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Master di secondo livello in: “Economia e istituzioni dei paesi islamici” Migrazioni e cambiamenti climatici nel Mediterraneo: una sfida per la sicurezza europea? Candidato: Relatore: Ugo Maria Gaudino Prof. Christopher Hein Direttore del Master: Prof.ssa Francesca Maria Corrao Direttore della SoG: Prof. Sergio Fabbrini Anno Accademico 2017-2018 Indice Introduzione p.3 Struttura della tesi p. 5 Il nesso tra migrazioni e cambiamento climatico: lo stato dell’arte e le previsioni future p.8 “Migranti climatici”, non “rifugiati” p. 14 I possibili strumenti di protezione giuridica p. 20 5.1) Le risposte europee p. 23 Il Marocco come caso di studio nel Mediterraneo: flussi migratori climatici interni ed esterni p.28 6.1) Le vulnerabilità del Marocco p.30 6.2) Cenni sull’emigrazione climatica dal Sahel: il Marocco come destinazione finale e paese di transito p.35 La securitizzazione delle migrazioni climatiche e il nesso con i conflitti p.39 7.1) Securitizzare l’ambiente e il climate change p.44 7.2) Resilienza, resettlment: risposte e pratiche securitarie p.47 Conclusioni p. 49 Bibliografia p. 53 Introduzione L’immagine del “migrante” potrebbe incarnare al meglio lo spirito del XXI secolo, ossia di un momento storico in cui le coordinate spazio-temporali del globo sembrano essersi rimpicciolite e la mobilità umana ha raggiunto livelli mai sfiorati in precedenza. Le cifre non smentiscono queste impressioni, considerando che dai 173 milioni di migranti internazionali nel 2000 si è verificata un’impennata tale da raggiungere i 258 milioni nel 2017 UN/DESA (United Nations Department of Economic and Social Affairs) (2017). The International Migration Report [Highlights]. New York: United Nations, p. 1.. Tra questi, 68,5 milioni di individui che nell’arco del 2017 sono stati costretti a migrare: ai 25,4 milioni di rifugiati veri e propri – tali in quanto hanno varcato il confine del proprio paese d’origine a causa di una persecuzione di varia natura - vanno ad aggiungersi 40 milioni di Internal Displaced People (IDP) - sfollati interni per via delle guerre e dei disastri naturali UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) (2018a). Global Trends: Forced Discplacement in 2017. New York: United Nations. p.2. -, aumentati tragicamente di 30,6 milioni nel corso del 2017, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre, NRC (Norwegian Refugee Council) (2018). Global Report on Internal Displacement 2018. May, p. V. Il centro era nato per calcolare gli IDP provocati da violenza e conflitti, ma da qualche anno ha cominciato ad analizzare, significativamente, anche gli sfollati per motivi ambientali. . All’interno dei 40 milioni circa di IDP, 18,8 milioni sono stati costretti a migrare per via di calamità naturali, legate in misura diversa agli effetti peggiori dei cambiamenti climatici Le cifre riportate negli anni precedenti sarebbero anche più elevate: circa 26.4 milioni all’anno nel periodo 2008-2014 sono stati sfollati a causa di disastri naturali improvvisi. Per un totale di 184,4 milioni nel corso dei sei anni considerati. In: The Nansen Initiative (2015). Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change. Vol. I. December, p. 14. . Questi numeri forniti dagli esperti del settore hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici, aumentando la loro percezione di quanto devastante potrà essere l’impatto dei cambiamenti ambientali e climatici sulla mobilità umana. Un tema di cui però in Italia si è cominciato a discutere solo di recente Valerio Calzolaio (2010). Eco-profughi. Migrazioni forzate di ieri,di oggi e di domani. Rimini, NdA Press. Salvatore Altiero, Maria Marano (2016). Crisi ambientale e migrazioni forzate. Associazione A Sud - Centro Documentazione Conflitti Ambientali. Roma. Sara Vigil (2017). Climate Change and Migration: Insights from the Sahel. In: Carbone, Giovanni (a cura di) Out of Africa. Why People Migrate. ISPI. Ledizioni Ledi Publishing. Milano., più in ritardo rispetto al dibattito proficuo già avviato a livello internazionale, tanto dalle organizzazioni competenti IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) (1990)., Climate Change: The IPCC Scientific Assessment: Final Report of Working Group I. Cambridge University Press. Cambridge. , quanto nell’accademia Ad es. nei lavori pionieristici di Hassam El-Hinnawi (1985). Environmental Refugees. UNEP, Nairobi; Norman Myers (1993). Environmental refugees in a globally warmed world. BioScience 43 (11), 752–761., e che sarà presentato e approfondito nei prossimi capitoli. Questo lavoro di ricerca è stato concepito con l’obiettivo di presentare il dibattito in questione e fare più chiarezza su un argomento che non solo presenta caratteristiche del tutto interdisciplinari, intersecandosi tra lo studio del cambiamento ambientale e climatico e quello delle migrazioni sotto il profilo giuridico, geografico e sociopolitico, ma che nasce plurale già a partire dalla definizione polimorfa dei soggetti e degli eventi analizzati. Molte sono le categorie utilizzate per riferirsi a quelle che in senso più generico sono migrazioni indotte dall’ambiente, che si tratti di eventi stimolati dal cambiamento climatico o meno: migranti ambientali, rifugiati climatici, eco-profughi, disaster-induced migration. In questo lavoro verrà utilizzata la definizione fornita dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nel 2011, secondo cui i migranti ambientali sono: “persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di cambiamenti improvvisi o graduali dell’ambiente che influiscono negativamente sulle loro condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro residenze abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente che permanentemente, sia nel loro stesso paese che al di fuori di esso” IOM (International Organization for Migrations) (2011). Glossary on Migration. International Migration Law. No. 25, 2nd Edition. Geneva, p.33.. Tuttavia, trovandoci dinanzi ad un insieme di soggetti eterogenei, il cui minimo comune denominatore risiede nella migrazione indotta da un cambiamento dell’ambiente circostante, sembra necessario limitare ulteriormente il raggio d’azione e selezionare solo i migranti climatici che emigrano all’esterno del paese d’origine, privilegiandoli rispetto agli sfollati interni. Verrà seguito l’inquadramento analitico della Nansen Initiative, che parla di “disaster-induced cross-border displacement” The Nansen Initiative (2015). Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change., op. cit. . Meno facile, invece, è la distinzione tra una migrazione forzata o volontaria, o tra le migrazioni temporanee o permanenti. In questi casi i tentativi di categorizzare gli individui sfuggono all’abilità del ricercatore per vari motivi, tra cui le decisioni soggettive alla base dei movimenti migratori, le condizioni oggettive di accoglienza da parte dei paesi di destinazione, l’eterogeneità geografica e geopolitica dei vari casi di studio e ovviamente gli eventi ambientali o climatici che possono essere considerati all’origine di alcuni flussi migratori. Gli eventi climatici vengono divisi generalmente in due gruppi: eventi graduali, o slow-onset, come la desertificazione, la siccità e la degradazione del suolo, ed eventi improvvisi, o sudden-onset, come alluvioni e uragani, fenomeni naturali esacerbati dal cambiamento del clima. Ogni evento ambientale meriterebbe di essere tenuto in considerazione per avere una visione completa delle potenziali migrazioni e per elaborare la risposta giuridica più congrua in base alle esigenze specifiche di un paese. In questa tesi, ci si concentrerà sui disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici antropogenici, lasciando ai margini quei disastri naturali- terremoti, eruzioni vulcaniche – che paiono meno collegabili all’azione dell’uomo sull’ambiente e che allargherebbero eccessivamente i confini mobili di una categoria già poco strutturata. Del resto, come sottolinea l’IOM, metodologicamente i disastri naturali sono una “sottocategoria” di quelli ambientali IOM (2009). Migration, Environment and Climate change. Assessing the Evidence. Geneva, p. 250.. Allo stesso modo, non verrà tenuta in considerazione un’altra sottocategoria dei disastri ambientali, cioè quelli interamente attribuibili dall’uomo (es. incidenti, esplosioni, danni da inquinamento), che pure possono essere elencati tra le cause di migrazioni. Struttura della tesi L’approccio della tesi è multi-disciplinare e ispirato all’incrocio tra diverse prospettive legate alle scienze sociali, evitando invece un approfondimento scientifico sulle cause e le conseguenze del cambiamento climatico Su cui si rinvia a IPCC (2014) Climate Change 2014: Synthesis Report. Contribution of Working Groups I, II and III to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Core Writing Team, R.K. Pachauri and L.A. Meyer (eds.)]. IPCC, Geneva, Switzerland.. L’assunto di base, condiviso dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica e sulla scia del quale si pone anche la tesi, è che la temperatura del globo sia aumentata come mai in precedenza nel corso degli ultimi 200 anni (0,8 gradi centigradi dall’inizio della Rivoluzione Industriale), a causa dell’emissione di anidride carbonica provocata dall’uomo. Diversi scenari sono previsti per i prossimi decenni, ma vi è l’opinione diffusa che la temperatura sia destinata a salire di oltre 1,5 gradi, fino a raggiungere, negli scenari più pessimistici, anche i 4 gradi centigradi World Bank (2012). Turn down the heat. Why a 4°C warmer world must be avoided. Washington DC, p.XVII. . Da cui la necessità di agire per mantenere l’incremento quantomeno al di sotto dei 2 gradi, onde evitare gli enormi costi umani ed economici che la mancata prevenzione comporterebbe World Bank (2016). Climate Change Action Plan 2016-2020. Washington DC, p. 7.. L’aumento della temperatura ha arrecato danni evidenti, che potrebbero addirittura manifestarsi con maggiore intensità, tra i quali vanno menzionati Marcello Di Paola (2015). Cambiamento climatico. Una piccola introduzione. LUISS University Press. Roma, pp. 22-28.: innalzamento del livello dei mari, stimato attualmente in almeno 25 centimetri e potenzialmente in 60 centimetri, e maggior numero di alluvioni; diminuzione della quantità di acqua e aumento della siccità e delle carestie a seguito del regime di precipitazione meno intenso in molte aree del pianeta – tra cui il Mediterraneo. Ciò comporterà una degradazione del suolo e avrà delle ripercussioni anche sulla sicurezza alimentare di centinaia di milioni di persone; possibilità di migrazioni di massa, ad esempio dai cosiddetti microstati insulari che rischiano di essere sommersi da un futuro innalzamento eccessivo del livello dei mari (Kiribati, Tuvalu Su cui si veda Jane McAdam (2012). Climate Change, Forced Migration and International Law. Oxford. Oxford University Press, pp. 119-160.). Fig.1 Il mondo 4 gradi più caldo (Khanna, 2016, p. 293). L’analisi del legame tra cambiamento climatico e migrazioni, nucleo da cui parte questa ricerca, verrà effettuata combinando tre prospettive prevalenti che si intrecciano tra loro - giuridica, geografica e socio-politica -, dopo un’attenta analisi dello stato dell’arte sul dibattito a proposito di migrazioni ambientali e delle previsioni future (capitolo 3). Dal punto di vista giuridico (capitolo 4), si cercherà di riflettere su quanto sia inappropriata la definizione di “rifugiato” per parlare dei migranti indotti dal deterioramento ambientale o del cambiamento climatico. Di fatto, secondo il diritto internazionale i rifugiati sono solo coloro che rientrano nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nel Protocollo del 1967, di cui l’elemento politico della persecuzione (per razza, religione, nazionalità, opinione politica o gruppo sociale) è cifra distintiva. Tali strumenti sono inappropriati Ivi, p. 42; IOM (International Organization for Migrations) (2009). Migration, Environment and Climate change. Assessing the Evidence, pp. 397 ss., visto pure che per applicare la definizione di rifugiato occorre un movimento trans-frontaliero, assente nella maggior parte dei casi di migrazioni ambientali. Ci si soffermerà dunque su altri strumenti di protezione internazionale che sono stati elaborati o nell’ambito della governance mondiale delle migrazioni Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement. IGO Expansion and Global Policy Implications. Palgrave Macmillan. New York, pp. 73-112., da parte di Organizzazioni Internazionali come l’IOM o di agenzie dell’ONU come l’UNHCR e l’OCHA, spesso coordinandosi con varie ONG. Inoltre, un rilievo particolare verrà dedicato all’Unione Europea e alle risposte elaborate in sede comunitaria e dai singoli Stati nazionali di fronte alle migrazioni ambientali (capitolo 5). In termini geografici (capitolo 6), il focus prevalente sarà quello dell’area Mediterranea ed in particolare di un singolo caso paese, cioè il Marocco, in cui sembra ci sia un’evidenza empirica di migrazioni indotte dalla siccità dalle aree rurali del paese, oltre che di movimenti causati dai disastri naturali IOM (2016b). IOM Contributions to Global Climate Negotiations.22nd Conference of Parties to the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC). Marrakesh. . Anche se mancano solide dimostrazioni sul nesso causale tra cambiamento climatico e movimenti trans-frontalieri, alcuni studi hanno dimostrato che il Marocco sarà tra i paesi più colpiti dal peggioramento delle condizioni ambientali provocato dall’aumento delle temperature. Il Marocco è già diventato peraltro uno degli hub delle rotte migratorie provenienti dal Sahel, a loro volta condizionate da motivazioni ambientali e climatiche Ulrike Grote, Koko, Warner (2010). Environmental Change and Forced Migration. Evidence form Sub-Saharian Africa. International Journal of Global Warming. January.. Di conseguenza, è opportuno che il governo di Rabat si prodighi per mitigare ed adattarsi agli impatti più deleteri legati al cambiamento climatico, tra cui anche i potenziali flussi migratori, e che i paesi della sponda Nord del Mediterraneo cooperino per supportare i vicini del Sud che più saranno colpiti da siccità, carestie e salinizzazione dell’acqua di mare. Nel capitolo 7 l’analisi assumerà una prospettiva chiaramente socio-politica, cercando di inquadrare il fenomeno delle migrazioni climatiche alla luce del duplice concetto di sicurezza: la sicurezza dei migranti e la sicurezza dei confini degli Stati o delle organizzazioni continentali come l’UE. Dal punto di vista dei teorici della human security la comunità internazionale dovrebbe sforzarsi di intervenire per colmare le lacune giuridiche e fornire strumenti di protezione olistici per chi non fa parte né dei rifugiati né degli IDP W. Neil Adger et al. (2014). Human security. In: Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part A: Global and Sectoral Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Cambridge University Press. Cambridge. United Kingdom and New York. 755-791; Dorothea Hilhorst et. al. (2014). Human security and Natural Disasters. In: Martin, Mary, Owen, Taylor ( a cura di). The Routledge Handbook of Human Security. Routledge. Oxford. . Eppure, sembra del tutto irrealistico pensare che dopo l’ultimo triennio “sovranista” ci sia chi dia disposto a chiedere più accoglienza agli Stati o chi voglia rinegoziare le convenzioni internazionali per includere un numero maggiore di persone da proteggere. Nel contempo, l’amara constatazione di vivere in un momento politico sfavorevole per i migranti climatici non può condurre alla securitizzazione Columba Peoples, Nick Vaughan-Williams (2010). Critical Security Studies. Routledge. London, pp. 91-101. della gestione di questi flussi, che al momento rappresentano una componente del tutto minoritaria rispetto a richiedenti asilo, rifugiati e alle migrazioni economiche (che solo potenzialmente rispecchiano anche dinamiche ambientali). Ricordando comunque come premessa che mancano ricerche empiriche soddisfacenti in materia e che in futuro questa percentuale potrebbe crescere progressivamente, suscitando preoccupazioni quantomeno più fondate. Nelle conclusioni, infine, si rifletterà nuovamente sui modi operandi proposti a vari livelli e sulla possibilità di altre soluzioni adeguate ad una migliore gestione del problema. Verrà quindi ribadita l’importanza di lavori di ricerca come questo, per supportare non solo il dibattito accademico, ma anche chi cerca di contrastare sul campo gli effetti più deleteri del cambiamento climatico. In questo, la tesi si propone di contribuire agli sforzi profusi a livello internazionale per raggiungere l’obiettivo 9 dei Sustainable Development Goals, cioè l’azione per il clima, e va considerata come un primo tassello di una ricerca teorica e soprattutto empirica più profonda per constatare l’evidenza del nesso tra migrazioni e cambiamento climatico in alcuni paesi del Mediterraneo (come il Marocco) e se questo fenomeno può essere interpretato sul serio come una minaccia alla sicurezza europea. Il nesso tra migrazioni e cambiamento climatico: lo stato dell’arte e le previsioni future Fare delle previsioni riguardo al numero delle cosiddette “migrazioni climatiche” è compito arduo, sia per ragioni legate alla definizione ondivaga del fenomeno, sia per le diverse prospettive da cui lo si considera. Come detto nell’introduzione, la tesi prenderà in considerazione quei cambiamenti climatici che la comunità scientifica (quasi all’unanimità Esiste circa un 3% di disaccordo scientifico in materia di cambiamento climatico. I negazionisti non vanno confusi tuttavia con coloro che riconoscono il cambiamento climatico ma credono che non vada fatto nulla per contrastarlo. Si veda Marcello Di Paola (2015). Cambiamento climatico, op.cit., pp. 32-37.) ritiene attribuibili all’azione dell’uomo, e che, potenzialmente, provocano migrazioni. Sono esclusi quindi i disastri naturali non antropogenici così come quelli causati solo ed esclusivamente dall’azione dell’uomo – ad esempio i danni da inquinamento. Partendo dal presupposto che alla base di ogni decisione di migrare ci sono sempre molteplici fattori che agiscono con varia intensità, ad oggi sembra assodato che anche ragioni di tipo climatico possano innescare tali dinamiche. Nel rapporto del 2009 intitolato significativamente Assessing the Evidence, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni individuava quattro modi con cui il cambiamento climatico potrà influire sui flussi migratori IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op.cit., p. 15.: 1) intensificazione di disastri naturali; 2) innalzamento delle temperature e siccità, con conseguenze negative sulla produzione agricola e sulla disponibilità di acqua; 3) innalzamento del livello dei mari, che renderà inabitabili determinate zone costiere e sommergerà delle isole (si ricordi poi che il 44% della popolazione mondiale vive entro i 150 km dalla costa); 4) competizione sulle risorse naturali, che potrebbe scatenare conflitti o esacerbare quelli esistenti, finendo dunque per causare sfollamento forzato. Come si legge nel Fifth Assessment Report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change del 2014, il cambiamento climatico “amplifica rischi già esistenti per i sistemi umani e naturali, e può crearne di nuovi” IPCC (International Panel on Climate Change) (2014) Climate Change 2014: Synthesis Report,op.cit.,p.13. . Ciò si traduce, soprattutto nelle zone più vulnerabili, nel peggioramento delle condizioni di vita e nell’aumento della fragilità, da cui un incentivo a optare per la migrazione. Nel corso del Panel il nesso è stato ampiamente discusso, riconosciuto ma anche ridimensionato: l’evidenza empirica al momento non è ancora assoluta, mancano conferme specialmente in merito agli slow-onset events IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op.cit., p. 248. ed esistono, di fatto, anche casi in cui i disastri ambientali impediscono la mobilità W. Neil Adger et al. (2014). Human security, op.cit., p. 766; Foresight (2011). Migration and Global Environment Change. Future Challenges and Opportunity. Final Project Report. The Government Office for Science. London, p. 12.. Nei successivi summit internazionali dedicati al cambiamento climatico, il legame con le migrazioni – e con le implicazioni in tema di diritti umani Si veda anche Jane McAdam, Marc, Limon (2015). Human rights, climate change and cross border displacement: the role of the international human right community in contributing to effective and just solutions. Policy Report. Universal Rights Group. Switzerland. August. 1-17. - è stato riconosciuto nel corso della COP21 di Parigi, del 2015, la cui Decision 49 on Loss and Damages incoraggia la creazione di una task force per prevenire e ridurre gli sfollamenti connessi a disastri naturali (già previsti durante la COP19 tramite il Warsaw International Mechanism) IOM (2016b). IOM Contributions to Global Climate Negotiations.22nd Conference of Parties to the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC). Marrakesh, p.3.. Le successive Conferenze delle Parti di Marrakesh e di Bonn hanno ribadito la centralità delle conseguenze del cambiamento climatico sui flussi migratori. Assumendo il nesso come punto di partenza si potrà cominciare a discutere delle cifre che finora sono state fornite su tali movimenti; dei pareri discordanti in letteratura; degli eventi ambientali o climatici che provocano le migrazioni; delle modalità con cui si verificano - ad esempio, se oltrepassino o meno un confine. Soffermandoci sullo stato dell’arte, si nota come nel corso degli ultimi anni ci sia stata una proliferazione di ricerche e di studi dedicati alla questione. Dal 2008 al 2011 hanno visto la luce 350 pubblicazioni accademiche, rispetto alle 250 prodotte dal 1990 al 2007: geograficamente il nesso tra migrazione e ambiente è stato indagato a livello nazionale, mentre ancora pochi sono gli approfondimenti comparati tra diverse regioni Come Frank Laczko, Étienne Piguet (2014). People on the move in a Changing Climate. The Regional Impact of Environmental Change on Migration. Springer International Publishing. Dordrecht, pp. 5-6, da cui sono presi anche i dati sullo stato dell’arte. Per certi versi, anche Norman Myers (2002). Environmental refugees: a growing phenomenon of the 21st century. Philosophical Transactions of the Royal Society B 357 (1420), 609–613, contiene un’analisi incentrata su più regioni.. Le pubblicazioni hanno privilegiato: fattori legati a eventi di lunga insorgenza che generalmente rientrano nella categoria di “degradazione ambientale” (innalzamento livello del mare, desertificazione, siccità); disastri naturali ed eventi estremi che hanno conseguenze più immediate (uragani, inondazioni, tsunami, terremoti). Nonostante il trend di ricerche sia in crescita, a livello metodologico manca ancora omogeneità nella definizione delle ipotesi e nell’uso degli strumenti più idonei a verificare empiricamente il legame IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op.cit., pp. 20-21. . Servirebbero studi quantitativi che in primis ottengano dati affidabili sulle migrazioni risalenti a luoghi colpiti da disastri naturali, per poi cercare di prevedere il numero di catastrofi e di migranti futuri, evitando sia di amplificare, sia di ridurre il fenomeno I dati disaggregati più affidabili sono forniti al momento dall’Emergency Disaster Database (di cui si consiglia EM-DAT, Natural Disasters 2017), dall’Internal Displacement Monitoring Centre e dalla Nansen Initiative.. Di non minore importanza risultano le inchieste qualitative condotte tramite interviste, osservazione e lavoro sul campo, che possono testimoniare quanto la percezione del cambiamento climatico possa agire da meccanismo che mette in moto la decisione di migrare Caroline Zickgraf et al. (2016), The impact of Vulnerability and Resilience to Environmental Changes on Mobility Patterns in West Africa. Global Knowledge Partnership on Migration and Development. World Bank. Washington DC, p. 5. Anche James Morrissey (2014). Environmental Change and Human Migration in Sub-Saharian Africa. In: Laczko, Frank, Piguet, Étienne. People on the move in a Changing Climate, op.cit., p. 105.. Una metodologia del genere è stata alla base del progetto EACH-FOR, ideato e finanziato dalla Commissione Europea nel 2006 per analizzare il nesso in 23 casi di studio selezionati, che ad oggi rappresenta uno degli studi più approfonditi tra quelli basati su una prospettiva qualitativa - che resta viziata chiaramente da alcuni bias come l’assenza di ampi campioni statistici rappresentativi IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op.cit., pp. 199-212. Quella delle previsioni future è una questione che ha suscitato dibattiti accesi e politicizzati, a partire dalla categorizzazione controversa degli environmental refugees elaborata nel corso degli anni Ottanta. Il primo a parlarne fu El-Hinnawi, che, in un report commissionato dall’UNEP nel 1985 ne calcolava circa 30 milioni, definiti come: “coloro che sono stati costretti a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un disastro ambientale evidente, naturale o causato dall’uomo, che ha messo in pericolo la loro esistenza o che ha influito negativamente sulle loro condizioni di vita” Hassam El-Hinnawi (1985). Environmental Refugees, op.cit., p.4.. La tesi dell’accademico egiziano riposava su una metodologia sfumata e poco chiara, che tendeva a mescolare migranti temporanei e permanenti. Inoltre, includere tra i rifugiati anche chi si spostava volontariamente o all’interno dei confini nazionali rappresentava un errore di interpretazione François Gemenne (2011). Why numbers don’t add up: A review of estimates and predictions of people displaced by climate change. Global Environmental Change. 21, p. 42.. L’allarmismo suscitato da questi primi numeri fu rinforzato in seguito dagli studi di scienziati appartenenti a due filoni distinti. Da un lato, coloro che, sulla scia della popolarità acquisita dall’ambientalismo nel corso degli anni Settanta, evocavano lo spettro di milioni di rifugiati ambientali nei decenni a venire per sollecitare sforzi più convinti e politiche più rispettose dell’ambiente Ad esempio Jodi Jacobson (1988). Environmental refugees: A yardstick of habitability. Washington D.C.: World Watch Institute, cit. in James Morrissey (2009). Environmental change and forced migration: A state of the art review. Oxford Refugee Centre. Oxford, p. 8. – e quindi “securitizzando” il cambiamento climatico. Dall’altro, i neo-malthusiani che attribuivano il fenomeno dei rifugiati ambientali alla combinazione tra degrado ambientale, crescita demografica e scarsità delle risorse. Tra questi, Westing collegava le percentuali crescenti di IDP e di rifugiati ambientali – 15 milioni tra il 1986 e il 1992 Arthur H. Westing (1992). Environmental refugees: a growing category of displaced persons. Environmental Conservation 19 (3), 201–207. - alla capacità dell’ambiente di sopportare il peso demografico, mentre Myers, autore di un corpus notevole di opere dedicate all’argomento, si spingeva già nel 1995 a calcolarne 25 milioni e a predirne addirittura 200 milioni entro il 2050 Suddivisi regionalmente in 5 milioni nel Sahel, 7 nella parte restante dell’Africa, 6 milioni nella Cina, 2 per il Messico ed 1 milione di sfollati a causa di lavori pubblici. In Norman Myers (2002). Environmental refugees: a growing phenomenon of the 21st century, op.cit.. Anche in questo caso, l’analisi peccava per l’assenza di metodi rigorosi e di un’opportuna distinzione tra i diversi driver che conducono alla migrazione François Gemenne (2011). Why numbers don’t add up: A review of estimates and predictions of people displaced by climate change, op. cit., p. 43.. La corrente di autori che ipotizzano cifre così elevate è stata denominata “massimalista” Astri Suhrke (1994). Environmental degradation and population flows. Journal of International Affairs 47(2): 473-496, cit. in James Morrissey (2012). Rethinking the “debate on environmental refugees”: From “maximalists and minimalists” to “proponents and critics”. Journal of Political Ecology. Vol. 19, p. 37., in opposizione invece a chi ha tentato di ridimensionare il fenomeno e di ricondurlo entro la cornice di un’analisi più prudente. I “minimalisti” - tra cui anche lo scrivente - ritengono che la categoria sia stata allargata senza tener conto delle molteplici sfumature che riguardano le migrazioni: il loro è un appello ad una metodologia più limpida, che delinei i confini tra migrazioni volontarie / forzate, temporanee / permanenti, causate da disastri improvvisi o da eventi più graduali. I critici dell’uso inflazionato dell’espressione “rifugiati ambientali” considerano pericoloso il collegamento tra i due termini, in quanto la scelta del fattore ambientale come elemento chiave dello sfollamento potrebbe minimizzare le ragioni alla base della concessione dello status di rifugiato Come ribadito da Richard Black (2001). Environmental refugees: myth or reality? Working Paper no. 34. Geneva: United Nations High Commissioner for Refugees; Susan Martin (2010). Climate change and International Migration. Background paper WMR 201, 5; Luc Legoux (2010). Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe. Revue Tiers Monde. 4. n.204. 55-67.. In generale, quasi tutti in letteratura ammoniscono sulla necessità di distinguere i migranti ambientali e/o climatici dai rifugiati veri e propri e di cercare dunque delle soluzioni appropriate per garantirgli protezione internazionale. Una menzione meritano pure gli intellettuali riconducibili al filone più critico e radicale Steve Lonergan (1998). The Role of Environmental Degradation in Population Displacement. Environmental Change and Security Project Report. Issue 4, p. 12., secondo cui anche i discorsi sulle migrazioni ambientali sarebbero delle costruzioni narrative per mascherare criticità ben più gravi dovute a problemi di natura economica, sociale, politica e istituzionale. Secondo questo ragionamento, la variabile ambientale sarebbe stata sovrastimata, a discapito della povertà e della carenza delle risorse: il che, chiaramente, chiamerebbe in causa anche delle responsabilità precise dell’idea di economia dello sviluppo concepita dagli occidentali. Ignorare i fattori strutturali converrebbe a questi Stati, la cui retorica post-colonialista accusa soltanto gli abitanti del Terzo Mondo dei propri mali e tende più securitizzare il problema delle migrazioni che a concentrarsi sulle ragioni sociali e politiche del degrado ambientale Betsy Hartmann (2010). Rethinking climate refugees and climate conflict: rhetoric, reality and the politics of policy discourse. Journal of International Development. 22, p. 234.. Una delle ricerche più acute pubblicate di recente ripropone il nesso tra cambiamento climatico e crescita demografica, riscontrando una coincidenza spaziale tra le zone più colpite e indagando il legame con i flussi migratori. Allo stesso tempo, però, l’autore sottolinea quanto la povertà di queste aree sia una variabile cruciale nel determinarne la fragilità e la minore capacità di resilienza Graeme Hugo (2011). Future demographic change and its interaction with migration and climate change. Global Environmental Change. 21, p. 31.. Ad ogni modo, sarebbe probabilmente ingenuo ignorare che in almeno alcuni casi registrati negli ultimi anni la componente ambientale e/o climatica abbia avuto o possa avere in futuro un peso inevitabile sulle scelte migratorie, come accade nei microstati insulari a rischio sommersione per via dell’innalzamento del livello del mare. Quest’insieme di teorie, ricerche e numeri si è rivelato poco utile al fine di calcolare un numero preciso di migranti ambientali, e forse potrebbe sollevare lo scetticismo di qualcuno in merito al nesso tra popolazioni in movimento e cambiamento climatico. Ebbene, ciò dimostra quanto ogni tentativo di previsione sia complicato dalle interazioni multiple che sono in gioco e che determinano vari esiti a seconda dell’evento ambientale, del contesto geografico in cui esso avviene, delle condizioni politiche, economiche e sociali che fanno da sfondo e della volontà umana di migrare. Il riconoscimento di una molteplicità di scenari potenziali Tesi sostenuta sia in IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op cit.., pp. 23-24, sia in Foresight (2011). Migration and Global Environment Change, op.cit., p.9. di certo non equivale ad una negazione del nesso, ma anzi lo rafforza, nella misura in cui si accetta che gli schemi migratori associati ai cambiamenti ambientali o climatici, nel breve e nel lungo termine, generano effetti mutevoli. Ciò che invece può essere messa in dubbio è la valenza analitica della lettura delle migrazioni climatiche attraverso le lenti della teoria della securitizzazione. Di grande efficacia, quindi, risulta la mappa concettuale (fig.1) realizzata per un numero monografico di International Migration del 2011 Fabien Renaud et al. (2011). A Decision Framework for Environmentally Induced Migration. International Migration. Vol. 49. 5-29. e ripresa poi da un rapporto del Parlamento Europeo European Parliament (2011). ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration. Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs. Brussels, p. 31., a sottolineare le difficoltà della questione. Questo schema analitico risulta di grande utilità per indagare la differenza tra migranti volontari e migranti costretti a spostarsi dalle zone colpite da disastri ambientali. Per quanto sfumata, la linea di demarcazione non può non essere tenuta in considerazione per fornire risposte giuridiche opportune alla fattispecie in esame. Fig.2 Framework decisionale per la migrazione indotta dall’ambiente (Renaud et.al. 2011) “Migranti climatici”, non “rifugiati” Da un punto di vista rigorosamente giuridico, non esiste nessuno strumento che si rivolga agli individui costretti ad emigrare, attraversando il confine statale, per via delle conseguenze di disastri ambientali e/o del cambiamento climatico. Nel caso in cui il movimento si verificasse all’interno del paese di appartenenza, gli individui in questione rientrerebbero nella categoria di Internal Displaced People, godendo di fatto della protezione stabilita dai Guiding Principles on Internal Displacements del 1998 Jane McAdam (2012). Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., pp. 250-252.. Se invece il movimento implicasse l’attraversamento del confine, allora si potrebbe parlare di “rifugiati” solo ed esclusivamente se, oltre alla ratio ambientale e climatica alla base dell’emigrazione, vi fosse anche uno degli elementi chiave della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo aggiuntivo del 1967. Lo status di rifugiato viene riconosciuto a: “Chiunque nel giustificato timore d'essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi” United Nations (1951). Convention relating to the Status of Refugees (adopted 28 July 1951, entered into force 22 April 1954) 189 UNTS 137, Art 1A(2), read in conjunction with Protocol relating to the Status of Refugees (adopted 31 January 1967, entered into force 4 October 1967) 606 UNTS 267 (together ‘Refugee Convention’).. Il criterio della “persecuzione”, nucleo centrale della Convenzione e soglia oltre la quale può essere garantito lo status, non può essere applicato e collegato alle conseguenze del cambiamento climatico. Si sono aperti proficui dibattiti, sia in dottrina, sia in sede giurisprudenziale, ma la conclusione generale nega che questi strumenti possano valere anche per i migranti ambientali. Ciononostante, si ritiene che la normativa esistente possa essere d’ispirazione per concepire dei provvedimenti idonei ad una forma di protezione specifica per questa categoria. L’elemento della persecuzione non può essere riscontrato negli spostamenti dovuti a cause climatiche o ambientali per una serie di ragioni. Prima di tutto, come si è visto anche analizzando lo stato dell’arte, tali migrazioni si svolgono secondo modalità così eterogenee da non poter identificare una fattispecie precisa. Partendo dal presupposto che esistono almeno tre livelli di analisi da cui interpretare le migrazioni (livello macro, che individua la causa in fattori strutturali; meso, che indica invece legami sociali, familiari, etnici o tribali; e micro, secondo cui la ragione va ricercata nelle caratteristiche personali e nelle risorse a disposizione Quel senso di agency individuale che rende necessario studiare le migrazioni ambientali adottando prospettive multiscalare e strumenti qualitativi, oltre che quantitativi. Cfr. James Morrissey (2014). Environmental Change and Human Migration in Sub-Saharian Africa, op.cit., p. 105.), eventualmente si potrebbe parlare di una persecuzione solo nel caso di migrazioni forzate a livello macro. Ma come comportarsi dinanzi alle scelte volontarie ? E quanto è volontaria la decisione di migrare ? In questa situazione, il nodo gordiano è costituito dalla tipologia dell’evento naturale: si può sicuramente affermare che una catastrofe improvvisa (inondazioni, uragani, tsunami e, in misura minore, siccità) rappresenti una costrizione più stringente rispetto ad un cambiamento più lento e graduale (desertificazione, innalzamento del livello dei mari, salinizzazione delle acque). Da cui la considerazione che il timore percepito di un futuro e potenziale peggioramento delle condizioni di vita provocato dal degrado ambientale non può essere equiparato alla paura che si materializza di fronte alla minaccia imminente ed evidente di una persecuzione politica Luc Legoux (2010).Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe, op.cit.,p.61. . Analogamente, la condizione di deprivazione economica vissuta al presente da milioni e milioni di persone non può essere considerata come motivo di persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra. Un’altra riflessione da porsi in proposito riguarda l’entità dei danni e delle privazioni che gli individui subiranno per via dell’evento in questione. L’eventualità di un futuro sfollamento per via di fenomeni ad insorgenza lenta è non solo difficilmente prevedibile, ma anche foriera di effetti che non possono essere quantificabili con assoluta certezza: la capacità di resilienza o di vulnerabilità delle popolazioni colpite potrebbe limitarne o acuirne la portata distruttiva. Ragion per cui, è inopportuno parlare di “rifugiato climatico” per chi teme oggi che un domani dovrà abbandonare la propria terra per i danni provocati dall’innalzamento delle temperature globali, per cui si prevedono scenari mutevoli. Del resto, in termini giuridici sarebbe scorretto qualificare come “persecuzione” anche il verificarsi di un cataclisma naturale che determini nell’immediato conseguenze urgenti e drammatiche per la vita umana. Più che altro, ci si potrebbe interrogare sul grado di coercizione a cui il migrante è sottoposto. In secondo luogo, il grado di costrizione va collegato inevitabilmente al tipo di evento in questione, che può essere a insorgenza lenta o improvvisa. In letteratura si ritiene che solo i disastri naturali più devastanti possano spingere i migranti a emigrare, vista l’impossibilità di continuare a vivere nel luogo d’origine Graeme Hugo (2009). Migration, development and environment. International Organization for Migration (IOM). Geneva.. Anche in questo caso bisogna evitare generalizzazioni, poiché la combinazione di eventi e luoghi diversi può determinare varie risposte. La coercizione, senza la persecuzione, non darebbe comunque diritto all’asilo politico, ma al massimo ad una forma di protezione complementare. Peraltro, alcuni studi dimostrano che nel caso di catastrofi improvvise la migrazione tende ad essere temporanea e a rivolgersi verso località vicine, in modo da favorire un ritorno a casa appena possibile – solo il 30% dei migranti si sposterebbe definitivamente Clionadh Raleigh et al. (2008). Assessing the impact of climate change on migration and conflict. World Bank, Washington, DC, p. 37.. Ciò andrebbe a configurare una situazione non proprio conforme alla richiesta di asilo politico e di emigrazione permanente da parte di rifugiati che non possono fare ritorno in patria. Tra l’altro, come si vede nella Figura 1 menzionata in precedenza, la distinzione tra volontarietà e coercizione andrebbe tratteggiata anche riferendosi alle capacità di resilienza, di adattamento e di ricostruzione post-disastro o di possibilità di alternative esistenti nel luogo colpito da un qualsiasi evento dannoso. Al fine di rinforzare queste capacità, il ruolo delle organizzazioni internazionali e delle ONG è di cruciale importanza: da cui la centralità dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (UN – OCHA), che potrebbe svolgere compiti più incisivi rispetto sia all’UNHCR che all’IOM Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 136., e delle linee guida fornite dalla Nansen Initiative The Nansen Initiative (2015). Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change, op.cit., pp. 7-9.. L’emigrazione trans-frontaliera di numerosi individui, non aventi altra scelta se non quella di abbandonare il proprio paese, risulta quindi uno scenario futuro al momento ancora remoto, e concepibile solo per particolari territori, come i microstati insulari del Pacifico. Mancano ancora ricerche approfondite e dati disaggregati affidabili sugli eventi slow-onset, ma al momento le rotte migratorie privilegiate restano soprattutto circolari e interne, come accade in Africa sub-sahariana Sara Vigil (2017). Climate Change and Migration: Insights from the Sahel, op.cit., p. 62. Per inquadrare al meglio i recenti movimenti migratori intra- ed extra- africani, si veda Hein De Haas, Marie Laurence Flahaux (2016). African Migration. Trends, Patterns, Drivers. Comparative Migration Studies. Vol.4. N.1, in cui viene sottolineato che l’emigrazione africana verso l’Europa non è affatto spinta da povertà e sottosviluppo, come la maggior parte dell’opinione pubblica ritiene.. Quindi, la domanda a cui bisognerebbe rispondere per arrivare a garantire lo status di rifugiato è chi sia il soggetto responsabile di una tale persecuzione e per quali motivi si sia mosso. La Convenzione del 1951 fu redatta quando erano ancora vividi i tragici ricordi della Seconda guerra mondiale, con l’obiettivo di proteggere, mediante la creazione di un’apposita agenzia (l’UNHCR), i rifugiati perseguitati per razza, religione, nazionalità o appartenenza ad un determinato gruppo sociale o politico Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 77. . Costoro dovevano essere protetti da uno Stato e per conto di un altro Stato, che avrebbe garantito loro il diritto d’asilo. L’impianto statocentrico è rimasto immutato, costituendo d’altronde il cardine tanto del diritto quanto della politica internazionale, nonché della normativa dedicata ai rifugiati Per qualche riferimento su un’interpretazione del diritto internazionale non statocentrica, su cui esiste una letteratura giuridica, politologica e internazionalistica estremamente corposa, si vedano come esempio Alexander Betts, Gil Loescher (ed.) (2011). Refugees in International Relations. Oxford University Press. Oxford e Luca Scuccimarra (2016). Proteggere l’umanità. Sovranità e diritti umani nell’epoca globale. Il Mulino. Bologna.. Il diritto d’asilo, dunque, viene concesso da uno Stato solo dopo l’attento esame della situazione particolare di un individuo che lo avoca ai sensi della normativa vigente. Gli Stati non hanno alcun obbligo assoluto di accoglienza, bensì di rispettare il divieto di non refoulement e di venire incontro al diritto di ogni individuo di cercare asilo politico in uno Stato terzo Luc Legoux (2010). Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe, op.cit.,p.57.. In base all’analisi della minaccia di persecuzione nello Stato di provenienza, lo Stato d’accoglienza potrà garantirgli l’asilo. Al momento, sembra veramente remota l’ipotesi che uno Stato equipari le drammatiche conseguenze di un disastro ambientale alla minaccia insita nelle forme di persecuzione menzionate nel 1951 e nel 1967. L’unica eccezione potrebbe riguardare il caso di una sovrapposizione tra persecuzione politica e catastrofe ambientale. Ad esempio, nel caso in cui un governo decidesse di attaccare deliberatamente un gruppo etnico o religioso tramite la privazione di risorse naturali o l’induzione di una carestia, ovvero il rifiuto o l’interruzione di soccorsi durante un grave disastro naturale. In questa fattispecie, si potrebbe fare ricorso anche alla Responsibility To Protect, come si è verificato in Myanmar nel 2008 in seguito ciclone Nargis e alla riluttanza della giunta di Rangoon di accettare aiuti della comunità internazionale Dorothea Hilhorst et. al. (2014). Human security and Natural Disasters. In: Martin, Mary, Owen, Taylor (a cura di). The Routledge Handbook of Human Security, op.cit., pp. 178-179. Citata come rimedio già esistente per gli IDP in IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op.cit., p. 391. Si veda anche Luca Scuccimarra (2016). Proteggere l’umanità, op.cit., pp. 103-109.. In situazioni più usuali, l’equivalenza tra rifugiati politici e climatici è invece improponibile. Ciò è spiegato anche dalla cauta posizione di chi ritiene che non bisognerebbe rimettere in discussione i traguardi raggiunti dalla normativa in materia di asilo politico, che al giorno d’oggi sono sottoposti ad una pressione asfissiante da parte della narrativa populista e sovranista. Realisticamente, nessuno Stato sarebbe disposto a modificare la Convenzione per includere gli “eco-profughi”, ma nemmeno le organizzazioni internazionali deputate alla protezione dei rifugiati accetterebbero una riforma simile, che rischia di annacquare il contenuto politico del diritto d’asilo e di ridurre le garanzie per le vittime di persecuzione. Se la protezione dei rifugiati è un «atto politico», quella dei migranti ambientali rientra nelle policy di «gestione internazionale delle popolazioni in un contesto di mancanza di spazi abitabili» Luc Legoux (2010). Les migrants climatiques et l’accueil des réfugiés en France et en Europe, op.cit.,p.67.. Il solco tra rifugiati politici e ambientali spiega l’atteggiamento tiepido dell’UNHCR riguardo agli strumenti di protezione, che devono essere trovati sulla base dei meccanismi internazionali esistenti e degli sforzi degli Stati per l’adattamento e la mitigazione di fronte ai cambiamenti climatici UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) (2009). Forced displacement in the context of climate change: challenges for States under international law. Paper submitted by the Office of the UNHCR in cooperation with the Norwegian Refugee Council, the Representative of the Secretary General on the Human Rights of Internally Displaced Persons and the United Nations University. Sixth Session of the Ad Hoc Working Group on Long-Term Cooperative Action under the Convention (AWG-LCA 6). Bonn. 1-12 June, p. 3. . Da cui il ruolo più adatto dell’IOM, rispetto alle altre organizzazioni internazionali, al fine di gestire le migrazioni transfrontaliere . Essa riconosce analogamente che il termine “rifugiato ambientale” non è corretto e ritiene più utile supportare le capacità dei singoli Stati di implementare le capacità di resilienza nel caso di disastri improvvisi IOM (2014). IOM Outlook on Migration, Environment and Climate Change. Geneva, p. 28., pur sottovalutando ancora, secondo i critici, la portata degli eventi slow-onset Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 99. . Tornando al discorso sull’inadeguatezza della norma sui rifugiati, un altro punto chiave, infine, riguarda la responsabilità morale e l’attribuzione di colpevolezza che nel caso del cambiamento climatico rappresenta una vexata quaestio su cui si continuerà a dibattere a lungo. Al contrario, è inopinabile che il diritto d’asilo per i rifugiati venga concesso come difesa contro le azioni persecutorie da parte dello Stato di provenienza del rifugiato politico. Non è questa la sede per indagare le questioni relative alla giustizia e all’etica climatica. Basti ricordare che esiste una responsabilità “comune, ma differenziata”, stabilita dall’art. 3 della Convenzione Quadro sul Clima del 1992 Marcello Di Paola (2015). Cambiamento climatico, op.cit., p. 67. Il 1992 fu anche l’anno della Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, che al Principio 7 stabilisce la “responsabilità comune ma differenziata” in materia di sviluppo sostenibile, in Giovanni Cordini, Paolo Fois, Sergio Marchisio (2008). Diritto ambientale: profili internazionali europei e comparati. Giappichelli. Torino, p.14, e Jean-Fédéric Morin, Amandine Orsini (2014). Essential Concepts of Global Environmental Governance. Routledge. London:New York, pp. 31-34., secondo cui il taglio delle emissioni di gas serra spetta in quantità maggiori ai paesi sviluppati, che dovranno impegnarsi anche nel supporto finanziario a quelli in via di sviluppo – come ribadito anche dalla COP21 di Parigi. Seppur si volessero attribuire colpe un po’ più specifiche – ai paesi storicamente più emettitori, alle multinazionali etc. - sarebbe comunque impossibile prevedere esattamente l’entità dei danni indotti in futuro, il momento in cui si verificheranno, nonché le vittime intergenerazionali che saranno più colpite. Di conseguenza, non si può replicare lo schema giuridico applicabile alla fattispecie dei rifugiati politici, per la quale risulta più agevole identificare chi compie la persecuzione. In alcuni Stati come Kiribati e Tuvalu, che patiranno le conseguenze del cambiamento climatico, l’etichetta di “rifugiati” è stata considerata quasi offensiva, poiché implicherebbe una condanna del governo del paese e stigmatizzerebbe gli individui come vittime passive. Nel loro caso particolare, gli abitanti fuggirebbero per la perdita dell’isola, che rischia di essere sommersa per l’innalzamento del livello delle acque marine. Ma il discorso è analogo per i migranti ambientali da qualsivoglia altro paese (Bangladesh, Ghana, Marocco etc.), i cui governi non possono di certo essere accusati di “persecuzione”. I possibili strumenti di protezione giuridica Com’è stato ampiamente specificato nel capitolo precedente, non sarebbe giuridicamente appropriato né politicamente fattibile e desiderabile considerar i migranti ambientali alla stregua di “rifugiati” aventi diritto all’asilo politico in base alle Convenzione di Ginevra del 1951 e al Protocollo Aggiuntivo del 1967. È interessante notare che già dal 1969 la “Convenzione per governare specifici aspetti del problema dei rifugiati in Africa” dell’OAU estendeva il termine rifugiato anche a coloro che erano costretti a lasciare il loro paese di residenza abituale per eventi «di serio disturbo per l’ordine pubblico» OAU (Organisation for African Union) (1969). Convention Governing the Specific Aspects of the Refugee Problem in Africa. . Probabilmente la scelta va letta alla luce delle gravi vulnerabilità economiche e sociali che, allora come oggi, affliggono il continente africano e lo rendono più esposto alle conseguenze negative del cambiamento climatico e ambientale. Infatti, nel 2009 l’Unione Africana ha menzionato i profughi ambientali trans-frontalieri nella Convenzione per la protezione e l’assistenza degli IDP in Africa, firmata a Kampala ed entrata in forze nel 2012 Unione Africana (UA) (2009). African Union Convention for the Protection and Assistance of Internally Displaced Persons in Africa. . La decisione è per certi versi molto progressista e rappresenta un passo in avanti nella ricerca di una protezione adeguata per i migranti ambientali, vista l’impossibilità di allargare i soggetti che possono chiedere asilo politico. Essa rende vincolanti i Guiding Principles del 1998 e manifesta la volontà di cercare soluzioni condivise per gli sfollati all’interno di una cornice normativa e politica continentale. Eppure, il buon esempio non è stato replicato dall’Unione Europea, a cui verrà dedicato questo capitolo, facendo particolare attenzione alle politiche elaborate in sede comunitaria e a livello nazionale. Come si legge in uno studio del 2011, realizzato per la commissione “libertà civili, giustizia e affari interni” del Parlamento Europeo, il cambiamento climatico influirà negativamente sulla pressione migratoria, sotto forma sia di eventi improvvisi sia di quelli a insorgenza lenta, nonostante i legami siano empiricamente difficili da rintracciare European Parliament (2011). ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration. Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs. Brussels, pp. 10-11.. Partendo da questa premessa, viene riconosciuta l’assenza di meccanismi di protezione specifici per i migranti ambientali, ma allo stesso tempo si sottolinea che tanto l’estensione degli scopi della Convenzione di Ginevra del 1951, quanto l’allargamento dei Guiding Principles del 1998 non rappresentano scenari realisticamente percorribili. Riguardo agli IDP, poi, gli autori chiariscono che ci sono a loro volta delle falle nel sistema di protezione internazionale, basato su linee guida programmatiche che dovrebbero essere incorporate nel sistema legislativo di ogni Stato Ivi, p. 43.. Per tali motivi, nel documento vengono analizzati tre modi per alternativi per rispondere alla sfida Ivi, pp. 43-47.: la creazione di un framework normativo disegnato su misura per la migrazione ambientale o climatica. Già il Consiglio d’Europa aveva azzardato una proposta simile nel 2008, ma il progetto più onnicomprensivo è quello di una convenzione internazionale sullo sfollamento ambientale, abbozzata dall’Università di Limoges e giunta ormai ad una terza versione nel 2013 CRIDEAU, CRDP (2013). Draft Convention on the International Status of Environmentally-Displaced Persons. Faculty of Law and Economic Science. University of Limoges.. La bozza fornisce definizioni accurate di “gradual” e “sudden disaster”; include i migranti trans-frontalieri e stabilisce il principio di non-refoulement (art.8) Suggerito, con la consapevolezza delle difficoltà del caso, anche da Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 133.; si attiene ai principi di solidarietà, responsabilità comuni ma differenziate, di protezione effettiva (evocando il ruolo della World Agency for Environmental Protection) e del consenso necessario del migrante per effettuare lo sfollamento. Soprattutto, la Convenzione garantirebbe una serie molto ampia di diritti ai migranti, tra cui: assistenza, acqua, cibo, cure mediche, personalità giuridica, diritti civili e politici, alloggio, lavoro, cura e trasporto degli animali domestici e infine il diritto a ritornare in patria o a rifiutare il ritorno. Si tratta pertanto di un programma ambizioso, che in questo momento storico e politico supera di gran lunga le possibilità realisticamente raggiungibili dai policy-maker. L’aggiunta di un Protocollo specifico sulle migrazioni climatiche alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC). Come sostenuto da alcuni autori Frank Biermann, Ingrid Boas (2010). Preparing for a warmer world. Towards a global governance system to protect climate refugees. Global Environmental Politics. Vol. 10. 60-88., si tratterebbe di un regime di protezione sui generis basato su: ricollocamento pianificato in via preventiva, per evitare di trovarsi impreparati dinanzi agli eventi e col presupposto che i migranti non avranno la possibilità di ritornare a casa; riconoscimento internazionale di diritti collettivi (e non individuali, come per i rifugiati) per le popolazioni locali che saranno più colpite dai disastri; responsabilità comuni ma differenziate, riconoscendo il compito più gravoso dei paesi industrializzati di supportare gli Stati fragili. Nonostante l’ambizione meno elevata di queste proposte rispetto a chi immagina una Convenzione internazionale apposita, anche in questo caso sembra che le misure suggerite siano poco praticabili al giorno d’oggi, così come pare altrettanto velleitario ipotizzare la creazione di un’apposita agenzia che si occupi in modo specifico di migrazioni ambientali Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 113.. A livello internazionale, sarebbe forse più percorribile proporre meccanismi di soft law modellati sull’esempio dei Guiding Principles per gli IDP del 1998, cercando di calibrare la risposta in base alle esigenze specifiche del caso – disastro naturale, ambientale, a insorgenza lenta, più o meno antropogenico – e prendendo esempio dai provvedimenti più progressisti di alcuni Stati IOM (2014). IOM Outlook on Migration, Environment and Climate Change, op.cit., pp. 31-33.. La terza opzione, più plausibile delle altre, concerne l’utilizzo di varie forme di strumenti di protezione temporanea, a cui ricorrere con la finalità di dare rifugio agli sfollati ambientali. In questa ipotesi rientrano anche le soluzioni elaborate in seno alle istituzioni comunitarie, che a breve verranno analizzare nello specifico. Un altro esempio significativo viene dagli Stati Uniti, in cui lo United States Immigration Act del 1990 prevede lo status di protezione temporanea in circostanze come siccità, inondazioni, epidemie o terremoti, se lo Stato d’origine non può assicurare il ritorno a condizioni di vita sicure per i cittadini. Lo status dura dai 6 ai 18 mesi e si applica solo agli individui già presenti negli USA durante il periodo del disastro, ma può essere concesso soltanto dopo che l’Attorney General designa il paese d’origine Jane McAdam (2012). Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., p. 100., in base alla possibilità che si verifichino calamità ambientali. Il meccanismo potrebbe, in teoria, essere esteso anche a coloro che fuggono da disastri a insorgenza lenta; eppure, in quel caso sarebbe più contorto individuare il nesso causale alla base della richiesta di assistenza, nonostante ci siano autori che reclamano meccanismi di protezione adatti a tutti e declinati a seconda dell’evento e delle diverse fasi (multitrack), visto che non ci sarebbe differenza tra disastri lenti o improvvisi quando si parla di sicurezza umana Vikram Kolmannskog, Lisetta Trebbi (2010). Climate change, natural disasters and displacement: a multi-track approach to filling the protection gaps. International Review of the Red Cross (IRRC). Vol. 92. N.879. September. . Ad ogni modo, stante la quasi impossibilità di applicare la Convenzione di Ginevra alla fattispecie di migrante ambientale, le forme di protezione sussidiaria menzionate fin qui vengono reputate da alcuni esperti come le più adeguate a colmare il gap in materia. Di fatto, essa potrebbe essere garantita sulla scorta del diritto internazionale dei diritti umani, che prevede la concessione di protezione temporanea, unita a standard minimi di trattamento, in caso di violazione grave proprio dei diritti umani, anche in seguito alle conseguenze più acute del cambiamento ambientale e climatico Ivi, p. 52. Si veda anche Stephen Humphreys (ed.) (2010). Human Rights and Climate Change. Cambridge University Press. Cambridge.. 5.1) Le risposte dell’UE e degli Stati membri A livello europeo si è molto discusso nel corso degli ultimi dieci anni sulla questione, esprimendo timore per i possibili arrivi di cospicui flussi migratori. La prospettiva securitaria ha contribuito ad alimentare un’interpretazione poco favorevole ai migranti, sia da un punto di vista metodologico, sia per quanto riguarda le possibili soluzioni. Ci si è soffermanti fin troppo sul nesso, non sempre scontato, tra migrazione, sicurezza e sviluppo, puntando sugli aiuti economici in loco e preferendo agire all’esterno invece che all’interno del continente Margit Ammer et al. (2014). Time to Act. How the EU can lead on climate change and migration. Heinrich Böll Stiftung – European Union. Brussels. June, p. 20 e 27; Enza Roberta Petrillo (2015). Environmental Migrations from Conflict-Affected Countries: Focus on EU policy response. The Hague Institute for Global Justice. Working Paper 6. March, p. 9.. In termini giuridici, il diritto comunitario presenta una cornice giudicata poco soddisfacente e ancora lacunosa riguardo alle migrazioni ambientali, sebbene l’UE detenga una leadership indiscutibile nella lotta al cambiamento climatico Rüdiger K. W. Wurzel, James Connelly (2011). The European Union as a Leader in International Climate Change Politics. Routledge. New York.. Le politiche migratorie restano competenza degli Stati sovrani, mai come ora così restii ad accogliere stranieri. Esistono, comunque, due strumenti principali che potrebbero fornire una cornice per le migrazioni ambientali e climatiche: la Temporary Protection Directive (TPS) e la Qualification Directive, che concede l’asilo in base a determinate condizioni. La TPS Council of the European Union (2001). Directive 2001/55/EC of 20 July 2001 on minimum standards for living temporary protection in the event of a mass influx of displaced persons and on measures promoting a balance of efforts between Member States in receiving such persons and bearing the consequences thereof. OJ L 212. Brussels. fu designata come un meccanismo da innescare solo negli stati d’eccezione, come flussi ingenti di migranti che fuggono da conflitti armati, violenza endemica o violazioni generalizzate dei diritti umani. La redistribuzione dei migranti sarebbe dovuta avvenire promuovendo sforzi equilibrati tra gli Stati membri. Peraltro, l’art.2(C) contiene una lista non esaustiva, per la quale coloro che richiedono la protezione non devono necessariamente rientrare tra gli scopi previsti dalla normativa sui rifugiati, ma da altri strumenti di protezione nazionali o internazionali. Esiste dunque la possibilità che queste disposizioni vengano interpretate in modo non restrittivo, includendo eventualmente anche i profili di chi è stato indotto a emigrare per via dei disastri ambientali o climatici European Parliament (2011). ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration. Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs. Brussels, p. 54.. Tuttavia, l’evidente assenza della volontà politica di implementare la direttiva – che prevede la proposta della Commissione e l’approvazione a maggioranza qualificata del Consiglio - rende oltremodo velleitario pensare ad un aggiustamento in corso. Di fatto, essa non è stata mai applicata neppure per i profili individuati nell’art.2(C), essendo un provvedimento da applicare in via emergenziale che fu concepito in seguito all’esodo di migranti causato dalle guerre balcaniche. Tale natura eccezionale non è stata neppure riconosciuta dopo le Primavere arabe del 2011 per i flussi provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo. Ciò fa dunque credere che sarebbe opportuno ricorrere a meccanismi di protezione sussidiaria più flessibili, magari elaborati su base nazionale, seguendo l’esempio virtuoso di alcuni paesi, che saranno discussi a breve. Oltre alla TPS, l’UE dispone anche di un meccanismo d’asilo che potrebbe essere adattato alle esigenze specifiche dei migranti ambientali, cioè la Qualification Directive del 2004, poi modificata nel 2011. Essa ha lo scopo di fornire standard minimi di protezione a cittadini di stati terzi (Third Country Nationals), ad apolidi, a rifugiati o ad altri individui richiedenti protezione internazionale Council of the European Union, European Parliament (2011). Directive 2011/95/EU of the European Parliament and of the Council of 13 December 2011 on standards for the qualification of third-country nationals or stateless persons as beneficiaries of international protection, for a uniform status for refugees or for persons eligible for subsidiary protection, and for the content of the protection granted (recast). OJ L 337/9. Brussels.. La finalità iniziale risiedeva nell’armonizzazione dei differenti parametri legislativi degli Stati membri in materia di diritto d’asilo. Analizzandone l’eventuale applicazione per le migrazioni trans-frontaliere, occorre menzionare in primis che l’art.8 prevede che la protezione sussidiaria possa essere garantita soltanto se nel paese d’origine non esiste alcuna internal flight alternative, cioè una zona in cui possa trovare un rifugio sicuro, al riparo «dal timore di essere perseguitato, da rischi reali e da gravi danni» European Parliament (2011). ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration. Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs. Brussels, p 51.. Nella circostanza in cui l’intero paese non rappresentasse un luogo sicuro, la QD potrebbe allora essere applicata. Ci si domanda, quindi, se la regola possa valere anche nel caso di migrazioni indotte da disastri naturali. Il nodo gordiano va ricercato nell’art.15 e nella definizione di «danno grave» (serious harm), che comprende: pena di morte o esecuzione; tortura, trattamento disumano o degradante, punizione; minaccia grave individuale alla vita civile della persona a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. Apparentemente, sembra palese che nessuna delle fattispecie possa comprendere l’oggetto del nostro dibattito. Peraltro, un commento finale alla disposizione, poi cancellato dalla versione definitiva del testo, chiariva che la parola «trattamenti» doveva essere collegata solo ad azioni compiute dall’uomo e non a disastri naturali o a situazioni come le carestie Jane McAdam (2012). Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., p. 104.. L’assenza di riferimenti non esclude, comunque, che a livello potenziale qualsiasi altra violazione dei diritti umani possa essere compresa nell’art.15(b) e considerata alla stregua di «trattamento disumano o degradante». Il dibattito non è stato preso seriamente in considerazione, per via dei risvolti politici e sociali che un’interpretazione del genere avrebbe. Di fatto, l’allargamento di significato degli aggettivi «disumano e degradante» avrebbe l’effetto, giudicato controproducente, di includere la povertà e l’indigenza economica tra gli aspetti per cui un migrante potrebbe chiedere tali forme di protezione. Se è vero che ci sono state alcune sentenze più orientate verso tale direzione, la giurisprudenza europea è tuttavia ancora tiepida nell’esprimersi positivamente a favore dell’equiparazione tra la fattispecie dell’art.15(b) e le privazioni dovute alle migrazioni ambientali. La chiave di una lettura più estensiva andrebbe ricercata nella violazione dell’art.3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR) Ivi, pp. 65-68, in cui si discute della sentenza D v United Kingdom e della posizione da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che si espresse a favore di un’interpretazione più flessibile dell’’art. 3 dell’ECHR. L’autrice tuttavia non ritiene che la sentenza possa essere un esempio valido., ma questa potrebbe essere causata solo se lo Stato di provenienza sottraesse al migrante qualsiasi supporto socio-economico, ad esempio tagliando le risorse naturali necessarie al suo sostentamento Ivi, p. 71.. Essenziali, dunque, sono il ruolo e la responsabilità da parte dello Stato. Una sentenza interpretata come possibile dimostrazione di come la protezione sussidiaria possa essere garantita su basi umanitarie è Budayeva v Russia del 2009, menzionata da chi sostiene che gli Stati del Nord del mondo dovrebbero impegnarsi maggiormente per la protezione dei migranti ambientali e climatici Vikram Kolmannskog (2009). Climate change-related displacement and the European response. Paper presented at SID Vijverberg Session on Climate Change and Migration.The Hague.20 January, pp.2-4.. In questa circostanza, rifacendosi all’art.2 della ECHR sul «diritto alla vita», la CEDU ha stabilito che il dovere dello Stato di proteggere la vita dei cittadini comprende pure la protezione dai disastri ambientali quando il rischio è conosciuto in precedenza. Torna la centralità dell’azione / dell’omissione volontaria da parte dello Stato, che fallirebbe nella protezione se non implementasse opportuni sistemi di early warning e di prevenzione. Ma la CEDU riconosce nel contempo che l’onere posto nei confronti dello Stato pesa soprattutto nei casi di disastri ambientali provocati dall’uomo, dandogli molta discrezione riguardo a quelli potenzialmente causati dal cambiamento climatico Jane McAdam (2012). Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., pp. 58-60.. L’impianto giuridico dell’UE è stato sottoposto a diverse critiche da parte di chi sottolinea che la vera minaccia di «trattamento disumano o degradante» è insita nel ritorno forzato del migrante nel suo paese d’origine nel caso in cui questo fosse invivibile per motivazioni legate all’ambiente. Da cui le perplessità verso la posizione della Commissione Europea del 2013, che avrebbe minimizzato il concetto di «danno grave» e sottovalutato completamente gli effetti deleteri degli eventi a insorgenza lenta, che possono essere causa di migrazioni forzate European Commission (2013). Commission Staff Working Document (CSWD): Climate change, environmental degradation, and migration, accompanying the document ‘Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions’. SWD(2013) 138 final. Brussels, criticato in Margit Ammer et al. (2014). Time to Act. How the EU can lead on climate change and migration, op.cit., p. 30.. Per quanto riguarda gli Stati membri, esistono degli esempi un po’ più virtuosi, i cui parametri normativi potrebbero essere considerati come delle best practices da imitare anche in altri contesti nazionali. Ad esempio, vengono citate spesso Svezia e Finlandia Emily Hush (2017).Developing a European Model of International Protection for Environmentally-Displaced Persons: Lessons from Finland and Sweden. Columbia Law School. September., le quali, in linea con il tradizionale progressismo scandinavo, sembrano offrire meccanismi di protezione più avanzati. Il diritto d’asilo svedese (Swedish Aliens Act 2005/716) contiene una norma che offre una «protezione alternativa» (che però non rientra più tra le forme di protezione sussidiaria dopo una modifica del 2016) alle persone che sono impossibilitate a far ritorno in patria a causa di un «disastro ambientale». Ciò significa che gli individui e le loro famiglie potevano fare richiesta per un permesso di soggiorno, ma soltanto in situazioni catastrofiche alla Chernobyl, evitando quindi di menzionare gli effetti dei cambiamenti climatici a insorgenza lenta. Analogamente, il diritto d’asilo finlandese (Finnish Aliens Act 2004/301) concede la protezione sussidiaria a chiunque rischi, in caso di ritorno nel paese di provenienza, di essere sottoposto ad un danno grave, di cui i disastri ambientali non fanno parte. Un permesso di soggiorno «umanitario» può essere comunque garantito a chi non potrebbe ritornare per via di «catastrofi naturali o situazioni di sicurezza insufficiente dovute a conflitti armati interni o internazionali o a mancanza di diritti umani, come ribadito dalla sezione 109 dell’Atto, che prevede specificamente la protezione almeno temporanea per gli environmentally displaced persons e per chi non può rimpatriare per via di un conflitto. A differenza della Svezia, in Finlandia sembra che ci siano state meno limitazioni sulla definizione di “disastro naturale”, facendo sorgere delle speranze nell’inclusione concettuale anche delle vittime di eventi slow-onset. Malgrado tutto, entrambe le normative non sono ancora state sperimentate per una situazione di migrazione ambientale. L’emergenza migratoria del 2015, poi, ha condotto la Svezia a revocare per tre anni (2016-2019) il meccanismo di “protezione alternativa”, mentre la Finlandia ha lasciato in vita solo la sez. 109 dell’Atto e la possibilità di ottenere una protezione temporanea. In Italia, si sta cominciando a discutere di migrazioni ambientali e climatiche, non solo a livello mediatico ma anche in sede giurisprudenziale. Una coraggiosa sentenza del Tribunale di L’Aquila Tribunale di L’Aquila (2018). Ordinanza RG 1522/17. 18 Febbraio 2018. del 18 Febbraio 2018 riconosce il diritto di un cittadino del Bangladesh alla protezione umanitaria in quanto vittima di disastro ambientale che gli avrebbero fatto perdere il terreno agricolo, ossia le alluvioni, un evento catastrofico improvviso che rappresenta nel contempo anche un effetto graduale del cambiamento climatico Diversi studi hanno riscontato delle evidenze empiriche sull’innalzamento del livello del mare e sul pericolo crescente di inondazioni. Cfr. Jane McAdam (2012). Climate Change, Forced Migration and International Law, op.cit., pp. 161-185; Tanvin Ahmed Uddin (2013). Which Household Characteristics Help Mitigate the Effects of Extreme Weather Events? Evidence from the 1998 Floods in Bangladesh. In: Faist, Thomas, Schade, Jeanette (a cura di). Disentangling Migration and Climate Change. Methodologies, Political Discourses and Human Rights. Springer Publishing. Dordrecht, pp. 101-141.. Il giudice Roberta Papa ha sottolineato che i danni sono stati acuiti sia da tali cambiamenti sia dalla deforestazione forzata degli ultimi 40 anni e dalle pratiche di land grabbing, attribuendo quindi la fattispecie a chiare cause antropogeniche Peraltro, ella si è ispirata alla circolare del 30 luglio 2015 adottata dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo del ministero dell’Interno, che menziona le “gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi a un rimpatrio in dignità e sicurezza” tra le ragioni di concessione della protezione umanitaria. Ministero dell’Interno – Commissione Nazionale per il diritto dell’asilo (2015). Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Ipotesi in cui ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Circ. Prot. 00003716 del 30 luglio 2015.. La sentenza ha segnato un passo in avanti storico nel contesto italiano, evocando per la prima volta un caso di migrazione ambientale. Ciononostante, se n’è parlato solo tra gli esperti in materia e in pochi giornali che hanno interpretato l’episodio attraverso il framework della securitizzazione, usando una retorica allarmista. Questo è dunque il quadro europeo, caratterizzato da falle che potrebbero essere colmate solo in presenza di una forte e comune volontà politica di riforma degli strumenti giuridici adeguati. L’art.78 del TFEU, del resto, fornisce all’UE un mandato abbastanza ampio per emendarli e per sviluppare un sistema comune di asilo, di protezione sussidiaria e temporanea. Come si vedrà meglio nel capitolo dedicato alla sicurezza e nelle conclusioni, al momento i propositi di riforma in tal senso si sono arenati, a causa dell’ondata populista che ha affossato la modifica del regolamento di Dublino European Parliament (2016). The Reform of the Dublin III Regulation. Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs. Brussels.. La quale, a sua volta, non ha mai citato la parola “clima”, accostata ancora faticosamente alla questione migratoria. Più che concentrarsi sui rimedi per affrontare le migrazioni dirette verso l’Europa, l’approccio dominante continua ad essere incentrato sull’esternalizzazione dei controlli di sicurezza e delle politiche di cooperazione allo sviluppo, concepite per risolvere alla radice le criticità che spingono all’emigrazione extracontinentale. Ciò vale sia per le migrazioni economiche, sia per quelle indotte da disastri e cambiamenti ambientali. Oltre alle forme di protezione giuridica, lo studio realizzato per il Parlamento Europeo nel 2011 si sofferma infine sulla necessità di affrontare la questione in via preventiva, dal punto di vista economico, sociale e logistico. Da cui, la centralità della cooperazione internazionale e degli aiuti allo sviluppo per aumentare la resilienza delle zone più vulnerabili European Parliament (2011). ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration. Study requested by the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs. Brussels, pp. 47-49.. Anche per quanto riguarda questo punto ci sarà un approfondimento maggiore nel capitolo sulla sicurezza. Il Marocco come caso di studio nel Mediterraneo: flussi migratori climatici interni ed esterni Nel seguente capitolo verrà presentato un caso di studio che suscita molta preoccupazione per via del cambiamento climatico e delle migrazioni che ne potrebbero scaturire, ossia il Marocco. Nonostante l’assenza di studi empirici specifici condotti nell’ambito di questa ricerca, ancora ad uno stadio preliminare, verrà fatto ampio uso di approfondimenti sul campo che hanno indagato sui legami tra disastri naturali improvvisi ed eventi slow-onset e le migrazioni che dal Marocco si sono dirette verso l’Europa. Sebbene per parlare di migrazioni occorra sempre considerare tre livelli di analisi (macro, meso e micro) e non dimenticare quanto pesi l’agency individuale, si può affermare che fenomeni quali l’aumento delle temperature, la desertificazione e la siccità abbiamo inciso sulla volontà di alcuni gruppi marocchini, spingendoli a emigrare verso la sponda Nord del Mediterraneo. L’analisi è rilevante non tanto per la portata attuale di tali spostamenti – che sono sì ingenti, ma che chiaramente vanno ricondotti in primis a ragioni economiche -, quanto per i futuri sviluppi legati alla capacità dei marocchini di adattarsi o meno ai cambiamenti climatici, che sembrano inesorabili e drammatici. I flussi al momento non riguardano direttamente l’Italia, meno investita rispetto al passato dall’arrivo dei migranti marocchini; non si può comunque escludere che in futuro le coste italiane vengano privilegiate rispetto alle altre mete del Mediterraneo – principalmente spagnole e francesi. Osservando gli arrivi, si può notare infatti che fino all’ottobre del 2018 sono arrivati in Italia 337 marocchini, a fronte dei 5.612 in Spagna. Tuttavia, nel 2017 l’Italia ha superato la Spagna, seppur di poco (6.000 contro 5.500; altri 300 sono sbarcati in Grecia), mentre nel 2016 il divario è stato notevole (5.443 in Italia contro 674 in Spagna) Dati ottenuti da UNHCR (2016). Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2016; UNHCR (2017). Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2017; UNHCR (2018b). Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation.. Il Marocco è stato selezionato anche in quanto paese che sta vivendo un’interessante transizione migratoria, diventando gradualmente la meta di molti migranti dell’Africa sub-sahariana. Sia che venga scelto intenzionalmente, sia che si decida di rimanervi a causa dell’impossibilità di partire per l’Europa, il Marocco emerge come un insieme di esempi e di situazioni che testimoniano dell’eterogeneità dei flussi e della presenza della componente ambientale e climatica. Quest’ultima, come si vedrà, è presente in una misura anche maggiore in molti paesi del Sahel, epicentro delle maggiori vulnerabilità del pianeta, “ground zero” del cambiamento climatico Ammonimento di un funzionario ONU riportato in Sara Vigil (2017). Climate Change and Migration: Insights from the Sahel, op.cit., p. 53. e origine dei flussi che si muovono a fatica verso l’Europa. Proprio per questo motivo l’Unione Europea farebbe bene a tenere in considerazione la direttrice migratoria che conduce dalle zone più vulnerabili del Sahel alle coste del Nord Africa. Prima di focalizzare il discorso sul nesso tra migrazione e clima in Marocco, sia dia uno sguardo quindi alle cifre che riguardano tali flussi migratori in generale. Contrariamente a quanto molti cittadini europei percepiscono, lo stock di migranti internazionali africano (pari a circa 14,1 milioni di individui) è inferiore rispetto a quello asiatico (41 milioni), europeo (23,7 milioni) e latinoamericano (14,6 milioni). Sebbene il numero di migranti originari dall’Africa superi i 36,2 milioni, quasi due terzi di questa cifra è emigrata all’interno del continente, mentre circa 9 milioni di individui di origine africana sarebbero stati stimati in Europa al 2017 UN/DESA (United Nations Department of Economic and Social Affairs) (2017). The International Migration Report [Highlights]. New York: United Nations, pp. 9-11. . Le percezioni fuorvianti sono scaturite quasi sicuramente dai flussi di migranti, a tratti incontrollati, che si sono riversati dal 2014 al 2018 sulle coste europee del Mediterraneo UNHCR (2018b). Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation., soprattutto in Italia (640.308) e in Grecia (1,126 milioni, a causa del picco di 856.723 del 2015). La Spagna, che fino ad ora fronteggiava degli arrivi meno consistenti, si è trovata di recente a dover gestire sbarchi di un numero crescente di migranti - circa 43.418, più dei 40.180 sbarcati nei 4 anni precedenti. Tra questi, 11.110 sono arrivati dal Marocco, ossia il 18,4% del totale Ivi, nella sezione dedicata alla Spagna.. Questi numeri vanno uniti a quelli del passato, che testimoniano di quanto l’emigrazione marocchina verso vari paesi dell’Unione Europea sia sempre stata molto nutrita. Ad esempio, l’IOM ha calcolato, fino al 2015, lo stock di migranti tra il Marocco e l’Italia (circa 400.000), la Spagna (quasi 750.000) e la Francia (tra gli 800.000 e i 900.000) tra i primi 20 “corridoi” originatisi da paesi africani verso altre destinazioni intra- ed extra-continentali IOM (2018). Word Migration Report 2018. Geneva, p. 47.. Altre fonti forniscono dati (aggiornati al 2012) ugualmente significativi, stimando la popolazione di origine marocchina (quindi non solo i migranti, ma anche seconde e terze generazioni) in 487.000 per l’Italia, 672.000 per la Spagna, 363.000 per i Paesi Bassi, 298.000 per il Belgio e addirittura 1.147.000 per la Francia Hein de Haas (2014). Morocco: Setting the Stage for Becoming a Migration Transition Country? Migration Policy Institute Profile.. Pur rinviando ad altre opere monografiche gli approfondimenti specifici Moha Ennaji (2014). Muslim Moroccan Migrants in Europe. Transnational Migration in Its Multiplicity. Palgrave Macmillan. London. , si può comunque affermare con certezza che vi sia per l’Europa una posta in gioco strategica molto rilevante nella gestione dei flussi e nel raggiungimento della piena integrazione dei migranti marocchini o di origine marocchina. Anche in vista di ciò, osservare le dinamiche relative al cambiamento climatico e agli effetti deleteri in situ diventa un’esigenza non prorogabile. 6.1) Le vulnerabilità del Marocco I disastri ambientali naturali o causati dal cambiamento climatico sono caratteristiche piuttosto comuni a tutti i paesi dell’area MENA Dorte Verner (a cura di) (2012). Adaptation to a changing climate in the Arab countries. (Directions in development). Washington, DC: The World Bank. e a moltissime zone dell’Africa sub-sahariana. Nel corso della trattazione verranno citati alcuni esempi tratti dal Sahel occidentale, significativi poiché origine dei flussi diretti verso l’Europa e transitanti per il Marocco, ma non vi sarà spazio per altri casi di studio del mondo arabo-mediterraneo che pure meriterebbero attenzione. Di fatto, alcuni studi recenti ritengono che molti Stati saranno colpiti da aumento delle temperature medie, siccità, riduzione delle piogge, variabilità intensa delle temperature stagionali e innalzamento del livello delle acque del Mediterraneo: tutti fattori che influiranno negativamente sulla produzione agricola e sull’economia di paesi quali Algeria, Egitto, Yemen, Siria e Marocco Quentin Wodon et al. (2014). Climate Change, Extreme Weather Events, and Migration: Review of the Literature for Five Arab Countries. In: Laczko, Frank, Piguet, Étienne. People on the move in a Changing Climate. The Regional Impact of Environmental Change on Migration. Springer International Publishing. Dordrecht, pp. 111-134. Sugli effetti del cambiamento climatico nel Mediterraneo si veda anche Dania Abdul Malak et al. (2017). Adapting to Climate Change. An assessment of vulnerability and risks to human security in the Western Mediterranean Basin. Berlin. Springer, pp. 1-5.. Nelle zone desertiche del Nord Africa è stato osservato un trend verso un clima più secco e più caldo nel corso degli ultimi decenni, più pronunciato verso la Tunisia e l’Egitto che in Marocco. Infatti, la Banca Mondiale stima che la temperatura del Regno possa aumentare tra gli 1.1.e i 3.5 gradi entro il 2060 IOM (2016a). Assessing the Evidence. Migration, environment and climate change in Morocco. Geneva, p. 21.: cifre che, pur rappresentando un peggioramento significativo, si mantengono comunque al di sotto dei picchi previsti dall’IPCC – fino ai 6 gradi, entro la fine del secolo Isabelle Niang et al. (2014). Africa. In: Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part B: Regional Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Cambridge University Press. Cambridge. United Kingdom and New York, p. 1202.. Tuttavia, la diminuzione di precipitazioni che in futuro colpirà il Nord Africa (dal 10% al 20% entro il 2050) dovrebbe abbattersi con più intensità soprattutto in Marocco, durante i periodi invernali Janpeter Schilling et al. (2012). Climate change, vulnerability, and adaptation in North Africa with focus on Morocco. Agriculture, Ecosystems and Environment. 156, p. 14. . La riduzione delle piogge ha acuito i danni da siccità nel corso degli ultimi decenni e a pagarne le conseguenze sarebbero state circa 275.000 persone dal 1990 al 2014 Julian Tangermann, Mariam Traoré Chazalnoel (2016). Environmental migration in Morocco: Stocktaking, challenges and opportunities. MECC Policy Brief Series. 3(2), p. 2, lavorando su dati World Bank e EM-DAT del 2015.. Oltre ai periodi di siccità, alla graduale desertificazione, al deterioramento delle terre e allo stress idrico – su ciascuno dei quali bisognerebbe condurre specifici studi, indagandone il nesso con i flussi migratori-, il Maghreb e il Marocco in particolare saranno interessati anche da eventi naturali estremi ed improvvisi: si pensi alle inondazioni e alle tempeste Ibidem.. L’IOM riporta in aggiunta alcuni dati dell’IDMC, secondo i quali dal 2008 al 2014 ci sarebbero stati 22.271 sfollati interni a causa di disastri naturali. Nel 2014 le alluvioni avrebbero provocato almeno 32 morti e più di mille evacuati nelle provincie di Agadir-Ida-ou-Tanane e di Guelmim e altri 15 in diverse zone del paese, mentre gli uragani avrebbero colpito addirittura 117.000 persone, dimostrando l’aumento e il potenziale distruttivo degli eventi sudden-onset IOM (2016a). Assessing the Evidence, op.cit., p. 13.. Alluvioni ed uragani devono essere associati anche all’innalzamento delle acque marine, che secondo l’IPCC sarà pari a 0,1 entro il 2030 e a 0,17 entro il 2050 Ivi, p. 24.. Ciò condurrà alla graduale erosione delle coste e a minacciare l’80% della popolazione marocchina, che vive per lo più in agglomerati urbani localizzati lungo la costa Ivi, p. 28.. Osservando altri dati, si evince perché il paese è stato considerato come quello più sensibile agli effetti del cambiamento climatico e meno capace di elaborare strategie di adattamento, a causa sia della pressione demografica interna Dai quasi 35 milioni attuali, si stima che la popolazione supererà i 40 milioni entro il 2050. Si veda George Groenewold, Joop de Beer, Corina Huisman (2013). Population Scenarios and Policy Implications for Southern Mediterranean Countries, 2010-2050, MEDPRO Policy Papers. No. 5. March, p.18., sia dei livelli poco soddisfacenti di sviluppo economico e umano 123esimo posto nel ranking dell’ UNDP (United Nations Development Programme) (2018). Human Development Reports. Morocco. Human Development Indicators. , nonostante il miglioramento costante degli ultimi anni non lo renda affatto uno stato fragile. L’aumento delle temperature, l’aridità del clima, il deterioramento del suolo e l’esigua disponibilità di acqua, specialmente nelle zone rurali, avranno esiti catastrofici sull’agricoltura marocchina, che rappresenta circa il 17% del PIL nazionale e che potrebbe subire un calo della produttività pari al 30%, visto che su circa il 90% del suolo arabile le coltivazioni agricole dipendono da acqua piovana Janpeter Schilling et al. (2012). Climate change, vulnerability, and adaptation in North Africa with focus on Morocco, op.cit., p. 16 e 20.. Peraltro, si stima che l’erosione del suolo abbia già deteriorato il 75% dei terreni marocchini Ivi, p. 21., provocando ingenti danni soprattutto nelle oasi meridionali. Altri settori di rilievo dell’economia marocchina subiranno le conseguenze negative del cambiamento climatico, come la pesca, per via della salinizzazione delle acque, e la pastorizia. A proposito di quest’ultima attività si può cominciare a introdurre il discorso sulle migrazioni climatiche in Marocco, in relazione al dibattito in letteratura tra coloro Ivi, p. 23. che credono che le attività di transumanza saranno gravemente acuite - spingendo i pastori alla sedentarietà, ad un maggiore stress sulle risorse naturali e a più probabili conflitti - e chi invece ritiene che i movimenti tradizionali e circolari dei pastori possa costituire una strategia di adattamento valida per ovviare alle criticità ambientali Korbinian Freier, Finckh, Manfred Finckh, UweSchneider (2014). Adaptation to new climate by an old strategy? Modeling sedentary and mobile pastoralism in semi-arid Morocco. Land. 3, p. 936.. Si nota, pertanto, come nel caso di studio marocchino ritorni uno dei nodi principali che riguarda le migrazioni climatiche, relativamente alla validità degli spostamenti in loco come validi meccanismi di adattamento e di resilienza, riscontrati inoltre in molte indagini sul campo in Africa sub-sahariana Gunvar Jonsson (2010). The environmental factor in migration dynamics – a review of African case studies. International Migration Institute (IMI). Working Paper n. 21. . Tali soluzioni manifestano una natura soprattutto temporanea e circolare Sally E. Findley (1994). Does Drought Increase Migration? A Study of Migration from Rural Mali during the 1983–1985 Drought. International Migration Review . 28 (3). 539–53, ma potrebbero anche prevedere l’attraversamento dei confini, in virtù della porosità che è una cifra distintiva della fascia saheliana. Se, dunque, esiste già un minimo di evidenza empirica sulle migrazioni oltre confine al Sud del Sahara, caratterizzato anche da politiche regionali incoraggianti verso la mobilità transnazionale (es. il Protocollo dell’ECOWAS del 1979), mancano ancora dati in abbondanza sul Marocco, su cui urgono più ricerche IOM (2016a). Assessing the Evidence, op.cit., p. 30.. Ciò potrebbe far affermare che le vere migrazioni ambientali e climatiche di cui fino ad ora si potrebbe parlare nel contesto marocchino riguardano l’immigrazione dagli Stati del Sahel, più che l’emigrazione verso l’Europa. Al netto di queste considerazioni, non è opportuno comunque escludere che i migranti marocchini che si sono diretti e continuano a dirigersi verso l’Europa siano spinti anche dai problemi che sono stati elencati in precedenza, in primis siccità, carestie, degradazione e desertificazione del suolo. È su questi flussi che in futuro dovranno concentrarsi gli approfondimenti, facendo uso sia di metodi quantitativi che qualitativi e cercando di rintracciare possibili nessi tra la decisione di emigrare e una possibile forzatura legata all’ambiente o al clima. Con la premessa che ogni migrante è un “imprenditore di sé stesso”, che non agisce solo sulla base di eventuali costrizioni strutturali, e che le migrazioni possono anche avvenire all’interno del paese, dalle aree rurali verso quelle urbane. Su quest’ultimo aspetto al momento esistono delle conferme Ambika Chawla (2017). Climate-induced migration and instability. The role of city governments. OEF Research Discussion Paper, pp. 4-5.: l’urbanizzazione sregolata a sua volta potrebbe essere causa di criticità e danni ambientali, e subirne le peggiori conseguenze, in una relazione di mutuo svantaggio. Ma secondo alcuni, il trend problematico della crescita demografica eccessiva in Africa sub-sahariana si verificherà a prescindere dalla migrazione proveniente dalle campagne. Si stima che a partire dal 2030 la popolazione urbana pareggerà quella rurale – entrambe di poco al di sotto degli 800 milioni -, mentre entro il 2050 la componente urbana supererà gli 1.2 miliardi, a fronte di quella rurale che si stabilizzerà tra i 750 e gli 800 milioni (vedi fig.3) Susan Parnell, Ruwani Walawerge (2011). Sub-Saharian African urbanisation and global environmental change. Global Environmental Change. N.21, pp. 15-16.. In che modo il Marocco sta cercando di prevenire gli effetti più infausti del cambiamento climatico ? Esiste una ponderata strategia nazionale ? In linea di massima, la risposta è positiva, ma nelle politiche nazionali non viene mai menzionato il nesso tra i suddetti cambiamenti e le migrazioni Julian Tangermann, Mariam Traoré Chazalnoel (2016). Environmental migration in Morocco: Stocktaking, challenges and opportunities, op.cit., p. 4.. Esistono, invece, diversi strumenti che regolano separatamente le migrazioni e la prevenzione dei danni causati dal cambiamento climatico. Fig.3 Popolazione urbana e rurale in Africa dal 1950 al 2050 (Parnell, Walawerge, 2011, p.15) Per quanto riguarda il primo aspetto, dagli anni Novanta si è cercato progressivamente di liberalizzare le politiche migratorie, per favorire il consistente ritorno economico rappresentato dalla rimesse della diaspora marocchina. A questo proposito, di centrale importanza è stato il Mobility Partnership firmato con nove Stati membri dell’Unione Europea nel 2013, che, per quanto non vincolante, cerca comunque di regolamentare i flussi, facilitando il rilascio di visti per certe categorie della società marocchina (studenti, lavoratori) e il rimpatrio dei migranti non autorizzati. Un’altra politica del Regno che può essere menzionata è l’elaborazione della National Initiative for Human Development 2005-2010, che è orientata a ridurre la povertà. Pur cercando di combattere alla radice una delle cause delle migrazioni, anche in questo caso mancano dei riferimenti al cambiamento climatico e ai suoi effetti sulla società. Le criticità potrebbero farsi sentire tanto nelle aree rurali quanto in quelle urbane, considerando che l’urbanizzazione procede a ritmi molto rapidi – il 60,2% della popolazione vive in città IOM (2016a). Assessing the Evidence, op.cit., p. 37. . Analizzando nello specifico i provvedimenti rivolti a mitigare il cambiamento climatico, l’impegno del Marocco negli ultimi anni è stato lodevole, tanto da ospitare la 22esima Conferenza delle Parti a Marrakesh nel 2016. Già dal 2001 Rabat ha creato un Comitato Nazionale per il Cambiamento Climatico, dimostrando un’elevata sensibilità in materia. Al 2009 risalgono altri due strumenti chiave che auspicalmente consentiranno al paese di sviluppare una maggiore capacità di resilienza: il Piano Nazionale contro il Surriscaldamento Climatico (PNRC), per promuovere la ricerca e l’implementazione di risorse rinnovabili e per favorire una serie di misure di adattamento nel settore agricolo, nelle zone costiere e in tutte le aree del paese che saranno maggiormente colpite dalla scarsità di risorse idriche IOM (2016a). Assessing the Evidence, op.cit., p. 39. . I riferimenti alle migrazioni non sono del tutto assenti, nella misura in cui il PNRC menziona la necessità di programmare il ricollocamento delle persone colpite da disastri naturali acuiti dal cambiamento climatico, come le alluvioni. la Strategia Nazionale dell’Acqua (SNE), che ha previsto investimenti pari a 7.5 miliardi di euro fino al 2030 per fare in modo che il paese supplisca alla domanda idrica da parte dei cittadini e delle imprese Dania Abdul Malak et al. (2017). Adapting to Climate Change, op.cit., pp. 47-48.. Inoltre, già dal 2002 è stato concepito un Piano Nazionale per la Protezione dalle Alluvioni, dotato di un sistema di allerta precoce, che al momento però non è riuscito ad evitare alcune tragedie come quelle del 2014 citate in precedenza. Da ricordare, infine, la Carta Nazionale dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile del 2012 e i contributi del Marocco alla UN Framework Convention on Climate Change del 2015, in cui è stato sottolineato l’impegno del paese nordafricano sia per gli investimenti portati a termine di recente – 9% della spesa nazionale tra il 2010 e il 2015 per misure di adattamento al cambiamento climatico – sia per la futura intenzione di ridurre del 32% le emissioni di gas serra IOM (2016a). Assessing the Evidence, op.cit., p. 40.. 6.2) Cenni sull’emigrazione climatica dal Sahel: il Marocco come destinazione finale e paese di transito Dopo aver preso in considerazione le mutazioni climatiche graduali e i disastri naturali improvvisi che hanno potenzialmente spinto, o che potrebbero spingere, molti marocchini a emigrare in Europa, nonostante la penuria di studi empirici disponibili al momento, nella prossima sezione verranno discusse in breve le possibilità ben più evidenti e approfondite in letteratura che le migrazioni ambientali partano da alcune zone del Sahel e dell’Africa Sub-sahariana per dirigersi verso Nord. Il Marocco rappresenta una tappa percorsa da molti, sia come paese di transito, sia come meta finale, considerando pure che le esenzioni sui visti concesse tramite gli accordi con alcuni Stati come Mali e Senegal rendono il viaggio meno ostico. Il Regno inoltre sta vivendo un’interessante transizione migratoria Hein de Haas (2014). Morocco: Setting the Stage for Becoming a Migration Transition Country? op.cit., confermata dall’aumento dei migranti regolari residenti nel decennio 2004-2014, superiore al 60%: da 51.535 a 86.206, di cui circa il 40% proveniente da paesi europei Françoise De Bel-Air (2016). Migration Profile: Morocco. Migration Policy Institute. Policy Brief.. EUI. Fiesole (FI). Issue 5/2016, pp. 2-3.. La percentuale è pari allo 0,26% su una popolazione di 33.8 milioni e di certo non comparabile a quella dei paesi europei. Eppure, la crescita costante potrebbe continuare nel corso dei prossimi anni e le cifre ufficiali non riportano il numero di migranti irregolari. La maggiore sensibilità verso gli arrivi dai paesi sub-sahariani ha spinto il re e il governo verso la formulazione di riforme in materia di diritto d’asilo, traffico di esseri umani e altri aspetti correlati alle migrazioni, come evidente nella Strategia Nazionale sulla Migrazione e l’Asilo e nella campagna di regolarizzazione dei migranti del 2014, in cui 17.916 domande su 27.332 sono state accettate. Tra l’altro, nel marzo del 2016 l’UNHCR registrava 4.277 rifugiati (in gran parte siriani) e 1.910 richiedenti asilo (quasi tutti dall’Africa sub-sahariana). Le statistiche decostruiscono le paure europee riguardo alla possibilità che in futuro migliaia di migranti sub-sahariani presenti in Maghreb finiranno per bussare alle porte del continente al momento non sono giustificate, tanto più che in Europa la maggior parte dei migranti africani proviene dai paesi arabi del Nord. Già una decina di anni fa Hein de Haas stimava che solo dal 20% al 38% dei flussi sub-sahariani diretti in Maghreb continuava il percorso verso l’Europa Hein de Haas (2009). Irregular Migration from West Africa to the Maghreb and the European Union: An Overview of Recent Trends. IOM Migration Research Series, p. 9.. È indubbio però che questa percentuale è in aumento. Nel Mediterraneo centrale, ciò è scaturito dalla fragilità della Libia post-2011, per cui molti migranti africani che oggi arrivano in Libia lo fanno con il solo obiettivo di imbarcarsi per l’Europa. Nella parte occidentale, il Marocco, nonostante la stabilità del Regno, è diventato terra di partenza per i migranti sub-sahariani che vi emigrano sempre più numerosamente. Per questo, se è vero che i numeri non sono ancora così alti da suscitare allarmismi, non bisogna affatto sottovalutare l’ipotesi che costoro tenteranno di emigrare in Europa, come successo di recente sia via terra, a Ceuta e a Melilla, sia via mare, come dimostrano i dati dell’UNHCR: su 48.807 arrivi nel 2018, solo il 16,6% è marocchino, mentre quasi il 57% viene da 4 paesi sub-sahariani (in prevalenza Guinea, poi Mali, Costa d’Avorio e Gambia) UNHCR (2018b). Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation.. Queste breve introduzione aiuta a capire la rilevanza che il Sahel riveste nei discorsi dell’Unione Europea sulla gestione dei flussi migratori diretti a Nord, che in futuro potrebbero subire degli aumenti provocati dal cambiamento climatico. Com’è stato ripetuto a iosa nel corso di questa tesi, la portata, la tipologia e le conseguenze di tali mutazioni danno luogo a scenari eterogenei, che si manifestano in modo cangiante in base al luogo considerato, alle caratteristiche meso e micro associate alle catene migratorie e alle strategie dei singoli individui. In generale, si possono comunque segnalare delle criticità che colpiranno negativamente molti paesi del Sahel, già affetti da povertà, indici di sviluppo umano molto bassi, accesso insufficiente alle risorse, percentuali preoccupanti di episodi di violenza e terrorismo e altri fattori di instabilità sociale e politica. Il cambiamento climatico provocherà un aumento degli eventi climatici estremi, tra cui siccità e graduale desertificazione nelle aree interne Si veda Bruno Barbier et al. (2009). Human Vulnerability to Climate Variability in the Sahel. Farmers’ Adaptation Strategies in Northern Burkina Faso. Environmental Management, vol. 43, no. 5, pp. 790-803. (slow-onset) e alluvioni e tempeste sulle coste (sudden-onset). Ciò acuirà l’insicurezza alimentare, diminuendo la produzione agricola dal 2% al 4% in Africa centrale e occidentale James Morrissey (2014). Environmental Change and Human Migration in Sub-Saharian Africa, op.cit.,p.86.. Peraltro, l’innalzamento del livello dell’acqua determinerà non solo catastrofi improvvise, ma anche la contaminazione della qualità dell’acqua utilizzabile dalle società locali. L’inquinamento delle falde acquifere, l’intensità variabile delle piogge e la percentuale crescente di eventi estremi sono tutti fattori che si accompagneranno a temperature più calde, causando un aumento dell’esposizione alla malaria, fatta eccezione per le zone meno umide, in cui si registrerà un calo Ivi, p. 87.. Detto dei principali mali scaturiti dal cambiamento climatico, una delle tesi più condivise dai ricercatori esperti dell’area saheliana sostiene che la scelta di migrare può esserne una conseguenza molto probabile, costituendo una flessibile strategia di adattamento e di sopravvivenza a breve e medio termine sperimentata da decenni. La migrazione chiaramente avviene anche in risposta ad altre variabili riconducibili allo stress ambientale, segue rotte e network già conosciuti e non implica, di solito, l’attraversamento di confini internazionali distanti. Non essendo la sede per indagare tutti i contesti specifici, vale la pena dedicare qualche battuta almeno al Mali e al Senegal, che sono stati studiati a fondo per via della fragilità ambientale e che pesano tra le componenti dei flussi trans-mediterranei. Di fatto, negli ultimi 3 anni sono stati stimati nel Mediterraneo: arrivi dal Mali pari a 10.010 nel 2016 (solo in Italia), 7.700 nel 2017 (7.100 in Italia, 600 in Spagna) e 6.799 all’ottobre del 2018 (di cui 5.924 in Spagna); arrivi dal Senegal pari a 10.327 nel 2016 e 6.000 nel 2017 (in entrambi i casi solo in Italia), mentre all’ottobre del 2016 si registra una diminuzione netta (1.437 in totale, di cui 1.016 in Spagna) UNHCR (2016). Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2016; UNHCR (2017). Refugees and migrants sea arrivals in Europe. Monthly Update December 2017; UNHCR (2018b). Operation Portal. Refugee Situation. Mediterranean Situation.. Per quanto riguarda il Mali, si tratta di uno degli Stati più poveri del pianeta, in cui la crescita demografica (stimata al 3.6% nel 2012, su una popolazione che ha superato i 17 milioni nel 2018) si accompagna alla progressiva urbanizzazione Diana Hummel, Martin Doevenspeck, Cyrus Samimi (a cura di) (2012). Climate change, Environment and Migration in the Sahel. Selected issues with a focus on Senegal and Mali. MICLE Working Paper no.1. Frankfurt/Main, p. 44.. Considerando che il paese è ancora rurale per il 66%, si prevede che nei prossimi anni l’aumento delle città e delle migrazioni dalle campagne segnerà un trend da non sottovalutare. Questi fattori, uniti alle vulnerabilità ambientali e all’instabilità politica, hanno spinto numerosi maliani all’emigrazione, principalmente diretta verso gli altri Stati africani – l’84% ne 2007 – più che verso l’Europa. Eppure, come accennato in precedenza, migliaia di maliani sono sbarcati sulle coste europee nel corso degli ultimi anni e circa 200.000 vivono in Francia, essendo parte integrante della Françafrique Ivi, p. 47.. Di certo la ratio emigrazione può essere ricercata sia nei motivi economici sia soprattutto per l’instabilità politica di un paese che a fatica riesce a uscire dalla guerra civile scoppiata nel 2012. Il cambiamento climatico, in questo caso, andrebbe probabilmente solo ad inasprire delle criticità già esistenti. Ma tanto per il passato, quanto per il futuro, non è da escludere che alcuni fattori quali siccità e desertificazione (nel 57% del territorio arido e semi-arido del Nord del paese), le alluvioni (che nel 2007 hanno colpito circa 50.000 persone) e l’erosione del suolo (che riguarda quasi il 20% della popolazione) saranno decisivi nella scelta della migrazione Ivi, p. 34.. Di fatto, uno degli studi pionieristici dimostrò che nel corso delle severe carestie provocate dalla siccità tra il 1983 e il 1985 vi fu un aumento delle migrazioni circolari, scelta soprattutto da parte di donne e bambini come strategia di adattamento, ma non dell’emigrazione dei lavoratori verso la Francia, che invece diminuì Sally E. Findley (1994). Does Drought Increase Migration?, op.cit., p. 539 e ss... Per quanto concerne il Senegal, paese di 16,6 milioni di abitanti con crescita stimata al 2,5% nel 2012, a differenza del Mali mancano i conflitti e l’instabilità interna che garantirebbero ai migranti lo status di rifugiato. Per cui, oltre alle cause strutturali di un’economia anch’essa tra le meno floride del pianeta, le motivazioni legate allo stress ambientale, ai disastri e ai cambiamenti climatici potrebbero avere un peso rilevante nei trend migratori. I quali, storicamente, sono stati piuttosto frequenti in direzione dell’Europa: un sondaggio per abitazioni del 2004 condotto dal Ministero dell’Economia riportava che il 70% delle famiglie aveva almeno un parente emigrato all’estero, di cui il 46% in Europa, specialmente in Italia, Francia o Spagna Ulrike Grote, Koko, Warner (2010). Environmental Change and Forced Migration. Evidence form Sub-Saharian Africa, op.cit., p. 18. Si veda anche OCSE (2015). Connecting with emigrants. A global profile of diasporas. Opinion Survey conducted by Gallup. Paris. . Dunque, in un contesto del genere, già caratterizzato da storici network migratori e da un’evidente vulnerabilità economica, le variabili ambientali e climatiche dovranno essere esaminate con cura. Di fatto, esiste il pericolo che le forti alluvioni e le tempeste colpiscano centinaia di migliaia di persone, come accaduto tra il 1977 e il 1982 e nel decennio tra il 1998 e il 2007, in un paese in cui peraltro, circa il 50% della popolazione vive su un suolo fortemente degradato Diana Hummel, Martin Doevenspeck, Cyrus Samimi (a cura di) (2012). Climate change, Environment and Migration in the Sahel. Selected issues with a focus on Senegal and Mali, op.cit., p. 33.. Meno frequenti che in altri paesi sono i periodi di siccità, ma anch’essa in passato ha provocato seri danni alla vegetazione, mentre la scarsità d’acqua è un elemento potenzialmente foriero di conflitti al confine con la Mauritania, nelle zone contestate del bacino del fiume Senegal Ulrike Grote, Koko Warner (2010). Environmental Change and Forced Migration. Evidence form Sub-Saharian Africa. International Journal of Global Warming, op.cit., p. 18.. Considerando che circa il 70% degli abitanti è dipendente dall’agricoltura, e che il land-grabbing da parte degli investitori privati nazionali e stranieri ha sottratto almeno il 17% della terra arabile alla popolazione dal 2008 Caroline Zickgraf et al. (2016), The impact of Vulnerability and Resilience to Environmental Changes on Mobility Patterns in West Africa, p. 12., la variabilità del clima e l’alternanza delle stagioni di pioggia e di secca è un elemento cruciale per determinare il successo dei raccolti. Ciò spiega il motivo per cui, come dimostrato da alcuni studi empirici qualitativi recenti, non è tanto l’evento climatico in sé, quanto la percezione di un cambiamento – ad esempio, della quantità di pioggia che ci sarà in un determinato periodo - ad indurre le persone alla migrazione, che non risulta mai come la prima scelta, ma viene tenuta in considerazione man mano che la percezione di un peggioramento si intensifica Ivi, pp. 5-8.. Inoltre, uno studio degli anni Novanta ha dimostrato che nel periodo di siccità più drammatico, nella regione di Tambacounda, l’emigrazione trans-frontaliera aumentò, sia verso altri Stati africani, sia verso la Francia, seguendo catene migratorie preesistenti Emmanuel S. Seck (1996). Désertification: effets, lutte et convention. Environnement et Développement du Tiers Monde. ENDA-TM. Dakar.. In sintesi, osservare le dinamiche climatiche e ambientali di alcuni paesi del Sahel risulta di granitica importanza per la consapevolezza anticipata di eventuali flussi che potrebbero essere collegati ad eventi disastrosi improvvisi o a fenomeni di degradazione a lungo termine. Per l’Unione Europea diventa necessario capire a fondo queste correnti migratorie, al fine di prevenire le cause strutturali che sono più associabili agli spostamenti, al netto della agency individuale di ogni migrante. Tuttavia, come anticipato nell’introduzione e come si vedrà a breve, è necessario adottare punti di vista che evitino di “securitizzare” le migrazioni potenzialmente addebitabili a variabili ambientali e climatiche. L’unico rischio alla sicurezza nazionale, di ogni paese sulla Terra, è quella relativa ai cambiamenti del clima che colpiscono le presenti e le future generazioni: da cui, se proprio ci fosse il bisogno di parlare di sicurezza, sarebbe in primis quella umana delle vittime delle catastrofi a dover sollevare interrogativi e suscitare delle risposte adeguate. La securitizzazione delle migrazioni climatiche e il nesso con i conflitti L’adozione di una retorica allarmista sulle migrazioni ambientali e climatiche nel Mediterraneo, evocate come un’invasione futura che minaccerà l’ordine pubblico e i sistemi di welfare già dissestati dei paesi europei, è una lettura fuorviante, poco utile per leggere il fenomeno e molto dannosa sia per la tranquillità degli elettorati occidentali sia per i migranti in questione. Com’è stato evidenziato a lungo nel corso della tesi, ci sono diverse convinzioni comuni che devono essere sfatate in merito a tali migrazioni, partendo dal fatto che spesso rappresentano l’ultima ipotesi per le vittime di disastri naturali, le quali optano per lo spostamento solo in assenza di altre soluzioni W. Neil Adger et al. (2014). Human security, op.cit., p. 766.. Analizzando le potenziali migrazioni climatiche che potrebbero avere luogo nella porzione del Mediterraneo su cui si è soffermata la trattazione, si possono ricavare alcuni assunti che smentiscono la retorica degli arrivi in massa. Si è visto, infatti, che la maggior parte dei movimenti scaturiti in seguito a eventi sudden o slow-onset avviene su distanze brevi o medie e che, nel caso in cui c’è emigrazione trans-frontaliera, essa si dirige soprattutto negli Stati confinanti, come nei paesi dell’ECOWAS. Attraversare il Mediterraneo non è una scelta alla portata di tutti. Le migrazioni assumono quindi traiettorie per lo più circolari e temporanee, qualificandosi come strategie di adattamento in atto già da prima che si iniziasse a parlare di cambiamento climatico. Il discrimine tra volontarietà e coercizione della migrazione, elemento chiave nel concedere eventuali forme di protezione internazionali, resta ancora labile ed empiricamente complicato da dimostrare in sede giurisprudenziale. In altre parole, se alcuni migranti adducessero come motivo della richiesta di protezione l’impossibilità di fare ritorno nel paese d’origine per via di gravi motivi ambientali, anche in quel caso i giudici potrebbero rifiutarla qualora vi fossero destinazioni sicure più vicine al luogo della partenza, favorendo il resettlement locale sull’accoglienza all’interno dell’UE. Le migrazioni climatiche al momento sono lontane dal rappresentare un’emergenza, sia nei numeri, sia nell’effettiva possibilità che le forme di protezione menzionate vengano garantite, in un momento storico in cui anche la concessione delle tradizionali forme d’asilo politico potrebbe subire degli ostacoli. Detto ciò, le urgenti preoccupazioni climatiche eventualmente elencate tra i motivi dell’emigrazione in Europa dovrebbero essere adeguatamente tenute in considerazione e scandagliate senza pregiudizi; ogni tentativo politico di securitizzare tali flussi migratori andrebbe, invece, adeguatamente criticato e “decostruito” Evitando comunque l’atteggiamento radicale di chi legge le migrazioni ambientali solo come una “naturalizzazione” delle cause economiche e sociali presistenti e dei deficit istituzionali del luogo d’origine (Betsy Hartmann (2010). Rethinking climate refugees and climate conflict: rhetoric, reality and the politics of policy discourse, op.cit., p. 235)., evitando discorsi e pratiche da “stato d’eccezione”. Per “securitizzazione” s’intende una teoria sviluppata da alcuni sociologi politici contemporanei appartenenti al filone dei Critical Security Studies, in particolare da Barry Buzan e Ole Waever della cosiddetta “scuola di Copenaghen”. Senza scendere nei dettagli, per i quali si rinvia a trattazioni specifiche Columba Peoples, Nick Vaughan-Williams (2010). Critical Security Studies, op.cit., pp. 75-83. Dei due autori citati, si veda Barry Buzan, Ole Waever, Jaap de Wilde (1998). Security. A new framework for analysis. Lynen Rienner. London., ai fini della tesi è importante attingere ai loro assunti principali, secondo cui il frame della sicurezza può estendersi metodologicamente a qualunque aspetto della vita sociale. Gli autori sottolineano che nella società post-guerra fredda l’agenda securitaria comprende ormai temi non soltanto militari, bensì relativi anche alla politica, all’economia, alla società, all’ambiente e al clima. Eppure, essi ammoniscono sul rischio che ogni questione possa essere letta esclusivamente in termini securitari e mediante l’adozione di una logica emergenziale. Ciò avverrebbe tramite il processo di “securitizzazione”, che trasforma l’oggetto del discorso in una minaccia esistenziale per la sopravvivenza della società. Se in passato ciò andava interpretato solo di fronte ad un conflitto di natura militare, la società contemporanea potrebbe essere invece colpita da diversi rischi e minacce. Etichettare un fenomeno come un rischio o una minaccia deriva da un processo squisitamente politico, che trasla l’oggetto della discussione, ad esempio i flussi migratori, dal dominio del dibattito politico pubblico a quello dell’elaborazione delle politiche di emergenza. Questa particolare mossa (Securitization Move), che si basa su atti discorsivi (Speech Act), deve raggiungere e convincere il pubblico della gravità della minaccia affinché si possa parlare di una securitizzazione compiuta. La costruzione del panico e dell’emergenza può dunque riguardare diversi settori – il mercato finanziario, l’identità religiosa, la sovranità nazionale, l’ambiente naturale – la cui incolumità può essere messa in pericolo da calamità naturali o artificiali, attentati terroristici di varia natura, migrazioni incontrollate. Il tutto, chiaramente, sulla base di valutazioni politiche. Queste chiavi di lettura vengono utilizzate da più di un decennio per analizzare le politiche migratorie degli Stati membri dell’UE e gli accordi con i paesi del vicinato Thierry Balzacq (a cura di) (2009). The External Dimension of EU Justice and Home Affairs. Governance, Neighbours, Security. Palgrave Macmillan. London. , e di recente sono state applicate anche agli sbarchi sulle coste del Mediterraneo Julien Jeandesboz, Polly, Pallister-Wilkins (2014). Crisis, enforcement and control at the EU borders. In: Anna Lindley (a cura di) Crisis and Migration: Critical Perspectives. Routledge. London. 115-135; Giuseppe Campesi (2015). Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo. DeriveApprodi. Roma.. Potenzialmente, risulteranno di grande utilità per leggere eventuali arrivi di coloro che si spostano per motivi ambientali e climatici - come d’altronde si è potuto notare nelle reazioni della stampa italiana per il caso del cittadino del Bangladesh a cui è stata concessa la protezione umanitaria. La creazione dell’emergenza e la logica dell’eccezione non possono mascherare la realtà dei fatti, che al momento vede questi flussi del tutto marginali. Tuttavia, è comprensibile che vi sia un certo timore nell’opinione pubblica e nei decisori politici dopo anni in cui centinaia di migliaia di sbarchi sono stati gestiti con poca disponibilità di altri Stati membri a farsi equamente carico dell’onere. La tendenza alla securitizzazione è stata sempre presente anche in letteratura, tra i ricercatori che già dagli anni Ottanta tendevano a sovradimensionare i flussi di migranti ambientali e climatici (si veda il cap.3) e ad evocare, in automatico, le connessioni tra questi e i conflitti, come se gli spostamenti di massa generassero in automatico tensioni ed episodi di violenza. Si tratta di una convinzione parzialmente fuorviante, poiché esiste in proposito un’evidenza empirica molto scarsa W. Neil Adger et al. (2014). Human security, op.cit., p. 771., ma allo stesso tempo è inopinabile che i cambiamenti climatici possano esacerbare le carenze strutturali e istituzionali e le tensioni sociali già esistenti, che a loro volta innescano dei conflitti. Le guerre ambientali sarebbero legate soprattutto alla necessità di accaparrarsi le risorse naturali in diminuzione o di beneficiare delle porzioni di suolo che, in certe zone, sfuggirebbero alla graduale degradazione. Le ricerche degli anni Settanta e Ottanta sui preoccupanti problemi ambientali provocati dall’inquinamento, dalle emissioni di gas serra e dal consumo sproporzionato di combustibili fossili e di risorse non rinnovabili generarono una serie di studi che mettevano in guardia sul rischio di possibili degenerazioni conflittuali, tra cui le tesi del già menzionato Norman Myers, che le associava anche ai fenomeni migratori Columba Peoples, Nick Vaughan-Williams (2010). Critical Security Studies, op.cit., p. 96.. Un atteggiamento più scettico e cauto sul legame causale in questione fu mostrato invece da Thomas Homer-Dixon nel 1999, secondo cui il degrado ambientale e la scarsità di risorse possono effettivamente generare alcune conseguenze sociali deleterie, ma non necessariamente dei conflitti, a maggior ragione tra due Stati, circostanza sulla quale mancavano evidenze empiriche. Tra gli esiti negativi, tutti intra-statali, vanno annoverati la diminuzione della produttività agricola ed economica, la frammentazione del tessuto sociale, che può preludere a conflitti inter-etnici ed inter-tribali, e la migrazione dei gruppi sociali più colpiti Thomas Homer-Dixon (1999). Environment, scarcity and violence. Princeton University Press. Princeton - Oxford, p. 7 e 138.. La migrazione a sua volta non innesca meccanicamente degli scontri, ma sarebbe uno stato intermedio tra il degrado ambientale e il conflitto e solo in pochi casi sfocerebbe in episodi di violenza. Premettendo che si tratta di un ambito della ricerca le cui conclusioni non sono affatto esaustive, gli episodi conflittuali nelle aree che hanno ricevuto migranti sono stati registrati nel caso di competizione per le risorse dell’area, di tensioni etniche o socioeconomiche preesistenti, di clima di sfiducia tra gli abitanti e i migranti e di altre condizioni di instabilità politica Rafael Reuveny (2007). Climate-change induced migration and violent conflict. Political Geography. 26, pp. 659-660.. Nonostante la prudenza di Homer-Dixon sul nesso causale con i conflitti, gli accademici di tendenza radicale hanno criticato la sua prospettiva, adottata da istituzioni e organizzazioni internazionali, e ne hanno messo in luce la funzionalità a perpetuare un discorso che ignora le lacune di fondo della situazione socio-economica di molti paesi in via di sviluppo e ne nasconde le disuguaglianze Betsy Hartmann (2010). Rethinking climate refugees and climate conflict: rhetoric, reality and the politics of policy discourse, op.cit., p. 236.. Un altro aspetto, a livello micro, che è stato evidenziato per decostruire il nesso con i conflitti concerne l’estrema debolezza fisica e psicologica dei profughi che migrano per ragioni ambientali e climatiche, che accentuerebbe la minaccia di sfruttamento e di violenze nei loro confronti, soprattutto di donne e bambini, più che quella di scontri con la popolazione ospitante Astri Suhrke (1994). Environmental degradation and population flows, op.cit., p. 488; Clionadh Raleigh et al. (2008). Assessing the impact of climate change on migration and conflict, p. 35.. Le ricerche più recenti Per lo stato dell’arte si veda anche Jean-Fédéric Morin, Amandine Orsini (2014). Essential Concepts of Global Environmental Governance, op.cit., pp. 181-183., anche quelle che adoperano metodi quantitativi Niel Petter Gleditsch (2012). Whither the Weather? Climate change and conflict. Journal of Peace Research. 49(1). 3-9., tendono ormai a lasciarsi alle spalle il determinismo ambientale per propendere invece verso una più attenta considerazione della miriade di fattori che posso acuire i conflitti, al di là del nesso degrado ambientale -migrazioni- violenza armata. Al fine di raggiungere una dimensione onnicomprensiva della sicurezza, indirizzata alle necessità degli individui colpiti dai disastri, e di rinforzare le capacità delle istituzioni di mitigare i rischi del cambiamento climatico, servono studi meno condizionati ideologicamente e meno propensi ad analizzare solo i lati conflittuali. Considerando pure che dall’enorme mole di articoli e libri dedicati a quest’aspetto non è arrivata una risposta esaustiva, mentre l’ipotesi causale inversa – i conflitti aumentano l’esposizione al cambiamento climatico – è stata verificata con più solidità Si veda François Gemenne et. al. (2014). Climate and security. Evidence, emerging risks, and a new agenda. Climatic change. 123. 1, p. 4, per lo stato dell’arte più recente.. 7.1) Securitizzare l’ambiente e il climate-change Decostruito parzialmente il nesso tra le migrazioni ambientali e climatiche e l’eventualità di conflitti, occorre spendere qualche battuta per discutere di quanto valore possa avere la tendenza a securitizzare i problemi ambientali e il cambiamento climatico. La grammatica dello “stato d’eccezione” difficilmente contribuisce all’analisi obiettiva e alla soluzione adeguata di una questione, tanto più nel caso di fenomeni intricati quali il cambiamento climatico e le migrazioni ad esso collegate. Interpretare gli eventi naturali catastrofici o dannosi a lungo termine come rischi per la sicurezza in generale può infatti essere un’arma a doppio taglio. Da un lato, come si diceva in precedenza, categorizzare ogni questione sociale come un’emergenza o una minaccia per la sopravvivenza potrebbe dare luogo a politiche reattive ed antagonistiche, alla chiusura di confini e all’isolamento. Includere il nesso degrado ambientale- migrazioni- violenza armata nelle agende di sicurezza nazionale potrebbe essere anche letto come una strategia dei paesi più industrializzati, i cui interessi economici sarebbero minacciati dalle tensioni nel Sud del mondo, come sostenuto da alcuni teorici della geopolitica critica Jon Barnett (2001). The meaning of environmental security:Ecological Politics and Policy in the new security era. Zed Books. London and New York; Simon Dalby (2002). Environmental security. University of Minnesota Press. Minneapolis and London.. Dall’altro, contro queste tendenze difensive e claustrofobiche, è stato sottolineato quanto l’inquadramento nella cornice teorica della sicurezza possa produrre anche risultati rilevanti per la comunità internazionale e per i singoli individui. Di fatto, il dibattito sulla sicurezza ambientale ha avuto il merito di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulle vulnerabilità di alcune aree del mondo e sugli interventi necessari per ridurle, introducendo delle pratiche securitarie di stampo non-militare, basate invece su prevenzione, precauzione e la mitigazione Maria Julia Trombetta (2008). Environmental security and climate change: Analyzing the discourse. Cambridge Review of International Affairs. 21. 4, p. 593.. Questo tipo di sicurezza è lodevole nella misura in cui pone l’accento sugli sforzi necessari per evitare i più seri danni ambientali e climatici e, a differenza di chi evoca lo spettro dei conflitti, non contiene pregiudizi etnocentrici sull’instabilità e la pericolosità del Sud del mondo. Nel caso in cui i toni securitari diventassero “emergenziali”, fase successiva al livello “precauzionale”, e il cambiamento climatico venisse additato come una minaccia alla sopravvivenza, anche allora la logica dell’urgenza avrebbe dei risvolti positivi. Ciò infatti potrebbe determinare una lotta più serrata all’emissione di gas serra e al consumo di combustibili fossili, nonché un impegno più convinto nell’uso di fonti rinnovabili. D’altro canto, attingere al lessico della securitizzazione per parlare di cambiamento climatico potrebbe risultare non solo metodologicamente scorretto Per cui, secondo Olaf Corry, sarebbe più corretto parlare di “riskification of climate change”, più che di “securitisation”, essendo un rischio paventato più che una minaccia imminente ed esistenziale. Cfr. Olaf Corry (2012). Securitisation and ‘riskification’: Second-order security and the Politics of Climate Change. Millennium: Journal of International Studies. 40(2). 246-248., come è stato sottolineato in letteratura, ma anche la causa di conseguenze negative se il tipo di sicurezza in questione fosse solo quella nazionale. Bisogna dunque stare in guardia da coloro che securitizzano le questioni dalla prospettiva inversa, alla Trump, reputando cioè le politiche di contrasto al fenomeno come una minaccia per l’economia nazionale, nonostante la smentita da parte di studi come quelli di Nicholas Stern Ivi, p. 596. Si veda anche Marcello Di Paola (2015). Cambiamento climatico. Una piccola introduzione, op.cit., pp. 108-109.. Chiudere la sicurezza climatica tra i confini nazionali, oltre ad essere naturalmente illogico poiché il problema è globale, potrebbe aumentare i rischi di politiche illiberali da parte dei singoli Stati – sistemi di sorveglianza e di protezione, quote di emissioni individuali prestabilite, decreti emergenziali Ivi, p. 599. - o di “militarizzazione” dei problemi ambientali, tramite agenzie specializzate che dovrebbero difendere dal degrado e dai disastri acuiti dal cambiamento climatico Su cui si veda Rita Floyd (2008). The environmental security debate and its significante for climate change. The International Spectator. 43:3, pp. 54-55.. Da queste considerazioni si evince che l’approccio securitario dimostra dei limiti, ma anche una notevole validità, nella misura in cui sensibilizza in modo più acuto e spinge ad agire per mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Un punto di vista simile, ad esempio, emerge dal policy brief del 2012 elaborato dal Centre for American Progress e dall’Heinrich Böll Stiftung, che si focalizza sul nesso tra migrazioni, conflitti e cambiamento climatico in quello che viene definito “arco di tensione” tra Nigeria, Niger, Algeria e Marocco. Il gergo securitario potrebbe dispiacere al mondo accademico. Ciononostante, esso contiene un’efficacia comunicativa più forte per sollecitare i decisori politici a spingere sull’acceleratore nella prevenzione al cambiamento climatico e a destinare fondi più consistenti in questa porzione del continente africano, analizzata come un continuum anche per via dei flussi migratori. Gli autori, infatti, prescrivono al governo statunitense una condotta non più orientata solo all’interventismo militare, quanto ad un mix di difesa, diplomazia, sviluppo e centralità della sicurezza umana Michael Werz, Laura Conley (2012). Climate Change, Migration and Conflict in Northwest Africa. Rising Dangers and Policy Options Across the Arc of Tension. Heinrich Böll Stiftung. Center for American Progress. Washington DC. April, p. 10. . Se è vero che il report sembra creare un certo allarmismo quando afferma che “l’impatto delle migrazioni ambientali in un contesto così fragile potrebbe essere destabilizzante” Ivi, p. 3., per via delle enormi vulnerabilità della regione, la finalità può essere di certo condivisibile, dal momento che preme affinché gli Stati Uniti inseriscano la lotta al cambiamento climatico nelle politiche di cooperazione allo sviluppo Ivi, p. 58. Sulla vera motivazione di queste preoccupazioni, legate di solito più a interessi materiali ed economici che all’ afflato etico di chi vorrebbe proteggere l’ambiente e il benessere umano in quanto tali, si veda Rita Floyd (2008). The environmental security debate and its significate for climate change, op.cit., p.62.. Un obiettivo simile si può riscontrare in un documento realizzato da un altro think tank, Carnegie Europe Richard Youngs (2014). Climate change and EU security policy. An Unmet challenge. Carnegie Europe Paper. May, p. 4., in cui l’UE viene invitata a prendere provvedimenti più stringenti a proposito della sicurezza climatica, coinvolgendo le forze militari ma evitando chiaramente che il tema diventi solo di loro competenza. Sarebbe questa una strategia che preparerebbe il continente alle implicazioni geopolitiche del climate change, che non dovrebbe essere marginalizzato all’interno delle agende dei decisori politici. Il trend della securitizzazione ambientale e climatica ha avuto come risvolto positivo quello di evidenziare la questione nelle agende nazionali e potenzialmente di mettere l’accento sulla dimensione della sicurezza umana, inserendosi così nel superamento della logica militare tipica della guerra fredda. Studiare le migrazioni ambientali e climatiche dal punto di vista della human security rappresenta una prospettiva che rovescia l’impianto statocentrico Si vedano, ancora, Jon Barnett (2001). The meaning of environmental security:Ecological Politics and Policy in the new security era. op.cit.; Simon Dalby (2002). Environmental security, op.cit., focalizzandosi più sulla protezione giuridica e umanitaria degli individui che sulla difesa dei confini. Se l’oggetto di riferimento della securitizzazione fosse dunque il singolo individuo e le conseguenze negative che il cambiamento climatico avrebbe sulla sua salute, allora il discorso acquisterebbe una certa valenza normativa ed etica. Analogamente, se l’oggetto di riferimento riguardasse la sicurezza ecologica e i danni inferti alla natura in sé. Diverso, invece, il caso in cui la securitizzazione avvenisse solo avendo in mente le minacce o rischi temuti a livello nazionale, che potrebbero degenerare in politiche emergenziali e di natura militare Sui livelli di riferimento diversi si veda Franziskus von Lucke, Zehra Wellmann, Thomas Diez (2014). What’s at Stake in Securitising Climate Change? Towards a Differentiated Approach. Geopolitics. 19:4, pp. 871-874.. Fig. 4 “Arco di tensione” tra Nigeria e Marocco (Werz, Conley, 2012, p. 3) Come si è avuto modo di accennare nel capitolo di taglio giuridico e come si ripeterà nelle conclusioni, esistono delle soluzioni che possono venire incontro alle esigenze dei migranti e colmare i gap delle normative internazionali, agendo sul piano della cooperazione allo sviluppo e del diritto d’asilo. Ma tutto dipenderà dalla volontà e dallo spazio di manovra politico, che nel “decennio umanitario” tra gli anni Novanta e Duemila sembrava esserci, ma che ad oggi manca del tutto Chris Methmann, Angela Oels (2015). From “fearing” to “empowering” climate refugees: Governing climate induced migration in the name of resilience. Security dialogue. Vol.46(1), p. 56. Sul “decennio umanitario” si veda Luca Scuccimarra (2016). Proteggere l’umanità, op.cit., pp. 14.53.. 7.2) Resilienza, resettlment: risposte e pratiche securitarie Prima di giungere alle conclusioni, occorre portare a termine il discorso sulla sicurezza analizzando le principali risposte che le ricerche internazionali –accademiche, politiche, organizzazioni internazionali, think tank – reputano più adatte al momento storico e politico in cui ci troviamo. Esaurita la spinta propulsiva del decennio umanitario e delle sue proposte giuridiche, molte delle quali sembrano ormai improbabili, vengono propose oggi delle pratiche e dei rimedi che i critici interpretano tramite la chiave di lettura della securitizzazione, ma che in effetti costituiscono le tattiche più realistiche per venire a patti con il fenomeno. Le due soluzioni maggiormente caldeggiate dagli esperti in materia suggeriscono di puntare sul rafforzamento delle capacità di adattamento Jean-Fédéric Morin, Amandine Orsini (2014). Essential Concepts of Global Environmental Governance, op.cit., pp. 1-2. e di resilienza delle popolazioni che saranno più gravemente colpite dal cambiamento climatico e sull’eventuale resettlement in altre aree, in primi dello Stato d’origine, per ovviare alle criticità delle zone danneggiate. Analizzando queste risposte si possono trovare più lati positivi che negativi se viene accettata la tesi che esse rappresentino il massimo ottenibile in queste circostanze politiche. Ma esistono pregiudizi e lacune in un approccio del genere. A livello istituzionale, i critici hanno denunciato la volontà europea Margit Ammer et al. (2014). Time to Act. How the EU can lead on climate change and migration, op.cit., pp. 27-28. European Parliament (2011). ‘Climate Refugees’: legal and policy responses to environmentally induced migration, pp. 47-49 (vedi p. 28 sopra)., di alcuni governi Foresight (2011). Migration and Global Environment Change, op.cit., pp. 17-18. e delle istituzioni internazionali World Bank (2016). Climate Change Action Plan 2016-2020. Washington DC, pp. 1-2. di esternalizzare la questione delle migrazioni ambientali e climatiche dietro il paravento dei fondi economici per la cooperazione e lo sviluppo, decidendo di de-localizzare il problema in situ e di ignorare invece cosa potrebbe essere fatto per coloro che vorrebbero emigrare in Europa. La governance esterna fondata sull’assistenza internazionale e sulla retorica dell’adattamento marginalizza la possibilità di istituire canali legali di migrazione e si illude di poter risolvere le fragilità strutturali inviando degli aiuti. Tuttavia, l’incremento dei fondi e l’eventuale sviluppo che ne consegue non comportano necessariamente una diminuzione dell’emigrazione Luca Raineri, Alessandro Rossi (2017). The security-migration-development nexus in the Sahel. A reality check. In: Venturi, Bernardo (a cura di). The security-migration-development nexus revised. A perspective from the Sahel. Foundation for European Progressive Studies – Istituto Affari Internazionali. Edizioni Nuova Cultura. Roma, pp. 19-20.. Peraltro, i discorsi favorevoli alle migrazioni temporanee e circolari come strategie di adattamento trascurano il fatto che esse potrebbero aumentare la pressione demografica in determinati punti, riducendo quindi la sicurezza dell’area. Le critiche alla resilienza vertono su tre assunti principali Chris Methmann, Angela Oels (2015). From “fearing” to “empowering” climate refugees: Governing climate induced migration in the name of resilience, op.cit., pp. 58-63.: non risolverebbe i gap giuridici nella protezione dei migranti ambientali e climatici, i cui diritti potrebbero essere violati nelle aree che ricevono i flussi. L’apparente promozione di un ruolo più “attivo” del migrante – a differenza della vittimizzazione che caratterizzava i discorsi della human security – non corrisponderebbe comunque ad una tutela delle sue prerogative Giovanni Bettini (2014). Climate migration as an adaption strategy: desecuritizing climate-induced migration or making the unruly governable?, Critical Studies on Security. 2:2, pp. 185-187. . Al contrario, quando l’adattamento tramite migrazione volontaria incoraggiata si rivela impossibile, il governo interverrebbe tramite interventi di resettlement pianificati, privando gli individui di voce in capitolo; l’idea di resilienza, che dota le popolazioni del Sud del mondo di capacità di autodeterminarsi, scaricherebbe su di esse le responsabilità dei paesi industrializzati; quindi, normalizzerebbe il cambiamento climatico come un dato di fatto, come un dramma da cui ormai non si può più sfuggire, evitando di proporre metodi per prevenirlo. Per quanto la polemica sia ricca di spunti interessanti, tale demolizione delle strategie di adattamento e dei piani di resettlement mostra sia delle lacune nella formulazione stessa della critica, sia una scarsa sensibilità politica e strategica. Si nota in primo luogo un certo cortocircuito poiché ci si oppone sia alla possibilità che il Nord del mondo deleghi più autonomia ai migranti nei paesi in via di sviluppo, sia a quella di interventi top-down che lascerebbero meno scelte ai migranti Andrea Simonelli (2016). Governing Climate Induced Migration and Displacement, op.cit., p. 100.. In secondo luogo, come si diceva in precedenza, biasimare ogni tentativo di governare i flussi migratori può causare degli effetti controproducenti e ostacolare il lavoro di istituzioni IOM (2009). Migration, Environment and Climate change, op.cit., pp. 32-33. e iniziative The Nansen Initiative (2015). Agenda for the Protection of Cross-border displaced persons in the context of disasters and climate change, pp. 8-10. che hanno sensibilizzato a lungo l’opinione pubblica e i decisori politici sul fenomeno. Sebbene si avverta ancora la necessità di più ricerche empiriche sul successo delle capacità di adattamento W. Neil Adger et al. (2014). Human security, op.cit., p. 771., parte dell’accademia Ad esempio, Frank Laczko, Étienne Piguet (2014). People on the move in a Changing Climate, op.cit., pp. 16-17;, Richard Black, Dominic Kniveton, Kerrsin Schmidt-Verkerk (2013). Migration and Climate Change: Toward an Integrated Assessment of Sensitivity. In: Faist, Thomas, Schade, Jeanette (a cura di). Disentangling Migration and Climate Change. Methodologies, Political Discourses and Human Rights. Springer Publishing. Dordrecht, pp. 29-31; Caroline Zickgraf et al. (2016), The impact of Vulnerability and Resilience to Environmental Changes on Mobility Patterns in West Africa, op.cit., p. 5; Dania Abdul Malak et al. (2017). Adapting to Climate Change, op.cit. e di chi quotidianamente si sta occupando di questo genere di migrazioni concorda sull’utilità di seguire queste policies, che non escludono in automatico il rispetto dei diritti umani o della dignità dei migranti (o di chi non può spostarsi), né altri obiettivi chiave come: l’efficace prevenzione contro i disastri e i cambiamenti climatici Enza Roberta Petrillo (2015). Environmental Migrations from Conflict-Affected Countries: Focus on EU policy response, op.cit., pp. 11-12., i tentativi di riforma dei fattori socio-economi strutturali che rendono alcune zone più vulnerabili di altre Sara Vigil (2017). Climate Change and Migration: Insights from the Sahel, op.cit., p. 71., la riflessione su nuovi framework giuridici che garantiscano protezione sia a chi migra, sia a chi rimane indietro. Conclusioni Ci avviamo alle conclusioni di questo lavoro di ricerca, che pur mancando di dati empitici raccolti di prima mano, si è proposto di fornire un approfondimento analitico dei principali aspetti giuridici, geografici e socio-politici legati al fenomeno delle migrazioni ambientali e climatiche, oltre alla rassegna dello stato dell’arte più recente. Su quest’argomento, in Italia, manca ancora un’ampia varietà di studi e solo negli ultimi anni sembra che l’opinione pubblica e i policy-makers stiano mostrando una sensibilità più acuta a riguardo. Il focus geopolitico sull’area del Mediterraneo è stato preso in considerazione da parte della letteratura Quentin Wodon et al. (2014). Climate Change, Extreme Weather Events, and Migration: Review of the Literature for Five Arab Countries, op.cit.; , che ha dedicato pagine interessanti alla possibilità che il nesso tra migrazioni e cambiamenti climatici prenda forma nell’enorme area compresa tra Nord Africa Oli Brown, Alec Crawford (2009). Changements climatiques et sécurité en Afrique. Une etude realisé pour le forum des ministres étrangères d’Afrique du Nord en 2009. Institut International du développement durable. Winnipeg. Canada. Mars. 1-29. , Sahel, Vicino e Medio oriente, estesa potenzialmente fino al Corno d’Africa Vikram Kolmannskog (2013). Driven out by drought. Cairo Review. 9. 1-8. e a vasti tratti dell’Africa sub-sahariana. Nella tesi, ci si è concentrati solo su uno Stato Nordafricano, il Marocco, e su una porzione della fascia saheliana da cui sono partiti numerosi flussi migratori diretti verso l’Europa – in particolare dal Mali e dal Senegal. I casi paese sono stati selezionati quindi non solo per la disponibilità di studi, ma anche per ragioni che potremmo definire securitarie, dal momento che una buona percentuale dell’emigrazione trans-mediterranea ha cominciato il proprio viaggio da lì. In futuro, sembra ugualmente importate concentrare gli approfondimenti sulla rotta del Mediterraneo centrale e su quei paesi come Libia e Tunisia che potrebbero presentare caratteristiche idonee allo studio: esposizione al cambiamento climatico, vulnerabilità sociale, fragilità politica, tendenza all’emigrazione, luogo di transito per le migrazioni sub-sahariane. Nella tesi sono state enunciate le principali criticità relative alla protezione giuridica di tali profughi e le sfide che essi lancerebbero alla sicurezza dell’Unione Europea e, in generale, dei paesi più industrializzati. È stato messo in evidenza che il gap normativo sarà faticosamente colmabile a breve per due ordini di ragioni principali. Da un lato, malgrado alcune dimostrazioni empiriche sul nesso tra migrazioni e cambiamento climatico, giuridicamente esistono ancora delle difficoltà nella definizione di fattispecie precise in cui i migranti possano ricadere, non trattandosi né di rifugiati, né di IDP. Infatti, è arduo misurare il grado di coercizione che spingerebbe il migrante ad emigrare, nonché la durata della migrazione e la tipologia di protezione che potrebbe essere concessa. Al momento, quindi, le proposte giuridiche accennate assumono le forme di progetti ambiziosi e irrealistici (creazione di Protocolli specifici destinati ai migranti ambientali e climatici), o di strumenti temporanei, (nazionali o europei) di difficile implementazione, oppure di decisioni lasciate alla discrezionalità della giurisprudenza più progressista. Dall’altro, oltre ai motivi strettamente giuridici, è la politica a far sì che ogni richiamo alla sicurezza dei migranti ambientali e climatici venga contrastato e ribaltato da quello alla sicurezza dei confini statali, che rischia di restringere i margini per la concessione anche del diritto d’asilo e degli strumenti di protezione internazionale e complementare. Come si è visto, la tendenza a trattare ogni flusso come una questione di sicurezza esistenziale per gli Stati nazionali provoca esiti deleteri per la comprensione accurata del fenomeno e può condurre alla violazione dei diritti umani dei migranti. La condanna di questo trend non può comunque far ignorare che oggigiorno i margini per accogliere e garantire protezione a nuove categorie di individui sono stati ridotti ai minimi termini, ragion per cui non ci si può aspettare che la difesa dei diritti umani si traduca velocemente in un impegno più concreto dei singoli Stati. A livello regionale, invece, potrebbero essere trovate soluzioni più fattibili, basate sulla condivisione degli oneri da parte dei paesi membri di una stessa organizzazione e sulla mobilità trans-frontaliera in caso di disastri ambientali – come nel caso della Convenzione di Kampala del 2012. L’Unione Europea, presa d’assalto dall’ascesa del populismo nazionalista e incapace di risolvere i problemi legati al ricollocamento di rifugiati di guerra e dei richiedenti asilo, sembrerebbe paralizzata di fronte alle migrazioni ambientali. Eppure, il ruolo di leadership assunto col tempo nella lotta al cambiamento climatico è un segnale positivo che potrebbe generare nel medio-lungo termine dei provvedimenti idonei a riguardo. In termini giuridici, l’azione più realistica consisterebbe nell’adozione della Temporary Protection Directive (TPS) e nell’inclusione nell’art.2(C) di coloro che sono stati costretti ad emigrare per via di disastri ambientali provocati dal cambiamento climatico. Premettendo che la TPS non è mai stata seriamente presa in considerazione per i flussi in arrivo negli ultimi anni, si potrebbe ammettere, in questo caso, l’ipotesi di una protezione temporanea a livello individuale. Bisognerebbe avere ben chiaro il grado di coercizione che spinge il migrante alla fuga. Affinché questo sia evidente, i rischi del cambiamento climatico devono avere effetti dannosi ed empiricamente misurabili nel loro legame con le migrazioni Gli eventi slow-onset, di conseguenza, sarebbero momentaneamente messi da parte: non perché la desertificazione graduale o l’innalzamento del livello delle acque siano meno legate al cambiamento climatico rispetto ad un periodo di siccità improvvisa o ad un’alluvione, ma per via della dimostrazione empirica più intuitiva del peso dell’evento sulla richiesta di protezione internazionale da parte del migrante. La decisione di agire solo sul rischio concreto servirebbe, in un certo senso, a trovare un bilanciamento tra la definizione di nuove forme di tutela giuridica e la ricerca di compromessi con politici e opinione pubblica tendenti alla “securitizzazione” dei flussi Agire sul rischio consentirebbe pure di sottrarre il dibattito alle conseguenze potenzialmente negative del framework della securitizzazione. Cfr. Olaf Corry (2012). Securitisation and ‘Riskification’, op.cit.. In altre parole, a rassicurare che non ci saranno migliaia di migranti in fuga per via della percezione dell’aumento delle temperature. Allo stesso tempo, l’idea di prendere in considerazione gli eventi della categoria del “rischio” escludono quelli che si configurano come “pericoli”. Se questi ultimi, infatti, sono esogeni, poiché provengono dall’esterno della società ed hanno un’origine del tutto non-intenzionale (es. terremoti, eruzioni vulcaniche etc.), i “rischi” vanno ricondotti ad un insieme endogeno, in quanto “frutto di decisioni di singoli o gruppi che appartengono alla società” che possono scatenare conseguenze inattese, nonostante le intenzioni positive Fabrizio Battistelli (2016). La sicurezza e la sua ombra. Terrorismo, panico, costruzione della minaccia. Donzelli. Roma, pp. 34-35, riprendendo il tema della “modernità riflessiva” di Ulrich Beck.. In tal caso, rientrano non solo gli incidenti come quelli di Chernobyl (1986) o Fukushima (2011), ma anche gli effetti dannosi, inquinanti o catastrofici associati alle attività dell’uomo. Sarebbe quindi eticamente più giustificato caldeggiare forme di protezione temporanea per chi è stato colpito da un evento ambientale o climatico causato direttamente o indirettamente dalle attività umane. A patto di riscontrare nessi empirici evidenti nel presente – mentre le conseguenze peggiori del cambiamento climatico sono attese per le future generazioni –, e di colpevolizzare le società di certi paesi più industrializzati di tali esiti catastrofici. Considerando quanto lontano e irto di ostacoli è il percorso verso tali soluzioni giuridiche, non resterebbe che cominciare ad agire tramite gli strumenti di policy accennati in precedenza, ossia: cercare di combattere le cause strutturali che acutizzano le vulnerabilità dei paesi colpiti dagli eventi sudden e slow-onset, soprattutto a livello istituzionale puntare sulle strategie di adattamento e di resilienza in loco, destinando gli aiuti della cooperazione allo sviluppo europei non solo alla classe politica, ma anche alla società civile delle zone che potenzialmente saranno più colpite. Sarebbe importante canalizzare in fondi soprattutto verso le aree rurali e fare in modo che quante più persone possibili abbiano il diritto alla terra; elaborare sistemi efficaci di monitoraggio delle crisi e di early-warning e selezionare delle aree di destinazione in cui gli sfollati potranno dirigersi dopo il disastro ambientale, sia all’interno del paese, sia oltre confine. La previsione di canali migratori legali e di “corridoi umanitari” organizzati da ONG potrebbe fornire dei contributi notevoli alla causa. Sarà dunque il secolo dei migranti (rifugiati, richiedenti asilo o protezione, economici, ambientali, climatici), ma i suoi primi decenni non hanno ancora prodotto delle risposte adeguate ad un fenomeno ormai strutturale. Comunque, rispondendo alla domanda del titolo, si può affermare che non esiste l’evidenza empirica di consistenti flussi migratori che si sono diretti verso l’UE per ragioni legate al cambiamento climatico, per cui bisognerebbe evitare di securitizzare la questione. Peraltro, le cifre spropositate che i mass-media hanno spesso riproposto acriticamente sono state screditate in letteratura per l’assenza di metodi d’indagine rigorosi e di un’opportuna distinzione tra i diversi fattori alla radice delle migrazioni. Una soluzione più realistica e lungimirante considera invece come prioritarie le azioni preventive contro l’innalzamento della temperatura globale, nonché la promozione della resilienza delle aree che saranno più interessate dai cambiamenti del clima. Nonostante alcune criticità, tra cui la mancanza di politiche chiare riguardo alle migrazioni climatiche, è inopinabile che l’UE sia l’attore globale che più si sta impegnando nella lotta all’innalzamento delle temperature. Questo grazie alla strategia energetica continentale, agli obiettivi di riduzione delle emissioni (la strategia “20-20-20” entro il 2020) e ad azioni di politica estera multilaterali volte a ridurre i rischi moltiplicati dal cambiamento climatico Richard Youngs (2014). Climate change and EU security policy. An Unmet challenge, op.cit., p. 7, 11.. Bibliografia Abdul Malak, Dania et al. (2017). Adapting to Climate Change. An assessment of vulnerability and risks to human security in the Western Mediterranean Basin. Berlin. Springer. Adger, W.Neil et al. (2014). Human security. In: Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part A: Global and Sectoral Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Cambridge University Press. Cambridge. United Kingdom and New York. 755-791. Altiero, Salvatore, Marano, Maria (2016). Crisi ambientale e migrazioni forzate. 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