63
QUADERNO
DI STORIA
CONTEMPORANEA
2018
www.isral.it
EDIZIONI
Istituto per la storia della resistenza
e della società contemporanea
in provincia di Alessandria
“Carlo Gilardenghi”
FALSOPIANO
Redazione
Alberto Ballerino, Giorgio Barberis, Cecilia Bergaglio,
Giorgio Canestri, Franco Castelli, Antonella Ferraris,
Graziella Gaballo, Roberto Livraghi, Cesare Manganelli,
Fabrizio Meni, Vittorio Rapetti,
Giancarlo Subbrero, Luciana Ziruolo
Quaderno di storia contemporanea
semestrale dell’Istituto per la storia della resistenza e
della società contemporanea in provincia di Alessandria
“Carlo Gilardenghi”
Direttore Laurana Lajolo
Direttore responsabile Maurilio Guasco
Segretario di redazione Cesare Panizza
Anno XLI, numero 63 della nuova serie
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Via dei Guasco 49, 15100 Alessandria
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Quaderno di storia contemporanea/63/Sommario
Laurana Lajolo, Questo numero
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STUDI E RICERCHE
Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
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Bianca Maria Dematteis, La rappresentazione delle leggi razziali
in Italia. La narrazione sul 1938 proposta da tre riviste
“L’Uomo qualunque”, “Candido”, “Il Borghese” (1945-1956)
31
Jörg Luther, Shoah e genocidi in Africa, alcune storie da rileggere
53
Nadia Venturini, Il razzismo negli Stati Uniti
79
Bruno Barba, Questo caro razzismo nostrano
85
NOTE E DISCUSSIONI
Antonella Ferraris, Il fascismo è davvero fuori moda?
Note su Sono tornato di Luca Miniero
107
Roberto Lasagna, Fassbinder: l’integrazione mangia l’anima
112
FONTI, ARCHIVI, DOCUMENTI
Le leggi razziali del 1938. Documenti
119
Aldo Perosino, Le leggi razziali e la comunità ebraica di Alessandria:
conseguenze economiche e morali
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Luisa Rapetti, La distruzione della comunità israelitica acquese
143
Ferdinando Angeletti, Giuseppe Andreoni, un “carabiniere”
partigiano ad Acqui Terme
175
Quaderno di storia contemporanea/63
Inserto fotografico, a cura di Luisa Rapetti e Aldo Perosino,
“Sia l’anima sua legata al fascio della vita”
186
PROBLEMI E MATERIALI DIDATTICI
Fabrizio Meni, La lezione della banda Tom
196
Vittorio Rapetti, Costituzione ed educazione: una questione aperta tra
scuola e società
219
RECENSIONI
224
Gli autori di questo numero
267
Quaderno di storia contemporanea/63
Le leggi razziali del 1938 in Italia
Cesare Panizza
Frequento la seconda media e come tante mie compagne sono andata a vedere la mostra dei campi
di concentramento […]. Poi ne sono nate delle discussioni. Chi dubita, chi dice che la mostra è
solo propaganda antitedesca. Chi dice che c’è dell’esagerazione e chi asserisce che tutto è vero.
Qualcuna delle mie compagne dice che “Se quelle cose fossero veramente avvenute, sui nostri libri
di scuola ci sarebbe qualche traccia”. […] Io vorrei che qualcuno mi dicesse qualcosa di più. Io,
figlia di un fascista, sono rimasta spaventata da quel che ho visto e ho pregato Dio che mio padre
sia innocente di quella strage. [...].
Studi e ricerche
“La Stampa”, 29 novembre 1959
1. Anna Foa ha più volte in questi anni notato la difficoltà di costruire
memoria attorno alle leggi razziali italiane dell’autunno 1938.1 Non che
durante il settantennio repubblicano non se ne fosse parlato. In connessione con i periodici ritorni di interesse per la Shoah in genere, il
tema fu sottratto a un oblio relativo o meglio alla sua dimensione primaria di sommatoria di tragedie innanzitutto private. Come per esempio accadde fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, il
periodo della (ri)-scoperta clamorosa di Se questo è un uomo di Primo Levi
(la prima edizione Einaudi del 1958), del processo Eichmann (1961) e
delle polemiche attorno alla rappresentazione de Il Vicario di Rolf Hochhuth o al celebre libro di Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, entrambi apparsi nel 1963, e tradotti in italiano l’anno
successivo. Fu una stagione promettente, ma troppo breve perché si
compisse una compiuta storicizzazione delle leggi razziali italiane, magari a partire dal pioneristico lavoro di Renzo De Felice, Storia degli ebrei
italiani sotto il fascismo (1961) che ne rimane il frutto storiografico più im-
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portante e controverso. Si dovette attendere il cinquantesimo anniversario della loro promulgazione perché si avviasse una riflessione più matura, che negli anni successivi si sarebbe arricchita di importanti
acquisizioni storiografiche. Ad impedirlo, nella seconda metà degli anni
Sessanta e poi soprattutto nei Settanta, fu la dimensione pan-politica e
ideologica assunta dalla ricerca che rese incapace la storiografia italiana
di vedere nell’antisemitismo fascista e nella legislazione che se ne originò, un autonomo oggetto di interesse. Al pari di altri aspetti degli anni
del regime potenzialmente evocativi dei molteplici nessi esistenti fra società italiana e fascismo, dunque in grado di revocare in dubbio la pretesa dell’estraneità della prima al secondo o della superficialità e
transitorietà del consenso alla dittatura, le leggi razziali furono così a
lungo rimosse o banalizzate anche dalla migliore storiografia. E tali sarebbero in fondo rimaste anche in anni più vicini a noi nel senso comune. Avrebbe così continuato a circolare la tesi che ridurrebbe –
annullando il contesto storico e soprattutto occultando la vera natura del
progetto totalitario fascista – quelle leggi soltanto una concessione all’alleato tedesco. Circoscrittane la responsabilità a Mussolini e al limite
ai gruppi dirigenti il paese, ne verrebbe assolta una nazione non disposta psicologicamente né alla fine del conflitto, né dopo, a riconoscersi
anche nel ruolo del carnefice. Il mito della mitezza o della poca scrupolosità di applicazione delle leggi razziali italiane – storicamente fra i più
infondati, visto che esse furono per molti aspetti anche più odiose di
quelle di Norimberga – divenne così tutt’uno con quello degli italiani
brava gente, ma anche con quello di un Mussolini antisemita per puro calcolo e opportunità. Si tratta di una costellazione memoriale a grandi
linee custoditasi intatta fino a oggi in certi settori della società italiana (e
che non ha mancato per certi versi di una sponda autorevole fra gli studiosi, come quella offerta precocemente proprio da De Felice) nonostante da tempo, appunto almeno dal 1988, una storiografia assai meno
distratta rispetto al passato ne abbia – in virtù anche dei benefici del
tempo trascorso – ampiamente dimostrato l’infondatezza.
È difficile disfarsi degli stereotipi e dei pregiudizi che li sostengono,
soprattutto quando sono “comodi”, ma forse a favore di questa loro
persistenza ha giocato e gioca anche altro. Per paradosso, sembrerebbe
che proprio la centralità assunta negli ultimi decenni nel discorso pub-
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
Studi e ricerche
Studi e ricerche
Quaderno di storia contemporanea/63
blico attorno alla Seconda guerra mondiale dalla vicenda della Shoah, e
le politiche della memoria a cui essa ha dato origine, abbiano piuttosto
contribuito a mantenere ancora una volta in un cono d’ombra il tema
più generale della responsabilità italiana in essa, rinviando appunto il
passaggio nella memoria nazionale a una compiuta e matura storicizzazione delle leggi razziali del 1938. Il dopo, il racconto annichilente
dello sterminio – la “persecuzione delle vite” – sembrerebbe infatti
aver ancora una volta condannato alla banalizzazione il prima – la “persecuzione dei diritti” per riprendere l’ormai usuale distinzione introdotta da Michele Sarfatti – (talvolta anche nella memoria degli stessi
testimoni, è stato notato), obliterando soprattutto la relazione esistente
fra quanto statuito nel 1938 e ciò che accadde a partire dall’8 settembre 1943. Ne sarebbe discesa nuovamente una riduzione delle responsabilità nazionali nello sterminio degli ebrei italiani, ri-circoscritto ora
nel senso comune al fantasmatico e in fin dei conti eterodiretto fascismo di Salò, e solo per un accidenti della storia ricondotto alle logiche
implicite di un regime che godeva del consenso, pur se estorto, pur se
ottenuto con il controllo poliziesco e la propaganda, del paese nel suo
complesso; un consenso di cui l’antisemitismo divenne a un certo
punto una risorsa tutt’altro che secondaria. Scomparivano così i nessi
molteplici anche con quanto precedette la svolta antiebraica del 1938:
non solo sul piano internazionale, certo condizionante la scelta dell’antisemitismo di Stato ma in forme assai più complesse della pulsione
ad accondiscendere e/o imitare l’alleato tedesco, ma anche su quello interno. Si pensi al regime di apartheid istituito nelle colonie dell’Africa
orientale, così come alle politiche demografiche promosse nella madrepatria. Si offuscava per esempio la complementarietà logica, come
tale peraltro affermata dagli stessi fascisti, fra pro-natalismo, ruralismo,
virilismo, razzismo nelle colonie, persecuzione degli ebrei e degli omosessuali in patria, tutti esaltati strumenti di rigenerazione antropologica
degli italiani, di difesa della stirpe e poi della razza. Anche la relazione
problematica, certo, ma innegabile fra il diffuso pregiudizio anti-ebraico
preesistente al fascismo – storicamente ispirato dall’antigiudaismo cattolico – e la sua trasfigurazione politica operata in base ai “moderni”
principi del nazionalismo e di un razzismo, ammantato da scientismo,
veniva in gran parte sottaciuta. E venivano così perlopiù dimenticate o
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Studi e ricerche
2. Se si guarda a quanto accadde nel settembre 1938 in una prospettiva
di lungo periodo, si può tranquillamente affermare che con la discriminazione dei cittadini di origine ebraica, sia stato inferto dal regime fascista l’ultimo e il più violento vulnus alla costituzione materiale del
paese originatasi dal processo risorgimentale. Con le leggi razziali infatti
si concludeva quello svuotamento per rapida inversione del processo,
invece lento e accidentato, di progressivo allargamento dei diritti e consolidamento delle pratiche del governo rappresentativo che fin dal 1848
aveva accompagnato l’esistenza dello Statuto albertino, mai abrogato
dal fascismo ma compromesso – nel senso appunto di uno stravolgimento delle prassi istituzionali cui aveva dato vita – già dalle modalità
stesse con cui esso era giunto al potere. Revocare l’uguaglianza nei diritti e nei doveri di tutti gli abitanti della penisola, perfezionando – se
così si può dire – quanto avviato con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922 e proseguito con la costruzione dello stato totalitario e la persecuzione di ogni forma di dissenso, significava anche abrogare
definitivamente lo stato di diritto ovvero il patto legittimante le istituzioni – innanzitutto lo stesso istituto monarchico – che la nazione si era
data con il Risorgimento, a partire appunto dal reciproco riconoscimento di tutte le sue componenti.
Su tempi più brevi, nell’economia del ventennio fascista, era anche il
segno di una definitiva torsione totalitaria del fascismo, in corso da
tempo, ma acceleratasi alla metà degli anni Trenta, con la guerra d’Etiopia e quella di Spagna, nella prospettiva sempre più prossima di un
nuovo conflitto europeo. La necessità di un capro espiatorio per i problemi irrisolti della crisi italiana o meglio di legare attraverso l’indivi-
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
peggio giustificate nel loro cinismo le responsabilità in tutto ciò tanto
di esponenti del mondo cattolico – nelle sue massime cariche preoccupate solo di salvaguardare i diritti di coloro che si fossero convertiti
al cattolicesimo o di riaffermare l’intangibilità nel caso delle coppie
miste dei matrimoni religiosi – quanto di intellettuali e scienziati che
spesso fecero del razzismo e dell’antisemitismo un’occasione di carriera. Non è allora certo casuale che in Italia il film italiano più popolare sull’Olocausto dopo la Vita è bella di Roberto Benigni – posto che
quest’ultimo lo sia – sia in fondo Perlasca, un eroe italiano.
Quaderno di storia contemporanea/63
Studi e ricerche
duazione di un nemico al tempo stesso esterno (le plutocrazie giudaiche occidentali e il bolscevismo “semitico” unite da un presunto complotto internazionale ebraico) e interno (gli ebrei italiani come ispiratori
dell’antifascismo, quello “rosso” come quello liberal-democratico), dato
in pasto alle masse, la loro soluzione alla vittoria finale su di esso da
conseguirsi attraverso la guerra e la sanificazione della stirpe o meglio
– dopo il 1938 appunto – la purificazione della razza, faceva attingere
pienamente al fascismo italiano la dimensione estrema di una terribile
religione politica. Come nel caso del nazionalsocialismo e per vie ben
diverse dello stalinismo, anche nel fascismo appariva così la categoria
del nemico oggettivo, individuata da Arendt nelle Origini del totalitarismo, di colui che per caratteristiche ascritte su cui nulla poteva la sua
soggettività (la “razza” appunto e non il “credo religioso”) doveva essere separato e quindi in prospettiva eliminato dalla nazione. Ché poi
nel caso del fascismo italiano diversamente dal nazismo o dallo stalinismo (e dei loro emuli successivi) questa paranoia ideologica – essenziale
alla sopravvivenza dei regimi – abbia prodotto solo parzialmente una
rete di campi di concentramento e che questi non si siano trasformati
in campi di sterminio (programmato o meno) è – questo sì – un accidente della storia, dovuto alla lentezza di emersione – caratteristica del
caso italiano – di quelle dinamiche e agli accadimenti bellici.
3. La storiografia più recente – in particolare Giorgio Fabre2 – ha dimostrato ampiamente come Mussolini non fosse diventato antisemita per
opportunità, ma semmai fosse stato da sempre – fin dalla sua confusa
formazione impastata di letture soreliane e nicciane – un antisemita quantomeno selettivo. In questo, si potrebbe legittimamente obiettare, non
diversamente da molti altri suoi connazionali del tempo, intrisi di pregiudizi contro gli ebrei derivati dalla – se si può dire così – secolarizzazione dell’antigiudaismo religioso tradizionale. Comunque, ed è ciò che
più conta, già nel periodo della militanza socialista l’antisemitismo venne
usato dal futuro dittatore romagnolo come risorsa per colpire con tecniche che oggi chiameremo di character assassination, i nemici politici interni
di origine ebraica. Fra 1917 e almeno fino al 1921 egli avrebbe inoltre insistito nel presentare la rivoluzione d’ottobre come frutto di un complotto ebraico internazionale, applicazione fedele di quanto descritto nei
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Protocolli dei Savi di Sion. Del resto, casi di ostilità personale motivate dall’origine ebraica stanno via via affiorando e punteggiano gli anni successivi della sua biografia, testimoniando quanto meno di una diffidenza di
lunga data verso una eccessiva presenza ebraica in ruoli di responsabilità.
Ci si è in particolare soffermati sulla politica di “sfaldamento” dettata già
almeno nel 1935 al prefetto di Ferrara per l’eccessiva visibilità degli ebrei
nella cittadina estense, descritta come in mano a un ristretto gruppo di
interesse tutto ebraico, che sarebbe culminata, ma anni dopo, nell’allontanamento del podestà della città, l’ebreo Renzo Ravenna, nonostante la
sua fedeltà a Italo Balbo. Si noti come probabilmente proprio questa vicenda costrinse Balbo a dar prova di affidabilità ideologica anche sotto
il profilo dell’antisemitismo: governatore della Libia nel 1936 varò una legislazione discriminante a carico degli ebrei tripolini che anticipava quella
della madrepatria. È un episodio significativo, dimostra infatti come l’atteggiamento verso gli ebrei fosse quanto meno un’arma possibile nei
conflitti interni alla stessa dirigenza fascista. È probabile che anche
quando non vi si ricorse apertamente, la sua sola potenzialità abbia contribuito a innescare dinamiche di radicalizzazione, sia nel senso di rafforzare le posizioni più estreme, originariamente minoritarie,
rappresentate sul piano culturale soprattutto da testate quali “Il Tevere”
di Telesio Interlandi o “La vita italiana” di Giovanni Preziosi, e su quello
politico da “Il regime fascista” del ras di Cremona, Roberto Farinacci,
sia di condizionare chi – come appunto probabilmente Balbo – non condivideva quelle posizioni.
È altrettanto vero che nella biografia di Mussolini vi sono anche indizi
di senso contrario – vedi fra tutte la liason con Margherita Sarfatti – o
la scelta ancora nel 1932 di incaricare un ebreo, Guido Jung, di un Ministero importante quale il Tesoro e le Finanze (!). Sono episodi però
in fondo non in contraddizione con l’idea che parrebbe aver nutrito
fin dall’inizio della pericolosità dell’elemento ebraico – quanto meno
degli ebrei in quanto minoranza e gruppo di interesse – per la coesione
della nazione italiana. Questo antisemitismo selettivo, soggetto a periodiche, pubbliche, riemersioni, non sarebbe mutato, se non a metà
anni Trenta – e forse un segnale in tal senso fu proprio l’allontanamento di Jung all’inizio del 1935 – e avrebbe fino ad allora sostanziato
la politica verso l’ebraismo italiano, fatta di velate minacce e tentativi di
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
Studi e ricerche
Studi e ricerche
Quaderno di storia contemporanea/63
seduzione. Finalizzata ad assicurare al regime il controllo delle comunità israelitiche (nel 1931 vi fu una loro riforma complessiva che andava
peraltro nel senso di un maggior accentramento), così come si era fatto
e si andava facendo con ogni realtà associativa cui il fascismo avesse
permesso di sopravvivere (con la rilevante eccezione dell’associazionismo cattolico), questa politica avrebbe inevitabilmente risentito del
contemporaneo riavvicinamento fra fascismo e Chiesa cattolica, culminato nel 1929 nel Concordato che riconoscendo il cattolicesimo
come religione dello Stato, declassò l’ebraismo a “culto ammesso”.
Non è peraltro – pare – neppure da escludere che proprio il sostanziale
fallimento di quel progetto di fascistizzazione integrale delle comunità
– perseguito al loro interno come è noto dagli ebrei fascisti raccoltisi
attorno alla rivista “La nostra bandiera” – e insomma l’insoddisfazione
verso il compromesso che si era raggiunto con l’ebraismo italiano (conformismo politico in cambio di una relativa autonomia sul piano dell’identità religiosa e culturale) costituisca una delle possibili
concomitanti motivazioni per il passaggio da un antisemitismo selettivo
a uno integrale nella seconda metà degli anni Trenta. Bisognava però
ne maturassero le condizioni – anche nel pensiero di Mussolini – e fino
a quell’altezza ciò probabilmente non era accaduto. Significativa in tal
senso la virulenta campagna antisemita innescata sulla stampa dagli arresti nel marzo del 1934 di parte del nucleo torinese di Giustizia e Libertà, vista la notevole presenza fra i fermati (fra cui Leone Ginzburg,
poi condannato, e Carlo Levi) e nella centrale parigina del movimento
di ebrei, a partire dallo stesso leader del gruppo, Carlo Rosselli. Ad occasionare la stretta poliziesca era stato l’episodio di cui fu protagonista
Mario Levi, figlio di Giuseppe Levi, il noto anatomopatologo, maestro
di Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco, e fratello di Natalia Ginzburg, all’epoca dirigente commerciale dell’Olivetti di Ivrea, attivo clandestinamente nella rete giellista. Questi l’11 marzo del 1934 fermato al
rientro dalla Svizzera con Sion Segre, anche egli ebreo, a Ponte Tresa
dalla polizia di confine italiano, a bordo di un auto in cui erano nascosti materiali propagandistici del movimento, fuggì avventurosamente
alla cattura gettandosi nelle acque del Tresa. Riportando la vicenda, al
fine di suscitare indignazione nell’opinione pubblica, la stampa italiana
inventò l’aneddoto infamante secondo cui Mario Levi, una volta giunto
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Studi e ricerche
4. Definire quello di Mussolini nella lunga fase precedente (o di incubazione? su questo la storiografia è divisa) la svolta compiuta nel 1938
quale un antisemitismo selettivo è dunque un’interpretazione compatibile con i suoi atteggiamenti ondivaghi sul piano interno verso l’ebraismo italiano e sul piano internazionale verso lo stesso sionismo o le
persecuzioni antiebraiche avviate a partire dal 1933 in Germania. Per
un certo tempo, infatti, Mussolini sembra non volersi fra le altre cose
precludere la possibilità di usare i legami che l’ebraismo italiano ha nei
secoli intessuto nel bacino del Mediterraneo orientale come strumento
di penetrazione italiana nell’area. A decidere il dittatore invece al passaggio alla “persecuzione dei diritti” furono invece un insieme pressoché indistricabile di fattori sulla cui diversa cogenza nelle scelte del
regime fra gli storici è ancora in corso il dibattito. Certamente, l’esempio del razzismo tedesco e della legislazione di Norimberga che avrebbe
– stando per esempio ai lavori della storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci3 – fortemente impressionato Mussolini, e certamente il
venire meno, con il profilarsi dell’alleanza con la Germania di Hitler a
seguito dell’avventura etiopica, di ogni preoccupazione verso l’accoglienza che un antisemitismo aperto avrebbe avuto presso l’opinione
pubblica delle democrazie occidentali. Tanto più che proprio la congiura internazionale ebraica come tema propagandistico ben si prestava
ad essere sfruttato per giustificare le sanzioni e l’isolamento internazionale in cui l’Italia era caduta a seguito della guerra in Africa orientale.
Proprio la conquista dell’Etiopia è oggi indicata come un ulteriore, decisiva spinta verso la adozione di una normativa anti-ebraica. In Etiopia, infatti, come è noto, difronte alle ambizioni del fascismo che del
vasto paese del Corno d’Africa voleva fare una colonia di popolamento,
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
sulla sponda Svizzera del fiume, avrebbe rivolto frasi ingiuriose contro
gli italiani. Tutta la campagna tradiva l’obiettivo evidente di delegittimare l’antifascismo sottolineandone la pretesa estraneità alla nazione,
ma non poteva non suonare intimidatoria anche nei confronti degli
ebrei italiani nel loro complesso. Ad ogni buon conto, essa venne rapidamente messa da parte di fronte al complicarsi della situazione austriaca, che vedeva in quel momento opposte l’Italia fascista e la
Germania nazional-socialista, e dunque consigliava di mettere nuovamente la sordina agli accenti antisemiti.
Studi e ricerche
Quaderno di storia contemporanea/63
in grado di assorbire la sovrabbondante manodopera italiana cui era
preclusa da tempo la tradizionale valvola di sfogo dell’emigrazione, si
materializzò lo spettro del meticciato. Così pur dopo aver abbondantemente tollerato e incoraggiato, nella fase della conquista e della brutale
aggressione militare, a fini di propaganda l’uso di allusioni sessuali – implicitamente invitanti i soldati allo stupro delle donne locali –, in quella
della costruzione della società coloniale si varò una legislazione razziale
istitutiva un regime di apartheid, che costituì per la sua estensione e minuziosità un assoluto primato italiano. Il che non vuol dire – si osservi
en passant – che negli altri imperi coloniali europei non esistesse una gerarchizzazione razziale, invero talvolta assai precisa e stratificata, ma che
solo nel caso italiano fu avvertita la necessità di stabilire per legge in maniera sistematica quella che gli inglesi chiamano colour bar, altrove perlopiù affidata a meccanismi informali. Così il 1° giugno 1936
nell’ordinamento dell’Africa orientale italiana si introdusse una suddivisione degli abitanti della colonia in base all’appartenenza razziale – intesa
in senso biologico e non come nei precedenti ordinamenti liberali in
senso etnico-culturale o linguistico – e venne taciuta la possibilità per i
meticci di ottenere la cittadinanza italiana. La legge del 19 aprile 1937
contro il madamato punì invece con la reclusione fino a cinque anni le
relazioni di tipo coniugale fra cittadini italiani e sudditi dell’Africa orientale. Nei mesi successivi i governatori delle rispettive colonie adotteranno
con una serie di decreti disposizioni volte a separare completamente gli
italiani dai locali, in ogni aspetto della loro vita quotidiana, limitando al
minimo la loro interazione secondo il principio della “collaborazione
senza promiscuità”. La legge del 29 giugno 1939, Sanzioni penali per la difesa della razza, giunse a introdurre delle aggravanti per i reati commessi
da sudditi coloniali a danno di cittadini italiani, ma anche – seppur più
lievi – nel caso contrario, dal momento che tali tipologie di reato configuravano una lesione del prestigio della razza italiana quale razza dominante. Per le stesse ragioni, poco prima dell’ingresso in guerra, si regolò
definitivamente, con una norma apposita – legge del 13 maggio 1940 –
la questione del meticciato, precisando l’impossibilità per i “meticci” di
acquisire la cittadinanza italiana e addirittura impedendo al genitore cittadino italiano di riconoscerli legalmente.
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5. Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo notò come proprio l’esperienza coloniale fosse stata determinante per la nascita di concezioni
ideologiche e prassi sociali poi riprodotte nella madrepatria e confluite
nei movimenti totalitari. Da questo punto di vista, l’esperienza dell’Africa orientale fu davvero un laboratorio per il fascismo. Ad ispirare
la legislazione razziale nelle colonie non fu solo la necessità di dover governare con poche risorse un vasto impero – peraltro dotato di una
cultura millenaria e cristiana – facendo la scelta disonorevole di piegare una resistenza destinata a durare ancora a lungo dopo la caduta di
Addis Abeba con mezzi brutali, che non facevano distinzione fra combattenti e civili, e che in molti casi (si veda la vicenda del massacro di
Debra Libanos) si configuravano anche come un tentativo di annichilazione culturale e religiosa. Vi fu infatti anche la volontà di condurre
un esperimento sugli stessi italiani. La legislazione razziale non serviva
cioè solo a sottomettere completamente i locali nella prospettiva appunto di una colonia di popolamento, ma a infondere negli occupanti
realmente l’idea di una propria superiorità non solo culturale, ma biologica, da cui si faceva derivare il loro diritto alla dominazione degli
africani. Era dunque quella coloniale un’esperienza pedagogica nella
direzione di quella riconfigurazione dell’antropologia degli italiani –
l’italiano nuovo, virile, guerriero, obbediente, prolifico, legato profondamente ai valori della tradizione e alla terra, pronto all’estremo sacrificio per la patria e per il duce – cui il fascismo da sempre aspirava e che
rappresentava – lasciando da parte le motivazioni di carattere economico e le opportunità del momento – il filo rosso che legava fra loro,
almeno a partire dal discorso dell’Ascensione (1927), il ruralismo, la
battaglia del grano e la bonifica integrale, il pro-natalismo, la lotta contro l’urbanesimo e l’ostilità verso il controllo delle nascite, e naturalmente verso l’emancipazione femminile e verso qualsiasi cambiamento
sostanziale nelle relazioni fra i sessi che si discostasse in fondo dai modelli più tradizionali, con il cattolicesimo di Stato e l’anti-bolscevismo,
ma anche con l’avversione alla liberaldemocrazia e ai valori borghesi e
infine con il bellicismo e l’imperialismo. Di tutto questo, l’immagine
dell’ebreo – quella ipostatizzata dalla tradizione cattolica, come e ancor
di più quella dell’antisemitismo moderno razzista – estraneo alla patria
fascista per origine etnica e religione, naturalmente cosmopolita, indi-
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
Studi e ricerche
Quaderno di storia contemporanea/63
Studi e ricerche
cato quale ricettacolo dei valori borghesi e allo stesso tempo come pericoloso istigatore di rivoluzioni sociali, non virile, ma lascivo, incapace
di lavoro utile alla società e dunque sempre parassitario, speculatore e
infido, rappresentava una sorta di doppio, la proiezione rovesciata dell’italiano risvegliato a vita nuova dalla rivoluzione fascista. Ciò faceva
dell’antisemitismo un potenziale, efficacissimo tema propagandistico
da adottare per estendere anche nella madrepatria quella svolta razzista avviata in Africa orientale, nonostante l’inesistenza in Italia del cosiddetto “problema ebraico” viste le ridotte dimensioni della
popolazione ascrivibile a tale gruppo e le sue dinamiche demografiche
interne, e l’assenza nella storia della penisola di movimenti politici o
culturali antisemiti (ma non di un pregiudizio antiebraico). Ciò spiegherebbe appunto anche l’entusiasmo di Mussolini prima ricordato difronte ai risultati, in termini di mobilitazione delle masse, riscontrati in
Germania dalla campagna persecutoria nazista. In questo senso non si
configurerebbe l’alleato tedesco, almeno fino alle vicende di Salò, come
il suggeritore delle politiche anti-ebraiche e neppure come una potenza
da compiacere – non vi sono prove documentarie né in un senso né
nell’altro –, ma piuttosto si configurerebbe il razzismo nazional-socialista come un’esperienza di cui appunto meditare l’imitazione. E soprattutto come la dimostrazione del fatto che l’antisemitismo di Stato
fosse tecnicamente, politicamente e moralmente possibile.
6 – La storiografia è oggi dunque perlopiù d’accordo sul fatto che l’impulso alla legislazione anti-semita fu dovuto a ragioni prevalentemente
interne ai meccanismi di funzionamento del regime e alla sua relazione
con la società italiana, mentre il contesto internazionale fu sostanzialmente secondario nel determinare la svolta alla persecuzione dei diritti.
Non lo fu però nelle tempistiche. Non solo perché il 1938 è l’anno definitivo dell’alleanza fra Roma e Berlino – con tutto ciò che questo
volle significare di riflesso per il clima politico e ideologico italiano –
o per le tensioni internazionali che rendevano prossima la guerra europea, ma anche per il diffondersi nell’Europa orientale – a gennaio la
Romania di Carol II, a marzo la Polonia relativamente però ai soli ebrei
immigrati, a maggio l’Ungheria dell’ammiraglio Horty – di provvedimenti discriminatori, nei confronti delle minoranze ebraiche. Disposi-
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zioni peggiorate tutte sensibilmente negli anni del conflitto che videro
l’ulteriore estensione delle politiche antisemite anche ad altri paesi divenuti satellite della Germania nazista (Slovacchia, Croazia, Bulgaria).
In quei paesi l’antisemitismo era certo un facile capro espiatorio e dunque un efficace veicolo di consenso per movimenti reazionari ingrossati dalla crisi – politica e culturale – che accompagnava l’edificazione
o il consolidamento, dopo la Prima guerra mondiale, di stati nazionali
fragili, etnicamente compositi, attraversati da forti conflitti ideologici e
da revanchismi feroci, alimentati da logoranti confronti militari con i vicini o da tentativi rivoluzionari abortiti. La crescita dell’antisemitismo
era però un riflesso anche degli sconvolgimenti demografici prodotti
dalla fine dei tre grandi imperi centrali, con lo spostamento all’interno
di quella regione verso Occidente e verso le grandi città di centinaia di
migliaia di ebrei, prevalentemente non assimilati e non pienamente urbanizzati. Come per il passato – e si sarebbe tentati di dire come accade
oggi dal momento che la mappa dell’antisemitismo nell’Europa orientale degli anni Trenta è in gran parte coincidente con il gruppo dei paesi
di Visegrád impegnati a difendere i propri confini da movimenti di popolazione, più immaginati che reali, che ne minaccerebbero l’identità
culturale originaria – il panico per una presunta invasione ebraica straniera intervenne a rinfocolare l’ostilità anche per gli ebrei nazionali o locali, da sempre mal sopportati. Ciò accadeva tanto più in un periodo
storico in cui la diffusione degli ideali sionisti, quale alternativa all’assimilazione, e in genere la nascita di istituzioni ebraiche sopranazionali,
introdusse un ulteriore elemento di diffidenza, riproponendo il problema della effettiva fedeltà dei cittadini ebraici alle istituzioni nazionali
cui essi appartenevano. Il caso italiano da questo punto di vista non fu
poi così differente, se non per l’esiguità numerica della presenza ebraica
nella penisola (al censimento disposto dal regime nell’agosto del 1938
risultarono presenti 58412 ebrei, di cui 48032 italiani e 10380 stranieri,
la cui quota sul totale era però cresciuta fra il 1931 e il 1938 dal 12% al
20%). Anche il flusso di immigrati ebrei stranieri che vi arrivavano perlopiù solo per transitarvi e in maggioranza – a partire dal 1933 e soprattutto dal 1935 – dalla Germania, pur se assai debole in termini
assoluti, può aver avuto la sua influenza nel sollevare l’istanza di una
politica che salvaguardasse l’Italia dal divenire luogo ospitale per gli
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
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ebrei espulsi o in uscita dai paesi dell’Europa centrale (dove è il caso di
ricordarlo la popolazione ebraica era in termini assoluti e relativi di
gran lunga assai più numerosa). Dinamiche simili erano largamente in
corso nell’opinione pubblica della democratica Francia in cui si diffuse
incontrollato – sullo sfondo di una generale xenofobia e sulla base di
dati statistici artefatti che palesemente ne sovrastimano la presenza facendo di ogni immigrato dell’Europa orientale un ebreo – l’allarme –
lanciato da una destra in cui come è noto l’antisemitismo era robustamente radicato – per l’appunto di una presunta invasione ebraica. È il
caso di osservare che proprio questa presenza “eccessiva” sarà indicata
dalla propaganda di Vichy a giustificazione delle norme discriminatorie assunte contro gli ebrei (stranieri e francesi), quale causa principale
dell’avvenuta sconfitta militare e in generale della decadenza morale
della nazione negli anni della Terza Repubblica.
7. Ancora poco prima del varo definitivo della legislazione razziale,
Mussolini sembrava orientato a un provvedimento persecutorio parziale, che istituisse cioè delle fasce qualitative e quantitative all’interno
della popolazione ebraica, ipotizzando un numerus clausus nell’accesso a
determinate professioni o all’istruzione. Questa impostazione sarebbe
venuta successivamente rapidamente meno. La Dichiarazione sulla razza
del Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre di quell’anno profilava
infatti una persecuzione totale, con alcune esclusioni qualitative – paradossalmente definite discriminazioni –, che infine, nei provvedimenti
legislativi di novembre si rivelarono di portata assai limitata. L’impianto
della legge era di tipo razzistico, dal momento che gli ebrei erano definiti tali non per la religione professata, ma per la propria ascendenza,
e seguiva sostanzialmente le indicazioni contenute nel Manifesto degli
scienziati fascisti pubblicato il 14 luglio di quell’anno, di cui Mussolini si
vantava di essere stato il diretto ispiratore (e addirittura di averlo in
parte dettato). Il criterio per la definizione di ebreo era dunque il “sangue” e non la religione professata o una generica identità culturale (cosicché poteva darsi il caso di convertiti all’ebraismo esclusi dalle
persecuzioni). Stando così le cose, per l’attribuzione della qualità di
“ebreo” o di “ariano” nel caso di individui nati da coppie miste veniva
a delinearsi una complicata casistica. Semplificando, si decise – dopo
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una iniziale incertezza – che chiunque discendesse da tre nonni ebrei
fosse considerato sempre ebreo, mentre nel caso di coloro che discendevano da due nonni ebrei e due non ebrei, al criterio del sangue si associava quello della religione professata dall’individuo in questione e
dai suoi ascendenti. Per il riconoscimento della razza ariana occorreva
che questi al 1° ottobre del 1938 non appartenesse a religione ebraica
(e nel caso che entrambi i genitori fossero a loro volta discendenti da
coppie miste, che almeno uno di essi rispettasse lo stesso criterio) ovvero che fosse stato battezzato (ateismo e agnosticismo non erano considerati una prova del distacco dall’ebraismo). Ugualmente, anche i
discendenti da un solo nonno di razza ebraica per essere qualificati
come ariani non dovevano alla stessa data professare la religione mosaica. Per risolvere in prospettiva definitivamente il problema rappresentato dal “meticciato” nel novembre 1938 si sarebbe invece
proceduto a vietare direttamente i matrimoni misti fra ebrei, sudditi
coloniali (o ad essi affini) e italiani. Nel 1942 il divieto sarebbe stato
esteso anche alle unioni non registrate, in modo da sostanzialmente
impedire i matrimoni celebrati con il solo rito religioso. Le “discriminazioni”, ovvero le parziali esenzioni dai provvedimenti anti-ebraici,
riguardarono principalmente individui con particolari benemerenze di
ordine militare (decorati, volontari, feriti di guerra), politico (iscritti al
PNF ante-marcia o nel secondo semestre nel 1924), o per motivi eccezionali. Era previso che esse valessero anche per i discendenti, ma per
un massimo di due generazioni. Tale provvedimento non risparmiava
chi ne godesse dalle persecuzioni, semplicemente ne mitigava taluni effetti, relativi soprattutto alla possibilità di continuare a condurre la propria attività lavorativa. Per quanto riguarda gli ebrei stranieri, si
vietarono nuovi ingressi per “residenza” e si dispose l’espulsione di coloro che avevano assunto la residenza dopo il 1° gennaio 1919. Nel
caso degli ebrei provenienti dalla Germania o dall’Europa centrale si
decise inoltre il divieto di ingresso nel paese anche a scopo di “soggiorno” e infine nel maggio del 1940 anche solo per “transito”.
Le persone definite di razza ebraica furono espulse dal partito fascista
(il che in molti casi significò l’immediata perdita del lavoro) e allontanate da tutte le cariche pubbliche (con l’eccezione per riguardo alle prerogative del sovrano, dei nove senatori di origine ebraica cui però fu di
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
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fatto vietato di recarsi in Senato). I dipendenti di razza ebraica dello
Stato, di enti pubblici, parastatali o comunque a partecipazione statale,
furono licenziati nei mesi successivi alla promulgazione della legge. Gli
ebrei vennero esclusi anche dalle scuole private, dalle banche di interesse nazionale, dagli istituti di assicurazione. Sempre nel novembre
1938 si prescrisse che non potessero essere dirigenti e amministratori
di aziende di interesse nazionale o con più di cento addetti. Negli anni
successivi una gragnuola di disposizioni restrinsero ulteriormente le
occupazioni possibili per i cittadini di origine ebraica, con l’intento di
“arianizzare” progressivamente tutti i diversi settori dell’economia e
della società italiana. Nel settembre e nel novembre 1938 venne inoltre disposta l’esclusione degli studenti ebrei dalla università e dalla
scuola italiana, potendo continuare a frequentare la scuola in speciali sezioni riservate agli ebrei o nelle scuole private create dalle comunità
ebraiche. Si proibirono i libri di testo di autori ebrei e nei libri scolastici
ogni riferimento all’opera di ebrei morti dopo il 1850. Nell’editoria fu
vietata la pubblicazione di opere di ebrei e fu avviato il ritiro dal commercio e dalle biblioteche dei testi già editi. Anche il mondo dello spettacolo e della musica fu progressivamente arianizzato, con il
licenziamento – a partire nel 1938 dai teatri e dalle istituzioni dipendenti
dallo Stato – dei lavoratori di origine ebraica e il divieto di rappresentare o eseguire opere di autori ebrei. Mentre fu permesso alle Comunità israelite di continuare regolarmente a funzionare, tutti i periodici
ebraici furono costretti alla chiusura, fu rigorosamente vietata la pubblicità di ditte ebraiche e venne arianizzata la toponomastica delle città
italiane. I nominativi degli abbonati di origine ebraica furono cancellati
dagli elenchi telefonici, e agli ebrei fu impedito l’accesso alle biblioteche o il possesso di un apparecchio radiofonico! Con decreti leggi del
novembre del 1938 e del 1939 fu inoltre disposto che gli ebrei non potessero possedere beni immobili superiori a 5000 lire di valore catastale
per i terreni e a 20 000 per le abitazioni. La misura eccedente fu trasferita a un ente ad hoc, l’EGELI (Ente di gestione e liquidazione immobiliare) che avrebbe versato modici interessi agli ex proprietari.
8. La finalità dei provvedimenti razziali era dunque separare nettamente
gli ebrei dal resto della nazione per poi precedere successivamente alla
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loro espulsione. Per questo, si decise innanzitutto di permettere le emigrazioni (per quanto si cercasse di impedire che ciò danneggiasse l’economia nazionale limitando la possibilità di spostamento dei capitali)
che riguardarono in quella fase circa l’8% degli ebrei italiani. In previsione di ciò, durante il conflitto – che peraltro appunto significò l’impossibilità pratica di emigrare altrove – la persecuzione fu inasprita con
l’istituzione del lavoro obbligatorio (maggio 1942) per gli abili al lavoro
e la previsione – poi non realizzata – di un loro completo isolamento
in campi di concentramento, così come si era fatto a inizio guerra con
gli ebrei stranieri, con la costruzione del campo di Ferramonti di Tarsia in Calabria. Il progetto, la cui realizzazione era allo stato programmatico al 25 luglio 1943, era dunque quello di una completa
eliminazione – attraverso l’espulsione a fine guerra – della popolazione
ebraica dal nostro paese. È indubbio che l’insieme di tutti questi provvedimenti – che diminuirono le risorse a loro disposizione – innanzitutto quelle economiche – e peraltro significarono fin dal loro esordio
la ripetuta schedatura degli ebrei presso anagrafi comunali, questure e
prefetture, anche a ragione dei continui obblighi di autodenuncia, e una
continua assunzione di informazioni circa spostamenti, proprietà, attività lavorative, cambiamenti nello stato di famiglia eccetera, spesso fornite direttamente da coloro (e furono migliaia) che fecero domanda di
“discriminazione” o richiesero fosse rivista la loro qualificazione razziale – facilitò enormemente la successiva fase della persecuzione delle
vite, apertasi con l’occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943. Solo
studi complessivi sull’antisemitismo nel nostro paese – peraltro difficilissimi da condursi – e sugli effetti su di esso generati dalla svolta del
1938, potranno dirci in che misura i provvedimenti razziali – rafforzando l’antisemitismo e isolando gli ebrei nella società – abbiano reso
più difficile la loro ricerca di una via di salvezza dalle deportazioni. Sebbene nel caso italiano la proporzione della popolazione ebraica sterminata nei campi nazisti sia inferiore a quella di molti altri paesi
occupati dai tedeschi e se è indubbiamente vero che ciò fu dovuto
anche alla solidarietà di molti italiani “ariani”, è altrettanto certo che la
“persecuzione delle vite” sarebbe stata meno efficace in assenza di un
diffuso antisemitismo, che invece spinse in molti – per odio, ma anche
per avidità o spesso per le due cose assieme – a collaborare con la mac-
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china delle deportazioni.
Nell’immediato, le leggi antiebraiche parvero cogliere di sorpresa gli
ebrei italiani, molti dei quali erano stati sinceramente fascisti e fra i quali
comunque generalmente il sentimento di italianità e la fedeltà a casa
Savoia erano fortemente radicati. Per molti addirittura si potrebbe dire
significò vedersi ascrivere una diversità che se non si può dire non avessero mai avvertito prima, comunque non sentivano essere corrispondente alla propria identità culturale, secondo – ma gli esempi italiani
non mancherebbero – l’adagio di Marc Bloch il quale sosteneva di sentirsi ebreo solo in presenza di un antisemita. Nei mesi successivi si
trattò per loro di prendere le misure alla nuova situazione venutasi a
creare – che in qualche modo li riproiettava in una condizione di segregazione, immateriale e non più fisica, ma non lontana da quella sperimentata nel passato nei ghetti. Si trattava di elaborare strategie di
adattamento, sia a livello comunitario, sia a livello famigliare e personale, da aggiornare continuamente ai repentini mutamenti delle disposizioni anti-ebraiche, divenute infine con l’occupazione tedesca e la
decisione nel novembre del 1943 da parte della Repubblica sociale italiana di parificare gli ebrei a cittadini di nazione nemica e dunque di associarsi attivamente alla caccia all’ebreo da subito estesa anche all’Italia
dai tedeschi, strategie di sopravvivenza. Sul lungo periodo – anche autonomamente da quanto sarebbe seguito – i cinque anni (1938-1943)
della persecuzione dei diritti erano così destinati indelebilmente a modificare l’identità stessa dell’ebraismo italiano, religiosa, politica e culturale, come a intaccarne la consistenza e la composizione demografica,
per vie delle emigrazioni e del crollo della natalità e della nuzialità seguiti alla loro adozione, e a degradarne il profilo socio-economico.
9. La citazione di apertura di questo testo, è tratta da una lettera a
“Specchio dei Tempi”, pubblicata in “La Stampa” del 29 novembre
1959, scritta da una coraggiosa ragazzina torinese di tredici anni (si
firmò la figlia di un fascista che vorrebbe sapere la verità, per inciso a risponderle fu Primo Levi), dopo aver visitato quella che fu la prima mostra
italiana sui campi di concentramento (l’iniziativa nacque a Carpi e il
primo allestimento fu fatto a Fossoli nel 1955). La domanda drammatica di storia lì presente è ancora oggi in fondo inevasa, ma in gran
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parte – come in una sorta di ribaltamento – per ragioni opposte. Sui
libri di scuola le leggi razziali e la Shoah sono raccontate, eccome. E migliaia di studenti italiani visitano ogni anno i campi di concentramento
e di sterminio. Contrariamente a quanto succedeva nell’Italia dei primi
anni Cinquanta la rimozione nelle nostre coscienze non però è il prodotto – come nota Cavaglion nel libro Il senso dell’arca. Ebrei senza saperlo
da cui ho tratto la citazione – di una mancanza di dati, di informazioni,
e neppure di un oblio lenitivo, comprensibilissimo nell’immediato dopoguerra, ma all’opposto di un troppo pieno, di un eccesso che sembra ricondurre ancora una volta a meccanismi di banalizzazione
generatori d’indifferenza. È questo forse l’ostacolo maggiore – oggi –
affinché la conoscenza storica che pur è progredita enormemente in
questi anni diventi senso storico, memoria collettiva, avendo ragione
di luoghi comuni ancora così diffusi. E questo non per il gusto di imporci una memoria afflittiva di quanto successo in Europa e nel nostro paese, ma per averne degli elementi di comprensione del nostro
presente che per quanto diverso da quel passato, non ne è separato e
non può esserlo. Del resto come non vedere – pur volendo sottrarsi a
analogie semplicistiche – quanto quei vuoti di memoria continuino a
pesare nella nostra attualità, in relazione per es. al ritorno di correnti xenofobe, gelose custodi di identità nazionali o locali supposte omogenee, pur sempre basate sull’appartenenza etnica (qualcosa insomma
che non si può acquisire), nonostante tutti i tentativi di presentarle in
omaggio al politically correct come legittimate da elementi culturali, a ben
vedere sempre ipostatizzati e destoricizzati (dal momento che appunto
come in un passato certo più tragico si nega che le culture siano per natura ibride e in continua mutazione). Si trasponga per fare forse l’esempio più estremo, la domanda di quella ragazzina torinese del 1959 nella
Polonia di oggi, paese ormai da tempo aderente all’Unione Europea, e
si constati pur con tutte le differenze del caso come essa vi sia inopinatamente negata nelle sua stessa legittimità da una legge dello Stato
sulla memoria della Shoah adottata recentemente. Ma non è necessario allontanarsi troppo nello spazio per verificare quanto il lascito in
negativo di quella stagione ci interroghi ancora oggi. Le leggi razziali fasciste – e i testi riprodotti nel presente “Quaderno di storia contemporanea” vogliono ricordacelo – non furono infondo altro che un
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Cesare Panizza, Le leggi razziali del 1938 in Italia
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tentativo di rispondere autoritariamente, fissando un perimetro invalicabile e con l’ambizione che fosse per sempre, alla domanda relativa a
chi siano gli italiani. È la stessa domanda – fuor di retorica – di fronte alla
quale ci troviamo noi oggi come collettività nazionale.
Studi e ricerche
Note
1. Cfr. A. Foa, Le leggi antiebraiche del 1938: memoria, storia, senso comune storiografico. Spunti per una riflessione, in O. Longo, M. Jona (a cura di), Le leggi razziali antiebraiche fra le due guerre mondiali, Atti del convegno, Accademia Galileiana di
Scienze Lettere ed Arti, Padova, 13-14 ottobre 2008, Firenze, Giuntina, 2009;
pagg. 121-124; e Ead., Le leggi del 1938 nella memoria e nella storia, in M. Beer, A.
Foa, I. Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria,
rimozione, Roma, Viella, 2010; pagg. 125-132. Più in generale sulle leggi razziali
fasciste rimando a A. Capelli, R. Broggini (a cura di), Antisemitismo in Europa
negli anni Trenta. Legislazioni a confronto, Milano, Franco Angeli, 2001; A. Cavaglion, Il senso dell’arca. Ebrei senza saperlo: nuove riflessioni, Napoli, L’Ancora del
Mediterraneo, 2006; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia,
Bari-Roma, Laterza, 2003; R. De Felice, Storia degli ebrei sotto il fascismo, Torino,
Einaudi, 1997 (1° ed. 1961); G. Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al razzismo: la formazione di un antisemita, Milano, Garzanti, 2005; A. Matard-Bonucci,
L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Parigi, Perrin, 2007; S. Miselli, F. Zarzana,
La scure su Davide. Le leggi razziali del 1938, Milano, Franco Angeli, 2005; M.
Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi,
2007; M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Torino, Einaudi,
2002; S. Stefanori, Ordinaria amministrazione. Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana, Roma-Bari, Laterza, 2017.
2. Cfr. G. Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al razzismo: la formazione di un
antisemita, cit.
3. Cfr. A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste et la persécution des juifs, cit.
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