UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA
CICLO XVII
COORDINATORE DEL DOTTORATO DI RICERCA: prof. G. B. Gori
METAETICA ED ETICA NORMATIVA NELLA RIFLESSIONE MORALE
DI R. M. HARE
Dottorando: Giuseppe Barreca
Matr.: R04614
TUTOR: prof. Amedeo Vigorelli
ANNO ACCADEMICO 2004-2005
2
Indice
Introduzione......................................................................................................................4
CAPITOLO 1. L’etica e il suo linguaggio .........................................................................21
La concezione funzionalista del linguaggio ...................................................................24
Proposizioni descrittive e proposizioni valutative..........................................................26
Universalità e prescrittività e sopravvenienza ................................................................29
Il significato di “buono”, dovere e giusto.......................................................................36
Il problema del naturalismo............................................................................................42
Il non descrittivismo .......................................................................................................45
CAPITOLO 2. Prescrittivismo universale..........................................................................52
Il prescrittivismo come principio normativo ..................................................................52
L’immedesimazione simpatetica ....................................................................................56
Le difficoltà del prescrittivismo .....................................................................................60
Il fanatico........................................................................................................................63
L’incompletezza del prescrittivismo ..............................................................................69
Le tesi logiche e le questioni normative .........................................................................73
CAPITOLO 3. Livelli del pensiero morale ed utilitarismo ................................................77
Le questioni aperte..........................................................................................................80
Un nuovo orizzonte normativo .......................................................................................82
La formalità dell’utilitarismo .........................................................................................87
I livelli del pensiero morale ............................................................................................90
La funzione dei livelli del pensiero morale ....................................................................96
CAPITOLO 4. L’utilitarismo di Hare ..............................................................................101
I fattori dell’azione morale ...........................................................................................102
Stato cognitivo, stato affettivo e stato conativo............................................................106
La moralità e la prudenza .............................................................................................109
I confronti interpersonali ..............................................................................................111
La scelta delle preferenze .............................................................................................116
La misurazione dell’utilità............................................................................................119
CAPITOLO 5. I problemi della svolta linguistica............................................................125
La fondazione “linguistica” dell’utilitarismo ...............................................................127
Esiste una logica del ragionamento morale? ................................................................132
Termini primariamente e secondariamente valutativi ..................................................143
Problematicità della distinzione fatto/valore ................................................................147
CAPITOLO 6. L’utilitarismo e i suoi “nemici” ...............................................................149
I problemi del welfarismo.............................................................................................149
La questione delle preferenze .......................................................................................151
I problemi del consequenzialismo ................................................................................157
Utilitarismo e identità personale...................................................................................160
Le risposte di Hare........................................................................................................166
3
Considerazioni conclusive............................................................................................170
Bibliografia...................................................................................................................178
Abbreviazioni delle principali opere di Hare citate nel testo
LM: The Language of Morals, Oxford University Press, Oxford 1952 (trad. it. Il
linguaggio della morale, a cura di M. Borioni, Ubaldini, Roma 1968).
FR: Freedom and Reason, Oxford University Press, Oxford 1963 (trad. di Libertà e
ragione, a cura di M. Borioni e F. Palladini, il Saggiatore, Milano 1971 e 1990).
MT: Moral Thinking: Its Levels, Methods and Points, Oxford University Press, Oxford
1981 (trad. it. Il pensiero morale. Livelli, metodi, scopi, a cura di S. Sabattini, il Mulino,
Bologna 1989).
SO: Sorting out Ethics, Oxford University Press, Oxford 1997.
4
Introduzione
La riflessione morale di Richard M. Hare (1919-2002) è una delle più sistematiche
applicazioni dei metodi della filosofia analitica ai problemi dell’etica. Essa sostiene che
i giudizi morali che gli esseri umani formano ed in virtù dei quali regolano la propria
condotta, hanno tre precise caratteristiche: 1) l’universalità (ossia l’idea che un giudizio
morale enunciato in particolari circostanze debba essere espresso nella medesima forma,
quando si presentano situazioni simili, negli aspetti rilevanti, alle circostanze che ne
hanno determinato l’originaria enunciazione); 2) il loro carattere prescrittivo (ossia il
fatto che con l’esprimere un giudizio ci si impegna ad aderire ad esso con fermezza, ad
agire in coerenza con esso e a fare in modo, attraverso un’argomentazione razionale e
non per mezzo della semplice persuasione oppure della coercizione propagandistica, che
anche gli altri facciano altrettanto); 3) il loro essere soverchianti (ossia predominanti, e
dunque gerarchicamente superiori rispetto alle altre forme di giudizio, ad esempio
quelle estetiche o quelle descrittivo fattuali).
Hare si inserisce nel filone di riflessione di carattere metaetico, peculiare della
filosofia anglosassone della prima metà del ‘900 e inaugurato da G. E. Moore con i suoi
Principia Ethica (1903), secondo il quale il compito del filosofo morale è quello di
indagare le regole che sottostanno all’uso dei predicati etici; sarà perciò la
chiarificazione del significato di termini come “buono”, “giusto”, “doveroso”, ad
attirare l’attenzione degli studiosi che applicano i metodi della filosofia del linguaggio
all’analisi dei termini e degli enunciati morali. Infatti, per evitare confusioni concettuali
foriere di errori morali, va prima ben chiarito l’ambito linguistico di utilizzo dei termini:
solo dopo questo passo potrà esserci discussione in etica, poiché ci sarà un accordo, a
valle, sul significato dei termini che si utilizzano. È assente, nella riflessione di questi
autori, la definizione di un modello normativo, eccetto per un riferimento
all’utilitarismo da parte di Moore nel volume Ethics (1912).
Lo stesso Hare, all’inizio della sua riflessione, ritiene che prima di affrontare
qualsiasi questione morale, ci debba essere un preliminare accordo sul significato dei
termini utilizzati per enunciare le proprie prescrizioni. Il compito del filosofo morale si
può efficacemente esplicare nella determinazione delle condizioni di possibilità dei
giudizi morali, chiarendo le proprietà logiche dei termini che in essi occorrono; di
converso, non è possibile una altrettanto efficace riflessione relativa all’etica normativa.
5
I giudizi morali sono tali in primis se sono logicamente coerenti, ossia prescrittivi ed
universali, poiché, secondo Hare l’etica è una branca della logica: “Io definisco l’etica
teoretica una branca della logica, perché il suo scopo principale è scoprire il modo di
determinare quali sono gli argomenti giusti rispetto alle questioni morali” (SO, p. 4).
Pertanto, quando Hare sostiene in The Language of Morals (1952) che gli enunciati
prescrittivi devono rispondere alla domanda (che fare?), egli asserisce che la forza
motivante è intrinseca agli enunciati stessi: il dovere primario per il filosofo morale è
operare dei ragionamenti logicamente coerenti al fine di agire in modo razionale.
L’analisi di Hare è comunque innovativa nella misura in cui riconosce agli enunciati
dell’etica un significato autonomo: in tal modo, viene superare l’argomentazione svolta
dall’emotivismo etico che, nella formulazione radicale di Ayer1, non annetteva alcun
significato alle proposizioni morali, mentre nella formulazione moderata di Stevenson2,
postulava l’esistenza di un generico significato emotivo, secondo il quale gli enunciati
dell’etica avevano il compito di persuadere l’ascoltatore. Hare invece è convinto che le
proposizioni della morale possiedono un significato peculiare, quello prescrittivo, in
quanto devono fornire ragioni per la condotta: l’etica gode dunque di uno spazio
autonomo, giacché le sue proposizioni non devono essere vere o false, bensì universali e
prescrittive nel senso sopra definito: è questo il non cognitivismo di Hare.
La convinzione secondo cui l’etica sia una branca della logica promuove un’analisi
semantica3 degli enunciati morali, tesa a chiarire la funzione ed il significato che essi
svolgono all’interno del linguaggio morale, unitamente al fatto che tali enunciato
influenzano la condotta, determinando le decisioni. Gli enunciati dell’etica sono perciò
analizzati in virtù di determinate regole d’uso, ossia in virtù delle consuetudini secondo
cui i parlanti li impiegano nel linguaggio nel quale esprimono tali enunciati. Il senso
delle proposizioni e dei termini etici infatti coincide con le loro regole d’uso; il fatto poi
che ogni lingua e cultura possieda dei differenti segni fonetici per esprimere i concetti
morali, non significa che non esistano regole d’uso universali che regolino l’utilizzo dei
1
Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, Gollacz, London 1946, (trad. it. Linguaggio, verità e
logica, a cura di G. De Toni, Feltrinelli, Milano 1987).
2
C. L. Stevenson, Ethics and Language, Yale University Press, Yale 1944 (trad. it. Etica e Linguaggio, a
cura di S. Ceccato, Longanesi, Milano 1962).
3
Scrive U. Scarpelli, I fondamenti e il metodo dell’analisi del linguaggio, in L’etica senza verità, il
Mulino, Bologna 1982, p. 16: “le regole semantiche [sono] quelle concernenti le relazioni tra i simboli e
gli stati o eventi non linguistici”.
6
concetti espressi dai termini morali4. Per esempio, se un termine come “ought” è
utilizzato in senso etico, esso avrà un contenuto concettuale comune alle differenti
lingue, poiché in ogni linguaggio esso segue determinate regole d’uso che lo collegano
all’espressione di un’obbligazione5. Pertanto, “se ‘ought’ è un termine formale, allora
dovremmo essere capaci di scoprire tutto quel che c’è da sapere riguardo al suo
significato ed alle regole per il suo impiego attraverso lo studio delle sue proprietà
logiche” (SO, p. 6)6, le quali, per gli enunciati contenenti il verbo “dovere”, sono la
universalità e la prescrittività. Ciò vuol dire che
i significati delle proposizioni e della parole morali…determinano la logica
delle inferenze nelle quali esse appaiono. Pertanto, uno studio dei significati delle
parole o proposizioni morali, o di quello che le persone intendono asserire quando
le pronunciano, dovrebbe renderci capaci di indagare le proprietà logiche di quel
che essi dicono, e così decidere se quel che sostengono sia in sé coerente (selfconsistent), se implica qualcosa, ed in generale quali argomenti (razionali) sono
buoni e quali non lo sono. Dunque la filosofia del linguaggio, applicata al
linguaggio morale, dovrebbe essere in grado di fornire una struttura logica al
nostro pensiero morale (SO, p. 1).
Hare tuttavia, a partire dell’opera Freedom and reason (1963), sembra più incline a
dedicarsi alla disamina della condotta pratica, senza però elaborare una dottrina
normativa, anzi, rimanendo convinto del fatto per cui essa esula dal compito del filosofo
morale, il quale non la può fondare in modo razionale. Per questo, accanto ad una
definizione di carattere “pratico” delle proprietà logiche dei termini morali, egli rimane
convinto che, una volta chiariti i loro significati, gran parte del lavoro sia compiuto:
l’enunciazione di regole per rendere coerente e chiaro il nostro ragionamento morale è
una condizione essenziale per agire correttamente. Ciò che rimane fondamentale è la
correttezza formale delle analisi del filosofo, il quale peraltro sa che le proposizioni
dell’etica, essendo non verificabili in quanto prive di significato descrittivo, non
4
Un teorico dell’utilitarismo come R. D. Brandt contesta però questa idea, sostenendo che “anche se le
intuizioni linguistiche mirassero ad una parafrasi della terminologia normativa più rigorosa di quanto
facciano effettivamente ora, non ci si potrebbe appoggiare ad esse per farsi guidare nella riflessione
normativa. Perciò il linguaggio può incorporare distinzioni confuse, o non riuscire ad operare le
distinzioni che è importante fare. In effetti, l’inglese non lo fa” (Cfr. A Theory of the Right and the Good,
Clarendon Press, Oxford 1979, p. 5).
5
Si ricorda che Hare sostiene di appartenere “alla scuola di pensiero secondo la quale studiare le proprietà
logiche delle parole è lo stesso che studiare i concetti. La logica formale, in questa prospettiva, è la
formalizzazione delle regole che governano le parole…e che determinano i significati di quelle parole”.
Cfr., L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, a cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1992, p. 103.
6
Un comportamento in parte differente possiede il termine “buono”, il quale è in genere anche usato in
proposizioni non prescrittive. Cfr. R. M. Hare, The Language of Morals, capp. IX e X.
7
possono avvalersi, per essere fondate, delle procedure razionali proprie delle
posposizioni scientifiche. Il valore che dunque va promosso, in primo luogo e
preventivamente, è quello della coerenza logica dei nostri giudizi, ovvero la necessità di
affermare il loro accordo con le regole d’uso dei termini che li compongono. Se un
giudizio si mostra non universalizzabile, esso non è un giudizio morale e colui che
pretende di impiegarlo come tale mostra di non conoscere il significato dell’universalità.
“Il contributo di un filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve
possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e,
mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto,
argomentazioni valide”7. I due elementi base che compongono l’argomentazioni morale
sono perciò la logica ed i fatti empiricamente osservabili8; tra di essi, la logica possiede
una indubbia priorità epistemologica, sebbene cronologicamente siano in genere i fatti
non morali, ossia i caratteri contingenti delle situazioni in cui si agisce, ad essere
incontrati per primi nella realtà.
Per questo Hare ritiene che per il filosofo non sia possibile obbligare nessuno ad
agire in un certo modo, ma che sia necessario, per giustificare una certa scelta, fornire
delle valide ragioni all’individuo per indurlo ad agire in base ad essa. Pertanto,
l’eventuale decisione in contrasto con un principio morale razionale, non è imputabile
ad un difetto dell’argomentazione, bensì ad una mancanza dell’individuo, il quale si
mostra incapace di accettare pienamente la ragione che gli viene fornita come motivo
dell’azione: come detto, per Hare se ciò accade, significa che l’individuo non è in grado
di ragionare in modo critico in etica. Per questo si può dire che la teoria etica di Hare è
“internalista”9, poiché, in quanto analisi concettuale delle proposizioni dell’etica, essa
dichiara che accettare una prescrizione morale significhi eo ipso anche possedere una
motivazione per agire come essa prescrive. Si può altresì dire che l’individuo che agisce
7
R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo ed oltre, a cura di S.
Veca e A. Besussi, il Saggiatore, Milano 2002, p. 32.
8
In Moral Thinking, Hare evidenzia come il processo che conduce alla decisione morale contempla la
logica, le opinioni fattuali, i giudizi prescrittivi e l’azione. Tuttavia, i primi due elementi sono quelli
realmente originali e fondativi, poiché gli ultimi due sono da essi derivati.
9
L’internalismo “afferma…che 1) vi è una relazione necessaria tra considerazioni morali e motivazione;
2) tale relazione è costitutiva del concetto stesso di considerazione morale; 3) essa è una verità
concettuale che riguarda la moralità. L’internalismo perciò è un modo particolare di rispondere al
requisito della motivazione, in quanto stabilisce una relazione interna tra motivazione e
giustificazione…le considerazioni morali sono intrinsecamente motivanti proprio perché sono esse stesse
espressioni di fattori motivanti, come i desideri e le passioni”. Cfr. P. Donatelli, La filosofia morale,
Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 117-118.
8
contro il prescrittivismo opera una errata valutazione della situazione che affronta,
perché possiede delle informazioni limitate, sia sui fatti, sia sul significato dei termini
attraverso cui egli mette in forma linguistica le proprie scelte e comprende le preferenze
altrui, anch’esse espresse linguisticamente. Pertanto, l’individuo agente deve compiere,
quantomeno a livello ideale, un ragionamento che si potrebbe definire logico e
teoretico, e solo in un secondo momento etico, dato che, come detto, per Hare il
fondamento della giusta condotta è una piena capacità di pensiero morale razionale, di
cui l’analisi semantica rappresenta un caposaldo10.
L’elemento di novità che comunque comincia a farsi strada nella riflessione di Hare
in Freedom and reason (ma nemmeno in The Language of Morals esso era del tutto
assente11) è però significativo: Hare a questo proposito sostiene che la sua teoria etica,
denominata “prescrittivismo universale” è realmente cogente se mostra di possedere
delle implicazioni normative. Per di più, Hare lascia trasparire una certa inclinazione per
l’utilitarismo, ma ritiene che esso sia solo una delle dottrine normative che possono
accordarsi col prescrittivismo da lui elaborato. Questi infatti può benissimo fornire
efficaci indicazioni per la condotta ed impiegare in modo strumentale alcune categorie
concettuali dell’utilitarismo, il quale, depurato della sua componente edonistica ed
eudemonistica, è un suo corollario. In particolare, l’universalità, pur rimanendo una
regola di natura logica, può avere un’applicazione pratica, in quanto essa impone di
giudicare allo stesso modo situazioni simili, ovvero impone di essere del tutto imparziali
quando si affrontano questioni pratiche e di essere disposti a soppesare in modo appunto
imparziale le inclinazioni, gli interessi e gli ideali delle persone coinvolte. Questo
processo si attua attraverso la procedura dell’inversione dei ruoli che, condotta
attraverso l’immedesimazione ed un atteggiamento simpatetico, deve consentire al
soggetto di immaginare quel che l’altro prova, permettendogli di capire quel che lui
stesso proverebbe se si trovasse in quella condizione, dotato di quelle particolari
inclinazioni. Pertanto, un giudizio morale è tale se supera una sorta di test di
10
B Williams in L’etica e i limiti della filosofia, a cura di R. Rini, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 155,
accusa Hare di paragonare la scorrettezza morale con la scorrettezza logica, la quale invece ha una natura
diversa. Considerazioni critiche sulla debolezza del concetto di akrsaia sono svolte anche da A. K. Sen,
Scelta, ordinamento e moralità (1972), in A. K. Sen, Scelta benessere, equità, a cura di S. Zamagni, il
Mulino, Bologna 1986, pp. 141-142.
11
L’etica infatti non coincide del tutto con la filosofia del linguaggio. Cfr., LM, p. 57: “L’errore più grave
[di un’etica solo linguistica]…consiste nel non tenere conto di un fattore essenziale della vita morale.
Questo fattore è la decisione. Chi agisce moralmente non fa una semplice inferenza, ma decide di violare
un principio morale oppure di rispettarlo”.
9
universalizzabilità, ovvero se chi lo enuncia nella situazione S è disposto ad enunciarlo
per tutte le situazioni simili ad S negli aspetti rilevanti ed è altresì disposto a prescrivere
la medesima condotta nel caso egli si trovasse nei panni dell’altro individuo: chi non
accetta questi presupposti, non enuncia giudizi morali. Dunque, un interesse conta più di
un altro solo se espresso da un giudizio universalizzabile e, di riflesso, se a posteriori
mostra di procurare conseguenze positive: vi è qui un riferimento al precetto evangelico
che chiede di non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te.
Tuttavia, si è fatto notare che è possibile che un soggetto, pur accettando i
presupposti formali del prescrittivismo, possa poi comunque agire, a livello pratico, in
modo immorale: è il caso del fanatico nazista che afferma che, nel caso si scoprisse che
lui avesse lontane origini ebraiche, accetterebbe di essere ucciso nei forni crematori.
Hare ammette che, di fronte ad un fanatico di questo tipo, la sua teoria etica potrebbe
fare ben poco, poiché essa propone solo delle ragioni logiche, non pratiche, agli
individui, i quali possono anche accettare tali ragioni, ma agire diversamente. Ad ogni
modo, aggiunge l’autore in modo consolatorio, per fortuna i fanatici di questo genere
sono rari.
Anche per rispondere a queste obiezioni che lui stesso riconoscerà come in parte
fondate, Hare nelle opere successive apporterà delle modifiche alle sue riflessioni
morali, nel tentativo di completare il prescrittivismo attraverso l’utilitarismo, visto
adesso come dottrina coerente con il prescrittivismo stesso. I risultati dell’analisi
metaetica devono rimanere come punti saldi, assodati, ma sembra farsi strada l’esigenza
di una più stringente riflessione di stampo normativo che possa influenzare realmente la
condotta. L’utilitarismo non viene ad essere più un semplice corollario o uno strumento
del prescrittivismo universale, ma è ad esso organico, in quanto deriva logicamente dal
prescrittivismo stesso, il quale permane come suo presupposto formale, a priori. In altre
parole, i giudizi morali universali e prescrittivi, se utilizzati nel modo corretto, non
possono che condurre, sul piano normativo, ad una dottrina utilitarista, sebbene non
sempre nella pratica gli individui agiscano di conseguenza.
In particolare, l’adesione all’utilitarismo della preferenza nasce non solo da un rifiuto
dell’edonismo, già chiaro in Freedom and Reason, ma anche, come aveva detto già
Sidgwick, dalla convinzione che vi debba essere una distinzione tra la teoria etica (“una
teoria etica costituisce una riposta alla domanda centrale dell’etica teorica di quali siano,
in via di principio, le condizioni necessarie e sufficienti dell’agire moralmente retto e
10
doveroso…ma nulle dice circa il modo in cui, in concrete situazioni di scelta, si deve
deliberare”) e il metodo di deliberazione, il quale “si articola in una serie di direttive
indicanti le operazioni che si debbono fare al fine di individuare, in concrete situazioni
di scelta, quale sia l’azione moralmente retta e doverosa”12. A parere di Hare, come il
prescrittivismo può fornire una base formale ed universale all’utilitarismo, allo stesso
tempo quest’ultimo può diventare il completamento del prescrittivismo. Inoltre, per
rendere conto in modo più chiaro dell’effettivo svolgimento del nostro pensiero morale
(il quale è molto complesso e non riducibile ad un insieme di procedure esclusivamente
razionali), egli elabora la dottrina dei due livelli del pensiero morale. In tal modo Hare
ritiene di poter spiegare sia quale dovrebbe essere un pensiero morale ottimale, sia quale
ruolo e, entro certi limiti, quale funzione possono svolgere gli elementi non pienamente
razionali o intuitivi sui quali spesso basiamo la nostra condotta.
Esiste un livello intuitivo, attraverso cui gli individui agiscono secondo le proprie
intuizioni morali, le quali sono utilizzate in modo immediato ed acritico, specialmente
quando gli individui non sono in grado di ragionare in modo lineare, per esempio perché
inesperti o costretti ad agire in situazioni di stress, tensione, ovvero allorché non è
possibile operare una valutazione completa della situazione. In questa fase chi agisce si
affida alle proprie intuizioni morali, che Hare denomina principi prima facie, sulla scia
della riflessione di D. Ross che però Hare giudica incompleta, come peraltro tutto
l’intuizionismo etico13. Questo livello di pensiero, le cui intuizioni non sono solo regole
d’esperienza, ma qualcosa di più pregnante, ovvero principi la cui trasgressione provoca
rimorso, possiede comunque un certo ruolo ed è in genere affidabile, soprattutto se
deriva da una buona educazione e da buone esperienze precedenti. Il livello superiore,
quello critico, caratteristico della riflessione razionale, condotta serenamente, a mente
fredda, è paragonabile al modo in cui un ipotetico arcangelo affronterebbe le questioni
morali: “alle prese con una situazione imprevista [l’arcangelo] sarà in grado di
individuare tutte le proprietà, comprese le conseguenze delle azioni alternative, e di
formulare un principio universale (ma forse altamente specifico) che egli seguirà in
quella situazione, indipendentemente dal ruolo che occupa. Poiché egli non possiede
12
G. Pontara, Utilitarismo e giustizia distributiva, in E. Lecaldano/S.Veca, (a cura di), Utilitarismo oggi,
Laterza, Roma-Bari 1986, p. 64.
13
Come sottolinea G. Preti, in Morale e metamorale, a cura di E. Migliorini, Franco Angeli, Milano
1989, vi è tuttavia una differenza tra l’intuizionismo di Moore, quello di Prichard e quello di D. W. Ross.
11
alcun sentimento egoistico ed è privo della altre debolezze umane, agirà secondo quel
principio, se esso gli ordina di agire” (MT, pp. 77-78).
Il livello critico seleziona i migliori principi prima facie utilizzati al livello intuitivo
e, attraverso questa selezione razionale ed oculata, può porre fine ai conflitti e alle
incoerenze fra principi che hanno luogo solo se non si è in capaci di pensare
criticamente. Tra i due livelli di pensieri vi è un rapporto “moderatamente” gerarchico,
in quanto il pensiero critico è teoreticamente superiore all’intuitivo, tuttavia, se una
persona è stata bene educata (preferibilmente da un educatore utilitarista) ed è capace di
esercitare il proprio pensiero morale in modo efficace, tra i due livelli, in gran parte
delle situazioni quotidiane, vi è in genere accordo. Secondo Hare, l’utilitarismo è la
dottrina morale che meglio si accorda con il livello intuitivo, quello attraverso il quale
gli individui agiscono quotidianamente e che dunque rappresenta l’origine della
maggior parte dei nostri comportamenti morali. Ciò significa che se un certo atto
compiuto intuitivamente si rivela efficace, ossia benefico, la persona che lo ha compiuto
lo riterrà d’ora in avanti tale e lo farà entrare nel suo patrimonio di principi prima facie.
Per diventare un giudizio morale, questo atto dovrà però essere accettato dal pensiero
critico, ovvero essere universalizzabile, prescrittivo e in linea con il dovere di giudicare
imparzialmente fra le proprie preferenze e quelle altrui. Se esso soddisfa questi criteri,
per il pensiero critico potrà essere considerato un principio morale valido non solo
intuitivamente (ovvero prima facie), bensì anche razionalmente. Pertanto, una volta che
si presenta l’occasione per applicare il suddetto principio, l’individuo vi farà ricorso in
modo immediato, senza una nuova riflessione. I dettami dell’utilitarismo sono quelli che
si mostrano in genere capaci, a livello critico, di essere espressi attraverso proposizioni
prescrittive ed universali, e di produrre, a livello empirico, intuitivo, le conseguenze più
benefiche, promovendo le preferenze universalizzabili e dotate di una elevata utilità di
accettazione.
I due momenti di pensiero non si succedono cronologicamente, né l’uno deve
superare l’altro ma, come detto, l’ideale è che entrambi, nel proprio ambito di
applicazione, siano efficienti. Essi non sono due modelli astratti, anche perché, nota
l’autore, non esiste né un individuo che agisce solo intuitivamente, né un individuo che
agisce solo criticamente (infatti solo un ipotetico arcangelo potrebbe fare così). L’ideale
è ottenere la giusta miscela tra questi due modi di affrontare le questioni morali. Hare
sostiene inoltre che solitamente, a livello intuitivo, si rivela più efficace l’utilitarismo
12
della norma, mentre, a livello critico, l’arcangelo agirebbe secondo l’utilitarismo
dell’atto, poiché egli non ha bisogno di rispettare delle norme, in quanto agisce
spontaneamente nella maniera utilitaristicamente più efficace e corretta (e dunque ha
incorporato in sé le regole).
Queste precisazioni servono all’autore per sfuggire alle accuse di eccessiva
astrazione della sua argomentazione e, al contempo, all’obiezione secondo la quale la
figura dell’arcangelo è irreale, alla pari di quella dello spettatore imparziale simpatetico
(esplicitamente ripresa da Harsanyi dalla riflessione di Adam Smith). Si può qui
osservare che, attraverso l’impiego della figura dell’arcangelo, Hare utilizza, come altri
filosofi morali moderni, una “finzione logica”. Inoltre, la figura dell’arcangelo si
differenzia da quella dell’osservatore imparziale simpatetico in quanto trova la sua
giustificazione nell’universalità, ossia in una proprietà logica consistente nella
possibilità di tenere conto di tutti i desideri delle persone coinvolte, ossia di occupare
tutte le posizioni da loro occupate e giudicare alla fine nel modo giusto senza difficoltà.
Hare pensa che le contraddizioni che l’utilitarismo spesso ha mostrato nella pratica
fossero dovute al suo esser privo di un fondamento formale a priori, come invece
sarebbe il prescrittivismo, in quanto teorie etica. Il prescrittivismo è allora l’intelaiatura
che sorregge l’utilitarismo in quanto dottrina normativa e, per questo suo ruolo, a livello
formale, i suoi enunciati non possono ospitare riferimenti individuali. “Dalle proprietà
formali, logiche, delle parole morali, e in particolare dal divieto logico di introdurre
riferimenti individuali nei principi morali, è possibile derivare dei canoni formali di
argomentazione morale, per esempio la norma che vieta di fare discriminazioni tra gli
individui, a meno che non sussista una qualche differenza qualitativa che le
giustifichi”14. L’utilitarismo, dal canto suo, possiede un carattere pratico che lo rende
dinamico, attento ai fatti e in gran parte vicino al modo ordinario con il quale le persone
affrontano le questioni morali.
Il tentativo di fornire all’utilitarismo un fondamento universale, di carattere logico, è
di certo innovativo; l’utilitarismo si presenta da un lato come dotato di una base formale
(poiché regolato dal prescrittivismo), dall’altro possiede un valore sostanziale, in quanto
seleziona le preferenze degli individui che possiedono una elevata utilità di accettazione
in quanto universalizzabili.
14
R. M. Hare, Giustizia ed uguaglianza (1978), in R. M. Hare, Sulla morale politica, a cura di R. Rini, Il
Saggiatore, Milano 1994, p. 214.
13
Per quel che riguarda i caratteri dell’utilitarismo, Hare appare vicino ai teorici
moderni di esso: in particolare, condivide con J. J. C. Smart la possibilità di tratteggiare,
per la prima volta, un utilitarismo non naturalista e non cognitivista15. Hare inoltre
rifiuta le restrittive nozioni di “piacere” e “dolore” e quella di “felicità”, ritenuta troppo
vaga, assumendo invece il concetto di “preferenza” (derivato in gran parte da Harsanyi):
essa infatti sembra essere più funzionale per cogliere l’ampiezza e la varietà delle
motivazioni che spingono i soggetti ad agire. Pertanto, per l’utilitarismo di Hare:
a) i giudizi morali devono essere universalizzabili;
b) un giudizio deve altresì essere prescrittivo, ossia, dal punto di vista normativo,
esprimere le preferenze valide del soggetto, mentre, dal punto di vista logico, deve
indicare una condotta o un comportamento;
c) le preferenze valide sono quelle che, solo se universalizzabili, mostrano di
possedere una elevata utilità di accettazione, indipendentemente dalla singola persona
che le sperimenta16;
d) tali giudizi devono essere accettati dal soggetto come vincolanti per tutte le
situazioni simili, indipendentemente dal ruolo che egli occupa (vittima, carnefice); è
questo il criterio di imparzialità assoluta17;
e) va massimizzata la somma totale delle singole utilità individuali (principio
dell’ordinamento-somma);
f)
gli atti vanno promossi o vietati solo se aumentano o diminuiscono la quantità di
benessere della società, ossia solo se promuovo o non promuovono le preferenze
accettate;
g) vanno promossi solo quegli stati di fatto che soddisfano al massimo le
preferenze.
15
Cfr. E. Lecaldano, Introduzione a J. J. C. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, a cura di B.
Morcavallo, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 18-20.
16
“Come dire, un interesse è un interesse e una preferenza è una preferenza, di chiunque essa sia e, a certe
condizioni, qualunque essa sia”. Cfr. S. Veca, Utilitarismo e contrattualismo: un contrasto tra giustizia
allocativa e giustizia distributiva, in E. Lecaldano/S. Veca (a cura di), Utilitarismo oggi, cit., p. 102.
17
Cfr. H. Sidgwick, I metodi dell’etica, a cura di M. Mori, il Saggiatore, Milano 1995, libro III, cap. I, pp.
238-239: “Non possiamo dire che un’azione è giusta per A e ingiusta per B, a meno che non si possa
individuare nella natura o nelle circostanze delle due azioni una qualche differenza che possiamo
considerare come base ragionevole per una differenza relativa ai rispettivi doveri. Pertanto, se ritengo che
l’azione sia giusta per me, implicitamente ritengo che essa sia giusta per qualsiasi altra persona, la cui
natura e le cui circostanze non sono diverse dalle mie in qualche aspetto importante”.
14
Si può vedere come tale utilitarismo sia altresì welfarista18 e consequenzialista:
sebbene Hare sia conscio delle critiche sovente mosse a questi due concetti, egli vuol
mostrare che anch’essi derivano logicamente dai presupposti formali (il prescrittivismo
universale) che l’utilitarismo assume a proprio fondamento. Inoltre, se si legge il punto
c), si nota come Hare non ritenga sia possibile escludere a priori tipi di preferenze,
mentre Harsanyi (il quale ritiene peraltro che vada massimizzata l’utilità media della
società, quella ottenuta sommando le utilità individuali e dividendola per il numero
delle persone) distingueva a priori tra preferenze accettabili e non accettabili19, mentre
Hare pensa che una tale distinzione a priori non sia sempre affidabile, giacché va
valutata la preferenza e la sua utilità di accettazione, sebbene egli alla fine concordi in
sostanza con Harsanyi rispetto alle preferenze da escludere20.
Questa forma di utilitarismo secondo Hare è conciliabile con l’etica di Kant, in
quanto anch’essa è alla ricerca di un fondamento universale a priori. In realtà, la
nozione di universalità in Kant ha un significato differente (per Kant sono doverosi in
comportamenti contrari a quelli non universalizzabili), giacché in Hare essa è solo un
presupposto logico, privo di effettivo carattere normativo. Come nota J. Mackie, questa
nozione di universalità, non sembra adatta a porsi a fondamento di alcuna fondazione
linguistica dell’utilitarismo stesso. La differenza con l’etica deontologica è dunque
18
Nota A. Sen che l’accettazione del presupposto welfarista implica altresì l’adesione al criterio
dell’ottimalità secondo Pareto, per il quale, la situazione X sarà socialmente preferita a Y, se almeno un
individuo preferisce X a Y e nessuno preferisce Y ad X. Uno stato X sarà inoltre ottimo in senso
paretiano se e solo se non esiste alcuno stato alternativo Y in cui almeno un individuo stia meglio e
nessun altro stia peggio
19
Per Harsanyi, le preferenze palesemente antisociali (come il sadismo, l’odio, l’invidia) devono essere
escluse a priori dalla considerazione utilitarista. Vanno escluse altresì le preferenze esterne, ossia quelle
in base alle quali l’individuo dice come gli altri dovrebbero essere trattati. Le preferenze accettabili sono
invece quelle basate su credenze vere e che riguardano come l’individuo vorrebbe che gli altri lo
trattassero. In particolare fanno parte di questo gruppo le preferenze personali, le quali però possono
incorporare tendenze egoistiche ma, soprattutto, quelle morali, ossia “quelle che [l’individuo] manifesta
in quei momenti (magari rarissimi) in cui impone a se stesso di assumere un atteggiamento imparziale e
impersonale, vale a dire, appunto, morale” (J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica
utilitaristica, in L’utilitarismo a cura di S. Morini, il Saggiatore, Milano 1994, p. 35), e dunque “Le sue
preferenze morali, a differenza di quelle personali, assegneranno sempre il medesimo valore a tutti gli
interessi degli individui, inclusi i propri” (J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale,
in A. Sen/B. Williams (a cura di), Utilitarismo ed oltre, cit., p. 61).
20
Per esempio, sostiene Hare, le preferenze di un sadico non vanno escluse dalla considerazione
utilitaristica a priori, ma in quanto rivelano una utilità di accettazione pressoché nulla giacché non
universalizzabili. Pertanto, oltre al pensiero critico, anche l’esperienza qui conta: è infatti dubbio che una
società formata da sadici incrementi l’utilità della società stessa, mentre una società in cui più persone si
comportano come Madre Teresa di Calcutta avrebbe una elevata utilità di accettazione. Hare sostiene che
per fortuna la maggior parte delle persone possiede delle intuizioni tali che le conducono a preferire il
comportamento di Madre Teresa di Calcutta e la riflessione critica approverà di certo, in quanto è la più
razionale e benefica, questa inclinazione.
15
evidente: “In una teoria deontologica…il tipo di azioni che possono essere ritenute
virtuose sono viste come intrinsecamente obbligatorie o ammirevoli ed anche la bontà
del carattere può essere vista come dotata di un valore intrinseco; le azioni e i caratteri
possono avere un merito per se stesse, non completamente derivato dalle conseguenze
che provocano”21.
La definizione che Hare fornisce del principio di utilità si basa su due premesse, una
di natura metaetica, analizzata soprattutto nella prima parte della sua riflessione, la
seconda di valore empirico. Secondo la premessa metaetica, “moralmente giusto in
questa circostanza” nel linguaggio ordinario significa che io voglio che sia compiuta
l’azione A invece che B in ogni circostanza come questa, tenendo conto che sono un
individuo prudente e pienamente informato. La premessa empirica si fonda invece
sull’idea per cui una persona prudente e pienamente informata, se può scegliere tra due
azioni, sceglierà quella che massimizza i benefici (che ha le migliori conseguenze).
la premessa empirica mi dice che, se sono prudente e credo che (qualche volta)
verrò a trovarmi nella posizione ora occupata da qualche persona influenzata dalla
mia azione, allora, quando devo scegliere tra A e B, preferirò A se e solo se credo
che A produca (rispetto a B), conseguenze che, nel complesso, soddisfano
maggiormente i desideri delle persone influenzate (dall’azione di A). Quindi
possiamo concludere che è moralmente giusto che faccia A invece che B se e solo
se l’azione A soddisfa al massimo i desideri delle persone influenzate. E questo…è
quanto afferma il principio di utilità22.
Ci sono stati diversi rilievi critici alla riflessione di Hare, diretti sia contro la sua
fondazione logico-linguistica dell’etica, sia contro l’utilitarismo. Bernard Williams tra
gli altri, ha contestato l’utilizzo dell’analisi logico-linguistica per elaborare la teoria
etica (egli ritiene che tale analisi sia insufficiente e condotta con un grado troppo elevato
di astrazione), e l’approdo all’utilitarismo, da lui ritenuta una dottrina che, se seguita
fedelmente, conduce a conclusioni ripugnanti. In particolare, egli ha messo in
discussione il presupposto consequenzialista, il fatto per cui l’utilitarista dovrebbe
interessarsi solamente agli effetti dei suoi atti, senza badare al valore dell’atto stesso che
viene compiuto. Pertanto, l’utilitarista potrebbe non solo accettare di compiere atti
riprovevoli per un obiettivo valido, ma si sentirebbe finanche sollevato da qualsiasi
21
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, Penguin Books, Harmondsworth 1990 (1a ediz. 1977),
p. 149.
22
M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, Università degli Studi di
Milano, Istituto di filosofia e sociologia del diritto, Milano 1984, p. 126.
16
responsabilità rispetto alla propria condotta, la quale risulterebbe dotata di valore solo
se in grado di incrementare l’utilità complessiva, indipendente dal genere di atto
compiuto. Per Williams (e pure per Rawls), ciò significa che l’utilitarismo non tiene in
alcun contro la separatezza delle persone, il valore della loro integrità ed identità
personale23.
Altre critiche sono state condotte, per esempio da A. K. Sen, in relazione alla pretesa
che il soggetto massimizzi le preferenze solo in condizioni di piena informazione: è
infatti evidente che non è detto che se una persona non è sa di agire nel modo ottimale
per raggiungere quello che preferisce, significa che si sbaglia nel comprendere quello
che effettivamente desidera. Inoltre, non è possibile fare riferimento alla somma delle
utilità individuali, senza alcuna attenzione per i bisogni e le esigenze dei singoli
individui i quali, avendo capacità differenti, avranno esigenze e preferenze diverse, sia
qualitativamente che quantitativamente. L’utilitarismo in sostanza non ritiene necessario
considerare la descrizione delle qualità individuali per determinate la condotta più
benefica, mentre Sen sostiene che le singole capacità vadano considerate24. Per esempio,
per un utilitarista due società, A e B, entrambe formate da due individui (x, y), la cui
somma delle utilità individuali ha valore 2, sono egualmente preferibili e dunque di
eguale valore. Questo però per Sen è un errore, in quanto esso non presta attenzione alla
distribuzione dell’utilità. Infatti, nella società A, il valore dell’utilità può essere, per
entrambi i suoi membri, uguale a 1 e dunque la distribuzione è equa; nella società B,
invece, l’utilità di x ha valore 2 e quella di y è 0: è evidente che le due società non sono
egualmente preferibili, perché solo A effettivamente si caratterizza per un’equa
distribuzione.
Hare evidenzia come la gran parte delle obiezioni contro l’utilitarismo sono costruite
ad arte per mettere in difficoltà l’utilitarismo stesso: vengono perciò presentati casi
irreali (si immaginano situazioni estreme e drammatiche che metterebbero fuori gioco
qualsiasi dottrina morale) per cui l’applicazione ad essi del suo modello di
ragionamento morale, può condurre ad esiti controintuitivi e ripugnanti per la morale
23
Tali rilievi riguardano l’utilitarismo in generale, non solo la riflessione di Hare, come testimonia
l’intervento del 1973 di B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. J. Smart/B. Williams,
Utilitarismo: un confronto, cit, pp. 122-124.
24
L’attenzione esclusiva alla somma delle utilità individuali, secondo Sen, in una società utilitarista
avvantaggerebbe sempre l’individuo messo meglio, perché, stante la sua condizione di privilegio, egli
svilupperà delle preferenze più intense e di qualità diversa da chi sta peggio. Infatti, è probabile che chi ha
avuto una vita di privazioni, possa sviluppare preferenze di bassa intensità che, nella somma utilitaristica,
avrebbero meno valore di quelle di più alta intensità.
17
comune. In realtà, sostiene Hare, nella nostra vita è estremamente raro che ci si trovi di
fronte a questi casi e ciò significa che l’utilitarismo in genere funziona, per quel che
riguarda le normali vicende quotidiane. D’altra parte, è evidente che in condizioni
eccezionali può succedere che gli individui non abbiano la possibilità di ragionare in
modo critico ed è comprensibile che essi si comportino in base alle loro abitudini,
all’educazione che hanno ricevuto (ossia secondo le proprie intuizioni) e possano
compiere azioni che a mente fredda appariranno in contrasto con il pensiero critico ed
antiutilitariste, ma che in quel momento difficile sembrano le più ragionevoli.
L’utilitarismo non ha alcuna difficoltà ad ammettere che questo tipo di azioni, benché a
volte a posteriori razionalmente insostenibili, erano quelle che, in quella particolare
situazione, andavano compiute (MT, pp. 181-183).
In realtà, la risposta di Hare cerca forse di contrastare sul piano empirico e pratico
delle obiezioni che hanno un carattere teorico, ossia che investono i presupposti della
sua teorie etica: viene infatti messa in discussione la stessa idea della derivabilità
dell’utilitarismo dal prescrittivismo. Si può notare a questo proposito come il
welfarismo ed il consequenzialismo, da Hare ritenuti logicamente derivabili dal
prescrittivismo universale, siano in realtà dei presupposti da lui introdotti in modo
surrettizio per rendere cogente il suo utilitarismo della preferenza: non appare dunque
possibile l’idea di un utilitarismo fondato su presupposti a priori, di carattere logicolinguistico. È come se il prescrittivismo universale da un lato e l’utilitarismo dall’altro,
rimanessero come due elementi estranei e non interrelati.
Per quanto riguarda il welfarismo, il problema è che, contrariamente alla premessa
empirica assunta da Hare, non sempre agiamo per incrementare il nostro benessere o
quello sociale, ma non è detto che se non facciamo questo, siamo immorali. La morale
di Hare e in genere quelle teorie basate sulla soddisfazione di preferenze razionali,
sembrano essere morali del “tutto o niente”, in quanto o il comportamento è pienamente
morale oppure non lo è, senza considerazione per le situazioni intermedie ed imputando
alla sola debolezza del volere l’azione non in linea con il prescrittivismo. Pertanto, un
conto è sostenere che, a livello metaetico, abbiamo il dovere di enunciare principi
prescrittivi logicamente coerenti, ossia universalizzabili; un altro è invece asserite che, a
livello pratico, le sole preferenze accettabili, quelle che passano il test di
universalizzabilità, sono quelle che incrementano il benessere: quello che ci impone
l’ambito metaetico sussiste indipendentemente da quello che facciamo a livello pratico.
18
In secondo luogo, non sempre agiamo scegliendo l’atto che produce le conseguenze
migliori, anzi, a volte scegliamo di compiere certe azioni indipendentemente dai loro
effetti, ma solo perché le riteniamo doverose.
Hare pensa in realtà che gli effetti di un atto non sono il solo parametro di giudizio,
giacché questo deve scaturire da un principio morale logicamente fondato, ossia valido
di per sé. Se dunque atto “doveroso” significasse “capace di produrre gli effetti
migliori”, Hare sarebbe un descrittivista, in quanto definirebbe un termine morale
ricorrendo ad una proprietà non morale. In realtà, a livello formale, è fondamentale che
la prescrizione in virtù della quale agiamo sia universalizzabile, ossia coerente con le
regole d’uso del linguaggio morale. A livello pratico, invece, contano le conseguenze
degli atti. Tuttavia, qui si apre una questione delicata: che valore possiede per Hare, alla
fine, la razionalità di una prescrizione? Se infatti il suo valore è logico-linguistico,
certamente quest’ultimo è intrinseco, ovvero indipendente dagli effetti che la
prescrizione può produrre se messa in pratica, ma ciò vuol dire che per Hare
“moralmente razionale” significa “coerente con le regole logiche” e che il livello
pratico-normativo, per lui inevitabilmente consequenzialista, resta in secondo piano. In
altre parole, il modello di ragione che Hare adotta, non sembra avere alcun valore
strumentale o pratico, in quanto esclusivamente di carattere logico.
Per questo, è stata messa in forte discussione sia la validità dell’analisi linguistica dei
termini morali (Williams sembra concludere altresì per l’inesistenza di uno specifico
linguaggio morale), sia la possibilità di impiegare in ambito normativo una nozione di
universalità che possiede un carattere logico. Le ragioni che Hare cerca di fornire a
sostegno di una certa azione possiedono una natura estranea alla morale, ma sono prive
di contenuto normativo, poiché espresse da regole logiche. Secondo Nagel, il tentativo
di Hare: “non solo ci conduce fuori dell’etica alla ricerca della base ultima dell’etica,
ma ci porta a un livello decisamente meno fondamentale: quello delle pratiche
linguistiche contingenti, empiricamente accertabili….indipendentemente dai meriti della
sua teoria morale sostantiva, sulla questione dei fondamenti Hare [cerca] semplicemente
nel posto sbagliato”25. La fondazione linguistica dell’utilitarismo sembra dunque
25
T. Nagel, L’ultima parola, a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1999, p. 43.
19
gravata da una serie di problemi; d’altra parte, è molto dubbio pensare che “che esiste
un solo linguaggio della morale e un unico significato delle principali nozioni etiche”26.
La sensazione che si ha, cercando di guardare all’opera complessiva di Hare, è che la
sua riflessione sia significativa per quel che riguarda il tentativo di definire il senso di
un linguaggio della morale e lo statuto epistemologico dei suoi concetti. È importante
altresì il contributo di Hare al superamento della prima fase della metaetica analitica,
meno incline ad impegnarsi in enunciazioni normative, e la ricerca di un qualche
fondamento universale alla morale. Tuttavia, i punti critici sono proprio legati a questo
orizzonte essenzialmente logico-linguistico di ricerca che non appare in grado di
fondare un sistema normativo. D’altra parte, se l’universalità è in primis una regola
logica ed il criterio fondamentale per accettare un ragionamento morale è la sua
coerenza logica, come è possibile indicare delle ragioni pratiche, strumentali, per
motivare l’azione? Hare in realtà sembra distinguersi dall’utilitarismo contemporaneo, il
quale tende a fornire all’agente delle ragioni di carattere strumentale per l’azione, in
quanto le sue ragioni sembrano invece possedere esclusivamente un valore teoretico e
perciò la sola motivazione che egli sembra poter fornire all’azione è di carattere logico.
La teoria etica di Hare cerca allora di restituire autonomia all’etica, attraverso il suo
affrancamento da modelli di spiegazione naturalistici e in particolare dalla convinzioni
per cui gli enunciati dell’etica siano suscettibili di vero-falsità. La valorizzazione del
modello di ragionamento morale e la separazione tra i due livelli del pensiero morale,
sembrano però condurre Hare a rendere ancora più netta questa sua presa di distanza
dall’orizzonte normativo, forse non nelle sue intenzioni, ma nei suoi risultati.
L’opportunità di rifiutare qualsiasi riferimento, non solo ad elementi metafisici o
naturalistici, ma pure a modelli di decisione morale anche solo parzialmente lontani
dalla piena razionalità, conduce l’autore ad affidarsi ad un modello univoco di
ragionamento, nel quale il ruolo degli elementi empirici sembra notevolmente
ridimensionato. In altri termini, questi elementi non morali hanno certamente
un’importanza, ma solo se vagliati dal pensiero razionale, ossia solo se il loro utilizzo
ottiene il placet del pensiero critico, il quale in sostanza pare porsi come unico giudice
della razionalità delle nostre intenzioni morali, ma sembra altrettanto impossibilitato a
stabilire direttamente la piena razionalità delle nostre azioni morali.
26
E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee,
Bollati-Boringhieri, Torino 1990, p. 85.
20
La presente ricerca si pone in sostanza due obiettivi, uno generale e uno più
specifico. Il primo è ovviamente quello di rendere conto di alcuni aspetti della
riflessione morale di Hare, non solo seguendo lo sviluppo storico genetico delle sue
speculazioni, ma indagando una serie di tematiche tipiche della sua filosofia ed
enucleando le loro caratteristiche. Il secondo obiettivo, diretta conseguenza del primo,
ha in animo di sviscerare con maggiore dovizia di particolari alcuni degli aspetti più
qualificanti e significativi dell’etica di Hare, senza tacere ovviamente delle sue
incongruenze e difficoltà.
Nella trattazione si seguirà pertanto una traccia che comprenderà tre punti di
riflessione, il cui ordine di trattazione non risponde ad alcuna scansione cronologica, né
propone di stabilire tra di essi un ordine di priorità all’interno della riflessione etica di
Hare, ma risponde ad un criterio metodologico di graduale chiarificazione delle
questioni che di volta in volti i problemi posti dall’autore mettono in campo. Dunque, si
cercherà di chiarire: a) quale ruolo svolga il linguaggio della morale, quali caratteri
abbia e in cosa esso possa differenziarsi dal linguaggio delle asserzioni fattuali; b) si
affronterà l’aspetto metaetico della ricerca di Hare, e dunque si cercherà di definire il
suo “prescrittivismo universale”, ossia l’idea che i giudizi morali sia prescrizioni
universali predominanti (o soverchianti); c) si delineeranno i caratteri di quel sistema
etico normativo che Hare definisce con il nome generico di “utilitarismo”, da lui
ritenuto di diretta derivazione dal prescrittivismo universale.
21
CAPITOLO 1. L’etica e il suo linguaggio
La metaetica analitica da cui Hare prende le mosse fa dunque riferimento a quel
filone di pensiero il quale ridefinisce la “riflessione moralistica…per [il] suo tentativo di
spezzare il circolo pragmatico delle motivazioni, cercando invece di fondare il sistema
delle motivazioni stesse su principi di natura speculativa – quindi teoretica”27. Tuttavia,
all’interno di questo non omogeneo orizzonte di riflessione, la figura di Hare si pone, in
particolare dagli anni ’60 in poi, come spartiacque tra pensatori impegnati a sviluppare
esclusivamente un’analisi logico-linguistica degli enunciati morali ed autori più attenti
alla pratica del comportamento morale28. Hare è probabilmente uno degli interpreti più
significativi di tale mutamento di prospettiva: è in buona parte ascrivibile a lui, infatti, il
tentativo che, conservando i risultati più alti della riflessione metaetica, si pone come
ricerca di una dottrina normativa che abbia a fondamento proprio tali presupposti
metaetici.
Ad ogni modo, nella sua prima opera, The Language of Morals (1952), Hare si
dichiara convinto che propedeutica a qualsiasi argomentazione di etica normativa o
applicata, sia l’analisi semantica dei termini, ovvero la chiarificazione della funzione da
essi svolta e il significato che essi assumono per il linguaggio morale,
indipendentemente da qualsiasi giustificazione di carattere naturalistico o metafisico:
“L’etica analitica, presentandosi come una metaetica, non fonda più l’etica su un
principio razionale o universale o sulla ragione assoluta, bensì descrive il
funzionamento del discorso etico effettuale. Quindi, dichiara oggetto della propria
indagine l’etica quotidiana, e adotta come metodo l’analisi del linguaggio, analizzando
termini ed enunciati propri dell’etica”29. Il pensiero di Hare, pertanto, dal punto di vista
epistemologico conduce un’analisi semantica e concettuale dei termini morali (quali per
esempio “buono”; “cattivo”, “dovere”, giusto” e così via); dal punto di vista
metodologico, cerca invece di conciliare l’utilizzo delle regole della logica ordinaria con
27
G. Preti, Morale e metamorale, cit., pp. 31-32.
A partire degli anni ’60, l’etica analitica va incontro, a seguito di un parallelo ripensamento dei temi
della filosofia analitica, ad un mutamento di prospettiva per quel che concerne sia i metodi di indagine,
sia gli obiettivi che essa si pone. “Uno dei risultati…fu il graduale spostamento di interesse dalle
questioni semantiche…a questioni più ampie di fondazione e di epistemologia, alla luce di teorie aperte
non solo all’analisi del linguaggio morale, ma disposte a indagare la dimensione normativa del
ragionamento pratico e gli aspetti cognitivi e naturalistici dell’etica”. (Cfr., P. Donatelli, Introduzione, in
P. Donatelli, E. Lecaldano, (a cura di), Etica analitica, cit., p. 19).
29
J. Rohls, Storia dell’etica, a cura di P. Kobau, il Mulino, Bologna 1995, p. 497.
28
22
l’attenzione ai fatti e l’interpretazione concettuale di quel che gli individui solitamente
intendono quando enunciano proposizioni valutative, ossia approvano o disapprovano
determinati stati di cose, eventi o comportamenti.
La riflessione di Hare vuole rafforzare l’idea dell’autonomia dell’etica, evidenziando
la presenza, nelle sue proposizioni, di un genere di significato ad essa peculiare, diverso
dunque da altri generi di significato. L’etica non va per questo confusa con altre
discipline filosofiche, proprio per la ragione fondamentale che “l’etica è caratterizzata
dalla presenza di nozioni la cui funzione non può trovare realizzazione in nessuna altra
parte del discorso umano”30. La funzione propria degli enunciati dell’etica è quella di
permettere la enunciazione di “prescrizioni morali soverchianti”. Esse si esprimono nel
linguaggio della morale, il quale non è un linguaggio artificiale, creato dal filosofo
morale per poter semplicemente “mettere in gioco” i termini morali, ma si caratterizza
per l’attenzione verso l’uso che di tali termini viene fatto nel linguaggio ordinario:
“L’interesse che questa filosofia morale nutre per il linguaggio non è (a differenza della
linguistica generale) semplicemente astratto e generico; si ritiene piuttosto che
particolari elementi dell’uso linguistico, soprattutto nelle occupazioni più comuni della
vita quotidiana, pongono dei problemi filosofici ed offrono almeno la chiave per la loro
soluzione”31.
Il punto di partenza sono quindi le intuizioni linguistiche dei parlanti così come si
manifestano all’osservazione: in particolare, in The Language of Morals, viene
analizzata la forma logica delle proposizioni che esprimono i comandi, ossia gli
imperativi, come più semplici ed immediati esempi di giudizi morali. Secondo Hare,
ogni espressione di un giudizio valutativo implica infatti un imperativo, il quale deve
essere logicamente coerente per influenzare la condotta: “L’etica, come speciale branca
della logica, deve la sua esistenza alla funzione che i giudizi morali hanno in quanto
guidano l’azione rispondendo a domande del tipo ‘Che fare?’” (LM, p. 156). In un’opera
più recente, l’autore ribadisce le medesime convinzioni:
Devo incominciare dicendo quale ritengo debba essere l’obiettivo [della]
filosofia morale. È quello di trovare un modo per pensare meglio – cioè più
razionalmente- sulle questioni morali. Il primo passo verso il conseguimento di
questo obiettivo è di capire le questioni che ci poniamo…E capire il significato di
30
31
E. Lecaldano, Etica, TEA, Milano 1995, p. 28.
A. Montefiore/B. Williams, Filosofia analitica inglese, Lerici Editore, Roma 1967, p. 14.
23
una parola…implica comprendere le sue proprietà logiche…L’etica, lo studio
dell’argomentazione morale, è dunque una branca della logica32.
Queste affermazioni veicolano tre convinzioni che saranno costanti nella costruzione
nella concezione della moralità di Hare: a) l’idea secondo la quale l’etica è una
disciplina autonoma i cui enunciati possiedono un significato peculiare; b) la
convinzione per cui l’etica è una parte della logica ordinaria, poiché i suoi enunciati si
esprimono in un linguaggio che, pur avendo delle caratteristiche proprie, non segue
alcuna logica artificiale; c) l’idea, sviluppata soprattutto negli anni successivi, per cui la
riflessione etica non debba essere unicamente analisi del linguaggio, giacché deve
tenere presente che essa ha delle implicazioni sulla condotta delle persone. Essa deve
dunque tenere conto dei fatti e delle situazioni contingenti in cui gli individui si trovano
ad agire.
Sarà proprio questa convinzione che porrà Hare almeno in parte al di fuori dalla
tradizione dell’etica analitica, la quale, nella sua formulazione classica, giudica
secondaria la definizione di un’etica normativa, esponendosi però in tal modo al
pericolo della sterilità e del soggettivismo, come rileva criticamente A. Ross: “Il
ragionamento morale, in tale prospettiva, è sempre ipotetico: esso discute la
giustificazione morale di un certo comportamento movendo dall’ipotesi che si accettino
certi principi, valori o fini. Le valutazioni di fondo, tuttavia, restano soggettive,
indimostrabili; solo gli effetti di un dato comportamento sui valori comunemente
accettati rientrano nell’ambito della discussione razionale”33.
Hare sostiene invece a questo proposito che l’individuo che agisce dovrà imparare ad
operare su due campi:
Il primo è rappresentato dalla comprensione di che cosa significhi la
prescrizione che esprime la scelta…la conoscenza di che cosa significhino le parole
o di cosa intenda dire il parlante con le sue parole. Il secondo…è rappresentato
dalla conoscenza di che cosa, concretamente, comportino le diverse risposte alla
domanda, le diverse scelte, in termini di differenze reali nella storia futura del
mondo34.
32
R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 182.
A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare), in Critica del diritto e analisi del
linguaggio, a cura di A. Febbrajo e R. Guastini, il Mulino, Bologna 1981, p. 160.
34
R. M. Hare, Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 41.
33
24
La riflessione di Hare vuole assegnare il giusto peso alla logica e ai fatti, attraverso
un’analisi combinata di essi, ma mantenendo tali due elementi su livelli distinti, poiché
differenti sono gli ambiti epistemologici nei quali essi influenzano i nostri principi
morali. Perciò l’autore sarà sempre molto attento a discernere il momento del
ragionamento morale formale (il quale ha un carattere logico-epistemologico, in quanto
sostiene una vera e propria teoria etica, ossia la convinzione secondo la quale la
filosofia possa determinare positivamente ciò che possiamo pensare in etica), da quello
della decisione morale (di stampo prettamente pratico-normativo).
La concezione funzionalista del linguaggio
L’analisi concettuale e semantica dei termini morali svolge dunque un ruolo
significativo perché le persone, ben prima di discutere e di mettere a confronto
differenti convinzioni etiche sostanziali, devono essere d’accordo sul significato dei
termini che utilizzano e con i quali esprimono queste convinzioni; se così non fosse,
sarebbe inutile o quantomeno molto arduo discutere moralmente, proporre principi
morali e condannare individui malvagi o fanatici: “Se vogliamo buone risposte [in etica]
dobbiamo prima sapere cosa stiamo chiedendo. Quando le domande sembrano
profondamente problematiche, parte del problema può essere addebitato a confusioni
relative ai termini utilizzati. Noi risolviamo la questione se diciamo in modo chiaro cosa
essa vuole dire e i significati sembrano richiamare le definizioni”35.
Hare sottolinea che se avesse invece ragione l’emotivismo, anche nella forma
moderata sostenuta da C. Stevenson, secondo il quale la funzione dei giudizi morali è di
persuadere gli altri, o se fosse valido l’intuizionismo etico, la discussione morale
sarebbe impossibile perché legata ad intuizioni soggettive. La filosofia morale di Hare
infatti non riconosce piena validità teoretica all’intuizionismo di Moore, che verrà però
affermato in modo più diretto, e con differenti argomenti, da H. Prichard e D. Ross36.
35
A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, Clarendon Press, Oxford 1990, p. 31.
L’intuizionismo di Moore non è ad ogni modo assimilabile a quello degli intuizionisti etici veri e
propri: “Moore infatti non ritiene che vi possa essere una intuizione diretta dei valori morali, poiché
insiste sul concetto che i predicati morali sono non naturali, cioè non hanno carattere empirico, e non sono
conosciuti né mediante i sensi, né mediante l’introspezione; e quindi usano ‘intuizione’ solo per indicare
questo tipo particolare di apprendimento. Ma non [ritiene] che ci sia un’intuizione diretta dei valori (o del
bene come tali); non si intuisce il doveroso, il buono…questa intuizione accompagna la rappresentazione
di fatti empirici, sì che quello che si intuisce non è il valore, ma la sua connessione tra una determinata
rappresentazione empirica e il suo valore” (Cfr. G. Preti, Morale e metamorale, cit., p. 42).
36
25
Diversa è invece la funzione di una puntuale analisi del linguaggio morale, la quale
deve
renderci capaci di discutere con gli altri sul come dovremmo comportarci. Se
non avessimo il linguaggio morale o un linguaggio simile, non lo potremmo fare.
Se tu ed io fossimo in disaccordo rispetto ad un dato comportamento, e volessimo
discutere del nostro disaccordo con la speranza di appianarlo, avremmo bisogno di
essere capaci di esprimere tale disaccordo. Il disaccordo è relativo a quel che
dovrebbe essere fatto…Abbiamo bisogno di parole per dirlo. E abbiamo
bisogno…di parole le cui proprietà logiche ci rendano in grado non solo di
contraddirci l’un l’altro…ma di argomentare, nel senso di ragionare, l’uno con
l’altro. Come si vede, il linguaggio morale va incontro a questa esigenza37.
Per questa ragione i significati valutativi vanno distinti dagli altri generi di
significato, giacché il significato viene determinato dalla funzione che le parole
svolgono all’interno del discorso, come aveva già insegnato Wittgenstein nelle Ricerche
filosofiche: “Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne
serviamo, la parola ‘significato’ si può definire così: Il significato di una parola è il suo
uso nel linguaggio”38. Per questo motivo Hare abbraccia una concezione funzionale del
linguaggio che è diretta conseguenza della sua rinuncia alla “fede” nell’unicità della
nozione di significato: “La concezione che del linguaggio ha Hare è di tipo funzionale;
egli si richiama continuamente agli usi, alle funzioni e agli scopi delle parole…Hare
identifica il significato di una espressione con il fine per cui la si usa, con la funzione
che essa svolge nel discorso. Ciò comporta che la pura e semplice raffigurazione dei
fatti non ha alcun significato, una raffigurazione avrà un significato solo quando ce ne
serviremo per farne qualcosa”39.
La necessità di chiarire il significato dei termini morali e del linguaggio dell’etica
conduce Hare a cominciare la sua analisi esaminando il ruolo che le forme più
elementare di prescrizioni, ossia gli imperativi, svolgono nella discussione morale. Lo
studio della logica degli imperativi è fondamentale per comprendere come possano
esistere delle argomentazioni di natura pratica che si comportano in maniera simile a
37
R. M. Hare, Objective Prescriptions, in A. P. Griffiths (edited by), Ethics, Royal Institute of
Philosophy, Supplement 38, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 8.
38
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trincherio, Einaudi, Torino 1999. Secondo
Wittgenstein, infatti “mentre si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di
fatti, nessuna asserzione di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto”, poiché le
asserzioni fattuali non contengono nulla che possa esprimere un giudizio valutativo (intendendo con esso,
precisa l’autore, tutti i giudizi di valore, quelli dell’etica e dell’estetica). Cfr., L. Wittgenstein, Lezioni e
conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti, Adelphi,
Milano 1983, p. 9.
39
E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, p. 228.
26
quelle della tradizionale logica assertoria40: “Il nostro intento [è]…quello di mostrare
che i giudizi morali condividono con gli imperativi una importante caratteristica, quella
di essere prescrittivi, ma che ciò non impedisce che tra loro vi siano relazioni logiche”
(FR, pp. 29-30).
Proposizioni descrittive e proposizioni valutative
Si può dunque asserire che se dal punto di vista grammaticale vi è una differenza
chiara tra asserzioni e comandi, dal punto di vista dell’analisi logica essi sono simili:
infatti, come il comando “Fai A” è contraddittorio rispetto a quello che afferma “Non
fare A”, allo stesso modo l’asserzione all’indicativo “Il gatto è sul tetto” è
contraddittoria rispetto all’espressione “Il gatto non è sul tetto”, giacché è impossibile
assentire ad entrambi i comandi o giudicare vere entrambe le proposizioni fattuali. Due
comandi si contraddicono quando è logicamente (e praticamente) impossibile fare
entrambe le cose che essi richiedono (come è possibile agire di fronte ad una persona
che dice “Imbuca e non imbuca la lettera”?), mentre essi sono contrari quando non si
elidono a vicenda, ma l’uno si limita ad attenuare la carica imperativa dell’altro. Se
precisamente qualcuno afferma “Fai A, ma puoi anche astenerti dal farlo”, creerà di
certo del disorientamento nell’interlocutore, ma non gli impedirà comunque di agire in
qualche modo. Di contro, se è logicamente impossibile accettare un’assunzione del tipo
“Stai per imbucare e per bruciare la lettera che ti ho dato”, ciò vuol dire che “due
comandi…sono logicamente contraddittori se l’affermazione che un atto sta per essere
compiuto è in contraddizione con l’affermazione che l’altro sta per essere compiuto – in
altre parole, se è logicamente impossibile mettere in pratica entrambi”41.
Il confronto e l’equiparazione della logica degli imperativi a quella delle asserzioni
all’indicativo è quindi possibile in virtù del comune elemento descrittivo che li
caratterizza. In una proposizione un termine è descrittivo quando rende conto di uno
stato di fatto e risponde a precise condizioni di verità. Nel caso del comando “Chiudi la
40
R. M. Hare, Practical Inferences, Macmillan, London 1971, pp. 70-72.
R. M. Hare, Some Alleged Differences between Imperative and Indicatives, in Practical Inferences, cit.,
p. 27. Cfr. anche Practical Inferences, cit., pp. 59-71. In questo caso, parlando dei conflitti tra differenti
giudizi valutativi, esistono tra di essi, come Hare sottolinea, i conflitti per accidens, “quando essi,
contingentemente, non possono essere soddisfatti entrambi, sebbene la loro congiunzione non sia di per se
contraddittoria”, mentre nei casi in cui la loro congiunzione è impossibile si hanno i conflitti per se (MT,
p. 64).
41
27
porta” e dell’asserzione indicativa “Tu stai per chiudere la porta”, il contenuto
descrittivo è evidenziato dall’enunciato: “Il tuo chiudere la porta nell’immediato
futuro”. La differenza tra asserzioni e comandi è ascrivibile alla diversa funzione che
essi svolgono all’interno del linguaggio, ossia al fatto che i comandi, oltre a possedere
una parte descrittiva, si caratterizzano soprattutto per il possesso di una funzione
prescrittiva che, nella gran parte dei casi, è sopravveniente rispetto a quella descrittiva.
Si può allora dire che l’enunciato che si riferisce ad un’azione particolare, per esempio
il proprio chiudere la porta (“Tu stai per chiudere la porta”) appare neutrale, giacché
non è chiaro se esso esprima un comando oppure una constatazione di uno stato di fatto
ed è pertanto necessario che ad esso venga aggiunta una parte che ne specifichi la
funzione all’interno del linguaggio. Esso allora può essere scomposto in questo modo:
“Il tuo chiudere la porta nell’immediato futuro, prego” (corrispondente a “Chiudi la
porta”)
“Il tuo chiudere la porta nell’immediato futuro, sì” (corrispondente a “Tu stai per
chiudere la porta”).
L’enunciato è stato scomposto in due parti che Hare definisce, prendendo a prestito
due termini della lingua greca, frastica e neustica. I due enunciati accanto ad un
elemento propriamente valutativo, detto “neustica” (dal greco neuein, “inclinare”),
contengono un elemento descrittivo ed è detto “frastico” (dal greco frazein,
“dichiarare”). Per esempio, l’imperativo “chiudi la porta!”, ha in comune con la
proposizione descrittiva “stai chiudendo la porta” proprio l’elemento frastico “chiudere
la porta”. Come si può intuire, ciò che determina la funzione degli enunciati, è la
neustica, poiché la frastica è la medesima per entrambi:
la sostanziale differenza tra asserzioni e comandi…sta in ciò che si vuol dire
quando si dà il proprio assenso asserzioni e comandi…Se diamo il nostro assenso a
un’asserzione, si dice che il nostro assenso è sincero se, e solo se, crediamo che
l’asserzione sia vera…se diamo il nostro assenso a un comando rivolto a noi in
seconda persona, si dice che il nostro assenso è sincero se, e solo se, facciamo o
decidiamo di fare ciò che il nostro interlocutore ci ha detto di fare (LM, p. 30).
In altre parole: “Una proposizione indicativa è una riposta alla domanda ‘Cosa è
questo?’; una posposizione imperativa è una riposta alla domanda ‘Che cosa va
28
fatto?’…La prima domanda presuppone che ci sia un fatto inalterabile da affermare; la
seconda domanda, al contrario, presuppone che vi sia una scelta tra fatti alternativi, per
esempio fra differenti corsi d’azione”42. Le considerazioni di Hare sono pertanto
funzionali all’idea che non vi sia una specifica logica degli imperativi, “ma solo che gli
imperativi sono logici similmente agli indicativi”43, in quanto condividono un
medesimo contenuto descrittivo, ossia la frastica dell’enunciato: “Fra le proposizioni
descrittive e le proposizioni direttive c’è un ‘salto logico’. In particolare, da premesse
descrittive non si può derivare logicamente una conclusione direttiva: la derivazione
logica di una proposizione direttiva richiede la disponibilità fra le premesse di una
proposizione direttiva”44.
A proposito di queste distinzioni, A. Sen in un articolo del 1967, ha sottolineato
come Hare, sia in The Languge of Morals che successivamente in Freedom and Reason,
non sia in realtà sceso in profondità nell’analizzare le distinzioni tra i termini,
accontentandosi della superficiale distinzione tra termini valutativi e non valutativi. In
particolare, ci si sarebbe aspettati una elaborazione più puntuale della differenza tra
termini primariamente valutativi e termini secondariamente valutativi, ossia quelli
utilizzabili secondo entrambi i significati, mentre Hare non accenna a questa possibilità.
Questo è peraltro un punto critico che avrà ripercussioni non positive sulla successiva
riflessione di Hare. “Una difficoltà connessa all’analisi di Hare…è che mentre si può
ottenere da essa una analisi molto precisa della classe di termini ed espressioni di
valore, Hare dice relativamente poco sulla classe dei giudizi di valore che utilizzano
questi termini”45
Ad ogni modo, queste affermazioni costituiscono la base fondamentale del non
descrittivismo etico sostenuto da Hare e della distinzione, altrettanto decisiva, da lui
posta tra prescrizione e descrizione. Pertanto, come è “tautologico dire che non
possiamo dare il nostro sincero assenso a un comando rivoltoci…e nello stesso tempo
non eseguirlo, se ora è il momento di eseguirlo…Analogamente, è tautologico dire che
42
R. M. Hare, Imperative Sentences, in Practical Inferences, cit., p. 6.
Ibidem, p. 15.
44
U. Scarpelli, Etica, linguaggio e ragione, in L’etica senza verità, cit., pp. 60-61.
45
A. K. Sen, The Nature and Classes of Prescriptive Judgments, “Philosophical Quarterly”, I (1967), p.
46.
43
29
non possiamo dare il nostro sincero assenso a un’asserzione e nello stesso tempo non
ritenerla vera”46.
Universalità e prescrittività e sopravvenienza
Gli argomenti svolti in precedenza si fondano dunque sull’idea per cui le proposizioni
valutative sono regolate da norme logiche che riguardano il loro uso nel linguaggio.
Esse in particolare sono prescrizioni universali e soverchianti, dato che, come scrive
Hare:
i giudizi morali sono prescrittivi in quanto, nei loro usi tipici, vengono intesi
come indicazioni per la nostra condotta; accettare un giudizio morale significa
impegnarsi a una certa linea di azione o prescriverla a qualcun altro. Dico che sono
universalizzabili in quanto un giudizio morale pronunciato su una data situazione ci
impegna, pena l’incoerenza logica, a pronunciare lo stesso giudizio su qualsiasi
situazione che sia esattamente simile a quella47.
La tesi dell’universalizzabilità dei giudizi morali, nel suo carattere più essenziale ed
originario, si presenta a tutti gli effetti come una tesi logica, ossia applicabile a tutti gli
ambiti linguistici, poiché è una regola che concerne in primis il significato delle parole
ed il loro corretto utilizzo nel linguaggio: “per ‘tesi logica’ intendiamo una tesi relativa
al significato delle parole, o dipendente soltanto da esso…La tesi logica…ha una grande
importanza nelle argomentazioni morali; ma proprio per ciò è della massima importanza
mettere in chiaro che non è niente di più di una tesi logica” (FR, p. 62).48.
Va aggiunto peraltro che l’universalità dei giudizi morali secondo Hare va nettamente
distinta dall’idea che i principi morali, per essere tali, debbano essere generali. Infatti,
un principio può essere universale, ma essere al contempo molto semplice e particolare,
oppure generale, senza che questo comporti una modifica del suo contenuto morale
universale. “La logica del linguaggio morale non pone restrizioni alla generalità o
specificità dei nostri principi morali. Consente che essi siano altamente generali e
semplici, o altamente specifici e complicati, a seconda del temperamento della persona
46
R. M. Hare, Imperative Sentences, in Practical Inferences, cit., pp. 12-15.
R. M Hare, Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 48.
48
A questo proposito è opportuno ricordare che anche i giudizi descrittivi e le asserzioni fattuali possono
essere universali in virtù di tale regola, sebbene possiedono un genere di universalità molto meno
significativa rispetto a quella detenuta dai giudizi prescrittivi, dato che questi ultimi, al contrario dei
primi, hanno delle rilevanti conseguenze pratiche: “Nel caso delle asserzioni fattuali, ossia dei predicati
puramente descrittivi, le regole sono semplicemente semantiche; nel caso delle asserzioni e dei predicati
morali, le regole sono morali” (Cfr,. R. M Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 214).
47
30
che li sostiene” (FR, p. 73). Per esempio, un principio del genere “non piantare meli
quando il terreno è bagnato” è meno generale di quello che recita “non piantare mai
alberi da frutta quando il terreno è bagnato”, poiché i meli sono un tipo particolare di
alberi da frutta, tuttavia essi sono entrambi universali. Come scrive Hare, “Il termine
‘generale, così come lo userò io, si contrappone a ‘specifico’. Ma entrambi questi
principi sono, nel senso in cui userò questo termine, ‘universali’”49.
È evidente che una delle questioni più “spinose” per la riflessione morale di Hare è
legata a quanto una tesi logica possa influenzare il comportamento morale. In Freedom
and Reason l’autore asserisce in proposito che se una persona dovesse affermare: “Io
devo agire in un certo modo, ma nessun altro che si trovi in circostanze simili negli
aspetti rilevanti deve agire in quel modo”, è chiaro che, in virtù della tesi
dell’universalità, questa persona si contraddice, perché usa il verbo “dovere” in modo
improprio, dato che “l’infrazione logica consiste qui nella congiunzione di due giudizi
morali, non nell’uno o nell’altro presi separatamente” (FR, p. 64). Infatti, i due principi
morali contenuti in quella frase (“Io devo fare una certa cosa” e “Io non devo fare una
certa cosa”), presi singolarmente in sé, non sono affatto contraddittori e non sono
nemmeno errati, poiché sono composti in accordo con le regole logiche del linguaggio.
La contraddizione nasce quando due giudizi di questo tipo vengono connessi all’interno
di una proposizione che ha contenuto prescrittivo, ossia all’interno di una proposizione
che dovrebbe esprimere un principio morale universale. In questo caso, vi è in primo
luogo un’evidente infrazione logica alla tesi dell’universalità, poiché vengono unite due
proposizioni contraddittorie di per se stesse, indipendentemente dal fatto che siano
prescrittive o fattuali; in secondo luogo, poiché si tratta in questo caso di un enunciato
prescrittivo, l’infrazione logica sarebbe automaticamente pratica, giacché tale
proposizione, presa per quel che è il suo contenuto semantico, condurrebbe alla paralisi
delle decisioni morali. Come sarebbe infatti possibile aderire ad un principio morale che
impone al contempo di fare e di non fare una determinata azione? “La tesi
dell’universalizzabilità non rende contraddittorio nessun particolare (logicamente
49
R. M. Hare, Principi, in Saggi di teoria etica, cit., p. 54. A p. 55 Hare propone una definizione di
‘principio generale’ che non coincide affatto con quella di ‘principio universale’: “un principio p1 è più
generale di un altro principio p2 se e solo se è analiticamente vero che violare p2 vuol dire, per ciò stesso,
violare p1, mentre non è analiticamente vero il contrario”. Hare distingue l’universalità dalla generalità in
risposta al libro di M. G. Singer, Generalization in Ethics. An essays in the logic of Ethics, with the
rudiments of a system of Moral Philosophy, Eyre & Spottiswoode, London 1963. Una replica diretta di
Hare a Singer si trova nella recensione del volume in “Philosophical Quarterly”, XII (1962). Cfr. altresì
G. Ezorsky, Review to M. G. Singer Generalization in Ethics, “The Journal of Philosophy”, 12 (1963).
31
semplice) giudizio morale, o anche principio morale, che non sia contraddittorio senza
quella tesi; tutto quello che fa è di imporre la scelta tra giudizi che non si possono
entrambi asserire senza contraddizione” (FR, p. 64). Questa affermazione vuol costituire
l’autonomia e la peculiarità dei giudizi morali rispetto agli altri enunciati:
“Universalizzabile significa tale da implicare giudizi simili in situazioni simili in modo
rilevante. Questa caratteristica è proposta come caratteristica logico-strutturale; da essa
dipende l’invarianza del giudizio morale ovvero la sua indipendenza da fattori e
informazioni moralmente irrilevanti”50.
Hare giunge a dichiarare che la tesi logica dell’universalità, una volta applicata ai
giudizi morali, ci permette sia di capire quali sono i reali principi morali, sia di scegliere
tra diversi principi prescrittivi. Infatti, mentre la prescrittività “ci costringe a cercare
principi a cui aderire sinceramente”, l’universalità “insiste sul punto che questi [ossia i
principi morali] siano realmente dei principi morali e non le decisioni ad hoc di un
opportunista” (FR, p. 81). Dunque, mentre la tesi della prescrittività sembra possedere
in modo più evidente un carattere prettamente morale, la tesi dell’universalità è una tesi
logica applicata al linguaggio morale; è tuttavia solo in seguito a tale applicazione che
essa ci consente di comprendere se un particolare giudizio è un giudizio morale, oppure
se è un semplice giudizio prescrittivo singolare.
Il prescrittivismo universale avrebbe quindi, secondo Hare, la capacità di connettere
in modo razionale l’argomentazione logica e i fatti, l’analisi metaetica e la moralità
pratica. Da quanto dice l’autore, chi agisce non può limitarsi a constatare la coerenza
logica dei suoi enunciati, né ovviamente affidarsi esclusivamente alla conoscenza dei
caratteri fattuali della situazione in esame. Ciò vuol dire che una serie di persone non
dichiaratamente amoraliste, accetteranno una prescrizione universale
non a causa della conseguenza logica dai fatti, ma perché…assumendo che siano
intenzionati a enunciare un qualche giudizio morale su quella situazione, la
completa rappresentazione delle preferenze di coloro che sono coinvolti, e le
prescrizioni cui essi in tal modo giungono rispetto a quello che dovrebbe essere
fatto a loro se si trovassero nella posizione delle altre persone, risulta essere
logicamente in contraddizione con qualsiasi altro principio che non sia quello che
essi pronunciano in quella precisa circostanza51.
50
C. Bagnoli, Dilemma morale e limiti della teoria etica, LED, Milano 2000, p. 63.
R. M. Hare, Comments on Hudson, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
213.
51
32
La prescrittività, come proprietà fondamentale dei giudizi morali si esprime nella
forma più appropriata attraverso enunciati e comandi contenenti il verbo “dovere”, il
quale, in misura maggiore rispetto agli altri termini valutativi come “buono” o “giusto”,
riassume in se sia la prescrittività che la universalizzabilità dei giudizi morali. La
prescrittività è una proprietà morale che ha delle conseguenze logico-linguistiche, in
quanto, attraverso di essa, il nostro linguaggio mostra che gli esseri umani sono dotati di
libertà morale poiché prendono delle decisioni: “il fatto della libertà morale [è] ciò che
conferisce al linguaggio morale una delle sue caratteristiche proprietà logiche: è perché
dobbiamo prendere decisioni che ci serve questo tipo di linguaggio” (FR, p. 98). La
prescrittività riassume pertanto su di sé sia i motivi che ci fanno dire che il risolvere le
questioni morali è un atto di libertà, sia quelli che ci fanno sostenere che tale risoluzione
è anche opera di una serrata argomentazione razionale. T. Nagel ha sottolineato alcune
proposizioni che sintetizzano con efficacia il nocciolo della dottrina hareana della
prescrittività: “1) Dire che qualcosa deve essere moralmente compiuta significa
prescrivere che essa sia fatta in tutti gli ipotetici casi simili dalle persone coinvolte; 2)
Prescrivere che qualcosa sia fatta significa esprimere il desiderio che venga
compiuta…3) Quel che desideriamo sia fatto universalmente in mezzo a un insieme di
casi ipotetici è una semplice funzione additiva di quel che desideriamo sia fatto in
ognuno di essi”52. In altre parole, “formuliamo un enunciato prescrittivo se e solo se, per
qualche atto A, qualche situazione S e qualche persona P, se P assente (oralmente) a ciò
che diciamo e non fa A in S, è logicamente necessario che l’assenso di P sia insincero”
(MT, p. 52).
In particolare la prima proposizione di Nagel sembra definire meglio, sebbene in
termini molto generali, la nozione di prescrittività. Essa appare, almeno nelle intenzioni
di Hare, maggiormente legata al carattere pratico dell’agire morale, giacché rispetto
all’universalità risulta meno vincolata alla logica di tale linguaggio. Essa, pur avendo un
fondamento logico, sembra rispondere in maniera più diretta alla funzione pratica dei
giudizi morali (guidare la condotta), tanto che il sistema di etica di Hare è notoriamente
definito come prescrittivismo universale “in quanto sostiene che una delle
caratteristiche dei termini morali, caratteristica sufficientemente essenziale perché le si
consideri parte del significato di tali termini, è che i giudizi che li contengono hanno,
52
T. Nagel, Foundations of Impartiality, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
104.
33
nel loro uso tipico, la funzione di guidare la condotta” (FR, p. 104). La prescrittività di
un giudizio morale dovrebbe permettere al parlante non solo di avere la consapevolezza
che quello che gli sta seguendo sia un effettivo giudizio morale, ma anche di influenzare
la condotta altrui tramite un’argomentazione razionale e non attraverso una semplice
opera di persuasione o di coercizione.
Hare infatti asserisce che l’espressione di una prescrizione universale implica che il
parlante affermi esserci una ragione per agire in un certo modo, ma non che,
obbligatoriamente, chi lo ascolta e si trova d’accordo con lui debba in seguito
effettivamente agire in quel modo.
Io non utilizzo ‘prescrivere’ e ‘universalmente’ in modo tale che prescrivere
universalmente implichi l’affermazione ‘che tutti abbiano una ragione per agire in
accordo con la mia prescrizione’. Nemmeno penso che i giudizi morali, che nella
mia prospettiva sono universalizzabili, implichino una tale affermazione…Volevo
semplicemente dire che i giudizi morali, nel loro fondamentale uso prescrittivo,
implicano prescrizioni, dal lato del parlante, tali che quelli a cui si riferisce un
giudizio morale dovrebbero fare quello che esso richiede53.
Il prescrittivismo universale sostiene inoltre che i giudizi morali, per le loro
caratteristiche logiche, sono sopravvenienti rispetto a quelli descrittivi. Ciò significa che
dall’identità delle proprietà non normative di due oggetti discende l’identità delle loro
proprietà normative: la relazione qui introdotta è quella della sopravvenienza, a suo
tempo già analizzata da Moore e ripresa per la prima volta, dopo di lui, proprio da Hare,
benché quest’ultimo la impieghi in un senso meno forte di quello mooriano. Per Hare la
sopravvenienza è una delle proprietà della nozione di universalità ed infatti egli in The
Languge of Morals pone questo esempio per accennare alla sopravvenienza di un
termine come ‘buono’: “Supponiamo di dire: ‘San Francesco era un uomo buono’. È
logicamente impossibile dire questo e nel contempo dichiarare che ci può essere un altro
uomo il quale, trovandosi ad agire esattamente nelle stesse circostanze di San Francesco
e comportandosi in quelle circostanze esattamente nel suo stesso modo, differisca però
dal santo per quest’unico fatto, cioè che egli non è buono” (LM, p. 131). La
sopravvenienza appare come una proprietà essenzialmente logico-concettuale, secondo
53
R. M. Hare, Comments on Nagel, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 251.
34
la quale, quando si è stabilito che un certo caso possiede la proprietà morale X,
qualunque altro caso uguale ad esso possiederà la medesima proprietà X54.
La nozione di sopravvenienza permette di spiegare una connessione tra oggetti
linguistici (o stati di fatto reali o immaginari) che, pur non essendo forte e salda come
una relazione causale, tuttavia manifesta lo stesso l’esistenza di un rapporto dipendenza
tra di essi, dipendenza che crea tra quegli oggetti una interconnessione che appartiene
ovviamente alla struttura del mondo. Moore definisce la sopravvenienza in questo
modo: “se una data cosa possiede qualsiasi tipo di valore intrinseco in certo grado,
allora non solo una cosa ad essa simile la deve possedere in tutti i casi, ma anche
qualsiasi cosa esattamente uguale ad essa, deve, in tutti i casi, possedere tale valore
nell’identica misura”55. Nella Reply to My Critics, Moore afferma in questo senso che se
di A diciamo che è buono, ogni cosa identica ad A sarà buona, nondimeno non per
questo ogni cosa buona sarà identica ad A. Per quel che riguarda il rapporto tra termini
valutativi e non valutativi, Moore evidenzia come i primi siano sopravvenienti rispetto
ai secondi, ma non viceversa, stabilendo in tal modo tra di essi una relazione
asimmetrica. Pertanto, se attribuiamo ad A la proprietà naturale e non valutativa di
essere “rosso”, certamente avremo che tutte le cose simili ad A saranno rosse, ma questo
termine, indicando una proprietà naturale, conferma semplicemente uno stato di fatto,
non un criterio per influenzare la condotta. Al contrario, se definiamo A come “buono”,
avremo che tutte le cose simili ad A saranno buone, ma non ci potremo fermare qui,
perché il termine “buono” individua un criterio di valutazione, ossia influenza la
condotta e dunque, rispetto a quella stabilita tra gli oggetti definiti come “rossi”, la
relazione tra tutti gli A giudicati “buoni” è più significativa, giacché foriera di
conseguenze pratiche.
Come sottolinea J. Kim, la sopravvenienza di Moore ha un carattere “forte”, poiché
essa è valida in tutti i mondi possibili, mentre quella di Hare sarebbe una weak
supervenience. Secondo quest’ultima versione della sopravvenienza, per decidere se S.
Francesco sia un uomo buono si dovrà fare riferimento solo a certe caratteristiche
moralmente rilevanti (saggezza, onesta e così via), le quali sopravvengono altri caratteri
di S. Francesco (vicende biografiche, caratteri fisici della persona, esperienze di vita,
caratteri psicologici) che non sono ritenute necessarie per la valutazione della sua bontà.
54
55
R. M. Hare, La sopravvenienza, in Saggi di teoria etica, cit., pp. 77-78.
G. E. Moore, Philosophical Studies, Macmillan, London 1922, p. 261.
35
A parere di Hare, pertanto, la procedura di valutazione deve coinvolgere un numero
limitato di caratteri dell’oggetto, della situazione o della persona giudicata; questo
tuttavia non è un limite del processo di valutazione, bensì una sua qualità, in quanto in
tal modo è possibile operare una sorta di scelta ponderata che privilegia solo le
caratteristiche moralmente rilevanti. Se invece per valutare qualcuno o qualcosa si
facesse riferimento ad un insieme ampio di caratteristiche, come sembra voler fare la
sopravvenienza forte, ci sarebbe una commistione eccessiva tra elementi prescrittivi e
descrittivi e pertanto il giudizio valutativo non sarebbe autenticamente tale, poiché
altresì derivato da caratteri che sono in genere superflui per giudicare moralmente.
Infatti, per la strong supervenience, “se essere un uomo buono sopravviene in modo
forte sulle sue proprietà naturali, qualsiasi proprietà naturale di tale uomo
buono…costituirebbe una base sopravveniente per renderlo un uomo buono; tuttavia,
ciò è ovviamente più di quello di cui abbiamo bisogno (esso includerebbe l’altezza
dell’individuo, la data di nascita, il peso etc.) e sarebbe meno perspicuo”56.
Hare sostiene a questo proposito che se A e B sono indiscernibili rispetto alle loro
proprietà naturali, sono tali anche rispetto alle loro proprietà morali: secondo Hare,
infatti “il morale è sopravveniente sul naturale, nel senso che se due oggetti (o persone,
atti, stati di fatto e simili) sono differenti per tutte le caratteristiche naturali, essi devono
essere necessariamente diversi per tutte le caratteristiche morali. Ciò significa che le
cose non possono differire rispetto ad alcune caratteristiche morali se non vi è una
qualche proprietà naturale in virtù della quale esse differiscono”57.
L’uguaglianza delle proprietà morali di una situazione (il fatto cioè che sia buona,
malvagia, doverosa e così via) non dipende dall’uguaglianza dei suoi caratteri naturali e
descrittivi. Per tornare all’esempio relativo a S. Francesco, se giudichiamo “buono” S.
Francesco, ogni individuo che agirà esattamente come il santo, verrà giudicato “buono;
tuttavia, questo non significa che ogni persona per essere definita come buona debba
agire come S. Francesco, in quanto il termine valutativo “buono” possiede una notevole
ricchezza di sfumature e di esempi. Per questo motivo non è possibile pensare, come
farebbero i naturalisti, che i termini morali abbiano il solo significato descrittivo, ma è
necessario, per comprenderli, sapere che essi possiedono altresì un significato
56
J. Kim, Concepts of supervenience, in Supervenience and mind, Cambridge University Press,
Cambridge 1993, p. 66.
57
Ibidem, p. 57. Cfr., anche le pp. 60-61.
36
prescrittivo: “Il fatto che le proprietà morali sopravvengano su quelle morali, significa
semplicemente che atti, etc., hanno le proprietà morali perché possiedono proprietà non
morali (‘E’ sbagliato perché era un atto che consisteva nell’infliggere dolore per
divertimento’), benché la proprietà morale non coincida con la proprietà non morale e
nemmeno ne è da essa implicata” (SO , pp. 21-22).
Il significato di “buono”, dovere e giusto
Attraverso la puntuale indagine sul significato dei termini morali e sul
funzionamento del linguaggio morale, da un lato “si è mostrato che un sistema morale
non può adempiere alla sua funzione di guida per la condotta se i suoi principi si
presentano come puramente fattuali. [Dall’altro], si è mostrato che esso non può
adempiere a tale funzione neanche se pretende di basarsi su principi autoevidenti.
Queste due tesi, se accettate, bastano da sole a eliminare quasi tutti quelli che Hume
chiama ‘i sistemi di morale volgare’” (LM, pp. 49-50).
Inoltre, nella sua analisi dei termini morali, come quella relativa all’utilizzo di
“buono”, Hare fa riferimento solo in parte riferimento alla riflessione di Moore, in
quanto concorda con l’atteggiamento antinaturalistico di Moore, ma non ne condivide
l’approccio descrittivista all’etica. Scrive Hare infatti che il descrittivista “non
naturalista [come Moore] sostiene che la caratteristica che deve essere presente in una
cosa perché una parola valutativa le possa venire applicata si può descrivere soltanto
usando quella o qualche altra parola valutativa: è una caratteristica sui generis. Secondo
il naturalista, viceversa, tale caratteristica è descrivibile anche, sebbene forse in modo
più complicato, in termini non valutativi (di solito empirici)” (FR, p. 44).
Hare nota che spiegare il significato di un termine come “buono” affermando, alla
maniera di Moore, che esso rimanda a proprietà non naturali è un’ottima idea per
rifuggire dal naturalismo, ma rischia di essere anche una mossa controproducente, in
quanto chiarisce solo parzialmente la portata semantica di tale parola. Per questo motivo
la definizione mooriana di “buono” come proprietà non naturale58, non può essere la
58
Cfr. Moore, Principia Ethica (trad.. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1964): “se mi si domanda
‘che cosa è bene?’, la mia risposta è che esso non si può definire, e questo è tutto quanto ho da dire
sull’argomento” (PE, I, § 6). Egli critica le definizioni di “buono” come “ciò che procura piacere” o “ciò
che è desiderato”: “Signori miei quel che vogliamo sapere da voi come maestri della morale non è come
la gente usi una certa parola; e neppure quale sia il genere di azioni che la gente approva, il che è
37
conclusione di una riflessione sull’etica, bensì il suo punto di partenza per elaborare una
concezione della moralità che, liberatasi da ogni residuo naturalistico, sia in grado di
determinare il comportamento logico dei termini valutativi.
Il termine “buono” ha un significato valutativo, dato che può essere impiegato non
solo in senso morale (come nell’espressione “L’atto X è buono”) per indicare norme di
comportamento da seguire, ma anche per lodare oggetti e per influenzare i giudizi altrui
su di essi (come nell’espressione “X è una buona automobile”). Certamente vi sono
anche casi in cui “buono” è impiegato descrittivamente, come per esempio se posto tra
virgolette, oppure quando è impiegato in riferimento a criteri di bontà ormai
standardizzati per i quali la carica valutativa di “buono” ha perso rilievo, a favore di
quella descrittiva: “La carica valutativa e quella descrittiva di buono variano
indipendentemente l’una dall’altra: quando un criterio si è stabilmente affermato e non è
messo in discussione, un giudizio in cui figuri ‘buono’ può essere altamente informativo
senza perciò avere una portata valutativa inferiore” (LM, p. 113).
Dunque, anche se esistono usi non valutativi del termine buono, esso non perde mai
del tutto la propria carica direttiva: per questo non ha senso parlare di una bontà
strumentale oppure di bontà intrinseca. In altri termini, il significato di “buono” non si
spiega elencando una serie di cose ritenute tali, diversamente da quanto accade per il
significato di un termine come “rosso”, il quale è utilizzato esclusivamente solo per dare
informazioni. Mentre infatti la proprietà determinata dalla “rossezza” è un fatto
verificabile, sul quale in genere non vi è discussione tra persone che hanno una normale
percezione dei colori, ciò che fa giudicare buono un quadro o un certo atto non è criterio
oggettivo. Per questo è possibile che due persone che usano il termine “buono” col
medesimo significato, possano continuare a giudicare in maniere opposte uno stesso
quadro.
Il discorso fatto in precedenza rispetto al significato valutativo di “buono”,
unitamente al rigetto di ogni forma di spiegazione naturalistica dei termini etici,
conduce Hare ad affermare che non vi sono differenze logiche tra l’uso di “buono” nei
contesti non morali e in quelli morali. La funzione svolta da “buono”, in ambito morale
e in ambito non morale è la medesima, ossia quella di esprimere una valutazione e,
anche nel caso di giudizi valutativi non morali, di orientare le scelte altrui. È questo, tra
certamente implicito nell’uso del termine ‘buono’: ciò che vogliamo sapere è semplicemente cosa è
buono” (I, § 12).
38
le altre cose, che garantisce il carattere “dinamico” dei giudizi valutativi: “il rimedio
contro il ristagno e il decadimento morale consiste solamente nell’imparare ad usare il
linguaggio valutativo per i fini ai quali è destinato: il che equivale a imparare non solo a
parlare, ma anche a mettere in pratica le cose che lodiamo; giacché, se non siamo
disposti a metterle in pratica, non facciamo altro che manifestare un rispetto non sentito
per un criterio meramente convenzionale” (LM, p. 135).
E’ evidente che le ragioni per cui lodiamo un automobile sono profondamente
diverse (e molto meno importanti) rispetto a quelle per cui lodiamo gli atti e i
comportamenti delle persone e per questo la riflessione sui termini valutativi si appunta
maggiormente sul ruolo che giocano in ambito etico e non per esempio in quello
estetico59. Pertanto, i giudizi che esprimiamo nei confronti di certi comportamenti
morali ha suscitato una maggiore attenzione da parte dei filosofi morali, in quanto “si ha
l’impressione che in un certo modo la ‘bontà morale’ sia più augusta, più importante, e
meriti quindi di avere una logica tutta propria” (LM, p. 127), poiché, se durante la nostra
vita possiamo astenerci dal pronunciare giudizi sulla qualità di automobili, cronometri,
quadri, non possiamo invece esimerci dall’esprimere giudizi morali e, soprattutto,
dall’agire in base ad essi. Ciò accade perché viviamo in una società nella quale le nostre
scelte e le nostre azioni hanno delle conseguenze delle quali è impossibile non tenere
conto, giacché esse si riflettono non solo sulla nostra vita, ma anche sull’esistenza delle
altre persone: “mentre possiamo evitare di essere architetti, o di costruire o usare
cronometri, l’essere uomini è una necessità alla quale non possiamo sottrarci. Dato che
è così, non c’è modo di evitare le (spesso scomode) conseguenze dell’attenerci ai
giudizi morali che pronunciamo” (LM, p. 129).
L’analisi semantica di “dovere” e “giusto” mostra che essi sono termini
esclusivamente prescrittivi e che i giudizi da loro formati, per essere degli effettivi
giudizi etici, implicano direttamente le caratteristiche della prescrittività e
dell’universalità. In altri termini, l’ambito semantico di applicazione di “buono” è più
ampio rispetto a quello di “dovere” e “giusto”, per cui, mentre è consueto affermare “M
è una buona automobile” e “M è un uomo buono”, mai si afferma “M è una giusta
59
Un’argomentazione non dissimile è tratteggiata anche da D. Ross, nel suo The Right and the Good
(1930), sebbene da un orizzonte intuizionista: “dobbiamo notare che ‘buono’, nell’applicarsi a persone, ha
un senso speciale in cui esso indica l’eccellenza morale. È il caso di quando enfatizziamo l’aggettivo o il
sostantivo nell’espressione ‘uomo buono’”. (Cfr. Il giusto e il bene, a cura di R. Mordacci, Bompiani,
Milano 2004, p. 80).
39
automobile”, mentre si dice soltanto “M è un uomo giusto”. Da questo punto di vista, il
comportamento del verbo “dovere” sembra essere più vicino a quello di “giusto” che a
quello di “buono”.
Infatti “giusto” e “buono” si comportano in modo differenti, poiché le valutazioni
che essi implicano hanno degli ambiti di applicazione diversi: Hare pertanto,
contrariamente a ciò che dice Moore nei Principia Ethica, non ritiene che “buono” sia la
nozione etica fondamentale dalla quella derivare tutte le altre. In particolare, l’autore
sottolinea come da tempo si sia evidenziato come l’espressione “quest’atto è buono”
non necessariamente equivalga all’espressione “quest’atto è giusto”:
se paghiamo il conto del sarto nella speranza che egli spenda quei soldi per
andarsi ad ubriacare, facciamo un’azione giusta [giacché è giusto pagare chi ci
presta un servizio], ma non un’azione buona, in quanto il motivo per cui la
facciamo è cattivo. Così, dire che una persona ha compiuto un’azione non
giusta…non equivale necessariamente a condannarla o biasimarla per quell’azione,
in quanto, pur avendo fatto una cosa non giusta, quella persona può aver agito
spinta dal migliore dei motivi, o può non essere stata in grado di resistere a una
tentazione per aver ceduto alla quale non la si potrebbe biasimare (LM, p. 166).
Già David Ross, nell’opera The Right and the Good, aveva proposto
un’argomentazione per certi aspetti simile, evidenziando la diversa natura di “buono” e
“giusto”, e soffermandosi sull’importanza del valore dei motivi che hanno condotto ad
agire: “Qualunque valore intrinseco, positivo o negativo, possa avere l’azione, essa lo
deve alla natura del suo motivo e non all’esser giusto o sbagliato dell’atto; qualunque
valore essa abbia, indipendentemente dal suo motivo, è un valore strumentale, cioè
niente affatto la bontà, bensì la proprietà di produrre qualcosa di buono”60. Hare inoltre
nota che anche l’ambito in cui parliamo di azioni buone è differente da quello per cui
parliamo di azioni giuste: nel primo caso ci troviamo infatti nel campo dell’educazione
morale, nel secondo facciamo invece riferimento all’ambito dell’azione morale, ossia ai
doveri da adempiere in ogni occasione che la vita ci presenta. Essi “possono essere
adempiuti in modo buono o cattivo quale che sia il carattere o l’insieme dei motivi di
colui che agisce” (LM, p. 167).
Ma è soprattutto l’analisi del verbo “dovere” ad essere fondamentale nella riflessione
di Hare: “i principi pratici rilevanti possono essere formulati come imperativi generali; e
un ‘devo-giudizio’ è corretto, in relazione ad un insieme di principi generali, se vi è un
60
D. Ross, Il giusto e il bene, cit., p. 156
40
imperativo corrispondente che segue logicamente dall’insieme di imperativi generali
assunti in combinazione con vere assunzioni sui fatti”61. Hare sostiene che il verbo
“dovere” è molto diverso dagli altri, poiché non è mai usato descrittivamente, tranne in
casi molto rari. “Alcuni enunciati contenenti il verbo ‘dovere’ hanno chiaramente una
portata descrittiva…Ma la funzione principale di tali enunciati non è quella di dare
informazioni, bensì quella di prescrivere o consigliare o istruire, funzione che può
venire espletata anche quando non comunica alcuna informazione” (LM, p. 146). Il
verbo “dovere” ha pertanto una portata prescrittiva maggiore, come mostra il fatto che
gli enunciati che lo contengono possiedono una valenza imperativa che è assente negli
imperativi singolari o negli imperativi ipotetici espressi dalla forma “se….allora”. “Non
vogliamo sostenere che tutti gli enunciati contenenti il verbo ‘dovere’ implichino
imperativi, ma solo che essi implicano imperativi quando vengono usati
valutativamente” (LM, p. 150). Il verbo “dovere” è per ciò legato in maniera più diretta
all’universalità, mentre un giudizio valutativo che contiene in sé il termine “buono” non
sempre risulta universalizzabile62:
mentre il giudizio secondo cui in una certa situazione io devo fare una certa
cosa mi impegna a sostenere che nessuna persona che si trovi in una situazione
esattamente analoga debba astenersi dal fare la stessa cosa, ciò non è vero per un
giudizio formulato in termini di ‘buono’…A proposito di due vite identiche o di
due uomini identici non possiamo dire che l’uno è buono e l’altro no; ma è
perfettamente legittimo dire, a proposito di due vite diverse o di due uomini
diversi, che entrambi sono buoni (FR, pp. 209-210).
Infatti, vi possono essere vari esempi di vita “buona”, perché non è vero che esiste un
solo modo di vivere “bene”. I devo-enunciati evidenziano pertanto un più stretto legame
con i principi morali di carattere formale che guidano la nostra condotta e che in genere
ci formiamo tramite un’educazione morale di un certo tipo. Il significato prescrittivo del
verbo “dovere” porta al risultato notevole di comprendere meglio per quale ragione gli
61
G. Harman, The Nature of Morality, Oxford University Press, New York 1977, p. 116.
Ad esempio, nota l’autore, il comando “Restituiscigli il denaro” ha una portata limitata, giacché può
esprimere un giudizio morale che si applica solo in una particolare occasione; un comando del tipo “Si
deve sempre restituire il denaro che si è promesso di restituire”, ha senz’altro una portata più ampia del
precedente, giacché non si riferisce ad un’unica occasione, ma ad uno spettro più ampio di situazioni che
si possono verificare. Una prescrizione della forma “Devi restituirgli il denaro” (o anche “Dovevi
restituirgli il denaro”), benché sia pronunciabile in una situazione particolare, possiede una forza più
generale, ossia sostiene un principio morale universale che impone di restituire sempre il denaro a chi ce
lo ha prestato ed ha un orizzonte temporale che non riguarda solo il presente (LM, p. 143-44).
62
41
uomini hanno bisogno di principi universali della condotta in svariati campi della loro
vita, ma soprattutto nel campo morale:
Se qualcuno afferma che ci sono due situazioni identiche in tutte le loro
universali caratteristiche non morali, ma sostiene che il protagonista in una di esse
deve dire una bugia, mentre il protagonista dell’altra non deve farlo, è probabile
che ci troveremmo in imbarazzo, come se egli avesse asserito che un disco rotante
è stazionario e al contempo non stazionario (SO , p. 22).
Dunque, il giudizio valutativo “Devo fare X”, è un esempio di quel che Hare ritiene
sia la forma più semplice ed immediata di giudizio morale, del quale fornisce la
seguente definizione, nella quale sono contemplate sia la prescrittività sia il carattere
universale di esso: “Proponiamo che, per stabilire se uno usa il giudizio ‘Devo fare X’
come un giudizio valutativo oppure no, ci si ponga la seguente domanda: ‘Ammette o
non ammette egli che se assente a quel giudizio deve necessariamente assentire anche al
comando Che io faccia X?’” (LM, p. 153). Per supportare in maniera più salda questa
argomentazione, Hare osserva che il verbo “dovere”, quando è usato prescrittivamente,
ha un evidente legame con il verbo “potere”, giacché in tal caso il suo impiego fa
sorgere una questione pratica: “In generale sembra essere vero che, se la descrizione di
un’azione è tale da escludere una questione pratica, allora escluderà anche, per la stessa
ragione, la corrispondente questione universalmente prescrittiva col verbo ‘dovere’. Di
fatto, è l’impossibilità di deliberare, o di domandarsi, se fare una cosa che esclude il
chiedere se si debba farla” (FR, p. 97).
Il fatto che “dovere” implichi “potere” è di conseguenza legato alla constatazione
secondo la quale quando dico a qualcuno che egli “deve” compiere una certa azione,
vuol dire che so anche che egli è al contempo nella possibilità di compiere tale azione;
non avrebbe infatti nessun senso, per rimanere nell’ambito morale, chiedere a qualcuno
di compiere un atto che è del tutto impossibilitato a compiere. Per questo motivo
l’implicazione tra “dovere” e “potere” non è un’implicazione di stretto carattere logico,
ma di un carattere più debole e si può esprimere semplicemente nella forma: “se
diciamo che uno deve fare una certa cosa, e il verbo dovere è preso in tutta la sua forza
(cioè nella sua forza universalmente prescrittiva), allora lasciamo intendere a chi ci
ascolta che riteniamo che la questione cui questa rappresenta una possibile risposta si
pone, il che non avverrebbe se la persona in questione non fosse in grado di compiere
gli atti cui si riferisce” (FR, pp. 90-91). Solo quando “dovere” implica “potere” abbiamo
42
pertanto dei giudizi prescrittivi giacché in tal caso sorge una questione pratica, la quale
è “la questione cui si risponde o quando si dice a qualcun altro che cosa fare o quando si
decide per se stessi” (FR, p. 90). Il verbo “dovere” contiene in tal modo una risposta alla
domanda “Che fare?”, poiché suggerisce quello che si deve fare e dall’altro implica che,
avendo significato prescrittivo, il nostro interlocutore “può” fare quella determinata
cosa. La nozione di prescrittività in questo caso rileva una ricchezza di conseguenze
morali e filosofiche notevoli che sono escluse, invece, da un utilizzo di “dovere” privo
di qualsiasi implicazione pratica: “la prescrittività del verbo ‘dovere’, così usato, serve
sia a spiegare la nozione comunemente accettata secondo cui ‘dovere’ implica ‘potere’,
sia a discriminare i casi in cui ciò avviene da quelli in cui non avviene” (FR, p. 92).
Il problema del naturalismo
Le definizioni di carattere metaetico che Hare antepone all’esposizione della sua
riflessione morale, conducono l’autore a marcare la propria distanza da quelle dottrine
che negano autonomia all’etica; a questo proposito, Hare riprende in parte le
argomentazioni di Moore il quale, rifacendosi alle parole di Hume63 relative alla
inderivabilità di asserzioni con verbo “essere” da asserzioni col verbo “dovere”,
accusava queste dottrine di commettere una fallacia naturalistica, ossia di definire le
proprietà etiche attraverso proprietà naturali (e dunque non etiche): “I naturalisti, ma più
in generale i riduttivisti, commettono…una fallacia logica in quanto confondono due
proprietà distinte, una delle quali è naturale (definiens) e l’altra non-naturale
(definiendum)”64. Hare sembra d’accordo nel sostenere l’esistenza di una vera e propria
legge di Hume che stabilisce l’impossibilità di derivare un giudizio morale da premesse
che contengono solo asserzioni fattuali: “poiché la conclusione di un ragionamento non
può contenere niente che non sia nelle premesse ed in queste premesse non vi sono
affatto dei ‘si deve’”65. Non è possibile dunque dedurre le qualità morali (o valutative)
di qualcosa o qualcuno da proprietà (o fatti) non morali. “Se fosse possibile partire da
premesse empiriche, stabilite da osservazioni ordinarie e dalle consuete procedure di
63
Cfr. in proposito D. Hume, Trattato sulla natura umana, Libro III, a cura di E. Lecaldano, Laterza,
Roma-Bari 1993, pp. 496-497.
64
C. Bagnoli, Etica, in F. D’Agostini, N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Einaudi,
Torino 2002, p. 300.
65
P. Nowell-Smith, Etica, a cura di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Milano 1974, p. 76.
43
predizione del futuro, e da esse, attraverso le trasformazioni concettuali che la filosofia
ha scoperto, giungere a conclusioni morali sostanziali, allora la filosofia avrebbe
realmente fatto qualcosa per la soluzione dei problemi pratici. Questo è il programma di
quel genere di filosofia morale di solito chiamata ‘naturalismo’”66.
Se per esempio si volesse fornire una definizione dell’asserzione valutativa “X è un
buon quadro”, secondo la prospettiva naturalista, si dovrebbe cercare di individuare
alcune proprietà (oggettive e durature nel tempo) possedute dal quel quadro, al fine di
ottenere un enunciato che renda chiaro a tutti cosa si intenda dire quando si afferma che
quello è un “buon quadro”. In sostanza, il giudizio “X è un buon quadro” è trattato dal
naturalista alla stregua del giudizio “X è un rettangolo”, poiché egli, pensando che i
giudizi valutativi siano un semplice sottoinsieme della classe più ampia dei giudizi
conoscitivi, segue la convinzione per cui gli oggetti siano “buoni” in virtù di proprietà
empiriche; sarebbe perciò sufficiente rintracciare una di queste caratteristiche
(rispondente ad un criterio oggettivo di verità) per spiegare il significato di “buono”. Se
per esempio tale caratteristica di bontà del quadro fosse definita secondo il criterio
“perché è apprezzato dai membri dell’Accademia dei Lincei”, che possiamo chiamare
criterio P, il naturalista affermerebbe che “X è un buon quadro perché possiede P”,
derivando l’idea che l’enunciato “X è un buon quadro” è sinonimo dell’asserzione “X è
un quadro e X è P”. Tuttavia, avverte Hare, questo giudizio non è un giudizio
valutativo, bensì semplicemente informativo, perché ci dice solo che quell’X è un
quadro e che è apprezzato dai membri dell’Accademia dei Lincei. Lodare il quadro X
dicendo che è tale perché apprezzato dai membri dell’Accademia dei Lincei, non
significa quindi stabilire un criterio di valutazione su di esso, ma vuol dire limitarsi ad
affermare che i membri dell’Accademia dei Lincei ammirano i quadri che ammirano.
Questa asserzione è dunque una tautologia priva di rilievo valutativo in quanto
asserzione analitica: “Se si afferma che ‘P è un buon quadro’ è sinonimo di ‘P è un
quadro e P è C’, allora diventerà impossibile lodare dei quadri perché sono C; sarà
soltanto possibile dire che sono C” (LM, p. 83).
L’errore del naturalismo è in primis concettuale, ma ovviamente tale errore può avere
altresì delle ricadute pratiche. Il naturalista però in genere non si rende conto di questo
errore e cade in quella forma di realismo etico che Hare ritiene colpevole del
66
R. M. Hare, The Practical relevance of Philosophy (1967), in Essays on Philosophical Method,
Macmillan, London 1971, p. 103.
44
fraintendimento della vera natura dei concetti morali: “Per un naturalista, quindi,
l’inferenza che procede dalla descrizione non morale di una cosa a una conclusione
morale su di essa è un’inferenza la cui validità è dovuta unicamente al significato delle
parole che contiene” (FR, p. 51):
quel che definisco naturalismo [dichiara] che asserzioni fattuali relativamente
alla giustezza o scorrettezza [wrongness] delle azioni sono vere appellandoci a quel
che sappiamo rispetto al significato dei termini ‘giusto’ e ‘sbagliato’ [wrong]. Ma i
descrittivisti affrontano tale questione [quella della verità dei giudizi valutativi] in
modo troppo semplice. Essi pensano che se conosciamo il significato di queste
parole saremo in grado di riconoscere atti che sono sbagliati, come accade quando,
conoscendo il significato di ‘rosso’ o ‘triangolare’, possiamo individuare oggetti
che sono rossi o di forma triangolare67.
Hare, al contrario, ricorda che quando lui ed altri sostenitori del prescrittivismo
affermano che un uomo è buono, “non stiamo semplicemente spiegando il significato di
una parola; non è mera istruzione verbale quella che diamo, ma qualcosa di più:
istruzione morale. Nell’apprendere che, fra tutti i tipi di uomo, si può chiamare buono
questo tipo, il nostro ascoltatore apprenderà qualcosa di sintetico, un principio morale”
(FR, p. 52). Ciò vuol dire che i giudizi morali fanno riferimento a qualcosa di
sostanziale, non a semplici regole di significato, al contrario di quello cui fanno
riferimento i giudizi descrittivi. Il naturalismo, se per alcuni aspetti, è allora una dottrina
che ha una certa utilità rispetto alle esigenze per le quali nasce, le sue conclusioni
appaiono però inaccettabili:
un filosofo morale che voglia spiegare il ragionamento morale e utilizzi il
naturalismo a questo scopo, è nel giusto, per un verso; ha infatti intuito che lo
studio del significati delle parole è il mezzo per scoprire i canoni del ragionamento
morale. Egli però prenderebbe una scorciatoia troppo breve. Come unico canone di
ragionamento morale non possiamo prendere il seguente: scoprire quali sono i tipi
di oggetti a cui possono essere attribuiti i predicati morali secondo quanto è
stabilito dalle concezioni della nostra lingua, e attribuirli a questi oggetti…
Confondere le convenzioni morali con quelle linguistiche è un errore (MT, p. 105).
67
R. M. Hare, Objective Prescriptions, in A. P. Griffiths (edited by), Ethics, cit., p. 6.
45
Il non descrittivismo
Una più compiuta critica del naturalismo si concretizza nella presa di distanza dal
descrittivismo etico, il quale è definibile come “1) La tesi secondo la quale è possibile
definire termini e espressioni normativo-valutative mediante termini e espressioni
fattuali;
2) la tesi
secondo
la quale le
affermazioni
normativo-valutative
sono…affermazioni di carattere fattuale (descrittivo)”68.
L’adozione del non descrittivismo etico a livello semantico presuppone in Hare
l’adesione, ad un più generale livello epistemologico, ad una prospettiva compiutamente
non cognitivista, ovvero all’idea in base alla quale i giudizi etici non sono asserzione
conoscitive e pertanto non sono suscettibili di vero-falsità, giacché non si pone la
questione della loro verificabilità: “il cognitivismo etico è…la posizione secondo la
quale è possibile conoscere la verità dei giudizi morali; il descrittivismo etico è, invece,
la posizione secondo la quale il loro carattere logico è simile a quello delle asserzioni o
dei giudizi descrittivi…un’asserzione o un giudizio sono descrittivi quando il loro
carattere logico è simile a quello delle asserzioni o dei giudizi descrittivi”69.
In modo simile al naturalismo, il descrittivismo compie un errore a livello semantico,
giacché stabilisce che tutte le regole di significato debbano essere dello stesso tipo
(ossia di genere descrittivo). Per esempio, il disaccordo tra chi definisce un prato
“rosso” e chi lo definisce correttamente come “verde” può essere appianato molto
agevolmente in modo razionale, mostrando a chi sbaglia i motivi per cui, sostenendo
egli la tal cosa, rompe una precisa regola di significato descrittivo. Questa differenza tra
i due generi di disaccordo è dovuta al fatto che per il descrittivismo “un’ asserzione o un
68
B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla legge di Hume, Giappichelli, Torino
1994, p. 124.
69
R. M. Hare, Confusioni sul concetto di soggettività, ora in Saggi di teoria etica, cit., p. 23. Secondo il
cognitivismo etico “un enunciato morale possiede condizioni di verità che sono almeno in un caso
soddisfatte” (Cfr., P. Donatelli, Introduzione, in P. Donatelli, E. Lecaldano, (a cura di), Etica analitica,
cit., p. 25). Secondo i cognitivisti, l’etica può costituirsi come un corpo di conoscenze (alla pari della
scienza), perché le sue asserzioni affermano proprietà che hanno un’esistenza oggettiva e che possono
essere giudicate vere o false in base a determinati criteri. A. J. Ayer, fin dal suo celebre testo del ’36
Language, Truth and Logic, ha contestato questa asserzione, notando che le proposizioni dell’etica non
sono verificabili e sono prive di valore conoscitivo e, in coerenza con il positivismo logico, di significato:
“Parlando per me, sono stato condotto [all’emotivismo] dall’assumere in primis che noi facciamo un uso
dei termini etici, il quale è distinto dalla relazione che essi hanno con alcun standard accettati; in secondo
luogo…per il fatto che il loro utilizzo non era spiegato da alcuna teoria naturalistica; e, in terzo luogo, per
il fatto che tale loro utilizzo era invece spiegato dalla teoria emotiva, la quale possiede il vantaggio di
essere coerente con la mia posizione filosofica generale”. (Cfr., Freedom and Morality, in Freedom and
Morality and Other Essays, Clarendon Press, Oxford 1984, pp. 30-31).
46
giudizio sono descrittivi se il loro significato…è la sola cosa che determina le loro
condizioni di verità, e viceversa”70. Il disaccordo secondo il descrittivismo è dovuto
allora all’uso errato di una regola logica molto precisa relativa al significato dei termini
utilizzati. Il disaccordo morale, invece, sussiste anche in presenza di un corretto utilizzo
delle regole logiche e dei significati dei termini coinvolti. Infatti, se una persona afferma
“Si deve fare X” e un’altra “Non si deve fare X”, una volta accertato che entrambi
utilizzino il verbo “dovere” col medesimo significato, non possiamo dire che una delle
due compie un errore logico, ma solo che agiranno in modo diverso. Al contrario, il
disaccordo tra giudizi descrittivi non conduce necessariamente a differenti conseguenze
pratiche e per questo è molto meno significativo del disaccordo morale. Inoltre, per
produrre un vero e proprio disaccordo etico, non è sufficiente che i due interlocutori
dissentano sui giudizi singolari, giacché “perché questo si costituisca bisognerebbe che
dissentissimo, non solo su ciò che è da farsi in un caso particolare, ma su qualche
principio universale concernente ciò che si deve fare in casi di un certo tipo” (FR, p.
144). Inoltre, il significato prescrittivo possiede una dinamicità sconosciuta a quello
descrittivo: mentre infatti l’asserzione descrittiva “L’automobile X è rossa” è di norma
costante nel tempo se riferita alla medesima automobile, possono al contrario mutare nel
tempo i criteri con i quali uno stesso atto si giudica “buono”. Ciò non conduce al
relativismo morale, bensì alla fondamentale capacità dei giudizi prescrittivi di favorire il
riformatore morale: “Un’importante caratteristica del linguaggio, ignorata dal
naturalismo, sta nel fatto che esso ci permette di continuare a usare i termini morali con
il loro medesimo significato per esprimere opinioni morali discordi da quelle invalse,
come fanno i riformatori morali” (MT, p. 105).
Il disaccordo di tipo descrittivo è dunque un disaccordo puramente verbale, dovuto
ad una non conoscenza delle regole di verità di un termine, mentre il disaccordo morale
è sostanziale, poiché coinvolge direttamente le scelte di vita delle persone. Infine, le
regole che sottendono al ragionamento morale “non possono essere semplici regole di
significato descrittivo, pur se, tra le altre funzioni, esse determinano il significato
descrittivo di quel termine. Sono regole aventi contenuto morale: nell’accettare l’una o
l’altra di esse i due disputanti si impegnerebbero non meramente per un certo uso di una
parola, ma per una questione di principio morale” (FR, pp. 60-61). Pertanto, i termini
70
R. M. Hare, Confusioni sul concetto di soggettività, ora in Saggi di teoria etica, cit., p. 23.
47
morali possono essere in alcuni casi utilizzati per veicolare informazioni, ma il loro
impiego peculiare è quello valutativo o prescrittivo: “i filosofi della morale debbono
decidersi: o riconoscono l’elemento irriducibilmente prescrittivo dei giudizi morali,
oppure ammettono che i giudizi morali, così come essi li interpretano, non guidano le
azioni, come invece fanno i giudizi morali ordinariamente intesi” (LM, p. 172).
La tesi, diffusa nella riflessione analitica sull’etica, relativa all’esistenza di una legge
di Hume e la distinzione tra fatto e valore, hanno suscitato una discussione piuttosto
ampia. Infatti, è stata sostenuta la insussistenza di questa legge, contestando
l’interpretazione che Moore ha fornito del passo di Hume sulla distinzione tra è e deve.
Come scrive per esempio W. Frankena:
La posizione di Hume è che non si possono trarre valide conclusioni etiche da
premesse non etiche. Ma quando gli intuizionisti [come Moore] affermano la
divergenza fra ‘dovere’ ed ‘essere’, essi vogliono dire molto di più del fatto che le
proposizioni etiche non possano essere dedotte da quelle non etiche. Poiché una
tale difficoltà nei sistemi di morale volgari poteva essere superata…grazie
all’introduzione di definizioni delle nozioni etiche in termini non etici. Essi
vogliono dire, piuttosto, che tali definizioni di nozioni etiche attraverso termini non
etici sono impossibili…Le proprietà etiche non sono …mere qualità naturali
indefinibili, descrittive o esplicative. Esse sono proprietà di genere differente – non
descrittive o non naturali71.
Frankena dunque osserva che Moore, invece di parlare di “fallacia naturalistica”,
avrebbe dovuto definire l’oggetto della sua critica come “fallacia definizionista” perché,
se la sua argomentazione fosse vera (ma non è sicuro che lo sia), colpirebbe tutti i
tentativi di definire qualcosa. La fallacia denunciata da Moore in campo etico sarebbe in
realtà solamente una parte minoritaria della più ampia fallacia definizionista, la quale “è
il processo di confondere o identificare due proprietà, o definire una proprietà attraverso
un’altra, o sostituire una proprietà al posto di un’altra”. Considerazioni critiche verso la
legge di Hume sono state portante anche da A. J. Ayer e da B. Williams, secondo il
quale tale fallacia naturalistica in realtà ben presto ha cessato di essere un divieto
riguardante la definizione di bene in termini naturalistici, per divenire il puntello di una
teoria che distingue i termini valutativi (bene e giusto), da quelli non valutativi (giudizi
di fatto, verità matematiche, metafisiche, religiose e così via): tuttavia, sebbene questa
71
W. Frankena, The Naturalistic Fallacy, “Mind”, 48 (1939), pp. 467 e 471 per la successiva citazione.
48
distinzione per Williams sia accettabile, non è a suo parere questo ciò che Hume voleva
realmente dire72.
In particolare, l’approccio non cognitivista di Hare ha trovato una serie di critici, i
quali hanno ritenuto illegittima e non fondata l’individuazione del significato valutativo
(e poi prescrittivo) come un significato sussistente di per sé, ossia del tutto autonomo
rispetto alla carica descrittiva del termine cui esso si riferisce. P. Geach ha per esempio
contestato l’unilateralità del non cognitivismo, il quale ritiene che i termini etici siano
tali in quanto ricorrono esclusivamente in contesti proposizionali morali. In realtà, egli
nota che alcune asserzioni prescrittive (per esempio, dichiarare che fare una certa cosa è
un atto “cattivo”), pur ricorrendo di solito in contesti assertori (ad esempio nella
proposizione “Tormentare un gatto è cosa cattiva”), possono altresì ricorrere in contesti
non assertori e non perdere per questo motivo la propria forza prescrittiva (per esempio
all’interno di una proposizione condizionale, in cui il termine “cattivo” non è posto
nella premessa condizionale: “Se tormentare un gatto è cosa cattiva, come ho detto a
mio fratello, allora non devi tormentare il gatto”). Tuttavia, mentre in questo caso il non
cognitivista sosterrebbe che il termine “cattivo”, non apparendo nella premessa
condizionale, sarebbe privo di forza prescrittiva in quanto usato descrittivamente, Geach
pensa che il ragionamento sia comunque moralmente cogente: “e ciò in virtù del fatto
che il predicato ‘è cosa cattiva’ conserva lo stesso significato…Se ciò è vero, Geach è
riuscito a dimostrare che predicato prescrittivi come ‘cattivo’ non devono il loro
significato alla loro forza assertoria, e da questo punto di vista ‘cattivo’ non è diverso da
molti altri predicati”73.
Da un altro punto di vista, P. Foot denuncia la non correttezza della teoria che
asserisce l’esistenza di un significato valutativo come cosa a se, in quanto a suo parere i
termini come “buono” non possiedono un significato autonomo. Tale significato è
infatti legato alla funzione che essi possono svolgere all’interno del linguaggio e non si
può prescindere dall’individuazione di un oggetto particolare (un uomo, una situazione,
un azione) su cui tale termine ci fornisce un’informazione: “non vi è alcun modo di
descrivere il termine valutativo ‘buono’, la valutazione, la lode, o nient’altro di questo
72
Cfr. B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit. pp. 149-151. Per una disamina delle differenti
interpretazioni delle parole di Hume e per il tentativo di fornirne una interpretazione autentica, più
aderente al sistema complessivo dell’etica dell’autore scozzese, cfr., E. Lecaldano, Hume e la nascita
dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 173-181.
73
P. Donatelli, Introduzione a P. Donatelli/E. Lecaldano (a cura di ), Etica analitica, cit., p. 18. Per le
argomentazioni di Geach cfr. Assertion, “The Philosophical Review”, 74 (1965), pp. 449-475.
49
genere, senza fissare l’oggetto al quale si suppone che essi si attacchino. Senza prima
allungare le mani sull’oggetto proprio di una cosa come la valutazione, noi
stringeremmo nella nostra rete solo cose diverse come l’accettare un ordine, prendere
una decisione e null’altro”74. Foot nota per esempio che un termine come “scortese”
(rude) possiede la proprietà di essere valutativo solo se inserito in contesti linguistici nei
quali esso deve mostrare di essere prima di tutto “descrittivo”, e dunque fornire
informazioni su uno stato di cose o un evento o una situazione reale o immaginaria. In
altre parole, i termini valutativi non sono tutti uguali e la gran parte di essi, in genere,
possiede un evidente legame con i fatti e il loro utilizzo in contesti descrittivo non può
essere definito come minoritario o subordinato a quello prescrittivo. In tal modo, Foot
esprime una più generale perplessità sull’esistenza della dicotomia tra fatto e valore;
come ha notato di recente H. Putnam a proposito per esempio dell’uso del termine
‘crudele’ (crude): “crudele può essere usato in maniera puramente descrittiva, come
quando uno storico descrive che un certo sovrano fu eccezionalmente crudele o che le
crudeltà del regime provocano una serie di ribellioni. ‘Crudele’ semplicemente ignora la
dicotomia fatto/valore e ammette allegramente di venir usato talvolta per scopi
normativi e altre volte come termine descrittivo”75.
G. Anscombe76 ha inoltre rilevato come il giudizio che Hare ritiene più propriamente
prescrittivo, ossia quello contenete il verbo “dovere”, venga impoverito se analizzato
esclusivamente secondo l’approccio semantico. L’autrice infatti fa l’esempio
dell’enunciato “io devo al mio droghiere questa somma per le patate”, evidenziando
come esso sia in realtà composto da una serie di fatti “bruti” (vale a dire l’andare dal
droghiere, il comperare le patate e così via), che ne determinano il significato in maniera
di gran lunga più cogente dell’analisi puramente logica. La proposizione in oggetto,
infatti, non implica direttamente una prescrizione, per giunta universale, giacché può
limitarsi a descrivere il fatto di dover pagare le patate. Sono infatti fondamentali le
circostanze nelle quali la frase è pronunciata per determinarne il valore semantico ed
eventualmente pratico, mentre Hare scrive che essa rappresenta un giudizio prescrittivo,
basandosi sulla sola analisi logico-concettuale. L’enunciato che Anscombe prende ad
74
P. Foot, Moral Arguments, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Basil
Blackwell, Oxford 1978, p. 113.
75
Cfr. H. Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia, a cura di G. Pellegrino, Fazi Editore, Roma 2004,
p 40.
76
G. E. M. Anscombe, On Brute Facts (1958), ora in Ethics, Religion and Politics, vol. III, Basil
Blackwell, Oxford 1981, pp. 22-25.
50
esempio, infatti, è scomponibile in una serie di asserzioni descrittive che possono essere
delle specie più varia (tale proposizione, per esempio, potrebbe anche essere utilizzato
per descrivere la scena di un film e sarebbe dunque non reale) e che non corrispondono
necessariamente ad un’unica funzione, “ma è di nuovo il contesto normale, l’istituzione
sottostante la descrizione di partenza, a rendere possibile la corrispondenza
dell’enunciato iniziale con i fatti bruti cui esso consiste. L’analisi di Anscombe tende a
mostrare come l’indagine del linguaggio sia riconducibile esclusivamente all’indagine
dei fatti in questione”77. Ella rifiuta l’assunto non cognitivista che sostiene si debba
distinguere tra termini descrittivi e termini etici in virtù della loro componente non
descrittiva e valutativa. L’argomento antinaturalista e antidescrittivista di Hare sembra
dunque parziale e surrettizio, come la stessa distinzione tra giudizi di fatto e di valore:
“Queste argomentazioni provano solamente che non possiamo dipingere la moralità
derivandola direttamente da un background filosofico trascendente prestabilito, o da un
background fattuale. Ma questo non significa ancora sostenere che la credenza (belief)
nel trascendente non possa essere presente in un resoconto filosofico della morale”78.
L’idea che gran parte della riflessione del filosofo morale si esaurisca nelle analisi
del linguaggio dell’etica, viene successivamente connessa da Hare alla convinzione per
cui la sola logica non può determinare direttamente all’azione. In altre parole, le analisi
di The Language of Morals, pur nel loro carattere metaetico, non negano la possibilità
che l’enunciazione di una proposizione prescrittiva possa anche indicare una condotta,
un criterio d’azione saldamente fondato, in quanto: “Chi agisce moralmente non fa una
semplice inferenza, ma decide di violare un principio morale oppure di rispettarlo (LM,
p. 57). Pertanto, sebbene non si prefiguri qui la possibilità di elaborare principi
normativi, Hare è cosciente che il pensatore morale non debba fare il medesimo lavoro
del filosofo del linguaggio; per esempio, una delle questioni più pressanti per il filosofo
morale è quello legato alla necessità di stabilire la rilevanza dei giudizi etici e dei
contesti morali nei quali essi trovano applicazione, non solo la questione relativa a quali
proposizioni e situazioni possono essere considerate dotate di valenza morale in virtù di
regole logiche.
77
P. Donatelli, Introduzione a P. Donatelli/E. Lecaldano (a cura di ), Etica analitica, cit., p. 16.
I. Murdoch, Metaphysics and Ethics, in Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and
Literature, Penguin Books, London 1999, p. 65.
78
51
Si tratta qui da un lato di individuare alcune caratteristiche semantiche dei termini
morali, attraverso le quali ritagliare, all’interno del linguaggio ordinario, uno spazio
autonomo per il linguaggio morale e di conseguenza per la riflessione su di esso.
Dall’altro lato, è però necessario andare oltre e domandarsi se le proposizioni etiche
abbiano la possibilità, una volta applicate a determinate situazioni, stati di fatto o eventi,
di fondare razionalmente anche la loro rilevanza morale. Hare definisce in tal modo la
rilevanza: “trattare una certa caratteristica come rilevante sotto il profilo morale
significa applicare a quella situazione un principio morale che faccia menzione di tale
caratteristica. È sbagliato pensare di potere prima identificare i tratti moralmente
rilevanti di una situazione e soltanto dopo cominciare a chiedersi quali principi morali
vadano applicati alla situazione” (MT, p. 98).
Hare propone dunque un’applicazione serrata della nozione di rilevanza, sostenendo
che il giudicare eticamente rilevante una situazione (o un fatto, un evento, uno stato di
cose), significa in realtà già formulare un principio morale. In altri termini,
l’ammissione della rilevanza morale di una certa situazione coincide con la valutazione
etica formulata su di essa: “Noi possiamo bensì descrivere una situazione senza
impegnarci in alcun giudizio morale su di essa…; tuttavia, quando decidiamo quali
caratteristiche della descrizione siano moralmente rilevanti, stiamo già facendo
un’operazione morale”79. È il parallelo fra i criteri di rilevanza morale di una situazione
e il processo di valutazione morale di essa che potrebbe assicurare il fatto che la
filosofia possieda rilevanza pratica80.
79
R. M. Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 200.
R. M. Hare, The Practical Relevance of Philosophy, in Essays on Philosophical Method, cit., pp. 98118. Questa significativa tesi di Hare è tuttavia piuttosto impegnativa per l’agente, in quanto potrebbe
suggerire che non è possibile parlare o descrivere una situazione, una persona e, nel medesimo tempo,
non esprimere una valutazione su di essa. In realtà, come è stato sottolineato (Cfr. in proposito il saggio di
B. Williams del 1962, The Idea of Equality, ora in L’idea di eguaglianza, a cura di I. Carter, Feltrinelli,
Milano 2001, pp. 26-27) non sempre accade così e il giudicare moralmente rilevante un certo X può non
implicare direttamente, come dato di fatto, l’espressione di una valutazione su X. Tale espressione di
valutazione, infatti, è un atto indipendente da quello che sottolinea la rilevanza dell’oggetto o della
situazione giudicata.
80
52
CAPITOLO 2. Prescrittivismo universale
Il prescrittivismo come principio normativo
Nell’opera del ’63, Freedom and Reason, Hare da un lato riprende ed amplia le
analisi sul significato dei termini morali, precisando ulteriormente i carattere
dell’universalità e della prescrittività; dall’altro, si mostra più incline ad elaborare una
vera e propria teoria etica che sia in grado di affrontare questioni morali sostanziali, o
meglio, che sia in grado di fornire argomenti logicamente fondati per affrontarle. Per
questo non è corretto asserire che in Freedom and Reason, Hare operi una vera e propria
svolta filosofica, in quanto le argomentazioni di The Languge of Morals fungono da
base per quelle contenute in Freedom and Reason; tuttavia, quest’ultimo testo è per
certi aspetti un completamento di quanto detto nell’opera precedente, sia attraverso la
precisazione di determinati temi, sia attraverso l’introduzione di nuovi problemi e
questioni. In tal modo l’autore va oltre l’orizzonte analitico, nella direzione di una teoria
etica che tuttavia, almeno per il momento, non ha bisogno di appoggiarsi ad una dottrina
normativa particolare.
L’orizzonte metaetico della riflessione di Hare nasce quindi con l’intento, almeno
nelle sue affermazioni, di evidenziare come l’analisi semantica dei giudizi etici, se
condotta non quale indagine fine a se stessa, ma connessa ad una ragionevole attenzione
alle situazioni empiricamente osservabili nelle quali siamo chiamati a giudicare
moralmente, possa influenzare la condotta pratica. L’autore dunque, appurata l’esistenza
di un linguaggio morale, dotato di regole logiche parallele a quelle possedute dal
linguaggio ordinario (in MT, p. 34 si legge infatti che “Nel suo aspetto formale…la
filosofia morale è un regno di quello che oggigiorno viene spesso chiamata logica
filosofica”), ritiene che attraverso la sua analisi sia possibile enunciare giudizi etici che
possono dare vita a principi universali e prescrittivi capaci di influenzare la condotta.
Con l’opera Freedom and Reason, sembra in definitiva farsi più viva l’esigenza di
accompagnare ad una fondazione formale dell’etica, la necessità di riflettere sulle
condizioni di possibilità di una teoria morale, gli argomenti di una concezione
sostantiva del bene, nel duplice intento di rendere meno estemporanea l’analisi
metaetica e di unire ad essa un principio etico normativo che permetta di capire il senso
e l’utilità dell’analisi logico-linguistica. Si potrebbe perciò definire la riflessione di
53
Hare, dal ’63 in poi, come un tentativo di fondare razionalmente una concezione
sostantiva sia del bene, sia del carattere degli individui che agiscono moralmente. I
soggetti morali verranno per questa ragione progressivamente visti come persone calate
in un contesto sociale determinato e dotate di desideri ed inclinazioni empiricamente
osservabili, in virtù dei quali essi regolano la propria condotta per raggiungere ciò che
essi giudicano come benefico per loro. Gli individui, pertanto, non agiranno
semplicemente in seguito ad un astratto ragionamento, ma attueranno quella che l’autore
definisce una “decisione di principio”, dal momento che “esprimere un giudizio
valutativo [significa] prendere una decisione di principio. Chiederci se in queste
circostanze dobbiamo compiere l’azione A equivale a chiederci….se vogliamo o no che
il compiere l’azione A in tali circostanze diventi una legge universale” (LM, p. 69).
La determinazione del prescrittivismo universale come dottrina normativa impone
quindi una maggiore considerazione di quegli elementi empirici (inclinazioni
individuali, circostanze dell’azione) che sono essenziali per operare un’applicazione
pratica di principi morali di carattere logico-formale. Tuttavia, ciò che renderà
discutibile questa operazione è la mancata elaborazione di una dottrina normativa
coerente con il prescrittivismo, capace di fornire il giusto peso alle inclinazioni, ai
sentimenti e ai desideri di chi agisce. In realtà in Freedom and Reason, Hare mostra una
certa vicinanza con l’utilitarismo, nondimeno egli considera il prescrittivismo capace
già da solo di determinare sia il modo corretto di ragionare in etica, sia l’azione
moralmente più efficace, mentre l’utilitarismo sarebbe solo un suo corollario, uno
strumento.
Questo è un tema molto delicato nella riflessione morale di Hare, forse non sempre
messo in evidenza, ma da non trascurare, poiché il suo approccio utilitarista verrà
maturato appieno solo durante gli anni Settanta, sebbene sia evidente che anche in
precedenza l’autore fosse vicino ad una dottrina morale di questo genere. Ciò
nonostante, Hare in Freedom and Reason dichiara che il prescrittivismo è una dottrina
morale capace di correggere le incongruenze e contraddizioni dell’utilitarismo, il quale,
come principale ‘difetto’, avrebbe quello di non essere supportato da un modello di
ragionamento morale formale ed universale. Il prescrittivismo, nelle intenzioni
dell’autore, dovrebbe da un lato incorporare la formalità di un’etica deontologica e,
dall’altro, arricchirsi con una maggiore attenzione verso i moventi pratici dell’agire
54
umano, verso i quali l’utilitarismo mostra di avere una sensibilità più marcata rispetto
ad altre dottrine normative.
La seconda difficoltà insita nell’utilitarismo è legata alla non facile verifica
dell’intensità del desiderio provato, al fine di stabilire una gerarchia tra inclinazioni ed
interessi
ed
operare
sulla
base
di
essa
delle
scelte.
In
altri
termini,
“dobbiamo…considerare ciascuna persona come uno, o ciascun desiderio di una
persona come avente ugual peso dello stesso desiderio, della stessa intensità provato da
qualche altra persona?” (FR, p. 170). Vi è inoltre il problema relativo al fatto se conta
maggiormente una soddisfazione incompleta di tutte le preferenze delle persone
coinvolte nella scelta, o la soddisfazione massima solo di quelle più intensamente
espresse, a prezzo della frustrazione dei minoritari desideri altrui: “si riconoscerà questo
problema come analogo a quello, che ha afflitto gli utilitaristi, se si debba massimizzare
la felicità o distribuirla in parti uguali, qualora non si possa fare entrambe le cose” (FR,
p. 171). Vi è poi la questione, che già divise Bentham e Mill, se si debbano privilegiare i
desideri migliori delle persone o invece semplicemente quelli più intensi, ossia se vada
privilegiata la forza di qualsiasi desiderio o vadano meglio valutati desideri
qualitativamente superiori: “Riconoscere che alcuni tipi di piaceri siano più desiderabili
di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la
valutazione dei piaceri dipenda solo dalla quantità, quando invece per valutare tutte le
altre cose si prende in considerazione anche la qualità…E’ meglio essere una creatura
umana inappagata che un maiale appagato; meglio un Socrate insoddisfatto che uno
sciocco soddisfatto”81. Questa era la posizione di Mill, mentre Bentham sosteneva
un’idea opposta e lo stesso Hare, per sua ammissione, è vicino alla posizione
benthamiana, in quanto pensa che non vi possa essere una distinzione qualitativa tra i
piaceri.
Secondo Hare, le difficoltà dell’utilitarismo possono essere superate solo se alle sue
asserzioni si accompagna, come loro fondamento, il test dell’universalità. Infatti,
proprio grazie al prescrittivismo universale, il principio di Bentham “Ognuno conti per
uno, nessuno per più di uno” acquista un fondamento logico e razionale; per
l’utilitarismo “ciò che questo principio significa è che ognuno ha diritto a pari
81
J. S. Mill, L’utilitarismo, a cura di E. Mistretta, Rizzoli, Milano 1999, pp. 243 e 245. Cfr. inoltre la
posizione di Smart che giudica irrilevante tra tale distinzione, Lineamenti di un sistema utilitarista, cit,
pp. 48-50.
55
considerazione, e che se si dice che due persone devono essere trattate in modo diverso,
si deve far presente una qualche differenza come base per tali diversi giudizi morali. E
ciò è un corollario del requisito dell’universalizzabilità” (FR, pp. 167-168). Il filosofo
morale deve dunque analizzare i nostri interessi, ideali, desideri ed inclinazioni ed il test
dell’universalizzazione può essere uno strumento adatto a condurre una valutazione
rigorosa ed imparziale di essi. Gli altri individui pertanto non sono delle entità astratte,
ma delle persone che hanno ideali e interessi propri, dai quali non è possibile
prescindere se si vuole effettivamente agire in modo morale. Sono questi i fatti di cui
Hare parla e la loro valutazione è decisiva, alla pari ovviamente del richiamo alla
correttezza logica del ragionamento morale. “Il filosofo della morale ha il compito di
dire, non quale sarebbe il comportamento logico dei termini morali se questi fossero
prodotti da, e ad uso di, angeli, bensì quale esso di fatto è” (FR, p. 112).
Hare pertanto sostiene che il prescrittivismo universale possa, da un lato, a monte,
“riempire” di contenuti un’etica formale deontologica (che a giudizio di Hare è
eccessivamente astratta in quanto priva di contenuto prescrittivo), e dall’altro, a valle,
conferire all’etica normativa un solido apparato logico-concettuale, incentrato
sull’analisi del significato dei termini e delle proposizioni morali. Il problema tuttavia è
che, almeno in questa fase, la mancata adozione di una prospettiva pienamente
utilitarista, non permette una completa e ponderata ricognizione dei reali moventi che
spingono gli individui ad agire. E’ peraltro evidente che, al di là del ruolo assunto dal
ragionamento morale, la determinazione della effettiva condotta pratica è essenziale in
quanto le nostre decisioni e le nostre scelte hanno sempre un riflesso sulle altre persone
e sulla situazione sociale nella quale viviamo. Pertanto, la valutazione di un giudizio
morale, condotta esclusivamente in relazione alla correttezza del ragionamento che ha
portato a formularlo e all’esistenza di un principio morale a priori che lo renda valido, è
necessaria ma non sufficiente. È infatti richiesto un percorso di valutazione che faccia
seguire, all’analisi formale, la valutazione delle conseguenze pratiche implicate
dall’agire e dunque la capacità di discernere tra le alternative che la realizzazione di un
certo atto può comportare e le diverse conseguenze da esso prodotte. Per certi aspetti,
Hare sembra qui prefigurare una conciliazione tra consequenzialismo e deontologismo,
tra utilitarismo e kantismo, ma, come si vedrà, tale conciliazione risulta problematica.
56
L’immedesimazione simpatetica
Quando, come accade nella maggioranza dei casi, l’azione riguarda un numero
ampio di individui, è allora impossibile sia sfuggire alla necessità di esprimere giudizi
universali e prescrittivi, sia all’esigenza di evitare di considerare le conseguenze dei
propri atti e l’entità delle inclinazioni altrui: “Il contenuto dei giudizi morali di un
utilitarista è dato da una considerazione delle inclinazioni e degli interessi reali che di
fatto la gente ha, unita al requisito formale che le prescrizioni che questi suggeriscono
debbono essere universalizzabili perché se ne possano formare dei giudizi morali” (FR,
p. 168). In altre parole, pur non aderendo ancora all’utilitarismo, Hare mostra di
affidarsi ai suoi strumenti concettuali: in questo caso entra in gioco la possibilità di
selezionare gli interessi e gli ideali da promuovere. Ciò può essere fatto individuando un
criterio formalmente saldo per la messa in evidenza del loro carattere razionale, il quale
si fonda sul loro essere universalizzabili, ovvero se le prescrizioni che li esprimo sono
giudizi morali coerenti con le regole logiche.
Chi agisce e vuole universalizzare le proprie prescrizioni senza tenere conto degli
interessi delle persone che lo circondano corre il rischio di mostrarsi fanatico, poiché
non è possibile affermare che non bisogna mai tenere conto dei desideri degli altri.
Certamente ci possono essere situazioni particolari in cui si rende necessaria operare
una differenziazione tra i desideri altrui, ma nessuno a priori, eccetto appunto un
fanatico, prescriverebbe di ignorare sempre e comunque le inclinazioni altrui senza
conoscerne il contenuto. Hare infatti nella sua riflessione fa più volte riferimento al fatto
per cui una teoria morale prende le mosse dalla considerazione del mondo così come è e
dei desideri, interessi e preferenze che gli uomini solitamente possiedono in modo più
frequente. L’individuo che agisce dovrà essere a conoscenza sia dei significati delle
parole morali, sia dei caratteri empirici e contingenti della situazione in cui si trova ad
agire; la sua azione sarà razionale se, in base alle sue informazioni, formerà giudizi
morali validi universalmente.
L’elemento di novità introdotto nella sua riflessione è dunque la necessità di operare
confronti tra gli interessi e gli ideali degli individui. Hare ritiene che il prescrittivismo
universale possa fornire solo delle indicazioni generali, ma essenziali e fondamentali,
per condurre questi confronti in modo equo e razionale: è sufficiente infatti che un
interesse, per essere accettato come rilevante, si riveli universalizzabile, ossia
57
applicabile a tutti i casi simili. Una volta che il prescrittivismo ha definito questo test
dell’universalità, esso ha compiuto il proprio dovere:
Se possiamo mostrare che esiste una forma di argomentazione la quale, senza
presupporre alcuna previa premessa morale ma basandosi semplicemente sul fatto
che il mondo è quello che è e gli uomini sono quello che sono, condurrà questi
ultimi (purché si pongano a riflettere dal punto di vista morale ed esercitino la loro
immaginazione, e guardino in faccia i fatti, e si curino di comprendere quello che
dicono) a accordarsi intorno a certi principi morali che contribuiscono alla giusta
riconciliazione di contrastanti interessi, allora avremo fatto, forse, tutto ciò che
occorre (FR, pp. 246-247)
Non sembra esservi spazio per una considerazione della qualità degli individui che
manifestano gli interessi, né delle loro capacità o esigenze. La necessità di operare una
immedesimazione simpatetica con l’altro, o meglio, l’esigenza di attuare al meglio la
strategia dell’inversione dei ruoli necessita di un ponderato e razionale ricorso alla
propria facoltà immaginativa. Ecco che allora l’immaginazione, dopo la logica e i fatti e
in combinazione un atteggiamento imparziale, diviene il quarto fattore essenziale per un
efficace ragionamento morale. L’immaginazione accompagna dunque la valutazione
imparziale degli interessi altrui ed è connessa alla necessità di saper compartecipare ai
sentimenti ed ai desideri degli altri, al fine di una valutazione equa. L’immaginazione è
necessaria perché la sola imparzialità non è sufficiente per operare nel modo migliore
l’inversione dei ruoli, dato che se tale imparzialità si accompagna ad una mancanza di
partecipazione nel soggetto, la valutazione morale risulterà inattuabile: “nella maggior
parte dei casi una certa capacità d’immaginazione e una certa disposizione a servirsene
costituiscono un quarto ingrediente necessario nelle argomentazioni morali, accanto a
quelli già menzionati, e cioè la logica (sotto forma di universalità e prescrittività), i fatti
e le inclinazioni” (FR, pp. 138-139).
Essere imparziali implica che, quando A si domanda quali interessi abbia l’individuo
B in certe circostanze, A dovrà prescindere dal fatto che gli interessi che egli stesso
prova sono suoi e, per questo, pensare che siano più degni di soddisfazione di quelli di
B. I propri interessi non vanno valutati in misura più favorevole per il fatto che sono i
propri: “Dire…che tutti dovrebbero dare un unico peso ai loro propri interessi, solo per
il fatto che essi sono i loro, significa…enunciare una prescrizione universale autocontraddittoria; ma essa è qualcosa che quasi nessuno accetterebbe una volta che avesse
considerato gli effetti che l’adesione ad essa da parte altrui avrebbe per i suoi
58
interessi”82. Se un individuo B in una situazione S vuol prescrivere una condotta verso
l’individuo A, condotta che però B non è disposto ad accettare che venga attuata verso
di lui di fronte ad una situazione simile ad S, egli dovrà spiegare perché prende questa
decisone in contrasto con il prescrittivismo.
Di fatto B ha di fronte un dilemma. O la proprietà del suo caso, che egli sostiene
essere moralmente rilevante, è una proprietà autenticamente universale (cioè
descrivibile senza fare riferimento ad individui) oppure non lo è. Se è una proprietà
universale, allora, in forza del significato della parola “universale”, è una proprietà
che potrebbe essere posseduta da un altro caso in cui egli avesse una parte
diversa…Ciò lo obbligherà a considerare come moralmente rilevanti solo quelle
proprietà che è disposto a considerare tali anche quando le hanno altre persone (FR,
pp. 154-155).
Hare vuol rafforzare il suo sistema, prevenendo una possibile obiezione ad esso,
ricordando che B deve esser imparziale e non giudicare le inclinazioni di A dal proprio
punto di vista, poiché “B non deve immaginare se stesso nella situazione di A con le
proprie (di B) simpatie ed antipatie, bensì immaginare se stesso nella situazione di A
con le simpatie e le antipatie di A” (FR, p. 161). A tale considerazione imparziale si
deve unire una valutazione simpatetica della situazione, ossia non una fredda
ricognizione dei suoi caratteri empirici e nemmeno un generico ricorso a forme di
empatia: “Requisito del pensiero morale è la completa simpatia, non la pura e semplice
empatia”83, poiché, a differenza della empatia, come ha scritto di recente S. Darwall:
“La simpatia è un sentimento, o emozione che reagisce ad un ostacolo che si pone
contro un bene individuale e implica un coinvolgimento nei confronti dell’individuo, sia
per il suo benessere, sia per lui stesso”84. La simpatia implica dunque un diretto
coinvolgimento emotivo e morale per le sorti dell’individuo, per il suo welfare.
Un caso presentato da Hare per evidenziare cosa significa “mettersi al posto altrui”, è
ricalcato sulla parabola del Vangelo di Matteo (18, 23) e riguarda il debito che
intercorre tra tre persone, A, B e C. “A deve del denaro a B, e B deve del denaro a C, e
la legge dice che i creditori possono esigere i loro crediti mandando i loro debitori in
82
R. M. Hare, The Practical Relevance of Philosophy, in Essays on Philosophical Method, cit., p. 115.
R. M Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 207.
84
S. Darwall, Welfare and Rational Care, Princeton University Press, Princeton 2002, p. 67. Cfr. inoltre
il cap. III: “L’empatia consiste nell’immaginare come uno si senta, o forse si dovrebbe sentire, o nella
riproduzione immaginaria di questi sentimenti…L’empatia può essere seguita da indifferenza o semplice
osservazione o anche da crudeltà e sadismo” (p. 51). “La simpatia è un sentimento, o emozione che
reagisce ad un qualche ostacolo apparente contro un bene individuale e implica un coinvolgimento verso
l’individuo, sia per il suo benessere, sia per lui stesso” (p. 67).
83
59
prigione. B si chiede ‘Posso dire che devo prendere questa misura contro A per
costringerlo a pagare?’. Senza alcun dubbio egli è incline a ciò, o vuole farlo. Pertanto,
se non ci fosse il problema di universalizzare le sue prescrizioni, egli assentirebbe
prontamente alla prescrizione singolare ‘Che io mandi A in prigione’” (FR, pp. 134135). B pertanto possiede una inclinazione che lo induce a chiedere che A, suo debitore,
venga messo in prigione perché insolvente. Ma questa sua inclinazione personale è in
grado di tradursi in un interesse morale? Il principio, lo si chiami X, che impone di
mandare in prigione tutti i debitori, al quale B fa riferimento, non può infatti per lui
diventare una prescrizione universale, poiché egli stesso è debitore nei confronti di C e,
se assentisse ad X, dovrebbe assentire al fatto di essere lui stesso mandato in prigione.
Se B non assente alla prescrizione universale X e dunque non ritiene che il suo creditore
C lo debba mandare in prigione, egli deve anche rifiutare di mandare A in prigione in
quanto suo (di B) debitore: se così non fa, B si comporta in modo immorale ed
irrazionale. Naturalmente l’esempio funziona se rimane assodato che A, B e C
conoscano tutti il significato del verbo “dovere” e lo utilizzino in senso prescrittivo,
come operatore deontico.
Cosa è accaduto in questo semplice esempio? È successo che B ha enunciato una
prescrizione singolare ma, una volta immaginatosi nei panni altrui, si è accorto che
quella prescrizione non poteva per lui diventare un principio morale universale. “Ciò
che è accaduto è che un principio morale provvisorio…è stato rifiutato perché una delle
sue particolari conseguenze si è rivelata inaccettabile” (FR, p. 135). La prescrizione di B
è stata messa alla prova e, rivelatasi (per B) non universalizzabile, è stata abbandonata;
B si è infatti dovuto immaginare al posto di A, cercando però di abbracciare i desideri e
le inclinazioni che A avrebbe avuto nel caso fosse stato minacciato di essere mandato in
prigione, e B ha compreso che, se egli si fosse trovato esattamente nella situazione di A,
avrebbe sviluppato una forte inclinazione a non essere incarcerato. Questa inclinazione
a non essere mandato in prigione per debiti è evidentemente più forte del desiderio di B
di punire A e dunque ha prevalso. In casi come questo, il ragionamento morale, pur
avendo a proprio base la conoscenza dei termini morali, ha dovuto confrontarsi con i
fatti ed ha potuto farlo ricorrendo all’immaginazione e all’immedesimazione
simpatetica con l’altro. Quello che mostra l’esempio portato da Hare è che, poiché gli
uomini sono quelli che sono, può accadere che una prescrizione singolare venga
abbandonata se si mostra andare contro gli interessi di chi l’ha enunciata: ci sono infatti
60
desideri ed interessi che non possono essere universalizzati, perché bisogna sempre
domandarsi e accettare la possibilità di trovarsi al posto dell’altro e quindi di non avere
più, in quel caso, quei desideri e quegli interessi. Il fatto per cui B cambi idea, una volta
operata l’inversione dei ruoli, è per Hare un segno al contempo della dinamicità del
prescrittivismo (per le eccezioni che ammette al livello della valutazione pratica delle
situazioni nelle quali si agisce) e del suo rigore (che invece mostra come dottrina etica
formale), poiché esso ammette come valide solo un certo tipo di prescrizioni, ma
ammette che gli individui possono anche agire diversamente per vari motivi.
Le difficoltà del prescrittivismo
L’interpretazione che Hare fornisce di questo caso è però anche problematica: la
difficoltà risiede nel fatto per cui un esempio semplice come questo, utilizzato appunto
da Hare per mostrare la dinamicità ed il rigore formale del prescrittivismo universale,
non sembra affatto mostrare che esso possa funzionare così bene in assenza di un chiaro
criterio normativo. Ci si può a tal proposito chiedere se la decisione di B sia morale,
oppure se la sua scelta di non universalizzare non sia invece frutto semplicemente della
sua volontà debole o al contrario sia una scelta ponderata, che scaturisce dall’influenza
delle sue inclinazioni e sentimenti. In questo ultimo caso, infatti, per interpretare
l’esempio una teoria etica priva di un principio normativo è forse meno efficace di
quanto lo sarebbe stato una spiegazione psicologica o sociologica della situazione. A.
Ross ha sostenuto proprio quest’ultima posizione, nella sua critica ad Hare, affermando
che “l’incapacità di B di accettare di andare egli stesso in prigione non è dovuta a una
impossibilità logica né a una impossibilità morale, vale a dire all’incapacità di accettare
la sua incarcerazione come giustificata, ma a una impossibilità psicologica: non vuole
andare in prigione perché ha una forte avversione ad esservi mandato”85. Un primo
ordine di problemi è perciò costituito dal fatto per cui Hare, in questo esempio, sembra
accomunare le proposizioni esprimenti le volizioni dei soggetti con quelle che
esprimono, invece, i giudizi morali ai quali essi dovrebbero conformarsi; tra di esse in
realtà sussiste una notevole differenza, poiché le proposizioni che manifestano le
inclinazioni si esprimono attraverso asserzioni della forma “io vorrei…” oppure “io
85
A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare) (1964), in Critica del diritto e analisi del
linguaggio, cit., p. 167.
61
desidero”, mentre le proposizioni morali sono rappresentate da enunciati della forma “Io
dovrei (o io devo…)”, i quali, avverte Ross, sono gli unici autentici giudizi morali.
Una seconda difficoltà, spesse volte sollevata da altri critici di Hare, riguarda il
funzionamento dell’immedesimazione. Essa infatti appare piuttosto problematica e
complicata, in quanto intuitivamente mettersi al posto di un’altra persona, fino ad
assumere le sue inclinazioni, i suoi desideri ed interessi, sembra impossibile ed è
senz’altro eccessivamente impegnativa per un agente morale. Come sottolinea ancora
Ross, tale mettersi al posto altrui, non potendo essere attuato completamente, può essere
assunto al massimo come “un invito, non a porsi al posto di un altro, ma semplicemente
a rendersi conto, nella maniera più precisa e fedele possibile, di ciò che stiamo facendo
ad altri, degli effetti di un certo modo di comportamento sugli altri e di come questi
effetti vengano dagli altri avvertiti”86.
Il prescrittivismo sembra inoltre in difficoltà giacché B, non universalizzando la sua
prescrizione, compie dal punto di vista logico un errore che ha una gravità diversa
rispetto a quello che egli compire dal punto di vista morale. Se si analizza bene
l’esempio, B per quel che riguarda solo la parte logico-concettuale, è in errore se vuole
mandare A in prigione perché giudica in maniera diversa due situazioni simili e dunque
trasgredisce la regola dell’universalità; dal punto di vista dei fatti, ossia della moralità
pratica, egli è invece in errore in quanto non opera una corretta immedesimazione di se
stesso con le inclinazioni di A: una volta immaginatosi al posto di A, egli, in quanto non
fanatico, abbandona la prescrizione (“mandare i debitori insolventi in prigione”) perché
sa che egli stesso è in debito con C. E’ evidente che l’errore logico di B (la prescrizione
non universale accettata) ha conseguenze diverse rispetto all’errore pratico che lo
conduce a volere mandare in prigione il suo debitore, rifiutando al contempo che a lui
stesso, in quanto debitore verso C, sia applicato il medesimo trattamento. B può infatti
ammettere il suo errore logico e continuare a rifiutare di correggere quello pratico. Tale
errore di B è allora eticamente meno rilevante, in quanto potrebbe essere legato ad una
sua comprensione difettosa del significato dei termini morali: se infatti B non
conoscesse il significato di “dovere”, gli si potrebbe far agevolmente comprendere
l’errore semantico da lui compiuto, ma dal punto di vista pratico non è detto che si
guadagni tanto. Hare tuttavia sembra non mettere in rilievo a sufficienza questa
86
Ibidem, pp. 172-173.
62
distinzione. Pertanto, il riconoscimento di un errore logico compiuto nell’elaborazione
del
proprio
ragionamento,
non
conduce
necessariamente
al
riconoscimento
dell’illegittimità del proprio comportamento pratico. Forse solo un’analisi più
approfondita delle motivazioni interiori (interessi ed inclinazioni) che spingono ad agire
e sulla loro influenza, avrebbe potuto dare risultati migliori.
Nel possibile caso in cui B sostenga di accettare il prescrittivismo, senza però agire
di conseguenza (ossia alla fine non universalizza la prescrizione singolare), il filosofo
prescrittivista avrà perciò poco da eccepire, perché in tal caso B rifiuta di accettare
l’applicazione pratica di un modello di ragionamento morale, non tanto il modello in sé
e per sé. In altre parole, la decisione di B di non universalizzare la sua prescrizione
singolare sembra poter scaturire sia dalla sua accettazione dell’analisi semantica
proposta dal prescrittivismo, sia dal rifiuto di essa, mentre non sembra affatto
influenzata dalla condotta pratica che il prescrittivismo vorrebbe suggerire. Esso infatti,
dopo aver messo in campo le sue uniche “armi”, la coerenza logica dei ragionamenti e
la valutazione dei fatti, non sembra poter fare più nulla, anche perché rifiuta di
considerare come eticamente rilevanti l’espressione dei sentimenti dei soggetti agenti.
Hare sembra ritenere che debba esistere una procedura di valutazione di carattere
universale e formale, la quale valga per tutti gli individui razionali. Il prescrittivismo ha
dunque un carattere primariamente formale e procedurale, il quale può anche rivelarsi
fallibile, poiché il risultato finale del comportamento non è derivabile in modo esatto a
partire dalle sole premesse formali del prescrittivismo, in quanto entra in gioco la
considerazione delle conseguenze che le singole scelte possono produrre. Pertanto,
“Secondo Hare, accettare un principio morale significa (a) aderire ad esso e (b) provare
a far sì che gli altri vi aderiscano…Tuttavia, non vi è un unico insieme razionale di
principi che soddisfano queste prescrizioni. Persone diverse accetteranno insiemi
differenti ed in conflitto di principi che possono soddisfare sia (a) che (b)”87.
L’impressione pertanto è che il prescrittivismo universale possa funzionare in
maniera efficace come premessa logico-concettuale, in quanto fornisce un criterio
attraverso il quale è possibile analizzare in modo corretto i significati dei termini morali,
ma tale analisi del significato appare meno cogente quando si tratta di determinare
praticamente, in modo assoluto, la correttezza di un comportamento. La questione è
87
G. Harman, The Nature of Morality, cit., p. 81.
63
cruciale, giacché investe gran parte di quella tradizione di pensiero morale che è stata
definita etica analitica, contro la quale queste posizioni critiche sono sempre state
numerose, in quanto è ritenuta inefficace per risolvere i conflitti e in genere le questioni
morali:
La caratteristica più singolare dell’espressione morale contemporanea è che una
parte così grande di essa è utilizzata per manifestare dissensi; e la caratteristica più
singolare dei dibattiti in cui questi dissensi si manifestano è la loro interminabilità.
Con ciò non intendo dire solamente che tali dibattiti si trascinano fino alla
nausea…ma anche che non sembrano poter provare alcuna conclusione legittima.
Pare non vi siano i mezzi razionali per garantire l’accordo morale nella nostra
cultura88.
È senz’altro evidente che una critica di questo tipo è assoluta e radicale, forse
ingenerosa, poiché investe la generalità dell’approccio analitico all’etica e mette in
discussione la validità del paradigma linguistico applicato alle questioni morali; tuttavia,
anche senza abbracciare una posizione così estrema, appare invero evidente,
quantomeno nella riflessione di Hare in Freedom and Reason, una certa difficoltà della
sua teoria etica a valutare da un punto di vista normativo il valore delle decisioni e dei
comportamenti pratici, in particolare nei momenti più drammatici, quando ci sono
conflitti da appianare e disaccordi di rilievo sociali (e non solo privato) da rimediare.
Il fanatico
La fragilità del prescrittivismo come dottrina normativa è resa ancora più chiara dal
suo confronto con le posizioni di un fanatico “puro”, ossia con un individuo
prescrittivista così radicalmente convinto dei propri ideali da mostrarsi determinato a
sacrificare se stesso per realizzarli. Infatti, se un fanatico nazista, lo si chiami B, vuole
discriminare A perché questi è ebreo (è inteso che B utilizza il termine “ebreo” in senso
88
A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, a cura di P. Capriolo, Feltrinelli, Milano 1983, p.
17. L’autore qui in effetti conduce un ampio attacco all’etica emotivista, ritenendo che essa esprima al
meglio lo spirito dell’etica analitica. Egli sostiene infatti che l’emotivismo è ammissibile come teoria
sull’uso del linguaggio morale in determinate circostanze, ma non è accettabile come teoria del significato
morale, in quanto esso, alla pari della metaetica analitica, rende la discussione morale infinita ed
improduttiva. In realtà, si può qui aggiungere che l’emotivismo, in particolare nella sua forma radicale, è
solo una fra le diverse dottrine etiche riconducibili nell’alveo dell’etica di stampo analitico. Per di più,
l’emotivismo di Ayer tende proprio a negare legittimità sia a qualsiasi analisi sul significato del
linguaggio morale, sia al linguaggio morale stesso e dunque l’affondo di MacIntyre, seppure in parte
condivisibile, non sembra cogliere il bersaglio giusto.
64
valutativo, ovvero spregiativo), egli ha di fronte tre strade: può trovarsi d’accordo con il
prescrittivismo ed ammettere che si se si trovasse nei panni di A, non vorrebbe essere
discriminato e dunque per queste ragioni egli potrebbe decidere di recedere dal suo
convincimento. Diversamente, B potrebbe sostenere che a lui non interessano le
valutazioni morali e che nel caso egli si trovasse nei panni di A non vorrebbe essere
discriminato, ma poiché egli non potrà mai essere un ebreo, di conseguenza per lui non
si porrebbe alcun il problema morale. È questo il caso dell’amoralista, sebbene Hare
dichiari che, poiché quest’ultimo utilizza i termini morali in senso prescrittivo ma non
universalizzabile, compie comunque un errore logico con conseguenze sul piano etico.
Egli infatti agisce evidentemente in base a un principio e dunque dovrà fornire una
solida giustificazione per spiegare come mai applica agli altri certi giudizi morali, ma
non alle sue azioni. “Egli deve addurre (o almeno ammettere l’esistenza di) un principio
che gli consente di sostenere opinioni morali differenti intorno a casi apparentemente
simili, oppure ammettere che i giudizi che esprime non sono i giudizi morali. Ma nel
secondo caso, egli è, nella presente disputa, nella stessa condizione dell’uomo che non
vuole esprimere nessun giudizio morale: ha rinunciato alla contesa” (FR, p. 148) e per
questo non è possibile fare nulla per discutere con lui.
Come terza possibilità, B potrebbe affermare di non essere amoralista e anzi di poter
puntellare le proprie idee razziste in virtù di un ideale di eccellenza morale che può
essere quello basato sull’idea per cui una società senza ebrei è migliore. La possibilità di
contrastare le idee di un nazista di questo tipo da una prospettiva liberale, è ritenuto da
Hare un banco di prova significativo per la sua riflessione morale, in quanto una delle
principali funzioni di essa è quella di influire sulla condotta altrui, anche eliminando
comportamenti immorali e pericolosi. Per questo motivo egli prende molto sul serio il
caso di un nazista che, nel caso ipotetico gli fosse dimostrato che anch’egli ha delle
lontane origini ebraiche, desidererebbe essere mandato lui stesso in un formo
crematorio. Il confronto tra le idee di questo (ipotetico) fanatico è per il liberale
essenziale, in primo luogo perché il nazista agisce di fatto in virtù di quel che può essere
definito un ideale (e non di un semplice interesse) per lui pienamente morale, per quanto
terribile, ossia un ideale che tende ad essere universalizzato e a produrre delle
conseguenze pratiche. In secondo luogo, il nazista va considerato ed affrontato perché la
sua convinzione “opera in un campo in cui sono profondamente coinvolti gli interessi di
altre persone” (FR, p. 225); in tal caso il liberale potrebbe fare presente al nazista
65
proprio questo elemento, ossia il suo andare contro l’interesse di milioni di persone di
continuare a vivere e non essere discriminati. Potrebbe anche in questo caso il nazista
asserire con certezza che il suo ideale è più intenso della somma degli interessi di
milioni di persone?
In ultimo, affrontare il nazista è doveroso per il prescrittivismo perché egli non
soltanto pensa che gli ebrei siano i rappresentanti di un umanità inferiore, ma ritiene di
dover concretamente agire per sterminare gli ebrei proprio a seguito della sua
convinzione. Ovviamente è molto più complicato intervenire su una persona che ha
preso la decisione di agire in virtù di un suo ideale morale, piuttosto che affrontare chi
ha un ideale morale, per quanto distorto, ma non ha deciso di agire. Il problema, scrive
Hare, è che il nazista non solo ha universalizzato la sua preferenza morale, ma le ha
fornito una base prescrittiva, ossia l’ha fatta diventare un modo per orientare la propria
condotta, agendo proprio in virtù di quell’universalità che secondo lui il proprio ideale
morale possiede.
Sembra dunque che un nazista potrebbe benissimo agire in coerenza con il
prescrittivismo universale, ossia enunciare un principio morale in base al quale gli ebrei,
per le loro caratteristiche fisiche e morali, debbano essere semplicemente sterminati,
includendo se stesso in questa possibilità nel caso ipotetico si scoprisse che egli fosse un
ebreo. Il nazista pertanto sostiene che questo comportamento possa diventare una
massima universale: “il nazista ha un suo principio universale che intralcia il
ragionamento del liberale. Egli accetta il principio secondo cui le caratteristiche
possedute dagli ebrei sono incompatibili con l’essere un uomo ideale o
preminentemente buono…; e che non si può realizzare la società ideale, o anche solo
una società sopportabilmente buona, se non si elimina la gente che ha queste
caratteristiche” (FR, p. 218).
Per queste ragioni il sincero liberale si trova in difficoltà, in quanto l’avversario dice
di accettare proprio quel sistema morale con il quale il liberale cerca di affrontarlo e
sconfiggerlo. Inoltre, mentre per il fanatico razzista esistono solo i suoi interessi ed
ideali, il liberale per sua natura rispetta gli ideali altrui, in quanto
egli ritiene errato interferire con l’attuazione degli ideali degli altri
semplicemente perché sono diversi dai suoi; e ritiene anche errato interferire con i
loro interessi solo perché il suo ideale ne vieta il soddisfacimento, se a permetterne
il soddisfacimento sono i loro ideali. Egli sarà favorevole a permettere a chiunque
66
di perseguire i propri ideali e interessi tranne che nella misura in cui il perseguirli
interferisca col soddisfacimento da parte di altri dei loro ideali e interessi (FR, pp.
238-239).
Il liberale dunque può difendere i propri ideali, ma fino a un certo punto, poiché la
sua convinzione gli vieta di utilizzare mezzi illeciti per affrontare il nazista il quale, al
contrario, non sembra avere problemi di questo genere. La difficoltà significativa cui il
prescrittivismo qui va incontro, pertanto, da un lato è dovuta al fatto per cui esso non ha
stabilito un criterio saldo per valutare in maniera efficace l’intensità e la portata delle
preferenze, degli interessi e degli ideali degli individui. In secondo luogo, la sua
caratterizzazione essenzialmente logico-concettuale, lo rende poco adatto a scendere
nell’agone in cui si affrontano le reali inclinazioni e le motivazioni pratiche che tanta
parte hanno invece nel determinare le decisioni morali. In terzo luogo, l’appello al
requisito dell’imparzialità nelle valutazioni morali (unitamente alla richiesta
dell’inversione dei ruoli) priva però di nuovo di un chiaro riferimento normativo per
valutare i moventi pratici, può rendere tale imparzialità talmente assoluta ed
indeterminata da farla apparire al più un atteggiamento blandamente interessato agli
altri.
J. L. Mackie ha tratto le conseguenze da queste difficoltà che il prescrittivismo
universale incontra nell’affrontare il fanatico razzista, per evidenziare quanto sia fragile
una nozione di universalità che si limita ad astrarre dalle differenze quantificabili degli
individui. Egli pensa che tale astrazione non consente di agire in modo imparziale,
soprattutto quando le differenze non quantificabili possono diventare argomento per
giustificare un comportamento immorale, come nel caso della discriminazione razziale:
“se sono state dichiarate irrilevanti solo le differenze numeriche e non dichiarate
irrilevanti per principio le differenze generiche e qualitative, la nostra limitazione è così
meramente formale da consentire ad un sistema morale di discriminare tra persone per
ragioni (razziali, sessuali etc.) che noi in pratica giudicheremmo essere ingiuste, sia
generalmente che in un contesto particolare”89: quindi il razzismo non può essere
sconfitto dal prescrittivismo. A parere di Mackie, la speculazione morale non può essere
fondata sulla sola analisi linguistica, giacché quest’ultima si limita a porre le condizioni
89
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 89.
67
affinché sia possibile quella che per Mackie è realmente decisiva, ossia l’analisi
ontologica, basata su una stringente considerazione empirica della realtà nella quale si
agisce: “oltre alle questioni linguistiche o concettuali, vi possono essere anche questioni
ontologiche, vale a dire sulla natura e lo statuto del bene o del giusto o di ciò intorno a
cui si esprimono le asserzioni morali di primo livello…il problema su cosa sia il bene
non può essere risolto in maniera conclusiva ed esaustiva mettendo a fuoco qual è il
significato della parola ‘bene’, o analizzando che cosa di solito si usa dire o fare con
essa”90.
Hare sostiene ad ogni modo che i fanatici di questo tipo sono estremamente rari: “Il
nostro argomento…poggerà non sulla logica di per se stessa – sebbene senza logica non
saremmo mai arrivati a questo punto – ma sulla fortunata circostanza contingente che
gli uomini i quali, dopo aver realmente creduto di trovarsi nella situazione dell’altro,
prenderebbero questa posizione [ossia quella del fanatico razzista] che è pur
logicamente possibile, sono estremamente rari” (FR, p. 231). Il fanatico non avrebbe
infatti compreso la natura dell’idea liberale e non si renderebbe conto di quanto
l’abbracciare una tale idea sia vantaggiosa per lui stesso91. Tuttavia, al di là di queste
argomentazioni, la difficoltà rimane, poiché contro un razzista di questo genere, il
prescrittivismo non potrebbe fare nulla:
Se poi il mio avversario, nonostante tutto, non abbandona il suo punto di vista e
mi conferma che quanto ha detto è ciò che egli veramente intende, non sarei
comunque in grado di ‘metterlo al tappeto’ per mezzo della logica implicita nel
principio dell’universalizzabilità dei giudizi morali…La convinzione di Hare che
chi offende la discriminazione razziale non può volere veramente quello che
afferma e pecchi di incoerenza, si basa sull’erronea convinzione secondo la quale
‘dare un assenso’ comporterebbe necessariamente una corrispondente ‘volontà di
agire’…Essenziali alla discussione e all’educazione morale non sono tanto le
argomentazioni logico-filosofiche, quanto piuttosto l’apprendimento e la
90
Ibidem, p. 19. Cfr anche p. 112: “Oltre alle questioni linguistiche o concettuali, vi possono essere anche
questioni ontologiche, vale a dire questioni sulla natura e lo statuto del bene o del giusto o di ciò intorno a
cui si esprimono le asserzioni morali di primo livello”.
91
A proposito del ragionamento di questo ipotetico razzista fanatico, è tuttavia lecito domandarsi, ben
prima di esaminare le sue supposte motivazioni razionali, se si possa sostenere che un razzista compia un
ragionamento morale. Una tesi di questo genere appare invero piuttosto difficile da sostenere, giacché,
sebbene il razzista possa cercare di fornire delle ragioni per giustificare il proprio atteggiamento, nel
tentativo di farlo passare come sorretto da principi morali, tali ragioni sono evidentemente fittizie e
pretestuose: “Il principio secondo cui gli uomini vanno trattati diversamente, in relazione al loro
benessere, semplicemente in considerazione del loro colore non è un particolare tipo di principio morale,
ma (caso mai) l’espressione di una decisione del tutto arbitraria, non meno di quella di un nuovo Caligola
che decidesse di condannare a morte tutte le persone il cui nome contenga tre ‘r’” (B. Williams, L’idea di
eguaglianza, cit., p. 27).
68
comprensione dei fatti. Non ho mai visto nessuno messo al tappeto sotto l’incalzare
di argomentazione esclusivamente logiche92.
Pertanto, se effettivamente esistesse un fanatico tanto accanito, il liberale
prescrittivista non avrebbe alcuna mossa ulteriore da compiere per contrastarlo. Una
volta che ha esaurito la sua arma, ossia la possibilità, attraverso il dialogo, di far
ragionare correttamente il fanatico, il liberale non sembra essere in grado di rafforzare
ulteriormente la sua argomentazione razionale, come nota Lecaldano:
Hare con la sua teoria dell’argomentazione razionale delineata in Freedom and
Reason si spinge molto avanti, ma giunge a un punto in cui non c’è più nessuno
spazio per la discussione morale. Giunti al massimo dei suggerimenti ricavabili
dalla conoscenza e dalla logica, i diversi principi morali ultimi si presenteranno da
un punto di vista razionale come tutti sullo stesso piano…una volta raccolte le
informazioni rilevanti, una volta delineate tutte le conseguenze ricavabili dalle
varie alternative e una volta salvaguardata la coerenza formale e linguistica
assumendo le diverse prescrizioni come realmente universalizzabili, poi più nulla si
può fare per mettere alla prova o fondare i principi ultimi93.
Inoltre, per quel che concerne il livello pratico-normativo, Warnock ha sottolineato
che le situazioni che possono mettere in difficoltà il prescrittivismo universale non sono
così rare, poiché possono essere molto più comuni rispetto a quelle rappresentate dal
fanatico. Per esempio, se si obietta al proprietario di una casa che sta buttando fuori
degli inquilini che non pagano l’affitto, che egli sta ledendo gli intessei di quelle
persone e che egli non vorrebbe, se fosse al posto loro, essere tratto in quel modo, il
proprietario potrebbe ammettere che tutto ciò è vero. In effetti egli al posto di quegli
inquilino starebbe male; nondimeno, il proprietario potrebbe aggiungere che, essendo
quelle persone inadempienti, egli li deve sfrattare e che se lui stesso si trovasse nella
loro situazione, meriterebbe di essere cacciato dalla casa, poiché non ha pagato l’affitto.
La questione, secondo Warnock, non è dunque relativa a quello che un individuo
desidera o è interessato a fare, bensì a quello che egli ritiene moralmente giusto o
moralmente criticabile. Spesso per gli individui ciò che è moralmente giusto può infatti
92
A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare) (1964), in Critica del diritto e analisi del
linguaggio, cit., pp. 173 e 174. Scrive in proposito Hare: “Bisogna ammettere che vi saranno sempre dei
fanatici; ma si può anche ammettere che i veri fanatici sono relativamente pochi e non avrebbero
assolutamente nessun potere di far danno, se non fosse per la loro abilità nel trarre in inganno…Ciò essi
fanno nascondendo i fatti e diffondendo falsità; suscitando passioni che offuscano l’immaginazione
simpatetica: in breve, con tutti i ben noti metodi della propaganda” (FR, p. 247).
93
E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee,
cit., p. 76.
69
andare a ledere i desideri e gli interessi altrui. “Se io…adotto come giusta una certa
condotta d’azione che arreca grossi danno agli interessi di un altro, tu potresti farmi
presente, giustamente senza dubbio, che non mi piacerebbe se i miei stessi interessi
fossero danneggiati in quel modo; non c’è tuttavia alcuna ragione per cui io non dovrei
ammettere questo e nondimeno ancora sostenere che, se le posizioni si rovesciassero,
quell’altra persona avrebbe ragione di danneggiare i miei interessi, esattamente come io
ora propongo di danneggiare i suoi”94.
L’incompletezza del prescrittivismo
Le difficoltà del prescrittivismo sono perciò ascrivibili al fatto per cui i principi su
cui esso si fonda, come l’universalità, appaiono alla fine principi logici privi di
contenuto normativo. Infatti, la semplice applicazione dell’universalità come tesi logica
al linguaggio morale si mostra debole, in quanto il prescrittivismo universale così
definito sembra al massimo poter divenire una teoria della coerenza del nostro modo di
formare enunciati morali, ma non della coerenza pratica del nostro modo di agire.
Questa difficoltà è stata sottolineata più volte da diversi critici di Hare, i quali si sono
altresì domandati se sia legittimo postulare un sistema morale che privilegi la
completezza dei presupposti metaetici a scapito, come Hare sembra sostenere
sottotraccia in Freedom and Reason, della propria cogenza pratica: “[vi è qui]
un’importante domanda: è la tesi dell’universalizzabilità in sé una tesi logica…o un
principio morale sostanziale?…non possiamo inferire che essa è una tesi logica dal
suggerimento che essa è una conseguenza del possesso combinato, da parte dei termini
morali, del significato descrittivo e prescrittivo”95. Ci dovrebbe essere un elemento
ulteriore, un elemento normativo che, combinato con la tesi dell’universalità, possa
realmente influenzare la condotta. In Freedom and Reason, tuttavia, Hare sembra non
affrontare pianamente la questione, evidentemente impegnato a costruire un nesso fra
metaetica ed etica normativa fondato esclusivamente sul prescrittivismo universale. In
realtà, come capita se si contempla la possibilità dell’esistenza di un razzista fanatico, la
teoria etica da lui delineata non sembra poter impone nulla, in quanto: “possono esserci
94
G. Warnock, La debolezza dell’universalizzazione, in Filosofia analitica, a cura di D. Antiseri, Città
Nuova Editrice, Roma 1975, p. 224.
95
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 87.
70
tuttavia altre persone che sostengono credenze etiche diverse dalle [proprie], credenze
che [si possono] deplorare ma non dimostrare incoerenti o effettivamente false”96.
Hare afferma infatti che il prescrittivismo fornisce delle motivazioni razionali per
agire in un certo modo, ma ovviamente non costringe nessuno ad agire in quel modo:
“ciò che la tesi ci proibisce di fare è esprimere giudizi morali diversi su azioni che
ammettiamo essere esattamente uguali o simili negli aspetti rilevanti” (FR, p. 65).
Pertanto, “diverse persone possono avere differenti morali, poiché esse hanno principi
diversi che accettano come principi morali, senza che ciò sia irrazionale”97. La tesi
dell’universalità è dunque una tesi logica che non ha contenuto normativo sostanziale,
ossia non è in sé un principio morale, poiché di per sé non impedisce nessuna azione a
nessuno. Essa appare invece un principio del corretto ragionamento morale, non del
retto comportamento morale.
In realtà, anche la prescrittività non è agevolmente definibile come una caratteristica
esclusivamente normativa dei giudizi morali; certamente essa, a differenza
dell’universalità, si presenta intuitivamente come una regola non prettamente logica,
ma, quantomeno per lunghi tratti della riflessione di Hare, essa appare oscillare tra il
possedere un contenuto normativo e l’essere anch’essa una generica proprietà logica del
linguaggio. In altri termini, la prescrittività di un giudizio morale risulta slegata dagli
effettivi moventi pratici che dovrebbero essere alla sua origine, in quanto anch’essa
appare definita dall’autore in primis come caratteristica logico-linguistica degli
enunciati morali. Sembra quindi che Hare compia, a proposito della prescrittività, un
percorso inverso rispetto a quello compiuto con l’universalità: in quel caso, infatti, egli
ha voluto trasporre una nozione prettamente logica nel campo normativo, ossia su un
terreno non suo; con la prescrittività, invece, una nozione essenzialmente pratica, viene
trasposta in un terreno a lei estraneo, quello delle nozioni logiche: il risultato di questa
operazione teorica sembra essere quello di depotenziare entrambe le nozioni e di
rendere incompleto il prescrittivismo universale.
L’interpretazione “debole” della prescrittività è inoltre da Hare adottata per asserire,
ancora una volta, che l’etica non ha il compito di costringere nessuno ad agire in un
certo modo, giacché ha il compito di mostrare che ci sono delle valide ragioni per
ritenere morali una serie di principi: starà poi all’interlocutore il valutare se atteggiarsi
96
97
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 104.
G. Harman, The Nature of Morality, cit., p. 79.
71
in base ad essi oppure no: “La ‘giustezza’ non è una proprietà; e quando chiedo a due
persone quale sia la condotta giusta, non le interrogo circa una proprietà – ciò che
desidero sapere è se vi sia una qualche ragione per scegliere una linea di condotta
piuttosto che un’altra”98. Solo la propaganda e la coercizione vogliono influenzare gli
altri costringendoli ad agire. Hare dunque non pensa che l’accettazione di una
prescrizione universale imponga immediatamente alla persona di agire in coerenza con
esso: la persona in questione, infatti, pur potendo sapere quale sia la cosa corretta da
fare, potrebbe comunque comportarsi in modo differente e l’intervento del pensatore
morale potrà influenzare semplicemente il livello delle ragioni morali, non direttamente
gli atti pratici della persona. Ciò significa che se la ragione R è valida in quanto
giustifica l’azione X, non significa che tale validità sia di tipo conoscitivo (come se R
fosse la credenza vera in base alla quale X è morale), giacché è una validità etica
particolare, di tipo prescrittivo. “Quando una persona definisce qualcosa – lo si chiami
R – una ragione per compiere X, egli esprime la sua accettazione di norme che dicono
di trattare R come qualcosa che conta in favore del compiere X”99.
D’altra parte, come mostra il caso del fanatico, è possibile che una persona accetti
una prescrizione e in seguito però agisca in contrasto con essa. Ciò tuttavia non è
dovuto ad una mancanza della prescrizione in sé, bensì all’incapacità dell’individuo: il
prescrittivismo comprende e spiega i casi di debolezza del volere (akrasia), ovvero
quando il ragionamento morale è reso problematico da una serie di fattori non
direttamente dipendenti dal soggetto in questione: “La debolezza morale è la tendenza a
non fare, per nostro conto, qualcosa che in generale lodiamo, o a fare qualcosa che in
generale condanniamo. È forse questa la difficoltà centrale della vita morale” (FR, p.
110).
T. Nagel ha contestato l’interpretazione secondo lui eccessivamente astratta della
nozione di prescrizione da parte di Hare, poiché essa non avrebbe alcuna efficacia
pratica e rimarrebbe sul piano della pura enunciazione di principio. Pertanto, se un
individuo riconosce che vi è una ragione per agire in un certo modo, non è pensabile che
egli poi non agisca in quel modo, giacché, se si ammette ciò, significa togliere qualsiasi
legittimità all’idea di prescrizione. Nagel ritiene in sostanza che Hare abbracci una
98
S. E. Toulmin, An Examination of the Place of Reason in Ethics (1950), Cambridge University Press,
Cambridge 1970, p. 28.
99
A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, cit., p. 163.
72
versione “edulcorata” di prescrittivismo perchè il suo sistema etico, basato
principalmente sull’analisi logica del linguaggio morale, è inadatta per analizzare a
fondo le reali motivazioni che stanno all’origine del nostro comportamento morale:
la condizione che implica l’esistenza di ragioni per la persona alla quale [la
prescrizione] si indirizza, assicura il legame con la motivazione che deve essere
riconosciuta da qualsiasi descrizione della prescrizione morale. Da ciò segue che se
io riferisco a me stesso una prescrizione morale, devo riconoscere una ragione per
agire; questo legame con la motivazione è una condizione essenziale affinché un
giudizio sia pienamente prescrittivo100.
Hare però asserisce a questo proposito che la prescrizione non è efficace se mostra
una affinità con una motivazione pratica, ma se possiede un legame necessario con i
principi della logica del linguaggio morale; infatti, stando a quello che si legge in
Freedom and Reason, un interesse ed un’inclinazione possono motivare una
prescrizione solo in modo estrinseco, mentre solo una ragione logicamente fondata la
motiva in modo necessario. In altre parole, Nagel compirebbe l’errore di confondere due
asserzioni che invece devono essere tenute ben distinte: “Non dobbiamo confondere la
vera affermazione secondo la quale esprimere un giudizio morale è dichiarare che
chiunque lo accetti abbiano acquisito una ragione per agire in coerenza con esso, dalla
falsa asserzione secondo la quale esprimere un giudizio morale è sostenere che tutti, sia
che lo accettino sia che non lo accettino, abbia già (forse senza riconoscerla) una
ragione per agire in accordo con tale giudizio”101.
Anche G. J Warnock ha insistito sulla indeterminatezza della prescrittività, convinto
peraltro della inesistenza di uno specifico linguaggio morale. La prescrittività non
sarebbe a suo parere una caratteristica esclusiva del linguaggio morale, ma solo una
generica proprietà posseduta da qualsiasi affermazione attraverso la quale qualcuno
cerca di far fare qualcosa a qualcun altro: “Sono d’accordo sul fatto che i giudizi morali
sono prescrittivi, sono ‘cose in virtù delle quali si suppone tu agisca’? Certo. Ma allora
la prescrittività non è una caratteristica del linguaggio morale? No, non in particolare.
Ciò perché la prescrittività – se essa è ciò che è – è caratteristica di qualsiasi linguaggio
100
T. Nagel, Foundations of Impartiality, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit.,
p. 105.
101
R. M. Hare, Comments on Nagel, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
251.
73
nel quale si sostiene che ognuno dovrebbe fare qualcosa, o che il fare qualcosa potrebbe
essere giusto o sbagliato”102.
Hare sostiene che è necessario ricordare che l’argomentazione che conduce
all’affermazione della prescrittività dei giudizi morali deve essere del tutto formale, cioè
indipendente da asserzioni morali sostanziali, in modo da poter essere accettata da tutti
quale corretto metodo di ragionamento morale, a monte di qualsiasi determinazione
pratica all’azione. Essa non deve accogliere riferimenti individuali, pena la perdita del
proprio carattere formale.
Ciò che ci tocca fare se vogliamo stabilire la razionalità delle decisioni morali, è
dare della moralità e dei termini morali un’interpretazione che sia puramente
formale e normativamente neutrale, tale da poter essere accettata da tutti
indipendentemente dalle loro opinioni normative, ed anzi indipendentemente dal
fatto di non avere ancora opinioni normative, per poi mostrare perché le persone
che hanno accettato tale interpretazione…daranno razionalmente certe risposte e ne
respingeranno altre103.
Il problema è che la riflessione metaetica può anche essere neutrale e non
coinvolgere le convinzioni morali sostanziali dei parlanti, ma la teoria etica (di cui la
metaetica costituisce una parte, destinata peraltro a diventare marginale) non può essere
neutrale e apparire quasi disinteressata agli atti realmente compiuti. Se così non fosse, la
teoria etica di Hare non potrebbe affermare nulla di positivo (o di negativo) sulla
morale, ma potrebbe solo limitarsi ad osservare i comportamenti umani, ossia a far
qualcosa per la quale sono più adatte la psicologia e la sociologia. Nagel e Warnock
sembrano voler sottolineare come Hare ponga un indebito iato tra l’elaborazione
formale e razionale delle nostre decisioni morali e la successiva, ed inevitabilmente
secondaria, elaborazione dei principi normativi.
Le tesi logiche e le questioni normative
La riflessione di Hare sembra dunque voler delineare i tratti di un ragionamento
morale logicamente formale, sostenendo di fatto il ruolo secondario, a posteriori, sia
delle convinzioni etiche peculiari degli individui, sia delle circostanze particolari in cui
essi agiscono. L’onere della prova, ma anche il rilievo teoretico, ricade pertanto sul
102
103
G. J. Warnock, Morality and Language, Basil Blackwell, Oxford 1983, p. 170.
R. M. Hare, Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 48.
74
prescrittivismo universale, il quale però, dovendo rinunciare ad essere una teoria etica
compitamente normativa, appare gravato da un’incompletezza. In altri termini, sebbene
Hare affermi di richiamarsi per alcuni aspetti a Kant e per altri all’utilitarismo, il suo
sistema di etica in Freedom and Reason sembra rimanere a metà fra queste due dottrine,
le quali, essendo peraltro nettamente divergenti tra di loro, non permettono
l’affermazione di una loro sintesi unitaria e dunque per il prescrittivismo si preclude
qualsiasi possibilità di influenzare effettivamente la condotta. Pertanto, è di certo
condivisibile l’intenzione dell’autore di fornire un fondamento universale all’etica,
tuttavia con il prescrittivismo universale egli sembra riuscire solo a razionalizzare le
procedure di formazione del pensiero morale, ma non a determinare un chiaro modello
normativo per orientare il comportamento dei soggetti morali.
In realtà, come si evince da Freedom and Reason, Hare incorre in queste difficoltà
perché ritiene che non esiste un’unica dottrina normativa coerente con i prescrittivismo;
al contrario, sarebbe quest’ultimo ad offrire l’indispensabile fondamento razionale per
diverse dottrine morali, la cui plausibilità risiede nella coerenza logica delle loro
asserzioni fondamentali. Tuttavia, finché l’utilitarismo rimane un corollario del
prescrittivismo, una dottrina morale tra le altre, di cui il prescrittivismo si limita ad
impiegare gli strumenti teorici, le difficoltà a livello normativo saranno sempre elevate
per la riflessione di Hare: come è infatti possibile sostenere la neutralità della riflessione
morale, il suo carattere formale e, al contempo, valutare le inclinazioni, gli interessi,
ossia moventi pratici delle azioni oppure il senso dell’immedesimazione? Il problema,
già accennato, è quindi che, benché in Freedom and Reason Hare esprima delle riserve
sull’utilitarismo, egli nella pratica ne accetta molte procedure argomentative, e tuttavia,
non aderendo chiaramente ad esso, sembra fare un uso estrinseco di tali procedure
argomentative, rendendole teoreticamente fragili in quanto non fondate sul
prescrittivismo.
Inoltre, dal punto di vista normativo, B. Williams ha contestato l’idea secondo la
quale l’asserzione di una prescrizione implichi in modo immediato l’espressione di una
scelta o di una decisione: a suo parere sarebbe necessario un ulteriore passo teorico per
determinare questo rapporto. La decisione a volte può infatti nascere anche in assenza di
una teoria etica, come risultato del capriccio, della fantasia o della casualità:
75
Quando valuti una cosa di un certo tipo, ci saranno senz’altro dei criteri di
merito specifici per quel tipo di cosa, anche se essi, in un caso particolare, possono
essere vaghi, indeterminati o locali. Ma, quantunque molte scelte siano determinate
dai meriti specifici di una cosa…c’è sempre la possibilità che la scelta di una
persona non sia in relazione diretta con il modo in cui valuta i meriti di ciò che
sceglie104.
Non appare pertanto così affidabile una delle affermazioni più note di Hare, quella
secondo la quale esprimere una valutazione significa al contempo fornire agli altri un
criterio per operare una certa scelta: “Loderemmo un oggetto, avendo così la pretesa di
insegnare un criterio, nell’atto stesso in cui, rifiutandoci di lodare un oggetto uguale,
annulleremmo la lezione appena impartita. Col voler insegnare due criteri incompatibili,
finiremmo col non insegnare alcun criterio” (LM, p. 122). La riflessione di Hare sembra
sostenere l’irrimediabile imperfezione del ragionamento morale umana e la necessità di
indicare delle regole formali, di carattere logico, per rendere tale ragionamento corretto
e praticamente efficace. Tuttavia, come detto, da un lato è problematico il fatto per cui
tali regole sono solo di carattere logico e, in secondo luogo, ci sono casi frequenti nei
quali la scelta avviene per motivazioni tutt’altro che razionali, quanto piuttosto
prerazionali e prelinguistiche, e di fronte a questa innegabile realtà il prescrittivismo
sembra essere in difficoltà.
Per questo esso appare altresì non in grado, privo com’è di un’effettiva teoria
normativo, di indicare i motivi degli errori e delle debolezze che gli uomini commettono
quando devono agire. O meglio, esso indica un motivo per cui viene compiuto l’errore
(la mancata comprensione del significato dei termini morali), ma tale spiegazione
appare riduttiva, poiché non sembra possibile sostenere che gli esseri umano agiscono in
modo non morale o immorale solamente perché non sanno di cosa stanno parlando o
discutendo: “il fatto che questo possa accadere fa sì che la conclusione non possa essere
ricondotta a premesse da cui essa deriverebbe logicamente. È sbagliato fare di tutto un
ragionamento logico fino alla decisione di agire”105.
La perplessità è nuovamente legata al fatto per cui appaiono su posizioni troppo
differenti e distanti fra loro la considerazione logica relativamente alla corretta
concezione dei giudizi morali e la determinazione ad agire: il fatto che la prescrittività e
l’universalizzabilità siano delle tesi logiche non influenza direttamente l’ambito
104
105
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 153.
Ibidem, p. 155.
76
dell’agire pratico. Appare eccessivo, per prendere un esempio dello stesso Hare, asserire
che la preferenza che fa dire “L’albergo X è buono”, implichi la prescrizione che mi
induce direttamente a scegliere l’albergo X. La scelta infatti può anche essere
determinata da una serie variegata di fattori che di fatto il solo prescrittivismo
universale non può analizzare in maniera completa, essendo essi difficilmente deducibili
da un ragionamento morale del tutto formale: “la (supposta) fede in questa tesi logica
non obbliga nessuno a pensare in questo modo, benché egli possa cadere nell’illogicità.
Qualcuno si può dunque con piena coerenza astenere dall’usare del tutto il linguaggio
morale, o di nuovo egli può utilizzare i termini morali limitandosi ad una sola loro parte
(quella logica) e non all’intera loro forza morale”106. In altre parole, sembra riduttivo
sostenere che un oggetto è valutato come benefico se è scelto: il giudizio sulla validità
della scelta non coincide con il giudizio sull’oggetto preso in questione, in quanto la
capacità di scegliere degli individui è qualcosa che conta di per se stessa,
indipendentemente dal quello che essi effettivamente scelgono: “Derivare l’importanza
della cosa scelta dal fatto che è stata scelta non va confuso con il tenere in
considerazione la capacità di scegliere degli individui come importante in sé.
L’autonomia’, come valore, è interessata alla seconda, ma appartiene a un approccio del
tutto differente dall’utilitarismo, e ha a che fare con l’attribuzione di valore alla capacità
di scegliere piuttosto che alle cose scelte”107.
106
107
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 98.
A. Sen/B. Williams, Introduzione ad Utilitarismo e oltre, cit., p. 19.
77
CAPITOLO 3. Livelli del pensiero morale ed utilitarismo
Il problema di fondo che la trattazione del prescrittivismo sembra mostrare, già nelle
dense pagine di Freedom and Reason, è dunque quello della sua incompletezza, ossia
della sua difficoltà a porsi come dottrina morale in grado di influenzare effettivamente
la condotta. A questo proposito, l’affermazione dell’autonomia del prescrittivismo
universale (e del suo legame solo strumentale con l’utilitarismo), si è rivelata povera di
implicazioni normative, giacché è assente l’indicazione di quello che si potrebbe
definire un metodo di deliberazione. Nella riflessione di Hare, sembra esservi al
contrario un’indebita commistione fra il piano dell’analisi linguistica e quello della
deliberazione pratica, la cui distinzione è invece fondamentale: “Il compito di fornire
una spiegazione filosofica del contenuto della moralità differisce da quello di analizzare
il significato dei termini morali e da quello di rintracciare la formulazione più coerente
delle nostre convinzioni morali di primo grado”108.
In realtà, se si fa attenzione alla riflessione di Freedom and Reason, sembra trasparire
una specie di “bisogno” normativo dell’autore che si concretizza nel ricorso a categorie
concettuali dell’utilitarismo, sebbene tale bisogno sia attenuato dalla dichiarazione per
cui di esse il prescrittivismo debba farne solo un uso strumentale. Per questo Hare da un
lato ritiene che compito preliminare del filosofo morale sia la costruzione di una teoria
etica coerente e razionale; in secondo luogo, egli pensa che l’utilitarismo sia solo una
delle possibili dottrine normative in accordo con il prescrittivismo. Hare non sembra
ritenere ancora possibile una fondazione razionale dell’utilitarismo: è dunque assai
difficile assegnare alla convinzioni normative la solidità che invece appartiene alle
argomentazioni logico-linguistiche della metaetica.
Hare in particolare afferma che il prescrittivismo ha il merito di spiegare cosa
intendono gli individui quando impiegano i termini morali come “giusto”, “buono” e
“doveroso”; esso dunque, in quanto analizza le effettive intuizioni linguistiche dei
parlanti, è capace di descrivere il modo in cui, solitamente, gli individui ragionano in
etica: per questo esso può avere una sua efficacia pratica e, al contempo, una notevole
dinamicità, sia come “specchio” del linguaggio morale ordinario, sia mostrando come
esso dovrebbe svolgersi in modo ottimale. Per esempio, in riferimento al caso del
108
T. Scanlon, Contrattualismo ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p.
137.
78
fanatico, l’autore scrive che il prescrittivismo è una teoria etica che, proprio perché in
alcuni casi passibile di smentita, può essere affidabile per gran parte delle situazioni
della vita reale. In questo senso, quando evidenzia il carattere dinamico e concreto del
prescrittivismo, l’intenzione di Hare appare non a caso affine a quello di altri autori,
teorici dell’utilitarismo, per i quali tale dottrina è la più vicina ed adattabile al modo
ordinario di prendere le decisioni degli individui. Hare infatti sembra pensare che, nella
maggior parte dei casi, il prescrittivismo suggerisca soluzioni vicine a quelle indicate
dalla morale di senso comune, anche se si distingue da quest’ultima per l’adozione di
presupposti logico-linguistici per rendere razionali e coerenti i nostri giudizi prescrittivi,
al di là della soluzione di effettive questioni normative. Per questo la morale di senso
comune non può essere la sola fonte del nostro ragionamento morale.
Ciò significa che, benché il suo sistema si avvalga di un presupposto di carattere
logico, Hare non sembra tanto voler proporre principi morali dotati di una assoluta
validità teoretica (giacché quest’ultima è richiesta dalle argomentazioni scientifiche,
non dall’etica), bensì un principi che mirano a possedere un’assoluta validità metaetica
(basata sull’universalizzazione), per opporsi a qualsiasi soggettivismo e relativismo
morale. Tale validità è però assoluta solo in senso formale, ossia solamente per quel che
concerne i presupposti logici dei giudizi prescrittivi, mentre sarà condizionale rispetto
alle concrete scelte degli individui, i quali possono anche agire, per vari motivi,
diversamente da ciò che stabilisce il ragionamento morale. Secondo Hare, tuttavia, ciò è
dovuto all’incapacità di ragionare correttamente in etica, ad una difficoltà pratica,
ascrivibile dunque alla debolezza dell’individuo, non del prescrittivismo.
Per questo in Freedom and Reason Hare afferma, come recita il titolo del libro, che
proprio il prescrittivismo permette di comprendere che cosa significhi che l’agire
morale dell’uomo possa compendiare in se la libertà e la ragione, la ragionevolezza dei
suoi comportamenti pratici e la loro autonomia. Hare ritiene infatti che il prescrittivismo
possa meglio di altre teorie etiche garantire, da un lato, la possibilità che i nostri atti non
siano rigidamente predeterminati e dall’altro che essi comunque siano coerenti con la
nostra natura di individui che agiscono secondo ragione. In questo senso l’uomo è
libero, proprio perché “uno dei più importanti elementi costitutivi della nostra libertà, in
quanto agenti morali, è la libertà di formarci le nostre opinioni intorno ai problemi
morali, anche se ciò comporta un cambiamento del nostro linguaggio” (FR, p. 26).
Tuttavia, se da un lato siamo liberi di agire, dall’altro sappiamo che le nostre azioni
79
avranno delle conseguenze che dovremmo cercare, per quanto ci è possibile, di
prevedere e gestire proprio attraverso il ragionamento morale: “Si tratta del punto che
risolvere questioni morali è, o dovrebbe essere, un’attività razionale” (FR, p. 27).
In altre parole, quel che l’autore cerca di affermare con queste asserzioni è che nelle
sue intenzioni è il valore della libertà dell’uomo come individuo razionale che conta
maggiormente, libertà che tuttavia possiede tale valore solo se fondata su un
ragionamento morale critico e coerente. Il legame tra il ragionamento morale ed i fatti,
pertanto, indica all’individuo ragionevole che ci sono dei validi motivi per agire in un
certo modo, sebbene non lo costringa poi ad agire effettivamente in quel modo.
L’azione dunque potrà scaturire solo in seguito ad una determinata scelta operata dal
soggetto agente e tale scelta è resa possibile sia dal libero ragionamento morale, sia
dall’osservazione puntuale della situazione contingente: “Questa tesi afferma la libertà
di scelta che l’uomo ha, in ogni situazione esistenziale, rispetto alla situazione quale si
presenta alla sua conoscenza: nel senso che dalla conoscenza espressa in discorso non
gli viene in maniera logicamente vincolante la direttiva della sua azione, e la direttiva
dell’azione va assunta con un impegno soggettivo. Nessun principio direttivo vale per
l’uomo, se l’uomo non lo fa proprio con una scelta”109. Il prescrittivismo di Hare accetta
dunque l’idea, comune anche a molti utilitaristi contemporanei, secondo la quale
l’azione razionale sarà quella scelta dall’individuo in condizioni di piena informazione:
“Razionale…nel senso che egli adotterebbe [quella condotta] se si trovasse in uno stato
mentale normale e fosse perfettamente informato – ossia, avesse a sua disposizione e
vividamente in mente tutte le rilevanti conoscenze disponibili riguardo a se stesso, il
mondo e non stesse compiendo errori logici”110.
Lo stesso R. Brandt ha però messo in evidenza come tale condizione di piena
informazione sia priva di applicazione se rimane sprovvista di principio normativo:
“non si giustifica un codice morale ad una persona indicandogli che è il codice morale
che lui stesso sosterrebbe se i fatti e la logica fossero pienamente addotti per sostenere il
suo macchinario motivazionale (motivational machinery). Non è per nulla chiaro per
quale ragione una riposta ad esso dovrebbe ‘disalienare’ una persona che si è alienata
109
U. Scarpelli, La metaetica analitica e la sua rilevanza etica, in L’etica senza verità, cit., p. 110.
R. Brandt, Moral Philosophy and The Analysis of Language, in Freedom and Morality, edited by J.
Bricke, University of Kansas, Lawrence 1976, p. 3.
110
80
dalla morale”111. L’obiezioni di Brandt è chiara, in quanto, come nel caso del fanatico,
di fronte a chi ha deciso di porsi al di fuori della morale, non possono essere addotte
ragioni di carattere logico-linguistico per favorire una suo rientro nell’alveo della
moralità. Egli denuncia la parzialità e la scarsa efficacia morale della teoria di Hare: “la
concezione di Hare sembra ignorare la differenza tra ciò che è meramente desiderabile
per la condotta e ciò che è moralmente obbligatorio. Una cosa è sapere quello che le
persone razionali vorrebbero che tutti facessero o non facessero. Un’altra è sapere quel
che le persone razionali vorrebbero che ad ognuno sia richiesto di fare dalla
coscienza”112.
Le questioni aperte
Per Hare la libertà non è dunque un a priori, non è un postulato della ragion pratica,
né l’adeguamento della volontà del soggetto alla legge morale razionale che è dentro lui
stesso, come suo fondamento essenziale. La libertà per Hare è definita teoreticamente
come la capacità dell’individuo di ragionare correttamente in etica, ossia di avere a
propria disposizione tutte le informazioni rilevanti, prima di agire; essa è però anche un
dato di fatto empirico, qualcosa che si rivela a posteriori, a seconda del comportamento
dell’individuo. Il problema è però che il solo prescrittivismo non sembra garantire
adeguatamente la sussistenza di tale libertà e, per di più, la razionalità dei nostri giudizi
prescrittivi è una proprietà logica, priva di un legame con principi normativi.
La questione dello spazio occupato dalla libera scelta dell’individuo si allaccia quindi
inevitabilmente alla più ampia e pressante domanda relativa a come tale libertà possa
concretizzarsi, se retta da una dottrina che ha un fondamento più epistemologico che
pratico: la questione dell’incompletezza del prescrittivismo rimane dunque sempre in
campo e risulta improcrastinabile l’adozione di una dottrina normativa. Il problema,
come sottolinea Williams, è che il modello di razionalità proposto da Hare,
esclusivamente affidato all’analisi del linguaggio morale, non sembra in realtà
funzionare alla prova dei fatti, quando si tratta di elaborare una serie di criteri per
influenzare la condotta degli individui. Forse non è così vero che esiste un unico
modello di razionalità morale e che la sola ragione, e non anche altre facoltà cognitive,
111
112
R. B. Brandt, A Theory of the Good and the Right, cit., p. 233.
Ibidem, p. 197.
81
possano influenzare il nostro comportamento. Certo, Hare riconosce che noi agiamo in
virtù di inclinazioni, desideri: ma in Freedom and Reason egli ritiene che tali elementi
non razionali trovino nel modello di ragionamento del prescrittivismo una sorta di
guida, un faro che li debba indirizzare e soprattutto fondare, come se a livello ideale il
comportamento individuale fosse sempre razionale, mentre i due momenti (valutazione
razionale e influenza degli elementi non morali) fossero distinti, ma il primo avesse una
assoluta priorità epistemologica sul secondo.
D’altra parte è evidente che l’idea di affidarsi alla scelta dell’individuo rilancia altresì
la questione di quale possa essere il carattere obbligante e normativo delle prescrizioni.
Tale forza motivante non sembra poter scaturire da principi a priori come quelli
elaborati da Hare, i quali sono delle regole logiche che non possiedono carattere
normativo e non possono fondare la forza motivante delle nostre prescrizioni: per questa
la metaetica di Hare non è paragonabile ad un’etica deontologica. Una soluzione a
questo problema, direttamente connessa col carattere internalista del prescrittivismo
universale, potrebbe risiedere nell’affermazione per cui la portata normativa dei giudizi
etici scaturisce direttamente da essi; in altre parole, si sostiene che tali giudizi sono,
proprio in quanto razionalmente fondati, intrinsecamente motivanti: “nella meta-etica
non cognitivista, la normatività dei giudizi etici è intesa come forza conativa, cioè come
la capacità di guidare la condotta e motivare direttamente all’azione. Questa tesi su ciò
in cui consiste la normatività viene poi combinata con una tesi separata sulla natura
motivante degli stati mentali, gli atteggiamenti e i sentimenti espressi dai giudizi etici. I
giudizi etici sarebbero espressivi di stati conativi e per questo direttamente
motivanti”113.
Nondimeno, se si sostiene che Hare, in quanto non cognitivista, possa adottare l’idea
della forza conativa dei giudizi etici, rimarrà sul tappeto la questione della natura
motivante di quegli stati mentali che accompagnano inevitabilmente ogni nostra scelta e
ogni nostro atto. Questo problema sorge perché in Freedom and Reason l’autore ha
cominciato a considerare l’influenza di elementi quali le inclinazioni e gli interessi,
sulla nostra condotta. Pertanto, la questione del valore motivante dei giudizi etici è
diversa da quella della natura motivante degli stati mentali di cui essi possono essere
espressione. Infatti, il prescrittivismo universale, in quanto teoria formale, non sembra
113
C. Bagnoli, La pretesa di oggettività in etica, in Modi dell’oggettività, a cura di G. Usberti, Bompiani,
Milano 2000, p. 7.
82
poter fondare il carattere motivante degli interessi e delle inclinazioni, eppure Hare
dichiara che essi contano: per questo, stando così le cose, tali elementi sarebbero forse
meglio analizzabili dalla psicologia114. Perciò il prescrittivismo se non può evitare di
considerare il valore degli stati di coscienza che accompagnano l’agire degli individui,
dovrà altresì essere capace di assegnare ad essi il giusto peso e la giusta funzione e
inoltre determinare secondo quali modalità essi possano influenzare le decisioni
dell’individuo. Di certo, invece, per l’emotivismo di Stevenson, il discorso potrebbe
fermarsi a questo punto, in quanto per l’emotivismo l’esistenza di determinati stati
mentali è l’unica certezza che si può ottenere relativamente alla funzione dei giudizi
morali, i quali appunto si limiterebbero ad esprimere tali sentimenti e non avrebbero
alcun significato ulteriore115.
Per il prescrittivismo di Hare, la questione è invece maggiormente complicata, poiché
egli, rifiutando le conclusioni dell’emotivismo, non potrà fare riferimento al solo valore
espressivo dei nostri stati mentali, bensì dovrà esaminare anche il loro valore pratico,
ossia la loro capacità di influenzare la condotta degli individui. Ecco dunque che ritorna
la necessità di affidarsi ad una etica normativa in grado di soppesare questi stati mentali,
visti non solo come semplici fenomeni psicologici, ma soprattutto come inclinazioni
dotate di un valore etico e sociale che si confrontano e possono influenzare determinate
norme regolatrici dell’azione. A differenza di Brandt, il quale fa riferimento ai risultati
della psicologia empirica, Hare accetterà l’utilitarismo della preferenza.
Un nuovo orizzonte normativo
Vi è pertanto un elemento di novità nelle argomentazioni di Hare a partire dagli anni
‘70, in quanto l’autore sembra parzialmente voler ripensare il complesso rapporto tra la
logica e i fatti (ossia i desideri, le preferenze e gli interessi dei soggetti coinvolti),
poiché è vero che la logica possiede una priorità epistemologica, ma è anche vero che
quando affrontiamo situazioni concrete, siamo investiti innanzitutto dai fatti. Dunque, di
114
R. B. Brandt propone ad esempio una teoria etica che, pur legata all’utilitarismo, possa impiegare gli
strumenti desunti dalla scienza, in particolare dalla psicologia, definendo i desideri razionali come quelli
che hanno superato una sorta di terapia psichica (Cfr. A Theory of the Good and the Right, cit.).
115
Per l’emotivismo di Stevenson tale forza motivante comunque esiste, ma è limitata alla capacità
persuasiva del parlante, la quale è connessa all’espressione di determinati sentimenti e stati mentali, per
cui, il giudizio “X è buono” corrisponderebbe all’affermazione “Io voglio che tu faccia X”. Per la
riflessione di C. Stevenson, oltre al già citato Etica e linguaggio, cfr. anche il saggio, anticipatore delle
tesi contenute nel libro, The Emotive Theory, “Mind”, 46 (1937), pp. 14-31.
83
fronte ad un problema etico, i fatti non morali possiedono una priorità cronologica,
perché sono i primi elementi che incontriamo nel mondo. Tuttavia, come detto, essi in
seguito andranno armonizzati con il nostro pensiero morale, il quale in definitiva
detiene saldamente una priorità concettuale: “Il nostro pensiero critico è razionale se
utilizziamo i fatti a nostra disposizione e ragioniamo conformemente ai requisiti logici
derivanti dai concetti morali usati nelle questioni che ci poniamo” (MT, p. 269). Quindi,
poiché devo enunciare prescrizioni universali predominanti, “ciò comporta che mi
munisca della conoscenza fattuale di che cosa porrei in essere agendo secondo l’una o
l’altra delle prescrizioni tra cui sto decidendo. Fa pure parte di questa teoria che la
chiarezza concettuale è condizione necessaria del pensiero morale razionale”116.
Hare però avverte che, in virtù del suo antinaturalismo, non è possibile dedurre
direttamente un giudizio morale da un fatto, anche se un fatto può essere la ragione per
un giudizio morale, a patto però che tra le premesse della deduzione vi sia un principio
morale sostanziale, per esempio “uccidere è sbagliato”, oltre all’asserzione fattuale, che
funge da premessa minore, che informa che un individuo è stato ucciso.
Dunque la relazione tra la logica ed i fatti viene risolta su un doppio livello di
argomentazione; da un lato, Hare riconosce che quando si valuta una situazione, la
prima cosa con cui di solito si viene a contatto sono le caratteristiche empiriche e
contingenti della situazione stessa, ossia i fatti. Essi dunque costituiscono la base
materiale alla quale applicare il ragionamento morale. Dall’altro lato, tale ragionamento
deve in un certo senso “interpretare” questi fatti, ossia chiarificare il significato delle
argomentazioni nelle quali le proposizioni che descrivono i fatti svolgono il ruolo di
premesse con contenuto informativo. Per Hare tale compito, primario ed essenziale,
spetta all’analisi logica, la quale per lui è anche concettuale e dunque ricca di contenuto:
i fatti in sostanza acquistano un significato in quanto sono espressi in un linguaggio
analizzabile secondo le forme dell’analisi semantica dei termini.
Nella riflessione più recente di Hare non viene quindi meno la convinzione della
piena validità dell’analisi semantica dei giudizi morali: al contrario, essa si accentua,
proprio nella ricerca di un fondamento unico e razionale del nostro pensiero morale che
possa costituire la base teorica di una dottrina normativa come l’utilitarismo. Infatti, le
questioni morali prima di essere affrontate vanno comprese, ossia va capito il significato
116
R. M. Hare, Le regole della guerra e il ragionamento morale, in Sulla morale politica, cit., p. 66.
84
dei termini che le esprimono e solo in seguito esse possono essere affrontate dal lato
della moralità pratica: “Io ho adottato la strategia di esporre la logica dei concetti morali
così come sono, e di dimostrare che essi generano certi canoni di ragionamento morale i
quali ci portano ad adottare un determinato metodo di pensiero morale normativo e
sostanziale” (MT, p. 51)117. Il linguaggio è allora da un lato una premessa della morale e
come tale è studiato in virtù dell’analisi logica e semantica; tuttavia, esso, essendo il
mezzo per esprimere le preferenze dei parlanti, diviene altresì qualcosa che possiede
una valenza pratica. Secondo Hare, il carattere prescrittivo delle “parole” etiche non è
più solo una condizione formale della possibilità del loro impiego in un linguaggio,
bensì diventa anche una condizione sostanziale, una caratteristica che esse incorporano
quando sono impiegate nel linguaggio con il quale gli individui esprimono le loro
preferenze118.
A questo proposito, con l’opera Moral Thinking del 1981, Hare da un lato mantiene
l’idea secondo la quale il nostro pensiero morale deve essere pienamente razionale,
proprio perché fondato su una teoria etica formale, la quale deve escludere riferimenti
individuali che ne pregiudichino il carattere universale; dall’altro lato, ha cercato di
porre un legame più saldo tra prescrittivismo ed utilitarismo, il quale è in grado di
affrontare questioni normative se però si basa sui fondamenti logico-linguistici del
prescrittivismo universale. Pertanto, l’idea che esista una teoria etica119 veicola secondo
Hare la necessità che la teoria etica sia l’intelaiatura del pensiero morale, non il suo
contenuto: “Ciò che propongo è di stabilire certi canoni di ragionamento interamente
formali ricorrendo ad intuizioni linguistiche; in seguito, ragionando in conformità a
questi canoni e servendoci…di alcune premesse sostanziali, si otterranno delle risposte
per le nostre questioni morali: ma non per via di deduzioni o di qualsivoglia altro genere
di ‘inferenza lineare’” (MT, p. 47).
117
Cfr. anche R. M. Hare, L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 101: “Un prescrittivista
come me penserà, invece, che si debba prima comprendere l’enunciato (nella sua logica e nel suo
carattere concettuale, non meno che nel suo contenuto) e quindi anche le forme di pensiero appropriate
allo scopo di stabilire se accettarlo o no, e poi riflettere sulla base di queste forme di pensiero”.
118
Si ricorda che Hare sostiene di appartenere “alla scuola di pensiero secondo la quale studiare le
proprietà logiche delle parole è lo stesso che studiare i concetti. La logica formale, in questa prospettiva, è
la formalizzazione delle regole che governano le parole…e che determinano i significati di quelle parole”.
Cfr., L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 103.
119
Cfr. B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., pp. 87-88 e 90: “una teoria etica è un trattazione
teorica del pensiero e della prassi etica che implica…un test generale per la valutazione della correttezza
formale delle credenze e dei principi etici fondamentali…Le teorie etiche sono imprese filosofiche e,
come tali, comportano la convinzione che la filosofia possa determinare, positivamente o negativamente,
in che modo dobbiamo pensare in etica”.
85
La necessità di superare le incompletezze del prescrittivismo induce dunque l’autore a
rivedere in parte la propria posizione, senza rinunciare ai risultati della sua ricerca
metaetica, ma considerando la possibilità di completare la sua argomentazione con una
dottrina normativa coerente con il prescrittivismo: l’utilitarismo, agli occhi di Hare, è
destinato ad essere la sola dottrina morale che può logicamente derivare in modo
coerente dal prescrittivismo. L’autore ritiene infatti che le incongruenze mostrare dalle
forme classiche di utilitarismo fossero dovute alla mancanza di un loro fondamento
razionale: a questo proposito, egli pensa che già Sidgwick avesse compreso questa
esigenza, ma non avesse operato nel modo più giusto per porvi rimedio. Hare invece
sostiene che se l’utilitarismo viene a fondarsi su presupposti logico-formali, può
affrontare le questioni morali sostanziali meglio di altre dottrine morali120.
La versione di utilitarismo a cui Hare fa riferimento è assimilabile all’“utilitarismo
della preferenza”121, il quale si differenzia dall’utilitarismo edonistico classico, poiché
non parla della massimizzazione del piacere, né della felicità (come sostiene
l’eudemonismo), bensì appunto delle “preferenze”.
L’utilitarismo delle preferenze che si sviluppa in particolare nel secolo XX,
realizza uno spostamento decisivo del criterio che non pretende più di fare
riferimento a una unità di misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove
piuttosto accettando come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti
coinvolti e dunque identificando come giusto quel corso di azione che massimizza
la soddisfazione delle preferenze, quali che siano122.
Tale utilitarismo, per alcuni aspetti, riprende in parte le critiche che già Sidgwick
aveva condotto contro l’edonismo; questi infatti, pur non utilizzando l’espressione
“preferenze”, nega che la ricerca del piacere e la fuga dal dolore siano i soli motivi che
determinano l’agire dell’uomo: “non si può concepire come un precetto o un dettame
della ragione una legge psicologica che guida invariabilmente la mia condotta, e questo
120
Si riporta nuovamente la citazione tratta da Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams,
Utilitarismo e oltre, cit., pp. 32-33 che funge quasi da dichiarazione programmatica ed indica quale sia il
valore della svolta di Hare: “La teoria normativa che sosterrò presenta strette analogie con quella
utilitarista, se non fosse che questo termine riguarda un’ampia varietà di teorie, ognuna delle quali è stata
vittima delle prevenzioni giustamente suscitate dalle più rozze di esse. Chiamando utilitarista la mia teoria
prego il lettore di guardare alla teoria in sé, e di domandarsi se essa non possa evitare le obiezioni che
sono state rivolte ad altri tipi di utilitarismo”
121
Per l’evoluzione dell’utilitarismo e dei suoi concetti fondamentali, cfr. per esempio C. A. Viano,
L’utilitarismo, in C. A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., pp. 40-46, dove si evidenzia
come il ricorso alla preferenza sia ascrivibile inizialmente alle argomentazioni dei teorici dell’economia
politica.
122
E. Lecaldano, Etica, cit., p. 83.
86
perché un precetto deve essere una norma dalla quale so che è possibile deviare”123. Dal
canto suo, anche J. C. Harsanyi ha sostenuto che l’edonismo conduce al soggettivismo
morale, ossia ad una tesi assurda: “la teoria psicologica soggettivistica secondo cui tutto
ciò che vogliamo sono, in ultima analisi, esperienze piacevoli nella nostra mente è quasi
tanto assurda quanto la sua controparte epistemologica, secondo cui tutto ciò che
conosciamo sono, in ultima analisi, le esperienze soggettive della nostra mente”124.
L’utilitarismo della preferenza nasce dall’esigenza di poter confrontare le preferenze
individuali e di elaborare un ordinamento lineare di esse al fine di ricavare una
preferenza collettiva unica da una sequenza di preferenze individuali. Per Harsanyi in
particolare, al quale la riflessione di Hare fa per certi aspetti riferimento, il concetto di
“preferenza”, diversamente da quello di desideri o interessi, è più funzionale in quanto,
mentre in una stessa persona possono sussistere conflitti tra desideri ed inclinazioni, la
stessa cosa non accade di solito per le preferenze. Parlare di preferenze garantisce la
imparzialità dei giudizi morali emessi e ciò ha un fondamentale riflesso sociale: “se
accettiamo di valutare eticamente (giustificare o meno) istituzioni e pratiche sociali,
dobbiamo essere disposti a valutarne le conseguenze al buio sulle nostre preferenze
personali e sapendo di avere la stessa probabilità di essere chiunque nello stato del
mondo o nella società di cui valutiamo istituzioni e pratiche”125. Inoltre, l’utilitarismo
della preferenza tende a non stabilire a priori e in modo rigido gli obiettivi degli
individui, poiché si limita a dare delle direttive piuttosto minime. Esso non fa eccessive
questioni sulla “natura della felicità o della vita buona; non è compiuto alcun tentativo
per definire quello che gli esseri umani dovrebbero volere per se stessi o per gli altri”126,
ma, secondo il principio della supremazia del consumatore, il punto di partenza di
questo utilitarismo sono le preferenze effettive degli individui che fanno parte della
società.
Inoltre, tale utilitarismo si caratterizza come welfarista e consequenzialista, in
quanto, come metodo di deliberazione, ha di mira l’incremento del benessere totale
degli individui e dunque la scelta delle preferenze che garantiscono stati di fatto
migliori. Tuttavia, l’utilitarismo di Hare possiede anche dei caratteri peculiari, sia
123
H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Libro I, cap. IV, cit., p. 79.
J. C. Harsanyi, Utilità individuali ed etica utilitaristica (1986), in L’utilitarismo, cit., p. 58.
125
S. Veca, La filosofia politica, cit., p. 45.
126
G. Scarre, Utilitarianism, Routledge & Keegan Paul, London New York 1996, p. 8. Cfr, inoltre le pp.
6-7.
124
87
rispetto al modo per selezionare le preferenze, sia rispetto agli strumenti concettuali ed
ai principi a priori su cui vuole fondarsi. Per esempio, esso, a differenza di quel che
accade in Harsanyi, non si pone come parte di una più ampia teoria della scelta
razionale, in quanto quest’ultima coinvolge direttamente questioni di giustizia sociale e
vuole individuare le condizioni più adatte per operare una scelta utilitaristicamente
giustificata di fronte a tali questioni: questa prospettiva di analisi non appartiene ad
Hare in modo precipuo.
La formalità dell’utilitarismo
Questi problemi verranno comunque affrontati meglio più avanti, mentre ora si può
dire che l’adesione all’utilitarismo produce nella riflessione morale di Hare non una
semplice mutazione nominale, giacché ovviamente egli non chiama ora “utilitarismo”
quello che per molto tempo aveva definito come “prescrittivismo universale”. L’autore
infatti opera un cambiamento sostanziale nel suo sistema, nel tentativo di “riempire” di
contenuto le caratteristiche logiche che a suo parere sono la base dei giudizi morali:
l’universalità e la prescrittività. Esse infatti, almeno nelle sue intenzioni, non devono
operare esternamente all’utilitarismo, ma essere incorporate da questa dottrina, da un
lato per conferire legittimità logica e formale ad essa, dall’altro per acquisire esse stesse
un’applicazione normativa: “la tesi è che ogni prescrizione basata sulle caratteristiche
universali di una situazione debba essere una prescrizione utilitarista. L’idea è che un
agente coerente ed informato sarebbe capace di seguire una tale prescrizione solo se
essa passasse il test utilitarista di massimizzare la generale soddisfazione di
preferenze”127. La generalizzazione delle prescrizioni “produce” quindi direttamente un
outcome utilitarista: lo produce direttamente perché la fondazione logica deve essere già
presupposta, già interiorizzata nell’impalcatura che sostiene il ragionamento
dell’utilitarista.
Ciò significa che l’utilitarismo secondo Hare si compone di una parte razionale,
formale, nella quale non entrano le convinzioni morali sostanziali dei parlanti, e di una
parte normativa, che vaglia i fatti, le inclinazioni e le preferenze dei soggetti coinvolti
nelle decisioni. Hare sembra dunque voler recuperare l’etica normativa in modo
127
P. Pettit, Universalisability without Utilitarianism, in “Mind”, 96 (1987), p. 74.
88
indiretto, attraverso la definizione della sue condizioni di possibilità, ma non
ovviamente attraverso la definizione di un elenco di azioni buone da fare e cattive da
evitare. Pertanto, l’utilitarismo sembra all’autore miscelare in modo efficace la
componente logico-formale della sua dottrina, con quella fattuale, empirica: “C’è in
primo luogo, la parte astratta o teorica che intende valere per ogni mondo logicamente
possibile; e poi c’è la parte concreta o pratica che è applicabile al mondo così com’è, ma
che dovrebbe venire abbandonata nel caso in cui esso conoscesse un drastico
cambiamento”128. La componente logico-formale, pertanto, prescinde dalle particolari
condizioni della realtà, poiché si pone come metodo di ragionamento morale valido a
priori, mentre la sua parte pratica, per rispondere alla domanda “che fare?”, si applica al
mondo così come esso è e potrebbe cambiare se mutassero le circostanze particolari in
cui essa viene applicata. Il ragionamento morale, che si concretizza nell’utilitarismo,
prevede la capacità di fornire un giusto peso principalmente a questi due elementi, la
logica e i fatti, in quanto contempla anche la necessità di valutare e soppesare le
inclinazioni e le preferenze proprie rispetto a quelle altrui: “La priorità logica spetta alla
questione di quali principi dobbiamo accettare: ma la si può affrontare solo dopo
un’iniziale e provvisoria individuazione di quelle caratteristiche di un’azione o di una
situazione che probabilmente figureranno nei principi che da ultimo accetteremo” (MT,
p. 130).
Hare paragona i principi formali del suo utilitarismo agli imperativi categorici
kantiani, sostenendo che entrambi sono retti dal principio dell’universalizzazione129. È
però evidente che il paragone tra utilitarismo e kantismo appare problematico. Come ha
sottolineato T. Nagel in una nota critica verso l’utilizzo del test dell’universalizzabilità
da parte di Hare: “l’esperimento mentale che ci viene richiesto di fare quando
applichiamo l’imperativo categorico richiede positivamente a noi di tener conto dei
punti di vista personali di ciascuna delle parti in gioco nelle situazioni coperte dal
principio in esame, nonché delle motivazioni e dei valori relativi”130. Nagel evidenzia
che l’etica di Kant si richiama ad una concezione degli imperativi (categorici o ipotetici)
128
R. M. Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit., p. 239.
Hare afferma: “Esaminiamo il programma di Kant…in modo più dettagliato. Esso poggia su una
disamina metafisica o logica relativa alla natura dei concetti morali. Questa deve essere la base di ogni
sistema di ragionamento morale. Lo dobbiamo fare considerando solamente la natura dei concetti e nulla
di empirico”. (Cfr., SO, p. 159). B. Williams aveva evidenziato tempo prima come queste somiglianze
siano secondarie e superficiali, cfr. Persone caratteri, moralità, (1976) ora in Sorte morale, a cura di R.
Rini, il Saggiatore, Milano 1987, pp. 9-10.
130
T. Nagel, I paradossi dell’uguaglianza, a cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1993, p. 58.
129
89
che esclude qualsiasi riferimento ai desideri e alle preferenze dei soggetti morali, mentre
Hare connette proprio gli imperativi a questi ultimi. La stessa nozione di universalità,
come si è già sottolineato, per Hare rimane nel suo carattere essenziale una nozione
logica e non possiede un contenuto normativo. Infatti, “per Kant l’universalità è un
principio morale e come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare
riconosce come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale carattere si presenta,
almeno nelle prime affermazioni che fa Hare, come una tesi sulla logica del discorso
morale”131. Inoltre, Kant, nel definire l’imperativo categorico ed il test di universalità ad
esso legato (“cosa accadrebbe se tutti facessero così?”), non afferma che, prima di agire,
l’individuo debba domandarsi in positivo se quel suo atto potrebbe valere come legge
universale d’azione, poiché in tal caso sarebbe evidente il pericolo di un regresso
all’infinito:
per la logica una prescrizione singola può essere universalizzata in un numero
illimitato di modi. Universalizzare vuol dire fornire motivazioni. Fornire
motivazioni vuol dire indicare quali caratteristiche della situazione siano rilevanti
per la valutazione e il giudizio morale. Ma poiché ogni situazione possiede un
numero illimitato di caratteristiche, a seconda delle caratteristiche che indico come
rilevanti sono in grado di costruire la prescrizione universale della quale la
prescrizione singola è un’applicazione, in un numero illimitato di modi132.
In realtà, le versioni moderne e contemporanee dell’utilitarismo hanno incorporato
una nozione di universalità dei giudizi morali che solo nominalmente richiama quella
kantiana, ma che invece se ne discosta. In particolare, Kant non adotta una formula in
positivo per definire il test dell’universalità, poiché egli ne fornisce una versione in
negativo, sostenendo che “moralmente doverosi sono, non già i comportamenti che
risultano universalizzabili, ma i comportamenti contrari a quelli che non risultino
universalizzabili”133. Ciò vuol dire che, prima di agire, non dobbiamo verificare se un
principio morale potrebbe diventare una massima di portata universale in tutti i casi, ma
chiederci se vi è almeno un caso nel quale esso non possa fungere come tale: se si
presenta questa evenienza, quello non è un principio morale. Pertanto, la domanda,
131
E. Lecaldano, Etica, cit., p. 78.
A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare) (1964), in Critica del diritto e analisi del
linguaggio, cit., p. 171.
133
S. Landucci, La Critica della ragion pratica. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1997, p. 64.
132
90
posta da alcuni utilitaristi, che impone all’attore di domandarsi: “cosa accadrebbe se
tutti facessero così?”, acquisisce in ambito utilitarista una valenza differente:
quando poniamo questa domanda sottintendiamo che, se le conseguenze del
fatto che tutti facessero l’atto in questione fossero dannose (o benefiche), allora
l’atto sarebbe per tutti vietato (o obbligatorio). In questo senso, l’utilitarista
propone di individuare le norme utilitaristicamente giustificate considerando la
classe delle azioni simili. La norma viene così a regolare tutti gli atti simili
appartenenti alla classe delle azioni cui è appropriato porre la domanda sopra
ricordata, e l’agente deve seguire sempre la norma morale così individuata134.
Perciò, anche se, in alcuni casi, le conclusioni pratiche dell’utilitarismo e del
kantismo possono coincidere, profondamente diverso è il motivo per cui un’azione è
valutata come positiva. Per esempio, per Kant non è mai ammissibile dire una bugia,
mentre per l’utilitarismo, in certi casi, è possibile farlo; ciò accade perché mentre per
Kant la menzogna va vietata dato che impedisce all’individuo di conformarsi ad una
legge che deve essere universalmente voluta, per l’utilitarista, sebbene in genere sia
meglio dire la verità, se dovesse succedere che dire bugie massimizza l’utilità, egli
potrebbe indulgere a farlo. Si può sostenere che l’utilitarismo di Hare condivida con
Kant l’idea di fondare l’etica su presupposti formali, razionali ed universali, ma per il
resto è diversa sia la natura di tale fondamento (in Kant non vi è traccia di alcuna analisi
semantica), sia soprattutto la conclusione normativa che la teoria etica di Hare implica.
I livelli del pensiero morale
È all’interno di questa ridefinizione della propria teoria etica che Hare introduce la
fondamentale concezione dei due livelli del pensiero morale, di cui l’opera Moral
Thinking rappresenta la sintesi più completa. In realtà, esiste anche un terzo livello,
quello della riflessione metaetica, “sul quale operiamo quando discutiamo del
significato dei termini morali e sulla logica del ragionamento morale” (MT, p. 58).
Tuttavia esso è già stato ampiamente trattato nelle opere precedenti, per cui l’autore in
Moral Thinking si occupa degli altri due livelli del pensiero morale: il livello critico e il
134
M. Mori, L’utilitarismo della norma e i suoi problemi: un’analisi e una proposta, in E. Lecaldano/S.
Veca (a cura di), Utilitarismo oggi, cit., p. 44.
91
livello intuitivo135. Si può qui notare che B. Williams ha sottolineato in modo critico che
l’elaborazione di un utilitarismo coerente con l’orizzonte non cognitivista, inaugurato da
Smart già negli anni ’60 e proseguito da Hare, mostri la progressiva perdita di
importanza dell’analisi puramente metaetica: “La distinzione tra etico e metaetico non è
più considerata così convincente o importante. Le ragioni di questo fatto sono diverse,
ma quella che…risulta più rilevante e che attualmente è ovvia (ancora una volta ovvia),
è che le idee che uno ha in merito all’oggetto del pensiero etico, ossia al suo campo
d’indagine, non possono non influire sull’adozione dei criteri di accettabilità o di
coerenza appropriati a quel campo; e l’uso di quei criteri non può che influire su
qualsiasi risultato etico sostantivo”136. In realtà Hare accetta questa asserzione in senso
differente rispetto a Williams, giacché come detto ritiene i presupposti metaetici già
fondati e stabiliti, in quanto essi costituiscono lo sfondo sul quale appoggiare l’analisi
dei due livelli del pensiero morale. Va aggiunto inoltre che nelle intenzioni di Hare,
l’adesione alla dottrina dei due livelli del pensiero morale è altresì giudicata funzionale
al fine di sollevare la sua teoria etica utilitarista dall’accusa di portare a conclusioni
controintuitive:
Laddove le teorie etiche ad un livello sono costrette a formulare un codice
intollerabilmente complesso, l’adozione della teoria dei due livelli indica
un’alternativa migliore. A livello intuitivo, l’agente ha ragione di credere di
trovarsi di fronte a due obblighi confliggenti. Il sentimento dell’impossibilità di
risolvere questo conflitto è giustificato entro il modello di razionalità dell’agente di
livello intuitivo. Solo il ricorso, quando è possibile, ad un livello di pensiero morale
più raffinato consente di smontare questa dolorosa apparenza137.
La distinzione tra i due livelli è già introdotta nel 1976, nel saggio Utilitarianism and
Ethical Theory, nel quale Hare fornisce una sintetica disamina di essi, senza ancora
averli denominati “critico” ed “intuitivo”.
I principi del livello 1 [ossia di quello in seguito definito intuitivo] sono da usare
nella riflessione morale pratica, specialmente in situazioni di tensione. Devono
essere sufficientemente generali da essere impartiti con l’educazione…e da essere
135
Hare riconosce di non essere il primo ad usare tale distinzione, giacché, a suo parere, essa è già
presente in Platone ed Aristotele. Forse però il precedente più significativo si può individuare nel cap. V
dell’opera Utilitarianism di J. S. Mill (Cfr. anche R. Crisp, edited by, Mill on Utilitarianism, Routledge,
London and New York 1997, pp. 105-112).
136
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit. pp. 89-90.
137
C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., pp. 66-67.
92
prontamente applicabili all’emergenza, ma non vanno confusi con le regole di
esperienza (la cui violazione non suscita alcun rimorso). I principi del livello 2
[ossia quello critico] sono quelli cui si dovrebbe arrivare attraverso una riflessione
morale tranquilla, in presenza di una conoscenza dei fatti completamente adeguata,
come la risposta giusta in un caso specifico”138.
I due livelli non sono semplicemente l’idealizzazione degli usuali modi di
ragionamento morale, poiché servono per descrivere sia come esso effettivamente si
svolge, indicando al contempo sia quale dovrebbe essere il suo funzionamento ottimale.
La dottrina dei due livelli del pensiero morale rappresenta dunque uno strumento
concettuale ed esplicativo per descrivere in modo completo sia la riflessione razionale
sull’etica, sia la determinazione effettuale delle azioni umane, combinando il valore
formale del pensiero morale con l’osservazione delle condizioni fattuali nelle quali si
agisce. La distinzione è altresì importante per supportare e l’idea di una concezione
formale dell’utilitarismo e la possibilità che esso si ponga come efficace dottrina
normativa.
Per quel che concerne il livello intuitivo, Hare afferma nel saggio Utilitarianism and
the Vicarious Affects (1979) che “Il livello intuitivo è quello a cui quasi tutti noi
conduciamo quasi tutto il nostro pensiero morale”139. Questo significa che in campo
etico le intuizioni morali hanno un ruolo ed un peso, in quanto sono la base e il naturale
punto di avvio della nostra riflessione morale. Anzi, la cosa fondamentale da dire è che
Hare sottolinea che il processo di elaborazione delle decisioni (decision making)
avviene in modo spontaneo in gran parte a questo livello, perché è quello a cui
l’individuo si rivolge naturalmente. Certo, il livello intuitivo non fonda la razionalità
delle nostre convinzioni morali, sebbene “intuitivo” per Hare non sia necessariamente
sinonimo di “non razionale”. Egli dunque avverte che “possiamo alterare i nostri
principi intuitivi, sebbene con difficoltà, se lo desideriamo. Questo è il compito del
pensiero critico. Ma dobbiamo essere cauti. Quelli che hanno cacciato via
completamente le intuizioni accumulate le hanno spesso rimpiante. Vi è di solito più da
imparare che abbandonare dagli insegnamenti del passato” (SO , p. 143)140.
138
R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., pp. 40-41.
R. M. Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit., p. 242.
140
Si è già sostenuto che affermazioni di questo genere possono essere messe in parziale collegamento
con le argomentazioni di Sidgwick e in parte di Smart, relative all’affidabilità delle intuizioni della
morale di senso comune e alla necessità per cui l’utilitarismo, più che stravolgere questa morale,
dovrebbe renderla più comprensibile ed accettabile.
139
93
Hare peraltro prende le distanze da una concezione intuizionista della morale, sul
modello delineato da H. Prichard, secondo il quale, come nella teoria della conoscenza
non esiste nessun criterio al di là della conoscenza immediata, lo stesso accade per la
morale, nella quale “i dubbi su di una qualunque questione vengono eliminati facendo
in modo di trovarci in una situazione che abbia le stesse caratteristiche, o caratteristiche
in larga parte simili a quelle proprie della situazione che ci rende perplessi”141. Una
dottrina come l’intuizionismo etico cade infatti in una forma di sterile soggettivismo
morale142, secondo il quale i principi morali non vengono razionalmente determinati, ma
nascono nel soggetto morale in modo appunto intuitivo, ossia non razionale. Vi è infatti
una decisiva differenza tra la dottrina dei livelli del pensiero morale e l’intuizionismo
etico: “Come ho detto molte volte, il ruolo che gli intuizionisti riconoscono al pensiero
morale intuitivo non è in sé errato ma piuttosto incompleto; l’errore dell’intuizionismo è
di implicare che esso è l’unico livello di pensiero morale di cui abbiamo bisogno”143.
Tuttavia, al di là dell’opposizione teorica all’intuizionismo, Hare recupera il valore
delle intuizioni morali, le quali ovviamente non possiedono una valenza conoscitiva, ma
sono importanti in quanto riflettono bene gran parte del comportamento morale degli
individui in condizioni usuali. Le intuizioni (i fatti e gli elementi derivanti
dall’osservazione empirica) in questo contesto sono perciò secondariamente
fondamentali144, giacché le nostre preferenze di base si formano a partire da esse,
sebbene in seguito debbano essere vagliate da un pensiero critico che va sviluppato nel
modo più accurato possibile. Hare sostiene che l’utilitarismo, rispetto all’intuizionismo,
ha la capacità di giustificare razionalmente il ricorso alle intuizioni, in quanto utilizza
solo quelle che possiedono una utilità di accettazione ovvero sono universalizzabili:
“Nella misura in cui le intuizioni sono desiderabili, il pensiero critico le può difendere
su basi utilitariste, in quanto esse hanno un’alta utilità di accettazione; se possono essere
difese in questo modo, anche per l’utilitarismo dell’atto la miglior cosa da farsi sarà
coltivarle e seguirle in tutti i casi normali” (MT, pp. 180-181).
141
E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale, cit., p. 43.
Una teoria soggettivista potrebbe definirsi come “la dottrina secondo la quale i giudizi morali sono
equivalenti al resoconto dei sentimenti personali o delle attitudini del parlante”, cfr., J. L. Mackie, Ethics.
Inventing Right and Wrong, cit., p. 18.
143
R. M. Hare, Comments on Frankena, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
223.
144
I fatti non morali sono secondariamente fondamentali poiché se lo fossero in modo primario la dottrina
di Hare coinciderebbe, dal punto di vista pratico, con il descrittivismo etico.
142
94
Hare sottolinea quindi che le persone prendono la gran parte delle proprie decisioni
morali in virtù di principi che hanno un’impronta intuitiva perché non tutti sono in
grado di ragionare in maniera critica e serena di fronte a una questione morale, ovvero
in condizioni di piena conoscenza delle conseguenze della azioni tra le quali devono
scegliere. Pertanto, ognuno di noi agisce in prima istanza secondo principi che Hare in
Moral Thinking definisce secondo l’espressione, in parte mutuata dalla riflessione di
Ross, “principi prima facie”. Ross in realtà sosteneva l’esistenza di doveri prima facie, i
quali a suo parere sono da noi intuitivamente acquisiti e ci spingono ad agire nella
maniera ritenuta più corretta in determinate circostanze, senza dover ricorrere ad alcuna
forma complessa di ragionamento morale. Essi non hanno quindi la pretesa dell’assoluta
certezza, poiché possono essere soverchiati da obbligazioni meglio fondate. Ross
distingue infatti “tra obbligazioni prima facie e obbligazioni attuali: l’obbligazione
prima facie è una conclusione sostenuta da considerazioni morali che si candida a
diventare l’obbligazione attuale di qualcuno. Essa sarà la conclusione corretta della
propria decisione a condizione che non ci sia un’altra obbligazione che prevalga su di
essa”145.
Hare non accetta questa definizione così impegnativa di doveri prima facie ed infatti è
molto preciso nel sottolineare che i principi prima facie sono universali solo in modo
parziale, poiché:
sono generali in due sensi, fra loro collegati; sono piuttosto semplici, poco
specifici e ammettono eccezioni, nel senso che è possibile mantenerli pur
consentendone violazioni in certi casi particolari…In altri termini, questi principi
sono ‘predominabili’ (overridable). Inoltre, sebbene essi siano universali, nel senso
in cui io uso un tale termine (non contengono costanti individuali e hanno un
quantificatore universale all’inizio), in un altro senso non lo sono (non sono
universalmente vincolanti: ammettono eccezioni) (MT, p. 93).
I principi prima facie possono anche essere diretta espressione di nostri stati mentali,
come il rimorso (regret) e la compunzione, e per questo Ross ritenne che fossero
universalmente validi, in quanto dotati di un valore intrinseco, testimoniato dalla nascita
in noi di tali sentimenti proprio quando violiamo i principi prima facie: “Quando
pensiamo di essere moralmente obbligati a rompere una promessa nel tentativo di
145
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 213. Cfr. altresì D. W. Ross, Il giusto e il bene, cit,
p. 27 e sgg.
95
alleviare la sofferenza di qualcun altro, non cessiamo un momento di riconoscere
l’esistenza di un diritto prima facie di mantenere le promesse, e ciò ci conduce a sentire,
non tanto vergogna o rimorso, ma certamente compunzione, per esserci comportati in
quel modo”146. Hare invece non ritiene che i principi prima facie possiedano un valore
intrinseco che li renda universalmente validi, perché nessuna educazione morale può
essere completa se si basa solo sui sentimenti di rimorso e compunzione. Il rimorso che
si prova nel rompere una promessa, seppure in condizioni in cui non si poteva fare
diversamente, non mostra che il divieto di rompere promesse sia un principio prima
facie universale, giacché la presenza del rimorso dopo aver trasgredito il principio non
garantisce l’universalità di quest’ultimo, poiché essa è giustificata da un fondamento
logico-razionale.
Nondimeno, al di là dei principi prima facie adottati, per l’individuo è necessario
avvicinarsi ad un livello di pensiero morale critico, nel quale egli, secondo la logica del
ragionamento morale, sia abilitato a riflettere serenamente sulle questioni etiche e di
prendere le opportune decisioni per affrontarle. La distinzione posta da Hare fra i due
livelli del pensiero morale si applica peraltro sia alla dimensione privata dell’individuo
(alle regole di prudenza relative ai confronti intrapersonali), sia a quella relativa alla sua
vita pubblica e sociale (che riguarda più specificamente la moralità per i confronti
interpersonali). Sarà dunque possibile affermare, in virtù della distinzione fra i due
livelli di pensiero morale che
La classe dei principi morali di un uomo si articola in due sottoclassi: 1) quei
principi prescrittivi universali di cui egli non ammette che possano essere
predominati; sono tutti quei principi che io ho chiamato “principi morali critici”; e
quindi è possibile adattarli e renderli specifici per casi particolari in tal modo che
non vadano predominati; 2) quei principi prima facie che, pur essendo
predominabili, vengono selezionati…dal pensiero critico; nel corso di questa
selezione vengono utilizzati i principi morali della prima sottoclasse. Se quindi
vogliamo sapere se una data persona consideri morale un determinato principio,
occorre innanzitutto chiederle se permetterebbe mai, in qualsivoglia circostanza,
che il principio subisse il predominio di un altro principio (MT, p. 95).
Un ipotetico arcangelo non avrebbe necessità di ricorrere ai principi prima facie,
poiché conoscerebbe alla perfezione i significati dei termini che utilizza e sarebbe in
grado di agire immediatamente nel modo corretto dato che ha una subitanea coscienza
146
D. W. Ross, Il giusto e il bene, cit., p. 36.
96
della situazione e delle conseguenze che qualsiasi sua scelta potrebbe produrre. Al
contrario, per gli uomini è inevitabile affidarsi ai principi intuitivi che, pur non
possedendo
appieno
le
caratteristiche
di
prescrittività
ed
universalità
che
contraddistinguono i veri e propri giudizi morali, svolgono comunque un ruolo nel
favorire la maturazione critica del nostro pensiero morale. Certamente dovremmo
puntare ad acquisire principi morali universali che possano mettere in secondo piano
quelli intuitivi, ma, per così dire, nel frattempo, il ricorso a tali principi non è affatto un
errore, giacché è inevitabile e dunque va regolamentato, ma non impedito. Sarà tuttavia
necessario che, a livello concettuale, l’individuo abbia in mente come si svolge il
pensiero morale e quale livello lo esprima nella maniera più essenziale.
In altri termini, agire secondo le nostre intuizioni morali è inevitabile e
comprensibile, ma ragionare semplicemente secondo il livello intuitivo è un errore
concettuale prima ancora che morale, sebbene poi esso abbia delle conseguenze in
questa direzione. Per questo motivo, “Il pensiero intuitivo ha la funzione di avvicinare
in pratica a questa capacità [ossia al pensiero critico] quelli di noi che non sono in grado
di pensare come arcangeli in una particolare occasione. Se vogliamo assicurarci la
maggiore conformità possibile alle decisioni di un arcangelo, dobbiamo tentare di
impiantare in noi stessi e in coloro che subiscono la nostra influenza un insieme di
disposizioni, motivazioni e principi prima facie (chiamiamoli pure come vogliamo) che
abbiano questo effetto” (MT, p. 80). Inoltre, il pensiero critico svolge un’altra funzione
fondamentale: esso ha il compito di “selezionare i migliori principi prima facie, per
utilizzarli nel pensiero intuitivo…Il miglior insieme di principi è quello la cui
accettazione produce azioni, disposizioni, ecc., le più vicine possibili a quelle che
sceglieremmo se fossimo in grado servirci sempre del pensiero critico. Questa
soluzione, se seguiamo l’utilitarismo, troverà espressione nel concetto di utilità di
accettazione” (MT, p. 83).
La funzione dei livelli del pensiero morale
La figura dell’arcangelo come esempio di individuo capace sempre di pensare in
modo critico, è per Hare un modello concettuale che serve per spiegare in modo chiaro
come effettivamente funziona tale livello di pensiero. La figura dell’arcangelo possiede
anche una notevole rilevanza teorica, in quanto è il modello di ragionamento critico che
97
costituisce l’optimum per un individuo utilitarista: egli è in grado di immedesimarsi con
le preferenze altrui che, superato il test dell’universalizzazione, si sono rivelate dotate di
una utilità di accettazione. Egli assume su di sé queste preferenze e, in quanto pensatore
critico, è capace di massimizzale nel modo dovuto. Il ricorso alla figura dell’arcangelo,
dunque, non tradisce l’intenzione di Hare di studiare l’effettivo comportamento umano,
sebbene una critica rivolta all’autore si sia basata proprio su questa obiezione: “penso
che il suo [di Hare] ‘arcangelo’ che può predire il futuro in ogni dettaglio è il mezzo
analitico sbagliato per studiare il processo di elaborazione della decisione degli umani di
fronte al rischio e all’incertezza della vita reale”147.
Inoltre, B. Williams sostiene che tale figura è ricalcata su quella dell’Agente
cosmico, il quale in realtà sarebbe del tutto disinteressato dei fatti del mondo: “Questa
versione…si scontra con l’obiezione che se l’osservatore ideale non ha alcuna
motivazione oltre la propria imparzialità, non c’è alcuna ragione per cui debba fare una
scelta qualsiasi; inoltre, in assenza di una motivazione benevola o comunque
positivamente riferita alle preferenze che conosce, egli potrebbe scegliere di sfruttarne
quanto più gli è possibile”148. In altre parole, l’arcangelo appare talmente distaccato
dalla realtà da non poter nemmeno valere come modello di pensiero critico: “La
posizione dell’arcangelo, quindi, è una posizione dalla quale tutte le preferenze perdono
significato: egli non può assegnare un valore alle rispettive preferenze di ciascuno,
perché il metro di ciascuna di esse implica un punto di vista particolare, di cui egli non
deve tenere conto”149.
Tuttavia, la figura dell’arcangelo si differenzia in parte da quella dell’osservatore
imparziale simpatetico, in quanto trova la sua giustificazione nell’universalità, ossia in
una proprietà logica consistente nella possibilità di tenere conto di tutti i desideri delle
persone coinvolte e di occupare tutte le posizioni da loro occupate, senza ricorrere alla
sola simpatia e benevolenza. In altri termini, l’arcangelo, se esistesse, pur essendo un
individuo superiore agli uomini, dovrebbe agire in etica seguendo le regole logiche che
anche questi ultimi devono seguire. La differenza sta nel fatto per cui l’arcangelo
applica queste regole in modo infallibile, ma non nel tipo di regole che egli segue.
147
J. C. Harsanyi, Problems with Act-Utilitarianism and Malevolent Preferences, in D. Seanor and N.
Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 89.
148
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., pp. 102-103.
149
R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 121.
98
In realtà, l’arcangelo sembra essere un modello esplicativo, ma non prescrittivo e si
pone come termine ideale, giacché il pensiero critico non tanto indica come dovremmo
agire in etica, quanto piuttosto come dovremmo pensare in essa: per questo la figura
dell’arcangelo non sembra avere molti punti in comune con quella dello spettatore
imparziale simpatetico, introdotta da Adam Smith ed esplicitamente ripresa da
Harsanyi: “Ho impiegato l’arcangelo come un mezzo per studiare il pensiero critico, e
non per studiare ‘il processo di elaborazione della decisione degli umani di fronte al
rischio e all’incertezza della vita reale’, la quale, a mio parere, dovrebbe normalmente
essere compiuta a livello intuitivo”150.
Ma come pensa ed agisce l’arcangelo? Questi, alle prese con una situazione
imprevista “sarà in grado di individuare tutte le proprietà, comprese le conseguenze
delle azioni alternative, e di formulare un principio universale (ma forse altamente
specifico) secondo cui egli agirà in quella situazione, indipendentemente dal ruolo che
occupa. Poiché egli non possiede alcun sentimento egoistico ed è privo della altre
debolezze umane, agirà secondo quel principio, se esso gli ordina di agire…L’arcangelo
non avrà bisogno del pensiero intuitivo; farà ogni cosa razionalmente e in un attimo
(MT, pp. 77-78)”. L’arcangelo dunque non avrà alcun problema ad abbracciare il
pensiero critico, poiché “Pensare criticamente significa fare una scelta rispettando i
vincoli imposti dalle proprietà logiche dei concetti morali e ai fatti non morali” (MT, p.
73), ossia vuol dire riuscire a far proprio un ragionamento morale formale, dotato di un
carattere universale e prescrittivo, nel quale verrà dato alla logica ed ai fatti il giusto
ruolo. Pertanto, al livello del pensiero critico non vanno fatte entrare le loro convinzioni
morali sostanziali dei parlanti, mentre è normale e comprensibile che lo si faccia quando
si pensa in modo intuitivo: “se la gente introduce le proprie convinzioni sostanziali nelle
fondamenta stesse delle proprie argomentazioni morali, non sarà più in grado di
argomentare in modo costringente contro nessuno che non condivida quelle
convinzioni. Questo è quello che fanno i filosofi detti intuizionisti”151. La teoria dei due
livelli del pensiero morale è allora funzionale, nel sistema di Hare, alla giustificazione
di un principio morale universale, il quale aspira, nelle intenzioni dell’autore, ad essere
valido per tutti gli individui umani, in qualsiasi tempo ed in qualsiasi luogo.
150
R. M. Hare, Comments on Harsanyi, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
241.
151
R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 185.
99
Il livello critico si sviluppa a sua volta in due stadi:
In primo luogo considera i casi…e perviene a una decisione in merito a ciò che
idealmente si deve fare in ciascuno di essi, dopo avere accertato o posto tutti quei
fatti concernenti le varie situazioni che potrebbero venir considerati rilevanti…Nel
secondo stadio fa una stima delle probabilità del ricorrere di questi casi e sulla base
di questa stima sceglie…i migliori principi prima facie152.
Dunque il pensiero critico ha il compito di selezionare i principi prima facie e deve
applicarsi, almeno in linea di principio, a tutti i casi logicamente possibili, sebbene poi
si applichi ovviamente ad un numero limitato di essi. Il pensiero critico possiede una
priorità rispetto a quello intuitivo, sia dal punto di vista puramente epistemologico, sia
dal punto di vista dell’influenza che esso ha sulla moralità pratica di chi agisce, ma un
essere umano, benché in grado di pensare criticamente, non potrà mai rinunciare del
tutto alle proprie intuizioni: “Poiché…il pensiero morale intuitivo non può
autogiustificarsi, mentre il pensiero critico può farlo, e lo fa, è quest’ultimo che ha la
priorità epistemologica” (MT, p. 79).
La figura opposta all’arcangelo è definita da Hare come prolet (espressione tratta dal
romanzo di George Orwell, 1984), ed è una figura che presenta una debolezza del volere
al massimo grado e, dunque, può agire esclusivamente secondo il pensiero intuitivo.
Anche questa è una figura ideale, perché, come è vero che nessun essere umano è in
grado di agire seguendo esclusivamente il pensiero critico, è altrettanto certo che nessun
essere umano è così sprovveduto da dover agire sempre e comunque secondo le proprie
intuizioni morali. Ognuno di noi infatti, sebbene a diversi livelli, in alcune circostanze
può pensare criticamente, mentre il prolet “è proprio del tutto incapace di pensiero
critico (per non parlare del pensiero critico saggio o ben fondato) anche quando ha tutto
il tempo che vuole a disposizione” (MT, p. 78). Il prolet non è neppure in grado di agire
secondo principi prima facie autonomamente elaborati, poiché ha bisogno di assimilarli
dagli altri, attraverso l’imitazione o un continuo processo di educazione.
La definizione del ruolo e della funzione dei due livelli del pensiero morale permette
in particolare di affrontare con successo i frequenti conflitti e disaccordi153, alcune volte
152
R. M. Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 209.
Come precisa Lecaldano, tra conflitti e disaccordi morali vi è una differenza, dovuta al carattere
privato dei primi e a quelli pubblico, sociale dei secondi: “Casi di conflitto…sono quelli in cui noi stessi
non riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico…Casi di disaccordo sono quelli, molto
153
100
drammatici, che sorgono relativamente alle questioni dell’etica ed impedire la paralisi
delle decisioni morali. Il disaccordo morale non è relativo al solo significato dei termini
utilizzati, bensì coinvolge le scelte sostanziali degli individui, altrimenti sarebbe un
semplice contrasto semantico. Hare ritiene che i disaccordi tra doveri siano dovuti ad
una nostra scarsa familiarità con il pensiero critico, il quale, se fosse applicato in modo
corretto, renderebbe risolvibili tali disaccordi. Il pensiero critico è dunque essenziale
perché interviene a risolvere i conflitti morali (mentre una concezione puramente
metaetica non sarebbe in grado di risolverli), ossia quelle situazioni in cui una persona
si trova a dover operare delle scelte che possono apparire in contrasto con alcuni suoi
ben radicati (fino a quel momento) principi morali. Hare nota peraltro che se i principi
prima facie sono stati scelti con criterio, raramente si verifica un conflitto drammatico
tra di essi; tuttavia, in casi eccezionali, ma proprio per questo a volte angoscianti, una
persona si ritroverà a mettere in discussione i suddetti principi. Come Hare evidenzia, in
questo caso una persona, al di là dell’angoscia, può ad ogni modo superare l’impasse ed
agire, se capace di ragionare in questo modo: “’Poiché i principi sono in conflitto, non
posso basarmi su di essi; sono obbligato ad abbandonarne uno, e non so quale. Metterò
perciò da parte i principi, per un momento, ed esaminerò attentamente il caso particolare
per vedere cosa ne direbbe il pensiero critico’. Il pensiero critico può svolgere questo
compito, entro i limiti dettati dalle possibilità umane” (MT, p. 85). Hare ritiene dunque
che solo un coerente utilitarista sia in grado di affrontare questa situazione e di
risolverla, per permettere in seguito alla persona, qualora si trovasse nuovamente di
fronte a situazioni tanto complesse e difficili, di avere quantomeno un affidabile metodo
di ragionamento morale.
frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui persone diverse tendono a fare valere principi
etici contrastanti per risolvere la stessa situazione moralmente rilevante” (E. Lecaldano, Etica, cit., p. 9).
101
CAPITOLO 4. L’utilitarismo di Hare
Anche a seguito della definizione dei due livelli del pensiero morale, si può notare
che Hare afferma in modo significativo che il suo utilitarismo va oltre la distinzione tra
utilitarismo degli atti e delle regole154, proponendo una loro integrazione. Infatti, a
livello intuitivo, gli individui agiscono in genere come utilitaristi delle regola, ossia
secondo principi prima facie desunti dall’educazione ricevuta o dalle esperienze
precedenti acquisite. Tali principi fanno in gran parte riferimento a delle norme
accettate intuitivamente, per cui la correttezza degli atti risiede nella rispondenza a
questi principi prima facie. A livello critico, invece, l’arcangelo non necessita di norme
a cui conformarsi perché è perfettamente in grado di conoscere, per ogni situazione, la
condotta giusta da adottare, il modo di agire che incrementa l’utilità totale: egli per
questo sarà un utilitarista dell’atto. Di fronte a due condotte tra loro in contrasto (per
esempio “Non si devono dire le bugie” e “Non vanno feriti i sentimenti degli amici”),
secondo Hare l’arcangelo agirà considerando quale delle due azioni produrrà un danno
maggiore e sceglierà l’atto più benefico (o meno dannoso); non solo, “Hare evidenzia
che una tale strategia basata sull’utilitarismo dell’atto per risolvere conflitti ha
l’appoggio del senso comune”155. Pertanto, ne viene fuori un tipo di utilitarismo “che,
mentre insiste sul punto che le sue regole siano universali, non insiste sul punto che
siano semplici o generali, ma consente che diventino, attraverso aggiunte e ritocchi
apportati alla luce di casi particolari, tanto complicate quanto specifiche” (FR, p. 189).
Dunque, “Il sistema che deriva da queste premesse è…un utilitarismo dell’atto, che però
tiene conto dell’utilità generale delle regole per la convivenza civile: anche se si
dovesse sempre agire in base al pensiero critico, quest’ultimo può limitarsi, in
condizioni normali, ad esercitare una funzione fondativa”156.
154
“L’utilitarismo dell’atto è l’idea che la correttezza o scorrettezza di un’azione debba essere giudicata
in base alle conseguenze, buone o cattive, dell’azione stessa”. (J. J. C. Smart, Lineamenti di un sistema
morale utilitarista, in Utilitarismo: un confronto, cit., p. 37). Di contro, secondo l’utilitarismo della
regola, “ogni atto dovrebbe…essere inteso come l’applicazione di una regola, cioè come un’istituzione, e
andrebbe computata l’utilità dell’istituzione. Le decisioni collettive dovrebbero selezionare le regole che,
se osservate da tutti, nel lungo periodo dovrebbero dare la maggiore utilità media” (C. A. Viano, Etica
pubblica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 80). Nel 1965, D. Lyons (cfr. Forms and Limits of Utilitarianism,
Oxford University Press, Oxford), aveva sostenuto la presenza di una uguaglianza estensionale tra i due.
155
G. Scarre, Utilitarianism, cit., p. 175.
156
R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 103.
102
L’arcangelo agisce allora come un utilitarista dell’atto, ma per individui umani agire
per promuovere gli atti che sembrano garantire il soddisfacimento delle preferenze più
intense e razionali, “spesso sarebbe disastroso. In primo luogo, ci mancano quasi
sempre le necessarie informazioni; in particolare, non siamo affatto bravi a metterci nei
panni degli altri e ad immaginare che effetto ci farebbe essere loro. In secondo luogo, ci
manca il tempo per acquisire tali informazioni e per rifletterci sopra. Infine non siamo in
grado di pensare con lucidità”157. In questo caso, sostiene l’autore, se dovessimo
chiedere ad un arcangelo come agire, egli ci consiglierebbe di favorire quelle preferenze
che mostrano di possedere una più elevata “aspettativa di utilità”, la quale “è la somma
dei prodotti ottenuti moltiplicando l’utilità per la probabilità dell’esito per tutti i
possibili esiti alternativi dell’azione”158. Il problema è che i nostri limiti ci impediscono
di compiere questo calcolo complesso e dunque per fare del nostro meglio dovremo
seguire una serie di disposizioni, sentimenti, intuizioni che, prese nel loro complesso,
consentono in modo più probabile la soddisfazione delle preferenze.
I fattori dell’azione morale
Si può dunque affermare che secondo quello che Hare sostiene in Moral Thinking,
l’azione moralmente efficace può svolgersi in presenza di quattro fattori quali:
a)
la conoscenza delle proprietà logiche dei termini morali;
b)
la capacità di pensare razionalmente, ossia di vagliare le proprie intuizioni
secondo il pensiero critico;
c)
la capacità di conoscere i fatti, ossia gli elementi empirici, contingenti e non
morali che costituiscono l’ambito d’azione;
d)
l’informazione completa relativa alle preferenze delle persone coinvolte e la
capacità di immedesimarsi con esse, in modo da massimizzare, attraverso
l’utilitarismo, la somma delle utilità individuali delle persone coinvolte.
Per quel che concerne le preferenze da massimizzare, Hare privilegia come detto
quelle acquisite dal soggetto in condizioni di piena informazione (è la condizione
157
158
R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 195.
Ibidem, p. 196.
103
dell’arcangelo), preferenze che, in quanto razionali, si contrappongono alle preferenze
male informate. In modo non diverso argomenta Harsanyi: “dal momento che le
preferenze della gente sono sempre basate su credenze specifiche, è naturale sostenere
che le preferenze male informate, cioè quelle basate su false credenze, non
rappresentano le loro vere preferenze e che le loro vere preferenze sarebbero quelle che
essi avrebbero se fossero pienamente informati e facessero uso di questa
informazione”159.
Per quanto concerne il punto c), si è già sottolineato quanto sia necessaria una
conoscenza ampia delle situazioni nelle quali si agisce. Infine, per il punto d), si può
sostenere che non è sufficiente una simpatetica immedesimazione l’altro, ma è
necessario volere razionalmente assumere su di se la preferenza dell’altro, pur non
avendo, alle proprie spalle, un’esperienza relativa a quel particolare stato emotivo che
l’altro sta sperimentando: “Non abbiamo bisogno [per formarci una preferenza] di una
base per la nostra preferenza, ossia di un antecedente spaziale e temporale di
essa…Quello che affermerò esprimerà la preferenza che mi sono formato; ma nel
percorso di formazione, non sarà necessario che io l’abbia già sperimentata”160.
Hare condivide quindi l’assunto comune alle teorie “preferenzialiste”, com’è anche
l’utilitarismo di Harsanyi, secondo il quale è possibile selezionare le preferenze espresse
dagli individui. Tuttavia, il metodo di selezione delle preferenze adottato da Hare
differisce da quello di Harsanyi, in quanto l’autore sembra assumere un atteggiamento
più “empirista”, ossia incline ad accettare il principio, proposto da Allen Gibbard, di
preferenza condizionale; Gibbard nota infatti che tale concetto conduce Hare, a
differenza di Harsanyi, a considerare meglio le particolari circostanze nelle quali
l’individuo viene a trovarsi e a formare una preferenza. In altre parole, la preferenza per
Hare nasce da un raffronto tra la mia condizione particolare e quella altrui, raffronto che
limita l’appello a preferenze simpatetiche, le quali possono essere utili per sentire (to
feel) come l’altro ma non per sapere (to know) come l’altro si sente. Sono infatti le
preferenze che mi fanno conoscere come l’altro si sente ad essere decisive, proprio
perché sono anche dotate di un valore conoscitivo, ovviamente diverso da quello delle
proposizioni scientifiche: le preferenze dunque non devono solamente essere
159
J. C. Harsanyi, Utilità individuali e etica utilitaristica, in L’utilitarismo, cit., p. 60.
R. M. Hare, Comments on Griffin, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
236.
160
104
razionalmente conosciute, bensì anche razionalmente volute. “Una preferenza…è
razionalmente voluta se qualcuno che conosce in maniera vivida e completa le sue
caratteristiche, sviluppasse una preferenza condizionale simile – come intensità e
direzione – per il caso ipotetico di trovarsi in futuro in quella precisa circostanza…è
razionalmente voluta se ogni persona idealmente in condizioni di piena informazione
sviluppa una simile preferenza condizionale per le circostanze esattamente simili”161.
Gibbard avverte che le preferenze simpatetiche, pur essendo significative, devono
cedere il posto a preferenze che abbiano una componente riflessiva, ossia razionale e
dunque, nei termini di Hare, filtrata dal pensiero critico, non solo da quello intuitivo. Le
preferenze simpatetiche infatti si formano solo nel pensiero intuitivo, in quanto si
possono definire in tal modo: “quando qualcuno tende a preferire A rispetto a B, io
riproduco simpateticamente la sua preferenza se tendo a preferire A rispetto a B, in
modo egualmente forte di come fa lui (o forse in modo meno forte), come se mi trovassi
nella sua situazione”162.
Le preferenze chiamate da Gibbard “condizionalmente riflesse” (conditionally
reflected), e che per Hare sono le reali preferenze in virtù delle quali si agisce,
necessitano perciò di una più evoluta capacità cognitiva che permette di sapere che
l’altro sta soffrendo, sia nel caso attuale, sia, a differenza delle preferenze simpatetiche,
nel caso ipotetico, come scrive Hare: “Non sono in grado di conoscere l’estensione e la
qualità della sofferenza altrui e in generale le sue motivazioni e preferenze, senza
possedere eguali motivazioni in riferimento a quello che accadrebbe a me, nel caso fossi
al loro posto, con le loro motivazioni e preferenze” (MT, p. 110). La frase chiave è
senz’altro quella sottolineata, in quanto l’autore pone l’esigenza secondo la quale le
preferenze da massimizzare da parte dell’utilitarista, sono quelle che egli non solo
percepisce, ma sa di percepire e di sentire. La condizione di piena informazione,
dunque, postula la necessità non solo che le preferenze siano razionali, ma che siano
razionalmente (e non solo simpateticamente) volute. In seguito, l’individuo deve
domandarsi cosa proverebbe se si trovasse a sperimentare proprio quella preferenza così
come è espressa dagli altri: in questa maniera il processo di universalizzazione torna in
campo, perché il domandarsi come ci si sente nei panni degli individui coinvolti dalle
161
A. Gibbard, Hare’s Analysis of “Ought”, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics,
cit., p. 61.
162
Ibidem, p. 62.
105
mie decisioni (con le loro particolari inclinazioni e preferenze), implica la necessità di
valutare in modo imparziale se la mia preferenza possa essere universalmente accettata.
La necessità di massimizzare le preferenze si pone in sostanza come un tentativo di
“riempire” di contenuto normativo la nozione logica di universalità, la quale dovrebbe
consentire un imparziale giudizio sulle motivazioni altrui. In altre parole, l’universalità
dovrebbe saper anche dirigere “dal basso” la scelta delle preferenza, suggerendo a chi
giudica di sperimentare tutte le posizioni degli individui coinvolti nelle sue decisioni.
Secondo Gibbard, Hare è incline a fare riferimento ad una versione debole
dell’universalità, per evitare di imporre un meccanismo di immedesimazione nelle
preferenze altrui eccessivamente forte, il quale si scontrerebbe con una concezione
dell’identità personale che non appartiene alla sua riflessione: “L’universalità debole
richiede soltanto che io preferisca la stessa alternativa per qualsiasi posizione io possa
occupare. Non richiede che le mie preferenze siano egualmente intense per qualsiasi
posizione io occupi”163, ossia è fondamentale avvertire le preferenze altrui, ma non
necessariamente con la stessa intensità. In base a queste riflessioni, si può comprendere
per quale motivo l’immedesimazione, a differenza di quanto sostenuto in Freedom and
Reason, conservi solo in parte il suo carattere di operazione di stampo affettivo (si
ricordi quello che Hare scriveva allora, p. 161: “non deve immaginare se stesso nella
situazione di A con le proprie, di B, simpatie ed antipatie, bensì immaginare se stesso
nella situazione di A con le simpatie e le antipatie di A”), ma acquista un valore
cognitivo. È infine necessario comprendere che un autentico pensiero critico impone di
considerare le preferenze altrui alla pari delle mie: “devo amare il mio prossimo come,
ma non più e non meno di me stesso e, analogamente, comportarmi con gli altri come
vorrei si comportassero con me”164. In questo caso c’è una certa sintonia con il principio
di equiprobabilità di Harsanyi: “Il principio di neutralità rispetto alle preferenze o agli
interessi è ben espresso dal postulato di equiprobabilità: sono tenuto a trattare in modo
eguale gli interessi o le preferenze personali di chiunque dato che ho la stessa
probabilità di esserne il detentore”165.
163
Ibidem, p. 60.
R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo (1976), in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p.
38. Con un’enfasi diversa, ma con intenzioni simili, scrive J. S. Mill: “Nella regola d’oro di Gesù di
Nazareth possiamo leggere tutto lo spirito dell’etica utilitarista. Fare agli altri quello che si vorrebbe gli
altri facessero a noi, e amare il prossimo come se stessi, costituiscono la perfezione ideale della moralità
utilitarista”. (Cfr., L’utilitarismo, cit., p. 256).
165
J. C. Harsanyi, Utilitarismo delle regole e teoria della decisione (1977), in L’utilitarismo, cit., p. 70.
164
106
Stato cognitivo, stato affettivo e stato conativo
Vi è dunque, nell’utilitarismo di Hare, una versione più stringente e definita del
processo di immedesimazione, il quale, al di là di un parziale riferimento alla simpatia,
si basa su due premesse, una metaetica, secondo la quale “moralmente giusto in questa
circostanza” nel linguaggio ordinario significa che io voglio che sia compiuta l’azione A
invece che B in ogni circostanza come questa, tenendo conto che sono un individuo
prudente e pienamente informato. La seconda premessa è di natura prettamente
empirica e si fonda sull’idea per cui una persona prudente e pienamente informata, se
può scegliere tra due azioni, sceglierà quella che massimizza i benefici (che ha le
migliori conseguenze). Pertanto,
la premessa empirica mi dice che, se sono prudente e credo che (qualche volta)
verrò a trovarmi nella posizione ora occupata da qualche persona influenzata dalla
mia azione, allora, quando devo scegliere tra A e B, preferirò A se e solo se credo
che A produca (rispetto a B), conseguenze che, nel complesso, soddisfano
maggiormente i desideri delle persone influenzate (dall’azione di A). Quindi
possiamo concludere che è moralmente giusto che faccia A invece che B se e solo
se l’azione A soddisfa al massimo i desideri delle persone influenzate. E questo,
conclude Hare, è quanto afferma il principio di utilità166.
Hare sostiene in particolare che se soffro so di soffrire, allo stesso modo per cui se
percepisco, in generale, so di percepire e quest’esperienza è vera167; il secondo è legato
al fatto per cui, se è vero che non abbiamo esperienza di tutte le forme di sofferenza, è
pur vero che abbiamo ad ogni modo avuto esperienza di cosa significhi soffrire in
generale. In Freedom and Reason l’immedesimazione appariva un’operazione con un
contenuto cognitivo limitato, mentre in Moral Thinking essa acquisisce una valenza
diversa, poiché l’individuo non deve solo empaticamente mettersi al posto altrui, ma
deve anche voler assumere in modo razionale le preferenze altrui come proprie, nel caso
queste si rivelino universalizzabili e più benefiche di altre: “Se veramente sappiamo
come ci si sente nei panni dell’altro in quella situazione, allora immagineremmo
(correttamente) di avere quelle esperienze e preferenze, nel senso che sapremo o ci
rappresenteremo come ci si senta a provarle” (MT, p. 135). Il fatto che io sappia che
166
167
M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, cit., p. 126.
Hare fa riferimento a quel che scrive Aristotele, Etica nicomachea, 1170a, 29.
107
l’altro prova sofferenza (o esprime in generale una preferenza) crea allora in me uno
stato cognitivo, il quale corrisponde ad una conoscenza di carattere essenzialmente
empirico, proprio perché Hare per “sofferenza” intende un’esperienza, seppure di un
genere particolare. Pertanto, se devo guidare mantenendo la distanza di sicurezza, per
evitare di causare incidenti che potrebbero provocare danni seri a chi mi precede, devo
sapere come si sentirebbe la persona che fosse urtata: questa osservazione provoca in
me la preferenza a non causare una tale esperienza dolorosa, in considerazione del fatto
per cui, se capitasse a me, io soffrirei e ciò mi induce a moderare la velocità e a
rispettare la distanza. Se ho questa consapevolezza, significa che posso immaginare la
sofferenza, anche se non l’ho mai direttamente provata.
Sarebbe peraltro singolare sostenere che per sapere quel che l’altro prova, io debba
aver realmente sperimentato quell’esperienza. Inoltre, se sviluppo il desiderio di evitare
quell’esperienza nell’altro, pensando a come starei male io nei suoi panni, è evidente
che in me si crea al contempo uno stato affettivo che mi fa percepire, in modo
immediato e a-razionale (qui si agisce pienamente a livello del pensiero intuitivo),
quanto quella esperienza sia terribile e sia da evitare. Per di più, come Hare aggiunge, se
soffro, al contempo so di soffrire, ho coscienza di questo fatto e dunque lo stato
affettivo risulta in questo caso coincidente con lo stato cognitivo, ossia con la coscienza,
razionale e mediata (sperimentata a livello critico), della mia sofferenza e di quella
altrui. In altre parole, per immedesimarsi con l’altro non è sufficiente provare solo
compassione
o
simpatia,
ma
non
è
nemmeno
sufficiente
rendersi
conto,
descrittivamente, del fatto che gli sta capitando qualcosa di grave. La sofferenza non è
dunque qualcosa che si può semplicemente constatare, bensì un’esperienza, in quanto
racchiude in sé sia un elemento descrittivo (è un fatto che qualcuno sta soffrendo), sia
un elemento valutativo (quella sofferenza è negativa), sia un elemento prescrittivo (essa
deve finire e bisogna agire perché succeda così). Essa quindi compendia in se lo stato
cognitivo, quello affettivo e quello conativo, la cui enunciazione immediata si ha nel
linguaggio morale il quale, come si legge in Moral Thinking, è il mezzo principale di
espressione immediata delle preferenze. Si può notare come queste tesi relative
all’immedesimazione sono elaborate analizzando il valore semantico delle prescrizioni
che esprimono la mia volontà di immedesimarmi: sono dunque esclusi riferimenti
individuali, proprio per preservare la formalità dell’argomentazione.
108
Quindi, per una immedesimazione efficace le due esperienze (il provare simpatia e il
rendersi conto che un fatto sta accadendo all’altro) devono venire a coincidere, ossia
stato affettivo e stato cognitivo devono combinarsi: “io non posso trovarmi in uno dei
due stati senza trovarmi nell’altro” (MT, p. 132) dice significativamente Hare. Ma che
cosa comporta, dal punto di vista pratico e sostanziale, riconoscere in modo così pieno
la sofferenza dell’altro? “La mia tesi sarà che io mi impegno ad avere anch’io la
preferenza che, nel caso in cui fossi trasferito all’istante nella sua situazione con le sue
preferenze, il mio soffrire cessi; e l’intensità di questa preferenza che io mi impegno ad
avere è uguale all’intensità della sua preferenza”168.
La coincidenza tra stato cognitivo ed affettivo conduce poi Hare ad affermare che chi
sperimenta la sensazione di essere al posto dell’altro (mantenendo ovviamente la
propria identità), sviluppa senza dubbio la volontà di evitare quel dolore in futuro o di
farlo cessare per la persona che lo sta provando. Certo, avverte l’autore, il termine
“dolore” in questo caso va usato in senso valutativo, non descrittivo, perché se esso è
utilizzato per descrivere uno stato fisiologico preciso o un insieme di sensazioni (per
esempio in una conferenza di medicina), allora è possibile che esso sia slegato dalla
volontà di farlo cessare o di evitare il suo ripresentarsi. In generale però, se “dolore” è
utilizzato in senso valutativo come sinonimo di “sofferenza”, l’affermazione “Io sto
provando dolore” non descrive solo un fatto, bensì valuta una situazione particolare e
può dunque implicare la volontà di superarla. Hare qui propone un’argomentazione
linguistica per affrontare una questione sostanziale; in questo caso, la coscienza del
dolore altrui (stato cognitivo), assieme alla partecipazione al quel dolore (stato
affettivo), produce la volontà di evitare la sofferenza, ossia si sviluppa uno stato
conativo che la vuole superare: “Se sto soffrendo, ho un motivo per mettere fine alla
sofferenza. Anche questa è una verità concettuale, valida in virtù del significato dei
termini” (MT, p. 133). È dunque fondamentale, sostiene Hare che i tre stati, cognitivo,
affettivo e conativo, siano presenti contemporaneamente, in quanto in tal modo il
mettersi al posto altrui acquista una validità concettuale che per l’autore coincide con
una validità etica e sostanziale.
168
R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., pp. 191-192.
109
La moralità e la prudenza
L’immedesimazione assume allora una differente fisionomia ed impone all’individuo
la capacità di considerare non solo il proprio bene o interesse, ma quello universale,
sviluppando la convinzione, a suo tempo definita da Sidgwick, dell’appartenenza del
proprio bene al bene universale. Per certi aspetti, si ripropone qui la questione del
rapporto fra moralità e prudenza, ovvero se sia giusto sacrificare un interesse personale,
per quanto intenso, in favore di un interesse collettivo. Hare sostiene che
Diventare morali significa innanzitutto contemplare l’ipotetica situazione in cui quelle
che in realtà sono le esperienze di un’altra persona siano le nostre, acquistando così un
ipotetico interesse alla soddisfazione delle nostre preferenze in quella situazione ipotetica;
significa trovarsi vincolati dall’universalizzabilità…a trasformare questo interesse
esclusivamente ipotetico in un interesse reale alla soddisfazione delle preferenze dell’altra
persona reale” (MT, p. 274).
Rispetto agli utilitaristi classici, Hare può dunque affrontare la questione della
distinzione fra moralità e prudenza in modo diverso. A suo parere, è chiaro già per il
pensiero intuitivo che non sarebbe possibile vivere cercando di privilegiare sempre i
propri interessi: l’esperienza mostra infatti quanto siano intrecciato i nostri interessi con
quelli altrui e dunque un educatore utilitarista deve inculcare in un fanciullo l’idea che,
alla lunga, è più vantaggioso valutare le preferenze in modo imparziale. Pertanto,
l’educatore cercherà certamente di insegnare principi prima facie anche mostrando che
in genere il bene individuale appartiene al bene comune e che sarà razionale sacrificare
un proprio interesse personale per uno collettivo, se tale comportamento sarà ammesso
dal principio critico.
In questo senso, la distinzione tra prudenza e moralità, sostenuta da Bentham e da
Mill, andrebbe ridefinita, giacché tale distinzione non ricalca appieno quella fra
comportamento interessato e disinteressato (o imparziale). Anche i principi prima facie
della prudenza, sebbene riguardino soprattutto l’interesse personale dell’individuo, non
possono essere guidati dal solo egoismo, in quanto devono comunque essere
universalizzabili e razionali, ossia seguire le medesime regole formali del
comportamento morale. A livello prudenziale, noi dobbiamo infatti trattare i nostri “io”
futuri allo stesso modo di quanto facciamo, in ambito morale, quando trattiamo gli altri
individui. “Essere prudenti, significa pensare alle esperienze future di una certa persona
110
(di norma, la persona che avrà come corpo il nostro corpo attuale) e identificarle con le
nostre, acquistando così un interesse alla soddisfazione delle preferenze di quella
persona” (MT, p. 274).
Vi è tuttavia una differenza tra un comportamento razionalmente prudente ed uno
razionalmente morale: nel primo caso, infatti, si ha il dovere di massimizzare le
preferenze presenti per il presente e non quelle che potrebbero sorgere in futuro per un
ipotetico mio stato futuro. Hare sostiene che nel caso personale le preferenze da
escludere sono quelle che non rispettano il requisito di prudenza da lui stabilito, il quale
ci induce ad avere “sempre una preferenza prevalente o predominante per la
massimizzazione della soddisfazione delle nostre preferenze presenti per il presente
(now for now) e future per il futuro (then for then)” (MT, p. 146). Non è possibile infatti,
secondo la logica e i fatti, privilegiare preferenze attuali per stati mentali futuri dei quali
non possiamo avere conoscenza, mentre vanno massimizzate le preferenze
effettivamente provate nel presente per le situazioni presenti che si verificano169. Chi
per esempio antepone alle preferenze presenti, le preferenze che in passato si era
costruito per questo momento, è un autofanatico, in quanto, come il fanatico, rinuncia
ad una considerazione pienamente razionale delle proprie preferenze. Il comportamento
moralmente
razionale,
invece,
privilegia
le
preferenze
universalizzabili,
indipendentemente da chi le sperimenta, scegliendo quelle dotate di una elevata utilità
di accettazione.
Non vi è dunque per Hare una contrapposizione tra comportamento prudenziale ed
altruistico, bensì vi è la constatazione di un loro essere intrecciati: il comportamento
morale costituisce il superamento di quello prudenziale, il quale però continua a
sussistere, tranne nei casi in cui è “predominato” da quello morale. In modo non diverso
da Sidgwick, Hare sostiene che il comportamento egoistico è ineliminabile ma che,
proprio per questo, anche a livello personale è necessario far prevalere quei
comportamenti che possiedono una maggiore utilità di accettazione. Inoltre, “dalla
prospettiva del pensiero morale critico non c’è ragione di distinguere tra calcolo
prudenziale e considerazione morale delle preferenze temporali”170, ovvero la
distinzione fra moralità e prudenza sussiste solo a livello intuivo, perché se fossimo
169
Una cosa non dissimile ha sostenuto Sidgwick, cfr. I metodi dell’etica, p. 414: “Tutto ciò che il
principio afferma è che la mera differenza di priorità e di posterità nel tempo non è una base ragionevole
per avere maggiore riguardo per lo stato di coscienza di un momento rispetto a quello di un altro”.
170
E. Lecaldano, L’etica e l’identità personale, in “Archivio di filosofia”, I, 1987, p. 254.
111
arcangeli, non avremmo alcun problema ad agire sempre e comunque in favore delle
preferenze utilitaristicamente più benefiche, indipendentemente che siano le nostre o
quelle altrui.
I confronti interpersonali
È dunque chiaro come anche Hare ritenga essenziali confrontare le utilità individuali
ed in ciò fa in parte riferimento alla riflessione di Harsanyi, evidenziando come tali
confronti siano qualcosa che gli individui operano in modo spontaneo. Hare infatti nota
che già a livello intuitivo gli uomini in genere sperimentino la similarità delle loro
reazioni emotive come dato di fatto empirico ed è proprio questo elemento che fa
ritenere immediatamente possibili i confronti interpersonali, al di là di una loro
giustificazione razionale che può giungere a livello critico. Il confronto tra le preferenze
degli individui presenta due aspetti: da un lato il confronto tra le intensità delle
preferenze (è infatti evidente che due o più individui possono preferire la medesima
cosa, sebbene con diverse intensità); dall’altro, vi è la questione relativa al motivo per
cui alcune preferenze vanno subordinate ad altre: si affronta qui il caso del conflitto e
della gerarchia tra le preferenze. È dunque una caratteristica essenziale dell’utilitarismo,
anche di quello di Hare, indicare un criterio universale che regola la scelta: “La
procedura di scelta collettiva adottata dalla teoria è maggioritaria dato che l’esito giusto
del calcolo sociale è quello che soddisfa gli interessi o le preferenze o i desideri
maggiormente intensi”171. La determinazione dell’intensità della preferenza è una
questione empirica, mentre la decisione di privilegiare l’una o l’altra è più concettuale,
ovvero legata al loro essere universalizzabili, al possesso di una maggiore o minore
utilità di accettazione:
Procedere in questo modo non significa amalgamare, e men che meno
confondere insieme le persone, più di quanto non faccia un giudice che, dopo aver
ascoltato quello che hanno da dire le parti in causa, cerchi di essere giusto verso
tutto quante…questa imparzialità o questa uguale considerazione a livello critico
può approdare a principi che, in casi particolari e a livello intuitivo, richiedono
parzialità o disuguale considerazione, come quando il diritto di qualcuno va
preservato anche se per farlo si scaricano su qualcun altro dei costi maggiori172.
171
S. Veca, La filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 42.
R. M. Hare, Diritti, utilità ed universalizzazione: replica a J. L. Mackie, in R. M. Hare, Sulla morale
politica, cit., p. 104.
172
112
L’idea che sia possibile indicare una procedura razionale per operare i confronti
interpersonali di utilità è di dunque presente anche in Hare, il quale potrebbe altresì in
parte accettare il principio di similarità, postulato da Harsanyi per rendere possibili i
confronti interpersonali di utilità, essenziali per una dottrina utilitarista.
Dal punto di vista logico i confronti interpersonali di utilità sono basati sul
cosiddetto postulato di similarità, cioè sul principio secondo cui, data la similarità
di fondo della natura umana (cioè delle leggi psicologiche fondamentali che
governano il comportamento e gli atteggiamenti umani) è ragionevole assumere
che persone differenti manifesteranno reazioni psicologiche molto simili di fronte a
ogni data situazione oggettiva e che deriveranno da esse la stessa utilità è disutilità
– tenendo in debito conto tutte le differenze empiricamente osservate nella loro
costituzione biologica, posizione sociale, formazione educativa e culturale, e, in
generale, nella loro vita passata173.
Questo principio vuol da un lato definire uno strumento per fornire una base logica (a
priori) alla possibilità di immedesimarsi con l’altro, ma vuole anche porsi come un
antidoto al relativismo etico ed anche ad un principio astrattamente egualitarista.
Harsanyi giunge peraltro a sostenere che “chi rifiuta il postulato di similarità e i
confronti interpersonali di utilità basati su di esso, dovrebbe concludere, se fosse
coerente, di essere l’unico individuo autocosciente e considerare tutti gli altri degli
automi senza cervello”174. Il principio dunque permette di riconoscere l’esistenza, anche
nelle altre persone, di esperienze consapevoli, spesso simili alle nostre, sebbene non
identiche. L’individuo pertanto che accetta l’utilitarismo e la base logica da esso
supportata, “deve…cercare di stimare che livello di utilità egli avrebbe se fosse messo
nelle condizioni fisiche, economiche e sociali oggettive di ogni altro individuo e se al
tempo stesso ne acquisisse anche gli atteggiamenti, i gusti, le preferenze soggettive”175.
Il modello di Harsanyi sembra proporre tuttavia una universalizzazione forte delle
preferenze, le quali, attraverso il confronto con quelle altrui e la fiducia nel fatto che
esse in genere sono simili, possono dare luogo ad esperienze condivise e consentire
un’applicazione estesa dei principi dell’utilitarismo. Harsanyi infatti aggiunge che,
173
J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica utilitarista, in L’utilitarismo, cit., p. 44.
Ibidem, p. 45.
175
J. C. Harsanyi, Una critica alla teoria di J. Rawls (1975), in L’utilitarismo, cit., p. 123.
174
113
sempre in base al postulato di similarità, “le preferenze e le funzioni di utilità di tutti gli
individui umani sono fondamentalmente governate dalle stesse leggi psicologiche”176.
Hare, dal suo punto di vista, sembra più incline a considerare le situazioni che si
verificano caso per caso e a fare un più deciso riferimento all’esperienza contingente.
Per questo motivo, il suo principio di universalizzazione delle preferenze è
condizionale, in quanto egli afferma che l’individuo deve di certo cercare di assumere
su di se le preferenze altrui, ma non necessariamente e in ogni caso con la stessa
intensità. In Harsanyi il principio di similarità si pone come presupposto concettuale che
giustifica a priori il ricorso all’empatia e all’immedesimazione con l’altro: senza questo
presupposto, i confronti interpersonali non potrebbero essere giustificati. Inoltre, la
teoria etica di Harsanyi ha uno sfondo socio-economico, giacché egli “ritiene che
l’atteggiamento simpatetico debba disporre di un sistema di ruoli sociali considerati
euqiprobabili, in ognuno dei quali lo spettatore umanitario potrebbe trovarsi”177. Al
contrario, in assenza di un riferimento al ruolo sociale degli individui, la mossa logica
che Hare mette in gioco “concerne il rapporto tra sapere che cosa voglia dire
sperimentare una cosa e sperimentarla. La rilevanza di tale rapporto per quello che ho
detto fino ad ora consiste in questo: che, se vogliamo conoscere i fatti circa quel che
faremmo nel caso facessimo qualcosa, una delle cose che dobbiamo sapere è ciò che
noi, o altri, sperimenteremmo se la facessimo”178.
Per esemplificare questo approccio, si ponga il caso in cui io devo parcheggiare
l’auto e che ciò comporti che un altro debba sposare la sua bicicletta: qui si crea un
conflitto fra preferenze. Il ciclista desidera lasciare la bicicletta lì dov’è, mentre io
desidero parcheggiare l’auto in quel posto perché è vicino al supermercato dove devo
fare la spesa. Io sono consapevole della intensità del mio desiderio e sono anche
cosciente di quello che prova l’altro, poiché nei suoi panni non vorrei dover spostare la
bicicletta. Tuttavia, sottolinea Hare, non poter parcheggiare l’auto crea un disagio
maggiore del dover spostare la bicicletta, la quale si può parcheggiare ovunque, mentre
non così accade per l’auto.
Il mio desiderio di parcheggiare vicino all’uscita del supermercato per trasportare
meglio la spesa è più intenso di quello del ciclista: in questo caso, il soppesare le due
176
Ivi.
C. A. Viano, L’utilitarismo, in C. A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., 1990, p. 55.
178
R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 190.
177
114
preferenze e i due fatti non morali in questione, conduce a comprendere che la mia
preferenza è maggiormente intensa e dunque va privilegiata. In questa situazione, il
conflitto si può risolvere semplicemente ricorrendo ai principi intuitivi: tuttavia, se
questi non bastassero, il pensiero critico avrebbe buon gioco, anche attraverso il test
dell’universalizzazione, a trattare il caso nella sua estrema semplicità. In questo caso
bilaterale, il conflitto si risolve attraverso un confronto delle preferenze e attraverso la
conoscenza che ognuno ha delle preferenze altrui: “se sono pienamente a conoscenza
delle preferenze dell’altro, io stesso acquisto preferenze eguali alle sue riguardo a ciò
che andrebbe fatto nei miei confronti qualora mi trovassi nella sua situazione; e queste
sono le preferenze che ora entrano in conflitto con la mia prescrizione originaria” (MT,
p. 152).
L’esempio darebbe il risultato anche a parti invertite: se io fossi il possessore della
bicicletta e la macchina fosse dell’altro, alla fine prevarrebbe ugualmente la preferenza
più intensa dell’autista. Hare nota che in questo caso, pur invertendo i ruoli, la
situazione non cambia e ciò mostra la portata universale di un tale esempio. Anche nei
casi multilaterali, ossia dove ci sono più di due persone, secondo Hare lo schema di
fondo rimane lo stesso: è infatti sufficiente che ogni parte sia in grado di rappresentarsi
completamente la situazione dell’altra per poter utilitaristicamente privilegiare la
preferenza più intensa e dunque promuovere un incremento dell’utilità generale: “in
linea di principio non esiste alcuna difficoltà ad estendere il metodo ai casi multilaterali;
tutte le difficoltà sono di tenore pratico, sono cioè relative all’acquisizione della
conoscenza necessaria e alla corretta esecuzione di alcuni processi riflessivi assai
complessi. Nei casi difficili, ci vorrebbe un arcangelo a risolvere questo compito” (MT,
p. 153).
In particolare, il possessore dell’auto ha accompagnato allo stato cognitivo (ovvero il
comprendere che l’altro possiede una preferenza) quello affettivo (per il quale sono in
grado di sentire, sebbene non allo stesso modo, quella preferenza), e lo stato conativo
(per il quale devo compiere un certo atto per soddisfare o meno quella preferenza):
“Siamo arrivati a dare alle preferenze di tutte le parti in causa (in questo caso due
persone) un peso proporzionato alla loro forza, e ad affermare che dobbiamo agire
seguendo la più forte”179. L’autore dunque rimane convinto che essenziale per scegliere
179
Ibidem, p. 194.
115
moralmente è operare un ragionamento morale corretto. Pertanto, per favorire questo, è
necessario che l’individui sviluppi delle procedure di ragionamento efficaci, razionali,
logicamente fondate e dotate di una estrema chiarezza concettuale. I fatti, l’esperienza, i
principi prima facie possiedono un ruolo importante, ma sempre subordinato al pensiero
critico, alla razionalità delle proprie decisioni: solo quest’ultimo fattore ne garantisce la
correttezza.
La scelta di quali preferenze massimizzare deve in sostanza rispondere, secondo
Hare, a due criteri, uno di carattere generale, a priori, l’altro di carattere pratico e
normativo. Il primo sostiene che vanno massimizzate le preferenze espresse da
prescrizioni universali, elaborate in modo imparziale, grazie alla coincidenza, a livello
critico, tra stato affettivo, stato cognitivo e stato conativo. Solo nelle preferenze
razionalmente volute, ossia in quelle che i soggetti sperimentano in condizioni di piena
informazione,
questi
tre
stati
coincidono,
mentre
nelle
preferenze
definite
“idiosincratiche” manca quantomeno lo stato conativo, il quale rappresenta una sorta di
climax dell’opera di immedesimazione. Il criterio pratico sostiene invece che le
preferenze da privilegiare sono quelle che possiedono una più elevata utilità di
accettazione e questo è in gran parte noto tramite l’esperienza.
Ci si può chiedere, di passaggio, se valga di più il criterio a priori o quello pratico;
Hare potrebbe rispondere che entrambi sono egualmente importanti ma che, siccome il
suo utilitarismo si fonda su presupposti logico-razionali, al criterio teorico spetta una
sorta di primato epistemologico. D’altra parte, per il carattere non cognitivista della
riflessione di Hare, se dovesse contare solo il criterio pratico, si potrebbe supporre che
dal fatto per cui una preferenza si mostra utilitaristicamente più efficace, derivi la
conclusione morale che essa vada massimizzata: ma questa sarebbe un’inferenza per
Hare inaccettabile, in quanto figlia di quel descrittivismo che egli vuol superare.
Ad ogni modo, mentre a livello intuitivo può capitare che vengano operate delle
discriminazioni tra noi e gli altri, a livello critico l’altro va trattato come noi, ossia come
se noi avessimo le preferenze ed i desideri che lui in quel momento sta mostrando di
provare. Infatti, “le nostre preferenze non ottengono una maggiore considerazione per il
fatto che siamo noi a dedicarci al pensiero morale: ottengono bensì una considerazione
eguale a quella altrui nella misura in cui siamo parti in causa” (MT, p. 172).
116
La scelta delle preferenze
La cosa fondamentale da notare è che alla fine Hare esclude le medesime preferenze
di Harsanyi, ma segue un percorso differente. Hare infatti non ritiene sia possibile
eliminare a priori determinati generi di preferenze, nemmeno quelle di un fanatico, le
quali vanno comunque considerate180. Harsanyi invece esclude a priori sia le preferenze
palesemente antisociali (quelle basate sul sadismo, il risentimento, l’odio, l’invidia), sia
quelle irrazionali, ovvero basate su credenze false, come sono peraltro quelle esterne.
Ad esempio, per Harsanyi le preferenze di un individuo che non riguardano quello che
lui stesso vorrebbe, non sono equiparabili né alle preferenze personali, né tanto meno a
quelle morali: “Se A ha preferenze personali intorno a ciò che B dovrebbe fare, questa
resterà una preferenza esterna anche se A tiene molto ad essa; riguarda infatti quel che
un’altra persona dovrebbe fare”181.
Harsanyi sostiene che una teoria del comportamento razionale deve privilegiare solo
le preferenze razionali, ovvero quelle personali e quelle morali, anche se egli evidenzia
che le preferenze personali sono spesso autointeressate (sebbene non necessariamente
del tutto egoistiche), poiché in genere, attraverso di esse, gli individui “assegneranno ai
loro interessi e a quelli della propria famiglia, dei propri amici e di altri che sono vicini
un valore più alto di quello che assegneranno agli interessi di assoluti estranei”182. Per
questo, al fine di prendere decisioni razionali, l’individuo dovrà fare affidamento alle
sue preferenze morali, le quali “sono quelle che egli manifesta in quei momenti (magari
rarissimi) in cui impone a se stesso di assumere un atteggiamento imparziale e
impersonale, vale a dire, appunto, morale”183, e sono le preferenze morali, a differenza
180
E. Lecaldano, (cfr. Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche
contemporanee, cit., p. 81) nota che ovviamente Hare non intende riconoscere valore a queste preferenze,
contro le quali si è più volte espresso: “l’esito che porta ad un’inclusione del fanatismo razzista
coerentemente sostenuto nel campo della morale è raggiunto dopo che Hare ha messo in luce tutta la sua
ripugnanza nei confronti delle preferenze del razzista e ha reso manifesta l’assurdità delle mosse
argomentative cui è costretto chi voglia sostenere una effettiva prescrizione universalizzabile –
discriminante per coerenza anche nei suoi stessi confronti – quella di un fanatico razzista”.
181
J. C. Harsanyi, Utilità individuali ed etica utilitaristica (1986), in L’utilitarismo, cit., p. 63. La
distinzione tra preferenze personali ed esterne è stata introdotta da R. Dworkin nell’opera Taking Rights
Seriously, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1976, p. 234.
182
J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale (1977), in A. K. Sen/B. Williams (a
cura di), Utilitarismo e oltre, cit., p. 61.
183
J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica utilitaristica (1979), in L’utilitarismo, cit., p.
35. In altre parole esse “esprimono ciò che [l’individuo] preferisce in quei momenti forse rari in cui egli
impone a se stesso un atteggiamento imparziale ed impersonale”. Cfr. J. C. Harsanyi, Benessere
cardinale, etica individualistica e confronti interpersonali di utilità (1955), in L’utilitarismo, cit., p. 147.
117
di quelle personali, che assegneranno il medesimo valore a tutti gli interessi degli
individui coinvolti dalle sue decisioni. Le preferenze morali sono quelle che rispondono
meglio al criterio di imparzialità e, proprio per questo, permetteranno agli individui di
immaginarsi empaticamente al posto altrui, senza privilegiare le proprie inclinazioni
personali.
Harsanyi sostiene inoltre, in polemica con altri utilitaristi, che se le preferenze
contassero tutte allo stesso modo, si dovrebbero alla fine accettare anche le preferenze
di un fanatico. Se per esempio in una società esistono alcuni nazisti che preferiscono
con una certa intensità sterminare gli ebrei, i quali preferiscono ovviamente con
intensità quantomeno eguale di continuare a vivere, saremmo costretti a sostenere che i
due tipi di preferenze sono omogenee, se non distinguiamo le preferenze sociali da
quelle palesemente antisociali. Al contrario, le preferenze personali (ossia quelle degli
ebrei che riguardano loro stessi) vanno in questo caso distinte e devono contare
maggiormente rispetto a quelle esterne (ovvero quelle dei nazisti che riguardano la vita
di altri individui), per evitare conclusioni paradossali:
la mia proposta è che la nostra funzione di utilità sociale dovrebbe essere basata
solamente sugli interessi personali degli individui e, inoltre, sulle loro preferenze
personali e non andrebbe fatto uso di preferenze esterne. La moralità utilitarista ci
richiede di rispettare le preferenze delle persone rispetto a come essi stessi
dovrebbero essere trattate. Ma non ci dovrebbe richiederci di rispettare le loro
preferenze rispetto a come le altre persone dovrebbero essere trattate184.
In realtà, Hare ammette che le preferenze esterne, se inserite nel processo di
valutazione delle preferenze degli individui coinvolti, possono rendere difficoltoso tale
processo e la conseguente valutazione utilitaristica delle preferenze stesse. Tuttavia egli
ritiene che non sia possibile escludere preventivamente un insieme di preferenze,
sebbene egli stesso riconosca la funzione antisociale di quelle malvagie. Le stesse
preferenze esterne, se di norma possono essere ritenute da non soppesare, a volte
possono invece entrare efficacemente nel processo di valutazione utilitaristico. Hare
privilegia di nuovo un’argomentazione condizionale, ossia maggiormente attenta alla
situazione effettiva che si esamina. Egli ad esempio nota che il caso posto da Harsanyi
relativamente alle preferenze dei nazisti e degli ebrei, può essere efficacemente risolto
sostenendo empiricamente (a posteriori) che l’intero apparato della dittatura nazista non
184
J. C. Harsanyi, Problems with Act-Utilitarianism, in Hare and critics, cit., p. 97.
118
ha evidentemente aumentato l’utilità della società tedesca e dell’Europa. Inoltre, è
probabile che la somma totale delle intensità delle preferenze di coloro che volevano
sterminare gli ebrei fosse di gran lunga inferiore alla somma delle preferenze che gli
ebrei avevano di continuare a vivere. Un discorso simile si può fare per le preferenze di
un sadico, giacché è abbastanza chiaro in modo intuitivo che tali preferenze in genere
non sono universalizzabili dato che possiedo una utilità di accettazione pressoché
nulla185.
Hare invece evidenzia che già al livello intuitivo di riflessione, se l’individuo è stato
ben educato, molte preferenze, come quelle malvagie o antisociali sarebbero escluse
immediatamente. Infatti, se si rammenta il ruolo del livello intuitivo, è possibile
affermare che “Le preferenze malvagie e indesiderabili possono essere escluse
dotandosi di principi intuitivi che negano loro qualsiasi peso e che conferiscano, allo
stesso modo, alle preferenze benevole un appropriato peso supplementare”186. Peraltro,
se a livello intuitivo non ci fosse opposizione a determinate preferenze, il livello critico
le potrebbe razionalmente escludere: “Le radici del fanatismo si ritrovano
nell’intuizionismo e nel rifiuto, o nell’incapacità, di pensare criticamente” (MT, p. 220).
Il punto cruciale per Hare è che vanno escluse quelle preferenze che palesemente
mostrano di avere una bassa utilità di accettazione: “i principi migliori da seguire sono
quelli che hanno la più elevata utilità di accettazione, cioè quelli la cui generale
accettazione, tenuto conto di tutto, massimizza la promozione degli interessi di tutte le
parti in causa, trattando tutti questi interessi come aventi ugual peso, cioè
imparzialmente, cioè in modo formalmente giusto”187.
Più in particolare, per Hare la distinzione primaria è quella, posta da Gibbard, tra le
preferenze razionalmente volute e quelle da lui definite come idiosincratiche (e dunque
eccentriche). Le prime sono quelle che portano alla coincidenza tra stati affettivi,
cognitivi e conativi e nascono nel soggetto in condizioni di piena e competa
185
“Si è talvolta sostenuto che è un difetto dell’utilitarismo quello di fare in modo che assegniamo valore
ai cattivi desideri…esclusivamente in proporzione alla loro intensità…Ma l’opinione ricevuta è destinata
a far fronte ai casi in cui probabilmente ci si imbatte; è molto improbabile che, anche se assegniamo ai
desideri sadici un valore conforme alla loro intensità, ci imbattiamo in casi in cui l’utilità sarà
massimizzata lasciando che il sadico faccia a modo suo. Questo perché, in primo luogo, la sofferenza
della vittima sarà normalmente più intensa del piacere del sadico. Secondariamente si possono offrire ai
sadici piaceri sostituivi o li si può anche curare. In terzo luogo, gli effetti collaterali del concedere al
sadico ciò che vuole sono enormi” (R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams,
Utilitarismo e oltre, cit., p. 40).
186
R. M. Hare, Comments on Harsanyi, in Hare and critics, cit., p. 247.
187
R. M. Hare, Giustizia e uguaglianza, in Sulla morale politica, cit., p. 225.
119
informazione. Le preferenze idiosincratiche sono quelle preferenze che una persona può
sviluppare sia in riferimento a se stessa, sia in riferimento agli altri, senza tuttavia
poterle volere razionalmente (ossia senza coincidenza tra stato affettivo e cognitivo) e
prive della possibilità di realizzarsi.
Questo genere di preferenze possono per esempio essere appannaggio di un
torturatore sadico il quale, pur sapendo perfettamente quanto la sua vittima soffrirà e pur
sostenendo che se si trovasse al posto suo soffrirebbe molto, decide comunque di
torturare la persona. Ma ci sono anche casi in cui queste preferenze non sono espresse
da un fanatico, ad esempio quando io, per pura ipotesi, immagini di vivere al tempo
dell’antico Egitto e di essere il faraone Cheope. Io posso immaginare di provare
esattamente tutte le esperienze del faraone e di sviluppare le stesse sue preferenze,
comprese quelle relative al desiderio di avere un maestoso funerale: è però evidente che
è impossibile sostenere che io razionalmente voglio quello che Cheope volle ai suoi
tempi, per cui la mia preferenza, pur essendo razionalmente fondata, non può essere
razionalmente voluta. Hare avverte che per formare le preferenze non bisogna
solamente chiedersi cosa ci accadrebbe e cosa vorremmo se occupassimo le posizioni
altrui. Questa cosa è naturalmente fondamentale, ma “bisogna ricordare anche che io
posso, attraverso la riflessione, considerando quale sarà la mia preferenza universale,
cambiare la mia preferenza per quel che dovrebbe accadere in qualcuno dei casi
particolari che cadono sotto il principio, includendo anche quelli da cui sono colpito
favorevolmente o sfavorevolmente”188. Pertanto, la massimizzazione delle preferenze
non solo valuta le preferenze effettivamente provate ed espresse, ma deve essere in
grado di valutare anche la possibilità di mutare le proprie preferenze in virtù delle
situazioni contingenti che si possono verificare.
La misurazione dell’utilità
Un altro elemento di distinzione con Harsanyi è legato alla modo attraverso il quale
ordinare le preferenze. Secondo Hare è sufficiente poter mettere in ordine le preferenze,
in modo lineare, per sapere quale è preferita di più, non essendo possibile una
misurazione della loro intensità. Harsanyi invece ritiene che il semplice ordinamento
188
R. M. Hare, Comments on Nagel, in Hare and critics, cit., p. 249.
120
lineare delle preferenze per le situazioni A, B o C non sia sufficiente per operare una
massimizzazione razionale dell’utilità. L’utilità ordinale, pertanto, ci può dire se una
situazione è preferita più di un’altra, ma non di quanto una situazione è preferita rispetto
ad un’altra. Hare ritiene che una trattazione in termini di utilità cardinale non sia
necessaria per la sua riflessione, in quanto la preferibilità di una situazione sociale sarà
determinata dalla possibilità che essa venga scelta in modo imparziale da un individuo
pienamente informato, privo di inclinazioni egoistiche.
Harsanyi pensa che solo introducendo funzioni di utilità cardinale (attraverso le quali
è possibile precisare, per situazioni come A, B ecc. le loro funzioni di utilità,
assegnando ad esse un valore numerico che ne attesti l’intensità, per un individuo i il
quale, in condizioni di incertezza, deve decidere se preferire la situazione A o B) sia
possibile non solo confrontare l’intensità reale delle preferenze morali, ma anche
quantificare con una stessa unità di misura le differenze tra le funzioni di utilità,
fondamentali per il calcolo utilitarista. L’utilità ordinale invece non permette di svolgere
confronti interpersonali di utilità completi, in quanto dispone solo che una certa
situazione A è preferita a B, B è preferito a C: non è però in questo caso possibile
domandarsi se A è preferito a B più di quanto B lo sia a C. “In altri termini, per la scelta
razionale di un singolo agente è sufficiente che questi sia in grado di dar vita ad un
ordinamento delle sue preferenze, cioè che sia capace di stabilire, fra due o più
alternative, quale di esse preferisce per prima, quale per seconda, fra quali è invece
indifferente, e così via”189. L’utilità ordinale non consente operazioni aritmetiche sulle
preferenze: è certamente possibile assegnare ad A, B o C valori numerici, ma tale
assegnazione è arbitraria e la scala tra le preferenze che in tal caso si forma non è
vincolante in quanto, assegnando altri valori alle tre situazioni, la scala potrebbe
cambiare.
L’utilità cardinale, invece, consente di misurare le differenze di preferibilità tra le
situazioni. In questo caso, l’assegnazione di valori numerici alle situazioni non è libera,
ma è vincolata, poiché le scale cardinali si formano scegliendo un punto fisso d’origine
ed un’unità di misura. Come nota M. Mori, nelle scale ordinali ci si deve solo
preoccupare di rispettare l’ordine di preferibilità, ma si è liberi, come si è visto,
nell’assegnare gli indici di preferibilità. Nelle scale cardinali, invece, “scelta l’origine
189
F. Fagiani, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, Edizioni del Busento, Cosenza 1990, pp.
96-97.
121
(lo “zero”) e l’unità di misura…non v’è più alcuna libertà nell’assegnazione dei nostri
indici di preferibilità, poiché tali valori…sono precisamente vincolati. In questo senso, i
numeri ordinali riassumono meno informazioni dei numeri cardinali e, per conseguenza,
possono essere trattati con strumenti più grossolani di quelli leciti per i numeri
cardinali”190.
Assegnando un’unità di misura (che per i confronti interpersonali di utilità sarà
proprio l’utilità, U) ed un punto zero, la scala cardinale consente di misurare la
differenza tra gli indici di preferibilità, per cui può accadere che la preferenza c, benché
sia preferita una sola volta contro le due di a, risulti quella che possiede, per l’individuo
i, una maggiore funzione di benessere, in quanto ha una grandezza maggiore di a191.
Nel caso ordinale (se rappresentiamo le preferenze individuali e l’ordinamento
sociale mediante funzioni numeriche), il segno della differenza di benessere sociale
Wi (A, B) dipenderà solo dai segni delle differenza di utilità individuali Ui (A, B) e
Ui (A, B). Nel caso cardinale, invece, il segno di Wi (A, B) dipenderà non solo dai
segni di tali differenze, ma anche dalla loro grandezza (valore assoluto). In altri
termini, nel caso cardinale la direzione della preferenza sociale dipenderà non solo
dalla direzione delle preferenze individuali, ma anche dalla loro intensità192.
Harsanyi propone dunque la costruzione di un modello argomentativo che ipotizza
che la società consiste di n individui (numerati come 1, 2,…,n), a seconda delle
posizioni che occupano. I livelli di utilità che ognuno di questi individui può possedere
nelle diverse posizioni sono indicati con i simboli U1, U2,…, Un (questa è la funzione di
utilità individuale, ossia un’unità di misura espressa dalle preferenze personali
dell’individuo). L’individuo che esprime la preferenza sarà chiamato i, e dunque, “per il
postulato di equiprobabilità, l’individuo i agirà come se assegnasse la medesima
190
M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, cit., pp. 173-174.
In altri termini, se ci sono tre individui, due dei quali (li si chiami 1 e 2) preferiscono A a B, mentre il
terzo (3) preferisce B ad A, facendo la differenza tra le utilità di 1 e di 2, nella simbologia di Harsanyi
avremo che U1 (A) – U1 (B)=U1 (A)–U1 (B)=18 > 0. Otterremo dunque una funzione di benessere sociale
di valore positivo per la situazione A preferita a B sia da 1 che da 2. L’individuo 3 invece preferisce B ad
A per cui avremo U3 (A)–U3 (B)= -18 < 0, in quanto tale differenza per 3 è negativa. Ora, calcolando
l’utilità media, dovremo sommare le utilità cardinali dei tre membri e calcolare la media, ossia Wi (A)-Wi
(B)=(18+18-18)/3=6 > 0. La funzione di benessere che scaturisce dalla scelta per la situazione A, risulta
essere superiore a zero e dunque, al di là della preferenza di 3, l’utilità media maggiore è garantita dalla
scelta di A, operata da 1 e 2. Se però l’intensità delle preferenze sommate di 1 e 2 fosse di valore inferiore
a quella di 3, ipotizzando che adesso la somma delle preferenze di 1 e 2 per A rispetto a B abbia valore 6
(mentre per l’individuo 3 il valore rimane –18), la quantità ottenuta alla fine, dopo aver calcolato come
prima l’utilità media, sarebbe inferiore a zero (avrebbe valore –2), e dunque avrebbe ragione 3 a preferire
in modo contrario, perché, pur essendo l’unico individuo a preferire B, la sua preferenza possiede una
grandezza maggiore di quella di 1 e 2.
192
J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana ed etica utilitaristica (1979), in L’utilitarismo, cit., p.
49.
191
122
probabilità 1/n al proprio occupare qualsiasi particolare posizione sociale e, quindi, al
proprio conseguire l’utilità di ciascuno dei livelli di utilità U1, U2,…, Un”193. In altre
parole, l’individuo, non sapendo in anticipo quale posizione occuperà nella società (ha
le stesse probabilità degli altri di occupare qualsiasi posizione), dovrebbe considerare la
media aritmetica dei livelli di utilità di tutti gli individui (lui compreso) e massimizzare
proprio questa utilità media, ossia l’utilità da lui attesa. “Perciò, l’utilità sociale – la
quantità da massimizzarsi nei giudizi di valore morale – deve essere definita come la
media aritmetica di tutte le utilità individuali”194.
Apparentemente questa affermazione è in contrasto con quanto affermavano gli
utilitaristi classici sull’utilità sociale definita come somma delle utilità individuali.
Infatti, nota Harsanyi, quando il numero dei membri della società rimane costante nel
tempo, dal punto di vista matematico, la somma equivale alla media aritmetica. Il
problema si pone nel momento in cui si devono valutare le scelte sociali in una società
in cui la popolazione è variabile. Tuttavia, la media aritmetica dei livelli di utilità ha
senso solo se si assume che sia matematicamente ammissibile sommare utilità di
individui differenti e che siano possibili i confronti interpersonali di utilità. Il
comportamento dell’individuo è pienamente razionale se assume proprio la possibilità
di valutare imparzialmente tutte le preferenze razionali espresse dagli altri,
immedesimandosi con loro; per far ciò, egli dovrà fare affidamento alle sole preferenze
morali, ossia a quelle assunte in condizioni di piena informazione. Queste preferenze
esprimono la funzione di benessere sociale (W), ossia la media aritmetica dei livelli di
utilità di tutti gli individui.
Ciò consente secondo Harsanyi di determinare la somma delle utilità dei singoli
individui e, ottenuto questo risultato, calcolare la media aritmetica delle utilità
individuali, a partire dalla equiprobabilità dei giudizi di valore: “dare giudizi di valore
morale significa cercare di massimizzare la media aritmetica di tutte le utilità
individuali. Perciò, l’utilità sociale – la quantità da massimizzarsi nei giudizi di valore
morale – deve essere definita come la media aritmetica di tutte le utilità individuali”195.
193
J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale (1977), in A. K. Sen /B. Williams (a
cura di), Utilitarismo e oltre, cit., p. 59
194
J. C. Harsanyi, Utilitarismo delle regole e teoria della decisione (1977), in L’utilitarismo, cit., pp. 6970.
195
Ibidem, pp. 69-70. Nel saggio, Teoria della decisione bayesiana ed etica utilitaristica (1979), alla p.
37, Harsanyi, in nota, sottolinea che il suo argomento in favore dell’utilità media riprende alcuni aspetti
della riflessione di Rawls, perché anche per Harsanyi l’individuo sceglie tra due o più situazioni sociali
123
La possibilità di confrontare le funzioni di utilità individuali è importante non solo per
determinare quale debba prevalere, ma anche per operare un’eventuale correzione delle
preferenze non morali, al fine di renderle utilitaristicamente accettabili.
Hare dal canto suo ritiene che ciò che è fondamentale comprendere,
nell’osservazione delle preferenze altrui, quale preferenza possieda una intensità
maggiore rispetto ad un’altra e dunque ritenerla più importante. Non è necessario
stabilire una quantità cardinale delle preferenze ed operare un vero e proprio calcolo
matematico, in quanto
è sufficiente che io, quando prendo una decisione morale per mezzo del
pensiero critico, possa dire: ‘Jones preferisce il risultato J1 al risultato J2 più di
quanto Smith preferisca il risultato S1 al risultato S2’. Non occorre che riusciamo a
specificare di quanto sia superiore la preferenza; nel nostro metodo di pensiero
critico non sommiamo utilità, bensì, partendo da un punto di vista imparziale, che
assegna uguale importanza alle eguali preferenze di Jones e Smith, ci formiamo le
nostre preferenze scegliendo tra i risultati” (MT, pp. 165-166, corsivo aggiunto).
Hare non ritiene necessario assegnare all’utilità il carattere di una funzione
matematica, non perché questo metodo possa essere scorretto, ma perché per la sua
argomentazione, condotta al livello filosofico della teoria etica, l’utilità non è qualcosa
di matematicamente determinabile, un’unità di misura oggettiva. Essa è invece la
rappresentazione empirica delle preferenze razionali dell’individuo ed è altresì, come
utilità totale, il risultato della massimizzazione delle preferenze razionali di tutti gli
individui considerati.
Hare sostiene dunque, in modo forse più semplice, che vanno privilegiate quelle
azioni che, vagliate dal pensiero critico, ma basate su quello intuitivo, mostrano,
empiricamente, di possedere una maggiore utilità d’accettazione, qualora siano
prescrizioni universalizzabili. Pertanto,
il principio dell’utilità mi richiede di fare per ogni individuo interessato dalle
mie azioni ciò che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi
precisamente nella sua situazione; e se le mie azioni interessano più di un individuo
(come accade quasi sempre) il principio mi richiede di fare ciò che vorrei, in tutto e
senza sapere quale posizione occuperà nella società. Rawls infatti, benché critico con l’utilitarismo, ha
sostenuto che la versione classica di esso compie un grave errore nel preferire di massimizzare l’utilità
totale, mentre l’utilità media presta attenzione all’utilità pro capite, quella dei singoli individui (e dunque
è un principio che potrebbe adottato nella posizione originaria): l’utilità totale fa invece riferimento
all’intera società, senza attenzione ai singoli (cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S.
Maffettone, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 144-148).
124
per tutto, fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui mi trovassi in tutte le
loro situazioni196.
Hare pensa che il principio dell’utilità totale sia quello più realisticamente accettabile
perché egli non postula alcun insieme di individui che devono scegliere la società che
andranno a formare in condizioni senza conoscere la posizione che occuperanno in essa.
Egli non ricorre ad alcun velo di ignoranza e ad alcuna astrazione di questo tipo. Inoltre,
Hare sostiene che se si sta cercando di assegnare uguale valore alle preferenze positive o
negative dei membri della società, viene compiuta un’operazione corretta se si
considererà un beneficio o un danno fatto ad una delle parti allo stesso livello di quello
compiuto a favore o contro un’altra. Pertanto, se si segue il paradigma dell’equa
distribuzione, sarà fondamentale la massimizzazione dell’utilità dell’intera società, ossia
il fatto che l’utilità totale che coincide con quella media solo se la popolazione è
costante. Infatti, argomenta Hare, se si privilegiasse l’utilità media, ogni nuovo membro
della società (per esempio un nuovo nato P che incrementerebbe solo di poco l’utilità
totale), potrebbe essere visto come un individuo che alla fine abbassa l’utilità media,
mentre innalza quella totale e quindi, spingendo all’assurdo tale argomentazione, P non
dovrebbe essere fatto nascere. “Se una persona nella posizione originaria saprà di poter
essere P, troverà più attraente il principio classico; mentre se saprà di non poter essere P
preferirà il principio della media; e ciò perché il principio classico esigerebbe una
politica demografica che consenta a P di nascere, mentre il principio della media
esigerebbe una politica che glielo impedisse”197.
196
197
R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p. 35.
R. M. Hare, La teoria della giustizia di Rawls (1973), in Saggi di teoria etica, cit., p. 172.
125
CAPITOLO 5. I problemi della svolta linguistica
L’approccio utilitarista di Hare tratteggia una teoria etica che cerca di definire
l’utilizzo pratico e strumentale di ragioni di carattere logico, ma che ha altresì
l’ambizione di affermarsi come teoria fondata su presupposti formali. Infatti, i criteri
che definiscono la razionalità devono secondo Hare possedere in primis una valenza
logico-formale, sebbene, al di là delle intenzioni dell’autore, la ricerca del presupposto
etico universale è condotto seguendo una strada differente rispetto a Kant: questi
sosteneva che la razionalità è una caratteristica della moralità pratica, in quanto la
volontà è in grado di agire in virtù della rappresentazione di una legge, ossia di una
legge morale universale, la quale è presente in tutti gli individui ragionevoli e li muove
all’azione senza la necessità di far riferimento a moventi empirici. Per Hare, di contro,
la razionalità è una caratteristica non tanto della moralità, bensì soprattutto della logica
che sottende e giustifica il nostro ragionamento morale. Interessi, inclinazioni e
preferenze valgono solo se assunti in condizioni di piena informazione e dunque, a
livello teorico, se colti all’inizio come principi prima facie, sono in seguito corretti e
sostenuti dal pensiero critico.
Inoltre, l’utilitarismo di Hare se da un lato riprende e ridefinisce alcuni concetti della
riflessione di Sidgwick (l’universalità dei nostro giudizi, la concezione dell’identità
personale, la necessità di una valutazione imparziale, l’idea di un’affinità tra utilitarismo
e kantismo), dall’altro pone a loro fondamento il prescrittivismo universale e, a
differenza di Sidgwick, si costituisce come un utilitarismo coerente con un orizzonte
non cognitivista. Un’idea condivisa con Sidgwick (e con gran parte dell’utilitarismo
contemporaneo) è invece quella che vede l’utilitarismo come la concezione normativa
che più si avvicina alla sensibilità comune degli individui, al quotidiano ed ordinario
modo di prendere le decisioni morali198, benché l’affidabilità che Sidgwick riconosce
alla moralità di senso comune non sia accettata appieno da Hare; questi infatti sostiene
che il ruolo delle opinioni morali dalla tradizione (le received opinions) è significativo
soprattutto per conoscere l’uso ordinario delle parole morali nei giudizi valutativi, ma
198
Cfr. anche J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, a cura di E.
Lecaldano, I.12, UTET, Torino 1998, pp. 92-93: “Non esiste e non è mai esistita una creatura umana
vivente, per quanto stupida o perversa, che non abbia fatto riferimento al principio di utilità in molte,
forse nella maggior parte delle situazioni della sua vita. Per la naturale costituzione della struttura umana,
nella maggior parte delle situazioni della loro vita, gli uomini generalmente abbracciano tale principio
senza rifletterci, se non per regolare le loro azioni e quelle degli altri, almeno per giudicarle”.
126
non può essere la fonte delle prescrizioni: “se, come io penso, l’uso comune delle parole
morali non ci impegna, in sé, verso alcuna conclusione morale sostanziale, è in linea di
principio possibile sostenere che noi consideriamo l’uso comune come dotato di autorità
per l’analisi di quell’uso, ma non consideriamo le opinioni morali comuni come dotate
di autorità per quel che concerne questioni morali sostanziali”199.
Un’affinità più significativa con Sidgwick è legata all’idea, comune all’utilitarismo
moderno (sebbene variamente definita), per cui l’azione razionale è quella svolta dal
soggetto in condizioni di piena informazione. Per esempio, quando Sidgwick evidenzia
la necessità di un accordo tra i nostri desideri e la ragione e scrive che “il bene futuro o
nel complesso di un uomo sta in ciò che ora desidererebbe e cercherebbe nel complesso,
se in questo momento avesse accuratamente previsto e adeguatamente capito tutte le
conseguenze di tutte le diverse linee di condotta a lui disponibili”200, asserisce qualcosa
che Hare potrebbe condividere, poiché tale affermazione presuppone l’imparzialità e di
conseguenza la capacità per l’agente di porsi idealmente dal punto di vista
dell’universo201. A parere di Hare infatti la riflessione morale, pur partendo da una
conoscenza di come gli individui effettivamente pensano ed agiscono, vuol indicare loro
un modello di comportamento razionale, al quale essi aderirebbero senza difficoltà se
fossero individui completamente informati sulla logica e i fatti non morali. Secondo
Gibbard ciò significa che “chiamare qualcosa razionale e sostenere che esso così com’è
è una ragione per fare questo e quest’altro, è come esprimere la propria accettazione di
un sistema di norme con certe proprietà che, nel caso di Hare, potrebbero essere la
universalità (nel senso di capacità di chiedersi se la propria preferenza possa essere
universale) e la prescrittività”202. Peraltro, come ha sottolineato P. Donatelli, ciò che
l’utilitarismo del ‘900 ha in genere accolto dall’utilitarismo classico e segnatamente
dalla innovativa riflessione di Sidgwick, è proprio una definizione di ragione di
carattere morale, ossia priva di valenza sentimentale: “L’utilitarismo contemporaneo
199
R. M. Hare, The Argument from Received Opinion, in Essays on Philosophical Method, cit., p. 123.
H. Sidgwick, I metodi dell’etica, libro I, cap. IX, cit., p. 146.
201
In Sidgwick esiste una sorta di “principio di equità”, simile all’universalità di Hare, ma privo di
fondamento logico: “ogni azione che ciascuno di noi ritiene giusta per se stesso, la ritiene giusta
implicitamente per tutte le persone simili in circostanze simili” (Cfr., I metodi dell’etica,libro III, cap.
XIII, cit., p. 412).
202
A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, cit., p. 164. L’autore tuttavia esprime delle riserve rispetto
alla condizione di pienezza di informazioni che Hare (ma anche Harsanyi) pongono alla base della loro
teoria etica. Egli sostiene che una interpretazione normativa di “ragione”, secondo la quale l’atto più
razione è quello moralmente corretto, è fragile, poiché non corrisponde a ciò che effettivamente accade
agli individui che agiscono. Cfr. altresì p. 49.
200
127
concepisce la giustezza come un requisito della ragione, che valuta imparzialmente i
desideri e le preferenze di tutte le persone coinvolte e giudica quali sono le catene
causali che comportano la maggiore quantità di soddisfazioni”203.
Tuttavia Sidgwick non parla ancora di preferenze, né dell’analisi del significato dei
termini morali; nondimeno egli, polemizzando con l’edonismo, sostiene che la
razionalità è una caratteristica della morale giacché presuppone la capacità di orientare
le proprie scelte future vedendole inserite all’interno di un continuum, costituto dalla
costante impressione presente in noi di essere la stessa persona. Tale concezione
dell’identità personale permette peraltro a Sidgwick di affrontare in modo più cogente il
problema dell’amor di sé, asserendo che se “l’egoista presenta…la proposizione che
afferma che la sua felicità o il suo piacere personale è il ‘bene’, non sono per lui ma dal
punto di vista dell’universo…allora diventa rilevante fargli osservare con forza che,
quando si considera quel ‘bene’ dal punto di vista dell’universo, la sua felicità non può
essere una parte più importante della eguale felicità di qualsiasi altra persona”204. Anche
questa trattazione dell’amore di sé verrà ripresa da gran parte dell’utilitarismo
contemporaneo, in quanto Sidgwick, pur ritenendo la componente egoistica
ineliminabile, pensa che si possa mostrare che un atteggiamento altruistico è
solitamente quello che ha più probabilità di favorire il benessere della collettività e, di
riflesso, del singolo che ad essa appartiene.
La fondazione “linguistica” dell’utilitarismo
Si è già in parte parlato dei rilievi che sono stati mossi alla riflessione morale di
Hare, fin dal suo esordio. L’approdo all’utilitarismo ha naturalmente provocato una
nuova serie di obiezioni che, da un lato, hanno contestato la fondazione logico-formale
dell’utilitarismo, dall’altro hanno criticato i caratteri dell’utilitarismo di Hare come
teoria normativa, sia nei suoi aspetti innovativi, sia in quelli in linea con l’utilitarismo
contemporaneo.
L’idea che l’utilitarismo possa derivare logicamente dal prescrittivismo universale è
sicuramente il tratto qualificante della riflessione di Hare; anzi, forzando un po’ i
termini, si potrebbe a questo proposito sostenere che egli mette in opera una fondazione
203
204
P. Donatelli, La filosofia morale, cit., p. 112.
H. Sidgwick, I metodi dell’etica, p. 451, libro IV, cap. III.
128
linguistica dell’utilitarismo. Infatti, secondo Hare è opportuno riconoscere una priorità
epistemologica all’analisi semantica delle parole morali, sebbene sussista una priorità
cronologica dei fatti, delle situazioni contingenti nelle quali sorgono le questioni morali.
Per queste ragioni è fondamentale partire dalle intuizioni linguistiche dei parlanti,
empiricamente conoscibili, ed in seguito analizzarle:
Io faccio poggiare questa mia teoria sull’analisi concettuale o sulla logica
filosofica. È un fatto di natura linguistica che le parole morali hanno quelle
proprietà logiche della prescrittività e dell’universalizzabilità su cui si basa il mio
argomento a favore dell’utilitarismo. L’utilitarismo va fatto poggiare su un appello
a intuizioni linguistiche (non morali): nell’uso corrente delle parole, come elementi
del significato che diamo loro, noi attribuiamo loro queste proprietà logiche205.
Per chi fosse in grado di pensare in modo critico, gli ordinari usi linguistici delle
parole morali apparirebbero utilitaristicamente direzionati: questa è una tesi molto forte
che sostanzia la riflessione di Moral Thinking. Detto altrimenti, gli individui che
applicano nel modo giusto le regole d’uso dei termini “buono”, “giusto” e così via,
possiedono delle chiare ragioni per agire da utilitaristi, e ciò è comprensibile se si
riflette attentamente sul senso profondo del nostro linguaggio morale. Dunque, se le
preferenze sono le espressioni linguistiche delle prescrizioni, andranno accettate solo
quelle espressioni che rispettano le regole d’uso dei termini morali; il fanatico per
esempio, sebbene in apparenza ragiona secondo le regole logiche del prescrittivismo, in
realtà attribuisce a “buono” un significato che non gli appartiene: “la posizione del
fanatico risulta del tutto in contrasto con le regole d’uso del discorso morale”206. Il
fanatico dunque agisce in quel modo perché non è in grado di pensare criticamente ed
utilizza i termini morali secondo un significato improprio. Pertanto, posta questa
precisazione, ora Hare può affermare che il caso del fanatico non sottrae validità alla
sua teoria etica, la quale non costringe nessuno ad agire in un certo modo, bensì vuole
fornire le ragioni logicamente meglio definite per supportare una determinata dottrina
morale (l’utilitarismo è la più coerente con tale fondazione formale).
Questa osservazione è legata alla convinzione peculiare all’etica analitica secondo la
quale esiste un solo linguaggio della morale; Hare ha ampliato in parte questa
205
R. M. Hare, Diritti, utilità ed universalizzazione: replica a J. L. Mackie, in R. M. Hare, Sulla morale
politica, cit., p. 107.
206
E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee,
cit., p. 83.
129
asserzione, sostenendo che, una volta compresa, tramite l’analisi logica, questa unica
funzione delle parole morali, esse possono condurre direttamente ad una prospettiva
normativa che a suo parere coincide con l’utilitarismo. Queste asserzioni non si
discostano di molto da quelle di The Language of Morals, dove si affermava che i
giudizi fossero prescrittivi in quanto implicano comandi e si avvertiva che la funzione
propria dei termini morali è quella di indicare una condotta. Le prescrizioni che ci
formiamo dunque non sono in sé utilitariste, ma, in quanto esprimono le preferenze,
possono essere agevolmente assunte da una dottrina utilitarista, la quale è quella che è
più capace di interpretarne l’autentico significato, a patto che possiede un criterio
formale, fondato su ragioni logiche, per discriminare tra le preferenze. L’autore
aggiunge infatti che
la mia teoria non afferma che ‘giusta azione’ significa ‘l’azione che soddisfa
massimamente le preferenze’. Piuttosto, essa spiega i significati delle parole come
‘sbagliato’, ‘dovere’ come equivalenti a vari generi di prescrizioni o proibizioni
universalizzabili e arriva ad un sistema morale utilitarista solo applicando le
proprietà logiche dei termini spiegati in quel modo, in combinazione con certe altre
tesi concettuali, relative al mondo così com’è ed in particolare relative a un mondo
nel quale le persone possiedono certe preferenze (SO , p. 78).
Pertanto, è l’appello alle regole d’uso dei termini morali che conduce all’utilitarismo
e l’elemento empirico, fattuale (il mondo come effettivamente è e le preferenze che gli
individui sviluppano) è ad ogni modo subordinato all’elemento linguistico, il quale
rimane decisivo come base di una teoria del linguaggio morale definita in modo
autonomo. Questa convinzione di Hare è basata sull’idea più generale per cui la
razionalità di qualsiasi proposizione coincide con le proprietà logiche dei termini in essa
contenuti: tale idea diventa ancora più importante e teoreticamente significativa se le
proposizioni in questione possiedono un valore morale, come osserva Scanlon: “I
resoconti formali sono attraenti perché è parso che la forza e la non questionabilità
(inescapability) del termine morale “dovere” (must) sarebbe meglio spiegata mostrando
che i requisiti morali sono altresì requisiti della razionalità, e non dipendono
dall’appello a particolari beni”207.
207
T. Scanlon, What we Owe to Each Other, The Bellknap Press of Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) and London 1998, p. 151. Scanlon qui pone però una critica all’approccio esclusivamente formale
all’etica, aggiungendo nella stessa pagina che “la forza particolare dei requisiti morali sembra abbastanza
differente rispetto a quella dei principi logici, sebbene entrambi siano, in un certo senso, ‘non
questionabili’ (inescapable)”.
130
Hare ritiene che proprio a seguito di queste tesi l’utilitarismo possa essere una
dottrina con basi formali:
nel pensiero morale dobbiamo fornire peso uguale alle preferenze di quelli
coinvolti chiunque essi siano; e da ciò segue direttamente l’utilitarismo, in
connessione con l’assunzione di fornire il giusto peso alle nostre preferenze […] In
concreto…dobbiamo chiedere quali preferenze effettivamente scaturiscono, o
scaturirebbero, in conseguenza dell’adozione di uno o dell’altro principio di vita.
Così definito, l’utilitarismo di per se non è una tesi morale sostanziale, bensì logica
e formale, come la tesi dell’universalizzabilità alla quale esso è strettamente
correlato, e come l’imperativo categorico kantiano; ma come questi, esso può
condurre il nostro ragionamento, in combinazione con l’informazione sostanziale
relativa alle preferenze, verso l’adozione di principi sostanziali208.
Vi sono dunque due aspetti della teoria etica: la parte formale (il prescrittivismo
universale), la quale “non è un altro modo per dire che le prescrizioni morali devono
essere universalizzabili; ciò significa che agli interessi eguali di tutti va dato lo stesso
peso nel nostro ragionamento: ognuno deve contare per uno e nessuno per più di
uno”209. Naturalmente, aggiunge l’autore, da queste premesse formali non scaturiscono
direttamente conclusioni sostanziali, relative alla moralità pratica; tuttavia l’utilitarismo
è una dottrina legata ai fatti e dunque essa si basa su credenze (beliefs) relative ai fatti
non morali che influenzano le decisioni, se assunti all’interno del processo di
formazione dei giudizi morali.
La parte sostanziale (l’utilitarismo in senso stretto) consiste invece nel valutare le
preferenze come effettivamente si presentano all’osservazione sperimentale e le
conseguenze delle proprie scelte: “La componente formale va quindi integrata con una
componente sostanziale che valga a dirigere la nostra condotta nel mondo così come di
fatto è…La componente sostanziale dell’utilitarismo e in particolare il suo contributo
alla selezione di principi intuitivi o prima facie…poggiano sui fatti così come sono; se il
mondo fosse diverso, anche quella componente dovrebbe essere diversa”210.
La fondazione linguistica dell’utilitarismo è altresì confermata dalla tesi secondo la
quale per Hare l’agire immorale è un errore concettuale. Egli sottolinea a questo
proposito come il percorso che porta all’azione si componga di quattro elementi: la
208
R. M. Hare, Comments on Nagel, in Hare and critics, cit., p. 250.
R. M. Hare, What Is Wrong with Slavery, in “Philosophy and Public Affairs”, n. 2, 1979, p. 115.
210
R. M. Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit., p. 240. Questa affermazione,
inoltre, conferma che per Hare i giudizi morali, pur sopravvenendo a quelli non morali, lo fanno in modo
debole, mentre per G. Moore, lo si ricorda, la sopravvenienza è forte, ossia valida per tutti i mondi
possibili.
209
131
logica, i fatti non morali, i giudizi morali e l’azione. Il comportamento razionale sarà
quello che scaturisce dopo un passaggio diretto tra questi quattro elementi; tuttavia, è
possibile che si sappia quale è l’azione razionale, ma si agisca in modo diverso. Ciò
accade perché ovviamente, essendo esseri umani, non necessariamente siamo in grado
di sviluppare un pensiero morale critico. Ma dove si colloca, per così dire, l’interruzione
della catena che lega i quattro elementi che portano all’azione? Infatti, può capitare che
si accetti il significato degli enunciati che esprimono le preferenze e i fatti non morali,
ma si emetta un giudizio che non massimizza la preferenza più intensa, quella che
possiede una maggiore utilità d’accettazione. Secondo Hare, il problema della debolezza
del volere (akrasia), ossia della incapacità ad agire in modo conseguente ai fatti ed alla
logica, può entrare in gioco nel passaggio dai fatti ai giudizi morali (non è invece
possibile che si accettino la logica, i fatti, i giudizi conseguenti e si agisca in modo
contrario), poiché tali giudizi, non derivano con necessità logica dalle opinioni fattuali,
come invece accade nel descrittivismo. Hare dunque pensa che l’errore morale sia
dovuto alle limitate informazioni che l’agente possiede, non ai difetti della teoria etica. I
conflitti morali sarebbe infatti sempre risolvibili se gli individui potessero sempre agire
in condizioni di razionalità perfetta, come arcangeli: “Questa conclusione si basa
sull’idea che la limitatezza delle informazioni o degli errori cognitivi sono da
considerare ‘mere interferenze’ alle quali, almeno in linea di principio, si può porre
rimedio. Tali interferenze vengono cancellate in condizioni di razionalità perfetta e per
questa ragione non sono considerate sorgenti interessanti di conflitti morali”211. La
soluzione che Hare qui presenta, non dissimile da quella sostenuta per esempio da C.
Korsgaard212, assume il presupposto che il modo di ragionare degli agenti è
inevitabilmente difettoso e che dunque è necessario indicare loro un modello di
ragionamento che superi tali imperfezioni.
È tuttavia dubbio che questa soluzione sia appieno soddisfacente, in quanto sembra
restituire un’immagine irrealistica e scarsamente rispondente al modo attraverso il quale
gli individui ragionano ed agiscono. L’accusa spesso portata all’utilitarismo
contemporaneo (e quello di Hare non sembra sfuggirne) è proprio quella per cui, mentre
esso sostiene di essere affine alle convinzioni della morale comune, in realtà postula un
eccessivo grado di astrazione ed idealizzazione dal modo usuale di ragionare in etica,
211
212
C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., p. 198.
Cfr. C. Korsgaard, Creating the Kingdom of Ends, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
132
tanto da cadere in un eccesso di semplificazione: “In tutte queste cose l’utilitarismo
mostra una forte tendenza a semplificare. Che non è affatto mancanza di raffinatezza
intellettuale: l’utilitarismo è efficace in modo allarmante, sia in pratica che in
teoria…Questa tendenza a semplificare consiste in un corredo troppo povero di pensieri
e sentimenti per avere a che fare col mondo così come realmente è”213.
Esiste una logica del ragionamento morale?
In sede di discussione critica, è opportuno notare che l’esistenza di una logica del
linguaggio morale nei termini definiti da Hare, è stata giudicata meno cogente di quello
che l’autore ha sostenuto; infatti, quel che è apparso problematico in questa
applicazione della svolta linguistica allo studio dell’etica, è proprio la nozione stessa di
linguaggio della morale, il quale, in ragione delle necessità teoriche di Hare, sarebbe
stato da lui ridotto ad una serie ristretta di termini significativi (buono, giusto, dovere e i
loro contrari), che tuttavia rifletterebbero solo in parte la complessità e ricchezza dei
nostri dialoghi morali. Il riduzionismo implicito in questa concezione della svolta
linguistica avrebbe causato, sostiene ancora Williams, da un lato una progressiva
crescita della distanza tra l’approccio semantico all’etica e la considerazione degli
effettivi motivi che spingono gli uomini ad agire; dall’altro, la creazione di una cattiva
filosofia del linguaggio, in quanto, come peraltro la stessa svolta utilitarista di Hare
dimostrerebbe, di fronte all’evidente sterilità di questo genere di analisi del linguaggio
morale, si devono inevitabilmente introdurre “nell’indagine dei presupposti che sono già
non solo teorici, ma anche etici. Ne è derivata di solito una cattiva filosofia del
linguaggio”214. In sostanza, si parte dal presupposto secondo il quale la teoria etica
debba essere neutrale ma, constatata l’impossibilità di rimanere coerenti con questa
affermazione, per sostenere ad ogni modo la possibilità che la suddetta teoria possa
influenzare l’azione, si fa riferimento a prescrizioni morali tutt’altro che neutrali, le
quali, invece di essere introdotte, secondo le intenzioni iniziali, in un successivo
momento, risultano al contrario fondare quella stessa teoria etica che avrebbe dovuto
213
B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit., p.
168.
214
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 156. Già dopo la pubblicazione di Freedom and
Reason, vi sono critiche simili in G. J. Warnock, Ethics and Language (1968), ora in Morality and
Language, cit., pp. 151-152.
133
fondarli, col risultato di dare vita ad un circolo vizioso. Ne deriverebbe dunque, come
detto, una cattiva filosofia del linguaggio ed una dottrina morale estemporanea e non
coerente con l’analisi semantica così come viene applicata da autori come Hare.
Il problema di fondo della riflessione di Hare, che appare rimanere irrisolto
nonostante l’elaborazione di un’etica normativa, è che l’appello alla ragione non sembra
finalizzato a restituire in modo diretto il funzionamento delle motivazioni morali, bensì
solo a ricostruire la maniera in cui ragioni di carattere logico (e dunque applicabili a
tutti gli ambiti del discorso) possano indirettamente determinare la condotta morale.
Cosa lega infatti un principio morale al giudizio particolare che ci spinge ad agire?
Secondo Hare alla fine è sempre una dimostrazione logica che, pur non essendo
equiparabile in toto a quella delle argomentazioni scientifiche, utilizza strumenti
concettuali simili.
Nella filosofia di Hare, dunque, la ragione che muove a compiere un certo atto non
indica dei motivi pratici a favore di quell’atto, bensì elabora un’argomentazione che
deve possedere come carattere qualificante una coerenza logica. Sembra quasi che
l’obiettivo della discussione etica per Hare non sia dimostrare che il principio morale è
giusto, ma dimostrare che il tipo di ragionamento che fonda il principio è corretto.
“L’implicazione logica che connette premessa e conclusione opera tra due proposizioni
(o insiemi di proposizioni), mentre il trarre una conclusione da una premessa consiste
nell’assenso dato all’argomentazione. Il ragionamento riguarda gli esseri umani, la
logica riguarda le proposizioni. Ma Hare non distingue chiaramente la logica dal
ragionamento”215.
Già in Freedom and Reason, Hare si era detto in parte cosciente di alcune di queste
difficoltà, le quali però a sua parere erano dovute ad una mancata comprensione, da
parte dei suoi critici, del carattere al contempo teorico e pratico della sua riflessione
morale. Inoltre, egli sosteneva che i problemi del prescrittivismo mostrano come esso
non sia semplicemente un modello astratto di riflessione morale, in quanto si vuole
confrontare in modo dinamico con le situazioni contingenti che possono verificarsi, ma
per questo esso può incorrere in esattezze.
Se possiamo mostrare che esiste una forma di argomentazione la quale, senza
presupporre alcuna previa premessa morale ma basandosi semplicemente sul fatto
215
P. Donatelli, Filosofia morale, cit., p. 44.
134
che il mondo è quello che è e gli uomini sono quelli che sono, condurrà questi
ultimi…a accordarsi intorno a certi principi morali che contribuiscono alla giusta
riconciliazione di contrastanti interessi, allora avremo forse tutto ciò che occorre
(FR, pp. 246-247).
Tuttavia, ci si può domandare se sia così vero che il prescrittivismo, nella forma
ridefinita in Moral Thinking, sia realmente capace di ponderare il ruolo degli elementi
empirico-pratici che entrano in gioco nelle valutazioni morali. In realtà, i “fatti”, i quali
dovrebbero costituire la premessa minore delle argomentazioni morali, sembrano venire
a mancare, poiché se i fatti suddetti non sono supportati dalla coerenza logica, essi
contano poco. Il caso del fanatico è evidente, ma ci possono essere situazioni anche
meno eccezionali che rivelano questo problema: “se io approvo la proposizione p, ma
rifiuto di asserire la medesima dichiarazione, mi contraddico…Una asserzione…deve
possedere la proprietà formale di essere qualcosa che qualcuno può confermare e che, se
qualcuno la approva, questi, pena il rischio di una auto-contraddizione, deve essere
preparato ad agire in virtù di essa” (SO, p. 58). Tuttavia, come osserva Harman: “Hare
non pensa che ci siano ragioni al di sopra e al di sotto della semplice coerenza
(consistency) che favoriscono una scelta di certi principi rispetto a varie altre possibili
scelte”. Harman mette dunque in evidenzia come questa difficoltà del sistema di Hare si
riverberi anche su atteggiamenti non fanatici e dunque non eccezionali. Se l’unico modo
perché qualcuno faccia qualcosa è che egli possieda una ragione per compierlo, quando
questo individuo sostenga di non vedere alcuna ragione, oppure di vederla ma di non
condividerla, nessun altro elemento può essere portato dal prescrittivismo per
convincerlo: “In tal modo…Hare non può dire che P, il quale non accetta il principio
‘Non mangiare carne’, possiede necessariamente una ragione per accettarlo. Ma se P
non ha alcuna ragione per accettare quel principio, come è probabile, data la posizione
di Hare, non si può sostenere che P deve accettare quel principio” 216.
La riflessione di Hare, nonostante l’approdo all’utilitarismo, sembra quindi poter
fornire solo ragioni estrinseche al nostro comportamento morale. Pertanto, dal punto di
vista logico, la conclusione può anche essere correttamente derivata dalle premesse, per
cui, la prescrizione “non mangiare la bistecca” deriverebbe dalla congiunzione tra le
premesse “Mangiare carne fa male” (premessa maggiore prescrittiva) e “la bistecca è un
tipo di carne” (premessa minore fattuale). In questo caso, dunque, il ragionamento è
216
G. Harman, The Nature of Morality, cit., pp. 88-89.
135
coerente e funziona. Tuttavia, dal punto di vista morale le cose sono diverse, poiché al
di là delle coerenza formale, contano i motivi per agire o non agire in un certo modo.
Per la logica, il sillogismo prima citato sarebbe infatti corretto in modo estrinseco,
formale, indipendentemente dal contenuto, per cui una conclusione immorale sarebbe
accettabile nel caso che rispetti le regole di coerenza. Per la morale, al contrario, il
ragionamento è corretto in modo intrinseco, ovvero dal punto di vista del contenuto e la
forma logica è uno degli aspetti che possono determinare la giustezza di un giudizio,
non l’unico. La connessione tra logica e fatti sembra dunque sfuggire e il carico
fondativo ricade solo sul primo elemento, però la logica non è l’etica.
D’altra parte, se il fine dell’etica non consistesse anche nel fornire ragioni in favore
di un certo atto, invece che ricercare la sola coerenza logica delle proposizioni
prescrittive, si potrebbe indicare all’individuo P altri motivi per convincerlo della
giustezza del non mangiare carne. Al contrario, se come unica giustificazione si porta
una proprietà logica, al filosofo morale prescrittivista non rimane altro da fare che
accettare quello che dice P, nel caso in cui questi, pur accettando tale proprietà logica,
agisca in modo diverso. Una tale ricostruzione della discussione morale, dovuta alla
predominanza della logica, sembra peraltro non riconoscere il giusto peso alla
responsabilità dell’individuo: “noi utilizziamo argomento di questo tipo quando
giustifichiamo a noi stessi cose che vogliamo ma che non possiamo chiaramente
conoscere…Quel che succede in questi casi può essere una sorta di evasione, una specie
di rifiuto della responsabilità”217.
L’idea di una fondazione linguistica dell’utilitarismo ha dunque suscitato diversi
rilievi, in particolare per la messa in discussione della possibilità che una regola logica,
l’universalità, si ponga a fondamento delle sue asserzioni. Molti autori, nonostante le
varie chiarificazioni che Hare ha condotto relativamente allo status epistemologico di
questo concetto, hanno continuato a mostrarsi scettici rispetto alla possibilità che tale
nozione, priva di un carattere normativo proprio, possa realmente determinare i nostri
comportamenti morali. Per esempio, T. Scanlon ha evidenziato come l’universalità non
sia necessariamente una caratteristica del giudizio morale, poiché possiede in primis un
carattere formale e, inoltre, il solo fatto che riteniamo che ci siano ragioni universali per
217
C. Diamond, “We are Perpetually Moralists”: Iris Murdoch, Fact, and Value, in I. Murdoch and the
Search for Human Goodness, edited by M. Antonaccio e W. Schweiker, The University of Chicago Press,
Chicago & London 1996, pp. 80-81.
136
agire in un certo modo, non implica automaticamente che anche gli altri riconoscano le
stesse buone ragioni per agire nello stesso modo. Infatti, quella che a me pare una
ragione buona, può apparire diversamente ad altri: sembra in sostanza che la
universalità dei nostri giudizi morali, priva di una cogente applicazione normativa, per
Scanlon non consenta all’individuo di uscire dalle proprie considerazioni soggettive:
“Quando formiamo giudizi relative alle nostre ragioni, siamo destinati a enunciare
qualcosa sulle ragioni che le altre persone possiedono, o possiederebbero in certe
circostanze. Così otteniamo ragioni totalmente rivolte a noi stessi (self-regarding),
mentre tentiamo di osservare la correttezza o scorrettezza dei giudizi che le persone
elaborano in virtù delle ragioni che esse hanno, dal momento che questi giudizi
implicano invece conclusioni su ragioni che noi abbiamo”218.
Hare dal canto suo ritiene che l’universalità come regola logica sia invece il
fondamento dell’imparzialità delle valutazioni morali, la quale deve garantire la
capacità, per soggetti pienamente informati, di promuovere solo le preferenze che
incrementano l’utilità totale. L’imparzialità richiama la necessità di una astrazione dalle
caratteristiche contingenti ed individuali della situazione, al fine di giudicare dal punto
di vista del bene universale. Ma è possibile appoggiarsi ad una nozione di imparzialità
che possiede una regola logica come proprio fondamento? Il problema torna ad essere,
nonostante l’approdo utilitarista di Hare, quello della scarsa cogenza pratica di un
concetto privo di contenuto normativo: “Ma questi o consimili postulati sarebbe idonei
a fungere da principio morale solamente qualora potessero esser intesi nel senso della
garanzia di una formazione imparziale del giudizio. Il significato dell’imparzialità non
può tuttavia essere ricavato dal concetto dell’uso coerente del linguaggio”219.
La critica all’universalizzazione
Una delle critiche più sistematiche alla tesi hareana dell’universalità come tesi logica,
è venuta da J. L. Mackie, il quale contestato il tentativo di derivare da una tesi logica i
giudizi morali. Mackie ritiene che l’applicazione di principi logici all’etica sia sterile:
“E’ agevole mostrare che tali principi generali, in rapporto alle differenti concrete
circostanze, differenti preferenze o percorsi sociali, produrranno diverse regole morali; e
218
219
T. Scanlon, What we Owe to Each Other, cit., p. 74.
J. Habermas, Etica del discorso, a cura di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 72-73.
137
vi è una qualche plausibilità nel dichiarare che le regole specifiche così generate
varieranno da una comunità all’altra o da un gruppo all’altro in stretto accordo con le
effettive variazioni dei codici accettati”220. Mackie sottolinea che non esiste,
contrariamente a quanto afferma Hare, una sola forma, o un solo livello di universalità,
poiché si possono individuare almeno tre differenti stadi di universalizzazione non tutti
derivabili da un’etica fondata sull’analisi logico-linguistica dei termini morali. Il
problema dei livelli dell’universalità è infatti legato alla capacità di astrazione che un
individuo non amoralista può mettere in gioco nel suo rapportarsi agli altri soppesando
le loro preferenze o immaginando sé stesso al loro posto.
Hare invece sostiene che per la sua riflessione è sufficiente un unico genere di
universalità, ossia la “dottrina secondo la quale i giudizi morali emanati su una
situazione…devono, pena il cadere in una contraddizione logica, essere fatti valere
rispetto ad ogni situazione che sia esattamente simile nelle sue proprietà universali non
morali”221. Pertanto, se è vero da un lato che la capacità di universalizzazione si
acquisisce in maniera progressiva, attraverso un affinamento della propria perizia a
ragionare moralmente e ad una migliore conoscenza del significato dei termini morali,
dall’altro lato è vero che l’applicazione di tale universalità deve in seguito divenire
autonoma, come è auspicabile che diventi autonoma la tendenza, essenziale per il
prescrittivismo, ad immedesimarsi con le preferenze ed interessi altrui: “Dalla proprietà
di universalizzabilità consegue che, se adesso io affermo di dover fare una certa cosa ad
una certa persona, sono tenuto a pensare che la stessa identica cosa debba essere fatta a
me, nel caso che mi trovi nell’esatta situazione dell’altro” (MT, p. 150). Mackie contesta
proprio questo passaggio, all’apparenza semplice ed immediato, dalla tesi logica
dell’universalità alle conseguenze pratiche che essa implica. Egli infatti è scettico sulla
possibilità che la condotta morale, così come è intesa da Hare, possa scaturire da una
semplice analisi logico-linguistica del significato dei termini morali: “Una verità logica
o semantica non costituisce alcuna reale limitazione alla credenza; analogamente, non vi
può essere alcuna reale limitazione rispetto all’azione o alla prescrizione o alla
valutazione o scelta di una condotta”222.
220
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 37.
R. M. Hare, Comments on Singer, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p.
268.
222
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 98.
221
138
La questione di quali principi morali si debbano adottare non è pertanto un problema
di natura logica o concettuale, bensì essenzialmente ontologica e dunque, secondo
Mackie, fondamentalmente non risolvibile. Inoltre, se, come sembra fare Hare, si
volesse fondare un principio utilitarista affidandosi al grado più semplice e limitato di
universalizzazione, si costruirebbe un sistema morale incapace di contrastare le
posizioni di un razzista (si pensi al fanatico di cui Hare parla), poiché tale livello
minimo di universalità trascende le differenza quantificabili, ma non quelle non
quantificabili, come il colore della pelle degli individui. Per questo Mackie contesta in
particolare il modo con cui sono condotti i confronti interpersonali dall’utilitarismo
moderno:
I confronti interpersonali presentano…grandi difficoltà…[L’utilitarismo]
provvede solamente ad una procedura unitaria di decisione, e l’arbitrarietà irrompe
all’interno di qualsiasi serio tentativo di farla funzionare, qualsiasi decisioni siano
state prese per rispondere ad alcune di queste domande, è realmente possibile
confrontare quantità di piacere e di dolore e valutarle nel medesimo modo in
differenti persone? Piacere e dolore si possono valutare tramite il medesimo metro
di giudizio e nel valutare la somma complessiva di piacere e dolore che producono
i vari corsi d’azione223.
Esiste invece un secondo livello di universalità, più profondo e slegato dall’analisi
semantica, il quale afferma che “per decidere se il principio di massimizzazione che si
tende ad affermare è realmente universalizzabile, [bisogna] immaginare se stessi al
posto degli altri uomini e domandarsi se si sarebbe disposti ad accettare quel principio
come una guida che diriga il comportamento degli altri verso noi stessi”224. In questo
caso chi ragiona moralmente cerca effettivamente di mettersi al posto dell’altro,
rimanendo nondimeno se stesso, ossia dotato delle proprie preferenze e desideri
particolari. La terza forma di universalità, la più estesa, suppone invece non solo la
capacità di immaginare sé stessi al posto dell’altro, ma di immaginare sé stessi con gli
stessi gusti, le medesime preferenze e i medesimi desideri altrui. Solo in quest’ultimo
caso l’immedesimazione sarebbe davvero completa e l’io che giudica moralmente si è
per così dire mutato in un altro se stesso: esso tuttavia possiede solo un valore ideale,
giacché non permette di derivare asserzioni etiche normative in modo immediato.
Risulta infatti molto difficile, se non impossibile, non solo mettersi al posto degli altri,
223
224
Ibidem, p. 127.
Ibidem, p. 90.
139
ma assumere esattamente le loro preferenze, i loro gusti ed ideali (e la loro identità
personale): “ancora più che per il secondo livello, è dubbio se qualsiasi principio
passerebbe questo test tanto severo. Naturalmente ci sono alcuni desideri di base che
hanno quasi tutti, ma oltre ad essi ci sono preferenze e valori radicalmente differenti, ed
è da questi ultimi che sorgono ostinati disaccordi morali”225.
Mackie evidenzia che questi differenti livelli di universalizzazione, pur essendo stati
sfiorati o enunciati
da alcuni pensatori utilitaristi, non possono condurre
all’affermazione di solidi principi morali sostanziali, proprio a causa della vaghezza
degli assunti su cui essi si basano. In termini ancora più chiari, egli sostiene che il
passaggio dall’universalità come tesi logica all’universalità come principio morale è
illegittimo e non fondato, giacché la tesi logica sussiste indipendentemente dal principio
morale che ad essa si vuol connettere, anzi, spesso è in contraddizione con esso. “In
ogni caso la tesi logica ha poco a che fare con il principio pratico sostanziale: possiamo
adottare, o respingere quest’ultimo, sia che la tesi logica sia vera o falsa”226.
La critica mossa ad Hare appare dunque filosoficamente molto ampia ed allo stesso
tempo molto serrata, giacché discute l’idea secondo la quale la sua concezione
dell’utilitarismo possa derivare in maniera diretta dalla analisi logico linguistica del
significato delle parole morali: “Anche ammesso che ci sia una caratteristica
fondamentale del ‘linguaggio morale’ in quanto tale, e che essa consista nel fatto di
essere prescrittivo e universale, questo non ci condurrebbe inevitabilmente alla teoria.
Ci sono anche altre interpretazioni di che cosa significhi accettare una prescrizione e di
che
cosa
possa
essere
considerato
universalizzabile:
queste
interpretazioni
approderebbero a teorie diverse”227. Mackie può condurre una critica di questo genere in
quanto si definisce un moralista scettico, ossia un avversario di qualsiasi forma logica di
argomentazione morale. Egli infatti non crede né alla soggettività e né all’oggettività dei
valori morali: “quello che ho chiamato scetticismo morale è una tesi ontologica, non
225
Ibidem, p. 93. Mackie è peraltro convinto che nemmeno il terzo stadio elimini il conflitto morale e
ritiene anche che tale conflitto, rispetto a certi valori, non posa e non debba essere mai eliminato in modo
completo, poiché la diversità dei valori è un dato di fatto acquisito: “Alcuni effettivi disaccordi
relativamente ai valori sono così estremi che essi reagiscono contro tutti i principi che sono proposti per
comporre i conflitti: può essere impossibile accordarsi persino sulle procedure per giungere a un accordo”
(Cfr. p. 154).
226
Ibidem, p. 92.
227
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 104.
140
linguistica o concettuale. Essa non è, come l’altra dottrina spesso definita soggettivismo
morale, un punto di vista sui significati degli enunciati morali”228.
Mackie non sostiene che il discorso etico non abbia senso e che le questioni etiche
non possiedano rilevanza per la vita umana; al contrario, egli è cosciente del valore
dell’etica e per queste ragioni ritiene essenziale comprenderne i modi di procedere ed i
caratteri peculiari. Egli adotta pertanto quella prospettiva di analisi definibile come
realista (in quanto sostiene che i termini morali possono essere veri o falsi) e non
cognitivista (in quanto tesi epistemologica). Per questa ragione, secondo Mackie
asserire che attraverso un’analisi linguistica dei giudizi etici è possibile influenzare la
condotta e pretendere al contempo di affermare che tali giudizi non hanno portata
conoscitiva, significa travisare il reale significato dell’etica, la quale rimane una
disciplina che ha un’inevitabile pretesa conoscitiva, prima che pratica. “L’etica, siamo
portati a pensare, è più una materia di conoscenza e meno una materia relativa alle
decisioni rispetto a quanto un’analisi non cognitiva permette”229. La natura conoscitiva
delle proposizioni morali è resa evidente dal modo con cui gli individui formano i loro
giudizi morali: essi quando sostengono che un X è buono, cattivo etc., pensano che
quell’X possieda effettivamente ed oggettivamente le proprietà morali attribuite. Questo
è falso, secondo l’autore, sebbene ciò a suo parere non tolga legittimità al discorso etico
quotidiano. Pertanto chi discute le questioni morali senza rendersi conto di questo
fallace richiamo ad un’inesistente oggettività dei valori, compie un grave errore fattuale,
ma non un errore concettuale, come invece sostengono i non cognitivisti.
La distinzione tra errore fattuale e concettuale è un altro modo utilizzato da Mackie
per sottolineare che le persone che enunciano giudizi morali sono in errore non perché,
come sostiene Hare, ignorano i significati e le proprietà logico-linguistiche delle parole
morali, ma perché credono all’esistenza di valori e fatti morali oggettivi. Quest’ultima
convinzione è una tesi ontologica e metafisica, non linguistica, e per questo va
contrastata non con argomentazioni epistemologiche, bensì con una buona dose di
scetticismo morale, il quale è un antidoto a qualsiasi oggettivismo e soggettivismo etico:
“Il significato generale di ‘buono’ [good] non determina da se stesso come la parola
debba essere usata in etica, e né questo significato generale e né qualsiasi altro
228
229
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 18.
Ibidem, p. 33.
141
significato etico condurrà a risposte alle questioni morali sostanziali”230. Quindi chi
come Hare tende a considerare le argomentazioni morali come tesi di carattere logico
commette l’errore di non comprendere quanto in tal modo il prescrittivismo universale
si sia compromesso con un inevitabile richiamo ad una forma di oggettivismo morale:
Concludo allora affermando che i giudizi morali ordinari includono un appello a
valori oggettivi, un’assunzione sul fatto che esistano valori oggettivi…E non penso
di andare troppo oltre nel dire che questa assunzione è stata incorporata nei
significati base, convenzionali, dei termini morali. Qualsiasi analisi del significato
di tali termini che omette questo appello alla prescrittività oggettiva, intrinseca, è a
questo riguardo incompleta; e ciò è vero per qualsiasi analisi non cognitiva,
qualsiasi analisi naturalistica e qualsiasi combinazione delle due231.
Hare ritiene tuttavia che le obiezioni di Mackie non mettano in crisi il suo sistema
etico, il quale peraltro ricorre alla preventiva analisi linguistica dei termini morali
proprio per evitare di cadere nel relativismo implicito in qualsiasi riflessione morale che
faccia appello alle convinzioni etiche sostanziali degli individui. Egli pensa infatti che il
suo pensiero possa mettere in guardia sia dalle fallacie dell’oggettivismo etico (secondo
il quale esistono valori morali indipendentemente dai giudizi e dalle valutazioni etiche
degli individui), sia da quelle implicite nel soggettivismo morale:
è improbabile che i sensi formali di esistere ci siano di qualche utilità
nell’impostare una discussione ontologica tra realisti e anti-realisti; questi ultimi,
infatti, possono benissimo convenire che in quei sensi le qualità morali esistono.
D’altro canto, non può riuscirci utile nemmeno il senso ‘materiale’, ritenuto più
forte, perché, se se ne affermasse l’esistenza in quel senso, il realista sarebbe poco
avveduto e non avrebbe alcun bisogno di farlo232.
Mackie sarebbe nel giusto quando sottolinea le fallacie del descrittivismo etico e
quando mette in guardia contro i pericoli insiti in un realismo morale che sostiene
l’esistenza oggettiva dei fatti e dei valori morali. Tuttavia, secondo Hare, Mackie non si
renderebbe conto che in campo morale la questione fondamentale non è decidere chi ha
ragione fra realisti o anti-realisti o fra chi sostiene l’oggettività dei valori morali e chi
230
Ibidem, p. 63.
Ibidem, p. 35.
232
R. M. Hare, L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 92-93. Il soggettivismo inoltre, tra i
suoi vari “difetti”, implica una svalutazione profonda delle questioni morali a vantaggio di quelle fattuali
o scientifiche, poiché “ci lascia – e forse intende lasciarci – con la disagevole impressione che le credenze
fattuali e la scienza siano in qualche modo più solide della morale” (B. Williams, La moralità, a cura di
M. Reichlin, Einaudi, Torino 2000, p. 30).
231
142
invece ne propugna la soggettività. In particolare, il problema non è domandarsi se
esistono dei fatti morali, giacché, se si intende il verbo “esistere” in senso pieno, è
chiaro che Mackie ha ragione nel respingere ogni forma di realismo, dato che non
esistono “fatti” specificamente morali. Nondimeno, è più proficuo sostenere che i fatti e
i valori morali possiedono una forma di esistenza che è differente da quella degli oggetti
materiali, ma che non è neppure semplicemente soggettiva.
Pertanto, come ha messo in evidenza il non descrittivismo etico (al quale pure Mackie
aderisce), di fronte a differenti giudizi morali, la questione non è stabilire quale di essi
sia vero e quale sia falso, poiché “Di nessuna teoria non descrittivista (che non si riduca
a un coacervo di confusioni) è vero che fa dipendere la verità degli enunciati morali da
ciò che qualcuno pensa o sente o dalle disposizioni che ha nei confronti di una cosa o
dell’altra”233. Il non descrittivismo ha il merito di liberare i giudizi morali dalla
necessità di aderire ad un criterio di verità, contrariamente a quel che accade per altri
tipi di giudizi. Ciò non significa però affermare che ogni giudizio morale conduca chi lo
enuncia a compiere un errore fattuale; Hare infatti ritiene che l’adesione alla concezione
non descrittivista relativamente allo status dei giudizi morali comporti l’idea che le
questioni morali non siano questioni ontologiche, giacché esse possono benissimo
essere analizzate con i mezzi della logica e dell’analisi linguistica, in quanto concernono
il significato delle parole morali, non la loro verità o falsità.
In tal modo è possibile giungere ad una notevole semplificazione delle questioni
morali, giacché, in presenza di un’errata applicazione della tesi del prescrittivismo
universale, sarà possibile rendere più efficace l’analisi linguistica, cercando di evitare
tali errori concettuali ed i conseguenti disaccordi morali. Inoltre, in questa maniera ci si
sottrae dall’inseguire l’emotivismo sul suo terreno, poiché, se si cercasse una
verificazione oggettiva delle proposizioni dell’etica, l’emotivismo avrebbe ragione a
negare ad esse qualsiasi senso, giacché è lampante che nessun principio di verifica è
loro applicabile: “La questione ontologica si è dissolta in una questione epistemologica:
come dare al pensiero morale una spiegazione che ci consenta di arrivare in modo
razionale a conclusioni pratiche e prescrittive”234.
La teoria dell’errore di Mackie rappresenta dunque per Hare un fraintendimento di
quel che accade quando gli individui ragionano sulle proprietà morali. “Mackie pensava
233
234
R. M. Hare, Confusioni sul concetto di soggettività, in Saggi di teoria etica, cit., p. 24.
R. M. Hare, L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 99.
143
che tutte le persone che stessero utilizzando parole ritenute in grado di individuare le
proprietà che le azioni compiute nel mondo avrebbero realmente, si sbagliassero perché
non esistono tali proprietà. Io argomenterò, di contro, che esse sbagliano nel pensare che
quello fosse ciò che volevano dire. Chiamerò questo errore descrittivismo”235. Hare
quindi ritiene la riflessione di Mackie per molti aspetti vicina alla sua, giacché essi
paiono in accordo nel giudicare che non esistano proprietà morali oggettive; tuttavia,
mentre Hare ritiene incoerente postulare tali proprietà, Mackie lo ritiene coerente ma
falso e in tal modo cade di nuovo nel descrittivismo: “[Io e Mackie] concordiamo sulla
falsità del ‘soggettivismo vecchio stampo’…ma mentre io penso che i termini non siano
(puramente) descrittivi…Mackie è un descrittivista, nella sua concezione sul significato
dei termini nell’uso comune” (MT, p. 123). Mackie allora non è in errore quando
sostiene che “Giusto e sbagliato vanno inventati…La moralità non è da scoprire, ma da
costruire”236, in quanto “Se…qui egli allude ai concetti, naturalmente non ho nessuna
difficoltà a riconoscere che essi vadano inventati…; e se allude al contenuto della
moralità, la sua prospettiva collima con il mio prescrittivismo, che anzi spesso è stato
attaccato proprio per questo, per aver sostenuto che ai principi morali dobbiamo
arrivarci noi e non possiamo trovarli su un’enciclopedia”237.
Termini primariamente e secondariamente valutativi
Quel che appare problematico nella riflessione di Hare è quindi in generale
l’ambizioso impianto complessivo che muove la sua argomentazione fin da The
Language of Morals, ossia l’affermazione del carattere primariamente logico dei giudizi
morali. Hare sostiene infatti che le distinzioni morali non sono riducibili alle distinzioni
tra concetti. Queste ultime, infatti, sono esclusivamente di carattere logico, mentre le
distinzioni morali hanno anche un carattere pratico e scaturiscono dai differenti
atteggiamenti degli individui rispetto ad un oggetto o ad una situazione. Hare, in quanto
non descrittivista, nega la possibilità che ci siano parole morali accettate in virtù del loro
riferirsi ad una proprietà morale oggettivamente conoscibile. I termini etici non
235
R. M. Hare, Objective Prescriptions, in A. Phillips Griffiths (edited by), Ethics, cit., p. 3.
J. L. Mackie, Rights, Utility and Universalization, in R. Frey (edited by), Utility and Rights, University
of Minnesota Press, Minneapolis 1981, p. 98.
237
R. M. Hare, Diritti, utilità ed universalizzazione: una replica a J. L. Mackie, in R. M. Hare, Sulla
morale politica, cit., pp. 114-115.
236
144
incorporano concetti specificamente morali, ma determinano le decisioni degli
individui, per cui non esiste un linguaggio morale distinto da quello ordinario ed una
specifica analisi dei concetti morali. Come si legge in Freedom and Reason: “una volta
che si è compreso il carattere logico dei concetti morali, vi può essere un utile e cogente
scambio di argomentazioni anche tra persone che non abbiano, prima che cominci,
nessun concreto principio mortale in comune” (FR, p. 252)238. Per Hare vi deve essere
una netta differenziazione tra i termini puramente valutativi (come “buono, “giusto”,
“doveroso” etc.), i quali non sono solitamente utilizzati con significato descrittivo e,
anche se ciò accade, essi non perdono il loro carattere primario, e i termini
secondariamente valutativi. Questi ultimi, infatti, sono utilizzati anche con significato
descrittivo, come accade con il termine “coraggioso” (courageous), ma ciò significa che
la loro carica prescrittiva non è autentica.
Al contrario, secondo i naturalisti, alcune parole morali particolari, porprio per
esempio “coraggioso”, in virtù del loro significato, sono al contempo legate a certe
valutazioni e a certe descrizioni. Infatti, solitamente si associa il termine “coraggioso”
ad azioni giudicate positive, in quanto in modo immediato quando descriviamo
un’azione come “coraggiosa” intendiamo al contempo lodare quell’atto; nondimeno,
sostiene Hare, questo è un retaggio del naturalismo, il quale fa dipendere le questioni
morali da questioni concettuali, mentre adottare un certo apparato concettuale è
qualcosa di diverso che adottare principi morali.
Pertanto, se dovesse accedere che nessuno valutasse più in modo elevato un certo tipo
di azioni, secondo il naturalista si dovrebbe rinunciare a utilizzare il termine
“coraggioso”. A suo parere, infatti, l’uso valutativo e quello descrittivo di un termine
coincidono, per cui l’impossibilità di utilizzare tale temine con significato valutativo ne
impedisce, in modo immediato, un utilizzo in senso descrittivo. Ciò accade perché si
ritiene che un termine come “coraggioso” individui un’attitudine morale per la quale il
parlante, nello stesso momento in cui descrive un atto come coraggioso, lo valuta in
modo positivo:
238
A proposito di questa concezione, C. Diamond, ha notato polemicamente che, seguendo essa, “tutte le
differenze sono differenze di principio e potrebbero almeno in teoria essere espresse in un linguaggio
privo di particolari concetti morali”. Cfr., “We are Perpetually Moralists”: Iris Murdoch, Fact, and
Value, in I. Murdoch and the Search for Human Goodness, cit., p. 91.
145
è vero che, una volta che una parola, attraverso l’unanimità delle valutazioni
della gente, ha acquistato un certo significato descrittivo ad essa saldamente legato,
è possibile derivare giudizi contenenti quella parola da asserzioni non valutative;
ma, se si fa questo, nessuno può essere logicamente obbligato ad accettare la
valutazione normalmente incorporata nella parola: può solo essere obbligato a
accettare ciò che è implicitamente contenuto nel significato descrittivo della parola
stessa (FR, p. 256).
Sarebbe invero molto strano, sostiene il naturalista, definire un atto come
“coraggioso” e sostenere al contempo che non lo si ritiene degno di lode, precisando che
non si vuole esprimere attraverso di esso una prescrizione, ma solo descrivere un
comportamento. “La sola ragione per cui un procedimento del genere a proposito della
parola ‘coraggioso’ ci sembrerebbe strano è che, per la maggior parte, siamo saldamente
attaccati all’atteggiamento che la parola incorpora” (FR, p. 254). Perciò, se qualcuno,
non volendo lodare il comportamento di chi mette a repentaglio la propria salvezza per
la vita altrui, dicesse che preferisce non utilizzare più il termine “coraggioso”, in quanto
incorpora un atteggiamento morale che egli non approva, quella persona potrebbe usare
una locuzione in sostituzione del termine rifiutato (per esempio “non curarsi della
propria salvezza al fine di provvedere a quella altrui”)
239
. Infatti, sebbene il termine
“coraggioso” possa in parte incorporare un’attitudine morale che appare come una sua
proprietà oggettiva, è fondamentale, in sede di riflessione morale, non farsi influenzare
da questa attitudine.
Hare qui vuole sottolineare che, dal punto di vista logico, la descrizione di un
comportamento, come quello di chi sacrifica se stesso per salvare gli altri, non può
automaticamente implicare una valutazione di quell’atto: questo è un passo ulteriore che
va compiuto successivamente, giacché descrizione e valutazione sono disgiunte.
Pertanto, anche le parole che incorporano un atteggiamento morale consolidato, saranno
puramente prescrittive solo se non ammettono di essere usate descrittivamente e se la
possibilità che noi assentiamo ad esse non deriva dalla conoscenza dei fatti che
descrivono, ma delle valutazioni universali che veicolano.
239
Per il naturalista un tale comportamento sarebbe piuttosto strano, perché egli non crede che esistano
termini valutativi distinti da quelli descrittivi. Tuttavia, tale atteggiamento apparirebbe molto meno
strano, sostiene Hare, se lo adottassimo per la parola “nigger” (negro), ossia per un termine impiegato con
significato spregiativo che però al contempo pretende di descrivere i caratteri somatici su cui fondare tale
discriminazione. È nondimeno normale che chi non condivide un atteggiamento razzista, abbandoni tale
termine ed impieghi il termine “nero” o l’espressione “di colore”, al fine di separare la semplice
descrizione di un evento (il fatto che quell’individuo abbia la pelle nera), dalla valutazione (razzista) di
esso.
146
Hare invece pensa che i due generi di significati vadano scissi giacché le questioni
morali riguardano le concrete scelte degli individui e non i concetti, i quali esulano dalle
considerazioni morali, poiché sono elaborati e fondati indipendentemente dalle
proposizioni etiche nelle quali sono utilizzati. Per questo sarebbe possibile continuare
ad utilizzare il significato del termine “coraggioso” pur non approvando l’attitudine
morale che si pensa esso solitamente esprima. E tuttavia, se un termine incorpora una
componente fattuale, non si può considerare puramente prescrittivo, alla pari di
“buono”, “giusto”, “doveroso.
Questa idea è stata contestato da Diamond e Iris Murdoch, le quali imputano a tale
visione di Hare un’idea ristretta della morale, in quanto trascurerebbe di considerare che
le questioni morali non riguardano solo le scelte degli individui, ma coinvolgono in
generali questioni concettuali ampie, nelle quali si intrecciano sia la parte descrittiva che
la parte valutativa degli enunciati le quali, assieme, esprimono le convinzioni morali dei
parlanti. In tal modo le due autrici vogliono dimostrare la fallacia di una eccessiva fede
nella logica del ragionamento morale, le cui difficoltà sembrano poter mettere in
discussione il progetto complessivo di Hare il quale riesce soltanto a “fornire un
resoconto della logica del discorso morale, un resoconto che non è invece una
riflessione su qualsiasi particolare attitudine morale”240. Murdoch da parte sua sostiene
che le considerazioni morali sono legate alle considerazioni concettuali e dunque il
dissenso morale non riguarda solo le scelte degli individui, ma è molto più ampio, in
quanto concerne in generale diverse visioni del mondo. L’orizzonte analitico è
insufficiente e ciò è dimostrabile
guardando a come [attraverso esso] costruiamo la vita morale in modo
comportamentistico come insieme di scelte e valutazioni garantite da un
riferimento ai fatti. In tale mondo ‘bene’ e ‘giusto’ potrebbero essere solo parole
morali. Ma se osserviamo le più complesse dotazioni di significato che possiedono
termine come ‘azioni’ e ‘scelte’, noi vedremo le differenze morali come diverse
visioni relative al modo di comprendere il mondo (peraltro vederle in questo modo
è qualcosa vecchio come la filosofia morale stesso), più o meno estese ed
importanti, le quali possono mostrarsi francamente o in modo meno chiaro come
differenze storiche, simboliche o differenze di vocabolario morale che
suggeriscono…la ricchezza di ramificazioni possedute da un concetto morale241.
240
C. Diamond, “We are Perpetually Moralists”: Iris Murdoch, Fact, and Value, in I. Murdoch and the
Search for Human Goodness, cit., p. 86.
241
I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, ora in Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy
and Literature, cit., p. 82.
147
Problematicità della distinzione fatto/valore
Queste critiche sono radicali perché investono la concezione generale che Hare pone
a fondamento della sua riflessione. In particolare, esse coinvolgono la distinzione tra
fatti e valori, da Hare accettata con riferimento alla supposta legge di Hume, per
distinguere il significato descrittivo da quello prescrittivo. Si è già reso conto delle
critiche di Anscombe e Foot in proposito: qui si può aggiungere che tale distinzione, è
stata più volte criticata anche in anni recenti perché restituirebbe un’immagine distorta
del discorso morale. L’idea che esistano termini puramente prescrittivi e puramente
descrittivi e che queste due proprietà non possano essere presenti contemporaneamente,
sembra infatti introdurre una irreale distinzione all’interno del linguaggio morale. P.
Foot ad esempio ha sostenuto l’esistenza di concetti etici “spessi” i quali incorporano in
modo inscindibile sia una valutazione che una descrizione di un fatto e tali due caratteri
non possono essere disgiunti dall’analisi semantica. Foot peraltro aggiunge che “non è
stato mostrato che le conclusioni morali non possono essere implicate da premesse
fattuali o descrittive”242. A questo proposito, per esempio, il termine “scortese” (rude) è
uno di questi e pertanto esso si caratterizza proprio per l’intreccio tra fatti e valori che lo
costituisce. Hare invece ritiene che i termini valutativi siano tali in quanto forniscono
una motivazione al soggetto per agire e tale motivazione non è dovuta ad alcuna
descrizione di un particolare fatto. “Scortese” pertanto, essendo valutativo in modo
secondario, non fornisce in modo diretto un biasimo all’azione compiuta, visto che
l’ammissione di aver compiuto una scortesia non sembra essere legata ad un reale
pentimento. In altre parole, termini come “scortese” sono primariamente fattuali, non
prescrittivi, perché non muovono direttamente all’azione e non possiedono un
significato prescrittivo, tanto è vero che biasimare una persona che ha compiuto un atto
grave, dicendogli che è stato “scortese” non avrà probabilmente alcun effetto sul
comportamento successivo di quella persona (cfr. Moral Thinking, pp. 120-121)243.
H. Putnam, in un recente scritto, ha sostenuto l’indivisibilità della parte prescrittiva di
questi termini da quella descrittiva e dunque la illegittimità dell’argomentazione di Hare
e in generale del non cognitivismo. Ogni valutazione infatti sarebbe connessa ad una
242
P. Foot, Moral Arguments, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, cit., p. 99.
La discussione sul significato e l’utilizzo del termine “rude” tra Foot ed Hare è stata ripercorsa da H.
Putnam, cfr. Fatto/Valore. Fine di una dicotomia, cit., pp. 47-51, i quale argomento contro Hare e in
favore di Foot.
243
148
informazione fattuale precisa, tanto più che lo stesso concetto di “fatto” appare
difficilmente definibile, come sembra fare Hare, come qualcosa di empirico,
descrivibile ed osservabile in modo oggettivo. Secondo Putnam “L’aspetto più negativo
della dicotomia fatto/valore è che in pratica essa funziona come qualcosa che blocca la
discussione, e non solo la discussione, ma anche il pensiero”244. Solo offrendo
un’immagine reale dell’intreccio tra fatti e valori insito nelle considerazioni morali (ma
secondo Putnam, che in parte di allaccia ad una posizione espressa da Quine, anche
nelle conoscenze scientifiche) è possibile migliorare o mutare la nostra comprensione
dei termini morali e delle questioni morali. Come sottolinea Murdoch per chi sostiene la
distinzione fatto/valore: “non vi è possibilità di parlare di ‘considerazione morale’
poiché non c’è nulla di morale a cui guardare. Non vi è alcuna visione morale. Vi è solo
il mondo ordinario che è guardato attraverso una visione ordinaria e c’è una volontà che
si muove al suo interno”. La stessa Murdoch, poco oltre, sostiene che questa visione è
irreale: “suggerisco che al livello di un serio senso comune e di una riflessione non
filosofica ordinaria sulla natura della morale, è perfettamente ovvio che la bontà
(goodness) sia connessa con la conoscenza: non con una impersonale conoscenza quasi
scientifica del mondo ordinario, ma con una percezione onesta e ridefinita di quello che
realmente è, un paziente e giusto discernimento ed esplorazione di ciò con cui ci si
confronta”245.
244
H. Putnam, cfr. Fatto/Valore. Fine di una dicotomia, cit., p. 50.
I. Murdoch, The Sovereignty of Good, Routledge & Keegan Paul, London/New York 2002, p. 34 e p.
37.
245
149
CAPITOLO 6. L’utilitarismo e i suoi “nemici”
I problemi del welfarismo
Per quel che riguarda i caratteri particolari dell’utilitarismo di Hare, Amartya Sen ha
indirizzato le sue critiche soprattutto contro il postulato welfarista246, la procedura di
massimizzazione ed il consequenzialismo che l’utilitarismo di Hare condivide con gran
parte del neoutilitarismo contemporaneo. Secondo Sen, al di là dell’idea di Hare di poter
assumere il rigore e il carattere formale di un’etica deontologica, l’utilitarismo non può
essere assunto come principio morale se non si combina con un metodo per la
valutazione degli stati di fatto che esso genera: è in sostanza il legame con il
consequenzialismo che ne garantisce la cogenza come dottrina morale, quindi
Una struttura morale utilitarista si compone dell’elemento centrale del risultato
utilitarista (outcome utilitarianism), in relazione con un qualche metodo
consequenzialista per tradurre i giudizi sui risultati in giudizi sulle azioni. La più
completa struttura consequenzialista richiederebbe che la combinazione di tutte le
variabili influenti fosse scelta in modo tale che il risultato sia il miglior stato di
cose possibile in accordo con il risultato utilitarista247.
In particolare, secondo Sen, per il welfarismo: “il giudizio sulla bontà di stati di cose
alternativi deve essere assunto come una funzione in continuo aumento e basato
esclusivamente sui rispettivi insiemi di utilità individuali di questi stati”248. Se l’utilità
per gli individui consiste nella soddisfazione delle loro preferenze razionali, uno stato
sociale è preferibile ad un altro se la soddisfazione di tali preferenze è in esso maggiore
che in un altro. Proprio a seguito di quest’ultima osservazione, è evidente che anche per
l’utilitarismo di Hare è fondamentale l’assunto dell’ordinamento somma (sum-ranking),
ossia la necessità di sommare le utilità individuali. Secondo l’ordinamento somma,
“l’informazione sull’utilità relativamente a qualsiasi situazione va valutata considerando
unicamente la somma totale di tutte le utilità in quella situazione”249. L’assunto
dell’ordinamento somma conduce a sostenere che “ogni stato di cose x è almeno buono
246
“Non vi è niente di assolutamente nuovo nella caratterizzazione che Hare fornisce dell’utilità in quanto
tale, e in questo senso egli ha piuttosto adottato nuovi argomenti per difendere una vecchia tradizione che
non riformulare il contenuto dell’utilitarismo”. Cfr. A. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre,
Introduzione, cit., p. 17.
247
A. K. Sen, Utilitarianism and Welfarism, cit., p. 466.
248
Ibidem, p. 468.
249
A. K. Sen, Etica ed economia, cit., p. 52.
150
come uno stato di cose alternativo y se e solo se la somma totale delle utilità individuali
è almeno grande come la somma totale delle utilità individuali in y”250. L’utilitarismo di
Hare sembra altresì coerente con il criterio dell’ottimalità paretiana, secondo il quale
“chi esercita una scelta pubblica deve dare la preferenza a un assetto sociale X rispetto
all’assetto sociale Y, se almeno uno degli individui in nome dei quali sceglie preferisce
personalmente X a Y e nessuno degli altri preferisce Y a X”251.
Sen nota che gli utilitaristi pongono una stretta relazione tra espressione
dell’interesse personale ed utilità, come se il benessere di ciascuno fosse semplicemente
espresso dalle sua preferenze e non avesse a che fare altresì con le capacità e i bisogni
che ogni individuo esprime. In realtà, è probabile che una persona che ha avuto una vita
di privazioni sviluppi delle preferenze di bassa intensità e l’utilitarismo, basandosi solo
su di esse, perpetuerebbe la sua condizione di inferiorità. Inoltre, se si assume che le
persone sono potenzialmente in grado di sviluppare le medesime preferenze, ossia se i
confronti interpersonali sono privi di contenuto descrittivo, l’utilità di un individuo
svantaggiato (per esempio uno storpio) avrebbe lo stesso valore di quella di una persona
benestante, mentre le loro necessità e i loro bisogni in realtà sono differenti:
“L’utilitarismo conduce a ciò in virtù della sua attenzione esclusiva alla
massimizzazione della somma delle utilità”252. L’utilitarismo sembra quindi offrire una
visione stilizzata degli individui, in quanto trascurerebbe i loro bisogni e le loro
differenze qualitative: “questa sparizione delle differenze qualitative…è proprio ciò che
da all’utilitarista la possibilità di parlare di una ‘somma’ di piaceri, di una loro
massimizzazione e così via”253. Per esempio, se esistono due situazioni sociali, A e B
(composte da sole due persone), la cui somma totale di utilità è 2, per l’utilitarismo esse
sono paritarie, benché invece in A la distribuzione del benessere possa avere valore 2
per un individuo e 0 per l’altro, mentre in B la distribuzione sia equa, ossia 1 e 1; Sen
suggerisce che un’attenzione alle caratteristiche descrittive degli individui sarebbe in tal
modo illuminante perché permetterebbe di preferire razionalmente B ad A.
Sen pone quest’altro esempio, postulando l’esistenza di una situazione in cui un
poliziotto (P) sadico, povero e pessimista traesse piacere dal torturare un sognatore
romantico (R), ottimista, ricco e in buona salute. In una situazione senza tortura (X),
250
A. K. Sen, Utilitarianism and Welfarism, cit., p. 464.
C. A. Viano, Etica pubblica, cit., p. 78 (corsivo aggiunto).
252
A. K. Sen, Uguaglianza di che cosa? in L’idea di uguaglianza, cit., pp. 75-76.
253
H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, cit., p. 58.
251
151
l’utilità di P avrebbe valore 4 e quella si R 10 (totale 14). Nel caso invece in cui P
torturasse R (situazione Y), l’utilità di P (che trae piacere a frustare) crescerebbe fino a
7 e quella di R scenderebbe da 10 e a 8 (totale 15). Secondo Sen il welfarismo potrebbe
concludere che il benessere del poliziotto dovrebbe essere promosso, poiché la
soddisfazione che egli trarrebbe dalla tortura gli permetterebbe aumentare di molto il
suo benessere, mentre il dolore che il sognatore subirebbe diminuirebbe solo di poco il
suo benessere254.
La risposta di Hare è che, sebbene a livello formale sia facile far dire all’utilitarista
cose contrarie alle normali intuizioni delle persone, nella pratica tali casi sono rari e
comunque vi è il dovere di agire tenendo conto delle intuizioni stesse, le quali, per la
gran parte della nostra vita, funzionano. Eppure Sen evidenzia che il rifiuto della tortura
non può basarsi sull’idea che essa in genere è qualcosa che ostacola il raggiungimento
dei fini utilitaristi; questo esito, infatti, è estrinseco rispetto all’essenza dell’utilitarismo
e sembra ammettere che l’utilitarismo respinge soluzioni controintuitive solo per un
caso fortuito, non attraverso rigorose contro argomentazioni. Infatti, stante i presupposti
dell’argomentazione di Hare, l’arcangelo, se fosse un vero utilitarista (e peraltro per
definizione privo di pensiero intuitivo in grado di riconoscere i caratteri contingenti
delle situazioni) non potrebbe fare altro che scegliere la situazione che favorisce un
maggiore benessere (nel caso proposto quella in cui il poliziotto tortura il sognatore),
pena l’enunciazione di un’incoerenza logica, il solo criterio cui egli deve alla fine
rispondere255.
La questione delle preferenze
Hare fornisce risposte alle critiche osservando ciò che solitamente accade in una
società che lui ottimisticamente giudica in genere favorevole all’utilitarismo ed
all’applicazione delle proprie intuizioni, ossia alla possibilità di esercitare solo
raramente il pensiero critico. Sen pone invece delle obiezioni più generali, evidenziando
per esempio che la dottrina dei due livelli del pensiero morale semplifica
254
Si può peraltro notare che la situazione che favorisce il sadico dovrebbe essere approvata perché ha
una somma di utilità maggiore (15) di quella iniziale (14). Questo, secondo Sen, sarebbe il risultato delle
riflessioni di Hare, il quale vuol massimizzare la somma totale delle utilità individuali. La stessa cosa
però si potrebbe dire per Harsanyi, il quale ritiene vada massimizzata l’utilità media, che nella situazione
iniziale ha valore 7, mentre in quella in cui il poliziotto può torturare ha valore 7,5.
255
A. K. Sen, Utilitarianism and Welfarism, cit., pp. 474-476.
152
eccessivamente le situazioni morali, trattandole in modo schematico, giacché fornisce
un’immagine non veritiera e distorta di quello che effettivamente accade tra gli
individui che operano delle scelte di rilevanza sociale. La dottrina dei due livelli del
pensiero morale può forse essere efficace come accorgimento metodologico, ma appare
in difficoltà come unico fondamento di una teoria etica: “il comportamento degli esseri
umani può implicare ben di più della massimizzazione dei benefici in termini di
struttura di preferenze di questo o di quello, e le complesse interrelazioni esistenti in una
società possono generare norme e regole di comportamento in grado di creare un solco
fra benessere e comportamento”256. Lo stesso criterio delle preferenze espresse come
unica base in virtù della quale giudicare la natura motivazione degli individui, sembra
restituire un’immagine non troppo reale degli individui, i quali agiscono in maniera
molto meno lineare. Come sottolinea E. Anderson (citata da Putnam): “gli stati
motivazionali non sono sempre riflessivamente sostenibili….La noia, la debolezza,
l’apatia, il disprezzo di sé, la disperazione e altri stati motivazionali possono far sì che
una persona non riesca a desiderare ciò che giudica essere un bene o che desideri quel
che giudica un male. Ciò impedisce di identificare i giudizi di valore con le espressioni
di desideri o preferenze reali, come sostiene Hare”257.
Quello che Anderson sottolinea per di più è che la nozione di “preferenza” non può
essere ritenuta un concetto razionale in grado di spiegare senza fallo le volizioni degli
individui, quello che loro desiderano, quello che potrebbe essere il loro benessere.
Inoltre, come aveva già notato in un suo vecchio articolo T. Scanlon, una tale nozione di
“benessere” è troppo netta, irrealistica, giacché essa:
non dovrà prendere solo la forma della somma di particolari insiemi di beni, ma
dovrà fornire una valutazione dei modi in cui gli individui possono essere
influenzati in virtù di questi beni…anche se si potesse assumere che tutti avessero
la stessa condizione fisica e gli stessi gusti, potrebbe ancora accadere che un bene
particolare, ad esempio un certo diritto, toccherebbe le persone in modo piuttosto
diverso a seconda del loro ruolo sociale258.
Queste obiezioni, elaborate da diversi autori in tempi diversi, sono dirette contro le
caratteristiche peculiari dell’utilitarismo moderno, di cui Hare (e Harsanyi) sono stati
256
A. K. Sen, Comportamento e concetto di preferenze, in Scelta benessere, equità, cit., p. 124.
E. Anderson, Value in Ethics and Economics, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1993, p.
102.
258
T. Scanlon, Preference and Urgency, “The Journal of Philosophy”, n. 6, 1975, p. 656.
257
153
forse i più noti rappresentanti. Il loro modello di argomentazione morale, seppure solo
in parte coincidente, viene giudicato troppo rigido, come se non potesse ammettere vie
di mezzo e non concedesse nulla alle normali debolezze che accompagnano qualsiasi
comportamento umano, il quale non si trova sempre di fronte al dualismo “morale/non
morale”. Ciò accade perché l’appello alle condizioni empiriche e particolari degli
individui che Hare pone più volte (si pensi al livello intuitivo), appare essere meno
cogente rispetto alla necessità di costruire un modello formale che astragga da tali
caratteristiche contingenti; l’esigenza che muove Hare è di certo quella di trovare
principi di condotta generali ed universali, ma anche in grado di adattarsi agevolmente
alle differenti questioni morali. In realtà, questa ricerca di semplicità, se efficace dal
punto di vista esplicativo, sembra esserlo meno dal punto di vista pratico-normativo.
Per esempio, si è già notato che il fatto per cui Hare spieghi il comportamento non
morale ricorrendo al solo concetto di “debolezza del volere”, è stato criticato come
fragile e riduttivo, perché addebita ad un unico fattore diversi casi di comportamento
etico non razionale.
Con la sua meta-etica non cognitivista, Hare ha…trasformato la capacità diretta
delle prescrizioni morali di motivare la condotta, da requisito psicologico in una
condizione logica della correttezza formale e linguistica del giudizio morale. Ma
oggigiorno si ritiene del tutto concepibile che qualcuno abbia una certa credenza
morale e che però non sia mosso ad agire di conseguenza e ciò non tanto perché la
sua volontà sia debole, ma in quanto è alla ricerca di ulteriori ragioni per essere
spinto a fare ciò che riconosce essere moralmente preferibile259.
Williams da canto suo ha sostenuto che il riconoscimento dell’akrasia come unico
elemento che può interrompere la catena che sembra condurre razionalmente, in modo
necessario, dalla logica alle azioni, mostra l’inefficienza della coerenza logica come
carattere preminente della teoria etica: “Il fatto che questo [la debolezza del volere]
possa accadere fa sì che la conclusione non possa essere ricondotta a premesse da cui
deriverebbe logicamente. È sbagliato fare di tutto una questione di ragionamento logico
fino alla decisione di agire…Di conseguenza la riflessione appena svolta [da Hare] non
riguarda specificamente l’etica, ma invece le premesse e la conclusione di qualsiasi
ragionamento pratico”260. Lo schema di Hare sarebbe dunque del tipo “tutto-niente”: il
259
E. Lecaldano, L’eredità analitica contemporanea e l’eredità della storia dell’etica, in P. Donatelli/E.
Lecaldano (a cura di), Etica analitica, cit., p. 567.
260
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 155.
154
comportamento o è morale oppure non lo è, non sembrano esserci mediazioni. È come
se fosse inammissibile che il soggetto si formasse delle preferenze in divergenza con un
modello di preferenze morali stabilito a priori. Tuttavia, qualora una persona comprenda
razionalmente quale sarebbe la preferenza razionale che dovrebbe avere, ma non
riuscisse ad abbracciarla del tutto, come peraltro spesso succede (per esempio, se
dicesse di voler essere vegetariano, ma, trovando disgustosi i cibi vegetariani, si
ritrovasse a mangiare carne, pur sapendo che ciò va contro la sua preferenza e
promettendo, col tempo, di abituarsi a non mangiare carne), sarebbe riduttivo sostenere
che essa agisce in quel modo perché non è in grado di ragionare correttamente e sarebbe
altresì profondamente singolare sostenere che la preferenza vegetariana, in quanto non
seguita, non è la reale preferenza di quella persona.
Ci può essere una successione di ordinamenti di preferenze dei risultati, ordinati
da una persona in termini morali. Questa persona potrebbe desiderare di avere un
ordinamento di preferenze R diverso da quello che ha, e potrebbe cercare di
spostarsi verso ordinamenti che stanno più in alto nella sua scala morale. Le
preferenze di una persona non sono interamente sotto il suo controllo261.
Sembra qui sfuggire ad Hare il carattere condizionale ed attento all’esperienza che in
altre occasioni il suo sistema pare efficacemente mostrare: “anche in virtù di un criterio
soggettivo [di formazione delle preferenze], una persona può essere in errore in
relazione al livello di benessere e a come varie prospettive la possano influenzare”262.
Ma quale valore possiede per l’utilitarismo il metodo per determinare l’accettabilità o
meno delle preferenze, dal momento che, a livello linguistico, le preferenze vengono
solo espresse ed ovviamente non soppesate? Cosa garantisce la rilevanza normativa di
queste preferenze? L’utilità può funzionare in ogni caso come unità di misura che
stabilisce l’accettazione di tali preferenze? “Se si accetta che, per essere rilevante,
qualcosa debba essere desiderato da qualcuno (o debba produrre piacere, o ridurre
dolore, cioè, in qualche senso, generare utilità), rimane da discutere se la metrica
dell’utilità fornisca la misura appropriata”263. Sen e Williams evidenziano come una
questione sia assumere l’utilità come condizione necessaria perché qualcosa sia
preferito, mentre tutt’altro problema è sostenere che l’essere moralmente rilevante di
261
A. K. Sen, Scelte, ordinamenti e moralità, in Scelta benessere, equità, cit., p. 142.
T. Scanlon, Preference and Urgency, cit., p. 657.
263
A. Sen/B. Williams, Introduzione ad Utilitarismo e oltre, cit., p. 11.
262
155
qualcosa coincide col fatto che essa sia desiderata con una certa misura. “Se si accetta la
prima idea ma non la seconda, è possibile annettere una maggiore importanza alle
attività che riguardano se stessi che a quelle che riguardano gli altri, e assegnare un
valore più alto alle preferenze personali rispetto a quelle esterne”264. Per esempio, un
conto è sostenere che l’essere vegetariano è una preferenza rilevante perché si rivela
utile per chi lo preferisce, un altro è dire che l’essere vegetariano è rilevante in quanto
genera un piacere, un utilità. In altre parole, fare riferimento alla sola utilità come
carattere per ritenere rilevante una preferenza appare riduttivo, poiché il metro della
rilevanza morale dei desideri appare essere legato, in modo sostanziale, anche ad altri
fattori.
Inoltre, il procedimento consistente nel fornire ragioni in favore di un certo atto
implica l’elaborazione di una serie di motivi che dovrebbero costituire una sorta di
batteria argomentativi in suo favore; al contrario, l’utilizzo della logica e dell’idea che
esiste un solo linguaggio morale ed un unico significato delle nozioni etiche, è
fortemente limitante per un compiuto discorso etico. Per questo, l’utilitarismo della
preferenza sembra introdurre welfarismo e consequenzialismo in modo surrettizio come
elementi empirici, in quanto essi figurano come corollari del principio della coerenza
logica dei ragionamenti che dovrebbero fondare quegli elementi empirici.
Oltre a ciò, se il riferimento alle “preferenze” da massimizzare, invece che ai piaceri,
può essere più funzionale ad una teoria etica che voglia basarsi su un principio morale
universale, appare però necessario individuare un criterio, possibilmente oggettivo e
socialmente condiviso, che permetta di distinguere tra le preferenze accettabili e quelle
non accettabili. Il test dell’universalizzazione non sembra infatti funzionare a questo
scopo, poiché esso rappresenta una regola logica, non un principio sostanziale. Di
conseguenza, per evitare l’accusa di “soggettivismo”, stante il carattere evidentemente
soggettivo e personale di desideri e preferenze, “La maggior parte dei suoi sostenitori
[delle teorie preferenzialiste come quelle di Hare e Harsanyi]…va alla ricerca di
espedienti teorici, più o meno plausibili, per restringere le preferenze ammesse
all’interno della teoria, e in questo modo per distinguerle, al suo interno, da desideri non
ammissibili”265. Il ricorrere all’argomentazione formale da parte di Hare, basata
264
Ivi.
S. Maffettone , Liberalismo filosofico e politico, in S. Maffettone/S. Veca (a cura di), Filosofia,
politica, società. “Annali di etica pubblica”, Donzelli Editore, Roma 1995, p. 84.
265
156
sull’universalità e la prescrittività come presupposti logici, in questo senso non aiuta,
poiché il criterio di discriminazione delle preferenze (nel suo caso la divisione tra i due
livelli del pensiero morale) deve essere sostantivo e non formale, per avere delle
implicazioni pratiche.
Un’obiezione di lunga data, affrontata a suo tempo anche da J. S. Mill266, si chiede se
l’utilitarismo non domandi troppo agli individui, in quanto sembra imporre loro di
atteggiarsi in modi che raramente possono essere effettivamente attuati. Sembra infatti
eccessivo imporre agli individui l’idea che le loro preferenze debbano contare sempre
come quelle degli altri o che debba essere compiuto un complesso calcolo per decidere
quali di essi. Se è comprensibile la necessità di attenuare l’influenza dell’egoismo e la
volontà di favorire la benevolenza imparziale, appare troppo ottimistica l’idea di una
natura umana spontaneamente altruista che l’utilitarismo può assecondare: “I fini ed i
nostri propositi liberamente scelti…possiedono un’importanza speciale che i fini e i
propositi altrui non possiedono”267. L’accusa è quella secondo cui l’utilitarista dovrebbe
essere un santo, o meglio un individuo obbligato sempre a comportarsi nella maniera
più razionale e corretta. Pertanto, se in ogni momento della propria vita non si compie
l’azione che massimizza l’utilità totale, non ci si comporta in modo morale. “Sembra
che, per un utilitarista, qualsiasi cosa massimizzi l’utilità deve essere allo stesso tempo
quello che sarebbe meraviglioso compiere, che sarebbe bello fare, che dovremmo fare,
quello che uno deve fare, ciò che uno è obbligato a compiere ed ha il dovere di fare”268.
In realtà, l’utilitarismo di Hare sembra meno rigido, in quanto egli accetta la
possibilità della pluralità delle preferenze e l’evenienza che, attraverso il pensiero
critico, esse vengano corrette ed adattate ai fatti. Hare non pensa che in ogni momento
l’individuo, prima di compiere qualsiasi azione, debba domandarsi quale fra esse
massimizzerà l’utilità: questa idea significherebbe restituire un’immagine del tutto
distorta dell’agire utilitarista. Egli non sostiene che quello che appare come ottimo è
l’atto che va sempre compiuto: è infatti possibile che alcune circostanze lo impediscano
o che l’individuo, per vari motivi, non possieda una chiara coscienza dell’azione
ritenuta più efficace. Tuttavia, in quanto teoria etica formale, l’utilitarismo ha il compito
266
Cfr. L’utilitarismo, cit., pp. 257-258.
D. Brock, Utilitarianism and helping others, in H. B. Miller/H. Williams (edited by), The Limits of
Utilitarianism, University of Minnesota Press, Minneapolis 1982, p. 232.
268
G. Harman, The Nature of Morality, cit., p. 158.
267
157
di indicare quello che idealmente dovrebbe essere compiuto, ponendosi in tal modo
come un modello di riferimento per chi agisce.
Hare è dunque meno radicale di P. Singer269, proprio perché il suo sistema cerca
anche di spiegare come mai alcuni individui, pur sapendo quello che sarebbe giusto
fare, si comportano in modo diverso per la scarsa capacità di ragionare criticamente.
Infatti, la divisione dei pensiero morale secondo i due livelli sembra in grado di
disinnescare l’obiezione, poiché essa spiega in che modo la possibilità dell’errore,
dell’incomprensione, possa penetrare all’interno della teoria etica da lui sostenuta: è
come se fosse fondamentale per l’individuo comprendere concettualmente cosa egli
dovrebbe fare, mentre l’effettiva esecuzione dell’azione può anche essere difettosa.
D’altra parte, come detto, il compito della teoria etica è indicare quale sarebbe il dovere
da compiere, pur sapendo che non sempre gli uomini agiscono in base ad esso. Hare
potrebbe forse sottoscrivere le parole di Mill: “E’ compito dell’etica dirci quali siano i
nostri doveri, o come possiamo accertarcene, ma nessun sistema etico pretende che il
solo motivo di tutto ciò che facciamo sia il sentimento del dovere”270. Si può dunque
aggiungere che Hare vuole indicare agli individui un modello di ragionamento morale il
quale, non potendo mai essere completamente acquisito, si pone come un termine
ideale, un ideale regolativo, ma non c’è alcuna affermazione della santità morale, anche
perché, come sottolinea S. Wolf: “Un mondo nel quale tutti, o un gran numero di
persone, raggiungesse la santità morale…conterrebbe probabilmente meno felicità di un
mondo nel quale le persone realizzassero una diversità di ideali che coinvolge una
varietà di preferenze e valori personali”271.
I problemi del consequenzialismo
Più in generale, contro l’utilitarismo e il consequenzialismo che lo caratterizza, B.
Williams ha portato il famoso esempio di Jim, l’ospite straniero di un paese
269
P. Singer, da utilitarista ed allievo di Hare, afferma che l’utilitarismo impone di scegliere sempre
l’azione che massimizza al meglio l’utilità. Egli aggiunge che non esistono atti supererogatori, ossia
quegli atti che, pur essendo di elevato valore e pur essendo raccomandabili, non sono pretesi in modo
obbligatorio (per esempio, mettere in serio repentaglio la propria vita per salvare qualcuno in difficoltà).
Per Singer, se abbiamo la possibilità, con un nostro gesto, di rendere il mondo migliore, abbiamo il
dovere di compiere quel gesto. Cfr., Famine, affluence and morality, in J. Rachels (edited by), Moral
Problems, Harper and Row, New York 1979.
270
J. S. Mill, L’utilitarismo, cit., p. 257.
271
S. Wolf, Moral Saints, “The Journal of Philosophy”, 8, 1982, p. 427.
158
sudamericano a cui viene offerto, dal capo dell’esercito che sta per giustiziare venti
indigeni, di uccidere uno di loro e salvarne gli altri diciannove, oppure di non far nulla
permettendo l’esecuzione di tutti i condannati. Secondo la seconda alternativa, lo
straniero non provoca direttamente la morte degli indiani e dunque la sua responsabilità
è solo negativa, poiché è stato investito, senza volerlo, di un dilemma morale
drammatico. Williams sottolinea che per l’utilitarismo Jim deve uccidere l’indiano per
salvare gli altri, poiché questa scelta è quella che apparentemente promuove l’utilità: in
tal modo però è evidente che tale dottrina ignora “le considerazioni che coinvolgono
l’idea, per dirla in modo semplice, per cui ognuno di noi è responsabile per quello che
lui fa, piuttosto che per quello che fanno gli altri. Questa è un’idea strettamente legata al
valore dell’integrità. Si sospetta spesso che l’utilitarismo, almeno nelle sue forme
dirette, rende l’integrità un valore più o meno intelligibile”272.
Per l’utilitarismo, l’uccisone del prigioniero sarebbe sbagliata solo se producesse
effetti negativi, sebbene sia comprensibile che in casi come questi non si possa
pretendere dagli individui (utilitaristi o no) una piena assunzione di responsabilità.
Williams nondimeno nota che l’utilitarismo fornisce una scappatoia troppo agevole
all’agente, il quale trova facilmente il modo per giustificare la sua scelta e per sfuggire
alle proprie responsabilità, in quanto l’utilitarismo gli impone di giudicare irrazionali i
sentimenti che in questi casi drammatici lo spingono a vedere con ripugnanza la propria
azione: “se un corso d’azione, prima che questi sentimenti vengano presi in
considerazione, è utilitaristicamente preferibile, allora i sentimenti negativi verso questo
genere di azioni saranno, per l’utilitarismo, irrazionali”273. L’imposizione di ignorare i
propri sentimenti se in contrasto con l’utilitarismo, evidenzia secondo Williams l’idea
per cui l’utilitarismo non tiene in alcun conto l’integrità dell’agente e ciò conduce a
negare la nozione di responsabilità ed identità del soggetto: “Il soggetto si trova a dover
prendere una decisione circa l’azione da compiere prescindendo proprio da ciò che
definisce il suo punto di vista, cioè i suoi progetti personali; in questo modo, ci si
272
B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. Smart-B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit., p.
124.
273
Ibidem, p. 128. Williams aggiunge poco dopo “almeno in parte non siamo utilitaristi e non possiamo
considerare i nostri sentimenti morali semplicemente come oggetti della considerazione utilitarista.
Poiché la nostra relazione col mondo è in parte costituita da questi sentimenti…considerare questi
sentimenti…come avvenimenti esterni all’io significa perdere il senso della propria identità morale” (p.
124).
159
troverà frequentemente nella condizione di dover fare un’azione contraria ai propri
progetti…L’effetto di tale scissione è quindi una minaccia all’integrità del soggetto”274.
Le critiche di Williams non sono dirette contro l’utilitarismo di Hare, giacché nel
1973, anno di pubblicazione dello scritto di Williams, questi non aveva ancora
chiaramente adottato una prospettiva utilitarista. Tuttavia, una volta operata questa
scelta, le critiche di Williams, benché anteriori, costituiscono anche per Hare un
ostacolo da affrontare. Infatti, egli ribatte alle critiche di Williams facendo leva sul fatto
che una situazione come quella di Jim è difficilmente realizzabile e dunque non
dovrebbe porre problemi per l’utilitarismo275. Hare potrebbe rispondere asserendo che
Jim dovrebbe affidarsi alle proprie intuizioni, alla sua educazione, al coraggio, a quello
che in quel momento drammatico gli viene in mente di fare. È come se in situazioni così
difficili fosse comprensibile che gli individui siano esentati dalla stretta responsabilità
morale e dovessero essere giudicati cercando di mettersi esattamente nei loro panni,
quindi in condizioni di stress e senza la possibilità di esercitare il proprio pensiero
critico.
Ad ogni modo, Williams non contesta nello specifico la particolare risposta
utilitarista, perché è evidente che le condizioni drammatiche in cui Jim deve scegliere
non consentono di ragionare. Egli contesta il semplicismo e la superficialità con i quali
l’utilitarismo giustifica la scelta, assumendo come esclusivo riferimento le conseguenze
dei propri atti: “l’azione sarà corretta in virtù delle sue proprietà causali, di condurre al
massimo grado a stati di cose buoni”276. Il consequenzialismo dunque richiede che si
compia sempre l’azione che produce la maggiore utilità, mentre altre prospettive non
sono vincolate a questa conclusione. Williams infatti critica il consequenzialismo di non
tenere in debito conto il fatto che certi atti sono ripugnanti: è come se esso fosse
incapace di indicare il valore qualitativo delle conseguenze che si producono: “Il
consequenzialismo ci dice che per giudicare il valore delle azioni occorre disporre di
274
R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 124.
Prendendo a prestito una distinzione elaborata da C. Bagnoli, si potrebbe affermare che il caso
presentato da Williams è un “caso tragico”, ma non un “dilemma” morale. I casi tragici, infatti, “hanno
una risoluzione morale; sebbene questa risoluzione sia tragica, rappresenta il ‘male minore’ [come nel
caso in cui Jim ne uccida uno di sua mano per salvare gli altri diciannove condannati] ed è, perciò, la
migliore azione disponibile all’agente. Nei dilemmi morali autentici, invece, non vi è un’azione che possa
essere detta ‘migliore’”. (Cfr., Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., p. 89).
276
B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. Smart-B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit., p.
113. Per il non-consequenzialista invece “anche se da un punto di vista astratto uno stato di cose è
migliore di un altro, non segue che un dato agente debba considerare affare suo produrlo, anche se è nelle
sue possibilità farlo” (p. 115).
275
160
informazioni riguardo alle conseguenze o quali tipi di conseguenze hanno valore
positivo, ovvero quali stati di cose produce l’azione moralmente doverosa”277.
Questi rilievi sono fondamentali, perché qui Williams pone un problema generale e
la questione cruciale, cui si dovrà rispondere, è se il consequenzialismo di Hare derivi
logicamente dal prescrittivismo universale oppure se esso sia un elemento esterno,
introdotto da Hare per rendere plausibile il suo utilitarismo. Infatti, se il
consequenzialismo fosse giustificato da un presupposto logico-razionale, Hare potrebbe
rispondere alla critica sostenendo che nella sua teoria etica un’azione è giusta non
semplicemente perchè produce le migliori conseguenze, ma perché è la più razionale, in
virtù di concetti a priori, non legati agli stati di fatto causati. Se invece il
consequenzialismo fosse privo di questa base formale, il rilievo di Williams potrebbe
cogliere nel segno.
Utilitarismo e identità personale
Un’altra fra le critiche più note condotte contro l’utilitarismo e, in genere, contro
dottrine consequenzialiste, è quella secondo la quale esso non terrebbe in debito conto la
separatezza delle persone. La critica di Williams e Rawls secondo la quale l’utilitarismo
non riconosce l’integrità degli individui, equivale a quella per cui esso non terrebbe in
debito conto la separatezza degli individui278, le loro qualità e capacità, il loro essere in
primis esseri umani e non contenitori di preferenze. Scrive Williams che a causa
dell’utilitarismo, “le persone perdono la propria separatezza come beneficiarie degli
esiti utilitaristici; infatti, sia che si adotti la formula che massimizza l’utilità totale, sia
che si adotti quella che massimizza l’utilità media, si verifica un’aggregazione delle
soddisfazioni che è del tutto indifferente alla separatezza della persone che ne
beneficiano”279. Inoltre, l’utilitarismo sembra astrarre dalla specifica identità
dell’agente, giacché, in virtù del suo orizzonte consequenzialista, non conta chi
277
C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., p. 164.
Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., in particolare le pp. 36-40 e la p. 167: “Potremmo
sottoporre a verifica l’idea secondo cui una persona benevolente deve venire guidata dai principi che uno
sceglierebbe se sapesse di essere, per così dire, scisso in tutti i membri della società. Vale a dire che egli
dovrebbe dividersi in una pluralità di persone la cui vita e le cui esperienze rimarrebbero distinte nel
modo usuale…Poiché un singolo individuo deve letteralmente trasformarsi in una pluralità di persone,
non ha senso indovinare quale”. Rawls aggiunge che di un concetto simile parla anche T. Nagel (cfr., The
Possibility of Altruism, Princeton University Press, Princeton 1970, pp. 140 sgg).
279
B. Williams, Persone caratteri, moralità (1976) ora in Sorte morale, cit., pp. 11-12.
278
161
effettivamente agisce e dunque passerebbe in secondo piano la responsabilità
individuale:
La radice fondamentale del valore per l’utilitarismo è lo stato di cose e…di
conseguenza, una volta valutate le differenze causali tra vari stati di cose, non può
fare alcuna differenza che sia stata una persona o l’altra a produrre un certo stato di
cose: se S1 consiste nel fatto che io faccia qualcosa e nelle relative conseguenze e
S2 consiste nel fatto che qualcun altro faccia qualcosa e nelle relative conseguenze;
e se S2 si verifica solo nel caso non si verifichi S1, che è in ipotesi meglio di S2,
allora io devo fare essere S1 anche se prima facie S1 è qualcosa di moralmente
cattivo280.
Questa è una critica piuttosto nota all’utilitarismo, espressa da Williams anche
attraverso la contestazione del meccanismo dell’inversione dei ruoli utilizzato da Hare
già in Freedom and Reason: “Nel caso dell’esperimento dell’inversione dei ruoli, si
potrebbe dire che la probabilità della situazione immaginata è sempre pari a zero,
giacché si tratta della probabilità do essere qualcun altro”281. L’obiezione in questione
tuttavia non sembra diretta solo contro l’utilitarismo, bensì contro la più generale
concezione dell’identità personale che esso assume nelle sue versioni moderne, a partire
da Sidgwick.
Secondo
Williams,
l’identità personale è qualcosa costituito
dall’esperienza che si fa di una serie di stati mentali costanti nel tempo, i quali
concorrono a determinare la convinzione che la persona che sperimenta questi stati
mentali sia la medesima: ciò consente di parlare di “integrità” di un individuo, dei suoi
“progetti” e delle sue “intenzioni”.
La concezione dell’identità personale cui anche Hare sembra fare riferimento
scaturisce da un confronto con le posizioni di Hume282, di Sidgwick, ma soprattutto
280
Ibidem, pp. 12-13. A suo tempo già D. Ross scriveva contro l’utilitarismo di Moore: “Il difetto
essenziale della teoria dell’utilitarismo ideale è che essa ignora il carattere profondamente personale del
dovere, o almeno non rende pienamente giustizia ad esso. Se il solo dovere è quello di produrre il
massimo bene – se si tratti di me stesso, o del mio benessere, o di una persona a cui abbia promesso di
procurare quel bene, o semplicemente un mio simile, con il quale non ho alcuna relazione speciale - non
dovrebbe fare alcuna differenza, quanto al mio dovere di produrre quel bene” (Cfr., Il giusto e il bene,
cit., p. 30).
281
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 110.
282
“I filosofi contemporanei riprendono…da Hume il rifiuto di ricondurre l’io o l’identità personale ad
una spiegazione semplice, ovvero ad una spiegazione che fa corrispondere l’identità personale di ciascuno
con una sostanza, un substratum, un’anima, un quid del tutto peculiare e indefinibile, che resta identico
nel corso di tutta la sua vita…I filosofi analitici contemporanei condividono con Hume una sorta di
presupposto scettico fondamentale, che non tanto nega che gli esseri umani abbiano un io o un’identità
personale, quanto piuttosto afferma che per rendere conto di questa realtà dobbiamo ricorrere ad una
teoria complessa e riduzionistica”. (E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., p.
71).
162
appare essere un’anticipazione di quella elaborata in modo compiuto nel 1984 da D.
Parfit, il quale sostiene una concezione dell’identità personale “secondo la quale non vi
è un punto di vista umano perché non vi sono persone concepite come entità esistenti
separatamente: cioè l’io è riducibile a qualcosa di ulteriore e più semplice. Ciò di cui
possiamo accertare l’esistenza, infatti, sono solo fasi di vita mentale”283. Egli inoltre
aggiunge:
Secondo la concezione riduzionista che io difendo, le persone esistono. E una
persona è distinta dal proprio cervello, dal proprio corpo, dalle proprie esperienze.
Ma non è un’entità esistente separatamente. L’esistenza di una persona in un certo
periodo consiste solo nell’esistenza del suo cervello e del suo corpo, nel succedersi
dei suoi pensieri, nel compimento delle sue azioni e nel ricorrere di molti altri
eventi fisici e mentali284.
L’utilitarismo dunque, abbracciando una visione riduzionista dell’identità personale,
può rispettare le separatezza delle persone e, al contempo, operare dei confronti tra di
esse. Peraltro, Hare stesso è esplicito nel sostenere che esiste un parallelo tra i confronti
interpersonali, in genere ritenuti ambito stretto della moralità, e quelli intrapersonali
(tra il proprio “io” presente e quelli futuri), in genere ritenuti appannaggio della
prudenza. Ora, il parallelo tra moralità e prudenza è posto da Hare proprio in virtù della
sua visione riduzionista dell’identità personale, secondo la quale, fatto salvo lo
scetticismo humeano in proposito, va preso atto che l’impressione di essere lo stesso
“io” ci è sempre presente, sebbene non sia possibile fornire di essa un resoconto
teoretico. In tal modo non si pongono problemi rispetto alla possibilità di confrontare le
preferenze altrui con le nostre e le proprie preferenze attuali con quelle future285.
283
P. Donatelli, La filosofia morale, cit., p. 113. Lecaldano propone una tesi condivisibile secondo la
quale “possiamo ipotizzare che la nozione di identità personale di cui abbiamo bisogno in etica, si
presenterà come un intreccio dei diversi criteri cui ricorrere per la costruzione di diverse specificazioni di
questa nozione che opereranno in parti diverse della teoria etica. Non c’è una sola analisi della nozione di
identità, ma, a seconda del prevalere dei criteri di differenziazione, o di quelli di identificazione, o di
quelli di reidentificazione, avremo una diversa specializzazione di questa nozione”. Cfr. E. Lecaldano,
L’etica e l’identità personale, cit., p. 258.
284
D. Parfit, Ragioni e persone, cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1989, p 350. Cfr. altresì p. 442: “Se
cessiamo di credere che le persone sono entità esistenti separatamente ed arriviamo a pensare che l’unità
di una esistenza non implica nient’altro che le varie relazioni tra le esperienze che scandiscono tale
esistenza, diventa più plausibile preoccuparsi di più della qualità di quelle esperienze e di meno di quale
sia la persona a cui appartengono. Ciò depone a favore di una concezione utilitaristica”.
285
Una critica a questa concezione dell’identità personale è venuta da MacIntyre, il quale la ritiene
spersonalizzante ed incapace di rendere conto sia dell’idea della vita umana come dotata di un ordine
narrativa e continuo, sia della nozione di responsabilità, per cui, a suo parere, “qualsiasi tentativo di
chiarire il concetto di identità personale indipendente e separatamente da quelli di narrazione,
intelligibilità e responsabilità è condannato al fallimento” (Cfr., Dopo la virtù, cit., p. 261).
163
Un esempio dell’adesione di Hare alla suddetta concezione dell’identità personale
risiede nella sua analisi linguistica del termine “io” e dell’immedesimazione. Egli si
chiede cosa significhi esattamente affermare che “io preferirei, con intensità I, che
quella sofferenza cessasse, se mi trovassi nei panni dell’individuo X”? Cosa intendono
gli individuo quando esprimono proposizioni di quel tipo? Da un lato, identificarsi con
un’altra persona, non vuol dire ovviamente diventare un altro se stesso e provare le sue
sensazioni ed inclinazioni. Tuttavia, sostiene Hare, se il termine “io” fosse utilizzato in
modo descrittivo nell’espressione “io preferisco con intensità X che…”, non sarebbe
possibile neppure pensare che si possano condividere le preferenze altrui, giacché
attraverso tale termine si descriverebbe semplicemente un fatto. Infatti, se si interpreta
l’identità personale come un fatto e non come un’impressione che ci è sempre ed
intimamente presente, risulta arduo sostenere una teoria etica basata sull’assunzione su
di se delle preferenze altrui. Egli peraltro in Moral Thinking sostiene che il problema
dello scetticismo relativo all’identità personale è un problema che riguarda tutta la
filosofia, non solo la filosofia morale.
Nell’ambito della moralità suggerisce Hare, è possibile interpretare il termine “io”
come prescrittivo, per cui, se si afferma di poter essere un’altra persona in una
determinata situazione, ciò implica immediatamente che si manifesti un interesse simile
a quello espresso da quella persona in quella situazione ipotetica: è allora possibile
prescrivere che le sue preferenze vengano soddisfatte, in quanto le si assume come
proprie. Come si può notare, qui si agisce al livello della pura analisi linguistica, senza
il coinvolgimento di argomenti sostanziali. È infatti secondo Hare sufficiente
interpretare “io” come termine prescrittivo nell’espressione “io preferisco che…”, per
poter affermare di voler immedesimarsi con le preferenze della altre persone, giacché
“nell’identificare con me stesso la persona che si trova in una situazione ipotetica, sono
già tenuto a prescrivere che le sue preferenze siano soddisfatte” (MT, p. 273). È proprio
dell’ambito della moralità e non della prudenza, identificare le nostre preferenze con
quelle di altre persone e non di un me stesso futuro; la moralità dunque apre l’individuo
all’alterità e tale apertura, a parere di Hare, è proprio consentita dall’interpretazione di
io come termine prescrittivo.
L’analisi concettuale del termine “io”, similmente a quella sull’immedesimazione,
tende ad escludere riferimenti individuali che potrebbero effettivamente pregiudicare la
capacità di immedesimarsi. Infatti, se si affermasse “John potrebbe trovarsi esattamente
164
nella stessa situazione di Smith”, è evidente che si direbbe qualcosa di errato, poiché i
due individui in questione possiedono una loro identità, indicata dal nome proprio che,
descrittivamente, ci restituisce due persone singole, in quanto “John” e “Smith” fungono
da riferimenti individuali. La proposizione potrebbe dunque essere contraddittoria dal
punto di vista semantico perché individua due persone distinte che non possono
ovviamente scambiarsi le rispettive identità. Il termine “io” invece si comporta
diversamente dal nome proprio, il quale incorpora in sé delle specificazioni. La tesi di
Hare si può definire in questi termini:
Nella misura in cui so come sarebbe, per una certa persona, prescrivere o
preferire qualcosa nella sua situazione, e mi identifico ipoteticamente con quella
persona (vale a dire, penso che potrei essere lui, e questo implica che io prescriva
che vengano soddisfatte le sue prescrizioni, le quali, in questo caso ipotetico, se io
fossi lui, diverrebbero mie), io prescriverò che quelle prescrizioni vengano
soddisfatte, in quel caso ipotetico. E questa è una tautologia. Ma non è certo una
banalità. Questa tesi costituisce infatti la chiave per comprendere cosa significa
passare dalla prudenza alla moralità (MT, p. 274)286.
Questa concezione dell’identità personale consente altresì ad Hare di ritornare sulla
questione del valore delle preferenze presenti rispetto a quelle future. In particolare, egli
sostiene che è comprensibile che le preferenze ora per ora (now for now) siano
privilegiate rispetto a quelle future (then for then), poiché sono maggiormente presenti
al soggetto; o meglio, come suggerisce S. Kagan, esse possiedono un grado maggiore di
chiarezza e dunque sono meglio note. Naturalmente, si parla qui di una conoscenza che
non ha significato teoretico: “Le credenze veraci (vivid beliefs) tendono ad essere
limitate al presente. Nel momento di considerare la possibilità che soddisfare un
desiderio presente produrrà più tardi un costo più significativo, l’agente percepisce la
sua insoddisfazione futura solo in modo attenuato – mentre il desiderio presente è
sentito in modo vivido”287.
286
A proposito di questa analisi di Hare relativa all’utilizzo del termine “io”, essa sembra rappresentare
una soluzione felice per l’utilitarismo: “Mi sembra vada condivisa l’idea di Hare che le nozioni di Io e di
identità personale, sono nozioni in parte prescrittive, nel senso che si tratta di nozioni la cui analisi è
largamente dipendente dalle assunzioni di base della teoria normativa sostenuta, senza che peraltro siano
del tutto immuni da un controllo di validità esterno, facendo riferimento per una parte alla loro
congruenza, ai dati empirici e alle esigenze logiche”. Cfr., E. Lecaldano, L’etica e l’identità personale,
cit., p. 257.
287
S. Kagan, The Limits of Morality, Clarendon Press, Oxford 1989, pp. 285-286. In realtà, Kagan sembra
non ritenere necessario che l’agente prudente sviluppi una coscienza morale razionale nel senso inteso da
Hare, ossia una chiara conoscenza delle regole logiche con cui sono linguisticamente espresse le
preferenze. Kagan peraltro non parla di “preferenze”, bensì di “credenze” e, sebbene i due termini
165
Hare peraltro ritiene necessario che si accetti la possibilità di sviluppare nuove
preferenze, più razionali, dotate di una maggiore utilità di accettazione. Tuttavia, anche
per Kagan (che non esclude che una preferenza futura possa diventare progressivamente
meglio nota e dunque influenzare il nostro comportamento attuale, ma in quanto
preferenza che, benché rivolta al futuro, è a noi chiara adesso) la credenza più verace è
ugualmente quella più razionalmente voluta: “non sembra implausibile suggerire che la
predisposizione verso i desideri ed interessi presenti è semplicemente dovuta al fatto che
la nostra conoscenza degli interessi presenti è in genere più piena e più vivida che la
conoscenza degli interessi futuri”288. Pertanto, se differente è il criterio attraverso il
quale accettare una preferenza o una credenza su cui essa si basa, simile appare il
metodo, ossia la convinzione per cui non sussiste una netta cesura tra quello che
crediamo sia giusto fare adesso e quello che sia giusto fare in futuro, come scriveva a
suo tempo lo stesso Sidgwick, rimarcando in ciò la propria distanza da Bentham: “i
sentimenti che avrò tra un anno devono essere per me altrettanto importanti di quelli che
avrò tra un minuto, se solo potessi fare una previsione ugualmente sicura”289.
Il fatto che si privilegino le preferenze attuali, infatti, non significa di certo per Hare
che l’individuo non si interessi al suo futuro o alle generazioni future. Significa invece
richiamarsi alle due essenziali assunzioni della sua teoria etica, in base alle quali le
preferenze da privilegiare sono quelle sviluppate in condizioni di piena informazione,
ossia quelle che hanno una più elevata utilità di accettazione e in genere sono le
preferenze presenti a possedere questo carattere. Inoltre, anche se oggi i miei interessi
futuri possono apparirmi più chiari di quelli attuali, nulla garantisce che un sacrificio di
quelli attuali sia un comportamento maggiormente prudente, dato che nel tempo
possono mutare tante cose, sia in me, sia in ciò che mi accade attorno. L’utilitarismo,
allora, non chiede sacrifici irrazionali, né impone di disinteressarsi del futuro, ma
propone di adottare l’accorgimento di privilegiare le preferenze che appaiono
universalizzabili, ossia che fanno scaturire una maggiore utilità di accettazione. Ora,
come insegna l’esperienza, indipendentemente dal periodo temporale nel quale si
manifestano le preferenze, di solito è più razionale e benefico privilegiare le preferenze
presenti. A livello intuitivo, infatti, gli individui hanno esperienza che le preferenze
possiedano una diversa valenza, è però evidente che le preferenze si formano in base a credenze relative a
quello che noi desideriamo e a quello che desiderano gli altri
288
S. Kagan, The Limits of Morality, cit., p. 286.
289
H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Libro II, cap. II, cit., p. 163.
166
presenti sono quelle che li fanno agire mentre gli scopi o obiettivi futuri, sono noti in un
certo modo, il quale però potrebbe mutare. Attraverso la moralità l’individuo supera
dunque la cerchia delle proprie preferenze e comprende la necessità di una valutazione
imparziale anche delle preferenze altrui, le quali andranno privilegiate se razionali ed
utilitaristicamente più efficaci delle sue.
Le risposte di Hare
Hare ritiene in generale che gran parte delle critiche all’utilitarismo si basino su un
fraintendimento della sua reale funzione e sulla sottovalutazione della sua versatilità.
Egli critica in particolare l’utilizzo di esempi immaginari per contestare l’utilitarismo, i
quali obbligano questa dottrina, per così dire, a misurarsi con casi costruiti ad hoc per
farla naufragare: secondo Hare questo può però essere compiuto contro qualsiasi
dottrina morale. “Il trucco più comune degli avversari dell’utilitarismo è quello di
prendere esempi di tale riflessione, solitamente rivolti a casi immaginari, e confrontarli
con quanto dovrebbe pensare l’uomo ordinario”290. Se per esempio ci fosse una disputa
pubblica tra un sostenitore dell’utilitarismo ed un suo avversario, questi potrebbe fare
appello alle intuizioni morali delle persone presenti le quali, di norma (per abitudine,
educazione, credenze religiose o altro) respingono in modo immediato certi atti e ne
approvano altri senza particolare riflessione. Il non utilitarista pone l’esempio di un
paziente che ha urgente bisogno di un rene nuovo; all’improvviso entra in ospedale, per
ripararsi dal freddo, un emarginato, sconosciuto da tutti, senza famiglia e parenti, il
quale per caso ha i tessuti compatibili con quelli del malato di reni. Non sarebbe
necessario, secondo l’utilitarismo, uccidere l’emarginato per salvare il paziente che ha
bisogno di un rene? Dal punto di vista puramente formale, l’utilitarista dovrebbe essere
d’accordo con questa conclusione, mentre gran parte del pubblico, probabilmente,
sarebbe in profondo disaccordo, ritenendo quell’atto un assassinio. Mettiamo inoltre che
l’avversario dell’utilitarismo convincesse il pubblico ad utilizzare il termine
“assassinio” con significato descrittivo, non valutativo, e quindi potesse “definire
290
R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p 41.
Williams aveva condotto una contestazione a questo tipo di risposta già in Utilitarismo e
autocompiacimento morale (1976), in Sorte morale, cit., pp. 67-68. Anche G. Pontara sembra contestare
le asserzioni Hare, quando scrive che “una teoria etica, per essere accettabile, non deve avere
implicazioni inaccettabili nemmeno in situazioni immaginarie” (Cfr., G. Pontara, Filosofia pratica, Il
Saggiatore, Milano 1988, p. 276).
167
l’asserzione che quell’azione sarebbe un assassinio come un’asserzione puramente
fattuale, prioritaria rispetto ad ogni giudizio che affermi che l’atto è sbagliato” (MT, p.
175).
Secondo Hare questo esempio è così artificioso da contraddirsi da sé. Ad ogni modo,
se si resta al livello intuitivo, l’utilitarista, se sarà stato educato bene (preferibilmente da
un pensatore critico utilitarista), non avrà problemi ad ammettere che quell’atto è un
assassinio che va dunque vietato. Inoltre, è evidente che il non utilitarista ha costruito
l’esempio per rendere l’azione dell’uccisione dell’emarginato quella che sembra avere
le migliori conseguenze, perché salva la vita di una persona e renderà felici tutti gli altri
che la amano. In realtà, è assai improbabile che nella vita reale capiti un fatto di questo
genere: i medici per esempio, come fanno ad essere così certi che l’emarginato sia
davvero uno sconosciuto? Ci vorrebbero delle lunghe indagini per appurarlo e poi è
probabile che molti altri medici ed infermieri si rifiuterebbero di compiere l’intervento e
si opporrebbero. Insomma, in generale “come metodo per scegliere l’azione più
razionale…l’utilitarismo, in un dilemma morale di questa sorta, richiede ai medici di
massimizzare l’aspettativa di utilità (cioè la soddisfazione delle preferenze); e poiché se
i medici si sbagliano le conseguenze saranno disastrose, essi devono essere ben sicuri di
non sbagliare” (MT, p. 176). Se l’avversario dell’utilitarismo modula l’esempio per
avere una risposta utilitarista che afferma che l’assassinio è la giusta soluzione, egli avrà
questa risposta: ciò accade perché l’esempio è costruito artificiosamente per fornire
questo esito. Infatti, “le intuizioni che il suo pubblico usa sono il prodotto
dell’educazione morale la quale, per quanto buona possa essere stata, era ideata per
preparare il pubblico a confrontarsi con le situazioni morali che è probabile incontrare”
(MT, p. 175).
D’altra parte, è vero che se si ragiona a livello delle sole ipotesi ideali, è possibile
inventare qualunque caso per mostrare che l’utilitarismo conduce a delle conclusioni
palesemente immorali, ma gli individui solitamente affrontano casi reali e il filosofo
morale non può ignorare questo fatto. Le intuizioni, ossia il materiale di fondo che tutti
gli individui utilizzano per agire moralmente, vanno sempre considerate alla luce del
pensiero critico che ha il compito di selezionare quelle migliori per una condotta
corretta. Come nel caso delle preferenze, vanno privilegiate quelle intuizioni che
possiedono la maggiore utilità di accettazione, per quello che il pensiero critico mostra.
168
Poiché i principi morali siano davvero di ausilio, debbono essere abbastanza
generali da poter essere impiegati e trasmessi. Ma proprio in quanto generali, i
principi morali di livello intuitivo entrano facilmente in collisione. È in questo caso
che l’agente prova (e deve provare) disagio. Ma il metodo del ragionamento che il
livello critico della riflessione morale adotta, l’utilitarismo dell’atto, è capace di
determinare quale dei due doveri in conflitto è veramente un dovere, ovvero, qual è
il dovere tutto considerato291.
Hare risponde inoltre alla classica obiezione secondo la quale l’utilitarismo,
comandando di fornire peso uguale alle preferenze di tutti, impedisce di riconoscere
l’esistenza dei doveri speciali che abbiamo nei confronti di alcuni individui come per
esempio i figli292. In realtà l’utilitarismo non comanda affatto questo ed anzi riconosce
tranquillamente che, a livello intuitivo, appaia a tutti ovvio dare più affetto ai propri
figli che non a quelli altrui. Tuttavia questa intuizione non è applicabile in modo
assoluto (non è per esempio giusta se in un concorso per un posto pubblico il padre
funzionario statale favorisce un figlio) e dunque sarà il pensiero critico che ci dirà se
essa è utilitaristicamente valida. Naturalmente se si riflette a mente fredda, criticamente,
è evidente che avere maggiore cura dei propri figli è di solito la cosa giusta da fare: lo
dimostrano l’esperienza, il buon senso e dunque, per il pensiero critico, la prescrizione
di avere maggiore cura dei propri figli piuttosto che minore è legittima perché ha
mostrato di possedere una maggiore utilità di accettazione in un numero maggiore di
casi.
In altri termini, dal punto di vista puramente formale la prescrizione di avere
maggiore cura dei propri figli appare razionale, ma potrebbe apparire in certi casi
razionale quella che asserisce che non vanno fatte discriminazioni tra i figli propri e
quelli altrui. Tuttavia, una volta affrontati i casi sostanziali e l’esperienza, risulta chiaro
che la prima prescrizione è da preferire in un numero maggiore di circostanze. D’altra
parte, un arcangelo che agisce come un utilitarista dell’atto avrebbe buon gioco
nell’asserire che “Se le madri fossero propense ad avere eguale cura per tutti i bambini
del mondo, è improbabile che i bambini riceverebbero anche solo le stesse attenzioni
che ricevono ora. La diluizione della responsabilità la indebolirebbe fino a farla
scomparire” (MT, p. 180).
291
C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., pp. 39-40.
Una tale critica è venuta in particolare da N. Rescher, Unselfishness: the role of the vicarious affects in
moral philosophy and social theory, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1975. Cfr la riposta di
Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit. Una discussione simile si trova in
Sidgwick, cfr. I metodi dell’etica, libro III, cap. XII, pp. 379-380.
292
169
In realtà, sostiene l’autore, è assolutamente comprensibile che in situazioni
eccezionali, drammatiche, un individuo sia incapace di riflettere criticamente e si affidi
all’azione che in quel momento, intuitivamente gli sembra la più giusta; se egli ha
ricevuto una buona educazione, tuttavia, la sua scelta dovrebbe essere in gran parte
condivisibile. Certamente, a posteriori, l’azione potrebbe anche risultare irrazionale o
utilitaristicamente nociva e tuttavia in quel momento di emergenza essa risulta
comprensibile. Se per esempio, si è coinvolti in un incidente aereo e nel velivolo
avvolto dalle fiamme rimangono il proprio figlio ed un famoso e bravissimo chirurgo, è
probabile che la gran parte delle persone, in base allo loro educazione, alle abitudini ed
intuizioni morali acquisite, salveranno il proprio figlio, sebbene forse, salvando il
chirurgo, avrebbero potuto salvare altri passeggeri feriti e tutte le altre persone che, nel
futuro, quel medico avrebbe operato. Benché a livello della pura teoria salvare il
chirurgo possa apparire come l’operazione utilitaristicamente migliore, nella situazione
particolare salvare il proprio figlio risulta essere l’atto più giusto: in questo caso, una
tale scelta può anche assumere il valore di principio universale. L’utilitarista critico non
avrebbe nulla da obiettare contro questa decisione, poiché egli è cosciente del ruolo
giocato dalle intuizioni e di come le persone agiscono in situazioni di emergenza.
Peraltro, anche questo esempio, assai improbabile ed assurdo, secondo Hare è disonesto,
poiché suggerisce “che voi possiate al tempo stesso trovarvi in questa situazione
d’emergenza e concedervi il lusso del pensiero critico, come sarebbe necessario per
giustificare la vostra decisione di andare contro le vostre intuizioni” (MT, p. 183).
D’altra parte, se le nostre intuizioni più profonde, di fronte a casi tanto irreali,
dovessero comunque, per il pensiero critico, rivelarsi anti-utilitariste, sarebbe buona
cosa rigettarle, perché evidentemente esse non erano in realtà le nostre convinzioni più
profonde: “se le profonde convinzioni morali di qualcuno conducono a fornire la
risposta sbagliata anche in casi immaginari o inusuali, esse non sono le migliori
convinzioni che uno può avere”293.
293
R. M. Hare, What Is Wrong with Slavery, cit., p. 113.
170
Considerazioni conclusive
L’opera di Hare ha avuto senz’altro il merito di estendere ed ampliare l’applicazione
dei metodi di riflessione analitici all’etica, nella ricerca di un fondamento razionale ed
autonomo di essa. La necessità di superare, da un lato, le tesi del positivismo logico e,
dall’altro, le insidie di una fondazione naturalistica o metafisica della morale, ha
condotto infatti l’autore ad elaborare una metodologia di analisi che, contro il
positivismo, ha cercato di restituire significato peculiare alle proposizioni morali e,
contro il naturalismo, ha cercato di favorire una fondazione autonoma dell’etica stessa.
Secondo Hare, infatti, l’etica è autonoma se si pone come branca della logica, ossia se
adotta le procedure argomentative e gli strumenti concettuali della logica stessa,
adattandoli però alle sue esigenze pratiche, ovvero al confronto con i fatti. La stessa
soluzione di Kant appare a Hare come parziale, in quanto non in grado di fornire uno
strumento per valutare la portata dei moventi pratici. La soluzione di Sidgwick, un
autore da cui Hare ha tratto senz’altro molti spunti, lascerebbe invece in secondo piano
le questioni più generali e fondamentali dell’etica, in particolare quelle relative al
significato dei termini morali294. In realtà, l’adozione dell’universalità da parte di Hare,
quale carattere primario dei giudizi morali, sembra nondimeno maggiormente debitrice
alla riflessione di Sidgwick, mentre possiede un valore concettuale molto diverso
rispetto alla nozione kantiana. Per Sidgwick, però, l’universalità295 rappresenta un
assioma auto-evidente (egli lo definisce “principio di reciprocità” il quale, unito ad altri
principi auto-evidenti, fonda l’utilitarismo) ed è dotato di un’applicazione direttamente
normativa e, in estensione, sociale.
Nella riflessione di Hare, invece, questo aspetto pratico-normativo è meno marcato e
la fondazione del principio dell’universalità come regola logica possiede forse un punto
di forza rispetto alla innovativa riflessione di Sidgwick, ma anche e soprattutto un punto
294
Questioni di tal genere non sono direttamente affrontate da H. Sidgwick, in quanto a suo parere (cfr. I
metodi dell’etica, Introduzione, cit., p. 42): “il tentativo di conoscere le leggi generali o le
generalizzazioni empiriche attraverso cui è possibile spiegare la varietà dei comportamenti umani e dei
sentimenti e dei giudizi umani circa la condotta è qualcosa di essenzialmente diverso dal tentativo di
determinare quale tra questi sia il comportamento giusto e quale tra questi giudizi sia quello valido”.
295
“Non possiamo dire che un’azione è giusta per A e ingiusta per B, a meno che non si possa individuare
nella natura o nelle circostanze delle due azioni una qualche differenza che possiamo considerare come
base ragionevole per una differenza relativa ai rispettivi doveri. Pertanto, se ritengo che l’azione sia giusta
per me, implicitamente ritengo che essa sia giusta per qualsiasi altra persona, la cui natura e le cui
circostanze non sono diverse dalle mie in qualche aspetto importante” (Cfr., I metodi dell’etica, libro III,
cap. I, cit., pp. 238-239).
171
di debolezza. Il punto di forza è legato alla maggiore capacità della tesi di Hare di
affrontare la necessità di fondare la natura non solo esplicativa ma anche prescrittiva
dell’utilitarismo. Tale natura prescrittiva richiede una fondazione razionale e formale
che nell’utilitarismo classico non era presente e che con Sidgwick emergeva solo in
parte, stante l’ammissione dell’ineliminabilità delle inclinazioni egoistiche e il grande
rilievo normativo assegnato alla morale di senso comune.
La natura prescrittiva dell’utilitarismo richiede allora l’adozione di un piano
d’indagine universale, mentre la visione del principio di utilità come principio
esplicativo non necessita di indagini sullo statuto epistemologico dei giudizi morali. Il
piano esplicativo descrive infatti quali sono gli atti che gli individui approvano come
utili, mentre quello prescrittivo vuole individuare gli atti che è doveroso compiere per
incrementare l’utilità collettiva. La riflessione di Hare dunque, per molti aspetti, sembra
aver correttamente intercettato l’esigenza che l’utilitarismo ha mostrato, ossia quello di
dotare le sue asserzioni di uno statuto prescrittivo che possa astrarre dalla semplice
constatazione empirica di ciò che gli individui approvano o respingono e risalire ad una
fondazione universale di tali prescrizioni296. Il punto di debolezza della nozione hareana
di universalità è però quello sottolineato in precedenza, relativo alla sua scarsa capacità
di fornire un effettivo movente alla razionalità pratica.
Per questo, la nozione di razionalità dell’etica, nella filosofia morale di Hare, appare
in realtà avere un valore superficiale, poiché la razionalità di cui l’autore ci parla non è
né quella strumentale di Sidgwick e né quella pratica che Kant pone a fondamento della
sua morale, ma possiede un valore logico-concettuale che si concretizza in un’attenta
analisi semantica dei termini morali e che perciò rimane all’interno della logica stessa.
In altre parole, non si forniscono ragioni in favore di un certo atto, ma in favore
dell’argomentazione logica che sorregge la proposizione che esprime la volontà o meno
di compiere quell’atto.
Da questo punto di vista sembra che la sola cosa interessante per il filosofo morale
sia essere coerente con le regole d’uso dei termini all’interno del linguaggio morale;
l’argomentazione vera e propria, con il suo soppesare le ragioni pro o contro un certo
comportamento, è condotta al livello verbale, tanto è vero che non solo l’universalità dei
giudizi morali possiede un carattere logico (essa è infatti una caratteristica dei giudizi in
296
Per una disamina di queste problematiche cfr. per esempio F. Fagiani, L’utilitarismo classico da
Bentham a Sidgwick, cit., pp. 23-25.
172
generale), ma la stessa prescrittività, di certo in apparenza la più normativa delle
proprietà dei giudizi morali, è comunque una proprietà in primis linguistica, in quanto
essa rappresenta l’espressione verbale delle preferenze.
Inoltre, il modo attraverso il quale Hare in Moral Thinking fonda sia la possibilità di
immedesimarsi con le preferenze altrui, sia la necessità di farlo in modo imparziale, non
paiono conferire alla sua teoria etica una maggiore valenza normativa, ma sembrano
voler fornire all’analisi linguistica dei termini morali una maggiore pregnanza teoretica
ed epistemologica. In altre parole, Hare sembra aver voluto fornire un disegno sempre
più fondato e compiuto del suo metodo di analisi del linguaggio morale e il discorso
sull’utilitarismo, sulla massimizzazione delle preferenze, appare funzionale a questo
progetto teorico, più che alla delineazione di un’etica normativa. Infatti, egli pone una
sorta di fondazione linguistica non solo dell’utilitarismo, bensì dei meccanismi empirici
che lo sostanziano, ossia l’imparzialità, l’immedesimazione (si ricordi l’interpretazione
del termine “io” come termine prescrittivo) e la massimizzazione delle preferenze
razionali. Di nuovo, sembra qui efficace la critica che si appella alla sterilità di un
metodo di riflessione morale eccessivamente fiducioso nella forza persuasiva della
coerenza logica: “Si suppone che sosteniamo che una particolare azione è sbagliata
perché è un furto e perché rubare è sbagliato; ma se domandiamo perché rubare è
sbagliato, [il filosofo analitico] ci può solo portare un argomento dello stesso genere,
con un principio morale che funge semplicemente da sua premessa maggiore”297. Gli
argomenti di Hare, per certi aspetti, confondono (o fanno surrettiziamente coincidere) la
correttezza logica di un ragionamento con l’efficacia pratica di un’argomentazione
morale che invece asserisce sempre qualcosa di più di quello che fa una deduzione
logica.
Appare però valida l’intenzione di studiare quello che gli individui effettivamente
intendono quando discutono le questioni morali; in tal senso, il linguaggio è mezzo
primario di espressione di questi pensieri. Vi è dunque un fondo empirista nella
riflessione di Hare e l’analisi semantica perciò possiede un duplice obiettivo: da un lato,
comprendere quale struttura argomentativa induce gli individui a formarsi le loro
opinioni morali (obiettivo formale); dall’altro, comprendere in base a quali convinzioni
fattuali (e/o intuitive) gli individui agiscono in virtù dei loro interessi o preferenze.
297
P. Foot, Moral Arguments, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, cit., pp. 98-99.
173
Questa doppia strategia d’analisi possiede a sua volta una duplice finalità: in primo
luogo, indicare agli individui un metodo di argomentazione razionale e universale, in
grado di avvicinarsi ad un pensiero morale critico; in secondo luogo, favorire la
condotta etica, promovendo, attraverso l’analisi semantica dei termini che li esprimono,
la correzione delle preferenze e degli interessi e promovendo quelli formatisi
razionalmente.
La riflessione di Hare, dunque, vuole fornire un valido modello teoretico nel
tentativo di dotare l’utilitarismo di un principio formale e soprattutto di come poter far
rientrare questa dottrina etica all’interno della teoria della scelta razionale. Di certo,
risulta più problematico affermare se questa possibilità sia realistica e se Hare ne abbia
effettivamente posto le condizioni di possibilità. È davvero così necessario puntellare
l’utilitarismo a un presupposto formale? È poi possibile farlo senza snaturarne l’essenza
profonda? L’autore forse ha preteso dall’utilitarismo più di quanto gli si può chiedere:
da un lato, di fondarsi su principio morale universale ed astratto, quando forse una delle
sue caratteristiche migliori è il suo valore condizionale, il suo essere in genere affine al
comune modo d’agire degli individui; dall’altro, di avvalersi di una teoria sostantiva del
valore morale (necessaria per discriminare tra preferenze ammissibili e non ammissibili)
che appare estranea all’utilitarismo, il quale non la può fondare, bensì al massimo
esserne fondato298. Il tentativo di inserire nell’utilitarismo elementi ad esso estranei,
come le asserzioni sui diritti, la giustizia, armonizzando tali elementi con la sua
immagine di “etica pubblica”, si rivela poco felice, proprio perché sembra pretendere
dall’utilitarismo la soluzione a questioni rispetto alle quali esso non possiede ancora gli
strumenti concettuali per rispondere. Hare ad esempio sostiene che il requisito logico
dell’universalità consente di fondare la nozione di “diritto” e, di conseguenza, quella di
giustizia formale: “Per mezzo di sole considerazioni logiche, è possibile dimostrare che
può esserci un diritti in possesso di chiunque: il diritto ad eguale considerazione e
rispetto…Il diritto ad ‘eguale considerazione è rispetto’, che può essere stabilito
ricorrendo a considerazioni puramente formali, non è altro che una riformulazione del
requisito di universalizzabilità dei principi morali” (MT, p. 198). In realtà, si potrebbe
298
Cfr. P. H. Nowell-Smith: “l’appello all’utilitarismo…risiede in gran parte nel richiamarsi alla
razionalità…per approntare una cornice comprensiva e coerente nella quale tutti problemi morali possano
essere risolti. Ma forse questa è solo un’illusione…La filosofia morale concerne le azioni, e parlare di
azioni significa sempre parlare del mondo dell’incerto, del contingente e dell’imprevisto. Non ci si deve
aspettare alcuna ragione a priori che possa valere come singolo principio universale ed onnicomprensivo”
(Cfr., Some Reflections on Utilitarianism, “Canadian Journal of Philosophy”, n. 4, 1971, p. 423).
174
obiettare, in questo caso si sta chiedendo all’utilitarismo di fare più di quello che esso
può fare in campo morale, trascurando il fatto che un riferimento di carattere
deontologico forse consentirebbe una fondazione più cogente di nozioni quali “diritto” e
“giustizia”. Ciò non significa che l’utilitarismo non possa affrontare le questioni legate
alla giustizia, ma solo che il metodo adottato da Hare non sembra essere quello giusto
per affrontarle, tanto che, per l’utilitarismo contemporaneo “tali tentativi si risolvono,
assai spesso…in compromessi eclettici, in forme di ‘consequenzialismo’ in cui è
possibile immettere qualsivoglia ‘mix’ di ‘valori”299.
Ad ogni modo, il vero punto critico sembra essere la pretesa di derivare l’utilitarismo
in modo logico dal prescrittivismo universale. Hare infatti ritiene che le caratteristiche
pratiche dell’utilitarismo (welfarismo e consequenzialismo) possano essere fondate in
modo formale dai principi logici del suo prescrittivismo. Pertanto, stante questa
fondazione, le critiche solitamente condotte contro di tali caratteristiche potevano essere
agevolmente respinte. In realtà, se si analizza bene il rapporto tra prescrittivismo ed
utilitarismo, si può sostenere che welfarismo e consequenzialismo non sono derivati
logicamente dal prescrittivismo universale. Essi infatti, benché introdotti da Hare nella
sua teoria etica, rimangono due requisiti autonomi che, per i loro caratteri essenziali,
non scaturiscono da premesse formali.
L’autore ha invece cercato di evidenziare la natura a priori che la sua teoria etica
possiede, intendendo sostenere che il prescrittivismo universale regge, come insieme di
premesse teoriche, le conseguenze normative dell’utilitarismo e dunque le categorie
concettuali tipiche di esso possiedono un diverso e rinnovato significato, giacché
razionalmente fondate, a differenza di quel che accade nell’utilitarismo classico.
Pertanto, è vero che un atto possiede un’utilità di accettazione se massimizza il
benessere collettivo producendo conseguenze benefiche, ma esso è valido in realtà se e
solo se il giudizio che lo esprime è universale e dunque prescrive lo stesso atto per tutte
le circostanze simili: ovvero in virtù della regola logica dell’universalità.
Nell’utilitarismo non prescrittivista, welfarismo e consequenzialismo costituivano il
solo orizzonte di “verifica” della moralità delle azioni e dunque le critiche di Sen e
Williams potevano cogliere nel segno. L’utilitarismo di Hare, invece, essendo una teoria
con un doppio livello di argomentazione, ritiene le azioni accettabili in virtù di due
299
F. Fagiani, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, cit., p. 107.
175
livelli di argomentazione: sia sul piano pratico, in quanto produttrici e conseguenze
benefiche, ma soprattutto ed in prima istanza sul piano logico-formale, in quanto
espresse da prescrizioni universali. In tal modo Hare ritiene di poter “mettere” al sicuro
la sua teoria etica da queste critiche.
Il rapporto tra proprietà logiche della teorie etica e caratteri normativi è dunque
complesso, ma, nella sua esposizione, Hare sembra propendere per l’idea che siano le
proprietà logiche (universalità, prescrittività) a fondare quelle normative, sebbene, a
livello pratico, siano quelle normative (la prescrittività come espressione di preferenze,
la capacità di assumere su di se le preferenze altrui, il welfarismo ed il
consequenzialismo) che paiono essere più cogenti. È questo il problema di fondo della
riflessione di Hare, e per questo egli ha cercato, nelle sue opere, di derivare in modo
razionale i caratteri normativi dell’utilitarismo dai presupposti logici del prescrittivismo
universale: per questa ragione egli ha sostenuto che la sua teoria si basa su un
fondamento a priori, sebbene tale a priori sia di valore logico linguistico, non etico.
In realtà, consequenzialismo e welfarismo sembrano essere assunti, anche
nell’utilitarismo di Hare, come presupposti non logicamente fondati. Infatti, è evidente
che non sempre si ricercano le conseguenze migliori dei nostri atti per trarne
soddisfazioni: molto spesso è il compimento stesso dell’azione a fornire una
soddisfazione ed esso è preferito: “abbiamo preferenze che vengono soddisfatte non in
conseguenza di azioni ma nell’esercizio dell’azione stessa; così come ci sono atti, per
esempio la violenza su un innocente…che non ci appaiono universalizzabili in forza
delle loro conseguenze, ma in quanto sono un certo tipo di atti, che manifestano il
mancato rispetto verso l’altro come soggetto morale”300. Come si ricorderà, Williams,
contestando il consequenzialismo, ha evidenziato come non sia possibile porre
un’esclusiva attenzione agli esiti delle nostre azioni, escludendo la considerazione della
loro qualità intrinseca e della responsabilità di chi agisce. Spesso infatti agiamo in un
modo senza sapere chiaramente quali esiti otterremo, oppure riteniamo sia corretto
muoverci in un certa maniera, indipendentemente da ciò che accadrà. In altre parole il
consequenzialismo non sembra riflettere l’usuale modo di agire degli individui e nessun
presupposto logico-linguistico potrebbe fondarlo: di conseguenza Hare è costretto ad
introdurlo in modo surrettizio.
300
R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., pp. 121-122.
176
Un discorso simile si può fare per il welfarismo, il quale non è una caratteristica
logicamente fondata, dato che non sempre le nostre azioni mirano all’incremento di
benessere; spesso infatti agiamo perché riteniamo sia giusto farlo, a prescindere dagli
esiti dell’atto o dall’utilità che esso può aumentare: ciò significa che “Non sembra…che
dalle
caratteristiche
del
linguaggio
morale,
e
in
particolare
dal
requisito
dell’universalizzabilità, derivi necessariamente il principio di utilità, poiché questo
risulta dall’introduzione surrettizia di due dei suoi elementi costitutivi: il benesserismo e
il consequenzialismo”301. La teoria etica di Hare, dunque, se vuole evitare queste
critiche, deve sostenete che il suo fondamento logico-linguistico è il vero elemento
significativo e decisivo, ma in tal modo viene accusato di sterilità; se invece dovesse
richiamarsi al carattere pratico del suo utilitarismo, come si è visto, si trova a dover
respingere le usuali critiche condotte contro di esso.
Si può infine sottolineare che l’insieme delle critiche alla riflessione di Hare che si è
cercato di riferire, coglie probabilmente il segno in quanto sottolinea la difficoltà
dell’approccio semantico all’etica di costruire una moralità capace di influenzare la
condotta pratica, ma risulta eccessivo se ritiene di poter negare legittimità a qualsiasi
analisi linguistica dei termini morali. La riflessione di Hare pertanto può essere
giudicata insufficiente rispetto alla possibilità di fondare una moralità pratica, ma risulta
molto completa, efficace ed esaustiva se assunta come analisi chiarificatrice e
puntigliosa del linguaggio morale. Essa infatti mantiene una sua validità se “va vista
come tesa a individuare le condizioni di possibilità del nostro discorso morale (e al di là
di questo di una forma di vita profondamente radicata nella nostra cultura) e partendo da
questo a proporre modelli cui ricorrere per rendere più coerente – attraverso stipulazioni
e ridefinizioni – il linguaggio comune”302.
Hare è senz’altro stato dunque un grande filosofo del linguaggio morale, in quanto ha
contribuito in modo notevole a mettere in chiaro cosa significa discutere le questioni
morali e quali argomenti possono essere utilizzati per rendere tali discussioni meno
complicate e sterili. Di certo le sue proposte metodologiche possono apparire unilaterali,
poco funzionali, ma egli ha comunque cercato di definire strumenti concettuali
universali per permettere di discutere in etica a partire da basi il più possibili comuni e
301
Ibidem, p. 122.
E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee,
cit., pp. 85-86 (corsivo aggiunto).
302
177
condivise dalle persone. Questo è un obiettivo ambizioso, sicuramente non facile da
ottenere e tuttavia, per gran parte dei filosofi morali, è l’obiettivo più importante, ossia
quello di costruire un’etica che possa effettivamente essere universale, che possa valere
per tutti gli esseri umani in ogni luogo della terra essi siano e per combattere quel
relativismo morale che secondo Hare rappresenta una imperdonabile rinuncia ad
occuparsi di questioni etiche, le quali rappresentano l’essenza dell’uomo. Le soluzioni
di Hare, senza dubbio discutibili, indicano tuttavia una strada, una direzione che può
essere ampliata, corretta, integrata con altre soluzioni razionali o normative, ma non del
tutto abbandonata.
178
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