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XENOS
Collana di filosofia, fenomenologia e storia dell’alterità
Nell’epoca degli sradicamenti, delle migrazioni, degli esili, delle fughe
anche il pensiero sembra sotto scacco. Xenos, la cui stratificazione semantica
rimanda alle forme plurali in cui l’alterità si manifesta – alla condizione
di ospite, straniero, forestiero, estraneo, ma anche nemico, strano, spaesato
e spaesante –, assume una pregnanza filosofica decisiva per immaginare
un futuro ineludibile in cui a regolare i rapporti umani nelle società plurietniche e multiculturali siano le civili regole d’ospitalità e convivenza. Non
vi è, infatti, condizione più passeggera dello xenos, vocabolo che chiama
in causa una situazione speculare e contingente, quella dell’accogliere e dell’essere accolti. Poiché, come ricorda Derrida, “non si dà xenos né straniero prima o fuori della xenia”, il che implica che si diviene ospitali solo
quando si riesce a rappresentarsi come ospiti nel gioco fertile dell’immaginazione empatica; d’altra parte, se l’alterità implica e ridisegna l’identità è pur vero il contrario, in un dedalo di specchi e di rimandi infiniti cui
è impossibile sottrarsi.
La condizione di xenos in Platone compare per tre volte in luoghi che
sono snodi decisivi del logos occidentale: lo Straniero di Elea nel Sofista,
portatore della “domanda parricida” che pone l’essere stesso in questione; Diotima, tre volte straniera (xene), nel Simposio, donna e sacerdotessa che reca con la sua diversità radicale la parola definitiva intorno al
significato dell’Eros; Socrate stesso nell’Apologia, straniero in Atene dinanzi
ai suoi giudici.
Questi tornanti nel pensiero platonico sono lì a rammentarci che
estraneo non è sinonimo di ostile, così come ospite non corrisponde a nemico, e tuttavia quel nesso resta inducendo Kant ad affermare “il diritto che
uno straniero ha di non essere trattato come un nemico”. L’utopia kantiana
della “pace perpetua” viene allora a poggiare su un diritto cosmopolitico
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che affonda le sue radici nella libertà di movimento essenziale nella democrazia della polis, come ribadirà Arendt che, per converso, legge il totalitarismo come quella degenerazione politica che azzera lo spazio vitale
tra gli umani. La natura ambigua e ambivalente di xenos (ospite/ospitato,
amico/nemico) ci rivela dunque che il riconoscimento della diversità (etnica, religiosa, sociale, culturale, sessuale, di genere) e delle forme di vita
altre è gesto fondante dell’etica (diritto/dovere) dell’ospitalità, poiché,
come sottolinea Derrida, “l’etica è ospitalità”.
Nell’età in cui l’ostilità e la conflittualità ferina ritornano a dettare le
leggi della politica affidiamo a XENOS. Collana di filosofia, fenomenologia e storia dell’alterità l’arduo compito di restituire, attraverso testi e riflessioni di autori e autrici della contemporaneità, la parola alla filosofia,
la “nostra amica clandestina”, come ebbe a definirla Maurice Blanchot.
Poiché solo un incessante esercizio non conforme, “irregolare” e “senza ordine” (rubiamo l’espressione a Simone Weil) del pensiero può pensare
l’“altro” ri-pensando al contempo “sé”, spingersi sino a quella soglia
ove è possibile immaginare produttivamente “l’altro da sé” e il “sé come
un altro”.
F.R.R.L.
Direttrice della Collana:
Francesca R. Recchia Luciani
Comitato Scientifico:
Rossella Bonito Oliva - Università di Napoli “L’Orientale”
Alice Crary - The New School for Social Research (New York City - USA)
Piergiorgio Donatelli - Università di Roma “La Sapienza”
Francesco Fistetti - Università di Bari “Aldo Moro”
Simona Forti - Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
Edoardo Massimilla - Università di Napoli “Federico II”
Jean-Luc Nancy - Professore Emerito Université de Strasbourg (France)
Laura Odello - Brown University (Providence, Rhode Island – USA)
Elena Pulcini - Università di Firenze
Lynette Reid - Dalhousie University (Halifax – Canada)
Peter Szendy - Brown University (Providence, Rhode Island – USA)
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Copyright © 2018, il nuovo melangolo s.r.l.
Genova - Via di Porta Soprana, 3-1
www.ilmelangolo.com
ISBN 978-88-6983-035-8
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Obsolescenza dell’umano
Günther Anders e il contemporaneo
A cura di
NATASCIA MATTUCCI e FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI
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ROVESCIARE I PROPRI OCCHI.
ESTETICA E POLITICA IN GÜNTHER ANDERS
E JOHN HEARTFIELD
MICAELA LATINI
1.
Niente da nascondere?
Per quanto apparentemente marginale rispetto all’asse portante dell’opera di Günther (Stern) Anders, il capitolo della raccolta Uomo senza mondo. Scritti sull’arte e la letteratura (Mensch
ohne Welt. Schriften zur Kunst und Literatur)1 dedicato all’arte di
John Heartfield rivela alcuni snodi cruciali per comprendere la questione delle immagini e dell’immaginazione nel suo effettivo
tracciato teoretico. Parlare dell’artista dadaista tedesco Heartfield (pseudonimo di Helmut Herzfeld, 1891-1968) significa infatti per Anders occuparsi di una costellazione di temi di natura
non solo artistica: la questione dello sguardo, la connessione tra
opera e vita, il rapporto tra intelletto e immaginazione o tra ragione
e occhio, tra verità e menzogna, tra bellezza e testimonianza, tra
inganno e montaggio (tecnico), tra estetica e politica.
Ma partiamo dalla concezione dell’arte da parte di Anders,
che pure nel periodo di esilio americano a Los Angeles, in California, oltre a insegnare History of Arts, lavorava come odd-job
man in fabbrica, a stretto contatto con la catena di montaggio e
con la produzione industriale, basata sulla scomposizione e sulla
ricomposizione, oltre che sulla produzione in serie. Quest’esperienza di alienazione non deve essere considerata come total-
1. G. ANDERS, Mensch ohne Welt. Schriften zur Kunst und Literatur, München, Beck, 1984; trad. it. di A. Aranyossy, Uomo senza mondo. Scritti sull’arte
e la letteratura, a cura di S. Velotti, Ferrara, Spazio Libri, 1991, pp. 157-176.
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mente estranea rispetto alla sua considerazione dell’avanguardia
artistica. Lo stesso termine artistico “fotomontaggio” vien ripreso dal lessico della meccanica e dallo spazio della fabbrica, per
poi essere ricontestualizzato nell’ambito dell’arte.
A ben vedere, le riflessioni estetologiche di Anders esposte nello
scritto “Sul fotomontaggio (Über Photomontage)” rappresentano
una variazione – in sorprendente anticipo sui tempi – della questione
adorniana circa la possibilità di fare arte oggi, ma si muovono
anche in consonanza rispetto alle sue successive e ben note tesi sull’Antiquiertheit des Menschen. All’unisono con Theodor Wiesengrund Adorno, anche per Anders il compito dell’opera d’arte è quello
di “rendere visibile l’invisibile (das Unsichtbare sichtbar machen)”, di rendere accessibile alla vista, all’immaginazione, all’intelletto, una rete stratificata e nascosta alle nostre possibilità visive.
“Il negativo diventa visibile”, come sostiene Benjamin nelle illuminanti pagine della sua Breve storia della fotografia2.
A dichiararlo è lo stesso Anders, che nel suo intervento per l’inaugurazione della mostra di Heartfield (1938) a New York afferma: “[scil. Heartfield] parte da questa invisibilità [Unisichtbarkeit],
da quest’inadeguatezza [Unzulänglichkeit] dell’occhio umano […]
supera il principio del naturalismo, cioè raffigurare il mondo così
come appare, perché egli sa che la sua apparenza è ingannevole”3.
L’opera d’arte – spiega Anders – deve esplorare l’apparenza per far
emergere l’altro dall’apparenza, rivelando qualcosa che non può essere colto dallo sguardo retinico. Il problema è che questo “qualcosa”
costituisce proprio il fulcro portante, il “contenuto di verità della menzogna”. Come hanno ben rivelato le avanguardie del Novecento, l’occhio umano è inadatto, inadeguato, arretrato rispetto agli eventi
traumatici della realtà, altrimenti detto: ha le cataratte, è cieco di fronte
alle dinamiche del reale. Di conseguenza lo stesso può dirsi di
quella forma artistica naturalistica che, avvalendosi di paradigmi tra2. W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1955; trad. it. di E. Filippini, L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1972, pp. 57-77
(Piccola storia della fotografia, 1931).
3. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 157.
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dizionali (mimetici e referenziali), si picca di restituire la realtà così
come è, partendo dal visibile, raffigurando quel che si vede. Bisogna
rinunciare all’idea che l’occhio possa descrivere il reale. Anders rileva qui la divergenza assoluta di Heartfield rispetto all’arte precedente, alla raffigurazione mimetica, che segue la logica del vero-falso.
In questa stessa cornice rientra l’arte della fotografia. Nel suo contributo “Il mondo come fantasma e come matrice”, all’interno dell’Uomo è antiquato (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956),
Anders – seguendo una direttrice ben lontana da quella del cugino
Walter Benjamin – punta il dito contro il ruolo svolto dalla macchina
fotografica nella mercificazione del mondo, definendola “un arnese
mediante il quale [i turisti] possono tramutare subito l’esemplare
unico […] in ‘soggetto di illustrazione’”4. Se l’arte fotografica è da
condannare nella sua funzione mimetica e mercificante, un ruolo totalmente diverso viene affidato da Anders alla pratica del fotomontaggio. Con Heartfield la macchina fotografica mette in opera
– in linea di continuità con il warburgiano “atlante per immagini”
di Mnemosyne – la sua capacità di ampliare l’orizzonte percettivo
dell’individuo (isola, amplia, ingrandisce, riduce), e tramite l’accostamento con la didascalia, di aumentare la sua efficacia politica.
Vale anche in questo caso il monito del teorico del cinema Béla
Balász, per il quale la macchina da presa (e quindi la tecnica del montaggio) è “fatta proprio per cogliere ciò che non si vuol fare vedere
e che tuttavia si vede”5. Non è un caso se – come la nozione di “inconscio ottico” testimonia – in ogni immagine affiora qualcosa di
“altro” da quello che è stato inquadrato6.
4. Ivi, p. 177.
5. Cfr. B. BALÁSZ, Der Geist des Films, Halle, Knapp, 1930; trad. it. di
U. Barbato, Estetica del film, Roma, Editori Riuniti, 1954, p. 23. Si rimanda al volume di D. ANGELUCCI, Filosofia del cinema, Roma, Carocci, 2013, soprattutto pp.
13-18 e pp. 29-35.
6. Cfr. W. BENJAMIN, Piccola storia della fotografia, cit., p. 63. Si rimanda
anche all’opera di J.-C. BAILLY, L’instant et son ombre, Paris, Seuil, 2008; trad.
it. a cura di Elio Grazioli, L’istante e la sua ombra, Milano, Mondadori, 2010, p.
78. Particolarmente importante evocare questo studio in un contesto dedicato ad
Anders visto che un’intera sezione del volume di Bailly si occupa (pur senza mai
citare Off limits für das Gewissen) delle “ombre” di Hiroshima (ivi, pp. 113-141).
21
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Anders parte dall’occasione offerta da una possibile notizia
di cronaca: la morte di un bambino per fame in un qualche paese
del mondo nel 1930, cioè l’anno dopo la crisi mondiale. Perché
muore il bambino? Perché suo padre, operaio, ha perso il lavoro;
Perché? ha perso il lavoro perché la fabbrica in cui lavorava ha
chiuso; Perché? La fabbrica locale ha chiuso perché dall’altra parte
del mondo è stata aperta un’altra fabbrica che riesce a fabbricare
lo stesso pagando meno la mano d’opera. Perché? Perché in quell’altro paese è lecito pagare salari più bassi? Perché? Perché in quel
paese i sindacati non hanno potere7.
Questi processi, che tratteggiano il profilo di un mondo
sommerso (e che nel XXI secolo si conoscono bene, dal momento che sono entrati a far parte della nostra società globalizzata),
vengono descritti da Anders in un’accumulazione e reiterazione
(quasi usando la figura retorica dell’ipofora) incalzante di “Warum
(perché)?”8. Il punto è che questo domandare non ha una risposta
così come l’orrore non ha una giustificazione. E pur tuttavia quel
che deve essere “messa in opera” è proprio l’impossibilità di rispondere, ovvero di riprodurre le possibili risposte a queste domande. Con un approccio che quasi si avvicina alla trattazione di
un teorema scientifico, Anders osserva: “Supponiamo ora di pregare un artista, un pittore o un fotografo di raffigurare questa realtà.
Che cosa potrà raffigurare? Forse un medico che si china sul
letto di morte del bambino? Oppure uno sciopero disperso dalla
polizia?”9.
Di fronte al reale lo sguardo logico può solo mostrare la sua
impotenza. Il vero soggetto della questione non viene raffigurato
perché è irrappresentabile come tale. In altre parole il linguaggio
7. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 157.
8. Viene in mente per contrasto un passo di Wittgenstein, dove si legge:
“Quelli che continuano a domandare ‘perché’ sono come i turisti che davanti a un
monumento leggono il Baedeker – e proprio la lettura della storia della sua origine, ecc, ecc., impedisce loro di vedere il monumento”. (L. WITTGENSTEIN, Vermischte Bemerkungen, Frankfurt, Suhrkamp, 1977; trad. it. di M. Ranchetti,
Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980, p. 83).
9. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 157.
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dell’arte non riesce a dar conto dei tanti perché, visto che le
chiavi che dovrebbero concedergli di accedere al mondo sono divenute desuete, antiquate. Scrive Anders: “le immagini potranno
essere molto realistiche o naturalistiche – ma saranno soltanto frammenti [Auschnitten], mostreranno solo gli anelli della catena [Kettenglieder]: ma non la realtà della concatenazione. Il nesso
[Beziehung], vale a dire la realtà, resterà quindi invisibile”10. La
totalità resta altra rispetto al singolo, ineffabile. Eppure non illuminare questo filo, non denunciare l’invisibilità di questa catena
ci rende moralmente irresponsabili11. Bisogna quindi agire come
se fosse possibile vedere “ciò che non si può vedere”12.
Il tutto, la totalità, non si dà infatti nella somma dei frammenti
di realtà, e non si dà neanche nella osservazione della combinazione delle parti, ma semmai nella loro deformante sovrapposizione, insomma nelle immagini-montaggio. Secondo Anders
infatti occorre esagerare, deformare, per constatare, perché l’invisibilità si rivela solo nella deformazione del visibile. Si legge:
“Ciò che Heartfield aggiunge alle fotografie documentarie è
sempre la causa o il retroscena [Grund oder Hintergrund] dei fenomeni raffigurati”13, come ad esempio le forze economiche e politiche opache, invisibili.
Del resto anche la macchina fotografica, che si picca di penetrare fino al cuore della realtà, riproduce di fatto l’inganno, o
almeno una presa di posizione rispetto alla realtà. Come si legge
nel testo Deutschland über alles di Kurt Tucholsky (in collabo-
10. Ibidem.
11. Da questo punto di vista la posizione andersiana sembra riprendere a
piene mani alcune delle considerazioni esposte da Benjamin qualche anno prima
nel noto saggio Piccola storia della fotografia (1931): “meno che mai una semplice restituzione della realtà dice qualcosa sopra la realtà. Una fotografia delle
officine Krupp o Aig non dice nulla in merito a quelle istituzioni”. W. BENJAMIN,
Piccola storia della fotografia, cit., p. 76.
12. Lungo questa linea muove lo studio di G. DIDI-HUBERMAN, Images
malgré tout, Minuit, Paris, 2004, trad. it. di D. Tarizzo, Immagini malgrado tutto,
Milano, Raffaello Cortina, 2005.
13. G. ANDERS, Uomo senza mondo, p. 158.
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razione con lo stesso Heartfield), “le immagini ufficiali tagliano
sempre il formaggio in modo che i vermi non vengano colpiti”14.
Il fotomontaggio invece, ratificando la finzione, produce l’inganno,
nel senso che porta in primissimo piano la causa o il retroscena
dei fenomeni raffigurati, ovvero gli aspetti extra-artistici, ciò che
la storia genera al di là di se stessa. Documenta, rivela, s’infila
dietro le quinte, mostra la perversa deformazione di cui il mondo
si è reso colpevole. Insomma è qui in gioco l’arte e l’altro dall’arte.
Che il fotomontaggio sia da intendere non come riproduttivo,
ma pro-duttivo, si spiega con il fatto che porta in primo piano il
punctum, ovvero qualcosa di invisibile.
Qual è la realtà invisibile da scoprire? Di certo non una dimensione mistica, ma piuttosto quell’invisibilità politica che è stata
prodotta (e poi celata) dall’uomo stesso, dall’uomo per l’uomo15: un
contenuto sedimentato (invisibile) che si dà nella forma (visibile) proprio come non-identico, come alterità eccedente, come un “di più”.
L’invisibile di cui parla Heartfield è ciò che esiste pur non essendo
accessibile agli occhi: è la trama sottesa di interessi politici ed economici che si cela “dietro eventi apparentemente trasparenti”16.
2.
Il contenuto di verità della menzogna
Il nesso, la realtà invisibile che costituisce l’oggetto del fotomontaggio riguarda le contraddizioni della società, le fratture
14. K. TUCHOLSKY, Deutschland, Deutschland über alles. Ein Bilderbuch von
Kurt Tucholsky und vielen Fotografen. Montiert von John Heartfield, Berlin, Universum Bücherei für alle,1929, trad. it. a cura di U. Bavaj, Deutschland, Deutschland über alles. Un libro illustrato di K. Tucholsky e molti fotografi (1929), montato
da J. Heartfield, Roma, Lucarini, 1991, p. 12. Sul fototesto di Tucholsky cfr. A.
PAENHUYSEN, Kurt Tucholsky, John Heartfield and Deutschland, Deutschland über
Alles, “History of Photography”, 33, 1 (2009), pp. 39-54; P.V. BRADY, The Writer
and the Camera: Kurt Tucholsky’s Experiments in Partnership, “The Modern Language Review”, 74, 4 (1979), pp. 856-870 e U. STADLER, Bild und Text und Bild
im Text. Photographien bei Tuchlosky und Heartfield, in K. FLIEDL, I. FLUSSL (a cura
di), Kunst im Text, Frankfurt a.M.-Basel, Stroemfeld, 2005, pp. 67-88. In generale
sui fototesti si rimanda al volume a cura di Michele COMETA e Roberta COGLITORE,
Fototesti, Macerata, Quodlibet, 2016.
15. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 158.
16. Ibidem.
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e gli intrighi politici che si annidano dietro lo scenario della “pacificata” parvenza, dell’armoniosa apparenza (per dirla con Nietzsche). In piena sintonia con le posizioni di Bertolt Brecht, al
quale aveva dedicato nello stesso volume Uomo senza mondo
(Mensch ohne Welt) un penetrante profilo17, anche per Anders il
ruolo dell’arte oggi è quello di presentare i disordini del mondo.
La riflessione andersiana si rivolge al fenomeno dell’alienazione
(in fondo è questa la linea che attraversa i testi dell’opera) dell’uomo moderno in un mondo in cui si trova espropriato dei suoi
stessi prodotti. Vediamo meglio. Per Anders la nostra capacità di
vedere è insufficiente, e per questa ragione il compito dell’artista
dovrebbe essere proprio quello di – per dirla con Ludwig Wittgenstein – far “vedere ciò che giace sotto gli occhi di tutti, e che
non tutti riescono a vedere”18. Insomma di “far vedere/rendere visibile” l’invisibile, di cogliere le condizioni di possibilità (in
senso kantiano) del realizzarsi di qualcosa, la loro origine.
Se l’apparenza inganna, se quello che si offre ai nostri occhi
è in forma fantastica – e questo Anders lo sa bene –, occorre allora affidarsi alla dimensione artistica come campo di sperimentazione possibile. È quanto Anders sostiene in un passo del suo
diario di (non)ritorno a casa, in Breslavia, dal titolo Discesa all’Ade
(Besuch im Hades), 1979: “il fantasticare che oggi è richiesto non
consiste più in ciò che intendevamo finora con questo termine, non
più nel trascendere esageratamente il reale, non più nel raffigurarci
l’irreale o nell’immaginarci esseri fiabeschi […] Al contrario,
fantasticare significa attualmente confrontarci con la realtà davvero
fantastica di oggi, interpretarla in modo adeguato. In sintesi: la fantasia, dal momento che il suo oggetto, la realtà fantastica, è esso
stesso fantastico, deve funzionare come un metodo dell’empiria,
come organo di percezione dell’effettivamente enorme”19. Gli
occhi sono offuscati di fronte all’enormità del male, ed è per
17. Cfr. ivi, pp. 111-154.
18. Cfr. L. WITTGENSTEIN, Pensieri diversi, cit., p. 122.
19. G. ANDERS, Besuch im Hades. Auschwitz und Breslau 1966 – Nach “Holocaust” 1979, München, Beck, 1997; trad. it. a cura di S. Fabian, Discesa all’Ade.
Auschwitz e Breslavia, 1966, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 37.
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questo che si fa necessario il ricorso all’immaginazione. Invertendo
i termini classici della questione, Anders sostiene che sono reali e
autentiche le immagini fantastiche proprio perché hanno a che fare
con il mondo, e ne traggono la loro linfa vitale. Così Anders:
“Chi, al posto degli occhi che oggi non servono più a niente, usa
la fantasia, vedrà, in questa inapparenza e invisibilità, dei mostri,
la mostruosità di oggi”20. Chiaramente i mostri che si aggirano indisturbati non sono fantasmi, ma mostruosità che albergano nel quotidiano, e che denunciano “la banalità del male”.
In questa cornice rientra il valore e la funzione del “metodo
dialettico“ del fotomontaggio messo in opera da Heartfield21.
Questi usa delle fotografie documentarie, e quindi resta nel campo
del visibile, ma “rende segni [Zeichen] i frammenti visibili che
combina […] procura all’occhio l’ampio orizzonte della ragione,
adegua l’occhio alla ragione”22. L’operazione dell’arte del fotomontaggio consiste proprio nel fare del medium un messaggio, ovvero in un atto fittizio.
Secondo Anders il grande merito di Heartfield sta nell’aver
individuato nell’occhio e nel cervello gli ingredienti necessari per
mettere insieme i singoli pezzi visibili e per dotarli di significato.
Lo scopo del fotomontaggio dovrebbe essere proprio quello di produrre un osservatore critico, un “occhio che pensa”, che cerca le
connessioni, le congiunzioni delle immagini, che mira al “contenuto di verità della menzogna”. La fotografia riproduce l’apparenza degli oggetti, mentre il compito del fotomontaggio è quello
di produrre la verità, anche manipolando le sue raffigurazioni con
una certa dose di aggressività23. Per amore della verità il foto-
20. G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen, München, Beck, 1956;
trad. it. di L. Dallapiccola, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, vol. II, Torino, Bollati Boringhieri, 2007,
p. 424.
21. Cfr. W. HERZFELDE, John Heartfield. Leben und Werk, Westberlin,
Verlag der Kunst, 1986, p. 48.
22. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 158.
23. A mettere in luce questa dimensione di aggressività in John Heartfield
è Elias Canetti nel suo volume autobiografico Die Fackel im Ohr, 1921-1931. In
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montaggio deve falsificare. Sotto questo profilo una tale tecnica
artistica non deve essere considerata come un inganno, ma come
lo strumento per raffigurare un mondo che non è affatto compiuto
e uni-direzionato, nel senso in cui la pittura borghese “fantastica” – essa sì, ingannatrice – vorrebbe dare a intendere. Il fotomontaggio riesce lì dove la rappresentazione fallisce: a restituire
lo stato di cose, e insieme la sua condizione di possibilità.
La nascita di questo genere artistico d’avanguardia sembra
risalire agli ultimi anni della Prima guerra mondiale, quando
Heartfield era un giovane soldato impegnato al fronte come la maggior parte dei suoi coetanei. In trincea era costretto a montare i suoi
messaggi con le immagini ritagliate dai quotidiani (tra i pochissimi strumenti a portata dei soldati), evitando così la censura che
non considerava “l’insieme” (la totalità di cui sopra) nient’altro
che “la somma delle sue parti”. Da questa operazione di forbici,
colla e parole, uscivano strane cartoline formate di fotografie ritagliate da giornali e riviste, in cui immagini contrastanti venivano
appaiate con intenzioni polemiche e demistificanti e che i soldati
potevano mandare a casa impunemente. In queste forme primitive
di fotomontaggio c’era già tutto: le forbici, la colla, la parola, ma
soprattutto la consapevolezza che la totalità è qualcosa di ben diverso dalla somma delle parti. Chiaramente non era arte, bensì solo
“uno scherzo fatto alla posta militare”24. Che sia stato proprio
Heartfield l’inventore del fotomontaggio è una questione aperta,
visto che molti artisti del Dadaismo berlinese (Raoul Hausmann,
Hannah Hoech, Georg Grosz) hanno rivendicato tale paternità. Non
avendo a disposizione la prova del DNA resta tuttavia innegabile
il fatto che Heartfield abbia educato e condotto al successo questa
forma di collage, portandola fino al parossismo: “Heartfield
prese in mano questo neonato […] e ne fece un’arma pericolosa”25.
questo testo si legge: “John (scil. Heratfield) imparava soltanto se si sentiva aggredito; perciò se voleva imparare qualcosa di nuovo, doveva percepire la novità
come aggressione”. E. CANETTI, Die Fackel im Ohr, 1921-1931, Frankfurt a.M.,
Fischer, 1983; trad. it. di A. Casalegno, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (19211931), Milano, Adelphi, 1982, p. 275.
24. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 162.
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Interessante è che una pratica artistica si sia originata dalla guerra.
Al fronte lo sguardo dei soldati, avido di esperienze nuove, incontrava, invece del mondo, solo “buche e granate”, una beffarda parete di vetro opaco, grande e impenetrabile. Le istantanee
scattate in trincea dimostrano un’impotenza visiva e testimoniale
che viene riscattata quando queste stesse immagini vengono riunite in serie. Un regime di visibilità che vantava secoli di storia
ha rivelato la sua Antiquiertheit, lasciando emergere non l’unità
dell’occhio che guarda, ma uno sguardo molteplice e dispersivo
che può costituirsi come soggetto solo attraverso un montaggio di
frantumi26. Rientrato a casa il soldato sentiva in qualche modo la
necessità di esercitare la sua “facoltà riproduttiva”, di ricordare l’esperienza bellica. Ma la guerra stessa aveva inferto un colpo mortale alla funzione rappresentativa dell’immagine, svilendone ogni
potenzialità27.
Così, anche dopo la fine del conflitto, il fotomontaggio di
Heartfield porta con sé la memoria delle rovine, e ne prolunga l’esistenza, facendo proprio il senso d’“intima distruzione” che la
guerra aveva prospettato. L’oggetto che si offre alla vista si presenta quindi come il ricordo di una mancanza, vale a dire della perdita della totalità. Qualcosa di simile viene sostenuto dallo stesso
Anders:
Dopo la guerra il mondo sembrava talmente scosso che per gli intellettuali nessun oggetto apparteneva più a un settore o a un luogo determinati. Nei quadri cercavano di raffigurare questa totale anarchia
incollando indiscriminatamente teste, fotografie di nudi, pezzi di giornale, immagini pubblicitarie, biglietti per il metrò. Questi montaggi documentavano certamente già lo choc subìto dall’intellettuale borghese,
25. Ibidem.
26. Cfr. S. CATUCCI, Per una filosofia povera. La Grande Guerra, l’esperienza, il senso: a partire da Lukács, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003, pp. 211250.
27. Cfr. E.J. LEED, No Man’s Land. Combat and Identity in World War I,
Cambridge, Cambridge University Press, 1979; trad. it. di R. Falcione, Terra di
nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1985, p. 200.
28
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ed era un piacere continuare a spaventare i concittadini, soprattutto
quando divenne chiaro che il mondo borghese non era affatto crollato28.
Al ritorno dal fronte Heartfield “non aveva più voglia di raffigurare e rappresentare il mondo così come è e come appare”29,
di “fissarlo” nella sua falsità. Ma sentì piuttosto il bisogno di scovare le crepe di questa patina, di far saltare la superficie patinata,
la lacca che lo avvolge. Così il compito diventò quello di raffigurare, attraverso un disordine del tutto arbitrario, il disordine del
mondo30. E per questo l’occhio da strumento di contemplazione
diventa un’arma.
Questa forma artistica di testimonianza, per essere tale, deve
al contempo darsi come una falsificazione. In altre parole, per far
vedere quel che l’occhio non riesce a vedere neanche con il dispositivo fotografico, l’arte del fotomontaggio è costretta a falsificare. E tuttavia questa falsificazione è più vera di una reale
riproduzione, nel senso che produce la realtà nascosta, ovvero l’unica realtà. Vedere è per Anders e per Heartfield comporre insieme
e connettere in un contesto unificante gli aspetti delle cose che si
illuminano attraverso le loro relazioni interne. L’arte del montaggio
fotografico consiste nella capacità di fare vedere quello che prima
non si riusciva a vedere, di rivelare – attraverso la connessione fra
due (o più) immagini distanti – inaspettate affinità elettive. L’accostamento di quanto era irrelato apre scenari desueti, spalanca
nuovi confini31. Da queste immagini in movimento deriva un effetto spaesante, inquietante, provocatorio ma proprio per questo
produttivo. Heartfield mette in atto una “tecnica” di rappresentazione del mondo che non inventa, ma svela la sua realtà. La composizione dadaista non è dunque affatto mera fantasia; è tecnica
della rappresentazione del mondo. Così Anders: “Il montaggio non
inventa ma scopre; esso non costruisce nessun mondo fittizio, con-
28. G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 164.
29. Cfr. ivi, p. 161.
30. Cfr. ivi, p. 164.
31. Cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Montaggio e memoria, “Discipline filosofiche”,
2 (2003), pp. 50-51.
29
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vincente in sé, ma svela – grazie al montaggio di ciò che è distante
– la vera adiacenza tra le cose, che senza composizione non sarebbe visibile, in quanto la totalità del mondo non può essere colta
simultaneamente con un solo sguardo”32.
L’arte heartfieldiana monta o compone per sottoporre a giudizio quello che sta insieme realmente; e se inventa lo fa solo per
scoprire o per trasmettere la sua scoperta. In questo senso Anders
può sostenere che “Heartfield è il primo artista a rappresentare
giudizi e non semplicemente oggetti”33. Inoltre il suo motto è
riassumibile nella frase “Inventare per scoprire”. In altri termini
si tratta, spiega Anders, di chiarire la correlazione causale o motivazionale tra milioni di cose e avvenimenti simultanei. Su questo
punto Heartfield muove in direzione opposta a quella letteraria di
Alfred Döblin, al quale è dedicato un altro capitolo dello stesso
volume andersiano34, e che come l’artista dadaista viveva a Berlino. Se il romanzo döbliniano ha rappresentato il panico dell’uomo
nei confronti della giustapposizione caotica e dell’adiacenza di milioni di cose e di avvenimenti simultanei nella metropoli, senza
legami, Heartfield invece ha tentato di far luce sulla loro concatenazione, sperimentando delle affinità35, anche al prezzo di
deformare la parvenza.
Queste sperimentazioni vengono definite falsificazioni, ma
al contempo non bisogna dimenticare (così Anders) che la realtà
stessa è una falsificazione; ci vuole quindi una contro-falsificazione per smascherare la falsificazione. “Se Heartfield falsifica,
se sfigura la realtà per ricomporla in modo inconsueto, lo fa per
correggerla [richtig zu stellen]. Se costruisce, non lo fa per allontanare la realtà […] ma per rendere finalmente visibile il
mondo reale che è invisibile a occhio nudo”36. È questa una tesi
che Anders riprende, a ragion veduta e in ben diverse proporzioni
32.
33.
34.
35.
36.
G. ANDERS, Uomo senza mondo, cit., p. 158.
Ivi, p. 160.
Ivi, pp. 61-107.
Ivi, p. 53.
Ivi, p. 158.
30
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di mostruosità, nelle sue osservazioni sullo sceneggiato televisivo
del 1978 Holocaust. Al centro di questo studio dal titolo Dopo Holocaust (Nach Holocaust) è la convinzione che sia la finzione a
fornire i fatti, e quindi in qualche modo la menzogna a presentarci
la verità: “La finzione è indispensabile non solo perché la verità
che dobbiamo conoscere non è più percepibile, ma soprattutto
perché la mostruosità e la dismisura di ciò che accade oggi […]
non è più percepibile e conoscibile”37. Gli eventi si sono fatti troppo
grandi per poter essere ancora compresi dall’intelletto umano, e
quindi per poter essere percepiti e ricordati, marcando una discrepanza tra le nostre facoltà, tra quello che possiamo produrre
(herstellen) e quello che possiamo comprendere, rappresentare
(vorstellen). Il fotomontaggio artistico è in grado di dilatare lo
spazio ottico, e di colmare così lo iato tra il vedere e il sentire.
3.
L’altro quadro
Il compito del collage artistico è allora anche quello di rappresentare la realtà nella sua caledoiscopicità, come una esplosione
di punti di vista, ma anche con le sue fratture, senza mirare a un
effetto armonico e gradevole. Da questo punto di vista l’opera d’arte
“firmata” da Heartfield si discosta dall’idea di un’opera d’arte canonica. Il fotomontaggio heartfieldiano non è pensato come un oggetto contemplativo da incorniciare ed appendere alla parete. E
questo non in ragione della sua violenza (visto che ad esempio un
quadro di Goya resta pur sempre un’opera d’arte da parete), ma
perché Heartfield usa il montaggio fotografico come un’arma, o
meglio come uno strumento di dilatazione del sentimento, alla stessa
stregua degli Esercizi spirituali (1548) di Ignazio di Loyola, interpretabile come tecniche del montaggio del sé.
Il fotomontaggio si presenta fin dalla sua comparsa come
un’arte-testimonianza che ha rinunciato alla bellezza, al suo essere un elemento decorativo da appendere nella casa borghese (per
37. G. ANDERS, Dopo Holocaust, 1979, p. 63. Su questo mi sia permesso
di rimandare al mio articolo: Primo dolore. Günther Anders dopo “Holocaust”,
“Estetica. Studi e ricerche” 2 (2016), pp. 117-128.
31
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coprire il vuoto), in vista della sua funzione sociale. Risuonano
le parole che Anders scrive a proposito di Hermann Broch, nello
scritto dal titolo La morte di Virgilio e la diagnosi della sua malattia (Der “Tod des Vergil” und die Diagnose seiner Krankheit,
1965): il poeta latino vuole bruciare l’Eneide non perché imperfetta ma perché troppo bella38. Così l’arte del fotomontaggio
deve rinunciare alla dimensione estetica, per amore della verità.
L’immagine proposta da Heartfield non è affatto una bellezza
che si offre a distanza, ma è da pensare come la testa della Gorgone, che, ben lungi dall’attirare lo sguardo dello spettatore, lo respinge. Qui sta il punto: lo respinge nella verità.
L’arte deve lacerare e screditare la variopinta continuità del
quotidiano, far esplodere, dissolvere, dissociare, distruggere il
mondo dell’immagine. L’immagine fotomontata ci costringe a
guardare in faccia proprio quei fatti della realtà, quelle infamie da
cui appunto distogliamo lo sguardo non appena le incontriamo nella
realtà. È quindi un’arte funzionale, che deve servire per accedere
alla realtà, per trasformare il mondo. Proprio per questa ragione le
opere di Heartfield non trovano posto nel nostro mondo, né in chiesa
né in salotto, e ottengono un “visto di cittadinanza” solo in luoghi
forti del loro ordine politico-economico, che possono permettersi
una messa in questione di se stessi, una propaganda contro di sé.
Dal momento che è venuta meno l’auraticità dell’arte, allora
diventa del tutto inutile la differenza tra originale e riproduzione,
considerata per secoli come naturale. Quello che si vede nella
esposizione di Heartfield sono senz’altro degli originali. Ma, nella
sua irriverenza, vale l’affermazione: “le riproduzioni sono gli originali”. Per la fotografia è impossibile chiedere: è originale o no?
I quadri esposti da Heartfield sono concepiti già come riproduzioni,
e sono pensati per influire sulle masse39. Per questa ragione la forma
artistica del fotomontaggio si rivela essa stessa come “finzione”,
si autodenuncia in tutta la sua artificialità. Il fotomontaggio non
38. Cfr. ANDERS, La “Morte di Virgilio” e la diagnosi della sua malattia,
in ID., Uomo senza mondo, cit., pp. 177-183.
39. Cfr. G. ANDERS, Uomo senza mondo, p. 167.
32
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vuole ingannare, bensì correggere l’inganno, correggere la falsificazione. È questo un punto fondamentale, perché marca la differenza con una deriva pericolosa del fotomontaggio, ovvero con
il fotomontaggio a fine di propaganda politica. Anders non ha dubbi:
il fotomontaggio esiste per smascherare non per celebrare40. Sono
quindi da ripudiare e da condannare quelle forme di montaggio che
camuffano il montaggio, e che quindi falsificano41. Anders porta
come esempio la sua opera con il fotomontaggio della fucilazione
di Röhm, dove la mano che saluta alla maniera dell’Hitlergruss e
la mano del morente vengono fatte coincidere42.
Ma c’è di più. Nella sua analisi del fotomontaggio Anders indaga il montaggio fascista, per sottolineare come questo si collochi
su un versante opposto rispetto alla tecnica dadaista. Se il montaggio
autentico si basa sul principio hegeliano della contraddizione dialettica e mette in cortocircuito la sembianza e la verità, “quel che
appare” e “quel che è”, il montaggio fascista usa la visibilità come
paravento, e combina semplicemente delle sezioni provenienti dal
dominio dell’apparenza, affidandosi a una formula astratta43.
Anders sottopone all’attenzione del lettore due esempi contrapposti. Da un lato propone un fotomontaggio di propaganda politica fascista in cui Mussolini viene acclamato da una folla di
fascisti: la giacca del duce è fatta di una massa entusiasta. Qui il
montaggio viene pensato al solo scopo di celebrare, producendo
come unico choc il comico. Su tutt’altro piano si colloca invece
un fotomontaggio di Heartfield, in cui viene presentato in basso
un quartiere “risanato” di Mosca, e in alto, quasi librante in cielo,
un enorme ritratto di Lenin, evocato come “costruttore del quartiere”. In questo caso la sproporzione della silhouette di Lenin rispetto al paesaggio urbano appare come minacciosa.
Un ruolo di fondamentale importanza spetta nel caso del fo-
40. Ibidem, p. 165.
41. Cfr. ivi, p. 163.
42. Su questo si rimanda allo studio di J. WILLETT, Heartfield versus Hitler, Paris, Pocket Archives, Hazan, 1997.
43. G. ANDERS, Uomo senza mondo, p. 165.
33
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tomontaggio autentico alle didascalie, che devono collaborare con
le forbici e con la colla nella riuscita del fotomontaggio. Alle parole è affidato il compito di mettere in collegamento le immagini,
e di creare uno choc, giocando sulle ambiguità semantiche. In
questo senso è stato Benjamin a sottolinearne l’importanza: “[I fotografi industriali] non hanno riconosciuto la forza d’urto sociale
della fotografia, e quindi l’importanza della didascalia, che è la
miccia che porta la scintilla critica al miscuglio delle immagini (come
dimostra nel modo migliore Heartfield)”44. Quale che sia la relazione instaurata tra testo e fotografia, in Heartfield è l’immagine
(anche essa composta) che esce rafforzata dalla sovrapposizione dei
due linguaggi, dagli inserti verbali, in un esempio particolarmente
riuscito di quel che poi verrà definito come “intermedialità”.
Parole, colla e forbici sono quindi gli strumenti messi in
campo da Heartfield per una prassi artistica rivoluzionaria, il cui
compito dovrebbe essere quello di realizzare un’opera capace di
rovesciare lo sguardo e di allargare la coscienza.
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INDICE
NATASCIA MATTUCCI
FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI
GÜNTHER ANDERS. IL CONSERVATORE APOCALITTICO
7
MICAELA LATINI
ROVESCIARE I PROPRI OCCHI.
ESTETICA E POLITICA IN GÜNTHER ANDERS
E JOHN HEARTFIELD
19
NATASCIA MATTUCCI
QUALE POLITICA PER GÜNTHER ANDERS?
LA LIBERTÀ NELL’ERA DELL’IMMAGINE
37
MARIA PIA PATERNÒ
TRA POLITICA E PSICANALISI: GÜNTHER ANDERS
E IL RACCONTO DELLA MANCANZA
65
FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI
MAXIMA MORALIA. L’ANTROPOLOGIA LIMINALE
DI GÜNTHER ANDERS PER L’ETICA CONTEMPORANEA
DOPO AUSCHWITZ E HIROSHIMA
91
ANDREA RONDINI
ANDERS E LA BOMBA MEDIATICA
127
ANTONIO TRICOMI
APOCALISSE, VARIAZIONI SUL TEMA
153
Indice dei nomi
181
Autrici e autori
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Obsolescenza_lecturae 26/02/18 19:12 Pagina 191
Finito di stampare
nel mese di febbraio 2018
per i tipi de “il nuovo melangolo”
dalla Microart - Recco (Ge)
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