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Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 1 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 2 XENOS Collana di filosofia, fenomenologia e storia dell’alterità Nell’epoca degli sradicamenti, delle migrazioni, degli esili, delle fughe anche il pensiero sembra sotto scacco. Xenos, la cui stratificazione semantica rimanda alle forme plurali in cui l’alterità si manifesta – alla condizione di ospite, straniero, forestiero, estraneo, ma anche nemico, strano, spaesato e spaesante –, assume una pregnanza filosofica decisiva per immaginare un futuro ineludibile in cui a regolare i rapporti umani nelle società plurietniche e multiculturali siano le civili regole d’ospitalità e convivenza. Non vi è, infatti, condizione più passeggera dello xenos, vocabolo che chiama in causa una situazione speculare e contingente, quella dell’accogliere e dell’essere accolti. Poiché, come ricorda Derrida, “non si dà xenos né straniero prima o fuori della xenia”, il che implica che si diviene ospitali solo quando si riesce a rappresentarsi come ospiti nel gioco fertile dell’immaginazione empatica; d’altra parte, se l’alterità implica e ridisegna l’identità è pur vero il contrario, in un dedalo di specchi e di rimandi infiniti cui è impossibile sottrarsi. La condizione di xenos in Platone compare per tre volte in luoghi che sono snodi decisivi del logos occidentale: lo Straniero di Elea nel Sofista, portatore della “domanda parricida” che pone l’essere stesso in questione; Diotima, tre volte straniera (xene), nel Simposio, donna e sacerdotessa che reca con la sua diversità radicale la parola definitiva intorno al significato dell’Eros; Socrate stesso nell’Apologia, straniero in Atene dinanzi ai suoi giudici. Questi tornanti nel pensiero platonico sono lì a rammentarci che estraneo non è sinonimo di ostile, così come ospite non corrisponde a nemico, e tuttavia quel nesso resta inducendo Kant ad affermare “il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico”. L’utopia kantiana della “pace perpetua” viene allora a poggiare su un diritto cosmopolitico Obsolescenza_lecturae 27/02/18 12:08 Pagina 3 che affonda le sue radici nella libertà di movimento essenziale nella democrazia della polis, come ribadirà Arendt che, per converso, legge il totalitarismo come quella degenerazione politica che azzera lo spazio vitale tra gli umani. La natura ambigua e ambivalente di xenos (ospite/ospitato, amico/nemico) ci rivela dunque che il riconoscimento della diversità (etnica, religiosa, sociale, culturale, sessuale, di genere) e delle forme di vita altre è gesto fondante dell’etica (diritto/dovere) dell’ospitalità, poiché, come sottolinea Derrida, “l’etica è ospitalità”. Nell’età in cui l’ostilità e la conflittualità ferina ritornano a dettare le leggi della politica affidiamo a XENOS. Collana di filosofia, fenomenologia e storia dell’alterità l’arduo compito di restituire, attraverso testi e riflessioni di autori e autrici della contemporaneità, la parola alla filosofia, la “nostra amica clandestina”, come ebbe a definirla Maurice Blanchot. Poiché solo un incessante esercizio non conforme, “irregolare” e “senza ordine” (rubiamo l’espressione a Simone Weil) del pensiero può pensare l’“altro” ri-pensando al contempo “sé”, spingersi sino a quella soglia ove è possibile immaginare produttivamente “l’altro da sé” e il “sé come un altro”. F.R.R.L. Direttrice della Collana: Francesca R. Recchia Luciani Comitato Scientifico: Rossella Bonito Oliva - Università di Napoli “L’Orientale” Alice Crary - The New School for Social Research (New York City - USA) Piergiorgio Donatelli - Università di Roma “La Sapienza” Francesco Fistetti - Università di Bari “Aldo Moro” Simona Forti - Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” Edoardo Massimilla - Università di Napoli “Federico II” Jean-Luc Nancy - Professore Emerito Université de Strasbourg (France) Laura Odello - Brown University (Providence, Rhode Island – USA) Elena Pulcini - Università di Firenze Lynette Reid - Dalhousie University (Halifax – Canada) Peter Szendy - Brown University (Providence, Rhode Island – USA) Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 4 Copyright © 2018, il nuovo melangolo s.r.l. Genova - Via di Porta Soprana, 3-1 www.ilmelangolo.com ISBN 978-88-6983-035-8 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 5 Obsolescenza dell’umano Günther Anders e il contemporaneo A cura di NATASCIA MATTUCCI e FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 6 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 19 ROVESCIARE I PROPRI OCCHI. ESTETICA E POLITICA IN GÜNTHER ANDERS E JOHN HEARTFIELD MICAELA LATINI 1. Niente da nascondere? Per quanto apparentemente marginale rispetto all’asse portante dell’opera di Günther (Stern) Anders, il capitolo della raccolta Uomo senza mondo. Scritti sull’arte e la letteratura (Mensch ohne Welt. Schriften zur Kunst und Literatur)1 dedicato all’arte di John Heartfield rivela alcuni snodi cruciali per comprendere la questione delle immagini e dell’immaginazione nel suo effettivo tracciato teoretico. Parlare dell’artista dadaista tedesco Heartfield (pseudonimo di Helmut Herzfeld, 1891-1968) significa infatti per Anders occuparsi di una costellazione di temi di natura non solo artistica: la questione dello sguardo, la connessione tra opera e vita, il rapporto tra intelletto e immaginazione o tra ragione e occhio, tra verità e menzogna, tra bellezza e testimonianza, tra inganno e montaggio (tecnico), tra estetica e politica. Ma partiamo dalla concezione dell’arte da parte di Anders, che pure nel periodo di esilio americano a Los Angeles, in California, oltre a insegnare History of Arts, lavorava come odd-job man in fabbrica, a stretto contatto con la catena di montaggio e con la produzione industriale, basata sulla scomposizione e sulla ricomposizione, oltre che sulla produzione in serie. Quest’esperienza di alienazione non deve essere considerata come total- 1. G. ANDERS, Mensch ohne Welt. Schriften zur Kunst und Literatur, München, Beck, 1984; trad. it. di A. Aranyossy, Uomo senza mondo. Scritti sull’arte e la letteratura, a cura di S. Velotti, Ferrara, Spazio Libri, 1991, pp. 157-176. 19 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 20 mente estranea rispetto alla sua considerazione dell’avanguardia artistica. Lo stesso termine artistico “fotomontaggio” vien ripreso dal lessico della meccanica e dallo spazio della fabbrica, per poi essere ricontestualizzato nell’ambito dell’arte. A ben vedere, le riflessioni estetologiche di Anders esposte nello scritto “Sul fotomontaggio (Über Photomontage)” rappresentano una variazione – in sorprendente anticipo sui tempi – della questione adorniana circa la possibilità di fare arte oggi, ma si muovono anche in consonanza rispetto alle sue successive e ben note tesi sull’Antiquiertheit des Menschen. All’unisono con Theodor Wiesengrund Adorno, anche per Anders il compito dell’opera d’arte è quello di “rendere visibile l’invisibile (das Unsichtbare sichtbar machen)”, di rendere accessibile alla vista, all’immaginazione, all’intelletto, una rete stratificata e nascosta alle nostre possibilità visive. “Il negativo diventa visibile”, come sostiene Benjamin nelle illuminanti pagine della sua Breve storia della fotografia2. A dichiararlo è lo stesso Anders, che nel suo intervento per l’inaugurazione della mostra di Heartfield (1938) a New York afferma: “[scil. Heartfield] parte da questa invisibilità [Unisichtbarkeit], da quest’inadeguatezza [Unzulänglichkeit] dell’occhio umano […] supera il principio del naturalismo, cioè raffigurare il mondo così come appare, perché egli sa che la sua apparenza è ingannevole”3. L’opera d’arte – spiega Anders – deve esplorare l’apparenza per far emergere l’altro dall’apparenza, rivelando qualcosa che non può essere colto dallo sguardo retinico. Il problema è che questo “qualcosa” costituisce proprio il fulcro portante, il “contenuto di verità della menzogna”. Come hanno ben rivelato le avanguardie del Novecento, l’occhio umano è inadatto, inadeguato, arretrato rispetto agli eventi traumatici della realtà, altrimenti detto: ha le cataratte, è cieco di fronte alle dinamiche del reale. Di conseguenza lo stesso può dirsi di quella forma artistica naturalistica che, avvalendosi di paradigmi tra2. W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1955; trad. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1972, pp. 57-77 (Piccola storia della fotografia, 1931). 3. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 157. 20 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 21 dizionali (mimetici e referenziali), si picca di restituire la realtà così come è, partendo dal visibile, raffigurando quel che si vede. Bisogna rinunciare all’idea che l’occhio possa descrivere il reale. Anders rileva qui la divergenza assoluta di Heartfield rispetto all’arte precedente, alla raffigurazione mimetica, che segue la logica del vero-falso. In questa stessa cornice rientra l’arte della fotografia. Nel suo contributo “Il mondo come fantasma e come matrice”, all’interno dell’Uomo è antiquato (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956), Anders – seguendo una direttrice ben lontana da quella del cugino Walter Benjamin – punta il dito contro il ruolo svolto dalla macchina fotografica nella mercificazione del mondo, definendola “un arnese mediante il quale [i turisti] possono tramutare subito l’esemplare unico […] in ‘soggetto di illustrazione’”4. Se l’arte fotografica è da condannare nella sua funzione mimetica e mercificante, un ruolo totalmente diverso viene affidato da Anders alla pratica del fotomontaggio. Con Heartfield la macchina fotografica mette in opera – in linea di continuità con il warburgiano “atlante per immagini” di Mnemosyne – la sua capacità di ampliare l’orizzonte percettivo dell’individuo (isola, amplia, ingrandisce, riduce), e tramite l’accostamento con la didascalia, di aumentare la sua efficacia politica. Vale anche in questo caso il monito del teorico del cinema Béla Balász, per il quale la macchina da presa (e quindi la tecnica del montaggio) è “fatta proprio per cogliere ciò che non si vuol fare vedere e che tuttavia si vede”5. Non è un caso se – come la nozione di “inconscio ottico” testimonia – in ogni immagine affiora qualcosa di “altro” da quello che è stato inquadrato6. 4. Ivi, p. 177. 5. Cfr. B. BALÁSZ, Der Geist des Films, Halle, Knapp, 1930; trad. it. di U. Barbato, Estetica del film, Roma, Editori Riuniti, 1954, p. 23. Si rimanda al volume di D. ANGELUCCI, Filosofia del cinema, Roma, Carocci, 2013, soprattutto pp. 13-18 e pp. 29-35. 6. Cfr. W. BENJAMIN, Piccola storia della fotografia, cit., p. 63. Si rimanda anche all’opera di J.-C. BAILLY, L’instant et son ombre, Paris, Seuil, 2008; trad. it. a cura di Elio Grazioli, L’istante e la sua ombra, Milano, Mondadori, 2010, p. 78. Particolarmente importante evocare questo studio in un contesto dedicato ad Anders visto che un’intera sezione del volume di Bailly si occupa (pur senza mai citare Off limits für das Gewissen) delle “ombre” di Hiroshima (ivi, pp. 113-141). 21 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 22 Anders parte dall’occasione offerta da una possibile notizia di cronaca: la morte di un bambino per fame in un qualche paese del mondo nel 1930, cioè l’anno dopo la crisi mondiale. Perché muore il bambino? Perché suo padre, operaio, ha perso il lavoro; Perché? ha perso il lavoro perché la fabbrica in cui lavorava ha chiuso; Perché? La fabbrica locale ha chiuso perché dall’altra parte del mondo è stata aperta un’altra fabbrica che riesce a fabbricare lo stesso pagando meno la mano d’opera. Perché? Perché in quell’altro paese è lecito pagare salari più bassi? Perché? Perché in quel paese i sindacati non hanno potere7. Questi processi, che tratteggiano il profilo di un mondo sommerso (e che nel XXI secolo si conoscono bene, dal momento che sono entrati a far parte della nostra società globalizzata), vengono descritti da Anders in un’accumulazione e reiterazione (quasi usando la figura retorica dell’ipofora) incalzante di “Warum (perché)?”8. Il punto è che questo domandare non ha una risposta così come l’orrore non ha una giustificazione. E pur tuttavia quel che deve essere “messa in opera” è proprio l’impossibilità di rispondere, ovvero di riprodurre le possibili risposte a queste domande. Con un approccio che quasi si avvicina alla trattazione di un teorema scientifico, Anders osserva: “Supponiamo ora di pregare un artista, un pittore o un fotografo di raffigurare questa realtà. Che cosa potrà raffigurare? Forse un medico che si china sul letto di morte del bambino? Oppure uno sciopero disperso dalla polizia?”9. Di fronte al reale lo sguardo logico può solo mostrare la sua impotenza. Il vero soggetto della questione non viene raffigurato perché è irrappresentabile come tale. In altre parole il linguaggio 7. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 157. 8. Viene in mente per contrasto un passo di Wittgenstein, dove si legge: “Quelli che continuano a domandare ‘perché’ sono come i turisti che davanti a un monumento leggono il Baedeker – e proprio la lettura della storia della sua origine, ecc, ecc., impedisce loro di vedere il monumento”. (L. WITTGENSTEIN, Vermischte Bemerkungen, Frankfurt, Suhrkamp, 1977; trad. it. di M. Ranchetti, Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980, p. 83). 9. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 157. 22 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 23 dell’arte non riesce a dar conto dei tanti perché, visto che le chiavi che dovrebbero concedergli di accedere al mondo sono divenute desuete, antiquate. Scrive Anders: “le immagini potranno essere molto realistiche o naturalistiche – ma saranno soltanto frammenti [Auschnitten], mostreranno solo gli anelli della catena [Kettenglieder]: ma non la realtà della concatenazione. Il nesso [Beziehung], vale a dire la realtà, resterà quindi invisibile”10. La totalità resta altra rispetto al singolo, ineffabile. Eppure non illuminare questo filo, non denunciare l’invisibilità di questa catena ci rende moralmente irresponsabili11. Bisogna quindi agire come se fosse possibile vedere “ciò che non si può vedere”12. Il tutto, la totalità, non si dà infatti nella somma dei frammenti di realtà, e non si dà neanche nella osservazione della combinazione delle parti, ma semmai nella loro deformante sovrapposizione, insomma nelle immagini-montaggio. Secondo Anders infatti occorre esagerare, deformare, per constatare, perché l’invisibilità si rivela solo nella deformazione del visibile. Si legge: “Ciò che Heartfield aggiunge alle fotografie documentarie è sempre la causa o il retroscena [Grund oder Hintergrund] dei fenomeni raffigurati”13, come ad esempio le forze economiche e politiche opache, invisibili. Del resto anche la macchina fotografica, che si picca di penetrare fino al cuore della realtà, riproduce di fatto l’inganno, o almeno una presa di posizione rispetto alla realtà. Come si legge nel testo Deutschland über alles di Kurt Tucholsky (in collabo- 10. Ibidem. 11. Da questo punto di vista la posizione andersiana sembra riprendere a piene mani alcune delle considerazioni esposte da Benjamin qualche anno prima nel noto saggio Piccola storia della fotografia (1931): “meno che mai una semplice restituzione della realtà dice qualcosa sopra la realtà. Una fotografia delle officine Krupp o Aig non dice nulla in merito a quelle istituzioni”. W. BENJAMIN, Piccola storia della fotografia, cit., p. 76. 12. Lungo questa linea muove lo studio di G. DIDI-HUBERMAN, Images malgré tout, Minuit, Paris, 2004, trad. it. di D. Tarizzo, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2005. 13. G. ANDERS, Uomo senza mondo, p. 158. 23 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 24 razione con lo stesso Heartfield), “le immagini ufficiali tagliano sempre il formaggio in modo che i vermi non vengano colpiti”14. Il fotomontaggio invece, ratificando la finzione, produce l’inganno, nel senso che porta in primissimo piano la causa o il retroscena dei fenomeni raffigurati, ovvero gli aspetti extra-artistici, ciò che la storia genera al di là di se stessa. Documenta, rivela, s’infila dietro le quinte, mostra la perversa deformazione di cui il mondo si è reso colpevole. Insomma è qui in gioco l’arte e l’altro dall’arte. Che il fotomontaggio sia da intendere non come riproduttivo, ma pro-duttivo, si spiega con il fatto che porta in primo piano il punctum, ovvero qualcosa di invisibile. Qual è la realtà invisibile da scoprire? Di certo non una dimensione mistica, ma piuttosto quell’invisibilità politica che è stata prodotta (e poi celata) dall’uomo stesso, dall’uomo per l’uomo15: un contenuto sedimentato (invisibile) che si dà nella forma (visibile) proprio come non-identico, come alterità eccedente, come un “di più”. L’invisibile di cui parla Heartfield è ciò che esiste pur non essendo accessibile agli occhi: è la trama sottesa di interessi politici ed economici che si cela “dietro eventi apparentemente trasparenti”16. 2. Il contenuto di verità della menzogna Il nesso, la realtà invisibile che costituisce l’oggetto del fotomontaggio riguarda le contraddizioni della società, le fratture 14. K. TUCHOLSKY, Deutschland, Deutschland über alles. Ein Bilderbuch von Kurt Tucholsky und vielen Fotografen. Montiert von John Heartfield, Berlin, Universum Bücherei für alle,1929, trad. it. a cura di U. Bavaj, Deutschland, Deutschland über alles. Un libro illustrato di K. Tucholsky e molti fotografi (1929), montato da J. Heartfield, Roma, Lucarini, 1991, p. 12. Sul fototesto di Tucholsky cfr. A. PAENHUYSEN, Kurt Tucholsky, John Heartfield and Deutschland, Deutschland über Alles, “History of Photography”, 33, 1 (2009), pp. 39-54; P.V. BRADY, The Writer and the Camera: Kurt Tucholsky’s Experiments in Partnership, “The Modern Language Review”, 74, 4 (1979), pp. 856-870 e U. STADLER, Bild und Text und Bild im Text. Photographien bei Tuchlosky und Heartfield, in K. FLIEDL, I. FLUSSL (a cura di), Kunst im Text, Frankfurt a.M.-Basel, Stroemfeld, 2005, pp. 67-88. In generale sui fototesti si rimanda al volume a cura di Michele COMETA e Roberta COGLITORE, Fototesti, Macerata, Quodlibet, 2016. 15. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 158. 16. Ibidem. 24 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 25 e gli intrighi politici che si annidano dietro lo scenario della “pacificata” parvenza, dell’armoniosa apparenza (per dirla con Nietzsche). In piena sintonia con le posizioni di Bertolt Brecht, al quale aveva dedicato nello stesso volume Uomo senza mondo (Mensch ohne Welt) un penetrante profilo17, anche per Anders il ruolo dell’arte oggi è quello di presentare i disordini del mondo. La riflessione andersiana si rivolge al fenomeno dell’alienazione (in fondo è questa la linea che attraversa i testi dell’opera) dell’uomo moderno in un mondo in cui si trova espropriato dei suoi stessi prodotti. Vediamo meglio. Per Anders la nostra capacità di vedere è insufficiente, e per questa ragione il compito dell’artista dovrebbe essere proprio quello di – per dirla con Ludwig Wittgenstein – far “vedere ciò che giace sotto gli occhi di tutti, e che non tutti riescono a vedere”18. Insomma di “far vedere/rendere visibile” l’invisibile, di cogliere le condizioni di possibilità (in senso kantiano) del realizzarsi di qualcosa, la loro origine. Se l’apparenza inganna, se quello che si offre ai nostri occhi è in forma fantastica – e questo Anders lo sa bene –, occorre allora affidarsi alla dimensione artistica come campo di sperimentazione possibile. È quanto Anders sostiene in un passo del suo diario di (non)ritorno a casa, in Breslavia, dal titolo Discesa all’Ade (Besuch im Hades), 1979: “il fantasticare che oggi è richiesto non consiste più in ciò che intendevamo finora con questo termine, non più nel trascendere esageratamente il reale, non più nel raffigurarci l’irreale o nell’immaginarci esseri fiabeschi […] Al contrario, fantasticare significa attualmente confrontarci con la realtà davvero fantastica di oggi, interpretarla in modo adeguato. In sintesi: la fantasia, dal momento che il suo oggetto, la realtà fantastica, è esso stesso fantastico, deve funzionare come un metodo dell’empiria, come organo di percezione dell’effettivamente enorme”19. Gli occhi sono offuscati di fronte all’enormità del male, ed è per 17. Cfr. ivi, pp. 111-154. 18. Cfr. L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, cit., p. 122. 19. G. ANDERS, Besuch im Hades. Auschwitz und Breslau 1966 – Nach “Holocaust” 1979, München, Beck, 1997; trad. it. a cura di S. Fabian, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 37. 25 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 26 questo che si fa necessario il ricorso all’immaginazione. Invertendo i termini classici della questione, Anders sostiene che sono reali e autentiche le immagini fantastiche proprio perché hanno a che fare con il mondo, e ne traggono la loro linfa vitale. Così Anders: “Chi, al posto degli occhi che oggi non servono più a niente, usa la fantasia, vedrà, in questa inapparenza e invisibilità, dei mostri, la mostruosità di oggi”20. Chiaramente i mostri che si aggirano indisturbati non sono fantasmi, ma mostruosità che albergano nel quotidiano, e che denunciano “la banalità del male”. In questa cornice rientra il valore e la funzione del “metodo dialettico“ del fotomontaggio messo in opera da Heartfield21. Questi usa delle fotografie documentarie, e quindi resta nel campo del visibile, ma “rende segni [Zeichen] i frammenti visibili che combina […] procura all’occhio l’ampio orizzonte della ragione, adegua l’occhio alla ragione”22. L’operazione dell’arte del fotomontaggio consiste proprio nel fare del medium un messaggio, ovvero in un atto fittizio. Secondo Anders il grande merito di Heartfield sta nell’aver individuato nell’occhio e nel cervello gli ingredienti necessari per mettere insieme i singoli pezzi visibili e per dotarli di significato. Lo scopo del fotomontaggio dovrebbe essere proprio quello di produrre un osservatore critico, un “occhio che pensa”, che cerca le connessioni, le congiunzioni delle immagini, che mira al “contenuto di verità della menzogna”. La fotografia riproduce l’apparenza degli oggetti, mentre il compito del fotomontaggio è quello di produrre la verità, anche manipolando le sue raffigurazioni con una certa dose di aggressività23. Per amore della verità il foto- 20. G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen, München, Beck, 1956; trad. it. di L. Dallapiccola, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, vol. II, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 424. 21. Cfr. W. HERZFELDE, John Heartfield. Leben und Werk, Westberlin, Verlag der Kunst, 1986, p. 48. 22. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 158. 23. A mettere in luce questa dimensione di aggressività in John Heartfield è Elias Canetti nel suo volume autobiografico Die Fackel im Ohr, 1921-1931. In 26 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 27 montaggio deve falsificare. Sotto questo profilo una tale tecnica artistica non deve essere considerata come un inganno, ma come lo strumento per raffigurare un mondo che non è affatto compiuto e uni-direzionato, nel senso in cui la pittura borghese “fantastica” – essa sì, ingannatrice – vorrebbe dare a intendere. Il fotomontaggio riesce lì dove la rappresentazione fallisce: a restituire lo stato di cose, e insieme la sua condizione di possibilità. La nascita di questo genere artistico d’avanguardia sembra risalire agli ultimi anni della Prima guerra mondiale, quando Heartfield era un giovane soldato impegnato al fronte come la maggior parte dei suoi coetanei. In trincea era costretto a montare i suoi messaggi con le immagini ritagliate dai quotidiani (tra i pochissimi strumenti a portata dei soldati), evitando così la censura che non considerava “l’insieme” (la totalità di cui sopra) nient’altro che “la somma delle sue parti”. Da questa operazione di forbici, colla e parole, uscivano strane cartoline formate di fotografie ritagliate da giornali e riviste, in cui immagini contrastanti venivano appaiate con intenzioni polemiche e demistificanti e che i soldati potevano mandare a casa impunemente. In queste forme primitive di fotomontaggio c’era già tutto: le forbici, la colla, la parola, ma soprattutto la consapevolezza che la totalità è qualcosa di ben diverso dalla somma delle parti. Chiaramente non era arte, bensì solo “uno scherzo fatto alla posta militare”24. Che sia stato proprio Heartfield l’inventore del fotomontaggio è una questione aperta, visto che molti artisti del Dadaismo berlinese (Raoul Hausmann, Hannah Hoech, Georg Grosz) hanno rivendicato tale paternità. Non avendo a disposizione la prova del DNA resta tuttavia innegabile il fatto che Heartfield abbia educato e condotto al successo questa forma di collage, portandola fino al parossismo: “Heartfield prese in mano questo neonato […] e ne fece un’arma pericolosa”25. questo testo si legge: “John (scil. Heratfield) imparava soltanto se si sentiva aggredito; perciò se voleva imparare qualcosa di nuovo, doveva percepire la novità come aggressione”. E. CANETTI, Die Fackel im Ohr, 1921-1931, Frankfurt a.M., Fischer, 1983; trad. it. di A. Casalegno, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (19211931), Milano, Adelphi, 1982, p. 275. 24. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 162. 27 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 28 Interessante è che una pratica artistica si sia originata dalla guerra. Al fronte lo sguardo dei soldati, avido di esperienze nuove, incontrava, invece del mondo, solo “buche e granate”, una beffarda parete di vetro opaco, grande e impenetrabile. Le istantanee scattate in trincea dimostrano un’impotenza visiva e testimoniale che viene riscattata quando queste stesse immagini vengono riunite in serie. Un regime di visibilità che vantava secoli di storia ha rivelato la sua Antiquiertheit, lasciando emergere non l’unità dell’occhio che guarda, ma uno sguardo molteplice e dispersivo che può costituirsi come soggetto solo attraverso un montaggio di frantumi26. Rientrato a casa il soldato sentiva in qualche modo la necessità di esercitare la sua “facoltà riproduttiva”, di ricordare l’esperienza bellica. Ma la guerra stessa aveva inferto un colpo mortale alla funzione rappresentativa dell’immagine, svilendone ogni potenzialità27. Così, anche dopo la fine del conflitto, il fotomontaggio di Heartfield porta con sé la memoria delle rovine, e ne prolunga l’esistenza, facendo proprio il senso d’“intima distruzione” che la guerra aveva prospettato. L’oggetto che si offre alla vista si presenta quindi come il ricordo di una mancanza, vale a dire della perdita della totalità. Qualcosa di simile viene sostenuto dallo stesso Anders: Dopo la guerra il mondo sembrava talmente scosso che per gli intellettuali nessun oggetto apparteneva più a un settore o a un luogo determinati. Nei quadri cercavano di raffigurare questa totale anarchia incollando indiscriminatamente teste, fotografie di nudi, pezzi di giornale, immagini pubblicitarie, biglietti per il metrò. Questi montaggi documentavano certamente già lo choc subìto dall’intellettuale borghese, 25. Ibidem. 26. Cfr. S. CATUCCI, Per una filosofia povera. La Grande Guerra, l’esperienza, il senso: a partire da Lukács, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003, pp. 211250. 27. Cfr. E.J. LEED, No Man’s Land. Combat and Identity in World War I, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; trad. it. di R. Falcione, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1985, p. 200. 28 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 29 ed era un piacere continuare a spaventare i concittadini, soprattutto quando divenne chiaro che il mondo borghese non era affatto crollato28. Al ritorno dal fronte Heartfield “non aveva più voglia di raffigurare e rappresentare il mondo così come è e come appare”29, di “fissarlo” nella sua falsità. Ma sentì piuttosto il bisogno di scovare le crepe di questa patina, di far saltare la superficie patinata, la lacca che lo avvolge. Così il compito diventò quello di raffigurare, attraverso un disordine del tutto arbitrario, il disordine del mondo30. E per questo l’occhio da strumento di contemplazione diventa un’arma. Questa forma artistica di testimonianza, per essere tale, deve al contempo darsi come una falsificazione. In altre parole, per far vedere quel che l’occhio non riesce a vedere neanche con il dispositivo fotografico, l’arte del fotomontaggio è costretta a falsificare. E tuttavia questa falsificazione è più vera di una reale riproduzione, nel senso che produce la realtà nascosta, ovvero l’unica realtà. Vedere è per Anders e per Heartfield comporre insieme e connettere in un contesto unificante gli aspetti delle cose che si illuminano attraverso le loro relazioni interne. L’arte del montaggio fotografico consiste nella capacità di fare vedere quello che prima non si riusciva a vedere, di rivelare – attraverso la connessione fra due (o più) immagini distanti – inaspettate affinità elettive. L’accostamento di quanto era irrelato apre scenari desueti, spalanca nuovi confini31. Da queste immagini in movimento deriva un effetto spaesante, inquietante, provocatorio ma proprio per questo produttivo. Heartfield mette in atto una “tecnica” di rappresentazione del mondo che non inventa, ma svela la sua realtà. La composizione dadaista non è dunque affatto mera fantasia; è tecnica della rappresentazione del mondo. Così Anders: “Il montaggio non inventa ma scopre; esso non costruisce nessun mondo fittizio, con- 28. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 164. 29. Cfr. ivi, p. 161. 30. Cfr. ivi, p. 164. 31. Cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Montaggio e memoria, “Discipline filosofiche”, 2 (2003), pp. 50-51. 29 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 30 vincente in sé, ma svela – grazie al montaggio di ciò che è distante – la vera adiacenza tra le cose, che senza composizione non sarebbe visibile, in quanto la totalità del mondo non può essere colta simultaneamente con un solo sguardo”32. L’arte heartfieldiana monta o compone per sottoporre a giudizio quello che sta insieme realmente; e se inventa lo fa solo per scoprire o per trasmettere la sua scoperta. In questo senso Anders può sostenere che “Heartfield è il primo artista a rappresentare giudizi e non semplicemente oggetti”33. Inoltre il suo motto è riassumibile nella frase “Inventare per scoprire”. In altri termini si tratta, spiega Anders, di chiarire la correlazione causale o motivazionale tra milioni di cose e avvenimenti simultanei. Su questo punto Heartfield muove in direzione opposta a quella letteraria di Alfred Döblin, al quale è dedicato un altro capitolo dello stesso volume andersiano34, e che come l’artista dadaista viveva a Berlino. Se il romanzo döbliniano ha rappresentato il panico dell’uomo nei confronti della giustapposizione caotica e dell’adiacenza di milioni di cose e di avvenimenti simultanei nella metropoli, senza legami, Heartfield invece ha tentato di far luce sulla loro concatenazione, sperimentando delle affinità35, anche al prezzo di deformare la parvenza. Queste sperimentazioni vengono definite falsificazioni, ma al contempo non bisogna dimenticare (così Anders) che la realtà stessa è una falsificazione; ci vuole quindi una contro-falsificazione per smascherare la falsificazione. “Se Heartfield falsifica, se sfigura la realtà per ricomporla in modo inconsueto, lo fa per correggerla [richtig zu stellen]. Se costruisce, non lo fa per allontanare la realtà […] ma per rendere finalmente visibile il mondo reale che è invisibile a occhio nudo”36. È questa una tesi che Anders riprende, a ragion veduta e in ben diverse proporzioni 32. 33. 34. 35. 36. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 158. Ivi, p. 160. Ivi, pp. 61-107. Ivi, p. 53. Ivi, p. 158. 30 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 31 di mostruosità, nelle sue osservazioni sullo sceneggiato televisivo del 1978 Holocaust. Al centro di questo studio dal titolo Dopo Holocaust (Nach Holocaust) è la convinzione che sia la finzione a fornire i fatti, e quindi in qualche modo la menzogna a presentarci la verità: “La finzione è indispensabile non solo perché la verità che dobbiamo conoscere non è più percepibile, ma soprattutto perché la mostruosità e la dismisura di ciò che accade oggi […] non è più percepibile e conoscibile”37. Gli eventi si sono fatti troppo grandi per poter essere ancora compresi dall’intelletto umano, e quindi per poter essere percepiti e ricordati, marcando una discrepanza tra le nostre facoltà, tra quello che possiamo produrre (herstellen) e quello che possiamo comprendere, rappresentare (vorstellen). Il fotomontaggio artistico è in grado di dilatare lo spazio ottico, e di colmare così lo iato tra il vedere e il sentire. 3. L’altro quadro Il compito del collage artistico è allora anche quello di rappresentare la realtà nella sua caledoiscopicità, come una esplosione di punti di vista, ma anche con le sue fratture, senza mirare a un effetto armonico e gradevole. Da questo punto di vista l’opera d’arte “firmata” da Heartfield si discosta dall’idea di un’opera d’arte canonica. Il fotomontaggio heartfieldiano non è pensato come un oggetto contemplativo da incorniciare ed appendere alla parete. E questo non in ragione della sua violenza (visto che ad esempio un quadro di Goya resta pur sempre un’opera d’arte da parete), ma perché Heartfield usa il montaggio fotografico come un’arma, o meglio come uno strumento di dilatazione del sentimento, alla stessa stregua degli Esercizi spirituali (1548) di Ignazio di Loyola, interpretabile come tecniche del montaggio del sé. Il fotomontaggio si presenta fin dalla sua comparsa come un’arte-testimonianza che ha rinunciato alla bellezza, al suo essere un elemento decorativo da appendere nella casa borghese (per 37. G. ANDERS, Dopo Holocaust, 1979, p. 63. Su questo mi sia permesso di rimandare al mio articolo: Primo dolore. Günther Anders dopo “Holocaust”, “Estetica. Studi e ricerche” 2 (2016), pp. 117-128. 31 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 32 coprire il vuoto), in vista della sua funzione sociale. Risuonano le parole che Anders scrive a proposito di Hermann Broch, nello scritto dal titolo La morte di Virgilio e la diagnosi della sua malattia (Der “Tod des Vergil” und die Diagnose seiner Krankheit, 1965): il poeta latino vuole bruciare l’Eneide non perché imperfetta ma perché troppo bella38. Così l’arte del fotomontaggio deve rinunciare alla dimensione estetica, per amore della verità. L’immagine proposta da Heartfield non è affatto una bellezza che si offre a distanza, ma è da pensare come la testa della Gorgone, che, ben lungi dall’attirare lo sguardo dello spettatore, lo respinge. Qui sta il punto: lo respinge nella verità. L’arte deve lacerare e screditare la variopinta continuità del quotidiano, far esplodere, dissolvere, dissociare, distruggere il mondo dell’immagine. L’immagine fotomontata ci costringe a guardare in faccia proprio quei fatti della realtà, quelle infamie da cui appunto distogliamo lo sguardo non appena le incontriamo nella realtà. È quindi un’arte funzionale, che deve servire per accedere alla realtà, per trasformare il mondo. Proprio per questa ragione le opere di Heartfield non trovano posto nel nostro mondo, né in chiesa né in salotto, e ottengono un “visto di cittadinanza” solo in luoghi forti del loro ordine politico-economico, che possono permettersi una messa in questione di se stessi, una propaganda contro di sé. Dal momento che è venuta meno l’auraticità dell’arte, allora diventa del tutto inutile la differenza tra originale e riproduzione, considerata per secoli come naturale. Quello che si vede nella esposizione di Heartfield sono senz’altro degli originali. Ma, nella sua irriverenza, vale l’affermazione: “le riproduzioni sono gli originali”. Per la fotografia è impossibile chiedere: è originale o no? I quadri esposti da Heartfield sono concepiti già come riproduzioni, e sono pensati per influire sulle masse39. Per questa ragione la forma artistica del fotomontaggio si rivela essa stessa come “finzione”, si autodenuncia in tutta la sua artificialità. Il fotomontaggio non 38. Cfr. ANDERS, La “Morte di Virgilio” e la diagnosi della sua malattia, in ID., Uomo senza mondo, cit., pp. 177-183. 39. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, p. 167. 32 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 33 vuole ingannare, bensì correggere l’inganno, correggere la falsificazione. È questo un punto fondamentale, perché marca la differenza con una deriva pericolosa del fotomontaggio, ovvero con il fotomontaggio a fine di propaganda politica. Anders non ha dubbi: il fotomontaggio esiste per smascherare non per celebrare40. Sono quindi da ripudiare e da condannare quelle forme di montaggio che camuffano il montaggio, e che quindi falsificano41. Anders porta come esempio la sua opera con il fotomontaggio della fucilazione di Röhm, dove la mano che saluta alla maniera dell’Hitlergruss e la mano del morente vengono fatte coincidere42. Ma c’è di più. Nella sua analisi del fotomontaggio Anders indaga il montaggio fascista, per sottolineare come questo si collochi su un versante opposto rispetto alla tecnica dadaista. Se il montaggio autentico si basa sul principio hegeliano della contraddizione dialettica e mette in cortocircuito la sembianza e la verità, “quel che appare” e “quel che è”, il montaggio fascista usa la visibilità come paravento, e combina semplicemente delle sezioni provenienti dal dominio dell’apparenza, affidandosi a una formula astratta43. Anders sottopone all’attenzione del lettore due esempi contrapposti. Da un lato propone un fotomontaggio di propaganda politica fascista in cui Mussolini viene acclamato da una folla di fascisti: la giacca del duce è fatta di una massa entusiasta. Qui il montaggio viene pensato al solo scopo di celebrare, producendo come unico choc il comico. Su tutt’altro piano si colloca invece un fotomontaggio di Heartfield, in cui viene presentato in basso un quartiere “risanato” di Mosca, e in alto, quasi librante in cielo, un enorme ritratto di Lenin, evocato come “costruttore del quartiere”. In questo caso la sproporzione della silhouette di Lenin rispetto al paesaggio urbano appare come minacciosa. Un ruolo di fondamentale importanza spetta nel caso del fo- 40. Ibidem, p. 165. 41. Cfr. ivi, p. 163. 42. Su questo si rimanda allo studio di J. WILLETT, Heartfield versus Hitler, Paris, Pocket Archives, Hazan, 1997. 43. G. ANDERS, Uomo senza mondo, p. 165. 33 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:11 Pagina 34 tomontaggio autentico alle didascalie, che devono collaborare con le forbici e con la colla nella riuscita del fotomontaggio. Alle parole è affidato il compito di mettere in collegamento le immagini, e di creare uno choc, giocando sulle ambiguità semantiche. In questo senso è stato Benjamin a sottolinearne l’importanza: “[I fotografi industriali] non hanno riconosciuto la forza d’urto sociale della fotografia, e quindi l’importanza della didascalia, che è la miccia che porta la scintilla critica al miscuglio delle immagini (come dimostra nel modo migliore Heartfield)”44. Quale che sia la relazione instaurata tra testo e fotografia, in Heartfield è l’immagine (anche essa composta) che esce rafforzata dalla sovrapposizione dei due linguaggi, dagli inserti verbali, in un esempio particolarmente riuscito di quel che poi verrà definito come “intermedialità”. Parole, colla e forbici sono quindi gli strumenti messi in campo da Heartfield per una prassi artistica rivoluzionaria, il cui compito dovrebbe essere quello di realizzare un’opera capace di rovesciare lo sguardo e di allargare la coscienza. 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L’ANTROPOLOGIA LIMINALE DI GÜNTHER ANDERS PER L’ETICA CONTEMPORANEA DOPO AUSCHWITZ E HIROSHIMA 91 ANDREA RONDINI ANDERS E LA BOMBA MEDIATICA 127 ANTONIO TRICOMI APOCALISSE, VARIAZIONI SUL TEMA 153 Indice dei nomi 181 Autrici e autori 185 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:12 Pagina 190 Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:12 Pagina 191 Finito di stampare nel mese di febbraio 2018 per i tipi de “il nuovo melangolo” dalla Microart - Recco (Ge) Impaginazione e impianti: Type&Editing - www.typegenova.it
Cop_Anders.qxp_Layout 1 01/03/18 09:44 Pagina 1 Contributi di Micaela LATINI, Natascia MATTUCCI, Maria Pia PATERNÓ, Francesca R. RECCHIA LUCIANI, Andrea RONDINI, Antonio TRICOMI. € 17,00 Natascia Mattucci Francesca R. Recchia Luciani Obsolescenza dell’umano Günther Anders e il contemporaneo OBSOLESCENZA DELL’UMANO Il pensiero e la produzione teoretica di uno dei più grandi filosofi del Novecento, Günther Anders, la cui riflessione si rivela sempre più decisiva per la comprensione della complessa fenomenologia del contemporaneo, sono il cuore dei saggi contenuti in questo libro. Essi indagano le originali idee di Anders spaziando dalle questioni politiche agli interrogativi etici che animarono il suo attivismo critico, attraversando il suo originale approccio estetico e il suo apporto nell’ambito della critica letteraria. Un pensiero originale che viene così fruttuosamente messo a confronto con quello di molti tra i più importanti intellettuali coevi, come Arendt, Adorno, Benjamin, Heidegger, Freud, Lacan, Levi, Montale, Morselli, Pasolini, Eco e altri, con l’auspicio di segnare un rilevante progresso conoscitivo e critico nel contesto della letteratura e degli studi andersiani in Italia. Mattucci - Recchia Luciani XENOS 1 N ATASCIA M ATTUCCI è professoressa associata di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Macerata. Ha pubblicato scritti su Immanuel Kant, Hannah Arendt, Alexis de Tocqueville, Primo Levi e Günther Anders. Si occupa di filosofie politiche contemporanee, di questioni di genere e filosofie femministe, nonché della crisi del paradigma rappresentativo. Tra le sue più recenti pubblicazioni: La politica esemplare. Sul pensiero di Hannah Arendt (2012); nel 2016 ha curato i volumi collettanei Corpi, linguaggi, violenze e con I. Corti, Violenza contro le donne. Uno studio interdisciplinare. FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI è professoressa associata di Storia della filosofia dei diritti umani presso l’Università di Bari “Aldo Moro”, ha scritto saggi e monografie su Max Weber, Ludwig Wittgenstein, Peter Winch, Hannah Arendt, Primo Levi, Jean-Luc Nancy. I suoi attuali ambiti d’interesse sono l’ermeneutica dei totalitarismi e le teorie femministe e di genere in relazione alla filosofia dei diritti umani. Le sue più recenti pubblicazioni sono: Simone Weil. Tra filosofia ed esistenza (2012); La Shoah spiegata ai ragazzi (2014; 20152); nel 2016 ha curato con C. Vercelli il volume collettaneo Pop Shoah. Immaginari del genocidio ebraico e nel 2017 il manuale (con A. Masi) Saperi di genere. Dalla rivoluzione femminista all’emergere di nuove soggettività. In copertina: Günther Anders