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STRUMENTI DI LETTERATURA ITALIANA
Collana diretta da Franco Musarra
76.
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CORRADO PESTELLI
Ironia di naufragi
Serra, Panzini, Palazzeschi,
Bazlen, Pratolini, Bilenchi
Franco Cesati Editore
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ISBN 978-88-7667-701-4
Prima edizione: 2018
© 2018 proprietà letteraria riservata
Franco Cesati Editore
via Guasti, 2 - 50134 Firenze
In copertina: Pablo Picasso, Arlecchino pensoso (1901), New York, Metropolitan
Museum of Art.
Cover design: ufficio grafico Franco Cesati Editore.
www.francocesatieditore.com – e-mail: info@francocesatieditore.com
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In ricordo di Bobi Bazlen
[…] è necessario che lei non si faccia illusioni, che
sappia che non tutti vivono nel momento storico
in cui vive lei, che anche se lei vive nel ventesimo
secolo, non tutti vivono nel ventesimo secolo (e qui
pensi che il vero momento storico è la risultante del
momento suo e di quello di tutti gli altri). Si ricordi
che abbiamo vicino a noi i rappresentanti di tutti i
periodi della storia, che non abbiamo soltanto contemporanei, anzi, che forse a questo mondo non ci
sono due contemporanei.
ROBERTO BAZLEN, Il nazionalismo è veramente morto?, in «Comunità», 3 maggio 1947
Abbiamo torto di compiangere Lautrec: dovremmo invidiarlo… Il solo luogo in cui si possa trovare
la felicità è ormai una cella di manicomio. Lautrec
meritava davvero, dopo aver dato evidente prova
d’una semifollia nella quale si dibatteva come
la maggior parte degli uomini, di godere infine
dell’annullamento divino della pazzia completa.
EDMOND LEPELLETIER, Le secret du bonheur, in
«L’Echo de Paris», 20 marzo 1890
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INDICE
1. Renato Serra e Alfredo Panzini, l’Esame di coscienza di un letterato e
il Diario sentimentale della guerra. Scambio testuale, dialogo abbozzato,
colloquio muto, fra biciclette e trincee del primo conflitto planetario
1.1 Voci diverse, dialogo dissonante
1.2 Il grande interiorizzatore. Sofocle, Tolstoj, Kipling e il bosco delle
Eumenidi
1.3 Lo “spirito”, il «tono», l’«umore Panzini». Il borghese «alla buona»
come spettatore del tragico
1.4 «Attila, Alarico, Sigfrido!»
1.5 «Si desidera […] appena di parlare con quei due o tre con cui
si può parlare senza parole. Ecco perché vengo da lei»
1.6 Guerra ed erba tenera. Pullulare di bollicine, brulichio di
formicai (fra Pascoli, Tolstoj e Rolland)
1.7 Il compagno morto di Ungaretti. Biciclette, zaini e varianti
testuali in trincea
1.8 Voci diverse, dialogo autentico: «chi gli sarà alla fine più vicino
risulterà di fatto anche il meno simile»
» 79
2. I buffi, i saltimbanchi, la corte dei miracoli: Aldo Palazzeschi, il risus
rerum e il palio dei “savi”, dei seriosi e dei buonsensai, dalla beffa
toscana ad Alberto Savinio
» 93
2.1 «l’immortalità è degli uomini leggeri, degli uomini senza peso,
perché soltanto gli uomini senza peso sopravvivono (ils surnagent)»
2.2 Il «clown Antipoeta, e se preferite Sottopoeta, come antitesi del
Superpoeta di stampo dannunziano»
2.3 Da Africo e Mensola a rue des Moulins e al Controdolore. Buffi,
gobbi, monomaniaci, celibi solitari, omosessuali latenti
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» 13
» 13
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» 123
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2.4 Perlustrazioni nel laboratorio del novelliere (con accenni alle varianti)
2.5 Est risus rerum. Un ultimo uomo di fumo e un ultimo sberleffo
per tutti
2.6 Da Serra, Medusa gentile, alla «guerra ironica», all’«artiste en
saltimbanque», all’ironia di naufragi
3. Bobi Bazlen, lettore orizzontale, sciamano nordazkenazita di cielo
chassidico (fra Svevo, Montale, Jung, Ernst Bernhard, Adriano Olivetti
e Luciano Foà)
3.1 Bibliografia di un mito
3.2 «Libri veramente importanti e sconosciutissimi»
3.3 Il “caso Svevo”. Bazlen, Montale, Solmi, Lodovici, Joyce,
Crémieux, Larbaud
3.4 Nell’officina lirico-poetica di Montale. Ispirazioni e
rielaborazioni metriche, fono-sillabiche e semantico-lessicali
per Le occasioni (e per gli Ossi di seppia)
3.5 «Non puoi essere contento che una persona inventi un plausibile
linguaggio nuovo, e poi, subito, arrabbiarti perché lo parla»
3.6 Il naufragio azzurro nelle onde di Poseidone e del Tao: «Ignaro tra
meduse e coralli»
3.7 Ironia di naufragi
3.8 L’Odisseo omerico e l’Ulisse dantesco. «Addio, Penelope», fra
Circe, le Sirene e le derive della psicoanalisi junghiana
3.9 Un ventilabro di fosforo a frammenti. Tra «aphoristischer Beitrag»,
footnotes, massôrâh, midrash, tradizione di analyse thalmudique
3.10 Il nazionalismo è veramente morto? («è certo che non si passa
da un mondo all’altro facendo il passo dell’oca»)
4. Memoria e “fascismo di sinistra”, fra Pratolini e Bilenchi
4.1 I vari “Pratolini”
4.2 «Cronache, sempre cronache»
4.3 Dalle affinità elettive alla ricerca e all’analisi
4.4 Crudeltà e scialo. Lo “scrittore che paga per tutti”
4.5 Pratolini e Bilenchi. I «racconti crudeli», il Bildungsroman, il
“fascismo di sinistra”
4.6 Breve ricognizione nella variantistica bilenchiana. La crudeltà
del diamante
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4.7 Il collasso della memoria. Dal “fascismo di sinistra” al comunismo » 326
4.8 Amore di donna. Il galateo di San Frediano
» 334
Indice dei nomi
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Dei quattro capitoli che compongono questo libro, il terzo e il quarto sono
inediti.
Riguardo al terzo – Bobi Bazlen, lettore orizzontale, sciamano nordazkenazita
di cielo chassidico (fra Svevo, Montale, Jung, Ernst Bernhard, Adriano Olivetti e
Luciano Foà) –, non costituisce precedente, se non di mero nucleo concettuale,
un brevissimo scritto bazleniano del ’94, di carattere strettamente recensorio (su
Diritto al silenzio di Manuela La Ferla: «La rassegna della letteratura italiana»,
XCVIII, s. VIII, 3 - settembre-dicembre 1994 -, pp. 290-292).
Del quarto capitolo, Memoria e “fascismo di sinistra”, fra Pratolini e Bilenchi, è
attualmente in corso di stampa un estratto, con il titolo Bilenchi e Pratolini: la
memoria del “fascismo di sinistra”, in «La rassegna della letteratura italiana»,
CXXII, s. VIII, 2 (luglio-dicembre 2018).
Il primo capitolo, Renato Serra e Alfredo Panzini, l’«Esame di coscienza di
un letterato» e il «Diario sentimentale della guerra». Scambio testuale, dialogo
abbozzato, colloquio muto, fra biciclette e trincee del primo conflitto planetario,
rielabora, con inserzioni strutturali e molte aggiunte, una precedente redazione
del contributo: Serra e Panzini. Scambio testuale, dialogo abbozzato, colloquio muto,
fra biciclette e trincee, in Per Renato Serra, n. dedicato de «Il lettore di provincia»,
XLVI, 145 (luglio-dicembre 2015), pp. 109-146.
Il secondo capitolo, I buffi, i saltimbanchi, la corte dei miracoli: Aldo Palazzeschi,
il «risus rerum» e il palio dei “savi”, dei seriosi e dei buonsensai, dalla beffa toscana ad
Alberto Savinio, si pone anch’esso come contributo del tutto nuovo, notevolmente
ampliato e riveduto, rispetto al precedente rappresentato da Il palio dei savi e dei
normali, in La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi. Indagini, accertamenti testuali,
carte inedite, n. dedicato di «Studi italiani», XI, 21-22, 1-2 (gennaio-dicembre
1999), pp. 175-212.
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1.
RENATO SERRA E ALFREDO PANZINI, L’ESAME DI COSCIENZA DI UN
LETTERATO E IL DIARIO SENTIMENTALE DELLA GUERRA. SCAMBIO
TESTUALE, DIALOGO ABBOZZATO, COLLOQUIO MUTO, FRA BICICLETTE E TRINCEE DEL PRIMO CONFLITTO PLANETARIO
1.1 Voci diverse, dialogo dissonante
cotesta fiumana immensa irrompente schiumante che
nel giro di brevissimi anni, quasi a un colpo, per uno
squarcio di dighe s’è riversata sul mondo per virtù del
pallido poeta eurasiano.
RENATO SERRA
era un vedere il mondo nella sua verità, era la vita
com’egli la voleva, il brulichio, i richiami, le cinture
che s’affibbiano e i buoi stimolati, il cigolio delle ruote,
i fuochi accesi, le marmitte in bollore, nuovi spettacoli
per l’occhio incantato a ogni svolta della via. La nebbia
del mattino sfumò in colonne inargentate, i pappagalli,
volo di frecce di smeraldo, sfilarono strillando verso
un’acqua lontana; tutte le ruote dei pozzi si misero al
lavoro. L’India era sveglia, e Kim in mezzo ad essa più
sveglio, più vivo di qualunque altro.
RENATO SERRA
Prima di tutto, nessuno di quelli che partecipano veramente ai fatti è in grado di raccontarli: le impressioni
dei testimoni autentici sono tutte fabbricate dopo.
RENATO SERRA
Milano, 15 giugno 1915
Ieri sera verso le undici, da via S. Margherita avanzò
una fanfara: Fratelli d’Italia. Erano volontari bersaglieri che partivano per la frontiera; compagni, commilitoni li circondavano. Andavano piano, e mi pareva che
corressero. Non c’era un alito di vento, e mi pareva
tempesta. Erano poveri ragazzi e si ergevano cavalieri e
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belli! Sarebbero forse morti, ed erano circonfusi di immortalità! Senso di letizia. / Gino ed io ci siamo fermati sul marciapiede. Non mi sono mai levato il cappello
con tanta venerazione. / «Fra poco anche lei, Gino!».
Volevo dirgli: «Chi fu il miserabile che chiamò il soldato materiale umano?». Espressione più vile dell’altra,
carne da cannone. Ma nulla dissi. Gino domani andrà
alla scuola di Modena1.
ALFREDO PANZINI
1
Le due prime citazioni sono tratte dal serriano Kipling, a cura di MARINO BIONDI, Sant’Arcangelo
di Romagna, Fara, 1996, pp. 19 e 103; la terza è tratta da una lettera a Luigi Ambrosini del 14
giugno 1915 (cfr. EZIO RAIMONDI, L’intellettuale solitario, par. di Renato Serra: la coscienza del
lettore, in ID., I sentieri del lettore, I-III, a cura di ANDREA BATTISTINI, Bologna, Il Mulino, 1994, III,
Il Novecento: teoria e storia della letteratura, pp. 273-393, qui p. 297; cfr., sul Serra di Raimondi,
ANDREA BATTISTINI, «Il pathos che non si ostenta». Ezio Raimondi lettore di Serra, in «Esperienze
letterarie», XLI [aprile-giugno 2016], 2, pp. 31-43, in part. pp. 31, 35, 39, 40; si veda, ora, il volume
Ezio Raimondi lettore inquieto, a cura di ANDREA BATTISTINI, Bologna, Il Mulino, 2016); la quarta è
tratta da ALFREDO PANZINI, Diario sentimentale della guerra, a cura di MARCO ANTONIO BAZZOCCHI,
testo a cura di RICCARDO GASPERINA GERONI, Bologna, Pendragon, 2014, p. 204. In questo contributo
si farà particolare riferimento, oltre che ai testi citati, ai seguenti lavori: RENATO SERRA, Esame di
coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, edizione critica a cura di MARINO BIONDI
e ROBERTO GREGGI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura («Fondazione Serra», «Temi e testi»,
144), 2015 (in particolare su Panzini e Serra, vd. Commento, ivi, par. 20, pp. 210-215); ID., Esame di
coscienza di un letterato. Per una storia del testo dall’autografo alla stampa, III ed., a cura di MARINO
BIONDI e ROBERTO GREGGI, con un saggio critico di EZIO RAIMONDI, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2014;
Bibliografia su Renato Serra (1909-2005), a cura di DINO PIERI, saggio introduttivo di MARINO BIONDI,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005; Il fondo “Renato Serra” della Biblioteca Malatestiana
di Cesena, a cura di MANUELA RICCI, Premessa di RENZO CREMANTE, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 2005; RENATO SERRA, Discorrendo con un automobile, in Il giornalino della Domenica, II
(7 aprile 1907), 14 (riprodotto con premessa di MARINO BIONDI, in «Il Lettore di provincia», 2006,
125, pp. 4-5; tutto il numero è da consultare: si veda, ad esempio, PANTALEO PALMIERI, Il «Diario di
trincea» di Renato Serra, pp. 73-78); CAMILLO PELLIZZI, Gli spiriti della vigilia. Carlo Michelstaedter,
Giovanni Boine, Renato Serra, Firenze, Vallecchi, 1924 (in part., su Serra, la Parte Terza [La
vittima disperata], pp. 163-215); Epistolario di Renato Serra, a cura di LUIGI AMBROSINI-GIUSEPPE
DE ROBERTIS-ALFREDO GRILLI, Firenze, Le Monnier, 1934; EMILIO CECCHI, Alfredo Panzini, in Storia
della letteratura italiana, I-IX, Milano, Garzanti, 1982, IX, pp. 475-479; GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI,
Narratori fra Otto e Novecento: Alfredo Panzini, Antonio Beltramelli, Grazia Deledda e altri, in Storia
della civiltà letteraria italiana, a cura di ID., I-VIII, Torino, UTET, 1990-1996, V, pp. 683-686;
RENATO SERRA, Scritti letterari, morali e politici, a cura di MARIO ISNENGHI, Torino, Einaudi, 1974;
GIORGIO LUTI, Serra, Prezzolini e l’Esame di coscienza, in ID., Firenze corpo 8. Scrittori, riviste, editori
nella Firenze del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1983, pp. 111-131; GIOVANNI BOINE, Il peccato. Plausi
e botte. Frantumi. Altri scritti, Milano, Garzanti, 1983, pp. 134-137, 151-154, 165-172 e 179; Alfredo
Panzini nella cultura italiana fra ’800 e ’900, a cura di ENNIO GRASSI, Rimini, Maggioli, 1985; ALFREDO
ORIANI, Viaggio in bicicletta con altri scritti di viaggio, Prefazione (Oriani sul pedale) di GUIDO SANLEY,
Bologna, Boni, 1986 (vd. la Prefazione, pp. 4 e 9, sull’importanza dei percorsi, della mobilità in
bicicletta − che sarà poi largamente riscontrata in Panzini e in Serra anche in chiave drammatica
nel primo anno del conflitto europeo, luoghi principali Bellaria e dintorni −, sulle differenze dei
Reisebilder in bicicletta tra Oriani e Panzini, sui precedenti di quest’ultimo, individuati in Giacinto
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Il 25 agosto 1914, durante uno dei dialoghi intrecciatisi a Bellaria tra Panzini, preoccupato padrone di casa, e un Renato Serra già in procinto d’accesso alla
personale mitografia, per virtù fisiche («quasi atletico giocator di pallone», molto
esperto di bicicletta al pari del professor Alfredo)2, e insieme per virtù letterarie
Ricci Signorini e in parte in Carducci, sul giudizio di Serra e Ambrosini nell’Abbozzo di un saggio
su Alfredo Oriani, giudizio che converge in senso positivo a proposito di Sul pedale, dove «pare
di sentire una finestra spalancata bruscamente alla grand’aria e alla polvere vera» da parte dello
scrittore residente a Casola Valsenio; di Panzini si rileva, invece, nei Reisebilder, la «gentilezza
grande»); RENATO SERRA, Le lettere, a cura di UMBERTO PIROTTI, Ravenna, Longo, 1989; RENATO
SERRA, Esame di coscienza di un letterato e altri scritti, a cura di CLAUDIO MARABINI, Varese,
Sugarco, 1992; EZIO RAIMONDI, Un europeo di provincia: Renato Serra, Bologna, Il Mulino, 1993;
ALFREDO PANZINI-RENATO SERRA, Carducci, Introduzione di MARIO PAZZAGLIA, Sant’Arcangelo di
Romagna, Fara, 1994; MARIO ISNENGHI, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848
ai giorni nostri, Milano, Mondadori, 1994, in part. pp. 161-168, e in genere il cap. Il romanzo
della piazza, pp. 161-206; MARINO BIONDI, La tradizione della città. Cultura e storia a Cesena e
in Romagna nell’Otto e Novecento, Cesena, Società di Studi Romagnoli-Stilgraf, 1995, in part.
pp. 248-255 e 711-731; ID., Renato Serra. Biografia dell’ultimo anno nel carteggio con Giuseppe
De Robertis, Sant’Arcangelo di Romagna, Fara, 1995, in part. pp. 129-132; RENATO SERRA, Le
lettere. La storia. Antologia degli scritti, a cura di MARINO BIONDI, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2005,
in part. pp. 148-150; ROBERTO SANDRUCCI, Renato Serra. La letteratura, l’educazione e la guerra,
Roma, Aracne, 2012; ALBERTO PETRUCCIANI, Il bibliotecario riluttante: ipotesi per Renato Serra, in
ID., Libri e libertà. Biblioteche e bibliotecari nell’Italia contemporanea, Roma, Vecchiarelli, 2012,
pp. 281-312; l’opera collettiva Panzini scrittore europeo, a cura di MARIANGELA LANDO, Bologna,
Pendragon, 2013; ENRICO GHIDETTI, Renato Serra. Il tempo dell’angoscia e della speranza, in ID.,
L’Italia raccontata. Dall’Unità alla Grande Guerra, Firenze, Le Lettere, 2014, pp. 295-299; Il
racconto italiano della Grande Guerra. Narrazioni, corrispondenze, prose morali (1914-1921), a cura
di EMMA GIAMMATTEI-GUIDO GENOVESE, Milano-Napoli, Ricciardi (Treccani), 2015 (cfr., in part.,
la presenza di ALFREDO PANZINI con Il romanzo della guerra nell’anno 1914, pp. 3 ss., nella sezione
I, La Grande Guerra e il «povero letterato», pp. 3-247, e di RENATO SERRA con Il Diario di trincea,
pp. 833 ss., nella sezione III, Testimonianza e invenzione. La Grande Guerra fra giornalismo e
letteratura, pp. 453-859). E si veda il numero dedicato a Serra Per Renato Serra, a cura di MARINO
BIONDI, in «Il Lettore di provincia», 145, 46 (luglio-dicembre 2015). Cfr., ultimamente, Studi
cesenati per Renato Serra, saggio introduttivo di MARINO BIONDI, a cura di ID. et al., Cesena, Il
Ponte Vecchio («Lyceum»), 2017.
2
Serra non disdegna, comunque, il piacere dell’escursione automobilistica; in un brano del
1907 si può constatare, in un’ebbrezza di corsa che potrebbe richiamare una suggestione futurista,
il gusto dell’immersione nella natura, la freschezza del contatto con l’aria, con il senso e con il
diletto del viaggio; in realtà, anziché l’apparente richiamo futurista, è proprio la sensazione del
perdersi nella natura a costituire la ratio del brano. Cfr. SERRA, Discorrendo con un automobile,
cit., p. 5: «che gioia sentir l’aria fresca, limpida, pulita della campagna che m’accarezza dapprima
lieve lieve, e poi a mano a mano ch’io accelero la mia corsa mi sfiora sempre più rapida, sempre
più ghiacciata, mi penetra fin nell’intimo, mi avvolge come d’un bagno liquido e purissimo! […];
le case, le siepi, gli alberi che mi si fanno incontro come fantasmi dalle profondità della pianura,
si inchinano al mio passaggio quasi per stringermi fra le braccia, e dileguano via; i grandi scrosci
degli acquazzoni che schioccano su’ miei vetri, e mi lavano tutta la polvere di dosso; il tepido sole
che mi prosciuga, mi bacia, e scherza rifrangendosi sulle mie parti metalliche; per fino le asprezze,
le difficoltà delle strade cattive, che tentano invano di opporsi alla mia rapidità vittoriosa; tutto,
tutto è gioia per me; tutto io respiro nella mia corsa, e godo, e amo». Ma si ricordi, per contro,
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e intellettuali come declamatore con voce flebile di una lirica petrarchesca, si registra un intervento davvero disarmonico, da parte dell’autore del Diario sentimentale, soprattutto se tale intervento si considera nell’àmbito della “partitura”
dialogica; il longilineo ragazzone cesenate modula i versi di Petrarca con la vocina, appunto, «di rosignolo in amore», e Panzini entra a gamba tesa sul sottile falsetto d’endecasillabi, un Panzini sostenuto nel tono di voce e aspro nel contenuto:
«“Ma perché poi questa guerra?” interruppi io». L’interruzione, la differenza di
suono, l’ostensione d’un’asimmetria nel sottofondo fonico-colloquiale potrebbero, al limite, persino richiamare una tradizione comica di larga e applicata fortuna,
di cui sarebbe qui inutile richiamare singoli esempi, fondata com’è sulla stridente
differenza di tonalità e di linea di discorso dei due titolari del dialogo3; le contrad-
nella lettera a Giuseppe De Robertis del 6 maggio 1915 da San Vito al Tagliamento (Epistolario di
Renato Serra, a cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., p. 576), il passo iniziale: «6 maggio −
mentre aspetto di raggiunger colla bicicletta la truppa, che non ho avuto bisogno di accompagnare:
le 5 della mattina: ma non c’è mattina in queste pianure piatte, dove l’aria e la luce è sempre ferma;
o sotto il velo dell’umidore fumante e un po’ guasto; o piena di splendore afoso»; o anche, dal
Diario di trincea (SERRA, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit., p.
322): «Anch’io: come quando andavo in bicicletta, su per una salita, col sangue che mi scoppiava
martellando nelle arterie; ancora un paracarro e poi mi fermerò. E seguitavo. Così a ogni tanto,
che mi prometto di darmi malato; che penso di andar via; tornare a Cesena. Faccio i conti col
mondo bello, come se fosse ancor mio; le donne, le cose che ho lasciato indietro; come se non
avessi rinunciato a nulla […] / Dico di fermarmi. Ma so che non mi fermerò. Tirerò avanti; ogni
tanto, trasportato da qualche ondata improvvisa che non so donde sorga». Lontana da questa
sfera di rilievi è, come si è accennato, l’esperienza di un Marinetti, ciclista volontario in guerra, che
scriverà in una cartolina al giornale Lo Sport illustrato: «la guerra meraviglioso sport sintetico» (XI,
1915). Lo Sport illustrato si iscrive in una tendenza di propaganda che sostiene l’affinità fra campo
sportivo e campo di battaglia (si veda, ad esempio, l’articolo Dall’allenamento sportivo al getto
della bomba a mano [XII, 1916]). Lo Sport illustrato, settimanale illustrato della Gazzetta dello
sport, viene fondato nel 1913, e dopo l’entrata in guerra assumerà il titolo Lo Sport illustrato e la
guerra. Rivista quindicinale illustrata della forza, dell’audacia e dell’energia umana, denominazione
cambiata ancora, nel 1917, in Il secolo illustrato. Si vedano, in tal senso, MARIO ISNENGHI, Giornali
di trincea, Torino, Einaudi, 1977; GEORG MOSSE, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei
caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990; FRANCESCA GATTA, La lingua militare alla ribalta dei giornali:
il caso dell’aviazione nella Prima guerra mondiale, in Storia della lingua italiana e storia dell’Italia
unita. L’italiano e lo stato nazionale. Atti del IX Convegno ASLI («Associazione per la Storia della
Lingua Italiana»), Firenze, Accademia della Crusca, 2-3-4-5 dicembre 2010, a cura di ANNALISA
NESI-SILVIA MORGANA-NICOLETTA MARASCHIO, Firenze, Cesati («Associazione per la Storia della
Lingua Italiana», 7), 2011, pp. 337-349.
3
In una delle declinazioni di questa possibilità comica, uno degli attori inizia, più volte, a
declamare − si tratta di coincidenza − Quel rosignuol che sì soave piagne, senza mai poter proseguire
perché immancabilmente interrotto, dopo il primo verso, da una serie di rumori aspri, dissonanti,
prodotti da operai, da tecnici che stanno compiendo lavori vicino al palcoscenico. Non ottenendo
alcunché neppure dopo reiterate proteste, il dicitore è alla fine costretto a rinunciare. Si veda,
a proposito di questi colloqui alternati di letteratura, di preoccupazioni politiche e di finestre
dialogiche sugli interessi quotidiani e sui concreti andamenti familiari, GIUSEPPE ANTONIO BORGESE,
La letteratura italiana alla vigilia della guerra, in «Il Conciliatore», 11, 1915, 1, pp. 1-39. Borgese
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dizioni, in questo come in altri dialoghi allacciati da Panzini con molti interlocutori in quei mesi strani e convulsi che precedono l’entrata in guerra dell’Italia,
non mancano davvero, e sono anzi numerosissime; ma è quasi superfluo rimarcare
che l’interesse del dialogo panziniano (per Serra è necessario un diverso ordine
d’idee) risiede esattamente in questa serie di elementi dissonanti, asimmetrici, agitati e nervosi, incomposti e privi, diciamo così, di concinnitas psicologica-umorale
(professore di latino, quindi non soltanto di Cicerone: l’ultima opera di Panzini
sarà costituita da Il bacio di Lesbia, e perciò di tema catulliano originalmente
rivisitato)4; insomma, un quadro di svariate riflessioni, dominato dalla paura per
le persone e per i nuclei familiari e piccolo-borghesi faticosamente acquisiti, per la
situazione generale e per il mondo − interpretabili con sempre maggiore difficoltà, e nel tempo sempre più drammaticamente misteriosi −, e dunque un quadro
incerto, altalenante, segnato da alternativa di speranze − poche, e di effimera durata − e da disillusioni. Inevitabile che gli interlocutori ricercati da Panzini, oltre a
Serra che in tal senso riveste un ruolo davvero speciale, siano tanti, di molteplice
connotazione e addirittura di casuale incontro, di non voluto inciampo, di fortuito rinvenimento. Tanti, ma non per questo ascoltati; anzi, nella maggior parte dei
casi, come avviene ai dialoganti preoccupati, incerti e nel contempo monotematici
sino quasi ad una lucida maniacalità, si tratta di interlocutori non affatto ascoltati,
e spesso tali da far rientrare il professor Alfredo nello stesso ordine di considerazioni nel quale già si trovava, e di farlo altresì ritornare alla medesima opinione,
alla stessa tipologia di pareri all’insegna della quale egli aveva iniziato il colloquio,
e spesso, per di più, con raddoppiata nevrosi d’agitato andirivieni di pensiero e
di spirito.
Lo “scambio” Serra-Panzini può far registrare vere e proprie singolarità di
collocazione sotto il profilo del “ruolo” che ciascun interlocutore ha nel dialogo,
con l’autore dell’Esame intento a un’opera di profonda interiorizzazione dei dati
e delle sollecitazioni raccolte dai libri, dai quotidiani, dalle persone incontrate per
via o nelle strade di campagna nell’escursione su due ruote Cesena-Bellaria, e il
professore, da parte sua, spinto, letteralmente mosso e indotto a interrogare di
propria iniziativa varie persone, a chiedere qua e là, a destra e a manca, a seconda
del contesto di riferimento e a seconda dell’interlocutore, che cosa succederà, quale sia il pensiero dell’interpellato sull’opportunità dell’intervento e sull’eventuale
ironizza un po’ su Serra e sulla sua vocina, sulla sua declamazione petrarchesca, sull’Arcadia
romagnola di Bellaria con Panzini. Panzini viene ricordato da Serra nella lettera del 9 giugno del
1915 a De Robertis per il nervosismo che costringeva l’interlocutore a placarlo di parole; le sue
pagine erano «necessariamente infedeli» (cfr. su questo argomento BIONDI, Renato Serra. Biografia
dell’ultimo anno nel carteggio con Giuseppe De Robertis, cit., pp. 129-132).
4
Si rammentino le parole di Carducci, nella lettera da Caprile (Belluno) del 5 aprile 1886, a
Guido Mazzoni riguardo a Panzini: «è giovine che ha assai ingegno e molta attitudine a insegnare
perché parla facile e bene e con efficacia. Il greco lo sa, tanto che ebbe 30 e non ricordo se anche
la lode dal Pelliccioni. Del latino potrà giudicare Ella stesso».
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guerra, quale sarà il comportamento della Germania − la chiave, per Panzini, di
ogni risoluzione e di ogni evento bellico e di ogni coinvolgimento di nazione5.
5
Si ricordi quanto rileva GIOVANNI BOINE, nella recensione ALFREDO PANZINI. Il romanzo
della guerra nell’anno 1914. Studio Editoriale Lombardo 1915, in BOINE, Il peccato. Plausi e botte.
Frantumi. Altri scritti, cit., p. 151: «Anche questo è un diario: diario di ansie e di esperienze».
Ma più sotto (p. 152) Boine rileva una sorta di continuità nella “pedalata” di Panzini, anche in
presenza d’una guerra che ha sconvolto gli animi e gli equilibri, sul piano umano e sul piano
storico; e la più importante rivelazione che, secondo Boine, Panzini ha ricevuto su se stesso, sulla
propria cultura, sulle proprie propensioni politiche, geografiche e spirituali, s’identifica con la
francofilia, tanto spiccata quanto lo è l’antigermanesimo, la forte e profonda tedescofobia: «Si
sa, la guerra uno scossone l’ha dato a tutti. C’è gente ch’era ad es. pacifista sino ad ieri ed è, ora,
impaziente d’imbracciare un fucile. E c’è chi credeva nella nazione, compostamente; chi, poniamo,
aveva scritti (con fede) dei “Discorsi militari” […]. / Ad Alfredo Panzini la guerra ha rivelato
anzitutto che, senza saperlo, voleva bene, ma proprio bene alla Francia; “non credevo d’amarla
tanto!” Inoltre i tedeschi sono dei barbari e dei professori. Item, infine, che c’è contr’essi un
patrimonio nostro, umano, latino da salvare, da proteggere: minacciosi Unni alle porte. […] / Io
sono per mio conto della modesta opinione che quel che importa qui, è ancora il Panzini della
vecchia Lanterna. S’intende: la bicicletta, piano correndo, passa ora per un paese in sommossa:
tutt’il mondo geme, e ci son gemiti, lacrime, anche qui; tutt’il mondo è francese, tutti i giornali son
francesi, tutti i comitati sono probelgio e dunque profrancia e s’è dunque un po’ francesi, probelgio
(antitedeschi) in qualche modo anche qui […]. Ma a me ciò che importa è questa complessità
sentimentale, questa bonaria amarezza a cui nulla è nuovo, a cui nulla può aggiungere e nemmeno
questo maremoto universale di sangue». E questa serie di rilievi critici di Boine, anche nel prosieguo
della recensione, intercalano l’esame propriamente letterario della prosa panziniana con ripetute
annotazioni sulla netta tendenza politico-culturale antitedesca dell’autore; si veda, ad esempio,
alla p. 150: «Artisticamente, mi piace la sua complicata esitanza, questa quasi sbigottita incertezza
con cui segue gli avvenimenti»; più sotto, l’appello venato di ironia a “tifare” un po’ anche per
la Germania, che è sola contro tutti; poi, il ritorno all’esplicito giudizio letterario su Il romanzo
della guerra nell’anno 1914, un giudizio che tuttora appare intriso di validità e di proponibilità,
nella sua sintetica efficacia: «subire in qualche modo il giornale, ripeterne la spicciola morale e la
comune passione» sono comportamenti intellettuali che guastano anche testualmente «la dolente
bellezza delle sue pagine». Ma si veda anche, nell’ampia produzione filofrancese che vi fu in
Europa, e in particolare in Italia, un articolo di GIOVANNI PAPINI, a favore della «sorella latina»,
che piacque a Renato Serra: Ciò che dobbiamo alla Francia, in «Lacerba», II (1 settembre 1914),
17, pp. 249-252: «Un paese che in quarant’anni ha saputo far questo è un gran paese e la sua
civiltà è una magnifica civiltà. Noi dobbiamo a questo paese il meglio della nostra vita e del nostro
spirito e non lo tradiremo nell’ora del pericolo. In questo momento tutta la Francia è un esercito
contro un paese da poco civilizzato che deve a lei e all’Italia quel poco di buono che ha fatto nel
mondo. Noi, in quanto artisti, in quanto pensatori, in quanto poeti, in quanto italiani, in quanto
uomini civili, ci sentiamo colla Francia contro i suoi e nostri nemici»; Papini si schiera dunque
«pro Francia e contro la ‘barbarie’ prussiana», secondo l’«assurdo logo lacerbiano (e sofficiano)»
(BIONDI, Commento, cit., par. 13, p. 185), insomma Per la guerra. Ripercorrendo la cultura francese,
soprattutto del secondo Ottocento, Papini può soffermarsi su categorie culturali di largo riscontro:
«parnassianismo come dannunzismo, naturalismo zoliano e Verga, simbolismo, la pittura da
Courbet a Cézanne, il cubismo, il pensiero, la filiera dei moralisti, sfiorando alcuni francesi di
Serra (Taine, France, Renan)» (ibidem). Rimane, è persino scontato rilevarlo, la profondissima
differenza tra le impostazioni di pensiero e di cultura, oltre che di ratio scrittoria, fra Papini e Serra.
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1.2 Il grande interiorizzatore. Sofocle, Tolstoj, Kipling e il bosco delle Eumenidi
Ma sarà proprio il grande interiorizzatore Renato Serra6, il rielaboratore in se
stesso di paure, di ansie, di incertezze, il silenziatore di timori e di angosce altrimenti banalizzati nell’eccesso delle comunicazioni di massa, l’affabulatore in prosa
di protratte e non misurabili atmosfere di sospensione e di alienato mutamento di
attese e di vita quotidiana (la “vita” non è più la stessa, poiché ciò che incombe e
incomberà relega un quotidiano monotono e provincialmente noto in una improvvisa dimensione relativa, e indifferente, di fragile passato lontano, nel giro di un
solo mese, fine giugno-fine luglio)7, sarà il bibliotecario cesenate a rendere memo-
6
Si veda la connotazione di “interiorizzatore” quale era emersa, secondo Boine, anche nel
Serra de Le lettere: «Ma c’è tra questi tentacoli minuti d’avanguardia e, diciamo, il corpo del suo
sentire non so che dissidio non so che riluttante cruccio, quasi la sua intelligenza vedesse assai più
che l’assieme della sua anima non voglia poi concederci. E qui in questo libro, più che altrove,
in ispecial modo appare questo riluttare quasi astioso, questa segreta ironia, questa diffidenza da
classicista ancien régime contro i romantici teutoniformi. / L’ancien régime del Serra ha quattro
augusti penati come i quattro evangelisti, o quattro scolpite erme ai confini d’un campo. Pascoli e
Dannunzio [sic], Croce e Carducci. Dice il Serra che la sostanza vera di questi uomini non è stata
superata. E lo dice, si sente, con un maligno piacere contro tutti costoro che han tentato di fare, di
rovesciare, di porre il nuovo: “Non siete riusciti a niente!”. / Il che si può facilmente concedere.
Che non ci sono poeti ognuno lo sa; che non ci sono filosofi anch’io lo sospetto; che siamo squallidi
e poveri di ogni senso lo si constata da un po’. Ma ciò che definisce il Serra è appunto questo
rannicchiarsi sul sodo, avaro arpagone sul sacco dell’oro, lasciando agli altri le azioni di carta,
e le incertezze sul gioco di Borsa» (GIOVANNI BOINE, recensione RENATO SERRA. Le lettere [coll.
L’Italia di oggi, serie I, vol. VI], ed. C. A. Bontempelli, Roma 1915, in BOINE, Il peccato. Plausi e
botte. Frantumi. Altri scritti, cit., p. 170). Il valore della «maschera», del sofferto e consapevole
filtro di reticenza, della “sordina qualitativa” posta alla tentazione d’una pronuncia dichiarativa
e letterale, scaturisce anche dalla scrittura epistolare; si assuma ad esempio la citata lettera ad
Ambrosini del 14 giugno 1915, a proposito della quale si veda RAIMONDI, L’intellettuale solitario,
cit., p. 298: «Dinanzi alla presenza muta di un paesaggio tragico e banale, ove la fragile “carne”
dell’uomo è stretta tra le forze della terra e del cielo, Serra non esita a sottolineare in positivo la
verità parziale della maschera, della formula impropria e convenzionale in cui riesce a mostrarsi
in positivo ciò che non può essere detto. E la sua memoria ritrova i fantasmi della letteratura, la
letteratura essenziale e vertiginosa di quegli scrittori che della guerra avevano parlato con il senso
desolato di una realtà terribile e senza senso, di un vero “irriducibile e elementare”, anche Kipling,
se lo si sa leggere fuori dalle mitologie estrinseche dell’imperialismo».
7
«È lontana; non è più mia. In me non c’è altro che il vuoto. E in fondo al vuoto, il senso di
tensione che viene dai ginocchi irrigiditi e da qualche cosa che s’è fermato nella gola: la stretta delle
mandibole, quando la testa si rovescia indietro a lasciar passare quello che cresce lento dal cuore.
/ Non è niente di straordinario. La mia carne conosce questa stretta improvvisa dell’angoscia,
che sorge dal fondo buio, fra una pausa e l’altra della vita monotona, e l’arresta: così; le gambe
inchiodate alla terra, e tutto l’essere concentrato in uno spasimo di ansia, che tende a una a una le
fibre. / Finché la tensione diventa sospiro; lenta onda che cresce dal petto oppresso e gonfia la gola
salendo su su per tutte le vene; irresistibile onda della vita, che non si può fermare. Se n’era andata,
e ritorna. Tanto più calda e più piena, quanto da più lontano. / Solleva tutto, trasporta tutto con
sé. Anche l’angustia, anche l’angoscia; anche il sospiro che sfugge dalle labbra stanche, e che io
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rabile la massiccia presenza altrui nell’evento tragico che si annuncia, a far vibrare
come pochi altri (e come forse nessuno in Italia) la corda della partecipazione
collettiva, del concetto − in lui importante e decisivo − di «fratelli» e di «gente»,
di una pluralizzazione che unisce lo stesso fondamentale concetto di «gente» alla
realtà, all’ineludibile realtà della guerra alla quale si è comunque arrivati, e alla
quale la gente dovrà comunque partecipare. Finito, in un forte incremento di tensione di fronti contrapposti, il tempo delle discussioni sull’intervento, il pensiero
di Serra ha la scansione della realtà vera, della realtà che coinvolge anche chi era
contrario alla guerra; il concetto serriano, quando si riferisce alla collettività e alla
sua molteplice, screziata sfaccettatura, alla sua mescidata composizione sociale,
alla sua stratificata dinamica di passioni etiche, è proprio per questo un concetto di “gente” tutt’altro che compatto e irreggimentato, tutt’altro che unitario e
sincronizzato in una marcia all’unisono: esercito in marcia lo diventerà, non nascerà necessariamente come tale, mentre di esso acquisirà gradatamente lo status,
come accade nelle situazioni drammatiche, importanti e di comune riscontro. Lo
diventerà dopo pochi chilometri di marcia, al primo mancare di fiato, alla prima
difficoltà comune. Non una «grande proletaria» quindi, ma, in una parola, il vero
concetto di “gente”, una “gente” destinata a trovare un’unità che sarebbe fuor di
luogo cercare come dato valido, come dogma culturale e morale già formato sin
dalla partenza: gente assortita, gente varia, leve di popolo richiamate per coscrizio-
non penso di trattenere. Perché mai lo farei? / Esso è mio. È il mio essere, che non posso cambiare;
e non voglio. / È la parte più oscura e più vera di me stesso» (cfr. SERRA, Esame di coscienza di un
letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit., parr. 86-90, pp. 140-141 [cc. 36r-37r ms]). Si tenga
presente anche la lettera a Giuseppe De Robertis del 14 luglio 1915, pochi giorni prima della
morte del tenente Serra: «In questa vita così piena e affaccendata ci son sempre delle ore vuote:
ci si trova come ora, fermi e quieti sul margine di una buca, voltati indietro a cercare le cose di
ieri, che sembrano così lontane. / Ci si rinuncia, ma non si dimenticano» (Epistolario di Renato
Serra, a cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., p. 598). Riguardo al brano dall’Esame, cfr.
un passo del Commento di BIONDI, p. 236 (par. 86: «tende a una a una le fibre»): «Serra, quando
parli di sé, evoca spesso, pur con religiosa reticenza, oscurità, abissi, zone di tenebra, su cui non è
dato far luce, zone di nessuno, che la ragione non può dire proprie. Dall’oscurità dove immorano
sue radici perenni, l’uomo e la civiltà insorgono alla luce, e periodicamente sprofondano nella
notte. La guerra era una di queste notti, che sarebbe passata, come altre nel passato della stirpe.
Nella saggezza di quest’uomo era il senso dell’alternarsi nell’eternità del tempo delle cose umane
in ininterrotta vicissitudine. Remoti accenti foscoliani vibravano in questa eternità dei corpi che
si trasformano, tornando alla terra, ai cumuli fermi e pietosi. In queste sempiterne agitazioni
del senso, nel moto continuo delle maree, nelle ondate che si sollevano e si rimettono al mare,
era la dinamica naturistica dell’Esame di coscienza. La storia sopraffatta da una geologia degli
eventi». E si noti l’insistenza, davvero non casuale, dell’immagine dell’«onda», da «lenta onda»
a «irresistibile onda della vita», soggetto linguistico e logico dei periodi successivi, dominante
sintattica e semantica che anche nel manoscritto vince su «sospiro» e su «respiro» («il sospiro che
sfugge dalle labbra stanche» è presente nel prosieguo del brano), e che luccica, pur sotto il tratto
di cancellazione, nell’ulteriore occorrenza che ve ne è, sempre nell’autografo, in «gonfia la gola
come un’onda salendo».
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ne militare da condizioni e da basi lavorative diverse, intreccio di classi, promiscuità di spiriti e di caratteri, di abitudini e di protocolli di educazione, e naturalmente
di linguaggi, e proprio per questo senza alcun fremito da passo dell’oca8, ritmo
8
Si può a tal proposito rammentare che è proprio la Germania, con azione di grande impatto
negativo sul piano internazionale, a violare la neutralità del Belgio, il 3 agosto 1914, in una guerra
che ha fra i suoi morti il figlio di Rudyard Kipling, John; Kipling, a sua volta scrittore su cui Serra
si è soffermato nel saggio richiamato all’inizio, un saggio divenuto famoso sebbene non pubblicato
vivente l’autore (esce in due numeri nel 1922 in «Il Convegno», in edizione gravemente scorretta),
è incorso nel giudizio critico di apologia dell’imperialismo coloniale e di razzismo anche grazie a un
esiguo gruppo di versi dell’inno Recessional (Recessional hymn, 1897), che comprende la celebre
allusione alle «razze inferiori senza Legge» («A vanterie come quelle dei Gentili, / O di razze
inferiori senza Legge»)»; se si dà la parola a George Orwell, si constata non soltanto che Kipling
non si riferisce, qui, a popolazioni “colonizzate”, ma che anzi, e al contrario, sin da allora anch’egli
allude ai tedeschi, e in particolare agli scrittori pangermanisti: «Si dà per scontato che le razze
inferiori siano gli indigeni […]. Nel suo contesto il senso del verso è quasi esattamente l’opposto.
La locuzione razze inferiori si riferisce quasi sicuramente ai tedeschi, e in particolare agli scrittori
pangermanisti, che sono senza legge». Tali artisti non riconoscono barriere e limiti all’arbitrio
tedesco. Al posto di un accenno razzista e, per così dire, antiterzomondista, abbiamo una versificata
pronuncia antibarbarica, una pronuncia contraria alla barbarie europea dei violatori di trattati:
un’affermazione d’antigermanesimo, un’affermazione di razzismo capovolto, una critica alla storia
europea (non l’unica, nei testi kiplinghiani), un’invocazione religiosa (inno “recessional” − al
contrario di “processional” − significa che i versi sono intonati da un coro e da una processione che
escono dalla chiesa anziché entrarvi) al legalismo diplomatico contro la sopraffazione militarista
della lettera e dello spirito dei trattati internazionali. L’antigermanesimo annovera tra i propri
militanti anche Kipling. Più tardi, nel 1934, «sempre più convinto dell’avvicinarsi della catastrofe»,
Kipling annoterà: «Ecco gli Unni che si preparano: per il 1936? o per l’anno dopo?»; «Al suo
ritorno in Inghilterra, in marzo, Kipling si batte perché si prendano quelle immediate misure di
protezione antiaerea che verranno effettivamente prese cinque anni dopo»; cfr. LIDIA CONETTI,
Introduzione a RUDYARD KIPLING, Romanzi, Milano, Mondadori, 1993, pp. VI e XXXIX. A
proposito del Kipling di Serra, e altrettanto del Pascoli uscito per la prima volta in «La Romagna»
nel 1909, si veda ora GIULIA MANDRIOLI, Le postille sulle carte di Renato Serra dedicate a Pascoli e a
Kipling, in «Acme − Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di
Milano», LXV (settembre-dicembre 2012), 3, pp. 265-279. Riferendosi, invece, al così denominato
filogermanesimo di Croce, si rileggano le parole del filosofo riguardo all’effetto di conforto, al
senso di alto rasserenamento procurato all’intellettuale dalla rinnovata fruizione delle opere di
Goethe, in particolare dalla lettura delle liriche; nello stesso tempo, rimane ferma e recisa la
condanna dei comportamenti militari tedeschi e della loro ferocia; e la condanna, dialetticamente
collegata alla relativa esigenza di conforto proprio mediante le parole di un poeta di lingua tedesca,
attraversa con immutata dedica la vicenda del Novecento fra le due guerre mondiali, partendo
dalla prima, con un lavoro pubblicato nel 1918, e quindi databile almeno all’anno antecedente, in
epoca vicinissima al ’15 di Serra e del tutto coeva alle annotazioni diaristiche della “guerra di
Panzini”, con approdo al secondo conflitto, in data 21 ottobre 1944: «Rileggendo dunque, in cupi
giorni della guerra mondiale, le opere del Goethe, ne trassi lenimento e rasserenamento, quale
forse da nessun altro poeta in pari misura […] (Torino, aprile 1918)». «Le opere del Goethe mi
furono conforto nell’ultimo anno della prima guerra mondiale; me ne porsero di nuovo nel più
triste tempo del regime di oppressione e di vergogna in cui l’Italia era caduta, quando già si
presentiva la guerra alla quale sarebbe stata trascinata, così diversa dalla precedente che fu per la
libertà europea, e quando vieppiù si stringeva il pactum sceleris tra i due regimi e i loro due capi.
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inquietante, quest’ultimo, che semmai apparterrà alla cultura politico-militare tedesca, grande e ossessivo bersaglio di demonizzazione culturale e antropologica
da parte di Panzini, e, si può dire, appartiene anche a quella austriaca, inevitabile
avversaria di un Serra fiancheggiatore dell’irredentismo di Battisti9: le reazioni −
Questi “terzi” saggi mi hanno procurato alcune ore di svago e di sollievo nella tesa angoscia da cui
l’animo è preso allo spettacolo della ferocia devastatrice tedesca, che si è rivolta ora sull’Italia con
stragi, torture, deportazioni d’italiani, rapine dei frutti del nostro lavoro, con le metodiche
distruzioni delle nostre culture agricole e dei nostri impianti industriali per toglierci forze di vita
nell’avvenire; e coi bruciamenti di archivî e biblioteche, gli abbattimenti di monumenti, le
dispersioni e trafugamenti di opere dell’arte, per cancellare altresì le testimonianze del passato
nostro glorioso e avvilirci moralmente. “Come hai il cuore (mi dice qualche amico), in questi tempi
e avendo innanzi agli occhi il corso che ancora dura di questi fatti, di leggere e amare un poeta che
canta in lingua tedesca?”. E io rispondo che, appunto perché non ho il cuore degli odierni barbari,
rispetto e amo gli uomini di genio che nacquero in mezzo a quel popolo o in qualsiasi altro popolo;
e quanto alla lingua, soggiungo, per paradossale che il detto possa suonare, che la lingua in cui
sono scritte le opere del Goethe non è tedesca, ma è la lingua di Volfango Goethe. Non mai come
in questa occasione ho veduto rifulgere in me la spesso disconosciuta verità di filosofia del
linguaggio: che la parola è creazione sempre nuova e propria della personalità del parlante. Nel
leggere le pagine del Goethe, sentivo la sua parola tutt’una con l’anima di lui; e lui, con la sua larga
umanità, unicamente mi stava davanti nella bellezza delle immagini, nel battito degli accenti,
nell’incanto degli svariatissimi ritmi del suo poetare (Sorrento, 21 ottobre 1944)»: cfr. BENEDETTO
CROCE, Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, 2 tt., Bari, Laterza, 1946 (IV ed.
ampliata), t. 1, rispettiv. pp. VII e X-XI; ma la dedica era pur sempre rivolta «All’amico ARTURO
FARINELLI in ricordo dell’inverno torinese MCMXVII-XVIII»; e dalla primitiva data («aprile
MCMXVIII») fu mantenuta invariata. Concetti significativi sul piano del rapporto fra cultura
storica e vicenda politica scaturiscono anche dalle opere storiche di Croce; citiamo qualche passo
da BENEDETTO CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, II ed., Bari, Laterza, 1928: «Mi sono arrestato
al 1915, all’entrata dell’Italia nella guerra mondiale, perché il periodo che si apre con questa, per
ciò stesso che è ancora aperto, non è di competenza dello storico, ma del politico. Né io vorrò mai
confondere e contaminare l’indagine storica con la polemica politica, la quale si fa, e si deve
certamente fare, ma in altro luogo» (Avvertenza, p. VIII − Napoli, novembre 1927); «bisogna
criticare e rifiutare il concetto stesso delle “missioni speciali”, delle quali i popoli dovrebbero
caricarsi. In effetto i popoli, non diversamente dalle persone singole, non hanno altra missione se
non quella di vivere umanamente, cioè idealisticamente la vita, operando secondo le materie e le
occasioni che loro si offrono e riportando di continuo lo sguardo dalla terra al cielo e dal cielo alla
terra» (p. 4). Non meno rilevanti sono i concetti che si evincono dall’Epilogo della Storia d’Europa
nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1931, p. 346: «L’attivismo si dispiega irruente come prima e
anzi con maggiore veemenza; gli impeti nazionalistici scuotono i popoli vincitori perché vincitori e
i vinti perché vinti; i nuovi stati, che sono sorti, aggiungono nuovi nazionalismi e imperialismi;
l’impazienza per gli ordini liberi ha dato luce a dittature aperte o larvate, e, per ogni dove, a
desiderî di dittature» (e il «libertarismo attivistico […] sogna più di prima guerre e rivoluzioni e
distruzioni»). Sul rapporto fra Croce e Serra cfr. il recente Polemica sulla storia. Benedetto Croce
− Renato Serra, a cura di BENEDETTO MUSCIONE, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012.
Imprescindibile, ora, RENATO SERRA, Scritti filosofici, Edizione Nazionale degli Scritti di Renato
Serra, VII, a cura di JONATHAN SISCO, Bologna, Il Mulino, 2011.
9
Sull’interventismo di Serra, si ricordino i concetti di Biondi: La conferenza Battisti, in BIONDI,
Serra a Teatro. Commemorazioni e discorsi nel Comunale di Cesena (1912-1915), cit., pp. 181-185:
«Un testo che ci dà senza alcuna ambiguità, ambiguità che si riscontrano in testi successivi o coevi,
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compreso l’Esame di coscienza di un letterato, che viaggia parallelo quanto a tempi di stesura, il
profilo del Serra interventista, su basi di un condiviso irredentismo, e di una chiamata alle armi che
ha un sapore di risorgimento ritrovato alla luce di una patria, la cui unità territoriale e politica deve
essere ancora compiuta» (p. 182). Più sotto Biondi parla di «un’ora pura e concentrata dello spirito
di ciascuno»; si veda ancora l’allusione al timbro di eccezionalità e di urgenza della situazione, nel
segno dell’esigenza d’una battaglia di civiltà, di una difesa di quelle coordinate della cultura latina
che in quel periodo (gennaio 1915) erano sostenute soltanto dalla Francia, alla quale, nella visione di
Serra, l’Italia deve sentirsi fortemente chiamata ad allearsi, combattendo fianco a fianco con il paese
latino a noi congiunto da affinità culturale di lunghissima data. È il senso dell’attesa, la protratta
percezione di un’atmosfera spirituale di emergenza, di ansiosa sospensione, di un gorgoglio
di sentimenti che fremono implosi e frustrati e insieme incalzati dal tempo, quello che si coglie
dall’inevitabile parallelo tra l’Esame di coscienza e La conferenza Battisti (pp. 183-184); è sufficiente
qualche esempio: «Ci può essere qualcosa di più da fare che non esercizio di indulgenza e di ironia»
(Conferenza Battisti, d’ora innanzi CB) / «quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione» (Esame
di coscienza di un letterato; d’ora innanzi EC); «l’angustia di oggi può essere il pericolo di domani»
(CB) / «la debolezza di oggi può essere la virtù di domani» (EC); «il deputato di Trento esule in
mezzo a noi» (CB) / «Anche gli esuli che aspettano la fine come il compimento della profezia» (EC);
così, il riferimento ai futuri “fratelli” in armi, in tal senso ripresa di un concetto e di una caratteristica
spirituale propri di Serra nell’appercezione della pluralità, della collettività, della fondamentale e
acuta intuizione dell’idea di “gente” come vero singolare collettivo, come componente della storia
nello spazio geografico e nel tempo degli avvenimenti, giunge a comprendere, come si è detto, il
coinvolgimento dei riluttanti, dei contrari, di quei recalcitranti ai quali, certo, la nostra sensibilità
culturale, ulteriormente maturata ai drammi del Novecento, avrebbe riservato maggiore e più
articolata attenzione. Nel contesto dell’interventismo agli inizi del 1915, tuttavia, quella che appare
come un’onda di ineluttabile fatalità storico-patriottica, veicolata dalla storia e dalla tradizione di un
Risorgimento incompiuto e delle sue inesaudite attese, si manifesta capace di portare con sé anche
i compagni di sorte di un mondo che in ogni caso perfetto non può essere, né venire comunque
concepito: «c’è qualcosa in ogni uomo, sia pur debole e dappoco, che è pronto a rispondere in certi
momenti al richiamo sacro del dovere e del sacrificio» (CB) / «Fratelli? Sì, certo. Non importa se
ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che
non è perfetto» (EC); davvero La conferenza Battisti «è solo un anticipo, un avamposto pubblico
dell’interventismo di Serra. Poi verrà l’Esame e dopo il Diario di trincea. Dalle parole al silenzio».
E sino al 19 luglio, fatalmente ultimo giorno del Diario, e all’ultima pagina del Diario stesso,
ritorna, immancabile, dopo lo «Scoramento» per la riconquista austriaca di una trincea, il sintagma
esistenziale − di lunga data nella sensibilità culturale di Serra − dell’«esame di coscienza»: «Che
cosa resterà da fare a me? Esame di coscienza; triste» (SERRA, Esame di coscienza di un letterato.
Carte Rolland. Diario di trincea, cit., p. 327). È la penultima annotazione del Diario, prima del «Si
fa sera, tra le nuvole e la luna fresca»; quel richiamo, in mezzo alle «bombe» reali e in esplosione,
esplicitamente lemmatizzate un rigo sopra, con la chiusa di «triste» anziché di «contento, oggi»,
segna la fine di un’esistenza e della sua guerra, all’opposto del testo di due mesi e mezzo prima, che
segnava invece l’inizio della sua guerra, e anche l’inizio della vita, nella pensosa gioventù di Serra.
Quell’«esame di coscienza» è una sorta di autotumulazione in fieri di un’anima incredibilmente
moderna. Era questione di minuti. Si ricordi, in ogni caso, sul piano dell’interventismo, il
banchetto Battisti di Milano, rievocato da Panzini il 20 aprile del 1915 (pp. 133-136); un’occasione
che coinvolge tutti i commensali, compreso Alfredo: «Fu una serata eroica, semplice: molto
ordine: lieta sotto un presentimento di tempesta. V’era dell’agape cristiana dei primi tempi; v’era
ciò che non saprei dire dove e in che cosa risieda: l’Italia!» (p. 134). E ancora (ibidem), si veda
questa interessante annotazione, veramente ghiotta sul piano geolinguistico: «Triestini e trentini
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per noi, a dir poco, “comprensibili” − dei riluttanti, dei contrari, dei mugugnanti,
dei polemici, degli “amaramente ironici”, non ostano affatto alla connotazione di
esercito e di combattenti per la patria; essi, anzi, ne sono la componente costitutiva, l’indispensabile struttura formativa; l’esercito, e i combattenti, sostanziano in
Serra un’irrevocabilità di destino non nel senso d’un “superamento” della composizione assortita, delle differenze di partenza e di motivazioni, bensì in un senso
che manifestamente si avvale e si avvantaggia della propria involontaria, poiché
coscritta, ricchezza di caratteristiche umane, della propria varietà, della propria
indole umana, e oserei dire “demografica”, composita e multiforme10. In questa
furono sublimi. Strani accenti! Strano il suono stesso delle parole! L’accento italico pareva venir
da lontano, come dominato da infiltrazioni tedesche, come umiliato dalla servitù. Ora prorompeva
indomito». L’accento serriano, al di là della stessa Conferenza Battisti di Cesena, avvolge di fatalità
e d’ineluttabilità anche la fine del banchetto milanese quale traspare nella sensibilità di Panzini:
«sono uscito dal banchetto con la testa bassa senza poter dire parola. V’è qualcosa di ineluttabile!
E anche se la guerra all’Austria è un errore, come dice Maraini, tutta la storia d’Italia vi sospinge».
Cfr. anche FABRIZIO RASERA, Battisti oratore dell’intervento, in In trincea. Gli scrittori della Grande
Guerra. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze, 22-24 ottobre 2015, a cura di SIMONE
MAGHERINI, Firenze, Società Editrice Fiorentina (Università degli Studi di Firenze. Dipartimento
di Lettere e Filosofia [«Biblioteca Palazzeschi», 16]), 2017, pp. 97-114. E, a proposito di Cesare
Battisti storico e geografo significativo dei propri luoghi, e geolinguista, sullo sfondo di un’intensa
elaborazione intellettuale che coniuga le matrici risorgimentali con l’ideologia socialista, cfr.
ultimamente LEONARDO ROMBAI, La formazione e l’opera di apostolato socialista e i loro riflessi
sullo studio del territorio, in ID., Cesare Battisti (1875-1916), geografo innovatore, Firenze, Phasar
(«Studi di geografia applicata» − Labgeo, 08/2016), 2016, pp. 57-69. Sulla Grande Guerra, sulla
sua ampia e complessa interazione con la letteratura, con la storiografia, con la memorialistica,
con la diaristica, si vedano inoltre i dati documentarî e bibliografici e le considerazioni che
scaturiscono da MARINO BIONDI, Tempi di uccidere. La Grande Guerra. Letteratura e storiografia,
Arezzo, Helicon, 2015, e da In trincea. Gli scrittori della Grande Guerra, a cura di MAGHERINI, cit.;
su Serra cfr., in particolare, FRANCO CONTORBIA, Renato Serra e l’“uomo rosso”: ultime lettere dal
fronte, pp. 151-160. Vari riferimenti alla Prima guerra mondiale vi sono anche in Raccontare la
guerra. I conflitti bellici e la modernità, a cura di NICOLA TURI, Firenze, Firenze University Press,
2017. E cfr. pure l’opera collettiva Rappresentazione e memoria. La “quarta” guerra d’indipendenza,
a cura di CLAUDIO GIGANTE, Firenze, Cesati («Resoconti di Letteratura Italiana», 13), 2017; in essa,
cfr. in specie l’Introduzione del curatore CLAUDIO GIGANTE (Gli anni che non capimmo, pp. 9-16)
e il contributo di SIMONA COSTA, Per un’epica del sacrificio: d’Annunzio e il «tempus moriendi», pp.
39-49; un tempus moriendi che quasi sembra agire da pendant ai «tempi di uccidere», speculare
rovesciamento necroforo d’individuazione dell’essenza della guerra, a pregressa eco flaianea.
10
“Gente”, ancora, non «massa», non pecus; anzi, l’opposto di massa: non si tratta davvero
della «grande proletaria»; si tratta invece di una ricchezza di amalgama d’umanità fondata sul
dramma, di una collettività, come si è accennato, varia, rabbiosa, imprecante, e proprio mentre
impreca, e proprio per questo motivo, intimamente solidale, complice; se gli oppressi, come qui
avviene (non gli oppressori, per la contradizion che no ’l consente), imprecano in coro, si possono
persino ipotizzare prospettive di vittoria, come avviene nel caso della soldatesca romagnola,
sanguigna, realista e concreta − sia detto ben al di là degli stereotipi −, che si rivela, certo a fatica
e soltanto cammin facendo, una buona soldatesca non si dica “nonostante” quelle caratteristiche,
ma anzi una buona soldatesca peculiarmente in virtù di quei tratti connotativi. Quanto al rapporto
con successive mitografie, qui valido, s’intende, solo per Alfredo Panzini, anche in relazione
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con altri intellettuali e letterati romagnoli di non lieve coinvolgimento nel fascismo e nella sua
ufficialità, cfr. BIONDI, La tradizione della città. Cultura e storia a Cesena e in Romagna nell’Otto e
Novecento, cit., p. 251, che sottolinea l’indole in gran prevalenza “difensiva”, “astensiva”, piccolorurale e quietistico-borghese dell’adesione di Panzini al regime: «Agisce in lui, nella sua inquieta
euristica della romagnolità, seppure in un’estrema propaggine di timidezza storica e di costretta
viltà, la lezione di Serra, fastidito dai miti, assai prima che essi potessero diventare strumento di
un potere tirannico, consapevole della loro inconsistenza, effimeri e, per dirla con Gadda, sparenti
al “primo acquazzone della verità”»; e ancora, a p. 252: «Panzini la grande proletaria la vuole
quieta e domata, là nel podere. La Grande Guerra lo tormenta come prima scossa di uno sciame
sismico che abbatterà la vecchia Europa. Chissà se il prudente Panzini, un tipo da piede in casa
e nemico delle smargiassate, dei passi più lunghi della gamba, non presentisse oscuramente che
nella retorica del duce e della sua rissosa politica estera (altro che pax romana) si annidasse un
presagio di rovina e di morte. Egli avrebbe voluto un fascismo rurale, garante di un’Italia e di
una Romagna dalle terre ben arate, un paese agrario, artigiano, laborioso, con ciascuno al suo
posto, il contadino nell’aia, il professore in cattedra, l’autorità nei suoi scranni autorevoli. Niente
di meno, ma anche niente di più». E più sotto (p. 255), rispetto ad Oriani ed a Beltramelli e alle
loro incarnazioni di mitografie fasciste, Biondi rileva: «Panzini ha un ruolo più defilato e in lui
ironia e nevrosi impiegatizia frenano sullo scivolo delle metamorfosi mitiche». Si ricordi che, il
10 novembre 1914, Panzini, commentando una notizia apparsa sul Corriere della Sera del giorno
prima sulla riunione dei socialisti al Teatro del Popolo a Milano, coglie precocemente il fremito
nazionalistico di un Mussolini ancora per poco socialista, ma in tal senso già distintosi come
oratore che nel generale orientamento neutralista rivendica un ruolo di grande nazione per l’Italia
(DSG, 73): «V’è però nel discorso di Mussolini, uno degli oratori, un pensiero: la preoccupazione
per l’Italia! Egli parlò anche di autocandidatura dell’Italia a grande nazione. / Senza ironia! Sarebbe
desiderabile che il popolo d’Italia ponesse la sua candidatura a nazione! Necessario è dignità di
nazione. Non necessario grande nazione!». Non manca davvero di significato la finale precisazione
sulla differenza tra «dignità» di nazione e una ipotizzata “grandezza” che costituisce, in realtà,
una lievitazione nazionalistica aggiunta dalla volontà. Imprescindibili le pagine di Isnenghi in Il
luogo dei luoghi: la Romagna (par. di ISNENGHI, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal
1848 ai giorni nostri, cit., pp. 163-168, in part. pp. 164-165): «Dello stesso 1921 [di Uomini rossi
di Antonio Beltramelli] è la prima uscita di uno dei molti libri di successo di un altro anche più
affermato autore romagnolo, il perplesso e trepido conservatore Alfredo Panzini: Il padrone sono
me. Ma il Panzini − che è un inorridito e querulo annotatore dei mali della vita moderna − è da
tempo costernato da quella strana e brulicante umanità sovversiva che agita, in particolare, le piazze
cittadine e rustiche della sua terra clamorosa: come si può vedere, già nel 1909, con il romanzo
La lanterna di Diogene, e di nuovo nel 1925 con La pulcella senza pulcellaggio. / Dopo Oriani − di
Faenza − e Serra − di Cesena −, ecco Beltramelli di Forlì, Panzini di Bellaria, mentre per Bacchelli
basta spostarsi a Bologna. Negli ultimi tre − prossimi accademici d’Italia e anche in ciò riconosciuti
e rimunerati di un loro ruolo sociale nel trapasso dall’Italia liberale all’Italia nazionalfascista −
campeggiano gli ardori e la mitologia della Romagna e dell’“uomo romagnolo”: una cronaca e
una storia che hanno tutta l’aria di presentarsi non solo come parodia o trascrizione agrodolce
di vicende e personaggi irrimediabilmente locali, ma come esercizio critico nel laboratorio
privilegiato dell’italiano popolare. Si può leggere questa letteratura della Romagna come una
forma di antropologia elementare − proposta di lettura e, insieme, rappresentazione critica −
maturata non senza ragione nell’area campione in cui meglio si evidenziano le forme di socialità e
di educazione politica che accompagnano, fra Otto e Novecento, la democratizzazione del paese
e l’entrata in scena del popolo. Questo incredulo contrappunto narrativo, scaturito dall’interno
stesso del mondo deriso, arma di stereotipi rispetto agli eccessi della piazza due generazioni di
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contraddittoria abbondanza di componenti umane, spirituali e sociali consiste, in
definitiva, il concetto di “patria” di Serra: una concezione non smentita, ma addirittura geneticamente veicolata da questa serie di voci, da questa plurivocità;
diciamo da una generale espressione plurivoca11:
lettori». Più sotto (p. 165), Panzini è definito «meno pugnace e più professorale conterraneo» del
Beltramelli autore del ciclo di romanzi intitolato Carnevale delle democrazie. Dei tre romanzi sopra
citati di Panzini, Il padrone sono me, La lanterna di Diogene e La pulcella senza pulcellaggio, cfr.
ora le seguenti ristampe: Il padrone sono me, Bellaria Igea Marina, Accademia Panziniana, Viserba
di Rimini, tip. Garattoni, 2014, tratta dall’edizione di Milano, Mondadori, 1922; La lanterna di
Diogene, Bellaria Igea Marina, Accademia Panziniana, 2013, tratto da Sei romanzi fra due secoli,
Milano, Mondadori («Omnibus»), 1939; La pulcella senza pulcellaggio, Milano, Mondadori, 2013,
tratto da «I libri azzurri», Milano, Mondadori, 1926.
11
Cfr. SERRA, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit., parr.
104-108, pp. 144-145 (e cfr., con le relative varianti rispetto a quello che sarà il testo a stampa,
cc. 44r-46r ms). Si veda qui il concetto, sul quale ritorneremo, di «branco», ivi, par. 47, p. 135:
«Di quali problemi si può accorgere l’egoismo, che è la forza sola e la ragion di essere che ha
sostenuto e mantenuto attraverso il tempo, al di fuori del tempo, la vitalità del branco, attaccato
alla sua terra, alle sue cupidigie, al suo lavoro e al suo dolore, oggi come tremila anni fa; come
sempre, fin che ci saranno viventi sotto il sole», quasi un foscoliano «finché il Sole / risplenderà
su le sciagure umane»; il senso della fraterna collettività, in Serra, è nella netta distinzione fra
«branco», «massa», «gregge» (se proprio vogliamo aggiungere il termine) e il concetto, a cui si
giunge, di “gente”, di “popolo”, un concetto ben differente; un popolo nella sua ricchezza di
voci, nella sua assortita polifonia di variegate, miscelate, colorite contraddizioni, che non soltanto
non ne menomano l’essenza, ma che anzi ne costituiscono, e ne rinforzano, il basilare protocollo
identitario. Un popolo tutto compatto, invece, costituirebbe un’armata preparata da tempo per
essere tale; si tratta di armate che alla fine, o prima ancora, perdono le guerre da loro stesse
suscitate; un popolo assortito, in gran parte riluttante, non eroico, non imbevuto di mitografie
e dei loro precipitati − o da esse immunizzato proprio grazie alla paura −, ha delle possibilità in
più. Un’armata di partenza antieroica, come è in fondo quella di cui Serra è consapevole, scopre
e invera i propri imprevedibili, spesso involontari e talvolta casuali eroi nella graduale lunghezza
del decorso storico. Gli antieroi, come può succedere − non sfugga − anche in La grande guerra
di Monicelli, possono, strategicamente, a lungo termine, qual che sia il conflitto di cui si tratta e
in questo caso al di là della tempistica dello stesso film, vincere al di là del loro stesso desiderio, o
del loro ben diverso progetto iniziale di sopravvivenza, di individuale sussistenza. Il «tumulto di
favelle», insomma, può sconfiggere il passo dell’oca. L’appuntamento col destino, così importante
e così costitutivo della riflessione e della testualità del Serra 1914-1915, non ha assolutamente nulla
a che fare con le “ore fatali” dell’Italia a venire, con il congiunto, e certo drammatico, harakiri
delle armate a passo dell’oca e delle armate Brancaleone. Si veda, anche in ultimo, nel Diario di
trincea (ivi, p. 317), l’acquisizione progressiva di una spinta di destino collettivo − ancora una volta
−, di una “pressione” che travalica l’individualità del singolo, di un movimento ereditato dagli
svolgimenti generali, dal contesto e dagli eventi, che sospinge la pluralità dei soldati: «I nostri che
avanzano − Presto Podgora sarà presa a rovescio − Comincio a capire come si troverà la voglia e
la forza di andare all’assalto; è un cerchio che si stringe, irresistibilmente. Ci troveremo anche noi
a far parte dell’ondata che sale − Partecipo ancora al brontolare e allo scontento − legittimo − dei
miei vicini; ma capisco che a un certo momento saremo portati via tutti. Non penso a me: non mi
faccio ancora il caso mio personale, il problema del mio morire». Basti riflettere su queste due
frasi decisive: «è un cerchio che si stringe, irresistibilmente. Ci troveremo anche noi a far parte
dell’ondata che sale».
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Tanto, quello che conta non è la parola; è l’occhiata di complicità che ci scambiamo e che ci unisce, anche su rive opposte e con animo diverso, gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone,
quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come
saremo nell’andare, domani. / Fratelli?12 Sì, certo. Non importa se ce n’è dei
riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo
mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso istintivo, nell’incontrarmi –
sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle
pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro –; quelli che mi stendon la
mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di me i loro
occhi un po’ turbati con un senso di improvvisa fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri… Guida da poco: ma io
andavo avanti, e loro dietro. Così si farebbe ancora. L’uomo non ha bisogno
di molto per sentirsi sicuro. / Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli,
quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene. / Mi contento
di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento
della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti ugualmente: e
sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i
primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a
goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si
abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è
così naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato
o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c’è tante cose da
fare; anzi una sola, fra tutte. / Andare insieme. Uno dopo l’altro […]. Così,
marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di
uomini, che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra,
dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo,
che le frasi diventano inutili.
Serra è sempre stato attraversato da questo senso della collettività, dai drammi che
le si possono accompagnare, ma anche dal suo fascino; e, benché in un contesto
di scrittura palesemente diverso, e in una fase ben precedente della sua evoluzione intellettuale e letteraria, il suo Kipling (citato qui sopra, all’inizio del testo), in
pratica l’esordio critico − sebbene criptato sul piano dell’immediata pubblicazione − già mostra in ampia misura la seduzione operata su Renato dalla coscienza
12
Sul concetto di «fratelli», già da noi notato, cfr. il richiamo mazziniano presente nel
Commento al testo dell’Esame, cit., par. 105, p. 241, sulla base di un’indicazione di Delio Cantimori
(cfr. ID., Appunti sulla cultura politica in Romagna fra i due secoli, in Scritti in onore di Renato Serra
per il cinquantenario della morte [1965], Firenze, Le Monnier, 1974, pp. 306-314): «fede, dovere,
fede, dovere, Italia, patria… Non li hanno insegnati né domineddio, né il cristianesimo, nè i preti;
è Mazzini, badate, proprio Mazzini».
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della composizione molteplice dei popoli e delle nazioni: la «fiumana immensa»;
«il brulichio, i richiami, le cinture che s’affibbiano e i buoi stimolati, il cigolio delle
ruote, i fuochi accesi, le marmitte in bollore […]. La nebbia del mattino sfumò in
colonne inargentate, i pappagalli, volo di frecce di smeraldo, sfilarono strillando
verso un’acqua lontana; tutte le ruote dei pozzi si misero al lavoro»; si aggiunga il
seguente brano (Kipling, p. 22):
gli dèi, la morale le usanze; la favella e la legge; vedere il portato di tanti secoli
di storia, di tradizione, di civiltà disparate, confluire nello stesso punto, e urtarsi con tumulto di torrenti che s’incrociano; vedere, e tirar le conseguenze
di questa gran lezione, non in ragionamento e teoria, ma in sapienza pratica,
in abito del corpo e disposizion della mente pronta a giudicare e a operare,
come l’arco già teso è pronto allo scatto.
In specie nel secondo brano, il risveglio dell’India che colpisce lo sguardo di Kim,
sguardo ammirato e avido di apprendere, è rivissuto − lontano, è ovvio, da ogni
chiave di dramma − con intensa partecipazione in senso positivo, operoso, dinamicamente mattinale; ma qui conta la serie di plurali, di moltiplicazioni di soggetti
e di visioni, di inquadrature, di sensazioni sonore oltre che visive, di panoramiche
di persone e di oggetti, di fervore incipitario di lavori collettivi: «il brulichio», «i
richiami», «le cinture», «le ruote», e così «i fuochi», «le marmitte», persino «le
colonne inargentate» della nebbia svaporante, e «i pappagalli», mantenuti al plurale come «volo di frecce di smeraldo», sono gli elementi di questo passo di prosa
kiplinghiana che affascinano e che colpiscono Serra. Le immagini della partenza
dei soldati per la Libia e le relative riflessioni, come, su differente piano e con ben
maggiore coinvolgimento, l’imminente mobilitazione operativa che accende l’Esame di coscienza di un letterato, sono certamente una serie di istantanee a sfondo di
guerra, e quasi un film in bianco e nero inevitabilmente privo, appunto, del diletto
policromo, della vivacità multicolore e variamente germinante del brano da Kim;
ma vi è l’elemento di reciproco richiamo, la componente che riesce ad accomunare
in modo “trasversale” dei testi così diversi, compresa l’apertura critica sullo scintillante mattino indiano d’un Kipling venuto a rinfrescare di nuova aria e di colores il
professionismo tecnico degli studi codicologici fiorentini (e della scia della tesi bolognese sui Trionfi petrarcheschi), ed è l’elemento costituito dalla visione al plurale,
dalla visione collettiva di molti fenomeni della vita naturale, e soprattutto della vita
sociale, più che mai compresi gli eventi di rilevanza storica. Il rielaboratore, l’interiorizzatore Serra, il solitario “letterato” che ha sino a quel momento attraversato
la propria vita incarnando molte delle connotazioni che formano la figura d’un
intellettuale individualista e d’un appartato cultore della “religione delle lettere”
nella discrezione reticente dell’umanesimo di provincia, riesce in realtà con grande efficacia, e senza autentica contraddizione con l’ovattato silenzio bibliotecario,
malatestiano, a rendere il senso delle ansie, dei sentimenti, dei drammi collettivi.
È proprio in questo senso che l’individualità serriana, e il rilievo s’estende poten28
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zialmente, appunto, all’“individualità collettiva”, si arrende con consapevolezza
affidandosi a quella che si configura come una già segnata sorte storica. E un intero
anno di drammi e di discussioni, di paure reali e di vociferanti pronunce ed esternazioni ideologiche, propagandistiche, giornalistiche, e ovviamente anche private,
personali, familiari (se ne veda l’esempio nella famiglia Panzini), si compendia e
si filtra all’aureo, peculiare, irripetibile vaglio del linguaggio serriano dell’Esame13:
All’Esame si riporta tutto il flusso psicologico-emozionale, ideologico, controversistico, di un anno di storia italiana ed europea, compresa la storia di
chi scrive, del testimone operativo e trasformativo di quel linguaggio, essendo
stato anche un interventista con pubbliche responsabilità sulla piazza di Cesena. Il testo riceve tutta questa vicenda di ardori e di scontri, questa ridda di
voci, e li raffredda, al vaglio di una coscienza, che non lascia filtrare nessuna
risonanza esteriore. Il patriottismo è solo dovere da compiere, corrispondere
lealmente a una presenza su una porzione di terra che è sempre quella di sempre. L’Esame pertanto, con la sua tecnica espressiva reticente e negatoria, restituisce un quadro dell’Italia che ha una sua duratura efficacia documentale.
Non c’è circostanza seria o tragica che non insceni un teatro di epocali vanità, un’oceanica deriva di chiacchiere (‘chiacchere’). Il linguaggio dell’Esame
13
Cfr. BIONDI, Commento al par. 43 del testo critico, cit., p. 228. Pur nella diversità di registro
scrittorio e di “genere” espressivo, e naturalmente di drammatico contesto bellico operativo, le
lettere dal fronte recano anch’esse l’inconfondibile protocollo mentale e testuale della parola
serriana; nella missiva indirizzata ad Ambrosini del 14 giugno del 1915, già da noi ricordata (cfr.
RAIMONDI, L’intellettuale solitario, cit., p. 297), è lo stesso “secondo racconto”, quello ufficioso,
apparente incremento, o correzione e rettifica, o addirittura demistificazione della realtà ufficiale,
il preteso “disvelamento” del palinsesto storico e storiografico accreditato, a dimostrarsi a sua volta
falso e ricostruito, non meno arbitrario, benché più interessante, di altre tipologie di esposizione
dei fatti, da quelle più sostenute e apologetico-istituzionali alla cifra di oleografia cronachistica,
contemporanea, di certi resoconti giornalistici. Si veda questo passo: «anche queste impressioni
di retroscena, che si potrebbero raccogliere in mezzo alle truppe, registrando tutto quel che si
dice sottovoce dai soldati e dagli ufficiali stessi, fotografando tutte le scene da cui la cronaca e
la storia son solite di torcere gli occhi, come per un tacito accordo, formano alla fine un quadro
che è altrettanto falso e arbitrario, come gli idilli dei corrispondenti del Giornale d’Italia. Prima
di tutto, nessuno di quelli che partecipano veramente ai fatti è in grado di raccontarli: io ho
paragonato cento volte, anche in questi giorni, i racconti e i discorsi che i primi ufficiali feriti,
tornati dal fronte, fanno a un circolo di profani, per es., e poi, cinque minuti dopo a me solo, o
a un gruppetto di colleghi, in un angolo dove nessuno ci sente: anche il secondo resoconto, per
quanto più interessante, è insufficiente come il primo, obbedisce a certi obblighi e a certe abitudini
tradizionali, affettazione di scetticismo, di indipendenza critica, di pessimismo da una parte −
oppure di bravata e vanità di corpo etc., che non hanno niente in comune con la semplicità confusa
e calda del fatto. Direi quasi che c’è un istinto più prossimo alla realtà in quell’altra specie di
convenzione, che si va formando come per tacito accordo universale in questi giorni, di mascherare
anche le cose che abbiamo sotto gli occhi con delle frasi di ammirazione e di compiacimento
generico: non pretendiamo di illuderci, ma provvisoriamente sentiamo di potercene contentare».
Si noti pure il finale («potercene contentare»), che richiama un verbo chiave di Serra, non a caso
presente nell’espressione conclusiva dell’Esame: «Io sono contento, oggi».
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come una dogana sintattica e di senso compiuto funge da barriera al convulso
periodare dei giornali, filtra i messaggi delle opinioni, i contrasti clamorosi
delle ideologie e delle caratterialità ideologiche e comportamentali, questa
indiavolata congerie di commenti e certami, espurgandoli. Rastrema anche le
parole di Serra, le asciuga, cercando una secca, indivisibile, irriducibile meta.
Cfr. anche la lettera del 20 marzo 1915 di Serra a Giuseppe De Robertis14; da tale
missiva (scritta nella data “ufficiale” dell’inizio di stesura dell’Esame di coscienza,
del cui manoscritto Renato annuncia a De Robertis una possibile spedizione per
il venturo martedì) scaturisce una serie di segmenti testuali che appaiono da situarsi fra i più perspicui, e trasparentemente confessorî dell’intera opera di Serra
sul proprio atteggiamento umano e culturale, sul ruolo della sua personalità nello
scorrere dei giorni dell’esistenza, sull’accorta esibizione della propria mascheraschermatura, della propria cifra di letterato defilato, di flâneur provinciale apparentemente smagato e inoperoso, inconcludente, dispersore di se stesso in uno
spleen di familiare foschia urbana, e involuto nella mitografia rassicurante di un
felpato alibi umanistico. Risulta chiaro (e risultò chiaro, già da allora − oltre che
a De Robertis − a Prezzolini, a Papini, allo stesso Soffici) che Serra in realtà, e
ben al di là delle schermature e spesso ponendosi riguardo ad esse in un complesso rapporto, racchiude in sé, non senza implosa sofferenza e lotta interiore,
molto di più, e molto più interesse, molta più meditazione e molto più coinvolgimento riguardo al contesto culturale e civile che lo attornia; “di più” significa
l’adozione d’una strategia, qui non soltanto umana ma anche propriamente critica e scrittoria, che nel cogliere con apparente nonchalance gli aspetti sostenibili
di un autore (spesso pochi) e nell’indicarne senza fremiti stroncatorî o invettivi
le contraddizioni o i difetti di scrittura e di stile, o addirittura i limiti nell’ispirazione, rende un raffinato e quindi non immediato servigio all’autore entrato
nel cono di luce e d’ombra della sua lettura e della sua scrittura: un servigio che
consiste nell’esonero da scritti o da manifestazioni di banale gratitudine, e che
lascia invece, passim, qua e là nella testualità studiata, lievi e sottili feritine, non
dimenticabili bruciature, piccoli tagli affilati da coltellino svizzero d’eccezionale
lettore europeo di provincia; e la provincia è in Serra l’imprescindibile tessera
per l’Europa15, la condicio sine qua non, cesenate per necessità e non certo per
In Epistolario di Renato Serra, a cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., pp. 546-557
(qui, in particolare, pp. 550-555).
15
Coscienza di una dimora e senso di luogo d’affetti, matrice ctonia di felpata eresia, sede
infine di percepibili movimenti di storicità, è esattamente la provincia a costruire lo spazio di vita
non soltanto in accezione biografica, aneddotica, personale, ma − in una chiave di ben maggiore
complessità − in accezione di ricerca della verità, di dimensione nel contempo esperienziale e
straniante, com’è proprio d’un’ottica intellettuale distaccata e, appunto, autonoma: «Entro
l’orizzonte di questa provincia trascendentale, così differente dal naturalismo impressionistico
dell’Erlebnis vociano, l’universo della storia non poteva presentarsi come l’ordine prestabilito di
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una sintesi in cui scompare il dolore, il dramma del singolo, quella che Gadda più tardi avrebbe
chiamato la grama sostanza. Perciò si comprende come le categorie concettuali di Serra dovessero
divergere, anche dopo la sua adolescenza positivistica, da quelle dello storicismo idealistico. Il suo
sentimento storico più autentico si radicava all’esperienza immediata della terra, dei luoghi, delle
cose, e soprattutto della gente, perché la provincia, di là dall’aneddotica del ritratto e del ricordo,
significava il commercio con l’altro, non solo con gli intellettuali borghesi, ma con l’uomo medio e
comune» (cfr. EZIO RAIMONDI, La responsabilità delle parole, par. di Renato Serra: la coscienza del
lettore, in ID., I sentieri del lettore, cit, pp. 350-351). Provincia, comunità antropologica minuta,
chiacchiera che suona fra le righe le più semplici verità collettive, non si qualificano dunque, o non
soltanto, come pretesto o come contenitore narrativo di romanzo o di autobiografia, ma si
costituiscono quale valore più alto e più importante: «Nel suo valore più pieno, essa [la provincia]
rappresenta essenzialmente un luogo gnoseologico, un punto di vista dal quale, con la tutela della
distanza, si può discutere del presente. La scelta della provincia, quando chi la opera si sente uno
“straniero”, diventa allora un’operazione ermeneutica, un pregiudizio consapevolmente assunto,
espresso non senza ironia, per mettere in discussione tutto ciò che non è provinciale. La distanza
che viene dal mettersi fuori centro, in un luogo dove la storia sembra scorrere più lenta e modesta,
permette di partecipare alla cultura del presente con la doppia intelligenza del moderno e
dell’estraneo, essendo quest’ultimo l’interprete dell’inattuale nel nuovo senso introdotto da
Nietzsche. L’“homme des lettres”in provincia sarà quindi la coscienza ironica dell’inattualità, la
voce discreta dell’anticonformismo dinanzi alla moda del nuovo, nella letteratura e nel costume. La
coscienza poetica del mondo, è stato detto, si ottiene in un modo solo, mediante l’eccentricità» (ivi,
p. 351). Riguardo alla geografia interiore della coscienza, al senso della nostra esistenza nella
materia e nella realtà umana che ci attornia, nell’hic et nunc concreto (secondo un’espressione a lui
cara), si rammenti la convinzione critica di Arcangeli, che, in specie nella sua fondamentale
monografia su Giorgio Morandi (FRANCESCO ARCANGELI, Giorgio Morandi, Milano, Il Milione,
1964; nuova ed., Torino, Einaudi, 1981), pone un rapporto di reciproco richiamo tra l’esperienza
del pittore bolognese (ma molto importante è, sin dall’infanzia, anche Grizzana) e quella di Serra,
per proprio conto titolare in tal senso d’una ben maggiore consapevolezza teorico-filosofica e
astrattiva. È proprio nella provincia che le sedimentate tradizioni, le acquisite consuetudini del
dialogo ravvicinato, l’ethos di consolidate relazioni umane, vengono a situarsi come “tramandi”
civili e spirituali che traggono costante conferma dei propri valori; si tratta dei “tramandi” che il
grande critico d’arte, Francesco Arcangeli appunto, indica come essenziali e costitutivi di Serra
come di Morandi. L’«urgenza gnoseologica», per la persona e per l’intellettuale, dello spazio
identitario d’una tradizione, sottrae la Romagna serriana, e la sua immagine, all’appiattimento
archetipico, tradizionalistico, rendendole anzi un luogo necessario della vita, della ricerca dei
propri percorsi, della conoscenza. Su Francesco Arcangeli e sul suo profondo, identificativo
rapporto con i luoghi e con la famiglia, qui in specie con i fratelli (Nino − Angelo −, musicista,
Gaetano, poeta, Bianca-Rosalba, pittrice, con richiamo onomastico a Rosalba Carriera), cfr. Gli
Arcangeli. Nino, Gaetano, Francesco, Bianca tra musica, arte e poesia, Fondazione “Tito Balestra”,
Castello Malatestiano di Longiano (Forlì), 18 maggio-16 luglio 1996, Catalogo della Mostra,
Milano, Scheiwiller-All’insegna del pesce d’oro, 1996; in particolare, sull’importanza che ha avuto,
per Arcangeli, la ricostruzione, anche propriamente umana, della figura di Giorgio Morandi, ma
insieme anche il paragone con Serra, si veda Antologia delle dediche famigliari dei fratelli Arcangeli.
Per una scheda delle dediche dei fratelli Arcangeli, a cura di LUCA CESARI, ivi, pp. 11-18. Il nome di
Morandi − e per legittima associazione anche quello di Serra − evoca una serie di legami, di
allusioni familiari misteriose, «quasi aforismi non detti», di «filigrane rievocative», ed è un nome
che al pari dei nomi di altri artisti «richiama fatalmente quello di una casa, di una famiglia, di una
intera condizione» (ivi, p. 13): «una cosa buia e dolce come il sangue», scrive lo stesso Arcangeli.
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fortuita circostanza di nascita, senza la quale sarebbero inattingibili, al lettorebibliotecario di domenicali frequentazioni malatestiane, e al tenente di fanteria
pensoso di destini storici delle genti in guerra, Tolstoj e Kipling16, così come
Gli «inquieti e taciti sottofondi», i «segnavia» all’interno dell’area affettiva conosciuta e vissuta,
trovano uno dei più significativi esempi proprio nella dedica al Giorgio Morandi, rivolta alla
madre, ma non priva di «una cripto-dedica al fratello poeta [Gaetano], ricordato come “primo
maestro della mia sensibilità” e “presenza intermediaria” nella […] conoscenza dell’arte di
Morandi» (ibidem); nel dattiloscritto della prefazione al Morandi, e in posizione di spicco poiché
si trattava delle parole conclusive, della sintesi riepilogativa della trama del saggio, vi erano,
compreso quello al fratello, alcuni riferimenti in più, rivelatori delle «imponenti indagini di
Francesco nella materia delle radici» (ibidem): «Per questo ho voluto ricordare, iniziando, i gravi
mobili di campagna, i silenzi di mio fratello Gaetano, l’“indugio eterno” della grande estate del
1928» (ivi, p. 17, n. 9). Particolarmente illuminante è in tal senso una lettera di Francesco, del
1964, a Giancarlo Vigorelli, pubblicata nel Catalogo della Mostra bolognese Gaetano Arcangeli.
«Dal Vivere», a cura di BIANCA ARCANGELI-MARCO ANTONIO BAZZOCCHI-ENZO COLOMBO, Bologna,
Grafis, 1992; la lettera è parzialmente ripresa in Antologia delle dediche famigliari dei fratelli
Arcangeli, cit., p. 18, n. 12. Dopo aver specificato in premessa che «Noi Arcangeli viviamo
ancora insieme», pur nelle diverse strade intraprese, il critico d’arte scrive: «non ho esitato ad
accostare, alla p. 226 del mio libro, versi del “Solo se Ombra” a un momento essenziale dell’arte
di Morandi e con lui, che è stato il mio primo maestro di vita e di sensibilità, non potevo non
aprire il mio libro»; Arcangeli ricorda che è ad opera dei fratelli e di tutta la famiglia che egli è
riuscito a fruire in maniera non pedissequa della lezione di Longhi, e il contributo non solamente
culturale, ma umano, della famiglia (ivi compreso il poemetto di Gaetano L’Appennino)
«preesisteva, altrimenti non mi sarebbe stato facile (o mi sarebbe stato impossibile) inventare
l’uomo Morandi, la condizione Morandi, nel libro che ha apprezzato tanto». Solo se Ombra, di
Gaetano Arcangeli, è stato pubblicato a Parma, Guanda, 1951; poi, in versione ampliata, Milano,
Mondadori, 1954; quindi all’interno della collana dei «Quaderni della Fondazione “Gaetano
Arcangeli”», Milano, Scheiwiller, 1994; L’Appennino è stato edito a Padova, Rebellato, 1958, e
in séguito, in forma ampliata e con il titolo di L’Appennino e nuove poesie, Milano, Mondadori,
1963. «L’uomo Morandi, la condizione Morandi» nelle parole di Francesco Arcangeli
riecheggiano, per affinità di metodo d’indagine, «il tono Panzini», «l’umore Panzini» −
riferimento a una ricostruzione profonda dello spirito umano dell’autore studiato (hominem
pagina sapit) − con cui si esprimerà Boine (vedi più oltre, nel testo) nel 1915 recensendo Donne,
Madonne e bimbi. Si ricordi, ancora, la bellissima serie di prose di FRANCESCO ARCANGELI, Incanto
della città, con una Testimonianza (pp. 7-8) di ATTILIO BERTOLUCCI, Bologna, Nuova Alfa
(«Rapporti», 47), 1984. Si vedano, fra le altre, le prose (ma, come dice Bertolucci, si può parlare
anche di poesia) intitolate Incanto della città (eponima, pp. 17-24), Ricordi di Rimini (pp. 25-31),
Emilia (pp. 57-61), Ravenna (pp. 93-98), Estati bolognesi (pp. 131-139), Ragazza d’Emilia (pp.
179-183).
16
La presenza e l’importanza di Tolstoj e di Kipling sono verificate anche dalla «luce cruda
di una serenità tragica» derivata dall’incontro con «libri e scrittori che davano della guerra una
rappresentazione senza miti» (cfr. RAIMONDI, La responsabilità delle parole, cit, pp. 340-341), in
specie Guerra e pace e, appunto, il kiplinghiano La luce che si spense: dall’Africa e dalla parola del
silenzio e del deserto del protagonista kiplinghiano all’esperienza del principe Andrej sull’area di
confine, sull’area ibrida tra la vita e la morte, «L’immagine della letteratura, nel momento in cui
coincide con la coscienza di vivere, si riduce al silenzio di una scena interiore»; e «nella vicinanza
delle cose sul punto di scomparire», il principe tolstojano di Guerra e pace «sentiva anche un
“appassionato impeto d’amore alla vita”» (ivi, p. 342). E torna ad emergere, qui, nel concetto di
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lo sarebbero Platone, Montaigne, Nietzsche, Rimbaud, Maupassant17, Bergson,
Raimondi, il peculiare, irripetibile calibro spirituale e stilistico di Serra che, come Wittgenstein, già
per propria parte lettore di Guerra e pace, deve in sostanza riconoscere all’«inesprimibile» il rango
di «sfondo» che guadagna significato alla parola espressa: «Anche Serra, a guardar bene, si può
leggere secondo questo presupposto, e non è escluso che ciò che rende la sua pagina così singolare,
così mobile e sottile nel gioco dei colori e dei silenzi, nella partitura discorsiva delle impressioni,
nella finezza misurata degli intrecci, sia sostanzialmente l’acume segreto dell’inespresso, di quello
che non si deve esprimere e tuttavia non abbandona mai la voce che si specchia nel proprio segno»
(ivi, p. 343). Dietro «il segreto delle cose, quello che Serra poi chiama una volta “l’aspetto più buio
della natura umana”» (p. 344), e che altre volte si esprimerà con immagini dai tragici greci o dallo
studio dei filosofi (il bosco delle Eumenidi, nel Kipling; il noumeno kantiano, concettualmente
presente in modo ripetuto), vi è per Renato, modello saggistico con un ruolo ancor più investito di
basilarità preliminare, il Montaigne «discorsivo e terreno» (ibidem), dall’«occhio fermo, tra curioso e
prudente», a fornire esempio (ivi, pp. 344-345) di «disciplina di una voce che parla anche quando tace,
e non grida mai perché nasce da uno sguardo impavido, da un tremore dominato dinanzi al segreto
della vita, o per dirla con Tolstoj, alla sua terribile necessità. E, prima ancora di Tolstoj, Montaigne
trasmette al falso umanista di Cesena la certezza irriducibile del molteplice, la diffidenza verso ogni
sintesi finale della totalità che falsifichi e violenti la finitudine unica dell’individuo. Alla scuola degli
Essais, fin dalla sua giovinezza positivistica, Serra si scopre strutturalmente antihegeliano, estraneo
alle filosofie della totalità, compresa quella crociana, perché non crede, in un mondo che non ha
compensi, alla conciliazione degli opposti e vede nel male il limite sempre nuovo della coscienza, la
lacuna che attraversa la sua ricerca di un senso e il suo bisogno etico di un ordine, di un fondamento,
di una volontà formatrice». Si osservi come, in un contesto manifestamente diverso di riflessioni
sul cristianesimo, molti degli autori che compongono la costellazione intellettuale di Serra (Barrès,
Renan, Montaigne, Nietzsche, Claudel) siano presenti − in evocazione ravvicinata, se non proprio in
rassegna − in un brano del Journal di Mauriac che funge da risposta all’autore d’un ancor più famoso
Journal, André Gide, e alle sue affermazioni sull’utilità delle pratiche religiose rituali quali disciplina
liberatoria dal carico di dubbi e di sofferente incertezza che grava sull’animo dei credenti: «No, non
è di una pura e semplice disciplina che abbiamo bisogno, ma di amore. Se il giogo non fosse un giogo
d’amore, chi lo sopporterebbe? Ecco, senza dubbio, ciò che Barrès, figlio di Renan, capiva male; ma
Gide sa benissimo quello che voglia dire. Non si tratta, per il cristiano, di alzare barriere o schermi
o di munirsi di stampelle. Un uomo che si sforza di vivere, bene o male, secondo la legge cristiana,
dimostra semplicemente che preferisce qualcuno. Può amare molte cose, essere sensibile al fascino
di una vita del tutto diversa, capire Montaigne e Nietzsche; ma qualcuno è nella sua vita, qualcuno
che egli − pur tradendolo − preferisce. Si tratta di una faccenda personale tra noi e un altro; una
lotta senza fine in cui talvolta solleviamo contro Cristo gli argomenti dell’umanesimo. Ma dobbiamo
sempre tornare al paragone di Claudel: “Come un uomo che preferisce l’amico”» (cfr. FRANÇOIS
MAURIAC, Diario, traduzione di MARISA FERRO, Milano, Rizzoli, 1963, pp. 80-81).
17
Nella citata lettera ad Ambrosini del 14 giugno 1915 (cfr. qui sopra, n. 1), ormai in
epoca di guerra, nel «dubbio intransigente che nessuna parola, tanto meno quella della stampa,
possa adeguarsi all’“orrore”, non privo di “ridicolo”, di un mondo fatto a pezzi» (cfr. RAIMONDI,
L’intellettuale solitario, cit., p. 296), Serra scrive: «Del resto, oltreché questa cronaca non si può
stampare, e difficilmente raccogliere oggi, questa parte l’ha già fatta Tolstoi, o, da un altro punto
di vista e con meno insistenza, non con meno potenza artistica, Maupassant, Kipling − a saperlo
leggere −» (ivi, p. 297). Ancora Raimondi rammenta a proposito della Partenza di un gruppo di soldati
per la Libia che «il monologo platonico e tolstoiano sul “flusso eracliteo” degli eventi, sull’epifania
spaurente dell’“infinito che mi rapisce in ogni punto dell’universo”, si frangeva nella linea spezzata di
un simbolo personale: “Non ci son cose. Ci sono io (Kim. Chi è Kim?)”» (ivi, p. 298).
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Boutroux, Barrès, Paul Fort, Péguy, Rolland18. Si leggano alcuni passi della lettera del 20 marzo:
bisognerebbe anche spiegare in che senso e con che animo mi sia chiuso lungamente in una sorta di prigione di letteratura provinciale e di modestia e
di ossequio umanisticamente preciso, che era piuttosto che una forma naturale, una dissimulazione e una difesa provvisoria dell’animo insofferente,
desideroso di salvare insieme la sua negligenza del presente e la sua libertà
dell’avvenire. Se stampassi le mie pagine carducciane, dovrei raccontare un
capitolo di questa storia: anche il mio carduccianesimo non è stato altro che
18
Si ricordi che anche Dino Campana ricerca in modo prioritario le opere di Rolland, in
particolare la Vie de Beethoven (uscita a Parigi nei «Cahiers de la Quinzaine»), di un musicista che è
figura di primaria importanza per un Romain che alla musica e alla musicologia si è formato, per un
Romain che ha, appunto, insegnato anche Storia della musica all’Università, e che ha intensamente
riflettuto sul rapporto di odio-amore che un altro grande da lui biografato, Tolstoj, ha nutrito per
l’autore dell’Eroica, esprimendolo soprattutto in Cosa dobbiamo fare?: cfr. ALBERTO PETRUCCIANI,
Ancora su Dino Campana e la Biblioteca di Ginevra, in «Antologia Vieusseux», 60 (settembre-dicembre
2014), pp. 41-60. Fra gli altri autori richiesti in lettura da Campana vi sono Whitman, Nietzsche,
Verlaine. A proposito di Tolstoj, si noti come Rolland, avendo presenti i «fanatiques de la Raison»,
ricorra a lui, nel Jean-Christophe, per definire i “fanatici” di ogni branca delle dottrine e delle opinioni
culturali e civili: «Tolstoï parle quelque part de ces “influence épidémiques”, qui règnent en religion,
en philosophie, en politique, en art et en sciences, des ces “influences insensées, dont les hommes ne
voient la folie que lorqu’ils en sont débarrasés, mais qui, tant qu’ils y sont soumis, leur paraissent si
vraies qu’ils ne croient même pas nécessaire de les discuter”» (ROMAIN ROLLAND, Jean-Christophe, I-II,
Paris, Larousse, 1954, II, liv. V [La foire sur la place], p. 15). In Serra il confronto con Rolland si pone
come elemento di determinante importanza; si rilegga un passaggio di Ezio Raimondi sull’incisività
di Rolland quale “vettore” che conduce, o accompagna Serra al concetto di «esame di coscienza»:
«La riscoperta di Romain Rolland [negli anni 1911-1912] avviene con il gusto dell’inattuale così
caratteristico di Serra, allorché nei lettori italiani erano trascorsi i primi entusiasmi e ci si poteva
situare a quella distanza in cui, almeno per lui, non era più possibile commettere errori. No, insiste
Serra, Romain Rolland non è un grande romanziere; la lettura del Jean-Christophe è però la scoperta
di una coscienza, di un uomo che, come Serra sente sempre di più, ha ritratto l’“aspirazione morale”
di una generazione che in certo modo è anche la sua. E, neanche a farlo apposta, proprio mentre ha
in animo di cominciare a scrivere di Rolland, Serra concepisce e fa suo, per la prima volta, in modo
esplicito, un progetto di esame di coscienza» (cfr. RAIMONDI, L’intellettuale solitario, cit., p. 286).
Peraltro i «Cahiers de la Quinzaine», che come si è detto accolgono, oltre alla Vie beethoveniana e
ad altre opere di Rolland, lo stesso Jean-Christophe, sono ricordati, pur senza esplicita citazione, nel
romanzo (ROLLAND, Jean-Christophe, cit., liv. VII [Dans la maison], p. 35); e vi è l’allusione, pure essa
implicita, al loro direttore, tanto ammirato anche da Renato Serra, quello Charles Péguy poi caduto il
5 settembre 1914 «à la bataille de la Marne», una battaglia cui Serra allude nell’Esame e nella lettera
a Panzini del 27 novembre 1914 (cfr. successiva n. 49), e che suscita stupore di gioia insperata in
Panzini, nell’annotazione del 14 settembre 1914, in Diario sentimentale della guerra, cit., p. 76. Si
veda il significativo cenno a Péguy nel Jean-Christophe: «Dans ce group de jeune gens, il en était un
surtout, qui attirait Christophe, parce qu’il devinait en lui une force exceptionnel: c’était un écrivain
de logique inflexible, de volonté tenace, passionnée d’idées morales, intraitable dans sa façon de les
servir, prêt à leur sacrifier le monde entier et lui-même; il avait fondé et rédigeait presque à lui seul
une revue pour les défendre».
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una superstizione volontaria, in cui mi piaceva insieme di nascondere e di
coltivare sotto la specie dell’umiltà il mio diritto all’eresia. È lo stesso gusto
ironico che mi porta comunemente nelle mie relazioni cogli uomini, e anche
colle donne, a concedere a me stesso un diritto di amore e di stima, che non
so ammettere negli altri verso di me. / Così mi è accaduto con Prezz[olini]. e
con gli altri, per molto tempo: fin da quando Prezz. mi conobbe la prima volta
attraverso l’amicizia di Ambrosini, se ben ricordo, e mi venne a cercare con
una generosità, a cui io mi credetti in obbligo di rispondere con una negligenza annoiata e chiusa; e poi sempre stimando molto lui e gli altri, con amicizia
e gratitudine, non mi sono curato di averne da loro nessun contraccambio;
anzi mi riusciva strano quello che pur mi veniva gratuitamente, e mi piaceva
nei miei rapporti con loro di esagerare il «passatismo» e l’umanesimo e tutti
i particolari dell’educazione letteraria, che pur ci distinguevano, fino a farne
un principio assoluto di irritazione quasi e di ostilità19.
Non sfuggiranno davvero i cenni, e le acute definizioni psicologiche, costituiti
dall’indicazione del desiderio «di salvare insieme la sua negligenza del presente e la
sua libertà dell’avvenire», da parte di un «animo» che anche nell’autovalutazione
peculiarmente letteraria si trova a giudicare il proprio carduccianesimo come «non
[…] altro che una superstizione volontaria», schermo a celare sotto l’ossequio alla
tradizione nobile e “classica” delle nostre lettere la libertà dell’eretico o dell’apostata. La «negligenza annoiata e chiusa» nasconde a sua volta la stima per il gruppo
vociano, per Papini, per Prezzolini, per Soffici, nei cui riguardi Serra assume un
ruolo di differenziazione umana e culturale («mi piaceva […] di esagerare il “passatismo” e l’umanesimo e tutti i particolari dell’educazione letteraria»), mentre
non cura di avere «da loro nessun contraccambio»; e l’atteggiamento di Serra, che
consiste «anche» nel «salvare» e nel «godere la sua diversità», non cambia, ma anzi
si accentua durante la composizione de Le lettere20:
Ricordo di averne discusso, prima di scriverne, con Prezzolini, pigliando
gusto io ad accentuare quasi fino alla mistificazione il mio «rôle» di lettore
dilettante, inetto così a riconoscere come ad apprezzare i tentativi di novità
e i progressi dell’ultima generazione; e lui si arrabbiava sul serio, difendendo
in sé e nei suoi amici le cose più care, contro la mia ingiustizia per proposito.
/ Scrivendo non cambiai nulla; e posso dire che ebbi quasi uno scrupolo meticoloso di esprimere il mio giudizio, − che allo stringer dei conti non poteva
esser altro che di ammirazione e di simpatia, su Papini e Soffici e gli altri
minori, − in una forma imbarazzata da tante attenuazioni e riserve da non
meritare nessuna gratitudine. Una simpatia difficile e antipatica, se si può
dire: il contrario dell’ossequio e della giustizia benevola, che ho reso ad altri
piuttosto per sforzo di buona volontà, e in fondo per disprezzo.
19
20
In Epistolario di Renato Serra, a cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., pp. 550-551.
Ivi, p. 552.
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Il «lettore dilettante», sedicente «inetto» alla ricezione e alla valorizzazione delle
novità letterarie, l’«ingiustizia per proposito», le «attenuazioni e riserve» tali «da
non meritare nessuna gratitudine», la «simpatia difficile e antipatica», «il contrario
dell’ossequio e della giustizia benevola», sono espressioni che attestano il complesso e raffinato côté critico del pensiero, del metodo, della “lettura” e dell’espressività saggistica serriana, e in definitiva del linguaggio dello scrittore cesenate, di
quel linguaggio che è incrocio, da un lato, di propensioni umane e caratteriali, e
dall’altro di giudizi, di preferenze e di gusti letterari meditati e selettivi, ed è altresì incrocio d’una rattenuta antropologia di pensoso flâneur con una viva e tesa
passione critica di intellettuale e di lettore. E quando pare affermarsi, nell’àmbito
della comunità letteraria, una pronuncia critica singolarmente inaccettabile, o non
sufficientemente “vigilata”, il ritegno di Serra può sciogliersi in modalità ben più
perspicue, almeno sul piano della prosa epistolare; si veda, riferito a un improprio
confronto Baldini-Soffici, quanto scrive nella stessa lettera a De Robertis21:
Ma quando sento scoprire in quella sua [di Baldini] facilità sinuosa − che non
arriva al suono pieno e al colore puro, ma pur raggiunge una certa felicità
secondaria, di consapevolezza e di equilibrio interno, con gioco di luci e di
pause e di risposte (io trovo in quel gioco qualche cosa che somiglia a me − o
almeno, a tentativi che io conosco per esperienza mia) un valore di novità e
di «spiritualità» da opporre, poniamo, alle impressioni di Soffici, come una
qualità superiore, allora mi vien voglia di far capire una buona volta a questo
branco di beoti come anche nella più sciolta e abbandonata e lazzarona frase
di Soffici ci sia tanto di potenza espressiva, e di purificazione, ossia concentrazione e creazione e in somma spiritualità, da far le spese a non so quante
colonne cincischiate e ricamate di altri22.
Ivi, p. 555.
Si veda, peraltro, la ben differente indole, anche stilistica, dell’interventismo di Ardengo
Soffici, cui si è già alluso (cfr. qui sopra, n. 5); l’accesa francofilia si precisa, nel caso di Soffici, in
un convinto sostegno contestuale della necessità dell’intervento antitriplicista e in un’indicazione
di passaggio allo schieramento dell’Intesa, senza che tale scelta di campo possa sostituire
l’indiscutibile centralità dell’Italia nell’àmbito degli interessi nazionali di allora; l’obbligo non
solo morale di fiancheggiare la Francia non sarà con meccanico automatismo un vettore perpetuo
dell’orientamento politico italiano. Alla presa di posizione, comunque nettamente francofila,
corrisponde, in linea con l’aperta propaganda di «Lacerba», l’adozione, concorde agli scritti di
tutti gli altri redattori, del tradizionale côté antiteutonico. Ricordiamo uno degli interventi intitolati
Per la guerra, appunto in «Lacerba», II (20 settembre 1914), 19, pp. 267-269, qui in particolare
p. 268, nel paragrafo intitolato La Francia: «Premetterò che io personalmente ho per la Francia
un amore e un’ammirazione senza confini. / È a questa nazione che, per tre quarti almeno, debbo
di essere quello che sono se sono qualcosa. Il suo genio, il suo spirito d’indipendenza, la sua
potenza raffinatrice, l’esempio del suo coraggio nelle cose dell’arte e dello spirito, sono stati
come provvidenziali per me. La Francia è stato il terreno più adatto e più nutritivo per il mio
seme italiano. Adoro la Francia, e la sua fortuna fausta o infausta colpirà sempre il mio cuore
riconoscente. Altri potrebbero forse dire altrettanto; ma ciò significa forse che una francofilia a
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La proiezione di modernità di cui non i soli concetti, ma soprattutto lo stile de Le lettere si mostrano capaci, se da sola non può accontentare un Boine23,
accontenta però, a distanza di poco tempo, il Montale del Quaderno genovese,
che trova «straordinarie» le pagine serriane, tanto da auspicare invano, anche in
séguito, «un panorama del Novecento letterario paragonabile a quello di Serra»;
e a proposito dei valori rappresentati dall’inespresso, dal pudore, dalla “secchezza”, e naturalmente dall’ironia, Montale confessa, nello stesso Quaderno genovese:
«Anche quando scrivo mi sembra di parlare a mezza voce per lasciar intendere, tra le sillabe, un po’ di quello che non so dire neanche a me stesso». «Viene
la tentazione» − direbbe Raimondi − «di citare Serra perché qui la discrezione
montaliana, la decenza del silenzio necessario e insieme ironico, suona in modo
simile al “pudore” del critico delle Lettere, al suo ethos intransigente e magari
“selvatico” della parola scritta, al paradosso di usare l’eleganza del dilettante, la
“gentilezza” della provincia umanistica, per discendere verso il fondo buio del nostro essere»24. È proprio così che tra ombra e luce, polvere, natura e tempo, nitidi
tutti i costi dovrebbe sempre e in ogni caso regolare le azioni politiche del popolo italiano? Affatto.
L’Italia deve esser l’Italia; sviluppare le proprie energie nel senso che le è più conveniente; e tanto
meglio agirà, anche a nostro parere, quanto più italianamente agirà. Soltanto che oggi gl’interessi
più alti del nostro paese sono legati indissolubilmente a quelli di un certo gruppo di popoli al
destino dei quali il destino della Francia è associato, e poiché la Francia rappresenta in quel gruppo
l’essere che meglio riassume un certo tipo di civiltà, di cultura, di umanità, verso i quali tendono
o intorno ai quali gravitano quei popoli, noi come tutti gli altri non potremo agire in conformità
dei nostri bisogni e del nostro genio senza direttamente o indirettamente giovare ai fini di quei
popoli e al loro centro ideale: la Francia». Sull’antigermanesimo e sulla francofilia in Italia, in
specie da parte di Papini e di Soffici, cfr. MARIA PIA DE PAULIS DALEMBERT, La rappresentazione
del nemico tedesco tra «Zivilisation» e «Kultur» nella propaganda di Papini e Soffici su «Lacerba»
(agosto 1914-maggio 1915), in «Chroniques italiennes web», 30 (febbraio 2015), pp. 1-25.
23
«La modernità “provinciale” di Serra si rifiutava di negare o ignorare il passato, non
mistificava la propria lacerazione nell’idea finale del progresso, accettava il nuovo soltanto quando
lo sancisce il tormento creativo, il vigore difficile di una ragione vivente […]. Nell’avanguardia,
quale la concepiva senza enfasi Serra, renitente, non meno del Morandi di Arcangeli, alle ideologie
e alle poetiche, alla liquidazione spavalda del passato si sostituiva perciò un movimento dialettico di
attualità e tradizione»; «il presente non offriva un privilegio ma piuttosto una prova, una domanda
rivolta alla coscienza e alla sua energia vitale, con il rischio, anche, di un fallimento» (RAIMONDI, La
responsabilità delle parole, cit., p. 353-354). Sull’accostamento, operato dal critico d’arte bolognese
Francesco Arcangeli, dell’importanza vitale del luogo d’origine e delle sue tradizioni umane nel
pittore Giorgio Morandi e in Renato Serra, accostamento che si rivela fecondo di stimoli e di
indagini, cfr. qui sopra, n. 15.
24
RAIMONDI, La responsabilità delle parole, cit., p. 363. Molto importante, e la critica
serriana lo ha sottolineato, l’influenza del grecista Francesco Acri, maestro curricolare di Renato
all’Università di Bologna e noto studioso di Platone; a proposito dei confini della critica, di cui
Serra si rende particolarmente consapevole nell’atto di scoprire l’«anima nuda», scoperta che poi
coincide con quella della stessa finitezza dello studioso, Raimondi precisa: «ciò di cui si discute
è il limite della razionalità del lettore nel risalire al fondo della propria scelta, al “luogo buio”,
spiegava già Acri, “che i filosofi chiamano incoscienza” mentre “la coscienza è come un mondo
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perimetri affettivi e desolati silenzi, domestica amicalità del genius loci e spatriata
oscurità dell’Unheimlich, si delinea l’approdo coscienziale di Serra, la consapevolezza dell’intimo vuoto, l’«esperienza pura» dello stesso luogo vitale d’origine. Si
può ben affermare che, mentre la relazione fra pensiero e linguaggio, nel Panzini
dell’epoca bellica, comporta in fondo un solo pensiero costante, che il riscontro di
cronaca moltiplica nelle sue articolazioni in una chiave polilalica sì, ma incapace
di sfuggire all’assedio cogitativo e riflessivo del tema dominante, in Serra è proprio
la molteplicità dei pensieri, e delle loro sponde di problematicità e di rifrazione, e
pure di contraddizione, a esprimersi, anche al vaglio storico della guerra, al modo
d’un’affabulazione reticente, disciplinata da un controllo tematico e stilistico vigile
al punto da rasentare un’apparenza testuale avara, al confronto dell’espressività
panziniana. La cifra della testualità serriana ritrova in realtà alcune fra le più importanti delle proprie radici culturali, come anche altre sollecitazioni della propria
grecistica e della propria coscienza filosofica, nella lezione bolognese di Francesco
Acri, nel suo relazionismo dialettico-platonico, nella sua lettura che valorizza la
musica contestuale che avvolge la parola d’autore prima e dopo la sua pronuncia,
nella sua apertura all’armonia di fondo che riassorbe e spiega la singola fonazione
artistica, alla maniera di quello che avviene nel mondo delle sfere celesti, che goluminoso campato in mezzo a due mondi dove è fitto buio, l’uno di fuori e l’altro di dentro”»
(ivi, p. 364). È anche in virtù di tali premesse che Raimondi può giustamente scrivere (ivi, pp.
356-358), riprendendo in parte le parole del Serra studioso appunto di Francesco Acri, d’una
metodologia e d’un’espressività serriane estremamente consapevoli della molteplicità dei valori
della parola, della sua plurimità, dei suoi ritmi mutevoli e complessi, dell’esigenza, insomma, d’una
sua canalizzazione non univocamente dichiarativa: si parla di «mobilità del testo nelle “apprensioni
fuggevoli” del “campo della coscienza”, nelle “relazioni figurali e numerali” della scrittura». Nello
stesso modo, si parla di «prospettive e discorsi in trasformazione continua, “moltitudine infinita
di punti disposti in moltitudine infinita di centri” […], sistema di forze organizzato da una “causa
motrice” o “principio individuativo”», di «“armonia di suoni leggeri, che riusciva poi nella mente
chiarezza e anche moto vivo dialettico”»; e si parla, altresì, di «“senso mobile che attraversa le
parole”», di un «“movimento di pensiero”», d’una «“immagine mediatrice”», d’una «“fluidità”»
dell’«“organismo verbale”», già a partire «dallo stadio della frase», ove «“ogni parola riceve un
significato particolare da quanto la precede e la segue”», di «“inquietudine”» del viaggio serriano
«dentro la struttura pluriprospettica del testo». Ma se il “testo” implica nel “lettore”, nell’amico e
quasi collega di Panzini, una sfida, un anelito interrogativo a snidare una verità dal buio della storia
e del suo infinito «flusso eracliteo» di eventi, la testualità serriana − nel breve e precoce itinerario
che brucia le tappe del destino e che ne sigilla in perpetuo la parola sul Podgora − non può, e
non potrà costituirsi, né scorrere, come in certo senso avviene alla Casa Rossa, quale funzione
dipendente dai drammi dei bollettini e delle cronache, dalle loro angosciose altalene necrologiche.
Linguaggio e storia, per Serra, si sostanziano «nel confronto o nello scontro con ciò che precede
e fascia la parola, alla soglia di un mondo senza volto in cui il linguaggio e la tradizione di una
memoria collettiva affondano nel gorgo della vitalità. In questo senso l’Acri assimilato da Serra si
rivelava un Acri sottilmente kantiano e nietzschiano, il suo cristallo terso e impassibile si spezzava
dinanzi alla dialettica negativa dell’“indeterminato”, dinanzi all’abisso o all’enigma della “cosa
in sé” di cui il lettore di Tolstoj, ma con “difficoltà più complicate”, ammetteva, in una lettera a
Croce, d’essere “uno schiavo”».
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vernano i moti e le attrazioni reciproche dei pianeti. Il processo affinante alimentato dalla riflessione sulla responsabilità della parola congiungerà tensione etica
e razionalità critica anche nei tempi estremi delle pronunce serriane, sotto i cieli
della guerra, sino a flettere lo sguardo dell’intellettuale “verso il muro”, quando ormai incombe la morte, e a volgerne il linguaggio verso il silenzio; ma il percorso è in
tutto coerente con la complessa, intersecata pluralità di componenti che costituisce
la cifra linguistica serriana; e nel periodo nel quale la guerra rappresenta per l’Italia
non più d’una minaccia che si profila all’orizzonte, e i cui venti spirano ancora da
lontano, sarà sempre la responsabilità della parola, la sua concentrazione laconicamente fosforica, l’etica d’una sofferta e meditata reticenza, d’un’alta e dominata
“sordina” linguistico-espressiva − quanto più controllata, quanto più capace di
farsi carico di segreti tormenti, tanto più intrisa di luce e di buio, di una ragione
che non tarpa l’ala all’ora della passione − a caratterizzare il fraseggio, il dialogo
di Renato con la dispiegata polilalia, con la valenza comunicante manifestamente
dichiarativa, in se stessa non certo priva di legittime motivazioni, di Panzini25:
fissando la propria oscurità e il proprio vuoto senza parola, la coscienza giungeva a un’intimità trasparente, quale «esperienza pura» di un luogo e del suo volto. Ed ecco la fenomenologia descrittiva di Serra, la sua esplorazione dell’ombra di cui s’intride la luce, fra le «cose determinate e comuni», ascoltando nel
«fruscio della polvere» la cadenza intermittente della temporalità che consuma
la «passione» della «carne mortale» e non ha «nome» né forma, guardando
le nuvole o il colore dell’erba, discorrendo di una strada o della ghiaia di un
giardino e del sentore della primavera e del gelo stanco dell’inverno. Ma dentro
la chiarezza di questo spazio affettivo, così nitido e insieme velato, si posava la
calma desolazione del silenzio. Anche senza Freud Serra verificava che ciò che
è domestico o amico ha fatalmente vicina la tenebra dell’Unheimlich. Solo, gli
dava nome, tra Sofocle e Kipling, di «bosco delle Eumenidi»26.
25
Ci si riferisce qui, vi è appena bisogno d’accennarlo, al Panzini del periodo bellico, e in
particolare al Diario sentimentale della guerra.
26
RAIMONDI, La responsabilità delle parole, cit., pp. 364-365. Non stupisce che «la
fenomenologia descrittiva di Serra» incontri spesso «il senso profondo della morte» (ivi, p. 343):
«Rispetto a questa dialettica profonda di stabilità e mobilità il paesaggio serriano sembra una
raffigurazione costante del tempo che fugge e delle forze che distruggono la monade umana nel
momento stesso in cui la natura, il luogo, la terra si affermano, si accampano come qualcosa di
primitivo e primordiale. Dietro la temporalità si intuisce di nuovo il senso della morte, ma vissuto
in modo differente da come si presentava ad altri scrittori giovani della linea esistenziale vociana,
quali potevano essere un Cecchi e un Boine» (ivi, p. 344).
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1.3 Lo “spirito”, il «tono», l’«umore Panzini». Il borghese «alla buona» come
spettatore del tragico
Da parte sua, anche Alfredo Panzini non dice nulla, nel brano del 15 giugno
1915, a Gino Scarpa, che è sul punto di partire l’indomani per la scuola di Modena;
anch’egli è capace di nascondere le parole, non foss’altro che per opportuna reticenza verso il partente. Ma l’ammirazione per il collettivo, per i «commilitoni», per
i «poveri ragazzi», per i «cavalieri», è un dato assolutamente presente e reale; ed è
accompagnato − è uno dei principali motivi di differenza da Serra − da espressioni,
da locuzioni, da immagini, da concetti di immediato controcanto rattristante, da una
serie di significanze contraddittorie, quasi a smentita, almeno sul piano “sentimentale” (e si tratta ovviamente di termine chiave, entrato nel titolo sin dalla seconda fase
elaborativa), della carica da squillo tirtaico della fanfara bersaglieresca e del futuro
inno d’Italia. Il cenno che si potrebbe definire simonideo-leopardiano dell’immortalità dei morituri per la patria, la «venerazione», il senso «di letizia», sono subito
affossati, anche e soprattutto sul piano umorale, da concetti, fortemente veri, certo,
ma a rischio di corte marziale, se solo si fosse stati al fronte, nella loro negatività
intensamente polemica: «Volevo dirgli: “Chi fu il miserabile che chiamò il soldato
materiale umano?”. Espressione più vile dell’altra, carne da cannone»: ed anche per
questo tacitati agli orecchi di chi deve l’indomani recarsi alla scuola di Modena. E in
un solo passaggio ci ritroviamo lontanissimi dall’«Io sono contento, oggi» di Serra,
morituro trentenne nel termine di trentacinque giorni da quella annotazione milanese di Panzini, con quelle parole che datano appena dalla fine di marzo del 1915.
Il fatto è che Serra ha presenti alla perfezione tutti i motivi della polemica antimilitarista e tutte le discussioni che si accendono sull’intervento. Solo che la riflessione
sull’Europa e sul destino che sta per avvolgere l’intero continente, e il mondo, insieme all’assunzione dell’ansia risorgimentale da quarta guerra d’indipendenza italiana,
assorbono in Serra, per unificarlo in una superiore scelta di passione personale e
politica, tutte le espressioni di dolore, di dubbio, di coscienza del dramma, di un
rischio di morte che appare quasi fatale, e progressivamente inevitabile. In Serra si
riassorbe insomma, rielaborata in altra chiave, la serie di angosce, di contraddizioni,
di subitanee espressioni di sgomento, di drammatico stupore, di deprecazione umana e storica, di nevrotica soggezione agli impazziti saliscendi della cronaca, motivi
di movimentazione psicologica ed emozionale che trovano invece in Panzini una
dispiegata, variegata, spesso dispersiva espressione: un’espressione emotiva, inarcata
alla pronuncia interiettiva più che meditativa, un’espressione desultoriamente legata
anche all’occasione, all’episodio colloquiale, alla discussione accesasi sul momento.
Eppure non appare fuor di luogo rilevare, anche nel Diario sentimentale della guerra,
un elemento di continuità nello spirito di scrittura di Panzini, elemento costituito,
pur nella situazione di paura, da una fondamentale rassegnazione, da uno scetticismo esteso a tutti gli aspetti della storia e della vita civile; è lo “spirito Panzini” (si
ricordi il Boine della recensione a Donne, Madonne e bimbi, Milano, 1915: «il tono
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Panzini», «l’umore Panzini», la «semiseria profondità», i «vestiti borghesi alla buona») a essere sempre sotto l’occhio di un certo tipo di lettura, tendente a cogliere in
gran prevalenza le caratteristiche di collegamento, di persistente affinità tra le varie
fasi e le varie declinazioni della prosa dello scrittore. Ancora Giovanni Boine coglie,
non con spirito censorio, ma anzi esattamente come caratteristica sostenibile di Panzini da quando ha iniziato a scrivere, alcune contraddizioni nel “romanzo” del ’14;
alla sorpresa di fronte all’immanità della sciagura costituita dalla guerra lo scrittore fa
seguire la dichiarazione di non aver mai voluto mettere la firma alle «idee di umanità,
di fratellanza, di pace»: allora, scrive Boine, «eccoti Renato Serra poco più innanzi a
spiegar la guerra come un ver sacrum: “come la biscia esce dalla sua scorza e l’aragosta dalla vecchia crosta”». E il dato più costante si rivela essere la citata “continuità”
di Panzini, non intesa nel senso di coerenza teorica, logico-filosofica (che sarebbe
elemento molto distante dal mondo panziniano), bensì la “continuità” di spirito, di
atmosfera, di ironica saggezza, rassegnata, quest’ultima, a una realtà contraddittoria,
e capace, come propria dote precipua, di esprimere la visione di tale realtà riproducendone senza potervi rimediare gli stessi fattori di contraddizione, non dominabili
nella sua prosa, e anzi narrabili con varietà di ritmi di racconto in modo arreso alla
contraddizione, appunto, e alla scattosa nevrosi che li ispira, in toni riconoscibili
presso un pubblico di lettori progressivamente conquistato, e, nel complesso, fedele
nel tempo; si tratta, insomma, di quella stessa ironica saggezza di nevrotico rassegnato e in fondo consapevole che Boine aveva a più riprese sottolineato nel recensire la
Santippe (Milano, Treves, 1914)27, dicendo dello scrittore che «è l’uomo al mondo
con cui mi pare a tratti di trovarmi meglio. E, sì, codesto è un mondo un po’ complicato»; e tale continuità si sviluppa all’insegna di una sapienza di fondo − ma più
volte tormentata e messa alla prova, durante il conflitto − riguardo alla miscela, all’«insalata» rappresentata dal mondo, per usare i termini del recensore:
a dire di uno che è sapiente, s’intende che dev’essere bonariamente ironico,
perché esser sapiente vuol dire conoscere il bene ed il male, saper bene il gusto di questa insalata di molto male e di poco, ansioso, bene (aspirazione, ideale) che è il mondo; già, è sentire che in fondo l’insalata sarà insalata sempre.
Gli è questo sempre, questo irrimediabile, che mette la piega del sottile sorriso
intorno alle labbra del saggio. La quale piega passa dalle labbra al discorso e
vi resta; riflesso dell’anima dolorosa, signorile rassegnazione all’irrimediabile.
Vedi bene ch’essa è anche nel discorso di Socrate28.
E sempre di Panzini, Boine ricorda testualmente, proprio dal Romanzo della guerra, i concetti di «continuità» e di «indifferenza»; interrogato, Alfredo, da «un quie-
27
Cfr., ora, l’edizione di Santippe ristampata a Bellaria Igea Marina, Accademia Panziniana,
Viserba di Rimini, tip. Garattoni, 2014, tratta da PANZINI, Sei romanzi fra due secoli, cit.
28
BOINE, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, cit., p. 136.
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to vecchio savio signore» su «che cosa ci sarà» da quel momento a un anno dopo,
Boine non si lascia sfuggire questo brano di risposta dello scrittore, nel quale un
elemento derivante da un’antica riflessione sull’uomo e sulla sua “storia”, se ve n’è
mai una, si nutre di una reminiscenza leopardiana29:
«Mah! Certo quella piccola luna nascente lassù, in quel posto; quelle anatre lì
[…], queste foglie di marruche, i lumachini che divorano le foglie, le anatre che
divorano i lumachini, gli uomini che divorano tutto, e quella luna che guarda
lassù. Se i re, i guerrieri, i diplomatici, leggessero, come si legge per esempio: la
tale città fu per tanti secoli bizantina, poi per tanti altri secoli veneta, poi passò
all’Austria ecc. ecc. lascierebbero arrugginire le loro inutili spade guerriere e
starebbero, come me, a guardare quella piccola luna che cresce, poi quando è
cresciuta, si volta dall’altra parte e diventa sempre più piccola, e così in eterno».
/ Questo ansito, e questa rassegnazione è Panzini; qui ed in cento altri luoghi e
frasi e personali inflessioni di magari comuni pareri.
«In cento altri luoghi e frasi e personali inflessioni di magari comuni pareri», dice
Boine: il connotato della prosa, ma anche, in parte, della figura umana di Panzini,
appare realmente consistere in questo «ansito» e in questa «rassegnazione», in
questo affanno e in questo disincanto, e nell’intermittenza di ciascuno dei due, in
questa alternanza di stati d’animo diversi, in questa continua increspatura umorale e riflessiva che espone e nello stesso tempo sottopone un autore che in fondo
è sempre se stesso a un’esperienza drammatica come la reazione cosciente a un
conflitto mondiale, facendone testualmente stillare una nervosa radiografia delle
incertezze, un agitato grafico di opinioni personali e di opinioni mutuate dalle frasi
e dalle espressioni della gente comune, un grafico che risente delle enfatizzazioni
e delle inarcature linguistiche dei giornali, dei sentimenti generali, in questo senso
prevalenti, ma non per questo chiari alla singola ricezione del borghese intimorito
e scalzato dal suo consueto posizionamento in un’ordinata vita sociale30. Ma si
29
61-62.
Le parole di Panzini si leggono, ora, in PANZINI., Diario sentimentale della guerra, cit., pp.
30
«Pare che dorma [l’Italia], in questa distesa grigia, fra queste Alpi taciturne e questo
mare scolorito, sotto il cielo basso e chiuso; con tutti i suoi uomini rintanati nel torpore e nello
squallore delle piccole case, ognuno stretto fra i suoi muri, seduto alla cenere e al fumo del suo
focolare, imprigionato nel suo buco, nel suo orizzonte, nei suoi interessi, nella sua meschinità.
Di quali destini o di quale avvenire vorrete parlare al bottegaio delle città lassù, o al contadino
di questa campagna? Di quali problemi si può accorgere l’egoismo […]?»; il brano da l’Esame
(cfr. SERRA, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit., par. 47, pp.
134-135) si riferisce, come è chiaro, all’egoismo in generale, tale da richiamare in tal senso tutte
le classi sociali. Ma è significativo che l’allusione agli italiani, gelosamente abbarbicati al proprio
ambiente, al proprio interesse e al proprio focolare, comprenda molte delle ragioni che saranno
peculiari dell’ispirazione del borghese Panzini, e che determineranno, esattamente in proporzione
alla finestra pseudoidillica della sera in campagna vicino al fuoco, l’agitazione, o «il turbamento»
− come Serra correggerà dal manoscritto alla stampa −, che vesseranno il modesto possidente,
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leggano le parole di Serra, nell’Esame, riguardo alla fine dei popoli e delle civiltà
del mondo antico («e più di lor non si ragiona»), e si vedrà che la sollecitazione
leopardiana, pur presente, si accompagna alla seguente riflessione: «Ma ho potuto continuare. Ho rinunciato a vendicare le vittime, ho dimenticato di consolare
quelli che erano morti senza consolazione: ho vissuto ugualmente», passaggio testuale che marca la differenza con l’ansia, più che di pace, da “paura della guerra”,
da parte di Panzini, e che, anziché come pronuncia cinica, si pone, da parte del
bibliotecario cesenate, come coscienza, più che mai leopardiana, del concetto di
«perdite secche», di eventi di negatività irrimediabile, irrisarcibile, immedicabile
(«[il cuore] si rassegna a questa che non è né maggiore né minore di tutte le altre
ingiustizie, intollerabili e tollerate, del vivere. Il mondo è pieno di cose senza compenso. Tale è la sua legge»)31:
Penso che anch’io ho pianto fanciullo sulle corone antiche, sui popoli scomparsi senza colpa dalla scena del mondo, su tutte le cose che si sono perdute
professore di latino. Non sfuggiranno, certo, tutti gli elementi, estremamente importanti, che
formano il discorso serriano in chiave di metacronia, o addirittura di acronia, di transtemporalità,
di unificazione e di parificazione di ere e di fenomeni, anche di grande portata, che si sono verificati
in modalità sostanzialmente immutabili, sempre uguali, e tali da potersi richiamare l’un l’altro; si
veda, nel prosieguo del brano: «attraverso il tempo, al di fuori del tempo […], oggi come tremila
anni fa; come sempre, fin che ci saranno viventi sotto il sole». E si veda ancora, più sotto: «Questa
storia, che chiamiamo presente, non è diversa da quelle, che crediamo di aver letto soltanto nei
libri: partecipiamo all’una come alle altre con lo stesso titolo. Vicini, ma anche così lontani!» (ivi,
par. 62, p. 137). Si legga, a proposito del personaggio di Sidonie di Romain Rolland, «une simple
domestique» e in questo senso rappresentante del mondo popolare, pur se non ancora provinciale,
bensì parigino, la caratterizzazione della possibilità d’una vita priva d’interessi e di aggiornamenti
culturali, artistici e politici (ROLLAND, Jean-Christophe, La foire sur la place, cit., p. 19): «De tout ce
que Christophe avait vu à Paris, Sidonie ne connaissait quasi rien, et ne cherchait à rien connaître.
La littérature sentimentale et malpropre des journaux ne l’attegnait pas plus que les nouvelles
politiques. Elle ne savait même pas qu’il y eût des Universités Populaires; et, si elle l’avait su, il est
probable qu’elle ne s’en serait pas plus souciée que d’aller au sermon. Elle faisait son métier, et
pensait ses pensées; elle ne s’inquiétait pas de penser celles des autres […]. Il [Jean-Christophe]
entrevoyait, pour la première fois, ce peuple de France, qui donne l’impression d’une durée
éternelle, quit fait corps avec sa terre, qui a vu passer, comme elle, tant de races conquérantes, tant
des maîtres d’un jour, et qui ne passe point». È appena il caso di rilevare i concetti di «peuple» e
de «l’impression d’une durée éternelle», un «peuple […] quit fait corps avec sa terre». Si tratta
d’un elemento che, come si potrà vedere, insisterà ulteriormente nella prosa di Romain Rolland.
31
È un concetto che, a proposito delle vicende della natura, della terra, dell’astronomia, viene
rilevato anche da SEBASTIANO TIMPANARO, in Sul materialismo, III ed., Milano, Unicopli, 1997,
p. XII, dove si rilevano elementi già denominalmente indipendenti, o addirittura contrari alla
dialettica, come appunto quelli delle negazioni «adialettiche», distruttive, delle «perdite secche»,
che sono ritrovabili in Engels più che in Marx: «Ciò che Engels dice […] a proposito della fine
dell’umanità e del sistema solare, costituisce proprio un tipico esempio di negazione adialettica,
di quelle che vorrei chiamare perdite secche». Si rammenti (cfr. qui sopra, n. 16) la definizione di
Serra come «strutturalmente antihegeliano, estraneo alle filosofie della totalità, compresa quella
crociana, perché non crede, in un mondo che non ha compensi, alla conciliazione degli opposti».
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e più di lor non si ragiona: ho letto con una lacrima negli occhi fissi, i denti
stretti in silenzio, la storia delle conquiste e delle distruzioni, le vittorie dei
Romani e dei barbari, le guerre degli Spagnuoli e le rivolte dei villani, le guerre dei trent’anni e le guerre di religione. Ero un fanciullo solo, e non sapevo
come avrei potuto continuare a vivere. Ma ho potuto continuare. (Ho vissuto
accanto ai miei cari che sono morti. Li ho lasciati sotto terra e me ne sono
andato per le strade del mondo). Posso fare così anche adesso.
1.4 «Attila, Alarico, Sigfrido!»
Uno degli elementi che maggiormente colpiscono nell’espressione delle paure e
delle reazioni negative di Panzini di fronte al fenomeno bellico e al rischio, che ben si
mostrerà realistico, di una sua estensione all’Italia, al suo patrimonio e al suo territorio, è la differenza d’attenzione, di grado di timore, di manifestazione di martellante
e di omnicomprensiva ostilità verso la Germania molto più che verso un’Austria che
si dovrebbe invece profilare, e in verità si profila, come in effetti avverrà, quale l’avversaria diretta delle nostre rivendicazioni patriottico-nazionali, in linea di fronte, in
una contrapposizione territoriale di regioni, di cultura, di zone e di patrie che richiama gli enantíoi delle battaglie greche, comprese quelle civili. Il pericolo è, al contrario, nelle pagine di Panzini, quasi tutto tedesco, nettamente sperequato dalla parte
del timore nei riguardi della Germania: è la Germania la terra del male, del pericolo
per le altre nazioni e per gli altri popoli, della distruzione di ciò che non è tedesco,
salvo il successivo studio di vestigia culturali a cui i nuovi barbari, o i nuovi Unni,
si abbeverano riconoscendone il magistero e la riproponibile validità. Per Panzini la
Germania è la terra della cultura razionalistica e materialista, l’àmbito culturale che
ha sin dall’epoca di Lutero fatto germinare, coltivandola su estesa scala, la filosofia
dell’«io» legiferante rispetto alla resa, al riconoscimento, al riassorbimento − rassegnato, se non fidente − nelle più capienti strutture spirituali di un’entità superiore, se
non scopertamente confessionale. Ebbene, molto più contenute e moderate saranno,
a paragone di quelle concernenti la Germania, identificata nella sua vera e propria
indole teutonica, settentrionale, luterana, prussiano-sassone, disciplinata e militarizzata con scientifica meticolosità capillarmente diffusa e rigorosamente casermesca,
le pronunce di Panzini nei confronti dell’Austria, con la quale evidentemente il professore di Bellaria teme, sì, il conflitto, ma come lo si teme quando si pensa di avere
di fronte la più tradizionale antagonista dell’Italia secondo la tradizione del nostro
Risorgimento: essa costituisce il paese, costituisce l’impero, ancora potente e rappresentativo, con cui nel modo più frontale, come si è detto, saremmo venuti a scontro
militare; e l’ottica panziniana cerca con ogni possibile risorsa di pensiero e di parola
di scongiurarne il rischio, almeno sul piano mentale o, se si vuole, sul piano d’una testimonianza culturale, sia pure testimonianza ciarliera e talora petulante, e spesso in
sé querula e contraddittoria. Non appare, però, peregrina la possibilità di formulare
in tal senso un’ipotesi un po’ più complessa; non si può infatti prescindere dal dato,
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già in sé molto rilevante, della netta differenza esistente a livello politico, geografico,
religioso e culturale tra la Germania e l’Austria, tra le due aree germanofone, tra
l’orgogliosa sicurezza tedesca, “propositiva”, asseverativa, espansionistica nel concetto militare, e il tentativo austriaco di ridurre la perdita di potere e d’influenza del
proprio impero, di salvare il salvabile d’una compagine plurietnica che a est e a ovest
sta vacillando, e che è per questo motivo impegnata in un’operazione di recupero a
fronte di successive perdite, più che in un attacco a fine di acquisizione territoriale
e di “sfogo” demografico e in definitiva economico; la sua lotta più dura appare in
tal senso quella che si svolge ad Oriente, contro la Russia ancora zarista. Per Renato
Serra, l’Austria è, e rimane, il nemico risorgimentale al quale finalmente recuperare
Trento e Trieste, per realizzare e per dare corso compiuto e non mutilato all’unità
italiana32. Per un’ottica meno frontalmente antiaustriaca, che forse spiega qualche
elemento di una differenziazione che Panzini a suo modo sembra intuitivamente
tener presente, può risultare utile il termine di riferimento costituito da un autore,
non a caso austriaco, come Hugo von Hofmannsthal, partecipe d’una «consonanza»
e d’una «adesione, manifestata […] a partire dagli anni immediatamente successivi
alla prima guerra mondiale, al cattolicesimo come dimensione universalistica dello
spirito»:
32
Da sottolineare, comunque, l’accenno infastidito a Croce e al suo “filogermanesimo”
culturale nell’Esame: «e non si lascia sfuggire, frattanto, l’occasione di fare alla nostra parzialità
appassionata certe lezioncine sui meriti della cultura germanica, correggendo spropositi con un
sorriso, che è insieme una puntura o un dispetto a tutte le tendenze della politica democratica
e massonica» (cfr. SERRA, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit.,
par. 17, p. 128; nel ms, c. 8r, le «lezioncine» erano «accurate lezioncine»). Cfr. ancora, sempre
dall’Esame (ivi, par. 63, p. 137): «Facciano i Tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono e che
possono. Noi abbiamo una cosa sola da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell’universo:
ma questa ci basta, e il nostro cristianesimo, che ha perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non
ha perduta la tristezza e il gusto dell’eternità» (nel ms, c. 29r, al posto di «la tristezza e il gusto
dell’eternità»: «l’amarezza infinita»). I concetti sul filogermanesimo di Croce sono presenti, in
termini testuali da considerarsi quasi di ravvicinata ripresa rispetto a quelli dell’Esame, nella lettera
dei primi di ottobre 1914 a Giuseppe Prezzolini, immediatamente successiva alla recensione di
quest’ultimo, nella «Voce» (28 settembre 1914), a Le lettere di Serra: «C’è in Croce, e massime in
questi ultimi anni, una parte di debolezza umana, che si fa sentire sempre più spesso; così verso
certi giovani e certe cose che lo urtano senza ragione, come in certi paradossi e atteggiamenti
alquanto antipatici di pedagogo universale. Adesso, per esempio, fa il tedesco per far rabbia ai
massoni. Hai visto quell’indirizzo firmato anche da lui? A me ha fatto rabbia. O non sarebbe ora
che smettessero di farci la lezione tutti questi professori? Lo sappiamo bene che c’è anche una
Germania, che rappresenta un tipo di cultura e un gruppo di valori universali. Ma c’è anche una
Germania oggi che ha per noi italiani un significato pratico e morale assolutamente diverso; la
Germania della guerra e dell’ora che passa. E non importa se sia anche, per qualche parte, una
creazione del nostro odio e delle nostre passioni, che rappresenta in modo molto limitato la natura
vera e le virtualità indefinite della razza tedesca. È una realtà oggi: ed è la nostra nemica. Abbiamo
il dovere di dirlo noi che non crediamo come Croce (io almeno) all’esito fatalmente benefico e
felice di tutte le guerre e di tutti i dolori» (cfr., con il titolo Tra letteratura e guerra [1914], SERRA,
Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 515).
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Nella tradizione barocca e, in particolare, nell’orizzonte universale della cattolicità delle popolazioni tedesche del Sud, Hofmannsthal additava la specificità sovranazionale del carattere austriaco rispetto all’Impero guglielmino
di tradizione prussiana. Non solo: più radicalmente affermava che il vero e
originario carattere tedesco − Deutschtum − era autenticamente rappresentato dalla tendenza universalistica del sacro romano impero di cui l’Austria
era erede, e che poco aveva a che vedere con esso un fenomeno storicamente
contingente come quello del secondo Reich33.
Non si tarda, qui, a constatare quell’idea del germanesimo meridionale che, sotto
i connotati del cattolicesimo, del barocco e d’un ideale universalistico dello spirito, riconosce in sé alcuni elementi in comune con una Weltanschauung sudgermanofona, appunto, e recisamente antiprotestante: «un fenomeno storicamente
contingente come quello del secondo Reich» (e la definizione di «contingente»,
per di più espressa in modalità “radicali”, ha un significato enorme, storicamente
“pesante” e davvero non casuale) ha poco «a che vedere» con «il vero e originario
carattere tedesco», ovvero − e non è certo poco − con il fondamentale concetto
di Deutschtum: la Deutschtum non appartiene, e anzi è profondamente differente
da esso, all’«Impero guglielmino di tradizione prussiana», ed è piuttosto propria,
pertinente e congrua all’organismo culturale, spirituale e geopolitico austriaco;
Austria e Germania sono, in questa visione, entità storiche e politiche profondamente diverse. Se nella contemporaneità esse sono alleate come imperi centrali nella tradizione politica della Triplice, rimane assolutamente ferma la memoria storica
dell’azione di Bismarck, che ha sostituito, e non certo in modalità pacifiche e indolori, la primazia austriaca con quella prussiana nell’àmbito del mondo germanico.
È notevole il valore di vaticinante lungimiranza che il sottaciuto timore dell’intellettuale austriaco Hofmannsthal viene a rivestire nei confronti degli sviluppi storici
futuri e della tradizione espansionistica propriamente tedesca, prussiana d’origine, più precisamente Kaiser-guglielmina nel prosieguo, e ancor più pericolosa e
drammatica nel periodo immediatamente a venire («Attila, Alarico, Sigfrido!», è
definito il Kaiser nel Diario sentimentale, p. 85). E certo non meravigliano la netta affermazione e la consapevole rivendicazione di diversità dell’ideale religioso e
universalistico del quale s’investe e di cui è investito l’impero absburgico, austroungarico, rispetto al residuo settentrionale, luterano, dell’area germanofona; è in
base a tale, in sé perdurante concezione di vasto riscontro politico, ideologico e
culturale, insomma in base alla famosa e latamente diffusa concezione dell’Austria
felix, che persino la memoria intellettuale dell’umanesimo tedesco settecentesco,
33
Cfr. ELENA RAPONI, Hofmannsthal e la religione, in Letteratura tedesca e religione, numero
monografico di «Humanitas», a cura di LUCIA MOR, LX (settembre-ottobre 2005), 5, p. 1039. Si
segnala l’imminenza del convegno di Roma che sarà dedicato a Vienna nella fine delle certezze.
Hugo von Hofmannsthal e la poetica delle arti tra Otto e Novecento, i cui Atti saranno pubblicati
dall’editore Olschki.
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pur ancora fruita da Hofmannsthal con una vena di positiva nostalgia spirituale,
non può supplire all’unico, grande alveo identificativo che ancora residua alla storia delle idee in Occidente e in genere alla storicità occidentale, ovvero alla Heimat, alla patria dell’anima costituita dal cattolicesimo, e quindi alla casa comune
rappresentata da tutta una cultura nella sua capacità di comunicazione aperta e
allocutiva nei confronti dell’intera cristianità:
Questo vasto orizzonte della Chiesa cattolica è la sola grandiosa antichità che
ci sia rimasta in Occidente − tutto il resto non è grande abbastanza, non ci
resta quasi nulla; vedo il momento, anzi per la verità è già qui presente, in cui
tutto questo umanesimo del secolo diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo in Germania ci sembrerà un episodio paradisiaco, ma niente più che un
episodio34.
S’intende che tali concetti, espressi da Hofmannsthal nelle sue Bemerkungen, nei
suoi appunti e nelle sue note del 1921, nascono da una ben precisa visione della
peculiarità storica e culturale austriaca in anni nei quali è già lecito prevedere,
e temere, gli effetti «di un nuovo pangermanesimo espansionista e aggressivo»
(ibidem), e quindi anche gli effetti di quello che sarà in séguito il drammatico
Anschluss. Dall’Austria felix alla finis Austriae. Non vi è, beninteso, prospettiva
per ascrivere Panzini alle categorie di pensiero, men che mai se specificamente
considerate, di un autore che appartiene ad altri e più avanzati protocolli culturali
come è Hofmmansthal; e neppure si tratta di discutere il suo personale rapporto
con il cattolicesimo35; si tratta, a ben vedere, soltanto di far rientrare una fondamentale consapevolezza di quadro e di clima culturale, e storico-culturale, in un
generale movimento di riflessione, misurabile sul più vasto piano europeo, non
34
Cfr. HUGO VON HOFMANNSTHAL, lettera a Carl Jacob Burckhardt del 10 settembre 1926,
citato da CARL JACOB BURCKHARDT, Ricordi di Hofmannsthal, traduzione di ERVINO POCAR, Milano,
Cederna, 1948, p. 99 (con «alcune lievi modifiche» di ELENA RAPONI): cfr. EAD., Hofmannsthal e la
religione, Letteratura tedesca e religone, cit., pp. 1039-1040.
35
Può risultare utile rammentare il bambino, figlio di vicini di casa, che nel Natale del 1914
fa visita a Panzini, a Milano, vestito di armi dalla madre come un piccolo, improbabile soldato;
«Cesarino, Cesarino, con le pantofoline rosse, per non sentir freddo, conosci tu i campi gelidi
[…]?» (DSG 96) appare nel suono, nel flusso fonico di quelle righe (l’apostrofe è ripetuta all’inizio
di due consecutivi periodi) come un Valentino del romagnolo Pascoli, vestito d’un “nuovo”
militare per la celebrazione dei doni natalizi, e, a differenza del fanciullo pascoliano, non sguarnito
di «pantofoline rosse», proprio a protezione della camminata; rivolgendosi in modo indiretto a lui,
Panzini ribalta il “gioco alla guerra” dell’infantile atmosfera festiva sostituendo a una «poesia di
Natale» − che «non è più: // Per la notte di Natale / è venuto un bel bambino» −, insomma a «una
falsa poesia», la poesia «vera. // […] Una feroce / Forza il mondo possiede e fa nomarsi / Dritto.
La man degli avi insanguinata / Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno / Coltivata col sangue; e omai
la terra / Altra messe non dà». Il cattolico Manzoni, oseremmo dire il “vero” cattolico Manzoni,
a sostituzione, con l’Adelchi, della mielosa atmosfera natalizia, con «La guerra in primavera!»
incombente già dall’annotazione del 26 dicembre (p. 97).
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solo mitteleuropeo. Se Hofmmansthal, all’interno della cultura austriaca, è percorso da consistenti e non banali presagi di tramonto dell’autonomia dell’organismo
imperiale absburgico a favore dell’“efficiente” aggressività del nucleo politico e
militare della germanità nordica e Kaiser-prussiana, Panzini può, da parte sua e
nei suoi limiti, e in via autonoma, ben recepire il “precipitato” piccolo-borghese
di tale tematica tramite uno strumento se si vuole assai meno aggiornato, tradizionale nella nostra cultura latina, costituito dall’ansia sempre allertata − ed “antennata” − nella multisecolare avversione e nella diffidenza italica nei riguardi dei
“Germani”, dell’Arminio tacitiano, della «tedesca rabbia», nel ribaltamento della
prospezione del Mommsen.
1.5 «Si desidera […] appena di parlare con quei due o tre con cui si può parlare
senza parole. Ecco perché vengo da lei»
Al di là degli stessi dialoghi, la marina di Bellaria, luogo di residenza di Panzini, entra direttamente in causa nell’Esame di coscienza; scrive a questo proposito
Biondi36:
mi riferisco alle voci che Serra raccoglie di ritorno dalla marina di Bellaria
per le strade assolate e polverose della Romagna, voci di potenziali, futuri
coscritti e soldati: «“Signor tenente, ci torniamo presto?“»; «“che si vada? e
quanto si tarda? e quand’è che ci ritroviamo?”»; «“ma se ci tocca, si va tutti
questa volta. − Quasi, quasi, credo che ci siamo proprio. − O prima o dopo,
quando bisogna andare, si va. Ci troveremo”».
E non si tratta di mero passaggio d’un’opera quale il serriano Esame; si tratta d’un esempio di transito coscienziale, e di scrittura, alla colloquialità franta
ma significativa d’una generale attesa, a rappresentazione della struttura verbale
stessa di quest’opera unica, della sua testualità irripetibile e fascinosamente contraddittoria, del suo quasi misterioso equilibrio di scansioni drammaticamente
pindariche, in certi punti («Anzi, parliamone ancora», a fissare l’appuntamento
con la storia, nella seconda parte), eppure perfettamente accettabili all’interno
della compagine dello scritto. E risulta singolarmente efficace, ma ancor più appropriata e pertinente, l’inserzione del dialogato istantaneo, della colloquialità
immediata e non impostata − sebbene sapientemente immessa −, in una rete
testuale, in un viluppo di fasci linguistici interlacciati che rinvia a un continuo
scambio di codici fra scritto e parlato, scritto di Serra e meditazione di Panzini,
ma anche parole di Alfredo e riprese e riflessioni di Renato. Si inizi a constatare
questo sistema a quattro elementi sin dal luglio 1914, poco prima dello scoppio
36
Cfr. SERRA, Le lettere. La storia. Antologia degli scritti, cit., p. 148.
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della guerra, sempre a Bellaria, raggiunta da Serra in bicicletta per fare visita a
Panzini (DSG, pp. 35-37):
Di queste cose m’intrattenevo nel mese di luglio − quando il sipario dell’orrenda tragedia europea non era ancora levato − con l’amico Renato Serra,
qui in Bellaria, lungo la riva del mare. Renato Serra − non se ne dolga l’amico, restio ad ogni lode − è una delle più luminose intelligenze che io abbia
avuto la ventura di conoscere in questi ultimi tempi; e se le cose andassero
come dovrebbero andare, il suo posto sarebbe ben altro che in una deserta
biblioteca di Romagna. Egli si trova oggi in tutta piena giovinezza: alto, quasi
atletico, quasi imberbe, coi nervi molto a posto (non come i miei): porge
tuttavia, a prima vista, l’impressione di un ragazzone, riguardoso e quasi timido. Ma quando guizza la spada del suo pensiero, diventa invece timido e
riguardoso chi l’ascolta. Non che egli sia folgorante parlatore o dialettico. È
persuasivo perché è profondo, arrendevole, umano. Parla pianamente con
spiccata cadenza romagnola, chiudendo un po’ le palpebre quasi a meglio
concentrare la sua imagine di pensiero: spesso, un impercettibile sorriso! Dà
piacere ascoltarlo e dargli ragione […]. Veniva spesso a sorprendermi, sfolgorando su la bicicletta lucida, con quel suo sano affettuoso sorriso, sotto il
gran sole. Eravamo così lontani dalla guerra che si faceva la psicologia dei
fatti del giugno, specialmente in Romagna. Era stata allora chiamata sotto le
armi una classe, e pareva imminente un nuovo sciopero dei ferrovieri […]. Si
stava così bene lì, in riva al mare! / «In tale caso» dicevo io «la pace goduta
fino ad ora è stata comperata dall’on. Giolitti». Forse questa era la verità, ma
Renato Serra trovava che era inutile proclamare una verità quando nessuno
ci avrebbe prestato fede. / Così si parlava, tanto si era lontani dall’idea della
guerra. Era così sereno il mare in quei giorni! Tanta vita allegra e spensierata
fioriva su la riva del mare!
In questo brano, oltre ai dati e ai tratti caratterizzanti della nota prosopografia
psicologica, ma si aggiunga antropologica e addirittura fisiognostica di Serra, e
all’imprescindibile bicicletta (quasi componente del paesaggio, con termini quali
«sfolgorando», «lucida», «sotto il gran sole»), emerge la serenità della marina di
Bellaria, una marina che è un tòpos si può dire costante dei colloqui Serra-Panzini,
ma scaturisce anche un primo esempio di dialogo dallo svolgimento e dalla tempistica parzialmente autonomi rispetto al dialogo-dibattito, al dialogo a diretta ribattuta fra interlocutori: all’accenno esplicito a Giolitti da parte del proprietario
della Casa Rossa fa da riscontro una risposta indiretta e svicolante da parte dell’ospite ciclista, che a suo modo annulla la validità e l’utilità di un “vero” destinato
a restare senza ascolto. Il passo dedicato alle pagine del 25 agosto (48-49), invece,
fornisce lumi sul Serra della prima parte dell’Esame, anch’egli sospeso in un’attesa
che lo fa riflettere sull’inutilità e sull’inefficacia della guerra in vista di impossibili
cambiamenti radicali nella storia umana, e nel contempo un Serra già capace di
distanziare da sé, se non anche di liquidare, la realtà quotidiana, ormai superata
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dalla cappa dell’attesa, e capace altresì di distanziare non soltanto da se stesso, ma
per un momento anche dall’interlocutore, i discorsi, le atmosfere più diffuse e più
scontate dell’anno precedente l’intervento militare:
Renato Serra in questi giorni è venuto di frequente, e mi lascia ogni volta con un
«Arrivederci» sempre più incerto. Nella sua qualità di ufficiale di complemento, si aspetta ogni giorno il precetto di richiamo. / Anche lui, come me, non ha
più voglia di far niente. «Si vive» dice «come in un’altra atmosfera. I consueti
discorsi, le consuete occupazioni non mi sembra che abbiano più scopo […].
«Si desidera» prosegue Serra «così, appena di parlare con quei due o tre con
cui si può parlare senza parole. Ecco perché vengo da lei». / «Grazie!». / Andammo lungo la riva del mare. Egli recitò una sestina del Petrarca.
A parte l’«Arrivederci» sempre più incerto sulla realizzabilità del saluto, si rileverà
quella vita «in un’altra atmosfera», dimensione capace di relegare tutta l’esistenza
“consueta” in una strana, diafana, trasognata bolla soggettiva di condizione psicologica passata, nella quale ci si può persino meravigliare di essere stati e di avere
vissuto, come dice qui Serra quale personaggio di dialogo, come scrive Panzini nella sua enunciazione riportata in affabulazione diaristica, e come scrive Serra nell’Esame, proprio in quei mesi; non si ponga l’accento sulla sola atmosfera nuova; lo
si ponga, bensì, sull’atmosfera “vecchia”, o di colpo invecchiata, nella quale (e ciò
vale anche in buona parte per l’agitato Panzini, pur esente ormai dalla coscrizione)
tutta la vita fino a poco prima condotta entra subitaneamente in una trascolorata
emulsione spirituale, guadagnata in un attimo a una malinconica retrospezione da
tempo preterito. Se i nervi di Serra sono più saldi, è in lui, “richiamando” morituro
(per Gino Scarpa − p. 286 − Serra era «un predestinato»), che splende di pallida
bianca luce, nella cappa limbica dell’attesa, l’enigmatico sorriso all’angolo delle
labbra, ironia profonda sulla storia e insieme presagio di un orizzonte di guerra e
di morte. Una Medusa gentile, che attrarrà a distanza di tempo e dopo la morte
dell’amico il pensiero di Panzini (si rammenti il colloquio − pp. 320-322 − con la
popolana pescatrice Marta, in cui Serra sarà sempre più presente nella crescente
condivisione oggettiva delle cause della guerra), come le Sirene della conoscenza
l’ultimo viaggio di Ulisse. «Ma non saprai giammai perché sorrido», avebbe detto
D’Annunzio nella Chimera.
Si tratta, nel Serra di quel periodo e della prima parte dell’Esame, e in particolar modo nel vivo colloquio a Bellaria con Panzini, di una sorta di «calore di
fiamma lontana» di traccia foscoliano-didimea; solo che, nel caso della Stimmung
foscoliana, la “lontananza”, l’ironia storica, il sorriso come consapevole resa al fato
riguardano elettivamente il passato, ovvero, nella sua irrecuperabilità, il momento
più acceso, il periodo più vivido e più intenso delle passioni; per Serra il ruolo liberatorio operato dalla distanza, dalla limbica sospensione retrospettiva e straniante,
non vale solamente all’inizio del percorso, e soprattutto non vale per il solo passato; invece, ed è questo − certo insieme ad altri − il senso della progressione dell’E50
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same, il senso del suo passaggio non scanditamente argomentabile dalla prima alla
seconda parte, invece tale ruolo liberatorio vale riguardo al presente, per l’appuntamento, questa volta in piena e drammatica “cronaca diretta”, con la storia, con
un decisivo passaggio epocale e mondiale, con la guerra. Il calore di fiamma lontana attualizza la saggezza didimea, il suo originario protocollo culturale astensivo,
inserendola nella contemporaneità, permettendone l’immersione nella “gente” e
nel fato − nel tempo e nello spazio, nella res cogitans e nella res extensa −, in una
conquista di liberazione, e, finalmente, di autentica, di preziosa e fatale libertà
interiore, di distanza dal presente, di affrancamento e di alleggerimento dai vincoli
dei dubbi e delle perplessità, dai calcoli opportunistici sullo stesso presente e sulla
propria stessa vita. Non è la cavatina del tenore verso il “do di petto”; è il frutto di
una conquista progressiva del pensiero e della coscienza, sino ad una “contentezza” che smette i panni del presente, e che trasforma lo stesso presente − proprio
quello, e non più il passato − in calore di fiamma lontana; la partenza foscoliana si
flette − ugual direzione, ma “verso” opposto − in un tragitto che libera Didimo dal
presente, a vantaggio del primo, giovane tomo del suo io, e che serve esattamente a
recuperare una “fede”, se non un’ode, in Bonaparte liberatore, o meglio, in un’Italia liberatrice di se stessa, o sperata come tale. Non eroe sul palcoscenico, non eroe
impostato, non D’Annunzio da Discorso di Quarto; piuttosto, un lungo processo
di laica purificazione del pensiero e della sensibilità, in un intellettuale moderno
come non mai. Tutto il resto progredirà verso il silenzio, come dimostrerà il Diario
di trincea. Tutto il resto era futuro; e «il futuro non mi riguarda», scrive con lapidaria gnome autovaticinante l’autore de L’esame di coscienza di un letterato. Serra,
buon profeta come, talvolta, lo sono coloro che non sono profeti di professione,
avrà ragione sulla sua stessa pelle, sulla sua stessa vita.
«Si desidera […] così, appena di parlare con quei due o tre con cui si può
parlare senza parole. Ecco perché vengo da lei»; la ripresa panziniana delle parole
di Serra esprime, qui, uno dei concetti più importanti a definizione di un colloquio
di cui non sfugge la singolarità, di un colloquio nel silenzio (ne sono componenti
la stessa loquacità di Panzini, il garrulo fosforo che pure Alfredo immette nell’originalissimo amebèo): «parlare con quei due o tre con cui si può parlare senza
parole», la ricerca di un colloquio che presuppone l’azzeramento della parola, o la
sua pensosa rarefazione. Un colloquio che nasce all’insegna della propria smentita
semantica, del «parlare senza parole», del rispetto dei due diversi ritmi cogitativi
e locutorî, di un’apparente antinomia. E altri esempi possono essere addotti a dimostrazione dell’indole peculiare del dialogo “silenzioso”, intermittente e intercodicale (se si pensa alle riprese tra parlato e scritto) fra i due interlocutori: «Serra
ascolta senza dir nulla. Credevo che rispondesse con un lungo discorso. Intravedo
un lieve moto delle spalle. Dice soltanto […]. La sua voce è piana, ma mi pare là,
nell’ombra della poltrona, che il suo nobile corpo abbia un fremito» (Diario sentimentale della guerra, pp. 55-56); «Medito su le parole: il nostro petto ampliandosi
è quello che diceva Serra, sulla riva del mare, quando io gli chiesi: “Ma perché
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questa guerra?”» (p. 58); «Nei canti di quei brutti serbi e montenegrini si canta:
“Da Trieste a Cattaro, tutto slavo!”. / L’amico Serra nutre, invece, molta fiducia
nella dolcezza dei canti slavi» (p. 59)37;
Per fortuna è venuto Serra. / “Caro mio, tutto è finito!” / Mi sorprende il suo
sorriso tranquillo su la faccia sbarbata, anzi, un piccolo sorrisino ironico, dedicato a me, sull’angolo estremo delle labbra. / Domando: “Non è atterrito lei?”
/ ”Io no! è la prima fase finita; ciò che era attendibile: i francesi non furono né
messi in fuga né accerchiati” […]. Siamo risaliti in bicicletta. Io ho perso tutto
l’appetito. Su la tavola, attorno alla carta geografica, Serra si è messo tranquillamente a spiegare: “i francesi hanno ripiegato […]”. / Serra sorride […]. Abbiamo parlato a lungo tutto il pomeriggio, afoso, lento: ma il discorso moriva, si
infrangeva stanco, contro la muraglia di bronzo della realtà (pp. 60-61).
Sono possibili ulteriori esempi, concernenti anche altri autori o indiretti interlocutori, come Papini e Gino Scarpa: «Risarà tutto quello che fu!» (parole di
Panzini; p. 63); «Tu hai promesso, o Renato, di non tornar più a Bellaria, se non
porterai novelle più felici per la nobile Francia. Ah, non ti vedrò allora più, Renato
Serra!» (p. 69); «“La guerra in grande c’insegna per lo meno che la vita degli individui oscuri acquista valore soltanto quand’è perduta per la vita di popoli gloriosi”
37
La citazione panziniana riguardo ai serbi e ai montenegrini ha ovviamente mera funzione
strumentale; la distanza storica da queste parole non esime da una professione di assoluta alienità da
tali concetti. Sia permesso, invece, ricordare uno studioso che, in quell’epoca, manifesta simpatia e
apprezzamento, oltre che impegno professionale, nei confronti dei canti slavi, e fra questi, dei canti
montenegrini: DOMENICO CIAMPOLI (1852-1929). Dell’epica montenegrina Ciampoli si occupa in
La poesia del Montenegro, in Studi letterari, Catania, Giannotta, 1891, pp. 169-188; l’argomento è
ripreso in ID., La poesia del Montenegro, in «Nuova Antologia», XXXI (16 settembre 1896), 18, pp.
202-230; in ID., Intorno al Montenegro: amori e nozze, in «Nuova Antologia», XXXI (16 ottobre
1896), 20, pp. 588-621; in ID., Le ninfe del Montenegro (rist. per estr.: Roma, Dante Alighieri, 1897);
si ricordi anche A Elena del Montenegro, Regina d’Italia, ode dal serbo, in Adriatico, Venezia, 24
ottobre 1896. Di un canto montenegrino, Iovo e Maria, riproduciamo una parte del finale: «Tu
sei bella, Fatima, tanto bella / Più cara è sempre la fanciulla mia. / Buona Fatima, ti scongiuro:
dammi / Carta e penna, ché vo’ scriver tre righe. / Mia madre è astuta e potrà dir domani / Che
mi uccidesti tu. − Scrisse alla madre, / Poi disse alla fanciulla: − Tu sei buona, / Ascolta ancora
un’ultima preghiera: / Spargete sul mio corpo acqua di rose, / E nel portarmi a sepellir, passate, /
Passate inanzi della mia fanciulla, / Ché la fanciulla mia mi baci morto, / Poiché da vivo non poté
baciarmi. / E ti scongiuro ancor, buona fanciulla, / Non chiamar gente sino alla dimane. / Lasciam
la mamma lieta d’allegrezza / E le sorelle di ballo e di canto... − / Disse Iovo a Fatima e poi spirò. /
Alla mattina ecco viene la madre, / Con un mazzetto d’azzimo sottile, / Viene a destare i giovinetti
sposi. / Dette un grido la piccola Fatima, / E disse: − Mamma cara, mamma mia, / Il nostro Iovo
da ier sera è morto. / E la madre di Iovo: − Maledetta!/ Tu m’uccidesti il mio giovine figlio! − /
Rispose la fanciulla: − No, ti giuro! / Vedi, mamma, le righe che ha lasciate! / Lesse lo scritto la
madre di Iovo, / Lesse lo scritto e dette in largo pianto! / Sparsero su quel corpo acqua di rose»
(Studi letterari, cit., p. 185; per la resa metrica Ciampoli si avvale della versione di Cassandrich,
Zara, Artale, 1884 [ivi, p. 186 n.]).
52
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[Papini, Giornale del Mattino, 19 settembre 1914]. / Dottrine un po’ alla Nietzsche
e, come discorso ai soldati, non consigliabile. È morto per la patria un giovane
non oscuro, Carlo Péguy, autore di un bel libro sul Mistero di Giovanna d’Arco. /
Buono e caro Papini, se Ugo Foscolo avesse pensato come lei, mai avrebbe scritto
i Sepolcri» (p. 80); si veda anche (pp. 144-145), con parole rivolte appunto a Gino
Scarpa, recente lettore (4 maggio 1915) dell’Esame serriano, l’impressione spirituale, oltre che critica, prodotta dal testo pubblicato quattro giorni prima (si tratta
di una delle migliori pronunce di sensibilità critica tra i primi giudizi sull’Esame; si
notino gli accenni alla musicalità di questa prosa serriana, alla «giovinezza» e alla
«tristezza», e alla gravità quasi religiosa):
Che largo respiro umano! Le cose sensibili e le cose ultrasensibili vengono,
come le onde dall’alto mare, a rinfrangersi qui melodiosamente. V’è un senso
di musica, come v’è tanta giovinezza in questa tristezza di pagine, così gravi
che le direi religiose.
Segue la citazione del passo sul cristianesimo come unico valore contro le ingiustizie dell’universo, e contro i tedeschi, sul cristianesimo «nostro», che almeno «non ha perduta la tristezza e il gusto dell’eternità»; queste parole di Serra, commenta Scarpa, non saranno intese dai tedeschi; saranno «musica ad un
sordo!». Ma dopo avere spiegato il “vantaggio” per Serra di vivere come un re
in incognito, insomma in una posizione geoculturale non adeguata al suo valore, Panzini apre direttamente la scena al fronte, all’impegno militare diretto e
concretamente vissuto, già quasi in prima linea di trincea, del letterato-tenente,
zaino soldatesco e Platone, bozze dell’Esame di coscienza e campo operativo a
San Vito al Tagliamento:
Badi però che Serra presentemente è ufficiale, al confine. Almeno così, da
quest’ultima cartolina da San Vito al Tagliamento. Vede questa parola: finalmente? Egli sentiva la fatalità di questa soluzione e la desiderava. La cosa è
tanto più notevole perché Serra non crede nella guerra come specifico per
l’umanità. Ci credono alcuni infatuati, appartenenti alla bassa forza del pensiero. La guerra non paga nessun debito: tutt’al più apre nuove partite.
Si constati anche come il colloquio con Renato, o la lettura dell’Esame (uscito
sulla «Voce» il 30 aprile del ’15), risorga in momenti fra loro assai diversi; ad esempio, il 5 maggio del 1915, mentre si reca a Gorlago a trovare Clemente Rèbora,
Panzini scrive: «Ma no! Il filo dell’erba è forse la sola cosa che il tedesco non potrà
distruggere. Lo calpesterà. Risorgerà» (p. 146); e, ricevuta dall’Ospedale civile di
Latisana il 10 maggio 1915 una lettera di Serra con ritratto, Panzini esclama (p.
151): «Che lettera triste con presentimento di morte!» (il ritratto di Serra sarà
collocato accanto a quello dell’allievo germanico del professor Alfredo al “Filologico” di Milano − «Uguali! Una profanazione? Sono uomini»); più sotto (p.
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161), la stessa lettera sarà apprezzata per la sua «contenutezza eroica», e ne saranno ripresi i concetti (parole verso il silenzio, come direbbe del presto venturo
Diario di trincea Marino Biondi) che alludono, per non poter altro esplicitare,
alla «preparazione militare» (Panzini): «Di quel poco che si vede mi pare che
non stia bene parlare» (Serra; si ricordino, nella lettera a Giuseppe De Robertis
da Cesena del 7 giugno 1915, queste parole: «e poi certe cose, oggi, mi pare che
sia bene guardarle in silenzio. È già abbastanza poterci essere in mezzo!» [Epistolario di Renato Serra, cit., p. 584]; anche l’ingegner Gadda, per parte sua e dalle sue postazioni, nota che diverse cose non sono “in ordine”). Più sotto ancora
(p. 179), la notizia per cartolina dell’incidente d’automobile sofferto da Serra fa
pensare al professore di Bellaria, che ha in mente sia la tragedia greca sia Lucrezio, all’inizio della guerra «col sacrificio di una creatura bennata come Ifigenia»,
e lo fa polemizzare con i socialisti, che potevano «trovare altre più belle ragioni
contro la guerra» della deprecazione per lo spargimento del “solo” «sangue proletario». Si legga pure, a p. 286, la risposta di Gino Scarpa, il 15 gennaio 1916,
a Panzini: «“Infatti ero alla scuola di Modena: ma non mi sentivo di comandare,
di far l’ufficiale. Dopo la morte di Serra” dice con voce piana e strana come se
avesse aperto a me il sipario della sua coscienza “ho chiesto di essere mandato al
fronte come soldato. Ora sono caporale”». Serra aveva infatti scritto a Panzini, il
10 maggio 1915, la nota lettera “del ritratto”, che qui riproduciamo con qualche
taglio (Epistolario di Renato Serra, cit., pp. 579-580):
Caro Professore. / Ecco il ritratto che le avevo promesso. Non ne avevo mai
regalati né a uomini, né a donne, per quanto mi ricordo [«mi ricordi» nell’ed.
BAZZOCCHI]. E anche adesso mi trovo alquanto imbarazzato e quasi ridicolo
a spedirne qualcuno. D’altronde non lo faccio per tenerezza di me stesso, né
coll’illusione di conservare un ricordo che valga molto o interessi. Mando
questo ricordo a quelli a cui voglio bene, e mi pare una cosa naturalissima:
come verrei a salutarla, se potessi, sicuro che Lei mi abbraccerebbe e non
mi domanderebbe altro […]. Del resto non c’è niente di solenne in questo
saluto, che io le mando con un poco di commozione: non per me che son qui
calmo in mezzo al gocciolare interminabile della pioggia sulle paludi, e che
potrò anche tornarmene senza aver né fatto, né patito niente che sia degno
della nostra commozione. Ma questa è nell’ora e nell’aria, nel suo cuore e nel
mio, e mi pare inutile nasconderla. / La prego di salutare e di ringraziare per
me, se ha occasione, Linati, uomo e artista nobile, che mi è tanto caro in certi
accenti non solo di poesia […]. Ringrazi allo stesso modo la Signora Sibilla
Aleramo. Le scriverò qualche cosa più avanti: per ora, e di quel poco che si
vede, mi pare non stia bene parlare. / Una stretta di mano affettuosa a Lei e
tanti saluti ai suoi. / [Sulla cartolina con fotografia: Ad Alfredo Panzini per ricordo del suo Renato Serra (penso, scrivendo il mio nome, che avrei desiderio
di abbracciarla, caro professore)].
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«nell’ora e nell’aria, nel suo cuore e nel mio»; è anche così che l’atmosfera, potrei
dire lo Zeitgeist della Prima guerra mondiale, un conflitto adesso “al completo”
europeo con l’intervento dell’Italia (se si fa eccezione della dichiarazione di guerra alla Germania e alla Turchia, e della successiva dichiarazione della «Rumenia»,
cui tanto tiene Panzini), e lo stesso Zeitgeist dell’Esame di coscienza serriano, con
il suo volo sull’Europa percorsa dagli eserciti, dilagano nella sede tutt’altro che
inappropriata di Bellaria, della Casa Rossa e del professore, Alfredo Panzini. Più
che Nietzsche, l’«ora» e l’«aria» sembrano richiamare, in chiave drammatica,
una bergsoniana sensibilità nel percepire l’inevitabilità partecipativa al contesto
planetario della guerra. Bellaria e la nativa Romagna serriana non sono affatto
satellitari o incongrue a un nucleo di mirabile scrittura che guadagna i contadini,
i fittavoli, i rivenditori, i pescatori di anguille, lettori delle stelle e dell’«animato
alfabeto del cielo» (p. 84), al rango − non progettato, ma d’ineluttabile destino
− di vivace, di vociante e restia soldatesca romagnola (si tratta d’un’ulteriore
lettera ad Alfredo, del 13 luglio [Epistolario di Renato Serra, pp. 597-598], che
sarà citata testualmente per larghi tratti nel Diario di Panzini, p. 223, il 24 luglio
1915, alla notizia della morte di Renato):
13 luglio 1915
Caro Professore, / ho ancora in mente una lettera (respinta con lungo ritardo da Latisana), che mi giunse pochi giorni fa, al momento della partenza.
C’erano anche i saluti della Tittì e io non Le ho risposto! Mi scusi Lei, e le
dica che l’amico Serra la ringrazia come può, scrivendo in una buca riparata
da poche frasche, tra il tormento del sole e delle mosche. Ma c’è intorno un
boschetto d’acacie fra cui il sole passa come in un mobile filtro di smeraldo,
e chi sa poi come la divertirebbe l’aspetto di questo campo, così curiosamente annidato fra gli alberi nel pendio pelato e indurito dal calpestare incessante, e bucherellato come un formicaio. Lei invece vedrebbe cose meno
divertenti fra questi romagnoli che son sempre gli stessi: e bisognerebbe che
c’entrassi io a garantirle che questa gente materiale, chiassosa e riottosa e
pecorona, diventa all’occorrenza buoni soldati. Io sono stato con loro fino a
ieri in trincea di prima linea, a 100 metri dal nemico, sotto il fuoco continuo
e insidioso, a cui non si può rispondere: e ho visto anche dei bravi ragazzi.
Che altro devo dirle? Niente di nuovo da una parte, e dall’altra troppe cose,
di questi giorni infinitamente lunghi e pieni. Fra giorni torneremo al nostro
posto, a mezzo un colle: e chi sa che qualcuno arrivi anche alla cima. Speriamo che tocchi a noi.
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Questa soldatesca ha paura, una gran paura, e non lo nasconde38; ha paura e di questa si fa strumento, come avviene in determinati momenti, in certi crinali-limite negli
appuntamenti con la vita o con la morte, in vista di quel coraggio che uno si può
dare; in determinati frangenti, nei passaggi drammatici, qui umani e storici insieme,
è più prudente il coraggio della paura: «Bisogna aver paura… di aver paura!», disse
con pausata scansione e ripeté a gran voce Cesare Zavattini in una trasmissione radiofonica, richiesto di un consiglio ai giovani degli anni ’80, e lo disse con accento
regionale non dissimile dall’accento confuso e corale di quella soldatesca romagnola,
e del suo tenente, l’ufficiale letterato che con l’«urlo» − lemma non estraneo al Serra
di trincea − arricchì la gamma vocale riguardo a quel “falsetto” usignolesco (Borgese
ne sorride) che declamava in romagnolo dolce il più dolce dei poeti; si trattava di
una lirica del Petrarca che, al di là della laurea bolognese, era il poeta del maestro
Carducci − grande specialista proprio di metrica petrarchesca, di sestine, di sonetti
caudati e di sonetti rinterzati −, un Petrarca che aveva in Panzini un ascoltatore competente, ma distratto e angosciato dalla prospettiva della guerra e delle sue minacce.
Il “tono” armonico di Serra incontra l’interruzione di Panzini, vessato non a caso dal
pensiero della possibilità d’entrata italiana nel conflitto (cosa fare? «Vagliare pietre,
come ha fatto lei, ieri; oppure recitare una sestina del Petrarca», risponde Renato ad
Alfredo); eppure il dialogo è un dialogo vero; un dialogo, se si vuole, non articolato
nell’immediatezza del contraddittorio serrato ed effettuato in contemporanea, nel
“battibecco” dell’hic et nunc, dell’uno contro uno, della cronaca diretta, del “tutta
la guerra minuto per minuto”; non è, o non è ancora, quell’Italia, l’Italia del calcio,
della cronaca di dribbling ubriacanti uomo contro uomo; è invece, quella di allora,
e ancora per del tempo lo sarà, l’Italia del ciclismo, l’Italia delle biciclette e delle
pedalate in “rapporto” serriano, panziniano, od orianesco od orioverganesco39, delle
38
Serra ha ovviamente occasione di parlare a più riprese dei soldati romagnoli; se ne veda un
significativo esempio nel Diario di trincea, in SERRA, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland.
Diario di trincea, cit., p. 322, cc. 16v-17v: «non ho mai guardato in faccia − scrivendo − a questi
soldati: su cui cerco di illudermi e di illudere, quando ne parlo. Sebbene, non è tutta illusione. /
Anche loro non sanno di che cosa saranno capaci. / Se li guardi, se li ascolti, ti disgustano: barbuti,
sporchi, irrequieti: i soliti romagnoli aspri e chiassosi, teste anguste, volti materiali: i pregiudizi, il
malcontento, le meschinità; non hanno perduto niente. E la paura, la paura sospettosa di questi ||
contadini lenti, dallo sguardo vago; sbottonati, sbracati. E i discorsi fra loro, appena li lasci un po’
liberi: tornano fuori i pregiudizi, i rancori: il governo che trova i milioni per la guerra il governo −
ente misterioso e nemico: non ci manderanno a casa sani nessuno, almeno una mano, una gamba,
ce la vogliono far perdere (la guerra come una congiura mostruosa dei governi contro di loro,
dovunque. Lo dicono così, forse con la coscienza che non è vero. Ma col gusto acre di uno sfogo).
E lo scompiglio, la fuga davanti alle bombe: come pecore: se non li fermi con un urlo. Eppure, sono
ancora fra i meno peggio. E da un mese stanno qui. E con loro an||dremo avanti. / Gli ufficiali, poi,
ci sarebbe da aggiungere. E il modo com’è fatta la guerra. Se tornerò…».
39
Su Serra e la bicicletta, e sulle risonanze di tale mito in modalità epiche, cfr. DINO PIERI,
Uomini in bicicletta. Storia del ciclismo cesenate, nuova ed., Cesena, Stilgraf, 2004 (il volume
riguarda anche Alfredo Oriani); dello stesso ORIANI, si veda anche La bicicletta, nuova edizione a
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strade polverose e dei suoi eroi popolari e solitari, sia dei protratti e solinghi percorsi
assolati sia, e anche, dei tragitti serali, vespertini o notturni − qui, nelle strade delle
pianure di Romagna; tali percorsi non saranno sfavorevoli alla meditazione, ed anzi
essi la incrementeranno proprio nella linearità prolungata e slontanante dei sentieri
della campagna, di un Serra che impiega del tempo nel viaggio Cesena-Bellaria, e
che a ritroso, proprio dalla marina vicino alla Casa Rossa, si dipartirà per il viaggio di
ritorno: un viaggio in gran parte silenzioso, condotto talvolta nella crescente oscurità,
e sempre più inquietante, o una pedalata che, se invece prodotta alla luce diurna, è
segnata da incontri, da dialoghi rapidi ma significativi, solidali, marcati dalla paura e
dalla rassegnazione, con i prossimi soldati-contadini della guerra imminente; e la marina bellariese intona il la paesaggistico, visivo oltre che sonoro, a un quadro di preoccupazione che appare destinato ad aumentare a ogni visita di Serra: «Andammo
lungo la riva del mare […]. È sopraggiunta la Titì dal mare, con le chiome ondanti e
bionde, giù per l’accappatoio. Ride […]. “Beato lei, Serra, che non ha figli”» (Diario
sentimentale della guerra − d’ora in avanti DSG −, cit., pp. 48-49; si noti l’accenno
all’«accappatoio», in altro passo usato da Panzini per sottolineare il disinteresse politico delle bagnanti)40;
Sono tornato a Bellaria, convinto che tutto è finito. Riposo un po’. È vespero.
Sento di là la voce di Serra (DSG 55);
Ho accompagnato Serra a piedi per il sentiero delle alte marruche finché
giungemmo alla strada maestra. La luna nuova continuava, col suo biancore,
cura di ENNIO DIRANI, Ravenna, Longo, 2002. Si ricordi, quale esempio dell’importanza del mezzo
nell’Italia della prima metà del Novecento, il racconto di RAFFAELLO FRANCHI, intitolato proprio
La bicicletta, in «Solaria», II (dicembre 1927), 12, pp. 3-13. Il personaggio di Ferruccio del Re,
il derubato della bicicletta Bianchi, quindi un velocipede prodotto dalla famosa marca che dette
nome anche alla squadra ciclistica, protesta in questi termini al commissario di polizia la gravità
del furto che si è perpetrato ai suoi danni: «Una Bianchi, sa, che m’è costata sei mesi d’economie»
(p. 7). Né si tratta di un povero: il del Re, costretto alle «economie» per procedere all’acquisto,
è caratterizzato come personaggio di evidente agio socio-economico nel vestiario, nei guanti, nel
pacchetto di Macedonia da fumare.
40
Si noti, anche al di là della stessa presenza di Renato Serra, l’influenza fortemente
meteoropatica del clima e del tempo atmosferico di Bellaria in un’epoca, come è appunto quella
della guerra imminente in Italia, che segna in modo severo la condizione nervoso-umorale di
Panzini (DSG, pp. 82-83): «Bellaria, 24 settembre 1914. / Giovedì. Bora, bora! Ha nevicato
anche lassù in Carpegna. Le aiuole delle campanelle si sbattono con paura, son vizze, non hanno
più colore. Sul mare livido le onde accorrono con fragore di battaglia: il sole vi batte ogni tanto
sprazzi di un biancore troppo lucido». È appena necessario rimarcare la naturalezza metaforica
dell’inserzione di lessico semanticamente “militare” («fragore di battaglia») nel moto ondoso del
mare, ed il carattere sinistramente inquietante, quasi, per così dire, di “corrusco albore”, della
notazione luministica sull’eccessiva, lucida bianchezza degli intermittenti sprazzi di luce solare:
è un sole che sembra fulminare scintillando dall’alto, come fosse un segnale di aerei nemici sulla
marina e sulla spiaggia familiare.
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il dolce crepuscolo […]. Ai lati della via maestra, presso le case coloniche, si
trebbiava. Ogni tanto nella penombra del crepuscolo si presentava il profilo
di un carro colmo di strame, e la bianchezza dei grandi buoi si appressava con
l’alito mite del presepio […]. Ci siamo lasciati tristamente. Egli montò in bicicletta e scomparve per la via bianca, sotto la piccola luna; io ripresi il sentiero
verso il mare, fra le alte marruche. Ripetevo le parole di Serra: “Problema
di violenza!” / La Titì, quella sera, fu più affettuosa del solito: Domandò a
bruciapelo: “È vero che vengono i tedeschi?”. / Quasi mi venne da piangere.
Non risposi (DSG 56);
segue un’inorridita riflessione sui massacri di guerra di bambini in Belgio, poi più
volte ripresa41; e si veda il seguente notturno marino-bellariese, splendidamente
lirico, e insieme agitato dal senso cosmico di un conflitto che si è diramato davvero
a livello mondiale, un notturno che finisce, ancora una volta, con il richiamo alle
parole di Serra (DSG, 57-58):
Notte insonne. Apro la finestra che ancora è notte. Il carro dell’Orsa! Che
strana sensazione vedere quelle mirabili stelle in altra zona del cielo da quella
dove le lasciammo la sera, e tutte precipiti giù, col timone fino a toccare il
mare! Come hanno viaggiato nel cielo? Sembrano più fiammeggianti le stelle,
quando il cielo traspare per la nascente alba. V’è una stella crinita fra le stelle
dell’Orsa. È la cometa della guerra? E il sole sorge sempre più in là, verso
laggiù. Passa i tetti delle casette ad una ad una, passa le pioppe, e poi tornerà
quassù. Vengono in mente le parole di Serra: tutto automatico, tutto ripetuto,
tutto perpetuo! E il nostro pensiero, che pensa queste cose, che cosa è?
Le parole di Serra cui allude Panzini, e da lui riprese, possono essere considerate
come un distillato del pensiero che attraversa l’Esame di coscienza e che ha qui il
proprio canale espressivo a voce, fra le marruche e la riva del mare di Bellaria; e la
peculiarità stilistico-lessicale che il discorso serriano che leggiamo nella sede sua
propria − il panziniano Diario sentimentale della guerra −, imbeccato dal profes-
41
Si rammenti l’«orribile assemblaggio di carne e di acciaio» che scaturisce come veritiera (e
mostruosa) immagine della rinnovata anatomia di molti feriti, costretti ad annoverare quali «parti
integranti del corpo» «frammenti di bombe e granate»; cfr. PASQUALE GUARAGNELLA, Scritture
dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande Guerra, in In trincea. Gli scrittori della
Grande Guerra, a cura di MAGHERINI, cit., pp. 161-183, qui p. 174: «In genere si sconsigliava la
rimozione chirurgica delle schegge più grosse e profonde soprattutto nelle zone mascellari, che
nell’esperienza bellica risultavano essere la parte più colpita del volto. In questo modo frammenti
di bombe e granate sarebbero divenute parti integranti del corpo del soldato ferito, fino a costituire
un orribile assemblaggio di carne e di acciaio. Dunque, sin dall’inizio delle ostilità la mostruosità
entrava prepotentemente nell’orizzonte visivo non solo dei medici, ma anche dei soldati: ed era
una mostruosità, quella del volto, che colpiva forse come nessun’altra». Notevole, in tal senso, la
ricerca di BARBARA BRACCO, La patria ferita: i corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Firenze,
Giunti, 2012 (in particolare, su questo argomento, pp. 66-67).
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sor Alfredo con «Allora qualcosa di automatico…», avrà avuto nella realtà orale,
rende ancora più intrigante la codificazione panziniana, che registra espressioni
quali «al di là della superficie parvente» e «ore tragiche», le quali certo non appaiono testualmente serriane, ma che sono tali da assumere − nella basilare fedeltà al
pensiero − la focalizzazione d’un’idea della vita come nient’altro che una «piccola
parabola», e da assumere, altresì, la tragicità del passaggio storico come unico stimolo di sensazioni illuminanti sulla stessa vita, e certo non più “solo” sulla guerra
(DSG, 49):
Tutta la vita, se la guardiamo un poco al di là della superficie parvente, è
formata dalla ripetizione di antiche, consuete, piccole azioni automatiche:
coltiviamo le stesse biade, mangiamo gli stessi frutti come tremila anni fa, ubbidiamo alle stesse necessità: umanità che è vissuta, e non ha mai fatto troppa
osservazione dove, come è vissuta. La vita? Una piccola parabola davanti al
sole; un pullulare di bolle in fondo a una fonte perenne! Alcune bolle vanno
più in su, altre scompaiono subito. In verità sono sensazioni che non si acquistano se non nell’attraversare queste ore tragiche. La guerra è lo scoppio
di una crisi latente. Poi si riprende ancora il solito ritmo fino ad accumulare,
dopo un certo numero di anni, gli elementi di crisi per un nuovo cataclisma.
1.6 Guerra ed erba tenera. Pullulare di bollicine, brulichio di formicai (fra Pascoli, Tolstoj e Rolland)
Non sarà inutile riprendere il passo de L’Esame serriano per risalire a una serie
di fondamentali concetti che mettono bene a punto quel senso dell’immutabilità
della storia, delle vicende umane e delle vicende della natura, anche in presenza delle guerre, che, sul piano della razionale proponibilità, resiste anche nella
cosiddetta “seconda parte” dell’opera, dopo l’«Anzi, parliamone ancora»; ma sia
prodromo al testo di Serra il richiamo di Raimondi alla complessità ispirativa, pluriprospettica, dialetticamente vivida e compartita di un paesaggismo, com’è quello
di Renato, che si fa immagine della fuga del tempo e che riafferma la solidità d’antichissima data d’un assetto di storia terrestre che riassorbe e rende insignificante
la singola “bollicina” umana e antropomorfa, nella già rilevata «dialettica profonda
di stabilità e mobilità»:
Nei suoi paesaggi, nei suoi apparenti abbandoni descrittivi, emerge sempre alla
fine, dall’incontro stupito con le cose il passare del tempo. Se fosse possibile
− in questa sede − una sorta di analisi stilistica e tematica, quale avrebbe forse
voluto il lettore di Pascoli e Tolstoj, si vedrebbe come quasi sempre i suoi paesaggi, gli scenari della sua Romagna insieme concreta e ideale siano giocati fra
l’idea della stabilità della terra, nuda, schietta, rugosa, calva, grigia, solida, dura,
e il movimento instabile dell’aria, del vento, delle nuvole, a cui corrispondono
poi aggettivi come leggero, vano, vuoto, vasto, trasparente, fresco. Così, una
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delle formule che ritorna più volte, con un’origine che non è soltanto pascoliana perché appartiene anche a Rimbaud, è quella del «cielo vuoto»42.
Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati
42
RAIMONDI, La responsabilità delle parole, cit., pp. 343-344. E cfr. (ivi, p. 350) il concetto di
«polarità» di solido terragno e di nubila freschezza ventosa del paesaggismo serriano in relazione
allo «sfondo sottile e insistente di ombre, di fantasmi visibili o invisibili, in cui si specchia intero il
cosmo», quale specola visiva d’un universo che insiste vicino: i paesaggi serriani «rappresentano
sempre un universo». Ma nel paesaggio di Serra si insinua comunque il vuoto, la trasformazione di
un’apparente pronuncia descrittiva in un’inquieta ed enigmatica parola d’autointerrogazione, fra
sottofondo di silenzio e incertezza di contorni del tempo, anche ove il moto spirituale si animi di
propria virtù nell’onda della memoria; tale movimento, con le relative incertezze e i relativi dubbi,
può caratterizzare anche un ricordo lirico-paesistico fiorentino: «Un poco ch’io cerchi con la mia
memoria le orme dei cari anni lontani, ed ecco le varianti e l’apparato critico cadono dagli occhi
come ragnateli vecchi, che il vento si porta; e mi ritrovo andando per vie ben conosciute. Questo
che mi sferza il viso, è il vento aspro di marzo che turbina polvere e aghi di pini e seccume trito di
lecci via sul viale liscio e duro dei colli? o nuotano gli occhi nel sole di maggio, liquido e biondo
come un lago sul prato che gonfia di fitta erba leggera nella pace meridiana delle Cascine? o la
dolcezza è forse della luna navigando in un cielo di azzurra seta, all’ora che la torre di Palazzo
Vecchio si rintaglia aerea e bruna sull’argento delle nubi che scivolano nel vasto silenzio» (RENATO
SERRA, Le Storie fiorentine del Machiavelli, in ID., Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 112).
Ma la cifra dello spazio non solo topografico, bensì anche spirituale, e soprattutto gnoseologico e
identificativo del paesaggio serriano, rimane quella emiliano-romagnola, e si dica, più in generale,
padana; di più, tale cifra gnoseologico-identificativa può rendersi idonea, in alcuni dei più
importanti studi su Serra, a comprendere nell’operazione critica la stessa figura dello studioso e
altri suoi riferimenti geoculturali congeniali e consentanei; è il caso del bolognese Raimondi, della
sua assunzione del concetto e del termine di «tramando», qualcosa di più e di più “umano” della
generica «tradizione», un «tramando» nel quale si congiungono il precoce e autonomo incontro
con Serra e l’insistenza d’una terminologia che risale alla critica d’arte di Francesco Arcangeli (cfr.,
qui sopra, le note 15 e 23); si veda, sul circolo intellettuale e di sensibilità artistica che intercorre
nel tempo fra Serra, Arcangeli e Raimondi (e aggiungeremmo Giorgio Morandi), BATTISTINI, «Il
pathos che non si ostenta». Ezio Raimondi lettore di Serra, cit., pp. 31-32: «Francesco Arcangeli
[…] definiva il “tramando” […] una continuità “di costume e di vita altrettanto che di arte”, un
retaggio di civiltà, anche inconsapevole, ma pur sempre riconoscibile, identificabile in un comune
spazio emiliano-romagnolo o meglio ancora padano, secondo una geografia della coscienza che,
per un Raimondi in cerca di identità, proponeva “insieme una misura di gusto che era davvero la
facoltà di reagire all’esagerazione, un’etica della lettura rigorosa quanto delicata”». E a proposito
del Serra che suggerisce, in alcuni “cenni” manoscritti, l’analogia tra il raccontare ariostesco e la
prosa di Manzoni (vedi più oltre, nn. 67 e 68), è proprio Raimondi a coglierne il profondo valore
critico, nel senso di una comune «naturalezza riflessiva», di un «movimento di prospettive», di una
«spaziosità intellettuale» che trovano, scrive Battistini (p. 40), «le loro radici in una stessa geografia
spirituale»; si era scoperto «in Ariosto un carattere, per così dire, di ‘emilianità’, ovvero una “forza
espressiva” che apparteneva “a una civiltà fatta insieme di pathos e di ironia”. Grazie al cesenate
Serra il bolognese Raimondi aveva trovato che “una strada segreta congiungeva dunque l’Emilia
e la Romagna alla Lombardia di Manzoni”». Nell’itinerario che conduce appunto a Manzoni e a
Il romanzo senza idillio, a detta del suo stesso autore, Serra potrebbe avere avuto «una parte non
trascurabile».
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dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova,
piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?43 /
43
In SERRA, Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit., parr.
30-35, pp. 131-133 (cc. 15-19r). Alla c. 16r si ricordi il testo del manoscritto, poi cancellato,
dopo «in mezzo alla pianura fosca»: «Tutto è vicino, angusto, uguale, antico»; e alla c. 18r ms,
dopo il capoverso che inizia con «Che cos’è una guerra» e termina con «scacciati, ritornano?»,
Serra aveva scritto, attraversando vari passaggi sull’autografo (per i dettagli di tali passaggi, si
rimanda all’edizione Biondi-Greggi): «La guerra passa, e restano i solchi e le zolle; la terra anche
devastata non tramuta il contorno delle sue rughe e il luogo delle sue valli, non sposta le sedi degli
uomini». Si veda ciò che a questo proposito dice Marino Biondi, in SERRA, Le lettere. La storia.
Antologia degli scritti, cit., pp. 149-150: «Potrebbe definirsi il motivo della lunga durata e del
punto di vista cosmologico, che si coordina a quello dell’“ubi sunt?” (“Dove sono gli uomini e
la loro storia?”, nel Fra’ Michelino), delle lacrime sparse sugli imperi perduti. Il “sic transit gloria
mundi”, pronunciato da un laico senza illusioni e senza speranze. Questa dinamica, dell’ascesa e
della decadenza della civiltà, potrebbe appellarsi al paradigma della ciclicità, atto a rompere la
continuità progressiva e lineare dello storicismo. Esso si articola in questi lessemi: “terra stanca”,
“pianura fosca”, “cielo vuoto”, “stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate”, “squallore
della terra”, “secoli succeduti ai secoli”, “branchi di uomini”, vita “irriducibile nella sua animalità
istintiva e primordiale”, “vicenda del sole e delle stagioni”, “stessa marea umana”, “distesa grigia,
fra queste Alpi taciturne e questo mare scolorito”, “la vitalità del branco”, “animalità sorda e
irriducibile”, “razza”, “la realtà della razza”, “spinta istintiva, oscura e dispersa ancora, ma
profonda e tenace”, “travaglio e dolore fatale del vivere”. Il lessico privilegia la tenuta temporale,
la durata, la tenacia, la animalità, la irriducibilità. Forze primigenie e violente, a fronte della
coscienza che è fragile e vulnerabile, e appartiene a un grado di evoluzione successiva, all’uomo
culturale che si ritiene illuministicamente legislatore del mondo […]. Dal punto di vista della lunga
durata, la guerra è uno dei “romori fugaci”, una delle “percosse sorde”. La cosmologia assorbe
la guerra, la relativizza e la annienta. Non è l’evento che si dice, di cui favoleggiano la politica e
la storiografia. La terra resterà stanca, anche con la guerra, indifferente alle stragi e al sangue che
berrà al modo in cui si assorbe una pioggia. L’immutabilità della natura, che si giova in Serra
di uno sguardo non diretto sugli uomini ma sulla natura, che non è fatta per gli uomini, donde
questo straniamento silenzioso e assorto, distaccato e siderale, che consente a Serra di affermare
che la guerra, fatto umano, non inciderà sugli eterni equilibri dei fatti naturali e disumani. Si
avvicina a una posizione non antropocentrica, contestativa cioè di una centralità umana, a una
forma di desolato copernicanesimo filosofico (di matrice speculativa leopardiana, e poeticamente
pascoliana), che colloca Serra al di fuori del tradizionale umanesimo dei tolemaici, tutto centrato
sull’uomo e sulla sua sovranità nella storia anche della natura […]. L’Esame di coscienza vive di
questo respiro fra lontano e vicino; nel vicino la passione, nel lontano la storia indifferente, il
pirandelliano cannocchiale rovesciato, per allontanare la vita, stornare il dolore. Al punto di vista
cosmologico, alla sensibilità del lontano, si oppone il punto di vista della persona, nella dimensione
del vicino, della vita breve, della vista corta, della coscienza agitata, sommossa, angosciata. Allora
quello che era un trascurabile momento nella sterminata antichità della natura, diventa, non solo
un immane sconvolgimento, un “dramma immenso”, ma “occasione”, “destino”, per usare parole
cariche di senso nel contesto dell’Esame di coscienza». Si rammenti a questo proposito il Romain
Rolland del Jean-Christophe, cit., liv. VI (Antoinette), pp. 22-23, in un passo dedicato alla famiglia
Jeannin e al suo risoluto, fermo, indiscutibile, identificativo legame con la terra («être depuis des
siècle un morceau de cette terre»), nella sua realtà, si può dire, materiale e sodamente concreta; si
tratta, sotto molti aspetti, di un legame ctonio (anche per lo scrittore, che nel brano riecheggia la
nativa Clamecy), a tal grado che delle radici profonde esso mantiene la sicurezza in buona parte
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Io non faccio il profeta. Guardo le cose come sono. Guardo questa terra che
porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore violetto
dagli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Le nuvole dormono senza moto sopra le creste dei monti accavallati e ristretti; e sotto il cielo
vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate
giacere in mezzo alla pianura fosca. / Non vedo le traccie degli uomini. Le
case sono piccole e disperse come macerie; un verde opaco e muto ha uguagliato i solchi e i sentieri nella monotonia del campo: non c’è né voce né suono
se non di caligine che cresce e di cielo che s’abbassa; le lente onde di bruma
sono spente in cenere fredda. / E la vita continua, attaccata a queste macerie,
incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile. Non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare44: sono piccoli, perduti nello
inconsapevole, la fissità aproblematica: «restent fixés au même coin de province […], malgré tous
les changements survenus dans la société; il faut un bouleversement bien fort pour les arracher
au sol où elles tiennent par tant de liens profonds, qu’elles ignorent elles-mêmes […]. Ce qui lie
d’une étreinte invincible, c’est l’obscure et puissante sensation commune au plus grossiers et au
plus intelligents, d’être depuis des siècle un morceau de cette terre, de vivre de sa vie, de respirer
son suffle, d’entendre battre son coeur contre le nôtre, comme deux êtres couchés dans le même
lit, côte à côte, de saisir ses frissons imperceptibles, le mille nuances des heures, des saisons, des
jours clairs ou voilés, la voix et le silence des choses. Et ce ne sont pas le pays les plus beaux, ni
ceux où la vie est la plus douce, qui prennent le coeur davantage, mais ceux où la terre est le plus
simple, le plus humble, près de l’homme, et lui parle une langue intime et familière. / Telle la
province de la France, où vivaient les Jeannin. Pays plat et humide, vieille petite ville endormie,
qui mire son visage ennuyé dans l’eau trouble d’un canal immobile; autour, champs monotones,
terres labourées, prairies, petits cours d’eau, grands bois, champs monotones … Nul site, nul
monument, nul souvenir. Rien n’est fait pour attirer. Tout est fait pour retenir. Il y a dans cette
torpeur et cet engourdissement une secrète force. L’esprit qui les goûte pour la première fois
en souffre et se révolte. Mais celui qui, depuis des générations, en a subi l’empreinte, ne saurait
plus s’en déprendre; il en est pénétré; cette immobilité des choses, cet ennui harmonieux, cette
monotonie, ont un charme pour lui, une douceur profonde, dont il ne se rend pas compte, qu’il
dénigre, qu’il aime, qu’il ne saurait oublier».
44
Nel Commento al par. 33 (Esame di coscienza di un letterato. Carte Rolland. Diario di
trincea, cit., p. 224) si ricorda l’immagine tolstojana del formicaio (e Tolstoj era stato oggetto
d’una famosa Vie scritta nel 1911 da Romain Rolland, scrittore titolare d’una lunga, appassionata,
e anche travagliata storia lettoriale nella coscienza serriana): «Così com’è difficile spiegare quale
motivo e quale scopo abbiano di affrettarsi tanto le formiche di un formicaio devastato, le une
allontanandosi dal formicaio e trascinando pagliuzze, uova e cadaveri, le altre facendo ritorno al
formicaio, e perché si scontrino, si inseguano, si azzuffino, così è difficile spiegare le cause che
indussero i russi, dopo la partenza dei francesi, ad affollarsi in quel luogo che prima era chiamato
Mosca» (LEV NIKOLAEVIč TOLSTOJ, Guerra e pace, a cura di LEONE PACINI SAVOJ-MARIA BIANCA
LUPORINI, Milano, Rizzoli, 2002, p. 1325). Si ricordi anche l’immagine dell’«alveare irritato», di
origine tolstojana, che offre la città di Cesena in occasione della Settimana Rossa, in una lettera
serriana a De Robertis sulla quale si sofferma Raimondi: «un mito tolstoiano, che discende nelle
pagine di Serra, ripetendosi con la tenacia e l’intensità di un simbolo, dal capitolo memorabile di
Guerra e pace su Mosca distrutta e poi ripopolata dai russi: il loro è un formicolare apparentemente
insensato, non si comprende in che direzione vadano, ma stanno facendo qualcosa, stanno
resistendo» (cfr. RAIMONDI, L’intellettuale solitario, cit., p. 291). Sempre Raimondi, come ricorda
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squallore della terra: è tanto tempo che ci sono, che oramai son tutt’una cosa
con la terra45. I secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branchi di
BATTISTINI («Il pathos che non si ostenta». Ezio Raimondi lettore di Serra, cit., p. 35), si mostra,
in modo costante, acutamente capace «di ritrovare in ogni scritto serriano il simbolo dell’uomo
solo sperduto nella natura, movendo dal Pascoli cosmico che paragona gli uomini alle formiche
al Kipling di Kim e al Tolstoj di Guerra e pace, dove ci si imbatte ancora nella similitudine delle
formiche […]. Nel caso di Serra l’indice comune delle formiche simboleggia, riferito a Pascoli
la fragilità dell’uomo, mentre nell’Esame, con l’innesto di Tolstoj, significa anche “la forza
perenne che resiste”». Ci si riferisce al Pascoli de Il ciocco (Canti di Castelvecchio), al suo «canto
primo», che tratta delle formiche facendo idealmente base sulla leopardiana Ginestra (vv. 202236) e sull’implicito paragone della rovina recata dal pomo sugli insetti con la rovina recata agli
uomini dalle catastrofi di natura, senza scordare, nelle Prose pascoliane, I (La ginestra), i concetti
che il poeta di San Mauro tratta, lì e in questo senso, in modo esplicito; si ricordino, del famoso
saggio Giovanni Pascoli di Serra, in riferimento alla lirica dei Canti di Castelvecchio, innanzi tutto
l’accenno in cui si dice «parla di formiche cui brucia la casa nel ciocco»; quindi, il seguente passo:
«gli Dei si rappresentano alla fantasia della smarrita umanità vagabonda, non altrimenti che i
mostri e le gigantesse, accennanti fra le nuvole del cielo agli occhi della piccola gente brulicante
nel ciocco: delle formiche, a cui bruciano le case e che vedono, per gli spiragli del legno ardente,
la veglia dei contadini intorno al focolare, come un concilio di divinità» (cfr. il saggio su Giovanni
Pascoli, con la nota introduttiva di BIONDI [Suggestioni di lettura e analisi critica], pp. 41-47, in
SERRA, Le lettere. La storia. Antologia degli scritti, cit., pp. 53 e 69; il testo è fornito secondo l’ed.
critica a cura di IVANOS CIANI, negli Scritti critici. Edizione nazionale degli scritti di Renato Serra,
Roma, Libreria dello Stato, 1990, I, pp. 5-51; e ancora, «O non ricordate le formiche, quelle di
Psiche, frugole e succinte, e quelle del ciocco / [Ma [«e»] un’altra vita brulicò nel legno / che
intarmoliva / così passava la lor cauta vita / nell’odoroso tarmolo del ciocco]?» − ivi, pp. 70-71).
Ma, oltre ai precedenti interni all’opera pascoliana (il poemetto latino Myrmedon del 1893), vi
sono i grandi precedenti letterari costituiti dal Virgilio delle Georgiche (IV, 153 ss.) e dal Plinio il
Vecchio della Naturalis Historia (XI), e i precedenti rappresentati dagli ottocenteschi, e recenti per
Pascoli, Alfred Edmund Brehm, La vita degli animali, Torino, UTET, 1873, VI, e John Lubbock,
Le sens et l’instinct chez les animaux, cap. X, oltre alla Vita delle api (La vie des abeilles) di Maurice
Maeterlink (1901). Il focus era concentrato sulla ripartizione dei compiti sociali e lavorativi fra
gli insetti, in un clima culturale in cui (vale per Maeterlink) la partenza evoluzionistica si apre a
concettualità spiritualistiche (cfr. GIUSEPPE NAVA, Note ad Il ciocco, in GIOVANNI PASCOLI, Canti di
Castelvecchio, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 140-141). Si veda, a solo mo’ d’esempio, un breve passo
da La vita delle api di Maeterlink: «Rompete venti volte di seguito i loro favi, portate loro via venti
volte i figli e i viveri: non arriverete mai a farle dubitare dell’avvenire; e decimate, affamate, ridotte
a un gruppetto che può appena nascondere la madre agli occhi del nemico, esse rimetteranno
ordine nella colonia, provvederanno alle cose più urgenti, si divideranno i còmpiti secondo le
necessità anormali del momento disgraziato, e riprenderanno immediatamente il lavoro con una
pazienza, un ardore, un’intelligenza, una tenacia che non si trovano spesso in così alto grado
nella natura» (cfr. appunto MAURICE MAETERLINK, La vita delle api, traduzione e note di REMO
COSTANZI, Milano, Rizzoli, 1951, p. 38). E i «mestieri», cantati sin quasi all’allusione alla “divisione
del lavoro” tra le formiche, permettono al Pascoli di esibire un abbondante campionario lessicale
di termini tecnici riferiti ai lavori artigianali nominati su base dialettale, o comunque di sottofondo
locale-garfagnino, arpeggiato con un’«intenzione di controcanto omerico», direbbe Contini, dato
che proprio da Omero Pascoli intercala prestiti e calchi espressivo-terminologici.
45
Sullo «squallore della terra», sempre nel par. 33, cfr. BIONDI, Commento all’Esame di
coscienza, cit., pp. 224-225, che sottolinea un’annotazione di RAIMONDI, in Un europeo di provincia:
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uomini sono rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto,
con una agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli
stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampate fra
le pieghe di questa crosta indurita: flussi e riflussi, sovrapposizioni e allagamenti improvvisi hanno a volta a volta sommerso i limiti, spazzate le plaghe,
sconvolto, distrutto, cambiato. Ma così poco, così brevemente. Le orme dei
movimenti e dei passaggi si sono logorate nel confuso calpestio delle strade;
e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi la vita ha continuato uguale; è
ripullulata dalle semenze nascoste […]. / Che cos’è una guerra in mezzo a
queste creature innumerevoli e tenaci, che seguitano a scavare ognuna il suo
solco, a pestare il suo sentiero, a far dei figli sulla zolla che copre i morti; interrotti, ricominciano: scacciati, ritornano? / La guerra è passata, devastando
e sgominando; e milioni di uomini non se ne sono accorti. Son caduti, fuggiti
gli individui; ma la vita è rimasta, irriducibile nella sua animalità istintiva e
primordiale, per cui la vicenda del sole e delle stagioni ha più importanza alla
fine che tutte le guerre, romori fugaci, percosse sorde che si confondono con
tutto il resto del travaglio e del dolore fatale nel vivere.
Come il sacrificio stesso dei partenti per la guerra, dei combattenti, non ha in sé il
germe della necessità assoluta, così le guerre, non solo quella in cui sta per entrare
l’Italia, non sommuovono le grandi linee di fondo, le grandi vicende della storia
della natura, le abitudini plurimillenarie dei campi, dei mari, e dei loro abitanti
(«Non rimane altro conforto che dire la vita in questo formicaio umano vale la
morte», scriverà Panzini il 24 luglio del 1915, alla notizia della morte di Serra, con
ripresa dell’immagine del formicaio), le modalità di procurarsi il cibo e il sostentamento, le risorse per coltivare in grande stile le piante e il patrimonio vegetale
necessario a noi. Si tratta di concetti che di lì a poco un’idea strategica completamente rinnovata della storiografia, in una parola una storiografia nuova sul piano
civile e storico-culturale, porrà a fondamento di tutto un metodo differente di
procedere nei relativi studi. Serra, appare il caso di dirlo, vi è arrivato da solo senza
poterlo oggettivamente sapere. Tali riflessioni, delle quali Panzini ha potuto fruire
sia − in modo più soggettivo, rielaborato e personalizzato − nella loro forma orale,
sia, con le dovute differenze, nella loro forma scritta, incidono profondamente sul
professore di Bellaria; solo che anch’esse non possono attenuarne la preoccupazio-
Renato Serra, cit., p. 28, riguardo al legame tra questo segmento testuale de L’Esame e una lettera
dello stesso Serra a Panzini, scritta a Cesena il 27 novembre 1914 (Epistolario di Renato Serra, a
cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., pp. 532-533), su cui torneremo più oltre, e nella quale
Renato si esprime in questi termini: «Io mi chiudo e mi smarrisco nel sordo buio dell’anima, che
forse poi è vano e nulla come questo infinito spazio di fuori, che giace in una chiarezza pungente
di cristallo sopra la terra disseccata dall’inverno»; ed è significativo che proprio Alfredo Panzini
ne sia il destinatario; di notevole suggestione il commento di Raimondi: «È un’onda di nichilismo,
con qualcosa di stoico, quasi di spietato, che detta parole già vicine allo squallore metafisico
dell’Esame».
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ne, né l’indignazione visiva di fronte agli “spettacoli” di orrore della guerra, o alla
loro notizia, spettacoli che domineranno nella seconda parte del Diario, in quel
drammatico giro di boa e di nuova deriva, di naufragio iconico e di pensiero, che
sarà segnato dalla morte di Renato, dal silenzio assordante del ricordo della sua
voce ormai assente, e che, senza che Renato sia soppiantato dalle nuove, inquietanti e intriganti prosopografie di Clemente Rèbora e di Gino Scarpa46, disperderà il
precedente grumo di fondamentale compattezza in una serie di diverse, stranianti
modalità colloquiali, scandite dal ritmo di guerra nella sua tragica paratassi nel
“presente” della diaristica, e altresì in una serie di immagini, orrorose appunto (si
ricordi, ad esempio, quella del soldato sloveno, a parte il dubbio − giustificato −
se al tutto veritiera), sino al disgusto da repulsione tanatofagica per il cibo, ormai
confuso con la morte, con il lezzo cadaverico, con la putrescenza del disfacimento,
del miasma di trincea, delle parole dei soldati, del breve ritorno dei morti alla vita,
a testimonianza cruda dell’esperienza di un aldilà ormai da loro sperimentato e
conosciuto, con legittimazione di prima mano a parlarne ai viventi. Ma il senso, la
direzione basilare di quel brano, concepito, si può dire, a Cesena come a Bellaria,
e in parte corretto in bozze dal destino stesso fattosi sostanza e passione a seconda
della logistica operativo-militare di Serra, quasi all’estremo respiro del letteratosoldato di mantenute promesse, rimangono comunque, in Panzini, ben radicate, e
rielaborate − in lui vivente − come coscienza di fondo, quale consapevolezza che va
al di là degli stessi fatti e delle epoche, al di là delle corrusche cronache dei bagliori
del conflitto; è, in un certo senso, il compito del superstite di quei colloqui. Serra,
uno dei due interlocutori, non c’è più. Panzini manterrà, dietro la fenomenologia
del suo Diario, l’idea dello sfondo di inutilità di tutte le guerre, movimenti di superficie rispetto all’abisso marino immutabile. Inutile chiedergli di evitare tutti i
passi di compianto esplicito sulla mancanza di Renato, che dimostrano, sì, l’importanza del pensiero di Serra, soprattutto quello espresso a voce, nelle “chiacchierate”, il pensiero orale, colloquiale, dialogato, gentilmente flebile e “tacitamente
allocutivo” del quasi silenzioso accento “romagnolo dolce”, timidamente proferito
46
È una figura davvero lontana da quella di Serra quella del Gino Scarpa che il 2 novembre
del 1914 («Nel giorno dei Morti»), a Milano, venuto a salutare Panzini, intonerà un inno di lode
alla Germania, innescato a livello di fantasia sensoriale dall’«odor d’ozono» (DSG 89): «“Sì,
l’odore sano, purificatore delle grandi tempeste! La guerra è la gran purificatrice. Gloria alla
Germania! È la bancarotta completa della miserabile civiltà in cui noi credevamo! Monumenti,
codici, diritto, proprietà, tutto crolla. Ed è la Germania − la nazione più avanzata di questa civiltà
− che fa crollare tutta la vergognosa baracca”. / “Il guerriero” continuò lui sempre più entusiasta
“vincerà il mercante e il filisteo! Ricorda la profezia di Zarathustra?”. / Così ci siamo lasciati. La
sua carrozza è scomparsa nella notte, sotto la dolorosa pioggia». Non è certo questo il Nietzsche
di Serra. Ma diverse saranno le parole di Scarpa, alle pp. 141-142 (maggio 1915), quando, di
ritorno da una Spagna elogiata proprio nella sua indolente realtà di regime feudale e lontano dalla
temperie sociale dell’industrialismo, dirà a chiare lettere di temere la cosiddetta morte per la patria,
e definirà un “mostro”, tecnicamente sin allora vincente, la Germania.
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dall’elegante trentenne imberbe; non a questi compianti, pur umanissimi, avrebbe
aspirato Serra, che anzi, con quel brano, mirava a escluderli − singoli eventi −, in
nome dell’abisso terrestre della vicenda sempre uguale della natura e della storia. Ma quella “coscienza”, che in Panzini si è pure formata, rimane, e traluce in
filigrana sotto ogni ammissione oggettiva − nella seconda parte del Diario − della
superiorità di Serra, della sua percepita inarrivabilità.
Questo succede nei colloqui fecondi e profondi; tanto profondi da escludere,
per loro stessa natura, come si è accennato, il “battibecco” colloquiale diretto,
il botta e risposta cronachistico dell’ascolto simultaneo da dibattito impostato.
Ciascuna delle due voci, e ciascuna delle due scie di pensiero, non produce certo
sùbito il proprio effetto, non attira − men che mai immediatamente − la risposta
ad hoc di pertinenza a corto raggio, di rispedizione a brevissimo giro di posta,
di rimpiattino di tipologia, a ben vedere, pettegola e comaresca. I tempi di un
dialogo fra letterati intellettuali, se così vogliamo dire, qui si mostrano tempi peculiari, tempi lunghi e soprattutto tempi misti; è questo il dialogo che cerca Serra, oserei dire più ancora dello stesso Panzini. E le parole ivi dette, pronunciate,
tanto più se in forma di discorsi, di periodi e non di singole frasi, riecheggiano
nel tempo, riecheggiano “dopo” la loro pronuncia, e riecheggiano nella mente,
nella memoria, nella sensibilità, e ovviamente nel pensiero razionale di ognuno
dei due fruitori della natura e della marina, del bagnasciuga, della spiaggia, di
quello slargo marino bellariese che si presenta mutevole quasi a seconda della
cronaca giornalistica e della temperie psicologica di ciascuno degli interlocutori
e del loro dialogo. Così risuonano le parole di Serra in Panzini nel dopo morte,
dopo il 24 luglio del ’15, e risuonano anche con valenza comparativa nei riguardi
dei sopravvissuti, dei superstiti, dei non combattenti, come lo stesso professore;
ma erano risuonate anche in Serra, nell’Esame stesso, nell’epistolario, nel Diario
di trincea. Perfino il titolo del Diario di Panzini, a sua volta, com’è noto, fruito
e apprezzato da Serra (ovviamente, per la parte 1914) anche per l’espressione
professa della drammaticità e della considerazione della cronaca e delle altalenanti paure, e soprattutto delle riflessioni cui essa induce, può porsi come Diario
sentimentale, perché dettato dalla consapevolezza non solo della “non scientificità storiografica”, come Panzini non senza un fremito d’ironia successivamente scriverà, ma dalla consapevolezza del proprio stesso disordine di sentimenti,
dell’alternanza di diversi e non affatto dominati stati d’animo, di sfiancanti, di
spossanti saliscendi umorali come rielaborata variabile dipendente della cronaca:
vizi per il classicista, difetti per lo storiografo, ma pregi, e forse i pregi maggiori
di quello stesso Diario, per lettori e per critici che, pur senza monocorde riscontro, hanno apprezzato ed apprezzano soprattutto tale ritmo e tale serie di
“finestre” di cronaca di guerra e di sentimenti d’intellettuale vigile e affannato,
nell’agitata ma proprio per questo significativa prosa panziniana; il riscontro dei
lettori, variamente (e per un certo periodo ampiamente) verificabile nel tempo,
non avrebbe davvero, nel complesso, dato torto a Panzini.
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In un dialogo che è realmente a due voci, nel quale tali voci spesso sembrano
risuonare in modo reciprocamente autonomo, insomma indipendente l’una dall’altra, si è formata, secondo tempi intellettuali, morali, e soprattutto passionali, che
sono scorsi, che sono “durati” − se Dio vuole − iuxta propria principia, la “coscienza” di Panzini: non la coscienza personale, s’intende, e neppure la coscienza di
guerra, bensì la coscienza “nell’epoca di guerra”. L’effetto retard, l’assorbimento
apparentemente lento e in realtà più profondo della lezione di Serra (ma così avverrà in maniera incrociata nel “Panzini” dello stesso Renato) diventa, e si palesa
nel tempo storico e di narrazione, come la coscienza segreta di Panzini, come la
coscienza tacitamente rattenuta, ma non per questo assente o dimenticata, non per
questo liquidata o accantonata per imbarazzo comparativo con la sponda di sormontante valore, da parte del proprietario (tassato con sue querimonie dal comune
di Rimini) della Casa Rossa; alle manifestazioni di giustificata angoscia, di motivato
orrore che le immagini e le notizie della guerra suscitano con sinistra creatività
a getto continuo, lo scrittore di Bellaria accompagna una silenziosa ma evidente
coscienza dell’inevitabilità, dell’indiscutibilità di questo terribile periodo di morte, di distruzione, di immagini di distorsione della stessa vitalità umana primaria;
al commento, alla disperazione della glossa emotiva o etico-storica, si affiancherà
sempre più la moltiplicazione ostensiva, o quanto meno allusiva, delle immagini
stesse, d’un’iconologia mortuaria di figure umane deformate, di relitti d’un’umanità costretta a smettere le categorie antropologiche comunemente vulgate. Ed
è lì, in specifico, che vi è Serra, ormai mitizzato e acquisito tra le prime vittime
eroicamente frontali del conflitto, ma insieme fonte rammemoratrice dell’ineluttabilità delle vicende, della soggezione planetaria a un comune destino. Era stato
Serra a ricordare che doveva venire il momento di iniziare a fare «alle fucilate»47
contro l’Austria, e a ricordare, altresì, che l’oggetto delle lamentele e delle paure
di Panzini era una questione di «violenza» da parte della Germania (di cui Renato
era ben consapevole), alla quale risultava difficile rispondere in modo tale che essa
cessasse da sola. E, anche in mezzo a mille dubbi e a mille fattori di contraddizione
e di timore, l’opzione di schieramento di Panzini, nella seconda parte del Diario,
sempre più si esplicita (non occorre dire “si chiarisce”) come antiaustriaca, oltre
che antitedesca, e come filoitaliana, pur rimanendo vero che si tratta d’una filoitalianità tormentatamente critica. La “coscienza” di Panzini, sia pure in modo, per
così dire, sottocutaneo, si può con proprie modalità porre come la coscienza di un
letterato, ovvero di un letterato arreso alla cronaca e alla suggestione non solo emotiva, ma anche culturale prodotta dagli eventi: l’uomo comune dotato di personale
peculiarità di preparazione e di singolare sensibilità reattiva − e ipotizzante sul
47
Si veda la lettera allo stesso Panzini, da «Latisana, 29 maggio 1915. / Ospedale»: «Adesso
mi manca solo d’esserci anch’io a far le fucilate: ma non tarderò un pezzo, e mi scorderò anche
di questa tristezza di aver perduto le prime. Ce n’è tanta della strada fino a Vienna ed oltre!»
(Epistolario di Renato Serra, a cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., p. 582).
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piano di possibili, e ulteriori, paurosi scenari − alle scansioni belliche. Non è poco;
ed è, peraltro, il massimo che Panzini possa fare. Si parla della coscienza di un
letterato; mancano − né è lecito pretenderli dalle coordinate panziniane − la procedura di analisi di se stesso, il salto all’interno di sé, l’affondo autointeriorizzante.
Una coscienza di letterato senza l’esame; per l’Esame di coscienza stesso occorreva
Serra; e qui la differenza non era solo di metodo.
Quello che si intreccia fra Serra e Panzini, apparirà chiaro, non è solo e non è
tanto un dialogo di parole; è invece un dialogo di pensieri, di interne riflessioni, di
sentimenti non compiutamente espressi, e talvolta non ancora (se mai lo saranno)
interamente chiariti neppure a se stessi. Si tratta dunque d’un dialogo ben diverso
da un colloquio, da uno scambio di mere parole, in definitiva da quello che è, o
sarebbe, un puro dialogo a voce, o di voci; ed è, alla fine, un dialogo di scritture,
poi riformulato nelle rispettive stesure testuali. Le sfasature di “tempi di dialogo”,
la frequente mancanza di sintonia immediata, la risposta a distanza di un anno,
si qualificano come concetti validi quasi sempre sul piano della parola esplicita,
della testualità verbale direttamente pronunciata; ma rinviano a un collegamento
di menti, di idee, a un dialogo (questo sì) di interiorità, di mondi riflessivi e meditativi, oltre che taciturni, a un dialogo di silenzi, di parole sussurrate o proferite con
sommessa calma; e se le ultime connotazioni pertengono prevalentemente a Serra
(ma non devono affatto essere dimenticati i silenzi di Panzini, i dialoghi “a due
silenzi” sulla spiaggia di Bellaria, dialoghi eloquentissimi quanto l’eco del cannone
che echeggia dalla sponda di Pola alla familiare sponda adriatica d’un’inquieta
marina romagnola), non è meno vero e constatabile, e quel che più conta documentabile, che le improvvise interruzioni di Panzini, il suo linguaggio − come il
suo registro espressivo − sostanzialmente diverso e ansiosamente cronachistico,
si compenetrano, si amalgamano con il linguaggio di Renato: ognuno dei due sviluppa il proprio discorso, e la deflagrazione può avvenire a scoppio incrociato e
ritardato; e non può far meraviglia che approdi allo scritto una materia che ha bisogno del suo tempo di meditazione, oltre che del drammatico riscontro di cronaca
degli eventi; una materia, lo si sottolinei profondamente, che ha avuto necessità di
implodere nei rispettivi animi e nelle rispettive, personali psicologie dei dialoganti,
prima di “esplodere” in due diversissimi timbri di stile e di scrittura nell’emissione
testuale inchiostrata: Serra sarà l’eroe della pulchra mors, l’eroe del pensiero e della
trincea, morto per colpo in fronte, mitizzato, mitografato e compianto in modo
inconsolabile da Panzini: ma a sua volta lo stesso Panzini, con la sensatezza e con
la fondatezza delle sue non banali e non immotivate apprensioni, o “turbamenti”,
riemergerà in Serra e nell’Esame, oltre che nel Diario di trincea, e non mancherà
certo di risultare, e in tal senso di rivelarsi, una sponda di dialogo e di pensiero
molto importante per il proprio interlocutore. Né è certo un caso se Serra si è
scelto appunto come interlocutore proprio Panzini; non è detto, e non è − sotto questo profilo − affatto rilevante che Panzini sia o possa essere l’interlocutore
principale o privilegiato (ruolo che variamente possono svolgere, per il vociano
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Renato, Giuseppe De Robertis o Prezzolini, Papini, se non anche, su altro piano,
più propriamente filosofico, Benedetto Croce); il proprietario della Casa Rossa, lo
scrittore, il professore, l’intellettuale di Bellaria, per di più − e non è dato irrilevante − proprio nella sua Bellaria quasi nativa, e quindi al massimo della congenialità e
della genuinità di topografia spirituale − è l’interlocutore più adatto (ed è questo il
dato di gran lunga più importante, il dato precipuo e il più “dirimente” nella scelta
d’un dialogo di due voci diverse, in affinità elettiva proprio in quanto tali); Panzini
si dimostra, come Serra ha sin dall’inizio intuìto, l’interlocutore più congruo, il più
idoneo, il più elettivamente affine, appunto, giusto in grazia della sua differenza
di impostazione, di carattere, diciamo di bioritmo spirituale dallo stesso Renato;
il bibliotecario taciturno, di poche, meditate ma decisive parole, e il professore
ansioso, scosso da nevrosi tachilalica da immagini dal fronte, nella sua insistenza
di questionario improvvisato e petulante da un lato e, dall’altro, di deviazione, di
“scarto” di reazione e di visione da sensibilità umbratile e retrattile, intrattengono
in vari momenti un dialogo a suo modo perfetto proprio perché sono complementari, perché l’eloquio di Serra, misurato dal pensiero, e l’eloquio di Panzini,
segnato insieme dal pensiero e dalla paura, si integrano a vicenda48.
1.7 Il compagno morto di Ungaretti. Biciclette, zaini e varianti testuali in trincea
Vi è, insieme a questi rilievi, e a rinforzo e a conferma di essi, un dato costante,
sia permesso dirlo, una sorta di leit-motiv, di costante di sfondo e d’accompagnamento in questi dialoghi ripetuti, in queste escursioni in cui è regolarmente il Cesenate a recarsi a Bellaria; e questo è rappresentato, ancora una volta, dalla bicicletta,
dal mezzo di locomozione che accompagna tante riflessioni, e che in molti casi è
entrato e ha viaggiato − qui, metaforicamente − anche nella letteratura. È il ritornello dell’inizio e della fine dei colloqui, il punto di riferimento sicuro del viaggio
di Serra e del ricordo di Panzini: Serra in bicicletta, ovvero l’immagine dell’epoca di
48
La sostanziale esclusione della grande letteratura, e in generale della letteratura creativa,
dall’ispirazione e dalla prospettiva dell’Esame, è confermata anche nel Commento al testo
critico, cit., par. 17, p. 200, dove in questo senso si sottolinea «la massiccia eccezione di Alfredo
Panzini», che riveste un ruolo di «interlocutore per molti aspetti unico»: «Ma solo i giornalisti e
gli intellettuali militanti delle riviste furono i suoi [di Serra] interlocutori. Non la letteratura ma
la critica fu interrogata sulla guerra. Questo discrimine di attenzione segnalava una lacerazione
tra intellighenzia e autori della tradizione, avvertiti come obsoleti, già morti in vita (come Verga,
che sarebbe scomparso nel 1922 ma era, nonostante le parole di stima che Serra gli riservava, già
inesistente). La letteratura creativa − con la massiccia eccezione di Alfredo Panzini, interlocutore
per molti aspetti unico per una serie di motivi, fra i quali la fama letteraria, per non dire della
grandezza, non era il principale (e fra gli scrittori etnici mancava all’appello anche Beltramelli) −
era di fatto esclusa dai ragionamenti serriani sulla pace e sulla guerra (gli bastava Tolstoj), né un
narratore né un poeta lo appassionavano o almeno lo incuriosivano (d’Annunzio era un fenomeno
a sé)».
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guerra, e soprattutto dei pensieri sulla guerra, per chi lo attendeva a Bellaria, e poi,
terminata la visita dell’amico, lo vedeva con malinconia scomparire − pregressa
metafora della fine − nelle strade pianeggianti della campagna romagnola. Risalendo un po’ a nord, Panzini andava proprio in bicicletta a trovare un altro famoso
romagnolo, Marino Moretti, a Cesenatico, schiudendoci un’ulteriore finestrella di
audio d’epoca sul rapporto guerra-letteratura, quasi a chiusura di cerchio sull’inizio dell’Esame serriano e del problema che lì viene posto; e tale finestrella riveste,
non sfuggirà, un valore che si qualifica anche sul piano storico; si tratta, pure in
questo caso, di una sintesi panziniana di dialogato, di un’enunciazione di viva voce
riportata (DSG, 79)49:
Marino Moretti! Spesso sono andato in bicicletta a trovarlo nella sua vecchia
casa paterna, a Cesenatico, fiorita di gelsomini e davanti c’è il porto con le
vele rosse. Ferme sono le navi, oggi che c’è la guerra. Spesso egli venne da
noi. / Caro, mite, signorile Moretti! Diceva con la sua amabile voce, un po’
blesa: «C’è un po’ di guerra anche per noi. Nei giornali non più novelle, non
più poesie! La letteratura è abolita». / «E le pare un male?».
Quando l’ondata della guerra si fa concreto turbine di fumo e di nero (cfr.
annotazione del 22 luglio 1915 [p. 222], con le due torpediniere che «filano presso la riva» nel pomeriggio di Bellaria), si avvicina la notizia del 24 luglio, quella
della morte di Renato. I brani dell’inconsolabile amico Panzini sono molto noti;
si distendono, nell’edizione Bazzocchi (comprendente passi autografi perspicuamente intercalati a favorire il continuum di lettura del testo già stampato), dalla
p. 222 alla p. 233; fra questi la citata riproduzione della lettera del 13 luglio e una
prima, sparsa rassegna critica, variamente commentata o annotata, degli articoli
49
Si ricordi il Pirandello di Colloquii coi personaggi, in Appendice alle Novelle per un anno;
siamo nel 1915, e il pensiero è dominato dall’entrata in guerra dell’Italia: «AVVISO // Sospese da
oggi tutte le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni ceto, d’ogni professione, che
hanno fatto domanda e presentano titoli per essere ammessi in qualche romanzo o novella. /
N.B. Domande e titoli sono a disposizione di quei signori personaggi che, non vergognandosi di
esporre in un momento come questo la miseria dei loro casi particolari, vorranno rivolgersi ad altri
scrittori, se pure ne troveranno» (LUIGI PIRANDELLO, Novelle per un anno, I-II, Milano, Mondadori,
1968, Appendice, II, p. 1185). Sul carattere di rasserenante bontà, sull’effetto di dolcezza d’eloquio
e di maniere nel trattare che si ricorda dopo le visite a Marino Moretti, si veda anche quanto scrive
Auro d’Alba ad Aldo Palazzeschi (lettera da Roma del 2 marzo 1916): «Mio caro, / ti meraviglierà
il suono della mia voce dopo qualche anno di vita ignota! Pure ieri, tornando a casa con nel cuore
la bontà di Marino Moretti − che mi ero recato a visitare − ho inteso la nostalgia di te dinanzi
alla tua immagine dove rileggo la dedica fraterna di qualche anno addietro. Sono pur sempre il
fanciullo di Corde ai fianchi [AURO D’ALBA, «Corde ai fianchi (poesie)», Roma, “La Speranza”, 1910]
che le disillusioni e la fredda realtà non guastano mai a dentro!» (FILIPPO TOMMASO MARINETTIALDO PALAZZESCHI, Carteggio con un’Appendice di altre lettere a Palazzeschi, Introduzione, testo e
note a cura di PAOLO PRESTIGIACOMO, Presentazione di LUCIANO DE MARIA, Milano, Mondadori,
1978, pp. 108-109).
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in tal senso usciti nei giornali e nelle riviste. Il 25 luglio (p. 224) si registra anche
una puntata critica nei riguardi di Papini («Il ragionamento contabile dei morti
di Papini. Dicono: la storia del Risorgimento d’Italia conta pochi morti! Quante
migliaia di morti vale Renato Serra?»). L’espressione del dolore e del rimpianto
per quella singolare, originale, non banale personalità, e per la sua conversazione
di amico e di letterato, è intessuta di riprese a distanza di pagine, di discontinuità
nell’occupazione di un argomento, di andirivieni di immagini e di ragionamenti, di
movimentazioni di scrittura increspate alle pronunce interrogative o esclamative;
in una parola, si tratta d’una sezione del Diario che legittima, più che mai, la titolazione di «sentimentale», una sezione dominata dalla ratio dell’emozione e dell’emotività, di una struggente passione di rievocazioni e di postumi appuntamenti di
calendario, di memoria di annuali scadenze, di «or volge l’anno» di acuminata afflizione, e si dica pure di lutto amicale e intellettuale. Un rimpianto forte di sostanza
umana, psicologica, e di tensione espressiva, scandito dalla drammatica negatività
degli eventi, che rendono inevitabile la ripresa del diario, ma che risultano inevitabilmente privati, nello stesso atto della scrittura, di un importante, insostituibile
compagno di strada, di promenade di spiaggia marino-bellariese, spesso in silenzio,
sur la plage abandonnée, quando il sonoro paesaggistico era costituito dalle onde
del mare e dagli intimi pensieri, non dalle torpediniere (p. 222), dalle ondate da
esse provocate, dai rigurgiti di guerra e dalle immagini di morti; e quando, pure,
ciascuno dei due scrittori romagnoli a proprio modo temeva o si rassegnava a tutto
questo. Si tratta, però, come dimostrano i brani tratti dagli autografi − pregio filologico del volume edito da Pendragon −, di un’emotività che non sfugge alla mano
dello scrittore Panzini, all’organizzazione della sua prosa; alcune delle più inarcate
pronunce di dolore, di emotività, di acuta comparazione polemica fra il defunto e
i superstiti, e altre pronunce ancora, occorre leggerle negli appositi riquadri editoriali in color grigio del testo; Panzini è certo dotato (e lo dimostra nella vicenda
diacronico-compositiva di questa prosa diaristicamente compartita ma non frammentaria) di una notevole capacità di rilettura, di freno scrittorio, e anche di autocensura nell’impianto di pubblicazione del Diario; emotività, dunque, ma anche
vigile coscienza nella modulazione e nella disciplina dell’arpeggio affabulatorio.
Si veda dunque la reazione al primo annuncio della scomparsa di Serra (24 luglio,
pp. 222-233, con tagli; da «Bisognerà» a «scomparsi», p. 223, il brano è inserito
dall’autografo):
È morto Renato Serra sul Podgora, il colle che sbarra Gorizia. Una palla in
fronte: la fronte infranta! Era una nobile e bianca fronte. Dunque può un
proiettile distruggere la più pura coscienza che si annida dietro una fronte?
Dunque tutto ora in umbra? / L’anno scorso egli era qui, su questa terrazza, a questa mensa, quasi riguardoso, e beveva acqua. All’annunzio della sua
morte, io sono fuggito lungo la riva del mare. Ma egli era pure qui! Sulla riva
di questo mare posava i suoi piedi scalzi […]. Bisognerà ora abbandonare la
Romagna per non vedere più il grande fantasma. L’Italia ha perso un re, una
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delle più pure rettitudini del pensiero: una severità stoica sino alla morte: un
dispregio di ogni vanità umana; un compatimento senza fine, un sorriso di
primavera. Trent’anni! Secoli erano accumulati in lui. I miserabili filosofi che
scrivono che la guerra ha un’azione purificatrice! Ah, foste voi gli scomparsi!
/ Io non passerò più per la stazione di Cesena senza che io lo riveda come
lo vidi quattro anni fa, con quel profilo imberbe, signorile. Era d’inverno,
quella volta, ed egli era ravvolto in quella capparella chiara […]. E mi ricordo
con quanta schietta ammirazione io lo ascoltassi. Io coi capelli molto grigi,
io da tanti anni − per mia sventura − professore! / E credo che Renato Serra
mi stimasse e mi volesse bene anche per questa mia umiltà nell’ascoltarlo,
perché, ben si sa, che nelle discussioni l’uomo quasi mai ascolta con piacere
o ammirazione quello che altro uomo dice […]. Egli aveva capito che io di
filosofia non mi intendeva, e usava la delicatezza di non parlarne. / Ho conosciuto molti giovani così bene soddisfatti della filosofia del nostro tempo,
che io penso che essi con uguale letizia a qualunque altra filosofia dominante
si sarebbero abbeverati; mentre ho letto di un giovane ebreo, Michaelstädter,
che per insoddisfazione di filosofia si uccise. Renato Serra, mi pare accostarsi
più a questo che a quelli […]. «[…] lo studio di Kant perfezionava con quello
di Platone, nel quale trovava quella armonia che si addiceva al suo spirito
sereno, la risposta persuasiva a quel bisogno ideale, che la metafisica tedesca
aveva risolto in crudo realismo [cfr. MARIO MISSIROLI, Il Resto del Carlino, 26
settembre 1915]». Dopopranzo, molta gente mangia frutta. Ho conosciuto
un signore che vuota una fruttiera di mandarini, di nespole del Giappone:
cose acidule e lievi. Quante! Ma prima quell’uomo ha mangiato trippa, gran
carne, gran sangue, forti droghe! Le anime gentili pure piacciono molto: sono
i mandarini, gli alchechengi, per gli uomini carnivori. Servono a ben digerire.
Ecco perché la memoria di coloro che sono forniti di alta gentilezza, permane
e se ne scrivono anche i libri per l’infanzia.
È ora di rilevare più da vicino i riconoscimenti, e in certi passi quasi gli omaggi, che
a sua volta Serra non a caso tributa a Panzini con una convinzione, aiutata anche
dall’importanza degli argomenti dibattuti − sia pure con originalità di ritmo colloquiale − nel loro dialogo, che raramente il letterato cesenate dimostra e immette
nei propri scritti e nei propri testi, saggistici o epistolari. Si veda la lettera da Cesena del 27 novembre 1914 sulla prima edizione del Diario panziniano (Epistolario
di Renato Serra, cit., pp. 532-534):
Caro Professore,
ho letto due volte, fra ieri e oggi, il libretto e rinunzio a scriverne lungamente.
Le mie impressioni sono piuttosto contrazioni che afferrano certe cose e le
chiudono nel cuore senza sfogo: cose che sono così, come Lei le ha scritte,
anche per me, e non c’è altro da aggiungere […]. Soltanto che nel sentire
Lei, i nervi guizzano come un fascio scoperto, c’è in tutte queste pagine la
vibrazione immediata, come dolore della carne viva: un balenare e un corruscare degli elementi mobilissimi. Io mi chiudo e mi smarrisco nel sordo
buio dell’anima, che forse poi è vano e nulla come questo infinito spazio di
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fuori, che giace in una chiarezza pungente di cristallo sopra la terra disseccata dall’inverno. / Perché non sono tornato a trovarLa, in tutto settembre
− mi domando anche adesso? Avevamo ancora tante cose da dire. E ore da
stare insieme, senza molto parlare. Ritrovo cose e ore nel libretto, insieme
col dispiacere di non essere venuto. / Ci sono state ragioni varie, un giorno
l’una, un giorno l’altra, che mi hanno un poco impedito. Ma la ragione vera
è un’altra. Lei può capirlo e non ridere, sotto sotto, come farebbero molti
dei miei amici, che il mondo loda d’ingegno e di sensibilità. Mi darebbero
tacitamente del posatore se dicessi che la passione di quei giorni era di quelle
che si è titubanti di comunicare. E avevo quasi anche paura di conversare con
Lei, in cui sentivo quasi un altro me stesso per l’inquietudine e la mancanza
d’illusioni: avevo paura, quasi, di esser spinto ad affrontare troppo da vicino
dei problemi e delle tristezze in cui si va sempre a urtare, come l’insetto nel
vetro: che non si apre mai. / Del resto avevo avuto l’impressione certa, quella
sera che ci salutammo e la sua voce mi accompagnava nell’ombra di un crepuscolo già diffuso di grigio silenzioso autunno. «Allora non torni più». Con che
scopo tornare? […]. Avevo letto cose sue, con lo stesso accento, sul Secolo
e sul Marzocco: ma le pagine ultime, nella loro successione di momenti veri,
raggiungono un effetto più profondo. Sono bellissime, di tratti sicuri e di poesia (che notte prima dell’alba, e che voci del mare, a intervalli). E poi le amo
e con un’affezione tumultuosa dell’animo, avvezzo oramai a sentire soltanto
dei professori che ci rifanno le lezioni di cui non abbiamo nessun bisogno, e
B. Croce che dichiara col suo sorriso tranquillo che lui, come filosofo, sa con
certezza che l’esito di questa guerra, qualunque sia, sarà il più gran bene per
il progresso e per l’umanità , e non parliamo degli altri, anche i migliori. Il suo
libretto è la sola cosa degna di un uomo e di un italiano, che sia stata stampata
in questi mesi. Ed è stata una consolazione per me, a cui lo scrivere e il parlare
ripugna: quando non posso prendere la mia parte del lottare e soffrire di tutti
[…] di ritrovarmi nel suo libro non ho sentito sorpresa, m’è sembrato quasi
naturale. Ho guardato con curiosità quegli aspetti di me che sono rimasti
sulla carta (quante cose sfuggono, anche a quelli che ci ritraggono meglio!
Per esempio mi son visto calmo, in momenti di agitazione intensa. Ma Lei
aveva ragione di vedermi così, credo, per una reazione del dialogo, di cui Lei
esauriva una parte, e a me toccava l’altra).
Non vi è quasi bisogno di sottolineare l’elogio non scontato della capacità di Panzini di dare voce diretta, ed efficace, alle inquietudini, alle incertezze, a quella diffusa atmosfera di insicurezza ansiosa del paese che si macera nel discrimine fra il
coinvolgimento o meno nel conflitto; «vibrazione immediata», «dolore della carne
viva», «momenti veri», «cose che sono così, come Lei le ha scritte, anche per me»,
capacità di suscitare «affezione tumultuosa dell’animo» di contro a lezioni non richieste di professori sempre in cattedra, insomma, «la sola cosa degna di un uomo
e di un italiano» degli ultimi mesi del ’14: sono espressioni estremamente significative, da parte di un lettore come Serra, e certo autentiche, sentite, e al netto della
cortesia; e miglior definizione non si potrebbe trovare, per definire lo scambio
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intellettuale e testuale Serra-Panzini, di quella «reazione del dialogo, del quale Lei
esauriva una parte, e a me toccava l’altra», in una sorta di tacita, ma salda assegnazione reciproca di ruoli. E persino le immagini di lucida trasparenza, di vitrea
chiarezza, vengono a scambiarsi in non fortuita osmosi con quelle di inquietante
oscurità individuale e collettiva («sordo buio dell’anima» / «chiarezza pungente
del cristallo», il «vetro» che è barriera e non passaggio, e «che non si apre mai»).
Appare chiaro che tutte le ragioni e le cause che rendono sobrio e taciturno il
colloquio “vocale” tra i due scrittori, tutti i motivi che sembrano congiurare a ostacolarlo materialmente, a renderlo difficile, sono in realtà i motivi che lo rendono
un unicum, uno scambio incisivo tra due ruoli e due ritmi mentali e linguistici: con
un altro se stesso (Panzini), Serra ricorda, proprio per questo, che avevano ancora
«tante cose da dire», «ore da stare insieme, senza molto parlare». Sarebbe arduo
essere più perspicui di così. Nell’ombra grigio-crepuscolare d’autunno la voce di
Panzini insegue uno sfuggente profilo di bicicletta, in una promessa che finisce per
essere quella di non rivedersi, per già acquisita comprensione reciproca, ottenuta
«senza molto parlare».
Sarà utile, a questo punto, procedere ad un’ultima citazione, la più nota dello scambio Panzini-Serra, e anche la più ricca di implicazioni nel contempo filologiche e storiche, testuali e cronologiche, oltre che di rapporto umano. Basterà
ricordare che quella che è senza confronto l’aggiunta più corposa e significativa,
e di alta validità letteraria, che sia stata arrecata sulle bozze dell’Esame, del tutto
assente dal manoscritto, è una parentesi di un’intera pagina (si veda alla p. 629
della numerazione vociana [par. 103, p. 143 della citata edizione Biondi-Greggi]:
da «Era» a «vinto»)50 integralmente dedicata a Panzini, al luogo deputato della
marina bellariese, alla relativa campagna d’entroterra, e soprattutto a quell’importante colloquio, al quale lo stesso Panzini ha dato, è il caso di dirlo, un contributo
veramente decisivo. Panzini, insomma, entra direttamente nell’Esame di coscienza
di un letterato, nel suo tessuto testuale, nella sua vitalità variantistica che si attiva
e risorge, rispetto al primitivo testo del manoscritto, in mezzo alle giberne e alle
gamelle, nel pieno delle esercitazioni militari operative: pensieri, parole, silenzi,
biciclette e varianti apportate in divisa al campo militare, tra fucili e zaini. Se Ungaretti è il poeta della folgorazione lirica, del fatto compiuto, del dolore che impietrisce e che rimette in movimento con un senso di perpetua paralisi, Serra non è
“riguardato” dal proprio futuro: egli non vedrà l’agosto del 1915, anniversario dei
colloqui in spiaggia con Panzini, e vedrà pochissimo della Prima guerra mondiale;
non potrà esserne “competente”, proprio per averla fatta; è lui, si potrebbe dire, il
compagno morto di Ungaretti:
50
Dell’ed. BIONDI-GREGGI intitolata Esame di coscienza di un letterato. Per una storia del
testo dall’autografo alla stampa, cit. (cfr. qui sopra, n. 1), si vedano, in particolare, le pp. 128-131
(Incrementi sul testo manoscritto) e 155-161 (Sulla marina di Bellaria. Dialoghi dell’ultima estate).
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Le cose che io penso sono determinate e comuni. Quanto all’umanità, conosco solo quelli che ho vicini: quelli che mi fermavano quest’estate, quando
passavo in bicicletta, in riva al mare, o per lo stradone infocato: si ricorda,
caro professore, quando glie lo raccontavo? (Era una delle ragioni per cui
io rimanevo più tranquillo accanto a lei che balzava e fremeva: mi guardava
cogli occhi fissi: vedeva forse di me solo un’ombra, piccola, fra grandi ombre
nere calanti sopra la terra. Anch’io cercavo altre cose, fuggite e desiderate,
perdute e presenti, laggiù sulla riva del mare; sull’orlo, dove l’onda fugge e
ritira con sé l’ultimo velo dell’acqua, mentre i fiocchi di spuma si spengono
con un sibilo lieve; resta scoperta una riga di sabbia bruna, umida e intatta,
come un sentiero nuovo per venirci incontro a piedi scalzi… nessuno. Nessuno deve venire. Così andavamo l’uno presso l’altro, scambiandoci le parole,
da rive ora vicine ora lontane: qualcuna cadeva, o arrivava con suon mutato.
Qualche volta le sembrava di ascoltar me; e io non avevo parlato; era il suo
cuore che batteva. Avrei avuto tante cose da aggiungere o da spiegare, tante
cose accumulate e messe da parte pensando a lei, dopo quella sera che ci lasciammo, quasi stanchi di parole, fuggendo ognuno verso la sua inquietudine:
la sua voce mi seguiva ancora fra le lunghe ombre del tramonto e io fissavo
la ruota silenziosa che correva sulla polvere biancheggiante, come se fossi già
solo. Avrei dovuto tornare, se ci fossero state buone notizie del paese di Francia. Ci fu la Marna51; vinsero i Francesi, e non tornai. Noi non avevamo – noi
non abbiamo ancora né combattuto né vinto). Una voce dal carro, che rasentavo passando; voce d’uomo supino, fra il sobbalzare e il cigolare del carico
di barbabietole o di carbone, che va sotto il sole e arriverà a notte alta; o un
richiamo lento di là dal canale, fra i solchi biancastri e calcinati su cui dorme
il riflesso del cielo e del mare, carico di un azzurro così ricco, che anche la
freschezza del suo soffio ha un peso sul viso.
Nel fraseggiare di linguaggio mentale e di linguaggio verbale, e naturalmente
di linguaggio di immagini, è dedicata a Panzini non solo l’inserzione quantitativamente più lunga e impegnativa dell’intera variantistica serriana, nel testo di un
Esame che l’autore ha voluto mandare in stampa in questa versione, ma vi è dedicata l’inserzione che “mancava” in un manoscritto il cui testo passa direttamente
dall’evocazione del «professore» alle “voci” della strada, della gente comune (già
vi è l’inizio di capoverso che dice: «Le cose che penso sono determinate e comuni»), e che reca, cancellata, la frase «Non ho bisogno di nomi grandi per questo
momento». Ma il passaggio costituito dai colloqui con Panzini era già anticipato
da un «caro Panzini» nel manoscritto, dopo un «caro professore» che non bastava affatto; il nome esplicito, cancellato, ma affettivamente vibrante, ed eloquente,
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Cfr., nella lettera di Serra a Panzini del 27 novembre 1914, l’insufficienza delle stesse notizie
dalla Marna nel contesto della nuova situazione, nel quadro d’un’accelerazione storica verso il
conflitto: «Anche le notizie dalla Marna erano troppo poco rimedio al male e al dubbio che non ci
lascia, in questa Italia che fa delle chiacchiere e si rassegna così bene a tutto» (Epistolario di Renato
Serra, a cura di AMBROSINI-DE ROBERTIS-GRILLI, cit., p. 533).
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ritorna con abbondante compenso come grumo ampiamente sciolto in prosa nella
versione definitiva, quella che conta per la stampa, sotto forma di macrovariante
principe dell’intero Esame, giusto in tempo prima della morte, e nel giusto spazio
tra lo zaino di Serra e lo zaino di un commilitone; il dialogo abbozzato, il colloquio
muto con Panzini non potevano essere saltati, soprattutto per tutte le cose e per
tutti i concetti, e i sentimenti, e le sensazioni, e il loro sorgere nel cuore, e il loro
urtarsi ansioso, drammatico, e imploso, che percorrono e che attraversano l’animo
di Serra già sulla marina e sulle strade pianeggianti di Bellaria, e che poi lo attraversano, arricchiti di nuove riflessioni, espresse o inespresse, per tutto l’anno che
va sino alla primavera-estate del ’15; ed ecco Serra che appare «più tranquillo»
rispetto a Panzini che invece «balzava e fremeva»; ed ecco Serra che forse sembra a
Panzini «un’ombra, piccola, fra grandi ombre nere», a problematizzare, a creare in
quel contesto zone oscure e serali, ma anche a rendere più profonda la natura del
dialogo; ed ecco, altresì, Renato ricordare «altre cose, fuggite e desiderate, perdute
e presenti, laggiù sulla riva del mare»52, a dimostrazione della ricchezza, del complesso mondo razionale ed emozionale racchiuso nel ruolo di elocutore laconico
creatosi con Alfredo; ecco, ancora, lo scambio di parole, nella solitudine meditativa sul bagnasciuga − solo suono, le onde −, che avviene «da rive ora vicine ora
lontane», «l’uno presso l’altro», quindi non “accanto”, con parole di cui «qualcuna
cadeva, o arrivava con suon mutato» (echi di pensieri soggettivi, più che di professe fonazioni); e, addirittura, somatizzazione di parole non dette ma immaginate,
e forse tutt’altro che inappropriate all’interlocutore: «Qualche volta le sembrava
Riguardo alla “camminata libera”, scalzi sul mare, sul bagnasciuga, si ricordi che già
Panzini non ometterà, DSG, p. 222, di evocare questo rinforzo “fisico” alla connotazione di libertà,
di rilassata concentrazione, di disponibilità all’espressione dei pensieri, e insieme all’abbandono
e all’immersione in un ambiente naturale favorevole, rammentando Serra alla notizia della morte,
ricevuta il 24 luglio 1915: «Sulla riva di questo mare posava i suoi piedi scalzi»; così, appunto,
Renato: «resta scoperta una riga di sabbia bruna, umida e intatta, come un sentiero nuovo per
venirci incontro a piedi scalzi… nessuno. Nessuno deve venire» (SERRA, Esame di coscienza di un
letterato. Carte Rolland. Diario di trincea, cit., par. 103, p. 143); e altrettanto nel Diario di trincea, a
due giorni dalla morte, nella terribile giornata del 17 luglio 1915, dopo una rassegna al limite della
repulsione scatologica dello stato del paesaggio vicino, infestato dai segni dei residui umani d’un
campo che ha levato le tende in condizioni proibitive, ma prima della frase «S’accosta il tramonto
− Sto meglio» (preludio all’arrivo del pacco della madre), Serra trasporta il quadro di immersione
naturale dal paesaggio marino a quello colli-montano, friulano, sulle pendici del Podgora; si tratta
di recuperare il bosco alla sua immagine di serenità e di pulita bellezza, al sogno di un bosco
diverso da quello visto quel 17 luglio; anche qui, essenziale è la camminata libera, sull’erba, sulla
terra intesa in senso positivo, ad autoterapia per quello che ha visto e per quello che intuisce di
dover vedere, in quel punto, il soldato-letterato, al suo penultimo tramonto (ivi, p. 326): «E dire
che non si può pensare a un bosco, senza l’impressione del riposo nell’ombra su cui danza il sole,
|| nell’ombra piena di cose secche e molli, verdi e fresche, erba e musco, foglie secche affondate
nel terriccio − / O una proda di erba vera, vivace, non toccata ancora se non dalla luce − erba
per camminarci a piedi scalzi e per dormire distesi, fra il silenzio e il cielo!». L’uomo e il letterato
formano ormai un unico nucleo di sofferenza e di sensibilità. È l’ultimo sogno di Serra.
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di ascoltar me; e io non avevo parlato; era il suo cuore che batteva». Questi sono i
colloqui più autentici. E in un colloquio autentico, anche a ruoli intrigantemente
diversi come questo, il relativo merito è di entrambi i titolari.
Perché sono, in realtà, «tante» le cose che aveva da dire, allora, e più ancora ne
avrebbe avute in séguito, il ciclista cui incombeva il ritorno serale a Cesena: «Avrei
avuto tante cose da aggiungere o da spiegare, tante cose accumulate e messe da
parte pensando a lei, dopo quella sera che ci lasciammo, quasi stanchi di parole,
fuggendo ognuno verso la sua inquietudine»; le «cose accumulate e messe da parte
pensando a lei» sono il frutto dei dialoghi con Panzini; ed anche Serra “pensa” in
modo profondo a Bellaria e al professore, «dopo» il commiato che sarà, contro le
previsioni, definitivo (la persona di Renato sarà per destino irraggiungibile d’ora in
poi per Panzini, anche a Cesena, dove Alfredo troverà la madre); l’effetto di quei
colloqui su Serra è dunque intenso, lungo, e matura nel tempo; se si vuole, anche
“a scoppio ritardato”, com’è proprio delle ricezioni profonde; di certo ne è risultato incrementato il pessimismo di fondo di Serra, la sua scettica concezione della
sostanziale immutabilità della natura e della storia; e, insieme, riferendosi alla “seconda parte” dell’Esame, si è chiarita limpidamente, anche per reciproco contrasto
comparativo, la scelta che apre alla «passione», e pure all’«irrazionale» (direbbe
Contini), alla coscienza d’una fatalità ineluttabile del rendez-vous storico: passione,
liberazione (dai dubbi e dalla gabbia dei pensieri e dei ragionamenti)53, che si sono
53
A proposito dei concetti di libertà, di disponibilità dello spirito, di vuoto d’anima
fecondamente capiente a dare asilo alla passione, si veda SERRA, Esame di coscienza di un letterato e
altri scritti, a cura di MARABINI, cit., pp. 17-20; nella sua Prefazione, Marabini analizza il passaggio
dalla fase di studio del pensiero e delle sue declinazioni dottrinarie alla liberazione, appunto, a
conquistare uno spazio di superiore definizione, di accoglimento e di raccolta degli impulsi della
passione, della cattura d’un’occasione storica irripetibile (un po’ come Manzoni, pur in un’ode
mantenuta segreta per circa vent’anni: «dovrà dir sospirando: io non c’era»). Al serriano «E,
dunque, sono libero. Di pensieri» Marabini riserva il seguente commento: «E in quella libertà,
che è vuota e senza colore, la coscienza s’allarga come il paesaggio: la coscienza che nel buio e nel
vuoto trova la passione che è vita. Il percorso è netto, l’iter del racconto è ben scandito, dall’esterno
all’interno, dall’alto al basso, dal rumore delle idee al silenzio dell’oscurità, quindi alla tensione,
all’onda e alla passione. E nella passione il senso lancinante del momento che sta passando, unico
nella vita, preparato da quell’enorme congerie di elementi che costituiscono i grandi eventi storici,
quelli che nella loro vastità non dimenticano i singoli, le persone anche più umili, proprio quelle
che il giovane di Cesena vedeva nelle sue campagne con le “armi” (“armi” del lavoro quotidiano
nei campi) in mano. Sicché al paesaggio subentra questa gente, ed è gente in cammino, di cui sente
il passo e il respiro». E se la coscienza, nella tradizionale cultura, pone una distinzione etica fra
bene e male, tra valore positivo e valore negativo, Serra invece, precisando nel titolo dell’opera
«di un letterato», getta «qualche diverso colore» sul blocco marmoreo delle distinzioni sicure e
nette, poiché «non deve decidere tra bene e male ma tra vita e non-vita, passione ed esclusione»;
«La decisione […], sgombrato il terreno dal pensiero […], scaturisce da un’onda o passione
semplicemente, la quale sfugge alle categorie etiche e a ogni distinzione di bene e di male»; ancora:
«Ma il foglio su cui il diagramma è disegnato è bianco; solo, è percorso da un vento che manda la
risultante in una certa direzione […]. È questo vuoto etico a farci accettare la contraddizione su
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definite come tali proprio in relazione differenziale con altri ragionamenti, con
altri timori ed altre posizioni. Quindi, in bicicletta: «la sua voce mi seguiva ancora
fra le lunghe ombre del tramonto e io fissavo la ruota silenziosa che correva sulla
polvere biancheggiante, come se fossi già solo». Una voce prolungata di chi temeva
la guerra imminente, una «ruota silenziosa» e un solitario ciclista che non rispondeva, ma che udiva e che avrebbe dimostrato di aver capito molto più di altri.
Quando, infatti, si accenna alla metacronia, all’acronia, alla transtemporalità della
concezione storica di Serra, si tiene, qui, presente che tale volo di grande ala nel
tempo della storia e della natura, fra specola leopardiana e presagi della Nouvelle
histoire, ha il suo corrispettivo nello “spazio”, nella visione “dall’alto” dell’Europa
percorsa dagli eserciti; tali concetti vogliono significare, insomma, il contrario esatto dell’assenza, della distanza dai propri tempi: essi significano invece un’analisi
particolarmente approfondita, acuminata, disincantata, e insieme assai precoce,
dei tempi stessi, della propria epoca, del proprio presente. E una mente come
quella di un Renato Serra non avrebbe, nell’estremo discrimine della propria vita
e della propria produzione letteraria − tali preconizzati per destino, come scriverà
anche Mario Missiroli −, dedicato ad Alfredo Panzini l’aggiunta testuale, ideale,
ma anche umana e amicale, di una macrovariante principe in un’opera qual è l’Esame di coscienza di un letterato, se la figura intellettuale stessa di Alfredo Panzini,
e la ricezione esistenziale che ve n’è stata nella mente serriana, avessero legittimato
una denegazione di valore all’apprezzato prosatore, al professore di Bellaria, al
professore della Casa Rossa.
Si potrebbe chiudere con l’ammissione, da parte di Renato, di una mancata
promessa, quella di tornare a Bellaria in presenza di notizie positive dalla Francia:
«Avrei dovuto tornare, se ci fossero state buone notizie del paese di Francia. Ci fu
la Marna; vinsero i Francesi, e non tornai. Noi non avevamo − noi non abbiamo
ancora né combattuto né vinto». Serra ricorda benissimo la promessa, il cui mantenimento è stato riassorbito, come mancata scadenza, nel limbo di sofferenza di
quei residuali mesi di attesa, con l’Italia che non aveva «ancora né combattuto né
vinto»; e come Serra fa entrare esplicitamente Bellaria nell’Esame, con la scansione di memoria costituita dalla promessa, dalla battaglia della Marna, dal successo
francese, e dal mancato ritorno al quale non certo a caso egli pensa ancora, nello
cui tutto l’Esame si fonda. Mosso dalla ribadita consapevolezza dell’inutilità della guerra, l’“io”
non solo l’accetta ma s’incammina con contentezza insieme al gregge: e diciamo gregge senza
intenzione denigrante ma per sottolineare la carnale solidarietà del momento. La passione va
contro la conoscenza, l’onda spinge contro la cultura». Per il lettore odierno, secondo Marabini,
«non è l’andare che conta ma quella contentezza; anzi, è il suo scaturire dal nulla, dopo il travaglio
del pensiero, e il suo consistere nel nulla delle cose che stanno per dileguare […]. Non le idee e le
decisioni ci rimangono dentro ma il loro cammino misterioso, il loro sbocciare contro l’intelletto
e la cultura, il loro riconoscersi nelle cose, il loro fondersi, il loro essere sensazione, quindi il loro
farsi sentimento […]. Serra, avendo raccontato le cose, vale a dire il pensiero, punta a esso e sa
d’istinto che può essere indagato solo col racconto».
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stesso modo, e incrociatamente, Alfredo Panzini, che il 14 settembre 1914 pure
registrerà la vittoria della Marna («è autentico? Pare cosa portentosa. L’immensa
mole tedesca è arretrata oltre la Marna? Chi ha operato il miracolo?» [DSG, p.
76]), aveva già annotato per il giorno 1 settembre dello stesso anno la previsione
del “non ritorno”, dovuta, in sé, alla difficile situazione francese di quei giorni: «Tu
hai promesso, o Renato, di non tornare più a Bellaria, se non porterai novelle più
felici per la nobile Francia. Ah, non ti vedrò allora più, Renato Serra!»54.
1.8 Voci diverse, dialogo autentico: «chi gli sarà alla fine più vicino risulterà di
fatto anche il meno simile»
Ma già dal 1909 (un anno prima della pubblicazione in «La Romagna», 5-6,
maggio-giugno 1910, del profilo dedicato, appunto, ad Alfredo Panzini) il legame
Serra-Panzini aveva conosciuto, con Renato in veste di critico e Alfredo in veste
di autore studiato, una tappa significativa, in uno dei più impegnati saggi letterari
serriani; in tale saggio, il Cesenate aveva colto la capacità del prosatore Panzini
di dare spazio alla conoscenza di voci e di personaggi e, insieme, di mantenere al
centro del proprio linguaggio − che non sarà soltanto quello creativo − la propria
voce, il proprio mondo umano e riflessivo, le proprie caratteristiche psicologiche, o
di sensibile reattività al riscontro umano, storico o paesaggistico-naturale, ivi comprese le varie declinazioni degli imprescindibili “viaggi in bicicletta”: riferendosi
alle novelle, Serra scrive che «L’interesse dell’autore non è nei personaggi, di cui
gli accade di raccontarci la storia; è nel suo proprio cuore. La voce di lui parla su
bocche diverse; la sua narrazione è sopra tutto un lungo e meditativo soliloquio,
variato a tratti di immagini e di figure leggere»; «Il vero è che naturale argomento
del Panzini è la sua propria vita, naturale espressione del suo spirito, è il soliloquio
e la meditazione»; «dopo aver corso tante pagine si torna sempre a un punto; alla
persona e al carattere dell’autore, che è infine fra tutte le creature dei suoi libri
la più amabile»; e, riferito a quello che Serra chiama «il viaggio sentimentale» in
bicicletta, a La lanterna di Diogene:
Alfredo Panzini non ignora queste gioie dell’andare […]. E per la grande
strada Emilia, per la strada del mare e della libertà, assai vario e gustoso è
il dialogo del professore che si spoglia e dell’uomo nudo che si rivela; o cielo, o sole, o siepi polverose nell’ardente luglio! / Ma come tutto ciò è timido
e fuggitivo dentro di lui! / Pareva che il mondo dei compiti, degli stipendi,
del quotidiano carcere fragoroso, fosse caduto dalla memoria; già lo invitava il
54
È davvero credibile che, come scrive Marino Biondi in SERRA, Esame di coscienza di un
letterato. Per una storia del testo dall’autografo alla stampa, cit., p. 159, il «diario panziniano» sia
stato «evidentemente riscritto dopo il luglio 1915».
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nuovo mondo sereno, dove le cose esistono per la gioia dei suoi vergini occhi.
/ Già la gola trema e si gonfia dell’inno sonoro, inno di liberazione e di trionfo,
che il poeta esalterà franco da tutte le servitù del vivere. L’inno si ferma sulle
labbra, si spegne in un sorriso e in un sospiro. / Il poeta si è ricordato dei suoi
quarant’anni e della sua condizione; la gobba schiena e il marchio del tavolino
e della cattedra si sono mescolati nel suo spirito limpido a quella velleità di
ebbrezza fisica e allo splendore del canto. Canto sognato, e non cantato mai55.
Più sotto, Serra esprime il concetto di «ghirlandine secche, che il povero professore è costretto a sospendere presso la grotta delle ninfe eterne»; la «canzone, sempre
interrotta e sempre ripresa», il «sospiro», il «singhiozzo segreto» finiscono sempre
per rinviare al loro autore, alla persona di Alfredo Panzini:
Poiché se bene par che ci sia un poco di tutto nel volume che ha per teatro la
strada Emilia e i boschi dell’Appennino, la marina di Bellaria − questo è luo-
Si veda RENATO SERRA, Alfredo Panzini, in ID., Scritti letterari, morali e politici, cit., rispett.
pp. 126, 128, 129 e 130-131. Cfr., ancora a p. 129: «la grazia del suo raccontare non nasce né
dall’agevolezza dell’invenzione né dal rilievo lucido delle fantasie; per novelle, son piene di difetti,
disuguali, incerte, imperfette. Ma la sua voce si sente in tutte, e in tutte trema, come nei pezzi
d’un cristallo rotto, la immagine di lui». E si ricordi anche, a p. 133, l’«intelligenza, acuta sì, ma
senza forza vera di penetrare le anime altrui e comprenderne in sé e ripeterne il gioco nudo». La
proponibilità di Panzini, anche in una chiave di premonizione moderna agevolmente ritrovabile
in alcuni suoi scritti, la si può verificare, ad esempio, in La cagna nera, del 1895, pur rimanendo
vero che la strada che avrebbe poi percorso Panzini sarebbe stata ben diversa; si veda qualche
concetto dalla conclusione del saggio dedicatogli da Gino Tellini nella postfazione (La nevrosi
di un «brav’uomo») alla riedizione moderna (ALFREDO PANZINI, La cagna nera, Palermo, Sellerio,
1991, pp. 113-144; ora riprodotta e rielaborata, con lo stesso titolo, in GINO TELLINI, L’arte della
prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 283-301, dalla quale
citiamo): «“Ma e allora? […] allora che era di me?”: interrogativa che suona come una chiara
ammissione di consanguineità tra il povero maestro di Castellammare e gli antieroi della nuova
letteratura di primo Novecento, spaesati abitanti di un labirinto senza uscita […]. La ferita lasciata
da quel trauma era destinata a rimarginarsi. Sarebbe stata medicata con una forte dose di spirito
pratico e di paziente buonsenso, vale a dire con una cura di sorridente comprensione, di scettica
ironia e di pensoso umorismo, di rassegnato buonumore. Ma “di quel buon umore un po’ funebre
che copre l’angoscia”, avvertiva Boine già nel 1914. / Al viaggio nella follia sarebbe subentrato
un più sereno viaggio in bicicletta, senza una mèta, come protratto soliloquio di un viandante
immobile che cerca se stesso […]. Le curiosità audaci di una perplessa interrogazione interiore
avrebbero ceduto il passo al dolente conforto di una limpida malinconia. / Ne sarebbe lievitata
una prosa ammiccante e scrupolosa, arguta e vibrata: quella cifra stilistica capace di contrappunti
parodici e di segrete suggestioni che costituisce il peculiare tono medio dei libri di Panzini, la sua
(diceva nel 1914 ancora Boine) “semiseria profondità”, la sua (diceva Tozzi nel 1918) “grandezza
[…] frammentaria e desolata”. Chi voglia tuttavia cogliere la genesi dei crucci e degli ombrosi
malumori che certo intridono le pagine del Panzini maturo, e che i “brividi di terrore” della prima
guerra mondiale avrebbero acuito, è certo che dovrà ripensare alla giovanile avventura della
“cagna nera” e del suo padrone, all’amara testimonianza di uno strappo tra “antico” e “nuovo”
che sarebbe poi stato dall’autore amabilmente ovattato e lenito, non dimenticato» (pp. 300-301).
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go per lungo uso caro allo scrittore e al novellatore − la laguna di Comacchio,
il camposanto delle Myricae e il cimitero di Musocco; in fondo c’è una cosa
sola: il Panzini. / È inutile ch’io vi descriva quel suo fare ben conosciuto. Son
sempre, come nelle novelle, bozzetti; figurine dal profilo evidente; ma non
sanno staccarsi da quel lembo del taccuino dove la matita del viandante le
segnò rapida, ed egli proseguì pensieroso56.
Si tratta di lembi del taccuino, di moderni vivagni fatti prosa narrativa. Così, «l’umorismo vero del Panzini» «è più nel fondo che nella forma, più nella disposizione
dell’animo che nella voce», ovvero un umorismo che risiede nell’intimo del personale mondo dello scrittore anziché nella reale capacità di codificare lo spunto umano
e sentimentale in autonomia di resa artistica. Le figure o figurine non risultano mai
incise in modo profondo e penetrante sino a divenire compiutamente “personaggi”; sin dalle novelle, «l’argomento vero dell’autore si sente bene che non è già l’avventura dei suoi personaggi, ma la lezione che ne sorge a investire più largamente
la vita umana […]. Curioso per un momento della loro forma, egli le abbandona
per ritornare presto sopra sé stesso» (Alfredo Panzini, pp. 127 e 128); ed è esattamente in questo senso che quando l’autore ha preso «per argomento» letterario se
stesso ha compiuto il proprio capolavoro, il Viaggio sentimentale, titolo che Serra
attribuisce alla produzione complessiva dei Reisebilder panziniani, alla produzione
“della bicicletta”, senza mancare, è ovvio, di sottolineare le grandi differenze che
separano il professore da Heine, dal «monello di genio» che trova «tutto felice alla
sua insolenza». Ma pur nella maturazione dell’ingegno e della scrittura, si evidenzia
nella prosa panziniana una significativa tendenza allo stile franto, a una brachilogia
frastico-sintattica cui non è aliena un’origine emotivo-umorale, talvolta espressivamente secca ma consapevole, e controllata dall’autore, una radice emotiva che può
essere ritrovata anche nel “romanzo della guerra”, o, appunto, Diario sentimentale57:
Gli fa difetto la facoltà periodica del dire. Egli parla di solito a tratti brevi,
fermandosi in tronco e riprendendosi con moti bruschi e molto disuguali.
Grammaticalmente questo si vede nell’uso di periodi corti, a membri staccati
fortemente; anche quando se ne incontri qualcuno più diffuso, poi si trova
che è un artificio tipografico; che ha sostituito il punto e virgola o i due punti al punto fermo. Le proposizioni sono poco annodate; l’uso dei pronomi
relativi è raro e malsicuro in quella prosa legata soltanto dagli e e dai ma.
Abbondano invece le ellissi, i modi assoluti.
È proprio in quello stile slegato, poco incline al periodo lungo, poco propenso all’ipotassi, nei «moti bruschi» di ripresa, nel «non so che di duro e di scheggiato, una
cert’aria rozza che fa meraviglia in uno scrittore così bene educato» (p. 143) che è
56
57
SERRA, Alfredo Panzini, cit., pp. 131-132.
Ivi, pp. 142-143.
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possibile cogliere molti elementi di relazione, di collegamento fra la tradizione di
spirito compositivo del Panzini artista e la movimentazione stilistica e scrittoria del
periodo di attesa e poi di inizio della guerra, del periodo segnato dal “mare agitato” che lambisce la Casa Rossa in una marina bellariese fattasi tempestosa nel mondo emotivo dell’intellettuale grazie al mulinare dei venti giornalistici; del periodo,
insomma, della fermentazione di paure, di previsioni, di calcoli approssimativi, di
ansiose retrospettive di storia politica, di interpretazioni incerte riguardo a un futuro minaccioso per la propria famiglia, per il mondo, per la stessa civiltà. Pur nella
differenza di codice espressivo e di tipologia di prosa, e pur nella ben diversa identità
di contesto storico, l’esilità sintattica panziniana, il respiro sovente interrotto del suo
fraseggiare, la ripetuta concessione alle strutture periodali coordinative, o paratattiche, l’abbondante e non casuale presenza di incisi parentetici e di lineette, come delle intensificazioni assertivo-esclamative o interrogative, trova nell’epoca della Prima
guerra mondiale anche troppo vasto, e assai amaro pascolo di insorgenza espressiva;
certe caratteristiche della prosa panziniana, insomma, rimangono come dati radicatamente presenti, a testimoniare la sostanziale fedeltà a un rapporto umanità-stile,
a un rapporto personalità-scrittura, autore-opera, che le drammatiche attese, e poi
i drammatici eventi della Grande Guerra fanno in parte assumere al prosatore, legittimando così il transito di certe serrate battute musicali, di certi “stacchi” recisi e
di certi ritmi brevi e concitati della novellistica e dei “viaggi” nel nuovo, affannato,
inquietante contesto di cronaca e di attualità. L’origine emotiva e umorale, e in definitiva “personale” dello stile scarno, della brevitas sintattica, della struttura di prosa
“magra” ben annotata e discussa proprio da Renato Serra in queste pagine insostituibili su Panzini, vibrerà nel Diario sentimentale d’un’increspata linea narrativa, in
cui l’affanno umorale vira verso una cifra scattosa, nervosa, di riscontro desultorio
con le notizie e con i fatti. In una parola, verso i pregi (non gli unici) dell’arte e della
prosa di Panzini, verso i dati e gli elementi che seducono i lettori di questa tipologia
diaristica, e che rendono a questi ultimi una testimonianza importante − di efficacia
“trasversale” nella chiave antropologica dell’apprensione che tutti accomuna −, proprio nella loro soggettiva angolazione di scrittura.
Ma già Serra, nella citata lettera a Prezzolini dell’ottobre 191458, in un contesto
elogiativo e intessuto di gratitudine verso il destinatario per la fresca recensione
vociana del 28 settembre a Le lettere, formulerà proprio in questo senso l’unico
appunto a un recensore che definisce «il più giusto dei miei lettori»59, la cui unica
défaillance è appunto consistita nell’attribuzione a Renato d’un’«ombra di leggerezza» nel giudizio presente nelle pagine che contengono la trattazione di Panzini:
ammetto di avere dei torti verso tutti gli altri, ma non verso Panzini. Gli voglio bene veramente, e mi pare impossibile di non averlo fatto sentire; ho
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59
Cfr., qui sopra, la nota 32.
Cfr. SERRA, Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 514.
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riletto le pagine che lo riguardano e credo che vi si possa trovare tutto fuor
che un’ombra di leggerezza60. / Caro Panzini, abbiamo delle somiglianze così
vive, in certi punti! L’ho trovato sulla riva del mare (tante mattine sono stato
con lui a Bellaria: ma la guerra ci rattristava e ci stringeva troppo; gli ultimi
giorni non avevo più cuore d’avviarmi!) una volta, che faceva lezione di retorica al suo figliolo, col mio libro; e gli mostrava qua e là dei piccoli effetti di
stile, che erano proprio quelli ch’io avevo cercato, per il mio piacere, scrivendo; e poi aveva coperto i margini, secondo l’umore della sua lettura, contraddicendo o esagerando, di una selva, così arguta e così fantastica, di chiose!
Non ho mai ricavato tanto piacere dal mio pigro lavoro. / Del resto, intorno a
Panzini avevo già scritto con più larghezza […]. Così potessi fare per gli altri,
discorrendone secondo il mio sentimento, senza obblighi commerciali; penso
a Papini, a Di Giacomo e a tanti che ho dovuto un poco sacrificare.
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Le pagine dedicate a Panzini in Le lettere appaiono, in effetti, e considerate nel loro
complesso, piuttosto lusinghiere; una breve ricognizione dei passi più significativi lo conferma:
«nel Panzini è altra gentilezza e maturità [rispetto a Guido da Verona]»; «Il Panzini è quasi il
solo, oggi, artista schietto: non si dice che sia grandissimo, ma è della famiglia dei grandi»; «quel
curioso bozzetto di Santippe […] sembra un piccolo viaggio fra di fantasia e di ozio letterario
per l’antichità, e ha invece momenti di lirismo fiorito e di attualità così inquieta» (RENATO SERRA,
Le lettere, in ID., Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 438); non manca l’identificazione dei
limiti culturali, per non dire dei limiti di “aggiornamento storico” dello scrittore: «Panzini non
è stato mai così vivo come in questi anni; con quelle disuguaglianze che son proprie dei poeti.
Perché la sua natura è di poeta, pur senza il dono del verso»; «È lieve questo classicismo, come in
genere l’apparato letterario del Panzini; che si direbbe scarso, povero in confronto della minuzia
retorica dei vecchi o della coltura dei nuovi: non molto di greco e di latino, poco di moderno;
letteratura d’Italia, senza squisitezze, e non con curiosità uguale, ma a tratti di simpatia e antipatia
robusta: e tutto questo poi è scrollato e turbato dagli scatti di un carattere insofferente, che arriva
nella sua sincerità a un odio non meno illusorio che naturale per ogni letteratura»; ma i caratteri
gradevoli, e talvolta i pregi di purezza di figure, di situazioni, di immagini, riassorbono nella visione
serriana anche gli aspetti discutibili, o imperfetti, o incompiuti, dell’arte di Panzini: «Il vero è che
Panzini ha un temperamento nativo d’artista, ricco di movimenti bruschi e di voci fantastiche,
non sempre felici e limpide, ma sempre schiette. La educazione letteraria da prima si è imposta a
questa natura, semplificandola, riducendola a essere quasi solo una intensità e una risonanza pura
del linguaggio volontariamente mediocre e tenuto all’esempio dei grandi: ma poi a poco a poco ha
subito di più la forza della persona, che contrastava coi suoi crucci e con le sue nostalgie, con le
illusioni e con le riflessioni, alla forma quieta dello scrivere e dell’osservare; e ne è venuta, anche
nei bozzetti alquanto superficiali e nelle dilettazioni leggere, quella nervosa e interrotta armonia,
quella luce a sprazzi liquidi e ombre spezzate, quel non so che di lirico e pieno, che è la qualità
vera della bella prosa di Panzini; prosa viva, d’impressioni e di ritmo, di difetti e di grazia» (ivi, pp.
439-440); il Cesenate insomma, nell’epilogo del paragrafo concettuale dedicato al professore di
Bellaria, tributa un autentico e calibrato riconoscimento all’arte letteraria panziniana (ivi, p. 440):
«In questa solitudine la parola è diventata ancora più intensa e più semplice; crea delle sensazioni
definitive, e dice delle cose di una umanità commovente, così vera che ci fa scordare qualche volta
di esser lettori sopra una pagina, ci fa corrugar la fronte con una ansia di uomini davanti alla pietà
e alla oscurità sorda della vita. Pochi hanno mai parlato come lui delle madri e dei figli; dei vecchi
e dei giovani».
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Il rammarico espresso nelle ultime righe, con il cenno a Papini, a Salvatore Di Giacomo e ad altri, dimostra che di Panzini Serra ha discusso in modo distesamente
congeniale, mentre di altri scrittori, al netto da gerarchiche classificazioni di «bontà letteraria» (come si esprimerà nell’Esame), il critico non è invece stato nel caso
di scrivere con uguale agio saggistico. Panzini è l’unico nei cui confronti Serra non
ammette d’avere torto, sicuro com’egli è di “volergli bene”; e Serra è qui a uno dei
passaggi più significativi, a una delle peculiari declinazioni del suo inimitabile sinolo critico di apprezzamento letterario e di affetto umano. La rievocazione, semplice e sincera, delle giornate estive bellariesi contempla le «somiglianze così vive,
in certi punti!», il ricordo dell’apprensione espressa in diverse e in più affannate
cadenze dal professore della Casa Rossa, e l’incrocio letterario tra l’opera prodotta
per proprio piacere dall’assorta e pigra flânerie del Cesenate e la «selva, così arguta
e così fantastica, di chiose!» nella quale si rivela nella propria indubitabile originalità, e, soprattutto, nella sua umoralità, l’attitudine letteraria di un Panzini che qui
riprende e fa rinascere, dal vivo e come domestico chiosatore, alcuni dei suoi tratti
connotanti emersi dal saggio serriano del 1910. Ancora una corrispondenza, nella
familiare camminata sulla riva del mare, e corrispondenza delle più significative
sul piano della circolarità e addirittura del ritorno ciclico del dialogo di mutua
lettura fra scrittori, dell’esperienza “ternaria” costituita da scrittura, lettura di altro
studioso, scrittura dello studioso sull’autore, e quindi lettura − da parte dell’autore
studiato − dei testi dell’interlocutore saggista; l’esperienza di ricircolo di scritture
e di letture avviene dunque fra testualità di Panzini studiata e analizzata da Serra,
chiosa panziniana alla testualità del Renato di Le lettere, e ripresa serriana delle
glosse panziniane al testo di Renato stesso, come visione d’autore dell’approdo
del suo libro alla fruizione didattica, di cui deve beneficiare il figlio del professor
Alfredo; sede e teatro di questo ennesimo scambio, di questa osmosi intellettuale e
letteraria, e amicale, in cui i due protagonisti rispettano in affettuosa reciprocità le
loro individuali caratteristiche, è perciò ancora una volta la riva del mare di Bellaria, vicino alla Casa Rossa, dove il bagnasciuga diviene luogo di docenza casalinga,
e dove si è svolta un’esperienza di comunicazione umana e culturale fra le più
intriganti, in Italia, nel corso dell’annata che precede l’ingresso nella Prima guerra
mondiale: «L’ho trovato sulla riva del mare […], che faceva lezione di retorica al
suo figliolo, col mio libro».
Difetti, lacune, esilità, discontinuità, asimmetria della prosa panziniana sono,
beninteso, categorie d’analisi alle quali Serra accenna spesso, ripetutamente; ma
vi fa cenno quasi sempre in modalità di base di lancio della ribattuta concettuale
costituita dalla positività, e addirittura dalla felicità inventiva e lirica che a più riprese mostra la capacità narrativa di Alfredo, dalle novelle alla diaristica. E si tratta
d’una prosa che ha in sé il nucleo della poesia, di una lirica che pure rimane in
parte inespressa sul piano della forma, ma che svela in moltissimi luoghi dell’opera
di Panzini la propria germinale melodiosità:
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Si ripiglia la lettura con animo quieto e tutte le cose pare che prendano una
faccia nuova. Difetti, imperfezioni, goffaggini più non offendono, ma quasi
avendo sentito che la bontà dello scrittore, per essere riposta in altra parte,
da quelle non può essere diminuita, se ne respira l’aura diffusa per tutti i seni
con un piacere profondo61.
L’indole poetica della scrittura panziniana scaturisce in un’indefinibile connotazione incerta, ibrida, a metà fra la voce lirica rattenuta sulla soglia del “canto” e
il sormontare d’una cifra narrativa che ha l’effetto d’assorbire tale voce lirica nel
predominante contesto del raconteur:
Dico che a rendersi conto della virtù di questo scrittore bisogna considerarlo
nella sua qualità di poeta; non così grande forse, ma sincero […]; il verso resta
nella memoria con le sue linee ferme e le parole salde, scolpito e lucente, come
una medaglia di perfetto conio, mentre nella prosa tutto si muove e si annoda
e si svolge, e la bellezza non suole essere nelle parole ferme e nelle clausole
perfette, ma proprio nella ricchezza e agevolezza del moto che trasporta ogni
cosa, nella consapevolezza dell’espressione compiuta, nella forma volubile dei
ritocchi e delle giunte e delle riflessioni. / Tutte queste chiacchiere voglio che
valgano solo a un fine: a rendere qualche immagine della prosa del Panzini, in
quel che ha di bellezza nativa o, come dicevo, di qualità poetica. […] è la ricchezza di quegli scrittori che sembrano poveri; ma i loro fiori odorano in mezzo
alla solitudine […]. La ragione vera è nell’animo del Panzini; il quale si sente
troppo bene che dice tutto sul serio62, non per moltiplicare la fatica allo stampatore, o per illudere gli sciocchi, ma per un movimento serio e sincero della
passione. Come è sincero negli abbandoni, nelle imperfezioni, nelle goffaggini,
così è sincero nei momenti felici e nelle cose belle63.
Sarebbe però un errore ignorare la consapevolezza che Panzini ha gradatamente acquisito dei propri mezzi espressivi, e, in particolare, delle caratteristiche
peculiari al proprio stile; si tratta, al contrario, di uno scrittore sempre più conscio
dell’effetto delle parole che usa, e inoltre capace di impiegarle, dosandole con maestria narrativa, ma anche poetica, in una chiave di giusto calibro nell’àmbito del
suo mondo umano e artistico:
Il Panzini è tanto consapevole ormai dell’effetto delle sue parole, che quasi
lo cerca a ogni ora, e scrive spezzato e brusco, con serie di frasi, talora di
Cfr. SERRA, Alfredo Panzini, cit., pp. 143-144.
Cfr. ancora il Serra de Le lettere su Panzini, in Scritti letterari, morali e politici, cit., p.
440: «sensitivo e ombroso; tormentato da un bisogno di affrontare e agitare dei problemi, in cui
si rivelano certi limiti della sua cultura e della sua intelligenza; ma che sono terribilmente seri,
per lui».
63
Cfr. SERRA, Alfredo Panzini, cit., rispettivamente pp. 144 e 146-147, con tagli.
61
62
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vocaboli, nettamente staccati, spaziati, perché spicchi più intenso il valore di
ciascuno. Egli riesce a tratti molto più espressivo e nervoso e pittoresco; ma di
rado trova quell’armonia di collocazione poetica, che comunicava così dolce
incanto alle parole di un tempo64.
Ma la qualità principale della prosa di Panzini non è destinata a trasformarsi nel
tempo, e nessuna evoluzione può eliminare, o soppiantare, la bellezza e la semplice armonia del sound poetico di fondo, della voce di innata poesia che echeggia,
e occhieggia, fra le maglie di una prosa che procura piacere e diletto non solo a
lettori di valenza puramente degustativa, quietistico-borghese, ma anche a un lettore come Serra, che, senza identificarsi, o meglio senza appiattirsi affatto in quella
tipologia di lettore, ne interpreta però assai felicemente con oggettivo distacco di
prospettiva critica le linee preferenziali di fruizione, le diagonali privilegiate di
approdo delle sollecitazioni delibative che muovono dal libro verso di lui, verso
la sua intelligenza e verso il suo cuore. Termini, questi ultimi, che anche il lettore
smaliziato di Renato Serra, a meno d’incoerenza, non può fastidire.
Si legga, allora, il modo in cui nella prosa panziniana Serra ritrova la poesia, appunto, la valenza lirica profonda proprio quando più la voce è intimidita dalla ribalta
linguistica en pleine air e proprio quando la parola si trattiene in «una forma intima»,
in «una intenzione non espressa», «come un riflesso di sole ancora non sorto»65:
Poiché la nobiltà d’animo del Panzini non può mutare se anche muti il modo
della sua operazione: e quella che in lui non viene mai meno è la grazia di una
poesia nascosta nel cuore, che non ha tanta forza da svolgersi dias in luminis
oras, ma canta attraverso il suo dire una fontana segreta. / Poetico in lui è il
movimento armonioso dell’animo, il sentire fresco, l’accento profondo e vibrante che colma di musica le sillabe dei vocaboli comunali [ordinari, banali];
ma questa resta in lui una forma intima, una intenzione non espressa. Diciamo meglio: la intenzione sua si rivela perfettamente nella sua propria qualità
nascente ed esitante, in quel contrasto gentile con le altre parti di una natura
meno felice. / Tale è la prosa del Panzini, e tale l’arte. Bonaria e semplice e
piana nella sua superficie, essa è attraversata da una corrente profonda di poesia; la virtù della quale è appunto in ciò ch’essa resta nascosta e incompiuta,
come un riflesso di sole ancora non sorto, come una musica di campane sprofondate, come un sospiro della bocca chiusa […]. In questa violenza lirica a
pena repressa, che corre di sillaba in sillaba, che empie di fremito i versetti
salienti in misura e sospira lungamente nelle pause; in questa bontà musicale
della prosa, dove i singulti e le bruschezze e gli abbandoni e le cantilene tutti
insieme fanno armonia, in questo ardor di passione che quasi è per prorompere al canto e si rompe in aspre parole semplici, io sento il Panzini […].
Forse la sua anima gentile allo stesso modo alcuna volta rimpiange la poesia,
64
65
Ivi, pp. 150-151.
Ivi, pp. 152-154, con tagli.
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a cui si sentiva nata e che ha creduto di perdere. / Non credo io già che l’abbia
perduta. Il lume puro di lei risplende sulla fronte dello scrittore e la rischiara.
Tutte le parti della sua vita e persona alquanto umile, della intelligenza sana
ma non altissima, della letteratura buona ma non squisita, della osservazione
e rappresentazione nitida ma non potente, della arguzia spontanea ma un
poco scarna, ne prendono qualità: che scorre lietamente per le pagine della
sua prosa onesta, e rende a loro aurea bontà onde son care fra quante altre ne
porti più rumorose la stagione letteraria.
Nella peculiare valenza di critico letterario, saggista che è frutto di attività
di solitario lettore, Renato Serra, riguardo a singoli autori e alla loro personalità
umana, distende nel modo più ricco e più generoso la propria pagina su Alfredo
Panzini e su Paul Fort, insieme al Pascoli, e al Kipling pubblicato postumo: sono
questi (e Panzini − come dimostrano anche Le lettere − vi è in prima fila) gli scrittori a cui dedica un maggior spazio di analisi testualmente ripartita e ravvicinata,
più aderente alle esigenze di una critica stilistica, e anche linguistica. Proprio un
Panzini e un Paul Fort sono gli autori giusti per snidare Serra all’uscita editoriale,
per fargli recepire la spinta del buttafuori di palcoscenico, per risolverlo infine alla
ribalta cartacea del saggio pubblico. Rimane certo che il lettore solitario, nell’arco
biografico di Serra − reciso dal destino −, si pone, non si dice come “più grande”,
ma come più capiente dell’opera del saggista, del suo centellinato e distillato cesello d’orfèvre, di critico artista capace di affondo spirituale nella psicologia della
singola anima dell’uomo e dello scrittore, e insieme di visioni plurime d’umanità
e di cicli perpetui e immutabili di geografia e di storia, di perpetui legami fra la
terra e le sue genti. Il saggista, il mirabile analista dei romagnoli Pascoli e appunto
Panzini (e si potrebbe aggiungere Beltramelli), l’inconfondibile fruitore delle Ballades Françaises di Paul Fort66, è in sostanza, insieme a Per un catalogo, a Le lettere,
66
Non si scordi che Paul Fort interesserà non banalmente Giovanni Papini, in uno dei
Ritratti stranieri vallecchiani (GIOVANNI PAPINI, Paolo Fort [1918], in ID., Ritratti stranieri, Firenze,
Vallecchi [«Opere di Giovanni Papini», XI], 1942, pp. 129-143). Papini mostra di avere presente
(p. 143) lo scritto di Serra («[in Italia] l’unico saggio veramente critico è lo studio di Renato
Serra − Ringraziamento per una ballata di P. F. nella “Voce” 1914 − che non vedo citato nella
bibliografia ch’è in fondo all’Anthologie»); e soprattutto, Papini sottolinea, non senza una certa
meraviglia, che non è stato ancora còlto il possibile legame di Fort con Gerard de Nerval: non
quello «degli ultimi anni, fantomatico e germanico», ma il «simpatico Gerard delle Filles du Feu.
Sylvia, vagabondaggio amoroso e campestre attraverso il gaio Valois, sembra del puro Paul Fort,
del miglior Paul Fort […]. Io credo che Paul Fort deve aver molto amate le Figlie del Fuoco. E
mi ricorda, in qualche momento idillico, anche il rivoluzionario Fabre d’Eglantine, quello della
famosa canzonetta Il pleut, il pleut bergère» (ivi, pp. 140-141). Né manca − stupirebbe il contrario
− il richiamo alla metrica: «In un tempo in cui molti spezzavano la prosa in versi apparenti egli ha
stampati i veri versi in forma di prosa apparente. Anche le rime e le assonanze, che son frequenti,
son nascoste − ma l’orecchio le avverte e questa libera e liquida prosa composta di versi di tante
misure e qualità ha uno charme che non si può descrivere» (ivi, p. 142). Su Nerval cfr. anche, in
questo volume, il cap. III, su Bazlen, alla n. 106.
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all’Esame, lo spicchio critico ufficiale che ci rimane di Serra. Ma il saggista non è
tutto. E il solitario lettore ha lasciato una miniera di carte e d’inediti di intrigante
seduzione critica e letteraria, sulla quale dovranno proseguire le indagini. Non
sono dunque, quelli serriani, i soli autori “minori” su cui può trovarsi a ironizzare
Cardarelli. Rimane, piuttosto, oltre a Platone, a Montaigne, a Kant, a Nietzsche,
oltre ai “formatori” del lettore, la serie di carte Rolland, adesso compiutamente
studiate e vagliate in edizione critica; e rimane la serie di Note, in pieno dialogo
critico con Giuseppe De Robertis, su Ariosto e su Manzoni67. Riguardo alla lettura
della Collaborazione alla poesia di De Robertis, Serra si mostra infatti disposto,
in una prospettiva che avrebbe potuto avere sviluppi estremamente significativi
e fecondi se la guerra non li avesse interrotti, a una serie di studi, o comunque di
scritti, che avrebbero avuto base negli appunti trovati nelle carte Serra della Malatestiana in tre gruppi di note intitolati l’uno a De Robertis, e gli altri due dedicati,
appunto, all’autore del Furioso e a quello dei Promessi sposi. Ariosto e Manzoni
sono lì oggetto di una serie di nuclei critico-concettuali che tendono a riconoscere
l’estraneità delle loro opere alla “linea” della ricerca d’una lirica pura, di momenti
di approdo a vette ispirative di altissimo arco espressivo e al limite frammentarie nella loro individuale identità; ma tali nuclei, nel contempo, o con il rilancio
sintattico d’un «eppure», in quelle note, rintracciano proprio nella musica contestuale (anziché meramente testuale e singolare), nella complessità della sinfonia
di eventi, di voci e di personaggi, nella ricchezza armonica delle corrispondenze,
della concordia delle componenti, dell’intelaiatura architettonica delle strutture, il
loro profondo valore non sempre immediatamente riconoscibile, il loro messaggio
sul piano dell’affabulazione narrativa e di quello che, mentre sarà la “struttura”
per Croce, sarà invece per Serra un fecondo ingresso in una nuova e stimolante
via di studi. Sarà, quella serriana inerente al «discorso» e alle nervature strutturali, la sponda razionalista nel dialogo della Collaborazione con De Robertis; sarà
l’individuazione di un nuovo canone di indagini letterarie che attesteranno, e più
ancora lo avrebbero attestato se Serra le avesse potute proseguire, la persistenza e
la protratta indicazione di un’«inquietudine critica che non si è arresa alle certezze
della “passione”»68; certo, anche il «discorso» che emerge dall’armonia polifonica
ariostesca e manzoniana si distanzia, in prossimità della morte, nella limpidezza
della memoria, acquisendo però lo statuto di valore perpetuo, vicino al concetto
ricorrente della «terra», della sua solidità al di là del tempo.
67
Cfr. EZIO RAIMONDI, Un critico alla ricerca di se stesso, par. di Renato Serra: la coscienza del
lettore, in ID., I sentieri del lettore, cit., pp. 383-393.
68
«E il fatto poi che lo scrittore dell’Esame di coscienza mediti di scrivere qualcosa sull’Ariosto
mentre rilegge Platone e Tolstoj, ha già da solo la forza di un argomento, perché colloca la poesia
del “discorso” nell’atmosfera più limpida della memoria, vicino alla “cara terra, dura, solida,
eterna” […]. Ora restano soltanto il monologo e il silenzio, la quieta verità dell’istinto, che è
comune a tutti gli uomini» (ivi, p. 393).
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Dalle carte insomma scaturisce, e anzi prende sempre più corpo e più sostanza,
non soltanto una nuova serie di autori, ma un Serra inedito e del tutto aperto agli
scrittori maggiori, ai grandi classici della letteratura italiana, ai caposaldi dell’arte
narrativa; l’istituzione d’un’analogia tra il concertato poematico dell’Ariosto e la
calibratissima orditura romanzesca di Manzoni è un’intuizione cui Serra perviene
assolutamente da solo, e sia pure in séguito a una sollecitazione di De Robertis;
non, dunque, solo il Serra del Paul Fort, ma un Serra che schiude, in limine mortis,
uno scenario di rinnovamento su un Ariosto vicino alla prosa, su un poema nel
quale è specificamente l’affabulazione narrativo-romanzesca, proiettata in mirabile
macrostruttura, a esercitarsi al massimo grado della perizia architettonico-razionale, della scacchistica lucidità del disincanto, e al massimo grado dell’inesauribilità
della risorsa e dell’invenzione fantastica; il congedo serriano non avviene, quanto
alla letteratura italiana, all’insegna della linea lirica Petrarca-Tasso, in lui presente
sin dagli esordi carducciani, e neppure all’insegna dell’immagine lirica foscoliana, o leopardiano-pascoliana. La via del dominio razionale delle strutture, ovvero
quella linea Ariosto-Manzoni che fibrilla di future possibilità proprio nel punto di
commiato di Serra, allo spegnersi della sua voce, non avrebbe mancato di avere,
nel Novecento, almeno sul piano critico, una sua nobile sanzione (ad esempio,
nella lettura di grandi studiosi e saggisti, come nel ferrarese Lanfranco Caretti). Ma
questo straordinario finale, con Platone nello zaino, compagno appropriatissimo al
momento, pieno condomino delle munizioni, e con Tolstoj e il principe Andrej davanti alla morte vera, sospirato psicodramma a materializzare tragicamente Guerra
e pace69, non inficia per nulla il dialogo, le riflessioni e i frutti del rapporto e del
colloquio con Alfredo Panzini; già nel saggio sullo stesso Panzini, Serra aveva ben
Sacche e contenitori, come parti dell’abbigliamento e della logistica militare, fungono spesso
da piccole, ma significative biblioteche portatili di soldati intellettuali e lettori, e rivelano selezioni
e scremature di autori prediletti, come una crestomazia mobile, pulsante nello stesso spazio fisico
del dramma del conflitto e del suono delle armi; ricordiamo, qui, il Solmi dell’epoca della Grande
Guerra (cfr. LANFRANCO CARETTI, Solmi. I. Itinerario di Solmi, come primo paragrafo rispetto a
un secondo, intitolato Codicillo, in ID., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino,
Einaudi [«Einaudi Paperbacks», 73], 1976, pp. 427-451 e 451-452: qui, p. 428), quando, nel suo
primo periodo di formazione culturale e letteraria, «esaltava la nobile fantasia con le suggestioni,
ben vegete ancora, di miti decadentistici (Rimbaud e Campana: itineranti e visionari, accomunati
nel tascapane di guerra al Max Jacob di Cornet à dès, e identificati col proprio destino “in un
periodo di vita spontanea e brutale, di lunghe marce deliranti”)» (l’ultima frase tra virgolette è
ripresa dallo stesso SERGIO SOLMI, Scrittori negli anni, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 58). Dallo
«zaino» di Renato Serra al «tascapane di guerra» di Sergio Solmi: eloquenti microbiblioteche di
marce e di trincea. Andrebbe condotto uno studio a tappeto, con dimensione e con respiro di vasta
esperienza comparatistica, sulle borse, sugli zaini appunto, sulle tasche dei soldati in guerra, e in
particolare dei letterati; ne scaturirebbe un’ampia e differenziata gamma di riscontri, e insieme una
serie di dati di profonda drammaticità, sullo sfondo di tragici bagliori e di “aromi” di polvere da
sparo. Gli autori, gli scrittori di “geniale”, di intima corrispondenza con la cultura della propria
anima costituiscono delle vere letture identitarie; essi segnano, addirittura, l’identificazione «col
proprio destino “in un periodo di vita spontanea e brutale, di lunghe marce deliranti”».
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distinto la ratio artistica, strutturale e stilistica della prosa rispetto a quella della
poesia, che pure Alfredo sotto sotto ricercava:
il verso resta nella memoria con le sue linee ferme e le parole salde, scolpito
e lucente, come una medaglia di perfetto conio, mentre nella prosa tutto si
muove e si annoda e si svolge, e la bellezza non suole essere nelle parole ferme
e nelle clausole perfette, ma proprio nella ricchezza e agevolezza del moto
che trasporta ogni cosa, nella consapevolezza dell’espressione compiuta, nella
forma volubile dei ritocchi e delle giunte e delle riflessioni.
Tale dialogo ha naturalmente avuto frutti anche in Panzini, e non solo per la funzione assunta, da Bellaria, di “cantore” e riecheggiatore nell’immediato post mortem
(nelle modalità di prosa peculiari all’autore del Diario sentimentale) dei concetti,
delle parole e della personalità di Renato Serra, ma soprattutto per l’arricchimento
e per la maggiore complessità di pensiero che la memoria, e in particolare il ricordo
per vivo ascolto delle pronunce orali di Renato, mostrano di avere avuto nell’evoluzione dell’atteggiamento di Alfredo e della stessa prosa panziniana lungo tutto il
corso del conflitto e, in parte, nel primo dopoguerra. Pronuncia orale, pronuncia
scritta, riflessione solitaria e autonoma, enunciazione riportata, enunciazione nel
ricordo, commento del già scritto, pregressa reciprocità di cultura, di conoscenza
delle idealità letterarie, dello stile, della scrittura, e in genere dell’opera altrui in
due personalità così diverse, ma ambedue scambievolmente consapevoli: tutta una
gamma di intrecci linguistici, prosastici, enunciativi si anima, e si può dire che sia
presente, nello scambio dialogico Serra-Panzini; in particolare nei suoi silenzi. Si
tratta, non sfuggirà, di una delle declinazioni più ricche e più complete di reciproca osmosi umana, di compiuta, articolata rassegna e di compresenza delle varie
tipologie di espressività dialogica che si possano ritrovare nel Novecento letterario
italiano, e per di più di fronte a un evento storico capitale come la Prima guerra
mondiale; e si tratta, altresì, di un’esperienza sfaccettata e molteplice dei vari canali enunciativi che si possono allacciare in un dialogo, e che si sono qui di fatto
allacciati in un intreccio originalissimo. Nessuna meraviglia, dunque, se Panzini,
già cautamente assegnato da Serra al “novero” dei grandi, se non “grande” lui
stesso, è partecipe oggettivo, sul piano cronologico, della fase serriana di prospezione nuova, di profonda percezione contestuale ariostesco-manzoniana, di studio
e di fascinosa, intrigante valorizzazione delle partiture, delle connessioni e delle
risonanze armoniche rispetto al De Robertis che è allora in cerca − posizione non
meno legittima − di folgoranti stacchi melodici, di memorabili “medaglie”, di immagini, di suoni, di accensioni di luce lirica superiore e insieme perfetta. Il circuito
che si crea in questi casi può essere definito di «imitazione spirituale»70,
70
Cfr. RAIMONDI, La responsabilità delle parole, cit., p. 367.
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un ripensamento scrupoloso, attivo del suo [di Serra] ethos della parola moderna e della sua razionalità critica. Poiché l’imitazione spirituale voleva dire
per Serra una trasformazione e un accrescimento, chi gli sarà alla fine più vicino risulterà di fatto anche il meno simile. Solo nella metamorfosi, sappiamo,
è «possibile sentire ciò che un uomo è al di là delle sue parole».
Ma il circuito dell’«imitazione spirituale» non viene percorso certo in modo univoco; e se qui tale «imitazione» è stata evocata con centro su Renato Serra, non
ne rimangono affatto escluse, diremmo addirittura “per definizione”, una sponda
e una figura come quelle di Alfredo Panzini, che nel ripensamento e nell’elaborazione culturale riguardo all’uomo e all’intellettuale Serra ha prodotto il proprio
movimento di pensiero e di testi, ha prodotto e si è procurato inquietudine proprio
perché molto diverso dal Cesenate, e ha promosso il suo movimento a prova vivente − a pena di contraddizione − di tale diversità, di tale diffrazione, che non poteva
legittimare una permanenza statica nelle proprie posizioni, e neanche nella propria
nevrosi. Diversi, profondamente differenti: ma è esattamente per questa ragione
che, qui riferendoci a Serra, «chi gli sarà alla fine più vicino risulterà di fatto anche
il meno simile»71. Con Boine o con Borgese sarebbe stato impensabile.
È anche per questo che si arricchisce di significati il dialogico “sonoro” tormentato dal silenzio, dall’attesa elettrica della “scintilla”, e quindi dalla tensione
che pervade la marina di Bellaria, con l’eco delle navi da combattimento a far rabbrividire, e agitare, l’una e l’altra sponda dell’Adriatico, le rive d’un mare che qui,
nell’incombere della guerra, non è impari al rango di metafora planetaria.
71
Cfr., in diversa chiave, sul piano della stima e dell’accordo anche in presenza di posizioni
di schieramento esplicitamente contrapposte riguardo alla guerra, a quello che sino a pochi
anni prima costituiva lo scontro interventismo / neutralismo, una lettera di Ardengo Soffici ad
Aldo Palazzeschi, da Poggio a Caiano, del 1 luglio 1920: «Io che ho detto sempre il contrario
di quel che tu dicevi e ora scrivi, che pensavo il contrario e che ho agito in conseguenza − io ero
forse il solo che poteva capirti e ti ho capito perfettamente»; più sotto Soffici, che considera la
bellezza di Due imperi… mancati di Palazzeschi come anch’essa frutto della guerra e della sua
fatale inevitabilità, definisce «facile e atroce» l’idea verso la quale egli ancora propende (si veda
MARINETTI-PALAZZESCHI, Carteggio con un’Appendice di altre lettere a Palazzeschi, cit., pp. 161-163:
162).
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2.
I BUFFI, I SALTIMBANCHI, LA CORTE DEI MIRACOLI: ALDO PALAZZESCHI, IL RISUS RERUM E IL PALIO DEI “SAVI”, DEI SERIOSI E DEI
BUONSENSAI, DALLA BEFFA TOSCANA AD ALBERTO SAVINIO
Non ti nascondo che il tuo libro è uno dei più belli che
io mi conosca […]; ci sento tutti gli abissi della mia
anima e tutta la vacuità del mio cervello; ci sento tutta
l’inutilità della tua arte impossibile e ci vedo tutta la
bellezza delle cose deformi.
MARINO MORETTI, da una lettera a Palazzeschi
Ne ho l’impressione, non ostante la buffoneria, l’arguzia, l’ironia, il sorriso, d’un libro fortemente drammatico, anzi tragico. Non si può essere, a traverso il divertimento, più sconsolati di così ed è questo, mi pare, che
rende ancor più significativo e importante il tuo libro.
MARINO MORETTI, da una lettera a Palazzeschi
la frontiera tra il serio e il faceto è abolita. Non per
merito nostro: per merito dello spirito.
ALBERTO SAVINIO, Maupassant e «l’altro»
ridere di sé medesimi, come sarebbe necessario di ridere, traendo il riso, cioè, dalla evidente e piena realtà
delle cose […]: la breve tragedia è finita sempre per ritornare all’eterna commedia dell’esistenza, ed «il mare
dell’innumerevole sorriso» − per dirla con Eschilo −
dovrà finalmente ricoprire delle sue onde il più grande
di cotesti tragici1.
FRIEDRICH NIETZSCHE, La gaia scienza
1
Cfr., a proposito della prima citazione, la lettera di Marino Moretti a Palazzeschi, da Baveno,
del giugno 1909 (MARINO MORETTI-ALDO PALAZZESCHI, Carteggio I [1904-1925], a cura di SIMONE
MAGHERINI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 1999, p. 238;
Moretti si riferisce ad ALDO PALAZZESCHI, Poemi, Firenze, Stabilimento Tipografico Aldino, 1909);
la seconda citazione concerne la lettera, sempre di Marino Moretti a Palazzeschi, del 15 gennaio
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2.1 «l’immortalità è degli uomini leggeri, degli uomini senza peso, perché soltanto
gli uomini senza peso sopravvivono (ils surnagent)»
Più tiriamo fuori questo uomo dalla sua scatola di mistero, più egli stimola la nostra simpatia, ci piace, ci diverte. Diciamo la verità: Gustavo di
Maupassant noi lo preferiamo a suo figlio Guy. Lo preferiamo soprattutto
al binomio Flaubert-Maupassant. Lo preferiamo al figlio e al padre putativo, uniti nel comune sforzo di affondare lui nell’ombra. Il personaggio
Flaubert-Maupassant […] è troppo il tipo del Gaulois per riuscire del tutto
gradito a noi. C’è in quel loro peso, in quel loro normandismo, in quel loro
vercingetorismo un che di stupido e di imprescindibilmente buffo: tanto
più stupido e tanto più buffo che entrambi ne sono inconsapevoli. Noi che
abbiamo in mente un tipo di civiltà molto matura, e in seno a essa civiltà
un tipo di uomo supremamente civile, ossia che si è liberato del peso della
forza e della lotta, della fede e della mèta, dei significati e dell’espressione,
troviamo molto più vicino a questo tipo di uomo «senza peso» monsieur
Gustave de Maupassant, che il taurino suo figlio e il suo omonimo e sostituto nella carica di padre Gustavo Flaubert. Non illudiamoci: l’avvenire… ma
che dico avvenire? l’immortalità è degli uomini leggeri, degli uomini senza
peso, perché soltanto gli uomini senza peso sopravvivono (ils surnagent),
soltanto loro non sono abbattuti dalla lotta, non sono trascinati giù dalla
1937, da Cesenatico, in MARINO MORETTI-ALDO PALAZZESCHI, Carteggio II (1926-1939), a cura di
ALESSANDRO PANCHERI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze,
2001, pp. 344-345 (il libro di cui parla Moretti è, in questo caso, proprio Il palio dei buffi, uscito
nello stesso gennaio 1937); cfr., per la terza citazione, ALBERTO SAVINIO, Maupassant e «l’altro»,
introduzione a Venti racconti di Guy de Maupassant con Lui e l’altro di Alberto Savinio, traduzioni
di ALBERTO SAVINIO-ANNA MARIA SACCHETTI, Roma, Documento Libraio («Il viaggiatore e la sua
ombra», 1), 1944, p. 99, n. 3; si veda, infine, per la quarta citazione, l’edizione nietzscheana de La
gaia scienza di cui Palazzeschi poteva disporre in italiano, con tutte le riserve sulla qualità della
traduzione: FRIEDRICH NIETZSCHE, La gaia scienza, traduzione di ANTONIO CIPPICO, Torino, Bocca,
1905, pp. 24-25 (cfr. i passi corrispondenti de La gaia scienza in ID., Idilli di Messina, La gaia scienza e
Frammenti postumi [1881-1882], in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di GIORGIO COLLI-MAZZINO
MONTINARI, con la collaborazione di SOSSIO GIAMETTA e MARIA LUDOVICA PAMPALONI, versioni di
FERRUCCIO MASINI e MAZZINO MONTINARI, Milano, Adelphi [«Classici», 11], V, t. II, 1965, pp.
34-35). Si ricordi, a proposito della terza citazione e del fratello di Savinio, Giorgio De Chirico,
l’intervento di ALBERTO MORAVIA in Palazzeschi oggi. Atti del Convegno, Firenze, 6-8 novembre
1976, a cura di LANFRANCO CARETTI, Milano, Il Saggiatore, 1978, p. 298: «Infine Palazzeschi
partecipava di un momento della letteratura italiana che si potrebbe chiamare il momento dei
pittori, perché molti scrittori si ispiravano o addirittura imitavano i pittori, era il momento di De
Chirico e della pittura surrealista e metafisica. Ora in Palazzeschi c’era nativamente il senso delle
prospettive, dei vuoti, delle lontananze, delle solitudini echeggianti che sono proprie di quella
pittura». Si rammentino, a proposito del carteggio Moretti-Palazzeschi, il terzo volume e il quarto
volume: rispettivamente, MARINO MORETTI-ALDO PALAZZESCHI, Carteggio III (1940-1962), a cura di
FRANCESCA SERRA, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2000,
e Carteggio IV (1963-1974), a cura di LAURA DIAFANI, Roma, Edizioni di Storia e LetteraturaUniversità degli Studi di Firenze, 2001.
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morte, perché l’uomo leggero non sta «dentro» le cose, ma «intorno» e
«sopra» le cose come l’aria e la luce: libero e proprio2.
Nel tradizionale binomio giustappositivo costituito dai termini di padre e di figlio,
ovvero dal pragmatismo ruvido e opportunistico opposto al conato libertario e
creativo, al personalizzante progetto dei proprî tragitti vitali ed esistenziali, la pen-
2
Cfr. SAVINIO, Maupassant e «l’altro», cit., pp. 86-88. Si veda il «commento» dello stesso
Savinio (pp. 9-10 e n.) all’epigrafe nietzscheana che in Ecce Homo “presenta” Maupassant
(«Maupassant: un vero Romano»): «Le epigrafi sono poste in testa agli scritti, perché ne chiariscano
in pochissime parole il contenuto: questa epigrafe di Nietzsche illumina tanto meglio la figura di
Maupassant, in quanto non si capisce che cosa voglia dire»; e appunto nella nota 1: «Questo
commento alla epigrafe di Nietzsche non è né uno scherzo né un paradosso. In un paese irrigidito
nella serietà come l’Italia, il dubbio non mi abbandona mai che le mie parole serie possano essere
scambiate per scherzi, i miei scherzi per parole serie. Non scherzo affatto quando dico che la
definizione di Nietzsche illumina effettivamente la figura di Maupassant. E aggiungo: la illumina
per assurdo. La illumina tanto meglio, in quanto non si sa quello che Nietzsche abbia voluto dire
dando del “romano” a Maupassant − e forse non ha voluto dire niente, come spesso accade a
Nietzsche. Ma posso sperare di farmi capire dal lettore, se gli dico che si dice di più non dicendo
niente? L’assurda, l’inane definizione di Nietzsche attira “di scatto” l’attenzione sulla figura di
Maupassant, molto meglio che una definizione giusta − una definizione profonda. Io preferisco i
film di cui non conosco la lingua. Anche il canto è più bello in una lingua sconosciuta. Tanto vero
che da trentacinque anni sono che per la prima e l’ultima volta io lessi Ecce Homo, la definizione
di Maupassant mi è sempre rimasta ferma e chiara nella mente: né so da quel tempo pensare
Maupassant e non pensare assieme: “un vero Romano” […]. E tanto più questa definizione mi
riesce chiara, forte, esplicativa». Ma si ricordi, riguardo allo stesso Nietzsche, la probabile intuizione
della fine di una parola, della sua peregrinità, profetizzabile già nel 1874, quando, annotatosi in
un quaderno il termine «abgehellt» (che si trova ancora citato in JACOB GRIMM-WILHELM GRIMM,
Deutsches Wörterbuch, I, Leipzig, 1854), ne ha tratto presumibile spunto, data la suggestione della
parola, per la lirica Nur Narr! Nur Dichter! (Soltanto giullare! Poeta soltanto!), poi inserita nella
quarta parte dello Zarathustra (è il Canto della melanconia); la parola, riferita all’aria «rischiarata»,
o «che trascolora», o «illimpidita», secondo GIORGIO COLLI (curatore e traduttore di Ditirambi di
Dioniso e Poesie postume [1882-1888], Milano, Adelphi, 1970, nuova ed., ibid., 1982) va tradotta
proprio con «illimpidita»; si tratta dell’inizio della prima e della settima e penultima strofa
della poesia: «Bei abgehellte Luft» (appunto, «Nell’aria illimpidita»). La parola («abgehellt»,
«abgehellte») non si trova più nei dizionari correnti, ma sono state, come detto, la sua suggestione,
e altresì la sua deperibilità d’uso, a rovesciarsi nella significazione di un processo creativo, di un
processo poetico: cfr., per questa interpretazione critica, la Nota di SOSSIO GIAMETTA, in FRIEDRICH
NIETZSCHE, Ditirambi di Dioniso (Dionysos-Dithyramben), traduzione, nota e commento di SOSSIO
GIAMETTA, Milano, Rizzoli («Biblioteca Universale Rizzoli» − «Classici del pensiero»), 2009; ed.
digitale, ibid., 2013, p. 3. Cfr. pure, dal PALAZZESCHI di Dante in famiglia, apparso in Corriere della
Sera, 5 dicembre 1956, poi ripreso in ID., Il piacere della memoria, Milano, Mondadori, 1964,
pp. 570-576, un riferimento riguardante le conferenze tenute da Isidoro Del Lungo e da Guido
Mazzoni presso la Società Dantesca nella Sala di Orsanmichele di Firenze, davanti a un pubblico di
«vecchie dame»: «un arduo canto del Paradiso ch’era tanto più bello avere udito sanza avere capito
un’acca». Di Savinio si rammenti anche Fine dei modelli (1947), in ALBERTO SAVINIO, Opere. Scritti
dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di LEONARDO SCIASCIA-FRANCESCO DE MARIA,
Introduzione di LEONARDO SCIASCIA, Milano, Bompiani, 1989, pp. 463-464 e 475-509.
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na d’artista di Alberto Savinio opera un radicale capovolgimento di ruoli, se non
di contenuti; la “pesantezza”, la spiritualità greve, seriosa e convinta di se stessa,
la corporeità villosamente “taurina”, bramosa di catarsi acquatica e fluida (come
più oltre emergerà dall’introduzione saviniana)3, spettano di diritto ai letterati, agli
scrittori Flaubert e Maupassant; la leggerezza, la libertà «dal peso della forza e della lotta», l’identificazione della maturità civile nel superamento della cultura della
fede, della finalità e della significanza, appartengono invece alla figura paterna, non
putativa, bensì, più semplicemente, naturale e legale, insomma a «Gustave 1»4. E
la denominazione di «buffo» non pertiene al vecchio, al padre avaro, restio e ostile
all’amore dei giovani, oppure ad una riedizione d’una figura simile al «Pantalone» (chiamiamolo così) del teatro comico di ogni tempo: tale denominazione è, al
contrario, appioppata ai due più giovani, che tanto più sono «buffi» quanto più
sono “seri”5. L’indagine sui rapporti e sulle trasfusioni di caratteristiche fra figure
3
«L’acqua Maupassant l’ha amata nelle sue varie forme: marittima, fluviale, balneare, docciaria
[…]. Tutta la sua opera è piena di acqua, di fiumi, di stagni, di mare; tutta la sua opera è piena
dei giochi e delle tragedie dell’acqua; ma in tanto acquatismo non brilla uno sguardo singolare,
non echeggia una voce che ci faccia voltare la testa, non risuona un accento che prenda sede nella
nostra memoria. Maupassant è un animale schiettamente terrestre. Ha la pelle, ha il pelo, ha lo
sguardo dell’animale terrestre […]. È più largo che alto e ha le gambe tozze dell’animale terrestre.
È questa terrestrità appunto che gli dà il costante, l’inestinguibile desiderio dell’acqua» (ivi, pp.
92 e 97-98). La ragione profonda dell’«acquatismo» è però quella che consiste nella volontà «di
lavarsi di una colpa, di una macchia, di qualcosa di nero, di sudicio», una rinettatura “metafisica”,
scrive lo stesso Savinio: «Vorrebbe che l’acqua, questa grande fuggitiva, questa perpetua mobile
portasse via il terreo, il nero, il brutto, il basso, il vile, il triste, il buio, il mortale, e la carne, il pelo,
il grasso che tutti assieme compongono l’uomo Maupassant» (ivi, pp. 99-100).
4
L’insistenza onomastica su «Gustave» percorre per intero l’introduzione maupassantiana di
Savinio: Gustave è il nome del padre di Guy ed è, insieme, il nome del “secondo padre”, di quello
di vocazione artistica e letteraria, ovvero quello del “maestro”, e mentore, Gustave Flaubert.
Su «L’estro e il frizzo inventivo del giocoliere e del funambolo», come sulla «sua leggendaria
“leggerezza”», sul versante palazzeschiano, cfr. GINO TELLINI, Perelà e l’eversiva trasgressione della
“leggerezza”, in Aldo Palazzeschi et les avant-gardes, Atti del Colloquio Internazionale, Istituto
Italiano di Cultura, Parigi, 17 novembre 2000, a cura di ID., Firenze, Società Editrice Fiorentina,
2002, pp. 43-68. Si ricordi anche l’opera collettiva L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due
avanguardie, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Toronto, 29-30 settembre 2006, a cura di
LUCA SOMIGLI e GINO TELLINI, Firenze, Società Edtrice Fiorentina, 2008.
5
Cfr. qui sopra, nota 2, l’elogio dell’efficacia definitoria di Nietzsche, proprio in quanto
«assurda, inane», riguardo a Maupassant; la ricerca di una spiegazione, perdurante tributo al metodo
dell’analisi critico-razionale propria della tradizione, ribalta del tutto i ruoli fra “leggerezza” giocosa
e giovanile da un lato e, dall’altro, presunta saggezza e presunta “pesantezza”, quale onerosità
mentale e argomentativa, se non anche pulsiva, che sarebbe propria dell’età matura o comunque
delle persone anziane; ridicoli e banali cliché sulla suddivisione generazionale dei caratteri e quasi
dei compiti anagrafici, i concetti di giovane e di vecchio si scambiano le vesti e le funzioni spirituali:
«Più giovane e inesperto, cercavo la spiegazione di questa definizione. Più vecchio ed esperto, ora
non la cerco più» (SAVINIO, Maupassant e «l’altro», cit., p. 10). Non sarà inutile rileggere un passo
dallo Zarathustra: «Il giovinetto è immaturo nel suo amore e, immaturo, odia gli uomini e la terra.
L’animo e le ali dello spirito sono in lui ancora grevi e impacciati. / Ma è più bambino nell’uomo
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genitoriali e relativi figli, qui esibita nella lunga e scintillante introduzione maupassantiana, non è affatto isolata nell’àmbito della personalità di Savinio; si veda l’effetto prodotto dal suo ritratto pittorico di Elisa Debenedetti, figlia di Giacomo, il
grande critico de Il romanzo italiano del Novecento: «Era o non era di Elisa, infatti,
il grande volto tondo [«una faccia rotonda, così come può essere rotonda una pietra», viene attribuita allo stesso Alberto Savinio, o Bettì], un po’ lunare che posava
sotto le pieghe d’un ampio colletto bianco avorio? Era Elisa o papà trasformato in
Elisa pur continuando a essere papà? Quegli occhi verdi, quell’espressione appartenevano a Giacomino o alla sua bambina? O la pittura, come era più probabile,
mostrava genialmente una metamorfosi incrociata, Elisa fatta Giacomo e insieme
Giacomo fatto Elisa?»6; e si ricordi pure l’insistenza, nella narrazione biografica
del fratello di Elisa, sull’iconologia taurina in casa Savinio, già constatata nell’evocazione fisiognostica di Maupassant, e in parte anche di Flaubert, quale appare nel
gioco dei “figli d’arte”, ovvero Antonio Debenedetti, l’io narrante, e Ruggero Savinio: il gioco è uno solo, ed è la corrida7; anzi, una serie di corride, alle quali par-
che nel giovinetto, e meno melanconia: egli si intende meglio di morte e di vita. / Libero per la
morte e libero nella morte, un santo che dice di no, quando non è più tempo di sì: così si intende
di morte e di vita» (FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra [Also sprach Zarathustra. Ein Buch
für Alle und Keinen], in Opere di Friedrich Nietzsche, edizione diretta da GIORGIO COLLI e MAZZINO
MONTINARI, versioni e appendici di MAZZINO MONTINARI, Nota introduttiva di GIORGIO COLLI,
Milano, Adelphi [«Piccola Biblioteca Adelphi», 36-37], 2016 [prime edizioni: 1968 e 1976], VI, t.
I, p. 82). Non è privo di interesse leggere il passo, con alcune differenze di traduzione, nell’edizione
romana (1955) dello Zarathustra: «L’amore del giovane è immaturo, e immaturo è il suo odio per
gli uomini e per la terra. In lui l’anima e le ali sono ancora legate e pesanti. / Ma l’uomo maturo ha
in sé del bambino più che l’uomo giovane, e minor tristezza: egli ha più confidenza con la morte e
la vita. / Libero per la morte e libero nella morte, un divino negatore, quando non vi è più tempo
per il sì: così egli intende la vita e la morte» (FRIEDRICH NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in ID.,
Opere, I-II, Introduzione e traduzione di ALBERTO ROMAGNOLI, Roma, Casini, 1955, I, p. 421).
6
Cfr. ANTONIO DEBENEDETTI, Giacomino, Milano, Rizzoli, 1994, p. 168.
7
«questo toro in frac e cappello a tuba […], questa composita creatura assirobabilonese
travestita da abitante del borgo Parigi» (SAVINIO, Maupassant e «l’altro», cit., pp. 17-18 e n.), ovvero
Guy de Maupassant, incontra in via concorde e poligenetica una costante allusione all’iconologia
taurina, dal maître Flaubert a Hyppolite Taine, al biografo Paul Morand: «“il a les faciès d’un petit
taureau breton” diceva Flaubert del giovane Maupassant. “Maupassant avait l’air d’un taureau triste”,
diceva Ippolito Taine di Maupassant uomo maturo. “Maupassant est né en août et mort en juillet,
occupant et quittant la terre peu après l’instant où le Taureau emplit le ciel” dice di Maupassant
Paul Morand in La vie de Maupassant. E continuando in questa parafrasi taurina: “Littérairement il
n’a vécu que quinze ans, l’âge moyen d’un taureau. Il avait la force de la tête, des épaules, le regard
fier, le nez court, le cou charnu, la poitrine large, le poil luisant du taureau. C’était un taureau à face
humaine, couvert d’écriture, comme ses frères de Khorsabad qui portent des inscriptions jusque
sur les jambes, jusque dans la barbe bouclée. Croissant et multipliant dans toutes les directions, il
n’a vécu que pour engendrer. Il n’a mugi que du besoin de sa mère et du désir d’amour. Il n’a pas
aimé une femme, mais toutes, les servant impérieusement, comme un étalon qui, dès que la vache est
pleine, en a horreur. Il a eu ses années de pâturage, ses années de procréation, et, lardé de coups de
seringue de Pravaz comme d’autant de banderilles, son heure de mise à mort”».
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tecipa lo stesso Savinio padre, e in séguito altri figli d’arte come Angelica Savinio,
sorella di Ruggero, e le amiche Pica e Cocò, figlie del regista Camillo Mastrocinque8; si ricordi che Debenedetti fu anche sceneggiatore e cosceneggiatore di vari
film, e collaboratore di molti cineasti; fra questi lo stesso Mastrocinque di Il gran
ballo, nel 1941. Proprio agli «uomini leggeri» è riservata l’immortalità, che nasce
esattamente da una collocazione non “dentro”, ma intorno e sopra le cose, «come
l’aria e la luce»: «Era bianco. Era bianco», cioè luminoso e leggero; così Savinio
gemina il concetto, riferendosi al padre di Guy, un padre certo non esemplare, e
d’altronde non enfatico nell’espressione del lutto per la filiale premorienza, e proprio per questo “simpatico”9. La morte non può trascinare in giù questi uomini,
ma li può trascinare in su10: è ciò che succede a molti personaggi palazzeschiani, se
Cfr. DEBENEDETTI, Giacomino, cit., p. 166
«Mentre il nostro occhio destro segue queste righe che scriviamo, il sinistro [è «la profonda
differenza tra lo sguardo del pittore e lo sguardo della macchina fotografica, che ha un occhio solo,
fisso e duro», come dice in nota Savinio] guarda qui davanti a noi un ritratto del leggero Gustavo di
Maupassant […]. Sembra Amleto. Amleto vecchio. Meno Amleto in persona che un attore nella
parte di Amleto. Un Amleto insolitamente vestito di bianco. Vestito per la prima volta di bianco.
Vestito di bianco per quella seconda prima comunione che i vecchi devono fare per passare di
là. Perché Gustavo di Maupassant era bianco. Era bianco. Era bianco» (SAVINIO, Maupassant e
«l’altro», cit., pp. 91-92).
10
Savinio ricorda a questo proposito «quel personaggio di Wells [autore di una «Breve Storia
del Mondo»] che aveva perduto il peso specifico, e per timore di partire in cielo come un palloncino
da bambini, usciva di casa con una valigia per mano piena di sassi» (ivi, pp. 22-23). Di HERBERT
GEORGE WELLS cfr., in italiano, Breve storia del mondo, traduzione di FRANCESCO ERNESTO LORIZIO,
III ed., Bari, Laterza, 1945. In un diverso contesto, si veda come s’esprime il protagonista di Così
parlò Zarathustra (Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi 2016, cit., VI, t. I, p. 41): «E anche a me,
che voglio bene alla vita, pare che tutti quanti tra gli uomini abbiano della farfalla e della bolla
di sapone, sappiano meglio di tutti che cos’è la felicità. / Veder vagheggiare queste animule lievi
scioccherelle leggiadre volubili − è qualcosa che induce Zarathustra alle lacrime e al canto. / Potrei
credere solo a un dio che sapesse danzare. / E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato
serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità − grazie a lui tutte le cose cadono. /
Non con la collera, col riso si uccide. Orsù uccidiamo lo spirito di gravità!»; giovi fruirne anche
nell’edizione Casini di Alberto Romagnoli, con le relative differenze di traduzione (ad esempio, in
essa non figura il periodo «Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare»): «Anche a me, che
sono in buoni rapporti con la vita, sembra che farfalle e bolle di sapone e ogni cosa di questa specie
che si trovi fra gli uomini, abbiano più che ogni altra sapore di felicità. / Veder volteggiare queste
animucce leggere, pazzerelle, graziose e mobili, è cosa per cui Zarathustra si mette a piangere e a
cantare. / E quando vidi il mio demone, lo trovai serio, meticoloso, profondo e solenne: egli era
lo spirito della gravità − per lui cadono tutte le cose. / Non si uccide con l’ira, ma con la risata.
Su! Lasciateci ammazzare lo spirito della gravità!» (NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, traduzione
di ROMAGNOLI, Casini, cit., p. 394). Non il demone zarathustriano, non il Nikolaj Vsevolodovič
Stavrogin di Dostoevskij, e neppure il Mefistofele di Marlowe né quello di Goethe, né il Mefistofele
secolarizzato del Doctor Faustus di Thomas Mann possono qui esprimere il loro ghigno satanico
o arimanico, ma lo può soltanto la risata della levità e della leggerezza, della vittoria sulla forza
di gravità. Ma non si tratta certo, in Nietzsche, dell’Ariel shakespeariano (Shakespeare, peraltro,
nomina solo una volta Mefistofele, in The Merry Wives of Windsor, a. I, sc. 1). E Savinio, da parte
8
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si guarda a fondo la loro parabola; se si esamina, insomma, l’esito narrativo delle
vicende tracciate dalla loro reale volontà, dalla loro vita, o da quello che ciascuno
di essi intende e ha pieno e individuale diritto d’intendere per «vita». Le parole di
Savinio hanno indubbiamente una forte rilevanza in direzione palazzeschiana: solo
che per Palazzeschi, ferma restando l’attribuzione dei ruoli, sarebbe stato il padre
a beneficiare della qualifica di «buffo», e i due scrittori avrebbero riscosso anche
sul piano lessicale il conto di quella stessa antipatia di cui li gratifica il fratello di
De Chirico, un Savinio qui in veste non solo d’introduttore, ma pure di geniale
traduttore, in collaborazione, dell’aurea ventina di Maupassant raconteur. Anche
il narratore Maupassant, da parte sua, sa sparire, e lo fa in modo simmetricamente
opposto a quello del padre, ovvero in modo “terrestre”, costruito com’egli è «per
i contatti con la terra», appunto, «con la polvere, col fango»:
Maupassant rimane a terra; al triste, al senza speranza, al mortale della terra […]. I suoi racconti si fanno ricordare per l’aneddoto che narrano, per i
personaggi che muovono: non mai per l’anima che spirano e propriamente i
contes di Maupassant non lasciano ricordo di sé […] Perché Maupassant ha
una scrittura molto efficace, ma non è scrittore. Scrittore è colui che dà peso e
durezza di eternità a ogni suo periodo, a ogni sua parola. Il periodo, la parola
di Maupassant servono al momento, e subito dopo muoiono11.
Si tratta dunque d’una vera e propria declinazione della leggerezza, benché leggerezza terragna; si tratta d’una grandezza artistica ottenuta non per mezzo della
permanenza, della durevolezza dei testi nel tempo, bensì in virtù dell’azzeramento
d’ogni sopravvivenza, in virtù dell’antipeso e dell’antidurezza, dell’antieternità12,
sua, chiama «Ariele», sia pure «invecchiato», proprio il padre di Maupassant, Gustave: «Leggero
era Gustavo di Maupassant. Imperfetto nel suo arielismo di vecchio borsicoliere [modesto giocatore
di borsa: dal verbo francese «boursicoter]» […]. Ariele è invecchiato, sta seduto su una sedia ed è
circondato di nero», un «nero» effetto di ritratto (Maupassant e «l’altro», cit., pp. 91-92). Ma lui è
vestito di bianco. La connotazione arielesca è ancora una volta propria del genitore, del padre: a
lui e non ad altri, a lui “leggero”, spettano il titolo e la sfera onomastica di Ariele.
11
SAVINIO, Maupassant e «l’altro», cit., p. 98 n.
12
Si fruisca d’un campionario della deliziosa serie di osservazioni, di interpretazioni e di
annotazioni autoironiche che Savinio effettua e cesella sulla propria prosa d’introduction, sulla
sua affabulazione logica e strutturale e sulla precisione semantica, come anche sulle esigenze di
disambiguazione lessicale, e il tragitto prefatorio al Palazzeschi raconteur che proprio da Savinio
deriva non risulterà certo limitato a mero prolegomeno genericamente “bergsoniano”: «Sbarcare da
un treno aggiunge alla stazione ferroviaria [la Gare de l’Est, in questo caso] un che di navale. Molte
parole ci vorrebbero che avessero un’altrettale ambiguità di significato» (SAVINIO, Maupassant e
«l’altro», cit., p. 36 n.); «il giovane Guy era partito “involontario” per la guerra» (p. 39); ancora a p.
39, in nota, a proposito di “lezzo di cadavere” scritto nella forma «lezzo di cacadevre», il fratello di
Giorgio De Chirico, nella sua pilotata e consapevole strategia di ribaltamento ironico dei passaggi
della critica letteraria, “precisa”: «Volevamo scrivere “cadavere”, ma tre volte la nostra mano ha
scritto “cacadevre”. Infine, soggiogati da questa volontà misteriosa e più forte della nostra, abbiamo
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della dimensione del puro presente e della stessa morte della parola, non appena
essa sia enunciata nella sua perfezione di flaubertiana ascendenza, frutto di macerazione correttoria.
lasciato “cacadevre”. Perché obbedire ancora a una legge decaduta, a uno scrupolo superato?
Perchè continuare a correggere gli errori − quelli che “noi” crediamo errori? Perché non accettare
gli errori di mano e gli errori di macchina − questa nuova forma di spontaneità, questa più profonda
“voce del cuore”? Perché non accettare questi creduti errori come un’espressione poetica, come
un accento lirico, come il segno di una intelligenza nuova che soltanto la nostra pigrizia mentale e
il pregiudizio di un’antica legge, di un solo ordine ci impedivano finora di accettare come tali? Il
“sublime” Raymond Roussel non ha dato fondo alla serie dei meccanismi poetici»; p. 40: «rasati
di fresco e le scarpe lucidate anche sulle scuole»; e in nota: «È necessario aggiungere che qui
sopra invece di “scuole” nostra intenzione era di scrivere “suole”? Lasciamo compiersi la poesia
involontaria», con le scarpe lucidate sulle scuole; «di acselle profumate e di cibi restituiti»; e in nota:
«Tre volte abbiamo voluto scrivere “ascelle”: abbiamo finito per lasciare “acselle”. Resta a sapere
che cosa ha voluto dire la nostra macchina con “acselle”»; «Flaubert che ebbe l’onore di non essere
de l’Académie française» (p. 58); «Qualche lettore tenuto al guinzaglio dall’abitudine domanderà:
“Ma questo che c’entra?”. Il nostro procedimento letterario, antimichelangiolesco per eccellenza,
cerca di circondare ogni oggetto dell’ambiente più ricco, più completo, più “inaspettato”. Si tratta,
per mezzo di altre cose e di cose diverse, di far conoscere la cosa meglio che si può, illuminarla con
la luce più intensa, penetrarla più profondamente. Il passo letterario è per noi un camminare sulla
corda. Questi riferimenti, queste equivalenze, queste analogie che noi poniamo ora a destra ora
a sinistra della nostra via, hanno lo scopo di mantenerci in equilibrio: hanno la funzione per noi
che il bilanciere o le braccia tese lateralmente hanno per l’equilibrista che cammina sulla corda»
(p. 67 n.). Nello stesso modo, si veda «in mezzo al clamore dei borsisti» glossato in nota con «Lo
credereste? stavo per scrivere: “dei borsaioli”», p. 86 («borsisti», nel testo in alto, è usato per
“operatori di borsa”); «Quali fiammelle serpeggiavano sul suo derma?», e in nota: «Volevo mettere
“pelle”, ma “pelle” rima con “fiammelle” e ho dovuto mettere “derma”. Chiedo scusa» (p. 92);
«Dovrei a questo punto essere trattenuto dal timore di dire delle sciocchezze. Ma questo timore io
non lo sento più: l’ho superato. E che cos’è la sciocchezza? Voglio dire: che cosa è sciocchezza e
che cosa non è sciocchezza? Senza contare il fascino della sciocchezza, la poesia della sciocchezza,
la verità della sciocchezza» (p. 93); a proposito del Croce di Poesia e non poesia: «ma Benedetto
Croce che parla di poesia, a noi fa l’effetto di un prete che parla di reggipetti», p 98 n.; «Il lettore
ha già capito che la frontiera tra il serio e il faceto è abolita. Non per merito nostro: per merito
dello spirito» (p. 99 n.); «“Per noi che sappiamo che dentro quest’uomo che ha… ”. Tre che in fila
ossia peccato manifesto d’ineleganza. Ma è ancora chi pensa all’eleganza […]?» (p. 107 n.); «A
Zola […] Maupassant risponde: “Di giorno il frac mai, per nessuna ragione”. Questo assioma di
Maupassant non è arrivato all’orecchio né di Victor De Sabata né di Benedetti Michelangeli, i quali
continuano a presentarsi ai loro concerti pomeridiani all’Adriano in marsina e cravatta bianca» (p.
108 n.); «costringe Maupassant a non derogare», e in nota: «La mia macchina da scrivere aveva
messo “drogare”. Intelligenza delle macchine da scrivere. Intelligenza e scienza delle macchine
da scrivere. La mia macchina da scrivere (una Olivetti M. 40) dunque sa? Nell’ultimo e doloroso
periodo della sua vita […], Maupassant si drogava» (p. 117 e n. 2). Non sfugga neppure l’accenno a
Raymond Roussel; su quest’ultimo, cfr. SERGIO SOLMI, Raymond Roussel: un padre del surrealismo,
in ID., La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, Milano-Napoli, Ricciardi,
1952, pp. 138-139 («In questo mondo frantumato di cultura, in questa realtà fatta di esperienze
accidentali, di monadi incomunicabili, per cui l’arte non è più che una congerie irreducibile di
mitologie private, anche la solitudine e la follia esemplari di un Roussel sono un poco il retaggio
di noi tutti»).
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Chi veramente è il buffo, in tanto agitarsi di seriosità e di leggerezza? È già
significativa la vastità di spettro semantico dell’accezione di questa parola: il «buffo» di Savinio è, in fondo, incluso in una tradizionale connotazione spregiativa,
o comunque critica, e si applica a personaggi serî che corre l’obbligo, in qualche
modo, di ridimensionare; il «buffo» di Palazzeschi rivendica una più creativa valenza proprio mentre riconduce il termine alla sua purezza originaria. La celebre e
citata premessa al corpus delle novelle sembra infatti, a ben guardare e a un’attenta
analisi, e senza nulla toglierle, da considerarsi alla stregua di prodromo, di significativo prolegomeno di rango sostanzialmente introduttivo: nulla di meno, ma
anche nulla di più, per un percorso che il lettore è invitato a fare per proprio conto;
da tale percorso scaturisce, come persuasivo approdo e non come partenza, l’accesso all’essenza buffa del mondo che le doveva essere contrario, e che ne sembrava
del tutto immune: il mondo della serietà, o piuttosto della pseudoserietà. Il «palio»
esordisce infatti come una ribalta propria dei «buffi», e invece si dipana, per poi
concludersi, come palio dei cosiddetti savi, dei normali, dei sedicenti buonsensai
(si pensi, nel conclusivo “issimo”, alle accreditate e roboanti esternazioni dell’ufficialità giornalistica, alle enfatizzazioni di regime, che l’opportunismo di massa avvalora in deriva plebiscitaria, e alle quali il defilato protagonista si sottrae): ma tale
processo è appunto una conquista, non un dato scontato in partenza, come invece
avviene in Savinio. Si tratta, insomma, nello scrittore fiorentino, d’un vero capovolgimento, ridefinitorio di ruoli, che progressivamente si afferma grazie alla tecnica
della stessa prosa palazzeschiana: il “buffo” si rivela spesso l’unico personaggio coerente nel proprio contesto, e gli si accompagna il relativo acquisto, almeno sul piano dell’“essere” (non si parla, è ovvio, di curriculum di presentazione aziendale), di
nuove connotazioni; e l’“aura” del buffo, da parte sua, perde in buona parte la propria peculiarità beffardamente scherzosa e riduttiva, per guadagnare, colpendola
impietosamente, la sfera del personaggio “ortodosso” e ufficialmente integrato. Il
palazzeschiano buffo è davvero fonte e conseguenza insieme di quell’aereo e libero
dinamismo d’ordine strutturale e narrativo che attraversa le novelle; e soprattutto,
«buffo» è in Palazzeschi un termine diverso da una più o meno velata, o affettuosa
o inevitabile ingiuria; è un termine positivo; è, se così si può dire, un elogio ed
un riconoscimento, e non soltanto di una generica “fantasia d’impostazione” del
personaggio, bensì di una non casuale, ancorché talvolta inconscia o involontaria,
trasgressione dei riti e dei miti della “normalità”, del perbenismo d’un’etica borghese che anche qui, come assai spesso avviene in Palazzeschi, tradisce la propria
ipocrisia e il proprio farisaismo13:
13
Cfr. quanto già dice FAUSTO CURI, a proposito del Codice di Perelà e de L’incendiario, in I
«Buffi» o la fine dell’utopia, in Palazzeschi oggi, a cura di CARETTI, cit., p. 219: «La contrapposizione
fra soggetto e oggetto, fra individuo e società, fra principio di piacere e principio di realtà è
radicale e irriducibile; il “disagio” del “buffo”, rilevato all’altezza dell’Incendiario e del Codice,
più ancora che dalla “cupa tristezza” di cui parla Palazzeschi, appare connotato da angoscia. Dal
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Il progetto di Palazzeschi, se così lo si può definire, è chiaro: occorre eliminare l’irrazionalità ma l’irrazionalità vera non è lo scatenamento delle pulsioni
bensì il loro asservimento alla razionalità patologica e repressiva delle istituzioni e delle convenzioni sociali. […] è necessario capovolgere − parodicamente e storicamente − questa «coscienza rovesciata», capovolgerla perchè
sia diritta, e il capovolgimento può avvenire solo convertendo il principio di
realtà nel principio di piacere, soltanto cioè a patto di fare del «piacere» la
realtà vera dell’uomo, a condizione, insomma, che una realistica accettazione
e soddisfazione dei bisogni elementari e per ciò stesso fondamentali del corpo
elimini la repressione dall’orizzonte umano14.
Serietà da una parte e, dall’altra, ontologia del buffo, si scambiano le funzioni,
ed è merito della vivida materia artistica ed esistenziale del buffo se due autori,
in questo caso Savinio (per cui «buffo» qui si lega a “personaggio discutibile”)
e Palazzeschi (per cui «buffo» si lega a “disagiato” in quanto “intellettualmente
libero”), riescono a significare le stesse cose pur muovendo da due diverse sponde
semantiche del vocabolo, o, se si preferisce, da due punti fra loro unibili, sì, ma nel
senso dello scorrimento su una linea d’antiteticità diametrale (vien da pensare al
foolish di King Lear). Si veda, proprio in Palazzeschi e a proposito di uno scrittore
che non è solo divertente e che non è un “personaggio” buffo, come Alphonse
Daudet (di cui appunto Aldo traduce Tartarino; qui ci si riferisce alla presentazione saggistica del traduttore), la serie di ariosi, spaziosi, “desiderabili” privilegi,
di invidiabili vantaggi di ossigenante libertà (s’intende, libertà per l’artista, per la
sua sensibilità e per il suo intelletto) che si aprono al giovane scrittore di Nîmes
all’indomani del disastro economico-imprenditoriale del padre; un giovane che trar-
“disagio” angoscioso, però, proprio in quanto esso non ammette soluzioni sul piano immediato
della storia, si sprigionano figure di liberazione che con la loro forza di emblemi fondano l’utopia,
rimettono cioè incessantemente in moto la storia verso il possibile». Ancora (ivi, p. 220), si dice
che «Perelà è il simbolo di una possibilità, piuttosto che alternativa, antagonistica, come lo è il
demonio rispetto all’uomo». Saranno poesie quali La fiera dei morti, Il Principe e la Principessa
Zuff, Le beghine, Visita alla Contessa Eva Pizzardini Ba, E lasciatemi divertire!, La passeggiata,
Postille, Una casina di cristallo, a registrare al proprio interno, ante litteram, «un dissacrante “palio
dei buffi”, anzi, addirittura un “buffo integrale”, esso sì, davvero, integralmente buffo» (ivi, pp.
220-221). Si consideri, inoltre, che un testo come Tre diversi amici e tre liquidi diversi passa senza
ostacoli dalla propria epoca alla stessa edizione 1957 di Tutte le novelle (ALDO PALAZZESCHI, Tutte
le novelle, a cura di LUCIANO DE MARIA, Presentazione di GIANSIRO FERRATA, Milano, Mondadori
[«I Meridiani»], VII ed. [I ed. «I Meridiani», 1975], 2000), e che non è quindi fuor di luogo
«ricollegare il “buffo” con questa figura, improvvisa ma niente affatto imprevedibile e imprevista,
di arlecchino che si confessa» (ivi, p. 222); questa figura è già evocata negli Scherzi di gioventù del
1956, nella cui prefazione Palazzeschi scrive: «scherzi, sì, ma fino a un certo punto, e cioè tenendo
conto di quel detto che c’informa come arlecchino si confessasse burlando». Cfr., ora, anche ALDO
PALAZZESCHI, Parco dei divertimenti. Scritti sparsi 1906-1974, a cura di SARA GELLI, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2014.
14
Cfr. CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit., pp. 222-223.
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rà «grandi benefizi» dalla precoce e assoluta mancanza di controllo familiare, e che
avrà una possibilità di libero sfogo a un’inesauribile spinta all’osservazione umana,
proprio avvalendosi della sua collocazione socialmente “sbandata” e deprivata, della
sua condizione defedata, emarginata e solitaria, in una leggerezza, anche da pesi economici, che si rovescia in “inebriamento” e in appagamento di curiosità insaziabile15:
Le tragiche lotte sostenute dal padre, impotente ad arginare il crollo della
propria industria e costretto a rifugiarsi a Lione dopo la catastrofe, lasciarono
al piccolo Alfonso, durante la sua infanzia, una benefica libertà della quale
il suo spirito avido e indipendente dové risentire i grandi benefizi. Nessuno
poteva occuparsi di lui nella sventura familiare, ed egli ne approfittò traendo
vantaggio dal malanno e inebbriandosi di vita fino da quei primissimi anni.
Tutto lo colpiva e impressionava di quanto osservava intorno, tutto lo appassionava profondamente essendo la sua curiosità insaziabile.
E ancora:
privo di ogni risorsa, a sedici anni deve accettare un posto di istitutore nella
piccola città di Alais, vera prigionia dalla quale riesce a liberarsi un anno dopo
per correre a Parigi […], solo sopra una barca, ebbro di libertà, alle acque del
Rodano attraverso i mille pericoli dell’impetuosissimo e vorticoso fiume.
Ma si veda anche un passo da una lettera di Guido Gozzano riguardante, naturalmente nel 1909, i Poemi di Palazzeschi, e la costellazione di sensazioni che essi
sono in grado di evocare, con oppio, morfina e alcol quali ipotetiche vie di tramite
alla creatività («dall’oppiato misterioso di un mago brahamino») e alla riproduzione-illustrazione («un nevrastenico morfinomane alcolista»):
15
Cfr. ALDO PALAZZESCHI, Nota, in ALPHONSE DAUDET, Tartarino, traduzione di ALDO
PALAZZESCHI, Milano, Mondadori («Biblioteca Romantica», 14), 1942 (I ed., 1931), pp. 629-635:
631 e 632. La celeberrima collana, diretta da Giuseppe Antonio Borgese, sulla quale non sarà qui
necessario soffermarsi, annovera, lo ricordiamo, solo tre numeri prima (XI), la traduzione di Une
vie (Una vita) di Maupassant, da parte di Marino Moretti. Peraltro, Palazzeschi si dedica al lavoro
per la «Biblioteca Romantica» sin dal 1929, quindi in epoca del tutto vicina al lavoro francesistico
marinomorettiano; cfr. un passo dalla lettera di Giuseppe Antonio Borgese a Palazzeschi, da
Milano, del 21 gennaio 1929, compresa nel Fondo Aldo Palazzeschi, Centro di Studi «Aldo
Palazzeschi», Università degli Studi di Firenze: «Le ripeto quello che ho detto a Marino: che io
sono molto lieto di avere la sua collaborazione. Naturalmente mi è caro che un temperamento
come il Suo traspaia e appaia nella traduzione, ma, s’intende, il criterio artistico della raccolta
non è in contrasto col criterio filologico». L’altra citazione è appunto tratta dalla lettera di Guido
Gozzano ad Aldo Palazzeschi da Viù (Torino), del 21 agosto 1909: cfr. Gozzano e Palazzeschi,
a cura di PAOLO PRESTIGIACOMO, in «Galleria», XXIV (marzo-agosto 1974), 2-4, p. 105. Si può
ricordare che a proposito di Maupassant anche il citato SAVINIO di Maupassant e «l’altro» (p. 117 e
n. 2) è consapevole dell’uso che lo scrittore ha talvolta fatto di sostanze stupefacenti: «Nell’ultimo
e doloroso periodo della sua vita […], Maupassant si drogava».
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Caro Palazzeschi, come mi piace quel tuo mare rosso in forma di cuore e quel
tuo mare giallo in forma di disco perfetto, e quello grigio e quello bianco! E
quel tuo frate Rosso come lo vedo! E quella fontana tisica e quel Lord e tutte
quelle altre cose e persone che sembrano evocate dall’oppiato misterioso di
un mago brahamino… Come mi piacerebbe essere un nevrastenico morfinomane alcolista per potertele degnamente illustrare…
Si possono in tal senso richiamare due brani dall’edizione citata de La gaia scienza16:
noi dobbiamo rallegrarci della nostra follia […] appunto perchè noi, in fondo, altro non siamo che uomini serî e pesanti, e piuttosto pesi che uomini,
nulla ci sta tanto bene quanto il cappuccio del pazzo: noi ne abbisognamo per
noi medesimi.
Tutti gli uomini profondi ripongono la loro felicità nel rassomigliare, pure
per una sola volta, ai pesci volanti, e nel giuocare sulla cresta spumeggiante
dell’onde; essi stimano la superficie delle cose, come la migliore qualità ch’esse posseggano: la loro epidermide, − sit venia verbo.
Si rilegga allora il breve passo dedicato, nella premessa all’edizione 1957 di Tutte le
novelle17, all’identità non tanto del “buffo”, quanto dei personaggi buffi:
Il titolo che meglio le scopre e le accentua [le novelle] è quello della seconda
raccolta: Il palio dei buffi, e sotto tale insegna, si può aggiungere, tutta l’opera
s’informa. Dirò quello che per «buffi» io intenda. Buffi sono tutti coloro che
per qualche caratteristica, naturale divergenza e di varia natura, si dibattono in
un disagio fra la generale comunità umana; disagio che assume ad un tempo
aspetti di accesa comicità e di cupa tristezza; ragione per cui questo libro forma
una commedia tragicomica nella quale «i buffi» vengono portati alla sbarra18.
16
Cfr. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., rispettivamente pp. 104-105 e p. 151. A proposito
della prima citazione, cfr., al passo corrispondente, nell’adelphiano Opere di Friedrich Nietzsche,
cit., p. 116, il «berretto del monello» al posto del «cappuccio del pazzo»; peraltro, la citazione nel
testo adelphiano (ibidem) prosegue in questo modo: «ogni arte tracotante, ondeggiante, danzante,
irridente, fanciullesca e beata ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il
nostro ideale esige da noi». La seconda citazione, nel testo adelphiano, reca il titolo Epidermicità
(l. III, n. 256, p. 157), e con la stessa espressione («la loro epidermicità», prima di « − sit venia
verbo») si conclude il capoverso.
17
PALAZZESCHI, Tutte le novelle, cit., p. 965.
18
Alla «sbarra», ovvero alla «sbarra» narrativa, creativa, ludicamente sorridente pure talvolta
nella tristezza, insomma all’attenzione artistica del novellatore e del lettore; non alla «sbarra»
del pubblico ministero con il «buffo» imputato in un processo, o alla «sbarra» di un giudicante
“senso comune” o del tribunale del moralismo, o, addirittura, alla «sbarra» dello psichiatra, per
intenderci, antibasagliano. Un altro tipo di lettura sottolinea il valore espressivo, stilistico-letterario
che può a propria volta assumere la “sbarra” in relazione al progressivo emergere − nel Palazzeschi
degli anni 1930 e del rappel à l’ordre − delle volute sintattiche boccacciane, particolarmente
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Un esempio altamente significativo della duplice, se non plurima, accezione
contestuale di «sbarra», fra personaggi “interni” alle novelle e prospezione artistica dell’autore, sguardo di character e sguardo di regista-scrittore, è offerto in
Giulietta e Romeo (pubblicata per la prima volta nel Corriere della Sera del 9 set-
nelle Sorelle Materassi; una possibile lettura rimane, insomma, quella che mette in rapporto
l’arricchimento ipotattico della prosa palazzeschiana fra le Materassi e il Palio e una dimensione
“oratoria” e “peroratoria” (ma Boccaccio, in verità, sembra avvicinarsi più ai volgarizzatori liviani
che a quelli ciceroniani) che si adatterebbero a un ideale “giudizio”, a una causa che condurrebbe
letterariamente il disagio dei “buffi” dall’istruttoria all’aula di una metaforica “corte”, sulla soglia
del verdetto; cfr. RITA GUERRICCHIO, Introduzione ad ALDO PALAZZESCHI, Il palio dei buffi, a cura
e con Introduzione di RITA GUERRICCHIO, Milano, Mondadori («Oscar Scrittori del Novecento»,
1785), 2002, pp. IX-XIII, e PAOLO FEBBRARO, La tradizione di Palazzeschi, Roma, Gaffi, 2007,
pp. 272-274. Anche da questa lettura scaturisce, comunque, il dissenso palazzeschiano nei
riguardi della contemporaneità, un dissenso che nel Palio dei buffi si acumina rispetto ad altre,
importanti opere degli anni 1930, quali le Stampe dell’800 e le Sorelle Materassi; cfr. GUERRICCHIO,
Introduzione, cit., pp. XII-XIII: «Eppure, proprio attraverso questa raccolta, in misura molto più
radicale di quella espressa o suggerita nelle Stampe e in Sorelle Materassi, Palazzeschi manifesta il
suo dissenso nei confronti della contemporaneità, e lo fa scegliendo un altrove che ha tutta l’aria di
un luogo noto e ameno in cui ambientare il racconto di una vicenda dai prevalenti connotati comici
e farseschi, ma che pure risulta territorio sostanzialmente remoto e alieno. La valenza ancipite
del buffo è tutta qui, nella dialettica che stabilisce fra commedia e tragedia, fra lo stare dentro il
mondo e fuori dal mondo». Peraltro, venendo nominato esplicitamente, in modo coerente con
questa impostazione, il «processo» (cfr. FEBBRARO, La tradizione di Palazzeschi, cit., p. 274), si
ricordino anche le voci, rispettivamente, di un avvocato (non di un pubblico ministero) e del
presidente del Centro “Franco Basaglia” di Arezzo; voci, se non altro, sollecite di contesti umani
e di strutture edilizie e sanitarie connesse a carceri, manicomi e manicomi criminali, alberghi
predestinati, a quanto sembra anche nella letteratura, di molti “buffi”, passati, presenti e futuri;
cfr. l’opera collettiva È una bella prigione, il mondo [Shakespeare, «Hamlet»], numero doppio di
«QCR − Quaderni del Circolo Rosselli», diretto da VALDO SPINI, nuova serie, XXXIII (lugliodicembre 2013), 3-4, f. 117: si vedano appunto i contributi di MICHELE PASSIONE, Tutti dentro,
pp. 46-51, e, sul versante basagliano, di BRUNO BENIGNI, Carceri… «Salus infirmorum», pp. 82-90;
cfr., altresì, Manicomi criminali. La rivoluzione aspetta la riforma, a cura di FRANCO CORLEONE,
sempre in «QCR», XXXVIII (2018), 1, f. 130. E si ricordi la lettera del gennaio 1911 dello stesso
Palazzeschi a Marinetti, a proposito di quel processo al Mafarka che vide pure l’autorevole presa
di posizione di Luigi Capuana (MARINETTI-PALAZZESCHI, Carteggio con un’Appendice di altre lettere
a Palazzeschi, cit., p. 34): «Un poeta può dire tutto! Non c’è una sola parola che egli non possa
dire, che sia barricata davanti alla sua penna. Purché sia un poeta! Ecco che cosa si doveva dire!
E risparmiarsi tutte le citazioni del mondo. Ma questo, ahimè, non avrebbe forse chiusa la bocca
al Signor Pubblico Ministero che cammina per le sue strettissime vie e piene di scappatoie e di
nascondigli e di crocchi che è quel meraviglioso libro loro che si chiama il Codice. In ogni modo
c’è da rallegrarsi che è andata bene». Si rammentino anche le parole di FERRATA nella sua citata
Prefazione (p. XXII) a Tutte le novelle: «il narratore rinnova da decennio a decennio un’analisi
logica dei casi inventati, sempre intrisa di carità verso i loro protagonisti»; e ancora (p. XXIV): «ogni
sarcasmo torna sempre collegato al difendere al rivendicare profondamente i diritti e i segreti, gli
autentici drammi naturali al vivere. Quale carattere mostra il narratore, irradiando queste fedeltà
attraverso un vastissimo slancio inventivo di contenuti singolari o straordinari, anche nei modi più
umili, entro le ferventi ragioni formali!».
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tembre 1954)19, accolta insieme ad altri racconti nell’edizione del 1957 accanto
alle diciotto prove narrative, lì disseminate con nuovi criteri di collocazione, del
Palio dei buffi; nella levità d’un paesaggio e d’un «cielo adriatico» che «fa pensare
ai quadri di De Pisis»20, fra la «Laguna di Venezia», il «bacino di San Marco» e
«il mare del Lido», l’esile trama vede tre personaggi femminili, tre donne anziane,
pettegole e malparliere, guidate da ridevole pruderie moralistica, doverosamente
“caratterizzate” in pochi tratti, chiedere al bagnino di far spostare due giovani innamorati dal centro della spiaggia; «Giulietta e Romeo» allora passeggeranno sulla
riva del mare, perdendosi nello sfumato celeste-oro del sole pomeridiano. Non ci
troviamo nella vera e propria raccolta del Palio, benché la novella sia inserita in
piena sequenza di allineamento fra Il gobbo (Mondadori ’75, pp. 223-234) e «Issimo» (pp. 241-247); ma sono le tre maldicenti vecchiette, personaggi ufficialmente
“normali”, piccola “corte” giudicante («Sedute su poltroncine di vimini con aria di
19
In PALAZZESCHI, Tutte le novelle, Mondadori 1975, cit., pp. 235-240. I nomi di «Giulietta
e Romeo» ricevono, al di là dell’ovvio riferimento all’amore, la loro spiegazione in chiave di
ambientazione veneziana (ivi, p. 238): «forse perché avendo Shakespeare portato il mare a Verona,
diviene un dovere per me mettere Giulietta e Romeo sulla spiaggia».
20
La figura del pittore Filippo De Pisis sarà ampiamente riconoscibile anche Il ritratto
della Regina, in Bestie del Novecento (le cui novelle saranno raccolte accanto a quelle del Palio
nell’edizione ’57); Il ritratto della Regina è pubblicato per la prima volta in L’Europeo, IV (6
settembre 1948), 37. Nell’edizione ’57 si trova alle pp. 199-214. Su De Pisis, oltre che nella celebre
lirica delle Occasioni (Alla maniera di Filippo De Pisis nell’inviargli questo libro), si sofferma più
volte Montale, in particolare riguardo al rapporto fra l’espressività del pittore e l’espressività del
poeta, con significativi cenni alla sua inconfondibile paesaggistica; si ricordi EUGENIO MONTALE,
Poesie di Filippo De Pisis, in Tempo, 15-22 aprile 1943 , 203, p. 31 (ora in ID., Sulla poesia, a cura
di GIORGIO ZAMPA, Milano, Mondadori [«Letteratura. Oscar Saggi», 525], 1977, pp. 260-262):
pure nella diversità di protocollo espressivo e di genere, «il De Pisis che scrive è lo stesso De Pisis
che dipinge» (Sulla poesia, p. 260; il recensore si riferisce alla seconda edizione [Firenze, Vallecchi,
1942] delle Poesie di De Pisis; la prima edizione era stata del 1940). E insiste da parte di Montale
la citazione della nota lirica depisisiana L’alloro, citazione della quale qui si riproducono gli ultimi
cinque versi (ivi, p. 262): «Per me bastan queste umili foglie. / Un profumo di bosco, atterrato,
/ voli di tordi nell’aria di ametista / e il mio cuore sì lieve stasera / con le sue belle ali di vento».
Sono, per Montale, «recensore-farfalla», «connotati che non ingannano», che rassicurano del fatto
che con i versi non si perde di vista il De Pisis pittore (ibidem): «un’ebbrezza dolce e amarognola,
quell’antica acre soavità che finisce in un’infantile punta di narcisismo, e molta misura e sapienza
nel rischio. Quanto basta a guidarci, come un ammicco, al De Pisis più illustre e più sfrenato, al
poeta che scrive le sue poesie col pennello». L’alloro è ripreso anche nello scritto intitolato De
Pisis (Letture, in Corriere della Sera, 28 aprile 1954; ora in Sulla poesia, cit., pp. 287-289), in cui
Montale, dopo aver rilevato l’influenza, importante ma non al tutto determinante − sul De Pisis
poeta − di Pascoli e di Govoni, interpreta acutamente quella che potrebbe essere la “cifra”, critica,
storica e di fortuna lettoriale, della lirica del pittore (ivi, p. 288): «Ne nasce una lirica che dovrebbe
infinitamente piacere a coloro che detestano la poesia moderna e che confondono col cerebralismo
la ricerca, e la gioia, di una materia lavorata, trasformata in un oggetto. Ne nasce, cioè, una poesia
che sembra tradotta dal cinese, da un originale inesistente, tale da assegnare a De Pisis un onorevole
posto in una possibile antologia di poeti fuor del tempo e della storia (un’antologia che farebbe
furore e che non è stata ancor tentata, almeno in Italia)».
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privilegio» − p. 236), a costituire in realtà dei veri personaggi “buffi” e imputabili,
mentre la prossemica spaziale e gestuale le assegna, nel circuito narrativo interno,
alla sfera, autoistituita, del pubblico ministero, della «censura» e della «sbarra»,
appunto (ibidem):
Tengono una conversazione alta di timbro, serrata e colorita, aggressiva, ma
non è che un severo giudizio, la censura, su tutto quello che si fa. All’avvocato
Goldoni non riuscì difficile scoprire un collega nella donna veneziana; mettetene tre insieme d’età avanzata, e sarete alla sbarra.
L’«avvocato» Goldoni, non sfuggirà, è, come scrittore e come commediografo, in
verità del tutto necessario alla «donna veneziana», alla sua «ciàcola» capace di guadagnare la vivacità dello scambio dialogico alla funzione di valenza affabulante,
all’espressione di un pulsante e attivo mondo borghese profondamente compreso
e sostenuto, e altresì “difeso”, con illuministica apertura; «avvocato» difensore,
non a caso. Ma qui le tre anziane esercitano il ruolo opposto a quello di avvocato, e
quest’ultima funzione sarà in fine di racconto assolta ancora dallo scrittore, contro
la “chiamata alla sbarra” della coppia da parte delle tre piccole Furie (meritevoli
esse sì di «sbarra») e non a loro sostegno, in veste di osservatore e in qualità di
«uomo solitario» del tutto favorevole ai due giovani e alla loro limpida e fluida
innocenza, in un certo senso come il difensore pirandelliano del Belluca, ma in
chiave di levità palazzeschiana e di “adagio” coloristico tenero e delicato, di sfumato meridiano-solare e celeste-marino alla De Pisis; un osservatore, un «uomo
solitario» che non sempre si rende così esplicito, ma che nella narrativa palazzeschiana insiste e che si trova a essere, si può dire, sempre presente, magari in chiave
silenziosa, ma vicino e intuibile; se ne può ipotizzare un’ipostasi metanarrativa
(Mondadori ’75, pp. 39-52) in Un signore solo, non a caso in seconda posizione,
perciò quasi in ruolo proemiale, sin dal ’57: sarà proprio il «signor Florindo» ad affabulare, per difendere la propria libera solitudine e per produrre l’illusione della
“compagnia”, intere rappresentazioni, drammatico-teatrali e di altri generi ancora,
con una rassegna di simulazione di personaggi, di versatilità di ruoli e di gamma sociale e psicologica, di trasformismo plurivoco, di capacità scenico-mimetica,
quasi di duttilità clownistico-circense. Una sorta di metafora dell’autore, della sua
leggerezza e della sua variopinta, screziata, variegata creatività.
L’innocenza dei due giovani innamorati di Giulietta e Romeo è indubitabile
(ivi, p. 238):
I capelli dorati dell’una e dell’altro, risplendono sulla pelle del corpo dorato
dal sole e le gambe sembrano quelle di due angioli che da opposta direzione
vi siano capitati in volo. Ma le teste sono così vicine che ogni poco, quasi chiamate da una forza magnetica s’allungano leggermente per darsi un bacio. Un
bacio né appiccicoso né lungo, ma che si ripete all’infinito col profumo e la
freschezza di un fiore, e che nell’ora pigra sostituisce la più eloquente parola.
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Giulietta e Romeo comprendono (p. 239) «come possa disturbare qualcuno l’altrui
felicità»; ma la «causa vinta» dalle acide e ciarliere vecchiette non rimane l’ultima
parola della novella, ed essa deve anzi cedere alla voce finale del solitario osservatore; ed è questo l’elemento che conta (pp. 239-240):
Eppure, vicino a voi era un uomo solitario che tutto osservava in silenzio, un
uomo come voi non più giovane, ma lui vedeva quello che guardava: il cielo,
il mare, e anche i giovani che all’ombra del fortino ogni poco si davano un bacio, e vedeva come tutto vivesse in un’armonia infinita, e per i superstiti occhi
penetrava nel suo animo tanta gioia. A voi non è rimasto nemmeno quella,
povere vecchie, v’è rimasto poco davvero.
Con la «causa vinta», le tre vecchie «riprendono la loro seduta»; ma cessa completamente, non certo sul solo piano cronologico, bensì sul piano della qualità del
protocollo narrativo, il valore attivo di questa seduta, di questa poco rispettabile (e
in sé superficiale) chiamata alla sbarra di imputati, da parte di accusatori privi di
senso della vita e del piacere, di senso dell’ironia, e soprattutto privi di autocritica.
L’osservatore che prevale, in questo caso in modo apertamente locutorio, è l’uomo
che prima «tutto osservava in silenzio», e che, pur essendo «non più giovane»,
«vedeva» effettivamente «quello che guardava» e non altro, ovvero il paesaggio e
la vita, e la gioventù, senza gli oscuri schermi del moralismo e dell’assurda vendetta
repressiva. L’atteggiamento che è censurato è proprio la chiamata alla sbarra; e
tale escussione scenico-letteraria si chiarisce, non solo per questo racconto, come
acquisizione del termine alla sfera semantica dell’autore, dello scrittore, di una
convocazione alla sbarra nel senso dell’artista, e per quanto attiene al personaggio,
essa si chiarisce come una convocazione alla luce di scena, del vero e proprio palcoscenico, alla luce di una ribalta della magia e della creatività.
Nella citata premessa all’edizione del ’57 è innanzi tutto da notare il carattere
di centralità e di dichiarata priorità dell’«insegna» del palio dei buffi: la raccolta
viene ad assumere un valore che non si limita all’àmbito del volume vallecchiano
del 1937, ma che si estende al precedente (1921) Il re bello (che comprende due
delle novelle confluite nel Palio: Il gobbo e Il ladro, quest’ultima con il precedente
titolo Il borsaiolo) ed ai successivi Bestie del ’900 (Vallecchi, 1951) e Il buffo integrale (Mondadori, 1966), tutti approdati per intero (ad eccezione del “selezionato”
Re bello) nell’edizione mondadoriana 1975, poi più volte ristampata. Tale centralità è confermata anche dai raffronti con la produzione lirica da un lato e, dall’altro, con l’attività del romanziere; su questo punto, di notevole importanza per un
contributo di definizione storiografico-critica dell’opera palazzeschiana, s’incentra, ed è fatto sin troppo noto per insistervi qui e ora, un intenso dibattito di studî
e d’interpretazioni21. Ma continuismo e separatismo, tanto per riferirsi, a titolo di
21
Sugli sviluppi artistici di Palazzeschi cfr. innanzi tutto Palazzeschi oggi, cit. (in particolare, per
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mero esempio, a due categorie tradizionali della critica palazzeschiana, concordano
pur sempre su alcuni dati, e tra questi vi è senz’altro il valore di snodo fondamentale
rappresentato dal Palio dei buffi, titolo che non illegittimamente viene a comprendere buona parte della linea artistica tracciata da Palazzeschi, e in particolare quella
della creatività novellistica. Un titolo non da poco, dunque, tanto che il «buffo»,
per riprendere il discorso di prima, diverrà, nel 1966, Il buffo integrale, raccolta che
offre, sul piano della trama novellistica, ragguardevoli agganci tematici e strutturali
con il Palio dei buffi: si veda, ad esempio di vasta significanza e di ampia vibratilità, il
famoso “motivo del celibe e della domestica”. Il «buffo» si irraggia, come concetto
totalizzante, al di là dell’opera che esplicitamente gli è dedicata: esso è il metatitolo,
o, se si vuole, il motivo trascendentale dell’intera scrittura prosastica palazzeschiana.
2.2 Il «clown Antipoeta, e se preferite Sottopoeta, come antitesi del Superpoeta
di stampo dannunziano»
La forte e insieme sottile carica di antinaturalismo, coerentemente veicolata da
Palazzeschi, è asserita e messa a fuoco da Gino Tellini nel suo Il romanzo italiano
dell’Ottocento e Novecento22:
l’argomento che qui interessa, ALBERTO ASOR ROSA, Imperi mancati, pp. 143-155 − poi ripreso, con
il titolo Un riso doloroso [Aldo Palazzeschi], in ID., Un altro Novecento [Parte III: Figure], Firenze,
La Nuova Italia [«Biblioteca di cultura», 227], 1999, pp. 249-263; GENO PAMPALONI, I romanzi della
maturità, pp. 173-186; MARZIANO GUGLIELMINETTI, Le stampe dell’800, pp. 187-204; CURI, I «Buffi» o
la fine dell’utopia, pp. 205-236); si vedano, poi, GIANSIRO FERRATA, Prefazione, in PALAZZESCHI, Tutte
le novelle, cit., pp. IX-XXIX; SERGIO ANTONIELLI, Introduzione. La poesia di Palazzeschi, in ALDO
PALAZZESCHI, Poesie, Milano, Mondadori, 1971, pp. XXIX-XXXIV (più volte ristampato); MARINETTIPALAZZESCHI, Carteggio con un’Appendice di altre lettere a Palazzeschi, cit.; VANNI BRAMANTI, Momenti
del futurismo fiorentino fra arte e letteratura, in «Inventario», n. s. (maggio-dicembre 1984), 11-12,
pp. 63-72: 65-70; i capitoli dedicati a Palazzeschi nelle maggiori storie letterarie, ed in particolare:
GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI, Aldo Palazzeschi, par. 13 del cap. XVII (Prima dell’Apocalissi), in Storia
della civiltà letteraria italiana, diretta da ID., I-VIII, Torino, UTET, 1990-1996, V (1994), t. I, pp.
704-719. Si veda inoltre il profilo di GIORGIO LUTI, Aldo Palazzeschi: il piacere della memoria, in ID.,
Cronache dei fatti di Toscana. Storia e letteratura tra Otto e Novecento, Firenze, Le Lettere, 1996, pp.
208-219; per l’analisi d’un importante passaggio della prosa palazzeschiana (Sorelle Materassi), cfr.
VALERIA CHIMENTI, Enunciazione e voce in Svevo, Palazzeschi, Gadda, in Da Verga a Eco. Strutture
e tecniche del romanzo italiano, a cura di GABRIELE CATALANO, Napoli, Pironti, 1989, pp. 353-482.
Sull’Interrogatorio della contessa Maria, cfr. GINO TELLINI, L’eredità di Palazzeschi, in ID., L’arte della
prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altro, cit., pp. 305-318. Sui romanzi cfr., ora, ALDO PALAZZESCHI,
Tutti i romanzi, I-II, a cura e con Introduzione di GINO TELLINI e un saggio di LUIGI BALDACCI, Milano,
Mondadori, 2004-2005. Sulle interviste rilasciate dallo scrittore, e sui “ritratti” che ne scaturiscono,
cfr. ALDO PALAZZESCHI, Ritratti nel tempo. Interviste 1934-1974, a cura di GIORGINA COLLI, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze («Carte Palazzeschi», n. 18), 2014.
22
Cfr. GINO TELLINI, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno
Mondadori, 1998, p. 288.
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La vera mina antinaturalistica, in area futurista, è un funambolico e pensoso
cultore del gioco come l’antidannunziano Palazzeschi a innescarla, mentre la
dolente autoironia e la smarrita identità del suo Chi sono?, in Poemi (1909),
si offrono come anticipato rovesciamento del magniloquente Chi sono? di
Papini23.
Già l’omino di fumo dissacra «i fasti orgogliosi, le pompe superomistiche, le trionfanti mitomanie di progresso», e il manifesto Il controdolore smonta «la retorica del
sublime, della “serietà”, del tragico» (p. 289); e se vi è un compagno che da parte
sua si esprime «nella carica sovversiva e liberatoria dell’oltraggio grottesco, della
deformazione burlesca e caricaturale, dello scompiglio plurilinguistico» (scompiglio tratto in quel caso dalla lezione di Pulci e di Rabelais), questi è proprio Alberto
Savinio, nel suo «disinganno di “neoclassico” disperato», nel suo «sogno insoddisfatto» di recupero d’un’armonia spirituale ellenica (ibidem). E Palazzeschi, da
parte sua, resta fedele ad uno «sperimentalismo d’anteguerra» anche nell’epoca
(1920-1921, e oltre) di Due imperi… mancati, di Il Re bello e de La piramide (p.
304), e individua come proprio bersaglio polemico esattamente la “bella pagina”24,
A proposito della vera e propria figura metafisica del poeta-saltimbanco, basti riprendere
la ricca e significativa relazione di EDOARDO SANGUINETI, L’incendiario, in Palazzeschi oggi, cit., pp.
49-69, qui pp. 50-54; non si tratta solo di clownismo: «Il saltimbanco è anche, se non soprattutto, la
figura per eccellenza dell’immoralista gratuito, del trasgressore appunto: è il distruttore, l’eversore,
il rovesciatore dei valori − a colpi di smorfie e di risate, se non a colpi di martello» (p. 52); egli,
quindi, traduce un principio metafisico, è la figura che rivela l’incombere della cieca essenza
noumenica. Ce n’è per tutti, scrive Sanguineti; ce n’è per il borghese e per la sua “onorabilità”, ma ce
n’è anche per l’artista: «une épiphanie dérisoire de l’art et de l’artiste. La critique de l’honorabilité
bourgeoise s’y double d’une autocritique dirigée contre la vocation esthétique elle-même», dice
Jean Starobinski nel suo Portrait de l’artiste en saltimbanque, opportunamente citato da Sanguineti
(p. 50): un «autoportrait travesti», con all’origine il concetto di «clown tragico» nella grande
matrice baudelairiana, il cui Albatros è sempre nel midollo del ricordo, «ailé» e insieme «gauche
et veule», «beau» e insieme «comique et laid». «[…] le bouffon, le saltimbanque et le clown»
sono state, nella modernità, le immagini prevalenti di autodefinizione dei poeti e della condizione
dell’«art» (ancora Starobinski); i nomi sono da album dell’eccellenza: «Musset se dessinant sous les
traits de Fantasio; Flaubert déclarant: ‘Le fonde de ma nature est, quoi qu’on dise, le saltimbanque’
(lettre du 8 août 1846); Jarry, au moment de mourir, s’identifiant à sa créature parodique: ‘Le père
Ubu va essayer de dormir’; Joyce déclarant: ‘Je ne suis qu’un clown irlandais, a great joker at the
universe’; Rouault multipliant son autoportrait sous les fards de Pierrot ou des clowns tragiques;
Picasso au milieu de son inépuisable réserve de costumes et de masques; Henry Miller méditant
‘sur le clown qu’il est, qu’il a toujours été’».
24
Si rammenti ciò che Palazzeschi dice ad Alberto Arbasino (ALBERTO ARBASINO, Palazzeschi,
febbraio ’74, in «Il Verri», XIX [marzo-giugno 1974], 5, p. 13), ripreso in un altro, documentato
scritto di Gino Tellini, contributo importante per la definizione della storia interna dei testi
dell’autore, ricognizione dall’interno della frastagliata vicenda di riedizioni, ristampe, nuove
edizioni, rifacimenti, perseverante puntiglio variantistico, costante tensione correttoria che
caratterizzano e accompagnano la produzione letteraria palazzeschiana lungo l’arco del Novecento
(cfr. GINO TELLINI, L’officina dello scrittore, in L’opera di Aldo Palazzeschi. Atti del Convegno
Internazionale, Firenze, 22-24 febbraio 2001, a cura di ID., Firenze, Olschki [«Quaderni della
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la prescrittiva indicazione del calligrafismo rondista (sempre ricordando che l’idea
di calligrafismo potrebbe suonare riduttiva riguardo a quello che in realtà è l’impegno della rivista), tanto da non legittimare, se non sul piano dell’esteriorità formale, l’idea del «ritorno all’ordine» da parte della sua scrittura; questa fondamentale
limitazione e riduzione del così decantato “ritorno” può ben definire anche i suoi
sviluppi narrativi degli anni 1930 (citiamo sempre dal volume di Tellini):
Palazzeschi, per proprio conto, dopo La Piramide (1926), vibrante corollario
dello sperimentalismo d’anteguerra […], muta i toni e i registri della scrittura, ma non l’estro umoristico e pensosamente fantastico del suo inconfondibile passo narrativo. Le Stampe dell’800 (1932) e le Sorelle Materassi (1934)
imboccano la strada della memoria, dell’infanzia, della pittura d’ambiente:
un ritorno all’ordine, ma non sostanziale, perché la solidità della materia è
parodizzata, elettrizzata da un demone irrisorio e antisentimentale che decompone la quiete di questo teatrino ottocentesco (come il «controdolore»
che scompiglia i contorni delle «stampe» o l’istintività naturale del giovane
Remo che seduce e rovina le due pie Materassi, zitelle per vocazione). Poi
nell’attività del novelliere (Il palio dei buffi, 1937; Bestie del ’900, 1951; Il
buffo integrale, 1966) la stasi opaca e senza tempo di un mondo sclerotizzato
è sconvolta dall’intrusione del «buffo»: la smagliatura bizzarra, lo strappo,
l’anello allentato che rompono la rete delle abitudini, sbalzano il lettore nel
trasognato regno dell’assurdo, mostrano comicamente il volto dolente e grottesco dell’agire umano, ma dalla prospettiva di un osservatore innamorato del
funambolico spettacolo della vita25.
In un ragionamento condotto, pur in modo sintetico, sulle forme artistiche, sui
valori ritmici, melodici, musicali delle poesie palazzeschiane, Renato Serra aveva
da parte sua finemente presagito, e senza aver conosciuto Il codice di Perelà, il
prosatore nel poeta, gli svolgimenti dell’oratio soluta proprio negli arditi e originali esperimenti poetici d’esordio, così com’essi s’annidano nel nucleo primigenio
della versificazione da «liricista» contemporaneo; ne aveva intuito la prosecuzione
artistica e gli esiti delle scelte sul piano dei generi letterari, e aveva inoltre ben
còlto, certo nei modi che costantemente venano le asciutte e lucenti saline dell’in“Fondazione Carlo Marchi”», 18], 2002, pp. 15-36, qui p. 31 n.): «Solo la bella pagina! La bella
pagina! Nient’altro che la bella pagina! Con che pesantezza veniva imposta! Comandavano solo
loro! E sono duranti tanto! E invece io ho sempre odiato la bella pagina! Con la bella pagina
mi pulisco il culo!». Non si dimentica per questo il determinante contributo di ridefinizione
storiografica, riguardo a «La Ronda», che proviene da un noto scritto di Caretti: Il ‘fascismo’ de
«La Ronda» (ancora titolo redazionale), in «Il Contemporaneo», 48 (3 dicembre 1955), pp. 3-4;
poi, con il titolo Significato della «Ronda», in ID., Dante, Manzoni e altri studi, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1964, pp. 139-146; e ancora, con il titolo «La Ronda». I. Significato della «Ronda», come
primo paragrafo rispetto a un secondo, intitolato Codicillo rondesco, in ID., Antichi e moderni.
Studi di letteratura italiana, cit., rispettivamente pp. 337-343 e 345-349.
25
TELLINI, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, cit., pp. 364-365.
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telligenza serriana, quell’iniziale impulso ludico-cantabile che, nella ricerca sincera e personale d’esiti poetici nuovi, e condotto alle sue estreme conseguenze, si
flette circolarmente nella propria distruzione, nell’annullamento della musicalità,
ma lascia in vigore la genuinità del «principio poetico» che distingue Palazzeschi
dai «generici» versificatori coevi, dai quali pure egli impara, soprattutto se essi
appartengono a un emblematico plancton letterario «di terz’ordine», «l’aria» che
si respira ai primi del Novecento26:
E infine, la reazione completa; una poesia come invenzione pura, al di fuori
di ogni musica e di ogni espressione, che riesce poi nell’effetto un gioco quasi
meccanico della fantasia. Si direbbe nelle ultime cose che Palazzeschi, a forza
di semplificare e purificar la sua poesia, abbia finito per distruggerla; quella
che scrive è una prosa, con appena un po’ di colore umoristico o grottesco.
Non crediamo che sia finito qui; né lui, né la sua strada.
E si noti che Serra protende, ignaro, la propria previsione palazzeschiana oltre la
guerra mondiale, a conferma della precoce insistenza d’una prosa che, già inglobata e preparata nelle prove poetiche 1909-1913, in realtà non si pone affatto come
smentita di quella poesia, come annullamento d’ogni carica innovativa, dovuto a
sinergica coincidenza di cause individuali (la personale, quasi “biologica” maturazione dell’autore) e di cause oggettive (l’esperienza della guerra, dolorosamente
“rivelatrice”); l’acqua assume la forma del nuovo calice, ma la sua chimica è sostanzialmente inalterata. Piuttosto il calice, che è valore tutt’altro che trascurabile
ma anzi essenziale, è segnato, questo sì, dalle drammatiche scansioni storiche, o
meglio di storia civile e di storia dell’estetica, oltre che ovviamente di storia della
letteratura, che si sono espresse, in Italia, nel decennio 1915-1925 (dall’entrata in
guerra alla trasformazione del fascismo in regime), dopo il quale nulla ha più potuto essere come prima. Buona parte delle novelle del Palio dei buffi è scritta a partire
dal 1926: ma Palazzeschi aveva già chiarito e fatto decantare traumi intellettuali e
spunti di riflessione politica nei Due imperi… mancati (1920), volume che non apre
un’epoca, bensì la chiude, traendo un bilancio di affanni, di timori, d’inquietudini
che gli anni di guerra avevano fatto esplodere e bruciare con velocissima maturazione ben più che “incendiaria” (si ricordino la tempestività della scelta antiinterventista e le conseguenze inflessibilmente affrontate della rottura con «Lacerba», il
che è anteguerra per definizione; e sarà da lì che Aldo “comincerà” a scrivere i Due
imperi… mancati). Tali affanni e timori, da quel momento in poi, accompagneranno l’autore come viatico d’intima meditazione, di rovesciamento del dominante
spirito retorico e delle fanfaronate di regime su un piano di materia narrativa umile
e prosaica, ironica e dimessa, ma costituiranno anche, e proprio per le suddette
SERRA, Le lettere, a cura di PIROTTI, cit., pp. 152-154 (e cfr. l’Introduzione, pp. 25-27); il
passo citato nel testo è a p. 154.
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ragioni, un amaro e privatissimo trattato di pace interiore, di autopace, un’implosa
Versailles più lungimirante di quella ufficiale, proprio perché certe considerazioni
storiche erano state in quel dato momento già fatte e acquisite, e avevano lo statuto, ora sì davvero pieno e “maturo”, di valori internamente vissuti e personalizzati,
e quindi in un certo senso e per un lungo periodo non più ridiscutibili.
Non v’è meraviglia se, chiariti a se stesso i propri conti, umani, civili e culturali,
l’autore rinuncia e può rinunciare all’“incendio” manifesto e palese27: ma non vi
rinuncia affatto per sola “saggezza” o per mera prudenza d’intellettuale silente,
poiché l’“incendio”, o, se si preferisce, la sua sublimazione artistica, come dimostrano i testi palazzeschiani in prosa, è sempre lì, è sempre necessario e auspicabile,
occorrente volontà trascendentale (anche sul piano estetico)28. Dopo i Due imperi,
e proprio e segnatamente dopo l’esperienza intellettuale che in essi si è raccolta
e che in essi si è rassodata, Palazzeschi non pare avvertirne il desiderio in modo
inconscio, o subconscio; egli appare avvertirlo, piuttosto, in modo postconscio, o
postcosciente. Le nuove espressioni estetiche nascono dalla formulazione postcosciente di ciò che lo scrittore ha sempre pensato (pensato, certo, in via diretta,
non necessariamente filosofica). Solo che, una volta ripreso il cammino creativo, e
dovendo esternamente esibire la lingua dell’ordine, Palazzeschi agisce con mezzi
27
Cfr., già all’epoca dell’edizione 1913 («2a edizione») de L’incendiario 1905-1909 (Milano,
Edizioni Futuriste di «Poesia»), la reazione di colui che sarà per Palazzeschi l’amico e il sodale di
un’intera vita, Marino Moretti: «Tu hai detto in questa lirica tutta l’inutilità della vita, ma in un
modo così nuovo, così tuo che da principio non si sa che pensare di te: se ti burli degli uomini o
se li ami e compatisci» (lettera da Baveno del 6 giugno 1913, in MORETTI-PALAZZESCHI, Carteggio
I, cit., pp. 357-358). Sulla novità rappresentata da L’incendiario, cfr. la testimonianza indiretta di
Giovanni Papini in una lettera ad Attilio Vallecchi, da Pieve Santo Stefano (Arezzo), del 13 agosto
1916: «Io mi ritrovo ad aver fatto 14 poesie che sono, posso dirlo anch’io, le più originali tra
quante sono uscite in Italia dopo L’incendiario di Palazzeschi. Vorrei farne un volumetto elegante
e, possibilmente, in carta a mano, un’edizione di lusso da mettere a 3 o 4 lire» (si veda GIOVANNI
PAPINI-ATTILIO VALLECCHI, Carteggio [1914-1941], a cura di MARIO GOZZINI, Premessa di GIORGIO
LUTI, Firenze, Vallecchi, 1984, p. 36; si tratta della silloge Opera prima, precedentemente intitolata
Venti poesie, uscita nel 1917). Su un altro importante rapporto, quello tra Palazzeschi e Giuseppe
De Robertis, uno dei suoi più acuti e assidui lettori sotto il profilo della critica, cfr. GINO TELLINI,
Lo scrittore e il suo interprete. Il carteggio di Palazzeschi con Giuseppe De Robertis, in La «difficile
musa» di Aldo Palazzeschi. Indagini, accertamenti testuali, carte inedite, a cura di ID., in «Studi
italiani», XI (gennaio-dicembre 1999), 21-22, pp. 31-80.
28
Cfr. in tale senso LUIGI BALDACCI, Aldo Palazzeschi, in «Belfagor», XI, 2, marzo 1956; poi,
in ID., Letteratura e verità, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, p. 151. Cfr. anche un brano critico
di Rita Guerricchio, nel quale si sottolinea che Baldacci ha formulato il concetto di «nuovo tipo
di divertimento» in Palazzeschi, come «dissimulazione» e rinuncia a compromettersi «alludendo
a una sorta di autonascondimento, occultamento dell’anima di Palazzeschi (o almeno del suo
doppio incendiario e ribelle)», permettendo lo sprigionarsi, pur come da ristretti pertugi, della
«rimanenza di un glorioso teatro di varietà ancora e sempre affidato a corporali, genitali attestati di
biologica, anarchica vitalità cui demandare il superstite mandato iconoclasta» (cfr. GUERRICCHIO,
Introduzione, cit., p. XVII).
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suoi, peculiari e personali29, interpretando tramite l’ironia, tramite la forza inventiva della vicenda e della situazione tragicomica, la crisi, profonda e drammatica, del
mondo e della vita, delle relazioni umane e psicologiche, dei fallibili assetti organizzativi della socialità e dei suoi parametri “normalizzati”, standardizzati, deturpati dalla superficialità del senso comune. La “normalizzazione” cui abbiamo alluso non pertiene a Palazzeschi; anzi, essa è talvolta addirittura il contrario delle sue
soluzioni letterarie ed estetico-stilistiche. Proprio quella “normalizzazione” degli
strumenti tecnico-stilistici, che secondo una lunga tradizione critica palazzeschiana accompagnerebbe in modo determinante la strutturazione delle vicende e delle
trame, è soltanto apparente e, anche negli aspetti in cui si rende percepibile, essa è
circoscritta con sagacia nella funzione di parziale ribalta linguistica, in senso strettamente sintattico e lessicale, dello scorrere della narrazione. Tale ribalta linguistica s’avvale anche del pilotato riuso (ma in differentissima chiave, e questo va ben
sottolineato) d’un’ambigua e perciò efficace linea novellistica toscana d’ascendenza ottocentesca, espressione d’un mondo storico già lontano, ma tutt’altro che irrecuperabile dal punto di vista di certe atmosfere e di certe mirate risorse di scrittura:
Collodi, Pratesi, Fucini, ma pure Yorick, ovvero il Coccoluto Ferrigni30. Dietro
questa ribalta, l’ironia aggiorna la propria connotazione, le proprie caratteristiche,
come personale risposta ispirativa e artistica ai “richiami” dell’ordine ufficiale da
un lato, dell’ortodossia stilistica classico-rondista dall’altro (benché all’interno del
concetto critico di “classicismo” rondista, che qui si assume nella sua generale risonanza storiografica, vadano tracciate molte distinzioni, e benché, ancora, lo stesso
concetto critico si apra alla possibilità di articolazioni diverse); ma l’origine, e in
parte anche l’attuazione estetica del filo rosso dell’ironia, sono sempre quelli prettamente palazzeschiani, e appartenenti alla storia compositiva che già l’autore può
vantare (ci si riferisce, è chiaro, alla prosopografia dei personaggi, più ancora che
al tessuto affabulante). Se ci è permessa una citazione parzialmente aneddotica, ricordiamo l’effetto che ebbe nel sindacalista Luciano Lama, in piena Seconda guerra mondiale, l’apprendimento strumentale del tedesco: dopo essere egregiamente
servita al partigiano per parlare in modo accorto con il nemico, la lingua “nuova”
fu in sostanza dimenticata, per una «reazione irrazionale» di rimozione e di rifiuto
(l’inverso speculare, insomma, del pirandelliano Cristoforo Golisch de La toccatina). Palazzeschi non poteva permettersi la rimozione della lingua che in modo non
del tutto imprevedibile, con salutare inganno di molti lettori (e non solo di quelli
comuni), finalmente lo avrebbe nel secondo dopoguerra condotto al tardivo riconoscimento ufficiale (Roma, premi letterari, Mondadori, ne varietur in vita, e via)31.
Cfr. LUTI, Aldo Palazzeschi: il piacere della memoria, cit., p. 215.
Cfr. GUGLIELMINETTI, Le stampe dell’800, cit., pp. 195-196.
31
Rientra nella fase del dopoguerra lo sviluppo delle premesse religioso-cristiane che in
parte, anche sulla scorta dell’esperienza di Papini, si erano annunciate nei Due imperi; premesse
cristiane che, forse, con il tempo, sarà meglio precisare in “democristiane”, e tali che vengono a
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Né certo realismo toscano dell’Ottocento poteva dirsi per lui lingua nuova; ma in
comune con l’esperienza citata vi è la strumentalità dell’apprendimento, in quegli
anni, della lingua dell’apparente ordine prosastico, e si dica pure realistico, o addirittura classico-realistico (ma, più giustamente, Luti direbbe «realismo fantastico»
− non magico). Imparare il tedesco per dimenticarlo (nelle drammatiche circostanze storico-fattuali in cui agiva Luciano Lama); recuperare la lingua dell’ordine
per servirsene prolungatamente, nel caso dei percorsi culturali complessi, e meno
immediatamente drammatici, nella coscienza e nella pagina dell’artista. Imparare
il tedesco per fuggire il pericolo tedesco, per ingannarne i parlanti, per contestarne
l’ordine dall’interno dei suoi stessi strumenti espressivi; e altrettanto fare per l’ordine istituzionale, “unitaristico”, tosco-romano-ardengosofficiano, da parte dello
scrittore toscano Palazzeschi che, con felici puntate veneziane e parigine, visse
soprattutto a Firenze e a Roma. In quegli stessi anni, sul versante d’un recupero di
validità culturale d’un côté storico che era in quel periodo avverso al mondo intero,
Benedetto Croce assumeva criticamente il germanesimo letterario leggendo e continuando a leggere ed a tradurre in dosi massicce le liriche di Goethe. Riferendosi,
con speculare meccanismo, al sistema capitalistico, nei primi anni 1960, Umberto
Eco indicava, in un intervento sul «Menabò» (5, agosto 1962, p. 228; poi rist. in
Opera aperta), la necessità di conoscerne il peculiare linguaggio per poter contestare lo stesso sistema dall’interno.
Non è facile impostare un programma di contestazione, di affrancamento, di
indipendenza, e per di più dall’interno, rispetto al “canone” della letteralità, del
classicismo-realismo; basti pensare a certi altri “programmi” dell’ex sodale di avventura futurista, Ardengo Soffici, che scrive le seguenti righe contemporaneamente (1927) alla composizione e all’uscita in rivista di alcune novelle del Palio dei
buffi, e pochi anni prima delle Stampe dell’800 e delle Sorelle Materassi:
Il fastidioso, soporifero cinchischiatore di vacui lirismi letterari o plastici;
l’arzigogolatore di fantasie, di capricci, di grottesche senza costrutto e senza
nerbo; lo sgrammaticato eversore di grammatiche e di tecniche anelante alla
libertà di esprimere col nulla della sua arte poetica e pittorica, il nulla del suo
spirito, il songecreux che si balocca con le teorie estetiche o filosofiche nubilocoincidere con la parabola del consenso d’àmbito romano di cui fruirà, appunto, Palazzeschi.
Luciano De Maria individua una connotazione cristologica anche in (e a partire da) Perelà: cfr.
LUIGI BALDACCI, Palazzeschi: problemi aperti, in L’opera di Aldo Palazzeschi, a cura di TELLINI,
cit., p. 13. Ma cfr. quanto osserva CARETTI nel suo intervento al convegno Palazzeschi oggi, cit.,
p. 142, sempre in relazione ad uno spunto di De Maria: «Sono stato colpito da quanto si è detto
di Perelà: sul processo di vanificazione corporea e sul possibile simbolismo cristologico della
“favola” palazzeschiana. Su questo secondo punto ho molte perplessità: in ogni caso mi par giusto
osservare che Cristo non si vanifica ma, al contrario, si incarna e quindi procede con fiducia ad una
identificazione con l’uomo. Penserei, caso mai, al Cristo della passione, al Cristo tradito, e quindi
alla claustrofobia del sepolcro e alla liberazione del corpo nella resurrezione. Ma continuo, in ogni
caso, a restare perplesso».
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se a noi venute dal nord, dall’occaso o dall’orto altro non sono insomma che
i sopravvissuti fantasmi di un mondo che il Fascismo è nato per annientare.
Prodotti di un infeudamento politico, morale e spirituale allo straniero ed al
barbaro, tutti questi bastardi non hanno più alcuna ragione di vita, neanche
apparente, in seno al nostro movimento; il Fascismo dovrà spazzarli via, come
ha fatto con tutti i suoi avversari d’altro genere, per adeguare alla sua linea
politica, esattamente, indissolubilmente, lo sforzo concorde dell’intelligenza
e della genialità creativa autoctone. / Il Fascismo il quale rivive e vuol far rivivere all’Italia liberata la grandezza romana, non può tollerare accanto all’impeto della sua fede attiva le nugae e i divertimenti perversi della decrepita e
putrescente Bisanzio. / Bisogna ritornare al segno su tutta la linea32.
Non due o tre secoli, o più ancora, bensì pochi decenni di Novecento ci separano
da queste parole, da questo tipo di testo; e si pensi alla fine che avrebbero potuto
fare (e che nella storia realmente hanno fatto) molti disgraziati buffi, gobbi33, monomaniaci, celibi, “diversi”, o latenti omosessuali34 palazzeschiani con le “spazza-
32
Cfr. ARDENGO SOFFICI, Tornare al segno, in «Il Selvaggio», IV, 1 (15 gennaio 1927); ora in
ID., Estetica e politica. Scritti critici 1920-1940, a cura di SIMONETTA BARTOLINI, Chieti, Solfanelli,
1994, pp. 178-183: 182-183. Il riferimento a Soffici è tanto più significativo in quanto Palazzeschi
trova in lui un lettore sempre disposto a un vivo apprezzamento dei suoi scritti; nella visione
critica di Baldacci (cfr. ID., Palazzeschi: problemi aperti, cit., p. 13), ad esempio, emerge che Aldo
«Fu capito, tra i suoi contemporanei, da Soffici e Papini»; si ricordi pure la lettera da Poggio a
Caiano del 1 luglio 1920, di Ardengo allo scrittore fiorentino, su Due imperi… mancati (MARINETTIPALAZZESCHI, Carteggio con un’Appendice di altre lettere a Palazzeschi, cit., pp. 161-162): «Il tuo
libro è uno fra i migliori che siano apparsi da molti anni, non solo in Italia ma in Europa. È tutto
bello, vivo, palpitante buono; ma alcune pagine (molte) sono, secondo me, perfette e assolutamente
grandi. […] a proposito della questione guerra […] tu sei stato forse l’unico uomo che mi sia
apparso interamente nobile, vero, perché coerente; e il più puro e coraggioso fra tante coscienze
ambigue ecc.».
33
Il gobbo, la novella cronologicamente più antica del Palio (pubblicata in «La Conquista di
Roma», I [10 febbraio 1912], 4), è entrata anche nell’antologia Il racconto italiano del Novecento, a
cura di SIMONA COSTA, Milano, Mondadori, 1997, pp. 124-132.
34
Sul motivo dell’omosessualità palazzeschiana cfr. l’indiretto accenno di GIULIO FERRONI,
Aldo Palazzeschi: la giocosa libertà del nulla, in ID., Storia della letteratura italiana, I-IV, Milano,
Einaudi-Elemond, 1991, IV, p. 111: «Il suo io sembra quasi nascondersi e nuotare felicemente in
questo nulla, sottrarsi alla realtà con una sua guizzante leggerezza: ma nei suoi movimenti resta
qualcosa di segreto e di ambiguo; ogni suo gioco è come un obliquo trionfo su uno sfondo oscuro
e indecifrabile, che ci viene incontro solo per un attimo e si nasconde per sempre». A proposito
dei legami che intrattengono con estrema signorilità, ivi compresa quella dialogico-linguistica,
Palazzeschi e Marino Moretti, si veda la fine del passo citato al principio del capitolo (cfr. qui
sopra, n. 1), riguardante i Poemi palazzeschiani, in MORETTI-PALAZZESCHI, Carteggio I, cit., p. 238:
«ci sento tutta l’inutilità della tua arte impossibile e ci vedo tutta la bellezza delle cose deformi
[…]. Addio, dolcissimo. Ti bacio una volta sola». Ma si veda anche l’elogio della bellezza di
Alphonse Daudet, fino all’evocazione del volto dello scrittore da morto: «Fu, fino da fanciullo, di
una affascinante bellezza, tanto che lo scultore Paul-Hubert Colin, direttore di quella scuola d’arte,
si servì di lui come modello per una delle figure d’angiolo nella chiesa di San Paolo e della fontana
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te” ariano-catartiche di Soffici: da riempirne un campo di concentramento. Una
patina di pagina, un equivoco fuciniano li hanno salvati. Doppiamente significativa
l’autonomia d’itinerario da parte di Palazzeschi, per suo conto capace di rovesciare
la stessa lezione della prosa novellistica toscana secondoottocentesca in esiti assolutamente nuovi, che per fortuna non ritornano affatto «al segno», anche quando
sembrino ammiccare a Fucini: non è stata impresa da poco attingere, in una data
misura, a certa “Toscanina” letteraria per promuovere qualche suo carattere linguistico a componente d’una prosa di pieno Novecento. Questo è, proprio sul versante letterario, tecnico, peculiarmente intratestuale, l’“incendio” che Palazzeschi
può in quegli anni appiccare: un incendio sottopelle, delicato (si pensi alla “delicatezza” del Soffici anni ’20) ed unico possibile; ma non per questo meno incendio.
Se si vuole, un incendio di cui non si vede il rosso fuoco divampante, bensì il solo
«fumo», la conseguenza ultima di quel fuoco, sublimata nell’ironia dissacrante e
“antisociale” in quanto la società degli uomini è iniquamente asociale, e, altresì,
nell’ironia antimoralistica, antistandardizzante e anticonformistica; ed è all’insegna
del fumo, e di nuovi (e beninteso differenti e meno eclatanti) “uomini di fumo” che
conviene leggere le vicende del Palio dei buffi, e soprattutto quello che vi è di sottocutaneamente vivo e criptato35. Molto efficace, a questo proposito, come sintesi
introduttiva al Palazzeschi anni 1930, la linea critica di Bárberi Squarotti:
Se mai, Le sorelle Materassi sono un romanzo acremente derisorio nei confronti della morale borghese e anche popolare, e, di conseguenza, nei confronti pure del romanzo d’ambientazione provinciale, di cui finge un po’ di
folklore di lingua, quel molto di coro borghigiano, ma al servizio di una «cattiveria» di fondo che apparenta Palazzeschi alla grande tradizione novellistica
della Toscana. Si pensi, come conferma, a una raccolta di racconti come Il
palio dei buffi. Siamo davvero al centro del gusto della beffa anche maligna
e acre, della bizzarria come segno di protesta e di opposizione nei confronti
di tutte le convenzioni e le convenienze, di celebrazione di chi vuole proporsi nella propria diversità, e come tale è definito «buffo», ma a patto di
togliere dal termine ogni connotazione comica, perché, se divertimento c’è,
esso è quello della beffa spietata, del risentimento, dell’irritazione, del non
adattamento, che, del resto, Palazzeschi già aveva tante volte rappresentato nelle poesie e nell’allegoria de Il codice di Perelà. La misura della novella si addice perfettamente a Palazzeschi, come dimostrano anche le Stampe
dell’Ottocento, che sono anch’esse sembrate un segno di rientro nell’ordine e
del ponte Santo Spirito. Regolare e fine di lineamenti e di contorni, aveva un’espressione nobile e
dolce, che la virilità e la maturità non alterarono mai, fino all’ora suprema del sonno eterno nella
quale il suo volto apparve ai familiari e agli amici in una luce di purissima bellezza, lasciando nei
loro animi un incancellabile ricordo» (cfr. PALAZZESCHI, Nota, in DAUDET, Tartarino, cit., p. 631).
35
Sulla possibile attualizzazione dell’uomo di fumo cfr. il brillante “saggio creativo” esperito
da WALTER PEDULLÀ, Il ritorno dell’uomo di fumo. Viaggio paradossale con Palazzeschi in un paese
allegro e innocente, Venezia, Marsilio, 1987 (ora Milano, Rizzoli, 1992).
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nella tradizione, se non fosse per il senso di gioco e di presa in giro che, qui,
si scarica sulla prospettiva della narrazione, sulle ironie dello stile, su quel
molto di sconveniente e di irridente che è nella delineazione di figurine del
passato che vengono fuori da certe catalogazioni delle poesie e del romanzo
di Perelà per mostrarsi in una luce radente e ambigua, che finisce a rilevarne
più la sconvenienza sociale, sia pure abilmente celata, che la malinconia di
una rievocazione del secolo delle buone cose di pessimo gusto. Ne Il palio dei
buffi, invece, l’intento dello scandalo è nei personaggi e nella loro bizzarria e
nei comportamenti che tengono. Nelle Stampe dell’Ottocento l’irriverenza si
sposta nello stile, che è sempre allusivo, anfibologico, ambiguo: come se Palazzeschi avesse voluto proporre, sì, il proprio clamoroso ritorno all’ordine,
ma poi si fosse servito di tale schermo per continuare, in falsetto e con gli
opportuni e frequenti ammicchi, la propria operazione fondamentalmente
trasgressiva nell’ambito del costume e delle istituzioni letterarie36.
Altrettanto bene, pur muovendo da altre premesse, si esprime Giansiro Ferrata nella Prefazione del 1975; Ferrata mette in particolare rilievo uno scritto palazzeschiano che non appare ancora compiutamente valorizzato dalla tradizione
critica, ovvero l’Equilibrio (uscito in «Lacerba» il 24 gennaio 1915), saggio che
significa davvero, con il proprio titolo, «simbiosi approfondita con la varietà e
mutevolezza del reale, del vivo, dell’umano. L’avversario tipico è ancora il conformismo, che riesce o tende a sopraffare il libero giuoco degli elementi vitali». Ma vi
è pure «una diversa regola d’equilibrio antilimitatorio, su un piano ideale oltre che
naturale. Questa regola corrisponde al superare dall’intimo ogni unilateralità d’atteggiamenti, di criteri, di rapporti con la vita e col pensiero»; si prosegua a leggere
il passo di Ferrata, con le citazioni da Equilibrio:
Evadere agilmente − dopo esservisi inoltrati − dai cerchi vicini a chiudersi; sbloccare quanto pur solo accenni a farsi automatico e monotono; raggiungere nel vivo un pluralismo di linee e punti fondamentali, con l’animo,
con l’azione […]. «Lei ha un carattere? Che bravo. Io ne due, quattro, otto,
sedici, trentadue, cento! E come punto di partenza nessuno» […]. Dicono
che la terra sia come un’arancia, giustissimo, e ti contenti di mangiarne uno
spicchio? Cucù! A me fa gola tutta.
E tale varietà avvicina l’opera di Palazzeschi raconteur ad una Comédie humaine
novellistica, per niente aliena da
un valore di molteplice ampiezza posizionale, espansiva, classico-romanticomoderna. Palazzeschi, capostipite vero delle nostre più nette germinazioni
novecentesche, si è annesso forse particolarmente in ciò che egli chiama «novelle» un ottocentismo e un classicismo di fondo, senza venire affatto meno
36
Cfr. BÁRBERI SQUAROTTI, Aldo Palazzeschi, cit., pp. 715-717.
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alle sue originarie istanze liberosimbolistiche, e a una prassi e gioia del surreale esplosa in lui con quasi incredibile spontaneità delicata37.
La vita, dunque, non il vitalismo, non D’Annunzio: in Palazzeschi l’irrazionale
è ricerca e gioco di verità e di fantasia insieme, non vitalismo come passione e
come regno di forze dominatrici; ad esempio, le novelle Il paradiso terrestre e
Lo zio e il nipote aprono e chiudono l’edizione del 1957 con due differentissime
celebrazioni della vita, da quella assertiva e naturale, di ascendenza “ideologica”
boccacciana (si ricordino le «papere» del Decameron), a quella “abbandonata”
e, a suo modo, beatamente contemplativa del Luigi nipote; ma non si tratta certamente di vitalismo. E principalmente in direzione del Controdolore era servito
l’esempio (lo ricorda Fausto Curi) del Nietzsche de La gaia scienza. Si tratta,
scrive Luciano De Maria38, de
la vita che racchiude gli opposti, lo spirito e la carne, l’uomo e la bestia («pretendere di uccidere nell’uomo la bestia è la sublime delle follie»); la vita inesauribile, sublime nella sua varietà e nei suoi contrasti, che il nipote Luigi contempla con occhio estatico, fino al sacrificio di sé, martire del suo amore. / Certo,
questa «vita» palazzeschiana, secondo un modulo tipicamente irrazionalista, è
un’entità mitologica, un concetto in parte acritico, apologetico. La «vita» giustifica l’esistente, così violentemente criticato nelle opere sperimentali, soprattutto nel Codice di Perelà. Ma la «vita» di Palazzeschi ha una sua innocenza
primordiale: si condensa, ad esempio, come speranza, emblematicamente, nei
geranei scarlatti che la fioraia generosa vende sotto prezzo all’uomo fallito, disperato, della novella Vita (PB [Palio dei buffi]), bellissima tra le belle.
Ma si ricordi quanto, ancora più esplicitamente, scrive Fausto Curi:
Ma non si vada oltre. Giacché Palazzeschi è uno dei pochissimi, se non l’unico, che − pur moderatamente valorizzando lo zaratustriano «senso della
terra», cui il non terricolo Perelà rimane, per parte sua, fedele fino all’ultimo
− non solo respinge senza esitazioni i modelli vulgati di superuomo di cui
pure fruiscono, ciascuno a suo modo, i suoi sodali Marinetti, Papini e Soffici,
ma si mostra del tutto indifferente alle più febbrili e inquietanti suggestioni
esercitate dal modello archetipo, che non lasciano invece affatto indifferenti
non pochi dei finitimi sperimentatori vociani […]. Il codice di Perelà è forse
37
Cfr. FERRATA, Prefazione, cit., rispettivamente pp. XXI, XXII, XXVI. Nel testo del 1914
(«Lacerba», cit., III, n. 4, pp. 28-31) si legge: «Lei à un carattere? Io ne ò due, quattro, otto, sedici,
tutti, ma nessuno come punto di partenza» (p. 29); e si legge altresì: «Si è detto che il mondo
è come un’arancia. Giustissimo. E tu ti contenti di mangiartene uno spicchio? Cucù. A me fa
gola tutta» (p. 31). Ferrata ricorda in tal senso anche lo scritto, assai vicino nel tempo, di poco
precedente, intitolato Varietà, sempre in «Lacerba» del 1914, del 1 gennaio, 1, pp. 5-7.
38
Cfr. LUCIANO DE MARIA, Note ai testi, in PALAZZESCHI, Tutte le novelle, cit., p. 972.
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l’opera più vitalmente nutrita di succhi nietzscheani e insieme meno inquinata di veleni nietzscheani della nostra letteratura39.
Anzi, riferendosi alle prime pagine zarathustriane, il ritiro dalla piazza con il cadavere del funambolo costituirà proprio l’appoggio della metafisica del saltimbanco per un Palazzeschi la cui polemica, «saltimbanchesca» appunto, consisterà
nel «clown Antipoeta, e se preferite Sottopoeta, come antitesi del Superpoeta di
stampo dannunziano»40. Nietzsche provvede Palazzeschi di anticorpi nei riguardi
39
Cfr. CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit., pp. 216-217. Si rammenti la definizione che
differenzia senza equivoco i buffi palazzeschiani dai requisiti di saggezza richiamati da Zarathustra:
«Coraggiosi, noncuranti, beffardi, violenti − così ci vuole la saggezza: che è femmina e sa amare
solo il guerriero» (NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., pp. 40-41; «Spensierati, beffardi e
violenti», nella traduzione di ROMAGNOLI, Casini, cit., p. 394), passo che sembra riecheggiare,
significativamente e non a caso, riguardo alla stessa “saggezza”, un famoso concetto di Machiavelli
(De principatibus, XXV) sulla «fortuna», che ama i giovani, in quanto essi sono «meno respettivi,
più feroci e con più audacia la comandano»: «perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola
tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che
freddamente procedano; e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno
respettivi, più feroci e con più audacia la comandano».
40
Cfr. SANGUINETI, L’incendiario, cit., pp. 53-54. Ma si ricordi pure quanto viene sottolineato
da Tellini, in GINO TELLINI, Rifare il verso. La parodia nella letteratura italiana, Milano, Mondadori
(«Oscar Saggi», 845), 2008, pp. 344-355 (Quando il gioco si fa serio); ne L’interrogatorio della
Contessa Maria, Palazzeschi mostra di essere anche accortissimo fruitore della prosa di Manzoni, in
specie riguardo al colloquio della giovane e vispa Maria con una figura ecclesiastica, l’arcivescovo,
che svolge una funzione del tutto richiamabile a quella del «buon prete» (ma ben scarso
osservatore psicologico) nella conferma della “sincerità” di vocazione di Gertrude; qui, beninteso,
l’atteggiamento ideologico e mentale dello scrittore è ben diverso da quello che vige nelle parodie
dannunziane (ad esempio, La pioggia nel pineto ne La fontana malata), e altresì nelle parodie e
negli sberleffi ortisiani (:riflessi), pucciniani (Chi sono?), verlainiani (L’Art Poétique in E lasciatemi
divertire!), petrarcheschi, leopardiani, carducciani e ancora dannunziani (La piramide), come
dannunziana è la parodia de La passeggiata (che era nel Poema paradisiaco), condotta, quest’ultima,
anche nel ricordo della chiave comica bernesca, e che, come La Buona Tappa, risulta essere rivolta al
motivo del manoscritto ritrovato. L’autore, infatti, nel condurre narrativamente i colloqui di Maria
con il padre e con l’arcivescovo, non può che essere d’accordo con il Manzoni (a cui evidentemente
sta pensando) e con i suoi lettori, che sono contrari al principe-padre, e che invece sono favorevoli
a Gertrude, ipotizzando per lei un diverso svolgimento e un diverso esito del colloquio. Ma è
proprio per questo che Palazzeschi si diverte a rifare comicamente i colloqui, sfruttando, certo,
la ben diversa connotazione, vivacissima, disinibita e reattiva dal punto di vista caratteriale ed
emozionale-pulsivo, che distingue Maria dall’infelice Gertrudina, ma utilizzando in tal senso anche
i tratti fisionomici e comportamentali del vecchio arcivescovo, «virtualmente in appetito» (TELLINI,
Rifare il verso, cit., p. 354) e «dalla mano svelta», salutare comicizzazione d’un ecclesiastico
«grave» e serio, come si trova a essere la figura manzoniana, e del tutto incapace di cogliere lo
sforzo drammatico di Gertrude nel mentire («L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare,
che la sventurata di mentire; e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun
motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio», scrive Manzoni); si veda
il rovesciamento comico che ne effettua Palazzeschi (ivi, p. 353): «E mi frugava colle mani che
parevano radiche di bambù, dentro i capelli, sotto il velino “vecchio merlo impresciuttito” e me lo
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di D’Annunzio; il funambolo è il salvataggio difensivo, en travesti, dal rischio dei
«veri pagliacci», che possono replicare l’agguato mortale sul filo teso dell’acrobazia
e del nulla. E proprio da un centro culturale come Firenze, che insieme accoglie,
in una convivenza ora separata e condotta “in parallelo”, ora invece ravvicinata e
conflittuale, ora − e anzi spesso − intrecciata e intersettiva, sia la fresca eredità della
memoria del Vate, sia la presenza degli intellettuali − e del loro pensiero − dal «Leonardo» a «La Voce», sia, infine, l’andirivieni scenico e cartaceo del Saltimbanco,
proprio da Firenze provengono alcune delle nuove, decisive propulsioni etiche
ed estetiche d’un Novecento italiano che amplierà e rielaborerà originalmente tali
premesse, in una chiave che sarà per parte sua ben autonoma, in larga misura e con
notevole chiarezza, da quella fiorentina. D’Annunzio, Prezzolini, Papini, Soffici,
De Robertis, ma anche − non molto lontano − il cesenate Serra, quindi il nativo
Palazzeschi, e beninteso altri41:
ficcava giù giù, dentro il collo […]. “Già, già piccina mia, tu non la puoi conoscere la grandezza
del tuo male, tu non vi puoi arrivare, sei come il passerino − chiamami passerino − caduto nelle
grinfie del nibbio”, s’erigeva tutto […]. / “Proprio così Eminentissimo” […]. / E mi stringeva
sempre di più, e si faceva tutto fuori della poltrona reggendosi con un braccio al mio collo, e
coll’altro teso pareva inseguire il gatto che gli avesse portato via la carne dalla pentola. “Bisogna…
pregare! Bisogna… cacciare!” E spalancava gli occhi, e puntava la bocca a fischio, il vecchietto
[…]. […] non appena finita la volatina, si ricomponeva sulla poltrona dimenando il culetto, ilare e
sodisfatto, mostrando il suo dentino giallo, acchiappava sulla tavola una tabacchiera che sembrava
un cassettone, e si metteva a tirar su, e che tromba, amico mio, un ciclone dentro il naso». Non
si può che concordare con il commento di Tellini (p. 354): «l’ecclesiastico è deriso, ridicolizzato,
sbeffeggiato attraverso l’occhio e la parola di Maria: un vecchino piccolo e secco, untuosamente
mellifluo, tra l’arzillo e il rimminchionito, con un dentino giallo, ma dalla mano svelta. Mani che
frugano nei capelli della sedicenne peccatrice, che si ficcano sotto il velo, e vanno giù, dentro il collo:
mani vecchie, che parevano radiche di bambù […]. La parodia palazzeschiana aggredisce e rende
grottesca la fisicità del monsignore: vecchio, ma dalla faccia ancora rossa ed allegra, virtualmente in
appetito, pronto a cacciare, con la bocca a fischio, dimenando il culetto, ridente e tabaccoso. Maria lo
tiene a bada ben bene, e lo serve di mille inchini, il vecchio merlo impresciuttito, il quale ha capito,
chissà come?, che lei, passerino e tenerella, non è più una bambina». Il «passerino […] caduto nelle
grinfie del nibbio» ricorda, a sua volta, con un forte rovesciamento ironico, la “caduta” di Lucia
nelle mani del Nibbio (il personaggio de I promessi sposi): qui la tenera e spaurita Lucia diviene la
disinibita Maria, e il «nibbio» è con palese rovesciamento parodico rivestito di abito talare.
41
Cfr. GINO TELLINI, Introduzione. Firenze, una e tante città, in Dal Vate al Saltimbanco.
L’avventura della poesia a Firenze tra «Belle Époque» e avanguardie storiche. Album storico e
iconografico, a cura di ADELE DEI et al., con un saggio introduttivo di GINO TELLINI, Firenze, Olschki
(«Fondazione “Carlo Marchi”. Quaderni», 40), 2008, pp. V-LXVI: qui, p. XVII (l’Introduzione
di Tellini è ripresa in ID., Letteratura a Firenze. Dall’Unità alla Grande Guerra, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura [«Raccolta di Studi e Testi», 255], 2010). Si veda ancora quanto dice lo
stesso Tellini (ivi, p. LV) riguardo al contesto culturale fiorentino nell’àmbito del quale matura
la poetica palazzeschiana dell’ironia e del Saltimbanco: «In quella stessa Firenze, negli anni
medesimi, è anche maturata una poesia che è modello d’ironia, di libertà, di leggerezza, di limpida
chiaroveggenza, di salutare e liberatoria autoironia (moneta da noi di non larga diffusione), di
privata terapia dell’antidolore, come difesa del diverso, del non integrato, dell’escluso. Palazzeschi
sa, con Leopardi, che “Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è
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padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire” (Zibaldone, 4391, 23 settembre 1828); sa,
con Baudelaire, che “la potenza del riso è nel soggetto che ride, e niente affatto nell’oggetto del
riso” [CHARLES BAUDELAIRE, Dell’essenza del riso, in ID., Scritti sull’arte, traduzione di GIUSEPPE
GUGLIELMI e di EZIO RAIMONDI, Prefazione di RAIMONDI, Torino, Einaudi, 1981, p. 145], e ha
imparato presto a sentirsi libero, a scorgere il grottesco dietro la serietà sempre eloquente della
retorica ufficiale. Il Saltimbanco, nel compatto coro belligerante, vociano e futurista e lacerbiano
(ognuno con le sue buone e meno buone ragioni…), si dichiara coraggiosamente antimilitarista
(su “Lacerba” del 1° dicembre 1914) perché difende un’idea serena e disarmata di scrittura,
antieroica e anticelebrativa (rivolta anche a chi soffre “di quell’ignota malattia che si chiama paura”
[Spazzatura, in «Lacerba», 17 gennaio 1915; ora in PALAZZESCHI, Tutti i romanzi, cit., I, p. 1313]). In
pari tempo asseconda una nozione di pratica artistica antiistituzionale, distante da un’immobile,
metafisica intemporalità, e invece esposta alla mobilità, alla mutevolezza, alla deperibilità, alle
intemperie della vita». Sull’importanza di Firenze, in particolare delle figure e dell’opera di
Papini e di Palazzeschi per Ungaretti e per la maturazione della sua poesia, cfr. anche GIORGIO
LUTI, Ungaretti e «les compagnons de route» dell’avanguardia fiorentina, in ID., Firenze corpo 8.
Scrittori, riviste, editori nella Firenze del Novecento, cit., pp. 67-110. Cfr. in tal senso (ivi, p. 92) la
citazione di una lettera del 6 novembre 1915 di Ungaretti a Papini, da Vercelli, citazione alla quale
premettiamo la frase iniziale del periodo: «[i vivi saranno con noi, dopo la guerra]; noi, chi rimarrà
di noi, che con lei, con Soffici, con Palazzeschi, con Jahier e con De Robertis − non avvicino questi
due nomi senza intenzione − con Serra e, in particolare con Prezzolini hanno preparato questa
miglior aria nostra, in Italia». Ancora per Ungaretti, Luti afferma (p. 80) che «senza Palazzeschi
non si sarebbe determinata la sintesi tra ironia e sogno che sembra essere la chiave di volta della
poetica ungarettiana nelle liriche lacerbiane (“L’ironie − dirà nel 1920 in La doctrine de ‘Lacerba’
− sera la science de l’homme guéri des trascendances et des dignités” […])»; e il concetto di Luti
è ulteriormente ribadito alle pp. 98-99: «Sta di fatto che l’opera di Palazzeschi è per Ungaretti
un valico da attraversare. Ma un valico che non si chiude alle spalle. In altre parole, Palazzeschi
rappresentò per lui la mediazione operativa tra umanità e tecnica, tra presente e passato, tra
invenzione e tradizione, in un’epoca di facili rotture e di sbrigativi rifiuti. L’attraversamento e
il superamento del futurismo affidati da Palazzeschi al Controdolore e agli scritti di quegli anni
fu in definitiva la spinta fondamentale necessaria ad Ungaretti per proseguire oltre i risultati di
“Lacerba”. Nell’“uomo di pena” è presente con una rilevanza notevole, anche se costretto al
fondo della coscienza, nei gorghi dell’inconscio, il rifiuto palazzeschiano della grande tragedia che
sconvolge l’Europa». In tal modo lo studioso può ancora sostenere (pp. 100-101) la fondamentale
funzione di “aiuto” che Palazzeschi ha esercitato sull’autore di Allegria di naufragi: «Se il poeta di
“Lacerba”, l’autore del Controdolore, lo aveva aiutato forse più di ogni altro compagno di strada
a scoprire il funzionale rapporto tra mitica evocazione dell’infanzia e ironica consapevolezza della
realtà, lo aveva aiutato − dicevo − a superare il primo difficile impatto con una nuova dimensione
poetica, ora l’autore dei Due imperi stimola l’“uomo di pena” a chiarire fino in fondo le ragioni del
suo disagio esistenziale. L’antibellicismo palazzeschiano rivela ora, senza mezzi termini e senza il
filtro dell’ironia, la propria consistenza umanitaria». Ma pure sul concetto di “leggerezza”, come
su quello di “acrobata”, si trovano non casuali affinità fra Palazzeschi e Ungaretti; basti pensare
a una lettera, dalla zona dell’Isonzo, dell’autore del Porto sepolto a Soffici (GIUSEPPE UNGARETTI,
Lettere a Soffici, Firenze, Sansoni, 1981, p. 7), scritta in terza persona: «Ungaretti zoppicando porta
adagio la sua malinconia in giro […]. Senza adesione e senza meta va il pellegrino dei sogni, come
un’ombra sulla neve che sembra squagliarsi con un fastidio infinito e rimane, povere giornate»
(cfr. GUARAGNELLA, Scritture dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande Guerra, cit.,
p. 173). Sulla Firenze delle riviste cfr. anche, ultimamente, MARINO BIONDI, Un secolo fiorentino.
Politica e cultura dalle riviste degli intellettuali all’ascesa di Matteo Renzi, Arezzo, Helicon, 2015,
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in Firenze, dall’attrito tra queste antitetiche forze in campo, che sono anche antitetiche forme di vita, antitetici modi d’intendere il senso e la serietà della vita,
matura un modo nuovo di pensare e di praticare la poesia: si sviluppa la drammatica, spoglia liricità dell’autoconfessione novecentesca e acquista coscienza
la funzione etica della parola. Di qui il rifiuto del verso come gesto oratorio;
di qui la liquidazione dell’artifex come guida ufficiale, maestro di sensibilità e
modello di civili insegnamenti; di qui la persuasione che l’atto dello scrivere è
esercizio solitario o pubblico sberleffo. Siamo, propriamente, al ribaltamento
del sublime, all’antisublime quale cifra distintiva della modernità.
2.3 Da Africo e Mensola a rue des Moulins e al Controdolore. Buffi, gobbi, monomaniaci, celibi solitari, omosessuali latenti
Quanto si è venuti sinora dicendo appare confermato da un’analisi del montaggio strutturale interno della raccolta. Lo zio e il nipote, ad esempio, è posta in
una collocazione strategica, in questo caso in quella di incipit, anche in Il palio dei
buffi. Come spesso avviene, la posizione delle novelle nell’àmbito d’una raccolta
non è casuale. Le diciotto prove narrative comprese in Il palio dei buffi42, qui conpp. 123-344.
42
Firenze, Vallecchi, 1937. Le novelle de Il palio dei buffi entrano nella mondadoriana edizione
complessiva 1957 con un ordine di dislocazione interamente rinnovato, in un rapporto di calcolata
alternanza con racconti provenienti da altre raccolte; perduta (né questo è necessariamente uno
svantaggio) la coesa identità d’unitaria silloge, il volume del 1937 si scinde e si riassorbe nell’omnia
novellistica ne varietur di vent’anni dopo, e in quest’ultimo caso sarà opportuno considerarlo
inserito in un’identità contestuale del tutto nuova. Il Palio dei buffi viene ripreso nella redazione
originale del ’37 nella citata edizione mondadoriana a cura di Rita Guerricchio. Per le citazioni
testuali dall’edizione 1937, qui direttamente chiamata in causa nell’esame delle novelle, non si
adotterà il rinvio in nota alla pagina considerata ma, per maggiore agilità di riscontro, si indicherà
il numero di pagina nel testo “in alto”, in pieno allineamento alla trattazione. Per la storia critica, e
soprattutto per un progetto di edizione de Il palio dei buffi, cfr., appunto, ENIO BRUSCHI, Progetto
di edizione critica per «Il palio dei buffi» di Aldo Palazzeschi, in «Studi di filologia italiana», LIX
(2001), pp. 167-438. Delle sessantaquattro novelle dell’edizione ’57, quelle del Palio occupano
rispettivamente i nn. 4 (Il punto nero), 7 e 8 (Il ladro e Carburo e Birchio), 14 (La gloria), 17 (Il
gobbo), 19 («Issimo»), 21 e 22 (Amore e Vita), 26 (24 Agosto), 36 (Bistino e il signor Marchese), 40
(Lupo), 42 (Gedeone e la sua Stella), 44 e 45 (Perfezione e Pochini e Tamburini), 47 (Lumachino),
54 (Il ricordo della moglie), 63 e 64 (Il dono e Lo zio e il nipote). Per i criteri di composizione
della raccolta, in particolare per il «ritmo quaternario» di inserimento delle novelle di Bestie del
’900 («ogni quattro novelle riprese da altre raccolte», criterio intercalare rispettato con poche
eccezioni), cfr. il DE MARIA di Note ai testi, cit., pp. 970-972; Palazzeschi dichiara di non avere
rispettato, come in effetti è avvenuto, l’ordine cronologico di uscita dei testi delle varie raccolte, e
di avere quindi dato una «composizione unitaria» al materiale novellistico che così ne è risultato.
Nel paragrafo Architettura, temi e motivi delle novelle: qualche osservazione (ivi, pp. 970-974),
Luciano De Maria individua con cautela tre modi di procedere che l’autore avrebbe, in generale,
adottato dopo avere ricondotto tutti i testi alla propria singola valenza, allineabile in maniera
paritetica a quella di tutti gli altri racconti: l’autore «ha posto idealmente le novelle su un piano
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siderate nella raccolta in sé e nella loro autonoma fenomenologia narrativa nel volume del 1937, sono a nostro parere suddivisibili in tre gruppi, rispettivamente, di
sei, di sette e di cinque: nelle prime sei (Lo zio e il nipote, Carburo e Birchio, Il ladro,
Il gobbo, La gloria, Pochini e Tamburini) la casistica del buffo delinea in prevalenza,
con notevole uso del compendio narrativo, le tappe qualificanti della vicenda degli
eroi, che così chiamiamo per la loro capacità di conservare, anche a costo di gravi
perdite sul piano dell’avere concreto, il proprio innato patrimonio di distintiva
follia o di peculiarità antropologica e psicologica. I protagonisti di queste novelle
seguono coerentemente la propria caratteristica istintuale, o il proprio “progetto”
di esistenza, giungendo fino alla morte vuoi per completezza di tracciato narrativo,
vuoi (è il caso de Il gobbo) per una crudele ritorsione dovuta al proprio stesso comportamento, alla propria stessa tipologia di relazione con l’alterità. Fanno apparente eccezione Carburo e Birchio e Il ladro; ma la prima novella (per dirla con Ferrata)
condensa in un’epifania di alta coesione strutturale due “storie”, emblematiche, a
loro volta, di due vite intere; la seconda si concentra su un singolo episodio che,
mentre fa volatilizzare il personaggio come presenza narrativa, assicura però della
sua sopravvivenza, rilanciandone la possibilità di vita oltre la durata dello stesso
tempo di racconto. Vi è poi un altro gruppo (Il dono, Gedeone e la sua Stella,
Vita, Il punto nero, Amore, Bistino e il signor marchese, Lumachino) di novelle che
tratteggiano intere esistenze, o lunghi percorsi di vita, o episodi determinanti, garantendo ai personaggi la prosecuzione del proprio tragitto vitale, un tragitto che
spesso s’avvale proprio dell’anomalia, della patologia o dell’aspetto bizzarro del
loro carattere e del loro rapporto con il mondo. I protagonisti sono qui studiati
nel loro protratto tentativo, quasi sempre riuscito, di veicolare al massimo grado
la propria peculiarità, ovvero lo scopo pulsionale, l’ansia emotiva della loro vita;
considerazione che vale anche per Il punto nero, racconto in cui la morte non altera
la situazione dei personaggi, ma lascia pienamente in vigore il mistero sull’unica
avventura adulterina del marito. Infine vi sono 24 Agosto, Il ricordo della moglie,
Lupo, La perfezione, «issimo» a riportare al centro della narrazione il destino di
morte o di liquefazione narrativa dei «buffi», se si fa eccezione per Il ricordo della
moglie nella quale, pure, c’è una sorta di “morte relazionale”, scandita dal ridicolo,
per un vedovo in via di risposarsi che solo a prezzo d’una completa liberazione
dalla precedente figura uxoria potrà ragionevolmente affrontare il nuovo rapporto.
Di diverso genere sono i possibili raggruppamenti sulla base di tematiche affini: al
citato “motivo dell’epifania”, presente in Carburo e Birchio, si può unire quello,
per così esprimersi, delle “epifanie protratte”, tali insomma da abbracciare nel giro
d’una singola prova narrativa un intero arco di esistenza (Pochini e Tamburini), o
una parte altamente emblematica di questa (Gedeone e la sua Stella); di fondamentale importanza è il motivo del «palazzo« o della «casa»: se ne veda la declinazione
sincronico per poi ridistribuirle secondo intendimenti d’ordine tematico, o secondo affinità più o
meno interne o esterne, o addirittura secondo uno schema ritmico» (p. 970).
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psicologico-artistica in Il ladro, La gloria, Il dono, Vita (che presenta la versione
bohémienne del motivo), Il punto nero (è la versione piccolo-borghese), Amore,
Bistino e il signor marchese, Lupo (in questi ultimi due casi se ne ha la versione nobiliare, gentilizia, aristocratica; per un ampliamento d’indagine su questa tematica
si veda, in Stampe dell’800, Una casa per me)43. Il carattere solitario, defilato e ombrosamente egoistico di molti scapoli è da parte sua presente nel citato “motivo del
celibe e della domestica”: cfr., nel Palio, Il ladro, La gloria, Il dono, Amore e inoltre,
fuori dalla raccolta, Silenzio, e, in Il buffo integrale, Una lettera d’amore e «Sì!»
all’occhio. Il “motivo degli incontri e dei feelings di origine casuale” è segnato, nel
Palio, da Carburo e Birchio, da Il ladro, da Vita, da Amore e da 24 Agosto (cfr., nel
corpus complessivo delle novelle, Legami ignoti, La porta accanto e La meccanica
dell’amore). Vi è poi il “motivo degli autoregali”: Il dono e Lumachino addirittura si
fonderanno in Una lettera d’amore, in Il buffo integrale. Di ancor più ampio spessore è il “motivo del compenso tragigrottesco e della ricerca del piacere”44, presente
43
Una casa per me mostra, schermati con grande abilità narrativa, segni rivelatori di decisiva
importanza per la personalità di Palazzeschi. Si parla soprattutto del doppio tentativo di evasione:
verso il basso nel tentativo di salto dalla finestra, verso l’alto nell’ascesa sulla scala. Nel primo
caso il personaggio identificato come je narré (si ricordi la distinzione stabilita da Guglielminetti,
riguardo alle Stampe dell’800, fra Je narré e Je narrant, ovvero la distanza spazio-temporale che
irrevocabilmente li separa) è salvato all’ultimo tuffo dalla madre; nel secondo egli è “invocato”
dalle tre donne (madre, nonna e serva) che, alla base della scala, sembrano partecipi d’una sorta
di secolarizzata scena della passione. È evidente che la linea paterna (padre e nonna, figura,
quest’ultima, umanamente fredda e inquietante) non ha un vero rapporto con il bambino narré;
l’importante per lui è la madre, davanti alla quale egli comincia a infliggersi i primi rischi di
autocrocifissione. La «casa» cercata per il figlio, ovvero la dimensione di vita per lui adatta, non
è facilmente trovabile. Quel che preme sottolineare, in ogni caso, è che Palazzeschi dissemina i
suoi percepibili richiami antinaturalistici in tutto il testo: si veda il passo sulla periferia fiorentina
delle Cure (nulla di realmente comune con la Velia cicognaniana), apparentemente descrittiva, ma
con un finale che inaspettatamente (ma non poi troppo) tutta la ridimensiona, in cauda venenum,
sottraendole e il carattere di ἔκφρασις τόπου lirico-patetica e la stessa valenza descrittiva: «Casette
candide, variopinte, rosee o azzurrine, fra orticelli e giardinetti; persiane verdi, tetti rosseggianti
e di corallo, cancellate, muricciuoli, terrazzini; fronde, fiori e frutti; aiole bordate di fragole o
violette, olezzo di cedrina e di menta, tralci di rose espansive che si sporgono dall’uno all’altro
giardino o vi tendono l’occhio curiose; crosciare di cannelle, sgocciolìo d’acque, sbattere e posare
di annaffiatoi; gorgheggi d’uccelli e di fanciulle, urla e risa di bimbi e pianti, e cani che si mischiano
alla loro allegria […]; intrecciarsi d’occhiate e di sorrisi, di saluti, di richiami e conversari intorno a
queste case che sembrano talune di legno o di cartone, fatte apposta per le bambole, che giuocano
e civettano col sole e gli ridono a bocca spalancata come facesse loro il pizzicore, e tutte le possiede;
che il temporale schiaffeggia e scarduffa, e fa rannicchiare ad occhi chiusi trepidanti e silenziose.
Vita che oggi mi fa pensare a un San Francesco dipinto sopra una scatola di confetti». E si noti
anche l’insistenza, e la giocosità e l’ammicco surrealistico dell’opposizione, nel manicheismo
foneticamente litanico di «finestra» (spazio amatissimo; sguardo, pur non oggettivo, sul mondo)
e di «minestra» (detestata brodaglia) (Stampe dell’800, nuova ed., Firenze, Vallecchi, 1938, p. 12;
ora, a cura di ENRICO GHIDETTI, Milano, Mondadori, 2003).
44
Cfr. CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit., p. 226; ora, con il titolo «Buffo», parodia,
utopia, in ID., Parodia e utopia, Napoli, Liguori, 1987, p. 150.
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in Lo zio e il nipote, in Il gobbo, in Il dono e in Lumachino: consapevole e frutto di
programmata regia in Il gobbo e in Il dono, tale motivo è, invece, calato in piena
incarnazione identificativa, senza il distacco della pilotata autoanimazione scenica,
nella vicenda di Luigi nipote e in quella di Lumachino.
L’atteggiamento palazzeschiano nei riguardi dei buffi ha solo alcuni punti in
comune con quello, in grande prevalenza sprezzante verso lo sconfitto, verso il
“gabbato”, verso la naïveté dello “sciocco”, o preteso tale, che è proprio della
maggior parte della tradizione della novellistica toscana di beffa, e che da quest’ultima, per lo più, è in effetti adottato45; la spietatezza del novelliere novecentesco
Palazzeschi, quando si applica, è sì assoluta, ma è anche, e giustappunto per questo
motivo, rigorosamente artistico-narrativa, rappresentativa, “esecutiva”, ed è capace di segretare il proprio intimo fondo dolente (si veda il “trattamento” di Luigi
nipote nella prima novella, e altresì quelli riservati al Mecheri in Il gobbo, agli stessi
Pochini e Tamburini della novella eponima, a Telemaco Bollentini di Il dono, e via
dicendo). L’elemento che più d’altri differenzia Palazzeschi dalla tradizione novellistica è lo scambio che spesso vi avviene, scambio autentico e non formale, fra il
ruolo del «buffo» e quello del “normale”; si tratta, insomma, d’una notevole possibilità osmotica fra la rispettiva essenza e le rispettive sfere d’azione. Non vi è, in Palazzeschi, quella netta e indubitabile demarcazione artistica e spirituale che in tanti
altri novellieri separa beffa agìta e beffa subìta, furberia e sciocchezza, accortezza e
dabbenaggine. Quella di Palazzeschi si configura anche come una proposta, pur se
indiretta e veicolata soltanto dai significati contestuali, di riflessione sull’assurdità,
benché spesso giocosa, della vita e della socialità; ed è altresì, la sua, una proposta
di più profonda e di più problematica considerazione dello straniamento, dell’alienazione, volontaria o involontaria a seconda dei casi, del buffo, dell’anomalo, del
“diverso”, rispetto ad una “media” tutt’altro che ben definibile, e spesso tutt’altro
che rispettabile. È senz’altro vero che la connotazione di un personaggio come
quello − esempio celebre − di Calandrino fa chiaramente intuire (parole di Sapegno) «la grandezza poetica di questa figura», che «sta appunto nella complessità
della sua psicologia, che non ha nulla di statico e non s’adegua mai alla genericità
45
Non ha in tal senso perduto la propria validità, a nostro avviso, la serie di concetti espressi
da Carlo Salinari: «Boccaccio scopre un’altra molla segreta che trasforma il mondo in un’immensa
arena dove s’impegna una lotta feroce: è la molla dell’inganno, per cui il furbo continuamente
trionfa sullo sciocco, si appropria delle sue cose, mortifica la sua personalità, afferma spavaldamente
il suo diritto del più forte […]. Egli non si confonde con una simile materia […]: ma si diverte
e le sue simpatie vanno, senza alcun dubbio, ai furbi che impongono la loro legge. / La crudeltà
boccaccesca, in questo campo, è di una spietatezza atroce: lo sciocco, il beffato è carne da macello,
non ha nessun diritto, può essere profanato nei suoi sentimenti più segreti e profondi […]. /
Un mondo grossolano, primitivo, fermentante di desideri, di astuzie, di calcoli meschini che il
Boccaccio scopre nella realtà e rappresenta nella sua spietatezza e nella sua volgarità ma anche
nella sua prepotente vitalità» (CARLO SALINARI-CARLO RICCI, Storia della letteratura italiana, I-III,
Bari, Laterza, 1972, I, pp. 607-608).
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d’una qualifica astratta», tanto che «anch’egli ha vagheggiato nella mente un suo
proposito ardito, vasto e ingegnoso, l’ha colorito segretamente con i voli assurdi
di una fantasia non imbrigliata dalla ragione, non sorretta dal senso della realtà, e
lo vede d’un tratto crollare e sfasciarsi, né gli rimane, dopo l’ultimo sfogo furente,
se non la squallida rassegnazione dei vinti»; ma resta in vigore, come innegabile
dato, la fondamentale fermezza affabulatoria nel delimitare reciprocamente, quanto meno nell’avvicinamento al focus saliente della trama, gli spicchi di mondo assegnati all’accorto e allo sciocco, al beffatore e al beffato, e quindi nel dicotomizzare,
in definitiva, il tessuto sociale, cittadino o campagnolo che esso sia, fra profittatori
da una parte e, dall’altra, vittime, sia pure vittime predestinate, queste ultime, e
preventivamente esposte a essere oggetto dell’inganno, esposte in qualche modo a
legittimarlo con la loro “attiva” ingenuità, con la loro disarmata credulità e sprovvedutezza, a subirne i colpi talvolta meritati, ad attraversarne i prevedibili effetti; e
soprattutto resta in vigore la ruvida, sostanziale incomunicabilità, se non tramite i
meccanismi e il linguaggio dell’inganno, fra i due mondi, quello dei vinti e quello
dei vittoriosi, e resta altresì in vigore l’asseverativa opzione di campo − da parte del
novelliere − per i beffatori, per i vincitori, ammirati, questi, certo, in nome dell’intelligenza, ma pur sempre, se considerati nei confronti di altri personaggi, irradiatori di sofferenza, spesso a titolo gratuito (e certo qui non sfugge l’alto valore di
quella gratuità ludica che ispira il gusto intelligente della beffa in sé, di quel fattore
d’ingegnosa creatività che di tale beffa è il divertimento preparatorio e poi esecutivo, e altresì il gusto della celebrazione della medesima beffa, della sua mirabile
fenomenologia narrativa). Questa caratteristica segna però, a ben vedere, anche un
netto elemento di differenziazione, e sotto certi aspetti addirittura di opposizione,
fra la novellistica del maestro di sei secoli prima (evocato tramite «Africo e Mensola») e quella di Palazzeschi, in tal senso attestato, quest’ultimo, sul versante d’una
crudeltà narrativa che sulla pagina si fenomenizza come estremizzata, certo, ma in
maniera tale da non chiudersi nella propria irreplicabile secchezza: quasi in ordine
a un superiore e implicito amalgama con una pensosa e pudica solidarietà umana.
Boccaccio, insomma, benché in un’espressione prefatoria di doveroso, inevitabile
omaggio discepolare al protocollo identitario della tradizione toscana («due case
fiorentine […] tanto vicine da potersi vedere dalla finestra», «in città e nell’imminente collina», ovvero la «collina fiesolana»), risulta pur sempre destinatario d’una
pacata e solenne invocazione a maestro («divino maestro d’arte e di vita»)46:
46
La Prefazione è scritta per la citata raccolta novellistica del 1957 (PALAZZESCHI, Tutte le
novelle, cit., p. 966). Ma si pensi al cospicuo precedente costituito dalle Sorelle Materassi e dalla
loro prefazione, Santa Maria a Coverciano, dove la presenza di Boccaccio non si manifesta soltanto
nella conclamata ripresa dell’introduzione alla settima giornata del Decameron, ma anche nei brani
precedenti tale ripresa, nei quali il paesaggio solcato da Africo e Mensola è oggetto di attenzione e
di sottolineatura in misura ancora maggiore di quanto avvenga nella Prefazione a Tutte le novelle:
«La strada maestra che attraversa questi fabbricati formandoci il largo descritto, conduce da
Firenze al Ponte a Mensola e a Settignano, e si chiama la via Settignanese; e l’altra a fianco, più
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Ma quello che mi preme ricordare in questa nota a più importante informazione per il mio lettore, si è che la maggior parte di queste novelle furono scritte in due case fiorentine a pochi chilometri l’una dall’altra, in città
e nell’imminente collina, cosa questa di nessuna importanza se non volesse
il caso che fra queste case tanto vicine da potersi vedere dalla finestra, non
corressero due ruscelletti di estrema modestia idraulica e per la maggior parte
dell’anno vedovi d’acqua, che tutti e due discendono a precipizio dalla collina
fiesolana: l’Africo e il Mensola, e fra i quali si trovava, e forse tutt’oggi si trova,
la casa dove un uomo sei secoli fa forgiando ispiratamente il nostro linguaggio
iniziò la novellistica italiana. Dovere e omaggio verso il divino maestro d’arte
e di vita, per parte dell’ultimo fra i suoi discepoli i quali a sei secoli di distanza seguendone il comandamento, e attraverso le infinite qualità di peste che
affliggono l’umanità in ogni epoca, novellando si danno buon tempo.
Tale pronuncia, in sé impegnativa e davvero non casuale («a sei secoli di distanza
seguendone il comandamento»), allude certo alle ragioni fondamentali dell’ispirazione artistica, alle radici di un genere e di una linea di prosa che hanno attraversato la cultura italiana, alla condivisione d’una comune Stimmung geolinguistica;
ma, pur superando lo status di mera “cornice” novellistico-narrativa, la suddetta
filiazione non per questo appare, a un’attenta analisi, abilitata ad attingere una
condizione di vera coincidenza d’interna ratio novellistica − anche nel caso di quella di «beffa» −, di possibilità d’individuazione di circostanze testuali, tematiche,
estetiche, stilistiche, di fenomenologia di racconto, che attestino una reale “disce-
piccola, tra il convento e la villa, al Salviatino, a Montalto, a Maiano e alle sue cave. La sovrasta un
castello che si chiama Poggio Gherardo […]. E descritta così alla meglio l’ubicazione di questo
villaggio, mi preme dire come esso si trovi fra due ruscelli: l’Africo e il Mensola, che discendono il
primo da Fiesole e da Vincigliata il secondo. Rigagnoli in cui la luna e il sole fanno luccicare appena
un filo d’argento o d’oro nascosto fra l’erbe, ma che nell’ora del temporale divengono rumorosi
all’improvviso, minacciosi, turbolenti: s’infuriano, straripano con l’impeto della gioventù e dopo
un’ora non è più niente, si addormentano proprio come i fanciulli dopo essersi scalmanati e aver
fatto tanto rumore. / Non a caso ho nominato questi due ruscelli e ora ve ne dico il perché. È pregio
di queste colline il ricordare personaggi grandi della storia, principi e re, poeti, scienziati, artisti
nostri e stranieri che le abitarono operandovi, che ci vennero a cercare riposo, ispirazione, oblìo,
forza creatrice, serenità o evasione, rifugio nel passato o vigorìa per l’avvenire, asilo per la gioia
come per il dolore; ma questo campo è tanto vasto che qui lo spazio non ci consente di avanzarci
il piede, dirò soltanto che fra questi due ruscelli pare fosse la casa dove Giovanni Boccaccio visse
il suo Decamerone, o tutto lo sognò e forse ve lo scrisse, non si sa bene; nessuno è in grado di
legittimare quale fu il luogo precisamente, ragione per cui in questa zona case di Boccaccio ve
ne sono parecchie e tengon duro, né si avverte che l’una abbia voglia di mollare di fronte all’altra
e di fronte alle più sicure smentite e alla vaghezza della supposizione. Fanno bene a non cedere,
noi perdoniamo la presunzione e anche la mala fede, hanno ragione di coronare con tale nome le
loro case o ville, come io voglio coronare oggi di esso questo racconto che ai loro piedi si svolge,
con un saluto reverente dell’umile e lontano nepote» (cfr. ALDO PALAZZESCHI, Sorelle Materassi,
Firenze, Vallecchi, 19405, pp. 11-13; se ne veda, ora, l’edizione a cura di FRANCESCA SERRA, Milano,
Mondadori, 2001 [alle pp. V-XXII l’Introduzione della curatrice]).
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sa” del calamus palazzeschiano da quello boccacciano, come invece avviene alla
discesa dei due «ruscelletti […] a precipizio dalla collina fiesolana»; la pronuncia
d’inchino riguardo all’«arte» e alla «vita» senza dubbio reclama per sé l’importanza, decisiva, delle affermazioni d’autoistituzione discepolare, valide, in generale,
per la persona a trecentosessanta gradi, per la persona reale, per l’uomo scrittore
e per la sua “scelta di essere scrittore” (e si tratta in ogni caso − è dato innegabile
− d’una scelta distintiva e determinante); ma non appare altrettanto valida, questa
invocazione di linea discepolare, per l’autore diretto e reale del testo, insomma
per il calamus, appunto, a tu per tu con la pagina, per il novelliere in fase ravvicinata di composizione, seduto una buona volta con la penna in mano: darsi buon
tempo nell’infuriare di stagioni calamitose, pesti varie a scandire ogni epoca, e in
questo caso buona parte del Novecento, discendenza dalla tradizione linguistica e
letteraria toscana, ma contesto del tutto rinnovato; ultimo degli allievi (o «umile e
lontano nepote» nelle Materassi), non nel senso di “gerarchia” di valori estetici, ma
nel senso di grande, innegabile, distanza cronologica e letteraria. Si può in tal senso
alludere alla condivisione d’una Stimmung geolinguistica; ma non si può alludere,
per Boccaccio e per Palazzeschi, alla condivisione d’una Stimmung storica (e non
solo per le ragioni più ovvie, legate alla palese differenza delle rispettive epoche).
Peraltro, la serie di concetti espressi nella mondadoriana edizione ’57 già insisteva, in certi passaggi sin quasi alla lettera, in Santa Maria a Coverciano, breve prosa
prefatoria alle Materassi, e quindi scritta, al più tardi, nel 1934, prima del Palio e
indipendentemente dai buffi, pur se coeva alla composizione delle ultime novelle;
la topografia Africo-Mensola e il paesaggio collinare settignanese attraversano i decenni, e dal ’34 giungono (ristampe delle Sorelle a parte) senza riprese intermedie
fino al 1957, solo con una sintesi del testo, ma secondo la medesima ratio − anche
lessicale − paesaggistica e boccacciana; topografia fiesolano-settignanese e riferimento letterario segnano e intensificano il proprio valore identitario per la prosa di
romanzo come per la ne varietur delle novelle, senza alcuna differenza sostanziale né
formale. La protratta attestazione di debito discepolare nei confronti del Boccaccio
si pone dunque come elemento di comunicazione tra autore e lettori non in prospettiva mirata al Palio o a una singola opera, novellistica, lirica o romanzesca, ma
come una sorta di nobile malleveria letteraria, coerente proprio nella sua polivalenza, e quanto più culturalmente “identitaria”, tanto meno peculiarmente legata ai
buffi; semmai, tale malleveria è legata alla novella e alle novelle in generale, e come
genere letterario, e non a caso nel ’57 l’autore non ha altro che riprendere, in forma più accorciata e addensata, ciò che aveva detto almeno ventitre anni prima, già
allora per la prosa, in quel caso prosa di romanzo. Sull’assoluta liaison parentale fra
il brano delle Materassi e il brano di Tutte le novelle basti dire che ambedue i testi,
introdotti da un «mi preme» («mi preme dire» / «quello che mi preme ricordare»),
si soffermano su una posizione intermedia delle case di Santa Maria a Coverciano
fra i due ruscelli, o, viceversa, sullo scorrere di questi ultimi, intermedio, in questo
caso, rispetto alle abitazioni fiorentine dell’autore; dell’Africo e del Mensola vie129
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ne ricordato il capriccioso e discontinuo regime idrografico, in un paesaggio che
avvolge la probabile casa del Boccaccio, meglio se rivendicata da più parti con
amorosa impostura − a dimostrazione ctonia d’affettuoso orgoglio geoculturale.
Si è approdati, nel frattempo, al Novecento, e si è approdati, non lo si dimentichi, al Controdolore. Quest’ultimo Manifesto futurista contiene e agglutina
il nucleo, in séguito variamente ripensato e coltivato, e variamente sviluppato, del
riso, dello sghignazzo, dello sberleffo palazzeschiani, nel loro salutare valore di oltraggio alla seriosità, al moralismo, al perbenismo borghese, al cielo costantemente nuvoloso, o avvertito come tale, del sentimentalismo romantico, all’arte quale
espressione mimetico-plagiaria di sentimenti che personaggi e trame avrebbero già
di per sé scoperchiato (Amleto, Otello, Lear, Oreste, la Gautier, Osvaldo; né manca, in tale senso e in tale contesto, di sagomarsi nel pensiero dell’autore il profilo di
Nietzsche); il nucleo memorabile costituito dal Controdolore si sdipanerà, appunto, nella lirica e nel racconto, se non anche nella prosa di romanzo di Palazzeschi,
e, nella sua natura e nella sua funzione di dominante tecnica del riso e dell’ironia,
del buffo e dello sghignazzo impertinente, incontrerà una sua storia che le diverse
fasi e le diverse vicende storico-letterarie dell’autore articoleranno, e dettaglieranno secondo una diacronia di peculiari stazioni artistiche. Dalla risata pura e deflagrante, alla smorfia derisoria, al divertimento cifrato sulla ludicità, per giungere
all’arguzia non soltanto venata, ma addirittura nutrita di una profonda amarezza,
come avviene nel caso del Palio dei buffi, opera che non certo a caso, e non certo
senza motivo, sarà giudicata da Marino Moretti «un libro fortemente drammatico,
anzi tragico»; già nello stesso lacerbiano Manifesto futurista, il 15 gennaio 191447,
e dunque già all’epoca di lancio della nota-nucleo, della “dominante tecnica” del
riso palazzeschiano, l’allora sodale di Papini e di Soffici aveva precisato: «Non si
può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano». E benché il dolore incarni un termine e una condizione universali, appare alquanto ardua una sua indiscriminata distribuzione fra il progettatore-autore della
beffa da un lato, e, dall’altro, il suo soggetto passivo, poiché è quest’ultimo, a pena
di sin troppo manifesta contraddizione, ad attraversare peculiarmente lo status
della beffa stessa, e ad attraversarne altresì la realtà, la sconfitta, l’irrisa sofferenza,
il dileggio circostante e lo scorno. Proprio in questo punto fondamentale risiede la
differenza che potremmo definire decisiva tra la beffa boccacciana e un buffo palazzeschiano che muove in realtà da presupposti ideali e scrittorii che sin da princi-
47
ALDO PALAZZESCHI, Il controdolore. Manifesto futurista, in «Lacerba», II (15 gennaio 1914),
2, pp. 17-21, qui p. 19. Si opta, qui, per la ripresa testuale dalla realtà grafica del numero di
rivista del 1914, senza minimamente ignorare, con questo, la necessità, in prospettiva filologica, di
riferirsi all’Antidolore, successiva e più integralmente palazzeschiana redazione del testo, priva di
probabili interferenze marinettiane. Ma non appare illecito, in questa specifica sede, restituire quel
quid di mistione collaborativo-redazionale che cala e riconduce nello spirito d’epoca che produsse
quel testo e che lo fece uscire nella sua irripetibile inarcatura di contemporaneità militante.
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pio si diversificano dal modello evocato dal paesaggio declive Africo-Mensola; per
superare il dolore («Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro
il dolore, più egli sarà un uomo profondo»)48 occorre la conoscenza, occorre − in
quanto imprescindibile − la considerazione del dolore stesso; e il riso, come l’essenza del buffo, come anche l’ironia quando ne è il caso, nascono in Palazzeschi
(e solo per conseguenza emergono) intimamente compenetrati, amalgamati con il
dolore in una fusione indissolubile: fusione di arguzia e di dramma, di sorriso e di
tragedia. Nel Boccaccio, al di là della componente − pure fondamentale − rappresentata dall’intrattenimento, dal “darsi buon tempo” a rasserenamento e a salvataggio dai costumi imbestiati, e rappresentata altresì dalla giocosità autosufficiente,
vi è quello che non può esservi nel novelliere del Novecento: la rivalsa della vitalità,
della naturalità ingiustamente soffocata o imprigionata, il recupero del respiro laicamente libero da parte d’una fisicità molto spesso mortificata da leggi, da norme,
da regole spirituali, da divieti derivanti, ed espressi, da un’etica religiosa astensivorinunciataria − punitiva riguardo alle esigenze della corporeità, e insieme interessata ai propri profitti. Nella “corona” del nostro Trecento le vittorie della corporeità
non rappresentano una “valenza liberatoria”: esse, a ben maggior compenso, sono
invece, e attivamente costituiscono, una liberazione già in atto, già realizzata dalla
trama e addirittura moltiplicata per la varia lectio novellistica delle vicende, giornata per giornata. Non si tratta dello sberleffo, o della faccia clownesca, pur salutari,
o di un percorso da effettuarsi tramite il sacrificio di molte categorie del proprio
curriculum biologico-vitale; si tratta di reali vittorie, architettate, meditate nei particolari e nei dettagli esecutivi, e infine conseguite e talvolta commentate in chiave
generale dal giovane novellatore di turno; in tal senso si può parlare, nel Boccaccio,
di Dom Felice e di Donna Isabetta, del Zima, di Madonna Filippa, di Federigo
Pegolotti e di Monna Tessa, di Giannello Scrignario e di Peronella napoletana, di
Ghita beffatrice di Tofano, e beninteso di altri e ancor più celebrati personaggi;
si tratta, insomma, di valori attivi, che dal Medioevo dei mercanti si vanno codificando e rivendicando in valori preumanistici, o risolutamente umanistici: l’amore,
i diritti delle donne, l’intelligenza pianificatrice, l’intelligenza ingegnosamente ludica. Non può esservi, perciò, alcun fiancheggiamento, neppure il più pensoso e
indiretto, di un Tofano: villan matto, «dopo danno fé patto»; e neanche a questo
giunge il «malinconoso» Calandrino. Il beffato, sia egli tale per sprovvedutezza di
condotte o per grossezza e per bestialità connaturate e originarie, è sconfitto da un
beffatore, ludico o interessato, che incarna una personificazione attiva, assertiva
dei valori della vita, della natura, dell’intelligenza. E il dolore è semmai − per addurre un esempio − nella lunga protrazione di certi ménage matrimoniali, di certe
tacite sofferenze delle donne, trascurate e insieme ingiustamente “piantonate” da
improvvidi mariti assurdamente gelosi. Nella novella boccacciana il buffo perde
Ibidem (riproduciamo lo stile in grassetto, come appare, selettivamente usato, nel testo
originale della rivista; e così per altri successivi brani del Manifesto futurista lacerbiano).
48
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quasi sempre, e si può affermare che abbia sempre torto, come Tofano, come il marito che Peronella cornifica con Giannello Scrignario a pochissimi centimetri dalla
bocca del «doglio». Gli amanti, spesso arzilli personaggi religiosi, non sono i buffi,
come, in altro senso, non lo sono Bruno e Buffalmacco (chi possiede l’ironia non
è buffo, come non lo è il beffatore); anzi, essi sono i personaggi che costruiscono
attivamente una loro trama, in cui l’azione trasgressiva recupera almeno in parte
una situazione di naturale normalità.
In Palazzeschi il meccanismo, e la stessa spartizione di ruoli nella novella, non
possono risultare uguali a quelli della prosa boccacciana; il «buffo» palazzeschiano
è, quasi sempre, assai meno “colpevole”, o assai meno meritevole di “punizione”,
di ritorsione umana e narrativa rispetto al “buffo” in Boccaccio, costantemente malaccorto, quest’ultimo “buffo”, e votato a subire l’inganno. A una suddivisione di
territori narrativi molto meno netta, cui già si è accennato, fra essenza del buffo ed
essenza della normalità, fa da riscontro nell’autore del Novecento una connotazione, un’indole narrativa, e insomma una ben diversa prosopografia dei protagonisti
“buffi”; il “buffo” palazzeschiano è in prevalenza un disagiato, ma non è “bestia”
come, ad esempio, lo sono tanti mariti del Decameron (si pensi a Puccio gabbato da
Dom Felice, e ad altri); e molto spesso non è affatto disagiato per propria sensibile
colpa (basti pensare a Carburo e Birchio). Nella varietà di trame e di vicende che la
prosa di Palazzeschi è in grado di offrire, il personaggio buffo è anzi ricco di notevoli tratti di umanità, di seduzione accomunante con un lettore che non è detto sia
così felice e così vincente. E tale personaggio è spesso segnato (perchè non dirlo?)
da una singolare sfortuna biologica, o di storia biografica49. Non resta che ridere,
certamente; ma spesso non di lui. In Il punto nero è il coro spettegolante del vicinato ad attirare la risata; in «issimo» lo è − con criptata ironia storica − la tendenza mediatica enfatizzante riguardo a ogni notizia (regnanti, campionati mondiali,
record di ogni tipo, grandiosità varie, ostentati trionfalismi, muscolare iattanza di
vittorie negli agoni di natura o della storia); Carburo e Birchio, i due fiaccherai,
hanno la statura di due clown popolari che la pioggia notturna fa rifugiare in una
carrozza, mentre il protagonista di Lupo è in realtà, e in definitiva, un dispersore
di patrimonio, attività che lo trasforma, dalla prima connotazione, in un clamoroso
antipredatore; in Perfezione l’angelico protagonista Chicco è il buffo ufficiale, ma
la risata, e in questo caso l’amara ironia (alternativa a eventuale ammirazione per il
rampante felix, e per il suo ceto d’arrivo), bersaglia in realtà la sciagurata compagnia di “amici” che gli consuma moltissimo denaro, che non rinuncia neppure a un
minuto dei festeggiamenti di Capodanno e che ottiene infine il premio ereditario
di una ricca serie di donativi. Non resta che ridere della sfortuna, per il personaggio: il buffo di Palazzeschi non necèssita di riso professato in plateale escussione,
49
Rita Guerricchio, a questo proposito, nella citata edizione 2002 del Palio dei buffi (p. XII),
ricorda l’«iperbole fisiognomica» che espone i buffi a un difficile rapporto con il mondo, e che fa
pensare al «bachtiniano principio corporeo del grottesco».
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poiché egli ha il riso e l’ironia insiti nel proprio comportamento, e li certifica dimostrandoli nell’atto stesso di tenace, o di ostinata fedeltà a se stesso e alla propria
caratteristica, al proprio identificativo disagio, alla propria ferita che non è mortale
perchè essa è, anzi, la sua vita, ed è ferita che non anela ad alcuna terapia, ad alcun
remedium, perché la fine − non auspicabile − del vulnus è insieme la fine del personaggio stesso, che solo per quel vulnus può esistere. Ma non resta che ridere della
sfortuna anche per l’autore, e per il lettore; se si parte da quest’ultimo, la risata
viene per lui a sancire l’ineluttabilità ironica della vicenda, viene ad accompagnare
l’alta leggerezza di stile con cui è affabulata la trama e ad accompagnare, altresì,
la gradevolezza dolceamara dell’aroma di queste pagine e di questi personaggi cui
la stessa leggerezza e la bizzarria, o l’anomalia di comportamento, conferiscono
fumo di dissolvibilità, fluida possibilità di volatilizzarsi, e insieme caparbietà perseverante nell’inevitabile aderenza, sin dove possibile, al proprio tracciato di vita.
E l’autore, a sua volta, nel riso che accompagna la sfortuna o la sventura, nel riso
che subentra, sostituendoli, alla possibile espressione di dolore, al compianto o
al lamento, è impegnato in un’articolata e “stratificata” opera di aggiornamento
del Controdolore nella proposta di un campionario di bizzarrie che richiamano, in
realtà, un ben delicato esercizio di assegnazione attribuzionistica. La necessità, e
addirittura la superiorità del riso e della risata, in un’epoca ormai molto lontana
− anche nell’atmosfera ideologica e artistica − dalla “vampa” storico-estetica del
Controdolore, si esprime in una cifra di scrittura conformata e aggiornata a personaggi e vicende novellistiche, e filtrata in un’esecuzione narrativa adeguata al loro
calibro umano e sociale, senza per questo tradire i concetti ispirativi fondamentali
derivati dalle antiche origini lacerbiane. Proprio, ed esattamente, nella sostanziale
solitudine di pagina in cui vengono lasciati i buffi, i disagiati, a contatto con una
società non meno malata e anzi ben più infida e asociale, e ridicola nella sua armata
mediocrità, non è fuor di luogo ravvisare un ammicco umano (e autobiografico) di
“pietas oggettiva”, di tacita solidarietà d’autore, sorridente appunto perché amara50; una pietas, si badi bene, che non è affatto da lacrymae rerum, bensì, contrario
50
Si ricordi quanto scrive di se stesso Palazzeschi in Malinconia, una Spazzatura di «Lacerba»
(17 gennaio 1915): «Quando madre natura mi sfornò credo altro non abbia voluto fare che una
dichiarazione di guerra a una fila di cose. Io mi sono sempre, o quasi sempre sentito solo contro
tutti; in guerra con tutti e con me stesso». Così, fin dalla poesia Chi sono?, si rende evidente in
Palazzeschi la volontà di «introdurre e presentare al lettore il poema inedito e unitario di una
drammatica avventura poetica, la storia di una “giovinezza turbata e quasi disperata” (la scoperta
traumatica dell’omosessualità), che in un preciso spazio di tempo reale (coincidente con il tempo
artistico del romanzo :riflessi, 1908) si risolse in “allegria”, “come per miracolo, come per virtù di
un incantesimo del quale non saprei io stesso spiegare il mistero (approfondita conoscenza della
vita, degli altri e di me stesso?)” (ALDO PALAZZESCHI, Premessa, in ID., Opere giovanili, Milano,
Mondadori, 1958, pp. 2-3)» (cfr. SIMONE MAGHERINI, Il Saltimbanco, in Dal Vate al Saltimbanco.
L’avventura della poesia a Firenze tra «Belle Époque» e avanguardie storiche, a cura di DEI et al.,
cit., p. 182). Si legga, quindi, quanto ha scritto GINO TELLINI, in ID., Sul comico palazzeschiano,
in Palazzeschi e i territori del comico, a cura di MATILDE DILLON WANKE e GINO TELLINI, Firenze,
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in origine ma coincidente nel suono di pagina, da risus rerum, da riso delle cose e
della realtà, o da esse derivante; se si vuole, da “sorriso delle cose”, una pietas che
scaturisce dalla fenomenologia narrativa del racconto: tale “pietas oggettiva” codifica la mobile declinazione storica del Controdolore proprio quando ne convalida
creativamente i principi irrinunciabili e basilari.
Non sembra quindi il caso di evocare la banalità di un riso di condanna, o
anche di semplice accusa in istruttoria, con un imputato già ritenuto colpevole
prima ancora dello svolgersi del dibattimento (è, questo, un procedimento da illogica causa giudiziaria “reale” − con profluvio d’esempi −, ma non da processo
artistico): la «sbarra» nominata riguardo al “palio” è il fulcro di una rassegna arti-
Società Editrice Fiorentina, 2006, pp. 9-28, qui p. 10: un «dramma (un vero e proprio “trauma”)
non soltanto di matrice generazionale e intellettuale, bensì di genesi anche biografica»; un trauma,
dunque, è alla base di un «divertimento», di una conversione al riso che presuppongono molta
sofferenza, e che hanno nel proprio retroterra quelli che realmente si possono definire come
“scherzi seri”, con la poesia adoperata come “lente d’ingrandimento” del cuore per gli infidi
lettori. E lo stesso manifesto costituito dal Controdolore non si limita certo a funzionare nella
mera chiave giovanile, dato che lo scrittore lo identifica quale fondamento di «tutta la […]
carriera di scrittore tragicomico» (corsivi nostri), come Palazzeschi dirà a Maria Luisa Belleli: «quel
manifesto del Controdolore è alla base del mio spirito e annuncia quella che sarà tutta la mia
carriera di scrittore tragicomico cioè la mia conquista, quanto di più personale ci possa essere
nella sua rozza primitività» (cfr. Aldo Palazzeschi a Maria Luisa Belleli, Venezia, 4 settembre 1970,
in Sotto il magico orologio. Aldo Palazzeschi − Maria Luisa Belleli. Carteggio 1935-1970, a cura di
EMERICO GIACHERY, Lecce, Manni, 1987, pp. 129-130). Pur rimanendo vero che questi concetti
si riferiscono elettivamente alla produzione in versi, non appare davvero impossibile, tenuto
conto della variazione di genere espressivo, rintracciare alcuni elementi in comune con la stessa
produzione in prosa; se già l’isolamento di un tempo, il “ritiro” nel castello avevano prodotto
il duplice, complementare effetto di esposizione al giudizio di follia nella comune opinione, e
insieme di svelamento del cuore dal focus privilegiato della “lente d’ingrandimento”, questa
operazione non certo indolore (cfr. MAGHERINI, Il Saltimbanco, cit., p. 182) investe, come in parte
si è visto, tutta la figura del Saltimbanco, non soltanto quella − di esplicito richiamo − del “poeta”;
e la investe, appunto, anche nei canali espressivi dove la stessa fenomenologia del “genere” rende
la scrittura più criptata e indirettamente sottile, più articolata e più ripartitamente diffusa, meno
immediatamente vibratile nella sua individuabile semantica lessicale. Non sono mai alieni da
Palazzeschi insomma, una pudica, segreta ricerca, e si dica pure un personale, appartato, celato
desiderio di una corrispondenza, sia pure solo intellettuale e spirituale, con altre anime, un desiderio
di comprensione umana, tanto più intenso e tanto più forte, quanto più rattenuto nel fondo del
cuore, appunto, e negli abissi della propria scrittura creativa: «La figura del poeta-saltimbanco,
oltre a collegarsi biograficamente con la reale esperienza teatrale di Palazzeschi, è anche connessa
all’immagine di un moderno homo viator alla ricerca della felicità, o novello Diogene alla ricerca
di se stesso […]. Il continuo girovagare e le mille performances a cui il saltimbanco si sottopone
esprimono in pieno questa tensione espressiva e conoscitiva […]. Nella lente d’ingrandimento,
puntata sul “core” del poeta “per farlo vedere alla gente”, si nasconde così il segreto amaro del
“saltimbanco”, la sua vocazione di “scrittore tragicomico”. La “piccola arte” di Palazzeschi nasce
dal ‘di-vertimento’ del suo “core”, un’operazione apparentemente evasiva e indolore, ma che
il poeta esercita coraggiosamente sulla poesia per un inconfessato e segreto bisogno di trovare
qualcuno o qualcosa capace di comprenderlo e di capirlo» (ivi, p. 183).
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stica, è il momentaneo focus del personaggio come centro della scena, è l’“iniziale”
punto di riferimento e di convergenza delle luci dei riflettori del teatro narrativo,
ad alimento di libertà artistica e compositiva, a stimolo di escussione della voce
di racconto, per illuminare una vicenda che da lì si sdipana nel suo stesso farsi
e nel suo svolgimento, e che da quel centro si apre nel suo flusso espositivo e si
rende disponibile non a un inchiodamento a una reità, ma anzi a una plurimità di
visioni, di ipotesi interpretative e di dubbi pensosi, di possibilità di rimettere in
discussione valori e assetti morali e psicologici che mai potrebbero essere “sicuri”,
come in effetti la stessa natura del buffo legittima e addirittura richiede; da quel
“centro” il racconto ben presto si diparte per guadagnare altre sponde della vita
e dell’essenza del personaggio e di altri personaggi o figure, e lo sviluppo della
trama ha come direzione il “fuori centro”, una direzione che va esattamente, ripetutamente, e − nel sermo forensis − con ampia facoltà di prova, lontano appunto
da quel nucleo iniziale, lontano da quella sbarra di prima convocazione e di prima
escussione; proprio lì risiedono la dotazione, la risorsa narrativa della novellistica
dei “buffi”, la dinamica e originale collocazione di un “fuori centro” che significa
la presenza dell’ironia, e che significa − non necessariamente sul piano della fabula,
ma certo sul piano dell’intreccio testuale − un’allure deviante verso l’imprevedibilità e la contraddittorietà51, verso una Verzerrung da distorsione ottica, verso uno
«strabismo» che insieme implica e presuppone una direzione di sguardo divaricata
rispetto all’apparente “realismo”, e spesso persino all’apparente “ottocentismo”,
iniziali52. Davvero non si tratta di una “sbarra” quale rendez-vous con un magistra-
Cfr. l’Introduzione della GUERRICCHIO (ivi, p. XV), che sottolinea proprio i termini di
imprevedibilità e di contraddittorietà, in relazione a un articolo-recensione dedicato a Palazzeschi
da Giacomo Debenedetti (vd. oltre).
52
Un contributo di Giacomo Debenedetti (vd. nota precedente), appunto, giudicato «un
articolo molto fine, anzi finissimo» da un Palazzeschi fresco autore del volume del Palio dei buffi
(in una lettera del 1937 a Enrico Vallecchi, Firenze, Gabinetto Vieusseux, Fondo Vallecchi), indica
magistralmente la risorsa narrativa costituita dal suddetto «strabismo», dalla distorsione ottica,
dall’angolo di deviazione oculare − rispetto al “centro” − dello sguardo d’autore riguardo ai buffi
e alle loro vicende (se ne veda anche la calzante ripresa che ne effettua la GUERRICCHIO nella citata
Introduzione, p. XV); premessa a tale pronuncia critica sono i versi cantilenanti con cui Ardengo
Soffici rievocava la compagnia di Palazzeschi («Palazzeschi, eravamo tre / noi due e l’amica ironia»),
un Ardengo Soffici (cfr. GUERRICCHIO, Introduzione, cit., p. XVI) «che era stato il più eminente
messaggero di un’aria di Parigi in cui coinvolgere la migliore intellighenzia dell’avant guerre, oltre
a essere consonante e non comune lettore del Palazzeschi “straordinario”»; si veda dunque il testo
di Debenedetti: «Se la narrativa tradizionale, per intenderci: ottocentesca, mirava tipicamente a
“far centro nel centro”, questa di Palazzeschi pare invece che metta il suo punto d’onore nel fare
centro fuori del centro. Creato un personaggio con tutti i suoi connotati regolamentari […] al
personaggio fa capitare qualche cosa a cui questi era impreparato, che la sua linea e il suo sviluppo
non presupponevano. Lo colpisce, ripetiamo, in un punto inatteso, imprevedibile, scentrato: con
un’arma infallibile e silenziosa, e non senza prima avere ammiccato a quella presenza che fa da
terza nel trio “Palazzeschi, eravamo tre”»; «nello sguardo medesimo che l’artista ha tenuto sulle
cose che narrava, par quasi di constatare uno strano inquietante strabismo: come se un occhio
51
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to: sarebbe far torto al pubblico ministero, che non ha il compito di affabulare
una vicenda di buffo, nel suo fascino, nella sua creatività e nelle sue ipotesi, bensì
quello, ben più oscuro e ben più ingrato, più mentalmente limitato, e forzatamente angusto e ristretto, e talora mediocre, di sopprimere e di schiacciare gli stessi
dubbi e le stesse ipotesi di innocenza53, e di controaffabulare una storia che si deve
appiattire sul calco dell’impianto di tesi accusatoria.
Non appare bizzarro e peregrino, dunque, riprendere in posizione estetica
e letteraria vicina al Palio qualche pronuncia significativa del Controdolore, se si
pensa appunto all’opera artistica palazzeschiana come declinazione storica del Manifesto lacerbiano, come acquisizione e come complesso arricchimento − e sensibile modifica −, nel tempo, del concetto di risus rerum e di “pietas oggettiva”,
sul fondamento e sulla linea di quella fiammeggiante prosa di ostensione critica
e polemica che inarca le stesse pagine di «Lacerba» al rango di dichiarazione di
poetica di esordio del Novecento, di “nota” iniziale della drammatica sinfonia del
“secolo breve”:
Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui attualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente
che quando ride.
Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente appena ne sentano la necessità, all’abitudine
di approfondire tutti i fantasmi, tutte le apparenze funebri e dolorose della
loro infanzia, alla capacità di servirsene per la loro gioia. / Per esercitare que-
fosse stato sempre leggermente divaricato verso il punto in cui la trama si incrinerà, in cui dovrà
prodursi il ribaltamento, il mutamento di “piano”: in cui qualcuno o qualche cosa − “Palazzeschi
eravamo tre” − creerà il conto che non torna, la deduzione che si sottrae a tutte le verifiche» (cfr.
GIACOMO DEBENEDETTI, Racconti di Palazzeschi, in «Meridiano di Roma», 24 gennaio 1937; ora,
con il titolo Il Palio di Palazzeschi, in ID., Saggi critici. Seconda serie, con Introduzione di WALTER
PEDULLÀ, Venezia, Marsilio, 1990, p. 111). Cfr. anche TELLINI, L’officina dello scrittore, cit., p. 31:
«non lo attrae la linea retta ma la linea curva, lo affascinano lo strabismo, il tratto irregolare. Il bello
ha un limite, ma il deforme è infinito, si trova nel lacerbiano Il controdolore» (Tellini qui ricorda
Varietà, in «Lacerba», III, 1, 3 gennaio 1915, p. 5; poi, con varianti, in ALDO PALAZZESCHI, Scherzi di
gioventù, con un ritratto di ALBERTO MAGNELLI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 49). E «io adoro
le cose torte» è il significativo concetto che lo scrittore esprime l’11 agosto 1961 a Valentino Brosio
(VALENTINO BROSIO, Ritratto segreto di Aldo Palazzeschi, Torino, Piazza, 1985, p. 158); nello stesso
modo, lo scrittore ha detto: «Tutti i difetti mi interessano e mi incuriosiscono in maniera molto
viva» (cfr. ENRICO RODA, 32 domande ad Aldo Palazzeschi, in «Tempo» − Settimanale illustrato, 10
maggio 1956).
53
Si pensi, variamente, in mera chiave elencativa e senza ampliare i possibili spunti del
discorso, e per limitarsi alla sola Italia, ai casi di Pietro Valpreda, di Giuseppe Pinelli, di Enzo
Tortora, di Adriano Sofri. Ricordiamo, a solo titolo d’esempio, l’agile volume dello storico CARLO
GINZBURG, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, Einaudi («Gli
struzzi», 408), 1991.
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sto spirito di esplorazione nel dolore umano, fino dai primi anni li sottoporremo a prove facili. Gli forniremo giuocattoli educativi, fantocci gobbi, ciechi,
cancrenosi, sciancati, etici, sifilitici, che meccanicamente piangano gridino si
lamentino, vengano assaliti da epilessia, peste, colera, emorragie, emorroidi,
scoli, follia, svengano rantolino muoiano. Poi la loro maestra sarà idropica,
malata di elefantiasi, oppure secca secca, lunga, con collo di giraffa. Le due
saranno alternate all’insaputa della scolaresca, messe vicine, fatte piangere,
fatte tirarsi i capelli, i pizzicotti, dire ohi! ohi! in tutti i toni possibili e immaginabili, nelle maniere più desolanti. / Un maestro piccolino piccolino, gobbo,
rachitico, ed uno gigantesco dalla faccia impubere, dalla voce esilissima, e dal
pianto come un filo di vetro. Un altro lo bastonerà, o lo rimprovererà con
voce cavernosa, mentre il gobbettino gli farà il pizzicorino dietro i ginocchi.
I varii tipi messi insieme, alternati, fatti piangere, rincorrere, dire ohi! ohi! in
tutti i toni, fatti morire54.
Il signor maestro, a sua volta, candidato (non metaforico) a un premio d’incentivazione professionale, «avrà sopra il cranio lucido un enorme bitorzolo in mezzo,
roseo lucente grosso come una mela, bubboni e foruncoli geniali, bendaggi»,
e fisserà gli alunni, e girerà per la classe serio, o irato, o malinconico, nostalgico, romantico, stupidamente innamorato della maestra idropica, o non corrisposto dalla giraffa. Sarà zoppo, guercio, marcio, sciancato. A seconda delle
loro più o meno intense qualità naturali saranno questi insegnanti retribuiti55.
La funzione didattica, pedagogico-magistrale, è nella condizione di richiedere non
solo una serie di riflessioni preparatorie, ma un tesoro di talenti peculiari da verificarsi sul campo e nella pratica attuativa, in vista dell’auspicato riconoscimento
elogiativo dei superiori:
Per abituare i loro alunni a ridere sinceramente di tutte le cose dette serie
dovranno certo possedere specialissime attitudini, intelligenza pratica delle
giovani coscienze, dei giovani cervelli […]. Lunghe sapienti lezioni di boccacce, di pianti i più svariati, di tutti possibili lamenti. Si faranno nel cortile
della scuola falsi funerali: le bare verranno, dopo l’estrema benedizione del
cadavere, scoperte e trovate piene di dolciumi o di figurine per i più piccoli,
o partiranno da esse centinaia di topolini prima bianchi poi grigi poi neri,
o il cadavere sarà di pasta frolla per i più grandi, di cioccolata per i piccoli,
ed essi se ne contenderanno allegramente le membra. O si alzerà in aria terribile, o all’alzarsi del coperchio il suo naso si eleverà oltre due metri sulla
sua faccia per i più grandi ancora. / I tardivi, quelli predisposti irrimediabilmente alla malinconia, incapaci di addentrarsi un solo millimetro nell’in-
54
55
PALAZZESCHI, Il controdolore, cit., rispettivamente pp. 18 e 19.
Ivi, p. 19.
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terno delle cose, quelli che ridono poco e male, gli imbecilli insomma delle
nuove generazioni verranno prima curati con amore, con lezioni private,
con ogni possibile mezzo per sviluppare ogni loro possibilità, verranno poi
espulsi, messi in appositi ricoveri, dove cresceranno e vivranno i poveri
infelici serii […]. Combattiamo dunque una educazione falsa e sbagliata,
il rispetto umano, la compostezza, la linea, la bellezza, la giovinezza, la ricchezza, la libertà! Cioè approfondiamo queste cose e troviamo in esse la
loro ultima sostanza, il vero56.
Non sono dunque i giovani che si rivelano capaci di riso e di ironia, ma sono proprio «i poveri infelici serii», nella “buona scuola” palazzeschiana, a necessitare (nel
linguaggio burocratico conservatosi in successive edizioni della “buona scuola”)
di piani educativi predisposti e di strategie di risposta a bisogni educativi speciali.
Ma la “dottrina” del Controdolore si estende, sino ad alludervi in una prospezione
di più vasta risonanza contestuale e di più frizzante vibratilità culturale, a tutte le
età della persona e della sua vita; e non mancano, quindi, nell’indirizzo di “buona
educazione” palazzeschiano, significativi prolegomeni di generale pedagogia a destinazione genitoriale o familiare-coniugale:
Pensate alla felicità di vedervi crescere attorno tanti piccoli gobbettini, orbiciattoli, nanerelli, zoppuncoli, esploratori divini di gioia. Invece di far
mettere la parrucca alla vostra compagna, se non è calva del tutto voi la
farete radere fino alla lucidità, e fatele imbottire la schiena se non è proprio
gobba. / Sganasciata sia la mobilia della vostra casa; sedie, letti, tavolini che
cadono, che si rovesciano, che s’infrangono. Quando le vostre scarpe sono
nuove pensatele e vedetele vecchie e rotte, per carità non cercate di vederle
in buono stato quando saranno sfasciate, vi sarete perduti. / Sganasciate,
sdrucite mentalmente il mobilio della vostra casa, rompete mentalmente le
vostre scarpe, i vostri abiti. Prevedete fra i vostri figli un gobbo, o sappiate
vedere uno storpio nel vostro figlio più sano, una vecchia bagascia rauca in
una giovinetta dalla voce d’usignolo. Approfondite, approfondite sempre;
fissate la vecchiaia57.
Poco più sotto, l’irruente, programmatica perspicuità delle CONCLUSIONI del
Manifesto futurista («Vogliamo perciò sistematicamente») non fa velo alla valenza
estremamente significativa dell’enumerazione, espressa in rassegna, del dodecalogo di ribaltamenti di indicazioni terapeutiche e di funzioni istituzionali, del dodecalogo del salutare oltraggio al senso comune (si ricordi la distinzione manzoniana
dal «buon senso»), di proposta e di affermazione di valore, nella vita e nell’arte,
e in specie nella letteratura, dell’essenza del burlesco, del grottesco, del contro-
56
57
Ivi, pp. 19-20.
Ivi, pp. 20-21.
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pelo parodico, di quello «scompiglio» rabelaisiano (direbbe Tellini) che sovverte
assetti di moralismo ufficiale58, che sovverte pose o atteggiamenti di vita artistica
o culturale compassati e improntati a seriosità, e che denuda, altresì, vischiosità o
incrostazioni di ipocrisie inveterate59:
[…]. Distruggere il fantasma romantico, ossessionante e doloroso delle cose
dette gravi, estraendone e sviluppandone il ridicolo, col sussidio delle scienze, delle arti, della scuola.
[…]. Combattere il dolore fisico e morale con la loro stessa parodia. Insegnare ai bambini la massima varietà di sberleffi, di boccacce, di gemiti, lagni,
strilli, per preservarli dagli abituali pianti.
[…]. Crearsi fino da giovani il desiderio della vecchiaia per non essere prima
turbati dal fantasma di essa, poi da quello di una giovinezza che non potemmo godere.
[…]. Sviluppare […] quell’istinto utile e sano che ci fa ridere di un uomo
che cade per terra e lasciarlo rialzare da sé comunicandogli la nostra allegria.
[…]. Trarre tutto un nuovo comico fecondo da una mescolanza di terremoti,
naufragi, incendi ecc.
[…]. Trasformare i manicomi in scuole di perfezionamento per le nuove generazioni.
Non appare davvero illecito rammentare la maturazione del retroterra di profonda amarezza, di profonda disillusione e di interna, acuta tristezza che Il controdolore implica e presuppone; riguardo al Palio dei buffi, dal quale non ci siamo
allontanati, si esprime con efficacia, ancora una volta, la voce di Marino Moretti,
una voce quasi “ctonia” per l’arte palazzeschiana60:
Caro Aldino, ho letto il “Palio dei buffi”, cose vecchie e cose nuove, dalla
prima all’ultima riga, difilato. Ne ho l’impressione, non ostante la buffoneria,
58
Si ricordi lo slapstick chapliniano, e si ricordi pure quello che in tedesco si chiamerebbe
«Chaplinade», dunque il komischer Vorgang, il burlesk-groteskes Vorkommnis.
59
PALAZZESCHI, Il controdolore, cit., p. 21. Del “dodecalogo” delle CONCLUSIONI
riproduciamo i nn. 1, 2, 5, la parte finale del 10, i nn. 11 e 12.
60
Sul rapporto fra Moretti e Palazzeschi cfr. LANFRANCO CARETTI, Moretti e Palazzeschi, in ID.,
Sul Novecento, Pisa, Nistri-Lischi («Saggi di varia umanità», 20), 1976, pp. 67-107. Poi, con il titolo
Moretti e Palazzeschi. Cronaca di un’amicizia, in Atti del Convegno su Marino Moretti, Cesenatico,
ottobre 1975, a cura di GIORGIO CALISESI, Milano, Il Saggiatore, 1977, pp. 28-67. Il binomio, per
così dire, Moretti-Palazzeschi si trova, invece, ad essere scisso, in modalità polemicamente molto
chiare e a netto favore di Aldo, in ELIO VITTORINI, con lo pseudonimo di ABULFEDA, Valore assoluto,
in «Il Bargello», IX (28 febbraio 1937), 18, p. 3, ora in ID., Letteratura arte società. Articoli e
interventi (1926-1937), a cura di RAFFAELLA RODONDI, Torino, Einaudi, 1997, p. 1061; risultano
esclusi dal novero dei grandi, appunto, Moretti, Alfredo Panzini e altri scrittori; non si può,
infatti, secondo Vittorini, parlare «di grandezza a proposito di tipi, ahimè, come Panzini, Moretti,
Cicognani, e persino Brocchi».
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l’arguzia, l’ironia, il sorriso, d’un libro fortemente drammatico, anzi tragico.
Non si può essere, a traverso il divertimento, più sconsolati di così ed è questo, mi pare, che rende ancor più significativo e importante il tuo libro61.
E si noti che la pruderie non si demarca certo in base a un’estensione, a un’occupazione di territorio limitata alle “zone” di società istituzionalmente seriose e
ufficialmente conservatrici; la pruderie, anzi, risulta in almeno pari misura presente
e viva nel côté cosiddetto, o ritenuto, “progressista”, e presso i suoi rappresentanti
“aperti” e “avanzati”, tanto che è appunto in quest’ultimo côté che il contrasto fra
étonnant letterario e − diciamo − provocazione antropologica da un lato e, dall’altro, persistenza piccata e retrattile del perbenismo classista e moralistico, si fa più
acuto e stridente, e insieme, com’è più che naturale, tale contrasto si fa ancor più
comico e sottilmente grottesco; si veda il gustoso racconto che Giorgio Caproni,
nella Presentazione all’opera di Toulouse-Lautrec (declinazione in tutto coerente
del suo straordinario percorso di francesista)62, riprende dal volume (ToulouseCfr. MORETTI-PALAZZESCHI, Carteggio II, cit., pp. 344-345. Sul tragico in alcuni autori del
Novecento cfr., ora, JOLE SOLDATESCHI, Il tragico quotidiano. Papini, Palazzeschi, Cassola, Bianciardi,
Firenze, Pagliai, 2018.
62
Cfr. GIORGIO CAPRONI, Una ‘Recherche’ all’indicativo presente, in L’opera completa di
Toulouse-Lautrec, Apparati critici e filologici a cura di GABRIELE MANDEL SUGANA, Milano,
Rizzoli («Classici dell’arte», 31), 1969, p. 7; l’intersezione di interesse letterario e interesse
iconico-figurativo risiede anche nel richiamo proustiano del titolo (Caproni giunge quasi a
rendere la prospezione borghese − e sia pure altoborghese − di Proust sul salotto Guermantes
complementare allo sguardo dell’autentico nobile − Toulouse-Lautrec − sugli ambienti dei caffè
e dei salons, come quello di rue des Moulins), ma soprattutto essa risiede nella rispettiva scelta
del côté faubourg Saint-Germain (Proust) e del côté Montmartre (Henri); si ricordi quando il
francesista parla di «Ces dames» e di «Elles», in Toulouse-Lautrec, e precisa: «altro che salotto
Guermantes!» (ibidem). Sarà poco più sotto, nel testo, che lo stesso francesista rileverà la profonda
differenza tra Lautrec e l’Impressionismo: «più che mai lontano dai sapientissimi impasti cromatici
e dalle luminescenti polverizzazioni e diffrazioni dei “grandi lirici della pittura” (come furono
chiamati gli Impressionisti); lui che non è mai stato un ‘lirico’ ma sempre − ed è qualcosa di
più − un poeta». Ritorna anche nella pittura, e in genere nell’arte figurativa, la distinzione fra
lirica e ciò che è di più di essa, la poesia, appunto. E se un Proust immaginato pittore si sarebbe
posto sulla «traiettoria, grosso modo, Delacroix-Renoir» (ivi, p. 6), Lautrec, «una volta ‘scelto’
Montmartre», si trova ad «andar controcorrente e a optare, sulla traiettoria Ingres-Degas, per
la linea e il disegno come fondamento» (ibidem). Possiede ancora una significativa liaison con le
“strade”, con le “vie”, con i «vichi» («les ruelles»), con la loro immagine e con i loro “interni”, una
fra le più belle traduzioni caproniane, quella di Les rues de Naples di André Frenaud (Naples-Paris,
septembre-octobre 1959), con la finale figura di Vanina: «Pour parer la misére la beauté déchirante
nue / descend dans les ruelles, dans les fourreau du corps précieux, / l’œil mince et glauque de la
siréne sous la chevelure, / détresse au cœur, de haut parage, secrète / Vanina que n’entanche pas
la chanson triste» − «Per ornar la miseria la bellezza straziante nuda / scende pei vichi nella guaina
del corpo prezioso, / l’occhio fine e glauco di sirena sotto la capigliatura, / una fitta al cuore, d’alto
loco, segreta / Vanina non contaminata dalla canzone triste» (cfr., appunto, ANDRÉ FRENAUD, Les
rues de Naples, in GIORGIO CAPRONI, Quaderno di traduzioni, a cura di ENRICO TESTA, Prefazione di
PIER VINCENZO MENGALDO, Torino, Einaudi [«Collezione di poesia», 274], 1998, pp. 140-141). Su
61
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Lautrec par Toulouse-Lautrec) di Philippe Huismans e Maurice-Georges Dortu63;
non sarà davvero spiacevole sorprendere il paladino dell’avanguardia Paul Durand-Ruel − in visita al pittore − come personaggio tutt’altro che anticonformista
e tutt’altro che trasgressivamente aperto, nella personale cifra antropologica, a una
dimensione “liberatoria”; egli sarà, in realtà, sorpreso quale personaggio borghesissimo e très prude, omertoso riguardo all’accoglienza ricevuta nel boxon, nella
maison de prostitution di rue de Moulins, come se il pericolo o la vergogna, come se
la riprovazione, il disonore, il discredito potessero venire da quel luogo, dal genio
che vi risiedeva e dalle sue inquiline, e non venissero, piuttosto, nella stessa Parigi,
da altri, ben più pericolosi emplacements, dagli acrobatici décalages di quotazioni
di valori e di titoli, dai citati «borsicolieri» evocati da Savinio, impegnati appunto
nel boursicoter giornaliero, speculativo e piccolo-affaristico:
Ces dames da lui così umanamente studiate e poi magistralmente raffigurate in Elles, presso le quali il conte Henri de Toulouse-Lautrec Monfa (altro
Giorgio Caproni cfr., ora, ANDREA AVETO, «In zona partigiana (senza fare l’eroe)». Giorgio Caproni
nella Resistenza, in «Strumenti critici», n. s., XXXIII (gennaio-aprile 2017), 143, f. 1, pp. 3-26, e
AMELIA JURI, Costanti metrico-sintattiche del primo Caproni (da «Come un’allegoria» a «Finzioni»),
ivi, pp. 79-104. Una bella e ampia ricognizione novecentesca, condotta senza tradire il metro d’una
fondamentale linea cronologica, si trova ora in MARCO MARCHI, Moderni e contemporanei. Letture
di poeti e scrittori, Firenze, Le Lettere («Saggi», 157), 2017. Di particolare interesse, per gli autori
qui trattati, le pagine su Palazzeschi e su Caproni (ma anche quelle concernenti D’Annunzio,
Svevo e Tozzi).
63
Ibidem. Per il volume cui Caproni si riferisce cfr. PHILIPPE HUISMAN - MAURICE-GEORGES
DORTU, Toulouse-Lautrec par Toulouse-Lautrec, Paris, Princesse, 1964 (in italiano: Lautrec visto da
Lautrec, traduzione di ANNAMARIA RAINI BELTRAME e OTTAVIA DALAI, Milano, Garzanti, 1964). Si
veda anche il seguente brano di EDMOND LEPELLETIER, Le secret du bonheur, in L’Echo de Paris,
20 marzo 1890: «Abbiamo torto di compiangere Lautrec: dovremmo invidiarlo… Il solo luogo
in cui si possa trovare la felicità è ormai una cella di manicomio. Lautrec meritava davvero, dopo
aver dato evidente prova d’una semifollia nella quale si dibatteva come la maggior parte degli
uomini, di godere infine dell’annullamento divino della pazzia completa». Rimangono, a scanso
di qualunque equivoco, i grandi, innegabili meriti storici del tenace e lungimirante promotore
dei pittori impressionisti, Paul Durand-Ruel appunto (1831-1922), già aperto alla scuola di
Barbizon, fondatore nel proprio negozio di un cenacolo di artisti e benemerito della fondazione
d’una Galleria d’arte a Parigi in Rue Laffitte 16 (e così di una importante Galleria a Londra),
deciso sostenitore di molti, giovani, straordinari talenti che non sono stati accolti nei Salon,
acquirente dal 1891 sino alla morte di tele di Monet, Manet, Pissarro, Degas, Renoir, difensore
di Cézanne e di Sisley, destinatario di significative pronunce di gratitudine da parte di Monet;
celebre un suo ritratto dipinto da Renoir nel gennaio 1910; il musée du Luxembourg, a Parigi,
gli dedica la mostra (poi replicata a Londra e a New York) intitolata Paul Durand-Ruel. Le pari
de l’impressionnisme, dal 9 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015. «La mia follia era stata saggezza»; il
mio coraggio, dapprima risoltosi in autolesionismo economico, ha conseguito una vittoria storica:
affermazione significativa di un animoso paladino delle avanguardie, e scommettitore in tal senso
(«pari de l’impressionnisme»), al di là della pruderie mostrata nella maison de prostitution, in quel
boxon in stile moresco nel quale Toulouse-Lautrec e le signore si sono dimostrati inquilini irridenti
e imbattibili anche per il più spregiudicato talent-scout dell’arte pittorica.
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che salotto Guermantes!) si divertiva un mondo a ricevere le persone ‘di riguardo’, che ignare del tranello si recavano all’indirizzo da lui fornito, salvo
naturalmente uscirne scandalizzate o coi capelli ritti, come il grande mercante d’arte degli Impressionisti Durand-Ruel, difensore dell’avanguardia, che
avendo sollecitato un appuntamento, poi si guardò bene, borghesissimo e
très prude, dal raccontare in giro come il pittore, proprio nel salon di rue des
Moulins, pomposo boxon in stile moresco, lo avesse accolto circondato dalle
proprie tele e dalle pensionanti.
2.4 Perlustrazioni nel laboratorio del novelliere (con accenni alle varianti)
Ci si avvicini alla concreta realtà operativa del raconteur. L’aspetto testuale
primario sul quale converge l’attenzione stilistica di Palazzeschi è, per parte sua,
costituito dai cumuli sostantivali o aggettivali, o addirittura sinonimici; essi rivestono una precisa e limpida funzione antinaturalistica: la serialità programmatica
e voluta delle liste verbali, il loro effetto meramente “orizzontale” e addizionale
sotto il profilo dell’autentico incremento di conoscenza, consumano e inflazionano
l’eccesso di credibilità della vicenda o della connotazione descrittiva, liquefacendolo e sfumandolo (siamo sempre al «fumo», e non solo dell’uomo, ma anche della
trama) proprio nell’apparente funzionalità realistico-suasoria della filza terminologica, dell’ammiccante e ironica concrescita lessicale, se non anche ribobolaia.
E la concessione fiorentinista (ad esempio: «l’è nova!», Lo zio e il nipote, p. 12)
non ha molto a che fare con i suoi ottocenteschi precedenti, ma, anzi, s’iscrive di
diritto, nella sua completamente rinnovata e reinventata identità contestuale, a una
robusta e indubitabile nervatura espressionistica, a una resa poetica consciamente
antiimpressionista: Palazzeschi si pone come l’anti-Fucini proprio in quanto apparentemente ne riecheggia certa atmosfera espressiva localistica e figurinisticotoscaneggiante. Tutto il contrario, insomma, di quella serie di caratteristiche che
una consistente e fondata linea critica non a torto attribuisce alla tradizione della
prosa toscana del secondo Ottocento64 e ai suoi autori. E anche la sceneggiatura
insistita e dettagliatissima propria di certi brani viene ad assumere in Palazzeschi
una valenza narrativamente e strutturalmente antidescrittiva proprio nella festosa
estremizzazione sintattica del descrittivismo realistico; si veda, per addurre un solo
esempio, da La perfezione, la serie d’operazioni domestiche necessarie a favorire
l’assunzione d’un utile “medicinale” da parte d’un bambino:
Agli altri, si sapeva, che per far prendere un purgantino quando era necessario, occorreva la mobilitazione di tutta la famiglia; la mamma col bicchiere
alto nella mano, preoccupatissima di non farselo ribaltare nel frangente, il
Cfr. infatti ENRICO GHIDETTI, Introduzione, in Toscani dell’Ottocento. Narratori e prosatori,
a cura di ID., Firenze, Le Lettere («Pan», 16), 1995, pp. 24-28.
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padre, più robusto, regge le spalle del piccino, la nonna le gambe, la zia le
braccia, la serva gli stringe il naso, il cane abbaia; e alla fine le lenzuola, la
giacchetta del babbo e la vestaglia della mamma, la cuffia della nonna e gli
occhiali della zia, il grembiale della serva ne hanno avuta la parte maggiore.
E il cane, che si sarà provato a leccare in terra, fuggirà dalla stanza a coda
ciondoloni, indignatissimo (pp. 374-375)65.
L’occorrenza dell’enumerazione elencativa è alta fin dalla prima novella, Lo zio e
il nipote: «bassezze e brutalità, violenze e sopraffazioni, rapine, turpitudini d’ogni
colore; baratteríe, intrighi, lenocinî, frodi e tradimenti» (p. 6)66; ed è palese l’inten-
65
Si veda, per converso, un passo che apre uno squarcio sul parigino Quai aux fleurs:
«Ortensie bianche, azzurre e dai colori dell’aurora, azalee, rododendri, rosai a alberello, a cespo,
rampicanti, cadenti in pioggia, tulipani, narcisi, garofani, viole, gigli in vaso o recisi in fasci» (Vita,
p. 203); nell’edizione 1957 (con lo stesso titolo, p. 285), è caduto «viole», e il periodo termina con
«orchidee fragili e misteriose».
66
Tale consuetudine alla filza verbale, lessicale, accompagna Palazzeschi anche in altre
espressioni della sua prosa; se ne veda questo esempio, rispettivamente riferito all’«uomo del
Sud»: «Bravaccio, fanfarone, volubile, rapido alla commozione come alla più sfrenata allegria, agli
abbattimenti e all’entusiasmo, espansivo, straripante, rumoroso», e all’«uomo del Nord»: «chiuso,
composto, tacito e freddo, grigio, calcolatore, senza sorriso» (cfr. PALAZZESCHI, Nota, in DAUDET,
Tartarino, cit., p. 632). Un esempio ancor più evidente, con una chiara vena caricaturale di “interno”
dannunziano e dei suoi arredamenti, qui codificati in chiave di salottino da appartamento quasi
popolare, lo si trova in ALDO PALAZZESCHI, La sor’Isabella, in ID., Stampe dell’800 (1932), a cura di
GHIDETTI, cit., pp. 59-60: «Il salotto era stracolmo da far venire un capogiro. Poltroncine, sediole,
colonnette, tavole […]. E su ogni cosa crochets, filets, tappetini ricamati in cui erano incastonate
le figurine del torrone, della cioccolata o delle scatole dei fiammiferi; ritratti, vasucci, quadrettini,
oleografie, sacchetti, corbelli, scarpine, anforette, frivolités, ricami, coquillages, ventagli, cembali,
mestoli e pentolini dipinti col Vesuvio, San Pietro, la Cupola del Duomo, il campanile di Pisa, il
ponte dei sospiri… E tutto appeso per via di nastri, cordoncini, fiocchi, coccarde, pompons». Si
legga quanto afferma TELLINI in Introduzione. Firenze, una e tante città, cit., p. XLII: «si manifesta
in Jahier, in Campana, in Sbarbaro, in Soffici (per dire solo di alcuni) l’inequivocabile pronuncia
d’un protocollo lirico alternativo a D’Annunzio, però il vero e proprio ribaltamento rispetto
all’estetismo del Vate compete all’antisublime del Saltimbanco». Si veda pure l’effetto di vero e
proprio anonimato conseguito dalla pluralizzazione degli aspetti visibili della città, del frastornante
mondo urbano (qui còlto anche con lungimirante prospezione storica), sui due protagonisti
della promenade condotta in mezzo alle luci, alle insegne pubblicitarie, ai negozi e alle seduzioni
commerciali (ci riferiamo ovviamente alla poesia La passeggiata − in L’incendiario, 1913); come
dice, ancora, Gino Tellini, in ID., Rifare il verso. La parodia nella letteratura italiana, cit., p. 160
(Apocrifi e falsi), «Con tono festevole e scanzonato, è promossa a inedito oggetto di poesia la ridda
allucinata di tutto ciò che può cadere sotto gli occhi di chi passeggia in un centro cittadino: insegne
di negozi, accompagnate da nome e cognome del gestore o della ditta, numeri civici e numeri
del lotto, indirizzi, cartelloni pubblicitari, notizie riportate dai giornali, annunci economici, ultimi
gridi della moda, avvisi di liquidazione, titoli di film e di spettacoli teatrali. / Un frizzante accumulo
di cose spersonalizzate investe questa muta “passeggiata” di due amici che non si rivolgono parola.
Ma non c’è solo il divertimento. Attraverso l’ilarità, filtra il motivo serio della cancellazione della
persona. I tanti nomi propri non valgono a individualizzare ma, affastellati come sono, infilzati al
pari di un elenco telefonico, affogano nell’anonimato. Le voci dell’esteriorità invadono il campo e
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to di condurre all’estremo grottesco la caratterizzazione dello «zio», del suo egoismo, della sua atrabiliare diffidenza per il mondo (egli percepisce il reale solamente
sotto l’aspetto della brutale negatività). Espressione del suo animo, del suo intimo,
del suo specifico e personale sentimento, rivelazione irradiata in un’esteriorità ambientale che non deve ingannare, sono le filze d’immagini e d’oggettistica sacra,
che hanno un’evidente funzionalità di parossismo espressionistico, sintomatico del
carattere chiuso e ruvidamente abitudinario del personaggio, del proprietario-gestore d’un negozio di articoli religiosi; tale parossismo espressionistico è conseguito con mezzi linguistici descrittivi, ed è preceduto dalla ricreazione d’un’atmosfera
topografica fiorentina; ma l’apparente Stimmung stilistico-lessicale da narratore di
provincia, da prosa fuciniana urbanizzata, conglutinando in sé una litania onomastico-sacrale, veicola non un interno di bottega, bensì un vero e proprio mondo interiore, quello d’un personaggio che a quelle date pagine (12-13) quasi ancora non
conosciamo come prosopografia (se non per la deformante metafora della «faccia
aspra e verdigna che sembrava affittata da un colpo di calcagno nella bocca»: p.
9; «verdigna» sarà «verdognola» nel 1957 [Mondadori 2000, cit., p. 738]), ma che
già ampiamente conosciamo come carattere e come umana e tutt’altro che generica
connotazione; quale lettore, a questo punto della propria fruizione, non avrebbe
capito di quale personaggio qui si tratti, e quale lettore si meraviglierebbe della sua
misantropica reazione di fronte alle sollecitazioni nuove che la vita riserva? Si legga
infatti il seguente brano:
Sant’Antonio da Padova, San Giuseppe, San Luigi Gonzaga, la Madonna di
Pompei, quella del «dito», delle «rose», del «buon consiglio», il Cuore di
Gesù, e in mezzo la SS. Annunziata col lumino acceso [nel 1957: «col lumino sempre a galla»]. Nella parte interna delle vetrine pendevano rosari e
rosarini che nell’aprire e chiudere, battendo contro il vetro senza slancio, vi
producevano genuflessioni contenute e colme di frati e monache. / Durante
il giorno si potevano ammirare nel negozio, come le vele di un gruppetto di
paranze tirrene [nel 1957: «come un gruppetto di vele tirrene»], i bei cappelloni bianchi delle suore della Carità, o come margherite, incorniciati nelle
cornette bianche e nere, i musetti rosei delle Filippine, di San Giuseppe e
del Sacro Cuore, rondini sotto il tetto, colombe alle grondaie, i mantelli delle
Domenicane e i cappelloni di paglia delle Stimatine, o neri delle Carmelitane
scalze; abiti talari di sacerdoti frati e fraticelli, raramente qualche borghese e
vestito di nero infallibilmente. Tutti andavano per rifornirsi di quegli oggetti
indispensabili alla loro missione.
non rendono possibile alcuna forma di relazione o confidenza umana, per cui i due amici restano
chiusi nella loro distratta solitudine, come automi frastornati fino al mutismo, calamitati dalla
sonorità delle voci circostanti, imprigionati nel chiasso del di fuori. Diventano assenti. Esistono
soltanto come passivi consumatori di messaggi».
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E l’esemplificazione, valida sotto il profilo dell’elencazione lessicale, è tranquillamente estendibile ai varî contesti novellistici de Il palio dei buffi.
Anche la trama di questa lunga prova narrativa rappresenta assai bene le caratteristiche della raccolta: incapace di qualunque valenza vitale se non di quella
ambiguamente contemplativa del “veder vivere”, dell’osservazione degli altri fuori
di casa, nella via, all’uscita dagli intrattenimenti festivi, in questa ricerca d’un’espropriazione d’identità, in questa volontà di riassorbimento nello scorrere dell’esistenza collettiva, in questa condivisione, da spettatore, dei piaceri della vita (si
veda, a p. 35, un inno involontariamente blasfemo alla bellezza e alla superiorità
della vita terrena), il personaggio inetto del nipote, sfruttato da un “amico” senza
scrupoli, attraversa la propria inevitabile rovina socioeconomica dopo la morte
dello zio; ma è lo stesso zio, con la sua vita e con la compagnia religioso-bigotta
che gli si riunisce in bottega in una sorta di plumbeo beghinaggio maschile, ad
attirarsi una parte della dimensione del buffo, e anzi a calamitare su di sé, nella
lunga sezione che gli è dedicata, l’unica emissione narrativa d’esplicita ironia. Al
nipote non è affatto riservata la sfera dell’ironia, e tale ripartizione vale per tutto
il suo percorso di rovina; se di buffo si tratta, è un buffo drammatico, lo è in accezione palazzeschiana, un buffo che potrebbe impartire notevoli lezioni d’umanità
al volgare e interessato mondo degli integrati: ad esempio, al sano e spregiudicato
Franco; mentre il rapporto normali-buffi, così apparentemente paradigmatico nel
contrasto degli estremi, nipote arreso, slavato e inetto versus zio prudente e autoconservativo sino al massimo parossistico, si capovolge in realtà fin dalle prime
mosse del testo narrativo, rovesciando l’essenza del buffo sullo zio, ovvero sulla
sua squallida e incolore “normalità”, sul suo organizzato sistema di diffidentissimo
e difensivo egoismo. Una vera reazione di doppio scambio fra le topiche equazioni inettitudine-buffaggine / accortezza-normalità. Solo all’ultimo il personaggio
di Luigi nipote trova realmente il modo di volatilizzarsi, di sparire riassorbito da
un generale alone di crescente, trasognata incoscienza; la breve agonia e la morte intervengono dopo la condanna per bancarotta (la rovina del negozio) e per
oltraggio al pudore (l’amico Franco ha trasformato l’ex negozio d’oggetti sacri,
proprietà di Luigi, in una sorta di sex-shop dell’epoca). Rovina, volatilizzazione,
morte, fumificazione; il tragitto avviene in direzione del “bene” del personaggio,
o quanto meno del rispetto della sua connotazione più vera e originale, e schiude
finalmente le porte, nella soggettiva e surreale visione delle ultime pagine, a quella
che si può definire la sua felicità; e, insieme all’“assunzione” di Luigi, continua il
ruvido e impietoso percorso dell’ufficialità e della normalità (aumento di condanna per il confitens inconsapevole, immediato abbandono del cadavere a scanso di
conseguenze igieniche: «l’un dopo l’altro, presero a farsi indietro al modo delle
pulci, che a un sinistro sospetto di raffreddamento schizzano via abbandonando
una dopo l’altra il corpo di un cane» − p. 72; e via con altre pulci e con altre sagge
decisioni). Il “tempo” della detenzione carceraria preprocessuale di Luigi rinviene
elementi comuni con situazioni simili (ed è un dato fortemente significativo) in
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Pirandello, in special modo in personaggi quali «Canta l’Epistola»67 e Vitangelo
67
Si veda, ad esempio, da Canta l’Epistola, il superamento di ogni dimensione di confronto
con l’opinione comune e con le sue capacità di condizionamento: «Si chiuse in sé, e non uscì più
dalla sua cameretta, se non per qualche passeggiata solitaria o sù per i boschi di castagni, fino al
Pian della Britta, o giù per la carraja a valle, tra i campi, fino alla chiesetta abbandonata di Santa
Maria di Loreto» (cfr. PIRANDELLO, Novelle per un anno, cit., I, p. 445); ma si veda anche il finale,
in cui il “buffo” pirandelliano ripete la sua ragione esistenziale anche al confessore, chiamato solo
per accontentare la madre: «Quando questo, al letto di morte, gli chiese: / − Ma perché, figliuolo
mio, perché? / Tommasino con gli occhi socchiusi, con voce spenta, tra un sospiro ch’era anche
sorriso dolcissimo, gli rispose semplicemente: / − Padre, per un filo d’erba… / E tutti credettero
ch’egli seguitasse a delirare» (ivi, p. 450). Cfr., inoltre, riguardo a Dostoevskij, il principe Myškin
de L’idiota, capostipite indiretto di molti inetti, inadattati, anomali e buffi derisi della letteratura
successiva, dell’Ottocento e del Novecento; gli aspetti della natura, sintetizzati in Palazzeschi nel
cinguettio dei passeri, per i personaggi singolari e defilati dal loro contesto, com’è anche il caso di
Tommasino Unzio di Canta l’Epistola con la storia del «filo d’erba», si rivelano la sede di una quasi
asessuata e tenera fraternità creaturale. Si leggano questi passi da L’idiota (FËDOR MICHÀILOVIč
DOSTOEVSKIJ, L’idiota, I-II, traduzione di ALFREDO POLLEDRO, Milano, Mondadori [«Biblioteca
Moderna Mondadori», 586-587], 1959, rispettivamente I, p. 95, e II, pp. 38 e 312): «La sua vita
in prigione era stata molto triste, ve l’assicuro, ma, certo, non era meschina. Eppure tutte le sue
conoscenze erano un ragno e una pianticella cresciuta sotto la sua finestra […]. A volte gli veniva il
desiderio di andarsene chi sa dove, di scomparire addirittura di lì, e gli sarebbe piaciuto un posto
scuro e solitario, purché potesse restar solo coi suoi pensieri, perché nessuno sapesse dov’era. O
per lo meno, trovarsi a casa sua, sulla terrazza, ma senza che altri, né Lébedev né i figli suoi, fossero
presenti; gettarsi sul suo divano, affondare il viso nel cuscino e starsene così disteso un giorno,
una notte, un altro giorno ancora. A momenti, vagheggiava anche le montagne, e specialmente
un certo luogo di cui sempre gli era caro ricordarsi e dove soleva andare, quando viveva laggiù,
per guardare in basso il villaggio, il nastro bianco della cascata che si vedeva appena in fondo, le
bianche nuvole, il vecchio castello abbandonato. Oh, come avrebbe voluto ora trovarsi là e pensare
a una cosa sola − tutta la vita a quella soltanto! − e per mille anni non avrebbe chiesto altro! E
che qui si dimenticassero pure di lui! […]. Sapete, io non capisco come si possa passare davanti
a un albero e non essere felici di vederlo, parlare con un uomo e non essere felice di amarlo!
Oh, io non mi so esprimere… Ma quante cose belle s’incontrano a ogni passo, che anche l’uomo
più degradato trova magnifiche! Guardate un bambino, guardate l’aurora, guardate l’erbetta che
cresce, guardate gli occhi che vi guardano e vi amano…». Anche Tommasino Unzio, riguardo al
suo «filo d’erba», «lo aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri più
bassi che gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella sua tremula esilità,
oltre i due macigni ingrommati, quasi avesse paura e insieme curiosità d’ammirar lo spettacolo che
si spalancava sotto, della verde, sconfinata pianura; poi, sù, sù, sempre più alto, ardito, baldanzoso,
con un pennacchietto rossigno in cima, come una cresta di galletto» (PIRANDELLO, Novelle per
un anno, cit., I, p. 449). Non sfugge, certo, il motivo affine rappresentato dai semplici e puri
sentimenti in una realtà che diviene oggetto, nelle sue varie e trepide manifestazioni, di profonda e
commossa complicità affettiva. Si legga ancora (ivi, p. 445): «Stenti, affanni, fatiche e pene d’ogni
sorta, perché? per arrivare a un comignolo e per far uscire poi da questo comignolo un po’ di
fumo, subito disperso nella vanità dello spazio. / E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria
degli uomini. / Ma davanti all’ampio spettacolo della natura, a quell’immenso piano verde di
querci e d’ulivi e di castagni, degradante dalle falde del Cimino fino alla valle tiberina laggiù
laggiù, sentiva a poco a poco rasserenarsi in una blanda smemorata mestizia». Lo stesso scatto
di Tommasino, e così la crisi epilettoide di Myškin, si pongono come uno sbocco coerente delle
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Moscarda, ma anche, sul piano di più vaste strutture romanzesche, in Dostoevskij;
basti vedere il brano riguardante i passeri, il loro ravvivante cinguettio, la loro
naturale amicizia con i solitari, con i reclusi carcerari, con i reclusi militari, manicomiali, d’orfanotrofio, o di immagonito ricovero senile68:
Sola espressione viva e naturale era il cinguettio dei passeri che tenevano monologhi sull’orlo dei tetti e delle finestre, discorsi, congressi. I passeri sono gli
amici dei reclusi, dei vecchi nel ricovero, e dei fanciulli nell’ospizio, dei soldati,
dei fraticelli, di tutti i poveri che perdono qualche briciola del loro pane o sono
tanto ricchi da lasciarla cadere e la elargiscono signorilmente. Ne riempiono i
tetti né mai li abbandonano, e invece della pietà vera o falsa degli uomini, fredda e grigia ugualmente, per qualche briciola di pane lasciano cadere le briciole
della gioia compressa nei loro petti che non disturba né incrudelisce il dolore.
Ed è la reclusione carceraria, non la libertà, a far correre al personaggio palazzeschiano il rischio di una caduta a precipizio nella follia:
l’amore al quale per le libere strade lo aveva innalzato un’aspirazione ardente
[1957: «pura»] di vivere69, rendendolo pago e felice, chiuso lì dentro, per
quella pietra di cui sentiva aumentare il peso incessantemente nel petto, lo
avrebbe precipitato nel baratro della follia.
«Per quanto le imputazioni fossero tre: bancarotta semplice e fraudolenta, oltraggio al pudore, il processo fu brevissimo», da «breve» che era nel 1937, e la scelta
variantistica è significativa; processo rapido, con un imputato impossibilitato ad
accusare altri, e col vero colpevole, Franco, lui sì in costante presenza pubblica −
Luigi assente − in una bottega affollatissima durante le discutibili ostensioni pagate
a biglietto, visibile, clamoroso e identificabilissimo cassiere-banditore, poi fuggito
loro condizioni neuro-spirituali, come uno sfogo di schizofrenia innocua, almeno per l’alterità. Si
può pure citare, come prima Basaglia, ora Mario Tobino; è sufficiente ricordare, come esperienza
non solamente letteraria, ma anzi quale esperienza attraversata dal passaggio bruciante della realtà,
la figura di Franco, alienato epilettoide evocato in MARIO TOBINO, Gli ultimi giorni di Magliano
(Milano, Mondadori, 1983), che si pone quale simbolo di un’umanità alogica, indifesa, bisognosa
di affetti dolci e slavati. La sorte di Franco consiste nel passare dalla giungla umana a quella della
natura: «Franco era l’emblema di quanto è bello l’essere umano quando è privato della diabolica
selva dei pensieri»; egli sparirà dalla casa di cura e di lui non si saprà «più niente»: «sarà in un
borro di un bosco qui intorno, tra gli sterpi, mangiato dai topi, dalle volpi». Da una giungla
all’altra. Forse il personaggio tobiniano ha tuttavia solo abbreviato i tempi dell’esiziale prigionia
nel mondo, di quella reclusione che attanaglia anche chi vive, o crede di vivere, «nella diabolica
selva dei pensieri».
68
Si cita, qui, dal testo ultimo, 1957 (Mondadori 2000, cit., pp. 779-780). La variante
ortografica del ’37, «cinguettìo», a fronte di «cinguettio» di vent’anni dopo, è alla p. 48 dell’ed.
GUERRICCHIO.
69
Ed. GUERRICCHIO, p. 50. La virgola è cassata nel ’57.
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con la cassa come spesso fanno i “cassieri”, e rintracciabile facilmente a mezza
cantonata di distanza se solo si fosse mirato alla colpa del personaggio “normale”,
anziché alla criminalizzazione legalistica del defedato, catturato invece, questi, nel
suo stato fisico disfatto, e abbandonato al sonno, solo, in una chiesa deserta, e vicino
comunque alla liberazione dalle sue sofferenze e dai “conforti” del vivere sociale.
L’irreperibilità di Franco era davvero evitabile, e anche un semplice “scolare” di
giurisprudenza, prima ancora che un codice scritto, considererebbe più compiuto,
con la presenza del cassiere, il processo di accertamento conoscitivo di colpe vere ed
eclatanti, secondo la legge, e non secondo il criterio di comodo di un processo-causa,
privo di base d’indagini, e naturalmente «brevissimo».
Il rifiuto − quasi fisiologico, psicosomatico, da parte di Luigi − di chiamata
di correità d’un’altra persona gli guadagna la taccia di «contegno insolito»; ma
«insolito» non vuol dire certo “colpevole”, o “criminale”; lo significa per gli amministratori della giustizia, che giudicano l’«insolito» «con la massima severità»,
come Azzeccagarbugli dà all’inizio per scontata la colpevolezza di Renzo sulla base
dell’abbigliamento, dell’“antropologia” da povero; povero, quindi la minaccia al
curato deve averla fatta lui. Spessissimo, invece, è proprio il “solito”, la striscia di
andamento consuetudinario a essere “criminale”:
Fu ritenuto delinquente pericoloso, uomo cinico e turpe, ladro e osceno, dedito all’ozio e al vizio, ai bagordi e alle peggiori compagnie. Né una voce si
levò in suo soccorso70.
Si vedano, come sintesi, due esempi del processo di disfacimento narrativo, di
sublimazione decorporizzante e desostanziante dell’ontologia del personaggio; innanzi tutto, la bellissima sequenza del sonno regressivo indotto da una materna immagine mariana, in una chiesa, nell’“ultima sera di carnovale”, se goldonianamente
nominata («Era appena sera. La sera che s’insinua con difficoltà sul pomeriggio
carnevalesco denso e straripante. / Solo»; Luigi è un ricercato a distanza di pochi
metri di quartiere, nella lingua dei non buffi − lingua che per parte sua non ama il
fumo, bensì la concretezza; e concreto e mortificante è l’arresto di Luigi):
Quell’anno, quella sera, aveva abbandonato le strade per rifugiarsi in una
chiesa oscura e deserta. / Guardava assorto la madre col suo bambino, da cui
70
Ed. GUERRICCHIO, p. 51; nel 1957 il testo è il seguente: «Venne ritenuto delinquente
pericoloso, uomo turpe e cinico, dedito all’ozio e al vizio, ai bagordi e alle peggiori compagnie.
Né una voce si levò in suo soccorso». Oltre alla sostituzione dell’ausiliare («Fu ritenuto» / «Venne
ritenuto») si nota, qui, l’inversione di «cinico e turpe» in «turpe e cinico», e l’eliminazione di
«ladro e osceno», evidentemente avvertito come espansione semantica pleonastica in un contesto
di significati già perspicui. La scelta di «cinico» in seconda posizione nella coppia di aggettivi
prolunga, con quell’accento di terzultima, la percezione del senso d’iniquità del giudizio di
tribunale.
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emanava tanto amore, tanta dolcezza, tanta serena umanità71; e quel gracile
lume palpitante come un cuore di bimbo malato o triste […]. Si rannicchiava,
aveva freddo e fame, e più lo raffreddava quella penombra, ma non poteva
decidersi a partire; aveva tanto sonno e si sarebbe rannicchiato su quella panca per dormire, fissando lo sguardo protettore della madre fino a perdersi in
esso senza poterlo scorgere, ma sentendolo sempre, cullato dal palpito della
candela, fino ad assorbirlo senza vederlo più […]: addormentarsi lì, su quella
panca…. davanti alla madre…. davanti al bambino paffuto che sorrideva….
che lui guardava sorridere…. al palpito della candela…. evanescente…. che
non vedeva…. più…. (ed. GUERRICCHIO, p. 46)72.
Vi è poi il brano finale, in cui il personaggio, malamente trascinato dai carabinieri dopo il processo (accasciatosi Luigi, «credendo volesse porsi in aperta ribellione, o fingesse un malore per tentare di svignarsela, due carabinieri lo
acciuffarono trascinandolo a forza» − e, ancora più chiaramente, «con violenza»
nella versione definitiva del 1957), si solleva alla dimensione della leggerezza73,
distaccandosi definitivamente dalla terra:
[…] levò la testa e fissò il cielo che non aveva veduto da tanti giorni, il cielo rosato e caldo di un tramonto primaverile, né più distrasse da quello lo
71
Nel 1957 (cfr. Mondadori 2000, cit., p. 777), il testo è: «Guardava assorto l’immagine da
cui emanava tanta serena umanità, tanta dolcezza, tanto amore»; si noterà la sostituzione di «la
madre col suo bambino» con «l’immagine», termine che evita la ripresa ripetitiva che vi era fra
«la madre col suo bambino» e il «cuore di bimbo malato o triste», divenuto nel 1957 «il cuore di
un bambino malato o triste». Inoltre risulta completamente invertito l’ordine dei tre sintagmi del
1937: «tanto amore, tanta dolcezza, tanta serena umanità» diventano «tanta serena umanità, tanta
dolcezza, tanto amore»: primo e terzo sintagma si scambiano simmetricamente di posto.
72
Il «bambino» è «paffuto e roseo» nel testo del 1957 (ibidem). Si veda come il brano sia
fornito di significative anticipazioni nei paragrafi precedenti (richiamiamo in parentesi quadra due
notevoli varianti recate dall’edizione 1957): «La madre che stringe il suo bambino al seno. / Di
una bellezza pura e soave la madre, fresca e sorridente il fanciullo. La sua contemplazione genera
[«generava» − Mondadori 2000, p. 776] un senso di pace e di protezione, di ristoro dell’animo
travagliato e stanco […]. Era la prima volta che si appartava così, e in quell’ultima sera del
carnevale ch’era stata sempre per lui una struggente delizia. Gli altri anni era rimasto insaziabile
per le strade fra la gioventù in baldoria, fra le grida e i lazzi, le mascherate; aveva aspettato delle ore
alla porta di un teatro per vedere coloro che si recavano al veglione dell’ultima notte, in costume o
in abito da ballo. E non era una festa anche sul marciapiede, dove la gioia aveva gettato un tappeto
di coriandoli rendendo voluttuoso il passo all’umile pedone che godeva anche lui il suo ballo [«la
sua parte» − Mondadori 2000, p. 776] come un signore?» (ed. GUERRICCHIO, p. 45). Delle due
varianti 1957, l’imperfetto «generava» in sostituzione del presente avvicina il tempo narrativo a
quello del personaggio in contemplazione; «la sua parte» identifica assai meglio l’alienità di Luigi
da un «ballo» a cui in realtà egli assolutamente non partecipa.
73
Non può stupire un’opportunità di identificazione dell’autore stesso con “il personaggio”:
«Io non sono nemmeno un uomo, non ci tengo ad esserlo, io sono […] un palpito libero nell’aria»
(cfr. ALDO PALAZZESCHI, Due imperi… mancati, Firenze, Vallecchi, 1920, p. 39; ora, a cura di
MARINO BIONDI, Milano, Mondadori, 2000, p. 32).
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sguardo abbacinato e quasi spento; intanto che un sopore di una dolcezza
violenta lo penetrò, lo invase, e intanto che avvertiva il disciogliersi di un peso
nel fondo del suo essere. E più lo penetrava tanta voluttuosa dolcezza, più
quello dissolvendosi lo rendeva leggero da non avvertire la terra su cui posava il piede, facendolo sentire alto da essa e nell’atto di salire. E aumentando
sempre la dolcezza, ed egli non potendola contenere, se ne sentiva come un
vaso colmo e che trabocca incessantemente […]. In una dolcezza sovrumana
finiva di sciogliersi il groppo arido e duro che da tanto gli riempiva il petto,
e davanti alla sua leggerezza si aprivano con crescente rapidità tanti velari
fatti di luce, di quella luce da cui era penetrato. Anch’egli non era più che
luce fuggente nell’etere verso uno spazio infinito, allucinante. Come il ronzìo
di un’elica lo seguiva un’eco di musiche vaghe, accordi di chitarre, d’arpe,
viole, cembali e tamburelli, campanelli argentei…. e oramai lontanissimi degli
sprazzi rossastri [le mostreggiature dei carabinieri]…. rosei…. quasi indistinti
(ed. GUERRICCHIO, p. 51-52)74.
Ma la nebulizzazione della vita, e in particolare del matrimonio, è già stata in poche
righe rappresentata dallo scrittore nel ragguaglio sull’esigua vita da sposato del
Luigi zio: «il signor Luigi aveva avuto moglie, mortagli ancora giovane per aver
mangiato un’acciuga infetta in giorno di venerdì: una gastro-enterite fulminante,
un mezzo colera, per non dire un colera intero in poche ore se l’era portata via.
Ecco la vita. Vale la pena di starci a pensare? Coltivare attaccamenti per essa, desiderî, rimpianti?» (ed. GUERRICCHIO, p. 19). Il matrimonio non era stato consumato,
per mutuo accordo dei due sposi («Chi si piglia, si assomiglia»).
Parzialmente diversa negli esiti, anche se coincidente nella parabola, è la vicenda di Lumachino, l’impiegato delle poste, sventurato nella figura fisica, che apre e
legge, come fossero a lui indirizzate, le lettere d’amore che si scambiano ragazze
e ragazzi del paese; fatto oggetto di linciaggio morale (ma sfiora pure quello fisico), assolto per idiozia congenita e trasferito all’incarico di pulizia delle latrine del
74
Nel 1957 il brano subirà alcune varianti, in una prevalente direzione semplificativa, di
illimpidimento del dettato testuale (Mondadori 2000, cit., pp. 782-783): «levò la testa e fissò il
cielo che non aveva visto da tanto tempo, il cielo rosato e caldo di un tramonto primaverile, né più
distrasse da quello lo sguardo abbacinato, quasi spento, intanto che un sopore di un’aggressiva
dolcezza lo penetrò, lo invase, ed intanto che avvertiva lo sciogliersi di un peso nel fondo del
proprio essere. Più lo penetrava tanta voluttuosa dolcezza, e più quello dissolvendosi lo rendeva
leggero da non avvertire la terra su cui posava il piede, facendolo sentire alto da essa e nell’atto
di salire. E aumentando tale dolcezza e non potendola contenere, se ne sentiva un vaso colmo e
che trabocca continuamente […]. In una dolcezza sovrumana finiva di sciogliersi il groppo arido
e duro che da tanto gli riempiva il petto, e davanti alla sua leggerezza si aprivano con crescente
rapidità tanti velari fatti di luce, di quella luce da cui era penetrato. Anch’egli non era più che
la luce fuggente nell’etere verso uno spazio allucinante, infinito. Come il ronzìo di un’elica lo
seguivano echi di musiche vaghe: accordi di chitarre, arpe, viole, violini, cembali e tamburelli,
campanelli d’argento…. e oramai lontanissimi, confusi nella luce azzurra degli sprazzi rossastri [le
mostreggiature dei carabinieri]…. rosei…. quasi indistinti».
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palazzo postale, il personaggio non può staccarsi da un’abitudine ormai per lui
necessaria, e oppone alle difficoltà, reali e potenziali, un sorriso che non induce a
diagnosi d’ebetismo (errore che acquisirebbe noi lettori alla stessa sfera di banalità
e di superficialità che è propria dei “normali”, e, altresì, di molti lettori degli anni
1930, e oltre; sicuramente c’iscriverebbe alla dimensione d’ottusa e di colpevole
banalità dei giudici dello stesso Lumachino, di Luigi nipote e di quant’altri), bensì
all’individuazione d’una linea di difesa della propria follia, di mantenimento di se
stesso e della propria indole, del proprio, inevitabile e disgraziato percorso, da parte d’un personaggio che infatti, «felice», continuerà a vivere, sciogliendo i groppi
di patteggiamento con il mondo “allineato”, con le «ragazze inferocite» che mai
saranno per lui, che pure «amava […] le bellissime», in una liquidazione d’ogni
elemento turbativo di quella ragione esistenziale, di quell’abitudine di lettura epistolare che solum è sua («ridendo con la bocca spalancata e liquefacendosi in quel
riso»; «Rideva, un sorriso idiota e felice che era già una confessione; rispondeva
ai litiganti disfacendosi di beatitudine sul loro viso minaccioso»: pp. 284 e 289).
In Carburo e Birchio un io narrante e, insieme a lui, il personaggio di Narciso, clochard ubriaco, assistono a un dialogo notturno fra due fiaccherai, sotto un
portico, al riparo dalla pioggia; si tratta d’un’“epifania”, come già si è detto. Nel
racconto non è quindi narrato alcun avvenimento importante, e proprio questa
feconda lacuna permette ai due fiaccherai di raccontare la propria vita tramite lo
scambio vernacolare di battute, in attesa che la pioggia finisca: è una gara a chi è
stato meno ricco, a chi è di più umili origini sociali. È così che veniamo a sapere
d’una dura situazione di miseria:
Ma tu ’un lo sai che noi quando e’ si rimaneva for di casa perché e un’ s’era
pagato la pigione, e’ si restava anche du’ mesi alle mèrie, d’estate alle Cascine. /
− Bada lì, e’ vu’ andavi in villeggiatura. − Dice pomposamente. / Sotto la pista
delle bicicliette, sai; la mi’ mamma la conosceva i’ custode, gl’era un bon’omo
poerino, e’ ci lasciava stare; finché e ’un s’aveva e’ quattrini pe’ ripiglià la stanza.
Allora la mi’ mamma l’andava a ricercare i’babbo. Appena gli entrava ’n casa
l’era buriana, e principiava a leticare, e’ volava ogni cosa (p. 79, ed. Vallecchi
1937; e così d’ora in avanti)75.
Ma lo stacco vernacolare ha solo una parvenza di realismo; anzi, non è realistico
proprio nella misura in cui è reale; il reale inserito in un quadro surreale (non antireale, beninteso) è una lunga pennellata di dramma e di espressionismo, al quale
75
Si veda anche la seguente citazione: «Ma tu ’un lo sai che noi e’ si stava anche du’ giorni
senza mangiare? E quando e’ ritornava a casa i’ babbo, faceva i’ venditore ambulante e’ ’un c’era mai,
veniva a casa quando gli aveva finito e’ quattrini; e’ pretendeva anche di mangiare, e se ’un trovava
nulla e l’eran botte, alla mi’ mamma, sai, poera donna, e alle mi’ sorelle; e le ne buscavan quant’e
ciuchi. Io ne buscavo meno perché entravo sotto i’ letto o sott’i’ cassettone, sempre e’ un mi poteva
arrivare» (pp. 76-77).
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molto conferisce il medesimo e insistito (pp. 76-81) inserto dialettale indigete, mai
come in questo caso assurto ab origine a una natura e a una finalità antiimpressionistiche e antinaturalistiche. Nulla di più alieno da Fucini o da Collodi: Palazzeschi
qui innova profondamente, non immettendo, bensì addirittura piegando le «pedache ni’ culo e negli stinchi, i vetturini, sai» a una rappresentazione di palcoscenico, a
un incantato notturno toscano nel quale i due epifanici vetturini vengono osservati
e ascoltati dal clochard e da un io narrante che non osano interromperli, come non
si osa interrompere uno spettacolo teatrale fruito con serietà e senza scherno né
urla (l’ironia è pienamente autogestita dai due fiaccherai). Come si tracciano due
storie personali e come si prefigurano due destini, e per intero, in una sola apertura
dialettale incastonata in un predominante circo di surrealtà: questa la sfida tecnica,
ampiamente vinta, della novella. Le due incarnazioni (più per l’autore che per l’io
narrante) d’un ideale efebico-popolare vengono ad assumere il ruolo di clown,
nel senso alto del termine; come tutti i clown, essi esprimono giocosamente un
dramma, una sorta di disputa scherzosa (lingua, toni) dal contenuto tristissimo,
e se si vuole anche a sfondo sociale, con quella città laggiù, ora attraversabile dal
«tranvai» e non dalla carrozzella. E proprio lo spiazzo, le carrozze, le «insegne
luminose», «diademi di regine da circo», il metaforico «panorama da ballo Excelsior» di questo notturno, sotto una pioggia che «getta […] una cortina spessa di
ininterrotte funi d’argento nel pulviscolo iridescente» (p. 73) non lasciano dubbi
sulla natura di “spettacolo”, di «circo» appunto, che il paesaggio riveste, e quindi
sull’elettiva funzione di clown (Birchio «è fulvo, e dal berretto portato alto su una
parte sbuca una ciocca di un rosso sulfureo, incandescente, che sotto la luce elettrica sembra una lingua di fiamma»: p. 76; il «rosso di capelli», insieme al «verde»
presente nel vestiario, non a caso dipinge in modo espressionistico anche la figura,
clownesca a ventiquattr’ore, del gobbo eponimo)76, parola allegra-sorriso malinco-
76
Oltre a Carburo e Birchio e a Il gobbo, si rammentino le connotazioni coloristiche del clown
nel Soffici di Noia (nelle Simultaneità; le citazioni sono in SANGUINETI, L’incendiario, cit., pp. 5152) e dei Primi principi di una estetica futurista: «Vestito da clown allora / infarinato dipinto / con
un ciuffo scarlatto e un cuore / verde fra ciglio e ciglio»; «Così un ciuffo di capelli vermigli o verdi
che si drizza, miracolosamente, a un tratto di filo; un paio d’occhi senza pupille o quadrati; un
naso fosforescente, che si accende e si spegne secondo le alternative dell’umore comico o triste;
una faccia tutta bianca o fiorita di minio o di carbone, sono affermazioni indicibili di superiorità
filosofica, suggerimenti di possibilità infinite; soprattutto ribellione a qualunque sistema di logica,
e dichiarazioni potenti intorno all’essenza fantastica del mondo; negazioni di tutti i valori in favore
di un fantasmagorismo multicolore e leggero, che ha per verbo animatore una freddura o un
calembour». L’artista, sempre secondo Soffici, non potrà più essere reputato «come un apostolo,
un educatore, come un incitatore a qualche cosa che giovi ad una certa società o all’umanità
intera; ma come un acrobata, un saltimbanco, un giocoliere». Si veda anche quanto afferma lo
stesso Soffici in ID., Aldo Palazzeschi, «La Voce», 17 luglio 1913 (quindi in Statue e fantocci: scritti
letterari, Firenze, Vallecchi, 1919, pp. 133-154): «il saltimbanco della propria anima artistica, vuol
dire in Palazzeschi un’apertura sterminata oltre ogni convenzione, ogni preoccupazione estralirica,
ogni ridicolo preconcetto didattico, civico, umanistico, tendente a fare del poeta qualcosa di
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nico, dei due personaggi, voci reali d’una scenografia e d’un dramma surrealista (il
tono ludico non nasconde la costante negatività delle vicende narrate o evocate nel
dialogo: miseria, fame, maltrattamenti, alcol): un brano dell’Assommoir77 recitato
in una picaresca favola circense, sui bordi d’una piazza, con effetti illusionistici,
come nel buio illuminato sotto il tendone. Palazzeschi, saltimbanco anche negli
anni Trenta, ora anche spettatore e regista a distanza d’una colonna di porticato,
oppone la “sua” piazza notturna, con pioggia e luci e amare storie sorridenti, alla
coeva immagine di piazza solare affollata, dove consuma i suoi scheranici riti un
altro tragico clownismo, micidiale per i senza casa (o quasi) Carburo e Birchio, e
simile a un apostolo, illuminatore, consolatore e guidatore di popoli […]. Estetica da clown, si
dirà. Appunto: e il clown, se e in quanto dilettante, rappresenta meglio di ogni altro la figura
dell’artista disinteressato, l’idea del divertimento per il divertimento». Purché a «divertimento» si
attribuisca il significato etimologico di «deviazione e allontanamento da ogni intento vatesco, in
accezione vuoi carducciana o pascoliana o dannunziana, come perdita d’aureola, quale autentico
paradigma di modernità», come precisa TELLINI, in Introduzione. Firenze, una e tante città, cit., p.
LII. Per parte sua, il «travestimento baudelairiano del saltimbanco tragico» (EDOARDO SANGUINETI,
L’incendiario, cit., p. 53) funge da risposta, da parte di Palazzeschi, anche all’acquisita (e importante)
sollecitazione nietzscheana fornita dalle notissime, già citate, pagine iniziali dello Zarathustra: il
pagliaccio dai panni multicolori scavalca il funambolo sul filo teso, facendogli perdere l’equilibrio
e facendolo rovinare morto a terra; l’artista della modernità, «organo vivente della metafisica»,
ascolta l’avvertimento del pagliaccio, che gli mulina la minaccia di fare l’indomani altrettanto con
lui, se non se ne andrà, portando con sé il cadavere del funambolo che lo ha in qualche modo
salvato dandogli la possibilità d’assistere a questa pregressa esperienza.
77
L’Assommoir di Zola è presente, né questo è scontato, nella non ingente biblioteca personale
di Palazzeschi (Paris, Charpentier, 1881). Del Boccaccio, il Decameron è presente nell’edizione
della «Biblioteca Nazionale» di Le Monnier, I-II, a cura di PIETRO FANFANI, 1926; ma è importante
anche l’edizione, sempre posseduta da Palazzeschi, del Ninfale Fiesolano nei «Classici Italiani»
della UTET, 1926, a cura di ALDO FRANCESCO MASSÈRA: lo stesso curatore, Massèra appunto,
aveva editato a sua volta il Decameron (GIOVANNI BOCCACCIO, Il Decameron, I-II, a cura di ALDO
FRANCESCO MASSÈRA, Bari, Laterza [«Scrittori d’Italia», 97-98], 1927); e la sua edizione delle Rime
(GIOVANNI BOCCACCI, Rime, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua [«Collezione di Opere Inedite o
Rare dei primi tre secoli della lingua pubblicata per cura della R. Commissione de’ Testi di lingua
nelle Provincie dell’Emilia»], 1914) risulta ancora citata nell’edizione, in questo caso dell’Ameto,
da Antonio Enzo Quaglio: GIOVANNI BOCCACCIO, Comedia delle ninfe fiorentine (Ameto), edizione
critica per cura di ANTONIO ENZO QUAGLIO, Firenze, Sansoni («Autori classici e Documenti di
lingua pubblicati dall’Accademia della Crusca»), 1963, p. XX e n. Ma, soprattutto, Massèra è
lo studioso-filologo elettivamente vocato, quanto meno nella produzione scientifica ufficiale,
agli autori burleschi e realistici, alla letteratura comica, tanto da risultare uno dei pochi editori
delle stesse Rime di Boccaccio: rime non “comiche”, ma opera, appunto, che integra il profilo
del novellatore decameroniano. Tanto più significativa la presenza nella personale biblioteca di
Palazzeschi del Ninfale Fiesolano (sia pure, anch’essa, opera [non comica]) per la UTET a cura di
Massèra, mentre nella laterziana «Scrittori d’Italia» Aldo possiede soltanto i Lirici marinisti, a cura
di BENEDETTO CROCE, 1910, e I promessi sposi, a cura di SANTINO CARAMELLA, 1933. Si rammentino,
fra le opere curate da Massèra, I sonetti di Cecco Angiolieri editi criticamente e illustrati da ALDO
FRANCESCO MASSÈRA, Bologna, Zanichelli, 1906, e i Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli,
a cura di ALDO FRANCESCO MASSÈRA, nuova edizione riveduta e aggiornata da LUIGI RUSSO, Bari,
Laterza («Scrittori d’Italia», 88-89), 1940.
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anzi sostenuto dalla classe sociale dei loro padroni di casa, e da chi, in quegli anni,
usa lo stesso dialetto in cifra strapaesana. Dialetto toscano, quello di Palazzeschi,
ma all’opposto esatto di «Strapaese» e di «Stracittà». Se, anzi, il racconto fosse
stato possibile in resa d’accento romagnola, esso sarebbe stato un ottimo copione,
compresi gli effetti di luce e compresi gli spettacolari effetti scenografico-spaziali e
atmosferici, per un notturno di Fellini78:
Mezzanotte. Alla sommità dell’arco la lampada elettrica pende simile a un
frutto glaciale nella violenza della pioggia79 che getta fra essa e me una cortina
spessa di ininterrotte funi d’argento nel pulviscolo iridescente. Davanti, la
piazza quadrata è tutta un croscio, uno schiocco, uno spruzzo; e l’impiantito
deserto ricorda un panorama da ballo Excelsior veduto di lontano80: le gocce
forti e grosse, battendovi, fanno balzare i veli da corifee delle loro gonnelline.
Nel mezzo non sono rimaste che due carrozze pubbliche, i cui ombrelloni grondano a ruscelli come fontane […]. La statua equestre del Re, pesa e
piatta nel sole, in questa luce e nel fumo acqueo che le si produce attorno,
diventa leggera e agile […]81. Intorno, le mescite e i caffè esplodono con luci
calde e dense da frutti tropicali dentro le serre, lasciando trasparire dai vetri
appannati solo delle ombre82. E le insegne luminose sopra le porte battute
dall’acqua stanno come diademi di regine da circo83.
La pioggia rallenta di volume e di vigore, la cortina argentea si dirada fra la
lampada e me, le sue funi si interrompono, divengono un getto di perle84.
Le ballerine in piazza abbassano le gonnelline tutte insieme; il Re [la statua
equestre nella piazza-tendone] ritorna peso e piatto nell’aria meno vaporosa,
Pp. 73 ss. Cfr. anche un passo della citata lettera di Marino Moretti a Palazzeschi,
da Cesenatico, del 15 gennaio 1937, appena ricevuto Il palio dei buffi: «Ma per me, delle cose
nuove, la più bella, assolutamente perfetta (forse la gemma del volume) è “Carburo e Birchio”.
Il dialogo dei due giovani vetturini (così giovani e così poveri), l’atmosfera della piazza, il senso
della mezzanotte, la pioggia, i poveri due che si rifugiano in una carrozza cantando sono un finale
stupendo. Mi auguro di non esser solo ad accorgermi che questo è un capolavoro» (MORETTIPALAZZESCHI, Carteggio II, cit., p. 345).
79
Nel 1957, «nella violenza di un acquazzone di pieno inverno» (Mondadori 2000, cit., p.
108); la variante, con espunzione di «pioggia», evita la ripetizione con «lasciato per intero alla
pioggia», acquisto del testo ’57 di qualche rigo sotto (cfr. nota seguente).
80
Nel 1957, il periodo assume la forma seguente: «e l’impiantito deserto, lasciato per intero
alla pioggia, ricorda un panorama da ballo Excelsior» (ibidem).
81
Cfr., nella versione ’57 (ibidem), la nuova struttura del periodo: «divien leggera e agile in
questa luce e nel vapore acqueo che la confonde», con il finale («confonde», appunto) a registrare
la sostituzione di «che le si produce attorno».
82
Si veda (ibidem) l’acquisto del ’57: «solo delle ombre nere».
83
Nel ’57 (ibidem), «da circo equestre».
84
Nel ’57 (ivi, p. 114), oltre a numerose altre correzioni, si veda la seguente variante: da
«le sue funi si interrompono, divengono un getto di perle» si passa a «le sue funi ininterrotte
divengono un getto di perle».
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e di bello gli resta solo la lucentezza della lavatura. I due cavalli sentendo rallentare il croscio sopra le loro spalle alzan la testa, e sotto l’incerato scuotono
il dorso, pestano un piede.
Il titolo della novella Il ladro (si continui, così, l’analisi) era, in Il re bello, Il
borsaiolo; ed era un titolo ancor più significativo, dato che proprio il tema della
«borsa» costituisce lo snodo fondamentale della vicenda: l’io narrante sottrae il
disinvolto ragazzo alla cattura, ma non s’avvede della borsa-refurtiva di cui il ladro
s’è liberato, appena entrato in casa sua; la successiva scoperta (l’io narrante è a
questo punto “detentore” della borsa) priva a sua volta lo stesso borghese-narrant
dell’idea di “superiorità” e del vincolo di gratitudine che egli credeva di potere
moralmente esigere dal giovane, il quale, da parte sua, non ha chiesto la restituzione del piccolo bottino; ma non per questo può risultargli “sufficiente” l’obolo in
denaro elargitogli a scatola chiusa dal padrone di casa: il “fascino” della situazione
sarebbe stato mantenuto solo a patto della restituzione della modesta refurtiva.
Il ladro, defraudato, libero a prezzo della perdita del frutto del suo lavoro, freddo e sicuro senza provare doveri di gratitudine, trova un alleato nel protagonista,
che, dopo averlo incontrato più volte − e riconosciuto − anche in séguito, beffa
le istituzioni e le loro leggi senza apparente giustificazione, a partire da quell’atto
istintivo di salvataggio che assurge a norma di comportamento (non tradirlo mai,
non denunciarlo, non rivelarlo). E resiste altresì, il narrante, ai tentativi di “normalizzazione” della domestica, espressione di paure “sensate” e banali che però
hanno in sorte, in questo caso, di restare del tutto inascoltate e ininfluenti, per
merito della parziale “redenzione” dalle convenzioni operata da un improvvisato
salvatore di ladri, e favoreggiatore, al quale resterà il senso d’inappagamento rappresentato da quella borsa: il «buffo» è lui, in un autentico capovolgimento dei
ruoli, e nel rischio d’una potenziale accusa di detenzione di merce illecita, se non
anche di ricettazione.
Altro e più radicale rovesciamento delle consuete direzioni del riso e dell’ironia è ritrovabile in Il gobbo. Il protagonista, Mecheri, ride della «gente diritta», ed
è una fonte inesauribile di giocondità, poiché, come tutti i gobbi, è «una persona
di spirito al massimo grado» (p. 99); e il drammatico finale, che potrebbe apparire
in contraddizione con una novella da cima a fondo pervasa, nel suo protagonista,
dalla voglia di trasgressione, di libertà, di sberleffo, di compenso e d’irrisione, di
scherzo, di battuta spumeggiante, è in realtà tutt’altro che imprevedibile, vista la
serie di “forze della beffa” che l’animoso Mecheri mette in campo e che quindi suscita anche negli altri. Per gran parte della novella è il gobbo a ribaltare il rapporto
d’irrisione, e ne gestisce il gioco; egli è il buffone e non il beffeggiato: come avviene
in Le roi s’amuse di Victor Hugo, e quindi nello stesso Rigoletto, tale personaggio
“deve” ridere e far ridere, e sarà alla fine crudelmente deriso e gabbato. La gobba,
finchè il suo portatore è il vero protagonista, è agente, non “paziente” di riso; e
siamo sempre in un inquieto circo di serio-buffi:
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Quando rideva, rideva tutto, e la sua gobba, agile e altissima, palpitava gioiosamente nel calore di una risata. Alto un metro e venti giusto, non era gobbo
reale, ma diritto davanti e snello; solo di dietro, dalla vita in su, gli si inarcava
una gobba così aerea che, guardandolo, bisognava domandarsi come vertebre umane avessero potuto seguire, senza stroncarsi, quella curva prodigiosa. Una faccetta rotonda e rossa, rosso di capelli e ricciuto, sempre con una
bombetta nera in testa, e vestito di un tait un po’ verdognolo, la cui falda
così bene addomesticata faceva risaltare quella curva che aveva inizio alla sua
vita esilissima. Eragli indispensabile compagna una giannetta che completava
a meraviglia la sua figura in un’andatura svolazzante su due piedini di fata.
Non poteva pesare più di trenta chilogrammi con la bomba e la giannetta. Un
gioiello, insomma, un capolavoro della razza. Celibe, viveva della rendita di
una casa lasciatagli in eredità dalla propria famiglia (p. 100).
La stessa gobba ridiventa una condanna dopo il gabbo realizzato ai danni del Mecheri, e cresce «fino a toccare le vette del firmamento» (p. 111). La beffa, questa
volta subìta, a opera di un falso menomato, ma grazie a un piano organizzato dagli
altri gobbi della città, bersaglio preferito del loro compagno di sventura, annulla il
beffatore, lo indirizza quasi direttamente al pattume e alla monolemmatica scoperta
dei netturbini («Un gobbo!») in un finale a schianto secco, un finale beffardo in
singolare omaggio al beffatore beffato: tragedia e ironia qui si fondono in quel fulmineo accorciamento dei tempi narrativi (cfr. sempre p. 111) nel quale è da notare un
compendio cronologico d’un solo capoverso, capace di traghettare da solo la vicenda
dall’imperfectum consuetudinis a una puntualità aoristica che a sua volta in travolgente accelerazione inghiotte il personaggio nel mistero e nel buio dell’ignoto, lo sottrae
all’affabulazione comune e lo immerge, infine, nella spazzatura. La tradizione novellistica del Boccaccio e, per altro aspetto, del Lasca, entra sì nella prosa palazzeschiana, ma come singolo movimento di sinfonia ispirata a tutt’altro progetto musicale.
La problematica tragigrottesca del «buffo» è cosa per definizione differentissima dal
gusto puro della beffa, dalla sua calibrata autosufficienza estetico-stilistica, dalla sua
compiaciuta ostensione narrativa; e tale problematica si trova a essere altrettanto
lontana dal sarcasmo del Grazzini, dallo spietato scorno che colpisce debolezze e
difetti di tipologie umane disarmate e preventivamente esposte agli attacchi di altri
personaggi. Il Lasca si limita, in fondo, a fiancheggiare la natura nella sua opera
di selezione, di scarto, di messa in crisi di quelle debolezze e di quei difetti: nella
novellistica di beffa, e segnatamente in quella toscana, è proprio il disagio a essere
“colpito”, dallo scrittore come dai personaggi comprimarî. In Palazzeschi, invece (e
al di là della fin troppo citata premessa del 1957, nella sua assai sospetta dominante
generica, non aliena da una semplice finalità pragmatico-editoriale), ferma restando
sul piano meramente fattuale la sorte del disagiato, è anche la normalità ad essere
istituita a oggetto e a bersaglio d’un’ironia che non si limita certo al solo «buffo»,
ladro, gobbo, inetto, o presunto tale. Nel caso de Il gobbo, si tratta addirittura (sino
quasi al limite del crudo finale) d’una beffa, e di scambi di beffe, fra disagiati: siamo
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lontani dal distintivo manicheismo − se non altro, di fine racconto − normalità /
anomalia, proprio della tradizione novellistica classica, con l’ironia a fare da servizio d’igiene in nome della stessa normalità, con l’ironia-polizia, con l’ironia agente
intranarrativo del ministero dell’interno e dell’ordine, e insomma della repressione,
della prigione, del manicomio, dell’eliminazione, in vario − qualunque − modo perseguìta e ottenuta, di chi vittima è già in partenza, fin dalla situazione contestuale
pregressa. Palazzeschi non punirebbe un divario d’età, in amore, nel modo in cui
ciò avviene, ad esempio, nella Casina plautina e nelle sue riprese cinquecentesche; e
forse il manganello del soldato non sarebbe esente da qualche ironico colpo mancato, o colpo a vuoto, da qualche grottesco “liscio” da cilecca bastonatoria, come per
fortuna avviene a molti policemen chapliniani; l’autore sarebbe capace di ridere di
tante altre cose, anziché d’una fiamma d’azzimato amore senile. Qui, ovvero nello
specifico caso di Palazzeschi, l’ironia si fa insomma, ed è il caso di dire “finalmente”
(sul piano dell’affabulazione e della resa narrativa), agente del disordine, agente di
un sagace artista-regista del ministero del disordine e della follia, del candore esplosivo, della corporeità liberatoria, deflagrante e anticonvenzionale, della risata-sberleffo
quale grimaldello di amara libertà, della forte renitenza a una società molto socievole ma profondamente antisociale. E siamo altrettanto lontani dalla beffa subìta dal
ganimede rionale pratoliniano da parte delle ragazze sanfredianine. In Palazzeschi,
se l’ironia, anziché spumeggiare di auspicabili piroette da ministero del disordine,
rientrasse invece − sciagurata ipotesi − nella triste categoria che in grande prevalenza
le si assegna, quella dell’ironia-polizia, dei “lacrimogeni” intellettuali o critici, essa
potrebbe sbizzarrirsi a trovare tutte le possibili forme di appiattimento sulla squadrabuoncostume e sui suoi comportamenti (una retata in rue de Moulins, prigione per le
pensionanti, e Salpêtrière per il pittore, e per le sue tele), di appiattimento sul moralismo (moralismo eccome, e in che misura!) nei confronti del “diverso”, addirittura
di appiattimento sul beghinaggio, beghinaggio non di tipologia laica, solidarizzante
e paritetico-pauperistica, nordico-fiamminga, ma di tipologia delatorio-petulante,
calunnioso-repressiva85:
Il «realismo grottesco», e in particolare la narrativa di Rabelais [il riferimento
è alla definizione di «réalisme grotesque» adoperata da Bachtin in «L’œuvre de
François Rabelais»], sono orientati verso il «“bas” corporel proprement dit, à la
zone des organes génitaux». […] «tout les gestes et expressions rabaissants…
sont ambivalents… Et le “bas” corporel, la zone des organes génitaux est le
“bas” qui féconde et donne le jour. C’est la raison pour laquelle les images de
l’urine et des excréments conservent un lien substantiel avec la naissance, la
fécondité, la rénovation, le bien-être». […] Palazzeschi […] ricorda che l’essere
umano è in primo luogo una realtà dotata di insopprimibili funzioni organiche,
Si prosegua concettualmente con CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit.; i tre brani alle
pp. 224-227.
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le quali, in quanto sono presenti in ognuno, non consentono di istituire gerarchie fra gli individui che compongono la specie, e in quanto assicurano con la
loro attività la sopravvivenza e il benessere di ciascun individuo e dell’intera
specie, non possono patire arresto o impedimento.
Rimane sempre vero che anche «il realismo parodico dell’uomo come corpo»
era ineluttabilmente destinato ad urtare contro la forza strapotente e incoercibile del principio di realtà, specie quando questo si fosse identificato con
l’insensato massacro della guerra e con l’ordine violento e mortificante imposto alla società e alla cultura dal fascismo.
È per questa ragione che il residuo di interiore libertà diviene
stimolo e strumento per reinventare figure di liberazione la cui azione contestativa contro l’ordine repressivo e le convenzioni si esercita in modi cauti,
schivi, occulti, dimessi, nelle pieghe dell’esistenza, o attraverso un unico gesto
di disperata e grottesca vitalità, senza possibilità di ripresa o di sviluppo. Non
si tratta ormai di convertire il principio di realtà nel principio di piacere, ma
più modestamente di fare del principio di piacere un’ipotesi di vita alternativa all’interno delle determinazioni irremovibili imposte dal principio di
realtà. Nascono così i nuovi «buffi», i «buffi» del Palio e di altri testi limitrofi
o non remoti, i buffi bibliograficamente definibili come tali. La loro presenza,
intrepidamente anche se moderatamente inquietante […], ha un rilievo storicamente inconfondibile.
I «nuovi “buffi”», nel prolungato day after rispetto alla morte dell’utopia, non possono essere in grado di opporre altro che «un ironico e irriducibile dissenso» nei
riguardi della violenza della storia, ovvero possono opporre «il nulla o il disfacimento». Ma proprio tale rilievo attesta che molti degli stessi nuovi buffi «riflettono con la
loro personalità schizoide […] l’immagine agghiacciante di una realtà sociale irrimediabilmente dissociata e frantumata»86; anche la realtà sociale “normale”, standardizzata, non gode di ottimi protocolli salutiferi; e le «gerarchie fra gli individui che comIvi, p. 227. La novità rappresentata dalle figure di buffi nello scrittore che si avvia agli anni
1930 consiste nell’effetto straniante che viene ottenuto da un insorgere del meccanismo del piacere
che, in sé, nasce dalla stessa stimolazione che già da prima valeva: tale meccanismo, «in una situazione
di stasi libidica e di inerzia pulsionale […] provoca per contro effetti dinamici e stranianti. Quella del
corpo è una assai singolare ragione, che imponendo il proprio dominio mette in fuga la falsa ragione
della non corporalità, capovolge gli uomini perché stiano diritti sui piedi e muovano liberamente
le membra, li obbliga a retrocedere per farli avanzare e ad andare in basso per arrivare in alto,
converte la norma nell’anomalo e il centro nell’eccentrico, rovescia regole, principi convenzioni e
valori, liquida automatismi, distrugge equilibri irrigiditi, attizza cupidigie spente, dissolve la pazienza
e l’astinenza e istituendo il nuovo equilibrio della vitalità e il nuovo valore della salute orienta scelte e
comportamenti secondo la stimolante strategia del desiderio» (ivi, p. 229).
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pongono la specie» costituiscono davvero un’impostazione da scongiurare, al pari
degli eccessi differenzianti tra le categorie di normalità e di non normalità, per la toga
nera del giudice e per il camice bianco dello psichiatra87; «sono le forze dell’ordine
quelle che provocano il disordine», come scriveva Sebastiano Timpanaro a proposito delle agitazioni popolari di Piacenza, nel 184688; e non mancano certo di intento,
d’ispirazione e di pronuncia d’ironia collettiva le vocianti richieste, e indicazioni, di
«Manette!» da parte dei borghesi per i manifestanti operai socialisti, o anarchici, di
Primo Maggio di Edmondo De Amicis, e di «Manicomio!», con tanto di lancio di
monetine, per Luigi Pirandello, subito dopo la disgraziata “prima” romana dei Sei
personaggi nella redazione 1921, in attesa che la sorte storica e artistica dello chefd’œuvre drammaturgico si capovolgesse, per sempre, nella ben diversa accoglienza
ricevuta a Parigi89. E, pur nella sua tipologia talvolta definita come «schizoide»,
87
Semmai, il «disagio» lemmatizzato dallo scrittore può incontrare più d’un’opportunità di
percorso psicoanalitico, tra lo stesso Freud e Adler. Se «la civiltà è venuta costruendosi attraverso
una sistematica mortificazione dei bisogni legati» al principio di piacere (ivi, p. 233), ciò significa
che «Ananke», la necessità, proprio in nome del “bene” della civiltà, «coarta il desiderio di libertà
individuale, inibisce il fluire della libido, reprime anche le più potenti pulsioni. Le relazioni sociali −
conclude Freud − sono governate da un’enorme “frustrazione civile”». Il tentativo di reintegrazione
nel principio di piacere è sì possibile, per Palazzeschi, ma nella sua natura di atto di scarto, di
violazione della norma di Ananke, «essa provoca non soltanto l’incomprensione, il risentimento e
il malessere di chi non partecipa alla trasgressione, ma uno stato di isolamento e di difficoltà sociale
dello stesso trasgressore», il quale, se da una parte può attuare «una sia pur parziale e temporanea
rifondazione [della propria esistenza] secondo un modello di autonomia del comportamento che
tenga conto soltanto della ragion corporale e del principio di piacere», non potrà, d’altro canto, non
pagarne un prezzo, ovvero non potrà evitare di “autoescludersi” «fatalmente dal consorzio degli
altri uomini». Esiste insomma un «“disagio” della libertà così come esiste un “disagio” della civiltà»,
e tale simultaneità è ben nota ad Aldo Palazzeschi, sia come uomo sia come scrittore. E «il prezzo
necessario a garantire libertà alla ragion corporale è a volte un “disagio” che si converte nella morte»;
qui ci si riferisce soprattutto a «issimo» e a Lo zio e il nipote, nelle quali, soprattutto nella seconda,
«questa morte ironica e paradossale è un’invenzione che mentre ricupera il pathos di certa cultura
romantica lo strania e lo deforma grottescamente secondo le implacabili esigenze parodiche della
fantasia “buffa”. Il piccolo decamerone dell’uomo represso da Ananke e liberato dalla liberazione del
principio di piacere, la breve commedia umana del “disagio” della civiltà e del “disagio” della libertà,
trovano forse qui […] la loro espressione più intensa e più compiuta».
88
Nel saggio Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, raccolto in
SEBASTIANO TIMPANARO, Nuovi studi sul nostro Ottocento, Pisa, Nistri-Lischi, 1994, p. 86.
89
La nascita della figura del “buffo” nel drammatico discrimine costituito dal dopoguerra
e dall’affermazione del fascismo è ben lumeggiata, ancora, nella sua area culturale e letteraria
ribollente di contraddizioni, da Fausto Curi (CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit., p. 227): «da
un lato la curiosità ironica e dissacrante di analizzare il meccanismo di produzione del “buffo” nel
comportamento degli uomini soggetti alla repressione; da un altro lato una specie d’angoscia nei
confronti dell’esistente percepito come una spietata mortificazione del principio di piacere che
rinnova e accentua in senso storico-oggettivo ansie e paure di precedenti stagioni. La curiosità
è ancora stimolata dalle sollecitazioni nietzscheane e dall’esperienza grottesca e gaudiosa del
Controdolore; l’angoscia ancora segnata dalla perdita di vitalità provocata dalla guerra. Curiosità
e angoscia interagendo determinano le modalità della ricognizione del “buffo”». E si ricordi
159
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Il comportamento anomalo o eccessivo del «buffo» […] non ha però nulla di
individualmente patologico, sia perchè non deriva da disfunzioni organiche
o da traumi psichici, sia perchè non assume mai caratteri di violenza, bensì
piuttosto quelli di una tutta pacifica, privata e a volte discretissima sovversione. Risulta anzi evidente che, se di patologia si tratta, essa non può che essere
una patologia della normalità, la norma essendo malattia e l’anomalia salute
[…]. Siamo […], almeno nei casi di flagrante adesione alla ragion corporale,
lontani e forse antipodi alle radici del naturalismo […]. Ugualmente lontani
ci troviamo peraltro da una vera e propria narrativa dell’assurdo e dell’assenza. Il comportamento del «buffo» è infatti gratuito, e quindi incomprensibile,
solo per chi non pratichi o non conosca la ragion del corpo. Per chiunque
altro, e dunque, in primo luogo, per l’ipocrita lettore, il vuoto provocato dalla trasgressione «buffa» della norma è in realtà il pieno di un’azione savia e
salutare e l’anomalia conferisce all’esistenza uno spessore che ne restaura il
senso e la vitalità90.
Qui (si torni direttamente a Il gobbo) è il beffatore ad essere beffato; come
invece immaginarsi Calandrino beffatore di Buffalmacco, o il laschiano Guasparri
del Calandra restituire una vindice Mostellaria plautina, nel notturno del Ponte
alla Carraia, a Zoroastro e soci? Pure Capuana può avere lasciato qualche traccia
d’immagini; ma Neli Frisinga, lo sciancato eponimo, viene sì ritrovato morto dai
manovali, fra le macerie del miserando abituro, proprio nel punto in cui era il suo
letto; ma la sua è, appunto, protesta che esprime radicamento, volontà d’ancoraggio, voglia di “casetta” del nespolo; il palazzeschiano Mecheri desidera invece l’annullamento, la fuga, l’azzeramento d’identità, proprio in luogo diverso da quello
che TELLINI, nell’epilogo della sua olschkiana Introduzione. Firenze, una e tante città, cit., p.
LVI, riferendosi ai Due imperi… mancati (1920; ed. BIONDI, cit., 2000, p. 168) e all’inquietante
evocazione di «centauri», di «aquile romane», di «ali di vittorie», può affermare, riguardo
all’incombente prospettiva del regime fascista, che «Il leggero, scanzonato, ilare Saltimbanco, nel
1920, è tra i pochi che se n’avvedono». Resta del tutto vero (CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia,
cit., pp. 229-230) che «“Buffo” è», e rimane pur sempre, «colui che al primo richiamo si arrende
alla ragione del corpo, o che opponendo dapprima una cieca resistenza finisce poi per lasciarsi
investire dalla sua forza, o ancora chi ha scelto consapevolmente e definitivamente, in contrasto
con gli altri, la libertà gestuale che appaga il desiderio […]. Non appena il “buffo” ha accettato
di essere ragionevole secondo il corpo, o ha, anche involontariamente, determinato le condizioni
perchè si realizzi la ragion corporale, viene proiettato in uno spazio psichico che non ha più nulla
in comune con lo spazio che è proprio degli altri uomini. La ragione del corpo è scandalosa e
terrificante, non consente normali rapporti intersoggettivi, ammette solo complici e adepti o,
peggio, isola in una luce di demenza». Per un’opportunità di raffronto − analogie e differenze −
tra Pirandello e Palazzeschi, cfr., ora, RAFFAELE DONNARUMMA, Maschere della violenza. Teorie e
pratiche dell’umorismo fra modernismo e avanguardia: Pirandello, Gadda, Palazzeschi, in Modi di
ridere. Forme spiritose e umoristiche della narrazione, a cura di EMANUELE ZINATO, Pisa, Pacini, 2015,
pp. 171-207. Si ricordi anche Le forme del comico, tornata di convegno dell’«ADI» («Associazione
degli Italianisti»), Firenze, 6-10 settembre 2017, di cui si attendono, come opera collettiva, gli Atti.
90
Cfr. CURI, I «Buffi» o la fine dell’utopia, cit., p. 230.
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d’origine, dal paese verso la “meta” rappresentata dall’innominata e neutralizzante
metropoli: egli è l’ennesimo fantasma, l’ennesima apparizione dell’uomo di fumo;
e lui, rispetto al suo contesto ambientale di partenza, si volatilizzerà completamente. Il suo suicidio è l’opposto di quelli ottocenteschi, da quello di Ortis a quello
(indiretto) di Padron ‘Ntoni a quello antischopenhaueriano di Alfonso Nitti. Il
suicidio ottocentesco mira alla terra, mira a lasciare un messaggio alla vita; il suicidio in Palazzeschi, vincente o perdente che sia, civile o fisiologico, con exitus
ambientato nel teatro del carcere o nel teatro del pattume, mira all’aria, mira al
cielo; al cielo, beninteso, come sede di dissoluzione, come sede del “non essere”,
come “luogo” di aerea leggerezza dell’anima e dello stile; al cielo del nulla, non al
cielo metafisico delle entità superiori.
Si prosegua con l’esame delle novelle. In La gloria, un personaggio massimamente abitudinario ottiene postuma fama con le sue opere di pittura, realizzate in
maniera infinitamente paziente con ali di mosche; l’originalità dell’espressione d’arte, unita alle connotazioni che la pagina mostra del signor Scipione («esile», «piccolo», micragnoso su ogni dettaglio, una prosopografia corrispondente a chi appunto
lavora con ali di mosche), sembra iscriverlo al novero dei buffi; e invece la sfera del
buffo appartiene alla domestica, al personaggio cosiddetto “normale”; incapace di
capire qualcosa dell’uomo o omino che le vive accanto, la donna è, insomma, una
delle tante palazzeschiane figure di governanti che attendono, in modo spesso più
invadente che affettuoso, ai loro padroni celibi. Ella progressivamente crescerà, in
questa caratterizzazione grottesca, fino alla conclusione della novella (si veda il desiderio “naturalistico” di comprendere il metodo d’acquisizione della materia del lavoro d’arte). Basta qualche esempio. L’emissione insistita e affilata, sottile e ronzante
della «i» di Aleppina non è affatto una qualifica d’accesso di Scipione ad un ruolo
oggettivamente definito di «buffo», ma è un problema della domestica, della persona
“normale”, del lettore “normale”, e al limite del critico savio. Lo stesso, già citato
motivo della grandezza artistica, del mistero connesso al signor Scipione, diviene
un’ossessione soggettiva di Aleppina, i cui interrogativi, rivolti con improvvida e risibile curiosità ai competenti visitatori postumi della casa del pittore, resteranno senza
risposta, e susciteranno presso di loro risate e paternalistico compatimento («Cara!
Cara!»). Più volte lo scrittore mette in difficoltà l’assennata Aleppina, che non a
caso prorompe in uno scatto di banale volgarità quando crede di veder confermata
l’idea della “pazzia” del padrone. E i tratti caratteriali di Scipione («uomo chiuso,
chiusissimo [a lei!], metodico e sofistico, tutto cavilli, meticoloso e prolisso»: p. 114)
appaiono non un dato oggettivo, bensì una deformazione percettiva della vecchia
domestica, poi infatti del tutto sorpresa e spiazzata riguardo ai percorsi interiori che
si svolgevano in quello che doveva essere (e che invece non era affatto) il suo incasellabile e naturalistico regno casalingo, insomma una casa «dove non si chiedeva
più del suo padrone com’ella lo aveva conosciuto e lo vedeva ancora, come lo aveva
veduto vivere e morire, ma di un tale Scipione Gonfiantini che le sembrava di non
conoscere, di non aver veduto mai, di non aver sentito nominare»; la minuziosità
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dei particolari “descrittivi” sembra frutto di modesto realismo d’autore: ed è invece
espressionismo irraggiato nel proprio habitat domestico da una mentalità ancillare!
Non è colpa del buffo ufficiale se il vero buffo, il normale, non ha capito nulla della
persona con la quale ha convissuto. Ricordiamo che la peggiore biografia di Svevo è
quella della moglie, Livia Veneziani; e che la peggior conoscitrice, anche domestica,
di Zeno Cosini, l’unica che non potrebbe leggere e men che mai capire la Coscienza, è
proprio la moglie così come ci viene presentata dallo scrittore Svevo, l’ottima massaia
e procreatrice Augusta Malfenti.
Dal parallelismo, quasi assoluto, delle vite e delle carriere di Pochini e di Tamburini, eponimi della successiva novella, è più che mai possibile evincere la loro
trasgressione, che consiste appunto nel non trasgredire mai (questo sì che è fortemente anomalo), nell’assoluta e indefettibile “normalità” routinière, nella prosecuzione delle abitudini, nell’incapacità di uscire dai prefissati tragitti esistenziali; e
anche nei piccoli hobbies, come in quello del lotto, essi fanno sempre e comunque
scattare il duale impiegatizio (in quel duale non v’è sostanziale traccia di Bouvard
et Pécuchet: Pochini e Tamburini sono personaggi protocollati sul rifiuto, implicito nel loro stesso comportamento, di ogni vero tentativo di modifica o d’evasione
dagli schemi consuetudinarî). Una normalità monstre, insomma, due veri mostri
della normalità: ecco due autentici buffi, rappresentati lungo l’intero arco vitale in
quella che abbiamo definito (e la loro prodigiosa, “comica” normalità legittima il
termine) un’epifania protratta, scandita esattamente da una mancanza d’episodi che
dura fino alla morte di Pochini ed alla beffarda uscita ritardataria della quaterna al
lotto, proprio quando Tamburini, desolato e in lutto per la perdita dell’amico, non
la può giocare. Il finale sogno del sopravvissuto rovescia il “motivo del consiglio
dall’aldilà”: il morto suggerisce un’altra quaterna e ridendo rimette in circolo il solito meccanismo. I numeri non usciranno, a detta del trapassato, ma il sopravvissuto
non può non tentare; e la risata a crepapelle di Pochini ha l’effetto d’introdurre un
forte elemento d’ironia interno alla coppia, in comunicazione fra i due “mondi”,
ma anche quello di ripristinare il settimanale uso della giocata al lotto, e quindi di
perpetuare irrevocabilmente i riti che avevano caratterizzato la vita d’entrambi. In
questa loro abitudinarietà incredibile, nel loro risibile e immutabile “passo a due”,
si sgomitola il tacito parossismo d’un’imperturbata, parallela inerzia da travet e poi
da pensionati. E anche qui c’è, anziché quella di Flaubert, l’influenza di due novellieri italiani: il Capuana de La casa nuova e il Pirandello di Scialle nero91.
91
La casa nuova di Luigi Capuana fu pubblicato in Nuove paesane (1898), poi in Passa l’amore
(1908); come in parte Scialle nero, è una novella che annovera l’imprescindibile abitudine della
passeggiata serale di due personaggi, in ambedue le novelle laureati in medicina e in legge; il
giudice D’Andrea di Scialle nero è lo stesso personaggio della novella e del dramma La patente. Sul
confronto tra il testo capuaniano e quello pirandelliano, e sul significato letterario di entrambi, ci
permettiamo rinviare al nostro Capuana novelliere. Stile della prosa e prosa “in stile”, Povegliano
Veronese, Gutenberg, 1991, pp. 304-307.
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La trama de Il dono si riconnette per definizione al motivo degli autoomaggi,
che frutteranno al celibe, a suo modo desideroso d’un contatto con gli altri, la truce
e insultante beffa d’un regalo, in questo caso vero, di contenuto scatologico: «Ecco
finalmente anche la m. entrata magnificamente nella letteratura. Qui la pruderie sarebbe assurda», scrive esattamente a questo proposito Marino Moretti92. L’iniziale
digressione su celibato e adulterio, come avviene in altri racconti, che comprendono
sezioni manifestamente aperte alla sola voce dello scrittore, costituisce un ironico e
ammiccante oltraggio artistico al naturalismo (quanto meno, a quello veristico), un
oltraggio condotto all’interno della narrazione e pieno di levità e di strategica seduzione scrittoria; qui vi sono tutte le connotazioni del celibe-avaro, a formare un’antologia dei tratti tipologici, dei fasci di connotazione dell’egoista-misantropo da Plauto
a Molière al Duemila. E tutta l’originalità, tutta la semantica di «buffo» sembrano
magnetizzate dal solo personaggio di Telemaco Bollentini. Ma la domestica sviene93
quando a casa giunge il primo regalo; la trasformazione avviene in lei, che perde ogni
segno di riconoscimento del mondo, ogni punto di riferimento94:
92
Si legga appunto un passo dalla citata lettera del 15 gennaio 1937 di Marino Moretti
ad Aldo (MORETTI-PALAZZESCHI, Carteggio II, cit., pp. 344-345): «Ecco finalmente anche la m.
entrata magnificamente nella letteratura. Qui la pruderie sarebbe assurda. L’arte nobilita tutto,
anche il brindellone che “pareva aver formato nel bronzo il suo potere”. Bellissimo quando le
donne attirano in casa il brindellone, bellissimo quando il signor Telemaco riceve il pacco, esita
prima d’aprirlo e poi… riconosce che “si tratta d’un capolavoro del genere”. Se questo racconto
fosse uscito dalle “Soirée de Médan” avrebbe fatto chiasso non meno di “Boule-de-suif”». Torna
ancora una volta, nel dialogo fra Moretti e Palazzeschi, il riferimento a Maupassant. Si legga pure
il breve passo nel quale la prospettiva della “vendetta”, e quindi il pensiero della “materia” di
cui essa dovrà sostanziarsi procura uno stato di rapito godimento alla governante; si esalta, qui
come altrove, il ludico senso palazzeschiano dell’ironia, nello scambio tra sfera scatologica e sfera
poetica: «La Margherita ascoltava estatica, rapita: il pensiero della vendetta faceva esalare da ogni
cosa il profumo della poesia» (1937, ed. GUERRICCHIO, cit., p. 120) / «La Petronilla ascoltava in
rapimento, estatica: il pensiero della vendetta faceva esalare da ogni cosa il profumo della poesia»
(Mondadori 2000, cit., p. 727).
93
O è sul punto di svenire, nell’edizione 1957 (PALAZZESCHI, Tutte le novelle, cit., p. 716). Il
nome, nel ’57, è «Petronilla», molto più adatto al timbro umoristico, nella linea di «Arcibaldo» e
appunto «Petronilla», anziché un «Margherita» che può rievocare, onomasticamente, la creatura
faustiana o la Marguerite Gautier dumasiana de La dame aux camélias. Zobeide rimane invariato.
La successiva citazione, nel ’57, è a p. 721, ed elimina il punto interrogativo nella frase finale, con
espunzione delle due virgole entro le quali è racchiuso il nome e con conseguente fluidificazione
del ritmo del discorso: «a chi non sarebbe ricorsa, la Margherita, per impedirgli quella gioia?» (Il
dono 1937) / «a chi non sarebbe ricorsa la Petronilla per impedirgli quella gioia» (Il dono 1957).
94
Nell’edizione 1957 (ora in PALAZZESCHI, Tutte le novelle, Mondadori 2000, cit., p. 721) il
brano fruisce di alcune varianti: «Da parte sua la Petronilla non poteva ammettere né tollerare
un cambiamento di rotta dal quale si sentiva offesa fino al succo delle ossa. Bene o male era stata
sempre al centro di quanto avveniva nella casa, ora si sentiva tagliata fuori dagli avvenimenti:
esclusa. Dopo tanti anni di monotonia, dopo tanto stillare i centesimi vederlo scialacquare e in
che maniera, era una cosa che faceva impazzire lei invece di lui: scialone dopo tanta lesina e senza
saperne il perché, senza conoscerne la ragione, senza esser messa a parte di nulla… le girava a
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Da parte sua la Margherita non poteva ammettere né tollerare quel cambiamento di rotta dal quale si sentiva offesa fino all’osso perché esclusa. Bene o
male ella era sempre stata al centro di quanto avveniva nella casa, ora si sentiva aldifuori degli avvenimenti. Dopo tanti anni di monotonia, dopo tanto
stillare i centesimi vederlo scialacquare, era una cosa che faceva impazzire lei
invece di lui: scialone dopo tanta lesina, e senza saperne il perché, senza esserne messa a parte, senza conoscerne la causa…. si sentiva girare a vuoto la testa. Disposta a tollerarlo misantropo, scorbutico, intrattabile, avaro fino allo
strazio del proprio stomaco o della propria gola, non gli concedeva quell’ora
di benessere attraverso i dolci e la frutta. Sarebbe ricorsa al procuratore del
Re, a chi non sarebbe ricorsa, la Margherita, per impedirgli quella gioia? (ed.
Vallecchi 1937, p. 153).
E, come si può evincere dalle due risposte del medico, rispetto alla sfera del buffo,
dell’originale, il personaggio di Telemaco ha semmai recuperato un po’ di normalità
(intenzionale, se non altro). Si veda, ad esempio, la reazione al dono di «una cioccolata»: «Margherita [nel ’57 «Petronilla»] la pose nella tasca del grembiule non per
mangiarla, si capiva, ma come corpo del reato per un processo iniziato già e che si
svolgeva presso la signora Zobeide in portineria»; «un processo», ancora una volta;
ma l’intervento del medico, non abilitato a modificare il corso interno degli eventi,
già orientati dal pregresso verdetto delle due donne (anche in Giulietta e Romeo i
due innamorati si rassegnano a spostarsi da quel punto della spiaggia), rovescia però,
per il lettore, i ruoli fra accusatori e imputati, mettendo precisamente “alla sbarra”
le accusatrici, impegnate a recuperare un dominio di viperina affabulazione su ogni
metro quadrato del casamento e della piazza antistante95:
Che male c’è se si compra dei dolci e della frutta? − disse il medico con piglio
severo: − Per un uomo della sua età sono i cibi da preferirsi; meglio assai che
se eccedesse in mangiar carni o bevesse vino in proporzione soverchia. Fa
vuoto la testa. Disposta a tollerarlo misantropo, scorbutico, intrattabile, avaro fino allo strazio del
proprio stomaco o della gola, non gli concedeva un’ora di benessere attraverso i dolci e la frutta.
Sarebbe ricorsa al procuratore del Re, a chi non sarebbe ricorsa la Petronilla per impedirgli quella
gioia».
95
Data l’importanza critica che a nostro avviso riveste la citazione, con l’attestato di normalità
e di simpatetico consenso da parte del medico, e con la dismissione della precipitosa, e davvero
non innocente diagnosi delle pettegole, citiamo, qui (ivi, p. 720), dall’edizione 1957. Riproduciamo
inoltre, a richiamo dell’edizione ’37, l’ultimo capoverso della citazione, rispetto alla quale, com’è
visibile, la ’57 apporta delle varianti: «− Ecco, vedete, appunto, è allegro, è contento, si capisce;
vinta la tetraggine dell’avarizia è contento di mangiare i suoi dolci e la sua frutta; è soddisfatto di
essersi saputo vincere, si sente un altro, gli sembra che il mondo sia divenuto a un tratto cento
volte più grande e più bello; e salta, e balla, e canta per la felicità. Si sente bene, leggero come un
bambino, e offre a voi un po’ di quello che gli dà tanta gioia, perché ne godiate la vostra parte voi
stessa; ciò è generoso, è gentile da parte sua. Chi sa come si pente di non essersi saputo vincere
prima, poveretto» (ed. GUERRICCHIO, cit., p. 113).
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bene, bravo, lo approvo senz’altro, mi piace. / − Ma lei non sa, ma lei non sa
signor dottore − incalzavano insieme le donne quasi assalendolo, − lei non sa
fino a qual punto arrivasse la sua spilorceria, tutto il quartiere n’è informato
e ne parla, lo sanno tutti, tutti ne ridono, lo domandi a chi vuole e sentirà la
risposta. / − È vecchio… La vecchiaia fa certi scherzi. Per gli ultimi giorni
della vita vuol tenersi dolce la bocca: bravo. E a voi che cosa ne viene? Che
ve ne importa? Spende forse del vostro? Stai a vedere che col proprio denaro
non è padrone di comprarsi quello che gli piace. / Le donne non riuscivano
a persuadersi che un uomo dotto prendesse alla leggera quel fenomeno che
rappresentava lo sconvolgimento di tutta una vita. / − È diventato goloso,
non è un difetto troppo grosso né raro − proseguiva il dottore in tono di
intima compiacenza. − Forse lo è stato sempre, ora la gola ha avuto ragione
sull’avarizia: un cambiamento simpatico, mi piace, bene, lo approvo a pieno.
/ La Petronilla descriveva i sorrisi misteriosi, sibillini, i saltarelli e la piroetta
nel gettarle la cioccolata e la caramella. / − Ma certo, certo vedete, appunto, è
allegro, contento, si capisce subito; vinta la tetraggine dell’avarizia è contento
di mangiare i suoi dolci e la sua frutta; soddisfatto d’essersi saputo vincere,
si sente un altro, gli sembra che il mondo sia divenuto a un tratto cento volte
più grande e più bello; salta e balla, canta per la felicità. Si sente bene, leggero
come un bambino, e offre a voi un po’ di quello che gli dà tanta letizia, perché ne godiate voi stessa. È generoso, è gentile da parte sua. Poveretto, chi sa
come si pente di non essersi saputo vincere prima.
Il nuovo, innocente comportamento di Telemaco Bollentini non potrebbe incontrare migliore accoglienza, e migliore e più convinta e più sensata approvazione,
da parte del medico; oltre alla giusta (e questa sì normale) serie di interrogativi da
porre alla cara Margherita / Petronilla e alla cara Zobeide («E a voi che cosa ne
viene? Che ve ne importa? Spende forse del vostro? Stai a vedere che col proprio
denaro non è padrone di comprarsi quello che gli piace»), vi sono tre frasi a loro
modo rivelatrici della normale, proprio perché tardiva reattività del personaggio
alla plumbea cappa caratteriale che lo aveva dominato per «tanti anni», come due
volte lo scrittore ha avvertito nelle pagine precedenti; sono tre frasi che rendono
spiegabile in maniera semplicissima la nuova connotazione comportamentale del
Bollentini e che servono, si potrebbe dire, a riattaccare la coda al mostro: «È diventato goloso […]. Forse lo è stato sempre, ora la gola ha avuto ragione sull’avarizia»;
«vinta la tetraggine dell’avarizia è contento di mangiare i suoi dolci e la sua frutta»;
«salta e balla, canta per la felicità». Viene da inneggiare ai «saltarelli» e alla «piroetta» di Telemaco, che la Petronilla descrive al medico nell’intento, fallito, di far
passare per matto il padrone.
Uguale simpatia, e aria di colorata bellezza, recano le cartoline illustrate, che
provocano invece «terrore», «sudore sulla fronte», senso di totalizzante estraneità
esistenziale e tragica crisi di identità nelle due megere, da parte loro còlte da panico, al primo recapito di cartolina sul tavolo, come se si trattasse del luogo su cui,
in campagna, è caduta una saetta: «Con vivaci e suggestivi colori era riprodotta,
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su quella cartolina, una bruna venere fanciulla, nuda, distesa sopra il letto di sete
morbide, e che stringeva fra le dita con grazia fanciullesca una rosa. / “Una donna
nuda” [oppure − 1937 −: «nuda distesa sopra un letto di sete morbide, e che teneva,
con grazia fanciullesca, fra le dita una rosa»]»; e alla «bruna venere ignuda» fanno
séguito «fiori, paesaggi, figure, frasi cortesi e rispettose traboccanti di ossequio e
affettuosità», e ancora una «corbeille» di rose «candide» (ed. ’37), o «bianche come
neve», e «di rose rosso sangue»: «Per modo che mentre disopra il signor Telemaco
si pavoneggiava fra le rose, succiando cioccolate e caramelle, nella strada cresceva
il mormorio come quello del mare» (Mondadori 2000, p. 723). In una decodifica
del fenomeno Bollentini che si esprime, al solito − è il caso di dire −, in un’assoluta, ossessiva e intransigente ricerca di manicomio o di prigione, e dopo una nuova
denegazione di patologia da parte del medico, si decide «di ricorrere al frenologo»
(Mondadori 2000, pp. 724-725):
Essendo il manicomio poco distante, la signora Zobeide s’incaricò d’interpellarvi un addetto che conosceva e che, senza dubbio, le avrebbe dato soddisfazione. Dopo non rimaneva che ricorrere a un avvocato, metter di mezzo la
legge. Intendevano andare in fondo al loro affare.
Era dunque prima del mutamento che egli era buffo: ed ora è esattamente, e
nient’altro che la normalità a mettere in crisi le due donne, la domestica e la portinaia, e in definitiva anche lui: il regalo “subìto” dal Bollentini non è una sanzione di
défaillance dell’originalità, bensì una sanzione insorta come conseguenza della normalità, di quella normalità che il personaggio protagonista era riuscito a suo modo
a riattivare, a spese proprie e senza alcun danno altrui, e con effetti di plurifloreale
olezzo casalingo; miglior domestico, lui padrone, d’una governante cui in tal senso
spetterebbe sindacalmente qualche giorno in meno di stipendio. Ricevuto quello
che sarà il pacco della “vendetta”, egli soliloquia facendosi insieme persuasore e
mandatario, Vautrin e Rastignac; ma maestro e allievo metaforicamente finiranno,
con stile, nel pacco e in quello che vi è dentro: un pacco che reca all’esterno uno
splendido giglio di Firenze ed è confezionato con un nastro di candore «abbacinante». Al protagonista non rimane, al momento, che cercare di mantenere la
calma, di «Soprassedere» e interrompere la serie di autoinvii. Beffa toscana, certo;
ma Palazzeschi la ritorce contro la normalità delle volizioni, ben più che contro il
buffo; quella del «buffo», semmai, quella del misantropo-avaro, è la sfera in cui il
signor Telemaco rischia di rientrare malinconicamente, dopo il protratto tentativo
di uscita e di arioso affrancamento che pure era stato esperito, insomma dopo
un conato liberatorio, e innocuo per l’alterità (fiori, frutta, caramelle, cioccolato,
“splendide” cartoline) che il dotto e saggio medico aveva non a caso approvato e
apertamente elogiato con condivisibile simpatia, del tutto sconfessandolo come
patologia. E altrettanto si dica, per tutta la sezione centrale della novella, nei riguardi della normalità, o sedicente tale, di due figure femminili (Margherita − nel
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’57 «Petronilla» − e Zobeide) che certo non avrebbero fatto buon gioco d’immagine alle suffragette di primo Novecento.
In Gedeone e la sua Stella vi è l’ironia sul matrimonio; lo scambio di caratteri primarî fra marito e moglie riesce, consegue insomma ottimo esito, e nella
forma più piena, perché la convivenza (legge generale) non risponde alle singole
individualità, ma è un tertium, è l’indefinibile linea d’amalgama d’un rapporto, è
un’entità di ordine relazionale che non s’identifica con il masochismo maschile
(parodico non solo e non tanto nei riguardi del romanticismo, quanto dell’algolagnia decadentistica), né con la ruvidezza mascolina di Stella: tertium datur, come
spessissimo accade, e più che mai nella letteratura del Novecento. Miele e insulti,
stilnovismo rurale e suola di ciabatta femminile sperimentata dall’uomo, comica
divinizzazione di Stella e spazzatura rovesciata su Gedeone lasciano in vigore il
matrimonio più ridicolo e forse, insieme, il più riuscito del contado. Fa da pendant
al mondo agricolo del “fortunato” Gedeone, in chiave d’ambientazione parigina, il
racconto Vita, rappresentazione emblematicamente completa dell’ennesimo Uomo
di fumo, che, dall’amante alla cagnetta alla gatta, perde i proprî affetti in una graduale progressione d’anonimato e di riassorbimento non nella “vita” ma nello scorrere, nel flusso della stessa vita della metropoli, di Parigi. Qui, più che di «buffo»,
si tratta d’accettazione d’una parabola d’idealista, d’artista che ha fatto quel che ha
potuto e che ha incarnato la figura coerente del bohémien a vita, ricavando dall’ultimo atto narrato, l’acquisto a prezzo generosamente scontato d’un vaso di fiori
coloratissimi, l’impulso alla definitiva conquista d’una dimensione di più maturo
confronto con la difficile esperienza del mondo metropolitano. Indimenticabile la
figura femminile, evocata con un solo tratto di racconto, che recupera il personaggio alla speranza, al Quai aux fleurs.
Il punto nero dell’omonima novella è quello del tradimento coniugale perpetrato, una sola notte, da Fanfulla Domestici (si noti l’ironia onomastica), per tutti
gli altri aspetti della sua vita integerrimo ed esemplare impiegato, marito e padre.
Ed è un punto destinato a restare nero, e a lasciare nella mente della moglie e del
vicinato l’immagine di Fanfulla di ritorno, quella notte alle tre e mezzo, in camicia:
nessun dubbio sull’avventura, nessun possibile scambio di vestiario, come invece
avverrà, in séguito, per i buffi di Dario Fo (cfr. L’uomo nudo e l’uomo in frac). La
curiosità non viene soddisfatta neanche in punto di morte (l’inopportuna domanda della moglie è assimilabile a quella di Aleppina in La gloria); in quel punto nero
(solo per gli abitanti del suo condominio) è concentrato, per volatilizzarsi, l’uomo
di fumo, quell’uomo nella cui essenza s’è espresso il signor Domestici, in quell’unica notte i cui eventi, i cui vólti, egli mantiene gelosamente segreti, agitandoli
nella gioia rilucente e silenziosa dello sguardo, di un occhio che in tal senso non
è finestra d’ipocrisia, ma scrigno d’una verità lieta, punto luminoso e non punto
nero. E vediamo invece la lunga teoria di “punti grigi” che hanno portato Fanfulla
alla ricerca d’un po’ di luce e di trasgressione, e che lo hanno sia pure una sola
volta reso meno “domestico”. La novella è infatti una focalizzazione ferocemente
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ironica della famiglia-tipo piccolo-borghese: giornali, riviste di moda, subalternità
impiegatizia al capoufficio, al suo circolo, a quella moglie del capoufficio che è
“regina”-animatrice di quello stesso circolo. Tutta la famiglia Domestici parla per
settimane della visita da fare alla signora Toccafondi, e più ancora della controvisita. Come ricevere sì “gran” signora nell’unico salottino di casa, impregnato di esalazioni fognarie? Il senso di microdecoro borghese rende «iperboliche e della più
elaborata difficoltà le imprese minime», e «una certa grazietta», che pur ci sarebbe,
affiora (consueta filza aggettivale, virtuosismo espressionistico che sommuove di
onde fresche lo stagno realistico-casereccio) «solo contorta, brancicata, acciaccata,
mencia, mutilata, stinta» (p. 209). Si veda lo stesso “salotto buono”:
Era tappezzato e riempito di cose assurde e così slegate, da doversi domandare se il caso o il genio avessero operato un prodigio di quel genere, una
complicazione simile. Vi erano due poltroncine piccolissime, due seggioline
minime e un minuscolo sofà che non parevano fatti per mettersi a sedere, ma
piuttosto per eseguire esercizi di equilibrio e acrobazie in un circo equestre.
Il signor Fanfulla non aveva mai voluto spendere per quel salotto che giudicava «grazioso e semplice», ed era stato sempre la calamita e il rifugio delle
cose inutili e venute in casa Dio sa come […] La moglie del cavaliere, prima
di mettersi a sedere sul minuscolo sofà lasciato a sua completa disposizione,
con una mano ne saggiava la resistenza almen due volte facendone cantare le
molle, quindi vi abbandonava cauta la rispettabile mole (pp. 218-219).
Per capire il rapporto grigiore piccolo-borghese / punto luminoso (altro che nero!), il
lettore può rileggere e godere l’esilarante scena della spesa dalla finestra, della messa
domenicale e della passeggiata alle Cascine, la serie di utilissimi sconti tariffarî che
Fanfulla ottiene alle rappresentazioni del Teatro di Carnevale grazie all’amicizia con
il presidente del locale circolo: ingresso libero per sé, biglietto intero solo per la
moglie, mezzo biglietto per le figliuole, grosso privilegio, perché il “metà prezzo”
spetterebbe ai soli minori. Ma veri buffi convinti sono, piuttosto − rispetto a Fanfulla
e a quell’unica notte, per lui luminosa − la famiglia e il vicinato, nella loro ridevole
curiosità, nello stupore di chi non sa riattaccare la coda al mostro.
In Amore, risibile è soltanto il tragitto (la scoperta dell’amore per il mondo,
per tutte le persone che vede e che incontra, da parte del celibe “di lungo corso”),
ed è risibile, se si vuole, anche il finale calcolo («non gli sarebbe costata di più….»:
p. 248), ma la meta è assolutamente regolare. Il matrimonio con la domestica,
ovvero la soluzione più logica, sarà ottenuto dopo il necessario periodo di “prova” sperimentato con il metodo buffo-grottesco, con un crescendo nel complesso
lineare e prevedibile. Si tratta, insomma, d’un’altra variazione sul tema del celibe
e della domestica. In Bistino e il signor marchese, invece, il grottesco repêchage del
comportamento standard da parte del marchese, ospitato dall’ex servitore dopo
l’amarissima decadenza, si pone all’incrocio fra il percorso sensato, ma anche interessato, di Nunzia e l’abnegazione paradossale di Bistino. Il totale ribaltamento
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dei ruoli restituisce al marchese una scheggia di noblesse, di capacità gestionale del
gioco, insomma un’opportunità di riproposta autoironica del “fantoccio” aristocratico; l’altro «buffo», Bistino, realizza a sua volta un itinerario positivo nel quale
rientrano devota soddisfazione di subalterno e condivisione d’avventure giovanili
che nel recupero del ruolo di domestico a vita assumono il sapore di reviviscenza esistenziale d’anima semplice. La coerenza nel rispetto della natura di «buffi»
giova a entrambi, né questo costituisce autentica novità rispetto ai precedenti racconti. La novità consisterebbe, piuttosto, nell’adozione d’un’ottica realmente rétro
nel tentativo di riappropriarsi dei personaggi e delle atmosfere del passato; sostanzialmente lontane da questo pericolo, sono però legate pur sempre a una direzione
presente-passato, semmai, le Stampe dell’800: in esse vi è la spiegazione d’antichi e
confusi conati infantili di rivolta, o di fuga verso un nulla di cui il je narré s’assume
tutte le ragioni, e più ancora le irragioni narrative. E la distanza fra je narrant e je
narré resta nettissima96.
La novella 24 Agosto si può molto giovare d’un doppio raffronto con il citato
Un signore solo e con Il giorno e la notte, ambedue presenti nell’edizione novellistica
mondadoriana, e anche con L’amico Galletti, che apre la raccolta de Il buffo integrale.
L’incertezza sull’identità, sul comportamento, sui rapporti sociali e sulle compagnie
del coinquilino (Un signore solo) non coinvolge soltanto la donna protagonista, o il
lettore: il dubbio riguarda la stessa esistenza del personaggio, del quale non sa nulla
neanche lo scrittore, il quale, appunto, non sapendolo, si diverte con giocoso straniamento di distacco ludico (se non altro, sul piano compositivo). Gli estremi compresenti della solitudine e del camaleontico trasformismo rendono infatti l’identità del
signor Florindo assolutamente vana e insieme molteplice, un’esistenza che è appunto
nessuna e centomila senza che vi sia l’«una»: «Da quel giorno la sua esistenza diveniva perfetta» (p. 52). Ed è l’inesistenza, o la multiesistenza del personaggio, nel suo
«teatro di varietà» (p. 51), a “rappresentare” assassinî e discussioni politiche, scenate
di meretricio e abbandoni sentimentali; chi è dunque il pazzo? Sofronia, Renata, il
signor Florindo, lo scrittore, noi? Il più consistente messaggio, il più asseverativo che
se ne possa ricavare è quello che denega ogni precisa identità, ed è il fumo, ed è il
volatilizzarsi. Non ci resta che ridere! E questa indiretta indicazione dello scrittore
può essere allargata a Il giorno e la notte e a L’amico Galletti, con le loro reazioni di
doppio scambio sul piano dell’individualità e dei suoi connotati temperamentali e
morali, con la loro alternanza carrucolare di personalità antitetiche (L’amico Galletti, ricorda giustamente Giansiro Ferrata nella citata Prefazione, trae importanti elementi dialogici dal testo del saggio lacerbiano Equilibrio, del 1914, che anticipa nei
96
Cfr. GUGLIELMINETTI, Le stampe dell’800, cit., p. 193: «Palazzeschi non vuole in alcun modo
riportarle a nuova luce dal museo in cui ormai sono confinate, ma soltanto ridare loro quel tanto di
carica meccanica che è necessario per farle momentaneamente rivivere e spiegare a ritroso l’origine
domestica di quelle che, un tempo, potevano apparire immaginazioni gratuite di ribellione e di
profanazione».
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colloqui fra l’autore e gli amici Achille e Baldassarre − poi Baldassare − quello che
sarà lo scambio di parole fra gli amici di Galletti, ovvero Pulcinelli e Capponcini). E
altrettanto si dica, appunto, di 24 Agosto, novella nella quale l’incertezza sulla veridicità o meno della narrazione è già messaggio di significato: tale incertezza mostra la
possibilità che avvenga fra un mite e un violento uno scambio di ruoli (il mite uccide
colui che lo ha sempre oppresso) come quello che è delineato nel racconto. Che il
fatto sia avvenuto o meno, non importa più nulla: nel momento in cui ricorda la coincidenza temporale (24 agosto 1903, ore due del mattino), il personaggio, sedicente
assassino, perde interesse per la propria narrazione, si fa afasico e definitivamente
tace. Negli stessi colloqui occasionali pirandelliani (presenti, ad esempio, in Il fu
Mattia Pascal e in L’uomo dal fiore in bocca), si cerca almeno un’affabulazione, si tenta di dare spessore all’affabulazione intranarrativa del personaggio, alla sua diegesi.
Qui invece vi è solo un’ipotesi di affabulazione, e l’importante è proprio l’incertezza:
assurdo sarebbe meravigliarsi dell’incertezza “fattuale”, poiché proprio in essa consiste il messaggio. Questa vicenda può accadere, nei fatti o nella mente: per l’autore
(non si dice certo per lo scrittore come persona storica) può essere davvero lo stesso.
E il personaggio, il patologizzato, se non il «buffo», riesce a dileguarsi dopo avere
liberato il proprio racconto, realistico o inventato: la patologia, come la vocazione di
buffo o di comico, se perseguìta coerentemente, molto spesso vince, se non altro sul
piano dell’essere, o del non essere, che ci si è scelti. Anche il protagonista presunto
assassino svanisce, come la sua vicenda: vicenda di fumo, uomo di fumo. Con la lieve
frescura finale a procurare ristoro all’interlocutore-io narrante e a liberarlo definitivamente dalla cappa inquietante dello strano racconto notturno, dello strano sogno
d’una notte di fine estate; e con il sospetto che il caldo afoso e opprimente, quadro
ambientale di continuo evocato durante la narrazione, abbia in realtà giocato uno
scherzo di affabulazione non solo al presunto omicida ma, più ancora, al personaggio, ufficialmente “normale”, dell’io-narrante. E altresì, con la vita che, rappresentata nella sua incertezza, assorbe in sé anche la critica dell’esistente.
In Il ricordo della moglie, Napoli, becchino e custode di cimitero, di allegro
carattere, rappresenta una figura perfettamente all’opposto rispetto ai sentimenti e
all’atmosfera che il luogo di lavoro dovrebbe indurre: egli canta, si produce in battute di spirito, rialza il morale dei partecipanti alle cerimonie funebri, tiene a loro
volta “allegri” i “visitatori”. Ma il buffo non è affatto lui; lo sarà invece un vedovo,
presto consolabile. Con Napoli, «il dramma cadeva in burla» (p. 325); e tutto il racconto, uno dei più ricchi d’ironia della prosa di Palazzeschi, attua il rovesciamento
del côté letterario sepolcrale ottocentesco:
C’erano le bisbetiche, alle quali era necessario ogni pochino riaccendere il
lume; c’erano le patetiche, e a queste non si riparava a mettere e levar fiori,
annaffiar fiori, cambiar l’acqua ai fiori; c’erano le smorfiose, quelle che con
un lume solo non ci volevano stare; c’erano le sciupone alle quali non bastava mai la roba, e le loro tombe parevano dei trofei; c’erano le modiste, che
ogni stagione cambiavano genere. E Napoli invece di buttar via tutte quelle
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cose, dava i loro avanzi alle bisognose, quelle che ci avevano pochina roba
e brutta; alle abbandonate, alle quali nessuno portava mai niente; come si
dà un vestito usato o un paio di scarpe: «tieni, godi qualcosa anche te», un
pezzetto di candela, dei fiori vecchi o una corona un po’ mangiata dalla
ruggine (ed. Vallecchi 1937, p. 326).
E ancora:
Come vi ho detto già era un cimitero cordiale, non vi spirava il freddo desolante che spira dagli altri in genere.
A uno che congedandosi dopo avervi accompagnato la suocera, gli diceva
una sera con sospetta costernazione: «Napoli, mi raccomando a te»; «Si può
fidare» rispose Napoli pronto e esauriente, «stia pur tranquillo che non gliela
rimando».
Ed ecco la scampagnata domenicale fuori porta, al camposanto, con merenda:
per modo che ridottavi una vita varia e piacevole il cimitero, specialmente
la domenica, era pieno di gente. Andavano a mettere e a levare, a portare e
a portar via, accendere e spengere, accomodare97, piantare e spiantare. Vi si
radunavano in crocchi parlando dei fatti loro per delle ore, si rifocillavano anche, vi facevano un po’ di merenda; i più lontani arrivavano su calessi col fiasco e il tegame, o dentro una sporta portavano le bistecche da cuocere sopra
gli stecchi; tanto che fra morti e vivi diventava tutto un affare, e quando questi
parlavano ti pareva che quelli appartenessero alla compagnia e stessero a sentire. Prima di andarsene tutti si ricordavano dello scopo per cui erano venuti,
e davano un ultimo sguardo affettuoso al testimone muto; gli aggiustavano o
cambiavano una ultima cosa definitivamente, come le coperte a un bambino
prima di dormire […]. […] egli [Napoli] ribadiva sempre: «Fidatevi di me,
con me ci sono stati tutti bene, avete sentito mai nessuno che si lamentasse?»
Nello stesso intento s’inseriscono l’ironia del cumulo oggettistico (p. 331) e la
presenza sulla tomba di un vaso da notte (p. 335) che Napoli, morto circa a metà
del racconto e sostituito da un custode di indole e di caratteristiche opposti ai suoi,
avrebbe ricondotto, se ancora fosse stato lì, vivo, alla sua elettiva funzionalità di recipiente; lo stesso si dica dell’ironia “filantropica”, della generosità matrimoniale,
97
Nel ’57, al posto di «spengere» vi è «spegnere», e vi è l’aggiunta di «seminare» tra
«accomodare» e «piantare»: «accendere e spegnere, accomodare, seminare, piantare e spiantare»
(Mondadori 2000, cit., p. 612). Nel 1957, inoltre, «per delle ore» diviene «per molte ore», e così
«si rifocillavano anche» diviene (dopo il “punto” posto a «ore») «Si rifocillavano con piacere», non
senza l’indicazione d’un rustico barbecue: «le bistecche da cuocere sopra gli stecchi» diviene «le
bistecche da cuocere in terra sopra un fuoco di stecchi»; ancora, «un ultimo sguardo affettuoso»
diventa «una sbirciatina affettuosa». E altre varianti si potrebbero ulteriormente citare.
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nell’ipotesi di vedovanza, espressa dallo stesso Napoli a Orazio Calori, personaggio
che è realmente, di fresco, divenuto vedovo (p. 332): «è un dolore troppo grande,
lo so. − Rispondeva Napoli divenendo cattedratico − per questo non vorrei mai
che lo provasse mia moglie, poverina, è troppo buona e le voglio troppo bene, se
uno di noi dovesse provarlo lo vorrei tutto per me». Escluso per eccesso di manifestazioni luttuose dalla frequentazione del cimitero a opera del nuovo, zelante
custode, il vedovo Orazio Calori si risposa presto con la bella Elena Frulli, dopo
una prima conoscenza delineata da Palazzeschi in una sferzante ostensione teatrale
del dolore dell’uomo e del richiamo vocale a una Bibì che sembrava dover propagginare la propria presenza ben più a lungo: «è un dolore grande…. ma passerà tutto insieme: vedrete», aveva giustamente profetizzato il vecchio becchino. L’ironia
della novella è nella serie di passaggi riguardanti la tematica lugubre, cimiteriale,
e quella della consolabile vedovanza, entrambe ribaltate a puntigliosa rassegna di
comicità; i buffi, siano essi gestori attivi dell’ironia (il Napoli) o ne siano, invece,
oggetto e bersaglio, e da più provenienze (il signor Orazio), sono qui inseriti in
una linea di fondamentale positività e di ottenimento dei proprî fini; e quel vaso da
notte che va in frantumi nel mezzo della piazza di paese saluta con sonora arguzia
il vittorioso vessillo poetico del controdolore.
Il racconto intitolato Lupo narra della progressiva ritirata dalla vita comune da
parte d’un nobile, a suo modo uomo di fumo; il marchese inveisce contro chiunque gli chieda aiuto, e proprio questo, paradossalmente, è il segnale premonitore
dell’effettiva elargizione della somma: egli sciala e regala, dispensa e disperde, in
un tragitto di progressiva autodistruzione che coinvolge la sua figura non meno
della sua persona. «Lupo» e apparente misantropo, il personaggio ha in realtà da
tempo acquisito un concetto profondamente svalutativo della vita e degli uomini,
tanto da sfuggirne il più possibile il contatto (si vedano le lunghe passeggiate solitarie nei boschi, gli incontri con gli uccelli lontano da occhi umani; incontri che,
peraltro, rientrano in un ben noto immaginario culturale, che può in tal senso, e
certo con tutte le differenze del caso, annoverare esempi dalla tradizione francescana, come anche, in epoca posteriore allo stesso testo palazzeschiano, da Oh,
Serafina! di Giuseppe Berto). Tutta la vita è per lui un protratto attentato al proprio patrimonio, in una peculiare combinazione di defilata scontrosità caratteriale,
di scelta comportamentale appartata e scostante, e di quell’estrema disponibilità
al concreto aiuto, economico e in natura (doni, oggetti), che ne fa un antilupo
(con buona pace dello zoomorfico soprannome paesano, della ’ngiuria), un essere
insocievole ma profondamente sociale; si tratta d’impiegare e di disperdere con
nonchalance la propria ricchezza, già decurtata ma ancora abbondante, e di farlo senza illusioni filantropiche: la nipote della domestica riceverà insieme insulti
feroci e i soldi per farsi la casetta (e se la farà davvero), contadini e popolazione
agraria in genere potranno attingere a piene mani, e con libertà d’accalcarsi e di
lottare, ai granai e ai magazzini di un palazzo che dovrà essere distrutto per scelta
originaria del suo stesso proprietario; e altrettanto vale per la festa del vino e per
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la decisione, improvvisata, di far piovere monete dall’alto della finestra sulla piazza
di paese: i colombi antropomorfi che confluiranno a raccoglierle riceveranno, da
parte del marchese, denaro e disprezzo. Il personaggio distruggerà alla fine tutto il
patrimonio artistico e di mobilia del proprio palazzo, completando così l’opera da
tanti anni intrapresa. Pretesto della risoluzione finale è l’agguato da parte di due
ladri che, oltre a derubarlo, ne uccidono l’orgoglio; l’episodio parodizza fino al
completo ribaltamento l’agguato dei due bravi a Don Abbondio: posto in chiusura
anziché a esordio di narrazione, rivolto al nobile anziché al parroco (un curato
anche qui presente come personaggio sempre servile e deferente nei confronti del
marchese, talvolta omissivo d’interventi nella vita paesana e rinunciatario per amor
di quieto vivere), tale agguato capovolge anche la funzione di Perpetua, i cui “occhi esperti” non si accorgono minimamente del cambiamento in negativo operatosi nel padrone, e non le fanno pronunciare il famoso «Misericordia…»:
Giunto al castello non rispose alla Dolcissima [il soprannome della domestica]
che gli si fece incontro verso la porta, né la degnò di uno sguardo. Salì ratto
a chiudersi nella sua camera. Avvezza alle stravaganze del vecchio, la donna
non fece caso al suo viso stravolto in modo assai diverso dal solito, e al suo
andare cascante rasentando il muro (p. 370).
Don Rodrigo improprio, il marchese non può riporre speranza neppure nella morte:
tutti sapendo ch’eravate un pazzo si penserà giustamente che vi siete ammazzato: «era l’ora!» si dirà con sollievo, nessuno si occuperà di chiarire il fatto:
«i pazzi all’inferno» (ibidem).
Si tratta forse di una delle novelle maggiormente segnate dal pessimismo, non solo
sulla natura umana, ma anche sulla possibilità di reale percorso esistenziale per un
“buffo”: del “pazzo”, o tale ritenuto, si potrà banalmente e volgarmente riscrivere
la biografia, in aperto dispregio di quelle che sono, e così dovrebbero essere considerate, le virtù d’un burbero benefattore dei suoi luoghi, uomo di fumo solitario
come un lupo e titolare d’una privilegiata comunicazione con gli animali, per sua
opzione competente di zoosemiotica più che d’antroposemiotica, ma benemerito di
sostanziose prebende a vantaggio degli abitanti del circondario, e redattore, se così si
può dire, d’una non scritta legge che sia pure in parte capovolge l’antica, medioevale
vessazione delle corvées e delle decime: i tributi li paga lui ai suoi contadini, i quali, a
loro volta, manderanno idealmente «all’inferno» ad ancora miglior ragione altri feudatarî. La singolarità di connotazioni (fisiognostiche, antropologiche, psicologiche)
del marchese non sembra lasciare spazio, nel giudizio medio dell’intero contesto
ambientale, ad altra reazione se non a quella della più standardizzata affabulazione conformistica. Se può passare una concessione alla più comune epigrammaticità
gnomico-sentenziosa, si potrebbe asserire: «Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare»;
ma qui il «fare» c’è stato, e a vantaggio degli altri, ripetutamente; è il «dire» che non
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regge. Meglio conviene una differente formulazione, a termini invertiti: «Tra il fare
e il dire, c’è di mezzo il malcapire», il «malsentire», e altresì il «calunniare». Né v’è
bisogno di citare Voltaire. Del resto l’affabulazione è, quasi sempre, calunnia. Seducente, certo, talvolta, come lo sono le affascinanti larve del linguaggio.
Si veda ora La perfezione: tutto perfetto, sì, questo bambino così preoccupante (e altrettanto lo sarà da giovinetto e da uomo), ma perfetto solo per gli
altri: la novella comincia con la somministrazione d’un ben prosaico farmaco,
ed è in quest’atto che il suddetto bambino può mostrare le sue già spiccate qualità d’accettazione del reale e della vita. Egli è tanto perfetto che in successione
accetterà, limitandosi a ripetere e accogliere le parole di colui che volta volta
nel tempo lo consiglia, un’inutile laurea in giurisprudenza, un matrimonio che
fallisce in meno d’un anno, con tanto di duello e d’irrevocabile separazione dalla
moglie (alle nozze Chicco non aveva certo per suo conto pensato), una serie di
terapeutici viaggi planetarî che fanno conoscere anche troppo mondo a quell’antico bambino intuibilmente gracile e insieme ricchissimo di famiglia, che abbiamo visto, più sopra, alle prese con personali e malinconici problemi di sopravvivenza scatologica. Gli “amici” che “a turno” lo accompagnano, senz’altro spesati
in tutto e per tutto, in queste escursioni volute da loro anziché da lui, temono
fortemente alla notizia della morte di Chicco, avvenuta guarda caso pochi giorni
dopo la fine dei viaggi. Affrontata con slancio nobilmente rinforzato la festività e
la festevolezza del Capodanno (come altrimenti superare il pensiero d’un amico
morto esattamente di San Silvestro?), i cari sodali, per parte loro pronti a scambiarsi individualmente, magari in via di sospetto, accuse d’esplicito omicidio,
dimenticano con la massima disinvoltura la loro reale colpevolezza riguardo alla
morte di Chicco (ricco, malato e sfruttato, ma proprio per questo «perfetto» per
loro) al momento della lettura testamentaria, che conclude in modo coerente la
parabola dell’impossibile personaggio, uomo di fumo anch’egli e fin dagli esordî
della sua vita. Il testamento altro non è se non una formidabile serie di lasciti e di
donazioni che si rivolgono a tutto il reale e a tutto il creato, dalle grandi associazioni umanitarie alle varie specie animali, perfino ai topi, qui oggetto della provvisione legal-notarile più clamorosamente filomurina che sia dato ricordare (si
tralascia, è ovvio, il murino protagonismo della leopardiana Batracomiomachia):
Il Brefotrofio della Provincia e l’ospedale del Comune, l’Orfanotrofio della
Principessa, i Vecchi della Baronessa, i Ciechi della Marchesa, i sordi della Contessa, i derelitti del Senatore, Tardivi e Precoci, Traviati, le Fanciulle
abbandonate, per sostenerle nel difficile trapasso finché non siano giunte a
procacciarsi una nuova compagnia. Soccorsi, Aiuti, Sussidi, Pensioni, Ambulatori, Dispensari, Croci di sei colori, la Protezione degli animali: asini, muli,
cavalli, cani, gatti; piccioni, pappagalli, nemmeno i topi erano stati dimenticati: Miss Florence realizzava il suo sogno: sarebbe stata realizzata in Firenze
l’attesa istituzione della trappola umanitaria (p. 381).
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Si ricordi che nell’edizione 1957 dei racconti la svenevole «Miss Florence» che riecheggia la figura infermieristica della Nightingale diviene la tutt’altro che incruenta
«Miss Blood».
2.5 Est risus rerum. Un ultimo uomo di fumo e un ultimo sberleffo per tutti
Altro uomo di fumo, un personaggio inurbato che programma di far da pendant al mito della pubblicità e della celebrità che lo aggredisce visivamente ad
ogni piè sospinto, è il protagonista di «issimo» («Issimo» nel 1957), non certo a
caso innominato, e protagonista posto in una collocazione di significativo explicit della raccolta del 1937: davvero, svanire è la ventura delle venture. Scopo del
personaggio è infatti quello di non comparire mai nella società, di passare completamente inosservato non soltanto in eventuali occasioni pubbliche, ma anche
nella più comune e già in sé anonima vita privata: la persona deve annullarsi, deve
evitare qualsiasi minaccia d’esposizione all’occhio e alla parola altrui. E la raccolta
di novelle, Il palio dei buffi, si conclude con un personaggio vincente, proprio in
quel suo fumo e in quel suo anonimato accuratamente coltivati fino a una morte
segnata dalla fortuna dell’errore nel nome e nell’età, una morte che è evento intriso d’orizzonti d’attesa (e di desiderio) radicalmente antifoscoliani («sol chi non
lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna») e, semmai, non molto distanti
dalle fondamentali istanze antiegotistiche e antiromantiche del Robert Walser de
L’assistente; non si tratta, in «issimo», dell’estrema propaggine, magari criptata,
d’uno dei filoni del pensiero filosofico antico: il vivi nascosto difende, valorizza e
preserva la vita e la fisicità, la corporeità e la spiritualità del singolo, la sfera del
suo essere e la sfera del suo avere, mentre il palazzeschiano volatilìzzati o, almeno,
io mi volatilizzo, ha il significato d’un’affermazione della leggerezza in se stessa,
della sua intrinseca e autosufficiente essenza di fumo, proprio perché di fumo e in
quanto di fumo. Se il “nascondiglio” dei greci era una delle possibili declinazioni
della vitalità, i palazzeschiani percorsi d’autoannullamento rivestono un ruolo non
subordinato al raggiungimento d’una finalità vitale; si tratta, invece, d’un ruolo che
parte − muovendo in modo spontaneo dalla connotazione peculiare del personaggio, dalla sua autonoma fenomenologia, e quindi sulla base d’una sollecitazione
istintiva − da un’analisi della vita e del mondo, della socialità e dei varî àmbiti
relazionali, che è molto più approfondita di quanto in un primo momento appaia,
e che si rivela capace di vivere nella dimensione oggettiva dello stesso personaggio,
nella diretta realtà narrativa del suo comportamento; e di questa analisi il personaggio, il «buffo», in autonomia da ogni astrazione, trae appunto le conseguenze,
criticando di fatto, con la sua maniera di agire, gran parte dei meccanismi dell’esistente, e praticando alternative, pur se spesso in modo involontario, agli assetti più
ingiusti, o meno convincenti, del generale conformismo sociale e intellettuale, dei
suoi effetti, talvolta persino grotteschi, di soffocamento della libertà.
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Né quest’ultima è solamente libertà del singolo: la rappresentazione del negativo, in Palazzeschi, coinvolge la libertà di tutti, anche se del singolo è la rivolta.
Torna, qui, l’iniziale allusione alla “corte dei miracoli”, non nell’accezione romantico-medioevale assimilabile a quella presente in Notre Dame de Paris di Victor
Hugo, bensì in quella di luogo narrativo aperto alla libertà della trasgressione e
della diversità, dell’originalità e della creatività, nella quale, in modo indipendente
da considerazioni e da ipoteche d’ordine etico, molti elementi e molte tipologie
caratterizzanti della cosiddetta sfera della “menomazione” recuperano, talvolta
imprevedibilmente, una vitalità e una funzione di giocosa attendibilità, di ludica
possibilità d’autonomo movimento. E in tal senso può avvenire che il rapporto
teatrale, spettacolare, che lega dall’ottica di palcoscenico l’azione funambolica allo
spettatore, si capovolga, si ribalti completamente di prospettiva, facendo acquisire
il peso dell’esposizione alla visibilità − e lo “scomodo” spazio sub iudice che è proprio del palcoscenico − alla dimensione del cosiddetto “normale”, del cosiddetto
“integrato”, il più delle volte ignaro attore che si agita sulle tavole della rappresentazione, e quindi bersaglio del raggio di divertita, impietosa osservazione da parte
della “corte dei miracoli” e dei saltimbanchi, e facendo, per converso, acquisire
alla dimensione più comoda e più vantaggiosa dello “spettatore”, alla postura attiva dello sguardo, al privilegio della possibilità giudicante, il giocoso, irridente,
ludico sberleffo del clown o del buffo, la sua peculiarità, originale anche nel divertimento, la sua carica di beffarda smorfia di derisione, la sua purezza fanciullesca
e oltraggiosa. E questo ritmo strutturale, questo sound di continuità trasgressiva e
libera di raggiungere gli estremi della deformità e della menomazione, della gobba
e della zoppìa, della follia e del sorriso sgangherato, non sono certo propri dei
soli scritti di eponima vidimazione buffonesca; tale sound metanarrativo, di felpato ammicco autobiografico, vale pure per le Sorelle Materassi, e in genere per
quelle prose che già Tellini ha individuato come scritti “elettrizzati” anch’essi da
un demone beffardo e non certo privi di un insidioso carillon che suona da qualche segreto, misterioso cassetto all’interno della casa; «E quelle Materassi, quelle
zitelle così fiorentine su quello sfondo toscano, dipinte col pennello sottile, quasi
miniate?», secondo il quadretto affiorante da una lettera di Dolores Prezzolini98,
pronta lettrice del romanzo, quelle Materassi che in realtà non sono mai esistite,
come dice esplicitamente Palazzeschi99, è molto probabile che non siano neppure
«sorelle», ma che anzi godano d’un’assai maggiore libertà di escursione sessuale,
protetta, quest’ultima, e difesa, esattamente dall’appartata malleveria celibataria;
sia sufficiente leggere quanto scrive un lettore come Luigi Baldacci, che pure non
98
Lettera di Dolores Prezzolini ad Aldo Palazzeschi del 23 dicembre 1934, da Alassio, in
ALDO PALAZZESCHI-GIUSEPPE PREZZOLINI, Carteggio 1912-1973, a cura di MICHELE FERRARIO, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura-Dipartimento della Pubblica Educazione del Canton Ticino, 1987,
p. 86.
99
ALDO PALAZZESCHI, Palazzeschi allo specchio, in «Omnibus», I, 9, 29 maggio 1937, p. 6.
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è certo in sospetto di favore critico per le Materassi: «Che anche le Materassi siano un libro di piena originalità è verissimo e ricordo di aver detto che Teresa e
Carolina sono due travestiti»100. Ecco le commoventi sorelline-signorine101. Quasi
un avvicinamento, in reazione di doppio scambio, ai “fratelli” Cuccoli; il gioco
della scrittura è riuscito, e non a caso si tratta delle prose più premiate dalla critica ufficiale. Ebbene, la Firenzina e la Toscanina (o altri cari ambienti di questa
tipologia) che scaturiscono dalle prose successive a un ben sospetto “ritorno
all’ordine”, o “al segno”, non costituiscono − se non in mera apparenza − una
serie di scritture tranquillizzanti e sedative, un rassicurante viatico per smemoranti letture serali in poltrona102. In queste prose insistono, anzi, molti e tutt’altro
Cfr. BALDACCI, Palazzeschi: problemi aperti, cit., p. 6.
Si ricordi cosa scrive Contini: «Ho nominato Palazzeschi: il suo felice paraanalfabetismo si
realizzava in gomitoli sintattici, tutt’altro che primitivi, tanto che il vettore delle Sorelle Materassi
sarà nientemeno che il Boccaccio del Decameron» (cfr. GIANFRANCO CONTINI, Per Bilenchi e i suoi
“Amici”, in ROMANO BILENCHI, Amici, nuova edizione a cura di SERGIO PAUTASSO, Prefazione di
GIANFRANCO CONTINI, Milano, Rizzoli, 1988, p. VI). Questa è davvero una possibile chiave della reale
presenza di Boccaccio nella prosa palazzeschiana. A proposito del Boccaccio in Palazzeschi, cfr. la
citata Introduzione della GUERRICCHIO alla mondadoriana edizione 2002 del Palio, pp. IX-X; oltre
alle Materassi, nelle cui pagine iniziali Palazzeschi addirittura riproduce l’Introduzione alla settima
giornata del Decameron, è lo stesso Palio, con «la disposizione narrativa» in esso «praticata» (p.
X), a risentire del linguaggio, della cifra sintattica complessa della prosa novellistica boccacciana;
anzi, il «residuo di una teatralizzazione del narrato» (ibidem) apre a una dimensione allocutivooratoria che si appaia a quella basso-mimetica, più immediatamente seduttiva, quest’ultima,
nei confronti dell’utenza lettoriale, e non certo priva di concessioni vernacolari; avendo quale
riferimento il Decameron, si tratta (p. IX) di «coinvolgere i lettori come astanti convenuti in un
comune intrattenimento». Secondo questa posizione la dimensione oratoria mira proprio a portare
i buffi alla sbarra nel senso “giudiziario”. Ma sul «buffo» in Palazzeschi cfr. anche DENIS FERRARIS,
Il motivo del “buffo” nella novellistica palazzeschiana, in L’opera di Aldo Palazzeschi, a cura di
TELLINI, cit., pp. 323-339.
102
Molto efficaci le parole dello stesso Palazzeschi a esprimere, in termini inequivocabilmente
suoi, il processo di laboriosa conquista di uno stile peculiare e originale, un processo che consiste
anzitutto in un’opera di svestizione, di denudamento rispetto a una nascita per parte sua non
ignuda, ma anzi vestita di tutte le improprietà e di tutte le attese del mondo esterno, anche se vicino;
il recupero, «per quelli che ci riescono», ribalta integralmente il tragitto nudità-rivestimento, e
pone l’opera dello “spogliarsi”, al contrario che come dato di partenza, sul piano invece di un
difficile approdo di matrice culturale, segnato dall’ironia: «La cosa più difficile a cui possa un
uomo arrivare è liberarsi di tutti i cenci, vestiti e vestitini, mantelli e mantellini, sciarpe coccarde
fiocchi, gale nappette e nastri, di cui gli altri lo avranno abbellito e coperto da quando era uovo
nell’uovo dell’uovo… / Curiosa faccenda non è vero? Come si nasce vestiti. Parrebbe tutto il
contrario. E che po’ po’ di lavoro, per quelli che ci riescono, potersi un pochino con grandissimo
scandalo spogliare» (ALDO PALAZZESCHI, Lazzi, frizzi, schizzi, ghirigogoli e ghiribizzi, in ID., Scherzi
di gioventù, cit., p. 12). L’«officina» di cui parla in tal senso Tellini è davvero operosa e insieme
silenziosa, e degna sotto ogni profilo di essere attentamente studiata (cfr. TELLINI, L’officina dello
scrittore, cit., p. 23): «La quale officina è laboriosissima, sorprendentemente tormentata […]. Il
suo laboratorio nulla ha in comune con quanto potremmo aspettarci da uno scrittore d’istinto:
non la genesi di getto della pagina scritta, non la speditezza dell’esecuzione, non il disinteresse per
100
101
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che fortuiti elementi di inquietudine, di richiamo sottilmente allusivo, di capovolgimento mascherato, di trilli in falsetto a indiretta evocazione di traumi e di
filiere autobiografiche silenziate. È per questa ragione che sembra opportuno
diffidare fortemente, da parte di una fruizione “savia” e buonsensaia o sedicente
tale, dell’agiata posizione di “spettatore”, di puro osservatore divertito che tali
prose apparirebbero legittimare; succede, invece, che anche la fase degli anni
1930, e perciò anche le Materassi e sotto certi profili le stesse Stampe, non vedano
il lettore in posizione di tranquilla specola superiore rispetto ad affabulazioni e
a personaggi che sarebbero in tal modo da leggere, e da “guardare”, con sorridente accondiscendenza benevola, con semplicistica affabilità riservabile alle
testualità innocue, vuoi perché si tratta di buffi, di strane e di bizzarre campionature umane, vuoi perchè si tratta − o si tratterebbe − di figurine di empatica
medietà quasi familiare e non “spiazzante”103. È forse finito il gioco d’una lettura
la dicitura, non l’impazienza della stampa […], non la stabilità dei risultati raggiunti una volta per
tutte. / Anche la fase ideativa della progettualità non è pacifica né immediata né lineare». Si veda,
ad esempio (ivi, pp. 26-27), quali caratteristiche riveste, nelle vere e proprie carte palazzeschiane,
l’elaborazione scrittoria del romanzo Il Doge: «tra i manoscritti autografi si conservano, tutte in
fogli sciolti formato quaderno, tre stesure del romanzo, più una quarta quasi completa, oltre a
due frammenti, uno dei quali molto esteso. Talune sezioni dell’opera sono state dunque trascritte
via via attraverso ulteriori rifacimenti, modifiche, ritocchi, limature, per ben sei volte, con grafia
ordinata, scandita, metodica. La prima redazione, per quanto già strutturalmente compatta,
è tumultuosa e terremotata, d’impervia decifrazione. Presenta, con inchiostri diversi, una selva
oscura di cassature anche cospicue, di spostamenti, di varianti fitte e multiple, di inserzioni nelle
interlinee, nei margini e spesso nel verso lasciato appositamente in bianco. Poi le acque tendono a
calmarsi, ma piano piano. Nella seconda redazione, sempre con inchiostri diversi, permane costante
in ogni foglio quel medesimo tumulto che investe le scelte lessicali, gli epiteti, il giro sintattico, la
punteggiatura: un fermento sempre quantitativamente vistoso e turbativo, ma meno imponente.
La terza stesura si è assestata ma non placata e la grafia rivela almeno una tripla stratificazione di
interventi, con ricorso ancora al verso del foglio, non bastando le interlinee e i margini. La quarta
stesura è consegnata a una carta più solida e spessa, da bella copia: il cielo si è finalmente fatto
sereno, il ductus è limpido e riposato, ma quasi in ogni pagina, di nuovo con inchiostri diversi,
restano cassature, integrazioni, varianti. Il che presuppone una quinta stesura (non conservata nel
Fondo fiorentino), quella passata in tipografia, per cui il settimanale Panorama poteva, nel maggio
1967, titolare il servizio che annunciava l’uscita del romanzo Il Doge manoscritto senza correzioni,
quasi il libro si fosse fatto da solo. Il filo di seta è infine uscito dal bozzolo, ma non è propriamente
uscito da sé».
103
Si veda, in particolare, quanto lo stesso Palio dei buffi sia oggetto di prolungata e, direi,
tormentata attenzione (cfr. TELLINI, L’officina dello scrittore, cit., pp. 27-28): «Un’immersione
vertiginosamente molecolare entro i meccanismi compositivi, i procedimenti di scrittura e di tecnica
correttoria, consente, per esempio, la cartella che s’intitola con etichetta autografa (sembrano
versi palazzeschiani): “Il palio dei buffi / Prime e seconde stesure / belle e brutte copie”. Per
ogni pezzo della raccolta le stesure sono di norma quattro (con vertici di tensione rielaborativa
in coincidenza dell’incipit e del finale del racconto), ma non mancano esemplari che dispongono
anche di cinque o sei redazioni autografe. Tale la parte sommersa dell’iceberg, che precede
o si affianca alla storia pubblica di ogni testo, a sua volta non meno errabonda nel frastagliato
itinerario delle varie tappe a stampa, che nel caso delle novelle va dalla rivista (o riviste) al volume
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figurinista, a suo modo redditizia per l’autore, ma assegnabile, nella sua indole
critica, al “fruitore serioso che qui si diverte” e che saluta e ringrazia così con
divertito compiacimento, e con ironia qui discutibile, la scena della pagina, il
suo teatrino e le sue fisionomie, siano esse savie, siano buffe. Come da un libro
incantato d’un’infanzia protratta104, sono invece le suddette figure − più che mai
(o volumi), con intersezioni, com’è noto, tra Il Re bello e Il Palio dei buffi, nonché tra ciascuno
dei volumi singoli (meno Il buffo integrale) e la silloge di Tutte le novelle». Ma, più in generale,
è l’aggettivo (e più ancora il concetto) di “definitivo” ad essere, in sostanza, alieno dal pensiero,
dalla sensibilità, dall’umanità stessa di Palazzeschi; si legga ancora, dal contributo di Tellini (pp.
32-33), l’articolata stratificazione che sovrintende a Piazza della Libertà, «serie manoscritta» che fa
parte delle Sinfonie, tardivo frutto poetico dell’autore (cfr. in tal senso ALDO PALAZZESCHI, Sinfonie
e altri versi, a cura di ROSANNA BETTARINI-DOMENICO DE ROBERTIS, in «Studi italiani», I [1989], 2,
pp. 149-187): «del componimento si conservano ben sei successive stesure autografe, delle quali
la quarta “appare la più vicina” [«Studi italiani», cit., p. 185] alla princeps edita nel giugno 1972
sulla rivista “Il Caffè”; ma una volta stampata, la poesia è stata di nuovo ritrascritta con varianti in
una quinta stesura che reca nell’ultimo foglio l’indicazione autografa “Definitiva”, ma definitiva
non è, perchè a questa quinta tiene poi dietro una sesta redazione con altre varianti, secondo
un processo di sempre ulteriori rifacimenti che virtualmente si direbbe non finire mai». Quando
l’autore asserisce di non mirare a risultati di forma, di assoluta definitività estetica, e, insieme, di
non volere minimamente, con le revisioni variantistiche, alterare i significati delle sue opere, si
può dire che egli sia sincero; l’opera stessa doveva, «come sempre, tenersi “bene aderente” alla
“personalità dell’autore”. Era l’autore a non essere più lo stesso» (TELLINI, L’officina dello scrittore,
cit., p. 34). Così, quando si trova a riproporre dopo decenni L’ingegnere (uscita nel 1913 in «La
Riviera Ligure» e poi ripubblicata in Il Re bello nel 1921, e da lì mai ritoccata), Palazzeschi esprime
per lettera a Giuseppe Cassinelli dapprima la volontà di rivedere semplicemente la novella sulle
bozze, quindi il desiderio di procedere a una serie, sia pur dichiarata esigua, di cambiamenti e di
interventi: «microscopici e puramente materiali ritocchi» (Aldo Palazzeschi a Giuseppe Cassinelli,
da Roma, 7 dicembre 1969, in ALDO PALAZZESCHI-MARIO NOVARO, Carteggio 1910-1914, con le
novelle «L’ingegnere» e «Oreste», a cura di PINO BOERO, Introduzione di GIORGIO LUTI, Firenze,
Vallecchi, 1992, p. 72). A tale proposito Palazzeschi precisa: «Il mio parere è questo: di pubblicare
la novella riveduta senza alcun commento, nessuno si accorgerà delle piccole correzioni, è tanto
mai distratto il mondo d’oggi!» (ivi, p. 73). Il silenzio, la discrezione che accompagnano l’opera
di necessario adeguamento all’«oggi», mentre mantengono signorilmente nella sfera privata, e
segreta, il «distillato di strati ambigui» e «profondi» (TELLINI, L’officina dello scrittore, cit., p. 36),
conseguono l’effetto, scientemente ricercato, di «lasciare intatto a sé e al suo lettore l’illusorio
incanto di un’opera spontanea e casuale che paia sbocciata come per magia» (ibidem). Si legga
(se vogliamo, a latere), ciò che scrive CORRADO GOVONI allo stesso Palazzeschi riguardo al proprio
Rarefazioni (Milano, Edizioni Futuriste di «Poesia», 1915): «Io ho portato coraggiosi tagli al mio
libro che non mi piace più come mi piaceva un anno fa; ho aggiunto cose nuove ma non potrei dire
se siano migliori di quelle soppresse. È per me un vero disastro quando non pubblico subito quello
che ho pronto» (lettera da Ferrara del 4 gennaio 1915; si veda MARINETTI-PALAZZESCHI, Carteggio
con un’Appendice di altre lettere a Palazzeschi, cit., pp. 115-116: 116).
104
Sulla connotazione “infantile” di Palazzeschi cfr. BALDACCI, Palazzeschi: problemi aperti,
cit., p. 13, che ricorda il concetto, espresso da Papini, su Aldo come «bambino fra i grandi. Anzi
Palazzeschi restò grande finché restò bambino». E proprio con questo concetto Baldacci conclude
il suo contributo, citando un articolo papiniano sul «Mercure de France», apparso il 1 aprile
1914, annunciato nella lettera di Papini allo stesso Palazzeschi, da Parigi, del 7 marzo 1914 (cfr.
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quelle dei buffi − ad animarsi in modalità quasi tridimensionale e a protendersi
dalla pagina verso il lettore, a inscenare strafottenti piroette, a salutarlo con una
risata anche da parte dell’autore, e a fare allo stesso lettore un divertito sberleffo.
E si notino, ancora, sempre in «issimo», sul piano propriamente testuale, le
fioriture aggettivali (quattro, cinque termini, e talvolta di più), con il loro risultato
ironico-ridimensionante (anziché di rinforzo) delle valenze semantico-denotative;
quanti più aggettivi, questo uno dei messaggi stilistici di Palazzeschi prosatore,
tanto più si sublima e spumeggia d’inventività creativo-surreale la narrazione, giocosa enunciazione linguistica di materia umana dolente e bruciante, e spesso drammatica: «odio negro, cieco, disumano, snaturato»; «via immensa, inesplorata […],
infinita, maestra, regina» (p. 387); «esperto […], bravo, sicuro, audace, sublime»
(p. 389); e così le filze sostantivali: «corse, salti, tuffi, piroette, capriole» (p. 387); né
si può parlare differentemente dell’affollamento di notizie eclatanti che distolgono i lettori del giornale dal necrologio dell’innominato personaggio (ci si riferisce
sempre ad «issimo»)105:
E come accade sempre in questi casi straordinari, la sorte si aggiunge al valore: si leggeva quel giorno sul giornale di un attentato a un Re, era scoppiata
una rivoluzione, quattro erano in corso e una per scoppiare, due terremoti e
un ciclone che avevan prodotto migliaia di vittime; una moglie aveva accecato
il marito con le cesoie, una malmanomesso il fidanzato per vendetta, e divorati sei bambini un orco. Due matches di boxe agitatissimi, un circuito, un
torneo. Nella lotta si era combattuto il campionato mondiale, e un telegramma dell’ultima ora recava la notizia che il Polo era stato toccato, finalmente.
/ Non uno di quei tanti lettori, vedi prodigio, lesse nel necrologio, il nome
sbagliato dell’ultimo campione fra i morti dell’ospedale (pp. 390-391).
Siamo, come si vede, molto lontani dalle forme del naturalismo, e più ancora
da quelle del naturalismo tout court, ove mai ne sia realmente esistito uno. E se di
“ritorno alla tradizione” si tratta, si può dire che in questo volume del 1937, nella
sua definizione e nella sua unitarietà, Palazzeschi abbia trovato la zona testuale d’e-
MARINETTI-PALAZZESCHI, Carteggio con un’Appendice di altre lettere a Palazzeschi, cit., p. 136), poi
ripreso in Stroncature (Firenze, Libreria della «Voce», 1914; rist.: 1916, pp. 299-300): «Il est encore
enfant dans ses goûts les plus simples; dans le choix même de ses amusements […] avec cela je
ne dis pas qu’il soit l’enfant normal, sensible et idiot, qu’on nous représente dans les manuels de
lecture. Il est l’enfant tout à fait moderne: très malicieux, spirituel, goguenard même et, dans le
fond, aussi corrompu qu’il le faut pour comprendre la vie».
105
Si veda, riguardo alle enfatizzazioni giornalistiche e propagandistico-pubblicitarie,
quello che scrive Dolores Prezzolini in PALAZZESCHI-PREZZOLINI, Carteggio 1912-1973, cit., pp.
89-90, in una lettera da Marina di Massa del 18 gennaio 1937: «c’è una filosofia in “issimo…”.
Ci comprendiamo»; poco prima la Prezzolini ha fatto un riferimento alla «morale da sacrestia»,
dominante in quegli anni, con il fascismo al potere. Il registro deve, evidentemente, mantenersi
allusivo; ma i concetti sono leggibili con chiarezza.
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quilibrio tra due forze espressive contrastanti: da una parte l’esigenza di seduzione
classico-realistica d’un lettore che è tutto da recuperare alle proprie opere, e non
più da spiazzare rispetto ad esse, e dall’altra, l’insistenza, pur se molto aggiornata rispetto al periodo “giovanile” e allo storico “debutto” crepuscolare-futurista,
sulle concezioni poetico-stilistiche e tematiche che più sono sue, e che resteranno
peculiari del suo mondo artistico (la fondamentale levità narrativa dei personaggi e
la loro licenza di sparire, di uccidersi, di annullarsi, la libertà inventiva nella strutturazione della trama, la giocosità dell’invenzione linguistico-lessicale, l’opzione
anticonformistica che ispira e sostiene il filo rosso di quasi tutte le vicende). Ma
classico-realistica è soltanto ed esclusivamente la seduzione, tributo da pagare alla
temperie culturale ed estetica del «ritorno all’ordine» e, altresì, ésca per una media
utenza libraria cui quell’apparente “Toscanina” del toscano raconteur non disturberà il brodo serale. A tali lettori i «buffi» sono realmente sembrati meri «buffi» e
stop, e il massimo risultato per Palazzeschi è stato quello di non far piangere per
la loro morte; ma la semantica di «buffi», secondo il concetto assai bene espresso
da Giorgio Bárberi Squarotti106, vale “buffi nella trasgressione e nel dramma”, pur
se arpeggiato, quest’ultimo, con magistrale corda d’ironica ludicità. E può in tal
senso valere il confronto con le Stampe dell’800, nelle quali, in effetti, si trovano raramente figure di veri buffi, poiché rari sono gli attentati, almeno sul piano
dell’avere, al proprio ego: non è un buffo il Sor Giovanni di Le tre nonne, che recita
con ironia le proprie “parti”; non lo è la Sora Parisina, la cui passione per i gatti
è una mania, non una follia; e non lo sono la Sora Sofia né la Sora Vittoria (vi si
avvicinano maggiormente la Sora Isabella, per la cosciente gestione della sua “diversità”, e l’io narrato de I fiori della libertà, con quel mazzetto che perde i petali
gradatamente, come il bambino che ha esperito il suo tentativo d’evasione verso il
nulla). «Buffi», insomma, lo ribadiamo, non era e non è termine dettato da ottica
“seriosa”, ma è semmai, a scambio e a ben maggiore compenso, termine “serio” (si
ricordi, in tal senso, la distinzione di André Gide; l’opposto di “leggero” non è «serioso», ma, piuttosto, «grave»: «elles ne sont pas sérieuses: elles sont graves»); serio
e «integrale», visti i non casuali approdi dell’ultimo Palazzeschi; e, soprattutto,
esso non è da ascrivere al côté, pur scherzoso, delle ‘ngiurie, per dirla (al plurale)
con Verga, o al vocativo scherzoso («’Namo, Magnabuffi!», rivolto a un cane) che
risuona nel contesto borgataro romano in un passo del pasoliniano Una vita violenta. La cerchia dei lettori borghesi di Palazzeschi, negli anni 1930, si è allargata
e si è, in prevalenza, mantenuta allegra davanti al vero pericolo narrativo di questi
racconti, alle trasgressioni che essi contengono, alla sfida stilistica di restituzione
dei fondi oscuri della bótte vinaria tramite la pura e bianca e leggera schiuma dello
champagne. E di altri, e ancor più fondi abissi non s’è reso conto il lettore italiano,
e non solo quello “medio”, negli stessi anni 1930. Non s’è reso conto degli abissi
106
Cfr. BÁRBERI SQUAROTTI, Aldo Palazzeschi, cit., p. 717.
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storici rétro costituiti proprio dal contemporaneo “ritorno all’ordine”, come, e per
converso, non s’è reso conto, o non ha neppure fruito, del nuovo che c’è dietro a
queste novelle, e ad altre prose e a tante poesie di altri autori. Nell’uno e nell’altro
caso, e a parti incrociate fra innovazione e involuzione, non si tratta d’altro che
degli abissi della modernità e del suo drammatico disconoscimento107. Con una
terminologia mutuata da un famoso saggio di Marziano Guglielminetti (Struttura
e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento), si può affermare che se nella
maggior parte delle novelle del Palio dei buffi la sintassi narrativa dispiega (e in
modo, peraltro, nient’affatto esclusivo e totalizzante) movenze classico-realistiche,
la struttura, al contrario, iscrive la ratio prosastico-scrittoria di questa fase dell’arte
palazzeschiana alla linea più alta e complessa della sua ispirazione, ai suoi svolgimenti e ai suoi esiti più autenticamente innovativi, e per di più giocati, questi
ultimi, in una cifra intima, non più “incendiaria” ma sottilmente celata dietro una
sorridente signorilità stilistico-compositiva. Si tratta di esiti maturi e governati con
calibrata strategia architettonica della pagina; e proprio per questo si tratta di esiti
tanto più significativi d’una scrittura che ha raggiunto una profonda capacità di
canalizzazione interna, intratestuale, non eclatante, nell’espressione di quelle esigenze narrative che, sia pure variamente nel tempo, hanno segnato e accompagnato l’intera storia artistica dell’autore. Il Palazzeschi maturo non smentisce affatto il
Palazzeschi “giovane”, ma anzi, e ben al contrario, lo fornisce d’una riflessione stilistica che ne ridisegna lo stesso rapporto con la materia narrata e che schiude a un
calamus irrevocabilmente novatore le vie del personale e soggettivo appuntamento
con gli anni e con l’età del Palazzeschi uomo; e che gli schiude inoltre l’incontro
con la possibilità d’un più vasto ascolto lettoriale nella tragica situazione oggettiva
d’un’epoca storica difficilissima.
Nella fondamentale distinzione di struttura e di sintassi possiamo ritrovare la
più segreta ragione che anima la scrittura, ovvero la più vera e più diretta realtà
d’una raccolta che corona, e come degnamente, la vicenda prosastica del Palazzeschi degli anni 1930. La novella nasce da una struttura aperta alla trasgressione
tragigrottesca della “normalità”, dei canoni naturalistici della coerenza di trama,
di contesto ambientale, di psicologia dei personaggi (i buffi, o tragibuffi, tendono
Si veda anche un passo particolarmente funzionale alla comprensione del periodo che qui
interessa, quello del Palazzeschi degli anni Trenta e delle Materassi, tratto da GIORGIO LUTI, Pea
1930-40: il romanzo al femminile, in ID., Firenze corpo 8. Scrittori, riviste, editori nella Firenze del
Novecento, cit., p. 381 (ora rist. come II par. di Due paragrafi per Enrico Pea, in ID., Cronache dei
fatti di Toscana. Storia e letteratura tra Ottocento e Novecento, Firenze, Le Lettere [«Bibliotheca»,
31], 1996, p. 195): «Penso si possa con tranquillità affermare che a Pea è accaduto quel che è
accaduto a Palazzeschi. Anche a lui l’etichetta del ritorno all’ordine ha giuocato un brutto scherzo.
Il Palazzeschi del Codice di Perelà, degli anni giovanili della piena e libera fantasia, prima fu negato
come deviazione o parentesi elaborativa di fronte ai romanzi della maturità, poi negli ultimi anni il
recupero avanguardistico di quello spazio originario ha impedito una esatta valutazione di quel che
di nuovo e di moderno conteneva anche un testo chiave come Le sorelle Materassi».
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tutti a un proprio liberatorio e spesso giocoso autoannullamento) e, altresì, essa
nasce da una ribalta linguistica che facilita la prima testuale fruizione grazie a una
fenomenologia sintattica non chiusa a una propria “classica” perspicuità, a un proprio permeabile toscano nitore. La vaporazione, quindi, la fluidificazione levegrave, giocosamara della sostanza umana e narrativa, espresse e sostenute mediante
trabeazioni linguistiche in pietra serena: non certo a caso, la straordinaria vicenda
palazzeschiana, nel suo incantato candore fanciullesco-nonagenario, nella sua sorridente e protratta giullarata pueril-vegliarda, e sempre nella sua assoluta e personalizzata originalità, riesce nell’impresa di legittimare, d’invitare a convivenza sulla
propria scrivania, e in qualità di presenze artistiche sodali e comitali, tutt’altro che
esornativo-epitetiche o di pura rilevanza storiografico-contestuale, figure e scritture letterarie fra loro differentissime quali sono quelle di Collodi e di Bontempelli,
di Fucini, dei simbolisti e tardo-simbolisti francesi e di Gozzano, e così quelle di
Pratesi e di Marinetti, di Ardengo Soffici e di Alberto Savinio.
2.6 Da Serra, Medusa gentile, alla «guerra ironica», all’«artiste en saltimbanque»,
all’ironia di naufragi
Non appare improprio, per l’autore d’un testo come Il codice di Perelà («forse l’opera più vitalmente nutrita di succhi nietzscheani e insieme meno inquinata di veleni nietzscheani della nostra letteratura», secondo l’ottima definizione
di Fausto Curi − cfr. qui sopra, n. 39), richiamare qualche strofa proprio del
nietzscheano Canto della melanconia (vv. 17-36 e vv. 93-105), già composto come
autonoma lirica nell’autunno del 1884 (con un nucleo di testualità precedente di
dieci anni, e di sparsi appunti risalenti esattamente al 1874), inserito nella quarta
parte dello Zarathustra108 e quindi ripubblicato, sempre in forma poetica e con
alcune varianti, nei Ditirambi di Dioniso con il titolo Soltanto giullare! Poeta soltanto! (Nur Narr! Nur Dichter!)109:
Cfr. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Adelphi 2016, cit., VI, t. I, pp. 347 e 349-350.
ID., Ditirambi di Dioniso, cit.; e cfr., in questo contributo palazzeschiano, qui sopra, n. 2.
Si rilegga in lingua originale almeno la prima delle due strofe citate: «− Der Wahrheit Freier − du?
so höhnten sie / nein! nur ein Dichter! / ein Their, ein listiges, raubendes, schleichendes, / das
lügen muss, / das wissentlich, willentlich lügen muss, / nach Beute lüstern, / bunt verlarvt, / sich
selbst zur Larve, / sich selbst zur Beute / das − der Wahrheit Freier? … / Nur Narr! Nur Dichter!
/ Nur Buntes redend, / aus Narrenlarven bunt herausredend, / herumsteigend auf lügnerischen
Wortbrücken, / auf Lügen − Regenbogen / zwische falschen Himmeln / herumschweiend,
herumschleichend − / nur Narr! nur Dichter! / das − der Wahrheit Freier? …». Ci si permetta
solo di sottolineare il valore di espressioni quali «Che strilla variegato da larve di giullare», «Che
sale su per ponti menzogneri di parole», «Per variegati arcobaleni»: «aus Narrenlarven bunt
herausredend», «herumsteigend auf lügnerischen Wortbrücken», «auf Lügen − Regenbogen».
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Un pretendente della verità sei tu? − dicevano beffarde
[le «Maligne occhiate del sole di sera» − «boshaft abendliche Sonnenblicke»] −
No! Solo un poeta!
Un animale scaltro, predace, sguisciante,
Che deve mentire,
Che deve − sapendolo, volendolo − mentire:
Di preda cupido,
Celato in variegate maschere,
E maschera per sé
E per sé preda −
Questo − il pretendente della verità?
No! Giullare soltanto! Soltanto poeta!
Uno che dice solo parole variegate,
Che strilla variegato da larve di giullare,
Che sale su per ponti menzogneri di parole,
Per variegati arcobaleni,
Tesi tra cieli falsi
E false terre,
Equilibrista girovago −
Giullare soltanto! Soltanto poeta!
Questo − il pretendente della verità?
[…] Così una volta anch’io piombai
Dai miei vaneggiamenti di verità
Dai miei aneliti del giorno,
Stanco del giorno, malato di luce,
piombai giù, verso il crepuscolo, l’ombra:
Per una sola verità
Bruciato e assetato
− ricordi ancora, ricordi, caldo cuore,
Come assetato fosti? −
Ch’io sia bandito
Da ogni verità,
Giullare soltanto!
Soltanto poeta!
−
Davvero, non si tratta di lacrymae rerum; anziché accamparsi, come epigrafe, Sunt
lacrymae rerum, qui subentra l’espressione artistico-testuale ad essa opposta (né si
tratta d’opposizione concettuale): Est risus rerum. Risus rerum, riso: quindi, si osi
dire, ancora maggiore e ancor più profonda amarezza. Né stupisce che il concetto
sia suggerito da chi, come appunto Aldo Palazzeschi, pure nella nuova arte del
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cinema110, ha identificato e salutato l’«arcobaleno» proprio nell’universalità d’un
attore comico, non soltanto perché “grande”, ma anche e appunto e precipuamente perché «comico»: «Totò è apparso all’orizzonte del cinema come arcobaleno
dopo il temporale», addirittura come «il richiamo all’ordine della civiltà», per chi
aveva «perduto la gioia di vivere». Ma l’«amica ironia», terzo compagnon de route
d’un’antica promenade con Soffici (sulla quale si è acutamente soffermato Giacomo Debenedetti [cfr., in questo saggio, n. 52]), non vale solamente per la Seconda
guerra mondiale, termine di riferimento qui più vicino. Per Palazzeschi si può
parlare, a circolo ricomprensivo del corpo grande del Novecento, anche del primo conflitto mondiale, della Grande Guerra; e tale amara scansione segnata dalle
guerre, come dal disagio del buffo nel suo anelito liberatorio del principio fisico
del piacere, è drammaticamente valida per l’ironia di Palazzeschi e, insieme e senza
contraddizione, per il dolore dichiarato e per l’esperienza naufragica dell’«uomo
di pena», di Giuseppe Ungaretti. Basti riprendere un passo di Giorgio Luti (cfr.,
qui sopra, n. 41):
L’attraversamento e il superamento del futurismo affidati da Palazzeschi al
Controdolore e agli scritti di quegli anni fu in definitiva la spinta fondamentale necessaria ad Ungaretti per proseguire oltre i risultati di «Lacerba». Nell’«uomo di pena» è presente con una rilevanza notevole, anche se costretto al
fondo della coscienza, nei gorghi dell’inconscio, il rifiuto palazzeschiano della
grande tragedia che sconvolge l’Europa111.
110
Si ricordi ALDO PALAZZESCHI, Cinema, a cura di MARIA CARLA PAPINI, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2001.
111
Sulle affinità, indubitabili, che uniscono sul piano propriamente testuale e poetico il primo
Ungaretti, l’Ungaretti di «Lacerba», al Palazzeschi di quegli anni, cfr. GIUSEPPE DE ROBERTIS, Sulla
formazione della poesia di Ungaretti, in GIUSEPPE UNGARETTI, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a
cura di LEONE PICCIONI, Milano, Mondadori, 2005, pp. 405-421, in specie pp. 405-408 (dapprima
come Introduzione alle Poesie disperse del 1945): «Fu dunque, anche lui [Ungaretti], prosatore
in verso, secondo il gusto dei crepuscolari e degli ironisti: e questo, nel solo giro d’un anno (anzi
meno d’un anno). In “Lacerba”, tra il febbraio e il maggio del ’15, egli pubblicò quattro poesie
piuttosto diffuse, diffuse perché prosastiche (Il paesaggio d’Alessandria d’Egitto, Cresima, Le
suppliche, Sbadiglio), che farebbero pensare a un Palazzeschi ora più timido ora più sfrenato; e
nel tempo stesso portano gli avvisi d’un Ungaretti maturo. Lasciamo addietro Cresima, e diamola
tutta, vorrei dire, restituiamola, a Palazzeschi: // Inseguitemi. Correte. Correte. / Pigliatemi. //
Marameo! // Mi lancio nei precipizi. / Mi alleno ai capitomboli e ai saltimortali / dei senzagiudizio.
/ Sor Bartolomeo. // Ma nel Paesaggio d’Alessandria d’Egitto, ecco Palazzeschi ancora: // Anatra
vieni. / − E chi se ne frega. / − Al letto di seta colore di sfumature di poesia. / − E chi se ne frega.
/ − Ti insegnerò la frescura di tramonto delle astuzie. / − E chi se ne frega. / − Lo possiedo duro
grande e grosso. / − E chi se ne frega. // Ed ecco Ungaretti, sia pure un Ungaretti estenuato: //
Le gocciole attimo di gioia trattenuto / brillano sulla verdura rasserenata // di cui sarebbero da
suggerire trascrizioni diverse, secondo il gusto dell’Allegria, provando e riprovando la resistenza
di certe parole, specie dell’ultima, “rasserenata” (che fa di quella verdura uno specchio di cielo)»
(pp. 405-406). E si legga ancora De Robertis: «Ma ridiamo a chi di dovere le ultime due poesiole: a
un anonimo crepuscolare Epifania: // Mughetto fiore piccino / calice di enorme candore / sullo stelo
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La «pena» è profonda, e intimamente lucida e cosciente, nel Saltimbanco, nell’artista-scrittore dello sberleffo e della piroetta funambolica, nell’uomo della “leggerezza”; e, da parte sua, l’«ironia» (termine del tutto simmetrico a quello di
«malinconia», nel dizionario ungarettiano) è termine, e concetto, assolutamente
imprescindibile dall’«uomo di pena», dalla sua penna e dalla sua sofferta e concentrata poesia, da un mondo interiore soggetto ai mutamenti, ai riscontri e alle
sventure del tempo, della storia umana, della fisica deperibilità. Pena e leggerezza,
ironia e dolore non sono componenti di endiadi contraddittorie; essi costituiscono,
invece, i termini di ossimori apparenti; sono elementi che, nel loro stretto legame,
integrano, non solo in questi due autori, la forma artistica della modernità. È per
questo che l’«ironia», nel suo significato di dissimulazione, di disinganno, di coscienza di sproporzione degli eventi rispetto a scopi e attese umane, può risultare
un concetto profondamente coessenziale con la tragica esperienza d’una guerra
planetaria; se visto da un’angolazione in questo caso ungarettiana, tale concetto
può guadagnare il sintagma, tutt’altro che antinomico, di «guerra ironica»112:
In questo senso andrebbe intesa la definizione di Paul Fussel della Grande
Guerra come «guerra ironica»: ironica non solo per il fatto che ogni guerra
costituisce un’azione ironica in quanto i suoi strumenti sono melodrammaticamente sproporzionati ai suoi presunti scopi, ma soprattutto perché quella guerra fu orribilmente peggiore di quel che ci si aspettasse. / Di quello spettacolo
della Grande Guerra scriveva Renato Serra: «pare un’ironia» [17 luglio 1915].
Anche Serra, dunque, come Ungaretti e come altri, partecipa, qui a tre aurore dalla
morte, del concetto di ironia, e non vi è in tal senso il minimo motivo di stupore.
Da questa sfera di reattività umana e letteraria sarebbe rimasto fuori, ad esempio,
un Panzini; ma ciascuno a proprio modo, Serra, e così Palazzeschi, e così l’autore
di Allegria di naufragi, non mancano certo di accusare ricevuta della modernità. Il
concetto di «naufragio», e meglio ancora di «naufragi», è in effetti strettamente
abbinato, se non anche consustanziale, al concetto rappresentato dall’«allegria»,
poiché quest’ultimo è evocazione linguistica in cui si nasconde un’«implacabile
ironia», come dirà lo stesso Ungaretti; l’allegria è dono di un attimo in mezzo al dolore, è breve illuminazione dell’amore nel trapassare del tempo; si tratta di «lampi
di coscienza» in «paesaggi di rovine»113:
esile / innocenza di bimbi gracile / sull’altalena del cielo //a Palazzeschi, e a nessun altro, Viareggio:
// Viani / sarà bella la pineta / ma come ci si fa a dormire / con tanti moscerini e tante cacate. // Sono
i due estremi tra cui, stranamente, si divideva e svagava il primo Ungaretti» (pp. 407-408).
112
Cfr. GUARAGNELLA, Scritture dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande
Guerra, cit., p. 181. Per la citazione di Fussel, cfr., appunto, PAUL FUSSEL, La Grande Guerra e la
memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 12-13.
113
GUARAGNELLA, Scritture dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande Guerra,
cit., pp. 181-182.
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Ungaretti nel 1919 inscriveva la sua prima raccolta poetica, composta nei momenti di stasi della vita di trincea, in un’opera più ampia, cui dava il titolo di
Allegria di naufragi. A proposito di quel titolo, poi mutato in quello più monocorde di Allegria, Ungaretti doveva scrivere a dilucidazione: «Il primitivo
titolo, strano, dicono […]. Strano se tutto non fosse naufragio, se tutto non
fosse travolto, soffocato, consumato dal tempo. L’allegria rappresenta quella esultanza114 che l’attimo dà perché è fuggitivo; attimo che soltanto amore
può strappare al tempo, l’amore più forte che non possa essere la morte».
Ora, il sentimento di allegria è del tutto simmetrico a quello di malinconia;
e agisce qui ancora una volta la lezione del maestro Bergson, il quale aveva
scritto − e la riflessione del filosofo francese val bene a dilucidare le modalità
di percezione, da parte del soldato Giuseppe Ungaretti, di quei fotogrammi
di violenza tecnologica nel cui movimento accelerato si produceva il naufragio della Grande Guerra − che «si constata il cambiamento […] [così] come
vedrebbe il percorso della vettura un viaggiatore che guardasse indietro e
non volesse conoscere ad ogni istante che il punto ove ha cessato d’essere».
Ebbene, «quel viaggiatore non determinerebbe mai la sua posizione attuale
che in rapporto a quella che sta per abbandonare».
Oltre alla serie di chiarificazioni sull’immagine del naufragio (“tutto è naufragio”,
tutto è esposto al tempo), e allo stretto legame che vi è fra allegria e malinconia,
emerge qui la lezione bergsoniana che conduce ai «lampi di coscienza» e all’illusione dell’«uomo di pena» − sia pure, tale illusione, il gioco visivo di un attimo −:
«Ungaretti / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio // Un riflettore
/ di là / mette un mare / nella nebbia» (Pellegrinaggio)115. L’illusione di Ungaretti
in Pellegrinaggio è «l’ingannevole distrazione di una metafora visiva: quelle onde
dipinte sulla nebbia dal fascio di un proiettore. Un gioco di luce, durato un attimo
appena, che probabilmente non aiutava il soldato, ma arricchiva il poeta», come
direbbe Mark Thompson116; e sull’intreccio di naufragi e di allegria, e quindi di
ironia, un intreccio che manifesta un valore e una funzionalità genetici riguardo
alle strategie e ai movimenti stilistici dello stesso Ungaretti, di Palazzeschi e di altri
autori, si veda ancora questo passo117:
Per altro verso, macerie, rovine, naufragi e allegria sono lemmi che s’intersecano o si sovrappongono nel segno di una “memoria tacita” […]. Tanti
114
Nell’edizione mondadoriana 1969, il testo risulta: «Esultanza che l’attimo, avvenendo, dà
perché fuggitivo, attimo che soltanto amore può strappare al tempo, l’amore più forte che non
possa essere la morte» (cfr. UNGARETTI, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 517).
115
Ivi, p. 46.
116
MARK THOMPSON, La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Milano, Il
Saggiatore, 2009, p. 204.
117
Cfr. GUARAGNELLA, Scritture dal fronte. Giuseppe Ungaretti e l’esperienza della Grande
Guerra, cit., p. 183.
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anni dopo [la Grande Guerra], alla vigilia della morte, Ungaretti dirà a Leone
Piccioni: «Tu sai quale implacabile ironia si nasconde per me nella parola
allegria».
«Macerie» e «allegria», «naufragi» e «ironia», «rovine» attestano, anche in questo
caso, di non essere lemmi dai significati antitetici, di non porsi affatto nell’àmbito
di sfere semantiche tra loro inconciliabili o incompatibili; essi, anzi, si sovrappongono, avendo fra loro non soltanto notevoli aree intersettive, bensì una comunanza
di origine, una sodale, interna empatia di nascita simultanea nel mondo interiore e
nel mondo artistico-espressivo degli autori, una essenziale unitarietà di scaturigine.
È per questa non lieve ragione che il sintagma «ironia di naufragi» (con l’ironia
«implacabile» quale riconoscibile garante del significato drammatico di «allegria»)
appare come una vera “linea guida” nello studio letterario (artistico, stilistico, spirituale, ideologico) del nostro Novecento. O, almeno, di alcune delle sue più significative e rappresentative declinazioni.
«Ironia di naufragi»: già per Serra, Medusa gentile di pallido aplomb e di postuma seduzione intellettuale sul tachilalico Panzini, è ampiamente possibile evocare l’enigma di un sorriso all’angolo delle labbra, enigma che si schiude a un
ironico scetticismo sulla storia (radicato da lunga data nella riflessione serriana) e
nel contempo è segnale di presagio, come avviene per palloni, cilindri e luci nelle
stazioni marinaresche foranee, della minaccia d’un tempestoso futuro di conflitto
planetario e di morte, un futuro che proprio per questo non lo riguarderà; e se per
Serra il naufragio avviene in un crescendo di consapevolezza e di silenzio negli
ultimi giorni prima della morte in guerra, ed è un naufragio che avvicina il tenente
con Platone nello zaino alla reimmersione nella terra dura, solida e sempre uguale,
nelle immagini e nella speranza d’una natura di boschi e di erba verde, per Palazzeschi il naufragio avviene esistenzialmente subito, ancora prima che per il tenente
che, secondo il suo programma, secondo il suo “piano di lavoro”, avrebbe lavorato con i suoi appunti sulle polifonie architettoniche e macrocontestuali di grandi
poemi e di grandi romanzi, su Ariosto e su Manzoni; Palazzeschi è sin dall’inizio
naufrago, nel confronto con un orizzonte di attese ambientali che al tradizionale
scontro del “letterato” con il pragmatismo paterno aggiunge la delicata gestione
della coscienza d’un’omosessualità che, pur “superata” grazie all’autoironia e alle
risorse della dissimulazione letteraria, sciamerà discreta ma sottopelle lungo l’intera vita dello scrittore. Si tratta, come sottolinea Simone Magherini (cfr., qui, la nota
50) riferendosi alla Premessa alle Opere giovanili del ’58, di
introdurre e presentare al lettore il poema inedito e unitario di una drammatica avventura poetica, la storia di una «giovinezza turbata e quasi disperata»
(la scoperta traumatica dell’omosessualità), che in un preciso spazio di tempo
reale […] si risolse in «allegria», «come per miracolo, come per virtù di un
incantesimo del quale non saprei io stesso spiegare il mistero (approfondita
conoscenza della vita, degli altri e di me stesso?)».
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Il trauma ha un valore genetico per la stessa «allegria» e per la conversione al riso,
sin dagli anni giovanili; e l’operazione che conduce al riso e allo studio letterario
del “buffo” è e si configura come tutt’altro che indolore e, anzi, essa contiene gli inquieti elementi di una tacitata disperazione. Ironia e naufragio saranno per Palazzeschi, destinato a sorte nonagenaria rispetto al trentenne Serra al capolinea vitale
sul Podgora, un binomio costante, una doppia linea di scorrimento dell’esistenza,
e, a ben vedere, anche della produzione artistico-letteraria; se il “secondo” termine, quello rappresentato e incarnato dal «naufragio» (il pregresso naufragio della
vita relazionale), sarà meno evidente, e sarà addirittura segretato, quasi criptato
dall’artista in un equilibrato procedimento di delicatezza innanzi tutto con se stesso, allora lo scenario ironico-naufragico, uno scenario senza maschere, ma piuttosto con due congiunte verità di cui una sola si rende palese (l’ironia), si pone quale
sfida al lettore e all’interprete in direzione degli abissi di scrittura di cui il mondo
dell’autore si dimostra capiente; abissi dei quali la giocosità, la spumeggiante risorsa della leggerezza stilistica e strutturale celano la profondità, la drammaticità
silenziosa, la promenade funambolica − linguisticamente perfetta e insieme spericolata −, sul filo dell’acrobata, unico possibile cammino in equilibrio fra il riso del
Saltimbanco e il gouffre del nulla. E tale chiave ironico-naufragica può valere, pur
nella sua varietà di declinazioni, per molte esperienze della storia e dell’arte del
Novecento; nel nostro caso, essa vale per le guerre (per la Prima guerra mondiale,
con Serra e con Panzini; per la Seconda e per il fascismo, per come sono vissuti, e
soprattutto rivissuti, da Vasco Pratolini − con la sua amara apertura alla derisione
e al plurilinguismo allegorico − e da Romano Bilenchi); essa vale per il «buffo»,
per il suo movimento, per l’allure psichica e linguistica d’un acrobata non così
lontano − come si è visto − da quello della «dolina»-«circo» di Ungaretti («Mi
tengo a quest’albero mutilato / abbandonato in questa dolina / che ha il languore
/ di un circo / prima o dopo lo spettacolo […] / Ho tirato su / le mie quattr’ossa
/ e me ne sono andato / come un acrobata / sull’acqua»)118; ed essa vale altresì per
il lettore orizzontale, Roberto Bazlen: ebreo scampato ad alcune retate fasciste che
118
GIUSEPPE UNGARETTI, I fiumi (Cotici il 16 agosto 1916), in L’Allegria; cfr. ID., Vita d’un uomo.
Tutte le poesie, cit., pp. 43-45: p. 43. Ricordiamo che in posizione incipitaria nella sezione Allegria
di naufragi (ed è nota la raggera semantica del vocabolo «Allegria» in Ungaretti), in Natale (Napoli
il 26 dicembre 1916), oltre al motivo prudenziano del riassorbimento protettivo, e addirittura
regressivo, nella sede e pure nella metaforica locazione paterna, familiare («me paterno in atrio /
ut obsoletum vasculum caducis / Christus aptat usibus / sinitque parte in anguli manere»), ritorna
il motivo delle «quattro capriole» («Sto / con le quattro / capriole / di fumo / del focolare»),
che non si limita a rammentare, con le «capriole», l’acrobata e il circo, ma si lega alla successiva
lirica, Dolina notturna (sempre «Napoli il 26 dicembre 1916»; ivi, p. 63), non a caso vibrante,
poeticamente, in direzione della «dolina» carsica de I fiumi. Sono «quattro» le «capriole», come
le «quattr’ossa» di chi se ne va «come un acrobata / sull’acqua». Si vedano, in relazione al testo
prudenziano, le strofe seconda e terza (vv. 8-18): «Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in
un / angolo / e dimenticata // Qui / non si sente / altro / che il caldo buono» (ivi, p. 62).
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miravano anche a lui, schedatore di ingenti materiali letterari stranieri − soprattutto anglosassoni − per le Edizioni Olivetti di Ivrea e per il loro nucleo di ebrei
poliglotti e cosmopoliti, fierissimi nemici naturali e politici per le impostazioni e
per le esperienze nazi-fasciste, teocratico-integraliste e autarchiche − materiali interamente perduti proprio grazie alla repressione della polizia fascista, implacabile
con la cultura straniera e con l’impegno intellettuale ebraico −, quest’ultimo, Bobi
appunto, con il suo lunghissimo naufragio interiore, con quel romanzo scritto per
intero in tedesco con rare espressioni in italiano, Il capitano di lungo corso, “programmaticamente” incompiuto, affabula − in una strategia di profonda critica del
mito odissiaco del “ritorno” itacese − una conscia deriva naufragica di immersione
nella personale psicoanalisi, nella rotta junghiano-adleriana e ernstbernhardiana, e,
senza contraddizione, nella rotta d’una persuasa adesione taoista.
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3.
BOBI BAZLEN, LETTORE ORIZZONTALE, SCIAMANO NORDAZKENAZITA DI CIELO CHASSIDICO (FRA SVEVO, MONTALE, JUNG, ERNST
BERNHARD, ADRIANO OLIVETTI, LUCIANO FOÀ)
Qui sei perduto per sempre − Arrivederci nella prossima cultura.
BOBI BAZLEN
La passeggiata domenicale con la situazione finanziaria
in ordine e con gli ormoni in ordine − di colpo diventa
pazzo: è la fine della vita. «Signore, dacci il nostro pane
quotidiano non tutti i giorni».
BOBI BAZLEN
Mi buttano giù via Margutta 7 e devo andarmene.
Dopo ventisei anni di una vita estremamente incivile,
ma di un’organizzazione perfetta e irripetibile. Gente
come questa (con la quale in ventisei anni, non ho mai
parlato) non la trovo più.
BOBI BAZLEN
disposto a una più vasta, anche totale collaborazione:
letture, segnalazioni, dirigere una collana. È straordinario, ha la memoria a bottoni. Si direbbe che ha letto
tutto. Senza fermarsi. Gli dico di sì, subito, ma non
si fermerà neppure con me […]. Cos’è che lo muove,
cos’è che lo chiama? è tutto cultura e si direbbe che
non contenga altro dentro di sé. Ma qualche segno avverte che non è vero: forse legge per non pensarci.
VALENTINO BOMPIANI, 19731
1
Per le prime due citazioni cfr. ROBERTO BAZLEN, Città Grigia, in ID., Scritti. Il capitano di
lungo corso. Note senza testo. Lettere editoriali. Lettere a Montale, a cura di ROBERTO CALASSO,
Milano, Adelphi («Biblioteca Adelphi», 136), 1984 (IV ed., 2013), pp. 100 e 105; la terza è tratta da
una lettera da Roma a Luciano Foà, 1964 (cfr. MANUELA LA FERLA, Diritto al silenzio. Vita e scritti
di Roberto Bazlen, Palermo, Sellerio [«Prisma», 162], 1994, p. 82); ivi, p. 62, l’ultima citazione: cfr.
VALENTINO BOMPIANI, Via privata, Milano, Bompiani, 1973, pp. 84 e 238-239.
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3.1 Bibliografia di un mito
Una personalità solitaria e appartata come quella di Bazlen non può che sfidare
gli studiosi a riempire i vuoti di informazione e di conoscenza che a tutt’oggi impediscono un reale accesso alla tormentata umanità di questo straordinario lettore.
Ma l’intento di entrare nel mondo (o nei mondi) di Bobi deve fare i conti con una
figura di intellettuale irraggiungibile e per consapevole scelta capace di sottrarsi
agli sforzi che da parte altrui si compiano per penetrare i suoi segreti. Bazlen,
si potrebbe dire, ha cancellato gran parte delle tracce di sé. Si può ricordare un
libro a suo tempo pubblicato dall’editore Sellerio2 che ha in tal senso il merito di
focalizzare già sul piano dell’iniziale strategia d’approccio (l’approccio indiretto
compensa l’enigmatica prosopografia dell’“appartato” con una serie di caratterizzazioni che solo la lontananza dell’interlocutore può garantire) la fondamentale
inviolabilità della privacy di Bobi: Per una diacronia indiziaria, così titola, con vis
emblematica, il primo capitolo. Infatti, al di là delle lettere editoriali, delle missive
conservate nell’Archivio Adelphi di Milano, dell’incompiuto romanzo Il capitano
di lungo corso, Bazlen rimane, nell’immaginario dei lettori italiani, un grande scopritore di talenti, un grande suscitatore di altrui energie nella scoperta di itinerari
lettoriali nuovi. Né la sagoma di un personaggio si forma a caso: alla privacy corrisponde, proprio ed esattamente, il mito, ovvero l’unica idea che può rimanere di
una personalità che con creative risorse di costanza ha difeso il proprio diritto al
silenzio, ha seminato gli inseguitori con la medesima abilità, con la stessa sagacia
con la quale ha a sua volta inseguito le novità, l’inedito, con la quale ha inseguito i
valori della scrittura, i valori autentici dell’interiorità e dei mondi umani che l’imprevedibile contropiede del talento sa codificare. E l’avvicinamento al “lettore orizzontale”, passando quasi per obbligo dalla strada della mitografia (la singolarità di
Bazlen appartiene alla mitografia letteraria italiana del Novecento), del patrimonio
di testimonianze epistolari e colloquiali che permettono pur sempre di ricostruire
alcuni aspetti della personalità dell’intellettuale triestino, si qualifica come studio
di una personalità enigmatica appunto e complessa, di una “persona” che si trova
2
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit. (vd. n. 1). La connotazione di «sciamano nordazkenazita»
si riconnette direttamente ai riferimenti alla conoscenza che lega Roberto Bazlen e Giacomo
Debenedetti. Il «cielo chassidico» si riferisce al titolo di CLAUDIO MAGRIS, Il cielo chassidico di Bobi
Bazlen, in Il Piccolo, 15 novembre 1967. Sulla biografia e sui carteggi di Bazlen cfr., ultimamente,
CRISTINA BATTOCLETTI, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, Milano, La Nave di Teseo («Oceani», 17),
2017. In particolare, si tengano presenti i contributi da carteggi inediti, quali quelli con Pier Antonio
Quarantotti Gambini, con Livio Corsi, con Stelio Mattioni, con Manlio Malabotta, con Anita
Pittoni, il carteggio tra Luciano Foà e la stessa Anita Pittoni presente nell’Archivio diplomatico
della Biblioteca civica Hortis di Trieste, e si tenga presente, altresì, Per Roberto Bazlen, Atti del
Convegno, Trieste, 16 aprile 1993, a cura di ROBERTO DEDENARO, Udine, Campanotto, 1995. Su
Bazlen, cfr. ALDO GRASSO, Roberto Bazlen, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXIV, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988.
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a essere anche, e soprattutto, il proprio personaggio: tale studio è la bibliografia
di un mito, l’unico contatto possibile con un letterato che teme persino di vedere
pubblicato il proprio nome a firma di articolo o di saggio. Si tratta del solo canale
comunicativo che raggiunga un “bracco letterario” sotto molti aspetti imprendibile e sempre attestato su una cifra spirituale di tenace e convinto anticonformismo,
tanto da essere instancabilmente proteso alla valorizzazione di autori sconosciuti
e alla promozione della fortuna letteraria di scrittori stranieri. Quando si parla di
“mitografia”, insomma, si allude a una carenza, a una lacuna conoscitiva da parte
nostra, una lacuna che si estende sino alle linee di fondo d’una personalità defilata
e sfuggente. Tale “bracco”, che si è posto come ispiratore di tante carriere di lettori, di tante scelte editoriali decisive, non può, per definizione, che rimanere quasi
clandestino e defilato, poiché Bobi non è affatto un semplice consulente editoriale,
né è l’anticipazione di ciò che sarà il manager, il funzionario industriale dei nostri
tempi, un funzionario che spesso finisce per tracciare un itinerario di consenso e di
adesione agli interessi dell’editoria e a quelli, ormai omologati, del mercato; Bazlen
si pone, piuttosto, e anzi al contrario, all’origine del successo editoriale di autori
che spesso sono noti solo a una ristretta cerchia di addetti.
La metodologia praticabile è quella che consiste in un concreto e complesso
ancoraggio documentario, in un’esposizione e in un’approfondita ricognizione bibliografica su Roberto e sugli ambienti che ha frequentato (con i quali, peraltro,
egli ha sempre mantenuto un rapporto partecipativo tutt’altro che improntato dal
pieno coinvolgimento, ma anzi pronto, e ripetutamente, al recupero di una personale autonomia); è il metodo applicato, ad esempio, nel volume selleriano3, che
non si muove in direzione contraria al mito di Bazlen, ma che cerca di ricostruire la
parabola di una biografia volontariamente povera di pertugi, di spiragli permeabili
all’occhio dello studioso. Ai tre capitoli (il già citato Per una diacronia indiziaria, e
poi Metempsicosi di un’immagine e La dissimulazione di Orfeo: Il capitano di lungo corso) seguono l’Appendice, con sei poesie di Bazlen in tedesco e un «articolo
ritrovato» (Il nazionalismo è davvero morto?, dapprima uscito in «Comunità», II
[3 maggio 1947], 3: una riflessione molto stimolante, acuta, di grande interesse,
che più sotto riproponiamo) e la Bibliografia, comprendente i Disiecta membra,
un elenco di traduzioni (oltre a Freud e a Jung, per l’editrice Astrolabio, vi sono
William Carlos Williams e, come autori di saggi e articoli, Oscar Handlin, Emanuel
“Manny” Farber, Hugh Harrison, Kenneth Burke, William Troy, dei quali Bazlen
si occupa per conto della rivista «Prospettive U.S.A.»), gli Epistolari e carteggi, le
Testimonianze originali, gli articoli Intorno a Bobi. In particolare, gli Epistolari e
carteggi segnalano le lettere di Bazlen a Lucia Rodocanachi (centotrentuno missive
[27 dicembre 1937-24 luglio 1965], conservate presso l’Archivio della Fondazione “Pietre” di Genova), circa mille lettere (1938-1965) a Ljuba Blumenthal (altri
3
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit.
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destinatari sono Livio Corsi, Luciano Foà, Ferdinand Lion, Eugenio Montale, Fabrizio Onofri, Sergio Solmi, Giorgio Voghera, Ignazio Weiss) e lettere allo stesso
Bazlen di Sergio Fadin, di Leifhelm, di Montale (cfr. Bibliografia, p. 190; riguardo a
Fadin si ricordi la prosa di Montale intitolata, appunto, Visita a Fadin [Intermezzo,
III, in La bufera e altro]; di Leifhelm si rammenti il ruolo di traduttore in lingua
tedesca di alcune liriche montaliane, sotto la guida ravvicinata e competente di
Bazlen).
3.2 «Libri veramente importanti e sconosciutissimi»
Fra Trieste, Genova, Milano e Roma si snoda un itinerario intellettuale segnato
soprattutto dal rapporto che intercorre tra Bobi e molti letterati della sua e anche della precedente generazione, quali ad esempio, riferendosi in particolare all’ambiente
della città natale, Stuparich, Bolaffio, Giotti, Benco, Saba, Svevo (conoscenze favorite anche dall’incontro in famosi Caffè, quali il Garibaldi, il Nazionale e il Municipio),
nonché lo psicoanalista Edoardo Weiss (benché in séguito Bazlen maturi posizioni, e
anche personali coinvolgimenti, molto critici verso il freudismo, e abbracci con convinzione e con competenza il pensiero junghiano)4; Edoardo Weiss, lo si ricordi, sarà
il responsabile diretto della produzione di testi della collana dell’editrice Astrolabio
4
Uno degli avamposti italiani delle teorie psicoanalitiche è proprio la città di Trieste, grazie
soprattutto all’opera di Edoardo Weiss che, dopo avere studiato a Vienna, è divulgatore e operatore
scrupoloso della psicoanalisi prima nella città adriatica, tra gli anni ’20 e ’30, e successivamente
a Roma, soprattutto fra il 1930 e il 1934, sebbene la diffusione della psicoanalisi debba subire
l’ostilità, e la vera e propria opposizione, della cultura idealistica, del fascismo, degli ambienti
del cattolicesimo, degli ambienti universitari. L’esperienza di Weiss, in una vasta azione che, tra
scienza piscoanalitica e discipline umanistiche, influenza l’esistenza e l’opera di alcuni grandi
intellettuali triestini come Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen appunto, Giorgio Voghera e
Vito Timmel, offre anche alla loro coscienza creativa itinerari inediti di ricerca sulla psiche umana
e uno sprone a una più radicale coscienza estetica. Su Weiss cfr., ora, ALESSIA FETZ, La narrativa
del primo Bilenchi. Adolescenza, scrittura e riflessioni metaletterarie, Firenze, Cesati («Strumenti
di Letteratura Italiana», 44), 2015, pp. 17 e 23-27 (il volume rielabora una tesi di dottorato
discussa all’Università di Zurigo). Cfr., ovviamente, anche MICHEL DAVID, La psicoanalisi nella
cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1976 (I ed., 1966) e ID., Letteratura e psicoanalisi, Milano,
Mursia, 1976 (I ed., 1967). In particolare (cfr. FETZ, La narrativa del primo Bilenchi, cit., pp. 2324), Weiss costituisce nel 1932 la seconda Società psicoanalitica italiana (1932-1938), dà vita alla
«Rivista italiana di psicoanalisi» (1932-1934), che sarà l’organo ufficiale della suddetta Società
psicoanalitica, fonda altresì la collana «Biblioteca psicoanalitica internazionale»; scrive, insieme
con Nicola Perrotti e con Emilio Servadio, le voci Freud e Psicoanalisi per l’Enciclopedia italiana
(1932 / 1935). Dello stesso WEISS escono gli Elementi di psicoanalisi (Milano, Hoepli, 1931; cfr.,
più recentemente, la nuova edizione a cura di ANNA ACCERBONI PAVANELLO, Pordenone, Studio
Tesi, 1995 [I ed., 1985]) e i Saggi di psicoanalisi in onore di Sigmund Freud (Roma, Cremonese,
1936); di ENZO BONAVENTURA, in quegli anni, esce La psicoanalisi (Milano, Mondadori, 1938),
mentre CESARE LUIGI MUSATTI insegna da pioniere la dottrina freudiana all’università (1932-1934);
egli rielaborerà le sue lezioni in vista del Trattato di psicoanalisi (Torino, Einaudi, 1949).
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«Psiche e Coscienza. Collana di testi e documenti per lo studio della psicologia del
profondo», diretta dal dottor Ernst Bernhard, in cui escono opere di Freud quali,
ad esempio, Introduzione allo studio della Psicoanalisi (Prima serie e Seconda serie) e
Nuove conferenze sull’Introduzione allo studio della Psicoanalisi; nel 1947, dopo l’opera di traduzione bazleniana, vi sarà la «Traduzione italiana interamente riveduta, e
aumentata di un dizionario dei concetti psicoanalitici fondamentali», a cura di Edoardo Weiss. È proprio a Trieste che inizia la ricerca di «libri veramente importanti e
sconosciutissimi», un percorso che è frutto di una cultura incredibilmente ricca ed
estesa, aperta, poliglotta, e tanto più indipendente dai luoghi comuni quanto meno
dominata da una sistematicità di tipo scolastico o accademico. Alla fine del primo
conflitto mondiale, alla prima «liberazione» della sua vita (quante volte, ancora, sarei
stato liberato, dirà in séguito Bobi), Bazlen deve infatti trasferirsi dal liceo tedesco
al liceo italiano, e matura, ricorda Giorgio Voghera, «una contrarietà invincibile per
tutto ciò che si apprende a scuola […]. I grandi classici della letteratura italiana
(come del resto quelli della letteratura greca e latina) gli rimasero sempre estranei:
e la filosofia che si insegnava a scuola (particolarmente la filosofia idealistica) gli incuteva un vero orrore»5. E i «libri veramente importanti e sconosciutissimi» divengono il segno di «tutta una cultura non ufficiale», di intere «biblioteche finite sulle
bancarelle», «vendute dai tedeschi che lasciano Trieste quando l’impero austriaco
comincia a sgretolarsi»6. Lo stesso Bazlen scrive:
Ancora adesso, se sento di libri definitivamente introvabili e che sono stati rivalutati in questi ultimi venti o trent’anni, e che non troverò mai più, ricordo
che mi passavano per le mani, sulle bancherelle del ghetto, […] polverosi e
pronti ad essere dispersi, a una lira l’uno, a due lire l’uno. Parlo delle biblioteche dei tedeschi, degli ufficiali di marina austriaci, ecc., se la situazione fosse
stata l’inversa, e se ne fossero andati gli italiani, le bancherelle si sarebbero
sfasciate sotto il peso di Carducci Pascoli D’Annunzio e Sem Benelli7.
Non sfuggirà certo il valore dell’accenno di Giorgio Voghera all’estraneità dei
grandi classici della letteratura italiana, e altresì dei classici greci e latini, non si
5
GIORGIO VOGHERA, Gli anni della psicoanalisi, Pordenone, Studio Tesi, 1980. Sul percorso
di Voghera come autonomo fruitore, e a sua volta valido traduttore di testi, cfr, come recente
contributo, MARIANNA DEGANUTTI, Le ritraduzioni dall’ebraico di Giorgio Voghera, in «Strumenti
critici», n. s., XXX (settembre-dicembre 2015), 139, f. 3, pp. 531-545. Le «ritraduzioni» sono
traduzioni «di un originale mediante un lavoro precedentemente eseguito in una lingua terza o
idioma intermedio» (p. 531); nel caso di Giorgio Voghera, si tratta di un’opera traduttiva che ha
la possibilità di svolgersi, con tutta la problematicità che si accompagna a un’esperienza di questo
genere, dall’ebraico all’italiano, tramite la mediazione della lingua inglese. Ma cfr. soprattutto
ROBERTO BAZLEN-GIORGIO VOGHERA, Le tracce del sapiente. Lettere 1949-1965, a cura di RENZO
CIGOI, Udine, Campanotto, 1995.
6
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 18.
7
Cfr. BAZLEN, Scritti, cit., p. 254.
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dice certo alla cultura, ma alla formazione di Bazlen. Qui risiede un elemento di
grande significato: oltre alla mancanza di sistematicità, di conformismo rispetto
a una dottrinarietà “curricolare”, vi è, a caratterizzare in modo decisivo Roberto
Bazlen, un baricentro culturale non scolastico, una ratio non classicistica e men
che mai italofona delle proprie basi di lettura e di crescita intellettuale e di gusto
artistico, un’indipendenza dai canoni e dai modelli, dalle prescrizioni e anche dalle
semplici preferenze, delle poetiche derivanti dall’antichistica, dall’aristotelismo,
dalle regolistiche normative; e, insieme e senza contraddizione, vi è un’indipendenza non meno radicata e importante da normative e da canoni di più recente
accredito storico e culturale, da quello romantico a quello naturalistico, a quello
segnato da cogente ispirazione ideologica; né, certamente, come si è accennato,
sarà il freudismo (pur consentaneo sotto molti profili alla temperie culturale e
umana di Bazlen) a salvarsi da una severa e ripetuta cifra critica8, sia sul piano
della valutazione delle ricadute narrative, sia, e ancor più, sul piano delle ricadute
saggistiche e storico-scientifiche. Un baricentro culturale e lettoriale moderno, non
scontato, non fondato su modelli già vincenti e già gratificati dal consenso, né appiattito su un concetto banale di contemporaneità, ma anzi originalissimo, e spesso
addirittura anticipatore di scelte e di gusti, di proposte e di “successi” di lettura
che matureranno − parlando specificamente dell’Italia, dei suoi lettori e della sua
editoria − molto più tardi rispetto al momento in cui Bobi le ha sostenute. Bazlen è
perfetto conoscitore di quattro lingue, e tutte lingue moderne: tedesco, italiano, inglese e francese, come dimostrano − oltre alle sue lettere − le sue traduzioni e i suoi
consigli di lettura alle case editrici e ad amici e a intellettuali cui scrive privatamente. Neppure un Verga, per riferirci a un altro letterato fortemente novatore della
nostra tradizione, può essere paragonato a Bazlen, e non solo a causa della diversità di contesto. Anche Verga si forma sui “moderni”, e vive la realtà della cultura
letteraria a lui contemporanea, giovandosi, come avverrà anche a Italo Svevo, della
8
Si rammenti la lettera a Luciano Foà, Casa editrice Einaudi, 14 luglio 1960, ivi, pp. 301-302.
A proposito del NORMAN O. BROWN di Life against death (Middletown, Wesleyan University Press,
1959; edizione italiana: La vita contro la morte, traduzione di SILVIA BESANA GIACOMONI, Milano,
Adelphi, 1964), cfr. questo passo: «È un libro intelligente, chiaro, pensato fino in fondo […].
Insegna a leggere e a pensare Freud, com’è giusto, da indietro verso avanti, fa quella messa a posto
che Freud non è stato in grado di fare, e tira quelle somme che Freud non ha fatto in tempo a tirare
− o almeno a scrivere […]. È riuscito veramente a grattar via tutto quel (molto) di piccolo borghese
che i freudiani e i neofreudiani hanno cristallizzato intorno a Freud […] e senza esorbitare mai:
ha scritto l’opera di Freud vent’anni dopo la sua morte. La rivalutazione della sessualità infantile, la
rivalutazione della morte, la rivalutazione della fantasia (che, benché Brown non se ne sia accorto,
diventa identica con gli archetipi di Jung) − ti par poco? È una cosa che mi ha colpito molto: gli
episodi determinanti della storia individuale vengono spostati ancora più verso la nascita − cioè
ci allontaniamo sempre più da un funzionalismo superficiale, e ci avviciniamo a uno show globale
con un legame molto più coerente e profondo tra l’uomo e il suo destino». E la seconda parte del
volume è coerente con la prima: «Non puoi essere contento che una persona inventi un plausibile
linguaggio nuovo, e poi, subito, arrabbiarti perché lo parla».
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“biblioteca” degli stessi moderni; ma Bazlen si forma personalmente − ed è ben
diverso − una propria, peculiare e preziosa biblioteca, aperta a molte avventure
intellettuali, con una sete di conoscenza insaziabile e con vasta disponibilità a varie
discipline, dalla psicologia alla psicoanalisi all’antropologia, dalla parapsicologia
all’astrologia, dalle filosofie orientali (e non certo per gusto esotistico) all’economia
e alla scienze politiche. E persino Svevo, certo non tacciabile di vincoli formativi
classicistici, o italocentrici, sceglierà e si formerà la sua personale biblioteca (s’intende, la serie di libri privilegiati da lui lettore) nell’àmbito del già noto, del già,
per così esprimersi, canonizzato e garantito scaffale dei “classici moderni” (pur
tenendo conto dell’opera di aggiornato recensore svolta dall’autore di Senilità):
Shakespeare e Goethe, Turgenev e Zola, Schopenhauer e Dostoevskij. Un dato
tutt’altro che scontato, all’epoca, e con la lingua tedesca quale chiave d’accesso immediato a molti testi originali; si tratta, in ogni caso, di una crestomazia internazionale della modernità. Ma il passaggio dallo status di autore sconosciuto a quello di
autore famoso − e letto −, la vittoria sull’anonimato (o quasi tale), è un’altra cosa;
e in questo caso ha dovuto operarla lui, Svevo scrittore, in prima persona e nella
sofferenza della sua stessa persona. E qui proprio Bazlen è intervenuto, all’epoca
dell’uscita della Coscienza di Zeno, con una delle più note fra le sue operazioni di
“scoperta” e di promozione di talenti letterari non riconosciuti.
La sistematicità, semmai, è ritrovabile nel circuito, non soltanto intellettuale,
ma direi quasi fisiologico, che le scelte di Bazlen tracciano e continuamente ridefiniscono secondo ritmi peculiari alla temperatura spirituale di questo lettore
d’eccezione. Del resto, è fin da giovane che Bazlen comincia la carriera di «lettore
orizzontale», seguendo un istinto che sempre più si chiarirà come dimensione vitale ben prima che professionale (il rapporto con l’obbligo di lavoro è per Bobi un
costante problema, e troverà la soluzione meno approssimativa, la meno distante
dalla sua personalità, nella funzione di personalissimo orientatore di scelte riguardo
agli autori da pubblicare). È grazie a tale libertà da correnti e da preventive ricette
di poetica, da tendenze e da condizionamenti letterari (ma insieme con consapevolezza del contesto culturale in cui egli si trova a muoversi), che Bazlen può vantare
(non ai propri occhi, ma a quelli dei fruitori, appassionati bibliografi del mito)
una lunga serie di autori che, con vero intuito di precursore, egli ha contribuito a
introdurre nella cultura italiana: Rilke, Kubin, Musil, Lawrence, Gide, Faulkner,
Valéry, Cocteau, O’Neill, Blok, Joyce, Hemingway, Kafka, Altenberg, Cassirer,
Döblin, Dos Passos, Walser, Heinrich Mann, Zweig, Piscator, Brecht. Molto ha
contribuito a questa apertura alle letterature straniere l’ambiente triestino, elettivamente destinato a essere area d’intersezione di molteplici ed eterogenee esperienze
linguistiche. Ma lo stesso Bazlen si premura subito di smentire quella che sarebbe
potuta diventare una banale caduta nello stereotipo. Trieste non è un crogiuolo,
egli assicura, ma un luogo cosmopolitico in cui la convivenza di razze e di lingue è,
almeno in prevalenza, di carattere aggregativo, sommatorio, e spesso conflittuale,
un accostamento di esperienze differenti di tutt’altro che scontata conciliabilità;
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esperienze tali, insomma, da non raggiungere un vero stato di armonica fusione,
come dal concetto di «crogiuolo» sembrerebbe di poter evincere. La stessa borghesia cittadina, a cominciare dai suoi istituti linguistici, non legittima, in quegli
anni, alcuna illusione sulla reale disponibilità verso la cultura contemporanea di
una sede che secondo Bobi non è poi così privilegiata; anzi, non mancano segni di
una prospettiva etica e ideale ancora impastata di ottocentismo: l’habitus spirituale
della borghesia triestina è infatti contraddistinto, dice Bazlen, da un filoitalianismo
da marca di frontiera e, altresì, da un anelito linguistico “nazionale” come traduzione, sul piano degli strumenti comunicativi, di una sensibilità patriottica, allora
non sopita, di origine unitaristico-risorgimentale9. Questo giudizio fornisce un’ennesima prova di distacco, di autonomia dall’ottica comune, e per di più applicata
alla propria humus d’origine, da parte di Bobi. E, insieme, l’interiorizzazione delle
problematiche, la capacità, pur non confortata da ottimistiche speranze di riuscita,
di analizzare in se stesso quelle che sono le cause di una generale crisi della cultura, permettono di scorgere, nell’intellettuale Bazlen e nel Bazlen lettore, il riflesso
di una condizione sempre disorbitata rispetto al vivere comune, il segno di un
destino d’irrisolta inquietudine. Né si mostra incoerente o incongrua con questa
tipologia di parabola la serie di amici che Bobi frequenta, o che ha la possibilità
di frequentare a Trieste: insieme a quelli già ricordati vi sono Carlo Tolazzi, Carlo
9
In BAZLEN, Scritti, cit., pp. 137-138 (si tratta della famosa Intervista su Trieste, nelle Note
senza testo), si legge: «Quando al Teatro Comunale davano il Nabucco, il pensiero di tutti i
commercianti sensali direttori di banca e di società di assicurazioni, medici, avvocati, importatori
e esportatori seduti in platea, di professori di scuola media seduti in galleria, di studenti e di
sartine che si “struccano” in loggione, va sull’ali dorate, e l’entusiasmo è tale da far andare, come
si diceva a Trieste, giù il teatro». Sulla Trieste novecentesca (sempre in rapporto con le radici
ottocentesche), e quindi anche su Bazlen, cfr. ERNESTINA PELLEGRINI, Trieste dentro Trieste.
Sessant’anni di storia letteraria triestina attraverso gli scritti di Silvio Benco (1890-1949), Firenze,
Vallecchi («Saggi di cultura contemporanea»), 1985; EAD., Le città interiori. In scrittori triestini di
ieri e di oggi, Bergamo, Moretti & Vitali, 1995 (a proposito di Bobi, l’autrice ha modo di parlare di
«calderone di sapore pantagruelico» di Bazlen, da cui possono emergere «tipi strani, avventurieri
della cultura e della vita»); IGOR FIATTI, La mitteleuropa nella letteratura contemporanea, Prefazione
di CLAUDIO MAGRIS, Milano, Mimesis («Il Quadrifoglio tedesco»), 2015. Scaturiscono molto bene
da queste opere la complessa connotazione culturale e letteraria di Trieste e la plurima atmosfera
di sollecitazioni storiche, geografiche e filosofiche che avvolge, distendendosi nel tempo, la città,
la sua peculiarità all’incrocio di appartenenza austroungarica, di radice italiana e di significativa
presenza slovena. In particolare, il naturalismo giunge nel salotto absburgico tergestino innestandosi
su un romanticismo già diverso da quello italiano, insomma un romanticismo non finalizzato a
traguardi di precisa utilità civile, ma anzi intimamente contesto di intellettualismo e di sensibilità
filosofica, di sollecitazioni russe e scandinave, quindi “gelidamente” nordiche (a fronte della
ricerca, non meno coltivata, di azzurro mediterraneo e di idioma tosco-italiano) e contesto, altresì,
di motivi letterario-culturali «carichi di riflessi danubiani e di fascino notturno». Sono concetti che
scaturiscono dalle ricerche della Pellegrini, e che Fiatti riprende nell’àmbito contestuale della sua
opera, vasta e coinvolgente. Della stessa PELLEGRINI, cfr. pure Il vuoto dell’origine. Riflessioni su
Roberto Bazlen, in «Michelangelo», n.s., 1993, pp. 4-8.
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Gruber, Linuccia Saba (la figlia del poeta), Gillo Dorfles, Nello e Alberto Stock,
i pittori Carmelich e Schiffrer, Aurelia Benco, Nora Voltolina, Anita Pittoni, più
tardi Gerti Frank (si ricordi la famosa lirica di Montale), Pier Antonio Quarantotti
Gambini. Si tratta di una serie di personalità dotate di grande fascino culturale
e artistico, e in procinto, nonostante la giovane età che allora le caratterizza, di
recitare un ruolo di notevole impegno culturale e di grande fervore intellettuale e
umano nell’ambiente, o negli ambienti, che esse si troveranno a frequentare. Ma si
inizi a focalizzare il rapporto con Umberto Saba:
Complesso ma duraturo il rapporto con Saba. Bazlen, di cui il «vate» si dimostra insolitamente entusiasta, frequenta per lungo tempo la sua casa in via
Chiozza 56. Si erano conosciuti nel 1919, quando Bazlen, allora diciassettenne,
entrò nella libreria, appena rilevata da Saba, per chiedergli libri sul futurismo. E
sarà lui, nel 1924, a creare e mantenere i rapporti tra Saba e Montale, in un interagire d’incontri cui spesso prendeva anche parte «Giacomino» [Debenedetti],
in occasione delle sue frequenti visite a Trieste. E, sempre Bazlen, parlerà di
Svevo a Saba, facendoli poi incontrare nel 1926. Nonostante le apparentemente definitive rotture del rapporto tra Bobi e Saba (cfr. L. [Lettere], 3/10/26),
causate anche dal legame personale con Linuccia, essi dovevano rincontrarsi
ancora negli anni del dopoguerra a Roma. Bazlen è inoltre, non casualmente,
uno dei sei lettori cui il poeta dedica il Canzoniere del 192110.
Si delinea qui una vera costellazione di riferimenti culturali, una serie di incrociati
scambi di colloqui e di esperienze, una rete di conoscenze e di dialoghi, ravvicinati o
condotti a distanza, che comprende alcuni dei protagonisti del Novecento letterario
italiano: Svevo, Saba, Montale, Giacomo Debenedetti; non solo Saba e Bazlen, dunque, ma l’incontro tra Saba e Montale promosso proprio da Bobi, con la frequente
partecipazione di «Giacomino», e l’incontro di Svevo e di Saba, promosso anch’esso
da Bazlen, da parte sua legato da personale affetto con Linuccia e disponibile a frequentare casa Schmitz con altri amici, quali Benco, lo stesso Saba e Giani Stuparich.
La personalità di Bobi emerge molto presto all’interno di questi gruppi cementati
da vincolo d’unione intellettuale e amicale; Stelio Mattioni, ad esempio, sottolinea il
piacere che i componenti di tali gruppi provano nel farsi ascoltare «da quel giovane
intelligentissimo, disposto a stare delle intere giornate a studiare uno spostamento
di accento in un verso, o il cambio di un aggettivo»11. Sono tratti caratterizzanti che
accompagneranno Bazlen lungo tutto il corso della sua carriera di lettore e di competentissimo consigliere. Si è espresso bene Sergio Solmi12:
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 20 n. 25.
STELIO MATTIONI, Storia di Umberto Saba, Milano, Camunia, 1989.
12
SERGIO SOLMI, Nota, introduzione a ROBERTO BAZLEN, Lettere editoriali, 1968, ora in ID.,
Scritti, cit., p. 268.
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Il sottofondo di cultura tedesca, mitteleuropea, che per altri avrebbe potuto costituire l’avvio ad una specializzazione, a lui, invece, doveva assicurare,
fin dall’inizio, una sorta di piattaforma centrale, da cui si sarebbe dispiegata
un’ampiezza impareggiabile di curiosità, estremamente lontana da ogni dilettantismo, come da ogni professionalismo.
Anche Daniele Del Giudice13 e Giorgio Voghera concordano su alcuni elementi peculiari della formazione umana e culturale di Bazlen:
Gli piaceva il paradosso, la boutade, come ad ogni ebreo assimilato. Lui era
abbastanza indifferente, sia all’ebraismo sia al luteranesimo, però qualcosa ce
l’aveva, non dell’ebreo autentico, no […] piuttosto un certo psicologismo, un
modo di essere critici o eclettici, un amore per la battuta, e questo lui un po’
ce l’aveva. Forse anche l’essere spaesato, o il cosmopolitismo.
Nella citazione è richiamato, appunto, l’elemento costituito dall’origine luterano-ebraica (tali le confessioni religiose dei genitori, fattore contestuale e storicoculturale decisivo e importante, anche considerata la precoce morte del padre);
le allusioni, qui espresse in un timbro dubitativo e colloquiale, alla relativa indifferenza di Roberto alle identificazioni confessionali, non mancano, in ogni modo,
di far cenno allo “spaesamento” e al «cosmopolitismo», al dato determinante rappresentato da una spiritualità assolutamente non cattolica, non allineata al conformismo della borghesia austro-absburgica; e, certo, la connotazione − più volte
richiamata da Bobi − d’un irredentismo “critico” (basti evocare l’incontro-shock
con la signora “irredentista” e il proposito per la vita di figurare dalla parte degli
“oppressi”), lontana dall’inficiare il nucleo anticonformistico della sua sensibilità
umana, culturale, civile e religiosa, intensifica invece tale vettore antropologico
ed etico nel mirare, nel focalizzare il proprio ironico distacco da quella che, nei
primi anni della formazione di Bazlen, è ancora la porzione italiana dell’impero
austro-ungarico, una porzione italiana con la sua criticabile borghesia assicurata
alle “Generali”.
Cominciano, allora, le prime attestazioni del ruolo che Bobi si ritaglia presso
gli amici, presso i destinatari della sua capacità di indirizzare alla lettura di autori
e di opere importanti; un esempio per tutti, fra gli autori, quello di Kafka, la cui
conoscenza è promossa presso i letterati triestini, a inizio d’una diffusione della
sua opera nel nostro paese (Silvio Benco ne scriverà tra i primi una recensione, nel
Piccolo della Sera di Trieste, nel 1933). E così avverrà per Altenberg e per Walser14.
13
DANIELE DEL GIUDICE, Lo stadio di Wimbledon, Torino, Einaudi («Nuovi Coralli», 350),
1983, p. 27 (la testimonianza orale è però da attribuirsi, appunto, a Giorgio Voghera).
14
Cfr. in tal senso il seguente brano di GIANI STUPARICH, Trieste nei miei ricordi, Milano,
Garzanti, 1948, pp. 15-18: «Ho avuto sempre una grande stima per l’acume, la cultura, il brio
intellettuale di Bobi. In fatto di letterature moderne, di correnti moderne di pensiero, Bobi, a
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Ma se ne constaterà un esempio assai significativo pure nello scambio epistolare con
Montale. Anche una rapida carrellata potrebbe illustrare l’intensità dell’impegno
bazleniano, la rabdomantica vocazione di talent-scout, il ruolo di persuasore e di
grande consigliere di letture; se ancora appartengono alla fase triestina l’inizio del
rapporto con Montale15 e la gestione silenziosa e insieme attivissima del «caso Sve-
diciotto anni, ne sapeva più di tutti noi, maturi e anziani. Egli era per me l’esempio tipico dell’élite
d’una generazione formatasi durante la prima guerra mondiale […]. Lawrence e Gide, Faulkner
e Valéry, Jessenin e Cocteau, O’Neill, Blok, Eliot, Joyce, Hemingway: nomi che a metterli insieme
oggi, così alla rinfusa, non fanno meraviglia, ma vent’anni fa rappresentavano qualcosa soltanto a
pochi iniziati nel culto delle letterature moderne. A Trieste fu Bobi uno dei primi, direi il primo,
per quanto io sappia, a importarli. E non ho elementi per affermare la stessa cosa di altri, ma
certamente Kafka fu una scoperta di Bobi per l’Italia […]. Per merito di Bobi, con le ancor fresche
edizioni originali di Kafka, giravano allora per Trieste le prose di Peter Altenberg […] e le poesie
di Georg Trakl e gli studi fisionomici di Rudolf Kassner. Non ho nessuna intenzione di stuzzicare
un vespaio, col supporre che da Trieste sia partito il primo segnale della dottrina freudiana in
Italia, e col considerare, insieme col dottor Weiss, il nostro Bobi come uno dei suoi più efficienti
banditori». Su Bazlen, in specie riguardo al rapporto con la figura di Italo Svevo, cfr. ENRICO
GHIDETTI, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, II ed., Roma, Editori Riuniti, 1992 (pp.
10, 11, 67, 190, 250, 251, 283, 286, 306, 307, 317, 354).
15
Dal sogno faustiano di rigenerazione dell’umanità (cfr. GHIDETTI, Italo Svevo. La coscienza
di un borghese triestino, cit., p. 186) al ritorno propriamente prosaico all’essenza-effluvio del
materiale come atmosfera connotante di un’amicizia e dei suoi incontri, sarà anche, e di pieno
diritto, la trementina a dover risultare protagonista di processi e addirittura di progetti letterari
importanti, per Svevo, per Montale, e, di riflesso, per il nostro Novecento letterario. Quando
si parla di Bobi Bazlen come promotore di incontri, e soprattutto di reciproche conoscenze di
letterati e in genere di intellettuali, si deve in effetti tenere presente l’assoluta importanza degli altri
due vertici della triangolazione: meri esempi, Svevo-Saba, Saba-Debenedetti, e via combinando.
Qui, Svevo e Montale. Anche Gioanola (ELIO GIOANOLA, Montale. L’arte è la forma di vita di
chi propriamente non vive, Milano, Jaca Book, 2011, p. 30) ricorda il primo incontro tra Svevo e
Montale (a Milano, il 27 febbraio 1926), al quale non è davvero estranea la trementina: «Avevo
davanti a me il romanziere Italo Svevo, l’uomo che mi aveva scritto due mesi prima, da Londra,
per ringraziarmi di un articolo con cui avevo precorso (modesta staffetta) lo scoppio della sua
improvvisa celebrità. Il signor Schmitz (tale restò per me fino alla morte) ci invitò a sedere
con lui a un caffè e mi tempestò di domande non precisamente letterarie. Il mio nome aveva
destato la sua curiosità. Un importatore di resine e d’acquaragia che si chiamava come me gli
aveva venduto merce per anni e anni, con molta sua soddisfazione; era forse un mio parente?
Ammisi che si trattava di mio padre, senza supporre che acquistavo un titolo di benemerenza ai
suoi occhi, come avvenne in realtà. E da allora un sentore di trementina restò sempre nei nostri
rapporti, che non riuscii mai a portare a lungo sul piano della letteratura». E Gioanola aggiunge
(ivi, pp. 30-31): «Davvero curioso il doppio legame che, purtroppo per poco tempo, ha unito, in
virtù della letteratura e dell’essenza di trementina, il maggiore romanziere e il maggiore poeta del
nostro Novecento: erano fatti apposta per capirsi a tutti i livelli». Si ricordi anche, protagonista lo
stesso Gioanola, la conferenza intitolata Svevo, Montale e il sentore di trementina, svoltasi a Trieste,
proprio nella Sala Bazlen del Palazzo Gopcevich, il 15 marzo 2012. Sulle varie declinazioni del
rapporto di Svevo, e in particolare del personaggio di Zeno, con la scienza, e con la consapevolezza
dell’interno apparato di congegni e di meccanismi, di leve e di equilibri biochimici che lavorano
nel corpo dell’uomo, cfr. ora FEDERICA G. PEDRIALI, Opportunismo biochimico. Zeno, l’orologio
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vo» (un caso istituito dal meritorio intuito del «lettore orizzontale», e degno
di essere seguito nella sua «esplosione»), l’esperienza milanese e quella romana
ampliano le prospettive e il quadro di riferimenti di Bazlen soprattutto nel senso
della conoscenza di letterati, di studiosi e di editori. Tra i molti nomi che si potrebbero fare ricordiamo quelli di Luciano Foà, di Sergio Solmi, di Debenedetti,
di Adriano Olivetti. L’arresto di quest’ultimo interrompe bruscamente il lavoro
delle Nuove Edizioni Ivrea, un lavoro che ha comportato un grande impegno
sul piano organizzativo e, su quello propriamente culturale, un’attività ingente
di schedatura di testi e l’acquisizione dei diritti di pubblicazione di molte opere straniere. Ma Bazlen, all’epoca del progetto delle N. E. I., è già, per amici e
conoscenti, una leggenda vivente. E molto si gioverà dei suoi consigli, offerti
con grande competenza nel campo della versificazione e delle sue implicazioni
ritmiche, lessicali, semantiche, il Montale delle Occasioni; decisivi, come meglio
si vedrà in séguito (non soltanto per Montale, ma per la cultura letteraria italiana novecentesca), gli scambi epistolari intercorsi a proposito di numerose poesie (valga ricordare almeno l’elaborazione della seconda lirica di Dora Markus).
Nel dopoguerra, peraltro, i contatti di Bobi con le case editrici diverranno più
sistematici; oltre alla citata collana «Psiche e coscienza» di Astrolabio e alle edizioni di opere di Freud, di Jung, di Adler e di altri studiosi, vi è il rapporto con
Einaudi, a sua volta contrassegnato da un costante impegno di suggerimento e
promozione di opere e di autori non ancora, o non compiutamente, penetrati nel
circuito editoriale italiano; e corre l’obbligo di citare la lettera del 12 giugno 1951
su Musil, di cui Bazlen caldeggia l’approdo, e in grande stile, presso i nostri lettori. Alla collaborazione con Einaudi, interrotta poco tempo dopo l’abbandono
di Luciano Foà, fanno séguito il progetto e l’attuazione dell’impresa editoriale
Adelphi, e, con essa, della sua «Biblioteca». È in questo canale che Bazlen può
convogliare le scelte editoriali che sono rimaste inespresse nel corso delle precedenti esperienze di coinvolgimento “aziendale”. E le vicende del rapporto tra
Bobi e l’editrice Adelphi appartengono alla storia culturale della nostra epoca
(pur non essendo ancora esaurientemente conosciute). Sia sufficiente ricordare le parole di Luciano Foà su una casa editrice che si può davvero definire
«bazleniana» e che, con il nome di «Adelphi Edizioni», nasce il 20 giugno 1962,
fondatore lo stesso Luciano Foà, con il sostegno economico di Roberto Olivetti;
torna significativamente la costellazione umana e culturale delle «N. E. I.», delle Nuove Edizioni Ivrea, nate dal progetto di vent’anni prima con Bobi fattivo
ideatore, ispiratore e collaboratore, sotto l’egida di Adriano Olivetti: progetto di
grande apertura tematica, di generi, di lingue e di religioni, e di grande disponibilità ai contributi della cultura internazionale, e appunto per questo stroncato
dalla repressione attuata nel segno, di strettissima congiunzione e anzi − nella
e il righello, in Italo Svevo and his legacy in the third Millennium, a cura di GIUSEPPE STELLARDIEMANUELA TANDELLO, I-II, Leicester, Troubadour, I, pp. 226-238.
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Stimmung politico-culturale contemporanea − reciprocamente identificativo, del
fascismo e dell’antisemitismo16:
Ci fu un grande lavoro preparatorio che durò due anni, a cui Bazlen partecipò
in modo decisivo, e in questo programma fu concesso un largo spazio a tutti i
libri di cui Bazlen aveva parlato per tanti anni, e per i quali non aveva trovato
ascolto presso i vari editori con i quali aveva collaborato. Forse perché i tempi
non erano ancora maturi.
A partire dal progetto di «una scelta sempre più eterogenea, in mondi sempre
più vasti», ben si comprendono le parole, riferite a Bazlen, di Roberto Calasso,
già da allora lettore dell’editrice insieme a Carlo Rugafiori (presentato da Solmi),
a Piero Bertolucci e a Nino Cappelletti, provenienti dall’Enciclopedia di Autori
Classici della Boringhieri17:
La «Biblioteca Adelphi» è una sua invenzione, per il carattere di collezione
atipica che comprende generi molto diversi, che vanno dalla letteratura ai
saggi, alla filosofia, e che hanno però un elemento comune, perché sono libri
unici di scrittori-non scrittori professionalmente, o libri particolarmente vissuti anche di veri e propri scrittori di professione.
Due soli esempi di volumi consigliati senza successo all’Einaudi, e poi appunto
pubblicati da Adelphi; il primo, l’Alexander Dorner di Il superamento dell’«arte»
(Ueberwindung der «Kunst»)18:
È un libro eccezionalmente intelligente, uno dei pochi libri intorno all’arte che mi abbiano toccato da non so quanti anni. Niente Kunstgeschichte
[storia dell’arte] (demolita convincentemente assieme a tutte le Geisteswissenschaften [scienze morali]) […]. Passaggio dal mondo adimensionale primitivo a quello statico tridimensionale western [dell’occidente], e da questo a
una realtà futura (di cui abbiamo già molti accenni − parallelismi molto plausibili con la fisica moderna − del resto Einstein e Planck andavano alle sue
conferenze) «iperspaziale» di pure energie. − Cioè dalla magia al predominio
di un’idea formale spirituale; la dissoluzione di questa nell’illuminismo e nel
romanticismo che porta ai primi accenni di una realtà vissuta come divenire,
e non più come essere […]. Di tentativi, finora, di vedere l’arte da fuori, ne
conosco solo di gente che con l’arte non ha niente a che fare. Se la capiscono,
LUCIANO FOÀ, Tutti i libri, in LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 73.
Ivi, p. 74.
18
ALEXANDER DORNER, The Way beyond «Art», New York, New York University Press,
1958; Bazlen si riferisce alla successiva edizione tedesca: Ueberwindung der «Kunst», Hannover,
Fackelträger Verlag, 1959; in italiano, cfr. Il superamento dell’«arte», Milano, Adelphi, 1964. Il
passo nel testo è in Lettere editoriali (BAZLEN, Scritti, cit., pp. 302-305); lettera a Luciano Foà, Casa
editrice Einaudi, 27 novembre 1960.
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la capiscono con la testa nella Kunst [arte], ecc. − e giù estetismi, elevamenti
dell’animo, eterne proporzioni divine, Ausdruck [espressione] e tutte le fregnacce che sappiamo. Dorner ha la testa fredda (ma gli occhi caldi): ha capito
che, posta l’autotrasformabilità dell’assoluto, l’arte cessa di essere simbolo
di valori eterni, e dunque cessa di essere «arte», che le idee eterne si stanno
riducendo a forze spirituali determinanti eterne. Dunque niente stili eterni,
niente con tutti gli eccetera. Razionalità = eternità = tridimensionalità = bellezza (!) = «arte».
Il secondo libro, Das Buch vom Es di Georg Groddeck, è oggetto d’una lettera
a Daniele Ponchiroli; si tratta, quindi, ancora del tentativo, attuato presso Einaudi,
di promuovere un testo che Bobi ha letto immediatamente dopo la pubblicazione
in originale, nel 192319. Qui la libertà di giudizio, la spregiudicatezza intellettuale
di Bobi recuperano, in nome del carattere convincente del libro, anche la possibilità di accreditare con forza una linea vicina al freudismo, in altri casi da lui
considerato in chiave critica:
Groddeck: prima generazione dopo Freud, medico che sapeva guarire veramente, inventore del termine Es e praticamente di tutta la medicina psico-somatica (ai suoi tempi, con molte riserve e moltissima opposizione, come psicosomatico non si riconosceva che l’isteria), infernalmente intuitivo, asistematico,
attorico, amorale, spregiudicato (perfino per misure attuali, quaranta anni
dopo), personalissimo e con tutta la suggestione (e l’unilateralità, e la mania) di
chi intuisce una legge per la prima volta. / Ha scritto anche un romanzo picaresco-psicoanalitico-pornografico, e un libro sulla lingua; ma il suo vero libro
è questo: lettere a un’amica, in cui, molto di palo in frasca, parlando di sintomi
di lei, di se stesso, di casi che gli sono venuti incontro, in un fuoco di artifizio di
simboli, di analogie, di associazioni, tenta di mostrare l’influenza dell’inconscio
su tutti i fenomeni fisici. / A suo tempo, − l’ho letto subito dopo uscito − era un
libro sconvolgente, divertentissimo, non sempre accettabile, e d’una pornografia sublime […]. A mio parere, va tradotto: indipendentemente da ogni altra
considerazione, è uno dei 4 o 5 classici della psico-terapia moderna.
3.3 Il “caso Svevo”. Bazlen, Montale, Solmi, Lodovici, Joyce, Crémieux, Larbaud
La biografia di Bazlen, come si è accennato, comprende alcuni importanti trasferimenti: dall’inverno ’23-24 sino al ’25 a Genova, quindi il ritorno a Trieste sino
al 1934, poi il trasferimento a Milano, quindi a Roma. A Genova l’incontro BazlenMontale significa per il poeta degli Ossi di seppia «una finestra spalancata su un
19
GEORG GRODDECK, Das Buch vom Es, Wien, Internationaler Psychoanalytischer Verlag,
1923; in italiano, Il libro dell’Es, Milano, Adelphi, 1966; lettera a Daniele Ponchiroli, Casa editrice
Einaudi, 8 novembre 1961, in BAZLEN, Scritti, cit., p. 315.
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mondo nuovo. Ci vedevamo ogni giorno, in un caffè sotterraneo presso il Teatro
Carlo Felice […]. Mi parlò di Svevo […] mi fece conoscere molte pagine di Kafka, di
Musil (il teatro) e di Altenberg»: «un’enorme quantità di fermenti letterari», «nuovi
autori», «territori culturali a lui [Montale] ancora sconosciuti»20. Ma il dialogo con
Montale, la cui fase genovese è stata favorita da Solmi, prosegue serrato anche dopo
il ritorno a Trieste. Peraltro, il copioso carteggio Bazlen-Montale soffre di consistenti
limitazioni: le lettere di Bazlen a Montale appartengono al periodo 1925-1930, e
sono, appunto, le uniche che il poeta genovese abbia voluto conservare, nella loro
virtualità informativa dei meriti e dell’apporto determinante di Bobi al «caso Svevo»;
se non si hanno «tracce» delle lettere successive, non appare infondata l’ipotesi della
La Ferla, secondo la quale il poeta dovrebbe avere «distrutto gran parte delle lettere
di Bobi»21, mirando principalmente all’eliminazione di quelle che potevano «rivelare, in modo palese, il suo apporto critico-creativo circa le coeve poesie di Montale»,
ovvero, in grande prevalenza, le liriche destinate a confluire nelle Occasioni. Settanta,
invece, le lettere montaliane all’intellettuale triestino, riferite, quasi in una reazione
di doppio scambio, al periodo 1937-1951; non distrutte, a differenza delle altre indirizzate a Bobi, forse allo scopo di mantenere in vita le prove dell’estraneità, pur
solcata da consigli personali ripetutamente richiesti, ai dissapori riguardo alle scelte
di vita registratisi con «Mosca», Drusilla Tanzi. Nelle lettere a Montale, direbbe Zolla22 di Bazlen, si avverte «qualcosa della sua parlata stenografica, capricciosa, dove
si mescolava di tutto, la saggezza e la puerilità»; e, sempre, l’acutezza del giudizio
esigente: «Ho riletto il tuo libro: m’è piaciuto molto di più, ancora e particolarmente
le cose lunghe. Le brevi (Ossi di S.) non mi dicono gran che, e mi sembrano, spesso,
formalmente ingenue. Ma tra le lunghe alcune (salvo l’intollerabile penultima strofa
di Mediterraneo), mi sembrano assolutamente perfette e definite» (Lettere, 1 settembre 1925); su altre liriche, inviategli successivamente, Bazlen dirà: «Mi sono piaciute
tantissimo, e mi sembrano (restando pur sempre in quella linea) molto migliori degli
“Ossi”. Il loro limite: l’impossibilità di uno slatinizzamento della parola italiana. Hai
fatto (con Campana e qua e là D’Annunzio) il massimo che si possa fare à ce but;
non mi basta» (ivi, 26 dicembre 1926). Non sfuggirà, certo, l’importanza dell’accenno allo «slatinizzamento della parola italiana», meta estremamente difficile da
raggiungersi, «un but» coerente con le basi e con l’essenza formativa non classicista
e non italocentrica, e piuttosto mitteleuropea e anglosassone, e francese moderna,
dell’intellettuale Bazlen.
Montale, da parte sua, sarà direttamente e ampiamente coinvolto nel «caso
Svevo»; reduce dalla vacanza di Bocca di Magra (Montale si trova a Monterosso,
e l’incontro estivo è facile), Bobi comincia a promuovere l’opera sveviana presso il
poeta (lettera del 1 settembre 1925 da Trieste):
20
21
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LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 25.
Ivi, p. 26, n. 57.
Ivi citato, p. 27.
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Mi sono fatto dare, da Italo Svevo, i suoi due primi libri: dimmi se devo mandarteli a Monterosso oppure a Genova. Il secondo libro: «Senilità», è un vero
capolavoro, e l’unico romanzo moderno che abbia l’Italia (pubblicato nel
1898!). Stile tremendo! Te ne scriverò, più a lungo, quando l’avrai letto. Ne
manderò una copia anche a Solmi ed una a Pellegrini23. Hai letto «la coscienza di Zeno»? Devi superare le prime 200 pagine che sono piuttosto noiose.
Il proposito d’inviare i primi due romanzi di Svevo persiste nelle lettere del 6 settembre e del 19 ottobre:
Me li ha dati l’autore per te, e te li puoi tenere. Il terzo (Zeno) pel momento
non te lo posso mandare, e, se non l’avrai ricevuto, o trovato da qualche
libraio, quando avrai letto questi due, te lo manderò. Però, per carità, non
dare pubblicamente a Cesare, ciò che è di Cesare; sarebbe giusto, logico e
disumano. / […] che impressione ti ha fatto Senilità?
Si preannuncia quindi il saggio di Montale, Omaggio a Italo Svevo, in «L’Esame»24,
e occorre una seconda copia di Senilità per il direttore della rivista, Enrico Somaré:
«Senilità» per Somaré è a tua disposizione. Devo mandarlo a Genova, o, direttamente a Milano? […]. Ho letto, finalmente, tutta «coscienza di Zeno», di
cui non conoscevo che poche pagine. Mi è sembrato infinitamente superiore
a Senilità, ti avverto che non è autobiografico che in piccola parte, e ti consiglio di guardarla, per es. sub specie bovarismi (lettera del 16 novembre 1925).
La Coscienza, appena letta compiutamente, ha “superato” Senilità, si è istituita
come il capolavoro di Svevo; e Bazlen coglie subito il carattere non autobiografico,
se non in minima parte, di un romanzo che legittima, nel primo impatto lettoriale,
nelle coordinate culturali dell’Italia di allora, un primo approccio condotto, appunto, sub specie bovarismi; e gli stessi lettori italiani, se non altro i meno smaliziati,
stenteranno, anche nel tempo, a riconoscere la differenza della prosa del terzo
romanzo di Svevo dalla cifra autobiografica, quella differenza che invece Bobi intuisce con fiuto sicuro sin dalla prima lettura. Se il primo contributo montaliano
su Svevo già risente dell’influenza di Bazlen quanto al giudizio di priorità artistica
del secondo romanzo («Di Senilità […] si può dire che non soltanto è forse il capolavoro di Svevo, ma è anche un libro di veramente rara potenza»), nel secondo
contributo sveviano di Montale vi è una valutazione di timbro complessivo dell’opera dello scrittore triestino: Presentazione di Italo Svevo, in «Il Quindicinale»25;
direttore del «Quindicinale» è il commediografo Cesare Vico Lodovici, l’intellet-
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25
Si tratta di Alessandro Pellegrini.
«L’Esame», IV (novembre-dicembre 1925), ff. 11-12, pp. 804-813.
«Il Quindicinale», I (30 gennaio 1926), 2.
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tuale che ospita Bazlen, e i suoi incontri con Montale, a Bocca di Magra. Il 17
febbraio due importanti lettere vengono simultaneamente scritte all’indirizzo di
Montale: una di Bazlen, che gli comunica di avere inviato a Svevo, allora in viaggio
a Londra, i fascicoli de «L’Esame» e del «Quindicinale», e una dello stesso Svevo,
che proprio quel giorno riceve gli articoli, e subito scrive la sua prima lettera al
poeta genovese. Intanto, la volontà di «far scoppiare la bomba Svevo con molto
fracasso» (lettera di Bazlen del 13 dicembre 1925) si amplia notevolmente, includendo non più il solo Montale, ma una nutrita serie di critici e di scrittori italiani,
e sullo sfondo di una serie di importanti riferimenti internazionali, ben conosciuti
e ben tenuti presenti: Cecchi, Gargiulo, Lodovici, Flora, Treves, Adriano Grande,
Pirandello, Prezzolini, Debenedetti sono accuratamente informati e persuasi della
validità del romanzo e della necessità di sostenere e di diffondere l’opera dello
scrittore triestino. Debenedetti ricorda, nei suoi Saggi critici:
È di ieri, 1925, l’invito dell’amico triestino molto à la page che ci insinuava
tra le mani La coscienza di Zeno, con una complicità da fratello framassone,
tenebrosa, confidenziale ed evasiva: − Leggi, naturalmente ci vuole un po’ di
pazienza; bisogna sopportare il peso del fatras e dello Zibaldone: ma Joyce,
che per caso ha conosciuto Svevo qui a Trieste, lo ammira, e Larbaud, a cui
l’ha fatto conoscere, si prepara a rendergli onore −. Così, teste Joyce cum Larbaud, avevamo letto Zeno26.
Ma nella prima edizione del saggio, nel numero dedicato a Svevo di «Il Convegno»
del gennaio-febbraio 1929, Debenedetti nomina esplicitamente Roberto: «Quel
Bobi Bazlen, per dir tutto, che si è scelto la parte del cauto influenzatore».
E si rammenti che l’uscita del numero de «Le Navire d’Argent» dell’inizio del
192627, che con gli auspici di Valéry Larbaud è, come noto, interamente dedicato
a Italo Svevo, con il saggio di Benjamin Crémieux, è ben presente, in anticipo, a
Bobi, che nella stessa lettera della «bomba Svevo» (13 dicembre 1925) ne scrive a
Montale: «Hanno fatto conoscere, a Parigi, i suoi libri a Prezzolini, cui sono molto
piaciuti, e che se ne occuperà per le traduzioni e le diffusioni all’estero. Credo che
nel prossimo numero del “Navire d’Argent”, uscirà un saggio su Svevo di Larbaud, e la traduzione di un capitolo di Senilità»28.
Cfr. GIACOMO DEBENEDETTI, Saggi critici, II, Milano, Il Saggiatore, 1971, p. 47.
«Le Navire d’Argent», II (1 febbraio 1926), 9.
28
In realtà il rapporto con Prezzolini fu segnato da alcuni passaggi critici; cfr. MARINO BIONDI,
La cultura di Prezzolini, Firenze, Pagliai Polistampa («Studi e testi di Letteratura italiana e straniera»,
3), 2005, pp. 111-112 e n. 174: «Il nome di Svevo non viene fatto nella Cultura del 1923, lo stesso
anno della pubblicazione della Coscienza di Zeno, ma è da quel testo che probabilmente viene un
brano (La critica, CII, 200), che sembra essere rimasto nella memoria offesa dello scrittore, ammesso
che a quel passo Svevo si riferisca in una lettera a Marie Anne Comnène del 28 novembre 1925, in cui
dopo essersi detto disponibile ad accogliere la proposta prezzoliniana di una versione francese della
Coscienza, scrive: “Devo confessarLe che pur facendo un inchino agli studii e al talento del Prezzolini
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Bazlen, è quasi superfluo sottolinearlo, non rinuncerà mai alle sue vigili valenze
critiche riguardo ad alcuni dei successivi contributi montaliani su Svevo. Il Profilo
redatto da Montale per «L’Italia che scrive»29 incorre nel giudizio di presentazione
meramente divulgativa, tutt’al più adatta a provvedere i lettori culturalmente meno
ferrati; l’Ultimo Addio, pubblicato da Eugenio in «La Fiera letteraria»30, incontra
un famoso giudizio di Bazlen:
Scorso il Tuo articolo su S. sulla «Fiera letteraria» (Non la compero «per principio» come non ho mai comperato un giornale): ho paura che il Tuo articolo
si presti troppo ad essere interpretato male, ed a far sorgere la leggenda d’uno Svevo borghese intelligente, colto, comprensivo, buon critico, psicologo,
chiaroveggente nella vita, ecc. Non aveva che genio: nient’altro. Del resto era
stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto. / Non aveva
che genio, ed è questo che mi rende più affascinante il suo ricordo. Se puoi,
e se avrai ancora occasione di scrivere di Schmitz, metti a posto più possibile:
la leggenda della «nobile esistenza» (dedicata unicamente − ad eccezione dei
tre romanzi − a far soldi) è troppo penosa, e troppo ignobile. / Gli ho voluto −
malgré tout − molto bene, come non ne ho voluto che a poche persone (lettera
del 25 settembre 1928).
Montale risponderà in Leggenda e verità di Svevo, che comparirà in «Solaria»31. Notevole anche l’impegno di Bobi in vista della pubblicazione di testi di Svevo, che
andavano almeno in parte sottratti alla gestione di Villa Veneziani, con una Livia
«molto vedova del Maestro», e non affidabile nelle sue scelte di proposta di testi
e di collocazioni editoriali. L’introduzione (Milano, Monreale, 1929) a La novella
del buon vecchio e della bella fanciulla ed altri racconti è per buona sorte affidata a
Montale e non a Ferdinando Pasini, come invece avrebbe voluto la famiglia. Nello
stesso modo, per il citato numero unico di «Solaria» del marzo-aprile 1929, Bazlen,
io gli serbo un po’ di rancore perché in una sua pubblicazione asserì che visto che in Italia la critica
mancava del tutto, solo i migliori potevano venire a galla. Inviò all’anonimo disgraziato un altro
schiaffo. Ma così nella terra degli Zulù devono trovarsi elementi anche più favorevoli allo sviluppo
di buoni scrittori” (ITALO SVEVO, Epistolario, Premessa di LETIZIA FONDA SAVIO, Milano, Dall’Oglio,
1966, p. 770. Seguono lettere a Prezzolini, 2 dicembre 1925, in cui è la famosa definizione, attribuita
dallo scrittore all’amico pittore Umberto Veruda, dell’originalità: “Tu sei originale perché nessuno
ti legò”. Altre lettere di Svevo a Prezzolini sono del 1927 e 1928). Un altro riferimento a Prezzolini
(“Contrariamente a quanto pensa Prezzolini io non credo che sia l’analfabetismo la causa che
toglie la parola al critico italiano: Anzi!”) si legge in un “Abbozzo di saggio sulla critica italiana”,
rimasto inedito fino al 1968» (ora in ITALO SVEVO, Teatro e Saggi, ed. critica con apparato genetico
e commento di FEDERICO BERTONI, saggio introduttivo e cronologia di MARIO LAVAGETTO, Milano,
Mondadori [«I Meridiani»], 2004).
29
«L’Italia che scrive», IX (giugno 1926).
30
«La Fiera letteraria», nel numero del 23 settembre 1928.
31
«Solaria», marzo-aprile 1929, 3-4.
208
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scrivendo a Carocci (28 ottobre 1928)32, chiarisce i propri criteri di scelta del testo
da proporre, mostrando di cogliere assai bene e con coerenza il concetto di organicità, nel senso logico-narrativo, nell’àmbito delle strutture artistiche della prosa; nella
prosa sveviana, come in genere nella prosa dei narratori autentici, tout se tient:
Non credo in genere nell’efficacia di un frammento breve tratto da un’opera
narrativa: non si può staccare un organo da un organismo. E l’opera di Svevo
è una delle opere narrative più organiche che conosca: ogni episodio è sempre
la conseguenza di tutte le premesse, ed è sempre − benché a prima vista non
sembri − pieno di riferimenti vagamente accennati, di riprese di motivi ecc.
Non è, insomma, in nessun modo, una suite di poemes en prose. E poi, pensi
presentando un solo frammento quanti effetti di illuminazione vanno perduti
[…]. Per tutte queste ragioni sono stato costretto a scegliere le prime battute
di un racconto inedito di Svevo, e precisamente il secondo capitolo […] d’una novella che (malgrado il titolo molto letterario e panziniano: la novella del
buon vecchio e della bella fanciulla) resta una delle più belle cose di Schmitz:
il capitolo che le mando è uno dei più brutti, ma è ben chiuso e può almeno
parzialmente vivere di una sua vita indipendente […]. Il manoscritto non
porta alcuna data, ma − da moltissimi indizi − è indubbiamente degli ultimi
due o tre anni […]. Sintassi e grammatica, specialmente negli ultimi capitoli,
un disastro. Le correzioni che ritengo necessarie nel capitolo che le mando,
le ho scritte in rosso.
Ma subito l’eccezionale lettore si defila dall’incipiente aura di conformismo che aleggia intorno al “caso Svevo”, quando l’interesse per lo scrittore fa emergere i segnali
premonitori di gradi di coinvolgimento e di lettura molto più scontati, molto più banali e molto più stereotipati di quanto avvenisse nei primi tempi della “scoperta” del
triestino, e quindi nel momento in cui al «bracco letterario» appare doveroso, oltre
che giusto, ritirarsi dalla scena, per dedicarsi alla ripartenza su altri interessi di primo
lancio e di primo sostegno riguardo a libri degni di reale attenzione: «Mi faccia un
favore: rifiuti tutti gli articoli dove si parla della priorità della scoperta di Svevo: il
problema sta diventando un po’ troppo indecoroso […] i Ferdinando Pasini hanno
già cominciato a ronzare intorno alla Villa Veneziani ed è tempo che io mi ritiri»
(piuttosto, e per non perdere tempo, come già è avvenuto nel 1925, Bazlen segnala a
Montale la lettura di A portrait of a Lady di James, indicato come autore preferibile
rispetto a Conrad).
32
In Lettere a Solaria, a cura di GIULIANO MANACORDA, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 87-89.
209
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3.4 Nell’officina lirico-poetica di Montale. Ispirazioni e rielaborazioni metriche,
fono-sillabiche e semantico-lessicali per Le occasioni (e per gli Ossi di seppia)
Nel periodo milanese (inverno 1934-1935 − febbraio 1939), Bazlen frequenta
Sergio Solmi e Alessandro Pellegrini, ha la possibilità di conoscere Gadda e Adriano Olivetti, può rivedere Montale; nel 1938 conosce Ljuba Blumenthal e inizia
con lei un rapporto, anche epistolare, duraturo; e soprattutto egli conosce Luciano
Foà, figlio di quell’Augusto Foà che aveva sin dal 1898 fondato l’Agenzia Letteraria Internazionale, presso la quale lo stesso Luciano dapprima lavora, e luogo
in cui si reca, insieme a Frassinelli (di cui è consulente editoriale), lo stesso Bobi,
sempre alla ricerca di romanzi stranieri proponibili in Italia. Il progetto giovanile
e illuminato di Foà, un equivalente italiano del «Times Literary Supplement» con
funzione informativa e di aggiornamento, in particolare sulle letterature straniere,
non può essere condotto in porto, data la situazione politica, che, in pieno regime
fascista, è sommamente inadatta al riconoscimento della cultura straniera, come
Bazlen ricorda a Luciano (Bobi cercherà anche di persuadere Foà a battezzarsi, a
salvataggio dalle leggi razziali). Non rimane che l’Agenzia Letteraria Internazionale; e mentre con Luciano Foà si stabilisce un legame amicale e di sodalità lavorativa
destinato a protrarsi nei decenni a venire («Ricordo che Bobi, ogni pomeriggio,
verso le cinque e mezzo-sei, veniva nel nostro ufficio, salutava mio padre che era
felicissimo di vederlo, e m’invitava a uscire con lui»; «Ci vedevamo spesso, passeggiavamo a lungo per le vie del centro di Milano, e lui mi parlava con quell’intensità
affettuosa che caratterizzava la sua conversazione con gli amici […]. Poi mi segnalava libri da leggere, libri da proporre a editori italiani nell’ambito del mio lavoro»), lo stesso Foà, che adempirà rispetto a Bazlen il ruolo di «referente principale
del suo lavoro di lettore editoriale», si vedrà proporre da parte di Roberto scrittori
quali Carlo Emilio Gadda (amato da Bobi specialmente per Il castello di Udine,
pubblicazione solariana del 1934), Elio Vittorini, Tommaso Landolfi, Enrico Pea,
Pier Antonio Quarantotti Gambini, per possibili traduzioni tedesche o spagnole,
e Ortega e Carl Gustav Jung, per promuovere la conoscenza e la diffusione di
questi autori in Italia. Riguardo all’editore Frassinelli, non è inutile citare la collana
«Biblioteca Europea», diretta da Franco Antonicelli, che ispirerà la collana «Narratori stranieri tradotti» di Einaudi e che, ancor prima, sarà acquisita, insieme al
totale del catalogo, dall’editore Adelphi. Nella collana «Biblioteca Europea» sono
pubblicati nel 1932 Dedalus di Joyce e nel 1933 Moby Dick di Herman Melville,
nelle celebri traduzioni di Cesare Pavese (quest’ultimo, in particolare, più volte
ristampato, sino al dopoguerra, in traduzione «riveduta e migliorata», sempre da
Frassinelli, a Torino).
La presenza determinante di Bazlen è con chiarezza rilevabile nei suggerimenti
esplicitamente richiesti da Montale negli anni 1938-1939, e nelle scelte che in risposta Bobi propone (e quasi impone per acquisita autorità intellettuale e amicale) al
poeta genovese; si evidenzia, qui, quel «gusto squisito» che a Bazlen è riconosciuto
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da tutti coloro che hanno goduto del suo colloquio, e che si afferma, da quello
che possiamo evincere dalle lettere a Montale (perdute − come si è detto − per
quel periodo, ma visibili nelle loro conseguenze e ricadute nell’elaborazione delle
liriche montaliane, in relazione alle missive del poeta, di cui invece disponiamo),
anche, e in ugual misura pur se con differenti modalità, nell’àmbito della poesia, e
segnatamente della lirica e delle sue peculiarità di versificazione. Non solo prosa,
quindi. E non solo Svevo, ma anche Montale; il Montale delle Occasioni, viste le
date, ma vi è coinvolto pure il Montale degli Ossi di seppia. Si inizi dalle Occasioni,
ovvero dalla lettera del 17 gennaio 1939 che, pur senza scoperto riferimento, plausibilmente sembra alludere a Notizie dall’Amiata: di questo poem Montale desidera
che Bazlen gli segni «alcuni (due o tre) versi particolarmente brutti»; «ma più che
altro vorrei un sì o un no decisi». È necessario ricordare il testo delle Notizie (Il
fuoco d’artifizio del maltempo, E tu seguissi le fragili architetture, Questa rissa cristiana che non ha):
I.
Il fuoco d’artifizio del maltempo
sarà murmure d’arnie a tarda sera.
La stanza ha travature
tarlate ed un sentore di meloni
penetra dall’assito. Le fumate
morbide che risalgono la valle
d’elfi e di funghi fino al cono diafano
della cima m’intorbidano i vetri,
e ti scrivo da qui, da questo tavolo
remoto, dalla cellula di miele
di una sfera lanciata nello spazio
e le gabbie coperte, il focolare
dove i marroni esplodono, le vene
di salnitro e di muffa sono il quadro
dove tra poco romperai. La vita
che t’affabula è ancora troppo breve
se ti contiene! Schiude la tua icona
il fondo luminoso. Fuori piove.
5
10
15
II
E tu seguissi le fragili architetture
annerite dal tempo e dal carbone,
i cortili quadrati che hanno nel mezzo
il pozzo profondissimo; tu seguissi
il volo infagottato degli uccelli
notturni e in fondo al borro l’allucciolio
della galassia, la fascia d’ogni tormento.
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Ma il passo che risuona a lungo nell’oscuro
è di chi va solitario e altro non vede
che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe.
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Le stelle hanno trapunti troppo sottili,
l’occhio del campanile è fermo sulle due ore,
i rampicanti anch’essi sono un’ascesa
di tenebre ed il loro profumo duole amaro.
Ritorna domani più freddo, vento del nord,
15
spezza le antiche mani dell’arenaria,
sconvolgi i libri d’ore nei solai,
e tutto sia lente tranquilla, dominio, prigione
del senso che non dispera! Ritorna più forte
vento di settentrione che rendi care
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le catene e suggelli le spore del possibile!
Son troppo strette le strade, gli asini neri
che zoccolano in fila danno scintille,
dal picco nascosto rispondono vampate di magnesio.
Oh il gocciolìo che scende a rilento
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dalle casipole buie, il tempo fatto acqua,
il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento,
il vento che tarda, la morte, la morte che vive!
III
Questa rissa cristiana che non ha
se non parole d’ombra e di lamento
che ti porta di me? Meno di quanto
t’ha rapito la gora che s’interra
dolce nella sua chiusa di cemento.
Una ruota di mola, un vecchio tronco,
confini ultimi al mondo. Si disfà
un cumulo di strame: e tardi usciti
a unire la mia veglia al tuo profondo
sonno che li riceve, i porcospini
s’abbeverano a un filo di pietà.
5
10
Il contatto epistolare prosegue con la lettera del 15 marzo 1939, nella quale Eugenio allude a «copie di Milano» delle Notizie, pervenute evidentemente a Roberto
in gennaio, quando era ancora in Lombardia (da febbraio Bazlen si è trasferito
a Roma); purtroppo il foglio allegato su cui Montale aveva segnato «le seguenti
varianti» è andato perduto; ma disponiamo della lettera-base del poeta, che indica
quali versi avrebbero dovuto essere modificati:
Parte I
verso 2° il testo di Milano dice:
sarà murmure d’arnie a tarda sera.
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verso 17° id id dice:
Schiude la tua icona
Parte II
verso penultimo id id dice:
coi poveri morti,
ma c’è un povero due righe più in là e ho creduto di mutare
Parte III
id id al verso 3° dice:
con la mano affondata in una gora
che mi sapeva di sinisgallismo e ho mutato
Per il verso secondo della Parte I la lettera del 17 marzo 1939 chiarisce che un
«bombito», un percepibile ronzio, doveva sostituire il «murmure d’arnie»; ma in
questo, come negli altri casi, la variante sarà cassata a favore della versione originale: «Il bombito l’ho silurato. Fra l’altro credo non esista quella parola» (anche
il verso della III Parte, «Con la mano affondata in una gora», non entrerà in questa forma nella redazione ne varietur, ma, come si legge in Questa rissa cristiana
che non ha, vv. 3-5, non sarà del tutto dimenticato, neppure nel suono: «Meno di
quanto / t’ha rapito la gora che s’interra / dolce nella sua chiusa di cemento»). Ma
le lettere concernenti Notizie dall’Amiata, e in genere le liriche delle Occasioni,
si incrociano con le poesie di Mediterraneo, la sezione di Ossi di seppia dedicata a Bazlen (solo dall’edizione 1942 non figureranno più dediche); e la funzione
di Bazlen appare determinante non soltanto nel porsi quale punto di riferimento
per le richieste di consigli da parte di Montale, ma anche e soprattutto sul piano
dell’effettiva e concreta attività di corrispondenza, di presa in considerazione e di
presa in esame di tali richieste: Roberto, pur nella mancanza di testi di lettere che
si è obbligati a lamentare, emerge indirettamente dalle conseguenze delle sue scelte
nell’operato del poeta. Basti ricordare la lettera del 15 marzo 1939, riguardante A
vortice s’abbatte, la prima lirica di Mediterraneo: «Quella costruzione è “ora più
(sordo) ora meno (sordo) il ribollio delle acque etc., (oppure) è un rimbombo (talvolta) ed un ripiovere etc.”»; essa diventerà (vv. 9-13): «Quando più sordo o meno
il ribollio dell’acque / che s’ingorgano / accanto a lunghe secche mi raggiunge: / o
è un bombo talvolta ed un ripiovere / di schiume sulle rocce», dove il «bombo»,
“richiamato” sempre nella lettera del 15 marzo, non casualmente torna ad insistere
e ad affacciarsi. E altrettanto densa di riflessione propositiva è la missiva del 17
marzo, che si occupa, ancora in Mediterraneo, di Scendendo qualche volta e di Ho
sostato talvolta nelle grotte:
Caro Bobi voici: “era la tersa (superficie) del mare un giuoco di anella, ossia
di cerchi più o meno concentrici, effetto del vento sull’acqua”. / “niun’altra
mai minaccia” ossia: nessun altra minaccia, mai. Lo sparviero è un uccello
da preda, la pavoncella un mite uccello d’acqua. C’è una bella differenza.
Vedete se si può scegliere una bestia intermedia, un uccello più modesto e
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più nomade. Alla peggio mettete un generico “uccello di mare”, “uccello di
passo”, qualcosa che incuta più pietà dello sparviero. C’è quello “spersa” che
ha un valore. Del resto inventate pure, sacrificate pure il senso al suono, ma
non fate una poesia troppo moderna; quando scrissi Mediterraneo (1923?)
non conoscevo neppure Valery.
Riguardo al «giuoco di anella», e all’uccello d’acqua, in Scendendo qualche volta il
testo rimarrà così fissato (vv. 27-31): «era la tesa / del mare un giuoco di anella. /
Con questa gioia precipita / dal chiuso vallotto alla spiaggia / la spersa pavoncella»;
la «niun’altra mai minaccia» è invece in Ho sostato talvolta nelle grotte (vv. 25-27):
«Nel destino che si prepara / c’è forse per me sosta, / niun’altra mai minaccia».
Non manca, in piena simultaneità cronologica, la premura con cui Montale segue
la traduzione in tedesco di alcune sue liriche, ad opera di Leifhelm − amico di
Bazlen − che vi lavora sotto la guida dello stesso Roberto (si tratta d’una premura
non priva d’elementi dinamici e di ripensamenti in corso d’opera, come dimostra
la preferenza accordata nella lettera del 29 aprile all’Elegia di Pico Farnese − ritenuta più adatta ai lettori tedeschi − rispetto a Notizie dall’Amiata; in realtà anche
Notizie sarà proposta al traduttore); è del 9 giugno 1939 una lettera che si occupa,
tra altri argomenti (e proprio in vista della versione tedesca), di Arsenio; la poesia
degli Ossi di seppia ha non a caso in comune con Dora Markus II, appartenente alle
Occasioni (e oggetto, come fra poco si vedrà, di un fitto dialogo a tema variantistico
tra Montale e Bazlen), il motivo delle luci artificiali sul mare o sul lago, dei «globi»
rilucenti a distanza e, secondo gli auspici del poeta, fonte di luce non naturale:
«un senso […] quasi di globo elettrico che si spegne e si accende» (10 maggio
del 1939, Montale su Dora Markus II); si ricordi Arsenio, vv. 34-39: «Discendi in
mezzo al buio che precipita / e muta il mezzogiorno in una notte / di globi accesi,
dondolanti a riva, − / e fuori, dove un’ombra sola tiene / mare e cielo, dai gozzi
sparsi palpita / l’acetilene», e, più sotto, negli ultimi due versi della strofa, «giù
s’afflosciano stridendo / le lanterne di carta sulle strade». Arsenio si rivela in tal
senso come una poesia particolarmente emblematica di una pluralità di motivi e di
scelte testuali montaliane; sia qui sufficiente riferirsi al verbo “gocciare”, del tempo
o del cielo, o di ambedue, all’associarsi di questo verbo a sostantivi e a concetti
determinanti, specificamente nelle poesie per le quali Montale si rivolge a Bazlen, a
richiesta di suggerimenti, di critiche, o di conferme: nella citata Scendendo qualche
volta di Mediterraneo (vv. 6-7) vi è «il gocciare / del tempo inesorabile»; nella stessa
Arsenio vi è, proprio nella strofa sopra citata, «finché goccia trepido / il cielo»; e in
Notizie dall’Amiata, nelle Occasioni, nella Parte II, anch’essa sotto vaglio da parte
di Montale e da parte di Roberto, ai vv. 25-27 si legge: «Oh il gocciolìo che scende
a rilento / dalle casipole buie, il tempo fatto acqua, / il lungo colloquio coi morti».
Più tardi, in Nella serra, appartenente alle Silvae de La bufera e altro, si rammenti
(vv. 3-4): «brillò in un rosario di caute / gocce la falce fienaria», e, in finale di lirica
(vv. 13-16), «tra suoni / celesti e infantili tamburi / e globi sospesi di fulmini // su
me, su te, sui limoni… ».
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Ancora riguardo alle Notizie dall’Amiata, si vedano le missive a Bazlen dell’8 e
del 17 aprile 1939; in quest’ultima, in particolare, si parla della terza parte del poem
(Questa rissa cristiana che non ha), e si raccomanda una correzione nella seconda
parte (E tu seguissi le fragili architetture), come conseguenza delle correzioni da
apportare nella terza; segue la spiegazione del significato della stessa terza parte (si
ricordi che già dalla lettera del 15 marzo di quell’anno l’incertezza su «disperdi»,
Parte II, v. 21, si risolve a favore del suggerimento di Bazlen, «suggelli»: «Ritorna
più forte / vento di settentrione che rendi care / le catene e suggelli le spore del
possibile» − cfr. vv. 19-21):
Ti unisco la terza parte delle Notizie così come l’ho corretta, va meglio? Se
va bisogna che tu sostituisca nella 2a parte a calcina ‘intonaco’ e sull’intonaco
l’allucciolìo. Cemento e calcina nella stessa occasione non può andar bene e
poi lasciare solo l’i di allucciolìo gli dà maggior valore di lucentezza, formicolio. Calcina è parola diurna e vicina a Galassia, era anche effettivamente
estetistica. Le altre correzioni tutte abolite e si ritorna alla I edizione […]. Mi
pare che qualsiasi correzione sarebbe un disastro. Sono però un po’ sorpreso che la mia spiegazione della terza parte così com’era ti abbia sorpreso e
che tu dica nessuno capirà, in genere sono sorpreso dalle spiegazioni che mi
hai chiesto. Mi pareva (quella parte) di evidenza lapalissiana: un uomo che
dorme con la testa appoggiata su una pietra rotonda, che altro ci avevi visto?
Te lo chiedo perché annetto valore al tuo capire specie perché viene da chi è
abituato a testi oscurissimi. Insomma vorrei capire se il difetto è mio o anche
tuo. Dico difetto per ridere.
Il ritorno alla prima edizione («Le altre correzioni tutte abolite») dimostra il fervore del lavoro variantistico montaliano-bazleniano, nell’andirivieni di accredito e di
smentita di alcune delle stesse correzioni e varianti proposte, discusse e valutate.
La sezione di testo della seconda parte delle Notizie che è, qui, sottoposta ad esame
semantico-lessicale, avrà il seguente esito (vv. 4-7): «Tu seguissi / il volo infagottato
degli uccelli / notturni e in fondo al borro l’allucciolìo / della Galassia, la fascia
d’ogni tormento»; l’«intonaco», come in precedenza la «calcina», scompaiono per
non cumularsi con il «cemento» del v. 5 della terza parte («cemento» rima con
«lamento» del v. 2; e forse Montale nella lettera ha pensato, nel contesto della parte
seconda, alla vicinanza con «tormento» del v. 7; il gioco di richiami fonologici è
certo sottile, dato che nello stesso v. 7 «Galassia» e «fascia» contiguamente assuonano). Peraltro, era proprio sulla spiegazione esplicita che Bazlen aveva sollevato
obiezioni; Montale l’aveva fornita nella citata lettera del 15 marzo:
Un povero diavolo si abbandona alla sua sorte presso il lucido solco di una
gora (un piccolo rivo tra due argini di cemento), e la sua evasione non ha più
limiti. Si distende, si dà per cuscino una pietra a forma di ruota (pietra di
mola per macinare le ulive) e ascolta un lieve fruscio, si alza dallo strame: sono
i porcospini che escono a bere (acqua e un filo di pietà).
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Ricordiamo i versi che concludono le Notizie (6-11): «Una ruota di mola, un vecchio
tronco, / confini ultimi al mondo. Si disfà / un cumulo di strame: e tardi usciti / a
unire la mia veglia al tuo profondo / sonno che li riceve, i porcospini / s’abbeverano
a un filo di pietà». E si rammentino anche le lettere del 6 e del 18 giugno.
Ancora più visibile è la collaborazione bazleniana all’Elegia di Pico Farnese;
preceduta da una cartolina del 4 marzo del 1939, in cui Montale allude argutamente
al “luogo” di Tommaso Landolfi di cui è ospite, la lirica, nella sua struttura, appare
già scritta il 29 aprile (Montale si firma ovviamente «Eusebius»): «Caro Bobi, / tra
l’indigestione e la digestione di un piatto di tortellini innaffiati in Chianti ho scritto
rapidissimamente l’Elegia di Pico che ti accludo. Falla leggere a Tom [Tommaso
Landolfi] di cui al momento non trovo l’indirizzo. Ma non vorrei circolasse alla solita trattoria […]. / Scrivimi subito che ti pare dell’Elegia». Questa versione risulta
perduta; ma esistono le lettere dell’1, del 5, del 10 e dell’11 maggio, e del 9 giugno.
Degna di considerazione l’ipotesi della La Ferla, secondo la quale l’ultima versione
ritrovabile del componimento è da far risalire alla lettera dell’11 maggio, e non a
quella del 9 giugno, cui si collega Luciano Rebay in I diàspori di Montale33; nella
LUCIANO REBAY, I diàspori di Montale, in «Italica», XLVI (1962), 1, pp. 33-53, in part. pp.
47 ss. Si noti, a proposito della lettera dell’1 maggio (cfr. MONTALE, Sulla poesia, cit., pp. 93-95),
l’espressione di qualche perplessità, da parte del poeta, sulla reale pienezza di sintonia con Bazlen
riguardo ai dettagli e al complesso contestuale delle liriche, in questo caso l’Elegia: «Caro Bobi,
/ grazie; temevo peggio. Ma al solito, quando si va ai dettagli, mi sfugge (specie con te) il valore
obiettivo dei medesimi. Non so fino a che punto la percezione di certe nuances sia dovuta ai miei
difetti obiettivi o a un tuo fisiologicamente diverso orecchio. Mi spiego? Non so fino a che punto
noi sentiamo allo stesso modo l’attuale valore del mio impasto verbale, non so fino a che punto tu
senta quello che c’è di necessario e quello che ci può essere di arbitrario. Ciò a parte altre difficoltà
nelle quali il torto (?) può esser tutto mio, e delle quali ti dò un esempio: nel distico È l’Amore…
messaggera imperiosa (che per me sarebbe il centro della poesia, la massima elevazione di tono) ci
sono elementi che per me, soggettivamente, erano vitalissimi e non suscettibili di interpretazione
neo classica: la frangia che tu hai già visto nella fotografia di […], qui frangia d’ali, ma insomma
anticipazione dell’incredibile piumaggio attribuito alla fronte senza errore, cioè la vera frangetta.
Imperiosa mi pare insostituibile, messaggera idem. Credi che eliminando i bossi spartiti (che a Pico
esistono nel giardino di Tom) otterrei una riduzione dell’effetto deleterio che mi segnali? Rispondi
con precisione su questo punto. Io qui volevo essere Blake-Rossetti, non Lipparini-Carducci. Fin
dove avrò sbagliato io? Può bastare mutare il ritmo lasciando le parole? / Nella copia che ti mando
ho segnato le cesure più chiare. Scusami, so che non ne hai bisogno. Ti prego rimandarmela con
qualche interrogativo e qualche commento marginale. Vedrò di mutare dove posso. Segna i versi
troppo prosastici o troppo classicistici. Però ho l’impressione che i primi 12 versi siano perfetti e
solo in apparenza descrittivi. Forse (verso 8°) si potrebbe togliere quel sull’erba, con effetto più
stringato ma con danno al ritmo [ma prevarrà il suggerimento bazleniano della sostituzione della
parola: «tra i frutti caduti “all’ombra” del melangolo]. Son curioso del giudizio di Tom, ma come
critico non lo stimo: è sofistico. / Ho capito che di questi versi lunghi dovrò farne pochi, perché se
si vuole salvare la sequenza musicale (che è la più importante) non si possono assolutamente evitare
le zeppe; nei metri più brevi le zeppe ci sono, ma inavvertibili, subito giustificate dall’effetto; qui
sorge invece un dualismo tra il suono che immediatamente la parola ha nel verso e la giustificazione
che se ne trova poi nell’insieme di un lungo periodo. Insomma devi aiutarmi a migliorare fin dov’è
33
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lettera dell’1 maggio, già indice di consigli bazleniani che Montale rielabora, il poeta
sollecita l’amico a rinviargli «presto l’Elegia, con poche ma buone note, chiarissime»,
e contropropone alcune varianti che, com’egli dice, «salvano (forse) le mie ragioni
e le tue»; altra redazione dell’Elegia, fedelmente datata, è nella lettera del 5 maggio,
in cui il poeta dice di avere «ritoccato l’Elegia, e non a freddo» e affida a Roberto
l’arbitrato delle scelte singole e complessive della lirica, in vista dell’«exequatur» (ad
esempio, al v. 8 [«tra i frutti e gli aranci»] prevale il più generico e più poetico «frutti»: «tra i frutti caduti all’ombra del melangolo»)34; il dialogo prosegue serrato nella
lettera del 10 maggio35, per farsi ancor più dettagliato e incentrato su precise scelte
linguistiche, ma anche strutturali e versificatorie, nella missiva dell’11:
Nell’Elegia metterei poi: e indugia affievolito nell’indaco che stilla (è meglio?)
e nella sutura: il tuo splendore è aperto. Ma più discreto se − dal gelo − etc. −
possibile questa elegia: ho molta fretta […] . / Vedi un po’ queste possibili varianti che salvano
(forse) le mie ragioni e le tue: “Ben altro / è l’Amore; è passato col suo corruccio e la frangia / delle
tue ali imperiose fra i bossi, messaggera! // delle tue ali fra i bossi quadrati, messaggera”. / Ma il
sacrificio dell’imperiosa non mi va giù anche se il corruccio mi par dia molto in quel senso di profilo
fatale extra umano. Del resto i bossi possono andar via o andare altrove, magari dopo». La versione
definitiva risente delle indicazioni di Bazlen, ed è infatti profondamente mutata: «Ben altro / è
l’Amore e fra gli alberi balena col tuo cruccio / e la tua frangia d’ali, messaggera accigliata! / Se
urgi fino al midollo i diàspori e nell’acque / specchi il piumaggio della tua fronte senza errore».
34
Cfr., ancora, dalla lettera del 5 maggio 1939 (MONTALE, Sulla poesia, cit., p. 95): «Non
pensare a questo o a quel verso che può aver guadagnato o perduto. I ritocchi hanno giovato
all’insieme della poesia. Prima c’era quella serie di ultimatum o imperativi categorici che finivano
con una partita di tiro… e varie zeppe. Ora anche il ritmo passa più gradualmente da un inizio
statico descrittivo a un moto narrativo e lirico. Leggi senza confrontare punto per punto con l’altra
copia e mi darai ragione […]. Come vedrai il prilla [“il piattello”] è assunto anche per brilla e non
c’è più il sale e nemmeno l’alacre. Il baleno e il cruccio in qualche modo legano coll’incudine e
il calor bianco. / Anche le tremule muraglie [“spicchi di muraglie” nella versione definitiva] erano
lì “pittura del 900” e zeppa per non fare l’endecasillabo, e l’ho fatto e non sembra nemmeno un
endecasillabo».
35
Si veda (ivi, pp. 95-96), dalla lettera del 10 maggio, una serie di rilievi, sempre fondati
sull’Elegia di Pico Farnese, riguardanti la duplicità di senso di alcune espressioni: «“Il teatro
dell’infanzia” è certamente equivoco, ha tutt’e due i sensi che hai scoperto. Ma solo chi è stato a
Pico può essere certo che il teatro è un vero teatro dove si recita; chi non c’è stato avrà ugualmente
il sospetto, il dubbio, il suggerimento del vero teatro; perchè teatro nel senso di milieu (il teatro
del delitto) sarebbe molto banale e difficilmente attribuibile a Eusebius. Così, lascerò il passo
immutato. A me succede spesso (e spesso volontariamente) di essere equivoco in questo modo. P.
es. nel mottetto della donna che sta per uscire dalla nuvola [è il decimo mottetto: «Perché tardi?
Nel pino lo scoiattolo»]: // A un soffio il pigro fumo… (?) [«trasalisce,»] / si difende nel punto che
ti chiude // è chiaro che nel punto può avere due sensi: nel momento che e nel luogo che, tutti e
2 legittimi. Per Landolfi questo dubbio è orrendo; per me è una ricchezza. Certo, in questo caso
l’equivoco è inconscio, spontaneo; nel caso del teatro è un po’ cercato […]. Ma più discreto se…
[nella versione definitiva: «Ma più discreto allora / che dall’androne gelido… »] È effettivamente
una sutura, un espediente. Però uno ci voleva, e questo è discretissimo. Fare 65 versi senza un
espediente è quasi impossibile (a me). A te?».
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dimmi se miglioro mettendo: il tuo splendore è aperto. Ma più discreto allora
− che dall’androne gelido etc. nel quale sopprimo l’ora successivo mettendo:
− E qui, se appare inudibile il tuo soccorso, nell’aria etc.
Si tratta delle soluzioni definitive, che Montale ha immesso soltanto dopo l’approvazione di Bobi; questo, infatti, il testo nei passi in questione dell’Elegia di Pico
Farnese: «si svolge a stento il canto delle ombrelle dei pini, / e indugia affievolito
nell’indaco che stilla / su anfratti, tagli, spicchi di muraglie»; «il tuo splendore è
aperto. Ma più discreto allora / che dall’androne gelido, il teatro dell’infanzia»; «E
qui, se appare inudibile / il tuo soccorso, nell’aria prilla il piattello, si rompe / ai
nostri colpi! Il giorno non chiede più di una chiave»36.
Anche alcune indimenticabili figure femminili hanno la loro radice nelle sollecitazioni di Bazlen; Carnevale di Gerti è nata da un capodanno triestino, presenti,
oltre al poeta, la stessa Gerti Frank, Bazlen, la famiglia Marangoni: «una poesia di
commissione fatta per un’amica di Bobi», scrive Montale a Sergio Solmi nella letSi noti anche la serie di osservazioni montaliane, sulla base di obiezioni di Bobi, che costella
la lettera del 9 giugno 1939, in specie riguardo ai seguenti versi dell’Elegia: «Se urgi fino al midollo
i diàspori e nell’acque / specchi il piumaggio della tua fronte senza errore / o distruggi le nere
cantafavole e vegli / al trapasso dei pochi tra orde d’uomini-capre […] / il tuo splendore è aperto»,
i citati «E qui, se appare inudibile / il tuo soccorso, nell’aria prilla il piattello, si rompe / ai nostri
colpi! Il giorno non chiede più di una chiave», i versi finali («Dietro di noi, calmo, ignaro / del
mutamento, da lemure ormai rifatto celeste, / il fanciulletto Anacleto ricarica i fucili») e le tre
«strofette»: «Isole del santuario, / viaggi di vascelli sospesi, / alza il sudario, / numera i giorni e i
mesi / che restano per finire»; «Grotte dove scalfito / luccica il Pesce, chi sa / quale altro sogno
si perde, / perché non tutta la vita / è in questo sepolcro verde»; «collane di nocciuole, zucchero
filato a mano / sullo spacco del masso / miracolato che porta / le preci in basso, parole / di cera
che stilla, parole / che il seme del girasole / se brilla non disperde». Si veda infatti (ivi, pp. 96-97)
l’intreccio testuale bazleniano-montaliano, qui segnato da svariate occorrenze di «forse»: «Elegia.
Se urgi (o se gonfi) ecc. i frutti del kaki ecc. o distruggi le cantafavole (nel senso di balle) ecc. il tuo
splendore è palese. L’androne gelido che è stato teatro (nei due sensi possibili, in tedesco ci vorrà
un senso unico [Montale parla in vista della traduzione di Leifhelm]). I balconi circondati di edera
ecc. [il testo diverrà: «dopo una lunga attesa / ai balconi dell’edera»]. Se appare: “e qui benché il
tuo soccorso appaia inudibile c’è tuttavia il piattello che prilla e che è comunque (se non proprio
il tuo soccorso) una degna chiave del giorno, la sola degna di te”. Chiave sta qui per grimaldello
[…], per strumento d’apertura; ma forse (ci penso ora) anche in chiave musicale andrebbe (chiave
di fa, di sol) in senso affine, e persino diapason nel senso del piccolo strumento che permette di
accordare ecc. / ignaro del mutamento? forse ignaro del soffio celestiale che fa anche lui partecipe
del miracolo. / Quanto alle strofette mi è impossibile darle in prosa. Esse sono estremamente
generiche, non però oscure […]. Alza (tu) il sudario (non so che sia, forse il velo di Maja). I
vascellli sono ex voto, le isole luoghi nelle navate. Nella terza ci sono i dolciumi venduti sui sagrati
dei santuarii, un accenno al monte spaccato a vulva presso Gaeta, accenni a candele ecc. / Nelle
grotte (delle isole di cui sopra) c’è il segno del Pesce che credo uno dei più antichi segni cristiani;
comunque si esprime il dubbio che la simbologia cristiana (la foresta verde) dimezzi la vita e che
Cristo abbia bisogno di essere continuato forse malgré lui. Se puoi, anche mutando tutto, fai una
canzonetta sincretistica dove dio e phallus appaiono mescolati equivocamente; è il senso di tutto il
Meridione. Senso però che il Poeta (sic) non approva che con molte riserve».
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tera del 17 aprile 1928; Carnevale di Gerti era uscita in «Il Convegno» nel 192837.
Capodanno, «a mezzanotte fusione di piombi, liturgia, riti magici e libazioni ad
honorem», aveva scritto Eugenio, sempre a Solmi, il 2 gennaio 1928; e il motivo
del piombo e del suo fulmineo percorso, a suo modo sicuro e augurale, e altresì
il motivo del ritorno allo spirito di festevolezza amicale indotto da un concetto
soggettivo del calendario, attraversano, insieme alla fluttuazione sull’ibrido crinale
capodanno-carnevalesco, gennaio-febbraio (si ricordi la data d’uscita del 25 gennaio), tutta la lirica, in più riprese: ai vv. 12-15, «hai ritrovato / forse la strada che
tentò un istante / il piombo fuso a mezzanotte quando / finì l’anno tranquillo senza
spari»; ai vv. 29-37: «([... ] l’urna li segnava / a ognuno dei lontani amici l’ora / che
il Gennaio si schiuse e nel silenzio / si compì il sortilegio. È Carnevale / o il Dicembre s’indugia ancora? Penso / che se tu muovi la lancetta al piccolo / orologio
che rechi al polso, tutto / arretrerà entro un disfatto prisma / babelico di forme e
di colori…)»; ai vv. 38-42: «E il Natale verrà e il giorno dell’Anno / che sfolla le
caserme e ti riporta / gli amici spersi, e questo Carnevale / pur esso tornerà che
ora ci sfugge / tra i muri che si fendono già»; ai vv. 57-58: «e nulla torna se non
forse in questi / disguidi del possibile»; e ai vv. 64-67: «torna alla via dove con te
intristisco, / quella che additò un piombo raggelato / alle mie, alle tue sere: / torna
alle primavere che non fioriscono».
In modo diverso, ma pur sempre richiamabile a questo, nasce il capolavoro
costituito da Dora Markus; il 25 settembre 1928, in allegato, si direbbe oggi, giunge a Montale da parte di Bazlen una fotografia che ha per tema le gambe di Dora
Markus: «Un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia, si
chiama DORA MARKUS» (Giorgio Zampa riferisce la reazione di Montale, secon«Il Convegno», IX (25 gennaio 1928), 6. Sull’inizio dell’amicizia tra Solmi e Montale
cfr. SERGIO SOLMI, Eugenio Montale. Parma 1917, in «La Fiera letteraria», 12 giugno 1953. Più
in generale, riguardo al duraturo rapporto di amicizia e di stima che intercorre fra Montale e
Sergio Solmi, e soprattutto riguardo alla loro “fraternità” poetica e intellettuale, cfr. CARETTI,
Itinerario di Solmi, cit., pp. 427-451: pp. 431-432. Caretti ricorda come Solmi sia stato sin dagli
esordi recalcitrante sia rispetto ai poeti della “triade” Carducci-Pascoli-D’Annunzio (con qualche
apertura al poeta di San Mauro), sia rispetto «agli esperimenti futuristi e al frammentismo vociano»
(p. 431), e come invece egli guardi «con molto più persuaso zelo alla “volontà di stile” di Ungaretti
e soprattutto di Montale (il sempre ‘fraterno’ Montale)» (ibidem). Cfr. in tal senso SOLMI, Scrittori
negli anni, cit., p. 201: «Per questo ostinato amor vitae, salvato oltre la negazione e l’angoscia,
la poesia di Montale è, fra le voci di questo tempo difficile, una delle più fraterne, forse la più
fraterna»; cfr. anche (ivi, pp. 21 e 24) l’individuazione critica, sin dalla recensione del 1925 a Ossi
di seppia, del concetto di “classicità” in Montale: «Il poeta sembra isolare l’emozione germinale
che dà vita al suo canto come in un trasognato e trasparente alone di esausta tristezza. E questo
atteggiamento complesso dà alla sua poesia un sapore di compiutezza e d’oggettività, di materia
dominata e intimamente esaurita da ravvisarvi − e qui vorremmo che le parole s’intendessero
nel loro vero senso − una parvenza dell’unica classicità compatibile colla nostra epoca difficile
[…]. Nella casta e accorata ascesa delle linee del canto, che disegnano, sopra un’ampia trama di
paesaggi, un intimo rassegnato moto del cuore, troviamo la riprova di quanto si diceva poc’anzi
circa l’aspirazione classica che vive in fondo a questa originale natura di poeta».
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do la testimonianza del poeta stesso: «ricevette senza batter ciglio questa cartolina,
tornò a casa e cominciò a scrivere i versi»)38; nel gennaio del 1929 la lirica è già
composta (il 5 gennaio, infatti, all’annuncio dell’avvenuta composizione, Bazlen
incita vivacemente Montale all’invio: «Dora Markus??????? Manda!!!!!!!!!»), anche se la prima uscita avverrà in «Il Meridiano di Roma», I (10 gennaio 1937), 2.
Per Dora Markus II vi è ormai poco da attendere e il 7 maggio del 1939 una lettera
a Bazlen avverte della «coda», con un’indicazione di data, riguardo alla prima poesia, che ricostruisce genericamente nell’anno 1926 il periodo di Dora Markus I,
mentre, come detto, la prima lirica è stata composta tra la fine del 1928 e l’inizio
del 1929; la data del 1926 rimarrà, a connotare i due diversi periodi di composizione delle parti del dittico, e quasi a racchiuderle entro gli estremi cronologici (1926,
appunto, e 1939) che si pongono come emblematici delle Occasioni:
Dopo 13 anni ho dato una coda a DORA MARKUS e te la mando; dovrebbero formare un dittico ma con le date esplicative. Dimmi che te ne pare. In
sé trovo che la poesia non è brutta e che si salva dalla taccia di neo-post-crepuscolarismo, per quel sapore, post Anschluss che vi è leggermente diffuso.
Ma non so… sono incerto. In ogni modo è certo che il valore del dittico (in
quanto tale) sarebbe, più che diminuito, aumentato dalla differenza di stile.
Realmente c’è sapore di tempo passato. Ti mando anche la prima parte per
controllare l’effetto del pendant. La Carinzia ha laghi? La donna poi è un
pasticcio di quasi Gerti, con antenati di tipo Brandeis; l’accenno a Ravenna
fa riscontro alla I parte.
Bobi risponde a tamburo battente, ma si concentra su particolari e su proposte
di singole varianti, senza dare, se non ex silentio, un’esplicita risposta a Montale
sull’opportunità di proporre Dora Markus II; insieme a una correzione riguardante
Dora Markus I, vi è (lo capiamo dalla “ribattuta” di Eugenio) una consistente obiezione che mira a Dora Markus II, in tal modo implicitamente ammessa nel dittico e
nelle Occasioni (lettera del 10 maggio di Montale a Bazlen):
Le reti senza posa? perciò sarà tolto e correzione Dora Markus. Ma in genere
non correggerò la prima Dora Markus che con la data 1926, va a posto da
sé! Invece non mi dici se la seconda ci va, se è appunto giustificata o no.
Riguardo a Giorgio Zampa, cfr. LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 44, n. 124. Si ricordi
che nel poscritto della lettera a Montale del 16 dicembre 1929, Bobi dedica ancora un riferimento
a Dora: «In Moravia, ho rivisto Dora Markus. Porta stivaloni altissimi, adatti per camminare nella
neve» (BAZLEN, Scritti, cit., p. 387). Sull’argomento cfr. LUCIANO REBAY, Un cestello di Montale: le
gambe di Dora Markus e una lettera di Roberto Bazlen, in «Italica», LXI (Summer 1984), 2, pp.
160-169 (poi in La poesia di Eugenio Montale. Atti del Convegno Internazionale, Genova, 2528 novembre 1982, a cura di SERGIO CAMPAILLA-CESARE FEDERICO GOFFIS, Firenze, Le Monnier,
1984, pp. 107-117); cit. in FRANCESCA CASTELLANO, Montale «par lui-même». Interviste, confessioni,
autocommenti 1920-1981, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2016, p. 13, n. 18.
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Le ‘accensioni solari’: a me accensioni al plurale dà un senso praticamente
artificiale, poco naturalizio quasi di globo elettrico che si spegne e si accende e si inserisce bene tra i neri ‘pinnacoli’ e le ‘accensioni sui laghi’. Riduce
al minimum l’effetto naturalistico, lo stabilizza. Lei ti pareva assolutamente
contraria??? Toglierò del tutto un verso! Sulle distese tranquille […] e vedrò
di sostituire i ‘cornicioni’ con qualcosa di lacustre che anticipi il fremito dei
nostri cornicioni. Ti manderò presto una versione corretta.
Si vedano i progressi realizzati dalle «accensioni» nella lettera del giorno successivo, l’11 maggio:
Caro Bobi, / vedi un po’: mi pare che Dora (II) abbia fatto un passo avanti.
È sparita una ‘bellezza’ (le pensioni sui laghi) che però era incongrua perché
Dora stando sul lago difficilmente poteva vedere i laghi. Ma tutto è più fuso,
il lago non è nominato, ma si sente di più, inoltre le stesse accensioni sono più
generiche e vive, i motori sono motoscafi e forse si sente senza dirlo; inoltre ci
sono assonanze più delicate al posto di due rime da Lapalisse (verde / perse
e muta / cicuta) e i mirti-irti altrettanto vieti sono nascosti in un gioco di
allitterazioni. Le fedine non potevano restar timide come la carpa, il mondo
non è feroce ma la fede, cioè non è solo la fede del Gauleiter, ma ogni sorta di
coerenza e di logica destinata a froisser Dora, donna dell’istante. Su due punti
che vedrai a margine ti chiedo un esplicito parere.
E si veda l’esito di questi suggerimenti nelle due liriche di Dora Markus; nella prima, al posto de «le reti senza posa», ai vv. 3-4, vi è: «e rari uomini, quasi immoti, affondano / o salpano le reti»; nella seconda, ai vv. 3-8, vi è: «china sul bordo sorvegli
/ la carpa che timida abbocca / o segui sui tigli, tra gl’irti / pinnacoli le accensioni
/ del vespro e nell’acque un avvampo / di tende da scali e pensioni»; e, ai vv. 9-12:
«La sera che si protende / sull’umida conca non porta / col palpito dei motori / che
gemiti d’oche» (non sorprende che, nella lettera del 15 maggio a Contini, Montale
ribadisca: «Dimmi se con le date distinte − 1926-1939 − il dittico può andare nel
volume. Da sé, Dora II non uscirà, si capisce»).
Coerente con le prime scelte di Montale è invece l’esito di A Ljuba che parte;
in questa lirica, fra le due “quartine” non vi sarà spazio, anche a salvaguardia di
una rima:
La poesia a Ljuba è in realtà il finale di una poesia non scritta, in caso bisognerebbe far precedere qualcosa e non me la sento, cominciare con una riga
di puntolini? So che aborri da questi espedienti, io sarei contrario a mettere
spazio tra le due quartine anche per via della rima ‘gatto-riscatto’.
La rima «gatto-riscatto» è dislocata al primo e all’ultimo verso della poesia (vv.
1-8 − ma cfr. anche v. 7, «flutto», in rapporto di diretta rima-consonanza, «flutto»«riscatto», nel finale dei versi 7 e 8, e in rapporto di consonanza distanziata, ma
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solidamente associabile con il contiguo «riscatto», nei riguardi di «gatto» del primo verso −; la lirica è comunque costellata di “rimealmezzo” e di altre rime variamente collocate nella geografia strofica: «focolare»-«lare», vv. 2 e 4; «consiglia»«famiglia», vv. 3 e 4; «rechi»-«ciechi», vv. 5 e 7; «cappelliera»-«leggera», vv. 6 e
8; «sovrasta»-«basta», vv. 7 e 8)39. Si rilegga, a questo proposito, il breve passo
comparativo incentrato sulla Gerti e sulla Ljuba montaliane e sulla Gerti e sulla
Ljuba dello stesso Bobi, nel citato Daniele Del Giudice de Lo stadio di Wimbledon
(pp. 120-121); breve, appunto, come “momento” di riflessione che scaturisce dal
secondo e ultimo incontro londinese con la Blumenthal, un “momento” che davvero rischia di essere vissuto in quel solo e unico punto di tempo, senza la minima
garanzia di replica, di reale approfondimento o di volontaria riproducibilità:
«[…] Molte cose sono davvero cambiate, non ho nemmeno più i gatti di cui
parla Montale nella poesia…». / Mi ha dato un’occhiata di sfuggita, per capire se conosco A Ljuba che parte; ho fatto cenno di sì. Per un istante immagino
Gerti, e lei, Ljuba, di nuovo come puri nomi. Penso alla vitalità di quella
astrattezza, alla forza delle erre e delle u. A come Montale ha usato i nomi e
le donne per la poesia. Al modo esattamente opposto in cui lui [Bobi Bazlen,
appunto] ha usato la poesia: come un gioco affettuoso nel rapporto con queste donne, scrivendo anche lui una poesia a Gerti per il suo compleanno, e
a Ljuba perché non avesse paura dei ladri. Non so, è come se il silenzio non
permettesse la falsità, o almeno la probabilità, cioè la vita. Forse occorre qualcosa di più limitato, limitato dal nome. Ho pensato che il silenzio costringe a
lunghi viaggi per vedere. Ho pensato a tutto questo con l’idea che era l’ultima
volta che ci avrei pensato.
«come Montale ha usato i nomi e le donne per la poesia. Al modo esattamente opposto in cui lui ha usato la poesia: come un gioco affettuoso nel rapporto con queste
donne»; si tratta di due metodi animati da molle tra loro opposte, due metodi che qui
emergono alla mente dell’io narrante del romanzo, sebbene sia verità d’un istante. È
Montale il poeta che scrive, che astrae sui nomi e sulle figure umane, e che proprio
per questo le rende indimenticabili, trasformando in «vitalità» e in «forza» l’astratta
purezza dei «nomi», la concentrata vibrazione fono-semantica della lettera «erre» e
della lettera «u»: «Per un istante immagino Gerti, e lei, Ljuba, di nuovo come puri
nomi. Penso alla vitalità di quella astrattezza, alla forza delle erre e delle u. A come
Montale ha usato i nomi e le donne per la poesia». Ma, a rigore, appare errato ritenere che a sua volta Bobi non scrivesse, e che nella sua esistenza non abbia scritto nulla;
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Si rammenti il testo completo di A Ljuba che parte: « Non il grillo ma il gatto / del focolare
/ or ti consiglia, splendido / lare della dispersa tua famiglia. / La casa che tu rechi / con te ravvolta,
gabbia o cappelliera?, / sovrasta i ciechi tempi come il flutto / arca leggera − e basta al tuo riscatto».
Del citato Carnevale di Gerti, basti ricordare il richiamo rimante «intristisco» (v. 64)-«primavere
che non fioriscono» (v. 67).
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non sembra lontana dal vero l’ipotesi che egli, invece, filtri la letteratura «direttamente per ampliare il suo contatto con il mondo», con le persone-personaggi dei quali,
con varie e creative modalità, egli appunto condivide il destino40.
Si segua adesso la vicenda di alcune scelte di Nuove stanze, innanzi tutto dalla
lettera del 22 maggio 1939, che concerne alternative versificatorie e lessicali inerenti le varie strofe del componimento:
Caro Bobi, Bizzarri come pezzo di polenta non lo sento. Per me è parola metallica, concreta e insieme astrattissima molto adatta a bilanciarsi tra i due
ordini di anelli, materiale ed immateriale. Il suo torto, per me, è di ribadire
il senso fantasista della prima strofa, proprio alle righe della 2a, dove il tono
sale verso il tono classico. Con la 3a strofa il tono sale ancora; e alla 4a siamo
in una zona dove la parola classicismo non ha + ` senso. In questo progresso
sta il segreto delle Stanze. Ora: / «Pensavo un dì che forse» / per me non
è un verso; è un ponticello di passaggio. In 7 sillabe non potevo esprimere
quel concetto in parole diverse. Sostituire un endecasillabo sarebbe uno
sproposito. Questo ponticello, mi permette di evitare la zeppa che sicuramente cadrebbe nell’endecasillabo […]. In conclusione: tenterei di mutare
il bizzarri, ma lascerò molto probabilmente il pensavo ecc. che per me è una
di quelle parti grigie di cui ha parlato Valery, in poesia quasi più importanti
delle parti piene, attive.
Ma già nella lettera del giorno successivo, 23 maggio, Montale si rassegna a rinunciare al settenario e a sostituirlo con un endecasillabo (v. 17: «Il mio dubbio
d’un tempo era se forse»), soffermandosi brevemente anche sui «mobili» «anelli»
(rispettivamente, vv. 7 e 6) della prima strofa, e su «Oggi so ciò che vuoi» (v. 25),
che inizia la quarta e ultima strofa:
Bobi vedi come ti va, al settenario ho dovuto rinunziare, del resto dopo il quinario era impossibile che non desse un senso di cedimento di abbassamento
proprio nel punto in cui occorreva la risposta di “forse” e giuro che introducendo la parola agguato non ho pensato al quadrato [v. 19]; anzi dopo mi ha
dato un po’ fastidio [il poeta, infatti, la eliminerà]. Bada che quel settenario
era inevitabile. Gli “anelli mobili” sono un po’ erotici, ma in fondo non mi
dispiace che la mia minerva si svegli talvolta fleshy. Se vuoi invece di “oggi
so ciò che vuoi” dato che il dubbio era qui in agguato, metto “ora so ciò che
vuoi”; ma c’è un’ora poco sopra. E io vivo con l’orrore di queste ripetizioni.
Dimmi che preferisci.
Sui versi 17 e 25 Montale tornerà ulteriormente due giorni dopo, il 25 maggio; si
vedano, nella redazione definitiva, i versi che erano oggetto di elaborazione e di
Sulla capacità di “filtrare” direttamente la letteratura (vd. LA FERLA, Diritto al silenzio, cit.,
p. 104), cfr. anche la successiva n. 60.
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dubbio: «al soffitto lenta sale / la spirale del fumo / che gli alfieri e i cavalli degli
scacchi / guardano stupefatti; e nuovi anelli / la seguono, più mobili di quelli /
delle tue dita» (vv. 3-8); «Il mio dubbio d’un tempo era se forse / tu stessa ignori il
giuoco che si svolge / sul quadrato e ora è nembo alle tue porte» (vv. 17-19); «Oggi
so ciò che vuoi; batte il suo fioco / tocco la Martinella ed impaura / le sagome d’avorio in una luce / spettrale di nevaio» (vv. 25-28).
La presenza di Bazlen è incisiva anche nella fase iniziale del concreto percorso
editoriale delle Occasioni, durante la quale il poeta continua a sottoporre a Bobi le
sue possibili scelte semantico-lessicali, stilistiche e versificatorie; calzante l’esempio
addotto in Diritto al silenzio, inerente la sostituzione della prima parte di Palio, operatasi all’altezza della data del 13 giugno 1939, dopo che vi è stato l’invio della prima
redazione a Giulio Einaudi, insieme alle altre liriche, il 31 maggio; Bobi deve avere
già ricevuto la prima versione in copia uguale a quella spedita a Einaudi, come appare dal biglietto del 25 maggio (il riferimento a «eusebio» appartiene a una lunga consuetudine epistolare Roberto-Eugenio, a un antico suggerimento disatteso dal poeta,
invitato a scrivere una lirica su Eusebius, personaggio del Carnaval di Schumann):
Caro Bobi vedi un po’ questo Palio scritto in fuga: Simone Martini o meglio
Paolo Uccello + ` sotterraneo calderoniano +` eusebio etc. Qui sarà molto più
difficile correggere anche perché se difetto c’è è globale e non identificabile in
2 o 3 versi prosaici e abbastanza necessari. Però non credere che abbia introdotto il refrain per ripetere l’espediente dell’elegia di Pico, è stato un bisogno
irresistibile, ora non farò più cose simili.
Alla data del 25 maggio − e non al 10 aprile −, secondo la proposta della La Ferla,
si deve far risalire l’origine della definitiva redazione di Palio; ma l’ingresso a pieno
invito di Bazlen nel laboratorio delle Occasioni ha avuto inizio proprio dal momento in cui Montale ha comunicato a Einaudi il titolo della raccolta (1 febbraio 1939:
«Le occasioni (1928-1939)»); dapprima il poeta ha semplicemente proposto senza
titolo all’editore le liriche successive alla sua prima raccolta: «Pubblicherebbe, entro il ’39, la raccolta delle mie poesie posteriori ad Ossi di seppia? Saranno 40, non
lunghe» (13 gennaio 1939); la comunicazione del titolo si pone quasi immediatamente a ridosso della risposta affermativa di Einaudi (30 gennaio; la raccolta darà
inizio alla collana «Poeti»). Dopo l’invio del 31 maggio (la lettera avverte l’editore
dell’avvenuta spedizione), Montale, il 13 giugno, invia a Einaudi dieci foglietti,
con aggiunte − si veda Tempi di Bellosguardo − e con modifiche testuali ad alcune
liriche già pervenute a Torino: «Siamo così a 50 poesie − e veramente stop». E il
31 maggio, in concomitanza con la lettera di avvertimento all’editore dell’avvenuto invio “generale” delle poesie, vi è, riguardo all’opera creativa di Eugenio e ai
possibili interventi di Roberto, l’ultima missiva importante a Bazlen, sui Mottetti;
si tratta d’una missiva nella quale, insieme ai sinceri e consueti rilievi autocritici,
Montale esprime, con garbo e con molta sobrietà, anche una misurata coscienza
del valore delle sue poesie, come piccolo “canzoniere” d’amore:
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Caro Bobi, ti mando i ‘Mottetti’ compreso il 17° che sta a sé con titolo a parte.
Questi non li mando a Leif[helm] per non spaventarlo. Tienili te tanto più
che io spedisco tutto a Einaudi e resto senza copie delle poesie. Se nel frattempo mi venisse fatto ancora un Mottetto o due chiederei a te consigli circa
il punto d’inserzione. S’intende che a Leif, puoi farli vedere […]; ma tienili te,
a Leif mando Casa dei doganieri, Notizie, Palio, Nuove stanze, Elegia, tutto
in copia definitiva (almeno per lui eventuale traduttore). A te mando anche le
copie definitive? (e di Notizie e di Elegia, distruggi tutte le altre copie e non
parlarne a poeti di osterie romane). Dei Mottetti non darmi giudizi dei dettagli altrimenti brucio tutto. Sono sfinito. Credo che hanno due difetti: è psicologico il primo, dopo il terzo Mottetto che qui per errore ho messo per quarto
e viceversa cessa ogni pretesa di sviluppo quasi narrativo e tutto continua in
chiave unica a tema unico e formalmente ci sono troppi enjambement inusati
(col nel dei su, e rime in me te) che se ci fossero più poesie normali insieme
passerebbero meno osservati, e invece si vedono troppo. Ma non me la sento
di portare i Mottetti a 20/25 già fin troppo stavo per cadere nel cliché. Malgré
ca, mi pare siano il più decente insieme di lirichette d’amore comparse in
Ausonia da vari anni. E ora non + ` poesie e noiosi invii.
La trattazione del tempo delle Occasioni fra Montale e Bazlen si può arrestare
all’input critico preliminare41; ma proprio da qui può ripartire una rinnovata opportunità di affondo critico-esegetico sulle poesie delle Occasioni, e anche degli
Ossi di seppia, sulla loro elaborazione e sul loro interno percorso; più in generale,
da qui può ripartire un’opportunità di affondo sulla lirica del grande poeta genovese; e, come si vede, la ricerca della «verità interiore al di là della parola» (secondo
un’espressione di Italo Calvino in La Repubblica, 1 giugno 1983) non ha vietato
affatto in Bobi l’intervento critico-interpretativo, e altresì formale e poeticamente
creativo proprio in una produzione di versi (e di parole, appunto) di alta virtualità
evocativa e fonico-musicale, ritmica e strofico-strutturale: lirica, insomma, nella
più meditata e raffinata e non banale accezione novecentesca, di quel Novecento
poetico, non solo italiano, che Montale ha grandemente contribuito a fondare, e
al quale Roberto Bazlen, da defilato sciamano di letture prosastiche ma anche di
sapienza sillabico-musicale, ha trasmesso su richiesta un decisivo apporto, interno,
tecnico, penetrativo riguardo alle ragioni propriamente peculiari all’intimo del laboratorio e dell’officina poetica. Condizione preclusiva e irrinunciabile, l’anonimato per il grande pubblico42, il silenzio determinante del dietro-quinte, i contributi
da eminenza grigia di regia. Come per Italo Svevo. E come Bazlen sempre ha fatto.
Come avviene nel citato volume selleriano, p. 48.
Cfr. VALERIA RIBOLI, Roberto Bazlen editore nascosto, Prefazione di GIULIA DE SAVORGNANI,
Ivrea-Roma, Fondazione Adriano Olivetti («Intangibili», 22), 2013.
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3.5 «Non puoi essere contento che una persona inventi un plausibile linguaggio
nuovo, e poi, subito, arrabbiarti perché lo parla»
L’annuncio del titolo de Le occasioni (1 febbraio 1939) coincide, quasi alla
perfezione, con l’inizio della lunga esperienza romana di Bazlen (Bobi credeva
moltissimo alle coincidenze; il 26 luglio del 1965, il giorno prima della sua morte − all’Hotel Torino, a Milano −, scrive a Ljuba Blumenthal che il 26 stesso è il
sessantaduesimo anniversario della morte del proprio padre: «è strano», si limita a
dire Bazlen, con una sorta di profezia avveratasi dopo poche ore); lo sfratto da via
Margutta, notificato nel 1964, è operativo nel 1965, pochi mesi prima della morte
di Bazlen, che in quel lasso di tempo non troverà più una casa fissa43. Il periodo
trascorso a Roma costituisce, insomma, il tratto finale − ventisei anni − della vita di
Bobi. Ed è un tratto ricco di operatività intellettuale e editoriale. Le citate N. E. I.
(Nuove Edizioni Ivrea) indicano un fecondo progetto che vede Bazlen collaborare
(e discutere) con Adriano Olivetti: «quegli orizzonti che il provincialismo fascista
aveva fatto smarrire»44 devono, auspicabilmente, aprirsi in modo risoluto agli italiani. Le conoscenze, gli incontri, i dialoghi, la verifica e l’incremento dell’esistenza
di interessi comuni fra questi intellettuali vengono a formare un quadro fervido di
idee e di potenziali iniziative; Olivetti, che condivide l’interesse per l’ascolto analitico, inizia proprio nel periodo delle Nuove Edizioni Ivrea una terapia con Cesare
Musatti, salvo poi, secondo un tragitto che seguirà anche Bobi Bazlen, scegliere
la dimensione psicoanalitica junghiana con Ernst Bernhard; Luciano Foà può conoscere Olivetti e iniziare a lavorare nella sede di Milano; l’ufficio, con la minaccia dei bombardamenti, sarà in séguito trasferito a Ivrea, dove, nel 1942, nascono
ufficialmente le N. E. I.; la speranza in una vicina fine della guerra fa concepire il
disegno di offrire al pubblico italiano «una serie di opere idonee a favorire un rinnovamento culturale dopo il lungo periodo di distacco dalle correnti più vive del
pensiero mondiale»45. Non manca (stupirebbe il contrario) l’attenzione interessata
e sospettosa delle autorità fasciste: «La società è diretta dai più settari ebrei che
esistono in Italia», secondo una segnalazione che il P. N. F. trasmette direttamente
a Mussolini. Proprio di cosmopolitismo ebraico si tratta, di un’impostazione culturale e intellettuale che sin dal suo primo concepimento non soltanto si “orienta”,
43
Importante, per l’ispirazione di Bazlen, è la figura del goriziano Carlo Michelstaedter, di
cui è nota la vicenda della tesi di laurea, che era di imminente discussione a Firenze, e che sarà
invece preceduta dal suicidio del ventitreenne intellettuale (si veda CARLO MICHELSTAEDTER, La
persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di SERGIO CAMPAILLA, Milano, Adelphi, 1995;
ora Novi Ligure, Joker, 2015); BATTOCLETTI, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, cit. (p. 507), scrive
a proposito della tesi del filosofo goriziano: «Vi teorizza una vita senza punti di appoggio, il cui
risultato ultimo è quello di farsi fiamma e poi spegnersi, come fece con se stesso». In modo simile,
«Tutta la vita di Bobi fu consapevolmente un continuo naufragio senza punti di appoggio saldi».
44
Cfr. VALERIO OCHETTO, Adriano Olivetti, Milano, Mondadori, 1985, pp. 106 ss.
45
CESARE MUSATTI et al., Psicologi in fabbrica, Torino, Einaudi, 1980, p. 3-4.
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ma si pone direttamente come pensiero e come impostazione internazionale, e che
come tale nasce. Nemica intima, originaria e naturale di tutte le declinazioni del fascismo, declinazioni storiche e geografiche; e come tale − nemica intima e naturale
− è percepita da tutte le tipologie di fascismo e di razzismo, antiche e recenti, e da
tutte le forme delle nuove, accreditate e apologizzate teocrazie. E in questo gruppo
di lavoro figurano Erika Rosenthal, Luciano Foà (segretario-coordinatore), Giorgio Fuà, Ada Della Torre e, quali collaboratori a vario titolo, citandone alcuni, Leone Traverso, Cesare Musatti (la direzione del Centro di Psicologia gli è offerta nel
1942 da Adriano Olivetti), Mirko Doriguzzi, studioso di Rilke, Angela Zucconi,
studiosa di Roma che si documenta da borsista universitaria in Danimarca in vista
del progetto di traduzione di «tutto Kierkegaard». E naturalmente il consulente
del settore letterario-umanistico, Bazlen appunto, che ispira in amplissima misura
il programma dell’editrice, lavorando alternatamente a Ivrea, ospite di Olivetti, e
a Roma. «Enorme» è il termine che ricorre nelle pronunce d’epoca e nei ricordi di
chi ha vissuto il periodo di fondazione e d’impianto propositivo di questa struttura
culturale e editoriale; «enorme» è il lavoro perché «enorme» è lo spessore del progetto: «Lavoravamo tranquillamente alla preparazione di un programma enorme
che andava da molti grandi scrittori […] a Freud, a Jung, a Heidegger, alla patristica, all’economia, alle scienze politiche, ecc.»; Bazlen, in specie, è autore di «un’attività enorme», «una scheda su ogni cosa: idee-letture-contatti con persone», circa
duemila schede in due anni, secondo le parole di Luciano Foà. Vengono effettuate
le traduzioni da Piaget (a opera di Carla Musatti), dei Tipi psicologici di Jung (a
opera di Cesare Musatti, dopo che Giuseppe Levi − padre di Natalia Ginzburg,
rappresentato in Lessico famigliare, e di Paola Levi, moglie dello stesso Adriano
Olivetti e prima fidanzata di Giacomo Debenedetti − aveva orientato la traduzione
in modo non del tutto ortodosso e accettabile per lo junghismo, partendo, com’egli
partiva, da premesse positivistiche). L’acquisto dei diritti di pubblicazione di molte
opere straniere favorisce una serie di scambi geografico-culturali, di esperienze
letterarie non scontate, di escursioni internazionali e interlinguistiche di alto, originale livello; si tratta di un movimento di intellettuali e di editori autenticamente
cosmopolitico:
Nel maggio del ’43, d’accordo con Bobi, io decido di fare un viaggio in Svizzera per trovare dei libri, parlare con editori, parlare con Jung, e con altri
autori che volevamo fare; tra l’altro visitare un piccolo editore protestante di
Lucerna, per avere i diritti di un libretto molto bello, una scelta di lettere di
grandi scrittori tedeschi, un tale Detlef Holz, che dopo la guerra sapemmo essere niente meno che Walter Benjamin [da una testimonianza di Luciano Foà].
L’arresto il 29 luglio 1943 di Adriano Olivetti provoca, oltre all’interruzione di
questo fervido momento elaborativo, la dispersione o addirittura la distruzione di
questo ingente materiale; e insieme, inevitabilmente, un esodo affrettato degli intellettuali che si erano coordinati e organizzati per questa impresa. Le Edizioni Comu227
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nità riusciranno a pubblicare nel 1948 lo Jung di Psicologia e religione. Ma furono
tanti i diritti di pubblicazione e tante le traduzioni già effettuate che fu necessario
cedere ad altri editori. Alcuni dei più qualificanti titoli editoriali andranno a formare
le collane di Ubaldini-Astrolabio e, in séguito (ovvero, circa un ventennio più tardi),
le collane di Adelphi, sede naturale, come di altri, dell’ultimo Bazlen.
Riuscendo a scampare ad alcune retate fasciste, Bazlen prosegue il lungo segmento romano della propria vita e conosce Ernst Bernhard; un incontro determinante, avvenuto nel 1940 e intensificato nelle sue scansioni quotidiane dal 1944 al
1947, un triennio di serrata frequentazione terapeutica da parte di Bobi, che trova
nell’analista junghiano un ascolto e un dialogo intessuti di quella personale filosofia e di quell’originalità di pensiero che arricchisce la stessa figura dell’analista,
da parte sua tutt’altro che limitato alla pura ortodossia rispetto alla personalità di
riferimento, appunto il maître Carl Gustav Jung. La pluralità di sentieri culturali,
di protocolli di lettura, di concezioni psico-antropologiche, di intersezioni filosofiche, l’innumerevole serie di intrecci con le filosofie orientali, lo studio dell’astrologia e della chirologia (il chirologo Spier ispira a Bernhard la convinzione della
necessità di riconoscere la separazione tra destino collettivo e destino individuale), «la capacità di mettere in relazione i fenomeni più disparati, sia che giungano
dall’inconscio, sia che provengano dal mondo reale»46 si coniugano in modo felice alla personalità bazleniana, alla sua profonda attitudine al collegamento delle
sollecitazioni culturali, filosofiche, intellettuali, alla «consacrazione a linguaggio
unitario» di quella ricchezza di interessi che davvero trova nella combinazione
analitico-junghiana con Ernst Bernhard, nel «vivissimo senso delle coincidenze»,
una sintesi realmente feconda, come del resto è dimostrato, sia pure sul solo, visibile versante pubblicistico ed esteriormente ufficiale, dalle traduzioni junghiane
che dalla sinergia Bernhard-Bazlen ampiamente scaturiscono e che si accampano come termine di riferimento imprescindibile per la conoscenza dei testi degli
studi di psicoanalisi in Italia e in lingua italiana. E si tratta perciò d’una sinergia
accreditabile, e sicuramente benemerita, di un valore fondante per l’intera cultura
psicoanalitica, letteraria e critico-letteraria nel nostro paese. Appare opportuno,
qui, riprendere in interpretazione concettuale, tramite il citato saggio selleriano, le
parole di Hélène Erba Tissot nella sua Introduzione all’adelphiano Mitobiografia
di Bernhard (1969)47:
Cfr. VITTORIO LEONZIO, Mitobiografia di un guaritore, in «Pagina aperta», marzo 1970.
Vd. LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., pp. 53-54. Cfr. ERNST BERNHARD, Mitobiografia,
traduzione di GABRIELLA BEMPORAD, Milano, Adelphi («Biblioteca Adelphi», 25), 1969, poi ivi,
Bompiani, 1977; e cfr. appunto HÉLÈNE ERBA TISSOT, e la sua Introduzione all’opera bernhardiana,
pp. XIX-XLIV. Cfr. inoltre, a proposito dell’esperienza dello psichiatra, astrologo e chirologo
tedesco, ERNST BERNHARD, Lettere a Dora dal campo di concentramento di Ferramonti (1940-1941).
Con le lettere di Dora da Roma, a cura di LUCIANA MARINANGELI, Torino, Aragno, 2001.
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L’intellettuale tedesco aveva fondato la sua terapia sul concetto del proprio
destino, di cui bisogna tenersi responsabili come dei propri sogni, non scindendo vita interiore ed eventi esterni, ma predisponendosi alla ricerca dell’entelechia: «ciò che porta in sé il fine», la quale svolgendosi nel tempo deve però
considerarsi al di fuori dello stesso, «come l’essere immanente al divenire».
L’ideale di guarigione dalla «nevrosi collettiva», vista come «infezione», avviene, secondo Bernhard, per mezzo di una speciale forma di «immunizzazione», ovvero «una delimitazione a modo di mandala» che, permettendo
di «risanare completamente in solitudine», consente, infine, «un rinnovato
rapporto con il mondo nevrotico». Fondamentale in questo processo è «la
tendenza all’individuazione» in cui egli vede «il punto d’incontro di tutte le
correnti della psicologia del profondo»: / «Quanto più l’uomo diverrà unico
nella sua individualità, tanto più troverà nella società il posto che è suo, quello
che nessun altro potrà occupare così perfettamente». / E proprio in questo
abbandono, quasi religioso, al proprio destino, rendendosi virtualmente indipendenti dal «collettivo e dalla socialità», è celata una delle chiavi di lettura
più autentiche di tutta l’esistenza di Bazlen.
E tipologia di mandala hanno i cerchi che in quegli anni figurano negli acquerelli
e nelle chine di Bazlen, ad accogliere, talvolta in combinazione tra loro, i personaggi del romanzo Il capitano di lungo corso, allora agli albori del proprio percorso
compositivo: nuovo esempio, questo, di “linguaggio unitario”, di sollecitazione
sinergica di tracciati intercodicali fra espressività (e analisi) verbale-letteraria e suo
integrato completamento disegnativo, iconico-figurativo48.
Roma è, come intuibile, sede di incontri e di ulteriori contatti e colloqui: Alberto Savinio e Sandro Penna, la Morante, Palazzeschi, Amelia Rosselli, Falqui,
48
Lo studio romano di Ernst Bernhard è oggetto di frequentazione, oltre che da parte di
Bazlen, da parte di artisti e di intellettuali quali Bianca Garufi, Tommaso Carini, Natalia Ginzburg,
Silvana Radogna, Cristina Campo (su quest’ultima, in particolare, vd. CRISTINA DE STEFANO,
Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002); il film Otto e mezzo
di Fellini (1963), come ovviamente il personaggio interpretato da Mastroianni, risente a sua volta
dell’influenza culturale del cenacolo terapeutico e amicale bernhardiano. Nella collana «Psiche e
coscienza» di Ubaldini, diretta com’è noto da Bernhard con la fattiva e preziosa collaborazione di
Bazlen, uscirà, lo si rammenti, I King, mezzo «statistico» di «conoscenza e predestinazione, che lo
accompagnerà [Bazlen] per tutta la vita», e che «trova una complice applicazione nel quotidiano
durante gli incontri con Bernhard» (LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 54). I Ching. Il libro dei
mutamenti, più volte ripubblicato, uscirà infine, con grafia rettificata nel titolo, presso Adelphi, nel
1991. Per ciò che peculiarmente attiene alle espressioni iconico-figurative di Bazlen, ai mandala,
ai cerchi, agli acquerelli, alle chine e all’intercodicalità fra l’enunciazione linguistico-verbale e
l’enunciazione disegnativa, cfr. ADRIANA RICCA, I disegni di Roberto Bazlen. Materiale clinico e
strumento critico, in «Letteratura e arte», Pisa, ETS, 11, 2013, pp. 53-62, e i riferimenti che, in
questo capitolo del nostro volume, si effettuano al suo studio nelle successive nn. 70, 73, 82 e 85.
Sui Ching di Bernhard cfr., ora, LUCIANA MARINANGELI, I Ching di Ernst Bernhard. Una lettura
psicologica dell’antico libro divinatorio cinese, Roma, La Lepre, 2015. Si veda anche ERICA OLIVETTI,
Gli Olivetti e l’Astrologia, Prefazione di GIORGIO GALLI, Roma, Edizioni Mediterranee, 2004.
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Libero De Libero, Pasolini, Fabrizio Onofri, Tommaso Landolfi (le capacità poetico-liriche di Penna e Menzogna e sortilegio della Morante, in particolare, otterranno espliciti elogi da parte di Bazlen); né mancano riprese di antiche amicizie e
conoscenze, come quelle con Solmi e con Quarantotti Gambini, con Giacomo Debenedetti e con Umberto Saba; e nel frattempo Adriano Olivetti lo fa collaborare
(ma Bobi sceglie l’anonimato) alla rivista «Comunità». Nell’àmbito delle amicizie
e degli interessi di Bazlen, anche i più coltivati, non viene mai meno la valenza
critica; si veda un giudizio sulla poesia di Saba49:
Una bella affermazione d’arte, ma inutile in quanto attestata su posizioni ormai arretrate rispetto al resto del mondo, andato oltre; tutto ciò che non dice
qualcosa in più, anche se si può accettare come espressione di bellezza, è inutile all’uomo; la vita è divenire, l’opera che resta indietro non serve alla storia
della civiltà; Saba è stato l’ultimo poeta matto e cieco, sordo a tutto ciò che
non lo riguardava nel suo ambito stretto come un camice. Saba non poteva
essere letterato perché non era colto, non poteva essere umanitario, perché
egocentrico. Nella sua poesia (autentica) di vivo c’è soltanto lui stesso, con le
sue esperienze mediocri, da provinciale.
Si veda, altresì, un giudizio su un Freud attentamente studiato, e tradotto nel 1947
(Lezioni introduttive alla Psicoanalisi; il giudizio è dello stesso anno)50:
Genialità implica unilateralità, implica monomania. Scoprire un mondo nuovo crea l’obbligo di non vedere gli altri […]. A Noi, maturati in un mondo
nel quale la scoperta di Freud è una delle tante premesse, che abbiamo subito
realtà molto diverse da quell’unica realtà dell’unico ambiente di Freud, la
meccanicità delle sue applicazioni dà fastidio, le sue deduzioni sono diventate
piatte e meschine. Quanto Freud ci ha dato realmente è già ovvio, quotidiano, corrente, banale. E dimentichiamo che la prova della grandezza di certe
scoperte sta proprio nel fatto che diventano subito ‘naturali’ […]. / Questo
scienziato del diciannovesimo secolo, che di tutti i miti che hanno mosso la
storia del mondo ha veduto e sezionato soltanto il mito patriarcale, è l’ultimo
grande patriarca.
Bisogna essere geni per conquistare, nelle citazioni, la qualifica di «banale». Si
veda, in questo senso, anche un giudizio coevo su Leo Longanesi (Leo Longanesi,
parliamo dell’elefante; l’articolo così intitolato, come quello su Freud, doveva uscire su «Omnibus»; il passaggio della direzione delle scelte recensorie a Carlo Bo,
a Milano − come scrive Bazlen a Foà −, vanifica la possibilità di pubblicazione)51:
49
Il gudizio è ripreso dallo STELIO MATTIONI della Storia di Umberto Saba, Milano, Camunia,
1989, e riprodotto in LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., pp. 55-56.
50
Freud, in Note senza testo (BAZLEN, Scritti, cit., pp. 259-261).
51
Cfr., ora (ivi, pp. 256-258), l’integrale pubblicazione dell’articolo.
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Longanesi è un personaggio di indubbio talento. Lo sfrutta molto bene, lo
spende molto male […]. In terra di ciechi, chi ha un occhio è padrone. E
Longanesi ha un occhio (di vetro). Un occhio (di vetro) che guarda, registra,
smaschera il ridicolo di una provincia che, non ancora matura per il regno,
voleva addirittura l’impero […]. Ma l’occhio di vetro è miope, al di là dei
confini della provincia non vede, e i limiti della provincia sono, almeno in
gran parte, i limiti di Longanesi.
Lo stile e la scrittura di Bazlen sfruttano spesso l’apparenza d’una cifra paradossale che sembra condurre al largo le possibilità di lavoro sul concetto, per
riguadagnare con logica folgorante il focus tematico-argomentativo e richiudere il
discorso sulla concessione parodica iniziale, arricchitasi, nell’escursione centrale
del ragionamento, di nuove proposte di riflessione; su tutto domina una ratio di
straniante e insieme ficcantissimo distacco ironico: «La realtà stava nel fatto che
l’incontro di Bobi con i libri costituiva un fatto supremamente naturale come l’incontro con le persone nella vita»52. Una «sterminata ragnatela […] tra i più diversi
campi della cultura mondiale», dirà ancora Solmi; e tale capienza − e quindi tale
spirito di sintesi scrittoria − è confermata dagli interessi per l’arte delle popolazioni
di colore, per l’arte pre-colombiana e indiana, e dal determinante interesse per il
pensiero orientale, anche in rapporto al legame intellettuale con Bernhard e al suo
programma di fornire contributi per un processo di integrazione della coscienza umana, da condursi, soprattutto, tramite testi indo-tibetani e cinesi, oltre che
greco-romani53.
La fine della guerra permette l’intensificarsi dei rapporti con le case editrici.
Per Ubaldini-Astrolabio Bazlen traduce nel 1947, lo ricordiamo, il Freud dell’Introduzione allo studio della psicoanalisi e de L’interpretazione dei sogni, e lo Jung
di Psicologia ed educazione e di Psicologia e alchimia (1947 e 1949); altri titoli che
saranno pubblicati nella collana «Psiche e coscienza» derivano dal catalogo delle
N. E. I., come altri ancora, ai quali progettualmente Bazlen lavora per Guanda
(dissuaso in questo da Montale), confluiranno per mezzo di Giacomino Debenedetti nelle collane del Saggiatore (Guanda, passato a nuova proprietà, ripubblica
nel 1987 − Parma − la traduzione garzantiana che Bobi aveva effettuato nel 1951
dell’Eckart von Sydow di Poesia dei popoli primitivi: lirica religiosa e profana). Per
Sono parole di Sergio Solmi (LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 59).
Si noti quanto aveva scritto Ernst Bernhard nell’introduzione a un testo (il De Caussade
di Abbandono alla Provvidenza Divina) della collana «Psiche e coscienza» dell’editore UbaldiniAstrolabio: «Non è stato facile trovare per questa collana che deve servire al processo di integrazione
della coscienza umana un’opera che accanto ai contributi indo-tibetani, cinesi, greco-romani, ecc.,
costituisca un valido documento per un processo di integrazione specificamente cristiano». JEANPIERRE DE CAUSSADE, Abbandono alla Provvidenza Divina, dopo la pubblicazione da UbaldiniAstrolabio, con traduzione di MARIELLA LORIGA GAMBINO (Roma, 1951), è stato riproposto dalle
Edizioni Paoline (1986) e nel 1986, nel 1989, nel 1990 da Adelphi.
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la redazione italiana di «Prospettive U.S.A», e quindi come tramite con la cultura
letteraria americana attinta dalla lingua originale e da una rivista propriamente
statunitense, Bazlen traduce i seguenti testi: La distruzione di Tenochtitlán e Commedia morta e sepolta, racconti di William Carlos Williams54, e il saggio di Oscar
54
«Prospettive U.S.A.» , I (autunno 1952), 1, pp. 30-41 e 52-61. Uno dei primi traduttori
italiani di William Carlos Williams è stato Vittorio Sereni (WILLIAM CARLOS WILLIAMS, Poesie,
Milano, Edizioni del Triangolo, 1957). Un intenso legame epistolare e letterario si stabilisce, in
séguito, fra Williams e la traduttrice italiana Cristina Campo (si vedano le traduzioni: Il fiore è il
nostro segno, Milano, Scheiwiller-All’insegna del pesce d’oro, 1958, con l’Introduzione, Poesie di
William Carlos Williams, pp. 7-8 [poi ripresa come copione radiofonico per la rubrica
«L’Approdo», con lo stesso titolo, rielaborata e rivista, 27 ottobre 1958, Programma Nazionale,
ore 19,30]; si veda, ancora, il carteggio presente in un’edizione di Il fiore è il nostro segno, a cura di
MARGHERITA PIERACCI HARWELL, Milano, Libri Scheiwiller, 2001). Di WILLIAM CARLOS WILLIAMS
(Rutherford, New Jersey, 1883 − ivi, 1963), medico di colore che non abbandonò mai la sua attività
nonostante coltivasse appassionatamente la letteratura, si rammenti che ancor più nota è rimasta
l’attività poetica, sempre fondata sulla ricerca di soluzioni alternative rispetto alla metrica
tradizionale, e incentrata, in grande prevalenza, sull’interesse sociale, riprodotto con una precisione
asciutta, antiretorica, non senza un tributo di poetica all’Imagist Movement; si rileggano, a titolo
d’esempio, le cinque quartine di The Poor: «It’s the anarchy of poverty / delights me, the old /
yellow wooden house indented / among the new brick tenements // or a cast-iron balcony / with
panels showing oak branches / in full leaf. It fits / the dress of the children // reflecting every stage
and / custom of necessity − / chimneys, roofs, fences of / wood and metal in an unfenced // age
and enclosing next to / nothing at all: the old man / in a sweater and soft black / hat who sweeps
the sidewalk − // his own ten feet of it − / in a wind that fitfully / turning his corner has /
overwhelmed the entire city» (ora in ID., Poesie, Torino, Einaudi, 1961 e 1967, e, con lo stesso
titolo, con Introduzione di CLAUDIO GORLIER e con traduzione di BARBARA LANATI, Roma, Newton
Compton, 1979). Sull’edizione delle Poesie per Einaudi del 1961, cfr. la recensione di EUGENIO
MONTALE, Williams − Auden, in Letture, in Corriere della Sera, 17 novembre 1961 (ora raccolto in
ID., Sulla poesia, cit., pp. 508-510) dove il poeta sottolinea, fra l’altro, una sorveglianza compositiva
«così assidua che il suo modo di comporre con parole usuali, disposte in filastrocche o incastrate
in tasselli, elimina ogni tematismo e dà il maggior rilievo ai petits riens della nostra vita quotidiana».
A proposito di Vittorio Sereni traduttore di William Carlos Williams, cfr. DAVIDE CASTIGLIONE,
Sereni e il processo traduttivo: analisi sincronica e diacronica di una versione da William Carlos
Williams, in «Strumenti critici», n. s., XXVIII (maggio-agosto 2013), 132, f. 2, pp. 267-288; cfr.
anche SARA PESATORI, Vittorio Sereni traduttore di William Carlos Williams: un’edizione critica delle
versioni edite ed inedite. Tesi di Dottorato, University of Reading, settembre 2012 (per un
precedente contributo: LINA UNALI, Mente e misura. La poesia di William Carlos Williams, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1970); imprescindibile PIER VINCENZO MENGALDO, Sereni traduttore
di poesia, in ID., Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1981, poi ivi,
2001, pp. V-XXVII; e si rammenti pure MATTIA COPPO, Sereni traduttore di Williams, in «Studi
novecenteschi», febbraio 2009, pp. 251-276. La poesia di cui si tratta è New Mexico. La già
ricordata Cristina Campo ammette le difficoltà e i dubbi che costellano il testo originale inglese (ad
esempio, «a mountain in / the disturbed mind» − vv. 3-4, «the triple / world» − vv. 8-9, «the
confessed brilliance / of this desert noon» − vv. 11-12) proprio in una lettera a Vittorio Sereni (26
gennaio 1961; cfr. CASTIGLIONE, Sereni e il processo traduttivo, cit., p. 270): «non me ne importa
niente dei miei dubbi sul testo (che del resto è quasi indecifrabile, non l’ha capito neppure un
inglese a cui l’ho mostrato)»; ancora (cfr. CASTIGLIONE, Sereni e il processo traduttivo, cit., p. 280),
si veda la piena approvazione che Cristina Campo esprime alla versione di Sereni, sia nella lettera
232
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Handlin, Democrazia e potere: l’immigrato nella vita politica americana55; nel II nu-
del 24 gennaio 1961 («trattengo New Mexico, traduzione stupenda, perché il testo inglese mi lascia
un dubbio»), sia nella citata lettera del 26 gennaio («a New Mexico non va mutata una virgola
perché è una poesia perfetta»). E per «poesia perfetta» la Campo intende proprio la traduzione di
Sereni. Possiamo qui fornire il testo di New Mexico, nell’originale inglese williamsiano e nella
traduzione italiana (Nuovo Messico) di Sereni (cfr. CASTIGLIONE, Sereni e il processo traduttivo, cit.,
p. 268); i due testi possono essere fruiti uno di séguito all’altro: NEW MEXICO − «Anger can be
transformed / to a Kitten − as love / may become a mountain in / the disturbed mind, the / mind
that prances like / a horse or nibbles, starts / and stares in the parched / sage of the triple / world
− of stone, stone / layered and beaten under / the confessed brilliance / of this desert noon» //
NUOVO MESSICO − «In un soffice gatto / può mutarsi la furia / − come l’amore può / diventare
montagna / nella mente stravolta, la mente / che s’impenna che bruca qua e là / che trasale e
s’incanta nell’arsa / salvia del triplice mondo − / di sasso, di sasso / striato e sbozzato nella cruda /
lucentezza di questo / mezzogiorno deserto». Su Sereni si vedano, recentemente, Lettere di Vittorio
Sereni a Enrico Falqui 1945-1947, a cura di GABRIELLA PALLI BARONI, in «Strumenti critici», n. s.,
XXX (settembre-dicembre 2015), 139, f. 3, pp. 449-477, e SILVIO RAMAT, Prime (incerte) pietre
dell’edificio de Gli strumenti umani, ivi, pp. 479-492. Ulteriori e più recenti attestazioni del
rapporto privilegiato di Cristina Campo traduttrice con Williams si hanno in CRISTINA CAMPO,
Sotto falso nome, nuova edizione ampliata, a cura di MONICA FARNETTI, Milano, Adelphi («Biblioteca
Adelphi», 352), 2017, volume fornito anche di un’utile bibliografia finale (I ed., ibid.), nel quale
compaiono, insieme ad altri contributi, la Nota di traduzione a WILLIAM CARLOS WILLIAMS, La
caduta di Tenochtitlán, pp. 198-199 (prima in «Questo e altro», 1963, 1, pp. 84-85; La caduta di
Tenochtitlán si trova originariamente nel volume di prose In the American Grain), e altresì la Nota
di traduzione a ID., Asfodelo, il verdognolo fiore, pp. 200-201 (prima in «Questo e altro», 1963, 3,
pp. 98-99). E si vedano altre traduzioni presenti nel volume, come quelle di Nebbia sul fiume
(prima in Il Corriere dell’Adda, 14 dicembre 1957, p. 3), di Una specie di canto (prima in «Stagione»,
IV [14 giugno 1959], p. 3; poi in Il Corriere dell’Adda, 27 giugno 1959, p. 3), di Canzone di
primavera (prima in Il Corriere dell’Adda, 27 giugno 1959, p. 3). Dalla Nota a La caduta di
Tenochtitlán si rilevi la preziosa capacità della Campo di concentrare in poche battute il
prolegomeno linguistico e il prolegomeno simbolico al testo williamsiano (CAMPO, Sotto falso
nome, cit., p. 199): «Impastando, come negli idoli aztechi di erbe e mais, il duro stile delle vecchie
cronache dentro un inglese ora biblico ora parlato, dalla sintassi arcaica, di un’estrema purezza e
tuttavia dolcemente stravolta, Williams dispiega una bravura linguistica quasi beffarda; qualcosa di
non lontano dal divino sarcasmo, fatto di soldatesco e di sublime, di un T. E. Lawrence […]. […]
l’infallibile istinto nel sottolineare o nell’omettere, l’indifferenza ai fatti e l’estrema attenzione alle
pause tra i fatti che corrono da un capo all’altro di questa memoria, non sono senza rapporto con
le origini caribiche di Williams, col mondo precolombiano di sua madre. A quel mondo − oltre la
leggerezza e velocità di un verso che sembra correre a piedi nudi su un teso ritmo di danza − lo lega
più di una coincidenza simbolica. Il fiore per esempio, protagonista della saga di Williams come di
tutta la poesia azteca; il fiore sole amore bellezza canto città gioia morte eroe cuore vivente sacrificio
dio benigno e minaccioso». E ancora (ivi, pp. 200-201), si veda la straordinaria definizione della
metrica di Williams in Asfodelo, il verdognolo fiore: «Tecnicamente, un modello tra i più esatti
della forma iniziata da Williams in Paterson II: la stanza triadica sulla measured line (o variable foot
o verso suelto), vale a dire un gioco serrato di terzine sciolte variamente misurate all’interno e l’una
sull’altra, secondo l’alternanza di melodiosi versi classici e di secco parlato che è intrinseca alla
visione di Williams prima che alla sua dizione; perciò irripetibile».
55
«Prospettive U.S.A.», I (autunno 1952), 1, pp. 81-83. Oscar Handlin (New York, 29
settembre 1915-Cambridge nel Massachusetts, 20 settembre 2011), figlio di ebrei russi immigrati,
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mero, Il cinema non è più cinema, di Manny Farber56; quindi, due articoli, Case
americane. Architettura moderna, di Hugh Harrison, e Antonio si pronuncia sul
dramma, di Kenneth Burke57; ancora, il saggio di William Troy, Virginia Woolf e il
romanzo della sensibilità. Tre commenti 1932, 1937, 1952. Sviluppi di una posizione
critica nel corso di vent’anni58. Lo spirito e l’interesse peculiarmente culturale di
Bazlen sono confermati dalla scarsissima paga percepita da parte di Ubaldini, al
quale anzi egli è generoso di denaro nel momento di difficoltà editoriale, e dal quale invece si allontana, nel 1955, dopo che l’editore ha recuperato economicamente
quotazioni con proposte librarie più divulgative e di inferiore qualità scientifica.
Erano invece le proposte librarie d’innovativa e superiore qualità quelle che interessavano Bazlen. Vicino nel momento del bisogno, Bobi si defila nel momento
del “non bisogno”, o della prosperità. Bazlen sembra quasi fuggire dal denaro,
che pesa nelle tasche e impaccia il cammino. Al decennio 1951-1961 appartiene
invece la collaborazione con Einaudi. Ma non è mancata l’attività di consulente per
Boringhieri e per Bompiani59:
Bobi Bazlen: disposto a una più vasta, anche totale collaborazione: letture
segnalazioni, dirigere una collana. È straordinario, ha la memoria a bottoni.
si è sempre occupato, da storico, appunto degli immigrati negli Stati Uniti, della loro cultura e del
loro contributo alla vita americana. Nel 1952, per l’opera The Uprooted, riceve il Premio Pulitzer
per la storia. Sull’immagine culturale degli Stati Uniti negli scrittori italiani cfr., ora, AMBRA MEDA,
Al di là del mito. Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, Firenze, Vallecchi, 2011.
56
«Prospettive U.S.A.», II (inverno 1953), 2, pp. 175-194. Emanuel “Manny” Farber (Douglas,
Arizona, 20 febbraio 1917-Leucadia, California, 18 agosto 2008), personalità dagli svariati interessi,
è famoso principalmente come critico cinematografico e come scrittore, caratterizzato, in ambedue
le attività, da un originalissimo, peculiare stile di prosa. Non meraviglia davvero che abbia attirato
l’attenzione di Bazlen.
57
Ambedue «Prospettive U.S.A.», III (autunno 1954), 5, rispettivamente pp. 14-36 e 76-90.
Hugh Harrison è un titolato specialista di studi e di interessi architettonici. Di Kenneth Burke, in
particolare (Pittsburgh, 5 maggio 1897-Andover, 19 novembre 1993), filosofo e critico letterario,
con elettivi interessi di retorica, di estetica, di semantica, si ricorda la formazione, che risente
l’influenza del pensiero marxista, del pensiero psicoanalitico, di Nietzsche e dell’antropologia.
Sempre in rapporti con alcuni dei più rappresentativi intellettuali statunitensi a lui contemporanei
(tra i quali il citato William Carlos Williams), esercita a propria volta un influsso su intellettuali
come, ad esempio, Harold Bloom e René Girard. Fra le sue opere, si ricordino Counter-Statement
(1931), Permanence and Change. An Anatomy of Purpose (1935), Attitudes Toward History (I-II,
1937), The Philosophy of Literary Form. Studies in Symbolic Action (1939-1941), A Grammar of
Motives (1945) e Rethoric of Motives (1950).
58
«Prospettive U.S.A.», III (inverno 1954), 6, pp. 70–94. William Troy, scrittore (Chicago,
11 luglio 1903-26 maggio 1961), si forma alla Columbia e alla Yale University; si apre, nel proprio
percorso di intellettuale, alla considerazione di tematiche quali la veggenza, l’astrologia, la
divinazione. Scrive saggi quali Selected essays, A different tune, Divinations, Summations; durante
la carriera riceve, per la sua saggistica, un premio importante quale il National Book Award per
l’arte e la letteratura.
59
Cfr. BOMPIANI, Via privata, cit., pp. 238-239, riportato in LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 62.
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Si direbbe che ha letto tutto. Senza fermarsi. Gli dico di sì, subito, ma non si
fermerà neppure con me; comincia col fiutare un compenso fisso; vuole un
tanto a libro, poi si vedrà. Cos’è che lo muove, cos’è che lo chiama? è tutto
cultura e si direbbe che non contenga altro dentro di sé. Ma qualche segno
avverte che non è vero: forse legge per non pensarci.
I corrispondenti editoriali sono Luciano Foà, cui gran parte delle lettere sono
indirizzate (per Einaudi, 1951-1962, e per Adelphi, 1962-1964), e Daniele Ponchiroli (1961-1962); quattro le missive private a Sergio Solmi. Ma ugualmente degna
di rilievo critico è una ricognizione, presente in Diritto al silenzio, sull’immagine di
Bobi (un’immagine che spesso è soggettivamente recepita, e artisticamente rivissuta
e rielaborata) in opere d’intellettuali e scrittori quali Antonio Debenedetti60, Fabrizio Onofri, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, e il già ricordato Daniele Del Giudice61.
3.6 Il naufragio azzurro nelle onde di Poseidone e del Tao: «Ignaro tra meduse
e coralli»
Di notevolissimo interesse è anche il romanzo Il capitano di lungo corso, opera
programmaticamente incompiuta (deve essere contrassegno dell’opera di Bobi la
mancanza di un’opera; si tratta anzi, da parte di Bazlen, di “non fare un’opera”,
come giustamente ricorda Elvio Guagnini)62 e rigorosamente “sua”, con un’orditu-
Si ricordi, in particolare, l’ANTONIO DEBENEDETTI di La fine di un addio, Novara, Editoriale
Nuova, 1984, p. 56; in riferimento ai «nuovi dandy» di cui Bazlen sarebbe esempio, l’autore li
definisce: «eccentrici nutriti di strepitose letture cosmopolite […] poliglotti legati alla loro
dialettalità d’origine, parlano e si manifestano soprattutto alle nostre crisi, ai nostri vizi, alle nostre
cadute nervose. È il loro destino». Ma è veramente degno di nota anche quanto, nel DEL GIUDICE
di Lo stadio di Wimbledon, cit., p. 102, è riportato delle parole di Ljuba Blumenthal su Bobi:
«Lui non cercava di immaginarsi come fosse una persona, lui lo era. E quando ha scoperto che
questo era il suo posto nella vita, non ha potuto più scrivere. Aveva capito dove stava la sua forza
e stava nelle persone». Si veda ancora (LA FERLA, Diritto al silenzio, p. 104 n.), la testimonianza di
Aurelia Gruber Benco (Duino, novembre 1985): «Lui non scriveva, ma praticamente ha scritto un
grande romanzo con dei personaggi vivi. Era un osservatore del personaggio»; in tale modo, «le
persone diventano personaggi nel suo romanzo vivo. Lui era uno strumento del destino». Una nota
riassume questi concetti (ivi, p. 104): «Quasi come se Bazlen si comportasse verso la vita e verso la
gente allo stesso modo in cui gli scrittori si correlano alla propria opera e ai loro personaggi. E che,
per converso, invece di usare la letteratura a rappresentazione o sostituzione della vita la filtrasse
direttamente per ampliare il suo contatto con il mondo».
61
Sui rapporti che, in modo vario, legano Bobi a ciascuno di questi intellettuali e scrittori cfr.
anche BATTOCLETTI, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, cit., passim.
62
ELVIO GUAGNINI, Bazlen, i suoi rapporti con Trieste, in «Michelangelo», n. s., XXII (aprilegiugno 1993), 2, p. 14. Tra i contributi di GUAGNINI cfr. anche ID., Il viaggio, lo sguardo, la scrittura,
Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2010, e «Aghios. Quaderni di studi sveviani», diretti da
GIUSEPPE ANTONIO CAMERINO e appunto ELVIO GUAGNINI, X, 2017.
60
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ra di trama sempre in fieri ma non in progress, con personaggi privi di psicologia e
di disegno, nucleo sensoriale privo di consistenza biografica, psicologica appunto,
sociologica, con un’architettura che, più che sostenere l’edificio della narrazione,
si identifica nel proprio stesso messaggio rappresentativo d’un continuo divenire, d’un’oscillante linea di vissuto mentale. Non meraviglia che il naufragio sia la
costante spinta tensiva del romanzo, una spinta sempre uguale e sempre diversa,
che nel suo riproporsi rilancia i «sintomi», «gli effetti dell’inquietudine» e la «pantomima dei meccanismi di difesa» in un tragitto antiulisside in cui il divenire non
implica un incremento odissiaco di «virtute e canoscenza», bensì la smentita di
ogni edificante validità delle esperienze attraversate; il naufragio, insomma, pone
le premesse di ulteriori naufragi, poiché esperienza ben diversa da quelle dell’omerico Ulisse, personaggio che da parte sua «non crea ordine, crea direzione»63; il
capitano, davvero «di lungo corso», non può invece raggiungere autentici approdi
“stanziali”, se non proprio di recupero di una dimensione di terra, almeno di nucleo familiare, di ritorno “borghese” allo status quo. Dalla coscienza di questa costante provvisorietà delle mete deriva, invece, l’affermazione del caos o, se si preferisce, una dimensione di chiarezza che ammette come solo possibile viaggio quello
all’interno del Sé64. Contro il classicismo, contro la gabbia di cristallo costituita dal
criterio di pertinenza e di pretesa reciproca congruenza di contenuti e di forme, «il
caos diventa il luogo mentale “dove ogni cosa ritorna all’infinito”», in una ricerca
della verità che passa «attraverso relazioni infinite tra possibili realtà». Il concetto
di «naufragio continuo», rappresentato fino all’abbandono del soggetto alla deriva
sirenica, accede risolutamente a una Weltanschauung antieuropea e filoorientale, al
recupero di un’antica percezione talassica del mondo e del divenire, a una sapienza
del mare65, appercepita da un animo oscillante come il flusso ondoso. È una filosofia poseidonica, non ispirata a quella gnosi occidentale che si compendia nella
divinità di Minerva, non a caso alleata mitica e indefettibile di Ulisse. Poseidone è
esattamente il nemico di Ulisse, è il «Dio dell’ondeggiare»66 che combatte tramite
l’alterna vicenda del mare, olimpica azzurra pace e scatenati fortunali, il λόγος e
l’ἀρετή dell’eroe fabbro di destino e di storia, dell’accorto artefice dell’inganno del
63
BAZLEN, Scritti, cit., p. 213. Riguardo alla connotazione positiva, veicolante rispetto alla vita
− non si giunge a dire “salutistica” − del concetto di «ordine», vd., nelle lettere a Montale (Scritti,
cit., p. 387), la missiva del 23 febbraio 1930: «Tutto molto bene: mi sono messo definitivamente
a far ordine, di dentro e di fuori. Molta ginnastica, parecchie gite, e spero, fra un anno, di essere
una persona per bene».
64
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 123.
65
Riguardo al lessico marinaresco necessario per Il capitano di lungo corso, Bazlen si avvale
molto dell’esperienza trasmessagli dal citato pittore goriziano Vittorio Bolaffio, che ha lavorato
come fuochista su una nave in viaggio alla volta dell’Estremo Oriente; autore dell’unico ritratto
di Saba che Umberto tenesse in considerazione, Bolaffio può vantare l’amicizia con artisti sommi,
quali Fattori, Matisse, Modigliani.
66
Cfr. BAZLEN, Scritti, cit., p. 209.
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cavallo e del salvataggio da Polifemo e dalle Sirene; Polifemo: «spazio»; Ulisse:
«direzione»; prima di Ulisse, oseremmo dire in principio, non vi è λόγος, ma «assenza di finalità», l’«ondeggiare qua e là» che chiama l’antieroe ad abbandonarsi al
ritmo del divenire, alla ricerca dello zenico unisono con l’infinito. In chiave zenica
si possono accettare le passate e forse immaginarie avventure, poiché il processo
spiritualmente naufragico può recuperare la rotta di un’interiorità dalla quale non
è mai realmente fuggito, e riaprirsi al domestico e al familiare come approdo di una
serenità anticlassica, antioccidentale; l’opposto, insomma, dell’epilogica catarsi ricompositiva: non agnizione di Penelope o di Argo ma riassorbimento dello spirito
nella coscienza dell’infinità del tutto. Serenità, introiettata concezione del divenire, rielaborata testualizzazione di letture, davvero non rapsodiche, di filosofia
orientale, indiano-cinese, dallo zen al taoismo e alla sua dottrina della «dinamica
inattività»: vi rientra anche il culto del lavoro (quanti studiosi novecenteschi hanno
lettorialmente lavorato come Bazlen?), non quello da schiavo, ma quello, importantissimo, che si può compiere sdraiati a pancia all’aria, meditando e internamente rinnovandosi: il lavoro del «lettore orizzontale». Né la discesa all’interno del Sé
ha qualcosa da spartire con il recupero proustiano del passato individuale, così
come l’avventura talassica, narrativa estrinsecazione di un itinerario mentale, non
è ricerca di perduti paradisi, poiché, scrive Bazlen, non ci sono paradisi perduti:
«ci sono solo paradisi superati».
Di questa “non opera” converrà ricordare, sulla base dell’edizione adelphiana
degli Scritti a cura di Calasso, la suddivisione in “parti”, fondata sullo stato del
materiale dattiloscritto e manoscritto; l’unica data certa (3-4 ottobre 1944) è quella
appósta alla fine di una rapida stesura della storia in otto pagine dattiloscritte;
dalle testimonianze di Ljuba Blumenthal, di Luciano Foà e di Sergio Solmi si sa
che Bobi vi si dedica particolarmente nei primi anni del dopoguerra. L’originaria
stesura, intorno alle quattrocento pagine dattiloscritte verso il 1950, ha fruito di
una riduzione molto netta e dell’acquisizione di una cifra narrativa più lineare. La
prima “parte” è costituita da una trascrizione in bella copia dalla forma dattiloscritta alla forma manoscritta della vicenda del capitano sino al naufragio e al suo
inghiottimento da parte della balena; la seconda da una serie di fogli dattiloscritti e
manoscritti, riguardanti la parte intitolata Naufragio; la terza, tratta dal cosiddetto
Quaderno B, fa proseguire la vicenda del capitano sino alla fine, con le sezioni intitolate Isola, Il paese dei pescatori, La Fanciulla del Bosco, Città Grigia, La Figlia del
Borgomastro, Il Mozzo, La moglie del Timoniere, Taverna, Morte dell’Oste, Ritorno,
Conversazioni dopo il ritorno, Per finire. In Appendice all’edizione Adelphi vi sono
pagine del verso del Quaderno B che comprendono alcuni frammenti dedicati a La
via verso il castello, e altri alla sezione Vino; oltre ad appunti e ad annotazioni, vi è
il tentativo di costruzione della sezione Castello del Graal, variante che corrisponde esattamente alla Città Grigia dei frammenti: «Sono le due necessarie soluzioni
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sbagliate sulla via del Capitano: il moderno e l’antico»67. Si trovano poi, tratti dal
Quaderno D, appunti, annotazioni di possibili ricerche, nuclei di sviluppo di episodi in correlazione al testo propriamente “narrativo” di Il capitano di lungo corso. Le prime tre parti contengono la nervatura architettonica dell’opera, un’opera
probabilmente più vicina a una forma compositiva nella prima parte, mentre nelle
altre due, la seconda e la terza, rimangono i frammenti. Delle varianti, per così
dire, macronarrative, ci si può fare un’idea traendo ad esempio l’alternanza balena
/ isola come luogo di approdo dal naufragio; nella prima parte, formalmente più
strutturata, il naufragio ha esito nel corpo della balena, dal quale il capitano riesce
a essere espulso; nella sezione Naufragio, all’inizio del Quaderno B, il capitano viene invece sbalzato su un’isola corallina, dalla quale sarà liberato da una mediocre
figura di ricercatore naturalista, lì approdato a fini di studio. Le due varianti sono
però interconnesse, dato che più volte, nel corso dei frammenti, si allude a un avo
del capitano a suo tempo inghiottito anch’egli da una balena senza l’esito della
“liberazione”68; isola e balena sono peraltro chiarite nella loro simbolica equivalenza. Il riferimento allo schema odissiaco, ulisside, elemento si può dire costante
della narrazione, da parte sua incontra un netto, acuminato ribaltamento, una linea
appunto antiulisside, nella sezione che all’Antiulisse come titolo esplicito si richiama (Quaderno E, Note senza testo)69.
67
ROBERTO CALASSO, Notizie sui manoscritti, in BAZLEN, Scritti, cit., p. 394. Per contributi di
lettura sul Capitano di lungo corso si può rinviare anche al relativo capitolo in LA FERLA, Diritto
al silenzio, cit. (La dissimulazione di Orfeo: Il capitano di lungo corso); la fruizione delle pagine
della Balena, del Bosco, della Città Grigia e di altre ancora, e così delle esperienze interiori da
esse promosse ed evocate, attestano, e la constatazione non stupisce, una linea di scrittura che
contribuisce a sottrarre Bazlen a qualunque possibilità di coinvolgimento conformistico nel
panorama della prosa italiana.
68
In realtà, il capitano-nipote non vive una situazione tale da porre un rapporto d’antitesi
tra inghiottimento e desiderio di liberazione; la permanenza nel ventre della balena (o meglio del
grosso pesce dell’episodio di Giona nella Bibbia; così anche Lorenzini-Collodi in Le avventure di
Pinocchio; nella produzione disneyana tornerà la balena) è segnata da un’accettazione volontaria,
più ancora che rassegnata; cfr. DIEGO BERTELLI, Of Fragments and Footnotes. Absence and Invention
of the Text in Roberto Bazlen, University of Birmingham, UK, dicembre 2010, 16-17, pp. 1-14, qui
p. 13, n. 73: «the captain results to be “a willing Jonah,” where his will consists of feeling “no
impulse to alter or control the process that he is undergoing. He has performed the essential
Jonah act of allowing himself to be swallowed, remaining passive, accepting […]”». «allowing
himself to be swallowed, remaining passive, accepting»: l’opposto dell’atteggiamento negativo,
ostile, antagonistico rispetto all’inghiottimento. Lo «willing Jonah», come le altre parole tra le
virgolette “in alto”, sono di GEORGE ORWELL, Inside the whale and other essays, London, Gollancz,
1940, p. 178. Cfr. anche BATTOCLETTI, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, cit., p. 504: «Il capitano di
Bazlen si sente protetto solo nel ventre di una balena, dove ha trascorso un periodo, proprio come
Pinocchio. Nella sua pancia misteriosa scende come in una sorta di iniziazione mistica, cieco per
poi uscirne consapevole: per Jung è l’archetipo della trasformazione, il luogo in cui si verifica la
connessione tra sfera conscia e inconscia».
69
In BAZLEN, Scritti, cit., pp. 209-217.
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Proprio il mito di Ulisse è la meta dell’attacco narrativo, ripetuto, di plurima
espressione, da parte di Bazlen; l’Ulisse che ha messo a fuoco le più efficaci difese
dell’io, che ha coniugato sino al massimo della miticità il verbo dell’accortezza,
dell’intelligenza razionale e dell’astuzia, dell’abilità e della duttilità reattiva nei riguardi delle situazioni di difficoltà, si rovescia in una figura di capitano che vede
le stesse difese, e lo sforzo d’ingegno che le progetta e che le sostiene, come un
impedimento al naufragio, come un fattore d’ostacolo a un’autentica esperienza
integralmente naufragica alla ricerca d’un Sé inserito e insieme abbandonato al
ritmo talassico-taoista del divenire. Alcuni dati del processo di rovesciamento del
νόστος odissiaco sono ravvisabili sin dall’inizio, ovvero dal Preludio; non è arduo
riconoscere nel rifiuto dei «pantaloni rossi» appositamente cuciti dalla moglie l’episodio che costituisce il primo segnale d’una crisi ch’è già in essere, tanto che il
ricordo di questo atto di rifiuto (fonte di decisiva delusione per la stessa moglie)
insisterà ripetutamente nell’animo del capitano70. L’opera di tessitura, al contrario
della tela di Penelope, fatta e disfatta a fermare lo scorrere del tempo, produrrà,
con lo stesso colore (il rosso) diverso da quello dei consueti indumenti marinareschi, una rottura, un allontanamento da “Itaca”, una rinnovata voglia di mare e
di viaggio, pur trattandosi d’un viaggio senza identificabile meta, o meglio tale da
porsi, nel divenire, una significativa, molteplice ricerca di mete. La tessitura della
moglie, in tal senso una contro-Penelope, con quel regalo-sorpresa, con quel regalo
imprevisto, non apprezzato e subito riposto nella cassapanca nera, percorre, nella
ricaduta sul perplesso marito, una gamma di significati che può spaziare (in termini musiliani, come direbbe Cesare Cases) dal Geschehen, dalla rottura di catene
in vista d’una nuova realtà, all’Aufbruch, alla vera e propria rottura-partenza, alla
rottura-distacco (come l’eroe delle favole al suo primo allontanamento verso l’iniziazione, come l’«Ivàn» dello sterminato patrimonio fiabistico russo-proppiano);
e la difficoltà d’individuazione d’una singola meta si flette, e insieme si assorbe,
in una costante, faticosa, spesso contraddittoria e non lineare ricerca di interiore
miglioramento, di miglioramento del Sé, e si assorbe, altresì, in un infittito, in un
serrato, in un nervosamente concitato ritmo di nuove partenze che, soprattutto
all’inizio del percorso antiodissiaco del capitano, segnano il suo personale itinerario marino, la sua sempre ridefinibile rotta, anche in relazione con la casa-cabina,
con il nucleo di viaggiante identificazione domestica, e con la sua varia oggettistica
dal velleitario significato di solidità. La meta si chiarisce, progressivamente − ed
è inevitabile in un’opera che si pone tutta all’insegna del divenire −, come quella
del Tao, della “via” che non è Logos né è tragitto di teleologia, ma che è invece un
cammino, o una rotta marinaresca, in divenire, appunto, in fieri, un interiore e
70
La situazione ritrova, anche nei disegni che accompagnano la terapia junghianopsicoanalitica, la frequente allusione al “cucire”, all’atto di composizione dei tessuti, e quindi alle
«forbici»; vedi, ad esempio, il disegno del 15 ottobre 1944, e i rilievi contenuti in RICCA, I disegni
di Roberto Bazlen. Materiale clinico e strumento critico, cit., pp. 57-58.
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continuo viaggio di miglioramento, di ridefinizione di se stessi e del proprio rapporto con la vita e con le sue umane relazioni, di contatto gradualmente migliore
con l’esperienza della realtà71. E la «meta» è individuabile, in termini di coscienza e di integrata attuazione del singolo destino dell’uomo, in una concezione che
comprende il Tao alla propria base, per determinarsi nell’acquisizione del ruolo
irripetibile che ciascuna persona interpreta e riveste nel mondo e nel concerto sociale; la parola ritorna, come ad un maître legittimo, insostituibile e irrinunciabile
(e non è davvero impresa da poco un tale riconoscimento da parte di Bobi Bazlen
e della sua anticonformistica, non allineabile intelligenza), ad Ernst Bernhard, al
suo Mitobiografia72:
La meta è la valutazione individuale che ha per istanza il TAO e giudica secondo la misura in cui l’uomo singolo vive il suo destino individuale.
La stessa Penelope bazleniana non si limita certo a provocare la partenza del marito e a innestare una contro-odissea del naufragio nella molteplicità e nella ripetuta
(e voluta) contraddittorietà dei suoi percorsi; il personaggio costituito dalla moglie
attraversa invece un profondo e lungo processo di trasformazione che comprende
la «taverna» e la sua fase di abbrutimento, il rapporto con le improbabili riprese
(il «Monocolo», il «Butterato», il «Gambadilegno», l’Oste) del ruolo dei proci73,
il ritorno, in chiave di indifferenza, di abulica afasia, nel luogo dell’attesa (la casa,
ormai vuota), la riproposta e la consumazione di personali simbologie, comprese
quelle più insignificanti e quotidiane, la partecipazione alla «pantomima dei meccanismi di difesa» a dimostrare la propria incapacità d’autoanalisi, in un quadro
di costruzione narrativa improntato a un saliscendi, a un’allure volutamente altale71
Per il Tao in italiano, si veda Tao-te-ching. Il Libro della Via e della Virtù, traduzione di
ANNA DEVOTO, a cura di JAN JULIUS LODEWIJK DUYVENDAK, Milano, Adelphi, 1987.
72
BERNHARD, Mitobiografia, cit., p. 33.
73
In realtà i quattro menomati dell’osteria sembrano rappresentare, in corrispondenza con i
disegni con cui non casualmente Bazlen accompagna la terapia junghiana con Bernhard, «figure
simboliche della quaternità»; essi «sono i quattro uomini della taverna che, come le funzioni
della psiche, sono manchevoli di una facoltà se analizzati singolarmente. Anche nei disegni
troviamo il monocolo e il gambadilegno per testimoniare l’urgenza di dare forma concreta alle
funzioni dell’inconscio che, altrimenti, rimarrebbero astratte e inesplorabili da parte del soggetto
analizzando. / Ciò inizia a svelare l’esigenza di disporre oggetti, personaggi e situazioni in serie
quaternarie» (cfr. RICCA, I disegni di Roberto Bazlen. Materiale clinico e strumento critico, cit.,
pp. 57 e 58). Sull’importanza dei disegni pubblicati nell’edizione Adelphi 1973 del Capitano, cfr.
(ivi, p. 59) la serie di «Ambientazioni acquatiche» che, secondo la dottrina di Jung, costituiscono
l’elemento naturale che permette nei sogni di mettere in relazione le due sfere della persona,
quella conscia e quella inconscia: «Il mare è il grande luogo simbolico che racchiude il processo di
trasformazione per arrivare all’individuazione del Sé; al suo interno troviamo dei simboli, come la
balena e l’isola […], che scandiscono le tappe di questo processo». Gli episodi, considerabili quali
varianti fra loro equivalenti, della balena e dell’isola, se letti in chiave psicoanalitica, appaiono (p.
60) come «‘sottoinsiemi’ del più ampio simbolo di trasformazione rappresentato dal mare».
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nante, mai condotta in quella sezione di prosa agli estremi dei comportamenti possibili, che in tal modo, e proprio in quanto non “concretizzati”, possono appunto
risultare “preannunciati”, e quindi in séguito ripresi a diversi gradi di intensità
e in diverse modalità. Si parla in questo senso di «un sistema articolato di moti
pendolari per cui»
a una descrizione segue spesso il suo opposto, alla stasi il movimento frenetico, all’oblio la focalizzazione del passato che ritorna violentemente a riproporsi come presente74.
Risuonano in modo significativo, a questo proposito, le parole di Roberto Calasso, alla conclusione (p. 20) della sua premessa adelphiana agli Scritti:
il suo movimento era continuo, senza termine né direzione fissa: un processo
di autotrasformazione in cui gli elementi gradualmente risuscitati seguivano
il moto posidonico di flusso e riflusso fra un polo di complessità algebrica,
divelta dalla sostanza, e un polo di elementarità immobile, nascosta nella sostanza. Quel processo non era da dire o da scrivere − e quasi avrebbe potuto
non lasciare traccia.
Solo (ma non è certo poco) un «processo di autotrasformazione», con elementi
risuscitati, fluttuanti senza meta e senza direzione (altrimenti, si cadrebbe nell’Ulisse che crea appunto direzione ma non «ordine»), in cui nella «sostanza» non risiede quel «polo di complessità algebrica» che nei suoi razionali principi ne è divelto
e ne è astratto, e in cui, nel contempo, la stessa sostanza può solamente accogliere,
nascosto senza indulgenze affettive, «un polo di elementarità immobile». Il processo di autotrasformazione esprime quel moto poseidonico, talassico, ondivago,
di flusso e di riflusso, nel quale il naufragio sarà un valore, e che progressivamente
si chiarirà anche come valore degno di ricerca, pur se si tratta di ricerca spesso
affannosa e “per definizione” contraddittoria. È uno degli snodi decisivi non solo
della prosa del Capitano (di originale tedesco, Der Kapitän, lo si rammenti), ma
dell’intera personalità di Bazlen. Il discorso che stiamo sviluppando non è, a rigore, l’argomento di una constatazione critica; il fatto è che il concetto s’impone,
in un certo senso, da solo, in quanto il movimento del quale Bobi arriva a scrivere
non può in alcun modo non essere continuo: «non è indispensabile poggiare su
qualcosa − l’appoggio può impedire il movimento. (Il punto vuoto è, fra l’altro, ciò
su cui non ci si può appoggiare)», scrive ancora Calasso. Per parte sua, il processo
in sé «non era da dire o da scrivere», «e quasi avrebbe potuto non lasciare traccia»;
Bazlen ce l’ha fatta a non scrivere un’opera, o quanto meno a non scrivere un’opera
compiuta, e non è stata impresa di poco momento.
74
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 120.
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L’importante è quel «punto vuoto», è quella mancanza di appoggio che permette il continuo movimento, quella volontà di autotrasformazione che implica
la conquista d’un’affinità alchemica con il temporaneo approdo alla materia “trasformata”, e distingue la mobilità sapienziale dello sciamano nordazkenazita da
una linea logica aristotelica alla quale la vacuità del «punto» non può che apparire inaccettabile («Ἄτοπον»): «Ἄτοπον δὲ εἰ ἡ στιγμὴ κενόν» («È assurdo che il
punto sia vuoto»)75, ricorda la citazione introduttiva del curatore adelphiano. Per
nulla interessato a un riconoscimento pubblico, a un riconoscimento “vulgato”
della propria figura, lo sciamano nordazkenazita, nella sua sapienza metamorfica,
non rintraccia davvero area comune con una sapienza, poniamo, affine a quella
delle pagine d’esordio della Montagna magica (o «incantata» che dir vogliamo)
di Thomas Mann. «Taoista (è l’unica definizione che gli si può applicare senza
imbarazzo), Bazlen aveva imparato da Chuang-zu che il sapiente lascia il minimo
di tracce: quei libri di cui parlava e che consigliava erano le sue tracce». Quello
che ha scritto oltre al Capitano si può dire che consista in una serie di Note senza
testo, «appunti per un’immaginaria scienza dell’autotrasformazione. Una scienza
che, se esistesse, non si manifesterebbe in forma scritta; e, finché è immaginaria, si
manifesta per scritto nel modo più discreto, quasi impercettibile». Ma proprio per
questa ragione la sua “vita” non è limitabile all’immagine, che di lui si è affermata,
di infaticabile e sagace consigliere di libri (libri che spesso non erano così sconosciuti, se non alla cultura italiana); è la “vita” stessa a costituire la meta più difficile,
di più faticosa individuazione, per Bobi, ed è la vita l’opera più importante: «Un
tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti − alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi».
3.7 Ironia di naufragi
Non sarà inutile richiamare, a proposito del Capitano definito anti-ulisside, alcuni elementi costitutivi dell’Ulisse dantesco che, a differenza di quanto avviene
e di quanto si può constatare riguardo all’Ulisse omerico, non sembra così, e al
tutto, distante dall’“Ulisse” bazleniano, titolare di un romanzo programmaticamente incompiuto. Nell’Ulisse omerico, infatti, sono la lontananza e i naufragi a
suscitare il desiderio di Penelope, a suscitare il rimpianto del talamo matrimoniale,
ad alimentare con costanza il desiderio del ritorno. Ma già nell’Ulisse bazleniano,
e ben al contrario, è esattamente la crisi matrimoniale, è la crisi con “Penelope” a
creare la ricerca, a suscitare il desiderio del naufragio, a determinare quindi il rientro nella propria dimensione domestica come soluzione provvisoria, e a condurre a
una definizione della vita che, se essa è tale e se deve proseguire, consiste nella pre-
75
ARISTOTELE, Phys., 214 a4.
242
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parazione di altri, di ulteriori naufragi. Converrà, a primo richiamo della varietà e
della linea inedita − quasi ignota − delle avventure di Ulisse al di fuori dell’Odissea,
e a primo distacco dall’immagine del percorso poematico vulgato del personaggio, rammentare una glossa di Servio all’Eneide (II, [43]-44 − Laocoonte −: «aut
ulla putatis / dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?»)76 dalla quale emerge
quella che si potrebbe definire la scelta di affabulazione parzialmente menzognera,
o, se si preferisce, solo parzialmente veritiera, da parte di Omero, o comunque di
una tradizione che tende a celare una figura di Ulisse che è in realtà ancor più varia
e controversa di quella che già Valgimigli considera come «la [figura] più ricca di
umanità che la poesia greca abbia creato»:
Hic sane Ulixes, flius Laertae, Penelopae maritus fuit. qui filios habuit Telemachum ex Penelope, ex Circe vero Telegonum, a quo etiam inscio, cum
is ipse patrem quaereret, occisus est […]. huius post Iliense bellum errores
Homerus notos omnibus fecit. de hoc quoque alia fabula narratur. nam cum
Ithacam post errores fuisset reversus, invenisse pana fertur in Penatibus suis,
qui dicitur ex Penelope et procis omnibus natus, sicut ipsum nomen Pan
videtur declarare; quamquam alii hunc de Mercurio, qui in hircum mutatus
cum Penelope concubuerat, natum ferunt. sed Ulixes, posteaquam deformem puerum vidit, fugisse dicitur in errores. necatur autem in senectute vel
Telegoni manu aculeo marinae beluae extinctus […].
Un Ulisse che ha due figli, il secondo dei quali (parto di Circe l’ammaliatrice)
involontario patricida, una Penelope davvero non attestata sul mito della fedeltà
coniugale e anzi protagonista di un pluriadulterio quasi orgiastico, un eroe che
riprende il mare per fuggire la vista e l’orrore del mostruoso “deformis puer”;
Ulisse, insomma, non appare, secondo molte linee della tradizione che qui Servio
non a caso riprende, l’eroe del ritorno sicuro, della celebrazione dei valori coniugali, del recupero, pur a lungo duramente conteso, del focolare domestico e dei
relativi affetti umani. E proprio Servio, lettura imprescindibile di Dante, devoto
allievo del maestro-vate Virgilio, pone nel brano il problema della varietà («alia
fabula narratur», «quamquam alii […] ferunt», «dicitur», «vel») e dell’eventuale, reciproco escludersi delle tradizioni, in specie di quella concernente la morte
dell’eroe. Dante riprende l’interrogativo lasciato in sospeso da Servio e, con «impietosa indifferenza per i dati di cultura comunque strutturalmente irrilevanti» e
con «drastica riduzione del racconto ai suoi termini essenziali»77, affabula la sua
76
Per le considerazioni derivanti da un’analisi della figura ulisside come eroe di una possibile
declinazione della letteratura avventurosa, e come tale approdato con le proprie peculiarità
antropologiche e letterarie a Dante, cfr. D’ARCO SILVIO AVALLE, Modelli semiologici nella Commedia
di Dante, Milano, Bompiani («Studi Bompiani», 13), 1975, in particolare i capitoli L’ultimo viaggio
di Ulisse, pp. 33-63, e L’eroe scomparso, pp. 65-75.
77
Ivi, p. 63.
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risposta nel XXVI dell’Inferno. Si tratta d’una risposta che, in base alle regole del
genere avventuroso medioevale, bretone-arturiano, implica la partenza dell’eroe,
la ricerca che ne viene effettuata − ricerca che è vettore di grande fertilità narrativa,
e che diviene fonte di molteplici avventure −, il finale, con il ritrovamento dell’eroe o con la sua scomparsa (motivo, quest’ultimo, di vita narrativa duratura nelle
ipotesi e nella fantasia dei lettori; tale eroe può perfino risorgere). In Dante, come
in molta parte della tradizione, la successione avventura-ricerca si ribalta, non solo
riguardo a Ulisse, nell’opposta successione, ricerca-avventura; e la grande novità
consiste nell’arricchirsi della «queste» (quête) − ossia della ricerca che è fonte di avventure − di una serie di connotazioni «di perfezionamento morale, di conoscenza
e di approfondimento dei valori umani»78. Il motivo costituito dalla successione
ricerca-avventura nella letteratura arturiana è stato ripreso da Dante proprio là
dove è stato interrotto nella situazione di scomparsa dell’eroe, di perdita, di fine
inesplicata. Solo che tale ripresa avviene su basi molto differenti. Nel poema dantesco l’ordine normale, e più usato, non può essere che quello ricerca-avventura; ma
se la consecuzione, in altre opere e in altri autori, è possibile solo nel caso di esito
felice della ricerca, con il ritrovamento dell’eroe scomparso ed eventuali sue nuove
avventure, ora tale possibilità si amplia ai casi rimasti insoluti; e Ulisse in tal senso
si pone come una delle numerose figure cui Dante si riserva il privilegio di chiedere
della loro sorte, di dove, di come sono scomparsi (come, ad esempio, nello stesso
Inferno − nel canto di Ciacco, il VI −, il poeta chiede di Iacopo Rusticucci, di Farinata e del Tegghiaio; o come nel Purgatorio, canto V, egli interroga Bonconte di
Montefeltro). E l’eroe scomparso, nello stesso Dante, «fa parte ormai di una nuova
dimensione, la dimensione dell’eterno»79: «Dato che le condizioni normali della
“ricerca” non sono sufficienti a chiudere il cerchio» dell’enigma di destino del
personaggio, «egli [Dante] si pone sul medesimo piano in cui la vicenda è venuta
a sfociare, e più precisamente sul piano dell’eterno, che è […] il piano dell’eroe
scomparso, non ritrovato»80. Tanto è vero che
Forse non è stato messo nel dovuto rilievo il significato profondo del viaggio
di Dante, vale a dire il suo aspetto di “queste” o ricerca, ed il fatto che fra le
anime dell’oltretomba non poche rispondano ai requisiti dell’eroe scomparso
e non ritrovato.
Si tratta, quindi, riguardo all’Ulisse medioevale dantesco − un “Odisseo” derivante dalla varia lectio classica d’un mito tutt’altro che monolineare e univoco −,
di porsi sullo stesso piano dell’eroe scomparso, ovvero sul piano dell’eterno. Per
Ivi, pp. 72-75.
Ivi, p. 69; cfr. anche p. 72: «misteriosamente scomparso e di conseguenza entrato nella
dimensione dell’eterno».
80
Ivi, p. 73 (così anche la successiva citazione).
78
79
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il taoista Bazlen, pur in diversissimo contesto e pur con differenti premesse, si
tratterà di mettere progressivamente a fuoco la tipologia perpetua, costante, non
affatto esauribile, della ricerca, ovvero del naufragio, concepito non quale disvalore, ma, al contrario, concepito e gradualmente conquistato proprio come valore,
concepito non come evento rovinoso, ma come prospettiva di ripetibile e iterabile
terapia, come aggiornabile strategia, perpetua appunto nella sua gittata psichica,
come immersione nella lettura del reale e della propria vita, e nella lettura di libri
veramente nuovi e sconosciutissimi. Una lettura junghiano-zenica, e bernhardiana,
della possibilità d’immersione del proprio immaginario − anche infantile − nel
generale patrimonio antropologico degli archetipi umani, con abbandono al ritmo
universale del divenire, del cambiamento, della continua trasformazione81.
La ricerca del naufragio non costituisce peraltro nel protagonista di Bazlen
scelta iniziale, bensì è frutto di graduale acquisizione; ed è questo il principale
elemento di richiamo, sia pure indiretto, fra Il capitano di lungo corso e l’Ulisse
dantesco: dalla primitiva connotazione di “fuga”, di allontanamento e di rifiuto nei
confronti della realtà, del rapporto, del ménage domestico-matrimoniale, familiare,
il «Capitano», con le sue molteplici esperienze e con la sua policentrica geografia
di spazi e di viaggi marinareschi, può superare la rotta del rifiuto, l’asfittica direzione strettamente denegante, l’itinerario meramente astensivo dalla vita moglie-casa,
e può invece maturare una serie di riflessioni che, pur con ritmo lento, contraddittorio e discontinuo, marcato dall’incertezza di molteplici ripartenze e da una
cronistoria di andirivieni e di fallimenti per insufficienza d’autoanalisi, e segnato
anche dal delirio naufragico, non mancano infine di recuperarlo a un’identificazione assertiva nei riguardi del valore essenziale della ricerca, e dell’oggetto di tale
ricerca: un oggetto che è il se stesso, che si identifica appunto con la propria mente,
con la propria coscienza. Dalla fuga, dal grado zero della conoscenza e dell’etica, e
della reale disponibilità psichica al divenire e alle nuove acquisizioni, il naufragio
si trasforma nella ricerca di se stessi. È infatti il se stesso l’eroe perduto e per lungo
tempo non ritrovato; e la ricerca dell’eroe è a questo punto ampiamente legittimata, nella sua natura di queste destinata a risultare, in definitiva, “soddisfatta”, anche
se alla condizione di guadagnare la coscienza (e l’autocoscienza) d’un oggetto-eroe
che non potrà mai sigillarsi nella staticità del trofeo acquisito, e che invece non
81
L’abbandono, e il relativo verbo «abbandonarsi», costituiscono precisi termini tecnici
della letteratura avventurosa, e rinviano non a una generica disponibilità alle vicende, alle
peripezie, alle ricche affabulazioni cavalleresco-cortesi, ma a un consapevole utilizzo di questo
movimento etimologico dell’“abbandono” come scelta, o come inserimento contestuale accettato
e condiviso, in vista d’un ingresso direi quasi ufficiale, narrativo, letterario dell’eroe, e comunque
del personaggio o dei personaggi, nella prosa romanzesca, nel tessuto e nei riscontri errabondi
dell’avventura e dell’avventurosità. Ma si rammenti ancora il Dante di Inferno, II, 33-34: «Per
che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle»; e così il volgarizzamento
riccardiano dei Fatti dei Romani: «Da ora inanzi m’abandono e metto in avventura» (cfr. anche
AVALLE, Modelli semiologici nella Commedia di Dante, cit., p. 37).
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può che rinnovarsi, non può che protrarsi e spostarsi, come meta ondivaga, e che
a sua volta non potrà che prolungare e rendere continua e perpetua, altalenante e
talassica (il ritmo naufragico, appunto) la stessa ricerca; il modello, per così dire,
ricerca-avventura, ne esce in sostanza confermato, in quanto è proprio la ricerca
a produrre avventura, ritmo di abbandono sempre più consapevole al divenire
(e si tratti pure, spesso, di grigia, di non sfavillante avventura; il lettore di Bazlen
non ricercherà il gusto smagato delle ambages errabonde, delle peregrinazioni di
efflorescente seduzione fantastica). Il finale recupero domestico moglie-marito −
finestra, canarino e vasi da fiori (non geranei, ma rose od ortensie) − noto al lettore del Capitano di lungo corso, non si qualifica certo come banale chiusura del
viaggio in chiave di riconciliazione uxoria e di rientro pantofolaio nel soggiorno,
previo abbandono della nave e degli oceani, e, nel caso della moglie, previo distacco dalla “corte dei miracoli” dei menomati, tra carte, sigari, vino dell’osteria
e sesso di retrobottega; il civile, tollerante sorriso di convivenza fra coniugi, la
comprensione reciproca delle rispettive ragioni, il segno di pace di continuo scambiato anche negli atti minimali, quotidiani, elementari, costituiscono esattamente
il “superamento” del matrimonio, non il suo recupero; tali elementi costituiscono,
insomma, l’acquisizione d’una maturata consapevolezza di distacco ironico, non
la ripresa buonsensaia d’un andamento idillico, da rassicurante quadretto casalingo benedetto dalla bontà, dalla religione e dalla legge. Il superamento consiste
innanzi tutto nella coscienza del “non amarsi”, nell’accettazione il più possibile
tranquilla e lucida di questo status psichico e pulsivo, nel distanziamento dal concetto di amore e dalla fede nella sua essenza duratura. «Io non ti amo», è questa
la frase-chiave del rientro a casa, questa (non abbraccio statuario tragico-ellenico,
non abbraccio larmoyant da commedia borghese) la parola fatata dell’agnizione
tra Ulisse e Penelope (Argo e il canarino sono presto comprati nuovi, o sostituiti
da un gatto o da una tartaruga)82; e questa condizione fra coniugi non è fattore di
infuocate reattività melodrammatiche o canagliesche o picaresche, ma, anzi, essa è
fattore di tranquillità e di pace matrimoniale, un fattore conseguito anche tramite
l’attraversamento, e soprattutto il superamento, di psichici viaggi e di archetipiche
fagocitazioni di balene. Ironie di naufragi, appunto. Un altro ebreo triestino, della
cui fortuna Bobi ha meriti istitutivi, ovviamente Italo Svevo, situa proprio nella
non comprensione dell’“originale” marito da parte dell’efficiente fantesca e massaia, oltre che procreatrice, Augusta Malfenti, l’ottimo successo del matrimonio di
Zeno Cosini, un matrimonio che la non avvenenza di Augusta rende, per grande
fortuna, già “superato” prima di iniziare; e lo rende, quindi, di prospera riusci-
82
Cfr. quanto si dice in RICCA, I disegni di Roberto Bazlen. Materiale clinico e strumento critico,
cit., p. 62, riguardo alla scena finale del già ricordato Federico Fellini di Otto e mezzo, in cui i
personaggi «vanno ad unirsi al grande ballo finale che si svolge in cerchio con tutti i significati
simbolici che ne derivano». Fellini era paziente del dottor Bernhard (cfr. anche, in questo capitolo,
la n. 48).
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ta nel “duale” dei coniugi. Superato, tale matrimonio, come i paradisi di Bazlen.
Ironia di matrimoni, ironia di naufragi. Ovvero, nè più né meno, il Novecento
letterario, psicoanalitico e antropologico, non certo solo italiano; il Novecento in
una delle sue poche, e forse nella sua unica possibile declinazione pacifica, quella appunto sagomata dalla consapevolezza e dalla coscienza, dall’autocoscienza e
dalla reciproca accettazione, dalla tolleranza, dall’ironia di psichici naufragi. Gli
eccessi dell’amore e della relativa fede, delle passioni e delle relative credenze e
convinzioni, non hanno davvero evitato i più drammatici passaggi storici, ma vi
hanno anzi sotto certi profili addirittura condotto un’umanità non affatto matura,
e in tal senso non consapevole83:
La cosa sicura è che io non ti amo e che tu non mi ami. Siamo troppo maturi
per farlo, e troppo liberi. Amore vuol dire appunto libertà, e la libertà assorbe
l’amore84. Si potrebbe dire anche che quanto più si ama, tanto meno si ama.
Ciò che la gente chiama amore è ossessione, angoscia, seduzione, inversione,
il restare appiccicati ai libri di lettura delle scuole elementari. È sperabile che
l’umanità ora sia diventata più matura, un altro paio di guerre mondiali, ancora un paio di crisi di pubertà e tutte queste chiacchiere sull’amore saranno
finite. Non credi anche tu?». «Ora potrei proprio raccontargli dei pantaloni
rossi», pensò la moglie. Ma ci rifletté su ancora un momento e disse soltanto:
«Credo che tu abbia ragione». Erano d’accordo e cominciarono a baciarsi
appassionatamente […]. Il Capitano è felice con sua moglie, e di conseguenza
molto irritato − ci mancava anche quello […]. «Ci vogliamo troppo bene,
e questo è un segno di immaturità. Io ho ancora bisogno di avventure per
imparare a non volerti più bene». / Succede ciò che le Sirene hanno cantato.
83
Si veda BAZLEN, Scritti, cit., pp. 140-141, 145 e (nella sezione Viaggio, Appendice) 161162. Si constati come, dal concetto critico che Bazlen ha dell’Odissea, emergano considerazioni
culturalmente rinnovate e anticonformistiche sull’amore, sul matrimonio, sulla fedeltà, sulla
rigidezza del “patto di sentimenti”: «Lui che per fedeltà a una donna viene cacciato continuamente
in mezzo ad avventure, per sfuggire all’avventura, e non si rende conto di nulla di ciò che incontra
nelle avventure, finché poi ritrova, non trasformato, la donna non trasformata − la vita creativa
finisce, e comincia la famiglia cristiana» (ivi, p. 211); «ordine rigido non è soluzione − ordine
in movimento, sì!» (ivi, p. 212); «Tutto ciò che ci viene incontro e che rinneghiamo per seguire
un’altra cosa, è non vissuto e si rivolta contro l’altra cosa… ma c’è la fedeltà (la fedeltà mantenuta)
e si sa che a colui che si è trasformato viene incontro colei che si è trasformata − (e allora non era
infedeltà) fedeltà senza senso di colpa… » (ivi, p. 213); «egli non deve fare attenzione (‘non possono
conquistare il suo cuore’) a: / 1) le seduzioni dell’anima sapiente (di magia) / 2) l’attrazione del
destino nella sensualità senza direzione di Circe / 3) la giocosa puerilità dell’innocenza di Nausicaa
(che vorrebbe sposarlo) / per ritrovare l’anima ingegnosa di Penelope / (Perché Odisseo se ne è
partito? − Ora non si parte più, si viene gettati in una fossa comune via una guerra mondiale)» (ivi,
p. 216). Si legga anche, nella sezione intitolata Vino (p. 156): «Per gli uomini dell’inferno valgono
le leggi dell’inferno − per gli uomini della trasformazione valgono le leggi della trasformazione».
84
Si può in tal senso rammentare il concetto spinoziano per cui l’amore implica non il desiderio
di possesso dell’altro, ma il desiderio della sua libertà: «Amare A significa amare la libertà di A».
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Talmente ossessionato dall’idea di mettere tutto in ordine che dimentica di
fissare la rotta… quasi naufragio.
Amori, fedi, credenze e convinzioni, teoremi e postulati di dottrine, di teologie e
di teleologie − anche immanenti −, se privi delle necessarie componenti costitutive
rappresentate non solo dall’ironia, ma dalla salutare coscienza di una loro possibile, intima natura grottesca, e dall’apertura anche blasfema a una sbeffeggiabile risibilità, hanno condotto, si potrebbe dire, alle varie declinazioni del passo dell’oca,
all’assolutismo indottrinato e fanatico delle teocrazie religioso-militari, alle dottrine incatenate a una sedicente proprietà della ragione filosofica assoluta, all’intolleranza che nasce dalle gerarchizzazioni dell’umanità su base culturale e razziale.
Si fruisca allora d’una campionatura dei passaggi che il capitano si trova
ad attraversare nel processo d’affrancamento, di liberazione dalla cosiddetta
normalità di ménage matrimoniale. Ad esempio, la prima reazione alla presa di
coscienza dell’“abiezione” adulterina da parte della moglie individua l’insopportabilità della situazione proprio nella “corte dei miracoli” dei menomati dell’osteria (Scritti, p. 42):
Certo, poteva capire tutto, in fondo era ragionevole e senza pregiudizi, e
non si era mai fatto certe illusioni, Dio guardi, ma un Gambadilegno, quel
che è troppo è proprio troppo; e naturalmente anche un Monocolo e un
Butterato.
Va, altresì, assolutamente attraversata l’esperienza della «Balena» (pp. 64-65), nella
quale, oltre ai più ovvi e non poi così stringenti richiami della tradizione culturale,
si attivano i miti della nave, del ventre materno, della nascita còlta nell’atto dell’essere «sputati fuori» e dello «strisciare fuori», in una cosmologia non distante da
quella leopardiana («Null’altro che un granello di sabbia nella pancia di una balena ancora più grossa»), in un mondo anteriore alla richiesta d’una redenzione, e
radicato − nella piena verginità dell’aroma olfattivo − in una prosaica penombra di
sanità primitiva, precedente alle «eternità» (al plurale, appunto) che dovranno passare prima di condurre a un «profumo», a una conquista che non sarà altro che «il
profumo del singolo», nella prospettiva di tipo ernstbernhardiano della peculiarità
e dell’irripetibilità di ciascuna figura umana:
che cosa è mai questo mondo? […]. Null’altro che un granello di sabbia
nella pancia di una balena ancora più grossa […]. In fondo è caldo, in fondo
si è protetti, e basta non sdrucciolare quando si viene sputati fuori, ma si ha
una cattiva coscienza, e si sa che bisogna farlo, si è spinti, si è spinti irresistibilmente, e si sta lì seduti, paralizzati dalla paura, e si prega il buon Dio, si
spera che ancora non sputi, si spera che ancora non sputi e si sta a spiare il
suo brontolio, − la mattina, ci sputerà, non ci sputerà […]. Vedete come non
capite proprio niente, il puzzo lì è proprio la cosa più bella… è il puzzo di
tutto − debbono passare altre eternità perché comincino i bei profumi, ma
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allora sarà il profumo del singolo − un profumo esclude l’altro − ma il puzzo
là dentro è il mondo prima che gli venisse l’idea di dover essere redento, tutto
puzza in perfetto accordo, lì c’è ancora tutto… e fuori il mare e lo iodio, sono
cose sane, chi vuole avere i polmoni puliti […]. Una balena è una nave, solo
che tutto è confuso, la sala macchine e il salone e le cabine sono mescolati
alla rinfusa.
Così, un’altalenante, rimescolata e intermittente Farbenlehre, una teoria dei
colori non più goethiana ma neppure rilkeana85, affabulata dallo shock naufragico,
costituisce il tessuto − in apparenza caotico ma in realtà di faticosa, progressiva
conquista di consapevolezza − della serie di esperienze del capitano, segnate in
modo decisivo dai colori, appunto, dell’abbigliamento (il rosso dei pantaloni della
crisi iniziale, il blu dell’uniforme marinaresca invernale, il bianco dell’uniforme
estiva), del mare, del sangue, del sole, dei coralli86:
La sua gamba sinistra batté contro il corallo; tentò di fermare il sangue con la
mano, e quando lo portò alla bocca il sangue delle sue vene era salato come
l’acqua del mare. / «Non posso neppure dissolvermi in voi, o stanchezza, o
mare, finora ho guardato lontano e non ho visto il mare, finora ho studiato le
carte e non ho conosciuto il mio sangue, ora conosco i pesci e le alghe e le meduse del sangue, o sale del mare, o sale del sangue, e ora, in mezzo al mare azzurro, sono costretto a girare su un disco rosso, continuamente, in tondo, fino
a morire di fame e di sete» […] finché non cadde svenuto sul duro rosso suolo
dell’atollo. […]. «voglio avere i pantaloni, voglio i pantaloni rossi». […] nei
giorni d’estate il sole bruciava e lui non aveva la sua uniforme bianca, e nelle
notti d’inverno il vento del nord soffiava e lui non aveva la sua uniforme blu».
[…] nuotava verso oriente, incontro all’Orientale − dopo aver nuotato verso
il sole, socialismo − ma lì c’era la notte, e alla fine, nonostante tutto, nuotò
verso il sole − giustezza del simbolo, nuotare verso la notte, accettazione della
morte, coscientemente nella notte − / I pesci e le alghe e le meduse del mare
/ un lontano punto rosso − e lui nuotava e nuotava e nuotava, e il punto rosso
non diventava più grande. […] era in mezzo al mare, era questione di vita o di
morte, e aveva un punto rosso davanti agli occhi […] in mezzo al mare c’era
un dolore fisico che continuava a nuotare verso una macchia rossa, / ignaro
fra meduse e coralli.
Cfr., ad esempio, il disegno del 9 luglio 1946, presente nell’edizione del ’73, con cinque
cerchi colorati, e il riferimento a una possibile analisi buddhista dei colori, in RICCA, I disegni di
Roberto Bazlen. Materiale clinico e strumento critico, cit., p. 60.
86
Pp. 67-77, con tagli. Il «poeta sospetto» cui si allude a metà della citazione è Rilke. Sullo
stesso RILKE, a proposito della pubblicazione delle Lettere di Muzot (V volume dell’epistolario
rilkeano, Insel Verlag; in italiano, Milano, Cederna, 1947, accompagnato da due volumetti [ID.,
Elegie di Duino e Requiem del 1908-1913, con le traduzioni di LEONE TRAVERSO e di GIORGIO
ZAMPA]), cfr. EUGENIO MONTALE, Ritratto in piedi di Rainer Maria Rilke, in Corriere d’Informazione,
31 dicembre 1947-1 gennaio 1948, ora raccolto in ID., Sulla poesia, cit., pp. 532-534.
85
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Erano solo schegge di coscienza: la macchia rossa era già molto grossa, un’isola corallina − chiara davanti agli occhi, un globulo rosso − morte del poeta
sospetto − quanto più piccole diventavano le schegge, tanto più grossa l’isola
− l’isola era già molto grossa, era strano, non riusciva più a pensare − avrebbero dovuto esserci i grandi miti, Poseidone stranamente di natura umana, e
l’uomo era piccolo piccolo e si chiamava Ulisse; e gli dèi erano piccoli e la più
piccola di tutti si chiamava Pallas Atena; e c’era il ciclo dell’alta e della bassa
marea, e ogni tanto vincono i piccoli: come potrebbe essere, se non vincessero
mai − e il più piccolo aveva l’arma più astuta, e ha vinto − in qualche posto
quelli che sono ancora più piccoli stanno ad aspettarlo, e per questo ora in
mare, tanto piccolo poi non sono, meglio la morte, ma io ho scelto la morte
e Poseidone mi ha aiutato − e dal mare sempre più mosso si levò improvvisamente un’onda alta che lo gettò sulla spiaggia − / Ahi, gridò il Capitano, si
sollevò con fatica, sull’atollo, aveva un piede ferito dalla punta di un corallo
− perdeva sangue, portò la mano sulla ferita e poi alla bocca, e il sangue delle
sue vene era salato come l’acqua del mare − […]. LASCIARSI PORTARE
(quel maledetto Orientale, tutta colpa sua) dissolversi nella stanchezza, dissolversi nel mare − e quanto più tranquillo diventava lui, tanto più si agitava
il mare, e quando smise di nuotare, l’onda; ahi, disse il Capitano.
Non sfuggirà certamente la caratterizzazione di Ulisse e di Pallade Atena come di
creature “piccole” (la dea della razionalità più di tutti), né sfuggirà la scansione
ritmica del divenire costituita dal ciclo dell’alta e della bassa marea, con la vittoria,
pur non frequente, degli stessi “piccoli”; ma proprio il ritmo talassico, specificamente antiulisside, che avvolge il naufrago, ribalta le combinazioni d’alleanza tra
figure umane e divinità del mito, istituendo il ruolo identitario dell’aiuto in una
sagoma poseidonica «di statura umana»: l’aiuto lo dà Poseidone, perfetto alleato
per un capitano che progetta un naufragio e che non ha nel dio del tridente un
avversario, ma un termine di vitale riferimento nello scambio, altamente significativo e rivelatore, delle dimensioni cromatiche87. Sono il rosso e l’azzurro (già
87
Accenni a questi concetti, anche in rapporto con il «grigio» della relativa città e del relativo
vestito, si trovano nella sezione intitolata, appunto, alla Città Grigia, p. 99: «Nell’ebbrezza (sangue
e mare e vino) immagini delle Sirene − io non sono un capitano naufragato, io sono un capitano
che ha fatto naufragio ed è finito su una spiaggia, la spiaggia fa parte della storia, − e sono strisciato
fuori dalla pancia della balena e anche qui io striscio fuori e col mio vestito grigio esco in un mondo
chiaro». Ma cfr. pure (p. 156), nella sezione che potremmo definire delle “matrici”, Vino (tutta
formata da singole frasi, o da periodi molto brevi che costituiscono nuclei che altre parti dell’opera
sciolgono in dettato narrativo), «Vino, acqua marina e sangue / Coltivazione delle rose e caccia col
falcone. / Io, un capitano di lungo corso, io un coltivatore di rose, io un falconiere» (ci si riferisce
[vd. p. 116, sezione La figlia del Borgomastro] alla contrapposizione fra gli aspetti domestici e il
tentativo di un loro superamento: «gerani» / «rose», «canarino» / «falco», «cane» o «gatto» /
«leone»); e cfr., altresì, «A poco a poco diventa un ubriacone: poiché tutto è grigio, lui beve».
Ma allusioni ai colori, in particolare al “rosso”, vi sono in varie parti dell’opera; si leggano, ad
esempio, in Dal quaderno D. PER IL PRELUDIO, p. 159 (MESTRUAZIONE): «un giorno prima:
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protagonisti nella dialettica degli abbigliamenti) i colori decisivi nella scansione alternata delle sensazioni, degli stati d’animo, delle altalene psichiche, delle immagini
mentali nell’intermittente allucinazione naufragica; basti ricordare la ferita provocata
dal corallo, il sangue delle vene percepito più volte salato come l’acqua del mare, la
funzione appunto del «salato» come tramite fra mare e terra, fra equoreità talassica
e aridità di salina, fra rosso di sangue e sale marino, fra rosso di pericolo e azzurro
pelagico di Nettuno, nell’insistenza su un sound marino da abbandono di taoista al
movimento degli elementi: «ora conosco i pesci e le alghe e le meduse del sangue, o
sale del mare, o sale del sangue, e ora, in mezzo al mare azzurro, sono costretto a girare su un disco rosso»; e, nella stessa modalità narrativa: il «duro rosso suolo dell’atollo», il desiderio dei «pantaloni rossi», «I pesci e le alghe e le meduse del mare / un
lontano punto rosso», la compresenza dei colori («in mezzo al mare c’era un dolore
fisico che continuava a nuotare verso una macchia rossa, / ignaro fra meduse e coralli»), l’inevitabilità del rosso fra sangue, ferita, isola e corallo («la macchia rossa era già
molto grossa, un’isola corallina − chiara davanti agli occhi, un globulo rosso − morte
del poeta sospetto −»), e di nuovo l’osmosi − decisiva conquista − di rosso e di azzurro, di sangue e di mare: «atollo», «piede ferito», «punta di un corallo»-immersione
del sangue nel non ostile elemento marino, necessario naufragio fra alghe, meduse
e coralli nelle acque («si sollevò con fatica, sull’atollo, aveva un piede ferito dalla
punta di un corallo − perdeva sangue, portò la mano sulla ferita e poi alla bocca, e
il sangue delle sue vene era salato come l’acqua del mare −»)88. Così, si sottolineino
le ricorrenze e le intermittenze dei colori nella resa a frammenti di prosa del delirio
visivo-onirico dello junghiano alla deriva fra gli atolli oceanici:
si fa notte e si fa giorno, e il punto rosso è sempre ugualmente lontano, il mare
diventa verde, e il mare diventa giallo, e il punto rosso si avvicina sempre di
più −
continuamente ripreso e scaraventato in alto dalle onde, continuamente risucchiato dal gorgo −
notte sul mare, l’isola rossa e il rosso del mare −
grande fame, pasticceria − poi, niente fame, e le sue mutandine sono rosse»; in Viaggio, p. 163: «La
bandiera rossa / La luce rossa / La Croce Rossa / (Per tracotanza fa issare la bandiera rossa)»; in
Libro sacro, pp. 165-166: «mentre la pioggia rossa minacciava di inondare la terra […]. Il panno
rosso davanti all’immagine della dea mestruata».
88
Si ricordi a questo proposito la qualità veicolante dell’elemento costituito dal «sangue»
presso le «Civiltà precolombiane», con una possibile (e solo in parte dubitativa) apertura allo
scambio con il «sale» (Sud America, nelle NOTE SENZA TESTO − QUADERNO E, p. 198):
«Civiltà precolombiane: sangue, là dove ‘altrimenti’ è lo spirito. Non una gana caotica, con la forma
come controcanto − ma la forma nel caos […] − Avevano la testa nel sangue − perciò: la ‘legge del
sangue’ − (non solo il ritmo del sangue), la inesorabilità del sangue, la giustizia del sangue, sangue
come cristallo, e qui forse (ma forse è artificioso) un passaggio al sale- / Resta sicuro che quando
noi pensiamo al sangue dimentichiamo il suo contenuto di sale − Una matematica del sangue?».
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E più si insiste, finalmente comprendendo, sulla dimensione dell’«essere portati»,
non come passività, ma come incrocio di autodinamica del nuoto e di prevalenza
delle correnti del divenire, più si ritorna, da parte del lettore e dell’intellettuale
non meno che dell’autore, all’autoconsapevolezza, al recupero di una condizione personalmente cosciente, e singolarmente vivibile, di rinnovata possibilità di
procedere nel divenire, una condizione non priva di elementi di provvisorio benessere, e addirittura di compimento di sogni infantili che solo una psicoanalisi
bernhardiano-naufragica può rendere possibile; finalmente, è il caso di dire, «tutte
le riserve sono esaurite»:
si nuota, ma più esattamente si viene portati − e nel mio mare ora nuota un
capitano di lungo corso, iodio dell’acqua, ora si respira di nuovo bene − il
naso pulito e asciutto −
nuotando sul dorso lasciarsi portare −
nuotare, nuotare, nuotare, tutta la notte, tutto il giorno…
… questo perchè si è dato retta all’Orientale… la lotta col grande mostro
marino: il grande mostro marino era il mare stesso…
[…] quando aveva rifiutato i pantaloni rossi − quello era stato il primo atto
di preparazione al naufragio − quanto indietro bisogna risalire, la metà di una
vita con sofferenza e odio e sogni e lavoro e orgoglio, attraverso quante cose
bisogna passare per arrivare a un bel naufragio plausibile, elaborato, curato,
la logica interna che da un paio di pantaloni rossi, asciutti, doveva condurlo
finalmente a un paio di pantaloni blu, tutti bagnati − da bambino gli toglievano sempre le mutande bagnate − ora le aveva finalmente fradicie, un sogno
di lattante si compiva. / Ora tutto era in ordine, il tonfo in acqua faceva parte
del programma, e anche se non lo sapeva, poteva dire dove si trovava, era la
fine del prologo.
Ce ne vuole per preparare un bel naufragio plausibile: vi si perviene come a
faticato approdo, addirittura come a meta desiderata, una meta guadagnata con
sforzo prolungato, ma sforzo degno, e soprattutto rinnovabile nelle possibilità e
nelle prospettive. All’Ulisse omerico, che è l’uomo che ritorna, fa da oppositivo
riscontro l’Ulisse di Bazlen, l’uomo che sempre riparte. E rimane chiaro che è
il tallonamento critico della linea odissiaca a indurre alla contestualità talassicomarinara e al trionfo di Poseidone, a ribaltare il senso pittorico del celebre vaso
attico, ora al Louvre (del 430 a. C. circa), che celebra la virtù d’ingegno di Atena
(sempre la vittoria sul “Ciclope”) nel guidare il gigante operaio al trasporto del
masso da costruzione, e nel proporre, con folgorante lungimiranza economica, la
pianta dell’olivo alla città eponima: un’intera tradizione (non l’unica in tal senso)
è rovesciata, e se il mito, come la conclamata iconografia ceramistica ellenica riguardo ad Atene, da parte sua rimarca la vittoria della dea Pallade sull’antagonista
Poseidone, nella prospettiva junghiana di Bazlen è invece il dio del mare a vincere
in rinnovata concezione di mitografia su Atena. Se il bersaglio critico non fosse
identificabile letterariamente nell’Odissea, vi sarebbe comunque, nell’operazione
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dell’autore, la ricerca di ambienti estremi di confronto della mente del singolo − in
ottica bernhardiana − con la natura, non solo con il mare: «Il mare tutt’intorno, o
la foresta vergine, la risaia, il ghiaccio eterno» (sezione Vino, p. 156). Mare o foresta, o altro, può persino rappresentare un’alternativa adiafora.
3.8 L’Odisseo omerico e l’Ulisse dantesco. «Addio, Penelope», fra Circe, le Sirene e le derive della psicoanalisi junghiana
È proprio in questo senso che traspare l’opportunità di comparazione non al
tutto oppositiva con l’eroe di Dante. Il naufragio nell’Ulisse dantesco, in quanto
punizione divina dell’infrazione da parte dell’eroe, pone fine drammaticamente
alla ricerca, pur lasciando in vigore il messaggio di un “capitano” che è comunque
condannato alla pena infernale. Diversamente il naufragio in Bazlen premia, in
definitiva, la graduale acquisizione della disponibilità all’immersione zenica nel
ritmo universale, e perciò anche ritmo umano, nel divenire e nell’essenza metamorfica della quale partecipano anche i nostri sviluppi psichici: pretium e, insieme,
temporaneo e rinnovabile praemium. Ma il naufragio è comunque necessario, e
una connotazione di inevitabile pretium esso la intercetta pur sempre; al naufragio
si deve in ogni modo andare incontro, con tutti i costi umani e culturali che esso
può comportare, con tutte le conseguenze di ridefinizione e di ridimensionamento della sfera personale, familiare, individuale, casalinga, che a tale esperienza si
possono accompagnare; e una componente decisiva, se non proprio di smentita, si
dica almeno di relegazione in secondo piano degli affetti domestici, anche i più importanti, anche i più radicali e i più viscerali, una loro collocazione non prioritaria
o non più tale, è conclamata anche nei celebri versi danteschi di Inferno, XXVI,
94-97: «né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore /
lo qual dovea Penelopè far lieta, / vincer potero dentro a me l’ardore»89; né si può
89
Si veda pure CICERONE, De officiis, III, XXVI, 97: «Ithacae vivere otiose cum parentibus, cum
uxore, cum filio», per un Ulisse che non è mai personaggio rappresentativo di quiete casereccia, ma
che incarna invece una figura di personaggio d’alta esemplarità («exemplar»), avrebbe costituito
un «consilium» qualificabile come «utile», ma non sarebbe rientrato in un codice di valutazione
morale e intellettuale che lo avvalorasse come «honestum». «Honestum» è per Ulisse, come lo
sarà per lo stesso Dante (lo si può già constatare nella Vita dantesca, opera di Boccaccio), resistere
al richiamo del nucleo familiare, o mettere appunto in secondo piano «gli amorosi disiri», «le
dolenti lagrime», «la sollecitudine casalinga». Cfr. anche, per un àmbito lessicale avvicinabile a
quello dantesco, El libro de Alexandre, a cura di RAYMOND S. WILLIS JR., Princeton-Paris, Princeton
University Press [Les Presses Universitaires de France], 1934, t. P, pp. 2284-2285: «mas muchõ
mas gradesco lo que sienpre fesistes / los fiios e las mugeres por mj los aborrescistes / nunca lo
que yo quis non lo contradixestes // Dexastes vuestras casas e vuestras heredades / pasado ha dies
años que comjgo lasrades / muchõ vos he cansado e cansados andades» [«ma molto di più gradisco
quello che sempre avete fatto; i figli e le mogli per me li avete aborriti, giammai quello che vi chiesi,
non lo contraddiceste. // Lasciaste le vostre case e i vostri poderi, passati sono dieci anni che insieme
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scordare che la partenza dell’Ulisse dantesco − una partenza, lo si sottolinei, senza
νόστος, senza reditus itacese, senza alcun reale recupero degli affetti familiari − non
certo a caso avviene dall’isola Eea, con un eroe che è ancora intimamente irretito da
Circe (vv. 90-92): «Quando / mi diparti’ da Circe, che sottrasse / me più d’un anno
là presso a Gaeta»90: “sottrarre” è verbo tecnico che rinvia al mondo cavalleresco,
cortese, e non rinvia dunque al puro e semplice trattenimento, alla mera dissuasione
dall’ulteriore viaggio con il conseguente ritardo cronologico, ma anzi alla lusinga e
all’allettamento operati sull’eroe, tanto più se questi, intatto dai pocula della deamaga e dai loro effetti negativi, ha invece potuto cogliere tutti gli elementi positivi
della compagnia della maliarda, e secondo una tradizione riportata da Servio avere
da lei anche un figlio, Telegono91. Ulisse si abbandonerà ulteriormente al percorso
talassico, e per propria iniziativa (Enea sarà invece “sottratto” alle lusinghe fenicie,
didoniche, dall’intervento esterno di Giove e di Mercurio); e quindi meno ancora è
da dimenticare, nelle declinazioni non itacesi, non penelopidi, e quindi non omeridi
della figura di Ulisse, la presenza protratta, e ripetuta, della dimensione del “perdersi”, o addirittura del “perduto” −; nel Capitano bazleniano la perdita di sé, ovvero
la sua rimessa in gioco, con i relativi e provvisori ritorni, avviene in frammentarie,
discontinue sezioni narrative di tempistica mista e intersecata, riguardanti l’esperienza nuova, l’avventura, l’autoanalisi, l’immersione in un mare − o in un paesaggio
insulare, oppure boschivo, o anche urbano (la «Città Grigia») − di archetipi psichici
esternatisi in atti, e in topografie letterarie; nell’Ulisse dantesco («ma l’un di voi dica
/ dove, per lui, perduto a morir gissi», secondo l’“intervista” di Virgilio − vv. 83-84)
il termine rappresentato da «perduto» riecheggia, come potrebbe qui spiegare Pio
Rajna, lo smarrimento durante l’avventura, durante la peregrinazione nelle foreste,
e la conseguente mancanza di ogni notizia dell’eroe scomparso, del quale si può
persino giungere a ipotizzare la morte92:
a me avete penato; molto vi ho stancato e stanchi andate»] (vd. AVALLE, Modelli semiologici nella
Commedia di Dante, cit., p. 58).
90
Un riecheggiamento del motivo può essere avvertito nel Tasso della Gerusalemme liberata,
all’inizio dell’ascesa di Rinaldo al Monte Uliveto, dapprima nelle parole del santo Eremita (c.
XVIII, st. X, vv. 4-8): «pur ch’altro folle error non ti ritardi. / Deh! né voce che dolce o pianga
o canti, / né beltà che soave o rida o guardi, / con tenere lusinghe il cor ti pieghi, / ma sprezza i
finti aspetti e i finti preghi», quindi nelle parole dello stesso eroe recuperato (stt. XIII-XIV, vv.
1-8 e 1-2): «Fra se stesso pensava: “O quante belle / luci il tempio celeste in sé raguna! / Ha il suo
gran carro il dí, l’aurate stelle / spiega la notte e l’argentata luna; / ma non è chi vagheggi o questa
o quelle, / e miriam noi torbida luce e bruna / ch’un girar d’occhi, un balenar di riso, / scopre
in breve confin di fragil viso”. // Così pensando, a le più eccelse cime ascese». «Così pensando»,
ovvero ancora pensando ad Armida, la maga che tanto a lungo lo ha “sottratto” ai compiti, alti e
ardui, del cavaliere cristiano-crociato.
91
Cfr. il contributo in tal senso di FRANCA BRAMBILLA AGENO in «Studi danteschi», XXXIV,
pp. 205-209.
92
Si veda appunto PJO RAJNA, Dante e i romanzi della «Tavola Rotonda», in «Nuova
Antologia», LV (1 giugno 1920), f. 1157, pp. 223-247, qui p. 224.
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‘Perduto’! Ecco un vocabolo […] da potersi dir ‘tecnico’, dei romanzi in
prosa della Tavola Rotonda, che fa riscontro a ‘Queste’ (‘Quête’), italiano ‘Inchiesta’, spagnuolo-portoghese ‘Demanda’. S’intraprende la ‘Quête’, come
del ‘Saint Graal’, di cavalieri cospicui, e anche coronati, che postisi in avventura, entrati nelle foreste, non hanno più dato sentore di sé e che si temono
− questo pure si noti per Dante − morti. Si perdono a questa maniera e sono
oggetto di ‘Quêtes’ Artù, Meliadus, Lancilotto, Galvano, nel Tristano e nel
Lancilotto […].
Ma la sfera semantica del “perduto”, nell’Ulisse dantesco, rinvia anche alla seduzione intellettuale operata dal desiderio di conoscenza, dal pensiero filosofico,
dalla convinzione di poter effettuare la ricerca, l’indagine, l’esplorazione, per via
puramente razionale, senza l’appello all’intervento d’un aiuto divino (per Bazlen,
Dio va “attraversato”, non gli si può saltare sopra). E la seduzione intellettuale
può essere rappresentata dalle Sirene e dal loro canto, che già l’Ulisse odissiaco, a
differenza dei compagni di viaggio, ha potuto a orecchi aperti udire e sperimentare nei suoi allettamenti e nei suoi richiami, e al quale ha resistito solo per una
premeditata, materiale coazione ispirata e derivata dai consigli di Circe, ex fonte
di pericolo trasformatasi in preziosa alleata93. Le Sirene di omerica memoria, insomma, in questa interpretazione dell’Ulisse dantesco, hanno cantato senza alcuna
pausa o deminutio o “sconto” o filosofica sordina anche per Ulisse, gli hanno fatto
pienamente e a tutti gli effetti sentire la propria voce in vista d’un naufragio che
è solo ritardato, e hanno perciò insinuato la loro seduzione anche all’interno del
suo animo, anche nello spirito e nel ricordo dello scampato, del mancato naufrago,
sebbene il richiamo naufragico riemerga comunque, con tempi differiti; le Sirene
celebrano qui la loro ennesima vittoria, riuscendo a adescare, in Ulisse, il personaggio più adatto a recepire la sete di sapere, il viaggio di indagine, e non la sola
curiositas: il loro trionfo, la vincente lusinga della loro voce sono qui in tal senso, e
proprio grazie alla dilazione temporale, ancora più significativi.
Bazlen, quindi, differenzia il proprio personaggio, senza dubbio, dall’Ulisse
omerico, ma lo differenzia percepibilmente di meno da altre versioni, anche prevalenti − nel corso del tempo −, del mito di Ulisse (meno vicina appare, invece, la peregrinazione ulisside joyciana)94. Anziché partire dal protocollo letterario
93
Importanti, per questi concetti danteschi, i contributi di MARIA CORTI: Il canto delle Sirene,
Milano, Bompiani, 1989 e Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi,
1993. Di notevole rilievo, come lettura dantesca della stessa Corti, l’opera di uno studioso svedese,
l’OLOF LAGERCRANTZ di Scrivere come Dio, tradotto in Italia nel 1983, proprio con introduzione
della filologa milanese; si legga questo significativo passaggio: «A fianco di Ulisse che cos’è mai
Lucifero se non un misero prestigiatore e imitatore! […]. Il vero nemico di Dio è invece Ulisse, per
il quale il sapere e la libera indagine sono più importanti di Dio stesso».
94
Cfr. a questo proposito quanto scaturisce dal testo dello stesso Bazlen, in Scritti, cit., p. 215:
«Sulle banalità degli ammiratori di Odisseo e delle poesie su Odisseo − si va dritti da Odisseo a B l
o o m − (e l’eroe diventa Hemingway)». Rimane, in ogni caso, come significativo dato biografico e
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del νόστος, dalla dimensione del desiderio del ritorno in prospezione di recupero,
di appiattimento normalizzante, di uscita dalla dimensione-Nettuno e di sospirato
reinserimento nella standardizzazione quotidiana, identificativa della domesticità
(diversa, ma classicamente non troppo lontana da quello che sarà il catulliano «desideratoque acquiescimus lecto»), il «capitano», proprio per una “crisi” coniugale,
per latenza d’amore e per carenza di consapevole dialogo nel nido “itacese”, per
stato di incomprensione Penelope-Ulisse, si inoltra nella dimensione del naufragio,
dell’“abbandono”, dell’avventura, del viaggio interiore alla ricerca di se stesso, della
condizione, questa sì realmente attinta, del «perduto» quale termine tecnico della poesia cavalleresca e in particolare romanzesca; l’anti-Ulisse bazleniano parte sulla base
d’un a posteriori, ovvero della spinta, di matrice autentica e non programmata, confusa e quindi al principio e per definizione non affatto chiarita né in sé distinta, d’una
situazione di malessere, di disagio, di squilibrio matrimoniale, e anche ambientale,
insorgenza necessaria (e imprescindibile) a innescare il tragitto talassico-interiore,
psichico-marinaresco, degli itinerari esterni ed interni, dei viaggi appunto «di lungo
corso» e di incerta mappa, sino al ritorno nella modesta casetta piccolo-borghese nel
rione portuale, un ritorno non vissuto a mani vuote, ma provvisto del dono, mentalmente “ricaricabile”, di una straniante coscienza ironica95; in modo diverso, per l’Ulisse dantesco l’accesso al rango del “perduto”, declinato nel senso alto di ricettività
alla seduzione filosofico-intellettuale verso il sapere, è pur sempre corrispondente
alla connotazione universale del personaggio, in tal grado, che il poeta Dante può
attingere con libertà fantastica a quell’apertura all’amore del sapere che attraversa
comunque la figura letteraria ulisside nel tempo. Neppure i consigli di Circe, infatti,
sottraggono il futuro Ulisse dantesco alla sconfitta “strategica” della morte nel mare,
ovvero alla sconfitta, maturata appunto nel tempo, nei riguardi dell’invincibile attrattiva sirenica della conoscenza, e altresì ai rischi, per l’uomo, e forse più ancora per
l’uomo-“eroe”, di “perdersi” definitivamente. E in fondo lo stesso Ulisse omerico è
atteso da un’enigmatica «Morte per mare», una delle possibili interpretazioni della
sorte annunciata da Tiresia («ϑάνατος ἐξ ἁλός») nella Nékuia, nell’XI dell’Odissea.
Si torni infine, per un attimo, allo stesso Odisseo ellenico. L’affabulazione omerica, comunque si sia testualmente stratificata fra autori e differenti epoche di com-
culturale, la conoscenza che Bazlen ha avuto del fratello di Joyce, Stanislaus, e delle lezioni private
di inglese che, insieme a Gillo Dorfles, Bobi frequenta, sempre a Trieste, presso un docente che
ha conosciuto James Joyce. Ricordiamo, dall’intervista di Daniela Gross allo stesso Gillo Dorfles
(«Pagine Ebraiche», aprile 2012), le parole che l’intellettuale e artista triestino ha dedicato alla
sua città d’origine e al suo ambiente culturale: «Frequentavo molti personaggi legati alla Trieste
ebraica, a quel tempo molto importante dal punto di vista culturale. Ricordo Italo Svevo, Umberto
Saba e quel grande intellettuale che fu Bobi Bazlen, amico che continuai poi a vedere anche negli
anni milanesi. A Trieste il mondo ebraico conviveva con la comunità greca, con quella serbo
ortodossa e slovena e proprio questa diversità di radici e di culture era all’origine delle fortune di
quella città. A Trieste allora era del tutto normale parlare due o tre lingue… ».
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Anche le «Sirene», in Il capitano di lungo corso, rivestono assai prosaiche connotazioni.
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posizione, si rivela, come più sopra si è detto, una scelta parziale fra le tradizioni
ulissidi; un occultamento, pur non totale, della verità. Orazio, a sua volta, esempio
di autorevole passaggio latino del mito ulisside (e quindi attendibile esponente
di tutta una linea “classica” di concezione e di rappresentazione dell’eroe), per
parte sua − Epistulae, I, II, v. 23 − non si pone, né può porsi, il problema oppositivo Circe / Sirene; nei suoi versi, l’insidioso canto sirenico e le pozioni circee
di magica lusinga al «viver come bruti» si allineano con perfetta logica lineare,
in un’emblematica ricognizione delle difficoltà e delle prove ardue e ostili da cui
Ulisse è uscito indenne; è Orazio a recepire una figura di Circe presirenide, propinatrice di pericoli venefici prima che altri lo sia dei pericoli naufragici, anziché
alleata prodiga di consigli antisirenici e feconda compagna di talamo: «Sirenum
voces et Circae pocula nosti» (quindi, si possono pure citare esperienze dirette di
seduzioni e di fascinazioni, tutte concepibili sotto lo stesso segno, come negative
riguardo al νόστος, quali ostacoli da superare, e quali fonti di sofferenza). Ed
è un merito perpetuo, grande e memorabile, per Orazio, la vincente resistenza
in tal senso offerta dall’eroe, dal divino Odisseo: Ulisse non si perde, e per lui
l’amore di conoscenza significa anche questa vittoria della calliditas, dello studio preventivo delle difficoltà; significa questa vittoria costituita dalla resistenza alla stessa Circe, o dalle corde che contro le Sirene legano l’eroe all’albero
della nave; tale, forte e decisivo, insomma “esemplare” amore di conoscenza è
concetto indistricabile dal concetto di saggezza, di avvedutezza pratica («virtus
et sapientia»), di esito reale e felicemente concreto, non illusorio e velleitario,
dell’impegno pósto nella travagliata navigazione di ritorno96: le avversità, anzi,
96
Nella visione di Bazlen, l’Ulisse omerico (si sottolinei il carattere di forte e demarcata
individuazione, di riduttiva circoscrizione d’àmbito di riferimento, che in tal senso riveste
l’attribuzione odissiaca) rappresenta il grado iniziale di ottimizzazione del processo curiositàrischio, appagamento del sapere e scanso del pericolo: «Ascoltare legati il canto delle Sirene: qui
comincia la mancanza di rischio del piccolo borghese» (Scritti, cit., p. 209); «comincia», appunto,
poiché Odisseo non è, così e semplicemente, «il piccolo borghese» (sarebbe una «stupida frase»),
ma con lui «comincia quella forma di vita di cui il piccolo borghese rappresenta il fenomeno
di degenerazione…» (ivi, p. 210). Neppure la deriva sirenica, però, sarà per il protagonista
bazleniano l’ultima, e peraltro impossibile soluzione dell’impulso naufragico, anche se le Sirene,
o la singola Sirena, sembrerebbero costituire un approdo, una sede di acquisita stanzialità, e
rappresenterebbero a loro modo un “porto”, una soluzione antinaufragica, un arrivo, non si dice a
rimedio, ma a “conclusione” del naufragio. Rimane vero che i passi bazleniani dedicati all’ipotesi
sirenica rivendicano comunque una loro realtà di sezione testuale, che si apre alla considerazione,
già accennata (cfr., in questo capitolo, n. 43), dell’influenza esercitata dal filosofo Michelstaedter;
cfr. BATTOCLETTI, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, cit., pp. 508-509: «Nel Capitano Bazlen spiegava
la sua filosofia: “Quanto più si fanno calcoli tanto più ci si allontana dalle sirene. Le sirene sono
figlie del caso […] questa volta si sarebbe affidato al mare, il mare forse lo avrebbe spinto nella
direzione giusta.” Il capitano stesso era stato generato da una sirena, mentre la moglie lo aveva
spinto in mare; questo personaggio è la proiezione di Bobi, che voleva disfarsi del passato e del
progetto di ricerca di una sposa mitica, progettando un viaggio di liberazione in cui trova posto
la sirena. “E gli passò improvvisamente per la testa di sposarsi con la sirena e stop. Era un’idea e
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al di fuori d’ogni declinazione di retorica moralistica, suscitano gli stimoli alla
conoscenza, acuminano la volontà e il progetto di rimedio, e di superamento del
problema (basti pensare appunto alla possibilità di ascolto dall’albero della nave,
che permette ad Ulisse di “conoscere” il canto sirenico, e di risultare al momento
l’unico − eroe privilegiato − ad averne impunemente fruito); la conoscenza si
lega con indissolubile nodo alla varietà delle esperienze e delle difficoltà, delle
peripezie e delle avventure negative, dei motivi di mora, di irretimento, di dolore, di deviazione, d’inversione di rotta, e in genere di ritardo, nella riconquista
e nella riappropriazione di Itaca: «Dic mihi, Musa, virum, captae post tempora
Troiae / qui mores hominum multorum vidit et urbes» (Ars poetica, 141-142); e
più ancora: «Rursus, quid virtus et quid sapientia possit, / utile proposuit nobis
exemplar Ulixen, / qui domitor Troiae multorum providus urbes, / et mores
hominum inspexit» (Epistulae, I, II, vv. 17-20)97. Un comportamento diverso da
questo avrebbe costituito uno sciagurato errore, esemplarmente scongiurato da
un eroe che distanzia da sé anche gli uomini comuni dell’epoca augustea, durante
la quale Orazio scrive; egli sarebbe stato «stultus cupidusque» se avesse bevuto
i «pocula» circei, e avrebbe vissuto «turpis et excors», come «canis inmundus»
o «sus»; noi, invece, costituiamo la gente comune e mediocre («Nos numerus
sumus»), dice Orazio, e siamo appunto noi, semmai, a essere assimilabili ai nullafacenti perdigiorno della gioventù dei proci («sponsi Penelopae», aspiranti, ma
in ogni caso nemici per definizione di Ulisse) e della gioventù dei Feaci (gli antiulissidi del torpore e dell’ozio: «in cute curanda plus aequo operata iuventus, / cui
pulchrum fuit in medios dormire dies et / ad strepitum citharae cessatum ducere
curam»), “sottratti” a se stessi e a un’esistenza più virtuosamente attiva, presi e
capì ora improvvisamente che cosa aveva sempre cercato, una sirena. Non era forse un capitano di
lungo corso? Com’è che aveva potuto essere così stupido da pensare di contentarsi di una donna
che vive a terra? Le donne del mare sono lì apposta per gli uomini che vivono sul mare, le donne
di terra erano vietate”». Nei Figli del mare di Michelstaedter il poeta si tuffa nelle profondità
dell’acqua con l’ambizioso programma di dare la patria all’esule sirena, concludendo «“e nel mare
sarai la sirena”. / Così il capitano, che “era vicino alla morte ma era tremendamente colto”, sfidava
la sorte per essere libero. Proprio come Michelstaedter scrive di Itti e Senia: “quando libera ride la
morte / a chi libera la sfidò”, riprendendo il nietzschiano vom Freien Tod (“della libera morte”) in
Così parlò Zarathustra: “Io esalto la mia morte: la libera morte che viene a me perché io la voglio.”
/ Michelstaedter nel Canto delle crisalidi scrisse “vita, morte, / la vita nella morte […] ma la vita /
la vita non è vita / se la morte / la morte è nella vita”».
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Si legga per intero il passo oraziano: «Rursus, quid virtus et quid sapientia possit, / utile
proposuit nobis exemplar Ulixen, / qui domitor Troiae multorum providus urbes, / et mores
hominum inspexit, latumque per aequor, / dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa /
pertulit, adversis rerum inmersabilis undis. / Sirenum voces et Circae pocula nosti; / quae si cum
sociis stultus cupidusque bibisset, / sub domina meretrice fuisset turpis et excors, / vixisset canis
inmundus vel amica luto sus. / Nos numerus sumus et fruges consumere nati, / sponsi Penelopae
nebulones Alcinoique / in cute curanda plus aequo operata iuventus, / cui pulchrum fuit in medios
dormire dies et / ad strepitum citharae cessatum ducere curam» (Epistulae, I, II, vv. 17-31).
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rapiti da pratiche autocosmetiche e da trattenimenti musicali prolungati, come si
trattasse, nell’epoca nostra, di idromassaggi e di cuffie da ascolto a tutto giorno.
L’Ulisse omerico, in particolare, è il πολύτλας, il “costante”, colui che è stato
capace di sopportare molte avversità, colui che è resistente e che non soccombe
ai naufragi e in genere alle avversità del fato («adversis rerum inmersabilis undis», −
Epistulae, v. 22): “costante”, πολύτλας («Le héros d’endurance», tradurrebbe Victor
Bérard)98, ovvero, secondo i termini della dittologia bazleniana, il «non trasformato» e insieme l’immodificabile «curioso», titolare d’una tipologia di curiositas che è
espressione di razionalità coerente con il personaggio pupillo della dea Atena99, un
curioso che persevera nella voglia di conoscenza, in piena, necessaria simultaneità
con la prospettiva del ritorno («latumque per aequor, / dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa / pertulit» − Epistulae, vv. 20-22), poiché egli compie due
azioni fra loro non contraddittorie: la curiositas, infatti, incarnata appunto dall’eroe
providus, in definitiva non smentisce, ma anzi rafforza e arricchisce, temprandola a
un’avventurosa serie di difficoltà e di ampliamenti di conoscenze, l’adamantina tenacia dell’idea del ritorno, d’un reditus ad Itaca non alterato, nei suoi presupposti, dalla
Si veda, puro esempio dell’epiteto di «πολύτλας», il primo momento dell’agnizione
Telemaco-Ulisse (Odissea, XVI, 186): «Τὸν δ’ ἠμείβετ’ ἔπειτα πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς» («Le
héros d’endurance, Ulysse le divin, lui fit cette réponse»: cfr. L’Odyssée, t. III [canti XVI-XXIV],
a cura e con traduzione di VICTOR BÉRARD, II ed. [I ed., 1924], Paris, Les Belles Lettres, 7a ristampa,
1967, pp. 7 e 9).
99
Si ricordi, peraltro, che Atena compare sì per quasi due terzi del poema odissiaco come dea
paladina di Ulisse, e in piena lotta con Poseidone, ma che si fa attivamente presente in particolare
dal XIII libro in poi, dopo il decisivo viaggio per mare del protagonista e quindi dopo il suo
approdo ad Itaca (un viaggio che è causa di sofferenze per i Feaci accompagnatori proprio grazie
all’ultima esplosione d’ostilità da parte dell’Enosìctono, Nettuno), per favorire e aiutare in modo
importante Ulisse nella difficile serie di passaggi rappresentati dal rientro e dal riconoscimento
nella sua stessa patria. Atena-Minerva, insomma, è dea di efficace azione soprattutto quando si
è toccato terra, è dea che necessita della solidità del “terreno” appunto, del suolo riconquistato,
dove ella può ispirare sotterfugi e azioni con la sua intelligenza di divinità verginale e cefalopara,
nata dalla testa di Zeus (dalla testa, e per di più del padre; i parti paterni non incontrano davvero
miglior fortuna nei «bambini» nati dal babbo, icasticamente connotati, nel Pasolini di Petrolio).
I due terzi del poema, si può dire, sono invece dominati, e ciò è estremamente significativo,
dalle peripezie romanzesche e dai fortunali poseidonici, dal mare e dalla sua interazione con
l’intelligenza d’un Odisseo che si trova a subire, e a reagire, nell’àmbito del regno di Nettuno.
Si potrebbe fondatamente asserire che, al “giro di boa” dei libri XIII-XIV, Poseidone e Atena
cessino forzatamente la loro lotta, permettendo “linearmente” la sola e indisturbata presenza della
dea glaucopide, senza appunto più confliggere o collidere in una “reale” simultaneità di presenza.
Nell’Odissea omerica Poseidone si deve sostanzialmente rassegnare all’approdo itacese di Ulisse
e alla “staffetta” con Atena; secondo la profezia di Tiresia nella Nékuia, il dio dovrà ricevere
sacrifici generosi e alti onori, e dovrà con questa soddisfazione ricevuta in definitiva placare la
sua azione, se non la sua ira. Rimane, però, irrisolto dubbio esegetico − come si è accennato nel
testo −, l’ambigua e difficilmente interpretabile predizione, sempre dell’indovino Tiresia, della
morte ἐξ ἁλός, “lontano dal mare” secondo alcuni, o, invece, concepibile proprio come “dal mare”
(originata, proveniente dal mare) secondo un’altra linea esegetica.
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lotta con Poseidone, dalla faticosa, drammatica, ma alla fine guadagnata salvezza dai
naufragi; e il naufragio è, per il πολύτλας, l’avversità, è l’ostacolo posto da Nettuno a
sfidare quella razionale ingegnosità che s’esercita sia a favore del ritorno, sia, e per lo
stesso motivo, contro le tempeste e contro i fortunali. L’indubbia e affascinante connotazione non soltanto di autonoma curiositas, ma di vero e proprio desiderio di sapere, che Odisseo pur sempre esibisce nel suo viaggio, e per di più in modo ripetuto
(elemento ben noto ai lettori di ogni tempo, e fonte di diverse reazioni a seconda della ricezione culturale nel corso delle epoche), si pone sul piano della razionalità, della
tenuta logica a fronte delle difficoltà e degli eventi (siano questi desultorî o pilotati
dalle potenti divinità); essa si pone dunque sul piano dell’“avventura” come percorso di equilibrio, e di riequilibrio, dell’indagine di conoscenza con gli imprevedibili
riscontri frapposti dalla sorte e dalla realtà degli svolgimenti romanzeschi. Nell’Ulisse omerico e oraziano, e nella linea della razionalità, della logica classica occidentale,
aristotelica, il naufragio è sciagura del navigante, è evento di negatività da evitare in
quanto elemento di anti-navigazione; al naufragio si vuole e si deve scampare, e vi si
scampa non con il solo aiuto della sorte o degli dèi, ma con l’aiuto della logica e con
l’aiuto dell’intelligenza e dell’accortezza, appunto, ovvero con l’aiuto delle risorse,
anche romanzescamente improvvisate, elaborate ed offerte dalla ragione, dalla sua
“creatività” adattativa, dalla sua brillante duttilità. Al naufragio si va invece incontro,
nella dimensione zenica dello sciamano nordazkenazita, come a un valore e come a
un’esperienza necessaria, come a un passaggio addirittura identificabile nel contrario
del suicidio, poiché il naufragio darà nuova e aggiornabile vita, e sarà − in un Bazlen
junghiano e taoista − momentanea palingenesi, e sarà, altresì, addirittura, rinascita
(pur non definitiva), e sarà temporanea, ma rinnovabile e laica Wiedergeburt, sobrio
frutto di provvisoria ma necessaria immersione di se stessi nel mare. Si leggano le
parole di Bazlen riguardo al rapporto fra «meraviglia» e anelito al dominio razionale
nella prima conoscenza del mondo, e altresì alla relazione tra Poseidone e Atena, tra
nascita della ragione occidentale e sua collocazione pelagica, spazio di movimenti
marini, di vortici, di flussi e di folate acquatiche e aeree100: «Non è che all’inizio fosse
l’immagine, all’inizio tutto è meraviglia − girare di meraviglia in meraviglia − anelito
verso un mondo senza meraviglia, anelito di dominare un mondo − e c o s ì l a f a n t
a s i a d i v e n t a c a p a c i t à i n v e n t i v a (ingegnosità)»; «Di necessità il bisogno
della nascita della ragione doveva sorgere in un arcipelago: una vita trascinata dalle
correnti, minacciata dai gorghi, abbandonata ai venti».
100
BAZLEN, Scritti, cit., p. 215.
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3.9 Un ventilabro di fosforo a frammenti. Tra «aphoristischer Beitrag», footnotes,
massôrâh, midrash, tradizione di analyse thalmudique
La complessa serie di osservazioni e di rilievi che si possono effettuare e condurre riguardo all’opera incompiuta di Bobi ha tra i suoi principali effetti quello
di schiudere svariate prospettive sui richiami junghiani offerti da Il capitano di lungo
corso (si ricordino in special modo opere quali Psicologia e alchimia e Gli archetipi e
l’inconscio collettivo). Si rende, insomma, necessario costituire un prolungato lavoro
di ricerca, un avvicinamento alla personalità di Roberto Bazlen; e se altre ricerche
dovranno a loro volta d’ora in avanti essere condotte, esse si muoveranno anche
nel solco tracciato da una linea d’indagine che permette al lettore importanti acquisizioni conoscitive, ma che nel contempo evita di intaccare, di scalfire la miticità
bazleniana. Anzi, una ricerca su Bazlen già da sé rafforza un mito che meriterebbe
di diffondersi ulteriormente, di godere di ancor più ampio riscontro. I fondamenti
culturali, epistolari, editoriali, biografici (ma non aneddotici) del mito consolidano il
mito stesso, rendono più credibile la sua unicità, la sua peculiarità nel panorama letterario novecentesco: ed è il servigio che si può tributare a un intellettuale che nella
precarietà del rapporto con la vita, con il lavoro, con l’arte, con lo stesso mondo letterario, ha saputo imprimere le stigmate d’un’anticonformistica e talentuosa genialità
lettoriale; e, nello stesso tempo, si tratta di rendere servigio all’acutezza interpretativa
di Bazlen, dell’«adelphiano» Bazlen, riguardo alla realtà culturale che lo circonda:
tale acutezza tradisce l’inserimento del disinserito, il realismo del solitario sognatore,
la partecipazione, oseremmo dire l’impegno dell’otiosus per vocazione.
Non risulterà inutile, in tal senso, e a delineazione di ulteriori tratti di un’originalissima figura intellettuale, una breve scelta di espressioni aforistiche, anche
al di fuori dei “testi” del Capitano di lungo corso, o di apparenti nonsense, di frasi o
sintagmi a prima fruizione paradossali, o anche di sapidi microtesti101, che in realtà
101
Sulla scrittura “breve”, sulla scrittura aforistica, sullo scrivere per “frammenti”, sulla
scrittura intesa come “note senza testo”, si vedano almeno Teoria e storia dell’aforisma, a cura di
GINO RUOZZI, Milano, Mondadori, 2004, e La brevità felice, a cura di MARIO ANDREA RIGONI-RAOUL
BRUNI, Venezia, Marsilio, 2006 (in quest’ultimo contributo, in particolare, si veda, di RAOUL BRUNI,
La scrittura breve di Carlo Dossi, pp. 329-343). Ma cfr., specificamente su Bazlen, anche BERTELLI,
Of Fragments and Footnotes, cit. Da questo intervento (p. 5) traiamo la seguente citazione, che ha
le sue premesse nella rassegna di precedenti, classici e moderni, della scrittura per frammenti: «In
spite of the heterogeneous experience of further forms of the fragmentary in the mould of French
Symbolism – In Italy, the explosion of writing into fragments through the reaction of Futurism;
a poetics of fragments with the Vociani; and other specific examples of fragmentary writing, say,
Giuseppe Ungaretti’s Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, Andrea Zanzotto’s poetry, the
heterogeneous experiences of the Gruppo 63 – Bazlen’s footnotes belong to that sort of private
writing which takes into account both diaristic and aphoristic style: a diary of always fewer lines».
«both diaristic and aphoristic style», quindi. Più che mai opportuno il riferimento alle «cultural
origins» di Bazlen, alla tradizione di lettura ebraica della Bibbia (p. 3): «Bazlen’s attempt is thus
to undo the book, to leave it to chance through a process of reduction which is the result of
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costituiscono acute penetrazioni, radiografie al negativo dai raggi estremamente
ficcanti nel loro affondo nell’essenza di un problema, di un fenomeno culturale o
artistico, di un testo, dell’indole umana di una personalità e della sua intelligenza;
è quella concentrata efficacia espressiva che sembra essere singolarmente appropriata alla cifra mentale e linguistica di Bazlen, e che Bobi sa in effetti mostrare in
molte pronunce di fosforica vibratilità anticonformista:
Il vestito rosso ha un bambino (p. 146)
Qualità senza uomo (specialisti) (p. 175)
L’elemento troppo presto solidificato della lingua (Da Dante al «Messaggero»). (Piane, niente dittonghi, niente Umlaut, niente H, niente consonanti in
fine di parola) (p. 179)
N o v a l i s : l’acte philosphique est le suicide, ecc. Il nulla raggiunto troppo
presto − di fronte al nulla lento, distillato, vissuto in tutti i capillari attraverso
il superamento karmico dei problemi degli antenati (e non che in principio
c’erano paura e fame).
multiplicity. Thus, the erratic tendency of Bazlen’s writing resembles that of the wandering Jew
“for his own condition of precariousness, […] the vagabond who reflects, the eternally restless
Jew, the one who sees and looks at everything”» (sono parole, queste ultime − tradotte in inglese −,
tratte da RICCARDO CALIMANI, Storia dell’ebreo errante. Dalla distruzione del tempio di Gerusalemme
al Novecento, Milano, Mondadori, 2002, p. 9). L’ebreo errante (in precedenza Bertelli ha usato per
Bazlen il termine «erratic experience», o «disposition»), «the wandering Jew», «the vagabond who
reflects», la sua «precariousness», «the eternally restless Jew», sono termini che contribuiscono
a formare la figura intellettuale, ma anche di scrittore, dell’errante Bazlen; errante alla ricerca
non d’una direzione, ma d’un ordine. Cfr. anche GIULIA DE SAVORGNANI, Bobi Bazlen: lo scrittore
che non scrive?, in Bobi Bazlen sotto il segno di Mercurio, Trieste, LINT, 1998, pp. 123-214. Così
(BERTELLI, Of Fragments and Footnotes, cit., p. 3), «The absent text is for Bazlen the invention of
a new text in the form of a reduction into smaller parts or fragments; it is the necessary product of
Bazlen’s de-scription as much as the scholium is the result of the copyist’s activity while copying
a text. The footnote becomes the metaphor of this process». Né può risultare distante dalla linea
di scrittura per footnotes «the central role», sottolineato da Bertelli sulla scorta di un intervento
di Lilia Cepak, «of the note – as central as that of the text – in Jewish culture. Both the massôrâh
[tradition] and the midrash [investigation], whose ancient examples of the latter date back to
the Talmudic practice, are strictly linked to the reading of the biblical text. Thus, an “analyse
thalmudique,” “word by word,” such as the one that Michael Löwy carries out for Benjamin’s
fragments on history, will also shed light on Bazlen’s» (pp. 5-6). La scrittura a frammenti di Bazlen
può davvero essere illuminata dalla centralità delle «note» nella cultura ebraica e in specie nella
lettura della Bibbia; e in questo modo si risale certamente alla pratica talmudica, sia in chiave di
massôrâh, sia in chiave di midrash: l’«analyse thalmudique», «word by word». O può illuminarsi
(ivi, p. 10) come «the expression of an anti-Apellian art in the form of notes collected in a shipcaptain’s log».
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Cosmopolitismo − eccesso di cosmo, mancanza di polis
I Tedeschi in quanto singoli reagiscono collettivamente
I Francesi in quanto massa reagiscono individualmente
Gli Italiani reagiscono individualmente in quanto singoli, collettivamente in
quanto massa (a casa e a piazza Venezia) (p. 181)102
Il pericolo di una saggezza senza scienza: la psicologia diventa moralismo (p. 183)
La decadenza del mistero del sorriso:
S f i n g e : il mitico Edipo
G i o c o n d a : l’universale Leonardo
L ‘ i n c o n n u e d e l a S e i n e : l’abissale camuffato sentimentalismo del
piccolo borghese Rilke (p. 184)
San Giorgio uccide con la spada che viene dalla croce: in tarda età postcristiana una mostruosità della remota epoca pre-cristiana (p. 185)
La perfezione di Goethe: non nella chiarezza statuaria (che vuol dire?), ma
nell’equilibrio ritmico fra chiarezza e follia (p. 186)
L’ibrido indiscreto in Bosch e Brueghel: Erasmo senza spirito… (p. 187)
La forma è il polo opposto del caos, non il definitivo superamento del caos.
Equivoco dell’estetica europea, del classicismo. L’artista classico crea la morte eterna.
L’armonia della vita di Goethe: non apollinea: la più bella, la più ritmica alternanza di forma e caos (p. 188)
Cristo fu crocifisso dopo aver detto: Padre, perché mi hai abbandonato. I
cristiani si fanno crocifiggere per non essere abbandonati da Cristo. È facile
e privo di fantasia.
Sulla croce si muore o di sete o di dissanguamento. In tutti e due i casi per
mancanza di fluido (svezzamento?) (p. 191)
Cfr. il concetto con il brano della Lettera editoriale (a Luciano Foà, Casa editrice Adelphi,
6 maggio 1963) dedicata a BENOÎTE ET FLORA GROULT − JOURNAL À QUATRE MAINS
(Paris, Denoël, 1962; cfr. BAZLEN, Scritti, cit., pp. 334 e 336): «“documento di civiltà” (in Italia
dicono così), di un’alta civiltà come in Italia nemmeno se la sognano […]. Saper vivere tutti i
ghirigori e tutte le contraddizioni della vita di due ragazzine del ’40/’45, senza cadere mai nel caos,
anzi con una lucida distinzione fino in fondo, è quasi un miracolo. Se vuoi un esempio: a pag. 320
l’intelligenza fredda e non cinica (anzi, l’intelligenza della donna che sa cos’è l’amore) con cui
Benoîte decide l’aborto. E di cose così ve ne sono a dozzine. Che formano due straordinari ritratti
di due bambine della razza dei padroni (da non confondersi con Herrenrasse) da mettere sotto
il naso delle italiane, della razza delle sguattere. Per evitare malintesi: padroni del proprio corpo,
della propria anima, del proprio spirito, della propria libertà».
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La redenzione del mondo è un processo creativo a partire da tutto ciò che è
dato, non la rinuncia a una parte (disturbante) del dato, per guadagnarsi alla
fine la benevolenza dei superiori (p. 193)
Per gli altri popoli è ovvio che, accanto agli dèi che ci sono, non ci possono
essere altri dèi. Gli Ebrei, per il fatto di essersi irrigiditi programmaticamente contro gli altri dèi, furono perseguitati dagli altri dèi, di cui non
volevano sapere. 103− Così si pietrificarono − chi, irrigidito, rifiuta la croce,
Si legga un concetto espresso da Giacomo Debenedetti: «L’ebreo, afferma Debenedetti,
è “mito […] universale” dell’uomo contemporaneo in quanto entrambi vivono profondi travagli:
come l’ebreo l’uomo moderno è scisso tra forze opposte» (cfr. GIACOMO DEBENEDETTI, Lettera
a Carocci intorno a «Svevo e Schmitz», in ID., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di
ALFONSO BERARDINELLI, Milano, Mondadori, 1999, pp. 451-457: p. 457, citato in FETZ, La narrativa
del primo Bilenchi, cit., p. 18 e n. 42). Considerazioni sulla condizione spirituale ebraica scaturiscono
anche da BERTELLI, Of Fragments and Footnotes, cit., in part. pp. 8-10. Uomo delle origini, l’Ebreo
in realtà se ne distanzia, tanto che «the truth of the beginning is in separation»: «The place devoted
to his wandering is the desert, an umbilical space of identity and otherness» (p. 8), in un concetto
aperto alla contraddizione che ben si accorda con il «“chaotic order” of writing» di Bazlen, con
«the experience of being lost and that of being at home». La contraddizione, ben sottolineata pure
da Blanchot (MAURICE BLANCHOT, The Indestructible, in ID., The Infinite Conversation, a cura di
SUSAN HANSON, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1992, in part. p. 126), è l’elemento
che fa del «Jewish man» «a Jew», «Vagabond» ed «established» (ivi, p. 127), e, del suo popolo
(p. 126), una gente che diventa tale «through the exodus […] to a place that is not a place and
where it is not possible to reside»; ma, a differenza di chi, come anche Jabès, vede l’unica sede,
l’unico ancoraggio del «Jewish people» nella «parola» («word»; deserto e parola), il dramma del
popolo ebraico, secondo la visione di Bazlen, consiste proprio nella “schiavitù” costituita dal
«wandering», dall’errare senza poter uscire dalla «parola», senza “ironia di naufragi”; e perciò
tale dramma consiste precisamente nel “mancato naufragio”, nella mancata immersione nel Mar
Rosso, per naufragio intendendo il concetto, bazleniano appunto, del rinnovamento della cultura,
della premessa di inizio d’una tradizione parzialmente rigenerata; e invece la traversata avviene a
piede asciutto, senza poter profittare dell’esperienza rigenerante rappresentata dall’accettazione
dell’elemento acquatico, dal mare: «The tragedy of the Jews: they pass the Red Sea dry. With dry
feet at the bottom of the sea» (secondo le parole di Bazlen, riprese da Bertelli in inglese). Il popolo
ebraico, biblicamente, mantiene intatto il proprio passato: «The destruction of a cultural tradition
goes through the element of water. The tragedy of the Jews is that of a people who pass the sea and
keep their past alive» (BERTELLI, Of Fragments and Footnotes, cit., p. 9). Rimane chiaro che Bazlen,
ebreo per parte di madre, a scanso di qualsiasi malinteso, si riferisce qui alla dimensione culturale
e oggettiva della «tragedy», e non si riferisce in alcun modo, né può assolutamente riferirsi, a
un del tutto inesistente, radicalmente inesistente, “errore” d’un popolo. Il mantenere intatto il
proprio passato (« keep their past alive») è, anzi, uno dei vanti straordinari del popolo ebraico
e della sua mirabile cultura fedele a se stessa e cosmopolitica. Il concetto di errore colpevole, di
una colpa tremenda, appartiene invece, come scaturisce dal testo di Bazlen, agli «altri dèi» che
hanno perseguitato chi, come gli Ebrei e a nettissima differenza dai fedeli di altre religioni, non ha
perseguitato né ha minimamente perseguìto alcuno, poiché rispettoso della sfera altrui, e alieno da
ogni interesse di acquisti epigonali, da ogni violenta e armata pressione “missionaria” in tal senso,
da ogni guerra santa o crociata, ovest-est o est-ovest, di andata o di ritorno, volta a realizzarli;
appartiene per intero, tale colpa, agli autori dei pogrom, ai responsabili dei forni crematori cui
inviare coloro che rifiutano con coerenza la croce, e che quindi risultano “infedeli” rispetto al dio
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deve finire distrutto nel pogrom o nel forno crematorio di un campo di concentramento (p. 195)
Il nostro viaggio in Oriente (in direzione opposta al sole) (moto pendolare)
Crociate: si può andare verso Oriente solo con spada e calice. Invece scissione
fra spada e calice. E perciò la spada diventa bomba atomica, e il calice diventa
giornale del mattino (p. 196)
Con spada e calice verso Oriente, per trovare il fiore. Una volta trovato, perde
valore − si forma la croce, si tolgono i quattro bracci − resta un punto, o il
vuoto nel punto
(Gli Stati del Sole, mandala perfetti − tutt’intorno deve esserci la foresta vergine) (p. 197)
La vicinanza alla terra del Buddho [sic]. (Estinzione del dolore)
La lontananza dalla terra in Cristo. (Primato del dolore)
Ellissi: con fuochi coincidenti: cerchio.
con fuochi infinitamente lontani: linea.
Pendolo: maschile: cerchio; femminile: ellissi.
L’uomo è un caso particolare della donna
Il Crocifisso nel cerchio: centro fra ombelico e organi sessuali.
Buddho: due cerchi (e una ellissi): ombelico e occhio solare (p. 199)
<Non si tratta − lo capisci − di negare la storia − la storia esiste − il valore
consiste nel superarla − la storia […] si realizza […] attraverso la parte storica
in noi, la più caduca, la più ctonia, la meno cristallizzata − più ci realizziamo
in pieno, meno disponibilità abbiamo per la ‘storia’, meno prendiamo parte a
questa attività immediata − sono la voracità, la fame di vita, il malinteso, l’aspirazione inadeguata in noi che fanno la storia: non il grande gesto che vince
abdicando ma il piccolo gesto che vince saziandosi − chi fa la storia non avrà
mai la gloria della trasmutazione […].>
[…] pregare il Signore che i nostri sogni non si realizzino, − ciò che abbiamo
sognato l’abbiamo già avuto
Il fatto che devo tutto al non aver più denaro (Da APPUNTI PER UNA
LETTERA − maggio 1944 −, in Scritti, pp. 200-201)
Caratteri di Teofrasto − di Jung − entrambi giusti − era un mondo semplice
con meccanismi semplici − (p. 204)
inflessibile di turno (anche la storia odierna rende pericolosa, per i suoi abitanti, la dimora nel
rango degli infedeli, dei resistenti a qualunque tentativo di conversione): «chi, irrigidito, rifiuta la
croce, deve finire distrutto nel pogrom o nel forno crematorio di un campo di concentramento»,
ha già scritto Bobi Bazlen. E il rifiuto pericoloso, per il resistente, può non essere solo quello
concernente la croce.
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per una introduzione: <Il mondo attuale diviso in due metà contrastanti che
hanno in comune tutte le caratteristiche essenziali: la stupidaggine, la mancanza di attualità − dunque, alla gente di un altro mondo che non ha nulla in
comune con le due metà nelle quali il mondo è diviso>
<dunque, la generazione che farà la terza guerra mondiale>
Dio non perdonerà loro, perchè ora l’umanità è matura e deve sapere che
cosa fa
[…] Il serpente non come seduttrice, ma come colei che indica la strada − ha
solo mostrato ad Adamo il suo compito − in Paradiso tutto era troppo facile
− i paradisi sono sempre al di sotto del livello di Adamo (p. 205)
(il fatto che le opere debbano disporsi su uno stesso piano, prospettiva unilaterale − ci sono dei piani tangenziali − forse sono q u e l l i g i u s t i − l’opera
viene intesa solo nella prospettiva della prestazione − di conseguenza in vista
del piccolo borghese, e il creatore è un malentendu piccolo borghese [l’ordine
del genio è il caos del piccolo borghese]) (p. 211)
Solo chi accetta la disgregazione è creativo, c’è anche la creatività del negativo
− è dell’uomo potere non far nulla, vivere, arte di non dilazionare la morte
(p. 212)
La sua [del cervello] opera più grande, conoscere i propri limiti: una intelligenza che rende frustrati e incancreniti è stupida
<Primo comandamento: / rispettare padre e madre, se sono rispettabili. /
Sapere non rispettarli, se non lo sono / (nelle culture solide, sono rispettabili
sempre)> (p. 219)104
<L’esperienza ci insegna che / l’esperienza non vale>
Il socialista che muore verso la fine del 1899 sapendo che il 1° gennaio del
1900 spunta il sole dell’avvenire − e cui si racconta l’Europa del 39 40 41 42
43 44 and after
Per Eichmann: […]. L’uomo non individuale sta al di sotto della colpa
<L’ancora dell’umanesimo è affondata nella merda> (p. 220)
Già detto tanti anni fa: la carne non lega, solo le storie legano. Contenuto
delle Mille e una notte: il califfo fa assassinare tutte le donne con cui va a
letto e sposa solo quella con cui non va a letto, ma che gli racconta storie
(p. 230)
Finalmente una donna con cui si può non parlare
104
Cfr., più sotto, la poesia in tedesco dedicata da Bazlen ai genitori, in particolare nei versi
per la madre, di cui viene sottolineata appunto, quasi in senso fisico, la “solidità”, la “fronte
dura” («harte Stirne») e l’acquisita indole “aspra, equa e diplomatica” («herb und gerecht und
diplomatisch»).
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<L’intelligenza è uno strumento − e questo strumento è finito in mano agli
stupidi> (p. 232)
comprensibile […] che gli esteti non abbiano avuto occhi per le maniche di
camicia del borghese triestino [Svevo]: dalle loro torri di imitazione d’avorio
(p. 238)
[…] trionfo degli specialisti […], non c’è posto per quell’immenso dilettante
che è il romanziere… mancanza di quello screzio, di quella incrinatura, da cui
sorgono la malsicurezza e il dubbio, padri dell’osservazione, dell’introspezione, primo passo, unica premessa per l’interesse ‘psicologico’ (p. 241).
Ma si noti come, in un testo di maggiore estensione e di maggiore respiro, costituito dalla lettera editoriale a Sergio Solmi (Jarry, ecc.) dell’8 febbraio 1959105,
si delinei in pochi tratti addirittura una visione diversa di tutto il quadro della
Cfr., appunto, Lettera editoriale a Sergio Solmi (Jarry, ecc.) dell’8 febbraio 1959, in BAZLEN,
Scritti, cit., pp. 286-288. Solmi è davvero degno destinatario e recettore di questa, come del resto
di altre lettere di Bazlen. Si rammenti come ne celebra i settant’anni Eugenio Montale in Sergio
Solmi uomo e poeta (Corriere della Sera, 16 dicembre 1969; ora in MONTALE, Sulla poesia, cit.,
pp. 342-344); nel sottolineare (Sulla poesia, p. 342) il dono che ha Solmi di «vedere senza essere
visto», Montale ne mette in luce la «chiaroveggenza»: «Chi come me lo conosca da quarant’anni
non può dire che le lunghe stagioni abbiano, nonché scalfito, neppur toccato il suo dono
naturale che è di vedere senza essere visto e di essere presente come può esserlo un fatto o un
dono di natura. Se è un dono la chiaroveggenza, il vedere prima degli altri e meglio degli altri
ciò che si nasconde nelle molte nebulose che ci hanno oscurato lo sguardo, possiamo dire che
Solmi abbia avuto questo dono fin dai suoi primi anni». La tradizione di studi in famiglia e la
personale, alta formazione culturale non spiegano (ibidem) «il fatto che Solmi come nessun altro
può muoversi nel labirinto degli errori e degli orrori del nostro tempo senza mai perdere il filo
della direzione giusta»; Solmi è «traduttore mirabile» (ivi, p. 343); il suo debito con la «grande
stagione dell’Illuminismo» e con il relativo effetto infelicitante, debito mai realmente appurato,
conferma la spinta intellettuale verso forme di speculazione che dall’Illuminismo apertamente si
allontanano o che, addirittura, manifestamente gli si ribellano e gli si contrappongono (e qui più
che mai Sergio si dimostra un interlocutore, anche epistolare, elettivamente vocato a corrispondere
con Bobi Bazlen): «troverebbe conferma l’onnivora curiosità del nostro essayist verso forme di
speculazione e di scienza che vanno dalla psicanalisi alla patasofia, dalla fantascienza ad ogni forma
di terapia iniziatica. Chi si avvicina a questo amico di Montaigne e di Leopardi, di Alain e di…
Jarry e spera di sorprenderlo e di comunicargli nuove e sorprendenti esperienze si trova subito
spezzate le armi che aveva in mano. Solmi non è mai impreparato a nulla, ha sempre qualcosa
da insegnare» (ibidem). Sulla vicenda intellettuale e poetica di Solmi, cfr. CARETTI, Itinerario di
Solmi, cit., pp. 427-452. Sull’interesse di Solmi per una possibile dilatazione fantastica degli spazi
dell’immaginazione, cfr. SOLMI, Raymond Roussel: un padre del surrealismo, cit. (vd., in questo
volume, la n. 12 al capitolo secondo); si leggano le parole di CARETTI (Itinerario di Solmi, cit., p.
437): a proposito «della matura curiosità di Solmi per la science fiction», lo studioso precisa che tale
curiosità rappresenta «la sua “vocazione” più tarda, come lettore e come scrittore, per le ipotesi
fantascientifiche che dilatano lo spazio consueto dell’immaginazione, additando nuovi continenti
cui approdare, e sembrano così promettere all’uomo un diverso e più libero destino».
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letteratura francese degli ultimi due secoli, un quadro che trae dalle parole di Roberto un’interpretazione davvero nuova e non scontata, concepita e formulata in
piena controtendenza rispetto al canone storiografico-critico ufficiale e affermato; si tratta d’un’interpretazione che coinvolge anche Nerval106 e Rimbaud (come
106
A proposito di Nerval si veda, con tutta la serie di elementi di simbologia che lo circondano
(«l’entrée d’une caverne», la «pierre vive», gli «énormes piliers», la «forêt de pierres», le «légions
de figures colossales» e, di contro, il «nouveau temple», «les clartés du soleil», le «lignes […]
simples et pures, et l’ordre, l’unité du plan»), il dialogo di Adoniram e di Solimano alla presenza
di Balkis, regina di Saba, nel Voyage en Orient: «[ADONIRAM] Armé d’un levier, je fais rouler
le bloc…, qui démasque l’entrée d’une caverne où je me précipite. Elle était percée dans la pierre
vive, et soutenue par d’énormes piliers chargés de moulures, de dessins bizzarres, et dont les
chapiteaux servaient de racines aux nervures des voûtes les plus hardies. A travers les arcades de
cette forêt de pierres, se tenaient dispersées, immobiles et souriantes depuis des milliers d’années,
des légions de figures colossales, diverses, et dont l’aspect me pénétra d’une terreur enivrante; des
hommes, des géants disparus de notre monde, des animaux symboliques appartenant à des espèces
évanouies; en un mot, tout ce que le rêve de l’imagination en délire oserait à peine concevoir de
magnificences!… J’ai vecu là des mois, des années, interrogeant ces spectres d’une societé morte,
et c’est là que j’ai reçu la tradition de mon art, au milieu de ces merveilles du génie primitif […].
/ [SOLIMAN] Anathème sur cet art d’impieté et de ténèbres! Notre nouveau temple réflechit
les clartés du soleil; les lignes en sont simples et pures, et l’ordre, l’unité du plan, traduisent la
droiture de notre foi jusque dans le style de ces demeures que j’élève a l’Éternel» (cfr. GÉRARD DE
NERVAL, Histoire de la Reine du Matin et de Soliman, Prince des Génies; in italiano: ID., La Regina
del Mattino e Solimano, Principe dei Geni, a cura di LUCA PIETROMARCHI, Venezia, Marsilio [«I
fiori blu», 6], 1992, pp. 110-112). Si ricordi pure il capovolgimento del ruolo e della funzione
dell’upupa − che in futuro sarà «ilare uccello», calunniato dai poeti, per Eusebius-Montale − nella
«huppe», o «Hud-Hud» nervaliana: «Il n’est pas d’oiseau plus illustre ni plus respecté dans tout
l’Orient» (ivi, p. 86); ma vi è anche la possibilità di un richiamo coranico (sura XXVII, versetti
22-23). La «huppe» è l’uccello della positività, dell’allegria, del piumaggio a colori vivaci e dalle
abitudini diurne e solari. È il pieno ribaltamento della sua simbologia occidentale. Non cadrà
appunto nello stereotipo il poeta chiamato, da Bobi, «Eusebius», in omaggio, come si è avuto
modo di dire, al pensoso Carnaval schumanniano. Su Nerval e sulla sua condizione di straniero,
di esiliato dalla sua “vera” sede e dalla sua vera casa, che assolutamente non coincidono con la
dimora terrestre e con i suoi valori di materiale sopravvivenza, cfr. proprio EUGENIO MONTALE,
L’esilio terrestre di Nerval, in Corriere della Sera, 20 giugno 1951, ora raccolto in ID., Sulla poesia,
cit., pp. 397-402; a proposito del libro di CLÉMENT BORGAL, De quoi vivait Gérard de Nerval (Paris,
Deux Rives, 1951), Montale individua «nel gusto della mistificazione, che sarà poi tanto caro a
Baudelaire e ancora di più a Rimbaud, uno dei tratti più caratteristici della biografia di Nerval.
Tutta la sua vita, in fondo, fu un continuo gioco a rimpiattino, per crearsi dinanzi a sé e agli
altri degli alibi» (p. 401); e la “posizione” di spaesamento, di estraneità, di Unheimlichkeit, è ben
ribadita dalle parole dello stesso Gérard Labrunie (vera realtà onomastica di Nerval), riguardanti il
«mal du pays», la nostalgia del paese di vera appartenenza, un paese che non può avere nome (ivi,
p. 402): «La pazzia, in questi casi, spiega tutto e non spiega nulla. “Fino ad oggi nulla ha potuto
guarire il mio cuore qui souffre toujours du mal du pays”: questa frase potrebbe servire da epigrafe
all’opera di Nerval e comporre l’epitaffio più bello per la sua tomba: il poeta la scrisse nel suo paese
tanto amato, a Mortefontaine, nel Vallese. I due soldi trovati in tasca, le crisi di pazzia spiegano
dunque la fine di Nerval; o non piuttosto la fretta di raggiungere il paese senza nome dal quale
Gérard, el desdichado, il derelitto, si sentiva esiliato?».
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pure Huysmans), «che diventano “intelligibili” sulla falsariga di trattati iniziatici
e alchimistici di terz’ordine» (p. 287), ovvero di un contesto culturale formato
da «una tradizione gotico-iniziatico-alchimistico-religiosa» che annovera l’autore «di uno dei pochi testi taoisti purissimi» scritti in Occidente, l’abbé De
Caussade (forse la «più profonda personalità cattolica della Francia», «religioso
sul serio − non Bossuet e non Lamennais»)107 e l’occultista Stanislas De Guaita,
autore degli Essais de sciences maudites e di Le Temple de Satan; l’opportunità di
comporre questa sintetica ma densa revisione critica è fornita da un riferimento a
Jarry («Nel caso specifico Jarry-Elskamp-Boschère») e, appunto, ai due raffinati
poeti belgi, di matrice culturale fiamminga, Max Elskamp (1862-1931) e Jean de
Boschère (1878-1953):
Il problema è che tutti e tre, e tutti gli ecc., appartengono all’altra letteratura francese (del resto Elskamp e Boschère sono fiamminghi), a quella che
per noi è la più viva − e che era stata messa completamente in ombra dalla
clarté latine, dalla ville lumière (pensa che orrore) con tutta la sua letteratura
empirico-aulica, e dalla parte più superficiale, più surriscaldata a vuoto, più
ornamentale e meno inquietante del romanticismo con tutti i suoi postumi
[…]. Il gotico è nato in Francia, la Francia è gotica, ti ho detto dell’enorme
impressione che mi ha fatto Parigi, 2 mesi e mezzo fa, quando mi sono tro-
107
Si veda questo riferimento a De Caussade, e a Michelstaedter, in BATTOCLETTI, Bobi
Bazlen. L’ombra di Trieste, cit., p. 506: «“Senia, il porto è la furia del mare,” scrive il filosofo
[MICHELSTAEDTER, nelle sue Poesie, Milano, Adelphi, 1987] rivolgendosi a una musa di nome Senia,
echeggiando il concetto di straniero greco. Anche per il capitano […] il naufragio [è] quello che
aveva cercato tutta la vita. Naufragio inteso anche come l’abbandono alla provvidenza divina di
cui aveva parlato Jean-Pierre de Caussade, del cui libro Bernhard aveva scritto l’introduzione».
Interpretiamo «il porto è la furia del mare» con posizioni sintattiche invertite: il “vero” porto (la
vera soluzione, il vero rifugio, la vera rigenerazione; predicato nominale) è «la furia del mare»
(soggetto), consiste nel mare in tempesta che favorisce il naufragio; la furia del mare, e non altro, è
il vero porto. E, pur non potendosi ravvisare, in Bazlen, l’eco d’una banale contrapposizione mareterra, si ricordi ancora, dal testo della Battocletti (p. 505), la differenza tra il deserto e il mare «dove
l’onda non arriva»: «Quando trova un approdo il capitano sentenzia “non c’è abbastanza terra
buona per gettarci l’ancora – eppure deve esserci un ancoraggio.” Bazlen, sicuramente, doveva
aver fatto suoi alcuni versi e alcune considerazioni filosofiche nelle poesie di Michelstaedter, per
cui la terra “è triste / il sole avaro / le case tristi / ammucchiate”. La terra dei versi del filosofo
goriziano è arido deserto, mentre all’opposto il mare, quello vero, “dove l’onda non arriva”, è
una visionaria terra promessa». Riguardo a Huysmans, si ricorda che il suo interesse per la magia
e per il satanismo, ufficialmente cominciato nel 1890 e tale da fargli stringere rapporti con una
personalità come il satanista ed ex sacerdote Joseph-Antoine Boullan, e a pubblicare, nel 1891,
Là-bas (L’abisso), romanzo-saggio incentrato proprio sul satanismo, inizia in realtà dagli anni
precedenti, come scrive appunto Bazlen, con Stanislas De Guaita. E rimangono, invece, molto
più conosciuti i carteggi con l’abbé Arthur Mugnier, che Huysmans conosce nello stesso anno di
Là-bas, e che nel 1892 ne favorisce la “conversione” alla fede cattolica in senso confessionale dopo
il periodo di raccoglimento nell’abbazia di Igny; frutto di quest’ultimo periodo e di quest’ultimo
“passaggio” della biografia spirituale di Huysmans sarà nello stesso 1892 il romanzo En route.
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vato in una cultura gotica attuale (cioè niente cattedrali e chiaroscuri, ma
molta fisica moderna, molta biologia moderna, e quasi troppa cabbala). / C’è
stata una tradizione gotico-iniziatico-alchimistico-religiosa ininterrotta, di cui
però, dall’impero in poi, non potevano accorgersi che la provincia e i «mal
adattati», i quali non avevano voce in capitolo (la libertà di Parigi era di una
mancanza di spregiudicatezza paurosa);
ed è molto significativo che la personalità di un De Caussade
sia praticamente sconosciuta alla «cultura» francese e che il suo Traité de l’abandon à la Providence Divine, uno dei pochi testi taoisti purissimi che abbia
dato l’occidente, circoli soltanto in una molto misera edizione da sacristia.
Che non si sapesse vedere che la parte che si voleva, diventa d’un’evidenza
impressionante in Huysmans, che ha subìto l’influenza di De Guaita altrettanto quanto, più tardi, quella di quel molto grigio abbate che l’ha «convertito». Sui rapporti tra Huysmans e l’abbate esistono centinaia di pubblicazioni,
è stato pubblicato il carteggio, ecc. Sui rapporti tra Huysmans e De Guaita,
che io sappia, non esiste nemmeno un volume. E De Guaita era tutt’altro che
grigio: amico intimo, nella giovinezza, di Barrès […].
3.10 Il nazionalismo è veramente morto? («è certo che non si passa da un mondo
all’altro facendo il passo dell’oca»)
Vale realmente la pena riprodurre, qui, il citato articolo-intervista Il nazionalismo è veramente morto?, uscito, come ricordiamo qui sopra, in «Comunità»
nel 1947 e non altrimenti segnalato108; tutti gli elementi del Bazlen intellettuale,
lettore e interprete di libri, e di idee, eccezionale e non scontato, interprete del
suo tempo proprio in quanto non “allineato” all’ufficialità contemporanea, sono
qui riuniti (e si vedrà quale concetto complesso e non banale, quale concetto
articolato e non affatto univoco della “contemporaneità” scaturisca da queste
righe di affilata intelligenza, di penetrante acume critico e storico); non appaia,
questa risposta scritta modello intervista, una riflessione meramente “politica”, o
“ideologica”; anche il Bazlen artista originale, da noi ripercorso per accenni nei
precedenti capoversi, non solo riemerge, ma vi concorre addirittura come presenza costitutiva ed essenziale, nel suo profondo, personale e autentico habitus
di meditazione anticonformistica e fascinosamente aperta a una ricca, pensosa,
disincantata e insieme possibilistica visione del mondo; un mondo davvero non
limitabile, nelle sue grandezze qualitative e quantitative, all’Europa e all’Occidente, e men che mai all’era contemporanea; un mondo in cui la geografia e la
storia, l’idea dello spazio e l’idea del tempo, le “coordinate”, con una vecchia
108
Il testo è in LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., pp. 184-185.
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parola, perderebbero (e spesso perdono) gran parte del loro valore e della loro
identità, se non pensate, se non radicalmente riviste e concepite in una chiave
che convochi l’uomo, non meno dell’“intellettuale”, a riviverle − nell’àmbito dei
propri giorni e nell’àmbito delle proprie opere −, nella loro complessità e nelle
loro contraddizioni, nella loro potenzialità genetica di esperienze drammatiche
sul piano individuale e sul piano storico:
Come vuole che lo possa sapere? Pensi a tutte quelle cose che credevamo morte, che trentacinque anni fa erano forse morte realmente, e che ci siamo trovate
davanti a noi vive, pericolosamente vive, undici anni fa, ieri, questa mattina. E
pensi che lei stesso, forse, avrebbe risposto, nel 1920, con competenza di causa
che non era unicamente ingenuità, che la fase nazionalistica della storia europea
era «superata», che il nazionalismo non sarebbe rinato mai più. Io quella volta
avrei sicuramente risposto così: i poeti che leggevo, già durante l’altra guerra
s’erano lanciati i loro messaggi di fratellanza al di là delle trincee, au-dessus-dela-mêlée, leggevamo Coudenhove Kalergi ed eravamo gonfi di buone intenzioni paneuropee, si pubblicavano antologie che si chiamavano per lo meno «i cinque continenti», ben presto avremmo abolito i confini ed i doganieri illuministi
e «superati», non gettavamo che uno sguardo formale nei vagoni-letto in cui
viaggiavano i giovani lettori di Bernabooth, uno sguardo distratto, incomprensibili e superflui come tutti i rimasugli del passato. Anch’io quella volta avrei
risposto che il nazionalismo era morto, e per sempre. Ma oggi non sappiamo
più cosa rispondere. La risposta era facile in un mondo in cui tutto, malgrado
piccoli sbalzi per cui era facile trovare una spiegazione, progrediva sistematicamente verso una meta formulata: da una parte c’era la scimmia o − più modestamente − l’ameba, dall’altra c’era l’uomo razionale, o il proletario evoluto
e cosciente o − meno modestamente − il superuomo o il saggio solitario e riassuntivo sul picco più alto del Tibet. E noi umanità compatta, si marciava con
passo sincrono anche se non ancora romano, da quel punto di partenza verso
quel punto di arrivo, un’umanità che aveva superato l’uomo delle caverne, che
aveva superato il sistema tolemaico, che stava superando gran parte dei vuoti
pregiudizi del trucissimo medioevo, ed il nazionalismo non era che un pregiudizio medievale, destinato a svanire in quella nostra alba. Anzi, proprio in quel
momento, stavamo marciando verso la scoperta del più efficiente strumento di
internazionalizzazione: la radio. / Con ciò non creda, glielo assicuro, che io non
pensi a una meta, che io neghi un’evoluzione. Soltanto che alla meta non ho
diritto di dare un nome; se la conoscessi sarei già là. E l’evoluzione passa per vie
impervie, meno dirette di quanto credevamo, in una lotta continua dell’avvenire contro il passato, in cui spesso vince l’avvenire, spesso anche il passato. / Se
lei (e dalla sua domanda credo di capirlo) appartiene a coloro che desiderano
che il nazionalismo sia morto, se lei crede che questa sua fede, che questa sua
certezza, sono proprio quelle che ci vogliono in questo giorno di aprile del
quarantasettesimo anno del ventesimo secolo, lotti per questa sua fede. Ma per
lottare con mezzi concreti, per non ammazzare mulini a vento lasciando vivi
i germi di future camicie colorate, è necessario che lei non si faccia illusioni,
che sappia che non tutti vivono nel momento storico in cui vive lei, che anche
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se lei vive nel ventesimo secolo, non tutti vivono nel ventesimo secolo (e qui
pensi che il vero momento storico è la risultante del momento suo e di quello
di tutti gli altri). Si ricordi che abbiamo vicino a noi i rappresentanti di tutti i
periodi della storia, che non abbiamo soltanto contemporanei, anzi, che forse a
questo mondo non ci sono due contemporanei. Lo capirà se riflette che io, che
le scrivo, non sono contemporaneo di Farinacci (ma Farinacci avrebbe lo stesso
potuto farmi ammazzare), e che, per fortuna, non sono contemporaneo della
maggior parte dei pensatori politici contemporanei. Se lei sa che il nazionalismo
è morto, contribuisca a farlo morire; sapendo che può anche essere ancora vivo.
BAZLEN
L’importanza e l’originale acume delle parole di Bazlen, dell’intellettuale
triestino cui la pronuncia nordazkenazita conferisce una sorta di peregrino fascino poliglotta, e multilingue anche nelle sue varie espressioni, quasi non richiederebbero commento (si ricordi − lo richiamiamo − come, sotto altro profilo,
appaiono i «nuovi dandy», e in particolare come appare proprio Bobi Bazlen ad
Antonio Debenedetti, figlio di Giacomo, in La fine di un addio, 1984: «eccentrici
nutriti di strepitose letture cosmopolite […] poliglotti legati alla loro dialettalità
di origine, parlano e si manifestano soprattutto alle nostre crisi, ai nostri vizi,
alle nostre cadute nervose. È il loro destino»)109. Sia permesso almeno condurre
l’attenzione su «tutte quelle cose che credevamo morte, che trentacinque anni fa
erano forse morte realmente, e che ci siamo trovate davanti a noi vive, pericolosamente vive», in una concezione che distanzia nel passato storico e personale la
giovanile fede in un percorso linearmente evolutivo dell’umanità; e il rifiuto di
una risposta − per oggettiva sua impossibilità − attraversa considerazioni che si
estendono a un’intera generazione, se non anche a un’intera visione della storia.
Spettri e non metaforici mostri, alcuni dei quali erano morti (non solamente sembravano tali), sono tornati vivi, «pericolosamente» vivi; nulla − se non, forse, in
una mera dimensione ad interim, realmente provvisoria e temporanea − si può
mai pensare “superato”. Non sfuggirà, certo, che non si tratta davvero d’un recupero dei “corsi e ricorsi” storici, che sarebbe, qui, banale ripresa di non banale
dottrina; si tratta, piuttosto, della liquidazione d’un concetto di linearità, appunto, dell’evoluzione storica, delle sue presunte scansioni dirette, della vagheggiata pervietà dei suoi itinerari. Le «buone intenzioni paneuropee», le antologie
dedicate ai «cinque continenti» non permettevano di vedere, in prospettiva, la
reviviscenza dei vecchi mostri in nuove e ancor peggiori e ancor più drammatiche incarnazioni, la reale minaccia del loro transito in una torva serie di sagome
109
Si rammenti anche un passo di Bobi sulla viva situazione linguistica di Trieste (si tratta
della giustamente famosa Intervista su Trieste, in BAZLEN, Scritti, cit. p. 250): «Dunque, questa
città che parla un dialetto veneto, questa campagna che parla un dialetto slavo, sono affidate a una
burocrazia austriaca ineccepibile, ma che parla il tedesco».
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di scherani. E il «passo sincrono» dell’«umanità compatta», un passo certo delle
proprie distinzioni fra poli non evoluti e poli evoluti nel suo cammino di sviluppo («l’uomo razionale, o il proletario evoluto e cosciente o − meno modestamente − il superuomo o il saggio» di compiuta ascesi nivale kiplinghiana), se non
accompagnato da riflessione e da dubbio, da vigilante disincanto, comprende
fra i propri rischi (si dica almeno rischi) quello di avviarsi alle cadenze del passo
romano, o dell’“oca al passo”, avrebbe scritto più tardi Tabucchi. Non si tratta,
come ben dice lo stesso Bazlen, di negare un’evoluzione, o di non pensare a una
meta: «Soltanto che alla meta non ho diritto di dare un nome; se la conoscessi
sarei già là», ricorda con incisività un Bobi lucido focalizzatore della difficoltà
d’individuazione della meta in sé, e pronto a dimostrare tale difficoltà, di natura
intellettuale prima che d’altro ordine, con la stessa, remota “distanza” dall’ipotetico raggiungimento, che sarebbe stato per propria parte già guadagnato se fosse
stato conoscibile con tanta illusoria fiducia; l’evoluzione è concetto salvabile solo
a patto che si riconoscano le sue «vie impervie, meno dirette di quanto credevamo»; e il residuo d’una concezione che si possa definire bipolare, o bifocale,
consiste, in questo caso risolutamente, «in una lotta continua dell’avvenire con
il passato, in cui spesso vince l’avvenire, spesso anche il passato». Il procedere
insomma, anche dove risulti possibile, non comporta affatto la reductio ad unum
del tragitto in senso lineare, con una direzione di marcia a senso unico, trionfante ed escludente rispetto a un passato che, invece e a sua volta, non si pone
certo come mero retaggio di incomprensibile e superfluo rimasuglio; nella lotta
«spesso» vince il passato, e molti fattori di carattere storico, costituzionale, di
vera e propria concezione civile che in determinati passaggi del Novecento erano
sembrati acquisiti, tornano a cedere il passo ad altri fattori, non di rado a loro
opposti, e tornano, altresì, a incontrare la propria smentita, a essere relegati nella
situazione di clandestinità, di sconfitta, di silenzio.
Ma l’indicazione decisiva, peraltro già preparata dai precedenti concetti, è ritrovabile nell’indicazione «in questo giorno di aprile del quarantasettesimo anno
del ventesimo secolo» (l’articolo esce infatti il 3 maggio); certo, l’anno e il secolo
non costituiscono indicazione casuale (essi sono l’hic et nunc dell’enunciato), ma
la data in sé non si sottrae a una perspicua connotazione di fluttuante pariteticità
con altre date possibili, antecedenti o successive a questa; «in questo giorno di
aprile» non sappiamo, se non per un itinerario di personale interpretazione e
di personale ipotesi culturale e storica, a quale “grado” di evoluzione possiamo
trovarci, e, se riteniamo che incomba nuovamente il rischio del nazionalismo,
dobbiamo sapere che in un successivo anno del ventesimo, o per noi anche del
ventunesimo secolo, potremmo essere “più indietro”, anziché più avanti del
1947. E proprio per non lasciare vivi i «germi di future camicie colorate» si deve
sapere, scrive ancora Bazlen rivolgendosi all’interlocutore, «che non tutti vivono
nel momento storico in cui vive lei, che anche se lei vive nel ventesimo secolo,
non tutti vivono nel ventesimo secolo (e qui pensi che il vero momento storico è la
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risultante del momento suo e di quello di tutti gli altri)». La riflessione è acutissima, e coglie in modo diretto una verità che, pur avendo raramente goduto di così
lucida istituzione testuale, non manca di collocarsi sul piano intuitivo sotto gli
occhi di tutti: il «ventesimo secolo» è lontano dall’essere vissuto da tutte le persone e da tutti i popoli e, se anche lo fosse, non lo sarebbe mai in chiave di unisono
e di simultaneità: «il vero momento storico è la risultante del momento suo e di
quello di tutti gli altri», e si tratta d’un concetto di momento storico estremamente più complesso di quello veicolato da un’idea “lineare” degli sviluppi umani,
politici e civili. Su tale idea, ben lo sappiamo, la storiografia ha ormai (e a dir
poco) lavorato ampiamente, e con merito; qui vogliamo solo sottolineare il fatto
che riveste comunque un notevole valore l’avere espresso questo concetto già dal
1947, in piena contiguità storico-cronologica, e umana, con il dramma del secondo conflitto mondiale e con le conseguenze e i rischi che esso ha comportato per
la stessa persona fisica di Bazlen. Il momento storico è una risultante stratificatissima, articolata, contraddittoria, di una molteplicità di momenti e di livelli di
visione storica, una rete intricata di concezioni e d’interessi, di moventi, di fini e
di vettori storico-culturali talvolta aspramente in lotta tra loro. Tutti i “manuali”
di storia, di qualunque livello, sono, più che “necessari”, assolutamente presenti
e “adottati” in simultanea e drammatica combinazione: di storia antica (se non
anche di preistoria), di storia medioevale, di storia moderna, di storia contemporanea. Non vi è la “successione” sostitutiva del cosiddetto periodo susseguente al
periodo trattato dal manuale “precedente”: l’uso dei suddetti manuali, ovvero lo
studio dei periodi storici trattati, è articolatamente contemporaneo, alternato e
inframezzato da usi parziali e da riprese, da letture ripetute e da rinnovate ipotesi
di slancio in avanti: «Si ricordi che abbiamo vicino a noi i rappresentanti di tutti
i periodi della storia, che non abbiamo soltanto contemporanei, anzi, che forse a
questo mondo non ci sono due contemporanei». Vi è dunque storia contemporanea presso alcune persone − o personalità −, con la loro intelligenza, con la loro
vicenda e con la loro cultura, o in alcuni paesi, e vi è invece preistoria, o storia
antica, o storia medioevale, o moderna presso altre persone o altri intellettuali, o
presso altri paesi, o in altri contesti umani e spaziali. E con tali premesse non stupisce che il passaggio finale d’amara ironia evochi automaticamente il dramma
storico della Seconda guerra mondiale, a ricordare che alla non contemporaneità
sul piano della res cogitans, diciamo così, corrisponde pur sempre la rischiosa,
se non volgare contiguità sin troppo direttamente misurabile nella res extensa:
«io, che le scrivo, non sono contemporaneo di Farinacci (ma Farinacci avrebbe
lo stesso potuto farmi ammazzare), e […], per fortuna, non sono contemporaneo
della maggior parte dei pensatori politici contemporanei». Non sarà lontana da
questa tensione di scrittura (già sottolineata)110 per aphoristischer Beitrag la serie
Ma si ricordino altre frasi, altre espressioni che, nell’apparente contraddittorietà
concettuale di prima fruizione, illuminano invece la realtà critica di un volume o del mondo, e
110
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di concetti espressi il 31 agosto 1962, nella prima lettera direttamente indirizzata
all’Adelphi, a proposito di The Informed Heart di Bruno Bettelheim111:
Che nessuno venga a raccontarmi che tu o io […] viviamo nell’epoca della
tecnologia e subiamo la pressione della cultura di massa. Ciò che succede veramente è che viviamo in un mondo nostro e in un’epoca nostra, e che più o meno
raramente ci troviamo alle prese con seccature provocate da gente che vive
nell’epoca della tecnologia e subisce la pressione della cultura di massa, dalle
quali seccature ci difendiamo con risultati più o meno brillanti. Possiamo anche
far fiasco, pazienza, non si gioca a colpo sicuro. Non si tratta di combattere contro i deficienti; si tratta di crearci un mondo nel quale i deficienti non c’entrano.
Ognuno non reagisce che contro la banalità che ha in sé. Io non ho massa in me;
dunque non mi arrabbio con la massa. Ho in me un’altra banalità. La reazione
banale contro la massa. E mi arrabbio con i Bettelheim che reagiscono alla
massa con parole diventate di massa.
in specie della prosa, di uno scrittore; si veda, ad esempio, la lettera editoriale a Luciano Foà del
9 marzo 1960, concernente SADÈGH HEDAYÀT- THE BLIND OWL e WILLIAM MARCH
− THE LOOKING GLASS; a proposito di quest’ultimo, The Looking Glass (WILLIAM MARCH,
The Looking Glass, New York, Rinehart, 1956) è appunto definito «un bellissimo libro […] −
cioè, forse è un brutto libro, ma il brutto libro di un VERO scrittore» (BAZLEN, Scritti, cit., p.
292). Il concetto si può ricollegare a quanto Bazlen scrive, a mo’ d’annotazione, in Il capitano
di lungo corso (ivi, p. 189 ): «Il fatto che solo dei cattivi scrittori possono scrivere dei g r a n d
i romanzi (quanto maggiore l’arte, tanto più piccoli i mondi): Wilkie Collins / Bulwer Lytton /
Rider Haggard / Péladan». Si veda anche la serie di rilevazioni lettoriali di altalenante attribuzione
di segno, tra positività e predominante negatività, che in una trama di pensiero e d’espressione
compattissima, estremamente coesa pur nel carattere cursorio dello scritto epistolare, scaturisce
dalla lettera sul MAURICE BLANCHOT de L’espace littéraire (Paris, Gallimard, 1955; in italiano: Lo
spazio letterario, con un saggio di JEAN PFEIFFER e una nota di GUIDO NERI, traduzione di GABRIELLA
ZANOBETTI, Torino, Einaudi, 1967; lettera a Luciano Foà, Casa editrice Einaudi, 9 aprile 1961
[BAZLEN, Scritti, cit., pp. 305-306]); dopo una serie di considerazioni di marcato carattere critico,
Bazlen viene al punto centrale della sua lettera a Foà: «mi sono trovato davanti al capitolo “Le
Regard d’Orphée”, e qui mi sono messo d’impegno, perché per troppe esperienze precedenti so
che quando c’è di mezzo Orfeo (e Euridice poi!) trovo la chiave di tutta la mia intolleranza. / E mi
sono trovato davanti a sei pagine stupende, scritte non al di qua né al di là ma sullo spartiacque,
dove la paradossalità inafferrabile del rapporto artista-opera è espressa come non l’ho trovata
espressa mai. Poi ho continuato a sfogliare, poi ho ricominciato da principio e così ho visto una
nota preliminare che prima m’era sfuggita, in cui è detto che il centro verso il quale tendono tutte
le considerazioni del libro è proprio “Le Regard d’Orphée” […]; non può avere molto successo; la
derivazione rilkeana può giustificatamente imbestialire; superficialmente può dar l’impressione di
uno dei nostri critici ermetici, che sia intelligente e consistente; ecc. ecc. − Ma un libro centrato su
quelle sei pagine va fatto senz’altro, me ne assumo la piena responsabilità. / Per farvi un’idea, basta
leggere le pp. 179-184. (E al caso, confrontarle con le scemenze su Orfeo nel libro di Marcuse,
verso la fine, libro che avete accettato)». Il libro di Marcuse cui Bazlen accenna alla fine del brano
è Eros e civiltà, ora Torino, Einaudi, 1964.
111
BRUNO BETTELHEIM, The Informed Heart, Gleoncoe, The Free Press, 1960; poi pubblicato
in italiano con il titolo Il prezzo della vita, traduzione di PIERO BERTOLUCCI, Milano, Adelphi, 1965.
Le successive citazioni da Bazlen sono in ID., Scritti, cit,, p. 322.
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Il pericolo rimane112 quello dell’«esaurirsi di una proposta culturale in mera formulazione ideologica, senza una corrispettiva interiorizzazione delle rispettive
problematiche»:
E l’unico pericolo vero, per me, è l’argomento giusto o la parola giusta nella
bocca sbagliata. Non è problema di parole, è problema di bocche.
Sembra di ascoltare l’eco di un significativo concetto espresso da altro autore: «Il
valore di una frase risiede nella personalità di chi la pronuncia, perché nulla di
nuovo può essere detto da creatura umana» (Joseph Conrad; e sia pure un Conrad
che Bobi pospone a James).
Si potrebbe concludere con una poesia, scritta da Bazlen nella lingua più
propriamente sua, quella tedesca; in questi versi, con poche pennellate di sobri
tocchi quasi da scheda anagrafica, si ricompone per un attimo, nel modo più touchant e anonimo, la famiglia formatasi, in epoca ormai lontana, a Trieste («sonnige
Sueden», assolato sud per il padre, tedesco di Stoccarda); tre soli componenti, la
solitudine del figlio superstite, la “finestra” di pensiero (nemmeno di attivo ricordo) aperta in apparente casualità dal bicchiere di vino («bei einem Glas Wein»),
una postuma riunione di solitari e di trapassati (priva di foscoliana effusione sulla
«pietra» sepolcrale) cui fa da rinforzo, come avviene nelle famiglie − anche le più
modeste − di composizione cosmopolita, la differenza di origine geografica e di
confessione religiosa (l’albero di Natale per il padre cristiano-evangelico-luterano,
i «seimila anni di Jehova» per la madre ebrea); la lontananza dei componenti nello
spazio, e nel tempo, può essere fattore di pudica, persino ruvida («herb»), ma intensa e forte unione, vissuta soprattutto sul piano d’una scabra, e tanto più autentica, interiorità; non andremmo troppo lontano dal vero rivedendo in questa lirica
l’immagine laicizzata d’una singolare “sacra famiglia”, una “sacra famiglia” al di là
dei confini, al di là delle frontiere culturali e al di là delle religioni, un’immagine
cui nulla fa velo; non il «dritter», non il «terzo» che pensa oggi per caso ai due,
«morti, quasi sempre dimenticati, da qualche parte sottoterra»; non il padre, con i
suoi «piegabaffi» spessissimo riprodotti negli acquerelli e nelle chine del figlio; non
la madre, a suo modo quotidianamente ieratica, come Maria, come la Madonna,
che ebrea vive ed ebrea muore, e che sarà per sempre ebrea:
Einer kam − fuer ihn war es der sonnige Sueden −
Einer kam also, mit Schnurrbart und Schnurrbartbinde,
Hatte eine helle Stirne, darunter den haengenden Z(w)icker,
Liebte Kinder, Orangen und hatte auch sonst feste Grunsaetz
Las Goethe’saemtliche Werke und glaubte, sie seien von Paul Heyse,
112
LA FERLA, Diritto al silenzio, cit., p. 76.
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Gruendete ein Handelshaus und kraufte sich einen Weinachtsbaum.
Fand eine vor, die hatte eine harte Stirne,
Wusste um den Kampf ums Dasein und um die Waerme des Herdes
Liebte die Stille der Lampe, doch sechstausend Jahre Jehova
Hatten sie herb und gerecht und diplomatisch gemacht.
Zwei liegen, fast immer vergessen, irgendwo unter der Erde,
Ei dritter, bei einem Glas Wein, denkt heute zufaellig an sie.
Venne un tale − per lui era il meridione assolato −
Venne dunque un tale, con i mustacchi e un piegabaffi,
Aveva una fronte chiara sotto i pince-nez
Amava i bambini e aveva in genere dei saldi principi,
Leggeva le opere complete di Goethe e credeva che fossero di Paul Heyse,
Fondò una ditta commerciale e si comprò un albero di natale.
Trovò una che aveva la fronte dura
Conosceva la lotta per la vita e il calore del focolare
Amava il silenzio della lampada, ma seimila anni di Jehova
L’avevano resa aspra, equa e diplomatica.
I due giacciono morti, quasi sempre dimenticati, da qualche parte sottoterra,
Un terzo, davanti a un bicchiere di vino, pensa oggi per caso a loro.
È sempre stato il tedesco, in fondo, l’idioma base di Bobi; in tedesco è scritto Il
capitano di lungo corso: «Non ho tempo, e in italiano non so scrivere», dice Bazlen
in una lettera a Carocci del 28 ottobre 1928, sul rifiuto di collaborare al numero
unico sveviano di «Solaria» che sarebbe uscito nel marzo-aprile 1929. Già da allora, una rivendicazione del diritto di tacere, del diritto a una dignità intellettuale
silente e defilata, da difendere mantenendosi dietro le quinte, a scanso di coinvolgimenti pubblici, impropri e chiassosi, da parte dell’artefice del “caso Svevo”. Si
tratta d’un intellettuale che nella sua indole e nel suo ethos culturale più di altri
è segnato, ed è forse il suo tratto di pregio peculiare, e fortemente distintivo, da
una salutare sperequazione fra lettura e scrittura, fra immensa serie di fruizioni, di
consultazioni, di perlustrazioni cartacee di svariatissima motivazione, e uso quasi
restio, quasi retrattile, talora umbratile della parola propria, più che mai se in italiano: uso calibrato e centellinato. In Bazlen, davvero, l’atto, naturale e culturale
insieme, del leggere, prevale sull’atto, assai diverso, certo meno urgente e soprattutto assai meno “necessario”, costituito dallo scrivere: una prevalenza nettissima
all’interno del suo sistema, del suo “ordine”, un gap ingente.
È in questo senso che si possono riprendere le parole, citate all’inizio, di Valentino Bompiani: «è tutto cultura e si direbbe che non contenga altro dentro di
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sé. Ma qualche segno avverte che non è vero: forse legge per non pensarci». Leggere per non pensarci; anzi, leggere grazie alla lucida coscienza del proprio atto
di non pensiero. Un atto quant’altri mai consapevole, e rammentato di continuo
nel segreto dell’anima, non dello spirito113, secondo una distinzione, a lui cara, che
attraversa per intero la cultura francese. Bobi Bazlen, insomma.
113
Si ricordi la citata lettera a Sergio Solmi (Jarry, ecc.) − cfr. qui sopra, n. 105 − dell’8 febbraio
1959 (BAZLEN, Scritti, cit., p. 288), nel suo finale: «Ma credo che trovi tutti i rapporti che cerchi, e
molto organici, nella cultura dell’“anima” della Francia, messa al bando da quella dello “spirito”
(la quale per noi pochi, con poche eccezioni, sta diventando una molto sbiadita e passée cultura
sociale). Sì, caro Sergio».
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4.
MEMORIA E “FASCISMO DI SINISTRA”, FRA PRATOLINI E BILENCHI
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco
DANTE, Purgatorio, V
intervistare, se così si può dire, il protagonista della vicenda ed ottenere dalla sua viva voce la versione
autentica di un episodio, anche scabroso, che ha appassionato la curiosità, il pettegolezzo o, in modo più
generico, il gusto per il favoloso dei contemporanei.
Dante si nutre di cronaca, ma la sua cronaca sfiora più
di una volta l’eterno.
D’ARCO SILVIO AVALLE1
la vita sarebbe un fatto e non una rappresentazione:
finalmente si concorderebbero una volta insieme
quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini. / Sperava […] che il mondo […] avrebbe messo d’accordo la sostanza coll’apparenza, non
già cambiando la sostanza, che Dio ce ne scampi,
ma lasciandola intatta, e cambiando l’apparenza, les
bienséances, il linguaggio ec. cioè facendo che apparisca e si dica quello ch’è vero. E notava che il mondo
sembra che già inclini a questo, e non i fatti coi detti,
ma i detti si comincino ad accordare, ad accomodare,
a pacificare coi fatti; ed oramai vengano a trattato con
questi loro nemici, e domandino essi le condizioni di
pace.
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, 16 febbraio 1821
1
Cfr. D’ARCO SILVIO AVALLE, L’ultimo viaggio di Ulisse, in ID., Modelli semiologici nella
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ognuno col suo passato e con le abitudini mentali e coi
sospetti morali da cui la nuova compagnia non basta
a purgarli
RENATO SERRA, Esame di coscienza di un letterato
4.1 I vari “Pratolini”
Quando un autore, come appunto Vasco Pratolini2, ha tracciato un arco di carriera e di scrittura così vario e così seriamente impegnato in una ricca declinazione
di opere in prosa, la ricaduta e la fruizione dei suoi romanzi e dei suoi racconti non
può che risultare estremamente articolata, e soprattutto differenziata negli approdi
di lettura, nelle destinazioni di viaggio di questo sofferto dono che l’autore invia
a ignote scrivanie. Ci si metta subito dalla parte dei lettori; Pratolini ha indubbiamente goduto di notevole successo sin dall’epoca (1947) delle Cronache di poveri
amanti, ha ottenuto alcuni dei più importanti premi della repubblica letteraria
italiana, è stato riconosciuto come uno dei più rappresentativi prosatori del nostro
secondo Novecento. Ma ha pure dovuto affrontare in un significativo silenzio gli
scarsi riscontri lettoriali, insomma di pubblico e di critica, nell’ultima parte della
sua parabola di scrittore, diciamo da Lo scialo in poi.
Ci sono dunque, proprio da parte dei lettori e presso di loro, svariati Pratolini;
intanto vi è quello più vulgatamente conosciuto, quello di Metello e quello delle varie “cronache”, delle epopee di quartiere, della fiorentinità sanfredianina (in realtà
più efficace, quest’ultima, nelle sezioni narrative dello stesso Metello che nelle eponime «ragazze») e, variamente, degli eroi del “nostro tempo”, dei racconti di taglio
agile e di trama perimetrata e padroneggiabile, delle vicende e dei personaggi popolari, più rionali che cittadini, degli sfondi, o risolutamente degli affreschi storici
sostenuti da un’adesione ideologica e di schieramento tanto in certi casi aperta ed
esplicitamente professa sino all’apparente “ingenuità” e al rischio di manicheismo,
quanto in realtà problematica e complessa nelle sue radici, e tale da implicare −
sulla personale esperienza del fascismo − un severo vaglio di macerazione biografica, di solitaria riflessione intellettuale, psicologica e cronologica; e talvolta addirittura confessoria, senza mai risultare con questo veramente liberatoria. Vi è poi
il Pratolini conosciuto più a fondo dalla critica, il Pratolini più scandagliato e più
dragato dagli studiosi che desiderano trarre una visione il più possibile completa,
se non esaustiva, della sua opera e delle sue scaturigini ispirative. Quest’“ultimo”
commedia di Dante, cit., p. 37.
2
Sulla ricorrenza del centenario della nascita di Vasco Pratolini si ricordino la recente opera
collettiva appunto intitolata Vasco Pratolini (1913-2013). Atti del Convegno Internazionale di Studi,
Firenze, 17-19 ottobre 2013, a cura di MARIA CARLA PAPINI-GLORIA MANGHETTI-TERESA SPIGNOLI,
Firenze, Olschki («Gabinetto scientifico-letterario G. P. Vieusseux [“Studi”, 25]»), 2015, e MARINO
BIONDI, Pratolini. Cent’anni di cronache, Firenze, Le Lettere («La Nuova Meridiana», 82), 2014.
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Pratolini, per così esprimersi, è uno scrittore in buona parte diverso da quello che
appartiene alla sua versione più vulgata, ed è uno scrittore che, dalle sue prime,
imprescindibili fasi degli anni ’30, passando in séguito da Il tappeto verde e da Via
de’ Magazzini, prosegue in un percorso di cattura identificativa della rinnovata visione ideologica e artistica − segnato da riconoscimenti premiali e nel contempo da
polemiche subìte da parte dell’establishment partitico-ortodosso −, per giungere
al necessario e impegnativo completamento di quella trilogia storico-italiana che
riserva all’autore un ritorno problematico e quasi imbarazzato, più difficoltoso di
quello che era stato alla metà degli anni ’50 il perspicuo Metello3. Un volume di
Marino Biondi (sottotitolato Cent’anni di cronache) ripercorre la vicenda artistica della scrittura d’autore, mediante l’assunzione della prospettiva costituita dalle
opere più conosciute e della prospettiva delle opere meno gratificate dal successo;
lo scrittore Vasco Pratolini, pur nei notevoli passaggi evolutivi della sua vicenda
creativa, traccia infatti un profilo che sarà compito della fruizione lettoriale meno
smaliziata assumere anche nelle sue forme e nelle sue declinazioni meno immediatamente perspicue, e anzi più complesse e più schermate, più filtrate dall’amara
consapevolezza dell’interpretazione, e dell’autointerpretazione, cosciente e retrospettiva. Il fine perseguito è sostanziato dalla ricognizione sul Pratolini meno conosciuto, se non addirittura “ignoto”, a realizzare un itinerario critico che affronti
in modalità peculiari la materia da far acquisire alla conoscenza del pubblico. Ne
scaturisce una “cronaca” pratoliniana che giusto in quanto tale si fa “storia”, come
avremo più sotto modo di dire. Il passaggio è davvero tipico di un Vasco che − non
sorprende − è sempre presente e vivo, quando si delinea la vicenda del suo sviluppo narrativo e umano, ma anche quando si delinea il suo tragitto di riflessione e di
dubbi, di incertezze e di perplessità, di slanci di progettualità creativa e di sospensioni di calamo; e si tratta talvolta di sospensioni prolungate.
I motivi qualificanti di tale percorso critico risiedono negli stadi iniziali e in
quelli finali della parabola dello scrittore, nel «porto delle nebbie» della sua partenza o delle sue partenze, e nella fase dell’amaro silenzio e dell’accantonamento,
ivi compreso quello effettuato dalle “avanguardie”, con le loro classifiche e con le
loro proscrizioni letterarie. Tornano qui a rendersi efficaci i concetti espressi da
Giorgio Pullini4 sugli inizi non eclatanti, non esplosi sùbito in caso letterario, da
parte di Vasco; non si è trattato di una vicenda confrontabile, ad esempio, con il
moraviano Gli indifferenti: gli esordi di Pratolini sono, per così dire, oggettivamente “timidi”, segnati dall’idea di “prova” (narrativa e non), di progressiva conquista,
di chiarimento a se stesso della propria vocazione e delle stesse ragioni della propria
3
Sul dibattito riguardante Metello si ricordi almeno una serie di dati presenti in GIORGIO
LUTI-CATERINA VERBARO, Dal Neorealismo alla Neoavanguardia (1945-1969), Firenze, Le LettereUniversità («Gli “Ismi” contemporanei», 4), 1995, pp. 59-61 e 95-96 n.
4
GIORGIO PULLINI, Vasco Pratolini, in ID., Il romanzo italiano del dopoguerra (1940-1960),
Milano, Schwarz, 1961, p. 117 (ripreso in BIONDI, Pratolini, cit., pp. 28-29 e n.).
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professione di scrittore. Come la Sabina diota, l’oraziana anfora a due manici, sono
gli inizi e le fasi finali a reggere il contenitore e il contenuto; e sono gli elementi meno
conosciuti. Né con questo, nel discorso critico, viene meno l’analisi del contenuto
stesso, che anzi contempla, fra gli spunti provenienti dai Cent’anni di cronache, un
commento ad Allegoria e derisione che davvero si rende necessario, nella sua sfida
alla realtà testuale in sé e per sé, nella sua disponibilità a praticare quel tallonamento
ravvicinato, quel confronto fenomenologico diretto con uno dei testi più ardui della
prosa di Vasco, metodi che vengono a essere qui preferiti a un flusso compilativo
sulla scia, talvolta corriva, della tradizione della critica letteraria precedente. E questi
“manici”, inizio e fine, sono segnati, pur se non in via esclusiva, dallo sfondo dell’adesione al fascismo, dalla tormentata e talora drammatica sincerità dell’autoanalisi
personale che assurge ad autoanalisi generazionale, dal passaggio dalla dimensione del “successo” a quella dell’immobilizzazione critica, dell’inchiodamento nell’esposizione, anche giornalistica, ad accusabile icona di ex “aderente” degli anni ’30.
Com’è successo, in chiave diversa e postuma, a Silone. Ma non si tratta, qui, di stilare
giudizi morali o condanne, né, certo, di prospettare assoluzioni e giubilari indulgenze storiche; si tratta, soltanto, di non usare sempre il «peccato originale» come «una
clava periodica per troncare retrospettivamente le biografie»5.
4.2 «Cronache, sempre cronache»
Si inizi dal concetto di «cronaca» e dal rapporto fra «cronaca» e «storia». Per
Pratolini l’origine, il primo movimento dell’affabulazione narrativa è costituito
dalla cronaca, o dalla singola osservazione umana che diviene cronaca6. La genesi
realistica, la voglia di trovare uno «spiraglio» di verità non possono che essere alla
base di una poetica come quella pratoliniana; e Biondi lo sottolinea sin dalle prime
pagine: «Cronache, sempre cronache, ogni romanzo era cronaca» (p. 22). E segue
la citazione delle Lettere a Sandro7, ampiamente utilizzate, come in effetti risulta
necessario: «Se io insisto a chiamare “cronache” i miei libri − e gli intitolerei tutti
“cronache” se Enrico [Vallecchi] non fosse lì ad impedirmelo − non lo faccio per
vezzo, tu lo capisci. È perché non arriverò mai alla “storia”, e perché so che se
intendessi scoprire il “segreto” della storia non solo non arriverei a possederlo, ma
perderei l’illuminazione cruda dei fatti che sono persuaso di avere acquisito. Non è
una rinuncia a “migliorare”, è un senso dei miei limiti: o almeno non potrò mai aspi-
Cfr. BIONDI, Pratolini, cit., pp. 13-14.
Sul concetto di «cronaca» in Pratolini, visto specificamente nel rapporto con il cinema
(privilegiato il riferimento a Cronache di poveri amanti), cfr. ALBERTO ASOR ROSA, Letteratura e
cinema, in ID., Un altro Novecento (Parte II: Questioni), cit., pp. 162-172.
7
VASCO PRATOLINI, Lettere a Sandro, a cura di ALESSANDRO PARRONCHI, Firenze, Pagliai
Polistampa, 1992, p. 825.
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rare alla perfezione se prima non avrò esaurito e resi chiari a me stesso (e agli altri)
gli elementi della mia imperfezione» (da Napoli, 25 maggio 1948). «L’illuminazione
cruda dei fatti», il primo motore dell’ispirazione e della ricerca di Pratolini: «La sua
fu una religione dell’esperienza, l’apprendere dalla realtà, la più empirica e pragmatica delle procedure di conoscenza, e di crescita», scrive Biondi, che in tal senso
rileva il fiorentino legame con il realismo machiavelliano, con la sua «terrestrità»8,
con la sua «radicale immanenza», con la sua apertura all’ascolto, e anche alla convalida, della leggenda popolare cittadina, in certo senso dotata di un sottofondo di
maggiore veridicità rispetto ai palinsesti storici ufficialmente dichiarati. Rimane, fra
le differenze più evidenti, oltre all’ovvia diversità di software storico, la concezione
«più ciclica che progressiva» del Segretario rispetto alla concezione, comunque la si
voglia intendere, del Pratolini marxista.
La città, l’insostituibile Firenze (ma l’intervista a Marabini chiarirà il distacco
reciproco degli ultimi anni), è il teatro d’osservazione di una topografia, e di una
professa onomastica, e insieme di un paesaggio umano (personaggi, scene corali,
affreschi popolari e di psicologia popolare, dialoghi di rionale polifonia scevri da cedimenti vernacolari), che perderebbero ogni connotato se non si raccontassero come
cronaca, se non si incidessero come prolungati capoversi − ben noti in Pratolini − di
protratta, insistita, sviscerata spiegazione delle ragioni dei personaggi popolari, della
gente minuta dei quartieri poveri, ritenuta degna − e non è proprio di molti scrittori
− di autentica, sincera, identitaria affabulazione sintattica. I nomi di Compagni e di
Villani − vere etichette d’eccellenza enologica nella cantina toscana dei “cronisti” −
sono di non retorico obbligo, quali autori di cronache, appunto, dell’unica forma
di storia che un determinato concetto di una città come Firenze possa permettere
senza che essa risulti tradita nella sua popolarità, nella sua faziosità al netto dei luoghi
comuni, nella sua «passionaccia» politica di popolo che politico lo è da sempre: politico molto più che contemplativo. La cronaca è storia, e la storia non può che essere
cronaca; se di storia e di storiografia si parlava già dall’antichità, si deve ricordare che
nel medioevo, invece, segnatamente in quello fiorentino, erano le cronache a fare
la storia, erano i cronisti a disegnare gli eventi, i personaggi, le trame, le situazioni,
storiche appunto, di più ampia vibratilità contestuale.
A cento anni dalla nascita, Pratolini manifesta un’intensa e problematica vitalità, una sfida costante a ulteriori approfondimenti critici, e di non breve gittata;
ogni passo interpretativo sui testi, ogni rilevazione di impostazioni contraddittorie,
di mutamenti ispirativi, di fondamenti o di procedimenti ideologici che appaiano
discutibili, ogni utilizzo della disponibilità autoanalitica (personale e storica) ampia
e insieme impietosa da parte dello scrittore, non fanno che confermare la necessità
di indagine sull’intima ratio di successione delle opere pratoliniane. Si direbbe che
sono esattamente gli aspetti discutibili, o tali ritenuti nel trascorrere storico della
8
BIONDI, Pratolini, cit., p. 23.
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ricezione degli studiosi (si pensi in particolare ad Allegoria e derisione), a legittimare
la prosecuzione e l’incremento della stessa indagine, a giustificare un rinnovato esame dei testi, dei contesti, delle chiarificazioni epistolari, in vista di una ridefinizione
e di una focalizzazione critica che meglio restituiscano la peculiarità pratoliniana
nel concepire e nello strutturare la propria prosa e che, fatto ancor più rilevante,
ne indichino la proponibile attualità specificamente nel coraggio e nella dolorosa
spremitura di plessi autobiografici e, diremmo, autostorici, scottanti e tormentosi, ma
non più sigillabili nella crisalide dell’afasia e del silenzio, e anzi pervenuti al grado di
pressante urgenza confessoria, al capolinea d’una lunga riflessione che segna il punto
di non ritorno, e che segna altresì la necessità, più che la scelta, della rappresentazione narrativa e affabulata dei grumi irrisolti con se stesso, di stadi biografici segnati
dall’equivoco, talora spiegabili, spesso drammaticamente imbarazzanti. Anziché di
un Pratolini appartenente al “passato” critico, e più che di un Pratolini “superato”
e incapsulato con infastidita sufficienza in una tranquillizzante casella di cantore del
quartiere e delle sue voci, si tratta di un Pratolini ancor più attuale e letterariamente
proponibile, di un Pratolini che si situa “al di là”, non “al di qua”, della linea di confine, o di demarcazione, segnata dalla capacità di affrontare i conti con se stessi, nella
memoria individuale e nella memoria storica. Un Pratolini che più di altri, o meglio a
netta e risoluta differenza di altri, accetta la sfida interiore della lucidità senza sconti,
e rinnova in forme artistico-espressive protratte e complesse, strutturalmente impegnative, macroromanzesche, quell’«ordalia» che con l’aiuto di drammatiche illuminazioni storiche e di un clima fervoroso di riscatto, a suo modo persino più “agile”
nel passaggio decisivo dal fascismo all’antifascismo, aveva condotto Vasco a meritare
di nuovo se stesso, a legittimargli il desiderio di una vita migliore, nel segno di scelte
più giuste. Solo che l’“ordalia” è adesso un’esperienza percorsa in senso inverso;
muove, insomma, in una direzione diametralmente opposta: non, come allora, un
percorso dall’adesione al fascismo alla condivisione convinta e fattiva, resistenziale,
d’un antifascismo autentico, alto e nobile, bensì un itinerario intellettuale e culturale
che muove dalla sponda di un chiarimento ormai avvenuto, di un approdo ideologico e narrativo “metelliano”, non si dice rasserenante o sereno, ma almeno al riparo da dubbi di fondo, per guadagnare l’esigenza criticamente, problematicamente
dichiarativa di una verità amara (e in parte anche oscura), l’esigenza di resoconto
impietoso, ma appunto necessario, di un passato lontano nella vita esterna, ma mai
sino ad allora liquidato nella sfera dell’interiorità, in un conato chiarificante riguardo
alla propria stessa vita, alle proprie scelte, agli aspetti e ai caratteri immedicabili e in
certo senso imperdonabili dell’esperienza, alla dura acquisizione della sfera d’una
compiuta riflessione adulta. Il chiarimento, non solo a parer nostro, non si realizzerà per intero, e anzi rintraccerà come canale artistico il ritmo variegato del diario,
malleveria stilistica di personali scansioni psicologiche e scrittorie, di ribalte umane,
documentarie, sentimentali e memoriali. Un tale percorso era fin dall’inizio chiuso
a un esito totalmente vittorioso; ma non era questo l’originario intento d’autore: si
trattava, appunto, di rendere il “diario” una struttura capiente di personaggi e di
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fantasmi, di personaggi che si fanno fantasmi, di ricorrenti fantasmi che insistono a
scansione non periodica con l’assillo profondo e irrisolto di antichi personaggi e di
antiche situazioni. E si trattava di rivivere, per quanto possibile, le ragioni e soprattutto le pulsioni di quelle antiche situazioni, e di riviverle anche in modo reattivo
rispetto alle critiche, e alle accuse che − non senza fondamento − furono rivolte
all’autore. Uno scrittore, per la contradizion che no ’l consente, ha una penna. E la
penna di Pratolini ha in tal senso risposto e reagito, ha ammesso e ha prodotto dei distinguo, ha rivissuto liricamente senza allentati abbandoni, ha focalizzato, ha dipinto
e storicizzato lo scialo crudele e vano d’un’intera epoca e di un’intera classe sociale
(la borghesia, sempre nemica alla penna del fascista e a quella dell’antifascista, pur se
da diverse premesse), ha fatto transitare la realtà nell’affabulazione allegorica di un se
stesso del passato, riconoscendogli la facoltà di dire cose diverse dall’ego-autore del
1966, e nel contempo ha amaramente deriso, per impossibilità di altra soluzione. Il
passaggio dalla cronaca alla storia ha lasciato molti caduti nei campi del cuore e della
ragione, almeno quanti sono stati i fantasmi di intermittente resurrezione.
Pratolini è, in effetti, scrittore ricco e fertile, pur se estremamente attento alla
propria produzione testuale. Dalla lirica alla prosa, dal racconto al romanzo, dalla
cronaca alla storia. E in tal senso l’importanza di quest’ultimo “binomio”, cronaca e
storia appunto, attraversa fecondamente tutta l’opera dell’autore. «Cronaca» è anche cronaca familiare, è tributo vano e insieme necessario a una figura fraterna che
si è trovata a incarnare tutto il negativo della secondogenitura ad “uccisione” dell’unicità filiale del maggiore, e ad uccisione meno metaforica − così essa mentalmente è
ipotizzata − della figura materna. Il ricordo in sé è crudele, oltre che vano; non resta
che un lavoro di scrittura, di decostruzione e di parziale ricostruzione di un fratello,
di una famiglia, di un’ipotesi di nucleo d’origine; va davvero sottolineata, in questa
prosa, anche l’importanza di un’ultima pagina che ben sigilla la crudeltà in relazione
a una vita rumorosa e indifferente, tanto più illuminata e festosa quanto più lontana
dal dramma della morte di Ferruccio, un dramma che coinvolge solo l’io narrante:
Fu un giugno crudele, così denso di vita, di fervore appena fuori dal cancello
dell’ospedale. Al di là del viale, a Porta Pia, c’era un luna park di rione, con
la pista delle automobili, le barche volanti e i tirassegni. L’altoparlante diffondeva le canzoni. Uscendo dall’ospedale mi fermavo ogni volta in mezzo a
quel clamore, incapace di formulare un pensiero o un proposito. Quella mattina del nostro congedo, mi trovai col viso contro una vetrina di via Salaria
ov’erano esposti, l’uno sull’altro a piramide, barattoli di conserva dolce. Alla
sommità della pila stavano i vasetti di marmellata d’arancio. Li guardavo e il
frutto stampato sull’etichetta mi sembrava una faccia che ammiccasse9.
9
VASCO PRATOLINI, Cronaca familiare, con Introduzione di GIORGIO LUTI, Milano, Mondadori,
1982, p. 155. Su Cronaca familiare cfr. ENRICO GHIDETTI, Il volto dell’arcangelo (Per una lettura di
Cronaca familiare), in «La rassegna della letteratura italiana», XCVI, VIII (settembre-dicembre
1992), 3, pp. 22-32. Nello stesso numero di rivista sono da leggere altri contributi su Pratolini.
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E cronaca è anche il “quartiere”, con la coralità, con il suo schietto lirismo
urbano-toponomastico, con la sua precisione viaria, con la costante citazione di un
plurale, di un «noi» di sodalità; ma tale cronaca è anche un tessuto di riferimenti
e di allusioni, un gioco di rinvii e di interne corrispondenze. Sulla base di analisi e
di considerazioni, di messe a fuoco e di contestualizzazioni, risulta possibile ampliare, e insieme precisare, i presupposti di lettura di molte opere pratoliniane. Si
pensi − è mero esempio − alle «illusioni» e alle «speranze», alle proiezioni su un
possibile futuro personale, politico, nazionale che, in Il quartiere, non soltanto non
si mostrano improprie, o eccessive, o inadatte al mondo popolare, ma che anzi lo
presuppongono come àmbito e come significativa porzione di realtà che risulta sfidata, proprio nella sua basilare condizione di povertà, e quindi di minorità sociale,
alla prospettiva di un miglioramento, alla percorribilità di un cammino, benché in
tal senso le idee possano non essere chiare. Si apre il dibattito, all’interno delle case
popolari, nelle sedi private del “quartiere” con un unico tavolino e poche sedie,
sulla direzione di quel miglioramento, e le soluzioni, com’è intuibile, sono di varia
connotazione e di varia natura, e di varia definizione. Alcuni protagonisti giurano
di ritrovarsi, finita la guerra, «più uniti e coscienti che mai. Fu Giorgio a dire coscienti, con una intenzione nella voce»10. E non è un caso che sia appunto Giorgio,
il più ideologicamente “impostato” di quel sapido coro rionale, a coronare con
queste parole l’opera di sensibilizzazione − nei limiti socio-culturali e topografici
del contesto − che egli ha provato a svolgere, quale punto di riferimento dialogico,
colloquiale, con gli altri personaggi e con le altre voci (Giorgio crede nella società,
nel suo scambio, nell’educazione che può maturare nella frequentazione comune).
Talora il riferimento non rimane, da parte di Giorgio, al puro stato colloquiale; si
legga il senso, lo spirito di contesto sociale, di popolare aggregazione presupposto
dal dialogo che assume in parte sulla collettività rionale la colpa della condizione e
degli atti di Gino, finito nelle patrie galere in quanto responsabile d’un omicidio:
«La verità è che Gino è un assassino. Ed era uno di noi, uno a cui volevamo
bene come a un fratello» dissi. / Giorgio mi rispose: / «Perciò la colpa è un po’
di tutti noi. Ti ricordi quel che gli dissi il giorno che lo picchiai?». / «Cosa?»
chiese Carlo. / «Appunto questo. Gino è cresciuto insieme a noi, era fatto come
noi. Ci siamo pure dovuti scambiare qualcosa l’uno con l’altro in tanti anni che
siamo stati vicini: non siamo certo stati accanto da estranei. E se Gino ha potuto
fare quel che ha fatto vuol dire che noi gli abbiamo trasmesso soltanto quanto
di più brutto avevamo dentro di noi. O vuol dire che con le nostre azioni nei
suoi riguardi, con le nostre parole, gli abbiamo allevato il brutto che aveva dentro senza riuscire ad illuminarlo sulla sua natura e renderlo simile a noi. Il meno
di cui ci possiamo accusare è di non avergli voluto bene11.
10
11
VASCO PRATOLINI, Il quartiere, Milano, Mondadori,, 1985, p. 134.
Ivi, p. 133.
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«La cronaca è una lente di ingrandimento su pezzi, frammenti, filamenti del
tempo che ancora non si chiamano storia, ma che lo diventeranno. È un’annalistica del giorno per giorno, del luogo per luogo»12; ed è da ricordare pure l’analisi condotta dallo storico Giovanni Cipriani13; vi sono, vicini a Vasco, testimoni
dell’epoca quali Rosai (Libro di un teppista, Dentro la guerra), Ardengo Soffici in
veste memorialistica, l’onnipresente Papini, il Carlo Delcroix di Guerra di popolo
e di Un uomo e un popolo; ma sono presenti anche autori e cronache, appunto
quelle, appartenenti al passato di Firenze, a segnare, anche e principalmente a
livello privato, scansioni di vicende, di fatti, di riflessi di eventi: ed ecco l’edizione
sansoniana del 1914 a cura di Del Lungo e di Guglielmo Volpi delle “croniche”
dei Velluti (Cronica domestica di Donato Velluti [1367-1370], con le Addizioni
del discendente Paolo [1555-1560]), preceduta nel 1900, presso lo stesso editore,
a cura di Giuseppe Odoardo Corazzini, dal Diario fiorentino di Agostino Lapini (1252-1596); degne di menzione anche le Ricordanze del calderaio Bartolomeo
Masi (1478-1526). Le storie di famiglia e di mestieri artigiani facevano sì che gli avvenimenti apparissero «trasfusi nel tessuto della vita quotidiana. Vicende pubbliche e private si integravano a vicenda generando l’idea di una storia senza tempo,
perfettamente rispondente a pulsioni e bisogni di carattere universale e perenne.
Anche le persone più umili vivevano e operavano esprimendo, con il loro modo di
essere, la testimonianza del fluire della storia» (Cipriani)14: una storia che, se nella
sua versione curiale e politico-diplomatica si mostra lontana dalle potenzialità d’una fruizione comune, nella sua veste di cronaca vede, al contrario, «il vero cammino percorso dalle generazioni», tanto che «La cronaca […], dalla Cronaca familiare
alle Cronache di poveri amanti, avrebbe […] costituito»15, sempre seguendo la tesi
dello storico Cipriani, un esempio probante di come un’esperienza privata possa
ampiamente assurgere al ruolo di testimonianza importante su un piano pubblico
e più generale. Peculiare al ragionamento d’ordine testuale, il contributo di Giulio
BIONDI, Pratolini, cit., p. 104.
GIOVANNI CIPRIANI, Vasco Pratolini. Fra cronaca e storia, in «Il Portolano», XIX (lugliodicembre 2013), 74-75 [numero uscito in occasione del Convegno di Firenze del 2013], in
part. pp. 20-21. Cfr., ultimamente, la «Rivista di letteratura storiografica italiana», Pisa-Roma,
Serra, I (novembre 2017), prevista con cadenza annuale, ora appunto al primo numero, che ha
in programma di occuparsi «fondamentalmente delle cronache medievali italiane, in volgare ed
in latino, in prosa ed in versi, a partire da quelle di Dino Compagni, dei Villani e di Bonvesin
da la Riva, ai libri di famiglia, alle opere della storiografia umanistica, rinascimentale, barocca
e controriformistica, fino alla produzione erudita arcadica, a quella illuministica, romantica
e novecentesca. / Saranno compresi inoltre saggi sulla letteratura biografica ed epistolografica,
nonché sulla memorialistica» (dalla presentazione di catalogo). Non vi è intento “concorrenziale”
con altre riviste di storia (ad iniziare dallo stesso prestigioso «Archivio storico italiano») «perché
differente è la prospettiva: letteraria più che storica in senso stretto»; questo periodico intende
essere «specificamente rivolto allo studio della letteratura storiografica».
14
BIONDI, Pratolini, cit., p. 104.
15
Ivi, p. 109.
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Ferroni16 a sua volta riconduce l’attenzione alle cronache medioevali, riprese non
in chiave esornativo-antiquaria, bensì come narrazioni diverse dal nostro concetto
di cronaca, da parte sua legato al presente, alla quotidianità, alla contemporaneità
nel suo aspetto spesso effimero, transeunte, di pronto consumo; si tratta, invece,
di cronache che formano «il primo filo tessuto della storia»17, e che finiranno per
porsi esattamente come storia. Quest’ultima non è stata altro che una lievitazione
della cronaca, dato che è la cronaca stessa ad assumere su di sé l’onore e l’onere
della testimonianza della storia lontana, «del tempo trascorso, di ciò che non è
più»18, insomma di un’impegnativa affabulazione del passato, sostenuta da una ratio interpretativa riguardo «ad antichi e nuovi quesiti sulle ragioni e i torti nell’urto
perenne delle potenze umane»19: in Pratolini ciò significa necessaria maturazione
di artista e di intellettuale, conquista progressiva di uno scrittore che era partito da
premesse lirico-sentimentali, tra il mondo dei poveri amanti e il personale viatico
goethiano delle affinità elettive.
Non stupisce per nulla, quindi, la stretta, davvero intima connessione fra la
storia umana, prima ancora che artistica, di Pratolini, quale maturazione nella scelta dei propri “generi” letterari, e il genetico rapporto della forma-cronaca con la
forma-storia. Si tratta di una complessa vicenda nella quale la citata volontà di
«riacquistare» il proprio «cuore tra gli uomini» (Fatto personale, in «Architrave»,
Bologna, 31 maggio 1943), insomma il passaggio di palingenetica ordalia, pietra
focale su cui divampa l’esame di coscienza, diviene peculiare prerogativa di Vasco
«nel traghettarsi, anche a suo pericolo, dall’autobiografia dell’adolescenza e prima
giovinezza alla cronaca di romanzo, la quale presuppone una consapevolezza diversa, e pari responsabilità, testimoniale e narrativa»20; più tardi, ma si tratta dello
stesso ego uomo-autore, Vasco scriverà, in Allegoria e derisione: «D’accordo, uccidere il mostro fascista era l’imperativo categorico; e per uomini come me diventava
una purificazione»21. È, al solito, lo scrittore che paga per tutti, come direbbe Francesco Paolo Memmo. Ed è tanto più categorico, quell’imperativo, quanto maggiore è, o è avvertita, la colpa da cancellare, o da superare riguadagnando degnità e
vivibilità alla propria umana e civile esistenza. Si potrebbe affermare che l’onestà,
la probità (non si dice la «limpidezza», stato di chimica intellettuale in questi casi
irraggiungibile), la perspicuità ideologica e testuale dell’ordito prosastico pratoli-
16
GIULIO FERRONI, Nel tempo delle Cronache, in Vasco Pratolini (1913-2013), a cura di PAPINIMANGHETTI-SPIGNOLI, cit., pp. 29-38.
17
BIONDI, Pratolini, cit., p. 110.
18
FERRONI, Nel tempo delle Cronache, cit., p. 30.
19
BIONDI, Pratolini, cit., p. 110.
20
Ivi, p. 125.
21
Cfr. VASCO PRATOLINI, Allegoria e derisione. Una storia italiana III, Introduzione (Un
romanzo del nostro tempo) di FRANCESCO PAOLO MEMMO, Milano, Mondadori, 1983, p. 353; e cfr.,
ora, VASCO PRATOLINI, Allegoria e derisione. Una storia italiana III, Prefazione di MARINO BIONDI
(Allegoria e derisione: ultimo atto della trilogia), Milano, Rizzoli («BUR»), 2016, p. 347.
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niano attingono il proprio culmine, raggiungono insomma la propria acme non in
un’improbabile autoattestazione d’innocenza, bensì, e direi al contrario, proprio
nell’ammissione di colpevolezza, nell’amara e derisoria accettazione della chiamata
di correità, nella confessione di colpa personale e storica, nella professione ammissiva d’una “fede” e d’una militanza che si manifestano aspramente innegabili
giustappunto in proporzione all’entusiasmo autentico per il nuovo approdo, alla
scia di convinta adesione al nuovo pensiero e alle nuove esigenze narrative e di
interpretazione storica, alla risposta a sempre più impegnative domande. Men che
mai stupisce, perciò, la presenza in prove artistiche quali ad esempio Un eroe del
nostro tempo, d’una componente di deriva di neofitismo, di una linea rivelatrice di
demarcazione manichea dei ruoli e delle connotazioni umane e ideologiche. Insiste
spesso, nel neofita, l’ammissione oggettiva, involontaria, dello stato precedente alla
conquista della rigenerazione, al Wiedergeburt. Ma lo status di colpevole professo,
di «habemus quod est accusatori maxime optandum, confitentem reum» da Pro
Ligario ciceroniana, procura rinnovato e ulteriore cammino alla singola e individuale personalità dello scrittore, alle sue possibilità di artista, alle sue ampliate e
ampliabili scelte di narratore; non gli procura invece, men che mai a breve termine,
apprezzamento nella comunità interpretante, se non nella valutazione critica degli
esiti narrativi, della felicità esecutiva del calamus scrittorio; l’ammissione di colpevolezza non può ambire oltre il grado di severa ordalia, di laica confessio oris da
Purgatorio sulla terra.
Sulla base di tali premesse, si può ben asserire che ciò che maggiormente urge,
nella penna del narratore, è proprio l’esigenza di passaggio da forme letterarie di
modulo individuale, sentimentale, a forme più idonee, più complesse e più articolate, prosasticamente più capienti e improntate dalla molteplicità delle sollecitazioni e delle necessità rappresentative, dalla plurimità di caratteri e di movimento narrativo nella scacchiera dei personaggi. Dalle affabulazioni ermetiche, o variamente
abilitate a rientrare nell’ermetismo, alla connotazione di «splendido cronista dei
luoghi e delle comunità»22:
Grande romanziere, a partire dai segmenti delle affabulazioni ermetiche intorno a un nucleo sfumato ed esangue ma caldo e vitale di termini esistenziali,
emozioni, sentimenti, fattisi subito memoria, ricettati nella sfera del ricordo
come in un’incubatrice della vita, come se solo nella memoria potesse sussistere la vita. Narratore nativo, tenero e potente. Voce narrante dentro l’esperienza sua e dei compagni, uno splendido cronista dei luoghi e delle comunità, che una certa cultura del romanzo, o dell’antiromanzo, ha penalizzato,
relegandolo già negli anni Sessanta, anche per l’avvento della neoavanguardia
che lo spregiò, a un silenzio durato quasi un ventennio.
22
BIONDI, Pratolini, cit., p. 127.
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Quindi, il primo passaggio fondamentale avviene dal lirismo ermetico al romanzo. E
se dal romanzo aperto alle valenze realistiche e ad allargate scansioni cronistoriche lo
scrittore passa al progetto e all’impianto di Una storia italiana, avviene che al primo
romanzo, Metello, ancora necessariamente vòlto al dragaggio dell’esperienza operaia
fiorentina tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, facciano séguito con
ampie distanze di tempo due poderose prove narrative (variamente giudicate dalla
critica) nelle quali − soprattutto in Allegoria e derisione −23 il complesso rapporto
memoriale dello scrittore con l’idra multicefala costituita dal regime fascista produce l’effetto di intrecciare, e di far compenetrare reciprocamente sino all’inquietante
osmosi, le ragioni della storia e le ragioni personali, la generosità narrativa che provvede la prosa romanzesca di abbondanti risorse inventive a formare e a comporre
l’affresco storico (è il caso de Lo scialo), e la ricognizione identificativa sui connotati
e sui contesti umano-sociali e generazionali del se stesso di allora, delle illusioni e
degli inganni che hanno condotto uno dei più rappresentativi e uno dei più ideologicamente persuasi scrittori della sinistra letteraria italiana a fornire uno spaccato
problematico d’un regime che fagocitò molte speranze di giovani, oltre che di borghesi, e che da questo spaccato ha l’imbarazzante coraggio di non chiamarsi fuori, di
non sottrarsi, in nome della verità oggettiva e della verità soggettiva, della verità storica e della verità personale. Uno spaccato doloroso, un’autoferita narrativa inferta
e sofferta senza speranza di serenità né di assoluzione, l’inizio d’un tragitto di penna
e di anima nel quale sia l’io narrante sia il contesto dell’alterità avrebbero con pari
acuminatezza fatto male al narratore, concorrendovi da diverse provenienze. Uno
spaccato che non si può osare presumere con sicurezza veritiero, ma certo uno spaccato spietatamente sincero. Nessuna sicurezza, insomma, sul piano del noùmeno,
ma una crudele sincerità nella fenomenologia affabulatoria d’una prosa che sembra
porsi come un protratto intervento chirurgico. E in questo senso la scelta narrativa
non si pone più sul piano del transito dal lirismo, o dalla prosa breve, alla prosa di
romanzo, bensì dalla prosa del romanzo storico-ideologico alla scrittura innervata, e
anzi perfino concepita, nella chiave, avvertita come necessaria, dell’allegoria, del velame di non immediata, ma non certo impossibile interpretabilità (appare evocabile,
al di là del richiamo allegorico-zoologico, l’atmosfera topesca, murina, della Batracomiomachia leopardiana). La seduzione del fascismo, il Gran Topo imperial-paterno,
la mescolanza e addirittura l’ibrido biogenetico gatto-topesco riversato in movenze
di tragigrottesca farsa storico-sociale che ha coinvolto, a dir poco, un’intera nazione e
un intero popolo, la mano sulla spalla posta da Mussolini, le acrobazie da triste circo
delle idee, le premesse del dramma epocale − insite in quella presuntuosa e illusa
corte dei miracoli politici −, teofanie, ideologie e teologie, maccheroni e moschetto,
alcova e adunata, armi e amori d’una vociante armata Brancaleone e relative sedicenti glorie, sino al «fascismo decrepito, in salsa surreal-satirica»; proprio Il fascismo
Cfr. in particolare la citata Prefazione di BIONDI all’edizione Rizzoli dell’opera: Allegoria e
Derisione: ultimo atto della trilogia, pp. V-XXXIV.
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sotto il velame: «Sotto il velame. Come il Dante di Pascoli, il fascismo di Pratolini. Il
fascismo del velamista in veste topotica o topesca, sotto un inventario di travestimenti, maschere e monture»24. Vi era bisogno di «dispiegamenti allegorici» da parte di
«un narratore esausto sul piano del realismo storico-ideologico, come segnale di una
specie di impossibilità a riprendere il discorso, causa una sua ineffabilità, s’intenda
tutta al negativo. Un fascismo, che non potendosi più enunciare, né dignitosamente biografare, era fatto slittare sul piano della allegoria, e descritto come malefizio
incantatore». E ancora: «Una sorta di stregoneria transgenica, che si volgeva al riso
per uno spettacolo di indecenza politica e morale»25; «Un’allegoria del ventennio: la
derisione e quindi la tragicità e la comicità mescolate che essa comporta», scrive lo
stesso Pratolini (Perché la favola, in Paese sera, 13 gennaio 1967). Il tutto veicolato
e ridefinito, filtrato e mediato a opera della scrittura e per mezzo del tempo: tempo
tiranno, sempre; e non “tempo galantuomo” ma carogna; e cafone, aggiungeremmo
noi.
Altre conferme, e ulteriori possibilità di percorso critico sulla distribuzione delle
funzioni di ogni romanzo nell’opera pratoliniana, sul rapporto di epica e di storia, e
sulla lingua del prosatore, si hanno a proposito di Cronache di poveri amanti26:
Che ci fosse e fosse pronunciato, enunciato e palesemente denunciato, non
significava però che il fascismo fosse realisticamente rappresentato in tutte
le sue relazioni e componenti, e nella natura più intima di collegamento con
l’esperienza dell’autore […]. Per quest’opera di traduzione narrativa, e profondamente autobiografica, del regime ventennale, sarà necessaria la stesura
dello Scialo. Un romanzo dove si analizzavano anche le stratigrafie ideologiche del fascismo, da quello fiumano, vitalistico-mortuario, dannunziano più
che mussoliniano, di Folco Malesci, al fascismo turpe dei piccoli e meno piccoli profittatori di regime (il Neri, o il fascismo qualunque del Corsini, anima
morta). Prima, anche nell’euforia del dopoguerra e della ritrovata libertà, era
stata cantata l’epica. Poi, sull’onda triste della maturità, era venuta la storia.
Si legga ancora:
Sotto il profilo della lingua, Pratolini è in grado di sfruttare una continuità,
stabilita all’insegna del vocabolario toscano […]. Si tratta di una vera e propria continuità istituzionale tra lingua comune e sua variante toscana che può
dar luogo a un colore dialettale più o meno accentuato, quando non sceglie
di essere dirompente in termini o di gergo o di sprezzatura espressionistica.
Pratolini è autore che sorveglia adeguatamente la possibile deriva di una toscanizzazione del dettato prosastico.
24
25
26
BIONDI, Pratolini, cit., p. 192
Ivi, p. 193.
Ivi, pp. 218-219.
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Né appaiono meno importanti i rilievi, condotti anche sulla scia di Ruggero Jacobbi, sugli schemi di tipo teatrale di Pratolini, «a informare l’intera composizione, il
piano compositivo e il realismo stesso del romanzo»27; e teatro vuol dire soprattutto costanza iniziale della «parte in commedia», e evoluzione dinamica nella stessa
rappresentazione, nell’apprendere «giorno per giorno le battute»; e quindi vuol
dire proprietà, congruità dei personaggi e anche degli ambienti pratoliniani, in una
ravvicinata pertinenza tra la lingua dello scritto e un parlato da cronaca popolare;
si tratta d’una pertinenza che radica profondamente tale lingua nella tradizione
toscana, in una scia espressiva di lunghissima percorrenza, nella quale il parlato
costituisce la nervatura che comunica il movimento allo scritto senza che quest’ultimo (è il fulcro equilibrante del racconto cronachistico toscano) ceda a movenze
stilistico-lessicali di pura colloquialità28:
La narrativa toscana ha come tratto caratteristico la stilizzazione dell’oralità,
dimestichezza con il parlato-scritto. Una tecnica narrativa, legata al personaggio che conduce, si stava allestendo tra Il Quartiere e le Cronache […]. Con
le Cronache, cronache familiari e cronache popolari e cittadine, Pratolini ha
saputo interpretare, con un recupero naturale e spontaneo del genere cronistico, la millenaria tradizione del racconto urbano. Questa città si è sempre
raccontata, affidandosi fin dal Duecento al racconto delle sue parti, alla narrazione più o meno epica delle fazioni, le grandi e meno grandi cronache
politiche, ma anche le cronache familiari, le più intime e domestiche.
E per ottenere gli effetti, seriamente concepiti e progettati, e soprattutto sperimentati, della prosa cronachistica, Pratolini si interroga, sottoponendo a Parronchi non
soltanto dubbi e incertezze, ma anche concrete, ancorché talvolta ipotetiche, impostazioni e attive proposte di strutturazione stilistico-narrativa e di volontà espressiva;
nella lettera da Napoli del 14 marzo 194629, ad esempio, il dubbio diviene, nell’articolato svolgersi del ragionamento, fattivo nucleo di progettualità tecnico-scrittoria
riguardo al tempo narrativo, romanzesco, nelle Cronache di poveri amanti:
Io ho impostato tutta la narrazione, o quasi, sul presente storico. Avevo l’esigenza di battere un tempo sempre diretto, l’evidenza appunto della “cronaca” e mi propongo il resultato di condurre il lettore alla scoperta del racconto
come se questo accadesse sotto i suoi occhi, come se lui lettore lo costruisse,
come così succede, per cui un’ora viene dietro l’altra col suo mistero d’avvenire e non si sa mai un minuto prima “ciò che ci aspetta”: la grande dimensione, nuova e diretta, che secondo me ha recato all’arte il cinematografo. […]
una storia si presenta agli occhi del lettore come già “passata”: vi si racconta
27
28
29
Ivi, p. 219.
Ivi, p. 220.
PRATOLINI, Lettere a Sandro, cit., pp. 148-149.
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un fatto che fin dall’inizio noi sappiamo svolto e concluso in ogni particolare.
“Egli era nato…”, poi “Egli si era sposato”, poi “Egli era morto”. L’ambizione nuova consiste nel dimostrare che “oggi egli è nato”, ed esiste in quanto
neonato, il giorno in cui “ha compiuto i vent’anni” ha soltanto e veramente
venti anni […]. Tutto ciò non infirma l’arte degli scrittori che narrano al passato, né il presente storico l’ho inventato io. Io vorrei avere inventato un uso
particolare del presente storico, un’impostazione narrativa diretta e partecipe,
secondo per secondo, della vita dei personaggi. / Il mio dubbio è questo: che
l’uso continuo, e forse premeditato, di tale tempo finisca per conferire alla
narrazione un tono concitato e nello stesso tempo asmatico, una continua
provvisorietà per cui si scorrano le pagine in attesa di una distensione che
mai non troveremo, una situazione quindi sempre precaria ed instabile come
precaria e instabile è la vita nei singoli momenti della giornata. Noi sappiamo
bene che non si coglie, nemmeno in fotografia! “l’attimo fuggente”, e che la
realtà è di per se stessa innaturale, o meglio inartistica.
4.3 Dalle affinità elettive alla ricerca e all’analisi
Cronaca familiare e Cronache di poveri amanti sono quasi contemporanee e gratificate, in modo ancor più eclatante la seconda, dal successo e dal riscontro della
critica. Ma «fu a ridosso di quelle […] che scoppiò un ordigno, che era stato depositato e innescato da molti anni, e prima o poi doveva deflagrare. Accadde qualcosa
nella biografia di Pratolini»30, o meglio accadde nella fruizione e nella ricezione
30
BIONDI, Pratolini, cit., p. 225. Il coinvolgimento di Pratolini nell’OVRA è attestato da
MAURO CANALI, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 401-404 (i relativi documenti
sono presenti nei National Archives di Washington). Sulla militanza di Pratolini nel fascismo
fiorentino cfr., ora, il documentato CARLO CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 19031944. Arti figurative, architettura, letteratura e circostanze politiche, Firenze, Pontecorboli, 2018,
pp. 287-288, 302, 304, 319, 320, 324-325, 335 e p. 348, nn. 157-161. Poco prima della fine del
suo libro (p. 323), Cresti scrive che «Firenze meritava l’aggettivazione di “fascistissima” poiché
si connotava mediante i prodotti della locale ‘fabbrica’ di fecondi artefici (pittori e scultori)
impegnati nella glorificazione dell’iconografia mussoliniana, e dell’affollato ‘cenacolo’ di letterati
che si nutrivano abbondantemente di esegetici incensamenti al fascismo e al Capo del fascismo».
Un esempio può essere fornito dallo stesso Pratolini, che in una lettera ad Alessandro Pavolini
del 9 febbraio 1940 (cfr. CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit., p. 324)
si offre «per qualsiasi incarico in zona di guerra, su qualsiasi fronte […] ma in prima linea». Poco
dopo che iniziarono a circolare le notizie sul legame con l’OVRA, lo scrittore cerca di chiarire con
Sandro, il corrispondente epistolare di sempre, le “ragioni” della sua scelta, avvenuta in un passato
in realtà molto recente (ALESSANDRO PARRONCHI, Lettere a Vasco, a cura di ID., Firenze, Pagliai
Polistampa, 1996, pp. 59 e 71; lettere del 28 febbraio e del 5 aprile 1946; brani riprodotti anche in
CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit., p. 325): «soltanto oggi una lettera
di Calamandrei [Franco] mi informa come la notizia del mio “caso” sia trapelata e Mont[anelli]
e compagni si siano fatti un dovere di diffonderla e forse specularci sù […]. Ti assicuro della mia
innocenza […]. Io ho la coscienza tranquilla, mi pento soltanto, e amaramente di avere allora
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altrui di tale biografia, dato che le situazioni reali («Una sua complicità venne alla
luce, un suo errore riemerse») appartenevano, appunto, al passato storico e personale. Il «vincolo» che lo lega alla città di Firenze (e vincolo è termine da recepire
in chiave profonda e pregnante) si allenta, si modifica rispetto a prima, si altera in
maniera non più interamente rimediabile. Avvizziscono le affinità elettive (e quanto meno nel sottofondo strategico dell’evoluzione pratoliniana tale avvizzimento
sarà ineluttabile); l’«allegria», la vitalità e oserei persino dire il vitalismo costruttivo, possibilista, solidale e fidente nella sodalità che caratterizza una certa fase della
narrativa dello scrittore (e che parzialmente sopravvive in svariate sezioni dell’architettura del Metello) sfioriscono e vengono meno, soprattutto quando si tratta
d’un «mero vincolo», e quindi d’un legame puro, genuino, nativo: sono quel senso
istintivo di solidarietà e di appartenenza, quella vivace − pur se studiata − prosa
di autoctono, quel linguaggio musicato dall’accento, dalla successione lessicale,
dalla curva melodico-sintattica toscana (l’inarcatura verghiana d’un’Aci-Trezza in
riva d’Arno) a decrementarsi, a scemare, per la rottura del legame comunicativo
d’immediatezza, di bilaterale, di reciproca, e anche di corale fiducia; e si trattava
d’un nesso nativo e cittadino che si poneva nello spazio e nel tempo, all’interno di
vere e proprie coordinate storiche e geografiche. Le conseguenze di tale liquefazione di quello che era stato un compatto e fervido nucleo umano ed etico saranno
pagate a lungo, in una sorta di intimo stillicidio di protratta e non sistematica
cadenza, e talvolta di reviviscenza desultoria e recrudescente. Non manca, però,
un vettore più assiduo e continuativo di esame e di studio di questa importante
esperienza psicologica e storica − emblematica di una scottante ma anche vivida
tranche del Novecento −, ed è il vettore costituito dalla penna di Pratolini; anche
con i suoi silenzi, ai quali − tranne nell’ultimo periodo della vita − egli si sottrae
con la scrittura, l’autore risponde al passaggio di crisi con un ampliamento delle
proprie risorse ideologiche e, soprattutto, di architettura e di struttura narrativa
ceduto ad uno spirito di avventura, credendo, con leggerezza estrema, di “fare bene” senza tener
conto delle conseguenze, allorché la chiarezza della mia azione sarebbe stata indimostrabile»;
«o si crede alla mia verità e mi se ne dà atto, rimproverandomi semmai la leggerezza di aver
rischiato, per generosità o per incoscienza, di bruciarmi a un brutto fuoco − o si crede alla mia
colpevolezza, si ha tutto il diritto di credervi, dandomi ugualmente atto che nessuno ebbe a patire
della mia aberrazione». Non può essere priva di significato l’omissione (o la mancanza di fatto),
nell’epistolario Pratolini-Parronchi, delle lettere riguardanti i fatti più scottanti, delle lettere − che
certo vi saranno state − concernenti, insomma, tutta la storia della Seconda guerra mondiale in
Italia dal 1943 al 1945; dal periodo inerente il 25 luglio del ’43 all’armistizio dell’8 settembre,
dai fatti di Dongo alla sospirata nemesi storica operatasi a piazzale Loreto, alla fucilazione di
Alessandro Pavolini e di Achille Starace, la storia perde nell’epistolario l’esplicita scansione, il
riferimento a eventi che non siano quelli della cronaca quotidiana: vi è un “salto”, vi è una vera
lacuna fra la lettera da Fermo del 10 luglio 1943 (PRATOLINI, Lettere a Sandro, cit., pp. 111-112) e
la successiva, da Roma (pp. 112-114), del 16 dicembre del 1943 (peraltro non priva di contenuti),
e vi è un “salto” anche fra la lettera da Roma del 14 marzo 1945 (pp. 121-127) e quella, sempre da
Roma, del 22 maggio dello stesso anno (p. 127).
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ed espressiva, di concezione e di dimensione romanzesca, di tecnica scrittoria e, non
certo da ultimo, di temario artistico. Il passaggio si qualifica perciò in una duplice
tipologia, di carattere stilistico-enunciativo la prima, e l’altra − con essa saldamente
compenetrata − di ordine letterario, consistente nella scelta di un genere, il romanzo,
che evolverà dai canali formali e ispirativi della cronaca per abbracciare quelli della
storia. Pure l’amalgama di autobiografia e di storia, della fervente materia dell’io
con l’oggettività del suo habitat storico-contestuale, appare destinato a risentire della
sofferta lucidità di un filtro di straniamento critico − sino alla dimensione ironica −,
unico strumento ideologico-stilistico di distacco per meglio vedere e studiare, per
analizzare e per comprendere senza per questo assolvere, per scrutinare con grande
lena narrativa su sfondi sempre più vasti e con affreschi di arioso respiro panoramico
(Lo scialo): non distacco come attenuazione, come diastole della tensione conoscitiva
a riassorbimento minimizzante delle azioni dei personaggi, né come generalizzazione
contestuale a discolpa del singolo o dei singoli, e men che mai quale mitigazione o
come edulcorazione o lenimento consolatorio − con il posato sguardo slontanante
della vista presbite − delle responsabilità e delle passionalità di quei personaggi; il
distacco e la trattazione di un ben più ampio quadro di contenuti significano, piuttosto, radicali lavori di casa narrativa, di rinnovamento e di rifacimento compositivo
dell’habitat creativo, delle sue componenti (si pensi a Gloria, preesistente ad Allegoria) e dei suoi arredamenti. Il rifacimento può risultare ancor più impegnativo di uno
sgombero. Ma i coraggiosi e faticosi lavori di casa, della casa d’uno scrittore, non significano la reiezione della materia etico-narrativa in un’orbita secondaria e satellitare. Una concezione di romanzo che non può ulteriormente contare, come invece sino
a un certo punto ha potuto, sulla linfa ctonia e genetico-nutrice delle affinità elettive
(tacitate quelle goethiane, non era certo Il mistero del poeta di Fogazzaro a poter foraggiare Pratolini), rinviene, quale propria oggettiva, realistica e matura risorsa, due
metodi fra loro congiunti: e tali metodi sono rappresentati dalla ricerca e dall’analisi.
E quindi il passaggio, serio e attento, appassionato, partecipe ma ironicamente filtrato, e insieme profondamente creativo e intensamente romanzesco, alla storia, alla
dimensione dai larghi confini, in questo caso compiutamente conquistata; alla storia
intesa nel suo significato di grande concezione e di grande impianto: «Quando s’interrompe il nesso di fiducia riposta e ricambiata, perché si è infranto un vincolo, se
Firenze gli si è mostrata estranea, giudicante, nemica, allora non possono più essere
le affinità a nutrire il romanzo ma la ricerca e l’analisi. La cronaca diventava storia, e
grande storia»31. La distanza necessaria alla ricostruzione romanzesca, alla riedificazione macroprosastica di una materia tanto ampia, così storicamente rilevante per la
vicenda di un intero secolo, e sotto moltissimi aspetti materia ancora ribollente, spigolosamente contigua nei tempi e ufficialmente sub iudice, si pone quale una distanza
ricreatrice, ridisegnatrice di sagome e di vicende, di uomini e di donne, di desideri e
31
BIONDI, Pratolini, cit., p. 225.
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di illusioni, di speranze e di errori, di prepotenze e di viltà, ben più che di tonalità e
di colori, di generiche atmosfere di allusione cromatica. Si tratta dello spazio mentale
e narrativo funzionalmente paragonabile a quello fisico di un atleta di qualsivoglia
disciplina agonistica che necèssita della distanza per prendere meglio la rincorsa in
vista dell’affondo muscolare, di gamba o di braccio. Si mira esattamente all’affondo
impietoso, non ad un vago circuito perimetrale. E tutto questo (come scrive l’amico
Parronchi)32, «in una storia profondamente pensata e sapientemente studiata in ogni
sua parte, inventata da un romanziere talmente convinto della necessità di narrare,
da non poter mai lavorare intarsiando o pasticciando ma sempre rifacendosi da capo
per arrivare a stesure nuove, che quando in qualche parte non gli sembravano riuscite venivano da lui interamente riscritte».
Il “bello” è, per così esprimersi, che proprio Firenze è, e rimane, il teatro e la
scena narrativa ed esistenziale quasi costante di ogni respiro del Pratolini raconteur, e del Pratolini novelist. Lo enuncia bene, ancora, l’amico di una vita, sempre
Parronchi33:
L’uomo di Pratolini era − ed è sempre rimasto − un abitante di Firenze, cresciuto nell’arco delle sue mura o dei suoi immediati dintorni, «tra questo
popolo così fazioso e così intelligente, dove (luogo unico al mondo) perfino
la mediocrità è tanto intelligente da avere coscienza della sua condizione (e
difendersene)», dove «guai a suscitare invidie, a prendere delle posizioni, a
sbagliare onestamente». Lo scrittore conosce tutti gli abitanti della sua città
e ce li ha descritti, sicché di essi non avviene come nei libri dove, arrivati alla
fine, non si ricorda che volti avessero i protagonisti: tanto profondamente
egli li ha impressi nella nostra memoria con lo stesso acuminato tratto con
cui erano stati disegnati dall’amico Rosai […]. Firenze non è certo il fourmillant tableau parigino, ma in compenso nella “provincia fiorentina” le case
sono di vetro, le classi si guardano reciprocamente e anche chi è obbligato a
tacere vede e capisce. L’occhio del popolano ha poi un suo modo subdolo di
oltrepassare i cancelli e i muri di cinta, qualcuno parla, e i fatti e i misfatti di
chi poi non si cura tanto di nascondersi, anzi gode a mettersi in mostra, sono
sulla bocca di tutti. Ed ecco lo storico che affonda l’occhio anche nei loro
segreti misfatti (quelli della povera gente son risaputi) […]. Il suo impegno
era tale, da sollevare scandalo. La società, ferita dal suo giudizio, durerà fatica
a perdonargli questo impegno, ed egli ha dovuto scontarlo finché è stato vivo.
Pratolini non rispondeva al tipo di quello che usualmente è ritenuto in Italia
un “intellettuale”, era piuttosto un operaio.
La conferma della natura non univoca del valore esistenziale e storico di Firenze
per Vasco Pratolini la si ha ancora riguardo alle Cronache di poveri amanti34; com’è
32
33
34
ALESSANDRO PARRONCHI, Premessa a PRATOLINI, Lettere a Sandro, cit., p. VIII.
Ivi, pp. VIII-X.
BIONDI, Pratolini, cit.; alla p. 227 la successiva citazione. La gestazione di Cronache di poveri
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noto, il romanzo viene scritto tra il 1940 e il 1946, esce nel ’47, ma riguarda gli anni
1925 e 1926, ovvero il periodo nevralgico del passaggio del fascismo da movimento
ancora capace d’esibire una maschera rivoluzionaria a movimento scopertamente
totalitario:
Le Cronache attraversano un periodo importante della nuova formazione
politica, e sono sotto questo profilo anch’esse portatrici di autobiografia: l’adesione al comunismo, vissuto nella clandestinità resistenziale a Roma, con
impegno decisivo per la possibilità di rigenerarsi, espiando anche certi errori
e riformarsi dentro. Tornare, come scrive, a meritarsi la vita. Per Pratolini il
amanti rintraccia il proprio primo nucleo (e doveva trattarsi di un nucleo ben consistente) nel 1938,
sette anni prima di una celebre lettera a Parronchi, da Napoli, del 29 dicembre 1945; riferendosi
alle Cronache, Pratolini scrive (Lettere a Sandro, cit., pp. 131-132): «Protagonista? una strada.
Quale strada? Via del Corno. Vai a vederla: è la prima a sinistra di via dei Leoni venendo da Piazza
S. Firenze. Non so come sia adesso, so come era nel 1928-1930. Ma io porterò l’azione ancora più
indietro: al ’25-26. Ne voglio fare la mia Aci-Trezza. Gli elementi, (i fatti), i personaggi, le cose li ho
tutti fitti in testa e appuntati sulla carta, la vicenda centrale, quelle particolari, ho tutto. Mi manca −
e ci batto la testa da 7 anni − il modo di esprimerli, lo stile per usare una parola su cui ci intendiamo»;
e già da quella lettera lo scrittore chiede a Parronchi di consultare i numeri de La Nazione e de Il
Nuovo Giornale del 1925-1926, all’epoca dell’uccisione di Consolo e di Pilati: «vai in Biblioteca
e guarda se all’Emeroteca ci sono le collezioni della Nazione, del Nuovo Giornale (e anche di altri
periodici fiorentini, non escluso gli umoristici: La Chiacchiera, per esempio), degli anni 1925-1926.
Consultali in particolare nelle giornate dal 1° al 10 ottobre 1925 e più avanti: controlla se essi danno
i nomi e riportano i particolari degli eccidi commessi dai fascisti nelle persone di Consolo, Pilati,
ecc. Nel ’39 il trimestre che comprendeva l’ottobre era costantemente “in lettura”». E l’autore
conferma (lettera da Napoli del 18 febbraio 1946 [PRATOLINI, Lettere a Sandro, cit., pp. 140-141;
corsivi nostri]) il drastico, pesante divario storico costituito dai sette anni intercorsi fra il ’38 e il
’45, nelle sue pesanti, e in ogni modo necessarie ricadute artistiche, compositive, narrative: «Tu sai
che mi porto dietro questa storia da sette-otto anni, capisci quindi che strada facendo le prospettive
sono via via mutate, ampliate, rovesciate, scomparse, sorte di nuovo, complicate, eccetera. Idem per i
mezzi della scrittura, che via via ho acquisito, acquistando certe possibilità, perdendone altre che
forse potevano giovare, e via dicendo. Per cui ho preso una decisione draconiana: ho incenerito
tutto quello che precedeva, mi sono messo a scrivere il romanzo dalla prima parola, pagina per
pagina, cosa nuova, romanzo concepito, svolto, scritto, portato avanti come oggi posso scriverlo
e portarlo avanti e concepirlo. Ho ucciso personaggi e creati di nuovi, ho allargato il coro e usato
una scrittura diretta, immediata, “povera”; tento (eterna sfinge) di adeguare le parole, anche quelle
in cui interviene l’autore, al carattere, alla figura, ai gesti dei personaggi: li commento come loro,
oggettivandosi, si commenterebbero. Ma temo [di cadere] in uno squilibrio, temo di campire zone
che potranno sembrare sciatte, tirate via anche se sono quelle che mi costano più fatica […]. Ho
affisso al muro, alle mie spalle, una pianta prospettica […] della strada, e vi ho scritto i nomi dei
personaggi che abitano ad ogni piano. È una popolazione, e mi sembra che dai buchi delle finestre
si affaccino a darmi del bischero per non riuscire a fotografarli quali veramente sono». Cfr., inoltre,
la presentazione precisa e “topografica” che Vasco offre del romanzo nella lettera a Sandro, da
Napoli, del 26 febbraio 1946 (pp. 142-146; vi è compresa la riproduzione [pp. 145-146] del famoso
inizio [«Ha cantato il gallo del Nesi carbonaio, si è spenta la lanterna dell’Albergo Cervia»]); e cfr.,
altresì, le impressioni dello stesso scrittore, una volta licenziate le Cronache, nella lettera a Sandro,
sempre da Napoli, dell’11 febbraio 1947 (alle pp. 164-165).
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fascismo era stato Firenze. La resistenza, la liberazione, andò a combatterla e
a cercarla a Ponte Milvio, lontano dalla sua culla natale (e politica). La resistenza fu esperienza vitale, una rinascita, da un fascismo che all’inizio lo prese
come una passionaccia sociale oltre che politica, come per molti giovani “il
grande inganno del fascismo” rivoluzionario. Un passaggio questo che consente allo scrittore di raccontare il fascismo fiorentino come il satana politico,
il male della storia, vissuto da quel modello di umile vicolo maleodorante che
lo scrittore trasformò in un mondo.
Ma di fronte all’«eccesso di empatia per il nuovo pathos ideologico», e di fronte
a «un passato liquidato troppo in fretta», occorrerà «riprendere in mano tutta la
storia e tornare indietro alle origini del movimento operaio, alla sua storica sconfitta», visto che «le Cronache hanno intatto al loro centro un grumo problematico
che non è stato risolto e perdura, in quanto non gli ha corrisposto uno storico
esame di coscienza»35. Unica soluzione alternativa, la cosciente opera di rimozione
del passato, il fare «piazza pulita dei ricordi, deserto di ogni traccia e indizio»36‚
come la «Signora», ovvero come la Prostituta delle Cronache, cacciatrice di se stessa e delle proprie tracce quale ex del mestiere ed ex complice del fascismo; la sua
operazione sarà di tipo opposto rispetto a quella dello scrittore, tanto che essa
consisterà nell’eliminazione degli specchi retrospettivi, non nella loro evocazione
in un «cammino severo e solitario di maturazione», «di ben altro spessore (e dura
verità)»37nelle opere successive alle Cronache stesse. E proprio per questo motivo
è nella sua immagine, nell’immagine della Prostituta-Tenutaria di Via del Corno
che finiscono, legittimamente, molti fascisti ansiosi di cancellare per sempre quella
che invece era stata un’aspra realtà; incapaci, o non disposti, questi ultimi, a percorrere, come lo scrittore, come l’artista che paga per tutti, l’ordalia intellettuale
di ritorno. Più che mai se, sùbito dopo la caduta, o anche tempo dopo, sono state
compiute scelte antitetiche alle precedenti: «Forse che in lei non ci saranno anche
35
Ivi, p. 234. Secondo CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit.,
p. 324, «Nel 1947, in concomitanza della prima edizione delle Cronache, per sintonizzarsi
con il sopraggiunto e mutato contesto politico, e probabilmente anche per provare a condire
di emozioni e imprevisti, di eccitanti accadimenti, e improvise passioni, qualche pagina del
manoscritto romanzo, Pratolini, facendo riferimento ai fatti accaduti a Firenze nel 1925, inventava
ed aggiungeva il personaggio buono e coraggioso di Maciste il maniscalco, l’eroe comunista
sfortunato protagonista della “notte dell’Apocalisse”, e di contro le malvagie immagini di due
fascisti: Carlino, lo squadrista “con tre vite sulla coscienza”, e Osvaldo che aveva “mancato la
Rivoluzione” e non volendo essere in ritardo con “la seconda ondata” si trovava sull’auto dei fascisti
che uccisero Maciste». Sempre secondo Cresti, le innovazioni narrative introdotte e acquisite da
Pratolini nella struttura romanzesca rimarrebbero trattenibili nel rango di una fondamentale
ininfluenza, «enclaves narrative […] accessorie», «deliberate integrazioni, inserite per aggettivare
di antifascismo le Cronache, ossia usando il fascismo come termine negativo di raffronto per far
risaltare in positivo l’opzione antifascista».
36
Biondi, Pratolini, cit., p. 235.
37
Ivi, p. 234.
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molti, tanti, italiani, che all’indomani della caduta, vollero estinguere la propria immagine di fascisti? “Ora nessuno potrà dimostrare come ero una volta. Le parole
se le porta il vento”».
4.4 Crudeltà e scialo. Lo “scrittore che paga per tutti”
Per riprendere e almeno parzialmente reinterpretare e chiarire, e insieme far
rivivere in modo critico un passato che si suddivide in vari periodi e in varie tipologie artistiche nella vicenda dello scrittore, non risulta inutile neppure un cenno
al motivo della “crudeltà”, insistenza terminologica oltre che concettuale, che in
Pratolini ricorre con non casuale scansione. Esempio probante può in tal senso
essere l’approdo del temario biografico e autobiografico del Diario sentimentale in
Allegoria e derisione, dove soltanto il peggiore dei peccati letterari, vogliamo dire
l’ingenuità, avrebbe potuto o voluto preservare l’inevitabile innocenza incipitaria,
necessitata dai primi movimenti di quella scrittura di sentimento, appunto, e di
studio, ma non ancora − non poteva in quegli esordi costituirsi come tale − di
autostudio. Cambia davvero la tipologia della recherche pratoliniana, e si tratta
proprio di «memoria crudele»: «Crudele mi parve allora» persino la nonna, incarnazione narrativa non si dirà del bene assoluto, ma della bontà privata, familiare,
di sicuro riferimento, di lungo corso affettivo. «La crudeltà è qualcosa di oggettivo,
un maleficio che tocca a tutti (nel crescere, nel conoscere), un veleno che infetta
le famiglie in alcuni momenti della loro storia. Ed è la vita crudele, oltre che vana,
nel montalismo de Lo scialo»38. Crudele, tanto più se il male avviene in modalità
involontarie. Si può ricordare che, nel gruppo di versi della lirica montaliana Flussi
(«La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele. […] / E la vita è crudele più che vana»), se la vita è il soggetto e lo scialo è il predicato, a quest’ultimo
appartiene la titolarità del prevalente concetto di «vano», glossa sinonimica quasi
contigua al senso di appiattimento frustrante dello stesso scialo; ma il terzo verso
della citazione («E la vita è crudele più che vana»), in realtà verso epilogico della
lirica, a sua volta, non si configura affatto, come talvolta avviene nella più comune fruizione, quale un puro e semplice ribaltamento dei termini, con sostanziale
identità di significato, a custodia di un inalterato esito semantico; la vita come soggetto, affrancata dal legame espressivo-grammaticale della mediazione predicativa,
risulta invece autonomamente titolare della prevaricante, sfrontata e inspiegabile
crudeltà, come l’improvviso, inaspettato, sfacciato tonfo, secco e terragno, sulla
battigia, d’un’onda iniziale di marea; e se in Pratolini l’interesse conoscitivo e letterario non si rivolge alla natura (si ricordino le lettere a Parronchi del 13 maggio
1942 e del 26 luglio 1965), bensì esso risulta, ed è totalmente da intendersi, rivolto
38
Ivi, p. 116.
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al mondo umano, psicologico, storico-antropologico, ebbene è a quest’ultimo che
pertiene, ancor più di quanto spesso appaia, l’essenza non della sola crudeltà, ma
anche dell’inspiegabilità.
Non emerge davvero come dato fuor di luogo l’opportunità di rammentare,
qui, a ripresa testuale del concetto, e nel contempo ad angolazione d’ottica narrativa opposta quanto alla responsabilità umana, quanto all’inadeguatezza autoanalitica e autocritica del personaggio, il racconto verghiano Il maestro dei ragazzi,
nella raccolta Vagabondaggio; la presa di coscienza, l’esame di se stesso condotto
sino in fondo e non abbandonato in limine veritatis, l’autosensibilizzazione − anche indotta dalle lacrymae rerum − sull’«opera devastatrice del tempo» sono tutti
gli aspetti della procedura intellettuale di Vasco Pratolini, sono tutte le “cose”
agìte dallo scrittore; e sono tutte le “cose” che non fa il personaggio del maestro di
scuola di Verga, sono esattamente le procedure che non vengono svolte dalla grigia
ma tutt’altro che incolpevole figura di Peppino. È proprio a questo proposito che
Roberto Bigazzi parla di «scialo vano e crudele della vita»39; se infatti nella “recita
privata” del personaggio non può aprirsi spazio a una dimensione ironica (se non,
appunto, da parte dell’autore) e sono invece le lacrymae a prevalere − la ripetitività
dei piccoli gesti quotidiani sembra malleveria di modesta, consuetudinaria normalità −, il mutamento provocato dalla morte della sorella Carolina non solamente
mette in crisi tutto un ordine di cose, già in sé defedato da sempre, ma addirittura
promuove la nuova e amara situazione di solitudine al rango di deserto e polveroso
teatro d’un’inettitudine irrisarcibile, tardivamente lumeggiata da radi spiragli di
verità che rischiarano un dialogo, ormai in sé disarmato, con una fase declinante
dell’esistenza, con un approdo da vinto della vita che non per questo ha conquistato una personale maturità; fase declinante e insieme immatura, non al tutto lontana
da quella d’un Emilio Brentani perpetuo senescente, svevianamente più avanzato
e smaliziato del maestro delle elementari, proprio perché egoistico gestore, il protagonista di Senilità, della sua protratta operazione ancor più mistificatoria e ancor
più autorisarcitoria, e, a differenza del misero signor maestro, autentico fratricida
in bianco riguardo alla sorella Amalia; si leggano le parole di Bigazzi:
Per ora l’epifania tocca lo scrittore e il lettore, ma basterà che in questa ‘pienezza’ del quadro venga a mancare un elemento − la sorella −, e di colpo lo
scrupoloso ordine che sembrava accomunare in armonia cose e persone si
rivela artificiale: l’‘assenza’, cioè, costringe anche il maestro a percepire, in
qualche modo, lo scorrere del tempo, che egli ha sempre rifiutato precludendosi la comprensione del reale. Così, alla fine del racconto, speculare rispetto
all’inizio, il meccanismo consueto − che doveva avere un cómpito protettivo
− porta inesorabile al disarmato confronto con lo scialo vano e crudele della
ROBERTO BIGAZZI, Su Verga novelliere, Pisa, Nistri-Lischi, 1975, p. 170 (così anche la
successiva citazione).
39
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vita […]. «Ogni giorno, mattina e sera, tornava a passare il maestro dei ragazzi […]. Soltanto tornando a casa, serrava a chiave l’uscio, per scopare la
scuola, rifare il letto, e tutte le altre piccole faccenduole per le quali non aveva
più nessuno che l’aiutasse».
Vasco Pratolini opera, si è detto, in maniera del tutto inversa rispetto al personaggio di Verga, e dunque in modo del tutto simile a Verga autore; e questo rilievo è
tanto più significativo quanto più risulta comune, con il protagonista dello stesso
Verga e anche con quello di Svevo, il problema (non si parla della soluzione) della
limpidezza e dell’onestà metodologica dell’ispirazione di contenuto e della tecnica
espressiva che presiedono alla scrittura. Il confronto con la verità non determina
nell’autore de Lo scialo e di Allegoria uno scarto, una chiusura d’occhio (come dice
anche Verga nel racconto, e come dirà Pascoli in altro contesto con celebre immagine lirica), un rifiuto impaurito davanti a un temibile esito di autoscandaglio e di
autoincolpabilità. Non si potrebbe, anzi, indicare uno scrittore che non si dice di
più, ma al pari di Vasco Pratolini, assuma, incorpori, addirittura metabolizzi, con
tutti i rischi di metabolizzazione di un veleno, il concetto e la realtà esistenziale di
«scialo», di «scialo vano e crudele» della vita, in un senso che si amplia a un vasto
panorama di riflessione, e di ricostruzione artistico-narrativa, di tutta un’epoca
storica, e quindi di tutta una strategia letteraria e storiografica di complessa, e
profondamente sofferta interpretazione. Una vita crudele, più che vana. La connotazione di crudele supera, in effetti, e assorbe in sé quella di vana, poiché l’aggettivazione che si compendia nel «vana», quando si parla appunto della vita, e della
storia, a un determinato momento non basta più. La tremenda influenza, la tragica
rete dell’imbroglio, della seduzione e dell’influente potenza del contesto storico
(il fascismo, l’ambiguità populistica di un mito che in realtà significava il massimo del reazionarismo) hanno condizionato e drammaticamente adulterato anche
il concetto di scelta, e il margine di personale autodeterminazione. «E più nessuno è incolpevole», avrebbe più tardi detto proprio Montale. Trasposta sul piano
storico, e si dica pure politico e ideologico, la mistificazione, l’autoconsolazione
risarcitoria, la fuga non solo intellettuale dalla colpa, l’operazione che spesso vede
la scrittura in funzione di agente, di calcolato e pianificato vettore di ricostruzione
alterata e artificiale di un percorso, di copertura à rebours di un passato scottante
o almeno imbarazzante, sono esattamente gli idoli polemici di Pratolini, l’antifaro
la cui corsia va evitata all’ingresso nei moli portuali. Anche un inizio di scrittura,
o in genere di carriera narrativa, fissato sul dopoguerra − magari immediato −, o
centrato sulla vicenda resistenziale come inizio del mondo (l’inizio dell’era volgare,
la caduta del fascismo, avrebbe giustamente scritto Attilio Momigliano a Mario
Fubini)40, costituisce comunque una precisa e una non neutra scelta − condivisiLa caduta del fascismo è salutata il 29 luglio 1943, appunto, in una lettera a Fubini («è la
prima volta che ti scrivo dopo la fine dell’era volgare»), mentre a Carmelo Cappuccio (lettera da
40
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bile, sia chiaro, sotto moltissimi e decisivi aspetti −, ma una scelta non priva, non
aliena, in tantissimi casi, da un copione scrittorio programmaticamente omertoso
riguardo al passato e in specie al proprio passato, un copione di prosa che stabilisce il punctum primum − l’origine archetipa della storia − quando lo stabilisce la
volontà dell’uomo quasi più che quella dello scrittore, spesso senza che siano stati
fatti i conti con la storia precedente. La scelta di Pratolini, anche quando elegga la
cifra stilistico-scrittoria allegorica, va, invece, propriamente e peculiarmente contro
la linea criptante della reticenza omissiva, contro l’azzerante silenzio retrospettivo.
Ed è la scelta di Pratolini a pagare, inesorabilmente, un pesante tributo.
4.5 Pratolini e Bilenchi. I «racconti crudeli», il Bildungsroman, il “fascismo di
sinistra”
Il tema della “crudeltà” rintraccia un’appropriata declinazione qualitativa nelle narrazioni che si possono definire, appunto, come «racconti crudeli». Spesso la
crudeltà costituisce, sino a formarne l’interna struttura scheletro e carne, il racconto, o il romanzo di formazione. E sarebbe in tal senso ben difficile che Pratolini
non avesse nella sua prosa nessun compagno, nessun condiscepolo di autodidattica, nessun sodale di serietà e di indagine letteraria. Fra i nomi, in verità non molti,
che potrebbero essere fatti per l’Italia, vi è sicuramente quello di Romano Bilenchi:
«Ci sono fra i due somiglianze e affinità, e Bilenchi era scrittore ancora più misurato e accorto. Ma in comune hanno i racconti di formazione (vedremo di seguito
che sono e in che senso siano o si lascino qualificare come racconti crudeli), e un
senso appartato, geloso, serio e tormentato, del proprio essere artisti del romanzo
e profondi conoscitori della storia»41; in «un’avventura narrativa esemplare per
compiutezza e anche per dolorosa nozione di una crisi del fare letteratura», Pratolini e Bilenchi non sono «scrittori mestieranti», quasi a filiazione d’un’industria
Firenze, 8 agosto 1943) Attilio Momigliano può manifestare la propria persistente preoccupazione:
«Tutti respiriamo meglio, come l’asfissiato quando gli si dà un po’ d’aria; ma tutti attendiamo
con ansia la soluzione del terribile nodo in cui ci ha implicato lo scomparso: l’opera d’intere
generazioni perduta, la speranza di qualche generazione troncata» (cfr. ATTILIO MOMIGLIANO,
Lettere scelte, a cura di MARIO SCOTTI, Firenze, Le Monnier [«Saggi di letteratura italiana», 38],
1969, rispettivamente pp. 187 e 188). Di Momigliano si vedano, di quel periodo, anche le lettere
a Manara Valgimigli, a Giuseppe Gallico, a Walter Binni (e, del periodo antecedente, le lettere
a Pancrazi e a Ojetti). Sull’antifascismo (e sulla funzione di Croce come capo della resistenza
passiva) cfr. ERNESTO RAGIONIERI, L’isolamento delle opposizioni, par. 3 del cap. Lo stato autoritario,
in Storia d’Italia, IV: Dall’Unità a oggi, a cura di ID., t. III: La storia politica e sociale, parte IV:
Il fascismo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 2192-2198; cfr. poi ALBERTO ASOR ROSA, Il fascismo: la
conquista del potere (1919-1926), in Storia d’Italia, IV: Dall’Unità a oggi, a cura di RAGIONIERI, cit.,
t. II: La cultura, 1975, cap. V, pp. 1358-1470, e, di séguito, sempre di ASOR ROSA, il cap. VI: Il
fascismo: il regime (1926-1943), pp. 1471-1583.
41
BIONDI, Pratolini, cit., p. 160.
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culturale che imporrebbe una certa linea amministrativa «del proprio patrimonio
di arte e di storie»42. Già Goffredo Fofi, nella Prefazione a Il quartiere43, intitolata
proprio Racconto crudele di gioventù, comincia a disegnare un contesto, interno ed
esterno − se non altro di generale affinità −, alla prosa “crudele” di Pratolini, e avvicina il romanzo a Un eroe del nostro tempo nella connotazione «di quel ristretto
gruppo di “racconti crudeli della giovinezza” […] che in Italia ha avuto una sola
breve stagione […], quella particolarmente dura degli ultimi anni del fascismo,
dei due di guerra civile, di un dopoguerra ricco di speranza ma anche di ricordi
amarissimi e di conflitti irrisolti», e individua altresì, quali altri «racconti crudeli
della gioventù italiana»44, Il cielo è rosso di Berto (1946), L’onda dell’incrociatore
di Quarantotti Gambini (1947) e Gioventù che muore di Comisso (1949). Si può
certo concedere che per il Pratolini scrittore la crudeltà non è fattore unico; ma
tale crudeltà sussiste comunque, e contribuisce a definire la narrazione. Crudeltà
è soprattutto una fase della vita e della formazione, un lungo, amaro passaggio
42
Ibidem. Ma cfr. anche GIORGIO LUTI, Pratolini e il manoscritto sommerso, in ID., Firenze
corpo 8. Scrittori, riviste, editori nella Firenze del Novecento, cit., p. 400: «L’autobiografia, il
tentativo consapevole di raffigurare attimo per attimo, attraverso la propria esperienza, un comune
destino di sofferenza, lo porteranno lentamente dalla pagina lirica alla scoperta del valore storico
della memoria ad un recupero ciclico dell’infanzia “toscana” che da Via de’ Magazzini conduce
fino al Quartiere. Un percorso in gran parte avvicinabile a quello di Romano Bilenchi che in
qualche modo cronologicamente gli corrisponde». Su Bilenchi cfr., ora, NICCOLÒ SCAFFAI, Gli anni
impossibili di Romano Bilenchi: problemi di statuto e analisi narrativa, in Romano Bilenchi nel
Centenario della nascita. Atti dei convegni di Milano e Colle Val d’Elsa, ottobre-novembre 2009,
a cura di BENEDETTA CENTOVALLI, LUCA LENZINI, PAOLO MACCARI, Fiesole, Cadmo, 2013, pp. 193220.
43
GOFFREDO FOFI, Prefazione (Racconto crudele di gioventù), a VASCO PRATOLINI, Il quartiere,
Milano, Rizzoli, 2012, p. V. Si può rilevare che in una prima, obiettiva, spassionata autocritica
nella fruizione delle Cronache di poveri amanti, appena riviste e licenziate, Pratolini (nella citata
lettera da Napoli dell’11 febbraio 1947, in Lettere a Sandro, cit., p. 165) fa riferimento a Il sabato
è festa, progetto di pubblicazione nel quale egli si ripromette di porre in atto il necessario sforzo
di emendarsi dai difetti che lo stesso scrittore constata nelle Cronache: «Pace: mi riprometto di
dedicare al “Sabato è festa” tutta la cautela, la meditazione, la crudeltà direi, che non ho potuto
riserbare alle “Cronache”». Non sfugge, certamente, l’accenno alla «crudeltà», come atteggiamento
di disponibilità ispirativa e narrativa necessario, e di segno artisticamente positivo, e costruttivo,
per la propria prosa. Il sabato è festa, quale progetto narrativo, è già segnalato da Vasco esattamente
un anno prima, nella già ricordata lettera da Napoli, a Sandro, del 26 febbraio 1946 (Lettere a
Sandro, cit., p. 143): «Valerio e Berto del “Quartiere” rivivranno in una trilogia: 1°) “Il Quartiere”
(1932-1936) − 2°) “Il sabato è festa” (1936-1940) − 3° “Compagno scrittore” (1940-1944)». Come
attesta Parronchi (p. 143, n. 2), «Dopo il primo accenno nella lettera n. 72, del 2 febbraio ’42, è
questa la seconda notizia − febbraio 1946 − di “Una storia italiana”». La lettera del 2 febbraio
1942, da Roma, è alle pp. 67-68 delle Lettere a Sandro; l’accenno, in questo caso molto generico,
si trova alla p. 67: «Sandro carissimo, / ho detto “biografia” proprio per non dire “storia”: voglio
che sia biografia, voglio lasciare intendere che lo sia, non si potrebbe poi scendere dalla “storia
dell’adolescenza” alle “Cronache di poveri amanti”. Storia sarà il libro che scriverò fra dieci anni e
di cui vado lentamente formandomi in testa il disegno».
44
BIONDI, Pratolini, cit., p. 161.
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della crescita, l’espressione di una spietata tensione conflittuale con la realtà, con
il mondo, con l’esistenza, con la società: una fase anteriore alla pacificazione, o alla
stanca calma di successivi periodi dell’esistenza, più che mai attenuati nella loro
valenza se questa calma si inserisce anche in un più vasto quadro storico-ideale,
quale il superamento di una guerra. E così essa si pone artisticamente quale vettore
di Bildungsroman, un Bildungsroman scandito in Vasco da voci di ritmica toscana,
di rinterzo viario di pronunce allocutive popolari, di gestione descrittiva da parte
d’un narratore la cui onniscienza non respinge né ripudia il dialogo casa-stradabottega, ma anzi presuppone e richiede − imprescindibile requisito − il calpestio
del fango delle viuzze di rione. Se Il quartiere ha la propria chiusa in una chiave
esplicitamente polemica verso la politica e la corruzione, anche Cronache di poveri
amanti certifica la propria crudeltà nella vicenda ben nota della “Signora” di Via
del Corno, l’opposto dell’etica della solidarietà, così come il citato Gino nel Quartiere, o Ninì, personaggio femminile de Lo scialo, si perdono per crudeltà narrativa una volta disorbitati dal loro àmbito, dal loro quadro sociale ed esistenziale.
Appaiono, insomma, del tutto veri i due fondamentali rilievi che qui si discutono,
ovvero la presenza e, nel contempo e senza contraddizione, la non prevalenza della
crudeltà nella prosa di Vasco; si tratta d’un autore che necèssita della speranza, o
della già citata “illusione”: se speranza e illusioni sono destinate a rimanere tali,
esse, almeno per un lungo e importante segmento della sua parabola di artista, rappresentano pur sempre una finalità di lontana gittata, una protensione prospettica
del narrare, se non anche del vivere e dell’agire, una possibilità di traguardare le
vicende in un ampio sfondo di affresco storico che guadagna al racconto l’approdo
all’ontologia letteraria del romanzo. Speranza, illusione: l’opposto del lieto fine;
parole che, in quanto evocano amaramente il proprio fallimento, suonano come
nudo e puro succo di limone, il cui eccesso farebbe rischiare l’ulcera gastrica, e
non suonano come buonismo mieloso da diabetica deriva. Eppure la perdurante,
attualizzabile vitalità di un romanzo come Il quartiere consiste proprio nella sua
«forza di rappresentazione non datata», a seguire il concetto di Fofi; «il merito
dei racconti crudeli che non finiscono mai» «sarebbe»45 nella loro partecipazione
a «una stagione della vita che sempre si ripete e ritorna e alla quale tutti hanno
dovuto e hanno o avranno da confrontarsi»46.
Di complesso e intensissimo, ma non per questo immediatamente razionalizzabile47 e anzi all’inizio misterioso Bildungsroman, espresso in uno stile asciutto
Così scrive Biondi (ivi, p. 162), con condivisibile sospensiva critica.
FOFI, Prefazione, cit., p. X.
47
Cfr., a proposito della razionalità di fondo dell’impegno bilenchiano, ENRICO GHIDETTI,
Bilenchi ha settant’anni, in «Rinascita», 16 novembre 1979, p. 27; «Lo scrittore […] è sempre teso
“tra progetto e destino”: razionale […] è il suo impegno di ricerca, irrazionale la materia che alla
ricerca si offre; razionale è l’itinerario dell’intellettuale e la coraggiosa coscienza di sé, irrazionale
il tempo storico. Ne deriva un’arte “onesta” […], “al crocevia di intelligenza e storia, di progetto
e destino”», secondo la ripresa che del contributo di Ghidetti effettua FETZ, La narrativa del primo
45
46
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e adamantino, terso e compatto, perfetto incontro e coincidenza, all’insegna di
una «straordinaria nudità e durezza», di «storia ed esperienza privata»48, si parla
a proposito di Romano Bilenchi. Dal Capofabbrica a La siccità e a La miseria, e
oltre, i racconti bilenchiani «costituiscono in una loro ideale diacronia un vero
Bildungsroman, al centro del quale Marco, Dino, lo stesso Sergio del Conservatorio
e il narratore anonimo della Siccità, sperimentano da varie angolazioni, ma guidati
da un’identica ansia conoscitiva, la difficile scelta della maturità», scrive Giuseppe
Nicoletti; si esamini il brano dello studioso49:
Nessuna asprezza provocatoria […], nessuna distorsione polemica può mai
aggredire la salda architettura di questi racconti, che se da quei furori non più
Bilenchi, cit., pp. 198-199.
48
GIULIANO GRAMIGNA, Introduzione a ROMANO BILENCHI, Il bottone di Stalingrado, Milano,
Rizzoli, 1983, p. 12.
49
GIUSEPPE NICOLETTI, Introduzione a ROMANO BILENCHI, La siccità e altri racconti, Milano,
Mondadori, 1977, pp. V-XXV (qui, p. XV; poi parzialmente ripreso, con il titolo Per Romano Bilenchi. 2. Dal Capofabbrica a La miseria, in ID., Scritture novecentesche a Firenze, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1988, pp. 219-226). Si veda ora ROMANO BILENCHI, Gli anni impossibili, Introduzione di
GIUSEPPE NICOLETTI, Nota biografica e bibliografica di BENEDETTA CENTOVALLI, Milano, Rizzoli,
2001, e la nuova ed., ibid., 2009. Si ricordino altri studi bilenchiani di NICOLETTI: Bilenchi e i silenzi
del Conservatorio, in «Paragone» letteratura, XXXIV (1983), 398, pp. 80-98 (poi, con il titolo
Romano Bilenchi, in Un’idea del ’900. Dieci poeti e dieci narratori italiani del Novecento, a cura
di PAOLO ORVIETO, presentazione di MARIO MARTELLI, Roma, Salerno, 1984, pp. 317-336; quindi,
con il titolo Per Romano Bilenchi. 1. Dal Conservatorio al Bottone di Stalingrado, in NICOLETTI,
Scritture novecentesche a Firenze, cit., pp. 199-219); Due paragrafi sulla prosa bilenchiana e un
recupero, Per Romano Bilenchi, a cura di PAOLO BAGNOLI et al., in «Il Vieusseux», III (1990), 8,
pp. 29-38; Racconti di Romano Bilenchi, in Letteratura italiana, diretta da ALBERTO ASOR ROSA,
Le Opere, IV / 2 (Il Novecento. La ricerca letteraria), Torino, Einaudi, 1996, pp. 83-104. Adesso
le opere di Bilenchi si possono leggere, appunto, in ID., Opere, a cura di BENEDETTA CENTOVALLIMASSIMO DEPAOLI-CRISTINA NESI, Prefazione di MARIO LUZI, Milano, Rizzoli, 1997; e si veda, altresì,
ID., Opere complete, a cura e con Introduzione di BENEDETTA CENTOVALLI, Cronologia, Note ai testi
e Bibliografia di BENEDETTA CENTOVALLI-MASSIMO DEPAOLI-CRISTINA NESI, Milano, Rizzoli, 2009.
Cfr. anche, ora, GIUSEPPE NICOLETTI, Bilenchi e compagni, Firenze, Passigli, 2017; nel volume,
l’ultimo contributo (2017), alla sua prima uscita: Appunti di una lettura del “primo” Conservatorio,
pp. 75-102 (Bilenchi e compagni è stato presentato al Gabinetto Vieusseux di Firenze, il 10 aprile
2018, da Marino Biondi e da Cristina Nesi). Sulla riscrittura del Conservatorio di Santa Teresa cfr.,
invece, ROMANO BILENCHI, Riscrittura del Conservatorio: sei capitoli, e JOLE SOLDATESCHI, Nota a
Riscrittura del Conservatorio: sei capitoli, entrambi in «Inventario», n. s., XIX (1981), 2, pp. 3-29 e
29; cfr., inoltre, GIUSEPPE AMOROSO, Sei capitoli per il Conservatorio, in ID., Narrativa italiana 19751983 con vecchie e nuove varianti, Milano, Mursia, 1983, pp. 353-365. Cfr., ancora, MARIO ALICATA,
Conservatorio di Santa Teresa, in «La Ruota», III (1940), 4-5, pp. 219-221; poi, con il titolo Romano
Bilenchi I, in ID., Scritti letterari, Introduzione di NATALINO SAPEGNO, Milano, Il Saggiatore, 1968,
pp. 89-93. Su Alicata cfr. adesso LAURA ANTONIETTI, Il lavoro editoriale di Mario Alicata: alle origini della narrativa contemporanea nelle collane Einaudi, in Studi per Giorgio Montecchi, II (Studi
sul libro e sulle biblioteche moderne), numero unico di «Bibliologia. An International Journal of
Bibliography, Library Science, History of Typography and the Book», 12, 2017, Pisa-Roma, Serra,
in corso di stampa.
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astratti traggono forza, la restituiscono tuttavia placata e intatta, ormai sostegno funzionale di un più ampio e pregnante disegno simbolico, mentre la ricchezza dei significati, da ricercare in ogni riposta articolazione del racconto,
non è ascrivibile, come è stato detto, a un generico umanitarismo antifascista,
poiché La siccità come pure La miseria rappresentano la punta avanzata di un
più lungo e complesso processo di riconversione ideologica e politica che non
riguarda soltanto la persona dell’autore, ma, con lui, tutta una generazione
che dall’interno del fascismo aveva cavato a fatica le motivazioni informi di
una possibile liberazione. Di questo processo, peraltro, i racconti di Bilenchi, dal Capofabbrica al dittico della Siccità, si presentano come testimonianza
esemplare, costituiscono in una loro ideale diacronia un vero Bildungsroman,
al centro del quale Marco, Dino, lo stesso Sergio del Conservatorio e il narratore anonimo della Siccità, sperimentano da varie angolazioni, ma guidati da
un’identica ansia conoscitiva, la difficile scelta della maturità.
Il nitore strutturale e sintattico che restituisce intatta l’architettura della prosa, anche se essa risulta sollecitata da concreti furori ed è densa, per parte sua, di riposti
significati, giustifica il rifiuto − ormai e non a caso divenuto moneta comune − di
una collocazione di Bilenchi nei prosatori di mera valenza lirica, di pura cifra memorialistica; tutt’altro: rimane, valorizzata al massimo da quella stessa limpidezza
di scrittura (conquistata anche con un’assidua, indefettibile revisione variantistica),
«la punta avanzata di un più lungo e complesso processo di riconversione ideologica e politica che non riguarda soltanto la persona dell’autore, ma, con lui, tutta una
generazione»; e rimangono, proprio per queste ragioni, il «più ampio e pregnante
disegno simbolico», la natura di «testimonianza esemplare» che rilancia il timbro
di questa narrativa a una vibratilità più generale, pur se estremamente sorvegliata a livello linguistico e stilistico, e pur se rattenuta al massimo grado possibile,
come si vede sul piano dell’eliminazione dei riferimenti documentari, di dettagli
topografici o temporali superflui, di allusioni − anche velate − al vissuto esterno
al testo, di ogni dato narrativamente pleonastico, di asprezze provocatorie. Ma il
Bildungsroman, fecondamente rafforzato dalla profonda unitarietà nella linea dei
personaggi (si ricordi che il nome «Marco» ricorre da protagonista anche in Il bottone di Stalingrado), resta, come pure in Pratolini − sebbene in un mondo umano e
in modalità tecnico-stilistiche molto diverse −, un vettore narrativo assolutamente
fondamentale per una generazione ingannata, si dica pure fondamentale per molti
intellettuali e scrittori del “fascismo di sinistra”, «che dall’interno del fascismo
aveva cavato a fatica le motivazioni informi di una possibile liberazione». Certe
premesse tozziane50, la presenza innegabile ma non esclusiva di letture e di sug-
50
Sempre in àmbito senese, si rammenti la qualifica di «scrittore crudele» non a caso attribuita
a Federigo Tozzi in ALBERTO ASOR ROSA, Uno scrittore italiano della crudeltà (Federigo Tozzi), in
ID., Un altro Novecento (Parte III: Figure), cit., pp. 243-248. Su questa prospettiva di Tozzi, e in
Tozzi, cfr. anche LUIGI BALDACCI, Tozzi moderno, Torino, Einaudi, 1993; a questo proposito, ci
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gestioni della prosa di memorie, l’atmosfera di tonalità kafkiane che incombe su
alcuni racconti, la riproposta − variata ma coerente − del conflitto dell’adolescente
con gli adulti (genitori e non), lo sfondo edipico delle vicende che hanno come
linea centrale il rapporto con la madre, trovano nelle espressioni e nelle intuizioni
riguardo ai rapporti di classe e alla collettività sociale non la loro smentita, non il
loro ostacolo o il loro richiamo alla forza di gravità, e men che mai il loro impaccio
realistico-naturalista, bensì, e ben al contrario, la loro fonte, la loro alimentazione
sul piano della materia umana e della nervatura etico-ideale, e artistica, di base: un
elemento imprescindibile, che esalta la stessa politezza dello stile, e che alla politezza conferisce lo spessore d’una profonda sensibilità, che la scrittura cristallina
di Bilenchi compirà lo sforzo vincente di levigare. Se da parte sua il Bildungsroman
di Vasco Pratolini percorrerà, esso stesso alla ricerca di sé − secondo il concetto
di Memmo −, la via della memoria lirica, della nativa fiorentinità urbana, della
rievocazione sentimentale ermetico-allusiva, per guadagnare lo status del romanzo
di un’epoca e di un passaggio storico e ideologico all’antifascismo attraverso il
progetto di Una storia italiana e attraverso la dimensione dell’affresco epocale,
sarà, d’altronde, la stessa probità artistica a macerare lo scrittore sino allo sforzo
epilogico dell’ordalia di ritorno; l’esigenza di scavo e di indagine su un proprio
materiale di vita, su un magma reso confuso dalla lontananza, su un gap ispirativo
e narrativo fra la nota ribollente dei contenuti e la difficoltà di dominio memoriale
riguardo a un inganno collettivo, aprirà a Vasco la strada dell’allegoria e del filtro
derisorio, o meglio sarà tale sofferta esigenza allegorica ad aprirgli la strada della
pittura sceneggiata e dialogata dei propri drammatici fantasmi, della loro incerta
e desultoria azione − sulla pagina, o nell’amara favola che li incarna −, in una attivazione plurilinguistica delle scritture, dei modi letterari, dei generi espressivi; ma
certo l’opera allegorico-derisoria di Pratolini non incontra prospettive bachtiniane
di significati destinati a festeggiare ciascuno la propria risurrezione. Si può dire
che sia stata la stessa successione di tappe dell’itinerario creativo pratoliniano a
condurre l’autore dagli esordi all’insegna del lirismo sentimentale alla risposta a
più complesse domande di oggettivazione artistica nel dilatarsi degli interessi di
ricostruzione della coscienza personale, collettiva e storica dell’epoca fascista, e si
può dire che tali risposte abbiano costituito il proprio significato nell’ampiezza e
nella capienza ariosa delle pagine di romanzo, e nella stessa concrescita delle strutture prosastiche, e romanzesche appunto; dalla succinta, sostanziale brevità del lirismo e dei racconti, alle strutture di grande respiro e al ricorso al prisma letterario
deformante dell’allegoria: deformazione, a rimedio, a correzione, a riequilibrio, ad
arduo tentativo d’interpretazione d’un’altra, tragica e collettiva deformazione di
coscienze e di destini.
In una prospettiva molto diversa, ma di cui è utilissimo rilevare e mettere a fuopermettiamo rimandare alla nostra recensione in «La rassegna della letteratura italiana», XCVII
(gennaio-agosto 1993), serie VIII, 1-2, pp. 405-407.
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co gli elementi comuni con quella dell’autore de Lo scialo, anche Bilenchi legittima
un concetto di «adesione […] al mito di un fascismo potenzialmente collettivista
e antiborghese» e di «precoce collocazione nella sinistra dello schieramento politico-culturale del regime», così come la prima edizione de Il capofabbrica legittima
il concetto di «carattere ideologico-militante che il libro ancora manteneva e che
appunto era stato fatto oggetto della preoccupata attenzione della censura fascista»; nello stesso modo, si può parlare di «singolare intuizione dei rapporti di classe nella realtà della fabbrica» e di «palese simpatia per una elementare questione
operaia»51; la differenza da Pratolini, non certo da poco, non consiste soltanto nella
maggiore precocità di trasformazione dell’ideologia antiborghese in sensibilità antifascista; tale differenza risiede precipuamente nel tragitto letterario di Romano,
che registrerà una crescente concentrazione, una profonda coesione di prosa scevra da sbavature, un’acquisizione di asciuttezza e di sobrietà, di semplicità, di eleganza e di pregnante brevità che sembrano coniugare sino al reciproco amalgama
tradizione toscana e letterature europee (viene da pensare a Čechov), l’inspiegabile
tozziano della campagna e della provincia (luoghi deputati di Bilenchi, a differenza
dei quartieri cittadini di Vasco) con l’atmosfera talvolta kafkiana delle vicende e
delle relazioni tra i personaggi: una precisa direzione di rastremata compattezza,
di lucente perspicuità anche quando la cifra scrittoria dell’autore di Colle di Val
d’Elsa esibisca un apparente flusso di grigiore, nella sua tornita continuità; non
sono in tal senso rimaste senza conseguenze la pittura e la grafica (soprattutto
quest’ultima) dell’amico Rosai. Ma nonostante la strenua tensione stilistica verso
una prosa concentrata e verso la brevità, e nonostante la straordinaria capacità del
suo mantenimento nel tempo − anche dopo lunghi silenzi −, tale levigata e a volte
misteriosa ribalta testuale, tale lucentezza − di perspicuità tutt’altro che immediata
−, tanto diversa e sotto certi profili addirittura opposta rispetto alla dispiegata fertilità plurilinguistica e metamorfica di generi del Pratolini “allegorico”, insomma
questa brevità bilenchiana da cesello d’inesausto orfèvre di poche ma meditatissime opere, non è affatto un’emissione letteraria, o un’affabulazione di meri valori
formali, da sia pure complessa prosa d’arte. Come Pratolini, e come altri autori
situabili in origine nel “fascismo di sinistra”, Bilenchi possiede sempre una materia
profonda, un temario spesso crudele, e senza sconti nella sua fenomenologia priva
di consolazione; solo che lo scrittore ha un modo di criptarli diverso da quello delle
identificazioni allegoriche dell’ultimo Pratolini. Spesso, lo si dica apertamente, si
può parlare, per la narrativa di Bilenchi, di «simbolo», di situazione emblematica
o esemplare52.
Le citazioni sono tratte da NICOLETTI, Introduzione, cit., pp. X-XI.
La presenza non soltanto d’una componente simbolica, ma di un vero e proprio «valore»
simbolico, che può, appunto, essere considerato propriamente tale nella narrativa bilenchiana,
è ampiamente e ripetutamente rilevata in FETZ, La narrativa del primo Bilenchi, cit., passim. Si
vedano in particolare le pp. 40, 68, 70, 98, 111, 131-132, 114, 140-141, 168. A p. 40 l’autrice
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Chiariamo subito il concetto, a scanso di fraintendimenti. Non si tratta, proprio
per nulla, di attribuire allo scrittore la connotazione di “autore simbolico”, che
Bilenchi non è affatto; viene in aiuto in tal senso il citato Giuliano Gramigna: «Bilenchi è, per nostra fortuna, scrittore non-simbolico: se i suoi oggetti “parlano” nel
testo, ciò accade proprio perché in larga misura rimangono muti»53. Il “bottone
di Stalingrado”, ad esempio, «funziona da significante-totem intorno al quale si
chiude una spirale di significati»: «si chiude», appunto, e per di più attorno a
constata che in Dino, nel 1942, «Bilenchi aggiunge pure dettagli che accrescono il valore simbolico
del testo: l’abbronzatura, [le] usanze e [le] vesti succinte delle villeggianti» e, così proseguendo, ci
si può riferire a «poltrone pieghevoli sotto ombrelloni variopinti», ad «amache», a «corti pantaloni
vivaci» della donna romana, al «caffè», a «un’aria che sapeva di menta e di spigo». A p. 68 si
ricorda che «In Mio cugino Andrea si scopre il valore simbolico del tema dell’adolescenza»; a p.
70, a proposito degli spazi di praterie e di cavalieri nel Far West, di pellerossa, di battaglie e di
diligenze, di libri e di film che hanno segnato l’immaginario del giovanetto di Un errore geografico,
si legge che «Questo mondo è simbolo dello spazio utopico e infinito della fantasia infantile»;
a p. 98, riguardo ad Anna e Bruno, si dice che «I luoghi che fanno da sfondo alle vicende sono
emblematici» e che «Altrettanto emblematici sono i dettagli stagionali»; sempre a proposito
di Anna e Bruno, a p. 111, si sottolinea che oggetti e fenomeni sono fatti assurgere a simboli
determinanti per l’esplicitazione dei significati testuali: «Anziché registrare casualmente una serie
di eventi, [l’autore] sceglie quelli che segnano la vita del protagonista e li dispone con arte in modo
da suggerire il lento maturarsi della sua esistenza. A oggetti e fenomeni concede lo spazio necessario
perché si trasformino in simboli che esplicitino i significati del testo. L’opera dell’istanza narrante
non guasta però l’immediatezza delle scene, perchè gli eventi vengono narrati dal punto di vista di
Bruno. Anche la distanza dai discorsi degli adulti evoca la sua esperienza»; a p. 114, a proposito
del Conservatorio di Santa Teresa, si rammenta «il tormentato percorso di Sergio verso la realtà
sociale e culturale», indicando la necessità d’una riflessione «sulle configurazioni spaziali e sulla
simbologia dell’inconscio»; alle pp. 131-132, riferendosi sempre a Sergio, che porta «le serpi false»,
immagine simbolica dell’amore, prima al Conservatorio, poi nella casa dei nonni materni, si rileva
che «Il simbolo dell’amore entra quindi negli ambienti frequentati dai ragazzi. D’ora in avanti ci
si può solo aspettare uno sviluppo in questa direzione»; alle pp. 140-141 si parla della comparsa
di «elementi che simboleggiano la realtà sociale: “pezzi di stoffa e vecchi cappelli”, “biancheria”,
“ritagli di velluto di vario colore” e “graziosi oggetti”; nell’ingresso appare “un vecchio cassone”.
La stanza riservata per le lezioni è chiaramente simbolo della realtà culturale: vi si trovano “un
tavolo e due seggiole”, “libri e […] quaderni»; a p. 168, in un passaggio che concerne il rapporto di
Sergio con il “Santa Teresa” in riferimento all’importanza che la fase umano-evolutiva del periodo
trascorso al Conservatorio riveste per il protagonista, l’autrice scrive che «Questa scuola e i vari
rapporti che Sergio intreccia con essa simboleggiano […] una fase del suo sviluppo, da bambino ad
adolescente»; a sua volta, «il giovane della fotografia [Edoardo, il defunto amore di Vera] raffigura
tutto il periodo del Conservatorio e l’immaginazione dell’omicidio rappresenta per estensione tutti
gli episodi che hanno accresciuto le conoscenze di Sergio sulla realtà socio-culturale […]. Questa
figura […] contiene la chiave di lettura del libro e ne rappresenta iconicamente il significato». Altri,
importanti e decisivi riferimenti al valore simbolico, e di simbolica raffigurazione, d’un tragitto
che procede dalla prima caratterizzazione naturale alla progressiva acquisizione della coscienza
di una realtà sociale e culturale, un valore simbolico rivestito appunto dagli elementi naturali,
dalle pianure, dai paesaggi, dall’acqua dei fiumi e del mare, dalla geologia dei declivi e dei rilievi
collinari, si trovano, nel libro della Fetz, alle pp. 134-137, 144, 165-167.
53
GRAMIGNA, Introduzione, cit., pp. 9-10.
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un’inaccessibile entità totemica. Si tratta, invece, di porsi in un’ottica dichiarativa
riguardo alla ripetuta presenza nella prosa bilenchiana di importanti passaggi e
di importanti situazioni, anche di ordine generale, che si possono a vario titolo
chiamare simboliche, senza per questo, lo si ripete, assegnare al termine un valore
protocollare a definizione dell’intero scrittore. Di «piano dei simboli», in questo
caso come «fantasmi rispetto ai quali si motiva, o crede di motivarsi, il soggetto,
Marco, Paolo o altri» parla lo stesso Gramigna54, in «una vibrazione, un’incidenza
alternativa» con «il piano degli accadimenti storici (politico-sociali)»; e la constatazione critica vale, per intero, riguardo a Il capofabbrica come alla prima parte del
Bottone. Nicoletti, da parte sua55, individua «la nota dominante di tutto il racconto» nell’indefinita indicazione de «L’anno della siccità», a scandire un tempo che,
«pur essendo interno al racconto, non è solo interiore per il personaggio-guida, ma
tempo esemplare e simbolico, il tempo della siccità appunto». Lo stesso nodo dei
rapporti edipici «viene investito da un processo di astrazione emblematizzante»,
tanto che i due racconti, La siccità e La miseria, scritti poco dopo l’inizio del secondo conflitto mondiale, «risentono indubbiamente di un mutato clima politico e sociale; di una crisi profonda percepita ormai non soltanto da frange ristrette di intellettuali, ma da una coscienza collettiva che si interroga smarrita su un evento tanto
drammatico, quanto incomprensibile ed estraneo»56; né sarà sfuggito il concetto di
«più ampio disegno simbolico» riguardo a La miseria. Sin dai suoi inizi, insomma,
si intenda dagli anni ’30, Bilenchi è stato in grado di forgiare la sua operazione letteraria più matura; e non è stata un’operazione meramente memorialistica, di soli
tempi interni al racconto; si leggano in tal senso le parole di Lanfranco Caretti57:
Bilenchi riprese dunque, tra il 1935 e il 1940, alcuni racconti già scritti prima
del Capofabbrica e altri ne scrisse di nuovi, eliminando ogni riferimento meramente documentario, e li venne pubblicando alla vigilia della guerra. Si parlò,
allora, di un ritorno alla poetica della memoria, e certo la tecnica stilistica di
questi racconti giustificava in parte quel richiamo squisitamente letterario; ma
a me sembra che una inserzione di Bilenchi nella sfera dei prosatori d’arte o
degli evocatori poetici dell’adolescenza, sia per lo meno parziale. Minaccia,
cioè, di rimpicciolire l’arte stessa di Bilenchi che non è cresciuta a dispetto
e in opposizione alle sue prime esperienze di saggista morale e politico, ma
si è maturata proprio su di esse, si è nutrita di quello sconforto e di quella
Ivi, p. 6.
Nell’Introduzione a La siccità e altri racconti, cit., p. XIV.
56
Ibidem.
57
LANFRANCO CARETTI, Ritorno di Bilenchi, trasmesso in Terzo Programma, dicembre 1958, poi
pubblicato, con il titolo Occasioni critiche: «Racconti» di Soldati, «Teatro» di Brancati, Il moralismo
di Landolfi, Un appunto per Cassola, Ricordo di Pea, Ritorno di Bilenchi, in Studi in onore di Vittorio
Lugli e Diego Valeri, Vicenza, Neri Pozza, 1961, pp. 205-224; quindi in LANFRANCO CARETTI, Sul
Novecento, Pisa, Nistri-Lischi, 1976, pp. 184-189, e riprodotto in NICOLETTI, Introduzione, cit., pp.
XVIII-XIX.
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generosa accidia, si è insomma arricchita, sia pure dissimulandosi sotto specie
memorialistica, di quell’esperienza, di quella caduta, di quella disillusione.
In questo senso, è ampiamente possibile ritrovare in molti racconti bilenchiani (e
non solo quelli in cui il pretesto e la soluzione siano dati da un evento drammatico
o delittuoso) quel connotato di “crudeltà” che si pone all’interno della narrazione
stessa come elemento connaturato alla formazione, all’adolescenza, alle scoperte che
incidono sul bambino, sul ragazzo, sul giovanetto; crudeltà e Bildungsroman non
appaiono elementi da enumerare sommatoriamente come presenze o come caratteristiche del narrare bilenchiano (e pratoliniano), ma si configurano, e anzi sono
davvero, elementi fra loro ispirativamente congiunti e inestricabili. Di immediato
risalto è l’opportunità di situare uno dei motivi precipui di tale complesso, eppure
naturale abbinamento di crudeltà e di Bildungsroman, in quel dato imprescindibile
che è rappresentato dallo stile di Romano Bilenchi; l’espunzione, non, beninteso, di
ogni dato, ma di ogni ostensività diaristico-sentimentale (almeno nelle forme tradizionali che si è soliti attribuire a questo concetto), l’incontro perfetto, sottolineato
da tutti i critici, di fatto-evento, anche evento storico, e di narrazione della memoria
− ma non memorialistica −, un incontro che avviene con assoluta esattezza d’orologio combinatorio in quel punctum temporis − uno e uno solo − e non in un altro
del dettato scrittorio, conferiscono alla prosa bilenchiana un autosufficiente spessore
di indiscutibilità anche e soprattutto quando essa sia congiunta all’inspiegabilità, al
rielaboratissimo retaggio tozziano o addirittura kafkiano. Mario Alicata, lettore non
certo in sospetto di mancanza di interessi contenutistici e di sensibilità per il temario
ideologico e civile, esprime benissimo, direi proprio per questa ragione, la ratio letterario-scrittoria della pagina bilenchiana sin dal 1941 (a proposito de La miseria)58:
la storia, nel suo sviluppo dentro la memoria rigida e lucida dello scrittore
mai incrinata da una distrazione verso un particolare insignificante o da una
generica suggestione psicologica, scava dentro di sé la propria qualità poetica e morale, diventa narrazione insieme d’un sentimento e d’un giudizio, in
un tono triste e austero, disperatamente malinconico. Nel linguaggio dello
scrittore, nella sua naturalezza cauta e schietta, avara d’ogni qualifica, d’ogni
commento estraneo alla necessità stessa dei fatti, sorda alle loro risonanze melodrammatiche, il passato silenzioso e quotidiano si realizza a mano a mano
ch’è toccato dalla memoria con un fascino e una commozione che gli deriva
solamente dal suo nascere in questa luce chiara e netta, compatto e splendente nella sua verità.
Si può ripartire proprio dal dato stilistico, elemento decisivo (ancora) per ricordare che il valore e la funzione di liquidazione del romanzo politico in una prova
Cfr. MARIO ALICATA, La siccità, in Oggi, 20 settembre 1941, p. 11; ora, con il titolo Romano
Bilenchi II, in ID., Scritti letterari, cit., pp. 93-95, ripreso in NICOLETTI, Introduzione, cit., p. XVII.
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quale Il bottone di Stalingrado radica il proprio significato «all’interno del particolare sistema espressivo che è la narrativa di Bilenchi; ma in quel preciso istante,
come ogni gesto scrittorio, ha una portata assoluta»59. In modo fondamentalmente
omogeneo al decorso della sua narrativa, Bilenchi è riuscito, si può dire, nell’opera
in cui altri non ha raggiunto in pieno l’obiettivo; lo scrittore è stato, insomma, in
grado di chiudere i conti con il romanzo, non si dirà storico, ma di tema e di impegno storico-politico, ricapitolandone la varia immagine «sostenuta, e oppugnata»
dal dopoguerra in poi; e ha chiuso i conti «in un atto fulmineo di delibazione immaginaria», liquidando «una volta per tutte la necessità e la suggestione»60 di tal
genere di romanzi. Strumento, ma si potrebbe ben definirlo “sostanza attiva” di
tale liquidazione, è sempre lo stile. Vasco Pratolini non può, non diremo riuscire,
ma neppure proporsi una tale finalità; e di fatto, e coerentemente con se stesso,
non se l’è affatto proposta. Altro, e non meno valido, al di là delle soluzioni testuali
adottate, è il suo problema nel tentativo allegorico di chiarimento, di confessione,
di ordalia a ritroso, di derisione conativamente umoristica arresa alla sconfitta della
degradazione nel sarcasmo. In Bilenchi, invece, la ripresa della narrativa, ad esempio nel 1958, riveste il ruolo, profondamente e a sua volta seriamente esercitato, di
una cifra stilistica (e si è visto quanto impegnativa e rigorosa, e severa) già attiva nel
passato, già rassodatasi con esiti scrittorii molto felici, e inconfondibili; al passato,
non solo a quello artistico, egli può mirare con il fine di recuperare nella maniera
più identificativa possibile la ratio strutturale, sintattica, linguistica dei racconti
scritti nell’epoca fascista, negli anni ’30 e nei primi anni ’40; il problema, per un
autore come lui, sarebbe stato, nell’ipotesi che Romano avesse dovuto affrontarlo,
quello inverso al problema di Pratolini: ovvero, il problema bilenchiano sarebbe
stato quello di non poter effettuare tale recupero, di non poter produrre tale rinnovata sintonizzazione con l’io-autore dell’epoca. Un eventuale fallimento (scongiurato dai risultati narrativi) di tale accordo strumentale, di tale appuntamento
armonico-stilistico con il metodo scrittorio dei primi racconti (in molti casi «romanzi», nell’ultima concezione di poetica dello scrittore) sarebbe stato, e avrebbe
costituito, il vero motivo di imbarazzo per il Bilenchi artista, la vera sofferenza e
la vera bruciatura per la sua esperienza di scrittore. Per Pratolini l’imbarazzo, la
scottatura sulla pelle, la rivitalizzazione del dolore, risiedono, al contrario, proprio
in quella necessità di confronto a ritroso con se stesso, con il proprio passato, e
con i propri fantasmi: e proprio qui, beninteso, risiede, unicuique suum, il merito
metodologico, e di limpidezza intellettuale, da parte di Vasco.
Rimane del tutto consequenziale il fatto che è la stessa cifra ideologica del
passato degli anni 1930, che pure appartiene a suo modo al cosiddetto “fascismo
di sinistra”, a non imbarazzare Bilenchi, a non porgli mora o impedimento al recupero rigoroso d’un protocollo storico perento, ma ancora più che mai vitale
59
60
GRAMIGNA, Introduzione, cit., p. 8.
Ibidem.
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nelle sue ragioni artistiche; lo scrittore può anzi ritrovare nello stesso passato personale, ma si potrebbe dire anche nel passato “storico”, l’opportunità di chiarire le vicissitudini di un testo (Il capofabbrica), e in particolare del suo finale; tali
vicissitudini dimostrano la serie di problemi e di censure che il regime fascista
frappone alla pubblicazione di un libro scritto fra il 1930 e il 1932, ma poi edito
solo nel 1935; Bilenchi deve cambiarne il finale in chiave di minore esposizione al
possibile sospetto di sovversivismo (l’autore parla di «fine addomesticata»), e da
quel momento in poi attenderà molto tempo prima di ripubblicare il romanzo, che
finalmente uscirà nel 1958 «nella sua stesura originaria e non “addomesticata”»61.
E la revisione stilistica, già nel 1958 (nel ’42, in Dino e altri racconti − ma non vi
era Il capofabbrica −, tale revisione aveva coinvolto anche il piano narrativo), non
solo non si trova imbarazzata, ma addirittura miratamente e lucidamente ricerca
la cifra testuale, linguistico-filologica e semantica di un passato artistico e ideologico che da parte sua non subisce la cappa incresciosa della necessità giustificativa,
dell’esigenza di spiegazione. La riscrittura operata da Bilenchi è individuata come
«filologica e sintetica, attenta all’adeguazione semantica del nuovo al vecchio stile e
anche pronta al coraggio (e alla difficoltà) di riprendere muovendo da limiti fissati
con rigore, o, quantomeno, da altri bisogni»62. È quindi il nuovo stile a doversi
con coerenza adeguare al vecchio, e non viceversa; non si può realmente parlare di
imbarazzo, dunque, in una ripresa del passato che si pone come priva, in questo
caso (a differenza di quanto avviene in Pratolini), di un passaggio d’ordalia dichiarativa esposta a una proliferazione plurilinguistica da psicodramma letterario, da
romanzo-non romanzo. O, quanto meno, si dica che non vi è qui ordalia esplicita.
Se è avvertita, nondimeno, un’esigenza esplicativa all’interno della fase, contraddittoria e drammatica, compendiata nel sintagma “fascismo di sinistra” (già in
sé sintagma profondamente antinomico, ma proprio in quanto tale allusivo a una
dimostrabile realtà), tale spiegazione si iscrive, come si è accennato, nell’ordine
delle possibilità di chiarimento riguardo alle vicissitudini testuali e editoriali di
un romanzo quale Il capofabbrica; quell’ordine di possibilità si rivela, insomma,
una carta in più per l’ex “fascista di sinistra”, e in quanto tale questa carta può
legittimamente essere utilizzata, come in effetti avviene da parte dello scrittore;
e le responsabilità possono essere per intero e senza alcun equivoco assegnate al
fascismo, all’avversario, al regime e alla censura, ivi compresa una censura che
insinua i suoi tentacoli all’interno dei testi, all’interno della stessa libertà artisticocreativa degli autori; l’inquietante sintagma antinomico di “fascismo di sinistra”
61
SERGIO PAUTASSO, Nota giustificativa a ROMANO BILENCHI, Il capofabbrica, Milano, Rizzoli,
1991, p. 124.
62
GIUSEPPE AMOROSO, L’inesauribile stagione di Romano Bilenchi, in ID., Sull’elaborazione di
romanzi contemporanei, Milano, Mursia, 1970 (cit. in PAUTASSO, Nota giustificativa, cit., p. 125); di
Amoroso cfr. anche (Sull’elaborazione di romanzi contemporanei, cit., pp. 167-233), più in generale,
i concetti che scaturiscono dall’analisi delle varianti bilenchiane, in particolare su Dino.
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appare così dinamicamente pronto all’espunzione del primo termine, in un tragitto
che procede in maniera convincente verso l’adesione al secondo polo, già vivo
e presente allora in modalità inevitabilmente peculiari, forzatamente criptiche e
clandestine. Fortemente significative, anche in prospettiva storiografica, le parole
pronunciate allora (nei primi mesi del 1936) dall’esule Ottavio Pastore, futuro senatore dell’Italia libera, sul romanzo, su Bilenchi e sui giovani che, come lui, erano
già dei potenziali oppositori del fascismo63:
un esule italiano, Ottavio Pastore, diventato poi senatore della Repubblica,
ne parlò da Radio-Mosca dando al mio scritto il preciso significato che speravo contenesse, nonostante quella fine addomesticata. Pastore disse che i
giovani che, come me, credevano veramente nella giustizia sociale sarebbero,
un giorno o l’altro, diventati comunisti. Intanto facessero le loro esperienze e
cozzassero contro la dura realtà del fascismo.
Si tratta anche di parole terribili, come terribile era il fascismo nei fatti e nelle parole stesse, e nel controllo sulle parole di tutti: «Intanto facessero le loro esperienze
e cozzassero contro la dura realtà» della dittatura. Data la situazione, era, questa,
la via del “fascismo di sinistra”, la via che ad esso si apriva, qui espressa con efficacissima e quasi aggelante sobrietà testuale. Vale davvero la pena di rileggere per
bene la Nota dell’autore64, a conferma del valore, vorrei dire nobilitante, nell’ottica
di Bilenchi, della fondamentale unitarietà del proprio percorso e, altresì, del valore
del rinvenimento di benemerenze antifasciste in nome di quella “sinistra” che, già
in quell’epoca, pur ispirava lo scrittore; l’affondo nel passato (e il modus operandi
della rielaborazione, ma anche del ripristino variantistico-correttorio del testo lo
ribadisce) diviene, e assume la veste, del recupero d’un amaro “tesoretto” di valenze d’opposizione in un quadro dominato dall’idra repressiva della dittatura e
dei suoi funzionari-scherani, dai vari “secondini” di quell’Italia in prigione, come
avrebbe detto Croce:
Questo libro è stato scritto fra il 1930 e il 1932. Al lettore, al quale fosse capitata sott’occhio una delle poche copie pubblicate nel 1935, debbo una spiegazione. Il brano intitolato Il capofabbrica aveva in origine la stessa conclusione
che ha nel presente volume. Il manoscritto del libro fu consegnato da un mio
amico all’editore Buratti di Torino che, non essendo ben visto dalle autorità
fasciste, temeva, qualora lo avesse pubblicato, di andare incontro a fastidi di
natura politica. Mi rivolsi allora, per mezzo di Berto Ricci e di Ottone Rosai,
all’editore Attilio Vallecchi. Ma anche Vallecchi, nonostante il suo buon volere, non potette fare uscire il libro; la censura glielo vietò. Dopo i due tentativi
falliti, alcuni amici, fra i quali Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli,
63
64
ROMANO BILENCHI, Nota dell’autore, in ID., Il capofabbrica, cit., p. 122.
Ivi, pp. 121-122.
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dettero il manoscritto a Adriano Grande, direttore della rivista «Circoli», che
riuscì a pubblicarlo nelle sue edizioni. Dovetti modificare la fine del Capofabbrica in un senso che non apparisse così “sovversivo” come molti avevano
intuito. Ne furono stampate soltanto cinquecento copie, anche perché anni
prima, quando Dino era apparso sull’«Universale», aveva suscitato le ire dell’«Osservatore romano» e una lunga polemica letterario-religiosa durante la
quale anche alcune riviste cattoliche, e fra queste «Il Frontespizio», avevano
preso le mie difese. / Da allora mi ero sempre rifiutato di pubblicarlo in quella stesura. Proprio negli ultimi mesi del 1935 o nei primi del 1936, un esule
italiano, Ottavio Pastore, diventato poi senatore della Repubblica, ne parlò
da Radio-Mosca dando al mio scritto il preciso significato che speravo contenesse, nonostante quella fine addomesticata. Pastore disse che i giovani che,
come me, credevano veramente nella giustizia sociale sarebbero, un giorno o
l’altro, diventati comunisti. Intanto facessero le loro esperienze e cozzassero
contro la dura realtà del fascismo. Dopo questo breve discorso radiofonico
fui chiamato al ministero della stampa e propaganda e rimproverato. Rimproverati furono anche alcuni giovani che avevano recensito il libro richiamando
l’attenzione dei lettori sul significato sociale. Da Siena il vicequestore venne a
chiedermi se possedessi opere di Marx e di Lenin. / Firenze, 197265.
Riferendosi al Bilenchi ancora connotabile come “strapaesano”, il Contini
della Prefazione ad Amici66 focalizza la collocazione del «ragazzo Romano» come
«strapaesano e politicamente “impegnato” (allora, con le virgolette che adopera
inevitabilmente lui stesso, “fascista di sinistra”, ma virtualmente già comunista,
non so se liberale del comunismo come nel punto della sua maturità)». Insomma,
una situazione di continuità, di omogeneità nel tempo, non è davvero un dato succedaneo e posteriormente ricostruito nella narrativa di Bilenchi. Se ne ha conferma
nel «trasporto» dell’«esprit d’observation dalla realtà inventata (ma non poi troppo) a quella storica che costituisce Amici, questa raccolta pazientemente fabbricata
attorno al poeticissimo nucleo, ricco anche di nature morte per cui la frequenta-
65
Si rilegga anche la Nota dell’autore (1973), in ROMANO BILENCHI, Conservatorio di Santa
Teresa, Firenze, Vallecchi, 1973, p. 223; riferendosi all’edizione vallecchiana del 1940, Bilenchi
ricorda l’intervento della censura, che ha disapprovato alcuni passi per ragioni di “opportunità”
politica legata al tempo storico che sta vivendo l’Italia; la censura riguarda soprattutto la figura
di Bruno, padre del protagonista, di idee socialiste, «sovversive», e pacifista di convinzioni: «[Il
censore non aveva approvato] il personaggio di Bruno, le sue idee sovversive e il suo pacifismo. Mi
fu anche detto chiaramente che in tempi nei quali c’era bisogno di una perfetta unità nazionale
per poter affrontare gli eventi che stavano davanti al paese non era opportuno rievocare, sia pure
attraverso una narrazione di fantasia, fatti che avevano sconvolto e diviso l’Italia, come le lotte
per l’intervento e i conflitti del [primo] dopoguerra» (su questi aspetti delle vicende testuali
bilenchiane cfr. pure ALESSIA FETZ, Conservatorio di Santa Teresa, in ID., La narrativa del primo
Bilenchi, cit., pp. 113-114). Cfr. anche ROMANO BILENCHI, Bilenchi: scrivendo, sfuggivo al fascismo,
in Corriere della Sera, 23 ottobre 1985.
66
GIANFRANCO CONTINI, Per Bilenchi e i suoi “Amici”, in BILENCHI, Amici, cit., p. VI.
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zione dei pittori non dev’essere stata inutile, dei Silenzi di Rosai»67. E se lo stesso
67
Ivi, p. VII. Le pagine di Bilenchi (I silenzi di Rosai, pp. 39-111) hanno una consistente
“sezione” (pp. 69-80) dedicata all’indole profondamente ambigua della collocazione politica
rosaiana. Una linea di “popolare ribellismo antifascista” affiora più volte nel percorso personale e
artistico del pittore; ma l’adesione al fascismo, espressa nelle modalità caratterialmente irruenti che
spesso erano proprie di Rosai, e altresì espressa in molte celebrazioni figurative dei “riti” duceschi
e in disegni per «Il Bargello», rimane fuori di ogni dubbio. Possono in tal senso risultare efficaci le
parole dello stesso Romano Bilenchi, precedenti a quelle della citata “sezione” (I silenzi di Rosai,
pp. 66-67): «Il motivo più profondo della pittura di Rosai, quella ribellione contro la società e il
mondo, quella particolare forma di amore-odio per l’uomo, conteneva una critica profonda
dell’individuo che il fascismo faceva di tutto per creare. Una ribellione che finiva per trovarsi
diretta non tanto contro un preciso tipo di organizzazione sociale, quella borghese, ma contro il
mondo stesso nella sua totalità. Non fermandosi a un determinato momento della storia diventava
una rivolta assoluta, anarchia, nichilismo. Molti sentivano che nello scontro con l’uomo del
fascismo era pur sempre l’uomo di Rosai − autoritratti compresi − con le sue passioni e le sue
miserie, a essere il più reale, ad avere la meglio, e comprendendo, sia pur vagamente, il senso di
quella rivolta lo calunniavano, lo boicottavano e lo perseguitavano con tutte le loro forze». A
parere di CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit., pp. 136-138, la narrazione
bilenchiana non è esente dall’assunzione di notizie non interamente verificabili, e fornite per
testimonianza orale, allo scrittore, dallo stesso Rosai; nella ricostruzione di Bilenchi si tende a
valorizzare e ad accreditare una linea di benemerenze antifasciste del pittore, mentre in realtà è
insistente, e ripetuta, in Ottone, l’espressione d’una volontà di legittimazione del proprio fascismo,
della propria adesione e della propria, protratta appartenenza al mondo del duce e delle adunate
(una legittimazione perseguìta con opere di pittura, di disegno, di grafica, di scritti letterari, di
richieste formulate tramite canali di conoscenze private); nonostante questo intento di
“ufficializzazione”, Rosai, nel 1934, sarà l’unico non invitato dell’intera redazione de «L’Universale»
(Berto Ricci, Bilenchi e altri) all’incontro voluto da Mussolini in persona. La serie di “future” glorie
antifasciste di Rosai è sciorinata da Galeazzo Ciano nell’incontro avvenuto in data precedente a
quello con Mussolini: «Rosai non era simpatico al duce e i due si conoscevano bene, per più di una
ragione. Rosai era stato un valoroso combattente, ma aveva scritto poi un libro contro la guerra, si
era comportato da attivo antifascista durante l’uccisione di Matteotti e il periodo della “quartarella”,
aveva avuto un incidente personale con Mussolini [uno scambio di battute, avvenuto in mezzo a
molte altre persone, poco dopo la marcia su Roma], non aveva la tessera del partito e, infine, la sua
pittura era protestataria e anarchica» (BILENCHI, Amici, cit., p. 71; poi, in ID., Opere, a cura di
CENTOVALLI-DEPAOLI-NESI, 1997, cit., p. 798; ripresa, con commento, in CRESTI, Firenze, da
nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit., p. 137 e n. 101). Cresti sottolinea la difficile
controllabilità del contenuto di questo colloquio con Ciano; vi sono lettere e un altro scritto che
attesterebbero un ben diverso rapporto con Mussolini (anche se, in verità, si tratta di lettere
appartenenti a un periodo precedente − 1928 e 1929, a Bottai, e, in versione privata, alla moglie,
alla madre e alla sorella −, e anche se lo scritto, apparso in «Il Libro Italiano», è del 12 dicembre
1938, e quindi, in questo caso, di epoca “qualitativamente” successiva al 1934; vi si attesta che
Mussolini si ricorda di Rosai e chiede di sua iniziativa dettagliate notizie di lui). Ma la tessera del
partito Rosai l’aveva chiesta sin dal 1930, e non manca d’essere ben noto il “panorama” di Firenze
disegnato per «Il Bargello», apparso nel numero del 27 ottobre 1934, recante in alto la scritta «W
Mussolini». Le benemerenze antifasciste saranno elencate da Ottone anche in una lettera a Carlo
Ludovico Ragghianti del 30 ottobre 1944, e a Bilenchi saranno state note, nella linea autotestimoniale
dell’artista di Via Toscanella; Rosai, che ovviamente figura confermare, nello scritto di Bilenchi, la
veridicità delle accuse di antifascismo indirizzategli da Ciano, testimonia di avere scritto, nei
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Capofabbrica può reclamare, come giustamente sottolinea Pautasso, «una effettiva
condizione di romanzo», tanto che «come tale oggi possiamo leggerlo», la constatazione critica vale anche per il trittico Gli anni impossibili (La siccità, La miseria, Il
gelo), con la loro «unitarietà tematica, garantita dal personaggio»68, e appunto per
convulsi giorni del ’24, «W Matteotti» su una spalletta del fiume Arno (ma in altra occasione − cfr.
il citato volume di Cresti, p. 137 − narra di avere scritto «Abbasso Tamburini»); attesta di avere
avvertito e salvato molti noti oppositori del regime, a Firenze, la notte del 4 ottobre 1925,
nell’imminenza d’un previsto massacro fascista (le testimonianze in tal senso rese al Comitato
Toscano di Liberazione Nazionale, dopo la cacciata dei tedeschi da Firenze, non sono mai state
rese note tramite pubblicazione, e rimangono trattenute nell’autotestimoniale rosaiano, riportato
da Bilenchi); il progetto di buoni rapporti con le autorità fasciste, secondo Bilenchi limitato ai
funzionari locali in pieno disinteresse per un duce visto come figura assolutamente negativa,
traditore prima del socialismo e poi dello stesso fascismo, potrebbe incontrare smentita nel citato
scritto per «Il Libro Italiano», mentre l’invocazione a una “tutela” locale intenderebbe porre un
riparo a possibili “colpi” cui Ottone sarebbe esposto per le sue non altrimenti precisabili “abitudini
private”, in séguito chiarite come quei costumi omosessuali dei quali Berto Ricci e lo stesso Bilenchi
mostrano, in I silenzi di Rosai, di acquisire conoscenza solo in un ultimo colloquio chiarificatore in
tal senso con l’artista: secondo Carlo Cresti, si tratta, nel caso di Bilenchi e di Ricci, di una “falsa
ignoranza”, poiché «il mistero» era, a Firenze, quasi di dominio pubblico, e non potevano dunque
ignorarlo persone di stretta conoscenza com’essi erano. In effetti, aveva già scritto lo studioso di
architettura autore di questo saggio (p. 136), «Rosai […] si accorge quanto poco siano serviti a
garantire il proprio personale spessore di fascistizzazione i quadri L’Adunata fascista, L’incontro a
Gardone, e i disegni per “Il Bargello”»; ma, più ancora (ibidem), «Si accorge susseguentemente che
le esternazioni pittoriche, grafiche e letterarie di fede fascista sono risultate inefficaci a coprire
l’imbarazzante vizio della sua omosessualità, inconcepibile e non consentita in un qualsiasi fascista
che doveva invece apparire il simulacro del maschilismo di assoluta virilità». Cresti quindi
conclude, a p. 138, rilevando la discutibilità dell’atteggiamento scrittorio di Bilenchi (beninteso, in
questo frangente di ricostruzione e di enunciazione riportata): «Una pagina narrativa, quella di
Bilenchi, che trasuda ipocrisia e falsità, che non poteva essere confutata da Rosai, morto nel maggio
1957, che non giova certo alla difesa postuma della reputazione di un amico». Va detto, però, che
a leggere le pagine bilenchiane de I silenzi di Rosai, la vera e propria militanza fascista del pittore
fiorentino risulta comunque bene evidenziata, pur se in una sequenza di successione narrativa che
sembra preparare nel “personaggio” rosaiano il progressivo crescere di un sentimento critico verso
il regime, con numerose pregresse manifestazioni, e poi orientarlo su un prevalente e risoluto
sentimento antifascista (ROMANO BILENCHI, I silenzi di Rosai, in ID., Amici, cit., p. 73): «Io e Ricci
stupimmo per quello che di Rosai ci aveva detto Galeazzo Ciano. Avevamo sempre creduto che
Ottone fosse un vecchio fascista (ricordavamo la fine di Dentro la guerra: “A Firenze… fondammo
il Fascio futurista fiorentino di combattimento”), uno squadrista, che avesse la tessera del partito:
era amico di molti fascisti e di Alessandro Pavolini e faceva spesso disegni per Il Bargello,
settimanale della federazione fascista fiorentina».
68
PAUTASSO, Nota giustificativa, cit., p. 126. Il capofabbrica ha una storia editoriale davvero
tormentata, e varia; ne segue bene le vicende lo stesso Sergio Pautasso nella citata Nota giustificativa,
pp. 123-126. Escluso non certo a caso dal vallecchiano Dino e altri racconti del 1942 (ristampato nel
1944), «libro assai diverso», quest’ultimo, per profondità di innovazioni strutturali e propriamente
testuali dal volume del 1935, Il capofabbrica è passato dalla nuova inclusione in redazione
reintegrata nel 1958 (Racconti, Firenze, Vallecchi) alla restituzione al suo ruolo autonomo di prova
romanzesca, e quindi alla sua, in questo caso definitiva, esclusione dalle riedizioni di altri racconti,
prose narrative appartenenti a un genere letterario differente e non identificabile nell’entità,
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Amici, per il quale, «possibile “romanzo”»69, è l’aspetto autobiografico a funzionare come elemento coesivo (gli “incontri” possono essere in realtà definiti “ritratti”,
o meglio “racconti”, del tutto privi, come in effetti essi sono, del taglio giornalistico
nel quale sembrerebbero destinati a incorrere; tali racconti risultano invece distesi
in «un vero e proprio sviluppo narrativo»)70. Con l’edizione di Anna e Bruno e al-
appunto diversamente complessa, della filiera di accadimenti e di personaggi che è propria di
un romanzo. Ma sulle ragioni delle scelte di successiva esclusione, inclusione-reintegrazione, e
nuova esclusione a recupero d’autonomia di genere romanzesco, si leggano le parole di PAUTASSO
(pp. 124-126): «Per quanto riguarda la struttura di Dino e altri racconti, il dato più evidente è
offerto dall’esclusione proprio de “Il capofabbrica” (di qui anche il titolo diverso), il racconto
incriminato da esigenze contingenti, mentre la sequenza manteneva l’ordine del 1935. Le ragioni di
questa scelta, sono state dettate dall’opportunità politica, ma non esclusivamente: se confrontiamo
le stesure 1935 e 1942, possiamo constatare come Bilenchi abbia sottoposto i suoi racconti a una
revisione sostanziale sia dal punto di vista narrativo (specie “La fabbrica” e “Due vedove”) sia
sotto il profilo stilistico (quest’ultima perseguita anche per l’edizione Racconti del 1958). Non è
fuori luogo ipotizzare che le ragioni della letteratura abbiano agito in lui con altrettanta forza, se
non di più, dei condizionamenti politici, specie se stiamo ai risultati che conseguono alla riscrittura
[…]. Ma il discorso su Dino e altri racconti − Il capofabbrica non era affatto chiuso con Racconti
1958. Se fino a quella data rientrava nell’ambito dei “racconti”, nel piano delle Opere del 1972 esso
riacquistava una posizione autonoma e Bilenchi gli restituiva il titolo originario de Il capofabbrica;
tale posizione veniva ribadita nel volume dei “racconti” del 1977 dal titolo La siccità e altri racconti,
Oscar Mondadori, Milano, che, infatti, non lo portava; ma il passo decisivo era compiuto con la
riedizione di Anna e Bruno e altri racconti del 1989, Rizzoli, Milano, per la quale Bilenchi indicava
esplicitamente che il volume riuniva tutti quelli che egli riteneva fossero “racconti” e che tale
sistemazione doveva essere considerata definitiva. Rispetto alle raccolte precedenti 1958 e 1977,
questa escludeva non solo Il capofabbrica, ma anche il trittico Gli anni impossibili (La siccità, La
miseria, Il gelo) e Amici, poiché egli li considerava più dei romanzi che raccolte di racconti. /
In effetti, nella visione globale della propria opera, ma anche alla luce di una diversa idea della
letteratura che Bilenchi era venuto maturando negli ultimi anni, i suoi libri si situano secondo
una definizione sempre più articolata nei confronti dello schema dei “generi”, con una maggiore
attenzione verso le strutture interne (è proprio il caso de Il capofabbrica) rispetto a quelle esterne
più convenzionali. In questa ottica, si comprendono meglio le ragioni che lo hanno spinto a
sottolineare in Gli anni impossibili l’unitarietà tematica, garantita dal personaggio, e a considerare
Amici come un possibile “romanzo” (con questa volta l’aspetto autobiografico a funzionare da
elemento coesivo). A maggior ragione, quindi, Bilenchi poteva reclamare per Il capofabbrica una
effettiva condizione di romanzo, e come tale oggi possiamo leggerlo». Di PAUTASSO cfr. anche Per
una storia «editoriale» di Romano Bilenchi, in «Nuova Antologia», CXXIII (1988), 2167, pp. 339347, poi in Contributi critici su Romano Bilenchi, a cura di LIVIA DRAGHICI-STEFANO COPPINI, con la
collaborazione di FABRIZIO MASSAI, Prato, Edizioni del Palazzo, 1989, pp. 187-195. Sulle premesse
solariane del processo artistico e ideale che condusse al romanzo moderno e alla ricezione italiana
dei romanzi stranieri, cfr. LIA FAVA GUZZETTA, Gli anni di «Solaria»: dal frammento al romanzo,
e GIUSEPPE LANGELLA, Il romanzo a una svolta. «Solaria» e dintorni, entrambi in Dai solariani agli
ermetici. Studi sulla letteratura italiana degli anni Venti e Trenta, a cura di FRANCESCO MATTESINI,
Milano, Vita e Pensiero, 1989, rispettivamente pp. 169-189 e 191-265.
69
PAUTASSO, Nota giustificativa, cit., p. 126.
70
SERGIO PAUTASSO, Nota giustificativa a BILENCHI, Amici, cit., p. 255.
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tri racconti71, Bilenchi stabilisce la ne varietur della raccolta dei suoi racconti e del
concetto stesso di racconto «alla luce di una diversa idea della letteratura che […]
era venuto maturando negli ultimi anni»; ma, ormai risulterà chiaro, tale diversa
idea è proprio l’elemento che, lontano dal creare frantumazione o stratificazione,
o articolazione differenziata negli esiti ideologici e stilistici della prosa bilenchiana,
attua invece la funzione di ristrutturare in chiave di unitarietà anche le architravi
narrative, prosastiche generali, del racconto di Romano, e non attua più, dunque,
la funzione di operare sulle sole, singole iuncturae stilistico-sintattiche. La variantistica per creare unitarietà, le concezioni nuove per acquisire prove narrative formalmente autosufficienti alla condizione coordinata di racconti, e per guadagnare
a loro volta dei racconti alla dimensione continuativa del romanzo ou tout se tient,
per organizzarli in una successione qualitativa (non certo solo cronologica) di rinnovata ma non affatto inedita, e anzi originaria e pregressa tipologia romanzesca.
Una tipologia romanzesca che nella campagna e nella provincia di Bilenchi, oserei
affermare, si cesella come ctonia: «Bilenchi non tesse trame neoclassiche; le sue
risorse, grazie al cielo, sono strapaesane»72, anche se il narratore trentenne alle
prime realizzazioni «non si riesce a immaginare senza la lettura di Maupassant e di
Philippe, di Čechov e della Mansfield, del Joyce dei Dubliners, a nessuno dei quali
assomiglia se non in uno spirito di colleganza. E in quello spirito di osservazione
che Proust proclamava di non avere»73.
4.6 Breve ricognizione nella variantistica bilenchiana. La crudeltà del diamante
La corrente di cambiamento, di mutazione, ha in ogni caso origine sotterranea,
e risiede nella variantistica, come ha sottolineato Maria Corti74. Senza addentrarci,
71
ROMANO BILENCHI, Anna e Bruno e altri racconti, a cura di SERGIO PAUTASSO, Milano,
Rizzoli, 1989 (importante la Nota di Pautasso, pp. 195-198). Si ricordi a questo proposito CLELIA
MARTIGNONI, Modi della narrazione in Bilenchi. Mio cugino Andrea, Il processo di Mary Dugan,
Un errore geografico, in Per Romano Bilenchi, «Autografo», X (1994), 28-29, pp. 5-16.
72
CONTINI, Per Bilenchi e i suoi “Amici”, cit., p. VIII.
73
Ivi, p. VII.
74
MARIA CORTI, Romano Bilenchi: Racconti e Una città, in «L’Albero», XI (1960), 34-35, pp.
101-106; poi, con il titolo Romano Bilenchi, ovvero connotazione toscana e denotazione italiana, in
EAD., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 41-52. Su Gli anni impossibili cfr., adesso,
ALBERTO CADIOLI, La categoria di testo «non finito» e «finito» ne Gli anni impossibili di Bilenchi,
in Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di ANNA DOLFI, Firenze, Firenze University
Press («Moderna / Comparata», 8), 2015, pp. 271-290. Cfr., ora, in specie sulla vicenda della
prima narrativa di Bilenchi, FETZ, La narrativa del primo Bilenchi, cit. (nel volume vi è anche
un’aggiornata bibliografia bilenchiana; ma cfr., come necessaria impostazione del problema,
ERNESTINA PELLEGRINI, Per una bibliografia di Romano Bilenchi, in Per Romano Bilenchi, a cura di
BAGNOLI et al., cit., pp. 47-65). Dall’analisi e dalla considerazione del volume della Fetz rimangono
programmaticamente esclusi i tre racconti che compongono Gli anni impossibili. La lettura della
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studiosa si avvale in ampia misura delle categorie della psicoanalisi, in specie della seconda topica
freudiana, e del riferimento a consolidate simbologie antropologico-letterarie riconosciute valide
a livello internazionale (cfr. JEAN CHEVALIER-ALAIN GHEERBRANT, Dizionario dei simboli. Miti sogni
costumi gesti forme figure colori numeri [titolo originale: Dictionnaire des Symboles, Paris, LaffontJupiter, 1969], traduzione di MARIA GRAZIA MARGHERI PIERONI-LAURA MORI-ROBERTO VIGEVANI,
a cura di ITALO SORDI, Milano, Rizzoli, 2008 [I ed., 1986]). Si vedano, del libro della Fetz, con
alcune disamine di àmbito variantistico, i capitoli su Il capofabbrica: definizione della materia e
delle tecniche narrative (pp. 31-52), su Anna e Bruno e altri racconti: l’intricata storia editoriale
del libro dei racconti (pp. 53-111), e su Conservatorio di Santa Teresa (pp. 113-170). Ad esempio,
rispetto al testo 1935 di Dino (in ROMANO BILENCHI, Il capofabbrica. Racconti, Roma, Edizioni di
«Circoli», 1935, pp. 74-95. Università degli Studi di Milano [Centro APICE, Archivi della Parola,
dell’Immagine e della Comunicazione editoriale]; prima in «L’Universale», III [1933], 1, pp. 2-4),
vengono eliminati riferimenti ed espliciti dettagli riguardanti il motivo erotico e, dall’insistenza sulle
vicende amorose di Dino, la riscrittura dell’autore passa a una vera focalizzazione del progressivo
percorso di scoperta religioso-vocazionale effettuato dal ragazzo; forniamo qualche esempio della
serie di espunzioni operate già nel testo del 1942, con i relativi corrispondenti numeri di pagina
dell’edizione più recente (ROMANO BILENCHI, Dino, in ID., Dino e altri racconti, Firenze, Vallecchi,
1942, pp. 73-101; d’ora in avanti, D35 e D42; indicheremo con doppia sbarretta [«//»] il passaggio
da una redazione a un’altra; con sbarretta singola [«/»] il capoverso interno alla citazione): «dopo
avergli svegliato ed eccitato i sensi in cento sapienti maniere, [la romana] se lo lasciò giacere sopra.
E Dino ne fu accecato» (D35, 80 // totalmente espunto in D42, 83); «il ragazzo per ore e ore faceva
strazio del corpo della donna [Noemi]» (D35, 82 // totalmente espunto in D42, 85); «Dino mai
sazio e forte come i suoi monti la tenne a lungo sotto […] poi […] rimase coi pantaloni sbottonati
sul letto, gli occhi chiusi, beato, la faccia che sembrava gonfia» (D35, 84 // totalmente espunto in
D42, 88); «cominciò a scoprir loro un nuovo mondo: la donna» − «spinse i ragazzi a osservare il
seno, i fianchi delle ragazze; quelle che sarebbero state sul letto meglio delle altre» − «faceva atti
osceni parlando di questa o quella donna» (D35, 86 // totalmente espunti, i tre brani, in D42,
91-92). Vi sono anche casi di brani che si prolungano per vari capoversi, come avviene per quello
inerente alla festa di paese, e che vengono sottoposti a una riduzione davvero drastica, sempre in
nome dell’essenzialità e dell’incremento di focalizzazione; se ne legga un emblematico esempio:
«L’otto settembre la strada fra le poche case era invasa da una folla di montagnoli venuti alla
processione; quell’anno poi erano in programma anche i cavalli e il carro. Venditori di dolci e di
oggetti da poco prezzo erano giunti perfino da Siena e nell’ora delle tre pomeridiane, poco prima
che uscisse il carro preceduto dalle guardie romane, la confusione e la gioia erano al massimo
[…]. Marco, dietro la chiesa, apparentemente assorto a osservare i giocatori di bocce, aspettava
con impazienza Dino. Lo doveva aspettare lì a quell’ora. Noemi sarebbe stata libera perché i suoi
fratelli, parenti del prete, avrebbero da guardare alla processione» // «Quel giorno ricorreva la
festa del santo protettore del paese e il marito di Noemi aveva molto da fare per la processione e
per preparare i fuochi» (D35, 89 // D42, 95). Ma sono ugualmente significativi i casi di aggiunta,
o di interpolazione di brani lirici, quando questi si rendano funzionali a far risaltare il percorso
del ragazzo protagonista, a giustificare maggiormente le tappe della sua graduale, progressiva
maturazione; si vedano, a tale proposito, i due brani di impronta memoriale che Bilenchi aggiunge
in Le nonne, nell’edizione 1942, rispetto all’edizione 1935 (Il capofabbrica. Racconti [1935], cit.,
pp. 51-61; Dino e altri racconti [1942], cit., pp. 49-57; d’ora in avanti, N35 e N42): «Rimpiangeva la
grande casa in cui era nato, piena di gente giovane, la strada, l’agnello che non gli era stato permesso
di portare con sé in città, i campi di grano e di avena appena spuntati e i teneri prati» (N35, 54:
assente // N42, 53); «Egli si rifugiava in camera sua che non aveva finestre sulla strada, pensava
alla vecchia casa del babbo, ai campi, ai prati, ad Assunta, si disperava e piangeva immaginando
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se non in modalità puramente esemplificativa, nel percorso variantistico di Bilenchi, basti qui ricordare per un attimo che lo stesso La siccità75 presenta al suo interno una serie di correzioni che rivestono un notevole valore di raccordo della prosa
di Romano a quell’esigenza di unitarietà, di uniformità stilistica, che si è indicata
come direzione critica di compattamento romanzesco dell’affabulazione, e che già
a occhio nudo segnala un messaggio non soltanto stilistico, linguistico, lessicale,
bensì un messaggio strutturale di rilancio della tensione correttoria alla generalità
dei racconti, al corpus totale dell’opera e delle sue parti76; le «pentole grandi» (Sicd’essere abbracciato al piccolo agnello come quando era bambino» (N35, 55: assente // N42, 54).
75
ROMANO BILENCHI, La siccità, in ID., Gli anni impossibili, a cura di SERGIO PAUTASSO, Milano,
Rizzoli, 1984, pp. 9-38; alle pp. 39-85, La miseria; alle pp. 87-157 Il gelo, racconto del 1981. In
ordine al nostro intento esemplificativo, assumiamo come termine di riferimento ravvicinato il testo
uscito nel 1977. Cfr. anche ID., Gli anni impossibili. La siccità, La miseria, Il gelo, Introduzione e
Cronologia di MASSIMO DEPAOLI, Bibliografia di BENEDETTA CENTOVALLI, Milano, Bompiani, 1996,
e ID., Gli anni impossibili, cit. (cfr., in questo capitolo, n. 49), Rizzoli, 2001, nuova ed., ibid., 2009.
76
Si veda ancora un esempio precedente, dalle redazioni 1938 e 1943 di Mio cugino Andrea
(rispettivamente, in ROMANO BILENCHI, Anna e Bruno e altri racconti, Firenze, Fratelli Parenti,
[«Letteratura»], 1938, pp. 35-48, e in ID., Mio cugino Andrea. Racconti, Firenze, Vallecchi, 1943,
pp. 7-36; d’ora in avanti, CA38 e CA43); i brani riguardano gli abili discorsi con cui il «cugino
Andrea», che richiede ripetutamente del denaro alla famiglia dell’io narrante, inizia a adescare
anche il coetaneo, che viene còlto, qui, nelle sue prime reazioni di fronte alla malizia precocemente
adulta del giovane parente: «Una volta, in una di queste scorribande, Andrea mi disse: − Credi
è difficile prendere quattrini a quei fessi là. − E mi strizzò l’occhio. I fessi erano mio padre e la
nonna. A casa pensai a lungo su quella frase e sui miei rapporti con i genitori e i parenti. “Zia
Memmaaaa” non era stata certamente toccata; con la nonna, infine, non mi sentivo legato che
dall’interesse e rimandai ad un altro giorno l’esame preciso dei miei sentimenti verso il babbo.
Rimase il dubbio se ad Andrea fosse sfuggita la frase così per caso oppure se coscientemente avesse
tentato di associarmi alle sue pene e ai suoi piani» // «Una volta in una di queste scorribande
per la campagna, Andrea improvvisamente mi disse: “Credi, è difficile prendere quattrini a quei
fessi”, e mi strizzò un occhio. I fessi erano certamente mia nonna e mio padre. Quella frase mi
mise gelo nell’animo e fui triste per tutto il pomeriggio. Tornammo a casa presto, quel giorno, e ci
lasciammo freddamente. Quando fui solo mi parve che Andrea avesse voluto, con quelle parole,
sollecitare il mio aiuto per quando veniva a chiedere soldi e che ora mi avrebbe disprezzato per non
avergli io dato neppure il più tenue consenso. Certamente le parole d’Andrea non riguardavano
“Zia Memmaaa”. Non mi riuscì di trovare nulla da ridire sul babbo [...]. La nonna mi pareva poi,
quella sera, molto simpatica per la bonaria malizia dei suoi occhi, per quel mettersi di continuo
le mani sui fianchi, per quel dire a tutti “povero ruffiano”» (CA38, 42 // CA43, 24); «Un bel
giorno cominciò anche con me a piangere miseria e a cercare di convincermi della miseria di casa
sua. D’altra parte tutti affermavano che miseria in casa sua non esisteva e che anzi si trattavano
da signori. Così io stavo piano piano allontanandomi da Andrea e anche il mio affetto per lui
diminuiva» // «Il giorno dopo poi cominciò anche con me a parlare delle disgrazie e della miseria
di casa sua. Mi raccontò in segretezza del fallimento d’una piccola industria impiantata da suo
padre a Milano, di registri, di conti, di materie prime e di costi di produzione. / Quando la sera ci
lasciammo sulla porta di casa mia, mi disse: “Dovresti aiutarmi. Dovresti raccontare in casa quanto
i miei genitori sono sfortunati”. Non potei rispondergli. Mi sentii improvvisamente lontano da lui
e capii che il mio affetto per lui sarebbe diminuito. Egli rimase dinanzi a me, in silenzio, infine se
n’andò. Camminava lentamente. Non mi sembrava più il ragazzo buffo di prima, la sua persona,
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cità Mondadori ’77 = SM77, p. 129) divengono «pentole capaci» (Siccità Rizzoli
’84 = SR84, p. 11), ad evitare la ripetizione con i «fornelli grandi come bracieri»;
la mamma che con la «mezza luna» (utensile di cucina) «si era tagliato un dito»
(SM77, 131), in SR84 (p. 14) «si era tagliata un dito», e con la «mezzaluna» scritto
in modo unito; «parlava lungamente» al nonno (SM77, 133) diviene «parlava a
lungo» (SR84, 17), con immediato riflesso della variante sul vicino e successivo
«già lunga vita», che sarebbe suonato come ripetizione, e che viene corretto in
«non breve vita»; «vuoto di ogni ragione d’affetto alla casa» (SM77, 136) diviene
nell’84 (p. 20) «vuoto di ogni ragione d’affetto per la casa»; «La campagna intorno
al podere era varia e bella» (SM77, 136) diviene «La campagna intorno al podere
era varia e audace» (SR84, 21), con evidente riferimento ai colori del paesaggio
in sostituzione d’un termine più generico, ma anche in dialogo narrativo con gli
«arditi piani per le prossime coltivazioni» (SR84, 20) che precede di pochissime
righe, che sono i piani del nonno, protagonista del racconto sino a quel momento
(ed altresì in dialogo con «Appena tornato in via dei Tre Mori dalla sua audace
impresa» [SM77, 135 // SR84, 19], appena due capoversi prima, e sempre riferito
al nonno); più sotto, «a detto del nonno» (SM77, 138) diventa «a detta del nonno»
(SR84, 23), «E i ladri non si accontentavano» (SM77, 138) diviene «I ladri non
si accontentavano» (SR84, 23), senza bisogno di esordio con una congiunzione
coordinativa; una frase sugli abitanti della città che a confronto dei contadini «ma-
le gambe lunghe e la vita che gli incominciava sotto le ascelle non erano più ravvolte nella sfrenata
ironia d’una volta. Il suo passo da lento si fece frettoloso. Egli era un uomo per sempre e non
per poche ore come nei giorni in cui veniva a chieder denari a mio padre e non si curava di me.
Degli uomini aveva la risoluta cattiveria. Ebbi timore di lui e salii in casa correndo» (CA38, 43 //
CA43, 25-26). Né mancano i casi di trasformazione di «alcune focalizzazioni zero in focalizzazioni
interne» (FETZ, La narrativa del primo Bilenchi, cit., p. 102); esempio probante, due coppie di
brani di Anna e Bruno nelle rispettive redazioni del 1938 e del 1958 (cfr. la citata edizione Parenti,
appunto del ’38, pp. 109-143, e ROMANO BILENCHI, Anna e Bruno, in ID., Racconti, Firenze,
Vallecchi, 1958, pp. 247-287; d’ora in avanti, AB38 e AB58): «Bruno, anche per le altre persone, di
fronte a lei doveva consistere in una macchia turchina che interrompeva la striscia di muro bianco
sotto la spalliera verde delle piante fuggenti dal giardino attraverso la cancellata» // «Ma sentiva
di essere, per la madre e le altre persone, non più di una macchia turchina che interrompeva la
striscia bianca del muro del giardino» (AB38, 114 // AB58, 253); «Si ridusse soltanto a fantasticare
sulla frase: “Il babbo, da sano, aveva certe idee… ”, ma non poteva, data la sua età, indovinare tali
idee. Nessuna scenata era mai scoppiata tra la nonna religiosa e il padre ateo, nessun rimprovero,
nessuna allusione, i quali, benché bambino, lo avessero indotto a indagare» // «Soltanto, Bruno si
mise a fantasticare sulla frase: “Il babbo, da sano, aveva certe idee… ”. Ma che idee erano? Cercava
invano di trovare in qualche discorso del babbo, nel ricordo di qualche litigio familiare − ma ce
n’erano stati così pochi − un appiglio per capire quale fosse la differenza fra i pensieri del babbo
e quelli della mamma e della nonna» (AB38, 120-121 // AB58, 260). Si può utilmente aggiungere
un’espunzione completa di brano, dovuta alla cifra d’onniscienza che il narratore vi tradiva: «Nello
sforzo di ricostruire alcuni particolari a lui cari ritornava avvincente tutto un mondo che Bruno
credeva poi analizzare coi pensieri ed i sentimenti di oggi e non si accorgeva di ritornare bambino,
di rivivere quei giorni coi sentimenti di allora» (AB38, 127 // totalmente espunto in AB58, 267).
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nifestavano impudicamente i loro giudizi» (SM77, 140) diviene «manifestavano
impudichi i loro giudizi» (SR84, 26), dove l’avverbio di modo è sostituito da un
predicativo del soggetto che davvero costituisce un vettore di speditezza e di linearità narrativa. «Al colmo del mio disperato sconforto» (SM77, 141) diventa «di
quel disperato sconforto» (SR84, 26), espressione che distanzia con un dimostrativo, di lontananza appunto, una qualificazione dello sconforto che nella precedente
versione («mio») era pleonasticamente cifrata sull’io narrante; «Tutti gli anni di
lavoro nell’albergo sarebbero stati resi inutili da quel disastro» (SM77, 142) vede
la sostituzione di «resi inutili» con il ben più calzante «spazzati via» (SR84, 27),
locuzione non soltanto più espressiva, ma ben più adeguata alla rappresentazione
della forza devastante, dell’alito di aria maligna che incombono con la calamità; «in
condizioni tali che nessuno lo acquistasse» (SM77, 143) diviene «in condizioni tali
che nessuno lo avrebbe acquistato» (SR84, 28), correzione che appare necessaria,
con la scelta del “futuro nel passato”; «l’uno un po’ di grano, l’altro un po’ di granturco» (SM77, 143) vede l’ultimo termine scritto come «granoturco» (SR84, 29), a
differenziare con maggiore chiarezza, non solo ortografica, il secondo prodotto dal
primo (uguale sostituzione, più sotto, riguardo ai «piccoli barattoli del grano e del
granturco» [SM77, 144 // SR84, 30]); «Ora era il nonno che mi pregava» (SM77,
143) evita in SR84 l’evidente consonanza «Ora era» sostituendovi un «Adesso era
il nonno che mi pregava» (SR84, 29); l’interrogativa indiretta presente in «gli chiedevano che cosa pensasse» (SM77, 143) si illimpidisce in un «che pensasse» (SR84,
29) di spedita colloquialità, quasi a restituzione del ritmo drammatico dei dialoghi
che si intrecciano sotto la minaccia della siccità; davvero notevole − non sfugga
− il criterio di armonizzazione, di eufonica concinnità che si attua mediante la
semplice sostituzione d’un’elisione tramite apostrofo con la preposizione non elisa
(«di»): nella filza genitivale «di pagliai, di fienili, di case, d’interi boschi» (SM77,
144), l’ultimo sintagma diviene «di interi boschi» (SR84, 30), con palese guadagno
di proporzionata distribuzione delle parole e della relativa simmetria di suono,
nell’accordo perfettamente corrispondente dei quattro tempi di battuta − manifesto esempio di variante in sé ortografico-formale acquisita a un preciso valore di
scrittura, e a messaggio dichiarativo della ratio variantistica dello scrittore e del suo
più vasto significato. A sua volta, la sostituzione degli avverbi, soprattutto di quelli
“di modo” a desinenza «-mente», già in precedenza rilevata, dà i propri frutti in
«Rispondevo malamente» (SM77, 145) > «Rispondevo con asprezza» (SR84, 32),
e, più sotto, addirittura nell’espunzione secca di un «bruscamente» di fine periodo:
«mi avvicinai alla scrivania bruscamente» (SM77, 147) > «mi avvicinai alla scrivania» (SR84, 35); nella stessa maniera «All’improvviso» (SM77, 146) diventa, meno
astrattamente e in modalità interna al sistema espressivo toscano, «A un tratto»
(SR84, 33); «le notizie […] che giungevano dalla campagna che ormai non aveva
confini» (SM77, 148) vede in SR84 l’istituzione d’una pausa nella catena dei «che»
relativi, mediante la ripresa di «una campagna» come soggetto: «che giungevano dalla campagna, una campagna che ormai non aveva confini» (SR84, 35); «La
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città che scorgevo e quella che immaginavo era più triste del giardino pubblico»
(SM77, 148) regolarizza la concordanza sintattica tramite l’adozione del plurale: le
due città, quella reale e quella immaginata, «erano più tristi» (SR84, 36); infine, il
termine «cosa», già prima individuato, in funzione di interrogativo, come lemma
di versione perdente, conferma la propria tendenza alla sparizione nel riferimento
alla somiglianza con il padre, certificato anche dal nonno («fronte, occhi, naso e
bocca»): «Ed era la cosa che mi piaceva di più in me e in lui» (SM77, 149) diviene
«Ed era quello che mi piaceva di più in me e in lui» (SR84, 36).
Una volta di più, l’unione di constatazione filologico-testuale e di opportunità
di riflessione critica si dimostra fonte di accertamenti fecondi sul piano dello studio generale degli autori. Si può in tal senso riprendere il concetto, fondamentale,
dell’unitarietà della direzione critica di Bilenchi − nel processo di autorevisione
testuale − secondo il binario di studio seguito da Pautasso nell’edizione de Gli
anni impossibili; sulla base d’una focalizzazione efficace delle coordinate di cronòtopo del mondo bilenchiano («Più che allargare l’orizzonte del suo mondo e
dei suoi personaggi, ha preferito approfondirne la conoscenza»), si procede all’interpretazione dell’opera variantistica del prosatore guadagnando la stessa azione
correttoria al rango di autentica componente della sfera generale della concezione
letteraria, alla considerazione e all’attuazione d’un impegno d’ordine compositivo,
protocollare, da parte dello stesso prosatore, riguardo al proprio lavoro artistico e
al suo stesso genere espressivo77:
Solo che Bilenchi, scrittore di incessante progressione stilistica e approfondimento tematico continuo, finisce anche per dare unità alle proprie prove narrative e i vari frammenti sono come attratti dalla forza aggregante della composizione. Il linguaggio di Bilenchi è secco e ordinato; nessuna effusione traspare
dalla sua scrittura tersa e lineare che ne Gli anni impossibili egli è andato ancora
ripulendo al fine di renderla più essenziale. Sono scomparsi avverbi per far
luogo a locuzioni nominali, variati aggettivi e sostantivi al fine di raggiungere
una maggiore precisione di senso e di immagini. Gli studiosi di varianti hanno
qui pane per i loro denti. La siccità, La miseria, Il gelo restano sostanzialmente
quelli che conosciamo, ma dal punto di vista dello stile Gli anni impossibili è
da considerare testo del tutto nuovo. Però il dato significativo di questa ultima
opera di Bilenchi lo troviamo nel coerente impianto narrativo. Il protagonista
che si muove lungo l’arco dei tre racconti è figura altamente emblematica della
difficile condizione di chi sta maturando alla vita e si trova di fronte a ostacoli e
problemi imprevisti e sconosciuti. Bilenchi è tutt’altro che narratore o cantore
elegiaco del tempo felice e perduto dell’infanzia: egli risale alla radice di quel
momento particolare della vita per farne emergere invece la drammaticità traumatica. Nessuna evasione, ma un calarsi nel profondo dell’esistenza, nelle sue
matrici originarie, laddove l’uomo psicologicamente e moralmente si forma.
77
SERGIO PAUTASSO, dalla copertina dell’edizione Rizzoli 1984.
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Una «figura altamente emblematica», e per questo non metaforica, del processo,
non di rado crudele, di acquisizione della maturità; la metafora, o il suo dispiegamento prolungato, a rigore non appartengono, come ricorda Luperini78, neppure
a determinate sezioni degli stessi racconti (La siccità, La miseria), nonostante si sia
parlato di «metafore ossessive del fascismo e della guerra»: essi sono, piuttosto, «i
segni di una persecuzione anonima e terribile, che esiste da sempre e che è invincibile»; e di «segni storici», ancora, non di metafore, parla Luperini a proposito
de La miseria, racconto che rivela la capacità dell’autore di cogliere tali «segni»
«nella grettezza della piccola borghesia», tanto da permettere di innestare «il piano
esistenziale […] sul piano sociale»: una società che assume narrativamente i connotati di una concreta oppressione, con Kafka e Tozzi a sbarrare la strada a ogni
illusione di recupero delle ragioni ultime.
Il motivo della “crudeltà”, che certo necessiterebbe di ampio studio e di ampia
riflessione, e naturalmente di vaste campionature testuali e concettuali, può già,
senza pretesa alcuna d’esaustività critica, essere segnalato a partire dalla stessa occorrenza lessicale dichiarata del termine, o della sua professa sfera semantica; basti,
qui, per il Bilenchi de La siccità (SR84, p. 16), a conferma dell’indole della sua
prosa, non cifrata sul lirismo memoriale (Caretti parla di “dissimulazione” «sotto
specie memorialistica»), la serie di sentimenti negativi che costituiscono per l’anonima voce narrante di ragazzo la scoperta della crudeltà insita nelle persone e nei
rapporti familiari; una “scoperta” che peraltro rappresenta solo un momento del
flusso scrittorio ed esistenziale, dato il recupero della figura paterna che emergerà
da un finale in realtà tutt’altro che improvviso: «Nell’incubo che aveva finito per
attanagliarmi avevo chiaramente scoperto alcuni dei più orribili sentimenti che
andavano a racchiudersi nel cuore degli uomini e delle donne: indifferenza, disamore, odio, crudeltà»; e poco più sotto, pur placatisi nei toni proprio nel rinforzo
di una fredda avversione, per acquisita risoluzione, per decretata ostilità di progetto, i discorsi dei familiari contro il nonno «non per questo mi sembrarono meno
sleali e crudeli». L’invettiva nei confronti del nonno (ivi, p. 35), a sua volta, segna
un momento di traumatica rottura agli occhi d’un ragazzo che sente rompersi qualcosa dentro di sé all’atto paterno di getto sprezzante dei barattoli appartenuti al
vecchio familiare, e nel contempo pone le basi dello stesso recupero di un padre
con cui l’io narrante ha interiormente sempre vantato, senza che ancora questo decisivo legame gli fosse chiaro, la forte, reciproca somiglianza fisica: «Con profondo
78
ROMANO LUPERINI, Profilo di Bilenchi, in «L’Era», II (1977), 1, (poi, con varianti, in ID.,
L’ambiente fiorentino e toscano: Landolfi, Bilenchi e altri, capitolo di ROMANO LUPERINI-EDUARDO
MELFI, Neorealismo, neodecadentismo, avanguardie, Roma-Bari, Laterza, 1981 [I ed., 1980], pp.
43-54; poi, ancora con varianti, in ID., La Toscana e l’Europa: Bilenchi e altri narratori toscani tra
realismo e intimismo esistenziale, capitolo di ROMANO LUPERINI, Il Novecento. Apparati ideologici,
ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, II, Torino, Loescher,
1981, pp. 531-541).
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rincrescimento avvertivo la perfidia di mio padre. Ma perché era tanto crudele,
tanto caparbio?» (SR84, 35). È proprio qui che si può iniziare a verificare un’altra
importante differenza tra il mondo pratoliniano e quello dello scrittore di Colle
di Val d’Elsa; quest’ultimo, autore a sua volta di «racconti crudeli», può iscrivere
all’ordine della “crudeltà” la levigata cristallinità d’una prosa acquisita − anche in
chiave dinamica, per mezzo delle varianti − a una coesione da lingotto basaltico,
mai incrinato, secondo il citato passo di Mario Alicata, «da una distrazione verso
un particolare insignificante o da una generica suggestione psicologica». La «naturalezza cauta e schietta, avara d’ogni qualifica, d’ogni commento estraneo alla
necessità stessa dei fatti, sorda alle loro risonanze melodrammatiche»79, carattere
precipuo dello scrivere bilenchiano, ha il proprio riflesso nei personaggi, poiché
anche le loro azioni e i loro dialoghi (si parla qui di tutta la prosa bilenchiana), la
loro secca, necessaria, insieme misteriosa e indiscutibile epifania partecipano in
pieno, spesso densi di vibrazione emblematica, allo stesso progetto scrittorio-compositivo, alla stessa meditatissima, ma infine risolta, ideazione architettonica. In
Pratolini, invece − si allude allo scrittore “allegorico” −, la crudeltà può assumere,
certo, una varietà di forme e di declinazioni, di impostazioni strategiche e di singole, e talvolta mere ricadute “tattiche” nell’economia della narrazione; ma il dato
testuale non segnala come estemporanea o peregrina la prevalenza, nella “crudeltà” narrativa di Vasco, d’un motivo in tal senso autodenegante, d’un connaturato
vettore di negazione dello stesso principio di crudeltà, un principio di rimozione,
di induzione all’“assenza”, all’avulsione traumatica della causa della ferita, all’archiviazione d’un’insistente eziologia patologica che pure risorge in modalità ripetute e imprevedibili, come le patologie insidiose, e che ritorna a bussare alla mente
e al cuore sia sul piano storico, sia sul piano esistenziale: perché per Pratolini è sì
necessario studiare a fondo, spesso con operazione umana e biografica penosa, le
cause che tormentano il teatro della mente, ma ugualmente necessario si configura
il superamento di tale studio, proprio perché esso può rischiare di isterilirsi in
una pura fonte di sorda sofferenza, etica e artistica. Nello scrittore fiorentino la
“crudeltà”, quanto meno sul piano della fenomenologia estetica fruibile, del vero
canale comunicativo con il lettore di qualunque livello, esiste eccome, e si accampa
in molti passaggi come elemento importante, ma reca appunto, nella maggior parte
dei casi (inclusi i Bildungsroman), il segno negativo, il segno “meno”, e veicola, se
non altro, la dolorosa sensibilità di un possibilismo a ritroso, d’un’ipotesi à rebours
di diverso svolgimento delle cose, fra errori, ripensamenti, riprese da diversa angolazione, sofferenze. Come, certo in diversissimo contesto, lo Iacopo del Cassero
dantesco: «ma li profondi fóri / ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea, / fatti mi
fuoro in grembo a li Antenori, / là dov’io più sicuro esser credea […]. / Ma s’io
fosse fuggito inver’ la Mira / quando fu’ sovragiunto ad Orïaco, / ancor sarei di
79
ALICATA, La siccità, cit. (ripreso in NICOLETTI, Introduzione, cit., p. XVII).
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là dove si spira»; non avrei commesso quell’errore, e ancora sarei là, fra i viventi,
senza aver dovuto assistere alla mia sanguinosa fine; Iacopo è, in quella Stimmung
purgatoriale, il primo grado − in ascesa − della purificazione, e, come le anime che
non hanno fatto compiuta luce sul proprio passato e sui relativi eventi, è ancora intricato e avviluppato nelle alternative della storia e delle passionalità terrene, in un
movimento d’irrisolta ansia, di angustia non superata, di ancora urgente premura;
altri gradi di affrancamento mostreranno Bonconte − «io fui da Montefeltro, io
son Bonconte» (dai titoli nobiliari al puro e personale e semplice nome) − e la Pia,
per la quale la storia, e la relativa “verità”, sono ormai lontano e remoto ricordo, di
cui nulla può più importare, diafana vicenda lasciata con indimenticabile sorriso
all’indifferenza ricostruttiva: «salsi colui che…» [lo sa bene se è vero colui che…].
La “crudeltà” in Pratolini, insomma, può configurarsi, e porsi, quale tappa
di tragitto formativo, quale laica stazione di passaggio del pensiero e della stessa
memoria, quale fattore dinamico d’una serie di “ripartenze” della riflessione («Ma
s’io fosse fuggito inver’ la Mira…»); purché si tenga per fermo che “dinamico”, o
componente d’elaborazione in fieri, è termine che non significa affatto il concetto di
“neutro”, e che non implica affatto una connotazione di “neutralità”; sebbene essa
sia disponibile, più di quanto accada in Bilenchi, all’enunciazione dell’incertezza,
della molteplicità delle vie e dei generi narrativi, delle situazioni e delle “voci”, dei
personaggi e degli intrecci romanzeschi, la crudeltà non si qualifica per questo, appunto, come processo neutro, ma assume pur sempre in Vasco il fondamentale segno
del negativo, della lemmatizzazione della perdita, della smentita, indiretta o persino
frontale, anche quando essa ammetta un recupero, anche quando essa schiuda nuove
possibilità di riflessione (si pensi alla vicenda di Gino nel Quartiere e alle discussioni
che si effettuano e che si annodano presso gli abitanti-condomini), anche quando
essa sia il prezzo da pagare per la maturazione da toscano Bildungsroman − del ragazzo verso l’uomo, oppure dell’uomo non compiutamente maturo, o addirittura illuso,
verso l’uomo più maturo, e comunque disincantato −. Essa conserva i caratteri dell’“ordalia”. E non vi è distacco di scrittura, non vi è rinuncia al coinvolgimento, non
vi è astensiva imperturbabilità di espressione da parte dei vari segmenti della prosa
pratoliniana, che sia in grado, o meglio che si proponga di scansare la connotazione
di negatività all’emergenza del dato, o del contesto, di crudeltà. Considerata nel suo
complesso, nel “quadro grande” della produzione letteraria, la prosa di Pratolini
appare dominata da una pluralità di componenti (dei quali la crudeltà è non più
che un elemento); e tale prosa di raconteur o di romanziere non appare cifrata in
modo sormontante dalla crudeltà ma, piuttosto, essa appare sostenuta da nervature
più aperte alla speranza e al concetto di mutamento e di finalità, di percorso, di pur
sofferto e amaro itinerario − e sia pure con i corollari o con i rischi di una possibile,
ricorrente taccia critica di “ingenuità”; l’operazione di Pratolini, la sua scaturigine
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creativa, consiste nell’«investigare l’investigabile, in amore e in politica»80. In Bilenchi la “crudeltà” può invece assumere un segno − impossibile, nel suo uniforme
flusso scrittorio, definirlo come una singola “polarità” − tale da appartenere anche al
linguaggio affermativo, a una regia testuale e contestuale che legittimi un’emissione
asseverativa di tale “crudeltà”. Crudeltà “scrittoria” vera, per intendersi. Crudeltà
affabulatoria, oltre che di azioni e di personaggi. Anche se non si parla, certo, di
emissione affermativa “risoluta”.
4.7 Il collasso della memoria. Dal “fascismo di sinistra” al comunismo
La «tensione conoscitiva di Pratolini […] è anche riscatto morale, oltre che
addestramento all’arte del racconto: la ricerca sul passato per archiviarne il dolore
e ricavarne luce»; e «la crudeltà, forse necessaria», di retrocedere in una preistoria
una serie di personaggi in Allegoria e derisione81, ritrova un suo precedente in questa affermazione, sempre nel romanzo: «Bisogna soffocarli tutti, questi superstiti e
minuscoli Atridi, con le loro stesse fumate». Quindi la forza dolorosa, ma convinta,
di questo superamento; e davvero si tratta d’operazione nient’affatto indolore, se la
rimozione di antichi «Rami secchi e recisi» provoca anche conseguenze artistiche,
conseguenze che, insomma, si pongono sul piano della stessa poetica82:
Mi trattiene un timore quasi fisico, come se il calamaio la carta la penna,
fossero ordigni collegati a una miccia che fa capo alla memoria. Prima e dopo
l’Africa tentai due accensioni, ne resultarono degli scartafacci che Vieri è il
solo a conoscere siccome entrambe le volte glieli affidai. Gloria, Sara, Nonna
Celeste, sono circostanze lontane. Rami secchi e recisi riverberati dal sole
spento di mia madre. Dei loro drammi che mi ebbero a protagonista, mi sento adesso semplice testimone, non so più quanto attendibile. Il mio egoismo
probabilmente, la mia forza naturale, le ha, se non cancellate, relegate in una
preistoria che quando riaffiora, invece di sostentarmi mi appesantisce. Se
qualcosa sussiste, questo qualcosa io lo rifiuto. Via le ombre!
Se la memoria collassa sotto il carico di rami un tempo vividi di ricordo, di
rimpianto, di rivisitazione, poi rami avvizziti nella stessa loro evocazione lirica,
sarà la poesia − in Allegoria e derisione − a intervenire, a enunciare, in mancanza di
spiegazioni ultime, la difficoltà di attingere le ragioni delle cose; e il nume tutelare
− non vi è quasi bisogno di dirlo − è Montale, il nuovo e profondo riferimento di
poetica, in un ruolo che avevano in precedenza presso Vasco rivestito Campana e,
BIONDI, Pratolini, cit., p. 178.
Ivi, p. 171.
82
PRATOLINI, Allegoria e derisione, cit., p. 207 ed. MEMMO, Mondadori; ed. BIONDI, BUR: p.
185. Si tratta del brano iniziale (Parte prima, appunto), di Roma, 10 giugno 1940.
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in séguito, Ungaretti: «ci assistono i versi dei Poeti miei coetanei. La verità ch’essi
esprimono non è soltanto lirica ma civile, segretamente esplosiva»83. «Pratolini cominciava a essere, quasi suo malgrado, uno scrittore del segreto, della cosa che non
si poteva dire nella maniera tradizionale della memoria e della scrittura. L’ombra
stilistica dell’ermetismo tornava a coprire i tempi della ricognizione su un passato che con quella poetica effettivamente coincideva»84, mentre la più autentica
crudeltà si ha nel nucleo romanzesco di Gloria, sempre all’interno di Allegoria e
derisione, in una vicenda spietata nei riguardi dell’antico amore di Pratolini, di
una ragazza destinata a una fine precoce, data l’impossibilità, per lei, di affrancarsi
dalla propria sorte, e qui come altrove figura femminile insistentemente cercata
con accenti di vero amore e di rievocazione di innocenza («noi poveri, noi giovani, noi casti, ci amavamo»), ma convocata dalle ombre, anche lei, a sutura d’una
ferita di lungo decorso: «Sì che in queste pagine vige un determinismo spietato,
che nella poetica sociale dello scrittore non conoscevamo così crudele (questa, sì,
è crudeltà), ché qui non c’è discorso, né politica, né ideologia, che possano variare
il destino, stornare la sua caduta. La crudeltà è nella impossibilità di una vita di
essere diversa, di salvarsi»85.
Rimane agli atti, al di là delle differenze − spesso acuminate − fra i due scrittori, Pratolini e Bilenchi, la partecipazione, la condivisione vitale di alcuni tratti del
fascismo, poi rivisti e meditati in entrambi i casi a partire da un’ideologia opposta
e, per ciascuno, da un diverso grado e da una diversa qualità di reazione, da una diversa tempistica d’affrancamento dall’inganno populistico-giovanilista perpetrato,
soprattutto nei primi anni, dal regime; perché se, per Bilenchi, Caretti può fondatamente parlare di «generosa accidia» (ma non mutano i termini dell’adesione di
Romano al fascismo), per Vasco risulta innegabile una primitiva condivisione del
regime stesso, e del suo capo, nel senso di un giovanilismo antiborghese, antiliberale, e antidemocratico, e nel senso d’un’illusione rivoluzionaria, che avrebbero
in séguito incontrato nella sua prosa anche determinate connotazioni proprie del
grottesco, e addirittura del tragicomico. Dalla collaborazione al «Bargello» (nel
quale esce pure, nel ’35, una recensione di Pratolini al Capofabbrica «dell’allora camerata Bilenchi»)86 all’attraversamento pieno, e si potrebbe dire significati-
Ivi, p. 208 (ed. BIONDI, BUR: p. 186).
BIONDI, Pratolini, cit., p. 172.
85
Ivi, p. 179.
86
Ivi, p. 47. Si fruisca di una breve rassegna di pronunce scritte, di Bilenchi e di Pratolini (cfr.
anche CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit., pp. 286-288); il primo, in
«L’Universale» del 10 maggio 1931, scrive infatti: «Mussolini […] unica presenza in cui credere,
unica persona per la quale ci si possa fare ammazzare»; in «Il Selvaggio» del 15 ottobre 1931
pubblica l’articolo Giovani della prima ora, e sempre nella stessa rivista, nel numero del 30 ottobre,
scrive una commemorazione della marcia su Roma, 28 ottobre 1922, nella quale tiene a render noto
che la sua iscrizione al fascio è anteriore a quella data, e si rammarica della mancata partecipazione
alla marcia, a causa dell’età giovanile, insieme ai fascisti di un paese vicino, in camicia nera e armati;
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vo quant’altri mai, della fase e della categoria storica (solo in séguito divenuta
“storiografica”) costituite dal “fascismo di sinistra”, dal popolarismo ideologico,
dal popolarismo propriamente fascista; e come Pratolini e Bilenchi, variamente,
Pasolini, Fortini, Calvino, «una vasta fetta di intellettualità d’epoca postbellica,
condizionata da una volontà di catarsi antifascista, educata da un comunismo non
ancora fallito alla speranza e all’azione di riscatto sociale»87. E rimane un fascismo,
in «Il Bargello» del 28 febbraio 1932 ricorda, schierato con i repressori squadristi, La morte del
“topo” (un sovversivo del suo paese); nel 1933, in Cronaca dell’Italia meschina ovvero storia dei
socialisti di Colle, ancora Bilenchi scrive: «Coetanei questa è la storia d’Italia d’ieri. Giuriamo di
odiare ogni democrazia […]. Con tutte le nostre forze […] bisogna essere fascisti nel senso vero
della parola, che per noi deve significare forza innovatrice, distruzione di ogni idea passata, di
ogni civiltà in decadenza, di ogni religione inutile […]. Non crediamo alle rivoluzioni che non
danno morti e che non seppelliscono il passato». Il secondo, Vasco Pratolini, oltre a un tentativo
di scenografia nella Traccia per un grande film fascista («Il Bargello», 4 marzo 1934), così si esprime
nella commemorazione di Donatello Bechini, «fondatore del fascio diversivo e partecipante alla
Marcia su Roma» («ivi», 2 dicembre 1934): «Oggi io giovane fascista ho reso omaggio a questo
ignoto Caduto paesano − rispondendo presente per lui − impegnandomi col suo esempio a servire
il Duce e la Patria con fede e modestia fino alla morte». E ancora («ivi», gennaio 1935): «la consegna
consiste nell’aderire spiritualmente e fisicamente sempre di più a “quest’epoca nella quale bisogna
sentire l’orgoglio di vivere e di combattere”, nell’epoca in cui un popolo misura al metro delle
forze ostili la sua capacità di resistenza e di vittoria»; e, nel dicembre dello stesso anno («ivi»),
Pratolini scrive: «il nostro compito è di collaborare all’opera del Capo. Le nuove generazioni
per la trafila delle organizzazioni sono la “certezza del domani”, ma la forza del presente sono i
milioni di un popolo giovane e adulto che conquista l’impero coloniale e dovrà trovarsi attrezzato
nelle soste dell’armi ad intendere a fondo, e per la sua stessa elezione intellettuale, la bellezza e
la potenza dell’ideale e della conquista mussoliniana. Questo, per noi, non è rettorica, ma sicurtà
di un avvenire immediato, essendo persuasi dell’intelligenza del popolo italiano e dell’ingegno
dei giovani letterati ed artisti oggi, come tutti, in grigioverde perchè oggi più della penna vale il
fucile». Nel marzo 1936, all’epoca dell’impresa africana, Pratolini parla ancora dell’«unica utilità
e grandezza del combattimento e della vittoria»; ed essendo rimasto in Italia per malattia, egli
ricorda che «per rendersi degni dei camerati combattenti» bisogna «accompagnare le gesta eroiche
dell’azione con un cosciente perseguimento della “giustizia sociale” per il popolo italiano».
87
Ivi, p. 43; imprescindibili, per questi studi, i lavori di PAOLO BUCHIGNANI, La rivoluzione in
camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Milano, Mondadori, 2006, e di LUCA LA ROVERE: Storia
dei GUF. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Prefazione
di BRUNO BONGIOVANNI, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 e L’eredità del fascismo. Gli intellettuali,
i giovani e la transizione al post-fascismo 1943-1948, ivi, 2008. Ma cfr., prima ancora, GIORGIO
LUTI, Bilenchi: le riviste e i caffè letterari, in Bilenchi per noi. Atti del Convegno di Studi, Firenze,
Palazzo Medici-Riccardi, 23-24 maggio 1991 − Colle di Val d’Elsa, Teatro dei Varii, 25 maggio
1991, Firenze, Vallecchi, 1992, pp. 33-44; Luti, che concentra l’attenzione sull’attività bilenchiana
nelle riviste e nei giornali, suddivide in tre fasi l’evoluzione dello scrittore; la prima, quella più
propriamente assegnabile al “fascismo di sinistra” (1931-1937), comprende la collaborazione a «Il
Selvaggio», a «Il Bargello», a «L’Universale», a «Critica fascista»; la seconda (che dura all’incirca
sino al 1940) si distanzia dall’area strapaesana e si avvicina a uno spazio culturale postsolariano,
e comprende la collaborazione con «Circoli», con «Letteratura», con «Campo di Marte», con «Il
Primato»; la terza fase, ormai coeva alla guerra e alla Resistenza, comprende la collaborazione a
testate giornalistiche quali La «Nazione del Popolo» e «Il Nuovo Corriere», e a periodici quali
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quello pratoliniano, «fondato, oltre che su una porzione di culto prettamente mussoliniano, fascismo ad personam (che condivideva con gli altri giovani fascisti della
sua generazione, e con Bilenchi), su un corporativismo proletario tutore del popolo e dei suoi diritti di riscatto sociale […], e su un’endiadi, quella di una radice
popolare (strapaesana in questo senso) e di un afflato di universalismo (Berto Ricci
«Società» e «Il Contemporaneo»; i «caffè letterari» cui si riferisce lo studio di Luti sono, in
corrispondenza con le varie fasi, il Pazskowski, Le Giubbe Rosse e il Caffè San Marco, il Caffè
di Via della Vigna Nuova. Cfr. anche ANNA NOZZOLI, Su Bilenchi e Il Bargello, in Per Romano
Bilenchi, a cura di BAGNOLI et al., cit., pp. 69-89. Si rammenti, ancora, che Bilenchi, in Vittorini
a Firenze (Amici, cit., pp. 112-160; qui, pp. 122-123), attesta che Elio (spesso «Abulfeda» nello
pseudonimo su periodico; cfr., qui sopra, nota 60 al II capitolo), insieme allo stesso Romano
e a Vasco Pratolini (spesso, quest’ultimo, con gli pseudonimi di «Juvenilis» o di «Kinopa»)
nel frattempo da loro conosciuto, trepidano per “i rossi” allo scoppio della guerra in Spagna,
azzardano pronunce antifranchiste, parlano di tale guerra «furiosamente tutti i giorni», con «il
pensiero di Elio» che «andava a Rosa Luxemburg, a Karl Liebknecht, a Lenin»: «Allora più che
mai ci apparve chiaro che l’unica guerra che meritasse di essere combattuta era quella civile».
Viene formulato anche un piano per l’espatrio con lo scopo di andare a combattere a fianco dei
repubblicani spagnoli, piano a cui poi si rinuncia. Bilenchi, pur nella condivisione dell’odio per
Franco, adduce come causa della sua perplessità la mancanza di qualunque appoggio, e anzi, per
i tre amici intellettuali, la mancanza di uno stesso “riconoscimento d’identità antifascista” che
avrebbe difficilmente potuto essere spiegato agli eventuali compagni di lotta in Spagna: «Non
appartenevamo a nessuna organizzazione antifascista, non avevamo a chi appoggiarci; una volta in
Spagna, difficile sarebbe stato spiegare il nostro travaglio, come eravamo approdati a certi ideali»
(p. 122). E proprio allora i tre amici, «ormai inseparabili», cominciano a leggere Le lotte di classe
in Francia e altri scritti di Marx, mentre un amico di Bilenchi, giornalista, gli porta da Parigi
«i quattordici volumi del Capitale nella traduzione di Molitor e Rivoluzione e controrivoluzione
in Germania» (p. 123). Le lotte di classe in Francia e gli altri scritti di Marx se li era procurati
segretamente Vittorini dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, della quale era allora direttrice Anita
Mondolfo, oltre che complice, probabile compagna ideale di questo clandestino movimento di
libri, direttrice poi epurata a causa delle leggi razziali. Seguiranno le dimissioni di Vittorini dal
partito fascista (ma nell’ottobre 1942 non altri che Vittorini sarà il rappresentante dell’Italia di
Mussolini al congresso degli scrittori europei a Weimar, organizzato dal dottor Goebbels); nel
racconto di Bilenchi i tre intellettuali hanno all’epoca già acquisito la connotazione ideologica di
stalinisti e di filo-bolscevichi. Ma rimane pur sempre coeva l’attività di partecipazione di Pratolini
al «Bargello», in cui, il 3 febbraio 1937, il futuro autore di Metello scrive: «Noi fascisti abbiamo
la responsabilità di portare a fondo la rivoluzione sociale del fascismo»; segue, nel dicembre
1939, l’ingresso di Pratolini nell’OVRA. Sembra che in tal senso l’istigatore di Pratolini sia stato
il pittore Bruno Bècchi, Vieri Mangani in Allegoria e derisione (cfr. PARRONCHI, Lettere a Vasco,
cit., p. 60); Bècchi non sarà in séguito oggetto d’alcun rancore da parte d’un Pratolini che gli
dedica, rispettivamente nel 1943 e nel 1944, Le amiche e Il quartiere, e della cui salute in Libia,
durante la Seconda guerra mondiale, lo scrittore ripetutamente si occupa, in lettere ad Alessandro
Parronchi e ad Attilio Vallecchi (cfr. le lettere a Sandro, da Roma, del 14 novembre 1940, del 29
gennaio 1941, del 27 luglio 1942, in PRATOLINI, Lettere a Sandro, cit., pp. 34, 38 e 90, e la lettera a
Vallecchi del 28 marzo 1943 [pubblicata in «Il Portolano», luglio-dicembre 2013, p. 14]; e si veda,
in particolare sulla lettera a Vallecchi, CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944,
cit., pp. 319-320, e p. 347, n. 154).
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e il suo «Universale»), come termini congiunti dell’etica dell’arte fascista»88; questi
argomenti, questi elementi formativi entrano nella citata recensione nel «Bargello»
al Capofabbrica. Né può stupire se Bilenchi risulta l’autore «più omaggiato», come
dimostrano anche le lettere a Romano da parte di Vasco (1935-1972), fra le quali
particolarmente significative quelle del 26 maggio 1941 («Tu sei il migliore di tutti»,
dopo una serie di elogi a La siccità − «il tuo racconto “perfetto”» − e a La miseria,
avvertito ancora più vicino alla sensibilità del lettore Vasco) e del 4 luglio dello stesso
anno, nella quale si apre uno scenario, una rete di collegamenti e di amicizie fra alcuni dei protagonisti del Novecento artistico italiano (vi compaiono − oltre allo stesso
Bilenchi − Ottone Rosai, Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi)89.
Riferendoci in particolare a Pratolini, si potrebbe dire, su una base non certo
sguarnita di dati riguardo alla sua militanza nel ventennio, che lo scrittore è divenuto
antifascista − ha maturato, insomma, l’adesione alla nuova ideologia − accompagnato dal viatico più coerente e più costante della sua vicenda ideologica, costituito
dall’antiborghesismo e dall’antiliberalismo, da una voglia e da un’illusione rivoluzionaria, che gli hanno nel tempo fatto cercare un’altra e ben diversa rivoluzione,
addirittura opposta nei fondamenti e nei fini. Pratolini antifascista proprio perché
prima fascista, perché del fascismo egli ha sperimentato dall’interno tutta la seduzione populistica e, altresì, la realtà della dittatura, l’inganno, gli aspetti tragigrotteschi,
le fatuità da regime soffocante, arrogante, e in ultimo drammaticamente decotto. E il
fascismo è rimasto il tarlo, o peggio il pungolo mentale costante, ineliminabile, della
carriera di Pratolini scrittore e di Pratolini uomo, davanti al tribunale della storia, davanti al tribunale della giustizia e davanti al tribunale di se stesso. Tra fascismo e antifascismo si è svolta, non certo unica, ma in ogni modo determinante, gran parte della
tormentata ricerca scrittoria e del tormentato autoesame dell’autore di Cronache di
poveri amanti. La vicenda di Pratolini è assimilabile − e il rilievo è assai amaro − a
quella di molti italiani, non solo in quanto fascisti “prima”, ma anche e soprattutto in
quanto antifascisti “dopo”, o comunque antifascisti tardivi (esposti anch’essi, eccome, a suo tempo, e lo si sottolinei al massimo grado possibile, a terribili pericoli). Ma
rimane da rilevare, ancora, la serie di ragioni, e ragioni profonde, non certo accessorie, avventizie o fortuite, non superfetate e non affatto succedanee, dell’accoglienza
Cfr. BIONDI, Pratolini, cit., p. 47. E cfr., pure, PAOLO BUCHIGNANI, Il sodalizio con Berto
Ricci, in Bilenchi per noi, a cura di BAGNOLI et al., cit., pp. 55-83. Il contatto con l’opera di Federigo
Tozzi, ad esempio, è favorito proprio dalla conoscenza del fondatore de «L’Universale», appunto
quel Berto Ricci che sul «Bargello» contesta le fruizioni “selvagge”, strapaesane, d’un Tozzi che
non è caratterizzato da “sanità” nell’accezione banale del termine, ma che è anzi «“inquieto,
agitato, amaro, raffinatissimo a modo suo”» (cfr. BUCHIGNANI, Il sodalizio con Berto Ricci, cit.,
p. 64). Le prove narrative bilenchiane più vicine a Tozzi non a caso escono su «L’Universale».
Cfr. anche PAOLO BUCHIGNANI, Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del
Ventennio, Bologna, Il Mulino («Biblioteca storica»), 1994.
89
Cfr. VASCO PRATOLINI, La lunga attesa. Lettere a Romano Bilenchi (1935-1972), a cura di
PAOLA MAZZUCCHELLI, Milano, Bompiani, 1989, rispettivamente lettere VII e VIII.
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azzerante, aggelante, silenziatrice che la critica ha in grande prevalenza riservato al
tardo Pratolini. Da una notevole parte della cultura, e da una notevole parte della
militanza politica italiana, soprattutto se approdate per fortuna dell’Italia su sponde
opposte, sarebbe in realtà stato lecito attendersi, nelle modalità a ciascuno peculiari,
un proprio Allegoria e derisione90; si potrebbe anzi asserire che molta cultura, e mol-
Si possono ricordare gli stralci di testi anticipati da Dario Borso, docente della Statale
di Milano, su Eugenio Scalfari (figura molto importante − e tale destinata a rimanere, a scanso
di qualunque fraintendimento − delle battaglie culturali e politiche della sinistra, nel nostro
dopoguerra) e sugli inizi della collaborazione giornalistica di quest’ultimo al fascismo, che
risalirebbero, per pronuncia autotestimoniale, alla seconda metà del 1942 sulle pagine di «Roma
fascista»; gli inizi appaiono invece retrodatabili almeno al febbraio dello stesso 1942, con la
collaborazione del futuro direttore di Repubblica a «Gioventù italica» e a «Conquiste d’Impero»;
e dalle risposte di Italo Calvino (cfr. ITALO CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di LUCA BARANELLI,
Milano, Mondadori, 2000) si evince che si è trattato di adesione espressa in modalità entusiastiche
(cfr. lettere del 12 febbraio, del 1 e del 7 marzo, del 21 e del 29 aprile, del 21 maggio, del 10 e del
21 giugno 1942); si veda a questo proposito DARIO BORSO, Eugenio Scalfari e il vivaio giovanile
fascista, in MicroMega online, aprile 2017, http://temi.repubblica.it/micromega-online/eugenioscalfari-e-il-vivaio-giovanile-fascista. Il brano introduttivo di Paolo Flores D’Arcais rammenta
la necessità dell’ammissione degli errori, soprattutto a beneficio delle future gerazioni: «Dario
Borso è riuscito a ritrovare quegli articoli di difficilissima reperibilità, e ne pubblica qui gli
stralci più importanti – che certamente arricchiscono la conoscenza della formazione fascista di
tante personalità che avrebbero poi avuto ruoli preminenti nella vita civile e politica dell’Italia
democratica – ripromettendosi di ritornarvi nel corso della sua più ampia ricerca, perché passare
per tale formazione, riviste, Guf, Littoriali, per molti fu strada quasi “naturale”. Come Borso
mi ha scritto nel biglietto di accompagnamento di questa scoperta storico-giornalistica: “Quello
che mi premerebbe passasse come messaggio, è che tutti sbagliamo, soprattutto in gioventù,
ma la maturità dell’adulto, per non dire dell’anziano, sta nell’ammettere i propri errori, e non
per se stesso, ma per le generazioni a venire (altrimenti a tramandarsi è la finzione […])”». Si
veda il brano intitolato «Spiritualizzare la corporazione», nel numero di giugno 1942 di Conquiste
d’Impero, mensile diretto da Corrado Petrone, docente di Storia e Principi del Diritto Fascista alla
Sapienza. Dopo un’apertura del direttore, Eugenio Scalfari scrive: «L’ordinamento corporativo,
base della politica e del programma del Fascismo, è una di quelle creazioni che, conquistate da
una Rivoluzione Vittoriosa, sono destinate poi a rimanere eterno retaggio della società umana
quali principi indistruttibili acquisiti sulla via del progresso […]. La sintesi corporativa interessa
ed investe in pieno i rapporti tra l’individuo e lo Stato e pone improrogabilmente il problema
del regolamento di tali rapporti, regolamento che si applica seguendo due principali direttrici
vettoriali: responsabilità-gerarchia. Lo Stato moderno, non fosse altro che per ragioni pratiche,
deve essere essenzialmente gerarchico e aristocratico, e in esso l’individuo deve sentirsi intimamente
responsabile dell’incarico che gli compete. La civiltà illuministico-liberale deriva l’esistenza dello
Stato da un’origine contrattualistica tra singoli e perciò artificiale, e pone l’eguaglianza alla base
della società come identità di concessione di libertà che Ognuno fa a Tutti. […] Noi aborriamo
da una società tutta allo stesso livello, composta di grandi steli d’erba e di piccole querce; noi
vogliamo un’eguaglianza più nobile, quella che purifica tutti davanti alla vita e al lavoro, che rende
degni e meritevoli di rispetto il manovale e il filosofo, l’industriale e il poeta. […] Per raggiungere
tale risultato non basta auspicarlo: è anzitutto necessario combattere e credere. Il mondo moderno
è assetato di fede più che di tutto, di una fede che, dopo tanto scettico relativismo esistenzialistico,
rappresenti alfine un punto fermo per ridare all’uomo un metro assoluto per disceverare il bene e
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ta militanza politica italiana di acquisito antifascismo (anche comprese le scansioni
generazionali che tale retaggio di acquisizione raccolgono), deve ancora scrivere il
proprio Allegoria e derisione: s’intende, scriverlo storicamente, studiarlo e illustrarlo
nelle eredità, nelle figure, nella pelle dei padri. Non a caso, quest’opera di Pratolini
è stata occultata e criptata come testo, in prima giustificazione perché reputata difficile, perché fruita come non immediatamente perspicua, ma in realtà proprio perché
scottante, scomoda, intellettualmente coraggiosa anche nell’allusione e persino nella
denuncia di motivazioni e di scelte davvero non nobili; è proprio qui − esattamente
nel “non nobile”, intendiamo − che la testimonianza in sé, innanzi tutto, ma anche lo
scavo crudo e crudele − nella descrizione e nel racconto delle vicende, nei movimenti
e nei rapporti bilaterali e collettivi fra i personaggi, nell’atto di ricreazione contestuale d’un’intera epoca storica − assume tanto maggior valore; e assume, altresì, tanta
più pregnanza e tanta più originale singolarità e peculiarità; ma proprio in questo
essa si prospetta come estendibile ad altre esperienze e ad altre biografie, e ad altrettante potenziali autobiografie o scritture a sfondo autobiografico.
4.8 Amore di donna. Il galateo di San Frediano
Sulla serie di terribili equivoci, sulla frastornante chimica di reazioni di doppio
scambio fra mitografie e idoli polemici enfatizzati e poi decotti a carissimo prezzo
umano e storico − tra memoria, scavo d’intelligenza e travagliata ricostruzione −, e
fra i quali Pratolini ha il coraggio e l’animo di dibattersi, e in parte di districarsi, può
forse qui risultare sufficiente un brano di Allegoria e derisione, una riproduzione di
battute fra il personaggio di Carlini e quello di Marsili, quasi a chiusura del circolo
del presente volume, iniziato nel segno di Serra, dei dialoghi, dei testi, delle discussioni drammatiche sulle guerre, e in particolare sull’altra guerra mondiale, la Prima91:
il male, per premiare il bene e per punire il male. La battaglia spirituale è già stata iniziata, grazie
all’opera e alle direttive precise del DUCE, fin dai primi anni del Fascismo. A noi spetta il condurla
a compimento». Questa la significativa conclusione redazionale in MicroMega: «Il 23 settembre
Scalfari, che nel frattempo aveva sfornato una nutrita serie di articoli per Roma Fascista, annunciò a
Calvino di esserne divenuto redattore-capo. Lo fu per un trimestre, rimanendo nondimeno fascista
fino al 24 luglio 1943 quale collaboratore fisso di Nuovo Occidente, il mensile ultramussoliniano
di Giuseppe Attilio Fanelli». Né la Toscana è da meno. A proposito del cospicuo capitolo storico
costituito dal fascismo di àmbito fiorentino, si ricordi il citato CRESTI, Firenze, da nazionalista a
«fascistissima» 1903-1944, cit., passim (ma si veda, in particolare, il capitolo che si intitola Il fascismo
di Ottone Rosai. Eccessi di aggressività verbale, di esternazioni fasciste, e poetiche espressioni grafiche
e pittoriche, pp. 105-188); notevole il concetto espresso da Arturo Carlo Jemolo, riportato nel
volume di Cresti a p. 347, n. 150: «[Firenze] ha dato all’Italia sia il peggiore fascismo che il peggiore
antifascismo». Per altre esperienze ancora, cfr., recentemente, ADA FICHERA, Luigi Pirandello. Una
biografia politica, Prefazione di MARCELLO VENEZIANI, Firenze, Pagliai Polistampa, 2017.
91
PRATOLINI, Allegoria e derisione, cit., pp. 209-210 ed. MEMMO; p. 188 ed. BIONDI.
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«Ti rammenti quando si leggeva, sarà capitato anche a te, del “dantino” che
Giosuè Borsi portava sul cuore, come Serra e come Slataper?» / Con questi
simboli di letterati-eroi della Grande Guerra 1915-1918 eravamo andati a
combattere la nostra. Loro la neve dell’Adamello del Grappa del San Michele, le pietraie del Carso, le acque dell’Isonzo del Piave del Tagliamento del
Timavo, l’aquila degli Asburgo; noi il leone di Giuda, il Mareb, il freddo e il
sole del Tigré. Loro, coi loro ideali nazionalisti, un lembo di terra e piccole
minoranze da liberare, riuscivano a sentirsi paladini di civiltà. Mentre noi,
coscienti di un’apertura universale, combattevamo su due fronti: contro il
nemico che difendeva la propria barbarie, e contro la barbarie di chi ci comandava, le strozzature dicevamo, che riducevano a zero il valore delle idee. /
«Abbiamo sbagliato epoca». / «E cultura, e storia».
Risulterebbe, insomma, inutile, e controproducente per gli stessi studi sull’autore,
tendere a negare − in quella che davvero si pone come un’emblematica “Storia italiana” di cambi di fronte, di adesioni, dapprima convinte e irruenti, e poi smentite, denegate e addirittura capovolte − l’adesione di Pratolini al regime fascista; così come
sarebbe tutt’altro che equanime insistere soltanto sulla vicenda di Pratolini durante il
ventennio, mettendo eccessivamente in ombra una militanza comunista che ben può
considerarsi fra le più “esposte” nell’àmbito degli scrittori che hanno segnato alcune
tappe importanti della narrativa italiana del dopoguerra. Ma è lo stesso “scrittore
che paga per tutti” (è questo il decisivo, determinante asse di rotazione) a reclamare
con insistenza, con acuminata recrudescenza, con corrosione di tarlo ineliminabile, il
necessario confronto con il fascismo, a reclamare l’esigenza impietosa di fare i conti
con i significati del proprio passato, a reclamare, altresì, l’affabulazione dei propri
tormenti di oggettiva e protratta autoconfutazione ideologica e insieme di costante
soggettiva sincerità nelle varie declinazioni dei frangenti storici, amorosi, amicali; si
tratta della profonda onestà intellettuale e artistica d’una prosa conativamente protesa al chiarimento con se stessi, con i propri contesti umani e con i lettori, e si tratta
altresì della probità d’un bisogno di ordalia à rebours, con le sue contraddizioni e
con quei suoi andirivieni d’inevitabile allure desultoria che sono fonte di sofferenza
d’un’intera vita, e che raccolgono la tensione allegorica in un assedio di pensiero
ricorrente, risorgente, non liquidabile. È dunque lo “scrittore che paga per tutti”
a indirizzarci alla necessità, quasi all’obbligo, di un esame del passato fascista, al
fine di scongiurare, proprio mediante l’adozione del procedimento etico ed estetico opposto (il procedimento, appunto, dell’impietosa autosincerità, e dell’impietosa
perspicuità), quella che invece risulta la linea di schiacciante prevalenza negli intellettuali italiani, ovvero la linea dell’occultamento, dell’imbarazzata negazione, del velo
ricoprente, dell’insabbiamento d’archivio.
È forse per questa ragione che assume in Pratolini un maggiore significato
anche la conquista di una prosa che contribuirà, per parte sua, a segnare il romanzo italiano dagli anni Quaranta in poi; una prosa di romanzo che, nelle sue
varie prove e nei suoi vari titoli, potrà legittimarsi allo studio di una “storia italia-
335
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na”, vista nell’ottica dello sviluppo − e talvolta dell’involuzione − dei movimenti
e delle ideologie sul piano sociale. Non è fuor di luogo allora rammentare proprio
il “rappresentativo” Metello (ma ci si potrebbe anche soffermare, qui senza determinante differenza, su Gloria di Allegoria e derisione), in uno dei passaggi che
riescono in alta misura a coinvolgere la realtà degli svolgimenti e delle prese di
coscienza a livello politico e sociale e, insieme, la schiettezza e si dica pure la franca
linearità delle scelte e delle pulsioni sentimentali ed emotive; si tratta dell’idillio,
coerentemente condotto in modalità popolari, vivaci e nel contempo rispettose e
pudiche, di Ersilia e del muratore Metello; insomma, la nascita e lo sviluppo di
un sano fidanzamento, scandito dalle tappe degli imprigionamenti, di un carcere
avvertito come scotto inevitabile e come esperienza accettata quasi con una sorta
di orgoglio, di vidimazione del prezzo da pagare per le lotte dei lavoratori. Dalla
“chiama” con cui Ersilia si dichiara a Metello («Salani Metello, sono Ersilia. Salani
Metello, son la figliola del Pallesi […]. […] notte alta, nel tanfo già spesso del
camerone, forse Metello fu il solo a vegliare. Era l’alba, ed egli si diceva: / “Esco e
la sposo”»)92 al significativo anticipo delle parole che avevano da parte di Metello
gettato il seme dell’innamoramento in Ersilia, in modalità oggettive e involontarie,
e quindi ancor più sincere93:
«Una brutta nottata, in carbonaia?» / «C’ero già stato un’altra volta, non mi è
riuscita nuova. E in tre anni di ferma che ho fatto, da soldato, ne ho macinata
di cella. Ci hanno perfino lasciato i lacci e le cinture».
Si allineano a queste sequenze le scene di appuntamento nel carcere, elettivamente
le Murate di Firenze, con Ersilia che va ogni giorno a trovare Metello prima che la
pena sia tramutata nel domicilio coatto in varie parti d’Italia, e ancora, nel finale
del romanzo, sempre con la «donna ch’è nata in San Frediano» a trovarsi pronta
all’appuntamento con la scarcerazione del marito da un’altra detenzione per motivi politico-sindacali, e quindi detenzione che a suo modo inorgoglisce, e la cui scarcerazione, appunto, va comunque festeggiata vestendosi bene, con il figlio Libero
e con la stessa Ersilia di nuovo incinta, con una famiglia che si rinnova nel nome
di un padre socialista e di un nonno materno anarchico; basti il riferimento alla
prima detenzione indicata: «Finché Metello rimase alle Murate, Ersilia si partì dal
suo quartiere di San Frediano per raggiungere via Ghibellina, col pranzo chiuso
dentro il tovagliolo. Poi, siccome non essendogli parente, le avevano negato il permesso di raggiungerlo in parlatorio, ella tornava a casa, si rileggeva l’ultima lettera
92
Cfr. VASCO PRATOLINI, Metello. Una storia italiana I, con Introduzione di FRANCESCO PAOLO
MEMMO, Milano, Mondadori («Oscar», XIIª ristampa), 1979 (I ed., «Narratori italiani», 1960), p.
131.
93
Ivi, p. 127.
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di Metello e gli rispondeva»94. Non vi è quasi bisogno di sottolineare il valore della
frase del muratore («Ci hanno perfino lasciato i lacci e le cinture»), che imprime
un involontario segno nella sfera pulsiva, e si dica pure erotica di Ersilia, per un
certo tempo incapace di individuare in se stessa i contorni di una figura e di una
passione che restano pudicamente inconfessate e irretite nella dimensione etica
d’un’educazione popolare e rionale non rinunciataria sul piano dei valori di sostanza; ma è una dimensione etica capace di aprirsi a un chiaro e preciso schieramento
umano e di identità ideologica nel momento-crinale della scelta, dell’alternativa
fra una vita legata a una nuova dimensione, acquisibile con l’ingresso nella famiglia
padronale, e la fedeltà salda alla dimensione popolare e alla figura che come Metello ne incarna la virile schiettezza e l’esposizione franca a un sanguigno rapporto
con l’autorità, verificabile nelle varie sanzioni disciplinari, da quelle militari della
cella di rigore (spesso conseguenza di inclinazione toscana alla battuta impertinente
e libera) a quelle penali determinate dalla partecipazione a manifestazioni di protesta
sociale. Prigione, «cella» a lungo «macinata», «i lacci e le cinture» costituiscono una
figura di giovane lavoratore e di uomo a tutto tondo, non prono né pregressamente
piegato ai superiori e alla classe sfruttatrice, uomo che è «d’altro genere» rispetto al
padrone signor Roini, e che al contrario di questi è adatto a sposare «una donna ch’è
nata in San Frediano»; e in particolare sono «i lacci e le cinture» a sagomare nella
memoria “in attesa” di Ersilia il disegno della figura maschile di Metello, i suoi indumenti virili, l’immagine («le cinture») allusiva al bacino anatomico dell’uomo, alla
sua robusta presenza di giovane che suscita simpatia; non a caso, «i lacci e le cinture»
sono i primi elementi a ripresentarsi con viva evidenza alla mente e alla sensibilità
pulsiva femminile di Ersilia, nell’atto della scelta di Metello come compagno della
vita: scelta umana e scelta di schieramento sociale (non dettata, appunto, da professa
coscienza politica) nella «figliola» dell’anarchico Pallesi. Pratolini provvede da parte
sua il lettore di una spiegazione anticipata sui meccanismi d’insorgenza del ricordo,
dell’“aspettativa” inconscia, dell’attenzione allertata da un latente sentimento erotico; tale spiegazione è in una prima fase attestata sul piano dei fenomeni di natura, ivi
compresa la natura umana95:
Quando ci vogliamo spiegare certe circostanze, decisive per la nostra vita, ci
si risponde che è destino, che è successo non sappiamo come. Simile al bosco,
d’estate: c’è una gran quiete, gli alberi riparano dal solleone, è un refrigerio,
e d’un tratto il bosco, tanto fresco ed ombroso, s’accende, e col vento che si
leva, d’albero in albero, diventa una fiamma sola; così, un sentimento è entrato dentro di noi: è legna verde e d’improvviso brucia. / Ersilia non aveva
dimenticato né il suo viso, né il nome; ella ricordava Metello, con simpatia
diciamo, ignara che il proprio cuore viveva nella sua aspettazione.
94
95
Ivi, p. 141.
Ivi, p. 135.
337
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Ma sono le agitazioni popolari del 1898 a scatenare, sul piano umano e sociale,
sul piano pulsivo e “politico” a un tempo, l’individuazione della propria strada
in un’Ersilia irridente nei confronti del “promesso sposo” e delle «pubblicazioni»
appena effettuate; e questa volta si tratta d’un’individuazione sicura96:
«Oh» ella esclamò, e gli rise in viso. «Valle a scancellare, perché tu, te lo
puoi togliere dalla mente, di diventare mio marito. Ci vogliono uomini d’altro
genere, per una donna ch’è nata in San Frediano». / E fu in cotesto preciso
momento, si possono mai spiegare certe reazioni? che vivo, parlante, come
fosse il terzo tra loro, ella si era ricordata di Metello, gli parve di riudire la sua
voce: «Ci hanno perfino lasciato i lacci e le cinture».
È qui, e beninteso in molte altre prove e in molti altri passaggi narrativi, che l’ispirazione e la scrittura di Pratolini raggiungono più da vicino il caglio, la fusione artistica fra l’identità umana dei personaggi e la collocazione ideologica a loro
più calzante. In questi casi non ha agito, o non ancora compiutamente, il cuneo
96
Ivi, pp. 137-138. Riguardo alle inchieste che sono state condotte su San Frediano, e in
generale sull’Oltrarno fiorentino, inchieste dovute alla condizione che mostrava sotto vari profili
il quartiere, si rammenti, oltre alla famosa epopea romanzesca presente in una sezione di Metello,
CRESTI, Firenze, da nazionalista a «fascistissima» 1903-1944, cit., pp. 113-114: «In Oltrarno era pure
alta la mortalità infantile in età inferiore ad un anno. Nel triennio 1905-1907 tale mortalità aveva
raggiunto il 33 per cento in via Toscanella. Nel decennio 1903-1913 all’Oltrarno spettava il primato
di frequenza dei casi di tifo e di difterite. Dall’Inchiesta riguardante le abitazioni popolari, promossa
nell’ottobre 1907 dall’Ufficio Statistico Comunale, si poteva rilevare che su 1107 abitazioni censite
nei rioni d’Oltrarno, 132 mancavano di aria e di luce, 95 erano soggette a umidità, 192 interessate
da ‘cattive esalazioni’, 61 in condizioni generali pessime»; e ancora, si veda la statistica emergente
dal casellario di pubblica sicurezza (p. 114): «La ricerca condotta nel casellario del Commissariato
di Pubblica Sicurezza, riferita alla demografia criminale dei rioni d’Oltrarno accertava, al dicembre
1915, che detti rioni “oltre ad essere focolaio d’infezioni endemiche ed epidemiche, sono anche
veri seminari di teppismo e di delinquenza”. I dati emergenti da tale ricerca permettevano di sapere
che nel rione di Santo Spirito risultavano “stanziali” 1510 individui “di professione girovaga e
incerta”; 1225 individui “senza professione o professione ignota”. Nel complesso dei 7559 abitanti
di via dell’Ardiglione, di Camaldoli, di via della Chiesa, di Borgo San Frediano, via del Campuccio,
via dei Serragli, via San Giovanni, via del Leone, via dell’Orto, via del Piaggione, via Santa Monaca,
piazza de’ Nerli, via Piattellina, 774 famiglie venivano classificate “miserabili” per un insieme di
3692 persone». In relazione a un confronto (ivi, p. 135) tra il pennello dello stesso Rosai e quello
di Primo Conti in due dipinti celebrativi di Mussolini e del fascismo (rispettivamente, l’Adunata
e la Prima ondata), Cresti scrive: «Sembrerebbe quasi di poter dire che il ‘fascismo’ di Rosai è
espressione del plebeo e un po’ ribelle fascismo della Firenze d’Oltrarno, e quello di Conti esprime
l’immagine omologata dell’ortodossia ufficiale circolante nei signorili salotti della Firenze alla
destra dell’Arno» (ma cfr. anche p. 112; riferendosi a Ottone Rosai − nel citato capitolo intitolato
appunto Il fascismo di Ottone Rosai −, l’autore ricorda: «l’Oltrarno assume il valore di metafora
di una dimensione emotiva entro le cui contraddittorie potenzialità Rosai ha trovato il confacente
habitat esistenziale per riconoscersi, e per meditare, progettare e costruire la ratio e l’impronta
estetica del proprio idioma artistico»; e simili rilievi potranno essere condotti sulla Firenze dei
Canti orfici di Dino Campana).
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tormentoso dell’ordalia e dell’ombreggiatura allegorica: un muratore che partecipa all’azione politico-sindacale, e che non può ancora, data la collocazione socioculturale, essere personalmente in grado di leggere Marx, è seguìto insieme alla
fidanzata, poi sposa, nella nascita d’un rapporto che, anche nelle sue più efficaci
connotazioni di pudica reticenza popolare, si mostra capace d’esprimere una lineare corrispondenza di caratteri, e il senso d’un desiderio e di un’intesa che si possono, con il beneplacito di ogni impostazione e di ogni tipologia di lettura, definire
di indole sanamente sessuale.
Uno scrittore molto lontano, a dir poco, da Pratolini − si parla nientemeno che
di Manzoni −, pur impegnato anch’egli nella lotta riguardo allo scrivere di “storia”,
uno scrittore, certo, totalmente diverso e di tutt’altra epoca e di tutt’altra temperie
stilistica, e che qui − beninteso − non viene evocato a termine di paragone, ha
però impresso nell’àmbito della sua opera (non solo in prosa) precisi e profondi,
e insieme delicatissimi segnali di resa artistica della sensibilità amorosa femminile,
e, nello stesso modo, penetranti affondi in direzione della pudica − e serissima −
reticenza muliebre nell’attraversare in sofferente silenzio un sentimento in realtà
palpitante, e interiormente vibrante: dalla regale Ermengarda alla popolana Lucia
Mondella; in questo senso, anche il Pratolini della popolana Ersilia può essere
iscritto al novero di autori che sicuramente hanno tra le frecce al loro arco quella
della restituzione narrativa del sentimento dell’amore femminile, dell’escussione
sulla ribalta della pagina d’una sfera emozionale e pulsiva stanata fino al “primo
piano” testuale, a partire dalla sua originaria cifra taciturna. Per un altro esempio
di tale novero, in realtà non ricchissimo − ci si riferisce alla nostra letteratura −,
può bastare il Verga di Cavalleria rusticana, con il cenno alla «nappa» di bersagliere che rimane nella memoria di Santuzza e che è agli albori del sentimento per
Turiddu. Ma si veda, per concludere, proprio il Manzoni di Lucia e di Ermengarda, e si colgano, se non altro quali identificativi di “motivo” letterario, i segni che
si pongono su un piano simile a quelli dei «lacci» e delle «cinture» metelliani. Si
veda, dall’«Addio, monti»:
Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla
sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un
soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò
tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato
un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!
Si noti quel «pensiero occulto», che la popolana pia e timorata di Dio non ha il coraggio di confessare neanche a se stessa; il «pensiero occulto» è quello dell’amore,
e dell’uomo, il solo uomo che lo rappresenti; e tale «pensiero» è più eloquente di
qualunque forma di eros professamente dichiarato, non diversamente da quanto
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accade al sincero sentimento religioso della giovane. Dal «pensiero» si svolge in
modo sempre più significativo il sentimento, e la protratta, trepidante attesa: dai
«passi comuni», le corde segrete del cuore e della sensibilità imparano ciò che altrimenti non vi sarebbe stata ragione d’apprendere, ovvero la capacità di distinguere
il «passo» per lei non comune, ma anzi, e non certo a caso, «aspettato», ovvero il
«passo» di Renzo, del «promesso»» che per lungo tempo (un intero romanzo) è
per lei destinato a rimanere tale; «atteso» non solo perché desiderato, ma anche
perché temuto, in qualche modo perfino “subìto”. Il «pensiero occulto» dell’inizio
di periodo si unisce direttamente al «misterioso timore» che con eloquente reticenza conclude la frase. Quale razionale «timore» può esservi, trovandosi al sicuro
nella «casa natìa» e al cospetto d’un promesso così ligio, rispettoso e “timorato”,
come a suo modo è anche l’impulsivo Renzo? Non è dunque timore d’atti eterodossi, di trasgressione di “tempi”, cose che infatti non avverranno, bensì, e ben al
contrario, si tratta di timore dell’“ortodossia”, di ciò che è inevitabile che accada;
lo scrittore esprime, con mirabile discrezione di linguaggio, gradi di sensibilità
femminilmente intima come quelli che si materializzano nel timore della prima
notte di nozze: in questo senso basta rileggere il passo per capire che ogni accenno
al rispetto dei tempi, ogni accenno al timor di Dio, ogni riferimento alla castità,
ogni allusione alla verginità significano, proprio e giustappunto in quanto tali, riferimento tutt’altro che sbiadito all’amore, al rapporto con l’uomo.
Il «passo» di Renzo è segno di locomozione, e quindi di percorso vitale; ma
esso è già un segnale premonitore della misteriosa paura nuziale: quelle di Renzo
non sono scarpette per ben ballare, e il «passo» è sicuramente forte e scanditamente maschile; così, con naturalezza la tensione di Lucia si propaggina alla «casa
ancora straniera», «sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza
rossore», un rossore che per parte sua non significa soltanto pudico imbarazzo,
ma, come chiaramente rivelano espressioni quali, appunto, «sogguardata», «alla
sfuggita», «passando» e non fermandosi, significa, dicevo, l’alternanza propriamente femminile di desiderio-attesa e di timore, di attrazione e di paura dell’uomo.
La ricognizione su Lucia si conclude, infatti, nel modo più coerente: casa natìacasa straniera-chiesa. Il termine «chiesa», qui, non significa affatto “non amore”,
esercizio di astensiva rinuncia, soggezione a un sacrificio di nubilato, o finale bigotto di questo percorso: il termine significa invece, e quanto propriamente, “amore”,
tanto più se consacrato e benedetto, e tale da autorizzare l’ingresso come «sposa»
nella casa da quel momento non più straniera. La realtà rituale del matrimonio, per
una devota pura e autentica quale è Lucia, si compenetra in piena legittimità con
il «sospiro segreto del cuore»: il cuore e il vestito da sposa si uniscono nello stesso
valore di verità sacramentale di sostanza, non di formalità, poiché per Lucia ogni
pensiero di matrimonio che non li contemplasse entrambi costituirebbe un’ipotesi
d’esperienza mutila e improponibile. Il «sospiro segreto» dice che Lucia, nel suo
frequente silenzio, è vivificata, come succede a quasi tutti i grandi “taciturni”, da
un’acuta vitalità; lo scrittore, in omaggio alle sue scelte artistiche di fondo, al rap340
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porto della propria poetica con la materia narrativa e con i suoi personaggi, può
decidere di penetrare o meno in quel «segreto», di promuoverlo o meno al rango
d’un’esplicita affabulazione: ma il lettore non può far finta che quel «segreto» non
esista, e che esso non racchiuda un mondo di vibrante sensibilità femminile e una
figura di donna che ama, d’una donna che ha poche compagne di pari valore artistico nella letteratura italiana.
Tali indizi costellano anche l’opera di Manzoni drammaturgo. La regina, o
meglio, la sovrana cui incombe il ripudio, che assiste alle varie fasi e vicende della
caccia al cinghiale da un alto poggio, Ermengarda (Adelchi, a. IV, strofe VI-X, vv.
31-60, in particolare vv. 37-60), è, nel tormentoso ricordo procuratole dal delirio,
il degno contraltare femminile del consorte, il «guerrier sovrano» del v. 58, il re
che in un solo spettacolo riafferma agli occhi della moglie longobarda il proprio
alto ruolo di potente monarca, di marito e di cacciatore: un concentrato di «nobile» maschilità (v. 60) che riemerge, immagine vincente, nell’agonia della regina e
della donna ripudiata. E «il chiomato sir» (v. 42) è soltanto la prima d’una lunga
serie d’immagini che a loro volta sanciscono il valore indiscutibilmente virile, e si
dica pure erotico che tali immagini rivestono agli occhi dell’infelice Ermengarda:
la chiomata ricchezza, il pilifero onore di Carlo Magno, s’associano all’asprezza
delle vicende di caccia («la furia / De’ corridor fumanti» [vv. 43-44], «il rapido /
Redir dei veltri ansanti» [vv. 44-45], «la battuta polvere / Rigar di sangue» [vv. 4950]); «colto / Dal regio stral» (vv. 50-51; è la vittoria, non solo in senso venatorio
ma soprattutto erotico, di Carlo Magno), «l’irto cinghiale» (v. 48) dialetticamente
s’abbinano all’«orrida / Maglia» (vv. 57-58), all’ispida e ruvida virilità del marito
vittorioso su un animale che lo impegna in una dura, acre e cruda lotta, un animale che combatte con grande tenacia e accanimento e che così giustifica l’uso
di quell’indumento che per contrasto richiama il dolce muliebre vestiario della
regina, «tenera» (v. 51) e, alla vista del sangue della “battaglia”, «pallida / D’amabile terror» (vv. 53-54). Ma sono soprattutto la «Mosa errante» (v. 55), i «tepidi /
Lavacri d’Aquisgrano» (vv. 55-56) a rammemorare a Ermengarda, come felici e
rigeneranti acque di detersione, «il nobile sudor» (v. 60) del guerriero, dell’uomo
appena uscito da uno sforzo atletico-agonistico, e quindi dell’uomo che emana
sulla sensibilità pulsiva della donna, in delirio veritas, l’aroma, ovviamente per lei
fascinoso, della virilità.
Ispirato e accompagnato, verso il finale della sua parabola di scrittura, dall’acuminata volontà di chiarimento a ritroso della propria vicenda, e quindi da una
cifra narrativa che si trova costretta a inseguire una molteplicità di ragioni e di motivazioni, a tentare di sciogliere i grumi irrisolti, a districarsi nelle contraddizioni
e nei viluppi ossimorici costituiti dall’antiborghesismo fascista, e dal “fascismo di
sinistra”, ad arrendersi al dilagare del plurilinguismo allegorico, Pratolini riesce,
nondimeno − come accade in quelle complesse vicende letterarie che sembrano
giovarsi delle proprie stesse contraddizioni, e come crediamo sia emerso, a late341
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re e autonomamente, dalla piccola antologia manzoniana del pudico ma intenso
amore nelle figure femminili −, ad attraversare, giungendo spesso fino ad amalgamarli, i protocolli letterari della cronaca personale e della cronaca dei personaggi,
delle cronache dei poveri amanti, dei quadri realistico-romanzeschi − o appunto
romanzesco-allegorici − di storia generale, sino agli affreschi di importanti epoche
che formano e che costituiscono il Novecento, o di epoche che immediatamente
lo preparano.
È in questo senso che la parola malinconica del congedo può riattingere con
un’ultima immersione di memoria la poesia riguardante la giovinezza97:
Ecco questo è il libro / nel quale vi prego / se io cadrò voi che rimarrete / di
scorgere la mia figura stellare / una presenza amorosa un calmo addio. / È il
mio Diable au Corps / coglietene la trepidazione / d’uno stelo a primavera /
e la freschezza che sprizza / dalla serpentina di San Niccolò / le mura il cielo
della città lontana / dove fu bella giovinezza / col suo miele di fanciulle e di
fame.
97
Si tratta della poesia Il Quartiere, tratta da La città ha i miei trent’anni, Milano, All’insegna
del pesce d’oro, 1967; la lirica, insieme ad altre undici poesie, appartiene agli stessi anni, 19431944, della composizione del romanzo Il quartiere. Ora la poesia si trova in Il mannello di Natascia
e altre cronache in versi e prosa, Milano, Mondadori, 1985. Cfr. GIORGIO LUTI, La formazione culturale di Vasco Pratolini, in «La rassegna della letteratura italiana», XCVI, s. VIII (settembre-dicembre 1992), 3, p. 21: «le vie dell’arte di Pratolini sono infinite e […] la qualità della sua scrittura è
stata in grado di travalicare ogni volta il confine che sembrava aver raggiunto».
342
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INDICE DEI NOMI
Abulfeda (ps. di Elio Vittorini), 139n,
331n
Accerboni Pavanello, Anna 194n
Acri, Francesco 37-38
Adelphi, Edizioni, 104n, 192, 202-203,
210, 228-229, 231n, 235, 237, 240,
241-242, 261, 263n, 275
Adler, Alfred 159n, 190, 202
Alicata, Mario 305n, 311 e n, 326 e n
Alighieri, Dante 95n, 242-245, 253-256,
262, 291, 326
Altenberg, Peter 197, 200, 205
Ambrosini, Luigi, 14-16n, 19-20n, 2930n, 33n, 35n, 64n, 67n, 75n
Amoroso, Giuseppe 305n, 313n
Anonimo (volgarizzamento riccardiano
dei Fatti de Romani), 245n
Antonicelli, Franco 210
Antonietti, Laura 305n
Arbasino, Alberto 110n
Arcangeli, Bianca (Rosalba) 31-32n
Arcangeli, Francesco 31-32n, 37n, 60n
Arcangeli, Gaetano 31-32n
Arcangeli, Nino (Angelo) 31-32n
Archivio storico italiano, 287n
Ariosto, Ludovico 60n, 88-90, 190
Aristotele, 196, 242 e n, 260
Arouet, François-Marie vd. Voltaire
Asor Rosa, Alberto 109n, 282n, 302n,
305n, 306 e n
Astrolabio, Edizioni 193-194, 202, 228,
231 e n
Avalle, D’Arco Silvio 243-245n, 254n,
279-280n
Aveto, Andrea 141n
Bacchelli, Riccardo 25n
Bachtin, Michail 132n, 157, 307
Bagnoli, Paolo 305n, 319n
Baldacci, Luigi 109n, 113n, 116n, 176177, 179n, 306n
Baldini, Antonio 36
Baranelli, Luca 333n
Bárberi Squarotti, Giorgio 14n, 109n,
117-118, 181 e n
Barbizon, Scuola di 141n
Bargello, Il 139n, 316-317n, 329-332
Barrès, Maurice 33-34
Bartolini, Simonetta 116n
Basaglia, Franco, 104-105n, 147n
Battisti, Cesare 23-24n
Battistini, Andrea 14n, 60n, 62n
Battocletti, Cristina 192n, 226n, 235n,
238n, 257n, 269n
Baudelaire, Charles 110n, 122n, 153n,
268n
Bazlen, Roberto (Bobi) 87n, 189, 191278
Bazzocchi, Marco Antonio 14n, 32n,
54, 70
Bècchi, Bruno 331n
Bechini, Donatello 330n
Beethoven, Ludwig van, 34n
Belleli, Maria Luisa 134n
343
Pestelli.indb 343
20/11/2018 15:22:10
Beltramelli, Antonio 25-26n, 69n, 87
Benco, Silvio 194, 199-200
Benigni, Bruno 105n
Bérard, Victor 259 e n
Berardinelli, Alfonso 264n
Bergson, Henri 33, 55, 99n, 187
Bernhard, Ernst, 190, 195, 226, 228229, 231 e n, 240 e n, 245-246, 248,
252-252, 269n
Bertelli, Diego 238n, 261-262n, 264n
Berto, Giuseppe 172, 303
Bertolucci, Attilio 32n, 203
Bertolucci, Piero 203
Bertoni, Federico 208n
Bettarini, Rosanna 179n
Bettelheim, Bruno 275 e n
Bigazzi, Roberto 300-301
Bilenchi, Romano 177n, 189, 279-342
Binni, Walter 302n
Biondi, Marino 14-15n, 17-18n, 20n,
22-25n, 29n, 48, 54, 61n, 63n, 74 e
n, 79, 122n, 149n, 160n, 207n, 280283, 287-291n, 293n, 295-296n,
298n, 302-305n, 328-329n, 332n,
334n
Bismarck-Schönhausen, Otto Eduard
Leopold von 46
Blanchot, Maurice 264n, 275n
Blok, Alexandr Alexandrovič 197, 201n
Bloom, Harold 234n
Bo, Carlo 230
Boccaccio, Giovanni 104-105n, 119,
126-132, 153n, 156, 177n, 253n
Boero, Pino 179n
Boine, Giovanni 14n, 18-19n, 32n, 37,
39-42, 80n, 91
Bolaffio, Vittorio 194, 236n
Bompiani, Edizioni 234
Bompiani, Valentino 191n, 234n, 277
Bonaventura, Enzo 194n
Bongiovanni, Bruno 330n
Bontempelli, Massimo, 183
Borgal, Clément 268n
Borgese, Giuseppe Antonio 16n, 56,
91, 103n
Boringhieri, Edizioni 203, 234
Borso, Dario 333n
Boschère, Jean de 269
Bottone, Umberto vd. D’Alba Auro
Boullan, Joseph-Antoine 269n
Boutroux, Émile 34
Bracco, Barbara 58n
Bramanti, Vanni 109n
Brambilla Ageno, Franca 254n
Brecht, Bertolt 197
Brehm, Alfred Edmund 63n
Brosio, Valentino 136n
Brown, Norman O. 196n
Bruni, Raoul 261n
Bruschi, Enio 123n
Buchignani, Paolo 330n, 332n
Burckhardt, Carl Jacob 47n
Burke, Kenneth 193, 234 e n
Cadioli, Alberto 319n
Calasso, Roberto 191n, 203, 237-238,
241
Caldarelli, Nazareno vd. Cardarelli,
Vincenzo
Calimani, Riccardo 262n
Calisesi, Giorgio 139n
Calvino, Italo 225, 330, 333-334n
Camerino, Giuseppe Antonio 235n
Campailla, Sergio 220n, 226n
Campana, Dino 34n, 89n, 328, 338n
Campo di Marte, 330n
Campo, Cristina (ps. di Vittoria Guerrini),
229n, 232-233n
Canali, Mauro 293n
Cantimori, Delio 27n
Cappelletti, Nino 203
Cappuccio, Carmelo 301-302n
Caproni, Giorgio 140-141
Capuana, Luigi 105, 160n, 162 e n
344
Pestelli.indb 344
20/11/2018 15:22:10
Caramella, Santino 153n
Cardarelli, Vincenzo (ps. di Nazareno
Caldarelli) 88
Carducci, Giosue 15n, 17n, 35, 56, 89,
120n, 219
Caretti, Lanfranco 89 e n, 94n, 101n,
111n, 115n, 139n, 219n, 267n, 310
e n, 325, 329
Carini, Tommaso 229n
Carmelich, Giorgio 199
Carocci, Alberto 209, 277
Cases, Cesare 239
Casini, Edizioni 98n
Cassinelli, Giuseppe 179n
Cassirer, Ernst 197
Castellano, Francesca 220n
Castiglione, Davide 232-233n
Catalano, Gabriele 109n
Catullo, Gaio Valerio 17, 256
Cecchi, Emilio 14n, 207
Čechov, Anton Pavlovič 308
Centovalli, Benedetta 303n, 305n,
316n, 321n
Cepak, Lidia 262n
Cesari, Luca 31n
Cézanne, Paul 141n
Chaplin, Charles 139n, 157
Chevalier, Jean 320n
Chimenti, Valeria 109n
Ciampoli, Domenico 52n
Ciani, Ivanos 63n
Ciano, Galeazzo 316-317n
Cicerone, Marco Tullio 17, 105n, 253n,
289
Cicognani, Bruno 125n
Cigoi, Renzo 195n
Cipriani, Giovanni 287 e n
Circoli, 330n
Claudel, Paul 33n
Coccoluto Ferrigni, Pietro vd. Yorick
Cocteau, Jean 197
Colli, Giorgina 109n
Colli, Giorgio 94-95n, 97n
Collodi, Carlo (ps. di Lorenzini, Carlo)
114, 152, 183, 238n
Comisso, Giovanni 303
Comnène, Marie-Anne 207n
Compagni, Dino, 283
Comunità, Edizioni 193, 230, 270
Conetti, Lidia 21n
Conrad, Joseph, 209, 276
Consolo, Gustavo 297n
Conti, Primo 338n
Contini, Gianfranco 63n, 77, 177n,
221, 315 e n, 319n
Contorbia, Franco 24n
Coppini, Stefano 318n
Coppo, Mattia 232n
Corazzini, Giuseppe Odoardo 287
Corleone, Franco 105n
Corsi, Livio 192n, 194
Corti, Maria 255n, 319 e n
Costa, Simona 24n, 116n
Costanzi, Remo 63n
Cremante, Renzo 14n
Crémieux, Benjamin 207
Cresti, Carlo 293n, 298n, 316n, 329n,
331n, 338n
Croce, Benedetto 21-22n, 45n, 69, 88,
100n, 115, 153n, 302n, 314
Curi, Fausto 101-102n, 109n, 119120n, 125n, 157n, 159-160n, 183
D’Alba, Auro (ps. di Umberto Bottone)
70n
D’Annunzio, Gabriele 50-51, 119-121,
141n, 143n, 219n
Daudet, Alphonse 102-103, 116-117n,
143n
David, Michel 194n
De Caussade, Jean-Pierre 231n, 269270
De Chirico, Andrea Francesco Alberto
vd. Savinio, Alberto
345
Pestelli.indb 345
20/11/2018 15:22:10
De Chirico, Giorgio 94n, 99 e n
De Guaita, Stanislas 269 e n
De Libero, Libero 230
De Maria, Francesco 95n
De Maria, Luciano 70n, 102n, 115n,
119 e n, 123n
De Paulis Dalembert, Maria Pia 37n
De Pisis, Filippo 106-107
De Robertis, Domenico 179n
De Robertis, Giuseppe 14n, 16n, 17n,
20n, 30 e n, 35-36, 54, 62n, 64n, 67n,
69, 75n, 88-90, 113n, 121-122, 185n
De Stefano, Cristina 229n
Debenedetti, Antonio 97-98, 235 e n, 272
Debenedetti, Elisa 97
Debenedetti, Giacomo 97-98, 135-136n,
185, 192n, 199, 201-202, 207 e n,
227, 230-231, 235, e n, 264n, 272
Dedenaro, Roberto 192n
Deganutti, Marianna, 195n
Degas, Edgar 141n
Dei, Adele 121n, 133n
Del Lungo, Isidoro 95n, 287
Delcroix, Carlo 287
Della Torre, Ada 227
Depaoli, Massimo 305n, 316n, 321n
Di Giacomo, Salvatore 84
Diafani, Laura 94n
Dillon Wanke, Matilde 133n
Dirani, Ennio 57n
Disney, Walt 238n
Döblin, Alfred 197
Dolfi, Anna 319n
Donnarumma, Raffaele 160n
Dorfles, Gillo, 199, 256n
Doriguzzi, Mirko 227
Dorner, Alexander 203-204
Dortu, Maurice-Georges 141 e n
Dos Passos, John Roderigo 197
Dostoevskij, Fëdor Michàjlovič 98n,
146-147, 197
Draghici, Livia 318n
Dumas fils, Alexandre 163n
Durand-Ruel, Paul 141-142
Duyvendak, Jan Julius Lodewijk 240n
Eco, Umberto 115
Einaudi, Edizioni, 196n, 202-204, 210,
234-235, 275n, 305n
Einaudi, Giulio 224
Elskamp, Max 269
Engels, Friedrich 43n
Eraclito, 38n
Erba Tissot, Hélène 228n
Eusebius vd. Montale, Eugenio
Fadin, Sergio 194
Falqui, Enrico 229
Fanelli, Giuseppe Attilio 334n
Fanfani, Pietro 153n
Farber, Emanuel (Manny), 193, 234 e n
Farnetti, Monica 233n
Fattori, Giovanni 236n
Faulkner, William 197
Febbraro, Paolo 105n
Fellini, Federico, 154, 229n, 246n
Ferrario, Michele 176n
Ferraris, Denis 177n
Ferrata, Giansiro 102n, 105n, 109n,
118-119, 124, 169
Ferroni, Giulio 116n, 287-288
Fetz, Alessia 194n, 264n, 304n, 308309n, 315n, 319-320n, 322n
Fiatti, Igor 199n
Fichera, Ada 334n
Fiera letteraria, La 208 e n, 219n
Flaubert, Gustave, 96-97, 100, 162
Flora, Francesco 207
Flores D’Arcais, Paolo 333n
Fo, Dario Luigi Angelo 167
Foà, Augusto 210
Foà, Luciano 191-192n, 194, 196n,
202, 203n, 210, 226-227, 230, 235,
237, 263, 275n
346
Pestelli.indb 346
20/11/2018 15:22:10
Fofi, Goffredo 303-304
Fogazzaro, Antonio 295
Fonda Savio, Letizia 208n
Fort, Paul 34, 87 e n
Fortini, Franco 330n
Foscolo, Ugo 26n, 50-51, 53, 89, 175,
276
Franchi, Raffaello 57n
Franco, Francisco 331n
Frank Tolazzi, Gerti 199, 218, 222
Frassinelli, Edizioni 210
Frenaud, André 140n
Freud, Sigmund 159n, 193-196, 201202, 204, 230,-231, 320
Fuà, Giorgio 227
Fubini, Mario 301 e n
Fucini, Renato 114, 117, 142, 144, 152,
183
Fussel, Paul 186n
Gadda, Carlo Emilio 54, 210, 332
Galli, Giorgio 229n
Gallico, Giuseppe 302n
Gargiulo, Alfredo 207
Garufi, Bianca 229n
Gasperina Geroni, Riccardo 14n
Gatta, Francesca 16n
Gelli, Sara 102n
Genovese, Guido 15n
Gheerbrant, Alain 320n
Ghidetti, Enrico 15n, 125n, 142-143n,
201n, 285n, 304n
Giachery, Emerico 134n
Giametta, Sossio 94-95n
Giammattei, Emma 15n
Gide, André 33n, 181, 197
Gigante, Claudio 24n
Ginzburg, Carlo 136n
Ginzburg, Natalia vd. Levi Ginzburg
Gioanola, Elio 201n
Giolitti, Giovanni 49
Giotti, Virgilio (ps. di Virgilio Schönbeck e di Virgilio Belli) 194
Gioventù italica 333n
Girard, René 234n
Goebbels, Paul Joseph 331n
Goethe, Johann Wolfgang 21n, 98n,
115, 197, 249, 288, 295
Goffis, Cesare Federico 220n
Goldoni, Carlo 107, 148
Gorlier, Claudio 232n
Govoni, Corrado 106n, 179n
Gramigna, Guliano, 305n, 309-310, 312n
Grande, Adriano 207
Grasso, Aldo 192n
Grazzini, Anton Francesco vd. Lasca
Greggi, Roberto 61n, 74 e n
Grilli, Alfredo 16n, 20n, 30n, 35n, 64n,
67n, 75n
Grimm, Jacob 95n
Grimm, Wilhelm 95n
Groddeck, Georg 204 e n
Gross, Daniela 256n
Gruber Benco, Aurelia 199, 235n
Gruber, Carlo, 198-199
Guagnini, Elvio 235 e n
Guanda, Editori 231
Guaragnella, Pasquale 58n, 122n, 186187n
Guerricchio, Rita 105n, 113n, 123n,
132n, 135n, 147-150, 163-164n,
177
Guerrini, Vittoria vd. Campo, Cristina
Guglielmi, Giuseppe 122n
Guglielminetti, Marziano 114n, 125n,
169n, 182
Guglielmo II, Kaiser (Friedrich Wilhelm
Viktor Albrecht von Hohenzollern)
46
Guido da Verona (ps. di Guido Verona),
83n
Hanson, Susan 264n
347
Pestelli.indb 347
20/11/2018 15:22:10
Harrison, Hugh, 193, 234 e n
Hedayàt, Sadègh 275n
Heidegger, Martin 227
Heine, Heinrich 81
Hofmannsthal, Hugo von 45-47
Hugo, Victor 155, 176
Huisman, Philippe 141 e n
Huysmans, Joris-Karl (Charles-MarieGeorges) 269 e n
Isnenghi, Mario 14-16n, 25n
Italia che scrive, L’ 208 e n
Ivrea, Edizioni (e Nuove Edizioni) 190,
202, 226
Jabès, Edmond 264n
Jacobbi, Ruggero 292
James, Henry 209, 276
Jarry, Alfred 269
Jemolo, Arturo Carlo 334n
Joyce, James 197, 210, 256n
Joyce, Stanislaus 256n
Jung, Carl Gustav 190, 193-194, 202,
210, 226-228, 231, 239-240n, 245,
251-252, 260-261
Juri, Amelia 141n
Juvenilis (ps. di Vasco Pratolini), 331n
Kafka, Franz 197, 200-201, 205, 307308, 311, 325
Kant, Immanuel 33n, 88
Kierkegaard, Søren Aabye, 227
Kinopa (ps. di Vasco Pratolini), 331n
Kipling, John 21n
Kipling, Rudyard 21n, 27-28, 32-33, 63,
87, 273
Kubin, Alfred Leopold Isidor 197
La Ferla, Manuela 191-193n, 195n,
199n, 203n, 205 e n, 216, 220n,
223-224, 228-231n, 234-236n,
238n, 241n, 270n, 276n
La Rovere, Luca 330n
Labrunie, Gérard vd. Nerval, Gérard de
Lagercrantz, Olof 255n
Lama, Luciano 114-115
Lando, Mariangela 15n
Landolfi, Tommaso, 210, 216, 230, 332
Langella, Giuseppe 318n
Lapini, Agostino, 287
Larbaud, Valéry 207
Lasca (ps. di Anton Francesco Grazzini),
156, 160
Lavagetto, Mario 208n
Lawrence, David Herbert 197
Leifhelm, Hans 194, 214
Lenzini, Luca 303n
Leonzio, Vittorio 228n
Leopardi, Giacomo 40, 42-43, 61n,
63n, 78, 89, 120n, 174, 248, 290
Lepelletier, Edmond-Adolphe de Bouhélier
141n
Letteratura, 330n
Levi Ginzburg, Natalia 227, 229n
Levi, Carlo 235
Levi, Giuseppe 227
Levi, Paola 227
Lion, Ferdinand 194
Lodovici, Cesare vd. Vico Lodovici
Longanesi, Leo 230
Lorenzini, Carlo vd. Collodi Carlo
Lubbock, John 63n
Lucrezio, Tito Caro 54
Luperini, Romano, 325 e n
Luporini, Maria Bianca, 62n
Lutero, Martin 44, 46, 200, 276
Luti, Giorgio 14n, 109n, 113-115,
122n, 179n, 182n, 185, 281n, 285n,
303n, 330-331n, 342n
Luzi, Mario 305n
Maccari, Paolo 303n
Machiavelli, Niccolò 120n, 283
Maeterlink, Maurice 63n
348
Pestelli.indb 348
20/11/2018 15:22:10
Magherini, Simone 24n, 58n, 93n, 133134n, 188
Magnelli, Alberto 136n
Magris, Claudio 192n, 198n
Malabotta, Manlio 192n
Manacorda, Giuliano 209n
Mandel Sugana, Gabriele 140n
Mandrioli, Giulia 21n
Manet, Édouard 141n
Manghetti, Gloria 280n, 288n
Mann, Heinrich 197
Mann, Thomas 98n, 242
Manzoni, Alessandro, 47n, 60n, 77n,
88-90, 120n, 138, 188, 339-342
Marabini, Claudio 15n, 77-78n, 283
Marangoni, famiglia triestina 218
Maraschio, Nicoletta 16n
March, William 275n
Marchi, Marco 141n
Marcuse, Herbert 275n
Maria Vergine, 276
Marinangeli, Luciana 228n, 229n
Marinetti, Filippo Tommaso 16n, 70n,
91n, 105n, 109n, 116n, 130n, 179180n, 183
Markus, Dora 219-220
Marlowe, Christopher 98n
Martelli, Mario 305n
Martignoni, Clelia 319n
Marx, Carl 43n, 234n, 283, 331n, 339
Masi, Bartolomeo 287
Massèra, Aldo Francesco 153n
Mastrocinque, Camillo 98
Mastrocinque, Cocò 98
Mastrocinque, Pica 98
Mastroianni, Marcello 229n
Matisse, Henri-Émile-Benoît 236n
Matteotti, Giacomo 317n
Mattesini, Francesco 318n
Mattioni, Stelio 192n, 199 e n, 230n
Maupassant, Gustave de 96 e n, 98-99
Maupassant, Guy de 33, 94-97, 103n, 163n
Mauriac, François 33n
Mazzini, Giuseppe 27n
Mazzoni, Guido 17n, 95n
Mazzucchelli, Paola 332n
Meda, Ambra 234n
Melfi, Eduardo 325n
Melville, Herman 210
Memmo, Francesco Paolo 288 e n, 307,
328n, 334n, 336n
Mengaldo, Pier Vincenzo, 140n, 232 n
Mercure de France, 179n
Michelstaedter, Carlo 226n, 257-258n,
269n
Missiroli, Mario 72, 78
Modigliani, Amedeo 236n
Molière (ps. di Jean-Baptiste Poquelin),
163
Molitor, Jaques 331n
Momigliano, Attilio 301-302
Mommsen, Theodor 48
Mondadori, Edizioni 26n, 103n, 107,
187n, 318n, 322
Mondadori, edizioni di novelle palazzeschiane 103n, 106, 108, 114, 123n,
129, 144, 147n, , 149-150n, 154n,
163n, 166, 169, 171n, 177n
Mondolfo, Anita 331n
Monet, Claude 141n
Monicelli, Mario 26n
Montaigne, Michel de 33 e n, 88
Montale, Eugenio (vd. anche Eusebius)
37, 106n, 194, 199, 201-202, 204225, 231, 232n, 236n, 249n, 267268n, 299, 301, 328
Montinari, Mazzino 94n, 97n
Mor, Lucia 46n
Morand, Paul 97n
Morandi, Giorgio 31-32n, 37n, 60n
Morante, Elsa 229-230
Moravia, Alberto (ps. di Alberto
Pincherle) 94n, 281
Moretti, Marino 70 e n, 93-94n, 103n,
349
Pestelli.indb 349
20/11/2018 15:22:10
113n, 116n, 130, 139-140, 154n,
163 e n
Morgana, Silvia 16n
Mosca (soprann. di Drusilla Tanzi), 205
Mosse, Georg 16n
Mugnier, Arthur 269n
Musatti, Carla 227
Musatti, Cesare Luigi 194n, 226-227
Muscione, Benedetto 22n
Musil, Robert 197, 202, 205, 239
Mussolini, Benito 25n, 226, 290, 293n,
316n, 331n, 338
N. E. I. (Nuove Edizioni Ivrea), 202,
226, 231
Narratori stranieri tradotti, Collana 210
Nava, Giuseppe 63n
Navire d’Argent, Le 207 e n
Neri, Guido 275n
Nerval, Gérard de (ps. di Gérard
Labrunie) 87n, 268 e n
Nesi, Annalisa 16n
Nesi, Cristina 305n, 316 n
Nicoletti, Giuseppe 305 e n, 308n, 310311, 326n
Nietzsche, Friedrich 33-34, 38n, 55,
65n, 88, 94-98n, 104n, 119-120, 130,
153n, 159n, 183 e n, 234n, 258n
Novaro, Mario 179n
Nozzoli, Anna 331n
O’Neill, Eugen Gladstone 197
Ochetto, Valerio 226n
Ojetti, Ugo 302n
Olivetti, Adriano 202, 210, 226-227,
230
Olivetti, Edizioni (vd. anche N. E. I.)
190
Olivetti, Erica 229n
Olivetti, Roberto 202
Omero 63n, 236, 242-243, 252, 254257, 259-260
Orazio, Quinto Flacco 257-258, 260,
282
Oriani, Alfredo 14-15n, 25n, 56 e n
Ortega y Gasset, José 210
Orvieto, Paolo 305n
Orwell, George 238n
Pacini Savoj, Leone 62n
Palazzeschi, Aldo 70n, 91n, 93-190, 229
Palli Baroni, Gabriella 233n
Palmieri, Pantaleo 14n
Pampaloni, Geno 109n
Pampaloni, Maria Ludovica 94n
Pancrazi, Pietro 302n
Panzini, Alfredo 13-91, 139n, 186, 188189
Papini, Giovanni 18n, 30, 35, 37n, 5253, 69, 71, 84, 87n, 113-114n, 121122, 130, 179n, 287
Papini, Maria Carla 185n, 280n, 288n
Parronchi, Alessandro 282n, 292-294,
296-297, 299, 303n, 331n
Pascoli, Giovanni 21n, 47n, 63n, 87, 89,
106n, 219n, 301
Pasini, Ferdinando 208
Pasolini, Pier Paolo 181, 230, 235,
259n, 330
Passione, Michele 105n
Pastore, Ottavio 314-315
Pautasso, Sergio, 101n, 313n, 317-319,
321n, 324 e n
Pavese, Cesare 210
Pavolini, Alessandro 293-294n, 317n
Pazzaglia, Mario 15n
Pea, Enrico 210
Pedriali, Federica G. 201n
Pedullà, Walter 117n, 136n
Péguy, Charles 34 e n, 53
Pellegrini, Alessandro 206 n
Pellegrini, Ernestina 198n, 319n
Pellizzi, Camillo 14n
Pendragon, Editore 71
350
Pestelli.indb 350
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Penna, Sandro 229-230
Perrotti, Nicola 194n
Pesatori, Sara 232n
Pestelli, Corrado 162n, 306-307n
Petrarca, Francesco 16-17, 28, 56, 89,
120n
Petrone, Corrado 333n
Petrucciani, Alberto 15n, 34n
Pfeiffer, Jean 275n
Piaget, Jean 227
Piccioni, Leone 185n
Pieracci Harwell, Margherita 232n
Pieri, Dino 14n, 56n
Pietromarchi, Luca 268n
Pilati, Gaetano 297n
Pincherle, Alberto vd. Moravia, Alberto
Pinelli, Giuseppe 136n
Pirandello, Luigi 70n, 107, 114, 146 e
n, 159-160, 162 e n, 170, 207, 334n
Pirotti, Umberto 15n, 112n
Piscator, Erwin Friedrich Maximilian
179
Pissarro, Camille 141n
Pittoni, Anita 192n
Platone, 33, 37-38, 53, 88-89, 188
Plauto, Tito Maccio 157, 160, 163
Plinio il Vecchio, 63n
Ponchiroli, Daniele 204 e n, 235
Poquelin, Jean-Baptiste vd. Molière
Pratesi, Mario 114, 183
Pratolini, Vasco (vd. anche Juvenilis,
Kinopa) 157, 189, 279-342
Prestigiacomo, Paolo 70n, 103n
Prezzolini, Dolores 176n, 180n
Prezzolini, Giuseppe 30, 35, 45n, 69,
82, 121, 176n, 180n, 207-208
Propp, Vladimir Jakovlevič 239
Proust, Marcel 140n, 237
Prudenzio, Aulo Clemente 189n
Puccini, Giacomo 120n
Pulci, Luigi 110
Pullini, Giorgio 281 e n
Quaglio, Antonio Enzo 153n
Quarantotti Gambini, Pier Antonio
192n, 199, 210, 230, 303
Rabelais, François 110, 139, 157
Radogna, Silvana 229n
Ragionieri, Ernesto 302n
Raimondi, Ezio 14-15n, 19n, 29n, 3134n, 37-39, 59-60, 62-64n, 88n,
90n, 122n
Rajna, Pio 254 e n
Raponi, Elena 46-47n
Rasera, Fabrizio 24n
Rebay, Luciano, 216 e n, 220n
Rèbora, Clemente 53, 65
Renan, Joseph-Ernest 33n
Renoir, Pierre-Auguste 141n
Riboli, Valeria 225n
Ricca, Adriana 229n, 239-240n, 246n,
249n
Ricci, Berto 316-317n, 331-332n
Ricci, Carlo 126n
Ricci, Manuela 14n
Rigoni, Mario Andrea 261n
Rilke, Rainer Maria 197, 227, 249 e n
Rimbaud, Arthur 33, 268
Roda, Enrico 136n
Rodocanachi, Lucia 193
Rodondi, Raffaella 139n
Rolland, Romain 34 e n, 43n, 61-62n,
88
Romagna, La 21n, 79
Romagnoli, Alberto 97-98n, 120n
Rombai, Leonardo 24n
Rosai, Ottone 287, 308, 316-317n, 332,
338n
Rosenthal, Erika 227
Rosselli, Amelia 229
Roussel, Raymond 100n
Rugafiori, Carlo 203
Ruozzi, Gino 261n
Russo, Luigi 153n
351
Pestelli.indb 351
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Saba, Linuccia 199
Saba, Umberto 194 e n, 199, 201n, 230,
236n
Sacchetti, Anna Maria 94n
Saggiatore, Il Edizioni 231
Salinari, Carlo 126n
Sandrucci, Roberto 15n
Sanguineti, Edoardo 110n, 120n, 152153n
Sanley, Guido 14n
Sapegno, Natalino 126, 305n
Savinio, Alberto (ps. di Andrea Francesco
Alberto De Chirico) 94-99, 101-103,
110, 141, 183, 229
Savinio, Angelica 98
Savinio, Ruggero 97
Savorgnani, Giulia de 225n, 262n
Scaffai, Niccolò 303n
Scalfari, Eugenio 333n
Scarpa, Gino 40, 50, 52-54, 65 e n
Schiffrer, Carlo 199
Schmitz, famiglia 199
Schmitz, Hector Aaron vd. Svevo, Italo
Schopenhauer, Arthur 161, 197
Schumann, Robert 224, 268n
Sciascia, Leonardo 95n
Scotti, Mario 302n
Sellerio, Editore 192-193, 225n, 228
Sereni, Vittorio 232-233n
Serra, Francesca 94n, 128n
Serra, Renato 13-91, 111-112 e n, 121122 e n, 186, 188-189, 334
Servadio, Emilio 194n
Servio, Mauro Onorato (grammatico)
243, 254
Shakespeare, William 98n, 106n, 197
Silone, Ignazio 282
Simonide, 40
Sisco, Jonathan 22n
Sisley, Alfred 141n
Società psicoanalitica italiana, 194n
Società, 331n
Soffici, Ardengo 30, 35-37, 91n, 115117, 119, 121-122, 130, 135n, 143n,
152n, 183, 185, 287
Sofocle, 39
Sofri, Adriano 136n
Solaria, 208, 210, 277, 318n, 330n
Soldateschi, Jole 140n, 305n
Solmi, Sergio 89n, 100n, 194, 199 e n,
202-203, 205, 210, 218-219, 230231, 235, 237, 267 e n, 278n
Somaré, Enrico 206
Somigli, Luca 96n
Sordi, Italo 320n
Spignoli, Teresa 280n, 288n
Spini, Valdo 105n
Spinoza, Baruch de 247n
Starace, Achille 294n
Starobinski, Jean 110n
Stellardi, Giuseppe 202n
Stock, Alberto 199
Stock, Nello 199
Stuparich, Giani 194, 199-200
Svevo, Italo (ps. di Hector Aaron
Schmitz) 141n, 162, 194 e n, 196197, 199, 201-202n, 205-209, 211,
225, 246, 267, 277, 300-301
Sydow, Eckart von 231
Tabucchi, Antonio 273
Tacito, Publio Cornelio 48
Taine, Hyppolite 97n
Tandello, Emanuela 202n
Tanzi, Drusilla vd. Mosca
Tasso, Torquato 89, 254n
Tellini, Gino 80n, 96n, 109-111, 113n,
115n, 120-121n, 133n, 136n, 139,
143n, 153n, 160n, 176-179
Testa, Enrico 140n
Thompson, Mark 187 e n
Times Literary Supplement, 210
Timmel, Vito 194n
Timpanaro, Sebastiano 43n, 159 e n
352
Pestelli.indb 352
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Tito Livio 105n
Tobino, Mario 147n
Tolazzi, Carlo 198
Tolstoj, Lev Nikolaevič 32-34, 38n, 6263n, 89
Tortora, Enzo 136n
Toulouse-Lautrec Monfa, comte HenriMarie-Raymond de 140-141
Tozzi, Federigo 141n, 306 e n, 308, 311,
325, 332n
Traverso, Leone, 227
Treves, Claudio 207
Troy, William 193, 234 e n
Turgenev, Ivan Sergeevič 197
Turi, Nicola 24n
Ubaldini, Edizioni 228-229, 231 e n,
234
Unali, Lina 232n
Ungaretti, Giuseppe 74, 122n, 185-189,
329
Valgimigli, Manara 243, 302n
Vallecchi, Attilio 113n, 331n
Vallecchi, Edizioni 87n, 106n, 108, 151,
164, 171, 315n, 317n, 320-322n,
Vallecchi, Enrico 135n, 282
Valpreda, Pietro 136n
Velluti, Donato 287
Velluti, Paolo 287
Veneziani Schmitz, Livia 162, 208
Veneziani, Marcello 334n
Verbaro, Caterina 281n
Verga, Giovanni 181, 196, 294, 300301, 339
Vergani, Orio 56
Verlaine, Paul 34n, 120n
Verona, Guido vd. Guido da Verona
Veruda, Umberto 208n
Vico Lodovici, Cesare 206
Vigorelli, Giancarlo 32n
Villani, Giovanni 283
Virgilio, Publio Marone 63n, 243, 254
Vittorini, Elio (vd. anche Abulfeda)
139n, 210, 331n
Voghera, Giorgio 194-195, 200 e n
Volpi, Guglielmo 287
Voltaire (ps. di François-Marie Arouet),
174
Voltolina, Nora 199
Walser, Robert 175, 197, 200
Weiss, Edoardo 194-195
Weiss, Ignazio 194
Wells, Herbert George 98n
Whitman, Walt 34n
Williams, William Carlos 193, 232-233,
234
Willis jr., Raymond S. 253n
Wittgenstein, Ludwig Josef Johan 33n
Yorick (ps. di Pietro Coccoluto Ferrigni),
114
Zampa, Giorgio 106n, 219-220
Zavattini, Cesare 56
Zinato, Emanuele 160n
Zola, Émile 153, 197
Zolla, Elémire 205
Zucconi, Angela 227
Zweig, Arnold 197
353
Pestelli.indb 353
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Finito di stampare nel mese di luglio 2018
presso Area Grafica 47 srls – Città di Castello (PG)
Pestelli.indb 354
20/11/2018 15:22:10