Alpinismo

I racconti di alpinismo di Walter Bonatti – concepiti come unità distinte e con funzione di resoconti letterari – sono stati negli ultimi decenni ripubblicati e riusati dallʼautore con diversa intenzione, come frammenti di testimonianza nella polemica e nella vicenda giudiziaria legate alla conquista del K2. Mutata è dunque la modalità di lettura da parte di lettori informati sul caso dai mezzi di comunicazione e interessati ai suoi sviluppi. Si indaga dunque il processo di cambiamento di statuto dei testi, dalla tipologia breve del racconto a quella di “capitolo” ed elemento dellʼinchiesta extra-letteraria.

Difficile oggi per un giovane di Pontedilegno immaginare com’era il suo paese 150 anni fa. Una scarsa dimestichezza con il passato porta a pensare che il comune dell'alta valle viva da tempo immemorabile soltanto, o per lo più, di turismo.
Nulla di più falso. Il turismo è economia relativamente recente, perché i dalignesi erano, pressoché tutti, nient’altro che pastori. Gente civile, ma abituata a trattare più con le bestie che con gli uomini, e ben lontani da quelle predisposizioni (non sempre genuine) all’accoglienza e all’ospitalità, che sono la materia prima del turismo......

Spesso gli alpinisti definiscono se stessi come conquistatori dell’inutile, forse perché già in loro stessi è presente la consapevolezza di quanto effimera possa essere la soddisfazione di arrivare in cima a una montagna, soprattutto se paragonata allo sforzo e al rischio per raggiungerla per poi subito abbandonarla a causa della mutevolezza degli elementi. Ebbene, da buon camminatore, e da scarno alpinista quale sono stato, posso dire che quell’inutile che conquistiamo in vetta non è dissimile da quell’inutile che conquistiamo ogni giorno portando avanti i nostri principi, i nostri ideali e le nostre piccole, grandi imprese; inutile forse perché effimero, ma sostanziale per la nostra esistenza.

Spesso, quando si parla di montagna in un paese con quasi 8 mila metri di costa si dimenticano i 1.200 chilometri di Alpi e soprattutto i 1.400 chilometri di Appennino, ma la naturale propensione di chi volge lo sguardo sull’orizzonte della vita da un punto e un contesto più alto e aspira a un qualcosa di più che l’ordinaria esistenza, non può che contemplare, oltre che le profondità del mare anche e soprattutto quella metafora di vita che sono le nostre vette montane.
Salire in montagna ti insegna a vivere, perché ti mette crudamente al confronto con te stesso, ti mostra chi realmente sei senza menzogne e senza scusanti, è lì che capisci quanto vali, perché è in quel contesto che decidi se prendere di faccia la tua essenza o rinnegarla, nascondendola magari dietro la sorte o dietro colpe altrui; è lì in montagna dove decidi se essere un uomo o qualcos’altro, perché è in montagna che non si mente, perché non è possibile farlo. Ecco perché chi ci va sa; è consapevole di ciò che affronta e ne accetta le condizioni, perché è cosciente che potrà essere contraccambiato con una doppia moneta, quella della gloria effimera della vetta o quella del rischio del fallimento, spesso con fatali conseguenze.
Oggi andare in montagna è diventato un qualcosa alla portata di tutti coloro che vogliano cimentarsi sulle nostre catene montuose, ma, se da un lato è un bene perché avvicina più persone alla conoscenza di questo splendido e fondamentale contesto, dall’altro si è andato perdendo quel fascino che l’alpinismo aveva nei tempi passati, perché per molti, andare in montagna è ormai uno sport, è un’attività prestazionale e non una disciplina dell’anima.

Aurelio e Pasquale erano probabilmente persone che vivevano in ragione di quel sentimento che ti eleva ad essere migliore nel corpo, ma anche e soprattutto nell’anima, in ragione di ciò che ti avvicina a un qualcosa di più elevato che non sia legato a un che di materiale, ma che dia significato alla tua esistenza. Aurelio e Pasquale erano giovani e come è giusto che fosse, la loro età li ha portati ad osare perché questo verbo è complementare con quello di vivere ed è sostanziale con la storia dell’umanità; loro hanno vissuto pienamente, tanto che a sessantaquattro anni dalla loro scomparsa siamo ancora qui a parlarne. Loro fallirono in modo letale nell’ardua impresa, ma la morte non è mai inutile se ha un suo significato, un suo valore, la vera morte non è il fallimento di un’impresa, la vera morte è non vivere la vita.

Ciro Teodonno
Presidente della Commissione Regionale per la Tutela dell’Ambiente Montano del CAI

Nel panorama letterario contemporaneo Primo Levi e Dino Buzzati sono certo tra gli autori che più hanno avvertito il fascino della montagna: luogo dell’autenticità assoluta, in cui si fa tangibile l’essenza dell’uomo e del mondo. Tale concetto si declina in due sensi, corrispondenti a due moti fisico-simbolici: la salita verso la cima e la discesa all’interno del monte. Come luogo di ascesa-ascesi, la montagna offre l’occasione di raggiungere la piena statura umana, affermando l’Io nella lotta contro il Non-io e insieme in una ricerca paragonabile a quella amorosa. Buzzati in particolare sviluppa una ricorrente antitesi tra la pianura – luogo dei compromessi – e la montagna – luogo della pienezza ("Bàrnabo", "Il deserto dei tartari"). Levi poi considera l’alpinismo una declinazione di quella battaglia con la materia che fa grande l’uomo, dandogli il senso della propria libertà e forza ("Il sistema periodico"). In ogni caso la montagna catalizza quell’istanza che Freud chiama pulsione vitale o eros.
Al contempo però la montagna è per Buzzati il "Massimo simbolo della suprema quiete", ossia della morte, per la quale l’uomo avverte un’inconfessata attrazione (che Freud denomina appunto pulsione di morte o thanatos). Dunque il desiderio di vincere la montagna convive con quello di lasciarsene vincere, fondendosi con la roccia che assume quasi i caratteri di un grembo ("Il grande ritratto"). Anche alcuni racconti leviani (come "Carbonio" e "Piombo") descrivono una simile attrazione per la montagna vista come sede della Materia originaria e indifferenziata, che offre una promessa di quiete e rivela la struttura profonda del mondo. Una simile prospettiva, declinata in senso religioso, si ritrova anche in un terzo autore contemporaneo, Luigi Santucci. Le montagne sono per lui il luogo della necessità pura, manifestazione del Divino e dell’armonia che informa la vita; da qui il desiderio di fondersi con la montagna-grembo, dapprima confluito nella pulsione di morte ("Come se") e poi rovesciato in pulsione di vita ("Il mandragolo").

Riccardo Pasqualin, Le leggende ladine delle Dolomiti e l'opera di Karl Felix Wolff, in Associazione Culturale Amici del Museo della Terza Armata, Strenna 2020, pp. 34-48.

Il saggio riprende i passaggi più validi della tesi magistrale "L'immaginario oltremondano nelle leggende ladine delle Dolomiti, con paralleli dall'etnografia, dal folklore e dalle letterature romanze medievali" discussa nel 2017.

Un racconto di Giancarlo Mauri - quinta edizione, ampliata con gli scritti di Alberto Benini, Pietro Corti, Gian Maria Mandelli, Ruggero Meles, Franco Pescali, Davide Valsecchi e Daniella Forestan - include "8 settembre 1944 - Giuseppe Verderio" di Giancarlo Mauri

Articolo pubblicato sul web magazine "Civiltà Appennino" https://www.civiltaappennino.it/2020/11/18/le-osservazioni-naturalistiche-in-appennino-di-giustino-fortunato/ 1 Le osservazioni naturalistiche in Appennino di Giustino Fortunato: tra questione meridionale, alpinismo e botanica applicata. di Gianni Palumbo-naturalista/ornitologo Una delle prime sedi del CAI in Italia, una sezione che potremmo definire storica, fu quella di Napoli, attiva fin dal 1871. E non è un caso se la sede di fondazione fu il laboratorio di botanica di Nicolantonio Pedicino, nato sull'Appennino, a San Giuliano del Sannio, in provincia di Campobasso. Il laboratorio aveva sede in via Tarsia, dove era collocata anche la "Reale Società di Incoraggiamento alle Scienze Naturali", poi "Regal Istituto di Incoraggiamento alle Scienze Naturali", nata con le riforme napoleoniche del decennio francese a inizio '800, che aveva il compito di promuovere la ricerca applicata e quella pura al fine di favorire un nuovo slancio economico nel Mezzogiorno d'Italia. In quel laboratorio di un botanico, un eminente scienziato del XIX secolo, si erano recati, tra gli altri, il barone Vincenzo Cesati, titolare della cattedra di botanica all'Università Federico II di Napoli, il lucano Giuseppe Camillo Giordano, di Pomarico, e a sua volta botanico oltre a illustri umanisti tra i quali si aggiungerà quasi subito, nel 1872, Giustino Fortunato di Rionero in Vulture e, più tardi, anche Benedetto Croce l'illustre filosofo abruzzese di nascita, napoletano d'adozione. Come scriverà lo stesso Fortunato, «L'acceso desiderio di veder chiaro, appena uscito dall'Università, in tale primo erimma che m'era balenato alla mente, quello, cioè, dell'inferiorità o non del Mezzogiorno, mi sospinsero, anzi che allo studio del codice, alle investigazioni della storia; sempre più rattristato dalle prove che ne attingevo nel paragonare le alterne sorti delle due Italie, le quali spesse volte mi suscitavan dentro l'amaro interrogativo: Perché? Or avvenne che un giorno che, saputo della fondazione in Napoli d'una sezione del Club Alpino Italiano [...], e corso a iscrivermi socio, lassù a Tarsia, nel laboratorio di botanica del professore Pedicino, scienziato e uomo più singolare che raro, poche parole per lui, e del giovane suo assistente Antonio Jatta, con cui presi di fraterna amicizia, bastarono per conquistarmi all'alpinismo, rimasto la passione della mia vita: una passione cui debbo, nonché la salute e la forza di resistenza a tutto il trentennio di elettorato, il proposito, mantenuto per più anni, di percorrere lungo l'Appennino dagli Abruzzi alle Calabrie, pedestremente, tutta intera la terra meridionale. La quale, se non durai fatica a intendere quanto poco fosse amica dell'uomo, sentii perciò appunto il dovere, misteriosa e muta com'è, perdutamente amare».

«Il culto delle vette, proprio dei Celti ma ancora oggi riscontrabile in gran parte del mondo più o meno “primitivo”, rileva che nelle due valli [Valcavargna e Valsassina] le fasce alte (alpeggi, cime) sono quelle interessate ai fatti più misteriosi e straordinari: addirittura, “dopo il Concilio di Trento le presenze misteriose sono state tutte mandate via; adesso non disturbano più il paese ma stanno sulle cime più lontane”.

Pubblicazione della Stazione Universitaria del Club Alpino Italiano. Direzione Generale: Monza. 29 gennaio 1915. Libretto compilato e distribuito dalla SUCAI per rendere nota la sua polemica con la Sezione di Torino del CAI, accusata di "regionalismo". Testo non firmato, ma redatto da Gaetano Scotti. Libretto divenuto raro da trovarsi sul mercato.

I Monti Sibillini costituiscono uno straordinario scenario che innalza le proprie vette al centro della penisola italiana, tra le regioni delle Marche e dell'Umbria. Parte della catena appenninica, i loro formidabili bastioni, caratterizzati dalla presenza di creste vertiginose e spaventosi precipizi, sono abitati da sinistre leggende un tempo conosciute in tutta Europa, capaci di attirare schiere di visitatori da paesi assai lontani, alla ricerca della caverna nella quale si diceva dimorasse una sensuale profetessa, la Sibilla Appenninica, e del lago nel quale si riteneva che il corpo di un antico prefetto romano, Ponzio Pilato, conoscesse un inquieto riposo. Già dal diciassettesimo secolo, però, la fama di quelle montagne si era andata appannando; e con l'ingresso nell'Età dei Lumi le antiche leggende parevano avere perduto ogni attrattiva e interesse, ricadendo in una sostanziale oscurità e rimanendo vive solamente nel folclore delle popolazioni locali. Tra il 1700 e il 1800, nessuno pareva conoscere più quel remoto massiccio appenninico situato al centro dell'Italia e abitato da genti di montagna e incolti pastori, seppure alquanto pittoreschi.

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, però, qualcosa iniziò a cambiare. Con la fondazione del Club Alpino Italiano ad opera di Quintino Sella, nel 1863 a Torino, le montagne italiane cominciarono a collocarsi al centro di un approfondito interesse, non solamente alpinistico, da parte di aristocratici, grandi possidenti e membri della più elevata borghesia, uniti nella comune passione per la montagna e per il nascente escursionismo. Un interesse che coinvolgerà sin dall'inizio non solo la catena montuosa più elevata e illustre, le Alpi, ma anche la dorsale degli Appennini. E, muovendo lungo l'Appennino, i soci del CAI si sarebbero presto imbattuti nei Monti Sibillini: gemme preziose, in precedenza ignote e ignorate, in procinto di conoscere una nuova fortuna tra coloro che, innamorati delle montagne, sarebbero stati pienamente e profondamente in grado di apprezzarle.

Dall'ascesa al Monte Vettore del Conte Girolamo Orsi nel 1877, alla successiva visita effettuata dagli entusiasti congressisti del CAI adunati in Perugia nel 1879, alle prime esplorazioni compiute dall'industriale della carta Giovanni Battista Miliani a Castelluccio, al Vettore e al Monte della Sibilla nel 1886; e ancora al congresso nazionale del Club Alpino, ad Ascoli Piceno, nel 1889, con un nutrito gruppo di soci che si reca a conquistare la Sibilla; e poi, negli anni successivi, con l'arrivo, nel 1897, dei due grandi filologi, Gaston Paris e Pio Rajna, in cerca di misteriose leggende, e con le numerose, successive ascensioni compiute dai soci del CAI tra i picchi dei Monti Sibillini, sarà proprio il Club Alpino Italiano a raccontare e promuovere, con il volgere del secolo, quelle dimenticate montagne appenniniche, con il loro carico di leggende, presso un pubblico vasto e appassionato, aristocratico ed erudito, sia in Italia che all'estero. E il veicolo di questa promozione sarà il pervasivo apparato editoriale e pubblicistico posto in campo dal Club Alpino, con i propri Bollettini, le proprie Riviste Mensili e gli Annuari delle Sezioni regionali, distribuiti presso tutte le sezioni italiane del CAI e anche all'estero.

Nel presente articolo, racconteremo in dettaglio la straordinaria storia di un'avvincente riscoperta, quella dei Monti Sibillini. Andremo a sfogliare le pagine ingiallite delle vecchie, illustri riviste del Club Alpino Italiano. Andremo a rileggere testi quasi sconosciuti, o solo raramente e parzialmente citati, che narrano di imprese alpinistiche e audaci escursioni, compiute da distinti gentiluomini e aristocratiche signore, queste ultime assai determinate, intenti a esplorare le vette delle più belle montagne d'Italia. Una storia straordinaria, grazie alla quale la luce dei Monti Sibillini tornerà a brillare di un bagliore sfavillante, dopo secoli di oscuro oblìo, in un'Italia che aveva dimenticato sia queste montagne, che le leggende che in esse vivevano. Una luce leggendaria, che continua a brillare, senza più appannamento alcuno, anche ai nostri giorni.

Tenuto conto che la prima mi è stata imposta alla nascita, ad oggi non ho ancora deciso se considerare la mia vera Patria l’India oppure la Francia, anche se la vicinanza gioca a favore della seconda, da me attraversata in lungo e in largo con ogni mezzo, anche a piedi con due asini presi a nolo per il trasporto dei sacchi e dei viveri. Roba di trent’anni fa, è vero, ma ancora ben presente nei ricordi di famiglia.
Il primo asino si chiamava Zorba, nato selvaggio in Africa e subito catturato per essere destinato a lavorare come stallone nel Roussillon-Languedoc.

"Life wants to climb and in climbing to overcome itself." - Nietzsche

Climbing is at once mysteriously universal and specifically human, a general praxis of life and a markedly anthropocentric pursuit. The still accelerating and expanding sphere of climbing as a specific post-medieval human practice begs the question of its relation, not only to historical modernity and its corporeal-kinetic formations, but to life itself. Accordingly, this symposium proposes to follow the question of climbing and the problematicity of its concept as a unique opportunity for reflection on the question of life.

What climbing is, its being and becoming, is unthinkable without reference to the plurality of evolutionary, metaphysical, cultural, and political forms climbing takes, of which alpinism’s classic notion of ascending a mountain “because it’s there” is both a significant and a woefully insufficient index. To consider climbing in its situation vis-à-vis life, affords not only the possibility of new critical perspectives on climbing but the generation of novel orientations within it. As life is a problem in which life is caught, so climbing proceeds through pursuit of its own difficulties. The contemplation of climbing in connection with life thus calls not only for critique but for more immersed theorizations, for vexed or cruxological discursive climbs of climbing. The historically problematic attachment of mountaineering to colonialism, nationalism, and androcentrism, for instance, is legible (not to mention livable) as a permutation of climbing’s wayward reflexivity, its creative and perverse will to be both heroically more than and a pure end unto itself. Like life, climbing requires an overcoming-by-intensifying of its own problematic. In short, the very movement of climbing calls for progressively recursive and self-problematizing reflections upon its own nature and its relation to the greater movement and nature—life—of which it is a part.

Is climbing the means by which life overcomes itself or only a term through which it wants to? If climbing is the medium whereby life wants to and/or does overcome itself, will life ever overcome climbing? How does death, from the corpses of climbers to environmental loss, animate climbing? What bodies and subjectivities, gestures and technologies, substances and imaginations, desires and economies are produced, performed, and assembled as climbing emerges as a form of social and anti-social life? What ecologies become possible as we come to understand climbing as taking place in environments, both natural and built, as a form of post-human and ante-human engagement with a living, dying planet?

11 November 2016 Department of Performance Studies New York University

Organizers: Margret Grebowicz (Goucher College), Ed Keller (Parsons, The New School), André Lepecki (Tisch School of the Arts, NYU), Nicola Masciandaro (Brooklyn College, CUNY)

La storia della nascita del turismo a Ponte di Legno è la storia della trasformazione della sua economia: da una società in cui le attività legate alla pastorizia, e all’allevamento in generale, costituivano il perno attorno al quale ruotava tutta l’economia dell’alta Valle Camonica, si passò, nel giro di qualche decennio nel corso dell’Ottocento, ad una economia di “accoglienza” dello straniero, del “foresto”, dapprima in modo timido, e non del tutto convinto, e successivamente, grazie all’alpinismo e allo sci, sempre più votato a trasformare le silenti vallate e i pendii delle montagne che circondano la conca dalignese in motivi di attrazione turistica.
La storia del turismo è fatta soprattutto di persone, che hanno creduto nel progetto di trasformare il proprio paese, prima forse anche in modo inconsapevole, e quindi sempre più convintamente. Ed è proprio grazie a queste persone che Ponte di Legno è oggi quella stazione turistica universalmente conosciuta. Questo libro è a loro dedicato, e si è allora cercato di ricostruirne i “volti”, perché le loro azioni, i loro sacrifici, le loro storie personali non vadano dimenticati. Questo libro non intende ricostruire l’intera storia del turismo dalignese, ma delle sole sue origini; cosicché la ricerca si ferma agli anni ’20 del Novecento, ossia all’epoca pionieristica del turismo dalignese e a quegli uomini che per primi credettero, fermamente, nelle opportunità che il loro paese poteva dare all’intera comunità.

Una breve riflessione, rivolta agli studenti delle scuole superiori, sul significato dei rifugi alpini nell'immaginario degli amanti della montagna.

A short reflection about the role played today by mountain huts in the imaginary of mountain lovers. It was written for an audience of high school students.

I have noticed that on some occasions there are doubts about what diameter of the corrijo to choose to confess a rescue system as well as vertical work and more activities such as climbing, adventure parks, etc. Starting to clarify that today there are already cordines with stitched terminals (eyelets or rings) that allow to avoid losses of resistance by hanging factors (knot) and in addition, they are certified with 22 kN. of defined minimum resistance (with everything and seam) that are really advisable for all types of vertical activity. Of course, the latter should be the most privileged for their safety (in the work environment in some countries they become mandatory due to their legal system), but it is a fact that the sections of cordino cut to size as they are sold are still in use by rolls and that require knots to be connected (eight, flat knot, etc).

«[…] A questo punto avevo le due solite alternative: copiare, cambiando magari le parole, quanto aveva già scritto Silvio Saglio nella sua guida Le Grigne uscita nel 1937 - a sua volta esattamente uguale, per la parte escursionistica, alla Guida illustrata della Valsassina del prof. Fermo Magni, uscita nel 1904 ed ampliata nel 1926 -, oppure partire da zero e ripercorrere uno per uno ogni sentiero per scrivere relazioni attendibili».
Queste parole le ho scritte nel 1976 per la Prefazione di Escursioni nelle Grigne e oggi le riconfermo. Infatti, chiunque abbia tra le mani una copia del libro di Magni potrà constatare come Saglio ne abbia ricopiato integralmente i testi, punteggiature ed errori compresi. E chi copia dai copisti automaticamente tramanda gli stessi errori ai posteri. Alla terza generazione, tutto diventa verità.

Dal Medieve enchina contra la fin dl Otcent é les valedes entourn l Grup dl
Sela – Fascia, Fodom, Gherdëina y Val Badia – stedes isoledes dal rest dl mond,
sclutes y autarchiches. La gran pert dla jent vivova de cie che ala fova bona de
coltivé y de zidlé, risćian sovenz da ne ti ester nia da souravive, da morì da fan
y da la gran stenta. Sovenz se lasciova i paurs su, che ai ne volova nia ti dé ju cie
che ai essa messù al vescul da Persenon o ai convenc a chi che ai fova sotmetus.
Chest ajache ai ova enstesc demé puech da mangé, dantaldut i agn che al fova
plu freit o canche ai ne fova nia bogn da cueie cie che ai ova semené, per gauja
dl rie temp o de valch catastrofa naturala.

Chesta situazion é resteda feter unfat per trueps secui, enchina amesa l Otcent,
canche i paurs ne messova te n iade nia demé ti ester a les dificoltés gaujedes
dal temp, ma ence ai problems finanziars gaujés dai mudamenc aministratifs y
legislatifs de chi agn. Trueps de ei fova ruvés tant su pro che ai ova messù vene
sie luech y jì a se chirì foradecà n post da sté y da laoré.

Ma avisa te chi agn tant riei àl metù man na fasa nueva de svilup: al é vegnù
mioré les stredes ite per les valedes y soura i joufs y al à metù man de vegnì
adalerch tres deplù foresć. Al fova l scomenciament dl turism tles Dolomites.
Scemia che degugn ne savova avisa cie potenzial che chest setour nuef ova,
nen fovel deplù che ova capì che al fova te vigni caje ora da mudé valch, per
vegnì fora de chela situazion precara che ova dagnora bele caraterisé la sozieté
dolomitica. Danter les persones che ova metù man da se dé da fé de chest vers
ne él nia demé chi che vegn tres recordés per ester stés i pioniers dl turism,
i fredesc Josef y Franz Kostner da Corvara, o l professour Jan Batista Alton,
fondadour dla sezion Ladinia dl DuÖAV, ma ence n paur sciche Iocl K aStLun-
ger da Ruon da Calfosch, che l’à tres endò “vagheda”, che à concuisté la creta
de siei compaejans che l à lité ombolt, che à porvé da mete su la pruma Cassa
Raiffeisen te sie paisc, che à fat su, sun enciaria dla sezion Bamberg dl DuÖAV,
les prumes uties sun l Grup dl Sela, la Bamberger Hütte, encuei Rifugio Boè, la
Pisciadùsee-Hütte, encuei Rifugio Pisciadú, y l Grödnerjoch-Hospiz sun Frara. Te n
manoscrit autobiografich de vint plates conta Iocl de chestes sies esperienzes,
ma ence de sies idees y de siei proiec per daidé la jent da Calfosch y nia demé.

Il Gridone, i luminari pavesi che alla fine dell'Ottocento frequentavano la valle Vigezzo, uno dei più grandi esplo-ratori italiani del Novecento e una storia vera che finisce in tragedia. Questi gli elementi dell'alchimia di L'inferno sulla vetta edito da Bompiani e scritto da Paolo Mazzarello, professore di Storia della medicina all'Università di Pavia.

Pruneri Stefano (a cura di), Giacomo Pruneri, (3) Frammenti di memorie. Salita al monte Sobretta, in Il Graffito, mensile d'informazione e cultura della biblioteca civica di Grosio (SO), n. 10, ottobre 2018, p. 3 (direttore responsabile: Ivan Mambretti).