Il De vita monachorum
di Lelio Capilupi
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea in Lettere Classiche
Cattedra di Letteratura latina medievale e umanistica
Candidato
Diego Viola
n° matricola 1623148
Relatore
Prof.ssa Donatella Manzoli
A/A 2016/2017
INDICE
1. Introduzione al centone ……………………………………………………………………………………………………… 3
1. 1 Il centonatore Lelio Capilupi ………………………………………………………………………………………... 3
1. 2 Le vicende editoriali dell’opera ………………………………………………………………………………………… 4
1. 3 La struttura del De vita monachorum ……………..………………………………….………………………….. 7
1. 4 Criteri di edizione del testo ………………………………………….……………………..………………………… 8
1. 5 Conspectus siglorum …………………………………………………………………………………………………........ 9
2. Testo …………………………………………………………………………………………………………………………………..10
3. Traduzione ………………………………………………………………………………………………………………………… 27
4. Analisi del centone …………………………………………………………………………………………………………….. 44
4. 1 Loci vergiliani ……………………………………………………………………………………………………………… 44
4. 2 Commento ………………………………………………………………………………………………………………….. 53
Bibliografia …………………………………………………………………………………………………………………………… 64
Introduzione al centone
1 Il centonatore Lelio Capilupi
Lelio Capilupi
Su Lelio Capilupi cfr. Calitti (1985); Manzoli (2010); Ead. (2012); Ead. (2014); Mutini (1975); Parra Garcia (1999); Rhodes (1994); Tucker (1997); Id. (2006); Id. (2009); Id. (2013). nacque a Mantova nel 1497, primogenito di Benedetto e di Taddea de’ Grotti. Il padre fu diplomatico presso la corte dei Gonzaga, erudito e “benemerito raccoglitore di codici che costituiranno il patrimonio di famiglia”
Mutini (1975).. Dei nove figli di Benedetto ben quattro (Lelio, Alfonso, Camillo e Ippolito) si dedicarono all’attività letteraria.
In conformità con le tradizioni familiari, Lelio fu avviato allo studio del diritto, cui attese a partire dal 1515 a Bologna
Manzoli (2010). e che presto abbandonò per assecondare la propria vocazione poetica.
La sua non fu però una totale diserzione, in quanto egli riuscì sempre a conciliare l’ispirazione letteraria con un’accorta e prudente attività diplomatica, largamente documentata anche nelle dediche delle sue opere.
Negli anni ’30 fu al servizio di Ippolito d’Este (1509 – 1572)
Simeoni (1932)., figlio del duca di Ferrara Alfonso e futuro dedicatario del centone De vita monachorum. Si è ritenuto che proprio al suo seguito Lelio giungesse per la prima volta a Roma, forse nel 1539, anno in cui Ippolito, già arcivescovo di Milano, ricevette la porpora cardinalizia dalle mani di Paolo III.
Questa ricostruzione è stata recentemente messa in dubbio da Manzoli
Manzoli (2010), pp. 166-167., secondo la quale Capilupi sarebbe giunto in città ben prima, nel 1528, e al servizio non di Ippolito, ma di Ercole Gonzaga, nominato cardinale l’anno prima. La studiosa cita a riguardo un componimento capilupiano, privo di data, ma eloquentemente intitolato Ad Herculem Gonzagam dum ipse Capilupus Romae in custodia servaretur
Ibid. (2010), p. 167..
A partire dal 1550 è a Roma anche un altro mantovano, il futuro gesuita Antonio Possevino (1533 – 1611)
Faccioli (1962), p. 443 su Possevino cfr. Candeloro (1935)., editore, nel 1555, della raccolta di centoni dell’amico e compatriota Lelio.
Il periodo romano di Capilupi fu intervallato da lunghi soggiorni in Francia, dove egli poté comodamente dividersi tra gli impegni del suo ufficio e i raffinati passatempi del cortigiano. Pur tuttavia la carriera diplomatica non fu mai la sua primaria incombenza: egli fu maggiormente tentato dal disimpegno mondano e dall’otium letterario, cui attese sempre con estrema dedizione.
Fu a Roma almeno fino al 1555, anno della pubblicazione dei suoi centoni ad opera del Possevino. Morì pochi anni dopo, nel 1560, a Mantova.
Capilupi fu ingegno poliedrico, letterato ed erudito non privo di una profonda sensibilità artistica. La sua opera, che include produzione latina e volgare, testimonia alcune delle tendenze poetiche più caratteristiche del Rinascimento maturo. Si cimentò infatti in diversi generi: fu autore di lirica volgare di gusto petrarchista, che praticò seguendo i più rigidi dettami bembiani, ma anche di una vasta e originale produzione latina.
In effetti la vena poetica e la sensibilità linguistica del Capilupi furono probabilmente più autenticamente latine che volgari e gli permisero di intraprendere la funambolica impresa di riportare in voga un genere letterario ormai dimenticato: quello dei centoni virgiliani. Dagli anni ’40 fin quasi alla fine della sua vita, ne compose una ventina, spaziando con estrema agilità dal tono encomiastico all’invettiva, dal genere delle laudes domorum
Manzoli (2012), p. 57. a quello dell’epistola in versi.
Il modulo tardoantico del centone virgiliano, che aveva i suoi modelli nel licenzioso Cento nuptialis di Ausonio (310 – 393 ca.)
Arnaldi (1930); per la tecnica centonaria di Ausonio cfr. Chevrier (2005). e nella metafrasi evangelica di Proba Falconia (322 – 370 ca.)
Ermini (1909)., diviene così, in pieno Rinascimento, cifra caratteristica della poesia capilupiana.
L’agilità e la versatilità di questo abile tappezziere della parola si fanno quasi marchio di fabbrica, finendo per connotare non solo Lelio, ma anche gli altri membri della famiglia che a lui si ispirarono e che ne seguirono le orme. Fra questi emuli spicca per le sue abilità centonarie il nipote Giulio Capilupi
Ascari (1975)., che sarà inoltre editore dei centoni dello zio nel volume familiare del 1590.
Quella dei centoni capilupiani è una complessa alchimia, un articolato procedimento di scioglimento e ri-condensazione testuale: il coagulo di vecchio e nuovo che ne risulta è un’opera di estrema originalità, un’accorta mistura che, grazie alla tagliente ironia e all’irriverente gioco di paradossi, riesce a conferire freschezza e rinnovata godibilità al modello classico cui si ispira.
Sul genere centonario, paradigmatici rimangono gli opposti pareri del Pasquali (1968), p. 276, e del Polara (1990), p. 245.
2 Le vicende editoriali dell’opera
Complessa e articolata è la tradizione editoriale dei 19 centoni virgiliani del Capilupi. Fondamentali a riguardo sono i contributi di Manzoli
Manzoli (2010), p. 190 ss. e di Tucker
Tucker (1997), p. 278 ss. , il quale ha il merito di aver enucleato, nell’edizione romana del 1555, un corpus fisso di 13 centoni, cui si aggiungono, nell’edizione postuma del 1590, altri 6 centoni, fino a quel momento, almeno in parte, inediti.
La raccolta complessiva può essere così organizzata in quattro nuclei editoriali:
I 2 centoni (I). Gallus e (II). De vita monachorum, pubblicati per la prima volta nel 1543;
I 3 centoni (III). Ad principes christianos Aristaeus; (IV). Ad Rainutium Farnesium Damon; (V). In foeminas impudicas et scelestis, pubblicati per la prima volta intorno al 1545-1550;
Gli 8 centoni (VI). In effigiem Francisci Gonsagae; (VII). P. Virg. Maro ad illustriss. Cosmum Medicem; (VIII). Ad illustriss. Hippolitum Cardinalem Estensem; (IX). In Homeri marmoreum caput; (X). Ad Iulium III; (XI). Ad Fortunam; (XII). Salutatio Calend. Ianuarii ad Paulum III, (XIII). Ad Benedictum Aegium, pubblicati per la prima volta nell’edizione romana del 1555, curata da Possevino;
I 6 centoni (XIV). In villam Iulii III; (XV). De laudibus illustriss. Christophori Mandruccii; (XVI). Ad Paulum IV; (XVII) Ad Insubris; (XVIII) Ad Henricum II; (XIX) In die incoronationis Iulii III, pubblicati solo dopo la morte dell’autore nell’edizione del 1590 (ad eccezione del centone In villa Iulii, già presente in alcuni assetti editoriali dell’edizione del 1555
Ibid. p. 282-283.).
I primi due Centones ex Virgilio, composti probabilmente intorno al 1542
A questo anno risalirebbe con una certa probabilità il De vita monachorum, più incerta la data di composizione del Gallus, il primo sforzo centonario di Capilupi, cfr. Carpino (1904), p. 5. Per il Gallus cfr. Parra García (1999)., il Gallus e il De vita monachorum, furono pubblicati per la prima volta nel 1543 a Venezia
Rhodes (1994), p. 210, il quale sostiene che l’edizione sia stata realmente stampata a Venezia; di parere opposto è Tucker (1997), p. 265., all’insaputa dell’autore, dall’editore Paolo Gherardo.
Tra questi il De vita conosce una particolare longevità in ambiente protestante, dove, nell’arco di un secolo, si approntano parecchie riedizioni del centone. Alla fortuna d’oltralpe fa però da contraltare la prevedibile reazione della Chiesa e l‘intervento della censura.
Per premunirsi dalle possibili accuse derivanti dalla pubblicazione, Capilupi si era intanto raccomandato al suo patrono, il cardinale Ercole Gonzaga, dedicatario dell’opera insieme con Ippolito d’Este. Come ha rilevato il Carpino, Ercole “il 7 agosto 1545 scrisse al fratello di Lelio, Camillo, che allora si trovava a Roma, esortandolo a giustificare innanzi alla Curia l’operato di Lelio”
Carpino (1904), p. 5.. La lettera in questione è conservata dal copialettere n. 6497
Mantova, AS, Archivio Gonzaga, E, LXI, 15; 1905; copialettere n. 6497. del Gonzaga e dal suo contenuto Carpino ha potuto dedurre che il centone capilupiano sia stato composto intorno al 1542
Carpino (1904), p. 5., anno della fuga dell’eretico Bernardino Ochino (1497 -1565 ca.)
Gotor (2013). in Svizzera.
L’abile strategia politica e la pronta raccomandazione all’influente mecenate valsero a scongiurare un diretto coinvolgimento dell’autore in questa rappresaglia antiereticale. Le scaltre mosse del Capilupi non riuscirono tuttavia a scampare il suo poemetto De vita monachorum, che fu invece messo all’Indice già dal 1557
La dicitura “Laelii Capilupi, cento ex Vergilio” che compare con lievi oscillazioni nelle varie edizioni dell’Index, non pare riferirsi ad altro che al De vita monachorum, certo il più inviso alla curia romana. Una completa panoramica delle varie occorrenze del centone nell’Index vd. Rhodes (1994) e Tucker (1997)..
L’opera rimase interdetta ancora fino al 1590, quando il nipote di Lelio, Giulio Capilupi, confezionò una edizione expurgata delle opere dello zio, che inserì nel volume familiare dei Capiluporum carmina. Il nuovo riassetto editoriale di fatto stravolgeva completamente il testo del De vita monachorum.
L’avita abilità centonaria permise a Giulio di sottoporre il poemetto ad un processo di ri-centonatura, attraverso il quale egli ne ricompose i versi a formare un’opera di argomento diverso, cui pose il docilissimo titolo De aetate aurea et ferrea.
Trattasi di un caso abbastanza unico di centone centonato, bizzarria che non sorprende nel contesto quasi enigmistico in cui muove l’esperienza poetica dei Capilupi.
Offro, qui di seguito, un breve quadro delle diverse edizioni cinquecentesche del De vita monachorum:
Laelii Capilupi Mantuani cento ex Virgilio de vita monachorum et Gallus, Venetiis [Paulus Gherardus], 1543;
vd. nota 17.
Laelii Capilupi cento vergilianus de vita monachorum quos vulgo fratres appellant, VVittembergae, 1545;
Laelii Capilupi cento vergilianus de vita monachorum quos vulgo fratres appellant, [Zurigo, c. 1545(?)];
Laelii Capilupi cento vergilianus de vita monachorum quos vulgo fratres appellant, [Basilea, c. 1545(?) o Zurigo, c. 1547(?)];
Laelii Capilupi Mantuani cento ex Virgilio de vita monachorum et Gallus, Venetiis [in realtà Lione
Rhodes (1994) e Tucker (1997).?], 1550;
Laelii Capilupi Mantuani cento ex Virgilio de vita monachorum, Edimburgi, 1565;
Laelii Capilupi cento vergilianus de vita monachorum quos vulgo fratres appellant, Romae [in realtà Ginevra
Ibid.?], 1575
A queste si possono poi aggiungere alcune edizioni presenti in varie sillogi, anch’esse confezionate da autori di fede luterana, che includono, tra le varie bizzarrie letterarie e parodie moralistiche, anche il De vita monachorum capilupiano:
Varia doctorum piorumque virorum, de corrupto ecclesiae statu, poemata, ante nostram aetatem conscripta, Basileae [1557?], a cura del teologo riformato Flacio Illirico (1520 – 1575)
Pincherle (1932).;
Parodiae morales H. Stephani, in poetarum veterum sententias celebriores, totidem versibus graecis ab eo redditas. Centonum veterum et parodiarum utriusque linguae exempla, [Ginevra] 1575, curate dall’erudito francese Enrico Stefano (1531-1598)
Avanzi (1932). e corredate di un’acuta analisi della tecnica centonaria alla base del De vita;
Virgilio-centones auctorum notae optimae, Helmaestadii, 1597, raccolta di centoni curata dall’erudito tedesco Heinrich Meibom (1555 – 1625)
Holtzmann (1934)., in cui i componimenti di Lelio vengono, a quanto pare per la prima volta, editi al fianco dei centoni di Ausonio e di Proba.
3 La struttura del De vita monachorum
Capilupi organizza la materia di questo breve epillio secondo gli stilemi classici del genere epico-narrativo. Il poemetto è infatti introdotto da un proemio (vv. 1-22), nel quale si possono riconoscere due sottosezioni: una protasi o propositio (vv. 1-10) ed una invocazione/dedica al cardinale Ippolito d’Este (1509 – 1572)
Simeoni (1932)., patrono e mecenate del Mantovano (vv. 11-22).
Con il v. 23 ha inizio la vera e propria narrazione, che procede dalla nascita del fenomeno monastico e dalle prime espressioni di vita ascetica ed eremitica (vv. 23-35), fino ad arrivare alla sua organizzazione ed istituzionalizzazione in comunità cenobitiche (vv. 35-66) e alla differenziazione in più ordini religiosi (67-73). In queste ultime due sezioni però la cifra polemica si va pian piano sostituendo al carattere più schiettamente narrativo delle porzioni precedenti.
La narrazione conosce dunque una battuta d’arresto con il v. 74, dal quale muove invece una lunga sequenza profetica, che, con toni a tratti apocalittici e visionari, proclama imminente la fine dei monaci e del loro parassitario stile di vita.
Accantonato l’oracolo della parabola monastica, la tagliente ironia capilupiana si dirige contro l’enigmatico tertius interpres Asylas, l’eneadico augure etrusco, dietro cui si scorge, neanche troppo celata, la figura di papa Paolo III (1468 – 1549)
Benzoni (2000)., caratterizzata dai tipici tratti luciferini dell’Anticristo (vv. 103-136). Dai versi del Capilupi l’immagine del pontefice emerge con una prepotenza tale, da costringere il poeta a una serie di apostrofi di scongiuro contro le trame di questo serpente ingannatore: la prima di queste invocazioni è diretta agli dei, impetrati per la salvezza di Mantova (vv. 137-142), la seconda a Ercole Gonzaga (1505 – 1565)
Quazza (1933). al quale Lelio raccomanda la discendenza di casa Capilupi (vv. 143-147).
L’accorato appello al Gonzaga ha una duplice funzione: da un lato, esso rappresenta una sorta di σφραγίς centonaria, che consente al poeta di richiamare l’attenzione del lettore su quell’ acre genus luporum, quella “ditta poetica”, come l’ebbe a definire Zabughin
Zabughin (1923), p. 374., che è la famiglia Capilupi; dall’altro, esso qualifica il duca di Ferrara come secondo dedicatario del poema, in corrispondenza con la ripresa dell’argomento principale dell’opera e del modulo narrativo.
I versi 148-153 formano quindi un secondo breve proemio, cui corrisponde una nuova dedica (l’apostrofe a Ercole Gonzaga, come si è visto), una nuova invocazione, questa volta indirizzata alle Muse (v. 151) ed una rapida ripresa della propositio (vv. 152-153).
Finalmente, con il v. 154, liberatosi del frastuono e dal polverone della sua invettiva, il poeta riprende il tema principale della sua opera: i monaci e gli aspetti più grotteschi della loro vita quotidiana. Capilupi procede quindi a narrare con dovizia di particolari tutto l’arco della giornata ideale in un monastero: il risveglio e l’ufficio mattutino (vv. 154-164), la messa (vv. 165-188), l’Eucarestia (vv. 189-205), la predica (vv. 206-230), la confessione (vv. 231-241), la preparazione del pranzo (vv. 242-254), l’arrivo dell’abate (vv. 255-276), il banchetto (vv. 277-286), gli svaghi dei monaci (vv. 287-306), la scalata sociale fino alle corti dei signori (vv. 307-309), la questua (vv. 310-314), i funerali e la spoliazione delle salme (vv. 315-332), la cena (vv. 333-344), le avventure notturne dei giovani monaci (vv. 345-356), l’incontro con le monache e le conseguenti gravidanze (vv. 357-366). Sono queste probabilmente le pagine più riuscite dell’operetta capilupiana, dove si dispiega a pieno tutta l’arte allusiva e la capacità umoristica dell’autore.
Così, esaurita la descrizione dei fortia facta patrum, Capilupi, ormai quasi al termine della sua fatica letteraria, indugia in un ironico μακαρισμός e tesse la lode della serenità e della beatitudine della vita monastica e se ne proclama invidioso (vv. 367-381).
Ma alla pace del convento fa da contraltare la tragedia delle vicende belliche, gli horrida bella e la minaccia del pericolo Turco, cui insensibile si sottrae la rammollita razza dei monaci (vv. 382-396), (vv. 397-404).
In uno scenario di così plastico terrore, si inserisce ancora più stridente il serafico, quasi marmoreo, ritratto dell’atarassia monacale, il grande male del secolo, il cui ricordo Capilupi affida, con l’ironia del suo centone, alla perenne memoria del mondo. (vv. 405-420).
1. 4 Criteri di edizione del testo
Punto di partenza per questa trascrizione del testo è stata l’editio princeps del 1543, della quale ho steso un’edizione interpretativa, che ho poi confrontato con altri esemplari cinquecenteschi. Offro l’elenco completo delle edizioni che ho avuto la possibilità di visionare nel Conspectus siglorum alla pagina seguente, in cui siglo i vari testi aggiungendo inoltre, tra parentesi quadre, quelli a cui non ho avuto accesso. Per quanto concerne le varianti meramente grafiche, mi attengo all’uso moderno ed in specie all’edizione virgiliana di Geymonat, pur segnalando in apparato le varianti ortografiche delle edizioni cinquecentesche e – va da sé – interpungendo diversamente. Nel ricorrere a questo criterio ecdotico mi pongo nel solco già seguito dalle primissime edizioni “critiche” del centone, quelle del Meibom
Meibom H., Virgilio-centones auctorum notae optimae, Helmaestadii 1597. e dello Stefano
Stefano E., Parodiae morales H. Stephani, in poetarum veterum sententias celebriores, totidem versibus graecis ab eo redditas. Centonum veterum et parodiarum utriusque linguae exempla, Ginevra 1575., col quale mi propongo di seguire “non […] autem lectionem exemplaris e quo haec descripsi, sed quae est apud ipsum Virgilium”
Ibid. p. 261.. Analogo criterio editoriale adottano nei loro contributi Parra García
Parra García (1999). per il Gallus e Manzoli
Manzoli (2012). per il centone In villam Iulii III. Mi distacco invece dal testo di Virgilio lì dove sembra probabile una modifica intenzionale del Capilupi o una sua svista di memoria. Riporto altresì in apparato le varianti dovute al diverso aspetto del testo virgiliano conosciuto da Capilupi rispetto all’edizione critica di Geymonat.
Riporto, pur espunte fra parentesi quadre, le brevi notazioni, interpretabili anche come titoli, che, comparse per la prima volta nell’edizione tedesca del 1545, accompagnano il centone lungo tutto il percorso della sua fortuna d’oltralpe, fino alla traduzione in versi del Carpino del 1904
Carpino (1904), che conosce una versione mutila in 419 esametri, forse per via di una lacuna nella sua fonte, le Memoires de Litterature par M. De (Sallengre), Tome II, première partie (Haye 1717), tratta dalla raccolta Varia Doctorum Piorumque Virorum de corrupto Ecclesiae statu Poemata (Basilea 1556).
.
Corredo inoltre il testo di un secondo apparato in cui riporto le glosse esplicative presenti a margine nell’edizione del 1590.; tali note si riferiscono al contenuto della versione expurgata della raccolta, in cui il testo del De vita appare ormai completamente stravolto e porta il più neutro titolo di De aetate aurea et ferrea. Queste notazioni, confezionate verosimilmente dal nipote di Lelio, Giulio, valgono in genere a stornare i passi in odore di eresia dell’autore, piuttosto che a illustrarne gli originari propositi allusivi.
1. 5 Conspectus siglorum
A: editio princeps Veneta (anno 1543)
[B: editio Wittembergensis (anno 1545)]
C: editio Helvetica prima (anno 1545?)
c: editio Helvetica altera (anno 1547?)
a: editio Lugdunensis (?) (anno 1550)
[D: editio Romana (apud V. Doricum) (anno 1555)]
[E: editio Edimburgensis (anno 1565)]
[F: editio Genavensis (?) (anno 1575)]
G: editio Romana, a Iulio Capilupi expurgata (anno 1590)
M: editio Helmestadensis, ab Henrico Meibomio recognita (anno 1597)
α: consensus editionum A a
γ: consensus editionum C c
V: editio vergiliana, a Mario Geymonat recognita
2. Testo
LAELII CAPILUPI
CENTO EX VIRGILIO DE VITA MONACHORUM
QUOS VULGO FRATRES APPELLANT
[IN PONTIFICEM VEL MINOTAURUM ROMANUM VERSUS SOTADEI
Laus tua non tua fraus, virtus non copia rerum
scandere te fecit hoc decus eximium.
ITEM
Conditio tua sit stabilis nec tempore parvo
vivere te faciat hic Deus omnipotens.
ITEM
Pauperibus sua dat gratis nec munera curat
curia Papalis quod modo percepimus.
Retro haec lege, Lector,
ab ultima ultimi versus
dictione exorsus, et sensus
verus patebit.]
CENTO
Ille ego, qui quondam, cum Gallus amore periret, [Propositio]
noctes atque dies cecini sub tegmine fagi
carminibus patriis levium spectacula rerum,
maius opus moveo: non hic te carmine ficto,
magnanime Aenea, nec te rationis egentem, 5
infelix Dido, miseri post Sychaei;
at fratres rerum dominos gentemque togatam,
illustris animas et corda oblita laborum
dicam equidem fretus cithara fidibusque canoris
fatidicae Mantus: non omnia possumus omnes. 10
O decus Italiae, magnae spes altera Romae, [Invocatio]
cura deum, Hippolyte, proles pulcherrima bello
per tot ducta viros antiquae ab origine gentis,
tu mihi seu magni superas iam frigora Rheni,
horridus in iaculis et pelle Libystidis ursae, 15
arma inter regum clipeoque insigne paternum:
centum anguis cinctamque geris serpentibus Hydram,
arduus insurgens et grandia lilia quassans;
sive Padi ripis augusta ad moenia regis,
unde genus ducis, Tyrio conspectus in ostro, 20
inter sacra deum patribus das iura vocatis;
da facilem cursum atque audacibus adnue coeptis.
Ab Iove principium generis, si credere dignum est, [Narratio de primis monachis]
dis quamquam geniti, tot iam labentibus annis,
errabant acti fatis maria omnia circum. 25
5 non V; 6 infoelix γ; 6 Sichei A : Sichaei M; 8 illustres V; 15 lybistidis; 15 visae M; 16 clypeoque omnes; 17 angues omnes; 17 gerit V; 21 dat V; 22 annue α; 24 diis omnes; 24 quanquam α
12 (13 in G) G in marg.: Hyppoliti fratris Ducis Ferrariae
18 (19 in G) G in marg.: Insignes Regis Galliae, et familiae Estensis
20 (21 in G) G in marg.: Insignes Alfonsi Estensis Ducis Ferrariae
Nulli certa domus: habitabant vallibus imis
seclusum nemus et scopulis pendentibus antrum
riparumque toros, inter deserta ferarum
sole sub ardenti gelidique sub aetheris axe.
Iam tum religio pavidos terrebat agrestis; 30
victum infelicem bacas lapidosaque corna
dant rami et vulsis pascunt radicibus herbae;
pocula sunt fontes liquidi, non Massica Bacchi
munera, non illis epulae nocuere repostae;
nulla Venus nullique animum flexere hymenaei. 35
Heu pietas, heu prisca fides! Quis talia fando
temperet a lacrimis? Longo post tempore venit
unus, qui nobis deus aethere missus ab alto.
Is genus indocile ac dispersum montibus altis [Ut a prima origine
composuit legesque dedit: nova quaerere tecta. degenerarint posteri] 40
Idem omnis simul ardor agit, labor omnia vincit
Improbus et rerum fato prudentia maior.
Magnanimi heroёs nati melioribus annis;
Europa atque Asia, super et Garamantas et Indos,
centum urbes habitant magnas atque aurea tecta, 45
aurea nunc, olim silvestribus horrida dumis.
(Tantum aevi longinqua valet mutare vetustas)
Nunc et pauperiem et duros perferre labores
saxa per et scopulos, et virginitatis amorem
relligio vetuit monitu imperioque deorum. 50
Quid loquor? An sua cuique deus fit dira cupido?
Ergo omni studio laeti convivia curant, [Victus]
ante focum, si frigus erit; si messis, in umbra.
Hoc virtutis opus! Glacies ne frigida laedat [Vestitus]
28 thoros γ M; 30 relligio α M; 30 agrestes omnes; 31 infoelicem γ; 31 baccas omnes; 35 non ulli V; 37 lachrymis α : lacrymis M; 39 et dispersum omnes; 41 omneis α : omnes γ M; 43 heroes A; 45 urbeis α; 46 sylvestribus γ M;
molle pecus scabiemque ferat turpisque podagras, 55
et tunicae manicas et habent redimicula mitrae.
At, genus immortale, deum praecepta secuti
incumbunt generis lapsi sarcire ruinas. [Oeconomia monastica]
Stat fortuna domus et avi numerantur avorum:
iura magistratusque legunt sanctumque senatum, 60
rectores iuvenum et rerum regemque tremendum,
et quos aut pecori malint submittere habendo,
dum faciles animi iuvenum, dum mobilis aetas,
aut aris servare sacris aut scindere terram.
Condit opes alius; grandaevis oppida curae; 65
sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti.
Omnibus in morem tonsa est coma obesaque terga
et crurum tenus a mento palearia pendent.
Omnibus idem animus: denso distendere pingui
quem legere ducem, sed non genus omnibus unum; 70
sed neque quam multae species nec nomina quae sint
est numerus, neque enim percurrere nomina possem,
non mihi si linguae centum sint oraque centum. [Ordinum diversitas]
Stat sua cuique dies; breve et irreparabile tempus
omnibus est: veniet lustris labentibus aetas, 75
cum domus et proles subito defecerit omnis. [Oraculum]
Heu nihil invitis fas quenquam fidere divis!
Quid labor aut bene facta iuvant? Sic omnia fatis
in peius ruere ac retro sublapsa referri
tum sciat, aёrias Alpis et Norica si quis 80
castella in tumulis videat desertaque regna. [Ab exemplo Germano]
Hic quondam morbo caeli miseranda coorta est
55 turpeisque A : turpesque M; 56 mytrae γ M; 58 incumbent V; 64 sacros V; 66 sorte γ M; 67 tonsa coma V; 72 nec γ M0; 72 possim V; 80 aerias γ a M; 80 qui γ M; 82 cohorta A
83 (119 in G) G in marg.: Haeresis Luterana
vana superstitio veterumve ignara deorum,
quam neque fas igni cuique nec sternere ferro. [Ironice haec de Evangelio
Mores et studia et populos, consortia tecta renascente dicuntur] 85
sustulit ista prior Stygiis emissa tenebris;
monstrum horrendum, informe, ingens, cui lumen ademptum,
odit et ipse pater Pluton, odere sorores.
Parva metu primo mox sese attollit in auras,
tam ficti pravique tenax quam nuntia veri 90
inque dies avidum surgens caput altius effert.
Quae regio in terris nostri non plena laboris?
Aspice et extremis domitum cultoribus orbem
et penitus toto divisos orbe Britannos.
Quid memorem infandas caedes vetitosque Hymenaeos? 95
Ausi omnes immane nefas ausoque potiti.
Corripuere sacram effigiem manibusque cruentis
diripuere aras et relligiosa deorum
limina: ubique pavor et plurima mortis imago.
Quin etiam medias Italum bacchata per urbes 100
pestis et ira Deum, maioremque orsa furorem.
Haut ignota loquor: cuncti se scire fatentur.
Tertius ille hominum divumque interpres Asylas [Paulus tertius Papa]
os umerosque deo similis, cui plurima mento
canicies inculta iacet, dependet amictus 105
sordidus ex umeris, omnis quem credidit aetas
semine ab aethereo et genus alto a sanguine divum,
fas omne abrumpit trepidusque repente refugit
pictus acu tunicas: tot sese vertit in ora.
84 quem V; 94 orbes A; 95 quod M; 102 haud omnes; 104 humerosque omnes;105 canities M; 106 humeris omnes;
94 (128 in G) G in marg.: Regis Angliae
103 (137 in G) G in marg.: Bernardinus Ochinus Senensis
Hei mihi qualis erat, quantum mutatus ab illo, 110
seditione potens instructus et arte Pelasga.
Ibat et ingenti sese clamore ferebat,
consilio versare dolos igressus, et astu
fertilis Ausoniae populos sermone replebat,
oblitus decorisque sui sociumque salutis. 115
Ausus quin etiam sacrata avellere templo
numina magna Deum.
Ergo omnis furiis surrexit Etruria iustis:
tum celerare fugam, veteres tellure recludit
thesauros, ignotum argenti pondus et auri; 120
conscius audacis facti penetravit ad urbes,
et genus invisum et diri sacraria Ditis,
arma Iovis fugiens, atque altae moenia Romae;
et nunc ille Paris cum semiviro comitatu,
ignis ubi in medio et socii cratera coronant, 125
te libans, Lenaee, vocat resupinus in antro.
Causa mali tanti? Fulgenti murice vestis,
invidia infelix laudumque immensa cupido.
Nusquam tuta fides: Coluber mala gramina pastus
hortator scelerum stimulis agitabat amaris. 130
Nec requievit enim, donec de culmine summo
inter saxa virum Stygias detrusit ad undas;
impastus stabula alta Leo ceu saepe peragrans,
nunc hos nunc illos aditus omnemque pererrat
Italiam; Italiam sinuosa volumina versat 135
110 hei mihi V; 116 sacrato M V; 121 urbeis α; 126 leneae c; 127 caussa M; 130 stimulisque V; 131 summum γ; 136 squammis A
127 (162 in G) G in marg.: Ambitio Cardinalatus
129 (164 in G) G in marg.: Diabolus quem sacrae litterae serpentem vocant
133 (168 in G) G in marg.: Diabolum intelligit
arrectisque horret squamis et sibilat ore.
Horresco referens: di, talem avertite casum!
Di, prohibete minas! superet modo Mantua nobis,
Mantua dives avis, qualis Berecynthia mater
laeta deum partu, procul, o, procul este, profani! 140
Di patrii, servate domum parvosque nepotes;
et placidi servate pios dominamque potentem.
Te precor, Alcide, magnum et memorabile numen,
quem primi colimus miserantem incommoda nostra, [Hercules dux Ferrariae]
hanc primum tutare domum, genus acre luporum. 145
Hac casti maneant in religione nepotes,
et nati natorum et qui nascentur ab illis.
Quo feror? Unde abii? Fugit irreparabile tempus,
singula dum capti circumvectamur amore
multaque praeterea post me memoranda relinguo. 150
Vos, o Calliope, precor aspirate canenti:
sacra deosque, dapes et plenae pocula mensae,
fortia facta patrum magno nunc ore sonandum.
Omne adeo genus in terris populumque patresque
mollibus e stratis opera ad lux suscitat alma 155
et matutini volucrum sub culmine cantus. [Matutini monachorum
Principio delubra adeunt atque aere sonoro coetus]
turribus aut altis aut summi culmine tecti
dant signum; fulsere ignes altaria circum.
Iamque sacerdotes, soli cantare periti, 160
velati lino volitant ostroque decori,
147 nascuntur γ; 149 circunvectamur A
142-143 (177-178 in G) G in marg.: Margaritam Mantuae Ducem et Herculem Gonzagam
145 (180 in G) G in marg.: Familiam Capilupam
[G v. 188-190 in marg.: Vitam Iuvenum voluptatui ac libidini deditam reprehendit]
Iamque sacerdotes, soli cantare periti, 160
velati lino volitant ostroque decori,
et cantare pares et respondere parati,
agmine partito fulgent, lustrantque choreis
atria; dependent lychni laquearibus aureis.
Stant arae circum puraque in veste sacerdos 165
ter centum tonat ore deos, ter gutture voces [Missae descriptio]
aut quater ingeminat; sequitur tum caetera pubes:
“Et nostras audite preces!” Templique sacerdos
ante aras plena supplex veneratur acerra
affaturque deos tendens ad sidera palmas. 170
Se causam clamat crimenque caputque malorum,
multaque se incusat, rapidoque haec addidit ore:
“Salve sancte Parens, superi regnator Olympi,
semper honos nomenque tuum laudesque manebunt:
et nos et tua dexter adi pede sacra secundo, 175
nos tua progenies caeli quibus annuis arcem;
has ex more dapes Ille haec monimenta reliquit [Coena mystica]
extrema iam in morte, hanc tanti numinis aram
servati facimus meritosque novamus honores.
Nate patris summi tuane haec per vulnera servor 180
morte tua vivens? Quae causa indigna serenos
foedavit vultus? Aut cur haec vulnera cerno?
Vicit iter durum pietas; te ianitor Orci,
te Stygii tremuere lacus; tu sceptra Iovemque
concilias, tu das epulis accumbere divum. 185
Parce pio generi et propius res aspice nostras!
Diique deaeque omnes tuque, o sanctissima vates,
alma parens, praesens nostro succurre labori!
167 ingeminant V; 167 cum γ; 170 sydera γ M; 171 caussam M; 176 coeli A; 180 haec genitor per vulnera V; 181 caussa M;
Haec ubi dicta dedit divino ex ore sacerdos [Transubstantiatio]
dona laboratae Cereris, coelestia dona, 190
miraturque interque manus et brachia versat.
Heu quid agat? Varia confusus imagine rerum
atque animum nunc huc celerum, nunc dividit illuc,
in partisque rapit varias, ut vertere morsus [Corporis manducatio]
exiguam in Cererem suaserunt numine divi 195
et violare manu malisque audacibus orbem
fatalis crusti. Pectus percussit honestum
terque quaterque manu, gemitum dat pectore ab imo.
Sic ait “Haut equidem tali me dignor honore” [Calix]
et sacer implevit dextram scyphus: ocius omnes 200
demisere caput percussae pectora matres:
agnovere Deum proceres; ille impiger hausit
spumantem pateram et pleno se proluit auro.
“Ite” ait et socios pura circumtulit unda [Monachorum conciones]
spargens rore levi et depasta altaria liquit. 205
Haud mora continuo perfectis ordine votis
consurgit senior divosque in vota vocavit
nudato capite et medius stans aggere fatur.
Asper acerba sonans, intentis omnibus, unus
fata canit fusus propexam in pectore barbam: 210
edocet humanis quae sit fiducia rebus,
tartareas etiam fauces noctemque profundam
et coniuratos caelum rescindere fratres,
supplicia et scelerum poenas sedesque beatas,
ambrosiae sucos et odoriferam panaceam. 215
Admonet immiscetque preces alternaque iactat
bracchia protendens, flammantia lumina torquens,
194 parteisque A : partesque γ M; 199 haud omnes; 200 destram A; 200 ocyus omnes; 204 ait ter socios V; 208 medio γ; 211 fidutia γ; 212 fedes M; 214 supplictia A; 215 panacaeam a
obtutu tenet ora soloque immobilis haeret,
incipit effari mediaque in voce resistit.
Omnia transformat sese in miracula rerum. 220
Ille, sitim morbosque ferens mortalibus aegris,
horrendas canit ambages praesensque minatur
exitium. Veterum volvens monimenta virorum,
aestusque et pluvias et agentis frigora ventos
obscenamque famen et tristis denuntiat iras. 225
Horrescunt corda agricolis; stupet inscia turba;
vota metu duplicant matres actaeque furore [Misericordia, misericordia]
conclamant: resonant late plangoribus aedes,
lamentis gemituque et femineo ululatu.
Talia vociferans solio se tollit ab alto 230
tempora nudus adhuc tunicaque inducitur artus,
tum virgam capit, hac animas ille evocat Orco.
Hunc circum innumerae gentes, miserabile vulgus, [Confessio]
post alii proceres, vitasque et crimina discit.
Munera portantis eborisque aurique talenta 235
saetigerosque sues Dodonaeosque lebetas,
prosequitur venia et verbis compellat amicis.
Omnibus exhaustos iam casibus, omnium egenos,
castigatque auditque et ad impia Tartara mittit.
At qui divitiis soli incubuere repertis, 240
fulmine deiecti fundo volvuntur in imo.
Atque ea diversa penitus dum parte geruntur,
Tectum augustum, ingens, centum sublime columnis,
Instruitur mediisque parant convivia tectis. [Apparatus prandii]
Ordine aёna locant alii flammasque ministrant; 245
pars calidos latices veribusque trementia figunt
222 presensque A; 223 monumenta γ M; 224 pluviasque V; 224 agentes omnes V; 225 obscoenamque M; 225 denunciat M; 225 tristes omnes; 228 longe M; 234 vitas γ M; 235 portantes omnes; 235 eboris γ : aurique eborisque V; 236 dodoneosque A; 240 aut dubie V; 241 voluntur A; 243 teaeum A; 245 haena A : ahena γ a M; 246 verubusque omnes
terga suum, pinguis centum cum matribus agnos;
pars epulis onerant mensas Cereremque canistris
expediunt tonsisque ferunt mantelia villis;
supponunt alii cultros Bacchumque ministrant: 250
discurrunt variantque vices. Arisque relictis
perpetuis soliti patres confidere mensis
circum claustra fremunt arrectisque auribus astant:
intenti expectant signum divosque precantur.
Tum pater omnipotens, rerum cui summa potestas, [Abbas] 255
tandem progreditur magna stipante caterva,
monstrum horrendum, ingens, crassum farragine corpus
more patrum solio medius consedit avito.
Ille operum custos; illum admirantur et omnes
circumstant fremitu denso: cum saepe coorta est 260
seditio saevitque agitans discordia fratres, [Monachorum contentiones]
ille regit dictis animos fratresque superbos
imperio premit ac vinclis et carcere frenat.
Ne, pueri, ne tanta animis assuescite bella;
tuque, prior, tu parce genus qui ducis Olympo. [Prior] 265
His animadversis opera inter talia, primus
ultro animos tollit dictis atque increpat ultro:
“O socii, neque enim ignari, sumus ante malorum.
Haec erat illa fames, haec nos suprema manebat,
per varios casus, per tot discrimina rerum, 270
exitiis positura modum: nunc viribus usus,
nunc manibus rapidis, omni nunc arte magistra.
Quod votis optastis adest: sic itur ad astra.
247 pingues A : centum pingues γ M; 249 mantilia omnes; 252 patrum M; 257 magnum farragine V; 260 circunstant A; 260 cohorta A; 263 fraenat M; 268 nec γ; 268 ignaris A;
273 (210 in G) G in marg.: Ironice dictum
Ergo agite et cuncti nunc illas promite vires
communemque vocate deum et date vina volentes.” 275
Hic finis fandi, solito insonuitque flagello.
Utque dato signo spatia in sua quisque recessit,
ordine cuncta suo; tunc facta silentia linguis
sic animis iuvenum furor additus; inde lupi ceu [Monachorum voracitas]
raptores atra in nebula rapiuntque ruuntque 280
diripiuntque dapes, contactuque omnia foedant.
Nec mora nec requies: olli certamine summo
tergora diripiunt costis, tum dente tenaci
dant sonitus; duro crepitant sub vulnere malae.
Implentur veteris Bacchi pinguisque ferinae, 285
Teutonico ritu vertunt crateras ahenos.
Postquam exempta fames epulis, vox omnibus una:
“Caelicolum regi grates persolvere dignas
non opis est nostrae!” media inter talia verba,
nescio qua praeter solitum dulcedine laeti, 290
devenere locos laetos cantusque dedere, [Monachorum lusus]
ceu quondam nivei liquida inter nubila cycni,
cum sese e pastu referunt. Hic flumina circum
fundit humus flores, texunt umbracula vites;
hic gelidi fontes et prata recentia rivis, 295
speluncae vivique lacus ac lustra ferarum.
Tum laqueis captare feras et fallere visco
impendunt curas et retia ponere cervis
auritosque sequi lepores et, fluminis alveo
cum venti posuere, alius trahit umida lina; 300
pars in gramineis exercent membra palaestris
et tenuis rumpunt tunicas per opaca viarum;
274 agite et laetum cuncti V; 276 solio γ a; 277 spacia M; 285 bachi γ; 285 fearinae γ; 286 teuthonico γ: barbarico M; 292 cygni γ M; 295 grata M; 298 poenere M; 301 exercent M; 302 tenues omnes;
pars pedibus plaudunt choreas et carmine dicunt.
Consonat omne nemus strepitu risuque soluto.
Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem 305
Conspexere, silent aut versi terga dedere.
At, patiens operum parvoque assueta iuventus, [Monachi aulici]
aut onera accipiunt venientum aut agmine facto
fit via vi, penetrant aulas et limina regum.
Discurrunt alii ad portas ac tecta domorum: 310
convectare iuvat praedas et vivere rapto. [Mendicantes]
Venturaeque hyemis memores quaesita reponunt,
aut fetus ovium aut urentes culta capellas,
castaneasque nuces pariter frumenta sequuntur.
Interea socios vocat alta in templa sacerdos: 315
iam pridem resides agrisque effusa iuventus
undique conveniunt et tristia funera ducunt [Funera ut ducant Monachi]
(ne quid inexpertum) crepitantiaque aera secuti.
Tum gemini fratres, nec multum discrepat aetas,
funereas rapuere faces de more vetusto. 320
incedunt pueri defunctaque corpora vita
(quod genus hoc hominum!) laeti clamore reportant.
Hic matres miserae puerique parentibus orbi
flent maesti: resonat magnis plangoribus aether
spargitur et tellus lacrimis et molle feretrum. 325
Ipsi laetitia voces ad sidera iactant
per medias urbes, longa cum veste sacerdos
lustravitque viros dixitque novissima verba
manibus et cineri. Quam molliter ossa quiescent! [Mortuos spoliant]
Tum lecti iuvenes media testudine templi 330
incurrunt densi spoliantque calentia membra,
305 tunc γ; 307 patruoque γ; 310 et omnes; 313 foetus omnes; 313 ovium fetum V; 325 lachrymis A : lacrymis M; 325 phaeretrum A : pheretrum γ M; 326 sydera A; 327 urbeis A;
religione patrum ac foveis abscondere discunt.
Devexo interea propior fit vesper Olympo, [Coena]
tecta petunt: multa referunt se nocte minores.
Instaurant epulas et mensae grata secundae 335
dona ferunt; noctem flammis funalia vincunt.
Advolvere focis ulmos ignique dedere.
Invitat genialis hyems curasque resolvit:
tunc somni dulces et tunc mollissima vina.
Postquam prima quies, epulis mensaeque remotae 340
porticibus longis, nil magnae laudis egentes,
invalidique senes somno vinoque sepulti
conticuere; sopor fessos complectitur artus.
Omnibus una quies operum; labor omnibus unus.
At non in Venerem segnes et dulcia furta [Monachorum libido] 345
egregii forma et primaevo flore iuventus,
defensi tenebris et dono noctis opacae,
in furias ignemque ruunt, nec claustra, nec ipsi
custodes sufferre valent. Amor omnibus idem. [Proh pudor]
Multi praeterea (quod rebus restat egenis!) 350
saepe manu liquido distendunt nectare cellas.
Magnanimum heroum pertentant gaudia pectus
solamenque mali distillat ab inguine virus.
O fortunatos nimium, sua si bona norint!
Non absunt illis saltus armentaque laeta; 355
caelati argenti sunt, auri multa talenta.
Sacra deum sanctique patres et cara sororum
pectora maerentum tenebris et carcere caeco; [Moniales]
332 relligione omnes; 332 foveisque γ; 339 tum V; 355 illic V; 356 coelati M; 357 chara A; 357 hic cara sororum V; 358 caoeco M;
345 (255 in G) G in marg.: Hic Poeta libidinosam huic num vitam reprehendit
centum aerei claudunt vectes et saepe sine ullis
coniugiis vento gravidae, mirabile dictu. [Ironia] 360
Religione sacrae, non haec sine numine divum, [Epilogus ad monachos
iam nova progenies coelo demittitur alto. omnium et laborum et
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum. periculorum expertes]
Salve vera Iovis proles, tibi nomina mille,
dives opum, dives pictai vestis et auri, 365
omnes caelicolas centum complexa nepotes.
Hinc Italae gentes omnisque Oenotria tellus
in dubiis responsa ferunt, tibi maxima rerum
verborumque fides et nescia fallere vita.
Cura tibi divum effigies et templa tueri, 370
Europam atque Asiam magno turbante tumultu.
Non equidem invideo: ipsa procul discordibus armis
haut impacatos a tergo horrebis Hiberos;
non unquam somnos abrumpit cura salubris.
Atque utinam ex vobis unus vestrique fuissem 375
aut custos gregis aut maturae vinitor uvae!
Omnia vincit amor: quis enim modus adsit amori?
Ille mihi thoraca simul cum pectore rupit,
transadigit costas linquitque volatile ferrum:
altius ad vivum persedit vulnere mucro. 380
Quid facerem? Talin possum me opponere monstro?
O fortunatae gentes, genus ab Iove summo,
vobis parta quies, nos flendo ducimus horas,
nos alias hinc ad lacrimas eadem horrida belli
fata vocant; saevit toto Mars impius orbe; [Bella nostri saeculi] 385
regibus incessit magno discordia motu.
Hinc movet Euphrates, illinc Germania bellum,
361 relligione A; 366 celicolas A : coelicolas γ a M; 376 custosque A; 368 responsa petunt V; 371 Europamque Asiam V; 373 haud omnes : aut V; 376 custosque α; 376 viniter α γ; 381 talim A; 384 lachrymas A : lacrymas M;
turbidus et torquens flaventes Ister arenas
extremique hominum Morini; tot millia gentes
arma ferunt Italae: sanguis novus imbuit arma. 390
Nunc etiam horribili visu portenta sequuntur:
obscenae volucres (id rebus defuit unum!)
aetheraque obscurant pinnis camposque patentis
facta nube premunt: en quis consevimus agros?
Nec tantis mora prodigiis. Bella, horrida bella, 395
et Thybrim multo spumantem sanguine cerno.
Ecce inimicus atrox, genus insuperabile bello, [Turca]
victor ab Aurora populis summasque minatur
deiecturum arces Italum excidioque daturum
aere cavo curruque volans dat lora secundo 400
per Graium populos et Iapidis arva Timavi.
Heu quantae miseris caedes Laurentibus instant!
Ventum ad supremum est; en quo discordia cives
perduxit miseros! Nec habet fortuna regressum.,
Hos inter motus atque haec certamina tanta 405
ipsa immota manet spectatque interrita pugnas
cara deum suboles; solido de marmore templa
assiduo resonat cantu, nec ferrea iura
Insanumve forum, aut populi tabularia vidit;
atque metus omnes strepitumque Acherontis avari 410
subiecit pedibus; non ulli obnoxia curae.
Exspectare dapes, sollemnis ducere pompas
391 enim M; 392 obscoenae C; 393 pennis γ; 393 patentes γ; 396 tybrim γ M : tiberim a; 398 Aurorae V; 402 caedes miseris M; 404 neque habet V; 407 chara A; 408 resonant a M; 409 insanumque M V; 412 expectare α : et spectare γ;
398 (279 in G) G in marg.: Rex Turcarum
400 (281 in G) G in marg.: Aes cavum appellat machinam aheneam quam vulgo Bombardam appellat
ad delubra iuvat caesosque videre iuvencos.
Hic amor, hoc studium: summa nituntur opum vi
regales inter mensas nymphasque sorores, 415
sideris in numerum atque alto succedere caelo.
Is locus urbis erit, requies ea certa laborum.
Vivete felices, o terque quaterque beati!
Quo res cunque cadent, si quid mea carmina possunt,
nulla dies unquam memori vos eximet aevo. 420
413 caoesosque M; 417 et C; 418 foelices γ
3. Traduzione
LA VITA DEI MONACI
centone virgiliano di Lelio Capilupi
[VERSI SOTADEI CONTRO IL PONTEFICE O MINOTAURO ROMANO
La lode tua e non la tua frode, virtù e non ricchezza
ti permisero di ascendere a tale altissimo onore.
(A tale altissimo onore ti fecero ascendere ricchezza
e non virtù, la frode tua e non la tua lode.)
O ANCHE
Il tuo regno sia stabile e non per breve tempo
ti faccia vivere qui l’onnipotente Dio.
(L’onnipotente Dio ti faccia vivere qui per breve
tempo e stabile non sia il tuo regno.)
O ANCHE
Ai poveri offre gratuitamente il proprio e non si cura dei doni materiali
la curia papale, come abbiamo appena potuto apprendere.
(Abbiamo appena appreso che la curia papale cura i doni materiali
e non offre gratuitamente il proprio ai poveri.)]
LA VITA DEI MONACI
detti anche comunemente frati
PROEMIO
Io che un dì, quando moriva d’amore Gallo,
notte e giorno ho cantato all’ombra di un faggio,
coi versi antichi dei padri, lo spettacolo delle sue sconsideratezze,
m’accingo ora a un’opera maggiore. Qui non canterò te
in un poema di fantasia, magnanimo Enea, né il tuo folle smarrimento, 5
infelice Didone, dopo la morte del povero Sicheo,
ma dirò di voi frati, signori della terra, razza togata,
anime illustri, cuori ignari di ogni affanno,
affidandomi alle corde sonore della cetra
della veggente Manto: non tutti possiamo tutto. 10
INVOCAZIONE A IPPOLITO D’ESTE
Ornamento d’Italia, nuova speranza della grande Roma,
cura degli dei, Ippolito, prole gloriosa in guerra,
perpetuata da tanti eroi fin dall’origine della tua antica schiatta.
Tu, sia che già vinca i freddi del grande Reno,
irto di dardi e della pelle dell’orsa libica, 15
e che fra l’armi dei re conduca lo scudo ornato dell’insegna paterna –
cento serpenti e l’Idra cinta di serpi –
drizzato all’erta e scuotendo i grandi gigli;
sia che alle rive del Po, presso le mura dell’augusta città del Re,
da dove, splendente di siria porpora, conduci la tua stirpe, 20
tra sacre cerimonie dia le leggi ai padri lì convocati;
Tu, favoriscimi il cammino e sostieni questa mia ardita impresa.
I PRIMI MONACI
Da Giove ebbero il principio, se lo si vuol credere,
ma, pur se di stirpe divina, col trascorrere di così lungo tempo,
andavano errando, spinti dal fato, intorno a tutti i mari. 25
Nessuno aveva una fissa dimora: abitavano fra valli profonde
un bosco recondito o un antro dentato di rocce incombenti
o la piaggia di una riva, in deserti infestati da belve feroci,
sotto un sole ardente o preda di un cielo gelato.
Allora la religione incuteva ancora timore in quelle anime semplici! 30
I rami offrivano loro un magro pasto, bacche e corniole petrose;
per cibo avevano le radici divelte dell’erba,
da bere limpide fonti e non il massico,
dono di Bacco, né li avevan corrotti i raffinati banchetti,
né l’animo loro era stato sedotto da Venere, né da imenei nuziali. 35
Ahi pietà, ahi antica fede, chi di voi dicendo
potrebbe trattenere le lacrime? Ma finalmente dopo lunghi anni
giunse il solo, come un dio inviato dall’alto del cielo,
che ricompose questa razza indotta, dispersa fra le cime dei monti,
che diede loro leggi e li indirizzò a nuovi ricetti. 40
CORRUZIONE MATERIALE
Ardore comune tutti li invade ad un tempo e ogni resistenza è vinta
da una smodata ambizione e dal pressante desiderio di beni terreni.
Prodi eroi, nati in migliori anni, ora invece,
in Europa e in Asia, sul Garamanto e l’Indo,
abitano cento grandi città e tetti d’oro, 45
oggi d’oro, ma un tempo irti di rovi silvestri.
(così può mutar le sorti il lungo scorrere del tempo!)
Ma ora il sopportar povertà e dure fatiche
fra monti e dirupi, e l’amor di castità,
tutto ciò l’ha abolito la religione col monito imperioso degli dei. 50
Dei, ma che dico? O forse in ciascuno si fa dio il proprio violento desiderio?
Dunque, con ogni premura, lieti si curano dei banchetti:
davanti a un fuoco, qualora sia freddo; se d’estate, all’ombra.
Vera opera di virtù! Affinché il gelido inverno non guasti
quel delicato gregge né questo abbia a soffrire la scabbia e la deforme podagra, 55
hanno maniche le loro tonache, nastri le mitre.
Ma costoro, stirpe immortale, seguono i precetti degli Dei
e sempre si danno da fare in soccorso degli afflitti.
GLI ORDINI MONASTICI
La fortuna del loro casato salda resiste e si contano gli avi degli avi:
scelgono le regole e i funzionari e il santo senato, 60
i rettori dei novizi e dei beni, e il terribile sovrano,
e quelli che preferiscono destinare alla cura del gregge,
finché son giovani e docili e l’animo è malleabile,
oppure a far la guardia ai sacri altari o a dissodar la terra;
un altro stipa le provvigioni; i vecchi si prendono cura della città; 65
ci son quelli cui è toccato di far la guardia davanti alle porte.
Tutti usano avere la chioma tosata, e obese le terga,
e la giogaia che dal mento pende fino alle cosce,
tutti hanno lo stesso desiderio: gonfiar di grasso il capo
che han designato. E però non son tutti di un’unica razza; 70
anzi non si stima né il numero, né i loro nomi:
ché tutti infatti non potrei sciorinarveli
neppure se avessi cento lingue e cento bocche.
PROFEZIA SULLA FINE DEI MONACI
Ma a ognuno tocca il proprio giorno, tutti abbiamo il nostro momento,
breve e inarrestabile. Ah venga – e già s’appresta – col rinnovarsi dei lustri 75
l’età nuova, in cui le loro case e tutte le lor proli siano abbattute.
Ahi, ma nulla ci è lecito sperar senza il volere degli dei!
A che valgon fatica e opere di bene? Allora saprai
che ogni cosa cade in rovina per opera dei fati
e volge indietro il suo corso fino a sparire, quando vedrai atterrati le Alpi 80
eccelse e i Norici castelli, e deserti i regni degli uomini.
CORRUZIONE SPIRITUALE
Lì sorse funesta un dì, per una malattia del cielo,
una superstizione falsa e ignara degli antichi Dei,
che nessuno ha forza di cancellare col ferro o col fuoco.
Costumi, passioni, popoli, case comuni 85
questa innalzò, dapprima uscita dal tenebroso Stige:
un gigantesco mostro, orrendo, deforme, al quale è negata ogni luce,
lo odia il padre stesso, Plutone, lo odian le sorelle.
Dapprima ancor piccola e timorosa, presto si innalza nel cielo,
è tenace nel suo mendace inganno, ma proclama a gran voce la Verità 90
e, giorno dopo giorno, levato in alto il capo avidamente, si inorgoglisce.
Quale regione della terra scampa da questo dolore?
Guarda anche l’orbe domato da remoti cultori
e laggiù anche i Britanni, benché divisi dal resto della terra.
A che ricordare le nefande stragi e gli illeciti imenei? 95
Tutti ardirono empio delitto e riuscirono in questo loro ardire:
trafugarono la sacra effigie e con mani grondanti di sangue
strapparono agli dei gli altari e i sacri templi,
ovunque portando terrore e continuo spettacolo di morte.
E adesso mentre fra le città d’Italia infuriano la peste 100
e l’ira degli Dei, questi s’abbandonano a furia ancor più sfrenata.
Dico cose ben note e tutti in cuor loro sanno.
PAOLO III
Ma il terzo profeta di uomini e dei, l’augure Asila,
simile a un dio nel viso e nelle membra, cui pende
incolta sul mento la barba canuta e dalle spalle sudicio 105
cade il mantello, lui, che l’epoca nostra ha creduto
nato da seme celeste e discendente dell’alto sangue degli dei,
lui infrange ogni diritto e subito scappa tremante,
avvolto in ricamate vesti: tanti sono gli aspetti in cui si muta.
Ah qual un tempo mi parve; quant’è diverso adesso da quello d’allora, 110
ormai potente grazie alla sedizione e esperto di pelasgici inganni.
Se ne andava portandosi fra il clamore generale
e così cominciò a tramare inganno e con astuzia
riempiva di parole le genti della fertile Ausonia,
dimentico del suo onore e della salvezza degli alleati, 115
e anzi osò svellere dal tempio i grandi numi
consacrati degli dei.
Allora tutta l’Etruria insorse con giusto furore
e lui, per affrettar la fuga, dissotterrò
gli antichi tesori, ignoto carico d’oro e d’argento, 120
e, conscio della sua impudenza, entrò nelle città, riuscendo
a scampar la schiera dei dannati e i templi della terribile Dite,
le armi di Giove e le mura dell’alta città di Roma.
E ora quel novello Paride, col suo stuolo di effeminati,
lì, dove arde nel mezzo un fuoco e i compagni suoi incoronano i crateri, 125
lì, disteso in un anfratto, invoca te nelle sue libagioni, Leneo Bacco
Quale fu la causa di sì grande male? La sua veste fulgente di porpora,
la triste invidia e il desiderio incontentabile di fama.
In nessun luogo più la fede è salda: il Serpente, sazio di velenoso fiele,
istigator di delitti, tormentava col doloroso sprone, 130
né trovò pace finché non ebbe dall’alto della cima
precipitato l’Uomo fra le rupi fino all’onda dello Stige.
Quale insaziabile Leone, che erra sempre peregrino per le alte stalle,
dirigendosi ora da questi ora da quelli, vaga per tutta l’Italia,
e contro l’Italia va rivoltando le sue tortuose spire, 135
rizza irte le squame e caccia dalle fauci un sibilo.
INVOCAZIONE PER LA SALVEZZA DI MANTOVA
Inorridisco solo a dirlo! O Dei, sovvertite questa nostra rovina,
o Dei, impeditene le minacce! Almeno sopravviva la nostra Mantova,
Mantova ricca degli avi nostri, come la madre Berecinzia
lieta del parto degli Dei. Lungi, statene lungi, profanatori! 140
Dei patrii, salda serbate la casa, e i nipoti fanciulletti,
e sereni gli uomini devoti, e la signora potente.
INVOCAZIONE A ERCOLE GONZAGA PER LA SALVEZZA DI CASA CAPILUPI
A te, Alcide, grande e memorabile nume, rivolgo le mie preghiere;
noi per primi ti onoriamo; tu, che hai pietà delle nostre sventure,
preserva la casa della fiera stirpe dei Lupi. 145
In questa fede rimangano puri i nostri nipoti,
e i figli dei figli e chi avrà da loro i natali.
INVOCAZIONE ALLE MUSE
Dove vengo sospinto? Da dove ero partito? Fugge inarrestabile il tempo,
mentre, in preda alla passione, mi attardo a descrivere singoli eventi,
e ne tralascio molti altri anche se degni di memoria. 150
Voi, Muse, vi prego, ispiratemi a cantare le sacre cerimonie
e gli dei, il pane e i calici della mensa imbandita;
qui le audaci imprese dei padri convien che io canti con appropriata voce.
IL MATTUTINO
Così in terra, tutta questa schiera, la turba dei padri,
la svegliano dai suoi morbidi giacigli e la spingono alla sua sacra missione 155
la luce del sole e il mattutino cinguettio degli uccelli dai tetti.
Dapprima vanno al tempio e col rintocco del bronzo sonoro,
dalla vetta di una torre o dalla cima di un tetto,
danno il segnale. I ceri già rifulgono sugli altari.
E già i sacerdoti, i soli esperti nel canto, vanno 160
pavoneggiandosi nelle loro vesti di lino, ornati del manto purpureo
e tutti pari a cantare e pronti a rispondere,
divisi in molteplici schiere, brillano e rischiarano di cori
le volte. Pendono le lampade dai soffitti dorati.
LA MESSA
Stanno intorno all’altare; il sacerdote, nella sua candida veste, 165
trecento volte invoca gli dei con voce tonante e ancora per tre o quattro
volte raddoppia le invocazioni, allora tutto il resto del popolo lo segue e ripete:
“Udite le nostre preghiere” e il sacerdote del tempio, davanti all’altare,
supplice dispiega i suoi scongiuri col pesante turibolo
e implora gli Dei con le palme tese verso il cielo. 170
Proclama sé stesso causa e colpa e principio dei mali
e molto s’accusa e con svelta bocca aggiunge queste parole:
“Salve, Padre santo, che regni sull’eccelso Olimpo;
sempre rimarranno l’onore e il tuo nome e le lodi;
e noi e questi tuoi sacri riti raggiungi con piede propizio, 175
noi, i tuoi figli, a cui Tu prometti la casa celeste.
Con questo pane, secondo l’uso di Colui che ce l’insegnò
nell’ora della sua morte, imbandiamo l’altare di sì grande Nume,
per il quale siam salvi, e rinnoviamo il ricordo e gli onori dei suoi meriti.
O Figlio del Padre altissimo, non sono io salvo grazie 180
alle tue ferite, vivo della morte tua? Quando mai una colpa indegna
macchiò il tuo viso beato? E perché vedo queste tue ferite?
Pietà vinse il duro cammino: innanzi a Te tremò il guardiano d’Averno,
tremarono i laghi infernali; Tu concilii gli scettri
e Giove, Tu concedi di sedere ai banchetti degli Dei. 185
Abbi pietà del popolo devoto e volgiti benevolo alla nostra miseria.
Dei e dee tutte, e tu santissima profetessa,
madre divina, vieni a lenire i nostri affanni”.
L’EUCARISTIA
Così parla il sacerdote con voce profetica e offre
i doni della lavorata Cerere, doni celesti, 190
e li guarda ammirato e se li rivolta tra le mani e le braccia.
Oh cosa vorrà mai farne? Si confonde in varie immagini
e volge l’animo inquieto ora qui e ora lì,
poi lo spezza in più parti, non appena con un cenno gli Dei
gli danno l’assenso per affondare i denti nel morso di pane, 195
e violare con mano e audaci mascelle il dischetto
di crosta fatale. Con la mano si percuote sul cuore onorevole
per tre o quattro volte e caccia un gemito dal profondo del petto
e così va dicendo: “Non sono degno di certo di questo onore’.
E già il sacro calice stringe nella destra, e subito tutte 200
le matrone, percossesi il petto, abbassano il capo:
le più illustri così riconoscono il loro Dio; il sacerdote intanto
solerte vuota la coppa spumeggiante e tracanna dall’oro ricolmo.
“Andate” proclama, asperge i compari con acqua pura,
spruzzandoli con poche gocce, e lascia l’altare dove ha pasciuto. 205
LA PREDICA
Completate senza indugio le preghiere nel giusto ordine,
si alza uno dei vecchi e fa invocazioni agli Dei
col capo scoperto e, in piedi lì al centro, comincia a parlare dal pulpito
abbaia stentoreo parole di biasimo, mentre tutti stanno lì attenti.
Lui solo, con la barba incolta riversa sul petto, vaticina i destini 210
e spiega quale fiducia sia da riporre nelle vicende umane,
e poi quali siano le fauci del Tartaro: la profonda notte,
e i fratelli che han congiurato per distruggere il cielo,
i supplizi e le pene dei peccati; e ancora le sedi beate:
il nettare d’Ambrosia e il dolce profumo della panacea. 215
Così ammonisce e poi aggiunge preghiere e, slanciatolo in alto,
protende ora un braccio, ora l’altro, ora rotea gli occhi infiammati,
ora tiene il volto in contemplazione e immobile lo fissa al suolo.
Comincia a parlare e nel mezzo della frase si ferma:
muta il suo aspetto in mille prodigiose forme 220
e così, incutendo il timore di sete e sofferenza in quei miseri mortali,
canta gli orrori con parole fumose e minaccia l’imminente
rovina. Risvegliando il ricordo esemplare degli antichi,
annuncia siccità e piogge e venti gelati
e funesta carestia e le ire inesorabili. 225
Allora raggela il cuore dei campagnoli; trasecola la plebaglia incolta;
atterrite le beghine raddoppiano i loro scongiuri, lanciano un grido
in preda al delirio e tutto il tempio risuona di pianti,
di lamenti, di gemito e del loro femmineo grido selvaggio.
E queste cose ripetendo, s’alza dall’alto scranno, 230
ancora a capo nudo, e infila il braccio in una tunica,
allora afferra il bastone e con questo evoca le ombre dall’Orco.
LA CONFESSIONE
Quindi lo attornia un’innumerevole folla, prima il miserabile volgo
e poi anche i più illustri; e così lui ascolta la vita e i peccati di ognuno:
se quelli gli portano in cambio quintali d’oro e d’avorio, 235
maiali ispidi di setole e tripodi di Dodona, a loro
lui accorda il perdono e si rivolge con parole amichevoli;
quelli che invece son percossi dalle sventure e privi di ogni ricchezza
li ascolta e così li castiga condannandoli all’empio Tartaro.
Ah ma quelli che da soli si sono goduti le ricchezze ottenute, 240
travolti dal fulmine, strisciano tutti nelle più infime profondità.
LA PREPARAZIONE DELLA MENSA
Questi, appartati in un luogo riposto, così si danno da fare e intanto
s’apparecchia la loro magnifica sala, maestosa e superbamente ornata
di cento colonne, e al centro vi preparano il banchetto:
alcuni sistemano i vasi di bronzo e attizzano il fuoco; 245
altri portano l’acqua calda e infilzano sugli spiedi le schiene di maiale,
che sfrigolano, e poi cento grassi agnelli assieme alle madri
altri ancora imbandiscono la mensa di vivande, e dispongono il pane
nei canestri e portano tovaglioli soffici e lisci;
altri aggiungono i coltelli e versano il vino. 250
Van correndo qua e là e si scambiano i compiti. Intanto, lasciati gli altari,
i padri, sempre avvezzi a mangiar di continuo,
fremono fra i chiostri e, drizzate le orecchie, stanno lì ad ascoltare,
attenti aspettano il segnale, implorando gli Dei.
L’ABATE
Allora il padre onnipotente, che su tutto ha il supremo potere, 255
finalmente s’avanza fra la folla lì accalcata,
mostro orrendo, enorme, il corpo ingrassato di biada
com’è uso dei padri, va a sedersi lì al centro sullo scranno avito.
Egli è custode di tutte le opere; tutti lo ammirano e gli stanno intorno
e fitto gli mormorano il loro assenso: quando poi, come spesso capita, 260
sorge una lite e la discordia sconvolge e incattivisce i confratelli,
lui seda gli animi con le sue parole e i fratelli ribelli
riconduce all’obbedienza e li frena con le catene e col carcere.
Ah no, fanciulli! Non fate albergare nei vostri cuori tali contese,
e tu, priore, tieni a freno la stirpe che conduci giù dall’Olimpo! 265
Vedendoli indugiare in contrasti del genere, per primo
non solo rinsalda i loro cuori, ma ancora li sgrida a gran voce:
“Compagni, tutti ben conosciamo i mali che abbiamo fin qui sopportato:
e fra loro questa fame era l’ultimo che ci rimaneva, e che,
dopo molti e vari accidenti e così tanti pericoli, 270
metterà fine alle nostre angosce. Ora tutte le nostre forze
dobbiamo usare, ora tutte le rapide mani, ora ogni arte maestra:
così si esaudisce ciò per cui avete pregato, così si arriva alle stelle.
Su dunque tutti tirate fuori le vostre forze e pregate
il nostro comune Dio e versatevi vino a volontà!” 275
Così termina il discorso e fa schioccare la consueta frusta.
IL PRANZO
E non appena giunge il segnale, già ognuno è andato al suo posto
secondo il suo grado. Allora si fa un gran silenzio
e così monta il furore nell’animo dei giovani e, come lupi
rapaci nella fitta nebbia, afferrano e agguantano 280
e fanno a brandelli le vivande e tutto insozzano col lurido tocco;
senza indugio, senza requie, con accanita lotta
strappano dalle coste la carne e così schiamazzano
coi denti tenaci e crepitano le carni sotto i fendenti della mascella;
s’ingozzano di vino d’annata e di grasso ferino, 285
a mo’ dei Tedeschi vuotan le coppe di bronzo.
I PASSATEMPI DEI MONACI
Poi che ormai nel banchetto la fame s’è spenta, tutti all’unisono fanno:
“Certo non abbiamo la forza per rendere grazie adeguate
al Re dei numi celesti!” E con queste parole,
lieti di un’insolita e indescrivibile dolcezza, 290
tutti ormai son giunti in luoghi ameni e hanno iniziato un canto,
come talora fanno i nivei cigni tra nubi piovose
quando si ritirano dal pasto. Qui, lungo i fiumi,
la terra schiude fiori e le viti s’intrecciano in un pergolato;
qui sono gelide fonti e prati irrigati dai ruscelli, 295
grotte e limpidi laghi e tane di fiere selvagge.
Allora si dedicano con ogni premura a cacciar le bestie coi lazzi,
a intrappolarle col vischio, a stender le reti pei cervi,
a inseguire le lepri orecchiute; e quando nel letto del fiume
i venti si sono posati, uno caccia dall’acqua le reti bagnate, 300
altri addestrano il corpo sull’erbosa palestra,
e strappano le delicate tonache negli ombracoli delle vie,
altri ancora conducono coi piedi una danza e intonano un canto.
Ogni bosco risuona di questo strepito e delle risa smodate.
Allora se capita loro di incontrare un uomo stimato 305
per pietà e per virtù, rimangono zitti o gli voltan le spalle.
I MONACI DI CORTE
Ma quelli che fin da giovani sopportano fatiche e s’avvezzano al poco,
o sopportano il peso degli eventi come vengono o in rango serrato da sé
aprono a forza la via, riescono a penetrare fino sull’uscio delle corti dei re.
LA QUESTUA
Altri poi vanno di porta in porta e giungono fin dentro alle case: 310
questi gradiscono ammassare bottini e viver di rapina.
Consci dell’inverno imminente serban da parte il ricavato della questua,
agnellini o caprette divoratrici di raccolti
e allo stesso modo si procaccian castagne e riserve di grano.
I FUNERALI
Intanto il sacerdote richiama i compari all’alto tempio: 315
quelli già da tempo sopiti nell’ozio e così anche i giovani dispersi fra i campi
da ogni parte lì si radunano e guidano i tristi cortei funebri
(perché nulla resti da loro intentato) e allora, seguendo le squille di bronzo,
i frati, dispostisi in coppia a seconda dell’età,
han già afferrato le fiaccole e secondo l’antica usanza 320
i più giovani procedono e trasportano le spoglie mortali
(che razza d’uomini è questa?) lieti e con grande baccano.
Qui le madri sventurate e i figli orfani dei genitori
mesti piangono i loro cari e risuona l’etere tutto dei loro pianti
e la terra e il morbido feretro son cosparsi di lacrime. 325
E questi vanno lanciando al cielo voci di gioia
andandosene in mezzo alla città. E il sacerdote nella sua lunga veste
benedice gli uomini e conclude con parole per le anime dei defunti
e per le ceneri. Ah in quanta serenità riposeranno quelle ossa!
Allora i giovani scelti in mezzo alla volta del tempio 330
s’introducono in folla e spogliano le membra ancora calde,
e apprendon così, secondo la religione dei padri, a seppellirli nelle fosse.
LA CENA
E mentre Vespero ormai s’avvicina al cielo del crepuscolo,
fanno ritorno alla casa i più giovani e giungono quando già è tarda notte,
allestiscono il banchetto portando grati doni 335
per il secondo pasto; le torce vincono il buio con le loro fiamme.
Fanno rotolare tronchi di olmo e li pongon sul fuoco.
Li invita l’inverno gioioso e dissolve le preoccupazioni;
allora dolce s’affaccia il sonno e il vino soave.
Quando poi giunge la prima quiete, lontano dal convito e dalle tavole, 340
in lunghi portici, anch’essi non privi di pregio,
esausti tacciono i vecchi, sepolti nel sonno e nel vino,
il torpore abbraccia le stanche membra e
unico per tutti è il riposo dalle fatiche, unica per tutti l’impresa.
LA LIBIDINE DEI MONACI
Ma non sono pigri in amore e nelle dolci tresche notturne 345
quelli di bell’aspetto e nel primo fiore degli anni:
difesi dalle tenebre e col favore della notte scura,
si lanciano nel furioso fuoco della passione né valgono a trattenerli
i catenacci né gli stessi custodi: l’amore è per tutti lo stesso!
Molti poi spesso – solo questo resta ai poveretti! – 350
con la mano si danno a riempire le celle di chiaro nettare:
l’estasi tiene il petto dei magnanimi eroi
e stilla l’umore dall’inguine, conforto dei mali.
Ah voi, troppo fortunati se conosceste i vostri beni:
non mancano loro il bosco e i lieti armenti; 355
serbano molti talenti d’oro e di argento cesellato
LE MONACHE
Sacri agli Dei sono i padri santi e così anche i cari petti
delle suore, che stanno meste nell’ombra e nel carcere cieco:
le rinchiudono cento sbarre di bronzo e spesso senza
connubio alcuno son fatte gravide dal vento, mirabile a dirsi! 360
A colei che è consacrata nella religione, grazie all’intervento divino,
è inviata questa nuova progenie dall’alto dei cieli.
Davvero io credo – e non è vana fede! – che questa è la stirpe degli dei.
Salve vera prole di Giove! A te mille nomi,
ricchezza e opulenza; e una veste sontuosa, ricamata d’oro, 365
che possa abbracciare tutta la tua celeste discendenza.
LA SERENITÀ DEI MONACI
Qui le genti d’Italia e la terra d’Enotria tutta,
in preda al dubbio, attendono risposte; tu invece vivi,
in parole ed azioni, una vita sicura, che non conosce affanni.
Ti sta a cuore custodire le effigi e i templi degli Dei, 370
mentre turba l’Europa e l’Asia un grande tumulto.
Certo non posso negarlo: tu, lontano dalle armi ostili,
non dovrai temere alle spalle gli Iberi selvaggi,
né mai una preoccupazione infranse il tuo robusto sonno.
Magari potessi anch’io esser uno tra voi, custode 375
del vostro gregge o vignaiolo dell’uva matura.
Ma tutto vince l’amore e qual limite conosce mai amore?
Esso m’ha infranto il torace insieme col petto,
ha perforato le costole e lì ha lasciato il suo dardo alato:
la punta è entrata nel profondo della carne viva e ferisce. 380
Che posso fare? Come posso oppormi a tale atrocità?
LA GUERRA
Fortunate genti, progenie del sommo Giove,
per voi raggiunta è la pace; noi nel pianto consumiamo le ore,
noi, da qui, chiamano ad altre lacrime gli orribili
fati di guerra: empio imperversa per l’orbe intero Marte; 385
scoppia fra i re la discordia con gran tumulto.
Da qui muove guerra l’Eufrate, da lì la Germania
e l’Istro che torbido rivolta la bionda rena,
e i Morini, gli uomini dei remoti confini. Tante migliaia di armi
portano le italiche genti e nuovo sangue tutte le insozza. 390
E ancora si susseguono portenti orribili a vedersi:
Immondi uccelli (questo solo tra gli orrori mancava!)
con le loro ali oscurano il cielo e, stretti in una fitta nube, premono
sulle piane campestri: ecco, per loro abbiam seminato i nostri campi?
E non c’è scampo alcuno da tali mostruosità. Vedo guerre, 395
orride guerre, e il Tevere che schiuma dell’abbondante sangue.
I TURCHI
Ecco l’atroce nemico, razza invincibile in guerra,
è vittorioso fra i popoli fin dall’Aurora e minaccia
di atterrare le alte rocche d’Italia e di far strage
col concavo bronzo e in volo allenta le briglie al fortunato carro, 400
attraverso la Grecia e le distese del giapidico Timavo.
Ahi quante infelici stragi incombono sui Lauretani!
L’ora fatale è giunta! Ecco fino a che punto la discordia spinse
gli sventurati cittadini! E la Fortuna non volta indietro il suo corso!
EPILOGO
E in questi sommovimenti e in così sanguinose lotte, 405
rimane impassibile e assiste alle battaglie senza timore
l’amata stirpe degli dei, e i templi di solido marmo
fa risuonare del suo continuo canto, né bada alle leggi di ferro
alla furia della pubblica piazza o agli archivi del popolo.
Schiaccia ogni terrore o strepito dell’avido Acheronte 410
sotto i suoi piedi, immune da ogni affannosa cura.
Le piace indugiar nei banchetti e condurre processioni solenni
fino ai santuari e star a guardare le stragi di giovani.
Qui sfoggiano i frati la loro passione, lo zelo: lottano con tutte le forze,
fra le sontuose tavole e le graziose consorelle, 415
per entrare nel novero delle stelle e penetrare nell’alto cielo,
che sarà la loro città, il sicuro riposo delle loro fatiche.
Ma pur felici vivete, o tre e quattro volte beati!
Comunque andranno le cose, se a qualcosa son valsi i miei canti,
mai verrà il giorno in cui sarete sottratti alla memoria del tempo. 420
4. Analisi del centone
4.1 Loci vergiliani
Riproduco in questa tabella: nella prima colonna, il numero del verso del centone; nella seconda e nella quinta, la collocazione dei corrispondenti componenti nell’opera di Virgilio, quale si legge nella prima edizione del 1543 (che riporta solo l’opera e il libro corrispondente da cui è tratto il verso o l’emistichio); nella terza e nella quarta, la collocazione, quale da me rintracciata nell’opera virgiliana, del verso o dell’emistichio, con l’indicazione dell’opera, del libro e del verso corrispondenti. Come si può notare, non è raro che non vi sia precisa corrispondenza tra l’indicazione nell’edizione cinquecentesca e l’esatta collocazione del verso o dell’emistichio. Se in alcuni casi si può supporre un errore aplografico di ricopiatura del tipo cosiddetto di saut du même au même (è il caso per esempio del secondo emistichio del verso 105), in altri casi l’inesattezza sembra esser causata da un errore di memoria (è il caso, con ogni probabilità, del v. 311, o del v. 307). È questa, forse, una possibile evidenza del carattere mnemonico della tecnica centonaria di Capilupi, il quale doveva probabilmente conoscere a memoria i passi virgiliani che citava e, semmai, ricontrollarli solo in un secondo momento per garantirne l’esatta riproduzione. Questa fase di ricognizione però (sia opera del Capilupi o meno) dovette talvolta, come dimostrano questi casi, essere alquanto approssimativa.
verso
ed. 1543 lato sx
verso / 1° emistichio
2° emistichio
ed. 1543 lato dx
Aen. 1
Aen. 6
Ge. 2
Aen. 7
Aen. 5
Aen. 4
Aen. 12
Aen. 6
Aen. 11
Aen. 10
Aen. 11
Aen. 3
Aen. 1
Aen. 8
Aen. 5
Aen. 7
Aen. 12
Aen. 9
Aen. 5
Ge. 4
Ge. 1
Aen. 7
Aen. 6
Aen. 1
Aen. 6
Aen. 6
Aen. 6
Eg. 2
Aen. 8
Aen. 3
Ge. 3
Ge. 4
Aen. 6
Aen. 6
Aen. 8
Aen. 7
Aen. 6
Aen. 1
Aen. 3
Aen. 8
Aen. 3
Aen. 6
Ge. 3
Ge. 1
Aen. 4
Ge. 3
Ge. 5
Aen. 10
Aen. 9
Ge. 4
Ge. 4
Ge. 4
Ge. 4
Aen. 9
Ge. 3
Ge. 3
Ge. 3
Ge. 2
Ge. 4
Aen. 5
Ge. 3
Aen. 3
Ge. 2
Aen. 6
Aen. 10
Aen. 2
Ge. 3
Ge. 3
Ge. 3
Aen. 8
Aen. 7
Ge. 4
Aen. 10
Aen. 3
Aen. 7
Aen. 4
Aen. 4
Ge. 3
Aen. 1
Ge. 2
Eg. 1
Aen. 8
Aen. 6
Aen. 2
Aen. 12
Aen. 7
Aen. 3
Aen. 2
Aen. 10
Aen. 1
Aen. 7
Aen. 3
Aen. 11
Aen. 2
Aen. 11
Aen. 9
Aen. 11
Aen. 9
Aen. 5
Aen. 2
Aen. 2
Aen. 8
Aen. 1
Aen. 11
Aen. 1
Aen. 8
Aen. 4
Ge. 2
Ge. 2
Aen. 6
Ge. 3
Aen. 4
Aen. 2
Aen. 2
Aen. 9
Aen. 10
Aen. 5
Aen. 3
Aen. 2
Aen. 2
Aen. 10
Aen. 2
Aen. 3
Aen. 10
Aen. 12
Aen. 2
Aen. 3
Aen. 3
Aen. 10
Aen. 11
Aen. 9
Aen. 12
Aen. 1
Ge. 3
Aen. 8
Aen. 4
Aen. 4
Aen. 4
Aen. 8
Aen. 12
Eg. 7
Aen. 5
Aen. 1
Aen. 4
Aen. 4
Aen. 4
Aen. 8
Aen. 2
Aen. 12
Aen. 12
Aen. 5
Aen. 1
Aen. 8
Aen. 1
Aen. 8
Aen. 2
Aen. 8
Aen. 1
Aen. 6
Aen. 8
Aen.1
Ge. 1
Aen. 2
Aen. 2
Aen. 8
Aen. 8
Aen. 4
Aen. 4
Aen. 7
Aen. 12
Aen. 4
Aen. 8
Aen. 9
Aen. 11
Aen. 3
Aen. 8
Aen. 12
Ge. 3
Aen.3
Aen. 10
[Aen. 8, 667
Ge. 1, 280
Aen. 11, 258
Aen. 12, 419
Aen. 10, 153]
Aen. 7
Aen. 4
Ge. 4
Aen. 10
Aen. 6
Ge. 1
Aen. 3
Aen. 12
Aen. 8
Aen. 4
Aen. 10
Aen. 11
Aen. 4
Aen. 6
Aen. 1
Aen. 11
Aen. 11
Aen. 11
Aen. 1
Aen. 6
Aen. 6
Aen. 6
Aen. 9
Aen. 7
Aen. 1
Aen. 5
Aen. 6
Aen. 1
Ge. 4
Aen. 6
Aen. 3
Aen. 7
Aen. 1
Aen. 5
Aen. 10
Aen. 4
Aen. 4
Ge. 3
Ge. 4
Aen. 1
Aen. 1
Ge. 6
Ge. 6
Ge. 3
Aen. 10
Aen. 1
Aen. 7
Aen. 1
Aen. 7
[Aen. 8, 442
Aen. 10, 279
Aen. 5, 58; etc.
Aen. 8, 275
Aen. 10, 116]
Aen. 12
Aen. 10
Aen. 2
Aen. 3
Aen. 12
Aen. 1
Aen. 5
Aen. 1
Aen. 7
Aen. 1
Aen. 3
Ge. 1
Aen. 6
Aen. 7
Eg. 10
Ge. 2
Ge. 1
Ge. 3
Aen. 7
Aen. 6
Ge. 2
Aen. 6
Aen. 8
Aen. 1
Ge. 2
Ge. 4
Aen. 2
Aen. 12
Aen. 9
Ge. 4
Ge. 2
Eg. 2
Aen. 11
Aen. 7
Aen. 9
Aen. 4
Aen. 7
Aen. 11
Aen. 8
Aen. 1
Aen. 12
Aen. 12
Aen. 11
Eg. 5
Aen. 7
Aen. 6
Aen. 10
Aen. 9
Aen. 11
[Aen. 2,715/8,598
Aen. 8, 280
Ge. 4, 62
Aen. 8, 283
Aen. 8, 284]
Ge. 3
Ge. 1
Ge. 1
Aen. 1
Aen. 2
Aen. 12
Ge. 4
Aen. 11
Aen. 10
Aen. 8
Ge. 3
Aen. 5
Aen. 10
Ge. 4
Aen. 3
Ge. 2
Ge. 2
Aen. 10
Ge. 2
Aen. 7
Aen. 7
Eg. 4
Aen. 4
Aen. 8
Ge. 2
Aen. 6 #
Aen. 7
Aen. 7
Aen. 10
Eg. 1
Ge. 3
Eg. 1
Eg. 10
Eg. 10
Aen. 8
Aen. 12
Ge. 3
Eg. 7
Aen. 10
Aen. 3
Aen. 11
Ge. 4
Ge. 1
Ge. 3
Aen. 8
Aen. 11
[Aen. 12, 876
Aen. 12, 253
Aen. 12, 254
Aen. 5, 639
Aen. 6, 87]
Ge. 1
Aen. 8
Aen. 3
Aen. 6
Aen. 8
Aen. 12
Aen. 11
Aen. 10
Eg. 4
Aen. 7
Ge. 2
Ge. 2
Aen. 11
Aen. 11
Aen. 11
Ge. 4
Aen. 3
Aen. 3
Aen. 2
Aen. Proem. 1,
Aen. 6, 127
Ge. 2, 394
Aen. 7, 45
Aen. 5, 17
Aen. 4, 68,596; etc.
Aen. 12, 277
Aen. 6, 758
Aen. 11, 348/6, 722
Aen. 10, 199
Aen. 11, 508
Aen. 3, 476
Aen. 1, 642
Ec. 8, 6
Aen. 5, 37
Aen. 7, 453
Aen. 7, 658
Aen. 11, 755
Aen. 9, 680
Aen. 5, 801
Ge. 4, 521
Ge. 1, 40
Aen. 7, 219
Aen. 6, 394
Aen. 1, 32
Aen. 6, 673
Aen. 6, 704
Aen. 6, 674
Eg. 2, 13
Aen. 8, 349
Aen. 3, 649
Aen. 3, 650
Ge. 3, 529
Ge. 3, 527
Ge. 4, 516
Aen. 6, 878
Aen. 2, 8
Aen. 6, 846
Aen. 8, 321-322
Aen. 7, 393
Ge.1, 146
Aen. 6, 649
Aen. 1, 385
Aen. 3, 106
Aen. 8, 348
Aen. 3, 415
Aen. 6, 437
Ge. 3, 276
Ge. 1, 270
Aen. 4, 595
Ge. 3, 318
Eg. 5, 70
Aen. 10, 469
Ge. 2, 299
Aen. 9, 616
Ge. 4, 208
Ge. 4, 249
Ge. 4, 209
Aen. 1, 426
Aen. 9, 173
Ge. 3, 159
Ge. 3, 165
Ge. 3, 160
Ge. 2, 507
Ge. 4, 165
Aen. 5, 556
Ge. 3, 53
Aen. 3, 60
Ge. 3, 125
Ge. 2, 103
Ge. 2, 104
Aen. 6, 625
Aen. 10, 467
Aen. 10, 468
Aen. 1, 284
Aen. 2, 402
Ge. 3, 525
Ge. 1, 200
Ge. 3, 474
Ge. 3, 475
Ge. 3, 478
Aen. 8, 187
Aen. 7, 692
Ge. 4, 5
Aen. 10, 533
Aen. 3, 658
Aen. 7, 327
Aen. 4, 176
Aen. 4, 188
Ge. 3, 553
Aen. 1, 460
Ge. 2, 114
Eg. 1, 66
Aen. 8, 483
Aen. 6, 624
Aen. 2, 167
Aen. 12, 283
Aen. 2, 366
Aen. 7, 177-299-385
Aen. 3, 215
Aen. 2, 91
Aen. 10, 175
Aen. 1, 589
Aen. 6, 300
Aen. 6, 301
Aen. 7, 281
Aen. 3, 55
Aen. 11, 777
Aen. 2, 274
Aen. 11, 340
Aen. 9, 597
Aen. 11, 704
Aen. 9, 136
Aen. 5, 174
Aen. 2, 768
Aen. 2, 623
Aen. 8, 494
Aen. 1, 357
Aen. 1, 359
Aen. 11, 812
Aen. 1, 28
Aen. 8, 320
Aen. 4, 215
Ge. 2, 528
Ge. 2, 529
Aen. 6, 93/Aen. 11, 480
Ge. 3, 37
Aen. 4, 373
Aen. 2, 529
Aen. 2, 100
Aen. 6, 174
Aen. 10, 723
Aen. 5, 441
Aen. 3, 523
Aen. 11, 754
Aen. 2, 204
Aen. 3, 265
Aen. 10, 201
Aen. 6, 786
Aen. 2, 702
Aen. 3, 266
Aen. 10, 461
Aen. 11, 786
Aen. 2, 677
Aen. 3, 409
Aen. 3, 98
Aen. 10, 670
Ge. 3, 285
Aen. 11, 78
Aen. 9, 525
Aen. 12, 192
Aen. 1, 641
Ge. 3, 242
Aen. 8, 415
Aen. 8, 456
Aen. 4, 56
Aen. 4, 187
Aen. 4, 167
Aen. 8, 281
Aen. 12, 120
Eg. 7, 5
Aen. 5, 562
Aen. 1, 726
Aen. 4, 509
Aen. 4, 510
Ge.1, 411
Aen. 4, 612
Aen. 8, 719
Aen. 2, 700
Aen. 12, 600
Aen. 12, 612/11, 471
Aen. 5, 80
Aen. 1, 609/Eg. 5, 78
Aen. 8, 302
Aen. 1, 250
Aen. 8, 186
Aen. 2, 447/11, 846
Aen. 8, 189
Aen. 1, 665
Aen. 10, 849
Aen. 2, 286
Aen. 6, 688
Aen. 8, 296
Aen. 1, 79
Aen.1, 562
Ge. 1, 21/Aen. 6, 64
Aen. 2, 591
Aen. 2, 790/ 6, 628
Aen. 8, 181
Aen. 8, 619
Aen. 4, 283/12, 486
Aen. 4, 285/ 8, 20
Aen. 4, 286/ 8, 21
Aen. 7, 113
Aen. 7, 114
Aen. 7, 115
Aen. 12, 155
Aen. 4, 641/704
Aen. 8, 278
Aen. 9, 437
Aen. 9, 659
Aen. 1, 739
Aen. 11, 24
Aen. 6, 230
Aen. 3, 548
Aen. 8, 457
Aen. 12, 312
Ge. 3, 149
Aen.3, 444
Aen. 10, 152
Aen. 8, 667
Ge. 1, 280
Aen. 11, 258
Aen. 12, 419
Aen. 10, 153
Aen. 5, 377
Aen. 7, 250
Aen. 4, 76
Ge. 4, 441
Aen. 10, 274
Aen. 6, 99
Aen. 12, 761
Ge. 1, 352
Aen. 3, 367
Aen. 12, 453
Aen. 8, 556
Aen. 5, 660
Aen. 4, 667
Aen. 10, 651/2, 679
Aen. 11, 486
Aen. 4, 242
Aen. 6, 706
Aen. 1, 740
Aen. 11, 333
Aen. 11, 198
Aen. 11, 107
Aen. 1, 599
Aen. 6, 567
Aen. 6, 610
Aen. 6, 581
Aen. 9, 1
Aen. 7, 170
Aen. 1, 638
Aen. 5, 102
Aen. 6, 218
Aen. 1, 635
Ge. 4, 378
Aen. 1, 702
Aen. 6, 248
Aen. 9, 164
Aen. 7, 176
Aen. 1, 56
Aen. 5, 137
Aen. 10, 100
Aen. 4, 136
Aen. 4, 181
Ge. 3, 177
Ge. 4, 215
Ge. 4, 116
Aen. 1, 149
Aen. 1, 153
Aen. 1, 54
Ge. 6, 832
Ge. 6, 834
Ge. 3, 123/Ge. 2, 259
Aen. 10, 278
Aen. 1, 198
Aen. 7, 128
Aen. 1, 204
Aen. 7, 129
Aen. 8, 442
Aen. 10, 279
Aen. 5, 58/ 3, 114
Aen. 8, 275
Aen. 10, 116
Aen. 12, 129
Aen. 11, 241
Aen. 2, 355
Aen. 2, 356
Aen. 3, 277
Aen. 12, 533; etc.
Aen. 1, 211
Aen. 5, 435
Aen. 1, 215
Aen. 7, 741
Aen. 1, 215
Aen. 3, 216
Aen. 1, 610
Ge. 1, 412
Aen. 6, 638
Aen. 7, 699
Aen. 7, 700
Eg. 9, 41
Eg. 10, 42
Ge. 2, 469
Ge. 1, 139
Ge. 3, 124
Ge. 1, 308
Aen. 7, 27
Aen. 6, 642
Ge. 2, 75
Aen. 6, 644
Aen. 8, 305
Aen. 1, 151
Aen. 1, 152
Aen. 9, 607 (Ge. 2, 472)*
Ge. 4, 167/Aen. 1, 434
Aen. 2, 494
Aen. 12, 590
Aen. 7, 749 (9, 613)*
Ge. 4, 156
Ge. 2, 196
Eg. 2, 52
Aen. 11, 22
Aen. 7, 623
Aen. 9, 720/5, 293
Aen. 4, 415
Aen. 7, 670
Aen. 11, 143
Aen. 5, 553
Aen. 1, 538
Aen. 11, 215
Aen. 12, 454
Aen. 11, 191
Eg. 5, 62
Aen. 7, 384
Aen. 6, 231
Aen. 10, 828
Aen. 8, 179
Aen. 11, 834
Aen. 2, 715/8, 598
Aen. 8, 280
Ge. 4, 62
Aen. 8, 283
Aen. 8, 284
Ge. 3, 903, 378
Ge. 1, 302
Ge. 1, 342
Aen. 1, 723
Aen. 2, 528
Aen. 12, 132
Aen. 9, 237
Ge. 4, 184
Aen. 11, 736
Aen. 10, 435
Aen. 8, 658
Ge. 3, 244
Aen. 2, 492
Aen. 5, 302
Aen. 10, 620
Ge. 4, 476/Aen. 6,307
Aen. 3, 661
Ge. 2, 458
Ge. 2, 471
Aen. 10, 527
Ge. 2, 473
Aen. 11, 216
Aen. 7, 609
Ge. 3, 275
Aen. 7, 608
Eg. 4, 7
Aen. 4, 12
Aen. 8, 301
Ge. 2, 468
Aen. 6, 787
Aen. 7, 85
Aen. 7, 86
Aen. 9, 280
Aen. 7, 443
Aen. 10, 91
Eg. 1, 11
Ge. 3, 408
Eg. 1, 35
Eg. 10, 35
Eg. 10, 36
Eg. 10, 69
Aen. 8, 166 / 11, 416
Aen. 12, 276, 508
Ge. 3, 442
Eg. 7, 14 / 1, 40
Aen. 11, 252
Aen. 3, 495
Aen. 11, 96
Aen. 11, 97
Ge. 4, 68
Ge. 1, 509
Ge. 3, 350
Aen. 8, 727
Aen. 9, 133
Aen. 11, 271
Aen. 12, 876
Aen. 12, 253
Aen. 12, 254
Aen. 5, 639
Aen. 6, 87
Ge. 1, 407
Aen. 8, 686
Aen. 12, 655
Aen. 3, 240, 286
Aen. 6,588
Aen. 8, 537
Aen. 12, 803
Eg. 1, 72
Aen. 11, 225
Aen. 10, 696
Eg. 4, 49
Aen. 7, 12
Ge. 2, 502
Ge. 2, 491
Ge. 2, 492
Aen. 11, 738
Ge. 3, 23
Aen. 11, 739
Aen. 1, 686
Ge. 4, 227
Aen. 3, 393
Aen. 3, 493
Aen. 2, 709 / 12, 203
Aen. 9, 447
Eg. 10, 10
Ge. 4, 566
Ge. 4, 3
Ge. 2, 45
Aen. 8, 299
Aen. 4, 20
Aen. 1, 282
Aen. 4, 582/9, 225
Aen. 6, 120
Eg. 8, 63
Aen. 12, 168
Aen. 7, 761
Eg. 10, 47
Aen. 7, 657
Eg. 10, 25
Aen. 7, 153
Ge. 3, 17
Aen. 5, 758
Aen. 6, 173; etc.
Aen. 2, 14
Aen. 3, 110
Aen. 1, 166
Aen. 3, 646/7, 404
Aen. 8, 28
Ge. 3, 526
Aen. 2, 6
Eg. 1, 29
Aen. 4, 574
Aen. 7, 393
Ge. 1, 145
Ge. 1, 416
Aen. 6, 794
Aen. 6, 13
Aen. 11, 583
Aen. 4, 282
Aen. 9, 185
Ge. 1, 301
Ge. 3, 298
Ge. 4, 448
Ge. 4, 469
Ge. 4, 178
Ge. 3, 80
Ge. 3, 124
Aen. 10, 201
Aen. 6, 627
Aen. 1, 283
Ge. 4, 281
Ge. 1, 199
Ge. 3, 476
Ge. 4, 153
Ge. 3, 551
Aen. 6, 623
Aen. 2, 365
Aen.2, 369
Aen. 10, 45
Aen.7, 386
Aen. 11, 344
Aen. 6, 299
Aen. 6, 301
Aen.7, 680
Aen. 5, 45
Aen. 2, 380
Aen. 7, 328
Aen. 2, 152
Aen. 4, 189
Aen. 2, 165
Aen. 1, 358
Aen. 9, 10/7, 207
Aen. 12, 199
Aen. 1, 7
Aen. 3, 624
Aen. 9, 614
Aen. 6, 823
Aen. 2, 471
Aen. 11, 337
Aen. 7, 512
Aen. 7, 773
Aen. 11, 753
Aen. 3, 265
Eg. 9, 27
Aen. 6, 784
Aen. 6, 258
Ge. 2, 514
Aen. 3, 438
Aen. 4, 94
Aen. 8, 74
Ge. 3, 268
Ge. 3, 284
Ge. 4, 148
Aen. 11, 738
Ge. 3, 294
Aen.4, 682
Aen. 8, 455
Aen. 12, 712
Aen. 12, 712
Aen. 4, 186
Aen. 4, 145/2,515etc.
Eg. 10, 32
Aen. 12, 126
Aen.10, 224
Aen. 12, 169
Ge. 1, 410
Aen. 7, 614
Aen. 7, 419
Aen. 5, 745
Aen. 1, 93
Aen. 7, 451
Aen. 2, 779
Aen. 6, 512
Aen. 8, 186
Aen.10, 848
Aen.2, 285
Aen. 8, 296
Aen. 1, 78
Aen. 6, 165
Aen. 9, 404
Aen. 3, 373
Ge. 4, 1
Aen. 12, 665
Aen. 7, 112
Aen. 3, 363
Aen. 12, 155
Aen. 1, 485
Aen. 1, 335
Aen. 11, 877
Aen. 1, 738
Aen. 6, 229
Aen. 5, 93
Aen. 7, 471
Aen. 12, 564
Aen. 3, 716
Aen. 10, 838
Aen. 6, 462/4, 26
Aen. 6, 639
Aen. 5, 376
Ge. 3, 433
Aen. 12, 760
Aen. 3, 102
Aen. 1, 366
Aen. 7, 381
Aen. 5, 659
Aen. 12, 607
Aen. 8, 541
Aen. 8, 457
Aen. 2, 798
Aen. 6, 433
Aen. 3, 466
Aen. 2, 372
Aen. 6, 543
Aen. 1, 213
Aen. 1, 212
Aen.1, 701
Aen. 8, 181
Aen. 2, 351
Aen. 1, 152
Aen. 8, 279
Ge. 3, 205
Aen. 7, 169
Aen. 1, 148
Ge. 2, 496
Aen. 9, 695
Aen. 6, 183
Aen. 8, 441
Aen. 9, 641
Aen. 5, 191
Aen. 5, 579
Aen. 4, 581
Aen. 5, 197
Aen. 6, 3
Aen. 5, 436
Aen. 9, 165
Aen. 5, 616
Aen. 1, 600
Aen. 12, 318
Aen. 1, 398
Eg. 9, 40
Eg. 9, 42
Aen. 6, 674
Ge. 2, 471
Ge. 1, 307
Aen. 7, 33
Ge. 1, 142
Aen. 6, 633
Ge. 2, 386
Aen. 9, 686
Ge. 2, 504
Aen. 2,445/12,132
Ge. 4, 157
Ge. 1, 189
Aen. 6, 41
Aen. 7,812
Ge. 4, 256
Ge. 4, 151
Aen. 10, 434
Aen. 11, 142
Aen. 6, 306
Ge. 3, 375
Aen. 11, 216
Aen. 4, 668
Aen. 11, 64
Aen. 6, 645
Eg. 10, 33
Aen. 1, 505
Aen. 12, 297
Ge. 3, 558
Ge. 4, 180
Aen. 1, 727
Ge. 1, 341
Aen. 5, 751
Aen. 9, 236
Aen. 2, 253
Ge. 4, 346
Aen. 7, 162
Aen. 2, 491
Ge. 3, 244
Aen. 10, 367
Ge. 4, 164
Aen. 1, 502
Ge. 3, 218
Ge. 2, 144
Aen. 10, 53
Aen. 11, 215
Aen. 6, 734
Ge. 3, 274
Aen. 2, 777
Aen. 7, 337
Aen. 9, 26
Aen. 6, 786
Aen. 9, 279
Ge. 2, 467
Aen. 6, 857
Ge. 2, 459
Ge. 3, 530
Eg. 2, 68
Aen. 10, 337
Aen. 4, 71
Aen. 11, 817
Aen. 12, 874
Aen. 6, 123 / 1, 380
Aen. 6, 539
Ge. 1, 511
Aen. 9, 132
Aen. 7, 554
Aen. 12, 643
Ge. 4, 77
Eg. 1, 72
Aen. 6, 86
Aen. 4, 40
Aen. 12, 654
Aen. 1, 156
Ge. 3, 475
Eg. 1, 71
Aen. 11, 413
Ge. 4, 88
Aen. 11, 837
Aen. 6, 69
Ge. 2, 501
Ge. 2, 492
Ge. 2, 439
Ge. 3, 22
Aen. 12, 552
Ge. 4, 382
Aen. 1, 94
Aen. 9, 445
Eg. 10
Ge. 4
Ge. 4
Ge. 2
Aen. 8
Aen. 4
Aen. 1
Aen. 4
Aen. 6
Eg. 8
Aen. 12
Aen. 7
Eg. 10
Aen. 7
Eg. 10
Aen. 7
Ge. 3
Aen. 5
Aen. 6
Aen. 2
Aen. 3
Aen. 1
Aen. 3
Aen. 8
Ge. 3
Aen. 2
Eg. 1
Aen. 4
Aen. 7
Ge. 1
Ge. 1
Aen. 6
Aen. 6
Aen. 11
Aen. 4
Aen. 9
Ge. 1
Ge. 2
Ge. 4
Ge. 4
Ge. 4
Ge. 3
Ge. 3
Aen. 10
Aen. 6
Aen. 1
Ge. 4
Ge. 1
Ge. 3
Ge. 4
Ge. 3
Aen. 6
Aen. 2
Aen.2
Aen.7
Aen. 11
Aen. 6
Aen.7
Aen. 5
Aen. 2
Aen. 7
Aen. 2
Aen. 2
Aen. 1
Aen. 9
Aen. 12
Aen. 1
Aen. 3
Aen. 9
Aen. 8
Aen. 2
Aen. 11
Aen. 7
Aen. 7
Aen. 11
Aen. 3
Eg. 9
Aen. 6
Aen. 6
Ge. 2
Aen. 3
Aen. 4
Aen. 8
Ge. 3
Ge. 3
Ge. 4
Ge. 4
Aen. 11
Ge. 3
Aen.4
Aen. 8
Aen. 7
Aen. 12
Aen. 4
Aen. 4
Eg. 10
Aen. 12
Aen.10
Aen. 12
Ge. 1
Aen. 7
Aen. 7
Aen. 5
Aen. 7
Aen. 7
Aen. 2
Aen. 6
Aen. 8
Aen.10
Aen.2
Aen. 8
Aen. 1
Aen. 6
Aen. 9
Aen. 3
Ge. 4
Aen. 12
Aen. 7
Aen. 3
Aen. 12
Aen. 1
Aen. 1
Aen. 5
Aen. 11
Aen. 1
Aen. 6
Aen. 5
Aen. 7
Aen. 12
Aen. 3
Aen. 10
[Aen.6,462;etc.
Aen. 6, 639
Aen. 5, 376]
Ge. 3
Aen. 12
Aen. 3
Aen. 1
Aen. 7
Aen. 5
Aen. 2
Aen. 8
Aen. 8
Aen. 2
Aen. 6
Aen. 3
Aen. 2
Aen. 6
Aen. 1
Aen. 1
Aen.1
Aen. 8
Aen. 2
Aen. 1
Aen. 8
Ge. 3
Aen. 7
Aen. 1
Ge. 2
Aen. 9
Aen. 6
Aen. 8
[Aen. 9, 641
Aen. 5, 191
Aen. 5, 579]
Aen. 4
Aen. 5
Aen. 6
Aen. 5
Aen. 9
Aen. 5
Aen. 1
Aen. 12
Aen. 1
Eg. 9
Eg. 9
Aen. 6
Ge. 2
Ge. 1
Aen. 7
Ge. 1
Aen. 6
Ge. 2
Aen. 9
Ge. 2
Aen. 2
Ge. 4
Ge. 1
Aen. 6
Aen. 7
Ge. 4
Ge. 4
Aen. 10
Aen. 11
Aen. 6
Ge. 3
Aen. 12
Aen. 4
Aen. 11
Aen. 6
Eg. 10
Aen. 1
Aen. 12
[Ge. 3, 558
Ge. 4, 180
Aen. 1, 727]
Ge. 1
Aen. 5
Aen. 9
Aen. 2
Ge. 3
Aen. 7
Aen. 2
Ge. 3
Aen. 10
Ge. 4
Aen. 1
Ge. 3
Ge. 2
Aen. 11
Aen. 6
Ge. 3
Aen. 2
Aen. 7
Aen. 9
#
Aen. 9
Ge. 0 (?)
Aen. 6
Ge. 2
Ge. 3
Eg. 2
Aen. 10
Aen. 4
Aen. 11
Aen. 12
Aen. 6
Aen. 6
Ge. 1
Aen. 9
Aen. 7
[Aen. 12, 643
Ge. 4, 77
Eg. 1, 72
Aen. 6, 86]
Aen. 4
Aen. 12
Aen. 1
Ge. 3
Eg. 1
Aen. 11
Ge. 4
Aen. 11
Aen. 6
Ge. 2
Ge. 2
Ge. 2
Ge. 3
Aen. 12
Ge. 4
Aen. 1
Aen.9
4. 2 Commento
Versi sotadei premessi in B, C, c.
Nella metrica classica, il verso sotadeo (lat. versus sotadēus o versus sotadicus) è costituito da un tetrametro ionico a maiore brachicatalettico, il quale ammette però, nella sua forma più libera, una serie molto varia di sostituzioni, anaclasi e lunghe irrazionali.
Bettini, (1982), pp. 59-105. La denominazione di sotadei di questa serie di tre distici elegiaci fa qui però riferimento alla loro natura di versi bifronti, o meglio di versi apparentemente encomiastici che, letti parola per parola dalla fine all’inizio, formano sequenze di significato antifrastico.
Ibid. pag 68 Pare sia stato Sòtade di Maronea, poeta alessandrino attivo tra IV e III sec., il primo a comporre versi che permettessero una lettura retrograda, i quali dal suo nome sono detti appunto sotadici.
Marziale 2, 86, 1-2 “quod nec carmine glorio / nec retro lego Sotadem cinaedum” Coerentemente con l’epiteto di cinaedus, ‘invertito’, che la tradizione attribuisce a Sotade, i carmi sotadici si basano su una sorta di ironia enigmistica o, se vogliamo, meccanica: non è il tono del componimento a suggerire un capovolgimento semantico ed un passaggio dal primo al secondo livello di lettura, ma è piuttosto il capovolgimento materiale del testo la chiave di decrittazione della parodia.
I componimenti sotadici premessi alla raccolta nelle edizioni tedesche e svizzere (B, C e c) si differenziano da esempi antichi di sotadei versus, quali rintracciamo per esempio in Quintiliano IX
Quintiliano, Institutio Oratoria IX, 4, 90 . Essi infatti non sembrano rispettare la struttura metrica propriamente sotadea, risultante quale reciproca di uno schema dattilico esametrico e pentametrico in una lettura retrograda. Pare improbabile che qui possa essere intenzionale il rispetto, ben oltre i limiti della irregolarità, dello schema sotadiaco:
_ _ ◡ ◡, _ _ ◡◡ , _ _ ◡ ◡, _ _
Così il distico elegiaco
Laus tua non tua fraus, virtus non copia rerum,
_ ◡ ◡, _ ◡ ◡, _ | _ , _ _ , _ ◡ ◡, _ _
scandere te fecit hoc decus eximium.
_ ◡ ◡, _ _ , _ | _ ◡ ◡, _ ◡ ◡, _
passerebbe al distico di sotadei:
Eximium decus hoc fecit te scandere
_ ◡ ◡ _ , ◡ ◡ _ _ , _ _ _ , ◡ ◡
rerum copia non virtus, fraus tua non tua laus.
_ _ _ , ◡ ◡ _ _ , _ _ ◡ ◡ _ , ◡ ◡ _
Dove, in effetti, il verso ionico a maiore subirebbe in ogni sede almeno una sostituzione (a partire da un ditrocheo anaclastico nella iunctura <[vir-]tus fraus tua non >) e dove, per altro, non risulterebbe rispettata la cesura. L’aspetto però più vistoso di questa irregolarità metrica andrebbe rintracciato nel mancato rispetto dello schema — X del metron catalettico, punto sensibile del sotadeo, che non permetterebbe né sostituzioni, né soluzioni.
Così ancora il secondo distico
Conditio tua sit stabilis nec tempore parvo
_ ◡ ◡, _ | ◡ ◡, _ ◡ ◡ , _ | _ , _ ◡ ◡, _ _
vivere te faciat hic Deüs omnipotens.
_ ◡ ◡, _ _ , _ | _ ◡ ◡, _ ◡ ◡, _
passerebbe a
Omnipotens Deus hic faciat te vivere
_ ◡ ◡ _ , _ _ ◡ ◡, _ _ _ , ◡ ◡
Parvo tempore nec stabilis sit tua conditio
_ _ _ , ◡ ◡ _ ◡ ◡ _ , _ ◡ ◡ _ , ◡ ◡ _
E, infine, il terzo
Pauperibus sua dat gratis nec munera curat
_ ◡ ◡, _ | ◡ ◡, _ _ , _ | _ , _ ◡ ◡, _ _
curia Papalis quod modo percepimus.
_ ◡ ◡, _ _ , _ | _ ◡ ◡ , _ ◡ ◡, _
risulterebbe
Percepimus modo quod Papalis curia
_ ◡ ◡ _ , ◡ ◡ _ _ , _ _ _ ,◡ ◡
curat munera nec gratis dat sua pauperibus.
_ _ _ , ◡ ◡ _ _ , _ _ ◡ ◡ _ , ◡ ◡ _
con analoghe o ancor più vistose scorrettezze.
La perturbante irregolarità metrica, che diviene intollerabile nello schema del quarto metron, non può essere accostata, neanche con molta fatica, al filone di versi sotadei ‘imperfetti’
Bettini (1982), che ha il suo più evidente e caratteristico esempio latino in Petronio 23, 2-3
Petronio, Satyricon, 23, 2-3. Si può quindi escludere, con una certa sicurezza, che la definizione di sotadei versus sia stata utilizzata dall’anonimo compilatore nella sua accezione più tecnica. Essa sarà volta piuttosto a sottolineare esclusivamente l’aspetto bifronte o retrogrado dei versi in questione. A riprova di questo uso generico del termine sotadeus sta il fatto, questo sì difficilmente controvertibile, che, spostando la prima parola del secondo verso nella scansione retrograda, si riottenga la struttura metrica elegiaca di partenza. È questa, con ogni probabilità, la giusta risoluzione di queste composizioni enigmistiche che vanno dunque lette e scandite:
Percepimus modo quod Papalis curia curat
_ ◡ ◡ , _ ◡ ◡, _ | _ , _ _ , _ ◡ ◡, _ _
munera nec gratis dat sua pauperibus
_ ◡ ◡, _ _ , _ | _ ◡◡ , _ ◡ ◡ , _
Omnipotens Deus heic faciat te vivere parvo
_ ◡ ◡ , _ | _ , _ ◡ ◡, _ | _ , _ ◡ ◡, _ _
tempore nec stabilis sit tua conditio.
_ ◡ ◡, _ ◡ ◡, _ | _ ◡◡ , _ ◡◡, _
Eximium decus hoc fecit te scandere rerum
_ ◡ ◡, _ | ◡ ◡ , _ _ , _ | _ , _ ◡ ◡ , _ _
copia non virtus, fraus tua non tua laus.
_ ◡ ◡, _ _ , _ | _ ◡◡ , _ ◡ ◡, _
Come è evidente, questi distici introduttivi costituiscono una forma di lusus letterario parodico a carattere anticlericale. Il loro destino si incrocia con quello del De vita monachorum in ambiente tedesco in quanto, come già notato dal Rhodes: “they do not appear in the editions printed outside Germany and Swizerland”
Rhodes (1994). La fortuna di questo genere di giochi letterari, specie in ambito protestante, è testimoniata dalle innumerevoli sillogi di bizzarrie letterarie di tono moralistico, spesso indirizzate proprio contro la curia pontificia e la corruzione morale del clero.
Cfr. p. 4 D’altronde sono state proprio alcune di queste raccolte, come si è visto, a consegnare ad un più vasto pubblico alcuni celebri centoni di Lelio Capilupi: si pensi in particolare alla raccolta pubblicata nel 1556 dal teologo luterano Flacio Illirico
Flacio Illirico M., Varia doctorum piorumque virorum, de corrupto ecclesiae statu, poemata, ante nostram aetatem conscripta, Basileae [1557?], pp 355-370., che fu seguita, nel 1575, niente di meno che dalle Parodiae morales dello Stefano
Stefano E., Parodiae morales H. Stephani, in poetarum veterum sententias celebriores, totidem versibus graecis ab eo redditas. Centonum veterum et parodiarum utriusque linguae exempla, Ginevra 1575..
Pur preso atto del modesto contenuto di questi versicoli, occorre sottolineare come il gusto letterario sotadico sia, nelle sue espressioni più tradizionali, una forma estremamente raffinata e complessa di gioco letterario. Non stupisce dunque che venga qui associato ad un componimento di quel genere centonario, in qualche modo enigmisticamente affine, i cui più antichi antecedenti possono essere rintracciati proprio in certi componimenti sotadici di ispirazione omerica, che talvolta costituiscono dei veri e propri ὁμηρόκεντρα ante litteram
Bettini (1982), p. 67 “Da un lato abbiamo infatti una sorta di libera parafrasi, in linguaggio epico, su temi e contenuti omerici […] Dall’altro incontriamo invece un procedimento assai più caratteristico, che consiste nel trasformare in sotadei esametri omerici tramite un certo numero di trasposizioni nella giacitura originale dei vocaboli.” Cfr. anche pag. 69, κέντρον..
Per quanto concerne l’attribuzione di questi versi, la questione è estremamente complessa: i primi due distici vanno considerati come costituenti un unico nucleo, con una tradizione a sé stante; l’ultimo invece è giunto nella sequenza dopo aver subito una serie di modifiche dall’originale, attraverso un percorso in parte differente.
I due nuclei si ritrovano qui, pare, per la prima volta in questa forma associati a formare un unico componimento. Li ritrovo associati, ma in ordine diverso, utilizzati, come di consueto, in contesto manualistico in Philomneste G. B., Amusemens philologiques ou variétés en tous genres, Parigi, 1808; e in Philippi F., Darstellung der lateinischen Prosodik, Rhythmik und Metrik, Lipsia, 1826. Il primo nucleo si ritrova quasi sempre uguale e costituisce l’epigramma:
Laus tua non tua fraus, virtus non copia rerum
scandere te fecit hoc decus eximium.
Conditio tua sit stabilis nec tempore parvo
vivere te faciat hic Deus omnipotens.
Sono dei versi che conoscono, fin dal Quattrocento, una fortuna immensa, citati continuamente, specie i primi due, come esempio di versi bifronti o sotadei. Si è affermato spesso che essi siano usciti, come nota il Paparelli, dalla penna tagliente dell’umanista Francesco Filelfo (1398 – 1481)
I versi si ritrovano nel Ms. Naz. II VIII 129 (F) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze descritto da Henkins (2003), attribuiti non a Francesco Filelfo, ma al figlio Giovanni Mario (1426 – 1480) e così chiosati: Iohannis Philelphi in sanctissimum dominum nostrum Pium divina providentia papam secundum., deluso per una mancata gratifica pecuniaria, promessa dal papa Pio II (1405 – 1464), al secolo Enea Silvio Piccolomini, ma non più erogata.
Paparelli (1978) p. 213 I distici tuttavia, sebbene vengano spesso citati come opera del Filelfo, non sembrano essere rintracciabili in alcuna delle sue opere e si ritrovano in testimonianze manoscritte più antiche, come emerge dalla ricognizione di Bertalot (1985).
Bertalot (1985) È questo un argomento abbastanza sicuro, che ci permette di attribuire questi versi, con ogni verosimiglianza, ad un anonimo autore del XIV sec., che li indirizza a Clemente VI (1291 – 1352), il quarto dei papi di Avignone.
Mollat (1914)
Il terzo distico invece, tramandato spesso come una pasquinata, si ritrova in differenti forme, con molte oscillazioni e modifiche testuali, in contesti diversi. Non è dato dire quale sia la sua esatta provenienza, quantomeno nella forma assunta nelle edizioni del centone capilupiano. Certo si può supporre una sua originaria contiguità con i distici sopra esaminati, tanto più che nella nella trecentesca Vita Clementis VI
Quinta vita Clementis VI auctore Petro de Herenthals priore Floreffiense (XIV sec.), pubblicata nelle Vitae paparum Avenionensium di Étienne Baluze, Mollat, (1914), p. 299 di Pietro di Herenthals, pubblicata nelle Vitae paparum Avenionensium del Baluze, si legge una versione in cui compaiono tutti e tre gli emistichi:
Laus tua, non tua fraus, virtus, non copia rerum,
scandere te fecit hoc decus eximium.
Pauperibus tua das, nunquam stat ianua clausa.
fundere res queris, nec tua multiplicas.
Conditio tua sit stabilis, non tempore parvo
vivere te faciat hic Deus omnipotens.
Come si può facilmente notare, il secondo distico, nucleo fondamentale di quello che diverrà il terzo nella sequenza premessa al centone capilupiano, si legge in una versione affatto diversa. Solo l’incipit rimane di fatto grosso modo lo stesso, pur con il passaggio della seconda persona dell’apostrofe alla terza: ‘tua das’ > ‘sua dat’.
vv. 1-2: Laus tua non …eximium:
Rendo copia rerum con ‘ricchezza’. Questa la traduzione più appropriata, se si accetta – se non l’attribuzione (che pare insostenibile) – quantomeno l’indirizzo del carme a Pio II da parte del Filelfo. Pio II, già Enea Silvio Piccolomini, fu il primogenito dei diciotto figli di Silvio Piccolomini e Vittoria Forteguerri. Pur di antica nobiltà, “la famiglia Piccolomini era stata esclusa dalla vita pubblica della città nel 1385 […]; qui (a Corsignano) versava in difficili condizioni economiche, vivendo del lavoro nei campi.”
Pellegrini (2000). Particolarmente adatta è dunque l’apostrofe in riferimento al papa Piccolomini, un uomo che si era, per così dire, fatto da sé, acquistando una posizione nella carriera ecclesiastica con tenace operosità e con le proprie sole forze. Nella versione retrograda occorre quindi intendere ‘desiderio di ricchezza’, oppure semplicemente ‘ricchezza’, con capovolgimento polemico del significato precedente a schernire la natura di parvenu del pontefice.
Non bisogna sottovalutare, d’altro canto, la sostanziale genericità di senso di questi componimenti, aspetto questo che ne ha garantito il continuo riuso polemico e la plurisecolare fortuna.
vv. 5-6: Pauperibus sua dat… percepimus:
Il distico, modificato rispetto all’originale, non rispetta più il modulo dell’apostrofe e vede il passaggio dalla seconda persona, alla terza. Il soggetto dei versi è dunque la curia papalis, accusata di non offrire gratuitamente i sua ai poveri. Il neutro plurale sua è da intendersi ‘i propri beni’, ma anche ‘i propri uffizi, servigi’, reinterpretato, con intento polemico, in riferimento alla simonia, di cui veniva accusato il papato in ambiente protestante per la questione delle indulgenze. Analoga, ma di ben più alta statura poetica, è la polemica sul medesimo tema nei vv. 232-242 del centone capilupiano.
B. Il centone
Titolo
Le diciture Cento ex Virgilio o Cento vergilianus sono pressoché unanimi in tutte le edizioni capilupiane, sia per i centoni di Lelio, sia per quelli di altri componenti della famiglia. In specie si può osservare come il primo si applichi, a partire dalla prima edizione del 1543 fino alla editio purgata del 1590, a tutte le edizioni di ambito italico (e francese, se si accetta, come pare opportuno, l’intuizione di Rhodes
Rhodes (1994)), mentre il secondo si sia affermato principalmente nelle edizioni tedesche e svizzere.
Pur conservando questa denominazione, occorre però notare la formula utilizzata invece nell’edizione del Meibom (1597): l’erudito tedesco, che pur eredita dalle edizioni germaniche la dicitura di Cento virgilianus (e non l’atteso vergilianus!), nell’accostare i centoni di Capilupi a quelli di Ausonio e di Proba, vi pone l’etichetta comune di Virgilio-centones, evidente calco del termine greco ὁμηρόκεντρον, con cui sono noti i centoni omerici (ὁμηρικοί κέντρωνες) di Eudocia
Ermini (1931).
vv. 1-10: Propositio
Notevole l’utilizzo qui, in contesto enunciativo, di versi tratti da analoghi passi programmatici delle opere di Virgilio. L’emistichio di incipit del testo è tratto dal primo verso del Proemio
Mondin (2007) dell’Eneide, un gruppo di quattro versi, solitamente ritenuti spuri dagli editori, premessi al più noto attacco “Arma virumque cano…”. L’interpretazione del costrutto, discussa già in Virgilio
Ibid. p. 64, può fare a meno di un verbo sottinteso: non dunque “sono io colui che un tempo…”, ma bensì “io che un tempo…”
Ibid. p. 64-65, come in Catullo 58
Catullo 58, 1-3 “Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa, /illa Lesbia, quam […] / […] amavit”; cfr. anche Paoli, Scriver latino, (1948), pp. 3-5. Da un analogo contesto virgiliano, metatestuale o programmatico, provengono i seguenti versi, riutilizzati dunque con assoluta rispondenza rispetto all’ipotesto Virgilio a indicare gli intenti poetici del centonatore: Eg. 10, 10, qui abilmente reimpiegato a designare il precedente sforzo poetico capilupiano, quel Gallus da cui idealmente prende le mosse il De vita monachorum; Ge. 4, 566 dove il richiamo a una precedente produzione poetica è già virgiliano; Aen. 7, 45; Ge. 2, 45.
Il Carpino nota per i vv. 4-6: “Allude qui alle cortigiane del 500 e alla gioventù corrotta che dopo averle conquistate (con la magnanimità di Enea) ne veniva rovinata (con la pietà di Sicheo)”
Carpino (1904). È difficile tuttavia avere conferma assoluta di questa acuta suggestione. Il testo risulta intelligibile, anche prescindendo dal riferimento del Carpino.
Notevole il v. 7 “at fratres, rerum dominos gentemque togatam” nel quale si riscontrano ben due peculiari caratteristiche della tecnica centonaria capilupiana. Il primo è un caso di slittamento semantico del termine latino classico, reinterpretato alla luce del corrispettivo termine volgare italiano: fratres non ha più il significato classico di ‘fratello’, ma quello volgare di ‘frate’. È la forma stessa della parola a suggerire il nuovo significato. Il secondo è un caso di risemantizzazione del termine classico, che viene impiegato nella sua originaria forma a indicare però un concetto contiguo a quello iniziale, anche se diverso dall’originario: è il caso dell’aggettivo togata, che chiaramente non fa riferimento all’abito civile romano, ma bensì alla tonaca o al saio monacali.
vv. 11-22: Dedica a Ippolito d’Este
Il De vita monachorum è dedicato al cardinale Ippolito d’Este (1509 – 1572)
Simeoni (1932), figlio di Alfonso d’Este e di Lucrezia Borgia, nonché nipote di Isabella, presso la quale aveva prestato servizio il padre di Lelio, Benedetto
Mutini (1975); per i rapporti di Capilupi con i suoi patroni cfr. Manzoli (2010). Il cardinale estense fu cólto mecenate, amante del bello e patrono della villa a Tivoli. Lelio, ne divenne il segretario
Manzoli (2010), mentre il fratello minore Ippolito (1511 – 1580)
De Caro (1975) fu al servizio di un altro porporato, Ercole Gonzaga (1505 – 1565)
Brunelli (2001), secondogenito di Isabella d’Este. Il nostro Capilupi fu a Roma almeno dal 1539, anno della cerimonia per la nomina di Ippolito d’Este a cardinale, se non prima, come evidenziato da Manzoli
Manzoli (2010), p. 166 e come pare verosimile.
L’edizione dei Capiluporum carmina del 1590 conserva una larga porzione di testo della dedica. Il compilatore Giulio Capilupi chiosa i versi in questione con così fitte glosse esplicative, che pare a tratti difficile capirne l’esatta collocazione. Distribuisco le note nel seguente modo (numero i versi secondo l’edizione originaria non purgata):
- al v. 12, di cui si conserva nell’edizione del 1590 il secondo emistichio, così nota Giulio Capilupi: “Hyppoliti fratris ducis Ferrariae”.
- al v. 16, in riferimento alle “Arma regum” si legge invece: “Insignes regis Galliae”.
- al v. 17 i “centum angues” e la “cinctam serpentibus Hydram” sono invece le insegne “familiae Estensis”. Il riferimento è qui probabilmente all’Idra, moneta argentea coniata nella zecca di Ferrara per volere di Ercole I d’Este (1431-1505)
Corpus Nummorum Italicorum, X, tav. XXX, 9 e 15. La moneta in questione corrispondeva a un testone o quarto del valore di 12 soldi e sfoggiava “al rovescio la figurazione simbolica della favolosa idra dalle teste di serpente”
Castellani (1933), donde il nome con cui comunemente è conosciuta. Non è questo il primo riferimento numismatico nei centoni del Capilupi
cfr. In foeminas, v. 198. L’iconografia dell’Idra, come in generale il riferimento artistico al mito di Ercole, sono ben attestate nell’araldica e nell’estetica dell’ “Erculea prole” degli Estensi già a partire da Ercole I, ma con una singolare ripresa proprio ad opera di Ippolito II.
Fagiolo-Madonna (2003)
- al v. 18, in relazione ai “grandia LILIA” così annota l’editore: “Insigne Alfonsi Estensis ducis Ferrariae”. Il riferimento è dunque al vessillo gigliato, il quale, oltre a essere insegna dei re francesi (come d’altronde si può riscontrare talvolta in altri centoni capilupiani
cfr. In foeminas, v. 198), costituiva anche lo stendardo degli Estensi. Lo stemma tradizionale della famiglia d’Este era costituito da un’aquila con le ali spiegate e testa rivolta verso sinistra
Chiappini (1967), ma già dal 1410, su concessione del re di Francia Carlo VII, il casato ottenne il privilegio di arricchire il proprio stemma con “tre gigli regali in campo azzurro su scudo bordato dentellato d’argento”.
Ibid.
vv. 23-102: I primi eremiti, l’organizzazione in cenobi e la corruzione dei costumi
“Ab Iove principium…” con questo trionfale attacco, Capilupi dà inizio alla narrazione sulla nascita e sullo sviluppo del primo monachesimo. Fitta di note bucoliche e paesaggistiche è la descrizione dello ‘stato di natura’ di questi primi eremiti: l’enfasi è posta sulle condizioni di estrema abnegazione in cui vivevano questi magnanimi heroes, i quali si nutrivano dei frutti spontanei della terra ed abitavano ricetti di fortuna. Due sono i nuclei virgiliani da cui Lelio attinge più frequentemente per tratteggiare questo mondo selvatico ed inospitale. Il primo comprende un gruppo di versi appartenenti al libro VI dell’Eneide, canto tra i più conosciuti ed utilizzati dal Capilupi, dove Virgilio descrive le dimore dei beati nei Campi Elisi (Aen. 6, 637-676). L’utilizzo di questo passo è dettato dalla fitta presenza, nell’ipotesto virgiliano, di descrizioni naturali, le quali vengono però capovolte dal centonatore, che le colloca, con effetto di paradossale straniamento, proprio nella caratterizzazione della avversità e della inospitalità di quei luoghi incontaminati. Il secondo nucleo virgiliano è tratto dal libro III delle Georgiche ed in specie da alcuni pochi versi che descrivono gli ultimi istanti di vita degli animali malati (Ge. 3, 526-530), ai quali vengono ormai negati dal morbo i naturali sollazzi degli armenti: le limpide fonti cui abbeverarsi, le semplici erbe di cui si un tempo si cibavano.
I vv. 37-40 introducono la figura di un deus, un nuovo semidivino legislatore, da identificarsi con san Benedetto da Norcia (480 – 547)
Lugano (1930), che dà forma stabile a quel genus indocile ac dispersum, dotandolo di leges, ossia di una regola monastica comune, la Regula monachorum benedettina
Ibid. , e di comuni nova tecta, monasteri e abbazie.
Comincia così, con il progressivo specializzarsi ed organizzarsi della vita monastica, la rapida decadenza dei suoi costumi. Presto i frati diventano preda di un nuovo improbus labor, non più assorti in un’ascetica contemplazione, ma vittima dell’ambizione e della spasmodica ricerca di beni materiali. Il monastero prospera e a ogni monaco è assegnato uno specifico compito: si nominano gli abati e i priori, i maestri, i guardiani; mentre i giovani vengono destinati a più umili occupazioni.
In particolare i vv. 62-63
(…) legunt (…)
et quos aut pecori malint submittere habendo
dum faciles animi iuvenum, dum mobilis aetas
consentono una molteplice interpretazione:
Nel passo virgiliano da cui è tratto il verso, cioè in Ge. 3, 159, si ha: “et quos (vitulos) malint submittere habendo pecori”. L’espressione è da intendere come “e i vitelli che essi preferiscono allevare (submittere) per procreare/accrescere (habendo) l’armento”, in riferimento cioè a quei capi di bestiame che essi preferiscono destinare alla monta perché rendano una migliore progenie.
Cucchiarelli (2012), pp. 156-157
È possibile però che, in questo caso, Capilupi interpreti in modo leggermente diverso il passo virgiliano, intendendo “e i vitelli che essi preferiscono destinare (submittere) ad accrescere (habendo) la mandria”. È sulla base di questo significato del verbo submittere e dell’ambiguità e versatilità semantica del verbo habere che il centonatore può abilmente proporre la sua re-interpretazione decontestualizzata del verso, intendendo “e coloro che essi preferiscono destinare (submittere) all’allevamento (habendo) del gregge”.
Non si può escludere un’interpretazione in senso osceno del verso come “e quelli che essi preferiscono sottomettere (submittere) al possesso (habendo) del gregge, finché sono giovani e il loro animo è malleabile…” Un tale doppio senso è suggerito dal verbo submittere e dall’ambiguità semantica del verbo habere, per il cui significato osceno si cfr. Adams
Adams (1982).
Con il v. 73 si conclude la prima sezione narrativa e ha inizio una lunga sequenza dai toni oracolari e apocalittici, in cui si profetizza l’imminente fine delle proles monacali. Il passo prosegue con un ricco repertorio di misfatti e colpe imputabili alle bande fratesche: profanazioni dei templi degli dei, inganni, stragi, stupri: mali da cui nessuna parte dell’orbe può dirsi immune.
vv. 103 – 153: Paolo III; ripresa del proemio
La lunga porzione di versi è completamente dedicata alla polemica e all’invettiva. L’interpretazione tradizionale, già cinquecentesca, del passo vuole che dietro alla figura del misterioso tertius hominum divumque interpres, ossia l’augure etrusco Asila, si celi papa Paolo III (1468 – 1549)
Benzoni (2000), che era in effetti originario della Tuscia viterbese (l’antica Etruria insomma). Altro aspetto che sembra confermare questa identificazione è la rappresentazione barbuta del personaggio, che corrisponderebbe proprio alle celebri raffigurazioni del papa Farnese.
Ibid.
L’immagine di Paolo III diventa, nell’invettiva capilupiana, l’incarnazione stessa dell’Anticristo: un coluber, un serpente ingannatore che minaccioso avviluppa l’Italia intera nelle sue spire.
Al margine dei vv. 129-136:
Nusquam tuta fides: COLUBER mala gramina pastus
hortator scelerum stimulis agitabat amaris. 130
Nec requievit enim, donec de culmine summo
inter saxa virum Stygias detrusit ad undas;
impastus stabula alta LEO ceu saepe peragrans,
nunc hos nunc illos aditus omnemque pererrat
Italiam; Italiam sinuosa volumina versat 135
arrectisque horret squamis et sibilat ore.
così nota Giulio Capilupi nell’edizione del 1590, dove l’intero passo è riferito non già a Paolo III, ma all’eretico Bernardino Ochino
Gotor (2013); cfr. anche Carpino (1904) p. 5. (detto appunto Senensis, e dunque anche lui, come Paolo III ‘etrusco’): “Diabolus quem sacrae litterae serpentem vocant” in riferimento a COLUBER, e “Diabolus intelligit”, in riferimento a LEO.
Per questa interpretazione in malam partem dell’immagine del leone errante si faccia riferimento a 1Petr. 5, 8: “Sobrii estote, vigilate. Adversarius vester Diabolus tamquam leo rugiens circuit quaerens quem devoret”
Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio (1979).
vv. 154 – 361: La giornata dei monaci
Dopo una breve dedica a Ercole
La glossa esplicativa delle edizioni straniere fa riferimento invece ad un Hercules Dux Ferrariae, e non dunque ad un signore di Mantova. e Margherita Gonzaga, reggenti di Mantova, e un’invocazione alle Muse, la narrazione riprende a partire dal v. 154: l’alba desta i monaci dai placidi sonni e subito ciascuno si dedica alle proprie sacre incombenze. Vengono descritte con dovizia di particolari le varie funzioni religiose e le attività quotidiane della turba patrum.
Notevoli sono i vv. 165-188, che costituiscono una libera parafrasi di alcune delle preghiere e delle invocazioni in uso nell’ufficio della messa. In particolare i vv. 166-168 sembrano riferirsi alla sequenza dello Psalmus responsorialis, che precede la comunione e in cui “il salmista intona il ritornello previsto dal Lezionario (...) e il popolo risponde cantandolo di nuovo”
Missale Romanum ex decreto… (1962).:
ter centum tonat ore deos, ter gutture voces
aut quater ingeminat; sequitur tum cetera pubes:
“Et nostras audite preces” (…)
L’espressione evidenziata pare essere un calco del versetto 2 del salmo 102
Riprendo la numerazione della Vulgata, da cui cito.
Domine, exaudi orationem meam,
et clamor meus ad te veniat.
Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio (1979)
che è incluso anche nell’Oratio e nella Conclusio del Mattutino.
Missale Romanum ex decreto… (1962)
Un altro, più esteso nucleo di invocazioni è quello dei vv. 173-188. In particolare i primi tre versi (173-175):
“Salve sancte Parens, superi regnator Olympi,
semper honos nomenque tuum laudesque manebunt:
et nos et tua dexter adi pede sacra secundo, 175
nos tua progenies caeli quibus annuis arcem;
(…)
sembrano costituire una riscrittura in esametri di una porzione del Pater Noster, l’Oratio Dominica per antonomasia:
Pater Noster qui es in caelis:
sanctificetur nomen tuum;
adveniat regnum tuum;
fiat voluntas tua,
(...)
et ne nos inducas in tentationem;
sed libera nos a malo.
Ibidem.
Malgrado la libertà di resa del senso, appare immediato il riconoscimento del passo da parte del lettore, il quale è abilmente guidato dal poeta in questa sua reminiscenza mediante il ricorso ad alcune evidenti riprese letterali o semantiche (che ho evidenziato nel testo).
Non è inoltre da escludere al v. 173 la riproposizione esametrica di un altro passo, questa volta ripreso dalla Prex Eucharistica e in particolare dalla Praefatio:
Vere dignum et iustum est, aequum et salutare,
nos tibi semper et ubique gratias agere:
Domine, sancte Pater, omnipotens aeterne Deus:
Ibid.
Con queste parole comincia la narrazione della Coena Mystica, il sacrificio eucaristico che Capilupi ripercorre nei suoi nuclei principali, conservando sempre il tono di vivace parodia e di ironico capovolgimento che è proprio di tutto il centone.
Altra sequenza di particolare interesse è quella che descrive i vari momenti della predica. Il sacerdote declama la sua omelia facendo sfoggio di tutta la sua arte oratoria e indulgendo a una resa drammatica ricca di pathos. La caratterizzazione dello smodato e caricaturale istrionismo del predicatore ben si inserisce nella coeva polemica contro la perniciosa dulcedo, la tendenza cioè a una eccessiva teatralità dell’esecuzione omiletica. Capilupi prende di mira proprio quei “fenomeni di gestualità e di coreografia”
Marazzini (2002), p. 303; sulla predicazione in età rinascimentale e barocca cfr anche pp. 301-304 e 332-336 che, già presenti nel ‘500, avrebbero conosciuto nel secolo successivo uno sviluppo ulteriore con il fiorire della predica barocca. Questi tratti drammatici erano a volte tanto esagerati “da trasformare la predica in una sorta di monologo teatrale, magari con il supporto di veri e propri trucchi scenici, quali le catene sbattute, le plateali corse giù dal pulpito, e anche l’esibizione di corde al collo e di teschi”
Ibid. p. 303., elementi che “accrescevano il fascino spettacolare della predica, e quindi la sua capacità di influire linguisticamente sul pubblico, molto più di altre forme di oratoria”
Ibid. p. 303..
La narrazione prosegue con il momento della confessione
Cfr. v. 232 dove Carpino (1904) nota “Il confessore soleva toccare il penitente con una lunga bacchetta, donde ne venne la parola bacchettone. Quest’uso si è conservato sempre in Roma.” (la nota è nell’Errata corrige alla fine del volume che leggo, dove è vergato a mano (dal Carpino stesso?). e con un lungo catalogo delle restanti fasi della giornata, tra le quali spiccano, per il brio e la vivacità con i quali Capilupi li caratterizza, la descrizione del pranzo e la narrazione dei dulcia furta, delle avventure amorose, cui non usano sottrarsi monaci e monache.
vv. 362 – 420: La guerra e l’indifferenza dei monaci; Epilogo
Le prodezze quotidiane dei frati permettono al poeta di indugiare in un parodico μακαρισμός; ma la pace del convento è un mondo fittizio, quasi separato dal tempo e dallo spazio, un mondo che non conosce i pericoli della realtà esterna, gli horrida bella, il nemico turco che minaccia la res publica christiana con il suo aes cavum, la sanguinosa scimitarra
Così intendo aes cavum come ‘bronzo ricurvo’ o ‘scimitarra’ (Carpino rende invece ‘bronzo cavo’). In Virgilio l’espressione aes cavum indica la tromba e, pur tuttavia, aes sta a significare talvolta, per metonimia, l’arma di bronzo (cfr. per il primo senso Aen. 7, 526 e per il secondo Aen. 3, 240). Capilupi avrebbe qui reimpiegato il sintagma a indicare un’arma alla turchesca, la scimitarra o storta, antenata della sciabola. cfr. Badalucchi (1936). Interpretazione alternativa è quella suggerita dalla nota di Giulio Capilupi (1590), il quale chiosa “Aes cavum appellat machinam aheneam quam vulgo Bombardam appellat”. Se davvero l’autore si sia qui riferito all’uso della bombarda da parte dei Turchi non è dato saperlo. In tal caso un precedente classico si rintraccerebbe non in Virgilio, ma bensì in Ovidio, dove aes cavum vale ‘bollitore’, ‘caldaia’ (cfr. Met. 4, 505). che ormai il barbaro si accinge a brandire anche contro l’Italia. Il finale si tinge dunque di un’amara ironia, diventa un j’accuse contro l’imbelle stile di vita monacale: la vita riparata e tranquilla, la femminea ritrosia dei frati davanti al pericolo, la loro arrendevolezza Capilupi condanna, affidandole, con il suo centone, alla perenne memoria della storia.
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