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Dipartimento di Lettere e Beni Culturali Laurea Magistrale in Semiotica Sinestesia e disgusto Su alcune fotografie di Maisie Cousins 67007 – Metodologie di analisi (2) prof.ssa Patrizia Violi A.A. 2018/2019 Marta Del Gigia Francesco Di Maio Il presente lavoro è la tesina elaborata per la verifica finale del corso 67007 – METODOLOGIE DI ANALISI (2) (LM) dell’A.A. 2018/2019 del Corso di Laurea Magistrale in Semiotica. Ringraziamo innanzitutto la prof.ssa Patrizia Violi per aver accettato la nostra proposta di analisi e permesso di lavorare su questi argomenti. Un ringraziamento particolare va a Michele Amaglio che ci fatto conoscere le opere di Maisie Cousins e per la preziosa consulenza tecnico-fotografica. Vorremmo inoltre ringraziare per l’attenta lettura e i preziosi spunti critici Giuseppe Criscione, Umberto Maffucci, Niccolò Monti, Lorenzo Petrachi, Irene Sottile, Paolo M. Toti e Mirco Vannoni. Ogni parte dell’elaborato è stato concordato e discusso da entrambi gli autori. Escluso §1, che è stato steso a quattro mani, §§2-5 sono stati scritti da Marta Del Gigia e §§0 e 6 da Francesco Di Maio per meri fini redazionali. 0 Indice Parte prima. Introduzione 0 La fotografia tra icona, indice e illusione sensoriale p. 3 1 Maisie Cousins p. 4 1.1 Ritaglio del corpus p. 4 1.2 Genere e presentazione p. 5 p. 5 2 Sinestesia e impronta Parte seconda. Analisi 3 Dall’ottico all’aptico p. 8 4 Un primo disgusto p. 10 5 Life soup p. 13 6 Trittico p. 16 6.1 Ecfrasi p. 16 6.2 Quattro forme di forma mancate p. 18 6.2.1 Sull’atto inconico p. 18 6.2.2 Abduzione e angoscia p. 19 6.2.3 Informale p. 20 6.2.4 Della tribofobia p. 22 6.2.4.1 Tra impronta e taglio p. 22 6.2.4.2 Sul volto tribofobico p. 24 Riferimenti bibliografici p. 27 Sitografia p. 30 1 2 0. La fotografia tra icona, indice e illusione sensoriale Il “fotografico” diventa un vero e proprio elemento perturbatore, magari facendo leva proprio sul suo “statuto indecidibile”: né indicale né iconico, sia l’uno sia l’altro. Questo carattere, che fa il fascino e la ricchezza degli usi cui si presta la fotografia nella creazione contemporanea, può costituire anche il carattere di dirompenza, non circoscrivibilità, incongruità, dentro l’operare, artistico e non. Elio Grazioli (1998, p. 341). La fotografia ha sempre vissuto la dialettica della rappresentazione. Usando le categorie di Louis Marin (1994), una foto è sempre rappresentazione di qualcosa (carattere transitivo e trasparenza). Allo stesso tempo però, per rappresentare, questa non può non presentarsi in qualche modo, far sentire la sua presenza (carattere intransitivo e opacità). Questa «duplicità rappresentazione/rilevazione» ricalca una «dialettica icona/indice» contro cui Charles Sanders Peirce si è dovuto sempre scontrare ogni qual volta si confrontava con il fenomeno fotografico, tant’è che nei suoi scritti emerge una «continua oscillazione tra "iconicità rappresentazionale" e "indicalità rilevatrice"». In breve, «sebbene gli aspetti indicali delle immagini fotografiche siano più volte evidenziati da Peirce, gli aspetti iconici ne costituiscono la controparte essenziale: la fotografia insomma si configura per Peirce come un caso semiologicamente unico» (Parisi e Pennisi 2015, p. 83 e 80). Come racconta lo stesso filosofo americano, «le fotografie, specialmente [quelle] istantanee, sono molto istruttive, perché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente simili agli oggetti che rappresentano. Ma questa somiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali che esse erano fisicamente costrette a corrispondere punto a punto» (CP 2.281; trad. it. Opere, p. 166). Questa dialettica tra foto-indice e foto-icona è stata ulteriormente complicata dalle nuove forme di cattura come la foto digitale o, come la chiama Bernard Stiegler (1995, trad. it. p. 172), “immagine discreta”. Questo nuovo tipo traduce in dati discreti (binari), corrispondenti a pixel colorati, la traccia impressa sulla lente dei riflessi luminosi. Questa traduzione in una diversa sostanza dell’espressione permette alterazioni in postproduzione non facilmente rilevabili a occhio nudo. Così facendo, il carattere indicale della foto, caro ad esempio a Roland Barthes (1980), viene messo in seria crisi, motivo per il quale l’“immagine discreta” dovrebbe portare a una nuova forma di sguardo critico, a una «nuova forma di incredulità» (Stiegler 1995, trad. it. p. 172). D’altronde, il senso della vista è quello che più facilmente si presta all’illusione, a differenza di gusto e tatto che non prevedono la distanza nei confronti dell’oggetto. Il gusto, però, durante il 3 processo di percezione, altera l’oggetto, motivo per il quale de gustibus non est disputandum. Esiste quindi una sfiducia di fondo nei nostri occhi, per il semplice fatto che sono i nostri1. Come osserva Patrizia Violi (1997, §1.3.4), ripresa poi da Umberto Eco (1997, p. 440 nota 26), il fatto che «le qualità visive siano più facilmente interpretabili di quelle olfattive e tattili dipende dalla nostra struttura fisiologica e dalla nostra storia evolutiva». Questo è il motivo per il quale si riesce «a ricordare e a interpretare meglio le sensazioni che saremmo in grado di riprodurre», ad esempio con un disegno, un suono o una melodia. Non possiamo né «riprodurre, né produrre (volontariamente) un odore e un sapore». Da questo deriva un’«incapacità a fare col corpo» che «si risolve in una incapacità (o minore capacità) a interpretare e persino a ricordare». Caso particolare invece il tatto: «riusciamo a riprodurre sul corpo altrui o nostro, e mediante il nostro corpo, molte sensazioni tattili» ma «non tutte». Potendo godere della fotografia, indicativamente, con la vista, come è possibile allora fruire questo tipo di immagine coinvolgendo gli altri sensi? 1 Maisie Cousins 1.1 Ritaglio del corpus Una nuova forma di incredulità, si diceva. Ma questa incredulità si dovrà pur esercitare su un corpo. Proprio su questo gioca Maisie Cousins (n. Londra 1992 – vivente), giovane fotografa inglese, della quale analizziamo un corpus di sette fotografie selezionate dalla sua produzione2. A questo scopo, approfondiremo il concetto di visione aptica, per disambiguare il meccanismo attraverso il quale vista e tatto si influenzano. Ci concentreremo inoltre sulla dimensione forica che attraversa questo insieme complesso ed avanzeremo ipotesi in merito all’effetto di senso che tutto ciò produce. Proprio in merito alla connivenza di sintassi sensoriali che caratterizza queste immagini, in particolare le prime quattro del nostro corpus (figg. 1-4, §§3-5), specifichiamo che ci concentreremo sul rapporto che la sintassi del tatto intrattiene con la sostanza visiva: anche se le immagini del corpus sarebbero passibili di un’analisi relativa, per esempio, alla sintassi dell’olfatto, ci limiteremo, per esigenze redazionali, a prendere in considerazione solo vista e tatto. Per quanto invece riguarda le ultime tre foto (figg. 5-7) (che compongono un “Trittico”, §6), ritorneremo specificatamente sul problema dello sguardo. Infatti, pur sempre in una coerenza tematica Al riguardo, cfr. Most 2005, trad. it. pp. 5-7. Tutte le foto presentate e analizzate sono state selezionate dal profilo Instagram della fotografa: https://www.instagram.com/maisiecousins/. Queste verranno analizzate indipendentemente dal contesto. Si consideri inoltre che le fotografie non hanno titolo. 1 2 4 e poetica con le altre, in queste gli effetti percettivi prenderanno avvio da una difficoltà di iconismo visivo primario. 1.2 Genere e presentazione Nel tentativo di definire le fotografie di Cousins attraverso i generi proposti da Jean-Marie Floch (1986) rileviamo come questi testi, con gradi di intensità variabili, possano afferire a quelli contraddittori della fotografia referenziale e di quella obliqua. Il primo genere descrive una fotografia «addetta a rendere la parola del mondo», che, come riporta Dario Mangano (2018, p. 122), implica, per via dell’alto livello di dettaglio, una sensazione tattile oltre che visiva. Il secondo, invece, si riferisce a una fotografia che «mina i fondamenti epistemici della referenzializzazione». Privilegia «lo spostamento, il doppio senso, il gioco di figure» (Floch 1986, trad. it. p. 14), inducendo così l’osservatore a domandarsi cosa in quella fotografia sia rappresentato e come questa sia stata realizzata. Come già indicato, la nostra analisi partirà dalla fotografia più chiaramente referenziale per proseguire fino a quelle più oblique. 2 Sinestesia e impronta Per studiare le fotografie di Cousins faremo riferimento a una semiotica del visibile che riporta in gioco la corporeità, obbedendo a logiche sensibili diverse dalla sola vista. Infatti, analizzare immagini fotografiche o pittoriche, considerandole solo appartenenti al visivo, implica negare il sincretismo che può caratterizzale. Ci affideremo per questo motivo alla proposta per una semiotica dell’impronta di Jacques Fontanille (2004). L’autore rifiuta preliminarmente la partizione fra i cinque sensi, ammettendone uno studio separato ai soli fini analitici, ma sempre nella consapevolezza che ciò che percepiamo ci arriva in prima battuta come un tutto olistico. L’attenzione infatti non è concentrata sul canale sensoriale recettore, ma sul contributo che i singoli sensi, raggruppati in fasci, influenzandosi a vicenda, apportano alla sintassi figurativa, producendo una «trasformazione dell’informazione sensoriale in significazione del mondo sensibile» (ivi; trad. it. p. 147). Riprendendo la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty (1945, trad. it. p. 307), Fontanille (2004; trad. it. p. 136) afferma che il «sincretismo (dei modi semiotici del sensibile) e la sinestesia (degli ordini sensoriali) non sono dunque complicazioni supplementari o elaborazioni sofisticate e ulteriori, ma la condizione stessa dell’apparizione della funzione semiotica dell’uomo». I modi sensoriali diversi dalla visione che caratterizzano la nostra presa percettiva delle immagini sono principalmente la sensomotricità e la tattilità. Nel primo caso possiamo per esempio pensare all’effetto che produce in noi seguire il movimento della macchina da presa al cinema; nel 5 secondo, che pertiene specificamente al nostro oggetto di studio, ci riferiamo a una tattilità che emerge anche se non stiamo toccando concretamente ciò che stiamo guardando, a prova di come la sintassi del tatto possa codificare la sostanza visiva producendo specifici effetti di senso. Come spiegano Pierluigi Basso Fossali e Maria Giulia Dondero (2006, pp. 47-8), non si tratta di passaggi da un senso all’altro, ma di «una sostituzione […] del processo della sintassi di un certo campo sensibile […] che codifica un altro campo». Dimostrare come l’immagine possa assumere sintassi eterogenee permette così di affermare l’autonomia della dimensione figurativa rispetto ai diversi ordini sensoriali e alle diverse sostanze dell’espressione. Una semiotica dell’impronta si sofferma quindi sui relativi media di produzione e canali di ricezione, allo scopo di ricostruire le sintassi figurative sottese a produzione, genesi e circolazione delle immagini. Per questo, nella costruzione di una semiotica della fotografia ancorata all’evento sensibile, si procederà ad un’analisi implicante la «coimplicazione tra soggetto percipiente e testo visivo, nonché la memoria discorsiva dell’atto instauratore» (ivi, p. 32). Per procedere sarà dunque necessario «identificare e fissare innanzitutto un piano dell’espressione, vale a dire disimplicare la maniera in cui le figure dell’espressione prendono forma a partire dal substrato materiale delle iscrizioni e del gesto che ve le ha iscritte» (Fontanille 2004, p. 415). Questa proposta si focalizza allora in modo particolare sulla pertinentizzazione dell’informazione riguardo la genesi dell’immagine e il processo di produzione che ha portato a ottenere, in un’epoca in cui sarebbe ingenuo dare per scontato un “realismo” fotografico, quel che vediamo e interpretiamo. 6 fig. 1 7 3 Dall’ottico all’aptico Nella prima fotografia (fig. 1) – ma queste considerazioni varranno anche per le altre – notiamo che, da un punto di vista produttivo, considerati i numerosi riflessi, probabilmente si tratta di un’immagine realizzata in studio con un’illuminazione artificiale, data da un set di luci più che da un flash diretto. Siamo di fronte a un caso di still life, in cui gli elementi sono stati opportunamente assemblati e posizionati ai fini dello scatto, realizzato forse con un teleobiettivo, come generalmente nel caso di foto macro. L’effetto di lucidità che caratterizza le increspature dei petali e la pelle del dito non è presumibilmente dovuto a un setting della macchina, ma all’utilizzo di sostanze oleose spalmate sulle superfici, mentre l’“effetto-bagnato” è restituito dalla screziatura di gocce di liquido rosso sui petali rosa della peonia e sulla falangetta. Questo tipo di organizzazione ricorda molto quello delle immagini del food porn: estrema attenzione alla dimensione cromatica e alla luce, tinte sature e uniformi, poche sfumature e superfici brillanti. Come fa notare Gianfranco Marrone (2016, p. 233), solitamente in questo genere, sebbene «l’inquadratura sia spesso centrale, le forme dell’oggetto fuoriescono dalla cornice implicita dei bordi, cioè dal supporto fotografico, per la semplice ragione che lo sguardo, mirando ai particolari materici e ai loro contrasti, è fortemente ravvicinato. Uno sguardo, diremo, aptico, cioè tattile». A differenza delle fotografie di Cousins, quelle tipiche del food porn però sono realizzate in modo perlopiù amatoriale, e gli effetti che le contraddistinguono sono nella maggior parte dei casi ottenuti tramite filtri. Il collegamento principale con questo genere resta allora l’implicazione sensuale, tipica delle immagini aptiche che, indipendentemente dal loro contenuto, sono erotiche per il fatto di chiamare in essere una relazione intersoggettiva tra fruitore e immagine. Come osserva Laura Marks (2000, p. 183): «By engaging with an object in a haptic way, I come to the surface of my self […], losing myself in the intensified relation with an other that cannot be possessed». Tornando all’effetto-bagnato che caratterizza quest’immagine, vediamo come questo faccia saltare l’idea che la fotografia sia caratterizzata dalla sola presenza di una sintassi a impronta e che, tra le altre sintassi (come la sensomotoria) e gli altri canali modali della percezione (come l’olfatto), assuma invece una notevole rilevanza il canale tattile: questa prima immagine, infatti, così come le altre presenti, funziona secondo il modo dell’involucro tattile, o modo aptico (Fontanille 2004, trad. it. p. 166). Guardando questa fotografia percepiamo al contempo l’acquosità delle gocce rosse e la generale umidità rugiadosa che ricoprono il fiore e il dito. Anche questo, inevitabilmente, specie con la sua posizione vettoriale-indicale verso il pistillo del fiore, oltre a orientare la nostra lettura verso il 8 centro dell’immagine, provvede a restituire un collegamento esplicito con la tattilità: la pressione che esercita esalta la prospettiva immergente dei petali più interni, che risultano avviluppati verso l’ovario creando un gioco di ombre che esalta la profondità. Tuttavia, nonostante l’esplicitezza di questo tocco, riteniamo, in linea con le considerazioni di Marks, che questo non sia l’elemento primario nella definizione di quest’immagine come aptica. Riguardo questo effetto suggerito dalla figurativizzazione esplicita della prensione delle mani, Marks (2000, p. 171) si distanzia infatti dalla posizione di Gilles Deleuze definendo la presenza delle mani non necessaria al fine di evocare una dimensione aptica3. Il senso del tatto arriverebbe in questo caso all’osservatore attraverso un processo identificativo – con il padrone delle mani o con le mani stesse –, mentre l’aptico va oltre questa necessità di identificazione e viene innescato da elementi specifici dei testi. L’autrice enfatizza infatti la qualità polisensoriale della percezione, allo scopo di disimplicare la discussione sul visivo dal dominio dell’ottico, inserendosi nel filone di critica all’ocularcentrism occidentale. Nella sua analisi di cinema interculturale, si sofferma a lungo su quella che chiama haptic visuality, caratterizzata dal fatto che «the eyes themselves function like organs of touch». Mentre la visione ottica, ovvero la normale modalità in cui guardiamo le cose – da una certa distanza, distinte nello spazio –, dipende da una separazione tra il soggetto che guarda e l’oggetto guardato, lo sguardo aptico «tends to move over the surface of this object rather than to plunge into illusionistic depth […]. [I]t is more inclined to move than to focus, more inclined to graze than to gaze» (ivi, p. 162). Privilegiando la presenza materiale dell’immagine guardata, la visione aptica coinvolge il corpo in grado maggiore rispetto a quella ottica. Deleuze (1985; trad. it. pp 16-7) parla di una funzione aptica dell’immagine per descrivere l’uso del tatto, isolato dalle sue funzioni narrative, per creare spazio cinematografico: la funzione ottica verrebbe così “raddoppiata” alla vista di una mano che assume sia una funzione prensile che una funzione connettiva diventando “aptica”. 3 9 fig. 2 4 Un primo disgusto Anche nella seconda fotografia (fig. 2) è riscontrabile un effetto aptico estremamente esplicito, suggerito dalla mano che tocca il seno, ma gli elementi dell’immagine che lo suscitano sono, a nostro avviso, altri. Riconosciamo appunto il dettaglio di un busto nudo con una mano, inquadrata a partire dall’attaccamento delle dita, che dall’alto tocca un seno esercitandovi una pressione e una prensione. Il seno, come il resto del busto, risulta coperto da fili d’erba tagliata sparpagliati e da una lumaca attaccatavi in diagonale, che con la parte superiore del corpo si sovrappone all’anulare. L’immagine è interamente concentrata sul dettaglio di questo corpo, con il seno al centro ad occupare i tre quarti dell’immagine; la mano è colta in prospettiva immergente, nell’atto di una prensione che lo “trattiene” verso l’interno. La lumaca è posizionata quasi al centro e tende diagonalmente con la testa verso l’alto a destra, cosa che orienta la lettura nella stessa direzione. Predominano le componenti curvilinee. La curva del seno è sottolineata dalla disposizione dei fili d’erba che ne delineano i limiti inferiore e laterale. Si evidenzia un semisimbolismo cromatico tra /chiaro/ vs. /scuro/ che, a livello di contenuto, ci riporta un’opposizione “umano” vs. “naturale”: per quanto la mano risulti di tonalità leggermente più scura rispetto al resto del corpo, la pelle umana è 10 comunque contrapposta al marrone scuro della lumaca e al verde scuro dell’erba. La luce bagna, evidenziando così la lucidità della parte bassa del seno, il dorso della lumaca e le dita all’altezza delle falangette: l’effetto di lucidità ci conduce a una percezione tattile di umidità e scivolosità, oltre che di freddo, visto il grado di saturazione del bianco della pelle. Quindi, oltre all’evidente atto prensivo delle dita che affondano nel seno, rivelandone la soffice consistenza, sono presenti altri elementi che rendono questa immagine aptica. In tal senso ricordiamo che, secondo Fontanille (2004, p. 416), la «semiotica dell’impronta presta attenzione al modus operandi della produzione testuale, così come a quello dell’interpretazione, dal momento che mette in gioco l’ipotesi che l’interpretazione sia un’esperienza che consiste nel ritrovare le forme di un’altra esperienza, di cui non resta che l’impronta». Così le sensazioni non-visive veicolate da testi visivi sarebbero determinate da un débrayage del soggetto osservatore, che proietta sull’oggetto le proprie conoscenze enciclopediche, e da un embrayage di ritorno, dove l’oggetto restituisce i propri caratteri percettivi anche se non percettibili dalla sostanza dell’espressione specifica4. In questo modo, oltre alla generale traslucidità delle superfici, anche la presenza della lumaca e dei fili d’erba suggerisce sensazioni tattili. La lumaca connota enciclopedicamente condizioni climatiche umide e lo spargimento di una sostanza mucillaginosa lungo il suo percorso; si presenta nuda, con la cute leggermente tubercolata e attaccata alla pelle umana: dalla prospettiva da cui fruiamo della fotografia questo effetto di aderenza è enfatizzato, cosa che ci restituisce ancora di più una sensazione di appiccicaticcio. I fili d’erba sparpagliati e attaccati sulla pelle veicolano più un effetto di umidità che di vischiosità. Sappiamo infatti che, se tagliamo il prato, l’erba ci si attacca addosso per l’umidità: ciò che tiene insieme pelle ed erba non è dunque una sostanza collosa ma acquosa. Allo scopo di ricercare l’effetto di senso che questa fotografia produce, concentriamoci adesso sulla sua dimensione forica. La presenza della lumaca è l’elemento discriminante rispetto a una reazione euforica o disforica di fronte a questa immagine. Questa possiede, a livello aptico, il tratto /viscido/, enciclopedicamente legato al disgusto (disforia); ma anche i tratti /scivoloso/ e /umido/ potrebbero essere pertinentizzati per descrivere la medesima consistenza, e col disgusto non avrebbero direttamente a che fare. Riprendendo Colin McGinn (2011, p. 116 nota 19), il fatto che qualcosa sia considerato viscido (slimy) anziché scivoloso (slippery) non è tanto questione di qualità sensoriali, quanto del contesto in cui queste sono considerate: «Thus a slug or worm is described as slimy because it is 4 Questo processo di prensione analogizzante verrà approfondito maggiormente in seguito. Cfr. infra, §6.2.4.1. 11 unpleasantly slippery and moist but the unpleasantness derives from its being the kind of creature it is». Non possiamo giustificare dunque un pari disgusto per quanto riguarda la lumaca che, se estrapolata dal contesto di questa immagine, non risulterebbe altrettanto repellente: ciò che disturba è soprattutto il contatto tra il corpo umano sessualizzato e l’Alterità animale. Interrogarci sulla reazione timica5 che un fascio sensoriale suscita è preliminare all’indagine riguardo la sua risonanza emotiva. Riprendendo Fontanille (2004, p. 152), il «campo sensoriale illustrato dal tatto è quello della presenza pura» cui si aggiunge una prima reazione timica: ciò che tocco può attirarmi o respingermi. La distinzione cui si approda è quindi fra proprio (identità) e altro (alterità), dove ciò che si caratterizza come “proprio” «può essere degustato, ingurgitato, inalato e di conseguenza desiderato, ricercato ecc.; ciò che invece è caratterizzato come “non proprio” sarà rifiutato, distrutto, e di conseguenza apparirà come inquietante, minaccioso, indesiderabile»6. Secondo A.J. Greimas e J. Courtés (dir. 1979, ed. it. p. 360), «serve ad articolare il semantismo direttamente legato alla percezione che l’uomo ha del suo corpo». Seguendo Violi (1991, p. 138), essa ha «la funzione di individuare un livello specifico dell’organizzazione del contenuto che viene posto direttamente in connessione con la percezione corporea del soggetto, con un investimento che è in primo luogo sensazione, condizione biologica, esperienza del mondo sensibile». 6 Sul proprio, v. inoltre infra §6.2.4.1 e nota 22. 5 12 figg. 3 e 4 5 Life soup Procediamo all’analisi e al confronto tra queste due fotografie (figg. 3 e 4), individuando gli elementi che le rendono aptiche e indagando i meccanismi forici per cui risultano creare un effetto di disgusto. La prima immagine presenta, in basso, ciò che possiamo riconoscere come una busta di plastica azzurra bagnata da gocce di liquido scuro, e in alto, in secondo piano rispetto all’impugnatura del sacchetto, un’accozzaglia di fiori appassiti buttati nella spazzatura – che risulta essere il contesto dell’immagine –, sopra ai quali si posano delle mosche. Anche i fiori presentano schizzi di liquido, in questo caso rosso. A livello topologico il sacchetto occupa la parte bassa, divisa da un asse orizzontale da quella superiore dove si vedono i fiori. Qui troviamo, in prospettiva emergente, il manico della busta, elemento centrale circoscrivente di forma oculare che orienta la lettura, portando l’occhio dell’osservatore a guardar dentro a questo “mirino” sospeso. La porzione circoscritta, posta in secondo piano e i cui elementi sono colti in prospettiva stavolta immergente, risulta, come gli altri elementi in secondo piano, cromaticamente distinta dalla componente circoscrivente: alla policromia rosa-rosso-giallo dei fiori si oppone la monocromia del sacchetto azzurro. Ad entrambi i livelli i colori risultano estremamente saturi e sugli oggetti sono presenti delle macchie nere: insetti nel primo e 13 gocce nel secondo, in rima cromatica. L’elemento del sacchetto è caratterizzato da una continuità materiale, mentre i fiori in secondo piano, sovrapposti gli uni agli altri, creano un effetto di confusione dei bordi, di una massa variegata ma indistinta caratterizzata da forme arrotondate, al contrario del sacchetto le cui increspature creano, specie nel caso dell’impugnatura-occhio, degli spigoli. Vediamo come le opposizioni alto/basso, circoscritto/circoscrivente, frammentarietà/continuità, arrotondato/spigoloso e policromia/monocromia convertano, dal piano del contenuto, l’opposizione organico/inorganico. Quest’ultima categoria è pertinente anche nell’analisi della seconda immagine. Nello stesso contesto della spazzatura, infatti, “organico” risulta presente in forma di fiori appassiti e insetti, e “inorganico” in una teglia di alluminio, una busta di plastica e un tovagliolo di carta. Vediamo come gli elementi afferenti alla categoria “inorganico” siano localizzati, rispetto al centro della foto, a sinistra (la busta) e a destra (il tovagliolo), ed in alto a destra (la teglia): l’elemento organico risulta occupare il centro dell’immagine, quello inorganico la periferia. La lettura è di nuovo orientata verso il primo termine. Anche qui i colori sono molto saturi e la monocromia degli elementi inorganici si oppone alla policromia di quelli organici, eccezion fatta per il tovagliolo, che risulta essere un termine complesso: sulla sua superficie cromaticamente omogenea si rilevano infatti tracce di altri colori, quali il nero degli insetti brulicanti (che aggiungono il tratto “organico”) e l’arancione del liquido gelatinoso che vi cola. In entrambe le fotografie possiamo riconoscere un’isotopia tattile che caratterizza la componente “organica” del testo: nel primo caso gli insetti posati sui fiori, di cui sono evidenti anche le zampe a contatto con i petali appassiti, e le gocce – sia quelle nere sul sacchetto che quelle rosse sui fiori, in richiamo anaforico – suscitano una visione di tipo aptico, restituendo il tocco di un insetto appoggiato e la vischiosità di un liquido colante. Nel secondo, due importanti dettagli che costituiscono un richiamo alla tattilità risultano concentrati sul tovagliolo, elemento “pungente” dell’immagine, per riprendere Barthes (1980), di cui la luce evidenzia il biancore, in contrasto cromatico con il nero delle formiche e l’arancione della colata; vediamo e sentiamo il brulichio delle formiche, la vischiosità della colata arancione e la pressione leggera della mosca posata. Gli altri elementi che costituiscono questa isotopia sono le gocce sui fiori che creano un effetto di senso, come nella prima immagine, legato all’umidità e al bagnato, ed il luccichio dei dadi rossi posti in basso a destra che veicola un senso di scivolosità. Ma che tipo di reazione timica provocano questi testi, percepiti attraverso una modalità sensoriale aptica? La nostra ipotesi è che, riprendendo ancora l’idea di “non proprio”, la sensazione che queste immagini veicolano sia di disgusto, che si caratterizza proprio per la sua forte dipendenza 14 dal contatto sensibile. Infatti, essere disgustati da qualcosa significa principalmente voler a tutti i costi evitare di entrarvi in contatto, per sfuggire a una contaminazione «not in the medical sense of germs and desease, but in the sense of feeling oneself to be invaded, violated, made unclean. In this respect, touch is its primary sense modality: the disgust object is primarly an object by which we do not want to be touched». Il disgusto implica inoltre un fattore di prossimità: come nelle altre immagini, il taglio della fotografia ci avvicina molto a ciò che viene ritratto e questo alto grado di vicinanza enfatizza una reazione disgustata. Oltre all’aspetto puramente sensoriale della fruizione, a determinare tale reazione concorrono anche fattori relativi alla natura degli oggetti immortalati in questi scatti. Abbiamo notato come da un’analisi dei formanti plastici emerga l’accento posto sul termine “organico”; Mcginn sottolinea «the utter dependence of the disgusting on the perceived-to-be-organic». Il disgusto sarebbe quindi una risposta a oggetti biologici e non inanimati, nel cui stimolo deve figurare «an impression of life substance» (ivi, pp. 53-4). In queste immagini, come abbiamo visto, “organico” è più enfatizzato rispetto ad “inorganico”; l’impressione generale che possiamo ricavarne è quindi legata al disgusto. Occupiamoci adesso degli oggetti che vi riconosciamo e di come essi risultino parte dello stesso campo semantico. Il paradigma dell’oggetto disgustoso è il corpo putrefatto, il suo stato di decomposizione e la trasformazione rivoltante – ad opera di batteri – che lo caratterizza (ivi, p. 13). Come il corpo umano e animale, anche quello della pianta decomposta, seppur in grado inferiore, eccita il disgusto, secondo il medesimo principio: qualcosa che una volta afferiva al termine /vita/ si avvia verso la decadenza, verso la /non più vita/. Ed è proprio a questo termine che possiamo ricondurre i fiori appassiti e buttati nella spazzatura che riconosciamo in entrambe le foto, che già ispiravano il nostro disgusto a causa di una sensazione aptica legata a oggetti marci, quindi viscidi. Altro elemento notevole presente in entrambi i casi, dove concorre a restituire una sensazione tattile, è quello degli insetti. Nel primo caso mosche, nel secondo formiche, comunque specie che solitamente «insinuate themselves into the disgusting corners of the human animal: the rotting corpse, the bodily interior, the blood, the faces, the garbage». Sono considerate disgustose perché frequentano «the independently disgusting» (ivi, p. 114). Ciò che risulta sommamente ripugnante è l’associazione tra la pianta decomposta e la proliferazione di /vita/ innestata su questa /non più vita/. Per concludere, la composizione di queste due immagini ricorda l’orrendo coacervo che William I. Miller (1997, p. 40) chiama «life soup», caratterizzato da consistenze per cui è difficile trovare termini descrittivi non peggiorativi: «The having lived and the lived unite to make up the organic world of generative rot-rank, smelling and upsetting to the touch. […] [S]limy, slippery, wiggling, teeming animal life generating spontaneously from putrefying vegetation». 15 figg. 5, 6 e 7 6 Trittico 6.1 Ecfrasi7 È faticoso comprendere appieno l’organizzazione dello spazio della rappresentazione. Sappiamo che si tratta di una fotografia (fig. 5), che questa è indice della presenza di qualcosa davanti all’obiettivo — sorvoliamo per il momento sulla sua identità — ma non sappiamo in alcun modo come questo qualcosa fosse disposto8. Le ombre, che fungono da dispositivi di profondità, non danno per il momento molti suggerimenti. Ispirano semmai che quanto si trova nella zona inferiore dell’immagine si allunga come un pavimento al di sotto di quanto topologicamente sovrasta. Qui infatti “pende” — così sembra — una massa amorfa, densa, rinserrata, la cui ombra spessa si allunga sulla zona inferiore. È come un grande sipario, fitto, che svolazza su di un impiantito. Un terreno certo irregolare, organico e lattiginoso. A sinistra, questo presenta delle lamelle a raggiera, mentre sulla destra, un tessuto grigiastro presenta tanti piccoli forellini, in ognuno dei quali un piccolo grumo sembra essere conficcato, internamente, seppur a un livello superficiale. Sembra “pendere”, si è detto, poiché le luci non permettono di comprendere se la foto sia stata scattata dall’alto, e quindi gli oggetti siano fissi al loro posto, oppure se sia frontale e quindi tutto sia pronto a crollare in avanti, a sfondare la quarta parete. Ci affidiamo dunque ai formanti eidetici, a come cioè le forme portano a una certa lettura dell’immagine. La topologia, come indicato, orienta la lettura dal basso verso l’alto, effetto rinforzato Procedendo all’analisi di questa foto, a partire dalle difficoltà di disambiguare le figure, quanto segue non potrà analiticamente distinguere un livello specificamente plastico da uno figurativo. Le motivazioni di queste difficoltà saranno spiegate nelle sezioni successive. 8 Sulla dialettica icona-indice nelle fotografie, cfr. supra, §0. 7 16 dalla densità, dunque dalla pesantezza, della massa in alto e dalle luci che ne riflettono le zone centrali, più spanciate e prominenti. Le forme spingono lo sguardo a seguirle dai bordi in alto verso la zona inferiore, secondo confini che, seppur netti, sembrano tremolanti. La zona in alto si articola in due parti. La prima, a destra, è dominata da un oggetto dal colore insaturo e sfumato, che ricorda un corpo cartilaginoso o, in ogni caso, un organo interno. Questo termina in un lunga lingua dalla forma arrotondata che pende verso il basso. Sospendendo il giudizio sull’organizzazione spaziale interna, sembra che la “lingua”, allungata su di un corpo più scuro, — diviso in due da una linea longitudinale centrale: due labbra? —, si stia pian piano sciogliendo e liquefacendo opponendosi alla sua tensione superficiale interna. A sinistra, invece, abbiamo tre formanti, di cui gli esterni intersecano il centrale. Questo è dato dall’accostamento di piccole unità tondeggianti dai bordi irregolari, affastellate l’una dietro l’altra, immerse in una brodaglia rossiccia. Qui l’effetto prospettico è l’opposto rispetto alla “lingua” biancastra di cui prima: questi biancori infatti sembrano un’arcata dentale, difficile dire se inferiore o superiore, destra o sinistra. Il corpo alla loro destra appare come un pezzo di gengiva, nel suo rosso pieno e descritto dalla luce in piccole rugosità chiare. Insomma, un ghigno, volendo o, meglio, solo alcuni suoi caratteri necessari ma non sufficienti: le nostre abduzioni sembrano fallire9. La seconda foto del trittico (fig. 6), invece, pur mostrando gli stessi oggetti della prima, li riprende da un altro punto di vista, un po’ spostato verso sinistra. Questo movimento permette di inquadrare un’ulteriore fila di “denti” che, collegata alla prima, disegna ora un’arcata dentale completa. Sembra quindi che ci si ritrovi all’interno di una cavità orale che riporta un inquietantissimo palato (in alto a sinistra nella foto), istoriato da tanti piccoli “occhietti” che emergono per puntare proprio nella direzione dell’osservatore. Vi è però una novità interessante riguardo il pavimento. Sulla sinistra sembra allungarsi un corpo rossissimo, mentre, sulla destra, un oggetto lungo, sottile e biancastro si estende tra il pavimento e una massa rosastra che vi è sospesa. Lo si percepisce come un filamento che bava tra i due corpi, come a mostrarne il carattere limoso. La terza foto (fig. 7) rompe la continuità del trittico. Seppur coerente con il tema, questa ritrae un’altra composizione di oggetti. L’immagine è divisa a metà da un formante plastico posizionato in primissimo piano, evidenziato dai riflessi di luce rifratti sulla sua guaina, che la descrivono come un corpo cilindrico, oblungo, tondeggiante nelle forme. Il suo colore degrada da un beige più scuro nella parte alta a un bianco nella zona inferiore. Lì si ingrossa in una prominenza irregolare simile a 9 Sull’abduzione infelice, cfr. infra, §6.2.2 17 un’epifisi. Questa si propaga cromaticamente verso il basso, come se fosse il dettaglio in escrescenza di un corpo più ampio. In alto a sinistra, il corpo centrale si allunga in una membrana giallastra punteggiata dai tipici occhi. Nella foto si possono articolare così tre brevi arcate di denti, posizionate in corte spirali, tali da portare lo sguardo dall’alto a sinistra, lungo il lato della foto, verso il basso, per poi spostarsi a destra e infine salire. Qui, a destra, vediamo posta una zona in secondo piano, articolata in più piani ottenuti per effetto delle molteplici increspature, sempre meno definite che spingono lo sguardo verso l’interno fino a disperdersi in un vuoto nero sullo sfondo. L’impressione è di trovarsi quindi in un corpo nel vuoto lasciato da un organo assente. 6.2 Quattro forme di forma mancate 6.2.1 Sull’atto iconico La fotografia, in quanto sia indice che icona, produce degli effetti sull’osservatore, quelli che Horst Bredekamp (2010, trad. it. p. 36) ha definito Bildaktes, “atti iconici”, con cui si intende la «forza che consente all’immagine di balzare, mediante una fruizione visiva o tattile, da uno stato di latenza all’efficacia esteriore nell’ambito della percezione, del pensiero e del comportamento»10. Indici e icone ne producono rispettivamente due tipi in particolare, l’“atto iconico schematico” e quello “sostitutivo” (ivi, §§3 e 4)11. Il primo si ottiene a partire dai formanti plastici di una figura. Ogni figura infatti propone uno schema visivo, con cui si intende un «criterio formale che definisce il contenuto rappresentato in termini valoriali, in modo da sortire un effetto esemplare agli occhi dell’osservatore. Lo schema fornisce standard valutativi, nonché strumenti orientativi e imitativi, mediante la forma particolare della figura viva». Da qui, la «proposta di raccogliere le forme viventi delle immagini sotto il concetto di atto iconico schematico» (Bredekamp 2010, trad. it. p. 77). Ogni figura quindi ha un effetto sull’osservatore in quanto segno diagrammatico, per dirla con Peirce, che ripropone un’«incorporazione», una «Verkörperung», ovvero la «summa di tutti i comandi che rendono Sugli effetti perfomativi degli stimoli surrogati delle ipoicone, v. anche Eco (1997 p. 421 nota 30). Non si vuole qui proporre una perfetta analogia tra le tre classi di segno (icona, indice e simbolo) di Peirce con i tre tipi di atti iconici (schematico, sostitutivo e intrinseco) proposti da Bredekamp. Ciò meriterebbe un lavoro più ampio che eccede gli scopi e i limiti di questo contributo. Ci limitiamo a dire che, come in Peirce lo stesso segno presenta sempre tutte e tre le caratteristiche di primità, secondità e terzità con un accento su uno o più dei tre aspetti, allo stesso modo vale per i Bildaktes. 10 11 18 esemplari tali immagini da renderle “vive”, capaci di simulare vitalità» (Bredekamp 2010, trad. it. p. 78)12. La foto quindi, in quanto icona, può rendere lo stesso effetto di dinamicità dell’oggetto che rappresenta. Come indice, invece, il medium fotografico può compiere un “Atto iconico sostitutivo” che consiste nello scambiare l’immagine con l’oggetto che ritrae (Bredekamp 2010, §4)13. 6.2.2 Abduzione e angoscia Comprendiamo dunque perché fotografie come quelle di Cousins possano destare l’attenzione dello spettatore: da un parte rimandano perfettamente a quanto ritraggono, dall’altra parte quel quid ha forme mosse, mobili, che ricordano membra viventi, eppure non lo sono. Innanzitutto qualcosa colpisce me spettatore (percetto-base, ground, come Firstness) (Eco 1997, pp. 45-6)14. Si tratta di chiazze di colore che si differenziano ed emergono per salienza nell’esperienza dell’osservatore. Quelle foto hanno un «linguaggio plastico» che fa da «pretesto agli investimenti» di significazione. I colori permettono così di individuare quanto poi gli altri formanti plastici articolano (Greimas 1978, trad. it. p. 43-4), eppure non si riesce, a un primo sguardo, a ricondurre quelle figure ad alcune del mondo naturale. Sono fotografie, sono indici che quel quid era davanti alla camera, cui le immagini devono pur assomigliare. Qualcosa mi prende a calci, mi è «recalcitrant[e] all’esperienza» e resiste alle mie categorie (Eco 1997, §§1.1 e 2.7-2.8). Ma che cos’è? Di qui un primissimo shock esperienziale. Alla non coincidenza tra forme primarie del giudizio e fenomeno percepito, l’osservatore procede a costruirsi15 un tipo cognitivo, un «tentativo» di individuare cosa lo fronteggi, qualcosa che possa in qualche modo permetta «di unificare il molteplice dell’intuizione» (Id. 1997, pp. 81, 118 e 111). Ne consegue la strategia retorica del trittico di Cousins: i pezzi giustapposti, non riconducibili di primo acchito a una forma conosciuta, sono termini percettivi16 che generano aspettativa, tensione e latenza da parte del lettore su quanto finalmente riuscirà a comprendere. È lo stesso principio di empatia generato da un processo di astrazione così come descritto da Wilhelm Worringer (1908) nei suoi studi per una psicologia dello stile. 13 Sull’atto iconico sostitutivo specifico della fotografia, cfr. Bredekamp 2010, trad. it. pp. 147 ss. 14 Per quanto Eco sia sempre stato un anti-intuizionista, come ribadito in Eco 2007, p. 464, su quel «me» si gioca il suo ripensamento sull’iconismo primario. A partire da Peirce (CP 1.307), Eco (1997, p. 86) con questo concetto indica uno «stimolo adeguatamente rappresentato dalla sensazione». Inizialmente lo riteneva «naturale» (1997, p. 89), infine l’ha inteso come correlato intenzionale di un soggetto, «un primum per me, in quel momento e solo sotto qualche rispetto» (Id. 2007, p. 471). Su questa evoluzione, v. Paolucci 2015. Un sintomo di questa oscillazione può essere rinvenuto già in Eco 1997, p. 5 dove «primaria» veniva detta all’inizio l’«indicalità o attenzionalità», ovvero una Secondness. 15 Un «giudizio riflettente» nei termini di Immanuel Kant (1790, §69) o un’«abduzione creativa» in termini peirceani (Eco 1997, pp. 76, 78 e 393 nota 21). 16 Con termine percettivo intendiamo con Daniele Barbieri (2004, § 2.2.4) «qualsiasi elemento testuale sulla base del quale sia possibile avanzare delle previsioni, ovvero qualsiasi elemento testuale che possa suscitare delle aspettative». 12 19 Non si pensi però che questo gioco sia così semplice, né tantomeno piacevole. Per quanto i semiotici, dopo Eco (1997), si divertano a chiamare questi fenomeni ornitorinchi, gli inglesi hanno un termine specifico, ed è weird. Questo, infatti, è un particolare tipo di non-correttezza: un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui. Eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide. La cosa weird non è sbagliata, dopotutto: dovranno per forza essere inadeguate le nostre concezioni (Fisher 2016, trad. it. p. 17). 6.2.3 Informale Ecco perché il trittico che ci sta di fronte è tanto disturbante. Ma per quale ragione è così disgustoso? La componente weird specifica di queste foto è dovuta a un’espressione informale, con cui intendiamo una dialettica tra figure iconiche e figurale (Lyotard 1971), ovvero una condizione di non chiusura della forma, continuamente aperta dalle forze dinamiche dettate dallo sfondo e dai formanti cromatici. In altri termini, non si può ricondurre quanto si percepisce a icone riconosciute. Come spiega Fontanille (2004; trad. it. p. 380), affinché «una “figura” possa essere considerata come un corpo, questa deve essere costituita da un lato da una struttura materiale contenuta in un involucro, dall’altro da un’energia e da un potenziale di movimento». L’informale apre quindi sempre l’involucro del corpo-figura a favore della dinamicità. Come ha spiegato Grazioli (1998, p. 142), riprendendo George Bataille, l’(anti-)padre dell’arte informale,: L’“informe” non è, in Bataille, soltanto ciò che non ha forma, l’amorfo, ma ciò che si ribella, che rifiuta la forma, che pretende di restare eterogeneo e irriducibile a qualsiasi integrazione (dialettica) della forma. È allora, in realtà, qualcosa di più della distorsione, cui aggiunge un lato provocatorio che segnala la sua volontà rivoltosa, trasgressiva, disgregatoria, è quel conturbante che resta irrisolto, quell’inquietante che turba e disturba, ciò che arriva a provocare repulsione, avversione, ripugnanza. L’informale si oppone al gusto per il fatto che questo, così come canonizzato dall’estetica da Baumgarten in poi, prevede una coincidenza tra la chiusura della forma e il suo contenuto. Come ha specificato Kant (1790, §48, p. 90; trad. it. p. 147), il gusto prevede che la rappresentazione, per essere bella e piacevole, debba mostrarsi come tale (opacità, nei termini di Marin), ovvero diversa dall’oggetto rappresentato. Nel caso in cui «la rappresentazione artistica dell’oggetto non è più distinta nella nostra sensazione dalla natura di questo stesso oggetto» è «impossibile quindi che possa 20 essere ritenuta bella». L’informale è dunque un attacco diretto al carattere opaco della rappresentazione finalizzato a far venir meno anche quello di trasparenza17. Fontanille (2004, trad. it. p. 203), nella sua semiotica dell’impronta, mostra come la percezione della realtà esterna avvenga a partire dal corpo, tramite «due movimenti sensoriali elementari attraverso i quali il soggetto, nel primo caso, si volge al mondo (adduzione), nel secondo, si ripiega su se stesso (abduzione)». Innanzitutto il soggetto proietta sé sull’oggetto, affinché possa sentirlo internamente18. Una forma informale (se così si può dire) suscita disgusto poiché percepiamo l’apertura dell’involucro dell’oggetto come fosse del nostro corpo. Così siamo di fronte a una condizione di smarrimento dove non riusciamo, se non altro all’inizio, a ricondurre l’ambiente a figure per noi conclamate, con cui siamo abituati a interagire. Riprendendo il “sintagma dell’estesia”, così come proposto da Fontanille (2004, trad. it. p. 203), di fronte alla (1) proposta costituita dalla percezione e (2) alla nostra accettazione tramite la costituzione di un primo Tipo cognitivo, noi possiamo (3) realizzarne il fallimento e procedere a (4a) una sanzione negativa, che porta a una abduzione creativa e al tentativo di un secondo Tipo cognitivo, in un circolo ermeneutico, che potrebbe infine portare a (4b) una sanzione positiva. La sanzione negativa produce un’emozione di disgusto che potremmo definire freddo, per usare le classificazioni di Mario Perniola (1998, p. 18). Se con disgusto caldo, infatti, si intende l’avvilimento e il degrado da parte dell’osservatore nella prossimità con l’impuro, nel desiderio che si rivolge verso l’oggetto stesso del disgusto, col freddo, invece, «abbiamo repulsione, presa di distanza dal contaminante, delimitazione di un ambito puro», dove il soggetto osservatore costituisce la propria identità in dialettica con l’Altro. Il disgusto freddo ha un «ruolo repulsivo didattico». Per quanto un elemento di calore sia presente, motivo per il quale la foto attrae verso di sé, i tentativi di dare identità alle forme portano comunque ad allontanarsi e riposizionarsi di fronte all’oggetto. Infine, lo spettatore si scansa, fa un passo indietro, semmai di lato. Lo “stimolo surrogato” (Eco 1975, §3.5.2) della foto che tanto lo perturbava non sussiste più nella nuova prospettiva. Le forme assumono finalmente un Contenuto nucleare coerente, non quello dubbio della pareidolia. Denti e occhi vengono meno, il disgusto svanisce. Semmai insorge un sorriso davanti all’ipoicona di semi, legumi e frutta. Sul disgusto dell’informale, v. Bertolini 2015 Si veda al riguardo l’“Atto iconico intrinseco” delle campiture di colore intese come corpo-tela (Bredekamp 2010, trad. it. pp. 202 ss). 17 18 21 6.2.4 Della tripofobia Un ulteriore effetto di repulsione suscitato da queste immagini è legato alla cosiddetta tripofobia, dove l’orrore si genera per la presenza, su di uno sfondo omogeneo, di una molteplicità di figure tondeggianti, cave, come buchi, affiancate l’una all’altra in una trama fitta. Per quanto la patologia non sia stata formalmente riconosciuta e non ci sia unanimità sul fenomeno, resta il fatto che simili figure possono risultare disturbanti ai più. Le ipotesi finora avanzate sulle cause di questa fobia sono di natura evoluzionistica, visto che enciclopedicamente si è soliti associare la moltiplicazione degli occhi ad animali o pianti patogene (Le, Cole e Wilkins 2015). Vorremmo qui proporre due ulteriori letture della tripofobia che (1) non sostituiscono la suddetta, ma semmai vi si aggiungono e la rafforzano, e che (2) non si riferiscono alle cause, bensì semioticamente agli effetti di senso tripofobici, proprio a partire dal trittico di Cousins. Le due letture si basano su un processo generato da un chiasma (Merleau-Ponty 1964) di astrazione ed Einfühlung (Worringer 1908) da parte dell’osservatore. 6.2.4.1 Tra impronta e taglio Nella sua rilettura degli studi di Didier Anzieu (1985), Fontanille (2004), spiega come il senso si dia tramite due principi: da un lato, la pelle, nel suo essere involucro contenente un contenuto separato da un esterno, diventa paradigma di qualsiasi semiotica19 (ivi, § 5.5.3); in secondo luogo, questo avviene a partire dal dispositivo del corpo come dispositivo di percezione. Ed ecco dunque che un osservatore, davanti a un oggetto, tramite una prensione analogizzante, giunge ad attanzializzare quanto percepisce. Si tratta di un «transfert appercettivo» (ivi, trad. it. p. 213), dove, a partire dall’esperienza della percezione, il soggetto-corpo dell’enunciazione, il se ipse, proietta sé sull’oggetto: così, da un lato, lo individua come altro da sé, dall’altro, ne concepisce il contenuto dentro di sé. Si tratta di un chiasma di un embrayage con un débrayage. Come spiega lo stesso Fontanille (2004, trad. it. p. 250): un embrayage, in primo luogo, dal momento che si tratta di pensare, a poco a poco, l’insieme degli oggetti sulla base di una semiotica del corpo proprio, e dunque in funzione di un “ritorno” sul soggetto (ossia di una ri-assunzione possibilmente adeguata all’anatomia umana); un débrayage, in secondo luogo, dal momento che l’idea stessa di trattare la superficie degli oggetti come una superficie d’iscrizione per delle impronte implica una proiezione, al di fuori del soggetto, delle proprietà del suo “involucro” semiotico. Dove per semiotica si intende qualsiasi sistema dove un piano del contenuto possa convertirsi in un piano dell’espressione. 19 22 Risulta allora chiaro come trame di fori come quelle che intessono le membrane aliene mostrate da Cousins possano repellere. In quelle figure si rivede e si percepisce la propria pelle, il proprio involucro. La pelle ha, tra le varie funzioni20, quella di demarcazione della propria identità corporea (ivi, p. 218), così da distinguere non solo l’esterno dall’interno, ma anche lo sporco dal proprio e dal pulito (ivi, p. 221), tanto che in francese il solo termine propre riesce a ricoprire le due funzioni semantiche21. In quelle foto la pelle che vedo è quella che in quel momento abito: una pellicola sottile quanto resistente, tirata alle estremità, non da lacerarsi, ed essere così forata. Aperta. E quelli che sembrano affacciarsi verso l’esterno sono delle piccole escrescenze interne che fanno capolino dal corpo beante22. Quel corpo aperto è il mio da osservatore, è il mio corpo che langue al contatto con l’alterità e la contaminazione. Ogni bordo diventa quindi espressione della differenziazione, quindi traccia un percorso di «cernita assiologica» dove ogni limite si intensifica al punto da farsi erogeno o distruttore (ivi, p. 221). Il formante plastico rimarca una funzione indicale e si fa impronta di uno, in questo caso di molti, eventi di taglio. Viene quindi a convergere una lettura semiotica-psicoanalitica con l’ipotesi evoluzionistica di cui sopra23. 6.2.4.2 Sul volto tribofobico Questa lettura considera la co-presenza24 dell’altro come realizzata. Consideriamola ora attualizzata, tramite una lettura schizoanalitica. Lettura, questa, che non esclude le altre in generale, ma ne spiega alcuni aspetti. L’osservatore della foto non sa se quanto è stato incastonato in quella membrana e vi spunta abbia vita e possa muoversi oppure se si tratti di tanti piccoli organi oculari che lo scrutano. Per Fontanille (2004, § 5.5.2.2) le proprietà dell’involucro sono di (1) connettività, (2) compattezza e (3) regolazione e polarizzazione degli scambi, cernita assiologica, protezione e distruzione. 21 Al riguardo, si riprenda le riflessioni su “Il pulito e lo sporco” di Michel Serres (1990, trad. it. pp. 48-9) 22 Sul corpo beante come figura del disgusto, v. Bertolini 2015, p. 191 23 Lacan (1960, trad. it. pp. 820-1, cors. nostri): «La stessa delimitazione della “zona erogena” che la pulsione isola dal metabolismo della funzione [...], deriva da un taglio che è favorito dal tratto anatomico di un margine o un bordo: labbra, “chiostra dei denti”, margine dell’ano, solco del pene, vagina, fessura palpebrale, trago (eviteremo le precisazioni embriologiche). L’eterogeneità respiratoria è poco studiata, ma è evidente che entra in gioco anche lo spasmo. Osserviamo che il tratto costituito da questo taglio è prevalente in modo non meno evidente nell’oggetto descritto dalla teoria analitica: mammella, scibale, fallo (oggetto immaginario), fiotto urinario. (Lista impensabile se non si aggiunge con noi il fonema, lo sguardo, la voce, il rien)» 24 Per co-presenza si riferisce a un regime di interazione attanziale, così come proposto da Eric Landowski (2005, trad. it. p. 51). Come correttamente evidenzia Violi (2012, p. 115), il socio-semiotico francese non contrappone il regime della co-presenza a quello dell’unione, ma li affianca. 20 23 Alcuni individui affetti da questa sindrome hanno confessato infatti che per essi i buchi sono disgustosi poiché sembra che qualcosa possa viverci dentro (Thomas 2012, Elliot 2013, Eveleth 2013). Non è un caso che questa sia una strategia testuale tipica dei testi horror, dove la moltiplicazione dei buchi si fa sede di coppie di occhi (Deleuze e Guattari 1980, trad. it. p. 270 nota 14). Se per “viso” intendiamo la macchina gestaltica delle figure di buchi neri su sfondo omogeneo (ivi, in part. §7), chiameremo viso tribofobico quello che di buchi ne presenta una molteplicità25. Questo, nel trittico di Cousins, presenta due, forse tre, aspettualizzazioni temporali diverse che producono paura in modalità differenti. Una puntuale, dove è l’immagine a guardare lo spettatore (débrayage enunciazionale) che lo interpella. Bredekamp (2010, §5) ha definito questo meccanismo “Atto iconico intrinseco”, il cui mito fondativo risiede nello sguardo pietrificante della Gorgone. A causa del «tremendum dello sguardo» (ivi, p. 190), in questo tipo di immagini vi è «reciprocità di vedere e essere visti, […] attività intrinseca che innesca un feedback»26. Poiché, come abbiamo visto precedentemente, l’immagine si dà al soggetto spettatore tramite un chiasma enunciazionale tra sé e l’immagine, avviene così che «l’immagine possied[a] vita propria, dato che indipendentemente dai punti di vista o dai nostri movimenti ci guarda tutti, nello stesso momento, ma per il singolo osservatore sembra guardare lui solo» (ivi, trad. it. pp. 192-3). Per dei semplici motivi gestaltici, qualsiasi foro contenente un’altra figura tondeggiante non può non guardare in camera, così da ottenere un effetto panottico e paranoico. La seconda aspettualizzazione è iterativa, dove la ripetizione dello stesso modulo di figura fa prevedere che se ne aggiungono altre e altre ancora, così da consumare superficie allo sfondo. L’ontologia di una figura tripofobica è un’“oncologia” in quanto procede per collegamenti rizomatici (Deleuze e Guattari 1980, § 1), di cui non sono prevedibili tagli enciclopedici. Si instaura così tra immagine e osservatore un regime di interazione che Landowski (2005; trad. it. pp. 51-2) ha definito «rapporto di aggiustamento». In co-presenza di quel corpo-immagine, di fronte a esso, l’osservatore, percependo (attraverso il proprio corpo) l’altro, a partire dunque da una «competenza estesica del contagio», si calibra, cambia atteggiamento, si sposta, si riassesta. L’osservatore può quindi lasciar «trasparire la propria paura e di colpo impaurire» oppure nei casi estremi ha «la nausea vomitando». È il tentativo primo che si compie affinché l’alterità, incontrollata, reagisca e dia una stabilità cui aggrapparsi a seguito delle proprie scelte e dei propri Quello tribofobico è un caso particolare di “viso-limite”, che Deleuze e Guattari (1980, ed. it. pp. 266-8) definirebbero “dispotico terrestre significante”, poiché la loro attenzione è legata al processo di attanzializzazione sottesovi. Poichè per la schizoanalisi, «Il despota è il paranoico» (Ead. 1972, trad. it. p. 217), preferiamo focalizzarci sulla paranoia generata da questa struttura. 26 In quanto cosa che sente, il volto tripofobico provoca lo stesso sex appeal dell’inorganico di tanta estetica contemporanea (Perniola 1994). 25 24 movimenti. Spiega Fontanille (2004, trad. it. p. 210) la stessa dinamica27: «la produzione di equivalenze è quindi una proprietà naturale del nostro corpo in movimento, dal momento che è la sola maniera che conosce per abitare il mondo, per adattarvisi, per comprenderlo e per appropriarsene». Nel momento in cui l’altro è incontrollato, esso assume la posizione paradossale di alea, la quale «è solo nella sua stessa manifestazione, realizzandosi […] che [...] si auto-istituisce». Così, «per liberarsi delle incertezze e dai rischi o, semplicemente per uscire da quella specie di angoscia semiotica che implicherebbe la resa davanti a quella forma di non-senso», ci si rifiuterà «di considerare l’aleatorio come un carattere irriducibile del modo di apparizione dei fenomeni» e si cercherà «di sostituire al caso il suo contrario, la contingenza». La soluzione è cercare di «scoprire un regime di regolarità soggiacente» davanti a qualcosa che, nella casualità generale, potrebbe ricoprire un «ruolo catastrofico» e «scombussolare […] qualunque programma in corso, qualunque manipolazione o aggiustamento» (ivi, pp. 78-83). Riprendendo il sintagma dell’estesia di Fontanille (2004, trad. it. p. 203), se (1) nella proposta l’involucro si apre sullo spazio della rappresentazione con i suoi mille occhi, avendo l’osservatore accettato questa primità, (2) questi reagirà (3) spostandosi oppure paralizzandosi alla vista per poi (4) accettare la copresenza dell’immagine neutralizzandola oppure fuggendola. La terza, forse più inquietante, è l’aspettualizzaizone terminativa. La superficie da cui sbucano questi piccoli occhietti viene articolata da un fascio luminoso enfatizza tutte le increspature della membrana. Greimas (1978 trad. it p. 47) spiegava come il carattere graduato del colore comporti un’intensità orientata. I bordi di ogni “occhio” sono attorniati da un alone luminoso che accentua la profondità del bulbo, così da rendersi impronta di un gesto (Fontanille 2004, §12). Da qui la domanda: chi ha conficcato quell’occhio? Chi ne è l’artefice? Quali arti hanno composto quel viso mostruoso e straziato?28 Come specifica Eco (1997, p. 324), l’«impronta è segno in quanto è fondamentalmente un’espressione che rinvia a un contenuto, e il contenuto è sempre generale». In questo caso, però, riusciamo a giungere a un Contenuto nucleare troppo generale, che è insoddisfacente. È un effetto di eerie. Questo è «costituito da un fallimento di assenza o da un fallimento di presenza». Se ne verifica la sensazione «quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa» (Fisher 2016, trad. it. p. 72). Per un confronto tra le proposte teoriche di una semiotica a partire dal corpo di Landowski e Fontanille, cfr. Violi 2012. 28 Sul tema del problema della genesi nella semiotica dell’impronta, v. infra, §2. 27 25 E così, in un oggetto che non possiamo ricondurre ad alcun tipo che conosciamo, tanti piccoli occhi ci osservano — il dubbio sovviene per il carattere indicale della foto cui siamo culturalmente abituati. Di chi l’abbia composto o l’abbia voluto, di chi in pratica quei piccoli oculi siano impronta dell’enunciazione (Fontanille 2004, § 12) resta un mistero angosciante. Esiste però una lettura possibile, semmai una sovrainterpretazione, ma vale la pena indicarla. Nei testi visivi per enunciatore si può intendere sia l’autore (in questo caso il fotografo oppure il “compositore” dell’oggetto immortalato) che l’osservatore a partire dal cui punto di vista è stata costruita la prospettiva dell’immagine. Michel Foucault (2004, trad. it. pp. 57-8) aveva indicato come lo scandalo di opere, quali ad esempio l’Olympia di Manet, non risiedesse nella nudità del suo soggetto o nell’essere il ritratto di una prostituta, ma che questi caratteri fossero enunciati dalla luce che proviene dallo spazio dell’osservatore. È grazie ad essa che prende vita quell’immagine, da una porta virtuale che (si) spalanca (sul)lo spazio della rappresentazione. è visibile perché una luce viene a colpirla. […] È una luce molto violenta che la colpisce in pieno. Una luce frontale, […] che viene dallo spazio che si trova davanti alla tela, e questa […] fonte luminosa che è indicata, che è supposta da questa stessa illuminazione […], dove si trova se non esattamente là dove noi ci troviamo? [...] Siamo noi a renderla visibile; il nostro sguardo […] è lampadoforo, porta la luce; noi siamo responsabili della visibilità. Che la composizione di Counsins repella è vero, ma questo è verificato solo nell’occhio di chi guarda, è mero effetto di percezione. Basta chiudere le palpebre e lo scandalo svanisce. 26 Riferimenti bibliografici Anzieu, D. 1985 Le Moi-peau, Paris: Dunod. Barbieri, D. 2004 Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo, Bompiani, Milano. Barthes, R. 1980 La Chambre claire. Note sur la photographie, Paris: Seuil; trad. it. di R. Guidieri, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino: Einaudi 1980. Basso Fossali, P.; Dondero, M.G. 2006 Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche di analisi, Rimini: Guaraldi. Bertolini, M. 2015 “Lo spettatore alla prova del disgusto”, in M. Mazzocut-Mis (cur.), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Milano: Raffaello Cortina 2015, pp. 181-205. Bredekamp, H. 2010 Theorie des Bildakts, Berlin: Suhrkamp; ed. it. a c. di F. Vercellone, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Milano: Raffaello Cortina 2015. 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