Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Raccontare_la_preistoria_Cantieri SISSCO.pdf

Fedra Alessandra Pizzato, Raccontare la preistoria. Oggetti, narrazioni e pubblico delle collezioni preromane (1871-1915), in “Oggetti esposti. Forme della storia e dell’identità in Italia tra Otto e Novecento” organizer Simona Troilo, in Cantieri di Storia IX (Italian Society for Contemporary History – SISSCO), Padova, 13-15 settembre 2017: https://drive.google.com/file/d/0B6AEKhUJCwcddGxVd3V5ZFN XY2s/view 1 Raccontare la preistoria. Oggetti, narrazioni e pubblico delle collezioni preromane (1871-1915). [Pre-circulated paper] 1. Prologo Il 3 settembre 1786 Goethe lascia Karlsbad, nel Baden-Wurttemberg, alla volta dell’Italia dove intende “imparare dagli oggetti a conoscersi”1. Gli oggetti di cui parla Goethe nel suo Viaggio in Italia sono in primo luogo le antichità classiche, accompagnate dal patrimonio artistico rinascimentale e dallo stesso paesaggio italiano (si pensi all’interesse di Goethe per giardini e orti botanici italiani). Soprattutto l’idea di classico riveste una straordinaria importanza tanto nell’immaginario quanto nel processo di definizione del sé del poeta tedesco e di molti suoi contemporanei. Per gli intellettuali del XVIII secolo il Grand Tour rappresenta una pratica sociale che incide fortemente sull’autorappresentazione di un’intera élite che si caratterizza come transnazionale. Il Grand Tour ha infatti il sapore di un moderno rito di passaggio in quanto diviene parte del processo di ammissione di una parte della gioventù all’interno della classe dirigente colta2: nel patrimonio archeologico e artistico italiano le élite straniere cercano quello che già hanno appreso nel corso della propria educazione. In questo senso, come è già stato notato3, il viaggio in Italia per nobili e grandi borghesi del Settecento è un’istituzione. Si viaggia per riconoscersi più che per conoscere. Dunque si visita l’Italia e il suo patrimonio per rispondere a un’esigenza di identificazione con un gruppo sociale più che per scoprire identità altre. In quest’ottica l’heritage assume un valore universale acquisibile e trasmissibile attraverso l’educazione. Tutto – o quasi – inizia a cambiare a partire dalla Rivoluzione francese e , soprattutto, quando i venti del nazionalismo e le primavere dei popoli cominciano ad agitare l’Europa. Con l’emergere del nazionalismo, il patrimonio artistico e archeologico entrano a far parte delle grandi narrative nazionali divenendo idealmente proprietà di un intero popolo (e solo di quello)4. L’appropriazione nazionalista del patrimonio diventa in questo momento un presupposto “io non imprendo questo viaggio per ingannare me stesso, bensì per imparare a conoscere me stesso attraverso i vari oggetti” citato anche in E. J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, 1992, p. 90. 2 Cesare de Seta, Il fascino dell’Italia nell’età moderna. Dal Rinascimento al Grand Tour, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011 p. 103. 3 Massimiliano Capati, Storia letteraria del ‘900 italiano, Marsilio, Venezia, 2002 p. 13 4 Ilaria Porciani, La nazione in mostra. Musei storici europei, in «Passato e Presente», 79, 2010 pp. 109-132. 1 2 necessario tanto per lo sviluppo di politiche di tutela5 quanto per la nascita e l’affermazione di nuove discipline storiche connotate però, nell’età del Positivismo, da una forte marca scientifica: l’antropologia fisica e l’archeologia preistorica e protostorica6. Quest’ultima si caratterizzava come una disciplina volutamente distinta dall’archeologia classica proprio per il suo statuto di scienza7: l’archeologia classica restava confinata nell’ambito delle discipline artistiche e a lungo conservò una metodologia legata alla storia dell’arte e agli studi classici più tradizionali. L’archeologia pre-classica, invece, ripudiava criteri estetici di valutazione e selezione, adottando sistemi classificatori puramente tipologici e comparativi più simili a quelli delle scienze naturali e dell’etnografia. Dalla metà dell’Ottocento l’Europa è attraversata, tra gli altri, da un nuovo tipo di viaggiatore: lo scienziato positivista. A interessarsi di antichità, in particolare di antichità pre-classiche, sono ora antropologi e paletnologi8 che viaggiano per apprendere la storia dei popoli dalla visione diretta degli oggetti di studio. Il loro scopo è gettare luce sulle origini delle nazioni europee per scoprire le identità di ciascuna e le parentele tra i vari gruppi umani. Quello che sono impegnati a costruire non è più (solo) l’identità di un gruppo sociale, ma quella dei popoli d’Europa e del mondo. Al rientro dai loro viaggi gli scienziati positivisti portano appunti, ma spesso anche oggetti o riproduzioni di oggetti da collocare nei musei nazionali per completare il quadro delle teorie e delle narrazioni scientifiche che vanno costruendo. È in questo modo che gli oggetti esposti nelle nuove collezioni museali – nazionali, europee e coloniali – diventano le tessere con cui si sostanziano le nuove narrazioni sulla storia delle nazioni. Si tratta di vere e proprie master narrative, storie del sangue e del suolo, della terra e della discendenza: gli scienziati della preistoria sono (e desiderano essere) autentici nation builder9. Per una discussione globale del rapporto tra nazionalismo e politiche di tutela si veda: Margarita Diaz Andreu, A World History of Nineteenth Century Archaeology. Nationalism, Colonialism and the Past, Oxford University Press, New York, 2007; sul caso italiano: Simona Troilo, La patria e la memoria. Tutela e patrimonio culturale nell’Italia unita, Mondadori, Milano, 2005. 6 Margarita Diaz Andreu, A World History of Nineteenth Century Archaeology, cit. 7 A questo proposito basta penare che in Italia, dove gli studi classici avevano una tradizione più forte e pervasiva, la nuova archeologia pre-classica si volle distinguere come disciplina fino a ripudiare il nome di “archeologia” per adottare quello più tecnico di “paletnologia” (cfr. Alessandro Guidi, Storia della Paletnologia, Laterza, Roma-Bari, 1988), un termine che rimandava volutamente al suo preteso carattere di scienza positiva e non di disciplina artistica. 8 Si veda la nota 7. 9 Il riferimento obbligato è a Stefan Berger, Chris Lorenz, Nationalizing the Past: Historians as Nation Builders in Modern Europe, Palgrave Macmillan, London, 2010; per la dimostrazione del ruolo di nation builder di paletnologi e antropologi si veda Fedra Alessandra Pizzato, Fossili della nazione. Paletnologia, antropologia e nazionalismo in Italia (1871-1915), tesi di dottorato discussa l’11 luglio 2016, Dipartimento di studi umanistici, Università Ca’ Foscari di Venezia – Facultat de Geografia i Historia, Universitat de Barcelona. 5 3 2. I reperti e le reti di relazioni. A partire dagli anni ‘80 varie discipline, tra cui la storiografia, l’antropologia e l’archeologia oltre che la storia della scienza10, hanno dimostrato un elevato interesse per gli oggetti11. Più recentemente una particolare attenzione è stata rivolta agli oggetti come “cose in movimento” e come “attanti”. Tra il 2012 e il 2015 l’American Anthropological Association ha dedicato particolare attenzione alla circolazione degli oggetti nei contesti archeologici e museali. Il risultato di questo interesse è stato uno stimolante volume dal titolo “Things in Motion: Object, Histories, Biographies, and Itineraries”. Secondo questo approccio, la capacità di muoversi nello spazio e nel tempo sarebbe una caratteristica intrinseca degli oggetti, così come la capacità di alcuni di essi di “risorgere” e vivere molteplici vite. È questo il caso di frammenti e reperti che, dopo la cessazione del loro impiego originale e la loro parziale distruzione (una sorta di “morte”), riprendono vita nelle esposizioni museali12. Sulla base di questa riflessione, si è proceduto a ricostruire gli itinerari e le rotte seguite dagli oggetti nel corso di scambi, spostamenti, traslazioni; si è riflettuto sui luoghi e sulle cause dello spostamento, ma anche della permanenza di singoli manufatti in alcuni siti; si sono evidenziati alcuni dei significati e delle cause che determinano lo spostamento e la stasi degli oggetti stessi13. A questo proposito bisogna sottolineare che nell’età del positivismo numerosi oggetti scientifici attraversavano l’Europa: punte di selce che venivano rinvenute in gran quantità nel medesimo giacimento, cocci, aghi, puntali, così come campioni botanici, crani, ossa etc. spesso venivano inviati a colleghi che le richiedevano, che si consideravano autorevoli sulla materia o con cui semplicemente si desiderava stabilire un contatto. Non tutti gli oggetti potevano però essere trasferiti da un luogo a un altro. A questo proposito è utile osservare, tuttavia, che gli oggetti hanno altri modi di viaggiare oltre allo spostamento fisico: possono “muoversi” attraverso descrizioni, foto, disegni. La pratica delle riproduzioni a uso scientifico che spesso corredavano le lettere dei paletnologi e degli antropologi nell’età positivista avevano, infatti, l’effetto di far muovere idealmente gli oggetti e la conoscenza. Tal volta tali riproduzioni venivano anche esposte nei musei per dare testimonianza di reperti che 10 Domenico Bertoloni-Meli, Thinking With Objects: The Transformation of Mechanics in the Seventeenth Century, Johns Hopkins University Press, Baltimora, 2007. 11 Impossibile non fare riferimento alla discussione apparsa su «Contemporanea» a cura di Alessio Petrizzo e Carlotta Sorba dal titolo Storia e cultura materiale: recenti traiettorie di ricerca. 12 Rosemary A. Joyce, Susan D. Gillespie, Things in Motion: Object, Histories, Biographies, and Itineraries, School for Advanced Research Press, 2015. 13 Rosemary A. Joyce, Susan D. Gillespie, Things in Motion: Object, Histories, cit. 4 non potevano essere acquistati o ceduti, ma che erano considerati necessari a completare il disegno del curatore dell’allestimento. Nonostante ciò, come vedremo di seguito, la modalità di interazione tra oggetti e scienziati spesso avveniva per visione diretta nei musei dove gli oggetti erano custoditi. In questo senso la pratica del viaggio scientifico era considerata irrinunciabile per chiunque avesse ambizioni nel suo campo di studi, come si desume, per es., dall’insistenza del giovane Luigi Pigorini nel cercare una sovvenzione ministeriale per poter sostenere un viaggio nel nord Europa e finalmente visitare i musei di Stoccolma e Copenaghen14. Il tema del viaggio scientifico rientra nelle riflessioni proposte da un gruppo di ricercatori di storia della scienza di Barcelona, dove è in corso un progetto di ricerca che ha come tema l’interscambio della conoscenza tra centri urbani periferici (Interurban Knowledge Exchage)15. Scopo del progetto è studiare è la capacità di certi centri di studio (musei, acquari, stazioni marittime, orti botanici, laboratori etc.) di attrarre visitatori e di divenire punti di raccordo dei vari network di studiosi contribuendo in maniera efficace alla circolazione della conoscenza nell’età contemporanea. All’interno della riflessione promossa dal “gruppo di Barcelona” si inserisce agevolmente una riflessione sull’attitudine degli oggetti ad agire come “attanti”, promuovendo e creando, cioè, connessioni all’interno di una rete di relazioni. L’attrattività di alcuni pezzi e delle singole collezioni presenti nei musei esercitata sugli scienziati di ogni parte d’Europa ne evidenzia la capacità di “mettere in moto” gli uomini e, con essi, idee e pratiche del sapere scientifico e non solo. In altre parole, gli oggetti scientifici sono una parte fondamentale nel processo di circolazione della conoscenza in maniera transazionale. Come al tempo del Grand Tour le città, i capolavori e le gallerie attraevano i tourists, così almeno dal 1850 macchinari, strumenti, laboratori, musei attraevano visitatori-scienziati. In un simile contesto in cui prendeva piede la nuova pratica del viaggio scientifico, si capisce come il ricoprire la carica di direttore di museo divenisse un titolo importante, quando non fondamentale, per accreditarsi come un punto di riferimento all’interno della rete transnazionale degli scienziati. In quest’ottica s’inserisce una lunga diatriba che investiva i 14 Fedra Alessandra Pizzato, Fossili della nazione. Cit. La ricostruzione della vicenda è stata effettuata attraverso l’analisi dello scambio epistolare tra L. Pigorini e il ministero della Pubblica Istruzione e tra L. Pigorini e i suoi famigliari conservate presso l’Archivio Pigorini (Padova). La ricostruzione ha inoltre permesso di confutare l’idea diffusa che Pigorini avesse effettuato un viaggio a Copenaghen nel 1869, dimostrando che solo nel 1874 egli potè finalmente ottenere il primo finanziamento per spostarsi dall’Italia, un’occasione a lungo cercata e costruita con caparbietà dallo studioso. 15 I referenti del progetto sono il prof. A. Nieto Galan e il prof. O. Hochadel. Parte di questo progetto sono state le due conferenze internazionali: "'Urban Peripheries?' Emerging Cities in Europe's South and East, 1850-1945" tenutasi a Barcelona nel settembre 2016 e "Interurban knowledge exchange. Emerging Cities in Southern and Eastern Europe, 1870-1945" che si è tenuta all’Herder Institute for Historical Research on East Central Europe di Marburg all’inizio di Maggio. 5 rapporti tra nazionale, locale e globale. La creazione dei grandi musei nazionali da un lato permise, infatti, la concentrazione di molto potere nelle mani di pochi individui, i direttori “centrali”, collegati con le élite politiche nazionali e ben inseriti nei salotti delle capitali. Essi fungevano da punto di riferimento immediato per i “colleghi” d’oltralpe. Dall’altro la pratica di attingere alle collezioni locali per arricchire quelle nazionali, sebbene fosse funzionale alla strutturazione e al riconoscimento ufficiale degli studi di preistoria, veniva vista con assoluto orrore da parte dei direttori dei musei di provincia. I curatori delle collezioni provinciali, infatti, consideravano la traslazione dei materiali dai loro musei ai musei “centrali” - in genere identificabili con i musei nazionali della capitale - una duplice spoliazione. In primo luogo allontanare i reperti dalle province di ritrovamento recideva quel legame ideale tra oggetto e territorio che i musei locali miravano invece a valorizzare; in secondo luogo dirottava il flusso di studiosi verso pochi centri di riferimento tagliando fuori dal circuito internazionale gli intellettuali locali. Restando nel campo della paletnologia non stupisce, dunque, scoprire come Pellegrino Stroebel, uno dei creatori e curatori della collezione di Reggio Emilia, per anni considerata la più prestigiosa d’Italia, o Paolo Mantegazza, direttore del museo di antropologia ed etnologia di Firenze, non esitassero a definire il direttore del costituendo Museo Nazionale di Roma, Luigi Pigorini - col quale pure entrambi avevano intrattenuto a lungo rapporti di amicizia – uno “squalo vorace” per il suo tentativo (riuscito) di accentrare a Roma i pezzi più prestigiosi rinvenuti sul territorio nazionale16. La capacità di attrazione che le collezioni di archeologia preistorica rivestivano nei confronti degli scienziati italiani ed europei si basava su quella che era la specifica epistemologia della disciplina in età positivista. Essa si basava su un metodo comparativo e genealogico per il quale la visione diretta dei reperti era considerata necessaria. Attraverso il riconoscimento di forme e motivi ricorrenti in reperti rinvenuti in aree geografiche anche molto distanti tra loro, i paletnologi cercavano di tracciare connessioni tra i popoli della preistoria e della protostoria con lo scopo di costruire una identità (e una legittimità) per le moderne nazioni europee. Così, ad esempio, per Luigi Pigorini ravvisare nelle ceramiche preistoriche della Puglia qualche similitudine con l’ansa lunata da lui osservata nei reperti conservati al Museo Nazionale di Budapest e considerata dagli studiosi un elemento etnico, cioè tipico ed esclusivo delle antiche popolazioni centroeuropee, poteva essere non solo sufficiente, ma anche determinante per Carlo Nobili, Luigi Pigorini: un insaziabile squalus vorax?, in Laura Laurencich Minelli (ed.), Terra Ameriga, Editrice Grafis, Bologna, 1992 16 6 stabilire un’origine mitteleuropea (e ariana) per gli antichi abitanti della Magna Grecia17. Gli oggetti – e il loro controllo – diventavano dunque parte integrante del processo di narrazione delle origini nazionali sul quale paletnologi e antropologi basavano la propria legittimazione nel contesto nazionale e internazionale. Come si è detto, il processo conoscitivo sul quale si basava l’elaborazione di master narrative efficaci ruotava intorno alla possibilità di avere accesso diretto ai reperti. Essi divenivano “oggetti parlanti” che, interrogati dallo scienziato e in seguito abilmente allineati nel museo, costituivano le tessere del grande mosaico in grado di svelare la storia della nazione. La selezione e la disposizione degli oggetti nelle teche dei musei doveva, infatti, stimolare nel visitatore le giuste connessioni raccontando una storia ben definita e resa “inconfutabile” dall’essere scritta proprio nella cultura materiale. Seppur la presenza di cartelli esplicativi fosse generalmente prevista (ma, nella realtà, scarsamente realizzata) a beneficio del pubblico meno esperto, era convincimento degli scienziati che la scienza “entrasse per gli occhi”. Si comprende ancora di più in questo modo l’importanza e il potere esercitato dai direttori dei musei nell’invenzione di una tradizione sulle origini nazionali, un’importanza che emerge chiaramente da uno scritto dell’antropologo Giuseppe Sergi (1841-1936): I have been led to these conclusions by a recent visit to the Archaeological Museum at Syracuse, which may be read like a book written in clear characters on account of the admirable arrangement and order which has been introduced by the distinguish director, Professor Orsi, as also in consequence of the demonstration which he himself has courteously given me18. Questo discorso è evidentemente valido per gli scienziati e i tecnici delle discipline. Ma, come ricorda Maria Teresa Milicia, “la visita a un museo richiede di comprendere e condividere il metalinguaggio dell’allestimento”, in altre parole richiede al visitatore di possedere un bagaglio minimo di informazioni che sono state alla base delle scelte del curatore dell’allestimento museale. La domanda che voglio sollevare e alla quale desidero cominciare a dare una risposta in questo paper è dunque: quale poteva essere il pubblico dei musei di preistoria e protostoria in Italia tra Otto e Novecento se il messaggio che essi dovevano trasmettere era rinchiuso in 17 Michele Cupitò, Silvia Paltinieri, La teoria pigoriniana. Una ricostruzione critica del problema, in Alessandro Guidi (ed.), 150 anni di preistoria e protostoria in Italia, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Osanna Edizioni, Firenze, 2014 pp. 269-276 18 Giuseppe Sergi, The Mediterranean Race. A study of the origin of European peoples, C. Scribner's Sons, 1901 p. 285. 7 una complessa e tecnica object based epistemology19? A chi parlavano i reperti pre-romani racchiusi nelle teche dei musei? Per chi quegli oggetti potevano davvero rappresentare un simbolo e un emblema nazionale come era nelle intenzioni dei direttori dei musei stessi che sulla riuscita di questa comunicazione basavano tanta parte della propria autorità scientifica e morale (perché narrare le origini della nazione era un fine altamente morale)? 3. Il Museo di preistoria e la storia patria – storytelling Al contrario di quanto avviene per i simboli risorgimentali e per le allegorie del medioevo che troviamo riprodotte e richiamate continuamente nelle case dei patrioti italiani durante il Risorgimento e in seguito spostati orgogliosamente nei musei20, gli oggetti preistorici non sembrano apparentemente rivestire un ruolo pervasivo nella cultura italiana dell’età postunitaria. Tuttavia ciò è davvero un segno del disinteresse per le età preromane o semplicemente le modalità di comunicazione e appropriazione delle narrazioni che riguardano quest’epoca sono altre? Ricordiamo che la paletnologia e l’antropologia, le due discipline che raccontavano la preistoria, si vantavano di uno statuto scientifico, volutamente lontano da quello delle arti figurative e della letteratura. Pertanto, per capire le modalità di trasmissione delle master narrative elaborate da paletnologi e antropologi e valutarne la diffusione, bisognerà considerare i risultati degli studi relativi alla popolarizzazione e alla divulgazione della scienza21. Studiando gli scritti degli scienziati della preistoria italiani ed europei si scopre che le strategie per diffondere le proprie teorie erano del tutto sovrapponibili a quelle attuate – in maniera transnazionale – dalle altre scienze naturali (e non solo) nello stesso periodo: l’'audience “veniva cercata attraverso letture pubbliche, l'attività di società locali, pamphlets, musei, giardini botanici e zoologici, fiere commerciali e dell'industria etc.". Ancora una volta ci troviamo davanti alla centralità dei musei e, dunque, degli oggetti. D’altra parte, è bene osservare che il ruolo di nation builder svolto dagli scienziati della preistoria era del tutto consapevole: i musei e le collezioni da essi allestiti, curati e diretti non servivano solo a intessere relazioni con altri esperti, ma avevano uno scopo esplicito di Steven Conn, Museums and American Intellectual Life 1876-1926, University of Chicago Press, Chicago, 1998. A questo proposito cito volentieri, a titolo di esempio, i risultati del progetto di ricerca coordinato da Carlotta Sorba ed Enrico Francia dell’Università degli Studi di Padova dal titolo “Patriotic objects. Material culture and politics in the Italian Risorgimento” presentati in forma preliminare a un seminario congiunto con l’università di Oxford il 25 settembre 2015 a Padova. 21 Agustí Nieto-Galan, Los públicos de la ciencia. Expertos y profanos a través de la historia, Ambos Mundos, Madrid, 2011. 19 20 8 pedagogia nazionale. Essi si proponevano di illustrare la grandezza della nazione italiana fino dalle sue origini e di alimentare lo spirito patriottico degli italiani facendo dei musei una “voce educatrice”. Grazie a ciò, inoltre, il lavoro dei paletnologi assumeva un “alto valore morale e civile”22. Questo perché il museo, anche i musei locali e provinciali, miravano a essere “il santuario nel quale con infinito studio” riunire “le reliquie delle generazioni succedutesi”23 in quel territorio. I reperti venivano dunque assimilati alle altre reliquie della patria, tal volta anche accostandoli fisicamente li uni alle altre, così come avvenne nel museo di Paletnologia e Storia patria di Reggio Emilia (oggi Museo intitolato al suo fondatore, Gaetano Chierici). Il primo nucleo delle collezioni del Museo Chierici venne raccolto all’indomani dell’unità d’Italia (1862) su proposta di Gaetano Chierici stesso e con il pieno appoggio delle élite reggiane in quello che fu prima denominato “Gabinetto di Storia Patria” e in seguito “Museo di Storia Patria”. Fu uno di quei musei civici che avevano come scopo proprio quello di affermare l’identità nazionale attraverso il recupero della storia locale24. A Reggio Emilia ciò fu fatto soprattutto attraverso la promozione della ricerca archeologica essendo allora l’Emilia Romagna all’avanguardia in Italia negli studi di paletnologia. Tuttavia, accanto alla raccolta archeologica e paletnologica venne promosso l’allestimento di una galleria volta a celebrare le gesta degli illustri reggiani. In questo settore non comparvero solo letterati e scienziati di fama quali Ludovico Ariosto, ma grande spazio venne dato ai patrioti reggiani. Si saldava così, idealmente, in un’unica narrazione la storia delle origini italiane con il patriottismo risorgimentale e la lotta per l’Unità. 4. Il pubblico della preistoria “Tante ne hanno trovate di quelle pentole, diceva un dottore: bastava una per tutte. – Ma che! Soggiungeva un rubicondo popolano dai calzoni corti, a cui spuntava di sotto al cappello il fiocco della berretta di cotone: Valgono marenghi, e piuttosto di darle a quei di laggiù, le portassero a Londra e verebbero!”. Io rideva: almeno non Giuseppe Ferrari, Il museo Gaetano Chierici di paletnologia e di storia patria. Discorso inaugurale, Tipografia Calderini, Reggio Emilia, 1888 p.5. 23 Luigi Pigorini, Pellegrino Strobel, Gaetano Chierici e la Paletnologia Italiana, in «Bullettino di Paletnologia», p. 74. 24 Elisabetta Cova, Continuità e rinnovamento: la storia della preistoria italiana vista dai musei, in Alessandro Guidi (ed.), 150 anni di preistoria e protostoria in Italia, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Osanna Edizioni, Firenze, 2014 pp. 87-92; Stefano Cavazza, Regionalism in Italy: a Critique, in Joost Augusteijn (ed.) Regionalism and State in Nineteenth-Century Europe, McMillan, New York, 2012 pp. 69-92. 22 9 era colà in fama di cercator di tesori, come a Sanpolo25, né, come a Borzano26, di dissotterratore di morti, per provare Che l’uomo esisteva prima che Dio creasse il mondo!27 Queste parole di Gaetano Chierici sono particolarmente significative perché riassumono in poche righe l’attitudine della working class e degli abitanti dei piccoli centri nei confronti della ricerca archeologica – e di quella paletnologica in particolare visto che dagli scavi inerenti siti delle età preromane meno che in quelli di epoca classica emergevano materiali preziosi. Le motivazioni che vengono attribuite agli scavi e il conseguente rapporto della popolazione con i reperti sono, infatti, generalmente improntati a un’idea di guadagno, come testimoniato da molti archeologi professionisti o dilettanti quali, ad esempio, Paolo Orsi (Sicilia) nei suoi taccuini e Tiberio Roberti (Bassano del Grappa, Vicenza) nei suoi report di scavo. Entrambi lamentano l’esistenza di un fiorente mercato clandestino improntato al commercio di antichità di pregio (Orsi) e alla rivendita degli oggetti in metallo (Roberti). I paletnologi vengono dunque accomunati ai tombaroli, cacciatori di tesori. In alternativa essi vengono considerati dei pericolosi miscredenti che avrebbero come scopo quello puramente ideologico di dimostrare “che l’uomo esisteva prima che Dio creasse il mondo” – ulteriore testimonianza della diffidenza con cui venivano guardati gli scienziati che si occupavano delle età preistoriche e la loro generale adesione al darwinismo. Nessuna importanza viene, invece, attribuita dai cittadini meno abbienti al fatto che i reperti venissero esposti nelle collezioni museali e divenissero parte di quel patrimonio di valori e simboli condivisi com’era invece nell’intenzione dei paletnologi e degli antropologi. D’altra parte i musei, al pari dei libri e della stampa scientifica “erano sempre destinati a un'audience borghese, che escludeva – di fatto – la working class”28. In modo non dissimile, lo stesso patriottismo risorgimentale e la simbologia legata al Risorgimento, erano state e continuavano a essere appannaggio delle élite cittadine. Dunque, se si vuole instituire un paragone tra il pubblico delle narrazioni sulle origini nazionali e quello dei discorsi sulla nazione di matrice risorgimentale, è alle élite cittadine che bisogna guardare e all’interesse che queste potevano riservare alle nuove teorie paletnologiche e antropologiche. San Polo d’Enza è un piccolo comune dell’Appennino in provincia di Reggio Emilia. Borzano corrisponde a una località (divisa a sua volta in Borzano d’Enza, Borzano di Sopra e Borzano di Sotto) del “comune diffuso” di Canossa. 27 Gaetano Chierici, Tutti gli scritti di archeologia, cit. p. 213. 28 Agutì Nieto Galan, Faidra Papanelopoulou, Science, Technology, and the public in the European Periphery. A Report of the 5th STEP meeting, in "Journal of Science Communication" 5 (4), 2006 p.4. 25 26 10 Lo statuto scientifico delle narrazioni sulla pre- e protostoria sembra a prima vista costituire uno svantaggio per il loro successo fuori dal ristretto ambito degli specialisti. Al contrario, nel periodo post-unitario fu proprio la patina di scientificità accuratamente costruita e propagandata in modo strategico29 dai paletnologi e dagli antropologi a garantire un buon successo di pubblico a queste teorie. Darwinismo, filosofia positivista e un legame diretto con le scienze naturali li rendevano particolarmente confacenti all’ethos borghese. Il sentimento estetico borghese trovava, infatti, riscontro nel sentimento romantico del sublime incarnato dalla natura alpina e non richiedeva per forza di partecipare della pratica aristocratica della contemplazione dell’arte classica. Contrariamente all’archeologia classica, la paletnologia e l’antropologia che si occupavano della preistoria e della protostoria, nate come scienze positive, apparivano perfettamente capaci di rispondere alle istanze di modernizzazione di cui la borghesia italiana si faceva portatrice. Modernità e statuto scientifico rendevano queste discipline facilmente integrabili con l’etica della borghesia. Le società borghesi in cui quest’etica si esprimeva miravano, inoltre, a diffondere un’educazione nazionale, a fare gli italiani, e la ricerca delle origini della nazione ancora una volta ben rispondeva anche a questa istanza. Accanto a ciò bisogna ricordare che gli studi di preistoria trassero slancio dalle scienze naturali e dalla geologia. Tutti i pionieri della ricerca della prima generazione di studiosi (Gastaldi, Stoppani, Chierici, Strobel) erano per formazione naturalisti e geologi: fu la loro presenza nei contesti di scavo per la modernizzazione del paese (si pensi alle miniere e alle ferrovie) nei quali spesso emergevano resti delle età pre-romane a favorire l’avvio degli studi e la valorizzazione e la tutela dei reperti. Complice, infatti, una definizione di fossile estensiva, che comprendeva tanto resti biologici quanto reperti delle età più antiche presenti in strati “di interesse geologico”30, l’interesse dimostrato dai naturalisti e dai geologi per quanto emergeva dagli scavi fu immediato e del tutto naturale. La stessa paletnologia, inoltre, si avvantaggiò di questa nascita geologica desumendo direttamente da essa il metodo d’indagine stratigrafico – allora non utilizzato dall’archeologia classica –, un ulteriore elemento tecnico-scientifico per supportare lo statuto scientifico della nuova disciplina. Questo legame diretto tra studi di preistoria e protostoria e le scienze naturali fu gravido anche di un’altra conseguenza. Spesso, infatti, naturalisti e geologi – e dunque anche la maggior parte Si veda Fedra Alessandra Pizzato, Fossili delle nazioni, Cit. Tarantini, La nascita della paletnologia in Italia (1860-1877), Quaderni del dipartimento di archeologia e storia delle arti - Università di Siena, Grisignano, 2012 29 30 Massimo 11 dei paletnologi - partecipavano della sociabilità borghese attraverso la pratica dell’alpinismo. Il CAI e le altre associazioni alpinistiche borghesi formavano delle comunità di pratiche al pari delle associazioni scientifiche dei naturalisti e degli studiosi di preistoria. Ricordiamo che per comunità di pratiche si intende un gruppo composto da persone che svolgano tutte una medesima attività, intrattengano un dialogo costante con i colleghi e sentano l’appartenenza a tale comunità come un elemento fondativo della propria identità31. Inoltre, come ha notato Maurice Agulhon, l’idea di isolamento dei vari gruppi sociali va combattuta, in favore di un’analisi che metta in luce il continuo interscambio tra classi e gruppi. Da questo interscambio nasce una comunicazione continua e una serie di processi di imitazione creativa, cioè un’imitazione che lascia spazio alle strategie dei singoli32. In questo modo, quando differenti comunità di pratiche si uniscono per raggiungere uno scopo comune – o scopi diversi, ma che possano essere risolti con un progetto comune – esse danno origine a una comunità di interesse. Ogni comunità di pratiche, tuttavia, fonda la propria identità sulla condivisione di un linguaggio tecnico che difficilmente viene compreso e condiviso da altri gruppi. Pertanto, al formarsi di una comunità di interesse, sorge la necessità per gli appartenenti a differenti comunità di pratiche di trovare un terreno di comunicazione comune33. Tale terreno di scambio può essere costituito da un “oggetto” che si situi alla frontiera tra gli interessi dei vari gruppi e viene pertanto definito come boundary object34. Nel caso della paletnologia e della geologia il terreno comune era dato dall’interesse per i “fossili” che emergevano dagli strati di interesse geologico; per paletnologi, geologi e alpinisti il terreno d’incontro era dato dai “fossili della nazione”35, cioè da quelle reliquie in grado di illuminare l’origine della patria e di dare lustro all’Italia nel contesto delle nazioni. A ciò va aggiunta la pratica scientifica in sé che, secondo l’ethos borghese, contribuiva fortemente all’educazione e alla modernizzazione nazionale. John Brown, Paul Duguid, The Social Life of Information, Harvard Business School Press, Boston, 2002; Etienne Wenger, Communities of Practice: Learning, Meaning, and Identity, Cambridge University Press, Cambridge, 1999. 32 Maurice Agulhon, La Repubblica nel villaggio. Una comunità francese tra Rivoluzione e Seconda Repubblica, Il Mulino, Bologna, 1991; idem, Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese, 18101848, Donzelli, Roma, 1993. Si veda anche l’analisi che ne fa Maria Malatesta in Il concetto di sociabilità nella storia politica italiana dell’Ottocento, in «Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica» 1, 1992 pp. 59-71. - Passo a pp. 61-62 33 Ernesto G. Arias, Gerhard Fischer, Boundary Objects: Their Role in Articulating the Task at Hand and Making Information Relevant to It, International ICSC Symposium on Interactive and Collaborative Computing (ICC'2000), 2000. Consultabile on line al sito: http://www.cs.colorado.edu/~gerhard/papers/icsc2000.pdf 34 Nicholas Chrisman, Trading Zones or Boundary Objects: Understanding Incomplete Translations of Technical Expertise, San Diego, 1999. Consultabile on line: http://faculty.washington.edu/chrisman/Present/4S99.pdf 35 L’espressione è tratta da un passo di Gioberti (Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani (seconda edizione corretta e accresciuta dall’autore coll’aggiunta di una nuova avvertenza), Brusselle, 1845); si veda Fedra Alessandra Pizzato, Fossili delle nazioni. Cit. 31 12 5. Bassano del Grappa A livello locale, se non nei piccoli paesi, almeno nelle piccole città, e non solo nei capoluoghi, la sensibilità borghese per la preistoria e la protostoria emergeva. Un esempio di questo atteggiamento si riscontra a fine secolo a Bassano Veneto, ora Bassano del Grappa, dove una necropoli preromana venne alla luce in un terreno di proprietà di una nobile famiglia cittadina, ma coltivato a mezzadria36. Il sovrintendente locale delle antichità che si prese cura di condurre gli scavi era un nobile ed erudito locale, impegnato nella causa nazionale, il conte Tiberio Roberti37. A divulgare la notizia della scoperta furono però tre personaggi a diverso titolo collegati all’associazionismo borghese e, in particolare, alle società alpinistiche. Su scala nazionale la notizia venne resa nota da Paolo Orsi, membro dell’Accademia degli Agiati di Rovereto, sua città d’origine, e della Società degli Alpinisti Tridentini (SAT)38. Ugualmente membro della SAT era Ottone Brentari (1852-1921)39 che divulgò sul quotidiano provinciale le scoperte e si occupò anche di valorizzarne proprio l’antichità preromana utilizzando il nome di Pigorini (cui aveva chiesto una consulenza in proposito) per celebrare le origini del popolamento nel bassanese40. A livello municipale la scoperta venne, invece, propagandata dal figlio del contesovrintendente, Giuseppe Roberti, che sul periodico cittadino «Il Brenta» pubblicò un articolo dedicato alla fondazione dell’abitato di Angarano, considerato la più antica parte della città, dove era venuta alla luce la necropoli preromana. Egli scrisse in proposito che “sugli ameni poggi di San Giorgio [località in Angarano] avea posto dimora una gente uscita dalle palafitte e da stazioni analoghe alle terramare”41. La biografia del figlio del conte Tiberio rivela che Giuseppe Roberti, poi divenuto anche deputato del Regno, altri non era che uno di quegli Per una ricostruzione puntuale della vicenda si veda Fedra Alessandra Pizzato, Archeologia locale, racconto nazionale. La collezione pre-romana del museo civico di Bassano del Grappa e la costruzione di identità nel periodo post-unitario, in «Ateneo Veneto», CCI, III, 13/2, 2014 (2015) pp. 11-30. 37 Alla memoria del Conte Tiberio Roberti, Tipografia Ditta Antonio Vicenzi, Bassano, 1915. 38 La SAT era la società degli alpinisti della provincia di Trento, allora territorio conteso tra Italia e Austria. Sarebbe poi divenuta una sezione del CAI (1920). Si trattava di un’associazione fortemente coinvolta nel promuovere l’italianità del territorio trentino, influenzata dall’irredentismo e da un forte nazionalismo. A questo proposito si veda: Stefano Morosini, Sulle vette della patria. Politica, guerra, e nazione nel Club alpino italiano (1863-1922), cit. pp. 76-84 (ma anche passi del capitolo seguente dedicato agli anni antecedenti la prima guerra mondiale). 39 Brentari fu un geografo, autore di numerose guide turistiche del Trentino e di una Storia di Bassano, ma fu anche giornalista, politico e militante del movimento irredentista. 40 Ottone Brentari, Avanzi romani a Bassano, in «La Provincia di Vicenza», 8 febbraio 1893 e idem, Scoperta archeologica, in «La Provincia di Vicenza», 18 febbraio 1893. 41 Giuseppe Roberti, Ancharianus, in «Il Brenta», settembre-ottobre 1895, p. 10. 36 13 aristocratici patrioti e modernizzatori che confluirono a loro volta nelle file del CAI42. Oltre che delle origini cittadine, egli era, infatti, anche appassionato divulgatore delle bellezze naturali della sua “piccola patria”, cui dedicò un appassionato articolo pubblicato proprio nelle pagine del «Bullettino Annuale del Club Alpino Bassanese»43. È interessante notare come, attraverso contatti tra membri delle associazioni alpinistiche, la teoria pigoriniana fosse sbarcata a Bassano, una piccola città di frontiera tra Trentino austriaco e Regno d’Italia, e fosse dibattuta sulla stampa e sulle pubblicazioni in cui si riconoscevano le élite patriottiche locali. Ciò fa pensare a quanto la scoperta della necropoli di Bassano potesse rivestire un ruolo strategico “immanentizzando” il collegamento ideologico tra genti trentine e terramaricoli progenitori dei Romani (e degli italiani del XIX secolo). In questo senso che a dare rilievo alla scoperta fossero stati due studiosi trentini, Orsi e Brentari, e un nobile locale, tutti e tre legati tra loro dalla pratica della sociabilità alpinistica rivela quanto possa essere stata rilevante la rete dell’alpinismo nella diffusione di un senso comune sulle origini della nazione e di come le teorie paletnologiche permeassero il linguaggio di questi gruppi. 6. Bismantova I rapporti tra alpinismo e scoperte di siti preromani si intrecciavano nell’Italia postunitaria favorendo la diffusione di simbologie, paradigmi e narrazioni che viaggiavano allora per la penisola assieme a grandi nomi legati a vario titolo al CAI o ad altre società alpinistiche (in particolare alla SAT). Gaetano Chierici, Bartolomeo Gastaldi, Paolo Orsi, Ottone Brentari, Antonio Stoppani, Angelo Mosso, Paolo Lioy, Francesco Molon e, potremmo aggiungere, Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel solo per citare altri due nomi illustri, erano tutti personaggi strettamente collegati tra loro grazie alle reti dell’alpinismo e alla passione scientifica per la più antica storia naturale e umana della Penisola. Altro comun denominatore tra loro era la partecipazione attiva alla causa nazionale. Essi scrivevano monografie e articoli sui temi della 42 Alessandro Pastore, Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza, cit. pp. 33-53. A questo proposito sarebbe interessante poter approfondire il discorso sulla partecipazione di una parte dell’aristocrazia (anche preunitaria) alle Società Alpinistiche; in particolare sarebbe interessante chiedersi se questa parte della nobiltà avesse in comune alcune caratteristiche, se per esempio rappresentasse un gruppo di aristocratici particolarmente coinvolti nella causa nazionale, se si trattava di aristocratici più vicini al mondo produttivo borghese o a quello scientifico. Nel caso dei conti Roberti, ad esempio, ciò è senza dubbio vero. La scoperta della necropoli di Bassano vide, infatti, contrapposte due famiglie di nobili locali, i Roberti e i Brocchi, il cui atteggiamento nei confronti delle antichità locali è discorde. Più sensibile alla causa nazionale e alle esigenze della scienza è il ramo dei Roberti che, come si è detto, furono forse maggiormente influenzati da un ethos nazional-borghese. 43 Giuseppe Roberti, Il Castellaro d’Angarano, «Bullettino Annuale del Club Alpino Bassanese», II, 1896. 14 geologia e del paesaggio italiano, ma anche opuscoli, brevi saggi, osservazioni di carattere paletnologico. Non di rado partecipavano in prima persona a imprese significative sul piano tanto dell’avanzamento delle scienze quanto dell’elaborazione del passato nazionale. I paletnologi e gli antropologi facevano da tramite tra i due ambiti: numerose escursioni e scavi vennero allestiti con la partecipazione dei membri del CAI. Tornando al caso di Reggio Emilia e del suo museo, emblematica anche per la valutazione del pubblico dell’esposizione preistorica (e della paltnologia) è la spedizione a Bismantova degli alpinisti della sezione dell’Enza capeggiata da Gaetano Chierici. Il 5 ottobre 1875, in una delle prime imprese degli alpinistipaletnologi, un nutrito gruppo di giovani alpinisti sale alla rupe di Bismantova per prendere parte a uno scavo di una necropoli preromana. L’intera operazione è, inoltre, a totale carico della sezione del CAI che finanzia l’intero costo degli scavi. Chierici stesso, sarà il cronista dell’impresa e redigerà una memoria dal sapore epico, edita anch’essa con il contributo del CAI in un testo dedicato proprio alle memorie degli alpinisti44. In questa cronaca, Chierici mette in luce in primo luogo la pericolosità dell’impresa con la montagna resa infida dalle continue frane: inutile avviso del pericolo d’erosioni celate, onde già staccaronsi gli enormi massi (…) coi dossi e le punte biancheggianti fra il verde delle querce e dei castagni, fanno spaventosa corona al piccolo santuario (…) ed ogni sassolino che venga saltellando per quelle balze fa tremar di paura45. Chierici, d’altra parte, da membro del clero patriottico e rosminiano, non tralascia di sottolineare la spiritualità del luogo: Ma le cavernose rupi e le benefiche fonti, anche prima che Mosè facesse scaturir l’acqua dalla pietra dell’Oreb, si meschiarono (sic!) ai riti della religione; la quale traendo l’uomo ai pensieri dell’infinito, gli fa cercare il misterioso e il terribile nella natura, dove più sente o la bontà o la potenza del Creatore46. In terzo luogo, Chierici esalta il carattere patriottico dell’escursione archeologica. Egli pone, inoltre, l’accento sull’impossibilità da parte dei giovani del CAI di considerare davvero concluso lo scavo prima del rinvenimento di un sepolcro antico: solo l’apparizione di “residui d’ossa La memoria di Chierici è edita in Emilio Spagni, La montagna tra il Secchia e l’Enza. Memorie e studi di alpinisti reggiani, Tipografia di Stefano Calderini, Reggio Emilia, 1876. 45 Gaetano Chierici, Tutti gli scritti di archeologia, cit. p. 211. 46 Gaetano Chierici, Tutti gli scritti di archeologia, cit. p. 211-212. 44 15 bruciate” e del “sedicesimo sepolcro47 compì dunque l’esplorazione”48. Il discoprimento di un sepolcro infatti istituiva quel legame tra passato e presente tipico delle narrazioni nazionali, inoltre consacrava Bismantova come un reliquiario delle ossa degli antenati. Il defunto riscoperto diveniva una sorta di “milite ignoto” e/o di padre della patria, istituiva quel legame tra sangue e suolo che gli alpinisti intendevano celebrare con la loro missione e che veniva consacrato nelle vetrine dei musei. Come si evince dalle parole del Chierici e dall’entusiasmo dei partecipanti, le escursioni a tema archeologico rivestivano nel contesto delle attività del CAI un’importanza eccezionale perché davano la possibilità di partecipare o addirittura di scrivere (come nel caso in cui alla semplice escursione si aggiungesse l’attività di scavo) un nuovo capitolo della storia patria. I reperti rinvenuti durante le attività di scavo dai membri del CAI non andavano poi a costituire raccolte private né raccolte conservate nelle sezioni, ma venivano donate immediatamente ai musei civici. Ciò dà ancora una volta testimonianza della considerazione in cui venivano tenute tali raccolte e tali istituzioni. Nel caso di Bismantova i reperti rinvenuti furono collocati nel museo di Reggio Emilia, dove avrebbero dovuto rendere testimonianza delle origini nazionali risvegliando aneliti patriottici nei visitatori e orgoglio in quei membri dell’élite cittadina che avevano contribuito alla loro scoperta. 7. Conclusione Grazie alle riflessioni di Clifford Geertz49, oggi si è consapevoli del fatto che un’analisi delle relazioni sociali, per non scadere in un neo-strutturalismo, deve essere accompagnata da una riflessione sui sistemi simbolici, sulle culture sociali e sui linguaggi50. Il contributo che abbiamo voluto offrire in questo breve saggio, sebbene si tratti di una ricerca ancora in corso che coinvolge, nel suo insieme, altre tipologie di reti e di associazioni coinvolte nella fruizione e nella divulgazione delle teorie sulle origini della nazione e negli scavi archeologici, vuole andare in questa direzione. Attraverso l’utilizzo di un apparato concettuale e metodologico basato sulla Quindici sepolcri erano già stati scavati in una prima missione del Chierici come ricorda lo stesso monsignore reggiano all’inizio della sua narrazione. 48 Gaetano Chierici, Tutti gli scritti di archeologia, cit. p. 214-215. 49 Clifford Geertz, Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna, 1988 e Idem, Verso una teoria interpretativa della cultura, in Idem, Interpretazione di culture, ll Mulino, Bologna, 1987. 50 Gabriella Gribaudi, La metafora della rete. Individuo e contesto sociale, in «Meridiana», 13-14-15, 1992 pp. 91108 (sulle conseguenze della critica di Geertz alla network analysis in particolare pp. 102-103 e p. 105-106). 47 16 teoria della object based epistemology, delle comunità di pratiche e interessi, dei boundary object ho voluto mettere in evidenza come i reperti esposti nelle collezioni paletnologiche e antropologiche godevano di molteplici forme di interesse sia da parte degli specialisti della pree protostoria sia da parte del pubblico borghese. In particolare ho messo in luce lo specifico interesse che i membri del CAI, grazie anche alla mediazione di geologi e naturalisti oltre che degli stessi paletnologi, riservavano tanto alla pratica paletnologica in se stessa (lo scavo) quanto ai reperti che emergevano e venivano disposti nelle vetrine delle collezioni civiche. Allineati nei musei, gli oggetti archeologici rivestivano un ruolo chiave tanto nelle dinamiche di autorappresentazione delle élite urbane, quanto nel legittimare la figura dello scienziato-curatore. Quest’ultima legittimazione poi agiva su tre fronti diversi: la comunità di pratiche nazionale (i paletnologi, gli antropologi e gli altri scienziati italiani), la comunità di pratiche internazionale (i colleghi stranieri), la comunità di interessi formata da tutti quei gruppi nelle cui pratiche di sociabilità aveva una grande rilevanza la storia patria unita all’idea di modernizzazione nazionale. Lo statuto di scienza della ricerca pre- e protostorica permetteva alle teorie sulle origini italiane di entrare nella narrativa e nell’imaginario del pubblico borghese in quanto si armonizzava con l’idea di modernizzazione del paese che caratterizzava l’ethos delle élite positiviste. Questo fatto faceva sì che l’interesse riservato all’archeologia pre-romana fosse maggiore nei decenni seguenti l’Unità rispetto a quello cui poteva aspirare l’archeologia classica, più apprezzata dagli aristocratici interessati alla pratica del collezionismo. Se, infatti, la pratica del collezionismo archeologico di derivazione sei e settecentesca si era integrata agevolmente all’interno dell’habitus aristocratico51 attraverso la prassi antiquario-erudita e il culto del bello, l’attività scientifica era divenuta nel corso del XIX secolo parte fondante dell’identità borghese52. “Le differenze tra diverse classi sociali in base alle condotte di vita non sono pensabili, secondo Bourdieu, senza il concetto di habitus. Il “salto mortale” marxiano può essere evitato solo introducendo l’habitus come principio generativo, produttore di pratiche differenziate e spontanee. Si può parlare di un habitus di classe perché in esso si accumulano le esperienze sociali degli individui, le condizioni sociali in cui essi sono cresciuti. Condizioni che hanno determinato la formazione di schemi di classificazione e di giudizio, nonché un gusto per le pratiche sociali. Habitus di classe significa che lo habitus individuale presenta caratteristiche simili a quello degli altri componenti alla stessa classe, anche nel caso in cui non vi sia una “coscienza di classe” in senso marxiano. (…) nell’habitus si inscrivono le esperienze primarie del mondo sociale nel quale si è cresciuti. (…) e poiché nell’habitus si perpetua il passato, che lo ha prodotto e forgiato, esso produce a sua volta orientamenti, portamenti e forme d’azione che riportano l’individuo al luogo sociale determinato dalla propria classe di appartenenza. Si rimane imprigionati nella propria classe, la si riproduce nella pratica. (…) Bourdieu sottolinea la centralità del gusto nella coesione così come nella separazione tra classi. (…) Le frontiere tra classi (…) si costituiscono attraverso le pratiche distintive degli agenti”. Beate Krais, Gunter Gebauer, Habitus, Armando Editore, Roma, 2009 pp. 40-41. 52 Naturalmente si è ben lungi dall’escludere sovrapposizioni tra i due ambiti: Giovanni Baracco era barone e collezionista di antichità, ma anche alpinista e scienziato; un esempio simile è dato da Paolo di Saint Robert, naturalista appassionato, ma membro dell’aristocrazia. Volgendo lo sguardo a quanto detto nel capitolo 51 17 Ovunque si scavasse alla ricerca delle più antiche civiltà d’Italia, le scoperte destavano un interesse diffuso tra gli studiosi locali; a sua volta l’entusiasmo per le scoperte locali coinvolgeva spesso personaggi collegati alle reti alpinistiche. Questi ultimi, anzi, spesso erano i promotori stessi della ricerca (i.e., Roberti, Orsi, Brentari nel vicentino, gli alpinisti della Sezione dell’Enza a Bismantova) e i suoi primi divulgatori. Tutto ciò contribuì alla diffusione delle idee sulla preistoria e protostoria nazionale. Il ruolo di questi divulgatori legati al CAI e all’alpinismo risultò, infatti, essere un tassello importante del “fare gli italiani”. Il fatto poi che la paletnologia fosse ampiamente rappresentata nei loro interessi e nelle loro opere e che in tali opere essa fosse sempre collegata con il tema delle origini e dell’identità locale e nazionale è una spia del valore identitario che andava rapidamente assumendo la nuova scienza. Essa, dunque, ben si coniugava con il marcato carattere nazionalista dell’ideologia alpinistica. precedente anche Tiberio e Giuseppe Roberti, conti impegnati in scavi paletnologici, appartenevano all’aristocrazia cittadina. 18