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Università degli Studi Roma Tre Studi sartriani Gruppo ricerca Sartre Anno XIII / 2019 L’umana disumanità ISSN 1970-7983 2019 Direttore Scientifico: Vincent de Coorebyter Direttore responsabile: Gabriella Farina Vicedirettore responsabile: Maria Russo Comitato scientifico: Ronald Aronson (Detroit), Gregory Cormann (Liegi), Luciano De Fiore (Roma), Alfredo Ferrarin (Pisa), Federica Giardini (Roma), T. Storm Heter (Stroudsburg), Federico Leoni (Verona), Massimo Marraffa (Roma), Miguel Mellino (Napoli), Massimo Recalcati (Milano), Rocco Ronchi (L’Aquila), Nao Sawada (Rikkyo), Michel Sicard (Parigi), Paolo Tamassia (Trento), Jonathan Webber (Cardiff ) Comitato di Redazione: Alessandro Agostini, Davide Casalino, Federica Castelli, Marco Dozzi, Erminio Maglione, Alice Manzoni, Chiara Pasquini Web Master: Rachele Muzio Elaborazione grafica della copertina: mosquitoroma.it Mosquito Edizioni: Roma, dicembre 2019 ISSN: 1970-7983 © Tutti gli articoli sono sottoposti a double-blind peer review. http://romatrepress.uniroma3.it Quest’opera è assoggettata alla disciplina Creative Commons attribution 4.0 International Licence (CC BY-NC-ND 4.0) che impone l’attribuzione della paternità dell’opera, proibisce di alterarla, trasformarla o usarla per produrre un’altra opera, e ne esclude l’uso per ricavarne un profitto commerciale. L’attività della è svolta nell’ambito della Fondazione Roma Tre-Education, piazza della Repubblica 10, 00185, Roma. Indice EDITORIALE di Gabriella Farina 5 ARTICOLI FILIPPO NOBILI, Sartre e la dissoluzione onto-fenomenologica della realtà umana 9 MARIA RUSSO, Dalla penuria al Terrore. Relazioni e pratiche disumane nella Teoria degli insiemi pratici 31 DANILO MANCA, Spontaneità e realtà umana in Sartre 61 FELICE CIMATTI, L’uomo e il cavolfiore. Da Sartre a Deleuze, dall’umano al postumano 87 CHIARA DE COSMO, Il soggetto e la storia. Forme di trascendenza soggettiva nel pensiero sartriano 101 MARA MELETTI BERTOLINI, Disumano, inumano e postumano. Alcune riflessioni tra J.-P. Sartre e H. Arendt 119 FRANCESCO PASQUINI, Libertà e nichilismo. Uno spunto per leggere Sartre attraverso Nietzsche e forse Nietzsche attraverso Sartre 137 MARCO G. CIAURRO, Il dibattito teorico sull’“impegno” in letteratura. Sartre e Blanchot 155 RECENSIONI FABRIZIO SCANZIO, J.-P. Sartre, Tortura, Diritto e Libertà (a cura di Michel Kail) 183 FRANCESCO CADDEO, R. Kirchmayr, Le Passioni del visibile. Saggio sull’estetica francese contemporanea 185 Editoriale Continuano le pubblicazioni della nostra Rivista «Studi Sartriani». Questo nuovo numero Anno XIII, 2019 è dedicato al tema “L’Umana disumanità” che, proseguendo le precedenti riflessioni sul “Fascino dell’inerte”, si propone di indagare le profonde trasformazioni sociali, politiche e tecnologiche dell’epoca contemporanea. A partire da Sartre, con Sartre e oltre Sartre, questo numero della Rivista intende analizzare l’intreccio di umano e disumano. In realtà anche nell’esistenzialismo di Sartre si può trovare un possibile movimento verso il post-umano. Movimento che di fatto Sartre non intraprende, ma che tuttavia, come ipotizza Felice Cimatti, è potenzialmente implicito ne L’Esistenzialismo è un umanismo. Molti sono i processi di disumanizzazione che Sartre descrive nel primo volume della Critica della Ragione Dialettica come dimostrano le sue analisi sui luoghi in cui concretamente emerge la disumanizzazione. Una possibile alternativa ad essa è quella proposta da Maria Russo che analizza l’ultima discussa intervista rilasciata da Sartre poco prima della sua morte, La speranza oggi, in cui il filosofo francese prospetta una nuova forma di fraternità, sganciata dal terrore; fraternità che è insieme relazione originaria e compito normativo per una compiuta realizzazione dell’umano. Il tema della disumanità consente di mettere a fuoco le diverse vie intraprese da Sartre e Arendt per declinare l’idea di libertà in quanto creatrice di nuovi inizi nelle sue conseguenze morali, sociali e politiche. Su questi temi si sofferma Mara Meletti che cerca di scoprire come sia possibile articolare libertà individuali-personali e vita pubblica. È chiaro che sullo sfondo di queste riflessioni emerga la questione del paradosso della soggettività che l’articolo di Manca propone a partire dall’identificazione di spontaneità e coscienza proposto da Sartre ne La Trascendenza dell’Ego. Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 5 De Cosmo individua alcune analogie tra il per-sé, descritto ne L’Essere e il nulla e le strutture di soggettivazione collettive della Critica della Ragione Dialettica. In riferimento al decennio 1933-44, l’articolo di Nobili indaga il sottofondo aporetico che emerge dalla manifesta inconciliabilità dei suoi convincimenti metafisici, i quali introducono elementi di disumanizzazione nella concezione sartriana dell’umano. Utilizzando categorie nietzscheane, l’articolo di Pasquini individua aspetti nichilistici nel concetto di libertà presenti ne L’Essere e il nulla al punto da formulare un interrogativo decisamente provocatorio: Il nichilismo è un umanismo? Un interessante confronto è inoltre quello proposto da Ciaurro tra Sartre e Blanchot dal dopoguerra fino agli anni Ottanta. Sartre ha sempre guardato con occhio critico e partecipe le evoluzioni dell’epoca storico-sociale e le sue intuizioni, spesso premonitrici, costituiscono per noi un patrimonio di idee sulle quali possiamo e dobbiamo continuare a riflettere. Gabriella Farina Direttore Responsabile 6 ARTICOLI Filippo Nobili Sartre e la dissoluzione onto-fenomenologica della realtà umana 1 ABSTRACT: Sartre approaches phenomenology as a mature thinker, with pre-established aesthetic and metaphysical convictions. These views orient his reading of Husserl and Heidegger, allowing him to use their philosophies to his own particular ends. Of particular note is his novel definition of intentionality in terms of néantisation, which will have a considerable influence on his way of understanding human reality during the decade spanning from 1933 to 1943. If we follow the way in which this understanding evolves hand in hand with his critical adoption of the onto-phenomenological canon, it becomes possible to discern an aporia lying at its foundation. This aporia reveals the manifest incompatibility of this understanding with Sartre’s professed metaphysical commitments – in fact, it proves to be capable of distorting Sartre’s conception of human reality, to the point of its very dehumanization. KEYWORDS: Sartre; Husserl; Intentionality; Nihilation; Temporality; Dissolution ABSTRACT: Sartre si avvicina alla fenomenologia da pensatore maturo, con credenze estetiche e metafisiche già formate. Queste convinzioni pregresse orientano la sua lettura di Husserl e Heidegger, preludendo a un uso strumentale delle loro filosofie. In particolare, l’originale definizione offerta da Sartre della nozione d’intenzionalità in termini di néantisation influenzerà non poco il suo modo di pensare la realtà umana nel corso del decennio 1933-1943. Ricostruendo come un simile pensiero evolva di pari passo all’adesione critica al canone onto-fenomenologico risulta quindi possibile evidenziarne il sottofondo aporetico, rappresentato dalla manifesta inconciliabilità dei pretesi convincimenti metafisici di fondo e in grado di distorcere – ai limiti della sua disumanizzazione – la concezione sartriana dell’umano. KEYWORDS: Sartre; Husserl; intenzionalità; nullificazione; temporalità; dissoluzione 1 Le opere di J.-P. SARTRE saranno citate secondo le seguenti sigle: CDG = Carnets de la drôle de guerre, Gallimard, Paris 1995; CPM = Cahiers pour une morale, Gallimard, Paris 1983; CSCS = Conscience de soi et connaissance de soi, in ID., La transcendance de l’Ego et autres textes phénoménologiques, J. Vrin, Paris 2003, pp. 133-165; EN = L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2002; I one = L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 2004; I rio = L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino 2007; INT = Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in ID., Materialismo e rivoluzione, il Saggiatore, Milano 1977, pp. 139-143; TE = La trascendenza dell’Ego, Christian Marinotti, Milano 2011. Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 9 FILIPPO NOBILI 1. Introduzione Il periodo trascorso come borsista presso l’Istituto francese di Berlino, tra il settembre 1933 e il giugno 1934, segna un inequivocabile spartiacque nella vita filosofica di Sartre. Lo studio della fenomenologia husserliana e quello soltanto abbozzato, ma reiterato e approfondito negli anni immediatamente a venire, di Heidegger arrecano a quel soggiorno il manto di un evento d’importanza capitale per l’evoluzione intellettuale del non più giovanissimo filosofo (CDG, 403-408). Proprio dell’età – Sartre arriva a Berlino ventottenne – occorre tener conto per una stima effettiva dell’impatto che una tradizione filosofica esercita su un pensiero in larga parte già formato, stando almeno alle sue convinzioni metafisiche di fondo. Nel caso sartriano, tali convinzioni attingono a certezze arcaiche consolidatesi nel corso della giovinezza e che non cessano per questo di dirigerne il pensiero almeno per tutta la prima fase della sua produzione (L’être et le néant compreso) 2. I temi cardinali della contingenza, della libertà, della scelta, le posizioni apertamente contrarie a ogni forma di idealismo-spiritualista e di becero materialismo, l’insoddisfazione manifesta nei confronti del rappresentazionalismo psichico e della coeva accademia francese, l’esigenza bramosa di un pensiero votato alla concretezza dell’esistente, sono tutti caratteri maturati prima del soggiorno berlinese e in grado di orientare la successiva riflessione metafisica ed estetica di Sartre attorno a due grandi ambizioni: la volontà di fornire un fondamento filosofico al realismo, la necessità esistenziale di garantire un’assoluta autonomia di condotta alla persona umana nel mondo 3. In tal senso, è opportuno qualificare sin da subito in senso strumentale la lettura sartriana, e dunque l’impiego successivo al periodo berlinese, delle fenomenologie di Husserl e Heidegger. Sartre non può ritenersi in alcun modo un semplice discepolo di quest’ultimi, bensì fin da subito pensatore originale in grado di selezionare preventivamente quanto dei due autori risultasse funzionale – anziché no – ai propri scopi, quanto risultasse congeniale 2 Cfr. A. FLAJOLIET, La première philosophie de Sartre, Honoré Champion, Paris 2008, p. 859. Anche V. DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie. Autour de “L’intentionnalité” et de “La transcendance de l’Ego”, Ousia, Bruxelles 2000, p. 17, sembra concordare sul fatto che i primi scritti fenomenologici di Sartre sottendano un debito consacrato nei confronti di valori o certezze acquisiti in precedenza. 3 Cfr. DE COOREBYTER, Introduction, in SARTRE, La transcendance de l’Ego et autres textes phénoménologiques, cit., pp. 7-76 (v. p. 19). Alla riflessione sartriana anteriore alla scoperta della fenomenologia è dedicato l’ulteriore studio di ID., Sartre avant la phénomenologie. Autour de «La nausée» et de la «Légende de la vérité», Ousia, Bruxelles 2005. 10 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA – anziché no – alle proprie convinzioni. Questo aspetto è tanto più marcato per la fenomenologia husserliana – assunta, come vedremo, secondo un’ottica ben precisa: quella scaturente da un’opzione teorica in certo senso positivista e per così dire assuefatta a un estremismo dogmatico delle cose stesse – meno per quanto riguarda Heidegger, del quale si può attestare – stante un travisamento antropologico preliminare – un’influenza sì ambivalente ma indubbiamente meno parziale a partire almeno dal ’394. Mostrare viceversa in che termini la proposta husserliana sia stata accolta in forma preconcetta e dunque mutilata sarà un aspetto non secondario del presente contributo. Ponendosi quale scopo precipuo quello di valutare l’approdo idiosincratico della concezione dell’umano ne L’essere e il nulla – in breve: la sua inumana umanità – e facendo leva sul retroterra teoretico assunto da Sartre nella descrizione dell’infrastruttura temporale e delle strutture immediate del per-sé nella seconda parte dell’opera, un chiarimento in merito alla decodifica sartriana della trattazione fenomenologica della coscienza avanzata da Husserl appare un esercizio teorico preliminare tutt’altro che inessenziale. Si cercherà anzi di mostrare come una lettura dogmatico-positivista dell’intenzionalità husserliana abbia avuto non poche ripercussioni sull’unità non meno che sulla genuinità d’intenti del progetto filosofico sartriano degli anni ’30, confluito poi nel suo Essai d’ontologie phénoménologique. Se i primi anni di guerra coincidono per Sartre con un periodo di profonda crisi esistenziale – l’esperienza al fronte, seppur defilata, fa sì che si sfaldi quel paradigma dell’uomo solo, dell’individuo destoricizzato e misantropo, come via d’accesso privilegiata alla verità della contingenza e al riscatto artistico5 – non stupisce che un analogo scompenso rifletta lo stato a dire il vero piuttosto confusionario dei suoi progressi in ambito filosofico. Un trascendentalismo residuale, stante l’intercorsa critica alla fenomenologia husserliana, non sembra infatti coagulare con l’assunzione di ritorno di credenze metafisiche giovanili, con il progetto abbozzato di una “metafisica della realtà-umana” scaturente da 4 L’antropologizzazione dell’ontologia heideggeriana è condotta da Sartre in sintonia con le scelte terminologiche operate da Henry Corbin nella prima traduzione antologica in francese del filosofo di Meßkirch: Qu’est-ce que la métaphysique? Suivi d’extraits sur l’être et le temps et d’une conférence sur Hölderlin, Gallimard, Paris 1938. La tendenza antropologizzante di Corbin è manifesta, per non limitarsi che ad alcuni casi emblematici, nella scelta di rendere Dasein con réalité-humaine e Seiende con existant. Dal punto di vista della definizione sartriana della nozione di ‘situazione’ è invece degna di nota la resa di Befindlichkeit con situation-affective. Per la ricezione sartriana di Heidegger v. FLAJOLIET, La première philosophie de Sartre, cit., pp. 881-901 e DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie, cit., pp. 70-80. 5 Al riguardo v. DE COOREBYTER, Sartre avant la phénomenologie, cit., pp. 252-294. 11 FILIPPO NOBILI una lettura antropologizzante dell’analitica esistenziale heideggeriana e infiltrata da parte di considerazioni di ordine etico-moraleggiante6. Nell’Essai del 1943, l’escamotage con cui Sartre tenterà di dominare il plesso di queste spinte centrifughe, così da riacquisire quel minimo di purezza e coesione che si confà a un registro argomentativo di carattere onto-fenomenologico, sarà infatti una sorta di contenimento detentivo degli aperçus métaphysiques che la sottendono, non meno che delle perspectives morales cui sembra non poter fare a meno di alludere. Tuttavia, entrambi i fattori, pur essendo relegati alla Conclusione dell’opera, non risultano con ciò disinnescati, fungendo anzi da veri e propri “attrattori metafisici fuori campo” per il contesto analitico in cui l’ontologia fenomenologica sartriana si espleta; seppur confinati tematicamente, sul piano operativo essi continuano cioè a condizionare e orientare i capitoli precedenti del saggio, al modo di altrettante via di fuga cui le singole analisi non cessano di demandare nel tentativo di un loro chiarimento ultimativo7. L’essere e il nulla si presenta allora come un Essai – appunto – non del tutto capace di orchestrare sinergicamente influenze filosofiche decisive e retaggi di convinzioni del passato. Proprio alla luce di questo sottofondo aporetico sembra doversi apprezzare la concezione dell’umano descritta nell’opera: essa finisce per coincidere col portato di un coacervo di tensioni speculative irrisolte che ne inficiano la restituzione sul piano onto-fenomenologico. Intendiamoci: un certo grado di paradossalità risulta insito nel modo volutamente scandaloso con cui Sartre ha sempre inteso l’esistenza. Non è pertanto questo l’aspetto che preoccupa, piuttosto il fatto che l’assunzione preconcetta di un paradigma d’indagine fenomenologico parziale – verrebbe da dire depotenziato – non sembra consentire un’esplorazione ontologica – ma sarebbe meglio dire ontico-mondana – dell’essere umano confacente a quegli stessi requisiti assunti ab ovo dal giovane Sartre come elementi essenziali connaturati all’esistenza dell’uomo. Non si è mancato di argomentare come l’intera parabola filosofica di Sartre – comprensiva quindi degli sviluppi dialettici e psicologico-esistenziali del dopoguerra – possa considerarsi un tentativo di riparazione progressiva a 6 Di questo clima di disordine filosofico-esistenziale i Carnets rappresentano la cifra emblematica, cfr. FLAJOLIET, La première philosophie de Sartre, cit., pp. 903-914. 7 Cfr. ivi, pp. 9-87. Fra gli attrattori metafisici fuori campo Flajoliet rileva ad esempio: 1) l’ipotesi dell’origine del per-sé attraverso l’aborto del progetto di auto-fondazione dell’insé; 2) l’ipotesi di una ripresa da parte del per-sé dell’iniziale progetto abortito sotto forma della nuova ambizione del per-sé di essere in-sé-per-sé; 3) la presupposizione della libertà assoluta del per-sé; 4) la presupposizione dell’esistenza bruta assolutamente contingente dell’in-sé, ecc. (p. 17). 12 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA quella sorta di peccato originale consistente nell’adesione viziata e strumentale al canone fenomenologico8. Per nostro conto, ci accontenteremo di illustrare il modo in cui la parzialità di quest’adesione condizioni la ricognizione sartriana sul soggetto umano fino all’Essai del ’43. Negli anni successivi al conflitto mondiale, il recupero critico dell’hegelo-marxismo ha rappresentato per Sartre l’unica scappatoia possibile – extrafenomenologica – dall’impasse in cui si era costretto. 2. Berlino (’33-’34): la via sartriana alla fenomenologia Non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sartre abbia seguito Husserl soltanto fino a un certo punto lungo il cammino di attuazione della riduzione fenomenologica. Mentre il primo pare essersi arrestato, con il ricorso all’ἐποχή, al momento della neutralizzazione ontologica del contesto d’analisi esperienziale, alla sua purificazione (Reinigung) e fenomenizzazione (Phänomenierung), il secondo ha completato il percorso sino al momento della ri(con)duzione dei fenomeni alle loro matrici d’esperienza trascendentale. Questo cammino interrotto ha consentito a Sartre di condurre analisi di tenore certamente eidetico ma in nessun modo di tipo trascendental-costitutivo9. Si è posto anzi in luce come la riduzione fenomenologica rappresenti per Sartre una modalità d’esercizio atta a dissolvere più che a decriptare gli artifici di natura sintetica, così da trovarsi innanzi la positività nuda dei fenomeni 10. Al contrario di altre figure della tradizione fenomenologica francese e in virtù di un’accorata urgenza di ricongiungersi al reale, Sartre si è sempre dimostrato incurante nei confronti delle condizioni non fenomeniche della fenomenicità11. In funzione apertamente antikantiana, ne La trascendenza dell’ego, Sartre ricorre all’ἐποχή per circoscrivere il campo della coscienza depurato da ogni precomprensione conoscitiva di ascendenza logica che non 8 Cfr. J. ENGLISH, De la conscience à la psyché: une phénoménologie éclatée, in «Cités» (numero monografico: Sartre à l’épreuve. L’engagement au risque de l’histoire), n. 22, 2005, pp. 15-40. 9 Per come quest’aspetto di ordine generale emerga ad esempio nella trattazione del per-altri, v. C. MAJOLINO, Le dire et l’affect. Jean-Paul Sartre et l’esquisse d’une phénoménologie affective du langage dans L’être et le néant, in «Alter», n. 10, 2002, pp. 187 s., n. 30. 10 Cfr. C. FICORILLI, A. PORCELLA (a cura di), Sartre face à la phénoménologie. Intervista a Vincent de Coorebyter, <http://www.giornaledifilosofia.net/public/scheda.php?id=22#italiano> (ultimo accesso: 10.10.2019). 11 Cfr. DE COOREBYTER, Introduction, cit., p. 22. Sulla ripresa sartriana della riduzione fenomenologica v. anche P. Cabestan, L’être et la conscience. Recherches sur la psychologie et l’ontophénoménologie sartriennes, Ousia, Bruxelles 2004, pp. 292-335. 13 FILIPPO NOBILI si attesti come un «fatto assoluto» (TE, 29 s.). La fenomenologia sartriana cerca pertanto di mantenersi sul terreno proprio di uno studio di fatto – cosa che secondo Sartre coinciderebbe con uno studio d’essenze – e mai di diritto, riducendo così la pratica fenomenologica a una descrizione acritica della coscienza trascendentale (TE, 27 s., 29 e n.). Ma cosa descrive esattamente la fenomenologia sartriana? È qui che l’adesione al contempo strumentale e mutilata al canone husserliano inizia a far vedere i suoi primi effetti sul piano teorico. Vediamo di procedere per gradi. La strumentalità dell’adesione di Sartre – come si evince dall’altro scritto redatto durante il soggiorno berlinese 12 – consiste nell’assunzione della nozione di intenzionalità in funzione anti-spiritualista e anti-rappresentazionalista. Ciò permette a Sartre di liquidare d’emblée il milieu accademico francese che ne aveva improntato la formazione giovanile, mediante l’avvio di quella «critica della ragione psicologica» 13 che lo avrebbe accompagnato almeno sino al progetto incompiuto de La psyché, abbandonato nel ’38. L’intenzionalità – qui intesa come modalità propria di una coscienza d’essere fuori di sé e la cui cifra esistenziale è pertanto quella di «esplodere nel mondo» in una sorta d’incessante autosuperamento (INT, 141 s.) – è al contempo grimaldello e ghigliottina di cui Sartre si serve per scardinare l’interiorità psichica e decapitare ogni forma residua d’immanenza. La coscienza risulta così purificata sino all’ineffabile limpidezza di «un grande vento», resa «un movimento per sfuggirsi, uno scorrere fuori di sé» (INT, 140 s.). L’eventualità impossibile di penetrare la coscienza sarebbe infatti l’esperienza in cui ci troveremmo «presi da un turbine e gettati fuori», proprio perché «la coscienza non ha un “di dentro”» (INT, 141). Si capisce allora come la svolta fenomenologica sartriana risulti motivata da una sorta di “ambizione decostruttiva”, essenzialmente tesa a correggere qualunque concezione della psiche collusa con non importa che tipo di immanenza 14. L’intenzionalità è per Sartre la nozione 12 La data di redazione della nota su L’intenzionalità, al contrario di quella de La trascendenza dell’Ego (attestata durante il soggiorno berlinese), è incerta ma si tende comunque a farla risalire al medesimo periodo, cfr. DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie, cit., pp. 27 ss. e FLAJOLIET, La première philosophie de Sartre, cit., pp. 535-539. 13 DE COOREBYTER, Introduction, cit., p. 63. 14 Cfr. ivi, p. 75. Se nel 1936 Sartre farà propria in chiave anti-rappresentazionalista la critica husserliana alla teoria delle immagini mentali (Ione, 131-146), a partire dal 1940 l’accusa d’illusione d’immanenza riguarderà lo stesso Husserl reo di aver preservato, con la teoria del riempimento prima (Irio, 91) e con la concezione della hyle poi (EN, 25-27), un residuo inintelligibile d’interiorità coscienziale. Questo è solo un esempio del tentativo sartriano di superare – radicalizzandola – la prospettiva husserliana, reindirizzando cioè contro Husserl 14 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA in grado di svuotare radicalmente la coscienza, ricentrando così l’analisi sulla trascendenza della cosa, intuita nella sua più concreta immediatezza. Prima di esplicitarne le conseguenze sul piano del soggetto umano, cerchiamo di precisare perché l’operazione sartriana consista in un’assunzione mutilata del canone fenomenologico. Nella sua bramosa ricerca del concreto, Sartre di fatto vanifica il pluridecennale sforzo husserliano di decodificare un multiforme sistema di correlazioni intenzionali capace di rendere giustizia della varietà di esperienze possibili. Lo vanifica perché l’intenzionalità non viene intesa al modo di un rapporto interattivo di mediazione tra un soggetto e un oggetto d’esperienza – come coscienza di qualcosa – bensì, in un senso per certi versi già heideggeriano (INT, 141), come un non rapporto, un esser già presso la cosa nel mondo in quanto coscienza (di) qualcosa – volendo con ciò esprimersi provocatoriamente, secondo la nota grafia che l’Essai riserverà invece al cogito pre-riflessivo (EN, 20). Non avendo ancora presente la distinzione posta in opere successive tra coscienza e conoscenza (CSCS), Sartre spiega che «conoscere è “esplodere verso”» (INT, 140). L’aspra critica mossa nei confronti delle nozioni di hyle, noesi e noema conduce allora a una completa disintermediazione di ciò che il padre della fenomenologia novecentesca aveva teorizzato nei termini di un vero e proprio a priori della correlazione intenzionale 15. Nella necessità di esplicitare un simile a priori Husserl rinveniva la possibilità di rendere intelligibile il tipo d’esperienza di volta in volta in questione. Dal canto suo, invece, questa prima versione sartriana dell’intenzionalità sembra pregiudicare ogni possibile descrizione dell’esperienza se non in termini di un’adesione della coscienza al fenomeno, di un suo appiattimento sulla positività le istanze critiche derivate dalla sua fenomenologia (al riguardo v. il cap. Husserl critique de Husserl, in DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie, cit., pp. 50-83). 15 Nell’Essai, la critica Sartriana all’irrealtà della nozione di noema varrà a Husserl l’accusa di fenomenismo berkeleyano (EN, 16, 26, 28, 113). Tale critica presuppone che il noema non sia, husserlianamente inteso, l’unità di senso dell’oggetto nel ‘come’ delle sue determinazioni possibili (Idee I, § 131), bensì che esso tenda a coincidere, sartrianamente, con la totalità sintetica dei diversi adombramenti di un determinato oggetto. Ciò è già evidente ne La trascendenza dell’Ego, dove, come si vedrà, Sartre ricorre all’irrealtà del noema per spiegare la posizione dell’io attraverso una molteplicità di vissuti (questa tesi tornerà anche nel ’47 in CSCS, 137). È forse il caso di segnalare però come nel 1936 egli avesse tutt’altra opinione in merito, distinguendo nettamente la posizione di Husserl da quella di Berkeley (Ione, 135, 142). Sebbene poi Sartre non avanzi una vera e propria critica alla nozione di noesi, essa risulta implicita nel rifiuto della nozione di hyle (v. n. precedente) e nella tesi discutibile attribuita a Husserl per cui vi sarebbe un «parto iletico della noesi» (EN, 26). Del resto, in generale, l’operazione di svuotamento dell’immanenza coscienziale rende arduo comprendere in cosa effettivamente possa consistere un apporto noetico alla costituzione intenzionale. 15 FILIPPO NOBILI della cosa. Ribaltando la prospettiva di Husserl in Idee I, la posizione di Sartre non si presenta immediatamente come un realismo bensì come una sorta di contro-idealismo per cui la coscienza diviene l’Unselbständigkeit rispetto a un mondo che invece assume i tratti di un centro di dipendenza ontologica 16. Eppure, anche solo parlare di un’inversione del rapporto di dipendenza costitutiva tra io e mondo sembra affermare troppo per la proposta sartriana. È la nozione stessa di costituzione che viene meno allorché l’intenzionalità sia svuotata di ogni istanza costituente ed esplicativa. Il contro-idealismo sartriano è metastabile e tende a sfociare in una sorta di positivismo delle cose stesse, non più al riparo da un certo realismo tautologico del senso comune. La coscienza sbalzata fuori di sé, esiliata nel mondo, riscopre nelle cose le qualità che si è soliti attribuire loro: la bellezza di una cosa bella, l’amore per una donna amabile, ecc. (INT, 142). Proviamo adesso a sondare in che misura questa adesione strumentale e mutilata alla fenomenologia – indubbiamente originale ma ai limiti della praticabilità teoretica – si ripercuota sulla concezione del soggetto sviluppata ne La trascendenza dell’Ego. Il radicalismo con cui Sartre interpreta l’intenzionalità gli consente di porre in luce – e questo vale senz’altro una menzione di merito – due nozioni fondamentali come quelle di autocoscienza pre-riflessiva e di campo trascendentale impersonale (TE, 30). A dire il vero – come Sartre non mancherà di riconoscere17 – ambedue i concetti risultano presenti almeno in nuce nelle Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins di Husserl (Max Niemeyer, Halle 1928), ma solo la lettura radicale di questo testo offerta da Sartre sembra esplicitare la portata euristica delle due nozioni, introducendole a pieno titolo nel dibattito filosofico del Novecento. Scopo precipuo del saggio è quello di emendare il campo trascendentale della coscienza da ogni postulato concernente un principio egologico di unificazione e individuazione sintetica. In misura sinergica a questa operazione, l’Ego 16 Cfr. DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie, cit., p. 67; MAJOLINO, art. cit., pp. 191 s. Sebbene la prospettiva di Sartre sia nel frattempo (parzialmente) evoluta, si veda purtuttavia il passo di EN, 266: «per un rovesciamento radicale della posizione idealista, la conoscenza si riassorbe nell’essere: non è né un attributo, né una funzione, né un accidente dell’essere; non c’è che dell’essere». 17 Solo nella conferenza del ’47 (CSCS, 150), Sartre ammetterà expressis verbi che Husserl è stato il primo a fare uso di una coscienza non tetica di sé con la nozione di coscienza interna del tempo. Su questa influenza decisiva v. DE COOREBYTER, Qu’est-ce qu’un brouillon philosophique? Le temps et le préréflexif dans les notes de Sartre en marge de Husserl, in «Genesis», vol. 22, 2003, pp. 107-124. Tuttavia, al contrario di quanto Sartre non farà mai – limitandosi ad accreditare la coscienza di questa proprietà ineludibile – nelle Zeitvorlesungen e nei successivi manoscritti di ricerca, Husserl dà prova di un notevole sforzo analitico vòlto a decriptare la struttura sintetica sottesa a questa peculiare forma di autocoscienza. 16 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA inteso come unità indissolubile di azioni attive dell’Io ( Je) e di stati e qualità passive del Me (Moi) – distinzione puramente funzionale, grammaticale (TE, 52) – viene ricollocato sul piano umano che gli compete, quello mondano della trascendenza psichica («l’Io non appare che al livello dell’umano […]», TE, 30). In tal modo l’ego non struttura il campo trascendentale ma anzi ne risulta strutturato: «l’io penso [...] compare su un fondo di unità che non ha contribuito a creare ed è questa unità preliminare che anzi lo rende possibile» (TE, 30 s.). Il campo trascendentale non abbisogna dunque di un principio egologico di unificazione poiché la coscienza – come del resto ha mostrato Husserl stesso nelle Zeitvorlesungen prima di reintrodurre la nozione di ego trascendentale in Idee I – si unifica da sé in virtù della sua capacità di ritenere le proprie fasi di decorso (TE, 33) 18. Ricorrere a un principio egologico di unificazione non sarebbe però soltanto inutile ma anche dannoso perché equivarrebbe a situare all’interno del campo un polo di opacità inconciliabile con la traslucidità coscienziale (TE, 34). In tal modo, Sartre perviene a riformulare radicalmente il cogito tradizionalmente inteso: l’errore di Descartes (ma in fondo anche di Kant e Husserl) sarebbe stato quello di porre io e pensiero sullo stesso livello, affermando più di quanto fosse possibile evincere dal piano irriflesso della coscienza: semplicemente che vi sia coscienza e non che io ne sia cosciente (TE, 43, 46). Prima di affrontare la questione della seconda parte del saggio relativa all’origine dell’ego psichico, introduciamo alcuni rilievi critici in merito al campo trascendentale pre-personale. Avendo Sartre rinunciato a conferire alla coscienza la benché minima attività costitutiva nei confronti del mondo, è evidente che se di costituzione si può parlare è solo alla stregua di una auto-costituzione del campo; l’argomentazione del saggio procede del resto lungo questa linea argomentativa. Tuttavia, avendo Sartre svuotato la coscienza di ogni istanza costitutiva immanente, è forse il caso di chiedersi come la coscienza costituisca se stessa e sulla base di che cosa. La soluzione husserliana delle Zeitvorlesungen e richiamata dallo stesso Sartre, aveva il merito di intrecciare il destino dell’autocostituzione del flusso a quello della costituzione temporale dell’oggetto: il flusso sintetizzava se stesso unificando le varie fasi di costituzione dell’esperito (es. le varie note di una melodia). Ma quella husserliana non può essere una soluzione 18 Qui Sartre sbaglia nell’attribuire all’intenzionalità trasversale (Quer-Intentionalität) la sintesi di unità del flusso coscienziale. Secondo il § 39 delle Zeitvorlesungen, è piuttosto l’intenzionalità longitudinale (Längs-Intentionalität) a svolgere una simile funzione, mentre quella trasversale avrebbe il merito di unificare le fasi relative all’oggetto percepito. 17 FILIPPO NOBILI spendibile per Sartre dal momento che la sua pregiudiziale positivista non gli permette di concepire costituzione alcuna della cosa. L’unica via d’uscita sembra essere allora quella effettivamente intrapresa da Sartre: giacché «niente al di là della coscienza può essere origine della coscienza» (TE, 44), «ogni istante della nostra vita cosciente ci rivela quindi una creazione ex nihilo. Non una combinazione [arrangement] nuova, ma un’esistenza nuova […] di cui noi non siamo i creatori» (TE, 90). A ben vedere, la proposta di Sartre non è altro che la versione secolarizzata della teoria cartesiana della creazione continua di Dio, trapiantata nel cuore della coscienza irriflessa quale autentico assoluto non sostanziale per cui essere e apparire coincidono, facendo in modo che l’essenza ne implichi di fatto l’esistenza (TE, 35, 75; EN, 29). Adottando questa soluzione dall’innegabile sentore metafisico, Sartre si condanna ad alcune incongruenze delle quali tarderà ad accorgersi. La più immediata è che l’autocostituzione del campo coscienziale rivela una natura irrimediabilmente istantanea (TE, 55, 57 ss., 89 s.). La seconda è che, trattandosi di una spontaneità che per giunta non dipende dall’io, la coscienza manifesta una natura tutt’altro che libera: essa «si spaventa della propria spontaneità perché la sente al di là della libertà» (TE, 91). Se la prima conseguenza sembra pregiudicare la descrizione della coscienza in termini di campo, trattandosi a ben vedere di una sequenza inestesa di attimi ogni volta ricreati e pertanto incapaci di dare luogo a una combinazione, alla sintesi di un’unità di vita coscienziale; con la seconda, «la fatalità della sua spontaneità» (TE, 92) sembra compromettere ogni scelta possibile o comunque demandarla al piano non più irriflesso ma riflessivo della volontà dell’io (in tal modo la libertà non sarebbe originaria ma un che di derivato). Proprio sull’ego conviene dunque spendere ora alcune parole. La tesi di Sartre è che l’io inteso quale polo egologico sia una sorta di illusione prospettica, il portato sintetico – noematico ma non noetico! (TE, 79) – della riflessione impura o complice, la quale, compiendo un “passaggio all’infinito” in relazione alla molteplicità degli stati di coscienza su cui riflette, lo pone teticamente al di là dei vissuti quale loro centro unitario d’irradiazione (TE, 52 s., 57) – in maniera analoga a come, sul piano irriflesso, il mondo è posto quale totalità sintetica infinita di tutte le cose (TE, 66 s.). In questo modo, la riflessione impura inverte – capovolgendone la sequenza temporale – il processo di produzione reale dell’io a partire dagli stati di coscienza, attribuendo erroneamente all’ego una priorità rispetto ai propri vissuti (TE, 69, 72 s.): esso ne sarebbe origine tramite una sorta di attività poietica, la quale non può che risultare “magica” perché inconcepibile al di fuori di questa illusione prospettica (TE, 70, 73). 18 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA Alla riflessione pura Sartre riserva quindi il compito di smascherare quest’illusione, ristabilendo come la supposta creatività dell’ego sia in realtà un che di degradato e ipostatizzato, frutto della proiezione della spontaneità originaria del campo coscienziale sull’io operata dalla riflessione impura (TE, 73). La riflessione pura denuncia così la complicità ipostatizzante di quest’ultima, riportando l’attenzione sulla creatività istantanea della coscienza irriflessa (TE, 57). Essa ripristina quindi l’ordine reale del movimento autocostitutivo; inoltre, astenendosi dal compiere il passaggio all’infinito si limita a cogliere l’ego con la coda dell’occhio, attraverso i vissuti, quale idealità non sostanziale e assimilabile alle verità matematiche (TE, 80, 42 s.) – non polo ipostatico d’irraggiamento, bensì orizzonte insostanziale: al di là prospettico cui rimanda la molteplicità dei vissuti quale comune punto di fuga 19. La tesi sartriana circa la costituzione riflessiva dell’ego – nonché l’idea che esso svolga una funzione eminentemente pratica, tesa cioè a mascherare alla coscienza la propria vertiginosa spontaneità (TE, 92 s.) – è senza dubbio suggestiva e meriterebbe di essere approfondita 20. Quello che qui interessa è però rilevare come questa tesi non possa essere tratta alla luce del modo in cui Sartre ha concepito il campo trascendentale. Avendo attribuito alla coscienza, per i motivi sopraesposti e scaturenti da un’assunzione strumentale della fenomenologia di Husserl, una natura irrimediabilmente istantanea, Sartre si preclude l’opportunità di fondare in essa la stessa possibilità di riflettere. Come già spiegava Husserl nella Beilage IX delle Zeitvorlesungen, la riflessione non può che basarsi sulla capacità del campo coscienziale di ritenere i propri vissuti in un’unità temporalmente estesa, al fine di tematizzarli espressamente, appunto, per via riflessiva. La concezione sartriana del campo trascendentale come mera successione di attimi ricreati ex nihilo preclude dunque ogni possibilità di riflettere sui propri vissuti, vanificando al contempo ogni pretesa di situare sul piano riflessivo la genesi dell’io e l’esercizio di una libera scelta 21. 19 Curiosamente, nel § 25 del secondo libro delle Idee (rimasto inedito sino al 1952), Husserl fornisce una duplice caratterizzazione dell’io in termini di centro d’irradiazione (Ausstrahlungszentrum) e centro di convergenza (Einstrahlungszentrum) dei vissuti, nozioni che sembrano attagliarsi al modo in cui, rispettivamente, la riflessione impura e quella pura consentono di concepire l’io secondo Sartre. 20 Per una discussione di dettaglio delle varie tesi e antinomie presenti ne La trascendenza dell’Ego cfr. la seconda sezione di DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie, cit. e la terza parte di FLAJOLIET, La première philosophie de Sartre, cit. 21 Com’è noto Sartre rivedrà la propria posizione in merito all’istantaneità coscienziale approdando nell’Essai a una trattazione della riflessione del tutto integrata all’analisi della 19 FILIPPO NOBILI 3. Guerra (’39-’43): intenzionalità, nullificazione, dispersione La teoria della néantisation rappresenta senz’altro la più importante acquisizione teorica maturata da Sartre durante i primi anni del secondo conflitto mondiale. Essa è formulata per la prima volta in termini generali durante il periodo della drôle de guerre, nel febbraio del 1940 (CDG, 395-402), qualche mese prima che Sartre finisse prigioniero dell’avanzata tedesca. Vi si ricorre nello stesso anno nel tentativo di spiegare il carattere irrealizzante della spontaneità immaginativa (I rio, 267-281). La rilevanza assunta dalla nozione di néant nel pensiero sartriano dei primi anni ’40 deve senz’altro molto all’influenza esercitata dal rinnovato studio di Heidegger effettuato nel ’39. Eppure, ci pare che una simile influenza non avrebbe potuto assumere la portata che di fatto ha assunto nell’Essai del ’43 senza un qualche tipo di predisposizione maturata nelle opere precedenti, nell’incontro-scontro con la fenomenologia husserliana 22. Ambedue gli scritti redatti durante il soggiorno a Berlino accennano alla tematica del nulla per motivi tutt’altro che accidentali. Nella nota su L’intenzionalità, Sartre spiega che esistere come un essere che esplode nel mondo equivale a «partire da un nulla [néant] di mondo e di coscienza» e che quest’ultima, nel tentativo di coincidere con se stessa, di fatto «si sopprime [s’anéantit]» (INT, 141). Alla fine de La trascendenza dell’Ego, in modo concettualmente analogo, troviamo scritto: Il Campo trascendentale, purificato da ogni struttura egologica, ritrova la sua originaria trasparenza. Da un certo punto di vista è un nulla [rien] poiché tutti gli oggetti fisici, psico-fisici e psichici, tutte temporalità del per-sé. Il primo tentativo sartriano di togliersi con un certo successo dall’imbarazzo di essere il «solo istantaneista, in mezzo a delle filosofie contemporanee che sono tutte filosofie del tempo» risale al febbraio ’40 (CDG, 436-444, trad. mia), a seguito di una critica mossagli da A. Koyré in un colloquio del giugno precedente. Contestualmente, Sartre asserisce che già nel progetto abbandonato e perduto de La psyché aveva tentato di «derivare dialetticamente il tempo dalla libertà» ma che il progetto era ancora immaturo. Come dimostrano le pagine dei Carnets non è infatti dalla nozione di libertà che risulta possibile pensare la temporalità della coscienza, bensì da quella di nullificazione. 22 Cfr. S. GUSMAN, To the Nothingnesses Themselves: Husserl’s Influence on Sartre’s Notion of Nothingness, in «Journal of the British Society for Phenomenology», vol. 49, n. 1, 2018, pp. 55-70, dove si mostra come Sartre sviluppi la nozione di negatività a partire da una discussione della critica husserliana alla teoria degli oggetti immanenti e della sua soluzione al problema degli oggetti inesistenti. Anche in questo caso Sartre radicalizzerebbe la posizione di Husserl – reiterando nei suoi confronti quanto egli avesse imputato ai suoi interlocutori – pervenendo così a una caratterizzazione di tipo realista-trascendente del nulla. 20 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA le verità, tutti i valori sono fuori di lui, dal momento che il mio Me ha smesso, lui pure, di farne parte. Questo nulla è però tutto [tout] perché è coscienza di tutti questi oggetti (TE, 85). Questo passo è emblematico poiché presenta il ‘nulla’ come diretta conseguenza dell’operazione di svuotamento della sfera coscienziale o, per meglio dire, di quanto abbiamo visto essere la completa disintermediazione dell’intenzionalità husserliana. Secondo l’interpretazione che andremo ora sostanziando, infatti, lo sviluppo della tematica del nulla e la messa a punto dell’idea di nullificazione rappresentano l’unica opzione teorica rimasta a Sartre – alla luce della sua strumentale assunzione del canone fenomenologico – per recuperare quel tanto di mediazione necessaria a un soggetto che pretenda esercitare un’esperienza del mondo. Come vedremo, tuttavia, quest’opzione da sola non riuscirà a supportare l’impianto esistenziale dell’Essai del ’43, manifestando anzi una deficienza congenita che solo la sua rifunzionalizzazione in chiave hegelo-marxiana degli anni successivi alla guerra consentirà in qualche modo di superare 23. Muoviamo adesso la nostra disamina in direzione dell’Essai, appurando come Sartre pervenga a corroborare quanto da noi sostenuto nella 23 È forse il caso di puntualizzare come all’epoca dell’Essai Sartre avesse una conoscenza frammentaria e indiretta di Hegel, essenzialmente mediata da Kierkegaard e basata sulla lettura di alcuni Morceaux choisis, curati da H. Lefebvre e N. Guterman per Gallimard nel 1939. Sartre aveva verosimilmente perduto la copia della Fenomenologia dello spirito inviatagli da Simone de Beauvoir nel 1941 durante il periodo di prigionia. Sarà solo nell’immediato dopoguerra che egli studierà con profitto Hegel, coadiuvato dalla lettura dei commentari di Hyppolite (Genèse et structure de la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, Aubier, Paris 1946) e Kojève (Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, Paris 1947), cfr. DE COOREBYTER, Quand et comment Sartre a-t-il découvert Hegel?, in «Bulletin d’information du Groupe d’études sartriennes», n. 11, 1997, pp. 84-85. È dunque in un certo senso fuorviante parlare di una dialettica, hegelianamente intesa, operativa nell’Essai, il quale ci consegna peraltro una nota emblematica in cui Sartre prende le distanze dalla scissione hegeliana come capace di condurre a un’integrazione di più alto livello (EN, 715 n. 30). Se di dialettica si può parlare, a questo stadio di sviluppo del pensiero sartriano, non è al modo di un movimento di superamento/conservazione, bensì, come vedremo, di un andamento reiterato di superamento/dispersione di ascendenza heideggeriana (I rio, 279; CSCS, 164). Un’influenza positiva di Hegel – che non si limiti cioè alla ripresa di nozioni come quelle di per-sé e in-sé – nonché l’esigenza di un supplemento dialettico-conservativo si faranno invece preponderanti negli scritti del dopoguerra. La portata di questa influenza può essere apprezzata paragonando gli sparuti accenni a Hegel presenti nei Carnets rispetto al numero cospicuo presente nei Cahiers, redatti tra il ’47 e il ’48. In maniera proporzionalmente inversa diminuiscono drasticamente i riferimenti a Heidegger e Husserl, i quali ora vengono etichettati addirittura come «petits philosophes», figli della regressione in cui sarebbe incorsa la filosofia post-hegeliana (CPM, 67). 21 FILIPPO NOBILI precedente sezione. L’applicazione parziale della riduzione fenomenologica – votata alla dissoluzione più che all’esplicitazione dei nessi sinteticointenzionali – riconsegna un in-sé assolutamente disintermediato: «l’essere in sé non ha segreti: è massivo. In un certo senso, lo si può chiamare una sintesi. Ma è la sintesi più indissolubile che vi sia: la sintesi di sé con sé. Ne deriva che l’essere è isolato nel suo essere e non ha alcun rapporto con ciò che non è lui» (EN, 33). La massività dell’in-sé «è piena positività» (ibid.), l’equivalente sintetico del principio d’identità e tuttavia, proprio in quest’ottica, la sintesi non rappresenta affatto l’ad quem dell’analisi quanto più quell’a quo che la scredita a presupposto inindagato e di fatto inindagabile. In tal modo, nell’Introduzione all’Essai, la fenomenicità dell’in-sé è assunta da Sartre come una sfera d’essere radicalmente diversa e a ben vedere incomunicabile rispetto alla sfera opposta di una coscienza assunta – nota bene – quale cogito preriflessivo, ovverosia come mera autocoscienza (EN, 30). Ciò significa che pure il per-sé svolge il ruolo a sé stante di «un assoluto di esistenza», il quale, rifiutando ogni tentativo d’indagine genetica, «esiste da sé» (EN, 22); esso è dunque cosciente (di) sé ma è come se gli fosse impossibile essere coscienza di qualcos’altro. Volendo rifuggire il modello di relazione oppositiva soggetto-oggetto – di ascendenza conoscitiva e non coscienziale (EN, 18) – l’Introduzione all’Essai ci consegna uno scenario in cui due sfere d’essere autarchiche e irrelate presagiscono il paradosso di una fenomenologia sprovvista d’intenzionalità. Introdurre la negazione nella Parte Prima dell’Essai è precisamente ciò che consente a Sartre di sfatare questo presagio, recuperando l’unica forma di mediazione spendibile stante il dissolvimento di ogni altro vincolo costitutivo tra le due sfere d’essere. Il modo in cui Sartre concepisce il nulla è infatti sintomatico di un percorso filosofico che sembra condurlo alla teoria della néantisation come a una sorta di extrema ratio, l’ultimo tentativo di trarsi fuori dall’impasse scaturente da un’adesione strumentale alla fenomenologia – prima di oltrepassarne convintamente i confini nel dopoguerra. Vediamo di chiarire il punto in questione. Sin dalle prime formulazioni nel ’40, «ogni negazione presuppone un certo modo di unità sintetica di realtà che essa nega» (CDG, 397, trad. mia). L’unità sintetica dell’in-sé è il presupposto operativo della negazione. Quest’ultima semplicemente vi si applica al modo di una relazione originaria tra due esseri di cui uno risulta la negazione dell’altro (CDG, 398). In questo modo, Sartre recupera l’unica forma d’intenzionalità che l’assunzione positiva e inindagata dell’unità sintetica della cosa sembra consentirgli: un’intenzionalità non costituente bensì appunto negatrice di una supposta unità costituita: «non c’è altro annientamento [anéantissement] possibile di un esistente in 22 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA sé che attraverso l’apparizione di una coscienza di questo esistente» (CDG, 399, trad. mia). Ovvero, come si dirà in forma ancor più esplicita nell’Essai: «[il per-sé] è coscienza di... come negazione intima di... La struttura basilare dell’intenzionalità e dell’ipseità è la negazione, come rapporto interno del per-sé con la cosa» (EN, 164). L’intenzionalità è allora recuperata come negazione di un’unità preordinata. Questa unità altro non è che la totalità di uno «sfondo sintetico» «di universo indifferenziato», in grado di motivare un qualche tipo di negazione/ superamento possibile (Irio, 278, 270)24. E tuttavia, a ben vedere, questo recupero dell’intenzionalità avvicina Sartre più a Heidegger che a Husserl. Lo sfondo di unità è sì qualificato come sintetico ma in realtà è inteso al modo di un vero e proprio esistenziale in senso heideggeriano, ossia, dal punto di vista della fenomenologia husserliana, in maniera tale da escludere qualsiasi indagine in merito alla sua genesi o pre-costituzione trascendentale 25: il per-sé non può sorgere che in relazione con la totalità dell’in-sé che lo stringe. […] Ha bisogno dell’Essere per non essere. Il per-sé si annulla [se néantit] in rapporto alla totalità dell’in-sé. Questo legame originario del per-sé alla totalità dell’in-sé come a ciò che esso non è, ciò è quanto noi chiamiamo l’essere-nel-mondo. Essere-nelmondo, ciò è farsi assenza del mondo. L’unità della coscienza e del mondo preesiste alla coscienza e al mondo. Essere coscienza è farsi non-mondo in presenza del mondo […] (CDG, 399, trad. mia). L’orizzonte sintetico di ogni possibile negazione, di ogni intenzionalità possibile, è da Sartre semplicemente presupposto e dunque depennato dall’indagine onto-fenomenologica, eventualmente derubricato a questione metafisica. In questo brano, peraltro, Sartre non fa altro che trarre le conseguenze di quanto disposto nella nota su L’intenzionalità. La teoria della néantisation presuppone espressamente lo svuotamento della coscienza intenzionale, il suo essere esplosa in un mondo a cui finisce semplicemente per aderire: «la nullificazione [néantisation] implica un’aderenza immediata 24 La metafora dello sfondo, veicolata anche dagli studi sartriani in fatto di Gestaltpsychologie, diverrà dominante nell’Essai (EN, 27, 40-42, 44, 57 e passim; la traduzione italiana tende in alcuni casi a mascherare il francese fond rendendolo con “base”). 25 Sartre rifugge ogni indagine genetica perché vittima di un pregiudizio che aveva afflitto la prima produzione dello stesso Husserl, quello secondo cui un pensiero della genesi non può che rappresentare una disamina psicologica circa l’origine empirico-fisiologica degli stati mentali. Questo pregiudizio, congiuntamente alla mancata pubblicazione degli studi husserliani degli anni ’20 sulla genealogia della logica, ha di fatto sbarrato la strada a un approfondimento genetico della fenomenologica sartriana. 23 FILIPPO NOBILI e senza distanza del mondo al per-sé», giacché soltanto così «l’in-sé investe la coscienza per essere da essa superata nel Nulla» (ibid., trad. mia). La maniera d’intendere la nozione di superamento (dépassement), ripresa anch’essa da Heidegger (I rio, 279), è però ciò che distingue Sartre da quest’ultimo, riportando l’analisi su un terreno, per così dire, a trazione fenomenologica. L’in-sé si supera infatti verso il «nulla che la coscienza essa stessa è» e non verso «il nulla che trattiene il mondo» (CDG, 399, trad. mia) 26. Torniamo dunque a riflettere sulla coscienza al fine di valutare il modello di soggettività umana presentato da Sartre nei primi anni ’40. Non vi è dubbio che la teoria della néantisation costituisca un salto qualitativo rispetto alla posizione espressa ne La trascendenza dell’Ego. Ad esempio: ne L’immaginario, la nullificazione compiuta dall’immaginazione consente a Sartre di restituire un primo significato positivo alla libertà umana rispetto alla tesi metafisica di una spontaneità auto-creatrice ex nihilo. Il superamento irrealizzante di una posizione di realtà coincide con l’espressione trascendentale della libertà dal momento che la coscienza può ogniqualvolta riscattarsi dalla sua originaria pre-adesione al mondo, dall’immediatezza del suo essere in situazione (Irio, 275-279). Il problema è qui semmai quello di valutare a pieno le ricadute della tesi piuttosto ardita per cui «l’immaginario rappresenta in ogni momento il senso implicito del reale». Avendo infatti rescisso ogni vincolo costitutivo che non fosse quello proprio della nullificazione di una realtà costituita e avendo equiparato questa istanza nullificatrice al carattere derealizzante dell’immaginazione, Sartre non sembra poter fare a meno di concludere che 26 È questo rifocalizzarsi sulla coscienza intenzionale, sia pure intesa come istanza nullificatrice, che consente a Sartre di dare alle stampe nello stesso anno una disamina eidetica dell’atto immaginativo. È comunque degno di attenzione rilevare alcune incongruenze tra come Sartre presenta la néantisation nei Carnets rispetto a come fa nella conclusione de L’immaginario. Se nel secondo testo, ancora probabilmente debitore di un’impostazione husserliana, egli la descrive come una funzione d’atto – quella irrealizzante dell’immaginazione – e al modo di un arretramento (recul ) della coscienza rispetto al mondo (Irio, 275); nei Carnets, sotto un influsso più heideggeriano, si sostiene espressamente che «il movimento di nullificazione del per-sé non è un arretramento [recul ]» e che «non occorre, naturalmente, vedere nella parola superamento l’indicazione qualsiasi di un atto. È solamente un modo d’esistere» (CDG, 399 s., trad. mia). Nell’Essai del ’43 la posizione di Sartre sembra oscillare tra le due soluzioni a seconda che il punto di vista assunto sulla questione sia più accentuatamente ontologico anziché fenomenologico. Nel giro di poche pagine, ad esempio, Sartre sostiene che il nulla avviene «nel seno stesso dell’essere, nel suo nocciolo, come un verme», salvo poi reintrodurre la nozione di «ripiegamento nullificante [recul néantisant]» e di «distacco da sé [arrachement à soi]» al fine di spiegare la struttura d’atto della stessa interrogazione onto-fenomenologica (EN, 57-61). Un tentativo estremo di conciliare le due influenze, ma dall’indubbia valenza metafisica, è rappresentato dalla concezione dell’evento assoluto di nullificazione dell’in-sé in termini di «atto ontologico» (EN, 119). 24 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA «ogni apprensione del reale come mondo implica un superamento nascosto verso l’immaginario» (Irio, 280 s.). Ogni esperienza cosciente sarebbe cioè intrisa dell’apporto irrealizzante dell’immaginazione. Senza questo apporto e in misura per certi versi paradossale, la percezione permarrebbe un’esperienza fondamentalmente non intenzionale, una cieca adesione alla cosa da parte di una coscienza inanimata. Soltanto l’attività nullificatrice dell’immaginazione – l’unica attività intenzionale concepibile secondo Sartre – consentirebbe alla coscienza di acquisire quel tanto di distanza minima (alias di libertà) rispetto all’oggetto e così d’intenderlo nell’atto stesso in cui lo trascende verso un qualche tipo d’irrealtà. Non abbiamo qui modo per vagliare oltremodo una simile conclusione. Oltretutto, l’Essai ci presenta uno scenario differente in cui l’operatività della néantisation non è più inscenata dall’immaginazione, bensì dalla struttura estatica della temporalità del per-sé. Già nei Carnets la scoperta del movimento di temporalizzazione della coscienza tendeva a coincidere con quello di nullificazione. Dico tendeva perché in realtà, all’epoca, Sartre cercava di mantenere una differenza di tipo esistenziale, facendo cioè della temporalità il risultato del movimento di néantisation trasposto però sul piano della fatticità del per-sé (CDG, 438). La struttura temporale estatica del soggetto era dunque il contraltare mondano della negazione dell’unità originaria dell’in-sé: «il per-sé non può essere che sfuggendo all’essere che esso è e questa fuga di niente [ fuite du néant] davanti all’in-sé costituisce la temporalità» (CDG, 441, trad. mia). Tre anni dopo, nell’Essai, la fatticità del per-sé finisce invece per coincidere con la contingenza che affètta ogni tentativo di auto-fondazione della coscienza, dilaniata tra le due totalità dell’assoluta responsabilità di sé e dell’assoluta mancanza di giustificazione (EN, 123). La temporalità può quindi arretrare dal piano mondano affibbiatole nei Carnets al piano trascendentale, arrivando a coincidere con l’infrastruttura (intrastructure) stessa del per-sé (EN, 179), col movimento stesso della néantisation 27. È in questo modo che il per-sé assume i tratti un essere «diasporico», il quale, «venendo all’essere come negazione dell’in-sé, si costituisce per ciò stesso sotto tutte le possibili dimensioni di 27 Questo arretramento del movimento di temporalizzazione dal piano mondano a quello pre-mondano fa sì che Sartre arrivi a distinguere, come fatto a suo tempo da Husserl nelle Zeitvorlesungen, due livelli di temporalità, uno originario e uno psichico. A differenza di Husserl, però, Sartre non concepisce la temporalità psichica dei vissuti come scaturente dal processo di temporalizzazione originaria, la quale «non costituisce altro che se stessa». La temporalità psichica è infatti per Sartre ancora il prodotto della riflessione impura (EN, 203), la quale consegna al lettore l’indicazione non ulteriormente indagata di una presunta temporalizzazione riflessiva. 25 FILIPPO NOBILI nullificazione», quelle che il resto dell’opera analizzerà in termini di riflessione, trascendenza, essere-nel-mondo, essere-per-altri, ecc. (ibid.). È dunque opportuno spendere alcune parole per evidenziare quale concezione della realtà umana derivi da questa riformulazione dell’intenzionalità in termini di nullificazione diasporica. Per fare questo occorre riferirsi alle forme di «superamento temporale» che caratterizzano l’infrastruttura estatica della coscienza e alle quali rimandano le strutture immediate del per sé per un loro chiarimento ultimativo (EN, 146). «Il per-sé – sostiene Sartre – è l’essere che deve essere il suo essere nella forma diasporica della temporalità» (EN, 185). Ciò significa innanzitutto porre l’accento sul presente – e non come fa Heidegger sul futuro – per concepirlo al modo di un «vuoto di non essere indispensabile alla forma sintetica totale della temporalità» (ibid.). Il divenire temporale si presenta infatti come una «modificazione globale» in cui il sorgere di ogni nuovo presente ne implica la passatificazione ( passéification) al modo di una sua negazione connaturata (EN, 189). In tal senso, la funzione nullificatrice del per-sé coincide col presente che costantemente si rinnova negandosi internamente e dando luogo alla «riconquista del persé da parte dell’essere, come se quello non avesse più la forza di sostenere il proprio nulla» (ibid.). Al contempo – dacché «la temporalità si temporalizza tutta intera come rifiuto dell’istante» (EN, 193) – il per-sé rifugge dal proprio passato (negatosi in-sé) rilanciandosi verso un futuro possibile. Il futuro da parte sua non è né in-sé né per-sé, bensì tensione del per-sé che sfugge al proprio in-sé passato verso un in-sé possibile: esso non è altro che la possibilizzazione del per-sé presente (EN, 169, 171). E tuttavia, date le premesse della teoria sartriana dell’intenzionalità, è come se questa tensione futurizzante non potesse rilasciarsi se non al modo appunto di una nullificazione demandata di un futuro che in quanto tale non si realizza mai 28. L’intenzionalità come néantisation dà luogo a un’infrastruttura temporale della coscienza che a ben vedere coincide con un potere dissolvente (EN, 173). Sartre avrebbe ben donde di situare questa «forza dissolvente [...] in seno a un atto unificatore» e di asserire che la temporalità «è insieme forma di separazione e forma di sintesi» (EN, 178, 176), ma francamente non si capisce cosa possa garantire unità sintetica a questa incessante furia del dileguare 29. 28 Cfr. FLAJOLIET, Ipséité et temporalité, in R. BARBARAS, Sartre. Désir et liberté, PUF, Paris 2005, pp. 59-84 (v. pp. 78 s.). 29 È significativo che Sartre, nel tentativo di conferire un qualche tipo di spessore alla dinamica temporale del per-sé, ricada in un lessico improntato alla teoria husserliana del 26 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA Il richiamo alla qualifica hegeliana dell’operatività negativa di una libertà universalmente incondizionata ci sembra qui appropriato nella misura in cui la conclusione della disamina sartriana sull’ontologia della temporalità ripresenta quella sorta di attrattore metafisico incarnato dalla nozione di spontaneità 30: una spontaneità che «produce se stessa» e che «deve essere definita da se stessa» in quanto «fondamento non solo del suo nulla d’essere, ma anche del suo essere» (EN, 191). La libertà – sia pur vissuta come condanna (EN, 171) – sembra ritrovare in questo attrattore metafisico il proprio fondamento di non-essere. Essa non sembra trovare spazio e possibilità di esercizio in un quadro in cui il presente del per-sé è, da un lato, pura nullificazione di sé nell’irredimibile fatticità di un passato gratuito e contingente (EN, 159 s.), dall’altro, concomitante proiezione di sé nell’indefinita progettualità di un futuro inattuabile. A ben vedere, l’infrastruttura estatica del per-sé non sembra in grado di assicurare al soggetto la benché minima unità strutturale. Benché si presenti come un complesso temporale, la coscienza non dà luogo a un vero e proprio flusso di durata in grado di supportare la libertà di un’azione. Sartre presenta giustamente la sua teoria delle estasi temporali come una critica all’istantaneità del cogito (EN, 173 ss.), ma il recupero dell’intenzionalità come negazione-di fa sì che tale critica non si emancipi dal primato dell’istante, limitandosi a negarlo e dunque a presupporlo. Il divenire temporale della coscienza non è un autentico divenire, bensì una successione di attimi negati dall’estasi nullificatrice del per-sé. Questa temporalizzazione non sfocia nella costituzione di una dimensione coscienziale temporalmente estesa – nell’unità di una vita di coscienza – ma nel continuo scacco di una possibilità inattingibile: «l’atemporalità della coincidenza assoluta con sé» (EN, 184). 4. Un bilancio: una fenomenologia dell’umano? Nell’economia dell’Essai, la temporalizzazione originaria implementa l’intenzionalità come néantisation del per-sé. Sebbene la sezione sulla temporalità segua sotto il profilo espositivo quella dedicata alle strutture immediate del per-sé, queste ultime non possono che trovare nell’infrastruttura temporale, ciascuna, la propria ragion d’essere. Il circuito dell’ipseità, in riempimento intenzionale parlando del presente come un vuoto d’essere continuamente da colmare (combler) (EN, 189 s.). 30 FLAJOLIET, Ipséité et temporalité, cit., pp. 83 s. 27 FILIPPO NOBILI quanto «rapporto del per-sé con il possibile che esso è» (EN, 144), è sorretto dall’estasi futura del movimento di temporalizzazione. Il possibile, a sua volta inteso non come dynamis aristotelica ma come «assenza costitutiva della coscienza» – come perpetua possibilizzazione di «ciò di cui manca il per-sé per essere sé» (EN, 139, 142, 144) – è ciò verso cui il per-sé si proietta, infuturandosi, salvo poi non poter fare a meno di presentificarselo, ossia di negarlo e renderlo passato. Dal canto suo il valore, quale «sintesi impossibile del per-sé e dell’in-sé», quale totalità contraddittoria «di essere incondizionato e di non essere», «è il mancato di tutte le mancanze» (EN, 131, 134), la totalità proiettata e mai ottenuta di tutti i tentativi di fondazione, il «riposo in sé» dell’eternità atemporale ricercata dall’uomo (EN, 184). La fatticità del per-sé coincide quindi con l’inerzia del suo trascorso, con l’insieme reificato e disperso delle sue negazioni passate. Infine, la presenza (a) sé del cogito preriflessivo, giacché «rimane infracoscienziale» al modo di un «puro negativo», coincide con «l’equilibrio continuamente instabile» (EN, 114, 118) di un presente estaticamente in procinto di esplodere. Se, come scrive Sartre nei Carnets, «non siamo affatto, come lo crede Heidegger, solamente realtà umana» bensì «coscienza trascendentale che si fa realtà umana» (CDG, 139, trad. mia), ecco che nell’Essai, il rapporto tra infrastruttura temporale e strutture del per-sé è chiamato a rendere conto proprio di questo farsi. Presenza (a) sé, circuito dell’ipseità – la riflessione stessa in quanto modificazione infrastrutturale della coscienza (EN, 198) – sono altrettante dimensioni di nullificazione in cui un qualche tipo di personalità è tenuta a costituirsi. Il problema è semmai che tipo di personalità umana vada costituendosi. Il processo originario di temporalizzazione spiega come il mondanizzarsi della coscienza trascendentale implichi l’introiezione nel mondo della negazione, del nulla come unica possibilità dell’essere in-sé, della mancanza come propulsore di una supposta totalità di valore, del possibile come diritto o pretesa sul reale (EN, 117, 119, 127, 131, 134, 139 s.). E tuttavia, la concezione sartriana dell’intenzionalità come pura néantisation, inscenata da un’infrastruttura temporale diasporica, fa sì che l’umanizzazione del mondo riveli tratti intrinsecamente inumani. L’esperienza dell’uomo nel mondo sembra ridursi a una progettualità incondizionata ma priva di effettualità, il cui carattere autenticamente positivo coincide con la possibilità di negare la situazione data. Il per-sé risulta libero di negarsi verso un possibile senza che questo possa mai realizzarsi se non nella forma di una sua fatale e ulteriore nullificazione. Del resto, a pensarci bene, un simile approdo risultava evincibile, seppur implicitamente, sin dall’Introduzione all’Essai, dove Sartre delinea una peculiare onto-fenomenologia della transfenomenicità (EN, 16, 26). 28 SARTRE E LA DISSOLUZIONE ONTO-FENOMENOLOGICA DELLA REALTÀ UMANA L’infrastruttura intenzionale che sorregge il per-sé non gli consente di avere a che fare con dei fenomeni se non al modo di una loro fugace dissoluzione, di un loro perpetuo dileguare l’uno nell’altro. La formulazione sartriana della diaspora temporale consente di evidenziare quel senso di esistenziale incompiutezza – quel «fermento detotalizzatore» (EN, 193) – che rende l’uomo «per natura coscienza infelice senza possibile superamento dello stato di infelicità» (EN, 131). Un simile stato esistenziale non sembra però attagliarsi allo stato di normalità dell’esistenza umana; sin dal periodo berlinese, l’accento posto su un’assoluta spontaneità sembra più congeniale alla descrizione di uno stato ai limiti del patologico (TE, 91 s.). La formulazione di una psicanalisi esistenziale – cercando di ricalibrare il focus della disamina sull’eccentricità del singolo individuo – sembra in effetti la fuoriuscita più cogente dall’impasse onto-fenomenologica dell’Essai del ’43 31. L’altro tentativo di evadere da questo cul de sac sarà intrapreso lungo il percorso che condurrà Sartre alla Critica della ragion dialettica, un cammino che tra le altre cose contemplerà il recupero di una dimensione costitutiva positiva per il soggetto, quella della prassi e della produzione umana, e una limitazione del carattere incondizionato della libertà (di ascendenza metafisica) mediante la nozione di alienazione 32. 31 Per analogie e divergenze rispetto alla psicanalisi freudiana cfr. R. BERNET, La ‘conscience’ selon Sartre comme pulsion et désir, in «Alter», n. 10, 2002, pp. 23-42; FLAJOLIET, Sartre’s Phenomenological Anthropology between Psychoanalysis and ‘Daseinsanalyses’, in «Sartre Studies International», vol. 16, n. 1, 2010, pp. 40-59. 32 Una terza via d’uscita mai realizzatasi, ma dagli interessanti snodi controfattuali, avrebbe potuto scaturire da uno studio approfondito da parte di Sartre della fenomenologia genetica di Husserl. È convinzione di chi scrive che la mancata pubblicazione di alcuni fondamentali lavori dei primi anni ’20 abbia privato Sartre di risorse teoriche di non poco conto, le quali avrebbero consentito di appianare almeno alcune delle asperità teoriche che contraddistinguono il suo personale excursus onto-fenomenologico. La nozione di sedimentazione e l’idea conseguente di stratificazione delle operazioni intenzionali – per non limitarsi che a un esempio eclatante – avrebbero forse favorito lo sviluppo di una concezione più armonica, costruttiva – meno intrisa di retaggi metafisici – delle strutture che regolano la soggettività umana. Assecondando quest’ottica, l’avanscoperta berlinese di Sartre assume i tratti di un incontro mancato. 29 Maria Russo Dalla penuria al Terrore. Relazioni e pratiche disumane nella Teoria degli insiemi pratici ABSTRACT: This essay will analyse the variety of the processes of dehumanization that are described by Sartre in the first volume of the Critique of Dialectical Reason (Theory of Practical Ensembles). Firstly, Sartre raises the question of which kind of knowledge is truly able to consider human beings in their most human dimension. According to him, this corresponds to an existentialist revisitation of Marxism, which involves both phenomenological and psychoanalytical analyses of the subject. Secondly, he analyzes the places in which dehumanization concretely appears: the contingent but inescapable condition of scarcity; the relationship between the bourgeois owner and his workers in the counter-violence of oppression and exploitation; and finally, the perversion of the group-in-fusion, which, through Fraternity-Terror, results in a new form of seriality. In his last controversial interview, Hope Now, Sartre indicates a possible alternative to these infernal dynamics, which consists in the promotion of a new form of Fraternity finally freed of Terror, which is both an original relationship and a normative task for humanity’s complete fulfilment. KEYWORDS: Sartre; Scarcity; Humanism; Praxis; Terror; Fraternity; Group-infusion; Seriality ABSTRACT: In questo contributo si intende analizzare la molteplicità dei processi di disumanizzazione che Sartre descrive nel primo volume della Critica della Ragione Dialettica (la Teoria degli Insiemi Pratici). Anzitutto, il filosofo francese si interroga intorno a quale tipo di sapere sia davvero in grado di considerare l’uomo nella sua dimensione più propriamente umana. Per Sartre, esso corrisponde a una rivisitazione esistenzialista del marxismo, che recupera analisi fenomenologiche e psicanalitiche dell’individuo. In secondo luogo, egli analizza i luoghi in cui concretamente emerge la disumanizzazione: la condizione contingente ma ineludibile della penuria, il rapporto che si instaura tra proprietario borghese e operaio nella contro-violenza dell’oppressione e dello sfruttamento e infine nella perversione del gruppo-in-fusione che, attraverso la Fraternità-Terrore, ricade in una nuova forma di serialità. Una possibile alternativa a queste dinamiche infernali, descritte nella Critica e in parte già accennate nelle opere precedenti, viene indicata nell’ultima discussa intervista, La speranza oggi, in una nuova forma di fraternità finalmente sganciata dal Terrore, una fraternità che è insieme relazione originaria e compito normativo per una compiuta realizzazione dell’umano. Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 31 MARIA RUSSO KEYWORDS: Sartre; penuria; umanismo; praxis; Terrore; Fraternità; gruppo-infusione; serialità 1. Introduzione. Umano e disumano nell’esistenzialismo di Sartre Il tema della distinzione tra umano e inumano, seppur non nominato in questi termini, occupa le prime pagine dell’opera del 1943, L’essere e il nulla, il cui intento è, appunto, distinguere la peculiare forma di esistenza umana dalle cose: è la differenziazione ontologica alla base dell’esistenzialismo sartriano tra l’in-sé (l’inumano, l’inorganico) e il per-sé (l’umano). Le cose possono vantare un’essenza stabile nel tempo, mentre gli esseri umani sono esistenze che si temporalizzano, mai uguali a loro stesse, anche quando pretendono di esserlo attraverso le rassicuranti condotte della malafede. A partire dal confronto critico con il marxismo, già rintracciabile negli appunti dei Quaderni per una Morale (1947-1948) ma più serrato nelle Questioni di Metodo e poi nei due tomi di Critica della Ragione Dialettica, Sartre inizia a esplorare le relazioni tra esseri umani e tra questi e l’orizzonte inumano della materia. È proprio qui che emerge più chiaramente il tema del disumano, ossia di quel movimento che, dalla materia inorganica e dall’Altro, cerca di ridurre l’uomo a essere una cosa. Questa minaccia di disumanizzazione è già presente nelle prime opere sartriane nella figura della malafede, che è il tentativo dell’uomo di condividere il medesimo statuto ontologico delle cose; tuttavia essa era una condotta individuale intesa come fuga dall’angoscia rispetto alla propria libertà assoluta. Con i Quaderni e poi con la Critica, questa modalità si inscrive nella Storia come dinamica che separa gli esseri umani, dal mondo primitivo fino alla suddivisione nelle classi sociali del paradigma capitalista. In particolare, è nel primo tomo della Critica della ragione dialettica che Sartre rintraccia l’origine di questa reificazione disumana in una penuria, che ineludibilmente caratterizza la nostra Storia, con particolare attenzione al suo inasprirsi dalla rivoluzione industriale in poi, ossia a partire dal periodo in cui il capitalismo si è insediato in Occidente come forma di vita prima ancora che economica. In questa lucida ricostruzione, Sartre riconosce un movimento che è nella Storia ma non è della Storia, in aperta polemica con Hegel e con il marxismo: la ragione dialettica, di cui bisogna comprendere validità e limiti (proprio come Kant fece con la ragione analitica), è nella praxis individuale e nel rapporto tra le varie praxeis, e non laggiù, nella storia. La dialettica tratteggiata da Sartre non potrà infatti mai raggiungere una totalità totalizzata: dato che la storia è abitata da diversi agenti storici, che nascono e che muoiono, essa 32 DALLA PENURIA AL TERRORE è solamente una “Storia forata”1, una totalità detotalizzata (espressione che ricorre poco nella Critica invece ampiamente adottata nei Quaderni), ossia una totalità in continua emorragia proprio perché umana, e, quindi, caratterizzata dalla finitezza2. In aperta polemica con Engels, Sartre esclude poi la possibilità di una Dialettica della Natura, che ridurrebbe il ruolo dell’uomo a quello di una molecola fisica maggiormente evoluta rispetto agli altri regni naturali 3. Su questo punto egli è estremamente chiaro: «se qualcosa come una ragione dialettica esiste, essa si rivela e si fonda nella e per la praxis umana a uomini situati in una certa società, a un certo momento del suo sviluppo»4. In questo senso, sarà necessario rivedere alcuni presupposti teorici del marxismo, al fine di formulare un sapere dell’umano che sia umano, che non tratti l’uomo come semplice cosa, ossia mero prodotto di alcuni fattori storici e, in un’ultima analisi, economici. In questo contributo, ripercorreremo i processi di disumanizzazione che Sartre svela nel primo tomo della Critica della ragione dialettica, la Teoria degli Insiemi Pratici, con l’intento di comprendere anzitutto quale tipo di sapere sia davvero in grado di considerare l’uomo nella sua dimensione umana. Ci chiederemo inoltre se sia verosimile immaginare un mondo in cui la condizione 1 J.-P. SARTRE, Critique de la raison dialectique, Tome II, L’intelligibilté de l’Histoire, Gallimard, Paris 1985 (trad. it. a cura di F. Cambria, L’intelligibilità della Storia. Critica della ragione dialettica, Tomo II, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2006, p. 401). 2 «Per noi, la realtà dell’oggetto collettivo si fonda sulla ricorrenza; essa manifesta che la totalizzazione non è mai compiuta e che la totalità non esiste se non, tutt’al più, come totalità detotalizzata […]». J.-P. SARTRE, Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960 (trad. it. a cura di P. Caruso, Critica della ragione dialettica, il Saggiatore, Milano 1963, vol. I, p. 65). Quella di un certo marxismo si caratterizza quindi come una vuota universalità incapace di cogliere l’uomo concreto: «In altri termini, noi rimproveriamo al marxismo contemporaneo di respingere nella sfera del casuale tutte le determinazioni concrete della vita umana e di non conservare della totalizzazione storica nient’altro che la sua astratta ossatura d’universalità. Con il risultato di aver perduto interamente il senso di ciò che è un uomo: non rimane, per colmarne le lacune, che l’assurda psicologia pavloviana. […] Non si tratta per noi, come si è preteso troppo spesso, di ‘rendere all’irrazionale i suoi diritti’ ma, anzi, di ridurre la componente d’indeterminazione e di non-sapere; non di respingere il marxismo in nome d’una terza via o d’un umanesimo idealista, ma di riconquistare l’uomo all’interno del marxismo» (ivi, p. 68). 3 «Engels rimprovera a Hegel d’imporre alla materia le leggi del pensiero. Ma è proprio quel che fa anche lui, in quanto obbliga le scienze a convalidare una ragione dialettica che egli ha scoperto nel mondo sociale. Sennonché, nel mondo storico e sociale, come vedremo, si tratta davvero di una ragione dialettica; trasferendola nel mondo ‘naturale’, imprimendola a forza, Engels le toglie la razionalità; non si tratta più di una dialettica che l’uomo fa facendosi, dalla quale vien fatto di rimbalzo, ma di una legge contingente di cui si può dire solo è così e non altrimenti» (ivi, p. 158). 4 Ivi, p. 159. 33 MARIA RUSSO originaria di penuria e le conseguenti relazioni e pratiche di disumanizzazione siano superabili, se non definitivamente almeno in certi casi. Come argomenteremo, se la risposta alla prima domanda è già contenuta nelle Questioni di Metodo che precedono la Critica, nell’elaborazione di un esistenzialismo marxista, la risposta alla seconda è invece negativa se si rimane nel quadro teorico di quest’opera e bisognerà attendere l’ultima discussa intervista rilasciata nel 1980. Solo ne La speranza oggi si può infatti intravvedere la possibilità di una risoluzione dei conflitti che coinvolgono gli agenti storici, con il recupero di quella dimensione etica che Sartre aveva abbandonato alla fine degli anni Quaranta per timore di relegare la propria filosofia a una dimensione eccessivamente astratta e, di conseguenza, borghese. 2. Per un sapere umano. La revisione del marxismo in Questioni di metodo Anzitutto, una domanda che ci dobbiamo porre è quale sia il marxismo con cui si confronta Sartre, nelle Questioni di metodo ma anche in altre opere quali Esistenzialismo e Marxismo (la conferenza di Araquara) e Soggettività e Marxismo (la conferenza all’Istituto Gramsci). Come correttamente argomenta Luca Basso, Una questione aperta è quale sia il marxismo a cui Sartre allude. Sicuramente il richiamo più evidente potrebbe essere al marxismo della Seconda Internazionale, con il suo carattere deterministico, peraltro comprensibile nel contesto politico e culturale dell’epoca. Inoltre è presente un riferimento, più specifico, al dibattito europeo, e in primis francese del dopoguerra, in cui permanevano aspetti dogmatici, deboli filosoficamente e, nello stesso tempo, incapaci di dare un vero impulso all’azione rivoluzionaria. Al riguardo non bisogna dimenticare le polemiche di quegli anni, ad esempio, da parte di Lefebvre, e, ancor di più da parte di Lukàcs 5. Il marxismo dogmatico, irrigidito in un economismo determinista, è il bersaglio polemico di Sartre (in particolar modo ha in mente le opere di Engels e di Lukàcs). Per il filosofo francese, «l’economismo è falso perché rende lo sfruttamento un certo risultato e questo soltanto, mentre tale risultato non può mantenersi né il processo del capitale può svilupparsi senza che entrambi 5 L. BASSO, Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre, Ombre Corte, Verona 2016, p. 95. 34 DALLA PENURIA AL TERRORE siano sostenuti dal progetto di sfruttare»6. Egli vuole tornare all’elaborazione più complessa e problematica del pensiero di Marx, con il supporto da un lato dell’esistenzialismo7, il quale può offrire un’indagine fenomenologica dell’esistenza, e dall’altro della psicanalisi, come metodo di comprensione dei condizionamenti familiari che precedono e insieme incarnano quelli legati all’appartenenza a una specifica classe sociale. In particolare, la psicanalisi ha avuto il merito di porre l’attenzione su una fase della vita come l’infanzia che spesso viene invece tralasciata dal marxismo, ma che è fondamentale per comprendere la dimensione dell’umano nella sua complessità: così le monografie psicoanalitiche – se fossero sempre possibili – metterebbero di per se stesse in rilievo l’evoluzione della famiglia francese tra il XVIII e il XX secolo, la quale poi, a modo suo, traduce l’evoluzione generale dei rapporti di produzione. I marxisti d’oggi si occupano solo degli adulti: si direbbe, a leggerli, che nasciamo nell’età in cui guadagniamo il nostro primo salario; si sono dimenticati della propria infanzia e, a leggerli, sembra che gli uomini provino l’alienazione e la reificazione anzitutto nel proprio lavoro, mentre ciascuno la vive anzitutto, come fanciullo, nel lavoro dei propri genitori 8. Tuttavia, Sartre è disposto a sostenere un ruolo ancillare dell’esistenzialismo rispetto al marxismo: la sua filosofia della libertà assoluta, elaborata negli anni Quaranta, non può essere l’ideologia dominante di un tempo che invece reclama ancora lotte di liberazione, interpellando in particolare una specifica classe sociale, quella del proletariato 9. In Questioni di Metodo il contemporaneo è ancora inevitabilmente il tempo del marxismo. L’esistenzialismo può solo collocarsi ai margini di questo sapere, fornendogli i propri strumenti per salvaguardarlo dal rischio di diventare disumano, con un’interpretazione troppo determinista ed economista dell’uomo e della storia. Solo l’esistenzialismo può scongiurare il feticismo del marxismo, il quale considera l’uomo come un prodotto, e non invece come una 6 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. I, p. 388. «[…] io considero il marxismo come l’insuperabile filosofia del nostro tempo, e ritengo invece che l’ideologia dell’esistenza, con il suo metodo comprensivo, sia un ambito interno al marxismo stesso che la genera e la rifiuta a un tempo» (ivi, p. 12). 8 Ivi, p. 55. 9 Questo non significa che il marxismo possa essere ridotto all’ideologia di classe del proletariato; le classi sociali non sono dei collettivi a compartimenti stagni, ma si influenzano reciprocamente: «[…] non bisogna vedere in un sistema borghese d’oggi la pura e semplice negazione del materialismo rivoluzionario, ma mostrare piuttosto come subisca l’attrazione di questa filosofia, come ne sia permeato […]» (ivi, p. 91). 7 35 MARIA RUSSO forma di esistenza che subisce la storia nello stesso momento in cui la fa 10. Certamente Sartre concorda con il materialismo dialettico, ma arricchisce la relazione tra l’uomo e la materia in modo che non vi sia un semplice rapporto di causa e di effetto unidirezionale. Non basta analizzare le cause efficienti per afferrare quale sia il motore dell’evoluzione storica; bisogna includere anche la comprensione delle cause finali, ossia il modo di comportarsi specifico degli agenti storici. Il progresso tecnico-scientifico dei modi di produzione non è quindi l’unico propulsore della storia; la materia costituisce certamente un motore passivo, contro il quale la praxis individuale continuamente si scontra e si riplasma. Tuttavia, gli agenti storici sono una parte attiva di questo processo, con le loro dialettiche individuali che si intrecciano principalmente nella forma della lotta 11. Si tratta solamente di non subordinare niente a priori […]. Basta infatti che il metodo progressivo-regressivo tenga conto ad un tempo della circolarità delle condizioni materiali e del reciproco condizionamento delle relazioni umane stabilite su tale base […]12. Il progresso tecnico non è inoltre sufficiente a giustificare l’evoluzione dei modi di produzione. È necessario che qualcuno abbia adottato, organizzato e giustificato questi ultimi; diversamente, gli uomini «sarebbero semplici veicoli di forze disumane che reggerebbero tramite loro il mondo sociale» 13. Già ne L’essere e il Nulla l’uomo ci era stato presentato come quella specifica forma di esistenza che è in grado di porre fini. Essa non si limita a essere una conseguenza prevedibile del proprio passato, bensì è a partire dal progetto futuro che si configura nel circuito dell’ipseità, nella scelta di sé e del mondo. Sartre ammette che molto spesso i fini umani non vengono realizzati e che anzi si produce uno scacco il quale a tratti sembra inevitabile (ne L’essere e il Nulla esso corrisponde al desiderio impossibile di divenire in-sé-per-sé; nella Critica, come vedremo, all’ambito del praticoinerte, il circolo vizioso della praxis alienata e della materia lavorata 14, e 10 «Come bisogna intendere, infatti, che l’uomo fa la Storia, se, per un altro verso, è la Storia che lo fa?» (ivi, p. 74). 11 Questa la definizione di praxis che Sartre ci offre nella Critica: «La praxis, infatti, è un passaggio dall’oggettivo all’oggettivo mediante l’interiorizzazione; il progetto, come superamento soggettivo dell’oggettività verso l’oggettività, teso tra le condizioni oggettive dell’ambiente e le strutture oggettive del campo dei possibili, rappresenta in se stesso l’unità mobile di soggettività ed oggettività, le due determinazioni cardinali dell’attività» (ivi, p. 81). 12 Ivi, p. 63. 13 Ivi, p. 75. 14 «La scoperta fondamentale dell’esperienza dialettica, lo ricordo subito, è che l’uomo 36 DALLA PENURIA AL TERRORE al fatto dell’ineludibile contingenza della penuria). L’uomo è colui che incessantemente pone fini che quasi sempre non raggiunge: la sua esistenza diventa quindi l’avventura dello scacco della sua praxis, della quale però non si può rendere conto se si considera l’uomo come semplice risultato di un processo. Il singolo individuo non può essere compreso da un’ideologia che diluisce il soggetto in una pretesa totalità, come avviene nel caso dell’appartenenza a una classe sociale. Come ci dimostra nelle sue psicobiografie, per Sartre non basta essere borghese o proletario per giustificare l’intelligibilità delle proprie scelte. La classe sociale certo condiziona l’orizzonte dei possibili, ma le combinazioni dipendono da una molteplicità di fattori che spesso non vengono considerati. «Valéry è un intellettuale piccolo borghese, non c’è dubbio. Ma non ogni intellettuale piccolo borghese è Valéry. L’insufficienza euristica del marxismo contemporaneo può riassumersi in queste due frasi» 15. Un altro esempio è già qui Gustave Flaubert, il futuro Idiota della Famiglia: il marxismo contemporaneo mostra, per esempio, che il realismo di Flaubert è in rapporto di simbolizzazione reciproca con l’evoluzione sociale e politica della piccola borghesia del Secondo Impero. Ma non mostra mai la genesi di tale reciprocità di prospettiva. Non sappiamo né perché Flaubert abbia preferito la letteratura a tutto, né perché sia vissuto come un anacoreta, né perché abbia scritto quei libri piuttosto che quelli di Duranty o dei Goncourt. Il marxismo situa ma poi non fa scoprire più nulla […]16. La praxis individuale non si può spiegare solamente indicando i fattori che l’hanno condizionata; bisogna rendere anzitutto conto dei suoi tentativi, per quanto fallimentari, di superamento della propria condizione. Un superamento che, a differenza del progetto di trascendenza de L’Essere e il Nulla, è sicuramente più invischiato nella situazione, ma che comunque si caratterizza come libera risposta, benché alienata, dell’uomo rispetto alla materia e all’inorganico. Tutta la dialettica storica poggia sulla praxis individuale in quanto questa è già dialettica, cioè nella misura in cui l’azione è di per se è ‘mediato’ dalle cose nella misura in cui le cose sono ‘mediate’ dall’uomo» (ivi, p. 205). 15 Ivi, p. 51. 16 Ivi, p. 52. E ancora: «È l’opera o l’atto dell’individualismo a rivelarci il segreto del suo condizionamento. Flaubert, con la scelta di scrivere, ci rivela il senso della sua paura infantile della morte; e non il contrario. Per aver misconosciuto tali principi, il marxismo contemporaneo s’è vietato di capire i significati e i valori» (ivi, p. 112). 37 MARIA RUSSO stessa superamento negatore di una contraddizione, determinazione di una contraddizione presente in nome di una totalità futura, lavoro reale ed efficace della materia 17. La rivendicazione dell’umano è fondamentale per comprendere il senso dell’alienazione, così come delle contro-finalità storiche che conducono allo scacco. Nella Critica, Sartre propone una sorta di “sistema a specchio”, dove a ogni pratica umana corrisponde una precisa disumanizzazione: alla praxis l’anti-praxis, ai fini della praxis individuale o del gruppo-in-fusione una contro-finalità, ai movimenti dialettici relazionali tra gli individui l’anti-dialettica del pratico-inerte, all’uomo il volto demoniaco dell’Altro per eccellenza, il contro-uomo. La minaccia del disumano è insita nell’umano stesso, ma non potrebbe essere una minaccia disumana se non fosse indirizzata a qualcosa che è irriducibilmente e primariamente umano. L’alienazione può infatti riferirsi solamente a un essere umano e mai a una cosa, così come la costrizione può esercitarsi solo nei confronti di una libertà alienata, e non di un prodotto del determinismo storico-economico. Proprio perché c’è un movimento di alienazione e di reificazione, la relazione tra gli uomini e tra gli uomini e il loro lavoro non è originariamente una relazione tra cose: Noi rifiutiamo di confondere l’uomo alienato con una cosa, e l’alienazione con le leggi fisiche che reggono i condizionamenti esterni. Affermiamo invece la specificità dell’atto umano, che attraversa l’ambito sociale pur conservando le determinazioni e che trasforma il mondo sulla base di condizioni date. Per noi, l’uomo si caratterizza anzitutto per il superamento di una situazione, per ciò che riesce a fare di ciò che lo si è reso, anche se non si riconosce mai nella sua oggettivazione18. D’altronde, le stesse categorie che Marx aveva impiegato, quali sfruttamento, alienazione, feticizzazione e reificazione, rimandano già indiscutibilmente a strutture esistenziali. Si chiede infatti Sartre: «che si può fare di più esatto e di più rigoroso, quando si studia l’uomo, che riconoscergli proprietà umane?»19. Il metodo dialettico della rivisitazione esistenzialista del marxismo, per essere davvero una forma di sapere umano, non deve quindi costituirsi come riduzionismo dell’umano: il materialismo dialettico sartriano non è meccanicista. La stessa dialettica, come già accennato, non è una forza motrice autonoma del processo storico, bensì il movimento delle varie praxis, 17 Ivi, p. 206. Ivi, p. 77. 19 Ivi, p. 115. 18 38 DALLA PENURIA AL TERRORE che superano continuamente le condizioni anteriori. Non è chiaramente lo Spirito Assoluto hegeliano, che ha già in sé comprese le proprie contraddizioni, ma nemmeno l’evoluzione dei modi di produzione come nel marxismo contemporaneo a Sartre. Per quest’ultimo, infatti, l’evento chiave del secolo XVIII non è affatto la comparsa della macchina a vapore, ossia di uno strumento tecnico destinato a modificare la produzione, bensì la Rivoluzione Francese, cioè il modo in cui alcune praxis, tra la serialità degli aggruppamenti e il progetto comune del gruppo-in-fusione, hanno progettato di superare una determinata condizione – economica, sociale, storica20. D’altronde, se non considerassimo le praxeis come agenti storici attivi non potremmo nemmeno realmente rendere conto della nozione di novità all’interno del movimento storico. Perché dalle forme più sviluppate del capitalismo dovrebbe derivare una società più giusta e l’eliminazione di tutte le classi? Perché invece, come poi ha dimostrato la storia con il capitalismo finanziario e la messa in discussione perfino dei principi del liberalismo, questo sviluppo non potrebbe comportare forme di sfruttamento sempre più avanzate e globali? Sartre aveva già intravvisto questo pericolo nella negazione dei principi liberali all’interno delle colonie europee. Il supersfruttamento della colonia è necessario al fine di perpetrare lo sfruttamento nella metropoli, ed esso richiede un regime non democratico 21. Se ci si basasse unicamente sull’evoluzione dei modi di produzione non sarebbe quindi possibile sperare in un futuro caratterizzato da una concreta giustizia sociale globale, come secondo l’ideale cosmopolitico kantiano. 20 «Degli uomini che hanno vissuto, sofferto e lottato sotto la Restaurazione e che, alla fine, hanno rovesciato il trono, nessuno sarebbe stato così o sarebbe esistito se Napoleone non avesse fatto il colpo di stato: che diventa mai Hugo se suo padre non è un generale dell’Impero? E Musset? E Flaubert che, come abbiamo rilevato, aveva interiorizzato il conflitto fra scetticismo e fede? Se a ciò si obietta che tali cambiamenti non possono modificare lo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione nel corso del secolo scorso, è un truismo. Ma se questo sviluppo dovesse costituire l’unico oggetto della storia umana, ricadremmo semplicemente nell’ ‘economismo’ che volevamo evitare, e il marxismo diventerebbe disumanismo» (ivi, p. 101). Sartre riprende in parte Heidegger (senza citarlo) quando sostiene che «[…] in conflitto con se stesso, il marxismo tende ad eliminare l’interrogatore della propria indagine […]» (ivi, p. 133). Ancora: «La scienza umana s’irrigidisce nel disumano […]. Il marxismo degenererà in un’antropologia disumana se non reintegra in sé l’uomo come proprio fondamento» (ivi, p. 136). 21 «Il regime ‘liberale’ della metropoli corrisponde allo sviluppo storico del capitalismo francese, della borghesia metropolitana, e conviene anche ai coloni laggiù, in quanto rappresentati e difesi in Francia […]; ma questo regime – che è forse il più pratico in una società fondata sullo sfruttamento – non conviene affatto ad una società fondata sul supersfruttamento. Si tratta dunque, nel nome della democrazia borghese, d’impedire alla metropoli di democratizzare le sue colonie» (ivi, p. 381). 39 MARIA RUSSO Riassumendo, Se non distinguiamo il progetto – come superamento – dalle circostanze come condizioni, non rimangono più che oggetti inerti e la Storia svanisce. Parimenti, se il rapporto umano è solo un prodotto, è reificato per essenza e non si capisce neppur più in che potrebbe mai consistere la sua reificazione. Il nostro formalismo, che s’ispira a quello di Marx, consiste solo nel ricordare che l’uomo fa la Storia nell’esatta misura in cui essa lo fa. Ciò vuol dire che le relazioni tra gli uomini sono ad ogni istante la conseguenza dialettica della loro attività […]22. È opportuno d’altro canto sottolineare che, rispetto a L’essere e il nulla, nella Critica si verifica un notevole spostamento verso la solidificazione della situazione nonché il riconoscimento di una difficoltà oggettiva del suo superamento 23. La nozione di “coefficiente di avversità” viene progressivamente abbandonata da Sartre, perché egli si rende perfettamente conto che esso non è solamente un fattore soggettivo. Ci sono davvero alcuni popoli e alcune classi sociali che, deprivate dei diritti umani fondamentali, non possono effettivamente immaginare e quindi porre determinati fini. Già nella seconda Appendice dei Quaderni per una Morale Sartre aveva studiato la condizione di segregazione degli afroamericani negli Stati Uniti d’America: essi non potevano accedere al mondo della cultura, il quale solo avrebbe potuto offrire loro determinati strumenti per organizzare un movimento di liberazione che non si riducesse a fenomeni isolati di violenza riconducibili all’inefficacia storica del terrorismo anarchico. L’avvenire per costoro è un futuro chiuso, la loro libertà è originariamente alienata e imprigionata in un ricatto che implica la stessa sopravvivenza fisica. Se Sartre è stato il filosofo della libertà assoluta, è pur vero che in fondo l’ha sempre concepita in catene. Infatti, tra le immagini maggiormente ricorrenti non solo nelle sue opere filosofiche ma anche in quelle letterarie e teatrali sono sicuramente da ricordare il muro e la porta chiusa. Anche nella Critica, per Sartre L’uomo è chiuso dentro, non cessa d’essere legato a tutti i muri che lo circondano, né di sapere d’essere murato. Tutti questi muri costituiscono una sola prigione e questa prigione è una sola vita, un solo 22 Ivi, p. 223. Questo aspetto viene anche sottolineato da Kimberly S. Engels: «Composto da oggetti così diversi come il linguaggio, gli artefatti e le classi, il regno ontologico del pratico-inerte pone molti più limiti alla nostra libertà rispetto all’in-sé de L’essere e il nulla» (K.S. ENGELS, From In-Itself to Practico-Inert: Freedom, Subjectivity and Progress, in «Sartre Studies International», vol. 24, n. 1, 2018, p. 67 (nostra traduzione). 23 40 DALLA PENURIA AL TERRORE atto; ogni significato si trasforma, non cessa di trasformarsi e la sua trasformazione si ripercuote su tutti gli altri 24. Oltretutto, questa “prigione” della libertà non è qualcosa dalla quale ci si possa liberare una volta per tutte; Sartre è ben consapevole che è probabile uscire da una determinata cella semplicemente per ricadere in un differente sistema di reclusione. Infatti, oltre a combattere l’eccessivo determinismo di una certa linea interpretativa del marxismo, che appunto non può rendere conto delle relazioni dialettiche propriamente umane, egli ha dovuto fare i conti con i fallimenti storici disumani del marxismo stesso, in particolar modo il tentativo di incarnazione del comunismo nell’Unione Sovietica, che già negli anni Cinquanta stava mostrando il suo volto più repressivo. A parte nel celebre articolo I comunisti e la pace, che tante critiche costò al filosofo francese, Sartre non nutrì mai realmente fiducia nei confronti del partito comunista come strumento autentico di lotta di classe 25. Su questo punto nella Critica egli è lapidario: «la trasformazione della classe in gruppo non si è mai realizzata in nessun luogo, nemmeno in periodo rivoluzionario»26. La critica di Sartre alla burocrazia staliniana sarà ancora più serrata nel secondo tomo della Critica, ma già nella Teoria degli Insiemi Pratici egli analizza i processi di ricaduta nella serialità dei gruppi rivoluzionari, ossia come si possono produrre nuove relazioni e pratiche disumane proprio a partire dai tentativi di combatterle e superarle. Nei prossimi capitoli, analizzeremo quindi i tre luoghi dai quali proviene il disumano, per chiederci infine se sia possibile superarlo, anche se bisogna rinunciare all’ottimismo di Marx e alla sua fiducia nell’avvento di un comunismo reale: 1. il disumano proviene anzitutto dalla condizione originaria della penuria, che è la negazione del fatto che il mondo possa essere stato fatto 24 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. I, p. 88. «Ora, i dirigenti del Partito, accanitisi a spingere al limite l’integrazione del gruppo, temettero che il libero divenire della verità, con tutte le discussioni e tutti i conflitti che esso comporta, spezzasse l’unità della lotta; si riservarono il diritto di definire la linea e d’interpretare l’avvenimento; inoltre, per paura che l’esperienza portasse i propri lumi, che rimettesse in discussione certe loro idee direttrici e contribuisse a ‘indebolire la lotta ideologica’, collocarono la dottrina fuori dalla sua portata. La separazione della teoria dalla pratica ebbe per risultato di trasformare questa in un empirismo senza principi e quella in un Sapere puro e irrigidito» (ivi, p. 28). 26 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. II, p. 337. Nella classe operaia sono compresi gruppi istituzionalizzati (i quadri), tentativi di gruppi-in-fusione (come i soviet) e molteplicità seriali. 25 41 MARIA RUSSO per l’uomo e per soddisfare i bisogni di tutti; 2. relazioni e pratiche disumane si instaurano come contro-violenza rispetto a questa violenza originaria, come tentativo di alcuni di assicurarsi la propria sopravvivenza selezionando l’accesso alle risorse disponibili. È la disumanità che ritroviamo nella praxis di oppressione e nel processo di sfruttamento, nel rapporto tra il borghese proprietario e l’operaio, tra il colono e il colonizzato, nella relazione di riconoscimento dell’Altro come contro-uomo. A questo livello, le relazioni sono puramente seriali e le molteplicità sono separate benché raccolte in aggruppamenti come le classi sociali; 3. il disumano infine riemerge nei tentativi di liberazione dalle relazioni e dalle pratiche disumane. Proprio per evitare lo scioglimento del gruppo rivoluzionario che dovrebbe modificare radicalmente le condizioni anteriori si genera una nuova violenza che reifica nuovamente le libertà coinvolte: è il Terrore della fraternità fondata sul giuramento, che destina il gruppo-in-fusione a ricadere nella molteplicità seriale attraverso l’istituzione e la burocratizzazione. 3. La violenza originaria della penuria Benché Sartre riconosca alla praxis il ruolo di motore attivo della Storia, e quindi non sia disposto (anche se non lo dichiara esplicitamente nella Critica) a rinunciare alla radicale concezione di responsabilità propria dell’esistenzialismo, egli non ritiene che il mondo si possa dividere rigidamente in classi buone e in classi malvagie. Anche il borghese, in fondo, sta reagendo a una violenza più originaria rispetto a quella che si è organizzata in oppressione e sfruttamento. Per Sartre, «il derubato non è il contrario del ladro, né lo sfruttato il contrario (o il contraddittorio) dello sfruttatore: sfruttatore e sfruttato sono uomini in lotta in un sistema di cui la penuria costituisce il carattere principale»27. Secondo Sartre, il marxismo non ha mai preso seriamente in considerazione questo fattore essenziale, nominato invece più volte, anche se mai all’interno di una visione così pessimista, sia da Hume sia da Smith. Ogni singolo uomo, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, fa il suo ingresso in una situazione dominata dalla penuria, ossia dal fatto contingente ma ineludibile che non ci siano abbastanza risorse per tutti. Si tratta di una penuria di mezzi, di risorse, ma anche di tempo, che investe ogni dimensione dell’umano con questo fondamento disumano: la natura non 27 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. I, p. 97. 42 DALLA PENURIA AL TERRORE è stata progettata per soddisfare i bisogni dell’uomo. Così la descrive Sartre: Tutta l’avventura umana – almeno sinora – è una lotta accanita contro la penuria. Così, a tutti i livelli della materialità lavorata e socializzata, ritroveremo, al fondo di ciascuna delle sue azioni passive, la struttura originaria della penuria, come prima unità che sorge nella materia per opera degli uomini e che si ritorce sugli uomini tramite la materia28. La storia umana è quindi la successione di collettività oppresse dai bisogni, le quali, tramite l’evoluzione dei modi di produzione, selezionano coloro i quali possono soddisfarli e chi invece deve arrendersi alle condizioni disumane che caratterizzano la sotto-umanità. Tuttavia, la penuria non può essere considerata naturale e nemmeno logicamente necessaria. L’ambiguità del suo ruolo all’interno della Critica della ragione dialettica è stata oggetto di diversi studi sartriani. Come sottolinea Michael J. Monahan, Anzitutto, vanno fatte due importanti considerazioni sulla concezione della penuria di Sartre. Primo, lui ha una visione particolare a proposito della necessità della penuria. Da un lato, egli nega immediatamente che essa sia una necessità logica o a priori […]. In modo ugualmente chiaro, Sartre rifiuta la nozione per cui la penuria sarebbe ‘ontologica’ […]. Dall’altro lato, egli sostiene che questo particolare mondo è decisamente un mondo caratterizzato dalla penuria, e sembra molto dubbioso sulla possibilità di superarla29. Tuttavia, la penuria è a sua volta una conseguenza della praxis umana30; 28 Ivi, p. 249. E, ancora, qualche riga più avanti: «In tal senso, bisogna dire che è la penuria a fare di noi questi individui producenti questa Storia e autodefinentisi come uomini». 29 M.J. MONAHAN, Sartre’s Critque of Dialectical Reason and the Inevitability of Violence. Human Freedom in the Milieu of Scarcity, in «Sartre Studies International», vol. 14, n. 2, 2008, p. 50 (nostra traduzione). Poco più avanti, la penuria viene paragonata da Monahan alla forza di gravità del pianeta Terra. 30 «In altre parole, la praxis umana (la libertà) è sia la causa sia la conseguenza della penuria. È la causa nella misura in cui le nostre scelte e azioni fanno uso e perfino esacerbano la penuria, ed è una conseguenza nella misura in cui le nostre scelte e azioni sono sempre condizionate da e sono intelligibili nel contesto della penuria» (ivi, p. 51; nostra traduzione). La stessa ambiguità viene richiamata anche da Debra Bergoffen: «Anche se Sartre inizia con il subordinare la penuria alla praxis, egli sembra anche ritenere che la penuria condizioni la praxis, e fondamentalmente si riferisce alla penuria come alla contingente ma vera fondazione della storia». D. BERGOFFEN, Sartre and the Myth of Natural Scarcity, in «Journal of the British Society for Phenomenology», vol. 13, n. 1, 1982, p. 21 (nostra traduzione). Poco più avanti sostiene inoltre: «Nella Critica, la penuria è rappresentata come condizionante la praxis: fino a quando la mia libertà è conosciuta attraverso la realtà 43 MARIA RUSSO con un’argomentazione analoga a quella di Monahan, Joseph Catalano sottolinea che: «Questo mondo è un mondo di lotta, perché non c’è abbastanza per tutti. Ma diverrà chiaro che questa penuria è anche il mondo reso limitato dalla praxis»31. Le singole praxeis hanno contribuito a mantenere questo pianeta nella condizione di penuria. Nessuna scoperta scientificotecnologica, contro ogni aspettativa ottimista di un certo marxismo, ha realmente risolto il problema della scarsità delle risorse. Tuttavia, per Sartre non è logicamente impossibile immaginare un mondo che non sia caratterizzato dalla penuria, che si tratti di un altro pianeta, o della stessa Terra in un futuro lontano. Una simile condizione potrebbe concretamente aprire la possibilità di una praxis e di un lavoro non alienati 32. Tuttavia, di fatto, la penuria è universale, anche se ovviamente interessa maggiormente alcune regioni del globo e certi periodi storici. È dalla penuria come primo ostacolo ineludibile che discendono le modalità relazionali con l’Altro inteso come contro-uomo e le pratiche di oppressione e di violenza 33. Secondo Ronald Santoni, infatti, Se dovessimo usare solo due parole per rappresentare la violenza nella Critica, queste sarebbero ‘penuria interiorizzata’ (rareté intériorisée). Le condizioni materiali della penuria divengono qui il nodo centrale. La penuria è l’ambiente della violenza e, di conseguenza, della nostra storia 34. della penuria essa non può che esprimersi violentemente. Definire la penuria contingente, comunque, consente a Sartre di suggerire che i limiti imposti dalla penuria alla libertà non siano essenziali, e che quindi non siano per principio una negazione della tesi della libertà assoluta» (ivi, p. 24; nostra traduzione). 31 J.S. CATALANO, A Commentary on Jean-Paul Sartre’s Critique of Dialectical Reason, The University of Chicago Press, Chicago 1986, p. 108 (nostra traduzione). 32 «[La penuria] non fonda […] la possibilità di ogni Storia, perché non abbiamo nessun modo di sapere se, per altri organismi, in altri pianeti, o per i nostri discendenti, nel caso in cui le trasformazioni tecniche infrangessero la struttura della penuria, un’altra Storia, costruita su un’altra base, con altre forze motrici e altri progetti interni, sia o no logicamente concepibile […]. Dire però che la nostra Storia è storia degli uomini o dire che è nata e che si sviluppa nell’ambito permanente di un campo di tensione, prodotto dalla penuria, è tutt’uno» (SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. I, p. 251). 33 Su questo tema si vedano anche P. VERSTRAETEN, Violence et éthique. Esquisse d’une critique de la morale dialectique à partir du théâtre politique de Sartre, Gallimard, Paris 1972 e G. SEEL, Sartres Dialektik. Zur Methode und Begründung seiner Philosophie unter besondere Berücksichtigung der Subjekts-, Zeit- und Werttheorie (“Abhandlungen zur Philosophie, Psychologie und Pädagogik”, vol. 68), Bouvier, Bonn 1971. 34 R.E. SANTONI, Sartre on Violence: Curiously Ambivalent, The Pennsylvania State University Press, University Park (PA) 2003, p. 34 (nostra traduzione). 44 DALLA PENURIA AL TERRORE La penuria interiorizzata rende l’uomo un uomo-penuria, il quale prende le sue decisioni etiche, economiche e sociali in base a questa condizione che risulta, di fatto, insuperabile, ma che anzitutto l’uomo considera come insuperabile, al pari di un destino. La penuria definisce quindi il rapporto dell’uomo con la natura, con la materialità e, di conseguenza, con l’Altro. Da qui non potranno che instaurarsi relazioni disumane. Infatti, il soddisfacimento di un bisogno legato al consumo di un determinato prodotto implica sempre altresì il fatto che quello stesso bene non possa essere usufruito da altri – a prescindere dall’appartenenza o meno a una stessa società. Ogni essere umano si presenta quindi come un’inquietante minaccia all’umano stesso. Nella storia dell’umanità, si sono inventate diverse tecniche per gestire la cosiddetta popolazione in eccedenza, ossia assembramenti d’uomini che venivano considerati “di troppo” (alcuni esempi sono l’omissione di cure verso determinate fasce di età come bambini e anziani o il controllo delle nascite). Per Sartre, ogni individuo si caratterizza quindi come «nello stesso tempo un sopravvivente possibile e un eccedente da sopprimere»35, al punto che «per ciascuno, l’uomo esiste in quanto uomo disumano o, se si preferisce, come specie estranea. […] O, in altri termini, ciascuno è uomo disumano per tutti gli Altri, considera tutti gli Altri come uomini disumani e tratta realmente l’Altro con disumanità»36. In questo cortocircuito del riconoscimento, ogni individuo è vittima della penuria e suo prodotto storico e, allo stesso tempo, il sopravvivente carnefice che sta limitando agli altri l’orizzonte dei possibili. La reciprocità, che nei Quaderni per una Morale non solo sembrava avverabile ma che addirittura inaugurava modalità di aiuto concreto come l’appello, viene qui intesa come il riconoscimento dell’Altro in quanto radicalmente Altro, come la possibilità del mio stesso annientamento. L’Altro viene infatti definito nella Critica il «doppio demoniaco» 37, in una competizione mortale che supera ogni forma di antagonismo e richiama la stessa lotta per la sopravvivenza. L’Altro, volto della penuria, diventa il male da eradicare 38. Quando Sartre descrive queste dinamiche non sta pensando necessariamente a situazioni dove è in gioco la vita o la morte. Anche quando il bisogno è stato soddisfatto, l’Altro appare come possibile negazione di qualsiasi soddisfacimento futuro. Questo vale tanto per le tribù primitive 35 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. I, p. 255. Ivi, pp. 255-256. 37 Ivi, p. 257. 38 «Così l’uomo è oggettivamente costituito come disumano e questa disumanità si traduce nella praxis con l’avvertire il male come struttura dell’Altro» (ivi, p. 258). 36 45 MARIA RUSSO quanto per la presunta avarizia morale che caratterizza il modello economico capitalista. L’uomo vivrà la distruzione del male (cioè la risposta al rischio permanente del proprio annientamento e di quello del proprio gruppo di appartenenza) come un vero e proprio imperativo etico, al fine di realizzare il quale non esiterà a impiegare un uso massiccio della violenza. Essa però non sarà mai percepita come un’azione originaria, ma come una contro-violenza, ossia come una risposta alla violenza originaria della penuria esperita tramite il rischio dell’Altro. Sennonché, ogni condotta violenta implica una insolvibile contraddizione: «distruggendo nell’avversario la disumanità del contro-uomo, non posso, di fatto, che distruggere in lui l’umanità dell’uomo e realizzare in me la sua disumanità» 39. La penuria, quindi, definisce, nella commutatività, ogni uomo ed ogni molteplicità parziale come realtà umane e disumane insieme; ogni individuo, per esempio, in quanto rischia di consumare un prodotto di prima necessità per me (e per tutti gli Altri) diventa eccedentario: mi minaccia la vita nella misura stessa in cui è il mio simile; diventa dunque disumano in quanto uomo40. Nel tentativo di superare la condizione disumana della penuria l’uomo ha contraddittoriamente instaurato ulteriori dinamiche disumane. Come già accennato, Sartre non ritiene che questo svolgimento sia necessario, ma si trova ad ammettere che è ciò che è finora avvenuto nella storia, a partire dai tempi antichi e senza alcun margine di miglioramento. 4. La contro-violenza dell’oppressione e dello sfruttamento Nel tentativo di superare questa fatticità originaria, l’uomo si è impegnato nel progresso tecnico e scientifico, con la speranza (in parte condivisa dal marxismo) che nuove invenzioni avrebbero garantito il superamento definitivo della penuria. Nelle società più complesse, questa aspettativa ha generato invece un’ulteriore contraddizione: il bisogno di manodopera per incrementare la produzione (soprattutto fino allo sviluppo di macchine sempre più evolute) e la necessità di sfamare la classe sociale che subisce questo sfruttamento. Si è 39 Ivi, p. 259. Dei limiti e delle contraddizioni della contro-violenza abbiamo già discusso in M. RUSSO, Counter-violence and Islamic Terrorism. Is Liberation without Freedom Possible?, in «Sartre Studies International», vol. 23, n. 1, 2017. 40 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. I, p. 389. 46 DALLA PENURIA AL TERRORE quindi generata una sovrapproduzione di determinati beni che ha necessitato l’ampliamento del mercato al di là dei confini nazionali senza che però fossero soddisfatti i bisogni elementari di tutti. Invece di risolvere la penuria, si è scelta una produzione disumana, cioè di beni che solo alcuni sono nelle condizioni di poter consumare: La penuria del consumatore rispetto a questo o quel prodotto è condizionata dalla penuria di tutti i prodotti rispetto a tutti i consumatori. Proprio sulla base di questa penuria fondamentale, infatti, si sono definite, muovendo dal modo di produzione, certe relazioni di produzione che escludono istituzionalmente certi gruppi sociali dal consumo pieno e che riservano tale consumo ad altri gruppi (in numero insufficiente per consumare tutto)41. Soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, un’intera classe sociale, quella del proletariato, viene individuata come l’assembramento sacrificabile, l’insieme eccedente per il quale non sono disponibili risorse. Nelle democrazie liberali l’operaio e il proprietario borghese sembrano formalmente godere degli stessi diritti e di una sorta di eguaglianza universale. Tuttavia, il loro è un rapporto puramente impersonale, una relazione disumana a partire dalla firma del cosiddetto libero contratto42. Esso dovrebbe implicare l’indipendenza di entrambi i contraenti, ma in realtà l’operaio è costretto a vendersi come merce, a ridursi a mera cosa, per la sopravvivenza di se stesso e del proprio nucleo familiare. Per Sartre, «questo esempio dimostra abbastanza che l’uomo diventa cosa, per l’altro e per se stesso, solo nella misura in cui viene prima posto dalla praxis come libertà umana»43. In realtà, al di là dei riconoscimenti puramente formali, il proletario o, ancora peggio, il colonizzato, non sono considerati come dei veri e propri uomini. La relazione che s’instaura con costoro è disumana perché essi vengono ridotti allo stadio di sotto-uomini, impedendo il loro accesso alla cultura e perfino alle pratiche religiose, come nei campi di coltivazione dell’America del Seicento44. 41 Ivi, p. 265. «Il solo rapporto possibile tra i padroni e gli operai è il contratto di lavoro, che va rispettato da ambo le parti ma che è, in se medesimo, la negazione radicale delle relazioni umane» (ivi, p. 417). 43 Ivi, p. 235. 44 Questo è particolarmente evidente nei casi di schiavitù esplicita del mondo moderno: «È nota la contraddizione del razzismo, del colonialismo e di ogni forma di tirannia: per trattare un uomo come un cane, bisogna averlo anzitutto riconosciuto come uomo. Il disagio segreto del padrone sta nel fatto che è continuamente costretto a prendere in considerazione la realtà umana nei suoi schiavi (sia che conti sulla loro abilità o sulla comprensione sintetica delle 42 47 MARIA RUSSO Vi è «nell’uomo della penuria, una dimensione pratica di nonumanità»45, che implica un riconoscimento disumano, un rifiuto dell’Altro, l’instaurazione di una praxis-processo di oppressione e sfruttamento. Secondo Sartre, il marxismo ha sottovalutato questo elemento permanente di negatività nella Storia, che è «la perenne possibilità, [per l’uomo] nella sua stessa esistenza, di essere colui che fa morire gli Altri o che gli Altri fanno morire, ossia la penuria»46. Quest’ultima si caratterizza quindi come principio d’intelligibilità dialettica. Lo stesso sviluppo storico non risulta comprensibile se non si intendono le dialettiche tra le varie praxeis come tentativi di reazione rispetto a questa condizione originaria. Il che vuol dire che la praxis dell’uomo-penuria è anzitutto una praxis ostile nei confronti dell’Altro, sia esso un singolo individuo, un assembramento di serialità o un gruppo più o meno organizzato. Delle possibilità di riconoscimento autentico previste nei Quaderni per una Morale non rimane alcuna traccia: anche se “vedessimo un uomo di spalle” (l’alternativa dei Quaderni allo sguardo oggettivante de L’essere e il nulla) si tratterebbe comunque di un competitore pericoloso. Come vedremo, l’unica possibilità di riconoscimento che reca un segno positivo nella Critica è la fraternità del gruppo-in-fusione, che però a sua volta tende a dissolversi e implica la reintroduzione dell’alterità con la pratica del giuramento. La praxis ostile si organizza come oppressione diffusa e sfruttamento, ossia un processo il quale semplicemente si perpetra come destino, senza alcuna assunzione di responsabilità. Lo sfruttamento è rivolto tanto verso gli operai quanto rispetto alle stesse materie prime, che vengono prelevate fino all’esaurimento. In questo quadro, la lotta alla penuria non ha comportato un miglioramento delle condizioni di vita del maggior numero possibile di persone. Per esempio, un evento tecnicamente positivo come l’utilizzo del carbone su larga scala ha solamente prodotto divisioni ancora più nette tra le classi sociali. Poiché l’industria non è ancora in grado di superare la contingenza originaria della penuria è stata scelta la quota di popolazione da sacrificare (sotto-uomini sotto-alimentati) pur di mantenere un certo livello di vita per alcuni. situazioni, sia che prenda le sue precauzioni contro la possibilità permanente di una rivolta o di un’evasione), pur rifiutando loro lo statuto economico e politico che definisce in quel tempo gli esseri umani» (ivi, p. 236). Sartre ritorna più volte sul tema: «Il razzismo deve rendersi pratico: non è un risveglio contemplativo dei significati incisi sulle cose, ma è, in se medesimo, violenza che si dà la propria giustificazione: violenza che si presenta come violenza indotta, controviolenza e legittima difesa» (ivi, p. 375). 45 Ivi, p. 272. 46 Ivi, pp. 273-274. 48 DALLA PENURIA AL TERRORE La praxis dell’uomo, volta a superare la penuria, genera quindi l’antipraxis, una contro-finalità che la investe e la rende altra da ciò che avrebbe voluto essere: «l’uomo non deve soltanto lottare contro la Natura, contro l’ambiente sociale che l’ha generato e contro altri uomini, ma anche contro la propria azione in quanto diventa altra» 47. La materia è una sorta di «praxis rovesciata» 48, che ritorna all’uomo con un risultato disumano. È l’esempio delle terribili conseguenze del disboscamento delle foreste da parte dei contadini cinesi: il loro tentativo di dominare la natura ha causato continue inondazioni che hanno flagellato i campi per i quali avevano tagliato gli alberi. Un altro esempio è tratto dall’accumulazione di oro peruviano nelle casse di Filippo II, che invece di produrre un arricchimento del paese ha provocato una terribile inflazione che ha poi contribuito al tramonto della supremazia spagnola e, più in generale, del mondo mediterraneo (l’aumento ipertrofico dello stock ha infatti implicato la svalutazione dell’unità monetaria). Un ultimo esempio, che ci tocca più da vicino, riguarda l’inquinamento dell’aria in seguito alla prima rivoluzione industriale, che prima ha peggiorato le condizioni di vita degli operai nelle fabbriche, ma poi ha raggiunto gli stessi borghesi nelle città e nelle campagne. Già nei Quaderni per una Morale Sartre aveva mostrato come un essere umano potesse essere considerato inessenziale rispetto all’essenzialità di un fine da raggiungere a tutti i costi, come può essere qui il superamento della penuria. In questa relazione disumana, dove gli uomini sono considerati semplici strumenti, si viene a creare una sorta di equivalenza tra la materia lavorata e l’uomo, un fenomeno di simbiosi indissolubile fra il complesso materiale, in quanto materia umanizzata, e un complesso umano corrispondente, in quanto uomini disumanizzati: così si dice ‘la fabbrica’, o la ‘impresa’, per indicare sia un certo complesso d’utensilità, cinto da mura che ne realizzano materialmente l’unità, sia il personale che l’occupa, sia le due cose in una volta e nell’indifferenziazione intenzionale49. L’uomo e il prodotto si scambiano qualità e caratteristiche: quest’ultimo diventa l’essenziale e l’uomo, in seguito al processo di reificazione, una merce qualsiasi. A questo punto, è la materia che definisce l’attività dell’uomo, attraverso un’esigenza che deriva dal prodotto stesso e che non ha più 47 Ivi, p. 250. Ivi, p. 289. 49 Ivi, pp. 307-308. 48 49 MARIA RUSSO alcun legame con i bisogni naturali dell’essere umano. L’imperativo autoreferenziale della materia (“è il mercato che lo richiede”, “se vuoi un salario devi fare così”) rende quindi il lavoro disumano. Le due regioni ontologiche dell’in-sé e del per-sé, rigorosamente distinte ne L’Essere e il nulla, sembrano qui perdere i loro confini per fondersi insieme nell’ambito del pratico-inerte, che si costituisce così non come un nuovo momento delle dialettiche, ma come l’anti-dialettica che ostacola il movimento dialettico stesso. Questa dinamica, come era già stato sottolineato dal marxismo, è ovviamente destinata a intensificarsi con l’introduzione delle macchine, interesse per il padrone e destino per l’operaio. Sono queste ultime che qualificano il lavoratore (manovale, aiutante, specializzato): «la macchina organizza gli uomini» 50. In questo senso, per Sartre la materia può essere definita «stregata»51: essa esercita un potere di disumanizzazione che sembra essere magico in quanto proveniente dall’inorganico (ossia, da ciò che non può porre fini). Inoltre, alla relazione disumana tra il proprietario della fabbrica e l’operaio (che deve vendersi liberamente come merce) si aggiunge quella tra gli stessi operai, i quali, in un antagonismo concorrenziale che si costituisce come anti-praxis, si vendono al prezzo più basso facendo così esclusivamente gli interessi del padrone. Il borghese, in questo quadro, non è però per Sartre un individuo vittorioso; in realtà, anch’egli organizza la propria vita in funzione degli imperativi della materia, al punto da non riuscire più a distinguere il proprio interesse da quello della fabbrica52: lo stesso profitto è un fine o un semplice mezzo per l’incremento della fabbrica stessa, a prescindere dal fatto che questo sviluppo sia poi sostenibile? L’imprenditore di Rouen, il quale si indebita per comprare delle macchine, a costo di licenziare in tronco i suoi operai, al fine di arrivare prima degli altri concorrenti o per non restare escluso dal mercato, che interesse sta seguendo? In questa competizione spietata, la classe borghese non si costituisce quindi come gruppo organizzato intorno a un fine comune; si tratta di un aggruppamento seriale che viene unificato solo dalla percezione che hanno di esso le altre classi, prima tra tutte quella del proletariato: «l’unità concreta della classe borghese può venir realizzata soltanto in un rifiuto comune dalla praxis comune degli operai» 53. 50 Ivi, p. 360. Per Sartre da questo dinamismo deriva anche il fallimento del movimento anarco-sindacalista dei primi anni del ’900: l’operaio specializzato si percepiva diversamente dal manovale generico. 51 Ivi, p. 340. 52 «L’interesse è la vita negativa della cosa umana nel mondo delle cose, in quanto l’uomo si reifica per servirlo» (ivi, p. 325). 53 Ivi, p. 335. 50 DALLA PENURIA AL TERRORE La classe non è quindi per Sartre, a differenza della corrente marxista nella quale vuole inserirsi, il luogo di un’organizzazione consapevole, bensì è un collettivo caratterizzato dalla molteplicità della serie. Non ritroviamo infatti nella Critica l’ottimismo che contraddistingue l’idea della lotta di classe: in questo peculiare assembramento vige la separazione. Il gruppoin-fusione nasce all’interno della serie (quindi all’interno della classe sociale) proprio in quanto negazione della sua impotenza intesa come incapacità di organizzarsi intorno a un fine comune 54. La classe come collettivo diventa cosa materiale fatta con uomini, in quanto si costituisce come negazione dell’uomo e come impossibilità seriale di negare questa negazione. Tale impossibilità rende la classe una necessità di fatto: è il destino che non si può cambiare. Essa non è una solidarietà pratica ma, anzi, l’unità assoluta dei destini per mancanza di solidarietà55. Il fatto dell’alterità, richiamato anche nei Quaderni per una Morale, implica la separazione delle coscienze; tuttavia, la condizione originaria della penuria «trasforma la separazione in antagonismo»56. La materia diventa allora il mezzo con cui si cerca di prevalere in questo conflitto competitivo, ma spesso, come abbiamo visto, essa restituisce il contrario di ciò che si era posta la singola praxis. È il momento del riconoscimento dello scacco: “volevo realizzare questo fine e invece ho realizzato qualcos’altro”. È qui che l’individuo, a prescindere dalla classe di appartenenza, sperimenta la dialettica della necessità, che «si presenta nell’esperienza quando la materia lavorata ci sottrae la nostra azione, non in quanto materialità pura, ma in quanto praxis materializzata»57. La necessità non si contrappone alla libertà come suo contrario, bensì è un movimento che infetta la libertà dal suo interno, proprio come il nulla era un verme nel nocciolo dell’essere secondo la nota metafora del testo del 1943. 54 «Così, l’altra forma della classe, cioè il gruppo totalizzante in una praxis, nasce in seno alla forma passiva e come sua negazione. Una classe interamente attiva – ossia i cui membri fossero tutti quanti integrati a una sola praxis e i cui apparati invece di opporsi si organizzassero nell’unità – si è realizzata soltanto in taluni momenti rarissimi (e tutti rivoluzionari) della storia operaia» (ivi, p. 436). 55 Ivi, p. 431. 56 Ivi, p. 342. 57 Ivi, p. 345. Poco dopo, Sartre specifica: «In altri termini, l’esperienza elementare della necessità è quella di una potenza retroattiva che insidia la mia libertà, dall’oggettività finale fino alla decisione originaria, pur nascendo da essa; è la negazione della libertà in seno alla libertà piena, sostenuta dalla libertà stessa […]» (ivi, p. 347). 51 MARIA RUSSO Questa necessità, che nasce dall’alienazione della stessa libertà, non viene considerata come un destino rispetto al quale ci si può considerare semplici pedine non responsabili. Benché la praxis produca il proprio doppio demoniaco (l’anti-praxis) essa resta il luogo in cui si consuma il continuo processo di disumanizzazione dell’umano: Quindi solo la praxis, in quanto appare tra la molteplicità inerte (e astratta) del numero e l’esteriorità passiva (egualmente astratta) dello psico-chimico, è, nella sua libertà dialettica, il fondamento reale e permanente (nella storia umana e sino ad oggi) di tutte le sentenze disumane che gli uomini pronunciano sugli uomini tramite la materia lavorata. In essa la molteplicità, la penuria, l’esteriorità, l’improbabilità di una continuazione della vita sono interiorizzate e umanizzate come la disumanità interna del genere umano; per essa, quei medesimi caratteri del disorganico assumono un aspetto pratico e diretto di Fato e la loro semplice non-umanità diventa controfinalità o antiumanità58. Nel secondo volume della Critica della Ragione Dialettica la penuria resta un’infezione presente a ogni livello. E, «ogni volta essa significa che il mondo non è fatto per l’uomo. […] L’uomo, in quanto prodotto del mondo, non è fatto per l’uomo» 59. Nonostante questa immagine radicale di inospitalità per l’uomo, sia da parte del mondo sia dell’uomo stesso, Sartre ammette che la molteplicità seriale tenta di superare la propria impotenza costituendosi in gruppi caratterizzati dalla volontà di realizzare un fine comune. Tuttavia, come vedremo, anche i gruppi sono destinati a produrre essi stessi il proprio scacco, replicando così nuove relazioni e pratiche disumane. 5. Tentativi disumani di combattere il disumano: come il gruppo ricade nella serialità Il gruppo-in-fusione che contraddistingue il momento apocalittico della rivoluzione come radicale negazione della situazione si crea per combattere il disumano. La lotta, vero motore storico attivo, è il tentativo per Sartre di realizzare l’umano il quale, appunto, non costituisce una natura comune, bensì un compito normativo difficilmente realizzabile. Come abbiamo visto, le maglie della penuria sono così strette da non lasciare molto spazio a relazioni non antagonistiche. Come ha sottolineato Andrew J. Douglas, 58 59 Ivi, p. 451. SARTRE, L’intelligibilità della Storia, cit., pp. 286-287. 52 DALLA PENURIA AL TERRORE questa disumanità alla radice delle relazioni umane limita fortemente anche la stessa immaginazione politica che ha contraddistinto il mondo moderno: Sartre ci suggerisce che noi tendiamo a interiorizzare i conflitti sulle risorse materiali al punto che arriviamo a esporre una sorta di ethos o sensibilità politica hobbesiana. Anche se potremmo condividere ideali di cooperazione e di interazione umana pacifica e produttiva, d’altra parte noi restiamo profondamente sospettosi l’uno dell’altro, spesso riluttanti ad agire bene sulla base dei nostri impegni etici e politici. Sottolineando il significato fisico della nostra situazione in questo contesto di penuria, le ottiche dialettiche di Sartre incoraggiano a sviluppare una più nitida attenzione verso alcune costrizioni materiali e intellettuali che potrebbero prevenire le possibilità che i teorici contemporanei immaginano e difendono60. Inizialmente, il gruppo-in-fusione sembra rimandare all’ideale del regno dei fini kantiano. Ognuno dei Terzi che istituisce la reciprocità mediata è una sorta di sovrano provvisorio: «nel gruppo in via di costituzione, il capo sono sempre io, non ce ne sono altri, io sono sovrano e scopro nella mia praxis le parole d’ordine che vengono dagli altri terzi» 61. Questo momento, che Sartre associa alla spontaneità quasi anarchica dei sanculotti piuttosto che al Comitato di Salute Pubblica, è però destinato a durare pochissimo, per poi ricadere in una nuova molteplicità seriale 62, con la gerarchia che individua una divisione dei ruoli e delle mansioni e un leader che sembra richiamare l’immagine mitologica del potere del Leviatano di Hobbes («solo il sovrano può e deve essere libero» 63). Inoltre, anche quando la molteplicità seriale riesce a costituire il gruppoin-fusione, si perpetrano i meccanismi della contro-violenza per cui la libertà individuale è l’inessenziale rispetto a un fine che è posto come ciò che si deve realizzare a tutti i costi, compresa la morte dei singoli partecipanti. Anzitutto, «se il gruppo deve realmente costituirsi con una praxis efficace, liquiderà in sé le alterità ed eliminerà i ritardatari o gli oppositori; questo 60 A.J. DOUGLAS, In a Milieu of Scarcity: Sartre and the Limits of Political Imagination, in «Contemporary Political Theory», vol. 10, n. 3, 2011, p. 356 (nostra traduzione). 61 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. II, p. 58. 62 «I ‘Vincitori della Bastiglia’ in quanto tali sono ormai uniti soltanto da un atto anteriore e inciso nell’Essere, e insieme dalla volontà di sfruttarlo a loro vantaggio o a vantaggio di una certa politica: non si tratta più dello stesso gruppo né degli stessi uomini. Conviene dunque caratterizzare il gruppo in fusione come processo irreversibile e limitato: il riordinamento da parte dell’uomo delle relazioni umane si temporalizza nell’ambito pratico di un certo fine da raggiungere e non sopravvivrà come tale alla sua oggettivazione» (ivi, pp. 51-52). 63 Ivi, p. 276. 53 MARIA RUSSO significa che la libertà comune si farà in ognuno contro di essi»64. In un secondo momento, nel giuramento, che poi tramuterà il gruppo-in-fusione in gruppo organizzato e infine nella forma morta dell’istituzione, ogni Terzo regolatore diviene l’Altro che può minacciare l’unità del gruppo e quindi, in ultima analisi, deve giurare contro se stesso, come garanzia contro se stesso 65. Sartre ha sempre criticato l’assurdità della promessa in quanto ipoteca sulla propria libertà futura, e anche se qui non riprende l’analisi condotta ne L’essere e il nulla e nei Quaderni per una Morale, possiamo comunque cogliere il pericolo insito nel giuramento come tentativo di fossilizzare la propria libertà in divenire, la forma di vita propria dell’esistenza in una posizione fissa e immutabile. Il giuramento è una sorta di congelamento del movimento dialettico, laddove i membri del gruppo (che non vengono nemmeno più definiti come individui) possono limitatamente entrare in nuove relazioni dialettiche, senza però mettere in discussione l’unità comune. Il gruppo non deve disperdersi, costi quel che costi (Sartre ha in mente il giuramento storico della Pallacorda che, prima ancora di definire una praxis comune, era anzitutto una volontà di non sciogliere l’unità del Terzo Stato). La cura sembra però costare più del male da combattere: «il gruppo cerca di rendere se stesso suo proprio utensile contro la serialità che minaccia di dissolverlo; crea un’inerzia fittizia che lo protegge contro le minacce del pratico-inerte»66. In questo senso, l’uomo è violento e disumano sia nei confronti del contro-uomo che individua come nemico, mediante le pratiche di oppressione e di sfruttamento, sia nei confronti di chi riconosce come fratello, in una sorta di perversione della dinamica del riconoscimento. Il fratello è colui che si può sempre trasformare a sua volta nel contro-uomo; proprio per questo il vincolo di fraternità è costituito dal Terrore (iconico è chiaramente il periodo giacobino del 1793, ma Sartre ha in mente anche le epurazioni che hanno seguito la Rivoluzione d’Ottobre con il regime di Stalin67). Il gruppo, 64 Ivi, p. 65. «Siamo fratelli in quanto, in seguito all’atto creatore del giuramento, siamo i nostri propri figli, la nostra invenzione comune. E la fratellanza, come nelle famiglie reali, si traduce nel gruppo con un insieme di obblighi reciproci» (ivi, p. 97). 66 Ivi, p. 81. 67 «Mentre la sua specifica analisi nel Volume I inizia con la presa della Bastiglia, e la maggior parte dei suoi riferimenti sono tratti dalla Rivoluzione Francese, lo studio del passaggio dal gruppo-in-fusione al Terrore, all’istituzionalizzazione della rivoluzione, alla burocrazia e al culto della personalità finisce per menzionare non Napoleone, bensì Stalin […]. Considerato per se stesso, il Volume I potrebbe non consentirci di sostenere che nelle sezioni centrali Sartre cercava di comprendere la Rivoluzione Russa attraverso quella Francese. Tuttavia, questa impressione è rafforzata non solo retrospettivamente, ma è chiaramente anticipata dalle analisi del comunismo in I comunisti e la pace e Lo spettro di Stalin, 65 54 DALLA PENURIA AL TERRORE dopo il giuramento, non sarà più quindi un insieme di individui che lottano per un fine comune, ma una nuova forma di coercizione: Da parte del terzo che scopre il gruppo in pericolo di morte nella sua stessa persona e in quella degli Altri, il superamento si compie riaffermando il gruppo come pericolo di morte immediato per ogni praxis che ridiventi individuale e sprofondi nella serialità. Il gruppo come azione su di sé a livello della sopravvivenza non può che essere coercitivo68. In questa nuova forma di organizzazione «è la libertà che ritorna all’uomo come potere sovrumano e pietrificato»69. Garantire la libertà contro la necessità rendendo la libertà necessaria non significa appunto disumanizzare quella libertà? Arrivare a sopprimere quella libertà individuale se non continua ad aderire alla libertà stabilita dal gruppo-in-fusione non è forse l’anti-praxis per eccellenza? Il Terrore che istituisce il rapporto di fraternità tramuta il fine umano di distruggere il disumano in un fine disumano che annienta le possibili pratiche e relazioni umane all’interno del gruppo. A questo punto, il gruppo organizzato implica delle esigenze da realizzare a ogni costo proprio come la macchina all’interno della fabbrica: non è un organismo pratico, bensì un vero e proprio dispositivo di potere (anticipiamo qui un’espressione che non utilizza Sartre, ma che in seguito sarà ampiamente impiegata da Michel Foucault). I membri del gruppo divengono meri strumenti inorganici funzionali al mantenimento del gruppo stesso70, proprio come gli operai sono funzionali alla macchina. Di certo si tratta di due relazioni disumane differenti, ma che si producono entrambe a partire da una praxis che si vorrebbe libera: la libertà puramente formale del contratto tra operaio e proprietario, la libertà che si vuole salvaguardare nel gruppo. Questa pietrificazione della libertà consente a Sartre di spiegare come sia stata possibile la Restaurazione dopo la Rivoluzione Francese così come il Partito della burocrazia nell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Tuttavia, questi due esempi storici non sembrano essere esclusivamente e soprattutto nelle pagine centrali del Volume II» (R. ARONSON, Sartre’s Second Critique, The University of Chicago Press, Chicago and London 1987, pp. 30-31; nostra traduzione). 68 SARTRE, Critica della ragione dialettica, cit., vol. II, p. 90. 69 Ivi, p. 101. 70 «Nel momento vivo del gruppo (dalla fusione ai primi stadi dell’organizzazione) l’individuo comune non è inessenziale perché è il medesimo in tutti, ossia è l’ubiquità del gruppo come molteplicità negata da una praxis; bisogna piuttosto dire che ciascuno viene a ciascuno, attraverso la comunità, come portatore della stessa essenzialità. Ma al livello del gruppo degradato, l’individuo, nella sua negazione terrorista esteriorizzata della propria libertà, si costituisce come inessenziale rispetto alla sua funzione» (ivi, p. 257). 55 MARIA RUSSO dei casi particolari, bensì la dimostrazione di una dinamica insita nella formazione di gruppi di lotta in un contesto fortemente caratterizzato dalla penuria71. A questo livello, non sembra possibile sperare che una futura lotta possa generare conseguenze differenti – anche se Sartre continuerà a sostenere nuove forme di rivolta, dall’alternativa dei Balcani di Tito all’avventura cubana di Che Guevara. Peraltro, lo stesso gruppo-in-fusione non si costituisce perché si creano relazioni di solidarietà e di aiuto (le condotte autentiche che aveva immaginato nei Quaderni per una Morale), bensì in contrapposizione ad assembramenti esterni che vengono riconosciuti come nemici. Sartre ammette che molto spesso «le possibilità di autodeterminazione in gruppo provengono al collettivo dalle relazioni antagonistiche che esso ha con un gruppo già costituito o con una persona come rappresentante del gruppo» 72. È quindi il nemico comune che fa riconoscere il proprio compagno di lotta come fratello. È quanto Sartre sostiene anche nella discussa Prefazione ai Dannati della Terra: il popolo algerino si riconosce nella sua unità dopo aver individuato nel colono francese l’indiscutibile nemico. Sartre aveva già analizzato le contraddizioni della contro-violenza nei Quaderni per una Morale, ma al contempo non ha mai voluto negare, per timore di risultare un pensatore borghese, la necessità della rivoluzione armata. L’unico modo per prendere sul serio le sofferenze dei popoli oppressi sembrò a Sartre quello di sostenere la loro lotta nonostante contraddizioni, limiti e inefficienze. Questa dinamica è però caratterizzata alla sua base da un riconoscimento negativo, fondato sulla violenza e sul rifiuto, e non può che produrre dinamiche disumane di contro-violenza. È proprio questo tipo di riconoscimento che Sartre mette finalmente in discussione ne La speranza oggi. 71 «Il gruppo, la cui origine e il cui fine consistono in uno sforzo degli individui radunati per dissolvere in sé la serialità, finisce, nel corso della sua lotta, per riprodurre in sé l’alterità e si irrigidisce nell’inorganico» (ivi, p. 250). 72 Ivi, p. 26. Anche nel secondo tomo della Critica della Ragione Dialettica, la relazione originaria rimane quella fondata sull’antagonismo: «La rarità non è solo l’ambiente: interiorizzandosi nell’uomo della rarità, essa costituisce anzitutto una prima relazione antagonistica di ciascuno con tutti e con ciascuno. Per di più, essa costituisce nel gruppo dominante l’ambizione, la violenza, la volontà di spingersi fino all’estremo della rarità, e lo fa mediante questa trasposizione dialettica: l’uomo del raro diventa l’uomo raro e si interiorizza come prezioso» (SARTRE, L’intelligibilità della Storia, cit., p. 536). 56 DALLA PENURIA AL TERRORE 6. Conclusioni. Per un nuovo concetto di fraternità: la possibilità di un’etica “nella” penuria Resta da chiederci se per Sartre sia verosimile concepire un mondo in cui la penuria possa essere definitivamente sconfitta e, con essa, le relazioni e le pratiche di disumanizzazione che ha sempre generato nella storia. Come abbiamo visto, questa risposta non si trova nella Teoria degli Insiemi Pratici dove è stata elaborata la stessa nozione di penuria; anche nel secondo tomo incompiuto della Critica “l’uomo della rarità” s’imbatte nei medesimi meccanismi. Nel quadro teorico di questa opera, che ha occupato Sartre almeno dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, la fraternità è una relazione che si instaura per combattere la disumanizzazione delle relazioni e delle pratiche umane, che però si rivelerà essere a sua volta disumana. È un riconoscimento, come abbiamo visto, fondato su un fine comune e soprattutto su un nemico che è tale per tutti i membri del gruppo. Nel 1980, intervistato da Benny Lévy, Sartre invece ammetterà che Se considero la società come l’ho considerata nella Critica della ragione dialettica, devo ammettere che la fraternità vi ha poco posto. Se, al contrario, considero la società come il risultato di un legame tra gli uomini più fondamentale della politica, allora ritengo che le persone dovrebbero avere o possono avere o hanno un certo rapporto primario che è il rapporto di fraternità73. La svolta che il filosofo francese compie in questa intervista riguarda l’origine della stessa fraternità: essa non è più un rapporto costruito artificialmente su un fine comune, bensì il riconoscimento del fatto che questa relazione è in realtà originaria. Questo consentirà di percepire l’Altro non più come un figlio-fratello della violenza (come, appunto, nel celebre esempio del popolo algerino), bensì come un «figlio della stessa madre» 74. Anche se Sartre rimanda la fondazione completa di questo nuovo tipo di relazionalità a un libro di filosofia morale che non riuscirà a scrivere (la morte di Sartre sarebbe stata comunque prematura), possiamo già qui intuire che egli sta di nuovo mettendo in relazione la storia con l’etica, proprio come aveva fatto nei Quaderni per una Morale. È quanto sottolinea anche Ronald Aronson: «dipendenza, solidarietà, socialità e lavorare per la società come le 73 J.-P. SARTRE, B. LÉVY, L’espoir maintenant. Les entretiens de 1980, Verdier, Lagrasse 1991 (trad. it. a cura di M. Russo, La speranza oggi, Mimesis, Milano 2019, pp. 102-103). 74 Ivi, p. 104. 57 MARIA RUSSO basi per una nuova etica della reciprocità» 75. Ne La speranza oggi Sartre rivaluta il momento apocalittico della rivoluzione: non è nel luogo della contro-violenza, forse ancora inevitabile, che si possono instaurare relazioni umane. Il compito normativo di realizzare l’umanità è la sfida del momento in cui bisogna iniziare a ricostruire dopo la distruzione e immaginare concretamente delle pratiche e delle relazioni fondate su riconoscimento reciproco ed effettiva giustizia sociale. Quali possano essere queste pratiche non ci viene indicato da Sartre; anche nell’ultima intervista non emerge un’inedita fiducia nelle istituzioni o nella semplice difesa dei diritti umanitari. Tuttavia, egli dimostra di non aver mai abbandonato l’idea che l’esistenzialismo fosse un umanismo. Certo, anzitutto non bisogna confonderlo con l’umanesimo borghese, già dileggiato fin dalle pagine della Nausea. L’umanesimo è da fare, così come l’uomo umano, l’uomo etico; emerge, kantianamente, nelle pagine di La speranza oggi come un ideale regolativo. In questo senso, anche la stessa idea di intelligibilità della storia e di un suo possibile corso mutano in questa breve intervista. La “Storia forata” non è destinata a rimanere intrappolata nelle dinamiche della penuria. L’evoluzione non è chiaramente quella tecnico-scientifica, né quella della libera produzione, circolazione e concorrenza del mercato globale. Se vi può essere un progresso nella storia esso deve esclusivamente riguardare la possibilità concreta di instaurare relazioni morali tra gli agenti storici: Perché la fraternità è finalmente nel futuro. […] La fraternità è ciò che saranno gli uomini gli uni rispetto agli altri quando, una volta attraversata tutta la nostra storia, potranno dirsi effettivamente e attivamente legati gli uni agli altri. La morale è indispensabile, che significa: gli uomini, o i sotto-uomini, hanno un futuro basato sui principi dell’azione comune; allo stesso tempo, si delinea attorno a essi un futuro basato sulla materialità, cioè, di fondo, sulla penuria. Vale a dire, contemporaneamente, ciò che ho è tuo, e ciò che tu hai è mio, e se io manco di qualcosa, tu me lo dai, e se a te manca qualcosa io te la do: questo è il futuro della morale. E poi gli uomini hanno dei bisogni precisi, e la situazione esteriore non permette loro di realizzare questi bisogni. C’è sempre meno di quello che servirebbe, meno cibo di quanto ne serva e un numero minore di uomini che si occupano di produrre quel cibo. Insomma, noi siamo circondati dalla penuria, che è un fatto reale. Noi manchiamo sempre 75 R. ARONSON, Sartre’s Last Words, in J.-P. SARTRE, B. LÉVY, Hope Now. The 1980 Interviews (edizione americana de L’Espoir maintenant), The University of Chicago Press, Chicago 1996, p. 25 (nostra traduzione). 58 DALLA PENURIA AL TERRORE di qualcosa. Ci sono dunque due atteggiamenti che sono entrambi umani ma che non sembrano compatibili e che bisogna cercare di vivere parallelamente. C’è lo sforzo, esclusa ogni altra condizione, di realizzare l’uomo, di dare origine all’uomo: questo è il rapporto morale. E poi c’è la lotta contro la penuria 76. La fraternità non è più nel presente immediato del gruppo-in-fusione; essa è sia una relazione originaria (contemporanea o perfino antecedente rispetto alla penuria), sia una relazione da realizzare pienamente. In questo modo, si recupera anche il senso della storia stessa, che non si fonda più sull’intelligibilità della lotta nel momento apocalittico e nella sua ricaduta nella serializzazione, bensì sul progetto continuo, sul tentativo mai abbandonato dell’essere umano di riconoscersi come pienamente umano. La sfida è ovviamente fare i conti con l’ineliminabile penuria, ma se c’è una sola speranza essa sta nel ripensare il proprio rapporto con l’Altro come figlio della stessa madre e non come un contro-uomo, come qualcuno a cui si può dare ciò di cui ha bisogno e non qualcuno che può togliermi ciò di cui io ho bisogno. Per tornare alle due domande che ci siamo posti all’inizio di questo contributo, se l’esistenzialismo marxista è la forma di sapere non disumana sull’umano esso ha bisogno di recuperare la riflessione etica che invece Sartre, a partire da Questioni di Metodo, ha tralasciato nel tentativo di distanziarsi dalle riflessioni precedenti sulla libertà assoluta, considerate troppo astratte. Ed è solo con il recupero di questa incompiuta filosofia morale che è anche possibile immaginare un superamento concreto delle condizioni di penuria. Questo non si può infatti realizzare con un semplice mutamento delle condizioni economiche 77, bensì con una diversa 76 SARTRE, La speranza oggi, cit., pp. 108-109. «[…] io non credo che il rapporto primario sia un rapporto di produzione. […] Il rapporto più profondo tra gli uomini è quello che li unisce al di là dei rapporti di produzione. È quello che fa in modo che essi siano gli uni per gli altri un’altra cosa dall’essere produttori. Sono uomini, è questo che bisogna tentare di studiare. […] Tutta la distinzione delle sovrastrutture di Marx è un buon lavoro, ma è interamente sbagliato, perché il rapporto primario di un uomo con un altro uomo è un’altra cosa ed è ciò che bisogna che noi oggi scopriamo» (ivi, p. 102). E, poco più avanti, Sartre si chiede: «E che cosa intendiamo per rivoluzione? La soppressione della società presente e la sua sostituzione con una società più giusta in cui gli uomini possono avere buoni rapporti gli uni con gli altri. […] Certo, ci saranno dei problemi economici immensi; ma precisamente, all’opposto di Marx e dei marxisti, questi problemi non rappresentano l’essenziale. La loro soluzione è un mezzo, in determinate circostanze, per ottenere un concreto rapporto tra gli uomini» (ivi, pp. 131-132). 77 59 MARIA RUSSO forma relazionale con l’Altro, che precede i modi di produzione così come l’appartenenza a determinate classi sociali (che già nel 1980 stavano profondamente cambiando i loro equilibri). Forse era questa l’antropologia strutturale che Sartre cercava nella Critica della ragione dialettica, un’antropologia che non deve arrendersi e adeguarsi a ciò che è accaduto nella storia. Si tratta di tornare a credere nel progetto, nella possibile realizzazione al di là dello scacco e nel futuro. 60 Danilo Manca 1 Spontaneità e realtà umana in Sartre ABSTRACT: This article deals with the way Sartre attempts to resolve the paradox that subjectivity appears to be part of the world and acted upon, but at the same time it also ‘founds’ the world and bestows sense up-on it. The guiding principle is Sartre’s identification of spontaneity and consciousness in The Transcendence of the Ego. First, I discuss Sartre’s attempt to demonstrate the spontaneity of the phenomenological departure from the natural attitude. In the second section, I focus on Sartre’s identification of transcendental consciousness with an impersonal and pre-human spontaneity. Finally, in the third section, I show how Sartre abandoned the distinction between transcendental subjectivity and human reality in Being and Nothingness only to then recast it in the Critique of Dialectical Reason in terms of notions such as “practical spontaneity” and “critical experience”. KEYWORDS: Sartre; Spontaneity; Human Reality; Fink; Husserl ABSTARCT: L’articolo si occupa del modo in cui Sartre tenta di risolvere il paradosso della soggettività che appare parte del mondo, oggetto agito e al contempo sua fonte costituente e donatrice di senso. Si adotta come filo conduttore l’identificazione di spontaneità e coscienza proposta da Sartre ne La trascendenza. Nel primo paragrafo si discute il tentativo di Sartre di mostrare l’origine spontanea della fuoriuscita fenomenologica dall’atteggiamento naturale. Nel secondo paragrafo ci si sofferma sull’identificazione della coscienza trascendentale con una spontaneità impersonale e pre-umana. Infine, nel terzo si mostra come Sartre lasci prima cadere la distinzione fra soggettività trascendentale e realtà umana ne L’essere e il nulla per poi recuperarla in una chiave diversa in Critica della ragione dialettica attraverso le nozioni di spontaneità pratica ed esperienza critica. KEYWORDS: Sartre; spontaneità; realtà umana; Fink; Husserl 1 Vorrei ringraziare Lorenzo Biagini, Davide Coppedé, Chiara De Cosmo, Giulia Cantamessi, Carolina La Padula, Leonardo Massantini, Monica Martella, Filippo Nobili e Francesco Pasquini. Sono le giovani studiose e i giovani studiosi che per più di un anno e mezzo hanno partecipato al seminario di studi sartriani da me organizzato nel contesto del gruppo di ricerca Zetesis <zetesisproject.com>. Grazie al confronto settimanale con loro ho potuto riscoprire sotto una nuova luce, con tutti i suoi problemi e le sue intuizioni, un pensatore che ha rappresentato quella passione giovanile che mi ha fatto scoprire la filosofia e che costituisce un legame profondo con due dei miei maestri, Lilia Fiorillo e Massimo Barale. Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 61 DANILO MANCA Sartre corre sempre il rischio di apparire come un intruso nella complessa famiglia della fenomenologia. La sua appropriazione dei metodi e dei lessici di Husserl e Heidegger appare strumentale, parziale, viziato da travisamenti 2. Eppure, proprio come accadde al suo Gustave Flaubert, anche Sartre ha delle intuizioni geniali che rileggono sotto una nuova luce decisivi nodi problematici non solo della fenomenologia ma della filosofia in genere. E proprio come Gustave, Sartre ha queste intuizioni perché riesce a volgere a proprio vantaggio quella condizione di passività che lo contraddistingue come lettore di filosofia. Sartre si lascia trasformare da una valanga di prospettive filosofiche, naufraga tra Bergson e Husserl, tra Heidegger e Descartes, tra lo Hegel di Kojève e un Marx non marxista. Eppure proprio questa passività, che può essere scambiata per bêtise filosofica ma che nasconde la spiccata ricettività dello scrittore, gli consente di elaborare una filosofia sempre in fieri. Nel presente articolo discuterò alcune delle intuizioni di Sartre soffermandomi sul modo in cui affronta quella situazione problematica che Husserl ne La crisi delle scienze europee chiamava il paradosso della soggettività, ossia il fatto che la coscienza umana si trovi ad essere contemporaneamente parte del mondo, oggetto agito, e fonte costituente, soggetto che gli conferisce un senso 3. Adotterò come filo conduttore l’identificazione che Sartre propone nel saggio La trascendenza dell’ego tra coscienza e spontaneità per mostrare come cambi il suo modo di concepire il rapporto fra soggettività trascendentale e realtà umana nel periodo che intercorre fra i suoi scritti prettamente fenomenologici degli anni Trenta e l’adesione 2 Dopo averlo considerato «un compagno di cammino e di battistrada» (Lettera di Heidegger a Sartre del 28 ottobre 1945, trad. it. di F. Volpi, in M. HEIDEGGER, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, pp. 109-110), Heidegger vede Sartre piuttosto come un usurpatore che si è servito del suo vocabolario e di alcune sue argomentazioni per proporre un rovesciamento della metafisica dai connotati altrettanti metafisici. Alla concezione sartriana secondo cui la riflessione filosofica sull’esistenza si trova su un piano dove ci sono solamente gli uomini (cfr. J.-P. SARTRE, L’esistenzialismo è un umanismo, trad. it. di G. Mursia Re, introd. di P. Caruso, Mursia, Milano 1970, p. 46) nella Lettera sull’«umanismo», cit., pp. 53, 61-62, Heidegger contrappone la tesi secondo cui siamo su un piano dove c’è principalmente l’Essere. Merleau-Ponty, che avendo avuto modo di consultare i manoscritti di Idee II si sforzava di portarne alla luce il non-pensato e lo intrecciava con la sua reinterpretazione dell’ontologia heideggeriana, vedrà nell’identificazione sartriana fra nulla e coscienza una prospettiva che si accosta al pensiero fenomenologico solo per motivi strumentali ma che in realtà affonda le sue radici piuttosto in Descartes e Bergson (cfr. M. MERLEAU-PONTY, Parcours deux: 1951-1961, Lagrasse, Verdier 2001, pp. 260, 265). 3 Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (d’ora in poi abbreviato in Crisi), trad. it. di E. Paci, pref. di E. Paci, il Saggiatore, Milano 2008, §§ 52-55. 62 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE definitiva al materialismo storico con Critica della ragion dialettica. Suddividerò l’argomentazione in tre momenti. Nel primo paragrafo mostrerò come Sartre si sforzi di cercare l’origine spontanea dell’atteggiamento trascendentale discutendo il problema della fuoriuscita dall’atteggiamento naturale. Nel secondo paragrafo mi soffermerò sull’identificazione della coscienza trascendentale con una spontaneità impersonale e pre-umana. Infine, nell’ultimo mostrerò come Sartre prima lasci cadere la distinzione fra soggettività trascendentale e realtà umana per poi recuperarla in una chiave completamente nuova quando in Critica della ragion dialettica tenta di coniugare la fenomenologia con il materialismo storico. 1. La spontaneità dell’atteggiamento fenomenologico La pubblicazione de La trascendenza dell’ego permette a Sartre di esordire nel dibattito fenomenologico con un’indagine che va al cuore della frattura che circa un ventennio prima aveva generato una frammentazione nella scuola di Husserl e spianato la strada all’avvento della prospettiva di Heidegger. Come noto, molti allievi di Husserl avevano visto in Idee I (1913) una degenerazione idealistica della fenomenologia che indeboliva la capacità autenticamente descrittiva delle Ricerche Logiche a vantaggio di una visione che conteneva dei motivi metafisici pur non riconoscendoli come tali. Elaborando la sua tesi secondo cui l’Io non è un abitante costante della coscienza, ma la trascende come un qualsiasi oggetto del mondo, Sartre recupera la prospettiva delle Ricerche Logiche. Qui Husserl sosteneva che il riferimento della coscienza all’oggetto avviene sempre e comunque attraverso un atto intenzionale, motivo per cui bisogna rifiutare la postulazione di un io puro come centro di riferimento e riconoscere che l’io può essere solo una nuova rappresentazione, frutto di un atto che invece di tematizzare l’oggetto del vissuto tematizza il soggetto che vi si riferisce 4. In Idee I Husserl recupera invece l’io puro come il residuo della riduzione che mette fuori circuito il mondo e la soggettività empirica che lo abita. Facendo riferimento alla nota affermazione di Kant secondo cui «“Io penso” deve 4 Cfr. E. HUSSERL, Quinta Ricerca Logica, in ID., Ricerche Logiche, trad. it. a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 2005, vol. 2, § 12b, pp. 166-167. Sul rapporto fra Sartre e Husserl cfr. M. BARALE, Filosofia come esperienza trascendentale. Sartre, Le Monnier, Firenze 1977, cap. 1, e V. DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie. Autor de “L’intentionnalité” et de “La transcendance de l’Ego”, Ousia, Bruxelles 2000, pp. 50-83, 177-205, cui rimando per un’interpretazione approfondita de La trascendenza dell’ego in confronto anche all’intera produzione successiva di Sartre. 63 DANILO MANCA poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni» 5, Husserl identifica l’io puro con una presenza costante dei nostri vissuti se si focalizza l’attenzione sul lato noetico 6. Sartre nota come Kant poneva in realtà una questione di diritto, il riferimento all’Io penso rappresenta nella concezione critica solo quella condizione che mi garantisce di poter sempre riconoscere come mie le rappresentazioni e di poterle ricondurre a unità. Ma rimane un concetto limite per cui se si prova effettivamente a farne esperienza in realtà ci troviamo ad avere a che fare solo con la sua versione personale, con il Me psico-fisico del senso interno. Nel lessico fenomenologico dovremmo dire che ogni volta che si prova a tematizzare la coscienza come attività otteniamo solo l’unità noematica dei vissuti; la possibilità di intravedere un polo fisso dietro all’atto che produce tale unità rimane un presupposto7. Come precisa Fink in un articolo del 1933 che Sartre cita esplicitamente ne La trascendenza dell’ego senza tuttavia riconoscerne forse adeguatamente il debito effettivo, la prospettiva fenomenologica non coincide con quella critica perché invece di porre questioni di diritto si interroga sull’origine degli eventi in cui si imbatte. In altre parole, secondo Fink se la filosofia critica si esprime sulla forma a priori del mondo per chiarire come sia possibile conoscerlo nei modi in cui lo conosciamo, la fenomenologia invece s’interroga sull’origine del mondo e a partire da qui arriva a definire non tanto le condizioni necessarie per l’esistenza della coscienza empirica quanto piuttosto il processo della sua genesi 8. Sartre ne inferisce che nell’ottica fenomenologica parlare di Io puro significherà non attuare nella forma più radicale la riduzione fenomenologica, lasciare che rimanga in gioco un residuo del modo in cui ordinariamente l’uomo si rappresenta il proprio stare al mondo. Non significa porre una questione di diritto ma voler spiegare un fatto assumendo una componente del fatto da spiegare come punto di vista, partendo da uno dei termini della correlazione di cui si vuole scoprire la genesi 9. 5 Cfr. I. KANT, Critica della ragion pura, trad. it. a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, §16, B131-132. 6 Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, 3 volumi in 2 tomi (d’ora in poi abbreviato Idee seguito dal numero romano del volume), trad. it. a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, vol. I: § 57, pp. 143-144; § 80, pp. 200-202. 7 J.-P. SARTRE, La trascendenza dell’ego. Una descrizione fenomenologica (d’ora in poi TE), trad. it. a cura di R. Ronchi, Marinotti, Milano 2011, p. 52. 8 Cfr. E. FINK, La filosofia fenomenologica di Edmund Husserl nella critica contemporanea (1933; d’ora in poi FF), in: ID., Studi di fenomenologia 1930-1939, trad. it. a cura di N. Zippel, Lithos, Roma 2010, p. 172. 9 Cfr. TE, cap. 1. 64 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE Pur precisando che l’ego trascendentale è una «“breccia” nell’assoluto» 10 ottenuta solo dal primo grado di riduzione, Fink deve ammetterne la natura paradossale. Nella sua apologia della fenomenologia contro le critiche mosse da interpreti neokantiani, Fink riconosce che l’operazione fenomenologica rischia di essere inficiata da una «difficoltà senza via d’uscita» 11: la tesi di Husserl è che solo dopo l’attuazione della riduzione si guadagni una visione autenticamente filosofica delle cose, ma perché la riduzione avvenga sarebbe necessario fuoriuscire dall’atteggiamento naturale, ossia da quella serie di condotte che orientano l’uomo nella sua vita quotidiana. Il problema è che l’uomo è talmente immerso nel suo orizzonte da non riuscire neanche a ricondurre queste condotte a un atteggiamento unitario, a una tesi generale sul mondo e sul proprio modo di abitarlo; è quindi completamente cieco nei confronti della mera possibilità di guadagnare una prospettiva alternativa a quella ordinaria. Eppure la fuoriuscita dall’atteggiamento naturale deve inevitabilmente avere inizio nell’atteggiamento naturale 12. Da questo fatto scaturisce quella che Fink definisce la natura paradossale della fenomenologia, di cui distingue tre aspetti: il paradosso legato alla situazione in cui si svolge l’enunciazione del fenomenologo, il paradosso che contraddistingue lo stesso linguaggio del fenomenologo e la «paradossalità logica delle determinazioni trascendentali» 13. «Per la prima volta l’atteggiamento trascendentale emerge all’interno dell’atteggiamento naturale, nella forma di una filosofia che si annuncia al mondo»14. Questo è il motivo per cui è paradossale la situazione di partenza: se la fenomenologia ambisce a sospendere dall’interno ogni credenza consolidata sul mondo, presuppone sempre la riduzione come già effettuata. Il vero problema è però come ciò possa accadere, visto che la possibilità di attuarla è completamente sconosciuta a quello che Fink chiama il «dogmatico»15, ossia l’uomo comune che prende per vero e necessario il proprio modo di stare al mondo, senza interrogarsi sulle condizioni e tantomeno sulla genesi della propria situazione. A ciò si aggiunge il fatto che l’interlocutore del fenomenologo è proprio il dogmatico, vale a dire che obiettivo del fenomenologo sia il dialogo con l’altro che non ha ancora contemplato la possibilità di attuare la riduzione. Il rischio è che sia un dialogo fra sordi: «La proposizione fenomenologica ospita in sé, per una necessità essenziale, un conflitto interno 10 FF, p. 214. Ivi, p. 184. 12 Cfr. ivi, p. 186. 13 Ivi, p. 236. 14 FF, p. 235. 15 Ibidem. 11 65 DANILO MANCA tra il significato letterale mondano e il senso trascendentale che viene alluso. Sussiste perciò il costante pericolo che il dogmatico colga solo il senso mondano delle parole e sorvoli a tal punto il loro significato trascendentale da ritenersi nel giusto con la sua errata interpretazione della fenomenologia, e da credere di potersi appellare in ogni momento al testo»16. Inoltre, le aporie logiche che sorgono nella determinazione delle relazioni trascendentali non possono essere risolte ricorrendo agli strumenti della logica formale, che rimane comunque immersa nell’ottica mondana presupponendo la logica trascendentale come sua genealogia. Un esempio di queste aporie sarebbe, secondo Fink, il problema del rapporto tra ego trascendentale e io umano: «Come si deve determinare l’identità dell’Ego trascendentale e dell’Io umano? I due sono semplicemente lo stesso Io da due prospettive diverse, oppure sono due Io separati? […] L’uomo è dunque qui l’assoluto?» 17. Fink esclude che sia così, limitandosi a precisare che l’assoluto, però, non è neanche una «realtà “trascendente” al di là dell’uomo, una realtà che non trattenga in sé l’uomo»; bisogna invece parlare di «rapporto trascendentale, il quale non ignora l’uomo nella sua finitezza mondana, caducità, impotenza; ma lo comprende come senso costituito e così lo riprende nell’essenza infinita dello spirito» 18. Per giustificare la sua rinuncia all’io trascendentale come un inutile residuo mondano e psicologico in seno alla fenomenologia trascendentale, Sartre riprende l’ammissione «non senza malinconia» di Fink secondo cui «finché si rimane nell’atteggiamento “naturale”, non c’è ragione, non c’è “motivo” per praticare l’epoché» 19. Ne inferisce che, da una parte, «l’epoché appare nella filosofia di Husserl come un miracolo» 20, dall’altra come il risultato di un «lungo studio», come un’«operazione dotta» 21. Ritiene che se invece l’ego fosse inteso come una «falsa rappresentazione» 22 che la coscienza produce di se stessa e da cui si lascia ipnotizzare, allora si comprenderebbe come sia possibile la fuoriuscita dall’atteggiamento naturale a 16 Ivi, p. 236. Ivi, p. 237. 18 Ibidem. 19 TE, p. 94. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 95. 22 Ivi, p. 93. La peculiarità della concezione di Sartre risiede proprio in questo rifiuto dell’io come una falsa rappresentazione della riflessione, mentre anche quando attribuisce un primato alla vita sull’io per Husserl (come per Hegel) rimane comunque una necessità. Cfr. a riguardo A. FERRARIN, Hegel and Husserl on the Emergence of the I out of Subjectivity, in «Hegel Bulletin», vol. 38, n. 1, 2017, pp. 7-23. 17 66 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE partire dal suo interno. Apparterrebbe potenzialmente alla coscienza sempre la possibilità di sottrarsi a quella rappresentazione di sé che la maschera per quello che è. In tal senso la motivazione ad attuare l’epoché risiederebbe nello stesso istinto della coscienza a trovare tracce di sé nei suoi vissuti, ma il suo vero inizio risiederebbe in un fenomeno naturale, in «un accidente sempre possibile della nostra vita quotidiana» 23. Sartre identifica questo fenomeno con l’angoscia, l’inquietudine della coscienza davanti al rischio di essere l’artefice di un sovvertimento dell’orizzonte in cui si è messa in sicurezza. La naturalità del fenomeno è dimostrata dal fatto che l’angoscia è sia ciò che induce la coscienza a sfuggire a se stessa proiettandosi nel Me e immergendovisi, sia ciò che, se prende il sopravvento, stimola la coscienza ad allontanarsi bruscamente dall’Io in cui si è rifugiata e a scoprire la «fatalità della sua spontaneità» 24. Questo significa che nello stesso momento dell’immersione nel mondo, è sempre viva la possibilità di rompere bruscamente l’assetto che si sta costituendo. Lungi dall’essere un semplice metodo intellettuale la riduzione sorge perciò dalle stesse contraddizioni che caratterizzano il modo di stare al mondo dell’uomo. In un testo che Sartre non poteva conoscere, il § 5 di Idee II, Husserl sostiene che «ogni atto spontaneo trapassa, dopo la sua realizzazione, in uno stato confuso; la spontaneità, o, se si vuole, l’attività propriamente detta, trapassa in passività, sia pure in una passività che […] rimanda all’attuazione originariamente spontanea e articolata»25. Husserl chiama secondaria quella passività che si forma da una precedente spontaneità defluita. Questo sembra essere il caso di qualsiasi atteggiamento abituale, ma con alcune differenze. Husserl distingue, infatti, tra una «spontaneità dominante, […] in cui noi viviamo in maniera privilegiata» e una «spontaneità ancillare, collaterale, di sfondo, una spontaneità in cui non viviamo in modo privilegiato»26. La spontaneità dominante è quella dell’atteggiamento che ci appartiene come persone, mentre tra le forme di spontaneità ancillare figurano sia l’atteggiamento naturalistico sia quello fenomenologico. Entrambi questi atteggiamenti sono artificiosi: quello naturalistico lo è perché richiede allo scienziato che indaga la natura di prescindere dalla propria soggettività personale per concentrarsi sull’analisi dell’oggetto; quello fenomenologico lo è perché chi lo adotta non è più attore della propria vita e della vita del mondo, ma solo spettatore. Prima di Merleau-Ponty, che ebbe modo di leggere i manoscritti di Idee 23 TE, p. 95. Ivi, p. 94. 25 Idee II, pp. 16-17. 26 Ivi, p. 17. 24 67 DANILO MANCA II curati da Edith Stein e pubblicati solo postumi, Sartre comprende che vi è un non-pensato nella fenomenologia di Husserl27: dietro all’apparentemente rassegnato riconoscimento dell’artificiosità dell’atteggiamento fenomenologico si contempla la possibilità che il rivolgimento trascendentale affondi le sue radici in una spontaneità sopita che scava latentemente sotto la spontaneità dominante dell’atteggiamento naturale. Scegliendo di definire “angoscia” il fenomeno che fa riemergere questa spontaneità è probabile che nel suo primo saggio Sartre abbia voluto affidarsi a un termine già in voga negli studi filosofici per assicurarsi di essere compreso dai suoi interlocutori. Ne L’essere e il nulla appiattirà completamente la sua concezione dell’angoscia a quella di Heidegger e di Kierkegaard, ma al momento de La trascendenza dell’ego ha in mente un fenomeno proteiforme, difficile da descrivere con il linguaggio filosofico. E forse quasi ricordando l’ammonizione di Fink sul rischio che il linguaggio del fenomenologo possa essere travisato da quanti ancora non hanno scoperto la possibilità di adottare uno sguardo filosofico sul mondo, ne La trascendenza dell’ego si limiterà ad alludere al fenomeno, mentre ne La nausea, di cui stava redigendo in quegli anni l’ultima versione, arriverà invece a descriverlo in tutte le sue sfaccettature. Come noto, neanche “nausea” è termine sartriano, gli fu quasi imposto dall’editore Gallimard al posto di “melancholia”. La scelta fu sicuramente felice visto il successo del romanzo, ma l’originale evoca un’intera tradizione di pensiero. Secondo l’interpretazione medievale la “melancholia” è quell’umore o stato d’animo caratterizzato da apatia, accidia, depressione, indolenza, ma nel Rinascimento (con Ficino soprattutto) viene recuperata l’originaria concezione pseudo-aristotelica secondo cui la melancolia sarebbe l’umore che contraddistingue gli individui di genio. Perciò quando Dürer va a creare la famosa incisione che ispirò Sartre, non rappresenta, come ha notato Panofsky fra gli altri, una figura «inattiva perché troppo pigra per lavorare, ma perché il lavoro ha perduto ogni significato ai suoi occhi; la sua energia non è paralizzata dal sonno ma dal pensiero»28. Infatti, per il protagonista de La nausea, 27 Il termine “non-pensato” è di Merleau-Ponty, che, nel suo saggio Il filosofo e la sua ombra [1959], mette in discussione l’artificiosità (Künstlichkeit) attribuita da Husserl all’atteggiamento che tematizza la coscienza pura (cfr. Idee II, p. 285), in M. MERLEAU-PONTY, Segni, trad. it. di G. Alfieri, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 211-238. 28 E. PANOFSKY, La vita e l’opera di Albrecht Dürer, trad. it. di C. Basso, Abscondita, Milano 2006, p. 209. La valorizzazione della riscoperta rinascimentale della melancholia come umore dell’individuo di genio si deve agli storici dell’arte K. Gielhow e A. Warburg, poi approfondita dagli studi di F. Saxl, E. Panofsky, R. Klibanski, W. Benjamin e H. Wölfflin. Come ha dimostrato L. CRESCENZI in Melancolia occidentale, Carocci, Roma 2011 questi studi influenzarono fortemente Thomas Mann, uno degli autori preferiti del giovane Sartre. 68 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE Antoine Roquentin, la progressiva perdita di interesse nei confronti del suo progetto di scrivere una biografia storica sul marchese di Rollebon coincide con uno stato estremamente vigile in cui Roquentin diventa particolarmente sensibile verso ciò che gli accade attorno sino a maturare l’idea di dedicarsi a un romanzo, a un’opera d’arte che non debba aver a che fare con la verità storica, con i fatti del passato, ma con qualcosa d’immaginato29. La nausea descritta da Roquentin nel suo diario è noia che sopraggiunge quando si avverte la morte di una passione, paura nei confronti del futuro indeterminato che si vede come una minaccia, senso di spaesamento per le trasformazioni improvvise cui ci si sente soggetti. In ciò è molto affine all’angoscia di Heidegger intesa come quella situazione emotiva indefinita che sorge quando l’Esserci sposta la propria attenzione dagli esseri intramondani che utilizza al mondo come orizzonte nel quale si scopre gettato30. Anche la nausea di Sartre è incursione del nulla nella vita dell’Esserci e in quanto tale richiama l’Esserci dalla sua deiezione e lo pone davanti alla propria condizione aprendogli nuove possibilità. In maniera più chiara di Heidegger Sartre recupera la convinzione di Kierkegaard secondo cui essere sottoposti all’indeterminabilità significa acquisire coscienza della propria libertà come possibilità effettiva. Ma proprio in quanto nausea, senso di vomito e di ripulsa, disgusto, quello descritto da Sartre è anche un fenomeno di reazione che sorge dall’anticipazione di una possibilità di pericolo proveniente dal proprio interno, un senso di perdita non tanto dell’oggetto quanto di sé, come sosteneva Freud 31. In ogni caso l’aspetto decisivo di questo articolato fenomeno descritto da Sartre è che la breccia nell’irretimento dell’atteggiamento naturale (per usare le parole di Fink 32) non si genera attraverso un distacco dalle cose del mondo, con un’evasione, bensì maturando un rapporto più genuino con le cose. A essere brusco è piuttosto il distacco dall’Io e dai sistemi di Sulla melancholia in Sartre cfr. S. TERONI, L’idea e la forma. L’approdo di Sartre alla scrittura letteraria, Marsilio, Venezia 1988. Mi sono occupato del tema in rapporto a Benjamin e Beckett nel mio La melancolia messa in scena. Finale di partita di Beckett e le tesi sul tragico di Benjamin, in «Odradek. Studies in Philosophy of Literature, Aesthetics, and New Media Theories», vol. 4, n. 1, 2018, pp. 159-266 <https://odradek.cfs.unipi.it/index.php/odradek/ article/view/103> (ultimo accesso 10.10.2019). 29 Cfr. J.-P. SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 2014, pp. 231-232. 30 Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, nuova edizione a cura di F. Volpi sulla trad. it. di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 2001, § 40. 31 Cfr. S. FREUD, Lutto e melanconia, in ID., Opere 1915-1917, Boringhieri, Torino 1976, pp. 102-118. 32 Cfr. FF, p. 195. 69 DANILO MANCA difesa che la coscienza ha eretto per suo tramite. Ne La Nausea il familiare diventa enigmatico (come voleva Husserl 33) proprio nel momento in cui Roquentin inizia a prestare attenzione al suo modo ordinario di avere a che fare con le cose: al modo in cui la forchetta si fa prendere, al freddo di una maniglia, alla mano molliccia dell’Autodidatta, alla famosa radice di castagno per la quale non si hanno più nomi. Il fenomeno non appare come qualcosa d’ineffabile, piuttosto la vischiosità della materia ridesta il protagonista dal torpore della vita quotidiana e gli permette di acquisire consapevolezza della propria peculiare capacità di portare alla luce il negativo che è nel mondo, di scoprire nella contingenza la cifra caratteristica delle cose e delle forme in cui ci si relaziona a esse. In questo senso ancora una volta Sartre sembra seguire Fink che, recuperando i motivi hegeliani che latentemente s’insinuano nella fenomenologia di Husserl, parla della riduzione come dell’«Aufhebung dell’atteggiamento naturale» 34. Il distacco dal mondo, in cui ci si trova avvolti, inizia con un atto di più profonda immersione nelle cose. Per questo in conclusione de La trascendenza dell’ego Sartre rigetta il rimprovero frequentemente mosso alla fenomenologia di essere un idealismo che annega la realtà nel flusso delle idee. Per Sartre «erano anzi secoli che non si era sentita nella filosofia una corrente così realista» 35. I fenomenologi «hanno rituffato l’uomo nel mondo, hanno restituito tutto il loro peso alle sue angosce e alle sue sofferenze, ed anche alle sue rivolte» 36. Solo se si continua a considerare l’Io una struttura della coscienza assoluta, allora la fenomenologia rischia di configurarsi come una «dottrina rifugio» che «trae una particella dell’uomo fuori dal mondo» 37. 2. La spontaneità impersonale della coscienza trascendentale Quando nel 1927 Heidegger riceve da Husserl la bozza di testo per la redazione congiunta della voce Fenomenologia dell’Encyclopaedia Britannica, si chiede se Husserl non stia eludendo il problema dell’uomo come totalità concreta. Se, come afferma Husserl, nell’appercezione trascendentale che segue l’attuazione dell’epoché, «io non sono un io umano»38, Heidegger si 33 Cfr. Crisi, § 53, p. 206. FF, p. 185. 35 TE, p. 97. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 E. HUSSERL, Der Encyclopaedia Britannica Artikel. Versuch einer zweiten Bearbeitung, in ID., Phänomenologische Psychologie. Vorlesungen Sommersemester 1925, Husserliana, vol. 9, 34 70 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE chiede a chi dovrebbe allora appartenere la volontà che si decide ad attuare la riduzione. Non è forse l’attività della riduzione «una possibilità dell’uomo»39, proprio perché quest’ultimo non è mai semplicemente presente bensì esiste, ossia vive ponendosi il problema del proprio essere? Non è dunque la riduzione un «comportamento, vale a dire un modo d’essere che l’uomo per sua natura procura a se stesso»40? Husserl non risponderà a questa domanda, che contribuirà anzi alla rottura. Il problema però persiste e Fink cercherà astutamente di riportarlo all’attenzione di Husserl. Sulla base di quanto abbiamo discusso, si può certamente convenire che Sartre invece risponderebbe affermativamente, sostenendo che la riduzione nasce effettivamente in seno all’atteggiamento naturale: è una condotta che si offre come possibilità effettiva all’uomo nella sua esistenza. Nonostante ciò, all’epoca de La trascendenza dell’ego Sartre non sottoscriverebbe la convinzione di Heidegger secondo cui la riduzione dovrebbe essere intesa come «un’ascesa [Ascendenz], nel senso di un salire [Hinaufsteigen], che rimane tuttavia “immanente”» 41. Sartre non identificherebbe la riduzione con una «possibilità umana, in cui l’uomo perviene proprio a se stesso» 42 se con ciò s’intende che la riduzione contraddistingue l’uomo in quanto uomo, l’uomo nella sua autenticità. La riduzione è per Sartre quel processo che conduce l’uomo che la sceglie (dopo aver subito una brusca modificazione affettiva tramite l’angoscia) a scoprire la spontaneità impersonale e pre-umana che vive in lui. Una volta riconosciuto che l’io trascendentale è un inutile orpello della teoria husserliana dell’epoché fenomenologica ne consegue che la coscienza come residuo di quest’operazione diventa un «campo trascendentale […] impersonale o, se si preferisce, “prepersonale”»; invece «l’Io non appare che al livello dell’umano e non è che una faccia del Me, la faccia attiva»43. In questo modo Sartre insinua surrettiziamente che quando si descrive erroneamente l’io come un abitante della coscienza non si fa altro che qualcosa di profondamente umano: si contrappone al mondo l’unità dei propri vissuti, si mette un’interiorità di fronte all’esteriorità, si tenta di affermare la propria indipendenza rispetto al mondo esprimendo un desiderio, non una verità. L’identificazione di coscienza e io più che un errore è un’ingenuità compiuta a cura di W. Biemel, Dordrecht et alii 1968, p. 275. 39 Ibidem (trad. it. di R. Cristin in E. HUSSERL, M. HEIDEGGER, Fenomenologia. Storia di un dissidio [1927], Unicopli, Milano 1986, p. 39; d’ora in poi abbreviato F27). 40 Ivi, pp. 39-40. 41 Ivi, p. 40. 42 Ivi, pp. 40-41. 43 TE, p. 30. 71 DANILO MANCA dall’uomo che prova a teorizzare il proprio stare al mondo sulla base non tanto del modo in cui questa sua situazione gli si manifesta nei fatti ma del modo in cui egli si rappresenta questa manifestazione. Questo è un punto cruciale: Sartre è convinto che se l’uomo reimparasse a limitarsi a ciò che appare per come appare, allora riconoscerebbe la trascendenza del proprio io, scoprirebbe il campo trascendentale impersonale, capirebbe che la propria coscienza è intenzionalità, è un modo di stare presso il mondo quasi esplodendoci verso, non un modo di fagocitarlo44. Come suggerisce il famoso aneddoto riportato da Simone de Beauvoir ne L’età forte secondo cui Sartre si volse allo studio della fenomenologia quando Raymond Aron lo convinse che anche solo descrivere il cocktail all’albicocca che aveva davanti sarebbe stato filosofia 45, per Sartre la fenomenologia coincide con la capacità di descrivere nella sua genuinità e concretezza il processo di manifestazione di sé e delle cose indipendentemente da come l’uomo lo interpreta. Tutte le astrazioni con le quali l’uomo spiega il mondo e il proprio modo di abitarlo erano per Sartre «piene di vento»; «gli uomini convenivano di accettarle poiché esse mascheravano una realtà che li inquietava; lui voleva coglierla al vivo» 46. Il campo trascendentale riportato alla luce dall’epoché altro non è che questa realtà di cui l’uomo inevitabilmente partecipa ma da cui nella sua visione del mondo rifugge. Ne La trascendenza dell’ego, come nei saggi sull’immaginazione e, soprattutto, nel suo abbozzo di una teoria delle emozioni, Sartre attribuisce alla natura umana la tendenza a rappresentarsi il mondo colorandolo di una particolare qualità: se ho pietà di Pietro per me la «qualità del “dover-esseresoccorso” si trova in Pietro» e «agisce su di me come una forza» 47; non ho per tema la mia emozione altrimenti sarebbe come sfatare la magia che sto subendo; verrebbe meno l’atmosfera in cui sono invece immerso. Compito della fenomenologia è «cogliere l’emozione in quanto costituisce il mondo sotto forma di magico»48. Solitamente l’uomo produce una «riflessione complice» 49 dello stato emotivo che lo modifica; essa «coglie, certamente, 44 Cfr. J.-P. SARTRE, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in ID., Materialismo e rivoluzione, a cura di F. Fergnani e P.A. Rovatti, il Saggiatore, Milano 1977, pp. 139-143. 45 Cfr. S. DE BEAUVOIR, L’età forte, Einaudi, Torino 2016, p. 117. 46 Ivi, p. 26. 47 TE, p. 48. 48 J.-P. SARTRE, Idee per una teoria delle emozioni, in ID., L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 2007, p. 207. 49 Ibidem. 72 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE la coscienza come coscienza, ma in quanto motivata dall’oggetto»50, infatti diciamo ad esempio “Sono in collera perché lo trovo odioso”. La riflessione purificante della fenomenologia ribalta invece la prospettiva, svelando la dinamica che agisce latentemente al processo emotivo; mi mostra che in realtà «lo trovo odioso perché sono in collera» 51. Se già in questi saggi della fine degli anni Trenta Sartre sostanzialmente identifica la fenomenologia con la descrizione dell’essere della realtà umana, ne La trascendenza dell’ego, in cui lo studio di Heidegger non era così approfondito da diventare pervasivo, lo sguardo fenomenologico permette invece di descrivere la coscienza trascendentale come una spontaneità impersonale. Il termine “campo trascendentale” è di evidente derivazione husserliana 52 (e presenta non pochi problemi, come vedremo a breve), mentre il termine “spontaneità” che ricorre molto spesso nell’argomentazione di Sartre racchiude un’intricata serie di rimandi incrociati che è bene considerare. Di un fiore di campo che supponiamo non essere stato piantato volontariamente da nessuno diciamo che è germogliato spontaneamente; una risata che non si riesce a controllare, anche se magari è inopportuna, la giustifichiamo dicendo che è una reazione spontanea; a lungo si è chiamata generazione spontanea l’ipotesi poi confutata che da materia non vivente potessero generarsi automaticamente degli organismi viventi; si parla di combustione spontanea quando del materiale infiammabile viene acceso in determinate condizioni fisiche di pressione e temperatura senza apparente innesco esterno. Già nel senso comune si definisce spontaneo quindi ogni fenomeno che sembra derivare dalla natura propria dell’ente che ne è soggetto senza poterlo ricondurre a una causa esterna 53. Sicuramente questa è l’accezione da cui Sartre prende le mosse, tanto da paragonare la coscienza alla sostanza spinoziana che può essere limitata solo da se stessa, che è causa sui 54, benché d’altro canto ci tenga a precisare che la coscienza nella descrizione fenomenologica è un assoluto non sostanziale, vale a dire «un assoluto semplicemente perché è coscienza di sé», «un “fenomeno” nel senso particolarissimo del termine in cui “essere” e “apparire” sono lo 50 Ibidem. Ibidem. 52 “Champ” è la traduzione di Ricœur del tedesco “Feld” per la collana di Gallimard diretta da Sartre e Merleau-Ponty; cfr. E. HUSSERL, Idées directrices pour une phénoménologie, traduit de l’allemand par P. Ricœur, Gallimard, Paris 1950, §§ 50, 59. 53 Sull’appropriazione filosofica di questo concetto di spontaneità cfr. A. FERRARIN, Il pensare e l’io. Hegel e la critica di Kant, Carocci, Roma 2016, cap. 3.2, che rimanda a S. ROSEN, Il pensare è spontaneo?, in «Teoria», vol. 12, n. 1, 1992, pp. 31-58. 54 TE, p. 33. 51 73 DANILO MANCA stesso» 55. In altre parole, la coscienza trascendentale è pura manifestazione di sé a se stessa; motivo per cui Sartre la definisce «tutta leggerezza, tutta traslucidità» 56 e quindi spontaneità in quanto coincide con il proprio manifestarsi ed è al contempo la fonte di questo manifestarsi. Sartre ritiene che «uno dei più difficili problemi della fenomenologia» sia «stabilire una distinzione tra la coscienza attiva e la coscienza semplicemente spontanea»57. Pur non approfondendo la questione, propone di distinguere l’azione concertata da quell’attività che si sviluppa senza deliberazione, subendola come per inerzia: «In questo senso si può dire che il dubbio spontaneo che mi assale quando intravedo un oggetto nella penombra è una coscienza, ma il dubbio metodico di Descartes è un’azione, cioè un oggetto trascendente della coscienza riflessiva». In ciò Sartre sembra adoperare il termine “spontaneità” nella stessa accezione che gli dà Husserl nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo del 1905 (pubblicate a cura di Heidegger nel 1928). Qui il ricorso al termine è molto più frequente che in Idee I ed effettivamente designa quelli che potremmo definire degli automatismi della coscienza58. Sartre precisa che se si continuasse a far posto all’Io nella coscienza allora verrebbe introdotto un «centro di opacità»59 che non la renderebbe più spontaneità. Il suo manifestarsi sarebbe riflesso; avremmo accesso alla coscienza solo in forma mediata, passando attraverso quella proiezione ch’essa produce di sé e che la altera nelle sue fattezze. «La vita riflessiva inquina “per essenza” la mia vita spontanea e, d’altronde, la vita riflessiva implica in generale la mia vita spontanea. Prima d’essere “inquinati”, i miei desideri sono stati puri; è il punto di vista che ho assunto su di loro che li ha inquinati»60. Kant denominava spontaneità quella facoltà capace di produrre da se 55 Ibidem. Ibidem. 57 Ivi, p. 60. 58 Cfr. E. HUSSERL, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Husserliana 10 (d’ora in poi Hua 10), a cura di R. Boehm, trad. it. a cura di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 1981. Per esempio: p. 80 in cui parla della spontaneità dello sguardo che si posa sull’apparire originario di cui si ha coscienza solo per affezione; oppure p. 124 in cui Husserl sostiene che l’impressione originaria in quanto fonte assoluta del decorso temporale «non nasce come qualcosa di generato, ma per genesis spontanea» e pp. 156-160 in cui Husserl attribuisce alla spontaneità della coscienza il compito di «costituire oggetti temporali immanenti». Ma un automatismo della coscienza è anche la libera finzione in cui affonda le sue radici il processo di ideazione che permette di cogliere le essenze (cfr. Idee I, § 23). 59 TE, p. 35. Nel § 26 di Idee II è lo stesso Husserl a parlare di coscienza per descrivere il momento in cui l’io esce di scena nel flusso. Ma, come noto, Sartre non poteva conoscere questo testo. 60 TE, p. 51. 56 74 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE stessa le proprie rappresentazioni 61. Suo malgrado Sartre si appropria di questa concezione suggerendo tuttavia che le rappresentazioni non sono mai in grado di descrivere adeguatamente la loro sorgente. Quella dell’ego è per Sartre una «pseudo-spontaneità che troverebbe dei simboli ad essa adeguati nello zampillare di una fonte, di un geyser, ecc.» 62, cioè in quei fenomeni che sembrano essere fini a se stessi solo perché non ne conosciamo la causa esterna: «L’autentica spontaneità deve essere perfettamente chiara: è ciò che essa produce e non può essere altro. Legata sinteticamente ad altro che a se stessa, essa conterrebbe, infatti, una qualche oscurità e, addirittura, una certa passività nel trasformarsi. Bisognerebbe, infatti, ammettere un passaggio da se stesso ad altro, cosa che implicherebbe lo sfuggire della spontaneità a se stessa» 63. È quello che invece accade all’ego, perché i vissuti che gli sono attribuiti sembrano dominarlo al punto che è restio a riconoscerli come propri: diciamo ad esempio «“Come ho potuto, io, fare questo”», «“Come posso, io, odiare mio padre”»64. Sartre ne inferisce che «l’Ego è sempre sorpassato da ciò che produce, per quanto, da un altro punto di vista, sia ciò che produce»65. Con un’osservazione simile nel suo ultimo scritto, la seconda prefazione alla Scienza della logica, Hegel argomenta a favore dell’oggettività del pensiero inteso come la vera e pura spontaneità66: delle nostre passioni noi non diciamo che ci servano, poiché «riteniamo di essere fuor del nostro potere, in coteste particolarità, di essere dominati da quelle»; di conseguenza, «meno che mai possiamo credere che quelle forme di pensiero, le quali si stendono attraverso tutte le nostre rappresentazioni, […] servano a noi; che cioè siamo noi che le abbiamo in nostro possesso e non piuttosto quelle che hanno in possesso noi» 67. Con ciò non s’intende certo sovrapporre Sartre a Hegel, ma ancora una volta Sartre dimostra di sapersi lasciare dominare dai suoi pensieri e quindi di avere geniali intuizioni malgrado il suo lacunoso bagaglio filosofico. L’affinità con l’argomentazione di Hegel legittima ulteriormente il carattere assoluto della coscienza pura, così come la sua natura 61 Cfr. KANT, Critica della ragion pura, cit., A51/B75; B130. Sulla questione si rimanda a A. FERRARIN, The Powers of Pure Reason. Kant and the Idea of Cosmic Philosophy, The University of Chicago Press, Chicago and London 2015; D. MANCA, Esperienza della ragione. Hegel e Husserl in dialogo, ETS, Pisa 2016, cap. 2.1. 62 TE, p. 71. 63 Ibidem. 64 Ivi, p. 72. 65 Ibidem. 66 G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni rivista da C. Cesa, introd. di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 14. 67 Ibidem. 75 DANILO MANCA non umana e la sua descrizione in termini di spontaneità. Sartre mette in risalto un altro elemento paradossale che caratterizza il modo naturale di rappresentarsi la spontaneità della coscienza. L’ego, che dovrebbe incarnare questa spontaneità, appare passivo se confrontato con i suoi stati. Mentre questi ultimi lo muovono, l’io ne è determinato: «Il produttore è passivo rispetto alla cosa creata», perciò «il legame dell’Ego con i suoi stati resta […] una spontaneità inintelligibile»68. Se però grazie alla riduzione ribaltiamo la prospettiva riconoscendo che «prime realmente sono le coscienze attraverso le quali si costituiscono gli stati, poi, attraverso questi, l’Ego», allora si comprende che «la coscienza proietta la propria spontaneità nell’oggetto per conferirgli il potere creatore che gli è assolutamente necessario» 69; la spontaneità dell’ego è quindi rappresentazione e ipostatizzazione di quella della coscienza, che di conseguenza nell’io si configura come una «spontaneità bastarda e degradata che conserva magicamente la sua potenza creatrice, divenendo al tempo stesso passiva»70. Ciò spinge Sartre a proporre quella famosa metafora dell’uomo come stregone: nella misura in cui la coscienza rifugge dal rivelarsi a se stessa spontaneità impersonale e pre-umana proiettando nell’ego la propria spontaneità, allora ci troviamo «circondati da oggetti magici che conservano come un ricordo della spontaneità della coscienza, essendo al tempo stesso degli oggetti del mondo. Ecco perché l’uomo è sempre uno stregone per l’uomo. Infatti, questo legame poetico di due passività di cui l’una crea l’altra spontaneamente è la risorsa della stregoneria, è il senso profondo della “partecipazione”»71. Nella vita ordinaria la coscienza attua una sorta di censura nei confronti della propria natura, perciò il legame originario fra l’io (il soggetto in cui mi rappresento l’unità dei miei vissuti) e il mondo (l’orizzonte in cui inserisco ogni fenomeno di cui faccio esperienza) appare come magico, cioè determinato da una «sintesi irrazionale»72. È il motivo per cui la psicanalisi e Bergson hanno parlato, in accezioni diverse, di inconscio per «spiegare questo superamento del Me da parte della coscienza»73; hanno in altre parole dissociato l’io come epifenomeno della coscienza, come sua proiezione, dalla volontà che lo muove e che è «un oggetto che si costituisce per e a causa di questa spontaneità» 74. Il ricorso all’inconscio appare tuttavia a Sartre 68 TE, p. 72. TE, p. 73. 70 Ibidem. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 75. 73 Ivi, p. 91. 74 Ibidem. 69 76 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE «un’interpretazione grossolana e materialista di un’intuizione giusta»75. Si è pensato che «le coscienze spontanee “uscissero” dall’inconscio dove esse esistevano già» 76, ma in tal modo non si faceva altro che «differire il problema dell’esistenza»77, rimanendo nel paradosso per cui la spontaneità (che Freud identificherebbe con il preconscio) si presenta originariamente sotto forma di un’«esistenza passiva»78. A quest’impostazione Sartre contrappone dunque la sua interpretazione della coscienza trascendentale in termini di una spontaneità impersonale e autoproducentesi che «si determina all’esistenza in ogni istante, senza che si possa concepire niente prima di essa» 79. Il ricorso all’inconscio sottintende l’erronea identificazione di coscienza e conoscenza. Pensando vi fosse un fondo cui l’io umano con i suoi strumenti e le sue strategie conoscitive non potesse accedere, si è pensato di dover presupporre qualcosa di inaccessibile, una volontà inconscia. Caduta l’identificazione di coscienza, conoscenza e io, quest’operazione non ha più alcun senso 80. Ancora una volta l’intuizione appare geniale, visto che Sartre non aveva accesso ai manoscritti delle lezioni di Husserl sulle cosiddette sintesi passive o agli studi sul tempo successivi alle lezioni del 1905. D’altronde, rifiutando l’esistenza dell’inconscio Sartre non fa altro che adottare il punto di vista di queste lezioni, dove Husserl sosteneva che si definisce un vissuto inconscio [unbewusst] solo perché non è oggetto di appercezione, ma esso in realtà è piuttosto conscio in una forma primordiale [urbewusst] 81. 75 Ivi, p. 90. Nonostante le critiche, il discorso fenomenologico di Sartre trova in realtà in Bergson la sua originale ispirazione. Come ha evidenziato F. CAEYMAEX, Sartre, Merleau-Ponty, Bergson. Les phénoménologies existentialistes et leur héritage bergsonien, Olms, Hildesheim/Zürich/New York 2005, pp. 37-51, nel Saggio sui dati immediati della coscienza si trova un’anticipazione sia dell’incapacità del linguaggio comune di descrivere la vita della coscienza, sia della sua impersonalità. Da Materia e memoria Sartre impara almeno a pensare la coscienza in unità con il mondo anche se poi critica l’identificazione bergsoniana della coscienza con una forma sostanziale. Sulla questione cfr. BARALE, Filosofia come esperienza trascendentale. Sartre, cit., pp. 6-28 e in confronto con Deleuze l’introduzione di R. RONCHI a TE e il cap. 5.7 del suo Bergson: una sintesi, Marinotti, Milano 2011. 76 TE, p. 90. 77 Ibidem. 78 Ibidem. 79 Ibidem. 80 Sartre si avvicina così alla tesi espressa da Fink nell’appendice sull’inconscio di Crisi, pp. 498-500, secondo cui la teorizzazione psicanalitica dell’inconscio dipende da una teoria ingenuo-dogmatica della coscienza. Sull’inconscio in ottica fenomenologica mi permetto di rimandare al mio Husserl e l’inconscio fenomenologico, in «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», 3, 2018, pp. 595-606. 81 Cfr. Hua 10, p. 144. 77 DANILO MANCA La spontaneità impersonale di cui parla Sartre coinciderebbe con questa coscienza originaria se Sartre non ne affermasse l’istantaneità, il fatto appunto che determinandosi in ogni istante, la coscienza appare come una continua creazione ex nihilo. Nonostante la sua attestazione di fede per la coscienza costituente di Husserl 82, Sartre si priva così della possibilità di identificare la spontaneità impersonale con la vita trascendentale che si auto-costituisce nel flusso in cui costituisce la cosa 83. A ciò si aggiunge il problema della conservazione della definizione di campo trascendentale. Nella Sesta Meditazione Cartesiana Fink sostiene che espressioni come “regione” o “campo” sono d’impaccio perché suggeriscono che la coscienza sia una sfera immanente chiusa, perdendo la possibilità di cogliere il senso totalmente nuovo che la coscienza acquista dopo la riduzione. A quelle espressioni Fink preferisce perciò quella di processo perché suggerisce che all’origine vi sia un divenire che trova nel mondo il suo terminus ad quem e nella soggettività costituente il suo terminus a quo 84. Conservare la definizione di campo trascendentale enfatizzando il carattere “esplosivo” della coscienza come intenzionalità significa perciò rimanere in una situazione aporetica. Così come abbiamo visto accadere con il passaggio dall’atteggiamento naturale al trascendentale, nonostante i mancati approfondimenti e le contraddizioni che affiorano, l’argomentazione di Sartre coglie un problema decisivo della descrizione husserliana della coscienza trascendentale: invece di lamentare l’anonimia in cui originariamente opera la vita costituente, Husserl dovrebbe invece valorizzarne il carattere impersonale e pre-individuale; si eviterebbe così di attribuire a questa vita fattezze simili a quelle della soggettività umana che costituisce e non la si chiamerebbe vita solo per analogia con la vita naturale 85. Non s’incorrerebbe nel paradosso della soggettività che sembra inghiottire il mondo in cui al contempo si trova e da cui è modificata, perché si comprenderebbe che l’Io e il mondo sono contemporanei, l’uno non ha creato l’altro, né viceversa, ma entrambi sono «due oggetti per la coscienza assoluta, impersonale ed è grazie ad essa che essi si trovano connessi» 86. 82 Cfr. TE, p. 30. Su questo punto critico cfr. l’articolo di F. NOBILI nel presente volume: Sartre e la dissoluzione onto-fenomenologica della realtà umana. 84 E. FINK, VI a Meditazione Cartesiana. L’idea di una dottrina trascendentale del metodo (Parte I), testi dal lascito di E. Fink (1932) con note e appendici dal lascito di E. Husserl (1933-34) procurati da H. Ebeling, J. Holl e G. van Kerckhoven, trad. it. parziale a cura di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 2009, § 5, pp. 53-54. 85 Cfr. Crisi, § 29. 86 TE, p. 98. 83 78 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE 3. La spontaneità pratica della storia Uno dei problemi lasciati aperti da La trascendenza dell’ego è come la coscienza possa sottrarsi al processo che la porta a identificarsi con l’io umano. Nel primo paragrafo di questo articolo abbiamo visto come Sartre attribuisca all’angoscia la duplice funzione di inquietare la coscienza inducendola a permanere nello stato di fuga da sé oppure di risvegliarla. Non si esprime però sul modo in cui la coscienza possa effettivamente ritornare a sé. Se la fuoriuscita dall’atteggiamento naturale avviene dall’interno, significa che, mentre si proietta e immerge nel Me, la coscienza crea anche, grazie ad alcuni suoi vissuti particolari, le condizioni perché questa fuga da se stessa sia reversibile. Il vissuto che, secondo Sartre, mantiene viva nella coscienza la possibilità di rinunciare alla fuga da se stessa è quello dell’immaginazione. A differenza della percezione e del ricordo, l’immaginare trasforma il proprio oggetto in un irreale, in qualcosa non di presente qui e ora in carne e ossa, né di presente nel passato, ma di presente come assente. «Affinché una coscienza possa immaginare è necessario che per sua stessa natura sfugga al mondo, che possa ricavare da sé una posizione di arretramento rispetto al mondo»87. Se l’epoché è uno sforzo uguale e contrario a quello dell’immersione nel mondo, è chiaro che ciò che permette di attuarla è l’azione opposta alla fuga da se stessi: è la fuga dal mondo verso se stessi. Perché ciò possa avvenire la coscienza deve poter prima tematizzare il mondo come totalità sintetica e poi riconoscerlo come un nulla. La coscienza deve prendere le distanze dal mondo per renderlo proprio oggetto e poi riconoscerlo come un irreale, uno sfondo sempre irraggiungibile e nel quale l’oggetto immaginato si situa come un’assenza. Porre il mondo come oggetto della coscienza e arretrare dal mondo sono un unico e medesimo atto: «Se possiamo utilizzare un paragone, è proprio mettendosi a un’opportuna distanza rispetto al suo quadro che il pittore impressionista comporrà l’insieme “foresta” o “ninfee” dalle numerose piccole pennellate dipinte sulla tela. Ma, reciprocamente, l’atto di arretramento è quella struttura originaria che dà la possibilità di costituire un insieme»88. Non appena l’immaginazione consente alla coscienza di sottrarsi al legame con il mondo, realizza la sua libertà. Se l’angoscia trasformando l’ovvio in enigmatico ci rivela che siamo sempre potenzialmente liberi, l’immaginare trasformando il reale in irreale attua questa libertà: «L’immaginazione non 87 J.-P. SARTRE, L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, a cura di R. Kirchmayr, Einaudi, Torino 2007, p. 275. 88 Ibidem. 79 DANILO MANCA è un potere empirico e sovrapposto alla coscienza, ma è la coscienza intera in quanto realizza la propria libertà. Ogni situazione concreta e reale della coscienza nel mondo è gravida d’immaginario, in quanto si presenta sempre come un superamento del reale»89. Identificando coscienza e libertà Sartre attua surrettiziamente una modifica nella sua originaria impostazione perché riconduce la spontaneità pura autoproducentesi e pre-umana alla condizione che contraddistingue il modo d’essere della realtà umana. Criticando le argomentazioni di Bergson nel Saggio sui dati immediati della coscienza, ne La trascendenza dell’ego Sartre suggerisce che la libertà stia alla spontaneità come l’Io psichico alla coscienza trascendentale, tanto da asserire che «la coscienza si spaventa della propria spontaneità perché la sente al di là della libertà»90. La coscienza incarnatasi nella realtà umana avverte, in altre parole, che la spontaneità ha a che fare con una dimensione pre-umana in cui l’Io è costituito e non costituente. A partire da L’immaginario questa distinzione cade, giustificata da una più intensa lettura di Heidegger e dall’esperienza della guerra91. L’esito è contraddittorio: anche se Sartre riconosce che l’essere nel mondo non è un ostacolo per la fuga dal mondo ma ne è piuttosto la condizione, tuttavia appiattisce la coscienza assoluta all’atto nullificante dell’immaginare: «L’irreale è prodotto fuori del mondo da una coscienza che rimane nel mondo; e l’uomo immagina solo perché è trascendentalmente libero» 92. Se ne La trascendenza dell’Ego il campo trascendentale della spontaneità impersonale non era posto di fronte al mondo come al proprio oggetto, ma coincideva piuttosto con quella sorgente assoluta d’esistenza che soggiace al Me e al Mondo e li connette, sul finire degli anni Trenta Sartre ritorna sui suoi passi limitandosi solo a sostituire l’Io con l’esserci heideggeriano o, come traduce sulla scia di Henry Corbin e Alphonse de Waelhens, con la realtà umana. Le conseguenze di quest’operazione sono famose: ne L’essere e il nulla Sartre elabora un’ontologia che corre il rischio di risolversi in un dualismo. Alla coscienza apparterrebbe il modo d’essere del per-sé (dell’essere che è ciò che non è e che non è ciò che è), alle cose del mondo quello dell’in-sé 89 Ivi, p. 278. TE, p. 91. 91 Nell’esperienza della guerra Sartre trova una conferma dell’analisi esistenziale di Heidegger: alimentando il pensiero della morte la guerra fungerebbe da riduzione fenomenologica perché «sopprime l’uomo» facendo affiorare «una coscienza nuda senza punto di vista di fronte a un mondo nudo» (J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre. September 1939-Mars 1940, a cura di A. Elkaïm-Sartre, Gallimard, Paris 1995, p. 118). Cfr. DE COOREBYTER, Sartre face à la phénoménologie, cit., pp. 242-247. 92 SARTRE, L’immaginario, cit., p. 279. 90 80 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE (dell’essere massivo che è ciò che è). Il mondo appare di nuovo come l’opposto della coscienza trascendentale, non semplicemente di quell’artefatto che è l’Io. Sartre pensa di evitare il dualismo sostenendo che per-sé e in-sé siano uniti da un legame sintetico per cui «il per-sé effettivamente non è altro che la pura nullificazione dell’in-sé: è come un vuoto d’essere nel seno dell’essere» 93. La coscienza è la negazione interna al mondo. Nelle riflessioni metafisiche che concludono l’opera, Sartre dimostra di rendersi conto del rischio di riproporre un dualismo, tanto da introdurre l’idea di un essere totale costituito dall’organizzazione sintetica dell’in-sé e del persé 94. Aggiunge però che questa realtà totale rimane una sintesi ideale perché l’integrazione di per-sé e in-sé nella realtà fenomenica rimane «sempre indicata e sempre impossibile» 95. Invece di pensare dialetticamente l’intero come l’unità dell’identico e del non identico, Sartre interpreta la negazione come un elemento che inficia la realtà della totalità. È una conseguenza della degradazione della coscienza a realtà umana e, in quanto nullificazione, a fonte della libertà in situazione cui l’uomo si scopre condannato. A esporre l’ontologia di Sartre al rischio di ricaduta nel dualismo è dunque il fatto che individui nel modo d’essere dell’uomo l’unica fonte della negatività che è nel mondo, invece di intendere la sua negatività come un certo grado di espressione della dialettica che regola il reale nel suo dipanarsi. Ma non è questa l’ultima parola di Sartre. L’approfondimento dello studio di Hegel e la rilettura del materialismo storico di Marx (in contrasto con l’interpretazione datane da Engels e dai comunisti francesi) consentono a Sartre di ripensare in una nuova ottica il rapporto che intercorre fra coscienza e mondo, e quindi il processo di reificazione della spontaneità nella realtà umana 96. 93 ID., L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo rivista da F. Fergnani e M. Lazzari, il Saggiatore, Milano 2002, p. 685. 94 Cfr. ivi, p. 690, dove Sartre ricorda quella totalità che i Greci chiamavano to holon, costituita dalla realtà cosmica (to pan) e dal vuoto infinito. Sul nichilismo che si cela dietro la concezione sartriana della libertà degli anni Quaranta cfr. l’articolo di F. PASQUINI nel presente volume: Libertà e nichilismo. Uno spunto per leggere Sartre attraverso Nietzsche e forse Nietzsche attraverso Sartre. 95 Ivi, p. 691. 96 Sulla reificazione dell’attività umana nella praticità dell’inerte cfr. F. CAEYMAEX, Praxis et inértie: La “Critique de la raison dialectique” au miroir de l’ontologie phénoménologique, in G. WORMSER (a cura di), Sartre. Violence et éthique, Sens publique, Lyon 2005, pp. 45-63; L. BASSO, Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre, Ombre corte, Verona 2016, pp. 47-51. Ho cercato di mostrare l’affinità che intercorre tra la posizione di Sartre e quella di Benjamin sulla funzione pratica assolta dalla materia lavorata in D. MANCA, Storicità e immaginario. Benjamin, Sartre e l’impulso rivoluzionario, in A. DI RICCIO (a cura di), 81 DANILO MANCA Se ne La trascendenza dell’ego il volgersi in forma passiva della pura spontaneità impersonale e autoproducentesi è un accidente che degrada e ipostatizza la coscienza e ne fornisce addirittura una falsa rappresentazione, nella Critica della ragion dialettica il passaggio dalla spontaneità alla passività è una necessità che offre alla libertà umana la possibilità di concretizzarsi: «Se la dialettica esiste, dobbiamo subirla come insormontabile rigore della totalizzazione che ci totalizza, e coglierla nella sua libera spontaneità pratica come la praxis totalizzante che noi siamo; a ogni grado della nostra esperienza, dobbiamo ritrovare, nell’unità intelligibile del movimento sintetico, la contraddizione e l’indissolubile connessione fra la necessità e la libertà, benché, ad ogni momento, questa connessione si presenti sotto forme diverse. Comunque, se la mia vita, approfondendosi, diventa Storia, deve scoprire se stessa in base al suo libero sviluppo come rigorosa necessità del processo storico, per ritrovarsi più profondamente ancora come la libertà di questa necessità e infine come necessità della libertà» 97. La spontaneità dell’uomo si manifesta nella prassi, nell’azione guidata da un progetto di organizzazione e definizione integrale della propria vita. Sartre definisce l’attuazione di questo processo “totalizzazione” identificandola con un lavoro di sintesi e integrazione che porta ogni uomo ad acquisire consapevolezza della propria situazione di partenza e a formulare il proprio progetto di libertà prendendo le mosse dalla necessità che subisce. In questo senso, come Sartre suggerisce in Verità ed esistenza (scritto postumo composto nel 1948, a cavallo fra L’essere e il nulla e Critica della ragion dialettica), ogni totalizzazione individuale è «storializzazione»98, ossia tentativo di sfuggire alla storicità, alla condizione storica in cui ci si trova gettati, non trascendendo la propria epoca «verso l’eterno o verso un avvenire sul quale noi non abbiamo presa, ma, al contrario, accettando di superarsi solo in e mediante tale epoca e cercando nell’epoca stessa i fini concreti che ci si proporrà» 99. Ogni uomo «totalizza il passato»100, ossia interpreta la storia in funzione del progetto di superamento del proprio presente che va elaborando. La storia è conflitto fra progetti totalizzanti, la dialettica la logica che Storicità della ragione, Edizioni ETS, Pisa 2018, pp. 65-88 e ID., Inconscio collettivo e praticoinerte. Per un confronto tra Benjamin e Sartre, in «Studi Sartriani», XII, 2018, pp. 135-153. 97 J.-P. SARTRE, Critica della ragion dialettica. Libro I: Teoria degli insiemi pratici, preceduto da Questioni di metodo, il Saggiatore, Milano 1963, t. 1 (d’ora in poi CRD I/1), p. 191. 98 ID., Verità ed esistenza, a cura di F. Sircana, il Saggiatore, Milano 1991, p. 119. 99 Ibidem. 100 Ivi, p. 116. 82 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE permette di rendere questo conflitto intelligibile nel suo divenire. I rapporti sociali in cui questi progetti totalizzanti si concretizzano sono costantemente mediati dalla materia inerte. In quanto prodotto del lavoro umano, la materia «realizza una prima unione fra gli uomini» 101. L’uomo ripone in essa il senso del suo fare, ma in questo modo trasforma la sua spontaneità pratica in inerzia. In altre parole, la coscienza si reifica attraverso quella che Sartre, appropriandosi del lessico husserliano, chiama «sintesi passiva» 102. In Husserl, tuttavia, la sintesi è passiva quando la genesi della soggettività si trova a uno stadio in cui l’io non si è ancora costituito come polo. In Sartre la sintesi è passiva perché la soggettività è strutturata dall’esterno, e quindi l’azione dell’individuo è guidata dal prodotto del suo fare. La sintesi non è passiva perché non c’è ancora un soggetto autonomo capace di agire, ma perché l’azione autonoma si è oggettivata nel suo prodotto e ora è quest’ultimo a definirla e orientarla. In Husserl la sintesi è passiva dal punto di vista dell’io, ma inconscia dal punto di vista della vita costituente, perché è una spontaneità incapace di tematizzarsi in quanto tale. In Sartre la sintesi è passiva perché la vita umana è mediata dalla funzione pratica assolta dall’inerte. Se in Husserl la vita inconscia costituisce l’attività conscia dell’io, in Sartre è l’attività conscia della spontaneità pratica a consegnarsi alla passività, ad alienarsi nel corso del naturale processo di oggettivazione. È evidente la torsione cui la scoperta della dialettica sottopone il pensiero di Sartre. Se la vita dell’uomo ne L’essere e il nulla è determinata dall’irrealizzabile ideale di un per-sé che si fa in-sé-per-sé, ossia dal progetto mancato di essere Dio, di realizzare una libertà che integri la propria essenza nullificante con il proprio istinto di oggettivazione, nella Critica della ragion dialettica la vita dell’uomo è determinata dalla capacità di scoprire nella spontaneità reificata un potenziale emancipante. Ne L’essere e il nulla la coscienza in quanto nullificazione d’essere vorrebbe scoprirsi complementare al mondo, parte integrante di un intero; ma più tenta di farsi spazio nel mondo più la pienezza d’essere che vuole ottenere le sfugge. Non esistendo che come prassi, in Critica della ragion dialettica la coscienza è effettivamente parte del mondo nella misura in cui rende il mondo parte di sé. Se prima il processo di umanizzazione allontanava l’uomo dal mondo, adesso grazie a un’interpretazione dialettica del rapporto, si scopre che lo integra 103. 101 CRD I/1, p. 248. Ibidem. 103 Sulla questione e sul modo in cui in Critica della ragion dialettica viene rielaborata la 102 83 DANILO MANCA Si potrebbe esprimere la questione anche in altri termini: la rottura con l’ordinario, che in Critica della ragion dialettica non consiste solo in una vita nell’ingenuità, ma nell’alienazione, non è apertura di un campo trascendentale ma di un campo pratico. In questo modo si modifica il senso stesso della filosofia (ma mi verrebbe di dire della fenomenologia, evidenziando gli elementi di continuità nella riflessione di Sartre). Nel primo caso è esperienza contemplativa, capacità di guadagnare una posizione da spettatore sul processo di manifestazione del mondo alla coscienza, mentre nel secondo caso è esperienza critica, vale a dire capacità di riguadagnare una posizione di attori, anche attraverso la condizione di esseri agiti, grazie alla propria capacità conoscitiva. Ne La trascendenza dell’ego la riflessione portava la coscienza a mascherarsi nella falsa rappresentazione dell’io umano, in Critica della ragion dialettica, si esclude che la riflessione possa essere intesa come una «coscienza parassitaria e distinta»104. In quanto riflessione sulla realtà, l’esperienza critica permette all’uomo di fuoriuscire dall’inerzia in cui la sua stessa spontaneità lo ha gettato ed è quindi partecipazione alla totalizzazione in corso: «L’esperienza critica non può essere che un momento di tale avventura o, se si preferisce, tale avventura totalizzatrice si realizza come esperienza critica di se stessa a un certo momento del suo sviluppo. E questa esperienza critica coglie, mediante riflessione, il movimento particolare; ciò vuol dire che è il momento particolare in cui l’atto si dà struttura riflessiva» 105. Sartre rielabora così la tesi con cui concludeva La trascendenza dell’ego: «Un’ipotesi di lavoro così feconda come il materialismo storico» non richiede affatto «l’assurdità di un materialismo metafisico»; «non è infatti necessario che l’oggetto preceda il soggetto perché svaniscano gli pseudo-valori spirituali e la morale ritrovi le sue basi nella realtà»106. Nel 1936 Sartre riteneva sufficiente che il Me sia «contemporaneo del Mondo» perché «la dualità di soggetto-oggetto sparisca definitivamente dalle preoccupazioni filosofiche» 107. Agli inizi degli anni Sessanta Sartre comprende che la contemporaneità non è condizione sufficiente, il Me deve essere dialetticamente descrizione delle strutture temporali del per-sé proposta da L’essere e il nulla cfr. l’articolo di C. DE COSMO contenuto nel presente volume: Il soggetto e la storia. Forme di trascendenza soggettiva nel pensiero sartriano. 104 CRD I/1, p. 174. 105 Ibidem. 106 TE, p. 98. 107 Ibidem. 84 SPONTANEITÀ E REALTÀ UMANA IN SARTRE integrato al mondo. La spontaneità pre-umana della coscienza trascendentale deve tradursi nella spontaneità spesso disumana della coscienza storica. Nelle dinamiche violente generate dall’alienazione e dal tentativo delle classi dominanti di ossificare in una totalità fissa il processo dialettico di totalizzazione in corso, giace la non-umanità della spontaneità pratica, l’umana disumanità della coscienza storica. 85 Felice Cimatti L’uomo e il cavolfiore. Da Sartre a Deleuze, dall’umano al postumano ABSTRACT: Can humanism become post-humanism? In this essay, we argue for an ontology in which the difference between a human being and a cauliflower – that is, subject-object dualism – collapses. In Existentialism is a Humanism, the cauliflower represents the complete contrary of a human being. In this essay it is argued that one can find a possible movement towards the post-human in Sartre’s existentialism. Although Sartre did not expressly take up this position, it can be seen as implicit in Existentialism is a Humanism. KEYWORDS: Sartre; Humanism; Anthropocentrism; Deleuze; Post-humanism ABSTRACT: A quali condizioni l’umanesimo può trasformarsi in post-umanesimo? In questo saggio cerchiamo di argomentare a favore di un’ontologia in cui la dif-ferenza tra un essere umano e un cavolfiore, cioè quella del dualismo soggetto-oggetto, collassa su se stessa. Per Sartre il cavolfiore rappresenta l’opposto dell’essere umano. Cercheremo pertanto di sostenere che in realtà anche nell’esistenzialismo di Sartre si può trovare un possibile movimento verso il post-umano. Un movimento che di fatto Sartre non intraprende, ma che tuttavia è potenzialmente implicito nell’Esistenzialismo è un umanesimo. KEYWORDS: Sartre; umanismo; antropocentrismo; Deleuze; post-umanismo 1. Umanismo e soggettività L’umanismo può diventare un post-umanismo? In altri termini, si può pensare un passaggio da un mondo centrato sulla soggettività umana (che poi non è altro che il mondo dell’antropocene1) a un mondo centrato sul 1 P. CRUTZEN, E. STOERMER, The Anthropocene, in «IGBP (The International Geosphere– Biosphere Programme) Newsletter», 41, 2000, pp. 17-18. Il nesso proposto fra antropocene e soggettività umana va motivato. Secondo lo storico e geografo J. Moore, ad esempio, quello che comunemente viene indicato con il termine “antropocene” andrebbe più correttamente chiamato “Capitalocene” (cfr. Capitalocene o Antropocene? Scenari di ecologiamondo nella crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017), cioè l’epoca “geologica” segnata Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 87 FELICE CIMATTI cavolfiore? O meglio, a un mondo in cui la differenza fra un essere umano e un cavolfiore non è più riducibile alla coppia metafisica soggetto-oggetto? Il cavolfiore è naturalmente quello di Esistenzialismo è un umanismo 2, quando Sartre scrive che «l’uomo è, dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente, invece di essere muschio, putridume o cavolfiore»3. La questione filosofica dell’umanismo è in effetti quella della posizione “soggettiva” dell’umano rispetto, appunto, a quella del cavolfiore, che per Sartre non ne ha evidentemente alcuna4. In questo saggio proveremo ad argomentare che, in realtà, nell’esistenzialismo di Sartre è implicito un possibile movimento verso il postumano; un movimento possibile che Sartre non intraprese, ma che tuttavia è contenuto nello stesso Esistenzialismo è un umanismo. In questo senso il suo umanismo può ancora dialogare con la contemporaneità, quella appunto dell’antropocene, della svolta ontologica nella filosofia5 e nell’antropologia6, una svolta che dal soggetto porta alle cose7. Prima di provare a seguire questa strada8, precisiamo però i termini della dall’economia capitalistica. In questo saggio, tuttavia, non seguo questa ipotesi, vedendo invece nell’antropocene l’ultima e più esplicita manifestazione del modo specie-specifico di stare al mondo della specie animale Homo sapiens. Un modo di stare al mondo che deriva dalla particolare posizione dell’umano rispetto a se stesso, come animale cosciente della propria stessa coscienza. Da questa caratteristica, a sua volta strettamente legata al possesso di un linguaggio sintatticamente articolato (cfr. D. DENNETT, Coscienza. Che cosa è, Laterza, Bari 2012 [1991]) discende il fatto che l’umano è il vivente che per sopravvivere deve modificare il proprio ambiente. L’ambiente “naturale” umano è l’ambiente artificiale che costruisce e adatta ai suoi bisogni. In questo senso l’antropocene rimanda non tanto all’economia, bensì alla biologia umana. 2 J.-P. SARTRE, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946 (trad. it. a cura di F. Fergnani, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1986). 3 Ivi, p. 51. 4 In realtà oggi prevale l’idea – sia nella filosofia che nella scienza – che le piante siano dotate di forme peculiari di soggettività; cfr. M. MARDER, Plant-Thinking. A Philosophy of Vegetal Life, Columbia University Press, New York 2013 e S. MANCUSO, The Revolutionary Genius of Plants: A New Understanding of Plant Intelligence and Behavior, Simon & Schuster, New York 2018. 5 Cfr. P. GRATTON, Speculative Realism, Bloomsbury, London 2014. 6 E.V. DE CASTRO, Cannibal Metaphysics: For a Post-structural Anthropology, Univocal, Minneapolis 2014; R. BRIGATI, V. GAMBERI (a cura di), Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, Quodlibet, Macerata 2019. 7 F. CIMATTI, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018. 8 Una strada già in parte individuata da E. BUTTERFIELD, Sartre and Posthumanist Humanism, Peter Lang, Frankfurt am Main 2012. Secondo Butterflield il «posthumanist humanism» ispirato all’ultimo Sartre deve «assume from the very beginning that all human beings are intersectional subjects. In this way it becomes clear that all humans experience multiple intersecting axes of identity that condition and shape our experience. The experience of 88 L’UOMO E IL CAVOLFIORE discussione: dapprima si tratta infatti di capire che cosa voglia dire “umanismo” e in che senso in questo articolo useremo la nozione di “postumanesimo”. Seguiremo da vicino il testo di Sartre, perché presenta tanto il problema dell’umanismo, quanto una possibile via di fuga da quello stesso umanismo: Il nostro punto di partenza è in effetti la soggettività dell’individuo, e questo per ragioni strettamente filosofiche. Non perché siamo borghesi, ma perché vogliamo una dottrina fondata sulla verità e non un complesso di belle teorie piene di speranza, ma senza un fondamento reale. Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che coglie se stessa. Ogni teoria che considera l’uomo fuori dal momento nel quale egli raggiunge se stesso è, anzitutto, una teoria che sopprime la verità, perché, fuori del «cogito» cartesiano, tutti gli oggetti sono soltanto probabili; ed una dottrina di probabilità, che non sia sostenuta da una verità, affonda nel nulla. Per definire il probabile, bisogna possedere il vero. Dunque, perché ci sia una qualunque verità, occorre una verità assoluta; e questa è semplice, facile a raggiungersi, può essere compresa da tutti e consiste nel cogliere se stessi senza intermediario. E poi, questa teoria è la sola che dia una dignità all’uomo, è la sola che non faccia di lui un oggetto. Ogni materialismo ha per effetto di considerare gli uomini, compreso il materialista stesso, come oggetti, cioè come una somma di reazioni determinate che nulla distingue dalla somma delle qualità e dei fenomeni che formano un tavolo, o una sedia, o una pietra. Noi vogliamo istituire per l’appunto il regno umano come un insieme di valori distinti dal regno materiale9. All’inizio c’è «la soggettività dell’individuo». Non c’è l’individuo, cioè il suo corpo animale, c’è la soggettività di quel corpo. Ma che vuol dire soggettività? La risposta di Sartre è netta, una scelta di campo che non ammette ambiguità: «non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono». Il soggetto è soggetto perché si accorge di esserci in quanto pensante. Il soggetto pensa, questa è la prima definizione del soggetto. E qual è il primo pensiero di questo soggetto? Che è diverso dal cavolfiore, cioè da una comune cosa. Quindi potremmo sostenere che il soggetto, per Sartre, è un soggetto proprio perché non è un cavolfiore. Se poi cerchiamo di capire in maggiore dettaglio in che cosa consista, propriamente, la verità del soggetto, ebbene multiple social identities is something that we all share in the common human condition» (ivi, p. 20). Come si vede nella sua proposta si tratta di “indebolire” la posizione del soggetto, non di superarlo. In questo saggio, invece, proveremo ad esplorare una via più radicale, quella appunto che porta al cavolfiore. 9 SARTRE, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., pp. 83-84. 89 FELICE CIMATTI anche in questo caso la risposta di Sartre è affatto netta: si tratta della «verità assoluta della coscienza che coglie se stessa». La verità è dentro il soggetto, o meglio, il soggetto non è altro che questa radicale interiorità che, appunto, «coglie se stessa». In questo senso si comprende la ragione dell’insistenza di Sartre sulla differenza fra il soggetto e il muschio o il cavolfiore. Una pianta di cavolo non dice di sé d’essere un soggetto; al contrario, il cavolfiore è quel che è proprio perché non dice nulla di sé. Mentre un soggetto non sarebbe un soggetto se non affermasse (continuamente) di non essere una semplice cosa, ad esempio un cavolfiore. All’inizio c’è allora una «verità assoluta», che consiste nel «cogliere se stessi senza intermediario», cioè immediatamente. Il soggetto è questa immediatezza autoriflessiva. Torniamo di nuovo al cavolfiore. Che c’è che non va in una pianta di Brassica oleracea? Il semplice fatto, ma inaccettabile per un umanista, che è una cosa: «questa teoria è la sola che dia una dignità all’uomo, è la sola che non faccia di lui un oggetto». La dignità dell’umano sta tutta nel suo essere un soggetto, e “soggetto”, in fondo, non vuol dire altro che “non-cosa”, cioè non essere come «un tavolo, o una sedia, o una pietra». È questo infatti il problema di fondo del materialismo, non separare la posizione privilegiata del soggetto umano da quella delle cose materiali. L’umanismo di Sartre è così un dualismo: infatti «noi vogliamo istituire per l’appunto il regno umano come un insieme di valori distinti dal regno materiale». Un dualismo che contrappone il soggetto come radicale libertà da un lato – perché «l’uomo è libero, l’uomo è libertà»10 – e il mondo delle entità che non sono altro che una «somma di reazioni determinate» (cioè appunto non libere) dall’altro. Che per Sartre la libertà individuale sia poi anche e immediatamente una libertà intrecciata con quella dell’altro, non toglie che l’insistenza sulla libertà e sul cogito inscrivono il suo umanismo all’interno di una visione del mondo radicalmente antropocentrica e dualistica. Dopo “la morte di Dio” rimane, infatti, solo l’umano come agente libero e responsabile. L’esistenzialismo ateo, che io rappresento, afferma che se Dio non esiste, [questo], […] significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo. Ed è anche quello 10 Ivi, p. 63. 90 L’UOMO E IL CAVOLFIORE che si chiama la soggettività […]. Ma che cosa vogliamo dire noi, con questo, se non che l’uomo ha una dignità più grande che non la pietra o il tavolo? Perché noi vogliamo dire che l’uomo in primo luogo esiste, ossia che egli è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l’avvenire. L’uomo è, dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente […]; niente esiste prima di questo progetto; niente esiste nel cielo intelligibile; l’uomo sarà anzitutto quello che avrà progettato di essere11. “Dio è morto” ma «l’uomo» – come scrive l’esistenzialista ateo Sartre – è più vivo che mai, e ne ha completamente preso il posto. Che cos’è infatti l’umano se non ciò che liberamente «avrà progettato di essere»? È umano il soggetto libero, cioè quell’ente capace di autodeterminarsi. A parte Dio, che è uscito di scena, è rimasto solo il soggetto umano capace di una simile straordinaria prestazione metafisica. Soggetto umano che infatti meritatamente gode di «una dignità più grande che non la pietra o il tavolo» cioè delle semplice cose al suo servizio. È interessante che il mondo non umano dell’Esistenzialismo è un umanismo sia solo un mondo artificiale, umanizzato (anche il cavolfiore è natura in quanto alimento per gli esseri umani). La natura non umana, montagne, nuvole, vulcani e così via non compare mai in questo scritto. Anche se quello di Sartre non è un idealismo, è altrettanto certo che almeno in questa conferenza c’è davvero poca natura (per non parlare di materia) 12. Questo è il soggetto dell’umanismo di Sartre. Che cos’è invece il postumano? In questo lavoro non interessa il postumano inteso come transumano 13, cioè come il tentativo di “migliorare” la specie umana mediante inserti tecnologici 14. Questo particolare “postumanesimo” è in realtà nient’altro che una versione ancora più radicale del classico umanismo; come scrive Cary Wolfe, «transhumanism should be seen as an intensification of humanism» 15. In questo 11 Ivi, pp. 49-50. Cfr. C. HOWELLS, Sartre: The necessity of Freedom, Cambridge University Press, Cambridge 2009; J. DUNCAN, Sartre and Realism-All-the-Way-Down, in «Sartre Studies International», 11, 1, 2005, pp. 91-113; B. MESSAOUDI, Sartre face à la liberté du chien, in «Sartre Studies International», 22, 2, 2016, pp. 39-52. 13 Cfr. N. BOSTROM, A History of Transhumanist Thought, in «Journal of Evolution and Technology», 14, 2005, pp. 1-25. 14 Cfr. H. TIROSH-SAMUELSON, K. MOSSMAN (eds.), Building Better Humans? Refocusing the Debate on Transhumanism, Peter Lang, Frankfurt am Main 2011. 15 C. WOLFE, What is posthumanism?, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010, p. XV. La letteratura sul postumanesimo è molto ampia, fra i testi principali v. R. MARCHESINI, Posthuman. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2001; R. BRAIDOTTI, The Posthuman, Polity, Cambridge 2013; C. PETERSON, Monkey 12 91 FELICE CIMATTI lavoro, al contrario, si discute il postumanesimo in quanto tentativo di esplorare una condizione umana post-soggettiva, cioè il tempo della «end of the sovereign human subject» 16; cioè in pratica il tempo del cavolfiore. Con una importante precisazione: il cavolfiore di cui parla Sartre non è lo stesso cavolfiore di cui parla il postumanesimo. Il primo non è altro che il contraltare muto e passivo del soggetto umano, è cioè l’oggetto come prodotto dell’azione umana. In questo senso è un “oggetto” umano anche la Luna, ad esempio quando entra nel raggio dell’azione umana, conoscitiva (quando Galileo l’osserva con il telescopio) e/o trasformativa (come oggetto di una spedizione spaziale, come potenziale miniera di minerali, e così via). Il cavolfiore postumano, invece, è un’entità “liberata” dal soggetto umano, cioè un’entità non più costretta dentro la gabbia metafisica dell’opposizione soggetto-oggetto 17. Un’entità del genere può finalmente riacquistare quell’intrinseca e nascosta agentività che l’invadenza umana e umanistica gli avevano tolto. 2. La contingenza delle cose Come scrive l’architetta Lila Athanasiadou nella voce “Commutation Ontology” nel Posthuman Glossary, «the shift to a non-anthropocentric model is more than a mere decentring of a subject’s position. The focus is shifted from the production of a subject to the production of subjectivity – the capacity to reciprocally change with the environment, and to affect and be affected in a relationship of commutation» 18. Un mondo in cui un umano e un cavolfiore sono metafisicamente sullo stesso piano, è un mondo in cui non vale più la distinzione fra soggetto e oggetto, e quindi quella fra libertà (Homo sapiens) e necessità (il resto del mondo). Ogni ente non è nient’altro che le relazioni che intrattiene con altre entità. In questo modo «subjectivity is […] not bound any more to the human realm and encompasses human and non-human entities, flattening the ontological ground» 19. All’origine di questa ontologia “piatta” c’è, da ultimo, un filosofo apparentemente molto lontano da Sartre, Gilles Deleuze 20. Deleuze – in Trouble. The Scandal of Posthumanism, Fordham University Press, New York 2018; R. BRAIDOTTI, M. HLAVAJOVA (eds.), Posthuman Glossary, Bloomsbury, London 2018. 16 P. NAYAR, Posthumanism, Polity, Cambridge 2014, p. 45. 17 Cfr. F. CIMATTI, La vita estrinseca. Dopo il linguaggio, Orthotes, Salerno-Napoli 2018. 18 BRAIDOTTI, HLAVAJOVA, Posthuman Glossary, cit., p. 86. 19 Ibidem. 20 Cfr. M. ROZAHEGY, Hitting the Slopes with Sartre and Deleuze and Guattari, in «Sartre 92 L’UOMO E IL CAVOLFIORE Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza – illustra con queste parole il passaggio da un’ontologia centrata sul soggetto e sull’essenza a una basata sul concetto di «potenza»: la domanda fondamentale non è: “Cos’è”, ma: “Cosa è capace di fare o sostenere?” Niente più essenze generali, solo singolarizzazioni. […] [N]on è possibile sapere nulla a priori. Un pesce non può avere le specifiche possibilità di un altro pesce. Tutto qui. La quantità di potenza cambia infinitamente negli enti. Le cose si distinguono quantitativamente in quanto assumono posizioni differenti nella scala di misurazione del gradiente di potenza21. Ma un passo del genere può risuonare con quello che scrive Sartre nella conferenza che stiamo commentando22. Finora ci siamo infatti concentrati sull’umanismo, ma se prendiamo in considerazione l’esistenzialismo difeso in queste stesse pagine, molte delle osservazioni critiche fatte finora perdono allora molto del loro valore. Per Deleuze la domanda da fare non è mai che cos’è un corpo – cioè una domanda che cerca un’essenza, un principio trascendente – bensì la domanda molto più radicale, e affatto immanente, «cosa può un corpo?» 23. La distinzione con cui abbiamo aperto queste note, quella fra il libero soggetto umano e il cavolfiore come semplice oggetto, svanisce del tutto: «le cose» – e dentro queste cose ci sono tutti gli enti, umani e non, animali e inanimati – «sono potenze»24, cioè sono entità che, nella Studies International», 8, 2, 2002, pp. 112-126; G.G. GIOLI, What is Transcendental Empiricism? Sartre and Deleuze on Bergson, in «Plí: The Warwick Journal of Philosophy», 18, 2007, pp. 182-203 e Oltre la fenomenologia: il giovane Sartre e Deleuze, in «Bollettino Studi Sartriani», anno 4, 2008; T. FLYNN, Sartre at One Hundred: A Man of the Nineteenth Century Addressing the Twenty-First?, 11, 1, 2005, pp. 1-14; J. SOSKIN, De Sartre à Deleuze: dérive pour être à l’heure du monde, in «Études sartriennes», 15, 2011, pp. 171-203. 21 G. DELEUZE, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, Verona 2010, p. 81. 22 A questo proposito è interessante risalire al particolare rapporto del giovane Deleuze con Sartre, secondo il ricordo dello stesso Deleuze nella prima delle Conversazioni con Claire Parnet, quando parla della sua formazione universitaria: «per fortuna c’era Sartre. Sartre era il nostro Fuori, funzionava davvero come un riscontro d’aria […]. E Sartre è sempre stato così, non un modello, un metodo o un esempio, ma un po’ d’aria pura […]. È stupido chiedersi se Sartre segna l’inizio o la fine di qualcosa. Come tutte le cose e le persone creative, si trova nel mezzo, preme attraverso il mezzo. Resta però il fatto che io non mi sentivo attratto dall’esistenzialismo in quel periodo, e nemmeno dalla fenomenologia; in realtà, non so veramente il perché, ma queste cose facevano già storia mentre ci si arrivava» (G. DELEUZE, C. PARNET, Dialogues, Flammarion, Paris 1977; trad. it. Conversazioni, Ombre Corte, Verona 2006 [1977], p. 18). 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 83. 93 FELICE CIMATTI concreta situazione in cui si trovano, hanno un certo grado di potenza di fare e di subire. Il punto fondamentale è che questa potenza non è stabilita a priori, dalla natura o da qualche essenza nascosta. Le cose, tutte le cose, scoprono la loro potenza, attiva e passiva, solo nella concreta situazione esistenziale. Proviamo, a questo punto, a rovesciare la tesi fondamentale di Sartre: l’umanismo è una specie del genere esistenzialismo. Leggiamo in questo modo la citazione che segue, tenendo conto che non andrà intesa alla lettera, perché ci prendiamo il ‘diritto’ di portare Sartre oltre il suo stesso umanismo: Gli esistenzialisti atei, fra i quali bisogna porre […] [anche] me stesso […] hanno in comune soltanto questo: ritengono che l’esistenza preceda l’essenza, o, se volete, che bisogna partire dalla soggettività. In che modo è da intendere la cosa? Quando si considera un soggetto fabbricato, come, ad esempio, un libro o un tagliacarte, si sa che tale oggetto è opera di un artigiano che si è ispirato ad un concetto. L’artigiano si è riferito al concetto di tagliacarte e, allo stesso modo, ad una preliminare tecnica di produzione, che fa parte del concetto stesso e che è in fondo una “ricetta”. Quindi il tagliacarte è da un lato un oggetto che si fabbrica in una determinata maniera e dall’altro qualcosa che ha un’utilità ben definita, tanto che non si può immaginare un uomo che faccia un tagliacarte senza sapere a che cosa debba servire. Diremo dunque, per quanto riguarda il tagliacarte, che l’essenza – cioè l’insieme delle conoscenze tecniche e delle qualità che ne permettono la fabbricazione e la definizione – precede l’esistenza; e così la presenza davanti a me di un certo tagliacarte o di un certo libro è determinata25. L’esempio di oggetto che è il token di un type-essenziale (la «ricetta») scelto da Sartre è particolarmente inadatto. Il tagliacarte, infatti, è un oggetto industriale, impregnato di umanità, del tutto artificiale. Sarebbe bastato cambiare esempio, e lo stesso Sartre si sarebbe accorto di quanto sia sbagliato sostenere che solo per gli esseri umani l’esistenza preceda l’essenza, cioè la contingenza preceda la necessità del concetto. Prendiamo il caso di una nuvola. Ogni nuvola è diversa da ogni altra nuvola. Non esiste l’essenza della nuvola. Se proprio vogliamo che esista, allora questa “essenza” non sarebbe altro che “non esiste la nuvola-tipo”. Cambiamo esempio, un ciottolo nel letto di un torrente. Non ne esistono due uguali. E la diversità fra i ciottoli è il risultato della diversa “storia” di ognuno di essi. Altro esempio, una foglia d’erba26. Anche in questo caso, se si osservano con attenzione, ci si accorge 25 SARTRE, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., pp. 44-46. L’esempio dell’erba come condizione limite in cui collassa la distinzione fra type e token lo riprendiamo da Mille piani: «ridursi a una linea astratta, un tratto, per trovare la propria 26 94 L’UOMO E IL CAVOLFIORE che è la diversità che prevale. L’essenza della foglia esiste solo nei libri di botanica. Ultimo esempio, un gatto. Che cos’è un gatto se non la sua particolare storia, insieme biologica ed esistenziale? Felis silvestris catus in generale esiste solo per lo zoologo, così come Homo sapiens esiste solo nei trattati di antropologia. Di conseguenza non si capisce perché, per Sartre, soltanto per l’essere umano l’esistenza preceda l’essenza. Leggiamo il passo seguente, e poi proviamo a commentarlo, con Sartre ma oltre Sartre: L’esistenzialismo ateo, che io rappresento, è più coerente [di chi sostiene che esista una ‘natura umana’]. Se Dio non esiste, esso afferma, c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: quest’essere è l’uomo, o, come dice Heidegger, la realtà umana. Che significa in questo caso che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo27. Se davvero Dio è morto, allora è evidente che è morto per tutti gli enti, per l’essere umano come per il tagliacarte, per il libero agente come per il muschio, per il soggetto come il cavolfiore. Per Sartre “Dio è morto” significa che non è più preliminarmente dato un «concetto» universale, appunto un’essenza, che stabilisca a priori come gli enti devono essere. “Dio è morto” vuol dire radicale contingenza. Ma questo implica, e il dualismo di Sartre sembra mancare completamente questo punto, che la contingenza vale per tutti gli enti. L’esistenzialismo – cioè il primato sull’esistenza sull’essenza – è una tesi ontologica, non solo antropologica. Sartre, almeno il Sartre di questa conferenza, non sarebbe d’accordo, perché per lui solo l’umano «è soltanto, zona di indiscernibilità con altri tratti ed entrare così nell’ecceità come nell’impersonalità del creatore. Allora siamo come l’erba» (G. DELEUZE, F. GUATTARI, Mille plateaux, Minuit, Paris 1980; trad. it. Mille piani, Orthotes, Napoli-Salerno 2017 [1980], p. 392). Non è un caso che lo stesso esempio torni in un passo decisivo in G. Agamben, un altro autore che prova a pensare il campo che si apre quando cade su se stessa la coppia metafisica soggettooggetto: «ma se dovessi ora dire in che cosa io ho messo finalmente le mie speranze e la mia fede potrei solo confessare a mezza voce: non nel cielo, – nell’erba» (G. AGAMBEN, Autoritratto nello studio, Nottetempo, Milano 2017, p. 166). 27 Ivi, pp. 49-51. 95 FELICE CIMATTI non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa». Qui torna il postulato di Sartre, la libertà come caratteristica fondamentale dell’umano. Il soggetto umano è libero, il cavolfiore non è libero. Ma in che senso l’essere umano è libero? Qui Sartre si scontra con l’evidenza contraria della psicoanalisi. Usando le parole di Spinoza nella “Dimostrazione” della proposizione XXXV dell’Etica: «sbagliano gli uomini nel credere di essere liberi, e quest’opinione si fonda unicamente sul fatto che sono consapevoli delle loro azioni, e ignari delle cause da cui sono determinati. Questa dunque è la loro idea della libertà, perché non conoscono alcuna causa delle loro azioni» 28. In effetti per Sartre quello della libertà è un assioma, non un teorema. D’altronde ne L’Essere e il nulla ribadiva di rifiutare «il postulato dell’inconscio: il fatto psichico è […] coestensivo alla coscienza» 29. In effetti solo in base a questo postulato si può sostenere la tesi altrettanto radicale secondo cui «non c’è differenza fra l’essere dell’uomo e il suo essere-libero» 30. Tuttavia questa tesi viene subito stemperata, perché questa stessa libertà assoluta in realtà è sempre delimitata, contestuale, situated direbbe uno scienziato cognitivo: «intendiamo per esistenzialismo una dottrina che rende possibile la vita umana e che, d’altra parte, dichiara che ogni verità e ogni azione implicano sia un ambiente, sia una soggettività umana»31. Il Sartre dell’Esistenzialismo è un umanismo da un lato sembra sempre sul punto di ricadere in un dualismo radicale, che oppone il cogito al resto del mondo; tuttavia dall’altro (ed è questo il Sartre che vogliamo “tirare” verso il postumano) «abbandona» la soggettività nel mondo, al punto di farla coincidere con il mondo stesso: «l’uomo non è niente altro che quello che progetta di essere; egli non esiste che nella misura in cui si realizza; non è, dunque, niente altro che l’insieme dei suoi atti, niente altro che la sua vita» 32. L’umano non è tanto una astratta libertà, quanto «l’insieme dei suoi atti», cioè infine nient’altro che la «vita» che vive. Su questa stessa linea, in un altro passaggio, si scioglie la distinzione dualistica fra interno ed esterno, fra emozione ed espressione: «il sentimento si forma con gli atti che si 28 B. SPINOZA, Ethica, 1677; trad. it. Etica, a cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa 2010, p. 119. Sul questo tema v. l’intero fascicolo del «Bollettino Studi Sartriani», VI, 2010, dedicato a “Sartre e la psicoanalisi”. 29 J.-P. SARTRE, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943 (trad. it. L’essere e il nulla, a cura di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 2002, p. 648). 30 Ivi, p. 60. 31 SARTRE, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 43. 32 Ivi, p. 77. 96 L’UOMO E IL CAVOLFIORE compiono: non posso quindi consultarlo perché mi serva da guida»33. È quest’ultimo il Sartre che parla alla contemporaneità. 3. Un campo postumano Proviamo a riassumere il risultato di queste peraltro veloci analisi 34. Da un lato c’è il Sartre umanista, che difende il soggetto e la sua assiomatica libertà, che trascura completamente la natura non umana, e che contrappone la «dignità» umana alla miserevole condizione del cavolfiore e del muschio. Tuttavia l’esempio del muschio è particolarmente indicativo di una tensione che attraversa inavvertita il testo di Sartre. Infatti la caratteristica più interessante dei muschi, dal punto di vista del postumano, è che si tratta di piccole piante (Bryophyta) prive di radici: al loro posto formano dei rizoidi, cioè organi o strutture filamentose che permettono l’ancoraggio al substrato su cui i muschi vivono. L’aspetto più evidente del muschio, e probabilmente quello che ha spinto Sartre a usarlo come esempio negativo (il soggetto è un «soggetto» proprio perché non è un muschio), è che non si presenta come una pianta singola (come addirittura riesce a fare anche il disprezzato cavolfiore): non c’è una pianta di muschio, c’è del muschio, impersonalmente. Se c’è qualcosa che in Sartre potrebbe annunciare l’impersonalità del postumano, allora è proprio in questo muschio che andrebbe cercato. Perché la caratteristica distintiva del rizoma è che «qualsiasi punto […] può essere connesso a qualsiasi altro e deve esserlo. È molto differente dall’albero o dalla radice che fissano un punto, un ordine» 35. Così come l’albero sta al soggetto, così il cavolfiore, e soprattutto il muschio, sta al rizoma. Come se ne L’esistenzialismo è un umanismo circolasse rizomaticamente una “tentazione” impersonale. Il primato dell’esistenza sull’essenza che cos’è, in fondo, se non il collasso del dualismo dello spazio e del tempo, così come di quello fra il corpo e la mente-soggettività? In effetti che cosa significa «la vita non ha senso a priori» 36, se non appunto che la vita coincide con il suo (della vita) viversi? Certo, il testo di Sartre è anche pieno di progetti, azioni, impegni e trascendenza. Tuttavia, quando dice che «l’uomo 33 Ivi, pp. 69-70. Si apre qui il piano dell’impersonale, un tema al centro della più recente filosofia italiana; v. ad esempio G. AGAMBEN, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014; R. ESPOSITO, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007; F. CIMATTI, La vita estrinseca. Dopo il linguaggio, Orthotes, Napoli/Salerno 2018. 35 DELEUZE, GUATTARI, Mille piani, cit., p. 41. 36 SARTRE, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 104. 34 97 FELICE CIMATTI è costantemente fuori di se stesso» e che «solo progettandosi e perdendosi fuori di sé egli fa esistere l’uomo» 37, non si possono intendere queste parole come valide tanto per l’umano che per il non umano, tanto per il soggetto che per il cavolfiore? E ancora, perché «se è impossibile trovare in ciascun uomo una essenza universale, che sarebbe la natura umana, esiste però una universalità umana di condizione» 38 questo non dovrebbe valere anche per il tagliacarte e il muschio? Che cos’è un tagliacarte se non l’insieme aperto delle condizioni in cui si trova, degli affetti che riceve dagli, e degli effetti che produce sugli, altri enti con cui entra in contatto? La subordinazione dell’essenza rispetto all’esistenza non significa altro, in fondo, che quella che una volta era l’essenza ora è – come dice Deleuze – la “potenza” di un ente, cioè quello che può fare perché «non c’è realtà che nell’azione» 39. E infine, «se davvero l’esistenza precede l’essenza non si potrà mai fornire spiegazioni riferendosi ad una natura umana data e fissata; in altri termini non vi è determinismo» 40; è vero, ma questo vale per «l’uomo» quanto per il «putridume». Il determinismo non ammette zone protette: o vale sempre e dovunque, o non vale mai. Se prendiamo sul serio il monito di Sartre secondo cui «l’esistenzialismo si oppone energicamente ad un certo tipo di morale laica che vorrebbe togliere di mezzo Dio con la minima spesa» 41, ne consegue che “Dio è morto” vuol dire che non c’è essenza, un’affermazione che equivale a una immensa “tana libera tutti” ontologico. Siamo al punto dove volevamo arrivare, “Dio è morto” non vuol dire altro che “l’uomo è morto”, cioè è morto il «soggetto» umanistico. Non è forse un caso che Deleuze, nell’estrema tappa del suo lavoro filosofico, L’immanenza: una vita…, faccia proprio riferimento alla Trascendenza dell’Ego, lo scritto giovanile di Sartre. Seguiamo la sua descrizione del “campo trascendentale” 42, che poi accosteremo a quella di Deleuze: Il Campo trascendentale, purificato da ogni struttura egologica, ritrova la sua originaria trasparenza. Da un certo punto di vista è un nulla poiché tutti gli oggetti fisici, psico-fisici e psichici, tutte le verità, tutti i valori sono fuori di lui, dal momento che il mio Me ha smesso, lui 37 Ivi, p. 107. Ivi, p. 86. 39 Ivi, p. 77. 40 Ivi, pp. 62-63. 41 Ivi, pp. 60-61. 42 Su questo rapporto v. G. GIOLI, Deleuze lettore di Sartre: Dissoluzione dell’Ego ed emergenza del campo trascendentale, Tesi di Dottorato, Università di Parma 2008. 38 98 L’UOMO E IL CAVOLFIORE pure, di farne parte. Questo nulla è però tutto perché è coscienza di tutti questi oggetti. Non c’è più “vita interiore” […] [che si] oppone […] a “vita spirituale”, perché non c’è più niente che sia oggetto e che possa al tempo stesso appartenere alla intimità della coscienza43. Il «campo trascendentale», per Sartre, precede la distinzione fra soggetto e oggetto, fra interno ed esterno, fra «Ego» e non-Ego. Però, e allo stesso tempo, possiamo anche immaginarlo come il campo in cui il dualismo del soggetto e dell’oggetto collassa su di sé. In questo senso il «campo trascendentale» – in quanto post-soggettivo e post-oggettivo – è un modo per pensare un possibile “campo postumano”, impersonale, immanente44: «una sfera di esistenza assoluta, vale a dire di spontaneità pure, che non sono mai oggetti e che si determinano da sole all’esistenza»45. Siamo oltre Sartre, ma a partire da Sartre: che cos’è, infatti, una «esistenza assoluta» se non appunto una pura presenza, né umana né non umana, né vivente né non vivente, né soggetto né oggetto? Oltre l’Ego e il cavolfiore. Non a caso Deleuze chiama questa condizione (attraverso un esplicito riferimento a Sartre) «immanenza assoluta», che «è in sé: non è in qualche cosa, a qualcosa, non dipende da un oggetto e non appartiene a un soggetto»46. Nel passaggio da Sartre a Deleuze si compie il superamento dell’umanismo centrato (e attardato) sul soggetto umano, per approdare al campo impersonale dell’immanenza: «l’immanenza non si riferisce a un Qualcosa come unità superiore a ogni cosa, né a un Soggetto come atto che opera la sintesi delle cose: solo quando l’immanenza cessa di essere immanenza 43 J.-P. SARTE, La transcendance de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique, VRIN, Paris 1965 (trad. it. a cura di R. Ronchi, La trascendenza dell’Ego, Marinotti, Milano 2011, pp. 85-86). 44 In questo senso il postumano non è tanto lo spazio che si apre “dopo” l’umano, quanto piuttosto il campo in cui non vale più la distinzione metafisica fra soggetto e oggetto (un dualismo che allo stesso tempo li unisce e li divide). Scrive K. Barad: «refusing the anthropocentrisms of humanism and antihumanism, post-humanism marks the practice of accounting for the boundary-making practices by which the “human” and its others are differentially delineated and defined. […] Posthumanism eschews both humanist and structuralist accounts of the subject that position the human as either pure cause or pure effect, and the body as the natural and fixed dividing line between interiority and exteriority. Posthumanism doesn’t presume the separateness of any-“thing”, let alone the alleged spatial, ontological, and epistemological distinction that sets humans apart» (K. BARAD, Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics And the Entanglement of Matter And Meaning, Duke University Press, Durham & London 2007, p. 136). 45 SARTE, La transcendance de l’Ego, cit., p. 88. 46 G. DELEUZE, L’immanence: une vie …, in «Philosophie», 47, 1995, pp. 3-7 (trad. it. L’immanenza: una vita…, in ID., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 19751995, trad. it. a cura di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p. 321). 99 FELICE CIMATTI ad altra cosa e non è altro che immanenza a sé si può parlare di un piano di immanenza»47. Nel «piano di immanenza» un essere umano e un cavolo sono ancora, ovviamente, differenti; tuttavia si trovano sullo stesso piano ontologico. Sono momenti di «vita immanente», ossia pure «singolarità»48, individuate da nient’altro che dall’incontro con altre singolarità: non c’è più nessun ordine trascendente, nessuna essenza, c’è solo – sartrianamente – «esistenza». 47 48 Ibidem. Ivi, p. 323. 100 Chiara De Cosmo Il soggetto e la storia. Forme di trascendenza soggettiva nel pensiero sartriano ABSTRACT: The aim of my paper is to show the originality of Sartre’s Marxism by focusing on Sartre’s theoretical analysis of history and society. I try to compare Sartre’s description of the constitution of “being-for-itself ” in Being and Nothingness (1943) with the perspective of the Critique of Dialectical Reason (1960). In particular, I examine, on one hand, the forms of the relationships of “being-for-itself ” with the world, objects and, more generally, with the dimension of the “in-itself ” and, on the other, the more concrete approach to history in Sartre’s later work. My purpose is to highlight the similarities between the notion of “being-for-itself ”, which Sartre identifies with the dynamic of nullification of the world, and the structures of collective subjectivization in the Critique: both consist in some form of ongoing totalization and a continuous dynamic of transcendence. KEYWORDS: Totality; Totalization; Temporalization; Subjectivity; Transcendence; History ABSTARCT: Scopo di questo intervento è di mettere in risalto l’originalità del marxismo sartriano e della sua analisi teorica della storia e della società quale peculiare intreccio di soggettività continuamente oggettivantesi. Si propone un percorso fra alcune posizioni de L’Essere e il nulla in merito alla costituzione del per sé, analizzando le sue forme di relazioni primarie con il mondo, con l’oggetto o l’in sé nel complesso dei suoi significati materiali e simbolici, e la prospettiva di stampo dialettico della Critique, in cui l’astrazione prodotta nel quadro dell’opera del 1943 si concretizza nella storia. Si mostra, infine, come sussistano delle omologie fra il per sé descritto ne L’Essere e il nulla quale dinamica di nullificazione, quindi di continua trascendenza e le strutture di soggettivazione collettive della Critica della ragion dialettica, che si presentano come totalizzazioni in corso, sempre aperte e implicate in una continua dinamica di trascendimento. KEYWORDS: totalità; totalizzazione; temporalizzazione; soggettività; trascendenza; storia Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 101 CHIARA DE COSMO Am Vollkommenen zu ruhen, ist die Sehnsucht dessen, der sich um das Vortreffliche müht; und ist nicht das Nichts eine Form des Vollkommenen? (Th. Mann, Der Tod in Venedig) 1. La storia come costruzione umana La storia ha rappresentato certamente un oggetto d’indagine comune sia nella complessa congerie di quello che viene denominato “marxismo occidentale”1, sia nella più generale riflessione filosofica novecentesca. In questo contesto e su questo tema il pensiero sartriano offre un interessante contributo poiché tenta di porsi quale originale congiunzione fra l’“ideologia dell’esistenza” 2 e il marxismo. Questa peculiare direzione teorica, intrapresa dal pensatore francese, lo pone nella condizione di mettere al centro della propria considerazione della storia un aspetto, per certi versi marginalizzato, com’è quello del rapporto fra lo sviluppo storico e la soggettività. In Questions de méthode Sartre dichiara fin da subito che «l’uomo fa la Storia: ciò significa che in essa s’oggettiva e s’aliena: in tal senso la Storia, che è il prodotto di tutta l’attività di tutti gli uomini, appare loro come una forza estranea nell’esatta misura in cui non riconoscono il senso della loro azione […] nel risultato totale ed oggettivo» 3. Il processo storico appare, dunque, come una costruzione pratica compiuta dagli uomini attraverso 1 Cfr. P. ANDERSON, Considerations on Western Marxism, New Left Books, London 1976 (trad. it. di F. Moretti, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1977). Anderson non individua, in realtà, in maniera esplicita l’interrogativo sulla storia quale oggetto di indagine comune ai pensatori che egli raggruppa nella sua definizione di “marxismo occidentale”, tendendo a rilevare fra questi, piuttosto, delle convergenze di metodo e forma, riflesso di alcuni precisi eventi storici del Novecento. Tuttavia, nell’esaminare l’originalità del concetto sartriano di rareté, Anderson sembra notare implicitamente una certa consonanza con il pensiero di Adorno e Horkheimer su tale questione, in particolare nell’individuazione, all’origine del processo storico, di un complesso rapporto, in cui sono implicati violenza e dominio, dell’uomo con la natura: «per Sartre […] non era mai esistita un’unità originaria fra uomo e natura; al contrario: il predominio della penuria fece sì che, fin dall’inizio, la natura fosse la “negazione dell’uomo”, e la storia, per converso, la negazione della natura» (ivi, p. 111). 2 «E poiché devo parlare di esistenzialismo, sia ben chiaro che lo considero un’ideologia: è un sistema parassitario che vive ai margini del Sapere, che ad esso si è opposto inizialmente e che, oggi, tenta di integrarvisi» (J.-P. SARTRE, Questions de méthode [1957], ripubblicato come introduzione alla Critique de la raison dialectique, tome 1, Théorie des ensembles pratiques, Gallimard, Paris 1960; trad. it. di P. Caruso, Critica della ragion dialettica, I, Teoria degli insiemi pratici, il Saggiatore, Milano 1963, p. 20). 3 Ivi, p. 76. 102 IL SOGGETTO E LA STORIA le continue oggettivazioni delle proprie azioni, che, in quanto tali, perdono il loro originario significato intenzionale. L’apparire delle forze storiche quali estrinseche all’agire dell’uomo si verifica, quindi, nella prospettiva sartriana, poiché ogni oggettivazione si presenta, in qualche modo, come una forma di alienazione, la cui trasparenza è preclusa dall’intrecciarsi dei risultati di tutte le pratiche individuali, prodotto dall’interazione delle varie soggettività in gioco. Questo secondo rilievo è più interessante e conduce nel cuore dell’interpretazione sartriana della storia: il suo appello all’esistenzialismo si configura come una ripresa della singolarità in rapporto alle istituzioni collettive 4, della specificità dell’evento, nella prospettiva di una dialettica che non sia una rigida struttura, ma un’analisi concreta delle connessioni storiche. Il tentativo di restituire la peculiarità propria alle forze agenti nella storia tende a delineare un’immagine differente di quest’ultima, quale forma di temporalità specifica, che sorge dall’interazione fra il soggetto e l’oggetto. L’universo sociale e, più in generale, quello umano non possono essere oggetto di un’analisi statica, poiché il loro divenire non è comparabile allo scorrere ciclico della natura5. Se, da un lato, Sartre polemizza qui con la posizione engelsiana, riecheggiando la critica di Lukács in Storia e coscienza di classe 6, 4 In un contributo di poco posteriore alla Critique, Sartre afferma che «la Storia è costellata di buchi» (J.-P. SARTRE, L’universel singulier [1964], in ID., Situations, IX, Mélanges, Gallimard, Paris 1972; trad. it., L’universale singolare, in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a cura di F. Fergnani, P.A. Rovatti, il Saggiatore, Milano 1980, p. 141). Tali buchi non sono altro che le inserzioni degli orizzonti progettuali degli individui all’interno della macro-temporalizzazione della storia. Attraverso l’apprezzamento della singolarità come espressione peculiare dell’universale Sartre sottolinea come la Storia intera possa, in questo modo, divenire «al tempo stesso necessità – per il modo stesso in cui le situazioni oggettive si impongono – e avventura […]» (ivi, p. 159). 5 «Invece di svilupparsi in indagini reali, il marxismo fa uso di una dialettica statica. Esso opera infatti la totalizzazione delle attività umane all’interno di un continuo omogeneo e infinitamente divisibile che è poi il tempo del razionalismo cartesiano. Questa temporalitàambiente non dà nessun fastidio quando si tratta di esaminare il processo del capitale, perché è proprio la temporalità che l’economia capitalistica genera come significato della produzione, della circolazione monetaria, della ripartizione dei beni, del credito, degli “interessi composti”. […] Ma la descrizione di questo contenente universale come momento d’uno sviluppo sociale è una cosa, e la determinazione dialettica della temporalità reale (ossia del vero rapporto degli uomini con il loro passato) è un’altra. La dialettica, come movimento della realtà, crolla se il tempo non è dialettico, cioè se non ammette una certa azione del futuro in quanto tale» (SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, p. 121 n. 3). 6 Cfr. G. LUKÁCS, Geschichte und Klassesenbewußtsein. Studien über marxistiche Dialektik, Luchternand, Neuwied und Berlin 1970 (trad. it. di G. Piana, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, p. 6 n. 7). 103 CHIARA DE COSMO dall’altro sottolinea in maniera originale lo scarto proprio del divenire storico e, quindi, umano. Quella che, si potrebbe sostenere, è una preminenza della dimensione soggettiva nelle analisi della Critique è motivata, dunque, da una nuova ermeneutica di fondo del processo storico, che vorrebbe discostarsi dalla dinamica ripetitiva propria del capitale e ampliare l’orizzonte di comprensione delle forze sociali proprie della storia. Quest’ultima si presenta, quindi, per Sartre, come un divenire costruito sui rapporti pratici dell’uomo con il mondo e con gli altri uomini, dove il significato di praxis si pone qui al di là della dicotomia moderna fra teoria e azione, includendo anche gli stessi processi di comprensione delle dinamiche in atto. La comprensione delle sue leggi di intelligibilità, in questo senso, vuole porsi già di per sé come una forma di apertura critica a nuove possibilità. […] l’esperienza dialettica, nel suo momento regressivo, può rivelarci le condizioni statiche della possibilità di una totalizzazione, ossia, di una storia. […] Essa cerca, in base alle strutture sincroniche e alle loro contraddizioni, l’intelligibilità diacronica delle trasformazioni storiche, l’ordine dei loro condizionamenti, la ragione intelligibile dell’irreversibilità della Storia, cioè del suo orientamento 7. Le tendenze storiche non possono essere comprese, per Sartre, soltanto nell’immanenza delle leggi contraddittorie del capitale, ma, piuttosto, attraverso l’anamnesi della loro origine umana. Ora, a partire da questa premessa, il presente intervento vorrebbe mettere in risalto l’originalità della posizione sartriana, sottolineando come essa tenti di offrire le basi per una forma di trascendenza pratica della realtà di sfruttamento del capitale proprio attraverso un ripensamento critico delle sue forme di sviluppo. Si cercherà di comprendere cosa sia, per Sartre, quest’uomo, questo soggetto che fa la storia e come possa agirvi consapevolmente, attraverso pratiche di soggettivazione cosciente che si costruiscono sulla primaria riconquista della non eternità delle forme del sistema capitalistico. 2. Le forme di temporalità del “per sé” ne L’Être et le Neant Il divenire storico si presenta per Sartre, come si è cercato di mostrare, come un intreccio di rapporti fra l’uomo e la natura e fra l’uomo e gli altri uomini, in senso sincronico, ma anche con i risultati e i prodotti, con le istituzioni frutto dell’azione delle generazioni passate. Ora, essendo tale 7 Ivi, p. 189. 104 IL SOGGETTO E LA STORIA movimento, appunto, dialettico, deve secondo la prospettiva sartriana mostrare da sé le proprie regole di intelligibilità. La ragione dialettica, in questo senso, è «l’intelligibilità di una totalizzazione» 8. La nozione di totalizzazione, come viene variamente riconosciuto, assieme alla categoria di rareté, è uno dei contributi più originali della riflessione di Sartre. Inserendosi nell’ampio filone del pensiero marxista che, nel Novecento, discute il concetto di totalità 9, egli introduce una esplicita differenziazione fra il senso di quest’ultima e il processo di totalizzazione, una differenziazione basata sullo scarto temporale, appunto, fra statica e dinamica. La totalità si definisce come un essere che, radicalmente distinto dalla somma delle sue parti, si ritrovi tutt’intero – sotto una forma o sotto un’altra – in ognuna di queste e che entri in rapporto con se stesso, sia attraverso il suo rapporto con una o parecchie delle sue parti, sia attraverso il suo rapporto con le relazioni, che tutte o parecchie delle sue parti hanno fra loro. Ma qualora, per ipotesi, tale realtà sia fatta […], essa potrà esistere solo nell’immaginario, cioè come correlativo di un atto d’immaginazione. Lo statuto ontologico che essa reclama per definizione è quello dell’in-sé, o, se si vuole, dell’inerte. L’unità sintetica che produrrà la sua apparenza di totalità non può essere un atto, ma solo il vestigio di un’azione passata […]10. La totalità appare, in questo senso, come un oggetto, o, più propriamente, come una forma di oggettivazione, che sussiste sulla base di un atto immaginativo che “obiettivizza” il passato, riconoscendolo come tale. In questo senso, essa si colloca nella dimensione dell’inerzia, ma una forma di inerzia pratica, generata, cioè, dall’interconnessione dei singoli momenti e azioni storiche. È quello che Sartre definisce, com’è noto, il pratico-inerte 11. 8 Ivi, p. 171, corsivo mio. La categoria di “totalità” si ritrova, in realtà, fin nei primi scritti fenomenologici sartriani, cfr., per esempio, Esquisse d’une théorie des émotions, dove si fa riferimento alla réalité-humaine come “totalità sintetica”, in quanto, nei singoli aspetti del suo rapporto con il mondo, esprime, in realtà, la totalità del proprio essere (Editions Scientifiques Hermann, Paris 1939; trad. it. di N. Pirillo, Idee per una teoria dell’emozioni, Bompiani, Milano 2007, in particolare p. 164) e ricorre spesso ne L’Être et le néant e in alcuni scritti pubblicati postumi, in particolare nella seconda parte della Critique, L’intelligibilité de l’histoire. Per una buona ricostruzione delle interpretazioni della categoria di totalità nel pensiero marxista del Novecento, cfr. M. JAY, Marxism and Totality. The Adventure of a Concept from Lukács to Habermas, Polity Press, Cambridge 1984. 10 SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, pp. 171-172. 11 Come afferma Basso, «il “pratico” sta ad indicare l’esito di un movimento di trasformazione, ma l’“inerte” mette in luce il fatto che la praxis si innesta su un fondo materiale ed oggettivo» 9 105 CHIARA DE COSMO La totalizzazione ne condivide il medesimo statuto di complessità, cioè si configura come un insieme che è più della somma delle proprie parti, ma si tratta, in questo caso, di un’azione in corso, ossia una sintesi dialettica di molteplicità e unità che è sempre in atto. Essa è, propriamente, la radice dell’esperienza pratica dell’individuo sociale e la condizione della sua intelligibilità. Sartre afferma che «totalizzarsi significa temporalizzarsi» 12. In questo senso, la totalizzazione è l’avventura pratica dell’uomo nel mondo, che non è e non può essere data, ma si costituisce continuamente, è sempre in divenire. Naturalmente, non si tratta qui di un movimento dalla fluidità indefinita, ma di un movimento dialettico, nel quale le dimensioni temporali si illuminano l’una con l’altra attraverso la loro costante connessione. Quest’idea di “temporalizzazione” risale, indubbiamente, all’analisi fenomenologica che Sartre compie ne L’Essere e il nulla delle strutture temporali del per-sé13. Nell’opera del 1943 Sartre cerca di argomentare, sulla base della dualità fra essere per sé ed essere in sé, che una temporalità vera e propria pertenga soltanto alla prima di queste due dimensioni del reale. È il per-sé, in quanto portatore di negatività nella compattezza dell’essere, che introduce nel mondo il tempo, poiché la fatticità semplicemente è14. Naturalmente, assumendo questa posizione teorica, Sartre non intende negare che esista una temporalità oggettiva degli eventi, ma semplicemente sostenere che essa si installa alla base del rapporto fra la coscienza e l’essere, fra il soggetto e l’oggetto. Com’è noto, in quest’opera, sussiste una più o meno costante dicotomia ontologica fra il per-sé, definito come quell’essere «nel quale, nel suo essere, si fa questione del nulla del suo essere»15 e l’in-sé, inteso come fatticità pura, realtà compatta ed esterna alla coscienza16. In altri termini, Sartre sostiene la sussistenza di due dimensioni del reale, interconnesse nel senso della negazione. (L. BASSO, Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre, Ombre Corte, Verona 2016, p. 47). In altri termini, la nozione di “pratico-inerte” rende ragione della compresenza, cui si è accennato in precedenza, di necessità e avventura nella definizione del divenire storico. 12 SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, p. 178. 13 Jamenson, in particolare, rileva la continuità di interrogativi fra l’opera del 1943 e la Critique, cfr. F. JAMENSON, Marxism and Form, Princeton University Press 1971 (trad. it. di R. Piovesan e M. Zorino, Marxismo e forma, Liguori, Napoli 1975); ID., Valences of the Dialectic, Verso, London/New York 2009. 14 «Non vi è temporalità che come infrastruttura di un essere che deve essere il suo essere, cioè come infrastruttura del per-sé. […] La temporalità è l’essere del per-sé in quanto questo deve essere ek-staticamente. La temporalità non è, ma il per-sé si temporalizza in esistente» (J.-P. SARTRE, L’Être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943; trad. it. di G. Del Bo, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2014, p. 179). 15 Ivi, p. 58. 16 «L’essere è. L’essere è in sé. L’essere è ciò che è» (ivi, p. 33). 106 IL SOGGETTO E LA STORIA Il per-sé, che potremmo sinteticamente considerare come il polo coscienziale, contrapposto al mondo inteso come cosalità irrigidita, si presenta, infatti, come negazione di tutto ciò che è oggettività, e si configura, in questo senso, come “un nulla”. Tale definizione negativa consente al per-sé di acquisire, nell’ottica sartriana, il senso profondo di un’apertura a molteplici modalità esistenziali e di configurarsi come libera progettualità. Con questa definizione, Sartre intende che tale polo soggettivo si esplica nella forma diasporica della temporalità. Il per-sé appare come l’unità di fondo che fa del rapporto tra le dimensioni temporali una struttura sintetica; non si tratta, tuttavia, di una forma di unificazione statica ma della temporalizzazione stessa, ossia della totalità in divenire degli intrecci fra i diversi livelli della temporalità17. Il passato rappresenta la dimensione di essenzialità del per-sé18, poiché sembra collocarsi nell’ambito di ciò che è irreversibile, presentandosi alla coscienza come un datum immodificabile. In effetti, si potrebbe sostenere, il passato è, per Sartre, la dimensione dell’in-sé interna al per-sé. Se quest’ultimo, tuttavia, si configura come essere che continuamente pone in questione in sé il proprio essere, allora ciò che è trascorso non può limitarsi, a livello coscienziale, alla pura inerzia. Da questa premessa può comprendersi la definizione che Sartre offre del per-sé come totalità: il passato è in un costante rapporto con il presente, che si potrebbe designare come presenza che, forzatamente, si stacca dalla dimensione dell’essere a sé immanente, negandola. Ora, tuttavia, tale negazione non è astratta, ma interna a questo processo dialettico e, in quanto tale, si edifica sulla base di un futuro, che profili nuove potenzialità sulla base delle quali è possibile rifiutare ciò che è stato, pur identificandolo nella sua inamovibilità. Tale è la descrizione della statica temporale a livello della coscienza, quale rapporto a spirale tra questi livelli della temporalizzazione. Tuttavia, sulla base della sua stessa definizione, la coscienza non compie mai una sintesi univoca 17 «[…] la temporalità non è un tempo universale contenente tutti gli esseri e in particolare le realtà umane. Neppure è una legge di sviluppo imposta all’essere dal di fuori. E neppure è l’essere. Ma è la struttura intima dell’essere che è la propria nullificazione, cioè il modo d’essere proprio dell’essere per-sé. Il per-sé è l’essere che deve essere il suo essere nella forma diasporica della temporalità» (ivi, p. 185). 18 Si potrebbe sostenere che, nel delineare la strutturazione sintetica del per-sé come nullificazione e temporalizzazione, Sartre si muova cogliendo la duplice influenza della riflessione hegeliana e husserliana. Se, nel descrivere l’essenza come ciò che è stato il filosofo francese ricorre, più di una volta, alla nota espressione hegeliana “Wesen ist was gewesen ist”, l’idea della trascendenza della coscienza, che si pone sempre al di là, nell’azione, rispetto alla comprensione riflessiva del proprio essere stato, sembra avvicinarsi maggiormente al pensiero di Husserl. 107 CHIARA DE COSMO che interrompa il trascorre di questa dialettica fra le proprie dimensioni interne. In questo senso, ci si può qui accostare a una prima definizione di che cosa intenda Sartre, in quest’opera, per soggettività. Egli afferma: […] il tempo della coscienza è la realtà umana che si temporalizza come totalità che è per-sé la propria incompiutezza, è il nulla che scivola in una totalità come fermento detotalizzatore. Questa totalità che insieme si rincorre e si rifiuta, che non può trovare in sé nessun limite al suo superamento, perché essa stessa è il suo superamento [dépassement] e si supera verso se stessa, non può comunque esistere nei limiti di un istante. Non vi è mai un istante in cui si possa affermare che il per-sé è, proprio perché il per-sé non è mai. Al contrario la temporalità si temporalizza tutta intera come rifiuto dell’istante 19. Com’è visibile da questa definizione, la coscienza, il per-sé, che finora abbiamo considerato come dimensione semplicemente contrapposta all’insé nel senso della negazione, non è una struttura statica dell’essere, ma è un atto, qualcosa che si pone continuamente in divenire. Ed è, inoltre, un atto totalizzante, che si edifica su una costante trascendenza, un movimento verso nuovi possibili che non è una linea ascendente, ma un movimento a spirale simile a quello della coscienza nella Fenomenologia di Hegel. Come sostiene Fergnani, per Sartre, «il vero problema […] non è quello del soggetto, morto da un pezzo nella sua presunzione di centralità in quanto Ego, bensì quello di dépassement, del superamento. È nel dépassement che la soggettività si costituisce […]. La soggettività per principio non sussiste […]»20. Com’è noto, nella Trascendenza dell’Ego, Sartre aveva messo in questione l’introduzione husserliana dell’ego quale polo unificatore degli atti sintetici della coscienza, sostenendo che tale vettore unitario non sussista, ma si costituisca piuttosto in un secondo tempo, quale risultato della riflessione della coscienza su di sé 21. Il significato di questo scarto rispetto al pensiero di Husserl può essere ritrovato nella netta opposizione sartriana, mantenuta ferma più o meno in tutto il corso del suo 19 SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 193, corsivo mio. F. FERGNANI, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, p. 138. 21 «L’Ego è un’unità degli stati e delle azioni […]. È una unità sintetica che si costituisce come polo trascendente al modo del polo-oggetto dell’atteggiamento irriflesso. Questo polo appare solamente nel mondo della riflessione» (J.-P. SARTRE, La Transcendance de l’Ego [1936], Librairie Philosophique J. VRIN, Paris 1985; trad. it. di R. Ronchi, La trascendenza dell’Ego. Una descrizione fenomenologica, E.G.E.A., Milano 1992, p. 39). Da quest’opera emerge come, per Sartre, l’introduzione dell’ego da parte di Husserl in Idee I rappresenti un indebolimento, piuttosto che un progresso rispetto alle Ricerche logiche, dove l’Io era considerato come un risultato della produzione sintetica della coscienza. 20 108 IL SOGGETTO E LA STORIA pensiero, alla considerazione della coscienza come una res, costituita da una serie di stati ossificati associati l’uno all’altro. Sartre, naturalmente, non nega la costituzione spontanea degli stati e delle azioni della coscienza in quanto produzioni coscienziali, ma ritiene che questi ultimi, assieme all’Ego stesso, siano già il frutto di una forma di riflessività; la coscienza trascendentale è, per Sartre, una «spontaneità impersonale», che «si determina all’esistenza di ogni istante, senza che si possa concepire niente prima di essa»22. Senza voler qui esaurire la complessità di questo argomento, né del confronto fra i due fenomenologi su questo tema, si vorrebbe soltanto rilevare la continuità ravvisabile fra questa posizione e quella de L’Essere e il Nulla, nella quale la soggettività non è descritta come un polo univoco delle attività coscienziali, ma come un’apertura, come attività di continua temporalizzazione. Dire che il passato del per-sé è in proroga, dire che il suo presente è un’attesa, dire che il suo futuro è un libero progetto o che non può essere nulla senza doverlo essere, o che è una totalità detotalizzata è una sola e medesima cosa 23. Se, dunque, la coscienza appare, per Sartre, come costantemente in atto, tale azione si traduce, nelle descrizioni fenomenologiche de L’Essere e il nulla, in una forma di riflessività, attraverso la quale il passato viene reso un oggetto e compreso come qualcosa di proprio e definitivamente costruito; al contempo, la sua obiettivazione consente di delineare le possibilità di un orizzonte futuro, che viene concepito come una libera progettualità che sorge sulla percezione di una mancanza [manque]. Tale è la dimensione dinamica della temporalità coscienziale, che ci offre la misura per comprendere cosa significhi che il per-sé è libertà. Il soggetto, infatti, è libero nella misura in cui è continuo superamento trascendente dei propri limiti inerziali interni, del proprio passato come fatticità. Questa conclusione ci permette di riconnetterci al discorso della Critique de la raison dialectique, sottolineando due punti di convergenza fra le concezioni espresse in queste due opere. Anche nell’opera del 1960 la soggettività, nella concretezza della descrizione dei differenti insiemi pratici, appare connotata da un continuo movimento di trascendenza dialettica24. Essa, come ne L’Être et le néant si installa 22 Ivi, p. 67. SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 574, corsivo mio. 24 «[…] superare le condizioni presenti verso il loro cambiamento ulteriore e superare l’oggetto presente verso un’assenza, è la stessa cosa. L’uomo costruisce segni perché è significante nella sua propria realtà ed è significante perché è superamento dialettico di tutto quanto 23 109 CHIARA DE COSMO sulla base di una limitazione, al contempo esterna e interna al soggetto stesso. Sono i termini con i quali viene descritto questo vincolo che mostrano, a parer mio, l’esplicito avvicinamento al marxismo e il tentativo di offrirne un’estensione sulla base di alcune analisi a carattere esistenzialistico. Tale limite è, in effetti, in prima istanza una forma di esteriorità, ma che non si configura semplicemente come pura fatticità contrapposta al per-sé, bensì come inorganico, come materialità che si tenta continuamente di integrare. «Non è dunque», come afferma Florinda Cambria, «la coscienza intenzionale a definirsi anzitutto come trascendenza dell’esteriorità, ma l’esteriorità a definirsi come trascendenza interna alla prassi e della prassi»25. Sulla questa concezione peculiare dell’elemento materiale si tornerà nel prossimo paragrafo. Una seconda analogia, rilevabile fra le due opere, risiede nella possibilità di ritrovare la forma di temporalità progettuale, che veniva individuata alla base della costituzione del per-sé, anche nello sviluppo delle forme di prassi collettiva, in particolar modo nei gruppi in fusione [groupe en fusion]. Essi sono, per Sartre, delle forme di praxis collettiva, di unificazione in corso che realizza, al suo interno, una complessa struttura dialettica di mediazione e di continua oggettivazione. Senza voler qui tematizzare direttamente lo sviluppo diacronico dei gruppi in fusione, che si costruisce sulla base della continua creazione di istituzioni (il giuramento, l’organizzazione ecc.) che tentano di preservare la spontanea attività della prassi condivisa propria del gruppo al suo sorgere, si vorrebbe soltanto notare come l’unificarsi in un’unica temporalizzazione di questa insorgenza comunitaria nella storia sia accostabile al modo di intendere la libertà progettuale del per-sé ne L’Essere e il nulla. Tali configurazioni collettive sorgono a partire della negazione di una serialità di partenza, unificando, nella paura di un pericolo comune, gli scopi delle proprie azioni in un’unica totalizzazione; quest’ultima, in quanto tale, si mostra come movimento continuo, che media internamente le forme di inerzia generate, inevitabilmente, dal gruppo. La pratica dei gruppi in fusione non è identificabile interamente con la prassi dei singoli soggetti nella misura in cui non possiede la trasparenza del funzionamento organico 26, bensì si tratta di una combinazione di azioni individuali, che è semplicemente dato. Ciò che chiamiamo libertà è l’irriducibilità dell’ordine culturale all’ordine naturale» (SARTRE, Questions de méthode, cit., p. 113). 25 F. CAMBRIA, La materia della storia. Prassi e conoscenza in Jean-Paul Sartre, ETS, Pisa 2009, p. 170. 26 «[…] l’organismo è ad un tempo totalizzazione e totalità; il gruppo non può essere che totalizzazione in corso e la sua totalità è fuori di esso nel suo oggetto, vale a dire nella totalità materiale che lo designa e di cui esso tenta di appropriarsi, rovesciandola in strumentalità» (SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. II, p. 47). 110 IL SOGGETTO E LA STORIA non è una semplice sommatoria – e questo differenzia i gruppi da altre configurazioni unificanti, come i “collettivi” – ma una compenetrazione, fondata sull’insorgenza di un telos comune. Non si propone qui, dunque, un semplificante accostamento fra la soggettività singola e quella collettiva, ma soltanto fra le loro modalità di porsi come continua attività. In maniera analoga alla coscienza singola, infatti, i gruppi in fusione si edificano sulla base di una totalizzazione sempre rinascente, sulla base di una temporalizzazione che è continuo superamento delle condizioni date, in vista di una possibilità o finalità comune. L’orizzonte inamovibile che, come il passato per la coscienza, viene continuamente negato, è un’oggettività interiorizzata, che, in quanto tale, non si esaurisce mai nella statica di un essere del tutto inerte. […] questa oggettività interna (che si attua per ciascuno come impossibilità di ritornare al di là di una certa data passata, come irreversibilità della temporalizzazione) non è l’oggettivazione del gruppo come essere; è la conservazione eterna e coagulata del suo sorgimento […]27. Quest’analogia è riscontrabile sia in senso sincronico, nella contemporaneità della formazione in corso del gruppo, sia in senso diacronico, nell’edificazione della storia stessa, come si tenterà di mettere in luce al termine dell’intervento. Si può giungere, dunque, a una prima, parziale conclusione: se il polo soggettivo, il per-sé de L’Essere e il nulla, si mostra come dinamica di temporalizzazione peculiare, altrettanto si può dire delle strutture collettive. I gruppi in fusione, in particolar modo, sono caratterizzati dalla medesima forma di trascendenza-immanenza della soggettività singola, ossia da una forma di negazione dialettica, diretta verso il nuovo, di una fatticità interna, che si presenta come oggettivazione passata, prodotta gruppo stesso. L’elemento materiale di tali pratiche comuni, dunque, appare, nel pensiero sartriano, come puramente sociale o puramente umano, poiché il gruppo, anche nelle sue forme di organizzazione non è mai oggetto, ma sempre un quasi-oggetto, cioè il frutto di una condotta soggettiva 28. In questo senso è evidente come, per Sartre, un marxismo che si riduca all’analisi degli antagonismi economici non possa, per suo statuto, cogliere la complessa dialettica che inerisce alle oggettivazioni umane e si presenti, 27 Ivi, p. 96. «[…] il gruppo appare come totalizzazione in corso (o da fare) non come totalità già fatta […]. Nondimeno, è oggetto; […] questo oggetto pratico può essere solo un quasi-oggetto, perché è nello stesso tempo la materia da differenziare in base a funzioni, e l’unità del giuramento che fonda e consente di reintrodurre l’eterogeneità come uso libero e controllato della molteplicità» (ivi, p. 148). 28 111 CHIARA DE COSMO a sua volta, come occultamento della genesi soggettiva delle medesime azioni economiche. 3. Il lavoro e la penuria: il rapporto con le cose In questa prima parte dell’intervento si è cercato di mettere in luce la consonanza fra le forme di temporalizzazione della coscienza, descritte ne L’Être et le néant, e il funzionamento dialettico dei gruppi, sostenendo come, per Sartre, questo processo avvenga sempre attraverso la mediazione di un’oggettualità, che nell’opera nel 1943 si presenta come il passato oggettivato internamente al per-sé e nella Critique come l’inerzia delle configurazioni statiche che i gruppi, nel loro movimento diacronico, realizzano. «Esattamente come le società», sostiene Sartre ne L’Être et le néant, «la persona umana ha un passato monumentale e prorogato»29. La storicizzazione della realtà umana, così come quella dei gruppi sociali, include la continua ripresa di ciò che è trascorso, nella forma dei prodotti e dei risultati degli atti passati, e il suo continuo superamento. In ambito marxista, queste particolari forme di oggettivazione vengono definite una “seconda natura”, cioè sono gli effetti di pratiche umane, che si impongono agli stessi uomini come i limiti oggettivi della natura stessa. Prima di prendere in considerazione, nello specifico, questa forma peculiare di “oggettività umana”, si vorrebbe accennare al modo in cui Sartre considera il rapporto dell’uomo con la natura, ossia con la materialità inorganica. In maniera molto vicina all’impostazione di Lukács nell’Ontologia dell’essere sociale, Sartre individua all’origine della società un rapporto di tipo manipolativo dell’uomo con le cose. Il lavoro, come rielaborazione teleologica degli oggetti naturali, rappresenta, per Sartre, quella “prima forma di progresso”30 che è alla base dell’ulteriore sviluppo della società. L’attività lavorativa, tuttavia, non si riduce mai alla semplice modificazione della cosa, ma implica sempre un rapporto intersoggettivo fra gli uomini. Per rendere conto di questo aspetto si vorrebbe brevemente tornare su quella parte de L’Être et le néant in cui Sartre parla dei rapporti concreti che il per-sé instaura con gli oggetti 31. 29 SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 573. Cfr. R. ARONSON, Sartre on progress, in CH. HOWELLS (ed.), The Cambridge Companion to Sartre, Cambridge University Press, Cambridge 1992; per una buona analisi dei punti di convergenza e di distanza fra il pensiero lukácsiano e quello sartriano, cfr. V. CHARBONNIER, Sartre et Lukács: des marxismes contradictoires?, in E. BAROT (dir.), Sartre et le marxisme, La Dispute, Paris 2011, pp. 159-178. 31 Mi riferisco alla parte dal titolo Fare e avere:il possesso, contenuta nell’ultima sezione dell’opera. 30 112 IL SOGGETTO E LA STORIA Alla base della struttura trascendente della coscienza vi è, come si è accennato, la messa in questione del proprio essere nella forma della negazione, che si traduce nella percezione di una mancanza o nel desiderio di conformarsi all’in-sé. La relazione del per-sé con gli esseri concreti si adegua a questa struttura: la sintesi, fra le due dimensioni, può tradursi in un rapporto appropriativo. In esso Sartre individua due modi di realizzazione: l’appropriazione per sfruttamento, nel caso degli oggetti d’uso, e l’appropriazione per creazione, nel caso, ad esempio, delle opere d’arte 32. In queste due modalità, a parer mio, è visibile l’origine della duplice oggettività e delle forme di alienazione e reificazione di cui Sartre parla nella Critique. In prima istanza, nel tentativo di appropriazione dell’oggetto desiderato, la coscienza nega l’oggetto, nella misura in cui lo elabora come parte di sé, cioè come proprio possesso. In questo modo, sorge una relazione dialettica fra i due poli, in quanto fra di essi si costituisce un legame che non preclude la loro reciproca indipendenza. In questo senso, per comprendere il rapporto instaurato dalla coscienza con il mondo, è necessario capire come avvenga «l’umanizzazione delle cose attraverso la reificazione dell’umano e la reificazione dell’umano attraverso l’umanizzazione delle cose»33. L’uomo e la natura si presentano, nel pensiero sartriano, come due sfere che necessitano di mantenere ferma la loro complementare differenza, perché possa instaurarsi fra di essi una connessione. In altri termini, è necessaria una distanza fra la coscienza e le cose, perché il soggetto possa manipolare l’oggetto, nel tentativo di trascenderlo, ma al contempo di trovare in sé la medesima stabilità che pertiene all’essere. Il rapporto d’appropriazione, in questo senso, è sempre diretto, per Sartre, alla ricerca d’identità da parte del per-sé, cioè a un tentativo, da parte di quest’ultimo, di ritrovarsi e di costituirsi nella sua fatticità. Ne consegue, ed è qui implicata la seconda modalità di sintesi d’appropriazione, che la cosa manipolata esprime anche la mia aspirazione alla durevolezza, in quanto la forma che imprimo all’oggetto permane, come modificazione tecnica per utilizzare il linguaggio della Critique, al di là della mia stessa sussistenza. L’identità del soggetto si edifica, nella prospettiva de L’Être et le néant, in un rapporto dialettico di mediazione con le cose, che si costituisce a totalità di momenti e rimandi 34; essendo, tuttavia, come si 32 SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 655. M. BARALE, La filosofia come esperienza trascendentale. Sartre, Le Monnier, Firenze 1997, p. 251. E, poco prima, egli sostiene che «questa realtà, la prassi, è dialettica perché dialettica è la comprensione trascendentale del proprio realizzarsi ch’essa realizza nel suo realizzarsi. Dialettica è la prassi nella sua istanza trascendentale, nella sua istanza di autocomprensione» (ivi, p. 229). 34 A questo proposito, come sostengono Bellan e Cortella, «ogni pratica è […] per Sartre 33 113 CHIARA DE COSMO è accennato nella prima parte di questo intervento, il per-sé una totalità detotalizzata, questa relazione non si esaurisce mai in una sintesi esaustiva, ma permane come creazione continua e inesauribile. Sulla base di questa premessa è possibile comprendere perché, per Sartre, «non è nella natura dei rapporti economici che […] troviamo le radice del processo di reificazione, né nell’espansione illimitata dell’agire strumentale e neppure nelle istanze moderne di quantificazione e matematizzazione del nostro mondo vitale». La reificazione, per il filosofo francese, «si radica all’interno dei rapporti intersoggettivi»35. Nel rapporto di possesso, infatti, il per-sé «mira a fruire del suo essere in-sé, del suo essere al di fuori. Mediante il possesso recupero un essere-oggetto assimilabile al mio essere-per-altri. Per ciò stesso, l’altro non può sorprendermi; l’essere che vuol far nascere è che è me-per-l’altro, lo posseggo già, ne fruisco. Così il possesso è anche una difesa di me con l’altro» 36. Se, come sostiene Sartre in quest’opera, gli altri tendono a rapportarsi a me rendendomi oggetto attraverso lo sguardo, tale relazione non si instaura a livello puramente coscienziale, ma si realizza attraverso la mediazione con la materia, o, meglio, con una serie di oggetti carichi di significati umani 37. Ne consegue, dunque, riconnettendoci alla prospettiva della Critique, che si realizza una sorta di prassi rovesciata, per cui le cose finiscono per dominare le soggettività che le hanno prodotte, al venir meno della trasparenza del rapporto fra la coscienza e la cosa lavorata, giustificata dall’indipendenza che il risultato dell’attività lavorativa finisce per assumere. Accade così che, se in questo intreccio non si realizzano le finalità di una prassi comune e condivisa, allora esso finisce per retroagire sui soggetti, una necessaria oggettivazione; è proprio nella relazione con l’oggetto, con la materia, che l’uomo si comprende in quanto uomo e dunque – hegelianamente – si “forma”. Definendosi attraverso il lavoro e la praxis in una “relazione immediata” con l’altro da sé che lo spinge a trascendersi, a essere fuori di sé in direzione dell’altro e di altri, l’ambito antropologico è dominato da uno “squilibrio”, da un auto-sradicamento che impedisce di pensare il soggetto come sostanza» (A. BELLAN-L. CORTELLA, Il riconoscimento come reificazione. Sartre e la critica dell’intersoggettività, in Teorie della reificazione. Storia e attualità di un fenomeno sociale, a cura di A. Bellan, Mimesis, Milano 2013, p. 261). 35 Ivi, p. 241. 36 SARTRE, L’essere e il nulla, cit., pp. 671-672. 37 Lo spiega molto chiaramente Barale, affermando che «per la coscienza privata è la materia il motore della storia. Una materia carica di significati umani, la materia perché carica di significati umani. Ma l’unità di senso la determina, la materia, come totalità delle condizioni materiali dell’esistenza e le coscienze private la vivono in questa dimensione, di là da ogni progetto, come senso inumano delle cose. La vivono attraverso la loro prassi come una sorta di contro-finalità della prassi» (M. BARALE, Il tramonto del liberale. Sartre e la crisi della teoria politica, Guida Editori, Napoli 1981, p. 149). 114 IL SOGGETTO E LA STORIA con una forza magica in cui gli scopi originariamente impressi vengono dimenticati e contraddetti dalla retroazione di queste oggettivazioni. È la stessa prassi umana che, in ultima istanza, determina la sua contraddizione, creando quella che, in precedenza, si è definita “seconda natura”. A questo quadro, tuttavia, l’opera del 1960 aggiunge un’ulteriore categoria, che rende tali interconnessioni dialettiche più complesse. Sartre sostiene che il «fondamento dell’intelligibilità della Storia» sia «l’esistenza, nell’uomo, della penuria, di una dimensione pratica di non umanità» 38. […] il processo storico non si capisce senza un elemento permanente di negatività, sia esterno, sia interno all’uomo, che è la perenne possibilità, nella sua stessa esistenza, di essere colui che fa morire gli Altri o che gli Altri fanno morire, ossia la penuria [rareté ] 39. Il concetto di rareté, come si è accennato, è uno dei contributi più originali dell’opera sartriana e si configura come quel momento permanente di negatività che si pone all’origine logica del processo storico. Esso traduce quella costitutiva mancanza che spinge le soggettività, implicate nel processo storico, a ulteriori negazioni determinate. Anche il lavoro si presenta come una negazione ed è, precisamente, la negazione, che si traduce in trascendenza attiva, di questa scarsità originaria 40. Con l’uso di tale categoria Sartre non sembra indicare un preciso momento storico né ricercare una spiegazione economica dell’evoluzione sociale dell’uomo, ma piuttosto descrivere una struttura antropologica che renda conto della legalità dialettica della storia 41. Tale costitutiva penuria, che caratterizza il rapporto dell’uomo con la natura, conduce all’espressione del bisogno nell’azione lavorativa sull’oggetto, ma anche all’interiorizzazione della violenza che essa comporta, che si manifesta, a livello sociale, in una conflittualità immanente alle relazioni umane 42. 38 SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, p. 272. Ivi, pp. 273-274. 40 Cfr. JAMESON, Marxism and Form, cit., p. 261. 41 In questo senso, la critica mossagli da Anderson, di discostarsi da Marx nell’individuare, in ipotetiche società primitive, un rapporto di scarsità tale da impedire il soddisfacimento dei bisogni sociali coglie nel segno fino a un certo punto, se accettiamo che Sartre non si stia qui attenendo alla descrizione di un’evoluzione dei modi produttivi fra le varie società. Cfr. ANDERSON, Considerations on Western Marxism, cit., pp. 110 ss. 42 Si possono notare, in questo aspetto, delle consonanze con la Dialektik der Aufklärung di Adorno e Horkheimer. I due pensatori cercano di descrivere le strutture di dominio insite nella razionalità occidentale rapportandole strettamente allo sviluppo delle configurazioni sociali: l’uomo, che cerca di addomesticare la resistenza che la natura gli oppone nella violenza del dominio, finisce per interiorizzare questa violenza, manifestan39 115 CHIARA DE COSMO In altri termini, la penuria si presenta come condizione di possibilità della storia non tout court, ma soltanto in quanto esprime la tensione fra uomo e natura, che i soggetti stessi interiorizzano nella propria praxis tentando di superarla: è per via di questo superamento che essa diviene il nucleo originario del movimento storico. Gli antagonismi sui quali si edifica il processo storico, dunque, si ricollegano alla rareté che caratterizza il rapporto primario dell’uomo con la natura. L’intersecarsi dei progetti individuali e collettivi nella storia si carica sia dell’oblio delle finalità originarie, impresse dal singolo alla materia lavorata, sia di questa forma di dominio interiorizzato, facendo sì che vi sia un’unica, grande alienazione, che è la storia stessa, realizzata da soggetti che non la riconoscono più come propria, ma la vivono come un destino 43. Sembra che, se da un lato Sartre si discosti abbastanza esplicitamente dal concetto marxiano di alienazione, nella misura in cui esso, nella sua prospettiva, sembra slegarsi dalle condizioni di produzione specifiche del capitalismo, dall’altro, si avvicini in maniera sorprendente ad alcune descrizioni del fenomeno del feticismo. In effetti, nel Capitale, Marx sostiene che il feticismo è un processo che inerisce a un universo economico basato sulla produzione di merci, nella misura in cui esse, delle cose con uno specifico valore d’uso, appaiono animarsi di vita autonoma attraverso l’occultamento delle forze sociali che le hanno prodotte44. Il lavoro, creatore di merci, scompare nella loro oggettualità ed esse divengono portatrici indipendenti di un valore che, tuttavia, non ha nulla a che fare con la loro materialità. Pur al di fuori dall’orizzonte strettamente economico del Capitale, anche nel pensiero di Sartre c’è la traccia di questo occultamento, dal momento che le oggettività sociali, che rappresentano le sedimentazioni della vita delle generazioni passate, dominano la praxis di quelle presenti come un vincolo difficilmente eludibile. In questo senso, la prospettiva sartriana della Critique può intendersi come un tentativo di anamnesi dell’origine umana del mondo sociale e come descrizione delle mediazioni puramente socializzate che, nei fatti – anche se il filosofo francese dichiara di non compiere un’analisi storica, ma logica e regressivo-progressiva – restituiscono l’immagine di un universo guidato dola socialmente nelle relazioni con i suoi simili. Cfr. T.W. ADORNO, M. HORKHEIMER, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Querido, Amsterdam 1947 (trad. it. di R. Solmi, Dialettica dell’illuminismo. Frammenti filosofici, Einaudi, Torino 1966). 43 Cfr. JAMENSON, Valences of the Dialectic, cit., p. 243. 44 Cfr. il capitolo del primo libro del Capitale, Il carattere feticistico della merce e il suo arcano, K. MARX, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Band I (1867-1883); trad. it. a cura di R. Fineschi, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro primo, La città del Sole, Napoli 2011, pp. 82 ss. 116 IL SOGGETTO E LA STORIA dalle leggi capitalistiche. Le oggettivazioni sociali, il vincolo alla libertà di formazione di strutture collettive, non sono nient’altro che il frutto di totalizzazioni intrecciate, l’inerzia di un passato con il quale è necessario mediare per realizzare una dialettica di apertura al nuovo. 4. Il soggetto e la storia: conclusioni A partire da queste premesse possiamo ora tentare di rispondere all’interrogativo che ha guidato lo sviluppo di quest’intervento, ossia quale sia, per Sartre, lo statuto della soggettività all’interno della storia. Nella Critique de la raison dialectique egli dichiara, a un certo punto, che «qualunque sia la preistoria, quel che qui importa in un storia condizionata dalla lotta delle classi, è mostrare il passaggio delle classi oppresse, dallo stato di collettivo alla praxis rivoluzionaria di gruppo» 45. Il suo tentativo, nel costruire una “teoria degli insiemi pratici”, è propriamente questo, cioè la ricerca delle modalità attraverso le quali si siano realizzate, e dunque possano compiersi nuovamente, anche se in forme differenti, delle convergenze collettive, in grado di dar vita a un’azione rivoluzionaria. Per Sartre […] la rivoluzione è quell’atto che svela il senso della storia: più esattamente e radicalmente, l’atto attraverso il quale la storia acquista quel senso che altrimenti non avrebbe, l’atto senza il quale le lotte degli uomini e il succedersi dei regimi sociali resterebbero privi di senso e assisteremmo all’eterno ripetersi della medesima impresa frustrata46. Ora, sulla base di quanto si è cercato di sostenere finora, non è pensabile ascrivere a Sartre una visione semplificante, per la quale un individuo o un gruppo collettivo, semplicemente liberandosi dai vincoli esterni, si imponga alla storia, trascendendola verso un orizzonte del tutto nuovo. Il filosofo francese, in quest’opera, riconosce l’orizzonte totalmente socializzato creato dal capitale e descrive il movimento sincronico e diacronico delle istituzioni e degli uomini all’interno di questo ambiente 47. Lo riconosce come profon45 SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, t. II, p. 15. È Basso a notare come, in Sartre, «la classe viene per molti versi “funzionalizzata” e subordinata al concetto di gruppo» (BASSO, Inventare il nuovo, cit., p. 121). 46 BARALE, Il tramonto del liberale, cit., p. 110. 47 Si potrebbe, forse, muovergli una critica nella misura in cui, nella giusta enfasi sull’origine soggettiva delle legalità sociali, egli misconosce il potere soggettivo che lo stesso capitale assume. Marx, nel Capitale, mostra che nella società capitalistica il vero soggetto sia il capitale stesso, mentre gli attori sociali finiscano per essere semplicemente delle maschere 117 CHIARA DE COSMO damente storico, cioè non come una totalità univoca, ma come l’intreccio dialettico di più totalizzazioni trascorse, dotate di una loro eterogeneità e contingenza 48. Nella storia il soggetto è piuttosto un epicentro, un vettore di convergenza e irradiazione, che si intreccia con gli altri in una forma di intersoggettività sociale. Si è sostenuto che l’analogia sussistente fra le forme di temporalizzazione del per-sé e quelle dei gruppi si instaurasse sia sul piano sincronico sia su quello diacronico. Il corso della storia, per Sartre, non si identifica con il costituirsi di un’umanità pensata come «un Uomo» 49, ma piuttosto con l’unificazione di più temporalizzazioni, in cui la sedimentazione delle attività di formazioni collettive passate si trasforma in fondazione e apertura per l’edificazione di nuove pratiche. La pluralità di temporalizzazioni e l’unificazione temporale […] costituiscono in realtà l’evoluzione dell’umanità come praxis di un gruppo diacronico, cioè come l’aspetto temporale della dialettica costituita. Il gruppo sincronico è lavoro di unificazione delle molteplicità simultanee in vista di un obiettivo comune. I gruppi diacronici sono il risultato dell’unificazione retro-anterograda delle temporalizzazioni […]50. Ne consegue che, per Sartre, la storia è una costruzione umana, e in questo senso soggettiva, ma il soggetto non è un singolo individuo o una singola struttura collettiva, bensì è l’unità di una totalizzazione e di temporalizzazione sempre in corso, che rielabora il passato in vista di un’apertura al futuro. La ricerca sartriana, dunque, si può definire come un’anamnesi che prova a restituire la profondità di una dimensione progettuale ad ampio spettro. In questo senso, la storia possiede, per il filosofo francese, una sua direzione, ravvisabile nell’orientamento determinato dal conflitto fra le produzioni e le azioni degli individui e una sua razionalità immanente, per quanto diasporica, che include le premesse per lasciar spazio all’invenzione del nuovo. della propria funzione economica. Se si includesse questa visione, allora la descrizione, in un certo senso, fenomenologica di Sartre, delle serie e dei collettivi, che pure esprimono strutture inerti, senza coscienza di collettività, risulterebbe sicuramente più complessa. 48 Cfr. T.R. FLYNN, Sartre and the Poetics of History, in HOWELLS (ed.), The Cambridge Companion to Sartre, cit., in particolare pp. 215 ss. 49 SARTRE, Critica della ragion dialettica, cit., vol. I, t. II, p. 325. 50 Ibidem. 118 Mara Meletti Bertolini Disumano, inumano e postumano. Alcune riflessioni tra J.-P. Sartre e H. Arendt ABSTRACT: The subject of inhumanity can function as a guiding theme for understanding the different paths taken by Sartre and Arendt in their depictions of the moral, social, and political consequences of freedom in the sense of a power to create new beginnings. Despite their differences, Sartre and Arendt’s common phenomenological heritage allows one to recognize the persistence of shared concerns, such as the question of how to reconcile individual freedom with pluralism, and how to integrate personal moral commitments with public life. In order to respond to such questions, three thematic areas common to the two thinkers will be taken into consideration: the relationship between freedom and violence; self-presentation and the look; and the role of thought and choice in moral and political commitment. KEYWORDS: Sartre; Arendt; Ethics; Politics; Evil; Violence; Choice; Thinking ABSTRACT: Il tema della disumanità si presta a mettere a fuoco le diverse vie intraprese da Sartre e Arendt per declinare l’idea di libertà in quanto creatrice di nuovi inizi nelle sue conseguenze morali, sociali e politiche. Comuni radici nella Fenomenologia lasciano intravedere, pur nella differenza, il persistere di preoccupazioni convergenti: come articolare libertà individuale e pluralismo? Impegno morale personale e vita pubblica? Per rispondere a questi interrogativi vengono prese in considerazione tre aree tematiche comuni ai due autori: la relazione tra libertà e violenza; autopresentazione e sguardo; il ruolo di pensiero e scelta nell’impegno morale e politico. KEYWORDS: Sartre; Arendt; etica; politica; male; violenza; scelta; pensiero Risulta particolarmente interessante perseguire un percorso di lettura sulla disumanità in due autori come H. Arendt e J.-P. Sartre che hanno entrambi respirato una comune atmosfera fenomenologico-esistenziale, elaborando fermenti culturali condivisi che vengono tuttavia coniugati in forme differenti. Entrambi negano che l’uomo possa essere fissato in un’essenza o una natura, preferiscono parlare di «condizione umana», per Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 119 MARA MELETTI BERTOLINI sottolinearne la plastica variabilità collegata alla strutturale libertà e per salvaguardare il valore della differenza individuale. Questo fa di loro dei critici convinti delle teorie che utilizzano la disumanità come una categoria antropologica discriminante, in cui l’identificazione rigida dell’umano serve a tracciare confini e gerarchie di valore tra chi è più o meno uomo. Operazione individualmente e politicamente molto pericolosa che trova molteplici esempi significativi a partire dalla persecuzione dell’ebreo sino a Jean Genet, e porta di fatto a espellere dall’umanità l’altro, il differente, il non omologato, il mostro. Per entrambi questi autori è prioritaria la riflessione sulla libertà come cifra fondamentale dell’umano, refrattaria a qualsiasi riduzione causale o naturalistica, collegata alla possibilità di nuovi inizi, oppure, secondo il diverso vocabolario sartriano, alla capacità di annullamento, che sempre nuovi inaspettati inizi comporta. Il male, la violenza, la tortura, l’oppressione, la persecuzione restano fenomeni tragicamente umani, volto oscuro della libertà, in cui è difficile e doloroso inoltrare lo sguardo. È proprio in base alle loro riflessioni sulla libertà che questi due autori possono risultare estremamente significativi ancora oggi per tornare a ripensare le dinamiche attuali del pluralismo, in un momento in cui la rivoluzione tecnologica richiede nuovi percorsi alla responsabilità e nuovi tracciati della relazione tra morale pubblica e privata, con un crescente richiamo alla responsabilità individuale e collettiva. La disumanità non rimanda dunque a un’esclusione antropologica, l’uomo non cessa mai di essere tale anche negli abissi del male, piuttosto entrambi gli autori virano verso una diagnosi morale e politica del fenomeno, interessati alle particolari condizioni in cui l’uomo si dimette dalle sue più preziose peculiarità: per Sartre attraverso la malafede e l’alienazione, per Arendt attraverso la perdita dello spazio pubblico e l’assenza di pensiero che può condurre alla banalità del male. Il tema della disumanità ci induce a richiamare l’attenzione sulle diverse vie che questi due autori percorrono per declinare l’idea di libertà in quanto creatrice di nuovi inizi, ossia per pensare la funzione creatrice della coscienza individuale nel suo rapporto con l’azione, come pure nelle sue conseguenze sociali e politiche. Date le comuni radici fenomenologicoesistenziali si tratterà dell’occasione per seguire il filo rosso di un problema che continuerà ad assillare entrambi: come articolare libertà individuale e pluralismo, impegno morale personale e vita pubblica? La risposta alla fine resterà problematica in entrambi, sempre accompagnata a un’opera di decostruzione della tradizione, sempre destinata a essere ripresa, non appena si prenda davvero sul serio la contingenza e l’imprevedibilità che la libertà comporta. 120 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO 1. Disumano, inumano, inautentico Occorre preliminarmente distinguere il significato di due termini spesso intrecciati insieme, tanto da rischiare di essere confusi: il disumano nel significato morale del termine, che rimanda al linguaggio dei valori e delle scelte (il male resta tema prioritario in Arendt, ma presente pure in Sartre), va distinto dall’inumano, ossia dalla categoria ontologica che indica ciò che sta di fronte all’uomo, ciò che Sartre denomina in sé, l’oggetto, la cosa, il pratico-inerte, ma anche lo strumento, l’apparato tecnico, a cui anche Arendt rivolge particolare attenzione, in altre parole: ciò che è altro dalla coscienza, pur intrattenendo con essa significativi rapporti tutti da indagare. Per Sartre la cifra della disumanità, sebbene in forme e modi differenti, resterà riconducibile al processo di farsi cosa; anche quando ripudierà la sua morale giovanile per dedicarsi all’esame del pratico-inerte, i due termini disumano e inumano, nel loro significato morale e ontologico resteranno strettamente connessi. L’inumano sartriano, come è noto, rimanda al fascino che l’inerte esercita sul per sé, ma non mancano certo riferimenti alla disumanità intesa in senso morale, accompagnati da una costante riflessione sulla morale in quanto tale, nelle sue implicazioni col contesto storico, sociale e politico. Anzi si può affermare che, pur distinguibili, i due significati sono intimamente intrecciati in Sartre, nella misura in cui la reificazione di sé e dell’altro, i molteplici processi in cui il per sé si assimila all’in sé riducendosi a cosa, sono la matrice originaria di ogni dismissione ontologica e morale insieme. Il filosofo sin dai suoi lavori giovanili si adopera per tracciare una vera e propria mappa dell’inautentico, termine forse più appropriato per indicare la disumanità nel significato attribuitole dal giovane Sartre. Sotto la sua lente sfilano le condotte magiche, le varie forme di coscienza prigioniera, i molti volti dell’autoinganno, i falsi rapporti con sé, con gli altri, col mondo, la riflessione complice, la malafede; concrete situazioni esistenziali in ultima analisi ricondotte a strategie rassicuranti volte a distogliersi dall’angoscia e dalla responsabilità che ogni azione libera comporta1. Al di là dell’enfasi esistenzialistica sull’angoscia, in realtà possiamo guardare ad essi come esempi concreti in cui il mondo viene trasformato non attraverso un’azione reale o un utensile (attraverso la prassi, come dirà poi) bensì attraverso un’azione magica di cui la coscienza emotiva e immaginativa sono maestre e consiste nella strutturazione e ristrutturazione dei significati. Questa operazione della 1 Ho approfondito questi aspetti in M. MELETTI BERTOLINI, La conversione all’autenticità. Saggio sulla morale di J.-P. Sartre, FrancoAngeli, Milano 2000. 121 MARA MELETTI BERTOLINI riformulazione dei significati interesserà fortemente anche Arendt, ma in una direzione non più autoingannatoria, bensì quale dinamica temporale specifica del “pensiero”, che va ben oltre il semplice rilevamento dei dati empirici o i voli dell’immaginazione, e fa interagire la curvatura morale della persona con la sua visibilità pubblica. Sarà questa la funzione principale da lei attribuita al “pensiero” – distinto dall’intelligenza strumentale e cognitiva – quella che prepara e rende possibile il giudizio morale, e resta l’unico fragile baluardo contro il male: la capacità di pensare e tornare a ripensare su ciò che è stato fatto o si sta per fare. Rilevando in Sartre il ruolo dell’inumano, non intendo certo negare il riferimento a una disumanità declinata in senso morale, di cui Sartre è acuto osservatore anche nelle sue narrazioni. La pubblicazione recente di molti inediti ha rafforzato l’idea che la riflessione sulla morale ha accompagnato tutti gli snodi fondamentali di questo autore, dagli scritti giovanili sull’autenticità, sino alla conferenza di Roma del 1964, a cui Sartre partecipò tornando a riflettere sulle radici dell’etica, all’interno del tema generale Morale e Società 2. Come ha scritto efficacemente F. Scanzio, dopo l’abbandono del suo primo progetto consegnato agli appunti dei Cahiers pour une morale, si tratta per lui di affrontare la morale nei suoi rapporti concreti con l’azione politica, di affermare la superiorità di un impegno indirizzato alla società intera, rispetto a quello teso verso l’autenticità personale. O meglio di mostrare che la seconda non poteva attuarsi se non attraverso il primo3. Proprio a questo tema del rapporto tra morale e società, tra moralità privata e vita pubblica vorrei attenermi quale filo rosso all’interno di questo articolo. A tal proposito è curioso osservare come il percorso intellettuale dei due è precisamente inverso: mentre Sartre si muove dalla morale dell’autenticità personale verso la riflessione politica, all’opposto Arendt, che esordisce come teorica della politica (Le origini del totalitarismo; Sulla Rivoluzione), a partire dal processo ad Eichmann a Gerusalemme del 1961 dedicherà l’ultimo periodo della sua vita alla riflessione sui problemi morali innescati dalla tragica esperienza del totalitarismo (La banalità del male; La vita della mente). Partendo da comuni fermenti fenomenologico-esistenziali, come questi due autori hanno dipanato l’intreccio di libertà politica e morale, a cui entrambi riconducono direttamente o indirettamente la riflessione sulla disumanità? 2 Cfr. J.BOURGAULT, G. CORMANN (dir.), Sartre inédit. Les racines de l’éthique, in «Etudes sartriennes», n. 19, 2015, pp. 11-118. 3 F. SCANZIO, J.-P. Sartre: la morale introvabile, IPOC, Milano 2014, p. 10. 122 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO Per cominciare a rispondere almeno parzialmente a questa domanda tratterò di tre aree tematiche (la violenza; l’autopresentazione; la volontà) in cui Arendt manifesta una decisa presa di posizione critica rispetto ad alcuni tratti portanti della morale dell’autenticità, denunciandone alcune pericolose derive politiche. 2. Critica alla identificazione di violenza, creatività, libertà Arendt si confronta criticamente con Sartre in uno dei suoi ultimi saggi Sulla violenza 4 pubblicato nel 1970, in riferimento alle tesi sartriane espresse nella Prefazione a I dannati della terra di F. Fanon (1961). Come è noto in quel contesto Sartre afferma l’esistenza di un nesso strutturale tra violenza e libertà, ed è proprio la necessità di questa dialettica che Arendt intende contestare, dissociando la saldatura sartriana tra violenza, potere e libertà, affermando con forza la loro distinzione5. Le nuove armi tecnologiche hanno drammaticamente smentito l’efficacia e il fascino della guerra come momento di rottura e liberazione, e hanno reso ormai obsoleta l’idea diffusa che la forza possa essere la continuazione della politica con altri mezzi. L’autrice vede in Sartre “un amalgama di esistenzialismo e marxismo”, uno strano connubio tra filosofia dell’autenticità e politica, che conduce a una mitizzazione della violenza, che ora, alla luce di un rinnovato concetto di azione politica, è soltanto “una vecchia verità”. Sartre ha trasposto in campo politico l’idea esistenzialista dell’uomo creatore di sé e assimila pericolosamente l’azione violenta all’azione creatrice avente alla sua origine la scelta; in tal modo la libertà nasce dalla lotta violenta contro tutto ciò che le si oppone, sia esso l’in sé, l’altro o il pratico-inerte, e il binomio libertà-violenza diventa la struttura permanente e inevitabile della condizione umana. È vero, osserva Arendt, che tale idea è presente anche nella tradizione hegeliana e marxista, ma in quel contesto la creazione di sé passa attraverso il pensiero o il lavoro, attività pacifiche ben più complesse e abissalmente differenti dalle manifestazioni violente; l’interpretazione sartriana non è dunque neppure in linea con la tradizione marxista. I movimenti di liberazione non sono affatto identificabili con violente “esplosioni vulcaniche”, o con “la furia pazza” con cui i dannati 4 H. ARENDT, On Violence, Harcourt, Brace and World, 1970 (trad. it. Sulla violenza, Parma, Guanda 2001). 5 «Politicamente parlando è insufficiente dire che il potere e la violenza non sono la stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente […] La violenza può distruggere il potere; è assolutamente incapace di crearlo» (ivi, p. 61). 123 MARA MELETTI BERTOLINI della terra dovrebbero diventare uomini liberi; si tratta di metafore fuorvianti che denotano una mancanza di percezione della realtà, una pericolosa propensione all’illusione e all’ideologia, una superficiale considerazione storica propensa a dimenticare che la violenza rivoluzionaria “ha spesso trasformato i sogni in incubi”. Di fronte alle “grandiose e irresponsabili affermazioni” di Fanon (e Sartre), Arendt è tentata di attribuirle a uno stato d’animo passeggero, forse non privo di nobiltà di sentimento. Di fronte a eventi nuovi e complessi, simili posizioni mostrano una deludente carenza di “qualsiasi mezzo per affrontarli mentalmente”; in sintesi si tratta di affermazioni che mancano di “pensiero”. Arendt, riferendosi alla categoria della natalità, aggiunge che «non c’è niente di più ovvio del fatto che l’uomo, sia come appartenente alla specie sia come individuo, non deve la sua esistenza a se stesso»6. Sono parole lapidarie che tornano a ripudiare il mito dell’uomo autentico, creatore di sé, mito che già aveva stigmatizzato nel suo saggio giovanile del 1946 Che cos’è la filosofia della esistenza? 7. Ora, quasi alla fine della sua vita e nella maturità del suo pensiero, riprende quelle critiche (che allora aveva riservato a Husserl e soprattutto a Heidegger) e indica le pericolose derive politiche di ogni sistema teorico che pretende di ricostruire il mondo a partire dalla coscienza, e in base a un falso concetto “magico” di creatività, non si rassegna al fatto della “dipendenza”. Tale modello di creatività, proprio dell’attività poietica ma non della prassi, porta alla concezione del mondo come possibile prodotto dell’uomo, dando una decisiva spinta al moderno processo di sradicamento dal mondo, nell’illusione di potersi emancipare dalla natura e dalla storia. La retorica dell’inautentico, della deiezione, dell’uomo creatore che deve dar forma a se stesso come un’opera d’arte e finisce con l’incatenarsi da sé, sono per Arendt ulteriori esempi di abbandono dell’azione politica e del venir meno della capacità di agire di concerto nello spazio pubblico, confrontandosi con le opinioni degli altri. La violenza non può essere giustificata come manifestazione di vita e di creatività, non è affatto necessaria 6 Ivi, p. 17 (corsivo nel testo). L’articolo, il primo in lingua inglese scritto nel suo esilio americano, fu pubblicato in «Partisan Review» nel 1946 (trad. it. Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, Introduzione e cura di S. Maletta, Jaka Book, Milano 1998), ed è coevo a un altro articolo dedicato all’esistenzialismo francese (French Existentialism), pubblicato sulla rivista «The Nation» (trad. it. L’esistenzialismo francese, in Archivio Arendt Vol. I: 1930-1948, a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 222-227). Arendt visse in esilio a Parigi dal 1933 al 1941 dove ebbe modo di frequentare intellettuali quali A. Kojéve (frequentò i suoi seminari su Hegel), J. Wahl (che nel 1947 pubblicò in traduzione francese il suo articolo sulla rivista «Deucalion. Cahiers de philosophie»), A. Koiré, W. Benjamin. 7 124 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO e strutturale, non è neppure bestiale o irrazionale; essa appartiene alla sfera politica e i nuovi tempi caratterizzati dalle innovazioni tecnologiche non hanno bisogno di tale pratica, ma piuttosto di democrazia partecipata. L’idea che il nuovo possa essere generato prioritariamente dalla rivoluzione violenta contraddice profondamente la concezione arendtiana di azione politica, che valorizza la relazione intersoggettiva e la comunicazione nello spazio pubblico. La capacità di nuovi inizi – strettamente correlata alla sua concezione di libertà – viene affidata a ben altre fonti, vale a dire a azione e parola, da lei celebrate in Vita activa, a pensiero e giudizio, da lei esaminati ne La vita della mente. Alla radice di molti processi di disumanizzazione Arendt pone la perdita di contatto con lo spazio pubblico della comunicazione, ed è proprio questa estraneità al mondo, implicita nella “gettatezza” esistenzialistica, che l’autrice contesta alla filosofia dell’autenticità. D’accordo in questo con la lezione dell’amico H. Jonas, che dopo aver segnalato sorprendenti analogie tra il significato dei miti gnostici e la “gettatezza” heideggeriana, aveva indicato in questa radicale estraneità ontologica la radice dell’indifferenza morale nei confronti della natura caratteristica dell’uomo tecnologico. In tale atteggiamento Jonas vede già prefigurarsi i prodromi della crisi ambientale contemporanea, mentre Arendt trova in esso un ennesimo segno di sfiducia nell’azione politica rettamente intesa. Anche Arendt tesse sottili osservazioni che collegano tecnica, morale e politica nei loro complessi rimandi. Non è forse un caso che si ricordi di Sartre verso la fine del suo percorso, quando anche per lei comincia a far problema la morale nelle sue implicazioni personali e sociali, nei suoi rapporti con l’azione politica, nei suoi raccordi con la banalità del male. 3. Autopresentazione e primato dell’apparire L’interrogazione sul significato del disumano è strettamente connessa a un’altra domanda speculare: cosa è specificamente umano? Non nel senso di un’essenza o di una natura biologica, ma di particolari caratteristiche o capacità a cui viene attribuito un valore paradigmatico di eccellenza, tolte le quali, il volto dell’umano sembra diventare irriconoscibile, perdere la propria dignità o addirittura perdersi nei meandri del male. La risposta a tale domanda è dunque il frutto di un giudizio di valore. Per Arendt questi tratti umani caratteristici si esplicitano prioritariamente nello spazio pubblico, attraverso la manifestazione di sé agli altri con atti e parole, ma anche nella solitudine del privato con l’esercizio del pensiero e del giudizio 125 MARA MELETTI BERTOLINI che si mettono poi alla prova confrontandosi con la pluralità e la diversità delle opinioni. Rinunciare a questo significa per Arendt uscire dall’ambito propriamente umano della comunicazione e della valutazione, per chiudersi nella sfera utilitaristica dei bisogni e della sopravvivenza, in una parola passare dall’orizzonte della libertà a quello della necessità naturale. Questo è quanto è stato drammaticamente sperimentato col totalitarismo, basti pensare al paradigmatico esempio del campo di concentramento, in cui l’individuo ridotto all’isolamento e al silenzio, viene catturato dalla sola necessità materiale della conservazione di sé. Al fine di precisare il volto del disumano ritengo importante riprendere il tema prettamente arendtiano del valore dell’apparenza8, da lei coniugato anche nel senso politico del rendersi visibili nello spazio pubblico. Si è parlato giustamente nel suo caso di un’«etica della visibilità»9, e il pensiero non può non correre a un confronto con l’analisi sartriana dello sguardo ne L’Essere e il Nulla. Sarà un’ulteriore occasione per cogliere il volto del disumano nei nostri autori, seguendo il comune tema della visibilità, lungo il filo conduttore della percezione visiva, del vedere e dell’essere visti come operazioni paradigmatiche nella relazione con l’alterità. Ancora una volta riemergono comuni radici nella Fenomenologia, ma con una differente declinazione. In riferimento a questo ritengo particolarmente significativa la distinzione operata ne La vita della mente tra autoesibizione (self-display) e autopresentazione (self-presentation), parallela alla distinzione tra anima e mente 10. La prima, comune a uomini e animali, si riferisce all’espressione della “vita dell’anima” così come si manifesta nell’immediatezza corporea di gesti, mimica, sensazioni. La seconda è la funzione principale della “vita della mente”, si articola in azioni, pensieri, parole e discorsi; si tratta di un modo di apparire prettamente umano, perché solo gli uomini possono autopresentarsi con atti e parole, solo ad essi è possibile «scegliere come apparire agli altri»11, smarcandosi dalla naturalità. L’autopresentazione è dunque l’operazione che presiede alla vita pubblica, quella in cui si valuta cosa far vedere e cosa nascondere, quella in cui meglio può affermarsi la propria libera individualità. Arendt tiene a sottolineare che essa «non costituisce in nulla la manifestazione esterna di una 8 Cfr. H. ARENDT, The Life of the Mind, Hàrcourt Brace Jovanovich, New York 1978 (trad. it. La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987); le citazioni si riferiscono alla nuova edizione del 2009, trad. di G. Zanetti, edizione italiana a cura di A. Dal Lago. Il riferimento è al capitolo primo, intitolato L’apparenza. 9 B. ASSY, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, prefazione di A. Heller, Introduzione di S. Forti, trad. it. e cura di E. Valtellina, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 62-63. 10 ARENDT, La vita della mente, cit., pp. 111 ss. 11 Ivi, p. 115. 126 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO disposizione interiore»12. In tal modo l’autrice si sbarazza di ogni espressivismo del vissuto psichico, di ogni retorica dell’immediatezza della vita interiore, per dare la priorità alla scelta, mediata dal pensiero, di come apparire agli altri, porta d’ingresso allo spazio pubblico assimilata metaforicamente all’ingresso in un palcoscenico, ben diversa dalla spontanea scelta d’essere sartriana. Arendt valorizza questo deliberato mettersi in scena, esalta questa modalità dell’apparire mediata da pensiero e giudizio, che fa riferimento alla complementare presenza di un pubblico di spettatori. L’esercizio di questa dinamica permette di “prendere posto nel mondo”, di “mettere radici” in esso, e costituisce l’unico possibile baluardo contro il male e l’indifferenza morale. Contro ogni espressivismo del gesto corporeo, contro ogni esaltazione di ciò che avviene nell’irriflesso o nell’inconscio – nonostante persista la sua ammirazione per M. Merleau-Ponty13 – valorizza ciò che avviene nella luce del pubblico. Arendt utilizza la percezione visiva, con la sua dinamica vedere/essere visto, attore/spettatore, per articolare la vita pubblica e la costituzione di un “mondo comune”, mettendo in risalto le potenzialità della comunicazione discorsiva nella pluralità, come alternativa politica al conflitto e alla violenza. Il nostro stesso senso della realtà è assicurato dal fatto di appartenere a un mondo plurale di apparenze, in cui ogni agente è nello stesso tempo soggetto e oggetto, essere percipiente e, nello stesso tempo, percepito. La rivalutazione dello spazio dell’apparenza va di pari passo con la valorizzazione dell’interazione: gli esseri umani possono agire e parlare nella misura in cui appaiono agli altri, vedono e sono visti. Questa è la precondizione di ogni tipo di relazione intersoggettiva. Come è noto nell’analisi sartriana dello sguardo emergono significati molto diversi: guardare significa oggettivare, l’apparire dell’altro è un processo subìto e alienante, l’esser guardato è un’invasione di campo che fa emergere a consapevolezza la propria trasformazione in cosa, con i relativi effetti morali distorcenti della vergogna e della malafede, come forme di assoggettamento dell’individuo all’alterità. Basta pensare ai gesti rigidi del cameriere che cerca di identificarsi nel suo ruolo che Sartre propone come esempio di inautenticità, per intuire la differenza con la posizione arendtiana in cui il mostrarsi nella luce pubblica è al contrario la pratica fondamentale 12 Ibidem. Il filosofo è più volte citato in La vita nella mente, cfr. in particolare pp. 107-119: «Merleau-Ponty, l’unico filosofo a me noto che abbia tentato non solo di rendere conto della struttura organica della esistenza umana, ma anche di avventurarsi in tutta serietà nell’impresa di una “filosofia della carne”». Arendt, tuttavia, ne critica l’identificazione tra mente e corpo, rivendicando l’autonomia della vita mentale: «proprio l’assenza di tali chiasmi o incroci costituisce l’aspetto decisivo dei fenomeni spirituali» (ivi, p. 114). 13 127 MARA MELETTI BERTOLINI per verificare la realtà della propria esperienza, maturare la propria singolarità, costituirsi come persona morale responsabile. «La singolarità di ogni individuo non si dà in modo solipsistico. È evidente nella Arendt che chi siamo (who we are) si costituisce nello spazio pubblico dell’apparenza»14. L’autopresentazione arendtiana focalizza l’attenzione non sul singolo modo d’essere dell’individuo – il «progetto fondamentale» de L’Essere e il Nulla –, non sulla spontaneità vitale irriflessa, ma sul progetto pensato e esaminato di come apparire agli altri. L’autopresentazione sottopone l’esperienza spontanea vissuta a una vera e propria “trasfigurazione”, termine assai forte, che sta a indicare il ruolo incisivo da Arendt assegnato a pensiero e giudizio nel dar forma alla propria immagine pubblica. In tal modo il disumano (indifferenza morale e valutativa) nell’indagine arendtiana, pur mantenendo radici morali personali, acquista una valenza precisa anche nel contesto sociopolitico. Violenza, oppressione, menzogna sono dinamiche sempre possibili – i totalitarismi novecenteschi hanno inventato tragiche innovazioni in questo campo – e sono oggetto di duplice indagine morale e politica; esse costituiscono una patologia delle dinamiche pubbliche, una degenerazione che non esime dalla ricerca di forme di azione differente. Viene così sconfessato ogni mito dell’autenticità, ogni riferimento a improbabili destini ontologici, mentre nell’orizzonte sartriano violenza e alienazione assumono spesso il significato di eventi ontologici prima ancora che storici 15. 4. Scelta e pensiero: due volti dell’impegno morale Quali condizioni interne e esterne avviano alla degenerazione dell’umano? Quale dialettica tra moralità individuale e sue ricadute nello spazio pubblico? Quale il ruolo del giudizio morale nell’interazione delle azioni umane? La vita etica deve essere correlata a un modo d’essere o a un modo di agire e di apparire? Queste sono domande che ritornano e sono oggetto di continui ripensamenti nei nostri due autori, occasione di decostruzione continua dei vari volti della coscienza morale nella tradizione filosofica, 14 ASSY, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, cit., p. 73. Come si evince dalla pubblicazione postuma degli inediti, non mancano in Sartre riflessioni critiche e prese di distanza dalla giovanile morale dell’autenticità – a volte persino convergenti con le critiche arendtiane – come dimostra una delle prime frasi con cui inizia il Quaderno I: «La moralità …deve essere scelta del mondo, non di sé […] Se cerchi l’autenticità per l’autenticità non sei più autentico» (J.-P. SARTRE, Quaderni per una morale (1947-1948), a cura di F. Scanzio, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 9). Per un esame delle riflessioni morali sartriane negli inediti e le relative variazioni cfr. SCANZIO, J.-P. Sartre: la morale introvabile, cit. 15 128 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO anche se in nessuno dei due il tema perviene a un’elaborazione sistematica. Si tratta piuttosto di riflessioni sull’esperienza morale che accompagnano costantemente la loro produzione. Le risposte, ancora una volta, virano verso direzioni differenti: per Arendt il male – una sorta di sostanzializzazione simbolica del disumano – viene posto in relazione all’assenza di pensiero e di valutazione, cifra della degenerazione della vita pubblica; per Sartre l’alienazione appare come un destino ontologico che finisce con il corrodere anche la sua fiducia giovanile nella ricerca di autenticità, la morale diventa una tensione “necessaria” ma concretamente “impossibile”, poiché lo slancio dell’azione libera si pietrifica nella serialità, imprigionandosi da sola. L’unico criterio morale sartriano diventa la scelta di essere sempre «dalla parte dell’oppresso» 16, poiché solo l’oppresso sperimenta nella sofferenza il volto del disumano. Ciò che alla fine si delinea è un’etica del militante che si schiera a favore di ogni minoranza, mentre Arendt si orienta in direzione di un’etica della visibilità, che afferma il ruolo incisivo di pensiero e giudizio, e la loro possibile ricaduta positiva sull’azione collettiva e sulla formazione personale. Un altro importante tassello della critica arendtiana all’ideale esistenzialistico dell’autenticità è rinvenibile nella sezione seconda de La vita della mente, dedicata a La volontà. Non a caso la stesura di questa sezione le richiede più tempo e fatica, in un continuo lavoro di decostruzione della storia di questa idea a partire dall’antichità, per arrivare sino a Nietzsche e Heidegger. Questa è la facoltà della mente più discussa, sconosciuta agli antichi, esaltata da alcuni moderni e negata da altri, quella legata a doppio filo agli enigmi della libertà. Essa è infatti la facoltà del futuro e della contingenza, e soprattutto si presta a essere la “facoltà di cominciamento” dotata di quel prezioso “potere di dare inizio” che tanto viene valorizzato da Arendt (e anche da Sartre, seppur messo in relazione all’attività nullificante della coscienza). Nessun dubbio 16 SARTRE, Quaderni per una morale, cit., p. 159. Cfr. anche p. 103: «noi ci definiamo attraverso la lotta contro il Male […] non come se si trattasse di un fratello nemico del quale in fondo non ci auguriamo la scomparsa, ma come fosse una vipera che noi vogliamo veramente schiacciare. È per questo che non conviene schierarsi dalla parte di coloro che giocano con il Male ma dalla parte di coloro che lo soffrono». Questa affermazione sarebbe condivisa da Arendt, che in modo analogo, seguendo un detto di Gesù, paragona il male a un’erbaccia da estirpare, contro quelle filosofie (cita Spinoza e Hegel) che fanno del male una forza negativa che muove la dialettica del divenire, trasformandolo così in un «potente fertilizzante» della storia. Ai fini di una migliore chiarificazione del male in base agli insegnamenti di Socrate, Arendt sostiene la validità del criterio socratico secondo il quale è fondamentale «decidere con chi io voglio stare assieme» (cfr. H. ARENDT, Alcune questioni di filosofia morale, Prefazione di S. Forte, Einaudi, Torino 2006-2015, lezione IV, pp. 89-91). 129 MARA MELETTI BERTOLINI che rivesta ai suoi occhi un interesse prioritario. Eppure alla fine della sezione dedicata alla volontà l’autrice si confessa delusa e frustrata, dopo le estenuanti analisi di quella che avrebbe dovuto essere “l’organo della libertà”, non può far altro che confermare l’infondatezza dell’“abisso” della libertà. Neppure gli uomini d’azione sono riusciti a sfuggire alle aporie della libertà: per giustificare l’inizio di un nuovo corso politico ricorrono ai racconti di fondazione, ossia interpretano (e occultano) il nuovo come una riformulazione perfezionata dell’antico. L’inizio di un nuovo corso resta enigmatico sia per il pensiero filosofico che per quello politico. Alla fine di questa sezione de La vita della mente l’autrice ripone le sue residue speranze per un rinnovamento dell’azione politica nell’indagine su una misconosciuta facoltà della mente, ossia l’attività del giudizio. Anche se la morte interromperà il suo progetto, risulta chiaro già dalla lettura delle prime due sezioni pubblicate, che l’autrice fa convergere le sue aspettative di rinnovamento morale e politico sul binomio pensiero-giudizio. L’attività della valutazione – in primo luogo la valutazione morale tra bene e male – viene additata come la più alta attività spirituale, la cui mancanza costituisce la disumanizzazione più pericolosa, quella che apre le porte alla banalità del male morale e politico, riconsegnando l’uomo alla sola vita naturale dei bisogni e degli interessi. In questo contesto si colloca la critica arendtiana alla mitizzazione esistenzialistica della scelta e a ogni concezione radicalmente decisoria dell’azione, tale da enfatizzare il ruolo della volontà, anteponendolo a quello di pensiero e giudizio. Tutto questo ci offre uno dei tratti più significativi per comprendere la differente chiave di lettura del disumano in Arendt e in Sartre. Dopo un lungo e faticoso corpo a corpo con le pagine dedicate alla volontà dagli autori più disparati, dopo essersi confrontata con diversi paradigmi interpretativi, Arendt prende atto delle ambiguità e delle incoerenze dei diversi volti della volontà consegnati dalla tradizione e viene colta da un dubbio che le apre nuove prospettive di ricerca: forse la volontà non è il motore principale dell’azione, forse questa concezione apparentemente innocua nasconde impensati risvolti, la supposta “custode della libertà” è solo presunta tale, o almeno non può esserlo da sola; forse si tratta solo di “una mezza verità”. Già le pagine di Agostino e Paolo hanno mostrato una volontà strutturalmente divisa in se stessa tra comando e obbedienza (voglio e non voglio), lacerata tra più opzioni in conflitto che si oppongono tra loro, una volontà frammentata che rischia di paralizzarsi da sola se non intervengono criteri esterni, incapace di dirimere la pluralità delle possibilità. Questa facoltà divisa «pare infine meno adeguata al compito di agire»17; forse, 17 H. ARENDT, Some Questions of Moral Philosophy, in «Social Research», vol. 61, n. 4, 1994, 130 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO paradossalmente, è proprio il pensiero a essere più adeguato al compito di decidere. Nell’accezione arendtiana il pensiero non è da confondere con l’intelligenza che presiede alla scienza e alla ricerca dell’utile, esso è un’attività solitaria di autoesame e autovalutazione secondo il modello socratico, la più inutile di tutte, e di per sé non ha direttamente a che fare con l’azione, che al contrario avviene nello spazio pubblico, tra gli altri. Il pensiero viene designato come “due-in-uno”, anch’esso dunque è segnato dalla divisione, ma si tratta di una divisione tra pari, di un dialogo con se stessi, paradigma della coscienza morale intesa come accordo con sé. Dati questi presupposti, perché mai il pensiero dovrebbe essere più adeguato all’azione della volontà stessa? Indubbiamente esso non può muovere all’azione direttamente – se non in casi-limite eccezionali –, esso promuove effetti morali nell’io18 non risultati nel mondo, tuttavia può svolgere un compito indiretto fondamentale: preparare il terreno all’attività del Giudizio, ossia alla valutazione delle situazioni particolari. Alla fine della sua indagine l’autrice invita a spostare l’attenzione sull’asse pensiero-giudizio; in questa nuova direzione, e nel contemporaneo abbandono dell’asse tradizionale volontà-azione già segnato da irrisolvibili antinomie, ripone le sue speranze di rinnovamento dell’azione politica. Al fine di comprendere il disumano, inteso come degenerazione morale che coinvolge insieme soggetto e mondo, credo sia assai significativo focalizzare le riflessioni arendtiane sul preteso ruolo di “arbitro” attribuito alla volontà da alcune storiche teorie morali. La concezione del libero arbitrio è ritenuto il capostipite di questo paradigma, ma non vi è dubbio che con questa critica Arendt intende colpire anche le mitizzazioni esistenzialistiche della scelta creatrice di valori 19. Il suo referente diretto non è Sartre – come abbiamo visto fare a proposito della violenza – bensì Nietzsche, con la sua teorizzazione della volontà di potenza, che accredita l’idea di volontà intesa come potere, sovrappiù di forza, vita, impulso creativo. A pp. 739-764 (trad. it., Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 86). Con questo titolo vengono pubblicati i manoscritti delle lezioni che Arendt tenne nel 1965 e 1966 rispettivamente alla New School for Social Research di New York e alla Chicago University, in cui sono anticipati molti temi ripresi ne La vita della mente. Oltre alla edizione citata, essi sono pubblicati anche in Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2004 e 2010. 18 Ho approfondito gli effetti morali del pensiero nel mio articolo Disumanizzazione politica e disumanizzazione morale. Gli effetti morali del pensiero in Hanna Arendt, in «La società degli individui», n. 64, anno XXII, 2019/1, pp. 30-40. 19 «Le concezioni marxiste ed esistenzialiste […] pretendono che l’uomo sia il produttore e l’artefice di se stesso […] si tratta, credo, dell’ultima delle fallacie metafisiche, corrispondente all’enfasi con cui l’epoca moderna ha insistito sulla volontà come sostituto del pensiero» (ARENDT, La vita della mente, cit., p. 310). 131 MARA MELETTI BERTOLINI dire il vero – osserva l’autrice – questo paradigma corrobora l’idea di una volontà come fonte spontanea che ci induce ad agire, ma non si preoccupa affatto di distinguere il bene dal male, o di svolgere il ruolo di arbitro tra di essi. Anzi Arendt si dice debitrice a Nietzsche della felice intuizione di una volontà-potere (potere di agire, “funzione di comando”), finalmente distinta dal paradigma della volontà-arbitro (“funzione di giudizio”): si tratta di una forza cieca che spinge ad agire, ma non indica affatto la direzione verso cui andare. L’approdo di questo complesso gioco di rimandi storico-critici – che meriterebbe un’analisi ben più approfondita – consiste nell’affermare che la volontà è un “falso arbitro”, che non ha le carte in regola per svolgere la funzione di giudice disinteressato nella decisione, essendo il suo operato troppo esposto al soggettivismo e all’arbitrarietà. Si è preteso che la volontà facesse da giudice tra ragioni e passioni, oppure tra ragioni diverse, ma la sua identificazione con il giudizio mostra ora tutti i suoi limiti; a quale attività della mente allora ricondurre quella capacità di valutazione del particolare che è tanto preziosa per l’azione individuale e collettiva? Quale potrà essere l’«autentico arbitro»20, capace di distinguere il bene dal male, di indicare in modo positivo e non arbitrario cosa è bene fare? Arendt suggerisce di spostare l’attenzione sul Giudizio, attività certo non meno misteriosa, “la più politica di tutte”, forse la più adeguata a trovare un equilibrio tra libertà individuale e pluralità, tra etica e politica, nell’esigenza di non abbandonare il giudizio morale e la vita sociale all’arbitrio individuale. L’attività valutante, per quanto trovi il suo presupposto nell’esercizio solitario del pensiero, non è mai del tutto soggettiva, si modifica nei rapporti con le persone, richiede di “pesare silenziosamente il giudizio degli altri”, di cercare il loro consenso, in una parola richiede di prendere in considerazione gli uomini al plurale, secondo il modello del giudizio di gusto kantiano, che Arendt ritiene adeguato alla trasposizione in campo morale. Per uscire dall’arbitrio dell’io, senza ricorrere a un universale astratto, occorre pensare insieme agli altri, confrontarsi nella pluralità, ricercare un consenso che si suppone nutrito di un “pensiero allargato”, che sa far visita al pensiero altrui. Non ci sono regole per valutare il particolare, solo esempi; il giudizio morale deve accontentarsi di una “validità rappresentativa” faticosamente costruita nel rischio e nella contingenza delle situazioni; l’esercizio della moralità non può prescindere dalla comunicazione con gli altri diversi da noi. Anche se solo abbozzata, la teoria arendtiana del giudizio supporta una concezione dell’impegno che si muove in una direzione diversa da quella sartriana: viene a dire che ogni impegno morale e politico, ogni azione anche 20 ARENDT, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 102. 132 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO collettiva non può essere solo slancio spontaneo, frutto del modo d’essere dell’agente e della sua scelta, ma presuppone l’esercizio della valutazione, che inizia sì nella solitudine della riflessione e dell’autovalutazione, ma si rafforza (o si smentisce) nel confronto intersoggettivo. Tutti i tratti teorici arendtiani che abbiamo preso in considerazione (critica all’affermazione della libertà attraverso la rivolta violenta; ruolo socio-politico dell’autopresentazione; pensiero valutante come presupposto dell’impegno) fanno parte di un’articolata presa di distanza di Arendt dalla filosofia dell’autenticità e dai suoi contraccolpi sulla teoria politica. L’autrice ricollega il pensiero sartriano sulla violenza a questa impostazione filosofica, anche se non mancano in Sartre stesso sforzi di articolare diversamente la conflittuale opposizione di per sé e in sé, si vedano ad esempio le condotte di appello e aiuto nei Cahiers pour une morale, oppure la relazione autorelettore in Qu’est-ce que la littérature?, o le analisi di Critique de la raison dialectique. Sartre stesso prende le distanze da molte sue posizioni giovanili, tenterà persino di ripensare criticamente quell’idea di creatività che Arendt gli contesta. Dopo L’Essere e il Nulla va alla ricerca di una soggettività che si mette in gioco nel mondo, non più autocentrata ma incarnata nell’opera21, la cui azione diventa proposta alla libertà degli altri, aperta agli infiniti rinvii che vorranno farne. Nonostante tutte queste evoluzioni del pensiero sartriano, Arendt non ha dubbi nel ravvisare le radici della sua giustificazione della rivolta violenta nell’esaltazione esistenzialistica della soggettività creatrice, dell’uomo artefice di sé, di cui sottolinea le pericolose derive politiche. Al netto delle diverse posizioni, possiamo osservare che in entrambi questi autori l’attenzione viene comunque catalizzata dalle possibili modalità della libertà creatrice del nuovo, e del suo modo di esplicarsi attraverso le diverse attività della mente (immaginazione 22, ricordo, pensiero, giudizio, emozioni). Per entrambi riconoscere la libertà propria e altrui comporta l’accettazione di uno spazio di imprevedibilità, contingenza, possibilità dello scacco come suoi ineliminabili corollari; in entrambi si sente pulsare l’esigenza di una teoria dell’azione collettiva che non sopprima la progettualità individuale. Sartre si chiederà: come istituire una prassi comune senza ricadere nella 21 Il riferimento alla letteratura è il luogo in cui Sartre riconosce la fecondità dell’opera come necessaria mediazione col mondo, come uscita dal cerchio magico dell’io e rinvio all’altro, in questo caso al lettore, che continuerà la vita dell’opera attraverso la lettura, scoprendo anche strati di senso sconosciuti all’autore stesso. 22 Arendt intende l’immaginazione in modo kantiano, come «la mia capacità di richiamare alla mente un’immagine di qualcosa che non è presente», quindi come capacità di riproduzione che sta alla base della dinamica attiva del pensare e ripensare, diversa dalla capacità di annullamento propria dell’immaginazione sartriana. 133 MARA MELETTI BERTOLINI serialità? Dinamismi liberi e creativi si istituzionalizzano nell’inerte e nel ripetitivo, la libertà definendosi sembra autoimprigionarsi in un “destino”, come se consumasse il proprio potenziale di innovazione. La ricerca di entrambi i nostri autori verte intorno ai processi di rinnovamento del senso, che per Sartre si configura spesso come perdita, serializzazione e scacco. Arendt non eccede certo in ottimismo: per quanto molto problematica, la sua fiducia nel pensiero-giudizio offre uno spazio maggiore alla costruzione politica, che resta sempre rischiosa e senza garanzie, imprevedibile, ma comunque aperta alla ricerca di positive possibilità di contrastare il disumano. Arendt è pronta a riconoscere la necessità di correttivi per stabilizzare il corso contingente degli eventi: si veda, ad esempio, il valore politico della promessa, del perdono, dei racconti di fondazione, espedienti pratici per arginare l’assoluta imprevedibilità e infondatezza degli atti liberi. Resta in lei una fiducia di fondo nell’efficacia politica della comunicazione, e in un possibile rinnovamento dell’azione che in Sartre viene meno, e conduce quasi sempre allo scacco. 5. Il postumano Vorrei terminare queste pagine con un richiamo al postumano, concetto problematico che si incontra sempre più spesso in ambito bioetico. Apparentemente sembrerebbe trattarsi di tutt’altro genere di significato rispetto a quelli considerati sinora (disumano e inumano). Così non è, poiché oggi è proprio la bioetica il luogo in cui riemergono tutti gli interrogativi novecenteschi sul rapporto tra morale e politica, tra libertà individuale e pluralismo che abbiamo incontrato nei nostri due autori. Tecnica, morale e politica si confrontano su nuovi scenari possibili in cui la scienza offre impensate possibilità: l’uomo in un futuro forse neppure tanto lontano potrebbe progettare se stesso in forme del tutto inedite rispetto al passato, sino a ipotizzare la creazione di una nuova specie, il postumano appunto. L’ultimo capitolo del Manuale di Bioetica di H.T. Engelhardt si intitola Riplasmare la natura umana: una virtù per stranieri morali, una responsabilità senza contenuto morale. Colpisce in questa proposta di bioetica secular, il ritorno di problematiche che si ricollegano alla filosofia esistenzialista del dopoguerra e alla sua concezione di libertà autopoietica (la stessa criticata da Arendt). «Ci siamo scoperti soli, privi di uno scopo e di un orientamento ultimo. Ci siamo accorti di poter contare solo sulle nostre forze» 23, così 23 H.T. ENGELHARDT JR., The Foundations of Bioethics, Oxford University Press Inc., New 134 DISUMANO, INUMANO E POSTUMANO Engelhardt esordisce nel suo capitolo conclusivo, e la sua affermazione è straordinariamente simile a “siamo soli e senza scuse” di sartriana memoria. L’autore stesso si richiama direttamente a A. Camus, ma corregge il suo messaggio pessimistico scrivendo che «diversamente da Sisifo, non siamo condannati a spingere eternamente il macigno sulla cima della montagna». Al collasso della tradizione morale Engelhardt reagisce col progetto di un nuovo orientamento culturale. La bioetica offre l’occasione per fronteggiare la sfida del pluralismo morale e si propone come etica pubblica minimale, avente lo scopo precipuo di permettere la convivenza pacifica degli “stranieri morali”. La libertà individuale viene affermata e difesa, ma comporta come corollario l’aperto riconoscimento dell’estraneità morale tra individui e gruppi diversi; la condizione di “stranieri morali” è razionalmente incomponibile e indicata come cifra caratterizzante il postmoderno. Per neutralizzare il ricorso alla forza e assicurare una pacifica convivenza, l’autore propone un’etica pubblica minimale basata sul consenso, unica fonte di autorità legittima per imporre regole formali, neutrali rispetto a qualsiasi contenuto morale sostanziale. La proposta di Engelhardt scinde radicalmente la bioetica pubblica, moralmente neutra, dall’ambito privato, dove l’individuo condivide la propria visione con gli “amici morali”; entro il suo gruppo può compiere liberamente le proprie scelte, e concordare regole che siano in linea con i propri valori. Niente di strano se le convinzioni proprie e degli “amici” circa le scottanti problematiche bioetiche (es.: pro o contro l’eutanasia) saranno discordanti da quelle di altri gruppi; si dovrà pacificamente accettare una legislazione in cui queste pratiche sono permesse, purché pubblicamente concordate. Ingiustificabile – e disumano – diventa l’imposizione di obblighi non suffragati dal consenso. Ritroviamo in quest’autore un acuto senso dell’autonomia dell’iniziativa umana, una celebrazione del suo ruolo creatore e della sua capacità di nuovi inizi, con le sue ebbrezze e i suoi rischi, che trovano ora applicazione in ambito bioetico, dove le nuove tecnologie e l’ingegneria genetica possono offrire impensate possibilità: «gli sbocchi possibili di questa situazione sono infiniti» 24. Nessun limite esterno – né divino, né naturale – potrà guidare questa inusitata creazione di nuovi volti dell’umano; decostruiti e svuotati i vincoli della tradizione morale, una nuova era si apre in cui l’autoprogettazione non investe solo l’azione, ma la stessa specie umana: York 1986, 1996² (trad. it. di S. Rini della seconda edizione rivista e modificata Manuale di bioetica, il Saggiatore, Milano 1999, p. 428). 24 Ivi, p. 431. 135 MARA MELETTI BERTOLINI possiamo chiederci se la nostra sia la natura migliore possibile e, se la troviamo manchevole, cercare dei modi per riplasmarla. Come persone [cioè in quanto individui in grado di esprimere il consenso 25], noi siamo in grado di trasformare il nostro corpo in oggetto del nostro giudizio e delle nostre manipolazioni. Potremmo anche scoprire in che cosa avremmo potuto essere migliori e riprogettare in modo conseguente la nostra realtà genetica 26. Il postumano segnerà anche l’inizio di una nuova era, ma come non vederne un’indubbia continuità con molte idee e sogni del passato? 25 Sul concetto di persona in Engelhardt rimando al mio saggio La persona tra universale e particolare: le diverse strategie di Hans Jonas e H. Tristram Engelhardt, in La persona come categoria bioetica. Prospettive umanistiche, a cura di M. Zanichelli, Presentazione di A. D’Aloia, FrancoAngeli, Milano 2019, pp. 145-161. 26 ENGELHARDT JR., Manuale di bioetica, cit., p. 430. 136 Francesco Pasquini Libertà e nichilismo. Uno spunto per leggere Sartre attraverso Nietzsche e forse Nietzsche attraverso Sartre ABSTRACT: In this article I aim to employ some categories of Nietzsche’s thought in order to investigate and explain some fundamental themes of Sartre’s early thought, and particularly to bring to light the nihilistic nature of the concept of freedom in Being and Nothingness. First of all, I explain how, for Sartre, human reality is nothing but pure and absolute freedom. Connecting this theme with Nietzsche’s concept of nihilism, I show how existentialism reveals itself to be deeply nihilistic, since it offers no transcendent foundation of values, given its position that values originate only with human freedom. On this basis, I show how the concepts of the will to power and the Übermensch help us better understand Sartre’s view of human reality as being pure and absolute freedom. I ask, in conclusion: is nihilism a humanism? KEYWORDS: Existentialism; Freedom; Nihilism; Humanism ABSTARCT: In questo articolo intendo mostrare come sia possibile impiegare categorie nietzschiane per chiarire e approfondire alcuni motivi centrali nel pensiero del primo Sartre, e in particolare per mettere in luce il volto nichilistico del concetto di libertà presente ne L’essere e il nulla. Innanzitutto, spiego come per Sartre l’uomo non sia altro che pura e assoluta libertà. Intrecciando questo tema con il concetto nietzschiano di nichilismo, dimostro allora come l’esistenzialismo si sveli un pensiero profondamente nichilistico, poiché non offre un fondamento trascendente ai valori di cui la libertà dell’uomo è in realtà unico luogo d’origine. Su questa base, mostro come i concetti di volontà di potenza e di oltre-uomo ci aiutino ad approfondire la concezione sartriana dell’uomo come pura e assoluta libertà. In conclusione propongo una riflessione attorno alla domanda: il nichilismo è un umanismo? KEYWORDS: Esistenzialismo; libertà; nichilismo; umanismo Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 137 FRANCESCO PASQUINI Im Anfang war die Tat! (Goethe, Faust) Introduzione Lo scopo di questo contributo è riflettere sulla possibilità di servirsi di alcune categorie della filosofia di Nietzsche per mettere in luce questioni che, sebbene non esplicitate, attraversano con forza il pensiero del primo Sartre, quella fase che ha come punto d’approdo L’essere e il nulla. Non vi sono certezze su quanto approfonditamente Sartre conoscesse Nietzsche, né tanto meno su quanto si sentisse in debito nei suoi confronti 1. A mio parere però, il fatto che egli (come dimostrerò) non abbia seguito sino in fondo il corso di alcuni pensieri, indica come probabilmente non abbia avuto occasione di assimilare alcuni dei motivi più profondi che attraversano la riflessione del filosofo di Röcken. Come lettore di Sartre, ritengo allora doveroso sforzarmi di sviluppare un’interpretazione della sua opera autenticamente filosofica che, lungi dal rimanere ferma alla lettera del testo, si impegni a forzarne i limiti, nel tentativo di proseguire idealmente il tracciato di quei sentieri interrotti, d’altronde sempre parte dell’eredità intellettuale di un grande pensatore. Il mio intento non è tanto quello di fare una comparazione fra due autori, individuando le analogie e le differenze con cui affrontano certe tematiche o andando a ricercare quanto uno abbia influenzato l’altro, sebbene una ricerca di questo tipo sia certamente di grande interesse e utilità da un punto di vista storico-filosofico. In questa sede mi propongo piuttosto di svolgere un lavoro concettuale e di mostrare come Nietzsche possa aiutarci a capire meglio Sarte, così come forse, anche Sartre possa retrospettivamente aiutarci a comprendere più a fondo Nietzsche. Per prima cosa, nel primo paragrafo, partendo dal saggio La liberté cartésienne, offro una ricostruzione della concezione sartriana della libertà, per poi andarne a ricercare i fondamenti teorici ne L’essere e il nulla. Quest’operazione è necessaria e funzionale all’argomentazione delle tesi che avanzerò nei 1 Su questo si veda: C. DAIGLE, Sartre and Nietzsche, in «Sartre Studies Intenational», vol. X, n. 2, 2014; EAD., Nietzsche and Sartre: Brothers in Arms, in B. O’DONOHOE, R. ELVETON, Sartre’s Second Century, Cambridge Scholars, Newcastle upon Tyne 2009; C. DAIGLE, Le nihilisme est-il un humanisme? Étude sur Nietzsche et Sartre, Presses Université Laval, Sainte-Foy 2006. Si vedano inoltre i tentativi di mettere in relazione il pensiero di Nietzsche con il teatro di Sartre: EAD., Le théâtre de Sartre: Morale de la liberté, morale nietzschéenne, in «Sartre Studies International», vol. XX, n. 2, 2014; J.-F. LOUETTE, Sartre contra Nietzsche, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble 1996. 138 LIBERTÀ E NICHILISMO paragrafi successivi. Infatti, in questa ricostruzione insisterò particolarmente sulla radicalità con cui Sartre concepisce l’uomo come pura e assoluta libertà, un motivo di cui mostrerò il rovescio nelle profonde implicazioni nichilistiche dell’esistenzialismo. Nel secondo paragrafo dimostro infatti come, intrecciando la riflessione sviluppata da Nietzsche sul tema del nichilismo con alcuni motivi ben sintetizzati da Sartre ne L’esistenzialismo è un umanismo, ci si trovi costretti a domandarci se non sia l’esistenzialismo un pensiero nichilistico 2. Nel terzo paragrafo, sperimento l’applicazione di categorie come la volontà di potenza e l’oltre-uomo3 alla concezione sartriana dell’uomo come libertà, mostrando quanto questi concetti siano capaci di dialogare fra loro e di chiarirsi a vicenda. Emergerà ancora più chiaramente rispetto al Paragrafo 2, quanto l’esistenzialismo sartriano e il nichilismo nietzschiano convergano e s’intreccino nel porre l’uomo al centro di un universo disincantato. Sorgerà spontanea la domanda: non rappresenta allora lo stesso nichilismo una forma di umanismo? 1. Una concezione radicale della libertà Ne La liberté cartésienne Sartre sostiene che, nel concepire la libertà di Dio come «una libertà assoluta che inventa la Ragione e il Bene e che non ha altri limiti che se stessa»4, Descartes – limitato solo dallo spirito del suo tempo – non avrebbe fatto altro che proiettare altrove l’intuizione riguardo l’essenza della libertà umana. Si tratta di una tesi molto interessante, giacché in effetti, quella di Descartes appare come la più radicale concezione della libertà divina di tutto il razionalismo: il suo Dio ha infatti la particolarità di essere creatore di quelle verità ritenute allora le più indiscutibili, ovvero le verità matematiche. 2 È evidente che non c’è un unico concetto di nichilismo e che il termine è stato via via utilizzato secondo significati differenti sia in filosofia che in letteratura. Nel presente contributo si fa riferimento a quello specifico significato del termine che troviamo sviluppato nell’opera di Nietzsche e che sarà ricostruito nel Paragrafo 2. Per uno sguardo sulla varietà di declinazioni del concetto di nichilismo e sulla loro collocazione storico-culturale si veda: F. VOLPI, Il nichilismo, Laterza, Bari 2009. 3 Impiego qui la traduzione del termine tedesco Übermensch introdotta da Vattimo (si veda ad es. G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 2007). 4 J.-P. SARTRE, La libertè cartésienne, in ID., Situation, I, Gallimard, Paris 1948 (trad. it. di C. Brentari, La libertè cartésienne. Dialogo sul libero arbitrio, Christian Marinotti, Milano 2007, p. 111). 139 FRANCESCO PASQUINI Vorrei soffermarmi per un momento su questo dettaglio. Infatti, anche se forse apparentemente lontano dal tema in questione, è fondamentale per il ragionamento che svilupperò in quest’articolo, e la sua importanza può essere chiarita mediante un rapido confronto con un altro filosofo dell’età moderna, come per esempio Leibniz. Al momento della creazione, il Dio di quest’ultimo si trova “costretto” a scegliere il mondo migliore tra quelli possibili. Essendo però tale costrizione di natura etica e non ontologica, la libertà che si addice a un essere perfetto sembrerebbe conservata nella sua interezza. Eppure, rispetto al Dio cartesiano, quello di Leibniz, oltre che vincolato da ragioni etiche, appare altresì sottoposto a una superiore necessità ontologica. I mondi possibili infatti non sono tali in quanto prodotto della sua volontà, ma solo in quanto virtualmente “già dati” poiché non implicanti contraddizione, poiché coerenti con un superiore sistema di verità logico-matematiche. Questo raffronto ci è utile per mettere in evidenza un punto fondamentale nella nostra argomentazione: se quella del Dio leibniziano è una libertà di scelta fra un ventaglio di possibilità “già date” e perciò indipendenti dalla sua volontà, quella del Dio cartesiano è piuttosto una libertà creatrice priva di riferimenti con cui confrontarsi, simile a quella di un artista che si rifiuta di seguire qualsiasi regola o scuola. Il Dio di Descartes disegna il proprio universo in base a regole che, se soltanto lo avesse voluto, avrebbero potuto essere diverse. Ecco perché Sartre, richiamandosi agli sforzi compiuti da Faust nel tradurre l’incipit del Vangelo di Giovanni 5, afferma che «questo razionalista dogmatico [Descartes] potrebbe dire non tanto, come Goethe, “all’inizio era il verbo”, ma “all’inizio era l’atto”» 6. D’altronde, la libertà cartesiana vede la propria natura definita dall’atto creatore più che dalla scelta, poiché ogni sua scelta, invece di esercitarsi su un insieme di alternative, si esercita in forma assoluta, sciolta da qualsiasi condizionamento. Da questo punto di vista le è propria un’affascinante dimensione artistico-creativa. Ora, questa divagazione ha in realtà molto a che fare con quanto accennato poc’anzi, e cioè con la curiosa tesi sartriana secondo cui, con «un fenomeno evidente di trasposizione e sublimazione» 7, Descartes avrebbe fatto della libertà divina lo specchio della libertà umana. Cartesio ci ha avvertiti che la libertà di Dio non è affatto più completa di quella dell’uomo e che l’una è immagine dell’altra. […]. Se egli ha concepito la libertà divina come simile in tutto alla propria libertà, è dunque da quest’ultima – così come l’avrebbe concepita 5 W. GOETHE, Faust, trad. it. di A. Casalegno, Garzanti, Milano 2008, pp. 90-91. J.-P. SARTRE, La libertè cartesienne, cit., p. 111. 7 Ivi, p. 109. 6 140 LIBERTÀ E NICHILISMO senza le pastoie del cattolicesimo e del dogmatismo – che egli prende le mosse quando descrive la libertà di Dio 8. Stretto fra gli angusti limiti culturali e politici della sua epoca, Descartes non avrebbe potuto far altro che proiettare su Dio l’intuizione di un’assoluta libertà che, in verità, definisce l’essere umano. Non è questa la sede per discutere fino a che punto una simile esegesi dell’opera di Descartes sia filologicamente corretta. Piuttosto vorrei mostrare come essa, nel suo accostare la libertà dell’uomo, non a quella di «Dio come di un Giove o di un Saturno» 9, bensì a quella di un Dio trascendente e onnipotente di matrice biblica, manifesti con evidenza la radicalità del pensiero sartriano. Di primo acchito infatti l’immagine di un Dio specchio della libertà umana tende quantomeno a suscitare qualche dubbio: come può la libertà dell’uomo essere assoluta e incondizionata tanto quanto quella divina? Come può corrispondere alla libertà di un Dio che crea l’intero universo, finanche le leggi che lo governano? Simili perplessità potrebbero far sorgere un quesito: forse che l’immagine di Sartre non debba venir presa alla lettera? A dire il vero, l’accostamento tra la libertà di Dio e quella dell’uomo non ha niente di metaforico e, per di più, i dubbi che solleva sono facilmente estinguibili andando a ricercare i fondamenti teorici del concetto sartriano di libertà ne L’essere e il nulla. Su questo vorrei soffermarmi nelle righe seguenti. Nella sua prima grande opera, Sartre muove dal tentativo di risolvere quello che considera il problema fondamentale a cui è giunto il pensiero moderno – la riduzione dell’esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano 10 –, problema di cui scopre la chiave operando una flessione ontologica dei concetti husserliani di fenomeno e di coscienza intenzionale. La riduzione dell’essere dell’apparizione all’apparire, pone infatti il problema dell’essere di questo apparire. È quindi necessario andare a ricercare l’essere transfenomenico dei due poli dell’esperienza: del fenomeno (l’oggetto conosciuto) e della coscienza intenzionale (il soggetto conoscente) 11. 8 Ivi, p. 108. R. DESCARTES, “Lettera a Mersenne del 15 aprile 1630”, in ID., Tutte le lettere, 16161650, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2005, p. 147. Sartre fa riferimento alla lettera in SARTRE, La liberté cartesienne, cit., p. 109. 10 J.-P. SARTRE, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943 (trad. it. di G. Del Bo., L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2008, p. 11). 11 Per un chiarimento delle tematiche presenti ne L’essere e il nulla si veda ad es.: S. GARDNER, Sartre’s Being and Nothingness. A Reader’s Guide, Continuum, New York 2009; J.S. CATALANO, Reading Sartre, Cambridge University Press, New York 2010; J.-M. 9 141 FRANCESCO PASQUINI Nelle pagine dell’Introduzione, Sartre dimostra come la coscienza non possa avere la struttura di una conoscenza di secondo grado – di una conoscenza di sé –, poiché infatti, se potesse essere conoscenza di una conoscenza (che a sua volta conosce un oggetto del mondo), dovremmo presupporre l’esser cosciente del primo termine della serie, ovvero l’esser cosciente della conoscenza di una conoscenza. Per questa ragione, la coscienza non può essere coscienza posizionale di se stessa. La coscienza è sempre diretta verso il mondo e “fuori di sé” nel mondo; è sempre «coscienza posizionale del mondo»12. Fin qui, seguiamo una riflessione che si muove all’interno di un solco tracciato dalla fenomenologia. A un certo punto però, Sartre compie un importante passo in direzione di una riflessione di natura ontologica, andando a indagare l’essere della coscienza. Dimostrato come il carattere nontetico della coscienza costituisca «il solo modo di esistere per una coscienza di qualche cosa»13, viene a porsi la questione relativa all’esistenza stessa della coscienza. La soluzione a tale questione rappresenta la fine dei preamboli e il vero punto di partenza nella riflessione de L’essere e il nulla. Se la coscienza non può che esistere come coscienza non-posizionale di sé, dobbiamo ammettere che la coscienza “si trae da sé”, o per meglio dire, “è da sé”. Il che significa che la coscienza non viene prodotta come esemplare particolare di una possibilità astratta, ma che, invece, scaturendo dal seno dell’essere, crea e sostiene la sua essenza, cioè l’ordinamento sintetico delle sue possibilità 14. Sartre ne deduce che c’è un essere della coscienza che è diverso dall’essere del fenomeno; un essere della coscienza che è diverso dall’essere delle cose del mondo verso cui la coscienza è costitutivo trascendimento. Scrive Sartre in queste pagine: «la coscienza è anteriore al nulla e ‘sgorga’ dall’essere»15. Che cosa significa? La coscienza non è creata da qualcos’altro, ma neppure si può dire che sia causa sui, poiché non presenta la struttura riflessa di ciò che pone se stesso. In questo senso, è facile capire perché Sartre MOUILLIE, J.-P. NARBOUX (a cura di), Sartre. L’être et le néant. Nouvelles Lectures, Les Belles Lettres, Paris 2015. Per un approfondimento e un inserimento de L’essere e il nulla all’interno dello sviluppo del pensiero di Sartre si veda ad es. M. BARALE, Filosofia come esperienza trascendentale, Le Monnier, Firenze 1977. 12 SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 18. 13 Ivi, p. 20. 14 Ivi, p. 21. 15 Ivi, p. 22. 142 LIBERTÀ E NICHILISMO ricorra alla metaforica espressione di una coscienza che «‘sgorga’ dall’essere». Più difficile invece, è decifrare la formula secondo cui «la coscienza è anteriore al nulla». La coscienza, nel suo essere costitutivamente trascendimento verso il modo, è trascendimento verso quell’essere denso che caratterizza le cose e che Sartre chiama “essere in sé”. Ora, il modello ontologico che egli ritiene adeguato per determinare una siffatta coscienza (questa la chiave di volta di tutto L’essere e il nulla) non è quello dell’essere in sé – come vorrebbe una concezione sostanzialistica dell’io – bensì quello del nulla, inteso come un essere che è nullificazione dell’essere in sé. Questo essere che è nullificazione, ovvero trascendimento, dell’essere che caratterizza le cose, è chiamato da Sartre “esser per sé” ed è appunto la coscienza, «la dimensione d’essere transfenomenica del soggetto»16. Così, nell’idea dell’esser per sé, Sartre scopre il modello ontologico adeguato a rappresentare quell’aspetto della realtà che, in un modo o in un altro, appare sempre irriducibile alla realtà delle cose: l’essere umano. Se le cose sono al modo dell’essere in sé – di un essere che è ciò che è –, l’uomo invece è al modo dell’esser per sé – di un essere che è ciò che non è e che non è ciò che è –, ovvero di un essere sfuggente a ogni reificante definizione che pretenda di stabilirne l’essenza una volta per tutte. L’indagine sulla struttura della coscienza finisce così per rivelare nell’uomo quella frattura, capace di aprire un varco in seno a un essere altrimenti dominato da un cieco determinismo. Sono questi gli elementi teorici che permettono di capire in che modo l’uomo sia per Sartre un nulla, e così pura possibilità di determinazione, pura libertà. Possiamo allora tornare alla domanda che ha motivato questo excursus su L’Essere e il nulla: come può la libertà umana essere assoluta proprio come quella divina? Mentre Dio al momento della creazione non incontra alcun limite, la libertà dell’uomo non può che scontrarsi continuamente con un mondo già fatto, ovvero con l’in sé. La sua libertà differisce da quella di Dio, non per interna costituzione, ma per il fatto di esercitarsi sempre sullo sfondo di una realtà che le fa resistenza, per il fatto cioè di essere sempre e inevitabilmente libertà in situazione. Dopotutto, «bisogna ‘obbedire alla natura per comandarla’, cioè inserire la mia azione nelle maglie del determinismo. Molto più di quanto non sembri ‘farsi’, l’uomo sembra ‘esser fatto’» 17. Ma non c’è allora un’evidente contraddizione in una simile idea di libertà, nel porla cioè come assoluta e in situazione al contempo? 16 17 Ivi, p. 17. Ivi, p. 552. 143 FRANCESCO PASQUINI Tutte queste osservazioni ci rimandano dunque a un problema difficile: quello dei rapporti tra la fatticità e la libertà. Esse raggiungono d’altronde le obiezioni concrete che non si maschera di farci: posso scegliere di essere alto se sono piccolo? di avere due braccia se sono monco? ecc. che concernono appunto i ‘limiti’ che la mia situazione di fatto porterebbe alla mia libera scelta di me-stesso. Conviene dunque esaminare l’altro aspetto della libertà, il suo ‘rovescio’: la sua relazione con la fatticità18. Non c’è dubbio che il mondo rappresenti per la libertà l’imprescindibile sfondo su cui si trova costretta a esercitarsi. Tuttavia, è pur sempre l’uomo che nel suo libero progettarsi sceglie anche il proprio ostacolo, trovandosi così a confrontarsi con quella dimensione della realtà concernente le cose, e che dunque, diversamente da lui, è inesorabilmente ciò che è, inesorabilmente così e non altrimenti. Gli ostacoli, che l’uomo si trova di fronte e che incontra come un limite rispetto alla propria libertà, fanno parte della scelta di perseguire il proprio progetto originario. Una roccia si presenta come ostacolo, non in quanto tale, ma solo in relazione alla decisione di scalarla o di passarvi oltre. Ciò significa che, sebbene il coefficiente di avversità che sperimentiamo in qualcosa dipenda dall’esser così e non altrimenti delle cose, è pur sempre a causa del nostro libero progettarci che ne incontriamo la resistenza. Il mondo, che in quanto tale si limita ad esser semplicemente ciò che è, assume un coefficiente di avversità per opera del per sé, che con ogni sua scelta, si trova a trasformare le cose in forza d’attrito. È quello che Sartre chiama il «paradosso della libertà»19: Non c’è libertà che in una situazione e non c’è situazione che mediante la libertà. La realtà umana incontra dappertutto resistenze e ostacoli che non ha creato; ma queste resistenze e questi ostacoli non hanno senso che mediante la libera scelta, che la realtà umana è20. In questo paradosso abbiamo così trovato la risposta alla nostra domanda. Abbiamo infatti dimostrato come la libertà dell’uomo, di per sé, non sia affatto diversa o in difetto rispetto a quella del Dio pensato da Descartes; semplicemente l’uomo, per poter esser tale, deve accettare il proprio esser gettato nel mondo, e così il carattere situazionale della propria libertà. Adesso, si tratta di mostrare come l’essere umano, libero tanto quanto Dio ma, diversamente da questi, collocato nel mondo, abbia da pagare a caro prezzo il suo essere niente più e niente meno che pura e assoluta libertà. 18 Ibidem. Ivi, p. 560. 20 Ibidem. 19 144 LIBERTÀ E NICHILISMO 2. Il rovescio della medaglia: l’esistenzialismo è nichilismo? In quella celebre conferenza tenutasi nel ’45 a Parigi presso il Club Maintenant, poi pubblicata sotto il titolo L’existentialisme est un humanisme, Sartre risponde così alle accuse di pessimismo rivolte alla sua filosofia: Non c’è anzi dottrina più ottimista, perché il destino dell’uomo è nell’uomo stesso; né come un tentativo di scoraggiare l’uomo distogliendolo dall’operare, perché l’esistenzialismo gli dice che non si può riporre speranza se non nell’agire e che la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione. Di conseguenza, su questo piano, noi abbiamo a che fare con una morale dell’azione e dell’impegno 21. La leggerezza con cui Sartre connota di ottimismo il proprio pensiero, risulta certamente giustificabile, almeno in parte, dal contesto divulgativo in cui queste parole vengono pronunciate. Non c’è ombra di dubbio sul fatto che egli, meglio di chiunque altro, sia consapevole di non poter ridurre la propria riflessione a una filosofia dell’ottimismo. Eppure, insistendo nell’uso di un termine improprio, una certa forma di “ottimismo” è a mio parere effettivamente presente in Sartre proprio laddove appare meno giustificata. Ora, non si tratta di decidere dell’ottimismo o del pessimismo di un pensiero, poiché mi pare metodologicamente sbagliato, persino inutile e dannoso, applicare categorie come queste alla filosofia. Il pensiero non ha il dovere di essere ottimista, né tanto meno pessimista, anzi, non ha alcun dovere, se non quello di seguire coerentemente il proprio corso, e al più di fornirci strumenti intellettuali adeguati a ciò che si pone il fine di comprendere. Non intendo perciò svelare un qualche pessimismo nascosto in Sartre, ma soltanto spiegare come, a mio avviso, quella concezione della libertà, e così dell’uomo, analizzata nel precedente paragrafo, contenga delle implicazioni drammatiche su cui Sartre non ha riflettuto abbastanza e che spetta perciò a noi interpreti il compito di portare a compimento. Ma torniamo ora al testo della conferenza suddetta, e vediamo in che modo Sartre ponga l’ateismo alla base del proprio esistenzialismo: Così non c’è una natura umana, poiché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che 21 J.-P. SARTRE, L’existentialisme est un humanisme, Gallimard, Paris 1948 (trad. it. di G. Mursia Re L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 60). 145 FRANCESCO PASQUINI ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo 22. L’assenza di un Dio – il cui concetto implica fra l’altro la contraddizione della coincidenza fra in sé e per sé – fa sì che la natura dell’uomo non sia decisa a priori, ma che egli si configuri piuttosto come quell’essere la cui esistenza precede l’essenza, ossia come quell’essere la cui essenza non è stabilita a priori secondo natura, bensì continuamente (ri)definita mediante il suo stesso agire. Possiamo dunque notare come l’esistenzialismo sartriano si collochi nell’orizzonte di un pensiero ateo che, stando alle prime pagine de L’essere e il Nulla, assume come una grande conquista della modernità la liberazione dai «‘retromondi occulti’ di cui parlava Nietzsche»23. I “retromondi occulti” a cui Sartre allude, costituiscono un chiaro riferimento al concetto di Hinterwelt sviluppato da Nietzsche nello Zarathustra 24, così come altrove sotto altri nomi. Ora, quello di “retromondo” è per Nietzsche un concetto polisenso, come Sartre mostra di cogliere sapendolo riapplicare a ciò che considera la grande svolta filosofica compiuta dalla fenomenologia husserliana: la scoperta che «l’apparenza rinvia alla serie completa delle apparenze e non a un reale nascosto che verrebbe ad assorbire per sé tutto l’essere dell’esistente»25. Nel suo ampio spettro di significati, l’idea nietzschiana di “retromondo” ha a che fare con una tendenza profondamente radicata nella cultura occidentale, quella cioè di interpretare la realtà mondana come rinviante a una dimensione più profonda e più vera, capace di farne da fondamento. Il concetto di Hinterwelt rappresenta così un modo diverso per declinare ciò che Nietzsche racchiude altrove nell’idea di Dio, anch’essa «rappresentazione-guida che sta per il ‘soprasensible’ in generale e per le sue diverse interpretazioni, per gli ‘ideali’ e le ‘norme’, per i ‘principi’ e le ‘regole’, per i ‘fini’ e i ‘valori’ instaurati ‘sopra’ l’ente per dare all’ente nel suo insieme uno scopo, un ordine e – come in breve si dice – per ‘dargli un senso’»26. 22 Ivi, pp. 28-29. SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 12. 24 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Per le opere di Nietzsche si fa riferimento all’edizione critica: F. NIETZSCHE, Werke Kritische Gesamtausgabe, herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, De Gruyter, Berlin-New York 1967- (edizione italiana: Opere di Friedrich Nietzsche, edizione critica a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1964-). Nel caso delle opere aforistiche si riporta solo il numero dell’aforisma contrassegnato dal simbolo §. Nel caso delle opere non aforistiche si riporta invece il numero di pagina. Nel caso dei frammenti postumi si riporta l’anno del frammento seguito dalla classificazione standard in uso nelle edizioni Colli-Montinari tedesca e italiana. 25 SARTRE, L’essere e il nulla, cit., pp. 11-12. 26 M. HEIDEGGER, Der europäische Nihilismus, in ID., Nietzsche, Band II, Günter Neske Pfullingen, Stuttgart 1961 (trad. it. di F. Volpi, Il nichilismo europeo, in Nietzsche, 23 146 LIBERTÀ E NICHILISMO L’archetipo della tendenza a porre “un mondo dietro al mondo” è costituito per Nietzsche da Platone, che per primo avrebbe decretato l’insufficienza ontologica dell’empirico, degradandolo a una forma di realtà apparente opposta a un mondo vero e fondante: il mondo delle idee. In seguito, il cristianesimo – platonismo per il popolo27– avrebbe contribuito, parallelamente allo sviluppo di una filosofia ormai segnata in maniera indelebile dal platonismo, a innervare l’intera cultura occidentale di questa forma di “ascetismo”: la tendenza alla fuga verso una realtà trascendente depositaria della verità. Essa, ci spiega Nietzsche, deriva da un originario horror vacui: il raccapriccio provato dall’uomo di fronte a un’esistenza di cui percepisce la fondamentale mancanza di significato e a cui tenta di porre rimedio con la filosofia o la religione, entrambi sforzi per dare alla realtà un fondamento, un senso28. La tendenza “ascetica” a concepire la realtà come fondantesi su un altro mondo, su un al di là, implica però la fede in un insieme di valori considerati trascendenti, fra cui figura come centrale quello della verità. Il valore della verità, «quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina» 29, fa per Nietzsche da motore in un processo dialettico che conduce infine la cultura europea a ribaltare in radicale scetticismo la tendenza alla ricerca di un “mondo vero” nascosto dietro al “mondo apparente”. Ciò accade, perché tale tendenza si sviluppa all’insegna di un ideale di verità che, perseguito scrupolosamente, impone un lento ma inesorabile processo di razionalizzazione che finisce per mettere in questione i propri stessi fondamenti. L’ascetica tensione verso la trascendenza, verso Dio, finisce così per generare quella critica condizione storico-antropologica di disincanto che Nietzsche denomina nichilismo, e che possiamo vedere racchiusa nella metafora della “morte di Dio” 30. La celebre parabola dell’uomo folle, raccontata Adelphi, Milano 1994, pp. 564-565). 27 F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, p. 4. 28 Ci si potrebbe domandare se una simile tendenza non presenti qualche affinità con la malafede sartriana, il che potrebbe fungere da spunto per un altro lavoro. Infatti, per Sartre l’uomo tenta costitutivamente di rifuggire il suo esser libero, che è fonte di quell’angoscia di fondo derivante dall’originaria consapevolezza della propria responsabilità. L’uomo tenta dunque di nascondere a se stesso la consapevolezza di non essere al modo delle cose, ma al modo dell’essere per sé, al modo cioè di un essere che è fondamento del suo nulla e così inutile sforzo di fondazione dell’essere. Forse allora è possibile rintracciarvi un’analogia con il concetto nietzschiano di nichilismo reattivo, inteso come fuga dalla radicale mancanza di senso dell’esistenza. 29 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, § 344. 30 Per una ricostruzione dell’evoluzione del concetto di nichilismo nel pensiero di Nietzsche si veda E. KUHN, Friedrich Nietzsches Philosophie des europäischen Nihilismus, De Gruyter, 147 FRANCESCO PASQUINI nell’aforisma 125 de La gaia scienza, narra in toni drammatici lo smarrimento dell’uomo che prende consapevolezza di aver ucciso Dio e di aver eroso così i fondamenti di una millenaria tradizione metafisica: Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che noi facemmo per scioglier questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse ancora vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? – Non si è fatto più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte? Fra le conseguenze della crisi nichilistica descritta da Nietzsche in questo passo, è necessario adesso mettere a fuoco quella che concerne più da vicino il contenuto di quest’articolo: la perdita di fondamento dei valori. Con la “morte di Dio” – intesa lato sensu come metafora del maturato scetticismo verso la possibilità di una fondazione in senso forte della realtà – viene infatti meno la possibilità di trovare un fondamento trascendente, e così assoluto, dei valori. Torniamo adesso a Sartre, forti dell’arricchimento concettuale procuratoci da questa parentesi su Nietzsche. Nel Paragrafo 1, abbiamo chiarito nel dettaglio in che modo la libertà umana sia letteralmente assoluta, tanto da potersi rispecchiare in quella del Dio cartesiano. Questo significa però, che è l’uomo a dover prendere su di sé un peso ormai non più scaricabile sulle spalle di Dio: il peso di «una libertà assoluta che inventa la Ragione e il Bene e che non ha altri limiti che se stessa» 31. Ciò fa dell’uomo l’unico garante del bene e del male, poiché unico possibile luogo d’origine di un punto di vista sul mondo che, gli piaccia o no, non può non assumere. Se infatti egli è l’essere che si definisce progettandosi, ogni sua scelta implica un’originaria presa di posizione che, al contempo, impegna per altro l’umanità intera decidendo della sua immagine. Berlin 1992. Più in generale, per un inquadramento del concetto di nichilismo e degli altri motivi nietzschiani trattati in quest’articolo nel pensiero dell’autore si veda: M. MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche, a cura di G. Campioni, Adelphi, Milano 1999; G. VATTIMO, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 2011; C. GENTILI, Nietzsche, il Mulino, Bologna 2001; G. FIGAL, Nietzsche. Eine philosophische Einführung, Reclam, Stuttgart 1999 (trad. it. di A.M. Lossi, Nietzsche. Un ritratto filosofico, Donzelli, Roma 2002). 31 SARTRE, La libertè cartesienne, cit., p. 111. 148 LIBERTÀ E NICHILISMO Ma se non c’è un Dio a fare da punto di vista assoluto sul mondo, un Dio i cui dettami siano giusti per definizione, svanisce per l’uomo la possibilità di appoggiarsi su un’assiologia definita a priori. In quanto esser per sé, egli è non solo ontologicamente costretto a prender posizione, ma è, per di più, costretto a farlo senza che alcuna “legge morale” possa a priori illuminargli la giusta via da seguire. D’altronde, se i valori vengono al mondo per mezzo di quella presa di posizione che è l’agire stesso, allora essi vengono al mondo soltanto dopo l’agire, poiché il loro potenziale orientativo si attiva una volta che la scelta è già stata fatta e l’azione compiuta. È questa l’altra faccia della medaglia, di cui Sartre ci parla ne L’esistenzialismo è un umanismo: È molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo. […]. Se, d’altro canto, Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Siamo soli senza scuse. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a esser libero32. La condanna dell’uomo alla libertà, è la condanna a trovarsi libero senza che gli sia stato chiesto se non preferisca piuttosto esser servo. Tale condanna gli impone il gravoso compito di doversi continuamente impegnare in prima persona nella creazione di valori che perdono così ogni carattere di assolutezza. Ci troviamo di fronte ad un problema di cui Nietzsche, più di chiunque altro, ha avuto la capacità di trasmetterci la drammaticità, ma che Sartre pone in maniera altrettanto forte33. Per Nietzsche, la “morte di Dio” va di pari passo con la presa di consapevolezza del carattere antropomorfico di ogni sistema di valori, alla quale egli è condotto da una riflessione genealogico-decostruittiva, che è riflesso del maturato scetticismo della cultura occidentale. Dunque, la genealogia – l’innovativa arma che deve essere impugnata dalla critica filosofica – non lascia scampo: ci costringe a fare i conti con il rinvenuto carattere umano 32 ID., L’esistenzialismo è un umanismo, cit., pp. 40-41. Su questo tema cfr. V. FRANCO, Etiche possibili: il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Donzelli, Roma 1996, dove la riflessione di Nietzsche e di Sartre viene inserita all’interno di un’ampia costellazione di autori che si trovano a confrontarsi con i problemi derivanti dalla crisi apertasi con la “morte di Dio”. 33 149 FRANCESCO PASQUINI troppo umano dei valori. Ma nella riflessione di Sartre, questa scoperta assume una forma in qualche modo ancora più radicale, perché derivata, non da una presa di consapevolezza di carattere storico, bensì in quanto conseguenza della stessa costituzione ontologica dell’uomo come essere che da sé sceglie e definisce la propria essenza. Leggendo il concetto di nichilismo in quel modo profondo che Nietzsche ci ha insegnato, risulta dunque chiaro come la consapevolezza di non poter dare fondamento ai valori ricercati dall’uomo, e invero da lui creati, sia qualcosa a cui l’esistenzialista non può sfuggire se non per malafede. L’esistenzialismo sartriano si rivela così un pensiero inequivocabilmente nichilistico. 3. Oltre l’uomo, nient’altro che l’uomo Nel Paragrafo 1 abbiamo insistito sulla dimensione artistico-creativa caratterizzante la libertà del Dio cartesiano, per poi mostrare, seguendo Sartre, come tale dimensione attraversi in verità la stessa libertà umana. Proviamo adesso ad approfondire quest’aspetto alla luce di quanto visto poco fa nel Paragrafo 2, andando ad applicarvi le categorie nietzschiane di volontà di potenza e di oltre-uomo. Ne L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre propone il seguente paragone tra morale ed estetica: Bisogna paragonare la scelta morale alla costruzione di una opera d’arte. […]. È chiaro che non c’è un quadro determinato da fare, che l’artista si impegna nella costruzione del suo quadro e che il quadro da fare è precisamente il quadro che egli avrà fatto; è chiaro che non ci sono valori estetici a priori, ma che ci sono valori che si colgono in seguito, nell’armonia del quadro, nei rapporti che ci sono tra la volontà creatrice e il risultato. […]. L’arte e la morale hanno in comune la creazione e l’invenzione. Non possiamo decidere a priori su ciò che si deve fare 34. In tale accostamento trova conferma tutta la riflessione sul concetto di libertà elaborata nei precedenti paragrafi. In particolare, vediamo qui sintetizzata l’idea di una libertà creativa, che è stata definita nel Paragrafo 1 sulla base del saggio La liberté cartésienne: «una libertà assoluta che inventa la Ragione e il Bene e che non ha altri limiti che se stessa» 35. 34 35 SARTRE, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., pp. 70-72. ID., La libertè cartesienne, cit., p. 111. 150 LIBERTÀ E NICHILISMO Intendo adesso mostrare come, quest’uomo sartriano che sul nichilistico sfondo di un universo senza Dio e privo di riferimenti trascendenti trova in ogni sua azione l’occasione per creare un orizzonte di valori, presenti affinità con il concetto nietzschiano di volontà di potenza. Ci si potrebbe domandare in che modo Nietzsche, spesso appiattito dal senso comune fino ad esser considerato il teorico della nullità del valore, possa venir accostato a Sartre su questo punto. Per capire come ciò sia possibile, è necessario svuotare il concetto di volontà di potenza di tutte le interpretazioni banalizzanti che, rimanendo ferme alla lettera del testo, finiscono per farne una volgare teoria della violenza e della sopraffazione. Una più attenta lettura chiarisce infatti come questo concetto contenga un significato ben più profondo e autenticamente filosofico 36. Come complessa metafora della vita, la volontà di potenza rappresenta per Nietzsche il tentativo di fondare il suo prospettivismo, senza tuttavia porvi alla base una struttura ontologica che ne costituisca il centro interpretante. La volontà di potenza è dunque un “centro di forza interpretativo” da cui si irradia l’attività ermeneutica della vita, consistente in un “guardare il mondo” che, in base al punto d’osservazione, definisce una propria scala di valori 37. Detto più chiaramente: la volontà di potenza è innanzitutto ed essenzialmente posizione di valori 38 ad opera di quello 36 L’esegesi del concetto di volontà di potenza non è facile e una sua ricostruzione dettagliata andrebbe estremamente lontano dai temi di questo contributo, oltre ad occupare uno spazio eccessivo. A mio parere, una sua comprensione profonda non può prescindere innanzitutto dal confronto con le – benché in buona parte superate – grandi interpretazioni di Nietzsche. A tal proposito si veda: J. KARL, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, De Gruyter, Berlin 1974 (trad. it. di L. Rustichelli Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996); HEIDEGGER, Nietzsche, cit.; VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, cit.; ID., Introduzione a Nietzsche, cit. Sugli sviluppi più recenti della ricerca si veda invece: V. GERHARDT, Vom Willen zur Macht, De Gruyter, Berlin 1996; W. MÜLLER-LEUTER, Nietzsche’s Lehre vom Willen zur Macht, in «Nietzsche Studien», III, 1974; ID., Über Werden und Wille zur Macht, De Gruyter, Berlin 1999; G. ABEL, Nietzsche: Die Dynamik der Willen zur Macht und die ewige Wiederkehr, De Gruyter, Berlin 1998; T. DOYLE, Nietzsche’s Metaphysics of the Will to Power: The Possibility of Value, Cambridge University Press, Cambridge 2018. Inoltre per orientarsi tra le molte interpretazioni di Nietzsche si veda A. WOODWARD (ed.), Interpreting Nietzsche: Reception and Influence, Continuum, New York 2011, una raccolta di saggi che sintetizza con chiarezza le fondamentali interpretazioni del pensiero di Nietzsche susseguitesi nel Novecento. 37 «Ogni centro di forza ha per tutto il resto la sua prospettiva, cioè la sua affatto determinata scala di valori, il suo tipo di azione, il suo tipo di resistenza» (F. NIETZSCHE, Frammenti Postumi, 14 [184], primavera 1888). 38 Cfr. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, cit., p. 625. 151 FRANCESCO PASQUINI sguardo dell’uomo sulla realtà che è, per definizione, antropomorfico. La volontà di potenza è allora, proprio come il per sé sartriano 39, il luogo d’origine di un punto di vista sul mondo, di un suo possibile senso e di un possibile sistema di valori. Ben lungi dall’essere un teorico della nullità del valore, Nietzsche è piuttosto un teorico della pervasività del valore. Il suo filosofare col martello non corrisponde a una rozza attività distruttiva dei valori costruiti dalla civiltà, bensì a una critica e raffinata analisi volta a mettere in luce come questi siano necessariamente prodotti dall’uomo in quanto apertura sul mondo. L’uomo descrittoci da Sartre – nel suo essere libertà creativa che, progettandosi, lo impegna necessariamente a creare una morale – e l’uomo descrittoci da Nietzsche – come volontà di potenza –, appaiono così due risposte al nichilismo che, pur provenendo da retroterra teorici differenti, sono in grado di dialogare e di chiarirsi a vicenda. Possiamo approfondire ulteriormente questo punto, chiamando in causa un altro motivo centrale nella filosofia di Nietzsche: l’oltre-uomo. L’idea di oltre-uomo sorge per la prima volta nello Zarathustra, come immagine dell’uomo capace di sopportare, e anzi, di gioire, dell’annuncio dell’eterno ritorno40. Egli rappresenta perciò, l’uomo capace di vincere la crisi apertasi con la “morte di Dio”, capace di accettare una realtà che si è svelata priva di un fondamento trascendente, e che risulta così destinata a permanere eternamente nella sua nichilistica mondanità secondo il tema dell’eterno ritorno dell’uguale 41. La figura dell’oltre-uomo compendia allora l’idea di un individuo abbastanza forte da vivere al di là di ogni illusione sul male e la mancanza di senso che attraversano la realtà. Un uomo siffatto, disposto ad accettare il vuoto ontologico lasciato dalla scomparsa di Dio, deve caricare sulle proprie spalle il peso di creare lui stesso un senso del mondo, sulla cui natura umana e relativa non gli è però più concesso di farsi illusioni. Se dotato di questa forza (considerata da Nietzsche come eccedente rispetto a un’umanità da sempre impegnata nell’illudersi di poter trovare “un mondo dietro al mondo”) l’uomo può farsi allora oltre-uomo, imparando ad accettare che ogni sua azione implica un autotrascendimento, una (ri)definizione di sé e del mondo. Egli è l’espressione consapevole del carattere interpretativo proprio della volontà di potenza, e così dell’uomo 39 Vedi Paragrafo 1. Sul tema dell’eterno ritorno si veda: K. LÖWITH, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Ghleichen, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1978 (trad. it. di S. Venuti, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Bari 2010); ABEL, Nietzsche: Die Dynamik der Willen zur Macht und die ewige Wiederkehr, cit.; GENTILI, Nietzsche, cit. 41 Cfr. G. CAMPIONI, Nietzsche. La morale dell’eroe, ETS, Pisa 2008, pp. 135 ss. 40 152 LIBERTÀ E NICHILISMO come punto di vista sul mondo, cosa che abbiamo visto esser parte della definizione sartriana di esser per sé. Quale conclusione possiamo trarre dalla scoperta di questo curioso intreccio fra motivi sartriani e nietzschiani? A mio parere, se Nietzsche ci ha aiutato ad approfondire l’idea sartriana dell’uomo come pura e assoluta libertà, Sartre può inaspettatamente aiutarci a “decostruire” Nietzsche (il decostruttore per eccellenza) nella sua discutibile formulazione della figura dell’oltre-uomo. Con Sartre infatti, la sfida lanciata da Nietzsche a un fantasioso uomo diverso da quello che finora avremmo conosciuto, viene rilanciata all’umanità intera, in quanto sfida che trascende la specifica contingenza di quella condizione storico-antropologica definita per Nietzsche nella metafora della “morte di Dio”. Sartre ci spinge così a rifuggire da un’illusione, in cui Nietzsche sembra essere caduto proprio nel tentativo di decretare la fine di ogni illusione possibile. Il primo ha il coraggio di ricollocare l’uomo in mezzo a quelle difficoltà da cui il secondo, immaginando un “uomo al di là dell’uomo”, lo aveva in qualche modo sottratto, e di affermare che oltre l’uomo non vi è nient’altro che l’uomo. Da questo punto di vista, è Sartre, molto più del filosofo di Röcken, ad annunciare le difficoltà, nonché i possibili spazi di emancipazione, che si aprono dinnanzi all’uomo con l’avvento del nichilismo. Senza saperlo, ci ha offerto così una nuova chiave di lettura di quella crisi pensata da Nietzsche come la crisi di un’epoca, e che egli ci inviata piuttosto a leggere come radicata nella stessa costituzione ontologica dell’uomo, quell’essere perennemente costretto a subire la più dura e la più paradossale fra tutte le condanne mai sentenziate: la condanna alla libertà. Conclusioni: Il nichilismo è un umanismo? Il tentativo di leggere Sartre attraverso Nietzsche, si è rivelato fruttuoso nell’interpretazione sia dell’uno che dell’altro. Anche se di per sé molto lontani nei loro retroterra teorici, questi due autori hanno mostrato di convergere verso una descrizione dell’essere umano che ha degli interessanti punti in comune. Entrambi attribuiscono all’uomo il gravoso compito di impegnarsi nella definizione di un’assiologia che nessun Dio può fornirgli, e sottolineano così la tragica solitudine che avvolge ogni scelta. Portando l’esistenzialismo alle sue conseguenze più estreme, abbiamo compiuto il passo che Sartre ha mancato di fare, riconoscendone la sua innegabile natura nichilistica. 153 FRANCESCO PASQUINI Per questa ragione, nel Paragrafo 2, ho sostenuto che il pensiero di Sartre, nella sua descrizione dell’uomo come impegno esistenziale, appaia talvolta attraversato da un certo “ottimismo” proprio laddove, semmai, ci sarebbe da aspettarsi piuttosto una nota di negatività. Lo stesso errore compie Christine Daigle in Le nihilisme est-il un humanisme? Étude sur Nietzsche et Sartre 42. Ora, non c’è alcun dubbio sul fatto che, come Daigle giustamente sottolinea, il nichilismo sia esso stesso un umanismo, rappresentando dopo tutto una messa al centro dell’essere umano come continua progettazione di sé. Tuttavia, prima di lanciarci in un aprioristico elogio di ciò che, è pur vero, pone l’uomo al centro, non dovremmo dimenticare di riflettere su come tale posizione coincida invero con la perdita di un centro propriamente detto, di un centro vero e proprio capace di fare da misura del valore delle cose. Al centro, scopriamo infatti un essere che, a differenza di Dio, non è fondamento del suo essere, bensì fondamento del suo nulla: un Ab-grund. Ogni centro viene così inghiottito nel nulla. Perciò il nichilismo umanistico che, secondo l’argomentazione qui sviluppata, veniamo a scoprire in Sartre, non è affatto una vittoria, sebbene, è fondamentale sottolinearlo, non sia neppure una sconfitta: è semplicemente un’analisi della realtà. Ma il disincanto che quest’analisi produce non può essere mascherato con qualche sofisma. Nell’universo che essa descrive, non c’è posto per un valore superiore dell’uomo, così come d’altro canto non c’è posto per una diminuzione del suo valore. Ogni sistema di valori è d’altronde frutto di una continua creazione consistente nelle scelte compiute in ogni momento da ogni singolo essere umano. Su di lui si riversa il peso di un’assiologia che arriva sempre troppo tardi per decidere sul valore del suo creatore e per poterlo orientare. La dannazione dell’uomo consiste nell’essere un Achille incapace di raggiungere la tartaruga, e tuttavia sempre costretto a rincorrerla. Fra le righe delle opere di Sartre abbiamo così scoperto un nichilismo che è il più umano fra tutti gli aspetti dell’uomo, figlio di una libertà che, a sua volta, ci si è svelata come la più disumana fra tutte le condanne possibili. 42 DAIGLE, Le nihilisme est-il un humanisme? Étude sur Nietzsche et Sartre, cit. Cfr. anche: EAD., Nietzsche and Sartre: Brothers in Arms, cit.; G. PENZO (a cura di) Il nichilismo da Nietzsche a Sartre, Città Nuova, Roma 1976, pp. 85-95. 154 Marco G. Ciaurro Il dibattito teorico sull’“impegno” in letteratura. Sartre e Blanchot ABSTRACT: This article reconstructs the theoretical debate regarding the commitment to existentialism which took place between Jean-Paul Sartre and Maurice Blanchot from the post-war period to the 1980’s. The originality of the text’s approach is that it positions two different philosophical outlooks in the same critical horizon in order to demonstrate that the writers have a responsibility to a confrontational dialogue via their respective texts. This issue is examined on the basis of the work of central thinkers like Hegel, Kierkegaard, Jean Wahl, George Bataille, and René Char, and it is shown that the issue remains an open question which is still present in today’s culture. KEYWORDS: Sartre; Blanchot; Literature; Commitment; Intellectuals; Responsibility ABSTRACT: In questo articolo si ricostruisce il dibattito teorico sull’impegno dell’esistenzialismo tra Jean-Paul Sartre e Maurice Blanchot dal dopoguerra fino agli anni Ottanta. L’originalità del testo riguarda la composizione, in uno stesso orizzonte critico, delle due diverse visioni filosofiche. Per mostrare che la responsabilità degli scrittori è nel confronto e nel dialogo infratestuale. Tale problema è argomentato attraverso i riferimenti principali da Hegel, Kierkegaard, Jean Wahl a Georges Bataille e René Char come una questione sempre aperta, sempre presente nella cultura contemporanea e odierna. KEYWORDS: Sartre; Blanchot; letteratura; impegno; intellettuali; responsabilità «Intellettuale» è vocabolo oggi imbarazzante. […] Sartre però, con il suo atteggiamento misurato e concreto, riesce a ridare credibilità alla parola. Nel valutare, con equilibrio ammirevole, il suo lavoro dopo la cecità e le possibilità che essa gli inibisce e quelle che gli apre, Sartre riesce ancora una volta in un compito raro: frappone una distanza umana tra i lettori e le cose, per aiutarli a vederle. (G. Pontiggia, Il giardino delle Esperidi, Adelphi, Milano 1984, p. 117) Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org 155 MARCO G. CIAURRO 1. La nascita della questione filosofica della letteratura 1 Dopo la fine della seconda guerra mondiale in Francia si apre, grazie a Jean-Paul Sartre, un nuovo e decisivo dibattito filosofico-letterario sull’engagement, o tâche (compito), come lo denomina Maurice Blanchot, con l’animato intento di dar vita a un rinnovato discorso (del rimosso), sulla nozione di individuo e di uomo2. 1 Il saggio di P. VERSTRAETEN, Note pour une confrontation entre le statut de l’écrivain chez Sartre et chez Blanchot (Violence et éthique. Esquisse d’une critique de la morale dialectique de Sartre, Gallimard, Paris 1972, pp. 421-441) rimane – o mi risulta – a oggi uno dei pochi studi approfonditi sulla questione teorica sviscerata tra Sartre e Blanchot. Anche per la composizione strettamente filosofica del saggio l’argomentazione di Verstraeten è d’importanza capitale per tracciare un paradigma di responsabilità dello scrittore e della nozione di letteratura. Altri autori come H. Oppelz, R. De Benedetti, T. Todorov, A. Piperno si sono occupati dell’argomento specifico cogliendo di sfuggita il problema dell’engagement tra Sartre e Blanchot riducendolo, in alcuni casi, a una questione di mero linguaggio. Il problema del linguaggio è vero che è la questione principale, tuttavia è in rapporto alla responsabilità di scrittura, responsabilità che deve essere incorrotta, senza sviare e travestire il linguaggio, come accade a Heidegger nel celebre L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34 (a cura di C. Angelino, il Melangolo, Genova 1988) questa è l’idea base e la radice della concezione morale del linguaggio che hanno entrambi gli scrittori. Altro discorso a parte e, più complesso, andrebbe fatto per Littérature et engagement di A. Cools apparso nel 2005 sul sito telematico di Eric Hoppenot. Ritornando allo studio di H. Oppelz in «Les Temps Modernes», nn. 643-644, aprile-luglio 2007, per quanto raffinato e sottile, è un lavoro parziale e coglie solo di sfuggita il problema dell’engagement connesso al linguaggio, riducendo l’uno e l’altro a questione strumentale. Mentre De Benedetti in La politica invisibile di Maurice Blanchot, Medusa, Milano 2004 perfino elude, a mio giudizio, la prospettiva teorica con un’interpretazione grossolana che falsa il significato, perfino, dell’opera del grande scrittore e filosofo francese. L’interpretazione di T. Todorov, ammirato e ammirabile in genere per la sua accortezza e scrupolosità, propone in questo caso un’analisi rabberciata su ragioni eteronome rispetto ai testi di Sartre e Blanchot (Critica della critica, Einaudi, Torino 1986). A. Piperno se è vero che circoscrive il campo, limitando l’interpretazione di Sartre all’opera di Baudelaire, però proprio così facendo elude la questione. O meglio, Piperno riduce l’impegno a un errore politico, sottraendosi al significato centrale che ha l’impegno in relazione al linguaggio quale fonte di liberazione e di libertà dell’uomo in tutta l’opera di Sartre. Così com’è testimoniato nell’ultimo lavoro di Sartre che, finalmente, con l’oculata e pregiata traduzione e cura di M. Russo di La speranza oggi (Mimesis, Milano 2019) arriva anche in Italia, dopo 39 anni dalla pubblicazione francese e dalla morte del grande scrittore e filosofo. Così come La questione degli intellettuali. Abbozzo di una riflessione da me curata (Mimesis, Milano 2010) di Blanchot mette fine alle ostilità e alle incomprensioni con Sartre oramai morto. Il libro di G. WORMSER, Sartre. Una sintesi, Marinotti Edizioni, Milano 2005 è di particolarmente importanza per la ricomposizione del quadro storiografico, piuttosto completo, che copre il periodo che va dagli anni Quaranta fino al 2004, con un’attenzione speciale alla ricezione filosofica italiana dell’opera Sartre (pp. 185-204). 2 In questo senso si precisa la ricerca di A.G. Gargani (1933-2009) ne Il sapere senza 156 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA La sfiducia verso i valori tradizionali, a cui la guerra aveva condotto, è stato un potente stimolo alla ricerca di nuovi paradigmi concettuali, nel tentativo di rispondere a pressanti bisogni etici, primo tra tutti la riconsiderazione dei concetti di impegno e di responsabilità. Queste nozioni assumeranno, impegno e responsabilità, una spinta decisiva verso la messa a punto di una grammatica comune al pensiero creatore. Sarà attraversando, nei caratteri essenziali, l’opera di Sartre e di Blanchot che verrà mostrato come in questo confronto ci sia il nucleo elementare del più importante dibattito teorico-filosofico del Novecento3. Questo modello di confronto – teorico e critico – ha dominato, in vari modi, la scena epistemico-filosofica dei modelli e delle condotte intellettuali. Proprio in questo senso di un sapere senza fondamenti che la controversia metafisica si chiude, o meglio, si schiuderà nel 1967 con la filosofia della scrittura di Jacques Derrida e la pubblicazione di La scrittura e la differenza e Della grammatologia. Sin dagli esordi questo dibattito ha visto Sartre protagonista in vari modi per almeno una quarantina d’anni del secolo scorso4. Ciò contribuirà allo sviluppo di un’analisi critica sulle fonti possibili di un nuovo ordine del discorso letterario e dell’esegesi. Più precisamente, grazie a questa doppia testualità tra Sartre e Blanchot negli anni Quaranta s’instaura l’apertura di un confronto necessario, una più attenta analisi teorica della letteratura nel suo compito creativo ma anche scientifico e di cultura politica. Questo confronto tra Sartre e Blanchot non inizia qui. Sartre aveva scritto su Aminadab o del fantastico pagine di analisi belle e intense ma, in definitiva, fondamenti e Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1975 e 1979, poi il primo testo riedito nel 2009 da Mimesis. Questo importante studio filosofico è stato, come ha detto una volta il filosofo Nicola Badaloni, il primo a rivelare tale istanza radicata nella cultura e nella società, oggi denominata anche “liquidità”. 3 Gli scambi di lettere e gli scritti polemici con Maurice Merleau-Ponty e Albert Camus sono tra i più conosciuti e, in modo specifico, quello con Camus ha adombrato l’importanza delle altre controversie. L’importanza particolare rispetto a Blanchot è la caratteristica che questo di tipo d’attrito del pensiero è, prima di tutto, teorico e critico anziché politico. E dall’altro lato questo accostamento dei due pensatori Sartre-Blanchot può darsi che non abbia goduto dell’attenzione che merita per l’attualità sempre maggiore riscontrata dall’opera di Georges Bataille e culminata nel Convegno Bataille-Sartre. Un dialogo incompiuto, Roma, Artemide 2002. Nell’occasione è stato allestito un museo dedicato ai due scrittori all’Università di Roma. E tra gli interventi è da segnalare quello di Roberto Esposito, particolarmente interessante nella prospettiva filosofica che incrocia Sartre, Bataille e Heidegger. A cura di Enrica-Lisciani Petrini e Raoul Kirchmayr, Sartre/Merleau-Ponty. Un dissidio produttivo, Aut-Aut, il Saggiatore, Milano 2017; mentre Tra Sartre e Camus, con omonimo titolo, Mario Vargas Llosa a cura di Martha Canfield, Libri Scheiwiller, Milano 2010. 4 A cura di G. Macchia, La letteratura francese. Il Novecento, Rizzoli, Milano 1992, p. 528. 157 MARCO G. CIAURRO l’aspra critica prendeva il sopravvento di condanna dell’elemento fantastico e d’immaginazione. Come pura “volontà d’evasione”, dirà successivamente in Che cos’è la letteratura?. Dal canto suo Blanchot aveva scritto con altrettanta sagacia in Faux pas commentando Le mosche, un saggio dal titolo Il mito di Oreste nel 1943. Il tentativo sartriano di lettura al presente delle Coefore di Eschilo come tragedia della libertà, che è la tragedia esistenziale per eccellenza per Sartre, Blanchot lo accoglie, a sua volta, con alcune riserve. È in questo clima di ricerca critica che, a partire dal dopoguerra, il dibattito sulla letteratura e sull’azione condurrà ad una sempre più approfondita e vasta riflessione sulla e della nozione di scrittura. In questo lungo contesto si tenta di ridefinire la portata etica della scrittura e dell’io scrivente, come adesione alle istanze più profonde dell’essere umano ed è a partire da questa prospettiva che si sviluppa il dibattito sui fondamenti teorici della letteratura. La denuncia di Sartre d’irresponsabilità dello scrittore piccolo-borghese può individuare il primo nucleo e l’inizio caldo della questione sul compito dello scrittore 5. Questione che darà vita negli anni ad una serie di altri confronti, di scontri e dibattiti intellettuali sulla nozione di scrittura, più in generale sulle definizioni di umanesimo e letteratura. La peculiarità della contesa con Blanchot non è sulle definizioni ma sul ruolo stesso del linguaggio della letteratura. Sartre pone il problema dell’engagement come responsabilità, più che compito, dello scrittore che deve cercare “di acquistare una coscienza chiara e completa” e per fare questo lo scrittore deve “essere «imbarcato»”6. Si tratta di un’esigenza morale alla quale lo scrittore deve sottostare e impegnare le sue risorse. In quanto nella società è colui che media la verità. «Lo scrittore – dice Sartre – è mediatore per eccellenza e questa mediazione costituisce il suo impegno»7. Nel momento stesso in cui si decide di scrivere, lo scrittore, non è un uomo come gli altri. Fare lo scrittore è una possibilità come le altre ma più di altre comporta una scelta. Si è scrittori in base ad una personale volontà di scrivere e ciò dà la possibilità di costituire un “libero progetto”. Senza la consapevolezza di questa libertà non può esserci impegno e senza impegno non c’è letteratura. Non si tratta di impegnare tutte le arti in quanto tali, poiché non tutte le arti hanno lo stesso intento e lo stesso carattere di utilità al pari della prosa. La quale sola opera con i significati, i significati 5 J.-P. SARTRE, Che cos’è la letteratura?, il Saggiatore, Milano 1960, p. 122 (ID., Présentation, in «Temps Modernes», n. 1, 1945, p. 1). 6 Questa parola, Sartre la prende dal vocabolario di Blaise Pascal, come lui stesso sottolinea. 7 SARTRE, Che cos’è la letteratura?, cit., p. 122 (Présentation, cit., p. 1). 158 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA possono conferire unità verbale ed è proprio per questo che solo la prosa può instaurare un discorso di senso. Nell’epoca contemporanea, infatti, il poeta non usa le parole, anzi le avverte come un ostacolo alla comunicazione. Lo scrittore e filosofo francese afferma che «il poeta è al di fuori del linguaggio, vede le parole alla rovescia, come se non appartenesse alla condizione umana e, muovendo verso gli uomini, incontrasse prima di tutto la parola come una barriera» 8. Questa specifica condizione del poeta è all’origine della circostanza per cui egli non sa servirsi delle parole, piuttosto le serve. Proprio per questa disposizione di sudditanza ne deriva per Sartre che l’uso utilitario e appropriato del linguaggio è specifico della prosa. Per questo la prosa ha il compito di gestire lo strumento del linguaggio in vista della comunicazione, perché dove opera la verità c’è lo scrittore e «non si deve credere che i poeti tendano a discernere il vero e a esporlo»9. Infatti nella visione sartriana il poeta non conosce le cose attraverso il linguaggio ma attraverso un rapporto particolare e immediato in cui il veicolo della comunicazione diventa il silenzio, per mezzo del quale il poeta comunica con la natura. Poi volgendosi verso il linguaggio egli scopre una seconda relazione, un’affinità con la terra e le cose create, in virtù della quale egli non sa servirsi delle parole come segni di senso, cioè come strumenti di una descrizione, perché ha colto l’immagine di un aspetto nudo della realtà. Per questo il poeta non trova differenza tra le parole e le cose e non può darsi corrispondenza con le parole che usiamo abitualmente nel linguaggio ordinario e le parole del poeta. «L’immagine verbale che sceglie per la sua somiglianza con il salice o il frassino non è necessariamente la parola che noi utilizziamo per designare questi oggetti» 10. È su questo presupposto che il filosofo, come già ne L’essere e il nulla costruisce la propria critica della poesia, cogliendo in essa un momento in cui la letteratura si rende marginale, inutile11. La fragilità della poesia consisterebbe, allora, in una mancanza di linguaggio costitutiva dello stesso atto poetico perché «l’intero linguaggio è insomma per lui [il poeta] lo specchio del mondo» 12. Così l’arte e la poesia hanno la stessa direzione, non tendono a svelare significati, quanto a rappresentare e a restituire, nella rappresentazione, oggetti che non costruiscono in alcun modo un significato, ma la stessa cosa pensata: 8 Ivi, pp. 16-17 (ivi, p. 20). Ivi, p. 15 (ivi, p. 18). 10 Ivi, p. 17 (ivi, p. 20). 11 J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1964, già nel 1958 da Mondadori (ID., L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943). 12 ID., Présentation, cit., p. 20 (in ID., Che cos’è la letteratura?, cit., p. 17). 9 159 MARCO G. CIAURRO lo squarcio giallo del cielo al di sopra del Golgota, il Tintoretto non l’ha scelto per significare l’angoscia, né tanto meno per provocarla, è angoscia e, insieme, cielo giallo. Non cielo d’angoscia, né cielo angosciato; è un’angoscia fatta cosa 13. È propriamente sulla base di questo assunto che la poesia svolge il suo compito e, in quanto arte, non può essere impegnata. Il poeta infatti «si direbbe che componga una frase ma è solo apparenza; in realtà crea un oggetto», ed è così che nascono «le parole-cose […] e la loro associazione compone quella vera frase poetica che è la frase-oggetto» 14. Diverso è il piano del linguaggio su cui opera lo scrittore: esso è istituito da una responsabilità formale di dire, soprattutto colui che scrive, l’avverte nel dover far funzionare le parole. Lo scrittore ha «scelto di svelare il mondo e, in particolare, l’uomo agli altri uomini, perché questi assumano difronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità» 15. In tal modo lo scrittore, chiamando in causa la libertà del lettore, lo rende a sua volta responsabile; più esattamente compromette il lettore. Dunque il tema centrale dello scrittore, uomo libero che si rivolge ad altri uomini liberi, è la libertà di impegnarsi, in quanto «in fondo all’imperativo estetico si discerne l’imperativo morale» 16. Questo aspetto dell’«imperativo morale» è stato mirabilmente illuminato dall’“Esistenzialismo Critico” di Maria Russo con la riflessione sulla morale dell’autenticità approfondendo il nodo problematico attraverso scritti conosciuti ma ancora poco noti, benché rilevanti, in cui rimarca l’ascendenza kantiana nelle ricerche e nelle tensioni etiche e morali come vengono alla luce nel colloquio con Benny Lévy in L’espoir maintenaint ora edito e tradotto in La speranza oggi 17. Questo problema coincide con una domanda capitale nella sua concezione dell’atto letterario: per chi si scrive? Affermare, come parrebbe facile poter dire, che si scrive per il lettore universale, è un modo per eludere la questione. Essa va affrontata, peraltro, con la consapevolezza che le opere dello spirito non esprimono mai completamente il proprio oggetto, ciò che fa parte della loro propria natura è di essere allusive. «Un’opera dello spirito è per natura allusiva. Anche 13 Ivi, p. 13 (ivi, p. 15). Ivi, p. 18 (ivi, p. 22). 15 Ivi, p. 23 (ivi, p. 29). 16 Cfr. ivi, pp. 48-49 (ivi, pp. 69-70). 17 J.-P. SARTRE-B. LÉVY, L’espoir maintnant, Verdier, Lagrasse 1991. M. RUSSO, Per un esistenzialismo critico. Il rapporto tra etica e storia nella morale dell’autenticità di Jean-Paul Sartre, Mimesis, Milano 2018, p. 312; cfr. Jean-Paul Sartre cit. nella prima nota. 14 160 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA se l’autore si è proposto di dare la narrazione più completa dell’argomento scelto, non si dà mai il caso che racconti tutto: sa sempre più cose di quante ne dica» 18. È per questo che chi scrive si rivolge ai contemporanei, anche se lo facesse solo per la gloria letteraria. La natura allusiva dell’opera nasce dal fatto che il linguaggio ha per essenza una struttura ellittica, l’autore, cioè, viene ad essere compreso sullo sfondo di situazioni e imprese che fanno parte del suo tempo e, nella misura in cui la sua scrittura si rivolge a un pubblico partecipe delle stesse esperienze, non gli è necessario scrivere molto «si usano parole chiave» 19. A partire da queste istanze fondamentali che edificano l’atto letterario, Sartre elabora poi il concetto di storicità. Dal momento che sia lo scrittore che il lettore appartengono a un determinato periodo storico essi contribuiscono anche a fare la storia, ed è proprio in quanto autori storici che alcuni scrittori vorrebbero fuggire dalla storia per entrare nell’eternità. Come osserva ed evidenzia Bernard-Henry Lévy «Lo scrittore impegnato è quello che, con fermezza, risolutezza, chiarezza, decide di rivolgersi, non a un’epoca futura, lontana, e quindi sognata, ma all’epoca stessa di cui è contemporaneo» 20. Allora il libro rappresenta in tutto ciò l’elemento di unione attraverso cui due coscienze libere che costruiscono il mondo e la storia a partire dal presente, si incontrano. Così la libertà storica alla quale lo scrittore invita non è vuota astrazione bensì una libertà che deve essere conquistata nel cuore di una precisa situazione 21. Lo scrittore è, quindi, portatore di coscienza impegnata che si dispiega nella società attraverso la mediazione della letteratura, permettendo di trasmettere ad altri il valore del proprio impegno. Ancora una volta la responsabilità della letteratura è delineata dall’engagement, con il quale lo scrittore si differenzia dagli altri uomini perché scegliendo di scrivere dà forza a un libero progetto. Che lo voglia o no, sia lo scrittore che la letteratura, sono da sempre engagée. È, allora, necessario che questa sua dimensione intima divenga un atto di volontà consapevole, una scelta spiritualmente determinata. Dirò dunque – afferma ancora Sarte – che uno scrittore è impegnato quando cerca di acquistare una coscienza chiara e completa di essere 18 SARTRE, Che cos’è la letteratura?, cit., p. 51 (Qu’est-ce que c’est la littérature?, Gallimard, Paris 1995, p. 76). 19 Ivi, p. 52 (ivi, p. 76). 20 B.-H. LÉVY, Il secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, il Saggiatore, Milano 2004, p. 76. 21 Cfr. SARTRE, Che cos’è la letteratura?, cit., p. 53 (Qu’est-ce que c’est la littérature?, cit., pp. 77-78). 161 MARCO G. CIAURRO «imbarcato», cioè quando trasferisce l’impegno per sé e per gli altri dal piano della spontaneità immediata a quello della riflessione. Lo scrittore è mediatore per eccellenza e questa mediazione costituisce il suo impegno. […] io sono scrittore prima di tutto per mio libero progetto di scrivere 22. Quindi Sartre pensa che la mediazione decisiva, che lo scrittore compie, consista nel fare dell’opera un processo di comunicazione nel quale l’autore svolge un ruolo decisivo, ponendosi come “coscienza inquieta” all’interno della società. Ne consegue che la relazione con il pubblico sia fondante nella letteratura, anche se quest’ultima non può considerarsi un’azione od un atto. «La letteratura certo non è comunque mai assimilabile ad un atto: perché non è vero che l’autore agisca sui suoi lettori» 23. La letteratura ha però la forza di preludere all’azione e svolgere un compito di autocritica e di trasformazione all’interno della collettività, interpellando coscienze libere di esaminarsi e di mettersi in discussione. «In una collettività che continua a esaminarsi, giudicarsi e trasformarsi l’opera scritta può essere una condizione essenziale dell’azione, cioè il momento della coscienza riflessiva» 24. Si può dire per ciò che l’opera letteraria si realizza sullo sfondo storico ed è comprensibile in rapporto all’“utopia” di una “società senza classi”. Il soggetto scrivente diventa libero per la coscienza di essere scrittore, ed è così che contribuisce alla libertà degli altri uomini scrivendo nella progettazione e nell’ipotesi di un mondo in cui la “collettività” possa realizzare la propria libertà. «Per meglio manifestare la soggettività della persona deve esprimere il più profondamente possibile le esigenze collettive». Perché la funzione di chi scrive comunica «l’universale concreto all’universale concreto e il suo fine di appellarsi alla libertà degli uomini, perché realizzino e difendano il regno della libertà umana» 25. 2. Il dibattito sulla “scrittura” come disciplina dello spirito Se l’argomentazione di Sartre pone “la libertà formale di dire e la libertà materiale di fare” al centro dell’opera letteraria come realizzazione dell’io scrivente, da parte sua Blanchot ritiene, invece, che questa corrispondenza dello 22 Ivi, pp. 57-58 (ivi, p. 84). Ivi, p. 114 (ivi, p. 163). 24 Ibidem. 25 SARTRE, Che cos’è la letteratura?, cit., p. 115 (Qu’est-ce que c’est la littérature?, cit., p. 163). 23 162 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA scrittore con la società per mezzo del linguaggio sia asimmetrica, al contrario di come propone Sartre, poiché in questo modo la letteratura verrebbe ad essere compresa da una ragione esterna e non in relazione a se medesima. Nel gennaio 1948 sulla rivista «Critique» viene pubblicato l’intervento di Maurice Blanchot dal titolo La letteratura e il diritto alla morte che segna un nuovo inizio e un approfondimento nella discussione delle tesi sartriane, in una chiave filosofica, non solo polemica, ma di confronto testuale 26. Blanchot ritiene, ad esempio, che questa corrispondenza dello scrittore con la società per mezzo del linguaggio non ci sia poiché in questo modo la letteratura verrebbe ad essere compresa da una ragione esterna e non in relazione a se medesima. Jean Pfeiffer ha osservato che l’esperienza linguistica, da parte del soggetto scrivente, è quella fondamentale ed essa si precisa nella forma particolare della scrittura. «Questa esperienza è esattamente quella dello scrittore, cioè quella del linguaggio, e in questo caso di quella forma specifica di linguaggio che è la scrittura»27. È a partire da questo orizzonte di interrogazione della scrittura che Blanchot interviene rivendicando il legame dell’uomo con la morte, attraverso il linguaggio, ponendo il “diritto alla morte” come istanza fondamentale della letteratura. La morte con cui egli invita a confrontarsi non si identifica con lo spaventoso, poiché è una scepsi interna al linguaggio e alla scrittura. Quindi si tratta, piuttosto, di stabilire una relazione intima al linguaggio, per quanto da sempre inconfessata, disattesa, negata ma che la scrittura deve rendere possibile rappresentandola. Essa è insita nel linguaggio, il quale è tormentato proprio da questa impotenza, da questa impossibilità di dire la morte «il tormento del linguaggio è che esso non coglie il proprio bersaglio, perché è la necessità di esserne la mancanza. Non può nemmeno nominarlo»28. La sottolineatura del carattere essenzialmente ambiguo del linguaggio non è propria del solo Blanchot. Simone de Beauvoir, nel suo celebre saggio 26 M. BLANCHOT, La littérature et le droit à la mort, in «Critique», n. 20, 1948, pp. 30-47; in seguito raccolto in ID., La part du feu, Gallimard, Paris 1949, pp. 291-331. Il saggio è tradotto in M. BLANCHOT, La follia del giorno. La letteratura e il diritto alla morte, Eliotropia, Reggio Emilia 1982, pp. 63-123; poi in ID., Da Kafka a Kafka, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 9-47 (da cui si cita). 27 J. PFEIFFER, La passione dell’immaginario, in M. BLANCHOT, Lo spazio letterario, a cura di Guido Neri, Einaudi, Torino 1967; p. XV. Il testo francese La passion de l’immaginaire, è pubblicato in «Critique», n. 229, 1966, numero monografico dedicato a Blanchot. Recentemente Lo spazio letterario è stato proposto in una nuova traduzione di Fulvia Ardenghi e con un saggio di Stefano Agosti da il Saggiatore, Milano 2018. 28 BLANCHOT, La letteratura e il diritto alla morte, cit., pag. 31 (La littérature et le droit à la mort, cit., p. 316). 163 MARCO G. CIAURRO del 1947 dal titolo Per una morale dell’ambiguità, precisa che la nozione di ambiguità vuol dire che il senso non è fissato una volta per tutte ma è costantemente in gioco, ciò significa che questo deve essere continuamente conquistato. Inoltre de Beauvoir conferma che non bisogna confondere la nozione di ambiguità con quella di assurdità. Dichiarare assurda l’esistenza significa negare che possa darsi un senso; dire che è ambigua significa asserire che il senso non è mai fissato, che deve continuamente conquistarsi. […] Come la scienza e l’arte, la morale non fornisce ricette. Si possono proporre metodi ma l’imperativo morale agisce sul linguaggio perché «è impossibile decidere astrattamente e universalmente il rapporto tra senso e contenuto» 29. Da un altro punto di vista Roland Barthes rileva questo lato ambiguo del linguaggio, in modo particolare, quando afferma che «la scrittura non è affatto uno strumento di comunicazione, non è una via aperta attraverso cui dovrebbe passare soltanto un’intenzione di linguaggio» 30. Peculiare di Blanchot è il rapporto con la morte che questa ambiguità stabilisce: la nominazione infatti è concepita dal filosofo francese come un assassinio, un annientamento in cui gli oggetti cessano di esistere nella loro realtà, vengono privati dell’essere e restituiti dal linguaggio esclusivamente nella loro assenza. La parola – dice Blanchot – mi dà ciò che significa ma prima lo sopprime. Pe poter dire: «questa donna» occorre che, in un modo o nell’altro, io le tolga la sua realtà d’ossa e di carne, che la renda assente, l’annienti. La parola mi dà l’essere, ma me lo dà privo d’essere31. Come è stato sottolineato anche da Wanda Tommasi, Blanchot fa riferimento ad un testo di Hegel, precedente alla Fenomenologia dello spirito 32. 29 S. DE BEAUVOIR, Per una morale dell’ambiguità, SE, Milano 2001, pp. 106-107; 110-111. R. BARTHES, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982 (Le degré zéro de l’écriture. Suivi de Nouveaux essais critiques, éd. du Seuil, Paris 1993, t. I, p. 150). 31 BLANCHOT, La letteratura e il diritto alla morte, cit., pp. 27-28 (La littérature et le droit à la mort, cit., p. 312). 32 W. TOMMASI, Per un’esperienza non dialettica della parola. La presenza di Hegel nel primo Blanchot, in «Nuova Corrente», n. 32, 1985, p. 49, ha osservato come per Blanchot «la tendenza alla sintesi e alla riconciliazione presente nella filosofia hegeliana, la sua attitudine a dissimulare la violenza del linguaggio sotto la forma di un’universale giustizia risulta particolarmente inquietante soprattutto se viene confrontata con la consapevolezza, che è propria di tale filosofia, circa la violenza segreta che è all’origine della parola». G.W.F. HEGEL, Frammenti sulla filosofia dello spirito (1803-1804), in ID., Filosofia dello spirito 30 164 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA Il filosofo tedesco in questo scritto descrive l’assunzione della supremazia degli uomini sugli animali per mezzo del linguaggio: «Il primo atto con cui Adamo si rese padrone degli animali fu di imporre loro un nome, vale a dire li annientò nel pieno della loro esistenza (in quanto esistenti)»33. Tale violenza originaria del linguaggio, proprio perché più sottile e nascosta della violenza fisica, risulta anche più difficilmente riscontrabile e inevitabile. Questa violenza è legata al potere di dare la morte e ne esprime la dissimulazione. Ogni parola – scrive Blanchot – è violenza, una violenza tanto più temibile quanto più è segreta, è il centro segreto della violenza, violenza che si esercita già su ciò che la parola nomina e può nominare solo privandolo della presenza – e ciò […] significa che quando parlo parla la morte (questa morte che è potere)34. Il linguaggio letterario non può eliminare questa violenza originaria della parola, ma attraverso l’atto di scrittura rifiuta di dissimularla in una conciliazione dialettica, mantenendo inseparabilmente compenetrato e unito indistintamente ciò che è inconciliabile: vita e morte, verità e menzogna. La forza della letteratura è dunque alimentata essenzialmente dall’esperienza di vuoto e di nulla che essa rappresenta. Il nulla ed il vuoto, che le appartengono, non conferiscono un carattere di illegittimità alla sua esistenza anzi la costituiscono. Bisogna «fare in modo che la letteratura divenga rivelazione di questo interno vuoto, che tutta si schiuda al proprio nulla, che realizzi la propria irrealtà» in quanto il nulla che la abita può farla diventare un’energia straordinaria, meravigliosa35. Che l’opera dello scrittore metta in luce una mancanza e che questa mancanza sia il luogo proprio della nascita della letteratura, era stato teorizzato da Kierkegaard asserendo che «una creazione è una produzione dal nulla, l’occasione è invece quel nulla che fa emergere tutto. Può esserci tutta la ricchezza del pensiero, tutta la pienezza dell’idea e tuttavia manca alla “occasione»36. La letteratura non è, dunque, per Kierkegaard né per Blanchot la realizzazione e la rappresentazione di una pienezza necessaria ad essa preesistente, poiché in essa ciò che avviene non corrisponde ad un senso prestabilito. In effetti nell’opera letteraria non vi jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Bari 1971, pp. 1-65. 33 Per omogeneità di argomentazione la traduzione riportata è quella svolta sul testo francese proposta da Blanchot ne La littérature et le droti à la mort, cit., La part du feu, p. 312. 34 M. BLANCHOT, La conversazione infinita, Einaudi, Torino 1977, p. 52 (L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, p. 60). 35 ID., Da Kafka a Kafka, cit., pag. 10 (cit., p. 294). 36 S. KIERKEGAARD, Enten-Eller, Adelphi, Milano 1990, vol. II, p. 137. 165 MARCO G. CIAURRO è nulla che garantisca allo scrittore un valore universale della propria “creazione”. Essa è legata all’“occasione” che le ha dato luogo ed è affidandosi all’“inessenzialità” che le è propria, che il suo autore realizza un’opera significativa, come anche Kierkegaard rimarca37. Così scrive l’occasione, che dunque, come tale, è l’inessenziale e l’accidentale, alla nostra epoca può talvolta cimentarsi nel rivoluzionario. […] Il poeta attende che l’occasione lo entusiasmi, e vede con sorpresa che ciò è affatto impossibile; o dà luogo a qualcosa che lui stesso, nel suo intimo, giudica insignificante, e poi vede che l’occasione ne fa tutto38. In questo caso lo scrittore fa della circostanza, del gesto di un momento, un significato importante che contribuisce a determinare il valore dell’opera letteraria. Questo gesto intimo dello scrittore, per quanto estemporaneo, ne istituisce il fondamento etico attraverso la propria azione inoperosa. L’azione inoperosa della scrittura, per quanto essa sia anche universale concreto, l’inazione, lo “sperpero”, la definiscono perché – come dirà Georges Bataille – il vuoto di senso è un elemento intrinseco del significato del linguaggio. La letteratura perciò non si dà valore, affermando se stessa, bensì «ponendosi come oggetto di dubbio, si rafforza disprezzandosi»39. È in questo cercarsi che la letteratura diviene domanda e scioglie lo scrittore da una contraddizione interna al medesimo atto di scrivere. Se da un lato lo scrittore necessita del dono naturale per scrivere, dall’altro questo dono in se stesso non è nulla poiché soltanto dopo aver scritto l’opera si può verificare di aver talento e, dunque, di essere scrittore. «L’individuo che vuole scrivere – dice ancora Blanchot – […] non essendosi messo a tavolino, non ha scritto l’opera, non è uno scrittore e non sa se ha capacità per divenirlo. Ha talento solo dopo aver scritto, eppure gli occorre per scrivere»40. In questa descrizione dell’attività letteraria, egli riprende alcuni temi della “fenomenologia dello spirito” hegeliana, in cui l’agire dell’“individuo autocosciente” viene descritto con un carattere di “circolarità”, in quanto è l’“azione” stessa a manifestare, a colui che agisce, la sua “essenza originaria”. L’individuo che procede all’azione – scrive Hegel – sembra trovarsi in un circolo in cui ciascun momento già presuppone l’altro, e 37 Questo tema è già presente in Goethe che considerava la sua opera un’intera “Gelegenheitsdichtung”, poesia d’occasione. 38 KIERKEGAARD, Enten-Eller, cit., p. 135. 39 BLANCHOT, La letteratura e il diritto alla morte, cit., p. 10 (La littérature et le droti à la mort, cit., p. 294). 40 Ivi, p. 11 (ivi, p. 295). 166 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA non sembra quindi poter trovare cominciamento alcuno; soltanto dall’operazione l’individuo impara infatti a conoscere la sua essenza originaria, la quale deve essere il fine suo 41. Nel sistema di Hegel la circolarità è stabilita dall’esigenza che il “fine” sia già difronte all’individuo, nel momento di agire, perché egli possa dirigersi verso di esso: «l’individuo […] essendo coscienza deve avere innanzi a sé in precedenza l’azione come azione interamente sua, cioè come fine» 42. Questa situazione renderebbe impossibile agire, se l’individuo non portasse già in se stesso “la sua essenza immediata” sotto forma di “facoltà speciale, talento, carattere”, prima ancora di porla come principio delle proprie operazioni. Esse costituiranno così l’attuazione di questo “carattere” interno allo “spirito”, che può essere conosciuto per effetto dell’“operare”. Per questa precisa ragione Hegel dichiara che l’individuo: «sotto qualsiasi circostanza, senza preoccuparsi ulteriormente del cominciamento, del mezzo e della fine, deve procedere all’azione; ché la sua essenza e la sua natura in sé essente sono insieme cominciamento, mezzo e fine»43. La “circostanza” da cui un’opera prende inizio non è decisiva. Essa però, ha la funzione di spingere all’azione, giacché come Hegel afferma «l’interesse che l’individuo trova in qualcosa è la risposta già pronta alla domanda: se e che sia qui da fare»44. Allo stesso modo per Blanchot, seppure la circostanza in cui l’atto letterario ha luogo fosse la più futile, in se stessa non spiegherebbe niente, neppure avrebbe il potere di determinare la forma e il valore dell’opera. Ciò che invece definisce la portata etica dell’atto scrittorio è «il gesto con cui l’autore ne fa una circostanza decisiva […] è sufficiente ad assimilarla al suo genio, alla sua opera» 45. Roland Barthes similmente esprime l’importanza del gesto, avvicinandosi a questa concezione, asserendo «perché la scrittura deriva da un gesto significativo dello scrittore, che la Storia ne affiora molto più sensibilmente che da qualsiasi altro settore della Letteratura» 46. Nella visione di Blanchot ogni opera è sempre opera di circostanza, e questo indica la sua nascita in un tempo determinato, poiché senza tempo l’opera non esiste, tuttavia affinché l’opera acquisti una collocazione e un valore nel mondo, egli non la lega alla 41 G.W.F. HEGEL, La fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Scandicci-Firenze 1960, p. 332. 42 Ivi, pp. 331-332. 43 Ivi, p. 331. 44 Ibidem. 45 BLANCHOT, Da Kafka a Kafka, cit., p. 13 (cit., p. 297). 46 BARTHES, Il grado zero della scrittura, cit., p. 14 (Le degré zéro de l’écriture, cit., p. 148). 167 MARCO G. CIAURRO storia, cioè al suo senso temporale. Il tempo in cui l’opera nasce è esso stesso parte di quest’ultima, ma questo tempo non costituisce una cornice cronologica nella quale la molteplicità degli eventi, in questo caso della scrittura, debba subordinarsi o ordinarsi; neanche consiste nel dispiegare un processo per il quale l’opera perviene al suo compimento. Lo scrittore è colui che ha inteso un tempo diverso dell’esistenza e lo ha reso presente nell’esperienza, eliminando sia il tempo che l’azione nella trasformazione di un altro tempo che è il tempo della letteratura, della poesia47. Questo è il privilegio della letteratura, cioè quello di superare «il luogo e il momento attuale per porsi alla periferia del mondo e quasi alla fine del tempo, ed è da questa posizione che essa parla delle cose e si occupa degli uomini» 48. Questa concezione di relazione del tempo e dello spazio che Blanchot distingue – prendendo le distanze, sia dalla filosofia di Hegel che di Sartre. Per Hegel l’intervento della dimensione temporale consente di stabilire una relazione effettiva tra realtà diverse, per mezzo della loro trasformazione, in modo tale che la conoscenza più elevata, la “conoscenza filosofica”, possa essere raggiunta grazie e soltanto a un processo dialettico. Nella Fenomenologia Hegel dichiara in modo sintetico e preciso questo movimento di conoscenza: L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo e la verità del positivo medesimo. Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso, qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba fare astrazione 49. Invece dove il tempo non sussiste, come nella “conoscenza matematica”, ciò che risulta è soltanto una “diversità estrinseca”, di tipo spaziale, e quindi non può darsi neanche “unità”, come nel caso della “dimostrazione” matematica. «Una tale dimostrazione assume nel suo corso certe determinazioni e certi rapporti e ne scarta altri, senza che si possa immediatamente render conto della 47 Michel Foucault in Scritti letterari con la riflessione su Il pensiero del di fuori (ivi, pp. 111-133) ma in particolare con Il linguaggio all’infinito (ivi, pp. 73-85), Feltrinelli, Milano 1984 a cura di C. Milanese amplifica questa posizione del rapporto vuoto tra soggetto e linguaggio di Blanchot (M. FOUCAULT, Dits et ècrit 1954-1975, vol. I, Gallimard, Paris 1994, 2001; La pensé du dehors, ivi, pp. 546-567; Le langage à l’infini, ivi, pp. 278-289). Cfr. M. IOFRIDA, Per una storia della filosofia francese contemporanea, da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty, Mucchi Editore, Modena 2007 in particolare le pp. 137-155 intitolate Derrida e Foucault: il dibattito del 1963 su Storia della follia e i suoi esisti storici e teorici. 48 BLANCHOT, Da Kafka a Kafka, p. 41 (cit., p. 326). 49 HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 37. 168 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA necessità per cui ciò avviene; una finalità esteriore regge tale movimento»50. Questo aspetto è stato elucidato da Jean Wahl nell’aspirazione “d’unità” che sollecita e analizza il pensiero di Hegel nell’esperienza di questa separazione, separazione che è imposta dall’esteriorità pertanto «la filosofia si propone di ristabilire l’unità dilacerata. La scissione è la fonte del bisogno della filosofia»51. Nella filosofia della scrittura di Blanchot non è possibile ricostruire una “unità” nel “molteplice”, neanche attraverso un procedimento dialettico che costruisca l’unità anche passando attraverso la “contraddizione”. L’ordine che la scrittura espone è, essenzialmente, frammentario. Nel senso che non è riconducibile né ad una unità perduta, né ad una globalità da stabilire. Nella logica del pensiero di Blanchot il concetto è: «Chi dice frammento non deve dire soltanto frammentazione di una realtà preesistente o momento di un insieme ancora a venire» 52. Infatti è proprio in virtù di questo accadere che nel fenomeno del “frammentario” egli ravvisa che, attraverso questa specie particolare di parola, l’accostamento ad un “centro” che è inverificabile e, proprio per questo, non assume in un orizzonte comune, come proprie parti, i singoli frammenti, bensì è caratterizzato unicamente dall’autonomia in cui li lascia sussistere. In questo senso la critica all’engagement della letteratura di Sartre è un’apertura sulla problematica dell’impegno dello scrittore e del compito della parola. Anche per questo dopo il saggio di Sartre di Che cos’è la letteratura? ci si è trovati nella necessità di tracciare un paradigma trasversale dello scrittore, dell’intellettuale che serva il brusio della lingua. La parola-cosa, sartrianamente intesa de L’essere e il nulla pone il linguaggio a mero strumento, come forma di seduzione primitiva del per-sé, «nella seduzione, il linguaggio non tende a far conoscere, ma a far sentire» 53. Ne Le parole però l’elaborazione è più complessa e articola e la scrittura diventa, quasi wittgensteinianamente, una forma di vita perché «per rinascere bisognava scrivere» 54. Da parte sua Blanchot con la messa in atto di questa filosofia del frammentario ritiene che potrebbe nascere un ordine di tipo nuovo, che non consisterà nell’armonia, nella concordia 50 Ivi, p. 35. J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Laterza, Bari 1994, p. 63 (Le malheur de la conscience dans la philophie de Hegel, PUF, Paris 1951). 52 BLANCHOt, La conversazione infinita, cit., p. 372 (cit., p. 451). 53 J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, a cura di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1964 (L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943). 54 J.-P. SARTRE, Le Parole, a cura di L. De Nardis, il Saggiatore, Milano 1994, p. 135 (Les Mots, Gallimard, Paris 1964, p. 161). 51 169 MARCO G. CIAURRO o nella conciliazione, ma accetterà la disgiunzione o la divergenza come il centro infinito sulla base del quale, attraverso la parola, deve stabilirsi un rapporto: un’organizzazione che non compone ma giustappone, ossia lascia esterni gli uni rispetto agli altri i termini che entrano in relazione, rispettando e riservando questa esteriorità, quella distanza, come il principio – sempre già destituito – di ogni significato55. René Char, a questo proposito, parlerà del «problema delle incompatibilità» dello scrittore, nel senso dell’impossibilità, da parte di uno stesso individuo, di svolgere più “funzioni della coscienza” tra loro differenti e “contraddittorie”. A questo interrogativo posto da Char risponderà Georges Bataille rivendicando il vuoto dell’azione nella parola letteraria. Sarà la decostruzione grammatologica della scrittura di Jacques Derrida ad affermare, proprio a questo riguardo, che la differenza ontologica, è all’origine della mescolanza dei generi, proprio parlando a più riprese dell’opera di Blanchot56. «Ogni testo – dice Derrida – partecipa di uno o di molteplici generi, non c’è testo senza genere, c’è sempre un genere e dei generi ma questa partecipazione non è mai un’appartenenza» (trad. mia) 57. Questo è possibile perché la scrittura traduce il nulla del “dentro” in un “fuori” monumentale, si sottrae all’assiologia schematica e definita perché ciò che è scritto, non è né bene né male […] è il processo perfetto con cui, ciò che al di dentro era nulla, diviene, nella monumentale realtà del di fuori, qualcosa di necessariamente vero, come una traduzione necessariamente fedele 58. Lo scrittore esiste per questa traduzione di sé e la sua frase diventa universale in quanto altri uomini hanno la possibilità di leggerla, riconoscendovisi. Ed è proprio a questo punto che l’autore si accinge ad una prova sconcertante perché vede altri uomini coinvolgersi nella sua opera. Essi però vi portano un altro interesse, diverso da quello che lo aveva spinto a scrivere. Se allora, da una parte, egli non deve sottovalutare il momento della stesura dell’opera, perché è in questa che lo scrittore esiste, si realizza, c’è anche da dire che non esiste scrittore se non in questa trasformazione; da un’altra parte, questo secondo momento dell’esperienza letteraria, del tutto differente 55 BLANCHOT, La conversazione infinita, cit., p. 373 (cit., p. 453). R. CHAR, Recherche de la base du sommet, pp. 625-768, in particolare Y-a-t-il des incompatibiltés?, Gallimard, Paris 1971, p. 658; G. BATAILLE, Lettera a René Char sulle incompatibilità dello scrittore, a cura di R. Esposito, in «MicroMega», 2, 93, pp. 223-237. 57 J. DERRIDA, La loi du genre, in ID., Parages, Galilée, Paris 1986, p. 264. 58 BLANCHOT, Da Kafka a Kafka, cit., p. 13 (cit., p. 297). 56 170 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA dal primo, appartiene all’opera non meno del precedente. Si rivela così una delle circostanze decisive in cui l’atto letterario si costituisce non tanto nel dire, quanto nel mostrare ciò che lo scrittore è in quello che fa: «il fine non è ciò che lo scrittore fa, ma la verità di ciò che fa»59. L’opera scritta nella solitudine può diventare così portatrice di una visione che giudica il suo tempo. Lo scrittore scrive per interrogare se stesso e scrivendo compie questa interrogazione. Nella stessa tensione interrogativa, di scavo del linguaggio anche Edmond Jabès, sebbene in tempi diversi, ha sottolineato che la solitudine, è insita nell’attesa che la letteratura schiude perché vi sono libri come questo, che non hanno beneficiato di alcun vantaggio particolare tranne, forse, del lontano sostegno di uno scrittore solitario che nelle ore dello sconforto e del silenzio, non aspettandosi più nulla dalla propria penna e dal mondo, continuava, senza confessarselo, a spiare in segreto la sua venuta60. Maurice Blanchot avversa Sartre, stando in un certo senso dalla parte di Sartre, riconoscendo cioè a Sartre la grandezza della domanda posta poiché ritiene che la letteratura è fondamentalmente domanda, e una domanda che non si confonde con i dubbi o le perplessità dello scrittore, in questo l’atto di scrivere è esso stesso interrogazione. Ammettiamo che la letteratura – dice Blanchot – inizi nel momento in cui diviene domanda. Una domanda che non si confonde con i dubbi o gli scrupoli dello scrittore. Sorge in lui, se egli giunge ad interrogarsi, mentre scrive61. Proprio perché la letteratura è dubbio e, contemporaneamente, il tentativo di dissolvere tale dubbio, ciò che in essa agisce secondo la concezione del filosofo de L’entretien infini è la forza della negazione: quanto più forte è la negazione, tanto più consistente è il gesto letterario. Se uno scrittore chiuso in carcere, relegato in catene, scrive negando la propria condizione di prigionia, trova in questo atto la libertà per sé, affermando un mondo senza schiavi, di uomini liberi. Ciò gli conferisce la libertà ma essa rimane una libertà fittizia perché lo scrittore resta in catene dentro il carcere, per cui, negando attraverso ciò che fa anche il mondo libero che ha creato, egli 59 Ivi, p. 16 (ivi, p. 300). E. JABÈS, Il libro della condivisione, trad. it. a cura di A. Panicali e S. Mecatti, Ed. Cortina, Milano 1992, p. 9. 61 BLANCHOt, Da Kafka a Kafka, cit., p. 9 (cit., p. 293). 60 171 MARCO G. CIAURRO in realtà nega la negazione stessa. In questo senso lo scrittore è padrone di tutto, ciò che gli manca è il limite. Qui la differenza dal pensiero di Hegel e di Sartre è incolmabile perché nella visione di Blanchot lo “spirito” non realizza dunque, per mezzo della negazione, la propria affermazione e non attinge, per mezzo della “falsità”, la “verità” e la certezza della propria conoscenza. Nella concezione di Hegel «lo spirito è quel potere che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui», così egli dice che «questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere» 62. Il “negativo” nella filosofia di Hegel è condotto fino all’estremo, per Jean Wahl questo motivo risolve le ragioni dell’“impossibile”, eliminandolo in una conciliazione dei poli opposti. Perché si tratti veramente del ritorno del figliuol prodigo che è la ragione umana, occorre che essa abbia dato fondo a tutte le risorse in tutte le diverse, più opposte esperienze. Lungi dall’esserle impossibile, ciò costituisce la sua stessa essenza; solo quando avrà tutto consumato la ragione avrà tutto conquistato 63. Mentre Blanchot all’opposto scrive «colui che si lega alla negazione non può lasciare che essa si incarni in una decisione finale che ne sarebbe esclusa. […] Chi si pone presso la negazione non può servirsi di essa»64. Di questo è prova la parola dello scrittore, la quale, se nega la realtà del mondo a favore di un’altra realtà, quella del linguaggio, non può in alcun modo, per mezzo del linguaggio, aspirare a dire la verità del mondo. Se quindi la letteratura «non si interessa» che «di una cosa, che al suo senso, alla sua assenza, e a questa assenza bisognerebbe guardare assolutamente in sé per sé, volendo guardare, nel suo assieme, al movimento indefinito della comprensione», allora non è possibile eludere una domanda che mette in dubbio l’esistenza stessa di colui che scrive. Come può sperare di veder realizzata la propria missione solo perché ha trasportato l’irrealtà della cosa nella realtà del linguaggio? Come l’assenza infinita della comprensione potrebbe accettare di confondersi con la presenza limitata e gretta di una sola parola?65. Non soltanto la forza, ma anche la debolezza del linguaggio, dunque, risiedono nella negazione. In tal modo anche lo scrittore rivoluzionario non 62 HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 26. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit. p. 13. 64 BLANCHOT, Lo spazio letterario, cit., p. 84 (cit., p. 128). 65 BLANCHOT, Da Kafka a Kafka, cit., p. 30 (cit., p. 315). 63 172 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA esercita un linguaggio del comando, non dà degli ordini, ma mostra attraverso il linguaggio “il senso e l’assenza di tutto”. Infatti la parola che nomina non esplica la cosa nominata, fa notare Blanchot, non la illumina, né ne rende presente l’essenza, piuttosto la nominazione profila l’aspetto vuoto della cosa, svela la parte opaca del significato, rivela l’impossibilità ad essere rappresentazione universale del mondo, come del resto vorrebbe, almeno in parte, Sartre fino a La speranza oggi. Anche per René Daumal, con il suo celebre romanzo Il Monte Analogo, manifesta il vuoto che le parole presentano contrassegnando il tentativo di esprimere ciò che appartiene al “contenuto” impossibile nell’esperienza, indecodificabile e comunicativa del linguaggio e del mondo, “contenuto” che non può che tentare di dirsi sempre attraverso un linguaggio che trascina con sé una tensione verso l’inverificabile. «Le parole – scrive Daumal – non ne avevamo altre – erano senza vita, ripugnanti o ridicole, ridicole come dei cadaveri […] Non avremmo più potuto accontentarci di parole»66. Di fronte a questa impossibilità, la letteratura – nel pensiero di Sartre e Blanchot – interpreta la necessità dell’uomo di fare del linguaggio un’azione significativa, poiché il gesto non è di per sé presente nel linguaggio. Considerando che per entrambi la questione del gesto significante è capitale, anche se forniscono versioni, interpretazioni, stili e metodi critici diversi. Come dice Stefano Poggi in un acuto saggio, proprio sulla negazione, essa è fonte originaria di libertà per l’uomo perché «il nucleo propulsore della trascendenza è la negazione, quella capacità di negare che per Sartre costituisce il «fondo dell’uomo» e che si esplicita nella istantaneità d’una scelta che è comunque segno di libertà»67. La differenza del “negativo” e del suo concepimento, tra Sartre e Blanchot, non è così netta come può apparire ad uno sguardo sommario. Sartre è vero che ha una concezione ellittica del linguaggio mentre Blanchot lo ritiene frammentario – grazie al problema posto proprio da Sartre, Blanchot eleva la scrittura a ‘questione filosofica’. Il merito di Sartre è, quindi, quello di aver individuato il cuore della questione metafisica che pone le basi del suo superamento. Il merito di Blanchot, invece, è quello di individuare, nel nucleo incorrispondente dell’esperienza mortale della lingua, l’inadeguatezza della relazione “ellittica” tra significato e significante e l’impossibilità di dire l’istante verso cui tende l’atto letterario, che è la relazione anticipata con la morte, instaurata dallo scrittore nello stesso atto di scrivere, nell’istante in corso d’opera. La letteratura, perciò, appare come quel luogo dell’esperienza dove la 66 R. DAUMAL, Il Monte Analogo, Adephi, Milano 1991, p. 91. Sartre après Sartre, a cura di G. Farina, Aragno, Torino 2008. Il saggio indicato di S. Poggi è intitolato appunto Heidegger e Sartre: il luogo del negare, p. cit. 230; pp. 227-236. 67 173 MARCO G. CIAURRO relazione con la morte, con l’alterità assoluta – dirà Lévinas –, si fa più impressionante e scandalosa, in ragione del fatto che è presentata nell’atto di scrittura la mancanza d’esperienza della morte. Il tormento del linguaggio nasce, appunto, da questa contraddizione tra la necessità di dire la propria mancanza e l’impossibilità di nominarla. La letteratura esercita il proprio lavoro come coscienza di questo tormento e come tale scopre la propria essenza nell’impossibilità a cessare di esistere. Ciò non significa che la letteratura è pura impotenza perché non riesce a smettere di dire ciò che è propriamente impossibile, piuttosto Blanchot la presenta come possibilità alternativa al discorso ordinario e all’ordine del discorso, cioè al discorso del potere. Ed è esattamente per questo motivo che afferma che essa è un «potere senza potere, semplice impotenza a cessare d’essere, ma che, a causa di ciò, appare la determinazione propria all’esistenza indeterminata e priva di senso» e che è «quest’esperienza attraverso cui la coscienza scopre il proprio essere nella sua impotenza a perdere coscienza» 68. In questo modo la letteratura scopre la sua relazione profonda con ciò che in lei vi è di più disgregante: la morte. Ma nello stesso momento, attraverso la letteratura, la morte diventa la più grande alleata dell’uomo, anzi Blanchot sostiene perfino che la morte «è la più grande speranza degli uomini, è la sola speranza di essere uomini» 69. Per mezzo dell’uomo la morte lavora nel mondo al suo fianco e lo rende più propriamente uomo, in quanto egli è un processo mortale: la morte lavora con noi nel mondo, potere che umanizza la natura, che innalza l’esistenza ad essere, è in noi come la nostra parte più umana; non è morte se non nel mondo. L’uomo non la conosce se non in quanto uomo, poiché l’uomo è morte in divenire 70. Non per questo con la morte è instaurabile un rapporto privilegiato o diretto, né grazie all’atto letterario, né attraverso alcun’altra mediazione. A questo complesso riguardo Blanchot analizza l’esempio più estremo del tentativo di dominare la morte da parte dell’uomo, vale a dire il suicidio; scoprendovi una somiglianza con la letteratura, poiché entrambi desiderano qualcosa che non è in loro potere, per il suicida è la padronanza della propria morte, per lo scrittore è il pieno controllo sulla e della propria opera. Ciò che vi è di deliberato nel suicidio – dice Blanchot – quella parte 68 BLANCHOT, Da Kafka a Kafka, cit., p. 35 (cit., p. 320). Ivi, p. 40 (ivi, p. 324). 70 Ibidem (ivi, p. 325). 69 174 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA libera e dominatrice attraverso la quale ci sforziamo di restare noi stessi, serve soprattutto a proteggerci da questo evento. Sembra che così facendo ci si sottragga all’essenziale, sembra che ci frapponiamo indebitamente fra qualche cosa di insostenibile e noi stessi, cercando, in questa morte familiare che viene da noi, di incontrare ancora soltanto noi stessi, la nostra decisione e la nostra certezza 71. È in questa visuale, o in questo ascolto dell’essere, che sia Sartre che Blanchot, in diversi luoghi della loro opera, rimeditano e ricomprendono nella propria interpretazione e nella propria esperienza della letteratura la frase di Hegel per la quale «non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito» 72. Chi si toglie la vita, il suicida, per sfuggire così alla propria caducità perde la reale possibilità di morire, poiché nega a se stesso quel potere di decisione che vorrebbe affermare. È in questo senso, con questo significato che Blanchot dice il «pensiero della morte non ci aiuta a pensare la morte, non ci dà la morte come qualcosa da pensare»73. Ciò in cui consiste la lacerazione originaria dell’uomo è che la morte tende all’essere, cosicché il nulla contribuisce all’edificazione del mondo per mezzo dell’uomo e «attraverso l’uomo la morte arriva all’essere e attraverso l’uomo il senso riposa sul nulla» 74. Tuttavia se per Hegel, in tal modo, lo “spirito”, innalzato dalla prova, giunge alla pienezza della propria “autocomprensione”, Blanchot non vede per chi scrive la possibilità di fuoriuscire, attraverso l’opera, dallo spazio in cui vita e morte si implicano reciprocamente. È grazie al dolore e alla sofferenza che la letteratura, o più precisamente lo scrittore, prende coscienza della propria azione nel mondo e, proprio perché il dolore che dilania l’atto letterario è questa morte incomprensibile, ma necessaria, lo scrittore deve essere nel contempo vita e morte e viceversa, senza che la contraddizione possa saldarsi in una conciliazione di contrari. Piuttosto, l’essere è il contrario della morte, la morte è il contrario dell’essere, e l’essere che si tiene fuori da questa possibilità, cioè dalla possibilità della morte, cade nel nulla. Precisamente Blanchot dice che 71 BLANCHOT, Lo spazio letteratrio, cit., p. 83 (L’espace littéraire, cit., p. 327). HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 26. 73 M. BLANCHOT, Il passo al di là, trad. it. e cura di L. Gabellone, Marietti, Genova 1989, p. 5 (Les pas au-delà, Gallimard, Paris 1973, p. 7). 74 BLANCHOT, Da Kafka a Kafka, cit., p. 46 (cit., p. 331). 72 175 MARCO G. CIAURRO non comprendiamo se non privandoci d’esistere, rendendo la morte possibile, contagiando ciò che noi comprendiamo del nulla della morte, di modo che, se usciamo dall’essere, cadiamo fuori della possibilità di morire e l’esito si trasforma nella scomparsa di tutti gli esiti 75. Dunque l’uomo è colui attraverso il quale la morte arriva all’essere, colui per mezzo del quale il senso resta indeciso, aperto, significante. Il movente iniziale dell’atto letterario resta così contrassegnato da una condanna sconosciuta e da una felicità ancora inattingibile, un “doppio senso” sul quale la letteratura forgia il valore delle proprie parole e pone la domanda essenziale per l’esistenza. In questo doppio senso iniziale – scrive Blanchot – che è al fondo di tutte le parole come una condanna ancora sconosciuta e una felicità ancora invisibile, la letteratura trova la propria origine, perché è la forma che esso ha scelto per manifestarsi dietro il senso e il valore delle parole e la domanda che pone è la domanda che pone la letteratura 76. L’interrogazione sulla letteratura, nell’opera di Maurice Blanchot, costituisce la risposta plurale e polivalente all’engagement sartriano. Questa risposta la accomuna alla riflessione di Georges Bataille che riconosce nell’arte, cioè all’interno della scrittura, un centro che può essere espresso solamente in modo mobile e che ne descriva l’inenucleabilità. «Siamo condotti, sottolinea Parham Shahrjerdi, qui ad un pensiero antidogmatico che s’interessa all’assenza di un mondo centrato e alla virtualità degli spazi infiniti»77. Il risultato del dibattito tra Sartre e Blanchot che, per entrambi, rimane costantemente vivo negli anni, è una questione aperta per delineare i confini della responsabilità intellettuale dello scrittore. Infine l’idea della poesia che condividono è esplicitata da Blanchot nella “lumière de René Char” che per Sartre si definisce “nella poesia del prosatore”. Quindi al di là del limite, rappresentato dal linguaggio e dal pensiero psico-sociologico di Sartre, egli produce una prima visione del paradigma ontologico invisibile che spiana la strada alla vocazione dello scrittore. L’intellettuale, dice Sartre, non pretende di insegnare benché lo si recluti, spesso, tra gli insegnanti […] Egli indaga su se stesso per trasformare in totalità armoniosa 75 Ibidem. Ivi, p. 47 (cit., p. 331). 77 Colloque de Genève, dedicati a Maurice Blanchot dal titolo La littérature encore une fois, Parham Shahrjerdi “De la mort à la littérature” pp. 117-131, p. cit. 120. 76 176 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA l’essere contraddittorio che gli è stato attribuito. Ma non può essere il suo solo oggetto, poiché costui non pensa di trovare il suo segreto o di risolvere la contraddizione organica se non applicando alla società di cui è il prodotto, all’ideologia di quella società78. L’autoanalisi soggettiva e specifica dello scrittore di ciò che egli è, come responsabilità individuale, dunque, sarebbe un processo interno alla coscienza che si riversa nella società attraverso il linguaggio. Ma è proprio per questo che va superato nella scrittura dell’universale. 3. L’impegno dello scrittore nell’epoca “neomoderna” 79 L’impegno dello scrittore, dopo l’11 settembre 2001, può consistere allora nella domanda che ritorna imperiosa nell’universale e che si pone, in modo ancora originale e urgente, come questione umanistica della letteratura. Anche per questo Blanchot ne La questione degli intellettuali – a distanza quasi quaranta anni dalla polemica sull’impegno – orienta o meglio ridelinea l’orizzonte principale di un cammino nei cui passi si possa definire, in accordo con Sartre, un paradigma ontologico e universale, invisibile-visibile dello scrittore, perché questo problema non può finire di essere rappresentato giacché sempre si ripresenta nell’esistenza. Infatti in questo saggio è la letteratura stessa di Blanchot che viene chiamata in causa dall’impegno, non più di Sartre, ma della storia e nella storia. Sartre riposa nel cimitero di Montpanasse da quattro anni quando Blanchot scrive queste pagine. Ed è egli stesso ad essere impegnato a spiegare le ragioni politiche precise che, tra teoria e pratica, hanno sviluppato l’azione nella società e il dialogo critico sul ruolo dell’impegno nello scrittore contro la guerra, a partire dalla seconda metà del Novecento. Invece con un articolo su «Le Monde» del 8 ottobre del 1983 Jean-Luc Lyotard mette in dubbio il ruolo e il compito degli intellettuali che vorrebbe seppellire con l’espressione “Tomb de l’intellectuel”. Il pensiero di Blanchot è impegnato nella responsabilità immediata, è 78 J.-P. SARTRE, Difesa dell’intellettuale, Bompiani, Milano 1999, pp. 69-70. Per l’uso della parola e del significato di “neomoderno” faccio riferimento al saggio di R. MORDACCI, La condizione neomoderna, Einaudi, Torino 2017 in particolare alle pp. 72-74 dove si precisa che il passaggio al nuovo millennio nasce emblematicamente con la distruzione del World Trade Center nel 2001cancellando l’idea di un mondo pacifico, sotto l’egida degli Stati Uniti, com’era il diffuso pensare occidentale dal crollo del 1989 del Muro di Berlino in poi. 79 177 MARCO G. CIAURRO imbarcato con questo saggio nel presente del testo, nel “dibattito permanente”. Quindi la differenza tra l’azione e la letteratura diviene sfumata ed è in parte, nell’azione stessa della scrittura, come dice Sartre, che si verifica la responsabilità della letteratura. Può sembrare paradossale che, proprio colui che aveva avversato l’engagement, alla fine degli anni Quaranta, ritendo che la domanda “Che cos’è la letteratura?” fosse mal posta, ne riveli invece l’essenza, il nocciolo esistenziale di essere impegnati in situazione. E riveli che il punto nodale, l’attrito del pensiero che la letteratura produce, è nella viva voce di scrittura. Blanchot consegna così come testimonianza, attraverso la poesia di Char, il pensiero politico implicito alla letteratura. Nella Nota Bibliografica infatti precisa le ragioni impellenti che lo obbligano a denunciare le sue posizioni: […] tutto in me si domanda come una convinzione personale di una tale importanza possa essere imposta o solamente proposta agli altri, addirittura a tutti -, esse si sono sviluppate al di là di ciò che sostengo, senza che io possa pervenire al termine del mio cammino […] esse possono aiutare il “dibattito permanente” e cosa ben più decisiva egli afferma che queste domande «le libero dunque nella loro insufficienza decidendo per la certezza che ho dovuto esprimere alla fine sotto l’illuminazione di René Char» 80. Nello stesso senso, benché in altro stile, Sartre dichiara che l’ impegno dello scrittore mira a comunicare l’incomunicabile (l’essere-nel-mondo vissuto) sfruttando la parte di disinformazione contenuta nella lingua comune […] l’obbligo di rimanere sul piano del vissuto suggerendo l’universalizzazione della vita all’orizzonte. In tal senso egli non è intellettuale per caso […] ma per essenza […] l’essere in un mondo che ci schiaccia e, dall’altro, affermazione vissuta della vita come valore assoluto ed esigenza di una libertà che si rivolge a tutti gli altri 81. L’identità intellettuale nel corso del XX secolo ha camminato per tracciare un tragitto della responsabilità degli scrittori nell’etnia culturale. L’etnia culturale si riconosce nel problema di opporsi alla guerra come liberazione sociale. L’odio che, nella storia dell’umanità, è stato rivelato nei campi di concentramento, Auschwitz è lì ancora oggi a rimarcare che c’è una responsabilità ontologica, invisibile e indefinibile, individuale e collettiva. «Dal 80 81 BLANCHOT, La questione degli intellettuali, cit., p. 62. SARTRE, Difesa dell’intellettuale, cit., pp. 122-123. 178 IL DIBATTITO TEORICO SULL’“IMPEGNO” IN LETTERATURA caso Dreyfus a Hitler e ad Auschwitz, si è avuto conferma che è l’antisemitismo (insieme al razzismo e alla xenofobia) ad aver rivelato più fortemente l’intellettuale a se stesso»82. Se questo problema dell’identità intellettuale è loro causa, e se la loro causa non si può chiarire del tutto, questa causa si può almeno porre in gioco nella letteratura stessa a difesa del Giusto. Infatti la difesa del Giusto è il problema che definisce i margini dell’identità intellettuale. Nell’impegno essa è in gioco nel soggetto come verità dell’universale. La responsabilità della scrittura agisce sull’immaginario, perché ogni creatività e ogni cultura è nell’essenza umanesimo dell’Altro Uomo. In questo c’è etica di scrittura nel sapere condiviso che opera nella responsabilità dell’Uno-per-l’Altro. La risposta dell’impegno, allora, al di là delle differenze di scuola associa e unisce gli scrittori, Sartre e Blanchot, in un medesimo fronte culturale mettendo in comune un orizzonte filosofico e politico di segno plurale che illumina la scena del dialogo. 82 M. BLANCHOT, La questione degli intellettuali, Mimesis, Milano 2010, p. 59. In questo senso è di utile il libro di CH. BIDENT, Maurice Blanchot: partenaire invisible, Champ Vallon, Seysselles 1998, pp. 567-572. 179 RECENSIONI Fabrizio Scanzio J.-P. Sartre, Tortura, Diritto e Libertà (a cura di Michel Kail) Le Edizioni Marinotti hanno pubblicato lo scorso anno, come dodicesimo volume della collana “Sartriana”, un’antologia di testi intitolata Tortura, Diritto e Libertà. Promossa da G. Farina e curata da Michel Kail, a cui si devono sia il saggio introduttivo che la lucida e incalzante postfazione (scritta a due mani con F. Athané), la raccolta può apparire a prima vista un po’ anomala, per l’eterogeneità dei testi che la compongono e per la loro dispersione temporale (1927, 1948, 19671972). Tuttavia è lo stesso M. Kail a chiarirne subito senso e utilità: «Le relazioni che Sartre ha intrattenuto col diritto non costituiscono un grande nodo di interesse nel campo degli studi sartriani. Eppure Sartre si è mostrato interessato alla questione del diritto in numerose occasioni che lo hanno portato a combinare argomentazione filosofica e impegno» (p. 141). Pur confermando la mancanza di una teoria sartriana del diritto organica, la raccolta mette in risalto la tensione costante tra i due approcci a questa problematica che nell’opera di Sartre si rincorrono: da un lato la critica del diritto astratto formale, Studi sartriani Anno XIII / 2019 www.grupporicercasartriana.org inteso marxianamente come insieme di norme storicamente determinate, prodotte dalla società, che entrano in contrasto con il libero progetto della coscienza “in situazione”; dall’altra, il diritto come “irruzione etica” che nasce dalla libertà in situazione e chiede di farsi norma giuridica in nome di una, sicuramente problematica ma non meno necessaria per il filosofo, “giustizia popolare”. La prima posizione è quella che emerge a partire dal testo giovanile La teoria dello Stato nel pensiero francese contemporaneo (datato 1927 e inedito in italiano), seguito da alcune sezioni dei Quaderni per una morale qui riproposte e intitolate Le contraddizioni del diritto. La seconda posizione prende invece forma negli interventi che Sartre dedica tra il 1967 e il 1972 ad alcuni fatti “di cronaca” su cui, per ragioni diverse, è chiamato a prendere posizione: il Tribunale Russell, l’arresto di due militanti maoisti, la morte di 16 minatori a Lens e il rapimento e assassinio di una giovane ragazza di provincia. È in questi ultimi testi che il disprezzo di Sartre per la giustizia “borghese” si mescola col tentativo di trasfigurare in una cornice giuridica ancora “a venire” il contenuto etico della giustizia popolare. «Siamo attualmente in una tappa intermedia in cui si tratta di far prendere coscienza alla gente di cosa sia la giustizia popolare» (p. 166). Tentativo problematico, di cui M. Kail evidenzia bene le ambiguità e i limiti, che tuttavia ci spinge a consi183 derare anche questi testi d’occasione come un altro prezioso tassello della incessante interrogazione morale che attraversa l’intera opera sartriana. Sartre, Jean-Paul, Tortura, Diritto e Libertà (a cura di M. Kail), Marinotti, Milano 2018, 196 pp. *** (traduction de E. Maglione) Les Éditions Marinotti ont publié l’année dernière, comme douzième volume de la série «Sartrienne», une anthologie de textes intitulée «Tortura, Diritto e Libertà». Promue par G. Farina et dirigée par Michel Kail, à qui l’on doit à la fois l’essai introductif et le brillant épilogue ( coécrit avec F. Athané), le recueil peut sembler à première vue un peu anormal en raison de l’hétérogénéité de ses textes et de leur dispersion temporelle (1927, 1948, 1967, 1972). C’est précisément M. Kail, cependant, qui va en clarifier immédiatement le sens et l’utilité «les relations que Sartre a entretenues avec le droit ne constituent pas un grand centre d’intérêt dans le domaine des études sartriennes. Néanmoins Sartre a toujours éprouvé de l’intérêt pour la question du droit à de nombreuses occasions qui l’ont amené 184 à mêler philosophie et engagement». (p. 141). Tout en confirmant le manque d’une théorie sartrienne du droit organique, le recueil souligne la tension constante entre les deux approches de cette problématique qui se rejoignent dans l’œuvre de Sartre: d’un côté la critique du droit abstrait-formel, perçu de façon marxiste comme un ensemble de normes historiquement déterminées, produites par la société, qui entrent en contraste avec le projet libre de la conscience «en situation»; de l’autre, le droit comme «irruption éthique» qui naît de la liberté en situation et veut s’établir comme norme juridique au nom d’une «justice populaire» sûrement pour le philosophe moins problématique mais tout aussi nécessaire. La première position est celle qui émerge du texte juvénile La théorie de l’Etat dans la pensée française contemporaine (inédit en italien, datant de 1927), suivie de certaines sections des Cahiers pour une morale proposées de nouveau ici et intitulées Les contradictions du droit. La deuxième position prend forme en revanche dans les interventions que Sartre consacre, entre 1967 et 1972, à certains faits «divers» sur lesquels, pour diverses raisons, il est appelé à prendre position: le Tribunal Russell, l’arrestation de deux militants maoïstes, la mort de 16 mineurs à Lens et l’enlèvement et l’assassinat d’une jeune fille de province. Ces dans ces derniers textes que le mépris de Sartre pour la justice «bourgeoise» se mêle à la tentative de transformation au sein d’un cadre juridique encore «à venir» du contenu éthique de la justice populaire. «Nous sommes actuellement dans une phase intermédiaire où il est question de faire prendre conscience aux gens de ce qu’est la justice populaire» (p. 166). Effort problématique dont M. Kail met bien en évidence les ambiguïtés et les limites, qui nous pousse toutefois à considérer aussi ces écrits secondaires comme une autre précieuse pièce composant l’interrogation morale qui traverse toute l’œuvre sartrienne. Sartre, Jean-Paul, Tortura, Diritto e Libertà (éd. par M. Kail), Marinotti, Milano 2018, 196 pp. *** Francesco Caddeo R. Kirchmayr, Le Passioni del visibile. Saggio sull’estetica francese contemporanea Il volume che Raoul Kirchmayr dà alle stampe offre al lettore una critica di alto profilo attorno ad alcuni momenti salienti del pensiero esteti- co francese contemporaneo. Il libro è senz’altro esigente rispetto al suo pubblico, poiché richiede una conoscenza pregressa dei punti cardinali della filosofia estetica francese, che si propone, riuscendoci, di illustrare, di giustapporre e di rielaborare. L’impostazione di Kirchmayr oltrepassa gli studi specialistici perché prende in considerazione un’estetica francese novecentesca senza separarne i contributi in scuole, correnti e generazioni rigidamente distinte. L’autore evita, come troppo spesso è avvenuto, di utilizzare rigidi compartimenti ereditati da etichette ancora diffuse come “esistenzialismo”, “postmodernismo”, “strutturalismo”. Laddove tale questione si pone, per esempio nel momento in cui si tratta di comprendere il passaggio tra fenomenologia e ontologia postfenomenologica, Kirchmayr ha sempre l’accortezza di indicare i punti specifici in cui la riflessione filosofica passa dai canoni fenomenologici ad altro, senza affidarsi a generici riferimenti. Come l’autore stesso ammette, i saggi che compongono il volume nascono in ordine sparso e in occasioni anche un po’ separate nel tempo. Ciò che emerge è più gioco ampio e articolato di intrecci, rimandi, riprese, rielaborazioni, che un panorama omogeneo del pensiero francese. Dalle pagine del libro risalta, di conseguenza, un’idea di divenire segmentato e multiplo, che mette ai margini una visione della storia recente in quanto linearità. Il lettore 185 non si deve attendere neanche una storia dell’estetica francese in senso enciclopedico, ma approfondimenti puntuali che ridisegnano una mappa controcorrente: per esempio, il tracciato non segue esclusivamente la successione cronologica, ma ritorna spesso indietro nel tempo da una generazione recente ad una più lontana. Addentrandosi nelle pagine del libro, il lettore ha modo di scoprire come la filosofia francese, nelle sue varie manifestazioni, abbia, più di altre, modificato se stessa nel confronto con l’arte: si tratta quindi di una filosofia attraverso l’arte, piuttosto che sull’arte. Già nel primo intervento, il lettore dispone di una precisa illustrazione del pensiero fenomenologico dell’immagine: appare quindi chiara l’importanza del discorso husserliano ma anche l’autonomia della riflessione sartriana che si distacca dal suo predecessore tedesco. La sintesi del contributo husserliano è efficace e fa comprendere al lettore come Sartre sia, allo stesso tempo, lettore attento di Husserl e critico implacabile delle sue ambiguità: ciò che emerge è la connessione tra pensiero tedesco e originalità francese a proposito della separazione radicale tra percezione e immaginazione, separazione che Husserl ha intravisto, ma che non ha saputo chiarire in maniera univoca. È inoltre notevole, l’intervento di K. a proposito del Tintoretto di Sartre. L’autore riesce, infatti, a mostrare la 186 contemporaneità del discorso sartriano incentrato sulla produzione pittorica rinascimentale veneziana: il rapporto tra carnalità e realismo della pittura, la tematizzazione di una critica rivolta contro la fredda prospettiva geometrica e lontana dallo spazio abitato dai corpi, la presa in considerazione della pesantezza materiale e dell’opacità contro la celebrazione formale dell’ordine, mostrano in maniera chiara la ricchezza di spunti che le pagine sartriane sulla pittura possono ancora offrire. Kirchmayr consegna anche un’adeguata mappatura della tematizzazione filosofica del cinema: essa attraversa le generazioni e fa dialogare ispirazioni bergsoniane, freudiane, fenomenologiche. Appare in maniera evidente come, attraverso il cinema, si possano cogliere alcune divergenze all’interno del panorama filosofico francese: nel testo si ritrovano in maniera puntuale tutti i temi che allontanano la considerazione del soggetto e della centralità della percezione rispetto al pensiero del desiderio e dell’asoggettività. In seguito, non mancano i riferimenti più recenti a proposito dell’etica dello sguardo di Georges DidiHubermann, e soprattutto, la sua critica rivolta alle griglie del sapere che hanno tradizionalmente “ingabbiato” il materiale iconico. La critica al sapere metafisico si accompagna dunque a una trasformazione della postura filosofica. In questo capitolo, Kirchmayr permette al lettore di esplorare una, ancora non del tutto delineata, ontologia del visibile. Pur riprendendo in maniera un po’ rapida un vocabolario (dissimile, perturbazione, onda, abissale) specifico del contributo di Didi-Hubermann, K. rende in maniera efficace la potenza del sapere interdisciplinare che scardina i riferimenti classici della rappresentazione. Se, come abbiamo sottolineato, il capitolo su Sartre dedica spazio a riepigolare le fonti da cui scaturisce il discorso sartriano, il lettore dovrà essere già molto più formato al linguaggio di Derrida per addentrarsi nell’ultimo capitolo. Con la solita freschezza, Kirchmayr mobilita l’apparato concettuale derridaiano (ritorno, traccia, invio, scrittura), anche se, per coglierne tutte le molteplici implicazioni, occorre aver già frequentato la produzione del filosofo franco-algerino. Tra i tanti punti di forza (grande conoscenza degli autori, focalizzazione e selezione dei passaggi più significativi, ammirevole dono della sintesi della scrittura, varietà di temi e di spunti di riflessione), si nota però che il libro spazia forse un po’ troppo tra le tematiche e il lettore si ritrova catapultato dall’immagine fenomenologica alla scrittura filosofica a proposito dell’esperienza del viaggio, dalla scultura di Giacometti all’estetica del souvenir. Come ogni ricerca “aperta” che mira consapevolmente più allo studio degli intrecci tematici che all’espressione perentoria di asserzioni, il testo si espone al rischio di un’eccessiva “apertura”. Il gioco di rimandi è senz’altro coerente e pertinente (Sartre e Derrida, Didi-Hubermann rispetto a Lyotard e Merleau-Ponty, Sartre e Merleau-Ponty, Lyotard e Deleuze rispetto a Merleau-Ponty, senza dimenticare il bel capitolo sul ritratto in cui il contributo di Nancy è anticipato da una ripresa sintetica degli apporti di Sartre e Foucault rispetto al pensiero cartesiano della rappresentazione del soggetto) e il loro apparire in maniera trasversale rende i capitoli meno isolati. Di fronte a una tale ricchezza di analisi, di precisa competenza filosofica, di rimandi a una produzione filosofica varia e complessa, il lettore rimane sospeso in attesa di una conclusione, certamente ardua da concepire nella sua interezza, ma capace di ripercorrere criticamente l’importante e coinvolgente percorso svolto. In particolare, riprendere alla fine una prospettiva generale avrebbe proposto in maniera ancora più esplicita le linee conduttrici della ricerca, pur salvaguardando la voluta antisistematicità del lavoro. Il testo di Kirchmayr è la presa d’atto della fine della metafisica nell’estetica e del modo di pensare che le è peculiare: esso suona la campana a morto per tutte quelle forme di pensiero della rappresentazione che ancora persistono nella riflessione attorno all’arte. Tale presa d’atto comporta la ricerca, già abbozzata ma ancora da percorrere, di strade alternative che 187 implicano modifiche del linguaggio e della postura filosofica stessa. Kirchmayr, Raoul, Le Passioni del visibile. Saggio sull’estetica francese contemporanea, Ombre Corte, Verona 2018, 184 pp. 188