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Essenza e forme della simpatia 153 Guido Cusinato, Roberta De Monticelli e Matthias Schlossberger discutono Essenza e forme della simpatia di Max Scheler Unipatia ed espressività nel «Sympathiebuch» di Max Scheler Guido Cusinato L’irruzione dei fattori reali nella filosofia di Scheler Il Sympathiebuch (1923) di Max Scheler rappresenta l’opera che annuncia il superamento del periodo intermedio del suo percorso filosofico1. Si tratta di un testo fluido in cui convivono posizioni non ancora ben delineate. Un esempio per tutti: nel Sympathiebuch si afferma, in esplicito contrasto con Freud, che lo spirito è dotato di un’energia indipendente dall’energia pulsionale della libido (GW VII, p. 207), mentre solo un anno dopo, in Probleme einer Soziologie des Wissens (1924), si sostiene al contrario che «lo spirito in quanto tale non ha in sé originariamente una qualsiasi traccia di forza o efficacia» (GW VIII, p. 21). Che cosa succede per negare nel 1924 quanto si era affermato solo nel 1923? In realtà, a guardar bene, il Sympathiebuch rappresenta già una messa in discussione delle tesi classiche del periodo intermedio, come dimostra anche l’esplicita presa di distanza dalla tesi del «nous poietikos» (cfr. GW VII, p. 90). Nel 1923 i motivi della svolta covavano già da tempo. Essi vanno ricercati nella riflessione sull’esperienza della catastrofe bellica e della tragedia del primo dopoguerra tedesco. Il Sympathiebuch è lo scritto in cui essi giungono a maturazione facendo improvvisamente irrompere i fattori reali nel sistema filosofico di Scheler. Con il Sympathiebuch entra in crisi anche una certa concezione del cristianesimo. Di fronte ai risultati della prima guerra mondiale Scheler si rende conto che non è più possibile riunificare l’Europa rifacendosi a un unico blocco omogeneo di tradizioni, nazioni e ideali politici2. L’autocritica è evidente dal momento che 1 M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie (1923), in Id., Gesammelte Werke, a cura di M. Scheu e M. Frings, Bonn, Bouvier Verlag, 1954-1997 (d’ora in poi nel testo GW, con il volume in numero romano e in arabo le pagine; tutte le traduzioni sono opera del sottoscritto), vol. VII, pp. 7-258, trad. it. di L. Oliva e S. Soannini, Essenza e forme della simpatia, a cura di L. Boella, Milano, Franco Angeli, 2010 (il testo italiano riporta la paginazione dell’edizione originale), al quale si farà riferimento nel testo che segue come Sympathiebuch. 2 Uno scritto che riassume molto bene il senso delle prime riflessioni di Scheler dopo la catastrofe della Prima guerra mondiale è Ernst Troeltsch sociologo (1923), dove traspare una nuova consapevolezza nei confronti della forza dei fattori reali, inimmaginabile nel periodo intermedio: «i fattori sociologici reali […] limitano l’azione delle idee» (GW VI, p. 384). «Iride», a. XXV, n. 65, gennaio-aprile 2012 154 Max Scheler fino al 1914 Scheler aveva sperato in una anacronistica riunificazione dell’Europa in nome dell’unità cristiana medioevale e all’insegna di una lotta contro la modernità e le conseguenze della rivoluzione francese, tanto da vedere nell’imminente guerra un’occasione offerta ai popoli europei per liberarsi, con l’aiuto della Germania, dalle maglie di quel cancro inguaribile che è il capitalismo. Ma già a pochi mesi dall’inizio della guerra Scheler si rende conto che la rinascita di un’Europa cristiana potrà avvenire solo grazie a una rinascita del cristianesimo stesso, proiettando sul piano della coscienza collettiva lo schema del «pentimento e rinascita» già individuato a livello individuale. Il cristianesimo all’altezza dei nuovi tempi è quello che accetta la sfida di farsi interprete del futuro dell’Europa, non quello che si limita a riproporre nostalgicamente l’ideale politico delle classi dominanti travolte dal disastro della prima guerra mondiale. Così in Prophetischer oder marxistischer Sozialismus? (1919) Scheler mette in luce la validità di molte questioni sollevate nell’ambito sociale dal socialismo non violento, mentre nello scritto Zur Idee des ewigen Friedens und der Pazifismus (1926-28) individua autocriticamente i veri «nemici» della Germania nel militarismo, nel nazionalismo e nella «metafisica della guerra», a cui contrappone l’ideale kantiano della pace perpetua, quale «valore incondizionato». Il «Sympathiebuch» e la figura di San Francesco Questa rottura è documentata dalle pagine su San Francesco aggiunte nell’Agosto del 1922 nel capitolo sull’«unipatia cosmica» (cfr. GW VII, pp. 97-104) in occasione della seconda edizione del Sympathiebuch3. Con un tono apparentemente critico, ma in realtà già perdutamente conquistato, Scheler parla di una grave «eresia», se non dell’intelletto sicuramente del cuore, diffusa «inconsapevolmente» da San Francesco, per poi aggiungere che «se Francesco fosse stato un teologo e un filosofo, cosa che fortunatamente per lui, e ancor di più per noi, non fu, avrebbe cercato di tradurre in rigorosi concetti la sua visione di Dio e del mondo» (GW VII, p. 101). Agli occhi affascinati di Scheler, San Francesco, rinunciando con la sua semplicità a costruire un qualsiasi sistema filosofico o teologico, riuscì a evitare uno scontro nefasto con la Chiesa e a salvare il cristianesimo, portando alla luce una rivalutazione della natura di una portata «sconosciuta al cristianesimo storico prima di Francesco e che è stata il suo “ipsissimus”, nonché la fonte sorgiva della sua missione sociale [...] come della sua influenza, liberatrice d’ogni fissità, sull’arte del Trecento (Giotto) e della sua influenza indiretta, ma da non sottovalutare, sulla nuova scienza e filosofia della natura» (GW VII, pp. 101s.). La novità esplicitata da San Francesco consiste nell’instaurazione di un nuovo rapporto «unipatico» con la natura, rapporto alla base del «panenteismo»: «così facendo Francesco certo non sarebbe mai diventato “panteista”, tuttavia avrebbe dovuto includere nella sua concezione un pezzo di “panenteismo”» (GW VII, p. 101). In modo piuttosto stupefacente Scheler attribuisce quindi all’«eresia» di Francesco la paternità di quel «panenteismo» a cui aderirà nell’ultimo pe3 Sulla figura di San Francesco nel Sympathiebuch mi permetto di rinviare a G. Cusinato, Scheler. Il Dio in divenire, Padova, EMS, 2001. Essenza e forme della simpatia 155 riodo, intendendo con esso il tentativo di riabilitare la natura e i fattori reali senza ricadere nel paganesimo. Ma da dove ha origine «questo nuovo momento panenteistico dell’unipatia [Einsfühlung]? [...] La radice ultima di ogni unipatia è e rimane l’eros» (GW VII, p. 102). L’opera di San Francesco, uno dei maggiori formatori d’anime dell’umanità, è consistita nel superamento della contrapposizione fra eros e agape, nella compenetrazione dell’amare personale «acosmico» (nel senso di non rivolto al mondo) con l’unipatia «cosmicovitale» (cfr. GW VII, p. 97). San Francesco diventa per Scheler l’esempio concreto della loro sintesi superiore: «si tratta di un unico movimento di eros e agape (un’agape radicata profondamente nell’amor Dei e amor in Deo), un movimento che trova espressione in un’anima autenticamente santa e geniale, e in definitiva d’una compenetrazione così completa di ambedue da rappresentare ad un tempo il maggior ed elevato esempio che mi sia noto di “spiritualizzazione della vita” e di “vivificazione dello spirito”» (GW VII, p. 103). Nel cristianesimo è sempre stato presente un atteggiamento di disprezzo verso il mondo. Questa tendenza ha avuto una delle sue fonti principali in Marcione. E che Marcione continui a rimanere presente all’interno del cristianesimo esercitando un influsso rilevante, viene sottolineato, in anni a noi più vicini, anche da Jacob Taubes. Marcione, nota Taubes, ha estremizzato le differenze che San Paolo individua tra Antico e Nuovo Testamento, tuttavia se non ha capito San Paolo non lo ha neppure completamente frainteso4. Si tratta di un ragionamento che funziona, tuttavia in questo ragionamento manca una figura importante: quella di San Francesco. Scheler si interessa a Marcione nel 19225, leggendo il famoso libro di Adolf von Harnack6, ed è proprio a quell’anno che vanno fatte risalire le pagine su San Francesco aggiunge nella seconda edizione del Sympathiebuch7. L’ipotesi di Scheler, al contrario di quanto sosterrà poi Taubes, è tuttavia che il cristianesimo riesce a confutare Marcione: certo non a opera dei Padri della Chiesa, bensì di San Francesco. E questo risultato viene conseguito estendendo la sacralità a tutta la natura (grazie all’unipatia), ma senza negare la trascendenza (grazie all’eccedenza agapica) in modo da evitare così di ricadere nel paganesimo o nel panteismo. Invece nella teologia di San Paolo non viene neutralizzato il rischio di una esaltazione unilaterale dell’«amore acosmico», con la conseguenza di esporre la natura a una desacralizzazione, premessa indispensabile a quel processo che ha finito con il sottoporla all’incondizionato dominio della volontà umana: «Nella misura in cui l’uomo si sente drasticamente al di fuori della natura […] e raccoglie tutte insieme le forze che si vanno liberando nell’atto della unipatia in Cristo, quell’atto che a cominciare da Paolo è guidato dall’amore acosmico per Gesù Cristo, [...] la natura diventa in linea di principio un oggetto privo di vita, 4 J. Taubes, Die Politische Theologie des Paulus, München, Wilhelm Fink Verlag, 1993, p. 82, trad. it. La teologia politica di san Paolo, Milano, Garzanti, 1997. 5 Cfr. per esempio, la nota 1, aggiunta a Liebe und Erkenntnis, in GW VI, p. 93. 6 A. v. Harnack, Marcion: Das Evangelium vom fremden Gott. Eine Monographie zur Geschichte der Grundlegung der katholischen Kirche, Leipzig, J. C. Hinrichs, 1921 7 La posizione di Scheler verso Marcione è esplicitata anche in un manoscritto del 1923 – tuttora inedito anche in tedesco – in cui s’afferma che: «la condanna morale che Marcione pronuncia nei confronti del mondo è falsa» (Nachlaß, ANA 315, CA IX, 37). 156 Max Scheler sottoposto al dominio della volontà spirituale dell’uomo» (GW VII, pp. 94s.). Tale sdivinizzazione della natura priva la natura di ogni valore e di ogni diritto, e la separa dall’atto creativo: in tal modo solo l’uomo ha diritti. Ma tale incapacità di conservare un atteggiamento etico nei confronti della natura finisce con il mettere in crisi la stessa elevazione dell’uomo: l’uomo considerandosi immagine di Dio pensa di aver il diritto di dominare illimitatamente sul creato, così come Dio stesso. Tuttavia il dominio tecnologico dell’uomo sulla natura diventa il canone attraverso cui viene ricostruita la stessa immagine di Dio. Il risultato non può che essere una catastrofe: la volontà del soggetto umano trasferisce tutta la sacralità della natura in un Dio completamente trascendente, ma dopo aver assunto il dominio completo sulla natura identifica Dio con una onnipotenza tecnologica, oppure semplicemente si dimentica di Dio. Nell’assolutizzazione unilaterale dell’amore acosmico «si verifica un’enorme devitalizzazione e disanimazione dell’intera natura [...] che portò per secoli – fino al movimento francescano […] – a bollare come pagana ogni tipo di unipatia con la natura» (GW VII, p. 95). Soltanto nell’essenza e nella storia dei misteri e dei sacramenti cristiani – prosegue Scheler – è rimasta una qualche remota traccia di un contatto fra il divino e la natura, e precisamente nell’identificazione del corpo e del sangue del Signore con il pane e il vino. «Fino al movimento francescano…»: è solo con San Francesco che infatti il cristianesimo riesce a parlare di amore verso la natura senza ricadere nel paganesimo. Mentre un amare unilateralmente acosmico apre le porte alla tesi dell’onnipotenza tecnologica del soggetto, l’assolutizzazione dell’unipatia cosmica era infatti da sempre sfociata nelle varie forme di panteismo e di naturalismo. Sotto questo aspetto San Francesco enuncia un nuovo Vangelo, in quanto non ha nessun precursore in tutta la storia cristiana dell’occidente. «Ciò che più ci colpisce – anche occupandoci solo superficialmente di Francesco d’Assisi e delle sue orme terrene – è il fatto che egli chiami fratelli e sorelle anche il sole e la luna, l’acqua e il fuoco, così come animali e piante d’ogni specie. È il fatto che egli attuasse un’espansione della mozione specificamente cristiana dell’amore di Dio come Padre, dell’amore fraterno e dell’amore del prossimo “in” Dio, a tutta la natura infraumana, e che al contempo attuasse, o sembrasse attuare, un’elevazione della natura alla luce e allo splendore del sovrannaturale» (GW VII, p. 97). Per Scheler Francesco salva il cristianesimo perché è in grado di far convergere «amore acosmico» e «unipatia cosmica», «vitalizzazione dello spirito» e «spiritualizzazione della vita», riuscendo a concretizzare nella propria esistenza e azione l’unione stessa di questi due momenti. Espressività e unipatia Lo sfondo da cui emerge il Sympathiebuch è dunque il tentativo di superare la contrapposizione fra «amore acosmico» e «unipatia cosmica». L’unipatia indica per Scheler la via per superare il dualismo fra vita e spirito: è la prova che vita e psichicità coincidono. Nell’uomo essa rappresenta quel regno di mezzo, costituito dalla «coscienza vitale» (Vitalbewusstsein), che media fra il centro fisiologico (Leib-Körper) e quello personale dell’uomo (cfr. GW VII, pp. 44-46). Essenza e forme della simpatia 157 Sempre in questo senso non va inoltre dimenticato che nel Sympathiebuch accanto all’espressione «unipatia cosmicovitale» compare anche quella di «unipatia in Cristo» (GW VII, p. 94). Quella dell’unipatia è una delle tesi più discusse del sistema scheleriano, anche per le sue conseguenze sulla teoria dell’identità e della percezione dell’alterità: secondo Scheler infatti l’esperienza del Noi precede quella dell’Io, e la dimensione sociale non sopraggiunge in un secondo tempo, ma è costitutiva dell’identità dell’Io. Qui Scheler risulterà in sintonia con la tesi del social self di George Herbert Mead, quando questi mette in luce come l’individuo costituisca la propria identità imparando a porsi «in the role of the other person», e come questo avvenga già nei bambini attraverso il gioco e l’imitazione dei ruoli sociali dell’adulto8. Paradossalmente a livello noicentrico per Scheler il mio vissuto è uguale a quello dell’altro in quanto non c’è ancora differenziazione fra Io e Tu, ed esiste solo un Noi. In questa situazione il percorso espressivo di quel vissuto è già codificato socialmente nella tradizione e disponibile immediatamente a tutti i membri di una stessa unità sociale: viene assimilato come l’aria o il latte materno. Così il neonato è inizialmente immerso in un Noi indifferenziato con la madre. Solo a poco a poco diventa consapevole della propria identità nella misura in cui mette a fuoco l’alterità della madre: l’Io e il Tu si definiscono cioè in un unico processo, per cui l’individuo è contagiato fin dall’inizio dall’alterità9. Più tardi un processo simile di emancipazione avviene nei confronti della comunità di origine e del mondo comune. È quindi solo molto gradualmente che l’individuo guadagna una prospettiva unica e inconfondibile: «l’uomo inizialmente vive più negli altri che in se stesso, più nella comunità che nella sua individualità. [...] Solo molto lentamente il bambino solleva, per così dire, la propria testa spirituale al di sopra del flusso noicentrico e diventa un individuo che talvolta ha sentimenti, idee e pulsioni proprie» (GW VII, p. 241). Una tesi apparentemente simile compare una decina d’anni dopo in Husserl: «noi abbiamo in comune un mondo già dato, il mondo che è e che vale per noi, il mondo in cui noi, anche nel nostro vivere-insieme, facciamo parte, il mondo per tutti noi»10. È attraverso il contesto, cioè gli schemi comuni di tale «soggettività del noi» (Wir-Subjektivität), che possiamo comprendere l’altro, non a partire da un proprio soggettivo schema mentale. Sennonché Husserl aggiunge che l’accesso al proprio vissuto, al contrario del vissuto altrui, non ha bisogno di essere mediato dal «mondo oggettivo comune». Più esattamente Husserl suppone che la realtà individuale, cioè l’Io monadico, non sia il risultato, ma piuttosto il punto di partenza trascendentale. I problemi nascono perché in questa prospettiva 8 Cfr. G. H. Mead, Mente, sé e società (1934), Firenze, Giunti, 1966. Il testo di Mead, che si basa su un corso universitario del 1927, rappresenta, assieme al Sympathiebuch di Scheler, uno dei tentativi più significativi del Novecento di ripensare il problema dell’identità dell’essere umano in senso non solipsistico. Un importante tentativo di mediare fra le posizioni di Scheler e Mead è rappresentato dai lavori di Alfred Schütz. 9 Per un approfondimento della teoria dell’alterità nel Sympathiebuch rinvio a G. Cusinato, Espressività, empatia, intersoggettività, in «Phenomenologylab», 2010, pp. 1-12. 10 E. Husserl, La crisi delle scienze europee (1936), trad. it. di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 2002, p. 139. 158 Max Scheler dell’altro coglierò sempre e soltanto ciò che ho già in comune con esso, quindi non farò mai l’esperienza concreta di una alterità realmente destabilizzante. Inoltre se tutto ciò che si riferisce alla prima persona è psicologismo, e la fenomenologia viene intesa come la ricerca delle leggi universali della manifestazione, se ciò che interessa è cosa caratterizza il modo di essere oggettivo del fenomeno e non il modo di sentirlo, allora come fondare l’oggettività della sfera primordiale senza far ricorso all’intersoggettività? L’armonia prestabilita della comunità delle monadi non è essa stessa una intersoggettività trascendentale? Alfred Schütz rinuncia a questa ipotesi husserliana ponendo il piano dell’intersoggettività trascendentale a livello del mondo sociale (ma in questo caso il termine Lebenswelt, cioè mondo vitale, appare inappropriato). Scheler al contrario prevede come Husserl un livello precedente l’intersoggettività sociale, ma lo identifica con il mondo vitale nel senso di «unipatico». Affinché ci possa essere una sincronizzazione fra le varie forme di espressività della vita va presupposta un’unità partecipativa originaria della vita stessa. Ciò non significa ricadere nel panpsichismo, che estende alla materia alcuni caratteri propri della psiche umana (per esempio, forme embrionali di pensiero, coscienza o mentalismo) e neppure nell’ilozoismo che estende alla materia alcuni caratteri propri della vita. La capacità di interagire con l’espressività è infatti un carattere del tutto assente nella materia inorganica. È la tesi, esposta proprio nel Sympathiebuch, secondo cui alla vita universale (Alleben) corrisponderebbe una grammatica universale dell’espressività a cui avrebbe accesso, a diversi livelli di profondità, ogni essere vivente nella forma dell’unipatia (Einsfühlung). Il problema posto da Scheler con l’unipatia ricorda, per diversi aspetti, la tesi esposta con maggior fortuna da Gregory Bateson, secondo cui esisterebbe una struttura che connette tutte le creature viventi, per cui l’attività «epistemologica» di ogni singolo organismo non avverrebbe in modo isolato, ma sulla base di una «sacra unità della biosfera», l’ecologia planetaria, che funziona essa stessa come una super-mente ecologica: il conoscere di ogni singolo organismo vivente non sarebbe altro che «una piccola parte di un più ampio conoscere integrato che tiene unita l’intera biosfera o creazione»11. Per capire l’effettiva divergenza fra Husserl e Scheler occorre superare un grave fraintendimento: per Scheler la trasparenza unipatica che vale a livello noicentrico non sussiste più a livello personale. Affermare che posso cogliere il vissuto dell’altro senza la mediazione di ragionamenti per analogia, non significa affatto che possa vivere il suo vissuto esattamente come lo vive lui. Su questo punto in realtà Husserl e Scheler hanno una posizione simile: nessuno potrà rivivere il mio Erlebnis intimo nello stesso modo in cui lo sento Io. Scheler a proposito è categorico: l’altro conserva «una sfera assolutamente intima del suo Io che non ci può mai essere data» (GW VII, p. 21). Ogni uomo possiede infatti «solo per 11 G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria (1979), Milano, Adelphi, 1984, p. 122. Per un approfondimento di questi temi cfr. il paragrafo «L’unipatia e la grammatica universale dell’espressività», in G. Cusinato, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 252-254. Essenza e forme della simpatia 159 se stesso sia la coscienza del proprio corpo vivo, sia il proprio centro spirituale personale, che per natura è sempre individuale» (GW VII, p. 44). Le prospettive sono però diverse: per Husserl tale inacessibilità deriva dal fatto che quell’intimità coincide con la dimensione monadica, primordiale, precedente il piano del mondo comune. In Scheler invece questa unicità della sfera intima non è il punto di partenza di un soggetto monadico, ma al contrario solo il punto di arrivo di un faticoso processo d’individuazione. All’inizio viviamo il vissuto della gioia secondo gli stessi schemi sociali dominanti, poi gradualmente, attraverso un percorso d’individualizzazione di secondo grado – che s’identifica con il processo di formazione della persona, o meglio con la cura sui – ognuno guadagna un accesso privato al proprio vissuto. A quel punto Scheler nota che l’altro diventa opaco in quanto non sarà più possibile «cogliere in modo pienamente adeguato questo Io individuale nel suo modo proprio di inserirsi in ogni vissuto psichico, ma sempre e solo l’aspetto del suo Io individuale condizionato attraverso il nostro particolare modo di essere individuale» (GW VII, p. 21). Al livello personale la trasparenza unipatica viene sostituita dall’apertura compartecipativa, apertura che rivoluziona la logica unipatica. Da qui due modi distinti, se non opposti, d’intendere la riduzione fenomenologica: come messa fra parentesi del mondo in comune per ritornare indietro alla dimensione originaria dell’Io trascendentale (Husserl) e come messa fra parentesi del mondo in comune per trascendere il proprio sé fattuale e rinascere come nuova persona (Scheler). In tal modo riemerge anche la differenza che aveva inizialmente separato Scheler e Husserl: a Husserl bisognerà chiedere come fa una monade, già individualizzata prima del confronto con l’altro, a incontrare concretamente l’altro, cioè a fare l’esperienza di una alterità che eccede le attese monadiche. A Scheler invece come fa l’Io a diventare diverso dal Noi (individualizzazione di primo grado) e dal Tu (individualizzazione di secondo grado). Espressività e individuazione Si è visto che la persona esprime una prospettiva precisa e inconfondibile sul mondo, ma questa visuale non è data fin dall’inizio, bensì come risultato di un difficile processo ontogenetico di deviazione dalla prospettiva dominante nel mondo comune. In tal modo il vissuto della gioia assume un significato diverso a seconda della costellazione valoriale di ogni persona, non in quanto riconducibile a un punto di partenza monadico, ma in quanto punto d’arrivo di un processo ontogenetico di formazione della persona. Inizialmente l’intenzionalità affettiva dell’individuo s’identifica con quella della propria comunità di appartenenza: gli schemi dominanti a livello noicentrico sono quelli della grammatica universale dell’affettività umana. Per esemplificare questa prospettiva è utile far riferimento alle «emozioni fondamentali» su cui ha lavorato Paul Ekman12: queste potrebbero essere considerate il quadro di riferimento iniziale da cui parte l’individuazione del centro personale. Quello 12 Cfr. P. Ekman, Basic Emotions, in Handbook of Cognition and Emotion, a cura di T. Dalgleish e M. Power, Sussex, Wiley & Sons Ltd., 1999. 160 Max Scheler che mi è dato in una delle emozioni fondamentali di Ekman è solo uno schema impersonale uguale per tutti, ma proprio per questo facilmente empatizzabile e codificabile socialmente. È il percorso espressivo compiuto successivamente che caratterizza il vissuto unico e inconfondibile di una persona. La parte più ricca non è quindi all’inizio, ma nella superficie espressiva. È nell’avanzare nell’apertura al mondo, nel compartecipare, che la persona s’individualizza, non nel regredire a una presunta fase monadica trascendentale. Da quando viene imboccata questa deviazione nessun altro potrà avere un accesso privilegiato a quel vissuto, perché esso risulta più ricco della «emozione fondamentale» da cui ha preso le mosse. Io non posso vivere esattamente lo stesso vissuto dell’altro, perché se così fosse dovrei pormi nella prospettiva ontogenetica dell’altro, cioè dovrei compiere il suo stesso percorso, la sua stessa deviazione, dovrei guardare il mondo attraverso la sua costellazione valoriale, il suo ordo amoris, ma se compissi questa trasposizione cesserei di essere me stesso e diventerei esattamente l’altro. La tesi secondo cui lo stesso vissuto di gioia inserito in un flusso coscienziale diverso dal mio, diventa un’altra gioia, assume così un diverso significato. Quel mio vissuto di gioia diventa inaccessibile all’altro in quanto è vissuto all’interno di una costellazione valoriale che sintetizza tutto il mio modo di essere. È unica perché in quel vissuto ho metabolizzato il mio modo di essere, cioè ho compiuto un percorso espressivo individuale che mi ha fatto deviare dal mondo comune, facendomi scoprire nuovi orizzonti di quel sentimento. Quello che stupisce è che Scheler non abbia applicato nel Sympathiebuch a questa tesi la teoria dell’esemplarità: l’esemplarità sposta i termini della questione perché fa vedere che questa deviazione non avviene all’interno di un percorso solipsistico, ma grazie all’alterità13. Un secondo problema riguarda l’identificazione a livello noicentrico. Secondo Scheler è a livello noicentrico che l’«Io» vive ancora un vissuto «esattamente» allo stesso modo del Noi, e proprio per questo non è ancora un Io. A questo livello Scheler osserva che «non ci formiamo le immagini dei vissuti altrui a partire “primariamente” dal materiale dei “nostri” vissuti, per poi proiettare tali vissuti nella manifestazione corporea altrui; al contrario: “primariamente” scorre un flusso di vissuti indifferenziato rispetto all’Io-Tu, flusso in cui il proprio e l’altrui sono in uno stato indistinguibile e mischiati l’uno nell’altro; progressivamente poi in questo flusso prendono forma vortici più stabili che lentamente attirano nei loro cerchi sempre nuovi elementi del flusso, e in questo processo, in successione e molto gradualmente, si costituiscono i diversi individui» (GW VII, p. 240). Solo gradualmente, mettendo a fuoco la figura di un Tu che sperimenta un accesso diverso ai vissuti noicentrici, l’Io determina uno scarto fra il proprio modo di vivere e quello del Noi e quindi assume una propria posizionalità autonoma. Ma come è possibile tutto questo se all’inizio non c’è per lo meno un Io «puntuale»? A questo proposito l’esempio che fa Scheler, a proposito del vortice nel «fiume noicentrico» da cui sorge l’individualità, non è del tutto convincente. Il neonato in realtà ha fin dall’inizio una sua identità nucleare: non ha certo una consapevolezza della propria identità, ma tuttavia ha un’individualità già distinta dalla 13 Sul concetto di esemplarità in Scheler cfr. G. Cusinato, Sull’esemplarità aurorale, saggio introduttivo a M. Scheler, Modelli e capi, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 7-28. Essenza e forme della simpatia 161 madre. E se è vero che solo gradualmente solleva il capo al di sopra del flusso noicentrico, questo va inteso nel senso che l’identità dell’Io sociale emerge a partire da una identità psicofisica in qualche modo già data14. Guido Cusinato, Dipartimento di Filosofia, pedagogia e psicologia, Università di Verona, Lungadige Porta Vittoria 17, 37129 Verona, guido.cusinato@univr.it L’individuazione primaria. Un’applicazione di alcune tesi dal «Sympathiebuch» di Max Scheler Roberta De Monticelli Persona e società Le persone sono qualcosa di più che organismi della nostra specie, dotate di uno status socialmente riconosciuto? Come il naturalismo illiberale, così il contestualismo sociologico e culturale conducono a teorie del tutto scettiche relativamente a questo «di più»15. La riduzione sociologica del concetto di persona – o se vogliamo, la riduzione dell’ontologia della persona a un aspetto dell’ontologia sociale – è dal nostro punto di vista il risultato di una lettura erronea di un fenomeno che però occorre affrontare ed esaminare: l’enorme importanza che hanno le comunità nella formazione degli individui umani. Infatti noi non emergiamo come le persone che siamo soltanto dalla natura biologica, quale viene esperita nella successione di stati che è la vita biologica. Non emergiamo soltanto su questi stati, ma emergiamo anche da una comunità di vita. Noi umani, in misura incomparabilmente superiore agli individui di altre specie animali, dipendiamo dai nostri simili soprattutto per la conquista della nostra indipendenza relativa. Apprendiamo a stare al mondo partecipando a un vivere comune, fatto di usi e costumi, consuetudini, comportamenti ammessi o proibiti, regole, pratiche, istituzioni: insomma un patrimonio di tradizione che appartiene alla comunità nella quale veniamo al mondo e svolgiamo il nostro lungo apprendistato a starvi. I nostri stessi stati e atti non sono dapprima accessibili alla coscienza che attraverso il filtro di un senso comune: non solo di un linguaggio comune, ma anche di un comune sentire, vale a dire di sentimenti, convinzioni, nozioni, scale di valori, giudizi e pregiudizi – e relativi gesti e comportamenti. Max Scheler, cui dobbiamo, come ad Adolf Reinach, i primi abbozzi di fenomenologia e ontologia sociale, descrive come al solito assai vividamente questa situazione: 14 Recentemente, per esempio, C. R. Cloninger ha distinto nella personalità due dimensioni: una temperamentale, derivante in gran parte da tratti ereditari e neurobiologici, e una caratteriale, dipendente prevalentemente dall’apprendimento socioculturale. Cfr. C. R. Cloninger, T.R. Przybeck, D. M. Svrakic e R. D. Wetzel, The Temperament and Character Inventory (TCI): A Guide to Its Development and Use, St. Louis, Washington University Centre for Psychobiology of Personality, 1994. 15 Il presente articolo riprende e sviluppa in forma sintetica i temi svolti nel capitolo ottavo di R. De Monticelli, La novità di ognuno, Milano, Garzanti, 20122. 162 Max Scheler L’uomo vive «in primo luogo» più negli altri che in se stesso; più nella comunità che nel suo individuo. Documentano questo tanto i fatti della vita infantile quanto i fatti della vita psichica primitiva di tutti i popoli. Le idee e i sentimenti e le tendenze in cui un bambino vive sono – astrazion fatta da quelli più generali come fame, sete eccetera – dapprima in tutto e per tutto quelli del suo ambiente, dei suoi genitori, dei parenti, dei fratelli maggiori, degli educatori, del suo paese, della sua stirpe eccetera. Immerso nello «spirito familiare», la sua vita propria gli si nasconde dapprima quasi completamente! Come estaticamente perduto e ipnotizzato dalle idee e dai sentimenti del suo dato ambiente, i soli anche fra i suoi stessi vissuti che passano la soglia della sua attenzione interna sono quelli che si adattano agli schemi sociologicamente condizionati che costituiscono per così dire il letto della corrente psichica del suo ambiente psichico. Solo a poco a poco egli solleva, per così dire, la sua testa personale dal flusso che la sommerge e si ritrova ad essere una creatura che ha anche di tanto in tanto sentimenti, idee e tendenze proprie. Questo però ha luogo solo nella misura in cui il bambino pur mentre partecipa ai vissuti del suo ambiente, «nei» quali dapprima vive, riesce a oggettivarli, e in questo modo a guadagnare una «distanza» nei loro confronti16. Rispetto ai mutamenti culturali e sociologici (pensiamo a quello apportato dalla rete sulla socializzazione primaria) il fenomenologo indagherà le invarianti delle relazioni fra persona e società. Un aspetto invariante, che il passo di Scheler illustra a meraviglia, permane attraverso le epoche e civiltà e i relativi mutamenti, anche radicali, nell’organizzazione economica, sociale, politica della vita delle persone, nella mentalità, nelle credenze, nel grado di responsabilizzazione degli individui, nell’estensione della classe delle persone che sono considerate soggetti giuridici, soggetti politici, e così via. Noi dipendiamo dai nostri simili radicalmente, anche per la conquista della nostra indipendenza relativa: ma questa indipendenza relativa, che distingue nelle nostre società una persona adulta normale da una persona non autonoma, come va poi intesa? C’è qualcosa come la personalità di Socrate, oppure non c’è che un personaggio, fatto da un lato di un insieme di ruoli, e dall’altro di una storia che è semplicemente una costruzione narrativa aggiornata e riaggiornata? L’ordine del mondo. Comunità vitale e oggettivazione primaria Come «insegniamo» ai nostri figli a prendere posizione al modo giusto? In una condivisione più basilare, che osserviamo senza dubbio presente già nel mondo animale, e che non presuppone necessariamente la coscienza di sé come soggetto distinto da un altro. E che una condivisione del genere ci sia, sia anzi alla radice anche della nostra vita umana, fu la grande intuizione di Max Scheler, a partire dal Sympathiebuch, il capolavoro della maturità. È questo il grande libro che inaugura la fenomenologia e l’ontologia dell’essere sociale. A partire dalle fondamenta che lì sono tracciate, bisognerebbe completare l’abbozzo di ontologia del16 M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie (1922), Bonn, Bouvier, 1985, p. 241, trad. it. Essenza e forme della simpatia, a cura di Laura Boella, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 232-233 (trad. nostra). Essenza e forme della simpatia 163 la persona che la teoria generale degli atti fornisce, mostrando come gli individui si edifichino emergendo dalle comunità di vita. È quello che proveremo a fare in questo articolo, introducendo la nozione di individuazione primaria. Un secondo passo dovrebbe introdurre quella di individuazione secondaria. «Simpatia» è il termine generale che Scheler usa per tutti i modi dell’essereinsieme: l’appartenenza di un vivente a un collettivo passa per almeno una delle forme di partecipazione emotiva alla vita comune, che l’analisi distinguerà. Acquista quindi particolare rilievo il concetto di comunità di vita, che Scheler esemplifica con le società animali, il modo di esistere dell’orda, o quello della massa, o quello dell’appartenenza-partecipazione a un milieu familiare oppure – con una caratteristica tutta particolare – quello della coppia originaria madre-bambino. Quand’anche relegata, nelle società moderne, al livello della famiglia, la comunità di vita resta il terreno di emersione degli individui personali, che entrano poi a far parte di altri collettivi, dando vita alle organizzazioni sempre più complesse delle società umane. Anticipando di molto la ricerca empirica e filosofica oggi in piena fioritura sui modi di costruzione della realtà sociale e sulla cognizione sociale, Scheler, a differenza di Husserl e di Stein, sembra occuparsi anche del livello pre-personale delle relazioni sociali, come terreno e presupposto del costituirsi di persone e relazioni interpersonali17. Possiamo disporre i modi del sentire insieme o della «simpatia» in una gerarchia che va dal minimo al massimo di individuazione dei soggetti coinvolti. Alla base della gerarchia troviamo un modo della «simpatia», della condivisione percettivo-emozionale, al quale Scheler (e Lipps prima di lui) dà il nome di «unipatia». Quello che è affascinante è quanto le intuizioni di un filosofo siano state in questo caso indipendentemente confermate dalla ricerca empirica successiva, e in particolare dalla ricerca neurobiologica. Già si possono citare alcune pagine di Kurt Goldstein (uno dei maestri anche di Oliver Sacks), che a Max Scheler si ispirò direttamente (e a sua volta ispirò poi Merleau-Ponty). Goldstein cita come caso esemplare di «unipatia» le precocissime risposte espressive del bebè nei confronti della madre18, e la comunicazione che si instaura ammirevolmente fra due esseri, uno dei quali presumibilmente manca ancora di un chiaro senso della distinzione fra sé e non sé. Si dovrebbe dunque parlare di una comunione più che di una comunicazione (e guai se non si instaura: per quanto oggi rigettiamo certe indebite generalizzazioni sulle «mamme-frigorifero», certamente il mancato instaurarsi di questa forma di comunicazione anteriore all’individuazione di uno dei due partners, provoca danni notevoli al bambino). Ma oggi disponiamo di una messe di dati empirici relativi alla cosiddetta social cognition, un nuovo e assai dinamico campo di studi interdisciplinare, che è del resto parte cospicua del fronte d’attacco, già menzionato nel capitolo precedente, nei confronti del cognitivismo classico. Questi dati hanno concentrato l’attenzione degli studiosi sulla precocità 17 Per un ottimo studio comparativo degli approcci fenomenologici all’intersoggettività, cfr. D. Zahavi, Beyond Empathy: Phenomenological Approaches to Intersubjectivity, in «Journal of Consciousness Studies», 8, 2001, nn. 5-7, pp. 151-167. 18 K. Goldstein, Selected Papers, The Hague, Nijhoff, 1971. 164 Max Scheler della capacità di imitazione di espressioni facciali da parte dei bebé, come anche dell’induzione in loro di stati d’animo attraverso corrispondenti espressioni19. Già in Scheler del resto troviamo osservazioni basati su dati simili, in particolare la sorprendente differenza che fin dai primissimi giorni di vita notiamo nelle risposte dei bambini a oggetti inanimati oppure animati ed espressivi: «Da questi e simili fatti concludiamo che l’ “espressione” è addirittura la primissima cosa che l’uomo coglie nell’esistenza che si trova fuori di lui, e che coglie in un primo momento qualsiasi fenomeno sensibile solamente nella misura e in quanto in esso possono “presentarsi” espressioni animate….»20. Al punto che parte della conquista dell’«ordine» della realtà consiste, nota Scheler, precisamente nelle disillusioni che disanimano il mondo. Ma Scheler fa abbondante uso anche del materiale offertogli da Köhler, il famoso psicologo della Gestalt, sul comportamento delle scimmie antropomorfe. Questi fenomeni di condivisione emozionale per contagio (o, come si dice oggi, sintonizzazione affettiva) non sono ancora, insiste Scheler, una forma di comunicazione: «Il modo di partecipazione a questi “vissuti dell’ambiente” non è affatto la comunicazione [Mitteilung], che presuppone che il “contenuto comunicato” sia “compreso” come tale, e quindi come proveniente da un comunicante: proprio questa distinzione fra soggetti manca in questo modo della partecipazione affettiva che è quello della “tradizione”, e la cui categoria affettiva è il “contagio”»21. È per noi molto importante la scoperta che su questo modo di condivisione emotivo-percettiva si basi in definitiva l’apprendimento sociale per tradizione, di cui fa evidentemente parte quel nostro primario apprendistato di realtà e valore (l’ordine del mondo), sul quale ci stiamo interrogando. Se, infatti, accostiamo a questi suggerimenti alcuni dati e ipotesi più recenti della ricerca neurobiologica, si abbozza sotto i nostri occhi una risposta alla questione da cui siamo partiti: come impariamo da bambini a «prendere posizione» al modo giusto? Come lo insegniamo ai nostri figli? È oggi noto a molti il modello della «molteplicità condivisa», elaborato da Vittorio Gallese sulla base della scoperta dei neuroni specchio, e caratterizzato funzionalmente da «routines di simulazione automatiche, inconsce, incorporate», che sarebbero e resterebbero alla base tanto dei fenomeni di contagio affettivo, e delle risposte di imitazione animale e infantile, quanto delle più sofisticate funzioni di cognizione sociale – come empatia e «mind reading»22. È proprio questa base che ci interessa. In un certo senso, tutti i nostri insegnamenti elementarissimi ai nostri bimbi molto piccoli consistono nel prendere insieme con loro le prese di posizione di base «giuste» – e allo stesso livello di elementarità, contemporaneamente, nel mostrare 19 La vasta letteratura sulla genesi del senso di sé nel bambino è ripresa e commentata da S. Gallagher, How the Body Shapes the Mind, Oxford, Oxford University Press, 2006. 20 M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, cit., p. 233, trad. it. cit., p. 226 (trad. nostra). 21 Ibidem, p. 241, trad. it. cit., p. 233 (trad. nostra). 22 Cfr. V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata, intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica, in Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M. Cappuccio, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 293-326, e V. Gallese, La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività, in Autismo. L’umanità nascosta, a cura di S. Mistura, Torino, Einaudi, 2006, pp. 207-270. Essenza e forme della simpatia 165 loro, agendo, l’agire adeguato – dai primi tentativi di afferrare e manipolare fino ai primi passi, e oltre… In un certo senso, tutto il nostro «insegnamento» consiste in un costante, esemplificante «si fa così!». Compreso il ruolo che abbiamo come «ordinatori del caos», nelle rassicurazioni, coccole e altre forme di trasmissione di fiducia. «Trasmettiamo» messaggi come «guardalo così» – vale a dire: prendi atto, renditi conto, di questo, non di quest’altro. Qui non c’è veramente pericolo. Ma anche: qui c’è! (Attento! Scotta!). Si pensi alla spontaneità e importanza dei gesti con cui amplifichiamo e rendiamo espressive le nostre prese di posizione «didattiche». E anche quando batte la sedia cattiva che ha fatto male al bambino, la mamma sta riordinando il mondo, mentre conferma al bambino il senso del suo male, la dura indifferenza di un corpo contundente. Insomma, è come se in questa «trasmissione» o «tradizione» mamma e bambino effettuassero insieme la posizione percettivo-emotiva «giusta». È questo il «vivere insieme», la «comunità di vita», e quindi, naturalmente, il «sentire insieme» e la forma basilare, «fusionale», della «simpatia». Fin qui giunge l’aiuto di Scheler. Ma come possiamo co-effettuare atti, in sostanza pilotando l’esperienza, con uno che non c’è ancora come soggetto d’atti? E qui aiuta, in modo illuminante, la teoria della simulazione incarnata. Se il nostro piccolo partner è predisposto perché il nostro comportamento espressivo e motorio attivi in lui una routine di simulazione automatica, ecco che davvero da un flusso di inputs percettivo-emozionali piuttosto caotico può a poco a poco, a forza di conferme e sconferme da parte degli altri membri della «comunità di vita», uscire un ordine. È il flusso casuale, disordinato dell’informazione emotiva e percettiva che si tratta di regolare: dire «flusso», anzi, basta. Si tratta di trasformare questo flusso in una sequenza di esperienze legate da nessi di motivazione. L’ordine del mondo manca ancora, non certo perché caotica sia la realtà prima di un supposto sopravvenire di sintesi e forme mentali, ma perché tale è un flusso di informazione guidato principalmente da pulsioni e bisogni. Tanto è vero che gli animali non umani dispongono di un altro regolatore di vita, in mancanza o molto minor incidenza della «tradizione»: gli istinti. Quello che faremo intenzionalmente molto più tardi – imitare il maestro di sci, il maestro di pianoforte, per impararne l’arte, facciamo secondo questa ipotesi in modo automatico, inconscio, non intenzionale – ovvero, il nostro sistema cerebrale e il nostro corpo lo fanno per noi, per quel «noi» che su questa base potremo diventare. «Apprendere» l’immenso sapere tacito che fa da fondamento alle nostre prime scoperte coscienti, e cioè acquistare familiarità con il mondo della vita, è dunque sintonizzare le posizioni di base su quelle di chi ha – anche in questo fondamentale senso «pedagogico» – cura di noi23. E in questo, nascere al mondo dove si era già venuti, o piuttosto si era effettivamente stati gettati: nascere come soggetti, di fronte a un mondo pieno di cose animate, attraenti o minacciose, che è certamente anzitutto un mondo praticabile, fatto di pavimenti per andar carponi o correre, seggioloni per star seduti, cucchiai per mangiare; 23 Cfr. le osservazioni sul ruolo dell’adulto come «regolatore del sé» del bambino, che avviene esattamente nei modi descritti, attraverso forme di sintonizzazione affettiva (affect attunement) che si instaurano fin dai primi giorni di vita fra il bambino e chi si prende cura di lui, in D.N. Stern, The Interpersonal World of the Infant, New York, Basic Books, 1985, trad. it. Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. 166 Max Scheler ma anche, in secondo luogo, un mondo di cose che ci stanno davanti, un mondo stabile e pronto ad essere esplorato, un mondo «ordinato». Lo sfondo – o l’evidenza naturale, e il dramma della sua perdita Che cosa, attraverso le cure parentali e la comunità di vita, impariamo del mondo «imparando» le prese di posizione «giuste»? È impossibile sopravvalutare l’importanza, per la nostra futura vita personale e sociale, della familiarità pratica e percettivo-emotiva con il mondo che si forma in questo modo: e di cui ci accorgiamo solo quando scopriamo che può venir meno. Ci sono due occasioni principali per accorgersi che esiste. Una, drammatica, è – per dirla in breve, la follia. L’altra, serenamente contemplativa, la filosofia. Cominciamo dalla seconda. Nel secolo scorso, il pensiero filosofico ha prodotto almeno due grandi squarci nel velo di inconsapevolezza o di oblio che vela, con l’opaca cortina dell’ovvietà, l’immenso sapere dossico e pratico che è il senso comune. Il primo lo ha prodotto il movimento fenomenologico. Scheler, come abbiamo visto, studia eminentemente l’aspetto sociale della formazione di questo senso comune – la sua base affettiva, che continua a funzionare, sia pure a livello di routines per la maggior parte subpersonali, certamente anche nell’età adulta, e il modo caratteristico della trasmissione di questo che è comunque il nostro basilare sapere dossico e pratico: la tradizione. Husserl invece approfondisce in numerosi testi, nonostante la sua fortuna ancora paradossalmente poco noti, soprattutto del secondo libro delle Idee, i modi della costituzione intersoggettiva di un mondo e delle soggettività correlative, che nel prossimo paragrafo studieremo sotto l’aspetto del loro dar luogo all’individuazione primaria delle persone. Torneremo sull’importanza delle sue analisi (come di quelle di Scheler) per la psicopatologia. L’altro grande squarcio nel velo si deve a Ludwig Wittgenstein. Nella seconda metà della sua vita sollevò un problema che ha fatto discutere una generazione di filosofi: il problema del «seguire una regola». Prendiamo una qualunque frase: c’è una sottodeterminazione radicale del modo in cui dobbiamo intenderla, vale a dire di quali stati di cose o quali comportamenti la renderebbero vera, o la soddisferebbero se si tratta di un comando. Ad esempio: mettiti le scarpe, o vai ad aprire la porta, o taglia la torta. Ci sorprenderemmo se l’amico si infilasse le scarpe a mo’ di guanti, o andasse alla porta camminando sulle mani e la aprisse segando via una sezione del battente, o andasse a prendere il falcetto per tagliare la torta come si taglia l’erba. Eppure sarebbero modi di soddisfare le richieste che nulla nelle frasi stesse dice siano modi sbagliati. Semplicemente, le frasi presuppongono tutto il sapere implicito che permette di intenderle e soddisfarle al modo «giusto». John Searle ha chiamato «Sfondo» (Background) questo insieme di abilità e saperi che non sono credenze o intenti («stati intenzionali», nella sua terminologia) ma permettono agli stati intenzionali di funzionare. Quando ha voluto aprire il suo pensiero all’ontologia sociale, vale a dire al problema della natura dei fatti e degli oggetti sociali e istituzionali, dal denaro al matrimonio alla proprietà agli stati, ha precisato la funzione indispensabile dello Sfondo in numerosi rispetti: esso consente alla comunicazione linguistica di aver luogo; consente Essenza e forme della simpatia 167 all’interpretazione percettiva di aver luogo; struttura la coscienza; permette di organizzare in modo narrativo le «giuste» sequenze di avvenimenti («lei gli diede la chiave e lui aprì la porta»: niente nella frase dice esplicitamente che aprì la porta subito dopo, o con quella chiave), permette il ruolo selettivo che hanno gli interessi nell’aspettativa e nell’attenzione, e soprattutto costituisce la maggior parte delle norme (o regole) della vita comune24. C’è un’osservazione particolarmente interessante di Searle, che ci consente di passare al prossimo punto, l’altra occasione per accorgersi dell’ordine familiare del mondo, e di quale dramma possa costituire la sua perdita: «Si noti l’assoluto sforzo intellettuale che è necessario per rompere il legame con il nostro Sfondo. I pittori surrealisti hanno tentato di farlo, ma anche in un quadro surrealista la donna con tre teste è ancora una donna e l’orologio che si affloscia è ancora un orologio e quegli oggetti bizzarri sono ancora oggetti sull’orizzonte, con un cielo e un primo piano»25. In effetti, e proprio per le ragioni che avanza, Searle avrebbe potuto trovare un esempio migliore: come la produzione grafica e pittorica di Escher. Lì, infatti, quelle che vengono meno sono proprio alcune delle invarianti strutturali, o eidetiche, della percezione di oggetti nello spazio, vale a dire, a parte subjecti, alcune delle più profonde ma implicite regole di prosecuzione di una data esperienza percettiva nel mondo visibile, che è anche il mondo dell’azione e della manipolazione delle cose. Vengono meno appunto le regole sulle quali si basano i nessi motivazionali dell’esperienza e le conseguenti aspettative: se proseguo l’esplorazione del cubo o varco la soglia della stanza, mi aspetto di trovare una superficie compatibile con le leggi della geometria euclidea dei solidi, e non una che non lo è… Le tele escheriane, quale che sia il nostro giudizio estetico (sembrano infatti più esperimenti mentali e di psicologia della percezione che oggetti dotati di robusta esistenza estetica, ma in questo sono più interessanti di molti puzzle surrealisti), danno un’idea di cosa sarebbe un mondo che contravviene al suo «ordine», di una realtà che cessa di essere «oggettiva» e intersoggettivamente identificabile. Essa infrange la «presunzione» di cui parla Husserl in questo passo, non a caso citato da uno dei fondatori della psicopatologia di indirizzo fenomenologico, Ludwig Binswanger: «Il mondo reale non sussiste che nella presunzione costantemente prescritta che l’esperienza continuerà a svolgersi secondo lo stesso stile costitutivo»26. Siamo così tornati a quella «fiducia nell’ordine del mondo» sulla base della quale soltanto può avviarsi la nostra maturazione più propriamente personale, quella fiducia il cui instaurarsi corrisponde, nei termini della nostra teoria degli atti, a quello che avevamo chiamato il primo livello di emergenza della persona, il livello cioè dell’oggettivazione evidenziale. Wolfgang Blankenburg e Kimura Bin, autori di riferimento dell’indirizzo fenomenologico in psicopatologia e psichiatria, hanno studiato, ciascuno più particolarmente in una dimensione, quello che Blankenburg chiama «la perdita dell’evidenza naturale»27. Che è precisamente J.R. Searle, La costruzione della realtà sociale (1995), Einaudi, Torino, 2006, pp. 147-168. Ibidem, p. 152. 26 Il passo compare in Logica formale e trascendentale, ma è citato da L. Binswanger, Melancholie und Manie, Pfullingen, Neske, 1960, trad. it. Melanconia e mania, Torino, Boringhieri, 19772, p. 24. 27 W. Blankenburg, Der Verlust der natürlichen Selbstverständlichkeit, Stuttgart, Enke, 1971, trad. 24 25 168 Max Scheler il venir meno della «presunzione» o della fiducia sopra descritta, il deficit delle abilità pratiche e competenze dossiche e assiologiche nel cui possesso consiste la nostra ordinaria e irriflessa, automatica, abituale familiarità con il mondo. Sviluppando una delle intuizioni fondamentali di Binswanger, e in linea con i successivi progressi della ricerca empirica di indirizzo neuroscientifico, questi autori ritrovano alla base di molte sindromi psichiatriche un insieme di deficit e sintomi negativi che può anche coesistere con una faticosa costituzione di soggettività, ma può invece portare alla sua implosione: allucinazione, delirio, comportamenti asociali o antisociali di vario tipo, perdita dell’autonomia nella conduzione di sé. Insomma, una delle occasioni in cui ci accorgiamo del fondamento immenso e implicito della ragione che è il costituito «ordine del mondo» è la perdita della ragione stessa (pratica e teorica): che, quando funziona normalmente, funziona appunto ignorando quell’immenso sapere implicito su cui si basa, in quanto ovvio, scontato, disponibile automaticamente e senza sforzo alcuno: routinizzato, «funzionalizzato». L’individuazione primaria In questi «condivisi» atti di base, con l’oggettivazione evidenziale o l’apertura dell’esperienza all’ordine del mondo, si realizza anche un primo livello di emergenza della persona sui suoi stati. L’esperienza acquisisce un suo polo soggettivo, mentre acquista un orizzonte oggettivo. Nei due paragrafi che precedono abbiamo suggerito i modi in cui l’emergere correlativo di un mondo d’esperienza comune e di un suo soggetto sono resi possibili da quella che potremmo chiamare la disciplina delle posizioni di base, attraverso la comunità di vita e l’accompagnamento parentale. Il primo livello di emergenza della persona sui suoi stati corrisponde dunque a una «soggettivazione» dei nuovi venuti nello spazio di quello che Scheler chiama il Mit-Sein, l’ambiente umano e affettivo che li accoglie. Una «soggettivazione» guidata, per così dire, attraverso quel «compiere insieme» gli atti e le azioni di base, che abbiamo analizzato sopra. Chiameremo «individuazione primaria» questa soggettivazione, per la quale la creatura umana raggiunge un livello di esistenza propriamente personale, accedendo a quella sfera della vita umana che è la sfera della motivazione (o, lato sensu, della «ragione»: dell’adeguatezza maggiore o minore di risposte cognitive, valutative, attive alla realtà e alle sue esigenze). Come abbiamo visto, si è un soggetto in quanto si è capace di compiere atti o di prendere posizioni, fosse pure del primo livello o di base; allargando l’ambito degli atti agli atti in senso lato, o azioni, la vita propriamente personale comincia con l’apprendistato al fare e al sentire-percepire in modo adeguato. In questo senso si vive certamente già da persone (umane) ben prima di essere coscienti di questo e di sé, o addirittura di sapersi liberamente esprimere in parole. Non si potrebbe divenir coscienti di questa vita e di sé se non sullo sfondo it. La perdita dell’evidenza naturale, a cura di A. Ballerini, Milano, Cortina, 1998; B. Kimura, Pathologie de l’immediateté, in Id., Ecrits de psychopathologie phénoménologique, Paris, Puf, 1982, pp. 129-162. Essenza e forme della simpatia 169 costante, «fungente» direbbe Husserl (e in questa parola è chiaro il carattere non ancora pienamente «attuale») di questo pulsare della posizionalità in risposta alle cose e alle altre persone. Ma appunto è venuto il momento di vedere come se ne diventa coscienti e quale è il senso profondo di questa fondazione del sapere sull’essere. Compiere atti è fare esperienza. Ma come non ogni aspetto della vita umana ci coinvolge come soggetti d’atti, cioè come persone – non il digerire normalmente, ad esempio, non il crescere delle unghie e dei capelli – così non ogni aspetto dell’esperienza vissuta ha un indice di appartenenza (è data-come-«mia»): non ogni esperienza è anche esperienza di essere un soggetto. La fenomenologia vanta una brillante analisi del contenuto esperienziale, vissuto, immediato dell’essere soggetto – quindi del contenuto basilare della cognizione di sé, del «senso» (anche del tutto pre-linguistico) di sé. Come perviene un essere umano a riconoscere un corpo come proprio, un vissuto, un atto, un azione, come propri? Attenzione al senso della domanda. Non stiamo chiedendoci come di fatto perviene a questo, attraverso quali stadi di sviluppo neurologico e psicologico. Stiamo chiedendoci quale base di evidenza, quale contenuto intuitivo o esperienziale, abbia il senso di appartenenza o soggettività. Quale contenuto fenomenologico abbia in generale la coscienza di sé come soggetto, del corpo come proprio, e dell’appartenenza a sé di azioni, atti, vissuti. In generale: cioè nel suo contenuto tipico. Non ci stiamo chiedendo semplicemente «che effetto faccia essere me». Semmai, che effetto faccia essere «un» me, ma così la frase perde subito trasparenza sintattica, segno certo di errore filosofico incombente. Abbiamo già esposto in varie altre occasioni la teoria degli atti egologici, che a questa domanda risponde, e che si trova variamente abbozzata negli scritti di Husserl, Edith Stein, Merleau-Ponty, e di numerosi psichiatri e psicopatologi di indirizzo anche lato sensu fenomenologico, da Karl Jaspers a Kurt Schneider, a Erwin Straus a Viktor Von Gebsattel28. Ci limiteremo qui a un’esposizione concisa, nella prospettiva della teoria dell’individuazione primaria. Vivere non è ancora vivere da soggetto (c’è un’ampia sfera della nostra vita che si svolge al di sotto della sfera della motivazione), e vivere da soggetto non è ancora viversi come soggetto. Si può essere «persi nei pensieri» o anche nella contemplazione delle costellazioni nel cielo d’estate, e senza dubbio si compiranno una grande varietà di atti con relative prese di posizione, non libere e libere, e tuttavia si può vivere tutto questo senza mai sentirsi implicati, benché per certo lo si sia, come soggetti degli atti. Nella misura almeno in cui pensiero e contemplazione non comportano azioni ed emozioni – una misura ben ridotta, per la verità – si può pensare e contemplare nel più perfetto oblio di sé, per così dire. Questo non è possibile invece, normalmente, nel corso di tutte le esperienze che comportano azioni ed emozioni. Dall’azione più modesta all’attività più complessa agire è sperimentarsi (più o meno) efficace – sperimentarsi in un modo che può restare del tutto implicito, a-tematico, inconsapevole: e tuttavia un modo iscritto nell’azione stessa, costitutivo del suo senso d’essere. E dal più modesto dolore per un piede pestato al più profondo lutto, sentire male è indissociabile da sentirsi male. «Patire» è sperimentarsi «affetti», toccati. Efficacia causale 28 Cfr. R. De Monticelli, La conoscenza personale, Milano, Guerini, 1999. 170 Max Scheler e affezione sono i contenuti del viversi soggetto, sono «l’effetto che fa» essere un soggetto. O meglio, questo è ciò che permetterebbe all’agente, al paziente di dire – «sono io che lo faccio», «sono io che lo sento». Questo è il contenuto fenomenologico ultimo ed elementare del senso di sé – contenuto che ritroviamo del resto puntualmente nelle due componenti principali di senso della parola «soggetto»: subjectum nel senso del soggiacere a, del subire, e subjectum nel senso del portare il peso di effetti dati, del poter essere accusato o indicato come causa di avvenimenti, di bene e di male: «sei tu, Caino…». È dunque attraverso tutte le esperienze di potere e sensibilità che avviene l’individuazione primaria, vale a dire, che il piccolo umano comincia a viversi come soggetto. Cosa sta facendo il bambino piccolo, in effetti, nelle sue inesauste esplorazioni e manipolazioni delle cose e del suo corpo, se non apprendistato di soggettività? Quando esplora la differenza fra il giocattolo toccato e il suo piedino, cominciando a rendersi conto di quella proprietà del piedino che il giocattolo non ha, di sentirsi toccato, e cominciando a sperimentare quel doppio modo di datità – dall’esterno, come cosa che si vede e si tocca, dall’interno, come essere sensibile e vulnerabile – che è parte del contenuto fenomenologico della proprietà del corpo proprio, cioè che fa sentire al bambino il suo corpo come suo, distinto dal resto del mondo. E quando, più tardi, completa questa esperienza del corpo come suo attraverso molte sperimentazioni ed esercizi di potere, dalle prime conquiste di mobilità ai giochi di abilità – quando ad esempio si diverte a far cadere torri di dadi o vasi preziosi, per vedere l’effetto che fa, e intanto mette i mattoni della coscienza e del pensiero causale. Queste sono le basi fenomenologiche della soggettivazione del corpo, cioè dell’esperienza attraverso cui da un organismo vien fuori un individuo psico-fisico. Su queste basi hanno scritto pagine famose Husserl e Merleau-Ponty. Forse la dispersione di queste pagine nei loro corpus impedisce però di collocare queste acquisizioni in una teoria sistematica dell’individuazione primaria, e più in generale dell’emergere della persona, come quella che stiamo abbozzando. Infatti c’è un terzo punto che occorre sottolineare oltre ai due che fanno il contenuto fenomenologico della soggettività vissuta, sensibilità e potere, ed è il ruolo della socializzazione primaria, che come abbiamo visto a partire da Scheler dà la norma di adeguatezza del fare e del sentire, e «ordina» in questo modo le pulsazioni della posizionalità, mettendo il soggetto nascente davvero in relazione con la realtà e con gli altri, abituandolo a fare i conti con essa e con loro – e quindi con se stesso. Fin dai livelli più elementari. Roberta De Monticelli, Facoltà di Filosofia, Università San Raffaele, Via Olgettina 58, 20132 Milano, demonticelli.roberta@hsr.it. Essenza e forme dell’intersoggettività Matthias Schlossberger Premessa Essenza e forme della simpatia di Max Scheler è uno di quei classici che tutti conoscono ma che quasi nessuno ha letto davvero. Le cose, però, stanno cambiando. Essenza e forme della simpatia 171 Il rinnovato interesse per questo testo ha almeno quattro ragioni: la scoperta del valore cognitivo e di apertura sul mondo dei sentimenti, la riscoperta della questione dell’intersoggettività, del significato dell’empatia, della compassione e, inoltre, i nuovi tentativi di andare oltre la distinzione tra essere e dover-essere. La teoria dell’intersoggettività di Scheler non è interessante solo perché dà delle risposte alle tematiche sopra menzionate, ma anche perché è probabilmente l’unica teoria dell’intersoggettività, in cui vengono trattati tutti gli aspetti e i vari fenomeni legati all’intersoggettività – e non solo singole questioni. Altri autori come, per esempio, Sartre, Buber, Levinas, o altre tradizioni filosofiche, si interrogano su singoli aspetti e non li inseriscono nel più ampio contesto di una teoria dell’intersoggettività che, tra l’altro, dovrebbe anche essere una teoria della soggettività. Un chiaro esempio di questo modo di procedere è offerto dalla tradizione analitica che, indagando il cosiddetto problem of other minds, finisce per cercare semplicemente delle ragioni che giustifichino la convinzione secondo cui gli altri sentono e pensano come noi: «il problema delle altre menti è quello di giustificare la credenza quasi universale secondo cui gli altri hanno menti molto simili alla nostra»29. La questione per cui distinguiamo fra esseri viventi e esseri non viventi, per cui, cioè, ci chiediamo cosa fa l’io quando esperisce x come essere vivente, non viene posta bensì presupposta. Tuttavia, prima di chiedersi come e perché giustificare una convinzione, bisognerebbe chiarire come sia possibile questa esperienza. Questo modo di porre il problema, che è sempre stato fondamentale per tutti i fenomenologi, purtroppo è invece trascurato nel dibattito sull’accesso all’other mind. Il titolo del libro Essenza e forme della simpatia non è immediatamente comprensibile, dal momento che Scheler raramente usa la parola simpatia in questo testo. Si sarebbe potuto piuttosto intitolare Essenza e forme dell’intersoggettività. In questo modo, però, sarebbe andata persa la tesi connessa al concetto di simpatia. Scheler parla di essenza e forme della simpatia in un senso ampio. Tutte le forme di incontro tra esseri umani corrispondono a determinate forme di simpatia (quali siano esse nello specifico, verrà chiarito in seguito). Allo stesso tempo, il concetto di simpatia esprime una tesi metafisica. Cartesio e la filosofia dell’età moderna, con la distinzione tra res cogitans e res extensa, hanno eliminato l’idea della reciproca dipendenza simpatica tra le cose, vedendo la relazione tra le cose semplicemente come relazione di causa ed effetto: corpi che agiscono su altri corpi. A chi così spiega il mondo, la simpatia non serve più. Scheler utilizza il concetto di simpatia anche nel senso della filosofia greca e rinascimentale. La simpatia indica una relazione non ulteriormente analizzabile tra le cose, in questo caso tra esseri umani: tutto dipende da «in quali tipi fondamentali di possibili suddivisioni in gruppi, inoltre, [un essere umano] possa ancora cercare di cogliere e di valorizzare questo o quello strato di esistenza e di esperienza dell’uomo accanto a lui e dell’uomo con lui – tutto ciò dipende da 29 Cfr. A. Hyslop, Other Minds, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2010 Edition), a cura di E. N. Zalta, in <http://plato.stanford.edu/archives/fall2010/entries/other-minds/>, consultato il 10/2/2012. 172 Max Scheler quale tipo di ultima concatenazione ontologica sussista e possa sussistere tra uomo e uomo»30. Essenza e forme della simpatia è un’opera troppo complessa per riuscire a trattare approfonditamente in poche pagine tutti i temi rilevanti per una teoria dell’intersoggettività. L’esposizione si soffermerà, dunque, su tre aspetti31: 1) La relazione tra Essenza e forme della simpatia e la teoria dei sentimenti, che Scheler sviluppa in Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. 2) Il contributo di Scheler al dibattito contemporaneo riguardo alla theory of mind e la sua risposta alla questione in essa centrale: che cosa accade quando capiamo gli altri? 3) Le novità e i chiarimenti di Scheler presenti nella seconda edizione di Essenza e forme della simpatia riguardo alla questione: come facciamo l’esperienza dell’altro? La relazione tra «Essenza e forme della simpatia» e «Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori» Spesso si dice che Scheler sia un pensatore asistematico. Fu Ernst Troeltsch, che ben conosceva Scheler, ad affermare che i suoi scritti sono uno strano connubio fra profondità, leggerezza e acume. Non si può dare torto a questo giudizio per quanto riguarda la struttura dell’opera, piuttosto caotica. È anche vero che il lettore, a cui Scheler chiede un impegno notevole, incappa in non poche difficoltà ermeneutiche. Il libro sulla simpatia, in modo particolare, risulta spesso incomprensibile, se non lo si legge alla luce della teoria dei sentimenti presente in Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Tutte le opere di Scheler rimandano sotto vari aspetti le une alle altre. A questo proposito, giustamente Wolfhart Henckmann parlava di una «pretesa sistematica» della sua filosofia32. Particolarmente rilevante è la relazione tra la teoria dei sentimenti, che Scheler presenta in Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori e la sua teoria sulle forme di simpatia. Il collegamento è chiaro: Scheler vuole mostrare come le varie forme di incontro fra esseri umani siano accompagnate in vari modi da sentimenti. La teoria dei sentimenti si basa su alcuni assunti centrali sulla coscienza, che Scheler condivide con il primo Husserl delle Ricerche logiche. Husserl vuole far luce sugli equivoci legati ai sentimenti e distingue, a questo proposito, tra sensazione materiale e movimento intenzionale: quando si parla di «sentire» (Hören), si intende, da una parte, l’udire un suono in modo puramente sensoriale e, dall’altra, la comprensione di ciò esprime il suono udito. Quando parliamo di «dolore» (Schmerzen), ci riferiamo a fenomeni completamente diversi, a seconda che si tratti di dolori spirituali oppure semplicemente di una sensazione materiale. Un 30 M. Scheler, Essenza e forme della simpatia (1923), a cura di L. Boella, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 207. 31 Per una trattazione dettagliata ed esaustiva dell’argomento rimando al mio libro: M. Schlossberger, Die Erfahrung des Anderen. Gefühle im menschlichen Miteinander, Berlin, Akademie Verlag, 2005. In questa pubblicazione ho cercato di chiarire il ruolo svolto da Lipps, Dilthey e Husserl nel pensiero filosofico di Scheler. 32 Cfr. W. Henckmann, Der System an spruch von Schelers Philosophie, in «Phänomenologische Forschungen», 28/29, 1994, pp. 271-312. Essenza e forme della simpatia 173 «sentimento» (Gefühl) nel senso stretto del concetto, secondo Husserl, deve sempre avere una componente intenzionale: deve, cioè, essere direzionato o riferito a qualcosa, qualcosa vi deve essere inteso o appreso (in senso molto elementare ma comunque cognitivo dei verbi «intendere» e «apprendere»). La distinzione fra momenti materiali e momenti intenzionali costituisce, comunque, solo il punto di partenza della teoria dei sentimenti di Scheler. Egli ne trae delle conseguenze che Husserl non ne aveva tratto. Considerati i molti e vari fenomeni che vengono denominati sentimenti, Scheler propone di distinguere tra diverse classi di sentimenti. Il criterio della suddivisione – e qui Scheler va oltre la distinzione di Husserl – è la diversa relazione tra i momenti materiali e i momenti intenzionali. Scheler arriva così a distinguere tre o quattro classi di sentimenti. Queste quattro classi possono essere distinte appunto perché diversa è la relazione tra i momenti materiali e i momenti intenzionali. Scheler distingue fra: a) sentimenti puramente sensibili, che sono caratterizzati dal fatto di non avere nessun riferimento intenzionale. Una sensazione puramente sensibile può essere esperita sia come piacevole sia come spiacevole; b) da essi si distinguono i sentimenti vitali e sentimenti psichici, nei quali il momento materiale e il momento intenzionale sono in una fondamentale relazione reciproca (stati d’animo e affetti); c) i sentimenti puramente spirituali (determinate forme di amore), nei quali non vi è nessun momento materiale, ma solo momenti intenzionali. La «materialità» si riferisce sempre a una qualità specifica della sensazione (cosa sento?) L’«intenzionalità» riguarda invece l’apprendere e l’essere direzionato. L’esperienza sensibile che si ha nel momento in cui ci si vergogna è specifica di questo sentimento e sempre legata al movimento intenzionale della vergogna (io mi vergogno davanti a x di qualcosa che x pensa di me). I sentimenti vitali sono per Scheler, per esempio, la paura e la speranza oppure stati d’animo come la spossatezza e il vigore, mentre la tristezza e la felicità spirituale si annoverano piuttosto fra i sentimenti psichici. La differenza fra sentimenti vitali e psichici non sempre è netta, dipende, infatti, dalla preponderanza dei momenti sensibili o dei momenti intenzionali. Mentre nei sentimenti vitali domina tendenzialmente il momento materiale, nei sentimenti psichici è il momento intenzionale a essere dominante. Una differenza chiara c’è invece per quanto riguarda i sentimenti puramente spirituali, nei quali manca completamente il momento materiale33. Probabilmente queste distinzioni schematiche sono, nel concreto, difficili da identificare. Queste distinzioni andrebbero considerate come il tentativo di una classificazione idealtipica che ha, per lo meno, il merito di chiarire il motivo per cui vari fenomeni, normalmente tutti etichettati sotto il nome generico di sentimento, siano invece tanto diversi tra loro. La distinzione tra diverse classi di sentimenti è importante per poter distinguere le varie forme di simpatia. L’idea fondamentale di Scheler è la seguente: i sentimenti creano un tessuto sociale tra gli esseri umani. Scheler ordina le forme della simpatia secondo un ordine sia ontogenetico sia di teoria della conoscenza: sentire gli stessi sentimenti dopo essere stati, per così dire, contagiati da sentimen33 Cfr. M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1913 e 1916), Milano, Edizioni San Paolo, 1996, pp. 314-327. 174 Max Scheler ti altrui, senza avere coscienza dell’individualità dell’altro (Gefühlsansteckung); ri-sentire (Nachfühlen), comprendere, cioè, i sentimenti dell’altro; co-sentire (Mitfühlen), o compassione, che significa essere partecipe dei sentimenti dell’altro; sentire l’un con l’altro (Miteinanderfühlen) è, per esempio, vivere insieme un lutto o gioire insieme, come anche amare e odiare. Nella sua argomentazione, Scheler lascia da parte, in un primo momento, la questione gnoseologica centrale – com’è possibile fare l’esperienza dell’altro o, in altre parole, cosa ci accade, quando facciamo l’esperienza dell’altro? – e si pone il problema dell’incontro con l’altro, prima ancora o senza la coscienza del fatto che si tratta di un individuo da noi distinto. Si dà questa particolare forma di intersoggettività, afferma Scheler, nel momento in cui inconsciamente si imita l’espressione di una o più persone, provocando così in se stessi un sentimento simile. Scheler chiama questo processo contagio di sentimenti (Gefühlsansteckung) oppure unipatia (Einsfühlung), dal momento che si tratta semplicemente di un contagio di sentimenti fra due persone. Un esempio di contagio di sentimenti è una situazione allegra che si viene a creare, quando delle persone si contagiano reciprocamente l’allegria. Contagiosi – e in ciò consiste il collegamento con la teoria dei sentimenti – sono solamente i sentimenti vitali e quelli psichici, perché solo in essi vi è una relazione essenziale tra espressione, sensazione e contenuto intenzionale. Solo nel caso dei sentimenti vitali e dei sentimenti psichici, come uno stato d’animo allegro o una gioia profonda, il sentimento è sempre legato a una determinata espressione, e solo attraverso questa espressione, ovvero l’assumere i movimenti espressivi dell’altro, quei sentimenti possono diventare contagiosi. Sentimenti puramente sensibili, come il provare dolore fisico – un mal di denti, per esempio – non possono essere contagiosi. Per ragioni simili, neanche i sentimenti spirituali sono contagiosi. Lo stadio successivo al contagio dei sentimenti, Scheler lo definisce ri-sentire (Nachfühlen). Ri-sentire significa comprendere i sentimenti e gli stati d’animo degli altri. Non si tratta semplicemente di una conoscenza che, per esempio, ci viene comunicata attraverso una frase, per cui sappiamo che un amico è triste. È un sentire i sentimenti dell’altro immediatamente visibile a livello espressivo – detto altrimenti, con le parole di Goethe nel poema Epirrhema: «Nulla è dentro, nulla è fuori, | poiché tutto ciò che è dentro, è fuori» («Nichts ist drinnen, nichts ist draußen; | Denn was innen, das ist außen»). Vedendo o ascoltando la tristezza dell’altro, comprendiamo, dunque, qualcosa di molto diverso dalla semplice informazione «egli è triste». Questa pura informazione che non fa che categorizzare e livellare le varie forme di tristezza. Attorno agli anni Venti, non diversamente da oggi d’altronde, il ragionamento per analogia e la teoria dell’empatia, erano le due principali teorie con cui si cercava di spiegare come capiamo gli altri34. Scheler prende le distanze da entrambe le posizioni, argomentando che ciò che si pretende di spiegare viene, in realtà, presupposto da entrambe le teorie: affinché si possa ascrivere all’altro un determinato sentimento attraverso il ragionamento per analogia o la teoria dell’empa34 Ai nostri giorni il ragionamento per analogia si chiama theory theory e la teoria dell’empatia invece simulation theory. Coloro che partecipano a questo dibattito non vedono, però, che non si tratta affatto di una questione nuova. Essenza e forme della simpatia 175 tia, devo già aver fatto l’esperienza dell’altro in quanto altro. Queste due teorie, argomenta Scheler, si servono della distinzione cartesiana fra anima e corpo e sostengono che, in un primo momento, io vedo un corpo a me estraneo e, solo in seguito, per analogia oppure per empatia e dato che l’altro ha un corpo simile al mio, lo esperisco come vivente. Scheler, in genere, si allontana da tutte le teorie che cercano di spiegare l’esperienza dell’altro attraverso argomenti deduttivi e descrive invece l’esperienza dell’altro come immediata, perché esperiamo l’altro in quanto altro in modo immediato attraverso le sue espressioni e comprendiamo così il suo stato d’animo: ciò che vediamo non è un corpo fisico, ma un corpo vivo con le sue espressioni. Il fatto che l’esperienza dell’altro non si possa dedurre non significa, però, che non si possa descrivere secondo una prospettiva ontogenetica. Da un punto di vista ontogenetico «scorre “innanzitutto” un flusso di vissuti indifferenziato rispetto all’io-tu, che contiene di fatto il proprio e l’estraneo, indistinguibili e mischiati l’uno nell’altro; e in questo flusso si costituiscono vortici progressivamente più stabili, che lentamente attirano nei loro cerchi sempre nuovi elementi del flusso, e in questo processo, in successione e molto gradualmente, vengono coordinati a individui diversi»35. In un primo momento, l’essere umano vive più negli altri che in se stesso; le idee e i sentimenti del bambino sono – a parte la fame, la sete ecc. – innanzitutto quelli del suo ambiente, dei genitori, dei parenti. La vita individuale è ancora nascosta! Solo molto lentamente il bambino si scopre come individuo dotato di sentimenti, idee e desideri propri: «Ma ciò ha luogo soltanto nella misura in cui il bambino co-vive i vissuti dell’ambiente “in” cui innanzitutto vive, li oggettiva e con ciò guadagna “distanza” da essi»36. Nella classificazione delle forme della simpatia, lo stadio successivo è quello del co-sentire (Mitgefühle), ovvero del sentire l’un con l’altro (Miteinanderfühlen) e del partecipare (con-gioire, Mitfreude, o con-patire, Mitleid) ai sentimenti dell’altro. La compassione è un sentimento particolare. Co-sentire non significa sentire i sentimenti dell’altro. La compassione è direzionata al sentimento dell’altro in quanto altro. Scheler critica in modo chiaro la confusione tra la compassione e un sentimento che è stato semplicemente contagiato. Molti filosofi come, per esempio, Nietzsche, hanno appunto scambiato la compassione con il semplice contagio di sentimenti: «Lo sciogliersi dell’io in una poltiglia universale di sofferenza esclude completamente una compassione autentica»37. Scheler critica anche il significato che comunemente si dà alla parola compassione, che la avvicina all’empatia (Einfühlung) e che implica un mettersi nei panni dell’altro. Se ci mettessimo nei panni dell’altro, alla fine non avremmo compassione se non di noi stessi, dal momento che, così facendo, capiremmo noi stessi e non l’altro. Scheler argomenta invece: «Il genuino co-sentire si rivela nel fatto che esso include la natura e l’esistenza dell’altro e la sua individualità nell’oggetto del con-patire e del con-gioire»38. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 232. Ibidem, p. 233. 37 Ibidem, p. 82. 38 Ibidem, p. 69. 35 36 176 Max Scheler Scheler e la «theory of mind» Dan Zahavi e Shaun Gallagher39 hanno introdotto la teoria di Scheler dell’esperienza immediata dell’altro nella filosofia anglosassone contemporanea. Essa è notevolmente influenzata dalle tesi della filosofia analitica sulla questione delle other minds e dal dibattito della theory of mind sulla theory theory e sulla simulation theory. Entrambi sottolineano che la risposta di Scheler alla questione dell’esperienza dell’altro rappresenta una terza possibilità, affatto diversa, che consente di superare le difficoltà in cui si imbattono le due teorie sopra menzionate. La theory theory, secondo la quale possiamo capire l’altro solo se noi stessi ce ne siamo già formati una teoria in base alla nostra esperienza, è problematica perché, se così fosse, potremmo capire solo noi stessi e, inoltre, non si capisce come potremmo arrivare a distinguere tra esseri viventi e non viventi. La teoria della simulazione, sulle orme della teoria dell’empatia (Einfühlung) di Theodor Lipps, afferma invece che, per comprendere i sentimenti dell’altro bisogna provare quegli stessi sentimenti. Questo è il fenomeno che Scheler e altri hanno identificato come contagio di sentimenti che, però, nulla ha a che fare con la comprensione dell’altro. Sembra chiaro, dunque, che Gallagher e Zahavi, tra gli altri, considerano valida la teoria di Scheler sull’esperienza dell’altro, poiché Scheler riesce a superare le ovvie difficoltà delle altre teorie a riguardo. Non è chiaro, però, fino a che punto Gallagher e Zahavi seguano Scheler. Ci sembra interessante, a questo proposito, soffermarci su un punto che porta a delle conseguenze radicali, collegate dallo stesso Scheler alla sua teoria. Scheler parte dal presupposto secondo cui l’esperienza di un altro io è possibile solo grazie all’esperienza del corpo dell’altro. Ciò che ci si presenta nella sua immediatezza attraverso un’espressione non è, però, un corpo fisico, ma un corpo vivo: «Certo è che riteniamo di avere direttamente nel sorriso la gioia, nelle lacrime la sofferenza e il dolore dell’altro, nell’arrossire la sua vergogna, nelle mani giunte la sua preghiera, nello sguardo tenero dei suoi occhi il suo amore, nel digrignare i denti la sua rabbia, nel pugno minaccioso la sua minaccia, nel suono delle sue parole il significato di ciò che vuol dire ecc.»40. La percezione non riguarda aspetti fisici isolabili dell’altro, bensì la sua espressione, che non corrisponde alla pura somma delle varie parti corporee e si presenta, invece, come una totalità che è più della somma delle sue parti: «che qualcuno mi guardi amichevolmente, o in modo ostile, lo colgo nell’unità di espressione dello “sguardo”, molto prima di poter indicare il colore e la grandezza degli “occhi”»41. Scheler vuole dire: non vediamo prima il rossore del viso e dopo capiamo – accada in modo cosciente o incosciente – che l’altro si vergogna. In realtà, succede qualcosa di assai diverso: la vergogna dell’altro la percepiamo in modo immediato attraverso la sua espressione, capiamo immediatamente che l’altro si vergogna. I movimenti espressivi di un altro io non vengono prima percepiti in quanto insieme di percezioni sensibili 39 Cfr. D. Zahavi, Empathy, Embodiment and Interpersonal Understanding: From Lipps to Schutz, in «Inquiry», 53, 2010, n. 3, pp. 285-306 (il riferimento a Scheler è alle pp. 291 e ss.); S. Gallagher, How the Body Shapes the Mind, Oxford, Clarendon Press, 2005 (il riferimento a Scheler a p. 228). 40 M. Scheler, Essenze e forme della simpatia, cit., p. 243. 41 Ibidem, p. 230. Essenza e forme della simpatia 177 o come proprietà, attività di corpi e solo in un secondo momento si comprende trattarsi di segni di eventi spirituali. Scheler introduce, in questo modo, una determinazione del tutto nuova del fenomeno dell’espressione e del concetto di corpo vivo, a esso strettamente collegato. Fa dell’espressione una categoria originaria e non deducibile o, più specificamente, la categoria più originaria della percezione, collocata ancor prima delle categorie di fisico e psichico, anch’esse originarie. L’espressione del corpo vivo, per Scheler, è neutra rispetto alla distinzione tra psichico e fisico: «l’espressione è la primissima cosa che l’uomo coglie»42. Le categorie di fisico e psichico, o anche di vivente e non vivente, sono ontogeneticamente ed epistemologicamente posteriori alla categoria di espressione. La radicalità della teoria di Scheler si mostra in tutta la sua estensione quando confronta l’autopercezione con la percezione dell’altro. La comprensione dei propri sentimenti segue un processo analogo alla comprensione dei sentimenti degli altri: analogo, nel senso che anche la comprensione dei propri sentimenti si basa sulle espressioni; diverso, però, in quanto i nostri sentimenti ci sono accessibili solo indirettamente, dal momento che non comprendiamo le nostre espressioni attraverso l’introspezione, bensì nell’incontro con l’altro, attraverso le nostre azioni. Per questo, Scheler afferma, riprendendo Nietzsche: «Ognuno è a se stesso il più lontano»43. Nella tradizione cartesiana si parte sempre dall’autorità della prima persona e dall’evidenza dei propri sentimenti: nessuno può mettere in dubbio che sia l’io a esperire in prima persona i propri sentimenti. Scheler non si sognerebbe mai di negare questo fatto. Questa evidenza riguarda, però, solo la qualità sensibile: infatti, afferma Scheler, è possibile che l’io esperisca dei sentimenti che, in realtà, non sono i suoi propri sentimenti – per esempio, quando viene contagiato dall’allegria di un gruppo di persone. Posso anche credere di essere io stesso allegro ma, devo poi constare che, appena mi allontano da quel gruppo di persone, anche il sentimento di allegria pare come allontanarsi da me, perché, appunto, non era un mio sentimento44. L’evidenza e la trasparenza della propria vita emotiva vengono, dunque, criticate con veemenza da Scheler, da una parte, perché posso anche sbagliarmi riguardo ai miei propri sentimenti, dall’altra, perché prendo coscienza dei miei sentimenti solo in modo indiretto, attraverso l’esperienza intersoggettiva. 42 Ibidem, p. 226. Cfr. anche il mio saggio: M. Schlossberger, Il significato fondamentale della categoria dell’espressione per l’antropologia filosofica, in Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner, a cura di B. Accarino, Milano-Udine, Mimesis, pp. 231-241. 43 F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), Milano, Adelphi, 1984, p. 3. 44 Cfr. M. Scheler, Idole der Selbsterkennntnis (1912), in Id., Gesammelte Werke, a cura di M. Frings, vol. III, Bern-München, Francke, 1955. La tesi, per cui la percezione interna e quella esterna hanno lo stesso carattere gnoseologico e per cui, dunque, anche la percezione interna è soggetta a errore, si trova anche nelle Ricerche logiche di Husserl. Nelle Idee Husserl torna, tuttavia, su posizioni cartesiane. 178 Max Scheler La seconda edizione di «Essenza e forme della simpatia» e l’esperienza dell’altro Nella prefazione alla seconda edizione del libro sulla simpatia – appunto Essenza e forme della simpatia – Scheler parla approfonditamente delle varie modifiche e integrazioni al testo, che era uscito dieci anni prima con il titolo Fenomenologia e teoria dei sentimenti di simpatia e dell’odio e dell’amore (Zur Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle und von Liebe und Hass, 1913). Chiarisce il significato di unipatia (Einsfühlung) come caso particolare di contagio di sentimenti e si sofferma sulla classificazione delle varie forme di simpatia. Nella sezione «C. L’io altrui I. Significato e ordine dei problemi» torna di nuovo sulla questione delle modifiche, riferendosi non tanto alle integrazioni, bensì agli errori, che ha riscontrato nella prima edizione del libro: afferma che la distinzione tra le varie questioni e l’ordine dell’argomentazione non era sufficientemente chiara. Vorremo, a questo proposito, soffermarci brevemente su una modifica sostanziale che, purtroppo, finora non era stata ancora individuata45. Essa getta una luce del tutto nuova sulla teoria di Scheler. Nella sezione C, l’ultima del libro, egli si rimprovera di non aver tenuto conto della seguente questione: «che cos’è il momento oggettivo di realtà in generale [...], che cos’è la realtà psichica, e corrispondentemente la realtà spirituale [...], come e attraverso cosa la realtà di un centro psichico-spirituale altrui in generale è data originariamente?»46. La difficoltà di struttura dell’opera consiste qui nel fatto che egli aveva già dato risposta a questa domanda nel capitolo IV della sezione A – introdotto nella seconda edizione, non presente nella prima – e che solo a questo punto, quasi a fine libro, chiarisce al lettore qual è il rapporto tra questa tesi e la teoria presente nella prima edizione. Questa teoria della prima edizione si basa sulla tesi seguente: facciamo l’esperienza dell’altro in quanto comprendiamo o ri-sentiamo il comportamento espressivo dell’altro. Questa tesi viene ora, invece, corretta, senza che ciò venga esplicitato in modo chiaro in tutti i passaggi che trattano il problema. La tesi è ora la seguente: la piena esperienza dell’altro richiede anche che si faccia esperienza dell’altro in quanto realtà, in quanto essere concreto. E questa esperienza la possiamo fare solo attraverso la partecipazione ai sentimenti dell’altro, attraverso, cioè, la compassione: il congiore o il con-patire. Per comprendere la novità di questa teoria, sarà bene considerare, in un primo momento, il problema della realtà in generale, senza porsi per ora la questione del che cosa concretamente si esperisce come reale. La tesi fondamentale di Scheler è la seguente: «Noi afferiamo, dunque, l’esistenza (Realsein) di qualcosa di indeterminato secondo l’ordine in cui ci viene dato, prima di aver percepito o pensato la sua essenza (Sosein)»47. Scheler ha scoperto il tema della realtà solo dopo il 1918: nel 1925 scriveva che la teoria per la quale «la coscienza (traduzione di con-scientia) è soltanto una specie di sapere e che c’è anche un sapere estatico pre-cosciente (il sapere non sarebbe affatto una funzione della “coscienza”)», e «il rilevamento soggettivo dell’esistenza in quanto esistenza non si basa assoluta45 Questo vale tanto per le classiche critiche a Scheler di Karl Löwith e di Michael Theunissen quanto per le più recenti interpretazioni di Zahavi e Gallagher. 46 M. Scheler, Essenze e forme della simpatia, cit., p. 208. 47 M. Scheler, Erkenntnis und Arbeit, Leipzig, Der Neue-Geist Verlag, 1926, p. 472. Essenza e forme della simpatia 179 mente su funzioni intellettuali (siano queste dell’intuizione o del pensiero), ma esclusivamente sulla resistenza dell’ente che viene esperita originariamente solo nell’atto del tendere e dei fattori dinamici dell’attenzione», veniva da lui esposto da sette anni a lezione «come il primo fondamento» della sua teoria della conoscenza48. Porre la questione dell’esperienza della realtà come problema di teoria della conoscenza o domandarsi come sia possibile, in generale, trovare un fondamento per l’assunzione della realtà, significa porre male la domanda, dal momento che l’esperienza della realtà – qui Scheler, parla di esperienza del momento di realtà (Realitätsmoment) – deve essere già presupposta, per poter porre la domanda. Il problema della realtà va, dunque, ricondotto al problema della realtà del mondo esterno, perché questo modo di porre la domanda sembra suggerire che la sfera del mondo interiore sia anteriore rispetto alla sfera del mondo esterno. La questione della realtà del mondo esterno è, tuttavia, solo una questione derivata dall’esperienza della realtà – una questione sul giudizio di realtà o di esistenza: «Il giudizio sull’esistenza non si può chiarire, se non si sa in precedenza in che cosa consista il momento di realtà che trova la sua realizzazione solo nel predicato “esistenza” (Dasein) della proposizione sull’esistenza (Existenzialsatz)»49. Il fatto che ci sia la realtà non è deducibile, ma ci può essere dato solo attraverso un momento della realtà, che può essere descritto solo così e non spiegato né dimostrato attraverso dei nessi causali. Una tale esperienza della realtà è innanzitutto un’esperienza estatica. Non si intende, infatti, una conoscenza della realtà, bensì un darsi della realtà. Il momento della realtà è sempre dato attraverso un vissuto di resistenza (Widerstandserlebnis). Questa esperienza di resistenza si può avere nei modi più diversi. Inoltre, essa deve essere continuamente vissuta, perché si abbia la certezza del darsi della realtà. Chi non riesce o non può co-sentire con l’altro, perde il senso della realtà dell’altro. La critica radicale di Scheler alle teorie filosofiche di derivazione cartesiana – fondate, cioè, sulla coscienza – si basa, quindi, sulla messa in discussione della distinzione tra la prospettiva della teoria della conoscenza e la prospettiva normativa. Secondo Scheler, il «comprendere» (Verstehen) i sentimenti dell’altro è, per così dire, solo la premessa all’esperienza dell’altro. Si può fare l’esperienza dell’altro nel senso di avere la convinzione per cui «davanti a me sta veramente un altro» solo con gli atti emotivi della partecipazione ai sentimenti dell’altro; in altre parole, si ha una vera esperienza dell’altro solo attraverso il patire insieme all’altro e nella compassione condivisa. Ciò diventa chiaro nei casi della depersonalizzazione e della perdita del senso della realtà: per coloro che vivono un’esperienza del genere, gli altri esistono solo come ombre. Il problema non risiede nel fatto che non si riesce a vedere il proprio simile e che non capiscono i suoi sentimenti, bensì nell’incapacità di prendere affettivamente parte ai suoi sentimenti attraverso il con-patire e il con-gioire. 48 M. Scheler, Die Formen des Wissens und die Bildung, Bonn, Friedrich Cohen, 1925, p. 47, trad. it. Le forme del sapere e la formazione, in Id., Formare l’uomo. Scritti sulla natura del sapere, la formazione, l’antropologia filosofica, a cura di G. Mancuso, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 49-87, qui, pp. 78-79. 49 M. Scheler, Idealismus – Realismus, Bonn, Friedrich Cohen, 1927, p. 280. 180 Max Scheler Scheler riassume bene la portata della compassione con le seguenti parole: «Ciò che qui viene colto immediatamente senza rappresentazione e senza concetto è il “senso” della verità, che trasposto in forma di giudizio, suonerebbe così: “l’altro ha valore uguale a te in quanto uomo, in quanto essere vivente, l’altro esiste in modo altrettanto vero e autentico quanto te – il valore dell’altro è uguale al valore proprio”»50. Una «pura» comprensione dell’altro, secondo Scheler, non ci permette di uscire dal solipsismo. (Traduzione dal tedesco di Laura Correia Minervini) Matthias Schlossberger, Institut für Philosophie, Potsdam Universität, Am Neuen Palais 10, 14469 Potsdam, schloss@uni-potsdam.de. Unipathy and Expressivity in Max Scheler’s «Sympathiebuch» Guido Cusinato Husserl and Scheler, contrary to what usually presumed, start their perception theories of the other from a common premise: nobody can re-experience a personal Erlebnis in the same way as the directly concerned experiences it. However, while for Husserl the uniqueness of the monad is the starting point, for Scheler the uniqueness of the person is the result of an individual formation process; according to Scheler, therefore, the «immediate» perception can eventually take place only on the unipathic level, as affective contagion, where the individuals can refer to a universal grammar of the life. On the personal level instead the experience of the other is possible only in terms of participation in the expressive process of the other. Perceiving the other on the personal level thus develops from an epistemological into a formative and ethical question. Keywords: Intersubjectivity, Scheler, Husserl, Person, Bildung. Primary Individuation. Applying Max Scheler’s «Sympathiebuch» Roberta De Monticelli The paper discusses issues raised by Scheler’s The Nature of Sympathy, investigating its phenomenology and social ontology: the individual’s genesis from the social and parental background in which it is immersed as an historical-cultural invariant; the idea of primary objectification and the child’s progressive stepping back from «environmental lived experiences»; «sympathy» as a way of «being together»; «community of life» and «parental accompaniment» as the ground for the constitution of persons and relationships; the life-world and the idea of estrangement in philosophy (Husserl, Wittgenstein) and in psychopathology (Blankenburg and Kimura); the «sense of one’s self», living oneself as a subject, which requires the experience of – one’s ability to «feel oneself» through – actions and emotions. Lived subjectivity, sensitivity, power and primary socialization concur to the emergence of «primary individuation» – a form of subjectivation through which the human creature enters the sphere of its own life definable as «reason». 50 M. Scheler, Essenze e forme della simpatia, cit., p. 87. Essenza e forme della simpatia 181 Keywords: Sympathy and Unipathy, Individual and Society, Primary Individuation and Subjectivation of the Body, Familiarity and Loss of Natural Evidence. Nature and Forms of Intersubjectivity Matthias Schlossberger The article presents Scheler’s theory of intersubjectivity within three steps. It is about: the interrelation between Scheler’s The Nature of Sympathy and the theory of emotions developed in Formalism in Ethics and Non-Formal Ethics of Values; Scheler’s contribution to the current debate concerning the theory of mind and the question about what we do when we understand others; Scheler’s innovation in the additional response he provides to the question about how we experience others in the second edition of The Nature of Sympathy. Keywords: Intersubjectivity, Sympathy, Empathy, Emotions, Phenomenology.