Dipartimento di Lettere e Beni Culturali
Laurea Magistrale in Semiotica
Sinestesia e disgusto
Su alcune fotografie di Maisie Cousins
67007 – Metodologie di analisi (2)
prof.ssa Patrizia Violi
A.A. 2018/2019
Marta Del Gigia
Francesco Di Maio
Il presente lavoro è la tesina elaborata per la verifica finale del corso 67007 – METODOLOGIE DI ANALISI (2) (LM) dell’A.A.
2018/2019 del Corso di Laurea Magistrale in Semiotica.
Ringraziamo innanzitutto la prof.ssa Patrizia Violi per aver accettato la nostra proposta di analisi e permesso di lavorare
su questi argomenti.
Un ringraziamento particolare va a Michele Amaglio che ci fatto conoscere le opere di Maisie Cousins e per la preziosa
consulenza tecnico-fotografica.
Vorremmo inoltre ringraziare per l’attenta lettura e i preziosi spunti critici Giuseppe Criscione, Umberto Maffucci,
Niccolò Monti, Lorenzo Petrachi, Irene Sottile, Paolo M. Toti e Mirco Vannoni.
Ogni parte dell’elaborato è stato concordato e discusso da entrambi gli autori. Escluso §1, che è stato steso a quattro mani,
§§2-5 sono stati scritti da Marta Del Gigia e §§0 e 6 da Francesco Di Maio per meri fini redazionali.
0
Indice
Parte prima. Introduzione
0 La fotografia tra icona, indice e illusione sensoriale
p. 3
1 Maisie Cousins
p. 4
1.1 Ritaglio del corpus
p. 4
1.2 Genere e presentazione
p. 5
p. 5
2 Sinestesia e impronta
Parte seconda. Analisi
3 Dall’ottico all’aptico
p. 8
4 Un primo disgusto
p. 10
5 Life soup
p. 13
6 Trittico
p. 16
6.1 Ecfrasi
p. 16
6.2 Quattro forme di forma mancate
p. 18
6.2.1 Sull’atto inconico
p. 18
6.2.2 Abduzione e angoscia
p. 19
6.2.3 Informale
p. 20
6.2.4 Della tribofobia
p. 22
6.2.4.1 Tra impronta e taglio
p. 22
6.2.4.2 Sul volto tribofobico
p. 24
Riferimenti bibliografici
p. 27
Sitografia
p. 30
1
2
0. La fotografia tra icona, indice e illusione sensoriale
Il “fotografico” diventa un vero e proprio elemento
perturbatore, magari facendo leva proprio sul suo “statuto
indecidibile”: né indicale né iconico, sia l’uno sia l’altro.
Questo carattere, che fa il fascino e la ricchezza degli usi
cui si presta la fotografia nella creazione contemporanea,
può costituire anche il carattere di dirompenza, non
circoscrivibilità, incongruità, dentro l’operare, artistico e
non.
Elio Grazioli (1998, p. 341).
La fotografia ha sempre vissuto la dialettica della rappresentazione.
Usando le categorie di Louis Marin (1994), una foto è sempre rappresentazione di qualcosa
(carattere transitivo e trasparenza). Allo stesso tempo però, per rappresentare, questa non può non
presentarsi in qualche modo, far sentire la sua presenza (carattere intransitivo e opacità).
Questa «duplicità rappresentazione/rilevazione» ricalca una «dialettica icona/indice» contro
cui Charles Sanders Peirce si è dovuto sempre scontrare ogni qual volta si confrontava con il
fenomeno fotografico, tant’è che nei suoi scritti emerge una «continua oscillazione tra "iconicità
rappresentazionale" e "indicalità rilevatrice"». In breve, «sebbene gli aspetti indicali delle immagini
fotografiche siano più volte evidenziati da Peirce, gli aspetti iconici ne costituiscono la controparte
essenziale: la fotografia insomma si configura per Peirce come un caso semiologicamente unico»
(Parisi e Pennisi 2015, p. 83 e 80).
Come racconta lo stesso filosofo americano, «le fotografie, specialmente [quelle] istantanee,
sono molto istruttive, perché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente simili agli
oggetti che rappresentano. Ma questa somiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state
prodotte in condizioni tali che esse erano fisicamente costrette a corrispondere punto a punto» (CP
2.281; trad. it. Opere, p. 166).
Questa dialettica tra foto-indice e foto-icona è stata ulteriormente complicata dalle nuove
forme di cattura come la foto digitale o, come la chiama Bernard Stiegler (1995, trad. it. p. 172),
“immagine discreta”. Questo nuovo tipo traduce in dati discreti (binari), corrispondenti a pixel
colorati, la traccia impressa sulla lente dei riflessi luminosi. Questa traduzione in una diversa sostanza
dell’espressione permette alterazioni in postproduzione non facilmente rilevabili a occhio nudo. Così
facendo, il carattere indicale della foto, caro ad esempio a Roland Barthes (1980), viene messo in
seria crisi, motivo per il quale l’“immagine discreta” dovrebbe portare a una nuova forma di sguardo
critico, a una «nuova forma di incredulità» (Stiegler 1995, trad. it. p. 172).
D’altronde, il senso della vista è quello che più facilmente si presta all’illusione, a differenza
di gusto e tatto che non prevedono la distanza nei confronti dell’oggetto. Il gusto, però, durante il
3
processo di percezione, altera l’oggetto, motivo per il quale de gustibus non est disputandum. Esiste
quindi una sfiducia di fondo nei nostri occhi, per il semplice fatto che sono i nostri1.
Come osserva Patrizia Violi (1997, §1.3.4), ripresa poi da Umberto Eco (1997, p. 440 nota
26), il fatto che «le qualità visive siano più facilmente interpretabili di quelle olfattive e tattili dipende
dalla nostra struttura fisiologica e dalla nostra storia evolutiva». Questo è il motivo per il quale si
riesce «a ricordare e a interpretare meglio le sensazioni che saremmo in grado di riprodurre», ad
esempio con un disegno, un suono o una melodia. Non possiamo né «riprodurre, né produrre
(volontariamente) un odore e un sapore». Da questo deriva un’«incapacità a fare col corpo» che «si
risolve in una incapacità (o minore capacità) a interpretare e persino a ricordare». Caso particolare
invece il tatto: «riusciamo a riprodurre sul corpo altrui o nostro, e mediante il nostro corpo, molte
sensazioni tattili» ma «non tutte».
Potendo godere della fotografia, indicativamente, con la vista, come è possibile allora fruire
questo tipo di immagine coinvolgendo gli altri sensi?
1
Maisie Cousins
1.1
Ritaglio del corpus
Una nuova forma di incredulità, si diceva. Ma questa incredulità si dovrà pur esercitare su un corpo.
Proprio su questo gioca Maisie Cousins (n. Londra 1992 – vivente), giovane fotografa inglese, della
quale analizziamo un corpus di sette fotografie selezionate dalla sua produzione2.
A questo scopo, approfondiremo il concetto di visione aptica, per disambiguare il meccanismo
attraverso il quale vista e tatto si influenzano. Ci concentreremo inoltre sulla dimensione forica che
attraversa questo insieme complesso ed avanzeremo ipotesi in merito all’effetto di senso che tutto ciò
produce.
Proprio in merito alla connivenza di sintassi sensoriali che caratterizza queste immagini, in
particolare le prime quattro del nostro corpus (figg. 1-4, §§3-5), specifichiamo che ci concentreremo
sul rapporto che la sintassi del tatto intrattiene con la sostanza visiva: anche se le immagini del corpus
sarebbero passibili di un’analisi relativa, per esempio, alla sintassi dell’olfatto, ci limiteremo, per
esigenze redazionali, a prendere in considerazione solo vista e tatto.
Per quanto invece riguarda le ultime tre foto (figg. 5-7) (che compongono un “Trittico”, §6),
ritorneremo specificatamente sul problema dello sguardo. Infatti, pur sempre in una coerenza tematica
Al riguardo, cfr. Most 2005, trad. it. pp. 5-7.
Tutte le foto presentate e analizzate sono state selezionate dal profilo Instagram della fotografa:
https://www.instagram.com/maisiecousins/. Queste verranno analizzate indipendentemente dal contesto. Si consideri
inoltre che le fotografie non hanno titolo.
1
2
4
e poetica con le altre, in queste gli effetti percettivi prenderanno avvio da una difficoltà di iconismo
visivo primario.
1.2
Genere e presentazione
Nel tentativo di definire le fotografie di Cousins attraverso i generi proposti da Jean-Marie Floch
(1986) rileviamo come questi testi, con gradi di intensità variabili, possano afferire a quelli
contraddittori della fotografia referenziale e di quella obliqua.
Il primo genere descrive una fotografia «addetta a rendere la parola del mondo», che, come
riporta Dario Mangano (2018, p. 122), implica, per via dell’alto livello di dettaglio, una sensazione
tattile oltre che visiva. Il secondo, invece, si riferisce a una fotografia che «mina i fondamenti
epistemici della referenzializzazione». Privilegia «lo spostamento, il doppio senso, il gioco di figure»
(Floch 1986, trad. it. p. 14), inducendo così l’osservatore a domandarsi cosa in quella fotografia sia
rappresentato e come questa sia stata realizzata. Come già indicato, la nostra analisi partirà dalla
fotografia più chiaramente referenziale per proseguire fino a quelle più oblique.
2
Sinestesia e impronta
Per studiare le fotografie di Cousins faremo riferimento a una semiotica del visibile che riporta in
gioco la corporeità, obbedendo a logiche sensibili diverse dalla sola vista. Infatti, analizzare immagini
fotografiche o pittoriche, considerandole solo appartenenti al visivo, implica negare il sincretismo
che può caratterizzale. Ci affideremo per questo motivo alla proposta per una semiotica dell’impronta
di Jacques Fontanille (2004).
L’autore rifiuta preliminarmente la partizione fra i cinque sensi, ammettendone uno studio
separato ai soli fini analitici, ma sempre nella consapevolezza che ciò che percepiamo ci arriva in
prima battuta come un tutto olistico. L’attenzione infatti non è concentrata sul canale sensoriale
recettore, ma sul contributo che i singoli sensi, raggruppati in fasci, influenzandosi a vicenda,
apportano alla sintassi figurativa, producendo una «trasformazione dell’informazione sensoriale in
significazione del mondo sensibile» (ivi; trad. it. p. 147).
Riprendendo la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty (1945, trad. it. p. 307), Fontanille
(2004; trad. it. p. 136) afferma che il «sincretismo (dei modi semiotici del sensibile) e la sinestesia
(degli ordini sensoriali) non sono dunque complicazioni supplementari o elaborazioni sofisticate e
ulteriori, ma la condizione stessa dell’apparizione della funzione semiotica dell’uomo».
I modi sensoriali diversi dalla visione che caratterizzano la nostra presa percettiva delle
immagini sono principalmente la sensomotricità e la tattilità. Nel primo caso possiamo per esempio
pensare all’effetto che produce in noi seguire il movimento della macchina da presa al cinema; nel
5
secondo, che pertiene specificamente al nostro oggetto di studio, ci riferiamo a una tattilità che emerge
anche se non stiamo toccando concretamente ciò che stiamo guardando, a prova di come la sintassi
del tatto possa codificare la sostanza visiva producendo specifici effetti di senso.
Come spiegano Pierluigi Basso Fossali e Maria Giulia Dondero (2006, pp. 47-8), non si tratta
di passaggi da un senso all’altro, ma di «una sostituzione […] del processo della sintassi di un certo
campo sensibile […] che codifica un altro campo». Dimostrare come l’immagine possa assumere
sintassi eterogenee permette così di affermare l’autonomia della dimensione figurativa rispetto ai
diversi ordini sensoriali e alle diverse sostanze dell’espressione.
Una semiotica dell’impronta si sofferma quindi sui relativi media di produzione e canali di
ricezione, allo scopo di ricostruire le sintassi figurative sottese a produzione, genesi e circolazione
delle immagini. Per questo, nella costruzione di una semiotica della fotografia ancorata all’evento
sensibile, si procederà ad un’analisi implicante la «coimplicazione tra soggetto percipiente e testo
visivo, nonché la memoria discorsiva dell’atto instauratore» (ivi, p. 32).
Per procedere sarà dunque necessario «identificare e fissare innanzitutto un piano
dell’espressione, vale a dire disimplicare la maniera in cui le figure dell’espressione prendono forma
a partire dal substrato materiale delle iscrizioni e del gesto che ve le ha iscritte» (Fontanille 2004, p.
415). Questa proposta si focalizza allora in modo particolare sulla pertinentizzazione
dell’informazione riguardo la genesi dell’immagine e il processo di produzione che ha portato a
ottenere, in un’epoca in cui sarebbe ingenuo dare per scontato un “realismo” fotografico, quel che
vediamo e interpretiamo.
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fig. 1
7
3
Dall’ottico all’aptico
Nella prima fotografia (fig. 1) – ma queste considerazioni varranno anche per le altre – notiamo che,
da un punto di vista produttivo, considerati i numerosi riflessi, probabilmente si tratta di un’immagine
realizzata in studio con un’illuminazione artificiale, data da un set di luci più che da un flash diretto.
Siamo di fronte a un caso di still life, in cui gli elementi sono stati opportunamente assemblati e
posizionati ai fini dello scatto, realizzato forse con un teleobiettivo, come generalmente nel caso di
foto macro.
L’effetto di lucidità che caratterizza le increspature dei petali e la pelle del dito non è
presumibilmente dovuto a un setting della macchina, ma all’utilizzo di sostanze oleose spalmate sulle
superfici, mentre l’“effetto-bagnato” è restituito dalla screziatura di gocce di liquido rosso sui petali
rosa della peonia e sulla falangetta.
Questo tipo di organizzazione ricorda molto quello delle immagini del food porn: estrema
attenzione alla dimensione cromatica e alla luce, tinte sature e uniformi, poche sfumature e superfici
brillanti. Come fa notare Gianfranco Marrone (2016, p. 233), solitamente in questo genere, sebbene
«l’inquadratura sia spesso centrale, le forme dell’oggetto fuoriescono dalla cornice implicita dei
bordi, cioè dal supporto fotografico, per la semplice ragione che lo sguardo, mirando ai particolari
materici e ai loro contrasti, è fortemente ravvicinato. Uno sguardo, diremo, aptico, cioè tattile».
A differenza delle fotografie di Cousins, quelle tipiche del food porn però sono realizzate in
modo perlopiù amatoriale, e gli effetti che le contraddistinguono sono nella maggior parte dei casi
ottenuti tramite filtri. Il collegamento principale con questo genere resta allora l’implicazione
sensuale, tipica delle immagini aptiche che, indipendentemente dal loro contenuto, sono erotiche per
il fatto di chiamare in essere una relazione intersoggettiva tra fruitore e immagine. Come osserva
Laura Marks (2000, p. 183): «By engaging with an object in a haptic way, I come to the surface of
my self […], losing myself in the intensified relation with an other that cannot be possessed».
Tornando all’effetto-bagnato che caratterizza quest’immagine, vediamo come questo faccia
saltare l’idea che la fotografia sia caratterizzata dalla sola presenza di una sintassi a impronta e che,
tra le altre sintassi (come la sensomotoria) e gli altri canali modali della percezione (come l’olfatto),
assuma invece una notevole rilevanza il canale tattile: questa prima immagine, infatti, così come le
altre presenti, funziona secondo il modo dell’involucro tattile, o modo aptico (Fontanille 2004, trad.
it. p. 166).
Guardando questa fotografia percepiamo al contempo l’acquosità delle gocce rosse e la
generale umidità rugiadosa che ricoprono il fiore e il dito. Anche questo, inevitabilmente, specie con
la sua posizione vettoriale-indicale verso il pistillo del fiore, oltre a orientare la nostra lettura verso il
8
centro dell’immagine, provvede a restituire un collegamento esplicito con la tattilità: la pressione che
esercita esalta la prospettiva immergente dei petali più interni, che risultano avviluppati verso l’ovario
creando un gioco di ombre che esalta la profondità.
Tuttavia, nonostante l’esplicitezza di questo tocco, riteniamo, in linea con le considerazioni di
Marks, che questo non sia l’elemento primario nella definizione di quest’immagine come aptica.
Riguardo questo effetto suggerito dalla figurativizzazione esplicita della prensione delle mani, Marks
(2000, p. 171) si distanzia infatti dalla posizione di Gilles Deleuze definendo la presenza delle mani
non necessaria al fine di evocare una dimensione aptica3. Il senso del tatto arriverebbe in questo caso
all’osservatore attraverso un processo identificativo – con il padrone delle mani o con le mani stesse
–, mentre l’aptico va oltre questa necessità di identificazione e viene innescato da elementi specifici
dei testi.
L’autrice enfatizza infatti la qualità polisensoriale della percezione, allo scopo di disimplicare
la discussione sul visivo dal dominio dell’ottico, inserendosi nel filone di critica all’ocularcentrism
occidentale. Nella sua analisi di cinema interculturale, si sofferma a lungo su quella che chiama haptic
visuality, caratterizzata dal fatto che «the eyes themselves function like organs of touch».
Mentre la visione ottica, ovvero la normale modalità in cui guardiamo le cose – da una certa
distanza, distinte nello spazio –, dipende da una separazione tra il soggetto che guarda e l’oggetto
guardato, lo sguardo aptico «tends to move over the surface of this object rather than to plunge into
illusionistic depth […]. [I]t is more inclined to move than to focus, more inclined to graze than to
gaze» (ivi, p. 162). Privilegiando la presenza materiale dell’immagine guardata, la visione aptica
coinvolge il corpo in grado maggiore rispetto a quella ottica.
Deleuze (1985; trad. it. pp 16-7) parla di una funzione aptica dell’immagine per descrivere l’uso del tatto, isolato dalle
sue funzioni narrative, per creare spazio cinematografico: la funzione ottica verrebbe così “raddoppiata” alla vista di una
mano che assume sia una funzione prensile che una funzione connettiva diventando “aptica”.
3
9
fig. 2
4
Un primo disgusto
Anche nella seconda fotografia (fig. 2) è riscontrabile un effetto aptico estremamente esplicito,
suggerito dalla mano che tocca il seno, ma gli elementi dell’immagine che lo suscitano sono, a nostro
avviso, altri.
Riconosciamo appunto il dettaglio di un busto nudo con una mano, inquadrata a partire
dall’attaccamento delle dita, che dall’alto tocca un seno esercitandovi una pressione e una prensione.
Il seno, come il resto del busto, risulta coperto da fili d’erba tagliata sparpagliati e da una lumaca
attaccatavi in diagonale, che con la parte superiore del corpo si sovrappone all’anulare.
L’immagine è interamente concentrata sul dettaglio di questo corpo, con il seno al centro ad
occupare i tre quarti dell’immagine; la mano è colta in prospettiva immergente, nell’atto di una
prensione che lo “trattiene” verso l’interno. La lumaca è posizionata quasi al centro e tende
diagonalmente con la testa verso l’alto a destra, cosa che orienta la lettura nella stessa direzione.
Predominano le componenti curvilinee. La curva del seno è sottolineata dalla disposizione dei
fili d’erba che ne delineano i limiti inferiore e laterale. Si evidenzia un semisimbolismo cromatico tra
/chiaro/ vs. /scuro/ che, a livello di contenuto, ci riporta un’opposizione “umano” vs. “naturale”: per
quanto la mano risulti di tonalità leggermente più scura rispetto al resto del corpo, la pelle umana è
10
comunque contrapposta al marrone scuro della lumaca e al verde scuro dell’erba. La luce bagna,
evidenziando così la lucidità della parte bassa del seno, il dorso della lumaca e le dita all’altezza delle
falangette: l’effetto di lucidità ci conduce a una percezione tattile di umidità e scivolosità, oltre che
di freddo, visto il grado di saturazione del bianco della pelle. Quindi, oltre all’evidente atto prensivo
delle dita che affondano nel seno, rivelandone la soffice consistenza, sono presenti altri elementi che
rendono questa immagine aptica.
In tal senso ricordiamo che, secondo Fontanille (2004, p. 416), la «semiotica dell’impronta
presta attenzione al modus operandi della produzione testuale, così come a quello
dell’interpretazione, dal momento che mette in gioco l’ipotesi che l’interpretazione sia un’esperienza
che consiste nel ritrovare le forme di un’altra esperienza, di cui non resta che l’impronta». Così le
sensazioni non-visive veicolate da testi visivi sarebbero determinate da un débrayage del soggetto
osservatore, che proietta sull’oggetto le proprie conoscenze enciclopediche, e da un embrayage di
ritorno, dove l’oggetto restituisce i propri caratteri percettivi anche se non percettibili dalla sostanza
dell’espressione specifica4.
In questo modo, oltre alla generale traslucidità delle superfici, anche la presenza della lumaca
e dei fili d’erba suggerisce sensazioni tattili. La lumaca connota enciclopedicamente condizioni
climatiche umide e lo spargimento di una sostanza mucillaginosa lungo il suo percorso; si presenta
nuda, con la cute leggermente tubercolata e attaccata alla pelle umana: dalla prospettiva da cui
fruiamo della fotografia questo effetto di aderenza è enfatizzato, cosa che ci restituisce ancora di più
una sensazione di appiccicaticcio.
I fili d’erba sparpagliati e attaccati sulla pelle veicolano più un effetto di umidità che di
vischiosità. Sappiamo infatti che, se tagliamo il prato, l’erba ci si attacca addosso per l’umidità: ciò
che tiene insieme pelle ed erba non è dunque una sostanza collosa ma acquosa.
Allo scopo di ricercare l’effetto di senso che questa fotografia produce, concentriamoci adesso
sulla sua dimensione forica. La presenza della lumaca è l’elemento discriminante rispetto a una
reazione euforica o disforica di fronte a questa immagine. Questa possiede, a livello aptico, il tratto
/viscido/, enciclopedicamente legato al disgusto (disforia); ma anche i tratti /scivoloso/ e /umido/
potrebbero essere pertinentizzati per descrivere la medesima consistenza, e col disgusto non
avrebbero direttamente a che fare.
Riprendendo Colin McGinn (2011, p. 116 nota 19), il fatto che qualcosa sia considerato
viscido (slimy) anziché scivoloso (slippery) non è tanto questione di qualità sensoriali, quanto del
contesto in cui queste sono considerate: «Thus a slug or worm is described as slimy because it is
4
Questo processo di prensione analogizzante verrà approfondito maggiormente in seguito. Cfr. infra, §6.2.4.1.
11
unpleasantly slippery and moist but the unpleasantness derives from its being the kind of creature it
is».
Non possiamo giustificare dunque un pari disgusto per quanto riguarda la lumaca che, se
estrapolata dal contesto di questa immagine, non risulterebbe altrettanto repellente: ciò che disturba
è soprattutto il contatto tra il corpo umano sessualizzato e l’Alterità animale.
Interrogarci sulla reazione timica5 che un fascio sensoriale suscita è preliminare all’indagine
riguardo la sua risonanza emotiva. Riprendendo Fontanille (2004, p. 152), il «campo sensoriale
illustrato dal tatto è quello della presenza pura» cui si aggiunge una prima reazione timica: ciò che
tocco può attirarmi o respingermi. La distinzione cui si approda è quindi fra proprio (identità) e altro
(alterità), dove ciò che si caratterizza come “proprio” «può essere degustato, ingurgitato, inalato e di
conseguenza desiderato, ricercato ecc.; ciò che invece è caratterizzato come “non proprio” sarà
rifiutato, distrutto, e di conseguenza apparirà come inquietante, minaccioso, indesiderabile»6.
Secondo A.J. Greimas e J. Courtés (dir. 1979, ed. it. p. 360), «serve ad articolare il semantismo direttamente legato alla
percezione che l’uomo ha del suo corpo». Seguendo Violi (1991, p. 138), essa ha «la funzione di individuare un livello
specifico dell’organizzazione del contenuto che viene posto direttamente in connessione con la percezione corporea del
soggetto, con un investimento che è in primo luogo sensazione, condizione biologica, esperienza del mondo sensibile».
6
Sul proprio, v. inoltre infra §6.2.4.1 e nota 22.
5
12
figg. 3 e 4
5
Life soup
Procediamo all’analisi e al confronto tra queste due fotografie (figg. 3 e 4), individuando gli elementi
che le rendono aptiche e indagando i meccanismi forici per cui risultano creare un effetto di disgusto.
La prima immagine presenta, in basso, ciò che possiamo riconoscere come una busta di
plastica azzurra bagnata da gocce di liquido scuro, e in alto, in secondo piano rispetto all’impugnatura
del sacchetto, un’accozzaglia di fiori appassiti buttati nella spazzatura – che risulta essere il contesto
dell’immagine –, sopra ai quali si posano delle mosche. Anche i fiori presentano schizzi di liquido,
in questo caso rosso.
A livello topologico il sacchetto occupa la parte bassa, divisa da un asse orizzontale da quella
superiore dove si vedono i fiori. Qui troviamo, in prospettiva emergente, il manico della busta,
elemento centrale circoscrivente di forma oculare che orienta la lettura, portando l’occhio
dell’osservatore a guardar dentro a questo “mirino” sospeso. La porzione circoscritta, posta in
secondo piano e i cui elementi sono colti in prospettiva stavolta immergente, risulta, come gli altri
elementi in secondo piano, cromaticamente distinta dalla componente circoscrivente: alla policromia
rosa-rosso-giallo dei fiori si oppone la monocromia del sacchetto azzurro. Ad entrambi i livelli i colori
risultano estremamente saturi e sugli oggetti sono presenti delle macchie nere: insetti nel primo e
13
gocce nel secondo, in rima cromatica. L’elemento del sacchetto è caratterizzato da una continuità
materiale, mentre i fiori in secondo piano, sovrapposti gli uni agli altri, creano un effetto di confusione
dei bordi, di una massa variegata ma indistinta caratterizzata da forme arrotondate, al contrario del
sacchetto le cui increspature creano, specie nel caso dell’impugnatura-occhio, degli spigoli.
Vediamo
come
le
opposizioni
alto/basso,
circoscritto/circoscrivente,
frammentarietà/continuità, arrotondato/spigoloso e policromia/monocromia convertano, dal piano del
contenuto, l’opposizione organico/inorganico.
Quest’ultima categoria è pertinente anche nell’analisi della seconda immagine. Nello stesso
contesto della spazzatura, infatti, “organico” risulta presente in forma di fiori appassiti e insetti, e
“inorganico” in una teglia di alluminio, una busta di plastica e un tovagliolo di carta. Vediamo come
gli elementi afferenti alla categoria “inorganico” siano localizzati, rispetto al centro della foto, a
sinistra (la busta) e a destra (il tovagliolo), ed in alto a destra (la teglia): l’elemento organico risulta
occupare il centro dell’immagine, quello inorganico la periferia. La lettura è di nuovo orientata verso
il primo termine.
Anche qui i colori sono molto saturi e la monocromia degli elementi inorganici si oppone alla
policromia di quelli organici, eccezion fatta per il tovagliolo, che risulta essere un termine complesso:
sulla sua superficie cromaticamente omogenea si rilevano infatti tracce di altri colori, quali il nero
degli insetti brulicanti (che aggiungono il tratto “organico”) e l’arancione del liquido gelatinoso che
vi cola.
In entrambe le fotografie possiamo riconoscere un’isotopia tattile che caratterizza la
componente “organica” del testo: nel primo caso gli insetti posati sui fiori, di cui sono evidenti anche
le zampe a contatto con i petali appassiti, e le gocce – sia quelle nere sul sacchetto che quelle rosse
sui fiori, in richiamo anaforico – suscitano una visione di tipo aptico, restituendo il tocco di un insetto
appoggiato e la vischiosità di un liquido colante.
Nel secondo, due importanti dettagli che costituiscono un richiamo alla tattilità risultano
concentrati sul tovagliolo, elemento “pungente” dell’immagine, per riprendere Barthes (1980), di cui
la luce evidenzia il biancore, in contrasto cromatico con il nero delle formiche e l’arancione della
colata; vediamo e sentiamo il brulichio delle formiche, la vischiosità della colata arancione e la
pressione leggera della mosca posata. Gli altri elementi che costituiscono questa isotopia sono le
gocce sui fiori che creano un effetto di senso, come nella prima immagine, legato all’umidità e al
bagnato, ed il luccichio dei dadi rossi posti in basso a destra che veicola un senso di scivolosità.
Ma che tipo di reazione timica provocano questi testi, percepiti attraverso una modalità
sensoriale aptica? La nostra ipotesi è che, riprendendo ancora l’idea di “non proprio”, la sensazione
che queste immagini veicolano sia di disgusto, che si caratterizza proprio per la sua forte dipendenza
14
dal contatto sensibile. Infatti, essere disgustati da qualcosa significa principalmente voler a tutti i costi
evitare di entrarvi in contatto, per sfuggire a una contaminazione «not in the medical sense of germs
and desease, but in the sense of feeling oneself to be invaded, violated, made unclean. In this respect,
touch is its primary sense modality: the disgust object is primarly an object by which we do not want
to be touched». Il disgusto implica inoltre un fattore di prossimità: come nelle altre immagini, il taglio
della fotografia ci avvicina molto a ciò che viene ritratto e questo alto grado di vicinanza enfatizza
una reazione disgustata.
Oltre all’aspetto puramente sensoriale della fruizione, a determinare tale reazione concorrono
anche fattori relativi alla natura degli oggetti immortalati in questi scatti. Abbiamo notato come da
un’analisi dei formanti plastici emerga l’accento posto sul termine “organico”; Mcginn sottolinea
«the utter dependence of the disgusting on the perceived-to-be-organic». Il disgusto sarebbe quindi
una risposta a oggetti biologici e non inanimati, nel cui stimolo deve figurare «an impression of life
substance» (ivi, pp. 53-4).
In queste immagini, come abbiamo visto, “organico” è più enfatizzato rispetto ad
“inorganico”; l’impressione generale che possiamo ricavarne è quindi legata al disgusto.
Occupiamoci adesso degli oggetti che vi riconosciamo e di come essi risultino parte dello stesso
campo semantico. Il paradigma dell’oggetto disgustoso è il corpo putrefatto, il suo stato di
decomposizione e la trasformazione rivoltante – ad opera di batteri – che lo caratterizza (ivi, p. 13).
Come il corpo umano e animale, anche quello della pianta decomposta, seppur in grado
inferiore, eccita il disgusto, secondo il medesimo principio: qualcosa che una volta afferiva al termine
/vita/ si avvia verso la decadenza, verso la /non più vita/. Ed è proprio a questo termine che possiamo
ricondurre i fiori appassiti e buttati nella spazzatura che riconosciamo in entrambe le foto, che già
ispiravano il nostro disgusto a causa di una sensazione aptica legata a oggetti marci, quindi viscidi.
Altro elemento notevole presente in entrambi i casi, dove concorre a restituire una sensazione
tattile, è quello degli insetti. Nel primo caso mosche, nel secondo formiche, comunque specie che
solitamente «insinuate themselves into the disgusting corners of the human animal: the rotting corpse,
the bodily interior, the blood, the faces, the garbage». Sono considerate disgustose perché frequentano
«the independently disgusting» (ivi, p. 114). Ciò che risulta sommamente ripugnante è l’associazione
tra la pianta decomposta e la proliferazione di /vita/ innestata su questa /non più vita/.
Per concludere, la composizione di queste due immagini ricorda l’orrendo coacervo che
William I. Miller (1997, p. 40) chiama «life soup», caratterizzato da consistenze per cui è difficile
trovare termini descrittivi non peggiorativi: «The having lived and the lived unite to make up the
organic world of generative rot-rank, smelling and upsetting to the touch. […] [S]limy, slippery,
wiggling, teeming animal life generating spontaneously from putrefying vegetation».
15
figg. 5, 6 e 7
6
Trittico
6.1
Ecfrasi7
È faticoso comprendere appieno l’organizzazione dello spazio della rappresentazione. Sappiamo che
si tratta di una fotografia (fig. 5), che questa è indice della presenza di qualcosa davanti all’obiettivo
— sorvoliamo per il momento sulla sua identità — ma non sappiamo in alcun modo come questo
qualcosa fosse disposto8. Le ombre, che fungono da dispositivi di profondità, non danno per il
momento molti suggerimenti. Ispirano semmai che quanto si trova nella zona inferiore dell’immagine
si allunga come un pavimento al di sotto di quanto topologicamente sovrasta.
Qui infatti “pende” — così sembra — una massa amorfa, densa, rinserrata, la cui ombra spessa
si allunga sulla zona inferiore. È come un grande sipario, fitto, che svolazza su di un impiantito. Un
terreno certo irregolare, organico e lattiginoso. A sinistra, questo presenta delle lamelle a raggiera,
mentre sulla destra, un tessuto grigiastro presenta tanti piccoli forellini, in ognuno dei quali un piccolo
grumo sembra essere conficcato, internamente, seppur a un livello superficiale.
Sembra “pendere”, si è detto, poiché le luci non permettono di comprendere se la foto sia stata
scattata dall’alto, e quindi gli oggetti siano fissi al loro posto, oppure se sia frontale e quindi tutto sia
pronto a crollare in avanti, a sfondare la quarta parete.
Ci affidiamo dunque ai formanti eidetici, a come cioè le forme portano a una certa lettura
dell’immagine. La topologia, come indicato, orienta la lettura dal basso verso l’alto, effetto rinforzato
Procedendo all’analisi di questa foto, a partire dalle difficoltà di disambiguare le figure, quanto segue non potrà
analiticamente distinguere un livello specificamente plastico da uno figurativo. Le motivazioni di queste difficoltà saranno
spiegate nelle sezioni successive.
8
Sulla dialettica icona-indice nelle fotografie, cfr. supra, §0.
7
16
dalla densità, dunque dalla pesantezza, della massa in alto e dalle luci che ne riflettono le zone centrali,
più spanciate e prominenti. Le forme spingono lo sguardo a seguirle dai bordi in alto verso la zona
inferiore, secondo confini che, seppur netti, sembrano tremolanti.
La zona in alto si articola in due parti. La prima, a destra, è dominata da un oggetto dal colore
insaturo e sfumato, che ricorda un corpo cartilaginoso o, in ogni caso, un organo interno. Questo
termina in un lunga lingua dalla forma arrotondata che pende verso il basso. Sospendendo il giudizio
sull’organizzazione spaziale interna, sembra che la “lingua”, allungata su di un corpo più scuro, —
diviso in due da una linea longitudinale centrale: due labbra? —, si stia pian piano sciogliendo e
liquefacendo opponendosi alla sua tensione superficiale interna.
A sinistra, invece, abbiamo tre formanti, di cui gli esterni intersecano il centrale. Questo è
dato dall’accostamento di piccole unità tondeggianti dai bordi irregolari, affastellate l’una dietro
l’altra, immerse in una brodaglia rossiccia. Qui l’effetto prospettico è l’opposto rispetto alla “lingua”
biancastra di cui prima: questi biancori infatti sembrano un’arcata dentale, difficile dire se inferiore
o superiore, destra o sinistra. Il corpo alla loro destra appare come un pezzo di gengiva, nel suo rosso
pieno e descritto dalla luce in piccole rugosità chiare. Insomma, un ghigno, volendo o, meglio, solo
alcuni suoi caratteri necessari ma non sufficienti: le nostre abduzioni sembrano fallire9.
La seconda foto del trittico (fig. 6), invece, pur mostrando gli stessi oggetti della prima, li
riprende da un altro punto di vista, un po’ spostato verso sinistra. Questo movimento permette di
inquadrare un’ulteriore fila di “denti” che, collegata alla prima, disegna ora un’arcata dentale
completa. Sembra quindi che ci si ritrovi all’interno di una cavità orale che riporta un inquietantissimo
palato (in alto a sinistra nella foto), istoriato da tanti piccoli “occhietti” che emergono per puntare
proprio nella direzione dell’osservatore.
Vi è però una novità interessante riguardo il pavimento. Sulla sinistra sembra allungarsi un
corpo rossissimo, mentre, sulla destra, un oggetto lungo, sottile e biancastro si estende tra il pavimento
e una massa rosastra che vi è sospesa. Lo si percepisce come un filamento che bava tra i due corpi,
come a mostrarne il carattere limoso.
La terza foto (fig. 7) rompe la continuità del trittico. Seppur coerente con il tema, questa ritrae
un’altra composizione di oggetti. L’immagine è divisa a metà da un formante plastico posizionato in
primissimo piano, evidenziato dai riflessi di luce rifratti sulla sua guaina, che la descrivono come un
corpo cilindrico, oblungo, tondeggiante nelle forme. Il suo colore degrada da un beige più scuro nella
parte alta a un bianco nella zona inferiore. Lì si ingrossa in una prominenza irregolare simile a
9
Sull’abduzione infelice, cfr. infra, §6.2.2
17
un’epifisi. Questa si propaga cromaticamente verso il basso, come se fosse il dettaglio in escrescenza
di un corpo più ampio.
In alto a sinistra, il corpo centrale si allunga in una membrana giallastra punteggiata dai tipici
occhi. Nella foto si possono articolare così tre brevi arcate di denti, posizionate in corte spirali, tali
da portare lo sguardo dall’alto a sinistra, lungo il lato della foto, verso il basso, per poi spostarsi a
destra e infine salire.
Qui, a destra, vediamo posta una zona in secondo piano, articolata in più piani ottenuti per
effetto delle molteplici increspature, sempre meno definite che spingono lo sguardo verso l’interno
fino a disperdersi in un vuoto nero sullo sfondo. L’impressione è di trovarsi quindi in un corpo nel
vuoto lasciato da un organo assente.
6.2
Quattro forme di forma mancate
6.2.1
Sull’atto iconico
La fotografia, in quanto sia indice che icona, produce degli effetti sull’osservatore, quelli che
Horst Bredekamp (2010, trad. it. p. 36) ha definito Bildaktes, “atti iconici”, con cui si intende la «forza
che consente all’immagine di balzare, mediante una fruizione visiva o tattile, da uno stato di latenza
all’efficacia esteriore nell’ambito della percezione, del pensiero e del comportamento»10. Indici e
icone ne producono rispettivamente due tipi in particolare, l’“atto iconico schematico” e quello
“sostitutivo” (ivi, §§3 e 4)11.
Il primo si ottiene a partire dai formanti plastici di una figura. Ogni figura infatti propone uno
schema visivo, con cui si intende un «criterio formale che definisce il contenuto rappresentato in
termini valoriali, in modo da sortire un effetto esemplare agli occhi dell’osservatore. Lo schema
fornisce standard valutativi, nonché strumenti orientativi e imitativi, mediante la forma particolare
della figura viva». Da qui, la «proposta di raccogliere le forme viventi delle immagini sotto il concetto
di atto iconico schematico» (Bredekamp 2010, trad. it. p. 77). Ogni figura quindi ha un effetto
sull’osservatore in quanto segno diagrammatico, per dirla con Peirce, che ripropone
un’«incorporazione», una «Verkörperung», ovvero la «summa di tutti i comandi che rendono
Sugli effetti perfomativi degli stimoli surrogati delle ipoicone, v. anche Eco (1997 p. 421 nota 30).
Non si vuole qui proporre una perfetta analogia tra le tre classi di segno (icona, indice e simbolo) di Peirce con i tre
tipi di atti iconici (schematico, sostitutivo e intrinseco) proposti da Bredekamp. Ciò meriterebbe un lavoro più ampio che
eccede gli scopi e i limiti di questo contributo. Ci limitiamo a dire che, come in Peirce lo stesso segno presenta sempre
tutte e tre le caratteristiche di primità, secondità e terzità con un accento su uno o più dei tre aspetti, allo stesso modo vale
per i Bildaktes.
10
11
18
esemplari tali immagini da renderle “vive”, capaci di simulare vitalità» (Bredekamp 2010, trad. it. p.
78)12.
La foto quindi, in quanto icona, può rendere lo stesso effetto di dinamicità dell’oggetto che
rappresenta. Come indice, invece, il medium fotografico può compiere un “Atto iconico sostitutivo”
che consiste nello scambiare l’immagine con l’oggetto che ritrae (Bredekamp 2010, §4)13.
6.2.2
Abduzione e angoscia
Comprendiamo dunque perché fotografie come quelle di Cousins possano destare l’attenzione dello
spettatore: da un parte rimandano perfettamente a quanto ritraggono, dall’altra parte quel quid ha
forme mosse, mobili, che ricordano membra viventi, eppure non lo sono.
Innanzitutto qualcosa colpisce me spettatore (percetto-base, ground, come Firstness) (Eco
1997, pp. 45-6)14. Si tratta di chiazze di colore che si differenziano ed emergono per salienza
nell’esperienza dell’osservatore. Quelle foto hanno un «linguaggio plastico» che fa da «pretesto agli
investimenti» di significazione. I colori permettono così di individuare quanto poi gli altri formanti
plastici articolano (Greimas 1978, trad. it. p. 43-4), eppure non si riesce, a un primo sguardo, a
ricondurre quelle figure ad alcune del mondo naturale. Sono fotografie, sono indici che quel quid era
davanti alla camera, cui le immagini devono pur assomigliare. Qualcosa mi prende a calci, mi è
«recalcitrant[e] all’esperienza» e resiste alle mie categorie (Eco 1997, §§1.1 e 2.7-2.8). Ma che cos’è?
Di qui un primissimo shock esperienziale. Alla non coincidenza tra forme primarie del
giudizio e fenomeno percepito, l’osservatore procede a costruirsi15 un tipo cognitivo, un «tentativo»
di individuare cosa lo fronteggi, qualcosa che possa in qualche modo permetta «di unificare il
molteplice dell’intuizione» (Id. 1997, pp. 81, 118 e 111).
Ne consegue la strategia retorica del trittico di Cousins: i pezzi giustapposti, non riconducibili
di primo acchito a una forma conosciuta, sono termini percettivi16 che generano aspettativa, tensione
e latenza da parte del lettore su quanto finalmente riuscirà a comprendere.
È lo stesso principio di empatia generato da un processo di astrazione così come descritto da Wilhelm Worringer
(1908) nei suoi studi per una psicologia dello stile.
13
Sull’atto iconico sostitutivo specifico della fotografia, cfr. Bredekamp 2010, trad. it. pp. 147 ss.
14
Per quanto Eco sia sempre stato un anti-intuizionista, come ribadito in Eco 2007, p. 464, su quel «me» si gioca il suo
ripensamento sull’iconismo primario. A partire da Peirce (CP 1.307), Eco (1997, p. 86) con questo concetto indica uno
«stimolo adeguatamente rappresentato dalla sensazione». Inizialmente lo riteneva «naturale» (1997, p. 89), infine l’ha
inteso come correlato intenzionale di un soggetto, «un primum per me, in quel momento e solo sotto qualche rispetto»
(Id. 2007, p. 471). Su questa evoluzione, v. Paolucci 2015. Un sintomo di questa oscillazione può essere rinvenuto già in
Eco 1997, p. 5 dove «primaria» veniva detta all’inizio l’«indicalità o attenzionalità», ovvero una Secondness.
15
Un «giudizio riflettente» nei termini di Immanuel Kant (1790, §69) o un’«abduzione creativa» in termini peirceani
(Eco 1997, pp. 76, 78 e 393 nota 21).
16
Con termine percettivo intendiamo con Daniele Barbieri (2004, § 2.2.4) «qualsiasi elemento testuale sulla base del
quale sia possibile avanzare delle previsioni, ovvero qualsiasi elemento testuale che possa suscitare delle aspettative».
12
19
Non si pensi però che questo gioco sia così semplice, né tantomeno piacevole. Per quanto i
semiotici, dopo Eco (1997), si divertano a chiamare questi fenomeni ornitorinchi, gli inglesi hanno
un termine specifico, ed è weird. Questo, infatti,
è un particolare tipo di non-correttezza: un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da
generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui.
Eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora
per dare senso al mondo non possono essere valide. La cosa weird non è sbagliata, dopotutto:
dovranno per forza essere inadeguate le nostre concezioni (Fisher 2016, trad. it. p. 17).
6.2.3
Informale
Ecco perché il trittico che ci sta di fronte è tanto disturbante. Ma per quale ragione è così disgustoso?
La componente weird specifica di queste foto è dovuta a un’espressione informale, con cui
intendiamo una dialettica tra figure iconiche e figurale (Lyotard 1971), ovvero una condizione di non
chiusura della forma, continuamente aperta dalle forze dinamiche dettate dallo sfondo e dai formanti
cromatici. In altri termini, non si può ricondurre quanto si percepisce a icone riconosciute.
Come spiega Fontanille (2004; trad. it. p. 380), affinché «una “figura” possa essere
considerata come un corpo, questa deve essere costituita da un lato da una struttura materiale
contenuta in un involucro, dall’altro da un’energia e da un potenziale di movimento». L’informale
apre quindi sempre l’involucro del corpo-figura a favore della dinamicità.
Come ha spiegato Grazioli (1998, p. 142), riprendendo George Bataille, l’(anti-)padre
dell’arte informale,:
L’“informe” non è, in Bataille, soltanto ciò che non ha forma, l’amorfo, ma ciò che si
ribella, che rifiuta la forma, che pretende di restare eterogeneo e irriducibile a qualsiasi
integrazione (dialettica) della forma. È allora, in realtà, qualcosa di più della distorsione, cui
aggiunge un lato provocatorio che segnala la sua volontà rivoltosa, trasgressiva, disgregatoria,
è quel conturbante che resta irrisolto, quell’inquietante che turba e disturba, ciò che arriva a
provocare repulsione, avversione, ripugnanza.
L’informale si oppone al gusto per il fatto che questo, così come canonizzato dall’estetica da
Baumgarten in poi, prevede una coincidenza tra la chiusura della forma e il suo contenuto. Come ha
specificato Kant (1790, §48, p. 90; trad. it. p. 147), il gusto prevede che la rappresentazione, per essere
bella e piacevole, debba mostrarsi come tale (opacità, nei termini di Marin), ovvero diversa
dall’oggetto rappresentato. Nel caso in cui «la rappresentazione artistica dell’oggetto non è più
distinta nella nostra sensazione dalla natura di questo stesso oggetto» è «impossibile quindi che possa
20
essere ritenuta bella». L’informale è dunque un attacco diretto al carattere opaco della
rappresentazione finalizzato a far venir meno anche quello di trasparenza17.
Fontanille (2004, trad. it. p. 203), nella sua semiotica dell’impronta, mostra come la percezione
della realtà esterna avvenga a partire dal corpo, tramite «due movimenti sensoriali elementari
attraverso i quali il soggetto, nel primo caso, si volge al mondo (adduzione), nel secondo, si ripiega
su se stesso (abduzione)». Innanzitutto il soggetto proietta sé sull’oggetto, affinché possa sentirlo
internamente18.
Una forma informale (se così si può dire) suscita disgusto poiché percepiamo l’apertura
dell’involucro dell’oggetto come fosse del nostro corpo. Così siamo di fronte a una condizione di
smarrimento dove non riusciamo, se non altro all’inizio, a ricondurre l’ambiente a figure per noi
conclamate, con cui siamo abituati a interagire.
Riprendendo il “sintagma dell’estesia”, così come proposto da Fontanille (2004, trad. it. p.
203), di fronte alla (1) proposta costituita dalla percezione e (2) alla nostra accettazione tramite la
costituzione di un primo Tipo cognitivo, noi possiamo (3) realizzarne il fallimento e procedere a (4a)
una sanzione negativa, che porta a una abduzione creativa e al tentativo di un secondo Tipo cognitivo,
in un circolo ermeneutico, che potrebbe infine portare a (4b) una sanzione positiva.
La sanzione negativa produce un’emozione di disgusto che potremmo definire freddo, per
usare le classificazioni di Mario Perniola (1998, p. 18). Se con disgusto caldo, infatti, si intende
l’avvilimento e il degrado da parte dell’osservatore nella prossimità con l’impuro, nel desiderio che
si rivolge verso l’oggetto stesso del disgusto, col freddo, invece, «abbiamo repulsione, presa di
distanza dal contaminante, delimitazione di un ambito puro», dove il soggetto osservatore costituisce
la propria identità in dialettica con l’Altro. Il disgusto freddo ha un «ruolo repulsivo didattico». Per
quanto un elemento di calore sia presente, motivo per il quale la foto attrae verso di sé, i tentativi di
dare identità alle forme portano comunque ad allontanarsi e riposizionarsi di fronte all’oggetto.
Infine, lo spettatore si scansa, fa un passo indietro, semmai di lato. Lo “stimolo surrogato”
(Eco 1975, §3.5.2) della foto che tanto lo perturbava non sussiste più nella nuova prospettiva. Le
forme assumono finalmente un Contenuto nucleare coerente, non quello dubbio della pareidolia.
Denti e occhi vengono meno, il disgusto svanisce. Semmai insorge un sorriso davanti all’ipoicona di
semi, legumi e frutta.
Sul disgusto dell’informale, v. Bertolini 2015
Si veda al riguardo l’“Atto iconico intrinseco” delle campiture di colore intese come corpo-tela (Bredekamp 2010,
trad. it. pp. 202 ss).
17
18
21
6.2.4
Della tripofobia
Un ulteriore effetto di repulsione suscitato da queste immagini è legato alla cosiddetta tripofobia,
dove l’orrore si genera per la presenza, su di uno sfondo omogeneo, di una molteplicità di figure
tondeggianti, cave, come buchi, affiancate l’una all’altra in una trama fitta.
Per quanto la patologia non sia stata formalmente riconosciuta e non ci sia unanimità sul
fenomeno, resta il fatto che simili figure possono risultare disturbanti ai più. Le ipotesi finora avanzate
sulle cause di questa fobia sono di natura evoluzionistica, visto che enciclopedicamente si è soliti
associare la moltiplicazione degli occhi ad animali o pianti patogene (Le, Cole e Wilkins 2015).
Vorremmo qui proporre due ulteriori letture della tripofobia che (1) non sostituiscono la
suddetta, ma semmai vi si aggiungono e la rafforzano, e che (2) non si riferiscono alle cause, bensì
semioticamente agli effetti di senso tripofobici, proprio a partire dal trittico di Cousins.
Le due letture si basano su un processo generato da un chiasma (Merleau-Ponty 1964) di
astrazione ed Einfühlung (Worringer 1908) da parte dell’osservatore.
6.2.4.1 Tra impronta e taglio
Nella sua rilettura degli studi di Didier Anzieu (1985), Fontanille (2004), spiega come il senso si dia
tramite due principi: da un lato, la pelle, nel suo essere involucro contenente un contenuto separato
da un esterno, diventa paradigma di qualsiasi semiotica19 (ivi, § 5.5.3); in secondo luogo, questo
avviene a partire dal dispositivo del corpo come dispositivo di percezione.
Ed ecco dunque che un osservatore, davanti a un oggetto, tramite una prensione analogizzante,
giunge ad attanzializzare quanto percepisce. Si tratta di un «transfert appercettivo» (ivi, trad. it. p.
213), dove, a partire dall’esperienza della percezione, il soggetto-corpo dell’enunciazione, il se ipse,
proietta sé sull’oggetto: così, da un lato, lo individua come altro da sé, dall’altro, ne concepisce il
contenuto dentro di sé.
Si tratta di un chiasma di un embrayage con un débrayage. Come spiega lo stesso Fontanille
(2004, trad. it. p. 250):
un embrayage, in primo luogo, dal momento che si tratta di pensare, a poco a poco,
l’insieme degli oggetti sulla base di una semiotica del corpo proprio, e dunque in funzione di
un “ritorno” sul soggetto (ossia di una ri-assunzione possibilmente adeguata all’anatomia
umana); un débrayage, in secondo luogo, dal momento che l’idea stessa di trattare la superficie
degli oggetti come una superficie d’iscrizione per delle impronte implica una proiezione, al di
fuori del soggetto, delle proprietà del suo “involucro” semiotico.
Dove per semiotica si intende qualsiasi sistema dove un piano del contenuto possa convertirsi in un piano
dell’espressione.
19
22
Risulta allora chiaro come trame di fori come quelle che intessono le membrane aliene
mostrate da Cousins possano repellere. In quelle figure si rivede e si percepisce la propria pelle, il
proprio involucro. La pelle ha, tra le varie funzioni20, quella di demarcazione della propria identità
corporea (ivi, p. 218), così da distinguere non solo l’esterno dall’interno, ma anche lo sporco dal
proprio e dal pulito (ivi, p. 221), tanto che in francese il solo termine propre riesce a ricoprire le due
funzioni semantiche21.
In quelle foto la pelle che vedo è quella che in quel momento abito: una pellicola sottile quanto
resistente, tirata alle estremità, non da lacerarsi, ed essere così forata. Aperta. E quelli che sembrano
affacciarsi verso l’esterno sono delle piccole escrescenze interne che fanno capolino dal corpo
beante22. Quel corpo aperto è il mio da osservatore, è il mio corpo che langue al contatto con l’alterità
e la contaminazione. Ogni bordo diventa quindi espressione della differenziazione, quindi traccia un
percorso di «cernita assiologica» dove ogni limite si intensifica al punto da farsi erogeno o distruttore
(ivi, p. 221). Il formante plastico rimarca una funzione indicale e si fa impronta di uno, in questo caso
di molti, eventi di taglio. Viene quindi a convergere una lettura semiotica-psicoanalitica con l’ipotesi
evoluzionistica di cui sopra23.
6.2.4.2 Sul volto tribofobico
Questa lettura considera la co-presenza24 dell’altro come realizzata. Consideriamola ora attualizzata,
tramite una lettura schizoanalitica. Lettura, questa, che non esclude le altre in generale, ma ne spiega
alcuni aspetti.
L’osservatore della foto non sa se quanto è stato incastonato in quella membrana e vi spunta
abbia vita e possa muoversi oppure se si tratti di tanti piccoli organi oculari che lo scrutano.
Per Fontanille (2004, § 5.5.2.2) le proprietà dell’involucro sono di (1) connettività, (2) compattezza e (3) regolazione
e polarizzazione degli scambi, cernita assiologica, protezione e distruzione.
21
Al riguardo, si riprenda le riflessioni su “Il pulito e lo sporco” di Michel Serres (1990, trad. it. pp. 48-9)
22
Sul corpo beante come figura del disgusto, v. Bertolini 2015, p. 191
23
Lacan (1960, trad. it. pp. 820-1, cors. nostri): «La stessa delimitazione della “zona erogena” che la pulsione isola dal
metabolismo della funzione [...], deriva da un taglio che è favorito dal tratto anatomico di un margine o un bordo: labbra,
“chiostra dei denti”, margine dell’ano, solco del pene, vagina, fessura palpebrale, trago (eviteremo le precisazioni
embriologiche). L’eterogeneità respiratoria è poco studiata, ma è evidente che entra in gioco anche lo spasmo. Osserviamo
che il tratto costituito da questo taglio è prevalente in modo non meno evidente nell’oggetto descritto dalla teoria analitica:
mammella, scibale, fallo (oggetto immaginario), fiotto urinario. (Lista impensabile se non si aggiunge con noi il fonema,
lo sguardo, la voce, il rien)»
24
Per co-presenza si riferisce a un regime di interazione attanziale, così come proposto da Eric Landowski (2005, trad.
it. p. 51). Come correttamente evidenzia Violi (2012, p. 115), il socio-semiotico francese non contrappone il regime della
co-presenza a quello dell’unione, ma li affianca.
20
23
Alcuni individui affetti da questa sindrome hanno confessato infatti che per essi i buchi sono
disgustosi poiché sembra che qualcosa possa viverci dentro (Thomas 2012, Elliot 2013, Eveleth
2013).
Non è un caso che questa sia una strategia testuale tipica dei testi horror, dove la
moltiplicazione dei buchi si fa sede di coppie di occhi (Deleuze e Guattari 1980, trad. it. p. 270 nota
14). Se per “viso” intendiamo la macchina gestaltica delle figure di buchi neri su sfondo omogeneo
(ivi, in part. §7), chiameremo viso tribofobico quello che di buchi ne presenta una molteplicità25.
Questo, nel trittico di Cousins, presenta due, forse tre, aspettualizzazioni temporali diverse che
producono paura in modalità differenti.
Una puntuale, dove è l’immagine a guardare lo spettatore (débrayage enunciazionale) che lo
interpella. Bredekamp (2010, §5) ha definito questo meccanismo “Atto iconico intrinseco”, il cui mito
fondativo risiede nello sguardo pietrificante della Gorgone. A causa del «tremendum dello sguardo»
(ivi, p. 190), in questo tipo di immagini vi è «reciprocità di vedere e essere visti, […] attività intrinseca
che innesca un feedback»26. Poiché, come abbiamo visto precedentemente, l’immagine si dà al
soggetto spettatore tramite un chiasma enunciazionale tra sé e l’immagine, avviene così che
«l’immagine possied[a] vita propria, dato che indipendentemente dai punti di vista o dai nostri
movimenti ci guarda tutti, nello stesso momento, ma per il singolo osservatore sembra guardare lui
solo» (ivi, trad. it. pp. 192-3). Per dei semplici motivi gestaltici, qualsiasi foro contenente un’altra
figura tondeggiante non può non guardare in camera, così da ottenere un effetto panottico e paranoico.
La seconda aspettualizzazione è iterativa, dove la ripetizione dello stesso modulo di figura fa
prevedere che se ne aggiungono altre e altre ancora, così da consumare superficie allo sfondo.
L’ontologia di una figura tripofobica è un’“oncologia” in quanto procede per collegamenti rizomatici
(Deleuze e Guattari 1980, § 1), di cui non sono prevedibili tagli enciclopedici.
Si instaura così tra immagine e osservatore un regime di interazione che Landowski (2005;
trad. it. pp. 51-2) ha definito «rapporto di aggiustamento». In co-presenza di quel corpo-immagine,
di fronte a esso, l’osservatore, percependo (attraverso il proprio corpo) l’altro, a partire dunque da
una «competenza estesica del contagio», si calibra, cambia atteggiamento, si sposta, si riassesta.
L’osservatore può quindi lasciar «trasparire la propria paura e di colpo impaurire» oppure nei
casi estremi ha «la nausea vomitando». È il tentativo primo che si compie affinché l’alterità,
incontrollata, reagisca e dia una stabilità cui aggrapparsi a seguito delle proprie scelte e dei propri
Quello tribofobico è un caso particolare di “viso-limite”, che Deleuze e Guattari (1980, ed. it. pp. 266-8) definirebbero
“dispotico terrestre significante”, poiché la loro attenzione è legata al processo di attanzializzazione sottesovi. Poichè per
la schizoanalisi, «Il despota è il paranoico» (Ead. 1972, trad. it. p. 217), preferiamo focalizzarci sulla paranoia generata
da questa struttura.
26
In quanto cosa che sente, il volto tripofobico provoca lo stesso sex appeal dell’inorganico di tanta estetica
contemporanea (Perniola 1994).
25
24
movimenti. Spiega Fontanille (2004, trad. it. p. 210) la stessa dinamica27: «la produzione di
equivalenze è quindi una proprietà naturale del nostro corpo in movimento, dal momento che è la sola
maniera che conosce per abitare il mondo, per adattarvisi, per comprenderlo e per appropriarsene».
Nel momento in cui l’altro è incontrollato, esso assume la posizione paradossale di alea, la
quale «è solo nella sua stessa manifestazione, realizzandosi […] che [...] si auto-istituisce». Così, «per
liberarsi delle incertezze e dai rischi o, semplicemente per uscire da quella specie di angoscia
semiotica che implicherebbe la resa davanti a quella forma di non-senso», ci si rifiuterà «di
considerare l’aleatorio come un carattere irriducibile del modo di apparizione dei fenomeni» e si
cercherà «di sostituire al caso il suo contrario, la contingenza». La soluzione è cercare di «scoprire
un regime di regolarità soggiacente» davanti a qualcosa che, nella casualità generale, potrebbe
ricoprire un «ruolo catastrofico» e «scombussolare […] qualunque programma in corso, qualunque
manipolazione o aggiustamento» (ivi, pp. 78-83).
Riprendendo il sintagma dell’estesia di Fontanille (2004, trad. it. p. 203), se (1) nella proposta
l’involucro si apre sullo spazio della rappresentazione con i suoi mille occhi, avendo l’osservatore
accettato questa primità, (2) questi reagirà (3) spostandosi oppure paralizzandosi alla vista per poi (4)
accettare la copresenza dell’immagine neutralizzandola oppure fuggendola.
La terza, forse più inquietante, è l’aspettualizzaizone terminativa. La superficie da cui sbucano
questi piccoli occhietti viene articolata da un fascio luminoso enfatizza tutte le increspature della
membrana.
Greimas (1978 trad. it p. 47) spiegava come il carattere graduato del colore comporti
un’intensità orientata. I bordi di ogni “occhio” sono attorniati da un alone luminoso che accentua la
profondità del bulbo, così da rendersi impronta di un gesto (Fontanille 2004, §12). Da qui la domanda:
chi ha conficcato quell’occhio? Chi ne è l’artefice? Quali arti hanno composto quel viso mostruoso e
straziato?28
Come specifica Eco (1997, p. 324), l’«impronta è segno in quanto è fondamentalmente
un’espressione che rinvia a un contenuto, e il contenuto è sempre generale». In questo caso, però,
riusciamo a giungere a un Contenuto nucleare troppo generale, che è insoddisfacente.
È un effetto di eerie. Questo è «costituito da un fallimento di assenza o da un fallimento di
presenza». Se ne verifica la sensazione «quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o
quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa» (Fisher 2016, trad. it. p. 72).
Per un confronto tra le proposte teoriche di una semiotica a partire dal corpo di Landowski e Fontanille, cfr. Violi
2012.
28
Sul tema del problema della genesi nella semiotica dell’impronta, v. infra, §2.
27
25
E così, in un oggetto che non possiamo ricondurre ad alcun tipo che conosciamo, tanti piccoli
occhi ci osservano — il dubbio sovviene per il carattere indicale della foto cui siamo culturalmente
abituati. Di chi l’abbia composto o l’abbia voluto, di chi in pratica quei piccoli oculi siano impronta
dell’enunciazione (Fontanille 2004, § 12) resta un mistero angosciante.
Esiste però una lettura possibile, semmai una sovrainterpretazione, ma vale la pena indicarla.
Nei testi visivi per enunciatore si può intendere sia l’autore (in questo caso il fotografo oppure il
“compositore” dell’oggetto immortalato) che l’osservatore a partire dal cui punto di vista è stata
costruita la prospettiva dell’immagine. Michel Foucault (2004, trad. it. pp. 57-8) aveva indicato come
lo scandalo di opere, quali ad esempio l’Olympia di Manet, non risiedesse nella nudità del suo
soggetto o nell’essere il ritratto di una prostituta, ma che questi caratteri fossero enunciati dalla luce
che proviene dallo spazio dell’osservatore. È grazie ad essa che prende vita quell’immagine, da una
porta virtuale che (si) spalanca (sul)lo spazio della rappresentazione.
è visibile perché una luce viene a colpirla. […] È una luce molto violenta che la colpisce
in pieno. Una luce frontale, […] che viene dallo spazio che si trova davanti alla tela, e questa
[…] fonte luminosa che è indicata, che è supposta da questa stessa illuminazione […], dove si
trova se non esattamente là dove noi ci troviamo? [...] Siamo noi a renderla visibile; il nostro
sguardo […] è lampadoforo, porta la luce; noi siamo responsabili della visibilità.
Che la composizione di Counsins repella è vero, ma questo è verificato solo nell’occhio di chi
guarda, è mero effetto di percezione. Basta chiudere le palpebre e lo scandalo svanisce.
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