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ATTILIO SPANÒ Tabernacoli lignei cappuccini della Calabria I. LA POVERTÀ E LA SS.MA EUCARESTIA NEL FRANCESCANESIMO Trattare dei tabernacoli cappuccini estrapolandoli dal contesto storico e artistico relativo ai frati ed alla Chiesa tardorinascimentale, risulta estremamente sterile. Ciò perché le meravigliose realizzazioni lignee 600esche e 700esche in ambito minoritico, ad un occhio estraneo alla discussione artistica sulla questione francescana, sembrerebbero quasi contraddire quei principi di povertà ed umiltà, da Francesco d’Assisi tanto anelati e predicati e dai frati minori cappuccini del ‘500, riscoperti e puntualmente perseguiti1. Per una corretta intelligenza dello spirito che si trova alla base dei preziosissimi cibori lignei, non si può prescindere da un breve accenno agli appena accennati valori fondanti il francescanesimo, unendo però ad essi, la somma e indiscutibile attenzione nei confronti della Eucarestia2. 1 I ritorni programmatici all’operato e alla figura di Francesco d’Assisi si ripetono, nella famiglia minoritica fin dalle origini del movimento francescano. Dopo la nascita del movimento dell’Osservanza, dovuto a Bernardino da Siena nel 1368, all’interno di essa si nota, nel corso del 1400 la nascita di un movimento pauperistico cosiddetto di “recollezione” e, assieme ad esso, di una serie di altre tendenze pauperistiche che rendono instabile la famiglia francescana. Se la divisione era uno stato di fatto, l’unione anelata tra i vari sottordini dell’Osservanza (martiniani, amadeiti, collettani, clareni, guadalupensi), rimase un mero desiderio infatti i clareni e gli amadeiti continuarono a vivere autonomamente mentre solo nel 1568, per volere di San Carlo Borromeo e di San Pio V, furono uniti agli Osservanti.Per ovviare ad una ulteriore frammentazione, nel 1517 papa Leone X è costretto a d emanare la bolla Ite vos ad vineam meam che però segnando di fatto la divisione tra Conventuali ed Osservanti, permette la coesione tra i movimenti riformatori minori nati in seno all’Osservanza: tra cui quello dei Recolletti spagnoli; cfr. F. Russo, I Minori Cappuccini in Calabria, dalle origini ai nostri giorni, in “Miscellanea Francescana”, LVI (1956), 1-2; I Cappuccini. Fonti documentarie e narrative del primo secolo, a cura di V. Criscuolo, Roma 1994, 21 e ss. ; A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi per lo studio della riforma pauperistica nell’Italia Meridionale post rinascimentale¸ in R. M. Cagliostro, C. Nostro, M.T. Sorrenti (a cura di), Sacre Visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria.Catalogo della mostra omonima Reggio Calabria, Rotonda Nervi 16 dicembre 1999. 20 febbraio 2000, Roma 1999, 75-82. Per quanto riguarda invece l’annosa questione relativa alla priorità storica della riforma cappuccina, discussa tra la Calabria e le Marche si vedano: G. Fiore da Cropani, Della Calabria Illustrata, Tomo secondo; Napoli 1743, 405-413, E. Nava, Trattato del principio e progresso della Religione Cappuccina avuto da questa Provincia di Reggio, trascrizione di un manoscritto databile al 1770; G. Leone, I cappuccini e i loro 37 conventi in provincia di Cosenza, I II, Cosenza 1986; F. Russo, I Minori Cappuccini in Calabria… op. cit.; M. D’Alatri, Il primo secolo (1525-1619). Quadro storico, in I Cappuccini. op. cit., 19-73; I. Agudo Da Villapadierna, I cappuccini e la Santa Sede. Documenti pontifici (1526-1619)¸ in I cappuccini…,75-135; G. Leone, Priorità storica calabrese nella Riforma Cappuccina desunta dalle fonti dell’Ordine, Cosenza 1998. 2 Unita alla decisa volontà di riportare la Chiesa alle origini evangeliche e alla necessità di avvicinarsi alle classi meno abbienti, la devozione verso l’Eucarestia è continuamente perseguita da Francesco e costituisce, in certo senso, l’ancora di salvezza dall’accusa di eresia di cui il movimento minoritico rischiava di essere tacciato, rientrando nella vastissima compagine dei gruppi pauperistici tardomedioevali. La presenza reale di Cristo nell’Eucarestia si lega, infatti, al 1 La Povertà è quel valore di assoluta novità portato avanti da Francesco, che predicava non solo la rinuncia ai beni ma anche il “rifiuto” della necessità di glossare i testi sacri, per arrendersi di fronte all’evidenza del “segno” della presenza di Dio nei vangeli e, tra gli uomini, nell’Eucarestia. Proprio attraverso il ricorso al segno si esplica la più alta e pura arte dei minores; le forme visibili della semplicità, della povertà e della umiltà, rendono concreto il messaggio del poverello assisiate, dando ad esso un senso di immanenza all’interno della cultura europea fin dalla loro enunciazione e definitiva codificazione3. riconoscimento del valore del prete, come colui in grado di operare il miracolo della Transustanziazione e quindi, della Chiesa istituzionalizzata. Per l’analisi di questo aspetto vedi R. Manselli, San Francesco, Roma 1980, 292 e ss. 3 A san Bonaventura da Bagnoregio è riferibile, infine la promulgazione delle prime costituzioni in cui si affronta concretamente il problema dell’architettura minoritica, con la definizione degli spazi che, pur facendo fronte all’accresciuto numero di fedeli frequentanti i frati, mantenessero intatta la primitiva idea di minorità e povertà, alla base del cosiddetto “rifiuto” francescano. Le costituzioni bonaventuriane del 1260 segnano una svolta precisa nella modalità insediativa e costruttiva dei minori. La data appare di un’importanza fondamentale per quanto riguarda la nascita di una vera e propria architettura mendicante, in quanto proprio grazie al Capitolo generale di Narbonne si ha la prima codificazione delle modalità costruttive e della definizione degli spazi minoritici. Su questa scia è bene qui ricordare che l’esistenza o meno di una “architettura francescana” (e, per estensione, “mendicante”), è ancora oggi oggetto di discussione. Circa il valore culturale del “rifiuto” francescano nel XIII secolo, la nascita e l’espansione dell’Ordine minoritico e le manifestazioni artistiche ad esso legate, la discussione in merito è ancora totalmente aperta e qui, in particolare, si accenna ai problemi relativi anche ai contatti culturali e formali intessuti dall’Ordine francescano con la Chiesa Riformata medioevale e con l’ambiente laico del tempo. Per una estesa disamina dello stato degli studi si veda per la parte storica e storiografica: Chronica XXIV Generalium Ordinis Minorum, in Analecta Franciscana III, 1897; L. Lemmens, Documenta antiqua franciscana, Ad Claras Aquas, 1901;C. Eubel, Bullarii Franciscani Epitomes, Ad Claras aquas, 1908; idem, Testimonia Minora saeculi XIII de S. Francisco Assisiensi, Ad Claras Aquas, 1926; P.M.D. Sparacio, Frammenti bio-bibliografici di scritti ed autori Minori Conventuali, Assisi, 1931; L. Wadding, Annales Minorum seu trium Ordinum a S. Francisco Institutorum, Ad Claras Aquas, 1931 e ss.; Directiones et aliae indicationes domorum ordinis fratrem minorum, Ad Claras Aquas (Quaracchi), ex tip. Collegii S. Bonaventurae, 1956; V. Lemay, Storia ed evoluzione della bibliografia minoritica nell'Ordine di S. Francesco fino ai giorni nostri, in Studi francescani, Luglio-Settembre, 1934; K. Esser Origini ed inizio del movimento dell'Ordine francescano, Milano, 1975. R. Manselli, San Francesco, Roma, 1980; P. F. Russo, I Francescani Minori Conventuali in Calabria (1217-1982), Catanzaro, 1982. Per quanto riguarda invece la discussione sulle modalità insediative dei francescani e le forme architettoniche: AA.VV. Ordres mendiants et urbanisation dans la France Médiévale -Etat e l'Enquete, in Annales ESC, 1970; G. Barone, Federico II di Svevia e gli ordini mendicanti, in Melange de l'Ecole française de Rome, Moyen Age-Temps Modernes, 90, 1973; E. Guidoni, Il ruolo dei conventi nella crescita e nella progettazione urbana del XIII e XIV sec., in Quaderni medioevali, IV, 1977; Les ordres mendiants et la ville en Italia Centrale, 1220-1350, in Melange de l'Ecole Française de Rome, Moyen Age-Temps Modernes, LXXXIX, 1977, 2; L. Pellegrini, Gli insediamenti degli Ordini Mendicanti e la loro tipologia. Considerazioni metodologiche e piste i ricerca, in Melanges de l'Ecole française de Rome, Moyen Age-Temps Modernes, T, 89, 1977; A. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, Atti del 1° congresso di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore, 1978; Idem, La chiesa di San Francesco a Cortona, in Storia della città, nº 9, 1978; M. Righetti, Gli esordi dell'architettura francescana a Roma, in Storia della Città, nº 9, 1978; A.M. Romanini L'Architettura degli ordini mendicanti: nuove prospettive di interpretazione, in Storia della città, nº 9; C.D'Adamo, L'Abbazia di San Giovanni in Fiore e l'architettura florense in Calabria, in I Cistercensi e il Lazio, Atti delle giornate i studio dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Roma, Roma, 17-21 Maggio 1977. Roma 1978; L. Pellegrini, Gli insediamenti francescani nell'evoluzione storiografica degli agglomerati umani dell'Italia del sec. XIII, in Chiesa e società dal sec. IV ai giorni nostri, vol. I, Roma, 1979; A.M. Romanini e AA.VV., Federico II e l'arte del '200 italiano, Atti della III settimana di Studi dell'Arte Medioevale dell'Università di Roma, 15-20 Maggio 1978, Galatina, 1980; Francescanesimo e cultura in Sicilia (XIII- XVI), Atti del Convegno internazionale nell'VIII centenario della nascita di S. Francesco d'Assisi, Palermo 7-12 Marzo 1982; G. Villetti, L'edilizia mendicante in Italia, in Lo spazio dell'umiltà, Convegno di studi sull'edilizia dell'Ordine dei Minori, Fara Sabina, 1982; A.M. Romanini, I primi insediamenti francescani, tracce per uno studio, in Il Francescanesimo in Lombardia, Milano, 1983; A. M. Romanini, Tracce per uno studio dell'architettura gotica a Spoleto, in Atti del 9° congresso internazionale di studi dell'Alto Medioevo, Spoleto, 1983; A. Cadei, Architettura mendicante: il problema di una definizione tipologica, in "Storia della città", nº 26-27, 1984; L. Pellegrini, Insediamenti francescani nell'Italia del '200, Roma, 1984; A.M. Romanini, Il francescanesimo nell'arte: l'architettura delle origini, in Francesco, il francescanesimo e la cultura della Nuova Europa, Roma, 1986; Idem, "Reliquiae" e documenti: i luoghi del culto 2 Tra i segni tangibili della spiritualità francescana, un ruolo fondamentale acquista, e qui si accenna al secondo grande valore del movimento minoritico, l’Eucarestia. Il luogo ove il miracolo eucaristico si compie e quello ove le Specie vengono conservate diventano, per i francescani, momenti di contraddizione rispetto alla necessità di significare la povertà, per esaltare, piuttosto, la totale divinità di Cristo4. Si noti come passi in secondo piano qui la distanza temporale tra le gesta storiche (e anche artistiche) dei frati cappuccini, rispetto a quelle dei primitivi francescani duecenteschi; tale “svista” non soltanto è giustificabile ma appare, addirittura, necessaria sia per una totale comprensione della eterna modernità del messaggio di Francesco, che per la corretta interpretazione dello spirito cappuccino, totalmente volto alla riconquista non solo delle regulae dell’Ordine dei Frati Minori, ma, e soprattutto, delle azioni e della figura di Francesco in prima persona5. La somiglianza tra il movimento cappuccino e quello francescano medioevale, risulta al limite della sovrapponibilità sia per quanto riguarda le modalità insediative (passando, anche i frati cappuccini, per il momento “eremitico”, da Francesco riconosciuto nella Regula pro eremitoriis data6, ma poi non più perseguito, tant’è che la prima denominazione di essi fu “frati minori della vita eremitica”), che per quanto riguarda la necessaria codificazione delle forme architettoniche, che dai minori duecenteschi fu raggiunta con il capitolo di Narbonne del 1260 e le conseguenti Costituzioni bonaventuriane e per i cappuccini, invece, è relativa alle Costituzioni di Roma del 1536 (poi ratificata nelle Costituzioni generali del 1575)7 e quindi trattata dal testo di P. Antonio da Pordenone: Memoriale su come costruire un nostro picciol e ordinato monasterio8. francescano nella Basilica di Santa Maria degli angeli presso Assisi, in La Basilica di Santa Maria degli Angeli, Perugia, 1990. 4 Per il diverso modo di caratterizzare i luoghi della struttura chiesastica atti ad ospitare i fedeli o legati alla presenza dell’altare si vedano gli studi di A. M. Romanici cit in nota 3. 5 Le regole francescane sono fondamentali per comprendere appieno la assoluta identità tra le “gesta” dei frati e la “volontà” del frate fondatore dell’Ordine. Ci si riferisce qui alle fonti francescane, ovvero gli scritti autografi di Francesco o a quelli dei suoi contemporanei. Si espongono qui le edizioni più importanti: Thomas De Celano, Vita prima S. Francisci Assisiensis et eiusdem legendam ad usm chori, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1926; Thomas De Celano Vita seconda S. Francisci Assisiensis, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1927; T. Desbonnets, Legenda Trium Sociorum, Etition critique, in Archivium Franciscanum Historicum 67 (1974), pp. 89-144; Compilatio Assisiensis, dagli scritti di fr. Leone e Compagni su S. Francesco d’Assisi, I edizione integrale dal Ms. 1046 di Perugina…, a cura di M. Bigardoni, Porziuncola 1975. Gli scritti di S. Francesco sono criticamente editi da K. Esser, Die Opuscola del hl., Franziskus von Assisi. Textkritische Edition, Grottaferrata, 1976, essi comprendono: Regula non bullata (1221), Regula Bullata (1223), Regula pro eremitoriis data; Testamento di San Francesco. Fondamentale per l’approccio alla realtà francescana è inoltre la Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio, scritta ai tempi del Capitolo di Narbonne (1260). 6 Cfr. K. Esser, Die Opuscola… op. cit; Fonti francescane, Padova 1982, 135. 7 Cfr. Vincenzo Crisquolo, Le prime costituzioni (Roma – Sant’Eufemia 1536), in I Cappuccini. op. cit., 163 – 264, in particolare: cap 311, pag. 203 8 Il trattato manoscritto, conservato in tre edizioni nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e, in una, nell’Archivio dei Frati Minori Cappuccini di Innsbruck viene pubblicato per la prima volta, forse a Venezia, nel 1603 firmato da Frate Antonio da Pordenon, Sacerdote Cappuccino. A parte l’integrale pubblicazione del testo in I frati Cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, (a cura di p. Costanzo Cargnoni), Roma, 1992, 1578-1628, numerosissimi studi hanno analizzato, negli ultimi anni, numerosi aspetti del trattato, fra tutti si ricordano qui: 3 Rientrando nella vasta compagine della riorganizzazione ecclesiastica post tridentina, il Memoriale essenzialmente codifica la, altrimenti solo usuale, pratica di costruire le case per i frati, sottolineando quali siano le premesse ideali e in che modo le stesse debbano essere rese visibili negli edifici, costituendo una pietra miliare nello studio delle strutture conventuali cappuccine. Ma proprio attraverso una attenta analisi del trattato si notano aderenze, da parte dell’Ordine, alla cultura ufficiale, alla chiesa controriformata e, quindi, all’azione di San Carlo Borromeo vescovo di Milano che, nel 1577, realizzerà una sorta di particolarissimo trattato di architettura: le Istructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae9, ove si è voluto vedere, nella descrizione della “simplex ecclesia”, proposta per gli oratori, un contatto con le “picciol chiese” di P. Antonio da Pordenone10. Ciò che per la trattazione delle opere d’arte cappuccine appare importante è anche l’atteggiamento della cultura fratesca ed ecclesiastica nei confronti della discussione artistica cosiddetta “mondana” e, infatti, una parte ampia è dedicata dai due “trattatisti”, seppur il termine risulti fortemente improprio, all’uso degli ordini classici. Se però, nelle Istructiones, l’attenzione è rivolta al corretto modo di interpretare l’architettura classica, nel Memoriale, si propone quasi un allontanamento da questa, per evitare di sprecare tempo interessandosi ad adoperare in modo corretto gli “ordini architettonici”11. Escludere l’estraneità alle speculazioni estetiche secentesche da parte dei cappuccini, risulta però fuorviante, così come errato sarebbe asserire che i frati siano impegnati attivamente nell’attenzione ai cambiamenti del gusto, in fatto d’arte, della società. La poca permeabilità Francesco Calloni, Architettura cappuccina nell’antico ducato di Milano, tesi di laurea, Università Cattolica del S. Cuore, 1976/77, relatore prof. G. A. Dell’Acqua; Idem., Interpretazione iconologia dell’architettura cappuccina, in I frati Cappuccini…, op. cit. 1469-1548; Tommaso Scalesse, Note sull’architettura dei Cappuccini nel Cinquecento, in Atti del III Convegno Internazionale su “I Francescani in Europa tra Riforma e Controriforma”, Assisi 1985; Agostino Colli, Un Trattato di architettura Cappuccina e le “Instructiones fabricae”di San Carlo, in San Carlo e il suo tempo, Roma, 1986 e in I frati Cappuccini…op. cit.¸ 1555-1578; Sergio Giovanazzi, La riscoperta di un architetto cappuccino, in Architettura Cappuccina. Atti della giornata di studi storici sull’architettura cappuccina, Trento Biblioteca Provinciale dei Cappuccini, 28 maggio 1993, Trento 1995. 9 Istructionum Fabricae et suppellectilis libri duo Caroli S.R.E. Card. Tt. S. Paxedis Archiepiscopi iussu ex provinciali decreto editi ad provinciae Mediolanensis usum / trad. italiana a cura di M. L. Gatti Perer e Z. Grasselli. Milano 19831984. 10 Il parallelismo tra i due trattati è messo in evidenza dagli studi della Gatti Perer, pertanto si veda: M. L. Gatti Perer, Lo spazio sacro nelle “Istruzioni” di San Carlo e nei nuovi ordini religiosi del Cinquecento, in Architettura Cappuccina… op. cit., 25 – 65. 11 Tale atteggiamento di rifiuto, se ad una prima superficiale analisi appare diametralmente opposto alle esortazioni circa il giusto modo di costruire seguendo i canoni classici, ad un attento sguardo risulta essere solo formale. Il problema riguarda infatti non tanto l’uso, corretto o meno, delle regole architettoniche di vitruviana memoria, quanto la sostanziale conoscenza di esse. Questa asserzione porta a considerare l’arte cappuccina sotto un’ottica assolutamente differente rispetto a quella che, usualmente, considera i “frati” come chiusi, schiavi di una subcultura, legati a forme spesso stantie e estranei al dibattito culturale mondano. Mai, infatti, il “rifiuto” di una cultura corrisponde ad una estraneità a ciò che si allontana, sarebbe come considerare il “rifiuto”, da parte di Francesco d’Assisi, della “glossa” applicata alle Sacre Scritture, come una disconoscenza delle Scritture stesse o, per rimanere in ambito minoritico, escludere le meravigliose e modernissime creazioni architettoniche francescane medioevali dal dibattito artistico più attento, relegandole ad essere architetture minori sol perché figlie di un concetto di semplicità e povertà. Per il confronto con le esortazioni di San Carlo si veda: M. L. Gatti Perer, Lo spazio sacro…, op. cit., 49. 4 dell’Ordine a influssi esterni non è infatti da considerare una pura leggenda; la struttura stessa del francescano, se da una parte lo porta a doversi confrontare con la società in cui è immerso, per poter adempiere in toto al dovere di “comunicare” ed “evangelizzare”, da un’altra, proprio l’essere “esempio” di perfezione, lo costringe ad operare una sorta di mutazione genetica all’interno della sua stessa sostanza. Ecco quindi che lentamente, soprattutto con l’imporsi del ‘700, si assiste ad una reale tendenza alla conservazione del messaggio formale “cappuccino” con una conseguente spinta alla cristallizzazione della forma artistica e ad una sorta di omogeneizzazione della creatività. Si intende, in questo caso, la volontà di rimanere ancorati ad atteggiamenti in cui è forte il messaggio pietistico, religioso e sacro, a discapito della ricerca puramente formale12. Tale omogeneità formale interessa in special modo l’atteggiamento da assumere nei confronti dei paramenti sacri, degli oggetti d’arredo del convento e della chiesa e, principalmente, un riconoscimento immediato dell’arte cappuccina si ritrova nell’arredamento dello spazio ecclesiastico, ovunque rispondente a regole indefettibili e sottolineanti, sempre, il concetto di povertà evangelica e di minorità. Ci si riferisce all’uso determinato, assoluto e programmatico del legno per gli altari, i pulpiti, le cantorie, gli armadi da sacrestia, i tabernacoli13. Unita all’uso del legno è la volontà di denunciare la qualità materica di quest’ultimo. Si esula definitivamente dall’usanza, comune anche agli ordini minoritici, di mascherare il materiale “povero” con decorazioni a stucco o pittoriche, imitanti materiali lapidei o decorazioni policromatiche a scagliola. La vibrazione pittorica presso i cappuccini è lasciata solo all’accordo tra la luce delle candele e gli intagli, tra le diverse coloriture delle essenze lignee usate e, solo nel particolarissimo caso del tabernacolo, alla contrapposizione di materiale più nobile: avorio, tartaruga o madreperla, al legno che, comunque, rimane come realizzante la struttura tettonica di qualsivoglia oggetto di arredo. 12 L’anacronismo artistico diventa evidentissimo, se non tipico e apprezzabile proprio in questo senso, nelle opere realizzate da artisti provenienti dall’ambiente fratesco. I frati infatti, proprio perché detentori e vettori del messaggio evangelico, si fanno carico della responsabilità di sottolineare, nelle realizzazioni artistiche, la perfezione del “messaggio”, l’impossibilità dello stesso di piegarsi ai mutati gusti dei tempi, la necessità di rispecchiare le scelte di vita fatte da loro stessi. Questo stato di cose concorrerà alla creazione di una vera e propria “architettura cappuccina”, di una “arte cappuccina” immediatamente riconoscibile ma difficilmente circoscrivibile in senso spazio temporale. 13 L’uso del legno, inteso come materiale povero, facilmente corruttibile, aborrito dagli ambienti ricchi e fastosi, è sempre vivamente proposto dai frati e diventa addirittura d’ordinanza nelle costituzioni dei cappuccini e, per quanto riguarda la costruzione di arredamento di grande valenza teologica, come i tabernacoli e gli altari, verrà riconosciuto anche dalla Chiesa Romana nel 1646. Circa l’uso tassativo di questo materiale si veda: G. Santarelli, Opere di ebanisteria presso i Cappuccini delle Marche, in Collectanea Franciscana, 63 (1993); per quanto riguarda l’uso del legno non colorato per le decorazioni plastiche, relegando l’oro e l’argento solo ai calici e agli ostensori, cfr. C. da Langasco, Cultura materiale in convento. I libretti del Museo di Vita Cappuccino, n°1, Genova, 1990. p. S. Gieben, L’arredamento sacro e le sculture lignee dei cappuccini nel periodo della controriforma, in Arte “minore”, in I Frati cappuccini…, pagg. 1635-1643, in cui si sottolinea il ruolo delle costituzioni relative ai vari capitoli, circa l’uso di materiali preziosi per i calici, le patene, gli ostensori; p. S. Gieben, La cultura materiale dei cappuccini nel primo secolo (1525- 1619), in Collectanea Francescana, 69/1-2, 1999; G. Santarelli, I Tabernacoli lignei dei Cappuccini delle Marche, in Italia Francescana, LXXIV, N° 1, gennaio – aprile 1999; F Caroselli, I Tabernacoli lignei dei cappuccini emiliani, Reggio Emilia 2000. 5 Prima, però, di arrivare a trattare in modo specifico del ciborio, della Custodia per l’Ostia consacrata, in ambito cappuccino, è necessario fare un excursus circa l’importanza dell’Eucarestia in ambiente francescano e circa la nascita del ciborium come luogo in cui le Specie consacrate si conservano. Il particolare ruolo che l’Eucarestia ha nell’Ordine francescano ha portato ad una serie di apparenti incongruenze tra la necessaria dichiarazione di pauperitas e il continuo aborrire ogni ricorso alla simbologia. La mensa eucaristica sull’altare maggiore, infatti, sembra una sorta di entità estranea all’interno delle strutture architettoniche semplici, siano esse medioevali, rinascimentali o barocche, ponendosi sempre come punto d’arrivo di un percorso univoco che porta il fedele verso la contemplazione del Corpo di Cristo, in essa conservato. L’epoca tardo rinascimentale e barocca, all’interno della poetica decorativa che la caratterizza, porta alla creazione di macchine sceniche di impressionante impatto che, ad un occhio profano, sembrano snaturalizzare la semplicità francescana delle membrature. Ma, andando ad analizzare le origini del culto eucaristico presso i francescani, ben presto ci si rende conto che ciò che appare forzatura ed eccesso di decorazione, è assolutamente in linea con le esortazioni francescane circa gli onori da tributare a Dio, legati alla figura di Francesco d’Assisi stesso. Francesco proprio nei suoi scritti, e in particolare in un gruppo di opuscoli e lettere in latino rivolte alla gerarchia del suo Ordine, nonché ai rettori delle città e, per estensione, a tutti i fedeli, sottolinea l’importanza suprema da dare al sacramento dell’Eucarestia, importanza legata al particolare amore che lui stesso ha nei confronti di Cristo uomo, Crocifisso e presente realmente nella realtà ecclesiale sotto forma di pane e vino. Nella Epistola ad clericos14 e, principalmente, nelle due Epistolae ad custodes15, il santo assisiate è chiarissimo: < Vi chiedo più che per me stesso che, quando conviene e vedrete che questo è opportuno, supplichiate umilmente i chierici che sopra ogni cosa debbano venerare il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole scritte di lui, che santificano il corpo. I calici , i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutte le altre cose relative al sacrificio, le debbono considerare preziose. E se in qualche luogo il santissimo corpo del Signore sarà stato sistemato in modo troppo povero secondo quel che prescrive la Chiesa, sia da loro [e cioè i chierici] posto e consegnato in un luogo prezioso e portato con grande devozione e distribuito agli altri con discrezione. I nomi e anche le parole scritte del Signore, dovunque si trovino in luoghi non puliti siano raccolti e debbono essere collocati in un luogo decoroso. Ed in ogni predicazione, che fate, ammoniate il popolo sulla penitenza e che nessuno può salvarsi se non chi riceve il santissimo corpo e sangue del Signore; e quando dal sacerdote è compiuto il sacrificio sull’altare ed è portato in qualche parte, tutta la gente inginocchiata renda lodi, gloria ed onore al Signore vivo e vero. E della sua lode 14 15 La lettera è datata al 1220 – 1226, cfr. R. Manselli; Fonti Francescane, cit., 159-160 dat. 1222-1226, cfr R. Manselli op. cit., 293; Fonti Francescane, cit, 170. 6 annunziate e predicate a tutta la gente così che, ogni ora e quando si suonano le campane, sempre da tutto il popolo si lodi e si ringrazi Dio per tutta la terra >16. Ancora l’attenzione al sacramento eucaristico ritorna con particolare evidenza nella Epistola toto ordini missa17, in cui Francesco si rivolge a tutti i suoi confratelli nel nome di Cristo esortandoli ad obbedire <ai consigli e comandamenti del Signore> e dove insiste sul dovere di dare la massima attenzione al Corpo e al Sangue di Cristo presenti sull’altare. Continui rimandi a questo particolarissimo aspetto della spiritualità e vocazione di Francesco, si ritrovano in altri passi di documenti scritti di suo pugno: nella prima delle Admonitiones18, nella Regula non Bullata (entro il 1215)19, ove l’argomento è trattato nell’intero capitolo XX (a differenza della Regula Bullata del 1221, in cui scomparirà)20 e, infine, nel Testamento (1226)21 ove, circa l’attenzione al Corpo di Cristo, dice: < …nulla vedo corporalmente in questo mondo dello stesso altissimo Figlio di Dio se non il santissimo corpo e santissimo sangue suo […]. E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. I nomi santissimi e le sue parole scritte, dovunque li troverò in luoghi sconvenienti, li voglio raccogliere e chiedo che siano raccolti e siano collocati in un luogo decoroso. >22 e appare chiaro come, anche riferendosi al testo precedentemente citato, tale attenzione venga a far parte del novero di caratteristiche proprie dell’Ordine pauperistico minoritico. Alla luce di queste precise dichiarazioni ecco che le materie preziose, la ricchezza decorativa, la attenzione formale e artistica non sono soltanto riprese, ma addirittura esaltate (se non altro in contrasto con la povertà delle rimanenti parti della chiesa e degli oggetti liturgici), laddove si è in contatto con il sacramento dell’Eucarestia. I calici, le patene, le pissidi, i cibori e, per estensione, il luogo stesso ove questi si pongono (quindi il presbiterio nelle chiese medioevali, le cappelle del SS. Sacramento nelle chiese rinascimentali, gli altari maggiori nelle chiese cappuccine), sono caratterizzati da una ricchezza inusuale per un Ordine che sceglie come regola fondamentale la povertà estrema; ricchezza spiegabile solo attraverso la conoscenza delle reali idee di Francesco. In ambiente cappuccino tale osservanza alle volontà francescane è plenaria. Addirittura rischia di superare le intuizioni di Francesco per una sottolineatura dell’elemento pauperistico che risulterebbe spesso superiore alla necessità dell’esaltazione di Cristo, attraverso l’uso 16 Cfr. Fonti Francescane, Epistola ad custodes, 170, §§ 4-11 (241-243). Dat. 1220 – 1226, cfr. R. Manselli op. cit., 294; Fonti Francescane, cit, 163 18 Dat. 1220 – 1226, cfr. R. Manselli op. cit., 305 - 306; Fonti Francescane, cit, 137 – 138, §§ 1 – 23 (141 – 145) 19 cfr. K. Esser, op. cit. 20 cfr. K. Esser, op. cit. 21 cfr. K. Esser, op. cit. 22 Fonti Francescane, cit, 131 – 134, §§12 – 14 (114) 17 7 programmatico e definitivo del legno in contrasto però, con il luogo ove esso viene usato in modo più specifico e con il valore che questo luogo ha nel contesto dell’architettura ecclesiastica. Le Costituzioni dell’Ordine del 1575, dopo le correzioni legate alle disposizioni del Concilio di Trento, proprio riguardo l’attuazione della “povertà” e l’”esaltazione della Eucarestia”, ripetono al cap. 12: “nelle cose pertinenti al culto divino, nelli edificij nostri, et nelle masseritie quali usiamo, non appara alcuna pretiosità o superfluità. Sapendo che dio vuole (come dice Papa Clemente V) e più si diletta del cor mondo, et delle Sante operationi, che delle cose preziose, et ben’ornate. Per il che dovemo attendere che in tutte le cose che sono ad uso nostro risplenda l’altissima povertà la quale ci accendo alle pretiosità delle ricchezze celesti dove è nostro tesoro, delitie et gloria”23, tornando a proibire qualsivoglia ricchezza, eccezion fatta per il “calice, la Bossola del Santissimo Sacramento, et Tabernacolo, et il velo da tenere sopra il tabernacolo”24. Centro e perno della chiesa cappuccina è l’altare, il luogo concreto ove il “miracolo” quotidiano della Transustanziazione si compie e ove le “specie” sono permanentemente conservate. Operando un parallelismo con le strutture antiche minoritiche è chiaro, a questo punto, come quella cappuccina sia una architettura dinamica, non un luogo di mera accoglienza ma la vera casa dell’Altissimo e, come tale, rotante attorno ad esso, presente nell’Eucarestia. Le concordanze tra le concezioni estetico-teologiche medioevali e quelle tardorinascimentali cappuccine sono estremamente evidenti. Invece, l’elemento di novità, nelle strutture cinquecentesche risiede nella divisione in almeno due luoghi di fruizione dello spazio e riferibile a quell’evento nuovo e raramente realmente vissuto, da parte del frate francescano: lo pseudo eremitismo. La chiesa, infatti, pur continuando ad essere suddivisa in due zone (come accadeva nelle strutture francescane antiche), di cui una fruita dai fedeli (la navata sui cui si aprono le cappelle e che ospita i contraltari), e una di pertinenza dei sacerdoti e dei frati (la zona presbiteriale), presenta una eclatante novità rispetto alla concezione dello spazio ecclesiastico minoritico. Ci si riferisce all’ulteriore frammentazione del coro in due ambienti: il coro per celebrare, o Presbiterio, e il coro per ufficiare, o Coro propriamente detto, certamente comunicanti ma distinti: il primo aperto verso la comunità dei fedeli, il secondo di sola pertinenza della fraternità e quindi in contatto con i luoghi della “clausura” 25 . La stessa denominazione data ai due luoghi, distinti linguisticamente da un attributo legato alle azioni che in essi si svolgono (il celebrare i Divini Misteri o l’attendere 23 Le Costitutioni de’ Frati Minori Cappuccini di San Francesco corrette et riformate, Venezia 1577, rist. anast. In Constitutiones, I, Constitutiones Antiquate (1529 – 1643), 141 – 218, in modo particolare pag. 198. Uno studio approfondito sul tema è portato avanti da F. Caroselli, I tabernacoli lignei…op. cit 24 Ibidem. 25 Per la codificazione dell’architettura e la distinzione tra le due parti del presbiterio, cfr. gli studi sul Memoriale di P. Antonio da Pordenone. Vedi nota 8. 8 all’Ufficio delle Ore), implica un concepimento unitario dello “spazio”, diviso in due parti semplicemente dall’evento decorativo più importante ed imponente della chiesa: l’altare maggiore e, su di esso, del tabernacolo. II. IL TABERNACOLO La volontà di riallacciarsi alla più ortodossa tradizione francescana è, a questo punto, totalmente esaudita. La dinamica degli insediamenti, la ricomposizione delle Costituzioni, la codificazione delle architetture, l’esaltazione della Povertà e, contemporaneamente, della Divinità, ripropongono in modo moderno e egualmente forte, il messaggio evangelico e francescano. Si è appena accennato, ma si riprende qui in modo ben più ampio, il discorso sull’altare maggiore e sul coro cappuccino. Chiaramente questo tema sottolinea e concretizza l’importanza attribuita all’Eucarestia. È, infatti, proprio il luogo del sacrificio eucaristico a unire le due parti del presbiterio, apparentemente separate dall’ancona dell’altare maggiore, quasi una parete diaframma iperdecorata. Il tabernacolo, incastonato nella mensa, è l’elemento su cui ruota il grande coro, il perno, non solo ideale, dell’intera chiesa e, per estensione, considerando anche il ruolo centralistico che l’edificio ecclesiastico ha nel complesso del convento, dell’intera costruzione monastica26. L’usanza di custodire il pane e il vino consacrati in un luogo adatto e riconoscibile immediatamente, all’interno della costruzione ecclesiastica, non coincide con la nascita del termine tabernacolo. Questi infatti (dal latino tabernaculum, tenda), non ha mai avuto, in passato, un significato preciso, essendo usato per identificare certamente una “custodia”, ma atta non solo alla conservazione delle Sacre Specie ma anche delle reliquie, dei Sacri Oli e, addirittura, poteva essere inteso come Cappella Funeraria27. In un secondo momento al termine tabernacolo venne poi affiancato “Ciborio” – ciborium – generando una nuova confusione, significando quest’ultimo, sia la pisside che il tabernacolo vero e proprio, mentre solo in epoca paleocristiana, si diffonde la tendenza a conservare le Specie avvolte in teli bianchi e a riporle in una capsa posta in un armadio posto in un conditorium o secretarium28. Nel V secolo il liber pontificalis fa menzione di una turris 26 La centralità del luogo deputato alla celebrazione dei Divini Misteri, non è propria solo dell’Ordine Francescano, ritrovandosi, infatti, in tutte le architetture ecclesiastiche sia in epoca antica che rinascimentale e barocca. Anche, infatti, in periodo umanistico e rinascimentale, quando il centro dell’universo è rappresentato dall’Uomo e, attraverso un excursus più filosofico che teologico si arriva alla definizione dello spazio sacro in relazione alla fruizione da parte del fedele, a discapito spesso dell’elemento trascendente, si continua a concepire comunque una sorta di centralismo dell’altare. Basti pensare alla ripresa di forme perfette, centriche, in alcune architetture sacre cinquecentesche o, più frequentemente, alla riproposizione di spazi complessi pronti ad accogliere più altari e tutti tendenti alla esaltazione dell’altare del Sacramento, nelle strutture codificate dopo il Concilio di Trento. 27 G. Moroni, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica, s.v. “Tabernacolo della SS.ma Eucaristia” LXXII, Venezia 1855, 210 – 211; P. L. Zovatto – S. Mattei, Tabernacolo. Norme liturgiche, in Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1953, cc. 1678 – 81; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op. cit., 19 – 38. 28 Cfr. F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19. 9 a carattere architettonico e collocata nella sacrestia, in cui deporre le specie consacrate29. La forma delle turres più antiche fu assorbita dagli artrophora di rito greco, reliquiari atti alla conservazione del pane consacrato, aventi forma di tempio con cupoletta in materiale prezioso. Intorno al IX secolo le Custodie cominciarono ad essere poste sull’altare e, in seguito a ciò, il termine latino tabernaculum acquistò l’accezione particolare e univoca che conserva ancora oggi. Diventa usuale, in questo periodo, porre la capsa sull’altare o sospenderla, sotto forma di colomba, sulla mensa eucaristica e solo nel verso il 1100, comincia ad essere comune la tendenza a costruire tabernacoli murati nella spessore della parete del presbiterio, di fianco all’altare, in cornu evangeli30. Tale particolare positura e forma, definitivamente sancita dal IV Sinodo Lateranense del 1215, divenne di uso comune in tutte le chiese cattoliche e, almeno fino a tutto il 1400, fu il tipo di custodia eucaristica più diffuso31. La forma di queste nuove custodie riprende molto da vicino le antiche turres e presenta un eccessivo sviluppo in altezza, che molto deve al verticalismo tardo gotico. Finalmente, nella seconda metà del XV secolo, si stabilisce in Italia il tipo di tabernacolo a edicola o a tempietto rinascimentale, posto al centro della mensa eucaristica. Esempi di eccezionale bellezza e ricchezza, per materiali e/o per fastosità nella decorazione, si ritrovano in molte chiese rinascimentali, ad opera dei più grandi artisti contemporanei. La forma più ricorrente comincia lentamente ad essere quella a pianta centrale; ciò prevede la sottolineatura del luogo atto a contenere la grande custodia, quindi una Cappella del SS. Sacramento in prossimità dell’altare maggiore32. Persiste comunque ancora la forma ad edicola murata nel muro presbiterale o absidale per le chiese di minore importanza e dimensioni. Verso la metà del XVI secolo, a Verona, ad opera del vescovo Giovanni Matteo Giberti, si introduce l’uso del tabernacolo fissato in maniera permanente sull’altare maggiore33. Il ‘700 vede, come prassi comune, in tutte le chiese italiane, l’associazione del tabernacolo alle mense dell’altare maggiore34. 29 Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1982, s.v. “Liturgici strumenti e arredi sacri; Tabernacolo”, VIII, 663. Cfr. F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19. 31 Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1982, cit.; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19 32 Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1982, cit..; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19 33 Il gesto, che non fa che esaltare una prassi, già avviata altrove, di inserire la custodia eucaristica nel dossale dell’altare, avrà una grande eco. Esso, infatti, risulta corrispondere alle, immediatamente seguenti, indicazioni del Concilio Tridentino e, quindi, a quelle di grandissima diffusione e attuanti le esortazioni conciliari, del Concilio Provinciale Mediolanense I del 1565 e del già citato trattato di San Carlo Borromeo del 1577, che la impose a tutto il nord Italia. Tale Riforma venne accolta benevolmente in sede vaticana dai papi Paolo IV e Paolo V che, col Rituale Romanum del 1614, fu allargata a tutte le chiese della diocesi romana e raccomandò alle altre diocesi. Cfr. F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19 e ss. 34 Sebbene non ci sia ancora alcuna codificazione in merito, circa il valore, la forma e il posizionamento delle custodie, il Synodus Paderbonensis, nel 1688 sancisce: Tabernaculum, ubi nondum est, sollicitus sit Pastor, ut id conficiatura, quod fiat vel in medio altaris, vel in parete iuxta altare; denunciando graduale passaggio dal Tabernacolo a parete a quello posto sulla mensa eucaristica 30 10 Dal punto di vista essenzialmente giuridico però, il tabernacolo trova posto sulla mensa dell’altare solo nel 1863, con un decreto della Sacra Congregazione dei Riti; decisione che viene ratificata, poi, nel 1935 dal Codex Iuris Canonici al numero 126935. Al di là però proprio di questa necessità di una imposizione formale, già dal 1500 il tabernacolo si avviava ad assumere una figura ben precisa: un tempietto in miniatura troneggiante sull’altare. Tale forma monumentale è sempre presente e pur variando di dimensioni e non essendo sempre uguale (dalla semplice mostra architravata in mezzo al dossale della mensa, al tempio a pianta centrica), diviene lentamente “la forma” della custodia eucaristica, raccomandata agli artisti del tempo, tramandata in disegni e indicazioni di progetto, esaltata fino alla riproposizione di vere e proprie architetture in miniatura, anche in materiale prezioso come il bronzo o l’argento dorato36. Circa la forma della custodia non esiste alcuna norma da parte della Santa Sede che lascia libertà di espressione agli artisti, come si è visto ampliamente precedentemente. La stessa cosa si nota per quanto riguarda gli ornati dei tabernacoli in cui si avalla la tendenza a decorarli con figurazioni legate alla passione di Cristo o volte alla esaltazione del sacrificio eucaristico e, nel caso dell’uso del legno, a mascherare quest’ultimo con dipinture a finto marmo o a stucco37. Solo per quanto riguarda l’Ordine cappuccino si nota, però, una vera e propria eccezione. Un decreto della Congregazione del Sacro Rito del 7 dicembre 1888 afferma che i Frati Minori Cappuccini, su concessione della SCEpReg del 13 luglio 1659, possano avere un tabernaculum ligneum affrabre elaboratum, exterius nudo ligno, rudi colore depicto et non necesse esse ut deauraretur, aut prezioso depingeretur quam ceterae altaris partes38. 35 Enciclopedia Cattolica, IX, op.cit. cfr. p. L. Koster OFM, De Custodia Sanctissimae Eucharestiae.Disquisitio historico – juridica, Romae 1940, 136146. Circa la materia del tabernacolo in epoca post tridentina la SCEpReg, in data 26 ottobre 1575, decretava: Tabernaculum regulariter debet esse ligneum. Nel 1584, però, il Rituale Sacramentorum Romanum si pronunciava affinché l’Eucarestia fosse conservata intra tabernaculum marmoreum vel aeneum, aut alterius materiae, aut saltem ligneum¸ finché San Carlo Borromeo, nelle già citate Istructiones, optava per un tabernacolo in ecclesiis insignioribus, ubi potest, de laminis argenteis, aut aeneis…, aut e marmore pretiosori. Come già precedentemente accennato, le esortazioni borromee si allargano a tutte le diocesi d’Italia tanto che, nel 1585 la prov. Aquense propone un tabernacolo ex auro solido, pretiosissimis gemmis ornatum¸ e, il Sinodo di Praga del 1605 un tabernacolo e laminis argenteis, aut aeneis inauratis, aliate ratione elegantius. Accanto a questi meravigliosi esempi preziosissimi rimaneva comunque il tabernacolo ligneo, per le chiese di minore importanza e dimensioni, come si evince dalle decisioni del Sinodo della Prov. Beneventana, del 1693. Il tabernacolo ligneo era già stato proposto dal vescovo veronese Giberti per la sua diocesi (cui già si è accennato), che prescriveva un tabernaculum ligneum aut ex alia materia pulchrum. Altri tabernacoli lignei sono prescritti dal Sinodo di Tolosa del 1590, e al Concilio di Baltimora del 1866, che recepisce in toto il testo del SCEpReg succitato. Accanto alla custodia lignea a Bratislavia si accettano tabernacoli marmorei o con porta ferrea per evitare pericoli di incendi e, proprio laddove questo pericolo era prevedibile, si proponeva l’uso di veli umidi o altre materie salvaguardanti il legno 37 p. L. Koster OFM, De Custodia Sanctissimae Eucharestiae. op.cit.136- 146. 38 p. L. Koster OFM, De Custodia Sanctissimae Eucharestiae. op.cit.142.Tale asserzione risulta di estrema importanza, ai fini di questo studio, per sottolineare l’esistenza “a latere” della fraternità francescana, rispetto all’andamento ordinario della Chiesa ufficiale. Esistenza, questa, che non fa che evidenziare, ancora una volta, e dopo 400 anni, la specificità propria del frate minore, volto, si ripete, a perseguire la povertà e ad esaltare il mistero eucaristico. 36 11 III. IL TABERNACOLO CAPPUCCINO Legata alla particolare venerazione che l’Ordine ha per il SS Sacramento è la pratica delle Quarantore, tipica dell’epoca controriformista e di cui i Cappuccini sono protagonisti assoluti39. Certamente questa forma di devozione sottolineava il rapporto specialissimo che l’Ordine francescano aveva con l’Eucarestia e, principalmente, contribuiva alla realizzazione di impressionanti scenografie, sull’altare maggiore, per l’esaltazione dell’Ostensorio con l’Ostia Consacrata. Considerando che le sacrestie non sono ammesse dalle Costituzioni cappuccine, almeno fino al 160840, e che l’armadio (o Armarium), posto nel coro per ufficiare addossato alla parete dell’altare maggiore, fungesse da custodia per le suppellettili sacre, bisogna avere ben presente che l’ambiente, adesso usato principalmente come sacrestia41, era originariamente concepito per la preghiera e per permettere ai frati di partecipare, non visti, alla celebrazione. Affinché ciò potesse essere attuabile in toto, era necessario ricorrere ad escamotages caratteristici, che smaterializzassero il muro divisorio, trasformandolo in una sorta di parete – diaframma. Ciò poteva essere realizzato sia creando una serie di piccole feritoie nella cona dell’altare maggiore, che delle finestrelle attraverso le quali si potevano passare le ampolline durante la celebrazione, senza uscire sul presbiterio e, soprattutto, una finestra sguinciata, che metteva in comunicazione il coro per ufficiare con l’altare maggiore, attraverso il tabernacolo42. Proprio per permettere tale totale permeabilità, dal Memoriale di P. Antonio da Pordenone si legge: Il tabernacolo sii largo un piede et mezzo per quadro et longo piedi 3 et si porrà sopra il secondo grado delli candelieri et bisognando, davanti siano due colonnette sotto43. Essendo i gradini alti circa 11 cm, si può asserire che esso doveva trovarsi a circa 22 cm sulla mensa, ciò 39 Per la pratica delle Quarantore in ambiente cappuccino si veda: C. Cargnoni, Quarantore (1536- 1665)¸ in I frati Cappuccini… op. cit. vol. III/2, parte III, sez. 2, 2904 e ss. 40 La proibizione di avere la sacrestia, vigente fin dal 1536, fu abolita con le costituzioni del 1608, ove compaiono come vani definiti; cfr. Constitutiones, 250; in I frati cappuccini…, op. cit. 447, in nota delle varianti n°140, 2 Calloni, (F. Calloni, Interpretazione iconologica…,in I frati cappuccini… op. cit. 1469-1489, con relative schede), nella descrizione delle chiese cappuccine, ove secondo l’analisi di Gerlach, distingue almeno tre tipologie: Italiana, Olandese e Tedesca e, all’interno della tipologia italiana almeno altre 4 sottotipologie, individua sempre, nei cosiddetti “settori preghiera”, un vano sacrestia, riferendosi, ,molto probabilmente, alle realizzazioni proprie del XVII sec.. 41 Ci si riferisce, nel caso specifico, alla particolare situazione calabrese in cui l’ambiente “sacrestia” corrisponde all’originario coro per ufficiare. Gli studi in merito alla desemantizzazione di quest’ultimo sono in corso e, per i primi risultati, si rimanda a A. Spanò, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce per uno studio, in Studi Calabresi, 1 (2001), 107 – 144. 42 cfr. S. Gieben, L’arredamento sacro e le sculture lignee dei Cappuccini nel periodo della controriforma,in L’immagine di San Francesco nella Controriforma, Roma Calcografia 9 dicembre 1982 – 13 febbraio 1983 [catalogo della mostra], Roma 1982, 233- 236 e, con stesso titolo in I frati cappuccini… op. cit. 1635 - 1643 43 sfr. S. Gieben, La cultura materiale dei Cappuccini …, op. cit., 153 e in particolare la nota 33. 12 consentiva ai frati posti nel coro di avere una visione completa del presbiterio e, quindi, di assistere non visti alla celebrazione44. Il tale particolare ruolo che la parete diaframma acquista nel contesto architettonico e decorativo ecclesiastico in ambiente cappuccino, sembrerebbe implicare una progettazione unitaria dell’ambiente e degli elementi mobili in esso contenuti. Questo modo di concepire lo spazio e l’arredo, nel luogo preposto ad accogliere l’Eucarestia diventa eclatante e denunciato fino a imporsi definitivamente nel contesto spaziale e decorativo45. Teoricamente sembrerebbe logico il concepimento “in uno” dell’altare maggiore e del tabernacolo su di esso poggiato. Ciò però, si vedrà, spesso non corrisponde a realtà. Seppur i singoli pezzi poi assemblati siano realizzati in materiale ligneo, con una perizia artigiana indiscutibile, e nonostante si noti una somiglianza stilistica e formale, spesso gli altari sono anteriori ai tabernacoli, pur prevedendo l’inserimento di questi ultimi sulla mensa46. Colmare stilisticamente questa distanza temporale tra l’altare e il tabernacolo è possibile però, all’interno degli ambienti cappuccini, proprio grazie al tipico modo di porsi, nei confronti dell’arte, da parte dei frati stessi, come precedentemente accennato. Autori delle pregevolissime cornici lignee, dei pulpiti, degli amboni, delle cancellate, dei tabernacoli, infine, sono i frati stessi, per meglio dire, i fratelli laici dell’Ordine, uomini di fede spesso semplicissima, lontani dai doveri legati al sacerdozio e, per questo, pronti a piegare la loro 44 S. Gieben, L’arredamento sacro…¸ op cit, 233 - 236; Idem, Cultura materiale…, op, cit. 145 – 173 In casi particolari, legati però a scuole locali, come si vedrà oltre, il tabernacolo assume forme e decorazioni particolari, anche queste atte a permettere la totale partecipazione ai Sacri Misteri da parte dei frati e, in qualche caso eccezionale, addirittura, la grande custodia si apre con una porticina contro la finestra di comunicazione tra il coro e il retro della mensa eucaristica, per permettere ai frati di potersi comunicare. Per l’analisi di queste situazioni in Calabria si veda oltre nel testo. 45 Ciò è ancora facilmente leggibile in moltissime strutture cappuccine, anche in Calabria (nonostante qui si sia assistito ad una sorta di smarrimento della semantica degli spazi), in quanto difficilmente si è di fronte alle architetture originali (del XVI sec.), spesso realizzate con materiali precari e certamente non pensate per essere eterne, ma davanti alle realizzazioni 600esche, nate quindi sulla scorta delle indicazioni teoriche di p. Antonio da Pordenone. I dati di cui si dispone quindi, per quanto spesso possano essere, nei singoli casi specifici, frammentari e lacunosi, permettono di asserire con un largo margine di certezza che una sorta di campagna di restauro delle primitive strutture ha interessato anche gli arredi e il valore degli stessi. Cfr. nota 41. 46 Cfr. D.Neri OFM, Scultori francescani del Seicento in Italia, Pistoia 1952, in particolare il cap. VIII. Parlando delle opere in ambiente francescano Osservante, si asserisce che i lavori lignei sono dovuti spesso a modesti artigiani il cui lavoro si affianca a quello dei progettisti dell’intera struttura. Tra questi artigiani spesso spiccano personalità di altissimo rilievo, come fra Umile da Petralia, autore di numerosissimi Crocifissi ed Ecce Homo e considerato una sorta di caposcuola per tutto il ‘600 e il ‘700, o fra Diego da Careri, la cui presenza, documentata in più parti della penisola indica l’enorme fama raggiunta dal fraticello. A questi intagliatori si affiancano altri di minore importanza o, più spesso, poco noti in quanti operanti solo all’interno degli ambienti conventuali, come fra Filippo da Palermo (discepolo di fra Umile, o altri la cui memoria si è persa). Il ruolo degli intagliatori è spesso minore rispetto a quello degli scultori; capita sovente di assistere a lavori di gruppo in cui si evidenzia la figura di un caposquadra accompagnato da aiutanti e il lavoro di questi artigiani è volto all’abbellimento della chiesa con altari, tabernacoli, pulpiti, confessionali, balaustre. All’interno di questi gruppi di artigiani intagliatori rientrano gli artefici delle opere lignee cappuccine, attivi principalmente dalla seconda metà del ‘600 e il cui acme è raggiunto nel XVIII secolo. Non è raro trovare presso conventi cappuccini frati Osservanti, divenuti famosi per la perizia e l’abilità, come è il caso di Vibo Valentia, dove il grande altare maggiore e gran parte degli arredi della chiesa sono dovuti a fra Diego da Monteleone e ad aiuti (anni ’60 del XVII sec.), mentre il tabernacolo, come si vedrà avanti, appartiene senza dubbio alla compagine culturale cappuccina. Cfr. anche E. Barillaro, Calabria; guida artistica e archeologica, Cosenza 1972) 13 manualità all’abbellimento della casa di Cristo, centro e perno non solo ideale, dell’intero complesso monastico47. Tale continuo appoggiarsi agli artisti appartenenti all’Ordine, pur portando ad un allontanamento dai percorsi che l’arte segue nel “mondo”, non elimina una sorta di evoluzione all’interno di quella conventuale e quindi, alla nascita di una vera e propria “arte cappuccina”, ovunque riconoscibile e, paradossalmente sempre identica a se stessa, in cui si opereranno solo piccole varianti genetiche al suo interno, legate alle differenti qualità ambientali e culturali in cui l’Ordine si troverà ad operare. La tipologia più frequente per le custodie cappuccine è quella del tempietto a pianta centrale, pianta che, in ambiente rinascimentale, è ricca di connotazioni simboliche legate alla perfezione riconosciuta al cerchio e, quindi, a tutte le figura geometriche che ad esso si avvicinano48. A questa serie di speculazioni filosofico – teologiche tipicamente rinascimentali ed umanistiche, si affianca però una sorta di nuova specificità legata alla “forma” della custodia, per nulla slegata da una discussione simbolica di ampio respiro, circa il valore dell’immagine nel XVII secolo. I tabernacoli non sono, infatti, a pianta centrale ma hanno uno schema semicentrico, essendo realizzata solo la parte che è visibile dalla navata, rimanendo rozza e piatta quella posteriore, che si incastra nel dossale dell’altare maggiore. Questo escamotage, se da un punto di vista funzionalistico può essere letto come necessario per un corretto inserimento all’interno dell’ancona dell’altare, addossato alla parete, da un punto di vista simbolico mostra una chiara accettazione, da parte dell’ambiente cappuccino, di regole teatrali e scenografiche che, esemplificando, possono essere definite “barocche”. Il tabernacolo, infatti, pur non essendo realmente a pianta centrale, così di fatto sembra. I fianchi si sviluppano secondo uno schema più o meno divergente da quello frontale suggerendo una forma che continua al di là dell’incastro tra i gradoni dell’altare. Il problema non risiede tanto nel realizzare una forma centrale ma nel suggerirla, nella necessità di rendere chiara e positiva l’immaginazione. Ciò che si impone sull’altare maggiore è, di fatto, un tempietto cruciforme, 47 Il ruolo dei fratelli laici è fondamentale per lo sviluppo dell’arte cappuccina. Per uno studio approfondito delle opere da questi realizzati si veda: S. Calì, Custodie Francescano – Cappuccine in Sicilia, Catania 1967, C. da Langasco, Cultura materiale in convento…, op. cit.; S. Gieben, La cultura materiale dei Cappuccini …, op. cit. Vedi anche, per il continuo comparire di nomi di fratelli laici legati alle opere trattare: G. Santarelli, I Tabernacoli lignei dei Cappuccini delle Marche…, op. cit.; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op. cit... 48 Proprio l’equilibrio geometrico insito nella figura ad un solo centro, che crea una relazione armonica tra tutte le parti, come si trattasse di membra di un solo corpo, permette alla divinità di rivelarsi all’intelletto umano. Ripercorrendo, infatti, l’excursus filosofico affrontato da Leon Battista Alberti, nonché le teorizzazioni matematiche di Luca Pacioli, o le realizzazioni concrete di Bramante o Palladio, si evidenzia come proprio l’uso del cerchio è raccomandato laddove si affronta il problema di una architettura sacra. Il cerchio come luogo di incontro concreto tra il microcosmo umano e il macrocosmo metafisico di Dio, in cui, oltretutto, la cupola si pone come elemento realmente realizzante l’incontro mistico. Per ci confronti con il mondo cappuccino vedi: F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit. 28 – 34, con relative note e citazioni. 14 ottagonale, esagonale o circolare in cui non ha più valore la corrispondenza tra ciò che si vede e ciò che è49. Che la realtà apparente sia una figura di quella sostanziale e che tutto ciò che si vede può sembrare altro, si concretizza nel tabernacolo, pur ritornando con la mente alla ricchezza di simboli che la figura centrica porta con sé. Se, infatti, il corpo del tempietto è solo un evento teatrale, la cupola torna ad essere basata su una vera figura centrica. Lo sviluppo di quest’ultima, infatti, a cipolla, a calotta estradossata, troncoconica, a pagoda, a falde, realizza in concreto la realtà metafisica che le appartiene, essendo considerata il luogo della presenza delle potenze celesti. Ergendosi, inoltre, libera da legami fisici con l’altare, proprio la cupola ha la possibilità di denunciare, senza mezzi termini, la scelta dell’impianto centrico per tutto il ciborio, eludendo definitivamente, ogni possibile confusione generata dalla eventuale presa di coscienza dell’inganno perpetrato ai danni dell’osservatore. Imponendosi sulla mensa eucaristica, il tabernacolo, col carico di connotazioni simboliche e geometriche che gli sono riconosciute, partecipa, in definitiva, alla realizzazione dello spazio ecclesiastico precedentemente definito come “spazio dinamico”. Questo ruolo diviene addirittura fondamentale nella creazione di una nuova concezione spaziale tardo manierista e barocca, in cui la dinamica, la metamorfosi, l’effetto teatrale e scenografico, diventano evento superante l’architettura in sé. I tabernacoli cappuccini costituiscono un elemento assolutamente tipico della cultura minoritica secentesca e settecentesca. Rispondendo a determinate esigenze liturgiche e cultuali, si pongono a latere nella compagine artistica contemporanea, sconfinando nell’alto artigianato, spesso totalmente estraneo a veri e propri dibattiti formali. I termini della questione, che verranno più oltre maggiormente chiariti, riguardano, innanzitutto, il particolare modo di concepire l’opera, estremamente complessa e ricca di un repertorio figurativo legato a necessità simboliche e devozionali. Ogni parte della micro architettura (perché come tale si può definire un tabernacolo alla cappuccina), risponde non ad esigenze tettoniche ma decorative. La decorazione è legata, dal suo canto, alla sottolineatura di alcune parti dell’intero organismo che, in quanto fondamentali per la corretta interpretazione di tutta l’opera, si ha la necessità di esaltare. Ecco che un ricchissimo apparato decorativo a carattere fitomorfo o geometrico, fondato su una finissima tecnica dell’intaglio o su un sapiente intarsio di legni di differente robustezza e colore, 49 Si è di fronte ad un tipico atteggiamento barocco, laddove per barocco si intenda oltre che la tendenza all’esuberante decorazione anche, e principalmente, la volontà di sottolineare la realtà visibile, a discapito di ciò che visibile non è. L’effetto scenico, teatrale; l’apparenza e il sogno, sono propri di una cultura che non si interessa della sostanza ma dell’immagine che di essa si ha, senza caricare quest’ultima di eternità e di stabilità. Questa precarietà, se sembra non poter essere legata alla indiscutibile presenza di Cristo nell’Ostia Consacrata, custodita nel tempietto sull’altare, di fatto si lega perfettamente al particolare modo di considerare il pane consacrato, la cui sostanza è celata da una differente forma, la cui realtà è inintelligibile in sé. 15 evidenziano specchiature, nicchie ospitanti statuine di santi francescani, trabeazioni e archivolti; materiali preziosi come l’avorio, la madreperla, la tartaruga, permettono una maggiore vibrazione coloristica delle superfici e concorrono alla creazione di un vero e proprio gioiello gigante, giustificabile solo perché ospitante il vero corpo di Cristo50. Questa specificità affatto unica, pone di colpo il tabernacolo al centro dell’attenzione non solo dell’osservatore ma anche, e ciò è ancor più importante, dell’intera dei comunità dei frati. Dai necrologi è possibile risalire con una certa sicurezza ai nomi dei fratelli laici creatori delle custodie nelle varie province dell’Ordine. Spesso persone di umilissima estrazione sociale e di pochissima cultura, non hanno lasciato alcuna traccia scritta di sé, affidandone la memoria solo alle opere che realizzavano per l’abbellimento della chiesa. Altre volte, è possibile leggere, sul retro dei tabernacoli, i nomi degli autori ma più spesso, solo attraverso l’esame delle committenze (sovente i provinciali del tempo), si può avere notizia degli intagliatori all’interno dei conventi51. Quali fossero le conoscenze reali, in campo artistico, dei suddetti intagliatori, non è facile capirlo. Certamente, attraverso un confronto con contemporanee opere scultoree o architettoniche, estranee all’ambiente cappuccino, si ravvisano segni di quella involuzione o cristallizzazione della cultura artistica52. L’attenzione dei fratelli intagliatori è spesso rivolta alle decorazioni finissime, secondo un gusto tendente a ricoprire tutta la superficie disponibile (una sorta di horror vacui), o a definire minuziosamente le singole parti dell’intera struttura, con una conseguente perdita di vista dell’insieme armonico. Altre volte succede il contrario: la necessità, ovvero, di definire interamente l’architettura fantastica, dimenticando ogni regola armonica o prospettica, evitando ogni giusto rapporto tra i singoli elementi architettonici e sottolineando solo l’elemento fantastico, prezioso e simbolico53. Nel primo caso si assiste, quindi, ad una minuziosissima cura dei particolari, con raggiungimento di effetti in cui si nota una perizia non comune nell’accostamento dei legni di diversa gradazione cromatica, nella giustapposizione di materiali differenti all’interno, però, di una 50 Ci riferisce ancora alle prescrizioni, già ampiamente trattate, riguardo l’attenzione nei confronti dell’Eucarestia. Vedi precedentemente nel testo e le note:14 –25. Per una trattazione ampia dei motivi decorativi e delle forme stilistiche che si ritrovano nei tabernacoli si veda oltre nel testo. 51 Non essendoci documentazioni, né firme, in merito ai manufatti dei fratelli cappuccini i testi di grande importanza sono i necrologi ove, seppur in poche righe, viene trattata la qualità specifica del frate. Per la Provincia Monastica di Cosenza ci si è avvalso dell’opera di P. G. Leone¸Necrologio dei Frati Minori Cappuccini di Cosenza, Milano 1981, mentre per la Provincia Monastica di Reggio Calabria – Catanzaro, il Necrologio, composto da P. Silvestro da Taurianova, negli anni ’60 del secolo scorso, è molto frammentario e depositato, in forma di Dattiloscritto, presso L’Archivio Provinciale di Catanzaro. Contestualmente, come si vedrà avanti nel testo, alcuni frati intagliatori hanno lasciato la loro firma impressa sul retro delle opere o, come nel particolare caso di Nicastro, su una carta conservata dal Guardiano del locale Convento. 52 Si intende in questo caso, una tendenza a tramandare forme e tecniche artistiche all’interno delle mura conventuali. 53 Vedi oltre nel testo la trattazione dei casi specifici. In generale si sottolinea come l’attenzione al fatto figurativo e decorativo sia superiore alla chiara intelligenza tettonica del tempietto. Ciò evidenzia il carattere essenzialmente teatrale della microarchitettura lignea del ciborio e la sua necessità di essere iperdecorato per attendere alla sottolineatura dell’essere la sede dell’Eucarestia. 16 struttura architettonica poco armonica, in cui l’elemento teatrale e destrutturante è esaltato a discapito della corretta interpretazione dei canoni formali classicisti54. Una distanza da questi ultimi si ritrova anche nelle realizzazioni in cui poca attenzione è rivolta ai singoli elementi definenti la struttura architettonica della custodia. In questo secondo caso, la poca dimestichezza con le debite proporzioni tra i capitelli e le colonne, o tra le trabeazioni e i sostegni, porta l’intagliatore a realizzare opere in cui è ravvisabile una armonia non legata ai singoli elementi ma al rapporto che si viene a creare tra il tabernacolo e l’altare che lo ospita, nonché tra questo e la chiesa55. Questi elementi, apparentemente negativi, rendono però le custodie cappuccine espressioni assolutamente tipiche e sottolineanti la scelta di “povertà”, in questo caso “culturale” dell’Ordine. Riallacciandosi un attimo alle esortazioni di P. Antonio da Pordenone, circa l’atteggiamento da avere, da parte dei frati, nei confronti del corretto uso degli ordini architettonici, si può asserire con estrema certezza che, almeno per quanto riguarda i tabernacoli, l’esortazione è stata seguita pedissequamente. Nulla di più anticlassico è ravvisabile nei cibori in questione. Appartenenti con certezza ad una cultura formale tardo manierista, i tabernacoli, mantengono inalterato il loro non rapporto con la cultura ufficiale rimanendo sempre identici a loro stessi, non cedendo mai in modo eclatante alle suggestioni formali in voga ma, piuttosto, seguendo una strada parallela che vede una continua evoluzione all’interno di essi stessi. Così, se ad un occhio profano, appare impossibile riconoscere qualità formali datanti diversamente le singole opere; allo stesso modo, attraverso una attentissima operazione comparativa, si possono evidenziare con un largo margine di certezza, gruppi di tabernacoli appartenenti a determinate aree geografiche e differentemente databili56. IV. I TABERNACOLI CAPPUCCINI DELLA CALABRIA In Calabria, le opere trattate sono tutte relative al periodo compreso tra la fine del XVII secolo e la metà di quello successivo. Opere la cui qualità formale spesso è altissima e di cui è possibile anche, per eventi totalmente fortuiti, riconoscerne la paternità o, in casi specifici, avanzare una ipotesi di bottega57. All’interno di questi manufatti, grazie anche alla possibilità di 54 Vedi nota precedente; in questo caso si evidenzia come l’attenzione verso il fatto decorativo policromo porti ad una minore intelligenza dell’insieme architettonico che sembra fare da supporto alla decorazione. 55 Vedi nota precedente. In questo caso la minuziosa decorazione dei singoli elementi realizzanti la piccola architettura interviene a sviare l’artefice dal corretto modo di usare gli elementi architettonici e di creare un giusto dialogo proporzionale tra essi. Il risultato è che il tabernacolo risulterebbe goffo e sproporzionato se estrapolato dal contesto per il quale era stato originariamente concepito. Per esempi concreti, vedi oltre nel testo. 56 Vedi oltre nel testo. 57 Lo studio analitico dei singoli manufatti ha permesso di estrapolare il gruppo di opere firmate da una serie di altri cibori, tradizionalmente attribuiti a nomi famosi (uno fra tutti fra Ludovico da Pernocari, come si vedrà oltre nel testo), e, principalmente, a riconoscere l’appartenenza a diverse e ben riconoscibili personalità guida. Attraverso queste, inoltre, i tabernacoli sono stati classificati in due macrofamiglie:attuale Provincia Reggina e Provincia Cosentina, riconducendo i primi alla vastissima compagine decorativo – architettonica di provenienza sicula, mentre riconoscendo, 17 comparazione con simili opere in altre parti d’Italia, si notano almeno due tendenze specifiche relative al secolo XVII e al secolo XVIII58. I tabernacoli secenteschi presentano, infatti, un forte sviluppo in ampiezza, un allargamento della base a discapito della profondità e dell’altezza, denunciando un poco accentuato sviluppo verticale59. Le opere settecentesche, al contrario, presentano uno straordinario sviluppo in altezza, con aggiunta di piani rastremati verso l’alto, maggior rapporto con l’atmosfera e con la luce, attraverso un sapiente gioco chiaroscurale operato attraverso chiaroscuri violenti, balaustrate e forti aggetti60. I tabernacoli settecenteschi sono, indiscutibilmente, i più preziosi e i più vicini, inoltre, ad una attenzione maggiore per la perfetta armonizzazione tra le parti e il tutto e ad esse sono legati i pochi nomi di artisti che si conoscono, così come è possibile ravvisare all’interno della vasta compagine di custodie in possesso, almeno quattro botteghe legate ad alcune figure cardine, riconosciute come magistrali61. All’interno della regione, al giorno d’oggi divisa in due province monastiche: Reggio Calabria – Catanzaro e Cosenza, nonostante il patrimonio figurativo e architettonico sia stato disperso a causa sia dell’incuria atavica locale e delle soppressioni che, principalmente, per i terremoti frequenti e violentissimi, si conservano 24 tabernacoli quasi tutti relativi al XVIII secolo, e catalogabili in almeno quattro tipologie distinte, relative alle differenti aree geografiche in cui si trovano: Area del Pollino; Area del versante medio tirrenico; Area medio cosentina; attuale Provincia monastica di Reggio Calabria – Catanzaro62. All’interno delle varie aree è ancora ravvisabile l’operato di alcuni personaggi di maggior spicco e fama, spesso a capo di vere e proprie botteghe e i cui nomi sono rimasti avvolti in un’aura mitica (almeno per quanto riguarda le opere della Provincia reggina). per il secondo gruppo, in cui sono evidenziabili almeno tre sottogruppi, specificità proprie e contatti con le botteghe artigiane laiche della zona di Rogliano Calabro. 58 Tale classificazione è affiancabile a quella vista per le altre Province cappuccine d’Italia; cfr: G. Santarelli, Opere di ebanisteria presso i Cappuccini delle Marche, in Collectanea Franciscana, 63 (1993); G. Santarelli, I Tabernacoli lignei dei Cappuccini delle Marche…, op. cit.; F Caroselli, I Tabernacoli lignei…, op. cit. 59 Non pare esistano in Calabria opere risalenti al XVII secolo. Nonostante ciò si ravvisa nel tabernacolo di Reggio Calabria, il più antico della serie, una tendenza alle forme monumentali, in altre parti d’Italia datanti le opere al 1600. 60 La tendenza al verticalismo sempre più pronunciato, all’alleggerimento dei piani in altezza e il gioco chiaroscurale provocato da aggetti, elementi scultorei, balaustrate si nota in tutti i manufatti che si stanno trattando. Proprio su questa base è stato possibile classificare, inoltre, le tipologie cui prima si accennava. 61 Vedi nota 57. Tutti i fratelli laici autori dei cibori di cui si è tramandata la memoria appartengono al XVIII secolo. Vedi oltre nel testo. Le “pseudo botteghe” di cui si fa menzione si raccolgono attorno alle figure di fra Ludovico da Pernocari, fra Luca da Mormanno, e fra Lorenzo da Belmonte; vedi oltre nel testo. 62 La distinzione in aree è stata operata per facilitare il lavoro di classificazione e non tiene conto né degli unica presenti nei territori classificati (i tabernacoli di Corigliano e di San Giovanni in Fiore), né della presenza di artisti provenienti da aree diverse che, spostati altrove, lasciano opere stilisticamente estranee al luogo per il quale furono realizzate. È il caso del tabernacolo di Oriolo che, nonostante si trovi nell’Area orientale del Pollino, rientra nel novero delle realizzazioni riscontrabili in area medio tirrenica. Per ulteriori precisazioni vedi oltre nel testo. 18 Ci si riferisce, per la Provincia reggina, a fra Salvatore da Monteleone, fra Giuseppe da Chiaravalle e fra Filippo da Badolato (XVII sec.) 63, e a fra Domenico da Pernocari, fra Ludovico da Pernocari, fra Francesco da Chiaravalle (XVIII sec.)64. Operanti nella provincia di Cosenza sono: fra Luca da Mormanno, fra Gregorio da Mormanno, fra Giovanni da Belvedere Marittimo, fra Francesco Maria da S. Giovanni in Fiore, fra Felice Maria da S. Giovanni in Fiore, fra Bernardo da Sant’Agata, fra Lorenzo da Belmonte Calabro (tutti appartenenti al XVIII secolo)65. A questi personaggi, e principalmente allo loro “botteghe” o aiutanti, sono dovuti i cibori più importanti della regione, seppur spesso non sia facile assegnare ai nomi le rispettive opere. La memoria dei suddetti fratelli intagliatori si è perpetrata anche grazie alla firma (o alla citazione), di questi apposta sul manufatto. Proprio per quest’ultimo motivo per lungo tempo si è erroneamente attribuito a personaggi di spicco (come, per la Provincia di Reggio, Ludovico da Pernocari), la maggior parte dei tabernacoli dell’intera area, a discapito di una vera e propria analisi dei manufatti volta quindi anche alla evidenziazione non solo dei singoli autori ma anche delle più sfaccettate correnti66. In linea di massima infatti, se è vero che i tabernacoli rispondono a linee di gusto ben precise e comuni a tutto il mondo cappuccino (grazie anche alla facilità di spostamenti che i frati avevano e alla enorme fama acquisita da alcuni di essi, come gli intagliatori trapanesi operanti persino nell’Emilia), è anche vero che la provincia di Cosenza presenta una serie di caratteristiche che le sono proprie. Queste specificità permettono una chiara distinzione rispetto alle opere della Calabria meridionale, ove si assiste ad una maggiore esuberanza decorativa, maggiore inventiva e maggiore sensibilità cromatica e, soprattutto, si nota un diverso modo di concepire il rapporto tra tabernacolo – altare maggiore e coro retrostante. I tabernacoli cosentini presentano, tutti, un alto basamento su cui si apre una finestra incorniciata da volute lignee, in diretto contatto con l’apertura retrostante il dossale dell’altare su cui il ciborio insiste e, quindi, con l’armadio – sacrestia posto nel coro. Tale particolarissima 63 Dal frammentario Necrologio per la Provincia di Reggio Calabria custodito presso l’Archivio Provinciale di Catanzaro: 24 gennaio:<Fra Salvatore da Monteleone e fra Giuseppe da Chiaravalle. Maestri d’ascia, realizzarono opere in legno nel luogo nuovo di Catanzaro nel 1680. Fra Felice da Badolato, laboriosissimo artigiano, eseguì utilissimi lavori: lampadari per la chiesa, cornici per quadri, etc etc.>. 64 Dal Necrologio per la Provincia reggina, al 24 Marzo: <Fra Ludovico da Pernocari (1680) e fra Francesco da Chiaravalle, realizzarono dal 1742 al 1752 preziosi tabernacoli lignei>. Le datazioni, alla luce delle ultime ricerche sui manufatti lignei, appare imprecisa, ritrovandosi la firma di Ludovico da Pernocari sul tabernacolo di Reggio Calabria (1710) e di Gerace (1720). 65 In G. Leone, Necrologio…, op.cit. 66 Vedi note 57 e 61. 19 situazione permetteva una totale permeabilità, tra la chiesa e il coro dei frati, proprio attraverso il tabernacolo67. Questo modo di concepire e realizzare il rapporto tra i due luoghi del coro attraverso il tabernacolo non si ritrova nelle opere della provincia reggina, le quali sembrano seguire linee formali più legate all’esuberanza di stampo siciliano e, principalmente, ruotano attorno alla figura chiave di fra Ludovico da Pernocari, autore riconosciuto delle opere più alte, da un punto di vista qualitativo, della provincia68. Le notizie riguardo fra Ludovico da Pernocari, sono quanto mai frammentarie e legate solo alla memoria che di esso ci è stata tramandata, tramite i cibori da lui realizzati. Si tratta infatti dei rari casi in cui si è di fronte ad esempi di opere firmate da un fratello laico dell’Ordine e, già solo questa particolare evenienza basta per far comprendere la fama raggiunta dall’artigiano, all’interno della Provincia. Il nome di fra Ludovico è spesso accompagnato da quello di fra Domenico da Pernocari o da Francesco da Chiaravalle, che compare come “collaboratore”, e si ritrova nei tabernacoli di Reggio Calabria, Gerace e Nicastro, mentre echi dell’arte di questi sono ravvisabili anche nella custodia di Vibo Valentia in quella di Rombiolo e di Tropea69. A parte le scarne notizie riportate dal Necrologio della Provincia reggina, null’altro si sa del frate intagliatore, e tutto ciò che è possibile asserire, circa il suo excursus artistico, è solo ipotizzabile sulla base di una lettura critica della opere rimaste. Cronologicamente i cibori di fra Ludovico da Pernocari, che occupano almeno tre quarti dell’intero XVIII secolo, sono da collocarsi secondo questa sequenza: 1- Reggio Calabria (1710) 2- Gerace (1720), 3- Nicastro (1742). Nella lettura stilistica delle quattro custodie sicuramente di mano del frate, si nota una tendenza al continuo affinamento delle forme, alla verticalità sempre più denunciata e ad una più chiara vibrazione cromatica della superficie, dovuta alla, sempre maggiore perizia circa l’uso delle diverse essenze lignee giustapposte. Una sorta di affinamento del gusto e della manualità è anche ravvisabile nella trattazione dell’intaglio, in particolar modo nei capitelli e negli imoscapi delle colonne, come anche nelle cornici e negli aggetti, in cui, principalmente nel tabernacolo di Nicastro, 67 Tale particolarità è di grande interesse per la storia dell’architettura cappuccina in Calabria ove, si è visto, il vecchio coro perde totalmente la sua originaria destinazione d’uso. Per questi problemi vedi: A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi …, op. cit; idem, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce…, op. cit. 68 cfr. nota 57, 61, 65. 69 I tre tabernacoli sono sempre stati tradizionalmente attribuiti a fra Ludovico. La serie di incongruenze stilistiche e decorative però, porta a escludere la diretta paternità per accettare, piuttosto, l’attività di aiuti del riconosciuto maestro. Vedi oltre nel testo. 20 si assiste a realizzazioni di altissima qualità, con un controllo pressoché totale delle singole parti e del tutto. Affiancati alla figura di fra Ludovico sono gli altri due artigiani intagliatori di cui si è già accennato: fra Francesco da Chiaravalle e fra Domenico da Pernocari (la cui unica esistenza è ricavabile solo dall’iscrizione riportata dietro il tabernacolo di Reggio Calabria)70. Attraverso una indagine stilistica è possibile ravvisare l’operato di fra Francesco di Chiaravalle nel ciborio custoditi nella chiesa di Vibo Valentia (post 1742) . Nell’opera vibonese le distanze dalle opere di fra Ludovico sono enormi, circa il diverso modo di intendere le superfici, con il ricorso a listelli colorati e, principalmente, circa le dimensioni in scala molto ridotta, dell’opera nel suo insieme71. La figura di fra Domenico da Pernocari, pur non essendo citata nel frammentario necrologio, si ritrova accanto a fra Ludovico nel tabernacolo di Reggio Calabria. Poco o nulla si conosce del frate intagliatore la cui presenza è sempre stata offuscata da quella del maestro. Ciò nonostante attraverso il presente studio si è avanzata l’ipotesi di attribuire ad esso i cibori di Rombiolo (173439) e di Tropea. In essi si nota il perpetuarsi di uno schema compositivo ancora legato alle realizzazioni protosettecentesche e distanti dagli sviluppi in senso atmosferico e cromatico di Ludovico da Pernocari. Accanto a questi tre personaggi, le cui opere rimangono comunque circoscrivibili al XVIII secolo, compaiono altre figura di frati intagliatori, i cosiddetti “maestri d’ascia”: fra Salvatore da Monteleone e fra Giuseppe da Chiaravalle che, intorno al 1680, realizzarono lavori in legno a Catanzaro, ma di cui non si ha alcuna memoria72; e fra Felice da Badolato, citato quale “laboriosissimo artigiano” la cui memoria è affidata a cornici in legno, lampadari e altre opere per la chiesa, ma di cui non si conosce neanche la data della morte73. La situazione appare meno frammentaria per quanto riguarda la provincia monastica di Cosenza. Qui, attraverso il necrologio e ad una vasta serie di notizie, seppur sparse, raccolte da P. Giocondo Leone, è possibile isolare alcune figure di spicco, tra i fratelli laici intagliatori, cui sono dovute opere lignee ancora in buono stato, conservate nei conventi o in altre chiese o istituzioni laiche, della provincia74. 70 Vedi oltre nel testo. Per la descrizione attenta vedi oltre nel testo. 72 Vedi nota 63. 73 Vedi nota 63. 74 A padre Giocondo Leone oltre al già citato Necrologio (vedi nota 51), è dovuta la pubblicazione di importanti testi per la storia dei conventi e della Religione Cappuccina in Calabria tra cui I cappuccini e i loro 37 conventi in provincia di Cosenza, I - II, Cosenza 1986; Priorità storica calabrese nella Riforma Cappuccina desunta dalle fonti dell’Ordine, Cosenza 1998; Storia dell’attuale Convento e Chiesa dei Cappuccini a Cosenza (detto della Riforma), Soneria Mannelli (CZ) 1998; Biblioteca Cappuccina “SS.mo Crocifisso” di Cosenza, Soneria Mannelli (CZ) 2000; I Cappuccini a Rossano, Soneria Mannelli (CZ) 2000 71 21 Dal necrologio si ricavano notizie circa Luca da Mormanno, che nel 1711 con l’aiuto di fra Giovanni da Belvedere Marittimo, costruisce la custodia di Morano Calabro75, di fra Gregorio da Mormanno autore, entro il 1756, della custodia conservata nella chiesa dei cappuccini di Mormanno76, di fra Francesco Maria da S. Giovanni in Fiore alle prese con la custodia di San Giovanni77, quindi di fra Felice Maria da San Giovanni in Fiore, artefice dell’Armadio della sacrestia della chiesa cappuccina locale (1762)78. In ambito roglianese-cosentino si evidenziano le figure di Lorenzo da Belmonte Calabro, autore, entro il 1756, del tabernacolo di Rogliano79, e Bernardo da S. Agata, che nel 1740 firma la custodia di Paola80. Nonostante i nomi tramandati, per la provincia di Cosenza, siano in numero maggiore, non è così per quanto riguarda invece le notizie biografiche dei frati intagliatori. Di questi non si conosce pressoché nulla, a parte l’epoca in cui sono vissuti, e solo attraverso una indagine stilistica è possibile ritrovare echi formali in opere non datate né firmate. Infatti alla personalità di Luca da Mormanno non solo si deve l’opera che, da documenti, risulta essere realmente creata dallo stesso, ma anche la nascita di una tipologia di un tabernacolo affatto tipico, in cui lo schema centrale si sviluppa partendo da un disegno pseudo cruciforme di base, sviluppandosi in senso piramidale. Su questa base è possibile isolare una tipologia ben precisa di tabernacoli collocati nell’Area del Pollino cui appartengono il suddetto tabernacolo di Morano, quello di Mormanno e quello di Acri. Ad una tipologia ben diversa, invece, rispondono i tabernacoli, non firmati né datati, dell’Area medio cosentina: Paola, Castrovillari, Rossano, Luzzi, Cassano Jonio. Lo schema che si ripete presenta, infatti, uno sviluppo piramidale su base poligonale (pseudo – esagonale), con tendenza ad un allargamento della parte basamentale. Una terza corrente artistica particolarmente interessante per l’attenzione per il fatto plastico e la monumentalità accentuata del tempietto, è quella cui posso essere ascritti i tabernacoli dell’Area del medio Tirreno: Rogliano, Castiglione Cosentino, Orsomarso, Oriolo, Cetraro. I cibori suddetti non sono datati né firmati (a parte quello di Rogliano, dat. 1752), e sono databili al pieno 75 G. Leone, Necrologio… op. cit., al 4 marzo: <Giovanni da Belvedere Marittimo, fratello non chierico. Frate artista, collaborò alla costruzione della custodia dell’altare maggiore della nostra chiesa di Morano calabro nel (4 marzo) 1711>, 64; al 13 agosto:< Luca da Mormanno, fratello non chierico. Frate artista, costruì il tabernacolo della nostra chiesa di Morano Calabro nel (13 agosto) 1711>, 231. 76 Idem, al 27 gennaio: <Gregorio da Mormanno, fratello non chierico. Frate artista, costruì la custodia dell’altare maggiore della nostra Chiesa di Mormanno ove, poi, finì di vivere il 27 gennaio 1756>, 27. 77 Ibidem, al 4 maggio: <Francesco – Maria da S. Giovanni in Fiore, fratello non chierico. Costruttore della Custodia dell’altare maggiore della nostra chiesa si S. Giovanni che porta la data (4 maggio) 1762>, 126. 78 Ibidem, al 28 marzo; < Felice Maria da S. Giovanni in Fiore, fratello non chierico. Costruì l’armadio della sacrestia della nostra chiesa in S. Giovanni in Fiore sul quale, con la firma appose l’anno (28 marzo) 1762>, 88. 79 Ibidem, al 7 luglio: <Lorenzo da Belmonte Calabro, fratello non chierico. Frate artista, in Rogliano costruì la cappella maggiore ed il tabernacolo della nostra chiesa. Era ancora vivo il 7 luglio 1756>, 194. 80 Ibidem, al 21 giugno: <Bernardo da S. Agata d’Esaro, fratello non chierico. Messo in evidenza, vivente, nel (21 giugno) 1740>, 178. Per la paternità del ciborio di Paola si veda oltre nel testo. 22 1700, grazie alla particolare esuberanza plastica decorativa, vicina alle opere dei decoratori roglianesi settecentesche81. Un gruppo di tabernacoli costituenti un insieme di “unica”, raccoglie i manufatti di San Giovanni in Fiore e di Corigliano. All’interno di questa classificazione si notano somiglianze a livello di gusto decorativo che legano le tipologie, or ora evidenziate, concorrendo alla sottolineatura di una matrice culturale comune e, per estensione, a sua volta classificabile come “cappuccina”, per la chiara aderenza ad un linguaggio oramai chiaramente definito82. Per poter operare una distinzione su basi scientifiche, quindi una classificazione che non sia una mera distinzione su base geografica, dei singoli cibori sparsi per la Calabria, si affronta, a questo punto, la disamina attenta delle opere raggruppandole in base alle province di appartenenza. V. PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA – CATANZARO 1. Tabernacolo di Fiumara di Muro. Conservato, nella cappella del SS. Sacramento della chiesa del convento di Reggio Calabria, il tabernacolo proviene dal convento di Fiumara di Muro (1532- 34), presso il capoluogo reggino, ormai in fase di quasi totale distruzione. L’opera, restaurata ultimamente dall’Istituto Frangipane di Reggio Calabria, si pone quasi come una sorta di unicum nel contesto dei tabernacoli della provincia di Reggio-Catanzaro, presentando pochissime affinità con le opere che si andrà ad analizzare83. Poche somiglianze si ritrovano persino con il tabernacolo di Reggio Calabria, conservato nel medesimo complesso conventuale che, pur riproponendo il tema della cupola estradossata con nervature, per il modo di concepire l’intera struttura e le decorazioni appartiene, indiscutibilmente, ad un diverso ambiente artistico. 81 Si rammenta dell’esistenza a Rogliano di rinomatissime botteghe artigiane dedite all’intaglio e all’intarsio ligneo che hanno abbellito moltissime chiese dell’area cosentina in tutto il ‘700. 82 Vedi nota 13. 83 La relazione del restauro si conserva presso il Convento dell’Eremo dei Cappuccini a Reggio Calabria. In essa si ripercorrono le fasi del restauro conservativo preceduto da una ripulitura della superficie lignea totalmente ricoperta da oli e polveri di varia natura e di consistenza bituminosa. Il manufatto appariva pesantemente attaccato da tarli silofagi, mancante di molti elementi decorativi a rilievo e su tutta la superficie si riscontravano evidenti lesioni di fessurazione. Il restauro è intervenuto alla ripulitura e disinfestazione dell’intero manufatto, alla reintegrazione delle parti mancanti e al consolidamento delle parti tettoniche. Per ulteriori notizie di carattere tecnico si veda la relazione: Restauro di un manufatto ligneo del ‘700 proveniente dal Convento di Fiumara di Muro di Reggio Calabria, a cura dell’Istituto Statale d’Arte di Reggio Calabria. 23 Infatti, al tabernacolo di Fiumara sono assolutamente estranee le decorazioni policromatiche realizzate con l’uso dell’avorio, dell’ebano e della madreperla, prediligendo, invece l’esaltazione di una monocromia di base in cui la vibrazione coloristica è affidata solo ai due tipi di essenze lignee usate: la noce e il ciliegio. La struttura tettonica del piccolo monumento, le cui dimensioni sono poderose, raggiungendo i circa 190 cm di altezza, ripropone lo schema della turris che si conclude in alto con una sorta di terrazza balaustrata dietro la quale svetta la cupola. La “torre”, composta da un basamento che ospita la custodia vera e propria, e da due piani le cui facce sono bucate da nicchie più o meno profonde e i cui angoli sono rafforzati da pesanti contrafforti davanti ai quali si pongono gruppi di colonne, si erge secondo uno schema parallelepipedo. Tale particolare soluzione evita l’andamento piramidale dell’alzato, pur mostrando una volontà di alleggerimento verso l’alto attraverso il rimpicciolimento delle colonne e il relativo assottigliarsi delle trabeazioni. Di particolare interesse sono sia le decorazioni a tarsia, proponenti immagini legati alla passione di Cristo che le modanature architettoniche. Queste ultime sono chiaramente legate a schemi manieristi o protobarocchi, atti alla esaltazione della pura forma a discapito delle eventuali leggi statiche basilari per qualsiasi realizzazione architettonica. La piccola monumentale architettura del tabernacolo di Fiumara, infatti, presenta una serie di volute di coronamento del piano superiore che, riprendendo lo schema del timpano spezzato, si affrontano in maniera innaturale, non lontane dalle realizzazioni fantastiche manieriste di ambito fiorentino. Tale citazione, insieme ai chiari riferimenti alle Costituzioni francescane, circa l’uso del solo legno anche per le opere di grande valore simbolico, permette di avanzare l’ipotesi di una datazione piuttosto alta per l’opera. Purtroppo la mancanza di qualsivoglia dato documentario sulle vicende del tabernacolo in questione, nonché del convento di Fiumara, non consentono di ipotizzare altro circa la datazione e la paternità del manufatto. Il campo rimane quindi aperto, considerando anche la totale decontestualizzazione del tabernacolo e quindi, l’impossibilità di leggere il rapporto che si instaurava tra questo e l’altare maggiore, con la magnifica pala d’altare, che lo ospitava. 2. Tabernacolo di Reggio Calabria. Il Tabernacolo è custodito nella cappella del convento dell’Eremo di Reggio Calabria ed è firmato e datato sul retro, così come attesta la seguente epigrafe in corsivo incisa a fuoco sul tavolato: Questo tabernacolo fu fatto da F. Lo/dovico e F. Domenico da Pernocari, capuc: in tempo della Guardiania del P. Antonio da S. Agata e terminato in tempo del P. M. R. ex Prov. Lodovico di S. Agata. 1710. Ancora, una iscrizione sottostante la precedente afferma che: 24 Questo tabernacolo fu restaurato da Francesco Rossetti da Vibo Valentia per disposizione del M. P. P. Giustino Papa ex Prov. e attuale superiore del convento di Reggio Calabria. Vibo Valentia 1983. Tra i più antichi cibori conservati, esso si pone tra le opere certamente realizzate da Ludovico da Pernocari. A prescindere dalla iscrizione sul retro dell’opera, che la data al 1711, da una analisi stilistica la datazione alta appare assolutamente ipotizzabile al confronto con gli altri manufatti dovuti fra Ludovico. Per quanto sia frammentario (manca infatti almeno il basamento e, forse il secondo ordine di raccordo con la cupola), il tabernacolo è abbastanza ricostruibile e, pertanto, si pone indiscutibilmente tra le opere legate alla cultura dell’intaglio e dell’intarsio ligneo, di area cappuccina. Il ciborio sviluppa la forma del tempietto a pianta pseudocentrica, legata alla tipologia caratteristica delle custodie tardocinquecentesche, poco accogliendo gli sviluppi in senso barocco della plastica e mostrando, principalmente, una tendenza all’allargamento della base a discapito della forte tensione verticale, che si riscontra nelle opere più tarde. Ciò, se è riscontrabile immediatamente, considerando la frammentarietà dell’opera, ad una ricostruzione ipotetica torna a imporsi in modo preponderante specialmente analizzando il rapporto tra basamento e membrature architettoniche, tendenti queste ultime, non ad alleggerire il tempietto in altezza ma ad evidenziare la struttura degli angoli del prisma. Il tabernacolo, a base semiottagona, si sviluppa in altezza partendo da un piccolo basamento, probabilmente in origine poggiante su un podio, su due ordini sovrapposti, di cui il secondo molto arretrato rispetto al primo, e coronati da una cupoletta a cipolla sormontata da una croce. Su un’ossatura in legno chiaro si svolgono, secondo una tendenza a ricoprire tutte le superfici disponibili, decorazioni geometriche e floreali ad intarsio, con largo uso di ebano, ciliegio, mogano, acero, bosso e minutissime decorazioni in madreperla e avorio. Sia il primo che il secondo ordine, esaltano il fronte principale su cui, al primo piano, si apre la porta della custodia propriamente detta, e evidenziano gli angoli con l’uso di cantonali rinforzati da lesene, davanti alle quali si pongono gruppi di colonnine, reggenti una trabeazione monumentale in ebano e intarsi. Il piccolo basamento su cui poggiano i sostegni è decorato da intarsi lignei a formare losanghe con piccoli motivi geometrici. La decorazione ad intarsi eburnei e sfruttante l’elemento cromatico proprio delle diverse essenze lignee usate, entra a sottolineare le parti simbolicamente più importanti della costruzione e ad alleggerire, attraverso una sapiente frammentazione luministica, la pesantezza delle singole membrature. Accanto all’intarsio anche l’intaglio interviene a frammentare la superficie lignea nella 25 minuziosa definizione dei capitellini corinzi, delle basi e delle cornici. A tale effetto finale concorre anche a partizione architettonica dei fianchi che ospitano edicole trabeate rette da colonnine decorate, all’interno delle quali si pongono nicchie semicircolari originariamente ospitanti statuine. Tra gli elementi che principalmente si pongono all’attenzione è isolabile la porta centrale della custodia, d’accesso ossia al luogo ove, fisicamente, si conserva l’Ostia consacrata. Proprio per evidenziare l’importanza che riveste l’accesso, la porta, decorata con la figura in madreperla di un ostensorio, supera dimensionalmente qualsiasi altro elemento dell’intero ciborio ed è esaltata da cornici a minutissimi intarsi geometrici in avorio ed ebano. La cupola finemente intarsiata a motivi fitomorfi, elemento che corona il tutto, si diparte da una pianta rettangolare con angoli smussati denuncianti tutta la loro tridimensionalità (a differenza del ciborio che sviluppa solo la parte visibile dell’ottagono intuibile come matrice geometrica), e si erge al di sopra di un triplice tamburo, decorato con intarsi geometrici con legni di diversa colorazione e reso più agile e leggero da balaustre con colonnine tornite. Medesime balaustre si ritrovano nel punto di raccordo tra il primo e l’attuale secondo ordine, concorrendo alla frantumazione luministica verso l’alto, cui già si accennava precedentemente. L’importanza della faccia centrale dell’intero ciborio, se al piano inferiore è evidenziata dalla porta di accesso, al piano superiore è sottolineata dall’inquadratura della nicchia in un piano bugnato a diamanti molto sporgenti. Questa particolarità, unica tra i cibori calabresi, sancisce la datazione alta dell’opera, legandola ancor più a schemi architettonici monumentali. Del contesto in cui il tabernacolo si inseriva, purtroppo non è pervenuto nulla per cui è impossibile comprendere in che modo esso entrasse in rapporto con l’altare maggiore e, quindi, con la chiesa. Analogie con altri complessi monumentali lignei, dovuti sia a Ludovico da Pernocari che ad altri fratelli laici possono, far pensare alla progettazione di una sorta di macchina scenica unitaria ma, anche alla luce di attenti studi stilistici sui fastigi degli altari, pare non fosse sempre così immediato il nesso tra l’ancona, la mensa e il tabernacolo, per cui, in mancanza di documentazione non si avanza alcuna ipotesi in merito84. 3. Tabernacolo di Gerace 84 Non si ha alcuna documentazione in merito all’opera, a parte le citate iscrizioni sul retro della stessa. Ciò perché il convento di Reggio Calabria. Oltre a subire danni ingenti a causa delle soppressioni, è stato più volte danneggiato a causa dei terremoti e definitivamente raso al suolo il 28 dicembre 1908. Dalle frammentarie notizie storiche riportate nei testi di P. Securi, Memorie storiche dei Cappuccini di Reggio Calabria, Reggio Calabria, 1885 e di quello di R. Le Pera, I Cappuccini in Calabria e i loro 85 conventi, Chiaravalle C.le, 1982; nulla si ricava circa le vicende ante e post sisma sia del Convento che delle opere d’arte in esso conservate. 26 L’opera, appartenente al convento dei cappuccini, in perenne fase di restauro, è adesso ospitata dal Museo Diocesano di Gerace, in attesa di essere ricollocato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, da cui proviene85. Considerato sempre contemporaneo all’altare maggiore che lo ospitava il ciborio è firmato e datato da fra Ludovico da Pernocari, come ripete l’iscrizione a caldo che si trova sul retro: FF. LUDOVICUS A PERNOCARI CAPUCC TABERNACULUM HOC FECIT ANNO 1720. Guardiano existente. Pr[…] Anselmo a Stilo. Eiusdem ord. Con[…]tore. Laus Deo. Il tabernacolo, oggetto di restauro a cura dell’Istituto Frangipane di Reggio Calabria, ripete motivi tipici della scultura e dell’intaglio ligneo di ambienti cappuccini, proponendo, anch’esso un largo uso di avorio, ebano e madreperla per minutissime decorazioni che investono pressoché tutte le superfici disponibili. L’ossatura del piccolo monumentale tempietto è in legno di noce, mentre la presenza di bosso, ciliegio, mogano e abete si ritrova laddove c’è la necessità di proporre una policromia e una serie di decorazioni. Così come l’opera è pervenuta, molto frammentaria, decontestualizzata e mancante di almeno due parti sostanziali e della lanterna di coronamento della cupola, è difficile immaginare la forza dell’impatto che essa provocava qualora fosse posta sull’altare maggiore. Ciò nonostante, il ciborio è da includere tra i più raffinati tra quelli presenti nella Calabria meridionale e vicino al capolavoro della maturità del frate Ludovico da Pernocari: il ciborio di Nicastro. Composto, adesso, di un basamento e due ordini sovrapposti al di sopra di esso, e concluso da una cupoletta a cipolla molto schiacciata ai lati, il tabernacolo appare tozzo nelle proporzioni, seppur risulti forte la spinta verticale dell’insieme e, ad un attento studio del manufatto, si è notata la mancanza di un ordine intermedio tra il primo l’attuale secondo, del tamburo della cupola oltre che della lanterna e della croce alla sommità. La presenza di elementi di raccordo posteriori, pesantemente incisi con motivi fitomorfi, che si ripetono sui due piani superstiti, nonché quella di grandi mensole rovesciate poste lungo gli angoli del basamento, reggenti il primo ordine, pongono l’opera cronologicamente distante da quella di Reggio Calabria e non scevra da influenze da parte dell’area cosentina. A questa vicinanza concorre anche la presenza della specchiatura centrale del basamento che, molto ricorrente nella provincia di Cosenza, è pressoché inesistente al sud della Calabria. Il tabernacolo presenta un compendio di decorazioni fitomorfe, geometriche e astratte realizzate con giustapposizione di essenze lignee diverse, di avorio e madreperla con ebano, che investe, smaterializzandole, tutte le superfici, dalle colonne, ove si rende in modo bidimensionale 85 Per un’ampia disamina dei problemi relativi al Convento di Gerace si veda: V. De Nittis, Il convento dei Cappuccini e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gerace, in Quaderni del dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico, Università degli Studi di Reggio Calabria, 11-12, 1996, 53-70 e Idem, … in Studi Calabresi, 1 (2001), 27 l’andamento spiraliforme, alle cornici e fregi delle possenti trabeazioni. Mancano elementi scultorei antropomorfi, seppur la quantità di intaglio sia notevole e non sempre di qualità eccelsa (si veda l’approssimazione nella realizzazione dei capitelli). La forma del ciborio ripropone quella semiottagonale, con una tendenza chiara, però, a sottolineare la visione frontale, evitando l’accentuazione della divergenza dei fianchi, dal fronte centrale. Su questo si apre la porta della custodia, al primo ordine, inquadrata da coppie di colonnine e sormontata da un arco a tutto sesto. La porta, rettangolare, è decorata, secondo la più canonica tradizione cappuccina, da un ostensorio in madreperla e radica. Nicchie non inquadrate da edicole timpanate, come avveniva a Reggio, si aprono lungo i fianchi e la medesima partizione si ha al secondo ordine. Qui in asse con la porta della custodia sottostante, trova posto un nicchione a tutto sesto con interno decorato a fasce bicrome, estradosso decorato a motivi geometrici e con base circolare sporgente dal perimetro della parete e retta da mensolina a trottola in ebano. La cupoletta, che finalmente realizza concretamente la pianta centrica, essendo a base quadrata, è decorata con larghi motivi fitomorfi e astratti. La mancanza della lanterna di coronamento e del tamburo la rende arretrata rispetto al piano limite del manufatto e poco visibile, concorrendo ad una errata intelligenza dell’immagine originale del ciborio. Il tabernacolo, benché si ponga in modo ingombrante nella serie dei cibori cappuccini, come opera della maturità di fra Ludovico da Pernocari, mostra evidenti segni di poca familiarità con l’ambiente artistico circostante, rappresentando, di fatti, un esempio lampante di arte monastica. Ciò è denunciato dalla poca attenzione riservata non solo al rilievo dei capitelli ma anche dalla evidente sproporzione che c’è tra questi e i sostegni, insieme ad un esasperato ingigantimento delle trabeazioni o al ricorrere, nonostante si operi nel 1720, ad elementi di raccordo a motivi fitomorfi di chiaro sapore manierista e barocco. La somiglianza con l’opera reggina appare, anche in questo caso, abbastanza stringente, seppur a Gerace si assista ad un abbandono dello schema a tempietto cupolato per una tendenza alla verticalità maggiore, denunciato soprattutto dall’andamento cuspidato della copertura a pagoda. Circa l’originaria contestualizzazione dell’opera, si pongono, anche in questo caso, problemi legati alla mancanza di dati storici e documentari nonché alla cattiva interpretazione dei rapporti formali tra l’altare maggiore e il tabernacolo. Non è escluso comunque che si assista ad una precedenza cronologica del complesso dell’altare, che in secondo momento ospiterà il ciborio, ciò è dovuto ad chiara discontinuità a livello formale, materico e stilistico tra i componenti dell’intera parete diaframma, come si evince da vecchie fotografie e attraverso la visione delle particolarità stilistiche dell’ancona e del dossale dell’altare maggiore geracese, ancora in fase di restauro. 28 4. Tabernacolo di Lamezia Terme – Nicastro Il capolavoro di fra Ludovico da Pernocari è il tabernacolo realizzato per la chiesa di Santa Maria degli Angeli di Nicastro, presso il convento di S. Antonio, ove tuttora si trova86. L’opera, tra le più alte realizzazione dell’ambiente cappuccino calabrese, costituisce la massima espressione dell’ebanista più famoso nell’ambiente fratesco della Provincia monastica di Reggio, e non solo. La datazione alla metà del 1700, suggerita dall’analisi stilistica del ciborio, monumentale per dimensioni e perfetto nelle proporzioni, in cui l’attenzione per il tutto si integra magistralmente con il controllo delle singole decorazioni, dagli intarsi ai capitelli, dalle colonne tortili alla pacatezza policromatica basata solo sulle varie essenze lignee, è confermata da un documento cartaceo, apposto originariamente dietro il tabernacolo e ora conservato dal guardiano del convento. Il documento recita: D. O. M. Frate Ilarione a […] (Feroleto?) Ordinis Fratum Minorum S. Francisci Capuccinorum Provinciali Degnissimo Huius a […]em […] Venerabilis Conventus Guardiano emerito Frate Ioanne Baptista à Neocastro: Frater Bonaventura à Feroleto eiusdem Ordinis actualis Diffi […] Tabernaculum hoc sommo cum labore, summoque studio Fabrefactum a Frate Ludovico à Pernocare esimio […] Professore assumpto sibi socio Frate Francisco à Claravalle Cappuccinis […] laicis Septem post decursi […][…] […] devotionis mentione […] a[…] von[…] provom[…], San […] eri ac[…] A.D. 174287 86 A parte lo scritto di R. Le Pera, op. cit., del Convento di Lamezia Terme – Nicastro si parla anche in G. Leone, I Cappuccini…, op. cit., vol. II, 317. Tale citazione è giustificabile in quanto il Convento lametino, dopo il terremoto del 1783, che ridusse a polvere la Provincia di Reggio Calabria, non avendo subito eccessivi danni venne aggregato alla Provincia di Cosenza fino alla ricostituzione della Provincia Reggina, nel 1802. 29 Già dalla semplice lettura della carta si nota la fama raggiunta dal frate Ludovico, citato come “professore”, accanto alla figura dell’aiuto Francesco da Chiaravalle. Ciò concorre alla definitiva enucleazione dal panorama artigiano di ambiente cappuccino, di una figura che supera lungamente le altre, quantomeno per perizia e fama, tale da diventare un punto di riferimento continuo sia per gli altri frati artisti che per la cultura laica in generale. Ma, a prescindere dal documento cartaceo, chi fa fede realmente circa la fama e la maturità raggiunta dal frate è l’oggetto stesso. Fortunatamente arrivato intatto, nonostante abbia subito un restauro conservativo, nel 1983, il tabernacolo a pianta semiesagonale si sviluppa in altezza, riprendendo lo schema delle turres, su due ordini sovrapposti retti da un alto basamento e conclusi da una cupoletta a pagoda su un duplice tamburo. Che la forma e la decorazione derivino dal tabernacolo di Gerace e da quello di Reggio, appare indubbio ma, ciò che rende l’opera qualitativamente distante dalle altre è l’attenzione somma nei confronti di tutte le parti, siano esse tettoniche o semplicemente decorative, della micro architettura. Nonostante sia usuale il lessico decorativo, fatto da tasselli eburnei, di ebano, tartaruga e madreperla, giustapposti a creare piccole decorazioni geometriche e fitomorfe, una serie di novità circa il modo di interferire con la superficie del supporto, o l’intrusione di elementi scultorei antropomorfi, denunciano uno studio attento delle proporzioni e dell’ornamentazione classica. A questo concorre anche l’attento uso dell’elemento cromatico, affidato solo alle essenze lignee diverse e al diverso modo di reagire alla luce dell’avorio o della madreperla evitando inutili coloriture o dorature. Lo schema tettonico del ciborio esaspera gli sviluppi già notati, rispetto al tabernacolo di Reggio Calabria, in quello di Gerace. Ergendosi in altezza per circa 2 metri, l’opera finita sottoinea la verticalità che già informava il ciborio geracese, del quale riprende però il disegno semiesagonale della base con una minore divergenza dei fianchi e, di conseguenza, un alleggerimento di tutta la struttura. Il dialogo con l’atmosfera è sottolineato dalla esilità degli elementi verticali. Le colonne e 87 La carta è vergata ad inchiostro rosso e presenta lacune e problemi legati a contatto con acqua. Altri due documenti sono conservati nell’Archivio di Nicastro. Il primo: CATALOGO DELLE OPERE D’ARTE DELLA CALABRIA – Chiesa dei Cappuccini di Nicastro: Ciborio in legno, intagliato ed intarsiato di madreperla. Opera caratteristica di monaci intagliatori calabresi del secolo XVIII. Risulta da documenti che venne eseguita da Frà Ludovico da Pernocari e da Frà Francesco da Chiaravalle nel 1742. Misure: Altezza del Ciborio, m. 2,00. Larghezza massima alla base, m. 0,85. Si trova sul maggiore altare della Chiesa sopraindicata, per la quale venne eseguito. Stato di conservazione: buono. Appartiene alla Chiesa dei Cappuccini di Nicastro. Nicastro 7 maggio 1924. Frà Ambrogio Peronaci. Sup. Capp. Il secondo documento: Documento del 6/7/1982. Soprintendente per i Beni Amb. Arch. Art. e Stor. Cosenza. Lamezia Terme – Nicastro (CZ), Chiesa di Sant’Antonio, restauro tabernacolo – contributo. Si danno 3.000.000 per il restauro del tabernacolo. 30 le paraste pur mantenendo una certa entasis di stampo classico, mostrano una superficie più accidentata e, addirittura, le colonne tortili del primo ordine sono formate da due midollini attorcigliati su loro stessi indipendentemente. Operando una serie di mutazioni nello schema già tracciato dei tabernacoli, questo nicastrense esaspera la qualità formale del “templum”, nella già sottolineata sobrietà e ricchezza decorativa e, quasi volendo sottolineare il valore di perno dell’intero organismo ecclesiastico, apporta un insieme di varianti sulla tipologia costituita. Infatti, il ciborio ospita non una ma due custodie per il pane eucaristico, poste una sulla parte basamentale e un’altra al primo ordine. Quest’ultima, accessibile attraverso una scalinata prospettica di cui il primo gradino è retrattile per permettere l’esposizione del SS. Sacramento, parrebbe fruibile dal sacerdote direttamente dal coro per celebrare mentre, quella in basso, si apre sul lato posteriore verso il dossale dell’altare maggiore, in direzione della finestra di comunicazione con il coro per ufficiare, con una porticina per favorire la comunione dei frati che, non visti, partecipavano alla liturgia eucaristica dal luogo della clausura88. Variazioni su temi obsoleti si riscontrano in tutte le altre parti del ciborio. Nonostante si segua un immutato programma decorativo e compositivo, per il posizionamento delle nicchie ospitanti le statuine lungo i fianchi o ai piani superiori, le edicole appaiono qui meglio inserite nella struttura tettonica dell’architettura e la stessa decorazione a pinnacoli e mensole antropomorfe non interviene mai a distruggere il dialogo armonico tra decorazioni scultoree e intarsi geometrici o floreali. Il ciborio, anche in questo caso, sembra essere posteriore, o quanto meno appartenente ad un’altra mano, rispetto al complesso sistema della parete diaframma dell’altare maggiore, che lo ospita. Diversi sono i materiali usati e, principalmente, sembra farsi spazio autonomamente nei gradini del dossale della mensa. Non esiste alcun dialogo predefinito con la pala d’altare, la cui visione è in parte occupata dal volume del tabernacolo e nessuna delle soluzioni decorative viste nel tempietto si ritrovano nel fastigio ligneo della cona. Anche in questo caso non esistono documentazioni esaustive per poter fare ipotesi in merito. 5. Tabernacolo di ViboValentia 88 Da una analisi superficiale del tabernacolo di Reggio Calabria pare si possa riscontrare anche qui una porta di comunicazione con il coro dei frati, attraverso il retro dell’altare maggiore. Per quanto riguarda gli studi in corso sul rapporto tra il tabernacolo e il coro dei frati, in Calabria, si veda: A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi …, op. cit; idem, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce…, op. cit. 31 Il ciborio si trova tuttora sull’altare maggiore della chiesa cui in origine era stato destinato: la chiesa dell’Immacolata Concezione di Vibo Valentia, datata al 164389. Le notizie relative al possibile autore dell’opera, nonché all’epoca della realizzazione sono pressoché inesistenti, solo un accenno al restauro, compiuto nel 1981, essendo provinciale P. Giustino Papa, da parte di Francesco Rossetti (ebanista vibonese), si può leggere sul retro. L’opera pur presentando una serie di somiglianze con le analoghe realizzazioni in ambiente fratesco e legandosi, quindi, alla più pura tradizione decorativa cappuccina e, nel caso specifico, alla personalità preponderante di fra Ludovico da Pernocari, ad una analisi attenta non può essere attribuita al frate artista, per una serie di incongruenze e estraneità al lessico tipico di questi. La quantità di elementi divergenti è tale da suggerire non solo un rapporto di posteriorità rispetto alle opere prima studiate, ma anche l’appartenenza ad un mondo artistico (o artigianale), basato sulla riproduzione pedissequa e manierata delle forme raffinatissime di fra Ludovico. Il tabernacolo infatti, pur presentando il solito schema piramidale, che molto deve alle ultime opere di fra Ludovico (Nicastro e anche Gerace), dove si era operato un chiaro allontanamento dagli impianti più solidi e monumentali (vedi Reggio Calabria o Fiumara di Muro), rifugge dalle dimensioni monumentali e dall’attento studio coloristico e plastico delle singole parti, in armonia con l’insieme della micro architettura. Tale lontananza ha, come conseguenza diretta, la necessità di portare su un piano bidimensionale le decorazioni altrimenti plastiche e di operare una scelta cromatica eccessiva, raggiunta non tanto con la giustapposizione di essenze lignee diverse tra loro, insieme all’avorio, alla madreperla e alla tartaruga, ma attraverso la colorazione della superficie, ad imitazione dell’intarsio. Nonostante queste differenze però, l’affinità con gli altri tabernacoli cappuccini è profonda, tanto da ipotizzare una discendenza diretta da questi e, nel caso specifico, dall’autore che, si è visto, è il più famoso e quotato dell’ambiente: fra Ludovico da Pernocari. L’opera vibonese infatti, appartiene alla medesima famiglia cui è stata ascritto il tabernacolo lametino e, proprio grazie a ciò, si tende a inserirlo tra le possibili realizzazioni dell’allievo e collaboratore di fra Ludovico, fra Francesco da Chiaravalle. Del fratello laico in questione, come si è accennato, non si ha alcuna notizia storica, la sua figura è sempre legata (nei documenti scritti) a quella del proprio maestro, quindi nessun tabernacolo o altra opera lignea può essere con certezza documentaria attribuita a lui. Ciò nonostante proprio una analisi stilistica potrebbe aiutare a vedere l’operato di fra Francesco, in qualità di maestro e non di collaboratore90. 89 Per notizie sul convento di Vibo Valentia si veda: F. Russo, I Minori Cappuccini in Calabria… op. cit; R Le Pera, I Cappuccini in Calabria…, op. cit; A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi …, op. cit; idem, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce…, op. cit. 90 Vedi note 64, 71. 32 L’eccesso di coloriture e una certa approssimazione nell’intaglio e nell’intarsio, nonché una chiara sproporzione delle colonne rispetto ai capitelli e all’intercolumnio, insieme al ricorrere anacronistico di volute monumentali di chiara ascendenza barocca, nella definizione delle falde della cupola, evidenziano il ricorso ad una sorta di “maniera” poco aperta alle novità apportate da fra Ludovico da Pernocari. Nonostante la presenza di questi elementi di disturbo, l’opera si presenta, nel suo insieme molto armonica e in un serrato dialogo con l’atmosfera. L’alleggerimento del secondo ordine e della cupoletta, che si erge su un doppio tamburo, è operato attraverso l’inserimento di balaustre con colonnine tornite e sottolineato da un graduale arretramento dei piani verso l’alto. Tale escamotage ottico fa sì che il ciborio si innesti in modo abbastanza gradevole nel sistema dell’altare maggiore, anteriore di almeno un secolo, senza interrompere l’armonia compositiva insita nella gigantesca composizione lignea, pur rimanendo essenzialmente estraneo al linguaggio da esso proposto91. Nonostante sia ignota la data di realizzazione del tabernacolo, si propone, proprio in seguito alle analisi stilistiche e alle ipotesi attributive or ora presentate, una datazione post 1742 (Tabernacolo di Nicastro). 6. Tabernacolo di Rombiolo Il tabernacolo è posto sulla mensa dell’altare maggiore della chiesa del convento dei cappuccini del piccolo paese presso Vibo Valentia. Il luogo, all’interno dell’edificio di culto, ove esso si trova, pur essendo quello cui era destinato non è né contemporaneo, né legato ad esso, provenendo, infatti, dal convento distrutto di Motta Filocastro e databile alla fine del XVII secolo. Ciò è chiaramente denunciato dal modo forzato con cui il ciborio si inserisce sulla mensa dell’altare e da come il dossale accoglie il tempietto, che risulta troppo largo e troppo profondo. Il tabernacolo, datato al 1734, non è firmato ed è giunto frammentario, nonostante abbia subito un restauro conservativo nel 196192. Composto da un basamento reggente un primo ordine su cui si apre la porta della custodia propriamente detta, sormontato da un secondo ordine e finito da una cupola a pagoda su doppio tamburo, il ciborio si innalza in modo monumentale seguendo uno schema piramidale e, tale monumentalità doveva essere sottolineata dalla presenza di un altro ordine, immediatamente sopra il primo, di raccordo con il piano attico reggente la cupola. Una tale architettura, unita alla forma 91 Vedi nota 46. Per quanto riguarda le osservazioni stilistiche, è proprio questa tendenza alla bidimensionalità che induce ad escludere fra Ludovico da Pernocari dai possibili artefici del manufatto vibonese. Nonostante ciò si sottolinea la familiarità del frate intagliatore con le realizzazioni del maestro proprio nel dialogo che l’opera imposta con l’anteriore macchina scenica dell’altare maggiore. 92 La data di realizzazione, A.D. 1734, è intarsiata sulla faccia principale dell’opera, in un tassello posto sotto la porta alla Custodia propriamente detta. Il restauro è attestato da una scritta apposta sul retro del tabernacolo: Restauro nel 1961 da P. Arcangelo. 33 della pianta, semiottagonale con fianchi molto divergenti e angoli rafforzati da contrafforti, permette non solo di accettare una datazione alla prima metà del ‘700, ma anche di evitare di attribuire l’opera al frate Ludovico da Pernocari. L’analisi dell’architettura del tempietto, invece, unita ad uno studio degli elementi decorativi, che insieme denunciano una aderenza a modi formali e compositivi precoci, permettono di ravvisare somiglianze con il tabernacolo di Reggio Calabria e quindi, escludendo fra Ludovico da Pernocari, proporre una attribuzione all’aiuto di questi nel tabernacolo suddetto: fra Domenico da Pernocari. Il tabernacolo di Rombiolo presenta una serie di somiglianze con quello di Gerace, nell’uso delle mensole rovesciate del basamento e nella terminazione a cipolla della cupola; a ciò si aggiunge la preannunciata serie di affinità con il ciborio reggino, di cui accoglie una certa pesantezza nell’impostazione e la medesima disposizione delle colonnine al primo ordine, pur distaccandosi per l’eliminazione di elementi anacronistici come il bugnato all’ordine superiore o la terminazione a cupola estradossata. Infatti la soluzione adottata per la copertura del tabernacolo è legata alle nuove sperimentazioni di fra Ludovico da Pernocari a Gerace (e successivamente a Lamezia), sottolineante la volontà di dare una forte spinta verticale a tutta l’opera e un maggiore dialogo con l’atmosfera. La decorazione del tabernacolo però, non sviluppa l’elemento coloristico adottato da fra Ludovico; la vibrazione cromatica, seppur legata solo alla giustapposizione di diversi tasselli lignei è poco perseguita, così come si tende ad evitare il largo uso dell’avorio e della madreperla, altrimenti usati per sottolineare la frammentazione luministica ma anche specchio di una committenza conventuale più ricca. Ciò che invece compare è l’elemento tridimensionale, l’uso, ovvero, di rilievi antropomorfi per le mensole, che si ritroveranno poi ampiamente usati nel tabernacolo lametino, e di decorazioni rilevate con motivi fitomorfi e floreali. 7. Tabernacolo di Tropea Posto sul luogo originario, ovverosia sull’altare maggiore della chiesa dei Minori (ex chiesa dei Cappuccini), il tabernacolo di Tropea, è legato alla campagna di ristrutturazione della chiesa sotto la guardiania di P. Anselmo da Stilo, nel 171793. Tale datazione, piuttosto alta, giustifica la struttura dell’intero tempietto, poco tendente alla verticalità e legata piuttosto ad una architettura tardomanierista in cui si tende ad esaltare l’eccentricità e la possente monumentalità. Analogie in questo senso sono ravvisabili nell’opera di Reggio Calabria, datata al 1710 e alla personalità di fra Domenico da Pernocari, allievo di fra 93 Tali notizie si ricavano da una carta appesa in una bacheca all’interno della chiesa in cui, senza riferimenti bibliografici, si traccia una veloce storia della chiesa. A P. Anselmo da Stilo, come si vedrà oltre, è dovuta anche la custodia di Gerace. 34 Ludovico da Pernocari col quale firma la custodia reggina, e la cui personalità è stata ravvisata nel ciborio di Rombiolo94. Vicini, infatti, al ciborio dell’Eremo di Reggio, sono i motivi decorativi a intaglio che decorano tutta la superficie della piccola architettura: dalle decorazioni fitomorfe degli imoscapi delle colonne ai costoloni della grande cupola estradossata. Assolutamente simile risulta il rapporto tra piano superiore, leggermente arretrato e rimpicciolito, e l’alto primo ordine sul cui fronte principale si apre, molto arretrata rispetto al piano limite della specchiatura che la ospita, la porta d’accesso alla custodia propriamente detta e un simile metodo progettuale sembra interessare la copertura del tempietto con una possente cupola estradossata. E’ proprio la serie di anacronismi stilistici ricordata: sorta di incapacità di superare le forme monumentali possenti unita alla volontà di affidare alla plasticità la vibrazione coloristica dell’architettura del ciborio, che ravvisa l’estraneità alla realizzazione dell’opera da parte di Ludovico da Pernocari e propone, piuttosto l’attribuzione all’allievo e collaboratore, fra Domenico da Pernocari. Questa distanza dalle novità apportate da fra Ludovico alla struttura tardo secentesca del ciborio, con l’interesse verso il fatto cromatico denunciato dall’uso di tasselli eburnei e madreperlacei, che diventerà sempre più vasto addentrandosi nel XVIII secolo, sottolinea l’azione di un allievo o di un gruppo di frati che seguivano, senza comprendere, i passi segnati da una personalità di grande carisma. Ma mentre la presenza di fra Ludovico, almeno come figura cui tendere, era ravvisabile nel ciborio di Rombiolo, quanto meno per quella tendenza a sviluppare l’architettura in verticale e a intervenire con una frammentazione della superficie il pur parco uso di tasselli di avorio, nel ciborio di Tropea l’estraneità di questi è pressoché totale. La vibrazione cromatica in questo tabernacolo è raggiunta attraverso un reale rapporto di luce – ombra instaurato dalle rientranze e sporgenze degli elementi architettonici e decorativi; ciò provoca indiscutibilmente una maggiore monumentalità denunciata, oltretutto, da tutti gli elementi costituenti l’ossatura e la decorazione del ciborio: dalle colonne tortili, in cui l’avvitamento è lento, raggiungendo un effetto finale è di estrema pesantezza, all’uso di plastiche volute di raccordo tra i piani sul fondo fino al ritorno alla forma compatta e chiusa della cupola a calotta estradossata, la cui tensione è controllata non solo dalle nervature, ma addirittura fermata dal coronamento scultoreo con testine di angeli realizzanti la “lanterna” reggicroce. Il ciborio mostra chiari segni di intervento posteriori, relativi forse all’acquisizione del convento, dopo la soppressione savoiarda, da parte dei Frati Minori Osservanti. A tale periodo e a 94 Vedi prima nel testo. 35 tale cultura facilmente sono da ascrivere le dilaganti dorature, estranee alla mentalità e al gusto decorativo cappuccino che, in un vano tentativo di impreziosimento, appesantiscono.la struttura. VI. PROVINCIA DI COSENZA 1. Tabernacolo di Mormanno Il Tabernacolo di Mormanno è un altro dei pochi cibori di cui si conosce il nome dell’artefice nonché la data di realizzazione. Da quanto risulta dal necrologio infatti, l’opera fu scolpita e intarsiata dal frate intagliatore Gregorio da Mormanno (morto nel 1756)95, come si evince anche dalla firma dallo stesso apposta, al contrario, sul retro dell’opera: Fra Gregorio da Mormanno Cappuccino fecit96. Nonostante manchi la datazione, l’opera è facilmente inquadrabile cronologicamente anche sulla base di un confronto stringente possibile con il tabernacolo della vicina Morano (1711), simile nella tettonica e nel lessico decorativo. Ma il rapporto con quest’ultimo pare di posteriorità, a causa dell’eccessiva esuberanza decorativa che si riscontra nell’opera di cui si sta trattando, che sembra riprendere, enfatizzandole, le decorazioni del ciborio moranense97. La struttura del tabernacolo di Mormanno si svolge su pianta a semicroce con fianchi poco divergenti e con grande avanzamento del braccio centrale. Qui si apre la grande porta della custodia sopra una finestrella quadrilobata (ravvisabile solo in ambiente cosentino), che permette la comunicazione con l’ambiente retrostante l’altare maggiore e, a sua volta sovrastata da un nicchione isolato. Il tempietto, che denuncia una forte tensione verticale attraverso un alleggerimento al piano superiore, ove addirittura mancano i due bracci laterali, sostituiti da volute di raccordo a motivi fitomorfi, si conclude con una cupola a quattro falde retta da un doppio tamburo, la cui fascia inferiore è balaustrata. Il basamento su cui si apre la finestrella quadrilobata inquadrata da una eccessiva decorazione floreale, è decorato, nelle specchiature dei bracci arretrati, con figure di animali all’interno di una struttura geometrica a losanghe. Il primo ordine presenta, invece, un rafforzamento degli angoli con gruppi di colonnine tortili su imoscapi decorati, che definiscono le aree entro cui si aprono nicchie semicircolari con la base sporgente retta da angioletti scolpiti. La porta della custodia, inquadrata da una cornice decorata a intarsi geometrici e ospitante la figura 95 vedi nota n° 76 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 187 – 191, in part. 191. 97 Per tale motivo si propone un avvicinamento alle forme proposte da fra Luca da Mormanno attraverso la conoscenza dell’esuberanza plastica tipica di ambienti di area roglianese o appartenenti all’Area Medio Cosentina. Per la plausibile migrazione di artisti e, di conseguenza, di differenti linguaggi artistici si veda la nota 62. Per ulteriori precisazioni vedi oltre nel testo. 96 36 dell’ostensorio, in madreperla, ha un pianerottolo d’ingresso semiesagonale, retto anch’esso da un angioletto scolpito. L’arcone ospitante la porta d’ingresso, decorato con cornucopie e con angioletti nei pennacchi, invade tutta la fascia di raccordo tra il primo ordine e l’attico. Qui la decorazione riprende in toto quella del basamento con l’aggiunta di elementi scultorei antropomorfi agli angoli. L’attico si riduce all’esaltazione dell’elemento centrale, con grande nicchione inquadrato da un timpano in grande tensione retto da gruppi di colonnine scolpite mentre, a destra e sinistra, il corpo si raccorda alla parte inferiore attraverso volute pesantemente incise e decorate. La cupola, alleggerita dal tamburo balaustrato, conclude la tensione verticale intervenendo a frantumare ulteriormente la vibrazione coloristica con intarsi a disegni geometrici e, quindi, culminando attraverso una lanterna con la croce. Nell’opera sono evidentissime le licenze cromatiche che non appartengono alla cultura cappuccina ma, del resto, anche l’altare in cui si inserisce è totalmente decorato a finto marmo con elementi dorati. La presenza di smaltature e dorature sul ciborio, insieme alla comparsa di decorazioni animalistiche, a discapito della corretta intelligenza dell’architettura, fanno propendere per una accoglienza, da parte del frate artefice, di linguaggi decorativi napoletani o, rimanendo nell’ambito francescano, riformati. A causa proprio di queste influenze, il tabernacolo risulta una sorta di ibrido che, pur partendo da una base canonica, si allontana dalle premesse teoriche cappuccine per inserirsi in un ambito più aperto alle influenze esterne. 2. Tabernacolo di Morano Il ciborio di Morano si pone sulla stessa scia di quello di Mormanno, come già accennato, pur costituendone piuttosto il punto di partenza che non quello di arrivo. Datato al 1711 e firmato da fra Luca da Mormanno, con la collaborazione di fra Giovanni da Belvedere Marittimo, su commissione dell’allora guardiano del convento P. Paolo da Morano98, il ciborio propone lo schema a pianta cruciforme con un basamento, un solo piano più attico e cupola su doppio tamburo, come già notato per Mormanno. A differenza di qui però, a Morano la vibrazione cromatica è affidata solo alla finissima giustapposizione delle essenze lignee diverse, al sapiente gioco di luci e ombre e alla pacatezza degli intagli e degli intarsi. Pur presentando l’identico piano architettonico già analizzato a Mormanno, e proponendo lo stesso sistema decorativo, il tabernacolo di Morano, per finezza dell’intaglio e per sobrietà della decorazione, appartiene sicuramente alla cultura cappuccina, senza nulla accogliere di proveniente dall’esterno o da altre congregazioni. 98 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 174 – 186 in part. 180. la figura di P. Paolo da Morano si ritrova anche nel necrologio redatto da P. G. Leone, op. cit., 231 (vedi nota 75) e, per quanto riguarda la figura di P Paolo al 18 febbraio si legge: Paolo da Morano Calabro, sacerdote. Definitore nel 1687; Custode al Capitolo generale nel 1791 [si legga 1691, evidentemente errore di stampa]; poi ancora Definitore nel 1695 e nel 1711. in quest’anno, Guardiano a Morano, fece costruire la custodia dell’altare maggiore nella nostra chiesa. Era ancora in vita il 18 febbraio 1724., 49. 37 La decorazione a intarsi eburnei e madreperlacei si inserisce laddove c’è la necessità di sottolineare simbolicamente il tempietto (porta d’ingresso alla custodia, nicchie ospitanti santi, finestra polilobata al basamento); allo stesso modo gli elementi scultorei individuano ed esaltano le parti più importanti della costruzione (un solo angioletto regge la mensola del pianerottolo d’ingresso alla custodia, pinnacoli si ergono alla base delle volute di raccordo tra il primo piano e l’attico). Su questa scia si pone il rifiuto di qualsivoglia decorazione animalistica o floreale, lasciando il posto solo a partizioni geometriche e a piccole cariatidi (alla fascia di raccordo intermedia), concorrendo così, alla esaltazione della centralità del braccio avanzante della croce di base e della cupola piramidale svettante sul doppio tamburo. Le differenze tra il tabernacolo di Morano e quello di Mormanno sono tutte di ordine stilistico e concorrono a sottolineare l’accoglienza di una sorta di “maniera” in quest’ultimo, evidenziando, per contro, la perfetta armonia tra le parti singole e l’architettura nella sua totalità, nell’opera di fra Luca99. Il tabernacolo, inoltre, è uno dei pochi rimasto in loco dal tempo della sua costruzione e, a differenza di quelli di ambito reggino e catanzarese, è contemporaneo al grande altare maggiore che lo ospita. L’opera, insieme a quella di Mormanno e di Acri, individua un piccolo gruppo di tabernacoli di dimensioni ridotte ma di architettura elegante e basata sulla pianta semicruciforme, proprie della zona nord occidentale del Pollino. Purtroppo la dispersione di tutti gli altri cibori limitrofi (Campo Tenese e Villapiana), non permette di scoprire la matrice culturale alla base di questa particolare forma adottata; ciò potrebbe far pensare ad uno schema legato alla figura del frate Luca da Morano, slegato da correnti autoctone o di provenienza lucana o campana, ma lo stato attuale degli studi non permette, al giorno d’oggi, ipotesi più attendibili. 3. Tabernacolo di Acri Pur rientrando nella serie dei tabernacoli a pianta cruciforme, il ciborio di Acri sembra appartenere alla corrente che produce il tabernacolo di Morano, con pochi rimandi alla tendenza policroma tipica del ciborio di Mormanno. I confronti sono stringenti a livello architettonico e decorativo, nonostante gli interventi di restauro pesanti abbiano pesantemente inciso sull’immagine originale dell’opera100. Su un basamento rifatto, ma che indica comunque il perpetrarsi di una scelta decorativa tipica dell’ambiente cosentino, con la finestra polilobata sul fronte centrale, si erge l’architettura del 99 Vedi nota 93. Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 13 – 25 in part. 24. Non si ha alcuna altra notizia né sui restauri che l’opera ha subito (con molte e pesanti integrazioni), né sull’autore. 100 38 tempietto. L’appartenenza alla compagine culturale di Morano e Mormanno è sottolineata dall’evidenza di alcuni elementi decorativi e tettonici come le colonne tortili angolari, le nicchie lungo i bracci laterali, l’attico raccordato con volute plastiche al fascione intermedio e il grande sviluppo triangolare del timpano, mentre, la minore attenzione verso il fattore cromatico e la decorazione a tarsie lignee e eburnee, insieme ad una tendenza a evitare il calligrafismo nei rilievi propongono, la vicinanza dell’opera ad una cultura più locale. Si propone quindi una datazione posteriore al 1730 e l’attribuzione, nonostante le differenze prima accennate, ad un allievo di Gregorio da Mormanno di cui ripete la particolare forma delle volute di raccordo al piano attico, una certa tendenza a evitare sterili geometrismi nelle losanghe decoranti le specchiature del fascione di raccordo e l’inserimento di angioletti nei pennacchi dell’arcone inquadrante la porta della custodia. La porta, insieme al basamento e alla cupola, è di restauro. 4. Tabernacolo di Castrovillari Il tabernacolo di Castrovillari, apre la serie delle opere che sviluppano in altezza lo schema semiesagonale di base101. La particolare forma, tendente ad esaltare la spinta verticale attraverso un sapiente arretramento dei piani in altezza e la realizzazione della cupola a corpo piramidale, nonostante tutto rimane sempre molto legata a schemi baroccheggianti e monumentali, evitando di accogliere quella leggerezza strutturale che si è notata nelle strutture settecentesche di area regginocatanzarese. Il ciborio di Castrovillari, ospitato nella chiesa della Trinità della città, si svolge su due ordini posti su un basamento e coronati dalla cupola piramidale su un tamburo balaustrato. L’opera, che non è né firmata, né datata, per l’effetto monumentale dell’insieme, molto allargato alla base, rispetto allo sviluppo in altezza, potrebbe essere datata agli anni ’20 o ’30 del XVIII secolo. Somiglianze circa il lessico decorativo, la spiccata tendenza alla policromia e l’attenzione verso gli elementi tridimensionali, che non risultano mai eccessivi, si ravvisano con le opere di Morano e Mormanno. I fianchi molto divergenti favoriscono uno sviluppo orizzontale con conseguente esaltazione delle nicchie laterali, che al primo ordine sono inquadrate da edicole trabeate rette da colonnine mentre al piano superiore risultano più libere, seppur chiuse da una bassa balaustra. La faccia principale, che accoglie la porta della custodia al primo piano e un profondo nicchione al piano superiore, è libera da decorazioni eccessive tanto da dare slancio a tutto l’insieme. Pochi sono gli elementi in avorio ed ebano (ridotti solo alle incorniciature delle nicchie e della porta), mentre la 101 Vedi nota 62. Per notizie sul Convento di Castrovillari Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 97 - 108 39 madreperla è presente solo sulla porta d’ingresso alla custodia, in un disegno raffigurante il solito ostensorio. Tarsie lignee a disegno geometrico, molto vicine a quelle di Morano, ornano i fianchi divergenti del basamento e intervengono a decorare totalmente le falde della cupola. Il tabernacolo, che non versa in eccellente stato di conservazione, manca di finestrella sul fronte principale del basamento, sostituita da un, successivo, sportellino a ribalta e non presenta più la croce di coronamento della cupola. 5. Tabernacolo di Cassano Altro ciborio ripetente la medesima immagine del precedente tabernacolo di Castrovillari è quello, frammentario, di Cassano Jonio102. Ridotto al solo primo ordine, non datato né firmato, ma presumibilmente contemporaneo a quello di Castrovillari, per una serie di somiglianze stilistiche e di impianto spaziale, il tabernacolo è posto nella chiesa dei cappuccini di Cassano mal inserito, però, in un altare in stucco e scagliola. L’opera restaurata a cura del parroco della chiesa, con una serie di integrazioni visibili, ripete la forma semiesagonale con interventi decorativi più prossimi alle realizzazioni di Morano e Mormanno che a Castrovillari. Si tratta in questo caso dell’attenzione agli elementi decorativi fitomorfi e antropomorfi che concorrono a rendere il pezzo frammentario, una sorta di piccolo gioiello ligneo. Decorazioni a tasselli eburnei si ritrovano lungo tutta la cornice retta dalle colonne tortili, e sui podi delle stesse, mentre angioletti reggono le mensole delle nicchie laterali e il pianerottolo della porta della custodia. Mancando il basamento e il piani superiori non si può avanzare alcuna ipotesi circa l’effetto finale dell’opera, certamente in direzione della porta centrale, nel basamento si apriva la solita finestrella di comunicazione con il retro dell’altare, ora proposta dall’apparato in stucco dei gradini della mensa103. 6. Tabernacolo di Paola Conservato momentaneamente nella sede della Soprintendenza ai B.A.A.A.S di Cosenza, il tabernacolo proviene dalla chiesa del Cimitero di Paola104. L’opera, di dimensioni poderose (raggiunge i 2 metri di altezza), datata e firmata Frat. Ber. a S. Agata A. D. 1754, riprende la forma del tempietto a più ordini a pianta semiesagonale su basamento e coronato da una cupola, inserendosi pienamente nella serie delle opere di area cappuccina a pianta pseudocentrica. 102 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 81 – 88 , in part. pag. 88. Vedi nota prec. 104 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 216 – 221. 103 40 Il manufatto mostra forti somiglianze con quello di Rogliano e, pur riprendendo forme e temi figurativi propri dell’ambiente cosentino, risulta molto vicino alle realizzazioni di area reggino-catanzarese, ad opera di fra Ludovico da Pernocari. Si ritrova, in quest’opera, una chiara tendenza verso la spiccata policromia, raggiunta non solo con la giustapposizione di tasselli eburnei, di ebano e madreperla ma anche grazie ad intarsi in lamine argentee (nella croce sovrastante la cupola), e alla colorazione degli angioletti reggimensole del primo e del secondo piano. La verticalità è sottolineata da un graduale rimpicciolimento dei piani, evidenziato anche dalla particolare forma rastremata del fascione di raccordo tra il primo e il secondo ordine e dalla conformazione “a gradoni” del tamburo della cupola. Quest’ultima propone la forma a cipolla ed è ulteriormente alleggerita dagli intarsi in avorio ed essenze lignee differenti della calotta. La porta d’ingresso alla custodia è riccamente decorata da un fregio eucaristico-floreale, mentre ulteriori interventi decorativo-luministici intervengono a definire le nicchie, che si aprono nelle due specchiature laterali del primo ordine e in tutti i lati del secondo. Il basamento è bucato, sulla faccia centrale, dalla solita finestra polilobata mentre mostra decorazioni geometriche e floreali lungo i fianchi. L’opera è stata recentemente restaurata ad opera della Soprintendenza di Cosenza che ha provveduto alla ripulitura, al risanamento da tarli e alla reintegrazione di molti tasselli ed elementi scultorei mancanti105. 7. Tabernacolo di Luzzi Le notizie relative al tabernacolo di Luzzi sono scarne e abbastanza approssimative. L’opera che, oltretutto, versa in mediocre stato di conservazione, essendo annerita dal fumo delle candele, si trova nella chiesa dell’ex convento dei cappuccini della cittadina106. Inquadrabile nella serie di custodie a pianta semiesagonale a sviluppo piramidale a due ordini con cupola estradossata e basamento, l’opera, per le caratteristiche descritte rimanda ai manufatti di Castrovillari, Rossano e Cassano. Non si hanno notizie circa la datazione né circa l’artefice ma, per la straordinaria somiglianza con il tabernacolo di Castrovillari, di cui ripete la pianta, le caratteristiche di alzato, la terminazione cupoliforme estradossata, si è portati a scendere non oltre gli anni ’20 del XVIII 105 Opere d’arte restaurate in Calabria [Catalogo della Mostra in occasione della] VI settimana per i Beni Culturali e Ambientali. Cosenza, Chiostro di S. Francesco d’Assisi – dicembre 1990, a cura di A. Ceccarelli. Scheda n° 38 a cura di R. Filice con relazione dei lavori di restauro, 76 – 78. Alla luce dei risultati delle ricerche, qui presentati, non si accetta l’attribuzione dell’oggetto a fra Ludovico da Pernocari, nonostante si riconoscano somiglianze stilistiche e decorative, facendo rientrare, piuttosto l’opera nel novero dei tabernacoli “alla cappuccina” diffusi in tutto il territorio e, specificatamente, alla corrente interessante l’area Medio Cosentina con influenze roglianesi; vedi nota 62. 106 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 163 – 167; T. Pingitore, Nuove conoscenze artistiche intorno al monastero dei Cappuccini di Luzzi, in Brutium, LXIX, 1, Gennaio – Marzo 1990. L’autore erroneamente data al 1600 il tabernacolo che, per le somiglianze dette nel testo è da far risalire al prima metà del XVIII sec.; vedi nel testo. 41 secolo, quanto, piuttosto, a optare per una datazione più alta. Tale rapporto di anteriorità rispetto a Castrovillari è dato dall’analisi della cupola a calotta emisferica che evita, in tal modo, la spinta verso l’alto sottolineando una maggiore monumentalità. 8. Tabernacolo di Rossano107 Anche il tabernacolo di Rossano appartiene alla serie che si è definita, dell’Area medio cosentina. Tale classificazione è possibile grazie allo studio analitico delle parti costituenti il ciborio e, quindi, dell’effetto finale dell’opera. Custodito nel Museo Diocesano di Rossano, purtroppo necessita di urgenti restauri volti alla restituzione della qualità cromatica superficiale, offuscata da polveri e nerofumo108 ma, nonostante le condizioni in cui l’opera versa siano molto precarie (si nota anche la mancanza di alcuni pinnacoli decorativi nonché di parti delle trabeazioni), una lettura dell’organismo nella sua totalità è possibile. Il ciborio somiglia, per impianto monumentale, essendo impostato su base semiesagonale con fianchi molti divergenti con tendenza a svilupparsi in altezza secondo uno schema piramidale, che vede un lento arretrare e rimpicciolimento dei piani, ai cibori di Castrovillari e Cassano. Di questi ultimi si ritrova anche la tendenza all’eliminazione della vibrazione cromatica superficiale, raggiunta attraverso un limitato uso dell’intarsio ligneo, madreperlaceo ed eburneo e il rivolgersi, piuttosto, all’uso di una plastica più monumentale. Molti espedienti stilistici usati per frammentare la luce incidente sul tempietto: le balaustre poste davanti alle nicchie al piano superiore e alla base del tamburo a gradoni della cupola, le colonne tortili e a cerchi concentrici su imoscapi ora lisci ora intagliati, le cornici e gli architravi molto aggettanti e con la superficie zigrinata, i capitelli, che seppur abbastanza proporzionati, sono molto incisi e trattati in modo monumentale, rimandano ad un ambiente abbastanza chiuso alle influenze esterne e chiaramente dipendente da botteghe interne ai conventi. Proprio, quindi all’interno dell’ambiente cappuccino è logico ricercare il possibile autore del tabernacolo, autore che è identificabile proprio attraverso il riconoscimento di un lessico decorativo tipico legato alle decorazioni a rilievo con angeli reggimensole e cornucopie, che lo accomuna ai tabernacoli di Castrovillari e di Cassano. 9. Tabernacolo di Castiglione Cosentino 107 108 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 256 – 270 L’opera è realmente depositata nel Museo in fase di allestimento per cui non esiste alcuna catalogazione. 42 Il tabernacolo di Castiglione Cosentino109, pur rientrando nella vasta serie della tipologia a tempietto a pianta poligonale, non rientra nella compagine dei cibori su base semiesagonale, in cui si esalta l’elemento cromatico attraverso l’intaglio delle membrature architettoniche classiche. Il ciborio è, infatti, caratterizzato da una grande attenzione verso la plastica e la vibrazione tridimensionale delle superfici, ottenuta attraverso l’inserzione di elementi architettonici antropomorfi e, circa l’architettura, dalla tendenza a moltiplicare i lati per sottolineare una maggiore monumentalità. Questa serie di caratteristiche lega il manufatto ad un preciso ambiente culturale e artistico, per molti versi provinciale e distaccato dalla compagine più ampia, propria dell’Ordine cappuccino, ma legato all’artigianato delle maestranze roglianesi, nel basso cosentino. Composto di un basamento su cui si erge un solo ordine coronato da un fascione di raccordo per la cupola piramidale su tamburo a gradoni, il tabernacolo costituisce l’unico elemento tridimensionale in una parete diaframma ove l’altare maggiore è ridotto ad un polittico senza elementi aggettanti. Tale particolarità concorre a sottolineare il manufatto come elemento a sé stante, non legato stilisticamente (e probabilmente nemmeno cronologicamente), al contesto in cui si inserisce. Distaccandosi dall’usanza, in ambito cosentino, di aprire una finestra polilobata sul fronte principale del tempietto, l’opera è decorata con intarsi floreali e geometrici di squisitissima fattura, in avorio, ebano e madreperla, in tutte le specchiature del basamento. Gli angoli, invece, di quest’ultimo, sono evidenziati da telamoni angeliformi scolpiti a tutto tondo aventi funzione di bauplastik piuttosto che identificarsi come semplici sculture decorative. Ad una volontà plastica rispondono anche le colonne tortili definenti gli angoli dell’ordine superiore al basamento; queste reggono una trabeazione non molto aggettante e inquadrano specchiature di cui quella centrale, identificata da un arcone che invade il fascione di raccordo con il piano attico, ospita l’ingresso alla custodia (anch’esso decorato dal solito ostensorio in madreperla), mentre in quelle immediatamente laterali si aprono nicchie entro le quali sono inserite statue di santi francescani e quindi, sui lati periferici, decorazioni bidimensionali in legno ed avorio. Angioletti scolpiti a tutto tondo si pongono come reggi mensole (sotto la porta centrale), a decorare le specchiature del fascione di raccordo e, addirittura, ogni lato del primo gradone del tamburo della cupola. All’effetto monumentale concorrono, infine, i pinnacoli torniti e le balaustre che interagiscono con l’atmosfera alleggerendo tutta la struttura verso l’alto. La cupola, a piramide convessa, interamente intarsiata, si conclude con una lanterna e quindi con un crocifisso apicale. 109 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 89 – 96. Non si hanno notizie sull’autore del tabernacolo che apre la serie delle opere legate alle maestranze roglianesi attorno alla figura di Lorenzo da Belmonte (cfr. note 61, 62, 73, 80). 43 10. Tabernacolo di Rogliano Il ciborio di Rogliano, realizzato da fra Lorenzo da Belmonte Calabro entro il 1756 è custodito nella chiesa di S. Giorgio della cittadina presso Cosenza110. L’opera si lega, per una serie di somiglianze stringenti, alla stessa matrice culturale che ha prodotto i tabernacoli di Castiglione, Cetraro, Oriolo ed Orsomarso, in cui si nota una forte attenzione verso il dato plastico e la decorazione a carattere floreale e geometrico e, soprattutto, verso la definizione di una architettura monumentale e molto compatta. L’opera è un gioiello ingigantito, per la grande quantità di sculture angeliformi, che si stagliano sulle specchiature del fascione di coronamento del primo piano, e in quelle del tamburo della cupola. Alla cura verso la plastica raffinatissima si associa uno senso cromatico, raggiunto con intarsi madreperlacei ed eburnei nelle specchiature del basamento e sulla porta d’ingresso alla custodia. Purtroppo la decontestualizzazione non permette di comprendere il rapporto che il tabernacolo instaurava con l’altare maggiore. La presenza, però, di rinomatissime botteghe di intagliatori e decoratori a Rogliano, le cui opere, caratterizzate da una grande esuberanza decorativa, sono sparse in gran parte del territorio calabrese, inducono a pensare ad una orchestrazione scenografica della parete diaframma relativa all’altare maggiore della chiesa dei cappuccini di Rogliano al centro della quale svettava la magnifica custodia. Come nel tabernacolo di Castiglione, anche in questo caso le decorazioni scultoree si prestano ad essere identificate come elementi di bauplastik, intervenendo a sottolineare gli elementi tettonici della microarchitettura e, addirittura, ponendosi come elementi basilari per la corretta definizione delle specchiature e dei sostegni. La datazione del ciborio alla metà del XVIII secolo, oltre ad essere provata, è assolutamente plausibile date le caratteristiche stilistiche del manufatto. L’attenzione verso la decorazione plastica molto esuberante, unita ad una attenta ricerca formale per quanto riguarda le decorazioni ad intarsi a motivi fitomorfi indica la scelta, anche all’interno dell’Ordine cappuccino, di accogliere istanze formali e compositive estranee alla propria tradizione ma da essa reinterpretate. 11. Tabernacolo di Cetraro 110 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 246 – 255. Per le notizie su Fra Lorenzo si veda la nota 78 e G. Leone, Necrologio…op. cit. ci si fa riferimento. 44 Sulla stessa linea dei tabernacoli di Castiglione e Rombiolo si pone il magnifico ciborio di Cetraro, conservato nella chiesa del convento dei Cappuccini, di cui rimane in situ solo il fastigio architettonico ligneo dell’altare maggiore e quello dell’Addolorata111. L’opera è un vero e proprio gioiello ligneo in cui l’attenzione non è solo rivolta alle membrature architettoniche ma interviene a decorare, con elementi scultorei e policromi, tutta la superficie, raggiungendo altissimi effetti di vibrazione cromatica e luminosa. Per le modalità compositive e per i partiti decorativi il tabernacolo rientra in quel preziosissimo gruppo in cui è possibile estrapolare la figura di fra Lorenzo da Belmonte ma che, presumibilmente, si lega alle attivissime botteghe artigiane di Rogliano, attive in tutta la Calabria nel corso del ‘700. Pur accogliendo suggestioni estranee all’ambiente puramente cappuccino, l’opera, per una serie di caratteristiche, che si vanno adesso ad esaminare, rientra senza alcun dubbio nella tradizione dei cibori cosentini. Questi sono infatti caratterizzati, si è visto, dal particolare modo di porsi in rapporto al coro dei frati che, attraverso la finestrella posta sotto la porta della custodia, permette la comunicazione attraverso il tabernacolo tra i sacerdoti e i frati che assistono, non visti, alla liturgia. Altre caratteristiche proprie del mondo cappuccino si fanno però avanti nella struttura; ci si riferisce, in questo caso, alla tipica decorazione della porta della custodia con l’ostensorio intarsiato in madreperla, all’assembramento delle colonnine tortili presso le nicchie e il grande ingresso centrale alla custodia, nonché alla particolare forma del tempietto, semiottagonale e a forte sviluppo verticale, che intesse un dialogo serrato sia con il fastigio dell’altare maggiore che lo ospita sia con il resto della chiesa che su di lui gravita. L’analisi delle decorazioni evidenzia l’appartenenza del tabernacolo alla cultura plastica roglianese. La ricchezza delle decorazioni scultoree, i telamoni angeliformi aventi funzione di bauplastik, la complicatissima articolazione dei piani, degradanti verso l’alto e culminanti con la cupola piramidale, definiscono il tempietto imponendosi sulle decorazioni a tarsie eburnee e madreperlacee (ridotte a piccoli elementi floreali sui pennacchi dell’archivolto dell’ingresso e a piccoli motivi geometrici lungo le cornici delle trabeazioni), e potrebbero ipotizzare una datazione abbastanza alta dell’opera. Ma il confronto con il tabernacolo di Rogliano, datato e firmato, insieme alle vicende storiche del convento di Cetraro, che vide, nel 1737 la presenza carismatica del beato Angelo d’Acri e il conseguente dono del simulacro della Addolorata, sposta la datazione al pieno ‘700 riconoscendo però una sorta di attardamento del lessico decorativo e architettonico, dettato, probabilmente dalla vicinanza alle botteghe artigiani roglianesi. 12. Tabernacolo di Belvedere Marittimo 111 Vedi G. Leone, I cappuccini…, op. cit. 117 – 124, in part. 124. 45 Della custodia di Belvedere purtroppo si è in possesso solo di dati documentari, essendo stata rubata negli anni ’70 del secolo scorso e totalmente ricostruita112. 13. Tabernacolo di Orsomarso113 Il tabernacolo di Orsomarso è uno dei capolavori del genere della provincia di Cosenza. L’opera si discosta molto dagli altri cibori di ambiente cappuccino pur rientrando, come quello di Cetraro, nella vasta compagine tipologica cosentina per l’impostazione architettonica di base e, anche qui, per il rapporto che esso instaura con l’altare maggiore su cui è posto e, quindi, con il coro. L’opera è immediatamente avvicinabile al ciborio di Rogliano, con il quale condivide medesima attenzione verso il fatto plastico e coloristico, e quindi facilmente databile alla metà del 1700, e attribuibile a fra Lorenzo da Belmonte o a qualche artista ad esso molto vicino, e alle maestranze roglianesi. Ciò che rende l’opera differente però anche dal ciborio ricchissimo di Rogliano, al quale è più strettamente correlabile rispetto agli altri appartenenti alla medesima famiglia, è l’importanza che in essa sì da all’elemento scultoreo. Non usato, tendenzialmente, solo a scopo decorativo, essendo piuttosto anche qui una sorta di bauplastik tendente a sottolineare i punti salienti dell’apparato architettonico, le immagini scolpite invadono però anche l’alta cupola troncoconica, quasi a voler sottolineare il ruolo simbolico unico che essa ha nel contesto di una architettura sacra. Ma angeli molto aggettanti invadono le specchiature dei tamburi della cupola e quelle del basamento, reggono la mensola d’ingresso alla porta centrale della custodia e, a mo’ di telamoni reggono le colonnine tortili angolari del primo ordine. L’immagine globale del tabernacolo è di estrema ricchezza e, addirittura, tende a mettere in secondo piano l’elemento architettonico per esaltare quello scultoreo, e coloristico. Quest’ultimo aspetto è poi raggiunto attraverso un sapiente uso degli elementi architettonici; le colonnine, i capitelli, le mensole, le trabeazioni, si armonizzano tra loro creando una continua vibrazione luministica della superficie, arricchita, inoltre, dagli intarsi madreperlacei ed eburnei che decorano, con motivi floreali e geometrici, tutte le parti in cui l’articolazione plastica è minore. Secondo il più tipico schema dei cibori cappuccini, anche questo di Orsomarso presenta nicchie che si aprono sui lati divergenti, ospitanti statue policrome di santi francescani, mentre la porta d’accesso alla custodia propriamente detta, inquadrata da una cornice a intarsi in avorio, è decorata con la figura dell’ostensorio in madreperla. 112 113 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 46 – 54. Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 210 – 215. 46 L’opera, per quanto finora detto, appare anch’essa molto legata all’ambiente estraneo alla cultura cappuccina e sembra frutto proprio dell’area di influenza delle maestranze roglianesi. Anche qui si nota una tendenza a rifiutare le tendenze settecentesche volte alla smaterializzazione della superficie architettonica e ad un maggior dialogo con l’atmosfera, per riprendere modi secenteschi volti all’esaltazione dell’elemento monumentale e plastico. Ciò nonostante il tabernacolo di Orsomarso, risulta essere tra i più alti esempi di intaglio ligneo che la Provincia cosentina, ma tutta la Calabria, possiede, e ancora non riesce a valorizzare. 14. Tabernacolo di Oriolo114 Il ciborio di Oriolo, pur essendo estraneo geograficamente, all’area di influenza dei maestri roglianesi e, nel caso specifico, della figura di fra Lorenzo da Belmonte Calabro, indiscutibilmente appartiene alla stessa compagine culturale. Come quello di Castiglione, di Cetraro, di Orsomarso e di Rogliano, il ciborio mostra una spiccata tendenza alla pianta centrica, essendo semiottagonale ma presentando una forte divergenza dei lati rispetto alla fronte principale. Trovandosi ancora in situ, l’opera è facilmente leggibile nel contesto decorativo in cui è posto, imponendosi, quasi come un enorme oggetto scultoreo, sulla mensa dell’altare maggiore della chiesa. E infatti, come già visto per il capolavoro di Orsomarso, anche il tabernacolo di Oriolo per la quantità di elementi scultorei che presenta, per la mansione cui è ad essi affidata (di evidenziare e, contemporaneamente, destrutturare ossia l’ossatura architettonica del tempietto), per la qualità dell’intaglio e dell’intarsio madreperlaceo ed eburneo, che interviene a definire coloristicamente le specchiature dell’alto basamento, esalta la primitiva specificità propria del ciborio, quella di essere il luogo deputato all’accoglienza delle Sacre Specie. Analizzando l’opera si riscontrano analogie strettissime con il tabernacolo di Castiglione Cosentino. I rapporti proporzionali tra le colonne e l’architettura sono uguali, identico è il modo di realizzare gli elementi architettonici, si assiste alla medesima sensibilità cromatica e decorativa. L’intarsio madreperlaceo ed eburneo è, nel ciborio, molto usato e attende allo scopo di sottolineare gli elementi architettonici; cornici floreali si pongono sugli archivolti delle nicchie, elementi fitomorfi alleggeriscono i pennacchi dell’arcone centrale, microdecorazioni geometriche in avorio sottolineano le cornici e i piedritti di tutta la struttura. Purtroppo nulla si conosce delle vicende artistiche che hanno interessato la decorazione lignea del convento di Oriolo, né di come un linguaggio così definito stilisticamente e geograficamente possa essere arrivato fino agli estremi confini della Calabria jonica. Quest’ultimo problema se può essere risolto considerando l’estrema mobilità dei frati, di fatto non da alcun aiuto 114 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 202 - 209. 47 per la conoscenza del maestro cappuccino autore del preziosissimo ciborio. Per le già viste somiglianze la possibilità di riconoscere, anche qui la mano, dell’artefice di Castiglione è forte e, attraverso di esso, si spiega l’arrivo del linguaggio roglianese alle pendici orientali del Pollino, senza aver subito le influenze dello stile che, come si è già analizzato ampiamente, caratterizza i cibori di Cassano, Rossano, Castrovillari. Tale ultima precisazione avvalora ulteriormente l’ipotesi di attribuire il tabernacolo di Oriolo all’artista di Castiglione e permette di datarlo alla metà del XVIII secolo. 15. Tabernacolo di Corigliano115 Unicum tra i cibori cappuccini della Calabria è il tabernacolo di Corigliano Calabro. L’opera posta sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Anna, ex chiesa conventuale, propone uno schema inusuale per i tempietti eucaristici cappuccini e poco comune anche in ambienti ecclesiastici di diversa estrazione culturale. Il tabernacolo ha una forma prismatica molto compatta, con lati alternativamente concavi e convessi, poggia su un basamento a bulbo, con grande attenzione verso il fatto plastico e si conclude con una cupola a cipolla che ripete, leggermente rimpicciolito, la forma dell’intero ciborio. Elementi tipici della cultura cappuccina sono soltanto citati in questo ciborio che non appartiene a nessuna scuola artistica fino ad ora analizzata e si impone proprio per il suo discostarsi dalla concezione architettonica del tempietto, sottolineando invece il fattore plastico, coloristico e scultoreo. La descrizione dell’opera mette necessariamente in evidenza il parco uso degli intarsi madreperlacei ed eburnei, che intervengono solo a punteggiare le lisce cornici e le facce del bulbo basamentale. Uso di diverse essenze lignee si ritrova, invece, nella cupola e nei fascioni del tamburo che la regge, mentre sulla porta convessa della custodia, alle diverse essenze lignee, si affianca l’uso della madreperla per disegnare l’immagine dell’ostensorio. Il particolare modo di modulare gli elementi architettonici, che non sono mai estranei alle specchiature ma si legano ad esse, quasi come non ci fosse differenza tettonica tra le parti portanti, quelle portate e quelle decorative, si esaspera nel trattamento del cornicione principale, retto dalle colonnine tortili angolari. Questo, infatti, quasi a voler interagire con la struttura mossa dell’intero manufatto ligneo, si arriccia e si impenna sulla faccia convessa principale, evidenziando la centralità dell’intera struttura e dando una decisa spinta ascensionale verso la sovrastante cupola a cipolla. L’importanza della parte centrale è ancora sottolineata dall’aprirsi, nel primo dei fascioni 115 Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 131 - 137. 48 realizzanti il tamburo della cupola, di una piccola balaustra che alleggerisce la struttura, altrimenti troppo compatta. L’opera, allo stato attuale degli studi, è difficilmente databile e, principalmente, risulta impossibile l’attribuzione, data l’enorme quantità di elementi non riscontrabili in nessun altro ciborio cappuccino. Se le colonnine tortili o la cupola a cipolla insieme all’uso delle essenze lignee pregiate con intarsi madreperlacei, appartengono alla cultura fratesca, il tabernacolo nella sua immagine definitiva mal si pone nell’altare maggiore che lo ospita, risultando troppo largo per lo spazio vuoto trai gradini del dossale. La datazione, alla luce di questi frammentari e discordanti elementi potrebbe porsi verso la seconda metà del XVIII secolo, giustificabile con la pacatezza della superficie lignea e la semplicità decorativa sia plastica che pittorica116. 16. Tabernacolo di San Giovanni in Fiore117 Il piccolo ciborio del convento di San Giovanni in Fiore, datato al 1762 e firmato da fra Francesco Maria da S. Giovanni118, insieme a quello, appena visto, di Corigliano, è il secondo unicum della provincia di Cosenza. L’opera, posta sull’altare maggiore della chiesa conventuale, non è assimilabile ad alcun’altra testimonianza artistica cappuccina, non presentando, a parte il materiale usato (diverse essenze lignee), nessun tipo di decorazione o concezione strutturale codificata all’interno dell’ambiente fratesco. La specificità del ciborio consiste nell’accogliere modi decorativi e compositivi legati all’ambiente laico e lezioso tardo settecentesco, estranei a qualsivoglia tradizione francescana. Vicina alle edicole marmoree poste al centro del dossale degli altari maggiori settecenteschi119, il ciborio consta, essenzialmente, della porta della custodia inquadrata da un fastigio architettonico con colonne che reggono una trabeazione convessa da cui pende un baldacchino. Le colonnine lisce sono decorate con intarsi a motivi fitomorfi in legno chiaro, mentre ricchissimi tralci floreali con inserzione di animali, si distendono attorno alla porta a tutto sesto e sulla specchiatura centrale del piccolo basamento. Sui plinti delle colonnine appaiono angeli inginocchiati in adorazione e figurine di santi a mezzobusto mentre la cornice della trabeazione, che segue l’andamento convesso dell’intero ciborio, è decorata con motivi floreali. L’opera nel suo insieme è un piccolo gioiello ligneo di squisita fattura, in cui si riconosce una attenzione verso gli il corretto uso degli elementi architettonici, tant’è vero che i capitelli in 116 Vedi oltre nel testo, le possibili analogie con il tabernacolo di S. Giovanni. Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 271 - 280. 118 Cfr. G. Leone, Necrologio…, op. cit. e nota n° 77. 119 Vedi nota n°34. 117 49 legno scuro, sono totalmente aderenti alle regole dell’ordine composito e in relazione proporzionale ai fusti delle colonne che li reggono. Si potrebbero avanzare ipotesi di vicinanza ideale tra, fra Francesco Maria da S. Giovanni l’artefice del tabernacolo, e l’ignoto artista legato al ciborio di Corigliano. Una sorta di attenzione verso l’eleganza formale, raggiunta attraverso la levigatura ossessiva della superficie lignea, unita ad una sorta di “critica” nei confronti delle codificate forme cappuccine, potrebbe far pensare ad un contatto tra i due artisti o, addirittura al riconoscimento di una sola mano, purtroppo la mancanza di documenti relativi al tabernacolo di Corigliano, non dà supporto all’ipotesi avanzata. VII. CONCLUSIONI Il patrimonio artistico cappuccino in Calabria, come si è potuto vedere nella lunga trattazione, risulta estremamente frammentario e, principalmente, molto poco studiato. Il problema, purtroppo, non è legato solo all’Ordine Cappuccino, ma investe tutta la cultura calabrese, sicuramente martoriata e frammentata dai continui terremoti ma anche madre di una popolazione molto poco attenta al proprio patrimonio e in grado di disperderlo senza coscienza. Tale situazione atavica non avendo risparmiato nemmeno il patrimonio ecclesiastico, ha reso difficile non solo l’effettivo studio sul campo degli oggetti analizzati (di cui solo una parte si trova in loco), ma non ha permesso di provare, con un esaustivo apparato documentario, le ipotesi che si sono fatte circa le attribuzioni o le datazioni. I problemi maggiori si sono riscontrati nella Provincia reggina, in cui lo stato dei conventi e degli archivi è quasi disastroso e solo negli ultimi anni si sta cercando di uscire dall’impasse. La mancanza di biblioteche organizzate, di fonti documentarie accessibili, la frammentarietà del patrimonio artistico, ha messo a dura prova la memoria storica dell’Ordine e la possibilità che essa venga tramandata. La provincia di Cosenza invece, pur avendo subito anch’essa la dispersione degli oggetti d’arte e dei documenti di archivio, da più tempo ha cominciato una riorganizzazione delle proprie fonti ma, a differenza della provincia di Reggio, ha assistito alla estrapolazione degli oggetti d’arte dal proprio luogo di origine, per cui è risultato più faticoso rintracciare questi ultimi nelle nuove chiese in cui sono conservate, o presso musei o depositi locali con la conseguente difficoltà nel ricostruire l’effetto globale legato alla presenza del ciborio all’interno sia della ricca parete diaframma che dell’intero spazio ecclesiastico originario. Nonostante ciò un lavoro di catalogazione per un primo approccio alla cultura figurativa cappuccina dell’estremo sud della Penisola è stato fatto; si sono avanzate attribuzioni, riconosciute scuole artistiche (o artigianali), che penetravano in modo più o meno evidente nell’entourage monastico, distinte, infine, tipologie. 50 Proprio questa distinzione tipologica ha permesso, inoltre, di superare le stantie attribuzioni a figure ben precise di ambiente fratesco senza criterio riconosciute come artefici di tutte le opere sparse nel territorio calabrese, riconoscendo definitivamente la personalità di fratelli laici abilissimi artigiani e la grande influenza di questi all’interno dell’ambiente monastico. Ci si riferisce, nel caso specifico, alla figura di fra Ludovico da Pernocari, indiscutibilmente stella di prima grandezza nel campo dell’intaglio e dell’intarsio ligneo settecentesco nella Calabria meridionale, ma certamente non il solo a dettare regole circa i linguaggi decorativi e compositivi. L’influenza del frate artista informa tutta la produzione artistica della Calabria del sud imponendo composizioni architettoniche semplici, basate sulla sovrapposizione di piani degradanti verso l’alto, in cui la verticalità, sempre denunciata, raggiunge l’apice nelle opere tardosettecentesche. L’opera di fra Ludovico (autore dei cibori di Reggio Calabria, Gerace e Nicastro), si riconosce per una rarissima sensibilità cromatica, un elegantissimo uso dell’intarsio e una attenzione miniaturistica verso l’intaglio degli elementi lignei. Echi dell’arte legata a questo frate si ritrovano nelle opere dei sui allievi e collaboratori: Domenico da Pernocari (ipotizzato autore dei tabernacoli di Rombiolo e Tropea, che dal maestro, assimila la tendenza a frammentare la superficie luminosa attraverso la tecnica dell’intaglio, ma che non riesce a staccarsi dalle forme monumentali d’inizio secolo), e Francesco da Chiaravalle (riconoscibile nel ciborio di Vibo Valentia e legato agli effetti policromatici propri dell’intarsio, vicino all’eleganza formale delle ultime opere di Ludovico ma estraneo alla sensibilità materica e cromatica di quest’ultimo, nei confronti dell’avorio e della madreperla). Ancora echi della complessa personalità di fra Ludovico si ritrovano nell’opera di fra Bernardino da Sant’Agata: il ciborio di Paola (nella Provincia di Cosenza), principalmente nell’attenzione al fatto luministico e cromatico raggiunto attraverso l’uso di intarsi geometrici e attento intaglio delle membrature architettoniche. Il ciborio di Paola però, ad una più ampia analisi, sembra inserirsi in un diverso contesto stilistico, più legato a forme monumentali e meno aperto al dialogo con l’atmosfera, che informa un gruppo ben definito di cibori dell’area medio cosentina. Si riconoscono infatti appartenenti ad una matrice comune i tabernacoli di Castrovillari, Cassano Jonio, Rossano, Luzzi e Paola, opere datate alla metà del XVIII secolo in cui l’attenzione è volta alla esaltazione dell’intaglio con un sempre maggiore disinteresse verso l’uso di essenze lignee diverse e di avorio e madreperla. Accanto a questa corrente definita, si pone un secondo gruppo di cibori, a pianta pseudocruciforme, di dimensioni ridotte e a rapido sviluppo verticale. I tabernacoli in questione sono quelli di Morano, Mormanno e Acri, legati alla figura chiave di Luca da Mormanno il cui ciborio (quello di Morano), del 1711, costituisce un esempio di armonia cromatica e compositiva da 51 cui è distante non solo il monocromo tabernacolo di Acri, ma anche il variopinto manierato ciborio di Mormanno. La terza serie dei cibori cosentini è quella legata alle esperienze scultoree e decorative legate alle maestranze roglianesi, famosi in tutta la Calabria per l’esuberanza plastica e gli eccezionali virtuosismi dimostrati nel comporre fastigi e decorazioni lignee e in stucco. I tabernacoli in questione (Castiglione Cosentino, Rogliano, Cetraro, Orsomarso e Oriolo), sono dei veri e proprio gioielli lignei, in cui la scultura prende prepotentemente il posto all’architettura e gli effetti di policromia non sono raggiunti solo attraverso l’intarsio eburneo e madreperlaceo ma, principalmente, grazie alla trattazione della accidentata superficie lignea. Un’impressionante tripudio di angeli e telamoni invade ogni parte della composizione; la scultura passa con estrema facilità dall’essere elemento tettonico (una sorta di bauplastik), a puro escamotage decorativo invadendo, come nel caso di Orsomarso (forse il capolavoro del genere), anche le falde della cupola piramidale o troncoconica, che contribuisce a evidenziare la tensione dinamica in ogni tempietto. Non è facile, nel caso dei cibori appartenenti a quest’ultima serie, riconoscere una paternità certa (escludendo quello di Rogliano, di Lorenzo da Belmonte), e ritrovando la stessa mano nel tabernacolo di Castiglione e di Oriolo. Due unica sono invece i cibori di Corigliano Calabro e di S. Giovanni in Fiore, tipici di una cultura laica raffinata e, probabilmente frutto di una committenza esterna al mondo minoritico. Si è voluto riconoscere una sorta di comunanza tra le due opere, legata proprio a questa estraneità ai cappuccini; estraneità, peraltro, non provata da alcun documento. Concludendo, si può asserire con estrema certezza che ciò che salta immediatamente agli occhi, attraverso l’analisi delle opere, è che urge una catalogazione dell’intero patrimonio artistico cappuccino locale, una ricerca sistematica d’archivio e delle opere disperse per poter ricostruire non solo un corpus materico ma, principalmente, il corpus mnemonico dell’arte e della cultura minoritica 600esca e 700esca nel vastissimo e inesplorato territorio calabrese. ATTILIO SPANÒ VIA DIAZ, 2 89040 GERACE (RC) Laureato in Lettere, ind. Storia dell’Arte Medioevale, presso l’Università di Roma”La Sapienza”, con una tesi sulla “Chiesa di San Francesco d’Assisi a Gerace”. Già assistente presso la cattedra di Storia dell’Arte Medioevale di Roma “La Sapienza”, Dottorando di Ricerca in “Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali” presso l’Università di Reggio Cal., con una 52 tesi sulle Presenze francescane nella Calabria del ‘300; Specializzando in Storia dell’Arte Medioevale e Moderna presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Collabora con la cattedra di Storia dell’Architettura Moderna presso l’Università di Reggio Calabria (fac. Architettura). Collabora con i frati cappuccini della Provincia monastica di Reggio Calabria per la redazione della rivista Orizzonti Francescani e ha all’attivo numerose pubblicazioni sulla storia dell’Arte dei Cappuccini in Calabria. 53