Revue Babel
Collection
Civilisations et Sociétés
Les cultures
politiques en Italie.
Des origines à la fin
de la « première »
République
N° XVI 2018
Sous la direction de
Simone VISCIOLA
3
4
Revue Babel
REVUE DU LABORATOIRE BABEL
Publiée avec le concours du Conseil régional P.A.C.A.
DIRECTEUR DE LA PUBLICATION : Gilles LEYDIER
COMITE EDITORIAL
Fréderic ARMAO, Nicolas BALUTET, Stéphanie DEMANGE,
Marie GAYTE, Alessandro LEIDUAN, Gilles LEYDIER,
Alexia MARTIN, Pierre-François PEIRANO,
Karine TOURNIER-SOL, Simone VISCIOLA
CONSEIL SCIENTIFIQUE
Hélène FINET (Université de Pau et des pays de l’Adour), Christopher
GIFFORD (Université de Huddersfield), Alain GIRARD (Université de
Perpignan), Charles ISRAEL (Université d’Auburn), Célia KEREN
(Science Po Toulouse), Scott SERNAU (Université d’Indiana)
Contact
Laboratoire Babel : http://babel.univ-tln.fr
Université de Toulon
U.F.R. des Lettres, Langues et Sciences Humaines, CS 60584
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l’Université de Toulon
Prix au numéro : 12 €
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Sommaire
Simone VISCIOLA
Introduzione. Le culture politiche dell’Italia contemporanea:
per una (nuova) storia……………………………………...p. 11
Domenico Maria BRUNI
La cultura politica del liberalismo italiano…………………p. 51
Corrado SCIBILIA
La cultura politica del repubblicanesimo italiano…………...p. 81
Andrea RICCIARDI
Il
socialismo
italiano.
Teoria,
prassi
politica
e
autorappresentazione: quale rapporto?....................................p. 107
Roberto COLOZZA
PCI e non solo. La cultura politica comunista in Italia……p. 181
Danilo BRESCHI
La cultura politica delle destre in Italia……………………p. 255
Paolo ACANFORA
Cultura politica e cattolicesimo democratico nell’Italia del
secondo dopoguerra……………………………………...p. 289
7
Varia
Francesca TORTORELLA
Le débat autour de la question européenne au sein du Partito
d’Azione (1943-45)……………………………………….p. 333
Mattia RINGOZZI
Per una biografia di Luigi Campolonghi…………………p. 353
Ont contribué à ce numéro……………………………p. 371
Précédents numéros de la collection………………….p. 375
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Danilo BRESCHI
La cultura politica delle destre
in Italia
Résumé. – La droite en Italie, comme et plus que dans d’autres
pays, se présente comme un sujet politique pluriel. C’est pourquoi il est
inévitable de parler de “droites” et, par là même, de cultures politiques
exprimées par une galaxie de mouvements et de partis qui vont du
traditionalisme réactionnaire et contre-révolutionnaire au conservatisme
libéral, en passant par d’autres articulations et gradations. Les droites
italiennes commencent à donner forme à une culture politique accomplie
et structurée à cheval sur le XIXe et le XXe siècles. Dans ce sens, le
nationalisme est une culture politique fondatrice de la droite italienne. Le
fascisme peine à être complètement intégré dans le concept traditionnel
de droite et son idéologie encore plus que le régime auquel il a donné
naissance. L’héritage du fascisme a été lourd de tous les points de vue,
même du point de vue de l’histoire de la droite italienne de la seconde
moitié du XXe siècle. Depuis le deuxième après-guerre, cette dernière se
présente comme ayant un avenir fortement hypothéqué et étant soumise
à l’attrait récurrent exercé par des positions radicales et extrémistes. Au
contraire, la catégorie du moderatismo, caractéristique du lexique politique
italien, entrera elle aussi dans le jargon journalistique et dans le débat
public, et connotera l’histoire des droites de la Péninsule. Il s’agit d’un
terme-concept pas tout à fait univoque, incertain tant dans sa définition
en termes de culture ou d’idéologie politique que dans son identification
intégrale et sans résidus avec la catégorie de droite. À cela il faut ajouter
l’expérience, éphémère mais durablement influente, du “qualunquisme” et
l’entrée dans l’histoire des droites italiennes de la fin du XXe siècle d’une
mouvance protestataire, contraire à la partitocratie et tendant souvent au
rejet des partis et, plus généralement, de la politique.
Mots-clés. – Droite, conservatisme, nationalisme, fascisme,
moderatismo, antipolitique
255
Riassunto. – La destra in Italia, come e più che altrove, si
presenta quale soggetto politico plurale. È pertanto inevitabile parlare di
“destre”, e così di culture politiche espresse da una galassia di movimenti
e partiti che spaziano dal tradizionalismo reazionario e
controrivoluzionario al conservatorismo liberale, passando per ulteriori
articolazioni e gradazioni. Le destre italiane cominciano a dare forma ad
una cultura politica compiuta e strutturata a cavallo tra Otto e Novecento.
In tal senso il nazionalismo è cultura politica fondativa della destra italiana.
Il fascismo fatica a rientrare integralmente nel concetto tradizionale di
destra, e la sua ideologia ancor più del regime cui dette vita. Pesante è stata
l’eredità del fascismo, sotto tutti i punti di vista, anche quello della storia
della destra italiana del secondo Novecento. Dal dopoguerra quest’ultima
si presenta con un futuro fortemente ipotecato, sottoposta al ricorrente
richiamo esercitato da posizioni radicali ed estremistiche. Viceversa anche
la categoria di moderatismo, peculiarità del lessico politico italiano, entrerà
nel gergo giornalistico, nel dibattito pubblico e connoterà la storia delle
destre della penisola. Si tratta di un termine-concetto nient’affatto
univoco, incerto sia nella sua definizione in termini di cultura o ideologia
politica, sia nella sua identificazione integrale e senza residui con la
categoria di destra. A ciò si aggiunga la vicenda, breve ma durevolmente
influente, del qualunquismo con l’innesto nella storia delle destre italiane
tardonovecentesche di un filone protestatario, antipartitocratico, quando
non antipartitico, e più in generale antipolitico.
Parole chiave. – Destra, conservatorismo, nazionalismo,
fascismo, moderatismo, antipolitica
Avere per oggetto di studio “le destre” comporta l’esposizione e
l’analisi di una serie di questioni preliminari. In primo luogo, il fatto che
siamo di fronte ad un oggetto plurale, tutt’altro che monolitico. In secondo
luogo, la genericità dell’espressione che non rimanda ad una precisa
famiglia politica tradottasi in uno o più partiti organizzati, concretamente
presenti e attivi nella storia d’Italia. A differenza di chi debba trattare di
liberali, socialisti, comunisti, repubblicani, democristiani o azionisti, con le
destre colui che è chiamato a studiarle ed esaminarle si trova di fronte ad
un prioritario e ineludibile problema di definizione. Anzitutto, occorre
partire dalla dicotomia destra/sinistra, dalla sua storia, dal suo statuto
epistemologico, indicandone potenzialità e limiti euristici.
256
Com’è noto, la distinzione fra destra e sinistra risale alla fine del
Settecento e trova la sua introduzione nel lessico politico europeo nel
corso della Rivoluzione francese. È pertanto francese il conio di una
dicotomia con la quale si è sempre più andata a configurare la scena
politica dei sistemi istituzionali europei, con una proiezione che è diventata
poi mondiale, soprattutto quando la storiografia è andata a rileggere gli
eventi della storia alla luce delle categorie di destra e sinistra. In modo
anacronistico, si è persino rintracciata tale dicotomia prima del 1789. È
invece soltanto a partire da quella data che si è politicizzata la bipartizione
con cui già a fine Seicento si cominciava a descrivere la vita parlamentare
britannica. Politicizzata e spazializzata, a conferma che senza la
rivoluzione che il parlamentarismo moderno ha comportato sul piano
istituzionale non si sarebbe mai avuta la distinzione fra una destra e una
sinistra. La sede istituzionale presso cui questa distinzione trovava
espressione, ossia l’assemblea parlamentare, è diventata un luogo di
rappresentanza di idee e opinioni. La dimensione geometrica da mera
indicazione spaziale si è così caricata di un compito rappresentativo, e
quindi di una valenza politica, discriminando le posizioni assunte in merito
al ruolo che avrebbe dovuto svolgere quel che era stato per secoli il perno
decisionale delle principali monarchie territoriali europee. Il re, appunto.
Ma insieme, e ancor prima, è la più modesta figura del presidente
dell’assemblea, in posizione necessariamente centrale e mediana, a
costituire quel perno attorno a cui vanno coagulandosi fisiologicamente
un lato destro e un lato sinistro.
È dunque nella dinamica assembleare che, in virtù di un
meccanismo organizzativo quasi autopropulsivo, si sono rapidamente
individuate una parte destra e una parte sinistra all’interno delle aule in cui
si radunavano i titolari della potestà rappresentativa, deputati a decidere
per conto di coloro che, depositari della sovranità popolare o volontà
generale (nazionale), li hanno eletti. Ciò significa che destra e sinistra sono
categorie figlie di una visione lineare e geometrizzante dello spazio politico
e, al tempo stesso, risentono ideologicamente dell’epoca in cui sono state
“inventate”. Ben presto la destra rappresenta tutto ciò che si oppone al
processo rivoluzionario. Che si oppone o frena, con varietà di gradazione,
a distinguere così fra una destra moderata e una estrema. È pertanto
attorno alle idee di rivoluzione e di progresso che si costruisce la
dicotomia, condizionandone le definizioni che si avranno nel corso dei
decenni successivi, fino ai giorni nostri.
257
Da quanto pur brevemente premesso consegue che la genesi della
dicotomia destra/sinistra ha precise connotazioni cronologiche e
geografiche. Ciò significa che parlare di destra, come di sinistra, in termini
“essenzialistici” ha poco senso, soprattutto per uno storico. Fuori della
Francia e inoltratisi ben oltre la fine del diciottesimo secolo i concetti
politici di destra e sinistra mutano profondamente di contenuto. Chiamati
a tentare una definizione della cultura politica della destra italiana nel corso
del Novecento, non possiamo che prendere le mosse dalle seguenti
considerazioni svolte oltre vent’anni fa dal politologo Marco Tarchi:
In realtà tutta l’esperienza politica italiana di questo secolo fa sorgere
grossi dubbi sull’utilità classificatoria di concetti come quelli di destra e sinistra.
Credo anzi che l’Italia sia stata un vero e proprio laboratorio per la messa in
discussione di queste categorie, non solo sul piano teorico ma anche su quello
pratico. Non è difficile constatare la non rispondenza della dinamica politica a
questa bipartizione: se andiamo a verificare che cos’è accaduto in questo paese
dall’unità in poi, ci accorgiamo che motivi e fermenti di destra e di sinistra si
intersecano di continuo, con frequenti inversioni di ruolo. Troviamo forze
nominalmente di sinistra che propongono provvedimenti non egualitari e
formazioni di destra che cavalcano motivi di demagogia sociale 1.
Non possiamo non accennare all’Ottocento trattando di storia e
cultura politica italiana, dal momento che solo dal 1861 datiamo la
presenza di uno Stato nazionale nella penisola. È all’interno di una forma
statuale che può darsi un istituto assembleare all’interno del quale una
destra e una sinistra prendono forma. La genesi dei due concetti, come
abbiamo visto, comporta questo: la presenza tanto di un parlamento
detentore di quote relativamente importanti della sovranità politica quanto
di almeno due formazioni partitiche, sia pure embrionali in termini di
identità e organizzazione, perché solo tramite esse prende vita e comincia
ad operare un’assemblea legislativa.
Proprio alla luce di quanto ora precisato si possono subito cogliere
alcune peculiarità, se non proprio anomalie, della storia italiana. Anzitutto,
la prima formazione politica nazionale a fregiarsi del nome di “destra”, la
cosiddetta Destra storica, non è né conservatrice né costituirà mai un
partito nel senso moderno, rimanendo per tutta la durata della sua
esistenza un gruppo parlamentare, o meglio una serie di consorterie
1
Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, p. 13.
258
notabilari per lo più a dimensione regionale, sulla scia del preesistente
assetto pluristatuale della penisola italiana.
La Destra storica non può porsi come forza conservatrice, non
almeno nella sua fase iniziale, nel mentre si sta compiendo il processo
risorgimentale, dal momento che deve sovvertire l’ordine vigente, in nome
dell’unità e dell’indipendenza nazionali. Tanto meno è reazionaria,
posizione, quest’ultima, che è propria semmai degli ambienti cattolici,
direttamente o indirettamente legati agli interessi dello Stato pontificio,
oppure delle dinastie regnanti sulla penisola, tutte abbondantemente
antecedenti alla Rivoluzione francese e restaurate dopo la tempesta
napoleonica proprio in nome dei principi legittimistici dell’ancien régime.
Lo schieramento politico che ha originariamente in Cavour il
proprio leader indiscusso si configura come destra soltanto nella misura in
cui intende perseguire l’obiettivo dell’indipendenza nazionale, comune alla
sinistra, mazziniana e garibaldina, per il tramite però delle risorse
diplomatiche e avvalendosi della forza militare concentrate nella
monarchia sabauda. Mentre i democratici cercavano la via insurrezionale
e popolare, i cosiddetti “moderati” si ponevano su quest’altra linea. Non
possiamo però con ciò negare la natura rivoluzionaria della Destra storica
rispetto allo status quo. Come ha scritto Giuseppe Prezzolini, essa «era
rivoluzionaria, ma in un senso liberale. Voleva lasciare la libertà agli
individui, dando loro uno Stato: uno Stato libero, nel quale si potesse
esercitare la libera concorrenza»2. Ancor più precisamente, la destra
italiana del periodo preunitario e immediatamente postunitario, «doveva
necessariamente fondarsi sulla Rivoluzione francese». E Prezzolini
aggiunge: «la Rivoluzione francese fu una rivoluzione sociale (cioè voleva il
passaggio delle terre dall’aristocrazia ai contadini), mentre quella italiana fu
nazionale, cioè diretta principalmente contro il dominio straniero. Il punto
di convergenza fra repubblicani e monarchici, in Italia, era l’idea
dell’indipendenza e unità nazionali. Soltanto pochi sognatori pensavano alla
questione della proprietà: Pisacane, ad esempio»3.
Obiettivo centrale, quasi esclusivo, della destra delle origini fu la
costruzione di uno Stato moderno, in grado di riassorbire le plurisecolari
fratture regionali e consolidarsi nella sua unità politico-territoriale; in
seguito, di arrivare a competere con le maggiori potenze europee, esigenza,
questa, che peraltro si sarebbe manifestata con l’avvento al potere della
2
3
Giuseppe Prezzolini, Intervista sulla destra, p. 17.
Ibid., p. 17.
259
cosiddetta Sinistra storica4. Il mancato sviluppo di una monarchia
pienamente costituzionale, stante lo Statuto albertino che sanciva
importanti prerogative regie, e un sistema elettorale che rimase a lungo
ristretto, nonostante l’allargamento del suffragio introdotto nel 1882, non
favorirono il formarsi di moderni partiti distinti per identità e programmi.
Il modo in cui era stata raggiunta l’unità nazionale, cioè per via
eminentemente regia e “piemontesizzante”, e il fatto di avere
l’opposizione intransigente del Vaticano e dell’intero mondo cattolico,
all’indomani della presa di Roma e della soluzione “militare” dell’annosa
questione romana, lasciarono la classe dirigente nazionale accerchiata a
sinistra dai “rossi” (i mazziniani e i garibaldini, successivamente i socialisti)
e a destra dai “neri” (i cattolici, appunto). Ciò spinse tanto il re quanto
l’élite politica parlamentare a «governare stando al centro», considerando
il fatto che l’avversione ai partiti, oltre che retaggio della cultura politica
del liberalismo primo-ottocentesco, «nasceva in concreto dal fatto che
quelli esistenti, reali o potenziali, il clericale e il democratico, erano, o erano
considerati, associazioni intese a distruggere lo Stato liberale e
monarchico»5. Ne conseguiva che, essendo «diffusa la tendenza a
identificare le istituzioni e lo Stato col governo, un solo partito era
accettato come pienamente legittimo, quello costituito dalla maggioranza
ministeriale»6. Il trasformismo fu, pertanto, una conseguenza quasi
naturale. Non un vizio nazionale, frutto di un presunto carattere
degenerato del popolo italiano, bensì un metodo di governo istituito e
consolidato al fine di emarginare le ali estreme, dichiaratamente
antisistema. Con conseguente impedimento di ogni possibilità di
alternanza, e in ciò la patologia politico-istituzionale rispetto al fisiologico
avvicendarsi al potere tra maggioranza e opposizione, tipico di un sistema
liberal-costituzionale rappresentativo7.
Con il che la Destra storica, una volta passate le consegne alla
Sinistra nel 1876, sostanzialmente si dissolse, anche se proprio da quel
momento i suoi epigoni cominciarono a sviluppare una cultura politica di
spessore. Sarà merito soprattutto della parte che non confluirà nella
maggioranza ministeriale e che, scegliendo l’opposizione parlamentare,
4
Federico Chabod, Storia della politica italiana dal 1870 al 1896, pp. 529-562.
Giampiero Carocci, Destra e sinistra nella storia d’Italia, pp. 3-4.
6 Ibid., p. 4.
7 Giovanni Sabbatucci, Il trasformismo come sistema, pp. 6-8.
5
260
diventerà un po’ come «la cattiva coscienza del trasformismo»8. Tra di essi
emersero anche i primi che ammisero la realtà e la legittimità della
“questione sociale” (Pasquale Villari, Sidney Sonnino e Leopoldo
Franchetti), e tentarono di abbozzare almeno una politica preventiva sul
tema.
Fu il cattolicesimo a posizionarsi sulla destra dello schieramento
politico nazionale a cavallo tra Otto e Novecento, con personalità come
Giuseppe Toniolo, un conservatore, il quale «non parla di rivoluzione, non
parla di collettivismo; parla di piccola proprietà, di piccola borghesia, di
cooperative. Interpreta, in fondo, l’aspirazione del popolo italiano: cioè
che gli si permetta di vivere decentemente»9. A livello di cultura alta, nei
decenni a cavallo tra Otto e Novecento la destra offre contributi
intellettualmente interessanti e di livello talora internazionale:
dall’hegelismo napoletano al liberalismo aperto alla questione sociale dei
Villari e dei Sonnino, dal neoidealismo di Benedetto Croce e Giovanni
Gentile alla scienza politica di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, ispirata
ai criteri del realismo e dell’elitismo.
In generale, si trattò di una destra che gravitava attorno al tronco
del liberalismo governativo, criticandolo più o meno aspramente a
seconda dei casi, ma diventando sempre più d’opposizione in epoca
giolittiana, quando si fece strada la questione democratica. Fu
l’introduzione del suffragio universale a cambiare le carte in tavola della
cultura politica italiana. Siamo nel 1912. Se è vero che la destra italiana non
nasce controrivoluzionaria nel senso che assume questa aggettivazione
politica in un contesto culturale e sociale come quello francese, ad
esempio, è altrettanto indubbio che il suo moderatismo è sinonimo di
avversione al mutamento violento e repentino. Soprattutto si mostra
conservativa sul piano dell’istituto monarchico e refrattaria allo sviluppo
partitico moderno, il che significa nei fatti una incomprensione, o
comprensione tardiva, della società di massa e delle sue caratteristiche ed
esigenze. È stato da più parti notato come la classe dirigente postunitaria
si sia contraddistinta per un’impronta giacobina della propria cultura e stile
politico10. Anche la destra, pertanto, parteciperebbe di questo «tratto
genetico» dettato da un «imperativo di modernizzazione», per cui la
8
Giuseppe Prezzolini, Op.cit., p. 27.
Ibid., p. 54.
10 Roberto Chiarini, Destra italiana dall’Unità d’Italia a Alleanza Nazionale; Raffaele
Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale.
9
261
conservazione che più preme alla destra italiana è la difesa ad oltranza della
rivoluzione risorgimentale, patriottica e liberale. Cultura politica che
riflette, altresì, la debolezza di una borghesia, quella italiana, che ancora ad
inizio Novecento è soprattutto proprietaria terriera (nelle campagne) o
espressione delle libere professioni (nelle città)11.
Assieme al suffragio universale, e dunque alla democratizzazione,
l’altro fattore innovativo e dirompente dello scenario politico-culturale
italiano fu l’industrializzazione, il cui primo pieno decollo si consumò
esattamente negli stessi anni. Siamo nel periodo giolittiano, e il centrismo
governativo, identificato col liberalismo di ascendenza risorgimentale
sotto il profilo delle culture politiche, vide la destra scivolare
progressivamente, e anche piuttosto rapidamente, verso posizioni
prevalentemente antiliberali. Ciò fu favorito dall’avvicinamento dei
cattolici al centro giolittiano, grazie ad operazioni come il cosiddetto
“Patto Gentiloni” all’indomani dell’introduzione del suffragio universale
nel 1912.
In questo scenario lo scoppio della Prima guerra mondiale fu la
classica goccia per cui il vaso finisce con il traboccare. Lo spazio a destra
fu così rapidamente egemonizzato dal nazionalismo, il quale aveva nel
decennio precedente preso di petto i due nuovi fenomeni emersi nella
società italiana: le masse e l’industria, dove una era sostanzialmente figlia
dell’altra. Come è stato osservato, «con il nazionalismo la destra italiana
liquidava ogni impronta anti-moderna che in precedenza l’aveva
stabilmente mortificata nelle sue ambizioni», tanto da diventare piuttosto
«l’ala marciante della modernizzazione, sia economica che politica, del
Paese»12.
A questo punto, la destra italiana aveva perduto il legame con il
conservatorismo, almeno quello politico e sociale di tipo ottocentesco,
ponendosi come obiettivo l’integrazione delle masse operaie, e lavoratrici
in generale, attraverso una mobilitazione dall’alto, preferita alla
partecipazione dal basso. In questo senso, restava centrale il ruolo dello
Stato, tanto dal punto di vista economico che sociale e culturale, con
accenti pedagogici e paternalistici che rivelavano una qualche continuità
con la fase genetica del processo di consolidamento dell’Unità nazionale.
Nella mobilitazione, la dimensione emotiva avrebbe dovuto svolgere, e
11
Roberto Chiarini, «Destra: per un uso critico». Destra/Sinistra. Storia e
fenomenologia di una dicotomia politica, p. 238.
12 Ibid., p. 239.
262
svolse, un ruolo altrettanto significativo. La nazione fu pertanto evocata
anche come mito, in senso soreliano, ossia immagine motrice che suscitava
sentimenti di partecipazione ancor prima di una concreta ed effettiva
partecipazione.
D’altro canto, «è l’intera storia dell’Italia post-risorgimentale che
si presta ad una lettura in chiave statalistica. Dati i tempi e i modi del
processo di unificazione della penisola, non c’è da stupirsi che tanto la
destra quanto la sinistra abbiano visto nelle politiche ispirate e dirette dalle
istituzioni statali l’unico strumento disponibile per assicurare nel
contempo lo sviluppo economico del paese e un’attenuazione delle
sperequazioni fra le diverse aree che lo componevano»13.
Secondo Roberto Chiarini, la vera nascita di una destra
propriamente detta in Italia è novecentesca ed è quella nazionalistica. Ciò
avrebbe comportato la non trascurabile conseguenza di diffondere nella
cultura politica italiana la convinzione che «destra sia sinonimo di
illiberalismo»14. Non che la sinistra novecentesca non si contraddistingua
per una altrettanto pervicace avversione alla dottrina liberale, ma
certamente la precoce identificazione della destra «prima col nazionalismo
e poi soprattutto col fascismo, che può presto esibire il trofeo di una
vittoria riportata simultaneamente su liberali e socialisti, fa terra bruciata
di ogni residuo di tradizione moderata»15. Facendosi regime a netta
vocazione totalitaria, il fascismo occupa l’intero spazio politico antagonista
alla sinistra, e polarizza, nonché radicalizza, lo schema binario
destra/sinistra. Ne consegue che durante il ventennio mussoliniano i
liberali si collocano a sinistra, o su un centro che guarda a sinistra. Questa
è una delle tante eredità del fascismo. Sulle spalle della destra il fardello
risulterà particolarmente pesante e condizionante.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che il fascismo
non intese mai collocarsi ideologicamente a destra, semmai come sintesi,
per alcuni, come superamento, per altri, tanto della destra quanto della
sinistra. Conservatori e liberali da una parte, socialisti e comunisti dall’altra.
«Maestro di ossimori» è stato opportunamente definito il fascismo
mussoliniano, illiberale ma non anti-democratico, semmai plebiscitario,
dunque nazional-populista. «È all’ispirazione rivoluzionaria del
giacobinismo» cui aspira un fascismo che è di destra solo nella misura in
Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, Op.cit., p. 26.
Roberto Chiarini, «Destra: per un uso critico». Op.cit., p. 240.
15 Ibid.
13
14
263
cui occupa in modo totalitario e totalizzante il fronte anti-liberale e antisocialista. Eppure non nega l’idea di progresso, seppur rivendica un’altra
via alla modernità. «Contesta che sviluppo e modernità si possano ottenere
con la libertà», ritenendo superiore in termini di efficienza ed efficacia la
soluzione totalitaria16.
Alla luce di queste considerazioni, e di un ventennio di monopolio
statale e ideologico del fascismo, la destra italiana del secondo Novecento
si presenta con un futuro fortemente ipotecato. Se per moderatismo
intendiamo un’attitudine psicologica con cui leggere e interpretare la vita
associata, e dunque la politica, ancor più e ancor prima che un’ideologia
ben precisa, possiamo dire che per moderati raggruppiamo tutti coloro che
prediligono un mutamento assai lento e graduale, tanto da risultare quasi
impercettibile. Sotto questo profilo, il moderatismo italiano è solo in parte
sinonimo di conservatorismo, poiché, ad esempio, il moderato italiano
non è solitamente avverso all’individualismo né tanto meno rivendica le
prerogative di comunità organiche o corpi intermedi. Si tratta di
un’attitudine che nasce in opposizione ad una qualche forma di
radicalismo. Da metodo compatibile con diverse tradizioni politiche, si fa
autonoma posizione ideologica nella prassi di governo postunitaria. Da
allora non acquisirà mai, però, uno statuto dottrinario stabile e coerente.
Suo unico tratto distintivo permanente resta l’inclinazione a considerare il
conflitto politico e l’alternanza come patologie e non aspetti fisiologici di
un sistema politico17.
Di fatto, nel secondo dopoguerra si assiste alla seconda e
definitiva fase di industrializzazione e, più in generale, di modernizzazione
dell’economia e della società della nostra penisola. Ciò comporta il
passaggio della borghesia italiana ad una condizione identica a quella già
raggiunta, ad esempio, negli Stati Uniti e che si completa fra anni Settanta
e Ottanta. Intendiamo dire che nel secondo Novecento matura anche in
Italia una classe con un pensiero borghese che, «essendo il veicolo del
presente, si nutre di ciò che ogni volta è nuovo»18. Al termine di quella che
convenzionalmente è chiamata Prima repubblica, il conservatorismo è
cultura politica ormai dileguatasi completamente, dopo essere uscita dalla
Seconda guerra mondiale fortemente pregiudicata e progressivamente
16
Ibid.
Eugenio Capozzi, Storia dell’Italia moderata. Destre, centro, anti-ideologia, antipolitica
nel secondo dopoguerra, pp. 19-23.
18 Karl Mannheim, Conservatorismo. Nascita e sviluppo del pensiero conservatore, p. 122.
17
264
marginalizzata per effetto del fascismo, associato alla destra, di cui pare la
gradazione estrema all’interno di un medesimo continuum che annovera
il conservatorismo.
Sotto certi aspetti, potremmo dire che il conservatorismo si
tramuta in moderatismo. E va aggiunto che è espressione piuttosto dei ceti
rurali e cattolici, per lo più meridionali, e sempre meno della borghesia,
almeno di quella centro-settentrionale. Vale insomma la distinzione tra
pensiero conservatore e pensiero borghese operata da Karl Mannheim, a
cui sopra facevamo riferimento. Il moderatismo, da atteggiamento prepolitico diffuso presso un’ampia fascia dell’opinione pubblica nazionale, si
traduce in posizione politica di freno di fronte a qualsiasi evoluzione o
trasformazione percepite come pericolose per la stabilità, assurta a valore
supremo19. Si comprende immediatamente come, esanime il
conservatorismo, è il moderatismo che si accentua nel secondo
dopoguerra come espressione sociologica della destra italiana, in virtù della
paura del comunismo. È dunque l’anticomunismo il fattore aggregante di
un variegato fronte moderato, in cui si risolve anche ciò che sta a destra
del panorama politico italiano. Solo con il trascorrere del tempo, intorno
agli inizi degli anni Ottanta, sarebbe emersa con maggiore forza e nettezza
un’esigenza diffusa, elaborata anche sul piano culturale, di
modernizzazione istituzionale attraverso riforme del sistema elettorale e di
parte dello stesso impianto costituzionale.
Occupato nel ventennio precedente dal fascismo, espropriato di
buona parte del conservatorismo, il contenitore della destra italiana si
riempie di anticomunismo, graduato secondo differenti accentuazioni.
L’aggregato che ne risulta è estremamente eterogeneo nella sua
composizione, sia sociale che culturale, che vede parte dei liberali, “di
destra” appunto, monarchici, la stragrande maggioranza dell’elettorato
democristiano, movimenti ecclesiali, e missini20. Questi ultimi sono gli
esponenti del neofascismo. Essi rivendicano l’esperienza del ventennio
mussoliniano, all’insegna dell’ambivalente motto «non rinnegare e non
restaurare»21. Esauritosi rapidamente il fenomeno qualunquista22, una
volta finito elettoralmente anche il fronte monarchico23, sul finire degli
Eugenio Capozzi, Storia dell’Italia moderata, pp. 18-54.
Giovanni Orsina, Storia delle destre nell’Italia repubblicana, p. 11.
21 Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, pp. 28-30.
22 Sandro Setta, L’Uomo qualunque 1944-1948.
23 Andrea Ungari, «I Monarchici.» Storia delle destre nell’Italia repubblicana.
19
20
265
anni Cinquanta a destra dello schieramento partitico e parlamentare
restano solo gli esponenti politici, i quadri e i militanti del Movimento
sociale italiano (MSI). Trattandosi di formazione che rivendica almeno
parte dell’esperienza fascista, e in particolare quella relativa al periodo di
Salò e della Repubblica sociale italiana, non sempre e non nella sua
interezza accetta di autodefinirsi “destra”. Secondo alcuni studiosi,
l’immaginario politico del neofascismo italiano della seconda metà del
Novecento è stato dominato dalla vicenda della Repubblica sociale
italiana24. In effetti, almeno fino agli anni Settanta una consistente parte
del mondo missino rifiuterà tale denominazione, o la accetterà a corrente
alterna, a seconda delle convenienze politiche del momento, non trovando
mai consensi presso i settori giovanili della militanza o dei simpatizzanti.
Questi si contraddistinguono per il fatto di restare affascinati dal mito,
fondamentalmente impolitico, cioè sterile e impotente dal punto di vista
pratico-politico, del fascismo-movimento, delle origini sansepolcriste e
dell’epilogo saloino. D’altronde, su molti militanti missini, non solo
giovani, hanno prevalso lo stile, l’atteggiamento psicologico di sfida e i
legami affettivi su considerazioni più squisitamente politiche e persino
ideologiche. Classificato politologicamente come partito a vocazione
antisistemica, il Movimento sociale italiano aggregò per quasi cinque
decenni una forma di ribellismo rispetto al discorso legittimante la neonata
democrazia repubblicana, riassumibile nell’antifascismo. Se quest’ultimo
fu il dispositivo ufficiale della legittimazione repubblicana,
l’anticomunismo fu quello ufficioso, altrettanto importante, soprattutto
nel qualificare lo stato d’animo e il sentimento prepolitico di larga parte
dell’elettorato italiano25. Tutto ciò si tradusse in un «animus anti-sinistra»26
prevalente nella società civile italiana, come confermato dai risultati
elettorali del quarantennio della Prima repubblica27.
Timoroso del nuovo, il moderatismo italiano ha riempito lo
spazio a destra ma si è espresso politicamente votando per lo più al centro,
a favore di quella Democrazia cristiana che, per le peculiari condizioni
Cf. Furio Jesi, Cultura di destra; Francesco Germinario, L’altra memoria. L’Estrema
destra, Salò e la Resistenza; Id., Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra
italiana.
25 Aurelio Lepre, L’anticomunismo e l’antifascismo in Italia; Roberto Pertici, «Il vario
anticomunismo italiano (1936-1960): lineamenti di una storia» Due nazioni.
Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea.
26 Roberto Chiarini, «Destra: per un uso critico», Op.cit., p. 241.
27 Piero Ignazi, I partiti italiani, pp. 12-14.
24
266
geopolitiche in cui versava l’Italia durante la cosiddetta Guerra Fredda, ha
svolto un ruolo pivotale del sistema partitico e politico nazionale. Intesa
come diga anticomunista, la DC ha incanalato la gran parte del
moderatismo italiano e anche parte della cultura politica di destra
conservatrice e liberale (quando quest’ultima non votava per il PLI). Si è
trattato di «un fronte unito da un comune sentire incline al conformismo
e pur tuttavia orientato da una sincera ispirazione religiosa, sempre pronto
a palpitare per generiche cause nobili ma restio a mobilitarsi in concreto
nella politica, soprattutto timoroso del nuovo, specie se questo si presenta
con le vesti di una rottura del suo normale “quieto vivere”»28. Nella sua
componente “di destra” questo moderatismo presenterebbe quali suoi
elementi ideologici di fondo «un generico anti-liberalismo, un acceso antisocialismo», nonché un «imbelle anti-capitalismo»29, oppure, potremmo
aggiungere, un diffuso anti-statalismo, pensando soprattutto a certi strati
sociali di piccola e media imprenditoria, peraltro sostanzialmente
circoscrivibili alle regioni centro-settentrionali della penisola. E questo sarà
un punto che ideologicamente si accrescerà nei decenni successivi al boom
economico e ai successi imprenditoriali conseguiti dalla cosiddetta “Terza
Italia”30.
La storia della destra italiana nel secondo dopoguerra, almeno fino
ai primi anni Novanta e al crollo del comunismo internazionale e
casalingo, è segnata da una doppia ipoteca. Una legata all’immediato
passato: l’esperienza del fascismo, che rese inabitabile la collocazione a
destra per i liberali, a differenza di quanto accadde nelle altre democrazie
parlamentari europee. L’altra, invece, connessa al presente: la presenza del
comunismo, appunto, rappresentato in Italia dal più grande partito
comunista fuori dal mondo a dominazione o influenza sovietica (PCI). Di
qui il peso determinante della pregiudiziale anticomunista e la difficoltà
diffusa a identificarsi per l’elettorato moderato con l’antifascismo, data
l’egemonia su di esso esercitata in misura crescente dal PCI31. Per precise
ragioni storiche, pregresse e contingenti, la destra italiana è risultata
inospitale per il liberalismo, mentre è risultata privata del contributo della
28
Roberto Chiarini, «Destra: per un uso critico», Op.cit., p. 241.
Ibid.; Eugenio Capozzi, Storia dell’Italia moderata, p. 32.
30 Sul significato e il contesto storico di tale espressione, si veda Arnaldo
Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano.
31 Cf. Giovanni Orsina, «Quando l’Antifascismo sconfisse l’antifascismo.
Interpretazioni della resistenza nell’alta cultura antifascista italiana (1955-1965)».
29
267
tradizione conservatrice, prima e più di quanto non stesse
contemporaneamente accadendo nel resto d’Europa. Se è vero che «lo
spazio pubblico repubblicano è stato strutturato dall’interazione fra due
meccanismi largamente (seppure non interamente e non necessariamente)
concorrenziali di legittimazione/delegittimazione: l’antifascismo e
l’anticomunismo», e che il secondo di questi è stato «tendenzialmente
aperto sulla destra»32, ben pochi si sono posizionati stabilmente all’interno
di tale lato dello spettro politico-partitico e soprattutto ideologico. Lo
hanno fatto semmai temporaneamente e soltanto su singole, specifiche
issues. Ancor meno vi è stata competizione sull’etichetta di “destra”,
volutamente lasciata al mondo politico e culturale missino, detentore di un
monopolio peraltro non sempre pienamente gradito e pacificamente
accettato. Presenti potenzialmente più “destre”, se si guarda, ad esempio,
all’interno sia del partito liberale sia di quello democristiano, a livello tanto
di cultura politica quanto partitica lo spazio pubblico italiano vide
egemonica una sola destra. Tra ghettizzazione e auto-ghettizzazione del
MSI, l’esito monopolistico fu ineluttabile. D’altronde, stiamo parlando del
«più consistente partito di orientamento nostalgico di tutta l’Europa»33,
stabilmente presente nel parlamento, negli enti locali e in numerose
strutture amministrative per tutta la prima fase della storia repubblicana e
capace di diventare protagonista della sua seconda fase, all’indomani delle
elezioni politiche del 1994. Un’anomalia tutta italiana, che ha portato per
cinquant’anni a far coincidere la definizione di destra con posizioni più o
meno compiacenti nei confronti dell’esperienza politica fascista. Il
conservatorismo ha così finito per essere sovente confuso con il
nostalgismo, e il liberalismo a trovarsi oscillante tra posizioni centriste e di
sinistra, in cui l’anticomunismo fu sempre subordinato all’antifascismo. Di
qui nessuna alleanza possibile con chi al fascismo esplicitamente si
richiamava, e la conseguente subalternità – culturale ancor prima che
elettorale – del Partito liberale rispetto alla DC, nonostante i parziali
tentativi di smarcamento e differenziazione operati dalla segreteria
Malagodi, sempre e comunque condizionati dalla pregiudiziale antifascista
32
33
Id., Storia delle destre nell’Italia repubblicana, p. 9.
Marco Tarchi, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, p. 5.
268
e imperniati sul mantenimento e/o recupero della formula centrista a
guida democristiana34.
A ciò si aggiunga che il sistema di idee e credenze che ha
caratterizzato la maggior parte dei partiti italiani nel corso del secondo
dopoguerra è stato di tipo ideologico. Ciò comporta, secondo una recente
proposta di interpretazione politologica, «un elevato livello di astrazione»
rispetto a questioni di ordine pratico, nonché «una ridotta adattabilità,
ossia un basso livello di ricettività rispetto all’evidenza empirica ovvero
uno stato cognitivo sostanzialmente chiuso»35. Poco o per niente duttili, le
culture politiche dell’Italia repubblicana risulterebbero pertanto facilmente
soccombenti di fronte a repentine e profonde trasformazioni della società.
La loro scomparsa nel corso dell’ultimo decennio ne sarebbe logica e
inevitabile conseguenza. Tale rigidità ideologica è senz’altro ascrivibile al
mondo missino, e ciò ne spiegherebbe la successiva «integrazione passiva»,
comunque poco elaborata sul piano della teoria politica, rispetto a principi
e valori della democrazia liberale all’indomani della fine della Prima
repubblica36.
Gerardo Nicolosi, «Il Partito liberale italiano» Storia delle destre nell’Italia repubblicana,
pp. 135-139, 139-142; Giovanni Orsina, L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione
al centrosinistra, pp. 187-200.
35 Marco Valbruzzi, «Cinque tesi sull’assenza di culture partitiche in Italia», p. 147.
36 «Passiva perché la base la subisce senza elaborarla direttamente attraverso
un’attiva e motivata riscoperta delle ragioni della propria conversione “liberale”.
E passiva anche perché il vertice la persegue non di sua iniziativa e secondo un
percorso interno ma sulla base di una pressione ambientale cogente e come a
rimorchio degli input trasmessigli dall’integrazione conseguita nel sistema politico.
È per questa strada che la destra arriva ad adottare prima scelte programmatiche,
uno stile di comportamento, un linguaggio in linea con la svolta consumata e solo
dopo – e incompiutamente – a realizzare la sua sintonizzazione con le
corrispondenti coordinate culturali»: Roberto Chiarini, «L’integrazione passiva».
La destra allo specchio. La cultura politica di Alleanza Nazionale, p. 35. Sulla stessa linea,
l’interpretazione fornita più di recente da un altro studioso: «La svolta fu
repentina: in un anno si consumò lo strappo con il passato. […] Il problema fu
piuttosto quello di comprendere quanto radicata e quanto meditata tale svolta
fosse, soprattutto a livello giovanile, dopo una decennale abitudine ai testi
evoliani. Un problema non risolvibile perché si trattò di comprendere qual era
stato, nel corso dei suoi 49 anni di vita, il rapporto tra cultura e politica in un
partito come il MSI. Una cultura vista come momento identitario, tra il
nostalgismo patriottico e l’“altrove” rautiano ed evoliano: nessuno dei due
elementi, tuttavia, era utile per comprendere la realtà, alludendo il primo ad un
34
269
Il fatto che per oltre quarant’anni i contenitori che in Italia hanno
ospitato l’etichetta di “destra” siano stati i monarchici, in forma sempre
più residuale fino a scomparire del tutto, e soprattutto i missini, ovvero i
neofascisti, offre molte indicazioni interessanti sulla cultura politica che ha
allignato da quelle parti. Non dobbiamo dimenticare che «l’antiintellettualismo è sempre stato rivendicato con orgoglio dal MSI come un
tratto distintivo»37. Quel tanto di sensibilità per l’elaborazione culturale ai
fini di una comprensione del presente è circolata quasi esclusivamente tra
le componenti giovanili del MSI, ma anche qui ha agito sovente il
tradizionalismo così come reinterpretato e proposto da Julius Evola,
ponendo così quello stesso mondo giovanile su posizioni estranee al
confronto interattivo con la modernità e le sue travolgenti trasformazioni
in atto nel secondo dopoguerra. Rifiuto e/o rivolta erano le parole
d’ordine del messaggio evoliano, «improntato a un chiaro determinismo
regressista» e ad un culto dell’esoterismo che è stato poi declinato da non
pochi seguaci in teorie cospirative e complottistiche della storia38.
Come fu notato già nei primi anni Settanta dallo storico Renzo
De Felice, quel che si registrava nella gioventù dei gruppi e gruppuscoli
extra-parlamentari era piuttosto un «radicalismo di destra», se non vero e
proprio «neonazismo», che si ispirava appunto al tradizionalismo evoliano,
a metà strada tra visione cosmostorica e catastrofismo dai toni
ostentatamente antiborghesi e anticapitalistici39. Si trattava di un
fenomeno non solo italiano, connotato da estremismo, fanatismo, e da
uno stato d’animo di pessimismo tragico, riassumibile nella celebre
massima «muoia Sansone con tutti i filistei»40. Il militante missino di base
rientra in un tipo psicologico definibile come quello dei “vinti della storia”,
i quali, pur consapevoli di esserlo, e in modo definitivo, si ribellano
nonostante tutto e tutti a tale verdetto e con uno slancio apparentemente
vitalistico ma nei fatti profondamente nichilistico. La destra italiana,
contenuta da un partito neofascista in epoca anti e post-fascista, finisce
per recidere ogni legame con quell’idea di progresso che, declinata in
mondo ormai scomparso e il secondo a un mondo mai esistito»: Giuseppe Parlato,
La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale, p. 120.
37 Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, p. 91; Francesco Germinario, Da Salò al
governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, pp. 35-46.
38 Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, Op.cit., pp. 94-96; Francesco Cassata, A
destra del fascismo: profilo politico di Julius Evola, pp. 321-354.
39 Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, pp. 98-99.
40 Id., Scritti giornalistici. Dagli Ebrei a Mussolini 1974-1977, p. 84.
270
termini di sviluppo e potenza economico-industriale, aveva comunque
connotato sia il nazionalismo sia il fascismo storico.
Se, a questo punto, ci domandiamo quale sia stata la cultura
politica, o quali siano state le culture politiche, della destra o, meglio, delle
destre in Italia, la risposta non è affatto facile. In primo luogo, abbiamo
soltanto nel Novecento una destra nazionalista, una destra fascista e quindi
una destra neofascista. Peraltro, la seconda e la terza nutrono la
convinzione, almeno a parole, di non essere riconducibili né tanto meno
riducibili alla “destra”, da loro intesa come conservatorismo e/o
liberalismo individualistico. Questa è l’anomalia maggiore che complica
l’analisi di qualsiasi osservatore della storia della destra italiana che ne tenti
una definizione in termini di cultura politica. Come detto, la visione del
mondo dei nazionalisti fu a suo modo progressiva, se non progressista.
Furono fautori del processo di modernizzazione, da correggere e guidare
negli effetti emancipativi e individualistici che esso inevitabilmente sempre
innesca. Sotto questo profilo è stato una sorta di «modernismo
reazionario», simile alle posizioni di certa destra tedesca e austriaca, anche
se segnata da un minor grado di aristocraticismo tipico di quest’ultima,
anche per la diversa estrazione sociale dei principali esponenti del
nazionalismo italiano41. Innegabilmente progressiva e modernista fu anche
la visione fascista della storia, ovviamente del tutto svincolata dai valori
liberali di libertà ed eguaglianza civile e giuridica.
Il neofascismo, dal canto suo, inclinò ad una visione scettica,
quando non pessimistica, del futuro, tanto che il nostalgismo ne costituì il
tratto distintivo perdurante. Secondo alcuni, si può addirittura parlare di
una «cinquantennale mobilitazione dell’estrema destra contro la
modernità»42. Dal canto suo il moderatismo, per quel tanto che può essere
definito fenomeno “di destra”, condivise un certo conservatorismo sul
piano degli usi e dei costumi della società italiana, mescolando elementi
della tradizione contadina con quelli del decoro borghese. La difesa del
cattolicesimo romano, così come trasmesso dal magistero pontificio, fu
senz’altro un valore aggregante la gran parte degli ambienti moderati. Le
trasformazioni teologiche e anzitutto liturgiche avviate nei primi anni
Sessanta a seguito degli esiti del Concilio Vaticano II produssero un forte
Per l’uso di questa espressione, si veda Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario.
Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich.
42 Francesco Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra
italiana, pp. 9-10.
41
271
disorientamento in quegli stessi ambienti. La Chiesa subì nel tempo un
indebolimento rispetto al ruolo che aveva tradizionalmente svolto quale
punto di riferimento culturale e valoriale. È certo che non tutto lo
schieramento moderato si risolvesse nel filo-cattolicesimo. Certamente
l’origine anticlericale della prima destra italiana, quella post-cavouriana, era
anch’essa stata obliata e si era trasferita a sinistra o al centro assieme al
residuale mondo laico e liberale, gravitante fra PLI e PRI (e,
successivamente, PSDI).
D’altro canto, il fatto che la tradizione religiosa prevalente tra la
popolazione italiana sia quella cattolica può rendere meno intransigenti e
meno impermeabili alla modernità di quanto si sia solitamente portati a
credere. Lo avrebbe dimostrato proprio il processo messosi in moto in
concomitanza e a seguito del Concilio Vaticano II. Il mondo cattolico,
nelle sue varie ramificazioni collaterali, associazionistiche e comunitarie
(cosiddette “di base”), soprattutto giovanili, si mostrò in molti casi più
aperto e ricettivo dello stesso mondo giovanile comunista. Si pensi ai
fermenti del cattolicesimo “del dissenso”, al fenomeno dei “preti-operai”
e ai molti giovani cattolici passati nelle file dell’extra-parlamentarismo di
sinistra43. Fu la lunga stagione del ’68, iniziata già alcuni anni prima.
Anche da qui iniziò ad incrinarsi il consenso attivo alla DC,
sempre più colpita da una crisi d’identità per ritrovarsi stretta fra l’essere il
“partito dei cattolici” e, al contempo, il partito di governo per eccellenza,
tanto da essere ormai identificato con lo Stato-apparato, collettore di
consensi grazie all’utilizzo sempre più clientelare delle partecipazioni
statali e della spesa pubblica. Ne deriva, tornando al nostro tema, la
difficoltà di ridurre tout court il moderatismo alla destra, se per questa si
intende conservazione e relativo antimodernismo. E lo stesso dicasi per il
cattolicesimo nostrano. Ciò spiega come dagli iniziali lidi del movimento
dell’Uomo qualunque buona parte dell’elettorato della piccola e media
borghesia italiana, i cosiddetti «ceti medi», si staccasse rapidamente per
confluire in modo massiccio e compatto nell’alveo della DC, dopo l’exploit
qualunquista nelle elezioni amministrative del novembre 1946 e il
conseguente riposizionamento tattico-strategico di De Gasperi44.
Se nazionalismo e fascismo si erano inoltre distinti per il primato
della politica, sostenuto e tradotto nelle parole e nei fatti, il moderatismo
43
Cf. Guido Verucci, «Il 1968, il mondo cattolico italiano e la Chiesa»; Roberto
Beretta, Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici.
44 Sandro Setta, La destra nell’Italia del dopoguerra, pp. 15-24, 192-197.
272
postbellico si mostrò sin dall’inizio diffidente, quando non
dichiaratamente avverso, nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni,
anche se finalmente declinate in termini democratici. L’esistenza degli
istituti e delle procedure della democrazia repubblicana si palesò
immediatamente nella figura dei partiti, oggetto sin da subito di un certo
scetticismo, se non ostilità, come dimostrato dal clamoroso successo del
movimento qualunquista45. Soprattutto nel secondo dopoguerra si
accrebbe la spaccatura tra Nord e Sud anche sul piano della cultura
politica, accentuando nell’uno l’individualismo (talora familistico)
antistatalista e nell’altro il familismo statalista e assistenzialista. Così che,
almeno sotto questo profilo, si ebbero due versioni del moderatismo,
come poi si sarebbe rivelato a pieno solo negli anni Novanta. Il riferimento
è alla Lega nord, da una parte, e ad Alleanza nazionale, dall’altra, con Forza
Italia, unica forza per un certo periodo capace di unire il moderatismo
settentrionale con quello meridionale.
Il tema dell’anti-partitocrazia nacque a ridosso del varo
repubblicano e democratico e si sarebbe protratto nei decenni successivi,
traendo non poca linfa dall’humus moderato, anche se non solo da esso46.
Appare indubbio che il moderatismo non si identifichi in un singolo,
specifico partito, ma sia piuttosto descrivibile come una mentalità prepolitica, ancor più che una strutturata cultura politica, che adotta ora
questo ora quel partito in modo strumentale e chiedendo talora cose
contraddittorie, a seconda della latitudine regionale o professionale.
Tendenzialmente si mostra diffidente rispetto ad un istituto, come il
partito, così importante nello sviluppo in senso democratico del sistema
politico. Se proprio si vuole parlare di una cultura politica del
moderatismo, essa risulta, a nostro avviso, caratterizzata da contorni
ideologici sfumati e da una debole intensità nei propositi programmatici.
A fronte di una società civile formata da individui indipendenti e in grado
di autogovernarsi si pretende la presenza minima di uno Stato ridotto ad
amministrazione tecnicamente competente, secondo uno schema
proposto per primo dal movimento qualunquista47. Non tutto il
Sandro Setta, L’Uomo qualunque 1944-1948, pp. 144-162.
Sul tema, cf. Eugenio Capozzi, Partitocrazia. Il “regime” italiano e i suoi critici;
Salvatore Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (19461978); Id., Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima,
seconda e terza).
47 Eugenio Capozzi, «La polemica antipartitocratica», pp. 180-181.
45
46
273
moderatismo può essere però riassunto su questa variante tecnocratica di
un liberalismo fortemente individualistico, e il Mezzogiorno prediligerà
ben presto un massiccio interventismo statale.
Se una cultura politica si esprime anche attraverso una rete di
simboli e gesti distintivi e corroboranti l’identità di una famiglia politica48,
possiamo senz’altro dire che il neofascismo è stato solido su questo punto.
In ciò l’eredità del ventennio mussoliniano e della Repubblica di Salò ha
giocato a favore di una ricca simbologia, persino di una sorta di liturgia,
che però non hanno fatto altro che rendere ancora più chiusa e
autoreferenziale la comunità dei militanti missini. Compattatasi all’interno,
si è emarginata ulteriormente rispetto all’esterno, anche se per l’intera
prima fase della storia repubblicana italiana (1946-1992) tale uso di simboli
e riti ha trovato una corrispondenza mimetica nell’altra formazione
antisistema ad alto tasso ideologico, il PCI. Dal braccio teso al pugno
chiuso, le identità simboliche e rituali hanno forse prevalso su quelle
intellettuali e programmatiche tanto del MSI quanto del PCI, e alla fine è
rimasto più il sentimento (di nostalgia per comunità politiche accoglienti e
confortanti, davvero definibili come “famiglie”) rispetto alle ragioni di
un’appartenenza. Trovano qui conferma alcune ipotesi interpretative
proposte venticinque anni fa da Serge Berstein sul tema della “cultura
politica” ai fini di un ripensamento e un rinnovamento della ricerca
storiografica, anzitutto in Francia ma non solo49.
Sulla scia dei preziosi suggerimenti provenienti dallo studioso
francese possiamo aggiungere per il caso italiano quanto segue: a partire
dagli anni Sessanta si afferma, consolidandosi nel ventennio successivo,
una cultura dominante, intesa appunto quale «insieme di rappresentazioni
così corrispondenti alle aspirazioni dei gruppi emergenti della popolazione
che la stragrande maggioranza dei cittadini di un dato Paese ne condivide
le fondamenta, anche se magari si richiamano a culture politiche
differenti»50. La dominanza di tale cultura non implica necessariamente un
monopolio indiscusso. Possono continuare ad esistere culture antagoniste,
che però rimangono periferiche in termini di legittimazione e
autorappresentazione ufficiale di una collettività politica nazionale.
Sempre adattando al caso italiano le categorie di Berstein, potremmo ad
esempio definire il moderatismo una cultura politica embrionale non
Serge Berstein, « L’historien et la culture politique », p. 71.
Ibid., p. 77.
50 Ibid., p. 72.
48
49
274
dominante ma di massa51. Anche per questo motivo qualcosa di più simile
ad una mentalità, ferma ad un livello immediatamente pre-politico;
senz’altro, non divenuta mai cultura delle élites.
Se esistono dei valori propri della tradizione culturale più corposa
e solida della destra, italiana ed europea, questi sono senza subbio Dio,
patria e famiglia52. Il loro esaurirsi come matrici di senso per la collettività
è un fenomeno ormai evidente a chiunque, consumatosi nel corso del
Novecento con due fasi di notevole accelerazione:
1. il periodo 1939-1945, con l’andamento e poi l’esito della
Seconda guerra mondiale (che, in tal senso, risultava ancor più un
prosieguo della prima);
2. gli anni Sessanta, quando i valori difesi dal conservatorismo
cadevano definitivamente in disgrazia, si ritiravano nella sfera privata delle
singole coscienze individuali o, al più, dei piccoli gruppi, lasciando campo
al compiersi dell’epoca della secolarizzazione53. Con essi era l’intera società
tradizionale che tramontava in Occidente54.
Già all’esordio del ventesimo secolo la destra europea, nata come
posizione politica che nello spettro parlamentare e nell’opinione pubblica
si contrapponeva – ora come reazione integrale ora come freno – alla
rivoluzione dei diritti dell’uomo e alle sue conseguenze55, non aveva come
tale più alcun contenuto spendibile, almeno in termini elettorali e di
proposte politiche. O si rassegnava alla riflessione metapolitica o
scompariva. Di certo non poteva più incidere, se non contaminandosi
abbondantemente con filosofie variamente moderniste dando luogo a
sincretismi ideologici (vedi i radicalismi romantici e poi il totalitarismo
nazista), oppure traslocando in contesti extra-europei ed extra-occidentali,
in cui i processi di modernizzazione tardavano o erano soltanto agli esordi
e la società tradizionale risultava ancora sufficientemente prospera e
normativamente cogente56. Si trattò, per l’Europa, di un processo che in
molti casi si consumò già nel corso dell’Ottocento, per cui si assistette allo
slittamento del liberalismo politico verso la destra dello spettro politico51
Ibid., p. 71.
Cf. Marcello Veneziani, Dio, patria e famiglia dopo il declino.
53 Augusto Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, pp. 11-20, 181-201 e passim.
54 Si veda sul tema un originale e intenso confronto filosofico di quegli anni: Ugo
Spirito, Augusto Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?
55 Ernesto Galli della Loggia, Intervista sulla destra, pp. 3-12.
56 Luciano Pellicani, L’Occidente e i suoi nemici, capp. 11 e 12.
52
275
parlamentare per il declino delle posizioni controrivoluzionarie e la
concomitante ascesa del socialismo, che andò ad occupare in misura
crescente il lato sinistro. Ad inizio Novecento era insomma politicamente
esaurita la destra reazionaria, mentre quella conservatrice mostrava i primi
affanni.
Se questo fenomeno, con tempi e accentuazioni diverse, si compì
sia in Francia che in Inghilterra, nel nostro Paese stentò a realizzarsi per i
motivi sopra addotti. Imperniato su un centro che tendeva ad assorbire
risorse “liberali” a destra e risorse “socialiste” a sinistra, in modo da restare
mediano e catalizzatore, il sistema politico-parlamentare e partitico italiano
non avrebbe mai visto riempirsi di contenuti pienamente liberali le forze
collocantisi a destra. Piuttosto si assistette a saldature, che procedettero
per sintesi più o meno improvvisate, sempre e comunque trasversali, tra
gli estremi che contestavano dai due lati il centro governativo-statale. Così
il nazionalismo, così il sindacalismo rivoluzionario, così, infine e
soprattutto, il fascismo. Sia pure con minor successo, sarebbe poi stata la
volta dell’azionismo e dei vari tentativi, più o meno circoscritti in numero
e forza, di “terzaforzismo”57.
Dopo il fascismo, comunque, la spinta al mutamento venne da
sinistra, o è da lì che si cominciò ad attendere il cambiamento verso il
meglio. Paralizzata la destra dalla totale identificazione che ne venne fatta
con il fascismo, anche a seguito delle modalità con cui era giunto
effettivamente al potere nel 1922 e si era consolidato nel ventennio
successivo, la Democrazia cristiana gestì un elettorato di orientamento
“destrorso” in nome di valori non esplicitamente riconducibili all’ideologia
liberale. Là dove trovò terreno permeabile introdusse principi e precetti di
altro tipo, riconducibili alla cultura politica cattolica, senz’altro antiindividualistica e fortemente sospettosa nei confronti dell’economia di
mercato nonché restia ad un’estensione dei diritti civili ogni volta che
questi avessero potuto favorire la laicizzazione dei costumi e la più
generale secolarizzazione della società. Fu dunque di tipo cattolico il
conservatorismo presente nella cultura politica italiana e nella subcultura
“di destra”, e ciò ne spiega, ribadiamo, la natura più malleabile rispetto ad
un processo di modernizzazione che, peraltro, si riversò con potenza
quanto mai accelerata sulla società italiana del secondo dopoguerra, e sia
pure lasciando parzialmente inalterato il dualismo tra Nord e Sud.
57
Cf. Lamberto Mercuri, Sulla “Terza Forza”.
276
La stessa cultura politica della destra neofascista presentava nella
sua composizione alquanto eterogenea e internamente conflittuale un
filone cattolico, accanto agli altri due principali, quello gentiliano e quello
evoliano. Non di rado, le posizioni cattoliche erano tradizionaliste sul
piano teologico-liturgico e monarchiche su quello istituzionale; sempre e
comunque apologetiche o non-revisioniste in termini di giudizio storico
sul fascismo58. Ciò che tenne insieme per oltre quarant’anni le diverse
anime del neofascismo fu l’estraneità alla cultura della nazione così come
emersa all’indomani della Seconda guerra mondiale. L’antifascismo come
discorso legittimante la neonata repubblica democratica non poteva che
costituire un discrimine invalicabile. La mentalità da sconfitti, da “vinti
della storia” e, conseguentemente, da “esuli in patria”59, alimentò l’altro
collante dei diversi filoni culturali del neofascismo: l’avversione alla
modernità, a modi, costumi e istituti dei tempi correnti. Il tradizionalismo
evoliano finì così per risultare la filosofia più coerente e congeniale alla
parte del mondo neofascista maggiormente sensibile a tematiche
culturali60.
Solo intorno alla prima metà degli anni Settanta, in
corrispondenza degli effetti della contestazione sessantottesca e del
profilarsi del cosiddetto “compromesso storico” tra democristiani e
comunisti, alcuni esponenti della cultura liberale fermamente convinti che
l’antifascismo non potesse dissociarsi dall’anticomunismo si accostarono
ad alcune iniziative editoriali di area missina61. Si trattò di un timido
avvicinamento favorito dal clima politico-elettorale dell’epoca e che, in
area missina, terminò definitivamente nel 1976 con la scissione di
Democrazia nazionale dal MSI62. D’altro canto, ogni possibilità di accordo
risultò compromessa sin dall’inizio, date le premesse. Il principale
58
Giovanni Tassani, «Le culture della destra italiana tra dopoguerra e
centrosinistra. Gentilianesimo, cattolicesimo ed evolismo a confronto e in
concorrenza», pp. 142-144, 147.
59 Cf. Marco Tarchi, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana.
60 Giovanni Tassani, «Le culture della destra italiana tra dopoguerra e
centrosinistra. Gentilianesimo, cattolicesimo ed evolismo a confronto e in
concorrenza», pp. 137, 139-141; Francesco Germinario, Da Salò al governo.
Immaginario e cultura politica della destra italiana, pp. 47-63.
61 Ibid., pp. 69-77.
62 Giuseppe Parlato, La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia
Nazionale, pp. 253-302.
277
promotore di tali iniziative, l’editore Giovanni Volpe, figlio dello storico
fascista Gioacchino, ancora nel 1968 dichiarava in un’intervista:
Un po’ semplicisticamente, possiamo dire che la destra è l’opposto di
tutto ciò che è democrazia, marxismo, comunismo, progressismo falsamente
inteso; che la destra punta sul primato dello spirituale, su qualità e differenza
anziché su quantità e uguaglianza, sul principio della gerarchia e della organicità
anziché su un ordinamento meccanico, comunitario, conformista. […] cerca a
tutto ciò una superiore legittimazione che non può essere democratica, né
societaria, né populista. Una cultura di destra non si volge ai bassifondi
dell’umanità, agli aspetti deteriori dell’esistenza, ma all’uomo che «sta in piedi fra
le rovine», per adottare una frase evoliana63.
L’arroccamento all’estrema destra, o meglio ad un fascismo
mitizzato, elevato a categoria metastorica, non perse d’intensità e anzi si
accentuò per tutti gli anni Settanta. Anche chi, come Giano Accame,
intellettuale uscito dal MSI nei primi anni Sessanta per andare nel
movimento Nuova repubblica di Randolfo Pacciardi e che dichiarava
intenti rinnovatori rispetto all’originario neofascismo, finiva poi per
denunciare – siamo nel gennaio del 1972 – «il ruolo disgregatore della
destra (e tanto più disgregatore quanto più si presenta in veste moderata e
cerca alleanze nella pattumiera dell’ottusità borghese)»64. In definitiva, il
nostalgismo non fu mai effettivamente superato e probabilmente non
avrebbe potuto esserlo, dato il contesto storico-politico nonché, prima di
tutto, il codice genetico del MSI.
Di fronte al tentativo perseguito dalla nuova segreteria di Giorgio
Almirante di un’uscita dall’isolamento del partito, in molti intellettuali di
area missina si diffuse l’allarme circa il rischio concreto di inquinamento e
perdita d’identità della cultura neofascista65. L’incontro con singole
intellettualità di provenienza liberale non poteva che risultare effimero,
lasciando dietro di sé tracce nulle o scarse. A maggior ragione nel caso, che
fece molto clamore tra 1971 e 1972, dell’adesione al MSI di Armando
Plebe, autorevole filosofo nonché influente accademico di formazione
marxista e precedente militanza comunista, con breve parentesi tra le fila
63
Gianfranco De Turris, I non-conformisti degli anni Settanta. La cultura di destra di
fronte alla “contestazione”, p. 32.
64 Giuseppe Parlato, La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia
Nazionale, p. 135.
65 Ibid., pp. 128-129.
278
del PSDI66. Del resto, era stato il MSI, fregiandosi della denominazione
aggiuntiva di “Destra nazionale”, a tentare un’azione attrattiva verso il
centro, e ciò non poté che ipotecare in negativo l’operazione, in una fase
congiunturale che si sarebbe poi rivelata di massima radicalizzazione
ideologica nella storia della Prima repubblica, i famigerati “anni di
piombo”.
Altra iniziativa culturale degna di menzione fu quella promossa
dalla casa editrice Rusconi, e in particolare da Alfredo Cattabiani, dal 1969
direttore delle collane saggistiche. Furono pubblicati importanti autori,
sovente dimenticati o trascurati, in gran parte riconducibili ad una
tradizione filosofica e letteraria «spiritualistica, conservatrice e
aristocrateggiante», dando così vita ad un’esperienza editoriale che in una
qualche misura avrebbe anticipato quella del catalogo Adelphi, imperniata
sulla promozione dei filoni del Kulturpessimismus e del pensiero reazionario
europeo tra Otto e Novecento67. Però, in ultima analisi, si trattò della
diffusione di suggestioni impolitiche, quando non antipolitiche,
sicuramente antimoderne, oltreché antiliberali e antimarxiste. Non funsero
quindi da nutrimento, né tanto meno da aggiornamento, della cultura
politica della destra italiana, che fu piuttosto rassicurata nelle proprie
pulsioni antidemocratiche. In altri termini, la destra neofascista rimase
posizionata sul radicalismo in termini di principi e valori e di moderatismo
in termini di condotta parlamentare e di offerta elettorale.
Sul versante liberale, una cultura politica di destra non fascista
ebbe modo di coagularsi ed esprimersi a livello pubblicistico sulle colonne
de Il Giornale fondato nel 1974 da Indro Montanelli (sino al 1983 si sarebbe
chiamato Il Giornale nuovo). L’universo culturale raccoltosi attorno al
quotidiano montanelliano non ebbe però alcuna traduzione in termini
politico-partitici, tanto che, in occasione di importanti tornate elettorali, il
giornalista toscano invitò pubblicamente a sostenere con il voto la DC in
omaggio alla sua tradizionale funzione di diga anticomunista68.
Pertanto, lo scenario configuratosi già sul finire degli anni
Quaranta non mutò per la destra italiana fino ai primi anni Novanta.
Soltanto gli sconvolgimenti provocati da una serie impressionante di
fattori concomitanti, tanto a livello nazionale quanto internazionale, tra
66
Ibid., pp. 129-144.
Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, Op.cit., p. 99.
68 Mario Cervi, Gian Galeazzo Biazzi Vergani, I vent’anni del “Giornale” di Montanelli,
p. 62.
67
279
1989 e 1993 posero le basi per una riconfigurazione dell’asse destra-sinistra
nel sistema politico italiano. Iniziò una transizione di culture politiche che,
a distanza di venticinque anni, possiamo dire non essersi conclusa, se non
per esaurimento e svuotamento, attivo e passivo, delle stesse. A destra
senz’altro, ma non meno a sinistra. La corrispondente implosione dei
partiti politici di riferimento per tali culture è tanto causa quanto effetto.
Difficile oggi rinvenire insiemi sufficientemente omogenei e coerenti di
idee e rappresentazioni che uniscono un gruppo sociale dal punto di vista
politico. Estintesi, o quasi, le culture partitiche, intese come «l’elaborazione
valoriale, ideale, progettuale interna ad un singolo partito», viene da
chiedersi cosa resti della cultura politica nazionale, in quanto «insieme di
attitudini, orientamenti e atteggiamenti dei cittadini nei confronti delle
attività politiche intese in senso lato»69.
Anche sotto questo aspetto possiamo trovare conferme alle
ipotesi interpretative suggerite a suo tempo da Serge Berstein. Ad esempio,
se è vero che la cultura politica è un fenomeno evolutivo70, nutrendosi di
storia, subendola e contribuendo a farla, le famiglie o subculture politiche
italiane hanno inevitabilmente risentito della grande frattura provocata dal
secondo Ottantanove. Ne hanno profondamente e drammaticamente
risentito. Così come possiamo constatare quanto anche nel caso italiano si
sia consumata una contaminazione tra le diverse famiglie politiche, a
conferma che nessuna cultura politica è un sistema fisso e un insieme
chiuso71.
Se oggigiorno possiamo parlare della presenza sulla scena
pubblica italiana di modelli di visione del mondo con una comune lettura
del passato, i più coesi e vitali paiono essere l’antipartitismo e l’antipolitica,
originariamente e tradizionalmente fiorenti a destra, ma da circa un
decennio in crescita anche a sinistra72. Siamo nel pieno della stagione dei
populismi, che al momento parrebbero aver fagocitato le tradizionali
subculture politiche svuotatesi di contenuti e di capacità attrattiva con
Marco Valbruzzi, «Cinque tesi sull’assenza di culture partitiche in Italia», p. 147.
Serge Berstein, Op.cit., p. 73.
71 Ibid., p. 75.
72 Roberto Chiarini, Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di
sinistra e il Paese è di destra, p. 18; Marco Tarchi, Italia populista. Dal qualunquismo a
Beppe Grillo, pp. 333-379; Eugenio Capozzi, Storia dell’Italia moderata. Destre, centro,
anti-ideologia, antipolitica nel secondo dopoguerra, pp. 75-78; Marco Revelli, Populismo 2.0,
pp. 120 sgg.
69
70
280
l’esplosione e/o l’implosione, a seconda dei casi, dei partiti della Prima
Repubblica.
Danilo BRESCHI
Università degli Studi Internazionali di Roma
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374
Revue Babel
Collection
Civilisations et sociétés
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XIV. Religions et élections présidentielles de 2016 aux États-Unis
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XV. Le Chili entre le oui et le non : histoire et représentations du
plébiscite de 1988
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