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Rivista di Filosofia e Culture L’‟Europa” secondo Husserl: l’enigmatica sfida del filosofo Sara Pasetto Husserl’s idea of ‛Europe’ describes a spiritual form to be human. The human being becomes a philosopher, due to his tradition, he doesn’t support any more all aspects of his own identity. The traditional knowledge acquires a relative validity, e. g. through a culture shock. This fact motivates the search of a universal validity: the philosophy. Husserl describes, how historically a new idea of being a human was developed through philosophy in Greece. The community of all these individuals, the philosophers, is called ‛Europe’. The aim of this article is to describe the relationship between Europe and the philosopher; not from the political point of view of Europe, but from the ethical one of each individual philosopher. This ethical point of view is shown as the basis of the political dimension. Thus, being a philosopher means, according to Husserl, the first essential step into the concrete realization of Europe. «La funzione che la filosofia deve costantemente esercitare all’interno dell’umanità europea è una funzione arcontica per l’intera umanità»1 . Il 9 luglio del 1950 la sofferente cittadina di Breisach sul Reno, distrutta per l’85 % nel 1945, votò con un assenso del 95,6 % per un’Europa libera ed unita. Fu la prima città europea a dichiararsi anche tale. Alla luce di una volontà popolare di confine, stufa del perenne travaglio storico consumatosi nel susseguirsi di molteplici appartenenze politiche – come dimostrano i vari stemmi che blasonano il comune (l’edificio rosa nella foto) –, l’idea di Europa eletta a Breisach si palesa nella sua evidenza soprattutto fuori dalla sede del potere politico cittadino. Il 9 luglio del 2000, esattamente 50 anni dopo il referendum che dichiarò Breisach “città europea”, è stata, infatti, installata dall’artista friburghese Helmut Lutz una statua commemorativa intitolata Europa afferra le stelle. Come eruttato da flutti di terra sulla montagna della cattedrale, nella meravigliosa piazza che sovrasta la cittadina, nasce Zeus sotto le sembianze del mitico toro, cavalcato da Europa, la quale, quasi danzando in perfetto equilibrio sul divino animale, si allunga fino alle stelle. Inequivocabilmente donna, la figura di Europa è sensualmente rappresentata col cuore, ma senza testa. L’astratto triangolo, che costituisce pancia e testa, ha, però, gambe e braccia. Simboleggia forse una passionale razionalità, grazie alla quale 1 Edmund Husserl: “Die Krisis des europäischen Menschentums und die Philosophie”, in Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Hua VI, Den Haag: Martinus Nijhoff, 1954, 314-348. La traduzione italiana del vol. VI dell’Husserliana utilizzata in questa sede è quella di Enrico Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano: Net, 2002; tuttavia, solo per il testo della cosiddetta ‛Conferenza di Vienna’ viene qui preferita la traduzione italiana di Renato Cristin, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, in Crisi e rinascita della cultura europea, Venezia: Marsilio, 1999, (47-92), 77; il corsivo è mio. InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #1 Rivista di Filosofia e Culture l’astrazione intellettuale possa, nonostante tutto, anche essere concreta, muoversi ed agire? Che sia questo l’enigma a cui si riferisce anche l’“idea di Europa” nella fenomenologia di Edmund Husserl? Il tema dell’“Europa” in Husserl mantiene, anche dopo tanto tempo, un fascino particolare. Forse proprio a causa della forza politica che segue, paradossalmente, alla sospensione della politica comunemente intesa, grazie a quell’epoché tanto essenziale alla fenomenologia, da identificarne il punto zero da cui partire “sempre di nuovo” (immer wieder). Elio Franzini, nel suo libro Fenomenologia, sottolinea come Husserl dedicò all’Europa pagine importanti nel 1935, «esattamente due anni dopo l’ambiguo discorso di rettorato di Heidegger»2, osservando come, «in questi suoi ultimi scritti, contemporanei alla crisi della Repubblica di Weimar e alla presa di potere nazista, Husserl, occupandosi del ‟destino” della filosofia ne svincola lo sviluppo dalla superficialità germanica, parlando sempre di ‟Europa” e di ‟umanità europea”. Per comprendere il coraggio, e la portata ideologica di questa posizione, si dovrà notare che in questi stessi anni, e particolarmente nel suo discorso di Rettorato, Heidegger parla sempre di Germania e di filosofia tedesca»3. Questa esplicitazione di Franzini si trova in nota ad un paragrafo nel capitolo intitolato L’ombra di Husserl: la fenomenologia e il mondo moderno. Nel contesto fenomenologico attuale, soprattutto in quello italiano grazie alla cosiddetta Scuola di Milano, continua ad essere notata l’importanza di Husserl per una “filosofia politica”; tuttavia non sono a conoscenza di studi approfonditi che sviluppino una “rigorosa fenomenologia del politico” a partire da Husserl. La difficoltà più grande sta probabilmente nella non sistematicità della descrizione effettuata dello stesso Husserl. L’analisi del presente articolo, quindi, tenterà, seppur in minima parte, di ricreare alcune di queste tematiche, come appunto quella riguardante il mestiere del filosofo. A questo scopo verrà sottolineata direttamente la posizione husserliana, utilizzando esclusivamente i testi dell’autore, a volte riportati per mezzo di lunghe citazioni. Come considerazione introduttiva, inoltre, deve essere presa in esame la portata stessa della sfida fenomenologica, che per essenza tratta un sapere che si orienti, per così dire, senza bussola tra le fitte complessità degli argomenti. Effettivamente Husserl propone di non utilizzare concetti filosofici tradizionali, ma di verificarli proprio attraverso l’atto stesso dell’orientarsi. Affinché, dunque, il fenomenologo possa descrivere “Europa che afferra le stelle”, deve incontrare la sua “stella polare” nel confuso mare della filosofia politica. La confusione, perciò, diviene quasi la condizione di possibilità per l’utilizzo di nuovi strumenti, per orientarsi meglio, se tale attività viene portata avanti con consapevolezza. «Non somigliano forse la comunità di filosofi e le generazioni di filosofi a chi, ‟nella sua buia tempesta” – seppure attraverso molteplici errori e confusioni –, è cosciente della ‟giusta” via? La filosofia entra in scena nel mondo umano sempre 2 Elio Franzini: Fenomenologia. Introduzione tematica al pensiero di Husserl, Milano: Franco Angeli, 2007, 95. 3 Ivi, 95; il corsivo è mio. InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #2 Rivista di Filosofia e Culture muovendo da qualche motivazione storica, come proposito di nuovo genere, vale a dire, come un nuovo genere di idea operativa (di nuovo genere significa non come il tradizionale tipo di propositi che sono già realizzati nelle opere). Essa ha una ‟fondazione originaria” in quelle personalità che, ‟nella buia tempesta”, cercano di realizzarla nelle opere. Nella vaghezza è implicito dunque qualcosa come un’evidenza o, meglio, come l’evidenza della possibilità di giungere veramente ad una realizzazione di fatto»4. A discapito, quindi, di una possibile confusione, ma a vantaggio della probabilità di scoprire, vagando, nuove terre da esplorare, va qui tenuta in considerazione la sostanziale differenza tra il concetto di “politica reale”, descritta da Husserl pressoché sempre in maniera critica, e quello di “politica fenomenologica”. La prima identifica la politica meramente ideologica e partitica dei «fautori della Realpolitik», per i quali «si è perduta la fede nel dominio di una ragione [… e per i quali] l’uomo si getta in braccio all’egoismo e, politicamente, al moloch dell’idea di potere, e abbellisce il proprio idolo (talvolta in forma nazionalistica) con fraseologie idealistiche che, secondo la loro originaria fonte di senso, provengono dalla fucina delle idee eterne che nella loro pura forma stanno in totale opposizione a tutte le forme di egoismo»5. La politica fenomenologica, invece, descrive la dimensione più basilare della “sfera del politico”, ovvero la partecipazione ad un’idea – vista, quindi, in possibile contrasto con l’ideologia – come un principio originario di possibilità comuni. Ancora più pregnanti diventano oggigiorno le parole di incipit al primo articolo di Husserl scritto per la rivista giapponese Kaizo, datate 1923: «[r]innovamento è l’appello generale nel nostro tormentato presente, e nell’intero ambito della cultura europea. La guerra, che dal 1914 l’ha devastata e che dal 1918 non ha fatto che sostituire i mezzi della coercizione militare con quelli più ‟raffinati” della tortura psicologica e dell’indigenza economica, non meno depravanti dal punto di vista morale, ha rivelato l’intima non verità e insensatezza di tale cultura. Proprio questa rivelazione, però, finisce per impedire che essa dispieghi appieno la sua autentica forza»6 . #4 Edmund Husserl: Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Ergänzungsband: Texte aus dem Nachlassß (1934-1937), Hua XXIX, Dordrecht/ Boston/London: Kluwer Academic Publishers, 1993, trad. it. parziale di Nicoletta Ghigi, La storia della filosofia e la sua finalità, Roma: Città Nuova, 2004, 116; il corsivo è mio. 5 Edmund Husserl: Aufsätze und Vorträge (1922-1937), Hua XXVII, Dordrecht/Boston/London: Kluwer Academic Publishers, 1989, trad. it. parziale di Corrado Sinigaglia, L'idea di Europa, Milano: Raffaello Cortina, 1999, 135. 6 Ivi, 3; il corsivo è mio. InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #3 Rivista di Filosofia e Culture L’“idea di Europa” in Husserl non si avvicina, perciò, all’ingenuo concetto di “Europa politica”; molto più affine risulta, invece, l’enigmatica figura di Europa rappresentata a Breisach: fuori, in piazza, di fronte alla sede politica della città una donna, mezza astratta e mezza concreta, collega cielo e terra in una dinamica che raggiunge le stelle. Questa statuaria Europa muove l’Europa politica decisa tra le mura del comune; è lei che direziona, che orienta e conduce le politiche discussioni. Secondo Husserl, infatti, «[u]na nazione, un’umanità, vive e opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in se stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura; se, dunque, non si limita a vivere, ma aspira a qualcosa che considera grande, e trova appagamento solo quando riesce progressivamente a realizzare valori genuini e sempre più elevati. Essere degno di appartenere a un’umanità simile, cooperare a una tale cultura, contribuire ai suoi valori edificanti, rappresenta la felicità di ogni uomo operoso e lo solleva dalle preoccupazioni e dalle sventure individuali»7. Al fine dello sviluppo della tematica qui proposta, ovvero l’Europa ed il filosofo secondo Husserl, risulta fondamentale il tener presente la struttura di validità, che sta alla base della fenomenologia del politico in Husserl. Secondo le mie ricerche, la sfera politica poggia su quella etica. Ciò equivale a dire, che un’impostazione fenomenologica ben fondata deve partire secondo Husserl dall’etica, base per una politica fenomenologica, a sua volta fondamento di una politica reale fenomenologicamente coerente. Una direzione contraria descrive una fondazione non fenomenologicamente rigorosa, sulla cui validità si deve dubitare8 . Da qui parte la proposta descrittiva del presente articolo, che vorrebbe essere non una sostituzione dell’analisi della sfera politica con quella dell’etica, quanto un esempio di delineazione della relazione tra l’Europa e il filosofo, questa volta a partire non dall’aspetto politico, quanto da quello più evidentemente etico, che ne sta alla base. «Per poter comprendere la confusione della “crisi” attuale [è] indispensabile elaborare il concetto Europa in quanto teleologia storica di fini razionali infiniti; [è] indispensabile mostrare come il “mondo” europeo sia nato da idee razionali, cioè dallo spirito della filosofia»9. Innanzitutto, perciò, verrà riportata la ricostruzione di quello che Husserl identifica come la nascita storica dell’Europa con il sorgere della filosofia; poi la descrizione fenomenologica del filosofo verrà trattata sotto quattro punti di vista principali, quello del “rivoluzionario inconsapevole”, dello “scienziato in divenire”, del “rischiamo della tragicità” e di “noi europei”. Si deve inoltre tener ben presente, che queste analisi non si riferiscono a modalità diverse dell’essere filosofo o di essere europei, quanto ad aspetti prospettici, che appartengono tutti allo stesso fenomeno: il filosofo, che a sua volta costituisce l’Europa, intesa come la comunità dei 7 Ivi, 3; il corsivo è mio. Per tutte queste tematiche, riguardanti una fenomenologia del politico – con la differenziazione tra ‛politica reale’ e ‛politica fenomenologica’ – e la sua fondazione fenomenologica sulla sfera dell’etico, cfr. le mie previe ricerche sintetizzate in Sara Pasetto: “La politica dell’‛Europa’ nella fenomenologia di Edmund Husserl”, Segni e comprensione, XXIII, 68, 2009, 7-20. 9 Husserl, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, 91. 8 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #4 Rivista di Filosofia e Culture filosofi. L’approccio etico, che sottolineerà la figura del filosofo invece di quella dell’Europa, non dovrà, perciò, apparire fuorviante: non è il filosofo ad essere alla prova dell’Europa, né l’Europa alla prova del filosofo – se non altro l’Europa secondo Husserl; a prova è la loro relazione, qui descritta nel suo aspetto etico come un’enigmatica sfida filosofica. Non risulterà allora, quello del filosofo, proprio il primo essenziale passo nella realizzazione concreta dell’Europa? L’universo di Babele Nell’ingenuo immaginario collettivo il filosofo vive come in una “torre eburnea”, il suo mondo risulta diverso da quello, appunto, comune. La domanda fenomenologica essenziale non tratta, a questo punto, la verità o la falsità di questa immagine, quanto in che modo il filosofo sia “straniero”. Da outsider, il filosofo è da considerarsi un “estraneo” che non conosce il “luogo comune”, o uno “strano” che, conoscendolo, ne circumnaviga i confini, aprendo varchi per nuovi spazi? Nel manoscritto La teleologia nella storia della filosofia (Teleologie in der Philosophiegeschichte), successivo alla stesura de La crisi, Husserl descrive ciò che, a mio avviso, può intendersi come l’essenza del compito del filosofo: «Doveva venire un filosofo che divenisse cosciente del fatto che il possesso del compito filosofico tramandato dalla tradizione, acquisito dalla scuola o dall’insegnamento dei testi, non decreti ancora la possibilità evidente del compito e neppure, eo ipso, il metodo dato soltanto insieme a questa evidenza intellettiva; un filosofo che cioè divenisse cosciente anche del fatto che la filosofia può essere effettuata soltanto come proposito personale, ossia come qualcosa da giustificare di persona e mediante una personale azione responsabile. Ed ancora: un filosofo che, da questo momento in poi, avesse motivo di elevarsi criticamente non soltanto oltre la tradizione filosofica (e quindi, riguardo ad essa, di esercitare in primo luogo un’epoché), bensì anche prima, cioè anche riguardo al proprio compito che guida la sua vita professionale – poiché, anche in esso, è implicito un pregiudizio che proviene dalla tradizione, relativo all’effettuabilità ed, eventualmente, alla metodica già esercitata, che proviene anch’essa dalla tradizione»10. Della filosofia, quindi, la fenomenologia husserliana non ne sottolinea l’innovazione strettamente filosofica, intendendo come tale le novità intellettuali legate alla disciplina, ma la “rivoluzionaria trasformazione esistenziale” avvenuta nella storia dell’umanità11. Com’era, allora, la vita prima della filosofia? L’uomo viveva attraverso conoscenze «condizionate dalla situazione o, meglio, tradizionalmente fondate»12 , cosa che, sottolinea prontamente Husserl, «in nessun modo deve essere un difetto o 10 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 108; il corsivo è mio. Cfr. Edmund Husserl: La storia della filosofia e la sua finalità. 12 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 89. 11 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #5 Rivista di Filosofia e Culture contrassegnare una manchevolezza»13. La domanda, che quindi ci si pone – oggigiorno ancora quanto mai attuale – è la seguente: nella vita quotidiana, quella di tutti noi al mercato della città o in farmacia, è rilevante la filosofia? «Il mercato (e, più precisamente quello di Friburgo nel nostro presente) ha una sua verità di mercato, la farmacia una sua verità relativa alla farmacia, la vita politica in città e nello Stato (quello attuale) la sua verità politica, ecc. Essa è comune a noi tutti, per noi tutti ben familiare, ossia comune a tutti noi che siamo cresciuti nella stessa comunità, vale a dire, nella stessa tradizione. ‟Ognuno” (sempre riferito ad un tale Noi) sa come effettivamente le cose si svolgono al mercato ed allo stesso modo in qualsiasi altra situazione familiare. Egli sa cosa bisogna decidere razionalmente in ogni situazione vera o falsa e quali sono le ragioni o le differenze rilevanti o irrilevanti, a tale riguardo. Per una libbra ritenuta come vera al mercato sono irrilevanti le differenze di grammi, per un giusto cubito non è importante la misura di un pollice, la quale unità di grandezza, invece, è decisamente essenziale in farmacia» 14. Se, dunque, nella vita di tutti i giorni sono sufficienti le conoscenze situazionali supportate dalla tradizione, «si impone la questione concernente l’utilità di questa nuova conoscenza acquisita dall’umanità»15. Come mai, infatti, l’uomo è diventato filosofo? Quale motivazione, che «rende visibile un plus ultra»16 , si cela in tutto ciò? Il fatto storico riguarda la culla della filosofia – e con essa secondo Husserl dell’Europa –, ovvero «l’antica Grecia del VII e del VI secolo a. C.»17 ed i suoi contatti commerciali con popoli stranieri; accadde, infatti, che differenti nazioni condivisero degli interessi pratici. «[Ed è appunto proprio la] forma da sempre familiare della quotidianità, in cui ha luogo la normale vita pratica […] che è prima di tutto ridotta in frantumi, quando l’essere umano, dal suo spazio vitale nazionale, entra in quello di una nazione straniera»18. Lo sgretolarsi della “normalità” produce una reazione a catena, che conduce alla necessità di (ri)conoscere l’identità, innanzitutto la propria. Questa, però, non è più possibile considerarla come assoluta; ora non può che essere ridefinita in relazione alle altre identità. Attraverso la percezione di culture diverse, quindi, è proprio la differenza che viene posta in questione, che assume un rilievo di spicco. E l’incontro si dà con lo scontro: tutto inizia infatti col disprezzo ed il rifiuto. «Il greco prova disprezzo per i barbari ed, inoltre, le mitologie a lui estranee […] valgono per lui innanzitutto, appunto, come barbariche, come stupide, come false di principio»19 . Eppure, con il tempo, la curiosità la fa da padrona: «[i]mparando a conoscere molti popoli stranieri ed essendo ricondotti dal precedente interesse per la propria storia a quella dei popoli circostanti stranieri, 13 Ivi, 89. Ivi, 89; il corsivo è mio. 15 Ivi, 90. 16 Ivi, p. 91. 17 Husserl, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, 56. 18 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 92. 19 Ivi, 91; il corsivo è mio. 14 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #6 Rivista di Filosofia e Culture sorge un proprio interesse per un’autocomprensione della propria esistenza nazionale, nei confronti delle particolarità degli stranieri»20 . Anche ciò che può sembrare più intimo ed unicamente caratterizzante, come ad esempio la religione, trova essenziali similarità negli altri popoli, un’uguaglianza di validità che, per differenziarsi, necessita della tradizione particolare dei singoli gruppi umani. Questa, dunque, non scompare dall’orizzonte d’interesse, anzi; alla tradizione viene aggiunta una connotazione, quella della “ricchezza dell’alterità”. «Si tratta certamente dello stesso sole, della stessa luna, della stessa terra, dello stesso mare, ecc., che diviene oggetto del mito così in maniera diversa nei diversi popoli, a seconda, certamente della loro tradizione»21. Le “invasioni barbariche”, penetrando la normalità, ovvero la vita condotta in conformità alla tradizione, rendono possibile una vita il cui orizzonte sia il mondo, ovvero una vita condotta in conformità con l’universo. «Con ciò dunque si compie un’autentica rivoluzione nella costituzione del senso del mondo. Prima il mondo era comprensibile per ognuno a partire dalla sua tradizione nazionale come mondo circostante infinitamente aperto e, anche relativamente alle regioni sconosciute, l’essere insito in esse in maniera completamente indeterminata, era comunque anticipato nell’aderenza ad un senso della tradizione. Ora, invece, il mondo è l’universo di tutte le cose identiche, dell’‟essente” nel nuovo senso filosofico, il cui essere proprio è ritenuto diverso da tutte le apprensioni tradizionali» 22. La tradizione, la «trasmissione ingenua»23 non parla più per il mondo, ora è il mondo stesso che, attraverso le tradizioni, parla. E lo fa con lingue differenti. Se, dunque, prima la tradizione rappresentava tutto il mondo conosciuto, ora invece è proprio la tradizione nazionale, quella più propria, la “nostra” a mostrarsi come la “torre d’avorio” dentro la quale si stava rinchiusi. La “torre di Babele”, nella quale «[t]utta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole»24 – le “nostre”, quelle che permettevano l’ingenuo soliloquio della tradizione del “noi” –, presenta fratture createsi senza aver scomodato la divina provvidenza; in vece sua si utilizzò l’umana filosofia. Il risultato, infatti, di questa primissima epoché rispetto all’assoluta validità delle conoscenze tradizionali si mostra come un’ouverture ad una nuova impostazione esistenziale, quella della filosofia. Implica tutto ciò anche la possibilità di un nuovo tipo di “noi”? Secondo Husserl questa dimensione è possibile non più a partire dal “si” impersonale della tradizione, quanto da un “io” libero di scegliere di volta in volta, sempre e di nuovo che tipo di persona essere rispetto a se stessa e, da ciò, essere essa stessa un fondamento per la tradizione, per il “noi”. Il filosofo, infatti, non solo scopre la dimensione dell’universale, ma scorge in essa anche una validità basilare, che, appunto come un basamento, permette il radicamento più proprio di tutte le possibili tradizioni; 20 Ivi, 89; il corsivo è mio. Ivi, 91; il corsivo è mio. 22 Ivi, 93; il corsivo è mio. 23 Ivi, 94. 24 Conferenza Episcopale Italiana (CEI): Bibbia, Bible Gateway Online, 13-11-2016, https:// www.biblegateway.com/passage/?search=Genesis+11&version=CEI, Gen. 11/1. 21 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #7 Rivista di Filosofia e Culture attraverso l’universale egli in prima persona può condividere la validità di tutte le tradizioni. La filosofia intesa da Husserl, quella che trova origine in Grecia e che dà vita all’Europa, non prevede, quindi, un’astrazione dal mondo, quanto un’universalizzazione che concretizza il mondo. Il mondo non si riduce più ad un’unica torre, ma diviene percepibile come un universo di torri di Babele – che siano o meno d’avorio e con più o meno crepe. Ciò che accadde in Grecia fu un’evidenza originaria, l’origine di un principio nuovo, il principio concreto di nuove possibilità comuni. Da allora la vita è accompagnata da «un’evidenza effettivamente realizzata, cioè […] una evidenza della pienezza che non “dimostra” l’evidenza provvisoria, ma la rende utilizzabile, feconda per gli intenti alti e vasti che qui sono in gioco»25 . «Abbiamo così delineato nelle linee essenziali, sebbene un po’ schematicamente, quella motivazione storica che poteva far sì che un paio di greci stravaganti dessero l’avvio a una trasformazione dell’esistenza umana e di tutta la sua vita culturale, dapprima all’interno della loro nazione e poi di quelle vicine»26. Il rivoluzionario inconsapevole Cosa significa, però, che quest’evidenza sia fruibile? Le fessure nella nostra torre non sono segni inequivocabili dell’imminente crisi, un preludio alla rovina? Come può la filosofia essere un solido basamento per una torre, i cui punti di cedimento risultino dei varchi verso nuovi spazi, dei fecondi solchi in nuovi terreni? Se la filosofia nasce con la messa in discussione della tradizione, come è possibile che essa possa fungere da sostegno per la tradizione stessa? Il problema si nasconde, a mio avviso, nella molteplicità di prospettive che si creano proprio grazie a queste fratture. Alla tradizione – della quale, come si è visto, fanno parte tutti i saperi situazionali come quello economico, politico, istituzionale, religioso, ecc. – è proprio solo un conoscimento di tipo pratico. L’arte degli stivali, ad esempio, «quelli che spetta produrre al calzolaio, secondo il suo mestiere»27, viene tramandata di generazione in generazione, in modo che il calzolaio “sa cosa deve fare”. Nel caso di uno “shock culturale” per il quale si è a contatto con altri modi di fare, diverse maniere di produrre stivali o di amministrare uno stato, questo sapere viene praticamente messo in discussione. La tradizione vive una situazione di contrapposizione fra diversi saperi, che, dal suo punto di vista, non possono che essere automaticamente gli uni contro gli altri secondo il modello dell’out-out. Per quanto l’atteggiamento filosofico sia sorto storicamente proprio in risposta ad uno “shock culturale”, alla nascita della filosofia – addirittura un nuovo tipo di sapere, quello teorico – come avrà mai classificato la tradizione il mestiere del filosofo, di colui che solamente “sa di non sapere”? Automaticamente come “non pratico”. «Infatti, già nel significato analitico del compito della filosofia stessa, è implicito il fatto di essere un compito della conoscenza [Erkenntnisaufgabe] nella forma di una contrapposizione 25 Husserl, “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, 463; il corsivo è mio. Husserl, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, 76. 27 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 60. 26 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #8 Rivista di Filosofia e Culture [Frontstellung] ad ogni altra forma particolare di conoscenza che rimane nella vita preed extra-scientifica del mondo»28 . Non solo, quindi, il filosofo risulta sospetto in quanto offre una conoscenza sostitutiva a quella tradizionale, ma essa viene per di più percepita come inutile! Effettivamente la filosofia si mostra nella sua teoresi, come ricerca della conoscenza, la quale, non appartiene ancora al filosofo, al ricercatore: ciò «contraddistingue il compito filosofico o, meglio, il mestiere del ricercatore [Wissenschaftlerberuf]»29 in contrasto con gli altri mestieri, che già posseggono una conoscenza, tramandata nella prassi tradizionale. «Così, dunque, sorse un nuovo modello di “mestieri”, certamente inutili dal punto di vista pratico per il common sense, sebbene legati alle loro epoche, analogamente agli altri mestieri (ad es. a quelli artigianali), proprio nella prassi»30. Tuttavia, corrisponde questa impostazione della tradizione, del common sense a ciò che prima è stata descritta come la fondazione storica originaria della filosofia? Veramente la filosofia si propone di essere contro la tradizione? Al contrario: questo non-sapere del filosofo significa che, «poiché non so, non penso nemmeno di sapere»31, uscendo appunto dalla logica del contrasto tra conoscenze ed aprendo alla dimensione del confronto. Se, dunque, nell’impostazione ingenua della tradizione la contrapposizione (Frontstellung) suppone il contrasto tra due opposti, nella prospettiva filosofica invece diviene il confronto fra differenze. Questo, che sia tra diverse religioni, modi di produrre stivali, lingue straniere, ecc., è la base per percepire la fessura della nostra torre, non come una crepa, una spaccatura della tradizione, ma come un varco, una finestra che mostra del nuovo, che può essere utile attuare o meno. Come quando, sapendo parlare più lingue straniere, si ha la libertà di scegliere di volta in volta con che parole esprimersi, non cancellando una lingua a vantaggio dell’altra; la tradizione del “noi” di provenienza, pur perdendo l’assolutezza di validità, non viene annullata, come accade infatti per la lingua madre, che non viene dimenticata, ma al massimo arricchita di neologismi. Colui che è chiamato di persona a confrontare, possiede, quindi, la libertà della scelta, appunto non già determinata in assoluto dalla tradizione. Secondo Husserl questo compito del confronto e della scelta è ciò che identifica l’essenza dell’atteggiamento filosofico, ovvero la continua scoperta di nuove sfere di libertà. «Ci possiamo ‟liberamente” esimere da un agire-collettivo, dalla tendenza passiva dell’assumere incondizionato […] questa e, così, ogni tradizione […] Ma siamo in grado di fare ben altro. Possiamo liberamente riflettere se dobbiamo sottrarci o meno a quella aspettativa qualora, nel nostro orizzonte esperienziale, si presenti qualcosa di sfavorevole […] In tale maniera, ci poniamo al di sopra della tradizione e così non ci lasciamo più trascinare passivamente dall’aspettativa che nutriamo nei suoi confronti e, quindi, dalla tendenza a cederle»32. 28 Ivi, 78. Ivi, 78. 30 Ivi, 60; il corsivo è mio. 31 Platone: “Ἀπολογία Σωκράτους”, I, in Enrico V. Maltese, cur.: Tutte le opere, Roma: Newton, 1997, 73 (21 d). 32 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 73-74; il corsivo è mio. 29 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #9 Rivista di Filosofia e Culture Quello che non riesce più a garantire la tradizione, ad esempio la validità assoluta dell’identità situazionale (che sia nazionale, religiosa ecc.), non è da considerarsi il segno di una sua non validità a priori, ma l’apertura teoretica ad una rinnovata o alternativa sfruttabilità possibile. Si schiude in questo modo il campo di «quella verità pratica che si chiama teoretica»33, nel quale «[a]ll’autonomia teoretica succede quella pratica»34 . Il filosofo, quindi, non boicotta la conoscenza pratica, anzi, attraverso la teoria le dà una rinnovata validità. Con l’autonomia individuale rispetto alla tradizione, però, egli attua inconsapevolmente una rivoluzione: grazie alla teoria, infatti, viene inevitabilmente inserita nella pratica la libertà personale, per cui, se voglio, posso cambiare. «Coloro che, da un punto di vista conservatore, sono soddisfatti della tradizione entreranno in conflitto con coloro che appartengono all’ambito filosofico, e tale lotta avverrà sicuramente anche nella sfera del politico. La persecuzione incomincia già con gli esordi della filosofia. Gli uomini che vivono per quelle idee sono guardati con sospetto. E tuttavia, le idee sono più forti di qualsiasi forza empirica»35. Proprio grazie all’universalizzazione, il ‟mestiere del filosofo” (Philosophenberuf) delineato da Husserl lega teoria e prassi, per cui nella fenomenologia il compito di conoscenza teorico del filosofo è, per essenza, molto pratico: una inconsapevole rivoluzionaria attività di libertà. La filosofia è un «cambiamento totale di atteggiamento»36 , grazie al quale il filosofo non è più focalizzato alla sua momentanea realizzazione, come ‛acquisizione umana’ «ossia come suo “possesso” [Habe]»37 , quanto a ciò che viene prima (vor) dell’attualizzazione, ovvero al ‟proposito” (Vorhabe)38. Attraverso il proposito egli progetta razionalmente la sua vita: «[a] questo voler-vivere e poter-vivere, come parte fondamentale di questo stesso vivere, serve dunque la conoscenza […] La conoscenza di per sé è un proposito ed una operazione […] che è in grado di elevarsi, oltre tutti i propositi pratici della vita e, appunto per ciò tramite, è funzionale a questi propositi, ovvero al voler-vivere ed al potervivere»39. L’investigazione teorica del filosofo lo arricchisce delle possibilità pratiche, ovvero di ciò che ancora non è, ma può divenire. Se lui vuole. Più egli, perciò, diviene consapevole di se stesso, più risulta contemporaneamente inevitabile la rivoluzione di prospettiva che, inconsapevolmente attraverso se stesso, egli dona alla tradizione. 33 Ivi, 105. Husserl, “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, 37. 35 Husserl, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, 74. 36 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 70. 37 Ivi, 84 e cfr. seguenti. 38 Cfr. Edmund Husserl: La storia della filosofia e la sua finalità. 39 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 87; il corsivo è mio. 34 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #10 Rivista di Filosofia e Culture Lo scienziato in divenire Attraverso il “cosciente divenire di se stesso”, è l’esperienza in sé del filosofo che assume una validità universale, in quanto «via che per essere stata veramente praticata è sempre di nuovo praticabile»40. Secondo Husserl, infatti, la scientificità della filosofia sta nella sua validità come percorso “per tutti”; non intesa, però, come obbligatorietà generale, quanto come possibilità universale. «La filosofia, in quanto teoria, non rende libero soltanto il filosofo, ma rende libero anche qualsiasi uomo che si sia formato sulla filosofia»41. La rigorosa essenza di quest’ultima consiste proprio nella possibilità “per tutti e in ogni tempo” di essere rinnovata nella sua idea originaria. Nella fenomenologia la filosofia si rivela scienza. «[L]a filosofia, in quanto saggezza mondana, ha assunto la forma della filosofia come scienza universale e rigorosa, in cui la ragione [Vernunft] si è plasmata e oggettivata nella figura del ‟logos”»42. Ma come si oggettiva la ragione nel logos? Grazie all’ascolto di questa ragione, che si esprime nelle ‟cose stesse”; in questo modo la ragione diviene una voce, un logos che il filosofo può percepire. Il filosofo è, dunque, colui che partecipa di questo dialogo razionale con le cose stesse. «La gloria imperitura della nazione greca non è dovuta soltanto all’aver fondato una filosofia nella forma di una cultura determinata da un interesse puramente teoretico, ma all’aver compiuto […] la creazione, unica nel suo genere, dell’idea della scienza logica […] In tal modo il concetto di logos, nel senso di una ragione autonoma e, innanzitutto, teoretica, quale facoltà di un giudicare ‟disinteressato” che, in quanto giudicare sulla base della pura comprensione evidente, presta ascolto unicamente alla voce delle cose ‟stesse”, prende la sua versione originaria e al contempo la forza destinata a dar forma al mondo»43. Con ciò l’uomo (Mensch) diviene filosofo e dà vita ad una “metamorfosi logica”. Seguendo il logos della ragione l’uomo si soggettivizza nel filosofo, che può formare il mondo oggettivizzandosi nello scienziato. Si tratta qui della cosiddetta “oggettività soggettivo-relativa” analizzata da Husserl ne La crisi, secondo la quale l’oggettività corrisponde all’auto-oggettivazione relativa ad ogni io-soggetto. Non più passivamente pre-costituito dalla tradizione, infatti, l’io si fa soggetto nel dialogo, concretizzando attivamente se stesso e divenendo così a sua volta un oggetto originario, visibile nel suo divenire. Non essendo più una mera copia della tradizione, si mostra nella sua originalità, nella sua più propria libertà di scelta, quella dell’autocostituzione attiva. Emergendo dall’uniformità diviene qualcosa di 40 Husserl, “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, 150. Ivi, 37. 42 Husserl, “L’idea di Europa”, 66. 43 Ivi, 98; il corsivo è mio. 41 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #11 Rivista di Filosofia e Culture percepibile e fruibile anche dagli altri: l’uomo in quanto filosofo diviene un oggetto per il mondo, uno scienziato in divenire. La scientificità sta nella ripetibilità di questo fenomeno, non però in quanto sterile ritorno dell’uguale, ma come riattivazione originaria. Quest’ultima è l’attivazione della possibilità di ascoltare in maniera disinteressata, che dà appunto origine alla scienza fenomenologica. Il compito del filosofo in quanto scienziato risulta, quindi, quello di rendere questo logos ragionale (vernünftig) da lui esperito, anche un logos intellettuale (verständlich), in modo che esso possa essere ri-compreso (Nach-Verstehen). «Solo in questo modo la conoscenza scientifica può diventare patrimonio comune [Gemeingut], e quanto è stato stabilito una volta può sussistere ‟oggettivamente” per chiunque, nel senso di un qualcosa che chiunque può comprendere in maniera evidente e, perciò, considerare identico»44. La ricomprensione a sua volta offre ad altri una motivazione per la possibile scelta dell’esperienza di questo logos: vivendo in prima persona tale logos intellettuale lo si renderebbe nuovamente un logos razionale. L’oggettività fenomenologica non è, dunque, da confondere con quella ‟positiva” delle scienze naturali (Naturwissenschaften), per le quali è sufficiente dedurre: «[l]’obiettivismo filosofico nella sua forma moderna, con le sue tendenze fisicalistiche e con il suo dualismo psico-fisico, […] si sente benissimo nel ‟sonno dogmatico”»45 . Al contrario, nella fenomenologia «[n]on importa garantire le nozioni obiettive, quello che conta è comprenderle […] Dedurre non equivale a spiegare […] L’unica reale spiegazione è la comprensione trascendentale»46. Il filosofo secondo Husserl, cioè il fenomenologo, è chiamato per tutta la vita e attraverso la sua vita a mostrare (aufweisen) le sue teorie; con ciò egli le verifica, le rende vere. Il suo mestiere è di rendere le teorie comprensibili, non di dimostrarle (beweisen). Questo mestiere si rivela, perciò, un compito di vita, per il quale si vuole dover essere svegli e non dormire il “sonno della ragione”. La razionalità dell’uomo filosofico, ovvero dello scienziato fenomenologico, non è la «cattiva razionalità (schlechte Rationalität) della ‟ragione pigra” (faule Vernunft)»47 . Cosa significa allora essere svegli? «Vivere desti vuol dire essere desti di fronte al mondo, essere costantemente e attualmente ‟coscienti” del mondo e di se stessi come di soggetti nel mondo, vivere realmente, attuare realmente la certezza d’essere del mondo»48 ; ovvero la vita del filosofo nel suo essere uno scienziato in divenire. «[L]a filosofia scientifica […] permette di conoscere la totalità delle realtà e delle possibilità in modo ultimativo, procura la comprensione del ‟senso” del mondo e pertanto, la possibilità di una vita che ha il carattere di una vita assoluta consapevole di sé e che vivendo realizza il senso assoluto del mondo, lo realizza nel conoscere, nel valutare [Werten], nelle forme estetiche creative e nell’agire etico in generale»49. 44 Ivi, 97. Husserl, “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, 215. 46 Ivi, 218. 47 Ivi, 45. 48 Ivi, 170. 49 Husserl, “L’idea di Europa”, 68-69; il corsivo è mio. 45 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #12 Rivista di Filosofia e Culture Il richiamo della tragicità La situazione di vita del filosofo come “rivoluzionario inconsapevole” e “scienziato in divenire” rivela di questo mestiere (Beruf) una certa obbligatorietà «per suo destino»50 . Secondo Husserl alla filosofia appartiene per essenza un richiamo (Berufung), che muove necessariamente il filosofo «da una vocazione interiore apodittica […] al riempimento del suo compito»51 . Si tratta, infatti, di un vero e proprio “imperativo categorico volontario”: «egli è filosofo, ovvero sta nell’apoditticità di dover volere la filosofia»52 . Ciò implica, che «[i]l suo dover-essere, il dover-essere che deriva da un’autoresponsabilità ultima, assoluta ed apodittica […] lo motiva […] ad una considerazione […] Prendere coscienza di me! Ecco, questo è già un nuovo inizio, il prender coscienza di sé, in questa situazione, è la ‟possibilità” primaria che permette <di> porre la filosofia in questione e <di> indagare sulle sue condizioni»53. D’altra parte questo sentore (Ahnung) che «lo afferra apoditticamente»54 è comune a «tutti i filosofi, i quali vivono e debbono vivere tutti apoditticamente»55. Questo “essere comune” tipico della filosofia si realizza, quindi, per ogni filosofo nella personale presa di coscienza; ma ci si prende coscienza di sé con gli altri? Se il filosofo, per essenza, è colui che “parte da sé”, deve essere di principio in solitudine: «ogni filosofo, che è il co-portatore di questo proposito [Vorhabe] intersoggettivamente identico e apodittico, persegue le sue vie e, in esse, ottiene la sua filosofia, quella che gli altri non sono in grado di riconoscere come la filosofia»56 . Tutto ciò si dimostra essere proprio «la peculiarità paradossale di una filosofia (la cui ‟possibilità” ha forse le sue difficoltà proprio in questo aspetto)»57 , il quale risulta inevitabile. Il filosofo è votato «per suo destino»58 alla filosofia: «[e]gli è filosofo – non certo perché è una bella cosa l’essere professore di filosofia o il poter diventare un uomo famoso; poiché se questo è il suo vero obiettivo, non è questa affatto la filosofia. Di principio, essa può essere obiettivo soltanto in una vocazione derivata da un imperativo categorico, la quale né egli né chiunque altro potrebbe avergli imposto dall’esterno ed il suo apodittico ‟devi” è il suo telos personale che gli inerisce, come suo ‟obiettivo di vita”, già 50 Husserl, “La storia della filosofia e la sua finalità”, 119. Ivi, 119. 52 Ivi, 120; il corsivo è mio. 53 Ivi, 120-121; il corsivo è mio. 54 Ivi, 120. 55 Ivi, 120. 56 Ivi, 122; il corsivo è mio. 57 Ivi, 123. 58 Ivi, 119. 51 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #13 Rivista di Filosofia e Culture prima che egli vi volesse pervenire (qualora vi pervenga), e già prima di formularlo come obiettivo di vita»59. Il telos della filosofia, come idea che regge la storia della filosofia, corrisponde, quindi, sempre e di nuovo ad un “auto-rinnovantesi io”: «[i]o, nel quale, proprio questo telos ha il luogo di un’esistenza effettiva, ovvero di una forza direttiva pratica ed apodittica. Il telos esiste a partire dal filosofo originariamente fondante in poi (esiste in quanto ricompreso e apoditticamente assunto dagli uni e poi dagli altri) ed esso esplicita la più profonda e particolare unità della comunità di tutti i filosofi, nell’unità della storia. Esso è parimenti il medesimo, la stessa idea di compito di tutti loro, il polo ideale identico verso cui, in un’assoluta διάϑεσις, essi sono diretti e concordi»60. Con una razionale realizzazione autonoma del suo io, il filosofo rinnova la filosofia. Quest’ultima, perciò, inizia sempre e di nuovo, mostrandosi quale principio in continuo divenire. Soltanto «con la realizzazione di un simile nuovo inizio» il filosofo «comprende in maniera autentica se stesso e questa certezza e supera la tragicità già consapevole [schon innegewordene Tragik] di una volontà incondizionata che vede predelineato, solo in apparenza, un eterno insuccesso»61. Effettivamente, quando il filosofo smette si giudicarsi sotto la lente astratta della Filosofia e si valuta, invece, attraverso la prospettiva vivente del filosofo, egli stesso, il filosofo, vive l’attuazione fenomenologica della Filosofia. Al fenomenologo non appartiene l’ingenua presunzione di una completa determinazione (Bestimmung) delle possibilità attualizzabili della Filosofia. La vuota determinabilità della Filosofia non appare più come un nulla da riempire completamente, ma come un fenomeno di possibilità concrete ancora da realizzare: una determinata indeterminatezza. Da un punto di vista trascendentale la Filosofia rimane, perciò, essenzialmente indeterminata, anche quando il filosofo con la sua propria esperienza la determina, poiché l’indeterminatezza della Filosofia si dimostra essere proprio la necessaria condizione di possibilità (Bedingung der Möglichkeit) per la determinazione di qualsiasi filosofo. Attraverso la sua stessa vita diviene, perciò, l’autodeterminazione del filosofo l’unica corrispondente realizzazione richiesta dall’indeterminata Filosofia. Solo attraverso se stesso il filosofo può esperire la Filosofia e con ciò realizzarla e contemporaneamente rinnovarla. Husserl vede come mezzo appropriato al filosofo per la sua autodeterminazione «la critica esercitata nell’epoché»62, ovvero l’auto-critica. Nella sua costante messa in discussione il filosofo rivive e così rinnova la «motivazione all’epoché»63 . Come descritto, infatti, il filosofo è colui che come impostazione di vita assume un «atteggiamento proprio dell’assenza di pregiudizi – nel senso, di porre fuori azione, 59 Ivi, 120-121; il corsivo è mio. Ivi, 120-121; il corsivo è mio. 61 Ivi, 129. 62 Ivi, 109. 63 Ivi, 129. 60 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #14 Rivista di Filosofia e Culture ovvero di rendere innocua, la tradizione»64 , compresa quella del sé. Ciò viene attuato da ogni filosofo in forma autonoma, ovvero ogni filosofo assume il proprio l’io come campo fenomenologico delle sue investigazioni. Alla critica appartiene, perciò, per essenza l’intenzione della trasformazione del proprio sé e non di quello degli altri. Grazie ad una critica di questo genere «il senso complessivo di ‟filosofia” [è] trasformato in maniera essenziale e, precisamente, tale che non rigetti quello antico, ma appunto lo trasformi soltanto in maniera tale che conferisce a quello il carattere relativo, il quale può conseguire un’identità definitiva soltanto nella consapevole considerazione della trasformazione»65. La tragicità del filosofo si dissolve quando l’evidenza dalla sua intuizione di Filosofia «si trasforma nell’evidenza più propria dell’esperienza, di offrire di per sé soltanto ciò a cui si tende»66 . E così per tutti i filosofi: «[s]e è vero che i filosofi non assumono l’uno dall’altro i propositi, i metodi, le filosofie fattualmente dati e che, allo stesso tempo, invece aspirano alla filosofia nella comunanza della stessa aspirazione filosofica e nell’influenza reciproca – cosa si dà allora, se non un’unità interna implicita in ognuno e vivente in tutte le filosofie, quand’anche non accolte dalla tradizione, la quale si trasmette mediante le ‟intuizioni” di quell’unica e medesima aspirazione – vale a dire quella della filosofia?»67 Noi europei Il mestiere del filosofo si svela, perciò, essere un autonomo compito comunitario. Il filosofo, infatti, assumendosi in maniera indipendente il compito della sua filosofia, si lega spiritualmente ad altri filosofi: i suoi predecessori, i suoi contemporanei, i suoi discendenti. «Qualsiasi filosofo compie le sue considerazioni in relazione con i filosofi del passato e del presente. Egli si pronuncia su tutti i problemi che gli si presentano, fissa, mediante queste discussioni, la propria posizione, giunge così alla comprensione del suo proprio fare, comunque siano sorte in lui le teorie che egli ha reso pubbliche, cosciente di ciò a cui tendeva»68. Ogni filosofo, che vive la Filosofia in questo modo, appartiene alla comunità filosofica. I componenti di tale comunità sono 64 Ivi, 108. Ivi, 125-126. 66 Ivi, 117. 67 Ivi, 116. 68 Husserl, “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, 101. 65 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #15 Rivista di Filosofia e Culture «uomini che, non nell’isolamento bensì nell’essere l’uno con l’altro e l’uno per l’altro, cioè nel lavorare in comune in modo collegato sul piano interpersonale, perseguono ed elaborano teoria, nient’altro che teoria. Con l’allargamento della cerchia dei collaboratori e nel succedersi delle generazioni di ricercatori, la crescita e il costante perfezionamento di tale teoria diventano infine una volontà, che ha il senso appunto di un compito infinito, comune e generale»69. A questo tipo di comunità filosofica Husserl dà il nome di “Europa”. «Il termine Europa allude evidentemente all’unità di una […] forma spirituale»70. La denominazione, quindi, trova le sue radici in una mera motivazione storica: «[l]a libera filosofia e la scienza come funzione dell’autonoma ragione teoretica nascono nella nazione greca e determinano nel movimento progressivo lo sviluppo di uno spirito generale di libera vita culturale fondato sull’autonoma ragione che si estende vittoriosamente oltre i confini di questa nazione e crea l’unità di una cultura ellenica, e con ciò lo specifico carattere europeo»71. La nascita dell’Europa in Grecia con l’entrata in scena della filosofia possiede, perciò, per Husserl un valore storico, ma relativo: «[o]vviamente, ciò va inteso cum grano salis»72. Come per la statua di Europa a Breisach, infatti, anche nella fenomenologia, la nomenclatura “Europa” non si riferisce al concetto meramente politico, bensì ad un’idea – «nel suo senso pregnante (platonico), uni’idea-forma [Formidee] universale di nuovo genere»73 . Husserl vede nell’Europa la comunità teoretica di sempre nuovi filosofi in costante divenire. Cum grano salis deve, perciò, essere intesa sia la dimensione spaziale del fenomeno Europa (la Grecia, l’Unione europea, ecc.), quanto la dimensione temporale. Quest’ultima indica sia la durata della vita di ogni filosofo, tempo in cui la comunità filosofica viene attivamente alimentata dalla singola filosofia del filosofo, sia l’essenziale atemporalità dello scambio filosofico generazionale. Il legame interpersonale del filosofo con gli altri componenti della comunità filosofica si basa sulla condivisione di un’idea filosofica. Questa compartecipazione avviene sul piano trascendentale della teoria: «l’origine della scienza greca va cercata nel fatto che singoli uomini erano mossi dall’interesse che noi diciamo puramente teoretico, dal puro amore per la conoscenza oggettiva, per la verità data nella comprensione evidente. La fissazione duratura della verità acquisita e la sua fondazione in forma letteraria hanno, per chi conosce, lo scopo non solo di poterla riattualizzare in ogni momento in maniera evidente, di potersi sempre e di nuovo allietare in essa, ma di poterne disporre quale premessa che è d’aiuto per la fondazione di nuove verità. La verità, una volta 69 Husserl, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, 63; il corsivo è mio. Ivi, 53. 71 Husserl, “L’idea di Europa”, 81. 72 Ivi, 99. 73 Ivi, 99. 70 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #16 Rivista di Filosofia e Culture acquisita, diviene così possesso e bene [Gut] permanente. Questa fissazione, inoltre, serve alla trasmissione ad altri i cui interessi conoscitivi vengono così destati e permettono loro di condividere le stesse evidenze e le stesse gioie […] il bene spirituale è di per sé patrimonio comune [Gemeingut], la gioia gioia comune, dunque gioia raddoppiata […] – finché non subentrano interessi egoistici che guastano la purezza dell’aspirazione ‟filosofica”»74. Diventando filosofo e donando la sua filosofia come scienza, l’uomo sceglie di essere egli stesso un bene: attraverso la sua vita scientificamente filosofica risulta un valore, che a sua volta può essere assunto come comunitario, ovvero condiviso da un altro uomo che si fa filosofo a sua volta. Con la Filosofia l’uomo si rivela un valore, un bene per sé e per gli altri. La filosofia teoretica husserliana si mostra, dunque, come una prassi di vita quotidiana, un’impostazione di «vita razionale dell’uomo, che è eo ispo sociale»75 , rendendo possibili «i valori “etici”, i valori personali, individuali e comuni»76 . Il filosofo è un mestiere autonomo, ma nell’Europa descritta da Husserl non si tramuta «in un lavoratore dedito unicamente a un grande ingranaggio»77 . Al contrario, la realizzazione del filosofo è già il porre in divenire la comunità filosofica, l’Europa. «[C]’è una filosofia, e più precisamente una filosofia della prassi razionale di vita, che comprende una filosofia dei valori […] Al sapere autentico segue l’azione. Al sapere autentico, vale a dire: soltanto colui che, in prima persona, nel lavoro teoretico proprio della ragione […] possiede quell’autentico sapere che motiva realmente la volontà. In questa svolta, naturalmente, è in nuce innanzitutto lo sviluppo dell’etica»78 . Ed ecco come, nell’Europa di Husserl, l’etica individuale vale contemporaneamente come etica sociale. L’Europa fenomenologica è formata dalla libera volontà di ogni uomo che, fattosi filosofo, è autonomo. Questo tipo di volontà trova origine direttamente da ogni iosoggetto autonomo, per cui la «comunità filosofica [è], per così dire, comunistica [kommunistisch] e l’idea guida [Leitidee] non [è] retta da alcuna volontà sociale onnicomprensiva»79, come invece accade in una comunità di tipo «imperialistica […] dominata da una volontà unitaria [einheitlichem Wille]»80 . Secondo la mia interpretazione della fenomenologia husserliana, ciò corrisponde ad «eine Ethik von 74 Ivi, 99-100; il corsivo è mio. Ivi, 103. 76 Ivi, 100. 77 Ivi, 127. 78 Ivi, 102; il corsivo è mio. 79 Ivi, 106; il corsivo è mio. 80 Ivi, 106; il corsivo è mio. 75 InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #17 Rivista di Filosofia e Culture unten»81, un’etica che proviene dal basso. La portata di una tale idea è una fondazione fenomenologica, secondo la quale è il filosofo a fare l’Europa e non l’Europa a modellare il filosofo, o per la quale è l’Europa ad essere alla base dell’Unione europea e non viceversa. Da non confondere, dunque, con la Realpolitik dell’Unione europea – per quanto non per forza in suo contrasto –, la politica fenomenologica dell’Europa di Husserl poggia sull’«imperativo culturale categorico»82: «[l]a forma spirituale dell’Europa»83 è «[l]a cultura fondata sulla libera ragione [Vernunft]»84 , dimensione d’essere del filosofo. 81 Edmund Husserl: Vorlesungen über Ethik und Wertlehre 1908-1914, Hua XXVIII, Dordrecht/Boston/ London: Kluwer Academic Publishers, 1988, 414. Di questo vol. XXVIII dell’Husserliana esiste una traduzione italiana parziale di Paola Basso e Paolo Spinicci, Lineamenti di etica formale. Lezioni sull’etica e la teoria dei valori del 1914, Firenze: Le Lettere, 2005; tuttavia il riferimento qui citato è tratto dal testo Nr. 3 (1902) della sezione Ergänzende Texte, scritti che purtroppo non hanno ancora avuto modo di essere stati tradotti in lingua italiana. 82 Husserl, “L’idea di Europa”, 121. 83 Husserl, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia”, 53. 84 Husserl, “L’idea di Europa”, 121. InCircolo n.2 - Dicembre 2016 - #18