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GIOVANNI FONTANA, SCRITTURA VERBO-VISIVA IN FRANCIA.

2013, Bérénice, Anno XVII, n. 45

Pantagruele e compagni, dopo una lunga sequela di avventure, arrivano finalmente davanti alla “Dive Bouteille” per interrogarla. Bacbuc, nobile pontefice, invita Panurge a compiere i gesti di rito: lo fa inginocchiare, gli fa baciare la fontana, gli fa eseguire tre danze dionisiache, lo fa sedere a terra tra due seggi preparati appositamente per la cerimonia e, infine, aperto un libro rituale, gli suggerisce di porre le sue domande cantando in versi. Ed ecco che per François Rabelais (1494-1553) l’interrogazione assume proprio la forma della bottiglia, che in modo del tutto sorprendente risponde: “Trink”, cioè “Bevi”.

Fondata a Roma nel 1980 da Gabriel-Aldo Bertozzi RIVISTA SEMESTRALE DI STUDI COMPARATI E RICERCHE SULLE AVANGUARDIE Diretta da Gabriel-Aldo Bertozzi e François Proïa RIVISTA SEMESTRALE DI STUDI COMPARATI E RICERCHE SULLE AVANGUARDIE Fondata a Roma nel 1980 da Gabriel-Aldo Bertozzi Diretta da Gabriel-Aldo Bertozzi e François Proïa Comitato Direttivo Gaetano Bonetta (direttore del Dipartimento), Maria Gabriella Adamo, Jorge Barreto, Julio Carreras (h.), Françoise Canal, Jean-Paul Curtay, Matteo D’Ambrosio, Carolina Diglio, Giovanni Dotoli, Albert Dupont, Pietro Ferrua, Giovanni Fontana, Louis Forestier, Gabriella Giansante, Eugenio Giannì, Marie-Thérèse Jacquet, Pierluigi Ligas, Gisella Maiello, Marilia Marchetti, Francesco Marroni, Nicola Mattoscio, Angelo Merante, Rosa Maria Palermo, François Poyet, Sandro Ricaldone, Vasile Robciuc, David W. Seaman, Neli Maria Vieira. Membri scomparsi: Gaetano Castorina Comitato di Redazione Francesco Asole, Kiki Franceschi, Andrea Chiarantini, Manuela Cipri, Paul Lambert, Lex Loeb, Franco De Merolis, Marisa Ferrarini, Stella Mangiapane Direzione e Redazione Dipartimento di Scienze Economico-quantitative e Filosofico-educative (Università degli Studi “G. d'Annunzio” Chieti e Pescara) Campus Madonna delle Piane E-mail gabertozzi@yahoo.it francoisproia@virgilio.it Grafica e impaginazione Romolo Di Michele Stampa Universal Book srl di Rende (CS) Sito internet www.rivistaberenice.com Direttore responsabile Marino Solfanelli Edizioni Solfanelli Gruppo Editoriale Tabula Fati Via A. Aceto n. 18 – 66100 Chieti Rivista semestrale N. S.4, anno XVII, n. 45 – 2013 Supplemento a Abruzzo Press n. 6 del 9/01/2013 Registrazione presso il Tribunale di Chieti con il n. 1 del 1981 Volume stampato con un contributo della Fondazione Pescara-Abruzzo SCRITTURA VERBO-VISIVA IN FRANCIA “Poésie visuelle” e dispositivi per letture sinestetiche di GIOVANNI FONTANA Pantagruele e compagni, dopo una lunga sequela di avventure, arrivano finalmente davanti alla “Dive Bouteille” per interrogarla. Bacbuc, nobile pontefice, invita Panurge a compiere i gesti di rito: lo fa inginocchiare, gli fa baciare la fontana, gli fa eseguire tre danze dionisiache, lo fa sedere a terra tra due seggi preparati appositamente per la cerimonia e, infine, aperto un libro rituale, gli suggerisce di porre le sue domande cantando in versi. Ed ecco che per François Rabelais (1494-1553) l’interrogazione assume proprio la forma della bottiglia, che in modo del tutto sorprendente risponde: “Trink”, cioè “Bevi”. “Proprio così parlano le bottiglie cristalline del mio paese quando crepano per essere troppo vicine al fuoco”, esclama Panurge captando lo squillante responso come puro suono1. Si tratta di un enigmatico gioco di specchi in cui la componente tautologica, sembra assolvere funzione rassicurante, ma le porte dell’arcano (al di là del nostro piacere sinestetico) restano aperte. C’è modo e modo, comunque, di interpretare l’oracolo; tra i mille modi: ricostruire la risposta attraverso le infinite forme che può assumere la domanda. Quale migliore occasione di quella offerta dalla “Dive Bouteille” rabelaisiana, vero e proprio incunabolo dell’interlinguaggio, per aprire un discorso sulla poetica delle scritture in espansione? La parola e l’immagine, la melodia del verso e l’onomatopea del “trink”. Si tratta di un’operazione perfettamente riuscita sul piano della comunicazione sinestetica: il gioco delle forme con19 sente l’amplificazione del testo in una dimensione intersensoriale dove l’input verbo-visivo sembra stimolare fragranze e sapori mentali, riesce quasi a rendere reale sulle nostre papille un immaginario gusto di vino. Del resto la lettura di un testo verbovisivo implica sempre un atteggiamento sinestetico. La componente verbale, l’immagine, ma anche il suono che deriva, direttamente, dagli effetti acustici della lettura del testo o, indirettamente, dalla valenza “sonora” di certe strutture figurali con François Rabelais, Dive bouteille funzione di notazione (tessiture, articolazioni ritmiche, cromatismi, ecc.), fanno sì che l’opera si ponga come una sorta di nodo da sciogliere in chiave polisensoriale e da esplorare a 360°. A volte i confini tra i diversi elementi interagenti si fanno molto labili: la parola si pone come immagine, l’immagine si pone come parola e così via. In particolare accade spesso che i limiti tra l’elemento visivo, quello verbale e quello sonoro si perdano, specialmente quando sia l’uno che l’altro vengono organizzati sulla base della loro mera fisicità significante, al di là di ogni codificazione precostituita (e proprio per questo ampiamente usurata). Prove in tal senso sono offerte da numerose “scritture visive”, elaborate ed articolate con varie tecniche e modalità nel corso dei secoli e balzate alla ribalta nell’ambito delle avanguardie2. In Francia nel XIX secolo, con Victor Hugo e Charles Nodier, la forma del testo è riconsiderata con attenzione nell’attività poetica e letteraria. Hugo pubblica nel 1829 Les djinns3, un testo in versi ropalici dove fa corrispondere alla lunghezza dei versi, dapprima crescente e poi decrescente, un crescendo e decrescendo 20 ritmico che si sviluppano parallelamente alle variazioni della tensione interna della composizione, che può essere percepita anche sul piano visivo. Nel 1830 Nodier rimette in ballo l’organizzazione del testo e dello stesso oggetto libro in relazione ad un rinnovato uso dell’immagine e dell’impianto tipografico4, al quale l’autore assegna valori simbolici attraverso la disposizione del testo e la scelta dei caratteri. Ma è soprattutto Mallarmé che offre il poema ad un sintetico colpo d’occhio prima ancora che il lettore entri nella dimensione della lettura. Al lettore si domanda un fondamentale passaggio nel meccanismo percettivo; gli si richiede uno sguardo sinergico e nello stesso tempo la capacità di varcare la superficie del “quadro”, di penetrarla prospetticamente e di procedere oltre, spazialmente, in una analisi testuale sui generis; in un certo senso è come se gli si rivolgesse l’invito a contemplare la necessità di uno sfondamento, come se, paradossalmente, si invitasse ad anticipare un virtuale taglio “fontaniano” del foglio per scoprirne l’universo compresso tra le due facciate opposte. Sarà il Novecento a far esplodere miriadi di combinazioni verbo-visive. Basti pensare ai testi “optofonetici”5 disseminati nell’intero corso del secolo, a partire dalle tavole parolibere futuriste fino alle tessiture verbo-visive di molti poeti “concreti” e “sonori”, o, in ambito francese, ad alcuni “poèmes mécaniques”6 di Pierre Garnier e a molte opere di Henri Chopin. La poesia del XX secolo è stata particolarmente segnata dal rapporto con le neo-tecnologie ed i nuovi media. Bisogna risalire agli albori della “galassia Gutenberg” per registrare effetti così rilevanti. Lo sconvolgimento degli assetti nell’universo estetico, infatti, ha catalizzato mutazioni nella produzione letteraria favorendo in modo significativo lo sviluppo di forme di comunicazione e di espressione legate all’immagine, allo spazio, al gesto, fino alla più generale azione intermediale, che include le dimensioni visive rimodellate sulle tecnologie (olografia, videografia, 21 laser, ecc.) e le dimensioni acustiche fondate sull’esercizio di una vocalità rilanciata dalle conquiste elettriche ed elettroniche e dalle loro peculiari capacità di “memoria”. Questa vocalità, che apre alla letteratura gli spazi di un’oralità secondaria, incide sulle strutture del testo, anche sul piano visivo, e attraversa, direttamente o indirettamente, buona parte delle pratiche performative, da un lato, e della creatività tecnologica, dall’altro. Tutto si inquadra nel processo che conduce verso l’opera totale: tema fondamentale nel dibattito novecentesco, area di ricerca viva e vivificante, banco di prova delle più interessanti personalità, talora laboratorio della temerarietà, dell’azzardo. Ai progetti più rivoluzionari, tendenti comunque alla definizione polidimensionale dell’opera d’arte in un ottica di generale rinnovamento, lavorano, su vari fronti, uomini di diversa estrazione. L’idea dell’opera totale già si affaccia verso la fine dell’Ottocento nelle teorizzazioni wagneriane7, che tanto successo riscuotono in ambiente simbolista, se non altro per le affinità con la teoria delle “corrispondenze”, secondo cui l’essenzialità è raggiungibile avvicinando la parola al suono e al colore. Ma se il famoso “Correspondances”8 di Charles Baudelaire ha fornito indicazioni preziose a generazioni di poeti, ponendo in termini del tutto nuovi la questione del rapporto tra due dati sensoriali, “Voyelles”9 di Arthur Rimbaud costituisce un esempio emblematico di astratte corrispondenze tra suono e immagine che sposta fortemente l’attenzione sugli aspetti significanti della parola. A tal proposito Breton si esprime in questi termini: C’est en assignant une couleur aux voyelles que pour la première fois, de façon consciente et en acceptant d’en supporter les conséquences, on détourna le mot de son devoir de signifier. Il naquit ce jour-là à une existence concrète, comme on ne lui en avait pas encore supposée. Rien ne sert de discuter l’exactitude du phénomène de l’audition colorée, sur lequel je n’ai garde de m'appuyer. Ce qui importe, c’est que l’alarme est donnée et que désormais il semble imprudent de spéculer sur l’inno- 22 cence des mots. On leur connaît maintenant une sonorité à tout prendre parfois fort complexe; de plus ils tentent le pinceau et on ne va pas tarder à se préoccuper de leur côté architectural.10 Sul piano prettamente percettivo, molti possono avere “ascolti colorati”, ma non tutti le stesse qualità ricettive e associative di Rimbaud. Anche se sono state scientificamente individuate coincidenze nelle lunghezze d’onda di dati colori e dati suoni, così da poterli definire corrispondenti a tutti gli effetti, in linea di massima l’analogia segno-suono passa per le qualità ricettive del soggetto che attua una sua linea di lettura sinestetica in relazione alla propria corporeità, in quanto “sensualmente” disponibile agli stimoli esterni e capace di collegamenti intersensoriali. Scrive a tal proposito Lamberto Pignotti che: Insieme all’orecchio che ode c’è l’orecchio che vede, quando per esempio sentendo da lontano la voce di una persona amata o temuta ne prevede l’arrivo; c’è l’orecchio che odora, quando per esempio avverte un colpo di vento anticipatore di un profumo di fiori, oppure il rumore della messa in moto di una fuoristrada che annuncia il gas di scarico; c’è l’orecchio che gusta, come quando sente friggere, bollire, arrostire, o come quando – trattandosi di un cagnolino di Pavlov – ode il campanello che gli fa venire l’acquolina in bocca; c’è l’orecchio che tocca, quando un rumore improvviso può fare accapponare la pelle, o quando – trattandosi del giovane Proust – ode il passo della mamma avviata a dargli il bacio della mezzanotte.11 Hausmann nella sua Costruzione optofonetica del 1922 (pubblicata su Plastique nel 1939) scriveva: “Vidi una lampada ad arco, cantava”. E ancora: “Vogliamo creare nuove immagini di base. Tuttavia l’immagine parla attraverso il numero che la racchiude. Risuona. Contrassegno dell’indivisibile. Lingua formante del nonudito. Immagine immutabile del mosso. Non Euclide, non Newton definiscono questo spazio da radioscena, nel quale la mia mano vide ciò che udì il mio occhio. Noi non siamo fotografi”12. 23 Anche sulla scorta di queste premesse, nell’ambito teatrale si moltiplicano gli esperimenti di trasposizione in termini spaziali della poesia, che comincia a delinearsi come poesia della voce, del suono e del gesto. L’attività spettacolare sembra costituire infatti la molla più efficace per la realizzazione della “sintesi delle arti”. Ma l’idea di totalità intesa come somma di elementi, come accumulazione, talvolta eterogenea, è gradualmente sostituita da nuovi concetti che presuppongono stretti ma agili rapporti sinergici tra i codici espressivi. A partire dalle spinte futur-dada l’idea di un’arte polivalente serpeggia per l’Europa. Da quel momento numerose saranno le proposte creative e teoriche con valenze esattamente opposte a quelle del progetto wagneriano. La fusione di parola, suono e colore nell’opera drammatica è vista, per esempio, in termini di pura fisicità nel Teatro sintetico futurista o in termini di fluidità astratta13 negli esperimenti di Wassily Kandinsky. Si fa leva su un rinnovato concetto di “corrispondenza” sostenuto da parametri di tipo strutturale e metodologico, distinguendo correntemente le sinestesie soggettive, funzioni delle capacità percettive del soggetto, da quelle oggettive, legate a procedimenti tecnico-scientifici e ad apparecchiature tecnologiche in grado di attivare processi sensoriali complessi14. Di fatto l’universo comunicativo non vive solo di parole, e la comunicazione è sempre intersensoriale. Essa coinvolge tutti gli organi di senso, e quasi mai uno per volta, mentre in linea di massima si può sempre parlare di “comunicazione intrecciata”. Ovviamente, l’opera d’arte “totale” esige una plurisensorialità. D’altra parte la confusione dei linguaggi tra i diversi canali sensoriali è più facile di quanto non sembri. Il cervello non contiene culs de sac15. In letteratura, a partire dai primi manifesti marinettiani e poi via via tramite il contributo essenziale dei nuovi movimenti d’avanguardia, si accreditano e si sviluppano diverse tecniche di scrittura verbo-visiva, dove l’universo della parola e quello dell’immagine 24 si attraggono, si intersecano, si scontrano, si sovrappongono, individuando e amplificando anche la dimensione fonetica, sonora, rumoristica attraverso tipologie scritturali che assumono valore di notazione16. Insomma si assiste all’orientamento di un ampio e significativo settore della poesia verso la complessità della scrittura intercodificata, che forza i confini della pagina e colloca la figura del poeta di fronte alla necessità di agire nello spazio visivo, acustico, scenico per far fronte alle esigenze pressanti di progetti fondati sulle intersezioni linguistiche, sulla percezione sinestetica, sulla dimensione articolata della performance, sul rapporto con le nuove tecnologie. Filippo Tommaso Marinetti aveva scagliato la sua prima invettiva rivoluzionaria il 20 febbraio 1909 pubblicando il Manifesto del Futurismo sulle pagine di Le Figaro17. Sostenuto immediatamente da un nutrito gruppo di artisti (poeti, pittori, musicisti, ecc.), aveva avviato un processo di totale sovvertimento della cultura e dell’arte. Il futurismo si configurava come programma di coordinamento dell’attività artistica e della pratica quotidiana, ponendosi anche come stile di vita, e disegnava quelle prospettive creazioniste concentrate sul dato fisico e materico che investiranno rapidamente tutti i movimenti di reazione allo spiritualismo simbolista e attraverseranno tutto il secolo fino ad in-formare le più recenti esperienze artistiche18. Lanciate nel 1912 con il Manifesto tecnico della letteratura futurista19 e teorizzate in maniera più ampia nel manifesto dell’11 maggio del 1913, le parole in libertà, unitamente all’ortografia libera espressiva, al lirismo multilineo, alla rivoluzione tipografica, all’accordo onomatopeico e ad altre polemiche e spinte innovazioni tecniche, aprono il campo, in maniera determinante, a nuove forme di poesia, dove la dimensione extraverbale concorre alla formazione di atmosfere decisamente spettacolari. Scrive Marinetti: “Il poeta lancerà su parecchie linee parallele parecchie catene di colori, suoni, odori, pesi, spessori, analogie. Una di queste linee potrà essere per 25 esempio odorosa, l’altra musicale, l’altra pittorica”20. Da qui il passaggio al paroliberismo più oltranzista è breve: “le parole in libertà si trasformano naturalmente in autoillustrazioni mediante l’ortografia e tipografia libere espressive, le tavole sinottiche dei valori lirici e le analogie disegnate”21; esse “rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale”22, in esse “l’ortografia e la tipografia libere espressive [...] servono per esprimere la mimica facciale e la gesticolazione del narratore”23. Alle differenti situazioni grafiche e spaziali e ai diversi “spessori” tipografici corrisponderanno i toni, i volumi, i registri della lettura. Un momento fondamentale per la svolta operativa di Marinetti è costituito dalla pubblicazione di Les mots en liberté futuristes (1919)24, dove le tavole “Les soirs, couchée dans son lit, elle relisait la lettre de son artilleur au front”, “Après la Marne Joffre visita le front en auto” e “Une assemblée tumultueuse (sensibilité numérique)” rappresentano una vera e propria metabolizzazione di segni in uno spazio che per caratteristiche strutturali apre a dimensioni che superano i limiti stessi della “tavola parolibera”. Tutti i segni impegnati (grafici, tipografici, verbali e non verbali) sono fortemente oggettualizzati, al di là di ogni referenza descrittiva (sia in chiave linguistica che figurativa) proponendo un nuovo modello di testo materico25. Nel 1913, a seguito dell’esposizione parigina dei pittori futuristi, Guillaume Apollinaire pubblica L’Antitradition futuriste e intrattiene fitte relazioni con Marinetti e il movimento italiano, subendone per alcuni versi l’influenza. Pubblica nel 1918 i Calligrammes e, in una lettera indirizzata a André Billy, il poeta scrive: “Quant aux Calligrammes, ils sont une idéalisation de la poésie vers-libriste et une précision typographique à l’époque où la typographie termine brillamment sa carrière, à l’aurore des moyens nouveaux de reproduction que sont le cinéma et le phonographe”26. Apollinaire in26 Guillaume Apollinaire, La colombe poignardée et le jet d'eau tuisce che la poesia entrerà presto in altri spazi, dove nuove forme espressive saranno supportate da nuovi mezzi di “riproduzione” e di comunicazione. Osserva Michel Butor: Certes la carrière de la typographie, en donnant à ce mot son acception la plus large et en y intégrant tous les perfectionnements récents qu’Apollinaire ne connaissait pas: linotype, lumytipe, etc., est bien loin d’être terminée, pourtant, près de cinquante ans plus tard [...], sa vision 27 nous apparaît comme prophétique. Apollinaire a été un des premiers à comprendre poétiquement qu’une révolution culturelle était impliquée dans l’apparition de nouveaux moyens de reproduction et de transmission, que le phonographe, le téléphone, la radio et le cinéma (sans parler de la télévision et de l’enregistrement magnétique), moyens de conserver et diffuser le langage ou l’histoire sans passer par l’intermédiaire de l’écriture, obligeaient à poser sur celle-ci un regard nouveau, et en particulier à interroger d’une façon toute nouvelle cet objet fondamental de notre civilisation qu’est le livre.27 Secondo Heissenbüttel in quest’opera egli “tenta di realizzare qualcosa che si differenzia totalmente dagli esperimenti degli italiani. Egli ricompone infatti i segni tipografici liberati dagli schemi della riga e del verso in nuovi rapporti figurativi. Le righe di “Il pleut”, ad esempio, scorrono in semidiagonali irregolari come strisce di pioggia”28. I calligrammi sono di due tipi. C’è quello più legato alla tradizione (anche più semplice dal punto di vista strutturale), dove il testo prende la forma dell’oggetto descritto o quello dove, invece, traccia il contorno dell’oggetto. L’esempio di Apollinaire è ripreso da Pierre Albert-Birot (1876-1967) e da Louise de Vilmorin (1902-1969)29. In realtà è vero quanto osserva Butor circa la capacità di Apollinaire di prevedere gli sviluppi futuri della poesia in seno alle nuove tecnologie, ma è anche vero che il poeta, contrariamente a quanto afferma Heissenbüttel, segna un passo indietro rispetto a quanto si stava osservando da tempo nel panorama dell’espressione verbo-visiva, soprattutto perché uno dei dati strutturali dei calligrammi è dato dal loro mimetismo. Essi non si sottraggono agli aspetti descrittivi legati alla figurazione. In “Paysage” sono rappresentati una casa, un albero, una sigaretta fumante, una figura; in “La cravate et la montre” sono raffigurati entrambi gli oggetti, addirittura con accenno a vaghi tratti assonometrici che segnano lo spessore dell’orologio; cuore, corona e specchio sono disegnati in “Cœur couronne et miroir”; così accade in “La mandoline l’œillet et le bambou”, in “La colombe poignar28 dée et le jet d’eau” e in molti altri calligrammi. E c’è inoltre da osservare che la parte verbale conserva sostanzialmente il suo inquadramento sintattico e lessicale, nonché la sua leggibilità. Disponendo il testo secondo un ordine grafico-figurativo – osserva ancora Heissenbüttel – “Apollinaire si rifaceva ad una consuetudine praticata per l’ultima volta dalla lirica barocca nella cosiddetta poesia emblematica. Il tema della poesia, il suo ‘oggetto’, veniva allora ripetuto disegnativamente nella composizione a stampa, ma in ciò i poeti del Seicento tendevano ad esteriorizzare l’elemento linguistico a vantaggio di quello araldico: l’elemento linguistico si fossilizzava nel disegno emblematico allegorico. La ripresa di Apollinaire ha invece un carattere chiaramente impressionistico”30. Dichiarazione, questa, che contraddice chiaramente il giudizio sugli “esperimenti italiani”, che in realtà sono quelli che aprono lucidamente incisive prospettive di rinnovamento. A questo proposito Vincenzo Accame sottolinea come Heissenbüttel, insistendo sulla “scoperta” della figurazione non sospetti minimamente del senso involutivo che essa comporti31. Resta comunque il fatto che Apollinaire abbia intuito l’importanza della visione sintetica in relazione ai nuovi mezzi di comunicazione. Se fenomeni di interferenza e interrelazione nelle arti erano già stati ampiamente osservati in passato, la reale consapevolezza dell’enorme potenzialità dell’interconnessione dei significanti sul piano della comunicazione estetica è una conquista delle avanguardie novecentesche. I testi escono dai libri, subiscono gli effetti dei codici gestuali, spaziali, musicali e assumono connotazioni nuove offrendosi perfino a sensazioni tattili, olfattive, gustative. Già nel 1897 Stéphane Mallarmé aveva consegnato alla rivista “Cosmopolis” la sua opera più singolare, quella che così profondamente avrebbe segnato i percorsi poetici del Novecento: Un coup de dés jamais n’abolira le hasard 32. Il testo assume per la prima volta una forma tipografica nuova: si dispone con libertà sulla pa29 gina, occupandone gli spazi secondo ritmi che la logica della composizione vuole ben regolati, rispettosi del vuoto, del bianco del foglio. Qui i bianchi hanno un’importanza fondamentale. Suggeriscono silenzi e ritmi del silenzio. “Les blancs” pervadono la composizione; svolgono un ruolo guida, ma nello stesso tempo si pongono come un grande sfondo, tanto che il verso acquista la forma d’una costellazione che si libra nella pagina. Il foglio acquisisce un valore poetico che non ha mai avuto prima: interviene nella sequenza del testo-immagine come elemento regolatore e offre una successione di suddivisioni prismatiche “de l’Idée”. La pagina si presenta al lettore nella sua unità, in visione simultanea, e nello stesso tempo si lascia percorrere all’interno, tra il bianco della carta e il nero dell’inchiostro tipografico, come una vera e propria partitura, nella quale il pensiero messo a nudo si carica di valori tonali, di tratti sonori. Le variazioni dei caratteri di stampa suggeriscono al lettore l’intensità dell’emissione orale; l’inquadramento del testo nella pagina, in taglio alto, medio o basso, indica l’intonazione ascendente o discendente. La lezione di Baudelaire viene portata a conseguenze ben più estreme di quanto non ci si potesse attendere in clima parnassiano. Le ambizioni ‘musicali’ giocano un ruolo di primissimo piano, portando l’espressione verso zone di inesprimibili sensazioni, immergendo la poesia in una sfera dai contorni sempre più sfumati; è la stessa via, in certo senso, seguita dal cromatismo wagneriano (soprattutto del Tristano) e bruckneriano: il cui sbocco sarà l’atonalità di Schönberg.33 Mallarmé sostiene la ricerca poetica nell’ambito del verso libero e del poema in prosa (“poursuites particulières et chères à notre temps”) sotto il segno della musica, dove parecchi metodi e procedimenti sembrano appartenere all’universo delle lettere. Il poeta se ne appropria, meglio se ne riappropria, per accentuare il corpo sonoro delle parole e per assegnare, nello stesso tempo, valore lin30 guistico al silenzio, introducendo nella composizione pause variamente articolate, estese oltre le convenzioni della punteggiatura, in modo da sviluppare una nuova struttura poetica che finirà per amplificare, secondo direzioni fino allora imprevedibili, gli spazi della prosodia. Il valore del bianco della pagina, inteso come silenzio, come pausa di respirazione, ma anche il valore del segno tipografico nelle sue qualità formali (corpo, carattere, disposizione, ecc.) assumeranno un peso fondamentale nella poesia degli anni successivi. Se, da un lato, l’avventura formale dell’arte moderna sarà “sempre tentata dall’assenza, dal silenzio, dalla pagina bianca, intese non come fallimenti, ma come realizzazioni assolute di un voler sentire solo l’essenziale”34, dall’altro, la rinuncia alla linearità della disposizione tipografica tradizionale e la composizione visuale del testo costituiranno le premesse per l’introduzione in ambito letterario di nuove nozioni tecniche che avranno l’effetto di coinvolgere nella “lettura” tutti gli apparati sensoriali35. Mallarmé mette in discussione la poesia stessa, mettendo in discussione i media correnti della poesia in quel momento, cioè la pagina e l’oggetto libro, e apre un discorso sui valori non soltanto fonici, ma più ampiamente sonori del testo anticipando il concetto di optofonia. Pertanto la poesia non sarà più legata al binomio scrittura/tipografia ma al trinomio parola/suono/immagine. Nessuna delle nascenti avanguardie potrà ignorare la lezione di Mallarmé. Da una parte l’importanza crescente della comunicazione non verbale, dall’altra la spinta dei poeti a commisurarsi con questo tipo di comunicazione, porteranno gradualmente verso un nuovo modo di concepire il testo, inteso come territorio di intersezione delle arti, come luogo della contaminazione. Ai primi del secolo, “[...] i segni del linguaggio ritrovano la loro dimensione di reciprocità sonora e grafica e capovolgono i rapporti della comunicazione lineare annullando la necessità di trasmettere un senso 31 logico”36. Le avanguardie storiche teorizzavano e realizzavano, “a partire dal rifiuto del linguaggio in quanto storicamente determinato, esperienze che contemplavano interessi precisi sia per i modelli iconici di compilazione testuale che per i valori fonici, riscoperti nel corso di ricerche quasi sempre autonome e originali rispetto alla musica contemporanea”37. D’altra parte l’intreccio di lingue naturali e artificiali offre interessanti spazi alla sperimentazione, mentre la manipolazione del linguaggio, considerato come ‘materia’ e non come strumento di comunicazione, diventa principio stilistico costante: “decomposizione di sintassi e grammatica sino alle relazioni fra singole parole, emancipazione dei parametri letterari, lo scrivere come avventura pianificata, ricomposizione in strutture linguistiche artificiali, queste e altre innumeri prove nascono dall’esigenza di testimoniare la realtà moderna”38: Lo spostamento della poesia verso zone proprie della linguistica, che Mallarmé rappresenta certo più vistosamente e consapevolmente di chiunque altro, il riconoscimento pratico non della reciproca influenza dei due campi, bensì la loro ‘connaturalità’, costituisce un passo importante verso la definizione di un’area poetico-visuale e di una interdisciplinarietà della ricerca estetica ben più importante di alcune delle già citate esperienze visualistiche anche successive [...]. E non è azzardato affermare che la lezione di Un coup de dés sia stata recepita solo parzialmente, e anche del tutto trascurata, almeno fino agli anni Cinquanta, quando con la poesia concreta nasce tutta una nuova fase di ricerca, con il linguaggio protagonista del fatto poetico in tutti i suoi aspetti più propri.39 In questo senso Mallarmé è inventore di un nuovo linguaggio, ma, come mette ben in evidenza Vincenzo Accame, è anche un poeta che ne fa un uso concreto “al di là dei valori rappresentativi e connotativi offerti dal codice linguistico”40. In relazione a quelli che saranno gli sviluppi sul piano del rap32 porto tra parola e immagine, appare importante sottolineare il concetto di struttura della pagina di Mallarmé, pagina che si profila straordinariamente unitaria. Il poeta, nell’introduzione al Coup de dés, scrive: Le papier intervient chaque fois qu’une image, d’elle-même, cesse ou rentre, acceptant la succession d’autres et, comme il ne s’agit pas, ainsi que toujours, de traits sonores régulier ou vers – plutôt, de subdivision prismatiques de l’Idée, l’instant de paraître et que dure leur concours, dans quelque mise en scène spirituelle exacte, c’est à des places variables, près ou loin du fil conducteur latent, en raison de la vraisemblance, que s’impose le texte. L’avantage, si j’ai le droit à le dire, littéraire, de cette distance copiée qui mentalement sépare des groupes de mots ou les mots entre eux, semble d’accélérer tantôt et de ralentir le mouvement, le scandant, l’intimant même selon une vision simultanée de la Page: celle-ci prise pour unité comme l’est autrepart le Vers ou ligne parfaite. È, dunque, lo stesso Mallarmé ad indicarci che la “visione simultanea” della pagina è un elemento del suo progetto poetico. In realtà ne costituisce una fondamentale caratteristica strutturale. La poesia si arricchisce di un ulteriore elemento compositivo: la struttura organizzativa della pagina, la struttura dello spazio in quanto elemento indispensabile ad una percettività simultanea; entra, perciò, a pieno titolo nella poesia la nozione di geometria, quale regola disciplinatrice dell’organizzazione figurale del testo e dei rapporti significanti tra le parole. Ogni elemento del testo si colloca nello spazio secondo una precisa relazione con tutti gli altri elementi41. Vincenzo Accame ritiene che: L’elemento primo che Mallarmé acquisisce alla poesia è lo spazio: uno spazio delimitato, come quello del pittore, se vogliamo, ma sostanzialmente diverso nell’ordine del ‘segno’. Il ‘segno grafico’ del pittore occupa uno spazio di per sé esistente, mentre il segno poetico di Mallarmé determina lo spazio, lo gestisce linguisticamente; anzi spesso è lo spazio stesso, nella sua poesia, che si fa segno.42 33 In realtà viene adottato un nuovo livello sintattico che si ritroverà negli anni Cinquanta nella poesia concreta. Il procedimento è, in un certo senso, paragonabile a quello schönberghiano della logica “seriale”. In Composizione con dodici note, Arnold Schönberg, riferendosi allo spazio musicale, scrive: Lo spazio a due o più dimensioni nel quale sono presentate le idee musicali è un’unità. È bensì vero che gli elementi di queste idee appaiono separati e indipendenti all’occhio e all’orecchio, ma essi scoprono il loro vero significato solo nel momento in cui cooperano fra di loro, proprio come una sola parola non può esprimere un pensiero se non entra in rapporto con altre parole. Qualsiasi evento accada in un punto qualsiasi di questo spazio musicale provoca un effetto non ristretto alla sua area immediata, ossia non agisce soltanto sul suo piano specifico, ma opera in ogni direzione e su tutti i piani, estendendo la sua influenza fino ai punti più lontani [...]. Gli elementi di un’idea musicale sono per una parte compresi nel piano orizzontale sotto forma di suoni che si succedono, e per un’altra in quello verticale sotto forma di suoni simultanei.43 La musica si apre alla nozione di spazio in termini del tutto nuovi. Sarà Webern ad estendere il concetto con la sua spazializzazione postdodecafonica, a fronte della quale, al contrario, Mondrian individuerà nelle arti visive la temporalizzazione ritmica, cosicché per musica e pittura si realizzerà uno scambio di dimensioni. La nozione di “serie”, che mediata da Webern, interesserà numerosi musicisti contemporanei, è applicata alla lettura critica di Mallarmé da Augusto De Campos, poeta attento all’universo musicale, il quale, nel 1953, realizza Poetamenos44. “Si tratta di un esempio importantissimo di poema-partitura, nel quale, seguendo le indicazioni [...] di Webern, Augusto De Campos segna i vari timbri fonetici attribuendo colori diversi alle parole, alle sillabe o alle lettere”45. Secondo Accame né dadaisti, né surrealisti seppero leggere Mallarmé nella corretta angolazione; mentre il raccordo tra il Coup de dés e le più recenti esperienze concrete e visuali sarebbe piutto34 sto diretto. Il segno poetico contemporaneo avrebbe perciò più profonde radici nell’opera di Mallarmé che nelle avanguardie storiche. A titolo di curiosità, trascrivo parte dei risultati del sondaggio della rivista “Littérature” (n. 18 del marzo 1921), che sottoponeva al giudizio dei collaboratori una folta schiera di personaggi storici e numerose personalità del mondo della cultura e dell’arte; Mallarmé prenderà 2,63 punti, con una scala compresa tra -25 a +20 e dove zero rappresentava l’indifferenza assoluta. In dettaglio: Tzara assegnerà -25 punti, Breton -1, Soupault +3, Rigaut +5, Aragon +8; solo Éluard darà +15; anche gli altri partecipanti al sondaggio furono avari nel giudizio. Per contro Breton prenderà +16,85 voti, Charlot +16,09; mentre Marinetti verrà punito con un -11,40. Lo stesso Marinetti, nel manifesto dell’11 maggio 1913, Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà, aveva scritto: “Combatto l’estetica decorativa e preziosa di Mallarmé e le sue ricerche della parola rara, dell’aggettivo unico insostituibile, elegante, suggestivo, squisito [...]. Combatto inoltre l’ideale statico di Mallarmé, con questa rivoluzione tipografica che mi permette d’imprimere alle parole (già libere, dinamiche e siluranti) tutte le velocità [...]”. Osserva Luciano De Maria: “Può darsi che Marinetti ignorasse l’edizione di Un coup de dés, apparsa in “Cosmopolis”, nel 1897, ma non è improbabile che un uomo così addentro in quegli anni nel mondo letterario francese, ne avesse almeno sentito parlare: il suo filoneismo assoluto lo portava a nascondere gli influssi più profondi e rilevanti [...]”46. D’altro canto c’è da sottolineare che la nozione di ritmo di Mallarmé, così strettamente associata alla regola dell’intervallo ampio, della pausa assoluta e silente è del tutto estranea al paroliberismo marinettiano. Breton, tuttavia, avrà modo di dire (1922) che i nomi di Paulhan, Eluard, Picabia sono legati a ricerche cui parteciparono anche Ducasse, il Coup de dés di Mallarmé e i calligrammi di Apollinaire. Ma la visione simultanea della pagina di Mallarmé supera la con35 cezione di tempo lineare, quasi giocando su una prospettiva temporale incidente il piano della pagina, dove va ad intersecarsi con lo sviluppo diacronico della scrittura che è giacente su di esso: come a suggerire l’immagine di un tempo stellare, pluridimensionale e volumetrico, non legato alla successione di eventi unitari; ma nemmeno fondato sulla sovrapposizione plastica e materica degli elementi sonori. Sta di fatto che il concetto di simultaneità dei futuristi (sia pure arricchito da processi di superamento del modello lineare)47, dei dadaisti o del simultaneista Pierre AlbertBirot (1876-1967) è senza dubbio differente, così come è distante il simultaneismo di Henri-Martin Barzun (1881-1974), il quale intendeva la voce come realtà costitutiva del poema, cosìcché i suoi testi si sviluppano secondo strutture che, pur avendo un indiscutibile valore sul piano visivo, implicano un percorso di lettura obbligato, proprio come accade nello spartito musicale corrente, al fine di ottenere “l’oggettivazione plastica dell’espressione verbale [...]. L’oggetto, cioè il dramma e l’azione, si atomizza in infinitesimali sottigliezze, la parola evapora scindendosi in suoni onomatopeici sino alla pura eufonia [...] dando luogo ad un pluralismo di espressioni fra loro correlate. Espressioni che sono le ‘voci’ sulla superficie della pagina-spartito, di là dal verso, direttamente calate in prima persona e contemporanee, come accade nel vissuto quotidiano”48. Le tecniche simultaneiste delle avanguardie sono ricollegate da Arrigo Lora Totino direttamente al simultaneismo del gruppo francese Barzun-Divoire-Voirol, che influenza, a suo dire, buona parte dei movimenti letterari, “dal Futurismo italiano, all’Espressionismo tedesco, dal Dadaismo, all’Imagismo anglosassone e contribuì, per contrasto polemico, alla creazione e al perfezionamento di alternative soluzioni di simultaneità “virtuale”, quali la tecnica dei Poèmes-Conversations di Apollinaire o quella in certo modo affine del montaggio «découpage poétique» di Cendrars”49, tecniche che 36 per l’autore costituiscono riferimenti essenziali nell’officina da cui usciranno i Vingt-cinq poèmes di Tzara, lo Hugh Sewyn Mauberley e i Cantos di Pound, la Waste Land di Eliot, per tacere dei contemporanei. Barzun, che inizia a lavorare al suo corpus poetico nel 1902, nel biennio 1912-1914 elabora le sue teorie simultaneiste in tre saggi raccolti sotto il titolo di Esthétique Dramatique. Per la nuova poetica si parla di “poésie dramatique”, “poésie simultanée”, “poésie panrytmique”, “poésie vocale”, “poésie harmonique polhymnique et polymélodique”, “poésie orphique” e, inoltre, di orchestrazione vocale e di lirismo multiplo “che ha carattere plastico a più dimensioni, vale a dire non solo durata, ma pure volume, masse, profondità”50. La panarmonia orfica teorizzata da Barzun proietta la rivisitazione delle antiche tecniche polifoniche verso il polimorfismo e la dinamica della materia vocale. La sua poesia, non intonata artificialmente, ma fondata sulle naturali inflessioni del parlato si legherebbe per Lora Totino “alle tecniche polifoniche medievali dell’Ars antiqua e poi Nova, ove s’ebbero casi di più voci sovrapposte, ciascuna con proprio testo che spesso era in lingua diversa. Nell’Ars antiqua una voce, il ‘tenor’, sta ferma, un’altra, la ‘vox organalis’, si muove «come voce in voce si discerne / quando una è ferma e l’altra va e riede» (Dante, Paradiso, VIII, 17-18)”51. Nell’opera di Barzun spicca L’Orphéide, poema simultaneo completato nella prima versione nel 1914, anticipato in minima parte sulle pagine della rivista “Poème & Drame”52 e rimasto in sostanza finora inedito, nel quale il testo costella le pagine in masse piuttosto rade, bilanciate intorno all’asse della voce del “tenor”. Il poema fu rappresentato in parte con il titolo di Panharmonie Orphique a Parigi, al teatro “Art et Action” di Édouard Autant e Louise Lara, che adattarono il terzo episodio usando le voci di diciotto attori mascherati, con una scenografia di taglio cubista disegnata da Henri Valensi53. Un caso a parte, per l’attenzione al contrappunto poli37 fonico e per l’importanza che egli assegna al bianco della partitura inteso come pausa di respirazione, è costituito dall’opera di Pierre Albert-Birot (1876-1967). Animatore della rivista “Sic” (19161919), egli si pone tra futurismo e dadaismo, con successive aperture verso il surrealismo. Le sue partiture risentono della scrittura adottata da Fortunato Depero nella sua verbalizzazione astratta. Esemplari i suoi poemi a due, tre, quattro voci: Poèmes à deux voix (1916-1919), Poèmes à crier et à danser (1916-1919), Poème Promethée (1918). Nel dopoguerra l’esperienza di Barzun e di Albert-Birot viene ripresa da Arthur Pétronio (1897-1983), figura composita di poeta e musicista, introdotto alla poesia fonetica da René Ghil, che nel suo Traité du Verbe (1885) proponeva orchestrazioni di parole combinate secondo valori sonori, e al bruitismo da Luigi Russolo, di cui tradusse opere in francese. Pétronio, che esordisce ad Amsterdam nel 1920 con La Course à la Lune, introduce nel 1953 la verbophonie, forma compositiva dove l’elemento polifonico si arricchisce di suoni e di rumori. In un appello ai poeti Pétronio auspica la nascita di “corali verbofoniche” a quattro voci miste, con accompagnamento di batteria, orchestrate come polifonie ritmiche per otto o venti esecutori (a seconda che si tratti di cori da camera o “de plein air”), dove le voci siano portatrici del suono delle parole, della melodia del parlato, cioè, e non del canto54. Per Pétronio la verbophonie è una sorta di “poésie totale” che tende alla concertazione polifonica evidenziando l’originaria sostanza materiale del linguaggio e agendo sulla plasticità della parola. Le sue caratteristiche vibratorie, le sue radici onomatopeiche, la dipendenza dall’apparato fonatorio, la sua fonogenia saranno per il “poeta verbofonista” materiale indispensabile alla costruzione dell’architettura sonora della composizione. I testi sono trascritti in veri e propri spartiti, sui quali, attraverso la notazione canonica, sono indicati tempi, altezze e modalità esecutive. Nel suo progetto poe38 tico non trascura l’elemento visivo dato dalla sottile ed eloquente “coreografia muscolare” concentrata sui volti dei “coreuti”: lo spettacolo dei riflessi facciali sostiene il poema nella sua evoluzione spaziale55. Scrive Tristan Tzara (1896-1963) a proposito de L’amiral cherche une maison à louer: “La poesia che ho composto (con Huelsenbeck e Janco) non offre una descrizione musicale, ma tenta di individualizzare l’impressione del poema simultaneo [...]. La lettura parallela che abbiamo fatto il 31 marzo 1916, Huelsenbeck, Janco ed io, era la prima realizzazione scenica di quest’estetica moderna”56. La simultaneità è pertanto un fattore relativo alla lettura scenica a più voci, nell’intenzione di rendere spettacolarmente i valori fonetici della composizione. In tal senso, i testi multilineari e/o articolati visualmente si pongono come partiture finalizzate alla teatralizzazione, talvolta con effetti di sovrapposizione caotica57 spinta alla pura fonicità e al rumorismo, e quindi lontane dalla lucida e tagliente atmosfera del Coup de dés. La polivalenza di letture di un testo visuale e la traduzione (anche nelle prose marinettiane, ad esempio) della parola stampata nella sua specificità fonica indicano che il passaggio al simultaneo, cioè ad una realizzazione teatrale, è quasi inevitabile. I dadaisti propendono per una fusione che s’inserisce pienamente nell’estetica cabarettistica dello choc.58 La materialità del linguaggio si coniuga alla corporeità, intesa sia come presenza scenica del corpo, sia come vocalità in quanto espressione di tale corporeità. La dinamica della voce diventa “prolungamento lirico e trasfigurato del nostro magnetismo animale”59. La forza dell’impatto con l’auditorio è sottolineata spesso da rumori concreti e da suoni di strumenti non convenzionali. In L’amiral cherche une maison à louer c’è un intermezzo ritmico che prevede il sostegno di un fischietto, di una nacchera e di una gran39 cassa: nella partitura sono indicate le modalità di esecuzione: forte, piano, fortissimo, crescendo, decrescendo, ecc. “Ma [...] varrà la pena di scoprire tutti gli effetti della sonorizzazione del prodotto poetico che acquista, in tal modo, quella qualità tattile che Benjamin, con molta acutezza, associava all’incremento dell’arte cinematografica ai suoi albori”60. Il poema simultaneista risulterebbe omologo all’immagine in movimento. Sia il cinema che la dinamica del poema, con le sue intersezioni sonore, impongono un loro ritmo attraverso una rapida successione di eventi che avvolge completamente lo spettatore, bombardato da sequenze che non consentono scelte, che non consentono soste, che non consentono riflessioni sui dettagli, ma presumono e richiedono impressioni complessive demolendo il cliché poetico, in favore di un caos magmatico di effetti diversivi, fino all’eventuale choc finale. Basta sfogliare l’Anthologie Dada [...] per accorgersi che le insalate di parole (secondo l’espressione di Benjamin) all’insegna della sincronia, condite di allitterazioni, giochi verbali, accostamenti a sorpresa (quasi automatici), composti più che inusitati o invenzioni lessicali e alogicità, denunciano caricaturalmente e grottescamente un universo minaccioso [...]. Le osservazioni di Ball sulla prima recita di poesie simultanee indugiano, in effetti, sul contrasto tra vox humana, incapace a rappresentare la sfaccettatura umanistica dell’uomo, e un mondo disgregatore.61 La simultaneità dadaista si pone come momento dissacratorio, come gesto indicativo delle contraddizioni di una società in rovina. Il taglio ironico, sarcastico, parodistico fa del simultaneismo dadaista un cabaret tanto pungente, quanto distante dall’aura declamatoria marinettiana, tutta protesa all’esaltazione del mito della modernità62. Ma, nonostante questa profonda differenza di segno, è proprio al “lirismo multilineo” e alle “coscienze molteplici e simultanee” di Marinetti che si rivolgono i poeti dada. Huelsenbeck, e come lui tanti altri, dichiareranno di aver letto i futuristi e di aver tratto da lì l’idea della simultaneità. 40 Per ora, comunque, gli spunti di una teatralizzazione della parola, di una rottura con il suo carattere culturale e della sua analogia simultaneista con la tecnica cinematografica palesano l’ambivalenza di una ricerca che, almeno in Arp e Ball, dietro le rovine del mondo moderno e della sua organizzazione capitalistica, fa riaffiorare il mito di una libertà vergine. L’imprevedibile ‘moralità’ di certi spunti dadaisti rigetta Marinetti sullo sfondo di un’alleanza con la tecnica. S’intende che nelle divergenti reazioni al mondo moderno si compie, pur nella comune perdita dell’aura, un diverso destino per l’individualità impaurita e degradata.63 Sul piano del linguaggio, lo splendore adamantino della simultaneità della pagina di Mallarmé si colloca su un versante opposto; la lucentezza silente dei rapporti tra gli elementi, il loro algore geometrico, la disponibilità delle parole a scambiarsi riflessi come sfaccettature di cristalli, la rete delle relazioni così sottile e trasparente appaiono notevolmente distanti dal clangore futurista e dadaista, dall’impasto di voci e dallo scontro di piani linguistici. La pagina di Mallarmé, tanto distante, per esempio, dal simultaneismo rumoristico della Macchina tipografica (1914) di Giacomo Balla, quanto da quello di Huelsenbeck (1918) che “insegna il significato della corsa sfrenata e disordinata di tutte le cose”64, sembra velarsi di impenetrabilità fino agli anni della neo-avanguardia. A partire dalla metà degli anni Dieci del Novecento il Futurismo incrocia esperienze creative e riflessioni teoriche con il movimento Dada, in seno al quale si delinea una nuova sensibilità poetica. La teatralizzazione della poesia si trasforma in poesia d’azione, il rumorismo e l’onomatopea futuristi sono sostituiti dal fonetismo; mentre maturano le idee del poema oggetto e della scrittura automatica, che diventeranno motivi fondamentali della poetica surrealista. Tutto va ricondotto al mitico Cabaret Voltaire di Zurigo, dove il 5 febbraio del 1916, Hugo Ball e Emmy Hennings lanciano le loro intenzioni di radicale rinnovamento artistico. Accanto a loro ci saranno Tristan Tzara, Marcel Janco, Jean Arp, Richard Huelsenbeck ed altri; e saranno fondamentali per il nascente mo41 vimento anche i rapporti con numerosi altri artisti da Marinetti a De Chirico, da Kandinsky a Paul Klee. Quando nel 1919 Tristan Tzara si trasferisce a Parigi, intorno a lui si riunisce un gruppo di autori particolarmente impertinenti, dissacranti, caustici e sagaci, che diverranno presto i protagonisti del movimento surrealista; tra loro: André Breton, Louis Aragon, Francis Picabia, Paul Éluard, Philippe Soupault, George Ribemont-Dessaignes. Il futurismo è morto. Di che? Di Dada... Il cubismo costruisce una cattedrale con pasticcio di fegato artistico. Che fa Dada? L’espressionismo avvelena le sardine artistiche? Che fa Dada? Il simultaneismo è ancora alla sua prima comunione artistica. Che fa Dada? Il futurismo vuole salire in un lirico ascensore artistico. Che fa Dada? L’unanimismo abbraccia il tuttismo e pesca con la canna artistica. Che fa Dada?... Cinquanta franchi di mancia a chi trova il modo di spiegarci Dada...65 Tra le cose che Dada ha fatto, si colloca sicuramente ai vertici la scoperta del valore dell’aleatorietà che segnerà profondamente le ricerche più avanzate nella seconda metà del secolo scorso, in particolare Cage, il movimento Fluxus e numerosi compositori. Anche se il seme è, ancora una volta, gettato da Mallarmé con il suo colpo di dadi, sarà Tzara a introdurre il caso come principio basilare di rinnovamento strutturale. Lo teorizzerà esplicitamente e provocatoriamente nella sua celebre formula Pour faire un poème dadaiste (1920), grazie alla quale è possibile fare composizioni infinitamente originali e “d’une sensibilité charmante, encore qu’encomprise du vulgaire” grazie ad un giornale, un paio di forbici e un sacchetto: basta ritagliare dal giornale le parole, metterle nel sacchetto, agitarle dolcemente, ripescarle a caso e disporle secondo l’ordine di estrazione. Tecnica che incontrerà i favori di diversi operatori per differenti aspetti compositivi, non solo verbali, ma anche visuali e sonori. In ogni modo nel transito da Dada al Surrealismo le relazioni tra la parola e l’immagine segnano percorsi differenti: da una parte 42 si pongono le scritture di matrice soprattutto pittorica, come in Picabia (L’œil cacodylate, 1921), dall’altra i testi enigmaticamente accostati ad oggetti che, proprio in funzione di tali accostamenti, assumono un aspetto inquietante, come in Breton; il suo poème-objet combina valori testuali e plastici in un contesto poetico in cui si registra la reciproca esaltazione degli elementi. In Glossaire j’y serre mes gloses del 1939, Michel Leiris (1901-1990) partendo da una singola parola crea immagini monogrammatiche: la costruzione tipografica, sollecitando suggestioni visuali, dà senso alle composizioni. Per alcuni caratteri visivi del tutto sui generis, è interessante anche la tessitura di alcuni testi di Robert Desnos (1900-1945), dove la parola è analizzata nelle sue componenti costitutive e negli specifici caratteri materiali, alla ricerca di folgoranti verità interne, che superino le valenze correnti e si pongano, in un certo senso, come rivelazioni. La pagina diventa una sorta di artificiosa tavola operatoria sulla quale il dato verbale è disposto secondo strutture che sembrano associare la regola del gusto dell’impaginazione ad una qualche necessità di tipo scientifico. Ci aiuta a capire meglio il carattere di Desnos il suo rapporto con Marcel Duchamp, così efficacemente descritto da Felice Accame. Robert Desnos fu vicino a Duchamp soprattutto nel momento del linguaggio, quando cioè nel lavoro “pittorico” di Duchamp si stava stratificando una fittissima rete di rapporti linguistici, con o senza la mediazione della parola. [...] Anche Duchamp, durante tutto l’arco della sua vita, tende a stabilire con la parola un rapporto proprio originario. Per la pittura, istituzionalmente e tradizionalmente, è più facile estendere il campo della percezione segnica; la poesia ha sempre dovuto sottostare a una maggiore rigidità; solo per questo in Duchamp il movimento di erosione è più appariscente che in Desnos, anche se questi, in pagine come quelle di “P’oasis”, ad esempio, in L’Aumonyme, del 1923, raggiunge momenti di estrema diversificazione del segno linguistico sovrapponendo e con- 43 trapponendo piano fonetico e piano grafico, sfruttando magari visivamente codici di scrittura diversi.66 Questa facilità di interagire tra codici artistici diversi fa dei poeti le anime delle avanguardie del XX secolo. Del resto più volte si è osservato come queste siano state frutto di un mix di immaginazione, energia creativa, capacità teorica e coscienza critica dei poeti: da Marinetti per il futurismo a Khlebnikov per il cubofuturismo, da Tzara ad Hausmann per il dadaismo, da Schwitters per Merz a Dotremont per Cobra. Ma dopo gli slanci primonovecenteschi, l’acceso dibattito e la decisa volontà di ricercare e di sperimentare forme nuove, il lavoro poetico verbo-visivo subisce un momento di stallo. Alle folgoranti intuizioni e ai primi impulsi operativi non seguono sviluppi importanti. Fino alla Seconda Guerra Mondiale si osservano un po’ dappertutto eventi di routine. Si registra una certa stanchezza, come se le ventate di novità fossero state considerate mere occasioni per approntare strategie di tipo socio-culturale e/o politico e non rappresentassero, invece, i segni di un reale rivolgimento del fare poetico. Del resto, nemmeno l’eco del progetto di Mallarmé riuscì a prolungarsi: il colpo di dadi non poté né estendere, né consolidare l’interesse per il verbo-visivo67. In Francia la stagione dadaista si era conclusa nel Surrealismo e il Surrealismo sceglie di percorrere altre strade, mentre in Italia il Futurismo appare “epigonico, perfino patetico, e denuncia chiaramente di essere fuori stagione [...]. Una saldatura, una continuità con la nuova ricerca poetico-visuale e con quanto essa avrebbe implicato in pratica non esiste”68. Intanto, già in piena attività nei primi anni Quaranta, Isidore Isou (1925-2007), fondatore e capo carismatico del Lettrismo, si scontra con i surrealisti al tramonto e, seppure in un clima talvolta contraddittorio che scivola su tentazioni misticheggianti e restaurative, dà inequivocabilmente il segnale della svolta che conduce oltre le “avanguardie storiche”. Da una parte il movimento dichiara posizioni totalizzanti con lo 44 scopo “di trasformare non soltanto le discipline estetiche – la poesia, la pittura, la musica, il teatro – ma anche gli altri campi della cultura, come la filosofia e la scienza”69, dall’altro, sceglie la lettera come fondamento della creazione poetica: il che significa riconoscere il valore materico e oggettuale dell’unità grafico-poetica, al di là di ogni altro sistema di regole (lessicografiche, grammaticali, sintattiche, metriche, ecc.). Del 1942 è il Manifesto della poesia lettrista, dove Isou, dichiarata la sua sfiducia verso una parola consumata e inadeguata ai tempi, ne propone il radicale superamento. Gli aspetti fonici e visivi sono strettamente collegati e interdipendenti. Con le lettere potranno essere composti ritmi letterici che saranno eseguiti con il corpo intero. Sul piano operativo Spatola osserva che il fenomeno lettrista non è spiegabile senza che si tenga conto della scrittura automatica dei surrealisti70; in effetti le costruzioni calligrafiche e il loro collegamento al fonetismo asemantico sono la diretta emanazione di una gestualità che segue gli impulsi dell’inconscio, talora anche con funzione catartica. D’altro canto, i lettristi non ignorano la lezione dada; rifacendo un passo indietro, infatti, ritroviamo nel manifesto della Poesia coerente di Kurt Schwitters (1887-1948), insuperato autore nel campo della creazione fonetica, un’anticipazione del Lettrismo quando dichiara che il materiale della poesia è la lettera e non la parola. Ma lo scenario del dopoguerra offrirà una situazione molto diversa da quella degli anni in cui si erano sviluppate quelle avanguardie. Il panorama si arricchisce della dimensione scientifica offerta dalla linguistica e dalla semiotica, che tanta parte avranno in tutta la seconda metà del XX secolo. Al centro della ricerca poetica c’è la fisicità del dato linguistico. I nuovi strumenti di comunicazione spingono a definire altri parametri del segno poetico, inteso nell’accezione più estensiva. Così, non a caso, quando per la prima volta sembra prospettarsi qualcosa che trascende la tradizione della poesia e della pittura in senso ‘se- 45 gnico’, ci troviamo di fronte alla ‘lettera’; una semplice lettera alfabetica intesa come momento iniziale di una strutturazione linguistica che coinvolge tanto il campo fonetico quanto quello visuale, basandosi soprattutto su una concezione fisica dei materiali che usa.71 Osserva Spatola che il tentativo dei lettristi “nasce dalla convinzione che la poesia e la pittura siano la stessa cosa e che l’abolizione della parola equivale all’abolizione della triade punto-linea-superficie che costituisce il fondamento dell’astrattismo. Il movimento lettrista si pone così il problema dell’invenzione di una nuova tavola di valori – basata sulla lettera segno – che permetta l’eliminazione della tradizionale contrapposizione tra figurativo e non figurativo, per un’arte veramente totale”72. Per Spatola “I poemi di Altmann, di Maurice Lemaître, di Isidore Isou, di Roland Sabatier o di Jacques Spacagna si possono considerare realizzati solo quando il momento sonoro e il momento lessicografico sono completamente fusi. Lo strumento principale di questa fusione è la voce umana, usata in tutte le sue possibilità, naturali e forzate, molto al di là, naturalmente della mera dizione”73. Nonostante il manifesto del ’42, l’atto di nascita del lettrismo è segnato dall’azione diretta più che dalla trattazione teorica. Nel 1946, Isou e Gabriel Pomerand danno una lettura pubblica che suscita sconcerto nella critica e nell’audience; qualche settimana più tardi l’evento è coronato da un gesto polemico dei due al Teatro Vieux-Colombier, dove interrompono una conferenza di Michel Leiris che precede la rappresentazione de La Fuite di Tristan Tzara. L’azione desta l’attenzione di altri giovani artisti. François Dufrêne aderisce subito al movimento, mentre nel 1949 si uniranno al gruppo Gil J. Wolman e Jean-Louis Brau, ai quali l’anno dopo si aggiungerà Maurice Lemaître. I primi esempi isouiani di poesia prelettrista e lettrista mostrano un intenso lavorio sui fonemi e sulla ‘particella poetica e musicale’, e si compongono in una forma lineare di suddivisione in ‘versi’. I poemi Swing, 46 Tango e Valse sono invece strutturati come veri e propri spartiti musicali, così come la sinfonia La guerre, che è una fra le opere più compiute di Isou, per la corrispondenza precisa fra la realizzazione gestuale e il ‘contenuto’ fonetico, che ‘regge’ fino all’ultima pagina.74 Osserva Franco Verdi che: Il lettrismo è una dottrina dell’indistinzione pratica delle arti, o della confluenza delle arti che dir si voglia. Si è impegnato nella costruzione di una nuova ‘langue’: proprio nel senso indicato dal De Saussure come sistema astratto di regole e convinzioni istituzionalizzate in base alle quali gli atti di ‘parole’ possono realizzarsi ed essere compresi. Soltanto, e non è di poco conto, tutto avviene sul piano del significante, essendo il significato completamente defenestrato.75 Questa disgregazione del significato, operata con una violenta aggressione al “corpo” della parola, si raccorderà gradualmente ad un più ampio progetto di trasformazione della sensibilità attraverso l’affioramento del dato soggettivo, la sua dispersione, fino alla totale dissoluzione del soggetto. L’“Internazionale lettrista” (1952) di Brau, Wolman e Guy Debord (nata dall’originaria compagine) e successivamente l’“Internazionale situazionista” (1957) dello stesso Debord porteranno alle estreme conseguenze questo disegno eliminando completamente ogni separazione tra vita e dimensione estetica, tra attività rivoluzionaria e pratica artistica, alla ricerca di un metodo di vita, che potrà spingersi fino ad una sorta di azionismo nomade. Ma i Cinquanta sono anche gli anni del Concretismo. Oyvind Fahlström redige in Svezia il primo manifesto della Poesia concreta nel 1953 (Manifest för Konkret Pœsie), che passa del tutto inosservato. Intanto Augusto e Haroldo De Campos e Decio Pignatari fondano nel 1952 il gruppo Noigandres; pubblicano nel 1955 poemi concreti nell’Antologia Noigandres e nel 1958 il Piano-pilota per la poesia concreta, 1953-195876, dove, presupponendo che il ciclo storico del verso sia definitivamente chiuso, 47 assegnano allo spazio grafico valore di elemento strutturale per la poesia. Lo sviluppo lineare del tempo (tempo della scrittura come della lettura, della narrazione come del ritmo) viene sostituito dalla struttura spazio-tempo che innerva rapporti visuali con valore sintattico. In questo quadro si concentra l’attenzione sul concetto di ideogramma, inteso come metodo compositivo basato sul rapporto diretto e analogico degli elementi contro quello logico-discorsivo. Le parole sono oggetti in relazione nello spazio-tempo. Il loro valore è dato dalla loro forma visuale, dal suono e dalla carica semantica. La Poesia concreta è un oggetto a se stante che comunica la propria struttura. Per questo si pone come realismo compiuto, contro la soggettività edonistica e contro la poesia che interpreta sensazioni e promuove espressioni. La Poesia concreta si pone pertanto come pura arte generale della parola, che crea e risolve problemi esclusivamente sul piano del linguaggio sensibile. È l’esaltazione delle caratteristiche fisiche della poesia. Si aggiunge e/o sostituisce all’immagine mentale della poesia una dimensione materica che, in prima istanza, è data dal peso e dalla qualità del corpo tipografico, dalla sua organizzazione spaziale e dal suo farsi immagine. Si tratta di considerare lo spazio come luogo reale d’azione e non come semplice supporto su cui fissare dati che alludono ad altro. La pagina diventa una sorta di teatro dello spazio-tempo, dove la forma della parola agisce tra il detto e il non detto. Ovviamente i concretisti si richiamano alle “subdivisions prismatiques de l’idée” espresse da Mallarmé e all’intuizione di Apollinaire quando auspica che l’intelligenza si abitui a comprendere “synthético-idéographiquement au lieu de analytico-discursivement”; ma, nello stesso tempo, invocano Ezra Pound per il suo metodo ideogrammatico, James Joyce per la sua interpretazione organica dello spazio-tempo, Cummings per l’atomizzazione verbale e per la sua tipografia fisiognomica. Parallelamente al gruppo brasiliano, si muove Eugen Gomrin48 ger77 con le sue “costellazioni”78 che si pongono come “pensiero oggettivato” e “gioco del pensiero”. La costellazione è il più semplice modello visivo di poesia costruita sulla parola: comprende un gruppo di parole come una costellazione un gruppo di stelle. È un ordinamento e contemporaneamente uno spazio aleatorio di quantità invariabili. La costellazione è costruita dal poeta che determina lo spazio, il campo di forze e allude alle molteplici possibilità [...]. Con la costellazione qualcosa è introdotto nel mondo. Essa è una realtà in se stessa e non un poema che tratta di...79 In realtà il Concretismo è elaborato contemporaneamente da numerosi gruppi ed artisti isolati in tutto il mondo. Il fenomeno coinvolge l’Europa, l’America, l’Oriente. Qualche nome: Max Bense in Germania, Bob Cobbing in Inghilterra, Paul De Vree in Belgio, Carlo Belloli in Italia, Heinz Gappmayr in Austria, Kitasono Katue in Giappone, Mary Ellen Solt negli Stati Uniti, Jirí Kolár in Cecoslovacchia dove propone la sua poesia evidente80. In Francia, sia pure con modalità differenti, si riferiscono al concretismo internazionale un discreto numero di autori. Tra i più importanti sono da ricordare Pierre Garnier e sua moglie Ilse che propongono lo Spazialismo, Henri Chopin e Bernard Heidsieck, che si muovono intorno alla poesia sonora, Jean-François Bory e Julien Blaine. Nei primi anni Sessanta, insomma, c’è un gran fiorire (e rifiorire) dell’attività verbo-visiva e di numerose altre modalità espressive che, partendo da essa o subendone l’influenza, si sviluppano in territori diversi coinvolgendo anche gesto e suono ed esaltando quella sostanziale integrazione dei linguaggi che senza dubbio ha segnato uno dei passaggi fondamentali della ricerca artistica; ci riferiamo alle pratiche del libro-oggetto e del libro d’artista, della videopoesia, delle installazioni, della performance, della mail-art, della computer poetry, ecc. Una svolta significativa al dibattito teo49 rico è fornita da Dick Higgins (1938-1998). L’artista mette in rilievo, in area Fluxus, ma con ampie ripercussioni in numerosi ambiti di ricerca, la differenza tra mixed-medium e intermedium, riferendosi con il primo termine ad un oggetto artistico in cui il fruitore è in grado di distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.) e con il secondo termine ad un’opera in cui l’integrazione dei linguaggi viene completamente attuata81. I diversi elementi si fondono in un unicum che non permette letture differenziate. Negli anni Sessanta, le implicazioni teoriche dei concetti di intermedium, intercodice, interlinguaggio moltiplicano i percorsi di ricerca, sia relativamente alle tecniche che alle poetiche. Le attività artistiche sfumano l’una nell’altra e si concentrano in zone-limite che favoriscono nuove tipologie linguistiche ed espressive. Per settori di sperimentazione che già applicavano sul piano tecnico principi di taglio intermediale, pur non possedendone una chiara coscienza sul piano teorico, è l’occasione per l’apertura di nuove e insospettate prospettive di sviluppo: all’idea di categoria viene sostituita quella di continuità, non trascurando le esperienze storiche dell’avanguardia e, nello stesso tempo, considerando attentamente la lezione di chi, come John Cage, aveva integrato fin dai primi anni Cinquanta il proprio lavoro con alcuni aspetti della tradizione futur-dada. In Italia sono in molti a registrare criticamente i sintomi di questa situazione. Sul fronte “verbo-visivo” Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti82, fondano a Firenze con altri artisti il Gruppo 70; sul versante della Poesia sonora e performativa si muovono i poeti Adriano Spatola83 e Arrigo Lora Totino84, entrambi già impegnati nell’area della Poesia concreta85. Ma la scrittura visuale fiorisce anche a Genova, con Anna e Martino Oberto, Ugo Carrega e Corrado D’Ottavi, a Roma, con Mario Diacono ed Emilio Villa (che nei primi anni Cinquanta aveva lavorato al “Museu de Arte” di São 50 Paulo ed aveva avuto contatti diretti con il gruppo “Noigandres”), a Napoli, con Stelio Maria Martini e Luciano Caruso, a Brescia con Sarenco, dove il gesto poetico provocatorio si carica di forti tensioni politiche al di fuori di ogni schema precostituito. Per Miccini e Pignotti la poesia “lineare” non sembra sufficiente a sviluppare in chiave sinestetica quella contaminazione tra codici espressivi diversi che era stata il terreno di battaglia delle avanguardie storiche. Ma non si tratta né di riprendere quei modelli, né di recuperarne il senso; l’esperienza nasce nei primi anni ’60 dalla considerazione che ormai è in atto nella comunicazione sociale un nuovo “volgare”: il cosiddetto linguaggio dei massmedia86. Nascono così le prime “poesie verbo-visive” (1962) che intrecciano parole e immagini. Si tratta di un ricalco semantico di quanto è prodotto dalla civiltà dei consumi e di quanto è dilapidato nel campo della comunicazione, cioè di un tentativo di risarcimento estetico, di un nuovo stile. Si parla addirittura di uno “stil novo”. Nel 1963, nell’ambito del Gruppo 70, viene coniato il termine Poesia visiva che sarà poi adottato dalla generalità degli operatori anche stranieri. In Francia diventa Poesie visuelle. Alle tecniche grafiche e tipografiche si preferisce il collage, il montaggio di testi e di immagini prese dai rotocalchi e dalla pubblicità. Viene condotta sul piano poetico una battaglia per il rovesciamento dell’estetica dei media. L’obiettivo è quello di contestare il sistema utilizzandone le stesse armi. La Poesia visiva osserva e digerisce metodi e tecniche mass-mediatiche, ne analizza le strutture formali che recupera e assume a modello, ma nello stesso tempo ne denuncia il ruolo negativo nel contesto sociale. “È una fase di scontro aperto, nel quale la Poesia visiva attua una vera e propria guerriglia semiologica: spiazza messaggi e significati, li ribalta, li cambia di segno”87. D’altra parte la stessa Poesia visiva nasce all’insegna dello spet51 tacolo, non semplicemente come poesia da vedere, ma come forma artistica che scardinando la logica del logocentrismo mette in scena una parola che, attraverso il rapporto con l’immagine e con la sua stessa immagine (tipografica, calligrafica, pubblicitaria, ecc.), si fa corpo e gesto. Scrive Achille Bonito Oliva: La parola acquista [...] una forza declamatoria direttamente proporzionale all’incidenza della composizione tipografica, grafica ed anche oggettuale della pagina. L’impulso del poeta è quello di fare della poesia un evento artistico totale, capace di implicare dentro di sé il precipitare del tempo sulla superficie della pagina [...]. Lo sconfinamento verso una dimensione totale dell’arte produce un allargamento della rappresentazione plastica, uno sfondamento della produzione settoriale e specifica che da una parte rimanda alla musica e dall’altra al teatro. L’effetto è la parola totale, capace non soltanto di raccontare se stessa ma anche di farsi guardare, diventare architettura e costruzione visiva, suono ed eco figurativa di una tensione poetica che utilizza i materiali di molte tradizioni specifiche per approdare ad un’immagine percepibile come volontà e rappresentazione di un universo autonomo.88 Anche Adriano Spatola, che vive con partecipazione quei momenti così carichi di fermenti e di tensioni, apre il suo Verso la poesia totale ponendo immediatamente l’accento sulle nuove realtà: Il teatro si fonde con la scultura, la poesia diventa azione, la musica si fa gesto e nello stesso tempo usa, nella notazione, procedimenti di tipo pittorico: termini come ‘happening’, ‘environment’, ‘mixed media’, ‘assembalge’ sono indicativi di questa situazione culturale.89 Egli mette inoltre bene in evidenza il fatto che i fenomeni di “confusione” delle arti non rappresentano pure sommatorie, ma costituiscono eventi dinamici, interattivi, altamente imprevedibili: non si tratta di sovrapposizione inerte, bensì di simultaneità produttiva. Le operazioni interattive provocano infinite modificazioni negli elementi, spesso inafferrabili, mentre si affacciano all’oriz52 zonte nuove forme artistiche, pienamente autonome, anche se ampi settori dell’arte e della critica ancora arroccati su categorie aristoteliche oppongono una dura resistenza. Proprio Adriano Spatola è responsabile della creazione di una rete di relazioni interartistiche che favoriscono proficui scambi internazionali, in particolare con la Francia. Maurizio Spatola scrive a questo proposito: Mio fratello non aveva perso tempo ed era entrato senza esitazioni nel ribollente fiume di questa ulteriore sperimentazione artistica e letteraria, alimentato tanto da grandi correnti globali come quella del movimento Fluxus, quanto da piccoli affluenti locali come la Neoavanguardia italiana [...]. In un paio d’anni Adriano era entrato in fitta corrispondenza con tutti i maggiori esponenti di questa rete di “tentativi e tentazioni” [...], da quelli storici [...] ad alcuni coetanei attivissimi, tra i quali spicca il provenzale Julien Blaine, che aveva già pubblicato un paio di riviste intese a erodere il predominio professorale, anche se formalmente ribelle, degli scrittori di “Tel Quel” [...]. Notevole importanza ebbe anche la rivista “Où”, curata da Henri Chopin, che conteneva un disco con esempi di poesia “fonetica”.90 Per Pierre Garnier (1928) la lingua è materia sonora e visuale. Lo spazio ne esalta le qualità dinamiche, crea tensioni e vibrazioni, libera le energie potenziali, amplifica quelle in atto. Fin dai primi anni Sessanta, Garnier è alla ricerca di nuove sintassi, di nuove strutture linguistiche che si pongano come strumenti di animazione di spazi di comunicazione esterni alle codificazioni correnti. Nel suo piano pilota dello Spazialismo91 (1963) egli non intende la pagina come mero supporto, ma come spazio d’azione entro il quale costruire il poema: il gesto inscritto nello spazio della pagina acquista valore poetico e infonde energia alle lettere, alle sillabe, alle parole che vengono ad essere organizzate grazie a nuovi procedimenti sintattici di tipo geometrico. La poesia lascerà trasparire il suo valore materico e si porrà come oggetto. Pierre Garnier si 53 soffermerà addirittura sulle valenze “topografiche” della parola scritta. Egli scrive nel suo storico manifesto92 che certe parole hanno “topografie” mirabili per chi sa vederle. Pur puntando sul ruolo fondamentale della percezione visiva, il lavoro di Garnier resta comunque essenzialmente e squisitamente poetico. Non scivola mai sulla pittura. E più volte sostiene che la poesia visuale non è una forma di alleanza tra la poesia e la pittura, ma è poesia allo stato puro. Egli individua nello spazio visivo uno straordinario campo per l’attivazione di relazioni poetiche. Anzi, lo sceglie come vero e proprio dato strutturale. Parole, fonemi e lettere sono sorrette da invisibili nervature spaziali, che, in un reciproco gioco di sostegno, sono lanciate e rilanciate dallo stesso materiale verbale. Le parole si dispongono come grumi di senso che si animano grazie a relazioni geometriche purissime. Chiare. Trasparenti. Si tratta di parole-oggetto che inglobano in sé i caratteri delle geometrie suggerite dalle relazioni che le innervano. Si tratta di disposizioni spaziali che generano tensioni, di rapporti geometrici che finiscono per divenire “parola”. Si tratta di incontri, di scontri, di fusioni e diffrazioni, di rispecchiamenti, di associazioni e divergenze, di coniugazioni eteree e di nodi materici, di legami visibili e invisibili. Si tratta di forme poetiche che esaltano lettere e parole, da intendere come eventi o da afferrare come oggetti. A partire dai suoi primi “poèmes à voir” lo spazio è il campo di forti impatti o di levità inconsuete, di concrezioni o di evaporazioni, di condensazioni o di polverizzazioni, di tagli accorti e ritagli a sorpresa, di allineamenti, di sovrapposizioni, di slittamenti, di scomposizioni e ricomposizioni, di snodi, di stratificazioni che generano sonorità ottiche, di guizzi, di sciami, di animazioni. È come se le parole fossero messe in scena. E infatti si animano sulla pagina assumendo ruoli precisi, talora con valore mimetico, talaltra con valore simbolico, spesso con taglio bruitista e con valenze sonore. Si tratta di parole che, anche quando appa54 Ilse e Pierre Garnier, Othon III – Jeanne d'Arc iono cristalline e leggere, lasciano trasparire tutto il peso e lo spessore delle dinamiche del linguaggio, il senso del tempo, la densità sensuale e misterica di un universo di segni e di suoni che hanno tratto origine nelle più lontane oscurità (chissà dove, chissà quando) nei meandri di visceri e di cervelli, mentre la natura rilasciava i primi bagliori di cultura. Quei misteri stretti nelle parole possono illuminarsi, talvolta, proprio grazie alle sollecitazioni delle relazioni geometriche in atto. Possono scattare scintille a sorpresa. Potrebbero essere avvertiti suoni inauditi. Si scorgono profili imprevedibili. Sullo skyline delle parole e delle loro geometrie interne ed esterne la “lettura” attiva metamorfosi che scavano nelle forme liberando sensi nuovi. I testi denunciano la loro mobilità e, comunque, stimolano la partecipazione del “lettore”, che deve lasciarsi “impressionare” da sollecitazioni psico-fisiche. Nell’opera di Pierre Garnier, infatti, svolge un ruolo importante l’aspetto cinetico di molte composizioni, per dinamiche interne o esterne alla 55 materia verbale. In ogni modo, la partecipazione attiva del “lettore” è richiesta esplicitamente dall’autore e talvolta è addirittura teorizzata. In diverse occasioni le parole si sganciano dalla bidimensionalità del piano. Per esempio quando i dati volumetrici implicano nuove articolazioni sintattiche, come nei cosiddetti “poemi geometrici”, quando gli elementi tridimensionali vengono evocati attraverso l’applicazione di tecniche di geometria descrittiva elementare, o nel “Jeu de cubes” (1985), dove gli sviluppi di superfici cubiche, da ritagliare e montare, ospitano su ciascuna faccia giochi testuali plurilinguistici nei quali si esaltano i contenuti poetici delle singole vocali o consonanti. Garnier sostiene che le vocali sono “attive” di per se stesse. Del resto la lezione di Rimbaud è da lui costantemente tenuta in gran considerazione. Le vocali recano connotazioni e aureole visive e acustiche, evocano colori e vibrano di sonorità dense, pregnanti, multiple. Hanno la capacità di apparire sempre fluide, pur mantenendo la loro specificità materica. Garnier evidenzia molto bene questi concetti soffermandosi sull’Album à colorier (1986) di sua moglie Ilse (1927), anche lei dedita con grande finezza alla “poesia dello spazio”. Il poeta nuovo (così come il suo “lettore”) deve acquisire una specifica coscienza spaziale. In questo modo la matericità della parola esalterà, paradossalmente, la sua valenza trascendente, poiché è proprio nella dimensione spaziale che essa si rivela come sinonimo di purezza assoluta. La parola ha valore in sé e non rimanda ad altro da sé. In questa ottica il poema apparirà “mobile”, sia dal punto di vista visuale che concettuale, attraverso aperture e profondità prospettiche tutte interne al testo stesso, senza alcuna sortita esterna. Da qui trae origine il senso delle scelte strutturali (e formali) operate puntando sulla parola-oggetto, spesso con interventi quasi chirurgici, altre volte giocando sulla plasticità della ripetizione o sullo sconcerto della permutazione. Addensamenti, convergenze, 56 concertazioni, focalizzazioni, ma anche smembramenti, sono messi in atto in una fantamagorica quanto elementare partita di vibrazioni, di costellazioni, per dirla con Gomringer, che sottolineano la reciprocità delle influenze tra parola e spazio. Lo spazio determina il valore dei corpuscoli disseminati in libere figurazioni. E le costellazioni di corpuscoli determinano la valenza dello spazio stesso. È un modo di concepire la sintassi e di sostenere il valore in sé della poesia. Come dice Gomringer, con la costellazione si mette qualcosa al mondo: la costellazione è una realtà in sé e non un poema su qualche altra cosa. Come nei poemi meccanici si disegnano paesaggi improbabili, muovendo dal visibile all’invisibile, attraverso la crescita progressiva di raggruppamenti di corpuscoli di lettere, di fonemi, procedendo dal silenzio all’eco, così si disegnano spazi acustici, deformando la geometria dello spazio per entrare nel flusso polidimensionale del tempo, che si fa spazio “altro”, spazio “oltre”, al di là di qualsiasi limitazione plani-volumetrica. E con lo spazio sonoro si entra in una dimensione di nuova plasticità. Quella che, con fluidità, privilegia le sequenze in fuga. Nella poetica di Pierre Garnier (e di Ilse, che in quest’ambito ha svolto un ruolo teorico e creativo molto importante) uno dei fondamenti della poesia è addirittura il “soffio”. Esso “trasforma il corpo in luce”, attua la metamorfosi del “sangue pesante” in fluido etereo93. Il soffio è un elemento di comunione tra la corporeità e l’incorporeità. Con evidente riferimento alchemico, Pierre Garnier lo paragona ad una ruota folgorante che nel suo movimento, da una parte affonda nel secco o nel putrido della terra, ma dall’altra sfiora “il cielo, le ali, gli angeli”94: il soffio consuma i corpi; l’universo poetico è dato dallo svuotamento dell’universo stesso; là il corpo deve essere reinventato. Scrive ancora Garnier: “Io chiamo poesia la conoscenza del soffio”. E poi: “Io respiro, dunque l’universo è [...]. E se l’universo è, io posso rein57 ventarmi”: reinventarmi in quanto parte dell’universo che io stesso ho disegnato. L’energia del soffio, la potenza del respiro dà al poeta la possibilità di creare nuovi universi. La Sonie (1963), nuova arte del suono, deve superare la barriera dei linguaggi per riscoprire, invece, l’energia del linguaggio stesso. La Sonie deve rinunciare all’espressione per farsi pura energia. Per Garnier il soffio è essenza plasmabile significante. Annullando la poesia del verso tradizionale, fatto di parole, di frasi articolate linearmente, il poeta sostiene la necessità di ridefinire radicalmente gli spazi creativi abbattendo qualsiasi convenzione; ma il soffio non viene utilizzato in senso riduttivo, semplificativo delle strutture poietiche; al contrario esso deve amplificare gli spazi, allargare gli orizzonti. A partire dal soffio può essere reinventata una lingua, con una nuova sintassi, con nuove strutture compositive che non saranno più organizzate secondo la triade soggetto-predicato-complemento. A partire dal soffio possono nascere un altro corpo, un altro spirito, un’altra lingua, un altro pensiero. “Posso reinventare un mondo e reinventarmi”, liberando la poesia del proprio peso, del peso delle frasi e delle parole. Il soffio è energia, vibrazione, ondulazione, radiazione. E qui non può non sovvenire il concetto bruniano di “spiritus” quale soffio vitale, quale respiro universale95. Essendo riuscito a captare tutta la “magia” del soffio come sostanza sonora, grazie all’uso del magnetofono, che tanta parte ha avuto nella poesia sonora dei primi anni, Pierre Garnier non si accontenta e aspira ad ulteriori impalpabili universi creativi e comunicativi. “Posso attendere adesso. Attendere finché macchine nuove non permettano di lavorare con un soffio più profondo del soffio stesso, con le energie, le onde”. Egli intravede l’esplosione di un nuovo universo tecnologico, di una nuova civiltà in cui onde e vibrazioni si pongano come medium comunicativo diretto, senza “l’intermediazione pesante del linguaggio”, superando l’idea stessa di oggetto sonoro. Come se si pensasse ad un mondo del silenzio, 58 ad un mondo oltre i limiti del suono, di cui il soffio rappresenta un confine, dove si possano sfruttare le cariche elettromagnetiche del corpo e le vibrazioni telepatiche della mente per il raggiungimento di singolari empatie comunicative: un mondo immateriale, fatto di pura energia, nel quale i soggetti si perdono nella purezza del flusso della comunicazione. La poesia del soffio di Ilse e Pierre Garnier è il luogo in cui il germe stesso della cultura affonda le sue radici nella natura. La Sonie è concreta perché sfugge all’enunciazione del pensiero, alla spiegazione che la lingua continuamente dà di se stessa. “Ma – dice Pierre – noi dobbiamo andare oltre, dobbiamo superare l’idea di oggetto sonoro, l’idea stessa di opera.”96. La Sonie, dice Ilse, introduce il concetto di poème-action come momento-movimento strutturale che trasmetta in memoria l’impronta della propria struttura97. Appare, così, ben netta l’aspirazione ad una vera e propria “ricostruzione dell’universo” intendendo la voce come fondamento, come elemento vitale, come corpus e spiritus, come anima e animus, come ricongiungimento di Eros e Thanatos, come flatus androgineo, come energia organizzatrice, come catalizzatore metamorfico, come alito trasformatore. Il soffio vivificante, che rappresenta anche la messa in vibrazione dei grumi verbali nello spazio visuale, si pone, dunque, come vera e propria pietra filosofale. Ma tutto sarà e non sarà, come la parola che “esiste e non esiste ... che non esiste e esiste non esistendo affatto [...]. Così è la parola di cui mi servo per costruire il mio poema che, a sua volta, è fatto di parole e non è fatto di parole. Sì e no, in una perpetua oscillazione sulla pagina. Essere e non essere. Questa è la risposta”98. Henri Chopin (1922-2008) è un funambolo del magnetofono multipista, un moltiplicatore di voci, un proliferatore esponenziale di suoni corporei, un mago dell’amplificazione, un giullare del ritmo. Partendo dalle “particulae” sonore pressoché inavvertibili 59 che pervadono i sentieri dell’organismo, talora microfonando direttamente organi fonatori e non, riesce a congegnare aggressivi concerti di poesia dove il suono assume consistenza materica; sa ingigantire magistralmente l’universo microacustico, rendendolo palpabile e trasferendogli addirittura valori cromatici, come se il tutto fosse filtrato attraverso un enorme caleidoscopio delle sonorità. “Con le ricerche elettroniche – scrive Chopin – la voce è diventata finalmente concreta”99. D’altra parte, ben al di là delle emissioni semplicemente parlate, essa è “portatrice di un corpo che non cessa mai di essere attivo, quel corpo che è la sua macchina specifica”100. Chopin afferma che senza l’elettricità la poesia sonora non sarebbe mai potuta esistere e nota che l’esiguo numero dei fonemi di base utilizzati correntemente possono produrre, se sottoposti alla manipolazione elettronica, più di 400.000 variazioni vocali101. In realtà, con le più recenti apparecchiature il numero sale vertiginosamente: è praticamente infinito. Nello stesso tempo, ricollegandosi alla tradizione performativa e/o parateatrale, che appartenne anche alla poesia fonetica, il campo d’azione privilegiato della Poesia sonora non resta circoscritto al nastro magnetico finché, anche in ragione della sua stessa valenza corporea, la voce non si confronti con altri codici espressivi. Ed ecco, allora, che Chopin si propone in concerto e nervosamente articola il suo corpo minuto per dirigere i tecnici che operano al mixer, arricchendo, così, la scena sonora di ulteriori valenze spettacolari. La voce si fa segnale del gesto interiore, dove gli impasti sonori si pongono come significative presenze al di là di ogni convenzione linguistica. Chopin è decisamente contro la parola e pone il suo lavoro al di là della lingua. Egli fa parlare la voce, quella voce che l’elettronica ha reso finalmente “concreta”. Il suo interesse per la poesia subisce una svolta decisiva nel 1955, quando acquista un piccolo magnetofono portatile. L’appa60 recchio può aprire nuove prospettive alla poesia. Attraverso le prime registrazioni Chopin trova la sua voce interessante, ma non i suoi testi. Opta, pertanto, per la pura vocalità. Del resto aveva già fatto le sue precise scelte in campo letterario. Nel ‘52, infatti, aveva dato fuoco a tutte le poesie scritte fino ad allora. Questo è da lui considerato il suo primo vero atto poetico. D’altra parte i segni dell’estrema radicalizzazione, alimentata anche dal rapporto con la tecnologia, sono contenuti sia nella sua poetica, sia nella sua stessa biografia. Affascinato dai clamori delle feste contadine e dai clangori della guerra racconta: “Fu allora che, avendo l’uomo capacità di ricostruire al di là delle più tristi rovine politiche, fu allora che disciplinammo questa materia concreta e sonora e che facemmo dei nostri organi le basi per le dismisure sonore misurate, ma non codificabili, volendo evitare la notazione”102. Nel 1952 attraverso la visione del film Traité de bave et d’éternité scopre Isidore Isou e nel ’53 incontra Altagor (1915-1994), nemico giurato di Isou, che porta avanti ininterrottamente dal 1948 il suo Discour absolu, una pièce verbo-sonora, dove alla densità del gesto calligrafico corrisponde una scansione prosodica in funzione di un linguaggio analogico, imitativo di quello corrente103. La sua è una scrittura marcatamente rituale che imprime sulla resa sonora un’atmosfera magica e bizzarra. Nel 1957 Chopin tenta di gestire un difficile rapporto con i lettristi, ma è con François Dufrêne, voce del “traité” di Isou, che si trova in sintonia. Verso la fine degli anni Cinquanta, infatti, Chopin si affaccia alla ribalta degli ultralettristi, gruppo formato da una costola del movimento di Isou, ispirato alla poetica del grido di Artaud e animato da Dufrêne. Per gli ultralettristi la voce rappresenta l’energia interna necessaria ad alimentare la rete delle relazioni con il mondo. L’energia vocale rappresenta la vita stessa. Tra gioco ed ironia, rito e psicodramma, beffa e impegno civile, la voce segna passo per passo la loro esistenza e il loro ruolo di artisti. Il gruppo si concentrerà sulla ma61 teria fonica prelinguistica; impastando la vasta gamma di rumori degli apparati fonatori, essi rinunceranno alla scrittura, optando per la composizione diretta al magnetofono, come nei Crirythmes dello stesso Dufrêne, nei Megapneumes di Wolman, nelle opere di Brau, e in quelle di Chopin, spirito indipendente che acquisisce immediatamente una specifica coscienza tecnologica, producendo “audio-poemi” per i quali la manipolazione del nastro si pone come fattore primario. Chopin utilizza echi, riverberi e variatori di velocità per il trattamento della materia fonica. La stagione della Poesia sonora era avviata. Gli strumenti di registrazione, che furono episodicamente utilizzati da Marinetti per le sue declamazioni, segneranno profondamente gli sviluppi della nuova sperimentazione poetica. Quella “letteratura del disco fonografico” preconizzata da Moholy-Nagy era finalmente diventata realtà104. La poesia della voce, che Jacques de la Villeglé, forse per primo, definisce “sonore” nel 1958 a proposito dei “crirythmes” di François Dufrêne105, si orienterà su due differenti piste che spesso s’intrecceranno con interessanti effetti spettacolari: l’una incentrata sull’uso delle tecniche di registrazione, tutta proiettata verso l’esplorazione degli spazi acustici dell’elettronica, l’altra legata alla performance, tesa alla piena affermazione della dimensione orale e del rapporto diretto con il pubblico. Si tratta di importanti anni di sperimentazione nei quali viene assimilata l’esperienza delle avanguardie storiche e vengono lanciate le basi per la ricerca della nuova era dell’elettronica. Nel 58, Chopin, incontra Michel Seuphor e Pierre Albert-Birot, con il quale ha un rapporto conflittuale, Marcel Janko e Raoul Hausmann, rifugiato a Limoges in povertà, alloggiato in un appartamento il cui fitto è generosamente pagato da Hans Arp. Nel 1959 fonda la rivista “Cinquième Saison”, che nel ’64 diventa “OU”, pubblicazione che contiene testi, immagini e materiali so62 nori in vinile. La rivista accoglierà i più significativi autori in quel settore, da Dufrêne a Bernard Heidsieck, da Sten Hanson a Bob Cobbing, da Brion Gysin a William Burroughs, da Ladislav Novak a Mimmo Rotella. Ma Chopin, intrepido e raffinato precursore dei tempi, non si limita a coltivare la sfera creativa della poesia sonora. È anche artista visivo, grafico, tipografo, performer, regista, editore e promotore artistico indipendente. Chopin resta un importante punto di riferimento per più generazioni di artisti sia sul fronte della poesia del suono, sia su quello della poesia dell’immagine. Sono da ricordare le sue “sculture magnetiche” e i suoi “dattilopoemi”, tessiture “concrete” di lettere battute a macchina dove spesso il dato visivo sollecita letture ai limiti dell’impossibilità, ponendosi come una sorta di partitura-visiva che offre all’occhio tessiture fonetico-bruitiste; insomma: il visivo si perde nel sonoro, specialmente perché, nell’opera di Chopin, sia l’uno che l’altro vengono organizzati sulla base della loro fisicità. Poesia visiva e poesia sonora possiedono numerose affinità riscontrabili nelle tecniche compositive, nelle strategie operative, nei presupposti teorici. Un territorio di confine, dove le esperienze dei due mondi si sovrappongono, è dato naturalmente dalla partitura di poesia sonora, nella quale il segno poetico è arricchito dalla tensione a superare i confini del foglio scritto, che diventa luogo di progetto o “di trascrizione di un’esperienza e di un gesto realizzati in un’altra dimensione”106. Di fronte agli audiopoemi e ai dattilopoemi di Chopin il fruitore è sollecitato da una parte dal suono, da una parte dalla forma visibile. L’audiopoema rifiuta l’imperativo del linguaggio non accettandone più la fonia come confine, bensì sceglie di articolarsi sulla genesi corporea e corporale del suono, così come il dattilopoema si fonda sulla materialità delle tessiture, nelle quali le lettere battute a macchina si organizzano secondo criteri che nulla hanno a che fare con l’universo della lingua. Lessico, grammatica e sintassi sono al grado zero, mentre la 63 qualità dei rapporti tra gli elementi è controllata visivamente. Osserva Paul Zumthor107 come nel fruitore l’opera riesca a sollecitare un medesimo punto interiore, sia pure passando attraverso diversi canali sensoriali. “...sia attraverso l’orecchio che attraverso l’occhio, non è forse uno stesso luogo dentro di me che viene colpito? Non è forse un medesimo punto nascosto al centro? E da questo punto s’irradia, di ritorno, un richiamo informulabile e tanto più unico”. Un prodigio di ordine sinestetico, sia pure legato alle prerogative polisensoriali del soggetto, è compiuto: l’occhio e l’orecchio sono stimolati da una voce sui generis che si organizza all’interno. Si tratta di sollecitazioni sensoriali diverse, di stimolazioni apparentemente senza rapporto, tuttavia “in profondità, uniche ... une ... non fosse altro che per il loro carattere comune”, che è dato dalla loro stessa sensorialità, unica modalità d’esistenza che implica la presenza di un corpo e ne invoca la sua materialità vivente. In un certo senso è come se queste “scritture” fossero collegate ad un’interfaccia che ne consente la “lettura” su differenti piani sensoriali108. Queste voci interiori, sinestetiche, con valenza sensoriale, ma anche largamente mentali, si pongono in un’area di confine tra sonorità e visualità; con un paradosso rivelatore si potrebbe parlare di “sonorità visuale” o di “visualità sonora”, dove l’orecchio è ausiliare dell’occhio e viceversa. Si tratta di voci doppie che muoiono nel loro mezzo specifico e rinascono in dimensioni non tratteggiate in precedenza, voci prodigiosamente orientate, frutto di sintesi alchemiche intermediali! Queste voci sono le maggiori responsabili di caratteristiche reazioni a catena che vengono innescate all’insegna della ricorsività, sia pure al di fuori della dimensione performativa. Le forme di poesia verbo-visiva, per esempio, e in particolare tutto il filone dei poemi-partitura ben si prestano al gioco di tale ricorsività, così come descritta e definita da Douglas R. Hofstadter nella sua “fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll”109, anzi direi che di questa fa un pre64 supposto tecnico, perché suo assunto principale è quello di costruire sistemi formali usando elementi di estrazione diversa, i quali, pur realizzandosi completamente attraverso l’articolazione di sostegni reciproci, tendono a configurarsi in sottoinsiemi autonomi, incorporati a quello principale. Ci si trova, in pratica, di fronte ad una stratificazione di strutture, che può toccare punte di estrema complicazione quando i sistemi formali si annidano l’uno nell’altro in gran numero. Nel caso di operazioni “poietiche” riferibili a più codici e rivolte a più sensi, tali complicanze sono fisiologiche. Il modello di riferimento adottato per le costruzioni è labirintico. Ancora una volta, l’archetipo risulta efficace e funzionale all’illustrazione di un paradigma contemporaneo. Scendendo a ricercare una definizione tipologica, ci si avvede che l’intreccio ha tutte le caratteristiche del Piccolo Labirinto Armonico, la composizione bachiana di cui Hofstadter si serve per argomentare i suoi discorsi sulla ricorsività. Si tratta di un’opera sviluppata secondo melodie e accordi talmente ambigui che, allontanando l’ascoltatore dalla tonica, riescono a smarrirlo. La tensione provocata con questo accorgimento spinge chi ascolta a ricercare nella sequenza dei suoni un segnale che gli comunichi un ritorno alla fondamentale. Ma il centro di attrazione delle cadenze è continuamente spostato. E la “risoluzione” non arriva mai, con il risultato che attraverso la percezione di toniche secondarie, l’ascoltatore può solo credere ogni tanto di essere giunto alla conclusione, di essere padrone del brano, per accorgersi un attimo dopo, che sta navigando nel mare dei suoni senza alcun punto di riferimento. Tutto ciò è molto simile a quanto avviene nella scrittura verbovisiva, nei poemi-partitura e in numerose forme di scrittura multimediale. Al primo impatto, che per lo più è visivo, l’occhio sembra trovare soddisfazione, fino a quando non si accorge che, all’interno dell’opera, svolgono un ruolo visivo anche segni di 65 estrazione molto diversa, come la parola o la notazione musicale. Successivamente questi elementi prestati al gioco figurale si fanno interpretare secondo i loro codici specifici. La parola si fa leggere. La notazione musicale rimanda ai suoni. Poi sono i suoni a porsi come parole e le immagini a porsi come suoni, e così via. Si aprono quindi dimensioni nuove, altri sistemi. La “lettura” avviene secondo fronti diversi e attraverso un costante confronto dei segni, ognuno dei quali si offre a più livelli interpretativi. Il percorso della percezione, allora, diventa molto tortuoso, fatto di andirivieni continui. E tutti i sensi possono venire coinvolti, direttamente o indirettamente, in questa avventura. Dietro gli esercizi di notazione si intercettano dimensioni aurali, dietro la parola si aprono veri e propri orizzonti sonori, così come agli eventuali valori materici e plastici di superfici e volumi potranno corrispondere sensazioni tattili. Insomma, pur nel rispetto della bidimensionalità (o con accessi alla terza dimensione) l’opera verbo-visiva riesce ad innescare innumerevoli meccanismi, che rendono effetti di tale ambiguità da disorientare il lettore, il quale si troverà a dover sperimentare associazioni diverse, tentare decostruzioni e ricostruzioni, intraprendere svariati percorsi, nel tentativo di uscire dall’avventura che sta vivendo. È come se l’artista, novello Dedalo, avesse voluto realizzare per l’adepto lettore un labirinto dell’ambiguità sensoriale per il compimento di un percorso iniziatico. Oggi queste situazioni si presentano diffusamente nello spazio della comunicazione, dal libro-game al gioco interattivo, dalla navigazione in rete alla lettura di un ipertesto, anche se, in realtà, pure la lettura di un semplice testo lineare costringe ad una serie di labirintiche scelte di percorso. Nelle forme verbo-visive le cose si complicano ulteriormente perché ci si trova a dover inseguire parole nelle immagini e immagini nelle parole. Lo slittamento dalla dimensione tipografica a quella elettronica permette al poeta di concepire la pagina come un vero e proprio spartito. Il poème-partition, per dirla con Bernard Heidsieck (1928), prevede un primo 66 stadio compositivo (scrittura, “messa in pagina”, in cui sono indicati tempi e modalità esecutive) e un secondo stadio performativo. La pagina viene spesso “sfondata” in senso spettacolare: i segni si espandono nel tempo e nello spazio; parola e immagine si fanno voce e gesto: il corpo diventa il centro di un campo di forze magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione è un modo di permettere la comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici. Anche se nella performance si perde l’immagine del testo, Heidsieck sostiene la necessità di lasciare comunque al pubblico un’immagine dell’azione coerente con il testo. À l’égard du texte, enfin. Car il faut se souvenir en effet que si celui-ci va être «entendu», il va aussi laisser de lui une image, celle du Lecteur en train de dire son texte. Or c’est cette image, associée au texte entendu, plaquée sur le poème, qui va être, à tout jamais mémorisée par le public. Il s’agit donc, de par la façon de lire, de fournir au texte une image appropriée qui ne soit pas en contradiction avec son contenu et ses intentions. Chaque poème peut requérir un type de Lecteur différent. Celle-ci peut se faire assis, face au public, ou derrière une table, ou à genoux, ou debout, ou en marchant, ou de dos. Chaque choix a sa signification.110 Ma il corpo è anche recettore degli stimoli provenienti dal pubblico che immediatamente inscrive in se stesso. L’avvenimento performativo è collegato al contesto più di quanto non appaia. Ogni situazione esterna, ogni avvenimento casuale, tutto l’ambiente, che pure è influenzato dalla performance, influisce su di essa, che, a sua volta, riflette modificandosi all’istante. È un gioco di specchi operato contemporaneamente dal poeta e dal pubblico, che si esprime con piccoli segni, gesti di reazione anche minima, tratti espressivi, mormorii, silenzi, sospiri, respiri, applausi, fischi, micro e macromovimenti. Heidsieck lavora molto sul gioco degli specchi. Egli ricerca un contatto psico-fisico immediato, ma sottile, leggero. Niente gesti esagerati, niente sberleffi, bensì l’assunzione composta di un atteggiamento figurale che si protende e si ritrae 67 alternando micromovimenti carichi di tensione. Un atteggiamento simile è adottato da Heidsieck nei confronti dei propri testi, sempre intelligibili, nei quali egli ricerca con insistenza sempre nuovi rispecchiamenti acustici, specialmente quando il gioco dei rimandi sonori è amplificato dalla padronanza della tecnica di registrazione multipista. Il suo fraseggio breve, articolato su sospensioni vocali, su sapienti esitazioni, in equilibrio tra frammenti di sospiri e respiri, si aggrappa a tracce di rumori consueti, di fondi sonori di ossessive ripetitività quotidiane, ma si fonde anche a triturazioni verbali, a cut-up, a manipolazioni. Egli è un poeta dell’equilibrio: utilizza armonicamente i valori del testo, della voce, della presenza scenica, delle componenti tecnologiche. Quando i suoi poèmes-partitions si offrono allo spazio sonoro utilizzando prospettive generate dalle tecniche multitraccia, la poliritmia è data dagli effetti contrappuntistici della lettura simultanea giocata sui differenti piani acustici. Ma se la presenza della voce e quella del corpo, che la produce e la sostiene, hanno un valore fondamentale nella poesia di Heidsieck, è innegabile che la lingua assume un ruolo altrettanto importante, non solo sulla base dei valori testuali iscritti nella pagina, ma anche per come essa è articolata nell’atto performativo. Si assiste ad una sorta di teatro della lingua che non ha niente a che vedere con il teatro tout court e che è tanto più pregnante quanto più si allontana dalle tecniche e dalle formule propositive adottate in campo teatrale. Qui non sarebbe inopportuno ricorrere al concetto di “scrittura ad alta voce”, espresso da Barthes nel suo Le plaisir du texte111. Egli, pur facendo riferimento all’actio della retorica antica (e Heidsieck definisce la sua poesia con il termine poésie-action), prende le distanze da ogni concessione drammatica e parla di “grana” della voce come un misto erotico di timbro e di linguaggio, caratterizzante l’arte di condurre il proprio corpo. Se il poème-partition non sempre mostra una spiccata propensione a proporsi sul piano visivo (se non per gli aspetti strettamente funzionali ad una organizzazione ritmica delle sequenze sonore), ci sono altre scritture nelle quali il valore dell’immagine è molto mar68 cato, grazie agli effetti cromatici, plastici e materici dei collages, realizzati con immagini fotografiche, ma anche con oggetti (circuiti elettronici, nastri magnetici, valvole, ecc.). Si collocano in quest’ambito le Écritures/Collages, realizzate in parallelo alla Poésie Action, e molte altre opere che, in qualche modo, aspirano a mantenere un rapporto con il suono su piani di volta in volta diversi : metaforico, concettuale, reale. “Une intime symbiose existe en effet entre mes Poèmes-Partitions, Biopsies, Passe-Partout et autres pièces sonores, et ces planches d’Écritures où viennents’adjoindre des ‘Collages’ de provenances diverses”112. Nelle “Machines à mots”, per esempio, pezzi di bande magnetiche escono da immagini di apparecchi automatici: “Bien des morceaux de mes textes enregistrés surgissent comme prononcés par des automates”113. Nel caso di Canal Street, invece, cinquanta tavole visuali realizzate con testi e circuiti integrati e bande magnetiche, forniscono i materiali per realizzare trentacinque poemi sonori. Ma se Heidsieck trapunta la sua lingua di poeta, finemente inquieta, con i rassicuranti segnali delle sue esclamazioni e interiezioni, Julien Blaine (1942), poeta “in carne ed ossa” (come si definisce nel titolo di un suo lavoro sonoro)114, lancia stentoree grida ambivalenti, che se da un lato assumono tono di sfida, per autoaffermazione ed esaltazione corporea, e di denuncia, quali segnali della dismisura e della trasgressione, dall’altro si pongono come richiamo calorosamente umano, come dichiarazione d’impegno o, addirittura, come vero e proprio atto d’amore. Blaine all’inizio degli anni Sessanta teorizza la “poesia semiotica”, successivamente la “poesia elementare” e arriva negli anni Ottanta ai Poèmes Métaphisyques115, pubblica la rivista Les carnets de l’Octéor (1962) e nel 1966 crea la testata Approches (1966-69) con Jean-François Bory (1938), il quale autonomamente lancia L’Humidité (1970-78). In un intreccio di iniziative editoriali Blaine lancia Robho (1967-71) e finalmente Doc(k)s (1976) una delle più importanti operazioni editoriali relative alla poesia verbo-visiva e più in generale alla sperimentazione poetica. Blaine di spirito essenzial69 mente nomade, coordina da Ventabren e da Marsiglia, una serie di attività creative e di “politica culturale” che lo pongono al centro dell’attenzione di numerose realtà culturali internazionali che si muovono su diversi fronti alla ricerca di nuovi linguaggi e nuovi spazi di comunicazione. Con Doc(k)s Blaine intreccia percorsi geografici e percorsi creativi. Osserva, anche attraverso la pubblicazione di densi e ponderosi numeri monografici, quanto accade nel mondo e insiste sull’integrazione funzionale di codici differenti. Non sommatoria o giustapposizione, tantomeno confusione, ma copresenza di codici nell’ambito di una totalità gerarchicamente strutturata specialmente in ambito verbo-visivo. L’attenzione è rivolta alle molteplici facce del “poème visuel” nel mondo, indagando da nord a sud e da oriente a occidente: Cina, Russia, Canada, America Latina, ecc. Ai “docks” approdano materiali diversi che si appoggiano a diverse lingue, ma che hanno un denominatore comune: l’intérêt pour un objet de langage dont le codage comme le décodage impliquent le recours successif à plusieurs codes agencés selon des configurations différenciées et instables, prises dans un mouvement indéfini et fonctionnel de renvois réciproques.116 Definizione, questa, che risulta valida pur sapendo che esistono diversi tipi di “poème visuel”. Ne consegue un caleidoscopico e cosmopolita gioco poetico. Doc(k)s incarna la voce dell’avanguardia che lancia il suo messaggio di libertà e la sua esigenza di effettuare prove aperte, sia pure in un’atmosfera di apparente caos: Pour qui découvre DOC(K)S de la sorte, structure, système, syntaxe... ne sont certes pas les mots qui lui viendront à l’esprit; bien plutôt leur contraire, chaos, fatras, désordre, anarchie..., impression qui se soutient d’abord de l’incontestable hétérogénéité des matériaux signifiants qui se bousculent et qu’on a bien du mal à réunir au sein du vocable (pourtant assez élastique) de «poésie»: ici des mots ou le produit de leur fragmentation, là des fragments d’écriture manuscrite, là encore des images, 70 des dessins, plus loin des photographies, beaucoup trop de photographies et la plupart du temps le tout ensemble, dans une inexplicable, inextricable promiscuité...117 Con ironia si potrà parlare di “langue Doc(k)s” e nello stesso tempo di “Doc(k)s comme cacophonie”118. In realtà la rivista si pone come una sorta di laboratorio. La dinamica dell’acquisizione e del rilancio dei messaggi stimolata dalle sollecitazioni e dalle provocazioni redazionali produce uno spazio elastico alla continua ricerca della propria definizione, dove ogni forma di collaborazione si pone come oggetto che contribuisce alla definizione di un oggetto “altro” che è la rivista stessa; proprio come accade nei magazzini generali o negli scali portuali, dove le merci che entrano ed escono modificano i luoghi stessi nello spazio, nei volumi, nei colori, negli odori, nelle voci che i camalli si lanciano. Qual è l’anima della rivista? “C’est le Diable qui parle toutes les langues”119. La rivista diretta da Blaine fino al 1989 è passata sotto la direzione di Philippe Castellin e Jean Torregrosa (gruppo Akenaton), che hanno ripreso le pubblicazioni regolarmente a partire dal 1991, allegando anche CD multimediali che indagano sulle ricerche in atto nei settori della poesia sonora, della performance, della videopoesia, ecc. Philippe Castellin (1948), poeta e performer, ma anche semiologo e critico, ha pubblicato nel 2002 un ponderoso volume, ricco di informazioni e di analisi, che ripercorre l’intera vicenda di Doc(k)s, attraverso la quale traccia un quadro storico molto articolato delle diverse forme poetiche sperimentali. Jean-François Bory è una figura complessa. Il suo modo di fare poesia coinvolge, come accade a tanti altri poeti appartenenti a quest’area sperimentale, diversi media; ma nel suo caso l’orizzonte è veramente molto ampio. Dalle prime esperienze verbo-visive, passando per il Concretismo, è approdato a forme di poesia oggettuale, sonora, performativa, ma nello stesso tempo si è impegnato nella saggistica e nella fiction, pubblicando anche romanzi. Il suo atteggiamento nei confronti della Francia e della lingua fran71 cese è piuttosto duro. In un’intervista rilasciata a Sarenco per la rivista Lotta Poetica120 dice testualmente: Credo di avere avuto la grande fortuna di non cadere tra le braccia della burocrazia francese per abilità: ho infatti cercato di fare sempre un lavoro di levatura internazionale, mentre in Francia la cultura si svolge solo a livello parigino; ciò limita il suo raggio d’azione e le impedisce di inserirsi in un circuito integrato di cultura mondiale. È molto evidente che quello che è successo a Parigi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale prova che la Francia si è rinchiusa su se stessa e che proprio la lingua francese è diventata un “santuario della lingua”, molto bello ma con nessun impatto all’esterno [...]. Egli ha sempre portato avanti un discorso molto incisivo sul piano della politica culturale, insistendo sull’idea che la poesia rappresenti un modo di vivere. Spero che in futuro la poesia sia fatta da persone che vivranno in un modo particolare. Si dice sempre che l’importante è l’opera, non l’artista: io credo che invece l’importanza sia dovuta alla sintesi dei due elementi. Credo che quando Sarenco morirà, una gran parte della sua opera e del suo lavoro in generale sparirà. I pochi poeti che esistono al mondo si danno molto da fare e fanno molte cose; un poeta non è un sognatore; è una persona che fa [...]. Il poeta è una persona che riempie la propria vita. [...]. I veri poeti sono tutti quelli che hanno cercato di vivere la loro vita attribuendole un senso [...]; i poeti sono gli amanti dell’Avventura, corrono da una cosa all’altra [e quando inciampano e cadono] cadono sempre in avanti.121 Per Bory “la poesia visiva in Francia è stata quasi nulla” e “il lettrismo ha parzialmente fregato la nascita e lo sviluppo di nuove forme di poesia in Francia: esso, purtroppo, come movimento artistico è una vera e propria ‘caricatura’ delle avanguardie storiche”. Ma aggiunge: “Non è che il ‘lettrismo’ in se stesso sia qualcosa di abominevole; sono le persone che lo hanno fatto che possiedono il massimo grado di incompetenza”122. 72 In realtà il fenomeno della poesia visuale, grazie agli input delle avanguardie storiche e al rilancio delle “scritture” lettriste, ha trovato in Francia un terreno piuttosto fertile. Iniziative editoriali, esposizioni, studi e ricerche nel settore hanno garantito una buona conoscenza del fenomeno che ha coinvolto una nutrita schiera di sperimentatori, ma ha toccato, sia pure accasionalmente, anche molti autori dediti alla scrittura “lineare” e molti artisti multimediali; senza contare che l’esperienza verbo-visiva è stata protagonista indiretta del movimento Fluxus, che in Francia annovera nomi come Robert Filliou (1926-1987) o Ben Vautier (1935), e del fenomeno della mail-art. Proprio nell’area “Fluxus” gravita l’opera di Charles Dreyfus (1947), poeta e performer che talora relaziona Jean-François Bory, Target 73 il testo all’immagine in chiave concettuale, dove la parte verbale sottolinea e sviluppa il senso di quella visiva, ma può anche ribaltarlo e contraddirlo. L’intenzione è generalmente finalizzata alla denuncia, con vena marcatamente ludica e ironica. L’elenco dei nomi che si possono fare è piuttosto lungo. Ma senza voler essere esaustivi riteniamo che un rapido excursus intergenerazionale debba essere fatto. Nel 1975 Christian Dotremont (1922-1979) propone i suoi logogrammi dove libera il gesto per comporre poesie per gli occhi. La poesia può essere espressa attraverso la libera articolazione grafica. Per Dotremont l’immagine della scrittura libera il suo canto e il suo grido. La linea e il tratto spariscono per lasciare il posto a forme magmatiche. La penna lascia il posto al pennello. La scrittura diventa illeggibile e non viene nemmeno più percepita come tale. Si potrebbe parlare di scrittura al grado zero, intesa come traccia del gesto e che si carica, pertanto, di soli valori organici, pulsanti, talvolta spasmodici. Qualcosa di simile accade nell’écriture transformelle di Altagor. Jean-Jacques Lebel (1935), artista visivo, poeta e performer, è noto soprattutto per essere l’autore del primo happening europeo (L’Enterrement de la Chose, Venezia, 1960) e per aver lanciato e promosso con impegno e originalità il festival internazionale, nomade e interartistico, Poliphonix, palestra della poesia diretta, dell’art action, della ricerca artistica interdisciplinare, tra musica e arti plastiche, tra cinema e video; Lebel si muove su diversi fronti e pratica forme di contaminazione dei codici che denunciano la sua originaria passione surrealista: agli inizi della sua carriera conosce Marcel Duchamp e André Breton; successivamente media le sue esperienze negli ambienti dell’avanguardia internazionale, specialmente in relazione agli scambi e alle collaborazioni con gli artisti “Fluxus” e con molti poeti della Beat Generation, di cui è stato traduttore. Joël Hubaut (1947) è un artista multidisciplinare che esplica le sue operazioni poetiche con modalità dissacratorie e sarcastiche; la sua 74 “scrittura” è dilagante, parodistica, talora assurda, spesso articolata su un crinale che divide a malapena gli aspetti ludici da quelli contestativi, nei quali non rinuncia ad evidenziare anche gli aspetti drammatici della contemporaneità; a partire dal 1970 “contamina” con segni grafici e/o polimaterici astratti (che egli chiama “scrittura epidemica”) gli oggetti e gli ambienti con i quali entra in contatto, aprendo spazi di riflessione sulla società e l’ambiente artistico-culturale. Ama il travestimento e la clownerie che contrassegnano le sue performance sempre pervase da una forte carica di autoironia. I suoi ascendenti sono i mostri sacri del dadaismo. Jean-Luc Parent (1944), poeta e artista plastico, si definisce “fabriquant de boules et de textes sur les yeux”; la sua aspirazione è quella di creare forme intimamente legate agli equilibri celesti. Quando Parent ha adottato scritture manuali disponendo il testo a spirale ha fornito alla composizione un valore aggiunto attraverso il maniacale curvilineo percorso calligrafico; ha sottratto, così, valore ai testi (sintatticamente costruiti e semanticamente validi) e ha esaltato invece il gesto della scrittura, il movimento della mano che è diventato il vero protagonista dell’opera. Tibor Papp (1936), poeta ungherese naturalizzato francese; animatore delle edizioni D’Atelier, fondate con Philippe Dôme e Paul Nagy, si occupa di poesia progammata e numerica e svolge un’intensa attività verbo-visiva; nei suoi lavori realizzati su planimetrie urbane la parte testuale è risolta con l’adozione di una toponomastica arbitraria: l’attribuzione dei nomi alle strade crea situazioni conflittuali, giocose, paradossali e dissacratorie. La vocalità di Serge Pey (1950) caratterizza la sua scelta poetica, ma nel suo lavoro svolgono un ruolo centrale i “bastoni della pioggia” da lui fittamente ricoperti di scritture; i testi, consegnati alla superficie dell’oggetto rituale, ne esaltano il valore marcatamente simbolico; la scrittura che avvolge i bastoni, istoriandoli preziosamente, si pone come fulcro figurale della tensione performativa; la parola 75 viene caricata di valori metrici fondati sull’uso del corpo come generatore ritmico e liberata nello spazio; funzione trainante possiedono gli aspetti ritmici del corpo in movimento: il battito dei piedi, la tensione muscolare e l’energia profusa ne danno un’immagine sciamanica. Michèle Métail (1950) è nota soprattutto per i suoi reading sonori, ma si occupa anche di calligrafia; i suoi testi hanno spesso rapporti con l’immagine fotografica e il collage. Anche Jacques Donguy, poeta, storico e critico della poesia sperimentale, che pratica la poésie numérique e la poesia sonora si è posto il problema del rapporto tra parola e immagine, così Michel Giroud, instancabile promotore di eventi poetici, direttore della rivista Kanal (1984-1994): teorico della patatologie o PTT (poésie totalement totale) mette in pratica la poesia sotto varie forme e con diverse modalità; poeta con ascendenti dada, è anche editore, critico, teorico e storico delle avanguardie, si definisce “peintre oral et tailleur de mots”. Ancora si possono ricordare Jean Monod (1941), Jacques Demarq (1946), Arnaud Labelle-Rojoux (1950), Jean-Pierre Bobillot (1950), Lucien Suel (1948), Didier Moulinier (1959), Nathalie Quintane (1964), Hervé Bruneaux (1964), Christophe Tarkos (1964-2004), Charles Pennequin (1965), Philippe Boisnard (1971), Joachim Montessuis (1972), Julien D’Abrigeon (1973), che si definisce poeta attivo e polimorfo, Sylvain Courtoux (1976), AnneJames Chaton (i suoi “événements” si offrono in una forma tipografica sui generis). Ancora qualche nome: Roland Caignard, Olivier Garcin, Daniel Daligand, Jean Dupuy, Gilles Dumoulin, Patrice Luchet, ecc. Ma nel panorama contemporaneo, mentre per molti versi i media si intrecciano indissolubilmente e i linguaggi subiscono sconvolgimenti radicali (come nel caso dell’imagerie cinematografica che diventa la controfigura della musica o addirittura come nel farsi musica dell’immagine)123, si assiste anche a pratiche opposte, di false relazioni tra le arti, di interazione debole o appa76 rente, di gratuite sommatorie che confluiscono nel multimedia di cassetta, talvolta prescindendo dalle più elementari regole di grammatica e di sintassi. Inoltre, in questa società del disastro, la regola mediatica impone la visibilità come valore assoluto. Non riveste più alcuna importanza la capacità di progettare, di dire, di agire: l’unico fine è quello di farsi vedere. E il traguardo della buona visibilità coincide, in genere, con quello del successo economico e sociale: un paradosso abominevole che si scontra con quanto faticosamente messo a punto in secoli di impegno socio-culturale e di riflessione sul piano etico, filosofico, politico. Da qui scaturisce l’esigenza di molti giovani autori di affermare con forza progetti oppositivi che possano in qualche modo incidere sul sistema, affermando controvalori che saranno tanto più efficaci quanto più conflittuali e graffianti. In un mondo che si avvelena e si deforma nella folle corsa al potere economico, che assolutizza, che fondamentalizza, che colonizza e travolge, calpestando i più elementari diritti di chi esprime altri comportamenti e altre convinzioni, tra gli artisti c’è anche chi ritiene che più si è fuori dal mercato, e fuori dai condizionamenti dei sistemi di produzione istituzionali, più si è in grado di affermare valori antagonisti. Dalle pagine di Doc(k)s Philippe Castellin lancia messaggi che rinnovano completamente il modo di pensare la poesia: “Nous envisagions le poème comme une sorte d’installation de signe ou [...] comme la construction d’un espace de langage”124. La spinta è quella di tornare a pratiche “hors page” e “hors livre”, mettendo in atto “des stratégies d’exportation poétique, installations, performances plastiques, etc.: démarches qui, en tous les cas, se trouvent au final confrontées à la question de leur ré-inscription et nécessitent une réflexion différenciée sur les supports et sur les codes”125. Quest’ottica coincide con l’atteggiamento nomade di molti autori, abituati a spostarsi da un codice ad un altro, da un medium ad un altro, da un territorio geografico ad un altro in piena libertà: libertà operativa e di 77 pensiero che si fondono direttamente nell’azione. Molte pratiche artistiche si appoggiano ad una rete, non necessariamente o non solo elettronica, fondata sulle relazioni tra centri di elaborazione estetica diffusi un po’ in tutto il mondo, che giustificano la loro sopravvivenza sui valori “politici” del rapporto umano. Solidarietà, tolleranza, convivialità, libertà di comunicazione, al di fuori dei vincoli del business dell’arte, sono valori condivisi, nella generalità, da schiere di “poeti nomadi” di oriente e occidente. Un’ampia quanto significativa frangia di operatori, infatti, insiste da anni sul concetto di nomadismo. Già nel 1986, nel Canada francofono, a Québec, mutuando tensioni già in atto, Richard Martel propone un articolato festival di performance proprio per sottolineare questo particolare atteggiamento. In quest’ottica, lo scambio internazionale è alla base del fondamento culturale, artistico ed esistenziale. Del resto l’impegno degli “artisti nomadi” è quello di approntare strategie che collochino i principi del pluralismo e della tolleranza e i temi dell’uomo e del suo destino tecnologico in uno spazio critico che si opponga fermamente ad un’informazione (e non solo a quella) asservita agli interessi di quei gruppi di potere per i quali la logica dell’immediato profitto è al di sopra di qualsiasi altro valore. Contro questa logica, la tensione creativa di schiere di nomades o degli “ambassadeurs” nominati da Blaine126, può ancora svolgere un ruolo fondamentale, sia attraverso lo scambio diretto, vivo e contaminante, sia attraversando codici e tecnologie127. Un lavoro immane! Si inscrivono perfettamente in questo quadro le poetiche dello scambio, da una parte, e della flessibilità e duttilità del disegno poetico, dall’altra; e oltre l’interattività mediatica, si assiste anche alla contemporanea crescita del lavoro collettivo e interattivo diretto e reale. Anche una rivista di poesia deve riconfigurarsi in questa prospettiva. Ecco allora che Doc(k)s si pone come luogo di scambio e di relazione intermediatica, anche dal punto di vista delle metodologie compilative, dei percorsi re78 dazionali, della scelta dei supporti e del rapporto con la rete, prima e dopo la creazione dell’oggetto rivista: “Doc(k)s ne saurait être envisagé comme une simple «revue»: Doc(k)s est un objet créatif de second rang, un macro-poème, une somme où tous les noms d’auteur viennent à se dissoudre, une cathédrale poétique expérimentale”128. Ma, ricorda ancora Castellin: “[...] l’informatique individuelle a pu, précisément parce qu’individuelle, être intégrée à la substance des poésies expérimentales, au point non seulement d’y apporter de nouvelles solutions créatives, mais surtout de contribuer à la réapparition de cet horizon d’utopie qui avait fait naufrage”129. Veicoli adatti allo scopo nel panorama attuale sembrano proprio le espressioni intermediali, che spaziano dalle installazioni alla performance, dalle reti web al rilancio dell’editoria filtrata dalle nuove tecnologie (ma senza farsi prendere la mano): “L’extrême puissance de l’informatique – réelle ou imaginaire, ça n’est pas ici la question – est qu’elle réactualise l’image de l’individu autonome”130. In ogni modo va considerato che niente potrebbe funzionare senza “la revendication anthropologique du geste créatif ”131. Ilya Prigogine parlava del sapere scientifico come “ascolto poetico” e come “processo aperto di produzione e d’invenzione”132. Un’indicazione come questa, se ricondotta al sapere intermediale, potrebbe tornare molto utile per stimolare alcune riflessioni di metodo. F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Torino, Einaudi, 1993. La storia dell’arte e della letteratura è costellata di scritture verbo-visive. In Francia, tralasciando gli esempi più antichi, ricordiamo, tra il XVI e XVII secolo, Jacques Cellier (organista e calligrafo), Jean Grisel, Robert Angot de l’Eperonnière, Geoffroy Tory, Simon Bouquet, gli autori di alfabeti fantastici, magici, ludici e bizzarri tra Settecento e Ottocento, le fantasie verbo-grafiche di Jean I.I.G. Grandville (1803-1847) o di Gustave Dorè (1832-1883) e, infine, una lunga schiera di poeti: Nicolas Cirier (1792-1869), Jean Lurçat, (1892-1966), Bertrand Guégan (18921943), Charles Péguy (1873-1914), Alfred Jarry (1873-1907), il Paul Claudel (18681955) di Le Soulier de satin, Patrice de le Tour du Pin (1911-1975), il Raymond 1 2 79 Queneau (1903-1976) inventore del “libro senza fine” Cent mille milliards de poèmes, ecc., senza contare le opere dei pittori (Léger, Arp, Klee, Magritte, Dalì, ecc.) o quelle frutto della collaborazione tra poeti e pittori, basti ricordare Pierre Reverdy (1889-1960) e Pablo Picasso (1881-1973), Paul Éluard (1895-1952) e Joan Mirò (1893-1983), Blaise Cendrars (1887-1961) e Sonia Delaunay (1885-1979) che realizzarono il primo “poème-tableau”, lungo due metri e presentato in forma di pieghevole. 3 In Les Orientales, Paris, Bossange, 1829. 4 C. Nodier, Histoire du Roi de Bohême et de ses Sept Châteaux, Paris, Delangle, 1830. 5 Un testo si definisce optofonetico quando c’è una corrispondenza diretta tra i valori visivi e quelli fonetici; per esempio quando al variare del “peso” grafico del testo varia l’intensità sonora, quando un’alternanza pieno-vuoto indica un ritmo, quando la successione di una stessa lettera suggerisce di prolungarne la pronuncia, ecc. L’optofonia è spesso parte essenziale dei “poemi-partitura”, testi poetici nei quali sono suggerite direttamente (con modalità didascaliche) o indirettamente (cioè sul piano essenzialmente visivo) le indicazioni di lettura. Testipartitura possono essere considerati, per esempio, le canzoni rumoriste di Fortunato Depero o i Poèmes à crier et à danser di Pierre Albert-Birot, dove alcuni passaggi della composizione tipografica esaltano il grido. Talvolta sono state adottate soluzioni tipografiche con intenzioni funzionali specifiche. È il caso di Le Soulier de satin di Paul Claudel, di cui Jean-Louis Barrault preparò una “typographie-diction” ad uso degli attori. Da considerare in quest’ambito (ma senza finalità tecnico-pratiche) anche le “calligraphies sonores” di Massin; tra le più interessanti quelle realizzate per opere di Ionesco: La Cantatrice chauve (Gallimard, Paris, 1964) e Délire à deux (Gallimard, Paris, 1966). Massin parla di un altro modo di leggere il teatro: “Alliant la technique du cinéma à celle de la bande dessinée [...] l’auteur de cette mise en page, en se donnant le pouvoirs d’un metteur en scène, vise à traduire l’atmosphère, le mouvement, les dialogues, les silences, en même temps qu’il essaie de rendre la durée et l’espace scénique, par le simple jeu de l’image et du texte” (Massin, La lettre et l’image, Paris, Gallimard, 1973). “Orchestrazioni tipografice” sono state realizzate da Massin anche per il teatro di Jean Tardieu, la musica di Mozart o le canzoni di Édith Piaf. 6 Poemi visuali realizzati alla macchina da scrivere. 7 Innumerevoli esempi di opere “totalizzanti” erano presenti nelle culture extraeuropee, come il concerto classico indiano, dove la poesia (canti dal Mahabharata o dal Ramayana), la musica, la danza, la gestualità mimica sono perfettamente integrati, o come il teatro di Bali, l’opera classica cinese, il teatro giapponese, per non parlare dei riti amerindi e di altri sontuosi cerimoniali di tante culture del passato. 8 “A partire dal 1857, data fatidica di apparizione di Les Fleurs du Mal (numerose edizioni, tra cui Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1954), la poesia francese sembra entrare veramente in un periodo magico. Nel giro di mezzo secolo, accanto a Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé c’è un’autentica esplosione di poesia, che finisce per 80 coinvolgere tutti gli aspetti della cultura e condizionarne gli sviluppi in buona parte d’Europa”, V. Accame, Introduzione a Poesia Francese del Novecento, Milano, Bompiani, 1985. 9 Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1972. 10 A. Breton, Les mots sans rides, in Littérature, n. 7 (décembre 1922), Paris, Librairie Gallimard, pp. 12-13. 11 L. Pignotti, I sensi delle arti, Bari, Dedalo, 1993. 12 In Almanacco Dada, Op. cit. 13 La stagione dell’utopia totalizzante ha avuto nel Novecento alterne vicende oscillando tra un polo caratterizzato dall’accumulo di elementi interagenti ed un altro legato alle risorse dell’essenzialità come dato che riveli la molteplicità degli aspetti di un unico elemento. In Il teatro totale come metodo sottrattivo Carmelo Bene scrive: “Il visivo sulla scena è un silenzio musicale [...]della voce. Si tratta allora di rivedere l’idea di “teatro totale” al filtro di un rigoroso metodo sottrattivo. La fallimentare additività wagneriana e il pur profondo ripensamento di Schönberg che, nonostante le splendide ricerche (e risultati) sull’impatto parola – luce – musica, continuano a tollerare la connivenza scenica di mimi e corpi di ballo [...] denunciano l’urgenza indiscutibile d’una totalità innocente e profonda che seriamente comprometta ogni possibile “rappresentazione teatrale”, instaurando un senso visivo che non si mostri complementare alla voce. Quindi, non può il concorso simultaneo o no di più «mezzi espressivi» meritare la “totalità” artistica [...]. Totale ha da esser puntualmente la degenerazione (de-stabilizzazione del genere)”. C. Bene, Marlowe, da La voce di Narciso, in Opere, Milano, Bompiani, 1995. 14 Tra le varie apparecchiature ricordiamo almeno il “clavier à lumière” (1910) di Alexandr Skriabin (1972-1915) e il “piano optofonico”(1923) di Vladimir Baranoff-Rossiné (1888-1942). 15 Per Ruggero Pierantoni “s’incontrano solo anelli entro anelli [...] non esistono vicoli ciechi, binari morti”. R.Pierantoni, Postfazione al volume di T. Tornitore, Scambi di sensi, Torino, Centro Scientifico Torinese, 1988. 16 Il problema della notazione poetica, meno riconducibile alle arbitrarie relazioni cromo-acustiche di Rimbaud, ma fortemente legato all’opera di Mallarmé, si sviluppa nel tempo, secondo innumerevoli direzioni, in ambito futurista, dadaista, simultaneista, poi lettrista, concretista, ecc., fino ai nostri giorni, allorquando la poesia sonora diventa un fenomeno internazionale di un certo rilievo e l’avanguardia musicale si trova a fare i conti con nuovi sistemi di scrittura. 17 Manifesto del Futurismo ripubblicato su “Poesia”, V, n. 1-2, febbraio-marzo 1909. Per un’ampia visione delle teorie futuriste si consulti L. Caruso (a cura di), Manifesti, proclami, interventi e documenti teorici del Futurismo, 1909-1944, 4 voll., Firenze, Spes-Salimbeni, 1980. 18 Cfr. M. Calvesi, Importanza di Marinetti, in Le due avanguardie, Milano, Lerici, 1966. 19 Manifesto tecnico della Letteratura futurista [11 maggio 1912], apparso per la prima volta come introduzione all’antologia I poeti futuristi. Marinetti già vi introduce “il 81 lirismo essenziale e sintetico, l’immaginazione senza fili e le parole in libertà”. Crf. F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1968. 20 F. T. Marinetti, Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà [11 maggio 1913], originariamente pubblicato in due parti sui numeri 12 e 22 di Lacerba, giugno e novembre 1913, poi riproposto più volte; cfr. F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Op. cit. 21 F. T. Marinetti, Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica [18 marzo 1914], pubblicato in due puntate su Lacerba, n. 6 e n. 7, marzo e aprile 1914. Cfr. F. T. Marinetti, Teoria e invenzione ..., Op. cit. 22 F. T. Marinetti, B. Corra, E. Settimelli, A. Ginna, G. Balla, R. Chiti, La cinematografia futurista, in L’Italia Futurista, n. 10, 1916. 23 F. T. Marinetti, Lo splendore ..., Op. cit. 24 F. T. Marinetti, Les mots en liberté futuristes, Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1919. Ristampa anastatica, Milano, Mondadori, 1986. 25 Cfr. L. Ballerini, La piramide capovolta, Padova-Venezia, Marsilio, 1976 e L. Caruso e S. M. Martini, Tavole parolibere futuriste (1912-1944), Napoli, Liguori, 1974. 26 Riferito da Michel Butor nella prefazione a G. Apollinaire, Calligrammes, Paris, Gallimard, 1966. 27 M. Butor, prefazione a G. Apollinaire, Calligrammes, Op. cit. 28 H. Heissenbüttel, Per una storia della poesia visiva del XX secolo, in Il Verri, n. 16, 1964. 29 L’Alphabet des aveux (Gallimard, Paris, 1954) è un’opera realizzata con tecniche virtuosistiche usando versi palindromi, olorime, rebus, calligrammi, sciarade e allitterazioni; vi si leggono testi scritti con parole composte giustapponendo lettere maiuscole alla cui compitazione corrisponde foneticamente un valore verbale: sorta di crittogrammi di valore omofonico rispetto alla parola cui ci si vuole riferire. 30 H. Heissenbüttel, Op. cit. 31 V. Accame, Il segno poetico, Milano,, Edizioni d’Arte Zarathustra-Spirali Edizioni, 1981. 32 Dopo la prima edizione (Gallimard, Paris, 1914) il poema è stato ripubblicato in grande formato solo nel 1980 (Paris, Change errant/d’atelier). 33 V. Accame, Il segno poetico, Op. cit. 34 M. Perniola, Del sentire, Torino, Einaudi, 1991. 35 Potrebbe essere direttamente ricollegata a Mallarmé anche la nozione futurista di “rivoluzione tipografica” o, secondo A. Spatola, di simultaneità. Cfr. A. Spatola, Verso la poesia totale, Paravia, Torino 1978 (prima edizione, Salerno, Rumma, 1969). 36 L. Marcheschi, Qu’est-ce que dit et ne dit pas pour le dire cette trans-langue vide?, in “Poesia Sonora”, Napoli, Libri di Uomini e Idee, 1975. 37 M. D’Ambrosio, Poesia Sonora, Napoli, Spazio Libero, 1979. 38 A. Lora Totino, Introduzione all’antologia sonora Futura, Milano, Cramps Records, 1978. 39 V. Accame, Il segno poetico, Op. cit. 82 Ibid. Si veda a tal proposito lo studio e l’analisi grafica di J. Verdin nel volume S. Mallarmé, Le presque contradictoire précédé d’une études de variantes, Paris, 1975. 42 V. Accame, Il segno poetico, Op. cit. 43 A. Schönberg, Stile e Idea, Milano, Feltrinelli, 1960. 44 Pubblicato in “Noigandres” 2, São Paulo, 1955. 45 A. Spatola, Verso la poesia totale, Op. cit. 46 L. De Maria, Marinetti e il Futurismo, Verona, Mondadori, 1973. Per Claudia Salaris “la foga con cui nega l’ascendenza mallarmeana è la prova che proprio da lì è partito. Se a Breton sarà più facile ricostruire l’albero genealogico surrealista, andando a pescare i padri e i fratelli che più gli aggradano, a Marinetti, progenitore dell’avanguardia, questo non è consentito: deve negare e occultare ogni ascendenza”, in C. Salaris, Marinetti. Arte e vita futurista, Roma, Editori Riuniti, 1997. 47 A proposito del paroliberismo Julius Evola scriverà: “Questa precipitazione che contrae il ritmo, che disorganizza la durata, che distrugge l’intervallo, sbocca appunto nell’istantaneità e nella simultaneità. Dinamismo, istantaneismo, simultaneità sono tre elementi solidali nella logica del futurismo, i quali procedono dall’illusione moderna di cercare dentro il divenire quel possesso della vita che il tempo sottrae in una fuga perenne dei suoi singoli momenti”. Riferito in G. Lista, Le livre futuriste, de la libération du mot au poème tactile, Modena, Edizioni Panini, 1984. 48 A. Lora Totino, L’Orphéide, epopea della simultaneità, in Simultanéisme/Simultaneità, Quaderni del Novecento Francese 10, Roma-Paris, Bulzoni-Nizet, 1987. 49 A. Lora Totino, L’Orphéide, epopea della simultaneità, cit. Nel medesimo quaderno si vedano i saggi sui simultaneisti Voirol, Divoire e Beauduin: A. De Agostini, Una creazione ‘simultanea’: “Le Sacre du Printemps” di Sébastien Voirol e di Igor Stravinsky; A. Charbonnier, Une conférence inédite de Fernand Divoire sur Le Sacre du Printemps de Sébastien Voirol; V. Gianolio, Spazi e piani simultanei nelle ‘synopses’ di Nicolas Beauduin. 50 A. Lora Totino, L’Orphéide, Op. cit. 51 Ibid. 52 n. VI, 1913. 53 A. Lora Totino, L’Orphéide, Op. cit. 54 A. Pétronio, Appel aux poètes, in “Arthur Pétronio”, disco LP 33 giri, Bruxelles, Igloo, 1979. 55 A. Pétronio, “Cinquième Saison”, n. 13, 1961. 56 In L. Forte, La poesia dadaista tedesca, Torino, Einaudi, 1976. 57 Sul modo talvolta caotico di montare i testi si osservi, ad esempio, Une nuit d’échecs gras di Tzara in 391, n. 14, novembre 1920. Scrive Massin in La lettre et l’image (Gallimard, Paris, 1973): “Ce désordre inorganisé, ce caphanaüm voulu, véritable ramassis de caractères qui dut faire hurler les typographes de l’époque, ne manque pas de bauté et sollicite l’œil en même temps qu’il décourage la lecture”. 58 Ibid. 59 F.T. Marinetti, Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, in Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1968. 40 41 83 L Forte, Op. cit. Ibid. 62 “Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione sonora capace di convincere, l’opera d’arte diventò un proiettile”, W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966. 63 L Forte, Op. cit. 64 Manifesto in Dada Almanach, 1920, ora in Almanacco Dada, a cura di A. Schwarz, Milano, Feltrinelli, 1976. 65 Volantino diffuso nel 1921 e riportato da G. Hugnet, L’avventura dada, Milano, Mondadori, 1972. 66 V. Accame, Il segno poetico, Op. cit. 67 “Ignorato, mal letto, sottovalutato o sopravvalutato che fosse, questo testo mallarméano ha comunque stentato a imporre il suo peso, anzi, si può dire che la scoperta della sua importanza ha data abbastanza recente. A lungo Un coup de dés passò per un tentativo eccentrico, per un exploit extravagante del vecchio poeta, apprezzabile e rispettabile soltanto perché firmato da un illustre e indiscusso protagonista di trent’anni di storia letteraria”. V. Accame, Introduzione a Poesia Francese del Novecento, Op. cit. 68 V. Accame, Il segno poetico, Op. cit. 69 A. Spatola, Verso la poesia totale, Op. cit. Così prosegue Spatola: “Questa presa di posizione assoluta è facilmente comprensibile, nell’ambito della cultura francese, come reazione alla massiccia presenza del surrealismo, che aveva appunto cercato, e con un notevole successo, di rinnovare gli strumenti estetico-naturali per agire direttamente sulla realtà ideologico-sociale”. 70 Ibid. 71 V. Accame, Il segno poetico, Op. cit. 72 A. Spatola, Op. cit. 73 Ibid. 74 L. Marcheschi, Isidore Isou, in Poesia Sonora, a cura di L. Caruso e L. Marcheschi, Napoli, Schettini, 1975. 75 F. Verdi, La canzona, ovvero i gargarismi della fecondità, in Lotta Poetica, n. 10, 1982. 76 A. e H. De Campos e D. Pignatari, Piano-pilota per la poesia concreta, 1953-1958, in Poesia concreta, a cura di A. Lora-Totino, Mantova, Editoriale Sometti, 2002. 77 In occasione di un incontro con Decio Pignatari in Svizzera, constata la stretta affinità tra le sue ricerche e quelle del gruppo brasiliano. Insieme decidono di promuovere un movimento internazionale che si chiamerà Poesia concreta al quale aderiranno numerosi autori di altri paesi. 78 Di “costellazione” aveva parlato Mallarmé. In una lettera a André Gide scriveva a proposito del suo Coup de dés: “La Constellation y affectera d’après des lois exactes, et autant qu’il est permis à un texte imprimé, fatalement une allure de constellation”, riferito in J. Peignot, Du Calligramme, Paris, Chêne, 1967. 79 E. Gomringer, Dal verso alla costellazione, scopo e forma di una nuova poesia, in Poesia concreta, a cura di A. Lora-Totino, Op. cit. 60 61 84 80 I dati si rendono evidenti. Kolar cominciò a battere a macchina dei lied senza parole, composizioni basate su una libera disposizione delle lettere, dei numeri, dei segni di punteggiatura, degli spazi vuoti. Egli chiamava questi lied “poesie del silenzio”,“poesie vuote”, “poesia evidente” e li dedicò alla memoria di Malevich. Tra 1959 e il ‘60, con i Poemi del silenzio, abbandona definitivamente la poesia verbale e si dedica alle prime versioni di “poesia evidente”. 81 Cfr. D. Higgins, op. cit. Il capitolo “Intermedia” riprende il saggio pubblicato in “Something Else Newsletter”, vol. 1, n. 1, New York, 1966. 82 L. Pignotti, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia, Roma, Lerici, 1968. 83 A. Spatola, Op. cit. 84 Verso la metà degli anni Sessanta, Spatola e Lora Totino, entrambi residenti a Torino, avevano frequenti contatti. Con l’architetto Leonardo Mosso prospettarono l’idea di una Maison Poétique “ove tutte le arti potessero trovare una propria collocazione, ma non tanto separate fra di loro, bensì concatenate l’una all’altra”. A. Lora Totino, Le carte del gioco, per l’appunto, in S. De Alexandris e A. Lora Totino, Le carte del gioco, Torino, Martano, 2001. 85 Per la poesia concreta si veda almeno A. Lora Totino (a cura di), Poesia concreta, Sometti, Mantova 2002, contenente un’antologia di testi poetici, alcuni testi teorici fondamentali, tra i quali il Piano-pilota per la poesia concreta (1953-1958) di A. e H. De Campos e D. Pignatari e una bibliografia specifica. 86 “Nel nostro geloso universo, più che altrove, l’ingresso massiccio di corpi estranei, la mescolanza di gerghi con la lingua letteraria, lo scontro dunque tra l’aulico e il banale, tra il parlato [...] e le scritture alte hanno generato o rigenerato il linguaggio medesimo, inaugurando quel «nuovo volgare» di cui alcuni critici hanno detto a proposito della nostra Poesia Visiva”. Così Eugenio Miccini in Giovanni Fontana, La voce in movimento, Monza, Ed. Harta Performing & Momo, 2003. 87 L. Ori, in AA.VV., in La poesia visiva (1963-1979) (1963-1979) la poesia visiva, Firenze, Vallecchi, 1979. p. 10. Il concetto di guerriglia semiologica è coniato da Eco: crf. U. Eco, Prima proposta per un modello di ricerca interdisciplinare sul rapporto televisione-pubblico, Perugia, Istituto di etnologia e antropologia culturale, 1965, poi in Per una indagine semiologica sul messaggio televisivo, in Rivista di Estetica, maggio-agosto 1966, pp. 237-259. Eco è anche il primo ad applicare questo concetto alle sperimentazioni di Radio Alice e del gruppo di A/traverso, e per questo viene duramente attaccato da Asor Rosa, Colletti, Barbato ed altri che lo accusano di fiancheggiamento al carattere violento del Movimento del ’77. La poesia visiva incarna molto bene l’approccio della guerriglia: “Divampa la guerriglia nel linguaggio non lo sa chi non lo prova” è il testo di un collage, su una riproduzione di un manoscritto miniato, fatto da L. Pignotti, Divampa la guerriglia, 1966, in Poesia visiva 1963-1988 5 maestri, Verona, La Favorita, 1988, p. 161. 88 A. Bonito Oliva, La parola totale, in AA.VV. La parola totale. Una tradizione futurista, 1909-1986, Modena, Galleria Fonte d’Abisso Edizioni, 1986. 89 Adriano Spatola, Op. cit. 90 M. Spatola, Da “Bab Ilu” a “Tam Tam”, un percorso esaltante. Il gioco della poesia, 85 in Avanguardia, n. 30, 2005. 91 P. Garnier, Manifeste pour une poésie nouvelle visuelle et phonique, in Les Lettres, n. 29, 1963. 92 Ibid. 93 P. Garnier, Un art nouveau: la sonie, in Les Lettres, n. 31, 1963. 94 “Le souffle est la roue fulgurante qui longe d’un côté le sec et le pourri – et de l’autre le ciel, les ailes, les anges”. In P. Garnier, cit. La singolare immagine della ruota del soffio di Garnier che sfiora gli angeli rimanda alla lingua delle creature celesti sulla quale Cornelio Agrippa si soffermava in questi termini: “Il modo di parlare degli angeli, del pari come la loro figura, sfugge alla nostra comprensione. Noi non potremmo parlare senza la lingua e senza gli altri organi della parola, quali la gola, il palato, le labbra, i denti, i polmoni, l’arteria spiritale e i muscoli pettorali, che ricevono dall’anima il loro impulso. Parlando a una persona lontana, bisogna elevare la voce e parlando invece a una persona affatto vicina, basta mormorarle le parole all’orecchio. Se si potesse ridurre al nulla il proprio soffio e identificarsi quasi con colui che ascolta, la parola non avrebbe bisogno d’alcun suono per essere udita, ma s’insinuerebbe nell’ascoltatore come l’immagine nell’occhio o nello specchio. In tale maniera le anime separate dai corpi, gli angeli e i demoni parlano e l’effetto prodotto dall’uomo con la voce sensibile, gli angeli lo ottengono con l’impressione dell’idea della parola in coloro con cui parlano, con risultato più efficace di quello che non sia dato conseguire mercé la voce materiale” [C. Agrippa, De occulta philosophia, con il titolo Le arti magiche, Genova, Fratelli Melita Editori, 1988]. Ma “l’Angelo non trasmette nozioni già acquisite, né adegua il proprio segno a ‘stati di fatto’, né è semplice modello di un’organizzazione linguistica perfettamente perspicua, chiara, atta a garantire la comunicazione più piena, inequivoca. L’Angelo ‘dice che c’è del dire’, anzi: dice che si deve fare Verbum (siate poietaí, factores, del Verbum, e non soltanto auditori: Gc, 1, 22)” [M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano, Adelphi, 1986, dove Cacciari, parafrasando Michel de Certeau, si riferisce al saggio Le parler angélique, ora in Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua, a cura di C. Ossola, Firenze, 1989]. 95 G. Bruno, De magia. De vinculis in genere [a cura di A. Biondi], Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1986. Si veda anche H. Gatti, Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001. 96 P. Garnier, Un art ..., Op. cit. 97 I. Garnier, Fin du monde de l’expression, in Les Lettres, n. 31, 1963. 98 Intervista raccolta da M. Lengellé in Le Spatialisme, Paris, Éd. André Silvaire, 1979. 99 H. Chopin, La voce, in La Taverna di Auerbach, n. 9-10, 1990. 100 Ibid. 101 H. Chopin, La poésie sonore, in Bérénice, n. 1, 1993. 102 H. Chopin, La voce, Op. cit. 103 Altagor, pseudonimo di Jacques Vernier, strana figura di poeta e di artista, creatore di un nuovi linguaggi (la Mètapoésie e la Parole Transformelle), inventore di 86 strumenti musicali e di giochi (tra i quali gli Hyperéchecs e le Doubles Dames); ha svolto il suo lavoro con grande autonomia rispetto alle parallele ricerche in atto. Ha condotto ininterrottamente il suo Discours absolu fino alla sua morte. 104 L. Moholy-Nagy, Vision in Motion, New York, 1947. Cit. in N. Zurbrugg, Arte sonora, arte radiofonica e performance post-radio in Australia, in La Taverna di Auerbach, n. 9-10, 1990. 105 Sul n. 2 della rivista Grâmmes, 1958. 106 Crf. L. Marcheschi, Qu’est-ce que dit et ne dit pas pour le dire cette trans-langue vide?, in Poesia Sonora, Op. cit. 107 Proprio con Paul Zumthor, Chopin ha realizzato Les Riches Heures de l’Alphabet, un libro sull’alfabeto, con cinquanta dattilopoemi, testi per ciascuna lettera dell’alfabeto di Zumthor e dello stesso Chopin e un percorso storico-poetico dei segni: “La scrittura è simultaneamente strategia formale e alchimia – cioè trasmutazione; ma una trasmutazione mai compiuta”. (H. Chopin e P. Zumthor, Les Riches Heures de l’Alphabet, Ed. Traversière, Paris, 1993). 108 Cfr. P. Zumthor, I grafemi e i vocemi di Henri Chopin, in La Taverna di Auerbach, n. 1, 1987. 109 D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Milano, Adelphi, 1984. 110 B. Heidsieck, Notes convergentes, Romainville, Éditions Al Dante, 2001. 111 Paris, Éditions du Seuil, 1973. 112 B. Heidsieck, Hide and Seek bis, catalogo, Napoli, Locus Solus, 2007. 113 Ibid. 114 J. Blaine, Live (quelques moment). Julien Blaine en chair et en os, Marseille, DCC, 2000. 115 J. Blaine, 13427 Poèmes Métaphisyques, Paris, Éd. Evident, 1986. 116 Ph. Castellin, Doc(k)s, mode d’emploi, Romainville, Édition Al Dante, 2002. 117 Ibid. 118 Ibid. 119 Ibid. 120 Intervista di Sarenco a Jean-François Bory, poeta, pubblicata in Lotta poetica, n. 13, giugno 1983; cfr anche J. Donguy, Une génération (1960-1985), Paris, Éditions Henri Veyrier, 1985. 121 Ibid. 122 Ibid. 123 Cfr. P. Virilio, L’art à perte de vue, Paris, Édition Galilée, 2005, traduzione italiana apparsa su Domus, n. 886, novembre 2005. 124 Ph. Castellin, Op. cit. 125 Ibid. 126 Nel 1997 J. Blaine organizza a Ventabren un’esposizione dal titolo “Les ambassadeurs au V.A.C.”, con opere di artisti definiti “nomades, nomades absolument” [catalogo]. 127 Un vero e proprio laboratorio nomade, indiscusso punto di riferimento di 87 artisti nomadi, è costituito da “Poliphonix”, il festival internazionale curato da Jean-Jacques Lebel, che si sposta nel mondo coinvolgendo i più significativi esponenti di quella che si può genericamente identificare come “poesia diretta”. Si veda J.-J. Lebel (direzione editoriale di), Poliphonix, Paris, Éd. Centre Pompidou/Éd. L. Scheer/Polyphonix, 2002. Il volume è stato pubblicato in occasione del quarantesimo festival. 128 Ph. Castellin, Op. cit. 129 Ibid. 130 Ibid. 131 Ibid. 132 I. Prigogine, La nascita del tempo, Milano, Bompiani, 1991. 88 Bérénice Rivista di Studi Comparati e Ricerche sulle Avanguardie Amministrazione Via A. Aceto n. 18 – 66100 Chieti Tel. 0871 561806 – Fax 0871 446544 – Cell. 335 6499393 www.rivistaberenice.com Una copia 12,00 € – Quattro numeri 40,00 € Per le spedizioni all’Estero vanno aggiunte le spese postali Per acquisti o abbonamenti: Versamento sul c.c. postale 68903921 o IBAN IT35 H076 0115 5000 0006 8903 921 BIC/SWIFT BPPIITRRXXX Intestati a Gruppo Editoriale Tabula Fati Finito di stampare nel mese di Luglio 2013 dalla Universal Book di Rende (CS) per conto delle Edizioni Solfanelli del Gruppo Editoriale Tabula Fati 66100 Chieti – C.P. 34