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DEI DIRITTI
E DEL LORO RAPPORTO AI DOVERI E AI FINI COMUNI
di G i a n l u i g i P a l o m b e l l a *
______________________________________________
Sommario
Premessa. 1. Diritti o doveri. 2. Diritti, valori e l’autonomia dei doveri. 3.
Cittadini e Stato: diritti e doveri 4. La sfera pubblica e i diritti individuali.
5. Autonomia morale e doveri. Qual è la lezione kantiana? 6. Diritti e
sostanze. L’evoluzione teorico‐giuridica. 7. Un inciso. Diritti “positivi”,
regole e principi. 8. Diritti “fondamentali”. Deontologico vs. teleologico. 9. I
diritti fondamentali e la ricerca di una definizione “istituzionale”. 10.
Diritti umani e diritti fondamentali.
Premessa.
Per molta parte della cultura europea tra ‘800 e ‘900 il concetto di diritto
soggettivo ha una realtà “giuridica”. Non ha alcuna realtà “naturale”, né
appare immaginabile in alcun regno “naturale”. I diritti soggettivi sono
infatti norme, non sono entità indipendenti da norme. Negli ultimi decenni
del ‘900, invece, anche in Europa continentale, si è fatta ormai strada
l’espressione “diritti morali”, che mostra la diffusa convinzione che il
discorso sui diritti possa appartenere sia al diritto sia alla morale. Questa
tesi corrisponde spesso a un particolare modo di collegare il diritto e la
morale, ed eventualmente di superare l’alternativa tra giusnaturalismo e
giuspositivismo, investendo sull’importanza del ragionamento morale1 ,
anche per la risoluzione di questioni propriamente giuridiche.
La centralità dei diritti è riproposta da molte differenti dottrine,
legate da alcuni tratti comuni, tra cui il ruolo attribuito ai “valori” nella
* Professore di Filosofia del Diritto nell’Università di Parma.. Il presente scritto
compare nel volume collettivo Filosofia del diritto, a cura di U. Pomarici, Torino 2007,
sotto il titolo Diritti. Lo scritto va citato coome capitolo di tale volume.
Principali rappresentanti devono considerarsi R. Dworkin, Freedom's Law : the
Moral Reading of the American Constitution, Oxford 1996; e Id., L’impero del diritto,
trad. di Lorenza Caracciolo di San Vito, Milano 1989. R. Alexy, Theorie der
Grundrechte, Frankfurt am Main 1994 (ora in traduzione inglese: A Theory of
Constitutional Rights, transl. by Julian Rivers, Oxford 2002); Id. Teoria
dell'argomentazione giuridica : la teoria del discorso razionale come teoria della
motivazione giuridica, a cura e con uno scritto di Massimo La Torre, Milano 1998.
1
2
comprensione costituzionale, al ragionamento morale come strumento
essenziale per la conoscenza del diritto, e infine ai principi nella
chiarificazione, l’accertamento e l’interpretazione dei diritti.
Ma secondo il giuspositivismo tradizionale, il discorso dei diritti
appartiene al diritto (law); non v’è alcun bisogno di ricorrere alla morale,
anche perché i due regni sono dotati di confini separabili2.
Non posso approfondire ora questo tema3; ma nel seguito offrirò
una ricostruzione di quale sia stata la considerazione teorica riservata ai
diritti sullo sfondo di due temi di riferimento, o se si preferisce di due
elementi di contrasto, che figurano tra i concetti chiave del diritto e della
morale, i “doveri” e le “norme”. Infine considererò da vicino il più specifico
concetto di diritti “fondamentali” proponendone una definizione anche in
relazione ad altri concetti ritenuti omologhi, tra cui quello di diritti
“umani”.
Nel quadro che fornirò, affronterò in una prima parte (§§ 1‐5), la
possibilità di un equilibrio tra diritti e doveri anche nella dimensione delle
ragioni morali, mentre nella seconda parte (§§ 6‐10) attribuirò un ruolo
giuridicamente caratterizzato a quei diritti che denominiamo
fondamentali, collocando la loro definizione in relazione alle norme di un
ordinamento giuridico.
1.Diritti o doveri.
Secondo importanti correnti di pensiero, alla differenza tra i due regni,
quello giuridico e quello morale, corrisponde una diversa collocazione dei
doveri e dei diritti: nella storia del pensiero giuridico e filosofico, per molti
i diritti restano un costrutto solo giuridico 4 . Se qualcosa sembra più
stabilmente caratterizzare il punto di vista morale, non sarebbero i diritti
bensì i “doveri”. Questa visione delle cose restituirebbe ai doveri il ruolo
centrale nel mondo morale, che sembrava ben presente allo stesso
pensiero moderno dei “diritti”. Locke aveva scritto: “The State of Nature
has a Law of Nature to govern it, which obliges every one: And Reason,
which is that Law, teaches all Mankind, who will but consult it, that being
2 Nella filosofia del diritto contemporanea, tra le altre si ricordino le tesi di H. L.
A. Hart, Il concetto di diritto, a cura di M. A. Cattaneo, nuova ed. con un Poscritto
dell'autore, Torino 2002 ; o di J. Raz, The Autorithy of Law. Essays on Law and
Morality, Oxford 1979.
Per il quale si può ricorrere a S. Pozzolo, Neocostituzionalismo e positivismo
giuridico, Torino 2001; G. Palombella, L’autorità dei diritti: i diritti fondamentali tra
istituzioni e norme, Roma‐Bari 2002; V. Omaggio, Teorie dell'interpretazione :
giuspositivismo, ermeneutica giuridica, neocostituzionalismo, Napoli 2003; V.
Giordano, Il positivismo e la sfida dei principi, Napoli 2004; G. Bongiovanni,
Costituzionalismo e teoria del diritto : sistemi normativi contemporanei e modelli della
razionalita giuridica, Roma‐Bari 2005.
3
Cfr. per es. J. Waldron. (ed.), ‘Nonsense upon Stilts’. Bentham, Burke and Marx on
the Rights of Man, London 1987.
4
3
all equal and independent, no one ought to harm another in his Life, Health,
Liberty, or Possessions“5. E tra i padri del costituzionalismo americano,
Thomas Jefferson, in una lettera del 1814, scriveva:
Considero le nostre relazioni con gli altri come costitutive dei
confini della moralità… Verso noi stessi, a rigore, non possiamo avere
doveri, dal momento che un obbligo richiede due parti. L’amore per se
stessi, di conseguenza, non è un elemento della moralità. Semmai è
esattamente la sua controparte. È l’unico antagonista della virtù, che ci
guida costantemente secondo le nostre propensioni all’auto‐gratificazione,
in violazione dei nostri doveri morali verso gli altri 6.
In un ben più recente intervento nell’Oxford Journal of Legal Studies
(2003), Sir John Laws scrive che “ci sono doveri, non diritti morali”7;
sostiene che se un diritto è “giustificato moralmente, ciò è perché l’altra
parte ha un dovere‐ un dovere morale‐ di rispettarlo”; per questo egli
conclude lapidariamente: “il trono dei diritti morali può produrre un
regno di intolleranza”8. In sostanza, solo se la morale interpersonale è
improntata all’idea del dovere (piuttosto che alla mentalità acquisitiva e
individualistica dei diritti individuali) è possibile impedire che lo Stato si
trasformi in un arbitro del divide et impera, o in un tirannico dispensatore
di panem et circenses.
Certo, anche innanzi a queste considerazioni, è difficile negare che i
diritti sono self‐centered, ossia orientati dalla priorità dell’individuo e dalla
sua intrinseca meritevolezza. E le democrazie liberali sembrano poggiare
sui diritti, proprio per la connessione che in genere si istituisce tra questi e
la libertà individuale o come concetto generale unitario o come insieme di
libertà specifiche: importanti diritti individuali sarebbero anche
indirettamente premessa o contenuto di quelle scelte personali di cui
l’idea stessa di autonomia consiste. Al contrario, tesi duty‐based (che
. John Locke, The Second Treatise of Civil Government, in Id., Two Treatises of
Government (1690), P. Laslett ed., Cambridge 1960, § 6, p. 289. Ed. it. Secondo trattato
del governo civile, in J. Locke., Due trattati sul governo civile e altri scritti politici, a
cura di L. Pareyson, Torino 1982, p. 231.
5
“I consider our relations with others as constituting the boundaries of
morality ...To ourselves, in strict language, we can owe no duties, obligation requiring
also two parties. Self‐love, therefore, is no part of morality. Indeed it is exactly its
counterpart. It is the sole antagonist of virtue, leading us constantly by our
propensities to self‐gratification in violation of our moral duties to others” (Th.
Jefferson, Letter to Thomas Law, Poplar Forest, June 13, 1814, reperibile all’indirizzo:
http://home.att.net/~history101/TJletters.htm) (ultima visita, 2 giugno 2006).
6
7J. Laws, Beyond Rights, in “Oxford Journal of Legal Studies”, 23, Summer 2003,
p. 267. Ma vd. anche ivi, pp. 265 ss.: probabilmente senza accorgersi di quanto questo
contraddica la filosofia di Ronald Dworkin, che egli pure richiama con
apprezzamento. In effetti, non possiamo ignorare che la morale insegna, sin da
Platone, come è nostro dovere comportarci verso gli altri (ivi, p. 268).
8
Ivi, p. 269.
4
spiegano il nostro senso morale, ciò che è giusto, facendo riferimento ai
doveri che avremmo piuttosto che ai diritti che possiamo reclamare), non
potrebbero che muovere da tutt’altro fondamento, indicando agli individui
direttive cui devono adeguarsi piuttosto che sottolineare la loro facoltà di
compiere delle scelte9.
Il rapporto tra doveri e diritti è quanto mai controverso. Pur nella
difficoltà di tracciare un percorso lineare, i diritti, intesi quale costrutto
giuridico, si presentano in maestri come Jeremy Bentham o Wesley
Newcomb Hohfeld (i diritti in senso stretto, come pretese), legati da un
rapporto di correlatività ai doveri. Sebbene anche la correlatività sia stata
messa in dubbio10, essa costituì e costituisce un ricorrente paradigma. La
concezione benthamiana del diritto soggettivo lo configura come un
“beneficio” riservato al suo titolare: più precisamente, indica che il titolare
di un diritto è colui che beneficia della correlativa obbligazione altrui,
istituita giuridicamente. In area continentale, coloro che come Jhering11
individuavano nel diritto soggettivo un “interesse protetto”
dall’ordinamento giuridico, non solo confermavano la visione dei diritti
come un costrutto “giuridico”, ma aprivano di fatto anche la strada per
l’idea kelseniana, secondo cui un diritto soggettivo si risolve nelle norme
che dispongono obblighi (come meglio ricorderò più avanti: infra § 6).
In sintesi, i cosiddetti “legal rights” (espressione anglosassone che
suona pleonasmo nella ricordata tradizione continentale) appaiono
dipendere in ogni caso da doveri e obbligazioni altrui, previsti dal diritto
vigente.
E’ stato Herbert Hart a cercare una diversa via, ma in definitiva con
relativo successo. La sua c.d. “choice theory” intendeva proprio evitare la
Non è possibile qui ripercorrere l’intensa discussione della teoria del diritto,
specie anglosassone su questi punti. Ad ogni modo, con riferimento a questi problemi
specifici, tra gli altri lavori importanti da cui iniziare, oltre quelli che richiamerò nel
seguito, si possono richiamare R. Dworkin, I diritti presi sul serio, a cura di G. Rebuffa,
Bologna 1982, pp. 265‐92; T. M. Scanlon, Rights, Goals and Fairness, in S. Hampshire
(ed.), Public and Private Morality, Cambridge 1978, pp. 93‐111; H.L.Hart, Between
Utility and Rights, in “Columbia Law Review”, 1979, 79, pp. 828‐46; ; F. Laporta, Sobre
el concepto de derechos humanos, in “Doxa”, 4, 1987, pp. 22‐46.
9
Si veda, per esempio, D. Lyons, The Correlativity of Rights and Duties, in
“Nous”, 4, 1970, pp. 45‐55 (lo si può ritrovare anche in C. Nino (ed.), Rights, Aldershot
1992, pp. 49‐59). Sostiene la correlatività N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1992, p.
83.
10
Si cfr. A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche, I parte, Il concetto di
diritto, Milano 1975, pp. 172‐4. Indicazioni bibliografiche e ulteriori osservazioni
sono contenute in M. La Torre, La “lotta contro il diritto soggettivo”. Karl Larenz e la
dottrina giuridica nazionalsocialista, Milano 1988, pp. 234 ss. M. Villey, Le droit
subjectif chez Jhering, in Jherings Erbe, Goettinger Symposion, Hg von F. Wieacker e
Ch. Wollschlaeger, Goettingen 1970, pp. 217 ss. Cfr. in italiano l’importante opera di R.
V. Jhering, Lo spirito del diritto romano nei diversi gradi del suo sviluppo, trad. di Luigi
Bellavite, Milano 1855; e Id, La lotta per il diritto e altri saggi, a cura di Roberto
Racinaro, Milano 1989.
11
5
riduzione dei diritti a riflesso di doveri: mirava a superare una costruzione
che a Hart sembrava incapace di individuare una ragion d’essere propria e
peculiare della categoria dei “diritti” rispetto ai doveri 12. La choice theory
rintracciava questa specificità, la ratio della titolarità di un diritto, come
l’essere nella posizione di avere controllo, scelta, sulle situazioni giuridiche
cui i diritti si collegano. Secondo Hart se Y è nella condizione di
“determinare grazie alla sua scelta come X agirà e così di limitare la libertà
di scelta di X” è questo fatto e non il fatto che riceverà un beneficio, a
rendere “appropriato dire che egli ha un diritto” 13. Così trarre beneficio
dal dovere imposto a qualcun altro non è sempre una condizione per
essere titolari di un correlativo diritto; e avere un diritto non significa
necessariamente essere colui che trae beneficio da un dovere altrui, ma
piuttosto essere in una posizione dalla quale godere di una certa
“sovranità” circa come comportarsi, se o meno esercitare il proprio diritto,
se estinguere l’altrui dovere, rinunciarvi o agire perché vi si ottemperi14.
I critici di Hart sostengono la diversa teoria dell’interesse anziché
quella della scelta. La ragione per attribuire un diritto a qualcuno sta
nell’interesse di quell’individuo: e quell’interesse riguarda “beni” che
spettano agli individui, che concernano la loro autonomia, la loro libertà di
scelta, come sottolineava Hart, ma anche ogni altro bene sostanziale,
economico o sociale15.
Ad ogni modo, che si tratti di interessi o si tratti di scelte, è ai diritti
che viene data priorità quale fondazione dei corrispondenti doveri, non
viceversa. Sono i diritti la ragione per la quale noi possiamo imporre
doveri16.
Ricostruzioni generali sono nel lavoro di B. Celano, I diritti nella Jurisprudence
anglosassone contemporanea, da Hart a Raz, in “Analisi e diritto”, 2001, 1, pp. 1‐58.
Altre ricostruzioni utili e accurate di questi ed altri passaggi si trovano in vari lavori,
tra cui è necessario il rimando almeno ai seguenti: Carlos Nino, Introduction a C.Nino
(ed.), Rights, Aldershot 1992, pp. xi‐xxxiv; J.Waldron , Introduction a J. Waldron (ed.),
Theories of Rights, Oxford (1984)1995, VII ed, pp. 1‐20; R. West, Introduction:
Revitalizing Rights, in R. West (ed.), Rights, Aldershot 2001, pp. xi‐xxxi; .Nei volumi
citati sono inoltre contenute raccolte di saggi sui diritti, saggi che sono stati e restano
fondamentali per il dibattito scientifico.
12
13 H. L. A. Hart, Are there any Natural Rights?, in J. Waldron (ed.) Theories of
Rights, cit., p. 82.
Questo è vero anche se, come Hart ammette, non può essere esteso ai diritti
fondamentali o concernenti i bisogni essenziali degli individui (J. Waldron,
Introduction, in Id., Theories of Rights, cit., p. 9). H.L.A Hart, Bentham on Legal Rights,
in A. W. B. Simpson (ed.), Oxford Essays in Jurisprudence, Second Series, Oxford 1973
(pp. 171 ss), pp.196‐8. Cfr. anche Celano, op. cit., pp. 28 ss.
14
N. MacCormick, Taking the “Rights Thesis” Seriously, in Id., Legal Right and
Social Democracy, Oxford 1982, p. 145 e pp. 148 ss. Anche N. MacCormick, Children’s
Rights: A Test Case for Theories of Rights, in “Archiv für Rechts‐ und
Sozialphilosophie”, 62, 1976, pp. 309 ss., pp. 313 ss.
15
I diritti sono ragioni per imporre doveri o altri eventuali oneri limiti obblighi
vincoli soggezioni, ecc.
16
6
A questo punto, l’intero problema della relazione tra diritti e doveri
appare in una luce più ampia: per quale ragione attribuire priorità ai
doveri o, alternativamente, ai diritti? La risposta dipende da quale
concezione si ha della moralità politica, o della morale in generale: se le
norme morali possano avere una giustificazione che poggia sui diritti17,
oppure sui doveri, o magari sull’ultimo termine di una consueta triade, il
bene pubblico (right‐based, duty‐based o anche goal‐based).
2. Diritti, valori e l’autonomia dei doveri.
Se un modo di caratterizzare le società democratiche occidentali è riferirsi
alle giustificazioni che esse tendono a dare per le proprie regole, a
prevalere, come ho spiegato sopra, sembra dunque essere l’idea che la
giustificazione dei doveri stia negli altrui diritti18. Dietro le nostre pretese
morali o le nostre obbligazioni morali ci sono delle ragioni: i diritti
dovrebbero essere proprio quelle ragioni, le uniche sostenibili, per
sottoporre altri a doveri. Secondo J. L. Mackie, non solo la moralità politica
ma la moralità in generale è basata sui diritti. E del resto, le teorie right
based godono di un evidente vantaggio rispetto a quelle duty based: “I
diritti sono qualcosa che ben possiamo desiderare di avere, i doveri sono
seccanti. Possiamo essere contenti che doveri siano imposti ad altri (…) in
nome della libertà, della protezione o degli altri vantaggi che i doveri di
altri assicurano a noi e ai nostri vicini. Ma la ragione per l’esistenza di
doveri deve stare altrove. Un dovere solo per amore del dovere è assurdo,
ma diritti solo per i diritti non lo sono”19.
Per poter discutere queste conclusioni, richiamo ancora alcuni
argomenti che ricorrono nelle teorie right based. Potremmo avere molte
17 Per esempio, MacCormick, Children’s Rights: A Test Case for Theories of Rights,
cit., il quale sostiene che sebbene “Austin and Hohfeld potrebbero scandalizzarsene,
(…) il diritto alle volte conferisce diritti che sono logicamente prioritari rispetto ai
doveri” (p. 312). Inoltre secondo MacCormick, “ è per il fatto che i bambini hanno
diritto ad essere assistiti e nutriti che i genitori hanno il dovere di prendersene cura”
(p. 313). Ma cfr., Joseph Raz, Legal Rights, “Oxford Journal of Legal Studies”, 1984, 4,
pp. 1‐21.
18 Modelli duties‐based sono ritenuti patrimonio di visioni culturali e religiose
come quella islamica, ebraica, cristiana, confuciana, ed altre: mentre i diritti restano
patrimonio della rivoluzione moderna e si collocano principalmente nella logica della
separatezza della giustizia, del diritto e dello stato dai sistemi religiosi. E di fatto,
società duties‐based sono diverse da società rights‐based.
J. L. Mackie, Can there be a Right based Morality?, in J. Waldron (ed.) Theories
of Rights, cit., p. 171.(“ Rights are something that we may well want to have; duties
are irksome. We may be glad that duties are imposed on others (…) for the sake
of the freedom, protection or other advantages that other people’s duties secure
for us and friends. The point of there being duties must lie elsewhere. Duty for
duty’s sake is absurd, but rights for their own sake are not”).
19
7
ragioni20 che ci impegnano moralmente a compiere un’azione che sia di
beneficio a qualcuno. Ma quando attribuiamo a qualcuno un diritto
intendiamo sostenere che gli è dovuto un beneficio o una qualche
prestazione, o un’astensione, perché si tratta di un bene, di un interesse
così importante per lei/lui che sarebbe “sbagliato” da parte nostra non
riconoscerlo (come scrisse Neil MacCormick21).
Come ho già osservato, un diritto può proteggere beni di qualità e
peso diversi che vanno dalla libertà e dall’autonomia di un individuo alla
soddisfazione dei suoi bisogni primari, alla garanzia dei suoi interessi
fondamentali anche attraverso benefici sociali, come la tutela della salute,
l’istruzione, la sicurezza in genere: oltre l’autonomia degli individui,
dunque, i diritti proteggono certamente altro.
Ronald Dworkin impostò il problema dei diritti muovendo dal
presupposto che una teoria morale può essere right based (il
costituzionalismo liberale moderno), oppure (non anche) goal based, o
duty based. Essa “assumerà qualche scopo (goal) o un gruppo di diritti
fondamentali, o un gruppo di doveri trascendenti come fondamentali, e
mostrerà che gli altri scopi, diritti o doveri sono subordinati o derivati”22.
Una volta assunta come fondamentale una giustificazione ultima, questa
riduce le altre a ragioni derivate, così che ciò che non ha valore ultimo
abbia necessariamente un valore strumentale. Esiste di conseguenza tra
diritti e fini collettivi (goals), tra interessi individuali e scopi pubblici,
un’opposizione necessaria, per principio e per ragioni concettuali. Questa
contrapposizione dipende dalle qualità stesse dei diritti, nell’ipotesi di
Dworkin. I diritti posseggono un fondamento morale che rende “sbagliato”
negarli per ragioni determinate da interessi della collettività, interessi
decisi in base alle opzioni politiche espresse dalle maggioranze.
L’esortazione di Dworkin a “prendere i diritti sul serio”, nasce da queste
premesse e dalla consapevolezza che i principi presenti nella storia
costituzionale americana indicano questa priorità dei diritti “morali” degli
individui. La filosofia dei diritti di Dworkin rappresenta ormai un
paradigma consolidato e influente: sulle sue tesi tornerò tra breve.
Ma se potessimo muovere dalla circostanza che i diritti
fondamentali appaiono a noi anche come obiettivi di valore condivisi
socialmente (e dunque, potenzialmente, fini collettivi), ciò aprirebbe la
strada a riconoscere più di una tipologia di ragioni a giustificazione dei
Si potrebbe trattare di ragioni puramente utilitaristiche, o di ragioni di
principio che riguardano la nostra coerenza, e molte altre.
20
N. MacCormick, Children’ s rights, cit., p. 311. Carlos Nino ritiene che questa
caratterizzazione sia la stessa proposta da Dworkin, su cui vedi qui infra. (C. Nino,
Introduction, in C. Nino (ed.) Rights., cit., p. XXIV).
21
22 R. Dworkin, Taking Rights seriously, London 1978, p. 171: “will take some
overriding goal, or some set of fundamental rights, or some set of transcendent duties, as
fundamental, and show other goals, rights and duties as subordinate and derivative”
(l’osservazione si trova nel saggio Justice and Rights, ivi, pp. 150‐183, non tradotto
nell’edizione italiana I diritti presi sul serio, cit.).
8
nostri comportamenti, ossia della morale pubblica: e dunque un’ipotesi
esclusivista potrebbe essere sostituita da una che “veda” concorrere
giustificazioni plurali nelle nostre scelte morali. Ragioni riferibili ai nostri
diritti, ma anche ai nostri doveri, e infine ai nostri obiettivi comuni,
collettivi.
L’importanza di questa prospettiva consiste nel fatto che essa, in un
certo senso, “liberalizza” l’orizzonte e le strategie razionali di
giustificazione, anche ipotizzandone alcune compatibili tra loro, e
comunque sembra aspirare a un bilanciamento (tra le ispirazioni morali).
In questa prospettiva il mondo “morale” diviene irriducibile a un’unica
fondazione, quella dei diritti, e nel contempo i diritti potrebbero perdere la
posizione e la funzione “assolutistiche” che sembrano aver assunto.
Prima di approfondire tale questione, è utile sottolineare che noi
consideriamo alcuni beni‐ la cui protezione sia riconosciuta come
meritevole fine pubblico o privato‐ conseguentemente, come valori in sé:
si tratta di beni che secondo noi sono dotati di un valore “intrinseco”, siano
beni individuali o collettivi. Come ha sostenuto Joseph Raz, alla base della
nostra moralità ci possono essere valori diversi, più di una ragione, oltre i
diritti: e dunque appare più realistica una “visione pluralistica dei
fondamenti della moralità” 23. Tra le ragioni che rispettiamo sul piano
morale, non ci sono solo altrui diritti: possono esserci valori (che non
coincidono con i diritti di qualcuno), e anche doveri (che non
corrispondono ai diritti di nessuno in particolare).
Credo che questo “pluralismo” delle fonti della nostra moralità
possa non solo spiegare la varietà di scelte compiute in un ordinamento
giuridico, ma anche aiutare a risolvere questioni etico‐politiche nella
produzione e nell’applicazione del diritto. Dilemmi si pongono spesso
anche nell’interpretazione del diritto, a dispetto delle tesi che definiscono i
diritti carte vincenti o che ne sostengono l’oggettiva riconoscibilità in
termini di self evident truths. Questo pluralismo ci aiuta a comprendere la
realtà degli ordinamenti costituzionali, che come quelli continentali
europei, non sono interpretabili come se i principi fondamentali fossero
riducibili solo alla protezione dei diritti individuali 24 . Gli ordinamenti
europei di fatto proteggono anche valori che ai diritti individuali non sono
riconducibili, e di conseguenza i principi giuridici che vi troviamo tutelati
esprimono una pluralità di scelte, difficilmente ricostruibili nei termini di
una rigida e predeterminata gerarchia.
23
J. Raz, Right‐based Morality, in Waldron (ed.), op. cit., p 182.
Cfr. R. Dworkin, I diritti presi sul serio, a cura di G. Rebuffa, Bologna 1982, p.
328 e passim). Esposi la mia critica a questa riduzione nel mio Giudici, diritti e
democrazia, in “Democrazia e diritto”, 1997/1, pp. 241‐64. . Una critica esplicita
dell’equazione principi‐diritti individuali è in R. Alexy, A Theory of Fundamental
Rights, cit., pp. 65‐6; e ora anche in G. Zagrebelsky, Ronald Dworkin’s Principle based
Constitutionalism: an Italian Point of View, cit., pp. 642‐3.
24
9
D’altro canto, gli stessi diritti‐ anche quando divengono uno
strumento giuridico (quando vengono resi coercibili e tutelabili
istituzionalmente)‐ sono comunque caratterizzati dal proprio nesso con le
etiche correnti: i diritti sono connessi a quelli che chiamerei “valori in
corso”, e non sono immuni dal rischio di proteggere ideali o convinzioni
che considereremmo inaccettabili oggi per le nostre democrazie
occidentali. I diritti si “muovono” in relazione ai contesti, e possono
presentarsi anche come un’arma a doppio taglio. Come ricordava Morton
Horwitz, ai primi del ‘900 “solo pochi sofisticati teorici del diritto (…)
consideravano i diritti naturali come un qualcosa di più che un’illusione
intellettuale sviluppatasi in un’epoca di capitalismo del laissez‐faire. L’idea
in essi centrale di un insieme radicalmente individualistico di lockeane
prerogative prepolitiche‐ secondo i pensatori progressisti‐ appariva
antitetica a ogni nozione di valori comunitari e si produsse dal tempo in
cui la Rivoluzione Americana volle proteggere la proprietà privata contro
una più equa distribuzione della ricchezza”25 . A metà ‘800, sentenze della
Corte Suprema statunitense, come la Dred Scott 26 , potevano persino
basarsi sui diritti (dei bianchi) per sostenere che i neri potrebbero
“giustificatamene e legalmente essere ridotti in schiavitù” a beneficio dei
bianchi 27 . La cautela nell’attribuire ai “diritti” una forza indiscutibile
potrebbe dunque rivelarsi non insensata.
La portata dei diritti del resto è essenziale ma non esclusiva
nell’universo morale. Certo, come il pensiero liberale moderno ha
insegnato, i diritti individuali sono termini ineludibili, innanzitutto perché
pongono il problema della giustizia verso ciascuno. Ma la giustizia si
articola con l’etica e si congiunge ad insiemi variabili di valori. Né
possiamo ignorare che il nostro universo morale si ricollega anche a
doveri percepibili in modo autonomo e indipendente dagli stessi diritti
altrui. Raz ha insistito sul fatto che solamente una moralità “ristretta”
Morton J. Horwitz, Rights, in “Harvard Civil rights‐ Civil Liberties Law
Review”, 23, 1988, p. 395: “F]ew sophisticated legal thinkers (…) regarded natural
rights as anything more than an intellectual illusion developed in an era of laissez‐
faire capitalism. In its central idea of a radically individualistic set of Lockean pre‐
political entitlements, progressive legal thinkers believed, was antithetical to any
notion of communitarian values and was developed from the time of the American
Revolution to protect private property against a more equitable distribution of
wealth “.
25
Dred Scott v. Sanford, 60 U.S. 393 (1857) ). A riguardo di questa sentenza, tra
le ultime osservazioni, quella di Dworkin, il quale la richiama giustamente come un
esempio di fedeltà alla costituzione Americana da parte dei giudici, e non di
negazione dei suoi ideali originari. Dworkin scrive che la Dred Scott è stata ricordata
da G.W. Bush come esempio del tipo di decisione che i giudici da lui prescelti avrebbe
evitato: ma tale esempio era sbagliato secondo Dworkin, appunto perché i giudici
nella Dred Scott erano invece stati “fedeli” alla costituzione (R. Dworkin, Justice in
Robes, Cambridge (Mass). 2006, p. 117..).
26
27
Dredd Scott v. Sanford, cit. p. 407.
10
(narrow morality) potrebbe essere right based: essa si accontenterebbe di
far osservare, con riguardo all’individuo, “solo quei principi che limitano il
perseguimento degli scopi individuali e la promozione del suo interesse
personale” 28. Ciò al fine di proteggere la libertà, e in generale l’autonomia
altrui. Tuttavia, come Raz ricorda, la nostra stessa “autonomia” può essere
vista in modo duplice, sotto il profilo della limitazione esterna di scelte e
azioni, sulla base dei diritti degli altri, ma anche dell’interna disposizione
verso scopi, valori da perseguire e realizzare o doveri da rispettare. Anche
un buon individualismo morale non può non tener conto dunque
dell’insufficienza della moralità “ristretta” (ossia right based). Gli “altri”
valori, gli altri “beni” , e i doveri non hanno sempre e solo un ruolo
strumentale rispetto agli interessi e ai diritti individuali. Ad esempio, beni
collettivi possono avere un valore intrinseco e non puramente derivato dai
nostri diritti individuali. Una società libera e tollerante, una società
sensibile, rispettosa di valori come l’arte, l’onestà, l’amicizia, ha a sua volta
valore in sé, e costituisce un bene comune: una società tollerante è
strutturalmente un bene collettivo, che non può essere esclusivo e
divisibile. Nessuno può vantare su di esso un diritto individuale29.
Ciò non significa però che si tratti dunque di un bene solo
“strumentale”. Questi “beni collettivi” sono infatti tali, secondo Raz, perché
eletti a fattore costitutivo della qualità della vita, di una vita piena ed
autonoma: vi riconosciamo un valore che considereremmo immorale
disprezzare o danneggiare, anche se non possiamo individualmente
vantare alcun diritto su di essi. Il rispetto che tributiamo a questi beni
rientra tra i doveri che non derivano dai diritti correlativi o dai
corrispondenti benefici o interessi di qualcun altro, o che non hanno
beneficiari in assoluto 30 . Tali doveri non traggono dunque una
giustificazione da (o quali strumenti di) diritti altrui: impongono il rispetto
di valori in sé, anche se non necessariamente di valori “ultimi”31.
Gli argomenti di Raz convergono inoltre nella tesi secondo cui
doveri possono essere giustificati non solo strumentalmente ma anche
intrinsecamente: attribuiamo valore in sé a beni anche per ragioni
indipendenti da diritti altrui, come accade a fortiori nel caso di beni
collettivi (come una società tollerante, libera, sensibile alla bellezza,
all’arte, ecc. ). Il rispetto del loro valore può essere un dovere, a sua volta
Raz, op. cit., p. 198 : “only all those principles which restrict the individual’s
pursuit of his personal goal and his advancement of his self interest”
28
Raz , op. cit., p. 190 (“Generally, since the maintenance of a collective good
affects the life and imposes constraints on the activities of the bulk of the population
it is difficult to imagine a successful argument imposing a duty to provide a collective
good which is based in the interest of one individual”).
29
30
Ivi, p. 195.
31Raz
spiega che anche se un valore non è un valore ultimo, resta un valore in sé:
non diviene per questo strumentale al valore ultimo. Semmai può essere “costitutivo”
di ciò che ha valore ultimo (ivi, pp.187 ss., pp.191 ss.).
11
non strumentale, ma intrinseco. Chi lo nega muove dalla “presupposizione
errata che se qualcuno ha un dovere deve osservarlo perchè è un dovere.
Qualcuno potrebbe ben avere un dovere di fare qualcosa perché si
preoccupa per un amico o perché ha rispetto per l’arte”32. Quel dovere non
rappresenta una limitazione alle nostre possibili scelte, non si tratta del
freno che dobbiamo imporci per rispetto degli altri (che ad es. possono
amare l’arte); ma si tratta della espressione positiva della nostra visione
del mondo, l’effetto di una concezione dell’umanità e della vita, del suo
senso: altrettanto può dirsi con riguardo a beni “collettivi” come una
società “tollerante”, o la forma di vita che abbiamo costruito, ecc33: tali
valori in sé appaiono tali e meritevoli anche entro un “umanesimo liberale”
teso a proteggere l’ideale dell’autonomia. (vd. anche infra, § 3).
3. Cittadini e Stato: diritti o doveri?
Non si può negare che allo Stato ‐ oltre che di proteggere i diritti
individuali ‐ spetti il dovere di promuovere (produrre e garantire) questi
“beni” collettivi: anche se nessuno individualmente può vantare un diritto
ad essi. Ritengo che questo possa valere anche per la pace, la salubrità
dell’ambiente, lo “sviluppo”, la salute collettiva, e probabilmente anche per
il “bene” delle future generazioni. Possiamo riassumere gli argomenti
esposti sin qui, ricollegandoli tuttavia anche alla separata nozione su cui
dovremo tornare, di diritti fondamentali. Persino alcuni diritti, considerati
socialmente e giuridicamente fondamentali, potrebbero elevarsi a fini cui
la collettività orienta la propria azione, con riferimento dunque ai beni che
quei diritti proteggono in relazione ai singoli. In generale si potrebbe
sostenere che quando alcuni beni sono ritenuti fondamentali,
giuridicamente, e sono ritenuti dotati di valore in sé, essi, siano beni
individuali o collettivi, rientrano tra i fini fondamentali di un ordinamento
e di un sistema sociale. La loro tutela, il loro raggiungimento, evidenziano
allora anche autonomi doveri per lo Stato.
Vorrei offrire un breve approfondimento di questo punto. I doveri
dello Stato34 nascono, secondo una visione politica del costituzionalismo
liberale, dalla fonte del trust, e dunque da quel particolare rapporto
contrattuale fiduciario che lega i cittadini al potere sulla base del vincolo di
obiettivi generali e della protezione dei diritti individuali: il potere
32 Ivi, p. 197 (“the wrong presupposition that if one has a duty one should
comply with it because it is a duty. One may well have a duty to do something
because of one’s concern for a friend or one’s respect for art”).
33 Pertanto, l’autonomia non si identifica in un qualche diritto a non subire
coercizione, ma in una serie possibile di diritti che non possono nemmeno essere
tutti chiariti a priori e in astratto. Ma il valore dell’autonomia si difende attraverso il
rispetto di molti altri beni che possono essere verso di essa “costitutivi” (come anche
alcuni beni collettivi).
Da non confondersi con i doveri degli stati, che si riferiscono al ben diverso
argomento dei rapporti internazionali: L. Bonanate, I doveri degli Stati, Roma‐Bari
1994.
34
12
soggiace a condizioni che è per esso doveroso rispettare. Sia pure su altre
premesse, Lord Laws ha scritto che il potere dello Stato è basato su un
presupposto “morale”, ossia che esso lo detenga “as trustee of the people”.
Secondo Laws, questo significa che si potrebbe parlare di una moralità
dello Stato verso i cittadini, sebbene essa possa essere espressa e valutata
sulla base di atti normativi oggettivi, e quindi in termini teleologici (a
differenza della morale interpersonale che può essere giudicata anche in
base alle intenzioni degli attori). Poiché lo Stato ha doveri verso i cittadini,
l’ambiente “lockeano” che si delinea sembra legare verticalmente gli
individui al potere pubblico in modi irriducibili alla pura coercizione35.
Ovviamente l’interpretazione liberale moderna del trust conduce a
pensare che esso contenga solo quel tipo di vincoli esterni che
impediscano al potere di interferire con le scelte degli individui:
paradigmatici momenti sono il “diritto a perseguire la felicità”, o la
formulazione “negativa” del I emendamento statunitense36. Pertanto, il
primo stadio di questi “doveri” (pur ammessa la loro incerta autonomia
rispetto ai “diritti” sulla cui base si giustificano), si esaurirebbe nel non
agire in lesione di diritti. Ma la società contemporanea sembra portare gli
oneri imposti dal trust ad uno stadio diverso: non solo i diritti sociali, che
attendono prestazioni pubbliche “positive”, ma anche i diritti di libertà, i
diritti civili, i diritti politici: tutti i diritti, senza distinzione tra negativi e
positivi, appaiono non garantibili senza un sistematico e coerente
intervento collettivo 37 . Essi rientrano nell’organizzazione istituzionale
come fini da perseguire socialmente.
Sarebbe riduttivo pensare che il problema dei diritti si esaurisca
ancora in una concezione naturalistica, come se si trattasse delle sole
libertà (negative ovviamente), che spettano per “natura” agli individui e
impongono solo la non interferenza pubblica nella sfera privata. Le
obiezioni a questa visione sono diverse. Almeno da Rousseau, Kant e
Constant, in concetti come autonomia, libertà, e simili, sono destinate
sempre a fronteggiarsi due alternative compresenti, quella della libertà
Vi sono varie perorazioni dei doveri in relazione all’ambiente e all’ordine
collettivo. Si vedano per esempio, David Selbourne, The Principle of Duty: an Essay on
the Foundations of the Civic Order, Notre Dame, Ind.(University of Notre Dame Press)
2001; Douglas Hodgson, Individual Duty Within a Human Rights Discourse, Aldershot,
Hants, 2003.
35
“Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or
prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press;
or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the government for a
redress of grievances”.
36
37 S. Holmes, C. R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle
tasse, a cura di C. Fusaro, trad. di E. Caglieri, Bologna 2000 considerano la divisione
proposta da Hohfeld (claims, powers, privileges and immunities) insoddisfacente
perché poteri immunità e anche permessi tutti implicitamente richiedono risorse
pubbliche e una prestazione del potere statale.
13
“negativa” e quella della libertà “positiva”. All’idea che il potere pubblico
debba essere limitato in nome della libertà “naturale” degli individui, si
aggiunge la consapevolezza che la vita collettiva di ciascuno ha luogo in
uno scenario comune determinato profondamente dalle scelte politiche
del “sovrano”. Queste scelte non possono essere considerate ininfluenti
sulle prerogative degli individui, e complessivamente incidono sul senso di
tutte le “libertà”. Anche le libertà “positive” (che includono i diritti
connessi, anche indirettamente, alla partecipazione e alla scelta politica),
destinate a comporre la grammatica della “democrazia”, sono dotate di
una non trascurabile importanza, proprio perché sono il presupposto per
l’esercizio delle scelte.. D’altro canto, nelle società complesse (e
nell’insieme delle loro connessioni oggi planetarie) è impossibile negare
che la protezione dei diritti dipenda di fatto dall’intervento pubblico, e
quindi dagli interventi compiuti (e non dalle semplici non‐interferenze)
dalle collettività, dal potere sovrano.
Il trust “aggiornato” e concepito al di là del velo di una certa
concezione
classico‐moderna
dell’autonomia,
significa
dunque
l’assunzione di fini “doverosi”, di “goals”, che hanno riguardo a: (i) beni di
rilevanza e natura individuale, che ricevono la tutela giuridica dei diritti;
(ii) beni che hanno natura indivisibile, sono collettivi: pur non
corrispondendovi alcun diritto individuale li assumiamo come dotati di
valore intrinseco. Le istituzioni pubbliche e quindi lo Stato hanno doveri in
entrambi i casi. Ma ovviamente, nel secondo caso i doveri in (ii) rilevano in
modo autonomo: sono giustificati in sé, non possono essere giustificati (né
solamente né contemporaneamente) come riflesso di un diritto soggettivo.
Nel primo caso (i), i doveri dello Stato verso diritti fondamentali
sono certo un “riflesso” dei diritti. Ciò è anche più evidente quando si tratti
di diritti concepiti come side constraints, come limiti all’azione pubblica:
qui l’idea dei diritti si ferma a quella di una limitazione del potere in nome
della libera esplicazione delle libertà individuali. Tuttavia ci si potrebbe
chiedere se la giustificazione dei doveri possa essere costruita anche in
termini autonomi e indipendenti da ragioni basate sui diritti, soprattutto
nel caso di beni‐ corrispondenti a diritti “positivi” (nel senso che implica
l’intervento altrui, in genere dello Stato)‐ come la tutela della salute,
l’istruzione, il lavoro, la retribuzione minima, la casa, la partecipazione
politica. Si tratta di diritti sociali o politici che richiedono interventi
sensibili al contesto e non astrattamente predeterminabili 38 ma,
soprattutto, impongono di fatto un forte coinvolgimento della collettività,
la predisposizione di un complesso di istituzioni e di risorse permanenti
che fanno della società stessa un’entità nuova e diversa: implicano
limitazioni
all’individualismo,
producono
“infrastrutture”
della
cittadinanza, reti di sicurezza sociale, che dipendono dall’incisione dei
redditi degli individui e finiscono per creare nuovi beni collettivi (quali
Doveri e soggezioni, poteri e immunità possono dunque nascere secondo
logiche espansive, “dinamiche”, legate all’affermazione di un “diritto”.
38
14
sono istituzioni pubbliche aperte al controllo e alla partecipazione dei
cittadini, servizi di assistenza, scuole pubbliche, infrastrutture di trasporto,
presidi sanitari, ambientali, di protezione civile, ecc.). La “società del
Welfare” è un bene collettivo, non meno di una società tollerante; e se
riteniamo che si tratti di beni e di valori, e se accettiamo l’argomento di
Raz, per cui la seconda assume valore intrinseco e diventa oggetto di
autonomi doveri, così vale per la prima. Se esistono doveri autonomi dello
Stato verso ciò cui attribuiamo valore in sé, (per es. una società tollerante),
altrettanti doveri dovrebbero esistere verso una società costruita in modo
attento ai bisogni umani ritenuti fondamentali. A questo punto, può avere
una risposta la domanda se a giustificare una società del Welfare di questo
tipo sia la sola forza morale della dignità degli individui, l’idea razionale
secondo cui a ciascuno spetti, quale suo “diritto” la casa, il lavoro, il reddito
minimo garantito, la protezione sociale, l’istruzione e via seguendo,
oppure no. Dobbiamo a ciascuno tutto questo perché si tratta di un diritto
(nel senso morale, o se si vuole naturale‐razionale del termine) che
sarebbe sbagliato negargli o perché abbiamo (la collettività, lo “Stato”
hanno) un dovere indipendente?
La meritevolezza di un tale tipo di società del “benessere” non
possiede, in un’ottica liberale, una giustificazione basata su ragioni
utilitarie comuni (il bene comune), ma essenzialmente sul trust delle
liberaldemocrazie. Sarebbe tuttavia riduttivo interpretare quest’ultimo
sulla base della protezione di un valore unico, la libertà individuale. Alcuni
beni collettivi non sono meramente strumentali, derivati e secondari
rispetto ai diritti degli individui, ma hanno valore in sé: possono entrare a
comporre l’insieme di ciò che ha valore “ultimo”‐ sono cioè costitutivi di
esso secondo il suggerimento di Raz. Pertanto, possono essere nel
contempo valori in sé ed elemento integrante, essenziale, nella qualità
della vita o la libertà individuale, che sono valori ultimi nel pensiero
liberale. (vd. anche supra, § 2).
Sul piano politico, la giustificazione nel trust delle
liberaldemocrazie determina uno spartiacque: impedisce innanzitutto una
società senza diritti, e argina la pervasività dei doveri, che può sorgere in
società illiberali con l’effetto di soggiogare e asservire gli individui.
Con riferimento a questo rischio, conviene ora considerare anche
l’altro problema, quello dei doveri contrari, ossia dei doveri dei singoli
verso la collettività e in particolare l’atteggiamento dei cittadini verso lo
Stato. Questo rapporto, dal basso verso l’alto, non può essere costruito
sostituendo la logica dei diritti con quella dei doveri. Una società
interamente duty‐based produrrebbe effetti non desiderabili, e riserverebbe
probabilmente solo un destino funesto ai diritti. C’è un punto che
acquisisce valore distintivo, e che segna la principale differenza tra una
morale pubblica capace di proteggere gli individui, e un’altra volta a
soggiogare gli individui a diktat statali, paternalistici, teocratici, dittatoriali.
I regimi illiberali sono ampiamente costruiti sui doveri verso lo Stato. Ma
con riguardo allo Stato, se c’è un principio morale valido nel pensiero
15
liberal‐democratico, che ha antiche origini e conferme autorevoli nel
pensiero moderno, è quello del dovere di sottrarsi alle leggi ingiuste,
piuttosto che il contrario. Ciò è coerente con il trust della tradizione di
Locke, con il suo appello al cielo, quando non v’è giudice sulla terra39.
Poichè il potere ha natura fiduciaria esso è soggetto a doveri: e qualora
non vi ottemperi, resta al popolo la potestà suprema di rimuovere il
governo40.
Il punto controverso è proprio se sia lecito ipotizzare una
“doverosa” relazione morale tra i cittadini e lo Stato. A questi fini identifico
qui con Stato la nozione di Government e quest’ultima con il potere
giuridicamente costituito e organizzato. E appunto, secondo i principi
costituzionali occidentali, il potere dovrebbe reggersi sul consenso dei
governati. Questa dialettica ha natura giuridica, morale, e politica. Se
insistiamo sui doveri verticali del cittadino nel solco della tradizione
repubblicana di abnegazione, se esaltiamo la virtù pubblica, pure
dobbiamo fissare un confine: è infatti decisamente controverso che esista
un dovere “morale” di obbedienza verso lo Stato, ulteriore dunque rispetto
all’obbligazione politica e a quella giuridica.
Hart 41 aveva rintracciato la radice della risposta affermativa
nell’argomento della “reciprocità” dovuta, direi orizzontalmente, agli altri
membri della società che a loro volta si sono sottoposti nell’interesse
collettivo al vincolo del diritto: argomento che è sembrato plausibile
all’interno di uno stato liberaldemocratico e che Rawls42 ha assunto come
fonte di un’obbligazione “prima facie” verso il diritto, salve le eccezioni di
obblighi prevalenti in casi specifici. Ma la questione è controversa.
Probabilmente proprio per le ragioni stesse che fondano la
liberaldemocrazia sulla libertà della scelta morale e della scelta politica. E’
stato detto che dal punto di vista di una democrazia, il dato caratterizzante
sta “nella non adesione morale e politica da essi tollerata e legittimata” 43.
Pertanto, se è essenziale che l’accettazione morale sia compiuta da coloro
che ricoprono funzioni pubbliche (come i giudici), ed è comunque
39 Second Treatise of Government, cit., § 168, pp. 397‐8. Vd. anche §§ 155, p. 388‐
9; § 222, pp. 430‐2; § 240, pp. 444‐5 (ed. it. Secondo trattato, cit., pp. 355‐6; 345‐6;
392‐4; 410‐1).
40
Ivi, § 240 (ed. it. pp. 361‐2).
H.L.A. Hart, Are there any natural Rights?, in J. Waldron (ed.), Theories of
Rights, cit., pp. 85‐6.
41
42 J. Rawls, Legal Obligations and the Duty of Fair Play, in S. Hook (ed.) Law and
Philosophy, New York 1964, p. 3
L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma‐Bari 1989, p.
972. Come Ferrajoli soggiunge condivisibilmente, gli ordinamenti democratici si
reggono “non sull’obbligo dell’unanimità morale, ma sulla libera formazione delle
maggioranze e delle minoranze e soprattutto sull’attenzione delle une e delle altre, in
assenza di sonniferi morali, assai più ai profili d’illegittimità dell’ordinamento che a
quelli di legittimità” (ibidem).
43
16
auspicabile per gli altri cittadini, non può essere richiesta d’obbligo a tutti,
ossia essere moralmente obbligatoria. Di conseguenza è vero che la
relazione tra Government e cittadini è asimmetrica. Il principio morale di
adesione allo stato può essere universalizzato solo in uno stato totalitario;
e l’obbligo morale di adesione allo Stato‐ ha scritto Luigi Ferrajoli‐ appare
in contrasto con la stessa democrazia.44 Con diversa motivazione, anche
Raz sostiene che “non c’è un obbligo generale di obbedire al diritto,
nemmeno alle leggi di un sistema giuridico buono e giusto” 45 . E nel
contempo, deve ritenersi vi sia un obbligo morale di disobbedire a leggi
ingiuste di regimi malvagi 46 . Sebbene un dovere generale non possa
essere imposto da ragioni morali universali, è ovvio che chi sia convinto
della meritevolezza del proprio sistema giuridico‐politico, senta verso di
esso un vincolo di lealtà: chi abbia “rispetto” nei confronti del diritto “è
tenuto all’obbligo di obbedire”. Infatti: “Il suo rispetto è la fonte di
quest’obbligo” dal momento che esprime fiducia che il diritto sia
moralmente sano”47.
4. La sfera pubblica e i diritti individuali.
L’attuale disagio verso i diritti e la loro espansione, sia con riferimento ai
beni che proteggono, sia con riferimento ai soggetti cui dovrebbero
riferirsi, dipende essenzialmente dall’aver attribuito ad essi un ruolo di
centro unico dell’universo morale, di giustificazione ultima e di misura del
“giusto” e del “bene”: questo fenomeno che tutto riporta e tutto “riduce”
alla radice ultima dei diritti, potrebbe ben essere ritenuto un
“riduzionismo” dei diritti” (invece che “inflazione” dei diritti ed altre simili
espressioni, che mi sembra si riferiscano più agli effetti che alle cause).
Esso dipende certo dalla pervasività dei discorsi che reclamano e ampliano
diritti, ma anche dal fatto che l’ascrizione e la protezione di diritti
individuali chiama in causa un atteggiamento morale della collettività,
della società nel suo complesso, un ruolo attivo e “positivo” della sfera
pubblica, il quale a sua volta non può essere giustificato da una morale
“Il principio morale dell’obbedienza non può essere universalizzato. E poiché
sono morali, secondo la ben nota tesi meta‐morale formulata da Richard M. Hare e
risalente a Kant, solo i criteri di condotta suscettibili di essere universalizzati, esso
non è affatto un principio morale” ( Ferrajoli, op. cit., p. 973, rinvia
all’universalizzabilità: cfr. R. Hare, Il linguaggio della morale, trad. di M. Borioni,
Milano 1971, pp. 59 ss; I. Kant, La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, riv. da N.
Merker, Roma‐Bari 1983, pp. 239 e 247 (“agisci in modo che la massima della tua
azione possa diventare una legge universale”).
44
J. Raz, Respect for Law, in Id., The Authority of Law. Essays on Law and Morality,
Oxford 1979, p. 250.
45
Inoltre, Raz scriveva significativamente, nel 1979: “While it is never wrong
not to respect the law it is morally wrong to respect it in South Africa or other
fundamentally iniquitous regions” (ivi, pp.258‐9).
46
47
Ivi, p.p. 260‐1
17
right‐based, esclusiva e capace di sostenersi autonomamente. La logica dei
diritti è divenuta altamente esigente, perchè l’affermazione dei diritti non
pretende più solo “esclusioni” (degli altri dalla nostra sfera privata), ma
presuppone l’impegno collettivo, un ambiente di sostegno in cui sono
sviluppati e prodotti beni pubblici, che rendano concepibile e possibile la
soddisfazione dei diritti degli individui. I concetti di diritti individuali, non
importa in quale delle generazioni “storiche” dei diritti, acquistano
contenuti e significati che dipendono dall’esistenza di uno spazio pubblico
strutturato e garantito, come area di manifestazione ed esercizio
dell’autonomia (per es. diritti politici), o come luogo delle prestazioni
pubbliche ritenute vitali (istruzione, sanità, previdenza, sicurezza,
assistenza, ma non lontani da queste aree i “diritti” alla pace o alla tutela
ambientale).
Costituisce un elemento di riflessione il fatto che tende ad
assottigliarsi il diaframma che separa le pretese private dalle scelte
pubbliche. Ciò può chiarirsi considerando l’esemplare modello rawlsiano
di Political Liberalism48 che appare basato sulla possibilità di costruire una
società liberaldemocratica che garantisca la giusta considerazione e la
libertà delle diverse etiche e concezioni del mondo, attraverso un insieme
di regole giuridiche costituzionali (eguale considerazione di ciascuno,
tutela dei diritti individuali: ossia l’insieme dei principi aurei delle
costituzioni occidentali, che ne governano le istituzioni pubbliche). Si
tratta di isolare gli elementi essenziali del “giusto”, e i diritti, dall’area delle
scelte etiche riservate all’autonomia di ciascuno, l’area del “bene”, che
resta propria delle sfere private. Com’è noto, secondo Rawls, quegli
elementi essenziali costituzionali individuano il contenuto della sfera
pubblica ispirata dal rispetto liberale per la diversità, e giustificata dalla
tutela dei diritti, e delle fondamentali libertà degli individui, che pongono
condizioni morali, procedurali e sostanziali49. Ma poiché nessuna visione
del mondo “particolare”, nessuna dottrina sostantiva, “comprensiva”
dovrebbe risultare privilegiata, il modello coincide con la cultura della
separazione (innanzitutto tra pubblico e privato), della tolleranza, della
giustizia come requisito istituzionale. Tuttavia, il fatto che si realizzi un
overlapping consensus, una convergenza su alcuni elementi comuni a
diverse visioni del mondo, nella sfera pubblica, è comunque un “fatto” del
tutto contingente, dipendente dal carattere ragionevole delle ispirazioni
etico‐politiche concorrenti (in una società determinata).
48 J. Rawls, Liberalismo Politico, a cura di Salvatore Veca, trad. di Gianni
Rigamonti, Milano 1994.
Così, non a caso, scrive Rawls: “Sebbene il liberalismo politico cerchi un
terreno comune e sia neutrale nel fine, è importante sottolineare che può,
ciononostante, affermare la superiorità di certi tipi di carattere morale e incoraggiare
certe virtù morali. La giustizia come equità, per esempio, è attenta a certe virtù
politiche‐ quelle dell’equa cooperazione sociale: la civiltà, la tolleranza, la
ragionevolezza, il senso dell’equità.” ( ivi, p. 169).
49
18
Certo, non è possibile sostenere il complesso paniere di diritti della
cittadinanza occidentale, specie in connessione con una agenda relativa
alla pace alla sicurezza alla tutela ambientale, senza che tutto questo
finisca per arricchire sempre più il numero degli elementi “costituzionali”
essenziali su cui deve cadere l’accordo per sovrapposizione tra le diverse
componenti culturali, ideali, religiose, ecc. della società. Ne deriva allora un
più rilevante spessore, post‐liberale, etico‐politico “forte” dell’area su cui
era avvenuta la convergenza tra concezioni e dottrine diverse. Ma questa
maggiore densità di ciò su cui bisognerebbe essere d’accordo nella (sola)
sfera pubblica indica che è più elevato il grado di impegni “etici” che si
impongono a tutti: quindi diminuisce di conseguenza il grado di
eterogeneità etica che una società come la nostra è in grado di “tollerare”,
contenere, regolare. I diritti non sono solo garanzie procedurali per
l’eguale considerazione di ciascuno e di tutti; tendono a indicare la
protezione di beni e di valori bisognosi di una costante definizione e
interpretazione collettiva (cfr. infra § 9). La divisione tra il bene (come
questione privata) e il giusto (come questione pubblica) tende a mostrare
una certa astrattezza, grazie alla difficoltà di tenere separato in modo
definitivo sul piano storico‐istituzionale ciò che appare distinto sul piano
concettuale.
Come avviene che le scelte etiche eccedano l’ambito cui Rawls le ha
consegnate, la sfera privata, verso quella pubblica ? Si tratta di un processo
che si svolge per ragioni diverse dai diritti. Nel pensiero liberale, le
giustificazioni rights based possono prevalere su quelle goal based, che
hanno di mira il benessere della collettività, ma restano contrapposte: i
diritti non possono essere intesi come ciò che determina gli scopi comuni.
E d’altro canto, le sfere dei diritti possono venir lese proprio da questa
crescente “eticizzazione” della vita pubblica: dove i “valori” prevalgono, le
garanzie (per chi avrebbe diritto di non condividerli) diminuiscono.
Le scelte nella sfera pubblica inevitabilmente si giustificano
secondo la loro propria logica. Esse hanno per oggetto l’interesse pubblico
e devono essere guidate comunque dall’obiettivo del bene comune. Se le
decisioni collettive si propongono fini come la pace o la tutela
dell’ambiente comune, potranno giustificare queste scelte anche
assumendo che le istituzioni pubbliche abbiano innanzi a sé veri e propri
doveri; assumendo che sia doveroso‐ per la loro meritevolezza intrinseca‐
coltivare e tutelare questo tipo di valori “pubblici” o beni collettivi.
Gli impegni morali che una società assume pubblicamente non si
esauriscono dunque nella garanzia dei diritti di ciascuno innanzi alla forza
del potere pubblico. Le istituzioni pubbliche assumono in realtà doveri
verso il perseguimento di beni che appaiono dotati di valore in sé, secondo
la cultura e la civiltà occidentale: doveri che costituiscono ragioni
indipendenti ‐per le decisioni pubbliche‐ dalla soddisfazione di un
corrispondente diritto individuale di qualcuno.
19
A rendere tangibile questa autonomia dei doveri rispetto agli stessi
diritti, è stata proprio l’evoluzione (relativa alla qualità e alla titolarità) dei
diritti.
La logica dei diritti self‐executing è giunta al culmine delle sue
possibilità: i diritti non si realizzano o attuano grazie all’azione in giudizio
e alle sentenze delle Corti di giustizia, o all’autoevidenza della loro
fondazione razionale. Se qualcuno ha diritto ad una vita “dignitosa”, ciò
significa che deve vivere in una società capace in qualche modo di
garantire quelle che sono le sue capacità di “human flourishing” 50: le
strutture sociali, culturali, comuni devono essere nel loro complesso in
grado di proteggere e realizzare questo obiettivo: sarebbe vano se non
avvilente essere giuridicamente “liberi” in una società incapace di
garantire la sopravvivenza o la sicurezza dal crimine, o l’istruzione o la
tutela ambientale, ecc.
Il senso concreto, pratico, dei diritti come “beni” per gli esseri
umani non dipende‐ se non secondariamente‐ dalla tutela “giudiziaria”, ma
primariamente dalla qualità complessiva (dalla coerenza delle finalità e
delle caratteristiche) della vita pubblica.
Di fatto i diritti acquisiscono senso in un universo in cui
parallelamente la collettività si sia gravata di compiti autonomi, compiti
che si rivelano necessari perché possa aver un qualche significato la
rivendicazione dei diritti stessi. E questi compiti doverosi‐ verso valori
comuni‐, di fatto ri‐determinano, perché accrescono pesantemente, lo
spessore etico (dei contenuti inclusi, delle scelte da compiere) nella sfera
pubblica.
I diritti come tali forniscono ragioni definitive per il rispetto uguale
della sfera privata altrui, ma una volta che entrino in gioco obiettivi della
deliberazione pubblica, non bastano le sole ragioni private, e self interested,
che contingentemente si incontrano e riferiscono l’un l’altra: servono
ragioni ulteriori, non puramente right‐based: anche perché l’oggetto della
deliberazione pubblica è l’interesse collettivo e la coltivazione di beni
collettivi, che produce51 contenuti autonomi rispetto alle singole etiche
private.
50 Cfr. M.C. Nussbaum, Defense of Aristotelian Essentialism, in “Political Theory”,
May 1992, p. 222. M.C. Nussbaum, Capabilities and Human Rights, in “Fordham Law
Review”, 1997, 66, p. 273‐300. Si veda inoltre, M.C. Nussbaum, Diventare persone.
Donne e universalità dei diritti, trad. di W. Mafezzoni, Bologna 2001; A.K. Sen, La
diseguaglianza. Un riesame critico, trad. di A. Balestrino e G.M. Mazzanti, Bologna
2000; Id., Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, trad. di G.
Rigamonti, Milano 2000.
51 Questo è un argomento essenziale nella critica di Habermas a Rawls. Il
contenuto interno alle singole visioni del mondo, in Rawls, non svolge una funzione
“pubblica” nel determinare un accordo sulle condizioni essenziali di giustizia politica.
Al contrario, la convergenza in sede “pubblica” si dà, in Rawls, come un dato di fatto,
che proviene da percorsi separatamente privati. Il rapporto con le componenti morali
che sono necessarie alla formazione della giustizia in sede di istituzioni pubbliche
non è percepibile dal punto di vista pubblico, ma solo da quello delle singole dottrine
20
Se doveri pubblici e valori collettivi occupano un posto essenziale
accanto ai diritti, nella moralità pubblica, la nuova situazione appare
alterare i termini dell’equilibrio caro al pensiero moderno. Anche le
contemporanee filosofie dei diritti umani, almeno a partire dalla
Dichiarazione Universale dei diritti umani del ’48, sino alla generazione
dei diritti umani di solidarietà, introducono prerogative inalienabili degli
esseri umani che non equivalgono alle “liberties” di cui gli esseri umani
dovrebbero godere finanche nello “stato di natura”. Sono invece nozioni
complesse, nozioni derivate o “artificiali”, frutto dell’evoluzione sociale
delle comunità democratiche: esse includono nell’idea stessa di dignità
umana diritti che dipendono dal legame sociale fondato sul diritto, sulla
democrazia, e sul Welfare.
Kant riteneva che il diritto innato è ciò che spetta ad ognuno per
natura, in base ad un a‐priori della ragione, e non ha bisogno di alcun atto
giuridico52 . Egli aggiunse però: “il diritto innato è uno solo. La libertà
(indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui)” 53 . La qual cosa sembrò
riflessa nelle convinzioni del pensiero liberale54. Nelle nozioni artificiali di
diritti, la radice non sta più nella “naturale” libertà di ciascuno. E per
questo la “giustificazione” costituita dai “diritti” non è onnipotente: essa
non è in grado da sola di imporre l’enorme carico di indeterminati sacrifici
pubblici e di beni collettivi necessari, come se si trattasse di un mero
dovere correlativo e riflesso. Questi sono invece parte ed oggetto di una
coesistente moralità di autonomi doveri. Sono dunque anche i nostri doveri
a muoverci, se a muoversi è il nostro senso morale.
5. Autonomia morale e doveri. Qual è la lezione kantiana?
Se dunque i diritti hanno un posto essenziale nella nostra vita morale, ciò
non significa che non debbano averlo anche, ed autonomamente, i doveri.
Un importante ostacolo nella storia del pensiero (sebbene possa apparire
un paradosso) è rappresentato proprio dalle interpretazioni della filosofia
kantiana che legano in modo esclusivo l’idea di autonomia ai “diritti” come
etiche: pertanto la “prassi giustificativa” non si svolge “in comune”. Cfr. J. Habermas,
L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano 1998, pp. 96
ss.
52
Kant, La Metafisica dei costumi, cit., p. 44.
“in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge
universale, è quest’unico diritto originario spettante a ogni uomo in forza della sua
umanità” (Ibid.)
53
Naturalmente, riflessa anche nel significato attribuito a quei diritti. Come
scrisse Richard Posner (da giudice) : “[T]he men who wrote the Bill of Rights were
not concerned that government might do too little for the people but that it might do
too much to them. The Fourteenth Amendment, adopted in 1868 at the height of
laissez‐faire thinking, sought to protect Americans from oppression by state
government, not to secure the basic governmental service” (Jackson v. City of Joliet,
715 F, 2d 1200 (7th Circuit 1983), p. 1203).
54
21
suo fondamento. Il pensiero liberale giustamente diffida dell’oppressione
dei doveri, se non in nome dei diritti altrui, e rifiuta che il bene pubblico
possa avere concorrente peso rispetto ai diritti individuali, che ne sono in
fondo la ragione ultima. Pertanto, la linea di continuità tra autonomia
morale e diritti individuali resta il fil rouge della civiltà moderna, da cui
non possiamo allontanarci. La relazione normalmente costruita tra
l’autonomia morale e il diritto alla libertà esterna (espressa appunto
attraverso la titolarità di diritti di libertà e proprietà) è una relazione di
consequenzialità: non può esservi autonomia morale senza la conseguenza
materiale della libertà esterna, così che l’idea dei diritti individuali
rappresenti un esito logicamente implicato dell’idea stessa di “moral
agency” 55 . Ma nasce il sospetto che tutto ciò corrisponda ad una
narrazione che rispecchia solo in parte la filosofia kantiana.
Naturalmente, in Kant l’autonomia identifica la facoltà a priori di
una scelta libera, in cui la volontà buona, ossia la volontà mossa
esclusivamente dall’osservanza della legge morale, sia causa sui e non sia
determinata dall’esterno. Questa indipendenza riguarda solo la posizione
interiore degli esseri umani, ossia la capacità che essi hanno di elevarsi
oltre le proprie passioni e la propria “facoltà di desiderare inferiore”56.
L’uomo morale non è vittima delle sue passioni, possiede una volontà
libera da esse, e cioè tesa ad ottemperare alla legge morale57. La libertà
morale, l’autonomia morale degli esseri umani è dunque uno stato o una
qualità trascendentale, e non ha come condizione un particolare status quo
della loro vita esterna o pubblica. La volontà libera degli esseri umani, la
loro facoltà di esseri “morali” è una qualità indipendente da ogni assetto
esterno della vita sociale.
Del resto, all’esterno la ragione si dota delle regole del diritto: la
legislazione ossia il diritto persegue lo scopo di intervenire tramite la
coercizione quando la legge morale non venga seguita spontaneamente. Il
diritto soggettivo è la facoltà di costringere qualcuno a rispettare le
obbligazioni che ha verso di noi. La giustizia nei rapporti tra arbìtri liberi
consiste nel porre le condizioni esterne per la coesistenza secondo una
legge universale di libertà, e la libertà è un diritto da Kant ritenuto innato58.
Il presupposto su cui il soggetto “giuridico”, ossia il soggetto umano dal
punto di vista giuridico, viene concepito non è la sua autonomia, ossia non
è la potenza della sua incorruttibile moralità, bensì la sua debolezza:
Ernst Weinrib sostiene che i diritti sono solo “the external aspect of pratical
reason” (E. J. Weinrib, Law as Idea of Reason, in Howard Williams (ed.) Essays on
Kant’s political Philosophy, Chicago 1992, p. 27. Si veda anche Rawls, Kantian
Constructivism in Moral Theory, in “Journal of Philosophy”, 77, 1980 , poi in Id.,
Collected Papers, ed. by Samuel Freeman, Cambridge, Mass. 1999, pp. 303–58. Gli
esempi nella letteratura sono comunque infiniti.
55
56
Su questo anche il mio Soggetti azioni norme, Milano 1988, cap. primo
57
Ibid. Vd. anche il mio Filosofia del diritto, Padova 1996, pp. 70‐73.
58
Kant, La metafisica dei costumi, cit., pp.34‐5.
22
debolezza rispetto alla causalità “fenomenica” di quelle ragioni per l’azione
che sono diverse dalla volontà libera del dovere. Passioni, interessi, motivi
e sentimenti costituiscono ragioni per l’azione che il diritto controbilancia
introducendo la possibilità giuridica della coercizione esterna al fine di
ottenere comportamenti conformi alla “legge”: coercizione che agisce
come ragione causalmente concorrente nel controllo sociale della
coesistenza ordinata.
Infine, diversa è la questione che riguarda invece la teoria
normativa di Kant a riguardo dell’etica: non si tratta più di quali possano
essere le regole generali della coesistenza, ma quali siano i valori
sostanziali che rendono virtuoso il cammino degli esseri umani. Qui Kant
insiste‐ si tratta della Dottrina della Virtù‐ sul fatto che il futuro
dell’umanità e lo sviluppo delle sue qualità dipendono dal perseguimento,
tramite la facoltà di desiderare superiore‐ la volontà autonoma‐, di fini che
si identificano con i propri doveri: ovviamente il primo dovere è e resta il
rispetto della dignità, dell’umanità altrui, cui corrisponde il diritto di
esigere tale rispetto a non essere trattato mai solo come mezzo59. Ma
quanto ai propositi che ciascuno dovrebbe perseguire, la dottrina del
dover essere indica solo la propria perfezione e la felicità altrui60. I fini che
gli uomini perseguono dovrebbero coincidere con i doveri, e questo
farebbe dell’azione un’azione virtuosa: e se il diritto può costringerci a
compiere quei doveri, la virtù consiste nel perseguirli liberamente.
L’autonomia degli esseri umani mette dunque capo alla consapevolezza
dei doveri cui tendere e cui ottemperare.
Si noti che Kant sottolinea che in questo ambito è “il concetto del
dovere quello che nell’etica dovrà guidarci a dei fini, e che fonderà su
principi morali le massime da seguire relativamente ai fini che dobbiamo
proporci” 61 . L’autonomia sceglie i propri fini sulla base di una
giustificazione duty based, non right based.
Il compimento dell’umanità dell’uomo62 dipende dal perseguimento
dei doveri cui il concetto di autonomia si lega. A voler meglio specificare il
concetto, non è possibile nemmeno ipotizzare che l’autonomia si realizzi
se non come libertà della volontà umana di perseguire i propri doveri,
affrancandosi dalle cause esterne che attraggono gli individui verso altri
scopi. Kant stesso spiega infine l’intero quadro, quando risponde alla
domanda circa il perché la dottrina della morale è chiamata dottrina dei
doveri, non dottrina dei diritti, nonostante che gli uni si riferiscano agli
altri. Kant scrive: “Il motivo è questo: noi conosciamo la nostra propria
libertà (da cui derivano tutte le leggi morali, in conseguenza anche tutti i
59
Ivi, p. 333.
60
Ivi, p. 235.
61
Ivi, p. 231.
Interessanti spunti critico‐ricostruttivi nel volume di F. Sciacca, Il concetto di
persona in Kant. Normatività e politica, Milano 2000.
62
23
diritti come tutti i doveri) soltanto per mezzo dell’imperativo morale, il
quale è un principio che prescrive doveri e da cui si può derivare in
seguito la facoltà di obbligare gli altri, cioè il concetto del diritto” 63.
Con il che si dovrebbe concludere che se c’è qualcosa di assoluto in
linea di principio sono i doveri dell’umanità, che discendono dalla sua
libertà morale e dalla sua razionalità. Non i diritti: i quali sono uno
strumento giuridico, attraverso cui è possibile richiedere l’applicazione
della coercizione su altri. L’autonomia morale degli individui è ciò che
consente, rende possibile scegliere di assumere come fini i doveri
fondamentali della virtù.
Ciò permette il progresso dell’umanità verso la perfezione, ossia
verso la piena realizzazione di sé e della propria razionalità. Da qui nasce il
progetto di una filosofia della storia universale che si spinge alla pace e
alla società cosmopolitica64.
6. Diritti e sostanze. L’evoluzione teorico‐giuridica.
Una volta chiarito quale sia il senso dei diritti nella loro relazione (e
autonomia) rispetto ai doveri, possiamo considerare più da vicino,
aprendo la seconda parte di questo discorso sui diritti, l’altro problema
che, come preannunciato nella Premessa, è decisivo per comprendere il
peso giuridico e politico acquisito dai diritti nell’orizzonte “costituzionale”
dei paesi occidentali: quale sia il significato di quei diritti che chiamiamo
“fondamentali”. Preliminarmente, occorrerà concentrarsi sulla relazione
che si instaura tra i diritti e le norme giuridiche. Cosa sono infatti i diritti
fondamentali? 65 Il loro essere “fondamentali” dipende dalla loro sostanza
o dalla loro forma giuridica?
A questo riguardo è opportuno riconsiderare l’evoluzione del
concetto di diritti soggettivi attraverso una lente particolare che metta a
fuoco la relazione tra norme, forme e “sostanze”. Il secolo scorso è stato
infatti decisivo per quella che chiamerei una costante “de‐
sostanzializzazione” dei diritti soggettivi. Attraverso un insieme di pur
divergenti tentativi teorici si produsse un mutamento di paradigma
rispetto al passato.
I giuristi del giuspostivismo, ottocentesco e novecentesco, erano
stati preceduti da un’opera di ipostatizzazione dei diritti soggettivi,
concepiti come sacre properties, grazie alla tradizione giusnaturalistica. E’
il pensiero giusnaturalistico che li aveva innalzati a verità autoevidenti, a
63
Kant, La metafisica dei costumi, cit., p. 47.
64 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id.,
Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma‐Bari 1995, pp. 29‐44; Id.,
Per la pace perpetua, ivi, pp. 163‐207.
Questa specifica domanda è affrontata nel volume di L. Ferrajoli, Diritti
fondamentali, Roma‐Bari, Laterza 2001.
65
24
proprietà innate degli esseri umani, legate a contenuti precostituiti, valori
“ontologici”. Il giusnaturalismo finiva per sostenere, attraverso impliciti
giudizi di valore, specifici precetti di convivenza sociale, proponeva una
qualche “visione” della natura umana, assumendo quest’ultima come
oggettivamente e universalmente conoscibile 66 . L’intero “modello
giusnaturalistico” aveva poggiato la società civile sui principi desunti dalla
natura umana conoscibile, o, nel caso di Kant dalla sola ragione, e aveva
inteso sfuggire i limiti di quel modello aristotelico che, anziché da verità di
ragione e argomenti a priori, muoveva da un’idea di verità basata sul
consenso e dunque a posteriori67.
Questa connessione tra universalità razionale, verità e diritti è stato
il vero segno distintivo del sostanzialismo giusnaturalistico68.
Ma appunto, dopo questa lunga fase moderna, il pensiero giuridico
ne attraversa una nuova, nell’ ‘800 e nel ‘900. Si incomincia un lavoro di ri‐
definizione, il cui effetto, se non lo scopo, è come la diluizione della
precedente densità sostanziale, una sorta di svuotamento giuridico. Sul
piano ideologico avviene una vera e propria demitizzazione. A tramontare
per primo fu l’ideale dei diritti come contraltare del potere (i diritti come
arma rivoluzionaria69); a emergere, per converso, è stato il bisogno di un
riconoscimento del diritto (oggettivo) come strumento neutro. Il diritto
serve a legittimare il potere; il potere senza diritto non può essere
percepito come legittimo.
Riferimento obbligato è Locke, Due trattati sul governo, cit.. Si veda il Secondo
trattato, pp. 229 ss, e passim. Ma anche emblematicamente, la Dichiarazione di
indipendenza del 4 luglio 1776: “Noi teniamo per certo che queste verità siano di per
se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro
Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il
perseguimento della Felicità” (la si veda in G. Floridia, La costituzione dei moderni, I,
Torino 1991, p. 189). Una visione “razionale” dei beni naturalmente essenziali per gli
esseri umani, e dunque una visione sostanzialistica dei diritti può essere tratta oggi
dalla lettura di J. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, a cura di Francesco Viola,
Torino 1996.
66
67 Cfr. N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio, M. Bovero, Società e
stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979. Ovviamente, devo sottolineare che
quanto chiamo “sostanzialismo” in questo caso è una caratteristica del
giusnaturalismo anche di ispirazione aristotelica.
Non occorre certo che discuta qui alcuna delle note e ricorrenti obiezioni al
modello giusnaturalistico, lascio da parte il problema humeano della “fallacia
naturalistica” e le restanti critiche al giusnaturalismo provenienti da filosofie come
quelle di Hume o di Hegel, di Bentham e di tutto il successivo guspositivismo.
Peraltro, il sostanzialismo non è un carico facile da sostenere. Ad esempio, è evidente
che il problema della dimostrabilità in termini di verità dell’esistenza di diritti
naturali con un contenuto determinato (come ad esempio il diritto di proprietà),
influisce sull’accettabilità delle tesi giusnaturalistiche, in termini di una (o più) teoria
generale dei “diritti”.
68
69
Penso ancora a N..Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1992, II ed., pp. 135 ss.
25
La legittimità del potere, come ha insegnato Max Weber, non
dipende più da ragioni sostantive, materiali, o dal tipo di scelte etiche che
possano essere convalidate in termini oggettivi e universali, ma dalla
ricorrenza di tipici caratteri “formali”70, dunque dal fatto che le decisioni
assumono la forma generale e astratta, pre‐regolata e conoscibile, della
legge. La legittimità poggia sul carattere legale‐razionale dello Stato
moderno. Il diritto è innanzitutto struttura di regole predeterminate,
regole “resistenti” (o insensibili) ai fini di volta in volta perseguiti, e non
intaccabili da essi. Il diritto è affidabile e prevedibile proprio grazie a
questa sua indifferenza agli scopi contingenti che con esso possono essere
perseguiti.
Questo bisogno di rarefazione, o il proposito di rendere esterni
rispetto alla definizione del diritto i mutevoli valori soggettivi, gli ideali
sostantivi, di una società (eticamente) “politeistica” come quella
contemporanea, ha segnato anche la scienza del diritto specie nel periodo
pre‐totalitario del ‘900 . La scienza del diritto descrive e insegna il diritto
come struttura dotata di una sua organizzazione logica, in sé autonoma
rispetto ai contenuti: la struttura degli ordinamenti si sottrae dunque alla
pressione dei contrasti etico‐politici, e la scienza del diritto riesce a
renderne la “forma” refrattaria alle manipolazioni e all’arbitrio. Da questo
angolo visuale, la ragione e il diritto, dunque, non intervengono sui fini, ma
istituiscono strumenti capaci di rendere compatibili i fini di una collettività
politica con l’orizzonte delle regole generali e astratte, ossia con la
coesistenza civile e la pace. Questa fu la strada prescelta. Purtroppo, tale
via non si mostrò, nei fatti, efficace mezzo di controllo e di tutela dello
Stato di diritto71 dalle pressioni che furono capaci di trasformarlo in Stato
totalitario. Il diritto come tecnica senza un’anima, senza ragioni morali
proprie, senza riferimento a contenuti di verità morale (che aveva invece
rappresentato il giusnaturalismo), diventa anche uno strumento
insensibile, incapace di filtrare e selezionare, uno strumento di ogni
possibile scopo.
Molti scritti di Carl Schmitt, maestro del pensiero tedesco nel
nazismo e dopo di esso, mettono a nudo questa evidenza sul piano teorico,
la facile sottomissione della forma al contenuto deciso dal più forte,
mentre la storia avrebbe pensato a confermarla sul piano reale.
70
Max Weber ha definito come “razionalità formale” quella che mantiene
un’assoluta indifferenza “rispetto a qualsiasi postulato materiale” ( M. Weber,
Economia e società, a cura di P. Rossi, vol. I, Milano 1961, p. 104); e ha individuato il
carattere “formale” del diritto nello Stato moderno. Cfr. più distesamente, il mio
Legittimità, legge e costituzione, in “Sociologia del diritto”, 2/1993, pp. 123‐70.
La vittoria della forza, dell’abuso e infine dei regimi totalitari del ‘900 è
avvenuta attraverso l’uso aberrante del diritto. Beninteso questo non toglie che
l’irrazionalismo e il decisionismo nazionalsocialista tedeschi dovessero guardare al
“normativismo” di cui Kelsen fu il più grande teorico, come ad una concezione
avversaria e incompatibile.
71
26
Ad ogni modo, la razionalità formale del diritto come “insieme di
norme” che non dipende da altro, e si impone, come in Hans Kelsen, quale
autonomo oggetto di sapere, alla fine si svuota, sino a coincidere, al di là di
ogni intenzione, con quella che la Scuola di Francoforte, e soprattutto
Horkheimer72, posero sotto accusa come mera razionalità strumentale: un
luogo in cui sembra perdersi ogni necessità di giustificazione o di
fondazione delle “forme” negli scopi, etici o politici che siano.
Chi legga la sociologia del diritto di Weber, del resto, riconosce la
netta individuazione weberiana di un aspetto del diritto: le norme si
seguono, non sono uno scopo e non hanno scopo.
In fondo, quest’aspetto, decisivo e avanzato, coincide con il
presentarsi dell’ordinamento come una sorta di sistema differenziato, che
incomincia a essere studiabile autonomamente se la sua oggettività non si
piega al potere. Anzi, il diritto è e deve essere questa generalità che
sopravvive alle contingenti finalità delle maggioranze e delle politiche.
Norme, insomma, non fini. L’ambiguità di questo doppio taglio che la
“forma” del diritto porta con sé, è sin troppo evidente.
Quanto ai diritti soggettivi, essi non sono più qualcosa di
autonomamente definibile. Rispetto alle grandi idealità illuministiche,
l’imporsi dello Stato europeo continentale stende la propria ombra al
punto da porre in concorrenza i diritti e la legge. Il problema sta nel fatto
che ormai i diritti soggettivi, quelli delle Dichiarazioni moderne,
indipendentemente dal modo in cui vengono fondati o teorizzati, possono
avere vitalità solo attraverso il diritto statale; e il diritto statale, anche per
l’effetto delle codificazioni europee, è diritto legislativo. Il punto è
l’incompatibilità tra una fondazione extralegislativa (giusnaturalistica,
soprattutto) dei diritti soggettivi da un lato e dall’altro l’originarietà e la
supremazia della volontà dello Stato (‐persona). Dopo Gerber, Laband,
Jellinek, poi, non c’è modo di “recuperare” una qualche originarietà e
autonomia di quei diritti soggettivi (com’è noto, difendibili, nell’orizzonte
del diritto positivo neo‐statale, solo come un’auto‐obbligazione dello
Stato).
Infine, una volta posto nella “teoria pura del diritto” (Kelsen), il
problema scientifico dei diritti soggettivi trapassa e si assorbe nel
semplice orizzonte del diritto “oggettivo”: i diritti sono fasci di norme.
Si noti che questo esito ha luogo entro il normativismo73 come
nell’organicismo giuridico à la Larenz, in Germania74. Ma è il normativismo,
che non ha connivenze con il totalitarismo, e semmai si collega di fatto a
filosofie politiche democratiche, come in Kelsen, a rappresentare
Cfr. tra i molti riferimenti, M.Horkheimer, L’eclisse della ragione. Critica della
ragione strumentale, trad. di E. Vaccari Spagnol, Torino 1969.
72
H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), a cura di R. Treves,
Milano 1952, p. 81: “il diritto soggettivo non è, in breve, che il diritto oggettivo”.
73
Rammento su questo punto M. La Torre, La” lotta contro il diritto soggettivo”.
Karl Larenz e la dottrina giuridica nazionalsocialista, Milano 1988.
74
27
l’indicatore più credibile del fatto che è avvenuta una revisione scientifica
(cioè anche non ideologicamente o politicamente servile), la revisione dei
diritti soggettivi: proprio perché tale revisione normativistica non
corrisponde affatto alla eliminazione delle figure dei diritti soggettivi
dall’ordinamento, ma semplicemente alla consapevolezza del loro
carattere artificiale, dovuto a gruppi di norme che prevedono e
distribuiscono facoltà autorizzazioni obblighi. I diritti non sono entità
dotate di una sostanza propria indipendente dall’artificio che le costruisce,
ossia quello giuridico. Questa de‐sostanzializzazione dei diritti soggettivi
può avvenire entro e non in contrasto con una visione liberale del mondo
sul piano politico, e senza alcun disprezzo per l’individuo. E persiste nel
tempo: le sue demistificazioni toccano sia la tesi della priorità dei diritti
soggettivi sul diritto oggettivo, sia la definizione contenutistica del diritto
soggettivo come potere della volontà o come interesse protetto75.
Infine, tra i fattori di sfondo, in questo scenario novecentesco euro‐
continentale, a tutto ciò si aggiunge il fatto che nell’aura del diritto penetra
una consapevolezza del tutto nuova circa il suo carattere artificiale: eco
non lontana, in molti casi, di una percezione secondo la quale ciò che conta
non è la sostanza ma la funzione. La reductio kelseniana del diritto
soggettivo al diritto oggettivo come dello Stato al diritto, si risolve in una
lotta contro la personificazione delle entità, contro l’attribuzione di
sostanza concreta a quel che è solo il frutto di stratificate fictiones, e che
comunque non dipende da una qualche realtà “materiale” sottostante, ma
semmai dall’esistenza di norme giuridiche. Alla fine si doveva spiegare le
figure teoriche sulla base di ciò che esse sono: insiemi di regole, non
sostanze.
Il normativismo kelseniano asserisce la conoscibilità delle norme
come dati “oggettivi”, sebbene appartenenti a un mondo, quello normativo
(Sollen), frutto di una duplicazione rispetto alla realtà dell’essere (Sein), e
sottoposto ad altro principio (l’imputazione normativa ) diverso dalla
causalità naturale. La conoscibilità del diritto viene dunque salvata
attraverso la divisione dell’universo “reale”. L’imputazione normativa‐ che
appunto avviene anche nel diritto‐ è opera d’uomo, instaura un dover‐
essere, istituisce un obbligo: è proprio di questo che può occuparsi una
teoria “pura” del diritto, ossia libera da ogni contaminazione con postulati
etici, fatti sociali, ipotesi di valore, presupposizioni che (anche) Weber
avrebbe definito “materiali”76.
Kelsen critica la Scuola storica come le tesi del Blackstone dei Commentaries,
quanto alla priorità di diritti “assoluti” che precedono logicamente il diritto oggettivo,
e confuta sia B. Windscheid, sia R. Jehring. Cfr. Id., Teoria generale cit., pp. 78 ss.
75
76 Personalmente ho una certa predilezione per le tesi ontologiche di O.
Weinberger e N. MacCormick (Il diritto come istituzione, a cura di M. La Torre, Milano
1986) che si riferiscono all’esistenza delle norme, in modo diverso da quello di
Kelsen, ossia assumendo che le norme hanno una realtà “ideale”, e una realtà
istituzionale, sociale: questa duplicità, della quale a Kelsen sfugge forse il secondo
aspetto, è ciò che secondo Weinberger costituisce la positività stessa del diritto, la
28
Questo nuovo quadro comporta, nel suo insieme, alcune
conseguenze “estreme”:
1. perché i diritti siano conoscibili essi devono essere norme (se non
fossero norme, come Kelsen li descrive, sarebbero incontrollabili ipostasi
metafisiche).
2. poiché le norme istituiscono obblighi e regolano l’esercizio della
forza, non possono esserci diritti, a meno che questi non si presentino
come un aspetto delle norme, e in particolare un aspetto visibile solo “in
negativo”: il diritto oggettivo impone obblighi, non costituisce diritti
soggettivi come interessi protetti (à la Jehring), semplicemente istituisce
forme di azione (ossia la protezione giuridica). E comunque, diritto
soggettivo è il negativo di un obbligo corrispondente (altrui) e della
connessa azione in giudizio (per richiederne l’adempimento).
3. al di fuori del fascio di norme‐ diritto oggettivo‐ che finisce per
indurci a identificarlo, un diritto soggettivo ovviamente non esiste.
Kelsen ha rifiutato ogni definizione, sia pure formale, ma riferita
alla sostanza. Kelsen non dice che avere un diritto soggettivo significhi
essere titolari di un qualche bene degno di tutela, né che i diritti
corrispondano a interessi da proteggere, né come scrive Neil MacCormick
beni da garantire agli individui. Anzi, il carattere soggettivo del diritto
(right) si giustifica, egli scrive, “soltanto se l’applicazione della norma
giuridica, l’esecuzione della sanzione, dipende dall’espressione di volontà
di un individuo diretta a questo scopo”: dunque, “soltanto se la legge è a
servizio di un individuo” la “soggettivazione del diritto” si giustifica,
perché indica null’altro che “la presentazione di una norma giuridica
oggettiva come diritto soggettivo di un individuo”77.
Eppure, altro è definire i diritti soggettivi solo facendo riferimento a
come si proteggono; altro a quel che verrebbe in tal modo protetto, e cioè a
cosa siano, di per sé78. Certo, per il Kelsen teorico del diritto, i diritti intesi
come valori tutelati in relazione agli individui, non sarebbero condicio sine
qua non, un elemento essenziale, perché un ordinamento giuridico sussista.
Non a caso, la stessa Costituzione è per Kelsen essenzialmente (“in senso
materiale”) un’organizzazione di poteri e procedure, la norma positiva “da
cui è regolata la produzione di norme giuridiche generali”, insomma un
insieme regolato di fonti e di “forme” 79 . Di fatto, però, poiché le
quale non può essere presupposta, da una teoria che si occupi del solo aspetto
“ideale”. In questo senso la realtà delle norme ha una natura complessa, ha senso
istituzionale: cfr. ivi, pp. 47 ss., 52 ss., 54 ss.
77
Kelsen, Teoria generale cit., p. 83.
78 Ma, come sappiamo, Kelsen sposta l’accento sul fatto che i diritti sono un
mero (non‐)contenuto processuale (l’azione in giudizio) in dipendenza di un obbligo
altrui “logicamente” connesso.
H. Kelsen, La garanzia giurisdizionale della costituzione, in Id., La giustizia
costituzionale, a cura di C. Geraci, Milano 1981, pp. 152‐3. Naturalmente, cfr. anche
Id., Teoria generale cit., pp. 126 ss.
79
29
Costituzioni occidentali incorporano ed enunciano valori e principi di
giustizia, esse divengono anche norme sui “fini” che la produzione
(legislativa) di norme deve o può legittimamente perseguire: ma questo è
un aspetto, un “fatto”, che nella dottrina kelseniana appare in sé
contingente, e dunque non pertinente alle determinazioni necessarie, a ciò
che assicura l’esistenza del diritto, e tutela l’autonomia di un ordinamento
giuridico.
7. Un inciso. Diritti “positivi”, regole e principi.
Il giurista europeo continentale cui sia consueta la visione giuspositivista,
almeno quella di Kelsen, trova un radicale mutamento di paradigma nella
lettura delle opere di Ronald Dworkin. In effetti, se Kelsen giunge sino al
punto di svuotare i diritti per esporli come norme, Dworkin certo ci aiuta a
restituire loro “sostanza”, ma distinguendoli dalle norme poste attraverso
la “legge”. In parte questa tesi illumina comunque un profilo essenziale
negli Stati costituzionali, divenuto tale anche‐ per la verità con qualche
secolo di ritardo rispetto alla Costituzione statunitense‐ nell’Europa del
secondo Novecento: ossia il fatto che ai diritti essi attribuiscono un
fondamento (costituzionale e dunque) proprio e separato rispetto alla
legislazione, e dunque una forza equi‐ordinata rispetto al principio
democratico. D’altro canto, Dworkin insiste comunque sui diritti “morali”,
sulla loro autonomia e appartenenza all’ordinamento giuridico, e infine,
come già sappiamo, sulla loro priorità rispetto a valori concorrenti,
priorità che spetta all’ordine giudiziario garantire.
Dworkin (che sfugge all’etichetta di giusnaturalista e a quella di
giuspositivista) persegue in realtà un costante obiettivo: mostrare che
quanto si ritiene di volta in volta un diritto “morale” degli individui, può
essere spiegato, attraverso la ricostruzione del sistema, come già‐sempre‐
diritto positivo. Egli ritiene che esista nell’insieme, nell’integrità
complessiva dell’ordinamento un’unica risposta giusta cui l’interprete
potrebbe giungere se fosse capace di ricostruirlo con la dovuta
competenza, se fosse in grado di non fermarsi alla lettera del diritto posto.
L’ “unica risposta giusta” restituisce dunque al giurista fiducia
nell’obiettività possibile della sua attività “conoscitiva” ma la lega alla
possibilità di un ragionamento “morale”: che si esercita‐ secondo
Dworkin‐ sui contenuti sostanziali presenti della tradizione costituzionale.
E’ noto che non il giuspositivismo di Kelsen, ma quello di Hart, ha
rappresentato il bersaglio polemico di Dworkin, e che la sua critica a Hart
nasce proprio dal tentativo di rispondere a quelle che Dworkin riteneva
insuperabili impasse del normativismo, specie verso quei casi “difficili”,
casi di “penombra”, innanzi ai quali l’interpretazione del giudice non
avrebbe potuto che essere “libera”, e apparire bisognosa di criteri che il
giuspositivismo, come quello di Hart, non considerava reperibili
nell’ordinamento. Le rigidità del positivismo sembravano a Dworkin
privare l’interprete di criteri per raggiungere soluzioni adeguate e
30
congruenti con l’ordinamento (fitting e integrity divengono poi due parole
chiave del linguaggio dworkiniano, esprimendo mezzi e metodi per la
ricerca da parte dell’interprete di soluzioni che tengano conto non solo
delle regole ma anche dei principi, collocandosi comunque oltre la linea
divisoria tra conoscenza e invenzione del diritto). E questa genesi critica
del lavoro dworkiniano testimonia l’importanza che egli attribuisce alla
fondazione giuridica di una soluzione corretta. Importanza che si lega però
alla sua lettura “morale” degli ordinamenti giuridici costituzionali
contemporanei (nella specie quello statunitense), in quanto portatori di
un’ispirazione normativa oggettivamente ricostruibile nei termini della
difesa delle minoranze e degli individui rispetto alle maggioranze politiche,
alle scelte legislative, e al loro “paternalismo” cui i giudici innanzitutto
devono sapersi opporre in nome della giustizia, di ciò che spetta agli
individui, ossia in nome dei loro “diritti morali”. Dworkin “pensa”
l’ordinamento nella pienezza delle sue ispirazioni di principio, dei suoi
valori storici, dei suoi impegni di giustizia. In un certo senso, il diritto è
giustizia. E la Costituzione (americana) è pensata come l’humus morale dei
diritti individuali80.
Occorre infine precisare innanzitutto sul piano teorico quale sia il
rapporto tra diritti, regole e principi. Credo, come ha sostenuto Robert
Alexy, che la disciplina dei diritti soggettivi dipenda normalmente, anche
negli ordinamenti continentali, come quello italiano o tedesco, da un ruolo
congiunto di regole e principi81: al punto che anche diritti basati su regole
(definitive rights), posti direttamente da regole, e non solamente evocati
più in astratto da principi, pur disponendo di fattispecie di sussunzione82,
possano essere poi definiti meglio, nella loro portata in concreto, in casi
specifici, attraverso il rimando ai principi sottostanti; infine anche tra
questi ultimi principi può essere necessaria un’opera di bilanciamento e di
R. Dworkin, I diritti presi sul serio, cit.; ma anche Freedom's Law: The Moral
Reading of the American Constitution,. Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1996.
80
Per una distinzione tra regole e principi, vd. R. Alexy, Concetto e validità del
diritto, trad. di F. Fiore, Torino 1997, p. 73: “Regole sono norme che nel costruire una
fattispecie predispongono una conseguenza giuridica definitiva” e pertanto sono
“definitive Gebote”, e la forma di applicazione che li caratterizza è “la sussunzione”;
principi sono “precetti di ottimizzazione (Optimierungsgebote), e “prescrivono che
qualcosa deve essere realizzato in gradi diversi” grazie non solo alle possibilità di
fatto ma ai limiti giuridici che nascono “da principi contrastanti”, la qual cosa implica
che i principi sono bisognosi di ponderazione, quale “forma di applicazione
caratteristica dei principi” (pp. 73‐4).
81
G. Zagrebelsky, che richiama la teoria di Alexy, scrive: “I principi, comunque, a
differenza delle regole, sono norme senza fattispecie (o determinazione del fatto o
‘Tatbestand’). I principi non sono in se stessi suscettibili di essere espressi nella
forma dell’imperativo ipotetico di Kelsen“ (G. Zagrebelsky, “Ronald Dworkin’s
Principle based Constitutionalism: an Italian Point of View”, in International Journal
of Constitutional Law, vol. I, n. 4, 2003, p. 630 ).
82
31
ponderazione83. Infatti, mentre i principi possono essere soddisfatti “in
gradi diversi” le regole, invece, grazie a una differenza qualitativa “sono
sempre norme o attuate o no” (“always either fullfilled or not”)84. Ora,
questa distinzione è simile a quella proposta da Ronald Dworkin 85 ,
secondo il quale le “rules” si applicano “all or nothing”, mentre i principi
permettono diverse realizzazioni (concretizzazioni), non richiedono
sempre una particolare decisione. In realtà, secondo Alexy, questa
distinzione può essere ancora migliorata: anche le rules sono suscettibili di
subire una particolare eccezione e non essere applicate in un caso specifico,
e ciò proprio sulla base di un principio: e queste deroghe non sono
quantificabili con certezza a priori.
E’ dunque diffusa l’idea che i principi consentono all’interprete di
costruire gli aspetti normativi dell’ordinamento che non sembrano
esplicitamente contenuti nelle regole disponibili. Per Dworkin i princìpi
costituzionali statunitensi, ad esempio, indicano la priorità dei diritti
individuali sul bene comune e sulle scelte contenute nelle regole poste
dalle maggioranze democratiche. Per Alexy e per molti giuristi continentali
europei, i principi, pur contribuendo a dettare i fondamentali elementi di
sfondo sulla cui base è possibile oltrepassare i limiti stessi posti dalle
“regole”, sono comunque di fatto riferiti a ispirazioni costituzionali più
variegate, che in genere alla tutela degli individui e dei loro diritti,
aggiungono la tutela del bene comune e il perseguimento della solidarietà
sociale.
8. I diritti “fondamentali”. Deontologico vs. teleologico.
Secondo una visione liberale e secondo un’interpretazione che ha le sue
solide basi nel costituzionalismo moderno, i diritti sono una questione di
“principio”, hanno pertanto una portata deontologica: dobbiamo
riconoscerli perché sono espressione di giustizia, anche se questo
riconoscimento contrastasse con valori prevalenti, con le etiche particolari
di questi o quei luoghi, con i fini etico‐politici che assumono valore per le
collettività. A questo punto le norme (legislative) esprimerebbero una
teleologia sociale potenzialmente in conflitto con i diritti individuali,
83 Per questo si veda Alexy, A Theory of Constitutional Rights, cit., pp. 50 ss. e
passim .
Ivi, pp. 47‐8. Secondo Alexy, pertanto, un regola può essere “valida o non
valida” e in caso di conflitto tra regole, a meno che una di esse sia vista come
un’eccezione, almeno una deve essere dichiarata invalida. Al contrario, nel caso di
principi in conflitto, uno deve prevalere, ma questo non significa né che esso contiene
un’eccezione né che uno di essi è invalido (ivi, p. 50). Conseguentemente, “conflitti tra
regole avvengono al livello della validità; dal momento che solo principi validi
possono entrare in competizione, la concorrenza tra principi avviene invece nella
dimensione del peso” (ibidem).
84
85
27.
Dworkin, I diritti presi sul serio, cit., pp. 90 ss.; Alexy, A Theory cit., p. 48, nota
32
specie se i valori che esse incarnano sono riassumibili nell’utilità comune,
ad onta della “giustizia”, la quale solamente potrebbe proteggere i singoli.
Ma, per restare al modo in cui la questione si pone nelle famose pagine di
Dworkin, il punto è che le politiche pubbliche sono orientate per
definizione al bene comune, mentre la giustizia ‐ verso la quale i giudici
sono istituzionalmente obbligati‐ è deontologicamente caratterizzata da
questioni di principio. I diritti dunque sono una questione di giustizia, una
questione deontologica, e non una questione di “valori” (etica), non una
questione “teleologica”, non una questione di scelte politiche.
Eppure, quando si tratta di diritti fondamentali il punto è che oltre
ad essere una giustificazione sufficiente per le nostre scelte, quel diritto
individuale evidenzia nel contempo un bene per l’individuo che per la sua
importanza appare posto anche tra gli obiettivi collettivi, costituisce un
fine e un bene in sé. E così i diritti fondamentali divengono concetto
ancipite, condiviso tra giustizia ed etica, tra principi e fini collettivi.
In Jürgen Habermas si ritrova un’ulteriore difesa del carattere
deontologico dei diritti individuali. Seguendo Dworkin, egli li separa dal
loro possibile senso assiologico e teleologico al fine di sottrarli ad ogni
ponderazione comparativa rispetto alle scelte collettive, alle “analisi costi‐
benefici” 86 , alla concorrenza con “valori”, rispetto ai quali i diritti si
trovano, in definitiva, su un altro piano.
Come Habermas insiste, “non appena i diritti sono trasformati in
beni e in valori, essi devono in ogni singolo caso lottare sullo stesso piano
per conquistare la prevalenza. Di per sé, ogni valore è particolare quanto
gli altri, mentre invece le norme devono la loro validità a un test di
generalizzazione” 87 . Per questo, la sua tesi principale diviene:
“Trasformare concettualmente i diritti fondamentali in valori
fondamentali significa mascherare teleologicamente i diritti, fino al punto
da mistificare il ruolo diverso che nei contesti di fondazione norme e valori
assumono sul piano dell’argomentazione logica”88. Le norme giuridiche
devono essere tra loro coerenti e non contraddirsi, mentre i valori
possono essere in tendenziale conflitto; valori (per noi) sono espressione
di particolarismo, principi e norme (per tutti) sono espressione di
generalizzabilità. E doveroso (norme) non è la stessa cosa di
raccomandabile (valori). Le norme vincolano le istituzioni alla protezione
dei diritti: e se non mettiamo i diritti in concorrenza con i valori più
svariati, arginiamo la discrezionalità che le Corti tendono ad assumere.
Credo che sia intanto ineccepibile l’opposizione tra teleologico e
deontologico, tra particolarità dei valori e universalità delle norme. Ma
essa indica solo che i due versanti non coincidono e che non possiamo
cancellare i confini logici che li separano e che abbiamo tradotto in
86
J. Habermas, Fatti e norme, trad. di L. Ceppa, Milano 1996, p. 309.
87
Ibid.
88
Ivi, p. 305.
33
istituzioni capaci di proteggere il “giusto” rispetto alle cangianti politiche
del “bene”89.
Quanto ai diritti fondamentali, essi però sembrano porsi in una
postazione peculiare. Quel che dall’esterno appare deontologico (in quanto
rappresenta ineludibili principi razionali di giustizia, indica una
prescrizione cui si deve obbedienza, al di là di ogni nuovo apprezzamento
o scrutinio o bilanciamento “politico” della sua meritevolezza), dall’interno
è il risultato di una declinazione etica, dell’acquisizione del bene protetto
da quel diritto come un “valore” non rinunciabile, alla base di un
ordinamento (diritti “fondamentali”). Si tratta di una questione complessa,
che attiene alla natura stessa dei diritti fondamentali, e investe la loro
forse duplice appartenenza, al piano della giustizia e a quello dei fini
istituzionali delle democrazie liberali.
Le posizioni di Habermas e di Dworkin, l’una effettivamente
ispirata all’altra, pure procedono da interessi teorici diversi, così da non
poter essere totalmente identificate. Per Habermas, il “sistema dei
diritti”90 ha forza deontologica anche perché, pur “cooriginario” rispetto
alla sovranità democratica, ne governa le procedure di esercizio. Il sistema
dell’autonomia privata (i diritti individuali) e l’autonomia pubblica
(l’esercizio della sovranità popolare) si sostengono l’un l’altro. Si dà
dunque un contatto tra la giustizia dei diritti “morali” degli individui da un
lato e dall’altro la decisione istituzionale, la definizione collettiva delle
priorità comuni e anche la prassi “comunicativa” che è necessaria per
individuare materialmente il contenuto dei diritti.
In Dworkin, tuttavia, questi piani paralleli o convergenti sono
semplicemente opposti: Dworkin definisce una divisione dei ruoli (morali
e istituzionali). La promozione delle politiche pubbliche spetta alle
maggioranze ma la tutela dei diritti spetta ai giudici. Se si esce da questa
logica, anche i diritti diventano “inutili”. Questo antagonismo dei ruoli è
paradossalmente ciò che consente di tradurre in termini operativi la sua
distinzione tra “principles” (giustizia) e “policies” (preferenze politiche).
9. I diritti fondamentali e la ricerca di una definizione “istituzionale”.
Che i diritti fondamentali siano tutelati rispetto agli ondeggiamenti delle
maggioranze legislative è un obiettivo essenziale e irrinunciabile: ma non
può essere perseguito attraverso una visione anti‐politica, solo “morale‐
razionale” dei diritti soggettivi, visto che il contenuto e l’emergenza dei
diritti, il loro senso e la loro interpretazione sono comunque frutto
dell’impegno “comunicativo” di una democrazia funzionante: Habermas
stesso ha insistito circa lo sviluppo “democratico” dell’universalità dei
Ho sostenuto queste tesi in Dopo la certezza. Il diritto in equilibrio tra giustizia
e democrazia, Bari 2006.
89
90
Cfr. Habermas, Fatti e norme, cit., passim
34
diritti91: in altri termini, ha riconosciuto l’importanza del contributo che la
discussione pubblica, il ragionamento politico assumono nel dare
contenuti propri, di volta in volta prescelti, a diritti individuali che in ogni
caso restano espressione di idee di giustizia, di idee morali di per sé
universali. Dunque, non serve solo la definizione razionale di idee generali
su ciò che spetti in astratto all’individuo, ma un costante
“autochiarimento” etico‐politico del significato dei diritti. Da un lato i
diritti si impongono alle collettività proteggendo i loro membri in quanto
singoli, dall’altro sono gli stessi individui in quanto parte della sfera
collettiva a dover identificare il senso e il contenuto dei diritti stessi, che
pertanto risultano anche da un’elaborazione politica.
D’altronde, perché i diritti fondamentali siano diritti fondamentali, in un
sistema giuridico è necessario che essi divengano una questione
“istituzionale”, o detto altrimenti, divengano criteri interni alla prassi con
cui la legittimità o la validità giuridica viene definita dagli organi
istituzionali. In linea di massima, diritti fondamentali in un ordinamento
sono norme di produzione e criteri di merito per tutte le attività normative
istituzionali autorizzate, e come tali non gravano sulla sola responsabilità
delle corti (Dworkin) né deve uniformarvisi il solo “legislatore”; la loro
forza normativa dipende dal complesso delle tensioni tra attività
giudiziarie, esecutive e amministrative, e l’opinione pubblica dei paesi
democratici. Perché diritti siano fondamentali in un sistema è necessario
che essi siano parte della sua norma di riconoscimento, ossia dell’insieme
di criteri in base ai quali si può giudicare valido o meno ogni altro atto
normativo nel sistema giuridico stesso 92.
In quanto “criteri di giuridicità”, il carattere “fondante” di questo
genere di “diritti”, non dipende dall’essere “decisi” da una qualche autorità
politica, né solo dall’essere costituzionalmente protetti, ma dall’aver
conquistato effettivamente la funzione di criteri metanormativi di validità.
Quando alcuni diritti individuali sono ritenuti talmente importanti da
tradursi in criteri sostanziali effettivamente seguiti per giudicare della
validità di tutte le altre norme in un ordinamento dato, allora essi sono
fondamentali. Questa veste e questa funzione giuridica non possono che
riflettere in termini di forza o qualità giuridica, l’importanza che in termini
assiologici, in termini di “valori”, alcuni diritti hanno acquisito.
Perché un diritto sia fondamentale, su un piano semplicemente
morale, dobbiamo certamente concepirlo come dotato di valore in sé: ma
deve trattarsi anche di un valore prioritario, di un valore ultimo, come si è
propensi a credere per quei diritti che proteggono la vita, la dignità, la
91 J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J.
Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. di L. Ceppa,
Milano 1998, p. 83.
Devo rimandare per la giustificazione e per l’esposizione completa della tesi
teorica circa la relazione tra diritti fondamentali e norme di riconoscimento alla
trattazione contenuta nel mio volume L’autorità dei diritti, cit.
92
35
libertà degli individui. In un sistema giuridico in che cosa si manifesta il
fatto che i diritti sono fondamentali, e come tali sono dotati di valore in sé
e di valore ultimo? Si traduce nella funzione conseguente che un diritto
fondamentale assume, ossia quella di criterio di riconoscimento di norme
valide.
D’altro canto, la tutela e l’attuazione di quei diritti rientrano tra i
fini propri del sistema di riferimento; il bene alla cui protezione il diritto
soggettivo è preordinato costituisce uno tra gli scopi essenziali delle
attività pubbliche, in altri termini dispone almeno di una qualche forma di
“incarnazione” nell’agenda delle “istituzioni”.
La mia convinzione è che in quanto fondamentali i diritti indichino
anche fini collettivi: e dovrebbe apparire sconcertante che diritti relativi a
beni ritenuti fondamentali non figurino anche tra i fini collettivamente
irrinunciabili.
Come ho accennato, con le costituzioni contemporanee, gli
ordinamenti giuridici euro‐continentali hanno finalmente attribuito ai
diritti un’autonomia rispetto alla legge, che deriva loro proprio dalla
previsione costituzionale, deriva cioè dal fatto che alcuni diritti, come nelle
costituzioni contemporanee occidentali almeno i principali diritti di libertà,
i diritti civili e i diritti politici, e in molte costituzioni europee i principali
diritti sociali, non esistono giuridicamente grazie alla volontà delle
maggioranze, ossia alla legge, ma grazie alla volontà dei padri costituenti:
sono posti al di là della volontà legislativa, che non può nemmeno essa
violarli, in una fonte superiore alla stessa legge, la costituzione appunto. Il
valore intrinseco dei diritti viene tutelato, in senso istituzionale,
affermando l’autonomia dell’origine, un fondamento separato dei diritti,
(almeno) accanto e all’altezza della “legge”. Certo questa recentissima
conquista di civiltà non è sufficiente, perché essa non propone come
superare la demarcazione liberale tra fini collettivi e diritti individuali, in
modo da proteggere i diritti all’interno degli stessi fini collettivi.
E del resto tale ultima questione sarebbe del tutto inconcepibile per
Dworkin, secondo il quale i diritti sono, in fondo, definibili proprio come
ragioni sufficienti contro ogni egoismo pubblico (rights as trumps 93 );
indipendentemente da un calcolo delle conseguenze o dalla limitazione
delle risorse94. Questa interpretazione favorisce i diritti sul presupposto
che la stessa logica delle democrazie sia strutturalmente “paternalista”
(basata su preferenze “esterne”, relative agli interessi di “altri” individui,
espresse maggioritariamente dalle assemblee legislative), e bisognosa di
93 R. Dworkin, Rights as Trumps, in J. Waldron (ed.), Theories of Rights, Oxford
1984, pp. 153‐67.
Un diverso equilibrio tra diritti e questioni collettive, come tra principi e
politiche pubbliche, e una critica ad atteggiamenti puramente deontologici quanto ai
diritti si trova in A. Sen, del quale in particolare cfr. Legal Rights and Moral Rights: Old
Questions and New Problems, in “Ratio Juris”, 1996/ 2; e Rights and Agency, in
“Philosophy and Public Affairs”, 1982/1, pp. 3 sgg.
94
36
un contropotere nei diritti e nei giudici 95. Che i diritti debbano essere
garantiti al di fuori del processo democratico (ossia attraverso l’opera
razionale delle Corti di giustizia) è ritenuto alla fine naturale, per il fatto
che “le decisioni sui diritti verso la maggioranza, non sono questioni che
secondo giustizia possano essere lasciate alla maggioranza” 96.
Tuttavia, credo che se i diritti hanno valore intrinseco (allo stesso
modo del parallelo principio democratico), allora essi valgono per noi e ci
impegnano, in positivo, come obiettivi normativi: e solamente in tal modo
divengono una questione “istituzionale”, un costante elemento critico e un
test di controllo del contenuto delle nostre istituzioni.
E’ stato soprattutto Amartya Sen a sostenere che le teorie goal
based (e quindi capaci di porre a tema i fini pubblici) non sono
necessariamente in opposizione a quelle che attribuiscono priorità ai
diritti, bensì lo sono soltanto le teorie utilitariste: non vi è alcuna
impossibilità logica di conciliare priorità dei diritti e teorie dei fini
collettivi; il fine dell’eguaglianza, ad esempio, è un goal coincidente con
l’idea morale che si diano diritti degli svantaggiati a un trattamento
migliore97.
Il vantaggio specifico di considerare diritti come goals consiste
essenzialmente nell’impossibilità di assumerli come semplici limiti innanzi
a cui deve arrestarsi l’azione sociale: li si deve concepire come obiettivi
sociali cui attribuire la massima attenzione98 . In definitiva, anche Sen
conclude che “se i diritti sono fondamentali allora essi hanno anche valore,
e se hanno valore intrinsecamente e non solo strumentalmente, essi
dovrebbero comparire tra i fini (goals)”99.
Grazie a queste considerazioni, emerge ancora l’insostenibilità del
carattere anti‐politico dei diritti fondamentali. In fondo, come ha scritto
Joseph Raz, l’idea che i diritti siano una questione individuale che tiene in
disparte le questioni pubbliche “è basata su un profondo fraintendimento
della natura dei diritti in generale e dei diritti civili e politici in
particolare”100.
10. Diritti umani e diritti fondamentali.
10.1. Definiti i diritti fondamentali in ragione della funzione che
acquisiscono come norme all’interno di un ordinamento giuridico e del
95 Cfr. Dworkin, I diritti presi sul serio, a cura di G. Rebuffa, trad. di F. Oriana,
Bologna 1982, p. 328 e passim.
96
Ivi, p. 254.
97 A. Sen, Rights as Goals (Austin Lecture), in “Archiv für Rechts‐ und Sozial
Philosophie” (ARSP), 21, 1985, p.12.
98
Sen, Rights as Goals, cit., p. 15
99
Ibid.
100
J. Raz, Ethics in the Public Domain, Oxford 1996, p. 56.
37
contenuto specifico del bene che intendono tutelare assicurandolo agli
individui, essi restano così un prodotto “positivo”, sono parte integrante
delle priorità normative di un ordinamento giuridico.
Tra queste priorità i diritti fondamentali possono naturalmente
comprendere un insieme di diritti che appartengono, o si ritiene che
appartengano agli esseri umani in quanto tali. L’idea moderna dei diritti
“naturali” ne è un esempio.
Ma è meglio evitare l’identificazione concettuale tra diritti umani e
diritti fondamentali. I diritti umani sono un concetto innanzitutto filosofico,
che articoliamo variamente in dipendenza dalle nostre concezioni circa ciò
che spetta agli esseri umani in quanto tali. Le concezioni filosofiche
possono differenziarsi tra loro. Ma i diritti umani diventano
“fondamentali” qualora entrino nelle strutture portanti di un ordinamento
giuridico e qui acquisiscano definizioni giuridiche specifiche.
L’astrattezza dei diritti umani è la condizione preziosa per la loro
aspirazione o pretesa di “universalità”. A dispetto delle carte
internazionali (o europee), che mirano a tradursi in nuclei di diritti
“positivizzati”, l’accento deontologico, e dunque kantiano, di principio,
categorico, puro, dei diritti umani è indice della loro forza “morale”. La
forza dei diritti umani sta nel fatto che essi sono in definitiva una filosofia.
Se è vero che presuppongono un’ontologia, un’epistemologia,
un’antropologia, una visione della giustizia, pure la loro persistente
astrattezza può funzionare come una sorta di principio critico permanente.
Per converso, come molti sostengono, i diritti umani hanno avuto e
conservano un significato individualista e liberale: il loro linguaggio
neutro ha giovato anche alla perpetuazione di forme di dominio (come ha
insistito a lungo il pensiero femminista, riferendosi al dominio basato sul
genere101 ); e oggi la questione dei diritti in generale appare a doppio taglio,
mossa da inconfessati interessi dell’occidente, o di una parte di esso,
eppure ridondante di proclamazioni umanitarie.
Michael Ignatieff nella sua “apologia”102, pose in primo piano la
natura sottile dei diritti umani103: i quali riguardano le condizioni della
libertà negativa, assimilata a ciò che è giusto, e non a ciò che è bene. E’
“possibile godere di una piena protezione dei diritti umani e tuttavia
101 A differenza di quelle basate sul sesso, le differenze basate sul “genere” sono
un prodotto sociale. Pertanto, le politiche gender‐neutral tendono a riprodurre
gerarchie e discriminazioni (Tra molti, cfr. D. L. Rodhe, Justice and Gender, Cambridge
(Mass.) 1989; o C. MacKinnon, Crimes of War, Crimes of Peace, in S. Shute, S. Hurley,
On Human Rights, New York (Basic Books) 1993, pp. 83‐109 ).
102 Una ragionevole apologia dei diritti umani ( trad. di S. D’Alessandro, Milano
2003) è il titolo dell’edizione italiana di Michael Ignatieff, Human Rights as Politics
and Idolatry, Princeton 2001.
Non trascurabile contributo alla nozione di diritti umani è offerto‐ in
direzione in parte analoga‐ da J. Rawls, Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone,
Milano 2001, p. es., pp. 104‐7.
103
38
ritenere di essere privi dei requisiti essenziali di una vita buona”104. Si
tratta delle condizioni minime di ogni genere di vita. “I diritti umani sono
universali non in quanto vernacolo della prescrizione culturale ma come
linguaggio del conferimento di potere morale. Il loro ruolo non è quello di
conferire il contenuto di cultura ma cercare di affrancare tutti gli attori in
modo che essi possano liberamente plasmare quel contenuto” 105 .
Contemporaneamente, secondo Ignatieff, piuttosto che la tagliente rigidità
di armi deontologiche, i diritti umani dovrebbero essere concepiti come
contenuto di una deliberazione sensibile alle conseguenze e forgiata
politicamente: i diritti umani sono dunque “una forma di politica”106 che
deve introdurre nella realtà il criterio dei fini morali, e sono “politici”
poiché implicano uno scontro tra i detentori dei diritti e i detentori del
potere107. Per questo, quello dei diritti “è l’unico gergo universalmente
disponibile che convalida le richieste di donne e bambini contro
l’oppressione che vivono nelle società patriarcali e tribali; è l’unico
linguaggio che permette a persone in posizione di dipendenza di
percepirsi come agenti morali e di agire contro pratiche‐ i matrimoni
combinati, la reclusione femminile, l’esclusione dai diritti di cittadinanza,
la mutilazione genitale, la schiavitù domestica e altre‐ che sono ratificate
dalla pressione e dall’autorità delle loro culture”108.
Sorge però la domanda circa la compatibilità tra i termini di questa
definizione dei diritti umani che ne riconosce da un lato il significato
politico, la portata teleologica rispetto alle concrete conseguenze, il
contenuto volta per volta specifico, e dall’altro la natura neutra, sottile,
preliminare, morale, e dunque universalmente riconoscibile. Anche questa
presentazione teorica dei diritti umani presta dunque il fianco a obiezioni
ricorrenti109. Del resto, i diritti umani diventano da un lato espressioni
104
Ignatieff, op. cit., p. 57.
Ivi, p. 75. A questa tesi, aderisce Salvatore Veca, La priorità del male e i diritti
umani ( nell’ intervento che accompagna l’edizione italiana di Ignatieff, op. cit.) il
quale appaia la giustificazione minima alla consapevolezza della “priorità del male”( i
diritti umani dopo l’olocausto chiariscono il loro senso) e attribuisce ai diritti umani
la capacità di indicarci o focalizzare le “ragioni della non eleggibilità di una vita” (ivi,
p. 120 e cfr. p. 123 ). Coerentemente Veca conclude che i diritti umani a questo punto
devono però considerarsi carte vincenti (ivi, p. 133).
105
106
Ivi, p. 26.
107
Ivi, p. 69.
108
Ivi, p. 70.
Messe così le cose, ha buon gioco chi sottolinea il carattere ideologico e
comunque eticamente connotato dei diritti umani, sul presupposto che la definizione
di Ignatieff sia falsa: i diritti sono tutt’altro che minimi e tutt’altro che vuoti, ma
espressione di ideali etici ben più “connotati” di quanto appaia la garanzia della
libertà negativa, sebbene anch’essa non sia, peraltro, che una rappresentazione di
ideali culturali individualistici, a loro volta in collisione con i diritti collettivi : cfr.
Danilo Zolo, Fondamentalismo umanitario, intervento che segue all’edizione italiana
del saggio di Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit.., pp. 145 ss.
109
39
trascendentali dell’umanità dall’altro il frutto di visioni etiche particolari e
politicamente negoziabili: queste qualità e questi status sono sì ascrivibili
ai diritti in generale, ma ne determinano un collasso. Questi diversi gruppi
di proprietà sono rilevanti, ma se vogliamo comprenderle dobbiamo
identificare due tipi “teorici” di diritti, i diritti fondamentali accanto ai
diritti umani, intendendoli come due modalità concettuali diverse in cui di
diritti si può parlare, e cui, separatamente, questi gruppi di connotazioni
possono essere riferiti.
Espressioni come diritti umani e diritti fondamentali non sono da
considerarsi equivalenti e fungibili: conviene valorizzarne il diverso
spettro di significato, proprio al fine di rispondere con strumenti
concettuali meno “piatti” ai molti compiti e ai molti attacchi, e anche alle
molte aporie, che gravano sui diritti.
Generalmente, i diritti umani sono‐ o si preferisce che siano‐ anche
diritti “fondamentali”. La qual cosa, se non è ripetitiva, dovrebbe alludere
al fatto che una società determinata assume la tutela dei diritti umani
come essenziale per la sua sopravvivenza. A mio modo di vedere, se non si
tratta di una tautologia, i diritti umani sono anche fondamentali, (se e)
perché li poniamo a fondamento della nostra vita comune, praticati come
imprescindibili per gli individui non in astratto, ma in un sistema sociale
organizzato.
Come diritti umani essi sono dunque “astratti”, mentre come diritti
fondamentali non possono esserlo. Per proporre una descrizione dei diritti
fondamentali bisogna sottoporsi all’onere di mostrare che un certo nucleo
di diritti (compresi, eventualmente, i diritti “umani”) ha un ruolo cardine
in una società, in un sistema sociale, così da essere in esso una struttura
portante, e un obiettivo che orienta istituzioni e policies.
Quando sono anche fondamentali, i diritti umani, che sono di per sé
concezioni filosofiche circa gli esseri umani, fanno parte
contemporaneamente sia di una concezione dell’uomo, sia di un sistema
sociale, che richiede tra le proprie regole del gioco, o tra i propri impegni
costitutivi, essenziali, la tutela di quei diritti.
Una teoria dei diritti “umani”, di per sé, si conclude con l’annuncio
di una pretesa deontologica, ciò che dobbiamo agli esseri umani, legata
almeno a una teoria morale e probabilmente ad un’antropologia. Come ho
ribadito supra, una teoria dei diritti fondamentali ci impegna invece a
concentrarci su ciò che è in grado di contribuire all’esistenza di una società
basata sui diritti (o anche a raccomandarli come ciò che dovrebbe o
potrebbe farlo): si tratta di analisi o di ricette che non si esprimono in
termini deontologici, ma in termini etici, istituzionali, politici, teleologici.
Per restare nei margini netti, i diritti fondamentali hanno bisogno di
concretezza quanto i diritti umani di astrattezza. E tra i fattori che
integrano tale concretezza sta certamente il fatto della definizione
collettiva del loro posto nella scala delle priorità, nonché il necessario
evolversi dell’elaborazione politica del loro contenuto materiale.
40
Sui diritti umani si possono fare scelte filosofiche alquanto sottili, e
coerenti con una grande diversità di possibili giustificazioni a sostegno110 .
La differenza di vedute non riguarda solo i paesi non occidentali ma anche
quelle western countries, che adottano angoli visuali differenti: ad esempio
con riguardo alle forme di tutela o di giustiziabilità internazionale, e non
solo111. Il consenso universale sui diritti “universali” è spesso assente. Ma
chi ritenga di proteggere pretese elementari di riconoscimento della
dignità umana, deve considerare i diritti umani per amor di coerenza,
quali carte vincenti (come per Dworkin e per Habermas): quei diritti
dovrebbero essere aggiudicati agli individui grazie alla forza di argomenti
di principio e del tutto indipendentemente da ogni ostacolo di policy. 112
Perché mai una teoria dei diritti umani, riferita per definizione agli esseri
umani, capace di identificare ciò che in termini di giustizia (essenziale), sia
dovuto ad ogni essere umano, dovrebbe poi rinunciare a sostenerne la
priorità e il valore ultimo?
Naturalmente, questo rende molto difficile sostenere che, pur non
essendo negoziabili, possano avere un qualche contenuto politico
conseguente a una specifica (e contingente) deliberazione pubblica.
Eppure, Habermas stesso, come ho già ricordato, ha insistito circa lo
sviluppo “democratico” dell’universalità dei diritti113 e nel contempo ha
tenuto a preservare il carattere necessariamente morale e individuale dei
diritti stessi.
Nel tentativo di compiere la quadratura del cerchio, se ne accredita
così l’idea di una doppia e indecisa natura. Se dunque Habermas ne fa
carte vincenti, sul territorio del riconoscimento giudiziario, nonché entità
110 Nella redazione della Carta dell’Onu, a Eleanor Roosevelt si riconosce il
merito di aver permesso un agreement “sottile” pur nella diversità spesso radicale
delle posizioni filosofiche, etiche e politiche (Ignatieff stesso si richiama alla
complessa vicenda della stesura della Carta universale: Una ragionevole apologia dei
diritti umani, cit., pp. 79 ss.). Il carattere sottile di questo agreement è un sinonimo
dell’astrattezza, intesa in questo caso come mancanza di maggiore connotazione.
Secondo Mary Glendon, Foundations of Human Rights: The Unfinished Business, in
“American Journal of Jurisprudence”, 1999, p. 3: “The Framers of the Declaration did
take account of the diversity of cultures by leaving room for a legitimate pluralism in
interpreting and implementing its open‐ended principles”.
111 Ignatieff , Una ragionevole apologia cit.pp. 17 ss.. La contrarietà degli Stati
Uniti agli accordi globali sulle politiche ambientali o all’istituzione di tribunali
internazionali per la difesa dei diritti umani, o il suo persistente ricorso alla pena di
morte sono un esempio sufficientemente eloquente.
112 Anche Habermas ha costruito spesso la relazione tra diritti degli individui e
beni collettivi dando per scontato che diritti individuali sono superabili da fini politici
solo quando questi ultimi sono argomentati in termini della difesa di ulteriori diritti
individuali, ossia recependo la tesi di Ronald DworkinJ. Habermas, Lotta di
riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J._Habermas, Ch. Taylor,
Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. di L. Ceppa, Milano 1998, pp. 81‐2.
113
Ivi, p. 83.
41
la cui sostanza è elaborata politicamente, altri (come Ignatieff) ne
ribadisce il contenuto minimo (e tutto sommato, “neutro”) ma rinuncia poi
al loro valore di pretese vincenti in cambio di una pragmatica
chiarificazione intersoggettiva, e dunque politica. Come si vede, su questo
punto, il dibattito teorico è particolarmente complesso, non presenta una
soluzione a portata di mano.
10.2. I cataloghi di diritti fondamentali non sono, in alcuna versione,
espressione di una semplice morale dell’autonomia, di una deontologia
minima del rispetto della dignità umana (implicita ad esempio nel
principio elementare del “permesso”114). Piuttosto, essi sono in genere
qualcosa di più: sono indicazioni di beni centrali per le nostre concezioni
della vita più diffuse, specie in Occidente, per un ideale di una vita “buona”,
per un’etica già dotata di suoi specifici contenuti. Si tratta di diritti legati
dunque a una concezione della vita buona: la libertà o la solidarietà, sono
tra i più consueti. Per esempio, la democrazia e l’uguaglianza non sono
condizioni minime di rispetto e di coesistenza, e il principio
dell’autonomia morale, tradotto spesso nel principio del consenso o del
“permesso”, è sì una “priorità concettuale” ma non lo si incontra mai da
solo. Una società non è mai solamente un insieme di individui coesistenti,
ma un teatro di scelte individuali e collettive, di pretese normative
conseguenti al presupposto dell’autonomia morale. I diritti fondamentali
proteggono beni minimi e beni più particolarmente connotati: sono sia
espressione del rispetto per la libertà di ciascuno, sia l’indicazione alle
volte limitata, alle volte analitica, alle volte minima alle volte massima, dei
beni che un sistema tutela. Essi proteggono contemporaneamente e la
possibilità di scelta e‐ data una scelta‐, anche i suoi contenuti: e dunque le
preferenze etiche che di volta in volta sono divenute proprie di una
collettività o di un individuo.
Ma se parliamo di diritti umani, in quanto condizioni indipendenti
dal consenso di chiunque, non possiamo poi accettare che essi siano
piegati dal gioco delle preferenze politiche.
In realtà, idee come le condizioni morali minime della coesistenza,
della giustizia, in senso kantiano, non possono essere sottoposte a una
114 T. Engelhardt Jr. (Manuale di Bioetica, trad. di S. Rini, Milano 1999) lo
sostiene come il principio fondamentale della coesistenza. Il che è logicamente
ineccepibile. Il principio del consenso, il principio del permesso, sono i presupposti di
una vita morale, qualunque sia; e sono a fondamento della correttezza e della
possibilità di una comunità pacifica che non s’imponga agli individui con la forza. “Il
principio del permesso traccia il confine di tutte le comunità morali. Violarlo significa
essere nemici delle comunità morali in generale. Onorarlo invece, non significa
ancora per ciò stesso essere membro di una comunità morale. Ciò è vero, in parte
perché il principio del permesso è solo un principio di non interferenza. E’ un
principio negativo. (...) non è al di la, ma al di qua di ogni bene o male concreto. E’ solo
grazie al principio positivo di beneficienza che la vita morale acquista un contenuto.
Così non essere benefici non significa essere nemici di una comunità morale, ma non
significa nemmeno essere membri di una comunità morale” (p. 135).
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politicizzazione né possono essere scavalcate dal predominio di un’etica
socialmente condivisa. Se i diritti umani sono ciò che si deve a ciascuno in
ragione della sua umanità, essi incorporano queste condizioni di giustizia
morale, e non possono essere oggetto di degradazione in nome di nessun
valore ritenuto prioritario.
Il giusto non dipende dal “consenso” , ma emerge da un esercizio
razionale e argomentativo: se esistono istituzioni pubbliche e imparziali
capaci di far prevalere il metodo dell’argomento migliore, o il metodo
comunicativo, il confronto sulla giustizia si svolge in un canale
potenzialmente separato da quello del potere e della negoziazione: utilizza
risorse diverse, mira alla comprensione degli argomenti altrui, non ad
ottenere il successo politico, basa il “discorso”, come accade nella teoria
habermasiana, sulla “correttezza” delle procedure, sulla razionalità, sul
principio di universalizzabilità, la comunicazione paritetica, (sebbene non
vi sia alcuna certezza che premesse e risultati del “discorso” appaiano
sempre univoci e non controversi). Non c’è dubbio che il perseguimento
del giusto tra gli individui, come condizione di coesistenza, sia una
conquista di civiltà. Ma, com’è ovvio, nemmeno il giusto si afferma “da
solo”, ossia senza essere incluso tra le almeno implicite e intangibili
priorità delle società liberaldemocratiche: ciò non significa tuttavia che
dipenda dalla negoziazione politica né in senso lato dal semplice
“consenso”, poiché invece contiene le condizioni‐cornice per entrambi. In
questa riflessione, lo sforzo più avanzato è rappresentato dal concetto di
cooriginarietà, che indica la relazione che lega il sistema dei diritti all’idea
di sovranità democratica nella cultura occidentale, concetto che Habermas
ha proposto nel suo Fatti e norme. Il sistema dei diritti, nel suo carattere
fondamentale per la storia costituzionale europea e occidentale, assume
una posizione non ancillare e non derivata rispetto al principio di
sovranità popolare, in cui risiede il potere democratico. Sovranità non è se
non una pratica deliberativa governata da una procedura in cui i diritti
individuali, dotati di una legittimazione autonoma rispetto alla volontà
sovrana, costituiscono nell’esercizio di quest’ultima condizioni procedurali
essenziali e garanzie di giustizia.
Ma si tratta comunque di allontanare il rischio di una circolarità che
non riesca più a salvare la reciproca indipendenza di diritti e politica, di
giustizia e democrazia: proprio per prevenire il collasso concettuale dei
diritti. La cooriginarietà del rapporto tra diritti e scelte etico‐politiche, tra
autonomia privata e autonomia pubblica, indica che essi sono “pilastri”
dotati ciascuno di una fondazione indipendente da quella dell’altro: ma in
pratica non è immune dal rischio di semplicemente subordinare l’an e il
contenuto dei diritti alla decisione sovrana, o al contrario di sottrarre alla
decisione politica, in nome dell’innviolabilità dei diritti, ampie aree
“indecidibili” (perché protette, ad esempio, dalla tutela costituzionale).
Questa relazione, dunque, sembra potersi sottrarre ad alcune ambiguità a
condizione di essere legata a diverse e corrispettive denominazioni di
diritti.
43
I diritti umani dovrebbero essere effettivamente considerati come
componenti di condizioni minime di coesistenza, laddove i diritti
fondamentali dovrebbero indicarci le forme di realizzazione e di
istituzionalizzazione più pregnanti dal punto di vista dello spessore e del
significato etico. In altri termini, i diritti umani costituiscono una soglia
che deve essere premessa
come tutela minima essenziale della
coesistenza secondo libertà, mentre i diritti fondamentali coincidono con i
fini e i valori che in modo variabile storicamente e geograficamente etiche
diverse possono diversamente configurare.
La consapevolezza che esistono valori materiali entro cui i diritti
umani devono essere collocati, finanche in contraddizione con alcuni di
essi, è il nodo principale, cui deve essere dedicata un’attenta riflessione.
L’idea di libertà come quella di dignità o di uguaglianza appaiono legate al
riconoscimento dei diritti umani e a un’idea sottile, priva di specificazioni
controvertibili o unilaterali ‐e quindi non discutibile‐ di giustizia Ma
appunto questa sua natura sottile indica che il senso di quei concetti è di
volta in volta da elaborare o rendere compiuto nelle condizioni di
significato proprie di ciascun contesto sociale. La consapevolezza del
carattere anche contestuale che i diritti assumono può dunque avere
conseguenze assolutamente positive anche nell’arginare gli esiti taglienti
della logica dei diritti umani, cui spesso si intende garantire, in ogni luogo,
una sorta di presenza astratta e “pura”. Il concetto di diritti fondamentali,
che qui espongo, individua un luogo giuridico e istituzionale, che l’idea
“morale” dei diritti umani come tale non possiede ancora.
Il fatto di considerare l’attuazione dei diritti umani una questione
anche politica (da affrontare dunque in relazione alle strutture del potere)
pur indicando la consapevolezza dell’insufficienza dei diritti umani non è
un passo conclusivo. Si tratta di considerarla un problema etico. Garantire
i diritti umani in un contesto specifico significa operare sul piano etico,
ossia evitare che la loro attuazione rappresenti una distruzione radicale
del tessuto etico, dei valori fondamentali, della società in cui i diritti umani
dovrebbero essere garantiti. Questa garanzia etica significa null’altro che
la loro istituzionalizzazione all’interno dei fini collettivi, e dipende dallo
sforzo di un inserimento concreto dei diritti nei criteri di rilevanza, di
appartenenza, di valore, di una comunità.
D’altro canto, non si deve sottovalutare il fatto che la definizione dei
diritti all’interno delle logiche di valore presenti nelle culture di una
società è comunque un momento estremamente delicato, poiché essa
rischia sempre di diluire e depotenziare la forza critica e soprattutto
l’imperatività con cui i diritti umani difendono l’umanità di ciascuno, ad
onta di ogni ragione contraria.
John Rawls separò diritti umani e diritti propri delle democrazie
liberali, distinguendo per esempio l’art. I della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo del 1948 (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in
dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza, e devono agire gli
uni verso gli altri in spirito di fratellanza” ) da articoli, come l’art 3 (diritto
44
alla vita, libertà e sicurezza personale) o l’art. 5 (divieto di tortura o di
punizioni crudeli e degradanti), che sono da ritenersi diritti umani in
senso stretto, e infine da altre previsioni (sicurezza sociale, uguale salario
per uguale lavoro) che invece presuppongono particolari istituzioni. Ma
l’art. I, secondo Rawls, possiede già un’ispirazione “liberale”. Non so se
Rawls in questo avesse ragione: probabilmente, l’art. I nel suo complesso
fonde ispirazioni diverse, e non contiene solo quella liberale. Anzi, sembra
stabilire un livello non minimo, ma in linea di principio “alto”, di
convergenza tra ispirazioni diverse. Ad ogni modo, per Rawls non siamo
certo nella cornice dei diritti umani, che invece “stabiliscono uno standard
necessario, anche se non sufficiente, per la decenza di istituzioni politiche
e sociali delle singole società” 115.
Credo che Rawls ritenesse che i diritti umani siano un presupposto,
non intaccato da elaborazioni politiche. Sennonché è proprio questo punto
che può invece essere messo a rischio da un eccesso di “comunitarismo”, o
più semplicemente da un pervasivo rinvio all’elaborazione “comunitaria”
del senso dei diritti umani. La fondazione e la giustificazione dei diritti
umani devono essere sottratte alle forme necessariamente positive e
culturali in cui i diritti umani assumeranno il proprio significato materiale,
e saranno coniugati in concreto. Per questo, la separazione concettuale,
sulla quale ho insistito, tra diritti umani e diritti fondamentali, serve: essa
consente di individuare dei limiti, ossia definire il confine insuperabile
oltre il quale, per fare un esempio, anche l’autonomia interna di un regime
non deve più considerarsi intangibile 116 . E’ altra questione quanto
“oggettiva” questa limitazione appaia, quanto condivisa, e sopratutto
quanto condivisibile dai popoli che, per restare a Rawls, egli richiama
come gerarchici o dai regimi “indecenti” che sembrano ignorare la
giustizia dei diritti umani. Sinchè si fa riferimento ai diritti umani, si
rimane in un ‘area minima e indicante il “giusto”, un’area deontologica che
appare del tutto disomogenea rispetto a quella teleologica e collettiva dei
fini sostanziali. I diritti umani sono non solamente una “classe speciale”
come Rawls suggerisce, ma allo stesso tempo un modo di guardare ai
diritti e di concepirli. Concepire i diritti come un presupposto
insostituibile della sopravvivenza del genere umano, degli esseri umani
come tali, significa concepirli come diritti umani. Le discussioni razionali
e/o ragionevoli per l’individuazione di quali diritti abbiano queste qualità
e siano indissolubilmente legati a quel che è dovuto agli esseri umani, sono
avanzate negli ultimi cinquant’anni verso agreements sempre più larghi,
cui tuttavia fanno riscontro nuove falle e nuove divisioni, che strappano il
tessuto della collaborazione tra popoli.
D’altro canto, quella che ho sottolineato come l’appartenenza dei
diritti (eticamente e politicamente) “statuiti” ai fini collettivi, impone una
diversa elaborazione concettuale dei diritti, irriducibile a quella
115
Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 105.
116
Ivi, pp. 104‐5.
45
“filosofica” dei diritti umani, e come ho già spiegato in queste pagine, una
loro separata definizione nella veste di diritti “fondamentali”. Il fatto che
alcuni diritti siano intesi come un presupposto di istituzioni “decenti”
significa solo che essi sono candidati a presentarsi nella veste di diritti
fondamentali. Ma si tratta di una veste “peculiare” 117 . Mentre alla
circolarità del consenso democratico devono essere sottoposti i diritti,
intesi come diritti “fondamentali”, nella definizione qui proposta,
all’opposto, i diritti umani devono restare immuni da giustificazioni
puramente contestuali e da gerarchie di “merito” nella scala dei valori
“particolare”. Essi devono motivarci in modi la cui validità morale e
universalistica non sia intimamente contraddetta; ma dobbiamo essere
consapevoli che la loro traduzione in diritti “fondamentali” comporta un
faticoso ingresso “in società”. Come tali, i diritti «fondamentali»
rispondono a una funzione essenziale nell’ordine giuridico e nel contempo
incorporano i significati etici dei sistemi cui afferiscono, e in vari sensi ne
sono il risultato. La prestazione che il diritto offre e può offrire a riguardo
dei diritti è dunque quella di accogliere istituzionalmente e temperare
l’incorruttibile giustizia dei diritti umani, come astrazioni filosofiche, il
loro tagliente potenziale performativo, il loro profondo senso morale, che
incorpora le pretese minime di rispetto degli esseri umani quali condizioni
di ogni etica, di qualsiasi scelta di valore, individuale e collettiva. La
«giuridicità» è qui una questione istituzionale e non filosofica, e pertanto
non riguarda diritti «dovuti» in astratto, bensì la corretta compenetrazione
tra le «idee» sui diritti e le etiche interne dei sistemi che dovrebbero
elaborarli come fondamentali, ossia sino a renderli pilastri e strutture
della propria «forma di vita». D’altro canto, i diritti umani restano un
presupposto irrinunciabile da cui dobbiamo muovere: essi indicano una
disciplina di astinenza dal male118, unicamente se non vengono resi ubiqui,
se non vengono confusi con una tra le possibili scelte etiche di una
democrazia.
E’ ovvio che il rispetto della vita o il divieto di tortura in uno stato
liberaldemocratico occidentale come l’Italia sono teoricamente un presupposto delle
istituzioni “decenti”; ma tale presupposto appartiene ad un ambiente costituzionale
in cui si accompagna al perseguimento di valori: per esempio, la solidarietà,
l’uguaglianza. La nostra società costituzionale non è neutra, e il suo richiamo ai diritti
è inserito in un intreccio con un ampio progetto assiologico, fini di base che
incorporano e rielaborano le condizioni della giustizia. Sotto questo profilo, noi
riconosciamo diritti fondamentali, come criteri sostanziali di validità giuridica, e
come fini collettivi principali delle stesse istituzioni.
117
118
Vd. supra, nota 105.