ATTILIO SPANÒ
Tabernacoli lignei cappuccini
della Calabria
I. LA POVERTÀ E LA SS.MA EUCARESTIA NEL FRANCESCANESIMO
Trattare dei tabernacoli cappuccini estrapolandoli dal contesto storico e artistico relativo ai
frati ed alla Chiesa tardorinascimentale, risulta estremamente sterile. Ciò perché le meravigliose
realizzazioni lignee 600esche e 700esche in ambito minoritico, ad un occhio estraneo alla
discussione artistica sulla questione francescana, sembrerebbero quasi contraddire quei principi di
povertà ed umiltà, da Francesco d’Assisi tanto anelati e predicati e dai frati minori cappuccini del
‘500, riscoperti e puntualmente perseguiti1.
Per una corretta intelligenza dello spirito che si trova alla base dei preziosissimi cibori
lignei, non si può prescindere da un breve accenno agli appena accennati valori fondanti il
francescanesimo, unendo però ad essi, la somma e indiscutibile attenzione nei confronti della
Eucarestia2.
1
I ritorni programmatici all’operato e alla figura di Francesco d’Assisi si ripetono, nella famiglia minoritica fin dalle
origini del movimento francescano. Dopo la nascita del movimento dell’Osservanza, dovuto a Bernardino da Siena nel
1368, all’interno di essa si nota, nel corso del 1400 la nascita di un movimento pauperistico cosiddetto di “recollezione”
e, assieme ad esso, di una serie di altre tendenze pauperistiche che rendono instabile la famiglia francescana. Se la
divisione era uno stato di fatto, l’unione anelata tra i vari sottordini dell’Osservanza (martiniani, amadeiti, collettani,
clareni, guadalupensi), rimase un mero desiderio infatti i clareni e gli amadeiti continuarono a vivere autonomamente
mentre solo nel 1568, per volere di San Carlo Borromeo e di San Pio V, furono uniti agli Osservanti.Per ovviare ad una
ulteriore frammentazione, nel 1517 papa Leone X è costretto a d emanare la bolla Ite vos ad vineam meam che però
segnando di fatto la divisione tra Conventuali ed Osservanti, permette la coesione tra i movimenti riformatori minori
nati in seno all’Osservanza: tra cui quello dei Recolletti spagnoli; cfr. F. Russo, I Minori Cappuccini in Calabria, dalle
origini ai nostri giorni, in “Miscellanea Francescana”, LVI (1956), 1-2; I Cappuccini. Fonti documentarie e narrative
del primo secolo, a cura di V. Criscuolo, Roma 1994, 21 e ss. ; A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi
per lo studio della riforma pauperistica nell’Italia Meridionale post rinascimentale¸ in R. M. Cagliostro, C. Nostro,
M.T. Sorrenti (a cura di), Sacre Visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria.Catalogo della
mostra omonima Reggio Calabria, Rotonda Nervi 16 dicembre 1999. 20 febbraio 2000, Roma 1999, 75-82.
Per quanto riguarda invece l’annosa questione relativa alla priorità storica della riforma cappuccina, discussa tra la
Calabria e le Marche si vedano: G. Fiore da Cropani, Della Calabria Illustrata, Tomo secondo; Napoli 1743, 405-413,
E. Nava, Trattato del principio e progresso della Religione Cappuccina avuto da questa Provincia di Reggio,
trascrizione di un manoscritto databile al 1770; G. Leone, I cappuccini e i loro 37 conventi in provincia di Cosenza, I II, Cosenza 1986; F. Russo, I Minori Cappuccini in Calabria… op. cit.; M. D’Alatri, Il primo secolo (1525-1619).
Quadro storico, in I Cappuccini. op. cit., 19-73; I. Agudo Da Villapadierna, I cappuccini e la Santa Sede. Documenti
pontifici (1526-1619)¸ in I cappuccini…,75-135; G. Leone, Priorità storica calabrese nella Riforma Cappuccina
desunta dalle fonti dell’Ordine, Cosenza 1998.
2
Unita alla decisa volontà di riportare la Chiesa alle origini evangeliche e alla necessità di avvicinarsi alle classi meno
abbienti, la devozione verso l’Eucarestia è continuamente perseguita da Francesco e costituisce, in certo senso, l’ancora
di salvezza dall’accusa di eresia di cui il movimento minoritico rischiava di essere tacciato, rientrando nella vastissima
compagine dei gruppi pauperistici tardomedioevali. La presenza reale di Cristo nell’Eucarestia si lega, infatti, al
1
La Povertà è quel valore di assoluta novità portato avanti da Francesco, che predicava non
solo la rinuncia ai beni ma anche il “rifiuto” della necessità di glossare i testi sacri, per arrendersi di
fronte all’evidenza del “segno” della presenza di Dio nei vangeli e, tra gli uomini, nell’Eucarestia.
Proprio attraverso il ricorso al segno si esplica la più alta e pura arte dei minores; le forme
visibili della semplicità, della povertà e della umiltà, rendono concreto il messaggio del poverello
assisiate, dando ad esso un senso di immanenza all’interno della cultura europea fin dalla loro
enunciazione e definitiva codificazione3.
riconoscimento del valore del prete, come colui in grado di operare il miracolo della Transustanziazione e quindi, della
Chiesa istituzionalizzata. Per l’analisi di questo aspetto vedi R. Manselli, San Francesco, Roma 1980, 292 e ss.
3
A san Bonaventura da Bagnoregio è riferibile, infine la promulgazione delle prime costituzioni in cui si affronta
concretamente il problema dell’architettura minoritica, con la definizione degli spazi che, pur facendo fronte
all’accresciuto numero di fedeli frequentanti i frati, mantenessero intatta la primitiva idea di minorità e povertà, alla
base del cosiddetto “rifiuto” francescano. Le costituzioni bonaventuriane del 1260 segnano una svolta precisa nella
modalità insediativa e costruttiva dei minori. La data appare di un’importanza fondamentale per quanto riguarda la
nascita di una vera e propria architettura mendicante, in quanto proprio grazie al Capitolo generale di Narbonne si ha la
prima codificazione delle modalità costruttive e della definizione degli spazi minoritici. Su questa scia è bene qui
ricordare che l’esistenza o meno di una “architettura francescana” (e, per estensione, “mendicante”), è ancora oggi
oggetto di discussione. Circa il valore culturale del “rifiuto” francescano nel XIII secolo, la nascita e l’espansione
dell’Ordine minoritico e le manifestazioni artistiche ad esso legate, la discussione in merito è ancora totalmente aperta e
qui, in particolare, si accenna ai problemi relativi anche ai contatti culturali e formali intessuti dall’Ordine francescano
con la Chiesa Riformata medioevale e con l’ambiente laico del tempo. Per una estesa disamina dello stato degli studi si
veda per la parte storica e storiografica: Chronica XXIV Generalium Ordinis Minorum, in Analecta Franciscana III,
1897; L. Lemmens, Documenta antiqua franciscana, Ad Claras Aquas, 1901;C. Eubel, Bullarii Franciscani Epitomes,
Ad Claras aquas, 1908; idem, Testimonia Minora saeculi XIII de S. Francisco Assisiensi, Ad Claras Aquas, 1926;
P.M.D. Sparacio, Frammenti bio-bibliografici di scritti ed autori Minori Conventuali, Assisi, 1931; L. Wadding,
Annales Minorum seu trium Ordinum a S. Francisco Institutorum, Ad Claras Aquas, 1931 e ss.; Directiones et aliae
indicationes domorum ordinis fratrem minorum, Ad Claras Aquas (Quaracchi), ex tip. Collegii S. Bonaventurae, 1956;
V. Lemay, Storia ed evoluzione della bibliografia minoritica nell'Ordine di S. Francesco fino ai giorni nostri, in Studi
francescani, Luglio-Settembre, 1934; K. Esser Origini ed inizio del movimento dell'Ordine francescano, Milano, 1975.
R. Manselli, San Francesco, Roma, 1980; P. F. Russo, I Francescani Minori Conventuali in Calabria (1217-1982),
Catanzaro, 1982. Per quanto riguarda invece la discussione sulle modalità insediative dei francescani e le forme
architettoniche: AA.VV. Ordres mendiants et urbanisation dans la France Médiévale -Etat e l'Enquete, in Annales
ESC, 1970; G. Barone, Federico II di Svevia e gli ordini mendicanti, in Melange de l'Ecole française de Rome, Moyen
Age-Temps Modernes, 90, 1973; E. Guidoni, Il ruolo dei conventi nella crescita e nella progettazione urbana del XIII e
XIV sec., in Quaderni medioevali, IV, 1977; Les ordres mendiants et la ville en Italia Centrale, 1220-1350, in Melange
de l'Ecole Française de Rome, Moyen Age-Temps Modernes, LXXXIX, 1977, 2; L. Pellegrini, Gli insediamenti degli
Ordini Mendicanti e la loro tipologia. Considerazioni metodologiche e piste i ricerca, in Melanges de l'Ecole française
de Rome, Moyen Age-Temps Modernes, T, 89, 1977; A. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e messaggio in
Gioacchino da Fiore, Atti del 1° congresso di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore, 1978; Idem, La chiesa di San
Francesco a Cortona, in Storia della città, nº 9, 1978; M. Righetti, Gli esordi dell'architettura francescana a Roma, in
Storia della Città, nº 9, 1978; A.M. Romanini L'Architettura degli ordini mendicanti: nuove prospettive di
interpretazione, in Storia della città, nº 9; C.D'Adamo, L'Abbazia di San Giovanni in Fiore e l'architettura florense in
Calabria, in I Cistercensi e il Lazio, Atti delle giornate i studio dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Roma,
Roma, 17-21 Maggio 1977. Roma 1978; L. Pellegrini, Gli insediamenti francescani nell'evoluzione storiografica degli
agglomerati umani dell'Italia del sec. XIII, in Chiesa e società dal sec. IV ai giorni nostri, vol. I, Roma, 1979; A.M.
Romanini e AA.VV., Federico II e l'arte del '200 italiano, Atti della III settimana di Studi dell'Arte Medioevale
dell'Università di Roma, 15-20 Maggio 1978, Galatina, 1980; Francescanesimo e cultura in Sicilia (XIII- XVI), Atti del
Convegno internazionale nell'VIII centenario della nascita di S. Francesco d'Assisi, Palermo 7-12 Marzo 1982; G.
Villetti, L'edilizia mendicante in Italia, in Lo spazio dell'umiltà, Convegno di studi sull'edilizia dell'Ordine dei Minori,
Fara Sabina, 1982; A.M. Romanini, I primi insediamenti francescani, tracce per uno studio, in Il Francescanesimo in
Lombardia, Milano, 1983; A. M. Romanini, Tracce per uno studio dell'architettura gotica a Spoleto, in Atti del 9°
congresso internazionale di studi dell'Alto Medioevo, Spoleto, 1983; A. Cadei, Architettura mendicante: il problema di
una definizione tipologica, in "Storia della città", nº 26-27, 1984; L. Pellegrini, Insediamenti francescani nell'Italia del
'200, Roma, 1984; A.M. Romanini, Il francescanesimo nell'arte: l'architettura delle origini, in Francesco, il
francescanesimo e la cultura della Nuova Europa, Roma, 1986; Idem, "Reliquiae" e documenti: i luoghi del culto
2
Tra i segni tangibili della spiritualità francescana, un ruolo fondamentale acquista, e qui si
accenna al secondo grande valore del movimento minoritico, l’Eucarestia. Il luogo ove il miracolo
eucaristico si compie e quello ove le Specie vengono conservate diventano, per i francescani,
momenti di contraddizione rispetto alla necessità di significare la povertà, per esaltare, piuttosto, la
totale divinità di Cristo4.
Si noti come passi in secondo piano qui la distanza temporale tra le gesta storiche (e anche
artistiche) dei frati cappuccini, rispetto a quelle dei primitivi francescani duecenteschi; tale “svista”
non soltanto è giustificabile ma appare, addirittura, necessaria sia per una totale comprensione della
eterna modernità del messaggio di Francesco, che per la corretta interpretazione dello spirito
cappuccino, totalmente volto alla riconquista non solo delle regulae dell’Ordine dei Frati Minori,
ma, e soprattutto, delle azioni e della figura di Francesco in prima persona5.
La somiglianza tra il movimento cappuccino e quello francescano medioevale, risulta al
limite della sovrapponibilità sia per quanto riguarda le modalità insediative (passando, anche i frati
cappuccini, per il momento “eremitico”, da Francesco riconosciuto nella Regula pro eremitoriis
data6, ma poi non più perseguito, tant’è che la prima denominazione di essi fu “frati minori della
vita eremitica”), che per quanto riguarda la necessaria codificazione delle forme architettoniche, che
dai minori duecenteschi fu raggiunta con il capitolo di Narbonne del 1260 e le conseguenti
Costituzioni bonaventuriane e per i cappuccini, invece, è relativa alle Costituzioni di Roma del 1536
(poi ratificata nelle Costituzioni generali del 1575)7 e quindi trattata dal testo di P. Antonio da
Pordenone: Memoriale su come costruire un nostro picciol e ordinato monasterio8.
francescano nella Basilica di Santa Maria degli angeli presso Assisi, in La Basilica di Santa Maria degli Angeli,
Perugia, 1990.
4
Per il diverso modo di caratterizzare i luoghi della struttura chiesastica atti ad ospitare i fedeli o legati alla presenza
dell’altare si vedano gli studi di A. M. Romanici cit in nota 3.
5
Le regole francescane sono fondamentali per comprendere appieno la assoluta identità tra le “gesta” dei frati e la
“volontà” del frate fondatore dell’Ordine. Ci si riferisce qui alle fonti francescane, ovvero gli scritti autografi di
Francesco o a quelli dei suoi contemporanei. Si espongono qui le edizioni più importanti: Thomas De Celano, Vita
prima S. Francisci Assisiensis et eiusdem legendam ad usm chori, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1926; Thomas De
Celano Vita seconda S. Francisci Assisiensis, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1927; T. Desbonnets, Legenda Trium
Sociorum, Etition critique, in Archivium Franciscanum Historicum 67 (1974), pp. 89-144; Compilatio Assisiensis, dagli
scritti di fr. Leone e Compagni su S. Francesco d’Assisi, I edizione integrale dal Ms. 1046 di Perugina…, a cura di M.
Bigardoni, Porziuncola 1975. Gli scritti di S. Francesco sono criticamente editi da K. Esser, Die Opuscola del hl.,
Franziskus von Assisi. Textkritische Edition, Grottaferrata, 1976, essi comprendono: Regula non bullata (1221),
Regula Bullata (1223), Regula pro eremitoriis data; Testamento di San Francesco. Fondamentale per l’approccio alla
realtà francescana è inoltre la Legenda Maior di San Bonaventura da Bagnoregio, scritta ai tempi del Capitolo di
Narbonne (1260).
6
Cfr. K. Esser, Die Opuscola… op. cit; Fonti francescane, Padova 1982, 135.
7
Cfr. Vincenzo Crisquolo, Le prime costituzioni (Roma – Sant’Eufemia 1536), in I Cappuccini. op. cit., 163 – 264, in
particolare: cap 311, pag. 203
8
Il trattato manoscritto, conservato in tre edizioni nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e, in una,
nell’Archivio dei Frati Minori Cappuccini di Innsbruck viene pubblicato per la prima volta, forse a Venezia, nel 1603
firmato da Frate Antonio da Pordenon, Sacerdote Cappuccino. A parte l’integrale pubblicazione del testo in I frati
Cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, (a cura di p. Costanzo Cargnoni), Roma, 1992, 1578-1628,
numerosissimi studi hanno analizzato, negli ultimi anni, numerosi aspetti del trattato, fra tutti si ricordano qui:
3
Rientrando nella vasta compagine della riorganizzazione ecclesiastica post tridentina, il
Memoriale essenzialmente codifica la, altrimenti solo usuale, pratica di costruire le case per i frati,
sottolineando quali siano le premesse ideali e in che modo le stesse debbano essere rese visibili
negli edifici, costituendo una pietra miliare nello studio delle strutture conventuali cappuccine.
Ma proprio attraverso una attenta analisi del trattato si notano aderenze, da parte
dell’Ordine, alla cultura ufficiale, alla chiesa controriformata e, quindi, all’azione di San Carlo
Borromeo vescovo di Milano che, nel 1577, realizzerà una sorta di particolarissimo trattato di
architettura: le Istructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae9, ove si è voluto vedere, nella
descrizione della “simplex ecclesia”, proposta per gli oratori, un contatto con le “picciol chiese” di
P. Antonio da Pordenone10.
Ciò che per la trattazione delle opere d’arte cappuccine appare importante è anche
l’atteggiamento della cultura fratesca ed ecclesiastica nei confronti della discussione artistica
cosiddetta “mondana” e, infatti, una parte ampia è dedicata dai due “trattatisti”, seppur il termine
risulti fortemente improprio, all’uso degli ordini classici. Se però, nelle Istructiones, l’attenzione è
rivolta al corretto modo di interpretare l’architettura classica, nel Memoriale, si propone quasi un
allontanamento da questa, per evitare di sprecare tempo interessandosi ad adoperare in modo
corretto gli “ordini architettonici”11.
Escludere l’estraneità alle speculazioni estetiche secentesche da parte dei cappuccini, risulta
però fuorviante, così come errato sarebbe asserire che i frati siano impegnati attivamente
nell’attenzione ai cambiamenti del gusto, in fatto d’arte, della società. La poca permeabilità
Francesco Calloni, Architettura cappuccina nell’antico ducato di Milano, tesi di laurea, Università Cattolica del S.
Cuore, 1976/77, relatore prof. G. A. Dell’Acqua; Idem., Interpretazione iconologia dell’architettura cappuccina, in I
frati Cappuccini…, op. cit. 1469-1548; Tommaso Scalesse, Note sull’architettura dei Cappuccini nel Cinquecento, in
Atti del III Convegno Internazionale su “I Francescani in Europa tra Riforma e Controriforma”, Assisi 1985; Agostino
Colli, Un Trattato di architettura Cappuccina e le “Instructiones fabricae”di San Carlo, in San Carlo e il suo tempo,
Roma, 1986 e in I frati Cappuccini…op. cit.¸ 1555-1578; Sergio Giovanazzi, La riscoperta di un architetto cappuccino,
in Architettura Cappuccina. Atti della giornata di studi storici sull’architettura cappuccina, Trento Biblioteca
Provinciale dei Cappuccini, 28 maggio 1993, Trento 1995.
9
Istructionum Fabricae et suppellectilis libri duo Caroli S.R.E. Card. Tt. S. Paxedis Archiepiscopi iussu ex provinciali
decreto editi ad provinciae Mediolanensis usum / trad. italiana a cura di M. L. Gatti Perer e Z. Grasselli. Milano 19831984.
10
Il parallelismo tra i due trattati è messo in evidenza dagli studi della Gatti Perer, pertanto si veda: M. L. Gatti Perer,
Lo spazio sacro nelle “Istruzioni” di San Carlo e nei nuovi ordini religiosi del Cinquecento, in Architettura
Cappuccina… op. cit., 25 – 65.
11
Tale atteggiamento di rifiuto, se ad una prima superficiale analisi appare diametralmente opposto alle esortazioni
circa il giusto modo di costruire seguendo i canoni classici, ad un attento sguardo risulta essere solo formale. Il
problema riguarda infatti non tanto l’uso, corretto o meno, delle regole architettoniche di vitruviana memoria, quanto la
sostanziale conoscenza di esse. Questa asserzione porta a considerare l’arte cappuccina sotto un’ottica assolutamente
differente rispetto a quella che, usualmente, considera i “frati” come chiusi, schiavi di una subcultura, legati a forme
spesso stantie e estranei al dibattito culturale mondano. Mai, infatti, il “rifiuto” di una cultura corrisponde ad una
estraneità a ciò che si allontana, sarebbe come considerare il “rifiuto”, da parte di Francesco d’Assisi, della “glossa”
applicata alle Sacre Scritture, come una disconoscenza delle Scritture stesse o, per rimanere in ambito minoritico,
escludere le meravigliose e modernissime creazioni architettoniche francescane medioevali dal dibattito artistico più
attento, relegandole ad essere architetture minori sol perché figlie di un concetto di semplicità e povertà. Per il
confronto con le esortazioni di San Carlo si veda: M. L. Gatti Perer, Lo spazio sacro…, op. cit., 49.
4
dell’Ordine a influssi esterni non è infatti da considerare una pura leggenda; la struttura stessa del
francescano, se da una parte lo porta a doversi confrontare con la società in cui è immerso, per poter
adempiere in toto al dovere di “comunicare” ed “evangelizzare”, da un’altra, proprio l’essere
“esempio” di perfezione, lo costringe ad operare una sorta di mutazione genetica all’interno della
sua stessa sostanza. Ecco quindi che lentamente, soprattutto con l’imporsi del ‘700, si assiste ad una
reale tendenza alla conservazione del messaggio formale “cappuccino” con una conseguente spinta
alla cristallizzazione della forma artistica e ad una sorta di omogeneizzazione della creatività. Si
intende, in questo caso, la volontà di rimanere ancorati ad atteggiamenti in cui è forte il messaggio
pietistico, religioso e sacro, a discapito della ricerca puramente formale12.
Tale omogeneità formale interessa in special modo l’atteggiamento da assumere nei
confronti dei paramenti sacri, degli oggetti d’arredo del convento e della chiesa e, principalmente,
un riconoscimento immediato dell’arte cappuccina si ritrova nell’arredamento dello spazio
ecclesiastico, ovunque rispondente a regole indefettibili e sottolineanti, sempre, il concetto di
povertà evangelica e di minorità. Ci si riferisce all’uso determinato, assoluto e programmatico del
legno per gli altari, i pulpiti, le cantorie, gli armadi da sacrestia, i tabernacoli13.
Unita all’uso del legno è la volontà di denunciare la qualità materica di quest’ultimo. Si
esula definitivamente dall’usanza, comune anche agli ordini minoritici, di mascherare il materiale
“povero” con decorazioni a stucco o pittoriche, imitanti materiali lapidei o decorazioni
policromatiche a scagliola. La vibrazione pittorica presso i cappuccini è lasciata solo all’accordo tra
la luce delle candele e gli intagli, tra le diverse coloriture delle essenze lignee usate e, solo nel
particolarissimo caso del tabernacolo, alla contrapposizione di materiale più nobile: avorio,
tartaruga o madreperla, al legno che, comunque, rimane come realizzante la struttura tettonica di
qualsivoglia oggetto di arredo.
12
L’anacronismo artistico diventa evidentissimo, se non tipico e apprezzabile proprio in questo senso, nelle opere
realizzate da artisti provenienti dall’ambiente fratesco. I frati infatti, proprio perché detentori e vettori del messaggio
evangelico, si fanno carico della responsabilità di sottolineare, nelle realizzazioni artistiche, la perfezione del
“messaggio”, l’impossibilità dello stesso di piegarsi ai mutati gusti dei tempi, la necessità di rispecchiare le scelte di vita
fatte da loro stessi. Questo stato di cose concorrerà alla creazione di una vera e propria “architettura cappuccina”, di una
“arte cappuccina” immediatamente riconoscibile ma difficilmente circoscrivibile in senso spazio temporale.
13
L’uso del legno, inteso come materiale povero, facilmente corruttibile, aborrito dagli ambienti ricchi e fastosi, è
sempre vivamente proposto dai frati e diventa addirittura d’ordinanza nelle costituzioni dei cappuccini e, per quanto
riguarda la costruzione di arredamento di grande valenza teologica, come i tabernacoli e gli altari, verrà riconosciuto
anche dalla Chiesa Romana nel 1646. Circa l’uso tassativo di questo materiale si veda: G. Santarelli, Opere di
ebanisteria presso i Cappuccini delle Marche, in Collectanea Franciscana, 63 (1993); per quanto riguarda l’uso del
legno non colorato per le decorazioni plastiche, relegando l’oro e l’argento solo ai calici e agli ostensori, cfr. C. da
Langasco, Cultura materiale in convento. I libretti del Museo di Vita Cappuccino, n°1, Genova, 1990. p. S. Gieben,
L’arredamento sacro e le sculture lignee dei cappuccini nel periodo della controriforma, in Arte “minore”, in I Frati
cappuccini…, pagg. 1635-1643, in cui si sottolinea il ruolo delle costituzioni relative ai vari capitoli, circa l’uso di
materiali preziosi per i calici, le patene, gli ostensori; p. S. Gieben, La cultura materiale dei cappuccini nel primo
secolo (1525- 1619), in Collectanea Francescana, 69/1-2, 1999; G. Santarelli, I Tabernacoli lignei dei Cappuccini
delle Marche, in Italia Francescana, LXXIV, N° 1, gennaio – aprile 1999; F Caroselli, I Tabernacoli lignei dei
cappuccini emiliani, Reggio Emilia 2000.
5
Prima, però, di arrivare a trattare in modo specifico del ciborio, della Custodia per l’Ostia
consacrata, in ambito cappuccino, è necessario fare un excursus circa l’importanza dell’Eucarestia
in ambiente francescano e circa la nascita del ciborium come luogo in cui le Specie consacrate si
conservano.
Il particolare ruolo che l’Eucarestia ha nell’Ordine francescano ha portato ad una serie di
apparenti incongruenze tra la necessaria dichiarazione di pauperitas e il continuo aborrire ogni
ricorso alla simbologia. La mensa eucaristica sull’altare maggiore, infatti, sembra una sorta di entità
estranea all’interno delle strutture architettoniche semplici, siano esse medioevali, rinascimentali o
barocche, ponendosi sempre come punto d’arrivo di un percorso univoco che porta il fedele verso la
contemplazione del Corpo di Cristo, in essa conservato.
L’epoca tardo rinascimentale e barocca, all’interno della poetica decorativa che la
caratterizza, porta alla creazione di macchine sceniche di impressionante impatto che, ad un occhio
profano, sembrano snaturalizzare la semplicità francescana delle membrature. Ma, andando ad
analizzare le origini del culto eucaristico presso i francescani, ben presto ci si rende conto che ciò
che appare forzatura ed eccesso di decorazione, è assolutamente in linea con le esortazioni
francescane circa gli onori da tributare a Dio, legati alla figura di Francesco d’Assisi stesso.
Francesco proprio nei suoi scritti, e in particolare in un gruppo di opuscoli e lettere in latino
rivolte alla gerarchia del suo Ordine, nonché ai rettori delle città e, per estensione, a tutti i fedeli,
sottolinea l’importanza suprema da dare al sacramento dell’Eucarestia, importanza legata al
particolare amore che lui stesso ha nei confronti di Cristo uomo, Crocifisso e presente realmente
nella realtà ecclesiale sotto forma di pane e vino.
Nella Epistola ad clericos14 e, principalmente, nelle due Epistolae ad custodes15, il santo
assisiate è chiarissimo:
< Vi chiedo più che per me stesso che, quando conviene e vedrete che questo è
opportuno, supplichiate umilmente i chierici che sopra ogni cosa debbano venerare il
santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole
scritte di lui, che santificano il corpo. I calici , i corporali, gli ornamenti dell’altare e
tutte le altre cose relative al sacrificio, le debbono considerare preziose. E se in
qualche luogo il santissimo corpo del Signore sarà stato sistemato in modo troppo
povero secondo quel che prescrive la Chiesa, sia da loro [e cioè i chierici] posto e
consegnato in un luogo prezioso e portato con grande devozione e distribuito agli altri
con discrezione. I nomi e anche le parole scritte del Signore, dovunque si trovino in
luoghi non puliti siano raccolti e debbono essere collocati in un luogo decoroso. Ed in
ogni predicazione, che fate, ammoniate il popolo sulla penitenza e che nessuno può
salvarsi se non chi riceve il santissimo corpo e sangue del Signore; e quando dal
sacerdote è compiuto il sacrificio sull’altare ed è portato in qualche parte, tutta la
gente inginocchiata renda lodi, gloria ed onore al Signore vivo e vero. E della sua lode
14
15
La lettera è datata al 1220 – 1226, cfr. R. Manselli; Fonti Francescane, cit., 159-160
dat. 1222-1226, cfr R. Manselli op. cit., 293; Fonti Francescane, cit, 170.
6
annunziate e predicate a tutta la gente così che, ogni ora e quando si suonano le
campane, sempre da tutto il popolo si lodi e si ringrazi Dio per tutta la terra >16.
Ancora l’attenzione al sacramento eucaristico ritorna con particolare evidenza nella Epistola
toto ordini missa17, in cui Francesco si rivolge a tutti i suoi confratelli nel nome di Cristo
esortandoli ad obbedire <ai consigli e comandamenti del Signore> e dove insiste sul dovere di dare
la massima attenzione al Corpo e al Sangue di Cristo presenti sull’altare.
Continui rimandi a questo particolarissimo aspetto della spiritualità e vocazione di
Francesco, si ritrovano in altri passi di documenti scritti di suo pugno: nella prima delle
Admonitiones18, nella Regula non Bullata (entro il 1215)19, ove l’argomento è trattato nell’intero
capitolo XX (a differenza della Regula Bullata del 1221, in cui scomparirà)20 e, infine, nel
Testamento (1226)21 ove, circa l’attenzione al Corpo di Cristo, dice:
< …nulla vedo corporalmente in questo mondo dello stesso altissimo Figlio di Dio se
non il santissimo corpo e santissimo sangue suo […]. E questi santissimi misteri sopra
ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. I nomi
santissimi e le sue parole scritte, dovunque li troverò in luoghi sconvenienti, li voglio
raccogliere e chiedo che siano raccolti e siano collocati in un luogo decoroso. >22
e appare chiaro come, anche riferendosi al testo precedentemente citato, tale attenzione venga a far
parte del novero di caratteristiche proprie dell’Ordine pauperistico minoritico.
Alla luce di queste precise dichiarazioni ecco che le materie preziose, la ricchezza
decorativa, la attenzione formale e artistica non sono soltanto riprese, ma addirittura esaltate (se non
altro in contrasto con la povertà delle rimanenti parti della chiesa e degli oggetti liturgici), laddove
si è in contatto con il sacramento dell’Eucarestia.
I calici, le patene, le pissidi, i cibori e, per estensione, il luogo stesso ove questi si pongono
(quindi il presbiterio nelle chiese medioevali, le cappelle del SS. Sacramento nelle chiese
rinascimentali, gli altari maggiori nelle chiese cappuccine), sono caratterizzati da una ricchezza
inusuale per un Ordine che sceglie come regola fondamentale la povertà estrema; ricchezza
spiegabile solo attraverso la conoscenza delle reali idee di Francesco.
In ambiente cappuccino tale osservanza alle volontà francescane è plenaria. Addirittura
rischia di superare le intuizioni di Francesco per una sottolineatura dell’elemento pauperistico che
risulterebbe spesso superiore alla necessità dell’esaltazione di Cristo, attraverso l’uso
16
Cfr. Fonti Francescane, Epistola ad custodes, 170, §§ 4-11 (241-243).
Dat. 1220 – 1226, cfr. R. Manselli op. cit., 294; Fonti Francescane, cit, 163
18
Dat. 1220 – 1226, cfr. R. Manselli op. cit., 305 - 306; Fonti Francescane, cit, 137 – 138, §§ 1 – 23 (141 – 145)
19
cfr. K. Esser, op. cit.
20
cfr. K. Esser, op. cit.
21
cfr. K. Esser, op. cit.
22
Fonti Francescane, cit, 131 – 134, §§12 – 14 (114)
17
7
programmatico e definitivo del legno in contrasto però, con il luogo ove esso viene usato in modo
più specifico e con il valore che questo luogo ha nel contesto dell’architettura ecclesiastica.
Le Costituzioni dell’Ordine del 1575, dopo le correzioni legate alle disposizioni del Concilio
di Trento, proprio riguardo l’attuazione della “povertà” e l’”esaltazione della Eucarestia”, ripetono
al cap. 12:
“nelle cose pertinenti al culto divino, nelli edificij nostri, et nelle masseritie quali
usiamo, non appara alcuna pretiosità o superfluità. Sapendo che dio vuole (come dice
Papa Clemente V) e più si diletta del cor mondo, et delle Sante operationi, che delle
cose preziose, et ben’ornate. Per il che dovemo attendere che in tutte le cose che sono
ad uso nostro risplenda l’altissima povertà la quale ci accendo alle pretiosità delle
ricchezze celesti dove è nostro tesoro, delitie et gloria”23,
tornando a proibire qualsivoglia ricchezza, eccezion fatta per il “calice, la Bossola del
Santissimo Sacramento, et Tabernacolo, et il velo da tenere sopra il tabernacolo”24.
Centro e perno della chiesa cappuccina è l’altare, il luogo concreto ove il “miracolo”
quotidiano della Transustanziazione si compie e ove le “specie” sono permanentemente conservate.
Operando un parallelismo con le strutture antiche minoritiche è chiaro, a questo punto, come
quella cappuccina sia una architettura dinamica, non un luogo di mera accoglienza ma la vera casa
dell’Altissimo e, come tale, rotante attorno ad esso, presente nell’Eucarestia.
Le concordanze tra le concezioni estetico-teologiche medioevali e quelle tardorinascimentali cappuccine sono estremamente evidenti.
Invece, l’elemento di novità, nelle strutture cinquecentesche risiede nella divisione in
almeno due luoghi di fruizione dello spazio e riferibile a quell’evento nuovo e raramente realmente
vissuto, da parte del frate francescano: lo pseudo eremitismo.
La chiesa, infatti, pur continuando ad essere suddivisa in due zone (come accadeva nelle
strutture francescane antiche), di cui una fruita dai fedeli (la navata sui cui si aprono le cappelle e
che ospita i contraltari), e una di pertinenza dei sacerdoti e dei frati (la zona presbiteriale), presenta
una eclatante novità rispetto alla concezione dello spazio ecclesiastico minoritico. Ci si riferisce
all’ulteriore frammentazione del coro in due ambienti: il coro per celebrare, o Presbiterio, e il coro
per ufficiare, o Coro propriamente detto, certamente comunicanti ma distinti: il primo aperto verso
la comunità dei fedeli, il secondo di sola pertinenza della fraternità e quindi in contatto con i luoghi
della “clausura”
25
. La stessa denominazione data ai due luoghi, distinti linguisticamente da un
attributo legato alle azioni che in essi si svolgono (il celebrare i Divini Misteri o l’attendere
23
Le Costitutioni de’ Frati Minori Cappuccini di San Francesco corrette et riformate, Venezia 1577, rist. anast. In
Constitutiones, I, Constitutiones Antiquate (1529 – 1643), 141 – 218, in modo particolare pag. 198. Uno studio
approfondito sul tema è portato avanti da F. Caroselli, I tabernacoli lignei…op. cit
24
Ibidem.
25
Per la codificazione dell’architettura e la distinzione tra le due parti del presbiterio, cfr. gli studi sul Memoriale di P.
Antonio da Pordenone. Vedi nota 8.
8
all’Ufficio delle Ore), implica un concepimento unitario dello “spazio”, diviso in due parti
semplicemente dall’evento decorativo più importante ed imponente della chiesa: l’altare maggiore
e, su di esso, del tabernacolo.
II. IL TABERNACOLO
La volontà di riallacciarsi alla più ortodossa tradizione francescana è, a questo punto,
totalmente esaudita. La dinamica degli insediamenti, la ricomposizione delle Costituzioni, la
codificazione delle architetture, l’esaltazione della Povertà e, contemporaneamente, della Divinità,
ripropongono in modo moderno e egualmente forte, il messaggio evangelico e francescano.
Si è appena accennato, ma si riprende qui in modo ben più ampio, il discorso sull’altare
maggiore e sul coro cappuccino.
Chiaramente questo tema sottolinea e concretizza l’importanza attribuita all’Eucarestia. È,
infatti, proprio il luogo del sacrificio eucaristico a unire le due parti del presbiterio, apparentemente
separate dall’ancona dell’altare maggiore, quasi una parete diaframma iperdecorata.
Il tabernacolo, incastonato nella mensa, è l’elemento su cui ruota il grande coro, il perno,
non solo ideale, dell’intera chiesa e, per estensione, considerando anche il ruolo centralistico che
l’edificio ecclesiastico ha nel complesso del convento, dell’intera costruzione monastica26.
L’usanza di custodire il pane e il vino consacrati in un luogo adatto e riconoscibile
immediatamente, all’interno della costruzione ecclesiastica, non coincide con la nascita del termine
tabernacolo. Questi infatti (dal latino tabernaculum, tenda), non ha mai avuto, in passato, un
significato preciso, essendo usato per identificare certamente una “custodia”, ma atta non solo alla
conservazione delle Sacre Specie ma anche delle reliquie, dei Sacri Oli e, addirittura, poteva essere
inteso come Cappella Funeraria27. In un secondo momento al termine tabernacolo venne poi
affiancato “Ciborio” – ciborium – generando una nuova confusione, significando quest’ultimo, sia
la pisside che il tabernacolo vero e proprio, mentre solo in epoca paleocristiana, si diffonde la
tendenza a conservare le Specie avvolte in teli bianchi e a riporle in una capsa posta in un armadio
posto in un conditorium o secretarium28. Nel V secolo il liber pontificalis fa menzione di una turris
26
La centralità del luogo deputato alla celebrazione dei Divini Misteri, non è propria solo dell’Ordine Francescano,
ritrovandosi, infatti, in tutte le architetture ecclesiastiche sia in epoca antica che rinascimentale e barocca. Anche, infatti,
in periodo umanistico e rinascimentale, quando il centro dell’universo è rappresentato dall’Uomo e, attraverso un
excursus più filosofico che teologico si arriva alla definizione dello spazio sacro in relazione alla fruizione da parte del
fedele, a discapito spesso dell’elemento trascendente, si continua a concepire comunque una sorta di centralismo
dell’altare. Basti pensare alla ripresa di forme perfette, centriche, in alcune architetture sacre cinquecentesche o, più
frequentemente, alla riproposizione di spazi complessi pronti ad accogliere più altari e tutti tendenti alla esaltazione
dell’altare del Sacramento, nelle strutture codificate dopo il Concilio di Trento.
27
G. Moroni, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica, s.v. “Tabernacolo della SS.ma Eucaristia” LXXII,
Venezia 1855, 210 – 211; P. L. Zovatto – S. Mattei, Tabernacolo. Norme liturgiche, in Enciclopedia Cattolica, IX,
Città del Vaticano, 1953, cc. 1678 – 81; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op. cit., 19 – 38.
28
Cfr. F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19.
9
a carattere architettonico e collocata nella sacrestia, in cui deporre le specie consacrate29. La forma
delle turres più antiche fu assorbita dagli artrophora di rito greco, reliquiari atti alla conservazione
del pane consacrato, aventi forma di tempio con cupoletta in materiale prezioso. Intorno al IX
secolo le Custodie cominciarono ad essere poste sull’altare e, in seguito a ciò, il termine latino
tabernaculum acquistò l’accezione particolare e univoca che conserva ancora oggi. Diventa usuale,
in questo periodo, porre la capsa sull’altare o sospenderla, sotto forma di colomba, sulla mensa
eucaristica e solo nel verso il 1100, comincia ad essere comune la tendenza a costruire tabernacoli
murati nella spessore della parete del presbiterio, di fianco all’altare, in cornu evangeli30. Tale
particolare positura e forma, definitivamente sancita dal IV Sinodo Lateranense del 1215, divenne
di uso comune in tutte le chiese cattoliche e, almeno fino a tutto il 1400, fu il tipo di custodia
eucaristica più diffuso31. La forma di queste nuove custodie riprende molto da vicino le antiche
turres e presenta un eccessivo sviluppo in altezza, che molto deve al verticalismo tardo gotico.
Finalmente, nella seconda metà del XV secolo, si stabilisce in Italia il tipo di tabernacolo a
edicola o a tempietto rinascimentale, posto al centro della mensa eucaristica. Esempi di eccezionale
bellezza e ricchezza, per materiali e/o per fastosità nella decorazione, si ritrovano in molte chiese
rinascimentali, ad opera dei più grandi artisti contemporanei. La forma più ricorrente comincia
lentamente ad essere quella a pianta centrale; ciò prevede la sottolineatura del luogo atto a
contenere la grande custodia, quindi una Cappella del SS. Sacramento in prossimità dell’altare
maggiore32. Persiste comunque ancora la forma ad edicola murata nel muro presbiterale o absidale
per le chiese di minore importanza e dimensioni.
Verso la metà del XVI secolo, a Verona, ad opera del vescovo Giovanni Matteo Giberti, si
introduce l’uso del tabernacolo fissato in maniera permanente sull’altare maggiore33.
Il ‘700 vede, come prassi comune, in tutte le chiese italiane, l’associazione del tabernacolo
alle mense dell’altare maggiore34.
29
Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1982, s.v. “Liturgici strumenti e arredi sacri; Tabernacolo”, VIII, 663.
Cfr. F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19.
31
Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1982, cit.; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19
32
Enciclopedia Universale dell’Arte, Novara 1982, cit..; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19
33
Il gesto, che non fa che esaltare una prassi, già avviata altrove, di inserire la custodia eucaristica nel dossale
dell’altare, avrà una grande eco. Esso, infatti, risulta corrispondere alle, immediatamente seguenti, indicazioni del
Concilio Tridentino e, quindi, a quelle di grandissima diffusione e attuanti le esortazioni conciliari, del Concilio
Provinciale Mediolanense I del 1565 e del già citato trattato di San Carlo Borromeo del 1577, che la impose a tutto il
nord Italia. Tale Riforma venne accolta benevolmente in sede vaticana dai papi Paolo IV e Paolo V che, col Rituale
Romanum del 1614, fu allargata a tutte le chiese della diocesi romana e raccomandò alle altre diocesi. Cfr. F. Caroselli,
I tabernacoli cappuccini…op.cit., 19 e ss.
34
Sebbene non ci sia ancora alcuna codificazione in merito, circa il valore, la forma e il posizionamento delle custodie,
il Synodus Paderbonensis, nel 1688 sancisce: Tabernaculum, ubi nondum est, sollicitus sit Pastor, ut id conficiatura,
quod fiat vel in medio altaris, vel in parete iuxta altare; denunciando graduale passaggio dal Tabernacolo a parete a
quello posto sulla mensa eucaristica
30
10
Dal punto di vista essenzialmente giuridico però, il tabernacolo trova posto sulla mensa
dell’altare solo nel 1863, con un decreto della Sacra Congregazione dei Riti; decisione che viene
ratificata, poi, nel 1935 dal Codex Iuris Canonici al numero 126935.
Al di là però proprio di questa necessità di una imposizione formale, già dal 1500 il
tabernacolo si avviava ad assumere una figura ben precisa: un tempietto in miniatura troneggiante
sull’altare. Tale forma monumentale è sempre presente e pur variando di dimensioni e non essendo
sempre uguale (dalla semplice mostra architravata in mezzo al dossale della mensa, al tempio a
pianta centrica), diviene lentamente “la forma” della custodia eucaristica, raccomandata agli artisti
del tempo, tramandata in disegni e indicazioni di progetto, esaltata fino alla riproposizione di vere e
proprie architetture in miniatura, anche in materiale prezioso come il bronzo o l’argento dorato36.
Circa la forma della custodia non esiste alcuna norma da parte della Santa Sede che lascia
libertà di espressione agli artisti, come si è visto ampliamente precedentemente. La stessa cosa si
nota per quanto riguarda gli ornati dei tabernacoli in cui si avalla la tendenza a decorarli con
figurazioni legate alla passione di Cristo o volte alla esaltazione del sacrificio eucaristico e, nel caso
dell’uso del legno, a mascherare quest’ultimo con dipinture a finto marmo o a stucco37.
Solo per quanto riguarda l’Ordine cappuccino si nota, però, una vera e propria eccezione.
Un decreto della Congregazione del Sacro Rito del 7 dicembre 1888 afferma che i Frati
Minori Cappuccini, su concessione della SCEpReg del 13 luglio 1659, possano avere un
tabernaculum ligneum affrabre elaboratum, exterius nudo ligno, rudi colore depicto et non necesse
esse ut deauraretur, aut prezioso depingeretur quam ceterae altaris partes38.
35
Enciclopedia Cattolica, IX, op.cit.
cfr. p. L. Koster OFM, De Custodia Sanctissimae Eucharestiae.Disquisitio historico – juridica, Romae 1940, 136146. Circa la materia del tabernacolo in epoca post tridentina la SCEpReg, in data 26 ottobre 1575, decretava:
Tabernaculum regulariter debet esse ligneum. Nel 1584, però, il Rituale Sacramentorum Romanum si pronunciava
affinché l’Eucarestia fosse conservata intra tabernaculum marmoreum vel aeneum, aut alterius materiae, aut saltem
ligneum¸ finché San Carlo Borromeo, nelle già citate Istructiones, optava per un tabernacolo in ecclesiis insignioribus,
ubi potest, de laminis argenteis, aut aeneis…, aut e marmore pretiosori. Come già precedentemente accennato, le
esortazioni borromee si allargano a tutte le diocesi d’Italia tanto che, nel 1585 la prov. Aquense propone un tabernacolo
ex auro solido, pretiosissimis gemmis ornatum¸ e, il Sinodo di Praga del 1605 un tabernacolo e laminis argenteis, aut
aeneis inauratis, aliate ratione elegantius. Accanto a questi meravigliosi esempi preziosissimi rimaneva comunque il
tabernacolo ligneo, per le chiese di minore importanza e dimensioni, come si evince dalle decisioni del Sinodo della
Prov. Beneventana, del 1693. Il tabernacolo ligneo era già stato proposto dal vescovo veronese Giberti per la sua diocesi
(cui già si è accennato), che prescriveva un tabernaculum ligneum aut ex alia materia pulchrum. Altri tabernacoli lignei
sono prescritti dal Sinodo di Tolosa del 1590, e al Concilio di Baltimora del 1866, che recepisce in toto il testo del
SCEpReg succitato. Accanto alla custodia lignea a Bratislavia si accettano tabernacoli marmorei o con porta ferrea per
evitare pericoli di incendi e, proprio laddove questo pericolo era prevedibile, si proponeva l’uso di veli umidi o altre
materie salvaguardanti il legno
37
p. L. Koster OFM, De Custodia Sanctissimae Eucharestiae. op.cit.136- 146.
38
p. L. Koster OFM, De Custodia Sanctissimae Eucharestiae. op.cit.142.Tale asserzione risulta di estrema importanza,
ai fini di questo studio, per sottolineare l’esistenza “a latere” della fraternità francescana, rispetto all’andamento
ordinario della Chiesa ufficiale. Esistenza, questa, che non fa che evidenziare, ancora una volta, e dopo 400 anni, la
specificità propria del frate minore, volto, si ripete, a perseguire la povertà e ad esaltare il mistero eucaristico.
36
11
III. IL TABERNACOLO CAPPUCCINO
Legata alla particolare venerazione che l’Ordine ha per il SS Sacramento è la pratica delle
Quarantore, tipica dell’epoca controriformista e di cui i Cappuccini sono protagonisti assoluti39.
Certamente questa forma di devozione sottolineava il rapporto specialissimo che l’Ordine
francescano aveva con l’Eucarestia e, principalmente, contribuiva alla realizzazione di
impressionanti scenografie, sull’altare maggiore, per l’esaltazione dell’Ostensorio con l’Ostia
Consacrata.
Considerando che le sacrestie non sono ammesse dalle Costituzioni cappuccine, almeno fino
al 160840, e che l’armadio (o Armarium), posto nel coro per ufficiare addossato alla parete
dell’altare maggiore, fungesse da custodia per le suppellettili sacre, bisogna avere ben presente che
l’ambiente, adesso usato principalmente come sacrestia41, era originariamente concepito per la
preghiera e per permettere ai frati di partecipare, non visti, alla celebrazione. Affinché ciò potesse
essere attuabile in toto, era necessario ricorrere ad escamotages caratteristici, che smaterializzassero
il muro divisorio, trasformandolo in una sorta di parete – diaframma. Ciò poteva essere realizzato
sia creando una serie di piccole feritoie nella cona dell’altare maggiore, che delle finestrelle
attraverso le quali si potevano passare le ampolline durante la celebrazione, senza uscire sul
presbiterio e, soprattutto, una finestra sguinciata, che metteva in comunicazione il coro per ufficiare
con l’altare maggiore, attraverso il tabernacolo42.
Proprio per permettere tale totale permeabilità, dal Memoriale di P. Antonio da Pordenone si
legge: Il tabernacolo sii largo un piede et mezzo per quadro et longo piedi 3 et si porrà sopra il
secondo grado delli candelieri et bisognando, davanti siano due colonnette sotto43. Essendo i
gradini alti circa 11 cm, si può asserire che esso doveva trovarsi a circa 22 cm sulla mensa, ciò
39
Per la pratica delle Quarantore in ambiente cappuccino si veda: C. Cargnoni, Quarantore (1536- 1665)¸ in I frati
Cappuccini… op. cit. vol. III/2, parte III, sez. 2, 2904 e ss.
40
La proibizione di avere la sacrestia, vigente fin dal 1536, fu abolita con le costituzioni del 1608, ove compaiono come
vani definiti; cfr. Constitutiones, 250; in I frati cappuccini…, op. cit. 447, in nota delle varianti n°140, 2 Calloni, (F.
Calloni, Interpretazione iconologica…,in I frati cappuccini… op. cit. 1469-1489, con relative schede), nella descrizione
delle chiese cappuccine, ove secondo l’analisi di Gerlach, distingue almeno tre tipologie: Italiana, Olandese e Tedesca
e, all’interno della tipologia italiana almeno altre 4 sottotipologie, individua sempre, nei cosiddetti “settori preghiera”,
un vano sacrestia, riferendosi, ,molto probabilmente, alle realizzazioni proprie del XVII sec..
41
Ci si riferisce, nel caso specifico, alla particolare situazione calabrese in cui l’ambiente “sacrestia” corrisponde
all’originario coro per ufficiare. Gli studi in merito alla desemantizzazione di quest’ultimo sono in corso e, per i primi
risultati, si rimanda a A. Spanò, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce per uno studio, in Studi
Calabresi, 1 (2001), 107 – 144.
42
cfr. S. Gieben, L’arredamento sacro e le sculture lignee dei Cappuccini nel periodo della controriforma,in
L’immagine di San Francesco nella Controriforma, Roma Calcografia 9 dicembre 1982 – 13 febbraio 1983 [catalogo
della mostra], Roma 1982, 233- 236 e, con stesso titolo in I frati cappuccini… op. cit. 1635 - 1643
43
sfr. S. Gieben, La cultura materiale dei Cappuccini …, op. cit., 153 e in particolare la nota 33.
12
consentiva ai frati posti nel coro di avere una visione completa del presbiterio e, quindi, di assistere
non visti alla celebrazione44.
Il tale particolare ruolo che la parete diaframma acquista nel contesto architettonico e
decorativo ecclesiastico in ambiente cappuccino, sembrerebbe implicare una progettazione unitaria
dell’ambiente e degli elementi mobili in esso contenuti. Questo modo di concepire lo spazio e
l’arredo, nel luogo preposto ad accogliere l’Eucarestia diventa eclatante e denunciato fino a imporsi
definitivamente nel contesto spaziale e decorativo45.
Teoricamente sembrerebbe logico il concepimento “in uno” dell’altare maggiore e del
tabernacolo su di esso poggiato. Ciò però, si vedrà, spesso non corrisponde a realtà. Seppur i singoli
pezzi poi assemblati siano realizzati in materiale ligneo, con una perizia artigiana indiscutibile, e
nonostante si noti una somiglianza stilistica e formale, spesso gli altari sono anteriori ai tabernacoli,
pur prevedendo l’inserimento di questi ultimi sulla mensa46. Colmare stilisticamente questa distanza
temporale tra l’altare e il tabernacolo è possibile però, all’interno degli ambienti cappuccini, proprio
grazie al tipico modo di porsi, nei confronti dell’arte, da parte dei frati stessi, come precedentemente
accennato. Autori delle pregevolissime cornici lignee, dei pulpiti, degli amboni, delle cancellate, dei
tabernacoli, infine, sono i frati stessi, per meglio dire, i fratelli laici dell’Ordine, uomini di fede
spesso semplicissima, lontani dai doveri legati al sacerdozio e, per questo, pronti a piegare la loro
44
S. Gieben, L’arredamento sacro…¸ op cit, 233 - 236; Idem, Cultura materiale…, op, cit. 145 – 173 In casi particolari,
legati però a scuole locali, come si vedrà oltre, il tabernacolo assume forme e decorazioni particolari, anche queste atte a
permettere la totale partecipazione ai Sacri Misteri da parte dei frati e, in qualche caso eccezionale, addirittura, la grande
custodia si apre con una porticina contro la finestra di comunicazione tra il coro e il retro della mensa eucaristica, per
permettere ai frati di potersi comunicare. Per l’analisi di queste situazioni in Calabria si veda oltre nel testo.
45
Ciò è ancora facilmente leggibile in moltissime strutture cappuccine, anche in Calabria (nonostante qui si sia assistito
ad una sorta di smarrimento della semantica degli spazi), in quanto difficilmente si è di fronte alle architetture originali
(del XVI sec.), spesso realizzate con materiali precari e certamente non pensate per essere eterne, ma davanti alle
realizzazioni 600esche, nate quindi sulla scorta delle indicazioni teoriche di p. Antonio da Pordenone. I dati di cui si
dispone quindi, per quanto spesso possano essere, nei singoli casi specifici, frammentari e lacunosi, permettono di
asserire con un largo margine di certezza che una sorta di campagna di restauro delle primitive strutture ha interessato
anche gli arredi e il valore degli stessi. Cfr. nota 41.
46
Cfr. D.Neri OFM, Scultori francescani del Seicento in Italia, Pistoia 1952, in particolare il cap. VIII. Parlando delle
opere in ambiente francescano Osservante, si asserisce che i lavori lignei sono dovuti spesso a modesti artigiani il cui
lavoro si affianca a quello dei progettisti dell’intera struttura. Tra questi artigiani spesso spiccano personalità di
altissimo rilievo, come fra Umile da Petralia, autore di numerosissimi Crocifissi ed Ecce Homo e considerato una sorta
di caposcuola per tutto il ‘600 e il ‘700, o fra Diego da Careri, la cui presenza, documentata in più parti della penisola
indica l’enorme fama raggiunta dal fraticello. A questi intagliatori si affiancano altri di minore importanza o, più spesso,
poco noti in quanti operanti solo all’interno degli ambienti conventuali, come fra Filippo da Palermo (discepolo di fra
Umile, o altri la cui memoria si è persa). Il ruolo degli intagliatori è spesso minore rispetto a quello degli scultori;
capita sovente di assistere a lavori di gruppo in cui si evidenzia la figura di un caposquadra accompagnato da aiutanti e
il lavoro di questi artigiani è volto all’abbellimento della chiesa con altari, tabernacoli, pulpiti, confessionali, balaustre.
All’interno di questi gruppi di artigiani intagliatori rientrano gli artefici delle opere lignee cappuccine, attivi
principalmente dalla seconda metà del ‘600 e il cui acme è raggiunto nel XVIII secolo. Non è raro trovare presso
conventi cappuccini frati Osservanti, divenuti famosi per la perizia e l’abilità, come è il caso di Vibo Valentia, dove il
grande altare maggiore e gran parte degli arredi della chiesa sono dovuti a fra Diego da Monteleone e ad aiuti (anni ’60
del XVII sec.), mentre il tabernacolo, come si vedrà avanti, appartiene senza dubbio alla compagine culturale
cappuccina. Cfr. anche E. Barillaro, Calabria; guida artistica e archeologica, Cosenza 1972)
13
manualità all’abbellimento della casa di Cristo, centro e perno non solo ideale, dell’intero
complesso monastico47.
Tale continuo appoggiarsi agli artisti appartenenti all’Ordine, pur portando ad un
allontanamento dai percorsi che l’arte segue nel “mondo”, non elimina una sorta di evoluzione
all’interno di quella conventuale e quindi, alla nascita di una vera e propria “arte cappuccina”,
ovunque riconoscibile e, paradossalmente sempre identica a se stessa, in cui si opereranno solo
piccole varianti genetiche al suo interno, legate alle differenti qualità ambientali e culturali in cui
l’Ordine si troverà ad operare.
La tipologia più frequente per le custodie cappuccine è quella del tempietto a pianta centrale,
pianta che, in ambiente rinascimentale, è ricca di connotazioni simboliche legate alla perfezione
riconosciuta al cerchio e, quindi, a tutte le figura geometriche che ad esso si avvicinano48.
A questa serie di speculazioni filosofico – teologiche tipicamente rinascimentali ed
umanistiche, si affianca però una sorta di nuova specificità legata alla “forma” della custodia, per
nulla slegata da una discussione simbolica di ampio respiro, circa il valore dell’immagine nel XVII
secolo. I tabernacoli non sono, infatti, a pianta centrale ma hanno uno schema semicentrico, essendo
realizzata solo la parte che è visibile dalla navata, rimanendo rozza e piatta quella posteriore, che si
incastra nel dossale dell’altare maggiore.
Questo escamotage, se da un punto di vista funzionalistico può essere letto come necessario
per un corretto inserimento all’interno dell’ancona dell’altare, addossato alla parete, da un punto di
vista simbolico mostra una chiara accettazione, da parte dell’ambiente cappuccino, di regole teatrali
e scenografiche che, esemplificando, possono essere definite “barocche”.
Il tabernacolo, infatti, pur non essendo realmente a pianta centrale, così di fatto sembra. I
fianchi si sviluppano secondo uno schema più o meno divergente da quello frontale suggerendo una
forma che continua al di là dell’incastro tra i gradoni dell’altare. Il problema non risiede tanto nel
realizzare una forma centrale ma nel suggerirla, nella necessità di rendere chiara e positiva
l’immaginazione. Ciò che si impone sull’altare maggiore è, di fatto, un tempietto cruciforme,
47
Il ruolo dei fratelli laici è fondamentale per lo sviluppo dell’arte cappuccina. Per uno studio approfondito delle opere
da questi realizzati si veda: S. Calì, Custodie Francescano – Cappuccine in Sicilia, Catania 1967, C. da Langasco,
Cultura materiale in convento…, op. cit.; S. Gieben, La cultura materiale dei Cappuccini …, op. cit. Vedi anche, per il
continuo comparire di nomi di fratelli laici legati alle opere trattare: G. Santarelli, I Tabernacoli lignei dei Cappuccini
delle Marche…, op. cit.; F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op. cit...
48
Proprio l’equilibrio geometrico insito nella figura ad un solo centro, che crea una relazione armonica tra tutte le parti,
come si trattasse di membra di un solo corpo, permette alla divinità di rivelarsi all’intelletto umano. Ripercorrendo,
infatti, l’excursus filosofico affrontato da Leon Battista Alberti, nonché le teorizzazioni matematiche di Luca Pacioli, o
le realizzazioni concrete di Bramante o Palladio, si evidenzia come proprio l’uso del cerchio è raccomandato laddove si
affronta il problema di una architettura sacra. Il cerchio come luogo di incontro concreto tra il microcosmo umano e il
macrocosmo metafisico di Dio, in cui, oltretutto, la cupola si pone come elemento realmente realizzante l’incontro
mistico. Per ci confronti con il mondo cappuccino vedi: F. Caroselli, I tabernacoli cappuccini…op.cit. 28 – 34, con
relative note e citazioni.
14
ottagonale, esagonale o circolare in cui non ha più valore la corrispondenza tra ciò che si vede e ciò
che è49.
Che la realtà apparente sia una figura di quella sostanziale e che tutto ciò che si vede può
sembrare altro, si concretizza nel tabernacolo, pur ritornando con la mente alla ricchezza di simboli
che la figura centrica porta con sé. Se, infatti, il corpo del tempietto è solo un evento teatrale, la
cupola torna ad essere basata su una vera figura centrica. Lo sviluppo di quest’ultima, infatti, a
cipolla, a calotta estradossata, troncoconica, a pagoda, a falde, realizza in concreto la realtà
metafisica che le appartiene, essendo considerata il luogo della presenza delle potenze celesti.
Ergendosi, inoltre, libera da legami fisici con l’altare, proprio la cupola ha la possibilità di
denunciare, senza mezzi termini, la scelta dell’impianto centrico per tutto il ciborio, eludendo
definitivamente, ogni possibile confusione generata dalla eventuale presa di coscienza dell’inganno
perpetrato ai danni dell’osservatore.
Imponendosi sulla mensa eucaristica, il tabernacolo, col carico di connotazioni simboliche e
geometriche che gli sono riconosciute, partecipa, in definitiva, alla realizzazione dello spazio
ecclesiastico precedentemente definito come “spazio dinamico”. Questo ruolo diviene addirittura
fondamentale nella creazione di una nuova concezione spaziale tardo manierista e barocca, in cui la
dinamica, la metamorfosi, l’effetto teatrale e scenografico, diventano evento superante l’architettura
in sé.
I tabernacoli cappuccini costituiscono un elemento assolutamente tipico della cultura
minoritica secentesca e settecentesca. Rispondendo a determinate esigenze liturgiche e cultuali, si
pongono a latere nella compagine artistica contemporanea, sconfinando nell’alto artigianato, spesso
totalmente estraneo a veri e propri dibattiti formali. I termini della questione, che verranno più oltre
maggiormente chiariti, riguardano, innanzitutto, il particolare modo di concepire l’opera,
estremamente complessa e ricca di un repertorio figurativo legato a necessità simboliche e
devozionali. Ogni parte della micro architettura (perché come tale si può definire un tabernacolo
alla cappuccina), risponde non ad esigenze tettoniche ma decorative. La decorazione è legata, dal
suo canto, alla sottolineatura di alcune parti dell’intero organismo che, in quanto fondamentali per
la corretta interpretazione di tutta l’opera, si ha la necessità di esaltare.
Ecco che un ricchissimo apparato decorativo a carattere fitomorfo o geometrico, fondato su
una finissima tecnica dell’intaglio o su un sapiente intarsio di legni di differente robustezza e colore,
49
Si è di fronte ad un tipico atteggiamento barocco, laddove per barocco si intenda oltre che la tendenza all’esuberante
decorazione anche, e principalmente, la volontà di sottolineare la realtà visibile, a discapito di ciò che visibile non è.
L’effetto scenico, teatrale; l’apparenza e il sogno, sono propri di una cultura che non si interessa della sostanza ma
dell’immagine che di essa si ha, senza caricare quest’ultima di eternità e di stabilità. Questa precarietà, se sembra non
poter essere legata alla indiscutibile presenza di Cristo nell’Ostia Consacrata, custodita nel tempietto sull’altare, di fatto
si lega perfettamente al particolare modo di considerare il pane consacrato, la cui sostanza è celata da una differente
forma, la cui realtà è inintelligibile in sé.
15
evidenziano specchiature, nicchie ospitanti statuine di santi francescani, trabeazioni e archivolti;
materiali preziosi come l’avorio, la madreperla, la tartaruga, permettono una maggiore vibrazione
coloristica delle superfici e concorrono alla creazione di un vero e proprio gioiello gigante,
giustificabile solo perché ospitante il vero corpo di Cristo50.
Questa specificità affatto unica, pone di colpo il tabernacolo al centro dell’attenzione non
solo dell’osservatore ma anche, e ciò è ancor più importante, dell’intera dei comunità dei frati.
Dai necrologi è possibile risalire con una certa sicurezza ai nomi dei fratelli laici creatori
delle custodie nelle varie province dell’Ordine. Spesso persone di umilissima estrazione sociale e di
pochissima cultura, non hanno lasciato alcuna traccia scritta di sé, affidandone la memoria solo alle
opere che realizzavano per l’abbellimento della chiesa. Altre volte, è possibile leggere, sul retro dei
tabernacoli, i nomi degli autori ma più spesso, solo attraverso l’esame delle committenze (sovente i
provinciali del tempo), si può avere notizia degli intagliatori all’interno dei conventi51.
Quali fossero le conoscenze reali, in campo artistico, dei suddetti intagliatori, non è facile
capirlo. Certamente, attraverso un confronto con contemporanee opere scultoree o architettoniche,
estranee all’ambiente cappuccino, si ravvisano segni di quella involuzione o cristallizzazione della
cultura artistica52. L’attenzione dei fratelli intagliatori è spesso rivolta alle decorazioni finissime,
secondo un gusto tendente a ricoprire tutta la superficie disponibile (una sorta di horror vacui), o a
definire minuziosamente le singole parti dell’intera struttura, con una conseguente perdita di vista
dell’insieme armonico. Altre volte succede il contrario: la necessità, ovvero, di definire interamente
l’architettura fantastica, dimenticando ogni regola armonica o prospettica, evitando ogni giusto
rapporto tra i singoli elementi architettonici e sottolineando solo l’elemento fantastico, prezioso e
simbolico53.
Nel primo caso si assiste, quindi, ad una minuziosissima cura dei particolari, con
raggiungimento di effetti in cui si nota una perizia non comune nell’accostamento dei legni di
diversa gradazione cromatica, nella giustapposizione di materiali differenti all’interno, però, di una
50
Ci riferisce ancora alle prescrizioni, già ampiamente trattate, riguardo l’attenzione nei confronti dell’Eucarestia. Vedi
precedentemente nel testo e le note:14 –25. Per una trattazione ampia dei motivi decorativi e delle forme stilistiche che
si ritrovano nei tabernacoli si veda oltre nel testo.
51
Non essendoci documentazioni, né firme, in merito ai manufatti dei fratelli cappuccini i testi di grande importanza
sono i necrologi ove, seppur in poche righe, viene trattata la qualità specifica del frate. Per la Provincia Monastica di
Cosenza ci si è avvalso dell’opera di P. G. Leone¸Necrologio dei Frati Minori Cappuccini di Cosenza, Milano 1981,
mentre per la Provincia Monastica di Reggio Calabria – Catanzaro, il Necrologio, composto da P. Silvestro da
Taurianova, negli anni ’60 del secolo scorso, è molto frammentario e depositato, in forma di Dattiloscritto, presso
L’Archivio Provinciale di Catanzaro. Contestualmente, come si vedrà avanti nel testo, alcuni frati intagliatori hanno
lasciato la loro firma impressa sul retro delle opere o, come nel particolare caso di Nicastro, su una carta conservata dal
Guardiano del locale Convento.
52
Si intende in questo caso, una tendenza a tramandare forme e tecniche artistiche all’interno delle mura conventuali.
53
Vedi oltre nel testo la trattazione dei casi specifici. In generale si sottolinea come l’attenzione al fatto figurativo e
decorativo sia superiore alla chiara intelligenza tettonica del tempietto. Ciò evidenzia il carattere essenzialmente teatrale
della microarchitettura lignea del ciborio e la sua necessità di essere iperdecorato per attendere alla sottolineatura
dell’essere la sede dell’Eucarestia.
16
struttura architettonica poco armonica, in cui l’elemento teatrale e destrutturante è esaltato a
discapito della corretta interpretazione dei canoni formali classicisti54.
Una distanza da questi ultimi si ritrova anche nelle realizzazioni in cui poca attenzione è
rivolta ai singoli elementi definenti la struttura architettonica della custodia. In questo secondo caso,
la poca dimestichezza con le debite proporzioni tra i capitelli e le colonne, o tra le trabeazioni e i
sostegni, porta l’intagliatore a realizzare opere in cui è ravvisabile una armonia non legata ai singoli
elementi ma al rapporto che si viene a creare tra il tabernacolo e l’altare che lo ospita, nonché tra
questo e la chiesa55.
Questi elementi, apparentemente negativi, rendono però le custodie cappuccine espressioni
assolutamente tipiche e sottolineanti la scelta di “povertà”, in questo caso “culturale” dell’Ordine.
Riallacciandosi un attimo alle esortazioni di P. Antonio da Pordenone, circa l’atteggiamento da
avere, da parte dei frati, nei confronti del corretto uso degli ordini architettonici, si può asserire con
estrema certezza che, almeno per quanto riguarda i tabernacoli, l’esortazione è stata seguita
pedissequamente. Nulla di più anticlassico è ravvisabile nei cibori in questione. Appartenenti con
certezza ad una cultura formale tardo manierista, i tabernacoli, mantengono inalterato il loro non
rapporto con la cultura ufficiale rimanendo sempre identici a loro stessi, non cedendo mai in modo
eclatante alle suggestioni formali in voga ma, piuttosto, seguendo una strada parallela che vede una
continua evoluzione all’interno di essi stessi. Così, se ad un occhio profano, appare impossibile
riconoscere qualità formali datanti diversamente le singole opere; allo stesso modo, attraverso una
attentissima operazione comparativa, si possono evidenziare con un largo margine di certezza,
gruppi di tabernacoli appartenenti a determinate aree geografiche e differentemente databili56.
IV. I TABERNACOLI CAPPUCCINI DELLA CALABRIA
In Calabria, le opere trattate sono tutte relative al periodo compreso tra la fine del XVII
secolo e la metà di quello successivo. Opere la cui qualità formale spesso è altissima e di cui è
possibile anche, per eventi totalmente fortuiti, riconoscerne la paternità o, in casi specifici, avanzare
una ipotesi di bottega57. All’interno di questi manufatti, grazie anche alla possibilità di
54
Vedi nota precedente; in questo caso si evidenzia come l’attenzione verso il fatto decorativo policromo porti ad una
minore intelligenza dell’insieme architettonico che sembra fare da supporto alla decorazione.
55
Vedi nota precedente. In questo caso la minuziosa decorazione dei singoli elementi realizzanti la piccola architettura
interviene a sviare l’artefice dal corretto modo di usare gli elementi architettonici e di creare un giusto dialogo
proporzionale tra essi. Il risultato è che il tabernacolo risulterebbe goffo e sproporzionato se estrapolato dal contesto per
il quale era stato originariamente concepito. Per esempi concreti, vedi oltre nel testo.
56
Vedi oltre nel testo.
57
Lo studio analitico dei singoli manufatti ha permesso di estrapolare il gruppo di opere firmate da una serie di altri
cibori, tradizionalmente attribuiti a nomi famosi (uno fra tutti fra Ludovico da Pernocari, come si vedrà oltre nel testo),
e, principalmente, a riconoscere l’appartenenza a diverse e ben riconoscibili personalità guida. Attraverso queste,
inoltre, i tabernacoli sono stati classificati in due macrofamiglie:attuale Provincia Reggina e Provincia Cosentina,
riconducendo i primi alla vastissima compagine decorativo – architettonica di provenienza sicula, mentre riconoscendo,
17
comparazione con simili opere in altre parti d’Italia, si notano almeno due tendenze specifiche
relative al secolo XVII e al secolo XVIII58. I tabernacoli secenteschi presentano, infatti, un forte
sviluppo in ampiezza, un allargamento della base a discapito della profondità e dell’altezza,
denunciando un poco accentuato sviluppo verticale59. Le opere settecentesche, al contrario,
presentano uno straordinario sviluppo in altezza, con aggiunta di piani rastremati verso l’alto,
maggior rapporto con l’atmosfera e con la luce, attraverso un sapiente gioco chiaroscurale operato
attraverso chiaroscuri violenti, balaustrate e forti aggetti60.
I tabernacoli settecenteschi sono, indiscutibilmente, i più preziosi e i più vicini, inoltre, ad
una attenzione maggiore per la perfetta armonizzazione tra le parti e il tutto e ad esse sono legati i
pochi nomi di artisti che si conoscono, così come è possibile ravvisare all’interno della vasta
compagine di custodie in possesso, almeno quattro botteghe legate ad alcune figure cardine,
riconosciute come magistrali61.
All’interno della regione, al giorno d’oggi divisa in due province monastiche: Reggio
Calabria – Catanzaro e Cosenza, nonostante il patrimonio figurativo e architettonico sia stato
disperso a causa sia dell’incuria atavica locale e delle soppressioni che, principalmente, per i
terremoti frequenti e violentissimi, si conservano 24 tabernacoli quasi tutti relativi al XVIII secolo,
e catalogabili in almeno quattro tipologie distinte, relative alle differenti aree geografiche in cui si
trovano: Area del Pollino; Area del versante medio tirrenico; Area medio cosentina; attuale
Provincia monastica di Reggio Calabria – Catanzaro62.
All’interno delle varie aree è ancora ravvisabile l’operato di alcuni personaggi di maggior
spicco e fama, spesso a capo di vere e proprie botteghe e i cui nomi sono rimasti avvolti in un’aura
mitica (almeno per quanto riguarda le opere della Provincia reggina).
per il secondo gruppo, in cui sono evidenziabili almeno tre sottogruppi, specificità proprie e contatti con le botteghe
artigiane laiche della zona di Rogliano Calabro.
58
Tale classificazione è affiancabile a quella vista per le altre Province cappuccine d’Italia; cfr: G. Santarelli, Opere di
ebanisteria presso i Cappuccini delle Marche, in Collectanea Franciscana, 63 (1993); G. Santarelli, I Tabernacoli
lignei dei Cappuccini delle Marche…, op. cit.; F Caroselli, I Tabernacoli lignei…, op. cit.
59
Non pare esistano in Calabria opere risalenti al XVII secolo. Nonostante ciò si ravvisa nel tabernacolo di Reggio
Calabria, il più antico della serie, una tendenza alle forme monumentali, in altre parti d’Italia datanti le opere al 1600.
60
La tendenza al verticalismo sempre più pronunciato, all’alleggerimento dei piani in altezza e il gioco chiaroscurale
provocato da aggetti, elementi scultorei, balaustrate si nota in tutti i manufatti che si stanno trattando. Proprio su questa
base è stato possibile classificare, inoltre, le tipologie cui prima si accennava.
61
Vedi nota 57. Tutti i fratelli laici autori dei cibori di cui si è tramandata la memoria appartengono al XVIII secolo.
Vedi oltre nel testo. Le “pseudo botteghe” di cui si fa menzione si raccolgono attorno alle figure di fra Ludovico da
Pernocari, fra Luca da Mormanno, e fra Lorenzo da Belmonte; vedi oltre nel testo.
62
La distinzione in aree è stata operata per facilitare il lavoro di classificazione e non tiene conto né degli unica presenti
nei territori classificati (i tabernacoli di Corigliano e di San Giovanni in Fiore), né della presenza di artisti provenienti
da aree diverse che, spostati altrove, lasciano opere stilisticamente estranee al luogo per il quale furono realizzate. È il
caso del tabernacolo di Oriolo che, nonostante si trovi nell’Area orientale del Pollino, rientra nel novero delle
realizzazioni riscontrabili in area medio tirrenica. Per ulteriori precisazioni vedi oltre nel testo.
18
Ci si riferisce, per la Provincia reggina, a fra Salvatore da Monteleone, fra Giuseppe da
Chiaravalle e fra Filippo da Badolato (XVII sec.) 63, e a fra Domenico da Pernocari, fra Ludovico da
Pernocari, fra Francesco da Chiaravalle (XVIII sec.)64. Operanti nella provincia di Cosenza sono:
fra Luca da Mormanno, fra Gregorio da Mormanno, fra Giovanni da Belvedere Marittimo, fra
Francesco Maria da S. Giovanni in Fiore, fra Felice Maria da S. Giovanni in Fiore, fra Bernardo da
Sant’Agata, fra Lorenzo da Belmonte Calabro (tutti appartenenti al XVIII secolo)65. A questi
personaggi, e principalmente allo loro “botteghe” o aiutanti, sono dovuti i cibori più importanti
della regione, seppur spesso non sia facile assegnare ai nomi le rispettive opere.
La memoria dei suddetti fratelli intagliatori si è perpetrata anche grazie alla firma (o alla
citazione), di questi apposta sul manufatto. Proprio per quest’ultimo motivo per lungo tempo si è
erroneamente attribuito a personaggi di spicco (come, per la Provincia di Reggio, Ludovico da
Pernocari), la maggior parte dei tabernacoli dell’intera area, a discapito di una vera e propria analisi
dei manufatti volta quindi anche alla evidenziazione non solo dei singoli autori ma anche delle più
sfaccettate correnti66.
In linea di massima infatti, se è vero che i tabernacoli rispondono a linee di gusto ben
precise e comuni a tutto il mondo cappuccino (grazie anche alla facilità di spostamenti che i frati
avevano e alla enorme fama acquisita da alcuni di essi, come gli intagliatori trapanesi operanti
persino nell’Emilia), è anche vero che la provincia di Cosenza presenta una serie di caratteristiche
che le sono proprie. Queste specificità permettono una chiara distinzione rispetto alle opere della
Calabria meridionale, ove si assiste ad una maggiore esuberanza decorativa, maggiore inventiva e
maggiore sensibilità cromatica e, soprattutto, si nota un diverso modo di concepire il rapporto tra
tabernacolo – altare maggiore e coro retrostante.
I tabernacoli cosentini presentano, tutti, un alto basamento su cui si apre una finestra
incorniciata da volute lignee, in diretto contatto con l’apertura retrostante il dossale dell’altare su
cui il ciborio insiste e, quindi, con l’armadio – sacrestia posto nel coro. Tale particolarissima
63
Dal frammentario Necrologio per la Provincia di Reggio Calabria custodito presso l’Archivio Provinciale di
Catanzaro: 24 gennaio:<Fra Salvatore da Monteleone e fra Giuseppe da Chiaravalle. Maestri d’ascia, realizzarono
opere in legno nel luogo nuovo di Catanzaro nel 1680. Fra Felice da Badolato, laboriosissimo artigiano, eseguì
utilissimi lavori: lampadari per la chiesa, cornici per quadri, etc etc.>.
64
Dal Necrologio per la Provincia reggina, al 24 Marzo: <Fra Ludovico da Pernocari (1680) e fra Francesco da
Chiaravalle, realizzarono dal 1742 al 1752 preziosi tabernacoli lignei>. Le datazioni, alla luce delle ultime ricerche sui
manufatti lignei, appare imprecisa, ritrovandosi la firma di Ludovico da Pernocari sul tabernacolo di Reggio Calabria
(1710) e di Gerace (1720).
65
In G. Leone, Necrologio…, op.cit.
66
Vedi note 57 e 61.
19
situazione permetteva una totale permeabilità, tra la chiesa e il coro dei frati, proprio attraverso il
tabernacolo67.
Questo modo di concepire e realizzare il rapporto tra i due luoghi del coro attraverso il
tabernacolo non si ritrova nelle opere della provincia reggina, le quali sembrano seguire linee
formali più legate all’esuberanza di stampo siciliano e, principalmente, ruotano attorno alla figura
chiave di fra Ludovico da Pernocari, autore riconosciuto delle opere più alte, da un punto di vista
qualitativo, della provincia68.
Le notizie riguardo fra Ludovico da Pernocari, sono quanto mai frammentarie e legate solo
alla memoria che di esso ci è stata tramandata, tramite i cibori da lui realizzati. Si tratta infatti dei
rari casi in cui si è di fronte ad esempi di opere firmate da un fratello laico dell’Ordine e, già solo
questa particolare evenienza basta per far comprendere la fama raggiunta dall’artigiano, all’interno
della Provincia. Il nome di fra Ludovico è spesso accompagnato da quello di fra Domenico da
Pernocari o da Francesco da Chiaravalle, che compare come “collaboratore”, e si ritrova nei
tabernacoli di Reggio Calabria, Gerace e Nicastro, mentre echi dell’arte di questi sono ravvisabili
anche nella custodia di Vibo Valentia in quella di Rombiolo e di Tropea69.
A parte le scarne notizie riportate dal Necrologio della Provincia reggina, null’altro si sa del
frate intagliatore, e tutto ciò che è possibile asserire, circa il suo excursus artistico, è solo
ipotizzabile sulla base di una lettura critica della opere rimaste.
Cronologicamente i cibori di fra Ludovico da Pernocari, che occupano almeno tre quarti
dell’intero XVIII secolo, sono da collocarsi secondo questa sequenza:
1- Reggio Calabria (1710)
2- Gerace (1720),
3- Nicastro (1742).
Nella lettura stilistica delle quattro custodie sicuramente di mano del frate, si nota una
tendenza al continuo affinamento delle forme, alla verticalità sempre più denunciata e ad una più
chiara vibrazione cromatica della superficie, dovuta alla, sempre maggiore perizia circa l’uso delle
diverse essenze lignee giustapposte. Una sorta di affinamento del gusto e della manualità è anche
ravvisabile nella trattazione dell’intaglio, in particolar modo nei capitelli e negli imoscapi delle
colonne, come anche nelle cornici e negli aggetti, in cui, principalmente nel tabernacolo di Nicastro,
67
Tale particolarità è di grande interesse per la storia dell’architettura cappuccina in Calabria ove, si è visto, il vecchio
coro perde totalmente la sua originaria destinazione d’uso. Per questi problemi vedi: A. Spanò, L’arte dell’Ordine
Cappuccino. Primi passi …, op. cit; idem, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce…, op. cit.
68
cfr. nota 57, 61, 65.
69
I tre tabernacoli sono sempre stati tradizionalmente attribuiti a fra Ludovico. La serie di incongruenze stilistiche e
decorative però, porta a escludere la diretta paternità per accettare, piuttosto, l’attività di aiuti del riconosciuto maestro.
Vedi oltre nel testo.
20
si assiste a realizzazioni di altissima qualità, con un controllo pressoché totale delle singole parti e
del tutto.
Affiancati alla figura di fra Ludovico sono gli altri due artigiani intagliatori di cui si è già
accennato: fra Francesco da Chiaravalle e fra Domenico da Pernocari (la cui unica esistenza è
ricavabile solo dall’iscrizione riportata dietro il tabernacolo di Reggio Calabria)70.
Attraverso una indagine stilistica è possibile ravvisare l’operato di fra Francesco di
Chiaravalle nel ciborio custoditi nella chiesa di Vibo Valentia (post 1742) . Nell’opera vibonese le
distanze dalle opere di fra Ludovico sono enormi, circa il diverso modo di intendere le superfici,
con il ricorso a listelli colorati e, principalmente, circa le dimensioni in scala molto ridotta,
dell’opera nel suo insieme71.
La figura di fra Domenico da Pernocari, pur non essendo citata nel frammentario necrologio,
si ritrova accanto a fra Ludovico nel tabernacolo di Reggio Calabria. Poco o nulla si conosce del
frate intagliatore la cui presenza è sempre stata offuscata da quella del maestro. Ciò nonostante
attraverso il presente studio si è avanzata l’ipotesi di attribuire ad esso i cibori di Rombiolo (173439) e di Tropea. In essi si nota il perpetuarsi di uno schema compositivo ancora legato alle
realizzazioni protosettecentesche e distanti dagli sviluppi in senso atmosferico e cromatico di
Ludovico da Pernocari.
Accanto a questi tre personaggi, le cui opere rimangono comunque circoscrivibili al XVIII
secolo, compaiono altre figura di frati intagliatori, i cosiddetti “maestri d’ascia”: fra Salvatore da
Monteleone e fra Giuseppe da Chiaravalle che, intorno al 1680, realizzarono lavori in legno a
Catanzaro, ma di cui non si ha alcuna memoria72; e fra Felice da Badolato, citato quale
“laboriosissimo artigiano” la cui memoria è affidata a cornici in legno, lampadari e altre opere per
la chiesa, ma di cui non si conosce neanche la data della morte73.
La situazione appare meno frammentaria per quanto riguarda la provincia monastica di
Cosenza. Qui, attraverso il necrologio e ad una vasta serie di notizie, seppur sparse, raccolte da P.
Giocondo Leone, è possibile isolare alcune figure di spicco, tra i fratelli laici intagliatori, cui sono
dovute opere lignee ancora in buono stato, conservate nei conventi o in altre chiese o istituzioni
laiche, della provincia74.
70
Vedi oltre nel testo.
Per la descrizione attenta vedi oltre nel testo.
72
Vedi nota 63.
73
Vedi nota 63.
74
A padre Giocondo Leone oltre al già citato Necrologio (vedi nota 51), è dovuta la pubblicazione di importanti testi
per la storia dei conventi e della Religione Cappuccina in Calabria tra cui I cappuccini e i loro 37 conventi in provincia
di Cosenza, I - II, Cosenza 1986; Priorità storica calabrese nella Riforma Cappuccina desunta dalle fonti dell’Ordine,
Cosenza 1998; Storia dell’attuale Convento e Chiesa dei Cappuccini a Cosenza (detto della Riforma), Soneria Mannelli
(CZ) 1998; Biblioteca Cappuccina “SS.mo Crocifisso” di Cosenza, Soneria Mannelli (CZ) 2000; I Cappuccini a
Rossano, Soneria Mannelli (CZ) 2000
71
21
Dal necrologio si ricavano notizie circa Luca da Mormanno, che nel 1711 con l’aiuto di fra
Giovanni da Belvedere Marittimo, costruisce la custodia di Morano Calabro75, di fra Gregorio da
Mormanno autore, entro il 1756, della custodia conservata nella chiesa dei cappuccini di
Mormanno76, di fra Francesco Maria da S. Giovanni in Fiore alle prese con la custodia di San
Giovanni77, quindi di fra Felice Maria da San Giovanni in Fiore, artefice dell’Armadio della
sacrestia della chiesa cappuccina locale (1762)78. In ambito roglianese-cosentino si evidenziano le
figure di Lorenzo da Belmonte Calabro, autore, entro il 1756, del tabernacolo di Rogliano79, e
Bernardo da S. Agata, che nel 1740 firma la custodia di Paola80.
Nonostante i nomi tramandati, per la provincia di Cosenza, siano in numero maggiore, non è
così per quanto riguarda invece le notizie biografiche dei frati intagliatori. Di questi non si conosce
pressoché nulla, a parte l’epoca in cui sono vissuti, e solo attraverso una indagine stilistica è
possibile ritrovare echi formali in opere non datate né firmate.
Infatti alla personalità di Luca da Mormanno non solo si deve l’opera che, da documenti,
risulta essere realmente creata dallo stesso, ma anche la nascita di una tipologia di un tabernacolo
affatto tipico, in cui lo schema centrale si sviluppa partendo da un disegno pseudo cruciforme di
base, sviluppandosi in senso piramidale. Su questa base è possibile isolare una tipologia ben precisa
di tabernacoli collocati nell’Area del Pollino cui appartengono il suddetto tabernacolo di Morano,
quello di Mormanno e quello di Acri.
Ad una tipologia ben diversa, invece, rispondono i tabernacoli, non firmati né datati,
dell’Area medio cosentina: Paola, Castrovillari, Rossano, Luzzi, Cassano Jonio. Lo schema che si
ripete presenta, infatti, uno sviluppo piramidale su base poligonale (pseudo – esagonale), con
tendenza ad un allargamento della parte basamentale.
Una terza corrente artistica particolarmente interessante per l’attenzione per il fatto plastico
e la monumentalità accentuata del tempietto, è quella cui posso essere ascritti i tabernacoli
dell’Area del medio Tirreno: Rogliano, Castiglione Cosentino, Orsomarso, Oriolo, Cetraro. I cibori
suddetti non sono datati né firmati (a parte quello di Rogliano, dat. 1752), e sono databili al pieno
75
G. Leone, Necrologio… op. cit., al 4 marzo: <Giovanni da Belvedere Marittimo, fratello non chierico. Frate artista,
collaborò alla costruzione della custodia dell’altare maggiore della nostra chiesa di Morano calabro nel (4 marzo)
1711>, 64; al 13 agosto:< Luca da Mormanno, fratello non chierico. Frate artista, costruì il tabernacolo della nostra
chiesa di Morano Calabro nel (13 agosto) 1711>, 231.
76
Idem, al 27 gennaio: <Gregorio da Mormanno, fratello non chierico. Frate artista, costruì la custodia dell’altare
maggiore della nostra Chiesa di Mormanno ove, poi, finì di vivere il 27 gennaio 1756>, 27.
77
Ibidem, al 4 maggio: <Francesco – Maria da S. Giovanni in Fiore, fratello non chierico. Costruttore della Custodia
dell’altare maggiore della nostra chiesa si S. Giovanni che porta la data (4 maggio) 1762>, 126.
78
Ibidem, al 28 marzo; < Felice Maria da S. Giovanni in Fiore, fratello non chierico. Costruì l’armadio della sacrestia
della nostra chiesa in S. Giovanni in Fiore sul quale, con la firma appose l’anno (28 marzo) 1762>, 88.
79
Ibidem, al 7 luglio: <Lorenzo da Belmonte Calabro, fratello non chierico. Frate artista, in Rogliano costruì la
cappella maggiore ed il tabernacolo della nostra chiesa. Era ancora vivo il 7 luglio 1756>, 194.
80
Ibidem, al 21 giugno: <Bernardo da S. Agata d’Esaro, fratello non chierico. Messo in evidenza, vivente, nel (21
giugno) 1740>, 178. Per la paternità del ciborio di Paola si veda oltre nel testo.
22
1700, grazie alla particolare esuberanza plastica decorativa, vicina alle opere dei decoratori
roglianesi settecentesche81.
Un gruppo di tabernacoli costituenti un insieme di “unica”, raccoglie i manufatti di San
Giovanni in Fiore e di Corigliano.
All’interno di questa classificazione si notano somiglianze a livello di gusto decorativo che
legano le tipologie, or ora evidenziate, concorrendo alla sottolineatura di una matrice culturale
comune e, per estensione, a sua volta classificabile come “cappuccina”, per la chiara aderenza ad un
linguaggio oramai chiaramente definito82.
Per poter operare una distinzione su basi scientifiche, quindi una classificazione che non sia
una mera distinzione su base geografica, dei singoli cibori sparsi per la Calabria, si affronta, a
questo punto, la disamina attenta delle opere raggruppandole in base alle province di appartenenza.
V. PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA – CATANZARO
1. Tabernacolo di Fiumara di Muro.
Conservato, nella cappella del SS. Sacramento della chiesa del convento di Reggio Calabria,
il tabernacolo proviene dal convento di Fiumara di Muro (1532- 34), presso il capoluogo reggino,
ormai in fase di quasi totale distruzione. L’opera, restaurata ultimamente dall’Istituto Frangipane di
Reggio Calabria, si pone quasi come una sorta di unicum nel contesto dei tabernacoli della
provincia di Reggio-Catanzaro, presentando pochissime affinità con le opere che si andrà ad
analizzare83. Poche somiglianze si ritrovano persino con il tabernacolo di Reggio Calabria,
conservato nel medesimo complesso conventuale che, pur riproponendo il tema della cupola
estradossata con nervature, per il modo di concepire l’intera struttura e le decorazioni appartiene,
indiscutibilmente, ad un diverso ambiente artistico.
81
Si rammenta dell’esistenza a Rogliano di rinomatissime botteghe artigiane dedite all’intaglio e all’intarsio ligneo che
hanno abbellito moltissime chiese dell’area cosentina in tutto il ‘700.
82
Vedi nota 13.
83
La relazione del restauro si conserva presso il Convento dell’Eremo dei Cappuccini a Reggio Calabria. In essa si
ripercorrono le fasi del restauro conservativo preceduto da una ripulitura della superficie lignea totalmente ricoperta da
oli e polveri di varia natura e di consistenza bituminosa. Il manufatto appariva pesantemente attaccato da tarli silofagi,
mancante di molti elementi decorativi a rilievo e su tutta la superficie si riscontravano evidenti lesioni di fessurazione. Il
restauro è intervenuto alla ripulitura e disinfestazione dell’intero manufatto, alla reintegrazione delle parti mancanti e al
consolidamento delle parti tettoniche. Per ulteriori notizie di carattere tecnico si veda la relazione: Restauro di un
manufatto ligneo del ‘700 proveniente dal Convento di Fiumara di Muro di Reggio Calabria, a cura dell’Istituto Statale
d’Arte di Reggio Calabria.
23
Infatti, al tabernacolo di Fiumara sono assolutamente estranee le decorazioni policromatiche
realizzate con l’uso dell’avorio, dell’ebano e della madreperla, prediligendo, invece l’esaltazione di
una monocromia di base in cui la vibrazione coloristica è affidata solo ai due tipi di essenze lignee
usate: la noce e il ciliegio. La struttura tettonica del piccolo monumento, le cui dimensioni sono
poderose, raggiungendo i circa 190 cm di altezza, ripropone lo schema della turris che si conclude
in alto con una sorta di terrazza balaustrata dietro la quale svetta la cupola. La “torre”, composta da
un basamento che ospita la custodia vera e propria, e da due piani le cui facce sono bucate da
nicchie più o meno profonde e i cui angoli sono rafforzati da pesanti contrafforti davanti ai quali si
pongono gruppi di colonne, si erge secondo uno schema parallelepipedo. Tale particolare soluzione
evita l’andamento piramidale dell’alzato, pur mostrando una volontà di alleggerimento verso l’alto
attraverso il rimpicciolimento delle colonne e il relativo assottigliarsi delle trabeazioni. Di
particolare interesse sono sia le decorazioni a tarsia, proponenti immagini legati alla passione di
Cristo che le modanature architettoniche. Queste ultime sono chiaramente legate a schemi
manieristi o protobarocchi, atti alla esaltazione della pura forma a discapito delle eventuali leggi
statiche basilari per qualsiasi realizzazione architettonica. La piccola monumentale architettura del
tabernacolo di Fiumara, infatti, presenta una serie di volute di coronamento del piano superiore che,
riprendendo lo schema del timpano spezzato, si affrontano in maniera innaturale, non lontane dalle
realizzazioni fantastiche manieriste di ambito fiorentino. Tale citazione, insieme ai chiari riferimenti
alle Costituzioni francescane, circa l’uso del solo legno anche per le opere di grande valore
simbolico, permette di avanzare l’ipotesi di una datazione piuttosto alta per l’opera.
Purtroppo la mancanza di qualsivoglia dato documentario sulle vicende del tabernacolo in
questione, nonché del convento di Fiumara, non consentono di ipotizzare altro circa la datazione e
la paternità del manufatto. Il campo rimane quindi aperto, considerando anche la totale
decontestualizzazione del tabernacolo e quindi, l’impossibilità di leggere il rapporto che si
instaurava tra questo e l’altare maggiore, con la magnifica pala d’altare, che lo ospitava.
2. Tabernacolo di Reggio Calabria.
Il Tabernacolo è custodito nella cappella del convento dell’Eremo di Reggio Calabria ed è
firmato e datato sul retro, così come attesta la seguente epigrafe in corsivo incisa a fuoco sul
tavolato:
Questo tabernacolo fu fatto da F. Lo/dovico e F. Domenico da Pernocari, capuc: in tempo
della Guardiania del P. Antonio da S. Agata e terminato in tempo del P. M. R. ex Prov. Lodovico di
S. Agata. 1710.
Ancora, una iscrizione sottostante la precedente afferma che:
24
Questo tabernacolo fu restaurato da Francesco Rossetti da Vibo Valentia per disposizione
del M. P. P. Giustino Papa ex Prov. e attuale superiore del convento di Reggio Calabria. Vibo
Valentia 1983.
Tra i più antichi cibori conservati, esso si pone tra le opere certamente realizzate da
Ludovico da Pernocari.
A prescindere dalla iscrizione sul retro dell’opera, che la data al 1711, da una analisi
stilistica la datazione alta appare assolutamente ipotizzabile al confronto con gli altri manufatti
dovuti fra Ludovico.
Per quanto sia frammentario (manca infatti almeno il basamento e, forse il secondo ordine di
raccordo con la cupola), il tabernacolo è abbastanza ricostruibile e, pertanto, si pone
indiscutibilmente tra le opere legate alla cultura dell’intaglio e dell’intarsio ligneo, di area
cappuccina. Il ciborio sviluppa la forma del tempietto a pianta pseudocentrica, legata alla tipologia
caratteristica delle custodie tardocinquecentesche, poco accogliendo gli sviluppi in senso barocco
della plastica e mostrando, principalmente, una tendenza all’allargamento della base a discapito
della forte tensione verticale, che si riscontra nelle opere più tarde.
Ciò, se è riscontrabile immediatamente, considerando la frammentarietà dell’opera, ad una
ricostruzione ipotetica torna a imporsi in modo preponderante specialmente analizzando il rapporto
tra basamento e membrature architettoniche, tendenti queste ultime, non ad alleggerire il tempietto
in altezza ma ad evidenziare la struttura degli angoli del prisma.
Il tabernacolo, a base semiottagona, si sviluppa in altezza partendo da un piccolo basamento,
probabilmente in origine poggiante su un podio, su due ordini sovrapposti, di cui il secondo molto
arretrato rispetto al primo, e coronati da una cupoletta a cipolla sormontata da una croce.
Su un’ossatura in legno chiaro si svolgono, secondo una tendenza a ricoprire tutte le
superfici disponibili, decorazioni geometriche e floreali ad intarsio, con largo uso di ebano, ciliegio,
mogano, acero, bosso e minutissime decorazioni in madreperla e avorio.
Sia il primo che il secondo ordine, esaltano il fronte principale su cui, al primo piano, si apre
la porta della custodia propriamente detta, e evidenziano gli angoli con l’uso di cantonali rinforzati
da lesene, davanti alle quali si pongono gruppi di colonnine, reggenti una trabeazione monumentale
in ebano e intarsi. Il piccolo basamento su cui poggiano i sostegni è decorato da intarsi lignei a
formare losanghe con piccoli motivi geometrici.
La decorazione ad intarsi eburnei e sfruttante l’elemento cromatico proprio delle diverse
essenze lignee usate, entra a sottolineare le parti simbolicamente più importanti della costruzione e
ad alleggerire, attraverso una sapiente frammentazione luministica, la pesantezza delle singole
membrature. Accanto all’intarsio anche l’intaglio interviene a frammentare la superficie lignea nella
25
minuziosa definizione dei capitellini corinzi, delle basi e delle cornici. A tale effetto finale concorre
anche a partizione architettonica dei fianchi che ospitano edicole trabeate rette da colonnine
decorate, all’interno delle quali si pongono nicchie semicircolari originariamente ospitanti statuine.
Tra gli elementi che principalmente si pongono all’attenzione è isolabile la porta centrale
della custodia, d’accesso ossia al luogo ove, fisicamente, si conserva l’Ostia consacrata.
Proprio per evidenziare l’importanza che riveste l’accesso, la porta, decorata con la figura in
madreperla di un ostensorio, supera dimensionalmente qualsiasi altro elemento dell’intero ciborio
ed è esaltata da cornici a minutissimi intarsi geometrici in avorio ed ebano.
La cupola finemente intarsiata a motivi fitomorfi, elemento che corona il tutto, si diparte da
una pianta rettangolare con angoli smussati denuncianti tutta la loro tridimensionalità (a differenza
del ciborio che sviluppa solo la parte visibile dell’ottagono intuibile come matrice geometrica), e si
erge al di sopra di un triplice tamburo, decorato con intarsi geometrici con legni di diversa
colorazione e reso più agile e leggero da balaustre con colonnine tornite.
Medesime balaustre si ritrovano nel punto di raccordo tra il primo e l’attuale secondo ordine,
concorrendo alla frantumazione luministica verso l’alto, cui già si accennava precedentemente.
L’importanza della faccia centrale dell’intero ciborio, se al piano inferiore è evidenziata
dalla porta di accesso, al piano superiore è sottolineata dall’inquadratura della nicchia in un piano
bugnato a diamanti molto sporgenti. Questa particolarità, unica tra i cibori calabresi, sancisce la
datazione alta dell’opera, legandola ancor più a schemi architettonici monumentali.
Del contesto in cui il tabernacolo si inseriva, purtroppo non è pervenuto nulla per cui è
impossibile comprendere in che modo esso entrasse in rapporto con l’altare maggiore e, quindi, con
la chiesa. Analogie con altri complessi monumentali lignei, dovuti sia a Ludovico da Pernocari che
ad altri fratelli laici possono, far pensare alla progettazione di una sorta di macchina scenica unitaria
ma, anche alla luce di attenti studi stilistici sui fastigi degli altari, pare non fosse sempre così
immediato il nesso tra l’ancona, la mensa e il tabernacolo, per cui, in mancanza di documentazione
non si avanza alcuna ipotesi in merito84.
3. Tabernacolo di Gerace
84
Non si ha alcuna documentazione in merito all’opera, a parte le citate iscrizioni sul retro della stessa. Ciò perché il
convento di Reggio Calabria. Oltre a subire danni ingenti a causa delle soppressioni, è stato più volte danneggiato a
causa dei terremoti e definitivamente raso al suolo il 28 dicembre 1908. Dalle frammentarie notizie storiche riportate
nei testi di P. Securi, Memorie storiche dei Cappuccini di Reggio Calabria, Reggio Calabria, 1885 e di quello di R. Le
Pera, I Cappuccini in Calabria e i loro 85 conventi, Chiaravalle C.le, 1982; nulla si ricava circa le vicende ante e post
sisma sia del Convento che delle opere d’arte in esso conservate.
26
L’opera, appartenente al convento dei cappuccini, in perenne fase di restauro, è adesso
ospitata dal Museo Diocesano di Gerace, in attesa di essere ricollocato nella chiesa di Santa Maria
delle Grazie, da cui proviene85.
Considerato sempre contemporaneo all’altare maggiore che lo ospitava il ciborio è firmato e
datato da fra Ludovico da Pernocari, come ripete l’iscrizione a caldo che si trova sul retro:
FF. LUDOVICUS A PERNOCARI CAPUCC TABERNACULUM HOC FECIT ANNO 1720.
Guardiano existente. Pr[…] Anselmo a Stilo. Eiusdem ord. Con[…]tore. Laus Deo.
Il tabernacolo, oggetto di restauro a cura dell’Istituto Frangipane di Reggio Calabria, ripete
motivi tipici della scultura e dell’intaglio ligneo di ambienti cappuccini, proponendo, anch’esso un
largo uso di avorio, ebano e madreperla per minutissime decorazioni che investono pressoché tutte
le superfici disponibili. L’ossatura del piccolo monumentale tempietto è in legno di noce, mentre la
presenza di bosso, ciliegio, mogano e abete si ritrova laddove c’è la necessità di proporre una
policromia e una serie di decorazioni.
Così come l’opera è pervenuta, molto frammentaria, decontestualizzata e mancante di
almeno due parti sostanziali e della lanterna di coronamento della cupola, è difficile immaginare la
forza dell’impatto che essa provocava qualora fosse posta sull’altare maggiore. Ciò nonostante, il
ciborio è da includere tra i più raffinati tra quelli presenti nella Calabria meridionale e vicino al
capolavoro della maturità del frate Ludovico da Pernocari: il ciborio di Nicastro.
Composto, adesso, di un basamento e due ordini sovrapposti al di sopra di esso, e concluso
da una cupoletta a cipolla molto schiacciata ai lati, il tabernacolo appare tozzo nelle proporzioni,
seppur risulti forte la spinta verticale dell’insieme e, ad un attento studio del manufatto, si è notata
la mancanza di un ordine intermedio tra il primo l’attuale secondo, del tamburo della cupola oltre
che della lanterna e della croce alla sommità. La presenza di elementi di raccordo posteriori,
pesantemente incisi con motivi fitomorfi, che si ripetono sui due piani superstiti, nonché quella di
grandi mensole rovesciate poste lungo gli angoli del basamento, reggenti il primo ordine, pongono
l’opera cronologicamente distante da quella di Reggio Calabria e non scevra da influenze da parte
dell’area cosentina. A questa vicinanza concorre anche la presenza della specchiatura centrale del
basamento che, molto ricorrente nella provincia di Cosenza, è pressoché inesistente al sud della
Calabria.
Il tabernacolo presenta un compendio di decorazioni fitomorfe, geometriche e astratte
realizzate con giustapposizione di essenze lignee diverse, di avorio e madreperla con ebano, che
investe, smaterializzandole, tutte le superfici, dalle colonne, ove si rende in modo bidimensionale
85
Per un’ampia disamina dei problemi relativi al Convento di Gerace si veda: V. De Nittis, Il convento dei Cappuccini
e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gerace, in Quaderni del dipartimento Patrimonio Architettonico e
Urbanistico, Università degli Studi di Reggio Calabria, 11-12, 1996, 53-70 e Idem, … in Studi Calabresi, 1 (2001),
27
l’andamento spiraliforme, alle cornici e fregi delle possenti trabeazioni. Mancano elementi scultorei
antropomorfi, seppur la quantità di intaglio sia notevole e non sempre di qualità eccelsa (si veda
l’approssimazione nella realizzazione dei capitelli).
La forma del ciborio ripropone quella semiottagonale, con una tendenza chiara, però, a
sottolineare la visione frontale, evitando l’accentuazione della divergenza dei fianchi, dal fronte
centrale. Su questo si apre la porta della custodia, al primo ordine, inquadrata da coppie di
colonnine e sormontata da un arco a tutto sesto. La porta, rettangolare, è decorata, secondo la più
canonica tradizione cappuccina, da un ostensorio in madreperla e radica. Nicchie non inquadrate da
edicole timpanate, come avveniva a Reggio, si aprono lungo i fianchi e la medesima partizione si ha
al secondo ordine. Qui in asse con la porta della custodia sottostante, trova posto un nicchione a
tutto sesto con interno decorato a fasce bicrome, estradosso decorato a motivi geometrici e con base
circolare sporgente dal perimetro della parete e retta da mensolina a trottola in ebano.
La cupoletta, che finalmente realizza concretamente la pianta centrica, essendo a base
quadrata, è decorata con larghi motivi fitomorfi e astratti. La mancanza della lanterna di
coronamento e del tamburo la rende arretrata rispetto al piano limite del manufatto e poco visibile,
concorrendo ad una errata intelligenza dell’immagine originale del ciborio.
Il tabernacolo, benché si ponga in modo ingombrante nella serie dei cibori cappuccini, come
opera della maturità di fra Ludovico da Pernocari, mostra evidenti segni di poca familiarità con
l’ambiente artistico circostante, rappresentando, di fatti, un esempio lampante di arte monastica. Ciò
è denunciato dalla poca attenzione riservata non solo al rilievo dei capitelli ma anche dalla evidente
sproporzione che c’è tra questi e i sostegni, insieme ad un esasperato ingigantimento delle
trabeazioni o al ricorrere, nonostante si operi nel 1720, ad elementi di raccordo a motivi fitomorfi di
chiaro sapore manierista e barocco.
La somiglianza con l’opera reggina appare, anche in questo caso, abbastanza stringente,
seppur a Gerace si assista ad un abbandono dello schema a tempietto cupolato per una tendenza alla
verticalità maggiore, denunciato soprattutto dall’andamento cuspidato della copertura a pagoda.
Circa l’originaria contestualizzazione dell’opera, si pongono, anche in questo caso, problemi
legati alla mancanza di dati storici e documentari nonché alla cattiva interpretazione dei rapporti
formali tra l’altare maggiore e il tabernacolo. Non è escluso comunque che si assista ad una
precedenza cronologica del complesso dell’altare, che in secondo momento ospiterà il ciborio, ciò è
dovuto ad chiara discontinuità a livello formale, materico e stilistico tra i componenti dell’intera
parete diaframma, come si evince da vecchie fotografie e attraverso la visione delle particolarità
stilistiche dell’ancona e del dossale dell’altare maggiore geracese, ancora in fase di restauro.
28
4. Tabernacolo di Lamezia Terme – Nicastro
Il capolavoro di fra Ludovico da Pernocari è il tabernacolo realizzato per la chiesa di Santa
Maria degli Angeli di Nicastro, presso il convento di S. Antonio, ove tuttora si trova86.
L’opera, tra le più alte realizzazione dell’ambiente cappuccino calabrese, costituisce la
massima espressione dell’ebanista più famoso nell’ambiente fratesco della Provincia monastica di
Reggio, e non solo. La datazione alla metà del 1700, suggerita dall’analisi stilistica del ciborio,
monumentale per dimensioni e perfetto nelle proporzioni, in cui l’attenzione per il tutto si integra
magistralmente con il controllo delle singole decorazioni, dagli intarsi ai capitelli, dalle colonne
tortili alla pacatezza policromatica basata solo sulle varie essenze lignee, è confermata da un
documento cartaceo, apposto originariamente dietro il tabernacolo e ora conservato dal guardiano
del convento.
Il documento recita:
D. O. M.
Frate Ilarione a […] (Feroleto?)
Ordinis Fratum Minorum S. Francisci Capuccinorum
Provinciali Degnissimo
Huius a […]em […] Venerabilis Conventus Guardiano emerito
Frate Ioanne Baptista à Neocastro:
Frater Bonaventura à Feroleto eiusdem Ordinis actualis Diffi […]
Tabernaculum hoc sommo cum labore, summoque studio
Fabrefactum
a Frate Ludovico à Pernocare esimio […] Professore
assumpto sibi socio Frate Francisco à Claravalle
Cappuccinis […] laicis
Septem post decursi […][…]
[…] devotionis mentione […]
a[…] von[…]
provom[…], San […] eri ac[…]
A.D. 174287
86
A parte lo scritto di R. Le Pera, op. cit., del Convento di Lamezia Terme – Nicastro si parla anche in G. Leone, I
Cappuccini…, op. cit., vol. II, 317. Tale citazione è giustificabile in quanto il Convento lametino, dopo il terremoto del
1783, che ridusse a polvere la Provincia di Reggio Calabria, non avendo subito eccessivi danni venne aggregato alla
Provincia di Cosenza fino alla ricostituzione della Provincia Reggina, nel 1802.
29
Già dalla semplice lettura della carta si nota la fama raggiunta dal frate Ludovico, citato
come “professore”, accanto alla figura dell’aiuto Francesco da Chiaravalle. Ciò concorre alla
definitiva enucleazione dal panorama artigiano di ambiente cappuccino, di una figura che supera
lungamente le altre, quantomeno per perizia e fama, tale da diventare un punto di riferimento
continuo sia per gli altri frati artisti che per la cultura laica in generale.
Ma, a prescindere dal documento cartaceo, chi fa fede realmente circa la fama e la maturità
raggiunta dal frate è l’oggetto stesso.
Fortunatamente arrivato intatto, nonostante abbia subito un restauro conservativo, nel 1983,
il tabernacolo a pianta semiesagonale si sviluppa in altezza, riprendendo lo schema delle turres, su
due ordini sovrapposti retti da un alto basamento e conclusi da una cupoletta a pagoda su un duplice
tamburo.
Che la forma e la decorazione derivino dal tabernacolo di Gerace e da quello di Reggio,
appare indubbio ma, ciò che rende l’opera qualitativamente distante dalle altre è l’attenzione somma
nei confronti di tutte le parti, siano esse tettoniche o semplicemente decorative, della micro
architettura.
Nonostante sia usuale il lessico decorativo, fatto da tasselli eburnei, di ebano, tartaruga e
madreperla, giustapposti a creare piccole decorazioni geometriche e fitomorfe, una serie di novità
circa il modo di interferire con la superficie del supporto, o l’intrusione di elementi scultorei
antropomorfi, denunciano uno studio attento delle proporzioni e dell’ornamentazione classica. A
questo concorre anche l’attento uso dell’elemento cromatico, affidato solo alle essenze lignee
diverse e al diverso modo di reagire alla luce dell’avorio o della madreperla evitando inutili
coloriture o dorature.
Lo schema tettonico del ciborio esaspera gli sviluppi già notati, rispetto al tabernacolo di
Reggio Calabria, in quello di Gerace. Ergendosi in altezza per circa 2 metri, l’opera finita sottoinea
la verticalità che già informava il ciborio geracese, del quale riprende però il disegno semiesagonale
della base con una minore divergenza dei fianchi e, di conseguenza, un alleggerimento di tutta la
struttura. Il dialogo con l’atmosfera è sottolineato dalla esilità degli elementi verticali. Le colonne e
87
La carta è vergata ad inchiostro rosso e presenta lacune e problemi legati a contatto con acqua. Altri due documenti
sono conservati nell’Archivio di Nicastro. Il primo: CATALOGO DELLE OPERE D’ARTE DELLA CALABRIA –
Chiesa dei Cappuccini di Nicastro: Ciborio in legno, intagliato ed intarsiato di madreperla. Opera caratteristica di
monaci intagliatori calabresi del secolo XVIII. Risulta da documenti che venne eseguita da Frà Ludovico da Pernocari
e da Frà Francesco da Chiaravalle nel 1742. Misure: Altezza del Ciborio, m. 2,00. Larghezza massima alla base, m.
0,85. Si trova sul maggiore altare della Chiesa sopraindicata, per la quale venne eseguito. Stato di conservazione:
buono. Appartiene alla Chiesa dei Cappuccini di Nicastro. Nicastro 7 maggio 1924. Frà Ambrogio Peronaci. Sup.
Capp. Il secondo documento: Documento del 6/7/1982. Soprintendente per i Beni Amb. Arch. Art. e Stor. Cosenza.
Lamezia Terme – Nicastro (CZ), Chiesa di Sant’Antonio, restauro tabernacolo – contributo. Si danno 3.000.000 per il
restauro del tabernacolo.
30
le paraste pur mantenendo una certa entasis di stampo classico, mostrano una superficie più
accidentata e, addirittura, le colonne tortili del primo ordine sono formate da due midollini
attorcigliati su loro stessi indipendentemente.
Operando una serie di mutazioni nello schema già tracciato dei tabernacoli, questo
nicastrense esaspera la qualità formale del “templum”, nella già sottolineata sobrietà e ricchezza
decorativa e, quasi volendo sottolineare il valore di perno dell’intero organismo ecclesiastico,
apporta un insieme di varianti sulla tipologia costituita. Infatti, il ciborio ospita non una ma due
custodie per il pane eucaristico, poste una sulla parte basamentale e un’altra al primo ordine.
Quest’ultima, accessibile attraverso una scalinata prospettica di cui il primo gradino è retrattile per
permettere l’esposizione del SS. Sacramento, parrebbe fruibile dal sacerdote direttamente dal coro
per celebrare mentre, quella in basso, si apre sul lato posteriore verso il dossale dell’altare
maggiore, in direzione della finestra di comunicazione con il coro per ufficiare, con una porticina
per favorire la comunione dei frati che, non visti, partecipavano alla liturgia eucaristica dal luogo
della clausura88.
Variazioni su temi obsoleti si riscontrano in tutte le altre parti del ciborio. Nonostante si
segua un immutato programma decorativo e compositivo, per il posizionamento delle nicchie
ospitanti le statuine lungo i fianchi o ai piani superiori, le edicole appaiono qui meglio inserite nella
struttura tettonica dell’architettura e la stessa decorazione a pinnacoli e mensole antropomorfe non
interviene mai a distruggere il dialogo armonico tra decorazioni scultoree e intarsi geometrici o
floreali.
Il ciborio, anche in questo caso, sembra essere posteriore, o quanto meno appartenente ad
un’altra mano, rispetto al complesso sistema della parete diaframma dell’altare maggiore, che lo
ospita.
Diversi sono i materiali usati e, principalmente, sembra farsi spazio autonomamente nei
gradini del dossale della mensa. Non esiste alcun dialogo predefinito con la pala d’altare, la cui
visione è in parte occupata dal volume del tabernacolo e nessuna delle soluzioni decorative viste nel
tempietto si ritrovano nel fastigio ligneo della cona. Anche in questo caso non esistono
documentazioni esaustive per poter fare ipotesi in merito.
5. Tabernacolo di ViboValentia
88
Da una analisi superficiale del tabernacolo di Reggio Calabria pare si possa riscontrare anche qui una porta di
comunicazione con il coro dei frati, attraverso il retro dell’altare maggiore. Per quanto riguarda gli studi in corso sul
rapporto tra il tabernacolo e il coro dei frati, in Calabria, si veda: A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi
…, op. cit; idem, Arte e architettura cappuccina in Calabria: prime tracce…, op. cit.
31
Il ciborio si trova tuttora sull’altare maggiore della chiesa cui in origine era stato destinato:
la chiesa dell’Immacolata Concezione di Vibo Valentia, datata al 164389.
Le notizie relative al possibile autore dell’opera, nonché all’epoca della realizzazione sono
pressoché inesistenti, solo un accenno al restauro, compiuto nel 1981, essendo provinciale P.
Giustino Papa, da parte di Francesco Rossetti (ebanista vibonese), si può leggere sul retro.
L’opera pur presentando una serie di somiglianze con le analoghe realizzazioni in ambiente
fratesco e legandosi, quindi, alla più pura tradizione decorativa cappuccina e, nel caso specifico, alla
personalità preponderante di fra Ludovico da Pernocari, ad una analisi attenta non può essere
attribuita al frate artista, per una serie di incongruenze e estraneità al lessico tipico di questi. La
quantità di elementi divergenti è tale da suggerire non solo un rapporto di posteriorità rispetto alle
opere prima studiate, ma anche l’appartenenza ad un mondo artistico (o artigianale), basato sulla
riproduzione pedissequa e manierata delle forme raffinatissime di fra Ludovico.
Il tabernacolo infatti, pur presentando il solito schema piramidale, che molto deve alle
ultime opere di fra Ludovico (Nicastro e anche Gerace), dove si era operato un chiaro
allontanamento dagli impianti più solidi e monumentali (vedi Reggio Calabria o Fiumara di Muro),
rifugge dalle dimensioni monumentali e dall’attento studio coloristico e plastico delle singole parti,
in armonia con l’insieme della micro architettura. Tale lontananza ha, come conseguenza diretta, la
necessità di portare su un piano bidimensionale le decorazioni altrimenti plastiche e di operare una
scelta cromatica eccessiva, raggiunta non tanto con la giustapposizione di essenze lignee diverse tra
loro, insieme all’avorio, alla madreperla e alla tartaruga, ma attraverso la colorazione della
superficie, ad imitazione dell’intarsio.
Nonostante queste differenze però, l’affinità con gli altri tabernacoli cappuccini è profonda,
tanto da ipotizzare una discendenza diretta da questi e, nel caso specifico, dall’autore che, si è visto,
è il più famoso e quotato dell’ambiente: fra Ludovico da Pernocari. L’opera vibonese infatti,
appartiene alla medesima famiglia cui è stata ascritto il tabernacolo lametino e, proprio grazie a ciò,
si tende a inserirlo tra le possibili realizzazioni dell’allievo e collaboratore di fra Ludovico, fra
Francesco da Chiaravalle. Del fratello laico in questione, come si è accennato, non si ha alcuna
notizia storica, la sua figura è sempre legata (nei documenti scritti) a quella del proprio maestro,
quindi nessun tabernacolo o altra opera lignea può essere con certezza documentaria attribuita a lui.
Ciò nonostante proprio una analisi stilistica potrebbe aiutare a vedere l’operato di fra Francesco, in
qualità di maestro e non di collaboratore90.
89
Per notizie sul convento di Vibo Valentia si veda: F. Russo, I Minori Cappuccini in Calabria… op. cit; R Le Pera, I
Cappuccini in Calabria…, op. cit; A. Spanò, L’arte dell’Ordine Cappuccino. Primi passi …, op. cit; idem, Arte e
architettura cappuccina in Calabria: prime tracce…, op. cit.
90
Vedi note 64, 71.
32
L’eccesso di coloriture e una certa approssimazione nell’intaglio e nell’intarsio, nonché una
chiara sproporzione delle colonne rispetto ai capitelli e all’intercolumnio, insieme al ricorrere
anacronistico di volute monumentali di chiara ascendenza barocca, nella definizione delle falde
della cupola, evidenziano il ricorso ad una sorta di “maniera” poco aperta alle novità apportate da
fra Ludovico da Pernocari. Nonostante la presenza di questi elementi di disturbo, l’opera si
presenta, nel suo insieme molto armonica e in un serrato dialogo con l’atmosfera. L’alleggerimento
del secondo ordine e della cupoletta, che si erge su un doppio tamburo, è operato attraverso
l’inserimento di balaustre con colonnine tornite e sottolineato da un graduale arretramento dei piani
verso l’alto. Tale escamotage ottico fa sì che il ciborio si innesti in modo abbastanza gradevole nel
sistema dell’altare maggiore, anteriore di almeno un secolo, senza interrompere l’armonia
compositiva insita nella gigantesca composizione lignea, pur rimanendo essenzialmente estraneo al
linguaggio da esso proposto91.
Nonostante sia ignota la data di realizzazione del tabernacolo, si propone, proprio in
seguito alle analisi stilistiche e alle ipotesi attributive or ora presentate, una datazione post 1742
(Tabernacolo di Nicastro).
6. Tabernacolo di Rombiolo
Il tabernacolo è posto sulla mensa dell’altare maggiore della chiesa del convento dei
cappuccini del piccolo paese presso Vibo Valentia. Il luogo, all’interno dell’edificio di culto, ove
esso si trova, pur essendo quello cui era destinato non è né contemporaneo, né legato ad esso,
provenendo, infatti, dal convento distrutto di Motta Filocastro e databile alla fine del XVII secolo.
Ciò è chiaramente denunciato dal modo forzato con cui il ciborio si inserisce sulla mensa dell’altare
e da come il dossale accoglie il tempietto, che risulta troppo largo e troppo profondo.
Il tabernacolo, datato al 1734, non è firmato ed è giunto frammentario, nonostante abbia
subito un restauro conservativo nel 196192.
Composto da un basamento reggente un primo ordine su cui si apre la porta della custodia
propriamente detta, sormontato da un secondo ordine e finito da una cupola a pagoda su doppio
tamburo, il ciborio si innalza in modo monumentale seguendo uno schema piramidale e, tale
monumentalità doveva essere sottolineata dalla presenza di un altro ordine, immediatamente sopra
il primo, di raccordo con il piano attico reggente la cupola. Una tale architettura, unita alla forma
91
Vedi nota 46. Per quanto riguarda le osservazioni stilistiche, è proprio questa tendenza alla bidimensionalità che
induce ad escludere fra Ludovico da Pernocari dai possibili artefici del manufatto vibonese. Nonostante ciò si sottolinea
la familiarità del frate intagliatore con le realizzazioni del maestro proprio nel dialogo che l’opera imposta con
l’anteriore macchina scenica dell’altare maggiore.
92
La data di realizzazione, A.D. 1734, è intarsiata sulla faccia principale dell’opera, in un tassello posto sotto la porta
alla Custodia propriamente detta. Il restauro è attestato da una scritta apposta sul retro del tabernacolo: Restauro nel
1961 da P. Arcangelo.
33
della pianta, semiottagonale con fianchi molto divergenti e angoli rafforzati da contrafforti,
permette non solo di accettare una datazione alla prima metà del ‘700, ma anche di evitare di
attribuire l’opera al frate Ludovico da Pernocari. L’analisi dell’architettura del tempietto, invece,
unita ad uno studio degli elementi decorativi, che insieme denunciano una aderenza a modi formali
e compositivi precoci, permettono di ravvisare somiglianze con il tabernacolo di Reggio Calabria e
quindi, escludendo fra Ludovico da Pernocari, proporre una attribuzione all’aiuto di questi nel
tabernacolo suddetto: fra Domenico da Pernocari.
Il tabernacolo di Rombiolo presenta una serie di somiglianze con quello di Gerace, nell’uso
delle mensole rovesciate del basamento e nella terminazione a cipolla della cupola; a ciò si
aggiunge la preannunciata serie di affinità con il ciborio reggino, di cui accoglie una certa
pesantezza nell’impostazione e la medesima disposizione delle colonnine al primo ordine, pur
distaccandosi per l’eliminazione di elementi anacronistici come il bugnato all’ordine superiore o la
terminazione a cupola estradossata. Infatti la soluzione adottata per la copertura del tabernacolo è
legata alle nuove sperimentazioni di fra Ludovico da Pernocari a Gerace (e successivamente a
Lamezia), sottolineante la volontà di dare una forte spinta verticale a tutta l’opera e un maggiore
dialogo con l’atmosfera. La decorazione del tabernacolo però, non sviluppa l’elemento coloristico
adottato da fra Ludovico; la vibrazione cromatica, seppur legata solo alla giustapposizione di diversi
tasselli lignei è poco perseguita, così come si tende ad evitare il largo uso dell’avorio e della
madreperla, altrimenti usati per sottolineare la frammentazione luministica ma anche specchio di
una committenza conventuale più ricca. Ciò che invece compare è l’elemento tridimensionale,
l’uso, ovvero, di rilievi antropomorfi per le mensole, che si ritroveranno poi ampiamente usati nel
tabernacolo lametino, e di decorazioni rilevate con motivi fitomorfi e floreali.
7. Tabernacolo di Tropea
Posto sul luogo originario, ovverosia sull’altare maggiore della chiesa dei Minori (ex chiesa
dei Cappuccini), il tabernacolo di Tropea, è legato alla campagna di ristrutturazione della chiesa
sotto la guardiania di P. Anselmo da Stilo, nel 171793.
Tale datazione, piuttosto alta, giustifica la struttura dell’intero tempietto, poco tendente alla
verticalità e legata piuttosto ad una architettura tardomanierista in cui si tende ad esaltare
l’eccentricità e la possente monumentalità. Analogie in questo senso sono ravvisabili nell’opera di
Reggio Calabria, datata al 1710 e alla personalità di fra Domenico da Pernocari, allievo di fra
93
Tali notizie si ricavano da una carta appesa in una bacheca all’interno della chiesa in cui, senza riferimenti
bibliografici, si traccia una veloce storia della chiesa. A P. Anselmo da Stilo, come si vedrà oltre, è dovuta anche la
custodia di Gerace.
34
Ludovico da Pernocari col quale firma la custodia reggina, e la cui personalità è stata ravvisata nel
ciborio di Rombiolo94.
Vicini, infatti, al ciborio dell’Eremo di Reggio, sono i motivi decorativi a intaglio che
decorano tutta la superficie della piccola architettura: dalle decorazioni fitomorfe degli imoscapi
delle colonne ai costoloni della grande cupola estradossata. Assolutamente simile risulta il rapporto
tra piano superiore, leggermente arretrato e rimpicciolito, e l’alto primo ordine sul cui fronte
principale si apre, molto arretrata rispetto al piano limite della specchiatura che la ospita, la porta
d’accesso alla custodia propriamente detta e un simile metodo progettuale sembra interessare la
copertura del tempietto con una possente cupola estradossata.
E’ proprio la serie di anacronismi stilistici ricordata: sorta di incapacità di superare le forme
monumentali possenti unita alla volontà di affidare alla plasticità la vibrazione coloristica
dell’architettura del ciborio, che ravvisa l’estraneità alla realizzazione dell’opera da parte di
Ludovico da Pernocari e propone, piuttosto l’attribuzione all’allievo e collaboratore, fra Domenico
da Pernocari.
Questa distanza dalle novità apportate da fra Ludovico alla struttura tardo secentesca del
ciborio, con l’interesse verso il fatto cromatico denunciato dall’uso di tasselli eburnei e
madreperlacei, che diventerà sempre più vasto addentrandosi nel XVIII secolo, sottolinea l’azione
di un allievo o di un gruppo di frati che seguivano, senza comprendere, i passi segnati da una
personalità di grande carisma. Ma mentre la presenza di fra Ludovico, almeno come figura cui
tendere, era ravvisabile nel ciborio di Rombiolo, quanto meno per quella tendenza a sviluppare
l’architettura in verticale e a intervenire con una frammentazione della superficie il pur parco uso di
tasselli di avorio, nel ciborio di Tropea l’estraneità di questi è pressoché totale.
La vibrazione cromatica in questo tabernacolo è raggiunta attraverso un reale rapporto di
luce – ombra instaurato dalle rientranze e sporgenze degli elementi architettonici e decorativi; ciò
provoca indiscutibilmente una maggiore monumentalità denunciata, oltretutto, da tutti gli elementi
costituenti l’ossatura e la decorazione del ciborio: dalle colonne tortili, in cui l’avvitamento è lento,
raggiungendo un effetto finale è di estrema pesantezza, all’uso di plastiche volute di raccordo tra i
piani sul fondo fino al ritorno alla forma compatta e chiusa della cupola a calotta estradossata, la cui
tensione è controllata non solo dalle nervature, ma addirittura fermata dal coronamento scultoreo
con testine di angeli realizzanti la “lanterna” reggicroce.
Il ciborio mostra chiari segni di intervento posteriori, relativi forse all’acquisizione del
convento, dopo la soppressione savoiarda, da parte dei Frati Minori Osservanti. A tale periodo e a
94
Vedi prima nel testo.
35
tale cultura facilmente sono da ascrivere le dilaganti dorature, estranee alla mentalità e al gusto
decorativo cappuccino che, in un vano tentativo di impreziosimento, appesantiscono.la struttura.
VI. PROVINCIA DI COSENZA
1. Tabernacolo di Mormanno
Il Tabernacolo di Mormanno è un altro dei pochi cibori di cui si conosce il nome
dell’artefice nonché la data di realizzazione. Da quanto risulta dal necrologio infatti, l’opera fu
scolpita e intarsiata dal frate intagliatore Gregorio da Mormanno (morto nel 1756)95, come si
evince anche dalla firma dallo stesso apposta, al contrario, sul retro dell’opera: Fra Gregorio da
Mormanno Cappuccino fecit96.
Nonostante manchi la datazione, l’opera è facilmente inquadrabile cronologicamente anche
sulla base di un confronto stringente possibile con il tabernacolo della vicina Morano (1711), simile
nella tettonica e nel lessico decorativo. Ma il rapporto con quest’ultimo pare di posteriorità, a causa
dell’eccessiva esuberanza decorativa che si riscontra nell’opera di cui si sta trattando, che sembra
riprendere, enfatizzandole, le decorazioni del ciborio moranense97.
La struttura del tabernacolo di Mormanno si svolge su pianta a semicroce con fianchi poco
divergenti e con grande avanzamento del braccio centrale. Qui si apre la grande porta della custodia
sopra una finestrella quadrilobata (ravvisabile solo in ambiente cosentino), che permette la
comunicazione con l’ambiente retrostante l’altare maggiore e, a sua volta sovrastata da un nicchione
isolato. Il tempietto, che denuncia una forte tensione verticale attraverso un alleggerimento al piano
superiore, ove addirittura mancano i due bracci laterali, sostituiti da volute di raccordo a motivi
fitomorfi, si conclude con una cupola a quattro falde retta da un doppio tamburo, la cui fascia
inferiore è balaustrata.
Il basamento su cui si apre la finestrella quadrilobata inquadrata da una eccessiva
decorazione floreale, è decorato, nelle specchiature dei bracci arretrati, con figure di animali
all’interno di una struttura geometrica a losanghe. Il primo ordine presenta, invece, un
rafforzamento degli angoli con gruppi di colonnine tortili su imoscapi decorati, che definiscono le
aree entro cui si aprono nicchie semicircolari con la base sporgente retta da angioletti scolpiti. La
porta della custodia, inquadrata da una cornice decorata a intarsi geometrici e ospitante la figura
95
vedi nota n° 76
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 187 – 191, in part. 191.
97
Per tale motivo si propone un avvicinamento alle forme proposte da fra Luca da Mormanno attraverso la conoscenza
dell’esuberanza plastica tipica di ambienti di area roglianese o appartenenti all’Area Medio Cosentina. Per la plausibile
migrazione di artisti e, di conseguenza, di differenti linguaggi artistici si veda la nota 62. Per ulteriori precisazioni vedi
oltre nel testo.
96
36
dell’ostensorio, in madreperla, ha un pianerottolo d’ingresso semiesagonale, retto anch’esso da un
angioletto scolpito. L’arcone ospitante la porta d’ingresso, decorato con cornucopie e con angioletti
nei pennacchi, invade tutta la fascia di raccordo tra il primo ordine e l’attico. Qui la decorazione
riprende in toto quella del basamento con l’aggiunta di elementi scultorei antropomorfi agli angoli.
L’attico si riduce all’esaltazione dell’elemento centrale, con grande nicchione inquadrato da
un timpano in grande tensione retto da gruppi di colonnine scolpite mentre, a destra e sinistra, il
corpo si raccorda alla parte inferiore attraverso volute pesantemente incise e decorate.
La cupola, alleggerita dal tamburo balaustrato, conclude la tensione verticale intervenendo a
frantumare ulteriormente la vibrazione coloristica con intarsi a disegni geometrici e, quindi,
culminando attraverso una lanterna con la croce.
Nell’opera sono evidentissime le licenze cromatiche che non appartengono alla cultura
cappuccina ma, del resto, anche l’altare in cui si inserisce è totalmente decorato a finto marmo con
elementi dorati. La presenza di smaltature e dorature sul ciborio, insieme alla comparsa di
decorazioni animalistiche, a discapito della corretta intelligenza dell’architettura, fanno propendere
per una accoglienza, da parte del frate artefice, di linguaggi decorativi napoletani o, rimanendo
nell’ambito francescano, riformati. A causa proprio di queste influenze, il tabernacolo risulta una
sorta di ibrido che, pur partendo da una base canonica, si allontana dalle premesse teoriche
cappuccine per inserirsi in un ambito più aperto alle influenze esterne.
2. Tabernacolo di Morano
Il ciborio di Morano si pone sulla stessa scia di quello di Mormanno, come già accennato,
pur costituendone piuttosto il punto di partenza che non quello di arrivo. Datato al 1711 e firmato da
fra Luca da Mormanno, con la collaborazione di fra Giovanni da Belvedere Marittimo, su
commissione dell’allora guardiano del convento P. Paolo da Morano98, il ciborio propone lo schema
a pianta cruciforme con un basamento, un solo piano più attico e cupola su doppio tamburo, come
già notato per Mormanno. A differenza di qui però, a Morano la vibrazione cromatica è affidata
solo alla finissima giustapposizione delle essenze lignee diverse, al sapiente gioco di luci e ombre e
alla pacatezza degli intagli e degli intarsi. Pur presentando l’identico piano architettonico già
analizzato a Mormanno, e proponendo lo stesso sistema decorativo, il tabernacolo di Morano, per
finezza dell’intaglio e per sobrietà della decorazione, appartiene sicuramente alla cultura
cappuccina, senza nulla accogliere di proveniente dall’esterno o da altre congregazioni.
98
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 174 – 186 in part. 180. la figura di P. Paolo da Morano si ritrova anche
nel necrologio redatto da P. G. Leone, op. cit., 231 (vedi nota 75) e, per quanto riguarda la figura di P Paolo al 18
febbraio si legge: Paolo da Morano Calabro, sacerdote. Definitore nel 1687; Custode al Capitolo generale nel 1791 [si
legga 1691, evidentemente errore di stampa]; poi ancora Definitore nel 1695 e nel 1711. in quest’anno, Guardiano a
Morano, fece costruire la custodia dell’altare maggiore nella nostra chiesa. Era ancora in vita il 18 febbraio 1724., 49.
37
La decorazione a intarsi eburnei e madreperlacei si inserisce laddove c’è la necessità di
sottolineare simbolicamente il tempietto (porta d’ingresso alla custodia, nicchie ospitanti santi,
finestra polilobata al basamento); allo stesso modo gli elementi scultorei individuano ed esaltano le
parti più importanti della costruzione (un solo angioletto regge la mensola del pianerottolo
d’ingresso alla custodia, pinnacoli si ergono alla base delle volute di raccordo tra il primo piano e
l’attico). Su questa scia si pone il rifiuto di qualsivoglia decorazione animalistica o floreale,
lasciando il posto solo a partizioni geometriche e a piccole cariatidi (alla fascia di raccordo
intermedia), concorrendo così, alla esaltazione della centralità del braccio avanzante della croce di
base e della cupola piramidale svettante sul doppio tamburo.
Le differenze tra il tabernacolo di Morano e quello di Mormanno sono tutte di ordine
stilistico e concorrono a sottolineare l’accoglienza di una sorta di “maniera” in quest’ultimo,
evidenziando, per contro, la perfetta armonia tra le parti singole e l’architettura nella sua totalità,
nell’opera di fra Luca99.
Il tabernacolo, inoltre, è uno dei pochi rimasto in loco dal tempo della sua costruzione e, a
differenza di quelli di ambito reggino e catanzarese, è contemporaneo al grande altare maggiore che
lo ospita.
L’opera, insieme a quella di Mormanno e di Acri, individua un piccolo gruppo di tabernacoli
di dimensioni ridotte ma di architettura elegante e basata sulla pianta semicruciforme, proprie della
zona nord occidentale del Pollino. Purtroppo la dispersione di tutti gli altri cibori limitrofi (Campo
Tenese e Villapiana), non permette di scoprire la matrice culturale alla base di questa particolare
forma adottata; ciò potrebbe far pensare ad uno schema legato alla figura del frate Luca da Morano,
slegato da correnti autoctone o di provenienza lucana o campana, ma lo stato attuale degli studi non
permette, al giorno d’oggi, ipotesi più attendibili.
3. Tabernacolo di Acri
Pur rientrando nella serie dei tabernacoli a pianta cruciforme, il ciborio di Acri sembra
appartenere alla corrente che produce il tabernacolo di Morano, con pochi rimandi alla tendenza
policroma tipica del ciborio di Mormanno. I confronti sono stringenti a livello architettonico e
decorativo, nonostante gli interventi di restauro pesanti abbiano pesantemente inciso sull’immagine
originale dell’opera100.
Su un basamento rifatto, ma che indica comunque il perpetrarsi di una scelta decorativa
tipica dell’ambiente cosentino, con la finestra polilobata sul fronte centrale, si erge l’architettura del
99
Vedi nota 93.
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 13 – 25 in part. 24. Non si ha alcuna altra notizia né sui restauri che
l’opera ha subito (con molte e pesanti integrazioni), né sull’autore.
100
38
tempietto. L’appartenenza alla compagine culturale di Morano e Mormanno è sottolineata
dall’evidenza di alcuni elementi decorativi e tettonici come le colonne tortili angolari, le nicchie
lungo i bracci laterali, l’attico raccordato con volute plastiche al fascione intermedio e il grande
sviluppo triangolare del timpano, mentre, la minore attenzione verso il fattore cromatico e la
decorazione a tarsie lignee e eburnee, insieme ad una tendenza a evitare il calligrafismo nei rilievi
propongono, la vicinanza dell’opera ad una cultura più locale. Si propone quindi una datazione
posteriore al 1730 e l’attribuzione, nonostante le differenze prima accennate, ad un allievo di
Gregorio da Mormanno di cui ripete la particolare forma delle volute di raccordo al piano attico,
una certa tendenza a evitare sterili geometrismi nelle losanghe decoranti le specchiature del fascione
di raccordo e l’inserimento di angioletti nei pennacchi dell’arcone inquadrante la porta della
custodia.
La porta, insieme al basamento e alla cupola, è di restauro.
4. Tabernacolo di Castrovillari
Il tabernacolo di Castrovillari, apre la serie delle opere che sviluppano in altezza lo schema
semiesagonale di base101. La particolare forma, tendente ad esaltare la spinta verticale attraverso un
sapiente arretramento dei piani in altezza e la realizzazione della cupola a corpo piramidale,
nonostante tutto rimane sempre molto legata a schemi baroccheggianti e monumentali, evitando di
accogliere quella leggerezza strutturale che si è notata nelle strutture settecentesche di area regginocatanzarese.
Il ciborio di Castrovillari, ospitato nella chiesa della Trinità della città, si svolge su due
ordini posti su un basamento e coronati dalla cupola piramidale su un tamburo balaustrato. L’opera,
che non è né firmata, né datata, per l’effetto monumentale dell’insieme, molto allargato alla base,
rispetto allo sviluppo in altezza, potrebbe essere datata agli anni ’20 o ’30 del XVIII secolo.
Somiglianze circa il lessico decorativo, la spiccata tendenza alla policromia e l’attenzione verso gli
elementi tridimensionali, che non risultano mai eccessivi, si ravvisano con le opere di Morano e
Mormanno.
I fianchi molto divergenti favoriscono uno sviluppo orizzontale con conseguente esaltazione
delle nicchie laterali, che al primo ordine sono inquadrate da edicole trabeate rette da colonnine
mentre al piano superiore risultano più libere, seppur chiuse da una bassa balaustra. La faccia
principale, che accoglie la porta della custodia al primo piano e un profondo nicchione al piano
superiore, è libera da decorazioni eccessive tanto da dare slancio a tutto l’insieme. Pochi sono gli
elementi in avorio ed ebano (ridotti solo alle incorniciature delle nicchie e della porta), mentre la
101
Vedi nota 62. Per notizie sul Convento di Castrovillari Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 97 - 108
39
madreperla è presente solo sulla porta d’ingresso alla custodia, in un disegno raffigurante il solito
ostensorio.
Tarsie lignee a disegno geometrico, molto vicine a quelle di Morano, ornano i fianchi
divergenti del basamento e intervengono a decorare totalmente le falde della cupola. Il tabernacolo,
che non versa in eccellente stato di conservazione, manca di finestrella sul fronte principale del
basamento, sostituita da un, successivo, sportellino a ribalta e non presenta più la croce di
coronamento della cupola.
5. Tabernacolo di Cassano
Altro ciborio ripetente la medesima immagine del precedente tabernacolo di Castrovillari è
quello, frammentario, di Cassano Jonio102.
Ridotto al solo primo ordine, non datato né firmato, ma presumibilmente contemporaneo a
quello di Castrovillari, per una serie di somiglianze stilistiche e di impianto spaziale, il tabernacolo
è posto nella chiesa dei cappuccini di Cassano mal inserito, però, in un altare in stucco e scagliola.
L’opera restaurata a cura del parroco della chiesa, con una serie di integrazioni visibili,
ripete la forma semiesagonale con interventi decorativi più prossimi alle realizzazioni di Morano e
Mormanno che a Castrovillari. Si tratta in questo caso dell’attenzione agli elementi decorativi
fitomorfi e antropomorfi che concorrono a rendere il pezzo frammentario, una sorta di piccolo
gioiello ligneo. Decorazioni a tasselli eburnei si ritrovano lungo tutta la cornice retta dalle colonne
tortili, e sui podi delle stesse, mentre angioletti reggono le mensole delle nicchie laterali e il
pianerottolo della porta della custodia.
Mancando il basamento e il piani superiori non si può avanzare alcuna ipotesi circa l’effetto
finale dell’opera, certamente in direzione della porta centrale, nel basamento si apriva la solita
finestrella di comunicazione con il retro dell’altare, ora proposta dall’apparato in stucco dei gradini
della mensa103.
6. Tabernacolo di Paola
Conservato momentaneamente nella sede della Soprintendenza ai B.A.A.A.S di Cosenza, il
tabernacolo proviene dalla chiesa del Cimitero di Paola104. L’opera, di dimensioni poderose
(raggiunge i 2 metri di altezza), datata e firmata Frat. Ber. a S. Agata A. D. 1754, riprende la forma
del tempietto a più ordini a pianta semiesagonale su basamento e coronato da una cupola,
inserendosi pienamente nella serie delle opere di area cappuccina a pianta pseudocentrica.
102
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 81 – 88 , in part. pag. 88.
Vedi nota prec.
104
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 216 – 221.
103
40
Il manufatto mostra forti somiglianze con quello di Rogliano e, pur riprendendo forme e
temi figurativi propri dell’ambiente cosentino, risulta molto vicino alle realizzazioni di area
reggino-catanzarese, ad opera di fra Ludovico da Pernocari. Si ritrova, in quest’opera, una chiara
tendenza verso la spiccata policromia, raggiunta non solo con la giustapposizione di tasselli eburnei,
di ebano e madreperla ma anche grazie ad intarsi in lamine argentee (nella croce sovrastante la
cupola), e alla colorazione degli angioletti reggimensole del primo e del secondo piano.
La verticalità è sottolineata da un graduale rimpicciolimento dei piani, evidenziato anche
dalla particolare forma rastremata del fascione di raccordo tra il primo e il secondo ordine e dalla
conformazione “a gradoni” del tamburo della cupola. Quest’ultima propone la forma a cipolla ed è
ulteriormente alleggerita dagli intarsi in avorio ed essenze lignee differenti della calotta.
La porta d’ingresso alla custodia è riccamente decorata da un fregio eucaristico-floreale,
mentre ulteriori interventi decorativo-luministici intervengono a definire le nicchie, che si aprono
nelle due specchiature laterali del primo ordine e in tutti i lati del secondo.
Il basamento è bucato, sulla faccia centrale, dalla solita finestra polilobata mentre mostra
decorazioni geometriche e floreali lungo i fianchi.
L’opera è stata recentemente restaurata ad opera della Soprintendenza di Cosenza che ha
provveduto alla ripulitura, al risanamento da tarli e alla reintegrazione di molti tasselli ed elementi
scultorei mancanti105.
7. Tabernacolo di Luzzi
Le notizie relative al tabernacolo di Luzzi sono scarne e abbastanza approssimative. L’opera
che, oltretutto, versa in mediocre stato di conservazione, essendo annerita dal fumo delle candele, si
trova nella chiesa dell’ex convento dei cappuccini della cittadina106.
Inquadrabile nella serie di custodie a pianta semiesagonale a sviluppo piramidale a due
ordini con cupola estradossata e basamento, l’opera, per le caratteristiche descritte rimanda ai
manufatti di Castrovillari, Rossano e Cassano.
Non si hanno notizie circa la datazione né circa l’artefice ma, per la straordinaria
somiglianza con il tabernacolo di Castrovillari, di cui ripete la pianta, le caratteristiche di alzato, la
terminazione cupoliforme estradossata, si è portati a scendere non oltre gli anni ’20 del XVIII
105
Opere d’arte restaurate in Calabria [Catalogo della Mostra in occasione della] VI settimana per i Beni Culturali e
Ambientali. Cosenza, Chiostro di S. Francesco d’Assisi – dicembre 1990, a cura di A. Ceccarelli. Scheda n° 38 a cura di
R. Filice con relazione dei lavori di restauro, 76 – 78. Alla luce dei risultati delle ricerche, qui presentati, non si accetta
l’attribuzione dell’oggetto a fra Ludovico da Pernocari, nonostante si riconoscano somiglianze stilistiche e decorative,
facendo rientrare, piuttosto l’opera nel novero dei tabernacoli “alla cappuccina” diffusi in tutto il territorio e,
specificatamente, alla corrente interessante l’area Medio Cosentina con influenze roglianesi; vedi nota 62.
106
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 163 – 167; T. Pingitore, Nuove conoscenze artistiche intorno al
monastero dei Cappuccini di Luzzi, in Brutium, LXIX, 1, Gennaio – Marzo 1990. L’autore erroneamente data al 1600 il
tabernacolo che, per le somiglianze dette nel testo è da far risalire al prima metà del XVIII sec.; vedi nel testo.
41
secolo, quanto, piuttosto, a optare per una datazione più alta. Tale rapporto di anteriorità rispetto a
Castrovillari è dato dall’analisi della cupola a calotta emisferica che evita, in tal modo, la spinta
verso l’alto sottolineando una maggiore monumentalità.
8. Tabernacolo di Rossano107
Anche il tabernacolo di Rossano appartiene alla serie che si è definita, dell’Area medio
cosentina. Tale classificazione è possibile grazie allo studio analitico delle parti costituenti il ciborio
e, quindi, dell’effetto finale dell’opera. Custodito nel Museo Diocesano di Rossano, purtroppo
necessita di urgenti restauri volti alla restituzione della qualità cromatica superficiale, offuscata da
polveri e nerofumo108 ma, nonostante le condizioni in cui l’opera versa siano molto precarie (si nota
anche la mancanza di alcuni pinnacoli decorativi nonché di parti delle trabeazioni), una lettura
dell’organismo nella sua totalità è possibile.
Il ciborio somiglia, per impianto monumentale, essendo impostato su base semiesagonale
con fianchi molti divergenti con tendenza a svilupparsi in altezza secondo uno schema piramidale,
che vede un lento arretrare e rimpicciolimento dei piani, ai cibori di Castrovillari e Cassano. Di
questi ultimi si ritrova anche la tendenza all’eliminazione della vibrazione cromatica superficiale,
raggiunta attraverso un limitato uso dell’intarsio ligneo, madreperlaceo ed eburneo e il rivolgersi,
piuttosto, all’uso di una plastica più monumentale.
Molti espedienti stilistici usati per frammentare la luce incidente sul tempietto: le balaustre
poste davanti alle nicchie al piano superiore e alla base del tamburo a gradoni della cupola, le
colonne tortili e a cerchi concentrici su imoscapi ora lisci ora intagliati, le cornici e gli architravi
molto aggettanti e con la superficie zigrinata, i capitelli, che seppur abbastanza proporzionati, sono
molto incisi e trattati in modo monumentale, rimandano ad un ambiente abbastanza chiuso alle
influenze esterne e chiaramente dipendente da botteghe interne ai conventi.
Proprio, quindi all’interno dell’ambiente cappuccino è logico ricercare il possibile autore del
tabernacolo, autore che è identificabile proprio attraverso il riconoscimento di un lessico decorativo
tipico legato alle decorazioni a rilievo con angeli reggimensole e cornucopie, che lo accomuna ai
tabernacoli di Castrovillari e di Cassano.
9. Tabernacolo di Castiglione Cosentino
107
108
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 256 – 270
L’opera è realmente depositata nel Museo in fase di allestimento per cui non esiste alcuna catalogazione.
42
Il tabernacolo di Castiglione Cosentino109, pur rientrando nella vasta serie della tipologia a
tempietto a pianta poligonale, non rientra nella compagine dei cibori su base semiesagonale, in cui
si esalta l’elemento cromatico attraverso l’intaglio delle membrature architettoniche classiche. Il
ciborio è, infatti, caratterizzato da una grande attenzione verso la plastica e la vibrazione
tridimensionale delle superfici, ottenuta attraverso l’inserzione di elementi architettonici
antropomorfi e, circa l’architettura, dalla tendenza a moltiplicare i lati per sottolineare una maggiore
monumentalità.
Questa serie di caratteristiche lega il manufatto ad un preciso ambiente culturale e artistico,
per molti versi provinciale e distaccato dalla compagine più ampia, propria dell’Ordine cappuccino,
ma legato all’artigianato delle maestranze roglianesi, nel basso cosentino.
Composto di un basamento su cui si erge un solo ordine coronato da un fascione di raccordo
per la cupola piramidale su tamburo a gradoni, il tabernacolo costituisce l’unico elemento
tridimensionale in una parete diaframma ove l’altare maggiore è ridotto ad un polittico senza
elementi aggettanti. Tale particolarità concorre a sottolineare il manufatto come elemento a sé
stante, non legato stilisticamente (e probabilmente nemmeno cronologicamente), al contesto in cui
si inserisce.
Distaccandosi dall’usanza, in ambito cosentino, di aprire una finestra polilobata sul fronte
principale del tempietto, l’opera è decorata con intarsi floreali e geometrici di squisitissima fattura,
in avorio, ebano e madreperla, in tutte le specchiature del basamento. Gli angoli, invece, di
quest’ultimo, sono evidenziati da telamoni angeliformi scolpiti a tutto tondo aventi funzione di
bauplastik piuttosto che identificarsi come semplici sculture decorative. Ad una volontà plastica
rispondono anche le colonne tortili definenti gli angoli dell’ordine superiore al basamento; queste
reggono una trabeazione non molto aggettante e inquadrano specchiature di cui quella centrale,
identificata da un arcone che invade il fascione di raccordo con il piano attico, ospita l’ingresso alla
custodia (anch’esso decorato dal solito ostensorio in madreperla), mentre in quelle immediatamente
laterali si aprono nicchie entro le quali sono inserite statue di santi francescani e quindi, sui lati
periferici, decorazioni bidimensionali in legno ed avorio.
Angioletti scolpiti a tutto tondo si pongono come reggi mensole (sotto la porta centrale), a
decorare le specchiature del fascione di raccordo e, addirittura, ogni lato del primo gradone del
tamburo della cupola. All’effetto monumentale concorrono, infine, i pinnacoli torniti e le balaustre
che interagiscono con l’atmosfera alleggerendo tutta la struttura verso l’alto.
La cupola, a piramide convessa, interamente intarsiata, si conclude con una lanterna e quindi
con un crocifisso apicale.
109
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 89 – 96. Non si hanno notizie sull’autore del tabernacolo che apre la
serie delle opere legate alle maestranze roglianesi attorno alla figura di Lorenzo da Belmonte (cfr. note 61, 62, 73, 80).
43
10. Tabernacolo di Rogliano
Il ciborio di Rogliano, realizzato da fra Lorenzo da Belmonte Calabro entro il 1756 è
custodito nella chiesa di S. Giorgio della cittadina presso Cosenza110. L’opera si lega, per una serie
di somiglianze stringenti, alla stessa matrice culturale che ha prodotto i tabernacoli di Castiglione,
Cetraro, Oriolo ed Orsomarso, in cui si nota una forte attenzione verso il dato plastico e la
decorazione a carattere floreale e geometrico e, soprattutto, verso la definizione di una architettura
monumentale e molto compatta.
L’opera è un gioiello ingigantito, per la grande quantità di sculture angeliformi, che si
stagliano sulle specchiature del fascione di coronamento del primo piano, e in quelle del tamburo
della cupola. Alla cura verso la plastica raffinatissima si associa uno senso cromatico, raggiunto con
intarsi madreperlacei ed eburnei nelle specchiature del basamento e sulla porta d’ingresso alla
custodia.
Purtroppo la decontestualizzazione non permette di comprendere il rapporto che il
tabernacolo instaurava con l’altare maggiore. La presenza, però, di rinomatissime botteghe di
intagliatori e decoratori a Rogliano, le cui opere, caratterizzate da una grande esuberanza
decorativa, sono sparse in gran parte del territorio calabrese, inducono a pensare ad una
orchestrazione scenografica della parete diaframma relativa all’altare maggiore della chiesa dei
cappuccini di Rogliano al centro della quale svettava la magnifica custodia.
Come nel tabernacolo di Castiglione, anche in questo caso le decorazioni scultoree si
prestano ad essere identificate come elementi di bauplastik, intervenendo a sottolineare gli elementi
tettonici della microarchitettura e, addirittura, ponendosi come elementi basilari per la corretta
definizione delle specchiature e dei sostegni.
La datazione del ciborio alla metà del XVIII secolo, oltre ad essere provata, è assolutamente
plausibile date le caratteristiche stilistiche del manufatto. L’attenzione verso la decorazione plastica
molto esuberante, unita ad una attenta ricerca formale per quanto riguarda le decorazioni ad intarsi a
motivi fitomorfi indica la scelta, anche all’interno dell’Ordine cappuccino, di accogliere istanze
formali e compositive estranee alla propria tradizione ma da essa reinterpretate.
11. Tabernacolo di Cetraro
110
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 246 – 255. Per le notizie su Fra Lorenzo si veda la nota 78 e G. Leone,
Necrologio…op. cit. ci si fa riferimento.
44
Sulla stessa linea dei tabernacoli di Castiglione e Rombiolo si pone il magnifico ciborio di
Cetraro, conservato nella chiesa del convento dei Cappuccini, di cui rimane in situ solo il fastigio
architettonico ligneo dell’altare maggiore e quello dell’Addolorata111.
L’opera è un vero e proprio gioiello ligneo in cui l’attenzione non è solo rivolta alle
membrature architettoniche ma interviene a decorare, con elementi scultorei e policromi, tutta la
superficie, raggiungendo altissimi effetti di vibrazione cromatica e luminosa. Per le modalità
compositive e per i partiti decorativi il tabernacolo rientra in quel preziosissimo gruppo in cui è
possibile estrapolare la figura di fra Lorenzo da Belmonte ma che, presumibilmente, si lega alle
attivissime botteghe artigiane di Rogliano, attive in tutta la Calabria nel corso del ‘700. Pur
accogliendo suggestioni estranee all’ambiente puramente cappuccino, l’opera, per una serie di
caratteristiche, che si vanno adesso ad esaminare, rientra senza alcun dubbio nella tradizione dei
cibori cosentini. Questi sono infatti caratterizzati, si è visto, dal particolare modo di porsi in
rapporto al coro dei frati che, attraverso la finestrella posta sotto la porta della custodia, permette la
comunicazione attraverso il tabernacolo tra i sacerdoti e i frati che assistono, non visti, alla liturgia.
Altre caratteristiche proprie del mondo cappuccino si fanno però avanti nella struttura; ci si
riferisce, in questo caso, alla tipica decorazione della porta della custodia con l’ostensorio intarsiato
in madreperla, all’assembramento delle colonnine tortili presso le nicchie e il grande ingresso
centrale alla custodia, nonché alla particolare forma del tempietto, semiottagonale e a forte sviluppo
verticale, che intesse un dialogo serrato sia con il fastigio dell’altare maggiore che lo ospita sia con
il resto della chiesa che su di lui gravita.
L’analisi delle decorazioni evidenzia l’appartenenza del tabernacolo alla cultura plastica
roglianese. La ricchezza delle decorazioni scultoree, i telamoni angeliformi aventi funzione di
bauplastik, la complicatissima articolazione dei piani, degradanti verso l’alto e culminanti con la
cupola piramidale, definiscono il tempietto imponendosi sulle decorazioni a tarsie eburnee e
madreperlacee (ridotte a piccoli elementi floreali sui pennacchi dell’archivolto dell’ingresso e a
piccoli motivi geometrici lungo le cornici delle trabeazioni), e potrebbero ipotizzare una datazione
abbastanza alta dell’opera. Ma il confronto con il tabernacolo di Rogliano, datato e firmato, insieme
alle vicende storiche del convento di Cetraro, che vide, nel 1737 la presenza carismatica del beato
Angelo d’Acri e il conseguente dono del simulacro della Addolorata, sposta la datazione al pieno
‘700 riconoscendo però una sorta di attardamento del lessico decorativo e architettonico, dettato,
probabilmente dalla vicinanza alle botteghe artigiani roglianesi.
12. Tabernacolo di Belvedere Marittimo
111
Vedi G. Leone, I cappuccini…, op. cit. 117 – 124, in part. 124.
45
Della custodia di Belvedere purtroppo si è in possesso solo di dati documentari, essendo
stata rubata negli anni ’70 del secolo scorso e totalmente ricostruita112.
13. Tabernacolo di Orsomarso113
Il tabernacolo di Orsomarso è uno dei capolavori del genere della provincia di Cosenza.
L’opera si discosta molto dagli altri cibori di ambiente cappuccino pur rientrando, come quello di
Cetraro, nella vasta compagine tipologica cosentina per l’impostazione architettonica di base e,
anche qui, per il rapporto che esso instaura con l’altare maggiore su cui è posto e, quindi, con il
coro.
L’opera è immediatamente avvicinabile al ciborio di Rogliano, con il quale condivide
medesima attenzione verso il fatto plastico e coloristico, e quindi facilmente databile alla metà del
1700, e attribuibile a fra Lorenzo da Belmonte o a qualche artista ad esso molto vicino, e alle
maestranze roglianesi. Ciò che rende l’opera differente però anche dal ciborio ricchissimo di
Rogliano, al quale è più strettamente correlabile rispetto agli altri appartenenti alla medesima
famiglia, è l’importanza che in essa sì da all’elemento scultoreo. Non usato, tendenzialmente, solo a
scopo decorativo, essendo piuttosto anche qui una sorta di bauplastik tendente a sottolineare i punti
salienti dell’apparato architettonico, le immagini scolpite invadono però anche l’alta cupola
troncoconica, quasi a voler sottolineare il ruolo simbolico unico che essa ha nel contesto di una
architettura sacra. Ma angeli molto aggettanti invadono le specchiature dei tamburi della cupola e
quelle del basamento, reggono la mensola d’ingresso alla porta centrale della custodia e, a mo’ di
telamoni reggono le colonnine tortili angolari del primo ordine. L’immagine globale del tabernacolo
è di estrema ricchezza e, addirittura, tende a mettere in secondo piano l’elemento architettonico per
esaltare quello scultoreo, e coloristico. Quest’ultimo aspetto è poi raggiunto attraverso un sapiente
uso degli elementi architettonici; le colonnine, i capitelli, le mensole, le trabeazioni, si armonizzano
tra loro creando una continua vibrazione luministica della superficie, arricchita, inoltre, dagli intarsi
madreperlacei ed eburnei che decorano, con motivi floreali e geometrici, tutte le parti in cui
l’articolazione plastica è minore.
Secondo il più tipico schema dei cibori cappuccini, anche questo di Orsomarso presenta
nicchie che si aprono sui lati divergenti, ospitanti statue policrome di santi francescani, mentre la
porta d’accesso alla custodia propriamente detta, inquadrata da una cornice a intarsi in avorio, è
decorata con la figura dell’ostensorio in madreperla.
112
113
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 46 – 54.
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 210 – 215.
46
L’opera, per quanto finora detto, appare anch’essa molto legata all’ambiente estraneo alla
cultura cappuccina e sembra frutto proprio dell’area di influenza delle maestranze roglianesi. Anche
qui si nota una tendenza a rifiutare le tendenze settecentesche volte alla smaterializzazione della
superficie architettonica e ad un maggior dialogo con l’atmosfera, per riprendere modi secenteschi
volti all’esaltazione dell’elemento monumentale e plastico. Ciò nonostante il tabernacolo di
Orsomarso, risulta essere tra i più alti esempi di intaglio ligneo che la Provincia cosentina, ma tutta
la Calabria, possiede, e ancora non riesce a valorizzare.
14. Tabernacolo di Oriolo114
Il ciborio di Oriolo, pur essendo estraneo geograficamente, all’area di influenza dei maestri
roglianesi e, nel caso specifico, della figura di fra Lorenzo da Belmonte Calabro, indiscutibilmente
appartiene alla stessa compagine culturale. Come quello di Castiglione, di Cetraro, di Orsomarso e
di Rogliano, il ciborio mostra una spiccata tendenza alla pianta centrica, essendo semiottagonale ma
presentando una forte divergenza dei lati rispetto alla fronte principale.
Trovandosi ancora in situ, l’opera è facilmente leggibile nel contesto decorativo in cui è
posto, imponendosi, quasi come un enorme oggetto scultoreo, sulla mensa dell’altare maggiore
della chiesa. E infatti, come già visto per il capolavoro di Orsomarso, anche il tabernacolo di Oriolo
per la quantità di elementi scultorei che presenta, per la mansione cui è ad essi affidata (di
evidenziare e, contemporaneamente, destrutturare ossia l’ossatura architettonica del tempietto), per
la qualità dell’intaglio e dell’intarsio madreperlaceo ed eburneo, che interviene a definire
coloristicamente le specchiature dell’alto basamento, esalta la primitiva specificità propria del
ciborio, quella di essere il luogo deputato all’accoglienza delle Sacre Specie.
Analizzando l’opera si riscontrano analogie strettissime con il tabernacolo di Castiglione
Cosentino. I rapporti proporzionali tra le colonne e l’architettura sono uguali, identico è il modo di
realizzare gli elementi architettonici, si assiste alla medesima sensibilità cromatica e decorativa.
L’intarsio madreperlaceo ed eburneo è, nel ciborio, molto usato e attende allo scopo di sottolineare
gli elementi architettonici; cornici floreali si pongono sugli archivolti delle nicchie, elementi
fitomorfi alleggeriscono i pennacchi dell’arcone centrale, microdecorazioni geometriche in avorio
sottolineano le cornici e i piedritti di tutta la struttura.
Purtroppo nulla si conosce delle vicende artistiche che hanno interessato la decorazione
lignea del convento di Oriolo, né di come un linguaggio così definito stilisticamente e
geograficamente possa essere arrivato fino agli estremi confini della Calabria jonica. Quest’ultimo
problema se può essere risolto considerando l’estrema mobilità dei frati, di fatto non da alcun aiuto
114
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 202 - 209.
47
per la conoscenza del maestro cappuccino autore del preziosissimo ciborio. Per le già viste
somiglianze la possibilità di riconoscere, anche qui la mano, dell’artefice di Castiglione è forte e,
attraverso di esso, si spiega l’arrivo del linguaggio roglianese alle pendici orientali del Pollino,
senza aver subito le influenze dello stile che, come si è già analizzato ampiamente, caratterizza i
cibori di Cassano, Rossano, Castrovillari. Tale ultima precisazione avvalora ulteriormente l’ipotesi
di attribuire il tabernacolo di Oriolo all’artista di Castiglione e permette di datarlo alla metà del
XVIII secolo.
15. Tabernacolo di Corigliano115
Unicum tra i cibori cappuccini della Calabria è il tabernacolo di Corigliano Calabro. L’opera
posta sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Anna, ex chiesa conventuale, propone uno schema
inusuale per i tempietti eucaristici cappuccini e poco comune anche in ambienti ecclesiastici di
diversa estrazione culturale.
Il tabernacolo ha una forma prismatica molto compatta, con lati alternativamente concavi e
convessi, poggia su un basamento a bulbo, con grande attenzione verso il fatto plastico e si
conclude con una cupola a cipolla che ripete, leggermente rimpicciolito, la forma dell’intero
ciborio.
Elementi tipici della cultura cappuccina sono soltanto citati in questo ciborio che non
appartiene a nessuna scuola artistica fino ad ora analizzata e si impone proprio per il suo discostarsi
dalla concezione architettonica del tempietto, sottolineando invece il fattore plastico, coloristico e
scultoreo. La descrizione dell’opera mette necessariamente in evidenza il parco uso degli intarsi
madreperlacei ed eburnei, che intervengono solo a punteggiare le lisce cornici e le facce del bulbo
basamentale. Uso di diverse essenze lignee si ritrova, invece, nella cupola e nei fascioni del tamburo
che la regge, mentre sulla porta convessa della custodia, alle diverse essenze lignee, si affianca l’uso
della madreperla per disegnare l’immagine dell’ostensorio.
Il particolare modo di modulare gli elementi architettonici, che non sono mai estranei alle
specchiature ma si legano ad esse, quasi come non ci fosse differenza tettonica tra le parti portanti,
quelle portate e quelle decorative, si esaspera nel trattamento del cornicione principale, retto dalle
colonnine tortili angolari. Questo, infatti, quasi a voler interagire con la struttura mossa dell’intero
manufatto ligneo, si arriccia e si impenna sulla faccia convessa principale, evidenziando la
centralità dell’intera struttura e dando una decisa spinta ascensionale verso la sovrastante cupola a
cipolla. L’importanza della parte centrale è ancora sottolineata dall’aprirsi, nel primo dei fascioni
115
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 131 - 137.
48
realizzanti il tamburo della cupola, di una piccola balaustra che alleggerisce la struttura, altrimenti
troppo compatta.
L’opera, allo stato attuale degli studi, è difficilmente databile e, principalmente, risulta
impossibile l’attribuzione, data l’enorme quantità di elementi non riscontrabili in nessun altro
ciborio cappuccino. Se le colonnine tortili o la cupola a cipolla insieme all’uso delle essenze lignee
pregiate con intarsi madreperlacei, appartengono alla cultura fratesca, il tabernacolo nella sua
immagine definitiva mal si pone nell’altare maggiore che lo ospita, risultando troppo largo per lo
spazio vuoto trai gradini del dossale. La datazione, alla luce di questi frammentari e discordanti
elementi potrebbe porsi verso la seconda metà del XVIII secolo, giustificabile con la pacatezza
della superficie lignea e la semplicità decorativa sia plastica che pittorica116.
16. Tabernacolo di San Giovanni in Fiore117
Il piccolo ciborio del convento di San Giovanni in Fiore, datato al 1762 e firmato da fra
Francesco Maria da S. Giovanni118, insieme a quello, appena visto, di Corigliano, è il secondo
unicum della provincia di Cosenza. L’opera, posta sull’altare maggiore della chiesa conventuale,
non è assimilabile ad alcun’altra testimonianza artistica cappuccina, non presentando, a parte il
materiale usato (diverse essenze lignee), nessun tipo di decorazione o concezione strutturale
codificata all’interno dell’ambiente fratesco.
La specificità del ciborio consiste nell’accogliere modi decorativi e compositivi legati
all’ambiente laico e lezioso tardo settecentesco, estranei a qualsivoglia tradizione francescana.
Vicina alle edicole marmoree poste al centro del dossale degli altari maggiori
settecenteschi119, il ciborio consta, essenzialmente, della porta della custodia inquadrata da un
fastigio architettonico con colonne che reggono una trabeazione convessa da cui pende un
baldacchino. Le colonnine lisce sono decorate con intarsi a motivi fitomorfi in legno chiaro, mentre
ricchissimi tralci floreali con inserzione di animali, si distendono attorno alla porta a tutto sesto e
sulla specchiatura centrale del piccolo basamento.
Sui plinti delle colonnine appaiono angeli inginocchiati in adorazione e figurine di santi a
mezzobusto mentre la cornice della trabeazione, che segue l’andamento convesso dell’intero
ciborio, è decorata con motivi floreali.
L’opera nel suo insieme è un piccolo gioiello ligneo di squisita fattura, in cui si riconosce
una attenzione verso gli il corretto uso degli elementi architettonici, tant’è vero che i capitelli in
116
Vedi oltre nel testo, le possibili analogie con il tabernacolo di S. Giovanni.
Cfr. G. Leone, I cappuccini… op. cit., vol. II, 271 - 280.
118
Cfr. G. Leone, Necrologio…, op. cit. e nota n° 77.
119
Vedi nota n°34.
117
49
legno scuro, sono totalmente aderenti alle regole dell’ordine composito e in relazione proporzionale
ai fusti delle colonne che li reggono. Si potrebbero avanzare ipotesi di vicinanza ideale tra, fra
Francesco Maria da S. Giovanni l’artefice del tabernacolo, e l’ignoto artista legato al ciborio di
Corigliano. Una sorta di attenzione verso l’eleganza formale, raggiunta attraverso la levigatura
ossessiva della superficie lignea, unita ad una sorta di “critica” nei confronti delle codificate forme
cappuccine, potrebbe far pensare ad un contatto tra i due artisti o, addirittura al riconoscimento di
una sola mano, purtroppo la mancanza di documenti relativi al tabernacolo di Corigliano, non dà
supporto all’ipotesi avanzata.
VII. CONCLUSIONI
Il patrimonio artistico cappuccino in Calabria, come si è potuto vedere nella lunga
trattazione, risulta estremamente frammentario e, principalmente, molto poco studiato. Il problema,
purtroppo, non è legato solo all’Ordine Cappuccino, ma investe tutta la cultura calabrese,
sicuramente martoriata e frammentata dai continui terremoti ma anche madre di una popolazione
molto poco attenta al proprio patrimonio e in grado di disperderlo senza coscienza.
Tale situazione atavica non avendo risparmiato nemmeno il patrimonio ecclesiastico, ha reso
difficile non solo l’effettivo studio sul campo degli oggetti analizzati (di cui solo una parte si trova
in loco), ma non ha permesso di provare, con un esaustivo apparato documentario, le ipotesi che si
sono fatte circa le attribuzioni o le datazioni. I problemi maggiori si sono riscontrati nella Provincia
reggina, in cui lo stato dei conventi e degli archivi è quasi disastroso e solo negli ultimi anni si sta
cercando di uscire dall’impasse. La mancanza di biblioteche organizzate, di fonti documentarie
accessibili, la frammentarietà del patrimonio artistico, ha messo a dura prova la memoria storica
dell’Ordine e la possibilità che essa venga tramandata. La provincia di Cosenza invece, pur avendo
subito anch’essa la dispersione degli oggetti d’arte e dei documenti di archivio, da più tempo ha
cominciato una riorganizzazione delle proprie fonti ma, a differenza della provincia di Reggio, ha
assistito alla estrapolazione degli oggetti d’arte dal proprio luogo di origine, per cui è risultato più
faticoso rintracciare questi ultimi nelle nuove chiese in cui sono conservate, o presso musei o
depositi locali con la conseguente difficoltà nel ricostruire l’effetto globale legato alla presenza del
ciborio all’interno sia della ricca parete diaframma che dell’intero spazio ecclesiastico originario.
Nonostante ciò un lavoro di catalogazione per un primo approccio alla cultura figurativa
cappuccina dell’estremo sud della Penisola è stato fatto; si sono avanzate attribuzioni, riconosciute
scuole artistiche (o artigianali), che penetravano in modo più o meno evidente nell’entourage
monastico, distinte, infine, tipologie.
50
Proprio questa distinzione tipologica ha permesso, inoltre, di superare le stantie attribuzioni
a figure ben precise di ambiente fratesco senza criterio riconosciute come artefici di tutte le opere
sparse nel territorio calabrese, riconoscendo definitivamente la personalità di fratelli laici abilissimi
artigiani e la grande influenza di questi all’interno dell’ambiente monastico.
Ci si riferisce, nel caso specifico, alla figura di fra Ludovico da Pernocari, indiscutibilmente
stella di prima grandezza nel campo dell’intaglio e dell’intarsio ligneo settecentesco nella Calabria
meridionale, ma certamente non il solo a dettare regole circa i linguaggi decorativi e compositivi.
L’influenza del frate artista informa tutta la produzione artistica della Calabria del sud imponendo
composizioni architettoniche semplici, basate sulla sovrapposizione di piani degradanti verso l’alto,
in cui la verticalità, sempre denunciata, raggiunge l’apice nelle opere tardosettecentesche. L’opera
di fra Ludovico (autore dei cibori di Reggio Calabria, Gerace e Nicastro), si riconosce per una
rarissima sensibilità cromatica, un elegantissimo uso dell’intarsio e una attenzione miniaturistica
verso l’intaglio degli elementi lignei. Echi dell’arte legata a questo frate si ritrovano nelle opere dei
sui allievi e collaboratori: Domenico da Pernocari (ipotizzato autore dei tabernacoli di Rombiolo e
Tropea, che dal maestro, assimila la tendenza a frammentare la superficie luminosa attraverso la
tecnica dell’intaglio, ma che non riesce a staccarsi dalle forme monumentali d’inizio secolo), e
Francesco da Chiaravalle (riconoscibile nel ciborio di Vibo Valentia e legato agli effetti
policromatici propri dell’intarsio, vicino all’eleganza formale delle ultime opere di Ludovico ma
estraneo alla sensibilità materica e cromatica di quest’ultimo, nei confronti dell’avorio e della
madreperla). Ancora echi della complessa personalità di fra Ludovico si ritrovano nell’opera di fra
Bernardino da Sant’Agata: il ciborio di Paola (nella Provincia di Cosenza), principalmente
nell’attenzione al fatto luministico e cromatico raggiunto attraverso l’uso di intarsi geometrici e
attento intaglio delle membrature architettoniche. Il ciborio di Paola però, ad una più ampia analisi,
sembra inserirsi in un diverso contesto stilistico, più legato a forme monumentali e meno aperto al
dialogo con l’atmosfera, che informa un gruppo ben definito di cibori dell’area medio cosentina. Si
riconoscono infatti appartenenti ad una matrice comune i tabernacoli di Castrovillari, Cassano
Jonio, Rossano, Luzzi e Paola, opere datate alla metà del XVIII secolo in cui l’attenzione è volta
alla esaltazione dell’intaglio con un sempre maggiore disinteresse verso l’uso di essenze lignee
diverse e di avorio e madreperla.
Accanto a questa corrente definita, si pone un secondo gruppo di cibori, a pianta
pseudocruciforme, di dimensioni ridotte e a rapido sviluppo verticale. I tabernacoli in questione
sono quelli di Morano, Mormanno e Acri, legati alla figura chiave di Luca da Mormanno il cui
ciborio (quello di Morano), del 1711, costituisce un esempio di armonia cromatica e compositiva da
51
cui è distante non solo il monocromo tabernacolo di Acri, ma anche il variopinto manierato ciborio
di Mormanno.
La terza serie dei cibori cosentini è quella legata alle esperienze scultoree e decorative legate
alle maestranze roglianesi, famosi in tutta la Calabria per l’esuberanza plastica e gli eccezionali
virtuosismi dimostrati nel comporre fastigi e decorazioni lignee e in stucco. I tabernacoli in
questione (Castiglione Cosentino, Rogliano, Cetraro, Orsomarso e Oriolo), sono dei veri e proprio
gioielli lignei, in cui la scultura prende prepotentemente il posto all’architettura e gli effetti di
policromia non sono raggiunti solo attraverso l’intarsio eburneo e madreperlaceo ma,
principalmente, grazie alla trattazione della accidentata superficie lignea. Un’impressionante
tripudio di angeli e telamoni invade ogni parte della composizione; la scultura passa con estrema
facilità dall’essere elemento tettonico (una sorta di bauplastik), a puro escamotage decorativo
invadendo, come nel caso di Orsomarso (forse il capolavoro del genere), anche le falde della cupola
piramidale o troncoconica, che contribuisce a evidenziare la tensione dinamica in ogni tempietto.
Non è facile, nel caso dei cibori appartenenti a quest’ultima serie, riconoscere una paternità certa
(escludendo quello di Rogliano, di Lorenzo da Belmonte), e ritrovando la stessa mano nel
tabernacolo di Castiglione e di Oriolo.
Due unica sono invece i cibori di Corigliano Calabro e di S. Giovanni in Fiore, tipici di una
cultura laica raffinata e, probabilmente frutto di una committenza esterna al mondo minoritico. Si è
voluto riconoscere una sorta di comunanza tra le due opere, legata proprio a questa estraneità ai
cappuccini; estraneità, peraltro, non provata da alcun documento.
Concludendo, si può asserire con estrema certezza che ciò che salta immediatamente agli
occhi, attraverso l’analisi delle opere, è che urge una catalogazione dell’intero patrimonio artistico
cappuccino locale, una ricerca sistematica d’archivio e delle opere disperse per poter ricostruire non
solo un corpus materico ma, principalmente, il corpus mnemonico dell’arte e della cultura
minoritica 600esca e 700esca nel vastissimo e inesplorato territorio calabrese.
ATTILIO SPANÒ
VIA DIAZ, 2
89040 GERACE (RC)
Laureato in Lettere, ind. Storia dell’Arte Medioevale, presso l’Università di Roma”La
Sapienza”, con una tesi sulla “Chiesa di San Francesco d’Assisi a Gerace”. Già assistente presso
la cattedra di Storia dell’Arte Medioevale di Roma “La Sapienza”, Dottorando di Ricerca in
“Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali” presso l’Università di Reggio Cal., con una
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tesi sulle Presenze francescane nella Calabria del ‘300;
Specializzando in Storia dell’Arte
Medioevale e Moderna presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Collabora con la cattedra di
Storia dell’Architettura Moderna presso l’Università di Reggio Calabria (fac. Architettura).
Collabora con i frati cappuccini della Provincia monastica di Reggio Calabria per la
redazione della rivista Orizzonti Francescani e ha all’attivo numerose pubblicazioni sulla storia
dell’Arte dei Cappuccini in Calabria.
53