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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA CICLO XVII COORDINATORE DEL DOTTORATO DI RICERCA: prof. G. B. Gori METAETICA ED ETICA NORMATIVA NELLA RIFLESSIONE MORALE DI R. M. HARE Dottorando: Giuseppe Barreca Matr.: R04614 TUTOR: prof. Amedeo Vigorelli ANNO ACCADEMICO 2004-2005 2 Indice Introduzione......................................................................................................................4 CAPITOLO 1. L’etica e il suo linguaggio .........................................................................21 La concezione funzionalista del linguaggio ...................................................................24 Proposizioni descrittive e proposizioni valutative..........................................................26 Universalità e prescrittività e sopravvenienza ................................................................29 Il significato di “buono”, dovere e giusto.......................................................................36 Il problema del naturalismo............................................................................................42 Il non descrittivismo .......................................................................................................45 CAPITOLO 2. Prescrittivismo universale..........................................................................52 Il prescrittivismo come principio normativo ..................................................................52 L’immedesimazione simpatetica ....................................................................................56 Le difficoltà del prescrittivismo .....................................................................................60 Il fanatico........................................................................................................................63 L’incompletezza del prescrittivismo ..............................................................................69 Le tesi logiche e le questioni normative .........................................................................73 CAPITOLO 3. Livelli del pensiero morale ed utilitarismo ................................................77 Le questioni aperte..........................................................................................................80 Un nuovo orizzonte normativo .......................................................................................82 La formalità dell’utilitarismo .........................................................................................87 I livelli del pensiero morale ............................................................................................90 La funzione dei livelli del pensiero morale ....................................................................96 CAPITOLO 4. L’utilitarismo di Hare ..............................................................................101 I fattori dell’azione morale ...........................................................................................102 Stato cognitivo, stato affettivo e stato conativo............................................................106 La moralità e la prudenza .............................................................................................109 I confronti interpersonali ..............................................................................................111 La scelta delle preferenze .............................................................................................116 La misurazione dell’utilità............................................................................................119 CAPITOLO 5. I problemi della svolta linguistica............................................................125 La fondazione “linguistica” dell’utilitarismo ...............................................................127 Esiste una logica del ragionamento morale? ................................................................132 Termini primariamente e secondariamente valutativi ..................................................143 Problematicità della distinzione fatto/valore ................................................................147 CAPITOLO 6. L’utilitarismo e i suoi “nemici” ...............................................................149 I problemi del welfarismo.............................................................................................149 La questione delle preferenze .......................................................................................151 I problemi del consequenzialismo ................................................................................157 Utilitarismo e identità personale...................................................................................160 Le risposte di Hare........................................................................................................166 3 Considerazioni conclusive............................................................................................170 Bibliografia...................................................................................................................178 Abbreviazioni delle principali opere di Hare citate nel testo LM: The Language of Morals, Oxford University Press, Oxford 1952 (trad. it. Il linguaggio della morale, a cura di M. Borioni, Ubaldini, Roma 1968). FR: Freedom and Reason, Oxford University Press, Oxford 1963 (trad. di Libertà e ragione, a cura di M. Borioni e F. Palladini, il Saggiatore, Milano 1971 e 1990). MT: Moral Thinking: Its Levels, Methods and Points, Oxford University Press, Oxford 1981 (trad. it. Il pensiero morale. Livelli, metodi, scopi, a cura di S. Sabattini, il Mulino, Bologna 1989). SO: Sorting out Ethics, Oxford University Press, Oxford 1997. 4 Introduzione La riflessione morale di Richard M. Hare (1919-2002) è una delle più sistematiche applicazioni dei metodi della filosofia analitica ai problemi dell’etica. Essa sostiene che i giudizi morali che gli esseri umani formano ed in virtù dei quali regolano la propria condotta, hanno tre precise caratteristiche: 1) l’universalità (ossia l’idea che un giudizio morale enunciato in particolari circostanze debba essere espresso nella medesima forma, quando si presentano situazioni simili, negli aspetti rilevanti, alle circostanze che ne hanno determinato l’originaria enunciazione); 2) il loro carattere prescrittivo (ossia il fatto che con l’esprimere un giudizio ci si impegna ad aderire ad esso con fermezza, ad agire in coerenza con esso e a fare in modo, attraverso un’argomentazione razionale e non per mezzo della semplice persuasione oppure della coercizione propagandistica, che anche gli altri facciano altrettanto); 3) il loro essere soverchianti (ossia predominanti, e dunque gerarchicamente superiori rispetto alle altre forme di giudizio, ad esempio quelle estetiche o quelle descrittivo fattuali). Hare si inserisce nel filone di riflessione di carattere metaetico, peculiare della filosofia anglosassone della prima metà del ‘900 e inaugurato da G. E. Moore con i suoi Principia Ethica (1903), secondo il quale il compito del filosofo morale è quello di indagare le regole che sottostanno all’uso dei predicati etici; sarà perciò la chiarificazione del significato di termini come “buono”, “giusto”, “doveroso”, ad attirare l’attenzione degli studiosi che applicano i metodi della filosofia del linguaggio all’analisi dei termini e degli enunciati morali. Infatti, per evitare confusioni concettuali foriere di errori morali, va prima ben chiarito l’ambito linguistico di utilizzo dei termini: solo dopo questo passo potrà esserci discussione in etica, poiché ci sarà un accordo, a valle, sul significato dei termini che si utilizzano. È assente, nella riflessione di questi autori, la definizione di un modello normativo, eccetto per un riferimento all’utilitarismo da parte di Moore nel volume Ethics (1912). Lo stesso Hare, all’inizio della sua riflessione, ritiene che prima di affrontare qualsiasi questione morale, ci debba essere un preliminare accordo sul significato dei termini utilizzati per enunciare le proprie prescrizioni. Il compito del filosofo morale si può efficacemente esplicare nella determinazione delle condizioni di possibilità dei giudizi morali, chiarendo le proprietà logiche dei termini che in essi occorrono; di converso, non è possibile una altrettanto efficace riflessione relativa all’etica normativa. 5 I giudizi morali sono tali in primis se sono logicamente coerenti, ossia prescrittivi ed universali, poiché, secondo Hare l’etica è una branca della logica: “Io definisco l’etica teoretica una branca della logica, perché il suo scopo principale è scoprire il modo di determinare quali sono gli argomenti giusti rispetto alle questioni morali” (SO, p. 4). Pertanto, quando Hare sostiene in The Language of Morals (1952) che gli enunciati prescrittivi devono rispondere alla domanda (che fare?), egli asserisce che la forza motivante è intrinseca agli enunciati stessi: il dovere primario per il filosofo morale è operare dei ragionamenti logicamente coerenti al fine di agire in modo razionale. L’analisi di Hare è comunque innovativa nella misura in cui riconosce agli enunciati dell’etica un significato autonomo: in tal modo, viene superare l’argomentazione svolta dall’emotivismo etico che, nella formulazione radicale di Ayer1, non annetteva alcun significato alle proposizioni morali, mentre nella formulazione moderata di Stevenson2, postulava l’esistenza di un generico significato emotivo, secondo il quale gli enunciati dell’etica avevano il compito di persuadere l’ascoltatore. Hare invece è convinto che le proposizioni della morale possiedono un significato peculiare, quello prescrittivo, in quanto devono fornire ragioni per la condotta: l’etica gode dunque di uno spazio autonomo, giacché le sue proposizioni non devono essere vere o false, bensì universali e prescrittive nel senso sopra definito: è questo il non cognitivismo di Hare. La convinzione secondo cui l’etica sia una branca della logica promuove un’analisi semantica3 degli enunciati morali, tesa a chiarire la funzione ed il significato che essi svolgono all’interno del linguaggio morale, unitamente al fatto che tali enunciato influenzano la condotta, determinando le decisioni. Gli enunciati dell’etica sono perciò analizzati in virtù di determinate regole d’uso, ossia in virtù delle consuetudini secondo cui i parlanti li impiegano nel linguaggio nel quale esprimono tali enunciati. Il senso delle proposizioni e dei termini etici infatti coincide con le loro regole d’uso; il fatto poi che ogni lingua e cultura possieda dei differenti segni fonetici per esprimere i concetti morali, non significa che non esistano regole d’uso universali che regolino l’utilizzo dei 1 Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, Gollacz, London 1946, (trad. it. Linguaggio, verità e logica, a cura di G. De Toni, Feltrinelli, Milano 1987). 2 C. L. Stevenson, Ethics and Language, Yale University Press, Yale 1944 (trad. it. Etica e Linguaggio, a cura di S. Ceccato, Longanesi, Milano 1962). 3 Scrive U. Scarpelli, I fondamenti e il metodo dell’analisi del linguaggio, in L’etica senza verità, il Mulino, Bologna 1982, p. 16: “le regole semantiche [sono] quelle concernenti le relazioni tra i simboli e gli stati o eventi non linguistici”. 6 concetti espressi dai termini morali4. Per esempio, se un termine come “ought” è utilizzato in senso etico, esso avrà un contenuto concettuale comune alle differenti lingue, poiché in ogni linguaggio esso segue determinate regole d’uso che lo collegano all’espressione di un’obbligazione5. Pertanto, “se ‘ought’ è un termine formale, allora dovremmo essere capaci di scoprire tutto quel che c’è da sapere riguardo al suo significato ed alle regole per il suo impiego attraverso lo studio delle sue proprietà logiche” (SO, p. 6)6, le quali, per gli enunciati contenenti il verbo “dovere”, sono la universalità e la prescrittività. Ciò vuol dire che i significati delle proposizioni e della parole morali…determinano la logica delle inferenze nelle quali esse appaiono. Pertanto, uno studio dei significati delle parole o proposizioni morali, o di quello che le persone intendono asserire quando le pronunciano, dovrebbe renderci capaci di indagare le proprietà logiche di quel che essi dicono, e così decidere se quel che sostengono sia in sé coerente (selfconsistent), se implica qualcosa, ed in generale quali argomenti (razionali) sono buoni e quali non lo sono. Dunque la filosofia del linguaggio, applicata al linguaggio morale, dovrebbe essere in grado di fornire una struttura logica al nostro pensiero morale (SO, p. 1). Hare tuttavia, a partire dell’opera Freedom and reason (1963), sembra più incline a dedicarsi alla disamina della condotta pratica, senza però elaborare una dottrina normativa, anzi, rimanendo convinto del fatto per cui essa esula dal compito del filosofo morale, il quale non la può fondare in modo razionale. Per questo, accanto ad una definizione di carattere “pratico” delle proprietà logiche dei termini morali, egli rimane convinto che, una volta chiariti i loro significati, gran parte del lavoro sia compiuto: l’enunciazione di regole per rendere coerente e chiaro il nostro ragionamento morale è una condizione essenziale per agire correttamente. Ciò che rimane fondamentale è la correttezza formale delle analisi del filosofo, il quale peraltro sa che le proposizioni dell’etica, essendo non verificabili in quanto prive di significato descrittivo, non 4 Un teorico dell’utilitarismo come R. D. Brandt contesta però questa idea, sostenendo che “anche se le intuizioni linguistiche mirassero ad una parafrasi della terminologia normativa più rigorosa di quanto facciano effettivamente ora, non ci si potrebbe appoggiare ad esse per farsi guidare nella riflessione normativa. Perciò il linguaggio può incorporare distinzioni confuse, o non riuscire ad operare le distinzioni che è importante fare. In effetti, l’inglese non lo fa” (Cfr. A Theory of the Right and the Good, Clarendon Press, Oxford 1979, p. 5). 5 Si ricorda che Hare sostiene di appartenere “alla scuola di pensiero secondo la quale studiare le proprietà logiche delle parole è lo stesso che studiare i concetti. La logica formale, in questa prospettiva, è la formalizzazione delle regole che governano le parole…e che determinano i significati di quelle parole”. Cfr., L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, a cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1992, p. 103. 6 Un comportamento in parte differente possiede il termine “buono”, il quale è in genere anche usato in proposizioni non prescrittive. Cfr. R. M. Hare, The Language of Morals, capp. IX e X. 7 possono avvalersi, per essere fondate, delle procedure razionali proprie delle posposizioni scientifiche. Il valore che dunque va promosso, in primo luogo e preventivamente, è quello della coerenza logica dei nostri giudizi, ovvero la necessità di affermare il loro accordo con le regole d’uso dei termini che li compongono. Se un giudizio si mostra non universalizzabile, esso non è un giudizio morale e colui che pretende di impiegarlo come tale mostra di non conoscere il significato dell’universalità. “Il contributo di un filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e, mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto, argomentazioni valide”7. I due elementi base che compongono l’argomentazioni morale sono perciò la logica ed i fatti empiricamente osservabili8; tra di essi, la logica possiede una indubbia priorità epistemologica, sebbene cronologicamente siano in genere i fatti non morali, ossia i caratteri contingenti delle situazioni in cui si agisce, ad essere incontrati per primi nella realtà. Per questo Hare ritiene che per il filosofo non sia possibile obbligare nessuno ad agire in un certo modo, ma che sia necessario, per giustificare una certa scelta, fornire delle valide ragioni all’individuo per indurlo ad agire in base ad essa. Pertanto, l’eventuale decisione in contrasto con un principio morale razionale, non è imputabile ad un difetto dell’argomentazione, bensì ad una mancanza dell’individuo, il quale si mostra incapace di accettare pienamente la ragione che gli viene fornita come motivo dell’azione: come detto, per Hare se ciò accade, significa che l’individuo non è in grado di ragionare in modo critico in etica. Per questo si può dire che la teoria etica di Hare è “internalista”9, poiché, in quanto analisi concettuale delle proposizioni dell’etica, essa dichiara che accettare una prescrizione morale significhi eo ipso anche possedere una motivazione per agire come essa prescrive. Si può altresì dire che l’individuo che agisce 7 R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo ed oltre, a cura di S. Veca e A. Besussi, il Saggiatore, Milano 2002, p. 32. 8 In Moral Thinking, Hare evidenzia come il processo che conduce alla decisione morale contempla la logica, le opinioni fattuali, i giudizi prescrittivi e l’azione. Tuttavia, i primi due elementi sono quelli realmente originali e fondativi, poiché gli ultimi due sono da essi derivati. 9 L’internalismo “afferma…che 1) vi è una relazione necessaria tra considerazioni morali e motivazione; 2) tale relazione è costitutiva del concetto stesso di considerazione morale; 3) essa è una verità concettuale che riguarda la moralità. L’internalismo perciò è un modo particolare di rispondere al requisito della motivazione, in quanto stabilisce una relazione interna tra motivazione e giustificazione…le considerazioni morali sono intrinsecamente motivanti proprio perché sono esse stesse espressioni di fattori motivanti, come i desideri e le passioni”. Cfr. P. Donatelli, La filosofia morale, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 117-118. 8 contro il prescrittivismo opera una errata valutazione della situazione che affronta, perché possiede delle informazioni limitate, sia sui fatti, sia sul significato dei termini attraverso cui egli mette in forma linguistica le proprie scelte e comprende le preferenze altrui, anch’esse espresse linguisticamente. Pertanto, l’individuo agente deve compiere, quantomeno a livello ideale, un ragionamento che si potrebbe definire logico e teoretico, e solo in un secondo momento etico, dato che, come detto, per Hare il fondamento della giusta condotta è una piena capacità di pensiero morale razionale, di cui l’analisi semantica rappresenta un caposaldo10. L’elemento di novità che comunque comincia a farsi strada nella riflessione di Hare in Freedom and reason (ma nemmeno in The Language of Morals esso era del tutto assente11) è però significativo: Hare a questo proposito sostiene che la sua teoria etica, denominata “prescrittivismo universale” è realmente cogente se mostra di possedere delle implicazioni normative. Per di più, Hare lascia trasparire una certa inclinazione per l’utilitarismo, ma ritiene che esso sia solo una delle dottrine normative che possono accordarsi col prescrittivismo da lui elaborato. Questi infatti può benissimo fornire efficaci indicazioni per la condotta ed impiegare in modo strumentale alcune categorie concettuali dell’utilitarismo, il quale, depurato della sua componente edonistica ed eudemonistica, è un suo corollario. In particolare, l’universalità, pur rimanendo una regola di natura logica, può avere un’applicazione pratica, in quanto essa impone di giudicare allo stesso modo situazioni simili, ovvero impone di essere del tutto imparziali quando si affrontano questioni pratiche e di essere disposti a soppesare in modo appunto imparziale le inclinazioni, gli interessi e gli ideali delle persone coinvolte. Questo processo si attua attraverso la procedura dell’inversione dei ruoli che, condotta attraverso l’immedesimazione ed un atteggiamento simpatetico, deve consentire al soggetto di immaginare quel che l’altro prova, permettendogli di capire quel che lui stesso proverebbe se si trovasse in quella condizione, dotato di quelle particolari inclinazioni. Pertanto, un giudizio morale è tale se supera una sorta di test di 10 B Williams in L’etica e i limiti della filosofia, a cura di R. Rini, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 155, accusa Hare di paragonare la scorrettezza morale con la scorrettezza logica, la quale invece ha una natura diversa. Considerazioni critiche sulla debolezza del concetto di akrsaia sono svolte anche da A. K. Sen, Scelta, ordinamento e moralità (1972), in A. K. Sen, Scelta benessere, equità, a cura di S. Zamagni, il Mulino, Bologna 1986, pp. 141-142. 11 L’etica infatti non coincide del tutto con la filosofia del linguaggio. Cfr., LM, p. 57: “L’errore più grave [di un’etica solo linguistica]…consiste nel non tenere conto di un fattore essenziale della vita morale. Questo fattore è la decisione. Chi agisce moralmente non fa una semplice inferenza, ma decide di violare un principio morale oppure di rispettarlo”. 9 universalizzabilità, ovvero se chi lo enuncia nella situazione S è disposto ad enunciarlo per tutte le situazioni simili ad S negli aspetti rilevanti ed è altresì disposto a prescrivere la medesima condotta nel caso egli si trovasse nei panni dell’altro individuo: chi non accetta questi presupposti, non enuncia giudizi morali. Dunque, un interesse conta più di un altro solo se espresso da un giudizio universalizzabile e, di riflesso, se a posteriori mostra di procurare conseguenze positive: vi è qui un riferimento al precetto evangelico che chiede di non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te. Tuttavia, si è fatto notare che è possibile che un soggetto, pur accettando i presupposti formali del prescrittivismo, possa poi comunque agire, a livello pratico, in modo immorale: è il caso del fanatico nazista che afferma che, nel caso si scoprisse che lui avesse lontane origini ebraiche, accetterebbe di essere ucciso nei forni crematori. Hare ammette che, di fronte ad un fanatico di questo tipo, la sua teoria etica potrebbe fare ben poco, poiché essa propone solo delle ragioni logiche, non pratiche, agli individui, i quali possono anche accettare tali ragioni, ma agire diversamente. Ad ogni modo, aggiunge l’autore in modo consolatorio, per fortuna i fanatici di questo genere sono rari. Anche per rispondere a queste obiezioni che lui stesso riconoscerà come in parte fondate, Hare nelle opere successive apporterà delle modifiche alle sue riflessioni morali, nel tentativo di completare il prescrittivismo attraverso l’utilitarismo, visto adesso come dottrina coerente con il prescrittivismo stesso. I risultati dell’analisi metaetica devono rimanere come punti saldi, assodati, ma sembra farsi strada l’esigenza di una più stringente riflessione di stampo normativo che possa influenzare realmente la condotta. L’utilitarismo non viene ad essere più un semplice corollario o uno strumento del prescrittivismo universale, ma è ad esso organico, in quanto deriva logicamente dal prescrittivismo stesso, il quale permane come suo presupposto formale, a priori. In altre parole, i giudizi morali universali e prescrittivi, se utilizzati nel modo corretto, non possono che condurre, sul piano normativo, ad una dottrina utilitarista, sebbene non sempre nella pratica gli individui agiscano di conseguenza. In particolare, l’adesione all’utilitarismo della preferenza nasce non solo da un rifiuto dell’edonismo, già chiaro in Freedom and Reason, ma anche, come aveva detto già Sidgwick, dalla convinzione che vi debba essere una distinzione tra la teoria etica (“una teoria etica costituisce una riposta alla domanda centrale dell’etica teorica di quali siano, in via di principio, le condizioni necessarie e sufficienti dell’agire moralmente retto e 10 doveroso…ma nulle dice circa il modo in cui, in concrete situazioni di scelta, si deve deliberare”) e il metodo di deliberazione, il quale “si articola in una serie di direttive indicanti le operazioni che si debbono fare al fine di individuare, in concrete situazioni di scelta, quale sia l’azione moralmente retta e doverosa”12. A parere di Hare, come il prescrittivismo può fornire una base formale ed universale all’utilitarismo, allo stesso tempo quest’ultimo può diventare il completamento del prescrittivismo. Inoltre, per rendere conto in modo più chiaro dell’effettivo svolgimento del nostro pensiero morale (il quale è molto complesso e non riducibile ad un insieme di procedure esclusivamente razionali), egli elabora la dottrina dei due livelli del pensiero morale. In tal modo Hare ritiene di poter spiegare sia quale dovrebbe essere un pensiero morale ottimale, sia quale ruolo e, entro certi limiti, quale funzione possono svolgere gli elementi non pienamente razionali o intuitivi sui quali spesso basiamo la nostra condotta. Esiste un livello intuitivo, attraverso cui gli individui agiscono secondo le proprie intuizioni morali, le quali sono utilizzate in modo immediato ed acritico, specialmente quando gli individui non sono in grado di ragionare in modo lineare, per esempio perché inesperti o costretti ad agire in situazioni di stress, tensione, ovvero allorché non è possibile operare una valutazione completa della situazione. In questa fase chi agisce si affida alle proprie intuizioni morali, che Hare denomina principi prima facie, sulla scia della riflessione di D. Ross che però Hare giudica incompleta, come peraltro tutto l’intuizionismo etico13. Questo livello di pensiero, le cui intuizioni non sono solo regole d’esperienza, ma qualcosa di più pregnante, ovvero principi la cui trasgressione provoca rimorso, possiede comunque un certo ruolo ed è in genere affidabile, soprattutto se deriva da una buona educazione e da buone esperienze precedenti. Il livello superiore, quello critico, caratteristico della riflessione razionale, condotta serenamente, a mente fredda, è paragonabile al modo in cui un ipotetico arcangelo affronterebbe le questioni morali: “alle prese con una situazione imprevista [l’arcangelo] sarà in grado di individuare tutte le proprietà, comprese le conseguenze delle azioni alternative, e di formulare un principio universale (ma forse altamente specifico) che egli seguirà in quella situazione, indipendentemente dal ruolo che occupa. Poiché egli non possiede 12 G. Pontara, Utilitarismo e giustizia distributiva, in E. Lecaldano/S.Veca, (a cura di), Utilitarismo oggi, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 64. 13 Come sottolinea G. Preti, in Morale e metamorale, a cura di E. Migliorini, Franco Angeli, Milano 1989, vi è tuttavia una differenza tra l’intuizionismo di Moore, quello di Prichard e quello di D. W. Ross. 11 alcun sentimento egoistico ed è privo della altre debolezze umane, agirà secondo quel principio, se esso gli ordina di agire” (MT, pp. 77-78). Il livello critico seleziona i migliori principi prima facie utilizzati al livello intuitivo e, attraverso questa selezione razionale ed oculata, può porre fine ai conflitti e alle incoerenze fra principi che hanno luogo solo se non si è in capaci di pensare criticamente. Tra i due livelli di pensieri vi è un rapporto “moderatamente” gerarchico, in quanto il pensiero critico è teoreticamente superiore all’intuitivo, tuttavia, se una persona è stata bene educata (preferibilmente da un educatore utilitarista) ed è capace di esercitare il proprio pensiero morale in modo efficace, tra i due livelli, in gran parte delle situazioni quotidiane, vi è in genere accordo. Secondo Hare, l’utilitarismo è la dottrina morale che meglio si accorda con il livello intuitivo, quello attraverso il quale gli individui agiscono quotidianamente e che dunque rappresenta l’origine della maggior parte dei nostri comportamenti morali. Ciò significa che se un certo atto compiuto intuitivamente si rivela efficace, ossia benefico, la persona che lo ha compiuto lo riterrà d’ora in avanti tale e lo farà entrare nel suo patrimonio di principi prima facie. Per diventare un giudizio morale, questo atto dovrà però essere accettato dal pensiero critico, ovvero essere universalizzabile, prescrittivo e in linea con il dovere di giudicare imparzialmente fra le proprie preferenze e quelle altrui. Se esso soddisfa questi criteri, per il pensiero critico potrà essere considerato un principio morale valido non solo intuitivamente (ovvero prima facie), bensì anche razionalmente. Pertanto, una volta che si presenta l’occasione per applicare il suddetto principio, l’individuo vi farà ricorso in modo immediato, senza una nuova riflessione. I dettami dell’utilitarismo sono quelli che si mostrano in genere capaci, a livello critico, di essere espressi attraverso proposizioni prescrittive ed universali, e di produrre, a livello empirico, intuitivo, le conseguenze più benefiche, promovendo le preferenze universalizzabili e dotate di una elevata utilità di accettazione. I due momenti di pensiero non si succedono cronologicamente, né l’uno deve superare l’altro ma, come detto, l’ideale è che entrambi, nel proprio ambito di applicazione, siano efficienti. Essi non sono due modelli astratti, anche perché, nota l’autore, non esiste né un individuo che agisce solo intuitivamente, né un individuo che agisce solo criticamente (infatti solo un ipotetico arcangelo potrebbe fare così). L’ideale è ottenere la giusta miscela tra questi due modi di affrontare le questioni morali. Hare sostiene inoltre che solitamente, a livello intuitivo, si rivela più efficace l’utilitarismo 12 della norma, mentre, a livello critico, l’arcangelo agirebbe secondo l’utilitarismo dell’atto, poiché egli non ha bisogno di rispettare delle norme, in quanto agisce spontaneamente nella maniera utilitaristicamente più efficace e corretta (e dunque ha incorporato in sé le regole). Queste precisazioni servono all’autore per sfuggire alle accuse di eccessiva astrazione della sua argomentazione e, al contempo, all’obiezione secondo la quale la figura dell’arcangelo è irreale, alla pari di quella dello spettatore imparziale simpatetico (esplicitamente ripresa da Harsanyi dalla riflessione di Adam Smith). Si può qui osservare che, attraverso l’impiego della figura dell’arcangelo, Hare utilizza, come altri filosofi morali moderni, una “finzione logica”. Inoltre, la figura dell’arcangelo si differenzia da quella dell’osservatore imparziale simpatetico in quanto trova la sua giustificazione nell’universalità, ossia in una proprietà logica consistente nella possibilità di tenere conto di tutti i desideri delle persone coinvolte, ossia di occupare tutte le posizioni da loro occupate e giudicare alla fine nel modo giusto senza difficoltà. Hare pensa che le contraddizioni che l’utilitarismo spesso ha mostrato nella pratica fossero dovute al suo esser privo di un fondamento formale a priori, come invece sarebbe il prescrittivismo, in quanto teorie etica. Il prescrittivismo è allora l’intelaiatura che sorregge l’utilitarismo in quanto dottrina normativa e, per questo suo ruolo, a livello formale, i suoi enunciati non possono ospitare riferimenti individuali. “Dalle proprietà formali, logiche, delle parole morali, e in particolare dal divieto logico di introdurre riferimenti individuali nei principi morali, è possibile derivare dei canoni formali di argomentazione morale, per esempio la norma che vieta di fare discriminazioni tra gli individui, a meno che non sussista una qualche differenza qualitativa che le giustifichi”14. L’utilitarismo, dal canto suo, possiede un carattere pratico che lo rende dinamico, attento ai fatti e in gran parte vicino al modo ordinario con il quale le persone affrontano le questioni morali. Il tentativo di fornire all’utilitarismo un fondamento universale, di carattere logico, è di certo innovativo; l’utilitarismo si presenta da un lato come dotato di una base formale (poiché regolato dal prescrittivismo), dall’altro possiede un valore sostanziale, in quanto seleziona le preferenze degli individui che possiedono una elevata utilità di accettazione in quanto universalizzabili. 14 R. M. Hare, Giustizia ed uguaglianza (1978), in R. M. Hare, Sulla morale politica, a cura di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 214. 13 Per quel che riguarda i caratteri dell’utilitarismo, Hare appare vicino ai teorici moderni di esso: in particolare, condivide con J. J. C. Smart la possibilità di tratteggiare, per la prima volta, un utilitarismo non naturalista e non cognitivista15. Hare inoltre rifiuta le restrittive nozioni di “piacere” e “dolore” e quella di “felicità”, ritenuta troppo vaga, assumendo invece il concetto di “preferenza” (derivato in gran parte da Harsanyi): essa infatti sembra essere più funzionale per cogliere l’ampiezza e la varietà delle motivazioni che spingono i soggetti ad agire. Pertanto, per l’utilitarismo di Hare: a) i giudizi morali devono essere universalizzabili; b) un giudizio deve altresì essere prescrittivo, ossia, dal punto di vista normativo, esprimere le preferenze valide del soggetto, mentre, dal punto di vista logico, deve indicare una condotta o un comportamento; c) le preferenze valide sono quelle che, solo se universalizzabili, mostrano di possedere una elevata utilità di accettazione, indipendentemente dalla singola persona che le sperimenta16; d) tali giudizi devono essere accettati dal soggetto come vincolanti per tutte le situazioni simili, indipendentemente dal ruolo che egli occupa (vittima, carnefice); è questo il criterio di imparzialità assoluta17; e) va massimizzata la somma totale delle singole utilità individuali (principio dell’ordinamento-somma); f) gli atti vanno promossi o vietati solo se aumentano o diminuiscono la quantità di benessere della società, ossia solo se promuovo o non promuovono le preferenze accettate; g) vanno promossi solo quegli stati di fatto che soddisfano al massimo le preferenze. 15 Cfr. E. Lecaldano, Introduzione a J. J. C. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, a cura di B. Morcavallo, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 18-20. 16 “Come dire, un interesse è un interesse e una preferenza è una preferenza, di chiunque essa sia e, a certe condizioni, qualunque essa sia”. Cfr. S. Veca, Utilitarismo e contrattualismo: un contrasto tra giustizia allocativa e giustizia distributiva, in E. Lecaldano/S. Veca (a cura di), Utilitarismo oggi, cit., p. 102. 17 Cfr. H. Sidgwick, I metodi dell’etica, a cura di M. Mori, il Saggiatore, Milano 1995, libro III, cap. I, pp. 238-239: “Non possiamo dire che un’azione è giusta per A e ingiusta per B, a meno che non si possa individuare nella natura o nelle circostanze delle due azioni una qualche differenza che possiamo considerare come base ragionevole per una differenza relativa ai rispettivi doveri. Pertanto, se ritengo che l’azione sia giusta per me, implicitamente ritengo che essa sia giusta per qualsiasi altra persona, la cui natura e le cui circostanze non sono diverse dalle mie in qualche aspetto importante”. 14 Si può vedere come tale utilitarismo sia altresì welfarista18 e consequenzialista: sebbene Hare sia conscio delle critiche sovente mosse a questi due concetti, egli vuol mostrare che anch’essi derivano logicamente dai presupposti formali (il prescrittivismo universale) che l’utilitarismo assume a proprio fondamento. Inoltre, se si legge il punto c), si nota come Hare non ritenga sia possibile escludere a priori tipi di preferenze, mentre Harsanyi (il quale ritiene peraltro che vada massimizzata l’utilità media della società, quella ottenuta sommando le utilità individuali e dividendola per il numero delle persone) distingueva a priori tra preferenze accettabili e non accettabili19, mentre Hare pensa che una tale distinzione a priori non sia sempre affidabile, giacché va valutata la preferenza e la sua utilità di accettazione, sebbene egli alla fine concordi in sostanza con Harsanyi rispetto alle preferenze da escludere20. Questa forma di utilitarismo secondo Hare è conciliabile con l’etica di Kant, in quanto anch’essa è alla ricerca di un fondamento universale a priori. In realtà, la nozione di universalità in Kant ha un significato differente (per Kant sono doverosi in comportamenti contrari a quelli non universalizzabili), giacché in Hare essa è solo un presupposto logico, privo di effettivo carattere normativo. Come nota J. Mackie, questa nozione di universalità, non sembra adatta a porsi a fondamento di alcuna fondazione linguistica dell’utilitarismo stesso. La differenza con l’etica deontologica è dunque 18 Nota A. Sen che l’accettazione del presupposto welfarista implica altresì l’adesione al criterio dell’ottimalità secondo Pareto, per il quale, la situazione X sarà socialmente preferita a Y, se almeno un individuo preferisce X a Y e nessuno preferisce Y ad X. Uno stato X sarà inoltre ottimo in senso paretiano se e solo se non esiste alcuno stato alternativo Y in cui almeno un individuo stia meglio e nessun altro stia peggio 19 Per Harsanyi, le preferenze palesemente antisociali (come il sadismo, l’odio, l’invidia) devono essere escluse a priori dalla considerazione utilitarista. Vanno escluse altresì le preferenze esterne, ossia quelle in base alle quali l’individuo dice come gli altri dovrebbero essere trattati. Le preferenze accettabili sono invece quelle basate su credenze vere e che riguardano come l’individuo vorrebbe che gli altri lo trattassero. In particolare fanno parte di questo gruppo le preferenze personali, le quali però possono incorporare tendenze egoistiche ma, soprattutto, quelle morali, ossia “quelle che [l’individuo] manifesta in quei momenti (magari rarissimi) in cui impone a se stesso di assumere un atteggiamento imparziale e impersonale, vale a dire, appunto, morale” (J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica utilitaristica, in L’utilitarismo a cura di S. Morini, il Saggiatore, Milano 1994, p. 35), e dunque “Le sue preferenze morali, a differenza di quelle personali, assegneranno sempre il medesimo valore a tutti gli interessi degli individui, inclusi i propri” (J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale, in A. Sen/B. Williams (a cura di), Utilitarismo ed oltre, cit., p. 61). 20 Per esempio, sostiene Hare, le preferenze di un sadico non vanno escluse dalla considerazione utilitaristica a priori, ma in quanto rivelano una utilità di accettazione pressoché nulla giacché non universalizzabili. Pertanto, oltre al pensiero critico, anche l’esperienza qui conta: è infatti dubbio che una società formata da sadici incrementi l’utilità della società stessa, mentre una società in cui più persone si comportano come Madre Teresa di Calcutta avrebbe una elevata utilità di accettazione. Hare sostiene che per fortuna la maggior parte delle persone possiede delle intuizioni tali che le conducono a preferire il comportamento di Madre Teresa di Calcutta e la riflessione critica approverà di certo, in quanto è la più razionale e benefica, questa inclinazione. 15 evidente: “In una teoria deontologica…il tipo di azioni che possono essere ritenute virtuose sono viste come intrinsecamente obbligatorie o ammirevoli ed anche la bontà del carattere può essere vista come dotata di un valore intrinseco; le azioni e i caratteri possono avere un merito per se stesse, non completamente derivato dalle conseguenze che provocano”21. La definizione che Hare fornisce del principio di utilità si basa su due premesse, una di natura metaetica, analizzata soprattutto nella prima parte della sua riflessione, la seconda di valore empirico. Secondo la premessa metaetica, “moralmente giusto in questa circostanza” nel linguaggio ordinario significa che io voglio che sia compiuta l’azione A invece che B in ogni circostanza come questa, tenendo conto che sono un individuo prudente e pienamente informato. La premessa empirica si fonda invece sull’idea per cui una persona prudente e pienamente informata, se può scegliere tra due azioni, sceglierà quella che massimizza i benefici (che ha le migliori conseguenze). la premessa empirica mi dice che, se sono prudente e credo che (qualche volta) verrò a trovarmi nella posizione ora occupata da qualche persona influenzata dalla mia azione, allora, quando devo scegliere tra A e B, preferirò A se e solo se credo che A produca (rispetto a B), conseguenze che, nel complesso, soddisfano maggiormente i desideri delle persone influenzate (dall’azione di A). Quindi possiamo concludere che è moralmente giusto che faccia A invece che B se e solo se l’azione A soddisfa al massimo i desideri delle persone influenzate. E questo…è quanto afferma il principio di utilità22. Ci sono stati diversi rilievi critici alla riflessione di Hare, diretti sia contro la sua fondazione logico-linguistica dell’etica, sia contro l’utilitarismo. Bernard Williams tra gli altri, ha contestato l’utilizzo dell’analisi logico-linguistica per elaborare la teoria etica (egli ritiene che tale analisi sia insufficiente e condotta con un grado troppo elevato di astrazione), e l’approdo all’utilitarismo, da lui ritenuta una dottrina che, se seguita fedelmente, conduce a conclusioni ripugnanti. In particolare, egli ha messo in discussione il presupposto consequenzialista, il fatto per cui l’utilitarista dovrebbe interessarsi solamente agli effetti dei suoi atti, senza badare al valore dell’atto stesso che viene compiuto. Pertanto, l’utilitarista potrebbe non solo accettare di compiere atti riprovevoli per un obiettivo valido, ma si sentirebbe finanche sollevato da qualsiasi 21 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, Penguin Books, Harmondsworth 1990 (1a ediz. 1977), p. 149. 22 M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, Università degli Studi di Milano, Istituto di filosofia e sociologia del diritto, Milano 1984, p. 126. 16 responsabilità rispetto alla propria condotta, la quale risulterebbe dotata di valore solo se in grado di incrementare l’utilità complessiva, indipendente dal genere di atto compiuto. Per Williams (e pure per Rawls), ciò significa che l’utilitarismo non tiene in alcun contro la separatezza delle persone, il valore della loro integrità ed identità personale23. Altre critiche sono state condotte, per esempio da A. K. Sen, in relazione alla pretesa che il soggetto massimizzi le preferenze solo in condizioni di piena informazione: è infatti evidente che non è detto che se una persona non è sa di agire nel modo ottimale per raggiungere quello che preferisce, significa che si sbaglia nel comprendere quello che effettivamente desidera. Inoltre, non è possibile fare riferimento alla somma delle utilità individuali, senza alcuna attenzione per i bisogni e le esigenze dei singoli individui i quali, avendo capacità differenti, avranno esigenze e preferenze diverse, sia qualitativamente che quantitativamente. L’utilitarismo in sostanza non ritiene necessario considerare la descrizione delle qualità individuali per determinate la condotta più benefica, mentre Sen sostiene che le singole capacità vadano considerate24. Per esempio, per un utilitarista due società, A e B, entrambe formate da due individui (x, y), la cui somma delle utilità individuali ha valore 2, sono egualmente preferibili e dunque di eguale valore. Questo però per Sen è un errore, in quanto esso non presta attenzione alla distribuzione dell’utilità. Infatti, nella società A, il valore dell’utilità può essere, per entrambi i suoi membri, uguale a 1 e dunque la distribuzione è equa; nella società B, invece, l’utilità di x ha valore 2 e quella di y è 0: è evidente che le due società non sono egualmente preferibili, perché solo A effettivamente si caratterizza per un’equa distribuzione. Hare evidenzia come la gran parte delle obiezioni contro l’utilitarismo sono costruite ad arte per mettere in difficoltà l’utilitarismo stesso: vengono perciò presentati casi irreali (si immaginano situazioni estreme e drammatiche che metterebbero fuori gioco qualsiasi dottrina morale) per cui l’applicazione ad essi del suo modello di ragionamento morale, può condurre ad esiti controintuitivi e ripugnanti per la morale 23 Tali rilievi riguardano l’utilitarismo in generale, non solo la riflessione di Hare, come testimonia l’intervento del 1973 di B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. J. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit, pp. 122-124. 24 L’attenzione esclusiva alla somma delle utilità individuali, secondo Sen, in una società utilitarista avvantaggerebbe sempre l’individuo messo meglio, perché, stante la sua condizione di privilegio, egli svilupperà delle preferenze più intense e di qualità diversa da chi sta peggio. Infatti, è probabile che chi ha avuto una vita di privazioni, possa sviluppare preferenze di bassa intensità che, nella somma utilitaristica, avrebbero meno valore di quelle di più alta intensità. 17 comune. In realtà, sostiene Hare, nella nostra vita è estremamente raro che ci si trovi di fronte a questi casi e ciò significa che l’utilitarismo in genere funziona, per quel che riguarda le normali vicende quotidiane. D’altra parte, è evidente che in condizioni eccezionali può succedere che gli individui non abbiano la possibilità di ragionare in modo critico ed è comprensibile che essi si comportino in base alle loro abitudini, all’educazione che hanno ricevuto (ossia secondo le proprie intuizioni) e possano compiere azioni che a mente fredda appariranno in contrasto con il pensiero critico ed antiutilitariste, ma che in quel momento difficile sembrano le più ragionevoli. L’utilitarismo non ha alcuna difficoltà ad ammettere che questo tipo di azioni, benché a volte a posteriori razionalmente insostenibili, erano quelle che, in quella particolare situazione, andavano compiute (MT, pp. 181-183). In realtà, la risposta di Hare cerca forse di contrastare sul piano empirico e pratico delle obiezioni che hanno un carattere teorico, ossia che investono i presupposti della sua teorie etica: viene infatti messa in discussione la stessa idea della derivabilità dell’utilitarismo dal prescrittivismo. Si può notare a questo proposito come il welfarismo ed il consequenzialismo, da Hare ritenuti logicamente derivabili dal prescrittivismo universale, siano in realtà dei presupposti da lui introdotti in modo surrettizio per rendere cogente il suo utilitarismo della preferenza: non appare dunque possibile l’idea di un utilitarismo fondato su presupposti a priori, di carattere logicolinguistico. È come se il prescrittivismo universale da un lato e l’utilitarismo dall’altro, rimanessero come due elementi estranei e non interrelati. Per quanto riguarda il welfarismo, il problema è che, contrariamente alla premessa empirica assunta da Hare, non sempre agiamo per incrementare il nostro benessere o quello sociale, ma non è detto che se non facciamo questo, siamo immorali. La morale di Hare e in genere quelle teorie basate sulla soddisfazione di preferenze razionali, sembrano essere morali del “tutto o niente”, in quanto o il comportamento è pienamente morale oppure non lo è, senza considerazione per le situazioni intermedie ed imputando alla sola debolezza del volere l’azione non in linea con il prescrittivismo. Pertanto, un conto è sostenere che, a livello metaetico, abbiamo il dovere di enunciare principi prescrittivi logicamente coerenti, ossia universalizzabili; un altro è invece asserite che, a livello pratico, le sole preferenze accettabili, quelle che passano il test di universalizzabilità, sono quelle che incrementano il benessere: quello che ci impone l’ambito metaetico sussiste indipendentemente da quello che facciamo a livello pratico. 18 In secondo luogo, non sempre agiamo scegliendo l’atto che produce le conseguenze migliori, anzi, a volte scegliamo di compiere certe azioni indipendentemente dai loro effetti, ma solo perché le riteniamo doverose. Hare pensa in realtà che gli effetti di un atto non sono il solo parametro di giudizio, giacché questo deve scaturire da un principio morale logicamente fondato, ossia valido di per sé. Se dunque atto “doveroso” significasse “capace di produrre gli effetti migliori”, Hare sarebbe un descrittivista, in quanto definirebbe un termine morale ricorrendo ad una proprietà non morale. In realtà, a livello formale, è fondamentale che la prescrizione in virtù della quale agiamo sia universalizzabile, ossia coerente con le regole d’uso del linguaggio morale. A livello pratico, invece, contano le conseguenze degli atti. Tuttavia, qui si apre una questione delicata: che valore possiede per Hare, alla fine, la razionalità di una prescrizione? Se infatti il suo valore è logico-linguistico, certamente quest’ultimo è intrinseco, ovvero indipendente dagli effetti che la prescrizione può produrre se messa in pratica, ma ciò vuol dire che per Hare “moralmente razionale” significa “coerente con le regole logiche” e che il livello pratico-normativo, per lui inevitabilmente consequenzialista, resta in secondo piano. In altre parole, il modello di ragione che Hare adotta, non sembra avere alcun valore strumentale o pratico, in quanto esclusivamente di carattere logico. Per questo, è stata messa in forte discussione sia la validità dell’analisi linguistica dei termini morali (Williams sembra concludere altresì per l’inesistenza di uno specifico linguaggio morale), sia la possibilità di impiegare in ambito normativo una nozione di universalità che possiede un carattere logico. Le ragioni che Hare cerca di fornire a sostegno di una certa azione possiedono una natura estranea alla morale, ma sono prive di contenuto normativo, poiché espresse da regole logiche. Secondo Nagel, il tentativo di Hare: “non solo ci conduce fuori dell’etica alla ricerca della base ultima dell’etica, ma ci porta a un livello decisamente meno fondamentale: quello delle pratiche linguistiche contingenti, empiricamente accertabili….indipendentemente dai meriti della sua teoria morale sostantiva, sulla questione dei fondamenti Hare [cerca] semplicemente nel posto sbagliato”25. La fondazione linguistica dell’utilitarismo sembra dunque 25 T. Nagel, L’ultima parola, a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1999, p. 43. 19 gravata da una serie di problemi; d’altra parte, è molto dubbio pensare che “che esiste un solo linguaggio della morale e un unico significato delle principali nozioni etiche”26. La sensazione che si ha, cercando di guardare all’opera complessiva di Hare, è che la sua riflessione sia significativa per quel che riguarda il tentativo di definire il senso di un linguaggio della morale e lo statuto epistemologico dei suoi concetti. È importante altresì il contributo di Hare al superamento della prima fase della metaetica analitica, meno incline ad impegnarsi in enunciazioni normative, e la ricerca di un qualche fondamento universale alla morale. Tuttavia, i punti critici sono proprio legati a questo orizzonte essenzialmente logico-linguistico di ricerca che non appare in grado di fondare un sistema normativo. D’altra parte, se l’universalità è in primis una regola logica ed il criterio fondamentale per accettare un ragionamento morale è la sua coerenza logica, come è possibile indicare delle ragioni pratiche, strumentali, per motivare l’azione? Hare in realtà sembra distinguersi dall’utilitarismo contemporaneo, il quale tende a fornire all’agente delle ragioni di carattere strumentale per l’azione, in quanto le sue ragioni sembrano invece possedere esclusivamente un valore teoretico e perciò la sola motivazione che egli sembra poter fornire all’azione è di carattere logico. La teoria etica di Hare cerca allora di restituire autonomia all’etica, attraverso il suo affrancamento da modelli di spiegazione naturalistici e in particolare dalla convinzioni per cui gli enunciati dell’etica siano suscettibili di vero-falsità. La valorizzazione del modello di ragionamento morale e la separazione tra i due livelli del pensiero morale, sembrano però condurre Hare a rendere ancora più netta questa sua presa di distanza dall’orizzonte normativo, forse non nelle sue intenzioni, ma nei suoi risultati. L’opportunità di rifiutare qualsiasi riferimento, non solo ad elementi metafisici o naturalistici, ma pure a modelli di decisione morale anche solo parzialmente lontani dalla piena razionalità, conduce l’autore ad affidarsi ad un modello univoco di ragionamento, nel quale il ruolo degli elementi empirici sembra notevolmente ridimensionato. In altri termini, questi elementi non morali hanno certamente un’importanza, ma solo se vagliati dal pensiero razionale, ossia solo se il loro utilizzo ottiene il placet del pensiero critico, il quale in sostanza pare porsi come unico giudice della razionalità delle nostre intenzioni morali, ma sembra altrettanto impossibilitato a stabilire direttamente la piena razionalità delle nostre azioni morali. 26 E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Bollati-Boringhieri, Torino 1990, p. 85. 20 La presente ricerca si pone in sostanza due obiettivi, uno generale e uno più specifico. Il primo è ovviamente quello di rendere conto di alcuni aspetti della riflessione morale di Hare, non solo seguendo lo sviluppo storico genetico delle sue speculazioni, ma indagando una serie di tematiche tipiche della sua filosofia ed enucleando le loro caratteristiche. Il secondo obiettivo, diretta conseguenza del primo, ha in animo di sviscerare con maggiore dovizia di particolari alcuni degli aspetti più qualificanti e significativi dell’etica di Hare, senza tacere ovviamente delle sue incongruenze e difficoltà. Nella trattazione si seguirà pertanto una traccia che comprenderà tre punti di riflessione, il cui ordine di trattazione non risponde ad alcuna scansione cronologica, né propone di stabilire tra di essi un ordine di priorità all’interno della riflessione etica di Hare, ma risponde ad un criterio metodologico di graduale chiarificazione delle questioni che di volta in volti i problemi posti dall’autore mettono in campo. Dunque, si cercherà di chiarire: a) quale ruolo svolga il linguaggio della morale, quali caratteri abbia e in cosa esso possa differenziarsi dal linguaggio delle asserzioni fattuali; b) si affronterà l’aspetto metaetico della ricerca di Hare, e dunque si cercherà di definire il suo “prescrittivismo universale”, ossia l’idea che i giudizi morali sia prescrizioni universali predominanti (o soverchianti); c) si delineeranno i caratteri di quel sistema etico normativo che Hare definisce con il nome generico di “utilitarismo”, da lui ritenuto di diretta derivazione dal prescrittivismo universale. 21 CAPITOLO 1. L’etica e il suo linguaggio La metaetica analitica da cui Hare prende le mosse fa dunque riferimento a quel filone di pensiero il quale ridefinisce la “riflessione moralistica…per [il] suo tentativo di spezzare il circolo pragmatico delle motivazioni, cercando invece di fondare il sistema delle motivazioni stesse su principi di natura speculativa – quindi teoretica”27. Tuttavia, all’interno di questo non omogeneo orizzonte di riflessione, la figura di Hare si pone, in particolare dagli anni ’60 in poi, come spartiacque tra pensatori impegnati a sviluppare esclusivamente un’analisi logico-linguistica degli enunciati morali ed autori più attenti alla pratica del comportamento morale28. Hare è probabilmente uno degli interpreti più significativi di tale mutamento di prospettiva: è in buona parte ascrivibile a lui, infatti, il tentativo che, conservando i risultati più alti della riflessione metaetica, si pone come ricerca di una dottrina normativa che abbia a fondamento proprio tali presupposti metaetici. Ad ogni modo, nella sua prima opera, The Language of Morals (1952), Hare si dichiara convinto che propedeutica a qualsiasi argomentazione di etica normativa o applicata, sia l’analisi semantica dei termini, ovvero la chiarificazione della funzione da essi svolta e il significato che essi assumono per il linguaggio morale, indipendentemente da qualsiasi giustificazione di carattere naturalistico o metafisico: “L’etica analitica, presentandosi come una metaetica, non fonda più l’etica su un principio razionale o universale o sulla ragione assoluta, bensì descrive il funzionamento del discorso etico effettuale. Quindi, dichiara oggetto della propria indagine l’etica quotidiana, e adotta come metodo l’analisi del linguaggio, analizzando termini ed enunciati propri dell’etica”29. Il pensiero di Hare, pertanto, dal punto di vista epistemologico conduce un’analisi semantica e concettuale dei termini morali (quali per esempio “buono”; “cattivo”, “dovere”, giusto” e così via); dal punto di vista metodologico, cerca invece di conciliare l’utilizzo delle regole della logica ordinaria con 27 G. Preti, Morale e metamorale, cit., pp. 31-32. A partire degli anni ’60, l’etica analitica va incontro, a seguito di un parallelo ripensamento dei temi della filosofia analitica, ad un mutamento di prospettiva per quel che concerne sia i metodi di indagine, sia gli obiettivi che essa si pone. “Uno dei risultati…fu il graduale spostamento di interesse dalle questioni semantiche…a questioni più ampie di fondazione e di epistemologia, alla luce di teorie aperte non solo all’analisi del linguaggio morale, ma disposte a indagare la dimensione normativa del ragionamento pratico e gli aspetti cognitivi e naturalistici dell’etica”. (Cfr., P. Donatelli, Introduzione, in P. Donatelli, E. Lecaldano, (a cura di), Etica analitica, cit., p. 19). 29 J. Rohls, Storia dell’etica, a cura di P. Kobau, il Mulino, Bologna 1995, p. 497. 28 22 l’attenzione ai fatti e l’interpretazione concettuale di quel che gli individui solitamente intendono quando enunciano proposizioni valutative, ossia approvano o disapprovano determinati stati di cose, eventi o comportamenti. La riflessione di Hare vuole rafforzare l’idea dell’autonomia dell’etica, evidenziando la presenza, nelle sue proposizioni, di un genere di significato ad essa peculiare, diverso dunque da altri generi di significato. L’etica non va per questo confusa con altre discipline filosofiche, proprio per la ragione fondamentale che “l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui funzione non può trovare realizzazione in nessuna altra parte del discorso umano”30. La funzione propria degli enunciati dell’etica è quella di permettere la enunciazione di “prescrizioni morali soverchianti”. Esse si esprimono nel linguaggio della morale, il quale non è un linguaggio artificiale, creato dal filosofo morale per poter semplicemente “mettere in gioco” i termini morali, ma si caratterizza per l’attenzione verso l’uso che di tali termini viene fatto nel linguaggio ordinario: “L’interesse che questa filosofia morale nutre per il linguaggio non è (a differenza della linguistica generale) semplicemente astratto e generico; si ritiene piuttosto che particolari elementi dell’uso linguistico, soprattutto nelle occupazioni più comuni della vita quotidiana, pongono dei problemi filosofici ed offrono almeno la chiave per la loro soluzione”31. Il punto di partenza sono quindi le intuizioni linguistiche dei parlanti così come si manifestano all’osservazione: in particolare, in The Language of Morals, viene analizzata la forma logica delle proposizioni che esprimono i comandi, ossia gli imperativi, come più semplici ed immediati esempi di giudizi morali. Secondo Hare, ogni espressione di un giudizio valutativo implica infatti un imperativo, il quale deve essere logicamente coerente per influenzare la condotta: “L’etica, come speciale branca della logica, deve la sua esistenza alla funzione che i giudizi morali hanno in quanto guidano l’azione rispondendo a domande del tipo ‘Che fare?’” (LM, p. 156). In un’opera più recente, l’autore ribadisce le medesime convinzioni: Devo incominciare dicendo quale ritengo debba essere l’obiettivo [della] filosofia morale. È quello di trovare un modo per pensare meglio – cioè più razionalmente- sulle questioni morali. Il primo passo verso il conseguimento di questo obiettivo è di capire le questioni che ci poniamo…E capire il significato di 30 31 E. Lecaldano, Etica, TEA, Milano 1995, p. 28. A. Montefiore/B. Williams, Filosofia analitica inglese, Lerici Editore, Roma 1967, p. 14. 23 una parola…implica comprendere le sue proprietà logiche…L’etica, lo studio dell’argomentazione morale, è dunque una branca della logica32. Queste affermazioni veicolano tre convinzioni che saranno costanti nella costruzione nella concezione della moralità di Hare: a) l’idea secondo la quale l’etica è una disciplina autonoma i cui enunciati possiedono un significato peculiare; b) la convinzione per cui l’etica è una parte della logica ordinaria, poiché i suoi enunciati si esprimono in un linguaggio che, pur avendo delle caratteristiche proprie, non segue alcuna logica artificiale; c) l’idea, sviluppata soprattutto negli anni successivi, per cui la riflessione etica non debba essere unicamente analisi del linguaggio, giacché deve tenere presente che essa ha delle implicazioni sulla condotta delle persone. Essa deve dunque tenere conto dei fatti e delle situazioni contingenti in cui gli individui si trovano ad agire. Sarà proprio questa convinzione che porrà Hare almeno in parte al di fuori dalla tradizione dell’etica analitica, la quale, nella sua formulazione classica, giudica secondaria la definizione di un’etica normativa, esponendosi però in tal modo al pericolo della sterilità e del soggettivismo, come rileva criticamente A. Ross: “Il ragionamento morale, in tale prospettiva, è sempre ipotetico: esso discute la giustificazione morale di un certo comportamento movendo dall’ipotesi che si accettino certi principi, valori o fini. Le valutazioni di fondo, tuttavia, restano soggettive, indimostrabili; solo gli effetti di un dato comportamento sui valori comunemente accettati rientrano nell’ambito della discussione razionale”33. Hare sostiene invece a questo proposito che l’individuo che agisce dovrà imparare ad operare su due campi: Il primo è rappresentato dalla comprensione di che cosa significhi la prescrizione che esprime la scelta…la conoscenza di che cosa significhino le parole o di cosa intenda dire il parlante con le sue parole. Il secondo…è rappresentato dalla conoscenza di che cosa, concretamente, comportino le diverse risposte alla domanda, le diverse scelte, in termini di differenze reali nella storia futura del mondo34. 32 R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 182. A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare), in Critica del diritto e analisi del linguaggio, a cura di A. Febbrajo e R. Guastini, il Mulino, Bologna 1981, p. 160. 34 R. M. Hare, Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 41. 33 24 La riflessione di Hare vuole assegnare il giusto peso alla logica e ai fatti, attraverso un’analisi combinata di essi, ma mantenendo tali due elementi su livelli distinti, poiché differenti sono gli ambiti epistemologici nei quali essi influenzano i nostri principi morali. Perciò l’autore sarà sempre molto attento a discernere il momento del ragionamento morale formale (il quale ha un carattere logico-epistemologico, in quanto sostiene una vera e propria teoria etica, ossia la convinzione secondo la quale la filosofia possa determinare positivamente ciò che possiamo pensare in etica), da quello della decisione morale (di stampo prettamente pratico-normativo). La concezione funzionalista del linguaggio L’analisi concettuale e semantica dei termini morali svolge dunque un ruolo significativo perché le persone, ben prima di discutere e di mettere a confronto differenti convinzioni etiche sostanziali, devono essere d’accordo sul significato dei termini che utilizzano e con i quali esprimono queste convinzioni; se così non fosse, sarebbe inutile o quantomeno molto arduo discutere moralmente, proporre principi morali e condannare individui malvagi o fanatici: “Se vogliamo buone risposte [in etica] dobbiamo prima sapere cosa stiamo chiedendo. Quando le domande sembrano profondamente problematiche, parte del problema può essere addebitato a confusioni relative ai termini utilizzati. Noi risolviamo la questione se diciamo in modo chiaro cosa essa vuole dire e i significati sembrano richiamare le definizioni”35. Hare sottolinea che se avesse invece ragione l’emotivismo, anche nella forma moderata sostenuta da C. Stevenson, secondo il quale la funzione dei giudizi morali è di persuadere gli altri, o se fosse valido l’intuizionismo etico, la discussione morale sarebbe impossibile perché legata ad intuizioni soggettive. La filosofia morale di Hare infatti non riconosce piena validità teoretica all’intuizionismo di Moore, che verrà però affermato in modo più diretto, e con differenti argomenti, da H. Prichard e D. Ross36. 35 A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, Clarendon Press, Oxford 1990, p. 31. L’intuizionismo di Moore non è ad ogni modo assimilabile a quello degli intuizionisti etici veri e propri: “Moore infatti non ritiene che vi possa essere una intuizione diretta dei valori morali, poiché insiste sul concetto che i predicati morali sono non naturali, cioè non hanno carattere empirico, e non sono conosciuti né mediante i sensi, né mediante l’introspezione; e quindi usano ‘intuizione’ solo per indicare questo tipo particolare di apprendimento. Ma non [ritiene] che ci sia un’intuizione diretta dei valori (o del bene come tali); non si intuisce il doveroso, il buono…questa intuizione accompagna la rappresentazione di fatti empirici, sì che quello che si intuisce non è il valore, ma la sua connessione tra una determinata rappresentazione empirica e il suo valore” (Cfr. G. Preti, Morale e metamorale, cit., p. 42). 36 25 Diversa è invece la funzione di una puntuale analisi del linguaggio morale, la quale deve renderci capaci di discutere con gli altri sul come dovremmo comportarci. Se non avessimo il linguaggio morale o un linguaggio simile, non lo potremmo fare. Se tu ed io fossimo in disaccordo rispetto ad un dato comportamento, e volessimo discutere del nostro disaccordo con la speranza di appianarlo, avremmo bisogno di essere capaci di esprimere tale disaccordo. Il disaccordo è relativo a quel che dovrebbe essere fatto…Abbiamo bisogno di parole per dirlo. E abbiamo bisogno…di parole le cui proprietà logiche ci rendano in grado non solo di contraddirci l’un l’altro…ma di argomentare, nel senso di ragionare, l’uno con l’altro. Come si vede, il linguaggio morale va incontro a questa esigenza37. Per questa ragione i significati valutativi vanno distinti dagli altri generi di significato, giacché il significato viene determinato dalla funzione che le parole svolgono all’interno del discorso, come aveva già insegnato Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: “Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola ‘significato’ si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”38. Per questo motivo Hare abbraccia una concezione funzionale del linguaggio che è diretta conseguenza della sua rinuncia alla “fede” nell’unicità della nozione di significato: “La concezione che del linguaggio ha Hare è di tipo funzionale; egli si richiama continuamente agli usi, alle funzioni e agli scopi delle parole…Hare identifica il significato di una espressione con il fine per cui la si usa, con la funzione che essa svolge nel discorso. Ciò comporta che la pura e semplice raffigurazione dei fatti non ha alcun significato, una raffigurazione avrà un significato solo quando ce ne serviremo per farne qualcosa”39. La necessità di chiarire il significato dei termini morali e del linguaggio dell’etica conduce Hare a cominciare la sua analisi esaminando il ruolo che le forme più elementare di prescrizioni, ossia gli imperativi, svolgono nella discussione morale. Lo studio della logica degli imperativi è fondamentale per comprendere come possano esistere delle argomentazioni di natura pratica che si comportano in maniera simile a 37 R. M. Hare, Objective Prescriptions, in A. P. Griffiths (edited by), Ethics, Royal Institute of Philosophy, Supplement 38, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 8. 38 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trincherio, Einaudi, Torino 1999. Secondo Wittgenstein, infatti “mentre si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto”, poiché le asserzioni fattuali non contengono nulla che possa esprimere un giudizio valutativo (intendendo con esso, precisa l’autore, tutti i giudizi di valore, quelli dell’etica e dell’estetica). Cfr., L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1983, p. 9. 39 E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, p. 228. 26 quelle della tradizionale logica assertoria40: “Il nostro intento [è]…quello di mostrare che i giudizi morali condividono con gli imperativi una importante caratteristica, quella di essere prescrittivi, ma che ciò non impedisce che tra loro vi siano relazioni logiche” (FR, pp. 29-30). Proposizioni descrittive e proposizioni valutative Si può dunque asserire che se dal punto di vista grammaticale vi è una differenza chiara tra asserzioni e comandi, dal punto di vista dell’analisi logica essi sono simili: infatti, come il comando “Fai A” è contraddittorio rispetto a quello che afferma “Non fare A”, allo stesso modo l’asserzione all’indicativo “Il gatto è sul tetto” è contraddittoria rispetto all’espressione “Il gatto non è sul tetto”, giacché è impossibile assentire ad entrambi i comandi o giudicare vere entrambe le proposizioni fattuali. Due comandi si contraddicono quando è logicamente (e praticamente) impossibile fare entrambe le cose che essi richiedono (come è possibile agire di fronte ad una persona che dice “Imbuca e non imbuca la lettera”?), mentre essi sono contrari quando non si elidono a vicenda, ma l’uno si limita ad attenuare la carica imperativa dell’altro. Se precisamente qualcuno afferma “Fai A, ma puoi anche astenerti dal farlo”, creerà di certo del disorientamento nell’interlocutore, ma non gli impedirà comunque di agire in qualche modo. Di contro, se è logicamente impossibile accettare un’assunzione del tipo “Stai per imbucare e per bruciare la lettera che ti ho dato”, ciò vuol dire che “due comandi…sono logicamente contraddittori se l’affermazione che un atto sta per essere compiuto è in contraddizione con l’affermazione che l’altro sta per essere compiuto – in altre parole, se è logicamente impossibile mettere in pratica entrambi”41. Il confronto e l’equiparazione della logica degli imperativi a quella delle asserzioni all’indicativo è quindi possibile in virtù del comune elemento descrittivo che li caratterizza. In una proposizione un termine è descrittivo quando rende conto di uno stato di fatto e risponde a precise condizioni di verità. Nel caso del comando “Chiudi la 40 R. M. Hare, Practical Inferences, Macmillan, London 1971, pp. 70-72. R. M. Hare, Some Alleged Differences between Imperative and Indicatives, in Practical Inferences, cit., p. 27. Cfr. anche Practical Inferences, cit., pp. 59-71. In questo caso, parlando dei conflitti tra differenti giudizi valutativi, esistono tra di essi, come Hare sottolinea, i conflitti per accidens, “quando essi, contingentemente, non possono essere soddisfatti entrambi, sebbene la loro congiunzione non sia di per se contraddittoria”, mentre nei casi in cui la loro congiunzione è impossibile si hanno i conflitti per se (MT, p. 64). 41 27 porta” e dell’asserzione indicativa “Tu stai per chiudere la porta”, il contenuto descrittivo è evidenziato dall’enunciato: “Il tuo chiudere la porta nell’immediato futuro”. La differenza tra asserzioni e comandi è ascrivibile alla diversa funzione che essi svolgono all’interno del linguaggio, ossia al fatto che i comandi, oltre a possedere una parte descrittiva, si caratterizzano soprattutto per il possesso di una funzione prescrittiva che, nella gran parte dei casi, è sopravveniente rispetto a quella descrittiva. Si può allora dire che l’enunciato che si riferisce ad un’azione particolare, per esempio il proprio chiudere la porta (“Tu stai per chiudere la porta”) appare neutrale, giacché non è chiaro se esso esprima un comando oppure una constatazione di uno stato di fatto ed è pertanto necessario che ad esso venga aggiunta una parte che ne specifichi la funzione all’interno del linguaggio. Esso allora può essere scomposto in questo modo: “Il tuo chiudere la porta nell’immediato futuro, prego” (corrispondente a “Chiudi la porta”) “Il tuo chiudere la porta nell’immediato futuro, sì” (corrispondente a “Tu stai per chiudere la porta”). L’enunciato è stato scomposto in due parti che Hare definisce, prendendo a prestito due termini della lingua greca, frastica e neustica. I due enunciati accanto ad un elemento propriamente valutativo, detto “neustica” (dal greco neuein, “inclinare”), contengono un elemento descrittivo ed è detto “frastico” (dal greco frazein, “dichiarare”). Per esempio, l’imperativo “chiudi la porta!”, ha in comune con la proposizione descrittiva “stai chiudendo la porta” proprio l’elemento frastico “chiudere la porta”. Come si può intuire, ciò che determina la funzione degli enunciati, è la neustica, poiché la frastica è la medesima per entrambi: la sostanziale differenza tra asserzioni e comandi…sta in ciò che si vuol dire quando si dà il proprio assenso asserzioni e comandi…Se diamo il nostro assenso a un’asserzione, si dice che il nostro assenso è sincero se, e solo se, crediamo che l’asserzione sia vera…se diamo il nostro assenso a un comando rivolto a noi in seconda persona, si dice che il nostro assenso è sincero se, e solo se, facciamo o decidiamo di fare ciò che il nostro interlocutore ci ha detto di fare (LM, p. 30). In altre parole: “Una proposizione indicativa è una riposta alla domanda ‘Cosa è questo?’; una posposizione imperativa è una riposta alla domanda ‘Che cosa va 28 fatto?’…La prima domanda presuppone che ci sia un fatto inalterabile da affermare; la seconda domanda, al contrario, presuppone che vi sia una scelta tra fatti alternativi, per esempio fra differenti corsi d’azione”42. Le considerazioni di Hare sono pertanto funzionali all’idea che non vi sia una specifica logica degli imperativi, “ma solo che gli imperativi sono logici similmente agli indicativi”43, in quanto condividono un medesimo contenuto descrittivo, ossia la frastica dell’enunciato: “Fra le proposizioni descrittive e le proposizioni direttive c’è un ‘salto logico’. In particolare, da premesse descrittive non si può derivare logicamente una conclusione direttiva: la derivazione logica di una proposizione direttiva richiede la disponibilità fra le premesse di una proposizione direttiva”44. A proposito di queste distinzioni, A. Sen in un articolo del 1967, ha sottolineato come Hare, sia in The Languge of Morals che successivamente in Freedom and Reason, non sia in realtà sceso in profondità nell’analizzare le distinzioni tra i termini, accontentandosi della superficiale distinzione tra termini valutativi e non valutativi. In particolare, ci si sarebbe aspettati una elaborazione più puntuale della differenza tra termini primariamente valutativi e termini secondariamente valutativi, ossia quelli utilizzabili secondo entrambi i significati, mentre Hare non accenna a questa possibilità. Questo è peraltro un punto critico che avrà ripercussioni non positive sulla successiva riflessione di Hare. “Una difficoltà connessa all’analisi di Hare…è che mentre si può ottenere da essa una analisi molto precisa della classe di termini ed espressioni di valore, Hare dice relativamente poco sulla classe dei giudizi di valore che utilizzano questi termini”45 Ad ogni modo, queste affermazioni costituiscono la base fondamentale del non descrittivismo etico sostenuto da Hare e della distinzione, altrettanto decisiva, da lui posta tra prescrizione e descrizione. Pertanto, come è “tautologico dire che non possiamo dare il nostro sincero assenso a un comando rivoltoci…e nello stesso tempo non eseguirlo, se ora è il momento di eseguirlo…Analogamente, è tautologico dire che 42 R. M. Hare, Imperative Sentences, in Practical Inferences, cit., p. 6. Ibidem, p. 15. 44 U. Scarpelli, Etica, linguaggio e ragione, in L’etica senza verità, cit., pp. 60-61. 45 A. K. Sen, The Nature and Classes of Prescriptive Judgments, “Philosophical Quarterly”, I (1967), p. 46. 43 29 non possiamo dare il nostro sincero assenso a un’asserzione e nello stesso tempo non ritenerla vera”46. Universalità e prescrittività e sopravvenienza Gli argomenti svolti in precedenza si fondano dunque sull’idea per cui le proposizioni valutative sono regolate da norme logiche che riguardano il loro uso nel linguaggio. Esse in particolare sono prescrizioni universali e soverchianti, dato che, come scrive Hare: i giudizi morali sono prescrittivi in quanto, nei loro usi tipici, vengono intesi come indicazioni per la nostra condotta; accettare un giudizio morale significa impegnarsi a una certa linea di azione o prescriverla a qualcun altro. Dico che sono universalizzabili in quanto un giudizio morale pronunciato su una data situazione ci impegna, pena l’incoerenza logica, a pronunciare lo stesso giudizio su qualsiasi situazione che sia esattamente simile a quella47. La tesi dell’universalizzabilità dei giudizi morali, nel suo carattere più essenziale ed originario, si presenta a tutti gli effetti come una tesi logica, ossia applicabile a tutti gli ambiti linguistici, poiché è una regola che concerne in primis il significato delle parole ed il loro corretto utilizzo nel linguaggio: “per ‘tesi logica’ intendiamo una tesi relativa al significato delle parole, o dipendente soltanto da esso…La tesi logica…ha una grande importanza nelle argomentazioni morali; ma proprio per ciò è della massima importanza mettere in chiaro che non è niente di più di una tesi logica” (FR, p. 62).48. Va aggiunto peraltro che l’universalità dei giudizi morali secondo Hare va nettamente distinta dall’idea che i principi morali, per essere tali, debbano essere generali. Infatti, un principio può essere universale, ma essere al contempo molto semplice e particolare, oppure generale, senza che questo comporti una modifica del suo contenuto morale universale. “La logica del linguaggio morale non pone restrizioni alla generalità o specificità dei nostri principi morali. Consente che essi siano altamente generali e semplici, o altamente specifici e complicati, a seconda del temperamento della persona 46 R. M. Hare, Imperative Sentences, in Practical Inferences, cit., pp. 12-15. R. M Hare, Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 48. 48 A questo proposito è opportuno ricordare che anche i giudizi descrittivi e le asserzioni fattuali possono essere universali in virtù di tale regola, sebbene possiedono un genere di universalità molto meno significativa rispetto a quella detenuta dai giudizi prescrittivi, dato che questi ultimi, al contrario dei primi, hanno delle rilevanti conseguenze pratiche: “Nel caso delle asserzioni fattuali, ossia dei predicati puramente descrittivi, le regole sono semplicemente semantiche; nel caso delle asserzioni e dei predicati morali, le regole sono morali” (Cfr,. R. M Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 214). 47 30 che li sostiene” (FR, p. 73). Per esempio, un principio del genere “non piantare meli quando il terreno è bagnato” è meno generale di quello che recita “non piantare mai alberi da frutta quando il terreno è bagnato”, poiché i meli sono un tipo particolare di alberi da frutta, tuttavia essi sono entrambi universali. Come scrive Hare, “Il termine ‘generale, così come lo userò io, si contrappone a ‘specifico’. Ma entrambi questi principi sono, nel senso in cui userò questo termine, ‘universali’”49. È evidente che una delle questioni più “spinose” per la riflessione morale di Hare è legata a quanto una tesi logica possa influenzare il comportamento morale. In Freedom and Reason l’autore asserisce in proposito che se una persona dovesse affermare: “Io devo agire in un certo modo, ma nessun altro che si trovi in circostanze simili negli aspetti rilevanti deve agire in quel modo”, è chiaro che, in virtù della tesi dell’universalità, questa persona si contraddice, perché usa il verbo “dovere” in modo improprio, dato che “l’infrazione logica consiste qui nella congiunzione di due giudizi morali, non nell’uno o nell’altro presi separatamente” (FR, p. 64). Infatti, i due principi morali contenuti in quella frase (“Io devo fare una certa cosa” e “Io non devo fare una certa cosa”), presi singolarmente in sé, non sono affatto contraddittori e non sono nemmeno errati, poiché sono composti in accordo con le regole logiche del linguaggio. La contraddizione nasce quando due giudizi di questo tipo vengono connessi all’interno di una proposizione che ha contenuto prescrittivo, ossia all’interno di una proposizione che dovrebbe esprimere un principio morale universale. In questo caso, vi è in primo luogo un’evidente infrazione logica alla tesi dell’universalità, poiché vengono unite due proposizioni contraddittorie di per se stesse, indipendentemente dal fatto che siano prescrittive o fattuali; in secondo luogo, poiché si tratta in questo caso di un enunciato prescrittivo, l’infrazione logica sarebbe automaticamente pratica, giacché tale proposizione, presa per quel che è il suo contenuto semantico, condurrebbe alla paralisi delle decisioni morali. Come sarebbe infatti possibile aderire ad un principio morale che impone al contempo di fare e di non fare una determinata azione? “La tesi dell’universalizzabilità non rende contraddittorio nessun particolare (logicamente 49 R. M. Hare, Principi, in Saggi di teoria etica, cit., p. 54. A p. 55 Hare propone una definizione di ‘principio generale’ che non coincide affatto con quella di ‘principio universale’: “un principio p1 è più generale di un altro principio p2 se e solo se è analiticamente vero che violare p2 vuol dire, per ciò stesso, violare p1, mentre non è analiticamente vero il contrario”. Hare distingue l’universalità dalla generalità in risposta al libro di M. G. Singer, Generalization in Ethics. An essays in the logic of Ethics, with the rudiments of a system of Moral Philosophy, Eyre & Spottiswoode, London 1963. Una replica diretta di Hare a Singer si trova nella recensione del volume in “Philosophical Quarterly”, XII (1962). Cfr. altresì G. Ezorsky, Review to M. G. Singer Generalization in Ethics, “The Journal of Philosophy”, 12 (1963). 31 semplice) giudizio morale, o anche principio morale, che non sia contraddittorio senza quella tesi; tutto quello che fa è di imporre la scelta tra giudizi che non si possono entrambi asserire senza contraddizione” (FR, p. 64). Questa affermazione vuol costituire l’autonomia e la peculiarità dei giudizi morali rispetto agli altri enunciati: “Universalizzabile significa tale da implicare giudizi simili in situazioni simili in modo rilevante. Questa caratteristica è proposta come caratteristica logico-strutturale; da essa dipende l’invarianza del giudizio morale ovvero la sua indipendenza da fattori e informazioni moralmente irrilevanti”50. Hare giunge a dichiarare che la tesi logica dell’universalità, una volta applicata ai giudizi morali, ci permette sia di capire quali sono i reali principi morali, sia di scegliere tra diversi principi prescrittivi. Infatti, mentre la prescrittività “ci costringe a cercare principi a cui aderire sinceramente”, l’universalità “insiste sul punto che questi [ossia i principi morali] siano realmente dei principi morali e non le decisioni ad hoc di un opportunista” (FR, p. 81). Dunque, mentre la tesi della prescrittività sembra possedere in modo più evidente un carattere prettamente morale, la tesi dell’universalità è una tesi logica applicata al linguaggio morale; è tuttavia solo in seguito a tale applicazione che essa ci consente di comprendere se un particolare giudizio è un giudizio morale, oppure se è un semplice giudizio prescrittivo singolare. Il prescrittivismo universale avrebbe quindi, secondo Hare, la capacità di connettere in modo razionale l’argomentazione logica e i fatti, l’analisi metaetica e la moralità pratica. Da quanto dice l’autore, chi agisce non può limitarsi a constatare la coerenza logica dei suoi enunciati, né ovviamente affidarsi esclusivamente alla conoscenza dei caratteri fattuali della situazione in esame. Ciò vuol dire che una serie di persone non dichiaratamente amoraliste, accetteranno una prescrizione universale non a causa della conseguenza logica dai fatti, ma perché…assumendo che siano intenzionati a enunciare un qualche giudizio morale su quella situazione, la completa rappresentazione delle preferenze di coloro che sono coinvolti, e le prescrizioni cui essi in tal modo giungono rispetto a quello che dovrebbe essere fatto a loro se si trovassero nella posizione delle altre persone, risulta essere logicamente in contraddizione con qualsiasi altro principio che non sia quello che essi pronunciano in quella precisa circostanza51. 50 C. Bagnoli, Dilemma morale e limiti della teoria etica, LED, Milano 2000, p. 63. R. M. Hare, Comments on Hudson, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 213. 51 32 La prescrittività, come proprietà fondamentale dei giudizi morali si esprime nella forma più appropriata attraverso enunciati e comandi contenenti il verbo “dovere”, il quale, in misura maggiore rispetto agli altri termini valutativi come “buono” o “giusto”, riassume in se sia la prescrittività che la universalizzabilità dei giudizi morali. La prescrittività è una proprietà morale che ha delle conseguenze logico-linguistiche, in quanto, attraverso di essa, il nostro linguaggio mostra che gli esseri umani sono dotati di libertà morale poiché prendono delle decisioni: “il fatto della libertà morale [è] ciò che conferisce al linguaggio morale una delle sue caratteristiche proprietà logiche: è perché dobbiamo prendere decisioni che ci serve questo tipo di linguaggio” (FR, p. 98). La prescrittività riassume pertanto su di sé sia i motivi che ci fanno dire che il risolvere le questioni morali è un atto di libertà, sia quelli che ci fanno sostenere che tale risoluzione è anche opera di una serrata argomentazione razionale. T. Nagel ha sottolineato alcune proposizioni che sintetizzano con efficacia il nocciolo della dottrina hareana della prescrittività: “1) Dire che qualcosa deve essere moralmente compiuta significa prescrivere che essa sia fatta in tutti gli ipotetici casi simili dalle persone coinvolte; 2) Prescrivere che qualcosa sia fatta significa esprimere il desiderio che venga compiuta…3) Quel che desideriamo sia fatto universalmente in mezzo a un insieme di casi ipotetici è una semplice funzione additiva di quel che desideriamo sia fatto in ognuno di essi”52. In altre parole, “formuliamo un enunciato prescrittivo se e solo se, per qualche atto A, qualche situazione S e qualche persona P, se P assente (oralmente) a ciò che diciamo e non fa A in S, è logicamente necessario che l’assenso di P sia insincero” (MT, p. 52). In particolare la prima proposizione di Nagel sembra definire meglio, sebbene in termini molto generali, la nozione di prescrittività. Essa appare, almeno nelle intenzioni di Hare, maggiormente legata al carattere pratico dell’agire morale, giacché rispetto all’universalità risulta meno vincolata alla logica di tale linguaggio. Essa, pur avendo un fondamento logico, sembra rispondere in maniera più diretta alla funzione pratica dei giudizi morali (guidare la condotta), tanto che il sistema di etica di Hare è notoriamente definito come prescrittivismo universale “in quanto sostiene che una delle caratteristiche dei termini morali, caratteristica sufficientemente essenziale perché le si consideri parte del significato di tali termini, è che i giudizi che li contengono hanno, 52 T. Nagel, Foundations of Impartiality, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 104. 33 nel loro uso tipico, la funzione di guidare la condotta” (FR, p. 104). La prescrittività di un giudizio morale dovrebbe permettere al parlante non solo di avere la consapevolezza che quello che gli sta seguendo sia un effettivo giudizio morale, ma anche di influenzare la condotta altrui tramite un’argomentazione razionale e non attraverso una semplice opera di persuasione o di coercizione. Hare infatti asserisce che l’espressione di una prescrizione universale implica che il parlante affermi esserci una ragione per agire in un certo modo, ma non che, obbligatoriamente, chi lo ascolta e si trova d’accordo con lui debba in seguito effettivamente agire in quel modo. Io non utilizzo ‘prescrivere’ e ‘universalmente’ in modo tale che prescrivere universalmente implichi l’affermazione ‘che tutti abbiano una ragione per agire in accordo con la mia prescrizione’. Nemmeno penso che i giudizi morali, che nella mia prospettiva sono universalizzabili, implichino una tale affermazione…Volevo semplicemente dire che i giudizi morali, nel loro fondamentale uso prescrittivo, implicano prescrizioni, dal lato del parlante, tali che quelli a cui si riferisce un giudizio morale dovrebbero fare quello che esso richiede53. Il prescrittivismo universale sostiene inoltre che i giudizi morali, per le loro caratteristiche logiche, sono sopravvenienti rispetto a quelli descrittivi. Ciò significa che dall’identità delle proprietà non normative di due oggetti discende l’identità delle loro proprietà normative: la relazione qui introdotta è quella della sopravvenienza, a suo tempo già analizzata da Moore e ripresa per la prima volta, dopo di lui, proprio da Hare, benché quest’ultimo la impieghi in un senso meno forte di quello mooriano. Per Hare la sopravvenienza è una delle proprietà della nozione di universalità ed infatti egli in The Languge of Morals pone questo esempio per accennare alla sopravvenienza di un termine come ‘buono’: “Supponiamo di dire: ‘San Francesco era un uomo buono’. È logicamente impossibile dire questo e nel contempo dichiarare che ci può essere un altro uomo il quale, trovandosi ad agire esattamente nelle stesse circostanze di San Francesco e comportandosi in quelle circostanze esattamente nel suo stesso modo, differisca però dal santo per quest’unico fatto, cioè che egli non è buono” (LM, p. 131). La sopravvenienza appare come una proprietà essenzialmente logico-concettuale, secondo 53 R. M. Hare, Comments on Nagel, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 251. 34 la quale, quando si è stabilito che un certo caso possiede la proprietà morale X, qualunque altro caso uguale ad esso possiederà la medesima proprietà X54. La nozione di sopravvenienza permette di spiegare una connessione tra oggetti linguistici (o stati di fatto reali o immaginari) che, pur non essendo forte e salda come una relazione causale, tuttavia manifesta lo stesso l’esistenza di un rapporto dipendenza tra di essi, dipendenza che crea tra quegli oggetti una interconnessione che appartiene ovviamente alla struttura del mondo. Moore definisce la sopravvenienza in questo modo: “se una data cosa possiede qualsiasi tipo di valore intrinseco in certo grado, allora non solo una cosa ad essa simile la deve possedere in tutti i casi, ma anche qualsiasi cosa esattamente uguale ad essa, deve, in tutti i casi, possedere tale valore nell’identica misura”55. Nella Reply to My Critics, Moore afferma in questo senso che se di A diciamo che è buono, ogni cosa identica ad A sarà buona, nondimeno non per questo ogni cosa buona sarà identica ad A. Per quel che riguarda il rapporto tra termini valutativi e non valutativi, Moore evidenzia come i primi siano sopravvenienti rispetto ai secondi, ma non viceversa, stabilendo in tal modo tra di essi una relazione asimmetrica. Pertanto, se attribuiamo ad A la proprietà naturale e non valutativa di essere “rosso”, certamente avremo che tutte le cose simili ad A saranno rosse, ma questo termine, indicando una proprietà naturale, conferma semplicemente uno stato di fatto, non un criterio per influenzare la condotta. Al contrario, se definiamo A come “buono”, avremo che tutte le cose simili ad A saranno buone, ma non ci potremo fermare qui, perché il termine “buono” individua un criterio di valutazione, ossia influenza la condotta e dunque, rispetto a quella stabilita tra gli oggetti definiti come “rossi”, la relazione tra tutti gli A giudicati “buoni” è più significativa, giacché foriera di conseguenze pratiche. Come sottolinea J. Kim, la sopravvenienza di Moore ha un carattere “forte”, poiché essa è valida in tutti i mondi possibili, mentre quella di Hare sarebbe una weak supervenience. Secondo quest’ultima versione della sopravvenienza, per decidere se S. Francesco sia un uomo buono si dovrà fare riferimento solo a certe caratteristiche moralmente rilevanti (saggezza, onesta e così via), le quali sopravvengono altri caratteri di S. Francesco (vicende biografiche, caratteri fisici della persona, esperienze di vita, caratteri psicologici) che non sono ritenute necessarie per la valutazione della sua bontà. 54 55 R. M. Hare, La sopravvenienza, in Saggi di teoria etica, cit., pp. 77-78. G. E. Moore, Philosophical Studies, Macmillan, London 1922, p. 261. 35 A parere di Hare, pertanto, la procedura di valutazione deve coinvolgere un numero limitato di caratteri dell’oggetto, della situazione o della persona giudicata; questo tuttavia non è un limite del processo di valutazione, bensì una sua qualità, in quanto in tal modo è possibile operare una sorta di scelta ponderata che privilegia solo le caratteristiche moralmente rilevanti. Se invece per valutare qualcuno o qualcosa si facesse riferimento ad un insieme ampio di caratteristiche, come sembra voler fare la sopravvenienza forte, ci sarebbe una commistione eccessiva tra elementi prescrittivi e descrittivi e pertanto il giudizio valutativo non sarebbe autenticamente tale, poiché altresì derivato da caratteri che sono in genere superflui per giudicare moralmente. Infatti, per la strong supervenience, “se essere un uomo buono sopravviene in modo forte sulle sue proprietà naturali, qualsiasi proprietà naturale di tale uomo buono…costituirebbe una base sopravveniente per renderlo un uomo buono; tuttavia, ciò è ovviamente più di quello di cui abbiamo bisogno (esso includerebbe l’altezza dell’individuo, la data di nascita, il peso etc.) e sarebbe meno perspicuo”56. Hare sostiene a questo proposito che se A e B sono indiscernibili rispetto alle loro proprietà naturali, sono tali anche rispetto alle loro proprietà morali: secondo Hare, infatti “il morale è sopravveniente sul naturale, nel senso che se due oggetti (o persone, atti, stati di fatto e simili) sono differenti per tutte le caratteristiche naturali, essi devono essere necessariamente diversi per tutte le caratteristiche morali. Ciò significa che le cose non possono differire rispetto ad alcune caratteristiche morali se non vi è una qualche proprietà naturale in virtù della quale esse differiscono”57. L’uguaglianza delle proprietà morali di una situazione (il fatto cioè che sia buona, malvagia, doverosa e così via) non dipende dall’uguaglianza dei suoi caratteri naturali e descrittivi. Per tornare all’esempio relativo a S. Francesco, se giudichiamo “buono” S. Francesco, ogni individuo che agirà esattamente come il santo, verrà giudicato “buono; tuttavia, questo non significa che ogni persona per essere definita come buona debba agire come S. Francesco, in quanto il termine valutativo “buono” possiede una notevole ricchezza di sfumature e di esempi. Per questo motivo non è possibile pensare, come farebbero i naturalisti, che i termini morali abbiano il solo significato descrittivo, ma è necessario, per comprenderli, sapere che essi possiedono altresì un significato 56 J. Kim, Concepts of supervenience, in Supervenience and mind, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 66. 57 Ibidem, p. 57. Cfr., anche le pp. 60-61. 36 prescrittivo: “Il fatto che le proprietà morali sopravvengano su quelle morali, significa semplicemente che atti, etc., hanno le proprietà morali perché possiedono proprietà non morali (‘E’ sbagliato perché era un atto che consisteva nell’infliggere dolore per divertimento’), benché la proprietà morale non coincida con la proprietà non morale e nemmeno ne è da essa implicata” (SO , pp. 21-22). Il significato di “buono”, dovere e giusto Attraverso la puntuale indagine sul significato dei termini morali e sul funzionamento del linguaggio morale, da un lato “si è mostrato che un sistema morale non può adempiere alla sua funzione di guida per la condotta se i suoi principi si presentano come puramente fattuali. [Dall’altro], si è mostrato che esso non può adempiere a tale funzione neanche se pretende di basarsi su principi autoevidenti. Queste due tesi, se accettate, bastano da sole a eliminare quasi tutti quelli che Hume chiama ‘i sistemi di morale volgare’” (LM, pp. 49-50). Inoltre, nella sua analisi dei termini morali, come quella relativa all’utilizzo di “buono”, Hare fa riferimento solo in parte riferimento alla riflessione di Moore, in quanto concorda con l’atteggiamento antinaturalistico di Moore, ma non ne condivide l’approccio descrittivista all’etica. Scrive Hare infatti che il descrittivista “non naturalista [come Moore] sostiene che la caratteristica che deve essere presente in una cosa perché una parola valutativa le possa venire applicata si può descrivere soltanto usando quella o qualche altra parola valutativa: è una caratteristica sui generis. Secondo il naturalista, viceversa, tale caratteristica è descrivibile anche, sebbene forse in modo più complicato, in termini non valutativi (di solito empirici)” (FR, p. 44). Hare nota che spiegare il significato di un termine come “buono” affermando, alla maniera di Moore, che esso rimanda a proprietà non naturali è un’ottima idea per rifuggire dal naturalismo, ma rischia di essere anche una mossa controproducente, in quanto chiarisce solo parzialmente la portata semantica di tale parola. Per questo motivo la definizione mooriana di “buono” come proprietà non naturale58, non può essere la 58 Cfr. Moore, Principia Ethica (trad.. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1964): “se mi si domanda ‘che cosa è bene?’, la mia risposta è che esso non si può definire, e questo è tutto quanto ho da dire sull’argomento” (PE, I, § 6). Egli critica le definizioni di “buono” come “ciò che procura piacere” o “ciò che è desiderato”: “Signori miei quel che vogliamo sapere da voi come maestri della morale non è come la gente usi una certa parola; e neppure quale sia il genere di azioni che la gente approva, il che è 37 conclusione di una riflessione sull’etica, bensì il suo punto di partenza per elaborare una concezione della moralità che, liberatasi da ogni residuo naturalistico, sia in grado di determinare il comportamento logico dei termini valutativi. Il termine “buono” ha un significato valutativo, dato che può essere impiegato non solo in senso morale (come nell’espressione “L’atto X è buono”) per indicare norme di comportamento da seguire, ma anche per lodare oggetti e per influenzare i giudizi altrui su di essi (come nell’espressione “X è una buona automobile”). Certamente vi sono anche casi in cui “buono” è impiegato descrittivamente, come per esempio se posto tra virgolette, oppure quando è impiegato in riferimento a criteri di bontà ormai standardizzati per i quali la carica valutativa di “buono” ha perso rilievo, a favore di quella descrittiva: “La carica valutativa e quella descrittiva di buono variano indipendentemente l’una dall’altra: quando un criterio si è stabilmente affermato e non è messo in discussione, un giudizio in cui figuri ‘buono’ può essere altamente informativo senza perciò avere una portata valutativa inferiore” (LM, p. 113). Dunque, anche se esistono usi non valutativi del termine buono, esso non perde mai del tutto la propria carica direttiva: per questo non ha senso parlare di una bontà strumentale oppure di bontà intrinseca. In altri termini, il significato di “buono” non si spiega elencando una serie di cose ritenute tali, diversamente da quanto accade per il significato di un termine come “rosso”, il quale è utilizzato esclusivamente solo per dare informazioni. Mentre infatti la proprietà determinata dalla “rossezza” è un fatto verificabile, sul quale in genere non vi è discussione tra persone che hanno una normale percezione dei colori, ciò che fa giudicare buono un quadro o un certo atto non è criterio oggettivo. Per questo è possibile che due persone che usano il termine “buono” col medesimo significato, possano continuare a giudicare in maniere opposte uno stesso quadro. Il discorso fatto in precedenza rispetto al significato valutativo di “buono”, unitamente al rigetto di ogni forma di spiegazione naturalistica dei termini etici, conduce Hare ad affermare che non vi sono differenze logiche tra l’uso di “buono” nei contesti non morali e in quelli morali. La funzione svolta da “buono”, in ambito morale e in ambito non morale è la medesima, ossia quella di esprimere una valutazione e, anche nel caso di giudizi valutativi non morali, di orientare le scelte altrui. È questo, tra certamente implicito nell’uso del termine ‘buono’: ciò che vogliamo sapere è semplicemente cosa è buono” (I, § 12). 38 le altre cose, che garantisce il carattere “dinamico” dei giudizi valutativi: “il rimedio contro il ristagno e il decadimento morale consiste solamente nell’imparare ad usare il linguaggio valutativo per i fini ai quali è destinato: il che equivale a imparare non solo a parlare, ma anche a mettere in pratica le cose che lodiamo; giacché, se non siamo disposti a metterle in pratica, non facciamo altro che manifestare un rispetto non sentito per un criterio meramente convenzionale” (LM, p. 135). E’ evidente che le ragioni per cui lodiamo un automobile sono profondamente diverse (e molto meno importanti) rispetto a quelle per cui lodiamo gli atti e i comportamenti delle persone e per questo la riflessione sui termini valutativi si appunta maggiormente sul ruolo che giocano in ambito etico e non per esempio in quello estetico59. Pertanto, i giudizi che esprimiamo nei confronti di certi comportamenti morali ha suscitato una maggiore attenzione da parte dei filosofi morali, in quanto “si ha l’impressione che in un certo modo la ‘bontà morale’ sia più augusta, più importante, e meriti quindi di avere una logica tutta propria” (LM, p. 127), poiché, se durante la nostra vita possiamo astenerci dal pronunciare giudizi sulla qualità di automobili, cronometri, quadri, non possiamo invece esimerci dall’esprimere giudizi morali e, soprattutto, dall’agire in base ad essi. Ciò accade perché viviamo in una società nella quale le nostre scelte e le nostre azioni hanno delle conseguenze delle quali è impossibile non tenere conto, giacché esse si riflettono non solo sulla nostra vita, ma anche sull’esistenza delle altre persone: “mentre possiamo evitare di essere architetti, o di costruire o usare cronometri, l’essere uomini è una necessità alla quale non possiamo sottrarci. Dato che è così, non c’è modo di evitare le (spesso scomode) conseguenze dell’attenerci ai giudizi morali che pronunciamo” (LM, p. 129). L’analisi semantica di “dovere” e “giusto” mostra che essi sono termini esclusivamente prescrittivi e che i giudizi da loro formati, per essere degli effettivi giudizi etici, implicano direttamente le caratteristiche della prescrittività e dell’universalità. In altri termini, l’ambito semantico di applicazione di “buono” è più ampio rispetto a quello di “dovere” e “giusto”, per cui, mentre è consueto affermare “M è una buona automobile” e “M è un uomo buono”, mai si afferma “M è una giusta 59 Un’argomentazione non dissimile è tratteggiata anche da D. Ross, nel suo The Right and the Good (1930), sebbene da un orizzonte intuizionista: “dobbiamo notare che ‘buono’, nell’applicarsi a persone, ha un senso speciale in cui esso indica l’eccellenza morale. È il caso di quando enfatizziamo l’aggettivo o il sostantivo nell’espressione ‘uomo buono’”. (Cfr. Il giusto e il bene, a cura di R. Mordacci, Bompiani, Milano 2004, p. 80). 39 automobile”, mentre si dice soltanto “M è un uomo giusto”. Da questo punto di vista, il comportamento del verbo “dovere” sembra essere più vicino a quello di “giusto” che a quello di “buono”. Infatti “giusto” e “buono” si comportano in modo differenti, poiché le valutazioni che essi implicano hanno degli ambiti di applicazione diversi: Hare pertanto, contrariamente a ciò che dice Moore nei Principia Ethica, non ritiene che “buono” sia la nozione etica fondamentale dalla quella derivare tutte le altre. In particolare, l’autore sottolinea come da tempo si sia evidenziato come l’espressione “quest’atto è buono” non necessariamente equivalga all’espressione “quest’atto è giusto”: se paghiamo il conto del sarto nella speranza che egli spenda quei soldi per andarsi ad ubriacare, facciamo un’azione giusta [giacché è giusto pagare chi ci presta un servizio], ma non un’azione buona, in quanto il motivo per cui la facciamo è cattivo. Così, dire che una persona ha compiuto un’azione non giusta…non equivale necessariamente a condannarla o biasimarla per quell’azione, in quanto, pur avendo fatto una cosa non giusta, quella persona può aver agito spinta dal migliore dei motivi, o può non essere stata in grado di resistere a una tentazione per aver ceduto alla quale non la si potrebbe biasimare (LM, p. 166). Già David Ross, nell’opera The Right and the Good, aveva proposto un’argomentazione per certi aspetti simile, evidenziando la diversa natura di “buono” e “giusto”, e soffermandosi sull’importanza del valore dei motivi che hanno condotto ad agire: “Qualunque valore intrinseco, positivo o negativo, possa avere l’azione, essa lo deve alla natura del suo motivo e non all’esser giusto o sbagliato dell’atto; qualunque valore essa abbia, indipendentemente dal suo motivo, è un valore strumentale, cioè niente affatto la bontà, bensì la proprietà di produrre qualcosa di buono”60. Hare inoltre nota che anche l’ambito in cui parliamo di azioni buone è differente da quello per cui parliamo di azioni giuste: nel primo caso ci troviamo infatti nel campo dell’educazione morale, nel secondo facciamo invece riferimento all’ambito dell’azione morale, ossia ai doveri da adempiere in ogni occasione che la vita ci presenta. Essi “possono essere adempiuti in modo buono o cattivo quale che sia il carattere o l’insieme dei motivi di colui che agisce” (LM, p. 167). Ma è soprattutto l’analisi del verbo “dovere” ad essere fondamentale nella riflessione di Hare: “i principi pratici rilevanti possono essere formulati come imperativi generali; e un ‘devo-giudizio’ è corretto, in relazione ad un insieme di principi generali, se vi è un 60 D. Ross, Il giusto e il bene, cit., p. 156 40 imperativo corrispondente che segue logicamente dall’insieme di imperativi generali assunti in combinazione con vere assunzioni sui fatti”61. Hare sostiene che il verbo “dovere” è molto diverso dagli altri, poiché non è mai usato descrittivamente, tranne in casi molto rari. “Alcuni enunciati contenenti il verbo ‘dovere’ hanno chiaramente una portata descrittiva…Ma la funzione principale di tali enunciati non è quella di dare informazioni, bensì quella di prescrivere o consigliare o istruire, funzione che può venire espletata anche quando non comunica alcuna informazione” (LM, p. 146). Il verbo “dovere” ha pertanto una portata prescrittiva maggiore, come mostra il fatto che gli enunciati che lo contengono possiedono una valenza imperativa che è assente negli imperativi singolari o negli imperativi ipotetici espressi dalla forma “se….allora”. “Non vogliamo sostenere che tutti gli enunciati contenenti il verbo ‘dovere’ implichino imperativi, ma solo che essi implicano imperativi quando vengono usati valutativamente” (LM, p. 150). Il verbo “dovere” è per ciò legato in maniera più diretta all’universalità, mentre un giudizio valutativo che contiene in sé il termine “buono” non sempre risulta universalizzabile62: mentre il giudizio secondo cui in una certa situazione io devo fare una certa cosa mi impegna a sostenere che nessuna persona che si trovi in una situazione esattamente analoga debba astenersi dal fare la stessa cosa, ciò non è vero per un giudizio formulato in termini di ‘buono’…A proposito di due vite identiche o di due uomini identici non possiamo dire che l’uno è buono e l’altro no; ma è perfettamente legittimo dire, a proposito di due vite diverse o di due uomini diversi, che entrambi sono buoni (FR, pp. 209-210). Infatti, vi possono essere vari esempi di vita “buona”, perché non è vero che esiste un solo modo di vivere “bene”. I devo-enunciati evidenziano pertanto un più stretto legame con i principi morali di carattere formale che guidano la nostra condotta e che in genere ci formiamo tramite un’educazione morale di un certo tipo. Il significato prescrittivo del verbo “dovere” porta al risultato notevole di comprendere meglio per quale ragione gli 61 G. Harman, The Nature of Morality, Oxford University Press, New York 1977, p. 116. Ad esempio, nota l’autore, il comando “Restituiscigli il denaro” ha una portata limitata, giacché può esprimere un giudizio morale che si applica solo in una particolare occasione; un comando del tipo “Si deve sempre restituire il denaro che si è promesso di restituire”, ha senz’altro una portata più ampia del precedente, giacché non si riferisce ad un’unica occasione, ma ad uno spettro più ampio di situazioni che si possono verificare. Una prescrizione della forma “Devi restituirgli il denaro” (o anche “Dovevi restituirgli il denaro”), benché sia pronunciabile in una situazione particolare, possiede una forza più generale, ossia sostiene un principio morale universale che impone di restituire sempre il denaro a chi ce lo ha prestato ed ha un orizzonte temporale che non riguarda solo il presente (LM, p. 143-44). 62 41 uomini hanno bisogno di principi universali della condotta in svariati campi della loro vita, ma soprattutto nel campo morale: Se qualcuno afferma che ci sono due situazioni identiche in tutte le loro universali caratteristiche non morali, ma sostiene che il protagonista in una di esse deve dire una bugia, mentre il protagonista dell’altra non deve farlo, è probabile che ci troveremmo in imbarazzo, come se egli avesse asserito che un disco rotante è stazionario e al contempo non stazionario (SO , p. 22). Dunque, il giudizio valutativo “Devo fare X”, è un esempio di quel che Hare ritiene sia la forma più semplice ed immediata di giudizio morale, del quale fornisce la seguente definizione, nella quale sono contemplate sia la prescrittività sia il carattere universale di esso: “Proponiamo che, per stabilire se uno usa il giudizio ‘Devo fare X’ come un giudizio valutativo oppure no, ci si ponga la seguente domanda: ‘Ammette o non ammette egli che se assente a quel giudizio deve necessariamente assentire anche al comando Che io faccia X?’” (LM, p. 153). Per supportare in maniera più salda questa argomentazione, Hare osserva che il verbo “dovere”, quando è usato prescrittivamente, ha un evidente legame con il verbo “potere”, giacché in tal caso il suo impiego fa sorgere una questione pratica: “In generale sembra essere vero che, se la descrizione di un’azione è tale da escludere una questione pratica, allora escluderà anche, per la stessa ragione, la corrispondente questione universalmente prescrittiva col verbo ‘dovere’. Di fatto, è l’impossibilità di deliberare, o di domandarsi, se fare una cosa che esclude il chiedere se si debba farla” (FR, p. 97). Il fatto che “dovere” implichi “potere” è di conseguenza legato alla constatazione secondo la quale quando dico a qualcuno che egli “deve” compiere una certa azione, vuol dire che so anche che egli è al contempo nella possibilità di compiere tale azione; non avrebbe infatti nessun senso, per rimanere nell’ambito morale, chiedere a qualcuno di compiere un atto che è del tutto impossibilitato a compiere. Per questo motivo l’implicazione tra “dovere” e “potere” non è un’implicazione di stretto carattere logico, ma di un carattere più debole e si può esprimere semplicemente nella forma: “se diciamo che uno deve fare una certa cosa, e il verbo dovere è preso in tutta la sua forza (cioè nella sua forza universalmente prescrittiva), allora lasciamo intendere a chi ci ascolta che riteniamo che la questione cui questa rappresenta una possibile risposta si pone, il che non avverrebbe se la persona in questione non fosse in grado di compiere gli atti cui si riferisce” (FR, pp. 90-91). Solo quando “dovere” implica “potere” abbiamo 42 pertanto dei giudizi prescrittivi giacché in tal caso sorge una questione pratica, la quale è “la questione cui si risponde o quando si dice a qualcun altro che cosa fare o quando si decide per se stessi” (FR, p. 90). Il verbo “dovere” contiene in tal modo una risposta alla domanda “Che fare?”, poiché suggerisce quello che si deve fare e dall’altro implica che, avendo significato prescrittivo, il nostro interlocutore “può” fare quella determinata cosa. La nozione di prescrittività in questo caso rileva una ricchezza di conseguenze morali e filosofiche notevoli che sono escluse, invece, da un utilizzo di “dovere” privo di qualsiasi implicazione pratica: “la prescrittività del verbo ‘dovere’, così usato, serve sia a spiegare la nozione comunemente accettata secondo cui ‘dovere’ implica ‘potere’, sia a discriminare i casi in cui ciò avviene da quelli in cui non avviene” (FR, p. 92). Il problema del naturalismo Le definizioni di carattere metaetico che Hare antepone all’esposizione della sua riflessione morale, conducono l’autore a marcare la propria distanza da quelle dottrine che negano autonomia all’etica; a questo proposito, Hare riprende in parte le argomentazioni di Moore il quale, rifacendosi alle parole di Hume63 relative alla inderivabilità di asserzioni con verbo “essere” da asserzioni col verbo “dovere”, accusava queste dottrine di commettere una fallacia naturalistica, ossia di definire le proprietà etiche attraverso proprietà naturali (e dunque non etiche): “I naturalisti, ma più in generale i riduttivisti, commettono…una fallacia logica in quanto confondono due proprietà distinte, una delle quali è naturale (definiens) e l’altra non-naturale (definiendum)”64. Hare sembra d’accordo nel sostenere l’esistenza di una vera e propria legge di Hume che stabilisce l’impossibilità di derivare un giudizio morale da premesse che contengono solo asserzioni fattuali: “poiché la conclusione di un ragionamento non può contenere niente che non sia nelle premesse ed in queste premesse non vi sono affatto dei ‘si deve’”65. Non è possibile dunque dedurre le qualità morali (o valutative) di qualcosa o qualcuno da proprietà (o fatti) non morali. “Se fosse possibile partire da premesse empiriche, stabilite da osservazioni ordinarie e dalle consuete procedure di 63 Cfr. in proposito D. Hume, Trattato sulla natura umana, Libro III, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 496-497. 64 C. Bagnoli, Etica, in F. D’Agostini, N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2002, p. 300. 65 P. Nowell-Smith, Etica, a cura di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Milano 1974, p. 76. 43 predizione del futuro, e da esse, attraverso le trasformazioni concettuali che la filosofia ha scoperto, giungere a conclusioni morali sostanziali, allora la filosofia avrebbe realmente fatto qualcosa per la soluzione dei problemi pratici. Questo è il programma di quel genere di filosofia morale di solito chiamata ‘naturalismo’”66. Se per esempio si volesse fornire una definizione dell’asserzione valutativa “X è un buon quadro”, secondo la prospettiva naturalista, si dovrebbe cercare di individuare alcune proprietà (oggettive e durature nel tempo) possedute dal quel quadro, al fine di ottenere un enunciato che renda chiaro a tutti cosa si intenda dire quando si afferma che quello è un “buon quadro”. In sostanza, il giudizio “X è un buon quadro” è trattato dal naturalista alla stregua del giudizio “X è un rettangolo”, poiché egli, pensando che i giudizi valutativi siano un semplice sottoinsieme della classe più ampia dei giudizi conoscitivi, segue la convinzione per cui gli oggetti siano “buoni” in virtù di proprietà empiriche; sarebbe perciò sufficiente rintracciare una di queste caratteristiche (rispondente ad un criterio oggettivo di verità) per spiegare il significato di “buono”. Se per esempio tale caratteristica di bontà del quadro fosse definita secondo il criterio “perché è apprezzato dai membri dell’Accademia dei Lincei”, che possiamo chiamare criterio P, il naturalista affermerebbe che “X è un buon quadro perché possiede P”, derivando l’idea che l’enunciato “X è un buon quadro” è sinonimo dell’asserzione “X è un quadro e X è P”. Tuttavia, avverte Hare, questo giudizio non è un giudizio valutativo, bensì semplicemente informativo, perché ci dice solo che quell’X è un quadro e che è apprezzato dai membri dell’Accademia dei Lincei. Lodare il quadro X dicendo che è tale perché apprezzato dai membri dell’Accademia dei Lincei, non significa quindi stabilire un criterio di valutazione su di esso, ma vuol dire limitarsi ad affermare che i membri dell’Accademia dei Lincei ammirano i quadri che ammirano. Questa asserzione è dunque una tautologia priva di rilievo valutativo in quanto asserzione analitica: “Se si afferma che ‘P è un buon quadro’ è sinonimo di ‘P è un quadro e P è C’, allora diventerà impossibile lodare dei quadri perché sono C; sarà soltanto possibile dire che sono C” (LM, p. 83). L’errore del naturalismo è in primis concettuale, ma ovviamente tale errore può avere altresì delle ricadute pratiche. Il naturalista però in genere non si rende conto di questo errore e cade in quella forma di realismo etico che Hare ritiene colpevole del 66 R. M. Hare, The Practical relevance of Philosophy (1967), in Essays on Philosophical Method, Macmillan, London 1971, p. 103. 44 fraintendimento della vera natura dei concetti morali: “Per un naturalista, quindi, l’inferenza che procede dalla descrizione non morale di una cosa a una conclusione morale su di essa è un’inferenza la cui validità è dovuta unicamente al significato delle parole che contiene” (FR, p. 51): quel che definisco naturalismo [dichiara] che asserzioni fattuali relativamente alla giustezza o scorrettezza [wrongness] delle azioni sono vere appellandoci a quel che sappiamo rispetto al significato dei termini ‘giusto’ e ‘sbagliato’ [wrong]. Ma i descrittivisti affrontano tale questione [quella della verità dei giudizi valutativi] in modo troppo semplice. Essi pensano che se conosciamo il significato di queste parole saremo in grado di riconoscere atti che sono sbagliati, come accade quando, conoscendo il significato di ‘rosso’ o ‘triangolare’, possiamo individuare oggetti che sono rossi o di forma triangolare67. Hare, al contrario, ricorda che quando lui ed altri sostenitori del prescrittivismo affermano che un uomo è buono, “non stiamo semplicemente spiegando il significato di una parola; non è mera istruzione verbale quella che diamo, ma qualcosa di più: istruzione morale. Nell’apprendere che, fra tutti i tipi di uomo, si può chiamare buono questo tipo, il nostro ascoltatore apprenderà qualcosa di sintetico, un principio morale” (FR, p. 52). Ciò vuol dire che i giudizi morali fanno riferimento a qualcosa di sostanziale, non a semplici regole di significato, al contrario di quello cui fanno riferimento i giudizi descrittivi. Il naturalismo, se per alcuni aspetti, è allora una dottrina che ha una certa utilità rispetto alle esigenze per le quali nasce, le sue conclusioni appaiono però inaccettabili: un filosofo morale che voglia spiegare il ragionamento morale e utilizzi il naturalismo a questo scopo, è nel giusto, per un verso; ha infatti intuito che lo studio del significati delle parole è il mezzo per scoprire i canoni del ragionamento morale. Egli però prenderebbe una scorciatoia troppo breve. Come unico canone di ragionamento morale non possiamo prendere il seguente: scoprire quali sono i tipi di oggetti a cui possono essere attribuiti i predicati morali secondo quanto è stabilito dalle concezioni della nostra lingua, e attribuirli a questi oggetti… Confondere le convenzioni morali con quelle linguistiche è un errore (MT, p. 105). 67 R. M. Hare, Objective Prescriptions, in A. P. Griffiths (edited by), Ethics, cit., p. 6. 45 Il non descrittivismo Una più compiuta critica del naturalismo si concretizza nella presa di distanza dal descrittivismo etico, il quale è definibile come “1) La tesi secondo la quale è possibile definire termini e espressioni normativo-valutative mediante termini e espressioni fattuali; 2) la tesi secondo la quale le affermazioni normativo-valutative sono…affermazioni di carattere fattuale (descrittivo)”68. L’adozione del non descrittivismo etico a livello semantico presuppone in Hare l’adesione, ad un più generale livello epistemologico, ad una prospettiva compiutamente non cognitivista, ovvero all’idea in base alla quale i giudizi etici non sono asserzione conoscitive e pertanto non sono suscettibili di vero-falsità, giacché non si pone la questione della loro verificabilità: “il cognitivismo etico è…la posizione secondo la quale è possibile conoscere la verità dei giudizi morali; il descrittivismo etico è, invece, la posizione secondo la quale il loro carattere logico è simile a quello delle asserzioni o dei giudizi descrittivi…un’asserzione o un giudizio sono descrittivi quando il loro carattere logico è simile a quello delle asserzioni o dei giudizi descrittivi”69. In modo simile al naturalismo, il descrittivismo compie un errore a livello semantico, giacché stabilisce che tutte le regole di significato debbano essere dello stesso tipo (ossia di genere descrittivo). Per esempio, il disaccordo tra chi definisce un prato “rosso” e chi lo definisce correttamente come “verde” può essere appianato molto agevolmente in modo razionale, mostrando a chi sbaglia i motivi per cui, sostenendo egli la tal cosa, rompe una precisa regola di significato descrittivo. Questa differenza tra i due generi di disaccordo è dovuta al fatto che per il descrittivismo “un’ asserzione o un 68 B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla legge di Hume, Giappichelli, Torino 1994, p. 124. 69 R. M. Hare, Confusioni sul concetto di soggettività, ora in Saggi di teoria etica, cit., p. 23. Secondo il cognitivismo etico “un enunciato morale possiede condizioni di verità che sono almeno in un caso soddisfatte” (Cfr., P. Donatelli, Introduzione, in P. Donatelli, E. Lecaldano, (a cura di), Etica analitica, cit., p. 25). Secondo i cognitivisti, l’etica può costituirsi come un corpo di conoscenze (alla pari della scienza), perché le sue asserzioni affermano proprietà che hanno un’esistenza oggettiva e che possono essere giudicate vere o false in base a determinati criteri. A. J. Ayer, fin dal suo celebre testo del ’36 Language, Truth and Logic, ha contestato questa asserzione, notando che le proposizioni dell’etica non sono verificabili e sono prive di valore conoscitivo e, in coerenza con il positivismo logico, di significato: “Parlando per me, sono stato condotto [all’emotivismo] dall’assumere in primis che noi facciamo un uso dei termini etici, il quale è distinto dalla relazione che essi hanno con alcun standard accettati; in secondo luogo…per il fatto che il loro utilizzo non era spiegato da alcuna teoria naturalistica; e, in terzo luogo, per il fatto che tale loro utilizzo era invece spiegato dalla teoria emotiva, la quale possiede il vantaggio di essere coerente con la mia posizione filosofica generale”. (Cfr., Freedom and Morality, in Freedom and Morality and Other Essays, Clarendon Press, Oxford 1984, pp. 30-31). 46 giudizio sono descrittivi se il loro significato…è la sola cosa che determina le loro condizioni di verità, e viceversa”70. Il disaccordo secondo il descrittivismo è dovuto allora all’uso errato di una regola logica molto precisa relativa al significato dei termini utilizzati. Il disaccordo morale, invece, sussiste anche in presenza di un corretto utilizzo delle regole logiche e dei significati dei termini coinvolti. Infatti, se una persona afferma “Si deve fare X” e un’altra “Non si deve fare X”, una volta accertato che entrambi utilizzino il verbo “dovere” col medesimo significato, non possiamo dire che una delle due compie un errore logico, ma solo che agiranno in modo diverso. Al contrario, il disaccordo tra giudizi descrittivi non conduce necessariamente a differenti conseguenze pratiche e per questo è molto meno significativo del disaccordo morale. Inoltre, per produrre un vero e proprio disaccordo etico, non è sufficiente che i due interlocutori dissentano sui giudizi singolari, giacché “perché questo si costituisca bisognerebbe che dissentissimo, non solo su ciò che è da farsi in un caso particolare, ma su qualche principio universale concernente ciò che si deve fare in casi di un certo tipo” (FR, p. 144). Inoltre, il significato prescrittivo possiede una dinamicità sconosciuta a quello descrittivo: mentre infatti l’asserzione descrittiva “L’automobile X è rossa” è di norma costante nel tempo se riferita alla medesima automobile, possono al contrario mutare nel tempo i criteri con i quali uno stesso atto si giudica “buono”. Ciò non conduce al relativismo morale, bensì alla fondamentale capacità dei giudizi prescrittivi di favorire il riformatore morale: “Un’importante caratteristica del linguaggio, ignorata dal naturalismo, sta nel fatto che esso ci permette di continuare a usare i termini morali con il loro medesimo significato per esprimere opinioni morali discordi da quelle invalse, come fanno i riformatori morali” (MT, p. 105). Il disaccordo di tipo descrittivo è dunque un disaccordo puramente verbale, dovuto ad una non conoscenza delle regole di verità di un termine, mentre il disaccordo morale è sostanziale, poiché coinvolge direttamente le scelte di vita delle persone. Infine, le regole che sottendono al ragionamento morale “non possono essere semplici regole di significato descrittivo, pur se, tra le altre funzioni, esse determinano il significato descrittivo di quel termine. Sono regole aventi contenuto morale: nell’accettare l’una o l’altra di esse i due disputanti si impegnerebbero non meramente per un certo uso di una parola, ma per una questione di principio morale” (FR, pp. 60-61). Pertanto, i termini 70 R. M. Hare, Confusioni sul concetto di soggettività, ora in Saggi di teoria etica, cit., p. 23. 47 morali possono essere in alcuni casi utilizzati per veicolare informazioni, ma il loro impiego peculiare è quello valutativo o prescrittivo: “i filosofi della morale debbono decidersi: o riconoscono l’elemento irriducibilmente prescrittivo dei giudizi morali, oppure ammettono che i giudizi morali, così come essi li interpretano, non guidano le azioni, come invece fanno i giudizi morali ordinariamente intesi” (LM, p. 172). La tesi, diffusa nella riflessione analitica sull’etica, relativa all’esistenza di una legge di Hume e la distinzione tra fatto e valore, hanno suscitato una discussione piuttosto ampia. Infatti, è stata sostenuta la insussistenza di questa legge, contestando l’interpretazione che Moore ha fornito del passo di Hume sulla distinzione tra è e deve. Come scrive per esempio W. Frankena: La posizione di Hume è che non si possono trarre valide conclusioni etiche da premesse non etiche. Ma quando gli intuizionisti [come Moore] affermano la divergenza fra ‘dovere’ ed ‘essere’, essi vogliono dire molto di più del fatto che le proposizioni etiche non possano essere dedotte da quelle non etiche. Poiché una tale difficoltà nei sistemi di morale volgari poteva essere superata…grazie all’introduzione di definizioni delle nozioni etiche in termini non etici. Essi vogliono dire, piuttosto, che tali definizioni di nozioni etiche attraverso termini non etici sono impossibili…Le proprietà etiche non sono …mere qualità naturali indefinibili, descrittive o esplicative. Esse sono proprietà di genere differente – non descrittive o non naturali71. Frankena dunque osserva che Moore, invece di parlare di “fallacia naturalistica”, avrebbe dovuto definire l’oggetto della sua critica come “fallacia definizionista” perché, se la sua argomentazione fosse vera (ma non è sicuro che lo sia), colpirebbe tutti i tentativi di definire qualcosa. La fallacia denunciata da Moore in campo etico sarebbe in realtà solamente una parte minoritaria della più ampia fallacia definizionista, la quale “è il processo di confondere o identificare due proprietà, o definire una proprietà attraverso un’altra, o sostituire una proprietà al posto di un’altra”. Considerazioni critiche verso la legge di Hume sono state portante anche da A. J. Ayer e da B. Williams, secondo il quale tale fallacia naturalistica in realtà ben presto ha cessato di essere un divieto riguardante la definizione di bene in termini naturalistici, per divenire il puntello di una teoria che distingue i termini valutativi (bene e giusto), da quelli non valutativi (giudizi di fatto, verità matematiche, metafisiche, religiose e così via): tuttavia, sebbene questa 71 W. Frankena, The Naturalistic Fallacy, “Mind”, 48 (1939), pp. 467 e 471 per la successiva citazione. 48 distinzione per Williams sia accettabile, non è a suo parere questo ciò che Hume voleva realmente dire72. In particolare, l’approccio non cognitivista di Hare ha trovato una serie di critici, i quali hanno ritenuto illegittima e non fondata l’individuazione del significato valutativo (e poi prescrittivo) come un significato sussistente di per sé, ossia del tutto autonomo rispetto alla carica descrittiva del termine cui esso si riferisce. P. Geach ha per esempio contestato l’unilateralità del non cognitivismo, il quale ritiene che i termini etici siano tali in quanto ricorrono esclusivamente in contesti proposizionali morali. In realtà, egli nota che alcune asserzioni prescrittive (per esempio, dichiarare che fare una certa cosa è un atto “cattivo”), pur ricorrendo di solito in contesti assertori (ad esempio nella proposizione “Tormentare un gatto è cosa cattiva”), possono altresì ricorrere in contesti non assertori e non perdere per questo motivo la propria forza prescrittiva (per esempio all’interno di una proposizione condizionale, in cui il termine “cattivo” non è posto nella premessa condizionale: “Se tormentare un gatto è cosa cattiva, come ho detto a mio fratello, allora non devi tormentare il gatto”). Tuttavia, mentre in questo caso il non cognitivista sosterrebbe che il termine “cattivo”, non apparendo nella premessa condizionale, sarebbe privo di forza prescrittiva in quanto usato descrittivamente, Geach pensa che il ragionamento sia comunque moralmente cogente: “e ciò in virtù del fatto che il predicato ‘è cosa cattiva’ conserva lo stesso significato…Se ciò è vero, Geach è riuscito a dimostrare che predicato prescrittivi come ‘cattivo’ non devono il loro significato alla loro forza assertoria, e da questo punto di vista ‘cattivo’ non è diverso da molti altri predicati”73. Da un altro punto di vista, P. Foot denuncia la non correttezza della teoria che asserisce l’esistenza di un significato valutativo come cosa a se, in quanto a suo parere i termini come “buono” non possiedono un significato autonomo. Tale significato è infatti legato alla funzione che essi possono svolgere all’interno del linguaggio e non si può prescindere dall’individuazione di un oggetto particolare (un uomo, una situazione, un azione) su cui tale termine ci fornisce un’informazione: “non vi è alcun modo di descrivere il termine valutativo ‘buono’, la valutazione, la lode, o nient’altro di questo 72 Cfr. B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit. pp. 149-151. Per una disamina delle differenti interpretazioni delle parole di Hume e per il tentativo di fornirne una interpretazione autentica, più aderente al sistema complessivo dell’etica dell’autore scozzese, cfr., E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 173-181. 73 P. Donatelli, Introduzione a P. Donatelli/E. Lecaldano (a cura di ), Etica analitica, cit., p. 18. Per le argomentazioni di Geach cfr. Assertion, “The Philosophical Review”, 74 (1965), pp. 449-475. 49 genere, senza fissare l’oggetto al quale si suppone che essi si attacchino. Senza prima allungare le mani sull’oggetto proprio di una cosa come la valutazione, noi stringeremmo nella nostra rete solo cose diverse come l’accettare un ordine, prendere una decisione e null’altro”74. Foot nota per esempio che un termine come “scortese” (rude) possiede la proprietà di essere valutativo solo se inserito in contesti linguistici nei quali esso deve mostrare di essere prima di tutto “descrittivo”, e dunque fornire informazioni su uno stato di cose o un evento o una situazione reale o immaginaria. In altre parole, i termini valutativi non sono tutti uguali e la gran parte di essi, in genere, possiede un evidente legame con i fatti e il loro utilizzo in contesti descrittivo non può essere definito come minoritario o subordinato a quello prescrittivo. In tal modo, Foot esprime una più generale perplessità sull’esistenza della dicotomia tra fatto e valore; come ha notato di recente H. Putnam a proposito per esempio dell’uso del termine ‘crudele’ (crude): “crudele può essere usato in maniera puramente descrittiva, come quando uno storico descrive che un certo sovrano fu eccezionalmente crudele o che le crudeltà del regime provocano una serie di ribellioni. ‘Crudele’ semplicemente ignora la dicotomia fatto/valore e ammette allegramente di venir usato talvolta per scopi normativi e altre volte come termine descrittivo”75. G. Anscombe76 ha inoltre rilevato come il giudizio che Hare ritiene più propriamente prescrittivo, ossia quello contenete il verbo “dovere”, venga impoverito se analizzato esclusivamente secondo l’approccio semantico. L’autrice infatti fa l’esempio dell’enunciato “io devo al mio droghiere questa somma per le patate”, evidenziando come esso sia in realtà composto da una serie di fatti “bruti” (vale a dire l’andare dal droghiere, il comperare le patate e così via), che ne determinano il significato in maniera di gran lunga più cogente dell’analisi puramente logica. La proposizione in oggetto, infatti, non implica direttamente una prescrizione, per giunta universale, giacché può limitarsi a descrivere il fatto di dover pagare le patate. Sono infatti fondamentali le circostanze nelle quali la frase è pronunciata per determinarne il valore semantico ed eventualmente pratico, mentre Hare scrive che essa rappresenta un giudizio prescrittivo, basandosi sulla sola analisi logico-concettuale. L’enunciato che Anscombe prende ad 74 P. Foot, Moral Arguments, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Basil Blackwell, Oxford 1978, p. 113. 75 Cfr. H. Putnam, Fatto/Valore. Fine di una dicotomia, a cura di G. Pellegrino, Fazi Editore, Roma 2004, p 40. 76 G. E. M. Anscombe, On Brute Facts (1958), ora in Ethics, Religion and Politics, vol. III, Basil Blackwell, Oxford 1981, pp. 22-25. 50 esempio, infatti, è scomponibile in una serie di asserzioni descrittive che possono essere delle specie più varia (tale proposizione, per esempio, potrebbe anche essere utilizzato per descrivere la scena di un film e sarebbe dunque non reale) e che non corrispondono necessariamente ad un’unica funzione, “ma è di nuovo il contesto normale, l’istituzione sottostante la descrizione di partenza, a rendere possibile la corrispondenza dell’enunciato iniziale con i fatti bruti cui esso consiste. L’analisi di Anscombe tende a mostrare come l’indagine del linguaggio sia riconducibile esclusivamente all’indagine dei fatti in questione”77. Ella rifiuta l’assunto non cognitivista che sostiene si debba distinguere tra termini descrittivi e termini etici in virtù della loro componente non descrittiva e valutativa. L’argomento antinaturalista e antidescrittivista di Hare sembra dunque parziale e surrettizio, come la stessa distinzione tra giudizi di fatto e di valore: “Queste argomentazioni provano solamente che non possiamo dipingere la moralità derivandola direttamente da un background filosofico trascendente prestabilito, o da un background fattuale. Ma questo non significa ancora sostenere che la credenza (belief) nel trascendente non possa essere presente in un resoconto filosofico della morale”78. L’idea che gran parte della riflessione del filosofo morale si esaurisca nelle analisi del linguaggio dell’etica, viene successivamente connessa da Hare alla convinzione per cui la sola logica non può determinare direttamente all’azione. In altre parole, le analisi di The Language of Morals, pur nel loro carattere metaetico, non negano la possibilità che l’enunciazione di una proposizione prescrittiva possa anche indicare una condotta, un criterio d’azione saldamente fondato, in quanto: “Chi agisce moralmente non fa una semplice inferenza, ma decide di violare un principio morale oppure di rispettarlo (LM, p. 57). Pertanto, sebbene non si prefiguri qui la possibilità di elaborare principi normativi, Hare è cosciente che il pensatore morale non debba fare il medesimo lavoro del filosofo del linguaggio; per esempio, una delle questioni più pressanti per il filosofo morale è quello legato alla necessità di stabilire la rilevanza dei giudizi etici e dei contesti morali nei quali essi trovano applicazione, non solo la questione relativa a quali proposizioni e situazioni possono essere considerate dotate di valenza morale in virtù di regole logiche. 77 P. Donatelli, Introduzione a P. Donatelli/E. Lecaldano (a cura di ), Etica analitica, cit., p. 16. I. Murdoch, Metaphysics and Ethics, in Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature, Penguin Books, London 1999, p. 65. 78 51 Si tratta qui da un lato di individuare alcune caratteristiche semantiche dei termini morali, attraverso le quali ritagliare, all’interno del linguaggio ordinario, uno spazio autonomo per il linguaggio morale e di conseguenza per la riflessione su di esso. Dall’altro lato, è però necessario andare oltre e domandarsi se le proposizioni etiche abbiano la possibilità, una volta applicate a determinate situazioni, stati di fatto o eventi, di fondare razionalmente anche la loro rilevanza morale. Hare definisce in tal modo la rilevanza: “trattare una certa caratteristica come rilevante sotto il profilo morale significa applicare a quella situazione un principio morale che faccia menzione di tale caratteristica. È sbagliato pensare di potere prima identificare i tratti moralmente rilevanti di una situazione e soltanto dopo cominciare a chiedersi quali principi morali vadano applicati alla situazione” (MT, p. 98). Hare propone dunque un’applicazione serrata della nozione di rilevanza, sostenendo che il giudicare eticamente rilevante una situazione (o un fatto, un evento, uno stato di cose), significa in realtà già formulare un principio morale. In altri termini, l’ammissione della rilevanza morale di una certa situazione coincide con la valutazione etica formulata su di essa: “Noi possiamo bensì descrivere una situazione senza impegnarci in alcun giudizio morale su di essa…; tuttavia, quando decidiamo quali caratteristiche della descrizione siano moralmente rilevanti, stiamo già facendo un’operazione morale”79. È il parallelo fra i criteri di rilevanza morale di una situazione e il processo di valutazione morale di essa che potrebbe assicurare il fatto che la filosofia possieda rilevanza pratica80. 79 R. M. Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 200. R. M. Hare, The Practical Relevance of Philosophy, in Essays on Philosophical Method, cit., pp. 98118. Questa significativa tesi di Hare è tuttavia piuttosto impegnativa per l’agente, in quanto potrebbe suggerire che non è possibile parlare o descrivere una situazione, una persona e, nel medesimo tempo, non esprimere una valutazione su di essa. In realtà, come è stato sottolineato (Cfr. in proposito il saggio di B. Williams del 1962, The Idea of Equality, ora in L’idea di eguaglianza, a cura di I. Carter, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 26-27) non sempre accade così e il giudicare moralmente rilevante un certo X può non implicare direttamente, come dato di fatto, l’espressione di una valutazione su X. Tale espressione di valutazione, infatti, è un atto indipendente da quello che sottolinea la rilevanza dell’oggetto o della situazione giudicata. 80 52 CAPITOLO 2. Prescrittivismo universale Il prescrittivismo come principio normativo Nell’opera del ’63, Freedom and Reason, Hare da un lato riprende ed amplia le analisi sul significato dei termini morali, precisando ulteriormente i carattere dell’universalità e della prescrittività; dall’altro, si mostra più incline ad elaborare una vera e propria teoria etica che sia in grado di affrontare questioni morali sostanziali, o meglio, che sia in grado di fornire argomenti logicamente fondati per affrontarle. Per questo non è corretto asserire che in Freedom and Reason, Hare operi una vera e propria svolta filosofica, in quanto le argomentazioni di The Languge of Morals fungono da base per quelle contenute in Freedom and Reason; tuttavia, quest’ultimo testo è per certi aspetti un completamento di quanto detto nell’opera precedente, sia attraverso la precisazione di determinati temi, sia attraverso l’introduzione di nuovi problemi e questioni. In tal modo l’autore va oltre l’orizzonte analitico, nella direzione di una teoria etica che tuttavia, almeno per il momento, non ha bisogno di appoggiarsi ad una dottrina normativa particolare. L’orizzonte metaetico della riflessione di Hare nasce quindi con l’intento, almeno nelle sue affermazioni, di evidenziare come l’analisi semantica dei giudizi etici, se condotta non quale indagine fine a se stessa, ma connessa ad una ragionevole attenzione alle situazioni empiricamente osservabili nelle quali siamo chiamati a giudicare moralmente, possa influenzare la condotta pratica. L’autore dunque, appurata l’esistenza di un linguaggio morale, dotato di regole logiche parallele a quelle possedute dal linguaggio ordinario (in MT, p. 34 si legge infatti che “Nel suo aspetto formale…la filosofia morale è un regno di quello che oggigiorno viene spesso chiamata logica filosofica”), ritiene che attraverso la sua analisi sia possibile enunciare giudizi etici che possono dare vita a principi universali e prescrittivi capaci di influenzare la condotta. Con l’opera Freedom and Reason, sembra in definitiva farsi più viva l’esigenza di accompagnare ad una fondazione formale dell’etica, la necessità di riflettere sulle condizioni di possibilità di una teoria morale, gli argomenti di una concezione sostantiva del bene, nel duplice intento di rendere meno estemporanea l’analisi metaetica e di unire ad essa un principio etico normativo che permetta di capire il senso e l’utilità dell’analisi logico-linguistica. Si potrebbe perciò definire la riflessione di 53 Hare, dal ’63 in poi, come un tentativo di fondare razionalmente una concezione sostantiva sia del bene, sia del carattere degli individui che agiscono moralmente. I soggetti morali verranno per questa ragione progressivamente visti come persone calate in un contesto sociale determinato e dotate di desideri ed inclinazioni empiricamente osservabili, in virtù dei quali essi regolano la propria condotta per raggiungere ciò che essi giudicano come benefico per loro. Gli individui, pertanto, non agiranno semplicemente in seguito ad un astratto ragionamento, ma attueranno quella che l’autore definisce una “decisione di principio”, dal momento che “esprimere un giudizio valutativo [significa] prendere una decisione di principio. Chiederci se in queste circostanze dobbiamo compiere l’azione A equivale a chiederci….se vogliamo o no che il compiere l’azione A in tali circostanze diventi una legge universale” (LM, p. 69). La determinazione del prescrittivismo universale come dottrina normativa impone quindi una maggiore considerazione di quegli elementi empirici (inclinazioni individuali, circostanze dell’azione) che sono essenziali per operare un’applicazione pratica di principi morali di carattere logico-formale. Tuttavia, ciò che renderà discutibile questa operazione è la mancata elaborazione di una dottrina normativa coerente con il prescrittivismo, capace di fornire il giusto peso alle inclinazioni, ai sentimenti e ai desideri di chi agisce. In realtà in Freedom and Reason, Hare mostra una certa vicinanza con l’utilitarismo, nondimeno egli considera il prescrittivismo capace già da solo di determinare sia il modo corretto di ragionare in etica, sia l’azione moralmente più efficace, mentre l’utilitarismo sarebbe solo un suo corollario, uno strumento. Questo è un tema molto delicato nella riflessione morale di Hare, forse non sempre messo in evidenza, ma da non trascurare, poiché il suo approccio utilitarista verrà maturato appieno solo durante gli anni Settanta, sebbene sia evidente che anche in precedenza l’autore fosse vicino ad una dottrina morale di questo genere. Ciò nonostante, Hare in Freedom and Reason dichiara che il prescrittivismo è una dottrina morale capace di correggere le incongruenze e contraddizioni dell’utilitarismo, il quale, come principale ‘difetto’, avrebbe quello di non essere supportato da un modello di ragionamento morale formale ed universale. Il prescrittivismo, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbe da un lato incorporare la formalità di un’etica deontologica e, dall’altro, arricchirsi con una maggiore attenzione verso i moventi pratici dell’agire 54 umano, verso i quali l’utilitarismo mostra di avere una sensibilità più marcata rispetto ad altre dottrine normative. La seconda difficoltà insita nell’utilitarismo è legata alla non facile verifica dell’intensità del desiderio provato, al fine di stabilire una gerarchia tra inclinazioni ed interessi ed operare sulla base di essa delle scelte. In altri termini, “dobbiamo…considerare ciascuna persona come uno, o ciascun desiderio di una persona come avente ugual peso dello stesso desiderio, della stessa intensità provato da qualche altra persona?” (FR, p. 170). Vi è inoltre il problema relativo al fatto se conta maggiormente una soddisfazione incompleta di tutte le preferenze delle persone coinvolte nella scelta, o la soddisfazione massima solo di quelle più intensamente espresse, a prezzo della frustrazione dei minoritari desideri altrui: “si riconoscerà questo problema come analogo a quello, che ha afflitto gli utilitaristi, se si debba massimizzare la felicità o distribuirla in parti uguali, qualora non si possa fare entrambe le cose” (FR, p. 171). Vi è poi la questione, che già divise Bentham e Mill, se si debbano privilegiare i desideri migliori delle persone o invece semplicemente quelli più intensi, ossia se vada privilegiata la forza di qualsiasi desiderio o vadano meglio valutati desideri qualitativamente superiori: “Riconoscere che alcuni tipi di piaceri siano più desiderabili di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri dipenda solo dalla quantità, quando invece per valutare tutte le altre cose si prende in considerazione anche la qualità…E’ meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto”81. Questa era la posizione di Mill, mentre Bentham sosteneva un’idea opposta e lo stesso Hare, per sua ammissione, è vicino alla posizione benthamiana, in quanto pensa che non vi possa essere una distinzione qualitativa tra i piaceri. Secondo Hare, le difficoltà dell’utilitarismo possono essere superate solo se alle sue asserzioni si accompagna, come loro fondamento, il test dell’universalità. Infatti, proprio grazie al prescrittivismo universale, il principio di Bentham “Ognuno conti per uno, nessuno per più di uno” acquista un fondamento logico e razionale; per l’utilitarismo “ciò che questo principio significa è che ognuno ha diritto a pari 81 J. S. Mill, L’utilitarismo, a cura di E. Mistretta, Rizzoli, Milano 1999, pp. 243 e 245. Cfr. inoltre la posizione di Smart che giudica irrilevante tra tale distinzione, Lineamenti di un sistema utilitarista, cit, pp. 48-50. 55 considerazione, e che se si dice che due persone devono essere trattate in modo diverso, si deve far presente una qualche differenza come base per tali diversi giudizi morali. E ciò è un corollario del requisito dell’universalizzabilità” (FR, pp. 167-168). Il filosofo morale deve dunque analizzare i nostri interessi, ideali, desideri ed inclinazioni ed il test dell’universalizzazione può essere uno strumento adatto a condurre una valutazione rigorosa ed imparziale di essi. Gli altri individui pertanto non sono delle entità astratte, ma delle persone che hanno ideali e interessi propri, dai quali non è possibile prescindere se si vuole effettivamente agire in modo morale. Sono questi i fatti di cui Hare parla e la loro valutazione è decisiva, alla pari ovviamente del richiamo alla correttezza logica del ragionamento morale. “Il filosofo della morale ha il compito di dire, non quale sarebbe il comportamento logico dei termini morali se questi fossero prodotti da, e ad uso di, angeli, bensì quale esso di fatto è” (FR, p. 112). Hare pertanto sostiene che il prescrittivismo universale possa, da un lato, a monte, “riempire” di contenuti un’etica formale deontologica (che a giudizio di Hare è eccessivamente astratta in quanto priva di contenuto prescrittivo), e dall’altro, a valle, conferire all’etica normativa un solido apparato logico-concettuale, incentrato sull’analisi del significato dei termini e delle proposizioni morali. Il problema tuttavia è che, almeno in questa fase, la mancata adozione di una prospettiva pienamente utilitarista, non permette una completa e ponderata ricognizione dei reali moventi che spingono gli individui ad agire. E’ peraltro evidente che, al di là del ruolo assunto dal ragionamento morale, la determinazione della effettiva condotta pratica è essenziale in quanto le nostre decisioni e le nostre scelte hanno sempre un riflesso sulle altre persone e sulla situazione sociale nella quale viviamo. Pertanto, la valutazione di un giudizio morale, condotta esclusivamente in relazione alla correttezza del ragionamento che ha portato a formularlo e all’esistenza di un principio morale a priori che lo renda valido, è necessaria ma non sufficiente. È infatti richiesto un percorso di valutazione che faccia seguire, all’analisi formale, la valutazione delle conseguenze pratiche implicate dall’agire e dunque la capacità di discernere tra le alternative che la realizzazione di un certo atto può comportare e le diverse conseguenze da esso prodotte. Per certi aspetti, Hare sembra qui prefigurare una conciliazione tra consequenzialismo e deontologismo, tra utilitarismo e kantismo, ma, come si vedrà, tale conciliazione risulta problematica. 56 L’immedesimazione simpatetica Quando, come accade nella maggioranza dei casi, l’azione riguarda un numero ampio di individui, è allora impossibile sia sfuggire alla necessità di esprimere giudizi universali e prescrittivi, sia all’esigenza di evitare di considerare le conseguenze dei propri atti e l’entità delle inclinazioni altrui: “Il contenuto dei giudizi morali di un utilitarista è dato da una considerazione delle inclinazioni e degli interessi reali che di fatto la gente ha, unita al requisito formale che le prescrizioni che questi suggeriscono debbono essere universalizzabili perché se ne possano formare dei giudizi morali” (FR, p. 168). In altre parole, pur non aderendo ancora all’utilitarismo, Hare mostra di affidarsi ai suoi strumenti concettuali: in questo caso entra in gioco la possibilità di selezionare gli interessi e gli ideali da promuovere. Ciò può essere fatto individuando un criterio formalmente saldo per la messa in evidenza del loro carattere razionale, il quale si fonda sul loro essere universalizzabili, ovvero se le prescrizioni che li esprimo sono giudizi morali coerenti con le regole logiche. Chi agisce e vuole universalizzare le proprie prescrizioni senza tenere conto degli interessi delle persone che lo circondano corre il rischio di mostrarsi fanatico, poiché non è possibile affermare che non bisogna mai tenere conto dei desideri degli altri. Certamente ci possono essere situazioni particolari in cui si rende necessaria operare una differenziazione tra i desideri altrui, ma nessuno a priori, eccetto appunto un fanatico, prescriverebbe di ignorare sempre e comunque le inclinazioni altrui senza conoscerne il contenuto. Hare infatti nella sua riflessione fa più volte riferimento al fatto per cui una teoria morale prende le mosse dalla considerazione del mondo così come è e dei desideri, interessi e preferenze che gli uomini solitamente possiedono in modo più frequente. L’individuo che agisce dovrà essere a conoscenza sia dei significati delle parole morali, sia dei caratteri empirici e contingenti della situazione in cui si trova ad agire; la sua azione sarà razionale se, in base alle sue informazioni, formerà giudizi morali validi universalmente. L’elemento di novità introdotto nella sua riflessione è dunque la necessità di operare confronti tra gli interessi e gli ideali degli individui. Hare ritiene che il prescrittivismo universale possa fornire solo delle indicazioni generali, ma essenziali e fondamentali, per condurre questi confronti in modo equo e razionale: è sufficiente infatti che un interesse, per essere accettato come rilevante, si riveli universalizzabile, ossia 57 applicabile a tutti i casi simili. Una volta che il prescrittivismo ha definito questo test dell’universalità, esso ha compiuto il proprio dovere: Se possiamo mostrare che esiste una forma di argomentazione la quale, senza presupporre alcuna previa premessa morale ma basandosi semplicemente sul fatto che il mondo è quello che è e gli uomini sono quello che sono, condurrà questi ultimi (purché si pongano a riflettere dal punto di vista morale ed esercitino la loro immaginazione, e guardino in faccia i fatti, e si curino di comprendere quello che dicono) a accordarsi intorno a certi principi morali che contribuiscono alla giusta riconciliazione di contrastanti interessi, allora avremo fatto, forse, tutto ciò che occorre (FR, pp. 246-247) Non sembra esservi spazio per una considerazione della qualità degli individui che manifestano gli interessi, né delle loro capacità o esigenze. La necessità di operare una immedesimazione simpatetica con l’altro, o meglio, l’esigenza di attuare al meglio la strategia dell’inversione dei ruoli necessita di un ponderato e razionale ricorso alla propria facoltà immaginativa. Ecco che allora l’immaginazione, dopo la logica e i fatti e in combinazione un atteggiamento imparziale, diviene il quarto fattore essenziale per un efficace ragionamento morale. L’immaginazione accompagna dunque la valutazione imparziale degli interessi altrui ed è connessa alla necessità di saper compartecipare ai sentimenti ed ai desideri degli altri, al fine di una valutazione equa. L’immaginazione è necessaria perché la sola imparzialità non è sufficiente per operare nel modo migliore l’inversione dei ruoli, dato che se tale imparzialità si accompagna ad una mancanza di partecipazione nel soggetto, la valutazione morale risulterà inattuabile: “nella maggior parte dei casi una certa capacità d’immaginazione e una certa disposizione a servirsene costituiscono un quarto ingrediente necessario nelle argomentazioni morali, accanto a quelli già menzionati, e cioè la logica (sotto forma di universalità e prescrittività), i fatti e le inclinazioni” (FR, pp. 138-139). Essere imparziali implica che, quando A si domanda quali interessi abbia l’individuo B in certe circostanze, A dovrà prescindere dal fatto che gli interessi che egli stesso prova sono suoi e, per questo, pensare che siano più degni di soddisfazione di quelli di B. I propri interessi non vanno valutati in misura più favorevole per il fatto che sono i propri: “Dire…che tutti dovrebbero dare un unico peso ai loro propri interessi, solo per il fatto che essi sono i loro, significa…enunciare una prescrizione universale autocontraddittoria; ma essa è qualcosa che quasi nessuno accetterebbe una volta che avesse considerato gli effetti che l’adesione ad essa da parte altrui avrebbe per i suoi 58 interessi”82. Se un individuo B in una situazione S vuol prescrivere una condotta verso l’individuo A, condotta che però B non è disposto ad accettare che venga attuata verso di lui di fronte ad una situazione simile ad S, egli dovrà spiegare perché prende questa decisone in contrasto con il prescrittivismo. Di fatto B ha di fronte un dilemma. O la proprietà del suo caso, che egli sostiene essere moralmente rilevante, è una proprietà autenticamente universale (cioè descrivibile senza fare riferimento ad individui) oppure non lo è. Se è una proprietà universale, allora, in forza del significato della parola “universale”, è una proprietà che potrebbe essere posseduta da un altro caso in cui egli avesse una parte diversa…Ciò lo obbligherà a considerare come moralmente rilevanti solo quelle proprietà che è disposto a considerare tali anche quando le hanno altre persone (FR, pp. 154-155). Hare vuol rafforzare il suo sistema, prevenendo una possibile obiezione ad esso, ricordando che B deve esser imparziale e non giudicare le inclinazioni di A dal proprio punto di vista, poiché “B non deve immaginare se stesso nella situazione di A con le proprie (di B) simpatie ed antipatie, bensì immaginare se stesso nella situazione di A con le simpatie e le antipatie di A” (FR, p. 161). A tale considerazione imparziale si deve unire una valutazione simpatetica della situazione, ossia non una fredda ricognizione dei suoi caratteri empirici e nemmeno un generico ricorso a forme di empatia: “Requisito del pensiero morale è la completa simpatia, non la pura e semplice empatia”83, poiché, a differenza della empatia, come ha scritto di recente S. Darwall: “La simpatia è un sentimento, o emozione che reagisce ad un ostacolo che si pone contro un bene individuale e implica un coinvolgimento nei confronti dell’individuo, sia per il suo benessere, sia per lui stesso”84. La simpatia implica dunque un diretto coinvolgimento emotivo e morale per le sorti dell’individuo, per il suo welfare. Un caso presentato da Hare per evidenziare cosa significa “mettersi al posto altrui”, è ricalcato sulla parabola del Vangelo di Matteo (18, 23) e riguarda il debito che intercorre tra tre persone, A, B e C. “A deve del denaro a B, e B deve del denaro a C, e la legge dice che i creditori possono esigere i loro crediti mandando i loro debitori in 82 R. M. Hare, The Practical Relevance of Philosophy, in Essays on Philosophical Method, cit., p. 115. R. M Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 207. 84 S. Darwall, Welfare and Rational Care, Princeton University Press, Princeton 2002, p. 67. Cfr. inoltre il cap. III: “L’empatia consiste nell’immaginare come uno si senta, o forse si dovrebbe sentire, o nella riproduzione immaginaria di questi sentimenti…L’empatia può essere seguita da indifferenza o semplice osservazione o anche da crudeltà e sadismo” (p. 51). “La simpatia è un sentimento, o emozione che reagisce ad un qualche ostacolo apparente contro un bene individuale e implica un coinvolgimento verso l’individuo, sia per il suo benessere, sia per lui stesso” (p. 67). 83 59 prigione. B si chiede ‘Posso dire che devo prendere questa misura contro A per costringerlo a pagare?’. Senza alcun dubbio egli è incline a ciò, o vuole farlo. Pertanto, se non ci fosse il problema di universalizzare le sue prescrizioni, egli assentirebbe prontamente alla prescrizione singolare ‘Che io mandi A in prigione’” (FR, pp. 134135). B pertanto possiede una inclinazione che lo induce a chiedere che A, suo debitore, venga messo in prigione perché insolvente. Ma questa sua inclinazione personale è in grado di tradursi in un interesse morale? Il principio, lo si chiami X, che impone di mandare in prigione tutti i debitori, al quale B fa riferimento, non può infatti per lui diventare una prescrizione universale, poiché egli stesso è debitore nei confronti di C e, se assentisse ad X, dovrebbe assentire al fatto di essere lui stesso mandato in prigione. Se B non assente alla prescrizione universale X e dunque non ritiene che il suo creditore C lo debba mandare in prigione, egli deve anche rifiutare di mandare A in prigione in quanto suo (di B) debitore: se così non fa, B si comporta in modo immorale ed irrazionale. Naturalmente l’esempio funziona se rimane assodato che A, B e C conoscano tutti il significato del verbo “dovere” e lo utilizzino in senso prescrittivo, come operatore deontico. Cosa è accaduto in questo semplice esempio? È successo che B ha enunciato una prescrizione singolare ma, una volta immaginatosi nei panni altrui, si è accorto che quella prescrizione non poteva per lui diventare un principio morale universale. “Ciò che è accaduto è che un principio morale provvisorio…è stato rifiutato perché una delle sue particolari conseguenze si è rivelata inaccettabile” (FR, p. 135). La prescrizione di B è stata messa alla prova e, rivelatasi (per B) non universalizzabile, è stata abbandonata; B si è infatti dovuto immaginare al posto di A, cercando però di abbracciare i desideri e le inclinazioni che A avrebbe avuto nel caso fosse stato minacciato di essere mandato in prigione, e B ha compreso che, se egli si fosse trovato esattamente nella situazione di A, avrebbe sviluppato una forte inclinazione a non essere incarcerato. Questa inclinazione a non essere mandato in prigione per debiti è evidentemente più forte del desiderio di B di punire A e dunque ha prevalso. In casi come questo, il ragionamento morale, pur avendo a proprio base la conoscenza dei termini morali, ha dovuto confrontarsi con i fatti ed ha potuto farlo ricorrendo all’immaginazione e all’immedesimazione simpatetica con l’altro. Quello che mostra l’esempio portato da Hare è che, poiché gli uomini sono quelli che sono, può accadere che una prescrizione singolare venga abbandonata se si mostra andare contro gli interessi di chi l’ha enunciata: ci sono infatti 60 desideri ed interessi che non possono essere universalizzati, perché bisogna sempre domandarsi e accettare la possibilità di trovarsi al posto dell’altro e quindi di non avere più, in quel caso, quei desideri e quegli interessi. Il fatto per cui B cambi idea, una volta operata l’inversione dei ruoli, è per Hare un segno al contempo della dinamicità del prescrittivismo (per le eccezioni che ammette al livello della valutazione pratica delle situazioni nelle quali si agisce) e del suo rigore (che invece mostra come dottrina etica formale), poiché esso ammette come valide solo un certo tipo di prescrizioni, ma ammette che gli individui possono anche agire diversamente per vari motivi. Le difficoltà del prescrittivismo L’interpretazione che Hare fornisce di questo caso è però anche problematica: la difficoltà risiede nel fatto per cui un esempio semplice come questo, utilizzato appunto da Hare per mostrare la dinamicità ed il rigore formale del prescrittivismo universale, non sembra affatto mostrare che esso possa funzionare così bene in assenza di un chiaro criterio normativo. Ci si può a tal proposito chiedere se la decisione di B sia morale, oppure se la sua scelta di non universalizzare non sia invece frutto semplicemente della sua volontà debole o al contrario sia una scelta ponderata, che scaturisce dall’influenza delle sue inclinazioni e sentimenti. In questo ultimo caso, infatti, per interpretare l’esempio una teoria etica priva di un principio normativo è forse meno efficace di quanto lo sarebbe stato una spiegazione psicologica o sociologica della situazione. A. Ross ha sostenuto proprio quest’ultima posizione, nella sua critica ad Hare, affermando che “l’incapacità di B di accettare di andare egli stesso in prigione non è dovuta a una impossibilità logica né a una impossibilità morale, vale a dire all’incapacità di accettare la sua incarcerazione come giustificata, ma a una impossibilità psicologica: non vuole andare in prigione perché ha una forte avversione ad esservi mandato”85. Un primo ordine di problemi è perciò costituito dal fatto per cui Hare, in questo esempio, sembra accomunare le proposizioni esprimenti le volizioni dei soggetti con quelle che esprimono, invece, i giudizi morali ai quali essi dovrebbero conformarsi; tra di esse in realtà sussiste una notevole differenza, poiché le proposizioni che manifestano le inclinazioni si esprimono attraverso asserzioni della forma “io vorrei…” oppure “io 85 A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare) (1964), in Critica del diritto e analisi del linguaggio, cit., p. 167. 61 desidero”, mentre le proposizioni morali sono rappresentate da enunciati della forma “Io dovrei (o io devo…)”, i quali, avverte Ross, sono gli unici autentici giudizi morali. Una seconda difficoltà, spesse volte sollevata da altri critici di Hare, riguarda il funzionamento dell’immedesimazione. Essa infatti appare piuttosto problematica e complicata, in quanto intuitivamente mettersi al posto di un’altra persona, fino ad assumere le sue inclinazioni, i suoi desideri ed interessi, sembra impossibile ed è senz’altro eccessivamente impegnativa per un agente morale. Come sottolinea ancora Ross, tale mettersi al posto altrui, non potendo essere attuato completamente, può essere assunto al massimo come “un invito, non a porsi al posto di un altro, ma semplicemente a rendersi conto, nella maniera più precisa e fedele possibile, di ciò che stiamo facendo ad altri, degli effetti di un certo modo di comportamento sugli altri e di come questi effetti vengano dagli altri avvertiti”86. Il prescrittivismo sembra inoltre in difficoltà giacché B, non universalizzando la sua prescrizione, compie dal punto di vista logico un errore che ha una gravità diversa rispetto a quello che egli compire dal punto di vista morale. Se si analizza bene l’esempio, B per quel che riguarda solo la parte logico-concettuale, è in errore se vuole mandare A in prigione perché giudica in maniera diversa due situazioni simili e dunque trasgredisce la regola dell’universalità; dal punto di vista dei fatti, ossia della moralità pratica, egli è invece in errore in quanto non opera una corretta immedesimazione di se stesso con le inclinazioni di A: una volta immaginatosi al posto di A, egli, in quanto non fanatico, abbandona la prescrizione (“mandare i debitori insolventi in prigione”) perché sa che egli stesso è in debito con C. E’ evidente che l’errore logico di B (la prescrizione non universale accettata) ha conseguenze diverse rispetto all’errore pratico che lo conduce a volere mandare in prigione il suo debitore, rifiutando al contempo che a lui stesso, in quanto debitore verso C, sia applicato il medesimo trattamento. B può infatti ammettere il suo errore logico e continuare a rifiutare di correggere quello pratico. Tale errore di B è allora eticamente meno rilevante, in quanto potrebbe essere legato ad una sua comprensione difettosa del significato dei termini morali: se infatti B non conoscesse il significato di “dovere”, gli si potrebbe far agevolmente comprendere l’errore semantico da lui compiuto, ma dal punto di vista pratico non è detto che si guadagni tanto. Hare tuttavia sembra non mettere in rilievo a sufficienza questa 86 Ibidem, pp. 172-173. 62 distinzione. Pertanto, il riconoscimento di un errore logico compiuto nell’elaborazione del proprio ragionamento, non conduce necessariamente al riconoscimento dell’illegittimità del proprio comportamento pratico. Forse solo un’analisi più approfondita delle motivazioni interiori (interessi ed inclinazioni) che spingono ad agire e sulla loro influenza, avrebbe potuto dare risultati migliori. Nel possibile caso in cui B sostenga di accettare il prescrittivismo, senza però agire di conseguenza (ossia alla fine non universalizza la prescrizione singolare), il filosofo prescrittivista avrà perciò poco da eccepire, perché in tal caso B rifiuta di accettare l’applicazione pratica di un modello di ragionamento morale, non tanto il modello in sé e per sé. In altre parole, la decisione di B di non universalizzare la sua prescrizione singolare sembra poter scaturire sia dalla sua accettazione dell’analisi semantica proposta dal prescrittivismo, sia dal rifiuto di essa, mentre non sembra affatto influenzata dalla condotta pratica che il prescrittivismo vorrebbe suggerire. Esso infatti, dopo aver messo in campo le sue uniche “armi”, la coerenza logica dei ragionamenti e la valutazione dei fatti, non sembra poter fare più nulla, anche perché rifiuta di considerare come eticamente rilevanti l’espressione dei sentimenti dei soggetti agenti. Hare sembra ritenere che debba esistere una procedura di valutazione di carattere universale e formale, la quale valga per tutti gli individui razionali. Il prescrittivismo ha dunque un carattere primariamente formale e procedurale, il quale può anche rivelarsi fallibile, poiché il risultato finale del comportamento non è derivabile in modo esatto a partire dalle sole premesse formali del prescrittivismo, in quanto entra in gioco la considerazione delle conseguenze che le singole scelte possono produrre. Pertanto, “Secondo Hare, accettare un principio morale significa (a) aderire ad esso e (b) provare a far sì che gli altri vi aderiscano…Tuttavia, non vi è un unico insieme razionale di principi che soddisfano queste prescrizioni. Persone diverse accetteranno insiemi differenti ed in conflitto di principi che possono soddisfare sia (a) che (b)”87. L’impressione pertanto è che il prescrittivismo universale possa funzionare in maniera efficace come premessa logico-concettuale, in quanto fornisce un criterio attraverso il quale è possibile analizzare in modo corretto i significati dei termini morali, ma tale analisi del significato appare meno cogente quando si tratta di determinare praticamente, in modo assoluto, la correttezza di un comportamento. La questione è 87 G. Harman, The Nature of Morality, cit., p. 81. 63 cruciale, giacché investe gran parte di quella tradizione di pensiero morale che è stata definita etica analitica, contro la quale queste posizioni critiche sono sempre state numerose, in quanto è ritenuta inefficace per risolvere i conflitti e in genere le questioni morali: La caratteristica più singolare dell’espressione morale contemporanea è che una parte così grande di essa è utilizzata per manifestare dissensi; e la caratteristica più singolare dei dibattiti in cui questi dissensi si manifestano è la loro interminabilità. Con ciò non intendo dire solamente che tali dibattiti si trascinano fino alla nausea…ma anche che non sembrano poter provare alcuna conclusione legittima. Pare non vi siano i mezzi razionali per garantire l’accordo morale nella nostra cultura88. È senz’altro evidente che una critica di questo tipo è assoluta e radicale, forse ingenerosa, poiché investe la generalità dell’approccio analitico all’etica e mette in discussione la validità del paradigma linguistico applicato alle questioni morali; tuttavia, anche senza abbracciare una posizione così estrema, appare invero evidente, quantomeno nella riflessione di Hare in Freedom and Reason, una certa difficoltà della sua teoria etica a valutare da un punto di vista normativo il valore delle decisioni e dei comportamenti pratici, in particolare nei momenti più drammatici, quando ci sono conflitti da appianare e disaccordi di rilievo sociali (e non solo privato) da rimediare. Il fanatico La fragilità del prescrittivismo come dottrina normativa è resa ancora più chiara dal suo confronto con le posizioni di un fanatico “puro”, ossia con un individuo prescrittivista così radicalmente convinto dei propri ideali da mostrarsi determinato a sacrificare se stesso per realizzarli. Infatti, se un fanatico nazista, lo si chiami B, vuole discriminare A perché questi è ebreo (è inteso che B utilizza il termine “ebreo” in senso 88 A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, a cura di P. Capriolo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 17. L’autore qui in effetti conduce un ampio attacco all’etica emotivista, ritenendo che essa esprima al meglio lo spirito dell’etica analitica. Egli sostiene infatti che l’emotivismo è ammissibile come teoria sull’uso del linguaggio morale in determinate circostanze, ma non è accettabile come teoria del significato morale, in quanto esso, alla pari della metaetica analitica, rende la discussione morale infinita ed improduttiva. In realtà, si può qui aggiungere che l’emotivismo, in particolare nella sua forma radicale, è solo una fra le diverse dottrine etiche riconducibili nell’alveo dell’etica di stampo analitico. Per di più, l’emotivismo di Ayer tende proprio a negare legittimità sia a qualsiasi analisi sul significato del linguaggio morale, sia al linguaggio morale stesso e dunque l’affondo di MacIntyre, seppure in parte condivisibile, non sembra cogliere il bersaglio giusto. 64 valutativo, ovvero spregiativo), egli ha di fronte tre strade: può trovarsi d’accordo con il prescrittivismo ed ammettere che si se si trovasse nei panni di A, non vorrebbe essere discriminato e dunque per queste ragioni egli potrebbe decidere di recedere dal suo convincimento. Diversamente, B potrebbe sostenere che a lui non interessano le valutazioni morali e che nel caso egli si trovasse nei panni di A non vorrebbe essere discriminato, ma poiché egli non potrà mai essere un ebreo, di conseguenza per lui non si porrebbe alcun il problema morale. È questo il caso dell’amoralista, sebbene Hare dichiari che, poiché quest’ultimo utilizza i termini morali in senso prescrittivo ma non universalizzabile, compie comunque un errore logico con conseguenze sul piano etico. Egli infatti agisce evidentemente in base a un principio e dunque dovrà fornire una solida giustificazione per spiegare come mai applica agli altri certi giudizi morali, ma non alle sue azioni. “Egli deve addurre (o almeno ammettere l’esistenza di) un principio che gli consente di sostenere opinioni morali differenti intorno a casi apparentemente simili, oppure ammettere che i giudizi che esprime non sono i giudizi morali. Ma nel secondo caso, egli è, nella presente disputa, nella stessa condizione dell’uomo che non vuole esprimere nessun giudizio morale: ha rinunciato alla contesa” (FR, p. 148) e per questo non è possibile fare nulla per discutere con lui. Come terza possibilità, B potrebbe affermare di non essere amoralista e anzi di poter puntellare le proprie idee razziste in virtù di un ideale di eccellenza morale che può essere quello basato sull’idea per cui una società senza ebrei è migliore. La possibilità di contrastare le idee di un nazista di questo tipo da una prospettiva liberale, è ritenuto da Hare un banco di prova significativo per la sua riflessione morale, in quanto una delle principali funzioni di essa è quella di influire sulla condotta altrui, anche eliminando comportamenti immorali e pericolosi. Per questo motivo egli prende molto sul serio il caso di un nazista che, nel caso ipotetico gli fosse dimostrato che anch’egli ha delle lontane origini ebraiche, desidererebbe essere mandato lui stesso in un formo crematorio. Il confronto tra le idee di questo (ipotetico) fanatico è per il liberale essenziale, in primo luogo perché il nazista agisce di fatto in virtù di quel che può essere definito un ideale (e non di un semplice interesse) per lui pienamente morale, per quanto terribile, ossia un ideale che tende ad essere universalizzato e a produrre delle conseguenze pratiche. In secondo luogo, il nazista va considerato ed affrontato perché la sua convinzione “opera in un campo in cui sono profondamente coinvolti gli interessi di altre persone” (FR, p. 225); in tal caso il liberale potrebbe fare presente al nazista 65 proprio questo elemento, ossia il suo andare contro l’interesse di milioni di persone di continuare a vivere e non essere discriminati. Potrebbe anche in questo caso il nazista asserire con certezza che il suo ideale è più intenso della somma degli interessi di milioni di persone? In ultimo, affrontare il nazista è doveroso per il prescrittivismo perché egli non soltanto pensa che gli ebrei siano i rappresentanti di un umanità inferiore, ma ritiene di dover concretamente agire per sterminare gli ebrei proprio a seguito della sua convinzione. Ovviamente è molto più complicato intervenire su una persona che ha preso la decisione di agire in virtù di un suo ideale morale, piuttosto che affrontare chi ha un ideale morale, per quanto distorto, ma non ha deciso di agire. Il problema, scrive Hare, è che il nazista non solo ha universalizzato la sua preferenza morale, ma le ha fornito una base prescrittiva, ossia l’ha fatta diventare un modo per orientare la propria condotta, agendo proprio in virtù di quell’universalità che secondo lui il proprio ideale morale possiede. Sembra dunque che un nazista potrebbe benissimo agire in coerenza con il prescrittivismo universale, ossia enunciare un principio morale in base al quale gli ebrei, per le loro caratteristiche fisiche e morali, debbano essere semplicemente sterminati, includendo se stesso in questa possibilità nel caso ipotetico si scoprisse che egli fosse un ebreo. Il nazista pertanto sostiene che questo comportamento possa diventare una massima universale: “il nazista ha un suo principio universale che intralcia il ragionamento del liberale. Egli accetta il principio secondo cui le caratteristiche possedute dagli ebrei sono incompatibili con l’essere un uomo ideale o preminentemente buono…; e che non si può realizzare la società ideale, o anche solo una società sopportabilmente buona, se non si elimina la gente che ha queste caratteristiche” (FR, p. 218). Per queste ragioni il sincero liberale si trova in difficoltà, in quanto l’avversario dice di accettare proprio quel sistema morale con il quale il liberale cerca di affrontarlo e sconfiggerlo. Inoltre, mentre per il fanatico razzista esistono solo i suoi interessi ed ideali, il liberale per sua natura rispetta gli ideali altrui, in quanto egli ritiene errato interferire con l’attuazione degli ideali degli altri semplicemente perché sono diversi dai suoi; e ritiene anche errato interferire con i loro interessi solo perché il suo ideale ne vieta il soddisfacimento, se a permetterne il soddisfacimento sono i loro ideali. Egli sarà favorevole a permettere a chiunque 66 di perseguire i propri ideali e interessi tranne che nella misura in cui il perseguirli interferisca col soddisfacimento da parte di altri dei loro ideali e interessi (FR, pp. 238-239). Il liberale dunque può difendere i propri ideali, ma fino a un certo punto, poiché la sua convinzione gli vieta di utilizzare mezzi illeciti per affrontare il nazista il quale, al contrario, non sembra avere problemi di questo genere. La difficoltà significativa cui il prescrittivismo qui va incontro, pertanto, da un lato è dovuta al fatto per cui esso non ha stabilito un criterio saldo per valutare in maniera efficace l’intensità e la portata delle preferenze, degli interessi e degli ideali degli individui. In secondo luogo, la sua caratterizzazione essenzialmente logico-concettuale, lo rende poco adatto a scendere nell’agone in cui si affrontano le reali inclinazioni e le motivazioni pratiche che tanta parte hanno invece nel determinare le decisioni morali. In terzo luogo, l’appello al requisito dell’imparzialità nelle valutazioni morali (unitamente alla richiesta dell’inversione dei ruoli) priva però di nuovo di un chiaro riferimento normativo per valutare i moventi pratici, può rendere tale imparzialità talmente assoluta ed indeterminata da farla apparire al più un atteggiamento blandamente interessato agli altri. J. L. Mackie ha tratto le conseguenze da queste difficoltà che il prescrittivismo universale incontra nell’affrontare il fanatico razzista, per evidenziare quanto sia fragile una nozione di universalità che si limita ad astrarre dalle differenze quantificabili degli individui. Egli pensa che tale astrazione non consente di agire in modo imparziale, soprattutto quando le differenze non quantificabili possono diventare argomento per giustificare un comportamento immorale, come nel caso della discriminazione razziale: “se sono state dichiarate irrilevanti solo le differenze numeriche e non dichiarate irrilevanti per principio le differenze generiche e qualitative, la nostra limitazione è così meramente formale da consentire ad un sistema morale di discriminare tra persone per ragioni (razziali, sessuali etc.) che noi in pratica giudicheremmo essere ingiuste, sia generalmente che in un contesto particolare”89: quindi il razzismo non può essere sconfitto dal prescrittivismo. A parere di Mackie, la speculazione morale non può essere fondata sulla sola analisi linguistica, giacché quest’ultima si limita a porre le condizioni 89 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 89. 67 affinché sia possibile quella che per Mackie è realmente decisiva, ossia l’analisi ontologica, basata su una stringente considerazione empirica della realtà nella quale si agisce: “oltre alle questioni linguistiche o concettuali, vi possono essere anche questioni ontologiche, vale a dire sulla natura e lo statuto del bene o del giusto o di ciò intorno a cui si esprimono le asserzioni morali di primo livello…il problema su cosa sia il bene non può essere risolto in maniera conclusiva ed esaustiva mettendo a fuoco qual è il significato della parola ‘bene’, o analizzando che cosa di solito si usa dire o fare con essa”90. Hare sostiene ad ogni modo che i fanatici di questo tipo sono estremamente rari: “Il nostro argomento…poggerà non sulla logica di per se stessa – sebbene senza logica non saremmo mai arrivati a questo punto – ma sulla fortunata circostanza contingente che gli uomini i quali, dopo aver realmente creduto di trovarsi nella situazione dell’altro, prenderebbero questa posizione [ossia quella del fanatico razzista] che è pur logicamente possibile, sono estremamente rari” (FR, p. 231). Il fanatico non avrebbe infatti compreso la natura dell’idea liberale e non si renderebbe conto di quanto l’abbracciare una tale idea sia vantaggiosa per lui stesso91. Tuttavia, al di là di queste argomentazioni, la difficoltà rimane, poiché contro un razzista di questo genere, il prescrittivismo non potrebbe fare nulla: Se poi il mio avversario, nonostante tutto, non abbandona il suo punto di vista e mi conferma che quanto ha detto è ciò che egli veramente intende, non sarei comunque in grado di ‘metterlo al tappeto’ per mezzo della logica implicita nel principio dell’universalizzabilità dei giudizi morali…La convinzione di Hare che chi offende la discriminazione razziale non può volere veramente quello che afferma e pecchi di incoerenza, si basa sull’erronea convinzione secondo la quale ‘dare un assenso’ comporterebbe necessariamente una corrispondente ‘volontà di agire’…Essenziali alla discussione e all’educazione morale non sono tanto le argomentazioni logico-filosofiche, quanto piuttosto l’apprendimento e la 90 Ibidem, p. 19. Cfr anche p. 112: “Oltre alle questioni linguistiche o concettuali, vi possono essere anche questioni ontologiche, vale a dire questioni sulla natura e lo statuto del bene o del giusto o di ciò intorno a cui si esprimono le asserzioni morali di primo livello”. 91 A proposito del ragionamento di questo ipotetico razzista fanatico, è tuttavia lecito domandarsi, ben prima di esaminare le sue supposte motivazioni razionali, se si possa sostenere che un razzista compia un ragionamento morale. Una tesi di questo genere appare invero piuttosto difficile da sostenere, giacché, sebbene il razzista possa cercare di fornire delle ragioni per giustificare il proprio atteggiamento, nel tentativo di farlo passare come sorretto da principi morali, tali ragioni sono evidentemente fittizie e pretestuose: “Il principio secondo cui gli uomini vanno trattati diversamente, in relazione al loro benessere, semplicemente in considerazione del loro colore non è un particolare tipo di principio morale, ma (caso mai) l’espressione di una decisione del tutto arbitraria, non meno di quella di un nuovo Caligola che decidesse di condannare a morte tutte le persone il cui nome contenga tre ‘r’” (B. Williams, L’idea di eguaglianza, cit., p. 27). 68 comprensione dei fatti. Non ho mai visto nessuno messo al tappeto sotto l’incalzare di argomentazione esclusivamente logiche92. Pertanto, se effettivamente esistesse un fanatico tanto accanito, il liberale prescrittivista non avrebbe alcuna mossa ulteriore da compiere per contrastarlo. Una volta che ha esaurito la sua arma, ossia la possibilità, attraverso il dialogo, di far ragionare correttamente il fanatico, il liberale non sembra essere in grado di rafforzare ulteriormente la sua argomentazione razionale, come nota Lecaldano: Hare con la sua teoria dell’argomentazione razionale delineata in Freedom and Reason si spinge molto avanti, ma giunge a un punto in cui non c’è più nessuno spazio per la discussione morale. Giunti al massimo dei suggerimenti ricavabili dalla conoscenza e dalla logica, i diversi principi morali ultimi si presenteranno da un punto di vista razionale come tutti sullo stesso piano…una volta raccolte le informazioni rilevanti, una volta delineate tutte le conseguenze ricavabili dalle varie alternative e una volta salvaguardata la coerenza formale e linguistica assumendo le diverse prescrizioni come realmente universalizzabili, poi più nulla si può fare per mettere alla prova o fondare i principi ultimi93. Inoltre, per quel che concerne il livello pratico-normativo, Warnock ha sottolineato che le situazioni che possono mettere in difficoltà il prescrittivismo universale non sono così rare, poiché possono essere molto più comuni rispetto a quelle rappresentate dal fanatico. Per esempio, se si obietta al proprietario di una casa che sta buttando fuori degli inquilini che non pagano l’affitto, che egli sta ledendo gli intessei di quelle persone e che egli non vorrebbe, se fosse al posto loro, essere tratto in quel modo, il proprietario potrebbe ammettere che tutto ciò è vero. In effetti egli al posto di quegli inquilino starebbe male; nondimeno, il proprietario potrebbe aggiungere che, essendo quelle persone inadempienti, egli li deve sfrattare e che se lui stesso si trovasse nella loro situazione, meriterebbe di essere cacciato dalla casa, poiché non ha pagato l’affitto. La questione, secondo Warnock, non è dunque relativa a quello che un individuo desidera o è interessato a fare, bensì a quello che egli ritiene moralmente giusto o moralmente criticabile. Spesso per gli individui ciò che è moralmente giusto può infatti 92 A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare) (1964), in Critica del diritto e analisi del linguaggio, cit., pp. 173 e 174. Scrive in proposito Hare: “Bisogna ammettere che vi saranno sempre dei fanatici; ma si può anche ammettere che i veri fanatici sono relativamente pochi e non avrebbero assolutamente nessun potere di far danno, se non fosse per la loro abilità nel trarre in inganno…Ciò essi fanno nascondendo i fatti e diffondendo falsità; suscitando passioni che offuscano l’immaginazione simpatetica: in breve, con tutti i ben noti metodi della propaganda” (FR, p. 247). 93 E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., p. 76. 69 andare a ledere i desideri e gli interessi altrui. “Se io…adotto come giusta una certa condotta d’azione che arreca grossi danno agli interessi di un altro, tu potresti farmi presente, giustamente senza dubbio, che non mi piacerebbe se i miei stessi interessi fossero danneggiati in quel modo; non c’è tuttavia alcuna ragione per cui io non dovrei ammettere questo e nondimeno ancora sostenere che, se le posizioni si rovesciassero, quell’altra persona avrebbe ragione di danneggiare i miei interessi, esattamente come io ora propongo di danneggiare i suoi”94. L’incompletezza del prescrittivismo Le difficoltà del prescrittivismo sono perciò ascrivibili al fatto per cui i principi su cui esso si fonda, come l’universalità, appaiono alla fine principi logici privi di contenuto normativo. Infatti, la semplice applicazione dell’universalità come tesi logica al linguaggio morale si mostra debole, in quanto il prescrittivismo universale così definito sembra al massimo poter divenire una teoria della coerenza del nostro modo di formare enunciati morali, ma non della coerenza pratica del nostro modo di agire. Questa difficoltà è stata sottolineata più volte da diversi critici di Hare, i quali si sono altresì domandati se sia legittimo postulare un sistema morale che privilegi la completezza dei presupposti metaetici a scapito, come Hare sembra sostenere sottotraccia in Freedom and Reason, della propria cogenza pratica: “[vi è qui] un’importante domanda: è la tesi dell’universalizzabilità in sé una tesi logica…o un principio morale sostanziale?…non possiamo inferire che essa è una tesi logica dal suggerimento che essa è una conseguenza del possesso combinato, da parte dei termini morali, del significato descrittivo e prescrittivo”95. Ci dovrebbe essere un elemento ulteriore, un elemento normativo che, combinato con la tesi dell’universalità, possa realmente influenzare la condotta. In Freedom and Reason, tuttavia, Hare sembra non affrontare pianamente la questione, evidentemente impegnato a costruire un nesso fra metaetica ed etica normativa fondato esclusivamente sul prescrittivismo universale. In realtà, come capita se si contempla la possibilità dell’esistenza di un razzista fanatico, la teoria etica da lui delineata non sembra poter impone nulla, in quanto: “possono esserci 94 G. Warnock, La debolezza dell’universalizzazione, in Filosofia analitica, a cura di D. Antiseri, Città Nuova Editrice, Roma 1975, p. 224. 95 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 87. 70 tuttavia altre persone che sostengono credenze etiche diverse dalle [proprie], credenze che [si possono] deplorare ma non dimostrare incoerenti o effettivamente false”96. Hare afferma infatti che il prescrittivismo fornisce delle motivazioni razionali per agire in un certo modo, ma ovviamente non costringe nessuno ad agire in quel modo: “ciò che la tesi ci proibisce di fare è esprimere giudizi morali diversi su azioni che ammettiamo essere esattamente uguali o simili negli aspetti rilevanti” (FR, p. 65). Pertanto, “diverse persone possono avere differenti morali, poiché esse hanno principi diversi che accettano come principi morali, senza che ciò sia irrazionale”97. La tesi dell’universalità è dunque una tesi logica che non ha contenuto normativo sostanziale, ossia non è in sé un principio morale, poiché di per sé non impedisce nessuna azione a nessuno. Essa appare invece un principio del corretto ragionamento morale, non del retto comportamento morale. In realtà, anche la prescrittività non è agevolmente definibile come una caratteristica esclusivamente normativa dei giudizi morali; certamente essa, a differenza dell’universalità, si presenta intuitivamente come una regola non prettamente logica, ma, quantomeno per lunghi tratti della riflessione di Hare, essa appare oscillare tra il possedere un contenuto normativo e l’essere anch’essa una generica proprietà logica del linguaggio. In altri termini, la prescrittività di un giudizio morale risulta slegata dagli effettivi moventi pratici che dovrebbero essere alla sua origine, in quanto anch’essa appare definita dall’autore in primis come caratteristica logico-linguistica degli enunciati morali. Sembra quindi che Hare compia, a proposito della prescrittività, un percorso inverso rispetto a quello compiuto con l’universalità: in quel caso, infatti, egli ha voluto trasporre una nozione prettamente logica nel campo normativo, ossia su un terreno non suo; con la prescrittività, invece, una nozione essenzialmente pratica, viene trasposta in un terreno a lei estraneo, quello delle nozioni logiche: il risultato di questa operazione teorica sembra essere quello di depotenziare entrambe le nozioni e di rendere incompleto il prescrittivismo universale. L’interpretazione “debole” della prescrittività è inoltre da Hare adottata per asserire, ancora una volta, che l’etica non ha il compito di costringere nessuno ad agire in un certo modo, giacché ha il compito di mostrare che ci sono delle valide ragioni per ritenere morali una serie di principi: starà poi all’interlocutore il valutare se atteggiarsi 96 97 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 104. G. Harman, The Nature of Morality, cit., p. 79. 71 in base ad essi oppure no: “La ‘giustezza’ non è una proprietà; e quando chiedo a due persone quale sia la condotta giusta, non le interrogo circa una proprietà – ciò che desidero sapere è se vi sia una qualche ragione per scegliere una linea di condotta piuttosto che un’altra”98. Solo la propaganda e la coercizione vogliono influenzare gli altri costringendoli ad agire. Hare dunque non pensa che l’accettazione di una prescrizione universale imponga immediatamente alla persona di agire in coerenza con esso: la persona in questione, infatti, pur potendo sapere quale sia la cosa corretta da fare, potrebbe comunque comportarsi in modo differente e l’intervento del pensatore morale potrà influenzare semplicemente il livello delle ragioni morali, non direttamente gli atti pratici della persona. Ciò significa che se la ragione R è valida in quanto giustifica l’azione X, non significa che tale validità sia di tipo conoscitivo (come se R fosse la credenza vera in base alla quale X è morale), giacché è una validità etica particolare, di tipo prescrittivo. “Quando una persona definisce qualcosa – lo si chiami R – una ragione per compiere X, egli esprime la sua accettazione di norme che dicono di trattare R come qualcosa che conta in favore del compiere X”99. D’altra parte, come mostra il caso del fanatico, è possibile che una persona accetti una prescrizione e in seguito però agisca in contrasto con essa. Ciò tuttavia non è dovuto ad una mancanza della prescrizione in sé, bensì all’incapacità dell’individuo: il prescrittivismo comprende e spiega i casi di debolezza del volere (akrasia), ovvero quando il ragionamento morale è reso problematico da una serie di fattori non direttamente dipendenti dal soggetto in questione: “La debolezza morale è la tendenza a non fare, per nostro conto, qualcosa che in generale lodiamo, o a fare qualcosa che in generale condanniamo. È forse questa la difficoltà centrale della vita morale” (FR, p. 110). T. Nagel ha contestato l’interpretazione secondo lui eccessivamente astratta della nozione di prescrizione da parte di Hare, poiché essa non avrebbe alcuna efficacia pratica e rimarrebbe sul piano della pura enunciazione di principio. Pertanto, se un individuo riconosce che vi è una ragione per agire in un certo modo, non è pensabile che egli poi non agisca in quel modo, giacché, se si ammette ciò, significa togliere qualsiasi legittimità all’idea di prescrizione. Nagel ritiene in sostanza che Hare abbracci una 98 S. E. Toulmin, An Examination of the Place of Reason in Ethics (1950), Cambridge University Press, Cambridge 1970, p. 28. 99 A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, cit., p. 163. 72 versione “edulcorata” di prescrittivismo perchè il suo sistema etico, basato principalmente sull’analisi logica del linguaggio morale, è inadatta per analizzare a fondo le reali motivazioni che stanno all’origine del nostro comportamento morale: la condizione che implica l’esistenza di ragioni per la persona alla quale [la prescrizione] si indirizza, assicura il legame con la motivazione che deve essere riconosciuta da qualsiasi descrizione della prescrizione morale. Da ciò segue che se io riferisco a me stesso una prescrizione morale, devo riconoscere una ragione per agire; questo legame con la motivazione è una condizione essenziale affinché un giudizio sia pienamente prescrittivo100. Hare però asserisce a questo proposito che la prescrizione non è efficace se mostra una affinità con una motivazione pratica, ma se possiede un legame necessario con i principi della logica del linguaggio morale; infatti, stando a quello che si legge in Freedom and Reason, un interesse ed un’inclinazione possono motivare una prescrizione solo in modo estrinseco, mentre solo una ragione logicamente fondata la motiva in modo necessario. In altre parole, Nagel compirebbe l’errore di confondere due asserzioni che invece devono essere tenute ben distinte: “Non dobbiamo confondere la vera affermazione secondo la quale esprimere un giudizio morale è dichiarare che chiunque lo accetti abbiano acquisito una ragione per agire in coerenza con esso, dalla falsa asserzione secondo la quale esprimere un giudizio morale è sostenere che tutti, sia che lo accettino sia che non lo accettino, abbia già (forse senza riconoscerla) una ragione per agire in accordo con tale giudizio”101. Anche G. J Warnock ha insistito sulla indeterminatezza della prescrittività, convinto peraltro della inesistenza di uno specifico linguaggio morale. La prescrittività non sarebbe a suo parere una caratteristica esclusiva del linguaggio morale, ma solo una generica proprietà posseduta da qualsiasi affermazione attraverso la quale qualcuno cerca di far fare qualcosa a qualcun altro: “Sono d’accordo sul fatto che i giudizi morali sono prescrittivi, sono ‘cose in virtù delle quali si suppone tu agisca’? Certo. Ma allora la prescrittività non è una caratteristica del linguaggio morale? No, non in particolare. Ciò perché la prescrittività – se essa è ciò che è – è caratteristica di qualsiasi linguaggio 100 T. Nagel, Foundations of Impartiality, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 105. 101 R. M. Hare, Comments on Nagel, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 251. 73 nel quale si sostiene che ognuno dovrebbe fare qualcosa, o che il fare qualcosa potrebbe essere giusto o sbagliato”102. Hare sostiene che è necessario ricordare che l’argomentazione che conduce all’affermazione della prescrittività dei giudizi morali deve essere del tutto formale, cioè indipendente da asserzioni morali sostanziali, in modo da poter essere accettata da tutti quale corretto metodo di ragionamento morale, a monte di qualsiasi determinazione pratica all’azione. Essa non deve accogliere riferimenti individuali, pena la perdita del proprio carattere formale. Ciò che ci tocca fare se vogliamo stabilire la razionalità delle decisioni morali, è dare della moralità e dei termini morali un’interpretazione che sia puramente formale e normativamente neutrale, tale da poter essere accettata da tutti indipendentemente dalle loro opinioni normative, ed anzi indipendentemente dal fatto di non avere ancora opinioni normative, per poi mostrare perché le persone che hanno accettato tale interpretazione…daranno razionalmente certe risposte e ne respingeranno altre103. Il problema è che la riflessione metaetica può anche essere neutrale e non coinvolgere le convinzioni morali sostanziali dei parlanti, ma la teoria etica (di cui la metaetica costituisce una parte, destinata peraltro a diventare marginale) non può essere neutrale e apparire quasi disinteressata agli atti realmente compiuti. Se così non fosse, la teoria etica di Hare non potrebbe affermare nulla di positivo (o di negativo) sulla morale, ma potrebbe solo limitarsi ad osservare i comportamenti umani, ossia a far qualcosa per la quale sono più adatte la psicologia e la sociologia. Nagel e Warnock sembrano voler sottolineare come Hare ponga un indebito iato tra l’elaborazione formale e razionale delle nostre decisioni morali e la successiva, ed inevitabilmente secondaria, elaborazione dei principi normativi. Le tesi logiche e le questioni normative La riflessione di Hare sembra dunque voler delineare i tratti di un ragionamento morale logicamente formale, sostenendo di fatto il ruolo secondario, a posteriori, sia delle convinzioni etiche peculiari degli individui, sia delle circostanze particolari in cui essi agiscono. L’onere della prova, ma anche il rilievo teoretico, ricade pertanto sul 102 103 G. J. Warnock, Morality and Language, Basil Blackwell, Oxford 1983, p. 170. R. M. Hare, Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 48. 74 prescrittivismo universale, il quale però, dovendo rinunciare ad essere una teoria etica compitamente normativa, appare gravato da un’incompletezza. In altri termini, sebbene Hare affermi di richiamarsi per alcuni aspetti a Kant e per altri all’utilitarismo, il suo sistema di etica in Freedom and Reason sembra rimanere a metà fra queste due dottrine, le quali, essendo peraltro nettamente divergenti tra di loro, non permettono l’affermazione di una loro sintesi unitaria e dunque per il prescrittivismo si preclude qualsiasi possibilità di influenzare effettivamente la condotta. Pertanto, è di certo condivisibile l’intenzione dell’autore di fornire un fondamento universale all’etica, tuttavia con il prescrittivismo universale egli sembra riuscire solo a razionalizzare le procedure di formazione del pensiero morale, ma non a determinare un chiaro modello normativo per orientare il comportamento dei soggetti morali. In realtà, come si evince da Freedom and Reason, Hare incorre in queste difficoltà perché ritiene che non esiste un’unica dottrina normativa coerente con i prescrittivismo; al contrario, sarebbe quest’ultimo ad offrire l’indispensabile fondamento razionale per diverse dottrine morali, la cui plausibilità risiede nella coerenza logica delle loro asserzioni fondamentali. Tuttavia, finché l’utilitarismo rimane un corollario del prescrittivismo, una dottrina morale tra le altre, di cui il prescrittivismo si limita ad impiegare gli strumenti teorici, le difficoltà a livello normativo saranno sempre elevate per la riflessione di Hare: come è infatti possibile sostenere la neutralità della riflessione morale, il suo carattere formale e, al contempo, valutare le inclinazioni, gli interessi, ossia moventi pratici delle azioni oppure il senso dell’immedesimazione? Il problema, già accennato, è quindi che, benché in Freedom and Reason Hare esprima delle riserve sull’utilitarismo, egli nella pratica ne accetta molte procedure argomentative, e tuttavia, non aderendo chiaramente ad esso, sembra fare un uso estrinseco di tali procedure argomentative, rendendole teoreticamente fragili in quanto non fondate sul prescrittivismo. Inoltre, dal punto di vista normativo, B. Williams ha contestato l’idea secondo la quale l’asserzione di una prescrizione implichi in modo immediato l’espressione di una scelta o di una decisione: a suo parere sarebbe necessario un ulteriore passo teorico per determinare questo rapporto. La decisione a volte può infatti nascere anche in assenza di una teoria etica, come risultato del capriccio, della fantasia o della casualità: 75 Quando valuti una cosa di un certo tipo, ci saranno senz’altro dei criteri di merito specifici per quel tipo di cosa, anche se essi, in un caso particolare, possono essere vaghi, indeterminati o locali. Ma, quantunque molte scelte siano determinate dai meriti specifici di una cosa…c’è sempre la possibilità che la scelta di una persona non sia in relazione diretta con il modo in cui valuta i meriti di ciò che sceglie104. Non appare pertanto così affidabile una delle affermazioni più note di Hare, quella secondo la quale esprimere una valutazione significa al contempo fornire agli altri un criterio per operare una certa scelta: “Loderemmo un oggetto, avendo così la pretesa di insegnare un criterio, nell’atto stesso in cui, rifiutandoci di lodare un oggetto uguale, annulleremmo la lezione appena impartita. Col voler insegnare due criteri incompatibili, finiremmo col non insegnare alcun criterio” (LM, p. 122). La riflessione di Hare sembra sostenere l’irrimediabile imperfezione del ragionamento morale umana e la necessità di indicare delle regole formali, di carattere logico, per rendere tale ragionamento corretto e praticamente efficace. Tuttavia, come detto, da un lato è problematico il fatto per cui tali regole sono solo di carattere logico e, in secondo luogo, ci sono casi frequenti nei quali la scelta avviene per motivazioni tutt’altro che razionali, quanto piuttosto prerazionali e prelinguistiche, e di fronte a questa innegabile realtà il prescrittivismo sembra essere in difficoltà. Per questo esso appare altresì non in grado, privo com’è di un’effettiva teoria normativo, di indicare i motivi degli errori e delle debolezze che gli uomini commettono quando devono agire. O meglio, esso indica un motivo per cui viene compiuto l’errore (la mancata comprensione del significato dei termini morali), ma tale spiegazione appare riduttiva, poiché non sembra possibile sostenere che gli esseri umano agiscono in modo non morale o immorale solamente perché non sanno di cosa stanno parlando o discutendo: “il fatto che questo possa accadere fa sì che la conclusione non possa essere ricondotta a premesse da cui essa deriverebbe logicamente. È sbagliato fare di tutto un ragionamento logico fino alla decisione di agire”105. La perplessità è nuovamente legata al fatto per cui appaiono su posizioni troppo differenti e distanti fra loro la considerazione logica relativamente alla corretta concezione dei giudizi morali e la determinazione ad agire: il fatto che la prescrittività e l’universalizzabilità siano delle tesi logiche non influenza direttamente l’ambito 104 105 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 153. Ibidem, p. 155. 76 dell’agire pratico. Appare eccessivo, per prendere un esempio dello stesso Hare, asserire che la preferenza che fa dire “L’albergo X è buono”, implichi la prescrizione che mi induce direttamente a scegliere l’albergo X. La scelta infatti può anche essere determinata da una serie variegata di fattori che di fatto il solo prescrittivismo universale non può analizzare in maniera completa, essendo essi difficilmente deducibili da un ragionamento morale del tutto formale: “la (supposta) fede in questa tesi logica non obbliga nessuno a pensare in questo modo, benché egli possa cadere nell’illogicità. Qualcuno si può dunque con piena coerenza astenere dall’usare del tutto il linguaggio morale, o di nuovo egli può utilizzare i termini morali limitandosi ad una sola loro parte (quella logica) e non all’intera loro forza morale”106. In altre parole, sembra riduttivo sostenere che un oggetto è valutato come benefico se è scelto: il giudizio sulla validità della scelta non coincide con il giudizio sull’oggetto preso in questione, in quanto la capacità di scegliere degli individui è qualcosa che conta di per se stessa, indipendentemente dal quello che essi effettivamente scelgono: “Derivare l’importanza della cosa scelta dal fatto che è stata scelta non va confuso con il tenere in considerazione la capacità di scegliere degli individui come importante in sé. L’autonomia’, come valore, è interessata alla seconda, ma appartiene a un approccio del tutto differente dall’utilitarismo, e ha a che fare con l’attribuzione di valore alla capacità di scegliere piuttosto che alle cose scelte”107. 106 107 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 98. A. Sen/B. Williams, Introduzione ad Utilitarismo e oltre, cit., p. 19. 77 CAPITOLO 3. Livelli del pensiero morale ed utilitarismo Il problema di fondo che la trattazione del prescrittivismo sembra mostrare, già nelle dense pagine di Freedom and Reason, è dunque quello della sua incompletezza, ossia della sua difficoltà a porsi come dottrina morale in grado di influenzare effettivamente la condotta. A questo proposito, l’affermazione dell’autonomia del prescrittivismo universale (e del suo legame solo strumentale con l’utilitarismo), si è rivelata povera di implicazioni normative, giacché è assente l’indicazione di quello che si potrebbe definire un metodo di deliberazione. Nella riflessione di Hare, sembra esservi al contrario un’indebita commistione fra il piano dell’analisi linguistica e quello della deliberazione pratica, la cui distinzione è invece fondamentale: “Il compito di fornire una spiegazione filosofica del contenuto della moralità differisce da quello di analizzare il significato dei termini morali e da quello di rintracciare la formulazione più coerente delle nostre convinzioni morali di primo grado”108. In realtà, se si fa attenzione alla riflessione di Freedom and Reason, sembra trasparire una specie di “bisogno” normativo dell’autore che si concretizza nel ricorso a categorie concettuali dell’utilitarismo, sebbene tale bisogno sia attenuato dalla dichiarazione per cui di esse il prescrittivismo debba farne solo un uso strumentale. Per questo Hare da un lato ritiene che compito preliminare del filosofo morale sia la costruzione di una teoria etica coerente e razionale; in secondo luogo, egli pensa che l’utilitarismo sia solo una delle possibili dottrine normative in accordo con il prescrittivismo. Hare non sembra ritenere ancora possibile una fondazione razionale dell’utilitarismo: è dunque assai difficile assegnare alla convinzioni normative la solidità che invece appartiene alle argomentazioni logico-linguistiche della metaetica. Hare in particolare afferma che il prescrittivismo ha il merito di spiegare cosa intendono gli individui quando impiegano i termini morali come “giusto”, “buono” e “doveroso”; esso dunque, in quanto analizza le effettive intuizioni linguistiche dei parlanti, è capace di descrivere il modo in cui, solitamente, gli individui ragionano in etica: per questo esso può avere una sua efficacia pratica e, al contempo, una notevole dinamicità, sia come “specchio” del linguaggio morale ordinario, sia mostrando come esso dovrebbe svolgersi in modo ottimale. Per esempio, in riferimento al caso del 108 T. Scanlon, Contrattualismo ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p. 137. 78 fanatico, l’autore scrive che il prescrittivismo è una teoria etica che, proprio perché in alcuni casi passibile di smentita, può essere affidabile per gran parte delle situazioni della vita reale. In questo senso, quando evidenzia il carattere dinamico e concreto del prescrittivismo, l’intenzione di Hare appare non a caso affine a quello di altri autori, teorici dell’utilitarismo, per i quali tale dottrina è la più vicina ed adattabile al modo ordinario di prendere le decisioni degli individui. Hare infatti sembra pensare che, nella maggior parte dei casi, il prescrittivismo suggerisca soluzioni vicine a quelle indicate dalla morale di senso comune, anche se si distingue da quest’ultima per l’adozione di presupposti logico-linguistici per rendere razionali e coerenti i nostri giudizi prescrittivi, al di là della soluzione di effettive questioni normative. Per questo la morale di senso comune non può essere la sola fonte del nostro ragionamento morale. Ciò significa che, benché il suo sistema si avvalga di un presupposto di carattere logico, Hare non sembra tanto voler proporre principi morali dotati di una assoluta validità teoretica (giacché quest’ultima è richiesta dalle argomentazioni scientifiche, non dall’etica), bensì un principi che mirano a possedere un’assoluta validità metaetica (basata sull’universalizzazione), per opporsi a qualsiasi soggettivismo e relativismo morale. Tale validità è però assoluta solo in senso formale, ossia solamente per quel che concerne i presupposti logici dei giudizi prescrittivi, mentre sarà condizionale rispetto alle concrete scelte degli individui, i quali possono anche agire, per vari motivi, diversamente da ciò che stabilisce il ragionamento morale. Secondo Hare, tuttavia, ciò è dovuto all’incapacità di ragionare correttamente in etica, ad una difficoltà pratica, ascrivibile dunque alla debolezza dell’individuo, non del prescrittivismo. Per questo in Freedom and Reason Hare afferma, come recita il titolo del libro, che proprio il prescrittivismo permette di comprendere che cosa significhi che l’agire morale dell’uomo possa compendiare in se la libertà e la ragione, la ragionevolezza dei suoi comportamenti pratici e la loro autonomia. Hare ritiene infatti che il prescrittivismo possa meglio di altre teorie etiche garantire, da un lato, la possibilità che i nostri atti non siano rigidamente predeterminati e dall’altro che essi comunque siano coerenti con la nostra natura di individui che agiscono secondo ragione. In questo senso l’uomo è libero, proprio perché “uno dei più importanti elementi costitutivi della nostra libertà, in quanto agenti morali, è la libertà di formarci le nostre opinioni intorno ai problemi morali, anche se ciò comporta un cambiamento del nostro linguaggio” (FR, p. 26). Tuttavia, se da un lato siamo liberi di agire, dall’altro sappiamo che le nostre azioni 79 avranno delle conseguenze che dovremmo cercare, per quanto ci è possibile, di prevedere e gestire proprio attraverso il ragionamento morale: “Si tratta del punto che risolvere questioni morali è, o dovrebbe essere, un’attività razionale” (FR, p. 27). In altre parole, quel che l’autore cerca di affermare con queste asserzioni è che nelle sue intenzioni è il valore della libertà dell’uomo come individuo razionale che conta maggiormente, libertà che tuttavia possiede tale valore solo se fondata su un ragionamento morale critico e coerente. Il legame tra il ragionamento morale ed i fatti, pertanto, indica all’individuo ragionevole che ci sono dei validi motivi per agire in un certo modo, sebbene non lo costringa poi ad agire effettivamente in quel modo. L’azione dunque potrà scaturire solo in seguito ad una determinata scelta operata dal soggetto agente e tale scelta è resa possibile sia dal libero ragionamento morale, sia dall’osservazione puntuale della situazione contingente: “Questa tesi afferma la libertà di scelta che l’uomo ha, in ogni situazione esistenziale, rispetto alla situazione quale si presenta alla sua conoscenza: nel senso che dalla conoscenza espressa in discorso non gli viene in maniera logicamente vincolante la direttiva della sua azione, e la direttiva dell’azione va assunta con un impegno soggettivo. Nessun principio direttivo vale per l’uomo, se l’uomo non lo fa proprio con una scelta”109. Il prescrittivismo di Hare accetta dunque l’idea, comune anche a molti utilitaristi contemporanei, secondo la quale l’azione razionale sarà quella scelta dall’individuo in condizioni di piena informazione: “Razionale…nel senso che egli adotterebbe [quella condotta] se si trovasse in uno stato mentale normale e fosse perfettamente informato – ossia, avesse a sua disposizione e vividamente in mente tutte le rilevanti conoscenze disponibili riguardo a se stesso, il mondo e non stesse compiendo errori logici”110. Lo stesso R. Brandt ha però messo in evidenza come tale condizione di piena informazione sia priva di applicazione se rimane sprovvista di principio normativo: “non si giustifica un codice morale ad una persona indicandogli che è il codice morale che lui stesso sosterrebbe se i fatti e la logica fossero pienamente addotti per sostenere il suo macchinario motivazionale (motivational machinery). Non è per nulla chiaro per quale ragione una riposta ad esso dovrebbe ‘disalienare’ una persona che si è alienata 109 U. Scarpelli, La metaetica analitica e la sua rilevanza etica, in L’etica senza verità, cit., p. 110. R. Brandt, Moral Philosophy and The Analysis of Language, in Freedom and Morality, edited by J. Bricke, University of Kansas, Lawrence 1976, p. 3. 110 80 dalla morale”111. L’obiezioni di Brandt è chiara, in quanto, come nel caso del fanatico, di fronte a chi ha deciso di porsi al di fuori della morale, non possono essere addotte ragioni di carattere logico-linguistico per favorire una suo rientro nell’alveo della moralità. Egli denuncia la parzialità e la scarsa efficacia morale della teoria di Hare: “la concezione di Hare sembra ignorare la differenza tra ciò che è meramente desiderabile per la condotta e ciò che è moralmente obbligatorio. Una cosa è sapere quello che le persone razionali vorrebbero che tutti facessero o non facessero. Un’altra è sapere quel che le persone razionali vorrebbero che ad ognuno sia richiesto di fare dalla coscienza”112. Le questioni aperte Per Hare la libertà non è dunque un a priori, non è un postulato della ragion pratica, né l’adeguamento della volontà del soggetto alla legge morale razionale che è dentro lui stesso, come suo fondamento essenziale. La libertà per Hare è definita teoreticamente come la capacità dell’individuo di ragionare correttamente in etica, ossia di avere a propria disposizione tutte le informazioni rilevanti, prima di agire; essa è però anche un dato di fatto empirico, qualcosa che si rivela a posteriori, a seconda del comportamento dell’individuo. Il problema è però che il solo prescrittivismo non sembra garantire adeguatamente la sussistenza di tale libertà e, per di più, la razionalità dei nostri giudizi prescrittivi è una proprietà logica, priva di un legame con principi normativi. La questione dello spazio occupato dalla libera scelta dell’individuo si allaccia quindi inevitabilmente alla più ampia e pressante domanda relativa a come tale libertà possa concretizzarsi, se retta da una dottrina che ha un fondamento più epistemologico che pratico: la questione dell’incompletezza del prescrittivismo rimane dunque sempre in campo e risulta improcrastinabile l’adozione di una dottrina normativa. Il problema, come sottolinea Williams, è che il modello di razionalità proposto da Hare, esclusivamente affidato all’analisi del linguaggio morale, non sembra in realtà funzionare alla prova dei fatti, quando si tratta di elaborare una serie di criteri per influenzare la condotta degli individui. Forse non è così vero che esiste un unico modello di razionalità morale e che la sola ragione, e non anche altre facoltà cognitive, 111 112 R. B. Brandt, A Theory of the Good and the Right, cit., p. 233. Ibidem, p. 197. 81 possano influenzare il nostro comportamento. Certo, Hare riconosce che noi agiamo in virtù di inclinazioni, desideri: ma in Freedom and Reason egli ritiene che tali elementi non razionali trovino nel modello di ragionamento del prescrittivismo una sorta di guida, un faro che li debba indirizzare e soprattutto fondare, come se a livello ideale il comportamento individuale fosse sempre razionale, mentre i due momenti (valutazione razionale e influenza degli elementi non morali) fossero distinti, ma il primo avesse una assoluta priorità epistemologica sul secondo. D’altra parte è evidente che l’idea di affidarsi alla scelta dell’individuo rilancia altresì la questione di quale possa essere il carattere obbligante e normativo delle prescrizioni. Tale forza motivante non sembra poter scaturire da principi a priori come quelli elaborati da Hare, i quali sono delle regole logiche che non possiedono carattere normativo e non possono fondare la forza motivante delle nostre prescrizioni: per questa la metaetica di Hare non è paragonabile ad un’etica deontologica. Una soluzione a questo problema, direttamente connessa col carattere internalista del prescrittivismo universale, potrebbe risiedere nell’affermazione per cui la portata normativa dei giudizi etici scaturisce direttamente da essi; in altre parole, si sostiene che tali giudizi sono, proprio in quanto razionalmente fondati, intrinsecamente motivanti: “nella meta-etica non cognitivista, la normatività dei giudizi etici è intesa come forza conativa, cioè come la capacità di guidare la condotta e motivare direttamente all’azione. Questa tesi su ciò in cui consiste la normatività viene poi combinata con una tesi separata sulla natura motivante degli stati mentali, gli atteggiamenti e i sentimenti espressi dai giudizi etici. I giudizi etici sarebbero espressivi di stati conativi e per questo direttamente motivanti”113. Nondimeno, se si sostiene che Hare, in quanto non cognitivista, possa adottare l’idea della forza conativa dei giudizi etici, rimarrà sul tappeto la questione della natura motivante di quegli stati mentali che accompagnano inevitabilmente ogni nostra scelta e ogni nostro atto. Questo problema sorge perché in Freedom and Reason l’autore ha cominciato a considerare l’influenza di elementi quali le inclinazioni e gli interessi, sulla nostra condotta. Pertanto, la questione del valore motivante dei giudizi etici è diversa da quella della natura motivante degli stati mentali di cui essi possono essere espressione. Infatti, il prescrittivismo universale, in quanto teoria formale, non sembra 113 C. Bagnoli, La pretesa di oggettività in etica, in Modi dell’oggettività, a cura di G. Usberti, Bompiani, Milano 2000, p. 7. 82 poter fondare il carattere motivante degli interessi e delle inclinazioni, eppure Hare dichiara che essi contano: per questo, stando così le cose, tali elementi sarebbero forse meglio analizzabili dalla psicologia114. Perciò il prescrittivismo se non può evitare di considerare il valore degli stati di coscienza che accompagnano l’agire degli individui, dovrà altresì essere capace di assegnare ad essi il giusto peso e la giusta funzione e inoltre determinare secondo quali modalità essi possano influenzare le decisioni dell’individuo. Di certo, invece, per l’emotivismo di Stevenson, il discorso potrebbe fermarsi a questo punto, in quanto per l’emotivismo l’esistenza di determinati stati mentali è l’unica certezza che si può ottenere relativamente alla funzione dei giudizi morali, i quali appunto si limiterebbero ad esprimere tali sentimenti e non avrebbero alcun significato ulteriore115. Per il prescrittivismo di Hare, la questione è invece maggiormente complicata, poiché egli, rifiutando le conclusioni dell’emotivismo, non potrà fare riferimento al solo valore espressivo dei nostri stati mentali, bensì dovrà esaminare anche il loro valore pratico, ossia la loro capacità di influenzare la condotta degli individui. Ecco dunque che ritorna la necessità di affidarsi ad una etica normativa in grado di soppesare questi stati mentali, visti non solo come semplici fenomeni psicologici, ma soprattutto come inclinazioni dotate di un valore etico e sociale che si confrontano e possono influenzare determinate norme regolatrici dell’azione. A differenza di Brandt, il quale fa riferimento ai risultati della psicologia empirica, Hare accetterà l’utilitarismo della preferenza. Un nuovo orizzonte normativo Vi è pertanto un elemento di novità nelle argomentazioni di Hare a partire dagli anni ‘70, in quanto l’autore sembra parzialmente voler ripensare il complesso rapporto tra la logica e i fatti (ossia i desideri, le preferenze e gli interessi dei soggetti coinvolti), poiché è vero che la logica possiede una priorità epistemologica, ma è anche vero che quando affrontiamo situazioni concrete, siamo investiti innanzitutto dai fatti. Dunque, di 114 R. B. Brandt propone ad esempio una teoria etica che, pur legata all’utilitarismo, possa impiegare gli strumenti desunti dalla scienza, in particolare dalla psicologia, definendo i desideri razionali come quelli che hanno superato una sorta di terapia psichica (Cfr. A Theory of the Good and the Right, cit.). 115 Per l’emotivismo di Stevenson tale forza motivante comunque esiste, ma è limitata alla capacità persuasiva del parlante, la quale è connessa all’espressione di determinati sentimenti e stati mentali, per cui, il giudizio “X è buono” corrisponderebbe all’affermazione “Io voglio che tu faccia X”. Per la riflessione di C. Stevenson, oltre al già citato Etica e linguaggio, cfr. anche il saggio, anticipatore delle tesi contenute nel libro, The Emotive Theory, “Mind”, 46 (1937), pp. 14-31. 83 fronte ad un problema etico, i fatti non morali possiedono una priorità cronologica, perché sono i primi elementi che incontriamo nel mondo. Tuttavia, come detto, essi in seguito andranno armonizzati con il nostro pensiero morale, il quale in definitiva detiene saldamente una priorità concettuale: “Il nostro pensiero critico è razionale se utilizziamo i fatti a nostra disposizione e ragioniamo conformemente ai requisiti logici derivanti dai concetti morali usati nelle questioni che ci poniamo” (MT, p. 269). Quindi, poiché devo enunciare prescrizioni universali predominanti, “ciò comporta che mi munisca della conoscenza fattuale di che cosa porrei in essere agendo secondo l’una o l’altra delle prescrizioni tra cui sto decidendo. Fa pure parte di questa teoria che la chiarezza concettuale è condizione necessaria del pensiero morale razionale”116. Hare però avverte che, in virtù del suo antinaturalismo, non è possibile dedurre direttamente un giudizio morale da un fatto, anche se un fatto può essere la ragione per un giudizio morale, a patto però che tra le premesse della deduzione vi sia un principio morale sostanziale, per esempio “uccidere è sbagliato”, oltre all’asserzione fattuale, che funge da premessa minore, che informa che un individuo è stato ucciso. Dunque la relazione tra la logica ed i fatti viene risolta su un doppio livello di argomentazione; da un lato, Hare riconosce che quando si valuta una situazione, la prima cosa con cui di solito si viene a contatto sono le caratteristiche empiriche e contingenti della situazione stessa, ossia i fatti. Essi dunque costituiscono la base materiale alla quale applicare il ragionamento morale. Dall’altro lato, tale ragionamento deve in un certo senso “interpretare” questi fatti, ossia chiarificare il significato delle argomentazioni nelle quali le proposizioni che descrivono i fatti svolgono il ruolo di premesse con contenuto informativo. Per Hare tale compito, primario ed essenziale, spetta all’analisi logica, la quale per lui è anche concettuale e dunque ricca di contenuto: i fatti in sostanza acquistano un significato in quanto sono espressi in un linguaggio analizzabile secondo le forme dell’analisi semantica dei termini. Nella riflessione più recente di Hare non viene quindi meno la convinzione della piena validità dell’analisi semantica dei giudizi morali: al contrario, essa si accentua, proprio nella ricerca di un fondamento unico e razionale del nostro pensiero morale che possa costituire la base teorica di una dottrina normativa come l’utilitarismo. Infatti, le questioni morali prima di essere affrontate vanno comprese, ossia va capito il significato 116 R. M. Hare, Le regole della guerra e il ragionamento morale, in Sulla morale politica, cit., p. 66. 84 dei termini che le esprimono e solo in seguito esse possono essere affrontate dal lato della moralità pratica: “Io ho adottato la strategia di esporre la logica dei concetti morali così come sono, e di dimostrare che essi generano certi canoni di ragionamento morale i quali ci portano ad adottare un determinato metodo di pensiero morale normativo e sostanziale” (MT, p. 51)117. Il linguaggio è allora da un lato una premessa della morale e come tale è studiato in virtù dell’analisi logica e semantica; tuttavia, esso, essendo il mezzo per esprimere le preferenze dei parlanti, diviene altresì qualcosa che possiede una valenza pratica. Secondo Hare, il carattere prescrittivo delle “parole” etiche non è più solo una condizione formale della possibilità del loro impiego in un linguaggio, bensì diventa anche una condizione sostanziale, una caratteristica che esse incorporano quando sono impiegate nel linguaggio con il quale gli individui esprimono le loro preferenze118. A questo proposito, con l’opera Moral Thinking del 1981, Hare da un lato mantiene l’idea secondo la quale il nostro pensiero morale deve essere pienamente razionale, proprio perché fondato su una teoria etica formale, la quale deve escludere riferimenti individuali che ne pregiudichino il carattere universale; dall’altro lato, ha cercato di porre un legame più saldo tra prescrittivismo ed utilitarismo, il quale è in grado di affrontare questioni normative se però si basa sui fondamenti logico-linguistici del prescrittivismo universale. Pertanto, l’idea che esista una teoria etica119 veicola secondo Hare la necessità che la teoria etica sia l’intelaiatura del pensiero morale, non il suo contenuto: “Ciò che propongo è di stabilire certi canoni di ragionamento interamente formali ricorrendo ad intuizioni linguistiche; in seguito, ragionando in conformità a questi canoni e servendoci…di alcune premesse sostanziali, si otterranno delle risposte per le nostre questioni morali: ma non per via di deduzioni o di qualsivoglia altro genere di ‘inferenza lineare’” (MT, p. 47). 117 Cfr. anche R. M. Hare, L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 101: “Un prescrittivista come me penserà, invece, che si debba prima comprendere l’enunciato (nella sua logica e nel suo carattere concettuale, non meno che nel suo contenuto) e quindi anche le forme di pensiero appropriate allo scopo di stabilire se accettarlo o no, e poi riflettere sulla base di queste forme di pensiero”. 118 Si ricorda che Hare sostiene di appartenere “alla scuola di pensiero secondo la quale studiare le proprietà logiche delle parole è lo stesso che studiare i concetti. La logica formale, in questa prospettiva, è la formalizzazione delle regole che governano le parole…e che determinano i significati di quelle parole”. Cfr., L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 103. 119 Cfr. B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., pp. 87-88 e 90: “una teoria etica è un trattazione teorica del pensiero e della prassi etica che implica…un test generale per la valutazione della correttezza formale delle credenze e dei principi etici fondamentali…Le teorie etiche sono imprese filosofiche e, come tali, comportano la convinzione che la filosofia possa determinare, positivamente o negativamente, in che modo dobbiamo pensare in etica”. 85 La necessità di superare le incompletezze del prescrittivismo induce dunque l’autore a rivedere in parte la propria posizione, senza rinunciare ai risultati della sua ricerca metaetica, ma considerando la possibilità di completare la sua argomentazione con una dottrina normativa coerente con il prescrittivismo: l’utilitarismo, agli occhi di Hare, è destinato ad essere la sola dottrina morale che può logicamente derivare in modo coerente dal prescrittivismo. L’autore ritiene infatti che le incongruenze mostrare dalle forme classiche di utilitarismo fossero dovute alla mancanza di un loro fondamento razionale: a questo proposito, egli pensa che già Sidgwick avesse compreso questa esigenza, ma non avesse operato nel modo più giusto per porvi rimedio. Hare invece sostiene che se l’utilitarismo viene a fondarsi su presupposti logico-formali, può affrontare le questioni morali sostanziali meglio di altre dottrine morali120. La versione di utilitarismo a cui Hare fa riferimento è assimilabile all’“utilitarismo della preferenza”121, il quale si differenzia dall’utilitarismo edonistico classico, poiché non parla della massimizzazione del piacere, né della felicità (come sostiene l’eudemonismo), bensì appunto delle “preferenze”. L’utilitarismo delle preferenze che si sviluppa in particolare nel secolo XX, realizza uno spostamento decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità di misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dunque identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddisfazione delle preferenze, quali che siano122. Tale utilitarismo, per alcuni aspetti, riprende in parte le critiche che già Sidgwick aveva condotto contro l’edonismo; questi infatti, pur non utilizzando l’espressione “preferenze”, nega che la ricerca del piacere e la fuga dal dolore siano i soli motivi che determinano l’agire dell’uomo: “non si può concepire come un precetto o un dettame della ragione una legge psicologica che guida invariabilmente la mia condotta, e questo 120 Si riporta nuovamente la citazione tratta da Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., pp. 32-33 che funge quasi da dichiarazione programmatica ed indica quale sia il valore della svolta di Hare: “La teoria normativa che sosterrò presenta strette analogie con quella utilitarista, se non fosse che questo termine riguarda un’ampia varietà di teorie, ognuna delle quali è stata vittima delle prevenzioni giustamente suscitate dalle più rozze di esse. Chiamando utilitarista la mia teoria prego il lettore di guardare alla teoria in sé, e di domandarsi se essa non possa evitare le obiezioni che sono state rivolte ad altri tipi di utilitarismo” 121 Per l’evoluzione dell’utilitarismo e dei suoi concetti fondamentali, cfr. per esempio C. A. Viano, L’utilitarismo, in C. A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., pp. 40-46, dove si evidenzia come il ricorso alla preferenza sia ascrivibile inizialmente alle argomentazioni dei teorici dell’economia politica. 122 E. Lecaldano, Etica, cit., p. 83. 86 perché un precetto deve essere una norma dalla quale so che è possibile deviare”123. Dal canto suo, anche J. C. Harsanyi ha sostenuto che l’edonismo conduce al soggettivismo morale, ossia ad una tesi assurda: “la teoria psicologica soggettivistica secondo cui tutto ciò che vogliamo sono, in ultima analisi, esperienze piacevoli nella nostra mente è quasi tanto assurda quanto la sua controparte epistemologica, secondo cui tutto ciò che conosciamo sono, in ultima analisi, le esperienze soggettive della nostra mente”124. L’utilitarismo della preferenza nasce dall’esigenza di poter confrontare le preferenze individuali e di elaborare un ordinamento lineare di esse al fine di ricavare una preferenza collettiva unica da una sequenza di preferenze individuali. Per Harsanyi in particolare, al quale la riflessione di Hare fa per certi aspetti riferimento, il concetto di “preferenza”, diversamente da quello di desideri o interessi, è più funzionale in quanto, mentre in una stessa persona possono sussistere conflitti tra desideri ed inclinazioni, la stessa cosa non accade di solito per le preferenze. Parlare di preferenze garantisce la imparzialità dei giudizi morali emessi e ciò ha un fondamentale riflesso sociale: “se accettiamo di valutare eticamente (giustificare o meno) istituzioni e pratiche sociali, dobbiamo essere disposti a valutarne le conseguenze al buio sulle nostre preferenze personali e sapendo di avere la stessa probabilità di essere chiunque nello stato del mondo o nella società di cui valutiamo istituzioni e pratiche”125. Inoltre, l’utilitarismo della preferenza tende a non stabilire a priori e in modo rigido gli obiettivi degli individui, poiché si limita a dare delle direttive piuttosto minime. Esso non fa eccessive questioni sulla “natura della felicità o della vita buona; non è compiuto alcun tentativo per definire quello che gli esseri umani dovrebbero volere per se stessi o per gli altri”126, ma, secondo il principio della supremazia del consumatore, il punto di partenza di questo utilitarismo sono le preferenze effettive degli individui che fanno parte della società. Inoltre, tale utilitarismo si caratterizza come welfarista e consequenzialista, in quanto, come metodo di deliberazione, ha di mira l’incremento del benessere totale degli individui e dunque la scelta delle preferenze che garantiscono stati di fatto migliori. Tuttavia, l’utilitarismo di Hare possiede anche dei caratteri peculiari, sia 123 H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Libro I, cap. IV, cit., p. 79. J. C. Harsanyi, Utilità individuali ed etica utilitaristica (1986), in L’utilitarismo, cit., p. 58. 125 S. Veca, La filosofia politica, cit., p. 45. 126 G. Scarre, Utilitarianism, Routledge & Keegan Paul, London New York 1996, p. 8. Cfr, inoltre le pp. 6-7. 124 87 rispetto al modo per selezionare le preferenze, sia rispetto agli strumenti concettuali ed ai principi a priori su cui vuole fondarsi. Per esempio, esso, a differenza di quel che accade in Harsanyi, non si pone come parte di una più ampia teoria della scelta razionale, in quanto quest’ultima coinvolge direttamente questioni di giustizia sociale e vuole individuare le condizioni più adatte per operare una scelta utilitaristicamente giustificata di fronte a tali questioni: questa prospettiva di analisi non appartiene ad Hare in modo precipuo. La formalità dell’utilitarismo Questi problemi verranno comunque affrontati meglio più avanti, mentre ora si può dire che l’adesione all’utilitarismo produce nella riflessione morale di Hare non una semplice mutazione nominale, giacché ovviamente egli non chiama ora “utilitarismo” quello che per molto tempo aveva definito come “prescrittivismo universale”. L’autore infatti opera un cambiamento sostanziale nel suo sistema, nel tentativo di “riempire” di contenuto le caratteristiche logiche che a suo parere sono la base dei giudizi morali: l’universalità e la prescrittività. Esse infatti, almeno nelle sue intenzioni, non devono operare esternamente all’utilitarismo, ma essere incorporate da questa dottrina, da un lato per conferire legittimità logica e formale ad essa, dall’altro per acquisire esse stesse un’applicazione normativa: “la tesi è che ogni prescrizione basata sulle caratteristiche universali di una situazione debba essere una prescrizione utilitarista. L’idea è che un agente coerente ed informato sarebbe capace di seguire una tale prescrizione solo se essa passasse il test utilitarista di massimizzare la generale soddisfazione di preferenze”127. La generalizzazione delle prescrizioni “produce” quindi direttamente un outcome utilitarista: lo produce direttamente perché la fondazione logica deve essere già presupposta, già interiorizzata nell’impalcatura che sostiene il ragionamento dell’utilitarista. Ciò significa che l’utilitarismo secondo Hare si compone di una parte razionale, formale, nella quale non entrano le convinzioni morali sostanziali dei parlanti, e di una parte normativa, che vaglia i fatti, le inclinazioni e le preferenze dei soggetti coinvolti nelle decisioni. Hare sembra dunque voler recuperare l’etica normativa in modo 127 P. Pettit, Universalisability without Utilitarianism, in “Mind”, 96 (1987), p. 74. 88 indiretto, attraverso la definizione della sue condizioni di possibilità, ma non ovviamente attraverso la definizione di un elenco di azioni buone da fare e cattive da evitare. Pertanto, l’utilitarismo sembra all’autore miscelare in modo efficace la componente logico-formale della sua dottrina, con quella fattuale, empirica: “C’è in primo luogo, la parte astratta o teorica che intende valere per ogni mondo logicamente possibile; e poi c’è la parte concreta o pratica che è applicabile al mondo così com’è, ma che dovrebbe venire abbandonata nel caso in cui esso conoscesse un drastico cambiamento”128. La componente logico-formale, pertanto, prescinde dalle particolari condizioni della realtà, poiché si pone come metodo di ragionamento morale valido a priori, mentre la sua parte pratica, per rispondere alla domanda “che fare?”, si applica al mondo così come esso è e potrebbe cambiare se mutassero le circostanze particolari in cui essa viene applicata. Il ragionamento morale, che si concretizza nell’utilitarismo, prevede la capacità di fornire un giusto peso principalmente a questi due elementi, la logica e i fatti, in quanto contempla anche la necessità di valutare e soppesare le inclinazioni e le preferenze proprie rispetto a quelle altrui: “La priorità logica spetta alla questione di quali principi dobbiamo accettare: ma la si può affrontare solo dopo un’iniziale e provvisoria individuazione di quelle caratteristiche di un’azione o di una situazione che probabilmente figureranno nei principi che da ultimo accetteremo” (MT, p. 130). Hare paragona i principi formali del suo utilitarismo agli imperativi categorici kantiani, sostenendo che entrambi sono retti dal principio dell’universalizzazione129. È però evidente che il paragone tra utilitarismo e kantismo appare problematico. Come ha sottolineato T. Nagel in una nota critica verso l’utilizzo del test dell’universalizzabilità da parte di Hare: “l’esperimento mentale che ci viene richiesto di fare quando applichiamo l’imperativo categorico richiede positivamente a noi di tener conto dei punti di vista personali di ciascuna delle parti in gioco nelle situazioni coperte dal principio in esame, nonché delle motivazioni e dei valori relativi”130. Nagel evidenzia che l’etica di Kant si richiama ad una concezione degli imperativi (categorici o ipotetici) 128 R. M. Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit., p. 239. Hare afferma: “Esaminiamo il programma di Kant…in modo più dettagliato. Esso poggia su una disamina metafisica o logica relativa alla natura dei concetti morali. Questa deve essere la base di ogni sistema di ragionamento morale. Lo dobbiamo fare considerando solamente la natura dei concetti e nulla di empirico”. (Cfr., SO, p. 159). B. Williams aveva evidenziato tempo prima come queste somiglianze siano secondarie e superficiali, cfr. Persone caratteri, moralità, (1976) ora in Sorte morale, a cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1987, pp. 9-10. 130 T. Nagel, I paradossi dell’uguaglianza, a cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1993, p. 58. 129 89 che esclude qualsiasi riferimento ai desideri e alle preferenze dei soggetti morali, mentre Hare connette proprio gli imperativi a questi ultimi. La stessa nozione di universalità, come si è già sottolineato, per Hare rimane nel suo carattere essenziale una nozione logica e non possiede un contenuto normativo. Infatti, “per Kant l’universalità è un principio morale e come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare riconosce come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale carattere si presenta, almeno nelle prime affermazioni che fa Hare, come una tesi sulla logica del discorso morale”131. Inoltre, Kant, nel definire l’imperativo categorico ed il test di universalità ad esso legato (“cosa accadrebbe se tutti facessero così?”), non afferma che, prima di agire, l’individuo debba domandarsi in positivo se quel suo atto potrebbe valere come legge universale d’azione, poiché in tal caso sarebbe evidente il pericolo di un regresso all’infinito: per la logica una prescrizione singola può essere universalizzata in un numero illimitato di modi. Universalizzare vuol dire fornire motivazioni. Fornire motivazioni vuol dire indicare quali caratteristiche della situazione siano rilevanti per la valutazione e il giudizio morale. Ma poiché ogni situazione possiede un numero illimitato di caratteristiche, a seconda delle caratteristiche che indico come rilevanti sono in grado di costruire la prescrizione universale della quale la prescrizione singola è un’applicazione, in un numero illimitato di modi132. In realtà, le versioni moderne e contemporanee dell’utilitarismo hanno incorporato una nozione di universalità dei giudizi morali che solo nominalmente richiama quella kantiana, ma che invece se ne discosta. In particolare, Kant non adotta una formula in positivo per definire il test dell’universalità, poiché egli ne fornisce una versione in negativo, sostenendo che “moralmente doverosi sono, non già i comportamenti che risultano universalizzabili, ma i comportamenti contrari a quelli che non risultino universalizzabili”133. Ciò vuol dire che, prima di agire, non dobbiamo verificare se un principio morale potrebbe diventare una massima di portata universale in tutti i casi, ma chiederci se vi è almeno un caso nel quale esso non possa fungere come tale: se si presenta questa evenienza, quello non è un principio morale. Pertanto, la domanda, 131 E. Lecaldano, Etica, cit., p. 78. A. Ross, Il ragionamento morale (una critica a R. M. Hare) (1964), in Critica del diritto e analisi del linguaggio, cit., p. 171. 133 S. Landucci, La Critica della ragion pratica. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, p. 64. 132 90 posta da alcuni utilitaristi, che impone all’attore di domandarsi: “cosa accadrebbe se tutti facessero così?”, acquisisce in ambito utilitarista una valenza differente: quando poniamo questa domanda sottintendiamo che, se le conseguenze del fatto che tutti facessero l’atto in questione fossero dannose (o benefiche), allora l’atto sarebbe per tutti vietato (o obbligatorio). In questo senso, l’utilitarista propone di individuare le norme utilitaristicamente giustificate considerando la classe delle azioni simili. La norma viene così a regolare tutti gli atti simili appartenenti alla classe delle azioni cui è appropriato porre la domanda sopra ricordata, e l’agente deve seguire sempre la norma morale così individuata134. Perciò, anche se, in alcuni casi, le conclusioni pratiche dell’utilitarismo e del kantismo possono coincidere, profondamente diverso è il motivo per cui un’azione è valutata come positiva. Per esempio, per Kant non è mai ammissibile dire una bugia, mentre per l’utilitarismo, in certi casi, è possibile farlo; ciò accade perché mentre per Kant la menzogna va vietata dato che impedisce all’individuo di conformarsi ad una legge che deve essere universalmente voluta, per l’utilitarista, sebbene in genere sia meglio dire la verità, se dovesse succedere che dire bugie massimizza l’utilità, egli potrebbe indulgere a farlo. Si può sostenere che l’utilitarismo di Hare condivida con Kant l’idea di fondare l’etica su presupposti formali, razionali ed universali, ma per il resto è diversa sia la natura di tale fondamento (in Kant non vi è traccia di alcuna analisi semantica), sia soprattutto la conclusione normativa che la teoria etica di Hare implica. I livelli del pensiero morale È all’interno di questa ridefinizione della propria teoria etica che Hare introduce la fondamentale concezione dei due livelli del pensiero morale, di cui l’opera Moral Thinking rappresenta la sintesi più completa. In realtà, esiste anche un terzo livello, quello della riflessione metaetica, “sul quale operiamo quando discutiamo del significato dei termini morali e sulla logica del ragionamento morale” (MT, p. 58). Tuttavia esso è già stato ampiamente trattato nelle opere precedenti, per cui l’autore in Moral Thinking si occupa degli altri due livelli del pensiero morale: il livello critico e il 134 M. Mori, L’utilitarismo della norma e i suoi problemi: un’analisi e una proposta, in E. Lecaldano/S. Veca (a cura di), Utilitarismo oggi, cit., p. 44. 91 livello intuitivo135. Si può qui notare che B. Williams ha sottolineato in modo critico che l’elaborazione di un utilitarismo coerente con l’orizzonte non cognitivista, inaugurato da Smart già negli anni ’60 e proseguito da Hare, mostri la progressiva perdita di importanza dell’analisi puramente metaetica: “La distinzione tra etico e metaetico non è più considerata così convincente o importante. Le ragioni di questo fatto sono diverse, ma quella che…risulta più rilevante e che attualmente è ovvia (ancora una volta ovvia), è che le idee che uno ha in merito all’oggetto del pensiero etico, ossia al suo campo d’indagine, non possono non influire sull’adozione dei criteri di accettabilità o di coerenza appropriati a quel campo; e l’uso di quei criteri non può che influire su qualsiasi risultato etico sostantivo”136. In realtà Hare accetta questa asserzione in senso differente rispetto a Williams, giacché come detto ritiene i presupposti metaetici già fondati e stabiliti, in quanto essi costituiscono lo sfondo sul quale appoggiare l’analisi dei due livelli del pensiero morale. Va aggiunto inoltre che nelle intenzioni di Hare, l’adesione alla dottrina dei due livelli del pensiero morale è altresì giudicata funzionale al fine di sollevare la sua teoria etica utilitarista dall’accusa di portare a conclusioni controintuitive: Laddove le teorie etiche ad un livello sono costrette a formulare un codice intollerabilmente complesso, l’adozione della teoria dei due livelli indica un’alternativa migliore. A livello intuitivo, l’agente ha ragione di credere di trovarsi di fronte a due obblighi confliggenti. Il sentimento dell’impossibilità di risolvere questo conflitto è giustificato entro il modello di razionalità dell’agente di livello intuitivo. Solo il ricorso, quando è possibile, ad un livello di pensiero morale più raffinato consente di smontare questa dolorosa apparenza137. La distinzione tra i due livelli è già introdotta nel 1976, nel saggio Utilitarianism and Ethical Theory, nel quale Hare fornisce una sintetica disamina di essi, senza ancora averli denominati “critico” ed “intuitivo”. I principi del livello 1 [ossia di quello in seguito definito intuitivo] sono da usare nella riflessione morale pratica, specialmente in situazioni di tensione. Devono essere sufficientemente generali da essere impartiti con l’educazione…e da essere 135 Hare riconosce di non essere il primo ad usare tale distinzione, giacché, a suo parere, essa è già presente in Platone ed Aristotele. Forse però il precedente più significativo si può individuare nel cap. V dell’opera Utilitarianism di J. S. Mill (Cfr. anche R. Crisp, edited by, Mill on Utilitarianism, Routledge, London and New York 1997, pp. 105-112). 136 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit. pp. 89-90. 137 C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., pp. 66-67. 92 prontamente applicabili all’emergenza, ma non vanno confusi con le regole di esperienza (la cui violazione non suscita alcun rimorso). I principi del livello 2 [ossia quello critico] sono quelli cui si dovrebbe arrivare attraverso una riflessione morale tranquilla, in presenza di una conoscenza dei fatti completamente adeguata, come la risposta giusta in un caso specifico”138. I due livelli non sono semplicemente l’idealizzazione degli usuali modi di ragionamento morale, poiché servono per descrivere sia come esso effettivamente si svolge, indicando al contempo sia quale dovrebbe essere il suo funzionamento ottimale. La dottrina dei due livelli del pensiero morale rappresenta dunque uno strumento concettuale ed esplicativo per descrivere in modo completo sia la riflessione razionale sull’etica, sia la determinazione effettuale delle azioni umane, combinando il valore formale del pensiero morale con l’osservazione delle condizioni fattuali nelle quali si agisce. La distinzione è altresì importante per supportare e l’idea di una concezione formale dell’utilitarismo e la possibilità che esso si ponga come efficace dottrina normativa. Per quel che concerne il livello intuitivo, Hare afferma nel saggio Utilitarianism and the Vicarious Affects (1979) che “Il livello intuitivo è quello a cui quasi tutti noi conduciamo quasi tutto il nostro pensiero morale”139. Questo significa che in campo etico le intuizioni morali hanno un ruolo ed un peso, in quanto sono la base e il naturale punto di avvio della nostra riflessione morale. Anzi, la cosa fondamentale da dire è che Hare sottolinea che il processo di elaborazione delle decisioni (decision making) avviene in modo spontaneo in gran parte a questo livello, perché è quello a cui l’individuo si rivolge naturalmente. Certo, il livello intuitivo non fonda la razionalità delle nostre convinzioni morali, sebbene “intuitivo” per Hare non sia necessariamente sinonimo di “non razionale”. Egli dunque avverte che “possiamo alterare i nostri principi intuitivi, sebbene con difficoltà, se lo desideriamo. Questo è il compito del pensiero critico. Ma dobbiamo essere cauti. Quelli che hanno cacciato via completamente le intuizioni accumulate le hanno spesso rimpiante. Vi è di solito più da imparare che abbandonare dagli insegnamenti del passato” (SO , p. 143)140. 138 R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., pp. 40-41. R. M. Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit., p. 242. 140 Si è già sostenuto che affermazioni di questo genere possono essere messe in parziale collegamento con le argomentazioni di Sidgwick e in parte di Smart, relative all’affidabilità delle intuizioni della morale di senso comune e alla necessità per cui l’utilitarismo, più che stravolgere questa morale, dovrebbe renderla più comprensibile ed accettabile. 139 93 Hare peraltro prende le distanze da una concezione intuizionista della morale, sul modello delineato da H. Prichard, secondo il quale, come nella teoria della conoscenza non esiste nessun criterio al di là della conoscenza immediata, lo stesso accade per la morale, nella quale “i dubbi su di una qualunque questione vengono eliminati facendo in modo di trovarci in una situazione che abbia le stesse caratteristiche, o caratteristiche in larga parte simili a quelle proprie della situazione che ci rende perplessi”141. Una dottrina come l’intuizionismo etico cade infatti in una forma di sterile soggettivismo morale142, secondo il quale i principi morali non vengono razionalmente determinati, ma nascono nel soggetto morale in modo appunto intuitivo, ossia non razionale. Vi è infatti una decisiva differenza tra la dottrina dei livelli del pensiero morale e l’intuizionismo etico: “Come ho detto molte volte, il ruolo che gli intuizionisti riconoscono al pensiero morale intuitivo non è in sé errato ma piuttosto incompleto; l’errore dell’intuizionismo è di implicare che esso è l’unico livello di pensiero morale di cui abbiamo bisogno”143. Tuttavia, al di là dell’opposizione teorica all’intuizionismo, Hare recupera il valore delle intuizioni morali, le quali ovviamente non possiedono una valenza conoscitiva, ma sono importanti in quanto riflettono bene gran parte del comportamento morale degli individui in condizioni usuali. Le intuizioni (i fatti e gli elementi derivanti dall’osservazione empirica) in questo contesto sono perciò secondariamente fondamentali144, giacché le nostre preferenze di base si formano a partire da esse, sebbene in seguito debbano essere vagliate da un pensiero critico che va sviluppato nel modo più accurato possibile. Hare sostiene che l’utilitarismo, rispetto all’intuizionismo, ha la capacità di giustificare razionalmente il ricorso alle intuizioni, in quanto utilizza solo quelle che possiedono una utilità di accettazione ovvero sono universalizzabili: “Nella misura in cui le intuizioni sono desiderabili, il pensiero critico le può difendere su basi utilitariste, in quanto esse hanno un’alta utilità di accettazione; se possono essere difese in questo modo, anche per l’utilitarismo dell’atto la miglior cosa da farsi sarà coltivarle e seguirle in tutti i casi normali” (MT, pp. 180-181). 141 E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale, cit., p. 43. Una teoria soggettivista potrebbe definirsi come “la dottrina secondo la quale i giudizi morali sono equivalenti al resoconto dei sentimenti personali o delle attitudini del parlante”, cfr., J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 18. 143 R. M. Hare, Comments on Frankena, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 223. 144 I fatti non morali sono secondariamente fondamentali poiché se lo fossero in modo primario la dottrina di Hare coinciderebbe, dal punto di vista pratico, con il descrittivismo etico. 142 94 Hare sottolinea quindi che le persone prendono la gran parte delle proprie decisioni morali in virtù di principi che hanno un’impronta intuitiva perché non tutti sono in grado di ragionare in maniera critica e serena di fronte a una questione morale, ovvero in condizioni di piena conoscenza delle conseguenze della azioni tra le quali devono scegliere. Pertanto, ognuno di noi agisce in prima istanza secondo principi che Hare in Moral Thinking definisce secondo l’espressione, in parte mutuata dalla riflessione di Ross, “principi prima facie”. Ross in realtà sosteneva l’esistenza di doveri prima facie, i quali a suo parere sono da noi intuitivamente acquisiti e ci spingono ad agire nella maniera ritenuta più corretta in determinate circostanze, senza dover ricorrere ad alcuna forma complessa di ragionamento morale. Essi non hanno quindi la pretesa dell’assoluta certezza, poiché possono essere soverchiati da obbligazioni meglio fondate. Ross distingue infatti “tra obbligazioni prima facie e obbligazioni attuali: l’obbligazione prima facie è una conclusione sostenuta da considerazioni morali che si candida a diventare l’obbligazione attuale di qualcuno. Essa sarà la conclusione corretta della propria decisione a condizione che non ci sia un’altra obbligazione che prevalga su di essa”145. Hare non accetta questa definizione così impegnativa di doveri prima facie ed infatti è molto preciso nel sottolineare che i principi prima facie sono universali solo in modo parziale, poiché: sono generali in due sensi, fra loro collegati; sono piuttosto semplici, poco specifici e ammettono eccezioni, nel senso che è possibile mantenerli pur consentendone violazioni in certi casi particolari…In altri termini, questi principi sono ‘predominabili’ (overridable). Inoltre, sebbene essi siano universali, nel senso in cui io uso un tale termine (non contengono costanti individuali e hanno un quantificatore universale all’inizio), in un altro senso non lo sono (non sono universalmente vincolanti: ammettono eccezioni) (MT, p. 93). I principi prima facie possono anche essere diretta espressione di nostri stati mentali, come il rimorso (regret) e la compunzione, e per questo Ross ritenne che fossero universalmente validi, in quanto dotati di un valore intrinseco, testimoniato dalla nascita in noi di tali sentimenti proprio quando violiamo i principi prima facie: “Quando pensiamo di essere moralmente obbligati a rompere una promessa nel tentativo di 145 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 213. Cfr. altresì D. W. Ross, Il giusto e il bene, cit, p. 27 e sgg. 95 alleviare la sofferenza di qualcun altro, non cessiamo un momento di riconoscere l’esistenza di un diritto prima facie di mantenere le promesse, e ciò ci conduce a sentire, non tanto vergogna o rimorso, ma certamente compunzione, per esserci comportati in quel modo”146. Hare invece non ritiene che i principi prima facie possiedano un valore intrinseco che li renda universalmente validi, perché nessuna educazione morale può essere completa se si basa solo sui sentimenti di rimorso e compunzione. Il rimorso che si prova nel rompere una promessa, seppure in condizioni in cui non si poteva fare diversamente, non mostra che il divieto di rompere promesse sia un principio prima facie universale, giacché la presenza del rimorso dopo aver trasgredito il principio non garantisce l’universalità di quest’ultimo, poiché essa è giustificata da un fondamento logico-razionale. Nondimeno, al di là dei principi prima facie adottati, per l’individuo è necessario avvicinarsi ad un livello di pensiero morale critico, nel quale egli, secondo la logica del ragionamento morale, sia abilitato a riflettere serenamente sulle questioni etiche e di prendere le opportune decisioni per affrontarle. La distinzione posta da Hare fra i due livelli del pensiero morale si applica peraltro sia alla dimensione privata dell’individuo (alle regole di prudenza relative ai confronti intrapersonali), sia a quella relativa alla sua vita pubblica e sociale (che riguarda più specificamente la moralità per i confronti interpersonali). Sarà dunque possibile affermare, in virtù della distinzione fra i due livelli di pensiero morale che La classe dei principi morali di un uomo si articola in due sottoclassi: 1) quei principi prescrittivi universali di cui egli non ammette che possano essere predominati; sono tutti quei principi che io ho chiamato “principi morali critici”; e quindi è possibile adattarli e renderli specifici per casi particolari in tal modo che non vadano predominati; 2) quei principi prima facie che, pur essendo predominabili, vengono selezionati…dal pensiero critico; nel corso di questa selezione vengono utilizzati i principi morali della prima sottoclasse. Se quindi vogliamo sapere se una data persona consideri morale un determinato principio, occorre innanzitutto chiederle se permetterebbe mai, in qualsivoglia circostanza, che il principio subisse il predominio di un altro principio (MT, p. 95). Un ipotetico arcangelo non avrebbe necessità di ricorrere ai principi prima facie, poiché conoscerebbe alla perfezione i significati dei termini che utilizza e sarebbe in grado di agire immediatamente nel modo corretto dato che ha una subitanea coscienza 146 D. W. Ross, Il giusto e il bene, cit., p. 36. 96 della situazione e delle conseguenze che qualsiasi sua scelta potrebbe produrre. Al contrario, per gli uomini è inevitabile affidarsi ai principi intuitivi che, pur non possedendo appieno le caratteristiche di prescrittività ed universalità che contraddistinguono i veri e propri giudizi morali, svolgono comunque un ruolo nel favorire la maturazione critica del nostro pensiero morale. Certamente dovremmo puntare ad acquisire principi morali universali che possano mettere in secondo piano quelli intuitivi, ma, per così dire, nel frattempo, il ricorso a tali principi non è affatto un errore, giacché è inevitabile e dunque va regolamentato, ma non impedito. Sarà tuttavia necessario che, a livello concettuale, l’individuo abbia in mente come si svolge il pensiero morale e quale livello lo esprima nella maniera più essenziale. In altri termini, agire secondo le nostre intuizioni morali è inevitabile e comprensibile, ma ragionare semplicemente secondo il livello intuitivo è un errore concettuale prima ancora che morale, sebbene poi esso abbia delle conseguenze in questa direzione. Per questo motivo, “Il pensiero intuitivo ha la funzione di avvicinare in pratica a questa capacità [ossia al pensiero critico] quelli di noi che non sono in grado di pensare come arcangeli in una particolare occasione. Se vogliamo assicurarci la maggiore conformità possibile alle decisioni di un arcangelo, dobbiamo tentare di impiantare in noi stessi e in coloro che subiscono la nostra influenza un insieme di disposizioni, motivazioni e principi prima facie (chiamiamoli pure come vogliamo) che abbiano questo effetto” (MT, p. 80). Inoltre, il pensiero critico svolge un’altra funzione fondamentale: esso ha il compito di “selezionare i migliori principi prima facie, per utilizzarli nel pensiero intuitivo…Il miglior insieme di principi è quello la cui accettazione produce azioni, disposizioni, ecc., le più vicine possibili a quelle che sceglieremmo se fossimo in grado servirci sempre del pensiero critico. Questa soluzione, se seguiamo l’utilitarismo, troverà espressione nel concetto di utilità di accettazione” (MT, p. 83). La funzione dei livelli del pensiero morale La figura dell’arcangelo come esempio di individuo capace sempre di pensare in modo critico, è per Hare un modello concettuale che serve per spiegare in modo chiaro come effettivamente funziona tale livello di pensiero. La figura dell’arcangelo possiede anche una notevole rilevanza teorica, in quanto è il modello di ragionamento critico che 97 costituisce l’optimum per un individuo utilitarista: egli è in grado di immedesimarsi con le preferenze altrui che, superato il test dell’universalizzazione, si sono rivelate dotate di una utilità di accettazione. Egli assume su di sé queste preferenze e, in quanto pensatore critico, è capace di massimizzale nel modo dovuto. Il ricorso alla figura dell’arcangelo, dunque, non tradisce l’intenzione di Hare di studiare l’effettivo comportamento umano, sebbene una critica rivolta all’autore si sia basata proprio su questa obiezione: “penso che il suo [di Hare] ‘arcangelo’ che può predire il futuro in ogni dettaglio è il mezzo analitico sbagliato per studiare il processo di elaborazione della decisione degli umani di fronte al rischio e all’incertezza della vita reale”147. Inoltre, B. Williams sostiene che tale figura è ricalcata su quella dell’Agente cosmico, il quale in realtà sarebbe del tutto disinteressato dei fatti del mondo: “Questa versione…si scontra con l’obiezione che se l’osservatore ideale non ha alcuna motivazione oltre la propria imparzialità, non c’è alcuna ragione per cui debba fare una scelta qualsiasi; inoltre, in assenza di una motivazione benevola o comunque positivamente riferita alle preferenze che conosce, egli potrebbe scegliere di sfruttarne quanto più gli è possibile”148. In altre parole, l’arcangelo appare talmente distaccato dalla realtà da non poter nemmeno valere come modello di pensiero critico: “La posizione dell’arcangelo, quindi, è una posizione dalla quale tutte le preferenze perdono significato: egli non può assegnare un valore alle rispettive preferenze di ciascuno, perché il metro di ciascuna di esse implica un punto di vista particolare, di cui egli non deve tenere conto”149. Tuttavia, la figura dell’arcangelo si differenzia in parte da quella dell’osservatore imparziale simpatetico, in quanto trova la sua giustificazione nell’universalità, ossia in una proprietà logica consistente nella possibilità di tenere conto di tutti i desideri delle persone coinvolte e di occupare tutte le posizioni da loro occupate, senza ricorrere alla sola simpatia e benevolenza. In altri termini, l’arcangelo, se esistesse, pur essendo un individuo superiore agli uomini, dovrebbe agire in etica seguendo le regole logiche che anche questi ultimi devono seguire. La differenza sta nel fatto per cui l’arcangelo applica queste regole in modo infallibile, ma non nel tipo di regole che egli segue. 147 J. C. Harsanyi, Problems with Act-Utilitarianism and Malevolent Preferences, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 89. 148 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., pp. 102-103. 149 R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 121. 98 In realtà, l’arcangelo sembra essere un modello esplicativo, ma non prescrittivo e si pone come termine ideale, giacché il pensiero critico non tanto indica come dovremmo agire in etica, quanto piuttosto come dovremmo pensare in essa: per questo la figura dell’arcangelo non sembra avere molti punti in comune con quella dello spettatore imparziale simpatetico, introdotta da Adam Smith ed esplicitamente ripresa da Harsanyi: “Ho impiegato l’arcangelo come un mezzo per studiare il pensiero critico, e non per studiare ‘il processo di elaborazione della decisione degli umani di fronte al rischio e all’incertezza della vita reale’, la quale, a mio parere, dovrebbe normalmente essere compiuta a livello intuitivo”150. Ma come pensa ed agisce l’arcangelo? Questi, alle prese con una situazione imprevista “sarà in grado di individuare tutte le proprietà, comprese le conseguenze delle azioni alternative, e di formulare un principio universale (ma forse altamente specifico) secondo cui egli agirà in quella situazione, indipendentemente dal ruolo che occupa. Poiché egli non possiede alcun sentimento egoistico ed è privo della altre debolezze umane, agirà secondo quel principio, se esso gli ordina di agire…L’arcangelo non avrà bisogno del pensiero intuitivo; farà ogni cosa razionalmente e in un attimo (MT, pp. 77-78)”. L’arcangelo dunque non avrà alcun problema ad abbracciare il pensiero critico, poiché “Pensare criticamente significa fare una scelta rispettando i vincoli imposti dalle proprietà logiche dei concetti morali e ai fatti non morali” (MT, p. 73), ossia vuol dire riuscire a far proprio un ragionamento morale formale, dotato di un carattere universale e prescrittivo, nel quale verrà dato alla logica ed ai fatti il giusto ruolo. Pertanto, al livello del pensiero critico non vanno fatte entrare le loro convinzioni morali sostanziali dei parlanti, mentre è normale e comprensibile che lo si faccia quando si pensa in modo intuitivo: “se la gente introduce le proprie convinzioni sostanziali nelle fondamenta stesse delle proprie argomentazioni morali, non sarà più in grado di argomentare in modo costringente contro nessuno che non condivida quelle convinzioni. Questo è quello che fanno i filosofi detti intuizionisti”151. La teoria dei due livelli del pensiero morale è allora funzionale, nel sistema di Hare, alla giustificazione di un principio morale universale, il quale aspira, nelle intenzioni dell’autore, ad essere valido per tutti gli individui umani, in qualsiasi tempo ed in qualsiasi luogo. 150 R. M. Hare, Comments on Harsanyi, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 241. 151 R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 185. 99 Il livello critico si sviluppa a sua volta in due stadi: In primo luogo considera i casi…e perviene a una decisione in merito a ciò che idealmente si deve fare in ciascuno di essi, dopo avere accertato o posto tutti quei fatti concernenti le varie situazioni che potrebbero venir considerati rilevanti…Nel secondo stadio fa una stima delle probabilità del ricorrere di questi casi e sulla base di questa stima sceglie…i migliori principi prima facie152. Dunque il pensiero critico ha il compito di selezionare i principi prima facie e deve applicarsi, almeno in linea di principio, a tutti i casi logicamente possibili, sebbene poi si applichi ovviamente ad un numero limitato di essi. Il pensiero critico possiede una priorità rispetto a quello intuitivo, sia dal punto di vista puramente epistemologico, sia dal punto di vista dell’influenza che esso ha sulla moralità pratica di chi agisce, ma un essere umano, benché in grado di pensare criticamente, non potrà mai rinunciare del tutto alle proprie intuizioni: “Poiché…il pensiero morale intuitivo non può autogiustificarsi, mentre il pensiero critico può farlo, e lo fa, è quest’ultimo che ha la priorità epistemologica” (MT, p. 79). La figura opposta all’arcangelo è definita da Hare come prolet (espressione tratta dal romanzo di George Orwell, 1984), ed è una figura che presenta una debolezza del volere al massimo grado e, dunque, può agire esclusivamente secondo il pensiero intuitivo. Anche questa è una figura ideale, perché, come è vero che nessun essere umano è in grado di agire seguendo esclusivamente il pensiero critico, è altrettanto certo che nessun essere umano è così sprovveduto da dover agire sempre e comunque secondo le proprie intuizioni morali. Ognuno di noi infatti, sebbene a diversi livelli, in alcune circostanze può pensare criticamente, mentre il prolet “è proprio del tutto incapace di pensiero critico (per non parlare del pensiero critico saggio o ben fondato) anche quando ha tutto il tempo che vuole a disposizione” (MT, p. 78). Il prolet non è neppure in grado di agire secondo principi prima facie autonomamente elaborati, poiché ha bisogno di assimilarli dagli altri, attraverso l’imitazione o un continuo processo di educazione. La definizione del ruolo e della funzione dei due livelli del pensiero morale permette in particolare di affrontare con successo i frequenti conflitti e disaccordi153, alcune volte 152 R. M. Hare, Rilevanza, in Saggi di teoria etica, cit., p. 209. Come precisa Lecaldano, tra conflitti e disaccordi morali vi è una differenza, dovuta al carattere privato dei primi e a quelli pubblico, sociale dei secondi: “Casi di conflitto…sono quelli in cui noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico…Casi di disaccordo sono quelli, molto 153 100 drammatici, che sorgono relativamente alle questioni dell’etica ed impedire la paralisi delle decisioni morali. Il disaccordo morale non è relativo al solo significato dei termini utilizzati, bensì coinvolge le scelte sostanziali degli individui, altrimenti sarebbe un semplice contrasto semantico. Hare ritiene che i disaccordi tra doveri siano dovuti ad una nostra scarsa familiarità con il pensiero critico, il quale, se fosse applicato in modo corretto, renderebbe risolvibili tali disaccordi. Il pensiero critico è dunque essenziale perché interviene a risolvere i conflitti morali (mentre una concezione puramente metaetica non sarebbe in grado di risolverli), ossia quelle situazioni in cui una persona si trova a dover operare delle scelte che possono apparire in contrasto con alcuni suoi ben radicati (fino a quel momento) principi morali. Hare nota peraltro che se i principi prima facie sono stati scelti con criterio, raramente si verifica un conflitto drammatico tra di essi; tuttavia, in casi eccezionali, ma proprio per questo a volte angoscianti, una persona si ritroverà a mettere in discussione i suddetti principi. Come Hare evidenzia, in questo caso una persona, al di là dell’angoscia, può ad ogni modo superare l’impasse ed agire, se capace di ragionare in questo modo: “’Poiché i principi sono in conflitto, non posso basarmi su di essi; sono obbligato ad abbandonarne uno, e non so quale. Metterò perciò da parte i principi, per un momento, ed esaminerò attentamente il caso particolare per vedere cosa ne direbbe il pensiero critico’. Il pensiero critico può svolgere questo compito, entro i limiti dettati dalle possibilità umane” (MT, p. 85). Hare ritiene dunque che solo un coerente utilitarista sia in grado di affrontare questa situazione e di risolverla, per permettere in seguito alla persona, qualora si trovasse nuovamente di fronte a situazioni tanto complesse e difficili, di avere quantomeno un affidabile metodo di ragionamento morale. frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui persone diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere la stessa situazione moralmente rilevante” (E. Lecaldano, Etica, cit., p. 9). 101 CAPITOLO 4. L’utilitarismo di Hare Anche a seguito della definizione dei due livelli del pensiero morale, si può notare che Hare afferma in modo significativo che il suo utilitarismo va oltre la distinzione tra utilitarismo degli atti e delle regole154, proponendo una loro integrazione. Infatti, a livello intuitivo, gli individui agiscono in genere come utilitaristi delle regola, ossia secondo principi prima facie desunti dall’educazione ricevuta o dalle esperienze precedenti acquisite. Tali principi fanno in gran parte riferimento a delle norme accettate intuitivamente, per cui la correttezza degli atti risiede nella rispondenza a questi principi prima facie. A livello critico, invece, l’arcangelo non necessita di norme a cui conformarsi perché è perfettamente in grado di conoscere, per ogni situazione, la condotta giusta da adottare, il modo di agire che incrementa l’utilità totale: egli per questo sarà un utilitarista dell’atto. Di fronte a due condotte tra loro in contrasto (per esempio “Non si devono dire le bugie” e “Non vanno feriti i sentimenti degli amici”), secondo Hare l’arcangelo agirà considerando quale delle due azioni produrrà un danno maggiore e sceglierà l’atto più benefico (o meno dannoso); non solo, “Hare evidenzia che una tale strategia basata sull’utilitarismo dell’atto per risolvere conflitti ha l’appoggio del senso comune”155. Pertanto, ne viene fuori un tipo di utilitarismo “che, mentre insiste sul punto che le sue regole siano universali, non insiste sul punto che siano semplici o generali, ma consente che diventino, attraverso aggiunte e ritocchi apportati alla luce di casi particolari, tanto complicate quanto specifiche” (FR, p. 189). Dunque, “Il sistema che deriva da queste premesse è…un utilitarismo dell’atto, che però tiene conto dell’utilità generale delle regole per la convivenza civile: anche se si dovesse sempre agire in base al pensiero critico, quest’ultimo può limitarsi, in condizioni normali, ad esercitare una funzione fondativa”156. 154 “L’utilitarismo dell’atto è l’idea che la correttezza o scorrettezza di un’azione debba essere giudicata in base alle conseguenze, buone o cattive, dell’azione stessa”. (J. J. C. Smart, Lineamenti di un sistema morale utilitarista, in Utilitarismo: un confronto, cit., p. 37). Di contro, secondo l’utilitarismo della regola, “ogni atto dovrebbe…essere inteso come l’applicazione di una regola, cioè come un’istituzione, e andrebbe computata l’utilità dell’istituzione. Le decisioni collettive dovrebbero selezionare le regole che, se osservate da tutti, nel lungo periodo dovrebbero dare la maggiore utilità media” (C. A. Viano, Etica pubblica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 80). Nel 1965, D. Lyons (cfr. Forms and Limits of Utilitarianism, Oxford University Press, Oxford), aveva sostenuto la presenza di una uguaglianza estensionale tra i due. 155 G. Scarre, Utilitarianism, cit., p. 175. 156 R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 103. 102 L’arcangelo agisce allora come un utilitarista dell’atto, ma per individui umani agire per promuovere gli atti che sembrano garantire il soddisfacimento delle preferenze più intense e razionali, “spesso sarebbe disastroso. In primo luogo, ci mancano quasi sempre le necessarie informazioni; in particolare, non siamo affatto bravi a metterci nei panni degli altri e ad immaginare che effetto ci farebbe essere loro. In secondo luogo, ci manca il tempo per acquisire tali informazioni e per rifletterci sopra. Infine non siamo in grado di pensare con lucidità”157. In questo caso, sostiene l’autore, se dovessimo chiedere ad un arcangelo come agire, egli ci consiglierebbe di favorire quelle preferenze che mostrano di possedere una più elevata “aspettativa di utilità”, la quale “è la somma dei prodotti ottenuti moltiplicando l’utilità per la probabilità dell’esito per tutti i possibili esiti alternativi dell’azione”158. Il problema è che i nostri limiti ci impediscono di compiere questo calcolo complesso e dunque per fare del nostro meglio dovremo seguire una serie di disposizioni, sentimenti, intuizioni che, prese nel loro complesso, consentono in modo più probabile la soddisfazione delle preferenze. I fattori dell’azione morale Si può dunque affermare che secondo quello che Hare sostiene in Moral Thinking, l’azione moralmente efficace può svolgersi in presenza di quattro fattori quali: a) la conoscenza delle proprietà logiche dei termini morali; b) la capacità di pensare razionalmente, ossia di vagliare le proprie intuizioni secondo il pensiero critico; c) la capacità di conoscere i fatti, ossia gli elementi empirici, contingenti e non morali che costituiscono l’ambito d’azione; d) l’informazione completa relativa alle preferenze delle persone coinvolte e la capacità di immedesimarsi con esse, in modo da massimizzare, attraverso l’utilitarismo, la somma delle utilità individuali delle persone coinvolte. Per quel che concerne le preferenze da massimizzare, Hare privilegia come detto quelle acquisite dal soggetto in condizioni di piena informazione (è la condizione 157 158 R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 195. Ibidem, p. 196. 103 dell’arcangelo), preferenze che, in quanto razionali, si contrappongono alle preferenze male informate. In modo non diverso argomenta Harsanyi: “dal momento che le preferenze della gente sono sempre basate su credenze specifiche, è naturale sostenere che le preferenze male informate, cioè quelle basate su false credenze, non rappresentano le loro vere preferenze e che le loro vere preferenze sarebbero quelle che essi avrebbero se fossero pienamente informati e facessero uso di questa informazione”159. Per quanto concerne il punto c), si è già sottolineato quanto sia necessaria una conoscenza ampia delle situazioni nelle quali si agisce. Infine, per il punto d), si può sostenere che non è sufficiente una simpatetica immedesimazione l’altro, ma è necessario volere razionalmente assumere su di se la preferenza dell’altro, pur non avendo, alle proprie spalle, un’esperienza relativa a quel particolare stato emotivo che l’altro sta sperimentando: “Non abbiamo bisogno [per formarci una preferenza] di una base per la nostra preferenza, ossia di un antecedente spaziale e temporale di essa…Quello che affermerò esprimerà la preferenza che mi sono formato; ma nel percorso di formazione, non sarà necessario che io l’abbia già sperimentata”160. Hare condivide quindi l’assunto comune alle teorie “preferenzialiste”, com’è anche l’utilitarismo di Harsanyi, secondo il quale è possibile selezionare le preferenze espresse dagli individui. Tuttavia, il metodo di selezione delle preferenze adottato da Hare differisce da quello di Harsanyi, in quanto l’autore sembra assumere un atteggiamento più “empirista”, ossia incline ad accettare il principio, proposto da Allen Gibbard, di preferenza condizionale; Gibbard nota infatti che tale concetto conduce Hare, a differenza di Harsanyi, a considerare meglio le particolari circostanze nelle quali l’individuo viene a trovarsi e a formare una preferenza. In altre parole, la preferenza per Hare nasce da un raffronto tra la mia condizione particolare e quella altrui, raffronto che limita l’appello a preferenze simpatetiche, le quali possono essere utili per sentire (to feel) come l’altro ma non per sapere (to know) come l’altro si sente. Sono infatti le preferenze che mi fanno conoscere come l’altro si sente ad essere decisive, proprio perché sono anche dotate di un valore conoscitivo, ovviamente diverso da quello delle proposizioni scientifiche: le preferenze dunque non devono solamente essere 159 J. C. Harsanyi, Utilità individuali e etica utilitaristica, in L’utilitarismo, cit., p. 60. R. M. Hare, Comments on Griffin, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 236. 160 104 razionalmente conosciute, bensì anche razionalmente volute. “Una preferenza…è razionalmente voluta se qualcuno che conosce in maniera vivida e completa le sue caratteristiche, sviluppasse una preferenza condizionale simile – come intensità e direzione – per il caso ipotetico di trovarsi in futuro in quella precisa circostanza…è razionalmente voluta se ogni persona idealmente in condizioni di piena informazione sviluppa una simile preferenza condizionale per le circostanze esattamente simili”161. Gibbard avverte che le preferenze simpatetiche, pur essendo significative, devono cedere il posto a preferenze che abbiano una componente riflessiva, ossia razionale e dunque, nei termini di Hare, filtrata dal pensiero critico, non solo da quello intuitivo. Le preferenze simpatetiche infatti si formano solo nel pensiero intuitivo, in quanto si possono definire in tal modo: “quando qualcuno tende a preferire A rispetto a B, io riproduco simpateticamente la sua preferenza se tendo a preferire A rispetto a B, in modo egualmente forte di come fa lui (o forse in modo meno forte), come se mi trovassi nella sua situazione”162. Le preferenze chiamate da Gibbard “condizionalmente riflesse” (conditionally reflected), e che per Hare sono le reali preferenze in virtù delle quali si agisce, necessitano perciò di una più evoluta capacità cognitiva che permette di sapere che l’altro sta soffrendo, sia nel caso attuale, sia, a differenza delle preferenze simpatetiche, nel caso ipotetico, come scrive Hare: “Non sono in grado di conoscere l’estensione e la qualità della sofferenza altrui e in generale le sue motivazioni e preferenze, senza possedere eguali motivazioni in riferimento a quello che accadrebbe a me, nel caso fossi al loro posto, con le loro motivazioni e preferenze” (MT, p. 110). La frase chiave è senz’altro quella sottolineata, in quanto l’autore pone l’esigenza secondo la quale le preferenze da massimizzare da parte dell’utilitarista, sono quelle che egli non solo percepisce, ma sa di percepire e di sentire. La condizione di piena informazione, dunque, postula la necessità non solo che le preferenze siano razionali, ma che siano razionalmente (e non solo simpateticamente) volute. In seguito, l’individuo deve domandarsi cosa proverebbe se si trovasse a sperimentare proprio quella preferenza così come è espressa dagli altri: in questa maniera il processo di universalizzazione torna in campo, perché il domandarsi come ci si sente nei panni degli individui coinvolti dalle 161 A. Gibbard, Hare’s Analysis of “Ought”, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 61. 162 Ibidem, p. 62. 105 mie decisioni (con le loro particolari inclinazioni e preferenze), implica la necessità di valutare in modo imparziale se la mia preferenza possa essere universalmente accettata. La necessità di massimizzare le preferenze si pone in sostanza come un tentativo di “riempire” di contenuto normativo la nozione logica di universalità, la quale dovrebbe consentire un imparziale giudizio sulle motivazioni altrui. In altre parole, l’universalità dovrebbe saper anche dirigere “dal basso” la scelta delle preferenza, suggerendo a chi giudica di sperimentare tutte le posizioni degli individui coinvolti nelle sue decisioni. Secondo Gibbard, Hare è incline a fare riferimento ad una versione debole dell’universalità, per evitare di imporre un meccanismo di immedesimazione nelle preferenze altrui eccessivamente forte, il quale si scontrerebbe con una concezione dell’identità personale che non appartiene alla sua riflessione: “L’universalità debole richiede soltanto che io preferisca la stessa alternativa per qualsiasi posizione io possa occupare. Non richiede che le mie preferenze siano egualmente intense per qualsiasi posizione io occupi”163, ossia è fondamentale avvertire le preferenze altrui, ma non necessariamente con la stessa intensità. In base a queste riflessioni, si può comprendere per quale motivo l’immedesimazione, a differenza di quanto sostenuto in Freedom and Reason, conservi solo in parte il suo carattere di operazione di stampo affettivo (si ricordi quello che Hare scriveva allora, p. 161: “non deve immaginare se stesso nella situazione di A con le proprie, di B, simpatie ed antipatie, bensì immaginare se stesso nella situazione di A con le simpatie e le antipatie di A”), ma acquista un valore cognitivo. È infine necessario comprendere che un autentico pensiero critico impone di considerare le preferenze altrui alla pari delle mie: “devo amare il mio prossimo come, ma non più e non meno di me stesso e, analogamente, comportarmi con gli altri come vorrei si comportassero con me”164. In questo caso c’è una certa sintonia con il principio di equiprobabilità di Harsanyi: “Il principio di neutralità rispetto alle preferenze o agli interessi è ben espresso dal postulato di equiprobabilità: sono tenuto a trattare in modo eguale gli interessi o le preferenze personali di chiunque dato che ho la stessa probabilità di esserne il detentore”165. 163 Ibidem, p. 60. R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo (1976), in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p. 38. Con un’enfasi diversa, ma con intenzioni simili, scrive J. S. Mill: “Nella regola d’oro di Gesù di Nazareth possiamo leggere tutto lo spirito dell’etica utilitarista. Fare agli altri quello che si vorrebbe gli altri facessero a noi, e amare il prossimo come se stessi, costituiscono la perfezione ideale della moralità utilitarista”. (Cfr., L’utilitarismo, cit., p. 256). 165 J. C. Harsanyi, Utilitarismo delle regole e teoria della decisione (1977), in L’utilitarismo, cit., p. 70. 164 106 Stato cognitivo, stato affettivo e stato conativo Vi è dunque, nell’utilitarismo di Hare, una versione più stringente e definita del processo di immedesimazione, il quale, al di là di un parziale riferimento alla simpatia, si basa su due premesse, una metaetica, secondo la quale “moralmente giusto in questa circostanza” nel linguaggio ordinario significa che io voglio che sia compiuta l’azione A invece che B in ogni circostanza come questa, tenendo conto che sono un individuo prudente e pienamente informato. La seconda premessa è di natura prettamente empirica e si fonda sull’idea per cui una persona prudente e pienamente informata, se può scegliere tra due azioni, sceglierà quella che massimizza i benefici (che ha le migliori conseguenze). Pertanto, la premessa empirica mi dice che, se sono prudente e credo che (qualche volta) verrò a trovarmi nella posizione ora occupata da qualche persona influenzata dalla mia azione, allora, quando devo scegliere tra A e B, preferirò A se e solo se credo che A produca (rispetto a B), conseguenze che, nel complesso, soddisfano maggiormente i desideri delle persone influenzate (dall’azione di A). Quindi possiamo concludere che è moralmente giusto che faccia A invece che B se e solo se l’azione A soddisfa al massimo i desideri delle persone influenzate. E questo, conclude Hare, è quanto afferma il principio di utilità166. Hare sostiene in particolare che se soffro so di soffrire, allo stesso modo per cui se percepisco, in generale, so di percepire e quest’esperienza è vera167; il secondo è legato al fatto per cui, se è vero che non abbiamo esperienza di tutte le forme di sofferenza, è pur vero che abbiamo ad ogni modo avuto esperienza di cosa significhi soffrire in generale. In Freedom and Reason l’immedesimazione appariva un’operazione con un contenuto cognitivo limitato, mentre in Moral Thinking essa acquisisce una valenza diversa, poiché l’individuo non deve solo empaticamente mettersi al posto altrui, ma deve anche voler assumere in modo razionale le preferenze altrui come proprie, nel caso queste si rivelino universalizzabili e più benefiche di altre: “Se veramente sappiamo come ci si sente nei panni dell’altro in quella situazione, allora immagineremmo (correttamente) di avere quelle esperienze e preferenze, nel senso che sapremo o ci rappresenteremo come ci si senta a provarle” (MT, p. 135). Il fatto che io sappia che 166 167 M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, cit., p. 126. Hare fa riferimento a quel che scrive Aristotele, Etica nicomachea, 1170a, 29. 107 l’altro prova sofferenza (o esprime in generale una preferenza) crea allora in me uno stato cognitivo, il quale corrisponde ad una conoscenza di carattere essenzialmente empirico, proprio perché Hare per “sofferenza” intende un’esperienza, seppure di un genere particolare. Pertanto, se devo guidare mantenendo la distanza di sicurezza, per evitare di causare incidenti che potrebbero provocare danni seri a chi mi precede, devo sapere come si sentirebbe la persona che fosse urtata: questa osservazione provoca in me la preferenza a non causare una tale esperienza dolorosa, in considerazione del fatto per cui, se capitasse a me, io soffrirei e ciò mi induce a moderare la velocità e a rispettare la distanza. Se ho questa consapevolezza, significa che posso immaginare la sofferenza, anche se non l’ho mai direttamente provata. Sarebbe peraltro singolare sostenere che per sapere quel che l’altro prova, io debba aver realmente sperimentato quell’esperienza. Inoltre, se sviluppo il desiderio di evitare quell’esperienza nell’altro, pensando a come starei male io nei suoi panni, è evidente che in me si crea al contempo uno stato affettivo che mi fa percepire, in modo immediato e a-razionale (qui si agisce pienamente a livello del pensiero intuitivo), quanto quella esperienza sia terribile e sia da evitare. Per di più, come Hare aggiunge, se soffro, al contempo so di soffrire, ho coscienza di questo fatto e dunque lo stato affettivo risulta in questo caso coincidente con lo stato cognitivo, ossia con la coscienza, razionale e mediata (sperimentata a livello critico), della mia sofferenza e di quella altrui. In altre parole, per immedesimarsi con l’altro non è sufficiente provare solo compassione o simpatia, ma non è nemmeno sufficiente rendersi conto, descrittivamente, del fatto che gli sta capitando qualcosa di grave. La sofferenza non è dunque qualcosa che si può semplicemente constatare, bensì un’esperienza, in quanto racchiude in sé sia un elemento descrittivo (è un fatto che qualcuno sta soffrendo), sia un elemento valutativo (quella sofferenza è negativa), sia un elemento prescrittivo (essa deve finire e bisogna agire perché succeda così). Essa quindi compendia in se lo stato cognitivo, quello affettivo e quello conativo, la cui enunciazione immediata si ha nel linguaggio morale il quale, come si legge in Moral Thinking, è il mezzo principale di espressione immediata delle preferenze. Si può notare come queste tesi relative all’immedesimazione sono elaborate analizzando il valore semantico delle prescrizioni che esprimono la mia volontà di immedesimarmi: sono dunque esclusi riferimenti individuali, proprio per preservare la formalità dell’argomentazione. 108 Quindi, per una immedesimazione efficace le due esperienze (il provare simpatia e il rendersi conto che un fatto sta accadendo all’altro) devono venire a coincidere, ossia stato affettivo e stato cognitivo devono combinarsi: “io non posso trovarmi in uno dei due stati senza trovarmi nell’altro” (MT, p. 132) dice significativamente Hare. Ma che cosa comporta, dal punto di vista pratico e sostanziale, riconoscere in modo così pieno la sofferenza dell’altro? “La mia tesi sarà che io mi impegno ad avere anch’io la preferenza che, nel caso in cui fossi trasferito all’istante nella sua situazione con le sue preferenze, il mio soffrire cessi; e l’intensità di questa preferenza che io mi impegno ad avere è uguale all’intensità della sua preferenza”168. La coincidenza tra stato cognitivo ed affettivo conduce poi Hare ad affermare che chi sperimenta la sensazione di essere al posto dell’altro (mantenendo ovviamente la propria identità), sviluppa senza dubbio la volontà di evitare quel dolore in futuro o di farlo cessare per la persona che lo sta provando. Certo, avverte l’autore, il termine “dolore” in questo caso va usato in senso valutativo, non descrittivo, perché se esso è utilizzato per descrivere uno stato fisiologico preciso o un insieme di sensazioni (per esempio in una conferenza di medicina), allora è possibile che esso sia slegato dalla volontà di farlo cessare o di evitare il suo ripresentarsi. In generale però, se “dolore” è utilizzato in senso valutativo come sinonimo di “sofferenza”, l’affermazione “Io sto provando dolore” non descrive solo un fatto, bensì valuta una situazione particolare e può dunque implicare la volontà di superarla. Hare qui propone un’argomentazione linguistica per affrontare una questione sostanziale; in questo caso, la coscienza del dolore altrui (stato cognitivo), assieme alla partecipazione al quel dolore (stato affettivo), produce la volontà di evitare la sofferenza, ossia si sviluppa uno stato conativo che la vuole superare: “Se sto soffrendo, ho un motivo per mettere fine alla sofferenza. Anche questa è una verità concettuale, valida in virtù del significato dei termini” (MT, p. 133). È dunque fondamentale, sostiene Hare che i tre stati, cognitivo, affettivo e conativo, siano presenti contemporaneamente, in quanto in tal modo il mettersi al posto altrui acquista una validità concettuale che per l’autore coincide con una validità etica e sostanziale. 168 R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., pp. 191-192. 109 La moralità e la prudenza L’immedesimazione assume allora una differente fisionomia ed impone all’individuo la capacità di considerare non solo il proprio bene o interesse, ma quello universale, sviluppando la convinzione, a suo tempo definita da Sidgwick, dell’appartenenza del proprio bene al bene universale. Per certi aspetti, si ripropone qui la questione del rapporto fra moralità e prudenza, ovvero se sia giusto sacrificare un interesse personale, per quanto intenso, in favore di un interesse collettivo. Hare sostiene che Diventare morali significa innanzitutto contemplare l’ipotetica situazione in cui quelle che in realtà sono le esperienze di un’altra persona siano le nostre, acquistando così un ipotetico interesse alla soddisfazione delle nostre preferenze in quella situazione ipotetica; significa trovarsi vincolati dall’universalizzabilità…a trasformare questo interesse esclusivamente ipotetico in un interesse reale alla soddisfazione delle preferenze dell’altra persona reale” (MT, p. 274). Rispetto agli utilitaristi classici, Hare può dunque affrontare la questione della distinzione fra moralità e prudenza in modo diverso. A suo parere, è chiaro già per il pensiero intuitivo che non sarebbe possibile vivere cercando di privilegiare sempre i propri interessi: l’esperienza mostra infatti quanto siano intrecciato i nostri interessi con quelli altrui e dunque un educatore utilitarista deve inculcare in un fanciullo l’idea che, alla lunga, è più vantaggioso valutare le preferenze in modo imparziale. Pertanto, l’educatore cercherà certamente di insegnare principi prima facie anche mostrando che in genere il bene individuale appartiene al bene comune e che sarà razionale sacrificare un proprio interesse personale per uno collettivo, se tale comportamento sarà ammesso dal principio critico. In questo senso, la distinzione tra prudenza e moralità, sostenuta da Bentham e da Mill, andrebbe ridefinita, giacché tale distinzione non ricalca appieno quella fra comportamento interessato e disinteressato (o imparziale). Anche i principi prima facie della prudenza, sebbene riguardino soprattutto l’interesse personale dell’individuo, non possono essere guidati dal solo egoismo, in quanto devono comunque essere universalizzabili e razionali, ossia seguire le medesime regole formali del comportamento morale. A livello prudenziale, noi dobbiamo infatti trattare i nostri “io” futuri allo stesso modo di quanto facciamo, in ambito morale, quando trattiamo gli altri individui. “Essere prudenti, significa pensare alle esperienze future di una certa persona 110 (di norma, la persona che avrà come corpo il nostro corpo attuale) e identificarle con le nostre, acquistando così un interesse alla soddisfazione delle preferenze di quella persona” (MT, p. 274). Vi è tuttavia una differenza tra un comportamento razionalmente prudente ed uno razionalmente morale: nel primo caso, infatti, si ha il dovere di massimizzare le preferenze presenti per il presente e non quelle che potrebbero sorgere in futuro per un ipotetico mio stato futuro. Hare sostiene che nel caso personale le preferenze da escludere sono quelle che non rispettano il requisito di prudenza da lui stabilito, il quale ci induce ad avere “sempre una preferenza prevalente o predominante per la massimizzazione della soddisfazione delle nostre preferenze presenti per il presente (now for now) e future per il futuro (then for then)” (MT, p. 146). Non è possibile infatti, secondo la logica e i fatti, privilegiare preferenze attuali per stati mentali futuri dei quali non possiamo avere conoscenza, mentre vanno massimizzate le preferenze effettivamente provate nel presente per le situazioni presenti che si verificano169. Chi per esempio antepone alle preferenze presenti, le preferenze che in passato si era costruito per questo momento, è un autofanatico, in quanto, come il fanatico, rinuncia ad una considerazione pienamente razionale delle proprie preferenze. Il comportamento moralmente razionale, invece, privilegia le preferenze universalizzabili, indipendentemente da chi le sperimenta, scegliendo quelle dotate di una elevata utilità di accettazione. Non vi è dunque per Hare una contrapposizione tra comportamento prudenziale ed altruistico, bensì vi è la constatazione di un loro essere intrecciati: il comportamento morale costituisce il superamento di quello prudenziale, il quale però continua a sussistere, tranne nei casi in cui è “predominato” da quello morale. In modo non diverso da Sidgwick, Hare sostiene che il comportamento egoistico è ineliminabile ma che, proprio per questo, anche a livello personale è necessario far prevalere quei comportamenti che possiedono una maggiore utilità di accettazione. Inoltre, “dalla prospettiva del pensiero morale critico non c’è ragione di distinguere tra calcolo prudenziale e considerazione morale delle preferenze temporali”170, ovvero la distinzione fra moralità e prudenza sussiste solo a livello intuivo, perché se fossimo 169 Una cosa non dissimile ha sostenuto Sidgwick, cfr. I metodi dell’etica, p. 414: “Tutto ciò che il principio afferma è che la mera differenza di priorità e di posterità nel tempo non è una base ragionevole per avere maggiore riguardo per lo stato di coscienza di un momento rispetto a quello di un altro”. 170 E. Lecaldano, L’etica e l’identità personale, in “Archivio di filosofia”, I, 1987, p. 254. 111 arcangeli, non avremmo alcun problema ad agire sempre e comunque in favore delle preferenze utilitaristicamente più benefiche, indipendentemente che siano le nostre o quelle altrui. I confronti interpersonali È dunque chiaro come anche Hare ritenga essenziali confrontare le utilità individuali ed in ciò fa in parte riferimento alla riflessione di Harsanyi, evidenziando come tali confronti siano qualcosa che gli individui operano in modo spontaneo. Hare infatti nota che già a livello intuitivo gli uomini in genere sperimentino la similarità delle loro reazioni emotive come dato di fatto empirico ed è proprio questo elemento che fa ritenere immediatamente possibili i confronti interpersonali, al di là di una loro giustificazione razionale che può giungere a livello critico. Il confronto tra le preferenze degli individui presenta due aspetti: da un lato il confronto tra le intensità delle preferenze (è infatti evidente che due o più individui possono preferire la medesima cosa, sebbene con diverse intensità); dall’altro, vi è la questione relativa al motivo per cui alcune preferenze vanno subordinate ad altre: si affronta qui il caso del conflitto e della gerarchia tra le preferenze. È dunque una caratteristica essenziale dell’utilitarismo, anche di quello di Hare, indicare un criterio universale che regola la scelta: “La procedura di scelta collettiva adottata dalla teoria è maggioritaria dato che l’esito giusto del calcolo sociale è quello che soddisfa gli interessi o le preferenze o i desideri maggiormente intensi”171. La determinazione dell’intensità della preferenza è una questione empirica, mentre la decisione di privilegiare l’una o l’altra è più concettuale, ovvero legata al loro essere universalizzabili, al possesso di una maggiore o minore utilità di accettazione: Procedere in questo modo non significa amalgamare, e men che meno confondere insieme le persone, più di quanto non faccia un giudice che, dopo aver ascoltato quello che hanno da dire le parti in causa, cerchi di essere giusto verso tutto quante…questa imparzialità o questa uguale considerazione a livello critico può approdare a principi che, in casi particolari e a livello intuitivo, richiedono parzialità o disuguale considerazione, come quando il diritto di qualcuno va preservato anche se per farlo si scaricano su qualcun altro dei costi maggiori172. 171 S. Veca, La filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 42. R. M. Hare, Diritti, utilità ed universalizzazione: replica a J. L. Mackie, in R. M. Hare, Sulla morale politica, cit., p. 104. 172 112 L’idea che sia possibile indicare una procedura razionale per operare i confronti interpersonali di utilità è di dunque presente anche in Hare, il quale potrebbe altresì in parte accettare il principio di similarità, postulato da Harsanyi per rendere possibili i confronti interpersonali di utilità, essenziali per una dottrina utilitarista. Dal punto di vista logico i confronti interpersonali di utilità sono basati sul cosiddetto postulato di similarità, cioè sul principio secondo cui, data la similarità di fondo della natura umana (cioè delle leggi psicologiche fondamentali che governano il comportamento e gli atteggiamenti umani) è ragionevole assumere che persone differenti manifesteranno reazioni psicologiche molto simili di fronte a ogni data situazione oggettiva e che deriveranno da esse la stessa utilità è disutilità – tenendo in debito conto tutte le differenze empiricamente osservate nella loro costituzione biologica, posizione sociale, formazione educativa e culturale, e, in generale, nella loro vita passata173. Questo principio vuol da un lato definire uno strumento per fornire una base logica (a priori) alla possibilità di immedesimarsi con l’altro, ma vuole anche porsi come un antidoto al relativismo etico ed anche ad un principio astrattamente egualitarista. Harsanyi giunge peraltro a sostenere che “chi rifiuta il postulato di similarità e i confronti interpersonali di utilità basati su di esso, dovrebbe concludere, se fosse coerente, di essere l’unico individuo autocosciente e considerare tutti gli altri degli automi senza cervello”174. Il principio dunque permette di riconoscere l’esistenza, anche nelle altre persone, di esperienze consapevoli, spesso simili alle nostre, sebbene non identiche. L’individuo pertanto che accetta l’utilitarismo e la base logica da esso supportata, “deve…cercare di stimare che livello di utilità egli avrebbe se fosse messo nelle condizioni fisiche, economiche e sociali oggettive di ogni altro individuo e se al tempo stesso ne acquisisse anche gli atteggiamenti, i gusti, le preferenze soggettive”175. Il modello di Harsanyi sembra proporre tuttavia una universalizzazione forte delle preferenze, le quali, attraverso il confronto con quelle altrui e la fiducia nel fatto che esse in genere sono simili, possono dare luogo ad esperienze condivise e consentire un’applicazione estesa dei principi dell’utilitarismo. Harsanyi infatti aggiunge che, 173 J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica utilitarista, in L’utilitarismo, cit., p. 44. Ibidem, p. 45. 175 J. C. Harsanyi, Una critica alla teoria di J. Rawls (1975), in L’utilitarismo, cit., p. 123. 174 113 sempre in base al postulato di similarità, “le preferenze e le funzioni di utilità di tutti gli individui umani sono fondamentalmente governate dalle stesse leggi psicologiche”176. Hare, dal suo punto di vista, sembra più incline a considerare le situazioni che si verificano caso per caso e a fare un più deciso riferimento all’esperienza contingente. Per questo motivo, il suo principio di universalizzazione delle preferenze è condizionale, in quanto egli afferma che l’individuo deve di certo cercare di assumere su di se le preferenze altrui, ma non necessariamente e in ogni caso con la stessa intensità. In Harsanyi il principio di similarità si pone come presupposto concettuale che giustifica a priori il ricorso all’empatia e all’immedesimazione con l’altro: senza questo presupposto, i confronti interpersonali non potrebbero essere giustificati. Inoltre, la teoria etica di Harsanyi ha uno sfondo socio-economico, giacché egli “ritiene che l’atteggiamento simpatetico debba disporre di un sistema di ruoli sociali considerati euqiprobabili, in ognuno dei quali lo spettatore umanitario potrebbe trovarsi”177. Al contrario, in assenza di un riferimento al ruolo sociale degli individui, la mossa logica che Hare mette in gioco “concerne il rapporto tra sapere che cosa voglia dire sperimentare una cosa e sperimentarla. La rilevanza di tale rapporto per quello che ho detto fino ad ora consiste in questo: che, se vogliamo conoscere i fatti circa quel che faremmo nel caso facessimo qualcosa, una delle cose che dobbiamo sapere è ciò che noi, o altri, sperimenteremmo se la facessimo”178. Per esemplificare questo approccio, si ponga il caso in cui io devo parcheggiare l’auto e che ciò comporti che un altro debba sposare la sua bicicletta: qui si crea un conflitto fra preferenze. Il ciclista desidera lasciare la bicicletta lì dov’è, mentre io desidero parcheggiare l’auto in quel posto perché è vicino al supermercato dove devo fare la spesa. Io sono consapevole della intensità del mio desiderio e sono anche cosciente di quello che prova l’altro, poiché nei suoi panni non vorrei dover spostare la bicicletta. Tuttavia, sottolinea Hare, non poter parcheggiare l’auto crea un disagio maggiore del dover spostare la bicicletta, la quale si può parcheggiare ovunque, mentre non così accade per l’auto. Il mio desiderio di parcheggiare vicino all’uscita del supermercato per trasportare meglio la spesa è più intenso di quello del ciclista: in questo caso, il soppesare le due 176 Ivi. C. A. Viano, L’utilitarismo, in C. A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., 1990, p. 55. 178 R. M. Hare, La struttura dell’etica e la morale, in Saggi di teoria etica, cit., p. 190. 177 114 preferenze e i due fatti non morali in questione, conduce a comprendere che la mia preferenza è maggiormente intensa e dunque va privilegiata. In questa situazione, il conflitto si può risolvere semplicemente ricorrendo ai principi intuitivi: tuttavia, se questi non bastassero, il pensiero critico avrebbe buon gioco, anche attraverso il test dell’universalizzazione, a trattare il caso nella sua estrema semplicità. In questo caso bilaterale, il conflitto si risolve attraverso un confronto delle preferenze e attraverso la conoscenza che ognuno ha delle preferenze altrui: “se sono pienamente a conoscenza delle preferenze dell’altro, io stesso acquisto preferenze eguali alle sue riguardo a ciò che andrebbe fatto nei miei confronti qualora mi trovassi nella sua situazione; e queste sono le preferenze che ora entrano in conflitto con la mia prescrizione originaria” (MT, p. 152). L’esempio darebbe il risultato anche a parti invertite: se io fossi il possessore della bicicletta e la macchina fosse dell’altro, alla fine prevarrebbe ugualmente la preferenza più intensa dell’autista. Hare nota che in questo caso, pur invertendo i ruoli, la situazione non cambia e ciò mostra la portata universale di un tale esempio. Anche nei casi multilaterali, ossia dove ci sono più di due persone, secondo Hare lo schema di fondo rimane lo stesso: è infatti sufficiente che ogni parte sia in grado di rappresentarsi completamente la situazione dell’altra per poter utilitaristicamente privilegiare la preferenza più intensa e dunque promuovere un incremento dell’utilità generale: “in linea di principio non esiste alcuna difficoltà ad estendere il metodo ai casi multilaterali; tutte le difficoltà sono di tenore pratico, sono cioè relative all’acquisizione della conoscenza necessaria e alla corretta esecuzione di alcuni processi riflessivi assai complessi. Nei casi difficili, ci vorrebbe un arcangelo a risolvere questo compito” (MT, p. 153). In particolare, il possessore dell’auto ha accompagnato allo stato cognitivo (ovvero il comprendere che l’altro possiede una preferenza) quello affettivo (per il quale sono in grado di sentire, sebbene non allo stesso modo, quella preferenza), e lo stato conativo (per il quale devo compiere un certo atto per soddisfare o meno quella preferenza): “Siamo arrivati a dare alle preferenze di tutte le parti in causa (in questo caso due persone) un peso proporzionato alla loro forza, e ad affermare che dobbiamo agire seguendo la più forte”179. L’autore dunque rimane convinto che essenziale per scegliere 179 Ibidem, p. 194. 115 moralmente è operare un ragionamento morale corretto. Pertanto, per favorire questo, è necessario che l’individui sviluppi delle procedure di ragionamento efficaci, razionali, logicamente fondate e dotate di una estrema chiarezza concettuale. I fatti, l’esperienza, i principi prima facie possiedono un ruolo importante, ma sempre subordinato al pensiero critico, alla razionalità delle proprie decisioni: solo quest’ultimo fattore ne garantisce la correttezza. La scelta di quali preferenze massimizzare deve in sostanza rispondere, secondo Hare, a due criteri, uno di carattere generale, a priori, l’altro di carattere pratico e normativo. Il primo sostiene che vanno massimizzate le preferenze espresse da prescrizioni universali, elaborate in modo imparziale, grazie alla coincidenza, a livello critico, tra stato affettivo, stato cognitivo e stato conativo. Solo nelle preferenze razionalmente volute, ossia in quelle che i soggetti sperimentano in condizioni di piena informazione, questi tre stati coincidono, mentre nelle preferenze definite “idiosincratiche” manca quantomeno lo stato conativo, il quale rappresenta una sorta di climax dell’opera di immedesimazione. Il criterio pratico sostiene invece che le preferenze da privilegiare sono quelle che possiedono una più elevata utilità di accettazione e questo è in gran parte noto tramite l’esperienza. Ci si può chiedere, di passaggio, se valga di più il criterio a priori o quello pratico; Hare potrebbe rispondere che entrambi sono egualmente importanti ma che, siccome il suo utilitarismo si fonda su presupposti logico-razionali, al criterio teorico spetta una sorta di primato epistemologico. D’altra parte, per il carattere non cognitivista della riflessione di Hare, se dovesse contare solo il criterio pratico, si potrebbe supporre che dal fatto per cui una preferenza si mostra utilitaristicamente più efficace, derivi la conclusione morale che essa vada massimizzata: ma questa sarebbe un’inferenza per Hare inaccettabile, in quanto figlia di quel descrittivismo che egli vuol superare. Ad ogni modo, mentre a livello intuitivo può capitare che vengano operate delle discriminazioni tra noi e gli altri, a livello critico l’altro va trattato come noi, ossia come se noi avessimo le preferenze ed i desideri che lui in quel momento sta mostrando di provare. Infatti, “le nostre preferenze non ottengono una maggiore considerazione per il fatto che siamo noi a dedicarci al pensiero morale: ottengono bensì una considerazione eguale a quella altrui nella misura in cui siamo parti in causa” (MT, p. 172). 116 La scelta delle preferenze La cosa fondamentale da notare è che alla fine Hare esclude le medesime preferenze di Harsanyi, ma segue un percorso differente. Hare infatti non ritiene sia possibile eliminare a priori determinati generi di preferenze, nemmeno quelle di un fanatico, le quali vanno comunque considerate180. Harsanyi invece esclude a priori sia le preferenze palesemente antisociali (quelle basate sul sadismo, il risentimento, l’odio, l’invidia), sia quelle irrazionali, ovvero basate su credenze false, come sono peraltro quelle esterne. Ad esempio, per Harsanyi le preferenze di un individuo che non riguardano quello che lui stesso vorrebbe, non sono equiparabili né alle preferenze personali, né tanto meno a quelle morali: “Se A ha preferenze personali intorno a ciò che B dovrebbe fare, questa resterà una preferenza esterna anche se A tiene molto ad essa; riguarda infatti quel che un’altra persona dovrebbe fare”181. Harsanyi sostiene che una teoria del comportamento razionale deve privilegiare solo le preferenze razionali, ovvero quelle personali e quelle morali, anche se egli evidenzia che le preferenze personali sono spesso autointeressate (sebbene non necessariamente del tutto egoistiche), poiché in genere, attraverso di esse, gli individui “assegneranno ai loro interessi e a quelli della propria famiglia, dei propri amici e di altri che sono vicini un valore più alto di quello che assegneranno agli interessi di assoluti estranei”182. Per questo, al fine di prendere decisioni razionali, l’individuo dovrà fare affidamento alle sue preferenze morali, le quali “sono quelle che egli manifesta in quei momenti (magari rarissimi) in cui impone a se stesso di assumere un atteggiamento imparziale e impersonale, vale a dire, appunto, morale”183, e sono le preferenze morali, a differenza 180 E. Lecaldano, (cfr. Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., p. 81) nota che ovviamente Hare non intende riconoscere valore a queste preferenze, contro le quali si è più volte espresso: “l’esito che porta ad un’inclusione del fanatismo razzista coerentemente sostenuto nel campo della morale è raggiunto dopo che Hare ha messo in luce tutta la sua ripugnanza nei confronti delle preferenze del razzista e ha reso manifesta l’assurdità delle mosse argomentative cui è costretto chi voglia sostenere una effettiva prescrizione universalizzabile – discriminante per coerenza anche nei suoi stessi confronti – quella di un fanatico razzista”. 181 J. C. Harsanyi, Utilità individuali ed etica utilitaristica (1986), in L’utilitarismo, cit., p. 63. La distinzione tra preferenze personali ed esterne è stata introdotta da R. Dworkin nell’opera Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1976, p. 234. 182 J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale (1977), in A. K. Sen/B. Williams (a cura di), Utilitarismo e oltre, cit., p. 61. 183 J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica utilitaristica (1979), in L’utilitarismo, cit., p. 35. In altre parole esse “esprimono ciò che [l’individuo] preferisce in quei momenti forse rari in cui egli impone a se stesso un atteggiamento imparziale ed impersonale”. Cfr. J. C. Harsanyi, Benessere cardinale, etica individualistica e confronti interpersonali di utilità (1955), in L’utilitarismo, cit., p. 147. 117 di quelle personali, che assegneranno il medesimo valore a tutti gli interessi degli individui coinvolti dalle sue decisioni. Le preferenze morali sono quelle che rispondono meglio al criterio di imparzialità e, proprio per questo, permetteranno agli individui di immaginarsi empaticamente al posto altrui, senza privilegiare le proprie inclinazioni personali. Harsanyi sostiene inoltre, in polemica con altri utilitaristi, che se le preferenze contassero tutte allo stesso modo, si dovrebbero alla fine accettare anche le preferenze di un fanatico. Se per esempio in una società esistono alcuni nazisti che preferiscono con una certa intensità sterminare gli ebrei, i quali preferiscono ovviamente con intensità quantomeno eguale di continuare a vivere, saremmo costretti a sostenere che i due tipi di preferenze sono omogenee, se non distinguiamo le preferenze sociali da quelle palesemente antisociali. Al contrario, le preferenze personali (ossia quelle degli ebrei che riguardano loro stessi) vanno in questo caso distinte e devono contare maggiormente rispetto a quelle esterne (ovvero quelle dei nazisti che riguardano la vita di altri individui), per evitare conclusioni paradossali: la mia proposta è che la nostra funzione di utilità sociale dovrebbe essere basata solamente sugli interessi personali degli individui e, inoltre, sulle loro preferenze personali e non andrebbe fatto uso di preferenze esterne. La moralità utilitarista ci richiede di rispettare le preferenze delle persone rispetto a come essi stessi dovrebbero essere trattate. Ma non ci dovrebbe richiederci di rispettare le loro preferenze rispetto a come le altre persone dovrebbero essere trattate184. In realtà, Hare ammette che le preferenze esterne, se inserite nel processo di valutazione delle preferenze degli individui coinvolti, possono rendere difficoltoso tale processo e la conseguente valutazione utilitaristica delle preferenze stesse. Tuttavia egli ritiene che non sia possibile escludere preventivamente un insieme di preferenze, sebbene egli stesso riconosca la funzione antisociale di quelle malvagie. Le stesse preferenze esterne, se di norma possono essere ritenute da non soppesare, a volte possono invece entrare efficacemente nel processo di valutazione utilitaristico. Hare privilegia di nuovo un’argomentazione condizionale, ossia maggiormente attenta alla situazione effettiva che si esamina. Egli ad esempio nota che il caso posto da Harsanyi relativamente alle preferenze dei nazisti e degli ebrei, può essere efficacemente risolto sostenendo empiricamente (a posteriori) che l’intero apparato della dittatura nazista non 184 J. C. Harsanyi, Problems with Act-Utilitarianism, in Hare and critics, cit., p. 97. 118 ha evidentemente aumentato l’utilità della società tedesca e dell’Europa. Inoltre, è probabile che la somma totale delle intensità delle preferenze di coloro che volevano sterminare gli ebrei fosse di gran lunga inferiore alla somma delle preferenze che gli ebrei avevano di continuare a vivere. Un discorso simile si può fare per le preferenze di un sadico, giacché è abbastanza chiaro in modo intuitivo che tali preferenze in genere non sono universalizzabili dato che possiedo una utilità di accettazione pressoché nulla185. Hare invece evidenzia che già al livello intuitivo di riflessione, se l’individuo è stato ben educato, molte preferenze, come quelle malvagie o antisociali sarebbero escluse immediatamente. Infatti, se si rammenta il ruolo del livello intuitivo, è possibile affermare che “Le preferenze malvagie e indesiderabili possono essere escluse dotandosi di principi intuitivi che negano loro qualsiasi peso e che conferiscano, allo stesso modo, alle preferenze benevole un appropriato peso supplementare”186. Peraltro, se a livello intuitivo non ci fosse opposizione a determinate preferenze, il livello critico le potrebbe razionalmente escludere: “Le radici del fanatismo si ritrovano nell’intuizionismo e nel rifiuto, o nell’incapacità, di pensare criticamente” (MT, p. 220). Il punto cruciale per Hare è che vanno escluse quelle preferenze che palesemente mostrano di avere una bassa utilità di accettazione: “i principi migliori da seguire sono quelli che hanno la più elevata utilità di accettazione, cioè quelli la cui generale accettazione, tenuto conto di tutto, massimizza la promozione degli interessi di tutte le parti in causa, trattando tutti questi interessi come aventi ugual peso, cioè imparzialmente, cioè in modo formalmente giusto”187. Più in particolare, per Hare la distinzione primaria è quella, posta da Gibbard, tra le preferenze razionalmente volute e quelle da lui definite come idiosincratiche (e dunque eccentriche). Le prime sono quelle che portano alla coincidenza tra stati affettivi, cognitivi e conativi e nascono nel soggetto in condizioni di piena e competa 185 “Si è talvolta sostenuto che è un difetto dell’utilitarismo quello di fare in modo che assegniamo valore ai cattivi desideri…esclusivamente in proporzione alla loro intensità…Ma l’opinione ricevuta è destinata a far fronte ai casi in cui probabilmente ci si imbatte; è molto improbabile che, anche se assegniamo ai desideri sadici un valore conforme alla loro intensità, ci imbattiamo in casi in cui l’utilità sarà massimizzata lasciando che il sadico faccia a modo suo. Questo perché, in primo luogo, la sofferenza della vittima sarà normalmente più intensa del piacere del sadico. Secondariamente si possono offrire ai sadici piaceri sostituivi o li si può anche curare. In terzo luogo, gli effetti collaterali del concedere al sadico ciò che vuole sono enormi” (R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p. 40). 186 R. M. Hare, Comments on Harsanyi, in Hare and critics, cit., p. 247. 187 R. M. Hare, Giustizia e uguaglianza, in Sulla morale politica, cit., p. 225. 119 informazione. Le preferenze idiosincratiche sono quelle preferenze che una persona può sviluppare sia in riferimento a se stessa, sia in riferimento agli altri, senza tuttavia poterle volere razionalmente (ossia senza coincidenza tra stato affettivo e cognitivo) e prive della possibilità di realizzarsi. Questo genere di preferenze possono per esempio essere appannaggio di un torturatore sadico il quale, pur sapendo perfettamente quanto la sua vittima soffrirà e pur sostenendo che se si trovasse al posto suo soffrirebbe molto, decide comunque di torturare la persona. Ma ci sono anche casi in cui queste preferenze non sono espresse da un fanatico, ad esempio quando io, per pura ipotesi, immagini di vivere al tempo dell’antico Egitto e di essere il faraone Cheope. Io posso immaginare di provare esattamente tutte le esperienze del faraone e di sviluppare le stesse sue preferenze, comprese quelle relative al desiderio di avere un maestoso funerale: è però evidente che è impossibile sostenere che io razionalmente voglio quello che Cheope volle ai suoi tempi, per cui la mia preferenza, pur essendo razionalmente fondata, non può essere razionalmente voluta. Hare avverte che per formare le preferenze non bisogna solamente chiedersi cosa ci accadrebbe e cosa vorremmo se occupassimo le posizioni altrui. Questa cosa è naturalmente fondamentale, ma “bisogna ricordare anche che io posso, attraverso la riflessione, considerando quale sarà la mia preferenza universale, cambiare la mia preferenza per quel che dovrebbe accadere in qualcuno dei casi particolari che cadono sotto il principio, includendo anche quelli da cui sono colpito favorevolmente o sfavorevolmente”188. Pertanto, la massimizzazione delle preferenze non solo valuta le preferenze effettivamente provate ed espresse, ma deve essere in grado di valutare anche la possibilità di mutare le proprie preferenze in virtù delle situazioni contingenti che si possono verificare. La misurazione dell’utilità Un altro elemento di distinzione con Harsanyi è legato alla modo attraverso il quale ordinare le preferenze. Secondo Hare è sufficiente poter mettere in ordine le preferenze, in modo lineare, per sapere quale è preferita di più, non essendo possibile una misurazione della loro intensità. Harsanyi invece ritiene che il semplice ordinamento 188 R. M. Hare, Comments on Nagel, in Hare and critics, cit., p. 249. 120 lineare delle preferenze per le situazioni A, B o C non sia sufficiente per operare una massimizzazione razionale dell’utilità. L’utilità ordinale, pertanto, ci può dire se una situazione è preferita più di un’altra, ma non di quanto una situazione è preferita rispetto ad un’altra. Hare ritiene che una trattazione in termini di utilità cardinale non sia necessaria per la sua riflessione, in quanto la preferibilità di una situazione sociale sarà determinata dalla possibilità che essa venga scelta in modo imparziale da un individuo pienamente informato, privo di inclinazioni egoistiche. Harsanyi pensa che solo introducendo funzioni di utilità cardinale (attraverso le quali è possibile precisare, per situazioni come A, B ecc. le loro funzioni di utilità, assegnando ad esse un valore numerico che ne attesti l’intensità, per un individuo i il quale, in condizioni di incertezza, deve decidere se preferire la situazione A o B) sia possibile non solo confrontare l’intensità reale delle preferenze morali, ma anche quantificare con una stessa unità di misura le differenze tra le funzioni di utilità, fondamentali per il calcolo utilitarista. L’utilità ordinale invece non permette di svolgere confronti interpersonali di utilità completi, in quanto dispone solo che una certa situazione A è preferita a B, B è preferito a C: non è però in questo caso possibile domandarsi se A è preferito a B più di quanto B lo sia a C. “In altri termini, per la scelta razionale di un singolo agente è sufficiente che questi sia in grado di dar vita ad un ordinamento delle sue preferenze, cioè che sia capace di stabilire, fra due o più alternative, quale di esse preferisce per prima, quale per seconda, fra quali è invece indifferente, e così via”189. L’utilità ordinale non consente operazioni aritmetiche sulle preferenze: è certamente possibile assegnare ad A, B o C valori numerici, ma tale assegnazione è arbitraria e la scala tra le preferenze che in tal caso si forma non è vincolante in quanto, assegnando altri valori alle tre situazioni, la scala potrebbe cambiare. L’utilità cardinale, invece, consente di misurare le differenze di preferibilità tra le situazioni. In questo caso, l’assegnazione di valori numerici alle situazioni non è libera, ma è vincolata, poiché le scale cardinali si formano scegliendo un punto fisso d’origine ed un’unità di misura. Come nota M. Mori, nelle scale ordinali ci si deve solo preoccupare di rispettare l’ordine di preferibilità, ma si è liberi, come si è visto, nell’assegnare gli indici di preferibilità. Nelle scale cardinali, invece, “scelta l’origine 189 F. Fagiani, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, Edizioni del Busento, Cosenza 1990, pp. 96-97. 121 (lo “zero”) e l’unità di misura…non v’è più alcuna libertà nell’assegnazione dei nostri indici di preferibilità, poiché tali valori…sono precisamente vincolati. In questo senso, i numeri ordinali riassumono meno informazioni dei numeri cardinali e, per conseguenza, possono essere trattati con strumenti più grossolani di quelli leciti per i numeri cardinali”190. Assegnando un’unità di misura (che per i confronti interpersonali di utilità sarà proprio l’utilità, U) ed un punto zero, la scala cardinale consente di misurare la differenza tra gli indici di preferibilità, per cui può accadere che la preferenza c, benché sia preferita una sola volta contro le due di a, risulti quella che possiede, per l’individuo i, una maggiore funzione di benessere, in quanto ha una grandezza maggiore di a191. Nel caso ordinale (se rappresentiamo le preferenze individuali e l’ordinamento sociale mediante funzioni numeriche), il segno della differenza di benessere sociale Wi (A, B) dipenderà solo dai segni delle differenza di utilità individuali Ui (A, B) e Ui (A, B). Nel caso cardinale, invece, il segno di Wi (A, B) dipenderà non solo dai segni di tali differenze, ma anche dalla loro grandezza (valore assoluto). In altri termini, nel caso cardinale la direzione della preferenza sociale dipenderà non solo dalla direzione delle preferenze individuali, ma anche dalla loro intensità192. Harsanyi propone dunque la costruzione di un modello argomentativo che ipotizza che la società consiste di n individui (numerati come 1, 2,…,n), a seconda delle posizioni che occupano. I livelli di utilità che ognuno di questi individui può possedere nelle diverse posizioni sono indicati con i simboli U1, U2,…, Un (questa è la funzione di utilità individuale, ossia un’unità di misura espressa dalle preferenze personali dell’individuo). L’individuo che esprime la preferenza sarà chiamato i, e dunque, “per il postulato di equiprobabilità, l’individuo i agirà come se assegnasse la medesima 190 M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, cit., pp. 173-174. In altri termini, se ci sono tre individui, due dei quali (li si chiami 1 e 2) preferiscono A a B, mentre il terzo (3) preferisce B ad A, facendo la differenza tra le utilità di 1 e di 2, nella simbologia di Harsanyi avremo che U1 (A) – U1 (B)=U1 (A)–U1 (B)=18 > 0. Otterremo dunque una funzione di benessere sociale di valore positivo per la situazione A preferita a B sia da 1 che da 2. L’individuo 3 invece preferisce B ad A per cui avremo U3 (A)–U3 (B)= -18 < 0, in quanto tale differenza per 3 è negativa. Ora, calcolando l’utilità media, dovremo sommare le utilità cardinali dei tre membri e calcolare la media, ossia Wi (A)-Wi (B)=(18+18-18)/3=6 > 0. La funzione di benessere che scaturisce dalla scelta per la situazione A, risulta essere superiore a zero e dunque, al di là della preferenza di 3, l’utilità media maggiore è garantita dalla scelta di A, operata da 1 e 2. Se però l’intensità delle preferenze sommate di 1 e 2 fosse di valore inferiore a quella di 3, ipotizzando che adesso la somma delle preferenze di 1 e 2 per A rispetto a B abbia valore 6 (mentre per l’individuo 3 il valore rimane –18), la quantità ottenuta alla fine, dopo aver calcolato come prima l’utilità media, sarebbe inferiore a zero (avrebbe valore –2), e dunque avrebbe ragione 3 a preferire in modo contrario, perché, pur essendo l’unico individuo a preferire B, la sua preferenza possiede una grandezza maggiore di quella di 1 e 2. 192 J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana ed etica utilitaristica (1979), in L’utilitarismo, cit., p. 49. 191 122 probabilità 1/n al proprio occupare qualsiasi particolare posizione sociale e, quindi, al proprio conseguire l’utilità di ciascuno dei livelli di utilità U1, U2,…, Un”193. In altre parole, l’individuo, non sapendo in anticipo quale posizione occuperà nella società (ha le stesse probabilità degli altri di occupare qualsiasi posizione), dovrebbe considerare la media aritmetica dei livelli di utilità di tutti gli individui (lui compreso) e massimizzare proprio questa utilità media, ossia l’utilità da lui attesa. “Perciò, l’utilità sociale – la quantità da massimizzarsi nei giudizi di valore morale – deve essere definita come la media aritmetica di tutte le utilità individuali”194. Apparentemente questa affermazione è in contrasto con quanto affermavano gli utilitaristi classici sull’utilità sociale definita come somma delle utilità individuali. Infatti, nota Harsanyi, quando il numero dei membri della società rimane costante nel tempo, dal punto di vista matematico, la somma equivale alla media aritmetica. Il problema si pone nel momento in cui si devono valutare le scelte sociali in una società in cui la popolazione è variabile. Tuttavia, la media aritmetica dei livelli di utilità ha senso solo se si assume che sia matematicamente ammissibile sommare utilità di individui differenti e che siano possibili i confronti interpersonali di utilità. Il comportamento dell’individuo è pienamente razionale se assume proprio la possibilità di valutare imparzialmente tutte le preferenze razionali espresse dagli altri, immedesimandosi con loro; per far ciò, egli dovrà fare affidamento alle sole preferenze morali, ossia a quelle assunte in condizioni di piena informazione. Queste preferenze esprimono la funzione di benessere sociale (W), ossia la media aritmetica dei livelli di utilità di tutti gli individui. Ciò consente secondo Harsanyi di determinare la somma delle utilità dei singoli individui e, ottenuto questo risultato, calcolare la media aritmetica delle utilità individuali, a partire dalla equiprobabilità dei giudizi di valore: “dare giudizi di valore morale significa cercare di massimizzare la media aritmetica di tutte le utilità individuali. Perciò, l’utilità sociale – la quantità da massimizzarsi nei giudizi di valore morale – deve essere definita come la media aritmetica di tutte le utilità individuali”195. 193 J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale (1977), in A. K. Sen /B. Williams (a cura di), Utilitarismo e oltre, cit., p. 59 194 J. C. Harsanyi, Utilitarismo delle regole e teoria della decisione (1977), in L’utilitarismo, cit., pp. 6970. 195 Ibidem, pp. 69-70. Nel saggio, Teoria della decisione bayesiana ed etica utilitaristica (1979), alla p. 37, Harsanyi, in nota, sottolinea che il suo argomento in favore dell’utilità media riprende alcuni aspetti della riflessione di Rawls, perché anche per Harsanyi l’individuo sceglie tra due o più situazioni sociali 123 La possibilità di confrontare le funzioni di utilità individuali è importante non solo per determinare quale debba prevalere, ma anche per operare un’eventuale correzione delle preferenze non morali, al fine di renderle utilitaristicamente accettabili. Hare dal canto suo ritiene che ciò che è fondamentale comprendere, nell’osservazione delle preferenze altrui, quale preferenza possieda una intensità maggiore rispetto ad un’altra e dunque ritenerla più importante. Non è necessario stabilire una quantità cardinale delle preferenze ed operare un vero e proprio calcolo matematico, in quanto è sufficiente che io, quando prendo una decisione morale per mezzo del pensiero critico, possa dire: ‘Jones preferisce il risultato J1 al risultato J2 più di quanto Smith preferisca il risultato S1 al risultato S2’. Non occorre che riusciamo a specificare di quanto sia superiore la preferenza; nel nostro metodo di pensiero critico non sommiamo utilità, bensì, partendo da un punto di vista imparziale, che assegna uguale importanza alle eguali preferenze di Jones e Smith, ci formiamo le nostre preferenze scegliendo tra i risultati” (MT, pp. 165-166, corsivo aggiunto). Hare non ritiene necessario assegnare all’utilità il carattere di una funzione matematica, non perché questo metodo possa essere scorretto, ma perché per la sua argomentazione, condotta al livello filosofico della teoria etica, l’utilità non è qualcosa di matematicamente determinabile, un’unità di misura oggettiva. Essa è invece la rappresentazione empirica delle preferenze razionali dell’individuo ed è altresì, come utilità totale, il risultato della massimizzazione delle preferenze razionali di tutti gli individui considerati. Hare sostiene dunque, in modo forse più semplice, che vanno privilegiate quelle azioni che, vagliate dal pensiero critico, ma basate su quello intuitivo, mostrano, empiricamente, di possedere una maggiore utilità d’accettazione, qualora siano prescrizioni universalizzabili. Pertanto, il principio dell’utilità mi richiede di fare per ogni individuo interessato dalle mie azioni ciò che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi precisamente nella sua situazione; e se le mie azioni interessano più di un individuo (come accade quasi sempre) il principio mi richiede di fare ciò che vorrei, in tutto e senza sapere quale posizione occuperà nella società. Rawls infatti, benché critico con l’utilitarismo, ha sostenuto che la versione classica di esso compie un grave errore nel preferire di massimizzare l’utilità totale, mentre l’utilità media presta attenzione all’utilità pro capite, quella dei singoli individui (e dunque è un principio che potrebbe adottato nella posizione originaria): l’utilità totale fa invece riferimento all’intera società, senza attenzione ai singoli (cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 144-148). 124 per tutto, fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui mi trovassi in tutte le loro situazioni196. Hare pensa che il principio dell’utilità totale sia quello più realisticamente accettabile perché egli non postula alcun insieme di individui che devono scegliere la società che andranno a formare in condizioni senza conoscere la posizione che occuperanno in essa. Egli non ricorre ad alcun velo di ignoranza e ad alcuna astrazione di questo tipo. Inoltre, Hare sostiene che se si sta cercando di assegnare uguale valore alle preferenze positive o negative dei membri della società, viene compiuta un’operazione corretta se si considererà un beneficio o un danno fatto ad una delle parti allo stesso livello di quello compiuto a favore o contro un’altra. Pertanto, se si segue il paradigma dell’equa distribuzione, sarà fondamentale la massimizzazione dell’utilità dell’intera società, ossia il fatto che l’utilità totale che coincide con quella media solo se la popolazione è costante. Infatti, argomenta Hare, se si privilegiasse l’utilità media, ogni nuovo membro della società (per esempio un nuovo nato P che incrementerebbe solo di poco l’utilità totale), potrebbe essere visto come un individuo che alla fine abbassa l’utilità media, mentre innalza quella totale e quindi, spingendo all’assurdo tale argomentazione, P non dovrebbe essere fatto nascere. “Se una persona nella posizione originaria saprà di poter essere P, troverà più attraente il principio classico; mentre se saprà di non poter essere P preferirà il principio della media; e ciò perché il principio classico esigerebbe una politica demografica che consenta a P di nascere, mentre il principio della media esigerebbe una politica che glielo impedisse”197. 196 197 R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p. 35. R. M. Hare, La teoria della giustizia di Rawls (1973), in Saggi di teoria etica, cit., p. 172. 125 CAPITOLO 5. I problemi della svolta linguistica L’approccio utilitarista di Hare tratteggia una teoria etica che cerca di definire l’utilizzo pratico e strumentale di ragioni di carattere logico, ma che ha altresì l’ambizione di affermarsi come teoria fondata su presupposti formali. Infatti, i criteri che definiscono la razionalità devono secondo Hare possedere in primis una valenza logico-formale, sebbene, al di là delle intenzioni dell’autore, la ricerca del presupposto etico universale è condotto seguendo una strada differente rispetto a Kant: questi sosteneva che la razionalità è una caratteristica della moralità pratica, in quanto la volontà è in grado di agire in virtù della rappresentazione di una legge, ossia di una legge morale universale, la quale è presente in tutti gli individui ragionevoli e li muove all’azione senza la necessità di far riferimento a moventi empirici. Per Hare, di contro, la razionalità è una caratteristica non tanto della moralità, bensì soprattutto della logica che sottende e giustifica il nostro ragionamento morale. Interessi, inclinazioni e preferenze valgono solo se assunti in condizioni di piena informazione e dunque, a livello teorico, se colti all’inizio come principi prima facie, sono in seguito corretti e sostenuti dal pensiero critico. Inoltre, l’utilitarismo di Hare se da un lato riprende e ridefinisce alcuni concetti della riflessione di Sidgwick (l’universalità dei nostro giudizi, la concezione dell’identità personale, la necessità di una valutazione imparziale, l’idea di un’affinità tra utilitarismo e kantismo), dall’altro pone a loro fondamento il prescrittivismo universale e, a differenza di Sidgwick, si costituisce come un utilitarismo coerente con un orizzonte non cognitivista. Un’idea condivisa con Sidgwick (e con gran parte dell’utilitarismo contemporaneo) è invece quella che vede l’utilitarismo come la concezione normativa che più si avvicina alla sensibilità comune degli individui, al quotidiano ed ordinario modo di prendere le decisioni morali198, benché l’affidabilità che Sidgwick riconosce alla moralità di senso comune non sia accettata appieno da Hare; questi infatti sostiene che il ruolo delle opinioni morali dalla tradizione (le received opinions) è significativo soprattutto per conoscere l’uso ordinario delle parole morali nei giudizi valutativi, ma 198 Cfr. anche J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, a cura di E. Lecaldano, I.12, UTET, Torino 1998, pp. 92-93: “Non esiste e non è mai esistita una creatura umana vivente, per quanto stupida o perversa, che non abbia fatto riferimento al principio di utilità in molte, forse nella maggior parte delle situazioni della sua vita. Per la naturale costituzione della struttura umana, nella maggior parte delle situazioni della loro vita, gli uomini generalmente abbracciano tale principio senza rifletterci, se non per regolare le loro azioni e quelle degli altri, almeno per giudicarle”. 126 non può essere la fonte delle prescrizioni: “se, come io penso, l’uso comune delle parole morali non ci impegna, in sé, verso alcuna conclusione morale sostanziale, è in linea di principio possibile sostenere che noi consideriamo l’uso comune come dotato di autorità per l’analisi di quell’uso, ma non consideriamo le opinioni morali comuni come dotate di autorità per quel che concerne questioni morali sostanziali”199. Un’affinità più significativa con Sidgwick è legata all’idea, comune all’utilitarismo moderno (sebbene variamente definita), per cui l’azione razionale è quella svolta dal soggetto in condizioni di piena informazione. Per esempio, quando Sidgwick evidenzia la necessità di un accordo tra i nostri desideri e la ragione e scrive che “il bene futuro o nel complesso di un uomo sta in ciò che ora desidererebbe e cercherebbe nel complesso, se in questo momento avesse accuratamente previsto e adeguatamente capito tutte le conseguenze di tutte le diverse linee di condotta a lui disponibili”200, asserisce qualcosa che Hare potrebbe condividere, poiché tale affermazione presuppone l’imparzialità e di conseguenza la capacità per l’agente di porsi idealmente dal punto di vista dell’universo201. A parere di Hare infatti la riflessione morale, pur partendo da una conoscenza di come gli individui effettivamente pensano ed agiscono, vuol indicare loro un modello di comportamento razionale, al quale essi aderirebbero senza difficoltà se fossero individui completamente informati sulla logica e i fatti non morali. Secondo Gibbard ciò significa che “chiamare qualcosa razionale e sostenere che esso così com’è è una ragione per fare questo e quest’altro, è come esprimere la propria accettazione di un sistema di norme con certe proprietà che, nel caso di Hare, potrebbero essere la universalità (nel senso di capacità di chiedersi se la propria preferenza possa essere universale) e la prescrittività”202. Peraltro, come ha sottolineato P. Donatelli, ciò che l’utilitarismo del ‘900 ha in genere accolto dall’utilitarismo classico e segnatamente dalla innovativa riflessione di Sidgwick, è proprio una definizione di ragione di carattere morale, ossia priva di valenza sentimentale: “L’utilitarismo contemporaneo 199 R. M. Hare, The Argument from Received Opinion, in Essays on Philosophical Method, cit., p. 123. H. Sidgwick, I metodi dell’etica, libro I, cap. IX, cit., p. 146. 201 In Sidgwick esiste una sorta di “principio di equità”, simile all’universalità di Hare, ma privo di fondamento logico: “ogni azione che ciascuno di noi ritiene giusta per se stesso, la ritiene giusta implicitamente per tutte le persone simili in circostanze simili” (Cfr., I metodi dell’etica,libro III, cap. XIII, cit., p. 412). 202 A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, cit., p. 164. L’autore tuttavia esprime delle riserve rispetto alla condizione di pienezza di informazioni che Hare (ma anche Harsanyi) pongono alla base della loro teoria etica. Egli sostiene che una interpretazione normativa di “ragione”, secondo la quale l’atto più razione è quello moralmente corretto, è fragile, poiché non corrisponde a ciò che effettivamente accade agli individui che agiscono. Cfr. altresì p. 49. 200 127 concepisce la giustezza come un requisito della ragione, che valuta imparzialmente i desideri e le preferenze di tutte le persone coinvolte e giudica quali sono le catene causali che comportano la maggiore quantità di soddisfazioni”203. Tuttavia Sidgwick non parla ancora di preferenze, né dell’analisi del significato dei termini morali; nondimeno egli, polemizzando con l’edonismo, sostiene che la razionalità è una caratteristica della morale giacché presuppone la capacità di orientare le proprie scelte future vedendole inserite all’interno di un continuum, costituto dalla costante impressione presente in noi di essere la stessa persona. Tale concezione dell’identità personale permette peraltro a Sidgwick di affrontare in modo più cogente il problema dell’amor di sé, asserendo che se “l’egoista presenta…la proposizione che afferma che la sua felicità o il suo piacere personale è il ‘bene’, non sono per lui ma dal punto di vista dell’universo…allora diventa rilevante fargli osservare con forza che, quando si considera quel ‘bene’ dal punto di vista dell’universo, la sua felicità non può essere una parte più importante della eguale felicità di qualsiasi altra persona”204. Anche questa trattazione dell’amore di sé verrà ripresa da gran parte dell’utilitarismo contemporaneo, in quanto Sidgwick, pur ritenendo la componente egoistica ineliminabile, pensa che si possa mostrare che un atteggiamento altruistico è solitamente quello che ha più probabilità di favorire il benessere della collettività e, di riflesso, del singolo che ad essa appartiene. La fondazione “linguistica” dell’utilitarismo Si è già in parte parlato dei rilievi che sono stati mossi alla riflessione morale di Hare, fin dal suo esordio. L’approdo all’utilitarismo ha naturalmente provocato una nuova serie di obiezioni che, da un lato, hanno contestato la fondazione logico-formale dell’utilitarismo, dall’altro hanno criticato i caratteri dell’utilitarismo di Hare come teoria normativa, sia nei suoi aspetti innovativi, sia in quelli in linea con l’utilitarismo contemporaneo. L’idea che l’utilitarismo possa derivare logicamente dal prescrittivismo universale è sicuramente il tratto qualificante della riflessione di Hare; anzi, forzando un po’ i termini, si potrebbe a questo proposito sostenere che egli mette in opera una fondazione 203 204 P. Donatelli, La filosofia morale, cit., p. 112. H. Sidgwick, I metodi dell’etica, p. 451, libro IV, cap. III. 128 linguistica dell’utilitarismo. Infatti, secondo Hare è opportuno riconoscere una priorità epistemologica all’analisi semantica delle parole morali, sebbene sussista una priorità cronologica dei fatti, delle situazioni contingenti nelle quali sorgono le questioni morali. Per queste ragioni è fondamentale partire dalle intuizioni linguistiche dei parlanti, empiricamente conoscibili, ed in seguito analizzarle: Io faccio poggiare questa mia teoria sull’analisi concettuale o sulla logica filosofica. È un fatto di natura linguistica che le parole morali hanno quelle proprietà logiche della prescrittività e dell’universalizzabilità su cui si basa il mio argomento a favore dell’utilitarismo. L’utilitarismo va fatto poggiare su un appello a intuizioni linguistiche (non morali): nell’uso corrente delle parole, come elementi del significato che diamo loro, noi attribuiamo loro queste proprietà logiche205. Per chi fosse in grado di pensare in modo critico, gli ordinari usi linguistici delle parole morali apparirebbero utilitaristicamente direzionati: questa è una tesi molto forte che sostanzia la riflessione di Moral Thinking. Detto altrimenti, gli individui che applicano nel modo giusto le regole d’uso dei termini “buono”, “giusto” e così via, possiedono delle chiare ragioni per agire da utilitaristi, e ciò è comprensibile se si riflette attentamente sul senso profondo del nostro linguaggio morale. Dunque, se le preferenze sono le espressioni linguistiche delle prescrizioni, andranno accettate solo quelle espressioni che rispettano le regole d’uso dei termini morali; il fanatico per esempio, sebbene in apparenza ragiona secondo le regole logiche del prescrittivismo, in realtà attribuisce a “buono” un significato che non gli appartiene: “la posizione del fanatico risulta del tutto in contrasto con le regole d’uso del discorso morale”206. Il fanatico dunque agisce in quel modo perché non è in grado di pensare criticamente ed utilizza i termini morali secondo un significato improprio. Pertanto, posta questa precisazione, ora Hare può affermare che il caso del fanatico non sottrae validità alla sua teoria etica, la quale non costringe nessuno ad agire in un certo modo, bensì vuole fornire le ragioni logicamente meglio definite per supportare una determinata dottrina morale (l’utilitarismo è la più coerente con tale fondazione formale). Questa osservazione è legata alla convinzione peculiare all’etica analitica secondo la quale esiste un solo linguaggio della morale; Hare ha ampliato in parte questa 205 R. M. Hare, Diritti, utilità ed universalizzazione: replica a J. L. Mackie, in R. M. Hare, Sulla morale politica, cit., p. 107. 206 E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., p. 83. 129 asserzione, sostenendo che, una volta compresa, tramite l’analisi logica, questa unica funzione delle parole morali, esse possono condurre direttamente ad una prospettiva normativa che a suo parere coincide con l’utilitarismo. Queste asserzioni non si discostano di molto da quelle di The Language of Morals, dove si affermava che i giudizi fossero prescrittivi in quanto implicano comandi e si avvertiva che la funzione propria dei termini morali è quella di indicare una condotta. Le prescrizioni che ci formiamo dunque non sono in sé utilitariste, ma, in quanto esprimono le preferenze, possono essere agevolmente assunte da una dottrina utilitarista, la quale è quella che è più capace di interpretarne l’autentico significato, a patto che possiede un criterio formale, fondato su ragioni logiche, per discriminare tra le preferenze. L’autore aggiunge infatti che la mia teoria non afferma che ‘giusta azione’ significa ‘l’azione che soddisfa massimamente le preferenze’. Piuttosto, essa spiega i significati delle parole come ‘sbagliato’, ‘dovere’ come equivalenti a vari generi di prescrizioni o proibizioni universalizzabili e arriva ad un sistema morale utilitarista solo applicando le proprietà logiche dei termini spiegati in quel modo, in combinazione con certe altre tesi concettuali, relative al mondo così com’è ed in particolare relative a un mondo nel quale le persone possiedono certe preferenze (SO , p. 78). Pertanto, è l’appello alle regole d’uso dei termini morali che conduce all’utilitarismo e l’elemento empirico, fattuale (il mondo come effettivamente è e le preferenze che gli individui sviluppano) è ad ogni modo subordinato all’elemento linguistico, il quale rimane decisivo come base di una teoria del linguaggio morale definita in modo autonomo. Questa convinzione di Hare è basata sull’idea più generale per cui la razionalità di qualsiasi proposizione coincide con le proprietà logiche dei termini in essa contenuti: tale idea diventa ancora più importante e teoreticamente significativa se le proposizioni in questione possiedono un valore morale, come osserva Scanlon: “I resoconti formali sono attraenti perché è parso che la forza e la non questionabilità (inescapability) del termine morale “dovere” (must) sarebbe meglio spiegata mostrando che i requisiti morali sono altresì requisiti della razionalità, e non dipendono dall’appello a particolari beni”207. 207 T. Scanlon, What we Owe to Each Other, The Bellknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) and London 1998, p. 151. Scanlon qui pone però una critica all’approccio esclusivamente formale all’etica, aggiungendo nella stessa pagina che “la forza particolare dei requisiti morali sembra abbastanza differente rispetto a quella dei principi logici, sebbene entrambi siano, in un certo senso, ‘non questionabili’ (inescapable)”. 130 Hare ritiene che proprio a seguito di queste tesi l’utilitarismo possa essere una dottrina con basi formali: nel pensiero morale dobbiamo fornire peso uguale alle preferenze di quelli coinvolti chiunque essi siano; e da ciò segue direttamente l’utilitarismo, in connessione con l’assunzione di fornire il giusto peso alle nostre preferenze […] In concreto…dobbiamo chiedere quali preferenze effettivamente scaturiscono, o scaturirebbero, in conseguenza dell’adozione di uno o dell’altro principio di vita. Così definito, l’utilitarismo di per se non è una tesi morale sostanziale, bensì logica e formale, come la tesi dell’universalizzabilità alla quale esso è strettamente correlato, e come l’imperativo categorico kantiano; ma come questi, esso può condurre il nostro ragionamento, in combinazione con l’informazione sostanziale relativa alle preferenze, verso l’adozione di principi sostanziali208. Vi sono dunque due aspetti della teoria etica: la parte formale (il prescrittivismo universale), la quale “non è un altro modo per dire che le prescrizioni morali devono essere universalizzabili; ciò significa che agli interessi eguali di tutti va dato lo stesso peso nel nostro ragionamento: ognuno deve contare per uno e nessuno per più di uno”209. Naturalmente, aggiunge l’autore, da queste premesse formali non scaturiscono direttamente conclusioni sostanziali, relative alla moralità pratica; tuttavia l’utilitarismo è una dottrina legata ai fatti e dunque essa si basa su credenze (beliefs) relative ai fatti non morali che influenzano le decisioni, se assunti all’interno del processo di formazione dei giudizi morali. La parte sostanziale (l’utilitarismo in senso stretto) consiste invece nel valutare le preferenze come effettivamente si presentano all’osservazione sperimentale e le conseguenze delle proprie scelte: “La componente formale va quindi integrata con una componente sostanziale che valga a dirigere la nostra condotta nel mondo così come di fatto è…La componente sostanziale dell’utilitarismo e in particolare il suo contributo alla selezione di principi intuitivi o prima facie…poggiano sui fatti così come sono; se il mondo fosse diverso, anche quella componente dovrebbe essere diversa”210. La fondazione linguistica dell’utilitarismo è altresì confermata dalla tesi secondo la quale per Hare l’agire immorale è un errore concettuale. Egli sottolinea a questo proposito come il percorso che porta all’azione si componga di quattro elementi: la 208 R. M. Hare, Comments on Nagel, in Hare and critics, cit., p. 250. R. M. Hare, What Is Wrong with Slavery, in “Philosophy and Public Affairs”, n. 2, 1979, p. 115. 210 R. M. Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit., p. 240. Questa affermazione, inoltre, conferma che per Hare i giudizi morali, pur sopravvenendo a quelli non morali, lo fanno in modo debole, mentre per G. Moore, lo si ricorda, la sopravvenienza è forte, ossia valida per tutti i mondi possibili. 209 131 logica, i fatti non morali, i giudizi morali e l’azione. Il comportamento razionale sarà quello che scaturisce dopo un passaggio diretto tra questi quattro elementi; tuttavia, è possibile che si sappia quale è l’azione razionale, ma si agisca in modo diverso. Ciò accade perché ovviamente, essendo esseri umani, non necessariamente siamo in grado di sviluppare un pensiero morale critico. Ma dove si colloca, per così dire, l’interruzione della catena che lega i quattro elementi che portano all’azione? Infatti, può capitare che si accetti il significato degli enunciati che esprimono le preferenze e i fatti non morali, ma si emetta un giudizio che non massimizza la preferenza più intensa, quella che possiede una maggiore utilità d’accettazione. Secondo Hare, il problema della debolezza del volere (akrasia), ossia della incapacità ad agire in modo conseguente ai fatti ed alla logica, può entrare in gioco nel passaggio dai fatti ai giudizi morali (non è invece possibile che si accettino la logica, i fatti, i giudizi conseguenti e si agisca in modo contrario), poiché tali giudizi, non derivano con necessità logica dalle opinioni fattuali, come invece accade nel descrittivismo. Hare dunque pensa che l’errore morale sia dovuto alle limitate informazioni che l’agente possiede, non ai difetti della teoria etica. I conflitti morali sarebbe infatti sempre risolvibili se gli individui potessero sempre agire in condizioni di razionalità perfetta, come arcangeli: “Questa conclusione si basa sull’idea che la limitatezza delle informazioni o degli errori cognitivi sono da considerare ‘mere interferenze’ alle quali, almeno in linea di principio, si può porre rimedio. Tali interferenze vengono cancellate in condizioni di razionalità perfetta e per questa ragione non sono considerate sorgenti interessanti di conflitti morali”211. La soluzione che Hare qui presenta, non dissimile da quella sostenuta per esempio da C. Korsgaard212, assume il presupposto che il modo di ragionare degli agenti è inevitabilmente difettoso e che dunque è necessario indicare loro un modello di ragionamento che superi tali imperfezioni. È tuttavia dubbio che questa soluzione sia appieno soddisfacente, in quanto sembra restituire un’immagine irrealistica e scarsamente rispondente al modo attraverso il quale gli individui ragionano ed agiscono. L’accusa spesso portata all’utilitarismo contemporaneo (e quello di Hare non sembra sfuggirne) è proprio quella per cui, mentre esso sostiene di essere affine alle convinzioni della morale comune, in realtà postula un eccessivo grado di astrazione ed idealizzazione dal modo usuale di ragionare in etica, 211 212 C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., p. 198. Cfr. C. Korsgaard, Creating the Kingdom of Ends, Cambridge University Press, Cambridge 1996. 132 tanto da cadere in un eccesso di semplificazione: “In tutte queste cose l’utilitarismo mostra una forte tendenza a semplificare. Che non è affatto mancanza di raffinatezza intellettuale: l’utilitarismo è efficace in modo allarmante, sia in pratica che in teoria…Questa tendenza a semplificare consiste in un corredo troppo povero di pensieri e sentimenti per avere a che fare col mondo così come realmente è”213. Esiste una logica del ragionamento morale? In sede di discussione critica, è opportuno notare che l’esistenza di una logica del linguaggio morale nei termini definiti da Hare, è stata giudicata meno cogente di quello che l’autore ha sostenuto; infatti, quel che è apparso problematico in questa applicazione della svolta linguistica allo studio dell’etica, è proprio la nozione stessa di linguaggio della morale, il quale, in ragione delle necessità teoriche di Hare, sarebbe stato da lui ridotto ad una serie ristretta di termini significativi (buono, giusto, dovere e i loro contrari), che tuttavia rifletterebbero solo in parte la complessità e ricchezza dei nostri dialoghi morali. Il riduzionismo implicito in questa concezione della svolta linguistica avrebbe causato, sostiene ancora Williams, da un lato una progressiva crescita della distanza tra l’approccio semantico all’etica e la considerazione degli effettivi motivi che spingono gli uomini ad agire; dall’altro, la creazione di una cattiva filosofia del linguaggio, in quanto, come peraltro la stessa svolta utilitarista di Hare dimostrerebbe, di fronte all’evidente sterilità di questo genere di analisi del linguaggio morale, si devono inevitabilmente introdurre “nell’indagine dei presupposti che sono già non solo teorici, ma anche etici. Ne è derivata di solito una cattiva filosofia del linguaggio”214. In sostanza, si parte dal presupposto secondo il quale la teoria etica debba essere neutrale ma, constatata l’impossibilità di rimanere coerenti con questa affermazione, per sostenere ad ogni modo la possibilità che la suddetta teoria possa influenzare l’azione, si fa riferimento a prescrizioni morali tutt’altro che neutrali, le quali, invece di essere introdotte, secondo le intenzioni iniziali, in un successivo momento, risultano al contrario fondare quella stessa teoria etica che avrebbe dovuto 213 B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit., p. 168. 214 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 156. Già dopo la pubblicazione di Freedom and Reason, vi sono critiche simili in G. J. Warnock, Ethics and Language (1968), ora in Morality and Language, cit., pp. 151-152. 133 fondarli, col risultato di dare vita ad un circolo vizioso. Ne deriverebbe dunque, come detto, una cattiva filosofia del linguaggio ed una dottrina morale estemporanea e non coerente con l’analisi semantica così come viene applicata da autori come Hare. Il problema di fondo della riflessione di Hare, che appare rimanere irrisolto nonostante l’elaborazione di un’etica normativa, è che l’appello alla ragione non sembra finalizzato a restituire in modo diretto il funzionamento delle motivazioni morali, bensì solo a ricostruire la maniera in cui ragioni di carattere logico (e dunque applicabili a tutti gli ambiti del discorso) possano indirettamente determinare la condotta morale. Cosa lega infatti un principio morale al giudizio particolare che ci spinge ad agire? Secondo Hare alla fine è sempre una dimostrazione logica che, pur non essendo equiparabile in toto a quella delle argomentazioni scientifiche, utilizza strumenti concettuali simili. Nella filosofia di Hare, dunque, la ragione che muove a compiere un certo atto non indica dei motivi pratici a favore di quell’atto, bensì elabora un’argomentazione che deve possedere come carattere qualificante una coerenza logica. Sembra quasi che l’obiettivo della discussione etica per Hare non sia dimostrare che il principio morale è giusto, ma dimostrare che il tipo di ragionamento che fonda il principio è corretto. “L’implicazione logica che connette premessa e conclusione opera tra due proposizioni (o insiemi di proposizioni), mentre il trarre una conclusione da una premessa consiste nell’assenso dato all’argomentazione. Il ragionamento riguarda gli esseri umani, la logica riguarda le proposizioni. Ma Hare non distingue chiaramente la logica dal ragionamento”215. Già in Freedom and Reason, Hare si era detto in parte cosciente di alcune di queste difficoltà, le quali però a sua parere erano dovute ad una mancata comprensione, da parte dei suoi critici, del carattere al contempo teorico e pratico della sua riflessione morale. Inoltre, egli sosteneva che i problemi del prescrittivismo mostrano come esso non sia semplicemente un modello astratto di riflessione morale, in quanto si vuole confrontare in modo dinamico con le situazioni contingenti che possono verificarsi, ma per questo esso può incorrere in esattezze. Se possiamo mostrare che esiste una forma di argomentazione la quale, senza presupporre alcuna previa premessa morale ma basandosi semplicemente sul fatto 215 P. Donatelli, Filosofia morale, cit., p. 44. 134 che il mondo è quello che è e gli uomini sono quelli che sono, condurrà questi ultimi…a accordarsi intorno a certi principi morali che contribuiscono alla giusta riconciliazione di contrastanti interessi, allora avremo forse tutto ciò che occorre (FR, pp. 246-247). Tuttavia, ci si può domandare se sia così vero che il prescrittivismo, nella forma ridefinita in Moral Thinking, sia realmente capace di ponderare il ruolo degli elementi empirico-pratici che entrano in gioco nelle valutazioni morali. In realtà, i “fatti”, i quali dovrebbero costituire la premessa minore delle argomentazioni morali, sembrano venire a mancare, poiché se i fatti suddetti non sono supportati dalla coerenza logica, essi contano poco. Il caso del fanatico è evidente, ma ci possono essere situazioni anche meno eccezionali che rivelano questo problema: “se io approvo la proposizione p, ma rifiuto di asserire la medesima dichiarazione, mi contraddico…Una asserzione…deve possedere la proprietà formale di essere qualcosa che qualcuno può confermare e che, se qualcuno la approva, questi, pena il rischio di una auto-contraddizione, deve essere preparato ad agire in virtù di essa” (SO, p. 58). Tuttavia, come osserva Harman: “Hare non pensa che ci siano ragioni al di sopra e al di sotto della semplice coerenza (consistency) che favoriscono una scelta di certi principi rispetto a varie altre possibili scelte”. Harman mette dunque in evidenzia come questa difficoltà del sistema di Hare si riverberi anche su atteggiamenti non fanatici e dunque non eccezionali. Se l’unico modo perché qualcuno faccia qualcosa è che egli possieda una ragione per compierlo, quando questo individuo sostenga di non vedere alcuna ragione, oppure di vederla ma di non condividerla, nessun altro elemento può essere portato dal prescrittivismo per convincerlo: “In tal modo…Hare non può dire che P, il quale non accetta il principio ‘Non mangiare carne’, possiede necessariamente una ragione per accettarlo. Ma se P non ha alcuna ragione per accettare quel principio, come è probabile, data la posizione di Hare, non si può sostenere che P deve accettare quel principio” 216. La riflessione di Hare, nonostante l’approdo all’utilitarismo, sembra quindi poter fornire solo ragioni estrinseche al nostro comportamento morale. Pertanto, dal punto di vista logico, la conclusione può anche essere correttamente derivata dalle premesse, per cui, la prescrizione “non mangiare la bistecca” deriverebbe dalla congiunzione tra le premesse “Mangiare carne fa male” (premessa maggiore prescrittiva) e “la bistecca è un tipo di carne” (premessa minore fattuale). In questo caso, dunque, il ragionamento è 216 G. Harman, The Nature of Morality, cit., pp. 88-89. 135 coerente e funziona. Tuttavia, dal punto di vista morale le cose sono diverse, poiché al di là delle coerenza formale, contano i motivi per agire o non agire in un certo modo. Per la logica, il sillogismo prima citato sarebbe infatti corretto in modo estrinseco, formale, indipendentemente dal contenuto, per cui una conclusione immorale sarebbe accettabile nel caso che rispetti le regole di coerenza. Per la morale, al contrario, il ragionamento è corretto in modo intrinseco, ovvero dal punto di vista del contenuto e la forma logica è uno degli aspetti che possono determinare la giustezza di un giudizio, non l’unico. La connessione tra logica e fatti sembra dunque sfuggire e il carico fondativo ricade solo sul primo elemento, però la logica non è l’etica. D’altra parte, se il fine dell’etica non consistesse anche nel fornire ragioni in favore di un certo atto, invece che ricercare la sola coerenza logica delle proposizioni prescrittive, si potrebbe indicare all’individuo P altri motivi per convincerlo della giustezza del non mangiare carne. Al contrario, se come unica giustificazione si porta una proprietà logica, al filosofo morale prescrittivista non rimane altro da fare che accettare quello che dice P, nel caso in cui questi, pur accettando tale proprietà logica, agisca in modo diverso. Una tale ricostruzione della discussione morale, dovuta alla predominanza della logica, sembra peraltro non riconoscere il giusto peso alla responsabilità dell’individuo: “noi utilizziamo argomento di questo tipo quando giustifichiamo a noi stessi cose che vogliamo ma che non possiamo chiaramente conoscere…Quel che succede in questi casi può essere una sorta di evasione, una specie di rifiuto della responsabilità”217. L’idea di una fondazione linguistica dell’utilitarismo ha dunque suscitato diversi rilievi, in particolare per la messa in discussione della possibilità che una regola logica, l’universalità, si ponga a fondamento delle sue asserzioni. Molti autori, nonostante le varie chiarificazioni che Hare ha condotto relativamente allo status epistemologico di questo concetto, hanno continuato a mostrarsi scettici rispetto alla possibilità che tale nozione, priva di un carattere normativo proprio, possa realmente determinare i nostri comportamenti morali. Per esempio, T. Scanlon ha evidenziato come l’universalità non sia necessariamente una caratteristica del giudizio morale, poiché possiede in primis un carattere formale e, inoltre, il solo fatto che riteniamo che ci siano ragioni universali per 217 C. Diamond, “We are Perpetually Moralists”: Iris Murdoch, Fact, and Value, in I. Murdoch and the Search for Human Goodness, edited by M. Antonaccio e W. Schweiker, The University of Chicago Press, Chicago & London 1996, pp. 80-81. 136 agire in un certo modo, non implica automaticamente che anche gli altri riconoscano le stesse buone ragioni per agire nello stesso modo. Infatti, quella che a me pare una ragione buona, può apparire diversamente ad altri: sembra in sostanza che la universalità dei nostri giudizi morali, priva di una cogente applicazione normativa, per Scanlon non consenta all’individuo di uscire dalle proprie considerazioni soggettive: “Quando formiamo giudizi relative alle nostre ragioni, siamo destinati a enunciare qualcosa sulle ragioni che le altre persone possiedono, o possiederebbero in certe circostanze. Così otteniamo ragioni totalmente rivolte a noi stessi (self-regarding), mentre tentiamo di osservare la correttezza o scorrettezza dei giudizi che le persone elaborano in virtù delle ragioni che esse hanno, dal momento che questi giudizi implicano invece conclusioni su ragioni che noi abbiamo”218. Hare dal canto suo ritiene che l’universalità come regola logica sia invece il fondamento dell’imparzialità delle valutazioni morali, la quale deve garantire la capacità, per soggetti pienamente informati, di promuovere solo le preferenze che incrementano l’utilità totale. L’imparzialità richiama la necessità di una astrazione dalle caratteristiche contingenti ed individuali della situazione, al fine di giudicare dal punto di vista del bene universale. Ma è possibile appoggiarsi ad una nozione di imparzialità che possiede una regola logica come proprio fondamento? Il problema torna ad essere, nonostante l’approdo utilitarista di Hare, quello della scarsa cogenza pratica di un concetto privo di contenuto normativo: “Ma questi o consimili postulati sarebbe idonei a fungere da principio morale solamente qualora potessero esser intesi nel senso della garanzia di una formazione imparziale del giudizio. Il significato dell’imparzialità non può tuttavia essere ricavato dal concetto dell’uso coerente del linguaggio”219. La critica all’universalizzazione Una delle critiche più sistematiche alla tesi hareana dell’universalità come tesi logica, è venuta da J. L. Mackie, il quale contestato il tentativo di derivare da una tesi logica i giudizi morali. Mackie ritiene che l’applicazione di principi logici all’etica sia sterile: “E’ agevole mostrare che tali principi generali, in rapporto alle differenti concrete circostanze, differenti preferenze o percorsi sociali, produrranno diverse regole morali; e 218 219 T. Scanlon, What we Owe to Each Other, cit., p. 74. J. Habermas, Etica del discorso, a cura di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 72-73. 137 vi è una qualche plausibilità nel dichiarare che le regole specifiche così generate varieranno da una comunità all’altra o da un gruppo all’altro in stretto accordo con le effettive variazioni dei codici accettati”220. Mackie sottolinea che non esiste, contrariamente a quanto afferma Hare, una sola forma, o un solo livello di universalità, poiché si possono individuare almeno tre differenti stadi di universalizzazione non tutti derivabili da un’etica fondata sull’analisi logico-linguistica dei termini morali. Il problema dei livelli dell’universalità è infatti legato alla capacità di astrazione che un individuo non amoralista può mettere in gioco nel suo rapportarsi agli altri soppesando le loro preferenze o immaginando sé stesso al loro posto. Hare invece sostiene che per la sua riflessione è sufficiente un unico genere di universalità, ossia la “dottrina secondo la quale i giudizi morali emanati su una situazione…devono, pena il cadere in una contraddizione logica, essere fatti valere rispetto ad ogni situazione che sia esattamente simile nelle sue proprietà universali non morali”221. Pertanto, se è vero da un lato che la capacità di universalizzazione si acquisisce in maniera progressiva, attraverso un affinamento della propria perizia a ragionare moralmente e ad una migliore conoscenza del significato dei termini morali, dall’altro lato è vero che l’applicazione di tale universalità deve in seguito divenire autonoma, come è auspicabile che diventi autonoma la tendenza, essenziale per il prescrittivismo, ad immedesimarsi con le preferenze ed interessi altrui: “Dalla proprietà di universalizzabilità consegue che, se adesso io affermo di dover fare una certa cosa ad una certa persona, sono tenuto a pensare che la stessa identica cosa debba essere fatta a me, nel caso che mi trovi nell’esatta situazione dell’altro” (MT, p. 150). Mackie contesta proprio questo passaggio, all’apparenza semplice ed immediato, dalla tesi logica dell’universalità alle conseguenze pratiche che essa implica. Egli infatti è scettico sulla possibilità che la condotta morale, così come è intesa da Hare, possa scaturire da una semplice analisi logico-linguistica del significato dei termini morali: “Una verità logica o semantica non costituisce alcuna reale limitazione alla credenza; analogamente, non vi può essere alcuna reale limitazione rispetto all’azione o alla prescrizione o alla valutazione o scelta di una condotta”222. 220 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 37. R. M. Hare, Comments on Singer, in D. Seanor and N. Fotion (edited by), Hare and Critics, cit., p. 268. 222 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 98. 221 138 La questione di quali principi morali si debbano adottare non è pertanto un problema di natura logica o concettuale, bensì essenzialmente ontologica e dunque, secondo Mackie, fondamentalmente non risolvibile. Inoltre, se, come sembra fare Hare, si volesse fondare un principio utilitarista affidandosi al grado più semplice e limitato di universalizzazione, si costruirebbe un sistema morale incapace di contrastare le posizioni di un razzista (si pensi al fanatico di cui Hare parla), poiché tale livello minimo di universalità trascende le differenza quantificabili, ma non quelle non quantificabili, come il colore della pelle degli individui. Per questo Mackie contesta in particolare il modo con cui sono condotti i confronti interpersonali dall’utilitarismo moderno: I confronti interpersonali presentano…grandi difficoltà…[L’utilitarismo] provvede solamente ad una procedura unitaria di decisione, e l’arbitrarietà irrompe all’interno di qualsiasi serio tentativo di farla funzionare, qualsiasi decisioni siano state prese per rispondere ad alcune di queste domande, è realmente possibile confrontare quantità di piacere e di dolore e valutarle nel medesimo modo in differenti persone? Piacere e dolore si possono valutare tramite il medesimo metro di giudizio e nel valutare la somma complessiva di piacere e dolore che producono i vari corsi d’azione223. Esiste invece un secondo livello di universalità, più profondo e slegato dall’analisi semantica, il quale afferma che “per decidere se il principio di massimizzazione che si tende ad affermare è realmente universalizzabile, [bisogna] immaginare se stessi al posto degli altri uomini e domandarsi se si sarebbe disposti ad accettare quel principio come una guida che diriga il comportamento degli altri verso noi stessi”224. In questo caso chi ragiona moralmente cerca effettivamente di mettersi al posto dell’altro, rimanendo nondimeno se stesso, ossia dotato delle proprie preferenze e desideri particolari. La terza forma di universalità, la più estesa, suppone invece non solo la capacità di immaginare sé stessi al posto dell’altro, ma di immaginare sé stessi con gli stessi gusti, le medesime preferenze e i medesimi desideri altrui. Solo in quest’ultimo caso l’immedesimazione sarebbe davvero completa e l’io che giudica moralmente si è per così dire mutato in un altro se stesso: esso tuttavia possiede solo un valore ideale, giacché non permette di derivare asserzioni etiche normative in modo immediato. Risulta infatti molto difficile, se non impossibile, non solo mettersi al posto degli altri, 223 224 Ibidem, p. 127. Ibidem, p. 90. 139 ma assumere esattamente le loro preferenze, i loro gusti ed ideali (e la loro identità personale): “ancora più che per il secondo livello, è dubbio se qualsiasi principio passerebbe questo test tanto severo. Naturalmente ci sono alcuni desideri di base che hanno quasi tutti, ma oltre ad essi ci sono preferenze e valori radicalmente differenti, ed è da questi ultimi che sorgono ostinati disaccordi morali”225. Mackie evidenzia che questi differenti livelli di universalizzazione, pur essendo stati sfiorati o enunciati da alcuni pensatori utilitaristi, non possono condurre all’affermazione di solidi principi morali sostanziali, proprio a causa della vaghezza degli assunti su cui essi si basano. In termini ancora più chiari, egli sostiene che il passaggio dall’universalità come tesi logica all’universalità come principio morale è illegittimo e non fondato, giacché la tesi logica sussiste indipendentemente dal principio morale che ad essa si vuol connettere, anzi, spesso è in contraddizione con esso. “In ogni caso la tesi logica ha poco a che fare con il principio pratico sostanziale: possiamo adottare, o respingere quest’ultimo, sia che la tesi logica sia vera o falsa”226. La critica mossa ad Hare appare dunque filosoficamente molto ampia ed allo stesso tempo molto serrata, giacché discute l’idea secondo la quale la sua concezione dell’utilitarismo possa derivare in maniera diretta dalla analisi logico linguistica del significato delle parole morali: “Anche ammesso che ci sia una caratteristica fondamentale del ‘linguaggio morale’ in quanto tale, e che essa consista nel fatto di essere prescrittivo e universale, questo non ci condurrebbe inevitabilmente alla teoria. Ci sono anche altre interpretazioni di che cosa significhi accettare una prescrizione e di che cosa possa essere considerato universalizzabile: queste interpretazioni approderebbero a teorie diverse”227. Mackie può condurre una critica di questo genere in quanto si definisce un moralista scettico, ossia un avversario di qualsiasi forma logica di argomentazione morale. Egli infatti non crede né alla soggettività e né all’oggettività dei valori morali: “quello che ho chiamato scetticismo morale è una tesi ontologica, non 225 Ibidem, p. 93. Mackie è peraltro convinto che nemmeno il terzo stadio elimini il conflitto morale e ritiene anche che tale conflitto, rispetto a certi valori, non posa e non debba essere mai eliminato in modo completo, poiché la diversità dei valori è un dato di fatto acquisito: “Alcuni effettivi disaccordi relativamente ai valori sono così estremi che essi reagiscono contro tutti i principi che sono proposti per comporre i conflitti: può essere impossibile accordarsi persino sulle procedure per giungere a un accordo” (Cfr. p. 154). 226 Ibidem, p. 92. 227 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 104. 140 linguistica o concettuale. Essa non è, come l’altra dottrina spesso definita soggettivismo morale, un punto di vista sui significati degli enunciati morali”228. Mackie non sostiene che il discorso etico non abbia senso e che le questioni etiche non possiedano rilevanza per la vita umana; al contrario, egli è cosciente del valore dell’etica e per queste ragioni ritiene essenziale comprenderne i modi di procedere ed i caratteri peculiari. Egli adotta pertanto quella prospettiva di analisi definibile come realista (in quanto sostiene che i termini morali possono essere veri o falsi) e non cognitivista (in quanto tesi epistemologica). Per questa ragione, secondo Mackie asserire che attraverso un’analisi linguistica dei giudizi etici è possibile influenzare la condotta e pretendere al contempo di affermare che tali giudizi non hanno portata conoscitiva, significa travisare il reale significato dell’etica, la quale rimane una disciplina che ha un’inevitabile pretesa conoscitiva, prima che pratica. “L’etica, siamo portati a pensare, è più una materia di conoscenza e meno una materia relativa alle decisioni rispetto a quanto un’analisi non cognitiva permette”229. La natura conoscitiva delle proposizioni morali è resa evidente dal modo con cui gli individui formano i loro giudizi morali: essi quando sostengono che un X è buono, cattivo etc., pensano che quell’X possieda effettivamente ed oggettivamente le proprietà morali attribuite. Questo è falso, secondo l’autore, sebbene ciò a suo parere non tolga legittimità al discorso etico quotidiano. Pertanto chi discute le questioni morali senza rendersi conto di questo fallace richiamo ad un’inesistente oggettività dei valori, compie un grave errore fattuale, ma non un errore concettuale, come invece sostengono i non cognitivisti. La distinzione tra errore fattuale e concettuale è un altro modo utilizzato da Mackie per sottolineare che le persone che enunciano giudizi morali sono in errore non perché, come sostiene Hare, ignorano i significati e le proprietà logico-linguistiche delle parole morali, ma perché credono all’esistenza di valori e fatti morali oggettivi. Quest’ultima convinzione è una tesi ontologica e metafisica, non linguistica, e per questo va contrastata non con argomentazioni epistemologiche, bensì con una buona dose di scetticismo morale, il quale è un antidoto a qualsiasi oggettivismo e soggettivismo etico: “Il significato generale di ‘buono’ [good] non determina da se stesso come la parola debba essere usata in etica, e né questo significato generale e né qualsiasi altro 228 229 J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, cit., p. 18. Ibidem, p. 33. 141 significato etico condurrà a risposte alle questioni morali sostanziali”230. Quindi chi come Hare tende a considerare le argomentazioni morali come tesi di carattere logico commette l’errore di non comprendere quanto in tal modo il prescrittivismo universale si sia compromesso con un inevitabile richiamo ad una forma di oggettivismo morale: Concludo allora affermando che i giudizi morali ordinari includono un appello a valori oggettivi, un’assunzione sul fatto che esistano valori oggettivi…E non penso di andare troppo oltre nel dire che questa assunzione è stata incorporata nei significati base, convenzionali, dei termini morali. Qualsiasi analisi del significato di tali termini che omette questo appello alla prescrittività oggettiva, intrinseca, è a questo riguardo incompleta; e ciò è vero per qualsiasi analisi non cognitiva, qualsiasi analisi naturalistica e qualsiasi combinazione delle due231. Hare ritiene tuttavia che le obiezioni di Mackie non mettano in crisi il suo sistema etico, il quale peraltro ricorre alla preventiva analisi linguistica dei termini morali proprio per evitare di cadere nel relativismo implicito in qualsiasi riflessione morale che faccia appello alle convinzioni etiche sostanziali degli individui. Egli pensa infatti che il suo pensiero possa mettere in guardia sia dalle fallacie dell’oggettivismo etico (secondo il quale esistono valori morali indipendentemente dai giudizi e dalle valutazioni etiche degli individui), sia da quelle implicite nel soggettivismo morale: è improbabile che i sensi formali di esistere ci siano di qualche utilità nell’impostare una discussione ontologica tra realisti e anti-realisti; questi ultimi, infatti, possono benissimo convenire che in quei sensi le qualità morali esistono. D’altro canto, non può riuscirci utile nemmeno il senso ‘materiale’, ritenuto più forte, perché, se se ne affermasse l’esistenza in quel senso, il realista sarebbe poco avveduto e non avrebbe alcun bisogno di farlo232. Mackie sarebbe nel giusto quando sottolinea le fallacie del descrittivismo etico e quando mette in guardia contro i pericoli insiti in un realismo morale che sostiene l’esistenza oggettiva dei fatti e dei valori morali. Tuttavia, secondo Hare, Mackie non si renderebbe conto che in campo morale la questione fondamentale non è decidere chi ha ragione fra realisti o anti-realisti o fra chi sostiene l’oggettività dei valori morali e chi 230 Ibidem, p. 63. Ibidem, p. 35. 232 R. M. Hare, L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 92-93. Il soggettivismo inoltre, tra i suoi vari “difetti”, implica una svalutazione profonda delle questioni morali a vantaggio di quelle fattuali o scientifiche, poiché “ci lascia – e forse intende lasciarci – con la disagevole impressione che le credenze fattuali e la scienza siano in qualche modo più solide della morale” (B. Williams, La moralità, a cura di M. Reichlin, Einaudi, Torino 2000, p. 30). 231 142 invece ne propugna la soggettività. In particolare, il problema non è domandarsi se esistono dei fatti morali, giacché, se si intende il verbo “esistere” in senso pieno, è chiaro che Mackie ha ragione nel respingere ogni forma di realismo, dato che non esistono “fatti” specificamente morali. Nondimeno, è più proficuo sostenere che i fatti e i valori morali possiedono una forma di esistenza che è differente da quella degli oggetti materiali, ma che non è neppure semplicemente soggettiva. Pertanto, come ha messo in evidenza il non descrittivismo etico (al quale pure Mackie aderisce), di fronte a differenti giudizi morali, la questione non è stabilire quale di essi sia vero e quale sia falso, poiché “Di nessuna teoria non descrittivista (che non si riduca a un coacervo di confusioni) è vero che fa dipendere la verità degli enunciati morali da ciò che qualcuno pensa o sente o dalle disposizioni che ha nei confronti di una cosa o dell’altra”233. Il non descrittivismo ha il merito di liberare i giudizi morali dalla necessità di aderire ad un criterio di verità, contrariamente a quel che accade per altri tipi di giudizi. Ciò non significa però affermare che ogni giudizio morale conduca chi lo enuncia a compiere un errore fattuale; Hare infatti ritiene che l’adesione alla concezione non descrittivista relativamente allo status dei giudizi morali comporti l’idea che le questioni morali non siano questioni ontologiche, giacché esse possono benissimo essere analizzate con i mezzi della logica e dell’analisi linguistica, in quanto concernono il significato delle parole morali, non la loro verità o falsità. In tal modo è possibile giungere ad una notevole semplificazione delle questioni morali, giacché, in presenza di un’errata applicazione della tesi del prescrittivismo universale, sarà possibile rendere più efficace l’analisi linguistica, cercando di evitare tali errori concettuali ed i conseguenti disaccordi morali. Inoltre, in questa maniera ci si sottrae dall’inseguire l’emotivismo sul suo terreno, poiché, se si cercasse una verificazione oggettiva delle proposizioni dell’etica, l’emotivismo avrebbe ragione a negare ad esse qualsiasi senso, giacché è lampante che nessun principio di verifica è loro applicabile: “La questione ontologica si è dissolta in una questione epistemologica: come dare al pensiero morale una spiegazione che ci consenta di arrivare in modo razionale a conclusioni pratiche e prescrittive”234. La teoria dell’errore di Mackie rappresenta dunque per Hare un fraintendimento di quel che accade quando gli individui ragionano sulle proprietà morali. “Mackie pensava 233 234 R. M. Hare, Confusioni sul concetto di soggettività, in Saggi di teoria etica, cit., p. 24. R. M. Hare, L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, cit., p. 99. 143 che tutte le persone che stessero utilizzando parole ritenute in grado di individuare le proprietà che le azioni compiute nel mondo avrebbero realmente, si sbagliassero perché non esistono tali proprietà. Io argomenterò, di contro, che esse sbagliano nel pensare che quello fosse ciò che volevano dire. Chiamerò questo errore descrittivismo”235. Hare quindi ritiene la riflessione di Mackie per molti aspetti vicina alla sua, giacché essi paiono in accordo nel giudicare che non esistano proprietà morali oggettive; tuttavia, mentre Hare ritiene incoerente postulare tali proprietà, Mackie lo ritiene coerente ma falso e in tal modo cade di nuovo nel descrittivismo: “[Io e Mackie] concordiamo sulla falsità del ‘soggettivismo vecchio stampo’…ma mentre io penso che i termini non siano (puramente) descrittivi…Mackie è un descrittivista, nella sua concezione sul significato dei termini nell’uso comune” (MT, p. 123). Mackie allora non è in errore quando sostiene che “Giusto e sbagliato vanno inventati…La moralità non è da scoprire, ma da costruire”236, in quanto “Se…qui egli allude ai concetti, naturalmente non ho nessuna difficoltà a riconoscere che essi vadano inventati…; e se allude al contenuto della moralità, la sua prospettiva collima con il mio prescrittivismo, che anzi spesso è stato attaccato proprio per questo, per aver sostenuto che ai principi morali dobbiamo arrivarci noi e non possiamo trovarli su un’enciclopedia”237. Termini primariamente e secondariamente valutativi Quel che appare problematico nella riflessione di Hare è quindi in generale l’ambizioso impianto complessivo che muove la sua argomentazione fin da The Language of Morals, ossia l’affermazione del carattere primariamente logico dei giudizi morali. Hare sostiene infatti che le distinzioni morali non sono riducibili alle distinzioni tra concetti. Queste ultime, infatti, sono esclusivamente di carattere logico, mentre le distinzioni morali hanno anche un carattere pratico e scaturiscono dai differenti atteggiamenti degli individui rispetto ad un oggetto o ad una situazione. Hare, in quanto non descrittivista, nega la possibilità che ci siano parole morali accettate in virtù del loro riferirsi ad una proprietà morale oggettivamente conoscibile. I termini etici non 235 R. M. Hare, Objective Prescriptions, in A. Phillips Griffiths (edited by), Ethics, cit., p. 3. J. L. Mackie, Rights, Utility and Universalization, in R. Frey (edited by), Utility and Rights, University of Minnesota Press, Minneapolis 1981, p. 98. 237 R. M. Hare, Diritti, utilità ed universalizzazione: una replica a J. L. Mackie, in R. M. Hare, Sulla morale politica, cit., pp. 114-115. 236 144 incorporano concetti specificamente morali, ma determinano le decisioni degli individui, per cui non esiste un linguaggio morale distinto da quello ordinario ed una specifica analisi dei concetti morali. Come si legge in Freedom and Reason: “una volta che si è compreso il carattere logico dei concetti morali, vi può essere un utile e cogente scambio di argomentazioni anche tra persone che non abbiano, prima che cominci, nessun concreto principio mortale in comune” (FR, p. 252)238. Per Hare vi deve essere una netta differenziazione tra i termini puramente valutativi (come “buono, “giusto”, “doveroso” etc.), i quali non sono solitamente utilizzati con significato descrittivo e, anche se ciò accade, essi non perdono il loro carattere primario, e i termini secondariamente valutativi. Questi ultimi, infatti, sono utilizzati anche con significato descrittivo, come accade con il termine “coraggioso” (courageous), ma ciò significa che la loro carica prescrittiva non è autentica. Al contrario, secondo i naturalisti, alcune parole morali particolari, porprio per esempio “coraggioso”, in virtù del loro significato, sono al contempo legate a certe valutazioni e a certe descrizioni. Infatti, solitamente si associa il termine “coraggioso” ad azioni giudicate positive, in quanto in modo immediato quando descriviamo un’azione come “coraggiosa” intendiamo al contempo lodare quell’atto; nondimeno, sostiene Hare, questo è un retaggio del naturalismo, il quale fa dipendere le questioni morali da questioni concettuali, mentre adottare un certo apparato concettuale è qualcosa di diverso che adottare principi morali. Pertanto, se dovesse accedere che nessuno valutasse più in modo elevato un certo tipo di azioni, secondo il naturalista si dovrebbe rinunciare a utilizzare il termine “coraggioso”. A suo parere, infatti, l’uso valutativo e quello descrittivo di un termine coincidono, per cui l’impossibilità di utilizzare tale temine con significato valutativo ne impedisce, in modo immediato, un utilizzo in senso descrittivo. Ciò accade perché si ritiene che un termine come “coraggioso” individui un’attitudine morale per la quale il parlante, nello stesso momento in cui descrive un atto come coraggioso, lo valuta in modo positivo: 238 A proposito di questa concezione, C. Diamond, ha notato polemicamente che, seguendo essa, “tutte le differenze sono differenze di principio e potrebbero almeno in teoria essere espresse in un linguaggio privo di particolari concetti morali”. Cfr., “We are Perpetually Moralists”: Iris Murdoch, Fact, and Value, in I. Murdoch and the Search for Human Goodness, cit., p. 91. 145 è vero che, una volta che una parola, attraverso l’unanimità delle valutazioni della gente, ha acquistato un certo significato descrittivo ad essa saldamente legato, è possibile derivare giudizi contenenti quella parola da asserzioni non valutative; ma, se si fa questo, nessuno può essere logicamente obbligato ad accettare la valutazione normalmente incorporata nella parola: può solo essere obbligato a accettare ciò che è implicitamente contenuto nel significato descrittivo della parola stessa (FR, p. 256). Sarebbe invero molto strano, sostiene il naturalista, definire un atto come “coraggioso” e sostenere al contempo che non lo si ritiene degno di lode, precisando che non si vuole esprimere attraverso di esso una prescrizione, ma solo descrivere un comportamento. “La sola ragione per cui un procedimento del genere a proposito della parola ‘coraggioso’ ci sembrerebbe strano è che, per la maggior parte, siamo saldamente attaccati all’atteggiamento che la parola incorpora” (FR, p. 254). Perciò, se qualcuno, non volendo lodare il comportamento di chi mette a repentaglio la propria salvezza per la vita altrui, dicesse che preferisce non utilizzare più il termine “coraggioso”, in quanto incorpora un atteggiamento morale che egli non approva, quella persona potrebbe usare una locuzione in sostituzione del termine rifiutato (per esempio “non curarsi della propria salvezza al fine di provvedere a quella altrui”) 239 . Infatti, sebbene il termine “coraggioso” possa in parte incorporare un’attitudine morale che appare come una sua proprietà oggettiva, è fondamentale, in sede di riflessione morale, non farsi influenzare da questa attitudine. Hare qui vuole sottolineare che, dal punto di vista logico, la descrizione di un comportamento, come quello di chi sacrifica se stesso per salvare gli altri, non può automaticamente implicare una valutazione di quell’atto: questo è un passo ulteriore che va compiuto successivamente, giacché descrizione e valutazione sono disgiunte. Pertanto, anche le parole che incorporano un atteggiamento morale consolidato, saranno puramente prescrittive solo se non ammettono di essere usate descrittivamente e se la possibilità che noi assentiamo ad esse non deriva dalla conoscenza dei fatti che descrivono, ma delle valutazioni universali che veicolano. 239 Per il naturalista un tale comportamento sarebbe piuttosto strano, perché egli non crede che esistano termini valutativi distinti da quelli descrittivi. Tuttavia, tale atteggiamento apparirebbe molto meno strano, sostiene Hare, se lo adottassimo per la parola “nigger” (negro), ossia per un termine impiegato con significato spregiativo che però al contempo pretende di descrivere i caratteri somatici su cui fondare tale discriminazione. È nondimeno normale che chi non condivide un atteggiamento razzista, abbandoni tale termine ed impieghi il termine “nero” o l’espressione “di colore”, al fine di separare la semplice descrizione di un evento (il fatto che quell’individuo abbia la pelle nera), dalla valutazione (razzista) di esso. 146 Hare invece pensa che i due generi di significati vadano scissi giacché le questioni morali riguardano le concrete scelte degli individui e non i concetti, i quali esulano dalle considerazioni morali, poiché sono elaborati e fondati indipendentemente dalle proposizioni etiche nelle quali sono utilizzati. Per questo sarebbe possibile continuare ad utilizzare il significato del termine “coraggioso” pur non approvando l’attitudine morale che si pensa esso solitamente esprima. E tuttavia, se un termine incorpora una componente fattuale, non si può considerare puramente prescrittivo, alla pari di “buono”, “giusto”, “doveroso. Questa idea è stata contestato da Diamond e Iris Murdoch, le quali imputano a tale visione di Hare un’idea ristretta della morale, in quanto trascurerebbe di considerare che le questioni morali non riguardano solo le scelte degli individui, ma coinvolgono in generali questioni concettuali ampie, nelle quali si intrecciano sia la parte descrittiva che la parte valutativa degli enunciati le quali, assieme, esprimono le convinzioni morali dei parlanti. In tal modo le due autrici vogliono dimostrare la fallacia di una eccessiva fede nella logica del ragionamento morale, le cui difficoltà sembrano poter mettere in discussione il progetto complessivo di Hare il quale riesce soltanto a “fornire un resoconto della logica del discorso morale, un resoconto che non è invece una riflessione su qualsiasi particolare attitudine morale”240. Murdoch da parte sua sostiene che le considerazioni morali sono legate alle considerazioni concettuali e dunque il dissenso morale non riguarda solo le scelte degli individui, ma è molto più ampio, in quanto concerne in generale diverse visioni del mondo. L’orizzonte analitico è insufficiente e ciò è dimostrabile guardando a come [attraverso esso] costruiamo la vita morale in modo comportamentistico come insieme di scelte e valutazioni garantite da un riferimento ai fatti. In tale mondo ‘bene’ e ‘giusto’ potrebbero essere solo parole morali. Ma se osserviamo le più complesse dotazioni di significato che possiedono termine come ‘azioni’ e ‘scelte’, noi vedremo le differenze morali come diverse visioni relative al modo di comprendere il mondo (peraltro vederle in questo modo è qualcosa vecchio come la filosofia morale stesso), più o meno estese ed importanti, le quali possono mostrarsi francamente o in modo meno chiaro come differenze storiche, simboliche o differenze di vocabolario morale che suggeriscono…la ricchezza di ramificazioni possedute da un concetto morale241. 240 C. Diamond, “We are Perpetually Moralists”: Iris Murdoch, Fact, and Value, in I. Murdoch and the Search for Human Goodness, cit., p. 86. 241 I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, ora in Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature, cit., p. 82. 147 Problematicità della distinzione fatto/valore Queste critiche sono radicali perché investono la concezione generale che Hare pone a fondamento della sua riflessione. In particolare, esse coinvolgono la distinzione tra fatti e valori, da Hare accettata con riferimento alla supposta legge di Hume, per distinguere il significato descrittivo da quello prescrittivo. Si è già reso conto delle critiche di Anscombe e Foot in proposito: qui si può aggiungere che tale distinzione, è stata più volte criticata anche in anni recenti perché restituirebbe un’immagine distorta del discorso morale. L’idea che esistano termini puramente prescrittivi e puramente descrittivi e che queste due proprietà non possano essere presenti contemporaneamente, sembra infatti introdurre una irreale distinzione all’interno del linguaggio morale. P. Foot ad esempio ha sostenuto l’esistenza di concetti etici “spessi” i quali incorporano in modo inscindibile sia una valutazione che una descrizione di un fatto e tali due caratteri non possono essere disgiunti dall’analisi semantica. Foot peraltro aggiunge che “non è stato mostrato che le conclusioni morali non possono essere implicate da premesse fattuali o descrittive”242. A questo proposito, per esempio, il termine “scortese” (rude) è uno di questi e pertanto esso si caratterizza proprio per l’intreccio tra fatti e valori che lo costituisce. Hare invece ritiene che i termini valutativi siano tali in quanto forniscono una motivazione al soggetto per agire e tale motivazione non è dovuta ad alcuna descrizione di un particolare fatto. “Scortese” pertanto, essendo valutativo in modo secondario, non fornisce in modo diretto un biasimo all’azione compiuta, visto che l’ammissione di aver compiuto una scortesia non sembra essere legata ad un reale pentimento. In altre parole, termini come “scortese” sono primariamente fattuali, non prescrittivi, perché non muovono direttamente all’azione e non possiedono un significato prescrittivo, tanto è vero che biasimare una persona che ha compiuto un atto grave, dicendogli che è stato “scortese” non avrà probabilmente alcun effetto sul comportamento successivo di quella persona (cfr. Moral Thinking, pp. 120-121)243. H. Putnam, in un recente scritto, ha sostenuto l’indivisibilità della parte prescrittiva di questi termini da quella descrittiva e dunque la illegittimità dell’argomentazione di Hare e in generale del non cognitivismo. Ogni valutazione infatti sarebbe connessa ad una 242 P. Foot, Moral Arguments, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, cit., p. 99. La discussione sul significato e l’utilizzo del termine “rude” tra Foot ed Hare è stata ripercorsa da H. Putnam, cfr. Fatto/Valore. Fine di una dicotomia, cit., pp. 47-51, i quale argomento contro Hare e in favore di Foot. 243 148 informazione fattuale precisa, tanto più che lo stesso concetto di “fatto” appare difficilmente definibile, come sembra fare Hare, come qualcosa di empirico, descrivibile ed osservabile in modo oggettivo. Secondo Putnam “L’aspetto più negativo della dicotomia fatto/valore è che in pratica essa funziona come qualcosa che blocca la discussione, e non solo la discussione, ma anche il pensiero”244. Solo offrendo un’immagine reale dell’intreccio tra fatti e valori insito nelle considerazioni morali (ma secondo Putnam, che in parte di allaccia ad una posizione espressa da Quine, anche nelle conoscenze scientifiche) è possibile migliorare o mutare la nostra comprensione dei termini morali e delle questioni morali. Come sottolinea Murdoch per chi sostiene la distinzione fatto/valore: “non vi è possibilità di parlare di ‘considerazione morale’ poiché non c’è nulla di morale a cui guardare. Non vi è alcuna visione morale. Vi è solo il mondo ordinario che è guardato attraverso una visione ordinaria e c’è una volontà che si muove al suo interno”. La stessa Murdoch, poco oltre, sostiene che questa visione è irreale: “suggerisco che al livello di un serio senso comune e di una riflessione non filosofica ordinaria sulla natura della morale, è perfettamente ovvio che la bontà (goodness) sia connessa con la conoscenza: non con una impersonale conoscenza quasi scientifica del mondo ordinario, ma con una percezione onesta e ridefinita di quello che realmente è, un paziente e giusto discernimento ed esplorazione di ciò con cui ci si confronta”245. 244 H. Putnam, cfr. Fatto/Valore. Fine di una dicotomia, cit., p. 50. I. Murdoch, The Sovereignty of Good, Routledge & Keegan Paul, London/New York 2002, p. 34 e p. 37. 245 149 CAPITOLO 6. L’utilitarismo e i suoi “nemici” I problemi del welfarismo Per quel che riguarda i caratteri particolari dell’utilitarismo di Hare, Amartya Sen ha indirizzato le sue critiche soprattutto contro il postulato welfarista246, la procedura di massimizzazione ed il consequenzialismo che l’utilitarismo di Hare condivide con gran parte del neoutilitarismo contemporaneo. Secondo Sen, al di là dell’idea di Hare di poter assumere il rigore e il carattere formale di un’etica deontologica, l’utilitarismo non può essere assunto come principio morale se non si combina con un metodo per la valutazione degli stati di fatto che esso genera: è in sostanza il legame con il consequenzialismo che ne garantisce la cogenza come dottrina morale, quindi Una struttura morale utilitarista si compone dell’elemento centrale del risultato utilitarista (outcome utilitarianism), in relazione con un qualche metodo consequenzialista per tradurre i giudizi sui risultati in giudizi sulle azioni. La più completa struttura consequenzialista richiederebbe che la combinazione di tutte le variabili influenti fosse scelta in modo tale che il risultato sia il miglior stato di cose possibile in accordo con il risultato utilitarista247. In particolare, secondo Sen, per il welfarismo: “il giudizio sulla bontà di stati di cose alternativi deve essere assunto come una funzione in continuo aumento e basato esclusivamente sui rispettivi insiemi di utilità individuali di questi stati”248. Se l’utilità per gli individui consiste nella soddisfazione delle loro preferenze razionali, uno stato sociale è preferibile ad un altro se la soddisfazione di tali preferenze è in esso maggiore che in un altro. Proprio a seguito di quest’ultima osservazione, è evidente che anche per l’utilitarismo di Hare è fondamentale l’assunto dell’ordinamento somma (sum-ranking), ossia la necessità di sommare le utilità individuali. Secondo l’ordinamento somma, “l’informazione sull’utilità relativamente a qualsiasi situazione va valutata considerando unicamente la somma totale di tutte le utilità in quella situazione”249. L’assunto dell’ordinamento somma conduce a sostenere che “ogni stato di cose x è almeno buono 246 “Non vi è niente di assolutamente nuovo nella caratterizzazione che Hare fornisce dell’utilità in quanto tale, e in questo senso egli ha piuttosto adottato nuovi argomenti per difendere una vecchia tradizione che non riformulare il contenuto dell’utilitarismo”. Cfr. A. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, Introduzione, cit., p. 17. 247 A. K. Sen, Utilitarianism and Welfarism, cit., p. 466. 248 Ibidem, p. 468. 249 A. K. Sen, Etica ed economia, cit., p. 52. 150 come uno stato di cose alternativo y se e solo se la somma totale delle utilità individuali è almeno grande come la somma totale delle utilità individuali in y”250. L’utilitarismo di Hare sembra altresì coerente con il criterio dell’ottimalità paretiana, secondo il quale “chi esercita una scelta pubblica deve dare la preferenza a un assetto sociale X rispetto all’assetto sociale Y, se almeno uno degli individui in nome dei quali sceglie preferisce personalmente X a Y e nessuno degli altri preferisce Y a X”251. Sen nota che gli utilitaristi pongono una stretta relazione tra espressione dell’interesse personale ed utilità, come se il benessere di ciascuno fosse semplicemente espresso dalle sua preferenze e non avesse a che fare altresì con le capacità e i bisogni che ogni individuo esprime. In realtà, è probabile che una persona che ha avuto una vita di privazioni sviluppi delle preferenze di bassa intensità e l’utilitarismo, basandosi solo su di esse, perpetuerebbe la sua condizione di inferiorità. Inoltre, se si assume che le persone sono potenzialmente in grado di sviluppare le medesime preferenze, ossia se i confronti interpersonali sono privi di contenuto descrittivo, l’utilità di un individuo svantaggiato (per esempio uno storpio) avrebbe lo stesso valore di quella di una persona benestante, mentre le loro necessità e i loro bisogni in realtà sono differenti: “L’utilitarismo conduce a ciò in virtù della sua attenzione esclusiva alla massimizzazione della somma delle utilità”252. L’utilitarismo sembra quindi offrire una visione stilizzata degli individui, in quanto trascurerebbe i loro bisogni e le loro differenze qualitative: “questa sparizione delle differenze qualitative…è proprio ciò che da all’utilitarista la possibilità di parlare di una ‘somma’ di piaceri, di una loro massimizzazione e così via”253. Per esempio, se esistono due situazioni sociali, A e B (composte da sole due persone), la cui somma totale di utilità è 2, per l’utilitarismo esse sono paritarie, benché invece in A la distribuzione del benessere possa avere valore 2 per un individuo e 0 per l’altro, mentre in B la distribuzione sia equa, ossia 1 e 1; Sen suggerisce che un’attenzione alle caratteristiche descrittive degli individui sarebbe in tal modo illuminante perché permetterebbe di preferire razionalmente B ad A. Sen pone quest’altro esempio, postulando l’esistenza di una situazione in cui un poliziotto (P) sadico, povero e pessimista traesse piacere dal torturare un sognatore romantico (R), ottimista, ricco e in buona salute. In una situazione senza tortura (X), 250 A. K. Sen, Utilitarianism and Welfarism, cit., p. 464. C. A. Viano, Etica pubblica, cit., p. 78 (corsivo aggiunto). 252 A. K. Sen, Uguaglianza di che cosa? in L’idea di uguaglianza, cit., pp. 75-76. 253 H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, cit., p. 58. 251 151 l’utilità di P avrebbe valore 4 e quella si R 10 (totale 14). Nel caso invece in cui P torturasse R (situazione Y), l’utilità di P (che trae piacere a frustare) crescerebbe fino a 7 e quella di R scenderebbe da 10 e a 8 (totale 15). Secondo Sen il welfarismo potrebbe concludere che il benessere del poliziotto dovrebbe essere promosso, poiché la soddisfazione che egli trarrebbe dalla tortura gli permetterebbe aumentare di molto il suo benessere, mentre il dolore che il sognatore subirebbe diminuirebbe solo di poco il suo benessere254. La risposta di Hare è che, sebbene a livello formale sia facile far dire all’utilitarista cose contrarie alle normali intuizioni delle persone, nella pratica tali casi sono rari e comunque vi è il dovere di agire tenendo conto delle intuizioni stesse, le quali, per la gran parte della nostra vita, funzionano. Eppure Sen evidenzia che il rifiuto della tortura non può basarsi sull’idea che essa in genere è qualcosa che ostacola il raggiungimento dei fini utilitaristi; questo esito, infatti, è estrinseco rispetto all’essenza dell’utilitarismo e sembra ammettere che l’utilitarismo respinge soluzioni controintuitive solo per un caso fortuito, non attraverso rigorose contro argomentazioni. Infatti, stante i presupposti dell’argomentazione di Hare, l’arcangelo, se fosse un vero utilitarista (e peraltro per definizione privo di pensiero intuitivo in grado di riconoscere i caratteri contingenti delle situazioni) non potrebbe fare altro che scegliere la situazione che favorisce un maggiore benessere (nel caso proposto quella in cui il poliziotto tortura il sognatore), pena l’enunciazione di un’incoerenza logica, il solo criterio cui egli deve alla fine rispondere255. La questione delle preferenze Hare fornisce risposte alle critiche osservando ciò che solitamente accade in una società che lui ottimisticamente giudica in genere favorevole all’utilitarismo ed all’applicazione delle proprie intuizioni, ossia alla possibilità di esercitare solo raramente il pensiero critico. Sen pone invece delle obiezioni più generali, evidenziando per esempio che la dottrina dei due livelli del pensiero morale semplifica 254 Si può peraltro notare che la situazione che favorisce il sadico dovrebbe essere approvata perché ha una somma di utilità maggiore (15) di quella iniziale (14). Questo, secondo Sen, sarebbe il risultato delle riflessioni di Hare, il quale vuol massimizzare la somma totale delle utilità individuali. La stessa cosa però si potrebbe dire per Harsanyi, il quale ritiene vada massimizzata l’utilità media, che nella situazione iniziale ha valore 7, mentre in quella in cui il poliziotto può torturare ha valore 7,5. 255 A. K. Sen, Utilitarianism and Welfarism, cit., pp. 474-476. 152 eccessivamente le situazioni morali, trattandole in modo schematico, giacché fornisce un’immagine non veritiera e distorta di quello che effettivamente accade tra gli individui che operano delle scelte di rilevanza sociale. La dottrina dei due livelli del pensiero morale può forse essere efficace come accorgimento metodologico, ma appare in difficoltà come unico fondamento di una teoria etica: “il comportamento degli esseri umani può implicare ben di più della massimizzazione dei benefici in termini di struttura di preferenze di questo o di quello, e le complesse interrelazioni esistenti in una società possono generare norme e regole di comportamento in grado di creare un solco fra benessere e comportamento”256. Lo stesso criterio delle preferenze espresse come unica base in virtù della quale giudicare la natura motivazione degli individui, sembra restituire un’immagine non troppo reale degli individui, i quali agiscono in maniera molto meno lineare. Come sottolinea E. Anderson (citata da Putnam): “gli stati motivazionali non sono sempre riflessivamente sostenibili….La noia, la debolezza, l’apatia, il disprezzo di sé, la disperazione e altri stati motivazionali possono far sì che una persona non riesca a desiderare ciò che giudica essere un bene o che desideri quel che giudica un male. Ciò impedisce di identificare i giudizi di valore con le espressioni di desideri o preferenze reali, come sostiene Hare”257. Quello che Anderson sottolinea per di più è che la nozione di “preferenza” non può essere ritenuta un concetto razionale in grado di spiegare senza fallo le volizioni degli individui, quello che loro desiderano, quello che potrebbe essere il loro benessere. Inoltre, come aveva già notato in un suo vecchio articolo T. Scanlon, una tale nozione di “benessere” è troppo netta, irrealistica, giacché essa: non dovrà prendere solo la forma della somma di particolari insiemi di beni, ma dovrà fornire una valutazione dei modi in cui gli individui possono essere influenzati in virtù di questi beni…anche se si potesse assumere che tutti avessero la stessa condizione fisica e gli stessi gusti, potrebbe ancora accadere che un bene particolare, ad esempio un certo diritto, toccherebbe le persone in modo piuttosto diverso a seconda del loro ruolo sociale258. Queste obiezioni, elaborate da diversi autori in tempi diversi, sono dirette contro le caratteristiche peculiari dell’utilitarismo moderno, di cui Hare (e Harsanyi) sono stati 256 A. K. Sen, Comportamento e concetto di preferenze, in Scelta benessere, equità, cit., p. 124. E. Anderson, Value in Ethics and Economics, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1993, p. 102. 258 T. Scanlon, Preference and Urgency, “The Journal of Philosophy”, n. 6, 1975, p. 656. 257 153 forse i più noti rappresentanti. Il loro modello di argomentazione morale, seppure solo in parte coincidente, viene giudicato troppo rigido, come se non potesse ammettere vie di mezzo e non concedesse nulla alle normali debolezze che accompagnano qualsiasi comportamento umano, il quale non si trova sempre di fronte al dualismo “morale/non morale”. Ciò accade perché l’appello alle condizioni empiriche e particolari degli individui che Hare pone più volte (si pensi al livello intuitivo), appare essere meno cogente rispetto alla necessità di costruire un modello formale che astragga da tali caratteristiche contingenti; l’esigenza che muove Hare è di certo quella di trovare principi di condotta generali ed universali, ma anche in grado di adattarsi agevolmente alle differenti questioni morali. In realtà, questa ricerca di semplicità, se efficace dal punto di vista esplicativo, sembra esserlo meno dal punto di vista pratico-normativo. Per esempio, si è già notato che il fatto per cui Hare spieghi il comportamento non morale ricorrendo al solo concetto di “debolezza del volere”, è stato criticato come fragile e riduttivo, perché addebita ad un unico fattore diversi casi di comportamento etico non razionale. Con la sua meta-etica non cognitivista, Hare ha…trasformato la capacità diretta delle prescrizioni morali di motivare la condotta, da requisito psicologico in una condizione logica della correttezza formale e linguistica del giudizio morale. Ma oggigiorno si ritiene del tutto concepibile che qualcuno abbia una certa credenza morale e che però non sia mosso ad agire di conseguenza e ciò non tanto perché la sua volontà sia debole, ma in quanto è alla ricerca di ulteriori ragioni per essere spinto a fare ciò che riconosce essere moralmente preferibile259. Williams da canto suo ha sostenuto che il riconoscimento dell’akrasia come unico elemento che può interrompere la catena che sembra condurre razionalmente, in modo necessario, dalla logica alle azioni, mostra l’inefficienza della coerenza logica come carattere preminente della teoria etica: “Il fatto che questo [la debolezza del volere] possa accadere fa sì che la conclusione non possa essere ricondotta a premesse da cui deriverebbe logicamente. È sbagliato fare di tutto una questione di ragionamento logico fino alla decisione di agire…Di conseguenza la riflessione appena svolta [da Hare] non riguarda specificamente l’etica, ma invece le premesse e la conclusione di qualsiasi ragionamento pratico”260. Lo schema di Hare sarebbe dunque del tipo “tutto-niente”: il 259 E. Lecaldano, L’eredità analitica contemporanea e l’eredità della storia dell’etica, in P. Donatelli/E. Lecaldano (a cura di), Etica analitica, cit., p. 567. 260 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 155. 154 comportamento o è morale oppure non lo è, non sembrano esserci mediazioni. È come se fosse inammissibile che il soggetto si formasse delle preferenze in divergenza con un modello di preferenze morali stabilito a priori. Tuttavia, qualora una persona comprenda razionalmente quale sarebbe la preferenza razionale che dovrebbe avere, ma non riuscisse ad abbracciarla del tutto, come peraltro spesso succede (per esempio, se dicesse di voler essere vegetariano, ma, trovando disgustosi i cibi vegetariani, si ritrovasse a mangiare carne, pur sapendo che ciò va contro la sua preferenza e promettendo, col tempo, di abituarsi a non mangiare carne), sarebbe riduttivo sostenere che essa agisce in quel modo perché non è in grado di ragionare correttamente e sarebbe altresì profondamente singolare sostenere che la preferenza vegetariana, in quanto non seguita, non è la reale preferenza di quella persona. Ci può essere una successione di ordinamenti di preferenze dei risultati, ordinati da una persona in termini morali. Questa persona potrebbe desiderare di avere un ordinamento di preferenze R diverso da quello che ha, e potrebbe cercare di spostarsi verso ordinamenti che stanno più in alto nella sua scala morale. Le preferenze di una persona non sono interamente sotto il suo controllo261. Sembra qui sfuggire ad Hare il carattere condizionale ed attento all’esperienza che in altre occasioni il suo sistema pare efficacemente mostrare: “anche in virtù di un criterio soggettivo [di formazione delle preferenze], una persona può essere in errore in relazione al livello di benessere e a come varie prospettive la possano influenzare”262. Ma quale valore possiede per l’utilitarismo il metodo per determinare l’accettabilità o meno delle preferenze, dal momento che, a livello linguistico, le preferenze vengono solo espresse ed ovviamente non soppesate? Cosa garantisce la rilevanza normativa di queste preferenze? L’utilità può funzionare in ogni caso come unità di misura che stabilisce l’accettazione di tali preferenze? “Se si accetta che, per essere rilevante, qualcosa debba essere desiderato da qualcuno (o debba produrre piacere, o ridurre dolore, cioè, in qualche senso, generare utilità), rimane da discutere se la metrica dell’utilità fornisca la misura appropriata”263. Sen e Williams evidenziano come una questione sia assumere l’utilità come condizione necessaria perché qualcosa sia preferito, mentre tutt’altro problema è sostenere che l’essere moralmente rilevante di 261 A. K. Sen, Scelte, ordinamenti e moralità, in Scelta benessere, equità, cit., p. 142. T. Scanlon, Preference and Urgency, cit., p. 657. 263 A. Sen/B. Williams, Introduzione ad Utilitarismo e oltre, cit., p. 11. 262 155 qualcosa coincide col fatto che essa sia desiderata con una certa misura. “Se si accetta la prima idea ma non la seconda, è possibile annettere una maggiore importanza alle attività che riguardano se stessi che a quelle che riguardano gli altri, e assegnare un valore più alto alle preferenze personali rispetto a quelle esterne”264. Per esempio, un conto è sostenere che l’essere vegetariano è una preferenza rilevante perché si rivela utile per chi lo preferisce, un altro è dire che l’essere vegetariano è rilevante in quanto genera un piacere, un utilità. In altre parole, fare riferimento alla sola utilità come carattere per ritenere rilevante una preferenza appare riduttivo, poiché il metro della rilevanza morale dei desideri appare essere legato, in modo sostanziale, anche ad altri fattori. Inoltre, il procedimento consistente nel fornire ragioni in favore di un certo atto implica l’elaborazione di una serie di motivi che dovrebbero costituire una sorta di batteria argomentativi in suo favore; al contrario, l’utilizzo della logica e dell’idea che esiste un solo linguaggio morale ed un unico significato delle nozioni etiche, è fortemente limitante per un compiuto discorso etico. Per questo, l’utilitarismo della preferenza sembra introdurre welfarismo e consequenzialismo in modo surrettizio come elementi empirici, in quanto essi figurano come corollari del principio della coerenza logica dei ragionamenti che dovrebbero fondare quegli elementi empirici. Oltre a ciò, se il riferimento alle “preferenze” da massimizzare, invece che ai piaceri, può essere più funzionale ad una teoria etica che voglia basarsi su un principio morale universale, appare però necessario individuare un criterio, possibilmente oggettivo e socialmente condiviso, che permetta di distinguere tra le preferenze accettabili e quelle non accettabili. Il test dell’universalizzazione non sembra infatti funzionare a questo scopo, poiché esso rappresenta una regola logica, non un principio sostanziale. Di conseguenza, per evitare l’accusa di “soggettivismo”, stante il carattere evidentemente soggettivo e personale di desideri e preferenze, “La maggior parte dei suoi sostenitori [delle teorie preferenzialiste come quelle di Hare e Harsanyi]…va alla ricerca di espedienti teorici, più o meno plausibili, per restringere le preferenze ammesse all’interno della teoria, e in questo modo per distinguerle, al suo interno, da desideri non ammissibili”265. Il ricorrere all’argomentazione formale da parte di Hare, basata 264 Ivi. S. Maffettone , Liberalismo filosofico e politico, in S. Maffettone/S. Veca (a cura di), Filosofia, politica, società. “Annali di etica pubblica”, Donzelli Editore, Roma 1995, p. 84. 265 156 sull’universalità e la prescrittività come presupposti logici, in questo senso non aiuta, poiché il criterio di discriminazione delle preferenze (nel suo caso la divisione tra i due livelli del pensiero morale) deve essere sostantivo e non formale, per avere delle implicazioni pratiche. Un’obiezione di lunga data, affrontata a suo tempo anche da J. S. Mill266, si chiede se l’utilitarismo non domandi troppo agli individui, in quanto sembra imporre loro di atteggiarsi in modi che raramente possono essere effettivamente attuati. Sembra infatti eccessivo imporre agli individui l’idea che le loro preferenze debbano contare sempre come quelle degli altri o che debba essere compiuto un complesso calcolo per decidere quali di essi. Se è comprensibile la necessità di attenuare l’influenza dell’egoismo e la volontà di favorire la benevolenza imparziale, appare troppo ottimistica l’idea di una natura umana spontaneamente altruista che l’utilitarismo può assecondare: “I fini ed i nostri propositi liberamente scelti…possiedono un’importanza speciale che i fini e i propositi altrui non possiedono”267. L’accusa è quella secondo cui l’utilitarista dovrebbe essere un santo, o meglio un individuo obbligato sempre a comportarsi nella maniera più razionale e corretta. Pertanto, se in ogni momento della propria vita non si compie l’azione che massimizza l’utilità totale, non ci si comporta in modo morale. “Sembra che, per un utilitarista, qualsiasi cosa massimizzi l’utilità deve essere allo stesso tempo quello che sarebbe meraviglioso compiere, che sarebbe bello fare, che dovremmo fare, quello che uno deve fare, ciò che uno è obbligato a compiere ed ha il dovere di fare”268. In realtà, l’utilitarismo di Hare sembra meno rigido, in quanto egli accetta la possibilità della pluralità delle preferenze e l’evenienza che, attraverso il pensiero critico, esse vengano corrette ed adattate ai fatti. Hare non pensa che in ogni momento l’individuo, prima di compiere qualsiasi azione, debba domandarsi quale fra esse massimizzerà l’utilità: questa idea significherebbe restituire un’immagine del tutto distorta dell’agire utilitarista. Egli non sostiene che quello che appare come ottimo è l’atto che va sempre compiuto: è infatti possibile che alcune circostanze lo impediscano o che l’individuo, per vari motivi, non possieda una chiara coscienza dell’azione ritenuta più efficace. Tuttavia, in quanto teoria etica formale, l’utilitarismo ha il compito 266 Cfr. L’utilitarismo, cit., pp. 257-258. D. Brock, Utilitarianism and helping others, in H. B. Miller/H. Williams (edited by), The Limits of Utilitarianism, University of Minnesota Press, Minneapolis 1982, p. 232. 268 G. Harman, The Nature of Morality, cit., p. 158. 267 157 di indicare quello che idealmente dovrebbe essere compiuto, ponendosi in tal modo come un modello di riferimento per chi agisce. Hare è dunque meno radicale di P. Singer269, proprio perché il suo sistema cerca anche di spiegare come mai alcuni individui, pur sapendo quello che sarebbe giusto fare, si comportano in modo diverso per la scarsa capacità di ragionare criticamente. Infatti, la divisione dei pensiero morale secondo i due livelli sembra in grado di disinnescare l’obiezione, poiché essa spiega in che modo la possibilità dell’errore, dell’incomprensione, possa penetrare all’interno della teoria etica da lui sostenuta: è come se fosse fondamentale per l’individuo comprendere concettualmente cosa egli dovrebbe fare, mentre l’effettiva esecuzione dell’azione può anche essere difettosa. D’altra parte, come detto, il compito della teoria etica è indicare quale sarebbe il dovere da compiere, pur sapendo che non sempre gli uomini agiscono in base ad esso. Hare potrebbe forse sottoscrivere le parole di Mill: “E’ compito dell’etica dirci quali siano i nostri doveri, o come possiamo accertarcene, ma nessun sistema etico pretende che il solo motivo di tutto ciò che facciamo sia il sentimento del dovere”270. Si può dunque aggiungere che Hare vuole indicare agli individui un modello di ragionamento morale il quale, non potendo mai essere completamente acquisito, si pone come un termine ideale, un ideale regolativo, ma non c’è alcuna affermazione della santità morale, anche perché, come sottolinea S. Wolf: “Un mondo nel quale tutti, o un gran numero di persone, raggiungesse la santità morale…conterrebbe probabilmente meno felicità di un mondo nel quale le persone realizzassero una diversità di ideali che coinvolge una varietà di preferenze e valori personali”271. I problemi del consequenzialismo Più in generale, contro l’utilitarismo e il consequenzialismo che lo caratterizza, B. Williams ha portato il famoso esempio di Jim, l’ospite straniero di un paese 269 P. Singer, da utilitarista ed allievo di Hare, afferma che l’utilitarismo impone di scegliere sempre l’azione che massimizza al meglio l’utilità. Egli aggiunge che non esistono atti supererogatori, ossia quegli atti che, pur essendo di elevato valore e pur essendo raccomandabili, non sono pretesi in modo obbligatorio (per esempio, mettere in serio repentaglio la propria vita per salvare qualcuno in difficoltà). Per Singer, se abbiamo la possibilità, con un nostro gesto, di rendere il mondo migliore, abbiamo il dovere di compiere quel gesto. Cfr., Famine, affluence and morality, in J. Rachels (edited by), Moral Problems, Harper and Row, New York 1979. 270 J. S. Mill, L’utilitarismo, cit., p. 257. 271 S. Wolf, Moral Saints, “The Journal of Philosophy”, 8, 1982, p. 427. 158 sudamericano a cui viene offerto, dal capo dell’esercito che sta per giustiziare venti indigeni, di uccidere uno di loro e salvarne gli altri diciannove, oppure di non far nulla permettendo l’esecuzione di tutti i condannati. Secondo la seconda alternativa, lo straniero non provoca direttamente la morte degli indiani e dunque la sua responsabilità è solo negativa, poiché è stato investito, senza volerlo, di un dilemma morale drammatico. Williams sottolinea che per l’utilitarismo Jim deve uccidere l’indiano per salvare gli altri, poiché questa scelta è quella che apparentemente promuove l’utilità: in tal modo però è evidente che tale dottrina ignora “le considerazioni che coinvolgono l’idea, per dirla in modo semplice, per cui ognuno di noi è responsabile per quello che lui fa, piuttosto che per quello che fanno gli altri. Questa è un’idea strettamente legata al valore dell’integrità. Si sospetta spesso che l’utilitarismo, almeno nelle sue forme dirette, rende l’integrità un valore più o meno intelligibile”272. Per l’utilitarismo, l’uccisone del prigioniero sarebbe sbagliata solo se producesse effetti negativi, sebbene sia comprensibile che in casi come questi non si possa pretendere dagli individui (utilitaristi o no) una piena assunzione di responsabilità. Williams nondimeno nota che l’utilitarismo fornisce una scappatoia troppo agevole all’agente, il quale trova facilmente il modo per giustificare la sua scelta e per sfuggire alle proprie responsabilità, in quanto l’utilitarismo gli impone di giudicare irrazionali i sentimenti che in questi casi drammatici lo spingono a vedere con ripugnanza la propria azione: “se un corso d’azione, prima che questi sentimenti vengano presi in considerazione, è utilitaristicamente preferibile, allora i sentimenti negativi verso questo genere di azioni saranno, per l’utilitarismo, irrazionali”273. L’imposizione di ignorare i propri sentimenti se in contrasto con l’utilitarismo, evidenzia secondo Williams l’idea per cui l’utilitarismo non tiene in alcun conto l’integrità dell’agente e ciò conduce a negare la nozione di responsabilità ed identità del soggetto: “Il soggetto si trova a dover prendere una decisione circa l’azione da compiere prescindendo proprio da ciò che definisce il suo punto di vista, cioè i suoi progetti personali; in questo modo, ci si 272 B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. Smart-B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit., p. 124. 273 Ibidem, p. 128. Williams aggiunge poco dopo “almeno in parte non siamo utilitaristi e non possiamo considerare i nostri sentimenti morali semplicemente come oggetti della considerazione utilitarista. Poiché la nostra relazione col mondo è in parte costituita da questi sentimenti…considerare questi sentimenti…come avvenimenti esterni all’io significa perdere il senso della propria identità morale” (p. 124). 159 troverà frequentemente nella condizione di dover fare un’azione contraria ai propri progetti…L’effetto di tale scissione è quindi una minaccia all’integrità del soggetto”274. Le critiche di Williams non sono dirette contro l’utilitarismo di Hare, giacché nel 1973, anno di pubblicazione dello scritto di Williams, questi non aveva ancora chiaramente adottato una prospettiva utilitarista. Tuttavia, una volta operata questa scelta, le critiche di Williams, benché anteriori, costituiscono anche per Hare un ostacolo da affrontare. Infatti, egli ribatte alle critiche di Williams facendo leva sul fatto che una situazione come quella di Jim è difficilmente realizzabile e dunque non dovrebbe porre problemi per l’utilitarismo275. Hare potrebbe rispondere asserendo che Jim dovrebbe affidarsi alle proprie intuizioni, alla sua educazione, al coraggio, a quello che in quel momento drammatico gli viene in mente di fare. È come se in situazioni così difficili fosse comprensibile che gli individui siano esentati dalla stretta responsabilità morale e dovessero essere giudicati cercando di mettersi esattamente nei loro panni, quindi in condizioni di stress e senza la possibilità di esercitare il proprio pensiero critico. Ad ogni modo, Williams non contesta nello specifico la particolare risposta utilitarista, perché è evidente che le condizioni drammatiche in cui Jim deve scegliere non consentono di ragionare. Egli contesta il semplicismo e la superficialità con i quali l’utilitarismo giustifica la scelta, assumendo come esclusivo riferimento le conseguenze dei propri atti: “l’azione sarà corretta in virtù delle sue proprietà causali, di condurre al massimo grado a stati di cose buoni”276. Il consequenzialismo dunque richiede che si compia sempre l’azione che produce la maggiore utilità, mentre altre prospettive non sono vincolate a questa conclusione. Williams infatti critica il consequenzialismo di non tenere in debito conto il fatto che certi atti sono ripugnanti: è come se esso fosse incapace di indicare il valore qualitativo delle conseguenze che si producono: “Il consequenzialismo ci dice che per giudicare il valore delle azioni occorre disporre di 274 R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 124. Prendendo a prestito una distinzione elaborata da C. Bagnoli, si potrebbe affermare che il caso presentato da Williams è un “caso tragico”, ma non un “dilemma” morale. I casi tragici, infatti, “hanno una risoluzione morale; sebbene questa risoluzione sia tragica, rappresenta il ‘male minore’ [come nel caso in cui Jim ne uccida uno di sua mano per salvare gli altri diciannove condannati] ed è, perciò, la migliore azione disponibile all’agente. Nei dilemmi morali autentici, invece, non vi è un’azione che possa essere detta ‘migliore’”. (Cfr., Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., p. 89). 276 B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. Smart-B. Williams, Utilitarismo: un confronto, cit., p. 113. Per il non-consequenzialista invece “anche se da un punto di vista astratto uno stato di cose è migliore di un altro, non segue che un dato agente debba considerare affare suo produrlo, anche se è nelle sue possibilità farlo” (p. 115). 275 160 informazioni riguardo alle conseguenze o quali tipi di conseguenze hanno valore positivo, ovvero quali stati di cose produce l’azione moralmente doverosa”277. Questi rilievi sono fondamentali, perché qui Williams pone un problema generale e la questione cruciale, cui si dovrà rispondere, è se il consequenzialismo di Hare derivi logicamente dal prescrittivismo universale oppure se esso sia un elemento esterno, introdotto da Hare per rendere plausibile il suo utilitarismo. Infatti, se il consequenzialismo fosse giustificato da un presupposto logico-razionale, Hare potrebbe rispondere alla critica sostenendo che nella sua teoria etica un’azione è giusta non semplicemente perchè produce le migliori conseguenze, ma perché è la più razionale, in virtù di concetti a priori, non legati agli stati di fatto causati. Se invece il consequenzialismo fosse privo di questa base formale, il rilievo di Williams potrebbe cogliere nel segno. Utilitarismo e identità personale Un’altra fra le critiche più note condotte contro l’utilitarismo e, in genere, contro dottrine consequenzialiste, è quella secondo la quale esso non terrebbe in debito conto la separatezza delle persone. La critica di Williams e Rawls secondo la quale l’utilitarismo non riconosce l’integrità degli individui, equivale a quella per cui esso non terrebbe in debito conto la separatezza degli individui278, le loro qualità e capacità, il loro essere in primis esseri umani e non contenitori di preferenze. Scrive Williams che a causa dell’utilitarismo, “le persone perdono la propria separatezza come beneficiarie degli esiti utilitaristici; infatti, sia che si adotti la formula che massimizza l’utilità totale, sia che si adotti quella che massimizza l’utilità media, si verifica un’aggregazione delle soddisfazioni che è del tutto indifferente alla separatezza della persone che ne beneficiano”279. Inoltre, l’utilitarismo sembra astrarre dalla specifica identità dell’agente, giacché, in virtù del suo orizzonte consequenzialista, non conta chi 277 C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., p. 164. Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., in particolare le pp. 36-40 e la p. 167: “Potremmo sottoporre a verifica l’idea secondo cui una persona benevolente deve venire guidata dai principi che uno sceglierebbe se sapesse di essere, per così dire, scisso in tutti i membri della società. Vale a dire che egli dovrebbe dividersi in una pluralità di persone la cui vita e le cui esperienze rimarrebbero distinte nel modo usuale…Poiché un singolo individuo deve letteralmente trasformarsi in una pluralità di persone, non ha senso indovinare quale”. Rawls aggiunge che di un concetto simile parla anche T. Nagel (cfr., The Possibility of Altruism, Princeton University Press, Princeton 1970, pp. 140 sgg). 279 B. Williams, Persone caratteri, moralità (1976) ora in Sorte morale, cit., pp. 11-12. 278 161 effettivamente agisce e dunque passerebbe in secondo piano la responsabilità individuale: La radice fondamentale del valore per l’utilitarismo è lo stato di cose e…di conseguenza, una volta valutate le differenze causali tra vari stati di cose, non può fare alcuna differenza che sia stata una persona o l’altra a produrre un certo stato di cose: se S1 consiste nel fatto che io faccia qualcosa e nelle relative conseguenze e S2 consiste nel fatto che qualcun altro faccia qualcosa e nelle relative conseguenze; e se S2 si verifica solo nel caso non si verifichi S1, che è in ipotesi meglio di S2, allora io devo fare essere S1 anche se prima facie S1 è qualcosa di moralmente cattivo280. Questa è una critica piuttosto nota all’utilitarismo, espressa da Williams anche attraverso la contestazione del meccanismo dell’inversione dei ruoli utilizzato da Hare già in Freedom and Reason: “Nel caso dell’esperimento dell’inversione dei ruoli, si potrebbe dire che la probabilità della situazione immaginata è sempre pari a zero, giacché si tratta della probabilità do essere qualcun altro”281. L’obiezione in questione tuttavia non sembra diretta solo contro l’utilitarismo, bensì contro la più generale concezione dell’identità personale che esso assume nelle sue versioni moderne, a partire da Sidgwick. Secondo Williams, l’identità personale è qualcosa costituito dall’esperienza che si fa di una serie di stati mentali costanti nel tempo, i quali concorrono a determinare la convinzione che la persona che sperimenta questi stati mentali sia la medesima: ciò consente di parlare di “integrità” di un individuo, dei suoi “progetti” e delle sue “intenzioni”. La concezione dell’identità personale cui anche Hare sembra fare riferimento scaturisce da un confronto con le posizioni di Hume282, di Sidgwick, ma soprattutto 280 Ibidem, pp. 12-13. A suo tempo già D. Ross scriveva contro l’utilitarismo di Moore: “Il difetto essenziale della teoria dell’utilitarismo ideale è che essa ignora il carattere profondamente personale del dovere, o almeno non rende pienamente giustizia ad esso. Se il solo dovere è quello di produrre il massimo bene – se si tratti di me stesso, o del mio benessere, o di una persona a cui abbia promesso di procurare quel bene, o semplicemente un mio simile, con il quale non ho alcuna relazione speciale - non dovrebbe fare alcuna differenza, quanto al mio dovere di produrre quel bene” (Cfr., Il giusto e il bene, cit., p. 30). 281 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 110. 282 “I filosofi contemporanei riprendono…da Hume il rifiuto di ricondurre l’io o l’identità personale ad una spiegazione semplice, ovvero ad una spiegazione che fa corrispondere l’identità personale di ciascuno con una sostanza, un substratum, un’anima, un quid del tutto peculiare e indefinibile, che resta identico nel corso di tutta la sua vita…I filosofi analitici contemporanei condividono con Hume una sorta di presupposto scettico fondamentale, che non tanto nega che gli esseri umani abbiano un io o un’identità personale, quanto piuttosto afferma che per rendere conto di questa realtà dobbiamo ricorrere ad una teoria complessa e riduzionistica”. (E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., p. 71). 162 appare essere un’anticipazione di quella elaborata in modo compiuto nel 1984 da D. Parfit, il quale sostiene una concezione dell’identità personale “secondo la quale non vi è un punto di vista umano perché non vi sono persone concepite come entità esistenti separatamente: cioè l’io è riducibile a qualcosa di ulteriore e più semplice. Ciò di cui possiamo accertare l’esistenza, infatti, sono solo fasi di vita mentale”283. Egli inoltre aggiunge: Secondo la concezione riduzionista che io difendo, le persone esistono. E una persona è distinta dal proprio cervello, dal proprio corpo, dalle proprie esperienze. Ma non è un’entità esistente separatamente. L’esistenza di una persona in un certo periodo consiste solo nell’esistenza del suo cervello e del suo corpo, nel succedersi dei suoi pensieri, nel compimento delle sue azioni e nel ricorrere di molti altri eventi fisici e mentali284. L’utilitarismo dunque, abbracciando una visione riduzionista dell’identità personale, può rispettare le separatezza delle persone e, al contempo, operare dei confronti tra di esse. Peraltro, Hare stesso è esplicito nel sostenere che esiste un parallelo tra i confronti interpersonali, in genere ritenuti ambito stretto della moralità, e quelli intrapersonali (tra il proprio “io” presente e quelli futuri), in genere ritenuti appannaggio della prudenza. Ora, il parallelo tra moralità e prudenza è posto da Hare proprio in virtù della sua visione riduzionista dell’identità personale, secondo la quale, fatto salvo lo scetticismo humeano in proposito, va preso atto che l’impressione di essere lo stesso “io” ci è sempre presente, sebbene non sia possibile fornire di essa un resoconto teoretico. In tal modo non si pongono problemi rispetto alla possibilità di confrontare le preferenze altrui con le nostre e le proprie preferenze attuali con quelle future285. 283 P. Donatelli, La filosofia morale, cit., p. 113. Lecaldano propone una tesi condivisibile secondo la quale “possiamo ipotizzare che la nozione di identità personale di cui abbiamo bisogno in etica, si presenterà come un intreccio dei diversi criteri cui ricorrere per la costruzione di diverse specificazioni di questa nozione che opereranno in parti diverse della teoria etica. Non c’è una sola analisi della nozione di identità, ma, a seconda del prevalere dei criteri di differenziazione, o di quelli di identificazione, o di quelli di reidentificazione, avremo una diversa specializzazione di questa nozione”. Cfr. E. Lecaldano, L’etica e l’identità personale, cit., p. 258. 284 D. Parfit, Ragioni e persone, cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1989, p 350. Cfr. altresì p. 442: “Se cessiamo di credere che le persone sono entità esistenti separatamente ed arriviamo a pensare che l’unità di una esistenza non implica nient’altro che le varie relazioni tra le esperienze che scandiscono tale esistenza, diventa più plausibile preoccuparsi di più della qualità di quelle esperienze e di meno di quale sia la persona a cui appartengono. Ciò depone a favore di una concezione utilitaristica”. 285 Una critica a questa concezione dell’identità personale è venuta da MacIntyre, il quale la ritiene spersonalizzante ed incapace di rendere conto sia dell’idea della vita umana come dotata di un ordine narrativa e continuo, sia della nozione di responsabilità, per cui, a suo parere, “qualsiasi tentativo di chiarire il concetto di identità personale indipendente e separatamente da quelli di narrazione, intelligibilità e responsabilità è condannato al fallimento” (Cfr., Dopo la virtù, cit., p. 261). 163 Un esempio dell’adesione di Hare alla suddetta concezione dell’identità personale risiede nella sua analisi linguistica del termine “io” e dell’immedesimazione. Egli si chiede cosa significhi esattamente affermare che “io preferirei, con intensità I, che quella sofferenza cessasse, se mi trovassi nei panni dell’individuo X”? Cosa intendono gli individuo quando esprimono proposizioni di quel tipo? Da un lato, identificarsi con un’altra persona, non vuol dire ovviamente diventare un altro se stesso e provare le sue sensazioni ed inclinazioni. Tuttavia, sostiene Hare, se il termine “io” fosse utilizzato in modo descrittivo nell’espressione “io preferisco con intensità X che…”, non sarebbe possibile neppure pensare che si possano condividere le preferenze altrui, giacché attraverso tale termine si descriverebbe semplicemente un fatto. Infatti, se si interpreta l’identità personale come un fatto e non come un’impressione che ci è sempre ed intimamente presente, risulta arduo sostenere una teoria etica basata sull’assunzione su di se delle preferenze altrui. Egli peraltro in Moral Thinking sostiene che il problema dello scetticismo relativo all’identità personale è un problema che riguarda tutta la filosofia, non solo la filosofia morale. Nell’ambito della moralità suggerisce Hare, è possibile interpretare il termine “io” come prescrittivo, per cui, se si afferma di poter essere un’altra persona in una determinata situazione, ciò implica immediatamente che si manifesti un interesse simile a quello espresso da quella persona in quella situazione ipotetica: è allora possibile prescrivere che le sue preferenze vengano soddisfatte, in quanto le si assume come proprie. Come si può notare, qui si agisce al livello della pura analisi linguistica, senza il coinvolgimento di argomenti sostanziali. È infatti secondo Hare sufficiente interpretare “io” come termine prescrittivo nell’espressione “io preferisco che…”, per poter affermare di voler immedesimarsi con le preferenze della altre persone, giacché “nell’identificare con me stesso la persona che si trova in una situazione ipotetica, sono già tenuto a prescrivere che le sue preferenze siano soddisfatte” (MT, p. 273). È proprio dell’ambito della moralità e non della prudenza, identificare le nostre preferenze con quelle di altre persone e non di un me stesso futuro; la moralità dunque apre l’individuo all’alterità e tale apertura, a parere di Hare, è proprio consentita dall’interpretazione di io come termine prescrittivo. L’analisi concettuale del termine “io”, similmente a quella sull’immedesimazione, tende ad escludere riferimenti individuali che potrebbero effettivamente pregiudicare la capacità di immedesimarsi. Infatti, se si affermasse “John potrebbe trovarsi esattamente 164 nella stessa situazione di Smith”, è evidente che si direbbe qualcosa di errato, poiché i due individui in questione possiedono una loro identità, indicata dal nome proprio che, descrittivamente, ci restituisce due persone singole, in quanto “John” e “Smith” fungono da riferimenti individuali. La proposizione potrebbe dunque essere contraddittoria dal punto di vista semantico perché individua due persone distinte che non possono ovviamente scambiarsi le rispettive identità. Il termine “io” invece si comporta diversamente dal nome proprio, il quale incorpora in sé delle specificazioni. La tesi di Hare si può definire in questi termini: Nella misura in cui so come sarebbe, per una certa persona, prescrivere o preferire qualcosa nella sua situazione, e mi identifico ipoteticamente con quella persona (vale a dire, penso che potrei essere lui, e questo implica che io prescriva che vengano soddisfatte le sue prescrizioni, le quali, in questo caso ipotetico, se io fossi lui, diverrebbero mie), io prescriverò che quelle prescrizioni vengano soddisfatte, in quel caso ipotetico. E questa è una tautologia. Ma non è certo una banalità. Questa tesi costituisce infatti la chiave per comprendere cosa significa passare dalla prudenza alla moralità (MT, p. 274)286. Questa concezione dell’identità personale consente altresì ad Hare di ritornare sulla questione del valore delle preferenze presenti rispetto a quelle future. In particolare, egli sostiene che è comprensibile che le preferenze ora per ora (now for now) siano privilegiate rispetto a quelle future (then for then), poiché sono maggiormente presenti al soggetto; o meglio, come suggerisce S. Kagan, esse possiedono un grado maggiore di chiarezza e dunque sono meglio note. Naturalmente, si parla qui di una conoscenza che non ha significato teoretico: “Le credenze veraci (vivid beliefs) tendono ad essere limitate al presente. Nel momento di considerare la possibilità che soddisfare un desiderio presente produrrà più tardi un costo più significativo, l’agente percepisce la sua insoddisfazione futura solo in modo attenuato – mentre il desiderio presente è sentito in modo vivido”287. 286 A proposito di questa analisi di Hare relativa all’utilizzo del termine “io”, essa sembra rappresentare una soluzione felice per l’utilitarismo: “Mi sembra vada condivisa l’idea di Hare che le nozioni di Io e di identità personale, sono nozioni in parte prescrittive, nel senso che si tratta di nozioni la cui analisi è largamente dipendente dalle assunzioni di base della teoria normativa sostenuta, senza che peraltro siano del tutto immuni da un controllo di validità esterno, facendo riferimento per una parte alla loro congruenza, ai dati empirici e alle esigenze logiche”. Cfr., E. Lecaldano, L’etica e l’identità personale, cit., p. 257. 287 S. Kagan, The Limits of Morality, Clarendon Press, Oxford 1989, pp. 285-286. In realtà, Kagan sembra non ritenere necessario che l’agente prudente sviluppi una coscienza morale razionale nel senso inteso da Hare, ossia una chiara conoscenza delle regole logiche con cui sono linguisticamente espresse le preferenze. Kagan peraltro non parla di “preferenze”, bensì di “credenze” e, sebbene i due termini 165 Hare peraltro ritiene necessario che si accetti la possibilità di sviluppare nuove preferenze, più razionali, dotate di una maggiore utilità di accettazione. Tuttavia, anche per Kagan (che non esclude che una preferenza futura possa diventare progressivamente meglio nota e dunque influenzare il nostro comportamento attuale, ma in quanto preferenza che, benché rivolta al futuro, è a noi chiara adesso) la credenza più verace è ugualmente quella più razionalmente voluta: “non sembra implausibile suggerire che la predisposizione verso i desideri ed interessi presenti è semplicemente dovuta al fatto che la nostra conoscenza degli interessi presenti è in genere più piena e più vivida che la conoscenza degli interessi futuri”288. Pertanto, se differente è il criterio attraverso il quale accettare una preferenza o una credenza su cui essa si basa, simile appare il metodo, ossia la convinzione per cui non sussiste una netta cesura tra quello che crediamo sia giusto fare adesso e quello che sia giusto fare in futuro, come scriveva a suo tempo lo stesso Sidgwick, rimarcando in ciò la propria distanza da Bentham: “i sentimenti che avrò tra un anno devono essere per me altrettanto importanti di quelli che avrò tra un minuto, se solo potessi fare una previsione ugualmente sicura”289. Il fatto che si privilegino le preferenze attuali, infatti, non significa di certo per Hare che l’individuo non si interessi al suo futuro o alle generazioni future. Significa invece richiamarsi alle due essenziali assunzioni della sua teoria etica, in base alle quali le preferenze da privilegiare sono quelle sviluppate in condizioni di piena informazione, ossia quelle che hanno una più elevata utilità di accettazione e in genere sono le preferenze presenti a possedere questo carattere. Inoltre, anche se oggi i miei interessi futuri possono apparirmi più chiari di quelli attuali, nulla garantisce che un sacrificio di quelli attuali sia un comportamento maggiormente prudente, dato che nel tempo possono mutare tante cose, sia in me, sia in ciò che mi accade attorno. L’utilitarismo, allora, non chiede sacrifici irrazionali, né impone di disinteressarsi del futuro, ma propone di adottare l’accorgimento di privilegiare le preferenze che appaiono universalizzabili, ossia che fanno scaturire una maggiore utilità di accettazione. Ora, come insegna l’esperienza, indipendentemente dal periodo temporale nel quale si manifestano le preferenze, di solito è più razionale e benefico privilegiare le preferenze presenti. A livello intuitivo, infatti, gli individui hanno esperienza che le preferenze possiedano una diversa valenza, è però evidente che le preferenze si formano in base a credenze relative a quello che noi desideriamo e a quello che desiderano gli altri 288 S. Kagan, The Limits of Morality, cit., p. 286. 289 H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Libro II, cap. II, cit., p. 163. 166 presenti sono quelle che li fanno agire mentre gli scopi o obiettivi futuri, sono noti in un certo modo, il quale però potrebbe mutare. Attraverso la moralità l’individuo supera dunque la cerchia delle proprie preferenze e comprende la necessità di una valutazione imparziale anche delle preferenze altrui, le quali andranno privilegiate se razionali ed utilitaristicamente più efficaci delle sue. Le risposte di Hare Hare ritiene in generale che gran parte delle critiche all’utilitarismo si basino su un fraintendimento della sua reale funzione e sulla sottovalutazione della sua versatilità. Egli critica in particolare l’utilizzo di esempi immaginari per contestare l’utilitarismo, i quali obbligano questa dottrina, per così dire, a misurarsi con casi costruiti ad hoc per farla naufragare: secondo Hare questo può però essere compiuto contro qualsiasi dottrina morale. “Il trucco più comune degli avversari dell’utilitarismo è quello di prendere esempi di tale riflessione, solitamente rivolti a casi immaginari, e confrontarli con quanto dovrebbe pensare l’uomo ordinario”290. Se per esempio ci fosse una disputa pubblica tra un sostenitore dell’utilitarismo ed un suo avversario, questi potrebbe fare appello alle intuizioni morali delle persone presenti le quali, di norma (per abitudine, educazione, credenze religiose o altro) respingono in modo immediato certi atti e ne approvano altri senza particolare riflessione. Il non utilitarista pone l’esempio di un paziente che ha urgente bisogno di un rene nuovo; all’improvviso entra in ospedale, per ripararsi dal freddo, un emarginato, sconosciuto da tutti, senza famiglia e parenti, il quale per caso ha i tessuti compatibili con quelli del malato di reni. Non sarebbe necessario, secondo l’utilitarismo, uccidere l’emarginato per salvare il paziente che ha bisogno di un rene? Dal punto di vista puramente formale, l’utilitarista dovrebbe essere d’accordo con questa conclusione, mentre gran parte del pubblico, probabilmente, sarebbe in profondo disaccordo, ritenendo quell’atto un assassinio. Mettiamo inoltre che l’avversario dell’utilitarismo convincesse il pubblico ad utilizzare il termine “assassinio” con significato descrittivo, non valutativo, e quindi potesse “definire 290 R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo e oltre, cit., p 41. Williams aveva condotto una contestazione a questo tipo di risposta già in Utilitarismo e autocompiacimento morale (1976), in Sorte morale, cit., pp. 67-68. Anche G. Pontara sembra contestare le asserzioni Hare, quando scrive che “una teoria etica, per essere accettabile, non deve avere implicazioni inaccettabili nemmeno in situazioni immaginarie” (Cfr., G. Pontara, Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 276). 167 l’asserzione che quell’azione sarebbe un assassinio come un’asserzione puramente fattuale, prioritaria rispetto ad ogni giudizio che affermi che l’atto è sbagliato” (MT, p. 175). Secondo Hare questo esempio è così artificioso da contraddirsi da sé. Ad ogni modo, se si resta al livello intuitivo, l’utilitarista, se sarà stato educato bene (preferibilmente da un pensatore critico utilitarista), non avrà problemi ad ammettere che quell’atto è un assassinio che va dunque vietato. Inoltre, è evidente che il non utilitarista ha costruito l’esempio per rendere l’azione dell’uccisione dell’emarginato quella che sembra avere le migliori conseguenze, perché salva la vita di una persona e renderà felici tutti gli altri che la amano. In realtà, è assai improbabile che nella vita reale capiti un fatto di questo genere: i medici per esempio, come fanno ad essere così certi che l’emarginato sia davvero uno sconosciuto? Ci vorrebbero delle lunghe indagini per appurarlo e poi è probabile che molti altri medici ed infermieri si rifiuterebbero di compiere l’intervento e si opporrebbero. Insomma, in generale “come metodo per scegliere l’azione più razionale…l’utilitarismo, in un dilemma morale di questa sorta, richiede ai medici di massimizzare l’aspettativa di utilità (cioè la soddisfazione delle preferenze); e poiché se i medici si sbagliano le conseguenze saranno disastrose, essi devono essere ben sicuri di non sbagliare” (MT, p. 176). Se l’avversario dell’utilitarismo modula l’esempio per avere una risposta utilitarista che afferma che l’assassinio è la giusta soluzione, egli avrà questa risposta: ciò accade perché l’esempio è costruito artificiosamente per fornire questo esito. Infatti, “le intuizioni che il suo pubblico usa sono il prodotto dell’educazione morale la quale, per quanto buona possa essere stata, era ideata per preparare il pubblico a confrontarsi con le situazioni morali che è probabile incontrare” (MT, p. 175). D’altra parte, è vero che se si ragiona a livello delle sole ipotesi ideali, è possibile inventare qualunque caso per mostrare che l’utilitarismo conduce a delle conclusioni palesemente immorali, ma gli individui solitamente affrontano casi reali e il filosofo morale non può ignorare questo fatto. Le intuizioni, ossia il materiale di fondo che tutti gli individui utilizzano per agire moralmente, vanno sempre considerate alla luce del pensiero critico che ha il compito di selezionare quelle migliori per una condotta corretta. Come nel caso delle preferenze, vanno privilegiate quelle intuizioni che possiedono la maggiore utilità di accettazione, per quello che il pensiero critico mostra. 168 Poiché i principi morali siano davvero di ausilio, debbono essere abbastanza generali da poter essere impiegati e trasmessi. Ma proprio in quanto generali, i principi morali di livello intuitivo entrano facilmente in collisione. È in questo caso che l’agente prova (e deve provare) disagio. Ma il metodo del ragionamento che il livello critico della riflessione morale adotta, l’utilitarismo dell’atto, è capace di determinare quale dei due doveri in conflitto è veramente un dovere, ovvero, qual è il dovere tutto considerato291. Hare risponde inoltre alla classica obiezione secondo la quale l’utilitarismo, comandando di fornire peso uguale alle preferenze di tutti, impedisce di riconoscere l’esistenza dei doveri speciali che abbiamo nei confronti di alcuni individui come per esempio i figli292. In realtà l’utilitarismo non comanda affatto questo ed anzi riconosce tranquillamente che, a livello intuitivo, appaia a tutti ovvio dare più affetto ai propri figli che non a quelli altrui. Tuttavia questa intuizione non è applicabile in modo assoluto (non è per esempio giusta se in un concorso per un posto pubblico il padre funzionario statale favorisce un figlio) e dunque sarà il pensiero critico che ci dirà se essa è utilitaristicamente valida. Naturalmente se si riflette a mente fredda, criticamente, è evidente che avere maggiore cura dei propri figli è di solito la cosa giusta da fare: lo dimostrano l’esperienza, il buon senso e dunque, per il pensiero critico, la prescrizione di avere maggiore cura dei propri figli piuttosto che minore è legittima perché ha mostrato di possedere una maggiore utilità di accettazione in un numero maggiore di casi. In altri termini, dal punto di vista puramente formale la prescrizione di avere maggiore cura dei propri figli appare razionale, ma potrebbe apparire in certi casi razionale quella che asserisce che non vanno fatte discriminazioni tra i figli propri e quelli altrui. Tuttavia, una volta affrontati i casi sostanziali e l’esperienza, risulta chiaro che la prima prescrizione è da preferire in un numero maggiore di circostanze. D’altra parte, un arcangelo che agisce come un utilitarista dell’atto avrebbe buon gioco nell’asserire che “Se le madri fossero propense ad avere eguale cura per tutti i bambini del mondo, è improbabile che i bambini riceverebbero anche solo le stesse attenzioni che ricevono ora. La diluizione della responsabilità la indebolirebbe fino a farla scomparire” (MT, p. 180). 291 C. Bagnoli, Il dilemma morale e i limiti della teoria etica, cit., pp. 39-40. Una tale critica è venuta in particolare da N. Rescher, Unselfishness: the role of the vicarious affects in moral philosophy and social theory, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1975. Cfr la riposta di Hare, L’utilitarismo e gli affetti vicari, in Saggi di teoria etica, cit. Una discussione simile si trova in Sidgwick, cfr. I metodi dell’etica, libro III, cap. XII, pp. 379-380. 292 169 In realtà, sostiene l’autore, è assolutamente comprensibile che in situazioni eccezionali, drammatiche, un individuo sia incapace di riflettere criticamente e si affidi all’azione che in quel momento, intuitivamente gli sembra la più giusta; se egli ha ricevuto una buona educazione, tuttavia, la sua scelta dovrebbe essere in gran parte condivisibile. Certamente, a posteriori, l’azione potrebbe anche risultare irrazionale o utilitaristicamente nociva e tuttavia in quel momento di emergenza essa risulta comprensibile. Se per esempio, si è coinvolti in un incidente aereo e nel velivolo avvolto dalle fiamme rimangono il proprio figlio ed un famoso e bravissimo chirurgo, è probabile che la gran parte delle persone, in base allo loro educazione, alle abitudini ed intuizioni morali acquisite, salveranno il proprio figlio, sebbene forse, salvando il chirurgo, avrebbero potuto salvare altri passeggeri feriti e tutte le altre persone che, nel futuro, quel medico avrebbe operato. Benché a livello della pura teoria salvare il chirurgo possa apparire come l’operazione utilitaristicamente migliore, nella situazione particolare salvare il proprio figlio risulta essere l’atto più giusto: in questo caso, una tale scelta può anche assumere il valore di principio universale. L’utilitarista critico non avrebbe nulla da obiettare contro questa decisione, poiché egli è cosciente del ruolo giocato dalle intuizioni e di come le persone agiscono in situazioni di emergenza. Peraltro, anche questo esempio, assai improbabile ed assurdo, secondo Hare è disonesto, poiché suggerisce “che voi possiate al tempo stesso trovarvi in questa situazione d’emergenza e concedervi il lusso del pensiero critico, come sarebbe necessario per giustificare la vostra decisione di andare contro le vostre intuizioni” (MT, p. 183). D’altra parte, se le nostre intuizioni più profonde, di fronte a casi tanto irreali, dovessero comunque, per il pensiero critico, rivelarsi anti-utilitariste, sarebbe buona cosa rigettarle, perché evidentemente esse non erano in realtà le nostre convinzioni più profonde: “se le profonde convinzioni morali di qualcuno conducono a fornire la risposta sbagliata anche in casi immaginari o inusuali, esse non sono le migliori convinzioni che uno può avere”293. 293 R. M. Hare, What Is Wrong with Slavery, cit., p. 113. 170 Considerazioni conclusive L’opera di Hare ha avuto senz’altro il merito di estendere ed ampliare l’applicazione dei metodi di riflessione analitici all’etica, nella ricerca di un fondamento razionale ed autonomo di essa. La necessità di superare, da un lato, le tesi del positivismo logico e, dall’altro, le insidie di una fondazione naturalistica o metafisica della morale, ha condotto infatti l’autore ad elaborare una metodologia di analisi che, contro il positivismo, ha cercato di restituire significato peculiare alle proposizioni morali e, contro il naturalismo, ha cercato di favorire una fondazione autonoma dell’etica stessa. Secondo Hare, infatti, l’etica è autonoma se si pone come branca della logica, ossia se adotta le procedure argomentative e gli strumenti concettuali della logica stessa, adattandoli però alle sue esigenze pratiche, ovvero al confronto con i fatti. La stessa soluzione di Kant appare a Hare come parziale, in quanto non in grado di fornire uno strumento per valutare la portata dei moventi pratici. La soluzione di Sidgwick, un autore da cui Hare ha tratto senz’altro molti spunti, lascerebbe invece in secondo piano le questioni più generali e fondamentali dell’etica, in particolare quelle relative al significato dei termini morali294. In realtà, l’adozione dell’universalità da parte di Hare, quale carattere primario dei giudizi morali, sembra nondimeno maggiormente debitrice alla riflessione di Sidgwick, mentre possiede un valore concettuale molto diverso rispetto alla nozione kantiana. Per Sidgwick, però, l’universalità295 rappresenta un assioma auto-evidente (egli lo definisce “principio di reciprocità” il quale, unito ad altri principi auto-evidenti, fonda l’utilitarismo) ed è dotato di un’applicazione direttamente normativa e, in estensione, sociale. Nella riflessione di Hare, invece, questo aspetto pratico-normativo è meno marcato e la fondazione del principio dell’universalità come regola logica possiede forse un punto di forza rispetto alla innovativa riflessione di Sidgwick, ma anche e soprattutto un punto 294 Questioni di tal genere non sono direttamente affrontate da H. Sidgwick, in quanto a suo parere (cfr. I metodi dell’etica, Introduzione, cit., p. 42): “il tentativo di conoscere le leggi generali o le generalizzazioni empiriche attraverso cui è possibile spiegare la varietà dei comportamenti umani e dei sentimenti e dei giudizi umani circa la condotta è qualcosa di essenzialmente diverso dal tentativo di determinare quale tra questi sia il comportamento giusto e quale tra questi giudizi sia quello valido”. 295 “Non possiamo dire che un’azione è giusta per A e ingiusta per B, a meno che non si possa individuare nella natura o nelle circostanze delle due azioni una qualche differenza che possiamo considerare come base ragionevole per una differenza relativa ai rispettivi doveri. Pertanto, se ritengo che l’azione sia giusta per me, implicitamente ritengo che essa sia giusta per qualsiasi altra persona, la cui natura e le cui circostanze non sono diverse dalle mie in qualche aspetto importante” (Cfr., I metodi dell’etica, libro III, cap. I, cit., pp. 238-239). 171 di debolezza. Il punto di forza è legato alla maggiore capacità della tesi di Hare di affrontare la necessità di fondare la natura non solo esplicativa ma anche prescrittiva dell’utilitarismo. Tale natura prescrittiva richiede una fondazione razionale e formale che nell’utilitarismo classico non era presente e che con Sidgwick emergeva solo in parte, stante l’ammissione dell’ineliminabilità delle inclinazioni egoistiche e il grande rilievo normativo assegnato alla morale di senso comune. La natura prescrittiva dell’utilitarismo richiede allora l’adozione di un piano d’indagine universale, mentre la visione del principio di utilità come principio esplicativo non necessita di indagini sullo statuto epistemologico dei giudizi morali. Il piano esplicativo descrive infatti quali sono gli atti che gli individui approvano come utili, mentre quello prescrittivo vuole individuare gli atti che è doveroso compiere per incrementare l’utilità collettiva. La riflessione di Hare dunque, per molti aspetti, sembra aver correttamente intercettato l’esigenza che l’utilitarismo ha mostrato, ossia quello di dotare le sue asserzioni di uno statuto prescrittivo che possa astrarre dalla semplice constatazione empirica di ciò che gli individui approvano o respingono e risalire ad una fondazione universale di tali prescrizioni296. Il punto di debolezza della nozione hareana di universalità è però quello sottolineato in precedenza, relativo alla sua scarsa capacità di fornire un effettivo movente alla razionalità pratica. Per questo, la nozione di razionalità dell’etica, nella filosofia morale di Hare, appare in realtà avere un valore superficiale, poiché la razionalità di cui l’autore ci parla non è né quella strumentale di Sidgwick e né quella pratica che Kant pone a fondamento della sua morale, ma possiede un valore logico-concettuale che si concretizza in un’attenta analisi semantica dei termini morali e che perciò rimane all’interno della logica stessa. In altre parole, non si forniscono ragioni in favore di un certo atto, ma in favore dell’argomentazione logica che sorregge la proposizione che esprime la volontà o meno di compiere quell’atto. Da questo punto di vista sembra che la sola cosa interessante per il filosofo morale sia essere coerente con le regole d’uso dei termini all’interno del linguaggio morale; l’argomentazione vera e propria, con il suo soppesare le ragioni pro o contro un certo comportamento, è condotta al livello verbale, tanto è vero che non solo l’universalità dei giudizi morali possiede un carattere logico (essa è infatti una caratteristica dei giudizi in 296 Per una disamina di queste problematiche cfr. per esempio F. Fagiani, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, cit., pp. 23-25. 172 generale), ma la stessa prescrittività, di certo in apparenza la più normativa delle proprietà dei giudizi morali, è comunque una proprietà in primis linguistica, in quanto essa rappresenta l’espressione verbale delle preferenze. Inoltre, il modo attraverso il quale Hare in Moral Thinking fonda sia la possibilità di immedesimarsi con le preferenze altrui, sia la necessità di farlo in modo imparziale, non paiono conferire alla sua teoria etica una maggiore valenza normativa, ma sembrano voler fornire all’analisi linguistica dei termini morali una maggiore pregnanza teoretica ed epistemologica. In altre parole, Hare sembra aver voluto fornire un disegno sempre più fondato e compiuto del suo metodo di analisi del linguaggio morale e il discorso sull’utilitarismo, sulla massimizzazione delle preferenze, appare funzionale a questo progetto teorico, più che alla delineazione di un’etica normativa. Infatti, egli pone una sorta di fondazione linguistica non solo dell’utilitarismo, bensì dei meccanismi empirici che lo sostanziano, ossia l’imparzialità, l’immedesimazione (si ricordi l’interpretazione del termine “io” come termine prescrittivo) e la massimizzazione delle preferenze razionali. Di nuovo, sembra qui efficace la critica che si appella alla sterilità di un metodo di riflessione morale eccessivamente fiducioso nella forza persuasiva della coerenza logica: “Si suppone che sosteniamo che una particolare azione è sbagliata perché è un furto e perché rubare è sbagliato; ma se domandiamo perché rubare è sbagliato, [il filosofo analitico] ci può solo portare un argomento dello stesso genere, con un principio morale che funge semplicemente da sua premessa maggiore”297. Gli argomenti di Hare, per certi aspetti, confondono (o fanno surrettiziamente coincidere) la correttezza logica di un ragionamento con l’efficacia pratica di un’argomentazione morale che invece asserisce sempre qualcosa di più di quello che fa una deduzione logica. Appare però valida l’intenzione di studiare quello che gli individui effettivamente intendono quando discutono le questioni morali; in tal senso, il linguaggio è mezzo primario di espressione di questi pensieri. Vi è dunque un fondo empirista nella riflessione di Hare e l’analisi semantica perciò possiede un duplice obiettivo: da un lato, comprendere quale struttura argomentativa induce gli individui a formarsi le loro opinioni morali (obiettivo formale); dall’altro, comprendere in base a quali convinzioni fattuali (e/o intuitive) gli individui agiscono in virtù dei loro interessi o preferenze. 297 P. Foot, Moral Arguments, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, cit., pp. 98-99. 173 Questa doppia strategia d’analisi possiede a sua volta una duplice finalità: in primo luogo, indicare agli individui un metodo di argomentazione razionale e universale, in grado di avvicinarsi ad un pensiero morale critico; in secondo luogo, favorire la condotta etica, promovendo, attraverso l’analisi semantica dei termini che li esprimono, la correzione delle preferenze e degli interessi e promovendo quelli formatisi razionalmente. La riflessione di Hare, dunque, vuole fornire un valido modello teoretico nel tentativo di dotare l’utilitarismo di un principio formale e soprattutto di come poter far rientrare questa dottrina etica all’interno della teoria della scelta razionale. Di certo, risulta più problematico affermare se questa possibilità sia realistica e se Hare ne abbia effettivamente posto le condizioni di possibilità. È davvero così necessario puntellare l’utilitarismo a un presupposto formale? È poi possibile farlo senza snaturarne l’essenza profonda? L’autore forse ha preteso dall’utilitarismo più di quanto gli si può chiedere: da un lato, di fondarsi su principio morale universale ed astratto, quando forse una delle sue caratteristiche migliori è il suo valore condizionale, il suo essere in genere affine al comune modo d’agire degli individui; dall’altro, di avvalersi di una teoria sostantiva del valore morale (necessaria per discriminare tra preferenze ammissibili e non ammissibili) che appare estranea all’utilitarismo, il quale non la può fondare, bensì al massimo esserne fondato298. Il tentativo di inserire nell’utilitarismo elementi ad esso estranei, come le asserzioni sui diritti, la giustizia, armonizzando tali elementi con la sua immagine di “etica pubblica”, si rivela poco felice, proprio perché sembra pretendere dall’utilitarismo la soluzione a questioni rispetto alle quali esso non possiede ancora gli strumenti concettuali per rispondere. Hare ad esempio sostiene che il requisito logico dell’universalità consente di fondare la nozione di “diritto” e, di conseguenza, quella di giustizia formale: “Per mezzo di sole considerazioni logiche, è possibile dimostrare che può esserci un diritti in possesso di chiunque: il diritto ad eguale considerazione e rispetto…Il diritto ad ‘eguale considerazione è rispetto’, che può essere stabilito ricorrendo a considerazioni puramente formali, non è altro che una riformulazione del requisito di universalizzabilità dei principi morali” (MT, p. 198). In realtà, si potrebbe 298 Cfr. P. H. Nowell-Smith: “l’appello all’utilitarismo…risiede in gran parte nel richiamarsi alla razionalità…per approntare una cornice comprensiva e coerente nella quale tutti problemi morali possano essere risolti. Ma forse questa è solo un’illusione…La filosofia morale concerne le azioni, e parlare di azioni significa sempre parlare del mondo dell’incerto, del contingente e dell’imprevisto. Non ci si deve aspettare alcuna ragione a priori che possa valere come singolo principio universale ed onnicomprensivo” (Cfr., Some Reflections on Utilitarianism, “Canadian Journal of Philosophy”, n. 4, 1971, p. 423). 174 obiettare, in questo caso si sta chiedendo all’utilitarismo di fare più di quello che esso può fare in campo morale, trascurando il fatto che un riferimento di carattere deontologico forse consentirebbe una fondazione più cogente di nozioni quali “diritto” e “giustizia”. Ciò non significa che l’utilitarismo non possa affrontare le questioni legate alla giustizia, ma solo che il metodo adottato da Hare non sembra essere quello giusto per affrontarle, tanto che, per l’utilitarismo contemporaneo “tali tentativi si risolvono, assai spesso…in compromessi eclettici, in forme di ‘consequenzialismo’ in cui è possibile immettere qualsivoglia ‘mix’ di ‘valori”299. Ad ogni modo, il vero punto critico sembra essere la pretesa di derivare l’utilitarismo in modo logico dal prescrittivismo universale. Hare infatti ritiene che le caratteristiche pratiche dell’utilitarismo (welfarismo e consequenzialismo) possano essere fondate in modo formale dai principi logici del suo prescrittivismo. Pertanto, stante questa fondazione, le critiche solitamente condotte contro di tali caratteristiche potevano essere agevolmente respinte. In realtà, se si analizza bene il rapporto tra prescrittivismo ed utilitarismo, si può sostenere che welfarismo e consequenzialismo non sono derivati logicamente dal prescrittivismo universale. Essi infatti, benché introdotti da Hare nella sua teoria etica, rimangono due requisiti autonomi che, per i loro caratteri essenziali, non scaturiscono da premesse formali. L’autore ha invece cercato di evidenziare la natura a priori che la sua teoria etica possiede, intendendo sostenere che il prescrittivismo universale regge, come insieme di premesse teoriche, le conseguenze normative dell’utilitarismo e dunque le categorie concettuali tipiche di esso possiedono un diverso e rinnovato significato, giacché razionalmente fondate, a differenza di quel che accade nell’utilitarismo classico. Pertanto, è vero che un atto possiede un’utilità di accettazione se massimizza il benessere collettivo producendo conseguenze benefiche, ma esso è valido in realtà se e solo se il giudizio che lo esprime è universale e dunque prescrive lo stesso atto per tutte le circostanze simili: ovvero in virtù della regola logica dell’universalità. Nell’utilitarismo non prescrittivista, welfarismo e consequenzialismo costituivano il solo orizzonte di “verifica” della moralità delle azioni e dunque le critiche di Sen e Williams potevano cogliere nel segno. L’utilitarismo di Hare, invece, essendo una teoria con un doppio livello di argomentazione, ritiene le azioni accettabili in virtù di due 299 F. Fagiani, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, cit., p. 107. 175 livelli di argomentazione: sia sul piano pratico, in quanto produttrici e conseguenze benefiche, ma soprattutto ed in prima istanza sul piano logico-formale, in quanto espresse da prescrizioni universali. In tal modo Hare ritiene di poter “mettere” al sicuro la sua teoria etica da queste critiche. Il rapporto tra proprietà logiche della teorie etica e caratteri normativi è dunque complesso, ma, nella sua esposizione, Hare sembra propendere per l’idea che siano le proprietà logiche (universalità, prescrittività) a fondare quelle normative, sebbene, a livello pratico, siano quelle normative (la prescrittività come espressione di preferenze, la capacità di assumere su di se le preferenze altrui, il welfarismo ed il consequenzialismo) che paiono essere più cogenti. È questo il problema di fondo della riflessione di Hare, e per questo egli ha cercato, nelle sue opere, di derivare in modo razionale i caratteri normativi dell’utilitarismo dai presupposti logici del prescrittivismo universale: per questa ragione egli ha sostenuto che la sua teoria si basa su un fondamento a priori, sebbene tale a priori sia di valore logico linguistico, non etico. In realtà, consequenzialismo e welfarismo sembrano essere assunti, anche nell’utilitarismo di Hare, come presupposti non logicamente fondati. Infatti, è evidente che non sempre si ricercano le conseguenze migliori dei nostri atti per trarne soddisfazioni: molto spesso è il compimento stesso dell’azione a fornire una soddisfazione ed esso è preferito: “abbiamo preferenze che vengono soddisfatte non in conseguenza di azioni ma nell’esercizio dell’azione stessa; così come ci sono atti, per esempio la violenza su un innocente…che non ci appaiono universalizzabili in forza delle loro conseguenze, ma in quanto sono un certo tipo di atti, che manifestano il mancato rispetto verso l’altro come soggetto morale”300. Come si ricorderà, Williams, contestando il consequenzialismo, ha evidenziato come non sia possibile porre un’esclusiva attenzione agli esiti delle nostre azioni, escludendo la considerazione della loro qualità intrinseca e della responsabilità di chi agisce. Spesso infatti agiamo in un modo senza sapere chiaramente quali esiti otterremo, oppure riteniamo sia corretto muoverci in un certa maniera, indipendentemente da ciò che accadrà. In altre parole il consequenzialismo non sembra riflettere l’usuale modo di agire degli individui e nessun presupposto logico-linguistico potrebbe fondarlo: di conseguenza Hare è costretto ad introdurlo in modo surrettizio. 300 R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., pp. 121-122. 176 Un discorso simile si può fare per il welfarismo, il quale non è una caratteristica logicamente fondata, dato che non sempre le nostre azioni mirano all’incremento di benessere; spesso infatti agiamo perché riteniamo sia giusto farlo, a prescindere dagli esiti dell’atto o dall’utilità che esso può aumentare: ciò significa che “Non sembra…che dalle caratteristiche del linguaggio morale, e in particolare dal requisito dell’universalizzabilità, derivi necessariamente il principio di utilità, poiché questo risulta dall’introduzione surrettizia di due dei suoi elementi costitutivi: il benesserismo e il consequenzialismo”301. La teoria etica di Hare, dunque, se vuole evitare queste critiche, deve sostenete che il suo fondamento logico-linguistico è il vero elemento significativo e decisivo, ma in tal modo viene accusato di sterilità; se invece dovesse richiamarsi al carattere pratico del suo utilitarismo, come si è visto, si trova a dover respingere le usuali critiche condotte contro di esso. Si può infine sottolineare che l’insieme delle critiche alla riflessione di Hare che si è cercato di riferire, coglie probabilmente il segno in quanto sottolinea la difficoltà dell’approccio semantico all’etica di costruire una moralità capace di influenzare la condotta pratica, ma risulta eccessivo se ritiene di poter negare legittimità a qualsiasi analisi linguistica dei termini morali. La riflessione di Hare pertanto può essere giudicata insufficiente rispetto alla possibilità di fondare una moralità pratica, ma risulta molto completa, efficace ed esaustiva se assunta come analisi chiarificatrice e puntigliosa del linguaggio morale. Essa infatti mantiene una sua validità se “va vista come tesa a individuare le condizioni di possibilità del nostro discorso morale (e al di là di questo di una forma di vita profondamente radicata nella nostra cultura) e partendo da questo a proporre modelli cui ricorrere per rendere più coerente – attraverso stipulazioni e ridefinizioni – il linguaggio comune”302. Hare è senz’altro stato dunque un grande filosofo del linguaggio morale, in quanto ha contribuito in modo notevole a mettere in chiaro cosa significa discutere le questioni morali e quali argomenti possono essere utilizzati per rendere tali discussioni meno complicate e sterili. Di certo le sue proposte metodologiche possono apparire unilaterali, poco funzionali, ma egli ha comunque cercato di definire strumenti concettuali universali per permettere di discutere in etica a partire da basi il più possibili comuni e 301 Ibidem, p. 122. E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., pp. 85-86 (corsivo aggiunto). 302 177 condivise dalle persone. Questo è un obiettivo ambizioso, sicuramente non facile da ottenere e tuttavia, per gran parte dei filosofi morali, è l’obiettivo più importante, ossia quello di costruire un’etica che possa effettivamente essere universale, che possa valere per tutti gli esseri umani in ogni luogo della terra essi siano e per combattere quel relativismo morale che secondo Hare rappresenta una imperdonabile rinuncia ad occuparsi di questioni etiche, le quali rappresentano l’essenza dell’uomo. Le soluzioni di Hare, senza dubbio discutibili, indicano tuttavia una strada, una direzione che può essere ampliata, corretta, integrata con altre soluzioni razionali o normative, ma non del tutto abbandonata. 178 Bibliografia Opere di Hare citate S.E. Toulmin (recensione), The Place of Reason in Ethics, “Philosophical Quarterly”, I, 1951. The Language of Morals, Oxford University Press, Oxford 1952 (Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma 1968). M. Singer (recensione), Generalization in Ethics, “Philosophical Quarterly”, 12, 1962. Freedom and Reason, Oxford University Press, Oxford 1963 (trad. di Libertà e ragione, a cura di M. Borioni e F. Palladini, il Saggiatore, Milano 1971 e 1990). Essays on Philosophical Method, Macmillan, London 1970. Essays on Moral Concepts, Macmillan, London 1971. Practical Inferences, Macmillan, London 1971. Ethical Theory and Utilitarianism, in H. D. 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