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1 QUINTO FICARI IL MISTERO DELL’AFFRESCO Tracce nascoste di Federico II nella basilica di San Flaviano di Montefiascone 2 3 Copertina Giampaolo Marzetti Redazione e impaginazione Quinto Ficari/Giampaolo Marzetti Copyright © 2018 Quinto Ficari All rights reserved. ISBN: 9781980330356 4 5 La Storia ha due volti: quello ufficiale, mendace, e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi Honoré de Balzac Al mio antenato Quirino Ficari 6 7 INDICE DEL VOLUME Parte prima - La misteriosa sepoltura di San Flaviano 10 Introduzione 12 I La basilica di San Flaviano a Montefiascone 14 II Gli Hohenstaufen a Montefiascone. Il Cardinale Raniero Capocci da Viterbo. La pergamena di Federico II dell'8 settembre 1234 20 III La misteriosa lastra tombale di San Flaviano – La Leggenda di Defuk 26 IV La datazione della lastra tombale 30 V Ancora sulla Leggenda 32 VI Friedrich von Tanne – La dinastia Waldburg 38 L’Arcivescovo di Salisburgo VII La cancellazione del ricordo – Damnatio Memoriae 46 Parte seconda - L’Incontro dei tre vivi e dei tre morti 50 I La fine degli Hohenstaufen 52 II La rivolta del Vespro 56 III L’immagine di Federico II di Svevia 58 IV L’Incontro dei tre vivi e dei tre morti di Melfi 64 Federico II e le donne 70 V Le costituzioni di Melfi – La lotta agli eretici La normalizzazione dell’ordine francescano 74 VI L’Incontro dei tre vivi e dei tre morti in San Flaviano a Montefiascone 80 VII Il Cardinale Gerardo Bianchi da Parma 96 Conclusioni 102 Ringraziamenti 106 8 9 PARTE I LA MISTERIOSA SEPOLTURA DI SAN FLAVIANO 10 Montefiascone – Basilica di San Flaviano - Lastra tombale di Defuk 11 Introduzione Quando si parla di Medioevo occorre tenere presente che quasi sempre le fonti documentali per raccontare gli avvenimenti del passato sono in gran parte andate perse. Spesso le ricostruzioni di fatti relativi a questo periodo storico sono state elaborate in numerose circostanze con una disponibilità parziale dei documenti, e molte conclusioni sono espressione di una conoscenza limitata delle carte, tanto che in numerosi casi non sempre si può parlare di certezze assolute nella ricostruzione storica, anzi, semmai è vero il contrario. Questa premessa è necessaria per comprendere come nasce e si sviluppa questo lavoro di ricerca, supportato da materiale inedito, in cui ho umilmente cercato di proporre differenti chiavi di lettura per situazioni date per scontate ma che in realtà, come cercherò di dimostrare, non lo erano. Detto questo, entriamo in argomento. A proposito di Medioevo, è doverosa un’altra considerazione: non è possibile documentare la storia d’Europa senza raccontare quella dei papi, e, di conseguenza, non è nemmeno pensabile raccontare la storia dei papi se non teniamo presente quello che succedeva a un centinaio di chilometri a nord di Roma, in quella porzione del Territorio di San Pietro, che semplificando corrisponde più o meno a quello dell’attuale Tuscia viterbese 1, i cui confini non erano ben definiti in quanto cambiavano continuamente a seconda delle momentanee, e volubili, convenienze politiche di chi li reggeva. In questo territorio prosperavano centri come Viterbo e Montefiascone, terminale quest’ultimo di tutte le vie di comunicazione che dal nord conducevano alla città eterna, circostanza che rendeva il colle falisco strategicamente e politicamente molto importante. Come Viterbo, anche Montefiascone era sede papale, ed era defilato rispetto agli interessi e agli appetiti imprevedibili della Curia romana 2quanto bastava per poter avere vita propria. Da: Atlas sive Cosmographicae meditationes de fabrica mvndi et fabricati figvra. Dvisbvrgi Clivorvm 1595. 1 Era chiamata Tuscia tutta la regione a nord del Tevere. Il territorio della Tuscia, quindi, corrispondeva non solo all’attuale Toscana, ma anche all’alto Lazio e a parte dell’Umbria. 2 Fabrizio Vanni La presenza dell’ordine dei Cavalieri Teutonici a Montefiascone e nel viterbese. Atti dal convegno di Studi promosso dal Centro Studi Romei, dal titolo Montefiascone città del 100° Km, punto di incontro e saldatura tra la via Francigena e la Via Teutonica. Montefiascone 18/05/2014. 12 Montefiascone, attualmente una piacevole località che vive di agricoltura e di turismo, circondata da un territorio di una bellezza mozzafiato dove si producono vino e olio di qualità, sicuramente uno dei posti più belli dell’Italia centrale, in epoca medievale era regolarmente frequentato da personaggi che facevano la Storia: Papi, Imperatori, Santi, Predicatori, Condottieri, Guelfi e Ghibellini 3. Dentro le mura di Montefiascone prosperavano conventi francescani, agostiniani e domenicani, luoghi dove si producevano e si conservavano documenti, circostanza testimoniata dalle numerose Croniche che ci indicano che in un modo o nell’altro a Montefiascone prima o poi sono passati e hanno lasciato le loro tracce tutti i potenti di turno. Se però osserviamo con un minimo di malizia i documenti e le conseguenti analisi storiche giunte fino a noi, non possiamo non notare che in questa lista di personalità pochissime notizie riguardano gli Hohenstaufen, la famiglia imperiale sveva. Se approfondiamo, scopriamo che gli Hohenstaufen, e non poteva essere altrimenti, hanno invece decisamente lasciato il segno anche nella Tuscia, tanto che è difficile non ipotizzare che, per quanto riguarda Montefiascone, le omissioni e le latitanze delle cronache non siano state in qualche maniera incoraggiate dall’alto, e probabilmente è arrivato il momento di riconsiderare, e, dove necessario, riscrivere, una porzione della storia di quel periodo. Ma andiamo per gradi e cominciamo a fare la conoscenza con il luogo dove si sono svolti i fatti che andremo ad analizzare: la basilica di San Flaviano. Basilica di San Flaviano Montefiascone. Illustrazione tratta da: A days near Rome di A.J.C. Hare London, 1875 3 Dopo la morte dell’imperatore Enrico V nel 1125 l’impero venne conteso tra diversi pretendenti. Si disse ghibellino il partito dei sostenitori della casa Hohenstaufen, duchi di Svevia e signori del castello di Wibelling, in Franconia, ostili alla supremazia papale, in contrapposizione al partito dei guelfi, guidato dai duchi di Baviera, eredi di Guelfo (1070-1101), più inclini ad un accordo con i pontefici. A. Barbero/C. Frugoni Dizionario del Medioevo - pag140- Economica Laterza 2001 13 CAPITOLO I La basilica di San Flaviano a Montefiascone È necessaria una visione ambientale abbastanza ampia per inquadrare un argomento in cui mancano assolutamente dati precisi e risolutivi fino ad una epoca storica relativamente recente, ma di cui abbiamo notizie e tradizioni molto antiche. Sia detto comunque, una volta per tutte, che le verifica della tradizione non potrà essere valida se parte da due atteggiamenti opposti cui spesso ci si abbandona: fideistici o fantasiosi o scettici e puntigliosi. Noi quindi nel difficile tentativo di raccogliere e valutare gli elementi, tenteremo di esporli tutti affinché possano essere ulteriormente giudicati ed integrati. Con questa premessa gli autori del volume La basilica santuario di San Flaviano a Montefiascone 4 introducono l’analisi storica su quello che è sicuramente il più importante monumento di Montefiascone. Come già accennato, bellezza architettonica a parte, grazie alla sua posizione, San Flaviano era una delle chiese più importanti nel tragitto della via francigena, in quanto costituiva il terminale ultimo di tutte le vie di comunicazione che dal nord conducevano a Roma. Le sue origini sono incerte: la chiesa viene citata per la prima volta in una bolla papale di Leone IV nell’852 indirizzata al vescovo di Tuscania Virobono e intitolata allora alla Vergine Maria. Nello stesso documento si cita la presenza nell’edificio delle reliquie di San Flaviano. Il nome del martire segnò anche la toponomastica del luogo, come dimostra l’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, che cita Sancti Flaviane come tappa del suo percorso della via Francigena. Nel 1118, all’interno di un diploma imperiale di Enrico V, si parla dell’edificio come consacrato a Santa Maria. La prima volta in cui è citata senza alcun equivoco l’intitolazione a San Flaviano risale al 1263, in un carteggio di papa Urbano IV. 5 La singolarità di questa imponente costruzione, nella cui struttura sono evidenti sia l’impronta romanica che quella gotica, è data dalla sovrapposizione di un matroneo a forma rettangolare: si hanno due piani e due entrate, una rivolta ad est (quella inferiore), e l’altra ad ovest. Basilica di San Flaviano: a sinistra ingresso chiesa inferiore, a destra ingresso chiesa superiore Non occorre essere esperti d’arte per comprendere che la basilica di San Flaviano è sicuramente un luogo non comune, e, senza togliere niente al fascino che indubbiamente ha anche la chiesa superiore, è soprattutto la visita della chiesa inferiore, ricca di affreschi di varie epoche e di colonne decorate con dei capitelli romanici di grande pregio, ad emozionare il visitatore. E qui mi fermo, dal momento che per descrivere adeguatamente questo vero e proprio gioiello architettonico occorrerebbero un volume a parte 6 e delle competenze che non mi appartengono. 4 C. Capuani-E. Genovesi, La basilica santuario di San Flaviano a Montefiascone, C.I.C., Montefiascone, Graffietti 1984 Marco Gammanossi, Il San Flaviano: espressione architettonica degli orizzonti culturali di Montefiascone, Atti dal convegno di Studi promosso dal Centro Studi Romei, dal titolo Montefiascone città del 100° Km, punto di incontro e saldatura tra la via Francigena e la Via Teutonica. Montefiascone 18/05/2004. 5 6 Per chi volesse approfondire: Vitaliano Tiberia: La basilica di San Flaviano a Montefiascone Ediart, Todi,1987 14 In questa sede è interessante sottolineare il contesto storico e alcune conclusioni che lo riguardano. Andiamo a vedere… Nel 1985 la prestigiosa rivista annuale Quellen und Forschungen, edita dall’Istituto Germanico di Roma, specializzata nello studio e l’approfondimento di pagine storiche che riguardano la Germania e l’Italia dal medio evo fino ai giorni nostri, considerata dagli addetti ai lavori una fonte di assoluto prestigio per la sua tradizione di affidabilità, ha dedicato un editoriale al volume del Fondo Garampi 7 dell’Archivio Segreto Vaticano in cui si dimostra che un diploma del 1185 emanato da Federico Barbarossa a favore di Montefiascone, per vari motivi ritenuto un falso, sia stato invece autentico, e che effettivamente Montefiascone era la sede di un castellano imperiale, nonché il capoluogo amministrativo più a sud del regno degli Svevi nell’Italia centrale. 8 Appare evidente che il possesso di Montefiascone sembra aver avuto un ruolo chiave nella lunga controversia fra impero e papato per imporre il proprio dominio sul territorio facente parte del Patrimonium beati Petri. Il documento evidenzia che Enrico VI usava il castello imperiale di Montefiascone 9 come sua residenza preferita quando gravitava in zona. L’esistenza di una fortificazione importante nei pressi di San Flaviano, eventualità sino ad ora negata o comunque ritenuta improbabile, dovrebbe invece essere ragionevolmente presa in considerazione per diversi motivi, sia per la regolare frequentazione del territorio, ampiamente documentata, della famiglia imperiale sveva, circostanza che presuppone appunto la presenza di una struttura adeguata, sia in virtù del fatto che, essendo stata l’area di San Flaviano crocevia di importanti vie di comunicazione, doveva inevitabilmente essere sottoposta a un controllo militare che non poteva essere esercitato in assenza di una fortezza armata. Se aggiungiamo che l’attuale Rocca dei Papi, posizionata nella parte più alta di Montefiascone, cominciò a prendere le fattezze di una poderosa fortificazione muraria solo dopo l’ascesa al papato di Innocenzo III, successivamente quindi alla morte di Enrico VI, è chiaro che è nel perimetro del Borgo San Flaviano che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. Una ulteriore conferma dell’esistenza di più di una importante fortificazione a Montefiascone ci viene fornita nel testo Storia di papa Innocenzo III e i suoi contemporanei, in cui si riporta, riferito al 1197, di un sistema di fortezze militari di cui Montefiascone era il punto principale, concetto ribadito anche dal Sansovino 10 in un testo dove si parla dell’assegnazione ai Marchesi del Monte di Santa Maria da parte di Federico I Barbarossa della giurisdizione di tutti i castelli e le fortezze di Monte Fiascone. 7 Garampi, Giuseppe - Cardinale, storico e numismatico (Rimini 1725 - Roma 1792); prefetto dell'Archivio Vaticano (1751), cardinale (1785), fu inviato diplomatico in Germania e nunzio in Polonia e a Vienna. Pubblicò le Memorie ecclesiastiche della beata Chiara da Rimini (1755). Scrisse poi di numismatica (Saggio sul valore delle antiche monete pontificie, 1766). Per la preparazione di una monumentale storia dei vescovati di tutto il mondo cattolico, mai compiuta, raccolse un vasto schedario in 124 volumi dei fondi documentari dell'Archivio Vaticano, di cui ancora oggi esso costituisce l'indice più completo. La sua biblioteca privata fu spartita fra la Vaticana e la Gambalunghiana di Rimini; carte e lettere sono conservate all'Archivio Vaticano - Enciclopedia Treccani 8 Nell'agosto dell'anno 1185 l'imperatore Federico Barbarossa emanò un diploma a favore di Montefiascone, il cui originale poi andò perduto ed oggi, studi più recenti, lo considerano come un falso dell'epoca moderna. Nel volume 198 del Fondo Garampi nell'Archivio Segreto Vaticano, tuttavia si è ritrovata una copia scritta dal Cardinal Garampi stesso, sulla base di un'altra copia del 13° secolo, legalmente autenticata, anch'essa andata perduta, stando alla quale il diploma è senza dubbio autentico. Inoltre sempre nell'Archivio si trova ancora la copia di un diploma dell'imperatore Ottone IV, del settembre 1210 (ed anche qui si è perduto l'originale), che ripete complessivamente il testo del diploma del Barbarossa secondo l'originale, ed allo stesso tempo tramanda una parte di un documento altrimenti del tutto sconosciuto, che Enrico VI emanò per Montefiascone. I diplomi dimostrano che Montefiascone era la sede di un castellano imperiale e il capoluogo del distretto amministrativo più a sud del regno degli Svevi nell'Italia centrale, nella regione Vallis Lacus tutt'intorno al Lago di Bolsena. Apparentemente il possesso di Montefiascone sembra aver avuto un ruolo chiave nella lunga controversia fra l'Impero ed i papi per avere il dominio su questo territorio facente parte del Patrimonium beati Petri - Quellen und Forschungen 15/1985 9 Böhmer/Baaken, Regesta Imperii IV nr. 556-566 Heinrich VI. Verbrachte fast die ganze 2. Oktoberhälfte des Jahres 1196 im kaiserlichen Palast in Montefiascone P. Csendes, Die Kanzlei Kaiser Heinrichs VI. (österreichische Akademie der Wissenschaften. Philos, hist. Kl. Denkschriften 151) 10 F.Hurter Storia di papa Innocenzo III e de' suoi contemporanei - Hetruriam praesidio munivit –Aen. Sylv. Ep. - II pag. 68 Milano Arzione 1857 – Francesco Sansovino – Della origine e dei fatti delle famiglie illustri d’Italia Libro primo. – Presso Altobello Salicato – Venezia - 1582 15 Francesco Sansovino – Della origine e dei fatti delle famiglie illustri d’Italia. Libro primo. – Presso Altobello Salicato – Venezia- 1582 16 Nel 1972 lo storico tedesco Wernar Goetz, titolare di storia medioevale presso l’Università di Erlangen, reputato essere uno dei più competenti studiosi tedeschi sulle vicende storiche italiane, nel suo libro Da Pavia a Roma attraverso Lucca, San Gimignano, Siena, Viterbo, 11 definisce San Flaviano una delle chiese più straordinarie d'Italia, in quanto unica nel suo genere, le cui forme architettoniche, attraverso stili di epoche diverse ed idee costruttive di provenienza molteplice, si legano tra loro in una struttura che si può riscontrare soltanto al nord delle Alpi, nelle cappelle dei palatinati imperiali svevi. E ancora: Tuttavia fino ad oggi la storia dell'arte non ha trovato una spiegazione esauriente per queste molte particolarità in San Flaviano. Come si spiega ad esempio che una tale imponente costruzione, da assimilare piuttosto alle cappelle palatine tedesche, si trovi qui a nord del Patrimonio di San Pietro? Evidentemente la chiesa eretta sulla Francigena al di sotto di Montefiascone, non era altro che la cappella dell'importante fortilizio dallo stesso nome, di cui dalla storia ci giungono numerose citazioni. Questa tesi, che presuppone l’esistenza di una imponente fortezza a ridosso di San Flaviano, venne ripresa nel giugno del 2000 da Renato Busic sulla rivista Biblioteca e Società, 12 in un articolo a cui fece seguito una vivace polemica. Molte conclusioni dello storico tedesco furono contestate, 13in quanto si sottolineavano errori ed inesattezze nelle citazioni delle fonti. Del materiale prodotto da Wernar Goetz venne riconosciuto attendibile, seppure con qualche distinguo, soltanto un documento del 1074 relativo all’incontro tra papa Gregorio VII, la Contessa Beatrice e sua figlia Matilde di Canossa, nel quale si citava un ad castrum Sancti Flaviani. Per il resto le conclusioni dello storico tedesco vennero rigettate in blocco. In particolare, la circostanza secondo la quale nell’ottobre del 1197 Filippo di Svevia sarebbe stato raggiunto dalla notizia della morte del fratello, l’imperatore Enrico VI, proprio mentre si trovava nel castello di San Flaviano, viene definita inverosimile, poiché, esattamente dieci anni prima, il borgo di San Flaviano era stato incendiato e distrutto dalle milizie viterbesi guidate da due cardinali inviati da papa Clemente III a riconquistare la Rocca di Montefiascone. Non riuscendo ad espugnare il castello ove era arroccato il Conte Ildebrandino, luogotenente dell’imperatore Federico Barbarossa, le truppe viterbesi avevano rivolto la loro aggressività verso il Borgo San Flaviano, dandolo alle fiamme. Dopo la distruzione del borgo, che non verrà più ricostruito – il Conte si arrese e cedette la Rocca ai cardinali vincitori. E ancora 14- Così Nicola della Tuccia perpetua l’avvenimento: Poi viterbesi, per favoreggiare dui cardinali, ruppero il conte Aldobtrandino, e lo cacciorno sino a Montefiascone, e arsero il borgo di San Fiviano: e il detto Conte per paura di Viterbesi si rese libero lui e la roba sua, e dettero a Montefiascone, e la rocca a detti cardinali: e i viterbesi tornorno a Viterbo. Per la qual vittoria il papa donò al leone, che era l’arme del Comune, la bandiera con le chiavi. Effettivamente, la tesi di Wernar Goetz verrebbe smentita in quanto alcune sue affermazioni non trovano riscontro documentale. Senza voler a mia volta alimentare sterili polemiche, farei un passo indietro e ritornerei alla considerazione dell’introduzione: parlare di Medio Evo significa affrontare un periodo storico dove i documenti spesso latitano o si contraddicono tra loro e sovente si traggono conclusioni basandosi su punti di vista parziali frutto di una conoscenza parziale dei fatti. Dove voglio arrivare: anche il documento riportato come prova decisiva per smentire le conclusioni di Wernar Goetz non è attendibile, come si può dedurre da uno studio di Francesco Orioli. In una sua pubblicazione, 15 Francesco Orioli cita la cronaca di Niccolò della Tuscia relativa alla distruzione del borgo San Flaviano del 1187 e denuncia una grave imprecisione in un passaggio relativo ad una concessione data dal papa ai viterbesi dopo la vittoria militare a Montefiascone: il privilegio di inserire, accanto al leone presente nel blasone di Viterbo, una bandiera fregiata con quattro chiavi: E qui pure i cronisti sono in errore grave, perocchè la concessione della bandiera pontificia da por sull’arma si ha documento certo essersi fatta nel 1316 da Bernardo di Cuccinaco (Bussi pag. 84), e ancora: il Garampi (Illustrazione di un sigillo della Garfagnana. Roma 1759, pag. 109) dice su questo proposito: Merita di essere specialmente ricordato un diploma che nel 1316 concesse ai viterbesi Bernardo de Cucuiaco (sic) vicario del Patrimonio di san Pietro che originale ho io veduto nell’archivio segreto della città. Questo significa che anche le fonti citate in relazione alla distruzione del borgo nel 1187 non sono attendibili in assoluto. Se poi a quanto sopra aggiungiamo il ritrovamento fortuito, 16 nel 2015, dei resti di una cinta muraria nei pressi di San Flaviano, le cui dimensioni sono coerenti con quelle di una fortificazione, è evidente che l’ipotesi di Wernar Goetz, secondo la quale San Flaviano potrebbe essere stata la cappella di una struttura militare degli svevi, non era poi così avventata. 11 Wernar Goetz Da Pavia a Roma attraverso Lucca, San Gimignano, Siena, Viterbo - Du Mont Monaco di Baviera - 1972 Biblioteca e Società, nr. 1 – 2 a cura della Biblioteca consortile di Viterbo - 2000 13 G.Breccola San Flaviano a Montefiascone. Cappella della fortezza imperiale sveva? Biblioteca e Società a cura della Biblioteca Consortile di Viterbo nr. 3-4 settembre /dicembre 2000 14 Ignazio Ciampi - Cronache e Statuti della Città di Viterbo, Firenze, 1872, pag. 9: 15 Francesco Orioli Il florilegio viterbese, ossia notizie diverse intorno a Viterbo e le sue adiacenze. Roma Tipografia delle belle arti 1885 16 Radiogiornale.info - Montefiascone, uno scavo della Telecom fa riaffiorare antiche mura medievali – 07/12/2015 17 12 Immagini tratte dal Florilegio Viterbese – Roma Tipografia delle belle arti – 1885 18 Archivi nazionali del Ministero della Cultura Francese. Donazione di Federico II, Imperatore e Re dei romani, a Raimondo VII, Conte di Tolosa, del Contado Venassino e varie altre terre. Montefiascone 08/09/1234 19 CAPITOLO II Gli Hohenstaufen a Montefiascone. Il Cardinale Raniero Capocci da Viterbo. La pergamena di Federico II dell'8 settembre 1234. Nel Medio Evo il controllo politico militare di Montefiascone era determinante nel perenne conflitto tra impero e papato in virtù della straordinaria importanza strategica della cittadina. Sin dai tempi di Federico I gli Hohenstaufen tenevano il territorio di Montefiascone in grande considerazione. Anche il figlio del Barbarossa, Enrico VI di Svevia, considerava la fortezza di Montefiascone il sito naturale per governare il territorio circostante. Suo fratello Filippo I, Duca della Tuscia, qui aveva stabilito la sua sede. In seguito alla morte dell'imperatore papa Innocenzo III cercò di assicurarsene il possesso, rallegrandosene quando lo ottenne nel 1198, 17 e affrettandosi a farselo riconoscere dalla corte di Palermo 18. Nel 1203 Innocenzo III inviò a Montefiascone come castellano un suo parente, dichiarando, nella lettera di nomina, la posizione eminente che aveva nel governo papale della Tuscia. 19 Lo storico tedesco Wernar Goetz, titolare di storia medievale presso l'Università di Erlagen (Norimberga), considerato uno dei maggiori esperti tedeschi di storia italiana medievale, nella sua pubblicazione: Da Pavia a Roma attraverso Lucca, San Gimignano, Siena, Viterbo 20 ipotizza che San Flaviano in Montefiascone sia stata la cappella di una fortezza sveva. Questa ipotesi, inizialmente contestata e non presa in considerazione, 21 sarebbe però coerente con quanto riscontrato e pubblicato qualche anno dopo dalla rivista Quellen und Forschungen, prestigiosa ed autorevolissima pubblicazione annuale edita a cura dell'Istituto Germanico di Roma, specializzata nello studio e l’approfondimento di pagine storiche che riguardano la Germania e l'Italia dal Medio Evo fino ai giorni nostri. In un editoriale riguardo il volume 198 del fondo Garampi dell'Archivio Segreto Vaticano, si dimostra, documenti alla mano, che un diploma del 1185 emanato a favore di Montefiascone da Federico Barbarossa, per vari motivi ritenuto un falso, era invece sicuramente autentico, e che Montefiascone era effettivamente la sede di un castellano imperiale, nonché il capoluogo del distretto amministrativo più a sud del regno degli svevi nell’Italia centrale 22. Detto questo, è abbastanza evidente che le testimonianze documentali su questa porzione di Medio Evo relative al dominio degli svevi a Montefiascone risultano spesso annacquate. Considerato che questa sorta di amnesia riguarda addirittura la presenza fisica 23 del personaggio sicuramente più carismatico non solo della famiglia sveva, ma dell'intera storiografia medievale, l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II Hohenstaufen di Svevia, è legittimo sospettare che anche a Montefiascone si sia esercitata nei confronti dello Stupor Mundi e di tutti i suoi collaterali, per cancellarne e ridimensionarne il ricordo, quella spietata pratica di manipolazione e decontestualizzazione della memoria storica nota come Damnatio Memoriae. Alla morte dell'imperatore, nel 1250, papa Innocenzo IV festeggiò l’evento con parole di giubilo, in una lettera piena di commenti sprezzanti nei confronti dell’imperatore, indirizzata al clero e al popolo del regno di Sicilia 24. In questo contesto altri, come Giovanni Villani, 25 raccontarono che ad uccidere Federico II non fu la malattia, ma l’ambizioso figlio Manfredi. Diffondere la notizia della morte per mano del proprio figlio era evidentemente considerato un contrappasso. 17 Dal testamento di EnricoVI: Et insuper ordinamus et volumus, ut tota terra de Ponte Payle cum Monte Fortino libere dimittatur domino papae usque ad Ceperarum et quod Romana ecclesia habeat Montem Flasconem cum omnibus pertinentiis suis Von Fritz Gerlich - dr. Phil. Berlin Verlag von Emil Ebering Historichen Studien – Das Testament Heinrich VI Versuch einer Widerlegung (1907) 18 Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Fridirici Secundi. Tomus I (P.L. N 1852) 19 A. Maccarone, Studi su Innocenzo III (Ed. Antinore, 1972 - P.L. Regesta INN. III, I, 54) 20 Da Pavia a Roma attraverso Lucca, San Gimignano, Siena, Viterbo Du Mont, Monaco di Baviera, 1972 21 Biblioteca e Società, vol. XL, G. Breccola, San Flaviano cappella di una fortezza sveva? Viterbo, settembre, 2000 22 Quellen und Forschungen, a cura dell’Istituto Germanico di Roma, 65/1985 23 Anche se la presenza dell’imperatore a Montefiascone è documentata anche nel 1239 - 1240 per esigenze militari durante gli scontri con i viterbesi Pieri L. Buti Storia di Montefiascone pag 94 – 95 Leonardi 1870 24 Il cielo giubili, e la terra faccia festa: il fulmine e la bufera con cui l’Onnipotente così a lungo vi ha minacciato si sono trasformati attraverso la morte di quest’uomo in zeffiro ristoratore e rugiada feconda. Epistolae saeculi XIII, III, nr 32, pg. 24 25 Disiderando d’avere il tesoro di Federigo suo padre, e la signoria del regno e di Cicilia, e termendo di quella malatia non iscampasse o facesse testamento, concordandosi col suo segreto ciamberlano, promettendogli molti doni e signoria, con uno pimaccio che a Federigo pose il detto Manfredi in su la bocca, si ll’afogò. Giovanni Villani, Nuova Cronica, I, cap. VI, 41, pp. 331-332, Giunti 1559 20 Enrico VI di Svevia dal castello di Montefiascone Enrico VI Hohenstaufen di Svevia Enrico VI Pergamena di un privilegio. Vethoso notaio vescovado di Pistoia. Appresso Montefiasconi, 28 ottobre 1196 Reg tomo15 carta 180 Alla morte di Federico II, la propaganda papale, attaverso varie croniche, tra cui quella ad opera di Salimbene da Parma, cercherà di screditare la figura di Manfredi attribuendogli l'uccisione del padre prima con un tentativo di avvelenamento con l'arsenico, poi, visto che non riusciva in questa maniera, soffocandolo con un cuscino ( come da illustrazione tratta dalla Cronica del Villani 1537), ipotesi ripresa e diffusa in vari testi, come questo: Nucleus historiae Germanicae origines, incrementa a imminutionem Germani Imperii per singulorum Caesarum historiam ad praesens aevum per compendium exhiben 21 L’antico avversario era morto, ma non poteva essere perdonato. Guai a chi osava mettersi contro la Chiesa ed il papa. Gli ultimi anni di vita di Federico II dovettero essere molto difficili, tra sconfitte militari, scomuniche papali e defezioni di comuni tradizionalmente a lui fedeli. L’ipotesi che ci possa essere stata una particolare ferocia nel tentativo di cancellare la memoria storica degli Staufen nella Tuscia prende ulteriormente consistenza considerato che uno dei più spietati avversari dell'imperatore fu un viterbese, il Cardinale Raniero Capocci, con cui Federico II ebbe a che fare sia sul piano militare che su quello dottrinale. Le doti di stratega del cardinale furono determinanti nella sconfitta che i viterbesi inflissero alle truppe dell'imperatore del 1243, (evento che segnò probabilmente l'inizio della fine per le sorti di Federico II), e non meno feroce 26 Raniero Capocci fu per quanto riguarda l’utilizzo della propaganda: strettissimo collaboratore di Gregorio IX, sicuramente influenzò la stesura del testo della bolla di scomunica del 1239 e del successivo manifesto pubblicato subito dopo. 27 In seguito all'elezione di Innocenzo IV, il cardinale convinse anche il nuovo papa, che inizialmente voleva perseguire una politica di pacificazione, ad adottare la sua intransigente linea politica nei confronti di Federico II. Capocci promosse, attraverso la diffusione di due libelli intitolati Aspidis ova e Iuxta vaticinium Isaie 28, un’accanita propaganda contro l’imperatore, con lo scopo di far fallire ogni possibilità di compromesso. I suoi testi, incentrati sul profetismo escatologico, sfruttavano la diffusa paura dell’imminente fine del mondo (che alcuni interpreti di Gioacchino da Fiore 29 avevano collocato nel 1260), ed erano di una durezza inaudita: Se il papa (Gregorio IX) era stato il primo a inserire Federico II in una cornice apocalittica, gli scritti di Ranieri da Viterbo, zeppi di ogni orrore profetico-apocalittico, dimostrano che lo Staufen era davvero il precursore dell’Anticristo. 30 Anche la propaganda antipapale di Federico II non era da meno 31: di Gregorio IX fu redatto un vero e proprio registro farsesco con la descrizione dei suoi vizi, fino a sostenere che le sue affermazioni di supremazia altro non erano che la conseguenza di deliri etilici, con il pontefice descritto a straparlare sotto l’effetto dei fumi dell’alcol. Le cose non erano però sempre andate 26 Nel novembre 1243 Viterbo insorse contro gli imperiali che la governavano. I viterbesi obbligarono la guarnigione e il vicario imperiale, Simeone conte di Chieti, a rinchiudersi nella rocca di S. Lorenzo, e fecero entrare in città il cardinale Capocci, che aveva coordinato e deciso l’operazione. Gli insorti rinnovarono la fedeltà a papa Innocenzo IV e, cosa nuova, pur di andare contro l’imperatore si allearono anche con il loro nemico di sempre, cioè il comune di Roma. La notizia dei fatti di Viterbo raggiunse Federico II a Melfi. L’imperatore radunò l’esercito e si precipitò sulla città. Ma i viterbesi si erano attestati saldamente, cosicché l’assalto, al quale prese parte l’imperatore in persona, non riuscì. Allora la città fu posta sotto assedio, ma accadde che le pesanti torri mobili si incendiassero. Il papa, considerando che la questione di Viterbo gli sfuggiva di mano e avrebbe potuto far deflagrare la guerra, inviò come legato il cardinale Ottone di S. Nicola in Carcere, il quale convinse i viterbesi a sottoscrivere la pace. Ma subito dopo avere liberato la guarnigione imperiale, che aveva caparbiamente tenuto la rocca, i viterbesi, si disse incitati dal Cardinale Capocci, piombarono sui soldati e li massacrarono. Tommaso di Carpegna Falconieri - Federiciana Treccani - 2005 27 Tommaso di Carpegna Falconieri, Federiciana, Treccani, 2005 28 Secondo il vaticinio di Isaia. Federico viene definito principe della tirannia, distruttore del dogma e del culto della Chiesa, sovvertitore della fede, maestro delle crudeltà, turbatore del mondo, distruttore dell’orbe e martello di tutta la terra. 29 Gioacchino da Fiore 1130-1202 è stato un monaco e scrittore, attualmente venerato come beato dalla Chiesa Cattolica. A 18 anni divenne monaco cistercense. Nel 1177 venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò a tale incarico undici anni più tardi per fondare sulla Sila il convento di San Giovanni in Fiore e l’ordine dei florensi, che riceveranno l’approvazione di Papa Celestino III il 25 agosto del 1196. Esortato molto tempo prima da Papa Lucio III a mettere per iscritto la sua rigida e severa regola, egli lo fece a partire dal 1182 con Concordia Novi ac Veteris Testamenti, a cui fecero seguito tra le altre Tractatus in quattuor Evangelia, Expositio in Apocalypsim e Adversus Iudaeos. Partendo dal dogma della santissima Trinità, Gioacchino divise nelle sue opera la storia dell’uomo in tre epoche fondamentali. Età del Padre: corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento; Età del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù fino al 1260; Età dello Spirito Santo: dal 1260 in avanti, ovvero quel periodo in cui l’umanità, attraverso un clima di purezza e libertà, avrebbe avuto un contatto diretto con Dio. I suoi studi sull’escatologia gli diedero molti seguaci, chiamati gioachimiti, come Gherardo Segarelli e il francescano Salimbene de Adam (che dopo l’iniziale adesione prese nettamente le distanze dal gioachimismo), ma anche alcuni problemi con la Chiesa, nel 1215, qualche anno dopo la sua morte, il concilio Lateranense IV dichiarò eretiche alcune tesi gioachimite attorno alla Trinità a lui falsamente attribuite. Gioacchino morì nell’antica chiesa/grancia di San Martino di Giove presso Canale nel comune di Pietrafitta il 30 marzo 1202. Il 30 marzo è il giorno della sua memoria liturgica. Il papa Onorio III, in due bolle (1216 e 1221) dichiarò che Gioacchino è da ritenere uomo cattolico 30 E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti, 1976, p.591 Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica, V, pp. 310-311 …e dopo che il tuo ingordo ventre e il tuo stomaco si sono riempiti di vino sino al limite, allora credi di sedere sulle ali dei venti; allora ti è sottomesso l’impero; allora i re della terra ti portano doni; allora il vino ti porta mirabili eserciti; allora ti servono tutte le nazioni e tutte le genti. ed. Jean-Louis-Alphonse - 1817-1871 22 31 così, anzi... Il giudizio del Capocci nei confronti di Federico II fu nei primi anni molto positivo: come Gregorio IX, anche il cardinale giunse a definire la maestà soprannaturale dell’imperatore e il suo carattere angelico, che lo elevava al rango di un secondo cherubino in segno della somiglianza con il Figlio unigenito. A questo punto ritorniamo alle vicende di Montefiascone: nel 1234, il senato romano capeggiato dal potente nipote di Onorio III, Luca Savelli, dichiarò che il patriomonium di San Pietro apparteneva alla città di Roma. Papa Gregorio IX fu costretto ad allontanarsi, non prima di emettere un anatema nei confronti del senatore, ottenendo però l'effetto di inferocire ancora di più i romani. A questo punto Gregorio IX affidò al cardinale Raniero Capocci la defensio patrimoni beati Petri, e chiese aiuto ai sovrani cattolici d'Europa. In questo frangente anche Federico II portò soccorso al papa, che ricambiò il favore scomunicandogli il figlio, Enrico VII di Germania, che si era alleato con i comuni della Lega Lombarda contro il padre, permettendo così all'imperatore di agire contro di lui e contro i principi tedeschi che si erano ribellati sotto la guida del figlio dello Staufen. 32 Le truppe pontificie di stanza a Rieti si ricongiunsero con quelle imperiali ed in pochi mesi ottennero una vittoria definitiva, (battaglia di Viterbo, 8/10/1234), infliggendo ai romani pesanti perdite. Federico II, nel frattempo aveva stabilito il proprio quartier generale a Montefiascone. 33 In questo periodo di permanenza sul colle falisco (Agosto-Settembre 1234), l'imperatore, che tra l'altro pare si cimentasse spesso nella caccia con il falcone, emise diversi atti amministrativi di una certa importanza, la cui eleganza formale fa ritenere che a Montefiascone sicuramente operasse la cancelleria imperiale al completo. 34 Con uno di questi atti in particolare, in data 8 settembre 1234, Montefiascone fu il palcoscenico di un evento di rilevanza storica assoluta, in quanto con questo documento Federico II ridimensionava 35 il valore di precedenti atti stipulati dal papa con il re di Francia in seguito alle conseguenze della Crociata Albigese 36 contro il Catarismo. 37 Si tratta della donazione a Raimondo VII Poiters, Conte di Tolosa, del Contado Venassino, 38 nei pressi di Avignone. Questo documento, emesso dalla cancelleria imperiale di stanza a Montefiascone l’8 settembre 1234 e sottoscritto da Federico II è conservato presso gli Archivi Nazionali del Ministero della Cultura francese. Oltre ad essere importantissimo dal punto di vista storico-politico, è probabilmente uno dei documenti meglio conservati a firma dell'imperatore giunti ai giorni nostri, la cui importanza dal punto di vista politico è tale che quanto stabilito verrà ribadito qualche mese dopo con un altro atto speculare emesso ad Hagenau (attualmente in Alsazia, sul territorio francese) nel dicembre 1235. In entrambi i documenti Federico II Hohenstaufen di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Roma, concede a Raimondo VII, Conte di Tolosa, il Contado Venassino e altre terre. Dopo aver emesso il primo documento a Montefiascone, con la conferma in Germania della donazione nei confronti di 32 F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo, (Antonelli e Basadonna, 1874) Niccolò della Tuccia, Cronica, Tomo 1, pag.15 -16 34 N. d. A.: Della cancelleria imperiale di Federico II faceva parte anche un Von Tanne Waldburg, Enrico di Tanne, familiare di Federico di Tanne, il vassallo imperiale di Filippo I Hohenstaufen morto in battaglia a Montefiascone nel 1197 in seguito agli scontri che si scatenarono con il diffondersi della notizia della morte di Enrico VI di Svevia. Cancelleria dell’Impero, Federiciana 2005 35 Cancelleria dell’Impero, Federiciana, 2005 36 La crociata contro i catari (1209-1229) venne bandita da papa Innocenzo III nel 1209 e terminò nel 1229 con la pace di MeauxParis: venne siglata da un lato, per il re Luigi IX di Francia (San Luigi) da sua madre, la regina reggente Bianca di Castiglia e dall'altro da Raimondo VII conte di Tolosa; Raimondo si dichiarò sconfitto e sottomesso. Sua figlia, Giovanna di Tolosa, avrebbe sposato il fratello del re; essendo Giovanna l'erede di Raimondo, questo trattato fu in pratica un accordo per far passare la Contea di Tolosa con gran parte della Linguadoca, nei domini dei Capetingi di Francia. 37 Il catarismo fu un movimento ereticale diffusosi in Europa tra il XII e il XIV secolo. Con il termine catari - puri - sono indicati tutti gli eretici dualisti medievali - albigesi, manichei, bulgari - i quali fondavano il loro credo sul rapporto avverso tra materia e spirito. Secondo questi ultimi Gesù avrebbe avuto solamente in apparenza un corpo mortale e pur accettando la sua divinità, essi credevano che fosse apparso sulla Terra unicamente come angelo dalle sembianze umane. Rifiutando ogni bene materiale, astenendosi dal consumo di carne e uova e non praticando perfino il sesso, i catari accusarono la Chiesa di Roma di essere al servizio di Satana Ecclesia Malignatium, a causa della sua corruzione e dell’attaccamento così ostinato alla materia. L’ideologia catara si insinuò più velocemente nei ceti più umili. Territorialmente essa si diffuse e si radicò nelle regioni del Tolosano, del Lauragais, dell’Albegois e del Carcasses, nonché nell’Italia settentrionale. La Chiesa non tardò a fornire una pronta risposta al crescere esponenziale di questa eresia e già nel terzo Concilio Lateranense del 1179 papa Alessandro III stabilì misure contro il catarismo. Si stabilì che venissero confiscati i loro beni e i principi presenti nei territori macchiati da questa onta, furono invitati a combattere gli eretici, i quali oramai pubblicavano apertamente il loro sdegno contro la Chiesa di Roma e cercavano sempre nuovi seguaci. 33 38 Castrucci, Istoria della città di Avignone e del contado Venesino (Venezia, 1678) G. M. Parascandalo, Sovranità del Papa sulla città di Avignone e Contado Venessino J.S. Maury, Editore Giovanni Zempel, 1791, pag. 28 23 Raimondo VII, Federico II ribadisce simbolicamente l'unità dell'impero ed il suo pieno potere su di esso, nonché la propria supremazia sui sovrani d'occidente, in particolare sul re di Francia, e naturalmente sul papato, sminuendone l'autorità temporale. Entrambi i documenti sono forniti di sigillo d'oro, utilizzati in questo periodo esclusivamente dalla cancelleria imperiale di Federico II. Sigillo d’oro con l’immagine di Federico II Hohenstaufen di Svevia dal diploma di Montefiascone del 08/09/1234 24 Federico I detto il Barbarossa. Alla sua destra il figlio Enrico VI di Svevia, alla sua sinistra il nipote Federico II di Svevia: gli Hohenstaufen (Miniatura dalla Cronaca dei Guelfi XIII sec.) 25 Capitolo III La misteriosa lastra tombale di San Flaviano – La Leggenda di Defuk All’interno della basilica di San Flaviano 39si trova una lapide tombale che raffigura un personaggio dall’identità misteriosa, che la tradizione locale identificherebbe con un vescovo, 40 anche se in realtà tutto lascia pensare che si tratti di un laico. 41 Nel corso dei secoli la lastra tombale è stata sicuramente modificata: dal cuscino sepolcrale sono stati ricavati due calici, inoltre sono stati alterati sia la forma del mantello che il copricapo. Ai lati della testa del personaggio raffigurato nella lastra tombale di San Flaviano sono scolpiti due stemmi simili ma non identici, di cui ci occuperemo dopo 42. A proposito di questa lapide, nel volume: La Basilica Santuario di San Flaviano a Montefiascone (1984 C.I.C.) di E. Genovesi e C. Capuani, gli autori arrivano alla conclusione, ampiamente condivisa, o perlomeno mai messa in discussione fino ad ora, che la tomba non fu subito fregiata della lapide che tutti conoscono. Una prima chiusura fu realizzata con una lastra normale e poi sostituita. Anche secondo lo storico Luigi Pieri Buti 43 la sepoltura originale fu inizialmente collocata ai piedi della seconda colonna a cornu epistolae della navata presso il piano inferiore, per essere poi sostituita con un’altra e trasferita di fronte all’altare maggiore. Arrivati ai giorni nostri, prima della sua attuale collocazione, la lapide tombale venne traslata in uno spazio a destra rispetto all’entrata. Vecchia cartolina con l’immagine della lapide tombale del misterioso personaggio sepolto in San Flaviano 39 Nel febbraio 2018, mentre sto ultimando questo volume, sono iniziati i lavori per riportare la lapide di Defuk dalla terza cappella a sinistra, dove era stata collocata nel novembre del 1983, postazione che per vari motivi si era dimostrata infelice, alla sua posizione precedente, a destra rispetto l’ingresso della chiesa, grazie al determinante intervento del Lions Club Falisco Vulsineo di Montefiascone e al contributo dell’Associazione Estroseidee 40 E’ rappresentata nel bassorilievo, che sovrasta all'epigrafe, l'effigie del defunto con un paludamento a guisa di gramaglia, chiuso con fibula e grossi bottoni, e avente in testa una berretta, in cui alcuni hanno creduto vedere una mitra, il perchè si sparse l'opinione fallace, ch’egli fosse vescovo o abate. Ma oltre chè mancano il bastone vescovile e l’anello, e le altre insegne di quella dignità, la berretta stessa non ha punto la forma di mitra. Non è acuminata, non ha le code; anzi osservandola con artistica diligenza, si vedono le punte di una corona. Ci darebbe giusto motivo di congetturare, che il defunto fosse un regolo, anziché un vescovo o un abate... Giuseppe Cappelletti, Chiese d’Italia, 1846 Antonelli Editore 41 Su questo argomento ancora si dibatte animatamente, con prese di posizione a volte polemiche, a volte in palese contraddizione tra loro. N.d.a. Per approfondimenti: Montefiascone e il suo vino, pag. 19 G. Breccola 2009 Graffietti, L’identità negata - La Loggetta Notiziario di Piansano e della Tuscia – nr. 100, G. Breccola, luglio-settembre 2014, Piansano, Ancora a proposito di Defuk - La Loggetta – Notiziario di Piansano e della Tuscia, nr. 102, Quinto Ficari, gennaio – marzo 2015, Quinto Ficari La Leggenda di Defuk e il mistero di Federico II di Svevia P.d.a. 2013 Graffietti 42 Secondo lo storico locale Marcello Mari anche gli stemmi potrebbero aver subito delle modifiche, anche se solo in maniera limitata – Anno Domini 1111 Deuc (Defuk) pag.61 – Comune di Montefiascone Assessorato alla Cultura – Silvio Pellico 1980 43 Storia di Montefiascone, Luigi Pieri Buti, 1870, Leonardi 26 Analisi storica a parte, la curiosità e l’alone di mistero che circonda da sempre l’identità del personaggio raffigurato sulla lapide di San Flaviano ad un certo punto si arrichisce di un ulteriore ingrediente. Intorno alla seconda metà del XVI secolo, 44 ai piedi della lastra tombale viene aggiunta una lapide supplementare con una epigrafe che, riferendosi alla sepoltura, racconta la storia di un personaggio morto per avere abusato della bontà del moscatello locale, ancora oggi famoso in tutto il mondo: il vino di Montefiascone, il vino Est! Est!! Est!!! La presenza e l’interpretazione di questa iscrizione hanno dato vita, materializzandosi nell’immaginario collettivo, a una leggenda, che unisce la tradizionale propensione vitivinicola del territorio di Montefiascone, caratteristica particolarmente apprezzata da numerosi viaggiatori tedeschi, come testimoniato da numerosi diari di viaggio, ad elementi storici: La Leggenda di Defuk. Della vicenda si contano numerose versioni, 45 tanto che non è esagerato affermare che esiste una vera e propria letteratura sull’argomento. 46 Sostanzialmente l’architettura del racconto è più o meno sempre la stessa. Secondo la leggenda, nell’anno 1111, Enrico V di Germania marciava su Roma per ricevere da Papa Pasquale II la corona di Imperatore. Al suo seguito c’era il Vescovo Johannes Defuk, membro della famiglia dei Fugger di Augusta, ed il suo servitore Martino, 47 che lo precedeva con il compito di scoprire e di segnalargli dove ci fosse del buon vino, di livello superiore alla media. Ogni qual volta Martino avesse trovato del vino degno dell’attenzione dell’esigente palato di Defuk, avrebbe dovuto scrivere, per avvisarlo, la parola EST (c'è). Durante il tragitto, ne trovò in diversi posti; arrivato a Montefiascone, fu talmente impressionato dalla bontà del vino, che, per avvisare adeguatamente il suo signore, segnalò la presenza di tale prelibatezza scrivendo non una, bensì tre volte 48 il segnale est: EST ! EST!! EST!!! Il vescovo Defuk, giunto a Montefiascone e constatato di persona quanto Martino fosse stato nel giusto, fu talmente preso dalla bontà del moscatello che non se ne andò più via, e, tanto ne bevve, che ne morì, non prima però di avere fatto testamento e lasciato alla comunità di Montefiascone tutti i suoi averi, a condizione che ad ogni anniversario della sua morte gli fosse versato sulla tomba quel vino che tanto aveva apprezzato in vita. Correva l'anno 1113. Il fedele servitore Martino, in memoria del suo Signore, fece scolpire, ai piedi del monumento funebre, questo epitaffio: EST EST EST PRT NIU EST HIC IO DEUC D MEUS MORTUUS EST Che tradotto significa: Qui giace il mio signore per il troppo vino EST EST EST. La storiella ebbe grande notorietà, e contribuì a diffondere il nome, la conoscenza e la popolarità di Montefiascone e del suo ottimo vino in tutta Europa, tanto da essere inserita nel 1731 nella prima grande enciclopedia tedesca. 49 Questa popolarità e questa diffusione non dovevano però essere particolarmente gradite in Germania, tanto che due intellettuali 44Lorenz Schrader, nel suo Monumentorum Italiae, diario di un viaggio in Italia compiuto negli anni 1556 – 1559 (anche se il libro fu pubblicato soltanto tre decenni dopo) nel suo racconto parla di Montefiascone, del suo nobile vino moscatello, ed infine racconta la historia de quodam praelato, qui nimia vini ingurgitazione in monte Faliscorum mortuus est, aggiungendo il dettaglio del famoso epitaffio: PROPTER EST EST, DOMINUS MEUS MORTUUS EST. Un altro pellegrino tedesco, Johann Von Hirnheim, venuto a Roma nel 1569, arrivato a Montefiascone annotava sul suo diario di avere sentito la storiella raccontata dalla gente del luogo. Tra la fine del XVI secolo e gli inizi del 1600 anche in altri diari di viaggio si racconta la storiella: Delitiae Italiae di Gaspar Ens, Itinerarium Germaniae, Galliae, Angliae, Italiae di Paul Hentzner, Mercurius Italicus di Johann Heinrich Von Plaufmer. Da questo momento in poi l’episodio viene riportato, spesso arricchito da nuovi particolari, in tutti i diari di viaggio dei numerosi viaggiatori di passaggio a Montefiascone. 45 Nelle numerose versioni del racconto della leggenda il personaggio viene identificato in vari modi: tedesco, olandese, abate, vescovo, barone; e gli vengono attribuiti diversi nomignoli: Deuc , Defuk, Defuch, De Fugger, Fugio, Fugger, Defuck, De Fuk, De Fuc, Touchris, De Toucris, De Touchris, De Foucris, ecc. 46 Il racconto della storia del Vescovo tedesco che aveva sacrificato la propria vita alla bontà del moscatello di Montefiascone è citato nei loro lavori da importanti letterati: H.W. Longfellow, W. Muller, A. Kopisch, G. Casanova, Dumas, D’Annunzio, J.C. Goethe, M. De Cervantes, solo per citarne qualcuno 47 L’attuale appellativo Servo Martino con cui viene indicato il servitore di Defuk appare per la prima volta solo agli inizi del 1900, in una pubblicazione edita da Ariani Apolloni Storia dell’Est! Est!! Est!!! Cit. Anno Domini 1111 Deuc (DEFUK). M. Mari, Comune di Montefiascone Assessorato alla cultura, 2010, pag. 45 48 Nelle prime versioni della leggenda gli EST erano solo due, fino al 1670, quando nel Voyage of Italy di Richard Lassels appare per la prima volta la triplice EST 49 Johan Heinrich Zedler, Grosses Universal – Lexicon 1731 27 tedeschi, Jacob Geysius nel 1680 50 e Gottlob Rothen 51 nel 1690, presero carta e penna e si sentirono in dovere di intervenire sulla materia, cercando entrambi di dimostrare, con una serie di argomentazioni, spesso infarcite di citazioni colte tratte da documenti antichi, come il racconto della morte per ubriachezza del prelato tedesco in quel di Montefiascone fosse ragionevolmente privo di qualsiasi fondamento di verità. Entrambe le dissertazioni, (scritte, rispettivamente, in latino con contributi in tedesco e greco la prima, in tedesco con contributi in latino e greco la seconda), si basano su una tesi di fondo: pur ammettendo che la fama di bevitori del popolo tedesco aveva senz’altro fondamento nella realtà, la storiella non sarebbe stata altro che una macchina del fango, una fake news diremmo oggi, contro la Germania e l’intera nazione tedesca. In ogni caso, seppur polemici nei contenuti, entrambi gli autori, alla fine, non possono fare a meno di sottolineare, forse a parziale giustificazione del loro connazionale, che, con il suo comportamento sconveniente aveva comunque procurato un così grave danno d’immagine alla nazione tedesca, l’eccellenza della produzione enologica del colle falisco. Scrive Geysius: Va aggiunto che, alla propensione al vino, attribuita dagli italici soprattutto alla nazione germanica, la qualità del vino che c’è a Montefiascone, mai da nessuno è stata lodata o sarà lodata in seguito abbastanza… Concetto ribadito anche da Rothen, che sottolinea la circostanza che a Montefiascone si produce il miglior moscatello d'Italia. 52 Il racconto della presenza di una sepoltura con una singolare iscrizione nel Monumentorum Italiae di Lorenz Schrader - 1592 La presunta appartenenza di Defuk alla nobile famiglia tedesca dei Fugger è probabilmente la conseguenza di un errore di trascrizione, 53 ed in ogni caso i Fugger si insediarono ad Augusta solo a partire dal 1367, quindi più di due secoli dopo il presunto arrivo di Defuk a Montefiascone. Inoltre lo stemma della famiglia Fugger non corrisponde in nessun modo a quelli posti sulla lastra tombale di Defuk. Detto questo, se proprio vogliamo trarre delle conclusioni da quanto sopra, a parte l’ennesima conferma del legame secolare tra la cultura del vino e Montefiascone, ci sono almeno due elementi certi in questo racconto: a Montefiascone, nella chiesa di San Flaviano, di fronte all’altare maggiore, in un’epoca imprecisata, è stato sepolto un 50 Jacob Geysius, Fabulam Montefiasconianam disquisitionem historicam, Aldorfi 1680 Gottlob Rothen, Der falsch befundene tod jenes teutschen biscoffs welcher sich zu Montefiascon in Italien soll, 1690 52 Quinto Ficari, La Leggenda di Montefiascone p.d.a 2015 - In questa pubblicazione la traduzione integrale delle dissertazioni di Geysus (dal latino a cura di Elettra De Maria) e di Rothen (dal tedesco a cura di Maruzzella de Paolis) 51 53 F.M. Misson nel 1688- Nouveau Voyage en Italie - interpreta erroneamente il nome Jo De Fuc con Fucris, da cui si trae l’errata conclusione che si tratti di un membro della famiglia Fugger, errore copiato in seguito da tanti altri e sopravvissuto ai giorni nostri – Claus Riessner - Viaggiatori tedeschi a Montefiascone e l’origine della leggenda dell’Est Est Est - 1982 Allegato alla rivista Biblioteca e Società a cura della Biblioteca consorziale di Viterbo. Quaderno n. 7, Anno IV, 31 dicembre 1982, pag. 8 28 personaggio che, per meritare tale privilegio, doveva godere di un certo prestigio, e l’affermazione, seppur consolidata dalla tradizione, che tale personaggio sia stato un membro della nobile famiglia di banchieri di Augusta, i Fugger, è un falso storico. Stabilito questo, rimane da chiarire se oggi, 900 anni dopo i fatti in questione, sia ancora possibile rispondere, o meglio, tentare di rispondere, alla domanda: chi era veramente l’uomo sepolto in San Flaviano, l’uomo la cui immagine è scolpita nella lapide, colui che in seguito alla diffusione di una leggenda, a Montefiascone è noto con l’appellativo di Defuk? E’ evidente che il presupposto principale per tentare di dare delle risposte attendibili è cercare di stabilire con precisione la datazione della lastra tombale. Montefiascone -Basilica di San Flaviano - interno 29 CAPITOLO IV La datazione della lastra tombale A giudicare dalle testimonianze raccolte, la leggenda dell’EST EST EST comincia a diffondersi nella seconda metà del secolo XVI, dopo essersi formata intorno ad un nucleo primitivo costituito da un fatto veramente accaduto in passato. Così Claus Riessner, autore nel 1982 di uno studio sul Defuk 54 a proposito della formazione della leggenda. Poi, a proposito della datazione della lapide: Questa, sia per la sua forma, sia per l'atteggiamento del defunto, non risale oltre un periodo che va dalla fine del secolo XIV alla seconda metà del XV. In particolare, nel tentativo di stabilire la datazione della lapide di Defuk, Claus Riessner prende come riferimento due lastre tombali di due chiese di Roma: la lapide tombale di Crispoldus de Matteo, detto Anima piccola, conservata nella chiesa di S.Bibiana, vicino alla Stazione Termini, datata 1420, ed un’altra lapide tombale raffigurante Egidio dé Corvini, Vescovo di Spoleto, collocata nel chiostro della Basilica di S.Giovanni in Laterano, datata 1403: Arriviamo a questa conclusione dopo aver esaminato numerose lapidi sepolcrali che si possono tuttora vedere in parecchie chiese romane medievali. Notiamo che questo tipo di lastra tombale era diffuso sopratutto nella prima metà del secolo XV. A questo punto, prima di entrare nel merito, vorrei fare qualche considerazione di ordine pratico. Secondo questa ricostruzione, attribuendo alla lapide di Defuk una datazione intorno agli inizi del 1400, le cose dovrebbero essere andate più o meno in questo modo: a Montefiascone è morto un personaggio di una certa importanza, tanto che la sua sepoltura originaria è stata sostituita e poi traslata di fronte l’altare maggiore, posizione decisamente privilegiata riservata a personalità prestigiose, con dei requisiti riconosciuti. Nonostante ciò, considerato che la leggenda si diffonde intorno al 1550, 55 in poco più dello spazio temporale di una generazione, in una piccola comunità come Montefiascone, nessuno ricorda niente a proposito del personaggio sepolto, il suo nome, come è morto, per quale motivo la sua lapide sia stata posizionata di fronte all’altare maggiore… Mi sembra evidente, a rigor di logica, che qualcosa non quadra. La datazione della lapide di Defuk viene stabilita nel 1982 da Claus Riessner in base ad un’analisi comparativa con delle lapidi quattrocentesche, ma, pur ammettendo che ci sono effetivamente elementi stilistici utili ad arrivare a questa conclusione, non è complicato avere altresì a che fare con lastre tombali di periodi antecedenti a quelle prese come metro di paragone ed arrivare credo altrettanto legittimamente ad altre conclusioni. Per dirla tutta similitudini stilistiche rispetto alla lastra tombale di San Flaviano sono certamente maggiormente riscontrabili 54Claus Riessner Viaggiatori tedeschi a Montefiascone e l’origine della leggenda dell’Est Est Est 1982 Allegato alla rivista Biblioteca e Società a cura della Biblioteca consorziale di Viterbo 55 Secondo Joahnn Wolff, che si rifà a non meglio precisati annali, nel volume Lectiones memorabiles et reconditiae di Joahnn Wolf, pubblicato postumo nel 1600, l’episodio oggetto della leggenda sarebbe avvenuto addirittura nel 1503 30 in lapidi del 1200, non solo per l‘atteggiamento generale in cui vengono rappresentati i defunti, ma anche per una serie di altri elementi, a partire dal materiale utilizzato, peperino invece del marmo, e dalla semplicità delle armi araldiche del personaggio sepolto, che più che al 1400 fanno decisamente pensare al 1200. Lastra tombale di Defuk - a sinistra - messa a confronto con lapidi duecentesche Nel riconsiderare la datazione della lapide di Defuk prendendo in considerazione la possibilità che il periodo ipotizzato 1400 - 1420 sia errato, dato sicuramente supportato da elementi evidentemente consistenti, si aprono improvvisamente degli scenari mai considerati in passato per quanto riguarda l’attribuzione di un potenziale nome da assegnare all’uomo sepolto, la cui figura è scolpita sulla lastra tombale. Effettivamente ci sarebbe un importante personaggio, finora trascurato, forse sarebbe meglio dire dimenticato, morto in battaglia a Montefiascone nel 1197. L’episodio della sua morte è riportato da diverse cronache, e di lui non si conosce il luogo di sepoltura: Friedrich Von Tanne. Potrebbe essere lui l’uomo la cui immagine è scolpita nella lapide di San Flaviano a Montefiascone? Andiamo a vedere. L’episodio della morte di Friedrich Von tanne Da Geschichte des furttslichen Hauses Waldburg in Schawaben. Kosel 1888 31 CAPITOLO V Ancora sulla Leggenda Ricapitolando: a partire dalla seconda metà del 1500, nei diari dei numerosi viaggiatori di passaggio a Montefiascone diretti a Roma, emerge un dettaglio decisamente singolare: si comincia a raccontare che nella chiesa di San Flaviano si trova la tomba di colui che è morto per aver bevuto troppo. La diffusione della storiella viene mano a mano arricchita di nuovi particolari, e di volta in volta il personaggio, attualmente noto a Montefiascone come Defuk, viene identificato in vari modi: Vescovo, Vescovo Olandese, Abate, Barone, Conte, Ecclesiastico, ecc. e gli vengono attribuiti diversi nomignoli: Deuc, Defuch, De Fugger. Fugio, Fugger, Defuck, De Fuk, De Fuc, Touchris, De Touchris, De Foucris, ecc. Agli inizi del 1700 il racconto viene arricchito dai dettagli delle disposizioni testamentarie del prelato, che, in cambio di un generoso lascito alla comunità di Montefiascone, prevedevano fosse versato una volta all’anno del vino moscatello sulla sua tomba, consuetudine che, secondo la tradizione consolidata, sarebbe stata fatta cessare dal Cardinale Barbarigo, ma che, sia per quanto riguarda la sua applicazione, che la sua cancellazione, non ha nessun tipo di riscontro documentale, e che quindi è da considerare uno dei tanti ingredienti di fantasia che troviamo dentro il racconto della vicenda del Defuk. In ogni caso non c’è dubbio che la fama di cui godeva Montefiascone in quanto area di produzione di vini di qualità presso i viaggiatori provenienti dal nord Europa sia stata in quel momento il terreno fertile in cui si è potuta materializzare la Leggenda. Secondo Claus Riessner, autore di uno studio approfondito sulla vicenda, 56 la storiella si diffuse dopo essersi formata intorno ad un nucleo primitivo costituito da un fatto veramente accaduto in passato, cioè la morte di un prelato - probabilmente un tedesco - in seguito ad un'abbondante bevuta di vino moscatello. Episodi singolari legati all'uso, o meglio, all'abuso del vino non dovevano essere così rari all'epoca: Lorenz Schrader, tra l'altro nello stesso testo in cui per primo ci parla di una strana iscrizione ai piedi della lastra tombale di Defuk, il Monumentorum Italiae, 57ed un altro scrittore dell'epoca, Nathan Chytraeus, nel suo Variorum in Europa Itinerum 58 (1599) documentano che a Siena, nella chiesa di San Domenico, una persona di buon umore, il nome della quale viene taciuto, possedeva questo epitaffio, oggi sparito: GERMANI CUIUS EPITAPHIUM VINA DEDERE NECI GERMANUM, VINA SEPULCRO FUNDE, SITIM NONDUM FINIIT ATRA DIES 59 Molto interessante, ai fini del nostro racconto, l'approfondimento del Bullettino Senese di Storia Patria, 60 che commentando questo epitaffio ci fornisce delle informazioni che fanno riflettere: Il Pecci (Vescovo di Grosseto e storico del XIV secolo n.d.a.) non conobbe questo monumento, però egli fa menzione nel libro terzo f.155 N.692 di un altro sepolcro di bevitore: Nella scala che dal chiostro porta nella chiesa, si vede un sepolcro dove negli scaloni vi sono due stemmi degli Scotti, famiglia senese, dove, narra il Tizio, (Historiae Senesi al T. 2fol. 160) che vi fosse sepolto uno degli Scotti, che lasciò per testamento, che in tutti i lunedì di ciascuna settimana fosse dal suo erede versato per un forame, che comunicava con l’interno del sepolcro, un fiasco di vino, e ciò dicesi, lo facesse per avere nella sua ultima malattia sofferto la sete. Pietro Nelli (poeta senese 1511-1572 n.d.a.) però nelle sue satire dice che fosse un Tedesco e non degli Scotti... Non vi sembra di avere già sentito questo racconto? Le similitudini con la leggenda di Defuk sono evidenti. Se consideriamo che questa notizia ci viene riportata da Lorenz Schrader, lo stesso viaggiatore che per primo fa la cronaca dell'esistenza dell'epitaffio ai piedi della lapide di San Flaviano a Montefiascone, ecco che abbiamo un ulteriore motivo di riflessione. Ma non è tutto: sempre all'interno del Bullettino Senese ci viene 56 Viaggiatori tedeschi a Montefiascone e l’origine della leggenda dell’Est Est Est – Allegato alla rivista Biblioteca e Società a cura della Biblioteca Consorziale di Viterbo 57 Lorenz Schrader pubblicò il Monumentorum Italiae nel 1592, ma è stato scritto nel periodo 1556 – 1559 – n.d.a. 58 N. Chytraeus - Variorum in Europa Itinerum deliciae – Corvinum 1606 pag 214 59 Il vino ha dato la morte al tedesco. Versa il vino sul sepolcro. La nera notte ancora non ha spento la sete. Monumentorum Italiae libro IV -Fol 95 Lorenz Schrader 1592 60 Bullettino Senese di Storia Patria – Vol 5 - R. Accademia dei Rozzi, Editore Lazzari - 1898 32 fornita un’altra preziosa informazione proveniente dal già citato Nathan Chytraeus: nel suo Variorum Europa itenerorum il Chytraeus fa memoria ancora di un simile epitaffio che si trovava a Santo Spirito a Siena: VINA DABANT VITAM, MORTEM MIHI VINA DEDERE SOBRIUS AURORAM CERNERE NON POTUI OSSA MERUM SITUINT, VINO CONSPERGE SEPULCRUM ET CALICE EPOTO CARE VIATOR ABI. VALETE POTATORE 61 Anche in questo caso le analogie con la leggenda di Defuk mi sembrano evidenti, e a dirla tutta, anche se so benissimo che questa mia affermazione sarà causa di qualche mal di pancia in quel di Montefiascone, perlomeno da quello che ci indicano i documenti che abbiamo a disposizione, sembrerebbe che la tradizione della vicenda di un tedesco morto in seguito ad un eccessivo consumo di vino, il nucleo primitivo costituito da un fatto veramente accaduto in passato, cioè la morte di un prelato - probabilmente un tedesco - in seguito ad una abbondante bevuta di vino moscatello, a cui si riferisce Claus Riessner, abbia le sue origini in quel di Siena, ipotesi che viene ulteriormente rafforzata da testimonianze documentali di diversa origine e di diversi autori, che si incrociano e si confermano tra loro, dove si racconta di sepolture di tedeschi morti in seguito a delle eccessive bevute e che queste sepolture erano soggette a regolari innaffiature periodiche di vino. Questa considerazione naturalmente non toglie niente alla forza della Leggenda di Defuk, che ha reso famosa Montefiascone ed il suo vino in tutta Europa. Resta da capire, volendo fare una analisi storica rigorosa, cosa e come può essere successo. La prima osservazione che viene naturale da fare a questo proposito riguarda la celeberrima iscrizione supplementare con la famosa sigla Est Est Est posta ai piedi della lastra tombale del Defuk, la cui interpretazione, se la valutiamo con la lente della tradizione, apparentemente non lascerebbe adito a dubbi di nessun tipo. Apparentemente... in effetti anche su questo argomento ci sarebbe qualche dubbio. Nel 1915, nel volume 20 della rivista Euphorion, fondata nel 1894 dal filologo austriaco August Sauer, 62 specializzata in storia della letteratura, in un articolo a firma Richard M. Meher, si dibatte sul significato della famosa scritta posta ai piedi della lapide sepolcrale del Defuk, della quale ci viene data una interpretazione inedita, che non avrebbe niente a che fare con la tradizione: Nella chiesa di Montefiascone si trova una lapide con effige ed incisione sopra la tomba di un certo Johannes de Fucris. L’iscrizione presumibilmente dice: Est est est, propter nimium Est hic Jo(hannes) d(e) Fug(ger) d(ominus) meus mortuus est Deetjen 63ha recentemente pubblicato, grazie ad una nota nel Mindener Sonntagsblatt edito dall’amico di Goethe Nikolaus Meher, la vera lettura del rovinato epitaffio. Si presenta piuttosto devota: 61 Vino, dopo esser stato la gioia della mia vita, sei stato la causa della mia morte, e non ho potuto vedere l’alba da sobrio. Le mie ossa sono ancora a secco, quindi, caro viaggiatore, versa del vino sulla mia tomba e bevine una tazza anche tu alla salute della mia anima. Addio bevitore - N. Chytraeus - Variorum in Europa Itinerum deliciae – Corvinum 1606 pag. 214 62 Filologo austriaco, professore di letteratura tedesca presso l’Università di Praga (1855-1926) 63 Germanista ed editore tedesco (1877 – 1939) 33 EST ESTEST. PR IIMIVM EST HIC IO DFVS DI MEVS MORTVS EST Contrazione di: Est, est, est, pater hominum est hinc ideo deus d(ominus) J(esus) mortuus est Questo significa, che qui viene enfaticamente annuncialo che esiste un padre dell’umanità e che Gesù è morto per testimoniare questo. Se diamo credito a questa interpretazione puramente teologica della famosa iscrizione, praticamente dovremmo prendere atto che secoli di tradizione orale si sono basati su un presupposto inesatto, addirittura si potrebbe affermare che si tratterebbe di un clamoroso equivoco, nato non si sa come. L’interpretazione di tipo teologico da parte di intellettuali tedeschi della iscrizione sulla lastra supplementare posta ai piedi della lapide del Defuk, oltre a testimoniare un importante interesse alla questione che evidentemente alimentava il dibattito, non sembrerebbe tra l’altro nemmeno un caso isolato. Nel 1900 sulla rivista di letteratura e filologia tedesca Kleinere Schriften, 64 edita a Berlino da E. Felber, Johannes Bolte 65 si occupa della iscrizione posta ai piedi della lapide di San Flaviano, e anche in questo caso apprendiamo che un altro importante intellettuale tedesco, Hans Ferdinand Massmann, 66 ritiene che sia stata inserita in un secondo momento, e ci fornisce due diverse versioni dell’ interpretazione dell’iscrizione del Defuk, tra cui quella di Karl Wilhelm Gottling 67 che ne fa una lettura rigorosamente teologica. Kleinere Schriften - Johannes Bolte - E. Felber, -Berlino - Johannes Bolte 1900 64 Kleinere Schriften Bd. Zur neueren Litteraturgeschichte, Volkskunde und Wortforschung - Felber – Berlino – 1900 – pag 15 Scrittore, esperto di tradizioni e folklore tedesco (1858 – 1937) 66 Filologo tedesco – (1797 – 1874) E’ stato titolare della cattedra di Letteratura tedesca antica presso l’Università Ludwig Maximilian di Monaco e della cattedra di Filologia Germanica all’Università di Berlino 67 Fu un importante intellettuale tedesco – (1793 – 1869), titolare della cattedra di filologia presso l’università di Jena 34 65 Ecco il testo: Mentre Ramboux 68 vuole tra l’altro riconoscere un Johannes de Fugger alla riga 2 e 3, Gottling interpreta l’iscrizione teologicamente: EST, EST, EST PR IIMIVM EST HIC IO DFVS DI MEVS MORTVS EST che tradotto significa: Si è così, è così, è così. Esiste un Padre dell’umanità e per dimostrare questo, il mio Signore, il divino Gesù, è morto. Ricapitolando: di certo possiamo affermare che dal punto di vista documentale la tradizione che vedeva protagonisti dei personaggi tedeschi morti per ubriachezza e sulla cui lapide era consuetudine versare periodicamente del vino è di origine senese, e che non abbiamo documenti analoghi per quanto riguarda Montefiascone, il che ci fa legittimamente supporre che è a Siena che dobbiamo guardare se vogliamo capire come si sia formata la Leggenda, la cui diffusione sembrerebbe risalire al 1556, 69 anno in cui Lorenz Schrader ne parla nel suo diario di viaggio, il Monumentorum Italiae. A proposito dell’interpretazione della lastra supplementare dove appare la triplice Est abbiamo delle osservazioni da parte di personaggi il cui prestigio ci impone perlomeno di prestare attenzione, secondo cui il significato della iscrizione non avrebbe niente a che fare con la storiella del vino e va invece letta con una accezione puramente teologica, ipotesi supportata oggettivamente anche dal buon senso. Come avrebbe potuto infatti l’autorità religiosa avallare la realizzazione e la messa in posa di una iscrizione tutto sommato ridicola, per di più di fronte all’altare maggiore, all’interno di una chiesa importante come San Flaviano? Ma se le cose non stanno come si è sempre pensato, come si è prima formata e poi diffusa la leggenda? Solo tentare di rispondere a questa domanda è un esercizio sicuramente complicato, ma, visto che ho aperto la parentesi, non posso esimermi dal tentare di dare perlomeno una possibile chiave di lettura. Ci sarebbe effettivamente più di una considerazione da fare riguardo la testimonianza che ci ha lasciato Lorenz Schrader con il suo Monumentorum Italiae, testo nel quale per la prima volta si parla dell’historia de quodam prelato e dell’iscrizione Est Est e dove, nella cronaca del racconto del tragitto di questo viaggiatore, si parla di sepolture di personaggi tedeschi all’interno di chiese a Siena. Alla fine del 1800, lo storico Pompeo Molmenti, 70 a proposito del Monumentorum Italiae, rilevava che Lorenz Schrader aveva incluso tra le epigrafi di Venezia alcuni scherzi di Messer Andrea Calmo, umorista veneziano suo contemporaneo. 71 Questa leggerezza avrebbe causato degli equivoci in quanto diversi studiosi hanno attinto a questo diario di viaggio e comunque, viene fatto notare, questa svista denota il modus operandi di Schrader, che potrebbe essersi affidato a un sentito dire. Detto questo, considerato che abbiamo difficoltà ancora oggi a ricostruire episodi che hanno cambiato la storia contemporanea accaduti solo poche decine di anni fa, mi astengo da ogni tentativo di trarre conclusioni di qualsiasi tipo, che lascio a questo punto a chi ha avuto la pazienza di leggermi fino a qui. Ma allora perchè la 68 Johann Anton Ramboux - (1790 – 1866) Pittore, studioso dell’arte italiana dal duecento al seicento - Treccani Nel 1555, giusto un anno prima che Lorenz Schrader scrivesse della lapide di San Flaviano nel suo diario di viaggio, viene pubblicato da M.Francesco Berni, famoso per i suoi scritti satirici, – Firenze – Giunti - Il secondo libro dell’opere burlesche e di diversi altri autori, una raccolta di episodi a sfondo goliardico tra cui si fa notare – pag. 102 - un Capitolo sopra un viaggio fatto col Procaccio – di Mattio Francesi, poeta toscano (visse a Roma, faceva parte dell’Accademia dei Vignaiuoli e dell’Accademia delle Virtù) dedicato a Ser Benedetto di Barone, in cui si racconta di una spedizione di uomini che da Siena, diretti a Roma, durante le soste si danno da fare con il vino, situazione che naturalmente si ripete anche nella sosta a Montefiascone, di cui si sottolinea la bontà del moscatello, e dove si parla anche di un signore che è stato più volte in Alemagna. Questa raccolta di racconti è sicuramente arrivata anche a Montefiascone, dal momento che uno dei racconti di Mattio Francesi – Capitolo del medesimo suggetto – pag. 85 - è dedicato ad Annibale Caro, che proprio nel 1555 ricevette con bolla papale l’affidamento della Commenda dei SS. Giovanni e Vittore in Selva di Montefiascone 70 Anna Lisa Genovese – La tomba del Divino Raffaello – pag. 91/92 – Gangemi Editore - 2015 71 Scrive Vittorio Rossi nell’introduzione de Le lettere di Messere Andrea Calmo - pag. 103 - E. Loewscher - Torino - 1888: Amena e curiosa è l’avventura toccata a questi sei scherzosi epitaffi del Calmo. Lorenzo Schrader, il primo raccoglitore di iscrizioni veneziane, li inserì infatti nei suoi Monumenta Italiae, credendoli seri e autentici. Fu forse il Calmo stesso, che al tedesco, sceso replicatamente in Italia nel 1557 e nel 1567, diè a credere antichi e scolpiti nella pietra quegli epitaffi, che egli stesso aveva composto e che erano destinati, anziché ad arricchire una erudita collezione di epigrafi, a far ridere i lettori di un libretto di poesie 35 69 lastra tombale di questo misterioso personaggio è stata prima sostituita, poi successivamente spostata davanti l’altare maggiore e poi soggetta a modifiche? Come ho già avuto modo di sottolineare in precedenza, se analizziamo la situazione senza lasciarci condizionare dalle suggestioni della Leggenda, ebbene, emergono diversi elementi altrimenti mai presi in considerazione. La permanenza dell’imperatore Federico II di Svevia a Montefiascone nell’agosto settembre 1234, potrebbe essere stata la circostanza durante la quale, considerata la contemporanea presenza certa sul colle falisco di Enrico di Tanne, di stanza con la cancelleria imperiale, e quella probabile dell’arcivescovo di Salisburgo, entrambi familiari di Federico di Tanne, potrebbe essersi materializzata la sepoltura definitiva. A proposito delle modifiche, a parte quella degli stemmi, ci sarebbe un dettaglio non da poco: il cuscino sepolcrale scolpito sulla lapide dove si appoggiava il personaggio sepolto ha subito delle modifiche, e ai lati della testa sono stati ricavati due calici. La suggestione della leggenda ha fatto sì che queste modifiche, di cui tra l’altro è impossibile stabilire quando furono effettuate, venissero interpretate come strumentali per sottolineare la fama di bevitore del soggetto sepolto, una sorta di certificazione del racconto della vicenda del vescovo beone. Ci sarebbe però anche un'altra chiave di lettura, che credo meriti attenzione: le modifiche alla lastra sepolcrale potrebbero celare un riferimento, neppure tanto velato, a Federico II di Svevia. Vediamo perché: In tedesco antico il termine calice si traduce con Stauf, 72 e la famiglia imperiale sveva, gli Hohenstaufen, veniva indicata, semplificando, con l’appellativo Staufen. E con questa coincidenza direi che cominciamo ad entrare in argomento... Montefiascone – Basilica di San Flaviano – interno chiesa inferiore 72 Staufen: Monte di forma conica. Il nome deriva da Stauf, calice, e si riferisce alla sagoma a calice o a coppa rovesciata. La denominazione Hohenstaufen divenne corrente dal XIV secolo per distinguere il castello di Staufen dal villaggio omonimo che si estendeva ai suoi piedi. – Hansmartin Shawartzmier – Federiciana - Treccani 36 Nel 1555 viene pubblicato Il secondo libro delle opere burlesche di Francesco Berni, una raccolta di racconti satirici e a sfondo goliardico. Tra questi c’è un racconto del poeta toscano Mattio Francesi in cui si parla delle avventure di un gruppo di uomini che dalla toscana deve raggiungere Roma. La cronaca del viaggio comprende la descrizione delle giornate che si concludono la sera nelle osterie delle varie località toccate dalla carovana. Arrivati a Montefiascone il gruppo si sollazza con il moscatello e tra le righe si parla di un gran signore che è stato più volte in Alemagna 37 CAPITOLO VI Friedrich Von Tanne - La dinastia Waldburg – L’Arcivescovo di Salisburgo Nell’ottobre del 1197 Filippo di Svevia, Duca della Tuscia, si trovava a Montefiascone quando fu raggiunto dalla notizia della morte del fratello maggiore, l’Imperatore Enrico VI Hohenstaufen. In seguito alla morte di Enrico VI, Filippo divenne il nuovo punto di riferimento del partito ghibellino, in contrapposizione con il guelfo Ottone di Brunswick. Alla notizia della morte di Enrico VI in tutta Italia ci furono diversi tentativi di rivolta contro gli Staufen. Anche a Montefiascone i cittadini si ribellarono, e in seguito a questi scontri morì in battaglia il Duca Friedrich von Tanne, vassallo imperiale nonché uno dei più fidati compagni di Filippo di Svevia. Correva l’anno 1197. Nonostante l’evento luttuoso, l’influenza della famiglia Von Tanne era comunque destinata a crescere alla corte di Federico II di Svevia. Il fratello di Friedrich von Tanne, Eberhard I von Tanne, diede vita ad una nuova dinastia: i Waldburg. 73 I Von Tanne - Waldburg discendevano da una famiglia che apparteneva inizialmente alla ministerialità Guelfa ed in seguito Staufica dell’alta Svevia. Tra il 1220 e il 1228 amministrarono il Ducato di Svevia, i possedimenti imperiali ed i beni della casa Staufica in qualità di procuratori e funzionari della corte imperiale. Nel 1220, appena incoronato imperatore, Federico II assegnò a Eberhard I la procura sveva, ed al nipote, Corrado von Tanne Winterstetten, affidò l’educazione del figlio Enrico. In seguito, sarà lo stesso Corrado von Tanne Winterstetten ad occuparsi della formazione dell’altro figlio di Federico II, Corrado IV. Ai Von Tanne Waldburg Federico II affidò inoltre, tra il 1220 e il 1225, la custodia dei gioielli imperiali. E’ evidente il ruolo di assoluto prestigio di cui i Waldburg godevano presso gli Hohenstaufen. Dei Waldburg faceva parte anche Eberhard II, 74 il potentissimo arcivescovo di Salisburgo, fedelissimo di Federico II, che nel 1245, 75condivise con lui una scomunica per essersi rifiutato di sottoscrivere l’anatema che lo deponeva. Di Eberhard II sono documentati sia vari passaggi che la permanenza a Montefiascone in diverse occasioni. Parente stretto di Friedrich von Tanne 76, nel 1213 fondò l’arcivescovato di Salisburgo, il cui stemma presenta delle forti analogie con quello scolpito alla sinistra della testa di Defuk, ed è praticamente identico all’altro stemma, quello di destra. 77 La lunga permanenza della corte di Federico II a Montefiascone nel 1234 e l’evidente similitudine degli stemmi dell’arcivescovato di Salisburgo con quelli posizionati ai lati della testa del personaggio autorizzano a poter avanzare l’ipotesi che proprio in quel periodo il potente arcivescovo di Salisburgo sostò a Montefiascone in quanto vi era fisicamente presente l’imperatore, e che nella circostanza possa avere provveduto a dare al suo familiare una degna sepoltura facendolo traslare di fronte all'altare maggiore, 78 sottolineando in questo modo la sua autorità, il suo prestigio personale nonché quello della sua casata, i Waldburg, in virtù del ruolo che questa ricopriva nell'entourage di Federico II di Svevia. A questo punto una osservazione è legittima: perché utilizzare lo stemma dell’arcivescovato e non quello della famiglia? Esiste una risposta coerente: la casata dei Von Tanne dopo il 1197 di fatto non esisteva più, in quanto si era trasformata in Waldburg. La dinastia Waldburg nasce però dopo la morte di Friedrich von Tanne… Stando così le cose, effettivamente l’utilizzo dello stemma dell’arcivescovato avrebbe risolto il problema. 79 73 Hansmartin Schwarzmaier, Famiglia Hohenstaufen, Federiciana 2005 Eberardo II, della nobile famiglia di Truchsess, divenne nel 1196 vescovo di Bressanone, e nel 1200, Arcivescovo di Salisburgo. Mantenne la sovranità dell’imperatore contro il papa Gregorio IX, e s’attirò con ciò la scomunica di questo pontefice. Mor+ senza essere riconciliato nel 1246 - A. L. D’Harmonville – Dizionario delle date, dei fatti, luoghi e uomini storici vol. 3, pag.85 – Antonelli Editore – 1845 75 Ludovico Savioli – Annali bolognesi – vol. 3 - 1795 76 Nel 1210, in suo atto ufficiale, definisce il vescovo di Gurk, Walter Truchsess Von Waldburg suo zio materno 77 Un passo indietro: a proposito degli stemmi posti sulla lastra tombale di Defuk, la consuetudine vorrebbe che siano identici. Essendo quello di sinistra decisamente meglio conservato rispetto a quello di destra, praticamente tutti gli studiosi si sono concentrati, nelle loro analisi storiche, esclusivamente facendo riferimento allo stemma integro, trascurando completamente l’altro, che seppure versa in uno stato di conservazione più critico, non è rovinato al punto da non apparire per come era originariamente. 78 Questa possibilità è coerente con l’ipotesi di una traslazione postuma della sepoltura originale. N.d.A. 79 L’ipotesi che gli stemmi fossero riferiti ad una località e non ad una casata non è nuova. Può darsi che sia stato aggiunto allo stemma del casato del defunto anche lo stemma della città che può derivare dalla situazione. Così si pronuncia, a proposito della lastra tombale di Montefiascone G. Rothe, nel già citato Der falsch befundene tid jenes teutschen biscoffs welcher sich zu Montefiascon in Italien soll 38 74 Vecchia immagine dell’interno della basilica di San Flaviano a Montefiascone. La lapide di Defuk si trova ancora di fronte all’altare maggiore. Da: Montefiascone Storia e Arte – Latino Salotti – Ed. Codini 190 39 Stemma di Defuk Stemma dell’arcivescovato di Salisburgo Ritorniamo a San Flaviano… come ho già accennato, durante i lavori per riportare la lapide di Defuk nella sua posizione precedente ho avuto modo di fare in condizioni ottimali una ricognizione sulla figura scolpita ed ho avuto la possibilità di ricostruire lo stemma di destra, che è sempre stato un po’ trascurato essendo abbastanza rovinato rispetto a quello di sinistra, sicuramente meglio conservato. La ricostruzione di questo stemma ha riservato delle sorprese: i due stemmi non sono identici, rispetto all’altro presenta delle differenze che ne cambiano la lettura araldica, 80 e soprattutto questo stemma è speculare (non si parla più di similitudini) a quello dell’arcivescovato di Salisburgo. Si potrebbe affermare che questo stemma non si può equiparare a quello dell’arcivescovato poiché non sono presenti i colori e i metalli nel blasone, ma questa osservazione sarebbe legittima solo se si insistesse a considerare la lapide di Defuk del 1400. Fino alla fine del tredicesimo secolo tutti gli stemmi noti dell’arcivescovato appaiono solo nei sigilli o nelle monete, monocromatiche e chiaramente senza colori. La prima rappresentazione ove sono presenti i colori dello stemma dell’arcivescovato di Salisburgo risale al 1340, nell’armoriale noto come Wappenrolle von Zurich, custodito nella Burgerbibliotek di Zurigo. Il ricercatore tedesco Hans Martin Decker-Hauff, esperto degli Hohenstaufen, presume che sia stata la vicinanza tra la famiglia degli Staufer e quella dei Babenberg a dare origine allo stemma di Salisburgo: la combinazione tra il leone nero degli Staufen su sfondo oro che si unisce con lo scudo rosso-bianco-rosso dei Babenberg. 80 L’Araldica è il complesso di studi e ricerche riguardanti le classificazioni delle armi o stemmi, la loro origine, il valore simbolico di forma e dimensione delle figure interposte, dei colori. È divisa in due settori: storia degli stemmi, ossia origine, fioritura e decadenza del loro uso; regole araldiche, ossia disciplina della forma, delle figure, degli ornamenti degli stemmi. Riguarda lo studio dei titoli nobiliari, la loro origine e trasmissione: libro, albero araldico. Il nome Araldica deriva dall’araldo, cui deve la sua nascita come disciplina sul finire del sec. XII. Con gli araldi e la compilazione dei rotoli dei tornei ebbe origine l’uso di studiare la storia genealogica delle famiglie e le imprese che le distinguevano, di vigilare su eventuali usurpazioni di titoli e sulla regolarità dei blasoni, di compilare raccolte di stemmi o stemmari e registri genealogici. Queste sono le fonti principali dell’Araldica, insieme ai diplomi di nobiltà e agli atti d’investitura. Si può ricavare una preziosa documentazione anche dalle arti figurative, da sigilli, monete, pitture, arazzi, ecc. Solo nel sec. XVII l’Araldica acquistò caratteristiche di disciplina rigorosa, tanto da divenire nel sec. XIX scienza ausiliaria della storia. Per cui l’araldica è la scienza che regola e governa la composizione dell’arma o stemmi gentilizi. Gli stemmi rappresentano l’insegna o l’emblema assunto da una famiglia o da un’istituzione a proprio simbolo distintivo. Probabilmente traggono origine (XII sec.) dalle insegne militari, successivamente ritoccate e trasformate dal condottiero e adottate a simbolo della sua schiera armata e dalle insegne personali. Ma di stemma nel significato oggi comune del termine si può parlare solo intorno al 1200, quando si fissarono i principi dell’Araldica che regolavano, nello spirito proprio della cavalleria medievale, i modi secondo i quali lo stemma si forma, si usa e si trasmette. 40 Lastra tombale di Defuk in attesa della nuova traslazione 41 Un ulteriore elemento a sostegno della datazione duecentesca della lastra tombale di San Flaviano. A Siena uno stemma con caratteristiche simili a quello del nostro Defuk con datazione certa: 1263. Stemma di Nichola Rocci 1263 Stemma dei Provveditori opera di Diotisalvi di Speme. Siena Museo delle Biccherne Considerazioni sulle varie comparazioni possibili a parte, ci sarebbe un altro valido argomento che contribuirebbe a mettere seriamente in dubbio l’attendibilità della datazione della lapide di San Flaviano al 1400/1420. In una pubblicazione del 1938, La chiesa lombarda di San Flaviano a Montefiascone, a cura di Piero Cao, emerge un particolare poco noto ma che fa decisamente riflettere. Sul cornicione esterno di San Flaviano, appena fuori l’ingresso principale, vi è scolpita una testa, parzialmente danneggiata dai segni del tempo, ma ancora abbastanza leggibile, tanto da poter ragionevolmente sostenere, date le evidenti similitudini, che si tratti di un'altra rappresentazione dello stesso personaggio la cui figura è scolpita sulla lapide tombale, eventualità che confermerebbe che abbiamo a che fare con qualcuno molto importante e soprattutto che il personaggio era già noto al momento della costruzione del cornicione, datato 1300/1302, togliendo ogni dubbio sulla attendibilità della datazione della lapide al 1400. 42 Eberhard Von Tanne, fratello di Friedrich Von Tanne, il duca morto in battaglia nel 1197 a Montefiascone, fondatore della casata dei Waldburg, rappresentato in due illustrazioni nel Truchsessenchronik, manoscritto conservato nella biblioteca di stato di Stoccarda. Negli scudi sono presenti le tre pigne, simbolo araldico dei Von Tanne 81 (Tanne significa abete N.d.A.), La vicinanza dei Von Tanne Waldburg con la famiglia imperiale sveva, gli Hohenstaufen, ad un certo punto diventa talmente evidente da coinvolgere anche le rispettive rappresentazioni araldiche. Andiamo a vedere. 81 Cono von Waldburg, Abate di Weingarten (1108–†1132) è considerato il capostipite della casata... e dal suo nome Cono deriverebbe l'arma familiare. Da ricordare che Tanne significa abete... albero coni-fera che produce le pigne... La famiglia, vassalla dei Welfen, tra il 1162 e il 1182 e nel 1191, dopo la morte di Welf VI, furono Ministerialen dei Duchi di Hohenstaufen. Eberhard von TanneWaldburg (1170 - 1234) è considerato il vero fondatore della Casa di Waldenburg, e dal 1220-1225 è attestato come Guardiano e Consigliere Vormünder und Ratgeber del Re Enrico VII con il compito di conservare le Insegne Imperiali. Furono Protonotari imperiali Protonotar, cioè Governatori Statthalter, per lunghi anni. Sotto Federico II era una delle famiglie più in vista dopo la famiglia imperiale. Angelo Scordo, Atti della Società Italiana di Studi Araldici, 11° Convivio, Pinerolo, 17 settembre 1994, Torino, 1995, pp. 105-145 43 Agli inizi del 1600 il blasone di Federico II di Svevia, 82 così come sembrerebbe essere stato adottato dopo che nel 1229 l'imperatore, in seguito alla crociata cosiddetta degli scomunicati, diventa anche re di Gerusalemme grazie al matrimonio con la figlia di Giovanni di Brienne, 83 Iolanda di Brienne, viene rappresentato con dei particolari, apparentemente inspiegabili, che sono stati oggetto di discussione tra gli storici e gli appassionati di araldica. Nel blasone, oltre alle armi dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e i tre leoni degli Hohenstaufen appaiono tre pigne, identiche a quelle che si trovano nello stemma di Friedrich Von Tanne, il duca morto in battaglia a Montefiascone. Questo stemma ha scatenato appassionati dibattiti tra gli esperti di araldica 84 in quanto la presenza delle tre pigne incorporate nel blasone imperiale senza una adeguata chiave di lettura sembrerebbero inspiegabili, ma che invece, tornando a noi, alla luce di quanto sopra, sicuramente non ci meravigliano. A questo punto possiamo solo avanzare qualche ipotesi. Lo stemma dei Von Tanne-Waldburg potrebbe essere finito in quello di Federico II per un errore, oppure l’inserimento potrebbe essere opera di qualche biografo/copista molto benevolo verso i Von TanneWaldburg, che così potevano vantare una vicinanza imperiale. In ogni caso occorre prendere atto che, seppure in contesti completamente diversi, anche in questo caso si avanza una ipotesi che associa i simboli araldici dei Von Tanne-Wadburg a quelli dell'Imperatore Federico II di Svevia, circostanza che seppure indirettamente rafforza ed avalla l'ipotesi avanzata che vorrebbe identificare nell'uomo sepolto in San Flaviano un membro della famiglia dei Von Tanne-Waldburg. Resta da capire come e perché si sia persa la memoria di queste situazioni. 82 Historia Della Città E Regno Di Napoli: Nel Quale Si Descriveno I Gesti Di Suoi Re Normandi, Tedeschi, Francesi, e Durazzeschi, Dall'anno 1127. infino al 1442. Giovanni Antonio Summonte Bulifon, 1675 Descrittione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella Napolitano Napoli Giovan Battista Cappella 1601 83 Giovanni di Brienne (1158 circa – Costantinopoli, 27 marzo 1237) è stato il re di Gerusalemme dal 1210 al 1225 e imperatore latino di Costantinopoli dal 1229 alla sua morte. 84 cfr. Angelo Scordo, Note di araldica medievale – Una strana arma di Stupor mundi, in Atti della Società Italiana di Studi Araldici, 11° Convivio, Pinerolo, 17 settembre 1994, Torino, 1995, pp. 105-145 44 Immagine elaborata al computer per evidenziare la figura del Defuk e gli stemmi Stemmi posti ai lati della testa del Defuk evidenziati dall’elaborazione al computer 45 CAPITOLO VII La cancellazione del ricordo – Damnatio Memoriae Il cielo giubili, e la terra faccia festa: il fulmine e la bufera con cui l’Onnipotente così a lungo vi ha minacciato si sono trasformati attraverso la morte di quest’uomo in zeffiro ristoratore e rugiada feconda. E ancora: Estirpare il nome di questo babilonese e quanto di lui possa rimanere, dei suoi discendenti, del suo seme. Con queste invettive Papa Innocenzo IV, a pochi mesi di distanza dalla morte improvvisa ed inattesa di Federico II, colpito da un malore durante una battuta di caccia in Puglia, comunica, con una Littera Solennis indirizzata al clero ed al popolo di Sicilia, la fine della vicenda politica ed umana dell’imperatore, e avvia per lui il crepuscolo della memoria. Federico II era stato colpito da una violenta infezione intestinale, talmente violenta che le sue condizioni non ne permisero il ricovero nel suo Palatium di Lucera. L'imperatore fu quindi portato a Castel Fiorentino, un borgo fortificato dalle parti dell'odierna Torremaggiore. Quasi sicuramente lo Stupor Mundi capì subito che era arrivata la sua ora, dal momento che Michele Scoto, 85 l'astrologo della sua corte, gli aveva predetto che sarebbe morto sub flore, argomento che aveva spinto Federico a stare alla larga da Firenze. Prima di morire, Federico volle indossare la tonaca dei circestensi del terzo ordine, e chiese al suo confessore, l'arcivescovo Berardo, di essere assolto e riammesso nel grembo della Chiesa. Era il 13 dicembre del 1250. Moriva così, a 56 anni, l'uomo che la storia chiamerà il sommo, lo stupore del mondo e il miracoloso trasformatore. Nel testamento dispose di essere sepolto nel duomo di Palermo, accanto al padre Enrico VI, alla madre Costanza d'Altavilla ed alla prima moglie Costanza d'Aragona. Manfredi, il figlio preferito, ordinò che per l'ultima volta, scortato dalla sua guardia saracena, il padre attraversasse la Puglia e si imbarcasse a Taranto per andare in Sicilia. A Palermo il suo corpo fu accolto da una folla incredula e piangente. Il mito dell'imperatore non accennava ad esaurirsi. Per diversi decenni dalla sua dipartita terrena c’era chi credeva che fosse ancora in vita. Con queste premesse, non c’è da meravigliarsi se anche da morto l’ingombrante ricordo della figura di Federico II non cessasse di creare problemi all’autorità della Chiesa. Con la scomparsa di Federico non solo non si attenuarono le lotte tra impero e papato, ma, al contrario, nel meridione, sopratutto in Puglia e Campania, si scatenarono, fomentate anche da emissari pontifici, violente ribellioni, sostenute da rivendicazioni che rinfocolavano le controversie tra monarchia e poteri baronali ed ecclesiastici. Tra la popolazione il mito dell’imperatore sopravvisse con tanto di profezie al riguardo. Scrive frate Salimbene da Parma: molti credettero egli non sia morto, benchè in verità era morto. E così si avverò la profezia della Sibilla Eritrea che disse: Si dirà tra i popoli: Vive e non Vive - Vivit, non vivit. Gli ultimi anni prima della morte di Federico II avevano visto, oltre alla degenerazione dello scontro militare tra papato e impero, un crescendo continuo, da entrambi le parti, di quella che oggi definiremmo propaganda, macchina del fango, disinformazione strumentale a ridicolizzare l’avversario. Quando nel marzo del 1239 Gregorio IX scomunica per la seconda volta Federico II, 86 questi viene dipinto come un vero miscredente, un persecutore della Chiesa, un eretico, il predecessore dell’Anticristo, addirittura l’Anticristo stesso. Federico II reagì alla propaganda papale dapprima respingendo le accuse del Papa come assolutamente infondate, poi evidenziò gli scopi politici del Pontefice chiamandolo Fariseo; inoltre denunciò l’avidità di denaro del papato e la sua sete di potere, e infine accusò il papa di essere lui l’Anticristo, supportato dal punto di vista teologico proprio dall’arcivescovo di Salisburgo, Eberhard II, che nel 1241, nel Sinodo di Ratisbona, in Baviera, spiegò per la prima volta nella storia del cristianesimo che 85 Filosofo, astronomo, matematico, traduttore di Aristotele, Michele Scoto, tra l'altro, aveva predetto anche la causa della propria morte. L'astrologo indossava sempre un elmo di ferro poiché aveva previsto che sarebbe morto a causa di un colpo in testa... effettivamente morì in seguito al crollo di un tetto colpito da una tegola. Dante nella Commedia lo colloca nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno: delle magiche frode seppe il gioco XX 115 – 117. 86 Gregorio IX scomunicò una prima volta nel 1227 Federico II, che si trovava malato ad Otranto, per i continui ritardi nell’avviare la promessa VI Crociata. Dopo alterne vicende, l’imperatore, che nel frattempo aveva ottenuto per via diplomatica attraverso una trattativa con il Sultano d'Egitto il controllo di Gerusalemme, si riconciliò con la Chiesa nel 1230 ad Anagni con la stipula della Pace di San Germano - Nel 1239, dopo anni di tensioni, Gregorio IX scomunicò di nuovo Federico II, che reagì scatenando una polemica violentissima, con scambi di accuse infamanti da entrambe le parti. La situazione non cambiò con l'ascesa al soglio pontificio di Innocenzo IV, che nel 1245 convocò il Concilio di Lione confermando la scomunica contro Federico II, che venne estesa anche ad Eberhard II l’arcivescovo di Salisburgo. - N.d.a. 46 il piccolo corno blasfemo del capitolo VII di Daniele era il papato. Eberardo spiegò chi era l’Anticristo della seconda lettera di S.Paolo ai Tessalonicesi. Disse: Circa 170 anni fa Ildebrando (Gregorio VII) sotto il pretesto della religione, gettò le fondamenta dell’Impero dell’Anticristo. Colui che si chiama il Servitore dei Servitori vuole essere il Signore dei Signori come se fosse Dio e parla magnificamente proprio come se fosse Dio, medita nuovi piani nel suo cuore per farsi lui solo padrone, cambia le leggi, stabilisce le sue, insozza, guasta, saccheggia, spoglia, imbroglia, uccide: è ciò che fa quest’Uomo del peccato che si chiama l’Anticristo, sulla cui fronte è scritto questo nome di bestemmia: io sono Dio e non posso errare. E’ seduto nel tempio di Dio e domina in lungo e in largo. 87 In questo clima di scontro finale tra l’imperatore ed il papa, la propaganda imperiale non esitò ad esaltare Federico II come nuovo Messia. Con la morte dell’imperatore la situazione non accenna a tranquillizzarsi: la diffusione di notizie infamanti e accuse reciproche tra i papisti e gli antipapisti è all'ordine del giorno. In questa atmosfera, tenendo presente che siamo nel Medioevo, riesce difficile stabilire la diffusione di questi miti tra la popolazione. Molto probabilmente, la propaganda imperiale indirizzata per lo più agli alti ranghi della gerarchia laica ed ecclesiastica, raggiunse soltanto un pubblico limitato, mentre quella papale, mediante il formidabile strumento della propaganda francescana e domenicana, radicata sul territorio con una fitta serie di conventi, si diffuse in modo capillare in tutta Europa. In ogni modo una cosa è certa: con la morte di Federico II lo scontro tra le fazioni Guelfe e Ghibelline era destinato in breve tempo a terminare con la sconfitta di queste ultime. Tutti i discendenti di Federico II subirono un destino ingrato: il figlio Corrado IV morì di malaria, il figlio di Corrado, Corradino, fu prima imprigionato a Tagliacozzo, poi fatto decapitare a Napoli da Carlo d’Angiò. Manfredi, il figlio naturale prediletto da Federico, che era nel frattempo diventato il nuovo capo della fazione ghibellina, morì in battaglia a Benevento e i suoi tre figli furono condannati al carcere a vita. L'ultimo, Enrico, morì nel 1318 dopo 52 anni di prigionia. Nella discendenza degli Staufen il nome Federico fu ricorrente per sette generazioni, ma con la morte di Manfredi si può dire che il destino della casa sveva era compiuto. Inoltre, la persecuzione sistematica dei discendenti del grande Imperatore e di quanti lo avessero sostenuto si configurò nei termini di una spietata damnatio memoriae. La damnatio memoriae, ovvero, la cancellazione del ricordo, era una pratica in uso già dai tempi dell’Antica Roma ma poi abbondantemente utilizzata nel medio evo, che consisteva appunto nel distruggere, in tutti i modi possibili, tutte le tracce della memoria dell’avversario, ad esempio cancellandone il nome dalle iscrizioni, addirittura dalle monete, rovinandone le immagini, gli stemmi e tutto quello che serviva ad identificare i personaggi colpiti. Il medio evo era un’epoca storica in cui la memoria visiva era decisiva, visto che la comunicazione passava per forza di cose attraverso le immagini. Ad esempio, una forma di damnatio memoriae consisteva nella produzione di pitture infamanti, che ritraevano e associavano l’immagine delle vittime della damnatio ad eventi negativi, spesso inventati, con lo scopo di screditare o ridicolizzare le vittime designate, e comunque per raggiungere l'obiettivo di perpetuare un ricordo negativo. Il potere medioevale, in questo modo, riusciva a comunicare all'esterno gli elementi della sua legittimazione cancellando od intervenendo strumentalmente sulla percezione pubblica della memoria degli avversari. Nei confronti di Federico II tale pratica fu applicata con particolare ferocia. A Viterbo, che era stato teatro fondamentale degli ultimi anni di conflitto tra Papato e Impero, (Federico II aveva qui trovato nel Cardinale viterbese Raniero Capocci probabilmente il suo più spietato nemico), si manifestò, tra le altre cose, con la distruzione del Palazzo imperiale che questi aveva fatto costruire, palazzo dalla cui demolizione, proprio per cancellarne completamente il ricordo, non vennero nemmeno riciclati, come all’epoca era la regola, i materiali da costruzione ( in alcune cronache si dice chiaramente che nelle mura urbane non si vollero riutilizzare i materiali provenienti dalle fabbriche dell’imperatore, proprio come forma estrema di damnatio memoriae). 88 Altri casi noti di applicazione della damnatio memoriae nella Tuscia non mancano: sulla facciata del Palazzo Papale di Viterbo, ad esempio, tra gli stemmi della famiglia Gatti è stato scalpellato ed abraso quello di Silvestro Gatti, punito per essersi schierato con il partito Ghibellino. Ricapitolando: damnatio memoriae, cancellazione della memoria, distruzione delle tracce del nemico, alterazione delle immagini fino ad impedirne l’identificazione, abrasioni delle iscrizioni, pitture infamanti, associare l’avversario a situazioni negative, ridicolizzarlo e screditarlo, perpetuandone un ricordo negativo... Adesso rifacciamo l'ennesimo passo indietro e ritorniamo a Montefiascone, alla basilica di San Flaviano. Dunque, abbiamo una lapide su cui è scolpita la figura di un personaggio dall’identità misteriosa, presumibilmente un nobile, con delle iscrizioni non leggibili in quanto cancellate, due stemmi di cui uno speculare rispetto a quello dell’Arcivescovato di Salisburgo, e nessun altro tipo di simbolo che aiuti ad 87 Margherita Leporatti Studi Biblici A. Spina - Il palazzo di Federico II a Viterbo- Biblioteca e Società – Biblioteca consorziale di Viterbo- 2006 47 88 identificare il personaggio sepolto 89. Inoltre, se analizziamo la lastra tombale così come è giunta sino a noi, appare evidente che il rilievo delle immagini scolpite risulti omogeneo, circostanza da cui si presume che i segni dell’usura non dipendano dal fatto che la lapide sia stata calpestata (se cosi fosse si noterebbero delle differenze sulla superficie che invece non appaiono) e quindi, con queste premesse, appare ragionevolmente più probabile sostenere che siamo di fronte alle conseguenze di un accanimento sull'immagine del personaggio sepolto e di manipolazioni eseguite con lo scopo non solo di distruggere, ma di decontestualizzare la memoria del soggetto, per ridicolizzarne il ricordo e condannarlo all'oblio. Semplificando, ci sarebbero tutti gli elementi per ipotizzare che siamo di fronte ad un caso esemplare di applicazione della pratica della damnatio memoriae. A questo punto del ragionamento, sarebbe interessante stabilire se le cancellazioni delle iscrizioni e le manipolazioni sull’immagine del soggetto sepolto siano state eseguite immediatamente dopo la morte dell’imperatore o qualche tempo dopo. Non credo sia possibile per nessuno rispondere a questa domanda, ma una cosa è certa: Federico II non era ben visto soltanto dai suoi, le sue posizioni sulla chiesa di Roma e le sue critiche al papa avevano un certo credito anche in numerosi ambienti ecclesiastici e soprattutto all’interno di quegli ordini pauperistici prima tollerati e poi perseguitati con l’accusa di fomentare l’eresia. La disinvoltura con cui i papi risolvevano il problema mettendo al rogo chi esagerava, 90 faceva probabilmente si che questa opposizione al papato si manifestasse anche, dove possibile, con l’utilizzo di simboli non evidenti a chiunque, da collocare all’interno delle chiese frequentate dai pellegrini che percorrevano la via francigena per andare a Roma. Qualcosa del genere dovrebbe essere successo anche nella chiesa di San Flaviano a Montefiascone, dove, lastra tombale di Defuk a parte, ci sono senza ombra di dubbio dei simboli ghibellini, nemmeno tanto nascosti. Anche in questo caso andiamo a vedere… 89 Il coinvolgimento in questa vicenda dell’arcivescovo di Salisburgo ci dà anche una risposta razionale alla circostanza riportata in numerose testimonianze documentali riguardo la sepoltura di Defuk che sembrerebbe apparentemente inspiegabile: pur essendo (quasi) tutti d’accordo che l’immagine raffigurata sulla lapide non appartenga a un religioso, tutte le fonti in qualche maniera parlano dell’iscrizione intorno alla figura del Vescovo 90 Nel concilio di Lione del 1245 papa Innocenzo IV autorizzò formalmente l’uso della tortura nei tribunali dell’inquisizione 48 Papa Gregorio IX scomunica Federico II di Svevia il 29 settembre del 1227, nella cattedrale di Bitonto, dopo che l’imperatore era stato costretto a rimandare la crociata in Terrasanta a causa di una epidemia. La scomunica verrà sciolta con il Trattato di San Germano del 1230, ma i rapporti tra i due rimarranno tesi, tanto che il papa rinnoverà la pena nei confronti dell’imperatore nel 1239. Particolare del monumentale trittico con l’albero genealogico dei Babenberg nel quale compare il duca d’Austria Leopoldo VI il Glorioso che fa da paciere tra Gregorio IX e Federico II. Attribuito alla bottega del pittore Hans Part, 1489-1492. Klosterneuburg, Museo dell’Abbazia Foto e testo da National Geographic . 49 PARTE II L’INCONTRO DEI TRE VIVI E DEI TRE MORTI 50 Federico II di Svevia 51 CAPITOLO I La fine degli Hohenstaufen Dopo la morte di Federico II Hohenstaufen, tumulato nel duomo di Palermo, Corrado IV, re dei Romani, il figlio che l’imperatore aveva avuto da Jolanda di Brienne, regina di Gerusalemme, scese nel 1251 in Italia a prendersi il Regno. Giunto a Pola l’8 gennaio 1252 sbarcò a Siponto, in Capitanata. Dopo aver combattuto a lungo contro papa Innocenzo IV, fu scomunicato il giovedi santo del 1254. Da lì a poco morì di malaria a Lavello, presso Melfi, il 21 maggio 1254, e venne sepolto nel duomo di Messina. Anni dopo i messinesi fecero scempio di quella salma e sparsero le sue ossa in mare. 91 Sarà il fratellastro Manfredi, figlio illegittimo, poi riconosciuto, di Federico II e Bianca Lancia, a prendere il suo posto. Incoronazione di Corrado IV Il papato temeva che Manfredi potesse completare quello che era quasi riuscito a suo padre Federico II: essere imperatore, e, contestualmente, regnare sui territori a sud della penisola. Ciò avrebbe significato chiudere in una pericolosa morsa i territori della Chiesa. Cosa inaccettabile per il papa, che si opponeva a qualsiasi tentativo di portare avanti questo progetto con il sostegno dei francesi guidati da Carlo D’Angiò. Il 4 settembre 1260 l’esercito ghibellino di Siena guidato da Farinata degli Uberti, affiancato dalla cavalleria messa a disposizione da Manfredi ottenne una clamorosa quanto inaspettata vittoria militare sui Guelfi fiorentini. Pur in numero inferiore l’esercito ghibellino uscì vincitore a Montaperti, in uno scontro che venne ricordato anche da Dante nella Commedia. 92 L’affermazione degli imperiali fu solo momentanea. Nel febbraio del 1266, a Benevento, l’esercito ghibellino fu pesantemente sconfitto dalle truppe di Carlo D’Angiò, e nella disfatta lo stesso Manfredi trovò la morte in battaglia. 91 Mario Bernabò Silorata, Personaggi federiciani – Adda editore - Bari 2013 Le vicende degli Hohenstaufen sono oggetto di numerose citazioni da parte di Dante Alighieri. Nella Commedia Dante menziona Federico II ben cinque volte: tre nell'Inferno, una nel Purgatorio ed una nel Paradiso 92 52 La Battaglia di Montaperti, miniatura di Pacino di Bonaguida, dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, Codice Chigi. XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A sinistra, lo schieramento guelfo si riconosce dallo stemma gigliato sugli scudi; sulla destra, la città di Siena e i cavalieri ghibellini, con lo scudo bianco e nero La battaglia di Benevento e la sconfitta dei ghibellini dalla Cronica del Villani Il corpo di Manfredi, riconosciuto dal cognato Riccardo di Caserta, passato dalla parte di Carlo, e da Giordano e Bartolomeo Lancia, fu seppellito onorevolmente, sia pure senza cerimonie ecclesiastiche, perché scomunicato, in una fossa all'estremità del ponte sul Calore. Si disse poi che Bartolomeo Pignatelli, 53 arcivescovo di Cosenza, avesse esumato per ordine del papa Clemente IV il corpo di Manfredi e lo avesse fatto seppellire sulle sponde del fiume Liri fuori dei confini del regno. 93 Con la morte di Manfredi il punto di riferimento del partito ghibellino, che chiese il suo intervento, divenne Corradino, il figlio di Corrado IV. Corradino, appena quattordicenne, scese in Italia alla riconquista del regno. Ebbe una accoglienza trionfale, soprattutto a Roma, ma il papa, Clemente IV, si ritirò a Viterbo e non volle incontrarlo. Continuò la sua discesa a sud fino a quando non si scontrò con Carlo d'Angiò e fu sconfitto in battaglia a Tagliacozzo. Riuscì a fuggire e trovò rifugio presso la famiglia dei Frangipane, che credeva amica, ma che al contrario lo fece prigioniero e lo consegnò a Carlo d'Angiò, il quale, dopo un processo sommario, lo fece decapitare, con il tacito assenso del papa 94, a Napoli, nella piazza del mercato. Era il 29 ottobre del 1268. Il giovane Corradino affrontò la morte con grande dignità e coraggio, lanciando dal patibolo il suo guanto alla folla in segno di sfida, guanto che secondo la tradizione fu raccolto da Giovanni da Procida, fedelissimo degli Staufen, medico personale e consigliere di Federico II. 95 Questa vicenda destò una grande impressione, fu citata da Dante nella Commedia ed è rimasta nell’immaginario collettivo fino ai giorni nostri. Nel 1856 il poeta risorgimentale Aleardo Aleardi gli dedicò dei versi diventati famosi… Un giovinetto Pallido, e bello, con la chioma d'oro, Con la pupilla del color del mare, Con un viso gentil da sventurato, Toccò la sponda dopo il lungo e mesto Remigar de la fuga. Avea la sveva Stella d'argento sul cimiero azzurro, Avea l'aquila sveva in sul mantello; E quantunque affidar non lo dovesse, Corradino di Svevia era il suo nome... Con la sua tragica vicenda umana Corradino rappresenta insieme la fine della casa sveva e la conclusione del mortale duello che la Chiesa aveva iniziato con Federico II per sganciare il meridione d’Italia dall'Impero. Gli Hohenstaufen non rappresentavano più una minaccia con il regno di Sicilia ormai saldamente in mano a Carlo D’Angiò. Il tempo e la cancellazione del ricordo avrebbero fatto il resto. 93 Treccani – Enciclopedia dantesca Era la prima volta che l’Europa cristiana vedeva cascare sul palco la testa di un re: e avvenne per comando di un altro re e con la connivenza di un vicario di Cristo! - Il Vespro Siciliano – Michele Amari 95 Giovanni da Procida fu uno dei principali organizzatori e animatori della rivolta dei Vespri Siciliani. I rivoltosi siciliani destituirono gli angioini in Sicilia a favore degli aragonesi, E proprio durante i Vespri gli insorti sventolavano bandiere su cui era raffigurata una testa mozzata, ovviamente la testa di Corradino. Secondo la tradizione Giovanni da Procida durante il massacro dei francesi avrebbe calzato il guanto di Corradino per vendicarlo 54 94 Corradino viene decapitato il 28 ottobre del 1268 – Illustrazione dalla Cronica del Villani Corradino ultimo duce degli Svevi - Johan. Wolfii Lectionum memorabilium et reconditarum centenarii XVI, Volume 1 Di Johann Wolf, Paulus Melissus Schedius,Sebastianus Hornmoldt,Barnimus Julius (dux Stettinensis), Philippus Julius (dux Stettinensis) 1600 55 CAPITOLO II La rivolta del Vespro Non è certo se papa Clemente IV abbia pronunciato la frase Vita Conradini mors Caroli; vita Caroli mors Conradini, ma quelle parole esprimevano con precisione la situazione politica, quale era percepita durante la discesa in Italia del giovane nipote di Federico II. Di sicuro il papa era consapevole che su Corradino, definito ultima testa della razza di vipere, pendeva già, in caso di sconfitta, la sentenza capitale, in un contesto in cui il mito di Federico II era talmente forte da mettere addirittura in dubbio la veridicità della notizia della sua morte, avvenuta nel 1250. Falsi Federici apparvero a più riprese in Italia e Germania. Si disse che era ancora in vita e che si era rifugiato nell’Etna. Troppo spesso il papa aveva annunciato negli ultimi anni che l’imperatore era morto e l’impero finito. Ancora molti anni dopo la sua morte si scommetteva a Firenze se fosse vivo o meno, e per decenni si ebbero impostori che si spacciavano per Federico redivivo. 96 Il papato percepiva chiaramente che gli svevi andavano annientati non solo sul piano militare, occorreva ridimensionare e impedire la nascita e la diffusione del mito dell’imperatore, abilmente alimentato dalla propaganda imperiale quando questi era ancora in vita. 97 Dopo la morte di Federico II nel 1250 e quelle di Corrado, Manfredi e Corradino, l’avvenimento storico che contrassegnò la fine del tredicesimo secolo fu sicuramente la cosiddetta rivolta del Vespro. Carlo D’Angiò, forte delle vittorie sugli svevi, era diventato il nuovo re del regno di Sicilia, che governava con il pugno decisamente duro. Carlo aveva sostituito i baroni ribelli con nobili francesi, confiscato tutti i beni agli avversari e trasferito la capitale del regno da Palermo a Napoli. Negli anni seguenti gli Angiò si erano mostrati insensibili a qualunque richiesta di ammorbidimento e avevano praticato rappresaglie, usurpazioni, soprusi e violenze. Il nuovo governo era il più dispotico che i siciliani avessero mai conosciuto: il parlamento non veniva più convocato, Carlo sceglieva funzionari governativi stranieri, il commercio era passato nelle mani di mercanti e banchieri toscani e il peso dei prelievi fiscali, necessari per mantenere il grande apparato militare e amministrativo angioino, era diventato insopportabile. Inoltre il clero, per gli accordi sottoscritti da Carlo con Clemente IV, veniva esentato dal pagamento delle imposte. La goccia che fece traboccare il vaso scende dalla divisa del soldato Drouet, il 30 marzo 1282. È il tramonto del lunedì di Pasqua, a Palermo, e una coppia di aristocratici sta entrando nella chiesa del Santo Spirito per la celebrazione dei Vespri. Drouet, di ronda, ferma la coppia per un controllo. Anziché perquisire l’uomo, però, perquisisce la moglie e con la scusa di cercare armi sotto le sue vesti, la palpeggia rozzamente. La donna protesta e viene insultata: per lo shock sviene. A quel punto il marito reagisce, toglie la spada alla guardia e lo uccide. Quasi fosse il segnale che la città aspettava da anni, tutta la popolazione si rivolta contro i soldati francesi e poi contro i civili e poi contro chiunque abbia anche soltanto l’odiato accento transalpino, al grido di Mora! Mora! 98 L’insurrezione dilaga in poco tempo in tutta l’isola, la caccia al francese diventa una vera e propria carneficina. 99 Quelli che riescono a scappare si rifugiano sulle navi e prendono il largo. Tra gli organizzatori della rivolta c’è anche Giovanni da Procida, medico di Federico II. Palermo si proclama indipendente, seguiranno Corleone, Taormina, Messina, Siracusa, Augusta, Catania, Caltagirone. Carlo d’Angiò, appoggiato ovviamente dal Papa, manda in Sicilia 24.000 cavalieri e 90.000 fanti per sedare la rivolta. A questo punto Pietro III di Aragona si decide finalmente ad accettare la corona dai Siciliani e muove contro i francesi. 96 Kantorowicz, Federico II Imperatore pag 684 Una curiosità: ancora oggi, nella cattedrale di Palermo, la tomba dell’imperatore è giornalmente omaggiata di fiori freschi 98 Muori! Muori! 99 Arnaldo Casali – Festival del Medioevo - Guarda qua: cosa sono questi? L’uomo osserva il suo vicino: gli sta mostrando un mucchietto di ceci che ha tra le mani. Ciciri risponde l’uomo, in siciliano. Ma gli esce una c un po’ troppo strascinata e la r moscia: scisciri. Prima ancora che possa realizzare di essere stato tradito dal suo accento francese, gli arriva una coltellata in pieno petto e un fiotto di sangue gli schizza dalla bocca. Un invasore di meno. Avanti un altro. Così il massacro procede tutta la notte. E il giorno dopo e il successivo. Nobili, borghesi e popolani girano per le strade armati fino ai denti, mostrando ceci ai passanti e chiedendone il nome. Chi sbaglia la pronuncia è morto. Perché chi sbaglia la pronuncia è un francese, un angioino, un nemico 56 97 Drouet trafitto dalla spada viene ucciso, da I Vespri siciliani di Francesco Hayez -Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea Carlo D’Angiò viene sconfitto nel settembre 1282 e fa ritorno a Napoli, lasciando la Sicilia nelle mani degli aragonesi. Papa Martino IV, 100 francese eletto con l’appoggio degli angioini, neanche a dirlo, scomunica siciliani e catalani. Il 31 agosto 1302 con la pace di Caltabellotta verrà firmato il primo accordo ufficiale tra aragonesi e angioini, che prevede però un matrimonio tra Federico III d’Aragona ed Eleonora d’Angiò, e quindi il ritorno della Sicilia ai francesi. La guerra continuerà ancora con gli angioini sostenuti, oltre che dal papato, dal Re di Francia e dai guelfi fiorentini, e gli aragonesi appoggiati dai tedeschi, dal Re d’Inghilterra, dai ghibellini e dagli spagnoli. Intanto anche le famiglie nobili siciliane finiranno per dividersi in due partiti, quello catalano e quello svevo-ghibellino, dando luogo a una guerra civile. La guerra del Vespro si concluderà ben novant’anni dopo, con il Trattato di Avignone firmato il 20 agosto 1372 – sotto la mediazione di papa Gregorio XI – dall’aragonese Federico IV di Sicilia e Giovanna d’Angiò regina di Napoli, di cui Federico IV si riconoscerà vassallo. In realtà nei decenni successivi la Sicilia verrà annessa al Regno di Aragona, per tornare infine ad unirsi a Napoli sotto la dinastia catalana. Questa, in estrema sintesi, la cronaca della rivolta del Vespro. Tornando a noi, la domanda a questo punto mi sembra legittima: che c’entra il racconto della rivolta siciliana con Montefiascone, la chiesa di San Flaviano, la misteriosa lapide tombale e tutto il resto di cui si è parlato nella prima parte? Per cercare di rispondere alla domanda dobbiamo prima indirizzare la nostra attenzione verso uno studio del 1993 del prof. Raffaello Capaldo, studio che ci porta a Melfi. Andiamo a vedere. 100 Martino IV, 1220 -1285, al secolo Simon de Brion - Voluto a tutti i costi sul soglio pontificio dal re di Francia Carlo d’Angiò, che arrivò ad arrestare due cardinali a lui ostili nel conclave: Matteo e Girolamo Orsini 57 CAPITOLO III L’immagine di Federico II di Svevia Federico II, lo Stupor Mundi, aveva già fatto parlare di sé prima ancora di venire alla luce. Secondo una leggenda prodotta nell'Anno Mille, l'Anticristo sarebbe stato partorito da una vecchia monaca. Quando la quarantenne Costanza d'Altavilla, che aveva vissuto molti anni in convento, e che per l'epoca non era certamente giovanissima per diventare madre, annunciò la sua gravidanza, venne guardata con sospetto e scetticismo. In prossimità delle doglie, per dimostrare che l'erede di Enrico VI sarebbe venuto alla luce senza trucchi, Costanza fece allestire un baldacchino al centro della piazza di Jesi. Lo Stupor Mundi, come in un reality, nasce davanti ad un vasto pubblico. Era il 1194. 101 Immagine della nascita di Federico II dalla Nuova Cronica – 1348 - di Giovanni Villani, che così descrive l’imperatore: Questo Federigo regnò trenta anni imperatore, e fu uomo di grande affare e di gran valore, savio di scrittura, e di senno naturale, universale in tutte cose; seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco, e francese, greco e saraceno, e di tutte virtù copioso, largo e cortese in donare, prode e savio in arme e fu molto temuto. E fu dissoluto in lussuria in più guise, e tenea molte concubine e mammalucchi a guisa dei Saracini: in tutti i diletti corporali volle abbondare, quasi vita epicurea tenne, non facendo conto che mai fosse altra vita; e questa fu l’una principale ragione perché venne nemico de’ chierici e di santa Chiesa 101 Di certo si ha solo il luogo di nascita, Jesi e l’anno 1194, per il resto ci sono diverse ipotesi a partire dal giorno e dove effettivamente il futuro imperatore nacque, la tradizione vuole il 26 dicembre e una delle fonti fu Riccardo di San Germano nella sua Chronica descrivendo la ricorrenza che l’Imperatore istituì nel 1233 in tutto il Regno per celebrare il suo genetliaco mutuando un’antica usanza degli imperatori romani: Imperator diem natalis sui per totum Regnum suum mandat in festo beati Protomartyris Stephani magnifice celebrandum 58 De mulieribus claris, di Giovanni Boccaccio - traduzione tedesca da Heinrich Steinhöwel - xilografia foglio P 8 R, f. CXXXVIII di Costanza d'Altavilla, suo marito Enrico VI e di suo figlio Federico II stampato da Johannes Zainer a Ulm ca. 1474 59 Immagini di Federico II sono giunte fino a noi in varie forme: bolle e sigilli, 102 monete, 103 dei cammei (che però non possono essere considerati con certezza raffigurazioni dell’immagine dell’imperatore svevo) oggetti di oreficeria, 104 e numerose sculture, che allo stesso modo non possono essere prese come rappresentazioni affidabili dell’immagine di Federico II, eccetto una, quel che resta della statua che faceva parte dell’imponente porta di Capua, sicuramente commissionata dall’imperatore, che però, purtroppo, ci è pervenuta acefala, senza testa. Altre rappresentazioni di Federico II sono presenti in alcune miniature, 105 tra cui la più famosa è sicuramente quella tratta dal De Arte Venandi Cum Avibus, il trattato di ornitologia scritto da Federico II in persona, di cui però si è perso purtroppo l’originale (l’esemplare custodito presso la biblioteca Vaticana è una copia di epoca manfrediana) e quindi le immagini sono riproduzioni non si sa quanto fedeli, da prendere quindi con il beneficio del dubbio. A questo punto ci sarebbero dei dipinti… l’affresco della torre del palazzo abbaziale di San Zeno a Verona, opera la cui realizzazione sarebbe legata ai soggiorni di Federico II in quella città, in cui si ritiene ci sia una raffigurazione dell’imperatore in atto di riscuotere l’omaggio da parte dei popoli della terra, 106 (raffigurazione che, seppur con qualche distinguo, è accreditata essere attendibile) e altri due affreschi, che si trovano uno a Bassano del Grappa, l’altro in Basilicata, a Melfi, considerati dai più non proprio attendibili. Questa presa di posizione ha dei buoni argomenti se si approcciano i due lavori individualmente, ma che se li andiamo a analizzare insieme, in un contesto finora mai preso in considerazione, ebbene, ci riservano qualche sorpresa, che come minimo ci porta a fare qualche riflessione ulteriore, e motivo di approfondimento. Sigillo di re dei Romani 102 Sigillo imperiale Conserviamo tra bolle e sigilli sostanzialmente sei diversi esemplari iconografici: la bolla di re di Sicilia Praha, Národní archiv; il sigillo di re di Sicilia Karlsruhe, Badisches Generallandesarchiv; la bolla di re dei Romani Aachen,Stadtarchiv; il sigillo di re dei Romani Darmstadt, Hessischen Staatarchiv; la bolla imperiale e il sigillo imperiale 103 In ambito numismatico si possono considerare rappresentazioni ufficiali di Federico II solamente quelle presenti in queste sette tipologie di conio: i due tipi di denari emessi dal 1220 al 1221, il denaro del 1222, i due tipi di denari coniati a partire dal 1225, il grosso battuto nella zecca di Vittoria Cambridge Fitzwilliam Museum, e l’augustale - Napoli, Museo Archeologico Nazionale - Gli Augustali rimandano a un tipo di monete in corso ai tempi della Roma imperiale. L’accostamento con la figura di Augusto manifesta l'ambizione di Federico di reincarnare l'immagine del Cesare e di marcare l'indipendenza dal papato 104Fa parte di questa sezione la statuetta raffigurante Federico II posta nel Karlsschrein della cattedrale di Aachen 105 Chronica Regia Coloniensis Ms. 476, fol. 144, Bibliothèque Royale de Belgique,Bruxelles. Exultet, fol. 11, Rotolo pergamenaceo custodito presso il Museo Diocesano di Salerno 106 Mirko Vagnoni - L’immagine di Federico II Un Riesame 2013 - Da questo volume provengono le informazioni fornite in questo capitolo relativo alle immagini dell’imperatore – N.d.a. 60 Busto acefalo. Museo Provinciale Campano, Capua Chronica Regia Coloniensis fol 144 miniatura 61 Exultet, fol 11 miniatura I popoli della Terra rendono omaggio a Federico II. Verona, Palazzo Abbaziale di san Zeno Immagine di Federico II tratta dal De Arte Venandi Cum Avibus 62 Melfi – Chiesa rupestre di Santa Mrgherita – esterno Melfi – Chiesa rupestre di Santa Margherita - Interno 63 CAPITOLO IV L’Incontro dei tre vivi e dei tre morti di Melfi L'incontro dei tre vivi e dei tre morti è un soggetto iconografico legato alla iconografia della Morte. In questa leggenda si narra di come tre scheletri incontrano tre vivi, di solito nobili cavalieri, per ricordare loro la caducità dei beni terreni e la brevità della vita. In età medioevale, a causa delle guerre e delle continue epidemie di peste, l'uomo era ossessionato dal timore della morte, che era motivo di riflessioni morali, etiche e religiose. La Chiesa accolse, all'interno degli edifici sacri, una serie di temi macabri - maquàbir in arabo significa cimitero, meqaber in ebraico becchino - che ebbero una grande diffusione in Europa - si contano quasi trecento esempiesaltanti la paura ed il terrore: L'Incontro dei tre vivi e dei tre morti, Il Trionfo della Morte, La Danza macabra. Storici e critici dibattono ancora se la prima apparizione in Europa dell’Incontro dei tre vivi e dei morti sia avvenuta sotto forma di opera pittorica o letteraria. Sembra che il mito abbia fatto in suo ingresso nella letteratura francese attorno al 1275, con un poemetto di Baudoin de Condé, 107 menestrello alla Corte della contessa Margherita di Fiandra. In pieno medioevo non tanto faceva paura la morte, quanto il dopo morte e le possibili punizioni per chi avesse vissuto male in terra. L'incontro rappresentava dunque in maniera molto efficace un avvertimento sulla fugacità dell'esistenza ed un invito a vivere virtuosamente e per questo motivo era uno dei temi preferiti dai predicatori domenicani, e, soprattutto, francescani. Il tema ebbe grande fortuna. Le sue origini sono da rintracciarsi in area buddistica-persiano-islamica, e la sua diffusione fu mediata in ambiente italiano appunto dai francescani, in seguito ai rapporti tra la corte di Federico II ed il mondo culturale arabo. 108 Gli affreschi erano utilizzati per comunicare, a vari livelli, messaggi, sopratutto nei confronti della popolazione analfabeta, e questa rappresentazione era sicuramente molto efficace, facendo leva su sentimenti semplici e spontanei, capaci di raggiungere una parte amplissima della popolazione. Come accade in rarissime felici situazioni, il tema dei tre vivi e dei tre morti è configurato in modo tale che ogni comunità o categoria sociale potesse facilmente recepirlo secondo le proprie aspirazioni. Il basso clero, i monaci e i frati lo hanno considerato un argomento di meditazione e lo hanno adottato nelle loro chiese, spesso nel tragitto che conduceva al piccolo cimitero delle comunità. La Curia romana, abituata a diffondere la fede più con il terrore che con la convinzione, lo ha considerato un modo per catturare l’attenzione della gente, attraverso soprattutto gli affreschi predisposti nei luoghi di culto distribuiti lungo la via Francigena. I popolani, la gente povera, lo hanno visto come la metafora della loro rivalsa nei confronti dei ricchi, ai quali apparivano parificati almeno nell’ultimo amaro destino. I potenti, infine, ammirandolo negli affreschi delle cattedrali, delle abbazie, dei grandi monumenti funebri, lo hanno considerato un riconoscimento del proprio status: un modo per avvicinarsi alle proprie origini, dato che anche i morti, il più delle volte, recavano i simboli dell’aristocrazia. In Italia furono realizzati alcuni tra i primissimi Incontri dei tre vivi e dei tre morti finora individuati in Europa. Degni di particolare menzione, gli affreschi del Duomo di Atri, in Abruzzo; dell’abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti; di San Flaviano a Montefiascone nel Viterbese; di San Paolo a Poggio Mirteto nel Reatino, tutti risalenti alla fine dei XIII secolo. Sull'Incontro di Melfi si dibatte se la datazione sia del periodo Federiciano o Angioino. 109 Incontri dei vivi con i morti finora rinvenuti in Italia: MELFI (PT) 1225 - 1234 ? 1290? Chiesa di Santa Margherita ATRI (TE) 1260/70 Cattedrale ALBUGNANO (AT) Fine XIII Abbazia di Vezzolano POGGIO MIRTETO (RI) (due) Fine XIII-in. XIV s. Chiesa di San Paolo 107 Le dit des trois moirts et des trois vifs F.Bologna I pittori alla corte angioina di Napoli... p.43, tav. 1-20,21 109 Carlo Fornari - L’incontro dei tre vivi e dei tre morti nella chiesa di San Luca a Cremona. Nell’antica sagrestia, un importante esempio dell’arte macabra medievale cristiana – da Storie del mondo – settembre 2006 64 108 MONTEFIASCONE (VT) 1300 -1302 Basilica di San Flaviano SESTO AL REGHENA (UD) 1350 ca. Chiesa di Santa Maria in Sylvis PISA 1335 ca. Camposanto BOSA (NU) 1340-45 Nostra Signora Sos Regnos Altos SUBIACO (Roma) 1362 ca. Sacro Speco Benedettino VERONA Inizio XV sec. Chiesa di San Fermo FOSSANOVA (LT) Inizio XV sec. Chiesa dell’abbazia CREMONA 1419 ca. Sacrestia Chiesa di San Luca CLUSONE (BG) 1484 Chiesa dei Disciplinati Dall’alto verso il basso: L’incontro dei tre vivi e dei tre morti della Cattedrale di Atri (TE) 1260/1270 L’incontro dei tre vivi e dei tre morti di Bosa (NU) Chiesa Nostra Signora Sos Regnos Altos A questo punto andiamo ad approfondire la rappresentazione dei tre vivi e dei tre morti di Melfi, non prima di aver letto questo interessante articolo uscito su La Repubblica nel 2002. 65 LA REPUBBLICA - ARCHIVIO STORICO – 10/10/2002 L' affresco e il Cacciatore. L'affresco è dipinto sulle pareti di una cappelletta duecentesca, persa nelle campagne alla periferia di Melfi. Titolo: Il trionfo della Morte. Vi sono rappresentati cinque personaggi: un uomo maturo con la barba rossiccia, una donna alta, bionda, occhi cerulei, e un giovanetto, anch’esso biondo, straordinariamente somigliante all’uomo con la barba. A fianco del quale ci sono due figure scheletriche, le pance infestate dai vermi. Brutte come la morte. Lello Capaldo, uno studioso napoletano, appassionato di storia medievale, quell'affresco l’ha visto, contemplato e esaminato. Più di dieci anni della sua vita li ha spesi per provare che i tre personaggi umani ritratti nell'affresco sono: Federico II di Hohenstaufen, imperatore dei Romani, re di Sicilia e di Gerusalemme, la seconda moglie, Isabella d’Inghilterra, il figlioletto Corrado IV. Insomma la famiglia imperiale al completo. Possibile, professore? Possibile. Anzi dopo dieci anni di studio, ne sono certissimo: sono proprio loro e quella è la vera immagine di Federico II che a Melfi soggiornò a lungo, anzi da questa città, nel 1231, proclamò le famose Costituzioni del Regno di Sicilia. Aspetti: immagini di Federico ce ne sono in giro, più o meno vere. Partiamo dall’inizio: la sua prima intuizione. Mi aggiravo nella cappelletta che qualche anno fa era in condizioni vergognose e ne notai subito l’architettura moresca: la volta carenata che si stringe alla base come ferro di cavallo, le immagini dei santi dipinte sui muri, tutte con l’aureola. Soltanto le figure del “Trionfo della morte” non l’avevano, non erano santi, dovevano rappresentare persone ben vive, scheletri a parte, è ovvio. E’ stata la prima cosa che mi ha colpito. Ed ho pensato che l’autore dell’affresco doveva riferirsi a persone conosciute, di cui si parlava. Ma cosa rappresenta questo dipinto? Rappresenta la caducità umana. Il punto è proprio questo. Un tema caro ai predicatori medievali. La morte raggiunge chiunque, anche i più potenti. Un ammonimento consolatorio per le umilissime genti che vivevano nelle contrade di Melfi e che frequentavano la chiesetta di Santa Margherita. E chi era da queste parti il personaggio più potente? Federico II. Esatto. Fu a questo punto che anche il pittorello dovette avere la folgorazione e pensò, allo scopo di rappresentare il massimo del potere, della ricchezza e della notorietà, di ricorrere all’immagine del monarca e della famiglia imperiale. E i tre dovevano essere anche ben riconoscibili. Quali sono gli elementi del dipinto che l’hanno convinta di più? Gli indizi sono numerosi, nessuno in contrasto con gli altri, e lei sa che molti indizi tutti tra loro concordi alla fine costituiscono una prova convincente. Elenchiamoli. Partiamo dalla figura centrale, l’Imperatore. La barba è rossiccia, la statura inferiore a quella della donna che gli è vicino, così come è storicamente documentato. L’abbigliamento, il manto di porpora con fregi che richiamano l’ermellino, è tipico di un sovrano, per non parlare del falcone sul braccio di Federico, che aveva una vera passione per questi volatili e per la caccia che con essi assiduamente praticava. Però non indossa la corona. Sarebbe strano il contrario: non la portava con sé quando girava in tenuta venatoria per campagne e per boschi dove popolani e contadini lo vedevano passare. Ed è così, perfettamente riconoscibile per la povera gente che frequentava Santa Margherita, che il pittore lo ha dipinto. Passiamo agli altri personaggi. La donna, alla cintura, porta un coltello da caccia, come le altre due figure che le sono a fianco. Scrive il medievista Duby nella sua “Storia delle donne - il Medioevo”, pubblicato da Laterza nel 1995, che nel XIII secolo erano le donne a dover essere biasimate a causa del loro abbigliamento mascolino, ché in Inghilterra si recavano ai tornei a cavallo portando pugnale alla cintola, più simili a partecipanti che a semplici spettatrici. Nel nostro caso Isabella si reca ad una battuta di caccia col marito e con il figlio, o meglio il figliastro Corrado, prediletto da Federico avuto dalla seconda moglie, Iolanda di Brienne nel 1228, che però non sarebbe mai stato in Apulia e cioè a Melfi, contemporaneamente alla regina. L’imperatore escluse l’avvenente moglie inglese dalle manifestazioni ufficiali, però la voleva con sé nella quotidianità e nelle battute di caccia, alle quali partecipava anche il figlio Corrado. Ed è allora plausibile e probabile che il pittorello abbia messo insieme i tre personaggi, che lui potrebbe aver conosciuto in momenti diversi. Quando fu dipinto l’affresco? Fra il 1235, anno in cui Corrado partì per la Germania, e il 1241, anno della scomparsa di Isabella. La regina, ricordiamolo, morì a Foggia e fu sepolta nel duomo di Andria. E da Foggia Federico andava a Melfi, spesso, molto spesso, insieme alla sua famiglia. Però, quel giglio sulle borse di caccia indossate dalle tre figure, potrebbe essere di matrice angioina o di matrice sveva, perché no? Il giglio da sempre è simbolo di regalità e poi Federico Barbarossa, nonno del Nostro, è raffigurato, in una miniatura del tredicesimo secolo, seduto sul trono e munito di un grande scettro a forma di giglio araldico, cioè di iris stilizzato; lo stesso Federico, in una delle sue più note raffigurazioni, quella che apre il trattato “De Arte venandi cum Avibus” (l’arte di cacciare con il falcone, n.d.a.) impugna un fiore di giglio. Sulle borse della famiglia imperiale è dipinto anche uno stilizzato fiore con otto petali. Immagine che è stata ritrovata, ricamata, sulle vesti della mummia di Federico quando fu riesumata nel 1782. Ma c’è di più: la mummia portava un anello col castone a forma di un fiore con otto petali che si presenta quasi come un sigillo. Io ritengo che esso si ispiri al fiore di loto, per antica convenzione rappresentato con otto o sedici petali, un simbolo nato nella cultura orientale e carico di significati mistici. Federico 66 prediligeva questa figura che richiamava sia geometrie di monumenti da lui molto ammirati come la moschea di Omar, sia un simbolismo ricco di valori che egli stesso ben conosceva: non dimentichiamo che fu incoronato con una corona ottagonale in una cattedrale, Aquisgrana, di impianto ottagonale racchiuso in una galleria con sedici lati e che aveva un lampadario ottagonale con otto torri angolari. Otto, otto, otto quasi un’ossessione per l’Imperatore. Può darsi, ma i pugliesi dovrebbero essergliene grati perché sa che questa “ossessione” gli fece concepire quello straordinario monumento di Castel del Monte. Ma per finire sull'ottopetalo e sul giglio sono segni esibiti da Davide, re di Israele, da sempre considerato predecessore degli imperatori del Sacro Romano Impero che ambivano a regnare su Gerusalemme. Con lui Federico tendeva ad identificarsi idealmente e noi lo possiamo vedere raffigurato su una antichissima vetrata della cattedrale di Augusta, capitale della Svevia, nell’atto di esibire come scettro un giglio stilizzato e mostrandosi coperto con un mantello affibbiato con un fermaglio a forma di fiore ottopetalo. Il mondo accademico e gli storici di professione, cosa ne pensano di questa sua scoperta? Ho mandato i miei studi a storici tedeschi che ne hanno discusso in convegni internazionali e li hanno pubblicati. Il preside della facoltà di lettere dell’Università Federico II di Napoli ha scritto che gli affascinanti studi di Capaldo contribuiscono in maniera intelligente ed originale, ma metodologicamente correttissima, alla migliore conoscenza dell’età di Federico. Allora, se anche gli accademici sono d’accordo con i suoi studi e le sue affermazioni… Non tutti. Nell’ambito dell'Università di Bari mi osteggiano, perché ho intuito quanto loro per decenni hanno ignorato o forse perché ho osato confutare la tesi del professor Ferdinando Bologna, enunciata negli anni Sessanta, secondo la quale il dipinto è un' opera posteriore al 1266, cioè di epoca angioina, perché sarebbe stato il casato francese a elevare il giglio a simbolo reale. E gli Hohendstaufen, Barbarossa, Arrigo VI e Federico II, dico io, non erano forse re, e non lo hanno ampiamente adottato prima degli Angioini? Se fosse vera la tesi di Ferdinando Bologna le tre figure sarebbero dei cacciatori. Uno di essi con un volto da femmina e un atteggiamento materno, l’altro un ragazzino, e il terzo un uomo con la barba rossa. E tutti e tre con i vestiti pieni di simboli regali che, in quanto tali, nessun signore del luogo avrebbe mai osato esibire. Francesco Sernia 10 ottobre 2002 Basilica rupestre Santa Margherita Melfi – Incontro dei tre vivi e dei tre morti 67 In Basilicata, a metà strada tra la cittadina di Melfi e Rapolla, si trova la Chiesa rupestre di Santa Margherita. Praticamente abbandonata fino al 1930, la chiesa si presenta oggi completamente restaurata come un autentico gioiello, splendido esempio di contenitore di bellissime pitture rupestri medioevali. Nella cripta, l'immagine più suggestiva è sicuramente quella dell'affresco che rappresenta il tema de L'incontro dei tre vivi e dei tre morti. L'identità dei tre vivi, due uomini ed una donna, per decenni è stata oggetto di studi, fino a quando, nel 1993, il critico napoletano Raffaele Capaldo arrivò alla conclusione che quella immortalata dall'ignoto autore medioevale sia nientemeno che la famiglia imperiale Sveva: Federico II, la sua terza moglie Isabella d'Inghilterra, 110 e suo figlio Corrado IV, nato dal matrimonio con la seconda moglie di Federico II, Jolanda di Brienne. Da quel poco che sappiamo, per quanto riguarda l'aspetto fisico ci dovremmo essere: il cronista saraceno Sibt Ibn Al Giawzi, che incontrò personalmente Federico II durante il soggiorno di quest'ultimo a Gerusalemme, lo descrisse in questi termini: di pel rosso, calvo, miope. Sul guanto del presunto imperatore inoltre è appollaiato un falcone, quindi i tre personaggi sono nel pieno di una battuta di caccia con il falcone, e la falconeria era una materia in cui Federico II era un maestro assoluto, non solo nella sua pratica, ma anche nel teorizzarla come arte nobile, tanto che scrisse un trattato sull'argomento, un vero e proprio capolavoro, composto da sei volumi, una delle opere più complete di ricerca naturalistica mai realizzate prima di allora: il De arte venandi cum avibus. Se a questi indizi aggiungiamo che l'Imperatore ha avuto un intenso rapporto con il territorio di Melfi, non ci sarebbe niente di strano nel ritenere possibile che qualcuno possa avere concepito in questo contesto la realizzazione di una rappresentazione di Federico II ritratto insieme alla sua famiglia, e, anche se questa ipotesi ha destato inevitabilmente qualche perplessità, è da ritenersi, per quello che mi riguarda, vedremo meglio in seguito perché, sicuramente verosimile. L’argomento principale di chi esclude a priori l’eventualità che la figura centrale ritratta possa essere di genere femminile riguarda la capigliatura della presunta Isabella d’Inghilterra, in quanto portare i capelli lunghi sciolti in pubblico, senza nessun tipo di copricapo, in epoca medievale non era concesso alle donne sposate. Questo privilegio era prerogativa delle vergini, quindi in teoria la discussione in merito sarebbe già conclusa, ma se l’osservazione sulla capigliatura e sull’assenza di un copricapo sicuramente è degna di considerazione in un contesto diciamo così normale, diventa sicuramente più debole se la contestualizziamo all’interno del complicato rapporto di cui abbiamo già avuto modo di parlare tra papato e imperatore. E’ molto improbabile che un ritratto di Federico II con la sua famiglia all’interno di una chiesa potesse risultare gradito alle autorità religiose, quindi è plausibile pensare che chi ha realizzato l’affresco o, chissà, la committenza, lo abbia fatto diciamo in incognito, in modo che la cosa non fosse percepibile o che perlomeno non fosse proprio evidente. A questo punto, prima di entrare nel vivo delle argomentazioni che mi hanno spinto a portare avanti questo lavoro, vorrei fare qualche considerazione di ordine pratico diciamo sul metodo. Portare avanti uno studio iconografico, o in generale di ricerca documentale, è diventato, per vari motivi, molto più semplice che in passato, in quanto le difficoltà classiche delle condizioni contingenti per effettuare qualsiasi tipo di studio, in primis l’accessibilità ai documenti, il tempo disponibile, e perché no, l’accesso ai finanziamenti necessari per operare, hanno conosciuto uno sconvolgimento radicale. Gli strumenti di catalogazione disponibili fino a pochi anni fa non rendevano possibile una fruizione piena della seppur poderosa mole di materiale presente negli archivi di tutto il mondo, materiale che spesso risultava inaccessibile e di difficile esplorazione, situazione attualmente superata con l’aumento vertiginoso delle capacità di archiviazione digitale e dalla moltiplicazione dei database riguardanti le immagini e i documenti medievali. La consultazione di tali database, in gran parte disponibili gratuitamente on line, permette di poter accedere a un infinito numero di informazioni e di incrociare dati in un tempo ragionevole e con un efficacia prima impensabile. 111 110 111 Vedi sezione dedicata a pagina 70 Vedi ad esempio il database www.monasterium.net 68 Dell’Historia della città, e regno di Napoli Tomo secondo - G. Antonio Summonte Napolitano – Napoli - Bulifon 1675 69 Federico II e le donne La bibliografia federiciana comprende migliaia di titoli, tuttavia su questo tema ci sono poche e sporadiche notizie perché Federico II fu sempre molto riservato e non lasciò testimonianze dirette, a parte qualche nota parziale che comunque ci fa conoscere questo aspetto della personalità dell’imperatore. Si ricordano quattro mogli, di cui le prime tre gli furono imposte dalla ragion di Stato ben rappresentata dai papi, sette concubine e un gran numero di amanti con cui consumò incontri occasionali, senza contare le saracene del suo mitico harem. Le mogli di Federico, a parte qualche apparizione in rari eventi ufficiali, vivevano nell’ombra del marito. Furono utili praticamente solo per fornire qualche erede legittimo alla Casa di Svevia, in aggiunta ai più numerosi bastardi. Nessuna di loro riuscì a giocare un ruolo politico apprezzabile, schiacciate dalla personalità del marito ed oltre tutto sempre chiuse nei palazzi dorati della Corte. Costanza d’Aragona Federico sposò Costanza d’Aragona quando aveva 15 anni, nel 1209. Al matrimonio fu quasi costretto da Innocenzo III che aveva esercitato su di lui la tutela richiesta dalla madre, Costanza d’Altavilla, in punto di morte. Con questa iniziativa il pontefice intendeva affiancare al giovane e recalcitrante delfino della Casa di Svevia una donna religiosissima, affidabile, molto più anziana di lui, in grado di indirizzarlo sulla via dell’obbedienza verso l’autorità romana: si sbagliava di grosso. Federico accettò l’imposizione obtorto collo e non modificò la sua vita. Dall’unione nacque Enrico VII, che da adulto assunse nei confronti del padre atteggiamenti di aperta sfida; morì forse suicida mentre era prigioniero nelle carceri imperiali. Costanza morì nel 1222. Jolanda di Brienne Le nuove nozze di Federico con Jolanda (o Isabella) di Brienne furono paternamente sollecitate da Onorio III in vista della VI Crociata in Terra Santa. La giovane infatti era figlia del cattolicissimo Giovanni, un valoroso crociato che le avrebbe lasciato in eredità la Corona di Gerusalemme: un titolo di scarso valore patrimoniale ma utile per il successo della nuova spedizione. Anche Federico ambiva fregiarsi del nuovo titolo, 112 ma per motivi un po’ diversi: egli considerava la corona un elemento determinante per concludere l’impresa con un accordo diplomatico, dimostrando che era possibile affermare la fede pacificamente, senza spargimento di sangue. L’unione fu benedetta il 9 novembre 1225 nel duomo di Brindisi. Jolanda aveva allora 13 anni; era immatura, bruttina, poco all’altezza di figurare accanto ad un trentenne colto, avviato alla gloria. Giusto la prima notte di matrimonio, Federico trovò il modo di consolarsi: e lo fece con la cugina della moglie, Anais. Venuto a conoscenza dell’increscioso fatto, Giovanni di Brienne si rivolse al pontefice che si guardò bene dal disturbare Federico ed evitò lo scandalo limitandosi ad indennizzare il deluso padre con un remunerativo incarico presso la Corte romana. Jolanda diede al marito due figli, Corrado IV e Margherita, e morì nel 1228, a soli 16 anni, per postumi da parto. Isabella d’Inghilterra Figlia di Giovanni Senzaterra re di Inghilterra e di Isabella d'Angouleme e sorella del re d'Inghilterra Enrico III. Inizialmente Isabella fu promessa sposa di Enrico, figlio di Federico II, ma nel luglio 1235 nella Cattedrale di Worms sposò Federico, che era rimasto vedovo nel 1228 di Iolanda di Brienne. Fu papa Gregorio IX a caldeggiare queste nozze per consentire all’imperatore di avvicinarsi ai ricchi guelfi germanici che nemmeno lui riusciva a controllare ed ai potentati d’oltre manica. Isabella fu madre di Margherita e di Enrico detto Carlotto, morto in giovanissima età; e calerà nella tomba nel 1241, in pieno conflitto del marito con Gregorio IX. Isabella morì nel dare alla luce una bambina, che morì subito dopo la nascita, e venne sepolta nella cripta della sua Cattedrale di Andria. 112 Dopo il matrimonio tra Federico II e Jolanda di Brienne, il padre della sposa, Giovanni di Brienne, ottiene dal papa il controllo amministrativo del territorio tra Viterbo e Montefiascone (l'attuale Commenda? N.d.a.), in cambio della sua rinuncia alla corona di Re di Gerusalemme che viene assegnata a Federico II - Storia delle Crociate G. Michaud Antonio Fontana Milano 1832 70 Bianca Lancia Bianca Lancia, della nobile famiglia piemontese dei Lancia, fu l’unica donna che riuscì a conquistare veramente il difficile cuore di Federico. I due si conobbero nel 1225, pochi mesi dopo lo sfortunato matrimonio con Jolanda di Brienne: fu un reciproco colpo di fulmine. Non potendo convolare a giuste nozze, i due mantennero una relazione clandestina ma tutt’altro che segreta, tanto che da essa nacquero due figli, forse tre: Costanza, Manfredi, alcuni dicono Violante. Secondo una leggenda che ci è stata tramandata da padre Bonaventura da Lama e ripresa dallo storico Pantaleo, durante la gravidanza di Manfredi Federico tenne rinchiusa l’amante in una torre del castello di Gioia del Colle. Desiderio di riservatezza, capriccio, gelosia? Il Bonaventura propende per quest’ultima, anche se l’aspetto del figlio, somigliantissimo al padre, smentirà ogni più lieve dubbio. Resta il fatto che la sensibile principessa non poté resistere all’umiliazione; vinta dal dolore, si tagliò i seni e li inviò all’imperatore su di un vassoio assieme al neonato. Dopo di che, conclude il cronista, passò ad altra vita. Da quel giorno, ogni notte, nella torre del castello detta ora Torre dell’Imperatrice si ode un flebile, straziante lamento: il lamento di una donna offesa che protesta all’infinito la propria innocenza. Se questa è leggenda, la storia è un po’ più controversa ma non meno toccante. Secondo alcuni nel 1246 Federico, nel frattempo vedovo della terza moglie Isabella, si trasferì da Foggia al castello di Gioia del Colle dove trovò l’amante assai sofferente. La donna gli chiese allora di legittimare i tre figli nati dal loro amore, unendosi a lei con un regolare matrimonio: cose che avvenne e che consentì a Bianca di essere per pochi giorni un’imperatrice. 113Secondo la Chronica di fra’ Salimbene da Parma, il matrimonio avvenne invece in punto di morte dell’imperatore. 114 Federico II e Bianca Lancia - Codex Manesse Federico II e Isabella d’Inghilterra 113 Geltrude, nipote di Federico d’Austria, ultima promessa sposa di Federico, si sottrasse all’ultimo momento alle nozze con l’Imperatore svevo perché le erano giunte delle voci che accusavano il sovrano di aver fatto avvelenare le sue mogli. N.d.A. 114 Le informazioni sulle donne di Federico sono tratte da Il Fieramosca – C. Franco 2005 – e da Stupormundi.it - A. Gentile 71 Papa Onorio III dà in moglie a Federico II la giovane Jolanda di Brienne, figlia di Giovanni di Brienne re di Gerusalemme, dalla Cronica di Giovanni Villani - Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica vaticana. 72 Eretici al rogo - dal Liber Chronicarum di Hartmann SchedelJ. Schönsperger, 1497 73 CAPITOLO V Le Costituzioni di Melfi – La lotta agli eretici La normalizzazione dell’ordine francescano Federico II voleva coltivare una nuova classe dirigente, funzionale alla sua burocrazia. La curia regis aveva bisogno di persone di cultura elevata, giuristi qualificati fondamentali per l’amministrazione dello stato. A tale scopo, nel 1224 nasce l’Università di Napoli. L’Università di Napoli si differenziava da tutti gli altri atenei di allora (Bologna, Modena e Reggio Emilia, Vicenza, Arezzo e Padova) su un punto fondamentale: la Chiesa non aveva nessun potere riguardo il reclutamento dei docenti. A quel tempo la patria riconosciuta degli studi giuridici era Bologna, sede della prima, prestigiosissima università del mondo, fondata nel 1088. Federico voleva però evitare che i futuri funzionari della sua amministrazione si nutrissero del clima contrario all’impero che si respirava a Bologna e in molte altre località dell’Italia settentrionale. Così, Federico II assicurò ai nuovi, potenziali studenti, tutta una serie di agevolazioni, a partire dalle spese di iscrizione più basse, fino alle convenzioni per gli alloggi a prezzo fisso e alla possibilità di borse di studio per gli studenti più poveri. Il sovrano svevo pensò perfino a un pasto statale per gli alunni più bravi. E non trascurò di far intendere che, da quel momento in poi, studiare a Napoli per poi sedere nei tribunali del Regno, era garanzia di un sicuro arricchimento, non solo culturale. Ma per farsi capire meglio, arrivò anche alle minacce. Vietò a chiunque di lasciare il Regno per studiare o insegnare altrove. Stabilì inoltre che nessun suddito dell’Impero o del Regno di Sicilia avrebbe più potuto praticare gli studi a Bologna, pena la decadenza da una serie di diritti essenziali, a partire da quello di poter fare testamento. E arrivò a colpire nelle persone e negli averi gli stessi genitori degli studenti qui de regno sunt extra regnum in scolis. Così, al pari di Bologna e Parigi, l’università partenopea divenne un centro internazionale di insegnamento superiore. Questa visione laica della gestione dello stato e della società portata avanti da Federico II si materializzò qualche anno dopo con le Constitutiones Melphitanae, note anche come Liber Augustalis. Emanate nel 1231 a Melfi, nell’attuale Basilicata, esse rappresentano il primo codice medievale inteso non solo come raccolta di leggi preesistenti, ma anche come superamento della concezione statuale feudale e premessa per la costruzione di un modello di Stato moderno. In altri termini all’unità politica doveva corrispondere un’unità giuridica del regno. La redazione di tale imponente opera legislativa fu affidata ai maggiori giuristi dell’epoca, tra cui spiccano i nomi di Pier delle Vigne, 115 Jacopo di Capua, Michele Scoto, Roffredo di Benevento, i quali riuscirono a sintetizzare in perfetta armonia norme di diritto romano-giustinianeo con norme di origine longobarda, normanna, canonica. L’opera si suddivide in tre libri, ciascuno dei quali ha la sua rubrica. Il primo disciplina l’ordinamento del regno, soffermandosi in modo particolare sul ruolo del sovrano, delle magistrature e delle finanze; il secondo si occupa del diritto processuale, mentre il terzo comprende norme eterogenee che lambiscono il diritto privato, penale e feudale. Le Constitutiones sono modernissime anche in altri campi, come quello sanitario. In esse è infatti per la prima volta affrontato il problema della salvaguardia dell’igiene nelle città, attraverso la regolamentazione delle attività di pulizia, ed è inoltre vietato l’esercizio della professione medica senza un diploma universitario ed una adeguata licenza. Se si guarda poi al contenuto di tali norme, non si può che rimanere sbalorditi dalla loro modernità, soprattutto rispetto a quelle che disciplinano l’amministrazione della giustizia. L’affrancamento del potere imperiale da quello ecclesiastico da un lato e da quello delle baronie locali dall’altro, appare chiaro già nella ripartizione del potere: esso ritornava pienamente nelle mani dell’imperatore, che lo esercitava affiancato dalla Magna Curia, ovvero il consiglio dei massimi funzionari imperiali. I baroni dovevano sottostare all’autorità imperiale non potendo più amministrare la giustizia e venivano controllati attraverso la creazione di un vasto sistema burocratico fedele al sovrano. La supremazia dell’imperatore sul Papa fu inoltre avvalorata da una serie di norme contro l’eresia o contro altri crimini anticristiani, la cui repressione non è più affidata ai tribunali ecclesiastici ma alla giustizia laica dell’imperatore. Agli ecclesiastici era fatto divieto di interferire negli affari secolari. Gli ebrei e i musulmani erano esplicitamente sotto la protezione del re, il che garantiva loro di poter esercitare il proprio culto abbastanza 115 Pier delle Vigne fu uno degli uomini più dotti del suo tempo. Conosceva bene il diritto canonico e civile, la filosofia. Fu maestro di retorica e dell’arte poetica. E’ considerato uno dei primi poeti della Scuola Siciliana. Fu pronotario dell’Impero, una sorta di primo ministro. Fu ucciso dopo feroci torture su ordine dello stesso Federico II con l’accusa di averlo tradito partecipando al complotto ordito da Innocenzo IV per uccidere l’imperatore 74 liberamente e al riparo da possibili persecuzioni. 116 Anche Gregorio IX aveva avviato un ambizioso progetto di un suo codice di diritto canonico (lo promulgherà nel 1234) e, una volta appresa la notizia dell’opera messa in cantiere dall’imperatore, tentò di bloccarla. Gridò così allo scandalo in due lettere 117 indirizzate rispettivamente a Federico e all'arcivescovo di Capua Giacomo, ritenuto magna pars nella compilazione del testo. Simili novità sono solite suscitare gravi scandali è scritto nella lettera a Federico, e in quella all'arcivescovo capuano si parla di Costituzioni suscitatrici di enormi scandali. L’invito a Federico II a desistere dall’impresa era motivato non solo da questioni di ordine pratico, dalla preoccupazione di possibili lesioni agli interessi della Chiesa, che sarebbero state evitate proprio dalla diffida preventiva, ma anche e soprattutto da motivi ideologici, che rendevano queste leggi assolutamente non tollerabili. La dimensione politica del disegno implicito nelle Costituzioni, ossia un ridimensionamento del ruolo della Chiesa nella gestione dello Stato, fu subito colta dal papa, che ammoniva lo Svevo a non confondere coloro che colpivano la celsitudo regia con coloro che costituivano un pericolo per la fede, ossia gli errantes con gli haeretici. A proposito di eretici, Federico II si era sempre contraddistinto per la promulgazione e la successiva spesso feroce applicazione di leggi severe nei confronti dei movimenti ereticali, leggi che spesso venivano usate anche come arma di pressione nei confronti di potenziali oppositori, in quanto stabilivano la possibilità di espropriare i beni di chi si fosse macchiato di esercitare l’eresia. Solo successivamente, dopo la scomunica nei suoi confronti del 1239 da parte di Gregorio IX e la situazione di perenne scontro confermatasi anche con Innocenzo IV, con la propaganda papale che dipingeva a questo punto lo stesso imperatore come eretico, antesignano dell’Anticristo o addirittura come l’anticristo stesso, Federico cominciò a cambiare atteggiamento nei confronti degli oppositori della Chiesa vicini all’eresia, che oltre a contestare le istituzioni e i comportamenti ecclesiastici si schieravano apertamente con l’imperatore, attribuendogli un ruolo di salvatore della fede 118. Contro il sospetto di eresia che vivamente lo feriva, formulò veementi ed esplicite ed ortodosse professioni di fede e di devozione al Cristo ed alla sua Chiesa. Dopo la morte di Gregorio IX suo implacabile nemico Federico inviò alle sue truppe operanti nel territorio romano una lettera che se può essere opera d'un avversario dichiarato non è davvero quella di un incredulo. Egli accusa il morto pontefice di aver provocato il dissidio tra il Papato e l’Impero e confessa di essere stato mosso da odio personale verso di lui, odio suscitato dalle ingiurie pubbliche e dalle palesi prove della sua inimicizia, ma tuttavia egli si duole della sua morte e dichiara che sarebbe stato ben lieto qualora Dio gli concedesse di metter pace tra la sacrosanta Chiesa, sua madre, e l’Impero, eliminando cosi uno scandalo che affliggeva tutta la cristianità. Egli fa voti perchè sul trono papale abbia a sedere un uomo che ami la pace e la giustizia e die ripari gli errori del suo predecessore. 119 Secondo Huillard-Brèholles 120, uno dei più autorevoli conoscitori della persona e dell'opera di Federico II, l'imperatore professava in cuor suo un razionalismo filosofico. Però tale scetticismo sarebbe stato ad uso e consumo suo personale, non oltrepassando i limiti di un piccolo circolo di intimi confidenti. In altre parole, secondo lo storico francese, Federico II sarebbe stato come uomo privato e come letterato un libero pensatore, mentre come uomo pubblico e come sovrano di popoli cristiani, avrebbe en apparence rispettato il dogma ed il culto cattolico. In tal modo le accuse del papa, non sarebbero state giustificate dalla condotta pubblica di Federico, ma sarebbero state sostanzialmente vere. Gran parte delle accuse che riguardano l’ortodossia di Federico sono dovute ad una contaminazione profetica che si sviluppò specialmente in quegli ambienti ostili all’imperatore pervasi di esaltazione mistica e d’ispirazione gioachimitica 121. Quasi tutta questa letteratura profetica è ostile a Federico. Un caratteristico motivo della leggenda profetica federiciana è quello che si riferisce alla incarnazione dell'Anticristo nella persona dell’imperatore. Si affermava nei circoli gioachimiti che, se non proprio l'Anticristo preannunziato dall'Apocalisse, uno degli Anticristi raffigurati in alcune figure dell'Antico 116 Riferimenti bibliografici: D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Vol. I, Bari 1973. John Julius Norwich, Il Regno nel Sole. I Normanni nel Sud: 1130-1194. Milano, 1972.Mario Ascheri, Appunti di storia del diritto nel Medioevo, Bologna, 2006. M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Federico II, ragione e fortuna, Bari, 2005. Cit. Massimo Manzo Federico II e le Costituzioni Melfitane Il primo corpus legislativo di uno stato moderno in Europa www.instoria.it nr 53 maggio 2012 117 Kenneth Pennington pag. 60-61 1989 118 Negli anni quaranta del duecento, nel popoloso ducato di Svevia, colpito da scomunica, perché rimasto tenacemente fedele agli Hohenstaufen, si diffuse un movimento ereticale che inneggiava a una chiesa dei poveri e negava al clero il potere di somministrare i sacramenti; era inoltre sostenuto dalla convinzione che l’Imperatore Federico II e suo figlio Corrado fossero meritevoli di guidare la nuova chiesa degli umili, e che per loro, non per il papa, bisognava pregare. F.Tessitore Archivio storia della Cultura - Anno XIX 2006 Liguori Editore 119 Antonino de Stefano - Federico II e le correnti spirituali del suo tempo – Como Tip. Coop A.Bari 1922 120 Cit. Antonino de Stefano – vedi nota 25 121 Da Gioacchino da Fiore N.d.a. 75 Testamento fosse appunto Federico II. 122 Fra Salimbene, 123 che fu gioachimita e ci credette, confessa che non avrebbe mai prestato fede all'annunzio della morte dell'imperatore, se non l'avesse udito dalla bocca infallibile dello stesso papa Innocenzo IV, quando questi ne aveva dato notizia al popolo di Ferrara 124. Innocenzo IV aveva affidato la propaganda antimperiale soprattutto ai Domenicani, propaganda esercitata ferocemente, anche se poi in seguito alla scomunica e la deposizione dell’imperatore davanti alla Chiesa del 17 luglio 1245, ci fu una presa di posizione a favore di Federico, che si concretizzò in una riunione indetta a Parigi nel 1246 che costrinse il papa a minacciare punizioni. Una situazione analoga si presentò nei rapporti tra l’imperatore e i Francescani. Che Federico non nutrisse prevenzioni contro l'Ordine dei Minori lo dimostra il fatto che parecchi francescani erano stati chiamati a insegnare presso l’università di Napoli. Alla morte di Francesco, 125 nel 1226, la famiglia francescana sì divise in due grandi gruppi: quello dei rigoristi o intransigenti, detti anche Spirituali, più tardi Fraticelli, i quali intendevano rimanere fedeli allo spirito e alla lettera dell’insegnamento pauperistico di san Francesco, e quello dei Conventuali, che interpretavano in maniera meno severa l’invito di Francesco alla povertà, che veniva così annacquato con il riconoscimento della soddisfazione di alcune necessità della vita terrena. Non passò molto tempo che le frange più estremiste del movimento Spirituale, considerate al limite dell’eresia per via delle loro critiche nei confronti della Chiesa considerata materialista, con il papa spesso additato come l’Anticristo, secondo una interpretazione che veniva dalla lettura di Gioacchino da Fiore, cominciarono a guardare con simpatia all’imperatore. L’opposizione francescana al papa era ancora ascetica, ma in alcuni casi stava per diventare una opposizione di tipo politico, quasi ghibellina. Alla morte di Francesco, il 4 ottobre del 1226, la guida dell’ordine francescano fu assunta da Giovanni Parenti fino al 1232 e, dopo alterne vicende venne nominato colui che Francesco in vita aveva di fatto decretato come suo successore: Elia da Cortona. Vicino ai Conventuali, sotto la sua guida ad Assisi vennero edificate la Basilica di San Francesco, il Sacro Convento e il campanile. Elia aveva una concezione laica dello stato, era un 122 Al contrario, i partigiani dell’imperatore assimilavano il papa, giudicato indegno o eretico, all’Anticristo. Tornando a noi, è interessante sottolineare che il primo a parlare apertamente in questi termini del papa, fu proprio l’Arcivescovo di Salisburgo, Eberardo II, il quale affermò che la cifra della bestia indica Innocenzo IV, eletto papa nel 1243: si trova infatti il numero 666 nel nome Innocentius papa - Jean Flori - La fine del mondo nel Medioevo Ed il Mulino 2010 123 Salimbene de Adam da Parma (1221 - m. dopo il 1288), Francescano dal 1238, cronista, per qualche tempo seguace delle idee gioachimite. Di lui rimane una sola Cronaca, mutila, delle molte che scrisse. La parte rimasta riguarda gli anni 1168 - 1287. La lingua è latina, ma fa spesso intravedere il volgare. L’autografo è alla Vaticana (Ms. Vat. lat. 7260). 124 Secondo Federico, fu Innocenzo IV ad istigare il suo medico personale a tentare di ucciderlo con il veleno. 125 S. Francesco nacque attorno al 1182. Di lui sappiamo che era di famiglia borghese (il padre era mercante), che leggeva romanzi cavallereschi, che conosceva il francese. Militò nella guerra contro Perugia e fu fatto prigioniero. Attorno al 1206 si situa il periodo della prima conversione, contrastata dal padre (meno dalla madre). Davanti al vescovo egli rinuncia solennemente all’eredità paterna; poi si ritira a vivere da eremita presso la chiesetta di s. Damiano, dove, secondo la tradizione, il crocefisso all’interno della chiesa gli avrebbe parlato per esortarlo a riparare la Chiesa che cadeva in rovina. Nel 1208 o 1209 c’è la seconda conversione, che si svolge in due tempi: un giorno Francesco, sentendo leggere in chiesa il vangelo della missione degli apostoli, che non dovevano prendere con sé né bisaccia né sandali, dopo la messa chiede al sacerdote la spiegazione del passo; avendone avuto un puntuale commento, esclama: Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore, quindi decide di lasciare la vita eremitica e di vivere secondo la forma del santo vangelo. Il secondo tempo si ebbe quando attorno a lui si raccolsero dei compagni; a questo punto Francesco capì che la sua scelta era definitiva. Nel 1209 Francesco e i suoi compagni si recano a Roma per avere l’approvazione del papa, e soprattutto il permesso di predicare; ricevono udienza ed un’approvazione solo orale; nell’occasione ricevono la tonsura e Francesco, dicono, il diaconato. Il sogno di Innocenzo III (avrebbe sognato il Laterano cadente e Francesco che lo sosteneva) è un furto perpetrato dai francescani ai danni dei domenicani (il santo sognato da Innocenzo era Domenico). Tra il 1212 e il 1214 Francesco tenta di raggiungere il Marocco per predicare al sultano Mohammed ben Nasser ma una grave malattia lo costringe a interrompere il viaggio in Spagna. La sua presenza al Concilio Lateranense IV del 1215 `e affermata dalla tradizione, ma senza prove. Nel 1219 si imbarca per l’Egitto; predica al sultano Malik-Kamil, ovviamente senza successo, ma ricevuto con calore. Ivi lo raggiunge un frate laico, con le nuove Costituzioni approvate dall’Ordine in sua assenza. Francesco capisce che i suoi frati avevano deciso cose ben diverse da quelle che aveva in mente, e si precipita a Roma, dove Onorio III cancella le novità. Con l’occasione viene nominato un Protettore dell’Ordine, nella persona del cardinale Ugolino, molto vicino a Francesco. E questa la prima crisi dell’Ordine, che avrà una storia tanto travagliata. Nell’autunno del 1220 Francesco si dimette dalla guida dell’Ordine. Suo successore è Pietro Cattani, poi alla morte di questi (1221), frate Elia da Cortona, non come generale, ma come vicario. Da questo punto in poi la salute di Francesco peggiora sempre più. Nel 1221 Francesco compone una seconda Regola (la prima, quella del 1209, è andata perduta), che però suscita tante proteste da rimanere non bollata, ossia priva dell’approvazione pontificia. Nel 1223 scrive un’ultima Regola, che questa volta viene bollata. Nel 1224, alla Verna, avviene il discusso episodio dell’apparizione del Serafino e dell’impressione delle stimmate. Intorno al 1225 Francesco scrive, in più tempi, il Cantico di Frate Sole. Nel 1226 scrive il Testamento, nel quale tenta di reintrodurre le parti cassate della Regola non bollata. Prescrive che il Testamento abbia pari dignità rispetto alla Regola bollata. Francesco muore il 4 ottobre 1226. Dopo essersi fatto distendere nudo sulla nuda terra disse ai frati: Io ho fatto la mia parte; la vostra Cristo ve la insegni - Giuseppe Giudice – Considerazioni su Francesco d’Assisi - 2002 76 sostenitore della distinzione tra potere spirituale e temporale, motivo per cui aveva instaurato un ottimo rapporto personale con Federico II, che lo considerava dilecto familiari et fideli nostro. L’amicizia e l’apprezzamento per Frate Elia da parte dell’imperatore, che aveva indotto Gregorio IX ad affidargli delicati incarichi, non aveva prodotto il risultato sperato e aveva finito con il mettere in cattiva luce il ministro generale. Nel 1238 la mediazione tra Gregorio IX e Federico II ebbe esito negativo e si concluse nel 1239 con la scomunica dell’imperatore. Elia si schierò apertamente dalla parte di quest’ultimo e fu a sua volta scomunicato, attirando un enorme scandalo sull’Ordine. Elia rimase molti anni al fianco di Federico II, e solo in punto di morte, nel 1253, fu assolto e riconciliato con la Chiesa. 126 Elia fu sostituito da Alberto da Pisa, che, seppure morì solo un anno dopo essere stato eletto, ebbe il tempo di rivedere il breviario in uso presso i francescani, sostituendolo con uno conforme alla consuetudine della Chiesa romana, cominciando con quella normalizzazione dell’ordine che fu poi portata a termine nel 1257 con la elezione di Ministro Generale dell’Ordine francescano di Bonaventura di Bagnoregio, che prese il posto di Giovanni da Parma, il Ministro Generale che guidava l’Ordine con rigore e austerità, reclamando l’applicazione radicale della proposta di vita di Francesco, e che non faceva mistero di condividere le idee di Gioacchino da Fiore, e che proprio per queste sue posizioni, fu costretto a dimettersi. 127 Per capire il clima che si respirava all’interno dell’Ordine basta pensare che Bonaventura nel 1261 organizzò un processo a Città della Pieve contro il suo predecessore, Giovanni da Parma, che avrebbe volentieri condannato al carcere perpetuo, se non fosse intervenuto il cardinale genovese Ottobono Fieschi. Bonaventura raccolse un Ordine lacerato da divisioni interne. I frati erano divisi sulla loro identità, indecisi se mantenersi fedeli al Francesco delle origini o accettare i mutamenti avvenuti all’interno dell’Ordine ormai clericalizzato e strettamente legato al pontefice e alla sua politica. 128Il movimento francescano stava assumendo proporzioni inaspettate, soprattutto per il favore che esso godeva presso le classi meno abbienti; al punto che per la stessa Chiesa rischiava di diventare una minaccia. Infatti, la sua rivalutazione della povertà era in netto contrasto con la realtà della curia papale, centro di affluenza di grandi capitali. L’amministrazione di questi capitali era in mano ai potenti banchieri fiorentini, che avevano abilmente soppiantato i loro rivali senesi. Le preoccupazioni romane erano anche le loro. Gli interessi economici comuni li univano in questa diffidenza soprattutto verso le frange estremiste dei francescani, gli Spirituali, che interpretavano in senso radicale l’aspirazione alla povertà ed erano infatti fortemente avversi alla Chiesa di Roma. Sia la curia romana che la ricca borghesia fiorentina avevano interesse ad addomesticare il movimento francescano, ad integrarlo entro le strutture di potere vigenti, a sostenerlo per guidarlo. In questo si appoggiavano alla corrente piú moderata dei francescani, i Conventuali, che davano della aspirazione francescana alla povertà un’interpretazione assai possibilistica. È in questi ambienti, evidentemente, che si aveva interesse a fornire di san Francesco un’immagine addomesticata, piú civile e accettabile, ricondotta all’Ordine, integrata nelle strutture del potere. L’azione delle gerarchie ecclesiastiche puntò ad annacquare gli insegnamenti di Francesco, per renderli accettabilmente cattolici, fino a utilizzare questo Francescanesimo addomesticato proprio contro gli altri movimenti radicali socio-religiosi dell’epoca. 129Il primo biografo ufficiale di Francesco fu, su incarico di Gregorio IX, Tommaso da Celano, che scrisse nel 1228 la Vita Beati Francisci. Tommaso non censurò la memoria di quello che era Francesco prima di convertirsi: lo descrive di famiglia borghese, brillante, ambizioso, con l’intento di dimostrare come la Grazia di Dio potesse arrivare ovunque e trasformare chiunque in un Santo. Nel 1244 Tommaso però scrive una nuova biografia, Il Memoriale, che aveva tutta un'altra esigenza. Bisognava aggiornare la figura del fondatore, adeguandola all’affermazione dell’Ordine, e cancellare un passato imbarazzante. I genitori di Francesco, descritti nella Vita Beati Francisci come sciagurati, nel Memoriale appaiono come pii e timorati da Dio, con la madre paragonata per virtù a santa Elisabetta. Padre Elia, che nella prima biografia veniva nominato e lodato più volte, nella Vita Francisci, a causa del suo ottimo rapporto con Federico II, viene censurato, e sparisce completamente dal racconto della vita di Francesco. Con l’arrivo di Bonaventura di Bagnoregio 130 alla guida dell’Ordine, tutte le biografie 126 Chiara Frugoni - Quale Francesco Il messaggio nascosto negli affreschi della basilica superiore di Assisi - pag. 11 Einaudi 2015 Giovanni da Parma aveva appoggiato le posizioni espresse nel Liber introductorius in Evangelium aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, testo che fu condannato dalla Chiesa che ne aveva preteso la distruzione del manoscritto sul fuoco – Chiara Frugoni opera cit. 128 Chiara Frugoni - Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi Einaudi 2015 129 L.Bellosi - La pecora di Giotto - Storia dell’arte Einaudi 1983 130 San Bonaventura da Bagnoregio (1217 c. - 1274), al secolo Giovanni Fidanza, professore di teologia a Parigi, ministro generale dal 1257 all’anno della morte, scrisse la Legenda maior e la Legenda minor su incarico del capitolo generale di Narbona del 1260 per sostituire le vite precedenti. Queste vennero accettate dal capitolo generale di Pisa del 1263. Tre anni dopo, nel 1266, il capitolo di Parigi ordinava la distruzione di tutte le vite precedenti. Giuseppe Giudice - Considerazioni su Francesco d’Assisi - 2002 77 127 di Francesco vennero distrutte, 131 per essere sostituite dalla Legenda Maior e dalla Legenda minor, 132 scritte dallo stesso Bonaventura con lo scopo di idealizzare la figura del Santo come irraggiungibile, e non come un esempio trasmissibile di cambiamento radicale per la vita dei suoi compagni. A questo punto, Francesco diventa soprattutto il santo che porta, con le stimmate, 133 le ferite di Cristo, miracolo il meno possibile riproducibile. Doveva essere venerato ma non imitato. 134 La normalizzazione dell’Ordine era cosa fatta. L’Ordine di Bonaventura di Bagnoregio si era trasformato, per volere della Provvidenza, da una comunità di uomini semplici a una di uomini dotti. Chi ha avuto la pazienza di leggermi si chiederà cosa c’entrano le vicende dei francescani, seppure sicuramente molto interessanti, con l’argomento di cui stavamo trattando… Provo a rispondere alla domanda con un'altra domanda: da quanto sopra è ragionevole chiedersi se esista la possibilità che il dissenso più o meno sotterraneo che albergava tra le varie anime dei francescani possa essersi materializzato ed abbia trovato il modo di materializzarsi e di esternare la propria voce, magari in maniera inusuale e comprensibile solo a pochi , sempre tenendo presente che bastava poco per passare dalla condizione di santità a quella di eretico da mettere al rogo? Per poter tentare di dare una risposta, andiamo prima a approfondire altre due situazioni che riguardano la Basilica di San Francesco ad Assisi. 131 Fu un’operazione condotta con estrema meticolosità e cura: uno dei più grandi roghi medievali, che coinvolse centinaia e centinaia di manoscritti, se si pensa che ogni convento francescano – al tempo della prima biografia di Tommaso da Celano erano circa mille e cinquecento– possedeva almeno una Vita del fondatore, che una Legenda compendiata era inserita nel breviario di ogni frate e che in forma ridotta la biografia di Francesco faceva parte dell’arredo liturgico delle chiese non solo minoritiche, per essere cantata nell’ottavario della festa, o almeno nel natalizio. Gregorio IX aveva infatti stabilito che l’anniversario del santo fosse celebrato anche negli altri istituti di perfezione: per fare un esempio, quando Bonaventura diffuse l’ordine di distruzione, i cenobi cistercensi erano circa seicentocinquanta. La Vita prima fu recuperata nel 1786; l’edizione critica si basò su pochi manoscritti, una decina in tutto, alcuni incompleti, otto dei quali ritrovati in monasteri cistercensi sfuggiti, perché lontani, alla caccia francescana. Della Legenda ad usum chori attribuita a Tommaso da Celano è stato ritrovato nel 1934 un unico codice che la riporta integralmente, anche se mancante del prologo; la Vita secunda scoperta nel 1806 è anch’essa conservata soltanto da una decina di codici mentre il Tractatus de Miraculis, recuperato nel 1899, per il quale fu fatale la prossimità nel tempo alla Legenda maior, è rappresentato addirittura da un unico manoscritto: una obliterazione eccezionale, unica nel Medioevo di tale portata. Giuseppe Giudice – Considerazioni su Francesco d’Assisi - 2002 132 La Legenda Minor non era altro che una riduzione della Legenda Maior, concepita per poter essere letta e cantata in coro nelle feste di Francesco, e che poteva essere trascritta in breviari portatili, una biografia importante perché destinata a imporsi nella memoria liturgica dei frati. 133 Il primo a parlare di stimmate in ambito francescano fu Elia da Cortona, allora vicario dell’ordine, che alla morte di Francesco indirizzò ai frati di tutte le provincie una lettera circolare informandoli dell’avvenimento. Vi sono numerose altre testimonianze circa la scoperta delle stimmate sul corpo di Francesco morto. Importantissima quella riportata da Salimbene de Adam nella sua Cronica: Mi ha raccontato frate Leone, suo compagno, che era presente quando il cadavere fu lavato per essere sepolto, che Francesco sembrava davvero un uomo crocifisso appena deposto dalla croce – Giuseppe Giudice - Considerazioni su Francesco d’Assisi 2002 134 Chiara Frugoni Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi Einaudi 2015 78 Basilica Superiore Assisi – Giotto: Il miracolo della sorgente 79 CAPITOLO VI L’Incontro dei tre vivi e dei tre morti di Montefiascone Ricapitoliamo quindi ancora una volta. Nel 1228, dopo appena due anni dalla morte, Francesco viene ufficialmente canonizzato dalla chiesa di Roma. La necessità di ammansire il messaggio del Poverello comportò l’attuazione da parte della curia pontificia di una serie di contromisure che disinnescassero la forza, davvero incendiaria, del suo insegnamento. Trasformato in reliquia, chiuso in una grande basilica, mentre il movimento che lui aveva fondato si trasformava e, ormai strumento utile per il papato, era dilaniato dalle lotte interne. Quale Francesco celebrare in tale situazione? Non è un caso che la basilica di Assisi eretta in suo onore e che ne aveva accolto le spoglie rimase priva di affreschi per circa mezzo secolo. Soltanto negli ultimi decenni del Duecento si avviarono con Cimabue e poi con Giotto i programmi iconografici che oggi ammiriamo. Questo processo, lungo e accidentato, vide una prima sostanziale vittoria da parte di Roma nell’affermare, anno 1266, la Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio come l’unica biografia ufficiale del santo, con la conseguente distruzione delle altre biografie di Francesco, in primis quella di Tommaso da Celano. Proprio sulla base di Bonaventura da Bagnoregio, infatti, si sarebbe elaborato il programma iconografico 135 delle storie del santo. L’obbedienza dell’ordine era dovuta solo al sommo Pontefice e usciva, quindi, dalla giurisdizione dei vescovi. Un dettaglio, questo, sul quale si scatenò una vera e propria battaglia a suon di testi e di immagini. Molto più delle circolari papali, dei trattati vòlti a interpretare la vicenda di Francesco o delle biografie del santo, le immagini ebbero un ruolo straordinario nell’affermare e stabilire una sola, univoca, immagine del santo. 136 A proposito di immagini, rimanendo sempre ad Assisi, andiamo ora a vedere le due situazioni che, dopo questa abbondante ma ritengo necessaria premessa sulla situazione ambientale e il clima che si respirava in ambito francescano, credo possano essere perlomeno motivo di riflessione per avanzare in seguito delle ipotesi. Prima situazione: nel 2011 Chiara Frugoni, sicuramente una delle più autorevoli studiose del francescanesimo, tra l’altro da me qui abbondantemente citata, vede quello che nessuno aveva mai visto prima: c’è il volto di un dèmone tra le nuvole di un affresco di Giotto nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi: era lì con le sue corna da ottocento anni, nel ciclo pittorico che segna l'inizio dell'arte figurativa occidentale, osservato da milioni e milioni di persone e nessuno se n'era accorto. Non è una stranezza, ha commentato lo storico dell'arte Claudio Strinati: Che vi siano elementi nascosti in un'opera d'arte è del tutto normale e le opere hanno sempre due facce, una esplicita ed una implicita, destinata ad essere colta solo da alcuni. Su questo genere di interventi, cioè sul celare in un'opera qualcosa di segreto o almeno di non evidente, non si hanno testimonianze scritte, quindi è difficile dire delle intenzioni, delle motivazioni dell'autore, capire, ad esempio, se l'elemento nascosto è concordato con i committenti oppure è celato anche a loro. 137 Seconda situazione: in uno dei più celebri affreschi della Basilica inferiore di Assisi, Le Storie di San Martino, dipinte da Simone Martini tra il 1316 ed il 1318, considerate tra le più alte espressioni della pittura gotica, qualcuno ha ipotizzato che abbiamo a che fare con un ritratto nascosto di Federico II. Si dà il caso che questo qualcuno non sia esattamente l'ultimo arrivato. A sostenere l'identificazione con Federico II con quella che tradizionalmente è ritenuta l'immagine dell'Imperatore Giuliano L'Apostata è il professore Antonio Giuliano, uno dei più illustri archeologi italiani, già ordinario di storia greca e romana all'Università di Roma. L'ipotesi è stata pubblicata sul più prestigioso tra i periodici specialistici italiani, Rendiconti. Atti dell'Accademia nazionale dei Lincei, istituzione di cui Antonio Giuliano è socio. Il professor Giuliano ha indagato a lungo sul fascino che l'araldica esercitò su Simone Martini, arrivando poi alla conclusione che nel ciclo di affreschi di Assisi il celeberrimo pittore senese per la figura dell'Imperatore si sarebbe ispirato proprio al sovrano svevo, di cui era ancora viva nei primi anni del Trecento la fama di Stupor Mundi. 138 Dove voglio arrivare? Ritornando a noi, alla rappresentazione dei Tre vivi e dei tre morti di Melfi, possiamo a questo punto prendere atto che non era così improbabile che chi realizzasse delle immagini all’interno delle chiese potesse inserire, in accordo o 135 Iconografia – dal greco discorso sulle immagini. Disciplina che studia le immagini come fonte storica non dal punto di vista artistico ma del loro significato 136 Marco Mascolo – Recensione di Quale Francesco di Chiara Frugoni - Il Manifesto 27/12/2015 137 Paola Pica Corriere della sera 5/12/2001 138 Adn Kronos 18/12/2000 80 no con la committenza questo non ci è dato sapere, dei simboli o dei messaggi più o meno evidenti, che richiedevano una capacità di lettura degli stessi da parte di chi ne usufruiva, e che, ulteriore elemento molto interessante, questo tipo di messaggi coinvolgevano la figura di Federico II di Svevia anche a molti anni di distanza della sua morte, avvenuta nel 1250. A questo punto possiamo trasferire la nostra attenzione sulla rappresentazione trecentesca (1300- 1302) dell’Incontro di tre vivi e dei tre morti all’interno della basilica di San Flaviano a Montefiascone. Simone Martini – Basilica inferiore Assisi - La rinuncia di San Martino alle armi (1316/1318) 81 Del Francescanesimo ho già abbondantemente parlato, ma, insisto, per dirla con i latini, repetita juvant. Come atteggiamento Francesco era molto vicino ai movimenti ereticali del XII e XIII secolo, però sin dagli inizi la sua vicenda spirituale si muove nel solco di un'assoluta obbedienza alla Chiesa. L'eretico mancato si era trasformato in eroe della Chiesa e i suoi eccessi sembrarono disinnescati. Eppure il fantasma dell'irrequietezza continuerà ancora a infestare per secoli la famiglia francescana, subito divisa tra gli zelanti (detti più tardi spirituali, cioè i più fedeli alla povertà delle origini) e i conventuali, appoggiati da Roma. Era l'inizio di una disputa che vide tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento buona parte dei francescani fedeli alla Chiesa arruolata tra gli inquisitori. Inquisizione che farà salire sul banco degli accusati francescani del calibro (teologico) di Guglielmo da Ockham e dello stesso ministro generale Michele da Cesena. Nel 1318 la tomba di Pietro di Giovanni Olivi, il fondatore degli spirituali, fu distrutta per ordine del pontefice e il suo allievo Ubertino da Casale fu costretto alla clandestinità. In questo contesto, ritornando di nuovo a noi, neutralizzata definitivamente la minaccia della politica imperiale perseguita dagli Hohenstaufen grazie ai duri colpi inferti da Carlo D’Angiò, 139 nel 1300 Bonifacio VIII indisse il primo anno santo o giubileo, 140 a coronamento di una serie di iniziative volte a riaffermare il ruolo centrale del papato e della Chiesa come unica dispensatrice di salvezza: tutti coloro che si fossero recati in pellegrinaggio a Roma per venerare la tomba di Pietro e l'icona del Salvatore, chiamata velo della Veronica, e si fossero confessati e comunicati, avrebbero ottenuto l'indulgenza plenaria, cioè il perdono dei peccati. La mossa, che doveva conferire nuovo prestigio religioso alla Chiesa, ebbe il successo sperato, tanto che anche Dante riferisce delle folle di fedeli in pellegrinaggio a Roma da ogni parte della cristianità occidentale. 141 Bonifacio VIII, cardinale della nobile famiglia romana dei Caetani, era stato eletto papa nel 1294 tra le contestazioni delle altre famiglie della nobiltà romana, tra cui soprattutto i Colonna, i quali reclamavano con sempre maggior forza un rinnovamento della Chiesa all'insegna del ritorno ai valori evangelici della povertà e della carità. Un segnale di speranza in tal senso era stato dato, prima di lui, sempre nel 1294, dall'elezione dell'eremita Pietro da Morrone come papa Celestino V, che sembrava poter assicurare finalmente alla Chiesa un pontefice angelico. Ma l'impossibilità di soddisfare le attese che aveva suscitato lo aveva portato, dopo pochi mesi, a rinunciare alla carica, favorendo così l'elezione del nuovo papa. Il nuovo pontefice si mosse con determinazione contro i suoi oppositori e, non lasciandosi intimorire dalle accuse e dai sospetti, abbatté le fortezze dei Colonna e gettò in carcere i più noti esponenti dei francescani spirituali. 142 Anche a Montefiascone, che come abbiamo già avuto modo di ricordare rappresentava il terminale ultimo, il punto d’incontro di tutte le vie di comunicazione che da nord si dirigevano verso Roma, e quindi tappa particolarmente importante nel percorso dei pellegrini, ci si preparò al giubileo approntando delle migliorie della basilica di San Flaviano, che fu soggetta a un ampliamento, 143 al rifacimento della facciata e alla realizzazione di pregevoli cicli pittorici, tra cui una suggestiva versione dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti. 139 La morte di Corradino di Svevia aveva di fatto reso praticamente senza guida le velleità di quello che rimaneva del partito ghibellino, che non aveva più riferimenti. Il papato aveva raggiunto il suo scopo, portato avanti lucidamente anche dopo la morte di Federico II. Dopo Innocenzo IV (1243 -1254) sia Alessandro V (1254 – 1261) che Clemente IV (1265 – 1268) continuarono a predicare contro gli Hohenstaufen, organizzando contro gli Svevi spedizioni militari che venivano definite crociate, in quanto chi vi partecipava godeva degli stessi privilegi delle spedizioni in Terra Santa. 140 La cadenza del giubileo era inizialmente fissata a 100 anni, prima di essere ridotto a 50 e, infine, a 25 anni durante i papati di Niccolò V e di Paolo II. 141 come i Roman per l'essercito molto/l'anno del giubileo, su per lo ponte/hanno a passar la gente modo colto, /che da l'un lato tutti hanno la fronte/verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, /da l'altra sponda vanno verso 'l monte. (Inferno Canto XVIII, 28-33) 142 Fonti bibliografiche: G. Vitolo, Medioevo: I caratteri originali di un'età di transizione, Sansoni, Milano 2000 C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Il Mulino, Bologna 2004 J. M. Laboa, Momenti cruciali nella storia della Chiesa, Jaca Book, Milano 1996 143Dell’ampliamento si ha notizia da due epistole di Bonifacio VIII del 1301 - V. Tiberia La Basilica di San Flaviano a Montefiascone, pag. 15 Ediart 1987 82 Domenico Bernini - Historia Di Tutte L'Heresie: Alla Santità Di N.S. Clemente XI. - Venezia 1733 Delle origini e della diffusione del tema dell’Incontro abbiamo già abbondantemente parlato: secondo Jurgis Baltrusaitis avrebbero origine asiatica, esse sono da rintracciarsi in area buddistica-persianoislamica, e la sua diffusione fu mediata in ambiente italiano appunto dai francescani, che si erano spinti addirittura fino a Pechino, o in seguito ai rapporti tra la corte di Federico II ed il mondo culturale arabo.144 L’influenza dei francescani minori per quanto riguarda i temi rappresentati negli affreschi di San Flaviano è confermata anche dalla presenza di una immagine di San Francesco, purtroppo acefala, senza testa, rappresentato con le stimmate nella versione originale, alla maniera degli spirituali, la cui presenza a Montefiascone è abbondantemente documentata. 145 144 F.Bologna I pittori alla corte angioina di Napoli... p.43, tav. 1-20,21 op. citata Secondo la tradizione San Francesco si trattenne a Montefiascone nel 1222. Lo stesso Francesco vi lasciò frate Morico, per iniziare i cittadini al suo modo di intendere e di vivere il Vangelo. Ulteriori notizie confermano l’espansione in Montefiascone dei francescani, i quali, dopo aver costruito un convento, ottennero nel 1291 un orto da papa Niccolò IV - R. Cordovani - I cappuccini a Montefiascone – 1982. Citazione da La Basilica di San Flaviano a Montefiascone 83 145 Montefiascone. Basilica di San Flaviano. Immagine acefala di San Francesco Nell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti nella basilica di San Flaviano a Montefiascone, che si trova rispetto all’ingresso sulla prima arcata a sinistra, sono raffigurati tre cavalli di profilo, con accanto un cane che sta annusando il terreno, dove cresce una vegetazione con delle forme stravaganti, quindi, in posizione frontale, i tre personaggi protagonisti con la testa rivolta verso destra. Il personaggio al centro della scena indossa un elegante copricapo e sorregge un falcone. Gli scheletri in realtà sono solo due (il terzo è scomparso dalla rappresentazione in seguito a dei lavori che hanno parzialmente manomesso il dipinto) 146 e sono raffigurati nell’atto di rivolgere la parola ai tre vivi. Sullo sfondo, affacciato dalla propria caverna, svetta la figura di San Macario, con una lunga barba bianca, che sorregge una pergamena, dove si legge un’iscrizione che recita: pensate quod estis et quod non vitare poteris, ovvero: Pensate ciò che siete e ciò che non potete evitare. 147 146 147 I lavori furono commissionati alla fine del 1400 dalla famiglia Onofri, che fece realizzare una cappella detta degli Innocenti Gran parte della critica attribuisce la paternità dell’affresco ad uno o più allievi della scuola del Cavallini 84 Basilica di San Flaviano Montefiascone - L’incontro dei tre vivi e dei tre morti (1300- 1302) A questo punto proviamo ad approfondire. Fatta eccezione per l’Incontro di Melfi, dove, anche se non c’è unanimità, è ormai consolidata la tesi che ci troviamo, a prescindere dall’identità vera o presunta attribuita ai soggetti dipinti, di fronte alla rappresentazione di un nucleo familiare, ogni qual volta abbiamo a che fare con uno dei vari Incontri dei tre vivi e dei tre morti riscontrabili in Italia, i protagonisti vengono sempre descritti intenti alla caccia con il falcone e di genere maschile: tre nobili, tre cacciatori, e così via. L’affresco di Montefiascone non sfugge alla regola, e i tre personaggi sono regolarmente identificati come tre uomini. Dell’utilizzo dei cicli pittorici come di elementi per diffondere messaggi nei confronti della popolazione analfabeta che non poteva accedere alle scritture abbiamo abbondantemente parlato e, allo stesso modo, abbiamo illustrato come ci siano molti elementi per potere almeno ipotizzare che in numerose situazioni, attraverso gli affreschi, oltre ai messaggi palesi, nei dipinti venivano aggiunte informazioni non evidenti a chiunque, rivolte a chi aveva i mezzi per intenderle, spesso inserite anche all’insaputa della committenza, a volte addirittura anche fisicamente difficilmente visibili, a causa della posizione elevata (capitelli, vetrate) delle dimensioni ridotte (miniature viste da lontano) e delle cattive condizioni di luce. 148 Fatta questa premessa, proviamo ora a approfondire l’osservazione dell’affresco della rappresentazione dell’Incontro di Montefiascone tenendo presente però anche la versione realizzata a Melfi. 148 85 Jerome Basquiet – L’Iconografia medievale – pag. 38 Jaca Book 2014 Incontro dei tre vivi e dei tre morti – Chiesa rupestre di Santa Margherita - Melfi Incontro dei tre vivi e dei tre morti – Basilica di San Flaviano - Montefiascone Se concentriamo la nostra attenzione sulle figure dei personaggi dei tre vivi, pur tenendo giustamente presente che abbiamo a che fare con un tema predefinito, appaiono immediatamente evidenti delle analogie iconografiche particolari che accomunano le due rappresentazioni. In entrambi i casi l’uomo raffigurato alla destra dei tre vivi tiene in mano un falcone, e fin qui niente di strano. Cominciamo però ad avere qualche elemento in più di riflessione se ci soffermiamo sugli altri due protagonisti. In entrambi i casi il personaggio centrale cinge il braccio del personaggio a sinistra della rappresentazione, circostanza che nell’affresco di Melfi, dando per scontato che ci troviamo di fronte ad un nucleo familiare, rappresenterebbe il gesto di una madre che protegge il figlio dal terrore indotto dalla visione dei tre morti. Tale situazione sembrerebbe riproporsi anche a Montefiascone, dove, anche se non credo nessuno abbia mai preso prima in considerazione questa possibilità, 149 effettivamente la figura centrale dei tre vivi, se la osserviamo senza farci influenzare e condizionare dalla tradizione, potrebbe essere benissimo una figura di genere femminile, insomma sembrerebbe una donna, eventualità tra l’altro confermata, fattezze a parte, anche da un particolare dell’abbigliamento del soggetto rappresentato, che indossa un copricapo che ricorda un modello femminile tramandatoci dalle illustrazioni della Bibbia Maciejoswski. 150 149 Anche se nel volume I percorsi dell’aldilà nel Lazio pag 555 B.Coccia Aspes 2007 si parla di un gruppo di dame e cavalieri La Bibbia Maciejowski, chiamata anche Bibbia Morgan o Salterio Maciejowski, è un manoscritto medievale alluminato della Bibbia. Articolato in 46 fogli, fu miniato da maestranze francesi in Nord Europa attorno al 1250. 86 150 Particolari di copricapi femminili – illustrazioni dalla Bibbia Maciejoswsky Se la figura centrale è, come sembrerebbe, una donna, allora si potrebbe ripetere anche a Montefiascone lo schema che ha dato il via all’intuizione di Raffaele Capaldo a Melfi. Anche a San Flaviano ci potremmo trovare ad avere a che fare con la stessa ipotesi suggestiva. I tre personaggi raffigurati nell’affresco, seppur a 50 anni di distanza dalla morte dell’imperatore, seppur per ovvi motivi in maniera criptata, potrebbero, anche in questo caso, rappresentare la famiglia imperiale sveva al completo: Federico II, Isabella d’Inghilterra, Corrado IV. Mi rendo conto che è una affermazione forte, che è puntualmente stata oggetto di polemiche e scetticismo, ma si dà il caso che, come ho già premesso all’inizio del ragionamento, se continuiamo a scavare nei dettagli che emergono da una analisi ripeto senza pregiudizi e condizionamenti di sorta, ebbene, questa ipotesi è oggettivamente supportata da numerosi elementi che la rendono ragionevolmente degna di essere seriamente presa in considerazione. Anche in questo caso andiamo a vedere. Prima però facciamo un passo indietro e ritorniamo ad approfondire l’analisi della figura dell’imperatore del Sacro Romano Impero, lo Stupor Mundi, Federico II Hohenstaufen di Svevia… Particolare Incontro Melfi Particolare Incontro Montefiascone La morte dell’imperatore, molto probabilmente su disposizione dello stesso Federico II, non fu resa pubblica immediatamente, per un breve periodo venne tenuta nascosta. Fino al gennaio del 1251 la cancelleria imperiale emanò dispacci e documenti come se l’imperatore fosse ancora vivo. Corrado IV fu avvisato per lettera della morte del padre dal fratellastro Manfredi. Il corpo di Federico II con ogni probabilità fu imbalsamato. Le spoglie di Federico, scortate dalla sua guardia saracena, attraversarono per l’ultima volta la Puglia, e furono imbarcate a Taranto destinate in Sicilia per trovare sepoltura nella cattedrale di Palermo, accolte da una folla incredula e piangente. Contemporaneamente, papa Innocenzo IV scriveva missive dove 87 sottolineava la propria soddisfazione per la fine del nemico giurato della Chiesa cristiana e inviava a tutti i sovrani europei lettere sprezzanti verso Federico e la sua progenie, diffidando i Comuni italiani dall’obbedire a Manfredi, nominato vicario imperiale in attesa che Corrado IV valicasse le Alpi. Durante il suo regno, durato, secondo i calcoli di Fra Salimbene, trenta anni e ventuno giorni, Federico II aveva collezionato diversi anatemi e scomuniche. Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Celestino IV e Innocenzo IV videro in lui un miscredente e lo accostarono spesso all’Anticristo. Dopo la seconda scomunica, nel giugno del 1239, in una sua enciclica Gregorio IX lo aveva paragonato al mostro dell’Apocalisse di Giovanni: Si leva dal mare la bestia ricolma di nomi blasfemi la quale, infierendo con zampe d’orso e con fauci di leone, e nelle altre membra con forma di leopardo, apre la bocca per bestemmiare contro il nome di Dio. Il cardinale viterbese Raniero Capocci mise in piedi, attraverso una serie di scritti mirati, una spietata campagna diffamatoria nei confronti dell’imperatore; nel 1248 bandì una crociata contro di lui definendolo l’araldo del diavolo, il figlio e allievo di Satana. Papa Gregorio IX riprese la diceria propagata tra i seguaci di Gioacchino da Fiore che voleva Federico figlio di un diavolo piuttosto che di Enrico VI: Serpente velenoso concepito da materia infernale, sostenendo che era l’imperatore stesso a vantarsi di essere preambulus Antichristi. Durante questo scontro il papa insisteva a descrivere Federico come un uomo malvagio, un eretico capace di sostenere che Gesù, Mosè e Maometto erano tre impostori che avevano ingannato il mondo, e che Dio non poteva nascere da una vergine. Anche l’imperatore ripagò gli attacchi del papato usando gli stessi argomenti: l’Anticristo delle profezie 151 non era Federico ma il pontefice. E’ difficile stabilire l’effetto concreto di questa guerra verbale: molto probabilmente la propaganda imperiale, indirizzata per lo più agli alti ranghi delle gerarchie laiche ed ecclesiastiche, raggiunse soltanto un pubblico limitato, mentre quella papale, mediante il formidabile strumento di una fitta rete di conventi francescani e domenicani presenti in tutta Europa, ebbe una diffusione molto più vasta. Nonostante ciò il mito dell’imperatore non cessava di esercitare un forte ascendente tra le popolazioni. Innocenzo IV comprese subito che Federico gli avrebbe creato problemi anche da morto, cercò quindi da subito di praticare nei suoi confronti la damnatio memoriae, esercizio che in questo caso doveva risultare abbastanza complicato, in quanto era stato lo stesso imperatore in vita ad alimentare il suo mito. 152 Lo Staufen e la sua stirpe, come successori di David, rappresentarono se stessi come portatori di speranze messianiche. Basti pensare a una lettera dell’agosto 1239 indirizzata a Jesi, la città dove lo Staufen nacque, celebrata come seconda Betlemme. In anni nei quali era vivissima l’attesa di un messia incarnato, nel paragone con il Dio fatto uomo, l’imperatore si presentava come colui che sarebbe stato capace di riformare la Chiesa dal profondo. I temi biblici e il recupero di antiche profezie accompagnarono la vita e le leggende intorno all’imperatore. Soprattutto, poco dopo la morte di Federico, prese nuova linfa l’oscuro vaticinio della cosiddetta Sibilla eritrea, misteriosa veggente dell’antichità: Vivit, non vivit. Secondo questa profezia Federico sarebbe e non sarebbe vissuto. La morte stessa dell’imperatore sarebbe rimasta celata: Chiuderà gli occhi con una morte nascosta e sopravvivrà; e si dirà tra i popoli: “Vive, (e) non vive”; e sopravvivrà uno dei pulcini e dei pulcini dei pulcini. Federico avrebbe continuato a vivere. Oltre la morte. Nella sua discendenza. Oppure nascosto da qualche parte. Salimbene da Parma, da cronista informato dei fatti, scrisse che furono in molti a non credere alla fine dell’imperatore. Del resto, nel corso degli anni, più volte la propaganda papale aveva diffuso la falsa notizia della sua dipartita. Ancora nel 1302, Jans der Enikel, uno storico e poeta viennese che compilò la Weltchronik, una ambiziosa storia del mondo in 30.000 versi, scriveva che ancora nessuno sapeva dove fosse veramente Federico. E che soprattutto in Italia, si discuteva se fosse ancora vivo. Nacquero così i casi dei Falsi Federici: impostori che si spacciavano per l’imperatore. Il primo di cui si ebbe conoscenza, nel 1261, fu un mendicante siciliano, 151 Secondo l’abate Gioacchino da Fiore la storia dell’umanità sarebbe da suddividere in tre grandi età, corrispondenti ognuna a una delle tre persone della Trinità: la prima, l’età del Vecchio Testamento, era quella di Dio Padre; la seconda, l’età del Nuovo Testamento, quella del Figlio di Dio; la terza età, che secondo Gioacchino era ormai imminente, era quella che corrispondeva allo Spirito Santo. Un’epoca nuova, nella quale, dopo i laici e i chierici, sarebbero stati i monaci a dare un ordine alla società imperfetta degli uomini. Questa terza età avrebbe dovuto aver inizio nel 1260. Ma proprio sul finire della seconda età, sul mondo avrebbe regnato un Anticristo che avrebbe distrutto la Chiesa dissoluta e secolarizzata. L’età dello Spirito sarebbe iniziata soltanto con la morte dell’Anticristo In una lettera del 1239, al tempo della fondazione dell’università di Napoli, l’imperatore espresse per iscritto quella che era la sua più grande ambizione: lasciare un segno indelebile 152 88 Giovanni de Coclearia, che risiedeva alle falde dell’Etna. Era un sosia quasi perfetto dello Svevo. L’unica differenza è che sfoggiava una lunghissima barba. Ma parlava e si muoveva come lui. Alcuni seguaci dell’imperatore andarono a trovarlo e gli credettero, nonostante Federico II risultasse ufficialmente morto da undici anni. Il mendicante sostenne di essere scomparso per così tanto tempo per adempiere a un voto: quello di compiere un pellegrinaggio e che c’erano voluti nove anni per emendare, attraverso la penitenza, i suoi tanti peccati. La popolazione lo acclamò con entusiasmo. E alla sua storia fece finta di credere anche papa Urbano IV, che voleva usare l’impostore nella spietata guerra che lo opponeva a Manfredi. Ma il figlio dell’imperatore e di Bianca Lancia, re di Sicilia dal 1258, fece catturare e impiccare il falso Federico insieme a dodici dei suoi seguaci. Non è un caso che fosse proprio l’Etna il teatro della comparsa del primo dei falsi Federici. Tommaso da Eccleston, un frate minore inglese, nel suo De adventu Minorum in Angliam, raccontò in 15 capitoli le storie che i frati missionari in Inghilterra si scambiavano la sera accanto al fuoco, davanti a una pentola ricolma di birra. Attribuì a un suo confratello siciliano, raccolto in preghiera sotto l’Etna, proprio lo stesso giorno in cui l’imperatore era morto, una stupefacente visione: cinquemila cavalieri che si immergevano in mare. Le acque ribollirono, come se le armature fossero di bronzo ardente e uno dei cavalieri parlò al frate tramortito dalla potenza di quella immagine: Questi è Federico Imperatore che va all’Etna con i suoi cavalieri. Il favoloso racconto ebbe una qualche fortuna. Il Mongibello, con i suoi scenari infuocati era considerato una specie di porta dell’inferno, che l’imperatore, morto scomunicato, prima o poi doveva per forza passare. Dalla fine del Duecento le leggende sul ritorno di Federico II si diffusero soprattutto in Germania, anche se l’imperatore non aveva più messo piede in quei territori dal 1235. Ce lo ricorda una Chronica di metà trecento di un frate minore, Giovanni di Winterthur, che provò a spiegare le tante leggende che ancora si ripetevano a quasi cento anni dalla fine dello Staufen. Federico II sarebbe ricomparso per riformare la Chiesa e instaurare un’epoca di giustizia e prosperità. Giovanni di Winterthur, nella sua opera, ci tenne a chiarire che si trattava di falsa credulitas. Ma di certo, in Germania, negli ultimi decenni i sosia dell’imperatore si erano moltiplicati. Addirittura, nel 1284 una delegazione di alcuni Comuni lombardi, guidata dal marchese d’Este fu inviata a Neuss, in Renania, per conoscere di persona l’uomo che si spacciava per l’imperatore svevo. Si chiamava Dietrich Holzschuh. Aveva un aspetto giovanile. Federico II, se fosse vissuto, avrebbe avuto una novantina di anni. Eppure in molti credettero al falso Federico: l’uomo era riuscito a radunare intorno a sé una vera e propria corte. Pasteggiava con stoviglie d’oro, emanava privilegi e inviava lettere bollate ai principi tedeschi nelle quali li invitava a rendergli omaggio. L’arcivescovo di Colonia perse la pazienza e ordinò alla città di Neuss di consegnare alla sua autorità il presunto Federico. Dietrich Holzschuh ripiegò a Wetzlar da dove sollecitò il re Rodolfo d’Asburgo a rendergli omaggio. Ma il sovrano marciò sulla città per catturare l’impostore. I cittadini, per evitare guai peggiori lo consegnarono ai soldati di Rodolfo. Così, il presunto imperatore morì arso vivo, accusato di eresia e stregoneria. Un altro falso Federico II spuntò in Olanda ma fu impiccato a Utrecht. Altri impostori furono segnalati a Colmar, Lubecca e Stoccarda. Ma tutti fecero una brutta fine. La leggenda dell’imperatore svevo però rimaneva viva. Il mondo ghibellino vagheggiava un successore degno di Federico II, destinato a completare la sua opera. La città di Tivoli accolse Corrado IV di Svevia come l’ultimo degli imperatori annunciato dalla Sibilla tiburtina. Ma Corrado IV si spense nel 1254. Manfredi morì nel 1266. E Corradino, figlio di Corrado, fu decapitato a Napoli nel 1268 dopo un processo farsa. Aveva appena 16 anni . Fu l’ultimo svevo. Con lui si estinse la dinastia. Per un breve periodo il Fredericus redivivus venne visto in Federico d’Antiochia, figlio naturale dell’imperatore e fratellastro di Corrado. La madre, una orientale, secondo una leggenda era la sorella del sultano Al-Kamil. Il giovane, l’unico figlio dell’imperatore che riposa accanto al padre nella cattedrale di Palermo, morì in battaglia a Foggia nel 1256 a neppure trent’anni mentre combatteva contro le truppe pontificie. Più tardi le speranze ghibelline di un terzo Federico trovarono nuova linfa in un omonimo nipote dell’imperatore: Federico l’Intrepido, figlio di Margherita, nata dal terzo matrimonio dello Staufen con Isabella d’Inghilterra. Pietro de Prece, alfiere del partito imperiale, scrisse a suo nonno, Enrico l’Illustre, per candidare il giovane al trono siciliano. Nella sua lettera citò le profezie su un Federicus tercius che avrebbe distrutto la stirpe degli Angiò e sarebbe tornato a dominare il mondo. Ma Federico l’Intrepido visse il suo breve sogno di succedere al nonno soltanto apponendo l’aleatoria firma di Federico III, re di Gerusalemme 89 e di Sicilia in una serie di lettere ufficiali. Alle parole non seguirono i fatti: L’Intrepido nel 1273 fu scalzato da Rodolfo d’Asburgo anche come re di Germania. Anche Fra Dolcino, capo della setta dei Fratelli apostolici, imbevuto di idee gioachimite, prima di essere bruciato sul rogo come eretico a Novara (1307) predicò l’avvento di un nuovo Federico che, con l’aiuto di un papa angelico avrebbe purificato la Chiesa e regnato fino all’arrivo dell’Anticristo. 153 Il mito catturò anche i Catari, che nell’avvento di un terzo Federico riponevano molte delle loro speranze. A questo punto, anche se sono sicuro che l’argomento dei falsi Federici sicuramente è degno di attenzione, mi rendo conto che chi legge si starà chiedendo, legittimamente aggiungo, che nesso esista tra quanto sopra, San Flaviano, l’affresco dei Tre vivi e dei tre morti e quant’altro… Per ritornare a Montefiascone e rispondere alla domanda è necessario, dopo questa lunga premessa, ripartire dalla vicenda dei Vespri Siciliani, che effettivamente riportò sulla scena politica dal 1282 al 1302, fino alla pace di Caltabellotta, lo scontro tra papato e impero, e il ritorno sulla scena di un altro terzo Federico: Federico d’Aragona, figlio di Costanza di Svevia e di Pietro III d’Aragona. In seguito alla rivolta del Vespro la Corona di Sicilia fu assunta da una nuova dinastia che si designava come erede della monarchia normanno-sveva degli Hohenstaufen, quella catalano-aragonese di Pietro III. La dinastia catalano-aragonese fondava i suoi diritti al trono siciliano sulla discendenza dagli Hohenstaufen, in quanto Pietro III d’Aragona nel 1262 aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi di Svevia, e dunque nipote dell’imperatore, nonché re di Sicilia, Federico II Hohenstaufen di Svevia. Costanza di Svevia, che era considerata la titolare della corona di Sicilia, aveva dato al suo terzogenito il nome di Federico, nome del tutto estraneo alla tradizione onomastica della dinastia d’Aragona, richiamandosi esplicitamente alla dinastia degli Hohenstaufen. Per marcare in maniera anche sostanziale il richiamo al glorioso antenato, lo stemma del regno di Sicilia fu modificato, con l’inserimento delle insegne imperiali degli svevi accanto a quelle d’Aragona. Nel 1296 fu incoronato a Palermo con il titolo dei re normanno-svevi: Rex Sicilie, Ducatus Apulie ac Principatus Capue. Per sottolineare la vicinanza con gli Staufen volle chiamarsi Fredericus tercius rivendicando il titolo imperiale vacante, provocando così la reazione di Bonifacio VIII che nel nel giro di una settimana lo scomunicò. Non era la prima volta che nella gestione della vicenda del Vespro un pontefice utilizzava l’arma della scomunica: nel 1282 papa Martino IV aveva emesso l’anatema nei confronti di Pietro III d’Aragona che si era schierato con i rivoltosi siciliani. L’atto di scomunica fu annunciato e esposto per un certo periodo a Montefiascone, nella basilica di San Flaviano 154… A questo punto abbiamo a disposizione tutti gli elementi per poter guardare l’affresco della rappresentazione dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti presente all’nterno della basilica di San Flaviano a Montefiascone con un punto di vista completamente diverso. 155 153 Fra Dolcino, era un seguace di Gerardo Segarelli, il fondatore del movimento spirituale degli Apostolici, che si rifaceva a uno stile di vita il più possibile vicino a quello della prima comunità cristiana, nell’ottica dell’escatologia gioachimita. Morto sul rogo Segarelli, considerato eretico, Dolcino elaborò una sua dottrina teologica che, sulla scia di Gioacchino da Fiore, divideva la storia del mondo in diverse età: la prima era quella dell’Antico Testamento, dei patriarchi e dei profeti; la seconda quella di Gesù Cristo e degli Apostoli, età della santità e della castità; poi era venuta l’età segnata dal potere e dalla ricchezza della Chiesa. Giunti alla fine della terza età, occorreva quindi convertirsi agli insegnamenti degli apostoli, ma perché questo avvenisse era necessario che tutti i chierici, i monaci e i frati morissero di morte cruellissima. Dolcino annunciò che il tempo della Chiesa infedele e corrotta stava per finire. In attesa della venuta della Chiesa santa, però, quella attuale andava distrutta. La fine della Chiesa non solo veniva da Dolcino ritenuta necessaria e sicura, ma ne veniva fissata addirittura la data, il 1305. Allora, sempre secondo la profezia di Dolcino, Federico di Aragona, re di Sicilia sarebbe divenuto imperatore, avrebbe regnato per tre anni e mezzo, avrebbe ucciso il papa, i cardinali e gli altri prelati, e ridotto il mondo alle condizioni volute dal Vangelo, e in ultimo lo stesso Dolcino sarebbe diventato Papa Santo. Scaduto questo tempo sarebbe venuto l’Anticristo ma sia Fra Dolcino che i suoi, secondo questa profezia sarebbero stati assunti il cielo, per poi tornare con la morte dell’Anticristo, e restare sulla terra fino alla fine dei tempi. Inutile dire che Bonifacio VIII non gradiva queste parole… Fra Dolcino e i suoi furono combattuti e sterminati anche sul piano militare, e la vicenda si concluse con la messa al rogo di Dolcino dopo feroci torture pubbliche. Nella Commedia Dante colloca Dolcino nella bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici 154 Intanto papa Martino senza studiarsi ad occultar la fiera passione dell’animo suo, vibrava anatemi sopra anatemi contro Pietro, e ministri e guerrieri, e Siciliani tutti: da Montefiascone a diciotto novembre dell’ottantadue dichiarolli involti nelle scomuniche comminate già prima, e a Pietro ricantò: sgombrasse di presente la Sicilia; non usurpasse il titolo, non esercitasse alcun atto da Re - Michele Amari – La guerra del Vespro Siciliano 155Per le notizie relative ai falsi Federici: Federico II oltre la morte di Virginia Valente da www.festivaldelmedioevo.it - 2017 90 Manoscritto della bolla di scomunica emanata da papa Martino IV nel 1282 nei confronti di Michele VII Paleologo e re Pietro III d’Aragona - Standford University California - 91 Montefiascone, 9 novembre 1282. Papa Martino IV , da San Flaviano, pubblicamente, davanti a tutta la popolazione, scomunica Pietro III d'Aragona per il suo appoggio ai rivoltosi del Vespro Siciliano - Anales de la Corona de Aragon. Compuestos por Geronymo Çurita, chronista de dicho reyno. Tomo primero sexto cap 26 by Geronimo Zurita y Castro. Martino IV scomunica Pietro III d'Aragona da San Flaviano , in seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani. Dallo "Schedel Liber Chronicarum" - 1493 92 L’aspetto più clamoroso della considerazione che sto per fare nei confronti della rappresentazione pittorica di San Flaviano sta indubbiamente nella sua evidenza… il presunto messaggio criptato stava in bella vista, eppure, come nel caso del demone rinvenuto da Chiara Frugoni ad Assisi, nessuno lo aveva mai visto, o meglio nessuno aveva mai pensato di mettere in relazione la scomunica di Martino IV del 1282 nei confronti di Pietro III di Aragona con la rappresentazione pittorica dell’Incontro di San Flaviano, realizzato venti anni più tardi. Per comprendere cosa intendo, a questo punto è venuto il momento di fare la conoscenza con il blasone del casato degli Aragona, le cosidette quattro barre. Le barre d’Aragona, in spagnolo barras de Aragòn, sono l’antico simbolo araldico dei re della Corona d’Aragona. In catalano vengono chiamate les quatre barres - le quattro barre o i quattro pali - e sono composte da quattro frange verticali rosse su fondo dorato o giallo. Arrivo finalmente al punto: nell’Incontro di San Flaviano tutti e tre i vivi indossano degli abiti che richiamano i colori dello stemma aragonese e, soprattutto, il cavaliere che tiene il falcone in mano indossa un copricapo che sembra replicare, e mi sembra ci sia poco da dubitare, il simbolo araldico della corona d’Aragona: quattro frange verticali rosse su fondo giallo, les quatre barres… Le quattro barre d’Aragona Particolare affresco di Montefiascone Mi sembra evidente che chiunque abbia realizzato o fatto realizzare l’affresco vi abbia volutamente inserito riferimenti agli aragonesi, che non potevano passare inosservati messi così in bella vista, e che questi riferimenti, sommati alle analogie iconografiche con la rappresentazione dell’Incontro realizzata a Melfi (a questo punto sicuramente in epoca federiciana) ci conducono a parlare in qualche maniera sempre e comunque della figura, vera o mitizzata, di Federico II di Svevia. A dare una ulteriore conferma all’attendibilità di questa ipotesi si aggiunge inoltre la casuale scoperta, avvenuta nel 1992, durante dei lavori di restauro a Palazzo Finco, 156 un edificio storico di Bassano del Grappa, di un altro affresco, fatto probabilmente realizzare nel 1238 da Alberico da Romano 157 in occasione di una visita dell’imperatore. Anche in questo affresco si ritiene siano raffigurati Federico II e la moglie Isabella d’Inghilterra. Andiamo a vedere meglio anche questo… 156 L'affresco è stato studiato dapprima da M. Elisa Avagnina, oggi direttrice dei Musei civici di Vicenza ed all'epoca ispettrice della Soprintendenza veneta competente, all'inizio degli anni Novanta. La medesima ha pubblicato un primo risultato delle sue ricerche nel Bollettino del Museo civico di Bassano, n. 13-15 (1992-1994), ed. in Bassano, nel 1995 con il titolo Un inedito affresco del sec. XIII a Bassano. L'argomento è stato dalla stessa affrontato anche con la mostra federiciana di Bari del 1995, nel cui catalogo figura il suo lavoro rapportato all'analisi che F. Zuliani andava facendo sugli affreschi duecenteschi di Palazzo abbaziale in San Zeno di Verona Federico II. Immagine e potere", catal. della mostra, Bari 1995-Venezia 1995. Infine, si può trovarne trattazione con ampi riferimenti bibliografici anche in Ezzelini signori della Marca nel cuore dell'impero di Federico II, catal. della mostra, Bassano 2001-2002, ediz. Skira 2001. La datazione vien rapportata dai più al periodo di permanenza di Federico II nella Marca Trevigiana, tra 1236 e 1239; quanto all'autore, si ipotizza la mano di un frescante al seguito dell'imperatore, ma più recenti studi non escludono altre ipotesi. Giovanni Marca dell’ Archivio di Stato di Bassano del Grappa – Corrispondenza dell’autore con la soprintendenza veneta n.d.a. 157 Alberico da Romano era il fratello di Ezzelino, signore della Marca Trevigiana e fedelissimo dell’imperatore. Tristemente famoso per i suoi metodi violenti, tiranno violentissimo e sanguinario. Dante nella Commedia lo mette nel Canto XII dell’Inferno tra i violenti contro il prossimo a scontare le sue colpe immerso nel sangue bollente 93 Affresco Bassano del Grappa- Palazzo Finco – 1238 Affresco Bassano del Grappa – Palazzo Finco – particolare 94 Il dipinto, ritrovato casualmente a Palazzo Finco, nel centro storico di Bassano del Grappa, rappresenta una scena di vita cortese, con Federico II nell’atto di donare una rosa alla moglie, Isabella d’Inghilterra, che con la mano sinistra regge un falco. Completano il quadro un suonatore di viella 158e un personaggio non meglio identificato, che qualcuno ha ipotizzato potrebbe trattarsi di Uc de Saint-Circ, un famoso trovatore provenzale che ebbe rapporti con la corte di Alberico e Ezzelino da Romano. Se concentriamo la nostra attenzione sulla figura di quest’ultimo personaggio non meglio identificato, scopriamo delle similitudini clamorose con un protagonista di un altro affresco con cui abbiamo avuto precedentemente a che fare, ancora lui, l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti di San Flaviano in Montefiascone… Affresco Montefiascone Affresco Bassano del Grappa La somiglianza tra i due personaggi dipinti mi sembra più che evidente, a partire dall’abbigliamento, e, anche se le decorazioni dei rispettivi abiti sono in un caso in verticale e nell’altro in orizzontale, entrambi sono rappresentati con una caratteristica fisica che li accomuna, che, sommata al resto, autorizza ritengo ragionevolmente, a poter avanzare l’ipotesi che si tratti della stessa persona: i capelli rossi. Considerato che il bisnonno di Corrado IV, Federico I, era chiamato il Barbarossa, e che anche suo padre, Federico II, ci viene descritto dal cronista saraceno Sibt Ibn Al Giawzi che lo incontrò personalmente durante il suo soggiorno a Gerusalemme di pel rosso, sembrerebbe che questa dei capelli rossi sia una caratteristica ricorrente nella famiglia degli Staufen. A questo punto una cosa è certa: se arriviamo alla conclusione che stiamo parlando dello stesso personaggio rappresentato in due contesti completamente diversi con un analogo modello iconografico, e che si tratta del giovane Corrado IV, automaticamente abbiamo la conferma che sia nell’ Incontro di Montefiascone che nell’affresco di Bassano del Grappa gli altri due protagonisti delle rappresentazioni sono Federico II e Isabella d’Inghilterra. 158 95 Antico strumento musicale ad arco, a fondo piatto, con cinque corde usato da trovadori e menestrelli nel 12° e 13° secolo Capitolo VII Il cardinale Gerardo Bianchi da Parma Presupposto indispensabile affinchè tutte queste similitudini (semplici coincidenze?) che sembrerebbero accomunare i tre affreschi in questione, quello di Melfi, quello di Bassano del Grappa e quello di Montefiascone, consiste nello stabilire che, chiunque abbia realizzato, o fatto realizzare l’ultimo in ordine cronologico, ossia l’Incontro di San Flaviano, debba, per forza di cose aver avuto a che fare con i due affreschi precedenti, quello di Palazzo Finco e quello di Santa Margherita a Melfi. Se così non fosse, legare i tre dipinti uno all’altro sarebbe un esercizio perlomeno complicato, destinato a rimanere nel campo delle ipotesi diciamo stravaganti e decisamente oggettivamente poco credibili. Quindi, a questo punto, se si vuole rimanere su un terreno rigoroso occorre cercare di rispondere a questa domanda: abbiamo notizie di qualche personaggio influente, magari appassionato di dipinti, che in qualche modo abbia avuto a che fare sia con i luoghi in cui sono stati realizzati gli affreschi in questione, sia con le vicende del periodo storico in cui furono realizzati, e che possa avere avuto un ruolo in tutto questo? Prima di esprimere un parere andiamo a approfondire la conoscenza con un personaggio molto influente del suo tempo, probabilmente un po’ trascurato dai testi storici, molto attivo sicuramente sia a Montefiascone che a Melfi: il Cardinale Gerardo Bianchi da Parma, (Gerardo Blancus). Gerardo Bianchi fu un cardinale italiano del XIII secolo. Nacque a Gainago, vicino Parma, dove si formò in diritto canonico ed in diritto romano. Iniziò la sua carriera nella Curia Pontificia nel 1245 come scrittore e cappellano di papa Innocenzo IV (1243 -1254). La sua carriera proseguì nel segno della continuità anche con i pontefici successivi, ottenendo importanti incarichi, sia da parte di Innocenzo V, (1276), sia sopratutto da parte di Martino IV, a cui era legato da una antica amicizia. Il 12 aprile 1281 venne innalzato a Cardinale Vescovo di Sabina. Fu uno dei collaboratori più fidati di Bonifacio VIII. Alla sua morte, nel marzo del 1302, fu sepolto nella Basilica di San Giovanni in Laterano, di cui era stato il primo Arciprete. Questa, per grandi linee, la biografia del nostro cardinale. Il Cardinale, tra le altre cose, era un personaggio decisamente facoltoso, con una predisposizione al mecenatismo. Fu l'ideatore e il patrocinatore dell’abbazia circestenze di Val Serena, e, sopratutto, un appassionato di affreschi, considerato un grande committente di opere d'arte. 159 Il Cardinale Gerardo Bianchi svolse una parte importante del suo mandato episcopale sia a Viterbo che a Melfi. Da Viterbo nel 1277 compilò il formulario dell'audientia litterarum contradictarum, inoltre è certa la sua presenza in città durante il conclave del 1278. 160 Nel 1284, a Melfi, organizzò un sinodo che portò alla promulgazione di uno Statuto. 161 Considerata la relativa vicinanza geografica tra Parma e Bassano del Grappa, non è poi così improbabile che possa avere avuto una frequentazione anche nella città veneta. A questo punto facciamo di nuovo un passo indietro e ritorniamo a Montefiascone a occuparci della vicenda dei Vespri siciliani. Cacciati i francesi a furor di popolo nel 1282, i Siciliani offrirono il Regno a Pietro III d’Aragona. Nel 1296, con un gesto rivoluzionario, in un Europa dove i sovrani erano re per grazia di Dio, il Parlamento Siciliano elesse Re di Sicilia per Voluntas Siculorum il figlio di Pietro III, Federico, che in ossequio al bisnonno materno volle nominarsi Federico III. Contro la Sicilia fu subito scatenata una guerra d’aggressione, quasi una crociata, coordinata e finanziata da Bonifacio VIII, che vide protagonisti gli Angioini di Napoli, i Francesi e gli Aragonesi. Nel 1302, con il trattato di Caltabellotta, si confermava che la corona siciliana spettasse a Federico III fino alla sua morte, dopodichè sarebbe ritornata di nuovo agli Angiò. In questi venti anni la gestione diplomatica del conflitto vide come protagonista assoluta una sola persona: il Cardinale Bianchi. 159 160 161 Le chiese di S. Lorenzo e San Domenico – S. Romano N.Bock – 2005 Treccani - Dizionario Biografico G. Silanus – Gerardo Bianchi da Parma – La biografia di un cardinale duecentesco. Herder 2010 96 Il Cardinale Gherardo Bianchi viene inviato a negoziare in occasione dei vespri Siciliani. Historia antica di Ricordano Malespini gentil'huomo fiorentino dall'edificazione de Fiorenza per insino all'anno MCCLXXXI - Ricordano Malespini, Giacotto Malespini Giunti, 1568 Il Cardinale Bianchi viene incaricato da Montefiascone da papa Martino IV a andare in Sicilia come Legato Pontificio in missione diplomatica in seguito alla rivolta del Vespro- Descrizione Del Real Tempio, E Monasterio Di Santa Maria Nuova, di Morreale: Vite De' Suoi Arcivescovi, Abbati, e Signori. Col Sommario De I Privilegj, della detta Santa Chiesa - Giovanni L. Lello, Michele Del Giudice Epiro, 1702 97 Lo scoppio dei Vespri siciliani, il 30 marzo 1282, segnò una svolta nella vita del cardinale Bianchi: il 5 giugno Martino IV lo nominò legato per il Regno di Sicilia, in un momento in cui Carlo d’Angiò stava tentando di fronteggiare la rivolta con una serie di riforme, e quando queste finirono per rivelarsi inefficaci, con la forza. Il re raccolse il suo esercito a Catona sulla penisola, di fronte a Messina, dove egli andò di persona il 6 luglio e dove, contemporaneamente o poco dopo deve essersi recato anche il Bianchi. Il 25 luglio gli Angioini, attraversato lo stretto, approdarono a sud di Messina presso il monastero di S. Maria Roccamadore e attacarono la città, nella quale Alaimo da Lentini aveva organizzato la difesa. Prima dell’attacco vero e proprio il Cardinale Bianchi, d’accordo con il re e con gli assediati, si recò nella città per un tentativo di mediazione: fu accolto amichevolmente e Alaimo gli consegnò persino le claves terre e con questo gesto simbolico lo investì, in quanto rappresentante del papa, della città e dell’isola. Ma il legato non potè accettare la proposta dei Messinesi di sottometersi alla Chiesa ed essere governati da un rappresentante del papa, né potè accettare altre proposte di compromesso, secondo le quali il re avrebbe dovuto insediare un italiano come governatore e ritirare le truppe di occupazione francesi, giacchè sia il papa sia Carlo d’Angiò esigevano una resa senza condizioni. 162 La mediazione non portò a nessun risultato, il cardinale Bianchi dovette lasciare la città, ma sebbene avesse rappresentato gli interessi del papa e degli Angioini non venne identificato con gli odiati francesi, anzi al contrario dovette lasciare un buon ricordo sull’isola, come testimonia il cronista Niccolò Speciale. 163 Il cardinale Bianchi conosceva di persona Pietro d’Aragona e anche per questo motivo gli era stato dato il ruolo di intermediario nel conflitto. Al cardinale Bianchi furono affidate le missioni diplomatiche più delicate della Chiesa romana nella seconda metà del XIII secolo: oltre al tentativo di pacificazione tra la Sicilia e Carlo d'Angiò, gli fu assegnata la reggenza provvisoria del Regno di Napoli tra il 1285 ed il 1289, il tentativo di conciliazione fra le corone di Francia ed Inghilterra (1290 – 1291) e, ormai ottantenne, nel 1299 anche Bonifacio VIII che lo considerava uno dei suoi collaboratori più fidati, gli chiese un ultimo impegno nel tentativo di ricondurre la Sicilia nel regno di Carlo II d'Angiò. Rimase in Sicilia per circa due anni, poi il 20 dicembre 1301 si imbarcò per Napoli. Secondo le relazioni degli ambasciatori aragonesi, in questo frangente prese posizione contro gli Angioini schierandosi a favore di Federico III di Sicilia. Le fatiche della sua ultima legazione lo avevano provato: poco dopo il suo ritorno a Roma si ammalò gravemente e morì il 1 marzo 1302, senza riuscire a vedere la conclusione della pace di Caltabellotta, alla quale si arrivò anche grazie alla sua azione diplomatica. Fu sepolto nella basilica di San Giovanni in Laterano, di cui era stato primo Arciprete. Questo per grandi linee il ritratto politico del Cardinale Bianchi da Parma. Vediamo adesso l’appassionato d’arte. L'immagine del cardinale Gerardo Bianchi è giunta fino a noi grazie ad un affresco votivo realizzato da un artista parmense degli inizi del 1300, commissionato dallo stesso cardinale, che si trova nel sedicesimo nicchione del Battistero di Parma, che raffigura l'Arcangelo Gabriele accanto alla Beata Vergine in trono con Gesù Bambino sulle ginocchia. Nel 1295, in un Breve ricevette l’elogio di Bonifacio VIII per avere fatto eseguire, nella sua veste di Vescovo in Sabina, un massiccio intervento di ristrutturazione della cattedrale di Santa Maria a Vescovio, vicino Civita Castellana, nel viterbese, lavori che precedettero la realizzazione di un vasto ciclo di affreschi dedicati ad illustrare scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, culminanti nel Giudizio Finale della controfacciata. 164 Ritorniamo, ancora una volta a Montefiascone e proviamo a riformulare, alla luce delle informazioni acquisite, la domanda iniziale: abbiamo elementi per poter ragionevolmente affermare che sia esistito qualche personaggio influente, magari appassionato di arte e di dipinti, che in qualche modo abbia avuto a che fare sia con i luoghi in cui sono stati realizzati gli affreschi in questione, sia con le vicende del periodo storico in cui furono realizzati e con il mondo Svevo e Aragonese i cui simboli si manifestano più o meno velatamente nell’Incontro di San Flaviano? A questo punto direi proprio di si: il Cardinale Gerardo Bianchi da Parma. 162 Treccani -Dizionario biografico – Gerardo Bianchi Nicolaus Specialis- Historia Sicula, in L.A. Muratori, Rer . Italic. Script – X – Milano 1727. Pp 1014 164 Il culto delle Madonne arboree nelle diocesi di Rieti e Sabina – SILVAE - Anno III – nr 7 163 98 Parma – Battistero – Ritratto del Cardinale Gerardo Bianchi – Maestro del 1302 99 Santuario di Santa Maria della Lode -Vescovio 100 Montefiascone – Basilica di San Flaviano Incontro dei tre vivi e dei tre morti - particolare Montefiascone - Basilica di San Flaviano 101 Conclusioni Per poter arrivare alle conclusioni finali di questa mia ipotesi di lavoro è necessario fare un altro passo indietro, l’ennesimo, e ripartire da dove ho cominciato: quando si parla di Medioevo occorre tenere presente che quasi sempre le fonti documentali per raccontare gli avvenimenti del passato sono in gran parte andate perse. Spesso le ricostruzioni di fatti relativi a questo periodo storico sono state elaborate in numerose circostanze con una disponibilità parziale dei documenti, e molte conclusioni sono espressione di una conoscenza limitata delle carte, tanto che in numerosi casi non sempre si può parlare di certezze assolute nella ricostruzione storica, anzi, semmai è vero il contrario. La premessa iniziale rappresenta un po’ la chiave di lettura di questo testo, considerato che l’analisi dei numerosi nuovi documenti a disposizione mi ha spinto a fare non solo un lavoro di puntualizzazione e correzione, ma, in alcuni casi, a eseguire una vera e propria riscrittura degli eventi, con tutti i rischi del caso. Sono perfettamente consapevole di non avere, come nessun altro, la verità in tasca, ma nello stesso tempo lo sono anche del fatto che non posso esimermi, a questo punto, dalla responsabilità di arrivare a sostenere una tesi magari scomoda, ma che per assurdo, una volta acquisite ed elaborate tutte le informazioni, ha ragionevolmente numerosi validi argomenti per poter essere credibile piuttosto che il contrario. Nella stesura del testo sono volutamente tornato più di una volta sopra i singoli episodi trattati proprio per sottolineare come situazioni apparentemente distanti fossero invece in qualche modo in relazione fra loro. Esiste dunque un sottile filo che in qualche modo lega, attraverso l’utilizzo di simboli più o meno evidenti, la misteriosa lapide tombale di Defuk con la rappresentazione dell’affresco dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti? Ritengo che il tarlo del dubbio sia più che giustificato e mi auguro piuttosto che sia contagioso. A chi rimarrà perplesso per le mie conclusioni mi permetto di ricordare che i presupposti da cui sono partito sono per certi versi forse ancora più discutibili: mi riferisco alla mancata presa d’atto dell’esistenza di un palazzo imperiale a Montefiascone già prima di Innocenzo III, seppure documentata e comunque pubblicata, alla presunta datazione quattrocentesca della lapide di Defuk, valutazione che è oggettivamente motivo di forte perplessità, alla latitanza nelle cronache degli studiosi di storia di Montefiascone della permanenza di Federico II e della sua Cancelleria sul colle falisco nel 1234, e per finire alla presenza nell’affresco di San Flaviano del blasone della casata dei re d’Aragona, completamente ignorato nonostante fosse in bella vista… Detto questo provo a ricapitolare il tutto per l’ultima volta: Nel 1197 a Montefiascone muore in battaglia il duca Federico di Tanne, vassallo imperiale di Filippo di Svevia, fratello dell’imperatore del Sacro Romano Impero: Enrico VI di Svevia. Federico di Tanne era membro di una casata, i Waldburg, molto influente presso la corte degli Hohenstaufen. Di Federico di Tanne non si conosce il luogo di sepoltura. Sempre a Montefiascone, nella basilica di San Flaviano, abbiamo a che fare con una lastra tombale dove è sepolto un personaggio non identificato, in quanto le iscrizioni che lo avrebbero potuto fare riconoscere sono state cancellate. A questa lastra tombale è stata convenzionalmente attribuita una datazione presunta intorno al 1400-1420. Analisi comparative con altre lastre tombali medievali autorizzano però ragionevolmente a ritenere che tale datazione convenzionalmente accettata sia errata, e che la lapide risalga invece alla prima metà del 1200. Tutti gli studiosi dell’argomento concordano, e comunque nessuno ha mai contestato la cosa, che la lastra tombale di cui parliamo non è l’originale, e che prima di essere collocata di fronte all’altare maggiore, posizione riservata a personaggi particolarmente prestigiosi, la sepoltura del misterioso personaggio era stata provvisoriamente collocata in un'altra posizione, in fondo a destra rispetto all’ingresso di San Flaviano, e che una nuova lapide, quella che noi conosciamo, venne collocata successivamente nella nuova posizione in seguito ad una traslazione postuma. Andiamo avanti: nel 1234, a causa degli sviluppi di un conflitto tra papa Gregorio IX e la città di Roma, l’imperatore Federico II stabilì il suo quartier generale a Montefiascone, dove si trattenne per circa due mesi con tutta la cancelleria, circostanza testimoniata dai numerosi documenti emessi, alcuni decisamente molto importanti. Della cancelleria imperiale faceva parte un familiare di Federico di Tanne, Enrico di Tanne. Gli stemmi presenti sulla lastra tombale di San Flaviano, uno in particolare, presentano forti analogie con quelli dell’Arcivescovato di Salisburgo, fondato da un altro familiare di Federico di Tanne, il potente arcivescovo di Salisburgo Eberardo II, consigliere religioso di Federico II, la cui presenza a Montefiascone è segnalata in diverse occasioni e che è ragionevolmente da non escludere anche in occasione del periodo di permanenza dell’imperatore. Tutti queste informazioni messe insieme inducono a ipotizzare che fu Federico di Tanne il soggetto protagonista della sepoltura postuma, il personaggio traslato di fronte all’altare maggiore di San Flaviano. La perdita del suo ricordo sarebbe quindi legata alla feroce Damnatio Memoriae applicata dal papato nei confronti di Federico II e di conseguenza di tutti i suoi collaterali, dopo la sua morte (1250), ipotesi che 102 spiegherebbe la totale mancanza di informazioni sull’identità del defunto. La lastra tombale ha subìto delle modifiche, probabilmente proprio per rendere impossibile l’identificazione dell’uomo sepolto. Oltre alla cancellazione delle iscrizioni, e a varie modifiche apportate sui vestiti e su parte della figura del personaggio scolpita sulla lapide, e verosimilmente anche sugli stemmi, è stato manomesso anche il cuscino sepolcrale, ricavando ai lati della testa del soggetto due calici. L’apparizione di questi calici (uno degli ingredienti che avrebbe successivamente alimentato la fama di alcolista del personaggio, reputazione che intorno al 1550 si è materializzata in una leggenda legata a un vescovo tedesco morto a Montefiascone a causa di una bevuta esagerata dell’ottimo vino locale) potrebbe rappresentare una qualche forma di resistenza alla Damnatio Memoriae: calice in tedesco antico si traduce con Stauf, termine che potenzialmente richiama l’appellativo Staufen, contrazione del nome del casato con cui veniva indicata la famiglia imperiale, gli Hohenstaufen… L’applicazione scientifica della Damnatio Memoriae nei confronti degli Staufen da parte del papato non impedì al mito dell’imperatore di lasciare tracce anche materiali a distanza di parecchi anni dalla sua morte. Una rappresentazione criptata di Federico II fu realizzata secondo l’Accademico dei Lincei Antonio Giuliano da Simone Martini ad Assisi nel 1320, ben settanta anni dopo la morte dell’imperatore. Ritorniamo a Montefiascone… Nel 1300, in occasione del primo grande giubileo della storia indetto da Bonifacio VIII, nella basilica di San Flaviano vennero eseguiti dei lavori di ampliamento e realizzati dei cicli di affreschi, tra cui una pregevole rappresentazione del tema dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti. Questa rappresentazione ha delle evidenti analogie iconografiche con un altro affresco che si trova in Basilicata, all’interno della chiesa rupestre di Santa Margherita nei pressi di Melfi, affresco in cui, secondo la tesi dello studioso Raffaele Capaldo, potrebbe essere stata rappresentata la famiglia imperiale sveva al completo: Federico II, Isabella d’Inghilterra e Corrado IV. In questo affresco sono presenti similitudini iconografiche che lo accomunano all’Incontro di San Flaviano, similitudini che fanno ipotizzare che chiunque abbia realizzato o fatto realizzare il dipinto a Montefiascone conoscesse il dipinto di Melfi. Oltre a questi elementi, altri fattori ci inducono a ritenere che anche nell’affresco di San Flaviano sia rappresentata, seppur in maniera criptata, la famiglia imperiale sveva. Ulteriori riscontri a questa ipotesi 165 emergono infatti incrociando le informazioni che ci vengono fornite da un altro affresco rinvenuto casualmente negli anni novanta a Palazzo Finco, nel centro storico di Bassano del Grappa, affresco dove si ritiene siano raffigurati Federico II e Isabella d’Inghilterra. Accanto alla coppia imperiale si trova un altro personaggio, non meglio identificato, che però ricorda in maniera evidente uno dei soggetti dipinti nell’Incontro di San Flaviano, tanto da far ritenere che possa trattarsi della stessa persona, eventualità che confermerebbe l’ipotesi che anche a Montefiascone siamo in presenza di una rappresentazione, seppure non palese, della famiglia imperiale. In quest’ultima raffigurazione sono presenti chiari riferimenti agli Aragonesi, (le quattro barre), che proprio in quel periodo storico erano entrati in conflitto con il papato, in quanto Pietro III d’Aragona aveva appoggiato i rivoltosi siciliani nella cosiddetta rivolta dei Vespri Siciliani. Pietro III aveva sposato Costanza, la figlia di Manfredi, il figlio prediletto di Federico II, e gli Aragona rivendicavano la corona di Sicilia proprio per questa continuità dinastica con gli Hohenstaufen. Papa Martino IV, per questo appoggio ai rivoltosi, nel 1282 aveva scomunicato Pietro III proprio da San Flaviano, dove l’anatema fu anche affisso pubblicamente per un certo periodo. Nel 1296 il parlamento siciliano proclamò re di Sicilia il figlio minore di Pietro III, Federico III d’Aragona, che aspirava a occupare il trono imperiale in quel momento vacante, provocando la reazione di Bonifacio VIII, che lo scomunicò nel giro di una settimana. Questo ulteriore elemento rende oggettivamente improbabile sostenere che tutte queste situazioni siano la conseguenza di semplici coincidenze fortuite. Il tema dell’Incontro era particolarmente caro ai francescani, le cui frange più radicali degli Spirituali, considerate spesso al limite dell’eresia, parteggiavano in molti casi apertamente con l’imperatore e ritenevano Federico II investito della missione di bonificare la chiesa considerata in molti casi corrotta e di liberarla dal papa accusato di essere un materialista indegno del ruolo, per questo spesso additato come l’Anticristo, affermazione che il papa rimandava al mittente utilizzandola a sua volta nei confronti dell’imperatore. Analogo destino, secondo le profezie di Fra Dolcino, sarebbe toccato a Federico III d’Aragona, accomunato allo Staufen anche per questo motivo. A questo punto ritorniamo al cardinale Gerardo Bianchi da Parma, che ebbe un ruolo fondamentale come legato pontificio negli sviluppi degli avvenimenti che hanno caratterizzato la vicenda dei 165 Non c’è da meravigliarsi se in queste informazioni non sono state incrociate in passato. Bisogna tenere presente che la basilica rupestre di Santa Margherita a Melfi è stata praticamente in stato di abbandono fino al 1930, e che l’affresco di Bassano del Grappa è stato rinvenuto solo nel 1992, abbastanza recentemente. Questo spiega la mancanza di letteratura scientifica sull’argomento N.d.a. 103 Vespri Siciliani durante tutto il ventennio in cui si svolse. Il cardinale Bianchi ha sicuramente avuto a che fare con la città di Melfi e tra le altre cose era un mecenate appassionato di arte. Nel 1295 il cardinale Bianchi viene elogiato in un Breve emesso da Bonifacio VIII per la realizzazione di lavori di ristrutturazione ed ampliamento della chiesa di Santa Maria della lode, a Vescovio, nei pressi di Civita Castellana, cui seguì la realizzazione di un vasto ciclo di affreschi. A questo punto, dopo questo lungo riepilogo degli argomenti trattati, abbiamo a che fare con un ultima coincidenza: praticamente, documenti alla mano, possiamo stabilire che gli affreschi di Vescovio e quelli di San Flaviano furono realizzati o in contemporanea o in sequenza ravvicinata, e hanno un importante elemento che li accomuna: entrambi i cicli pittorici sono attribuiti dalla maggior parte della critica a allievi di Pietro Cavallini. 166 La relativa vicinanza geografica e temporale nella realizzazione dei due cicli di affreschi autorizza a ipotizzare che in entrambi le realizzazioni pittoriche abbia operato la stessa bottega di frescanti, e che quindi anche per quanto riguarda San Flaviano, il cardinale Bianchi potrebbe essere stato il committente di entrambi i dipinti. Per di più il Bianchi era sicuramente un abile diplomatico, un grande negoziatore, caratteristica che troverebbe ulteriore conferma anche nell’ipotesi che a lui sia dovuta la committenza della realizzazione dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti di Montefiascone. A pensarci bene ci troveremmo difatti di fronte ad un vero proprio capolavoro di abilità diplomatica. In un colpo solo avrebbe accontentato tutti gli attori coinvolti in questo passaggio temporale così turbolento: i francescani spirituali, attivi a Montefiascone, comprese le frange più estreme al limite dell’eresia, perseguitate da Bonifacio VIII, che guardavano a Federico II di Svevia come il salvatore della Chiesa e che quindi leggevano nella rappresentazione pittorica un messaggio comunque eversivo ed un modo per fare sentire la propria voce, le gerarchie ecclesiastiche, che, impegnate nello scontro con gli Aragonesi, li vedono sminuiti in quanto rappresentati in tutta la loro fragilità umana al cospetto della morte, gli Aragonesi stessi, a cui comunque viene di fatto riconosciuto lo status di legittimi eredi degli Hohenstaufen… un affresco che ai giorni nostri potremmo definire politicamente corretto. Il Cardinale Gerardo Bianchi morì pochi mesi prima che venisse sottoscritta la Pace di Caltabellotta, il trattato che avrebbe messo fine alla vicenda dei Vespri, a cui si era arrivati anche grazie alla sua azione diplomatica. Correva l’anno 1302. 166 Il santuario di Vescovio – Diocesi Sabina/Poggio Mirteto – Printcompany - Annali Aretini, XIII, 2005 - Atti del convegno internazionale Simboli e rituali nelle città toscane tra Medioevo e prima Età moderna pag. 116 (Arezzo 2004) 104 105 Ringraziamenti La realizzazione di questo volume ha richiesto rispetto alle mie iniziali intenzioni molto più tempo del previsto, sia per problematiche personali, sia perché oggettivamente gli argomenti trattati necessitavano di adeguati approfondimenti e la fretta sarebbe stata cattiva consigliera. Dal 2011 porto avanti in varie forme, con diverse pubblicazioni all’attivo, questo studio che coinvolge Montefiascone e San Flaviano in particolare, ricevendo contemporaneamente sia recensioni critiche che attestati di stima, questi ultimi fortunatamente in quantità decisamente superiori, alcuni tra l’altro anche da parte di membri di importanti istituzioni culturali internazionali. In ogni modo, arrivato alla fine di questo mio lavoro, vorrei ringraziare prima di tutto i miei detrattori, che con le loro critiche mi hanno comunque spronato ad aumentare il livello di conoscenza e di consapevolezza della materia, poi naturalmente ringrazio tutti quelli che ho disturbato a vario titolo e tutti coloro che mi hanno supportato con il loro sostegno e con la loro collaborazione, portandomi la loro disponibilità e le loro preziose competenze. In particolare voglio ricordare la prof.ssa Elettra De Maria per le sue consulenze sui testi in latino, Vittorio Bagaglia, grande conoscitore di archivi digitali e non, Chiara Carti, esperta di abbigliamento medievale e responsabile del portale Vivere il Medioevo, Giampaolo Marzetti per il supporto informatico e la realizzazione della copertina, Michele Sedile e Vincenzo Fundone dell’Archeoclub di Melfi per il tempo che mi hanno dedicato durante le mie trasferte in Basilicata e, per finire, i miei amici Ugo Nasi e Luciana Dos Santos per avermi spronato con il loro entusiasmo a terminare finalmente questo lavoro. A tutti va la mia gratitudine. Quinto Ficari 106