano trascuri, al contrario di
Marx, la dimensione temporale in realtà egli la integra perfettamente a quella
spaziale, soprattutto per quanto riguarda l'analisi del capitalismo contemporaneo: egli
infatti descrive il processo della finanziarizzazione come una forte contrazione
spazio- temporale nella quale il tempo di accumulazione del capitale si è accelerato
enormemente provocando una serie di instabilità impossibili da risanare, in questo
quadro si riferisce all'attuale fase di accumulazione parlando di “accumulazione per
espropriazione”, ovvero:
la continuazione e proliferazione di pratiche di accumulazione che Marx ha
descritto come ‘primitive’ o ‘originarie’ durante l’ascesa del capitalismo. Queste
includono la mercificazione e la privatizzazione della terra e l’espulsione forzata di
popolazioni di contadini […]; la conversione di varie forme di proprietà intellettuale
(comune, collettiva, statale, etc.) in diritti di proprietà privata esclusiva […]; la
soppressione dei diritti ai beni comuni; la mercificazione della forza lavoro e la
soppressione di forme alternative (indigene) di produzione e consumo; processi
coloniali, neocoloniali, imperiali di appropriazione di risorse (comprese le risorse
naturali); monetizzazione dello scambio e tassazione, in particolare della terra; la
tratta di schiavi (che continua in particolare nell’industria del sesso); usura, il debito
nazionale e, la più devastante di tutte, l’uso del sistema creditizio come mezzo
radicale di accumulazione per espropriazione.27
Per l'autore quindi il processo di accumulazione prosegue incessantemente e
tende a trasformarsi da “dominio mediante ideologia” a “dominio mediante
coercizione”, erodendo soprattutto l'apparato del Welfare state e più in generale la
27 D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il saggiatore, milano 2005
29
sfera dei beni comuni, poiché non ancora completamente messi a valore; allo stesso
modo però, questo processo, che è di fatto un'inversione dei rapporti di forza tra
classi, estromettendo una fetta della popolazione dal circuito di riproduzione
capitalista alimenta nuove forme di conflitto sociale.
Il fulcro attorno al quale si articola questo conflitto è la metropoli, in quanto essa
rappresenta sia il luogo nel quale il capitale riesce a reinvestire le eccedenze di
prodotto e far ripartire il processo di accumulazione, sia lo spazio nel quale si
articolano resistenze che partono dalla rivendicazione di un “diritto alla città”, non
inteso in senso lefebvriano quanto piuttosto come una lotta per uscire dalla
segregazione spaziale dei grandi quartieri periferici riconquistando la possibilità che i
bisogni primari siano soddisfatti.
La questione dell'abitare allora anche nei lavori di Harvey assume una rilevanza
strategica, infatti se da un lato il mercato immobiliare è secondo il geografo un
elemento centrale nei processi di accumulazione di capitale fittizio destinato alla
rendita, processi che nella fase attuale sono essenziali per la riproduzione del modo di
produzione, allo stesso tempo l'aver eliminato quegli ammortizzatori sociali che
permettevano alle classi meno abbienti di avere un alloggio, ha fatto si che in molti
contesti le contraddizioni legate all'articolazione diseguale dello spazio urbano si
siano trasformate in elementi di conflitto potenzialmente esplosivi.
L'esaustività della lettura che Harvey dà delle classiche tesi marxiste è indubbia,
tuttavia si tratta di un'interpretazione che si situa su un livello di astrazione assoluto:
ai fini di riempire al meglio “la cassetta degli attrezzi” teorico- metodologici che
guideranno questo studio sull'emergenza abitativa nella città di Roma, si evidenzia la
necessità di restringere lo sguardo focalizzandolo sulla questione dell'abitare in senso
stretto, adottando un punto di vista che, tenendo conto dalla ricostruzione del
significato sociale, politico ed economico dello spazio urbano delineato in questi
paragrafi, ricostruisca soprattutto il difficile rapporto tra capitale edilizio, potere
politico e classi sociali.
30
2. Abitare la città
Nel precedente capitolo sono stati esposti alcuni punti di vista relativi ai
cambiamenti dello spazio urbano nel corso degli ultimi due secoli. Nelle diverse
prospettive considerate emergeva con chiarezza la necessità di uno sguardo
multiforme che, intrecciando i diversi livelli della realtà sociale, riuscisse a
ripercorrere le trasformazioni della città legate all'affermazione del capitalismo e alla
nascita dello stato-nazione. È altresì emerso come, alla base dello sviluppo di una
corrente critica all'interno della sociologia urbana, ci sia la pratica metodologica di
problematizzare le contraddizioni che, attraverso i conflitti sociali, si impongono
come centrali nel complesso panorama di una realtà in perenne movimento.
L'abitare, inteso come fenomeno sociale, può essere osservato assumendo
diversi punti di vista , ognuno dei quali è riferito a specifici campi disciplinari; così,
ad esempio, si riscontra una cospicua letteratura che tende a privilegiare l'aspetto
culturale dei processi di mutamento, guardando al modo in cui si modifica il
significato dell'alloggio nella percezione individuale, in rapporto ai cambiamenti
avvenuti rispetto alla composizione e caratterizzazione del nucleo familiare e rispetto
al passaggio dall'organizzazione spaziale e relazionale della comunità a quella delle
grandi metropoli.
Una diversa tradizione di ricerca è invece direttamente connessa con
quell'approccio “conflittualista” preso in considerazione nel precedente capitolo e
derivante in larga misura dall'analisi economica marxista. Attraverso questo filone di
studi il fenomeno dell'abitare sarà osservato nella sua dimensione complessa, da un
lato problematizzando il mutamento materiale delle condizioni di vita derivante
dall'affermazione del capitalismo, dall'altro facendo emergere l'endemicità della
contraddizione tra mercato immobiliare e emergenza abitativa.
31
Vi è, inoltre, per quanto riguarda specificatamente il contesto italiano, una
significativa produzione di testi che guardano all'esplosione di conflitti sociali legati
alla questione abitativa avvenuta a cavallo tra gli anni sessanta e settanta dello scorso
secolo. Questi studi si rivelano utili per la comprensione della fase attuale poiché
offrono elementi utili a ripercorrere le tappe di “evoluzione” del fenomeno in chiave
critica, intrecciando il livello dei cambiamenti strutturali del sistema economico e
della gestione del potere politico ai mutamenti relativi alle fasce di popolazione
coinvolte nell'emergenza.
In questo capitolo saranno brevemente presi in considerazione alcuni contributi
teorici che, rispetto ai vari momenti storici in cui si realizza la trasformazione della
città moderna, illustrano come il fenomeno dell'emergenza abitativa sia direttamente
collegato ai cicli del modo di produzione capitalista; inoltre, si proverà a delineare un
quadro sintetico dei mutamenti di fase che hanno riguardato la “questione casa” in
Italia, evidenziando le contraddizioni dei processi economici, politici e sociali
dell'ultimo mezzo secolo.
2.1 L'abitare nella città moderna
Come è stato già osservato nel capitolo sulla città moderna, anche per quanto
riguarda l'abitare appare impossibile una definizione univoca che possa contenere i
complessi mutamenti legati ai processi materiali e culturali alla base delle strutture di
senso che, nel susseguirsi delle epoche storiche, sono state socialmente costruite
attorno a questo bisogno individuale. L'avvento della modernità comporta una
radicale rimodulazione dei termini attorno ai quali si articola il discorso sulla
questione abitativa: da una parte, infatti, le modificazioni del modo di produzione e la
conseguente rielaborazione ideologica e materiale del lavoro si sostanziano nello
spazio attraverso i fenomeni dell'urbanizzazione e della “valorizzazione” del luogo di
residenza; dall'altra, la nascita dello stato-nazione come struttura centralistica che
32
gestisce il territorio e la formalizzazione del mercato immobiliare implicano
l'aumento della distanza tra individuo e costruzione abitativa.
Rispetto alla sfera culturale, è stato già osservato come la modernità sia
caratterizzata dalla tendenza ad una rappresentazione del mondo che pone al centro
l'individuo e la sua auto-valorizzazione; anche nel discorso sull'abitare si percepisce
questo tipo di influenza: la casa inizia ad assumere un peso sempre più cospicuo nella
demarcazione dei confini che separano le classi sociali e le differenze nella locazione
geografica e nelle caratteristiche spaziali degli alloggi diventano veri e propri
indicatori di status.
Come scrive Tosi: La problematica abitativa delle nostre società è l'esito di un
passaggio storico che ha sconvolto funzioni, significati e forme spaziali dell'abitare.
Anche se è vero che le nostre idee in proposito poggiano su una base culturale molto
più antica, si può affermare che le nozioni più caratterizzanti, e le più problematiche,
della nostra esperienza abitativa si sono affermate con i processi di
industrializzazione
e
modernizzazione.
Opposizioni
terminologiche
come
habiter/habitat, o abitare/residenza, rappresentano in termini problematici quello che
appare il senso del passaggio: da esperienza complessa e articolata a livello
dell'intero sistema insediativo a “funzione” specifica, inscritta in uno spazio
delimitato. Al mutamento funzionale e culturale si accompagna un mutamento,
altrettanto radicale, nei modi di produrre le abitazioni. La relazione diretta tra
abitanti e produttori, tipica delle società precedenti, viene meno a favore di un
processo centrato su competenze specialistiche e su apparati specializzati, tra cui lo
Stato. Alla “riduzione” dell'abitare e alla distanza sociale e amministrativa che si
costituisce tra utenti e produttori è riconducibile gran parte della moderna
problematica abitativa28.
Le prospettive attorno alle quali si articola il dibattito sull'abitare tra la fine
dell'Ottocento e gli inizi del ventesimo secolo sono quella critico-descrittiva,
inaugurata da Friedrich Engels che, come è stato osservato nel primo capitolo,
28 A. Tosi, definizione di «Abitazione» in Enciclopedia delle scienze sociali,Treccani, Torino 1991.
33
evidenzia le contraddizioni del modo di produzione capitalista comparando la
struttura socio-economica delle città inglesi a più alto tasso d'industrializzazione,
problematizzando e identificando la questione abitativa come emblematica nella
dicotomia tra classi sociali, e quella che invece guarda alle variazioni culturali che
accompagnano l'abitare moderno, andando ad osservare come cambia il rapporto tra
abitazione, nucleo familiare e contesto di riferimento.
Ripercorreremo ora brevemente la tradizione di studi che nasce a partire dai testi
di Engels, osservando la sua declinazione in base alle differenti fasi storiche, così da
segnalare le tappe che hanno condotto ai paradigmi interpretativi attraverso i quali
leggere i conflitti sociali urbani attuali.
2.1.1 Engels e la questione delle abitazioni
Le opere di Engels La condizione della classe operaia in Inghilterra 29 e La
questione delle abitazioni30 rappresentano un caposaldo dell'analisi critica sulla città
moderna e sull'abitare in quanto tentano di descrivere la realtà materiale dei rapporti
socio-economici e, rifuggendo da giudizi morali, illustrano le profonde fratture che
attraversano il tessuto sociale urbano e che si mostrano con chiarezza guardando alla
differenza di modo, tempo e spazio di vita tra classi.
La condizione della classe operaia in Inghilterra è un testo scritto da un
giovanissimo Engels, che inizierà la collaborazione con Marx proprio in seguito alla
pubblicazione di questo saggio. In esso si trovano le radici della critica all'economia
capitalista posta in essere dai due filosofi; allo stesso tempo, il metodo d'indagine che
muove questo lavoro è del tutto peculiare, in quanto parte dagli aspetti materiali della
vita operaia per dimostrare le contraddizioni del capitale e la necessità del loro
29 F. Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, 1845; trad. R. Panzieri, Roma, 1955.
30 F. Engels, La questione delle abitazioni, 1876; trad. R. Sanna, Roma, 1988.
34
superamento in chiave rivoluzionaria, lasciando da parte l'analisi delle modificazioni
macro-strutturali nel corso delle epoche storiche. In questo senso l'opera può essere
definita come un vero e proprio studio sociale.
Dai primi capitoli del testo emergono con chiarezza le intuizioni di Engels su
capitalismo e rivoluzione industriale; egli, infatti, identifica in quest'ultimo processo
storico il motore attraverso il quale si avvia un enorme sviluppo di forza lavoro e, allo
stesso tempo, di polarizzazione sociale. Da un lato, la nascita della grande industria
“obbliga” l'individuo ad abbandonare il lavoro agricolo e artigianale e a inserirsi
come operaio salariato nel processo produttivo; dall'altro, questo processo separa in
maniera netta le classi e le pone in contrapposizione: da una parte il proletariato
industriale, destinato a crescere a dismisura in virtù delle “migliori possibilità
economiche” che il lavoro in fabbrica offre rispetto a quello stagionale, dall'altra la
borghesia che - sfruttando il fatto che il processo di urbanizzazione implica
l'abbassamento del costo del lavoro - ricava profitti ancora più alti e diventa in
tendenza una classe sempre più ristretta.
La questione di come la città moderna sia un prodotto dell'economia industriale
è per Engels centrale. Guardando a come il modello “fabbrica-insediamento urbano
adiacente” si riproduce e si estende nello spazio, il filosofo tedesco ne rintraccia
l'origine nel meccanismo della concorrenza, che agisce su due livelli: da un lato la
domanda di lavoro degli individui che abbandonano il settore agricolo è assorbita
parzialmente, e questo spinge al ribasso il salario minimo e provoca la concorrenza
tra operai; dall'altro, incentivata da questa situazione, crescono la concentrazione
industriale, la concorrenza tra capitalisti e conseguenzialmente la migrazione verso la
città.
Engels nota come non si integri mai nella produzione tutta la manod'opera
disponibile. Egli considera questo un aspetto endemico allo sviluppo capitalista, in
quanto lo ritiene direttamente collegato al pieno svolgimento dei cicli: la fascia di
persone inoccupate, che Marx chiamerà in seguito «esercito industriale di riserva», è
35
necessaria al capitale; da una parte esso se ne serve nei periodi di boom, dall'altra la
fissità della sua presenza implica il permanere di quella concorrenza tra operai che
permette di mantenere bassi i salari, specialmente quello minimo.
Il filosofo tedesco nota come il fenomeno dell'immigrazione sia essenziale per il
permanere di questa riserva di mano d'opera. Egli analizza nello specifico il
trasferimento massiccio degli operai irlandesi; attraverso la conoscenza dell'operaia
Mary Burns si inserisce nell'ambiente di vita di questa comunità e, conducendo una
vera e propria osservazione partecipante, racconterà le condizioni reali della loro
esistenza ai margini della città e del sistema produttivo.
Nella sua analisi sulla nuova classe nascente Engels evidenzia come la divisione
dello spazio urbano che relega gli operai a condizioni abitative e di vita quotidiana
misere e malsane sia, in realtà, uno degli elementi di potenziale ricomposizione in
un’ottica di aperto conflitto sociale: se il concetto di coscienza di classe non ancora
esplicitato appare in questo testo come una brillante intuizione di un giovanissimo
filosofo, egli sostiene chiaramente, in base ai dati raccolti, la possibilità che
nell'allora imminente ciclo di crisi del capitale il proletariato possa muoversi
unitariamente per rovesciare il suo dominio.
Una previsione in parte concretizzatasi nei moti che attraversano l'Europa nel
biennio 1848-1849 (esclusa l'Inghilterra che vede l'apice del ciclo di crisi nel periodo
1841-1842 e allo scoppio dei moti nel vecchio continente ha già avviato il processo di
ripresa economica), ma che si scontra con la capacità del capitale di “risorgere dalle
ceneri”, ovvero di riprodurre il processo di valorizzazione a partire dalla sua stessa
crisi sfruttando le sue intrinseche caratteristiche di flessibilità e mobilità.
Se ancora oggi, a distanza di oltre un secolo e mezzo, questo studio ricopre un
ruolo importante nell'analisi della modernità, è perché Engels, contrariamente ai testi
dei suoi contemporanei che si occupano di questioni simili, riflette sui fenomeni che
analizza sforzandosi di assumere uno sguardo “oggettivo”, derivante in parte dalla
conoscenza approfondita del mondo industriale, acquisita grazie agli studi e
36
all'esperienza diretta come uomo d'affari per i cotonifici di proprietà della sua
famiglia, in parte dalle sue posizioni politiche, in parte dal suo desiderio di descrivere
fedelmente la realtà materiale e i processi che la compongono in tutti i suoi aspetti,
dimostrando che per essere un buon scienziato sociale è necessario uscire dai margini
del discorso di senso comune.
Se in La condizione della classe operaia Engels ricostruisce i processi a partire
dalla ricerca sul campo, il testo su La questione delle abitazioni è molto differente
nell'impostazione, ma a tratti ugualmente significativo, seppure meno preso in
considerazione dalle scienze sociali, probabilmente perché ritenuto più uno scritto
politico che uno studio vero e proprio; esso è infatti composto da tre articoli scritti per
il Volksstaat di Lipsia nel 1872, solo in seguito ristampati come opera unica, e si
inserisce in un acceso dibattito intellettuale che si andava sviluppando in Germania
attorno alla questione della casa.
Nei quasi trent'anni che separano i due testi di Engels si susseguono diversi
avvenimenti. Grazie all'incontro con Marx, il filosofo tedesco ha compiutamente
sviluppato le intuizioni presenti in forma embrionale ne La condizione; allo stesso
tempo anche la struttura politico-economica dei paesi industrializzati ha attraversato
alcune fasi di cambiamento: il 18 gennaio 1871, nasceva l'impero tedesco e a questo
evento si accompagnava una fase di rilancio dell'industria e di assestamento del
potere politico, in cui l'influenza dell'aristocrazia nobiliare inizia ad essere messa in
discussione dalla nascente borghesia industriale.
In tale contesto, il dibattito sulle condizioni di vita nelle città si compone di un
vasto ventaglio di posizioni che vanno dal socialismo libertario dei proudhoniani alle
posizioni malthusiane degli intellettuali conservatori. Engels s'inserisce con una
critica radicale a questi approcci politico-interpretativi, sostenendo come il problema
della scarsità di abitazioni sia endemico al modo di produzione capitalista: quindi,
può essere eliminato solo con l'abolizione di quest'ultimo ad opera della rivoluzione
proletaria.
37
Lasciando da parte la teoria politica marxista, è ancora una volta sugli aspetti di
analisi economico-sociale che è necessario concentrarsi per cogliere l'utilità del testo
di Engels. Egli, infatti, riesce ad argomentare con chiarezza e semplicità l'inutilità
delle misure riformistiche che i socialisti propongono per ovviare all'emergenza
alloggi e, riprendendo il concetto di “esercito industriale di riserva”, sostiene 31 che
oltre ad essere endemica, la questione delle abitazioni ricopre un'importanza
strategica nel processo di accumulazione, in quanto da una parte la rendita fondiaria è
uno degli elementi di collegamento tra la vecchia aristocrazia proprietaria e la nuova
borghesia industriale, dall'altra rappresenta uno dei modi più sicuri per investire e
stabilizzare i capitali.
I testi di Engels saranno fondamentali per quella generazione di studiosi che,
nella seconda metà del Novecento, riprenderà il filo del discorso critico sull'abitare
declinandolo rispetto alle specificità dei contesti di analisi, riportando nel dibattito
accademico la voce delle migliaia di persone senza casa che vivevano nelle città
italiane a più alta densità di popolazione.
2.2 Studi sull'emergenza abitativa italiana nel secondo dopoguerra
Fino ad ora la questione abitativa è stata osservata nella sua dimensione generica
e qualificante, isolando i tratti caratteristici del fenomeno e del suo sviluppo a partire
dall’affermazione del modo di produzione capitalista. Tuttavia, appare chiaro come le
31
«E donde proviene la penuria di abitazioni? Come si è originata? (..) Essa è un prodotto necessario della forma di
società borghese; non può sussistere, senza la penuria di abitazioni, una società in cui la gran massa lavoratrice
non ha nessuna altra risorsa che il salario del suo lavoro, da cui trarre tutti i mezzi necessari alla sua esistenza e
alla sua riproduzione; in cui i perfezionamenti a getto continuo dei macchinari ecc. gettano nella disoccupazione
masse di lavoratori; in cui violente fluttuazioni industriali a ritmo regolare provocano da una parte l'esistenza
d'una numerosa riserva di lavoratori disoccupati, dall'altra gettano temporaneamente sul lastrico la gran massa di
operai senza lavoro; in cui i lavoratori sono ammassati e pigiati nelle grandi città, e ad un ritmo più rapido di
quello a cui, nelle attuali condizioni, possono costruirsi le abitazioni per loro; una società in cui, dunque, si deve
trovar denaro anche per pagare la pigione anche dei cortili più abietti; in cui, per finire, nella sua qualità di
capitalista, il padrone di casa non ha solo il diritto, bensì, grazie alla concorrenza, anche in un certo qual modo il
dovere, di ricavare spietatamente dalla sua proprietà i fitti più alti. In una società del genere la penuria di
abitazioni non è un caso, è un'istituzione necessaria (..)» op. cit. p. 79
38
analisi engelsiane siano riferibili in modo circostanziale alla specificità del contesto
industriale inglese e tedesco; per quanto riguarda la situazione italiana, è necessario,
quindi, approfondire gli elementi caratterizzanti il processo che conduce alcune fasce
sociali nella condizione di precarietà abitativa.
L’urbanizzazione che ha investito il Paese a partire dall’unificazione del 1861
avviene seguendo due direttrici spaziali direttamente collegate alle peculiarità dello
sviluppo industriale italiano, profondamente diversificato in base alle differenze
territoriali: il modo di produzione capitalistico, infatti, riesce a radicarsi inizialmente
soprattutto nelle zone del nord che erano precedentemente incluse nel regno di
Sardegna e che avevano già avviato il processo di industrializzazione. Ciò comporta
da un lato l’affermazione della separazione dicotomica usuale tra città e campagna,
dall’altro una frattura enorme tra nord e sud del Paese, che si esplicherà come
principale fattore di cospicui flussi di migrazioni interne che si manifesteranno
durante tutto il XX secolo.
Non è questa la sede opportuna per trattare in maniera sistematica il complesso
tema della “questione meridionale”, uno degli argomenti centrali nel panorama
culturale italiano; piuttosto interessa sottolineare come questo processo sia alla base
della costituzione di un composito substrato sociale, che funge da motore propulsivo
allo sviluppo industriale già parzialmente avviato in quanto da una parte esso viene
impiegato come mano d’opera nel processo produttivo; dall’altra, analogamente a
quanto notava Engels rispetto alla situazione inglese, la notevole fascia di lavoratori
che non riescono ad essere assorbiti ricoprono anche in questo caso la funzione di
“esercito industriale di riserva”.
Si può osservare altresì come il fenomeno della crescita demografica a partire
dai flussi migratori non si limiti alle città industriali, bensì interessi anche quei centri
urbani, Roma in testa, che ricoprono un ruolo strategico per il nascente stato nazione
in quanto sede degli apparati pubblico-burocratici. In questi casi sarà lo stesso
mercato edilizio a rappresentare il settore trainante dell’economia locale, alimentato
39
dall’aristocrazia nobiliare che sfrutterà come momento di accumulazione la crisi del
latifondo.
La formalizzazione del mercato edilizio e lo sviluppo urbano si plasmano,
quindi, sulla richiesta sempre più ingente di abitare nei centri urbani; tuttavia,
emergono da subito elementi di problematicità che, nonostante il progressivo
intervento dello Stato nel settore, ancora oggi costituiscono nodi irrisolti alla base
delle situazioni emergenziali. Inoltre, è importante sottolineare come le misure di
edilizia sociale siano state sistematicamente insufficienti rispetto al reale bacino degli
aventi diritto, rappresentando in questo senso un ulteriore elemento di separazione
sociale. Seppure mai facile, la situazione abitativa dei meno abbienti nelle grandi città
italiane a partire dal secondo dopoguerra diviene a dir poco esplosiva: con il periodo
della ricostruzione riprende, infatti, un nuovo ciclo di migrazioni verso i centri
urbani, l’assetto politico economico del Paese muta profondamente adeguandosi al
modello di welfare state europeo ed avviene un tentativo di rilancio della produzione
industriale; conseguenzialmente anche la struttura socio-culturale si modifica, con
l’ascesa del ceto medio e la definitiva affermazione del modello capitalista.
Le contraddizioni di questa fase storica si rispecchiano nella suddivisione e
fruizione dello spazio urbano: se da un lato i processi sommariamente descritti danno
una spinta forte all’edilizia privata e pubblica, quindi alla costruzione dei grandi
quartieri periferico/industriali, con un cospicuo aumento delle case di proprietà per
quel ceto medio composto da operai specializzati e dipendenti statali, dall’altro lo
sviluppo dei grandi centri, che funge da deterrente alle migrazioni interne, investe
solo una parte del corpo sociale, quella produttiva, e marginalizza fino alla
stigmatizzazione quella che invece non riesce ad essere integrata nel mercato.
Si crea quindi un circolo vizioso a partire dalle pessime o nulle condizioni
lavorative di molteplici categorie sociali che, impossibilitate ad ottenere i servizi del
welfare abitativo ricorrono ad alloggi di fortuna o sovraffollati, e si esplicita lo
scontro tra le condizioni materiali di queste esistenze e un’ideologia culturale che
40
vede il possesso della casa come massimo compimento del processo di
individuazione, ovvero come lo spazio necessario per la formazione dell’identità
personale e per la sua tutela dalle “intrusioni” esterne.
Inoltre l’espansione delle periferie è direttamente collegata ad un altro processo
urbanistico che inizia con l’unità d’Italia e che prevede la riqualifica artistica dei
centri storici a discapito degli insediamenti abitativi originari. Ecco così in moto un
altro meccanismo dissociativo che si ripercuote in maniera duplice sulle categorie
sociali coinvolte: da una parte, in seguito all’esproprio a fine pubblico gli individui
vengono o trasferiti in modo coatto in edifici di nuova costruzione in zone adiacenti
alla città, ma ancora non urbanizzate, o rimborsati dell’esproprio con quote irrisorie.
In entrambi i casi la situazione ricade duramente sulle vite dei soggetti che oltre ad
essere strappati dal loro contesto socializzativo, con il trasferimento non di rado
incorrono anche nella perdita del posto di lavoro subendo conseguentemente un
ingente riduzione del reddito; dall’altra parte, questo processo non costituisce solo un
elemento di demarcazione tra ceti differenti, esso è altresì indice di una
contraddizione forte tra l’operato dello Stato e la tutela dei bisogni primari dei singoli
cittadini che il welfare dovrebbe garantire. Questa contraddizione vissuta
direttamente da migliaia di persone, è sovente diventata una delle ragioni che hanno
animato le dure battaglie per il diritto alla casa durante il ventennio 1960-1980.
Emerge, quindi, una situazione sociale esplosiva e densa di contraddizioni che
sarà il contesto di riferimento di molteplici studi, non solo sociologici, che si
interrogheranno sulle caratteristiche macro-strutturali del mercato immobiliare
italiano, ponendole in diretta correlazione alle nuove soggettività organizzate che,
costituitesi nelle metropoli, esprimono il loro disagio attraverso forti manifestazioni
di conflitto sociale.
Appare chiaro come alla base di questa lettura conflittualista del reale ci sia la
teoria marxista; tuttavia, i contributi di questi studi permettono di allargare l’orizzonte
legato a questo tipo di sguardo e ad andare oltre gli aspetti prettamente economici per
41
studiare la realtà direttamente dalle esperienze dei protagonisti: attraverso l’uso di
metodologie qualitative come la conricerca, l’inchiesta, l’osservazione partecipante,
l’intervista in profondità, i dati statistici e quantitativi raccolti riescono ad essere
interpretati in tutta la loro ricchezza, così da restituire al lettore un’immagine
complessa e complessiva del fenomeno.
In questo ambito
rientra il testo Città e conflitto sociale32, scritto in
collaborazione da quattro autori, nel quale vengono ricostruiti - attraverso
un’inchiesta sociologica - il processo di trasformazione dei quartieri di Isola e
Garibaldi a Milano e il relativo acuirsi dei conflitti sociali strettamente legati al
fenomeno della ristrutturazione urbana, in virtù dell’innalzamento del valore di
mercato di una zona composta da alloggi popolari di cui si riscopre la centralità.
Gli studiosi partono da quest’esperienza milanese di lotta sociale, che si sviluppa
in seguito al rifiuto da parte degli abitanti di far eseguire le ordinanze di sfratto alle
quali erano sottoposti in virtù della riqualificazione di un territorio assai travagliato
dal punto di vista urbanistico: questi due quartieri nascono, infatti, in una zona ad alta
concentrazione industriale e si caratterizzano come alloggi per operai. Con la ripresa
economica viene progettato per quella zona un asse industriale ed inizia un vero e
proprio braccio di ferro tra l’istituzione municipale e la popolazione del territorio che
conduce una decisa battaglia per impedire gli sfratti e le demolizioni delle case.
Nonostante il fallimento del progetto, la situazione continuerà ad essere
particolarmente difficile: infatti, il Comune non rinuncia alla messa a valore di quel
territorio in nome delle disposizioni sul decentramento contenute nel Piano regolatore
del 1953, riproponendo una numerosa serie di sfratti.
Gli abitanti rispondono costituendo un comitato unitario di base attraverso cui
daranno vita ad una vasta mobilitazione che toccherà il massimo punto di radicalità
con l'utilizzo della pratica dello “sciopero del fitto”, ovvero il rifiuto al pagamento
della pigione. Le battaglie messe in campo non saranno, tuttavia, sufficientemente
incisive e nel 1969 l'ormai esiguo numero di inquilini coinvolti nelle lotte porterà allo
32 M. Boffi, E. Mingone, S. Cofini, A. Giasanti, Città e conflitto sociale, Milano, 1972.
42
scioglimento del comitato e all'interruzione temporanea delle proteste, che
riprenderanno in forme differenti solo nel 1972.
Gli Autori si occupano di fornire un quadro particolarmente dettagliato delle
motivazioni alla base di questo fallimento, e riportando una serie di dati relativi alla
composizione sociale dei quartieri, ipotizzando quanto la disomogeneità e l'assenza di
un'organizzazione politica vera e propria abbiano influito negativamente sulla
determinazione e sull'allargamento delle rivendicazioni; allo stesso tempo, notano
come sia stato fondamentale il ruolo del Partito Comunista Italiano che, facendosi
carico
della
questione
della
casa,
abbia
di
fatto
condotto
ad
una
deresponsabilizzazione degli abitanti.
L'inchiesta non si limita al racconto e all'analisi di questa esperienza e la
contestualizza rispetto alle altre lotte per l'abitare svoltesi nella città di Milano in un
arco temporale di dieci anni, battaglie che hanno mosso rivendicazioni diversificabili
secondo i criteri dell'intensità conflittuale prodotta, del contesto abitativo-sociale di
esplicazione e del grado di organizzazione politica più o meno strutturata.
Il testo di Boffi e colleghi rappresenta forse il tentativo più sistematico tra i
lavori degli studiosi marxisti italiani degli anni Settanta di illustrare le motivazioni
alla base di questa ondata di conflittualità urbana, restituendo al lettore il complesso
intreccio tra situazione economica macro-strutturale, condizioni sociali della
popolazione a basso reddito, spinte rivendicative che dalla fabbrica si estendono alla
totalità degli aspetti di vita e relativa sussunzione delle istanze da parte del sistema
politico, con la conseguente integrazione delle stesse nella ristrutturazione
dell'apparato produttivo.
Seguendo questo schema interpretativo è necessario, tuttavia, prendere in
considerazione una serie di testi che permettono di osservare come l'esplosione della
questione casa si estenda all'intero territorio nazionale, assumendo caratteristiche
peculiari direttamente associabili alle differenze nella struttura produttiva e nel
tessuto sociale coinvolto nel fenomeno dell'emergenza abitativa.
43
A questo proposito risultano essere particolarmente interessanti i testi del
sociologo Giuliano della Pergola La conflittualità urbana33 e Diritto alla città e lotte
urbane34, quello di Marcello Lelli Dialettica del baraccato35 e lo studio a cura di
Andreina Daolio Le lotte per la casa in Italia36.
I primi tre testi citati si occupano di fornire un quadro più teorico del fenomeno
emergenza abitativa e, riprendendo la visione engelsiana, guardano alla
concatenazione tra i cambiamenti nel sistema produttivo e le modificazioni della
struttura e dell'organizzazione sociale dello spazio urbano, andando a sottolineare le
nuove contraddizioni esplicitate nelle lotte urbane sottolineandone limiti e
potenzialità. Essi si pongono, inoltre, in netta contrapposizione alla scuola
funzionalista che dominava gli studi di sociologia urbana, evidenziando come questo
modello interpretativo sia assolutamente antitetico a quello marxista, in quanto
secondo gli Autori legittima l'ordinamento sociale produttivo fondato sulla divisione
del lavoro, naturalizzandolo.
Come nel testo di Boffi, anche per questi studiosi la radicalità e l'efficacia delle
lotte urbane è direttamente connessa all'esperienza delle rivendicazioni del
movimento operaio. Essi notano infatti come il cosiddetto “lungo Sessantotto” abbia
da una parte rafforzato la coscienza di classe dei lavoratori che riscoprono la
necessità di battersi per il miglioramento complessivo delle condizioni di esistenza,
dall'altra spinto l'universo dei partiti di sinistra e dei sindacati ad occuparsi
direttamente della questione casa, in modo da ricondurre i cicli di lotte all'interno dei
programmi di riforme politiche. Tuttavia questa sussunzione non è riuscita a
trasformarsi in una risoluzione effettiva delle problematiche abitative; in questo senso
viene profondamente criticato il modello del decentramento amministrativo,
rappresentato dalla classe politica come una democratizzazione del governo sul
territorio, ma nei fatti ulteriore elemento di legittimazione della divisione di classe
33 G. Della Pergola, La conflittualità urbana: saggi di sociologia critica, Milano, 1972.
34 G. Della Pergola, Diritto alla città e lotte urbane, Milano, 1974.
35 M. Lelli, Dialettica del baraccato, Bari, 1971.
36 A. Daolio (a cura di), Le lotte per la casa in Italia, Milano, 1974.
44
nello spazio sociale.
Il saggio curato dalla Daolio ha, invece, un’impostazione più pragmatica, in
quanto raccoglie quattro testi relativi alle lotte per il diritto all'abitare svoltesi nelle
città di Torino, Roma, Napoli e Milano nell'arco di dieci anni a partire dalla metà
degli anni Sessanta. Le differenze ideologiche degli autori delle varie parti sono da
subito esplicitate; tuttavia, nonostante la diversità dei contesti di riferimento
emergono dei tratti in comune: il nesso tra conflitto urbano e conflitto di fabbrica, il
rapporto problematico tra classe operaia e sottoproletariato urbano, la necessità di un
legame tra avanguardia politica e base sociale, la difficoltà d'interlocuzione con
l'istituzione. Questi elementi vengono trattati come aspetti densi di contraddizioni che
agiscono spesso ponendo un freno all'incisività delle rivendicazioni: viene quindi
riscontrata, in un’ottica che tenda al superamento definitivo dell'emergenza abitativa,
la necessità di generalizzazione delle istanze di lotta unificate in chiave politica come
parte di un più generale programma di ristrutturazione della società in senso non
capitalistico.
Tutti i testi presi in considerazione appartengono ad uno specifico spaccato
culturale e politico e sono, quindi, relativamente simili nell'affrontare la questione
della conflittualità urbana attraverso la lente della critica alla società capitalista nel
suo complesso. Non sono stati qui considerati gli studi, di cui il sociologo Franco
Ferrarotti rappresenta l'autore principale, che si propongono di indagare la situazione
urbana da un punto di vista specificamente sociologico. Questi testi, che si
concentrano sull'osservazione delle dinamiche agenti nella città di Roma, verranno
utilizzati per la comprensione dei mutamenti strutturali rispetto alla questione
abitativa avvenuti specificatamente nella Capitale.
2.3 La questione abitativa nella città contemporanea
È stato osservato come le lotte per il diritto all'abitare protrattesi in Italia
45
all'incirca per il decennio 1965-1975, siano state sussunte dal capitale attraverso la
mediazione del sistema politico, che si è impegnato a finanziare un ingente
investimento nell'edilizia pubblica al fine di ovviare ad un'ulteriore radicalizzazione
del conflitto sociale in merito al tema della casa. Tuttavia si può facilmente
riscontrare come la questione dell'emergenza abitativa, lungi dall'essere risolta
definitivamente, ha continuato a rappresentare un problema sociale e ad acuirsi
drasticamente nell'ultimo decennio.
Ad alimentare incessantemente questo processo contribuiscono tanto ragioni
strutturali legate alle modificazioni del modo di produzione capitalistico e più
genericamente ai suoi cicli di crisi e ristrutturazione, quanto le peculiarità dei diversi
modelli politici di governance appartenenti ai differenti paesi “occidentali” nonché le
loro specificità nella composizione sociale e nella gestione economica del territorio.
Il piano delle modificazioni macro-strutturali che hanno interessato il modello di
sviluppo capitalistico mondiale a partire dalla metà degli anni Settanta è un
argomento ampiamente dibattuto in tutto il globo. Pur non essendo questa la sede
opportuna per addentrarsi in un tema così complesso, si riscontra la necessità di
identificare i principali processi politico-economici che hanno contribuito alla
riproduzione nel tempo della condizione di emergenza abitativa, seppure con
sostanziali differenze rispetto alle fasce sociali coinvolte.
Non è semplice rintracciare rapporti di causa tra gli elementi che caratterizzano
l'attuale fase storica; tuttavia, seguendo lo schema interpretativo della new urban
sociology, si possono isolare due macro-gruppi di fattori d'influenza sulla struttura
socio-spaziale, interdipendenti tra loro e reciprocamente determinati. Da una parte si
può osservare, infatti, il livello prettamente economico-industriale e la sua
ristrutturazione in chiave neo-liberista; dall'altra guardare alle modificazioni nella
struttura dello stato-nazione e alla progressiva perdita per i partiti politici della
funzione di mediazione tra istanze dal basso e sistema politico.
Per quanto riguarda il piano economico, tra le tendenze più significative a livello
46
trans-nazionale è per prima cosa riscontrabile la perdita di centralità dell'industria ad
organizzazione fordista, a vantaggio di una specializzazione delle differenti aree
geografiche in fasi della produzione piuttosto che in settori produttivi; questo
processo, che in parte avviene in reazione alle molteplici vertenze operaie che hanno
animato gli anni Sessanta e Settanta, va a disgregare il potenziale di conflitto
annidato nella massificazione delle condizioni di lavoro e si traduce in una
disomogeneità individualizzante.
La produzione industriale su larga scala viene quindi delocalizzata in contesti in
cui il costo del lavoro è di molto inferiore a quello occidentale. Assistiamo così da
una parte a un processo di mondializzazione dell'economia reale, che avviene
soprattutto in seguito al crollo dell'Unione Sovietica; dall'altra, ad una progressiva
egemonia della speculazione finanziaria come strumento “regolatore” del mercato.
A tutto questo si intreccia la sostanziale spinta alla privatizzazione da parte degli
stati-nazione di tutti quei servizi precedentemente controllati dall'operato pubblico,
una deregolamentazione di fatto traducibile nel definitivo abbandono del modello
economico di welfare state, situazione che si ripercuote duramente sulle fasce di
popolazione meno abbienti. Inoltre, la ristrutturazione del sistema produttivo prevede
una sostanziale revisione delle forme di lavoro, che, dovendosi adattare all'estrema
mobilità che caratterizza questa fase di accumulazione, diventano sempre più
instabili.
Rispetto al mercato immobiliare e alla connotazione dello spazio urbano, questa
fase è caratterizzata da un grosso processo di gentrificazione attuato in parte in
seguito alla riqualificazione di aree industriali dismesse o rinnovate, in parte in virtù
di un aumento del valore d'uso del suolo di zone di cui si riscopre la centralità; diretta
conseguenza di questo processo è la progressiva eliminazione dei ceti meno abbienti
e la riconversione del valore d'uso in rendita immobiliare attraverso l'insediamento di
abitanti ad alto reddito.
Inoltre, la crisi del welfare implica la fine di tutto il sistema di sovvenzioni
47
statali massicce per favorire l'edilizia residenziale pubblica. Allo stesso tempo, la fase
di liberalizzazione favorisce il ricorso alla contrazione di mutui finalizzati all'acquisto
di un immobile da parte del ceto medio; questa situazione unita all’aumento
vertiginoso dei canoni di locazione, si ripercuoterà enormemente sull’incremento
delle disuguaglianze sociali.
Rispetto alle modificazioni del sistema politico nel complesso, sicuramente si
può asserire che la fase neo-liberista nella quale i privati si inseriscono in settori di
mercato precedentemente a monopolio statale si accompagna ad una progressiva
incapacità degli stati-nazione di regolamentare l'economia globale. Questo comporta
da un lato una ristrutturazione del mondo del lavoro che seguendo le esigenze di
mobilità del capitale si flessibilizza e si adegua a nuovi standard tecnologici, dall'altro
si rafforza la dipendenza degli stati verso l'economia finanziaria e il sistema creditizio
più in generale, questione che incide non poco sulla scelta delle politiche economiche
da attuare nei vari territori, ovvero sugli stanziamenti di fondi da riservare alla
questione abitativa.
La fine dell'edilizia residenziale pubblica incide altresì sul rapporto tra classe
politica e cittadini: inizia infatti a venire meno quella funzione di mediazione che i
partiti esercitavano direttamente a livello locale integrando in parte nell'agenda
politica le istanze che provenivano dai ceti meno abbienti, riuscendo quindi ad
incidere positivamente sulle loro condizioni di vita; si avvia una fase in cui si
amplifica a dismisura il divario tra fasce povere della popolazione e apparato
istituzionale.
È necessario sottolineare come in virtù di queste enormi modificazioni nella
struttura politico- economica e socio-spaziale dei territori siano cambiate anche le
categorie sociali interessate al fenomeno dell'emergenza abitativa, così come sono
cambiate le modalità attraverso cui questo disagio si esprime e si prova a superare;
certamente, rispetto alla tipologia prevalente di modelli insediativi è difficile trovare
una concentrazione spaziale delle sacche di povertà, che si estendono piuttosto
48
all'interno della totalità del tessuto metropolitano, in alcuni casi in forma sommersa.
A favorire il perdurare di situazioni di estrema marginalità sociale ed abitativa
contribuisce, inoltre, il ciclo di migrazioni che interessa i Paesi occidentali e che si
scontra, in alcuni contesti, con l'incapacità del mercato del lavoro di integrare
l'eccedenza di mano d'opera non specializzata. Tuttavia il capitale riesce a trarre
profitto da questo fenomeno in quanto numerose imprese, sfruttando la ricattabilità
salariale della parte attiva di questa fascia di popolazione, che nella maggior parte dei
casi non gode di alcuna tutela sindacale, la impiega nei settori con maggiore bisogno
di manovalanza, risparmiando quindi sui costi di produzione.
Questa specifica caratteristica è sicuramente molto presente in un Paese come
l'Italia, al centro delle nuove rotte d'immigrazione da parte di diverse popolazioni e
rappresenta sovente una delle contraddizioni principali attorno alle quali si sviluppa
la questione abitativa.
2.3.1 La questione abitativa in Italia: peculiarità e contraddizioni
Nel precedente paragrafo sono stati illustrati i processi a carattere strutturale che
sono stati riscontrati nel corso degli ultimi quarant'anni e che attraversano la quasi
totalità del globo; tuttavia queste tendenze generali devono essere contestualizzate
rispetto alle specificità dei diversi territori, prendendo in esame tempi e modalità
della ristrutturazione in chiave neo-liberista ed evidenziandone gli aspetti
problematici.
Le peculiarità della situazione italiana in questo senso sono molteplici, sia
perché nel nostro Paese la stagione delle lotte sociali ed operaie ha avuto una
rilevanza particolarmente significativa per quanto riguarda la partecipazione di massa
e la radicalità del conflitto messo in campo, sia perché nella struttura economicoindustriale italiana si sono da sempre riscontrati elementi di contraddizione
49
facilmente trasformatisi in tensioni esplicite tra parti sociali.
La fine del periodo di scontro aperto tra masse proletarie, governo e dirigenza
aziendale è la risultante di un processo politico teso a neutralizzare, attraverso
l'azione dell'apparato giudiziario, il ruolo delle avanguardie militanti all'interno
dell'organizzazione del movimento operaio. Allo stesso tempo essa è frutto dell'avvio
di quel processo di ristrutturazione industriale che si sostanzia in una
riorganizzazione produttiva in termini di maggiore specializzazione del lavoro, con
conseguente aumento del salario medio.
Inoltre, è necessario notare come, con la definitiva applicazione del modello di
decentramento amministrativo, il settore dei servizi diventi in tendenza sempre più
significativo per quanto riguarda la percentuale di forza lavoro impiegata,
inversamente al comparto industriale che in seguito alla ristrutturazione produttiva
ridurrà di molto la sua estensione quantitativa sul territorio in virtù di una
decentralizzazione delle fasi del processo produttivo che necessitano l'impiego
massificato della mano d'opera; conseguenza diretta di questo processo è la chiusura
di numerosi poli presenti soprattutto nelle zone del mezzogiorno e quindi un aumento
vertiginoso della percentuale di disoccupazione.
A godere di ottima salute è invece il mercato immobiliare; infatti, sotto la spinta
di un relativo incremento del reddito medio, aumenta la domanda per l'acquisto di
immobili, situazione che spinge ad una ondata di edificazione selvaggia: il tessuto
urbano, specialmente nei contesti metropolitani, diventa teatro di una nuova
espansione a macchia d'olio, favorita altresì dalla forte pressione che i costruttori
privati riescono ad esercitare sui governi al fine di soprassedere sulle norme imposte
dai piani regolatori, varando ciclicamente misure di condono che di fatto legalizzano
le costruzioni abusive.
A questo si accompagna, nei principali centri urbani, la riqualificazione di zone
precedentemente a carattere popolare in virtù di un aumento del valore del suolo, così
da incrementare la rendita immobiliare e i profitti derivanti da attività commerciali;
50
atttraverso questo processo di gentrificazione, gli abitanti di ceto basso si spostano
nelle zone estremamente periferiche della città dove è inferiore il costo dell'affitto e si
crea una separazione sempre più netta tra i quartieri centrali adibiti a vetrina e le zone
residenziali che accolgono il ceto medio e che sorgono adiacenti ai lotti di case
popolari edificati nella seconda metà del Novecento.
Con la fine della prima Repubblica e l'inizio degli anni Novanta si apre anche
nel nostro Paese la stagione delle privatizzazioni, che comporterà una sostanziale
rimodulazione della contrattualistica lavorativa, da questo momento in poi sempre più
schiacciata sull' esigenza di flessibilità del mercato. Si verifica, quindi, una situazione
in cui, specialmente nelle zone con una bassa concentrazione industriale, vi è un
incremento sostanziale della specializzazione nel settore commerciale e dei servizi,
un processo nel quale viene messo a valore il lavoro cognitivo piuttosto che quello
materiale, così da sfruttare l'ingente incremento del numero di lavoratori altamente
scolarizzati.
Questa modificazione produttiva si sostanzia nel nostro Paese traducendosi in un
impoverimento delle classi medio-basse: da un lato, infatti, con la caduta delle tutele
minime garantite dal sistema di welfare, che seppure tra molte contraddizioni era
riuscito negli anni a stimolare la mobilità sociale, aumenta vertiginosamente il
numero delle persone in gravi difficoltà economiche; dall'altro la dimensione di
precarizzazione che investe tutto il mercato del lavoro si ripercuote duramente sulla
possibilità, per le giovani generazioni, di integrarvisi in maniera stabile e
adeguatamente retribuita.
Inoltre, l'Italia inizia a diventare un Paese centrale nelle nuove rotte
dell'immigrazione transnazionale: da una parte, infatti, la vicinanza con il versante
mediterraneo attira migliaia di persone dai paesi del mahgreb e dell'Africa sud
shaariana, dall'altra con il crollo dei paesi ex socialisti e la loro progressiva
annessione all'Unione Europea vi è un cospicuo flusso migratorio proveniente
dall'Est; sono inoltre presenti, seppure in minor numero, molte altre comunità etniche.
51
La questione della gestione politica e dell'integrazione economica di questi cicli
di migrazioni è uno dei punti che presenta maggiori criticità all'interno del panorama
italiano: sul piano del mercato del lavoro, infatti, da una parte il fenomeno agisce
come deterrente all'aumento della concorrenza per l'accesso al mercato con la
conseguente diminuzione del costo del lavoro, dall'altra le caratteristiche strutturali
del capitalismo italiano fanno sì che l'eccedenza di non occupati tenda a diventare
una parte necessaria al processo di riproduzione; in questo modo anche nei periodi di
crescita ci sarà una larga fascia di persone disoccupate, dato l’ingente incremento nei
periodi recessivi.
Tutte queste ragioni contribuiscono a mantenere vivo il problema dell'emergenza
abitativa, che assume caratteristiche differenti in base alle fasce sociali coinvolte, ma
che si estende in maniera trasversale anche a categorie che potrebbero considerarsi di
“ceto medio”.
Con la crisi del 2008, scaturita proprio dall'esplosione di una bolla speculativa
nata a partire dal settore immobiliare americano, la questione abitativa inizia a
configurarsi anche nel nostro Paese come un elemento fortemente problematico
attorno al quale si concentra il disagio sociale delle categorie più a rischio nel
mercato del lavoro. Il fenomeno della crisi ha, inoltre, portato allo scoperto le
ripercussioni della deregolamentazione del mercato immobiliare: se da un lato infatti
gli interventi di politica economica governativi, in accordo con l'Unione Europea,
hanno ridotto ulteriormente lo stanziamento di fondi destinati alle politiche sociali,
provocando una drastica riduzione quantitativa e qualitativa dei servizi essenziali e
dei contributi economici per i soggetti svantaggiati, dall'altro la recessione nei
consumi, specialmente nel settore della casa ha fatto sì che crescesse inesorabilmente
lo stock di patrimonio immobiliare di nuova costruzione invenduto.
La questione dell'emergenza abitativa appare in tutta la sua urgenza e
drammaticità quando si leggono i dati sugli sfratti eseguiti in Italia negli anni
successivi alla crisi: dal 2008 al 2013 il numero è passato da 53.033 ordinanze
52
eseguite, di cui il 78% per morosità, a 129.577 provvedimenti richiesti, di cui 73.385
eseguiti, con un tasso di morosità che sfiora il 90%37.
Tuttavia la questione abitativa è complessa e composita e non si limita
all'emergenza sfratti bensì comprende una forbice ampia di soggetti sociali espulsi o
ai margini del sistema produttivo, che non godono di un reddito sufficiente per
accedere al mercato degli affitti e sono costretti a soluzioni provvisorie e molto
spesso inumane; anche per queste motivazioni risulta particolarmente complesso fare
una stima, seppure approssimativa, degli individui coinvolti.
La questione dell'alloggio ha inoltre ricominciato a rappresentare un elemento di
conflitto sociale: sebbene le rivendicazioni del diritto all'abitare non siano mai state
assenti dalle tematiche dei movimenti sociali, è al tempo della crisi che esse ritrovano
una base sociale solida e ampia che mette in campo in campo pratiche radicali di
soluzione “dal basso” della problematica abitativa, da una parte attraverso
l'occupazione di edifici abbandonati sia di proprietà pubblica che privata, dall'altra
facendo pressione sull'istituzione locale affinché si occupi della sistemazione dei
senza-dimora in maniera definitiva.
Anche in seguito alla radicalizzazione di questi movimenti e alla loro
affermazione su tutto il territorio nazionale si sono accesi nuovamente i riflettori
mediatici sulla questione abitativa. Il dibattito politico-istituzionale attorno al tema ha
portato all'approvazione del Decreto Legge 28 marzo 2014 n° 47, anche detto Piano
Casa, un provvedimento al centro di numerose polemiche anche dei sindaci delle
maggiori città metropolitane - Roma, Napoli e Milano - che il 26 gennaio 2015 hanno
chiesto al Governo di modificarne le disposizioni al fine di contenere l'emergenza
sociale che scaturirebbe dalla sua immediata applicazione.
In conclusione, ad alimentare la condizione di emergenza abitativa sembrano
essere gli squilibri tra settore immobiliare ed intervento statale di edilizia residenziale
pubblica o di agevolazione economica. In questo si inserisce la ristrutturazione del
37 Fonte Rapporto Sistan, Gli sfratti in italia: andamento delle procedure di rilascio di immobili ad uso abitativo,
anno 2008 e anno 2014
53
mercato del lavoro che agisce come deterrente, insieme al generale aumento del costo
della vita, al peggioramento delle condizioni di reddito.
54
3. Edilizia sociale e mercato immobiliare
Nel precedente capitolo si è osservata la questione delle abitazioni,
mettendo a fuoco il rapporto tra la materialità della problematica e i
cambiamenti macro- strutturali nel sistema politico, economico e socio-spaziale;
non sono stati tuttavia affrontati il ruolo dello Stato nella regolazione del
mercato immobiliare e la sua azione d’intervento rispetto alla situazione
abitativa delle fasce meno abbienti della popolazione, nelle varie fasi storiche.
Questo aspetto della questione abitativa appare ricco d’interesse, in quanto
ci permette di indagare il rapporto che lega i momenti di crisi e ristrutturazione
del mercato immobiliare con i cicli di lotte sociali collegate ai problemi
abitativi, guardando all’intervento del legislatore come il momento di
mediazione che, da un lato fornisce una parziale risposta alla problematica e,
integrando alcune rivendicazioni, agisce come motore di un processo di
pacificazione, dall’altra supporta attivamente il mercato e permette l’uscita dalla
stagnazione e l’avvio della ristrutturazione.
Nonostante l’intervento dello Stato non si sia mai dimostrato in grado di
provvedere alla totalità della richiesta di abitazioni ad uso sociale, il suo ruolo è
riuscito ad assicurare la riproduzione di una mobilità sociale per un periodo
medio- lungo, che ha coinvolto una larga fascia di popolazione; si pone, quindi,
una domanda: con la fine di questo modello di politica economica, quale
rapporto si viene a creare tra emergenza abitativa, istituzione e mercato
immobiliare?
Il presente capitolo si strutturerà attorno a questo interrogativo, partendo da
una breve ricostruzione delle tappe che hanno segnato l’evoluzione delle riforme
in tema di abitare nel nostro Paese, ponendole all’interno di un discorso
complessivo che tenga conto tanto del ruolo dei movimenti sociali, quanto di
quello del mercato immobiliare; allo stesso tempo verrà preso in considerazione
55
il contesto Eurpeo, osservando i differenti modelli di politiche di Housing.
3.1 La legislazione sulla casa in Italia
L’inizio della fase in cui lo Stato interviene a regolare le questioni edilizie
ed abitative coincide con un periodo storico di ristrutturazione del modo di
produzione capitalista che precede la definitiva affermazione di quest’ultimo
(nel 1848 viene attuata in Gran Bretagna la prima riforma per migliorare le
condizioni di vita nelle città, il Public Health Act), ed è altresì precedente allo
sviluppo delle teorie economiche keynesiane che formalizzeranno il modello
dello stato interventista.
Riprendendo l’ordine dei processi osservati nel primo capitolo rispetto alla
nascita delle città, i nuovi modelli di urbanizzazione si sostanziano in una
radicale modificazione ed estensione dello spazio urbano anche grazie
all’operato della pianificazione statale, che agisce inizialmente come motore
propulsivo per il definitivo smembramento del sistema feudale e la
trasformazione della rendita fondiaria in rendita immobiliare.
Questo processo assume caratteristiche peculiari sia per quanto riguarda le
differenze macro-strutturali tra i diversi paesi occidentali, sia rispetto alla
dimensione locale ed alle diversità inerenti al grado di sviluppo del sistema
economico sul territorio con il relativo livello di integrazione delle comunità nel
processo produttivo.
Il caso dell’Italia risulta particolarmente interessante in virtù delle profonde
lacerazioni socio-economiche che attraversano la nazione nel momento della sua
unificazione; guardare a come l’azione dello Stato ha provato a modificare
questa situazione, agendo nello specifico sulla condizione abitativa e sul settore
immobiliare, ci permette di ricostruire gli elementi problematici che hanno reso
56
l’emergenza alloggi una caratteristica endemica della struttura urbana delle
nostre metropoli.
3.1.1 I primi passi dell’intervento pubblico nel settore immobiliare italiano
La prima disposizione complessiva in materia edilizia nell’Italia unificata
fu il Regio Decreto Legge n° 2359, varato il 26 giugno 1865, dal titolo
Disciplina sull’espropriazione forzata per pubblica utilità, che si occupava di
emanare norme che regolassero gli espropri per la costruzione di opere
pubbliche di risanamento. In questa disposizione comparve per la prima volta
l’elemento del piano regolatore come atto facoltativo per i comuni superiori ai
10.000 abitanti, al fine di tracciare le linee guida da seguire nella modifica dei
centri abitati.
La pianificazione dello sviluppo per le zone non ancora urbanizzate venne
invece affidata al piano di ampliamento. Secondo le disposizioni contenute nel
decreto entrambi gli strumenti sarebbero dovuti essere messi a punto nell’arco di
venticinque anni; in realtà nessuno dei due verrà usato: i comuni preferiranno
seguire le direttive contenute in un altro Regio Decreto datato 8 giugno 1865, al
cui interno si trovava uno specifico regolamento edilizio.
Questo strumento funzionò, così, come norma di riferimento dello sviluppo
urbanistico del territorio, considerata anche la facoltatività assegnata allo
strumento del piano regolatore fino al 1942; si posero, quindi, da subito alcuni
elementi problematici, poiché la gestione del potere nei municipi venne affidata
a quell’aristocrazia che, attraverso la compra-vendita di terreni resi edificabili,
avrebbe continuato ad incrementare la rendita fondiaria.
La legge n° 2359 del 28 giugno 1865 fu modificata nel 1885 a seguito di
una drammatica epidemia di colera che colpì la città di Napoli: per fronteggiare
57
l’emergenza fu stabilito un più alto indennizzo per l’esproprio, così da
incentivare il risanamento delle zone più disastrate; questo, insieme alla politica
speculativa condotta da alcuni istituti di credito come la Banca Generale e il
Credito Mobiliare Italiano, e insieme all’emanazione nel 1881 e nel 1883 di
leggi che incentivavano i costruttori privati, portarono ad una vera e propria fase
di febbre edilizia, che si concluse nel 1890 con il fallimento dell’Istituto di
Credito Mobiliare Italiano38.
Questa situazione di espansione incontrollata e di successiva crisi ebbe
numerose conseguenze negative: da una parte infatti, con il fallimento di molte
ditte di costruzioni, tantissimi cantieri furono abbandonati, con ripercussioni
pesanti per quei nuclei trasferitisi nelle zone di nuova urbanizzazione che
resteranno isolate rispetto al resto della città per oltre dieci anni; dall’altra,
l’aumento costante del tasso demografico nelle grandi città non riuscirà ad
essere assorbito dai nuovi edifici costruiti nel periodo della “febbre”, in quanto,
per via del loro costo, essi risultavano essere destinati a fasce medio-alte di
popolazione.
È in questo quadro di grande acuirsi dell’emergenza abitativa, specialmente
nelle città che non presentano poli industriali, che venne varata nel 1903 la
prima legge sull’edilizia popolare pubblica, anche detta “legge Luzzatti”, che
prevedeva la formazione dell’Istituto Case Popolari per la realizzazione di un
parco alloggi pubblico, non più affidato alla singola iniziativa di cooperative ed
opere di carità, ed una serie di finanziamenti a sostegno dell’iniziativa privata
per la costruzione di alloggi sociali.
In questa modifica sostanziale del quadro normativo si inserirono inoltre le
leggi Giolitti del 1904 e del 1907, che si occupavano in prima istanza di
riordinare l’assetto finanziario dei comuni e, successivamente, di istituire una
tassa di costruzione sulle aree fabbricabili del 3% sul valore dichiarato dal
38 Per uno sguardo più dettagliato sul mercato immobiliare italiano si veda: A. Pica, E. Pifferi (a cura di)Cento
anni di edilizia 1862-1962, Società generale immobiliare di lavori di utilità pubblica ed agricola, Roma
1963.
58
proprietario, destinando l’individuazione delle suddette aree allo strumento del
piano regolatore.
In questo modo si provò a limitare la possibilità del verificarsi di una nuova
crisi dalla portata così ampia, tentando di rafforzare il ruolo dell’istituzione
rispetto
alla
proliferazione
degli
interessi
privati
sorti
attorno
alla
ristrutturazione urbana; nel frattempo, iniziava in tutto il paese la costruzione dei
primi quartieri interamente operai ad opera dell’Istituto Case Popolari ed
iniziava a configurarsi nelle città con più alto tasso demografico una struttura di
centro-periferia.
La crisi edilizia tornò ad affacciarsi all’indomani della prima guerra
mondiale, alimentata soprattutto dall’intensa ripresa del fenomeno di migrazione
interna e da una politica volta ad incentivare proprio il settore edilizio,
identificandolo erroneamente come il possibile volano di un ciclo di ripresa
economica: anche questa volta, a subire gli effetti nefasti delle politiche di nuova
espansione urbanistica furono le fasce povere della popolazione, che si
ritrovarono ai margini del sistema produttivo e nell’impossibilità di accedere al
mercato degli alloggi.
Durante gli anni del fascismo la situazione per i ceti popolari delle grandi
città non andò migliorando: le numerose iniziative intraprese dal governo
fascista per favorire interventi urbanistici di riqualificazione delle aree centrali
delle città ad opere di società di costruzione private, provocarono
l’allontanamento forzato delle fasce meno abbienti che furono relegate ai confini
delle città stesse, in condizioni abitative assolutamente precarie; emblematico a
questo proposito è il caso di Roma, che sarà affrontato nei successivi paragrafi.
Prima della caduta del fascismo furono inoltre approvati nel 1938 il Testo
Unico che definiva l’assetto organizzativo degli Istituti Autonomi Case Popolari
e nel 1942 la legge n° 1150 che istituiva a pieno titolo lo strumento del Piano
Regolatore Generale come modello da seguire per l’espansione edilizia,
59
introducendone l’obbligatorietà.
Alla fine della seconda guerra mondiale la situazione economico-sociale
del Paese era mutata profondamente: con il tasso di povertà salito a livelli
vertiginosi in tutta la Penisola e i pesanti danni strutturali causati dai
bombardamenti nelle maggiori città italiane, la fase politica che si apriva era
incentrata sul tentativo di ristabilire un ordine produttivo. Il carattere speculativo
assunto dal settore immobiliare italiano sarà tuttavia un elemento impossibile da
eliminare e inciderà in maniera determinante nella nuova configurazione dello
spazio urbano che andrà delineandosi nell’arco della seconda metà del ‘900.
3.1.2 L’evoluzione delle politiche abitative: dal “Piano Fanfani” alla crisi
dell’edilizia residenziale pubblica.
Il primo intervento di rilievo nell’Italia repubblicana fu il così detto “Piano
Fanfani”39 del 1949: un’ingente manovra finanziaria che a partire dai fondi per
l’Edilizia residenziale pubblica, stanziati a livello internazionale per il
programma di ricostruzione, diede vita all’Ina-Casa, un istituto che avrebbe
dovuto finanziare le case per i lavoratori attraverso un patrimonio costituito in
parte da trattenute sui redditi di operai e datori di lavoro, in parte da sovvenzioni
statali.
Con l’avvento degli anni ‘50 esistevano, quindi, tre enti che si occupavano
della costruzione di alloggi per i lavoratori: l’ Ina-Casa, l’I.C.P e l’ I. N. C. I.
S.40, relativo ai dipendenti statali; inoltre attraverso ulteriori decreti legislativi si
ampliavano i finanziamenti pubblici alle cooperative edilizie che costruivano
alloggi sociali; tuttavia anche questa dinamica, potenzialmente virtuosa, finì per
favorire la speculazione privata in virtù dell’aumento del valore del suolo
39 Legge n° 43 del 28 febbraio 1949.
40 Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati dello Stato, costituito simultaneamente all’ I.C.P.
60
circostante alle costruzioni delle cooperative.
Nonostante con queste disposizioni normative il numero di alloggi popolari
aumentasse visibilmente, fu tuttavia l’iniziativa privata a prendere ancora una
volta il sopravvento nella produzione edilizia; si instaurò, infatti, un circolo
vizioso che vide i proprietari dei terreni cedere agli enti una parte del loro
patrimonio, situato in zone ancora lontane dalla città, al fine di costruire alloggi
popolari, così da sfruttare l’ estensione dei pubblici servizi ed aumentare la
rendita derivante dall’edificazione o dalla compra-vendita.
Allo stesso modo l’iniziativa privata andò a saturare quei vuoti urbanistici e
a creare veri e propri quartieri residenziali intensivi; tutto questo fuori dalle linee
direttive dei piani regolatori, dei quali - vista la progressiva centralizzazione del
controllo sul settore edilizio - risulterà sempre abbastanza agevole eludere le
prescrizioni.
Sebbene nel complesso possa apparire che le sorti economiche del Paese
siano in fase di stabilizzazione, in realtà ai margini dello spazio urbano, nelle
principali città italiane, il disagio sociale andava intensificandosi anche a causa
delle proporzioni che raggiungerà il fenomeno dell’immigrazione interna nel
periodo 1950-1970. Come già osservato precedentemente, anche in questa fase
l’integrazione di questa fascia di popolazione nel mercato del lavoro, e
conseguentemente nell’organicità del sistema produttivo e di consumo, sarà
molto problematica, con gravi ripercussioni sul tessuto urbano nella sua
complessità.
Attorno al 1963 una nuova crisi edilizia colpì il settore immobiliare: in
quegli anni gli amministratori del Paese intrattennero un legame serrato con
l’imprenditoria privata, che molto spesso sfociò in forme poco lecite di
agevolazioni; inoltre, anche in questa fase l’edilizia rappresentò il volano attorno
al quale si costruirono le speranze per una rapida ripresa economica, sia per
quanto riguarda la relativa scarsità di capitali necessari, sia per la larga fascia di
61
mano d’opera disponibile per via delle migrazioni interne.
È da segnalare come ci sia stato un sostanziale immobilismo politico
rispetto alle deliberazioni in materia di pianificazione urbanistica: tutti i tentativi
di riforma attuati dal 1942, sono stati ostacolati da un blocco compatto
d’interessi finanziari che, sfruttando l’instabilità delle compagini governative,
dominava il mercato immobiliare.
Tra le poche leggi effettivamente varate per ottimizzare lo sviluppo urbano
è da ricordare la legge Sullo41 al cui interno erano contenute sia disposizioni
inerenti la pianificazione delle aree nelle quali sarebbero dovuti sorgere i
complessi di edilizia popolare, sia misure normative in merito agli espropri dei
terreni a fine pubblico. Per quanto riguarda la prima parte, si cercò di porre
rimedio alla disparità di sviluppo urbanistico che interessava le diverse aree
della città: i complessi edilizi degli enti pubblici, infatti, fino a quel momento
erano sorti in zone estremamente periferiche attraverso interventi non coordinati,
con la conseguenza di una settorializzazione degli inquilini; la legge previde
invece degli specifici Piani per l’Edilizia Economica e Popolare (PEEP), in
modo da assicurare una concentrazione mista d’intervento pubblico/privato in
specifiche aree da individuare all’interno del piano di espansione.
Per quanto riguarda invece le disposizioni in merito agli espropri, esse
prevedevano una rimodulazione dei criteri per la valutazione del valore del
suolo espropriato, in modo da favorire la compravendita da parte dei comuni di
terreni ad uso edificabile. Tuttavia, questa parte della norma fu dichiarata
incostituzionale e con la sua modifica si tornò al modello di conversione
postulato dalla legge del 1885, precedentemente citata; un anno dopo veniva
sostituita l’Ina-Casa con la GESCAL, che avrebbe dovuto usufruire di specifici
fondi per incrementare il patrimonio immobiliare per i lavoratori.
L’abusivismo edilizio, e soprattutto la vendita di terreni, continuarono
tuttavia ad imperversare e, attraverso il fenomeno delle lottizzazioni, furono
41 Legge n° 167 del 1962.
62
autorizzati migliaia di ettari di terreno per uso edificabile: una situazione
assolutamente non controllabile con il limitato impianto legislativo di cui si
disponeva, esplosa nell’opinione pubblica in seguito ad una grave frana ad
Agrigento, che gettò su strada migliaia di persone.
A seguito di questo evento venne istituita una commissione d’inchiesta che
porterà, nel giro di pochi anni, all’emanazione di una nuova riforma, la
cosiddetta Legge Ponte42, nelle intenzioni preludio di una vera e propria riforma
urbanistica, che provvederà ad incentivare la pianificazione limitando la
possibilità della lottizzazione solo ai comuni dotati di un piano di sviluppo
urbanistico e solo entro quelle aree, inserendo sanzioni per gli abusivismi e
soprattutto identificando degli “standard urbanistici”, ovvero delle aree da
destinare necessariamente all’uso pubblico.
Ad incidere sull’effettiva realizzazione di una vera e propria legge sulla
casa fu sicuramente una stagione di lotte sociali diramatesi in tutti i settori,
specialmente nell’ambito studentesco ed in quello operaio; le rivendicazioni si
estesero oltre le questioni legate al lavoro e toccarono la totalità delle condizioni
di esistenza del ceto meno abbiente: in questo contesto trovarono ampio spazio
le prime battaglie radicali per il diritto alla casa, alimentate soprattutto dalla
drammatica situazione nella quale erano costrette a vivere migliaia di famiglie
emigrate.
Con la pressione sul governo dei sindacati confederali dal lato istituzionale
e dei movimenti sociali dal basso, si avviò un processo di revisione delle norme
che regolavano l’intervento urbanistico sul territorio, a partire dalla nuova legge
sulla casa, varata nell’autunno del 197143. Questa affrontò principalmente
quattro aspetti del problema: la programmazione e il coordinamento dell’edilizia
pubblica, le espropriazioni, i cambiamenti alla legge 167/1962 e il
finanziamento di alcuni primi programmi d’intervento. La legge n° 8651971
42 Legge n° 765 del 1967.
43 Legge n° 865.
63
prevedeva sostanziali modifiche ai meccanismi della programmazione pubblica
dell’edilizia; al posto di una miriade di enti, ciascuno caratterizzato da regole,
soggetti e procedure diversi, essa prefigurava un sistema secondo il quale allo
Stato spettava il compito di provvedere all’allocazione di tutte le risorse
destinate alla residenza nei diversi settori; altresì, essa stabiliva che le tipologie
d’intervento nelle diverse regioni si differenziassero in funzione dei fabbisogni
specifici.
Alle Regioni fu invece riservato il compito della localizzazione e del
coordinamento degli investimenti pubblici per l’edilizia all’interno dei loro
territori; i comuni, infine, si sarebbero dovuti occupare di gestire la
programmazione locale e gli interventi sul territorio insieme agli Istituti per le
Case Popolari, differenziati per regione, ma riuniti nell’unico ente dell’IACP.
A quest’intervento legislativo seguiranno il DPR 616/1977, nel quale la
disciplina dell’Urbanistica fu attribuita unicamente alle Regioni e, nel gennaio
dello stesso anno, la legge Bucalossi44, compimento di un dibattito decennale
sulla riforma del regime dei suoli.
Gli elementi principali che componevano questa normativa erano da un lato
l’istituzione della concessione onerosa come tipo di licenza edilizia e la
configurazione dello strumento dei piani poliennali di attuazione, al fine di
garantire che l’operato delle istituzioni locali proseguisse in accordo ai piani
urbanistici;
dall’altro
il
convenzionamento
dell’edilizia
pubblica
e
l’elaborazione di un sistema di sanzioni che andasse a colpire l’abusivismo.
Sempre sul finire degli anni settanta si assistette a due ulteriori passaggi
legislativi che risulteranno essere determinanti nella caratterizzazione delle fasi
successivamente affrontate dal mercato immobiliare, in prima istanza la legge
che istituì il piano decennale di attuazione dell’edilizia residenziale pubblica 45.
Essa riguardava: la disciplina degli interventi di edilizia convenzionata,
44 Legge n° 10 del 1977.
45 Legge n° 457 del 1978.
64
sovvenzionata e agevolata; il recupero e l’ampliamento del patrimonio edilizio e
l’acquisizione ed urbanizzazione di aree destinate allo sviluppo industriale; le
linee generali d’intervento, che vennero affidate alle direttive emanate dal CIPE
(Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica).
Sul versante del settore privato invece venne varata, sempre nel 1978, la
Legge sull’equo canone46 che si occupò di definire le modalità di regolazione del
settore degli affitti, stabilendo dei parametri attraverso cui calcolare il costo
della locazione a partire da criteri esplicitati all’interno del decreto: se da una
parte questo provvedimento ebbe l’obbiettivo di riordinare la materia, limitando
le sperequazioni che emergevano in questo mercato a partire dalle molteplici
tipologie di contratto locativo, dall’altro esso agì come un freno alla rendita
privata, generando quindi un sostanziale blocco del settore ed una riduzione
dell’offerta di alloggi accessibili alle fasce a più basso reddito.
Nonostante le modificazioni all’impianto legislativo fossero state
significative, le problematiche abitative continuarono ad essere un elemento
ricorrente nello scenario sociale degli anni Ottanta e Novanta: da un lato queste
paiono essere state dissimulate sotto l’incremento della percentuale di acquisto
per immobili residenziali, dall’altro vennero sistematicamente tamponate da
decreti legislativi speciali che, tramite lo stanziamento di fondi straordinari,
permisero di limitare l’incidenza della condizione di emergenza47.
Inoltre, anche in virtù della lentezza dell’apparato burocratico, le
disposizioni in materia di abusivismo continuarono a non essere rispettate:
seppure il fenomeno di edificazione selvaggia diminuisse notevolmente, restò la
necessità di fare rientrare nei piani urbanistici tutte quelle zone, in alcuni casi
molto estese, che erano state costruite fuori dai piani regolatori senza rispettare
l’iter di concessioni stabilite dalle leggi; vennero così varate misure che
permisero di condonare gli edifici abusivi48, al fine di effettuare una sanatoria
46 Legge n° 362 del 1978.
47 Legge n°25 del 1980, legge n° 94 del 1982, legge n° 118 del 1985, legge n° 899 del 1986.
48 La prima legge di condono è la n° 47/85 ad opera del ministro socialdemocratico Franco Nicolazzi.
65
che li facesse rientrare in piani di recupero urbanistico.
Si può sostenere che l’intervento governativo sul mercato immobiliare nel
corso degli anni Ottanta abbia aperto la strada alla fase di privatizzazione del
patrimonio immobiliare pubblico e di smantellamento del sistema di
sovvenzioni all’edilizia residenziale, avviatasi con la riforma del 1993 49 che
prevedeva l’alienazione dei beni di proprietà degli enti a prezzi particolarmente
vantaggiosi; una manovra che avrebbe dovuto risanare i deficit degli IACP e
finanziare nuovi programmi d’intervento.
Nei fatti questa legge avvia una rimodulazione in termini quantitativi e
qualitativi delle politiche abitative statali: sarà favorita la liberalizzazione del
mercato con l’incentivo delle misure a sostegno diretto o indiretto del canone di
locazione, a svantaggio della costruzione di case popolari, in una generale
inversione di tendenza che vedrà diminuire progressivamente il peso
dell’intervento pubblico nella regolazione delle sperequazioni relative al
mercato immobiliare e nella tutela del diritto all’abitare per le fasce meno
abbienti della popolazione.
3.1.3 Le politiche abitative nel terzo millennio
Dagli anni Settanta agli inizi del nuovo secolo la situazione socioeconomica del Paese appare profondamente mutata; nello specifico del settore
immobiliare, dopo l’ondata di edificazione selvaggia e la successiva fase della
condonazione edilizia, si è registrato un calo rispetto all’acquisto di immobili ed
un corrispettivo aumento delle locazioni.
49 Legge n° 560 del 1993.
66
Questo è dovuto principalmente a due serie di fattori: da un lato si è
verificata la saturazione della domanda d’acquisto a causa delle dimensioni
massificate assunte dal fenomeno della “casa di proprietà” durante i decenni
precedenti; dall’altro si è assistito ad una riduzione della capacità di acquisto da
parte dei nuovi nuclei, nonché alla sostanziale modificazione della loro
composizione. La significativa diminuzione dei componenti familiari e le
differenze nella struttura del mercato del lavoro che implicano una maggiore
instabilità
finanziaria,
unite
all’aumento
dei
prezzi
conseguente
alla
liberalizzazione del mercato immobiliare, hanno di fatto provocato una fase in
cui l’accesso al bene casa diventa sempre più oneroso.
Il settore degli affitti è ugualmente intriso di problematicità: anche in
questo caso, abolire la regolamentazione della libera concorrenza ha comportato
un sostanziale aumento del costo della locazione, un fenomeno che si registra in
modo particolare nelle aree metropolitane, dove gli intensi fenomeni migratori
contribuiscono enormemente a mantenere alta la domanda di alloggi. Tuttavia la
presenza di un ingente quantitativo di patrimonio immobiliare privato non
abitato e contemporaneamente l’aumento progressivo delle richieste di accedere
ai residui di welfare pubblico risultano essere chiari segnali di uno squilibrio tra
la composizione della domanda di alloggi e la qualità dell’offerta fornita dai
costruttori privati.
Dal punto di vista legislativo all’inizio del nuovo millennio si conferma la
competenza regionale in materia di pianificazione delle politiche abitative e si
ridefinisce la divisione delle competenze di attuazione tra Regioni, Province e
Comuni. Viene, inoltre, abolito lo strumento dell’“equo canone” a favore del
cosiddetto “doppio canale”, che prevede da una parte che i privati siano liberi di
decidere il prezzo dell’affitto, dall’altra sostegni finanziari alle famiglie
bisognose in accordo alle deliberazioni degli enti locali competenti.
Nel complesso la fase di liberalizzazione e di drastica diminuzione degli
67
investimenti pubblici in edilizia sociale ha comportato un rinnovato acuirsi del
fenomeno dell’emergenza abitativa a diversi livelli di gravità: per un aspetto
essa riguarda una parte significativa di nuclei che non riescono più a permettersi
l’accesso al bene e diventano inquilini morosi, fenomeno che si verifica anche
per gli alloggi pubblici a canone facilitato; per un altro, aumenta
considerevolmente il numero degli individui impossibilitati ad accedere al
mercato delle locazioni perché a reddito zero, che non rientrano nelle
graduatorie per l’assegnazione di case popolari o di contributi economici.
Nel 2009, all’indomani della crisi economica mondiale, viene varato dal
governo Berlusconi in accordo con le regioni, un “Piano Casa” che avrebbe
dovuto costituire una soluzione per sbloccare la recessione in cui versava il
settore immobiliare: vengono quindi emanate disposizioni che prevedono la
possibilità dell’ampliamento delle cubature degli edifici residenziali al fine di
migliorarne la sostenibilità energetica e la qualità architettonica.
Questo provvedimento viene immediatamente accolto con favore da quasi
tutte le Regioni che deliberano percentuali diverse da rispettare per gli
ampliamenti, una situazione legislativa che tuttavia non influirà particolarmente
sull’andamento del settore immobiliare in quanto non incide sulle cause che
determinano lo squilibrio del mercato, ovvero sulla condizione di impossibilità
di accesso al bene casa.
Con il dispiegarsi degli effetti della crisi finanziaria sulla politica
economica del Paese e sul mercato del lavoro, la questione della casa ricomincia
a rappresentare un terreno di aspra tensione: su un piano strutturale la situazione
di squilibrio tende ad aggravarsi in quanto al calo della capacità di acquisto
d’immobile non è corrisposto una diminuzione delle concessioni edilizie; questo
ha comportato l’aumento del patrimonio privato rimasto inutilizzato ed ha
contribuito a far salire i prezzi delle locazioni.
Sul piano del conflitto sociale si è verificata una radicalizzazione su tutto il
68
territorio nazionale dei movimenti sociali che rivendicano il diritto all’abitare e
che scelgono come pratica di lotta l’occupazione di stabili in stato di abbandono,
di proprietà sia pubblica che privata; è altresì aumentato sensibilmente il numero
di famiglie che si rifiutano di rispettare un’ordinanza di sfratto, con la
conseguenza di un incremento degli interventi effettuati con la forza pubblica.
Questa situazione, in molti casi di scontro aperto tra movimenti e istituzioni
ha contribuito a riportare all’attenzione dell’opinione pubblica la questione
abitativa.
Quello che interessa sottolineare è il clima di tensione sociale che spinge
l’appena insediato governo Renzi ad emanare una legge in materia di edilizia
pubblica, il così detto “Piano Casa”50. Questo decreto parte dall’assunto che i
fondi stanziati per l’emergenza servano soprattutto a far ripartire il mercato
immobiliare; è in questo quadro che si colloca l’intervento di rifinanziamento
del fondo per la morosità incolpevole, che passa ad un totale di 226 milioni
stanziati per il periodo 2014-2020,, viene inoltre aumentato di 100 milioni il
fondo di sostegno all’affitto per il biennio 2014-2015.
Come ulteriori misure a sostegno della proprietà vengono varate: la
riduzione dell’aliquota della cedolare secca al 10% per i proprietari che
immettono alloggi a canone concordato sul mercato; l’esclusione dei proventi
derivanti da locazione di immobile nuovo o ristrutturato dal calcolo del reddito
d’impresa; l’abrogazione dell’Imu per chi è residente all’estero e possiede una
casa sfitta in Italia.
Gli elementi più criticati di questa legge saranno tuttavia gli articoli 3 e 5
che prevedono rispettivamente la possibilità della messa all’asta del patrimonio
pubblico a prezzo di mercato, anche di interi complessi, con l’attribuzione
all’inquilino del diritto di prelazione sull’acquisto51, e il diniego della residenza
e degli allacci ai pubblici servizi per chiunque occupi abusivamente uno stabile
50 Dl n°47 del marzo 2014, convertito nella legge n°80 nel maggio 2014.
51 Le misure non sono direttamente contenute nella legge, ma presenti nel decreto attuativo dell’art.3,
elaborato del Ministero delle Infrastrutture.
69
non di sua proprietà, con effetto retroattivo a partire dall’emanazione della
legge; gli occupanti vengono inoltre interdetti dalle graduatorie di assegnazione
delle case popolari per almeno cinque anni.
Dall’art. 5 del piano casa si evince il tentativo di ridimensionare i
movimenti sociali legati alla questione abitativa: il diniego della possibilità di
residenza, oltre ad essere una grave limitazione della libertà personale,
rappresenta infatti una condizione particolarmente ostica per un nucleo
familiare, che implica l’impossibilità di accedere ai servizi pubblici essenziali
come sanità e istruzione e che implica un processo di marginalizzazione sociale.
Questa legge, pur non essendo ancora pienamente in vigore per via dell’iter
che lega la sua applicazione alle deliberazioni dei Consigli regionali in materia,
ha comunque provocato un inasprimento generalizzato del rapporto tra
movimenti per il diritto all’abitare ed istituzioni competenti che, anche per via
della scomparsa di soggetti politici che agiscano come elementi di mediazione
tra rivendicazioni sociali e amministrazioni locali, risulta essere gestito con
maggiore frequenza come un problema di ordine pubblico.
Se al Piano Casa si aggiunge l’assenza del rinnovo, nel decreto “Mille
proroghe” del dicembre 2014, del blocco degli sfratti per mancato pagamento
(una situazione che secondo il SUNIA coinvolgerebbe circa 30.000 nuclei
familiari), si comprende quanto la questione dell’emergenza abitativa sia un
elemento potenzialmente esplosivo che caratterizza le esistenze di migliaia di
individui in tutti i più grandi centri urbani, altresì appare evidente come non si
possa pensare di risolvere una problematica dipendente dal modello di sviluppo
nel suo complesso provando a rimettere in moto il libero mercato degli affitti e
riducendo lo stock di edilizia residenziale pubblica disponibile.
70
3.2 La questione abitativa in Europa: i differenti modelli d’intervento
pubblico
Il problema dell’emergenza abitativa è presente in tutti i paesi occidentali
con differenti gradi di intensità, è altresì diverso il peso che l’azione pubblica
ricopre nel sistema socio- economico, cosa che implica delle sostanziali
discordanze tra i tipi di interventi messi in atto dai diversi stati per ovviare alle
sperequazioni di domanda/offerta di alloggi a basso costo.
Prima di osservare a grandi linee gli specifici modelli, è necessario tenere
presente che nella normativa europea non si trovano disposizioni in materia di
abitare, tuttavia la tutela del diritto all’alloggio si può ricavare da alcuni articoli
della Carta di Nizza52; specificatamente, rispetto alla sicurezza e all’assistenza
sociale, l’art. 34 recita: «Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la
povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e
all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che
non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto
comunitario e le legislazioni e prassi nazionali»53.
Le politiche per la casa dei paesi europei si possono dividere
indicativamente in due filoni principali: quello di tipo universalistico, che
implica l’assunzione di responsabilità da parte dello stato del finanziamento di
interventi che riguardino tutto il complesso della popolazione, e quello selettivo
dove i contributi riguardano solo gli strati più svantaggiati; questo può
esplicitarsi secondo due possibili varianti, quella generalista che assegna gli
alloggi a famiglie che si trovano sotto una certa soglia di reddito, e nel quale gli
affitti sociali hanno un livello massimo fisso, e quella residuale, rivolto ad un
numero più ristretto di beneficiari che ricevono sussidi dalle autorità locali
diversificati in base al grado di bisogno.
52 La Carta di Nizza, emanata nel 2000, racchiude i diritti fondamentali dell’Unione Europea.
53 Cfr. E. Ferrara, Diritto alla casa e forme dell’abitare, Chieti, 2014, p. …
71
All’interno di queste macro categorie si distinguono i differenti modelli
adottati dagli stati-nazione, utilizzando come discriminante la proporzione tra
misure a sostegno del mercato e produzione di alloggi sociali.
Al fine di ricostruire un quadro orientativo entro il quale collocare i diversi
interventi dellUnione Europea in materia di Social Housing, il Cecodhas
(Comitato Europeo per la Promozione del Diritto alla Casa) ha proposto una
definizione univoca del termine ed una classificazione in base alle diverse
modalità con cui la questione viene affrontata, adattando al contesto dell’abitare
le proposte di Esping-Andersen54 rispetto alle distinzioni tra i sistemi di welfare.
In questo senso vengono riconosciute tre differenti tipologie di paesi. Al
primo posto negli investimenti diretti in edilizia sociale si trovano le nazioni
scandinave, che seguendo il modello socialdemocratico propongono un tipo di
intervento universalistico con un alto numero di alloggi sociali costruiti
direttamente dallo Stato; questo tipo di sistema risulta applicabile soprattutto in
virtù della stabilità economica e della bassa pressione demografica.
Vi è poi il modello liberale, nel quale gli interventi sono finalizzati per lo
più ad incentivi di carattere economico elargiti verso il settore privato per
favorire la costruzione di alloggi sociali e verso i nuclei di fasce deboli
attraverso contributi di sostegno all’affitto; la logica che muove questo tipo di
welfare abitativo è la auto- regolazione del mercato e la convinzione che il
rafforzamento della produzione edilizia, attraverso processi di filtering,
produrrebbe come automatismo un rimescolamento sociale, in quanto gli alloggi
lasciati vuoti dal ceto medio-alto sarebbero occupati a prezzi inferiori da fasce
più basse di popolazione.
Il terzo modello che viene identificato riguarda i paesi del Europa
continentale ed è quello corporativo: esso si sostanzia in un intervento dello
Stato che punta a favorire l’accesso alla proprietà, con interventi mirati
soprattutto ad alcune categorie lavorative: In questi paesi il ruolo della famiglia
54 G. Esping- Andersen, The three worlds of welfare capitalism, Cambrige University press, 1990.
72
nel provvedere alle esigenze abitative è fondamentale e si sostanzia attraverso il
trasferimento generazionale della casa. In alcuni stati inseriti in questo gruppo,
ovvero quei paesi mediterranei con un basso livello di sviluppo economico ed un
alto livello di povertà, risulta fondamentale anche la presenza di organizzazioni
legate alla Chiesa, che agiscono come ammortizzatori sociali per le fasce più
deboli non inserite nel mercato del lavoro.
Non è possibile in questa sede osservare in che modo questi modelli siano
stati applicati nei diversi territori e quali processi hanno portato alla loro
progressiva modificazione, tuttavia attraverso la definizione di Social Housing
fornita dal Cecodhas si possono osservare i punti in comune che caratterizzano
l’indirizzo delle politiche abitative attualmente in vigore nei vari paesi europei.
Con questo termine, dunque, s’intende «l’insieme delle attività atte a
fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che
hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché
incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari»55.
Da questa definizione si evince come vi sia una pluralità di tipologie
d’intervento necessariamente correlata alle differenze tra i vari stati in merito
alla gestione e all’organizzazione delle politiche abitative. Esistono, inoltre,
gradi diversi di sviluppo del settore del Social Housing, calcolabili guardando
alla differenza tra il totale dello stock abitativo e gli alloggi sociali dati in affitto.
Nonostante le diversità si riscontra la tendenza per tutti i paesi europei a far
entrare i privati all’interno del processo di gestione ed ampliamento del
patrimonio immobiliare ad uso sociale. Rispetto a ciò le principali differenze
riguardano la questione della proprietà, che per paesi come Irlanda, Regno Unito
e Paesi Bassi rimane vincolata al settore pubblico, nonostante gli alloggi siano
costruiti con finanziamenti privati; al contrario in stati come Austria e Germania
sono i soggetti non pubblici ad avere un ruolo preminente56.
55 Definizione Cecodhas
56 Per uno studio dettagliato sul Social Housing e sulle sue applicazioni in Italia e in Europa si veda R. Galdini,
L’abitare difficile. La casa in Italia tra desideri e risorse, Napoli, 2012
73
In generale si può sostenere che lo strumento del Social Housing
rappresenta
una
sperimentazione
volta
ad
garantire,
nello
scenario
dell’economia neo-liberista europea, la tutela del diritto alla casa attraverso una
strategia che permetta agli stati di ammortizzare i costi del welfare e di sfruttare
la maggiore efficienza del settore privato.
Tuttavia emergono nodi problematici che riguardano il criterio di selezione
con cui si accede al sistema di agevolazioni abitative: questo tipo di interventi è
infatti sovente riferito ad una fascia di popolazione che, pur essendo in
emergenza, dimostra di essere inserita nel contesto produttivo, in quanto il
nucleo che beneficia delle agevolazioni deve essere in grado di contribuire al
canone di locazione; inoltre, appare evidente come la questione abitativa si
estenda oltre il contesto familiare e riguardi tutta una serie di categorie sociali
che non riescono ad accedere al sistema di tutele.
In ultima istanza è necessario sottolineare come sia più agevole portare
avanti questi tipi d’intervento pubblico in contesti nei quali il mercato
dell’affitto risulta essere particolarmente ampio e stabilizzato. Nel caso di paesi
come l’Italia, con un altissimo tasso di proprietari di casa ed un settore edilizio
profondamente speculativo, l’attuazione di questo tipo di interventi potrebbe
sovente intrecciarsi con una nuova ondata di edificazione incontrollata anziché
valorizzare l’immenso patrimonio pubblico e privato rimasto inutilizzato.
74
Capitolo 4. Housing e movimenti sociali: il caso di Berlino
Durante gli ultimi 25 anni la città di Berlino ha subito profondi
cambiamenti che hanno interessato non solo la dimensione urbanistica, ma più
in generale riferiti alla totalità della struttura politico-economica. La caduta del
Muro e la decisione di rendere Berlino capitale della Germania unificata hanno
implicato, infatti, una sostanziale rimodulazione del modello di sviluppo in
chiave neo-liberista: ma quali sono gli elementi che hanno contribuito a
trasformare in così poco tempo una città divisa nella “Silicon Valley” europea?
Dopo aver ripercorso a grandi linee i processi che determinano la
configurazione socio-spaziale e politico-economica dell’abitare moderno, è
possibile affrontare il tema del modo in cui prende forma, nello scenario attuale,
il complesso rapporto tra i movimenti sociali e la città, intendendo in questo
senso osservare l’influenza di questi ultimi rispetto al mercato immobiliare, alla
75
legislazione in materia di edilizia pubblica ed alle modificazioni dello spazio
urbano.
Quel che interessa osservare è il modo con cui l’impronta neo-liberista che
caratterizza l’agire politico dei governi europei si intreccia alle specificità
contestuali socio-economiche dei differenti stati-nazione, disegnando scenari nei
quali il problema della casa assume connotazioni diverse non soltanto rispetto
all’intensità delle mobilitazioni e alle categorie sociali coinvolte nel processo,
ma anche rispetto al grado di percezione della questione da parte delle autorità
ed ai conseguenti tentativi di integrazione della stessa.
È molto complesso operare una sistematizzazione in virtù di una
comparazione tra i differenti contesti nazionali; tuttavia, identificando come
macro-aree di riferimento dell’azione dei movimenti il mercato immobiliare, le
politiche abitative e lo spazio urbano, si evincono le sostanziali differenze nel
tessuto sociale ed è possibile osservare il diverso grado di diffusione ed
integrazione delle pratiche di lotta più radicali.
Scomporre i piani della “questione delle abitazioni” ha lo scopo di
evidenziare tanto i legami di reciprocità tra le variabili, quanto le contraddizioni
esplicite ed implicite presenti nei processi di modifica dello spazio urbano; allo
stesso tempo, permette di identificare con chiarezza l’articolazione dei conflitti
sulla casa e le strategie messe in campo per la loro sussunzione.
La situazione Berlinese appare in questo senso densa di spunti di riflessione
particolarmente interessanti, in quanto i cambiamenti nello sviluppo urbanistico
correlati alle intense stagioni di lotta per il diritto alla casa si sono rivelati
elementi tendenzialmente contraddittori che hanno contribuito a rendere quei
quartieri “salvati” dagli squatters i centri privilegiati dei processi di
gentrificazione; un fenomeno che continua ad essere problematico anche per gli
abitanti della capitale tedesca e a suscitare numerose iniziative di protesta.
76
4.1 L’edilizia sociale in Germania: limiti e peculiarità del modello
tedesco
Nel complesso quadro delle specificità territoriali legate alla legislazione in
materia di abitare, il caso della Germania appare particolarmente interessante
per due ordini di ragioni: da un lato, in virtù della complessità dei processi di
rigenerazione urbana che sono stati affrontati sia nella parte Est che in quella
Ovest, in seguito ai gravissimi danni riportati dalle città tedesche all’indomani
della sconfitta del 1945; dall’altro, per le ragioni strutturali e le modalità
attraverso cui il conflitto sociale creatosi attorno alla questione abitativa negli
anni Ottanta e Novanta è stato integrato nelle politiche abitative.
La caduta del muro riveste un’importanza cruciale nella modificazione del
rapporto tra pubblico e privato in merito al settore dell’edilizia popolare; in
quell’anno, infatti, vi è il definitivo ingresso dei privati nella costruzione e
gestione del patrimonio immobiliare ad uso sociale, una situazione che darà vita
ad una peculiare struttura di responsabilità che lega sia l’opera del privato al
finanziamento pubblico, sia l’inquilino in difficoltà all’erogazione del sussidio.
Nel 2006 la gestione delle politiche abitative è diventata competenza dei
Länder, che si occupano di distribuire i fondi ai vari soggetti coinvolti nel
processo, previo finanziamento da parte del governo centrale. Questo ha portato
a una sostanziale diversificazione dei diversi tipi d’intervento attuati; in tutti,
però, si riscontra la tendenza da parte degli enti locali ad agire in concorso con il
partner privato come un attore di mercato.
Sebbene questo tipo di gestione sia risultata abbastanza efficiente rispetto
alla domanda di alloggi sociali, tuttavia progressivamente, anche per via dei fitti
77
cicli di migrazioni interne che la Germania ha affrontato durante l’ultimo
trentennio, è diminuita la disponibilità di alloggi a canone agevolato e si è
verificato, soprattutto nel periodo più recente, un netto peggioramento delle
condizioni abitative delle fasce che non riescono ad accedere ai prezzi di
mercato, con un conseguente acuirsi di dinamiche segregative.
È inoltre interessante osservare il rapporto esistente nelle città tedesche tra
edilizia sociale e processi di gentrificazione: si crea una dinamica peculiare nella
quale le necessità abitative delle fasce a basso reddito si intersecano con
l’esigenza di riqualificazione di aree urbane parzialmente centrali. Gli
investimenti pubblico-privati, di fatto ,incrementano il valore del suolo; a questo
si accompagna un aumento dell’iniziativa privata con la conseguenza che, al
termine della fase di ammortamento dei costi per gli alloggi costruiti o
ristrutturati ad uso sociale, il canone di locazione viene elevato ai nuovi standard
di prezzo della zona e gli inquilini a basso reddito devono lasciare il posto a
fasce sociali più abbienti.
La diversificazione degli interventi sul territorio ha tuttavia fatto emergere
come vi siano una serie di esperimenti particolarmente significativi che
riguardano esperienze di riutilizzo a fini sociali del patrimonio in disuso e che
vedono la partecipazione dei futuri inquilini a tutte le fasi decisionali della
progettazione e della ristrutturazione dell’immobile. In questi casi è importante
guardare al tessuto urbano nel quale si colloca l’intervento, poiché sovente
queste particolari vicende si sviluppano all’interno di contesti nei quali gli
abitanti, organizzati in comitati di quartiere, hanno un’influenza notevole
sull’istituzione locale.
Questo tipo di progettualità che coinvolge direttamente i cittadini è
sicuramente funzionale all’amministrazione, in quanto permette di pacificare
notevolmente la questione della casa; non è casuale che molti di questi interventi
siano stati attuati per mettere fine ad un processo di radicalizzazione della
78
questione abitativa.
Rispetto a quest’ultimo punto, sarà osservato nello specifico il caso di
Berlino, una capitale che tra molte contraddizioni ha affrontato una sostanziale
trasformazione urbanistica negli ultimi trent’anni, attraversando intense fasi di
conflittualità sociale legate all’abitare.
4.2 Conflitto sociale e riqualificazione urbana nella Berlino di fine
secolo
La questione abitativa a Berlino negli ultimi cinquant’anni del Novecento
si è manifestata con irruenza nello scenario politico-sociale in due fasi storiche
differenti: nel decennio successivo alla costruzione del Muro e nella prima parte
degli anni Novanta.
Nonostante si tratti di momenti storici differenti e caratterizzati da proprie
specificità, è possibile rintracciare elementi comuni che caratterizzano quelle
esperienze di lotte radicali e la loro sussunzione da parte del sistema politicoeconomico; è altresì interessante notare come, proprio a partire dall’integrazione
parziale a fine pacificatorio delle istanze dal basso, si sia dato vita ad un modello
di riqualificazione urbana nel quale l’edilizia sociale prende forma attraverso
peculiari esperimenti.
La situazione socio-spaziale che la città di Berlino affronta nella seconda
metà del secolo scorso è sicuramente unica: i pesanti bombardamenti hanno
distrutto innumerevoli edifici, lasciando molteplici vuoti urbani in tutte le zone
della città; inoltre, la divisione del territorio, dal 1961 formalizzata attraverso la
costruzione del Muro, implica differenze sostanziali nello sviluppo urbanistico e
nei princìpi legislativi che lo determinano.
79
Se da un lato nella DDR l’abolizione della proprietà privata comportava
uno sviluppo urbano pianificato e statalizzato, che proponeva un modello di
alloggio standardizzato (le cosiddette Platte), dall’altro nella RDT l’azione
pubblica agevolava l’intervento del privato anche tramite finanziamenti, così da
dilazionare il costo delle ricostruzioni edilizie; questo tipo di strategia si
trasformava sovente in interventi gentrificativi delle zone centrali.
Per quanto riguarda invece i quartieri “degradati”, la prassi corrente era
quella di procedere con la totale demolizione delle unità abitative fatiscenti e la
costruzione ex novo di edifici moderni che attirassero fasce sociali più alte;
questo provocava il progressivo spostamento degli abitanti più abbienti verso
altre zone e l’allontanamento forzato dei ceti a più basso reddito.
Oltre agli abitanti allontanati dal centro, nella periferia di Berlino ovest si
riversava anche la pressione demografica generata dagli intensi flussi migratori
che la attraversavano, in virtù della facile integrazione nel settore produttivo ed
in veste di quella mano d’opera non specializzata, fondamentale per il
riassestamento dell’economia tedesca dopo il crollo della seconda guerra
mondiale.
All’aumento della densità di popolazione delle zone popolari corrispose un
aumento dei finanziamenti ai privati affinché venissero edificati nuovi sobborghi
ad uso sociale, così da far proseguire anche nei quartieri operai, specialmente in
quelli adiacenti al Muro, il processo di riqualificazione/gentrificazione.
Questa tendenza si concretizzò, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, in
una radicalizzazione dello scontro tra abitanti e istituzioni soprattutto nella zona
di Kreuzberg, un distretto particolarmente ampio che con la costruzione del
Muro finì per diventare una “terra di confine”; di conseguenza esso fu
progressivamente abbandonato dai ceti abbienti ed andò caratterizzandosi come
un quartiere abitato in prevalenza da immigrati di origine turca e cittadini a
basso reddito.
80
In questo contesto, particolarmente vivace dal punto di vista culturale e
politico, le pratiche di demolizione e ricostruzione trovarono una ferma
opposizione negli abitanti, che si organizzarono in comitati territoriali e diedero
vita ad un’intensa stagione di occupazioni a scopo socio-abitativo di edifici
abbandonati, al fine di rimanere nei propri quartieri, evitare l’avvio del processo
gentrificativo e rompere la spirale di distruttività collegata alla concezione
liberista di rinnovamento urbano.
Dopo una fase di reticenza da parte delle istituzioni locali a cedere alle
richieste degli occupanti con il conseguente inasprimento dei momenti di
conflittualità57, l’integrazione delle istanze dei cittadini e il definitivo cambio
delle politiche di sviluppo urbano berlinesi si verificò a seguito delle elezioni del
1981, nelle quali venne eletto al Senato un rappresentante della comunità di
Kreuzberg particolarmente legato ai movimenti sociali, che riuscì a fermare le
operazioni di sfratto e sgombero; nel frattempo sul piano urbanistico si apriva la
stagione degli interventi progettati all’interno dell’Internazionale Bauausstellung
(IBA)58, nella quale il tema dell’abitare nella città sfruttando le potenzialità del
tessuto urbano già esistente assumeva un’importanza centrale; è proprio da
questa sede che nel 1982 saranno proposti i dodici principi del cauto
rinnovamento urbano, approvati nel 1983.
Questo particolare “regolamento” riguarda sostanzialmente i processi
attraverso cui si stabiliscono gli interventi di riqualificazione: da un lato esso
sancisce la necessità della partecipazione attiva degli abitanti alla modifica del
quartiere ed il loro coinvolgimento nei momenti decisionali; dall’altro, ricalibra
le tipologie d’intervento asserendo che essi devono recuperare il patrimonio già
57 Per un analisi puntuale sui movimenti squatters berlinesi si veda: A. Holm, A. Khun, Squatting and urban
renewal: the interaction of squatter movments and strategies of urban restructuring in Berlin, International
Journal of urban and regional research n° 35, maggio 2011.
58 L'IBA fu un'esposizione universale di architettura, un evento di portata internazionale organizzato a Berlino
Ovest durante il decennio 1977/1987 incentrato sulla ristrutturazione urbana. Per una trattazione ampia degli
interventi edilizi effettuati in questo periodo e degli effetti dell’IBA sull’urbanistica di Berlino Ovest: A.
Dabijc, Housing in Germania 1980-2005: Standardizzazioni e pluralismi, tesi di dottorato in architettura e
costruzione, università La Sapienza, Roma.
81
esistente e migliorarlo, nel rispetto delle esigenze degli inquilini e limitando lo
sviluppo intensivo.
Un ulteriore elemento appare inoltre rilevante ai fini di questa analisi: la
presenza all’interno dei princìpi di uno specifico punto relativo a Kreuzberg, nel
quale si specifica che «il carattere speciale del quartiere Kreuzberg deve essere
mantenuto. La fiducia e la speranza vanno riacquistate soprattutto nelle parti più
degradate
del
quartiere.
I
danni
gravi
agli
edifici
vanno
riparati
immediatamente»59.
Riacquistare la fiducia e la speranza significa contribuire di nuovo e in
modo produttivo al sociale: il fine ultimo del processo di pacificazione riguarda
quindi sia la sfera materiale dei rapporti sociali che il livello ideologico della
piena integrazione di tutti gli strati sociali nel modello culturale capitalista. Una
necessità per l’istituzione della Germania federale che può essere spiegata da un
lato in virtù della contrapposizione con il sistema socialista, dall’altro dalla
consapevolezza di quanto la piena fiducia al modello di sviluppo da parte
dell’intero corpo sociale sia funzionale alla riproduzione di un sistema
economico “forte”.
L’avvio di questo processo pacificatorio si concretizza materialmente nella
modifica del piano d’intervento previsto dalla IBA Altbau e si assiste
all’attuazione di esperimenti edilizi che mirano a rendere partecipi gli ex
occupanti nel processo di riqualificazione, inserendo i futuri inquilini nel
processo costruttivo e mantenendo il carattere sociale degli alloggi;
un’inversione di tendenza rispetto al modello di espansione urbana che si era
consolidato a Berlino prima di questa fase, particolarmente evidente leggendo i
numeri degli interventi effettuati nei quartieri “pacificati”: trecentosessanta
appartamenti costruiti ex novo a fronte di settemila restaurati, di cui settecento
con la partecipazione attiva dei futuri inquilini.
La seconda fase del conflitto legato alla questione abitativa si verificherà
59 A. Dabijc, op. cit., p. 40.
82
invece nel periodo immediatamente successivo alla caduta del Muro: l’enorme
movimento migratorio che interessa la parte ovest della Germania si traduce
nella città di Berlino in una sovra-offerta di edilizia residenziale; interi edifici
vengono progressivamente abbandonati da chi può permettersi di accedere al
mercato immobiliare; contemporaneamente, le abitazioni del modello socialista
vengono ritenute “inadatte” poiché prive degli standard abitativi contemporanei,
e viene pianificata la loro trasformazione
in previsione di un aumento
demografico molto cospicuo, che di fatto non si verificherà.
La pratica delle occupazioni ricomincia a diventare significativa proprio in
quei quartieri dell’Est dove gli edifici vengono lasciati vuoti. Nello specifico il
fenomeno interessa soprattutto le zone di Friedrichshain e Prenzlauer Berg che,
a partire dai mesi immediatamente precedenti la caduta del Muro, fino al 1990,
si riempiono di palazzi occupati dalle più disparate comunità sociali.
La situazione inizialmente viene tollerata dal governo federale e si
conducono trattative con gli inquilini; tuttavia, con l’acuirsi del fenomeno
cambia anche la strategia governativa: viene messa in atto la cosiddetta Berliner
Linie, ovvero la tolleranza delle occupazioni già esistenti e lo sgombero
immediato di quelle che si verificheranno.
Questo
provvedimento
di
fatto
rompe
le
trattative
e
provoca
l’intensificazione del conflitto tra occupanti e autorità municipali, che vedrà il
suo momento più alto nello sgombero della Mainzer Strasse, dove circa
quattromila agenti si fronteggeranno con gli inquilini di quattordici edifici
occupati; due giorni di guerriglia dopo i quali la zona subirà un periodo di vera e
propria militarizzazione.
Il processo di pacificazione di questa fase è molto più lento e difficile, in
virtù del particolare clima di confusione politico-legislativo conseguente
all’inizio della fase di unificazione; tuttavia anche in questo caso il mezzo
attraverso il quale si pongono le basi per la trasformazione delle zone con una
83
forte concentrazione di case occupate è quello dell’incentivo statale e privato,
volto ad una ristrutturazione degli edifici che coinvolga attivamente gli inquilini.
Questa strategia, simile a quella degli anni Ottanta, insieme ad un alto
livello repressivo, è la modalità attraverso cui l’amministrazione pone un freno
al fenomeno; la politica della tolleranza verso gli stabili che non hanno voluto
inserirsi in questo processo di rinnovamento e le forme particolari che hanno
assunto gli interventi riqualificativi, che in molti casi hanno valorizzato gli
aspetti “contro-culturali” dei quartieri, hanno fatto sì che queste zone
diventassero il centro di uno sviluppo urbano a misura di quella “classe creativa”
che per una serie di ragioni trova ampio spazio a Berlino.
Con l’approvazione, nel 1996, di un piano regolatore che privilegia
l’espansione urbanistica delle zone centrali della città senza incrementare lo
sviluppo edilizio delle aree periferiche, e con ingenti opere di demolizione del
patrimonio dell’ex DDR, il mercato immobiliare tedesco si stabilizza, attirando
ingenti flussi di capitali in virtù del valore relativamente basso del suolo e delle
agevolazioni a favore del settore privato.
Il problema della casa, seppure traslata su categorie sociali differenti,
continuerà ad essere presente e a manifestarsi, come è stato già osservato,
soprattutto in relazione ai processi di gentrificazione che fanno salire di colpo i
prezzi degli affitti e scacciano le fasce meno abbienti della popolazione; inoltre,
essa deve essere posta in relazione con un flusso d’immigrazione altamente
qualificata proveniente soprattutto dai paesi europei del Mediterraneo, che negli
ultimi anni ha interessato la Germania e soprattutto la città di Berlino.
Ciò che interessa sottolineare, in ultima istanza, è come le rivendicazioni
poste in essere attraverso un rapporto conflittuale dai movimenti sociali sia stata
centrale per lo sviluppo urbano di quella che appare oggi una metropoli dalla
struttura anomala, tanto dal punto di vista urbanistico quanto da quello culturale,
e per nulla esente da elementi problematici.
84
4.3
Il volto di Berlino nel terzo millennio
È stato osservato come la sussunzione del movimento delle occupazioni
nato all’inizio degli anni ’90 non sia stato elemento risolutivo rispetto alle
problematiche abitative e non abbia contribuito ad eliminare gli squilibri
presenti nel mercato immobiliare della nuova capitale. Questi infatti risultano
essere fortemente alimentati da politiche pubbliche orientate da un lato al
finanziamento di interventi privati di riqualificazione delle zone centrali,
dall’altro all’incentivo di nuove costruzioni in previsione di un boom
demografico, peraltro mai verificatosi.
La situazione economica della città è, nel complesso, ulteriormente
aggravata da una forte riduzione del comparto industriale: mentre le fabbriche
dell’ex DDR sono state smantellate, molte aziende dell’Ovest, a seguito della
diminuzione
dei
finanziamenti
governativi,
scelgono
la
strada
della
delocalizzazione: si calcola che durante il corso degli anni Novanta siano stati
persi circa 380.000 posti di lavoro60; un dato per niente secondario che è
direttamente collegato ad un processo di polarizzazione spaziale, con una
relativa concentrazione di fasce sociali deboli nei quartieri più problematici.
Nel 2001 il Comune di Berlino è costretto a dichiarare default: la crisi è
soprattutto frutto delle tendenze speculative nel campo immobiliare. Il sindaco
Eberhard Diepgen della CPU, in carica dal 1991, sceglie di dimettersi e viene
eletto al suo posto Klaus Wowereit del SPD, a capo di una coalizione di centrosinistra con il partito PDS, che ricoprirà l’incarico fino al 2014.
Le scelte politiche messe in campo dalla nuova amministrazione si
60 A. Fortuzzi, Berlino. Rigenerazione urbana ed equità sociale, in Urbanistica Informazioni n° 231, 2010.
85
articolano essenzialmente in due direzioni: da una parte si avvia un’intensa
stagione di privatizzazioni che riguarderà tanto le società municipalizzate quanto
quelle a compartecipazione pubblico/privata, dall’altra si creano i presupposti
affinché Berlino possa essere considerata una capitale culturale multidimensionale, così da stimolare flussi d’investimento sul mercato internazionale.
Rispetto allo spazio urbano e più specificatamente alla questione
dell’abitare, emergono in questa fase storica tutte le contraddizioni legate al
repentino cambiamento affrontato dalla città: in prima istanza si può osservare il
compimento dei processi gentrificativi avviati nei quartieri centrali (in
particolare nelle zone di Mitte e Prenzlauemberg). All’indomani della
sussunzione del movimento squatter, tra il 1991 e il 1997 circa 70.000 nuovi
residenti, con uno standard di reddito più elevato, si trasferirono nella zona 61,
contribuendo all’innalzamento dei prezzi di locazione.
È fondamentale osservare l’intreccio tra i processi gentrificativi e il boom
della cosiddetta “economia creativa”, che in poco più di un decennio si è
affermata come settore trainante nella città, attirando un forte flusso di
immigrazione di mano d’opera altamente qualificata proveniente dai paesi
europei ad alto tasso di disoccupazione giovanile (specialmente Spagna e Italia).
Sicuramente, alla base di questo sviluppo specifico vi sono una serie di
processi che spaziano dall’ambizione di trasformare Berlino in una capitale
globale, alla costruzione di un immaginario attrattivo, nel quale la città viene
rappresentata come centro contro-culturale e multi-etnico; a ciò si aggiunge la
contraddittorietà dell’azione dell’amministrazione pubblica rispetto alla
regolazione del mercato immobiliare, che di fatto alimenterà un processo
speculativo del quale beneficeranno soprattutto le grandi compagnie
internazionali che apriranno qui le loro sedi centrali.
Gli “headquarter” della Knowledge intensive economic activity si
61 Dati riportati nel saggio di M. Mayer, New line of division in the new Berlin; in (a cura di) M. Bernt, B.
Grell, A. Holm, The Berlin reader, Transcript, Bielefeld 2013.
86
intensificano soprattutto in quei quartieri che presentano un ambiente
“culturalmente stimolante”, innescando un processo di modificazione dello
spazio particolarmente rilevante: da un lato infatti essi contribuiscono
all’aumento della domanda di abitazioni in quello specifico distretto da parte di
quella
“classe
creativa”
impiegata
nell’industria
culturale,
dall’altro
rappresentano il motore per una rimodulazione delle attività produttive della
zona in base alle esigenze dei nuovi abitanti.
In questo modo si è alimentata una divisione spaziale nella quale si
contrappongono i quartieri diventati “isole del benessere” a quelli abitati in
prevalenza da persone appartenenti a classi sociali più svantaggiate, che non
riescono ad accedere al libero mercato immobiliare ed abitano negli alloggi ad
affitto agevolato; tuttavia la diminuzione dei fondi per il welfare abitativo e la
vendita delle società immobiliari pubbliche (emblematico è il caso della GSW,
cooperativa di edilizia pubblica con un parco abitazioni di circa 60.000 unità,
ceduta sul finire degli anni ’90 alla nota Goldman Sachs) hanno ulteriormente
alimentato la polarizzazione socio-spaziale ed i processi di conflittualità urbana.
La soluzione trovata a questa problematica dall’amministrazione
municipale non si è rivelata esente da contraddizioni: mentre sul piano
mediatico cresceva la stigmatizzazione dei quartieri popolari, associati a
fenomeni di delinquenza e degenerazione, sul piano politico si emanavano
misure volte a “mischiare” la composizione sociale dei distretti con un più alto
tasso di disoccupazione, da un lato provando a flessibilizzarne le prospettive
lavorative, attraverso l’istituzione di centri per l’impiego sovvenzionati,
dall’altro proseguendo con la vendita di interi complessi di appartamenti sociali
ad investitori internazionali.
È emblematico come i quartieri dove gli abitanti attraversano questa fase di
impoverimento sono quelle zone caratterizzate da una presenza massiccia e
consolidata nel tempo di quella mano d’opera industriale che ha subito più di
87
ogni altra categoria sociale la ristrutturazione del modello produttivo, allo stesso
tempo si evince come il boom dell’economia digitale e la modificazione dello
spazio urbano ad esso collegata sia dicotomica rispetto al modello del “cauto
sviluppo urbano”, osservato nei precedenti paragrafi, che aveva permesso il
rinnovamento dei quartieri difficili evitando l’allontanamento degli abitanti
originari.
Se da un lato la digitalizzazione della produzione ha permesso alla città di
Berlino di affermarsi sul mercato finanziario globale, attirando investitori
internazionali e riducendo il gap economico che separa la capitale tedesca dalle
altre metropoli della Germania, dall’altro essa ha contribuito a potenziare le
disparità di reddito tra categorie sociali differenti, incidendo in maniera
determinante rispetto alla modificazione della domanda e dell’offerta di alloggi,
nonché alla drastica riduzione del patrimonio ad uso sociale.
Tuttavia questo processo non si è verificato in maniera uniforme nello
spazio urbano: come già osservato esso si è riprodotto a partire dai distretti
centrali nel territorio dell’ ex DDR, per i quali la modificazione era ritenuta
altamente necessaria al fine di eliminare gli squilibri socio- spaziali legati alla
divisione della città, ed ha finito per rappresentare l’unico modello possibile di
sviluppo urbanistico in grado di ottimizzare le poche risorse pubbliche, la
tendenza speculativa del mercato immobiliare privato e l’omogeneizzazione
delle “due Berlino” in senso neo-liberista.
Le problematicità più rilevanti di questa progressiva spirale gentrificativa
sono emerse proprio in quei quartieri che negli anni ’80 avevano beneficiato del
“cauto rinnovamento urbano” e che presentano il più alto tasso di complessi
locati a prezzo sociale: in questi distretti infatti il processo di privatizzazione
degli immobili si è scontrato con la determinazione degli abitanti, in molti casi
ancora tutelati dal sussidio pubblico, a non voler abbandonare il proprio
quartiere; si è verificata quindi una situazione peculiare per cui è stata la
88
valorizzazione commerciale di un background culturale fortemente “alternativo”
ad alimentare la crescita della domanda di abitazioni nella zona.
Più lento, ma ugualmente efficace, questo tipo di processo ha condotto ad
una situazione che, ad oggi, risulta essere assolutamente peculiare per una
metropoli europea: da un lato affinché continui la “riqualificazione “ della zona
e non si arresti il conseguente innalzamento del valore immobiliare, i quartieri
“popolari” sono diventati emblema della vitalità berlinese e sede delle principali
attività ludico-ricreative adatte alla “classe creativa”; dall’altro essi continuano
ad essere abitati dalle fasce sociali più deboli della popolazione cittadina
dipendenti dagli ultimi scampoli di welfare, che non vogliono rinunciare alle
loro case in nome del profitto.
4.4 Lotte urbane e conflitto sociale nella Berlino contemporanea
Fin dagli anni Settanta, come osservato precedentemente, la città di Berlino
è stata caratterizzata da intense stagioni di mobilitazioni sociali, riguardanti non
solo la sfera del diritto all’abitare, ma la totalità degli aspetti relativi alla qualità
della vita delle classi sociali più svantaggiate; a queste si sono aggiunte nel
tempo le battaglie delle giovani generazioni che, riprendendo pratiche di lotta
radicali, hanno contribuito a rivitalizzare il panorama contro-culturale dell’intera
città e a tenere vivo un dibattito critico che analizzasse i cambiamenti politicoeconomici e socio-spaziali.
All’azione costante dei movimenti sociali sono state contrapposte da parte
dell’amministrazione locale una serie di misure volte a pacificare lo scenario
conflittuale, reprimendo le manifestazioni più radicali di dissenso ed integrando
quelle legate alla sfera culturale, dando vita così ad uno scenario peculiare,
caratterizzato in parte da una forte strutturazione di quei progetti sociali
89
giudicati “alternativi”, in parte da una settorializzazione delle lotte politiche.
Come osservato nel paragrafo precedente, la sussunzione delle esperienze
contro-culturali, avvenuta tramite la concessione (dietro pagamento di un fitto
mensile) di spazi in disuso e la valorizzazione di forme artistiche
originariamente “antagoniste” come la street art o la musica indipendente, ha
condotto alla riproduzione di un immaginario particolarmente attrattivo nel
quale Berlino viene rappresentata come la capitale del divertimento, della
creatività e delle giovani generazioni.
È difficile comprendere se l’amministrazione pubblica fosse consapevole di
quanto questo atteggiamento integrativo/repressivo nei confronti delle lotte
sociali avrebbe favorito da un lato lo sviluppo dell’industria creativa ed il
conseguente flusso migratorio di knowledge workers, dall’altro la valorizzazione
immobiliare e commerciale dei quartieri più problematici; allo stesso tempo, non
è possibile rintracciare una reazione unitaria delle soggettività “di movimento”
all’evoluzione di questi processi.
Si possono identificare tre direttrici principali lungo le quali si articolano le
diverse pratiche politiche attualmente intraprese dai gruppi extra-istituzionali,
che si differenziano non soltanto rispetto al background ideologico, ma anche in
virtù degli aspetti materiali legati al contesto di riferimento, della longevità del
progetto e del grado di radicalità nel rapporto con l’amministrazione pubblica.
In questo modo, ad esperienze poco militanti e altamente intercategoriali
come quelle dei comitati di quartiere in difesa dell’ambiente o contro la
gentrificazione si affiancano collettivi che si occupano specificatamente delle
problematiche relative all’abitare, con un’attenzione particolare rispetto alle
questioni relative all’innalzamento dei prezzi d’affitto e agli sfratti.
Guardando ad un grado di soggettivazione politica maggiore, infine, si
riscontra un particolare coinvolgimento delle giovani generazioni nella tematica
dell’antifascismo, nella salvaguardia di quelle esperienze a scopo socio-abitativo
90
che continuano ad esistere nonostante i tentativi di “legalizzazione”, e
soprattutto nelle battaglie per la tutela dei diritti dei rifugiati politici.
La molteplicità delle anime che compongono “il movimento” berlinese è da
un lato frutto di una tradizione politica partecipativa, attraverso la quale si
alimenta la consapevolezza che il coinvolgimento diretto del cittadino nelle
decisioni che riguardano il proprio territorio è l’unica possibilità che ne permette
la salvaguardia; dall’altro, è fortemente dipendente dal portato ideologico legato
all’esperienza degli “Autonomen62”.
Le differenze di composizione rispecchiano abbastanza accuratamente i
mutamenti socio-spaziali subiti negli ultimi decenni dai quartieri; in questo
senso si può osservare come anche il grado di radicalità della pratica politica sia
indissolubilmente legato al livello di reddito e di scolarizzazione delle categorie
di residenti, oltre che ad una diversificazione delle rivendicazioni.
L’eterogeneità del “movimento” presenta quindi una serie di aspetti
contraddittori, che agiscono alimentando una sorta di “polarizzazione interna”:
da una parte il rafforzamento dell’identità collettiva legata alle singole
esperienze; dall’altra, una diminuzione dei legami di interdipendenza tra gruppi
politici ed una tendenza a trasformare la lotta in vertenza specifica. Tutto ciò si
traduce in un relativo isolamento per coloro che propongono una critica
complessa e multi-livello alla società capitalista e che plasmano le proprie
pratiche su di uno specifico approccio ideologico-materiale.
Il caso del Primo Maggio è emblematico sia rispetto alle differenze delle
varie componenti della scena politica berlinese, sia rispetto alla controversa
questione della profittabilità legata alle esperienze contro-culturali; allo stesso
tempo ci mostra la difficoltà di rintracciare un continuum tra i cicli di lotte
62 Il movimento “autonomen” ha origine negli anni ’70, ma si strutturerà solo nel decennio successivo: il
background culturale a cui si ispirano i militanti è quello dell'autonomia operaia italiana; tuttavia, date le
differenze contestuali, in Germania esso sarà caratterizzato da una maggiore affinità ai principi libertari e ad
una predisposizione per l'azione diretta individuale. Nonostante le numerose vicissitudini intercorse in questi
anni, ancora oggi molti collettivi politici cittadini continuano a rivendicare l'appartenenza ideologica alla
corrente “autonomen”.
91
avvenuti nei decenni precedenti e l’attuale fase storica, nonché di stabilire a chi
appartiene l’eredità del movimento “autonomen”.
Il tradizionale corteo che tutti gli anni attraversa Kreuzberg in occasione
della festa dei lavoratori ha origine il Primo Maggio del 1987, quando attivisti e
abitanti del quartiere si fronteggiarono per oltre ventiquattr’ore con le forze
dell’ordine; da allora la manifestazione è diventata un evento centrale nel
calendario “militante”, e tutti gli anni si sono riprodotte situazioni di forte
tensione con la polizia.
Tuttavia nel corso degli anni, accanto al profondo mutamento subito dal
quartiere a causa della spirale gentrificativa, anche la celebrazione del Primo
Maggio ha cambiato forma, sdoppiandosi: se da un lato, infatti, il corteo
continua ad essere organizzato da numerosi collettivi e ad essere partecipato da
un cospicuo numero di persone (quest’anno si parla di circa 30.000, tra berlinesi
e non), dall’altro, contemporaneamente ad esso si svolge una grande festa a
carattere ludico-ricreativo che coinvolge tutto il distretto, promossa dagli
abitanti in accordo con le istituzioni locali.
Il main stream di quest’ultimo evento implica una partecipazione
incredibilmente alta (sempre relativamente al 2015 si parla di circa 200.000
persone), ma uno svuotamento del suo contenuto politico: piuttosto che
comunicare l’importanza del lavoro territoriale esso rappresenta per i fruitori
un’occasione in cui lasciarsi andare al divertimento più sfrenato.
Si verifica, quindi, una situazione paradossale: contemporaneamente, nelle
stesse strade, da una parte sfila un corteo composito, animato da diverse
rivendicazioni ed abbastanza determinato, ma completamente blindato dalle
forze dell’ordine per tutto il suo tragitto; dall’altra, l’intero quartiere si trasforma
in un centro commerciale/discoteca a cielo aperto, mostrando ad un attento
osservatore l’interdipendenza che lega profitto e cultura “alternativa”.
La distanza tra componenti politiche diverse non è tuttavia assimilabile ad
92
una dicotomia; essa dipende strettamente dal tipo di rivendicazioni e dalle
contingenze contestuali, oltre che dalle differenze nella strategia adottata per
fare pressione all’amministrazione pubblica.
Per quanto riguarda nello specifico il diritto all’abitare, l’occupazione di
immobili in disuso non rappresenta una discriminante che separa l’azione dei
gruppi antagonisti da quella dei comitati di quartiere: essa è piuttosto una pratica
sempre più difficoltosa da realizzare, da un lato perché nel corso degli anni la
percentuale di spazi abbandonati è fortemente diminuita (i dati parlano di uno
0,1%), dall’altro perché le politiche repressive che prevedono lo sgombero
immediato di ogni nuova occupazione continuano ad essere in vigore.
Questo ha implicato una sostanziale diminuzione delle esperienze di
“housing autonomo” ed una rimodulazione delle pratiche rivendicative, che
assumono un aspetto più pubblico (tendopoli in strade e piazze, cortei, presìdi e
blitz nelle sedi amministrative, picchetti anti-sfratto) e più legato alle specificità
delle vertenze.
Un’inversione di tendenza si è verificata in seguito all’acuirsi delle lotte dei
rifugiati politici e ha riguardato tanto una riscoperta della pratica
dell’occupazione, quanto una ritrovata vicinanza tra diverse parti di
“movimento”: la questione del diritto d’asilo in questo momento in Germania è
infatti particolarmente sentita da tutta la popolazione; solo a Berlino i dati
parlano per il 2014 di un incremento del 60% di richieste di asilo, mentre le
previsioni annunciano per il 2015 circa 120.000 nuovi arrivi.
La protesta dilaga nella primavera del 2013 a seguito del suicidio di un
rifugiato iraniano; viene intrapresa una lunga marcia pacifica che partendo da
Würzburg arriverà a Berlino dopo circa un mese (vengono percorsi circa 600
km) e qui culminerà con una tendopoli in Oranienplatz, a Kreuzberg.
Dopo circa sei mesi, a seguito dello sgombero dell’accampamento, rifugiati
e attivisti occuperanno a scopo abitativo una scuola abbandonata nei pressi della
93
piazza: l’attenzione richiamata con questa iniziativa permetterà sia l’attivazione
di una fitta rete di solidarietà con tutti i gruppi e comitati, non solo della zona,
sia l’apertura di un canale di dialogo con le istituzioni.
Il non aver legato le rivendicazioni portate avanti al caso specifico,
l’entusiasmo nella sperimentazione di progetti sociali e lo sforzo per coinvolgere
e sensibilizzare l’opinione pubblica, hanno condotto ad un aumento progressivo
della partecipazione e ad una ramificazione delle proteste in tutta la Germania;
inoltre, la tenacia degli occupanti nel resistere ai tentativi di sgombero, unita alla
pressione esercitata dal movimento, ha permesso che nel 2014 la scuola
occupata fosse concessa dalle autorità municipali come centro auto-gestito per
rifugiati.
Il fatto che, nonostante questa vittoria, il movimento continui i propri
percorsi di lotta ha ulteriormente rafforzato i legami con gli altri gruppi politici
cittadini; si può dire quindi che in questo momento la questione migranti sia
effettivamente il trait d’union che tiene insieme le varie anime della scena extraistituzionale cittadina, e rappresenta l’esperienza che riesce ad essere più
“pressante” sull’amministrazione locale.
In conclusione, si può sostenere che la polarizzazione e la disomogeneità
del “movimento” berlinese non si traducano in immobilismo o in
autoreferenzialità, piuttosto questi due aspetti agiscono come deterrenti per il
depotenziamento delle vertenze specifiche e per la criminalizzazione delle
componenti più radicali.
Allo stesso tempo si osserva come la tendenza all’integrazione delle
esperienze a carattere prettamente “contro-culturale” rappresenti un tentativo di
sussunzione di queste ultime da parte di un mercato che nel contesto di Berlino è
sempre più dipendente dalla valorizzazione della creatività personale e
collettiva; in questo senso, il pericolo in cui incorrono i molti spazi “concessi”
dall’autorità
a
fini
ludico-
ricreativo-culturali
è
quello
di
essere
94
inconsapevolmente parte integrante del processo gentrificativo.
Nei prossimi paragrafi saranno osservate due esperienze di lotta per il
diritto all’abitare diametralmente differenti rispetto a categorie sociali coinvolte,
pratiche politiche, tessuto sociale di riferimento, apparato ideologico e impianto
comunicativo; in questo modo si proverà a rendere possibile l’approfondimento
delle differenti modalità di approccio alla questione casa.
4.4.1 Lotte per la casa a Kreuzberg: il caso kotti & co
Questa esperienza nasce nel 2011 nella zona di Korbusser Tor, da molti
considerata la porta d’ingresso al quartiere di Kreuzberg; un distretto
particolarmente emblematico rispetto alle radicali trasformazioni urbane e
sociali che la città di Berlino ha affrontato negli ultimi decenni: da un lato,
infatti, la sua particolare composizione socio-spaziale è il frutto delle lotte
avvenute durante il corso degli anni Ottanta ed osservate nei precedenti
paragrafi, dall’altro esso è attualmente al centro di un intenso processo di
gentrificazione che ne sta rapidamente mutando il volto.
Le condizioni che contribuiscono a determinare questa radicale
modificazione dipendono essenzialmente dal fatto che questa zona, con la
caduta del Muro, ha subito una sostanziale rivalutazione cui hanno contribuito
diversi ordini di fattori: da una parte la riscoperta della sua centralità ha
richiamato gli investitori immobiliari; dall’altra, la fama di “quartiere controculturale”
che
esso
ha
maturato
anche
in
virtù
dei
processi
d’integrazione/pacificazione ha notevolmente influito sull’aumento della
domanda di abitazioni, specialmente da parte di quella “classe creativa”
fortemente in espansione nella città di Berlino.
95
Il risultato di questa “riscoperta” di Kreuzberg è un esponenziale aumento
del costo dell’affitto; una situazione che, specialmente in seguito ai tagli al
welfare applicati per far fronte al default cittadino del 2001, diventa
particolarmente ostica per la maggior parte degli abitanti della zona; in
particolare per quelle fasce di lavoratori a basso reddito in molti casi
appartenenti alla comunità turca, dalla metà degli anni ’60 residente in questo
distretto e nell’adiacente quartiere di Neukolln.
È in questo contesto che prende vita l’esperienza di Kotti & co: un progetto
di resistenza alla spirale gentrificativa nato nel 2011 tra i palazzi di Sudbloc, un
enorme complesso di edilizia sociale nel quale abitano più di 5000 inquilini,
precedentemente di proprietà di una società a partecipazione pubblica e - in
seguito alla stagione delle privatizzazioni - passato nelle mani di grandi gruppi
immobiliari (Hermes e GSW).
A partire dalla volontà di alcuni residenti di opporsi all’ennesimo aumento
del canone di locazione, è stata intrapresa una battaglia per fermare la
diminuzione progressiva dei contributi all’affitto stanziati dall’amministrazione
cittadina: attraverso le testimonianze degli attivisti è possibile ripercorrere le
tappe che hanno scandito l’evolversi della vertenza ed il suo radicarsi nel tessuto
urbano63.
La prima fase, nel periodo a cavallo tra il 2011 e il 2012, può essere
definita di coinvolgimento degli inquilini: data la particolare composizione
sociale della zona, affinché gli abitanti si sentissero coinvolti in prima persona è
stato necessario limitare al minimo le considerazioni di carattere ideologico e
concentrarsi sulla problematica materiale della non sostenibilità dei costi di
locazione, sentita in egual misura da tutti i nuclei familiari a prescindere dalla
loro appartenenza etnica o politica.
Focalizzando le rivendicazioni su questo specifico tema è stato possibile
63 Le testimonianze sono state da me raccolte nel periodo di aprile-maggio 2015 attraverso una serie di
interviste non strutturate ad alcuni esponenti del progetto Kotti & ko.
96
creare una rete di solidarietà nella quale anche gli inquilini poco politicizzati
potessero sentirsi sicuri di intraprendere una battaglia concreta per il
miglioramento delle proprie condizioni di vita; inoltre, si è verificato un virtuoso
intreccio di soggettività con background culturali differenti accomunate da un
senso di appartenenza al quartiere ed alla comunità che lo abita.
La seconda fase è quella della mobilitazione: nella primavera del 2012 gli
attivisti di Kotti & co organizzano una grossa festa di quartiere, ed a partire da
essa danno vita ad una vera e propria occupazione ad oltranza della Admiral
Strasse, come momento pubblico per comunicare le ragioni della lotta a tutto il
vicinato e come forma di pressione sull’amministrazione locale affinché venga
bloccato l’aumento dell’affitto; inoltre, grazie al carattere popolare e variegato
assunto dalla protesta, si moltiplicano gli abitanti che si avvicinano al percorso,
condividendo i propri problemi ed iniziando a partecipare attivamente nella
costruzione delle giornate successive.
Le pratiche messe in campo dagli abitanti di Kotti propongono un modello
di vertenzialità auto-organizzata, un’azione che mira ad incidere direttamente
sulle politiche per il diritto alla casa, bypassando il ruolo dei partiti politici che
vengono visti, a prescindere dagli schieramenti, come appartenenti ad un sistema
di potere neo-liberista nel quale il profitto viene prima delle esigenze dei
cittadini; a ciò consegue che il rapporto di trattativa che si instaura tra il
movimento e gli amministratori locali è considerato unicamente strumentale.
Durante i giorni di occupazione della strada, gli attivisti auto-costruiscono
un piccolo gazebo in legno, che diventerà la “sede politica” della protesta;
attraverso mobilitazioni quasi quotidiane gli abitanti di Kotti riescono ad attirare
tanto l’attenzione del variegato mondo della sinistra radicale berlinese,
istituzionalizzata e non, quanto quella mediatica, una risonanza particolarmente
efficace che aiuterà ad intavolare delle trattative con l’amministrazione
comunale.
97
Il successo di alcune piccole battaglie, come evitare l’esecuzione di sfratti
per morosità incolpevole, è fondamentale nel processo di allargamento della
vertenza e nella sua strutturazione; gli inquilini infatti si rendono conto ben
presto di avere l’esigenza di essere tutti ugualmente documentati e informati
rispetto al funzionamento del sistema di housing sociale, allo stesso tempo
cresce il grado di consapevolezza che ottenere il blocco momentaneo
dell’aumento dei fitti non costituisce la soluzione ad una problematica così
complessa.
Gli
inquilini,
quindi,
parallelamente
al
braccio
di
ferro
con
l’amministrazione, danno vita ad una serie di progetti volti ad ampliare lo
spettro di partecipazione ed a costruire delle rivendicazioni più articolate: agli
sportelli di supporto legale vengono affiancati incontri di approfondimento con
urbanisti e avvocati per studiare i limiti e le possibilità di modifica della
legislazione esistente; contemporaneamente si producono una serie di iniziative
a carattere sociale e culturale, che hanno un’eco in tutto il quartiere.
Durante il biennio 2013/2014 le trattative tra amministrazione e inquilini
sono continuate, ma senza nessun risultato rilevante: se da una parte le richieste
degli abitanti di Kotti diventano sempre più complessive, grazie ad una operosa
attività di auto-formazione e ricerca dalla quale emergono importanti inchieste
sul peso del costo dell’affitto per i nuclei familiari svantaggiati; dall’altra gli
esponenti dell’amministrazione, nonostante l’apparente condivisione delle
ragioni della protesta, non riescono ad attuare alcuna politica risolutiva, data
anche la relativa scarsità di finanze di cui gode la città.
Le rivendicazioni portate avanti con sempre maggiore consapevolezza da
parte degli abitanti di Kotti, si articolano essenzialmente in tre direzioni: in
prima istanza si chiede il blocco dell’aumento del canone di locazione; questo
nel sistema del social housing tedesco si tradurrebbe in una differente
ripartizione dei costi tra gli attori (società immobiliare proprietaria,
98
amministrazione pubblica e inquilino), così che il prezzo pagato dall’affittuario
non superi i quattro euro al mq.
Le altre due direttrici proseguono parallelamente e trasmettono la
determinazione degli abitanti di incidere anche sulla dimensione più ampia della
problematica abitativa: da un lato, infatti, si chiede che vengano prese delle
misure chiare e puntuali per far fronte alla mancanza di abitazioni, una scarsità
relativa che ha contribuito fortemente all’innalzamento dei prezzi di locazione e
che ha colpito soprattutto i ceti meno abbienti, coinvolgendoli nella spirale
gentrificativa più volte osservata; dall’altro lato, si pone la necessità di
modificare alla base il sistema del social housing cittadino, rendendo pubblico il
patrimonio immobiliare ed eliminando la componente del profitto dai processi di
costruzione e di gestione.
Il 2014 è un anno particolarmente intenso nella politica berlinese: in
contemporanea alle elezioni europee i cittadini sono chiamati a pronunciarsi in
un referendum abbastanza peculiare, nato da una campagna portata avanti da un
comitato di residenti (l’associazione 100% Tempelhofer Feld) in opposizione ad
un progetto di riconversione di una parte del parco di Tempelhof in complesso
residenziale.
La vittoria degli abitanti contrari alla modifica dell’ex aeroporto e
l’incredibile coinvolgimento che la questione ha suscitato nella cittadinanza
rappresentano un chiaro segnale di come il problema della gentrification e della
speculazione immobiliare siano massicciamente percepiti da tutte le fasce
sociali; allo stesso tempo, come sostengono gli abitanti di Kotti, esiste
concretamente la necessità che nuove unità immobiliari vengano messe sul
mercato a prezzi contenuti.
All’indomani del referendum, un altro evento di notevole importanza segna
lo scenario politico berlinese: Klaus Wowereit, dal 2001 a capo della città,
rassegna le sue dimissioni; a seguito delle elezioni, nel dicembre 2014 diviene
99
sindaco Michael Müller (SPD), che oltre ad essere senatore allo sviluppo urbano
nella precedente amministrazione, era il principale interlocutore istituzionale
degli abitanti di Kotti, e più volte aveva dichiarato la volontà di risolvere le
problematiche abitative dei cittadini a basso reddito.
Si apre in questo periodo una nuova fase anche nelle rivendicazioni: dopo
più di tre anni di mobilitazioni gli abitanti, colpiti positivamente dall’epilogo
della “questione Temphelof”, decidono di dare vita ad una campagna
referendaria al fine di modificare la legislazione in materia di social housing,
coinvolgendo nell’elaborazione del progetto comitati di quartiere, studiosi,
cittadini, e articolando una proposta che miri ad incidere sugli aspetti più
problematici dell’attuale modello tedesco.
Il disegno di legge messo a punto riguarda tre specificità, e parte
dall’obiettivo di fornire sufficienti alloggi a prezzi sociali:
trasformazione delle società di housing a compartecipazione
pubblico-privata in enti di diritto pubblico;
istituzione di un fondo di sviluppo immobiliare come base
finanziaria per la costruzione/ammodernamento degli alloggi
sociali, alimentato dai contributi federali ed europei per il
welfare abitativo e dagli affitti degli inquilini;
completo coinvolgimento di questi ultimi nei processi
decisionali relativi tanto alle singole abitazioni, quanto alle
politiche distrettuali di social housing.
La battaglia referendaria è, tuttavia, ancora agli inizi; il primo ostacolo con
cui gli abitanti hanno dovuto confrontarsi è stato la raccolta di 20.000 firme
entro il maggio 2015, così da poter presentare la consultazione al Senato;
affinché essa sia ufficializzata sono tuttavia necessarie altre 175.000 firme, da
raccogliere entro il gennaio 2016.
Secondo questo calendario, quindi, la votazione dovrebbe avvenire a
settembre 2016, in concomitanza alle elezioni amministrative; nel frattempo il
100
sindaco Mueller ha varato una delibera che, seppur di debole respiro, potrebbe
agire da deterrente per attenuare le sperequazioni dipendenti dalla carenza di
alloggi sociali: si tratta della ripresa di una normativa per la quale i canoni di
locazione non possono aumentare più del 10% annuo (i proprietari sono
obbligati a mostrare ai potenziali inquilini contratti precedenti per dimostrarlo) e
del divieto di svolgere aste immobiliari per gli appartamenti in affitto.
Le misure entreranno in vigore dal luglio 2015; tuttavia, appare evidente
come il progetto di legge contenuto nella proposta referendaria si muova su
direttrici radicalmente opposte, mettendo in discussione l’intera organizzazione
del settore dell’housing sociale e puntando ad affermare anche in sede giuridica
l’inalienabilità del diritto alla casa, sostenendo l’esigenza che l’alloggio sociale
sia considerato un bene comune, inconciliabile con la rendita immobiliare.
In conclusione, il caso di Kotti & co appare alquanto significativo nel
variegato universo delle lotte sociali berlinesi: esso rappresenta un virtuoso
esempio di vertenzialità autonoma che ha saputo radicarsi nel proprio contesto
di riferimento, aumentare significativamente la complessità delle rivendicazioni
portate avanti ed estendere il proprio raggio d’azione alla totalità del tessuto
cittadino; allo stesso tempo, la scelta della strategia referendaria è indicativa di
una conflittualità settoriale, ovvero relativa ad una specifica situazione di
emergenza affrontata dalle categorie sociali più deboli, e di una blanda
radicalizzazione dello scontro con le istituzioni.
Tuttavia, se la legge proposta dal referendum dovesse essere approvata, si
avrebbe un cambio epocale nelle politiche abitative tedesche: in un contesto
come quello europeo nel quale il welfare abitativo è sempre più legato al
mercato immobiliare privato, un’inversione di tendenza di tale portata nella
capitale tedesca potrebbe rivelarsi un grosso freno ai movimenti speculativi che
in pochi anni hanno sensibilmente ridotto l’accessibilità al bene- casa, mettendo
in piedi un peculiare esperimento di “diritto alla città”.
101
4.4.2 L’occupazione abitativa più longeva di Berlino: il caso Kopi 137.
Kopenicker Strasse è una strada a ridosso del fiume Spree, al confine tra i
quartieri di Mitte e Kreuzberg; durante gli anni del Muro, trovandosi tra la parte
Ovest e quella Est della città, era più che altro terra di nessuno e la maggior
parte degli edifici lì costruiti erano stati abbandonati. All’indomani del 1989,
nella cornice del movimento di lotta per la casa già osservato negli scorsi
paragrafi, un gruppo di giovani attivisti dell’Ovest occupa un ex complesso
abitativo per gli ufficiali del Reich, un grosso palazzo di cinque piani al n° 137
della strada, che secondo l’amministrazione avrebbe dovuto essere demolito nel
giro di pochi mesi.
Il progetto di housing autonomo che gli occupanti decidono di mettere in
piedi, seguendo la linea dell’auto-organizzazione, si inserisce nella tradizione
politica degli “Autonomen”: oltre a soddisfare il bisogno abitativo, quindi, dal
punto di vista ideologico gli attivisti pongono una critica radicale allo sviluppo
capitalista, tanto sul piano materiale quanto su quello simbolico, che si sostanzia
nel voler proporre un modello culturale e relazionale “altro”.
Nei mesi che seguirono all’occupazione, sia la proprietà (subito dopo la
caduta del Muro lo stabile era stato rilevato da una società municipale di
housing, la KWV) che le forze dell’ordine parvero non interessarsi della
questione; tuttavia con la radicalizzazione della fase politica ed in seguito allo
sgombero della Mainzer Strasse, anche per gli occupanti di Kopi arrivò il
momento di confrontarsi con l’istituzione pubblica.
A seguito di numerose assemblee di quartiere venne siglato un accordo con
la cooperativa edilizia Berlin Mitte Mbh, succeduta alla KWV nella gestione
dell’immobile, secondo il quale agli occupanti era accordata la possibilità
102
dell’auto-recupero dello stabile; di fatto la loro situazione veniva legalizzata:
questa scelta, compiuta da una parte del movimento squatter al fine di
salvaguardare i propri spazi, suscitò non poche perplessità in quella parte di
occupanti assolutamente contraria a qualsiasi trattativa, cosa che si tradusse in
un sostanziale depotenziamento di tutto il movimento.
In questa fase, tuttavia, solo trenta palazzi rispetto ai novanta normalizzati
scelsero di non contrattare, andando incontro allo sgombero coatto, in tutti i casi
eseguito con forti scontri tra occupanti e le forze dell’ordine: la situazione di
conflitto sociale continuava ad essere incandescente, mentre lo scenario politicoistituzionale era in via di assestamento.
Il progetto di Kopi intanto prosegue sia nell’opera di ristrutturazione dello
stabile, sia sul piano politico generale: oltre ad essere attivamente impegnati sui
fronti dell’anti-fascismo, dell’anti-razzismo e della libertà di genere, gli attivisti
di Kopi danno vita ad una serie di laboratori a carattere contro-culturale, che
spaziano dalla produzione serigrafica all’organizzazione di eventi musicali, dalle
rassegne cinematografiche allo sport popolare.
La questione dello sgombero si ripresenta nel 1995, in seguito
all’approvazione della legge per la restituzione degli immobili nazionalizzati
dalla DDR ai proprietari precedenti: lo stabile di Kopenicker Strasse viene
riassegnato a V. Petersen, immobiliarista berlinese, che immediatamente
presenta un progetto di riqualifica del plesso al fine di trasformarlo in uffici di
lusso e locali commerciali, chiedendo lo sgombero degli occupanti, ritornati ad
essere abusivi nonostante i regolari contratti firmati nel 1993 con la GSE
(l’ennesima società accreditata alla gestione dell’immobile prima della riforma
delle proprietà).
La strategia messa in campo dagli occupanti è di esercitare pressione
sull’autorità sia attraverso cortei e manifestazioni di protesta, fortemente
radicali, sia attraverso un’azione legale di rigetto dell’ordinanza di sgombero in
103
virtù dei diritti di inquilinato maturati a seguito della legalizzazione: un braccio
di ferro che si conclude con la vittoria degli attivisti al tribunale distrettuale,
anche a seguito del fatto che la società Petersen und Partner KG si trova in uno
stallo finanziario, e non viene giudicata in grado di eseguire effettivamente il
progetto.
Il fallimento e il conseguente sequestro dei beni della compagnia di
Petersen avverrà ufficialmente nel 1998; da quel momento le banche proveranno
a vendere all’asta la proprietà di Kopenicker Strasse, ma senza risultati: in ben
due occasioni l’asta risulterà deserta ed il terzo tentativo sarà addirittura
annullato. Questo inusuale disinteresse per un lotto immobiliare così profittevole
(la palazzina principale ha un area di circa 1.900 mq) può essere spiegato
essenzialmente da due ragioni. Da un lato, dopo un quinquennio di speculazione
sfrenata, il mercato immobiliare inizia ad affrontare un periodo di crisi e
ristrutturazione produttiva: a seguito del mancato avversarsi delle previsioni di
boom demografico e di espansione smisurata del settore dei servizi, infatti, si
crea una sovrabbondanza di offerta che si traduce in un aumento degli stabili
vuoti di nuova costruzione, con una conseguente rimodulazione delle politiche
pubbliche in materia di edilizia e delle strategie dei gruppi immobiliari.
Dall’altro lato, gli anni a cavallo del nuovo millennio sono attraversati da
nuove
tensioni
sociali,
scaturite
dall’ingente
impoverimento
seguito
all’unificazione della città: in questo contesto il movimento radicale anticapitalista, di cui gli attivisti di Kopi fanno parte, grazie alla determinazione
conflittuale dimostrata nei molti momenti di piazza, attraversa una fase di
particolare vitalità; una situazione di ritrovata forza che certamente ha inciso nel
dissuadere eventuali compratori.
Con il fallimento delle aste la proprietà dell’immobile torna formalmente
nelle mani di Petersen, che però non sembra più interessarsene: gli occupanti
scelgono allora di costituire un comitato di inquilini, in modo da allacciarsi
104
regolarmente alle utenze e autogestire così lo spazio, che nel frattempo è stato
completamente ristrutturato dagli stessi residenti che ne hanno reso agibili la
maggior parte dei locali, trasformandone alcuni in veri e propri appartamenti.
Nel 2006 si riaccendono i riflettori sulla struttura: la Commerzbank e gli
altri istituti creditori di Petersen procedono ad una nuova richiesta di vendita,
facendo valutare l’area di Kopenicker Strasse ben 1.670.000 euro, e rimettendo
in moto il meccanismo delle aste, cosa che provoca l’immediata reazione degli
inquilini ed il riaccendersi delle proteste, che si protrarranno per oltre un anno.
Nel 2007 l’immobile viene venduto, al valore di 835.000 euro, ad una
società amministrata da Besnick Fichtner, uno speculatore kossovaro inquisito
per frode, che poco più tardi verrà condannato; le sue dichiarazioni pubbliche
parlano di un progetto che prevede la trasformazione dello stabile in
appartamenti di lusso, e naturalmente lo sgombero degli occupanti di Kopi 137.
A seguito di queste notizie, le manifestazioni di dissenso degli attivisti
dello spazio e di tutto il movimento Autonomen si intensificano di molto: la
determinazione nello scontro di piazza e la propensione all’azione diretta di
sabotaggio contribuiscono ad aumentare l’attenzione sulle vicende anche da
parte della stampa nazionale, allarmata dagli scenari conflittuali che tornano a
manifestarsi.
All’indomani dell’estate 2008, Fichtner cede alle richieste degli inquilini di
Kopi e firma con loro un accordo nel quale viene formalizzato un contratto
d’affitto trentennale; il giornale Die Spiegel, nel riportare la notizia, ci fornisce
un quadro abbastanza nitido dell’allarme creatosi nell’opinione pubblica dopo il
riaccendersi delle tensioni: in base a quanto riportato dalla testata, in seguito alla
vendita dello stabile più di cento automobili della Polizia sono state date alle
fiamme ed in quasi tutte le manifestazioni di piazza si sono verificati violenti
scontri con le forze dell’ordine.
A seguito dell’accordo le tensioni diminuiscono, e gli abitanti della casa
105
occupata ricominciano a portare avanti tutti quei progetti sociali che ne hanno
caratterizzato l’evoluzione; contemporaneamente, la fama dello squat cresce
notevolmente in tutti gli ambienti contro-culturali: Kopi è infatti una delle
esperienze di auto-gestione più longeve nel panorama europeo, ed è riuscita a
preservare nel tempo un mix di attività ludico-ricreative e impegno politico
militante; inoltre, gli attivisti hanno saputo riprodurre un modello di abitare
alternativo, dipendente oltre che da un bisogno materiale imminente, dalla
critica radicale al sistema di potere capitalista.
Nel 2010 la Commerzbank, ritornata in possesso dell’immobile, annuncia
di voler procedere nuovamente all’alienazione tramite asta; lo stabile viene
acquistato nel 2013 dalla Startezia GMBh, società satellite del noto gruppo
immobiliare GMBh, e le proteste si riaccendono copiose; ad oggi, nulla si sa del
destino dell’immobile di Kopenicker Strasse. Nel frattempo gli inquilini hanno
festeggiato nel febbraio 2015 il venticinquesimo anno di occupazione e
continuano a portare avanti i sempre più numerosi progetti socio-culturali
all’interno dello spazio.
La vicenda di Kopi 137 è particolarmente interessante perché si intreccia a
tutte le fasi economico-politiche e socio-spaziali che la città di Berlino ha
attraversato dalla caduta del Muro. La posizione dell’immobile, situato proprio
nel cuore di una delle zone che attraverso i processi gentrificativi si è
trasformata in uno dei quartieri più ad alto reddito, permette di comprendere i
passaggi che durante gli anni Novanta hanno caratterizzato lo sviluppo
immobiliare del centro cittadino: le tendenze speculative assunte dal settore
privato, supportato dai finanziamenti pubblici, che hanno determinato il default
del 2001 e la relativa crisi del settore; la successiva ripartenza grazie alla
privatizzazione del patrimonio e allo sviluppo di nuovi scenari economici; la
stabilizzazione del mercato e la nuova ondata di investimenti.
Allo stesso tempo si evincono anche i cambiamenti subiti dal tessuto
106
sociale del quartiere, legati alle modificazioni dello spazio urbano e del contesto
produttivo, e si osserva come questi incidano sull’azione e sul grado di radicalità
degli attivisti. Il conflitto sociale non riesce ad essere pacificato anche perché il
processo d’integrazione non si stabilizza: per un aspetto, in quanto gli occupanti
vogliono continuare a portare avanti un progetto di abitare alternativo
fortemente dipendente da un alto grado di soggettivazione politica; per un altro
aspetto, perché né l’amministrazione pubblica né il mercato immobiliare
sembrano voler rinunciare ai profitti che la vendita dell’immobile comporta.
5. Emergenza abitativa e conflitto sociale: il caso di Roma
Nel capitolo precedente è stato osservato in che modo si configura nello
scenario berlinese contemporaneo la problematica dell’emergenza abitativa: si è
sottolineata l’interdipendenza tra i processi gentrificativi ed i cambiamenti
socio-economici avvenuti nella città ed allo stesso tempo sono stati approfonditi
il ruolo e la composizione specifica dei movimenti sociali, nonché il tipo di
strategia attuata da questi ultimi al fine di contrastare gli aumenti dei canoni di
locazione e la speculazione immobiliare ad opera dei grandi investitori edilizi
107
internazionali.
Per comprendere nella loro complessità i processi che determinano la
riproduzione della questione abitativa è necessario prendere in considerazione le
modificazioni avvenute ai vari livelli della realtà sociale ed intersecarle tra loro:
l’evoluzione del mercato immobiliare sul territorio è legata, infatti, alla
legislazione in materia, quindi alle specificità delle fasi politiche; allo stesso
tempo, la composizione del tessuto sociale e il suo grado d’integrazione al
sistema economico risultano essere fondamentali per la connotazione che un
determinato spazio urbano assume.
Le situazioni di radicalizzazione dei conflitti in merito all’abitare possono,
perciò, essere lette come momenti in cui le contraddizioni del sistema produttivo
emergono in tutta la loro materialità; viene alla luce il come gli squilibri si
ripercuotano su un’eterogeneità di categorie sociali e come la sussunzione delle
istanze di lotta sia funzionale ad una pacificazione che avvantaggia il
rafforzamento del mercato immobiliare, ma che non risolve la questione, bensì
la circoscrive ad un gruppo minoritario.
Nei Paesi con una struttura produttiva stabile l’acuirsi della questione
s’intreccia ai cicli di crisi, mentre in quelli come l’Italia, dove le contraddizioni
non sono mai riuscite ad appianarsi, i tentativi di risoluzione del problema hanno
progressivamente sempre meno attutito il peso degli squilibri, aumentati anche
come conseguenza dell’indirizzo neoliberista delle politiche governative, con il
risultato di un incremento della polarizzazione sociale scaturita da un
impoverimento del ceto medio e di un’intensificazione del fenomeno
dell’emergenza abitativa.
Roma e Berlino hanno conosciuto momenti di elevata conflittualità in
merito alla questione casa e, nonostante modalità differenti, in entrambe le
Capitali la problematica continua ad essere presente e ad assumere una rilevanza
particolarmente significativa per numerose categorie sociali, alimentando
108
scenari di conflitto sociale potenzialmente radicali.
In questo capitolo verrà osservato il caso romano, partendo dalla
configurazione socio-spaziale e politico-economica assunta dalla città a seguito
della scelta di designarla Capitale del nascente Stato italiano; saranno ripercorse
le tappe che ne hanno caratterizzato lo sviluppo urbanistico e, nello stesso
tempo, si guarderà a come la problematica abitativa abbia accompagnato l’intera
storia moderna di Roma, con un’attenzione particolare allo scenario
contemporaneo.
5.1 Sviluppo urbanistico e politiche abitative a Roma dall’Unità d’Italia alla
Seconda Guerra Mondiale
Un’immagine particolarmente significativa dell’immensa espansione
urbanistica che ha interessato Roma negli ultimi due secoli si trova nelle
planimetrie presenti nel testo di Italo Insolera Roma moderna64, che mostrano le
variazioni della dimensione della città dall’inizio del XIX secolo ai giorni nostri;
una rappresentazione grafica che restituisce l’imponenza del processo di
urbanizzazione avvenuto in seguito all’Unificazione ed all’assegnazione
all’Urbe del ruolo di Capitale del Regno d’Italia.
La situazione di Roma che le istituzioni sabaude sono chiamate a riformare
è quella di una città a forte stampo feudale, nella quale la massima autorità è
esercitata dal ceto ecclesiastico che, insieme alla classe nobiliare, possiede la
maggior parte dei terreni; una struttura politico-economica a carattere
latifondista, quindi, dove l’industrializzazione non ha ancora trovato spazio.
All’indomani del 187065, ’estensione di Roma era limitata ai confini della
città pontificia, per una popolazione composta all’incirca da duecentomila
64 I. Insolera, Roma moderna, Torino, 2011.
65 Ci si riferisce alla data della breccia di Porta Pia, 20 settembre 1870.
109
abitanti; la direzione dell’espansione urbanistica fu immediatamente intrapresa
sia dall’appena insediata giunta comunale, sia dall’iniziativa privata di società
immobiliari che vedevano nella “costruzione” della nuova capitale ampie
possibilità di guadagno.
È necessario, inoltre, sottolineare come il ceto nobiliare abbia mantenuto
una sostanziale continuità di potere economico, resa possibile dall’ingresso
privilegiato nelle istituzioni municipali appena costituite; a questo deve
aggiungersi il cospicuo numero di ecclesiastici proprietari di ingenti
appezzamenti di terreno, che attraverso il processo di urbanizzazione
moltiplicarono la rendita prodotta dai loro possedimenti; il caso più noto è
quello di Monsignor De Merote, già “urbanista” nella Roma pontificia: egli sarà
il richiedente della prima concessione edilizia nella storia della Capitale e,
secondo i parametri da lui stabiliti, questo strumento verrà utilizzato per regolare
i rapporti tra amministrazione e privati.
Per inquadrare correttamente la direzione intrapresa dallo sviluppo
urbanistico romano va altresì considerato come l’applicazione nel 1873 delle
leggi italiane66 sull’esproprio del patrimonio degli enti ecclesiastici non portò un
incremento della proprietà pubblica, in quanto i terreni furono tempestivamente
alienati a soggetti privati, colpiti da scomunica secondo un’allocuzione di Papa
Pio IX del 1873.
La situazione che si venne a creare fu, quindi, un peculiare intreccio
d’interessi economici attorno all’espansione edilizia, che coinvolgevano da un
lato i ceti nobiliari, trovatisi a gestire l’istituzione municipale e ad essere al
contempo possidenti di grossi patrimoni fondiari; dall’altro i soggetti privati,
singoli proprietari o società immobiliari finanziate dai più disparati capitali: un
gruppo d’interesse che sarà particolarmente determinante nell’indirizzare le
politiche municipali verso la liberalizzazione del mercato.
Sul piano della composizione sociale, invece, con l’Unificazione si avviò
66 Legge 7 luglio 1866 e legge 15 ottobre 1867.
110
un intenso movimento migratorio verso Roma, proveniente soprattutto dalle
zone dell’agro romano, che si riversò come manodopera proprio nel settore
immobiliare, in rapidissima espansione; una situazione che durante il periodo
della “febbre edilizia” si trasformerà in una vera e propria emergenza, “regolata”
dal Comune con l’individuazione di specifici luoghi dove i lavoratori potevano
accamparsi e dormire all’addiaccio.
Il piano regolatore emanato nel 1873 sanciva di fatto la tendenza
speculativa intrapresa nei primi anni dell’Unità, proponendo come zone di
espansione le aree già concesse agli investitori privati per l’edilizia residenziale;
inoltre, progettava la costruzione di un quartiere operaio/industriale sui prati di
Testaccio e due edifici pubblici rispettivamente in Via XX Settembre e in Piazza
Cavour.
Per quanto riguarda il vecchio centro abitato, per la sua riqualificazione
venivano invece previsti parallelamente una serie di sventramenti viari ed una
densificazione degli edifici abitabili attraverso l’inserimento nelle aree ancora
libere; questo modello di piano fu approvato quasi all’unanimità dalla Giunta
romana, tuttavia non si trasformò mai in legge, regolando tacitamente
un’espansione a macchia d’olio guidata da interessi finanziari.
Un piano regolatore vero e proprio fu approvato nel 1883, con disposizioni
normative che di fatto ricalcavano la direttrice intrapresa dieci anni prima:
aumentava il numero di edifici pubblici programmati, così come si completava
la lottizzazione delle prime zone edificate a seguito delle concessioni; si
aggiungevano, inoltre, come aree di espansione privilegiate, Prati, il Testaccio e
l’Aventino, mentre al centro venivano riservati i piani di sventramento già
proposti nel 1873.
A seguito dell’approvazione del piano, con alla base cospicui prestiti
stanziati dal Governo per favorire le opere pubbliche nella Capitale, il Comune
di Roma elargì un gran numero di concessioni, andando ad alimentare una fase
111
di “febbre edilizia”, nella quale si costruì a prescindere dalle disposizioni del
piano regolatore; inoltre, la facilità con cui si accedeva ai finanziamenti spinse la
produzione immobiliare a livelli altissimi. Venivano, però, tralasciati due aspetti
fondamentali: da un lato, il fatto che l’incremento demografico riguardava ceti
molto poveri, che non avrebbero trovato posto negli alloggi di nuova
costruzione; dall’altro, si sottovalutava la ricaduta materiale dell’agire
speculativo; così, nel momento in cui questa spirale si concluse, moltissime
banche ed aziende edili fallirono, abbandonando cantieri aperti in tutta la città.
La crisi delle costruzioni ebbe forti ricadute anche su quella fascia di lavoratori
precedentemente considerata: circa ventinovemila persone furono rispedite nei
luoghi d’origine tramite foglio di via; inoltre, la costruzione del quartiere
Testaccio, primo esperimento di edilizia popolare, verrà ultimata solo nel 1909;
migliaia di abitanti si ritrovarono a vivere in zone prive di qualsiasi servizio,
circondate da edifici incompleti.
Fuori dalle città contemporaneamente crescevano le baracche di fortuna
allestite da quel ceto di manovali ex contadini arrivati a Roma negli anni della
“febbre”. Si iniziava a configurare, quindi, una società con un’ampia fascia di
proletariato ed è fondamentale notare come esso fosse quasi interamente
dipendente dallo sviluppo urbanistico, data la scarsità dell’espansione industriale
capitolina.
Anche per l’Amministrazione questo clima di liberismo estremo cominciò
a pesare: il sistema delle concessioni aveva infatti indebolito ancora di più la già
precaria struttura finanziaria della neonata Capitale; inoltre, il clima politico
andava progressivamente cambiando: il Partito socialista acquistava sempre più
consensi nel ceto operaio e simultaneamente avevano già preso vita le prime
associazioni sindacali a tutela degli operai. È proprio da cooperative edili
composte in maggioranza da lavoratori che nasceranno le prime case popolari.
Agli inizi del Novecento la situazione socio-politica non era più quella
112
dell’Unificazione: sul versante demografico il numero di abitanti era salito a più
di cinquecentomila67; nel contempo, le leggi Giolitti e la creazione dell’Istituto
Case Popolari, di cui si è parlato nei paragrafi precedenti, avevano fornito la
spinta per un cambiamento nell’istituzione municipale: nel 1907 diventò, infatti,
Sindaco di Roma Ernesto Nathan, a capo del cosiddetto “blocco popolare” che
univa radicali, repubblicani e socialisti.
Negli anni della sua amministrazione, che si protrarrà fino al 1913,
l’operato di Nathan si incentrò principalmente su quattro punti: politica di
edilizia popolare e antimonopolistica, aumento dell’istruzione, miglioramento
delle condizioni igienico-sanitarie e incentivo alla partecipazione diretta dei
cittadini attraverso vari strumenti, ad esempio quello del referendum, che fu
indetto a proposito della municipalizzazione delle linee tranviarie.
Nel 1909 venne inoltre approvato il nuovo piano regolatore della città che,
in linea con le politiche nathaniane, si proponeva di indirizzare l’espansione
urbanistica evitando il fenomeno della crescita a macchia d’olio; esso prevedeva
altresì una differenziazione dei tipi di costruzione in base alle peculiarità delle
zone, volta a salvaguardare il patrimonio dei giardini e delle ville, ed una
diminuzione degli interventi di sventramento nel centro.
L’operato di Nathan fu particolarmente osteggiato da quelle società edilizie
che di fatto agivano come un soggetto monopolistico nel mercato immobiliare;
in particolare, sarà la diversificazione dei tipi edilizi presente nel piano del 1909
a spaventare i costruttori: si creerà una situazione nella quale le disposizioni in
materia verranno progressivamente aggirate al fine di sostituire le “palazzine” ai
“villini”, una tendenza che, all’indomani della grande guerra e con l’avanzare di
una nuova crisi economica, verrà trasformata in realtà normativa, rendendo di
fatto nulli gli sforzi antispeculativi della giunta nathaniana.
Le misure per alleviare la crisi post-bellica a Roma consistettero in un
aumento dello sfruttamento di aree fabbricabili: ciò, se da una parte portò ad un
67 I. Insolera, op. cit., p. 93.
113
incremento del 100% dell’edilizia68, dall’altra aumentò quello squilibrio tra ceto
borghese e ceto popolare che l’amministrazione Nathan aveva cercato di
appianare; così, anche al seguito di una nuova ondata di immigrazione molto
forte, col moltiplicarsi dei vani costruiti si allargava a dismisura anche il numero
delle baracche di fortuna, sorte ormai tutt’intorno al perimetro della città.
Contemporaneamente,
sempre
nelle
zone
periferiche
andava
intensificandosi il fenomeno delle così dette borgate, ovvero lottizzazioni di case
poverissime, senza alcun servizio, situate in zone isolate ed in molti casi non
collegate; in questi due tipi di insediamenti abitava approssimativamente tra il
10% e il 15% della popolazione urbana.
L’edificazione delle borgate, con l’affermazione del fascismo, iniziò a
rivestire un ruolo fondamentale per l’attuazione degli immensi piani di
sventramento che nelle intenzioni del regime avrebbero dovuto riportare Roma
allo splendore imperiale: durante il Ventennio, l’urbanistica venne infatti usata
per amplificare la “magnificenza” del Duce. Questo risulta particolarmente
evidente nel contesto della Capitale.
Gli interventi edilizi durante il periodo fascista riguardarono, quindi,
essenzialmente tre punti: la riqualificazione del centro, la costruzione di “case
rapide” per sistemare l’enorme quantità di nuclei sfollati a seguito degli
sventramenti e la distruzione delle baracche, sostituite da intensivi costruiti dalle
principali società immobiliari tramite il già osservato meccanismo delle
concessioni e delle esenzioni fiscali; sempre nella periferia prenderanno vita i
primi quartieri popolari costruiti dagli enti: Montesacro, Garbatella e la zona di
Piazza Verbano.
La prima borgata ufficiale edificata è, nel 1924, Acilia, dove vengono
trasferiti i cittadini che avevano visto le proprie case demolite dai primi
sventramenti; tra il 1928 e il 1930 sorgeranno S. Basilio, Prenestina e Gordiani,
mentre tra il 1935 e il 1940 sarà la volta di Trullo, Pietralata, Tiburtino III,
68 I. Insolera, op. cit., p. 114.
114
Tufello, Primavalle, Val Melaina, Tormarancio e Quarticciolo: dodici borgate in
poco più di dieci anni, nelle quali sarà “deportato” un enorme numero di nuclei
familiari che, nella maggior parte dei casi, in conseguenza del trasferimento
forzato, perderanno ogni fonte di reddito.
Oltre ai problemi legati agli sventramenti, il fascismo si propose di
risolvere la questione dei baraccati, una situazione che con l’acuirsi della crisi
del dopo-guerra entrò prepotentemente all’interno del dibattito politico. La
soluzione intrapresa dal fascismo fu di duplice natura: da un lato venne disposto
l’obbligo del foglio di via per tutto coloro che abitavano a Roma da meno di
cinque anni; dall’altro, furono sperimentati i cosiddetti alberghi sub-urbani,
strutture nelle quali venivano sistemate le famiglie “sfrattate” in seguito
all’abbattimento delle baracche.
Nel complesso, le case costruite in questi nuovi agglomerati erano di
qualità bassissima; nella maggior parte dei casi si trattava di lotti composti da
vani unifamiliari mono-camera e senza servizi; questo, insieme al netto
peggioramento economico al quale gli abitanti andavano incontro trasferendosi
in zone dove era loro impossibile continuare la già precaria attività lavorativa,
implicò il rapido deterioramento degli alloggi, e al contempo non fermò il
riprodursi di baraccamenti abusivi nei dintorni delle borgate: dai dati emerge,
infatti, che nel Ventennio la popolazione di Roma subì un incremento del 37 per
mille69, superando il milione di abitanti.
L’incremento di popolazione avvenne a tutti i livelli della piramide sociale,
con la conseguenza che ad estendersi non furono solo le lontane periferie delle
borgate, ma la totalità della città, che continuò ad adeguarsi agli interessi dei
proprietari di terreni. La politica degli sventramenti favorì l’approvazione di
norme che incentivavano economicamente la costruzione di appartamenti da
assegnare ad affitto agevolato, le cosiddette case convenzionate. Attraverso
69 I. Insolera, op. cit., p. 150. I dati riportati da Insolera indicano come il censimento del 1921 riporti 691.661
abitanti, mentre quello del 1941 ben 1.415.000.
115
questo tipo di interventi si riproponeva il circolo vizioso già osservato che
vedeva il Comune impegnato negli oneri legati all’estensione dei servizi, e il
privato beneficiare dell’aumento del valore del suolo.
Il piano regolatore varato nel ‘31 continuò a favorire un’espansione
irrazionale dell’area urbana, introducendo la norma secondo la quale
l’attuazione di quest’ultimo doveva avvenire tramite piani particolareggiati, che
saranno stilati nella totale noncuranza per un progetto d’insieme; venne, inoltre,
progettata un’esposizione universale, la E 42/Eur, in occasione del ventennale
della marcia su Roma, a carattere semi-permanente.
L’E 42 non fu mai effettivamente inaugurata; tuttavia, le strutture realizzate
in sua funzione formeranno l’ossatura di un nuovo quartiere cittadino, posto
nettamente al di fuori dei confini del piano regolatore, in un’area
particolarmente isolata; questa scelta impedì che esso potesse fungere da spinta
per il miglioramento di tutti quei nuovi insediamenti che in molti casi, oltre ad
essere distanti dal centro urbano, rimasero privi di servizi pubblici essenziali
(fognature, elettricità, gas, scuole, trasporti, ospedali).
Il cospicuo investimento di fondi stanziato per la costruzione dell’E 42 subì
un’interruzione nel 1941, quando ormai la situazione geo-politica globale
lasciava presagire un conflitto di vaste dimensioni non più risolvibile nei termini
della guerra-lampo; fu allora che i vasti interventi urbanistici avviati in varie
zone della città vennero sospesi, nonostante fosse stato anche progettato un
nuovo piano regolatore per inglobare quelle zone e favorire l’espansione di
Roma verso il mare: la vicenda del piano regolatore del 1942 è infatti peculiare,
in quanto - nonostante non sia mai stato attuato - nelle sue disposizioni si
trovano le direttrici che l’urbanizzazione che la città assumerà nei decenni
successivi.
116
5.2 Espansione incontrollata e speculazione edilizia: Roma dal secondo
dopoguerra ai giorni nostri
Con la caduta del Fascismo e l’avvenuta liberazione, si riconfigurò la
struttura amministrativa della legge comunale generale e venne posta in essere
una commissione urbanistica che avrebbe dovuto occuparsi della messa a punto
di un nuovo piano di sviluppo. Nel frattempo, i grandi proprietari terrieri
uscivano particolarmente rafforzati dal conflitto, che aveva contribuito ad
aumentare notevolmente il valore dei suoli; la loro capacità di pressione era
data, inoltre, dalla concentrazione di proprietà in capo a pochi soggetti: i dati
forniti da Insolera70 mostrano infatti come ben cinquanta milioni di mq.
appartenessero nel 1953 a soli sette proprietari.
La spinta di questo peculiare gruppo d’interesse fece sì che in seno alla
commissione urbanistica si decidesse di abbandonare l’idea della redazione di
un nuovo regolamento e di procedere utilizzando lo strumento dei piani
particolareggiati fino alla scadenza prevista del 1965; questo produsse un
sostanziale mantenimento dell’indirizzo urbanistico presente nel piano del 1931
e nella sua variante del 1942, nonché il proseguo di quella politica speculativa
che vedeva nel mercato immobiliare il principale settore di traino dell’economia
cittadina.
Rispetto alla questione della domanda di case, una serie di ragioni, tra cui
la ripresa dell’immigrazione ed il peggioramento delle condizioni di molte zone
già altamente precarie prima della guerra, contribuirono ad aumentare
enormemente il divario già esistente tra le parti sociali: nel censimento del 1951
si calcolava infatti che il 6,6% delle abitazioni fossero baracche, grotte o
sottoscala, e che il 21,9% delle famiglie vivesse in coabitazione; dati allarmanti
che tenderanno ad aggravarsi con l’intensificarsi dei flussi migratori e degli
squilibri tra fasce di sotto-proletariato e mercato immobiliare.
70 I. Insolera, op. cit., p 195.
117
In questo quadro, la nascita dell’Ina Casa fece da traino per la costruzione
di nuovi quartieri di edilizia popolare; al contempo si procedeva ad una
revisione della legislazione in materia di edilizia sovvenzionata, un fenomeno
particolarmente rilevante a Roma in quanto rispondeva alla domanda di quel
ceto medio da cui la città era in larga parte composta.
Nel complesso la politica intensiva di Stato ed enti autonomi rispetto
all’edilizia popolare da un lato si rivelò assolutamente insufficiente a coprire il
fabbisogno abitativo delle classi più povere della popolazione, con la
conseguenza di un aumento esponenziale del fenomeno dei baraccamenti;
dall’altro, finì per avvantaggiare il settore privato che, sfruttando la confusione
normativa, continuò a costruire selvaggiamente, riempendo i vuoti dei quartieri
o avvantaggiandosi dell’aumento di valore del suolo legato alla cessione a scopo
sociale di una piccola porzione presente in terreni non ancora edificati. Una
situazione di speculazione del privato ed impotenza del pubblico che nel 1956,
grazie ad un’inchiesta del settimanale L’Espresso, venne portata alla ribalta della
cronaca e che contribuì alla formazione di un vivo dibattito pubblico e politico,
in merito alle modifiche urbanistiche da attuare.
Le vicende relative alla stesura del nuovo piano regolatore, approvato dalla
Giunta comunale nel 1959, ma mai diventato esecutivo, dimostrano come
l’interesse privato prevalse anche in questo caso; si preferì infatti privilegiare le
direttrici di espansione individuate nel 1942, focalizzandosi sulla zona di E
42/Eur, ancora rappresentata da uno specifico ente autonomo come durante il
Fascismo, e sull’attigua via del mare, sfruttando le nuove leggi in materia di
finanziamenti statali emanate a favore della Capitale a cavallo delle Olimpiadi
del 1960.
Per arrivare alla formalizzazione di un piano regolatore generale si dovrà
aspettare il 1965: si confermeranno le tendenze sulla direzionalità che dovrà
assumere la zona dell’Eur; saranno previste un’espansione industriale rispetto
118
alle zone dei Castelli Romani, di Fiumicino e di Pomezia, nuove lottizzazioni
nell’Agro ed una serie di modifiche volte a saturare tutti i quartieri con aree
libere, incluse quelli del centro.
L’applicazione del piano rimase legata all’attuazione di piani specifici e di
varianti, cosa che contribuì al perdurare della sostanziale impossibilità di
sviluppare un indirizzo sistematico d’insieme che tenesse conto delle necessità
della popolazione piuttosto che degli interessi delle grandi società immobiliari;
anche la legislazione in merito all’edilizia popolare proseguì andando ad
incrementare gli insediamenti nelle periferie non urbanizzate.
Se da un lato la situazione politico-economica aveva permesso il riprodursi
dell’espansione a macchia d’olio e dell’aumento intensivo della densità di
abitazioni dei quartieri centrali, dall’altro l’edilizia pubblica e convenzionata
non era bastata ad appianare una situazione di squilibrio che diventava sempre
più drammatica; dai numeri dei censimenti si evince, infatti, l’aumento costante
della percentuale di famiglie baraccate in insediamenti che circondano
completamente la Capitale: circa cinquantasette “borghetti” vengono denunciati
nel 1968 dal centro delle consulte popolari.
L’intensificazione delle contraddizioni aveva generato un sostanziale
mutamento del clima politico nazionale e cittadino, che si era tradotto in una
lunga stagione di radicalizzazione del conflitto attorno a rivendicazioni salariali
e di diritti sociali, come appunto quello ad un alloggio da parte delle migliaia di
famiglie che si trovavano nelle condizioni inumane dei baraccamenti71.
L’intensificarsi delle lotte ed il loro esprimersi in diverse forme,
dall’occupazione di edifici pubblici in disuso e di stabili vuoti di nuova
costruzione, anche privati, allo sciopero dei fitti, riuscì ad essere efficace nel
riportare al centro del dibattito pubblico la questione abitativa e nel far
procedere con rapidità numerosi progetti di edilizia popolare; è necessario
71 Per un’inchiesta particolarmente significativa sul complesso universo delle borgate e dei borghetti di Roma
si veda F. Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, Roma, 1970.
119
tuttavia considerare come fosse elevato anche il grado di repressione del
fenomeno e si ricorda, a questo proposito, l’uccisione da parte della polizia di
Fabrizio Ceruso, diciannovenne militante dei comitati autonomi operai, nel
corso della “battaglia di S. Basilio” del 197472.
Allo stesso tempo, i cambiamenti nella scena politica istituzionale e
legislativa, osservati nei paragrafi precedenti, si tradurranno nella Capitale in un
incremento esponenziale del fenomeno delle lottizzazioni e delle costruzioni
abusive73. Fu anche attraverso la tolleranza di questo fenomeno che si pensò di
mettere un freno all’esistenza delle baraccopoli, in quanto, nonostante l’aumento
di produttività, l’edilizia residenziale pubblica non era assolutamente in grado di
rispondere tempestivamente alla domanda di abitazioni; in molti casi, quindi,
attraverso il lottizzatore abusivo un nucleo familiare si assicurava un pezzo di
terra dove costruirsi autonomamente una casa.
È da considerare il fondamentale ruolo svolto dai partiti politici di sinistra
nel processo di sussunzione delle lotte: il grado d’interlocuzione che essi
riuscivano ad avere con gli strati più poveri della popolazione rafforzava il loro
potere
d’influenza
sull’operato
della
compagine
governativa
e
sull’amministrazione locale, che da una parte incrementava la produzione di
alloggi ad uso sociale, dall’altra si avviava ad approvare una lunga serie di
deliberazioni volte a legalizzare le costruzioni abusive.
Tuttavia in entrambi i casi l’azione pubblica non riuscì a fermare i
fenomeni in questione, con il risultato che gli squilibri di un mercato
immobiliare
non
controllato
dalla
pianificazione
pubblica
andarono
cristallizzandosi e la tendenza all’espansione della città attraverso l’abusivismo
72 Ci si riferisce alle operazioni di sgombero di un complesso dello I.A.C.P che ospitava circa trecentoventi
persone, intraprese il 5 settembre 1974. Dal quartiere insorse una vera e propria resistenza popolare e si
arrivò ad intavolare una trattativa con l’Amministrazione che assicurò un blocco temporaneo delle
operazioni; tuttavia l’8 settembre, nonostante la tregua, le operazioni ripresero e negli scontri che seguirono,
Fabrizio Ceruso perse la vita.
73 Secondo i dati riportati da Insolera nel 1976 si parla complessivamente di 11.500 ettari abusivamente
lottizzati con circa 415.000 vani (op. cit., p. 286).
120
ne estese le dimensioni senza alcuna razionalità urbanistica.
In questo senso, si può osservare che il processo di pacificazione rispetto
alla questione delle abitazioni a Roma non sia mai effettivamente riuscito, e se
da un lato gli squilibri strutturali del mercato e dell’azione pubblica hanno fatto
sì che la problematica per le famiglie più a basso reddito si riproducesse con
costanza, dall’altro anche le lotte sociali per l’affermazione del diritto all’abitare
non hanno smesso di propagarsi nel tessuto sociale della Capitale sia attraverso
forme più istituzionalizzate, come i sindacati degli inquilini o i comitati di
quartiere, sia attraverso pratiche politiche in aperto contrasto con il modello di
sviluppo capitalista.
Se durante gli anni Ottanta l’ultima grande ondata di complessi di edilizia
popolare continuerà ad assumere la parziale funzione di ammortizzatore sociale,
con la fine della Prima Repubblica e l’avvento della stagione delle
privatizzazioni, la situazione abitativa delle fasce deboli torna ad assumere un
alto livello di problematicità; allo stesso tempo, si avvia tra classe politica e
cittadino un progressivo scollamento che, oltre a provocare quella “sfiducia” che
secondo i più illustri intellettuali è sintomo della crisi dei grandi partiti di massa,
si sostanzia altresì nella fine del ruolo di intermediazione, a tratti su base
clientelare, che le istituzioni territoriali ricoprivano.
Uno dei passaggi da cui emerge la tendenza alla deregolamentazione a
favore del mercato immobiliare privato è l’emanazione della “legge di
compensazione urbanistica”, a seguito della norma sulla salvaguardia del
patrimonio artistico che poneva una serie di limiti di edificazione; essa
prevedeva la possibilità per i proprietari di scegliere le aree dove realizzare il
progetto edilizio cancellato dal vincolo di salvaguardia, con l’effetto che in
seguito al cambio di area le cubature edificabili venivano moltiplicate.
Durante gli anni Novanta, l’operato delle varie giunte municipali, che
punterà a fare di Roma una capitale culturale, si intreccerà all’azione del settore
121
immobiliare privato, che si concentrerà ancora una volta nell’espansione della
periferia, ormai immensa: il carattere assunto da questi insediamenti “postindustriali” è particolarmente alienante nel contesto di Roma: tali interventi, che
si rivolgono ad una fascia medio-alta di popolazione, vengono effettuati in aree
estremamente distanti dal centro cittadino, lontananza alla quale si pensa di
sopperire attraverso mastodontici spazi commerciali che di fatto diventano
l’unica infrastruttura presente. Tuttavia, la produzione edilizia non è adeguata
alla composizione quantitativa e qualitativa della domanda di abitazioni, cosa
che comporta un alto tasso di patrimonio immobiliare invenduto e la
diminuzione della percentuale d’investimenti in quella determinata area, con la
conseguenza che queste nuove zone rimangono sostanzialmente isolate dal resto
della città.
Si può osservare, quindi, come la situazione di squilibrio non sia stata
appianata e la problematica abitativa nella Capitale continui a rappresentare un
fenomeno che si estende in tutto il territorio con diversi gradi d’intensità; anche i
movimenti sociali hanno continuato a porre con insistenza il tema: nonostante a
tratti in sordina, il fenomeno delle occupazioni abusive di stabili in disuso a
Roma si è riprodotto con sistematicità, e non soltanto attraverso l’azione di
gruppi politici.
5.3 I movimenti romani per il diritto all’abitare: evoluzione e
radicalizzazione del conflitto sociale
Attualmente a Roma, seguendo l’elenco fornito dalla delibera della Giunta
comunale 206/2007 sull’emergenza abitativa, si contano circa 64 stabili
occupati; complessivamente, in un arco di tempo che va dal 1998 al 2013, circa
122
5542 nuclei familiari74 hanno autonomamente provveduto alla necessità di
un’abitazione, sfruttando l’enorme quantitativo di patrimonio immobiliare
abbandonato, sia pubblico che privato.
Il dato, fortemente significativo, rispecchia uno scenario in cui il proseguo
delle politiche speculative ad opera dei grandi gruppi immobiliari, le
privatizzazioni del patrimonio immobiliare degli enti pubblici e provvidenziali e
la progressiva diminuzione del welfare abitativo hanno continuato ad alimentare
una polarizzazione socio-spaziale che si ripercuote soprattutto sugli abitanti a
basso reddito; una fascia di popolazione che, anche in virtù degli intensi flussi
migratori, è tendenzialmente in costante aumento.
Nei precedenti paragrafi è stato osservato come la problematica
dell’emergenza abitativa abbia rappresentato una costante in tutte le fasi dello
sviluppo urbanistico della Capitale; nonostante i cospicui investimenti in edilizia
popolare, essa si è riprodotta nel sub-strato più povero della società romana,
cristallizzandosi e rappresentando, ad oggi, il principale motore delle spinte
conflittuali che investono la realtà cittadina.
Dopo un decennio di relativa pacificazione, dalla metà degli anni ’80 i
movimenti per il diritto all’abitare tornano a rivendicare la necessità che le
istituzioni provvedano al bisogno abitativo dei nuclei familiari in difficoltà,
attraverso numerose iniziative pubbliche volte a riaccendere l’interesse politico
sulla questione al fine di trovare una soluzione alloggiativa ai soggetti
impossibilitati ad accedere al libero mercato immobiliare.
In questa fase vengono occupati numerosi alloggi di edilizia residenziale
pubblica costruiti da pochi anni, ma ancora disabitati a causa delle difficoltà
riscontrate dal Comune nel compilare una graduatoria di assegnazione: alla fine
del 1988, secondo i dati forniti dal coordinamento cittadino di lotta per la casa,
sono circa 2000 gli appartamenti occupati dagli attivisti del movimento.
74 Il dato è riportato nella delibera della giunta comunale per l'emergenza abitativa nella quale è specificato il
numero di nuclei per ogni occupazione.
123
Le azioni radicali di protesta ad opera dei “senza casa” iniziano ad avere
un’eco rilevante in tutto il territorio urbano, così mentre da un lato si avvia una
contrattazione con le istituzioni, dall’altro si moltiplicano i soggetti che scelgono
di intraprendere la strada della lotta al fine di risolvere la situazione di
emergenza in cui si trovano: le occupazioni abitative si intensificano ed iniziano
ad interessare interi stabili pubblici abbandonati, che gli attivisti si impegnano a
riqualificare autonomamente.
È nel 1991 che viene proposta per la prima volta dai movimenti la pratica
dell’auto-recupero edilizio a fini abitativi: inizia un dialogo con le istituzioni al
fine di ratificare l’utilizzo di questo strumento, un lungo iter che si concluderà
solo nel 1998 con l’approvazione della legge regionale in materia 75, che tuttavia
non funzionerà da strumento risolutivo della questione.
L’intensificazione dei flussi migratori che coinvolgono la Capitale
stravolgerà
definitivamente
il
tessuto
metropolitano:
nel
1993,
con
l’occupazione della Federimmobiliare ad Ostia, per la prima volta emergerà la
complessità della composizione sociale che affronta il disagio abitativo; da
questo momento le lotte per l’affermazione dei diritti dei migranti procederanno
simultaneamente a quelle per la risoluzione dell’ “emergenza casa”, e si
costituiranno una serie di esperimenti abitativi fortemente peculiari nei quali si
darà vita ad un vero e proprio mix culturale (nella Federimmobiliare il 40%
degli occupanti proviene da 19 Paesi diversi).
Durante il corso degli anni ’90 il movimento per il diritto alla casa
proseguirà le sue battaglie da un lato riproducendo la pratica dell’occupazione di
stabili in disuso, dall’altro intavolando una serie di trattative volte a far sì che
l’amministrazione locale riconosca la situazione di emergenza che vige nella
75 La Legge Regionale sull’autorecupero è la n° 55 del ‘98. La norma prevede il riutilizzo, dopo il cambio di
destinazione d'uso, di immobili pubblici inutilizzati, in prevalenza ex-scuole, che dopo la ristrutturazione
vengono trasformati in alloggi di edilizia residenziali pubblica e destinati ad inquilini con i requisiti
economici previsti dall'edilizia agevolata. Secondo la legge, le parti esterne e comuni sono a carico
dell'amministrazione mentre le parti interne degli appartamenti sono a carico degli inquilini stessi riuniti in
cooperativa. Fonte: www.coordinamento.info
124
Capitale e si prodighi per la sua risoluzione: un’effettiva radicalizzazione del
conflitto che porterà nel 1999 all’elaborazione del “protocollo sull’emergenza
abitativa”, nel quale il Comune di Roma si impegna a stanziare 170 miliardi di
vecchie lire per finanziare l’acquisto di case popolari e i progetti di autorecupero.
La ratifica effettiva del provvedimento avverrà due anni più tardi, nel
gennaio 2001; tuttavia anche in questo caso la problematica non verrà sanata: a
seguito del Giubileo del 2000, infatti, si registra nel mercato immobiliare
romano un ingente incremento dei costi di locazione che contribuirà in maniera
determinante alla riproduzione dell’emergenza; emergenza che, oltre ad
interessare le fasce sociali più deboli, inizierà a pesare anche sul ceto mediobasso e sugli studenti universitari.
In
questo
contesto,
anche
in
virtù
delle
difficoltà
affrontate
dall’amministrazione comunale nell’attuazione del protocollo per l’emergenza,
le battaglie degli attivisti per il diritto all’abitare continuano incessanti: la pratica
dell’occupazione si diffonde notevolmente ed allo stesso tempo le componenti
del movimento si strutturano, dando vita a diverse organizzazioni politiche che
affrontano la “questione casa” secondo modalità differenti.
Ha inizio un nuovo ciclo di occupazioni che porterà all’approvazione, nel
2005, della delibera comunale dal titolo “Deliberazione programmatica sulle
politiche abitative e sull’emergenza abitativa nell’area comunale romana”, nella
quale verrà proposto un piano di finanziamento per la costruzione di nuovi lotti
di case popolari, oltre che la costituzione in ogni quartiere delle “case dello
sfrattato” per ospitare i nuclei fino all’assegnazione dell’alloggio; inoltre, nel
documento si prevede la possibilità che il Comune acquisti a prezzi vantaggiosi
gli immobili pubblici in via di cartolarizzazione.
Anche in questo caso le misure previste verranno attuate solo in parte e con
ingenti ritardi; la problematica dell’emergenza abitativa continuerà quindi a
125
riprodursi, attirando persino l’attenzione dell’ONU, che proprio in quell’anno
manderà a Roma una commissione per osservare l’eventuale violazione del
diritto alla casa, sancito all’articolo 11 del “Patto internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali”, sottoscritto dall’Italia nel 1966.
Con l’approvazione nel 2008 del nuovo piano regolatore di Roma e con la
vittoria del centro-destra alle elezioni amministrative, i precari equilibri
tratteggiati dalle delibere si spezzano definitivamente: mentre attraverso
numerosi accordi di programma si autorizzano nuove edificazioni per migliaia di
metri cubi, continua a crescere il numero delle persone che non riescono ad
accedere al mercato immobiliare cittadino; i residence per l’assistenza
alloggiativa temporanea, affollatissimi, finiscono così per sopperire alla
mancanza di case popolari e migliaia di nuclei familiari vengono di fatto
obbligati ad una precarietà abitativa che si ripercuote fortemente su ogni aspetto
della loro vita.
Con l’avanzare della crisi e l’acuirsi del disagio abitativo grave, attorno alla
questione casa si concentra un forte aumento della conflittualità sociale: da un
lato si moltiplicano i soggetti che scelgono di provvedere autonomamente o
insieme ai movimenti all’esigenza dell’alloggio, con la conseguenza di un
aumento delle occupazioni e dei momenti pubblici attraverso cui fare pressione
sulle istituzioni; dall’altro, muta l’atteggiamento dell’amministrazione comunale
e di
quella regionale rispetto al fenomeno, attraverso un progressivo
irrigidimento che contribuisce ad aumentare il clima di tensione.
In un periodo in cui vi è una forte radicalizzazione dello scontro tra
movimenti politici e istituzioni, gli attivisti che lottano per il diritto all’abitare
riconoscono la necessità di intrecciare le proprie rivendicazioni a quelle delle
altre categorie sociali che esprimono, anche in maniera conflittuale, il proprio
disaccordo con le politiche del Governo Berlusconi: è una fase nella quale la
pratica dell’occupazione viene sperimentata su tutto il territorio nazionale ed in
126
cui nascono peculiari esperimenti trans-generazionali di autogestione a scopo
socio-abitativo.
Nel 2012, dopo che la Giunta guidata da Gianni Alemanno ratifica con una
nuova delibera lo status di emergenza abitativa per alcuni stabili, i movimenti
per il diritto all’abitare romani vengono messi alle strette dall’azione repressiva
dell’amministrazione, che si prodiga nello sgombero tempestivo di ogni
tentativo di nuova occupazione; alla parziale chiusura delle istituzioni gli
attivisti rispondono unendo le forze e dando vita a particolari giornate di
mobilitazione chiamate “tzunami tour”.
La strategia politica attuata dai movimenti è quella dell’occupazione
simultanea di più stabili abbandonati: nell’arco di tempo che va dal dicembre
2012 all’aprile 2014 vengono occupati più di trenta edifici ad opera di tutte le
componenti del movimento romano per il diritto all’abitare; attraverso queste
iniziative gli attivisti riescono a bloccare la maggior parte dei tentativi di
sgombero
e
contemporaneamente
ad
esercitare
una
pressione
sull’amministrazione comunale (che nel frattempo è passata al centro-sinistra)
affinché si pronunci con una nuova deliberazione inerente all’edilizia popolare.
Mentre le trattative tra occupanti ed enti locali proseguono, viene
organizzato a Roma, il 19 ottobre 2013, un corteo nazionale che, sotto lo slogan
“casa, reddito e dignità per tutti”, riunisce le numerose realtà politiche extraistituzionali del Paese76 ; a seguito di una manifestazione di oltre sessantamila
persone conclusasi con una tendopoli collocata per tre giorni sotto il Ministero
delle Infrastrutture, viene concesso ai movimenti un incontro con l’allora
Ministro Maurizio Lupi e il Sindaco Ignazio Marino, nel quale si rimanda la
discussione sull’emergenza alla conferenza Stato-regioni sulle politiche
abitative, tenutasi il 31 ottobre con forti momenti di tensione tra attivisti e forze
dell’ordine.
76 Per un maggiore approfondimento su questa fase politica e sulle rivendicazioni mosse a livello nazionale dai
movimenti per il diritto all'abitare si veda: C. Armati, La scintilla: dalla valle alla metropoli una storia
antagonista della lotta per la casa, RedStar Press, Roma 2015.
127
Con la fiducia al Governo Renzi e l’emanazione del “Piano Casa” la
radicalizzazione dello scontro tra movimenti e istituzioni continua ad aumentare:
da un lato vengono contrastate le nuove occupazioni attraverso lo sgombero
immediato, dall’altro si moltiplicano le occasioni pubbliche nelle quali si
richiedono soluzioni immediate ed effettive alla questione dell’emergenza
abitativa, che continua ad essere uno dei problemi più ingenti della Capitale.
È lo stesso Assessore alle politiche abitative del comune di Roma che, a
seguito della cancellazione del blocco degli sfratti per morosità incolpevole dal
ddl “mille proroghe” del dicembre 2014, chiederà insieme ai suoi colleghi di
Napoli, Milano e Torino, la reintroduzione del provvedimento, al fine di limitare
la conflittualità sociale e tutelare i numerosi nuclei familiari coinvolti in questa
difficile situazione.
È fondamentale sottolineare come l’atteggiamento di chiusura progressiva
dell’amministrazione, l’insostenibilità dei tempi di attuazione delle varie
delibere comunali e regionali in merito all’emergenza abitativa e le disposizioni
contenute nel “Piano Casa” a proposito della vendita delle case popolari, dei
distacchi di forniture agli stabili occupati e dei dinieghi di residenze agli
inquilini di questi ultimi, abbiano enormemente contribuito al prosieguo di una
contrapposizione netta tra movimenti sociali e istituzioni politiche e alla
riproduzione di una conflittualità urbana che ruota attorno all’effettivo
riconoscimento del diritto alla casa anche per coloro che non possono accedere
al mercato immobiliare.
5.3.1 Un’occupazione “giovanile”: lo studentato Degage.
L’esperienza di Degage nasce a seguito delle mobilitazioni studentesche
contro la riforma Gelmini, protrattesi in tutto il Paese nel biennio 2008/2010: un
128
movimento politico ribattezzato “onda anomala” che, partendo dalla
contestazione alla legge 133, ha elaborato una critica radicale all’evoluzione del
sistema d’istruzione Italiano, all’aziendalizzazione dell’università pubblica ed
alla precarietà lavorativa che coinvolge soprattutto le giovani generazioni.
Il progetto di occupare uno studentato ha origine negli spazi autogestiti
dell’università La Sapienza, e specificatamente nella Facoltà di Sociologia: gli
studenti coinvolti nelle mobilitazioni infatti, in virtù della propria formazione
culturale e politica, decidono di comprendere quali siano i bisogni
effettivamente percepiti dalla soggettività studentesca che frequenta l’Ateneo,
utilizzando gli strumenti dell’inchiesta e della conricerca.
Viene elaborato un questionario da sottoporre ad un campione casuale di
studenti, allo stesso tempo si svolgono alcuni focus group a cui partecipano gli
universitari più attivi nelle mobilitazioni dell’ “onda”; grazie a questa duplice
indagine è possibile sia osservare come viene percepito dagli studenti il sistema
universitario rispetto ai servizi ricevuti ed alle aspettative future, sia far
emergere la stratificazione dei bisogni dei singoli soggetti ed il loro grado di
soddisfazione.
Dai risultati dell’inchiesta, sistematizzati grazie alla collaborazione di
ricercatori e dottorandi della Facoltà, si comprende facilmente come la questione
del costo dell’affitto risulti essere il principale problema riscontrato dagli
studenti: ad esso si affianca il cattivo funzionamento del welfare studentesco:
dalle testimonianze raccolte e dallo studio delle graduatorie relative a borse di
studio e studentati si evince come l’ente preposto all’erogazione dei contributi
per il diritto allo studio, la LazioDisu, non riesca a garantire un servizio
efficiente per tutti gli aventi diritto.
Specialmente per quanto riguarda la questione degli alloggi, la situazione
delle Università romane appare particolarmente difficile; per i tre atenei pubblici
della Capitale sono disponibili solo dodici strutture, di cui otto assegnate alla
129
Sapienza: la più grande università d’Europa con oltre centocinquantamila
studenti, di cui quasi il 50% fuorisede, dispone di meno di duemila posti letto. È,
inoltre, necessario sottolineare come la maggior parte di questi plessi siano
situati a molti chilometri dall’Ateneo, a dispetto della legge regionale sul diritto
allo studio promulgata nel 200077 che prevede un massimo di 2 chilometri di
distanza tra residenze e università: soltanto due stabili (via De Lollis e Casal
Bertone) rispettano questi requisiti.
Il disagio abitativo che gli studenti si trovano ad affrontare è, quindi, da un
lato connesso alle lacune del sistema di welfare locale, dall’altro alla scarsa
sostenibilità del costo dell’affitto nel libero mercato immobiliare: nei quartieri
adiacenti all’Università infatti si è registrato un progressivo incremento dei
prezzi di locazione; per un posto letto la cifra oscilla tra i 250 e i 350 euro,
mentre per una stanza singola si raggiungono anche i 600 euro.
A partire da questi risultati gli studenti-attivisti decidono di intraprendere
un percorso politico finalizzato a rendere pubblica questa grave situazione di
speculazione e a soddisfare il bisogno abitativo impellente: dopo circa un anno
di discussioni il 6 aprile 2013, in una giornata di mobilitazione proposta dai
movimenti di lotta per la casa, circa cinquanta universitari occupano uno stabile
abbandonato in Via Antonio Musa 10, dando vita al Progetto Degage78.
Il palazzo, di proprietà pubblica, con un valore catastale di circa 12 milioni
di euro, è situato nei pressi di Piazza Galeno ed è quindi adiacente all’Ateneo;
dopo aver ospitato per circa vent’anni un istituto di scuola superiore, è stato
assegnato alla nota associazione Telefono Azzurro, che qui ha tenuto la sua sede
principale fino al 2010. In seguito lo stabile, insieme ad altre proprietà regionali,
è stato inserito in un fondo immobiliare gestito dalla banca BNP-Paribas;
l’alienazione di questi beni sarebbe dovuta servire a finanziare la costruzione
della nuova sede della Provincia di Roma: nonostante questo progetto edilizio
77 Legge regionale n° 338 del 14/11/2000
78 Il termine Degage è un espressione francese, letteralmente traducibile come “tutti a casa”; la sua
connotazione politica deriva dai movimenti di protesta Tunisini del 2012.
130
sia stato presto accantonato dalla stessa amministrazione, il fondo non è stato
estinto ed è proseguito il tentativo di vendita degli immobili.
Lo scopo dell’occupazione dello stabile fu quello di impedirne la vendita e
di attuare una pressione nei confronti delle istituzioni competenti affinché venga
trasformato in uno studentato; non si tratta del primo caso di auto-gestione
studentesca di un palazzo a fini abitativi: esperienze simili avevano già avuto
luogo nella città di Roma durante l’intensa stagione di mobilitazione legata al
movimento studentesco “onda anomala” già osservato precedentemente.
Dopo aver sventato un tentativo di sgombero immediato, per gli studentioccupanti inizia una fase di trattativa con le istituzioni: da una parte vengono
posti in essere dei tavoli di discussione con l’ente LazioDisu in merito al diritto
allo studio, nei quali viene proposta una mappatura degli stabili vuoti di
proprietà pubblica adiacenti all’Università da trasformare in studentati;
dall’altra, grazie allo stretto legame con i movimenti per il diritto all’abitare,
Degage partecipa alla stesura di una nuova delibera regionale per l’emergenza
casa al fine di normalizzare le occupazioni esistenti.
Al dialogo con le istituzioni si aggiunge un intenso percorso di
mobilitazione che coinvolge tutti coloro che si interessano di questioni abitative:
attraverso cortei, momenti di discussione pubblici, occupazioni simboliche di
luoghi altamente significativi rispetto alla speculazione edilizia in città, si
produce un’intensa stagione di lotta che trova il suo culmine nel corteo del 19
ottobre 2013 e nella conseguente tendopoli allestita davanti al Ministero delle
Infrastrutture.
Mentre l’iter burocratico connesso all’approvazione della nuova delibera
rallenta fortemente la sua effettiva applicazione, il problema casa inizia ad
assumere una rilevanza significativa sul piano mediatico e cresce la
partecipazione delle fasce sociali più svantaggiate alle proteste dei movimenti:
gli sportelli auto-gestiti di supporto ai nuclei in emergenza abitativa diventano
131
un punto di riferimento per tutti coloro che non riescono più ad accedere al
mercato immobiliare e scelgono di intraprendere un percorso di lotta.
Anche in ambito universitario non mancano le proteste: nel novembre 2013
gli inquilini dello studentato De Lollis decidono di occupare l’ala B dello stabile
come forma di protesta: questa parte dell’edificio infatti, chiusa da anni in virtù
di una ristrutturazione, era finalmente pronta all’uso, ma per via di tempi
burocratici la sua riapertura non era prevista dall’ente LazioDisu.
A fianco agli studenti del De Lollis si mobilitano tutti i collettivi
universitari della città e gli studentati occupati, tra i quali Degage, e si
producono una serie di iniziative di protesta atte ad intavolare una trattativa con
l’ente e con l’amministrazione regionale: le rivendicazioni portate avanti
spaziano dalla specificità dei problemi legati agli studentati, a questioni legate
all’erogazione delle borse di studio.
Oltre duecento studenti, molti dei quali risultati nelle graduatorie per
l’assegnazione dei posti letto idonei non vincitori, partecipano all’occupazione e
ben presto l’esperienza si riproduce anche in un’altra residenza universitaria:
Boccone del povero, sempre gestita dall’ente LazioDisu, ma assegnata
all’ateneo di Tor Vergata.
La pressione notevole messa in campo con questo tipo di iniziative riuscirà
a far sì che i tavoli di trattativa intrapresi con gli attori istituzionali portino ad
uno sblocco della vertenza: nel mese di febbraio 2014 la residenza viene
definitivamente assegnata agli idonei non vincitori; inoltre, gli studenti vincono
una gara bandita per gestire uno spazio nel seminterrato della struttura, in stato
di abbandono da anni.
Nello stesso periodo della riapertura del De Lollis, vengono tentate altre
due occupazioni di stabili da trasformare in studentati, anche questa volta in
occasione di uno “tzunami tour” dei movimenti di lotta per l’abitare: in un caso
gli attivisti provengono dall’esperienza del De Lollis, mentre nell’altro si tratta
132
di una lista abitativa legata alle esperienze politiche del quadrante Sud della
città, nel quale ha sede l’università di Roma Tre; tutte le occupazioni avvenute in
quella giornata saranno comunque sgomberate immediatamente, con forti
momenti di tensione anche nei giorni a seguire.
Parallelamente ai percorsi universitari, gli attivisti di Degage animano le
iniziative di lotta dei movimenti per il diritto all’abitare: si crea una forte
solidarietà reciproca tra categorie sociali diverse e vertenze diverse; legami che
si ramificano anche a livello nazionale grazie alla rete “Abitare nella crisi”, che
diventa un punto di riferimento per gli attivisti di oltre venti città italiane ed
attraverso il quale si coordineranno diversi momenti di protesta localizzati nei
diversi territori contro le politiche abitative del Governo Renzi.
La situazione attuale dello studentato occupato Degage è ancora incerta: se
da un lato proseguono le trattative per l’attuazione della delibera regionale
sull’emergenza abitativa nella quale è inserito anche lo stabile di via Musa,
dall’altro il palazzo risulta ancora in vendita: sembra che la Bnp-Paribas abbia
effettuato un’asta di cui non sono pubblici i risultati; sicuramente, però,
l’immobile appare in vendita sul sito “immobiliare.it” al prezzo di 8.250.000
euro, in un’inserzione della società “Rezza exclusive real estate”.
Nonostante siano passati più di due anni dall’occupazione quindi, non è
stata effettuata da parte delle istituzioni alcuna normalizzazione della situazione:
la questione abitativa continua ad essere una delle problematiche più diffuse nel
tessuto sociale della Capitale ed allo stesso tempo le tensioni tra movimenti e
enti locali non accennano a placarsi, ma anzi si propagano in altri contesti, come
ad esempio l’università, intrecciandosi alle vertenze specifiche.
5.3.2 “La luna è del popolo!”. L’esperienza di Metropoliz Lab
133
Metropoliz è una ex fabbrica in disuso sita in via Prenestina 913: ex
stabilimento del salumificio Fiorucci, da oltre vent' anni in stato di abbandono,
viene occupato nel 2009 da circa duecento persone, appartenenti ai “Blocchi
Precari Metropolitani”, una delle sigle che insieme ad “Action” ed al
“Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa” animano le battaglie per il
diritto all’abitare in città.
L’esperimento di Metropoliz appare da subito peculiare: da un lato perché
si tratta di un occupazione sorta su una proprietà privata, dall’altro per via della
struttura dello stabile, tipicamente industriale, che permette agli attivisti di
immaginare un progetto che, oltre a fare fronte allo specifico bisogno abitativo,
possa rappresentare un punto di riferimento contro-culturale e politico per il
quartiere e per l’intera città.
La zona nella quale prende vita il progetto è quella di Tor Sapienza: un
territorio difficile, salito alla ribalta delle cronache nazionali negli ultimi mesi
del 2014 per le radicali proteste portate avanti da alcuni abitanti contro il centro
di accoglienza per rifugiati politici sito in Viale Giorgio Morandi e contro il
presunto stato di degrado e abbandono nel quale si trova il grande quartiere
periferico, dove convivono da tempo diverse categorie sociali.
L’occupazione di Metropoliz rappresenta in questo senso uno spaccato del
meticciato presente in questo territorio: all’interno dello spazio co-abitano infatti
circa sessanta nuclei familiari, provenienti da diversi Paesi: Perù, Santo
Domingo, Marocco, Tunisia, Eritrea, Sudan, Ucraina, Polonia, Romania e Italia;
un inedito mix culturale che sarà il motore di una serie di iniziative volte a
trasmettere la virtuosità di questo modello d’integrazione auto-organizzato.
È fondamentale sottolineare come anche in questo caso l’occupazione non
rappresenti la meta finale di un percorso, ma funga da elemento di
soggettivazione politica e stimoli un’ulteriore partecipazione alle battaglie per il
diritto alla casa, nonché la riproduzione della pratica della riappropriazione di
134
stabili in disuso a fini abitativi.
Nella prima fase dell’esperienza di Metropoliz, gli attivisti si prodigano in
un ciclo di lavori di ristrutturazione dello stabile al fine di auto-costruire delle
vere e proprie casette uni-familiari: simultaneamente la solidarietà dimostrata da
artisti, urbanisti e associazioni di quartiere fa sì che vengano poste in essere
importanti iniziative di approfondimento sulle tematiche dello spazio urbano,
come i workshop “Metropoliz Stazione Rom/A” del dicembre 2009 e “Città
Meticcia” del novembre 2010, organizzati all’interno del progetto “Metropoliz
Pigmin City”, elaborato in collaborazione con il Laboratorio di Arti Civiche 79
afferente all’Università di Roma3.
All’interno di questa cornice, iniziano una serie di attività nelle quali si
sperimenterà un’inedita strategia per i movimenti abitativi: quella di comunicare
con la città attraverso l’arte, proponendo una ricostruzione collettiva dello
spazio pubblico a misura di individuo; a questo si affianca la quotidiana attività
di denuncia dell’emergenza casa e di pressione sulle istituzioni affinché
s’impegnino a regolarizzare la situazione delle occupazioni e ad agire con
incisività sulla problematica, invertendo le politiche di cartolarizzazione del
patrimonio pubblico.
Tra il 2010 e il 2011, mentre proseguono le battaglie con la proprietà dello
stabile, prende vita un importante progetto, il film-documentario “Space
Metropoliz”: un laboratorio permanente attraverso cui riqualificare l’ex Fabbrica
Fiorucci, sperimentando un inedito intreccio tra soggettività diverse, per
proporre un modello alternativo di progettazione e modifica del territorio, nel
quale il cinema diventa uno strumento attraverso cui raccontare l’esperienza e
costruire dal basso un luogo di aggregazione per tutto il quartiere, stimolando la
partecipazione degli stessi abitanti.
79 Questo laboratorio è un centro di studi urbanistici facente capo alla facoltà di Architettura dell'università
Roma Tre che “compie ricerche, azioni e progetti rivolti a interagire creativamente con i cittadini per una
trasformazione collettiva e condivisa dell’ambiente costruito. Articola il suo lavoro attraverso una forte
interazione tra didattica ricerca e azione territoriale.” (fonte www.articiviche.net, nella quale si trova anche
un elenco completo delle tappe che hanno composto il progetto di ricerca Metropoliz Pigmin City)
135
Simbolo di questo progetto, un razzo gigante che gli abitanti realizzano per
“andare sulla luna”, che rappresenta idealmente un territorio dove non esistono
discriminazioni e dove tutto è di tutti; questo esperimento, curato dal sociologo
Fabrizio Boni e dall’antropologo Giorgio De Finis e finanziato dalla Provincia di
Roma, dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Roma Tre e
dall’Istituto Europeo di Design, servirà da cassa di risonanza per la vicenda
degli occupanti del Metropoliz anche a livello internazionale.
A partire da ciò si avvierà un altro importante progetto, quello del MAAM,
Museo dell’Altro e dell’Altrove; esso viene definito dagli stessi ideatori come
un’opera situazionista, che si contrappone ai musei di arte contemporanea
“ufficiali” della Capitale in virtù del suo essere prima di tutto uno spazio reale
poiché abitato; in questo senso si verifica una contaminazione diretta tra l’arte e
la dimensione quotidiana dell’esistenza: i moltissimi artisti coinvolti nel
progetto lavorano gratuitamente insieme agli abitanti dello spazio per realizzare
opere che rispecchino lo spirito relazionale del progetto, prendendo parte alla
comunità che lo abita.
Il museo, completamente auto-gestito e privo di finanziamenti pubblici,
rappresenta un importante patrimonio di arte contemporanea, ed è oggetto di
grande interesse da parte di riviste specializzate e di artisti emergenti ed
affermati nel panorama internazionale; tuttavia la proprietà dello stabile rimane
in mano ad un grande gruppo immobiliare, Salini s.r.l., che ha più volte
minacciato lo sgombero dell’area senza mai trovare alcun accordo con gli
occupanti.
Gli abitanti di Metropoliz, così come la maggior parte di coloro che vivono
in stabili occupati, continuano quindi a non avere nessuna certezza sulle sorti
della struttura nella quale abitano; un elemento fortemente determinante nella
riproduzione del conflitto sociale in merito alla questione casa, che - come
osservato nei paragrafi precedenti - rappresenta da anni una delle principali
136
problematiche della città di Roma: in questo contesto, infatti, emergono con
prepotenza le contraddizioni legate alle modifiche nel sistema di welfare a fronte
di un mercato immobiliare con tendenze fortemente speculative.
137
6. Conclusioni
In questa ricerca è stata osservata la strutturazione sociale della
problematica dell’emergenza abitativa in due differenti contesti: quello tedesco,
con particolare attenzione al caso di Berlino, e quello italiano, in riferimento alla
città di Roma.
In virtù della complessità della tematica, il fenomeno è stato scomposto e
sono stati isolati i processi che hanno contribuito al suo radicamento nella
società contemporanea; nello stesso tempo si è evidenziato come a determinare
il grado d’intensità del problema sia il contingente intreccio tra l’andamento del
mercato immobiliare, l’attuazione di specifiche politiche abitative volte a
contrastare l’emergenza e l’incidenza dell’azione dei movimenti di lotta per la
casa.
Come già osservato precedentemente, affinché sia possibile operare una
sistematizzazione dei risultati di questa ricerca, all’interno delle tre macro aree
appena citate è necessario isolare le condizioni che contribuiscono alla
riproduzione della problematica abitativa nei due differenti contesti (tedesco e
italiano), prestando particolare attenzione alle differenze strutturali sia sul piano
politico-economico, sia su quello socio-spaziale.
Osservando le caratteristiche che connotano i due mercati immobiliari si
evince in prima istanza come vi sia una sostanziale diversità nella distribuzione
della proprietà: mentre in Italia la cultura del possesso dell’abitazione è
particolarmente diffusa, in Germania si riscontra una forte propensione
all’affitto; a ciò consegue che nel primo caso la rendita per le imprese di
costruzione è legata ai processi di compravendita, mentre nel secondo caso essa
è direttamente connessa alla gestione del patrimonio immobiliare.
Questo dato è particolarmente significativo se si osserva il comparto degli
138
alloggi ad uso sociale. Nel caso Berlinese, un saldo legame tra finanziamento
pubblico ed edilizia privata ha permesso, da un lato, un grado di efficienza più
elevato nella produzione immobiliare; dall’altro, ha alimentato una serie di
processi
gentrificativi.
Nella
città
di
Roma,
invece,
attraverso
la
cartolarizzazione del patrimonio afferente agli enti pubblici di edilizia popolare,
il numero di unità destinate a soddisfare il fabbisogno abitativo delle fasce a
basso reddito è diminuito sensibilmente; inoltre, l’assenza di misure volte a
regolare il mercato degli affitti ha contribuito al progressivo peggioramento
della problematica dell’emergenza.
In entrambi i contesti, il fenomeno dell’immigrazione riveste un peso
importante rispetto all’evoluzione del mercato immobiliare e alla riproposizione
della “questione casa”: se per un aspetto si riscontra una similitudine tra le due
città in riferimento alla corrente migratoria che interessa i rifugiati politici, per
un altro aspetto, in virtù dello sviluppo della creative economy, nella capitale
tedesca si assiste ad un’integrazione progressiva di migliaia di
knowdlege
worker europei nel mercato del lavoro ed in quello alloggiativo.
Il relativo aumento di popolazione provoca in entrambi i contesti uno
squilibrio sul mercato immobiliare: nel contesto berlinese, dove la produzione
edilizia degli ultimi vent’anni è stata subordinata alla riqualifica del tessuto
urbano, si verificano una saturazione dell’offerta di alloggi a fronte di un
aumento della domanda ed un conseguente innalzamento dei prezzi di mercato;
al contrario, nella città di Roma è proseguito il processo di urbanizzazione di
zone altamente periferiche, con il risultato che all’aumento della domanda di
abitazioni a costi contenuti consegue un incremento della percentuale di
patrimonio immobiliare inutilizzato, poiché immesso sul mercato a prezzi
particolarmente elevati.
A questo proposito è necessario sottolineare come vi sia una sostanziale
differenza tra le due città rispetto al valore degli immobili, tanto per ciò che
139
riguarda il comparto dell’affitto, quanto per quello della vendita: secondo i dati
raccolti e relativi al primo semestre 2015, infatti, per la capitale tedesca il costo
medio di un affitto è di 9,85 euro al mq, contro i 13,92 euro al mq calcolati per
la città di Roma; una discrepanza che diventa ancora più evidente se si considera
che a Berlino il prezzo di vendita al mq non supera mai i 3.500 euro, mentre
nella capitale italiana raggiunge anche punte di 10.000 euro.
Alla base di questa differenza vi è una sostanziale diversità nei processi
storici che hanno contraddistinto i due Paesi a partire dalla fine della Seconda
guerra mondiale: nello specifico, i pesanti danni provocati dai bombardamenti e
la divisione delle due Germanie hanno prodotto nella città di Berlino uno
sviluppo urbano assolutamente peculiare, che solo negli ultimi vent’anni si è
concentrato nelle aree del centro cittadino, con la conseguenza che all’interno
del processo di riqualifica si è tenuto conto dell’esigenza di sostenibilità
ambientale e si è incentivato, allo stesso tempo, l’insediamento di abitanti ad
alto reddito.
Al contrario, durante lo stesso lasso temporale nello scenario capitolino è
stata completata una sorta di vetrinizzazione del centro storico: mentre si
moltiplicavano le strutture alberghiere e le attività commerciali specificatamente
adatte agli ingenti flussi turistici, diminuiva progressivamente il numero di
abitanti dell’area; questo fenomeno da un lato ha provocato una sorta di
separazione tra il cittadino e i quartieri centrali, dall’altro ha rafforzato una serie
di problematiche e criticità urbane (inquinamento acustico e ambientale,
omogeneizzazione dell’offerta commerciale, aumento vertiginoso del costo della
vita).
Ad alimentare le modificazioni del mercato immobiliare ha sicuramente
contribuito l’evoluzione delle politiche pubbliche in chiave neo-liberista,
verificatasi in entrambi i contesti, ma secondo modalità differenti: mentre a
Berlino, nonostante la stagione delle privatizzazioni, è stato mantenuto il sistema
140
di finanziamento alle società immobiliari per la costruzione di alloggi sociali,
nello scenario Romano non è stata trovata alcuna alternativa valida all’edilizia
residenziale pubblica; l’azione dell’amministrazione è stata pertanto finalizzata a
porre un freno temporaneo alla situazione di emergenza, attraverso l’emanazione
di provvedimenti a carattere assistenziale.
È fondamentale, inoltre, sottolineare come nel contesto Berlinese
l’integrazione delle istanze portate avanti negli anni ’80 e ’90 dai movimenti per
il diritto all’abitare, abbia funzionato da incentivo per la sperimentazione di
innovativi progetti edilizi volti a recuperare il patrimonio esistente attraverso la
partecipazione diretta dell’inquilinato alle operazioni di riqualifica degli stabili;
al contrario, nella città di Roma, anche in presenza di numerose deliberazioni
comunali e regionali in materia, la pratica dell’auto-recupero non riesce ad
essere utilizzata per far fronte all’emergenza casa.
Nonostante si possa supporre nello scenario berlinese un maggiore
controllo dell’istituzione pubblica sul mercato immobiliare, sostanziato anche
attraverso misure di regolamentazione rispetto all’aumento del costo dell’affitto,
la problematica abitativa risulta essere in entrambi i contesti al centro di intense
mobilitazioni sociali: anche rispetto a quest’ultima macro-area presa in esame,
emergono fondamentali differenze attraverso cui è possibile comprendere la
diversità nell’articolazione del conflitto in merito alla questione abitativa.
Un primo punto in comune è l’eterogeneità che caratterizza le soggettività
coinvolte nelle battaglie per la casa: nelle due città si riscontra una forte
commistione di categorie sociali impegnate nella rivendicazione del diritto
all’abitare; tuttavia, a Berlino è presente una maggiore settorializzazione delle
vertenze e un basso grado di integrazione di istanze differenti; al contrario, nel
contesto capitolino si osserva un alto grado di reciprocità tra le diverse
componenti del movimento.
A fronte di questo dato si comprende come nella capitale tedesca le
141
strategie di pressione sulle istituzioni utilizzate dal movimento varino in base
alle specificità dei differenti gruppi: si passa dall’alto livello di radicalità e basso
grado d’integrazione delle componenti più politicizzate ed a carattere quasi
interamente giovanile, alla forte integrazione e bassa conflittualità dei comitati
di quartiere. Nella città di Roma, invece, si riscontra una soggettività che agisce
in maniera compatta, secondo una strategia che potremmo definire “a doppio
binario”: da un lato il movimento dimostra una forte radicalità, che sovente si
esplica in momenti di conflittualità tra attivisti e forze dell’ordine; dall’altro,
esso intrattiene una contrattazione con le istituzioni, direttamente dipendente
dalla pressione messa in campo attraverso le iniziative pubbliche di protesta.
È fondamentale ,inoltre, sottolineare come l’eterogeneità rappresenti nella
capitale italiana un ulteriore vantaggio per la strategia di pressione dei
movimenti: il fatto che la problematica abitativa s’intrecci a numerose vertenze
specifiche (battaglie per il diritto allo studio, lotte per i diritti della popolazione
migrante, vertenze per il miglioramento delle condizioni di lavoro nei magazzini
della logistica, ecc.) viene sfruttato dai movimenti per rafforzare i legami
intercategoriali e moltiplicare il potenziale di conflitto.
Nel caso tedesco, quindi, il grado di pressione sulle istituzioni appare
diversificato nella sua intensità e le pratiche messe in campo dai differenti
gruppi possono essere definite usuali (cortei, presidi, picchetti anti-sfratto,
assemblee pubbliche, raccolta firme per proposte di referendum, partecipazione
diretta ai consigli distrettuali); nel caso di Roma, invece, il grado di pressione
appare intenso e continuato, e alle pratiche usuali si affianca quella
dell’occupazione di immobili in disuso che attualmente è fortemente contrastata
dall’amministrazione e dalla prefettura.
In conclusione, l’osservazione di questi due contesti permette di
comprendere come la problematica abitativa sia un elemento endemico al
modello economico neo-liberista; nello stesso tempo, emerge quanto l’intensità
142
della conflittualità sociale che si articola attorno alla questione casa dipenda in
larga misura dalla diversa strutturazione dei modelli di welfare, oltre che dal
grado d’integrazione delle categorie a basso reddito nel mercato del lavoro.
Si riscontra altresì come la sussunzione delle istanze di lotta dei movimenti
sociali attuata nel caso berlinese rivesta un’importanza fondamentale: attraverso
di essa, l’amministrazione pubblica da un lato riesce a portare a termine un
processo di pacificazione, dall’altro struttura una strategia di rigenerazione
urbana nella quale si stimola la partecipazione diretta dei cittadini; un modello
urbanistico peculiare nel quale la vivibilità dei quartieri viene anteposta alla
profittabilità degli investimenti immobiliari.
È importante sottolineare, poi, come in entrambi i contesti il mercato
immobiliare rappresenti la principale forma di rendita: seguendo le differenze tra
i due scenari, si evince come la questione della speculazione edilizia ad opera
dei grandi gruppi immobiliari si presenti come una costante per lo sviluppo
urbanistico delle capitali; tuttavia, mentre nel caso romano essa ha provocato
una continua espansione a macchia d’olio e un progressivo aumento dei prezzi
di mercato, nella situazione di Berlino essa ha agito come incentivo per lo
sviluppo di un nuovo settore produttivo, quello della creative economy, che ad
oggi risulta essere una vera e propria risorsa per la stabilizzazione finanziaria
della città.
In ultima istanza, si può rilevare la difficoltà nell’immaginare possibili
soluzioni complessive alla questione abitativa: come dimostrato attraverso
l’osservazione delle tappe che hanno segnato l’evolversi delle lotte per il diritto
all’abitare, questa problematica si riproduce incessantemente investendo, a
seconda delle fasi storiche, differenti categorie che non sempre si trovano
all’ultimo gradino della scala sociale; è indubbio tuttavia che, per tutelare
effettivamente l’universale diritto ad un’abitazione, è necessaria un’inversione di
tendenza nell’economia legata allo sviluppo urbano ed una presa di posizione
143
forte delle amministrazioni locali rispetto alla necessità di anteporre la dignità
dei cittadini agli interessi economici.
144
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