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ÁTOPOn Rivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose giuseppe lampis technika mythos edizioni ÁTOPOn Rivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose ISSN 1126–8530 Direzione: Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele Redazione: Giuseppe Lampis, Maria Pia Rosati, Claudio Rugafiori, Marina Plasmati, Lorenzo Scaramella Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries Edizione elettronica 2018 © «átopon» (Rivista di Psicoantropologia Simbolica) ‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale Via Guareschi 153 – Roma 00143 www.atopon.it – atoponrivista@atopon.it INDICE 1. 5 2. 7 3. 8 4. 10 5. 13 6. 15 7. 16 8. 17 9. 19 10. 21 11. 23 12. 25 13. 27 14. 29 15. 32 16. 35 17. 37 18. 40 Conclusione 45 1 Su che fare leva per la rivolta contro il mondo moderno? Dove trovare il filo d’Ariadna? * È in corso un processo disordinato e pericoloso di appiattimento nichilista. La soluzione sarebbe di ricondurre di nuovo ogni cosa a un ordinamento gerarchico, di ricostituire le gerarchie autentiche rispettose dei rapporti naturali. Le forze antinichiliste sono state sconfitte una volta, forse perché inadeguate e immeritevoli, e al momento non distinguiamo se altre si siano preparate. I popoli ex coloniali dell’Asia sono oggi in piedi e diventano vie più capaci di dominio, ma non distinguiamo se la Cina abbia la statura per dirigere un nuovo assetto del mondo intero. Possiamo pensare a una riedizione dello scontro permanente occidente–oriente? A uno scontro di civiltà? Penso che lo scontro sia più elementare; che sia, cioè, uno scontro primordiale fra razze. Fu questa la bandiera dei tedeschi nel secolo scorso, come lo fu di francesi e inglesi, però avevano un concetto sbagliato di razza e infatti hanno perso, sono stati disfatti. Quale debba essere il concetto valido si dovrebbe capire a contrariis dal nemico che dobbiamo combattere. Se questi è il tiranno che appiattisce e annulla, il suo David sarà una razza spirituale che salva le differenze. Sotto ogni guerra e ogni desiderio di vittoria c’è una legge eterna. La guerra autentica intercorre costantemente tra amici dell’essere e amici del non essere; tra amici delle idee e amici della terra. 2 Rifiuto del mondo, rifiuto di dio. Il rifiuto di dio da parte dell’uomo è il rovescio simmetrico del rifiuto dell’uomo da parte di dio. Il No ha due facce, è polivalente; un no unidirezionale non sarebbe completo e celerebbe in sé un sì mascherato. Il rifiuto di dio da parte dell’uomo equivale perciò a un rifiuto di sé stesso; equivale a percepire sé stessi per un estraneo ostile e alternativo. Il rifiuto del mondo da parte dell’uomo è la medesima cosa. Rifiuto del mondo, rifiuto del tempo, rifiuto della storia, rifiuto dei cicli, rifiuto delle costruzioni varie e differenti, sono la medesima cosa del rifiuto di sé stessi. Il mondo, qualunque mondo, perfino il peggiore dei mondi possibili, sono il nostro ritratto; di più, siamo giusto noi, specie quando ha il volto del male. 3 Tecnica non è esattamente scienza. Il vincolo stretto della scienza con la tecnica e di conseguenza con l’industria è un carattere tipico della modernità trionfante. Affinché ciò potesse avvenire, la scienza, la episteme greca, doveva subire una torsione. In Heidegger la tecnica è un destino Geschick, un invio, e un evento Ereignis. Una manifestazione dell’essere che di per sé è celato e disvelabile perciò esclusivamente per suo insondabile decreto. Nell’epoca attuale, si pone nella forma o formazione del sistema scientifico–tecnico–industriale. La tecnica in atto si realizza in un destino peculiare che la pone sotto la stretta dell’industria avendo essa a sua volta posto la scienza sotto la propria stretta. Potremo pertanto dire con espressione tranchante che la tecnica in atto ha nome e cognome. Dietro essa, si tiene la finanza alla ricerca del massimo profitto per le allocazioni dei suoi investimenti. L’archetipo misterioso che occhieggia un invio dell’essere si impone nelle specie concrete di un sistema etico–politico industriale che in quanto tale ha dietro di sé gli uomini delle imprese dotate, allo stato, del potere di organizzare il mercato. 4 tèchne arte del costruire dalla radice teks sanscrito takṣati costruire latino texō tessere * Connessa con la episteme strettamente e intimamente, cattura potenze naturali, utilizza forze presenti nell’universo, le rende disponibili all’uomo per moltiplicare la sua capacità di fare. Al fondo, forma un’arma. Inserisce l’uomo nel processo della creazione, nel proseguimento e perfino nel rifacimento del reale che l’uomo trova, nel senso cioè di una creazione alternativa. Per queste ragioni, ha la sua radice nella ricerca del gesto perfetto, nella maniera di magia, sacrificio, alchimia. Quando è il lato operativo dell’autentica episteme, è atto di integrazione intima e profonda con l’essere, e allora è l’antica techne. Il gesto perfetto, dunque, è l’espressione dell’Uomo perfetto, integrato, sapiente, ascoltatore e esecutore dell’essere. * Al mutare dei tempi e dell’uomo, nell’età del ferro, nel Kali–yuga, c’è, poi, una tecnica che non diremo degenere ma piuttosto congenere con un altro destino più duro e tipica di uno scenario pericoloso balzato in primo piano mentre negli yuga precedenti era implicito. Questa attuale non si presenta arma dell’uomo perfetto bensì arma dell’uomo–massa. Tale situazione specifica porta le stigmate di una contraddizione insanabile, perché la tecnica è per essenza aristocratica, esclusiva di una cerchia ristretta, rigorosamente selettiva, iniziatica. Gli uomini–massa la usano per abolire la loro condizione di schiavitù e inferiorità metafisica, per togliersi dal piano di servi e ascendere a quello di signori e liberi. Sicuramente non prevalebunt, almeno non per quella strada, la strada imboccata porta altrove. Innanzitutto alla loro catastrofe. Il miraggio della libertà è il rivestimento esterno illusorio della loro fine necessaria; per loro la libertà, l’unica loro spettante, è la catastrofe semplicemente, la libertà della fine. Tra l’altro, il processo corre con progressive accelerazioni. Non si tratta di un auspicio politico. Accadrà per una ragione strutturale. La tecnica è in sé pericolosa ed esige la mano del sapiente. La tecnica è arte della trasformazione dall’essere in non essere e del non essere in essere; tentando di manipolare le forze della natura ed esercitandosi nel rapporto essere–nulla, esige un attore dal dèmone alto. L’utilizzo della negazione è pericoloso. Pericoloso perché il Non è creativo e un gesto non perfetto lo rende decreativo. Per dirla molto sinteticamente, la Negazione è bivalente: può negare e basta e può affermare. Però deve essere usata da un tipo di alto profilo. Essa postula un Herrenvolk, una razza di signori, liberi in sé, non bisognevoli della tecnica per rendersi tali. È una follia che Faust, per la smania di padroneggiare nel mondo, venda l’anima. 5 La tecnica usa le forze della natura. Verso quale fine? Hegel ha trattato la questione nella Fenomenologia dello Spirito con la famosa figura (o complesso archetipico) della «dominazione». Il favore delle forze della natura permette al signore di dirigere la tecnica verso la pienezza e l’integrazione; tuttavia, il lavoro necessario della trasformazione mette in contatto con il nulla ed egli si tiene lontano dal lavoro e fa lavorare il servo. Il servo è colui che nel duello per chi dovesse dominare ha ceduto, riconoscendo la propria inferiorità. Il servo è colui che ha avuto paura di morire. Colui, in breve, che ha avuto paura di essere uomo. Si comprende il motivo per cui un simile soggetto, quando dovesse avere in mano la tecnica, la userebbe per risalire artificialmente dalla sua insufficienza costitutiva, avvitandosi ansiosamente in una famelica moltiplicazione di dispositivi industriali. In effetti, dato che il signore lo fa lavorare, egli ha per l’appunto in mano la tecnica e il guaio è fatto. Salvo che il signore lo pieghi nuovamente e lo rimetta al suo posto. Un popolo vile non dirige, è trascinato in una spirale e si illude di poter acquistare nella tecnica la qualità che gli difetta. In essa cerca la felicità personale e individuale e non la pienezza del rapporto con l’essere. La spirale è involontaria e inevitabile; la presunzione di poter distrarre la tecnica dalla sua originale natura, e cacciarla a forza nella condizione di merce, innesca meccanismi fatali. In un’epoca nella quale l’organizzazione dei mercati non avviene sotto la direzione di un Herrenvolk bisogna aspettare che la discesa finisca. 6 Naturalmente non possiamo escludere che il punto di svolta sia stato già doppiato e che nel mondo si sia instaurato un popolo di signori adeguato alla natura autentica della tecnica e capace di reggere la sua pericolosità; un popolo che stia effettivamente affermando la nuova epoca della pienezza dell’essere. Chi soccombe, e soccombe per avere perso la episteme, non avrebbe potuto riconoscerlo. Vedrebbe, infatti, le cose a rovescio proprio a causa del fatto che è stato rovesciato e emarginato; scambierebbe l’avvento dei nuovi interpreti dell’essere, crudelmente indifferenti ai valori dei perdenti, per un grave male. Non lo possiamo escludere. Da molti segni dovremmo peraltro sospettare che le cose non stiano precisamente secondo le analisi dei sociologi dell’occidente ormai afflosciato e declinante. 7 Volendo definire il significato epocale archetipico della scienza–tecnica, diremo che è l'ultima incarnazione (travolgente) della gnosi anticreazione. La sua tesi centrale è nota: la creazione del dio primo creatore è sbagliata, ergo la rifaccio. Siamo all'approdo finale (o quasi) dell'insurrezione dell'ego (in principio incarnato nello sciamano, successivamente nel saggio, infine nell'esteta...). In termini freudiani, accade che l'ego per liberarsi del super–ego si sostituisce ad esso. 8 La tecnica rientra nella simbolica della creazione alternativa al dio primo creatore. Creazione nuova, ribelle, correttiva, potenziata con accelerazioni inaudite. L’attacco viene motivato dalla denuncia che la prima creazione è fatta male e contiene il male per le creature in quanto il creatore si è tenuto il bene interamente per sé. Il secondo creatore è un principio ben noto dai primordi in ogni tradizione religiosa. In sostanza è l’uomo, l’uomo sconfitto dal dio del giardino beato, espulso dal paradiso covando indomabile la rimonta. Il suo disegno è di usare la creazione contro la creazione. Ma, in fondo, la creatura e la forza creata più decisiva per il successo del proposito è l’uomo stesso. Dimodoché la divisa «usare la creazione contro la creazione» si riformula in «usare l’uomo contro l’uomo». In questo scorcio della storia, siamo nella fase dello scontro tra due generi di uomo. Con la terribile difficoltà che le lingue sono confuse e non è chiaro contro che cosa marciamo schierandoci con gli uni invece che con gli altri. Non siamo più in grado di riconoscere i nostri affini con sicurezza. Per questo ci dividiamo in coloro per cui tanto vale che mandiamo tutti all’inferno e in coloro per cui, altrettanto legittimamente, che mandiamo tutti in paradiso. 9 La tecnica non è una nuvola anonima piovuta sopra di noi da una sfera oscura; essa appartiene all’intimo impasto della situazione storica degli umani. L’uso rispettoso e l’uso manipolatorio delle forze naturali cominciano entrambi dal fatto che le forze naturali si prestano a essere usate e manipolate. Fino a qui potrebbe sembrare che la questione della tecnica sia una questione di scelta e di etica, invece emerge che la tecnica è portatrice di una potenza pre–etica o super–etica e che, alla fine, è al di là del bene e del male. Ora, solo il divino è al di là del bene e del male. Ne deriva che la tecnica si pretende dio, o almeno un dio. Se lo fosse, si spiegherebbe meglio il suo contrasto con tutti gli dèi conosciuti. Potrebbe darsi, però, che il dio di cui è espressione sia l’uomo, l’uomo trasformato e insurrezionale. In tal caso, la questione della tecnica sarebbe la questione del conflitto eterno tra l’uomo e dio. Sarà mai risolta? Non lo credo, potrà essere variamente riformulata, ma permarrà. L’uomo non può evitare di far avanzare in primo piano la sua natura divina; e parimenti dio non può permettere che esso fraintenda il carattere di questa natura e si creda dio assoluto. L’uomo è uno dei tanti dèi, non è l’unico. Nessuno è l’unico, l’unico non è un dio determinato, se ci fosse sarebbe la fine di tutti gli altri. 10 Lo scontro tra due generi di uomo può essere inteso in termini di dramma etico, ovverosia come scontro tra due etiche. Due etiche o due usi della tecnica per due finalità in opposizione. Ma, alla base di questa lettura, sta il presupposto che la tecnica e la scienza siano asservibili e usabili. Il problema della maniera di usarle non si porrebbe nemmeno se non fossero usabili per intrinseca costituzione e subalterne a un orientamento etico. Dunque il destino della tecnica, e della scienza– tecnica, non è altro che il destino delle scelte umane; e la sua configurazione non è altro che la configurazione dell’ethos umano con i suoi limiti, le sue patologie, il suo dramma. La suddetta affermazione regge salvo che non si voglia intendere che la tecnica trascende l’uomo e lo governa e che pertanto non dipende dall’etica umana perché ha ne ha una sua, superiore e indifferente. In tale circostanza, non l’uomo sarebbe il destino della tecnica bensì la tecnica sarebbe il destino dell’uomo. Una variante più approfondita dell’ipotesi è che la tecnica sarebbe il destino di un certo genere di uomo (l’uomo–massa) mentre l’altro genere di uomo (l’uomo integrato) sarebbe il destino della tecnica. Il duello contrapporrebbe, insomma, servi della tecnica a dominatori della tecnica. Tuttavia, dato che la tecnica è alla fin fine l’uomo stesso nel suo profondo essere azione, lotta e creatività, il duello si instaura tra coloro che si risolvono e si conformano con le correnti autentiche della vita e coloro che non si risolvono e pretendono di invertire la natura che percepiscono ostile e fallace. 11 Heidegger ha colto il cuore del problema, in questa epoca il fuoco di Prometeo va da solo e travolge tutti. Ritengo che la tesi di Heidegger sulla tecnica sia assolutamente valida. La tecnica non è uno strumento in mano agli uomini, ha una potenza che procede indipendentemente e che anzi li trascina. Il sistema tecnico è per l’appunto un sistema, un Gestell, una im– posizione, un impianto. La tecnica non si spiega attraverso la propensione umana al fare, è essa che spiega e determina la prassi inaugurata dalla svolta della Grecia a noi. Da allora, l’essere si è sottratto agli umani e ha inviato un «destino» che occupa lo spazio lasciato vuoto dal suo allontanamento, la tecnica. La tecnica è la conseguenza della impossibilità umana di vivere l’essere nella pienezza autentica. Dipende tutto ciò da una colpa o da una responsabilità degli uomini? Sarebbe troppo attribuire a loro questo potere, sia pure negativo. Gli uomini non sono in condizione di determinare il destino dell’essere. Avvitandosi nella crescente incapacità di essere sé stessi nel fondo autentico che li costituisce, sono entrati sotto la costellazione della tecnica e ne sono trascinati. Fino a quando un dio vorrà salvarli, per un suo imperscrutabile disegno e sovrano arbitrio. (Lampis Catarsi II, Via della mano sinistra, 2015, 131) 12 Hegel espone nella sua Fenomenologia la dinamica della frattura di dio nelle figure in cui si articola la storia del mondo. La figura di Faust (Goethe) è il tipo della tecnica moderna; sorge quando l’uomo vive il mondo come un ob–jectum, un op–posto, e organizza un’intera civiltà per dominarlo. Ma più tale azione va avanti più egli si aliena perché il mondo–oggetto è la sua stessa vita, esteriorizzata e non riconosciuta. Inoltre l’oggetto presupposto, finché l’uomo se ne tiene separato, sfugge alla presa e moltiplica e amplifica il suo potere dirigendo, non riconosciuto, la civiltà che lo insegue. La cultura faustiana e il Gestell scientifico– tecnico–industriale sono il destino dell’uomo che, scisso e alienato, non riesce a riappropriarsi del sé esterno e, inconsapevole, ne diventa il servo. Che cosa urge di tanto mostruoso nel sé dell’uomo da averlo indotto a proiettarlo fuori per non doverlo guardare in faccia? (Catarsi II, Via della mano sinistra, 134) 13 Per Ernst Jünger si deve parlare (1934) di «carattere di lavoro» dell’epoca; l’epoca è caratterizzata dalla forma del lavoro, cioè dal tipo di umanità del lavoratore, del faber, dello Arbeiter. Per Heidegger, il segno dell’epoca è la tecnica; la tecnica è un destino, un evento inviato che eccede e determina l’uomo, un sovrastante «impianto», un Gestell. Differenze o affinità? * All’individuo di alto valore è permesso al massimo di realizzare strabilianti successi circoscritti; il regno dell’individuo, nell’epoca attuale, si ferma entro un raggio che per quanto sia sfolgorante resta pur sempre limitato. La tecnica è sì un’arma ma per essa non basta più il braccio del guerriero coraggioso e astuto dei duelli di Omero. Siamo tornati più indietro; essa è un’arma che si fa usare ormai soltanto dall’orda. La tecnica è un sistema, è il sistema (il Gestell per Heidegger, «l’impianto»); il braccio che usa un sistema deve essere sistematico, non individuale. * Jünger: «Chi ha compreso che la tecnica è ciò che per Perseo era la testa della Gorgone – un’armatura tale da assicurare potenza terrestre e ricchezza – … avrebbe potuto predire con certezza ai giapponesi che non sarebbe stato loro possibile vincere “controcorrente” una guerra mondiale.» (An der Zeitmauer; tr. it. Al muro del tempo 1981, 269) 14 Heidegger, respinto a suo tempo da «quelli lì», da oltre mezzo secolo ispira, con altri tedeschi filosofi sociologi teologi, la sinistra non marxista che rilegge il Nietzsche avverso all’industrialismo e al pensiero unico. Quale la immaginava? derivata politica della rivolta che Il vuoto aperto dal ritrarsi dell’essere è occupato dalla tecnica. L’impianto del sistema tecnico–industriale, e dell’umanità disintegrata ad esso funzionale, ha sostituito l’assente. Il pastore dell’essere, che vorrebbe una terra non deposito di materie prime, aspetta un dio che ci salvi. Ci salvi per uscire dall’età oscura della metafisica che contempla solo oggetti da manipolare, per abbattere la smodata pretesa di dominio del sistema industriale, per ritornare all’accoglimento grato pensante (denken–danken) dell’essere. Orbene, un simile progetto (religioso e filosofico, politico e militare, economico e antropologico) esigerebbe l’avvento di una forza capace di bandire l’umanità assetata di possessi alienati volgari e velenosi. Per debellare i superbi desacralizzanti, la signoria andrebbe affidata a chi la eserciti secondo le gerarchie di dike e moira. Il centro in cui questi abiteranno sarà il focolare dell’essere, il tempio di Estia. Enorme, tuttavia, sarebbe l’impresa di entrare in un ciclo rinnovato ab imis seguendo una filosofia che retroceda l’Europa fino al bivio dove ha deviato nell’errore metafisico, umanistico soggettivista. A maggior ragione in questo caso sarebbe giusto aspettarsi la riuscita solo da una gerarchia (l’ordine della polis) sintonizzata con dike e moira. Non travisata e non strumentalizzata a piacimento. Non è infatti la gerarchia in sé ad essere contraria a dike e a moira: è che nelle età oscure si impancano in alto coloro che per categoria funzionale e inadeguatezza filosofica avrebbero dovuto stare in basso. Il vero problema politico non si ferma però alla determinazione di chi non deve dirigere perché nemico dell’essere ma comprende chi meriti a buon diritto di incarnare il tipo e il ruolo signorile perché autentico amico. E chi, oggi, potrebbe non usurpare il titolo signorile essendo capace di contrastare l’espansione mondiale del nichilismo? Ad ogni modo, tale è la natura della crisi che per Heidegger unicamente un dio potrà salvare la terra e noi in essa. Non altri che un dio saprà scegliere coloro che dovranno eseguire il mandato. Qualcuno potrà illudersi, alzarsi e autoconvincersi di essere il chiamato ma finirà per alimentare la caldaia nella quale siamo messi a cuocere da millenni. (Catarsi I, Che il cuore danzi, 136) 15 Eraclito e Jünger Eraclito sa che la guerra è dike, l’anima profonda della realtà e della verità. Essa istituisce la libertà e istituisce il servaggio. Rivela chi è oltre la morte e chi sotto. La guerra organizza il mondo, sempre. Anzi, non c’è distinzione tra guerra e mondo, quasi fossero soggetto e oggetto, perché guerra e mondo sono un’identica cosa. Se il mondo è formato dalla guerra, la capacità di costruire armi efficaci e vittoriose è al centro del movimento creativo. Di più, se la guerra «è» il mondo, la costruzione di armi costantemente vittoriose è l’essenza del mondo. Per essere efficaci e invincibili, le armi devono convogliare in sé le forze profonde dell’universo e non possono essere prodotti marginali, parziali, estrinseci, artificiosi. Jünger afferma che nell’epoca attuale la tecnica ha esteso al grado massimo la propria capacità di strumentalizzazione in quanto è arrivata a fare del mondo intero un’arma. A questo approdo finale e culminante, il conflitto si pone in termini netti e assoluti, la posta di fondo è abbagliante in primo piano. Inoltre, non ci sono più due contendenti ciascuno dotato di proprie armi, siano dèi contro uomini o uomini contro uomini, ma accade che c’è un’arma potentissima omnipervasiva mostruosamente autonoma rivolta contro gli uomini. Giunti al limite, si rivela una dialettica che in precedenza era in ombra: anti–uomo e uomo sono ambedue un’arma. In breve, l’uomo è l’arma in radice e finale e può usarla a favore di sé o contro di sé. La guerra non solo è nell’uomo, è l’uomo. Questo balza netto dalla planetarizzazione della tecnica. L’uomo è il protagonista della creazione o della distruzione di sé stesso, è il protagonista del grande dramma, e combatte in sé per essere o non essere. O cadere sotto il tiranno e dissolvere la propria identità nell’anonimo, o stare in piedi come una forma unica, irripetibile e inconfondibile. Ma il tiranno è dentro di lui, allo stesso modo che egli è anche il ribelle al tiranno. L’organizzazione del mondo, nelle varie epoche della capacità tecnica, capacità finalizzata a eseguire i comandi dello spirito della guerra, pone ognora in forma drammatica la distinzione tra essere e non essere. Alla luce della legge sovrana del mondo, si mostra che essere e non essere equivalgono a essere liberi o essere schiavi. «Essere» e «essere liberi» sono un sinonimo. Il problema della libertà non è storico, è metafisico. Questo ha compreso in profondità Jünger e lo ha compreso, ritengo, guardando nel pensiero accecante di Eraclito e scrutandone il segno. 16 Il compimento dell’espansione del sistema tecnico–scientifico–industriale su scala planetaria produce un’apocalisse inaudita. La tecnica squarcia il velo e si manifesta nella sua indocile crudezza; sfuggita dalle mani dell’uomo, sfuggita dalle mani dell’uomo–guerriero, lungi dal consegnargli il dominio della terra, lo afferra per sé sottomettendo coloro che l’avevano alimentata. Giunti alla sottomissione del mondo al regno della quantità e al suo completo assorbimento nella tecnica, appare che non era l’uomo a promuoverla e a usarla ma che, al contrario, era essa a usare l’uomo nutrendosi della sua inclinazione a illudersi e a servire. A forza di ubriacarsi, si appalesa che non è l’uomo a controllare l’alcol, è l’alcol a trascinarlo con sé dove vuole. Quale uomo? di quale genere o popolo? Dei congeniali con lo spirito del sistema tecnico, evidentemente; gli indifferenziati, i ripetitivi e ripetibili, gli omogenei alla merce e risolti nel circuito del mercato globale, merce essi stessi. Non erano certo loro a essere dotati del potere di reggere l’arma formidabile e dirigerla; loro sono il popolo degli gnomi della sua miniera e i fuochisti addetti a gettare instancabili pale di carbone nella caldaia del suo motore. Quest’uomo ordinario, l’uomo–massa saldato nel modello perfettamente funzionale al mondo tecnicizzato ed espressione e incarnazione della tecnica, deve tuttavia vincere l’ultima battaglia in cui si decide l’intera guerra. L’ultima battaglia si può combattere solo adesso, perché solo adesso siamo arrivati al limite. Per instaurare appieno il regno della quantità, gli resta di togliere di mezzo l’uomo indigesto al sistema nichilista livellante. Finché sull’arena di fronte alle belve rimarrà in piedi un martire della fede nell’uomo unicum e libero, sulle gradinate dell’anfiteatro correrà ancora un dubbio sull’effettiva potenza del tiranno. La massima espansione della tecnica annuncia che sono maturi i tempi della decisione finale. Ora si fa flagrante che la guerra contrapponeva due tipi di uomo e che, in ultima analisi, la guerra si agitava dentro ciascuno di noi. Con l’eterno dilemma, all’eterno Shakespeare: «essere o non essere.» bivio di Essere e essere liberi sono un sinonimo. Il problema della libertà non è storico, è metafisico. 17 per me uno vale diecimila se ha l’aretè Eraclito, frammento 49 εἶς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ᾖ La prova che si presenta non è il semplice episodio di un ciclo più ampio. In essa si addensa la maturazione finale della storia del nostro tempo e dopo il risultato avremo un altro mondo e un’altra storia. Il risultato introduce una cesura e l’avvento di una sfera non anticipabile dal piano in cui ci troviamo ora. Il chiarimento che la prova riguarda senza residui l’intero pianeta e il complesso della sua storia contiene il chiarimento che la prova ha una natura apocalittica e finale. Per la seconda volta dalla creazione, dopo la tentazione del serpente, gli uomini decidono il tutto o il niente di sé. Per questa ragione le schiere sono chiamate a essere sé stesse con rigore e a radunarsi senza confondere le insegne. La prova è mondiale e la linea del fronte amico– nemico è mondiale ed è trasversale rispetto a ogni aggregato che non si muova su quella scala. Per superare la minaccia nichilista radicale gli amici dell’essere e dell’affermazione, da nemici del non essere e della negazione, devono raccogliersi oltre ogni sottoparte dell’intero orizzonte. Bisogna svegliare, chiamare, suscitare ed estrarre dal bozzolo di razze, nazioni, stati, corporazioni, gruppi, tribù, ecclesie, le élites amiche dell’essere e organizzarle e approntarle a instaurare il regno di dike, l’ordine gerarchico rispettoso del giusto abitare sulla terra. Il tentativo antinichilista va ripetuto ancora, se mai ce ne siano stati in passato. L’approccio preliminare è faticoso e pericoloso, gli errori sono fatali perché consistono nello smascheramento dei complici della dissoluzione e della liquefazione e nel prendere le distanze dalle vite irrisolte che si attaccano fameliche ai forti per deprivarli di ogni energia. La preparazione filosofica antropologica psicologica condiziona l’impresa. Se non riesce la preliminare distinzione e purificazione non sarà possibile che gli amici dell’essere si riconoscano e si affratellino nella linea di combattimento. Gettare fra di loro il germe di qualsiasi divisione e impedire che si alzino con la forma di una razza spirituale internazionale è la tattica maligna finora coronata da successo dai promotori dell’indifferenziato. La difficoltà più perversa sta nel saper smascherare che indifferenziato non corrisponde a universale e internazionale. L’Uno non è grigio amorfo omogeneo. Farlo credere è una trappola, la trappola più efficace. 18 Il veltro Se, poi, l’appello cade nel vuoto e nessuno si alza, vuol dire che il dio ora salito al comando ha deciso di perderci per compiacere la madre, la Grande madre Terra infastidita da un’umanità smodata di insetti. Perciò affonderemo, salvo che non abbia a realizzarsi la misteriosa profezia di Dante sull’arrivo del «veltro» (Inferno 1, 100–111). Anche il labirinto ha un’uscita. Alla conclusione di questo studio, una sorpresa. La sorpresa è che possiamo riconoscere di essere prossimi alla luce proprio perché l’epoca oscura copre definitivamente l’intero orizzonte. Infatti, si passa oltre solo quando il limite è raggiunto. Oltre la linea dell’ombra, la luce; arrivare alla linea e riconoscerla è la condizione pregiudiziale della libertà. Nel 1946 Heidegger e Jünger hanno dialogato con due rispettivi saggi in un libro congiunto cui dettero il titolo di Über die Linie, Oltre la linea. Non possiamo pretendere che l’uomo–massa capisca, unicamente il saggio sa che le epoche del ciclo non si escludono reciprocamente e non sono cadenzate e distanziate una alla volta; la successione in cui vengono presentate serve solo a facilitare l’esposizione exoterica della verità. Invece, in ogni epoca la faccia che si mostra contiene un inscindibile rovescio; il tipo d’uomo che prevale in primo piano copre semplicemente gli altri ai quali è inscindibilmente connesso; questi sono invisibili per l’ombra dell’ignoranza in atto o per l’ombra degli ignoranti; eppure ci sono. Ogni epoca nera è anche epoca d’oro per chi sa smontare l’allestimento teatrale visibile dalla platea e guardare alla sostanza dietro le quinte. La configurazione della prova che egli affronta è difficile al grado massimo; la prova è più difficile che in altri tempi, ma anche la soluzione sarà (sarebbe) più liberatoria. Più alto e maturo sarà il problema, più radicale sarà lo scioglimento. «infin che'l veltro verrà» Il veltro è in cammino da secoli e ormai dovrebbe essere in vista dagli avamposti del deserto. Esso guida la muta della caccia selvaggia, la schiera del dio della catastrofe creativa raccolta fra coloro che si sono alzati dal sonno e sono divenuti guerrieri custodi dei vivi e dei morti. I seguaci della sacra sessualità e i posseduti dal dio sono il mucchio selvaggio, la cavalcata selvaggia. Il principio divino del possente primitivo azzeratore è il duplice Dioniso, identificato con Ade da Eraclito (frammento 15); il mana della sessualità congiunto con il mana della morte; dio dell’ebbrezza e dell’invasamento estatico. I germani chiamavano Wotan–Odino questo dio primordiale e trascinante, analizzato da Jung in un importante saggio del 1936. L’attacco sferrato da Wotan contiene un fine escatologico; egli intende selezionare i suoi, gli eroi più degni di fare parte del suo esercito. Wotan non è solo distruzione, egli interviene nella fase finale quando non c’è più tempo e devono emergere i veri guerrieri, coloro che avranno la capacità di seguirlo nel passaggio definitivo. Il nuovo evo sprizza dalla ecstasi di Wotan–Odino e del suo esercito di votati al passaggio finale – il mucchio selvaggio. Wotan non è diverso da JHWH e da Allah. Questi potenti hanno la caratteristica di condurre al limite, nel punto in cui il mondo di ora fra i molti o infiniti mondi può diventare l’ultimo e l’unico. La successione delle epoche e dei millenni non va intesa in senso cronologico orizzontale. Per Wotan, JHWH, Allah, non c’è un prima e un dopo – non c’è il tempo –, tutto è condensato nella contemporaneità. Con le forze psichiche, gli archetipi, siamo su un piano atemporale e strutturale e non nella esteriorità delle date del calendario. La trama delle loro azioni e dei loro conflitti sta dentro le cose per sempre. Così, con la cavalcata dei rapiti dallo spirito di Wotan, si profila un vasto fronte all’attacco per introdurre in un nuovo mondo, quando la guerra finale avrà spazzato via il vecchio inclinato al demoniaco. Nella catastrofe c’è anche l’ecstasi, il salto. L’entrata è il rovescio di un’uscita. Siamo noi che dobbiamo imparare a vederlo, non c’è distruzione o affondamento allo stato puro. Quel genere di esercizio della violenza combattiva di per sé contiene anche l’apertura di un mondo prima chiuso. Non sarà indolore e non sarà per tutti, bisogna avere l’animo di accettare il significato profondo della morte. Precisamente di quel varco che ha terrorizzato l’uomo comune consegnandolo alla dominazione del tiranno tecnico. Nel sacrificio perfetto la vittima non muore e basta, il sacrificatore che è anche vittima di sé chiude un mondo e ne apre un altro. * Ad ogni conto, il nulla non ha presa su colui che capisce e sa. Al saggio non cale né il colore né la durezza dell’età in cui vive. La sua vista non è condizionata ma incondizionata. «Di quanti ho ascoltato i discorsi, nessuno era arrivato a capire che il Sapiente è separato dal contesto globale» (Eraclito B 108). Il saggio è «separato», sophon esti panton kechorismenon; non è preda dell’irrigidito mondo della quantità votato alla perdizione e al dissolvimento; vive le cose da una prospettiva creativa; è impegnato ma non appesantito; è coinvolto ma non travolto. Ha la serena malinconia del solitario, è cittadino di una nascosta lontananza e non può essere realisticamente proposto a modello per masse sterminate di uomini in caduta senza freno. Nondimeno, ha un dovere, un compito: apparire anche nell’attuale, proprio nell’attuale. Quando l’unico appare, ognuno si gira verso di lui. Aspettiamo che l’azzeratore nella sua ecstasi lo mostri. Conclusione Dove ci porta la speculazione di Goethe, Spengler, Jünger, Mann, Heidegger sulla technika? Che arriviamo a vedere imboccando la via dal mito di Faust al Gestell–Impianto, attraverso la Kultur faustiana, lo Arbeiter–Operaio e il Doktor Faustus? * La technika conferisce un enorme potere a un determinato tipo di uomo e nel tempo stesso lo abbraccia stretto fino a plasmarlo e ricrearlo a sua misura. La technika contiene un potenziale demonico incline a tradursi in pericolo demoniaco; questo sbocco riesce se e quando integra a sé un’umanità omogenea. Ora, raggiunta la dimensione universale per la saldatura con un’umanità pressoché al massimo della riproducibilità, la realizzazione del suo impianto totalitario pone un problema non più storico bensì squisitamente metafisico. Essere o non essere. Tutto o niente. Sì o no. La technika conferisce uno smisurato potere a un certo tipo di uomo, l’uomo servile, timoroso della propria limitatezza mortale; non solo, conferisce, lo afferra, profittando debolezza di quello, in un abbraccio plasmarlo e ricrearlo a sua misura, nell’interna dialettica del suo impianto. mentre glielo dell’intrinseca stretto fino a assimilandolo È l’acme di un gigantesco processo nichilista. Eppure sapremo superare la prova, se non assumeremo la technika come un super–oggetto assoluto, una sorta di sostituto del dio trascendente e arbitrario, e la decifreremo nella relazione con la dinamica delle debolezze e delle forze dell’anima. Albert Einstein e Thomas Mann 1938