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volume N, n. n del 201X
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sinossi internet di diritto del lavoro e della sicurezza sociale
internet synopsis of labour law and social security law
Lavoro e famiglia di fatto
DI
ALESSIA G ABRIELE
Abstract - The essay addresses critical issues regarding employment relationship in “more
uxorio” family . After an analytical reconstruction of the divergent positions existing in doctrine and in jurisprudence, the A. debates the matter finding a solution based on labour law
tools. She puts to a test the jurisprudential trend that deems free income for the “more uxorio”
family workers. Despite of this statement, the A. fits the recent guidelines about qualification of
employment relation within “more uxorio” family..
Résumé - El essai analyse les aspects critiques de la rélation de travail dans le cadre de
l’entreprise géré par le vivant sous le même toit more uxorio. Aprés un examen de doctrine et
jurisprudence, l’auteur offre une interprétation du phénomène par rapport au droit du travail
sans évaluations idéologiques. Dans cette perspective on considére residuelle l’option jurisprudentielle, pour laquelle ce type de travail est gratuit, et donc l’auteur-d’un point de vue
systématique - reconduit le cas d’espèce dans la subordination.
Resumen - El texto examina los perfiles críticos relativos a la prestación de trabajo en el
ámbito de la empresa administrada por el conviviente de hecho. Antepuesta una analítica re construcción de las divergentes posiciones doctrinales y jurisprudenciales, el Autor afronta el
tema tratando de hallar una solución hermenéutica a través de las categorías del derecho laboral, excluyendo contaminaciones de tipo ideológico que puedan perjudicar la valoración en
el caso concreto de la tipología de prestación despachada por el conviviente de hecho. Viene
en tal modo relegado en una área residual la perspectiva jurisprudencial que todavía hoy prefiere una cualificación de gratuidad de la prestación y, siguiendo las recientes orientaciones
en tema de cualificación de la relación, el Autor ofrece una original perspectiva de collocación sistemática del caso en la área de la subordinación.El texto examina los perfiles críticos
relativos a la prestación de trabajo en el ámbito de la empresa administrada por el conviviente de hecho. Antepuesta una analítica reconstrucción de las divergentes posiciones doctrinales
y jurisprudenciales, el Autor afronta el tema tratando de hallar una solución hermenéutica a
través de las categorías del derecho laboral, excluyendo contaminaciones de tipo ideológico
que puedan perjudicar la valoración en el caso concreto de la tipología de prestación despachada por el conviviente de hecho. Viene en tal modo relegado en una área residual la perspectiva jurisprudencial que todavía hoy prefiere una cualificación de gratuidad de la prestación y, siguiendo las recientes orientaciones en tema de cualificación de la relación, el Autor
ofrece una original perspectiva de collocación sistemática del caso en la área de la subordinación.
Riassunto - Il saggio esamina i profili critici relativi alla prestazione di lavoro resa
nell'ambito dell'impresa gestita dal convivente di fatto. Premessa un'analitica ricostruzione
delle divergenti posizioni dottrinali e giurisprudenziali, l'A. affronta il tema cercando di rinvenire una soluzione ermeneutica con le categorie del diritto del lavoro, escludendo contaminazioni di tipo ideologico che possano pregiudicare la valutazione nel caso concreto della tipologia di prestazione resa dal convivente di fatto. Viene in tal modo relegata in un'area di resi -
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A. Gabriele
dualità la prospettiva giurisprudenziale che ancora oggi propende per una qualificazione di gratutità
della prestazione e, seguendo i recenti orientamenti in tema di qualificazione del rapporto, l'A. offre
un'originale prospettiva di inquadramento sistematico della fattispecie nell'area della subordinazione.
Sommario. 1. Il ‹‹principio personalistico›› del diritto del lavoro nel diritto di famiglia: origini e ratio di una tutela. - 2. Gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza in materia di impresa fami liare e di famiglia di fatto. - 3. Impresa familiare e famiglia di fatto: impossibilità di un’estensione analogica della disciplina legislativa. - 4. Per una tutela sostanziale del lavoro del convivente: i tentativi
della giurisprudenza e la residualità dell’area del lavoro gratuito. - 5. La tesi giurisprudenziale della
gratuità della prestazione di lavoro del convivente di fatto. - 6. Il lavoro prestato dal convivente:
un’ipotesi di riconduzione nell’alveo della subordinazione.
1. Il ‹‹principio personalistico›› del diritto del lavoro nel diritto di
famiglia: origini e ratio di una tutela.
La prestazione di lavoro resa nell’ambito della cosiddetta famiglia di fatto rappresenta un tema pervaso da suggestioni ideologiche, e denso di snodi problematici, vuoi per le difficoltà definitorie della fattispecie, vuoi per le esigenze di tutela
anche sociale di posizioni contrattuali “deboli” che emergono dalla prassi.
Prima di accingersi alla disamina dell’argomento oggetto di questa trattazione,
appare più corretto sotto il profilo metodologico ripercorrere le tappe legislative e
giurisprudenziali che hanno caratterizzato l’evoluzione del lavoro nella famiglia
fondata sul matrimonio, per poi poter verificare se, e attraverso quali strumenti, sia
o meno possibile applicare le medesime regole al lavoro svolto nell’ambito della
famiglia di fatto1.
Va precisato fin d’ora come nel secondo caso non esista un organico apparato
normativo di riferimento, a meno di non prendere in considerazione le norme di
dettaglio o i principi elaborati dalla giurisprudenza che, nonostante alcuni tentativi
interpretativi, non possono certo rappresentare un coerente e autosufficiente corpus
di disciplina.
In questa sede, pertanto, si ricostruiranno le motivazioni che hanno condotto
all’introduzione dell’istituto dell’impresa familiare nell’ordinamento e, quindi, ne
saranno delineati gli aspetti di più immediato interesse ai fini di una possibile soluzione al nodo delle relazioni cosiddette more uxorio2.
1
Per una riflessione ampia sul tema della famiglia nella società, Mengoni, La famiglia in una società
complessa, in Iustitia, 1990, p. 1 ss.
2
In merito alla terminologia da adoperare, il dibattito in dottrina è abbastanza ampio e sicuramente non
indifferente alle caratterizzazioni ideologiche: per ora si rinvia a Colussi, voce Impresa familiare, in Noviss. dig. it., Appendice, IV, Torino, 1980, p. 69, secondo il quale ‹‹si tratta cioè di fenomeni in cui ai caratteri affettivi che sono propri della convivenza familiare non corrisponde il fondamento giuridico di
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Lavoro e famiglia di fatto
3
Com’è noto, prima della riforma del 1975, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale e dottrinale, la partecipazione all’attività produttiva della famiglia, anche se svolta con carattere di prevalenza e di continuità, era considerata co me una prestazione di lavoro resa affectionis vel benevolentiae causa, a cui si applicava una presunzione iuris tantum di gratuità3.
Si riteneva che ‹‹sul piano del diritto di famiglia, in un contesto di rapporti giuridici così intimamente permeato di elementi etici da divenire simile “ad un’isola che
il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto”, si delinea (…) la figura del
contratto di lavoro, la cui tipica natura sostanzialmente commutativa (…) non sempre pare aderire allo spirito proprio dei rapporti familiari›› 4. Anche la legislazione
sociale non prendeva in considerazione i rapporti di lavoro dei familiari perché già
tutelati dai ‹‹vincoli di naturale affezione e solidarietà personale ed economica››
senza necessità di un’apposita convenzione 5. L’interesse del singolo, infatti, era dequesta e cioè il matrimonio››. In termini generali, Auletta, Diritto di famiglia, Torino, 2011, p. 7, individua nella famiglia di fatto una famiglia fondata solo sul consenso della coppia che, pur attuando una comunione di vita, non intende sottoporre la propria unione al vincolo giuridico.
3
La presunzione di gratuità elaborata dalla giurisprudenza per il lavoro reso in ambito familiare si contrapponeva alla generale presunzione (semplice) di onerosità del rapporto di lavoro, riconducendo in tal
modo la ripartizione degli oneri probatori nell’alveo della ‹‹non operatività della presunzione contraria,
il che vale quanto dire operatività della regola generale (art. 2697)››. In questa prospettiva, pertanto, al
familiare che aveva provato la sussistenza della subordinazione spettava anche l’onere di provarne
l’onerosità, così Realmonte, Subordinazione, associazione in partecipazione e impresa familiare, in Autonomia e subordinazione nelle nuove figure professionali del terziario, a cura di Deodato e Siniscalchi,
Milano, 1988, p. 108; sulla presunzione generale di onerosità nel rapporto di lavoro si vedano le osservazioni di Vallebona, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, p. 118 ss.; per ulteriori
approfondimenti sul punto, Venditti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare anche dopo le recenti
riforme, in www.temilavoro.it, 4, 2012, p. 2, nt. 4.
4
In dottrina sostenevano questa tesi, tra i tanti: Barassi, Il diritto del lavoro, I, Milano, 1957, p. 104, che
riteneva l’elemento della subordinazione talmente estraneo ai rapporti di partecipazione all’attività produttiva della famiglia da poter ‹‹insinuare nel rapporto quella particolare alienità spirituale che sarebbe
contraria alla natura di quel rapporto e finirebbe con l’erigere il lavoratore in un certo senso contro l’azienda domestica›› e sosteneva che la prestazione di lavoro nella famiglia ponesse in essere un rapporto
giuridico a struttura associativa in cui prevaleva un carattere di ‹‹cordialità››; Ghezzi, La prestazione di
lavoro nella comunità familiare, Milano, 1960, p. 2 s., secondo il quale ‹‹la incompatibilità tra lo spirito
del diritto del lavoro (…) e la limitata autonomia che si riscontra nei rapporti di diritto familiare (…) si
manifesta in modo stridente››.
5
Ghezzi, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, cit., p. 30; Nunin, Lavoro familiare e lavoro nell’impresa familiare, in Diritto del lavoro, Commentario2 diretto da Carinci, II, Torino, 2007, p.
125 ss. e giurisprudenza ivi citata. L’unica forma di tutela sia pure limitata alla sfera dei diritti previden ziali e assicurativi era rappresentata dall’art. 2 della l. n. 463/1959 che prevedeva l’obbligo di assicurazione per alcuni familiari (coniuge, figli, nipoti, ascendenti, fratelli e sorelle) considerati come “coadiuvanti” dell’imprenditore. Ma nonostante questa apertura, non si è mai prospettata la configurabilità di
un rapporto di lavoro subordinato tra soggetti uniti da vincoli di coniugio o di parentela. Per una detta volume 5, n. 2 del 2013
4
A. Gabriele
stinato a confondersi fino a scomparire nella più ampia tutela riconosciuta
dall’ordinamento all’interesse economico familiare.
In questi casi la presunzione di gratuità poteva essere vinta, da parte del familiare che rivendicava l’onerosità del rapporto, solo attraverso la rigorosa e puntuale
allegazione probatoria, che dimostrasse l’animus contrahendi comune ad entrambe
le parti e lo svolgimento del rapporto secondo lo schema tipico del lavoro subordinato; in caso contrario, per unanime convincimento della giurisprudenza, la prestazione di lavoro sarebbe stata a titolo gratuito6.
Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia non trascura questo aspetto delle realtà familiari e innova la materia con una previsione normativa ad hoc, che si occupa principalmente dell’attività di lavoro (in senso lato) svolta nella famiglia e per la
famiglia7.
Con l’art. 89, l. n. 151/1975, è stata introdotta, all’interno del I libro del codice
civile (‹‹Delle persone e della famiglia››), una nuova sezione ‹‹Dell’impresa familiare›› nel cui ambito sistematico si colloca l’art. 230 bis rubricato, appunto, ‹‹Impresa familiare›› secondo cui ‹‹Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il
familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o
nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati
con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in
proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. (…) Il lavoro della donna è
gliata disamina della legislazione in materia di rapporti familiari si rinvia a Papaleoni, voce Lavoro Familiare, in Enc. giur., Roma, 1990; anche Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 49 ss.; per una ricostruzione degli orientamenti ante riforma e dei lavori preparatori della riforma, Di Francia, Il rapporto di
impresa familiare, Padova, 1991, p. 1 ss.
6
In tal senso le decisioni sono numerose: per citarne alcune Cass., 3 febbraio 1956, n. 4110, in Foro it.,
1957, I, c. 583; Cass., 18 giugno 1965, n. 1274, in Riv. dir. lav., 1966, II, p. 423; Cass., 25 maggio 1960,
n. 1356, ibidem, 1961, II, p. 169; Cass., 20 luglio 1969, n. 1871, in Giur. it., 1970, I, 1, c. 200. In dottrina si vedano le condivisibili considerazioni critiche di Dell’Amore, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in Riv. dir. lav., 1976, p. 115 ss., cui si rinvia anche per un dettagliato excursus sulla giurisprudenza precedente la riforma. Per una prima timida apertura della giurisprudenza di merito a riconoscere un rapporto di lavoro subordinato tra congiunti si veda Trib. Verona, 27 gennaio 1972, in Giur. it.,
1972, I, 2, c. 726. Per un panorama della giurisprudenza che riteneva di poter tutelare il lavoro familiare
con l’estensione della comunione tacita familiare preriforma, e per le opinioni discordanti della dottrina
si rinvia a: Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. cod. civ., a cura di Galgano, Libro I, Delle persona e della famiglia, Tomo II, sub art. 230 bis, Bologna-Roma, 2004, p. 8 s.; Prosperi,
Impresa familiare, in Il codice civile. Commentario, già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli,
Milano, 2006, p. 11 ss.
7
Florio, Famiglia e impresa familiare, Bologna, 1977, p. 1 ss. secondo il quale ‹‹la riforma ha completato il quadro di rinnovamento e di emancipazione del nucleo familiare allorquando si è occupata del
fattore “lavoro” che rappresenta la struttura portante di quella “società naturale” che è la famiglia››.
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Lavoro e famiglia di fatto
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considerato equivalente a quello dell’uomo. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli
affini entro il secondo (…)››8. L’istituto quindi è una creazione legislativa 9 che,
seppure in forma residuale, avvia nell’ordinamento una forte tutela sociale ed economica per tutti coloro che, legati da vincoli di parentela o di coniugio, partecipano
al processo produttivo dell’impresa gestita dal capofamiglia.
La precisazione non va sottovalutata perché, con questa previsione, il legislatore
è intervenuto modificando profondamente l’assetto precostituito (fondato su consolidati equilibri “endofamiliari”) dei principi e delle regole che presiedevano ‹‹alle
relazioni familiari, sia personali che patrimoniali››10.
La dottrina concorda nel ritenere che, con l’art. 230 bis c.c., il legislatore abbia
attuato le direttive costituzionali, costruendo intorno alla persona che lavora
nell’impresa gestita dal familiare una fitta rete di garanzie sociali ed economiche
che ne rappresentano lo statuto giuridico inderogabile (se non in melius) dall’autonomia privata11.
8
Germano, voce Lavoro familiare, in Dig., disc. priv., sez. comm., VIII, Torino, 1992, p. 234; A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, Diritto di famiglia. Commento sistematico della legge 19 maggio 1975, n.
151. Legislazione - Dottrina - Giurisprudenza, I, art. 230-bis, Milano, 1984, p. 1233, che criticano la
norma perché “polisensa” e in grado di prestarsi a qualsiasi lettura “specie a livello politico”; Ghezzi,
Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976,
p. 1361 ss., che ha riconosciuto alla riforma il merito di avere affermato il principio democratico
all’interno della comunità familiare basandosi più sul consenso che sulla coercizione.
9
Secondo la dottrina l’istituto dell’impresa familiare trae ispirazione dalla comunione tacita familiare
che può essere considerato il suo antecedente storico; secondo Galasso, Impresa familiare e comunione
tacita familiare nell’esercizio dell’agricoltura, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, a cura di Maisano, Napoli, 1977, p. 138 ss., l’origine dell’esigenza di una tutela del lavoro nella famiglia va rintracciata nell’ambito del diritto agrario, con riferimento alla famiglia rurale; concorda con questa interpretazione anche Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 2 ss.; sul punto anche Colussi, voce
Impresa familiare, cit., p. 174.
10
Sulla relazione tra l’introduzione del nuovo istituto e il ruolo svolto dalla famiglia, si vedano le osservazioni di Mengoni, in Mengoni, Proto Pisani, Orsi Battaglini, L’influenza del diritto del lavoro su diritto civile, diritto processuale civile, diritto amministrativo, in Dir. lav. rel. ind., 1990, p. 21 ss.; nonché
di recente, Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 1, cui si rinvia anche per una dettagliata descrizione dell’iter legislativo che ha preceduto la stesura della norma, p. 4 ss.
11
Così Oppo, Dell’impresa familiare, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di
Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 518, afferma che al familiare non possa essere riconosciuta
una posizione deteriore rispetto a quella prevista dall’art. 230 bis c.c.; concorda con questa posizione
anche Panuccio, voce Impresa familiare, in Enc. dir., Agg., IV, Milano, 2000, p. 668, secondo il quale va
privilegiata la tutela del contraente più debole rispetto al principio di libertà di manifestazione della volontà delle parti. Di contrario avviso è Florio, Famiglia e impresa familiare, cit., p. 127, quando afferma
che la norma è inderogabile, a meno che le parti non abbiano regolato diversamente il rapporto. Sul
punto anche le posizioni di Libertini, Sull’impresa familiare e sulla derogabilità della disciplina
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6
A. Gabriele
Certo è che il fulcro della disciplina è la persona che lavora12.
E oggetto di tutela sono i valori costituzionali indiscussi della dignità, della libertà e dell’uguaglianza13.
Come recita l’art. 1, comma 1, Cost., secondo l’interpretazione che ne è stata data da un’autorevole dottrina, il rinvio al “lavoro” è da intendersi come una sineddoche che indica non il concetto astratto ma la “persona che lavora”, dal momento
che non è ontologicamente concepibile il lavoro senza l’individuo che lo realizza,
in qualunque delle sue forme e modalità14.
Ne consegue che, anche alla persona che lavora in ambito familiare, non possono essere negate le garanzie e le tutele che l’ordinamento costituzionale attribuisce
a tutti i cittadini nelle formazioni sociali in cui si svolge la loro personalità 15.
La famiglia, intesa secondo lo schema di cui alla norma in esame, è una formazione sociale speciale, a cui la Costituzione dedica l’art. 29, norma di apertura del
titolo II sui rapporti etico-sociali, secondo cui ‹‹La Repubblica riconosce i diritti
della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio››.
dell’art. 230 bis, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, cit., p. 121 ss. e di Franceschelli, Much ado
about nothing in tema di impresa familiare?, in Diritto di famiglia (Raccolta di scritti di colleghi della
Facoltà giuridica di Roma e di allievi in onore di R. Nicolò), Milano, 1982, p. 502, in entrambi i casi gli
Autori tendono a riconoscere all’art. 230 bis c.c. una natura imperativa e inderogabile che delinea una
tutela del familiare lavoratore più intensa rispetto a quella del rapporto di lavoro subordinato.
12
Con riguardo ai valori sottesi alla prestazione di lavoro ex art. 230 bis c.c., si rinvia a Di Francia, Il
rapporto di impresa familiare, cit., p. 168 s., secondo il quale ‹‹la funzione cui assolve l’art. 230 bis
(…) si eleva sul piano della tutela della libertà e della solidarietà, caratterizzanti la prestazione di lavoro, siccome espressione di valori propri della famiglia››. Sul punto anche Di Rosa, Sub art. 230 bis, in
Commentario del Codice civile, diretto da Gabrielli, Della Famiglia (artt. 177- 342 ter), a cura di Balestra, UTET, 2010, p. 373 ss.
13
Nel senso che ‹‹proprio nella norma in esame, la legge di riforma del diritto di famiglia mostra in misura notevole la propria innovatività, in quanto colloca la convivenza familiare in un contesto nel quale
la prestazione lavorativa assume il rilievo che le compete in attuazione dei principi costituzionali ed
adegua la normativa dello Stato alla realtà sociale››, Germano, voce Lavoro familiare, cit., p. 237;
Dell’Amore, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, cit., p 123 ss., secondo cui ‹‹l’art. 230-bis
rappresenta uno dei più seri e risoluti tentativi di attuazione di un insieme di norme costituzionali considerate fino ad ora meramente “programmatiche” e risoltesi in null’altro che in sterili enunciazioni di
principio››.
14
Mengoni, Fondata sul lavoro. La Repubblica tra diritti indisponibili e doveri inderogabili di solidarietà, in Il lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, a cura di Napoli, Milano, 2004; Napoli, Le norme
costituzionali sul lavoro alla luce dell’evoluzione del Diritto del lavoro, in Lavoro diritto valori
(2006-2009), Torino, 2010, p. 5.
15
Mancini, Sub art. 3, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Principi fondamentali
(artt. 1-12), Bologna-Roma, 1975, p. 209 ss.
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Lavoro e famiglia di fatto
7
Inoltre, è proprio all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi di cui all’art. 29
Cost. che l’art. 230 bis c.c. rinvia quando espressamente sancisce che ‹‹il lavoro
della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo››, e ciò coerentemente
anche all’art. 37, comma 1, Cost.16.
Ma se, come detto, il pilastro della norma in esame è la persona che lavora nella
famiglia quale formazione sociale naturale fondata sul matrimonio, allora vuol dire
che in essa trova attuazione anche l’art. 35 Cost., comma 1, la cui direttiva è appunto la ‹‹tutela del lavoro in tutte le sue forme››17.
Non essendo questa la sede per un approfondimento sul punto18, basti solo dire
che la connotazione personalistica dell’art. 230 bis c.c. ne giustifica l’attrazione
nell’area del diritto di famiglia piuttosto che nell’ambito del diritto dell’impresa 19;
16
Questo profilo è particolarmente rilevato da Germano, voce Lavoro familiare, cit., p. 240 che tra gli
articoli della Costituzione attuati con la riforma del diritto di famiglia annovera anche l’art. 46 Cost.; in
termini sostanzialmente analoghi si esprime anche Florio, Famiglia e impresa familiare, p. 19 s. In generale, sull’art. 37 Cost., si veda Treu, Sub art. 37, in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca,
Rapporti economici (artt. 35-40), I, Bologna, p. 168. Hanno visto nell’art. 230 bis c.c. un esperimento di
“cogestione” in attuazione della direttiva di cui all’art. 46 Cost. anche Panuccio, L’impresa familiare,
Milano, 1976, p. 100 e Vidiri, Profili giuslavoristici dell’impresa familiare, in Giur. it., 1988, IV, c. 287
ss. Sul punto, si rinvia alle riflessioni di Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., p. 1361 ss.
17
Treu, Sub art. 35, in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca, Rapporti economici (artt.
35-40), I, Bologna, p. 1 ss.
18
Per approfondimenti si rinvia a Dell’Amore, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, cit., p.
123 ss., che considera l’art. 230 bis c.c. come attuazione degli artt. 3, comma 2; 4, comma 1; 11, 29, 35,
36, 37, e 46 Cost. Secondo Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Il contratto
di lavoro, a cura di Napoli, Milano, 2004, p. 72, ma già in Dir. lav. rel. ind., 1990, 45, p. 5 ss., ‹‹i principi del diritto del lavoro, specialmente il principio del giusto salario (art. 36 Cost.), sono stati la ragione
determinante dell’introduzione (…) dell’istituto dell’impresa familiare››.
19
In questo senso Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 12 s.; ma anche Colussi, voce
Impresa familiare, cit., p. 52 s.; nonché Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu-Messineo, continuato da Mengoni, VI, sez. II, 2, Milano,
1984, secondo il quale l’impresa familiare configurerebbe un istituto prima relativo ai rapporti di famiglia e poi all’attività di impresa; secondo Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, cit., p. 138 s., il
rapporto di impresa familiare rivestirebbe le caratteristiche tipiche dei rapporti giuridici familiari, cioè
la tipicità e la durata. Secondo Prosperi, Impresa familiare, cit., p. 3, è indiscutibile che ‹‹le regole che
governano l’impresa familiare siano sensibilmente dissonanti con molti dei principi caratterizzanti la disciplina generale adottata dal nostro ordinamento con riguardo all’attività di impresa››; lo stesso A. denuncia altresì come ‹‹l’impresa familiare risulti tuttora un istituto “ambiguo”, o, meglio, dalla natura irrisolta››; sul punto cita Irti, L’ambigua logica dell’impresa familiare, in Riv. dir. agr., 1980, I, p. 525 ss.
Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., p. 1379, sostiene
‹‹che siamo qui di fronte ad una norma assai più di diritto del lavoro che di diritto commerciale (…)››;
Galantino, Opzioni qualificatorie in tema di lavoro familiare, in Dir. lav., 1999, I, p. 260, secondo la
quale l’inquadramento delle figure del lavoro familiare presenta ‹‹evidenti difficoltà, principalmente levolume 5, n. 2 del 2013
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A. Gabriele
il diritto del lavoro, in quanto studia una componente autentica e indefettibile di
ogni individuo, qual è la dimensione lavorativa, mantiene intatta la sua autonomia
concettuale e affianca il diritto di famiglia, offrendo in questo contesto le sue categorie ermeneutiche per dirimere i nodi che inevitabilmente discendono dall’applicazione concreta di una norma generale e astratta20.
E con il diritto di famiglia, in questa prospettiva, il diritto del lavoro condivide
anche la ratio, individuando nel soggetto più debole il destinatario privilegiato della tutela21.
Una tutela che, per comune ammissione della dottrina, non coincide con quelle
già previste per i rapporti di lavoro “tipici”, perché il legislatore ha voluto qui introdurre ‹‹un’ipotesi specifica volta a regolamentare il lavoro familiare››; non ha
infatti legato la prestazione di lavoro ad una retribuzione in senso tecnico ma ha
previsto, in capo al familiare, il riconoscimento di una serie di diritti patrimoniali e
amministrativi22.
Il “lavoro” nell’impresa familiare rappresenta uno degli aspetti più caratterizzanti della disciplina23 e l’oggetto della previsione normativa va rintracciato proprio nella prestazione continuativa di lavoro del familiare, intesa come fatto giurigate al loro carattere ineliminabilmente multidisciplinare, contigue come sono rispetto a territori di elezione del diritto privato e, in particolare, di quello di famiglia››.
20
Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, cit., p. 70 s., ha sostenuto che ‹‹l’influsso
del diritto del lavoro non tocca soltanto il diritto generale delle obbligazioni e dei contratti, ma investe
anche il diritto delle persone e della famiglia››. Panuccio, voce Impresa familiare, cit., p. 673, nt. 58,
rinviene nella tutela del lavoro il fondamento dell’istituto dell’impresa familiare.
21
Per una analitica descrizione degli orientamenti che in dottrina sono stati proposti in merito alla ratio
e alle finalità dell’art. 230 bis c.c., si rinvia a Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 13
ss.; Tanzi, voce Impresa familiare I) Diritto commerciale-Postilla di aggiornamento, in Enc. giur., XVI,
Torino, 2008, p. 1 ss.; in giurisprudenza, ex multis, Cass., 19 ottobre 2000, n. 13861, in Foro it., 2001, I,
c. 1228.
22
Gottardi, Le scelte professionali e il lavoro del minore nella famiglia, in L’autonomia dei minori tra
famiglia e società, Milano, 1980, p. 581 ss., secondo la quale andrebbe esclusa la valenza suppletiva
dell’istituto.
23
Panuccio, voce Impresa familiare, cit., p. 665 s., cui si rinvia per una ricostruzione delle posizioni antitetiche della dottrina sulla natura individuale o collettiva dell’impresa familiare; si vedano anche le posizioni di Irti, L’ambigua logica dell’impresa familiare, cit., p. 530 e Galgano, Diritto civile e commerciale, II, Padova, 1990, p. 116, secondo i quali la norma oscillerebbe tra la disciplina del rapporto societario e quella del rapporto di lavoro subordinato. Secondo Tanzi, voce Impresa familiare, cit., p. 2, cui si
rinvia per un’analitica descrizione del panorama giurisprudenziale, ‹‹si può ritenere che l’art. 230 bis
c.c. configuri un istituto di confine tra diritto dell’impresa e diritto del lavoro, in cui predomina la componente familiare›› e aggiunge ‹‹trattandosi di disciplina attinente a prestazioni di lavoro, sia pure qualificate dal vincolo di parentela, di affinità o di coniugio, essa è da considerare normativa di ordine pubblico, imperativa e inderogabile››.
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Lavoro e famiglia di fatto
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dico24 costitutivo di diritti e parametro di partecipazione 25.
2. - G LI ORIENTAMENTI DELLA DOTTRINA E DELLA GIURISPRUDENZA IN
MATERIA DI IMPRESA FAMILIARE E DI FAMIGLIA DI FATTO .
Tra i problemi più dibattuti in sede interpretativa, vi è l’interrogativo circa l’operatività delle garanzie offerte dall’istituto dell’impresa familiare nei confronti dei
componenti della cosiddetta “famiglia di fatto”26.
Sebbene il riferimento alla famiglia di fatto non fondata sul matrimonio civile
sottintenda in genere la rilevanza dei rapporti “quasi familiari” anche in linea collaterale, il dibattito ha riguardato solo i rapporti “quasi coniugali” 27: perché, se nel
primo caso si può ammettere la partecipazione all’impresa familiare della c.d. fa24
Per la tesi secondo cui ‹‹La fonte di questi diritti e delle correlative obbli gazioni non è un contratto,
espresso o tacito, fra i componenti della famiglia, ma è il fatto giuridico della prestazione continuativa
di attività lavorativa da parte di essi›› si veda Galgano, Diritto civile e commerciale, IV, Padova, 2004,
p. 141; in giurisprudenza, Cass.,18 aprile 2002, n. 5601, in Mass. Foro it., 2002; App. Messina, 16 febbraio 2000, in Nuova Giur. civ. comm., 2000, I, p. 566 ss., secondo cui ai fini dell’integrazione
dell’impresa familiare non occorre alcun negozio giuridico, essendo sufficiente il solo svolgimento continuativo di un’attività economica da parte del gruppo familiare; contra Cass., 23 novembre 1984, n.
6069, in Giust. civ., 1985, I, p. 18.
25
In merito alle differenti opinioni in dottrina sull’origine volontaristica o legale dell’istituto, si rinvia a
Lopilato, ‹‹Natura presuntiva›› dell’impresa familiare e rapporto di lavoro subordinato, in Dir. formaz.,
2003, 6, p. 1157 ss., secondo il quale l’origine dei diritti dei partecipanti all’impresa sarebbe da individuare in un atto giuridico. In giurisprudenza, per l’orientamento secondo cui non occorre alcun atto negoziale, Cass., 23 febbraio 1995, n. 2060, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, p. 171; Cass., 22 agosto
1991, n. 9025, in Riv. giur. lav., 1992, II, p. 475 ss., con nota di Prasca, Lavoro gratuito, semigratuito e
oneroso: i difficili percorsi del lavoro familiare e caritatevole, secondo cui l’attività di cui all’art. 230
bis c.c. ‹‹deve risultare evidente anche per facta concludentia in modo che appaia chiara l’utilizzazione
nell’impresa del lavoro del familiare››; Cass., 27 giugno 1990, n. 6559, in Giur. it., 1991, I, c. 444, con
nota di Di Francia, Il rapporto di impresa familiare nel pensiero della Cassazione, secondo cui la caratteristica dell’impresa familiare sta proprio nell’‹‹inesistenza di volontà contrattuale esplicita o
implicita››.
26
Sul tema in generale della convivenza more uxorio e sugli elementi costitutivi della fattispecie si rinvia agli altri capitoli del presente volume e, inoltre, ai seguenti autori: Barcellona, voce Famiglia (diritto civile), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 780 ss.; Dogliotti, voce Famiglia di fatto, in Dig., Disc.
priv., sez. civ., VIII, Torino, 1992, p. 188; Id., voce Famiglia di fatto, in Dig., Disc. priv., sez. civ., Aggiornam., t. II, Torino, 2007, p. 705; Tommasini, La famiglia di fatto, Il diritto di famiglia, in Tratt. dir.
priv., diretto da Bessone, I, Torino, 1999, p. 503-504; Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. dir. civ. comm.,
diretto da Cicu-Messineo, continuato da Mengoni, V, t. I, p. 185; Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1981, p. 127; Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1982, p. 18 ss.; Alpa, La famiglia di fatto: profili attuali, in Giur. it., 1989, IV, p. 401; Sesta, Verso nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano?, in Familia, 2003, p. 123. Si veda anche
Dogliotti-Figone, Impresa familiare: le problematiche più recenti, in Fam. dir., 2, 2011, p. 197 s.
27
L’espressione è di Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 69.
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A. Gabriele
miglia naturale28 anche in linea laterale, come il genitore e i figli naturali, il riferimento esplicito del testo al termine giuridico “coniuge” rende più controverso che
lo stesso ragionamento possa valere de plano anche per il convivente more uxorio29.
L’origine della questione è da ricollegare all’idea di famiglia cui il legislatore
del 1975 ha espressamente rinviato30. Anche senza invocare l’art. 29 Cost., infatti,
è ben chiaro che in mancanza di un’indicazione di segno contrario, l’art. 230 bis
c.c. per “famiglia” intenda solamente quella legittima 31. Alla famiglia di fatto si ritiene che possa discendere una forma di riconoscimento dall’art. 2 Cost. che offre
una più ampia garanzia per le formazioni sociali intermedie, alle quali appartiene
anche la famiglia in generale32.
Ciò però non può condurre a ritenere che, sebbene l’ordinamento garantisca solo
la famiglia fondata sul matrimonio come società naturale portatrice di diritti propri
ed esclusivi, lo stesso ordinamento si disinteressi totalmente del lavoro prestato dal
28
Per una dettagliata rassegna delle posizioni in merito alla identificazione della famiglia di fatto si rinvia a Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, cit., p. 269 s. e giurisprudenza e dottrina ivi citate.
29
Così Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 67.
30
Secondo Corte cost., 12 maggio 1977, n. 76, in Giur. cost., 1977, I, p. 672, ‹‹ogni altro aggregato, pur
socialmente apprezzabile, rimane estraneo al contenuto delle garanzie offerte dall’art. 29 Cost.››; v. anche le motivazioni di Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Nuova giur. civ., 1998, I, p. 678, con nota
di Ferrando, Crisi della famiglia di fatto, tutela dei figli naturali, assegnazione della casa familiare. In
dottrina vi è chi ritiene che non si possa in ogni caso fare riferimento ad un concetto di famiglia che
coincida con la sola famiglia legittima, Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, cit., p. 280; sul
punto si vedano anche le osservazioni di Bin, La famiglia: alla radice di un ossimoro, in Lav. dir., 2001,
p. 9 ss., in particolare, p. 12 s.
31
Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1981; Galgano, Diritto civile e commerciale,
IV, Padova, 1999, p. 10 ss.; Mengoni, La famiglia in una società complessa, cit., p. 6, secondo cui la famiglia di fatto ‹‹è una figura atipica a contenuto variabile›› che ‹‹può ottenere rilevanza giuridica solo
entro lo schema generale delle formazioni sociali garantite dall’art. 2 Cost. (…)››. Si vedano in giuri sprudenza le sentenze della Corte Costituzionale, secondo il cui orientamento la famiglia legittima ha
‹‹una dignità superiore in ragione dei “caratteri di stabilità e di certezza, e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio”››, mentre una consolidata convivenza assume rilievo costituzionale in virtù del riconoscimento operato dall’art. 2 Cost. per le formazioni sociali; Corte
cost., 18 novembre 1986, n. 237, in Foro it., 1987, I, c. 2353; Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, in
Giust. civ., 1989, I, c. 1782; Corte cost., 3 novembre 2000, n. 461, ivi, 2001, I, c. 295.
32
Secondo Caggia, Modelli e fonti del diritto di famiglia, in Diritto Civile, diretto da Lipari e Rescigno,
coordinato da Zoppini, vol. I, T. II - La famiglia, Milano, 2009, p. 4 ss., ‹‹è possibile inserire nell’ambito di tutela dell’art. 2 Cost. anche quei legami affettivi che si sottraggono ad una formalizzazione da
parte del diritto ma che riproducono, sul terreno sociale, il contenuto del rapporto familiare››. Rescigno,
Matrimonio e famiglia, Torino, 2000, p. 363 s., sostiene che non tutte le relazioni affettive rientrino
nell’ambito di questa tutela costituzionale, ma solo quelle per le quali si possa verificare che i soggetti
assumano reciprocamente i doveri di assistenza, di mantenimento e di contribuzione in una prospettiva
di durata e di serietà.
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Lavoro e famiglia di fatto
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convivente di fatto nell’ambito della comunità familiare.
L’intreccio esistente tra il diritto del lavoro e il diritto di famiglia qui emerge
nella misura in cui ‹‹i primi accenni di rilevanza giuridica della “famiglia di fatto”
(…) si colgono nel diritto della previdenza sociale›› 33.
Comunque, in mancanza di una disciplina legislativa uniforme, ‹‹si dovrà attingere dalla disciplina della società, dei rapporti di lavoro, dell’arricchimento senza
causa, a seconda dei modi in cui si è sviluppato il rapporto››34.
La dottrina sul punto è nettamente divisa in due ben chiari orientamenti 35.
Il primo, secondo il quale l’art. 230 bis c.c. sarebbe applicabile in via analogica
alla famiglia di fatto.
Il secondo filone dottrinale, invece, specularmente al primo, nega l’estensibilità
della norma codicistica ai rapporti tra conviventi.
A fondamento della prima tesi si rinviene un’istanza che si potrebbe definire
equitativa e che si radica nella necessità di assicurare per via interpretativa al convivente di fatto quella tutela, almeno nell’ambito dei rapporti di lavoro all’interno
del nucleo familiare, che l’ordinamento non riconosce in altri campi 36.
In questa prospettiva, le due situazioni da porre a confronto non sono differenti
nei contenuti ma solo sotto un profilo formale (l’esistenza o meno del vincolo giuridico del matrimonio), e sarebbero pertanto accomunate da un’identità di ratio37.
Da qui si afferma che tra i conviventi, legati da una comunione di vita spirituale
33
Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, cit., p. 71.
Rescigno, Introduzione al Codice civile, Roma-Bari, 2001, p. 86 s.; per una descrizione dei vari ordinamenti nelle diverse epoche storiche in merito alla considerazione giuridica dei rapporti tra familiari di
fatto, si rinvia alle osservazioni di Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, cit., p. 18 ss.
35
Per una rassegna degli orientamenti e delle posizioni: Nunin, Lavoro familiare e lavoro nell’impresa
familiare, cit., p. 135 ss.; Porcelli, La rottura della convivenza di fatto, in Famiglia e matrimonio, a cura
di Ferrando-Fortino-Ruscello, T. II, Milano, 2002, p. 1516.
36
Secondo Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 67, ‹‹in un ordinamento, come quello attuale, in cui è diffuso a livello sociale il fenomeno delle unioni affettive di fatto e in cui sono garantiti al livello legislativo e giurisprudenziale un puntuale riconoscimento degli interessi dei conviventi
nonché una specifica tutela dei loro bisogni essenziali sia nella fase fisiologica del rapporto che nella
fase patologica, di crisi della relazione, ritorna attuale l’interrogativo circa l’operatività delle garanzie
offerte dall’art. 230 - bis nei confronti dei membri dell’unione che prescinde dall’esistenza di un vincolo
giuridico tra le parti, qual è quello che deriva dal matrimonio››.
37
In dottrina vi è anche chi, pur di affermare la rilevanza giuridica delle relazioni di fatto, ha sostenuto
che ‹‹il rapporto di convivenza more uxorio … in quanto a sostanza›› avrebbe ‹‹contenuti molto più resistenti del vincolo coniugale››, Florio, Famiglia e impresa familiare, cit., p. 56; per una condivisibile
critica a tale prospettiva si rinvia a Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 70. Sul concetto di famiglia
si rinvia a Ghezzi, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, cit., p. 19 ss.
34
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A. Gabriele
e materiale e dalla stabilità degli affetti, s’instaurerebbe la medesima solidarietà familiare della famiglia legittima; solidarietà familiare che diventa la ragione originaria della prestazione di lavoro svolta nell’ambito dell’impresa e che ne giustifica
l’applicazione analogica della disciplina sull’impresa familiare al convivente di fatto38.
A fondare questa interpretazione sovvengono anche i riferimenti alle fonti europee e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E., che scardinano la stretta coincidenza tra famiglia e matrimonio39, e ancorano il concetto di famiglia ad un
nuovo modello sociale ‹‹legato ad ogni comunità caratterizzata da una solidarietà
affettiva, a prescindere dall’acquisto preventivo di uno status››. Secondo questa tesi, solo così argomentando si potrebbe valorizzare la portata innovativa dell’art.
38
Per questa tesi, tra gli altri, Bianca, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d’impresa, in Dir.
fam., 1976, p. 1246; Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 138; Cascioli, Il
lavoro nell’impresa familiare, in Lav80, 1986, 4, p. 1047 s., che aderisce alle ragioni della estensione
per via analogica della disciplina dell’impresa familiare alla famiglia di fatto che ‹‹si autoregola in
modo da costituire un rapporto analogo a quello previsto dall’art. 143 c.c. (…)››; Prosperi, Impresa familiare, cit., p. 167, che afferma l’‹‹applicabilità in via analogica alla convivenza more uxorio delle norme che regolano il rapporto coniugale che, come l’art. 230-bis, trovano la propria giustificazione nello
svolgimento in concreto di una specifica funzione familiare e non semplicemente nell’esistenza dello
status coniugale››; Vidiri, Considerazioni in tema di lavoro ed impresa familiare, in Giur. merito, 1981,
p. 1141; Balestra, L’impresa familiare, in Il diritto privato nella giurisprudenza, La famiglia, a cura di
Cendon, Torino, 2000, p. 525; Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 70 ss., secondo
la quale ‹‹ciò che la norma tende a tutelare è il lavoro prestato dal familiare in ragione del vincolo affet tivo che lo lega all’imprenditore, e ciò a prescindere dal tipo di rapporto che intercorre tra le parti (di
coniugio, di parentela oppure di affinità)››; Amoroso, L’impresa familiare, Padova, 1998, p. 82; Florio,
Famiglia e impresa familiare, Bologna, 1977, p. 56; Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, cit., p.
281 ss., secondo il quale ‹‹ (…) si deve ammettere che la norma si renda applicabile anche al convivente
di fatto, allorquando la convivenza sia improntata ad immagine e sul medesimo fondamento della famiglia legittima››; Tommasini, La famiglia di fatto, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, I, in Trattato di diritto
privato, diretto da Bessone, IV, Torino, 1999, p. 510; per una rassegna delle opinioni e della giurisprudenza si rinvia a Segreto, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della
Corte di Cassazione, in Dir. fam. pers., 1998, p. 1681 ss.
39
In particolare il riferimento è all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE i cui contenuti sono
confluiti nel nuovo testo del Trattato costituzionale dell’UE. Di recente si veda anche la Risoluzione del
Parlamento Europeo del 13 marzo 2012, che al par. 7 ‹‹si rammarica dell’adozione da parte di alcuni
Stati membri di definizioni restrittive di “famiglia” con lo scopo di negare la tutela giuridica alle coppie
dello stesso sesso (…)››. Per l’orientamento della Corte di Giustizia che ha riconosciuto la reversibilità
del trattamento pensionistico anche al partner di unione solidale superstite, si rinvia a Nicolosi, Le discriminazioni per orientamento sessuale: osservazioni a margine della sentenza Maruko, in Arg. dir.
lav., 2010, 1, p. 289 ss. Per altro verso, si rammenti come la stessa Unione Europea garantisca agli Stati
di esercitare il diritto di veto rispetto ‹‹ai progetti di legislazione europea riguardanti implicazioni transazionali sul diritto di famiglia›› (art. 81 Trattato di Lisbona); avvalendosi di questa clausola di salva guardia, in sede di ratifica del Trattato, il Parlamento italiano si è riservato la possibilità di valutare di
volta in volta la rilevanza delle nuove unioni familiari ‹‹coniate›› in altri ordinamenti.
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Lavoro e famiglia di fatto
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230 bis c.c. e offrire della norma un’interpretazione in linea con la ratio originaria
del legislatore, che ha voluto assegnare alla previsione una ‹‹portata generale, di disposizione di chiusura, in un sistema diretto a garantire un adeguato riconoscimento alla prestazione lavorativa del familiare›› 40.
La giustificazione dell’applicazione analogica discenderebbe allora, non tanto da
un’equiparazione tout court a tutti gli effetti legali della famiglia di fatto con quella
legittima, bensì dal riferimento a quelle ipotesi che presentano l’esigenza di ‹‹tutelare al medesimo modo quegli interessi che appaiono con sicurezza identici››, qual
è l’istituto dell’impresa familiare. E qui non assume pertanto centralità la struttura
soggettiva che costituisce la fattispecie legale ma la “funzione familiare” assegnata
all’istituto41.
In contrapposizione a questa tesi, altra parte della dottrina confuta la premessa
teorica dell’assimilabilità delle due ipotesi e nega pertanto l’applicazione per analogia dell’art. 230 bis c.c. al convivente42.
Questo secondo orientamento, nel rifiutare l’ammissibilità di un’estensione analogica della disciplina dell’impresa familiare, segue differenti percorsi argomentativi: alcuni negano l’ammissibilità di un’applicazione analogica dell’istituto
dell’impresa familiare, rinvenendo le ragioni di tale esclusione nella natura stessa
della norma che la rende inapplicabile ‹‹a rapporti che non sono rapporti di famiglia››; altrimenti, secondo questa prospettiva, si dovrebbe giungere alla conclusione ‹‹assurda›› di riconoscere alle coppie conviventi tutti i diritti discendenti dalle
norme sulla comunione legale e, in genere, da tutte quelle che disciplinano i rapporti tra i coniugi che non hanno un diverso ambito di applicazione dall’art. 230
40
Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 82 s.
Prosperi, Impresa familiare, cit., p. 177. Che l’estensione della norma non implichi più vaste equipa razioni rispetto alla disciplina dei rapporti patrimoniali tra i coniugi è sostenuto anche da Menghini, Lavoro familiare e lavoro nell’impresa familiare, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci,
II, Torino, 1998, p. 79.
42
Mengoni, La famiglia in una società complessa, cit., p. 3 ss., secondo cui ‹‹non è possibile distinguere
nel regime giuridico della famiglia legittima un gruppo di norme non legate al presupposto formale del
matrimonio e quindi estensibili per analogia alla famiglia di fatto. Ciò in quanto i rapporti giuridici deli neati dal diritto di famiglia sono stati determinati interamente attraverso l’istituto del matrimonio››; Bessone, Ferrando, Filiazione naturale, parentela naturale e famiglia di fatto, in Dir. fam., 1979, p. 1111;
Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 70; Trabucchi, Natura legge famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, p.
21; A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, cit., p. 1312; Andrini, L’impresa familiare, in
Tratt. dir. comm. dir. pubbl. economia, XI, Padova, 1989, p. 213; Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali: questioni di attualità, Milano, 1991, p. 1016 ss.; Di Rosa, Tratti distintivi e aspetto problematici
dell’impresa familiare, in Contratto e impresa, 2007, p. 519 ss.; da ultimo si rinvia a Id., Sub art. 230
bis, cit., p. 382 ss., anche per le condivisibili argomentazioni.
41
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bis c.c.43.
Secondo un’altra tesi, l’elenco dei soggetti dell’impresa familiare di cui al 3°
comma dell’art. 230 bis c.c. è tassativo e come tale - in quanto collegato esclusivamente al dato formale del rapporto di coniugio o di parentela o di affinità entro gradi ben individuati - rappresenta un elemento ineliminabile della fattispecie costitutiva degli effetti di cui alla norma44. Secondo altri ancora si potrebbe parificare la
tutela solo mediante il ricorso all’affermazione di una generale presunzione di onerosità, ritenendo che, ove nella convivenza ricorrano le medesime ragioni di affetto
e di solidarietà che legano i membri della relazione coniugale, e in mancanza di
prova contraria, il convivente avrà diritto alla remunerazione per l’attività svolta45.
In giurisprudenza la questione non è meno controversa. Considerata l’assenza di
una sistemazione di carattere generale dei rapporti giuridici intercorrenti tra conviventi, i giudici sono indotti a valutare la decisione caso per caso.
Da qui emerge, anche tra le soluzioni giurisprudenziali, un andamento oscillatorio delle posizioni assunte che non permette di giungere a una soluzione univoca46.
43
Così Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 70; in giurisprudenza Corte Cost., 14 aprile 1980, n. 45,
in Giur. it., 1980, I, 1, p. 1792, ha negato decisamente che la posizione del coniuge sia assimilabile a
quella del convivente more uxorio.
44
Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., p. 1390, nt. 66;
ma anche Id., La prestazione di lavoro nella comunità familiare, Milano, 1960, p. 194 ss., secondo il
quale, anche prima della riforma del diritto di famiglia, al convivente non si sarebbe potuto applicare lo
status di lavoratore familiare perché la prestazione resa sarebbe stata ricompresa ‹‹sotto un profilo for male, tra le c.d. prestazioni di cortesia (…)››; Andrini, Brevi note sulla soggettività giuridica
dell’impresa familiare, in Giur. comm., 1977, I, p. 142; Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 70;
Oberto, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento tra conviventi ‹‹more uxorio››, in Giur. it.,
1991, I, 2, c. 574 ss., secondo il quale la ratio della tutela posta a fondamento dell’art. 230 bis c.c. non
può estendersi alla famiglia di fatto, l’articolo in esame infatti ‹‹mira a proteggere non già la convivenza
(che della disposizione non costituisce neppure un presupposto), bensì il lavoro prestato da certe persone che possono anche non avere instaurato tra di loro alcuna comunione di vita (…)››; anche se condo
Gottardi, Le scelte professionali e il lavoro del minore nella famiglia, cit., p. 610, la disciplina si applica
solo ai ‹‹parenti ricompresi nella nozione di famiglia specificata nella norma››.
45
Così Auletta, Collaborazione del familiare nell’attività economica e forme di tutela, in Dir. lav., 1999,
4, p. 272 s., secondo cui la prestazione di lavoro del convivente può essere tutelata mediante l’applicazione del principio di onerosità; in senso analogo si esprime Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, cit., p. 39: ‹‹L’analogia cui pure ci si deve affidare per l’impresa svolta in regime di
convivenza può reggere solo in quanto si tratti della presunzione dell’onerosità della prestazione di la voro (…)››.
46
Sin dal principio l’attribuzione di un rilievo giuridico alla convivenza more uxorio è stata il frutto di
un’elaborazione della giurisprudenza di merito: Trib Genova, 12 marzo 1979, in Giur. merito, 1979, I, p.
1150, con nota adesiva di Bessone, Convivenza more uxorio e tutela della famiglia di fatto in una giurisprudenza non conformista, ha considerato la famiglia di fatto come una formazione sociale riconosciuta e tutelata dall’art. 2 Cost.
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Solo di recente, infatti, la giurisprudenza di legittimità sembra avere aderito alla
soluzione interpretativa dell’applicazione analogica dell’art. 230 bis c.c. alle unioni
libere47. In passato, invece, sembrava del tutto esclusa una simile apertura. E si poteva anche tracciare una incerta frattura tra una parte della giurisprudenza di merito
e quella di legittimità. La prima, infatti, ha dimostrato un’apertura a macchia di
leopardo nei confronti della tesi di un’estensione delle tutele anche al convivente
more uxorio48, mentre la Cassazione ha difeso le motivazioni dell’orientamento opposto49, giungendo anche a dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost., con la motivazione - alquanto criticata da una
parte della dottrina50 - che dalla convivenza non possono sorgere gli analoghi doveri che discendono dal matrimonio51.
La soluzione adottata dalla giurisprudenza comunque non trascura di individuare
una possibile tutela del convivente e la rintraccia proprio nel diritto del lavoro
quando qualifica la prestazione di lavoro come una prestazione di lavoro parasubordinato52; ovvero, nei casi in cui non si riesca a dimostrare l’onerosità della pres-
47
Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, in Fam. pers. Succ., 2006, 12, p. 995, con nota di Stoppioni, Rapporto
di impresa familiare e convivenza more uxorio; Cass., 19 dicembre 1994, n. 10927, in Inf. prev., 1994,
p. 1502, in cui si statuisce che il rapporto di lavoro del convivente vada inquadrato nell’ambito della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230 bis c.c. e si esclude al contempo che possa configurarsi un rapporto di subordinazione onerosa.
48
Trib. Ivrea, 30 settembre 1981, in Riv. dir. agr., 1983, II, p. 464, con nota di Salaris, Impresa familiare,
famiglia di fatto e comunità rurali; Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 574 ss.,
con nota di Oberto, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento tra conviventi ‹‹more uxorio››;
Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 3, 2000, p. 284; nella direzione opposta, e cioè nel senso di ritenere l’indicazione di cui all’art. 230 bis, comma 3, c.c. come tassativa e quindi escluderne
l’applicazione alla famiglia di fatto, Trib. Roma, 10 luglio 1980, in Dir. Fall., 1980, II, p. 611, con nota
di Farenga, In tema di ‹‹rapporto more uxorio››, ‹‹famiglia di fatto›› e ‹‹impresa familiare››; Trib. Milano, 10 gennaio 1985, in Società, 1985, p. 507; Trib. Milano, 5 ottobre 1988, in Lav80, 1989, p. 206 ss.;
Trib. Firenze, 18 giugno 1986, in Giur. it., 1987, I, 1, c. 1960.
49
Cass., 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, 1, c. 1949; Cass., 24 marzo 1977, n. 1161, in Giust. civ., 1977, I, c. 1190.
50
Per tutti, Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 75, ove l’A. sostiene che ‹‹la giurisprudenza di legittimità si colloca in posizione di retroguardia››.
51
Ha ritenuto manifestamente infondata la (prospettata) questione di legittimità costituzionale dell’art.
230 bis c.c. nella parte in cui tale disposizione esclude dai soggetti tutelati il convivente more uxorio,
Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 844, con nota DI Balestra, Sulla rilevanza della
convivenza more uxorio nell’ambito della impresa familiare e in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 278
ss., con nota di Bernardini, Rapporto di lavoro, o di collaborazione “parasubordinata”, e tutela del
convivente “more uxorio” (c.d. familiare di fatto); Cass., 29 novembre 2004, n. 22405, in Rep. Foro it.,
2004, Famiglia (regime patrimoniale), n. 77, 1182.
52
Cass., 2 MAGGIO 1994, N. 4204, cit.
volume 5, n. 2 del 2013
16
A. Gabriele
tazione,53 la giurisprudenza di merito ha anche riconosciuto in via rimediale
un’ipotesi di arricchimento senza causa del titolare dell’attività d’impresa e un corrispondente depauperamento del convivente che aveva prestato la sua opera (per un
approfondimento su questo punto si veda oltre).
3. Impresa familiare e famiglia di fatto: impossibilità di un’estensione
analogica della disciplina legislativa.
Uno degli argomenti principali sostenuto dall’orientamento che esclude l’estensione analogica dell’art. 230 bis c.c. a fattispecie che non ne presentino i requisiti,
si rinviene nella natura eccezionale della norma ex art. 14 delle ‹‹disposizioni sulla
legge in generale››54. Il rinvio del dato letterale al “coniuge”, infatti, sembra insuperabile e impedisce di riconoscere alla disposizione dei margini seppur minimi di
elasticità55.
‹‹Il compito di definire le norme eccezionali si risolve nel decidere a che cosa
esse segnino eccezione››56. Per accertare l’eccezionalità della norma in questione,
allora, è necessario verificare il rapporto che intercorre tra l’art. 230 bis c.c. e le altre norme del sistema, con riferimento al contesto normativo dell’ordinamento in
cui questo si inserisce in modo dinamico.
In particolare, il legislatore individua l’oggetto dell’eccezione con riferimento
alle ‹‹regole generali›› e alle ‹‹altre leggi››.
53
Trib. Milano, 5 ottobre 1988, cit., p. 209, in cui si sostiene che la convivenza legittimi la presunzione
di gratuità solo quando preveda la partecipazione di entrambi i conviventi agli incrementi patrimoniali
della famiglia; in caso contrario ‹‹la convivente che lavora nella e per la famiglia di fatto compie un
conferimento di attività che si configura come un’attribuzione patrimoniale priva di ‘causa giuridica’ e
apprezzabile residualmente, ricorrendo gli altri elementi costitutivi della fattispecie, sotto il profilo
dell’art. 2041 c.c.››.
54
Cass., 14 giugno 1990, n. 5803, in Rep. Foro it., 1990, Lavoro (rapporto), n. 564, 1706; CASS., 2
MAGGIO 1994, N. 4204, cit.; Cass. 19 dicembre 1994, n. 10927, cit.; CASS., 29 NOVEMBRE 2004, N.
22405, cit.
55
Al contrario della categoria delle “norme regolari” per cui invece è ammessa l’applicazione analogica:
sul punto si rinvia a Di Rosa, Sub art. 230 bis, cit., p. 383, nt. 69. In generale, sul divieto di estensione
analogica per le norme eccezionali, Belfiore, L’interpretazione della legge. L’analogia, in Studium iuris,
2008, p. 421 ss.; Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990, p. 98, secondo il quale
‹‹Questa distinzione non riposa su un elemento strutturale della norma giuridica, ma sul rapporto che
intercede tra una norma e le altre norme del sistema››. Contra Prosperi, Impresa familiare, cit., p. 168,
nt. 294, per il quale ‹‹va ribadito che non è neppure certo che il divieto di applicazione analogica delle
norme eccezionali disposto dall’art. 14 disp. prel. c.c. abbia carattere assoluto››; Balestra, L’impresa familiare, cit., p. 202 s.; Bianca, Diritto civile, 2, La famiglia - Le successioni, Milano, 1993 (rist.), p. 371
s.
56
Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 98.
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Lavoro e famiglia di fatto
17
Con riguardo al primo criterio si ritiene che le regole generali vadano ricostrui te
attraverso una ricognizione delle norme vigenti; ricognizione che va operata con
attenzione, perché è sufficiente la modifica di un singolo istituto per avviare una
reazione a catena che investirà certo anche i principi normativi generali; ma anche
se la modifica del singolo disposto normativo non generasse l’effetto descritto, è
comunque compito dell’interprete procedere di volta in volta, sebbene nell’arco di
un breve lasso di tempo, ad un accertamento dell’assetto generale delle norme vigenti per verificare che l’impianto complessivo non abbia subito modifiche sostanziali57.
Nell’ambito di questa operazione interpretativa finalizzata alla ricerca dell’eccezionalità di una previsione normativa, la dottrina adotta alcune cautele rispetto al
rigore sillogistico del rinvio ai principi generali, quando considera che anche la
norma, una volta qualificata eccezionale, può essere portatrice di un ‹‹criterio o
principio ispiratore, che potrebbe dettare la soluzione per casi simili (…)›› 58.
L’immediata ricaduta di tale osservazione consiste nell’ammettere che anche il
principio di cui alla norma eccezionale possa ‹‹espandersi nel sistema e improntare
di sé la disciplina di uno o più istituti (…)›› senza per questo perdere la sua natura
derogatoria.
Il secondo criterio di verifica da utilizzare è dato dal rinvio alle ‹‹altre leggi››,
che corrispondono alla disciplina organica che l’ordinamento offre in relazione ad
un determinato settore della vita sociale. ‹‹Esse non sono in grado di esprimere un
principio generale dell’ordinamento; tuttavia costituiscono un corpo omogeneo ed
unitario, rispetto al quale sono concepibili deviazioni ed eccezioni››59.
Così, applicando questo schema all’art. 230 bis c.c., emerge la necessità, in primo luogo, di una ricognizione delle ‹‹regole generali›› in materia di rapporti familiari, di società e di rapporti di lavoro e, poi, di una verifica della compatibilità di
tale norma con le ‹‹altre leggi›› che riguardano i rapporti di lavoro o di società tra
familiari.
In entrambi i casi, sia che si adotti la prospettiva ampia dei principi generali, sia
che si osservino le singole disposizioni di legge, la previsione dell’impresa familia57
Crisafulli, Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, in Riv. internaz. fil. dir.,
1941, pp. 41-64, 157-182, 230-265; Santi Romano, Principi di diritto costituzionale generale2, rist., Milano, 1947, p. 87 secondo il quale il concetto di legge eccezionale è un “concetto di comparazione”, e p.
90 sui “principi normativi”. Secondo Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 99, ‹‹si tratta sempre di principi normativi, non di valori etici e politici, contrapposti alle norme come l’ideale al
reale››.
58
Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 99.
59
Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 99.
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A. Gabriele
re appare connotata da forti tratti di “originalità” e soprattutto si rinviene l’estrema
difficoltà di un inquadramento sistematico dei vari aspetti della disciplina
nell’alveo “naturale” dell’ordinamento commerciale, societario o lavoristico.
Prova ne sia la circostanza che tra gli interpreti è possibile individuare più
orientamenti distinti tra loro sulla qualificazione da assegnare alla disciplina del lavoro nell’impresa familiare.
In particolare, la dottrina e la giurisprudenza convergono nel negare l’esistenza
di un rapporto di lavoro subordinato tout court. Mentre da parte di alcuni si sostiene la natura parasubordinata di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. 60, secondo altri si tratterebbe di una fattispecie di lavoro associativo61.
L’unico dato incontestabile rimane che ogni singolo aspetto di questo rapporto
di lavoro diverge dai paradigmi ordinari: osservazione questa che ha anche indotto
una parte della dottrina a qualificarlo come un rapporto di lavoro speciale di impresa familiare62.
Sempre in una prospettiva di verifica sulla natura eccezionale della norma non si
60
Santoro Passarelli, Il lavoro ‹‹parasubordinato››, Milano, 1979, p. 159 ss. parla di ‹‹rapporto associativo parasubordinato›› basato sul presupposto della natura retributiva dei diritti dei collaboratori familiari, nonché della posizione di debolezza in cui si trovano; Barbera, Il lavoro nella famiglia, in Dir. Lav.
Rel. Ind., 1982, p. 479; Pret. Modena, 9 giugno 1980, in Giur. comm., 1981, II, p. 84 ss., con nota di
Biagi, Impresa familiare e rito del lavoro, secondo il quale la ratio a fondamento degli artt. 230 bis c.c. e
409, n. 3, c.p.c. è la medesima, essendo entrambe le norme espressione della volontà del legislatore di
‹‹tutelare sempre e in ogni caso la c.d. parte più debole di qualunque rapporto di lavoro (…)››. In senso
conforme anche Corte Cost., 25 novembre 1987, n. 476, in Dir. lav., 1988, II, p. 87, con nota di Olivelli,
L’impresa familiare e la tutela previdenziale, ha ritenuto che il lavoro familiare rientri tra le ipotesi della
cosiddetta parasubordinazione; Tanzi, voce Impresa familiare I) Diritto commerciale, in Enc. giur., XVI,
Torino, 1989, p. 4; Id., voce Impresa familiare, cit., pp. 2 s., che con riferi mento alla disciplina sostanziale da applicare al lavoro nell’impresa familiare denota la ‹‹tendenza ad attingere alle norme in materia di lavoro subordinato, mentre permangono divergenze e incertezze circa le singole disposizioni cui
fare richiamo (…)››; Dell’Amore, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, cit., p. 132.
61
Sull’assimilazione tra impresa familiare e associazione in partecipazione tra familiari, Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., p. 1384, anche se instaura un parallelismo solo con le ipotesi di cointeressenza agli utili di cui alla prima parte dell’art. 2554 c.c.; Barbera, Il lavoro nella famiglia, cit., p. 476, secondo la quale si tratta di ‹‹una forma particolare di rapporto
associativo››, a p. 477 aggiunge che il lavoro familiare, collocandosi ‹‹in quella sorta di zona grigia nella quale ritroviamo altre figure in bilico tra lavoro autonomo e lavoro subordinato››, è stato accostato a
quello del socio d’opera e dell’associato in partecipazione; Di Francia, Il rapporto di impresa familiare
nel pensiero della Cassazione, cit., c. 441; Id., Il rapporto di impresa familiare, cit., pp. 246 s. e 254;
Realmonte, Subordinazione, associazione in partecipazione e impresa familiare, cit., p. 111 s.; Florio,
Famiglia e impresa familiare, cit., p. 89; Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, cit.,
p. 34, secondo il quale ‹‹l’impresa familiare può essere considerata sotto un’ottica diversa secondo che
si faccia prevalere in essa l’aspetto associativo o quello del lavoro››; in giurisprudenza, Cass. 17 luglio
2000, n. 9417 in Foro it., 2000, I, c. 2779; Cass., 27 giugno 1990, n. 6559, cit., c. 432.
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può ignorare un dato di evidenza sistematica, e cioè come lo stesso legislatore abbia espressamente qualificato la disciplina di cui all’articolo in questione come “residuale”, che quindi non si sostituisce a quelle previste dai singoli settori giuridici
coinvolti (in particolare dal diritto commerciale e dal diritto del lavoro), ma provvede a ratificare situazioni di fatto in cui, data la stretta confidenza e “familiarità”
dei partecipanti, è frequente che non si addivenga ad una preventiva formalizzazione giuridica63.
La ratio risponde ad un’istanza di tutela del familiare più “debole”, per età, condizione sociale o economica, la cui posizione soggettiva, in assenza di una simile
previsione, verrebbe del tutto trascurata in nome del superiore interesse economico
della “famiglia” complessivamente considerata.
La disposizione, pertanto, rappresenta un unicum nell’ordinamento che non conosce istituti assimilabili, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo;
e che non si combina con altre previsioni per formare un corpus autonomo di disciplina.
In questo senso si potrebbe dire che la norma stessa è autosufficiente e che pertanto non rinvia per le norme di dettaglio alle altre discipline. Da queste, infatti,
prende le distanze rappresentandone un’eccezione.
Proprio perché rappresenta un’ipotesi eccezionale destinata a regolare situazioni
giuridiche in cui le parti non adottano altri schemi tipici offerti dall’ordinamento, la
previsione in esame è analiticamente costruita dal legislatore con l’indicazione tassativa dei soggetti a cui è destinata la tutela. E sono proprio questa natura eccezionale e la tassatività degli elementi della fattispecie ad impedire che la disciplina in
essa contenuta possa essere estesa anche oltre coloro che sono espressamente qualificati come componenti dell’impresa familiare.
62
Olivelli, L’impresa familiare e la tutela previdenziale, cit., p. 87, sostiene la configurabilità del rapporto di lavoro familiare come ‹‹uno specifico, sui generis, rapporto di lavoro›› e a p. 95 qualifica ‹‹il
lavoro svolto nella comunità familiare, come una figura atipica e a sé stante di rapporto di lavoro (…)››;
Germano, voce Lavoro familiare, cit., p. 240, ritiene che si tratti di un rapporto di speciale subordinazione, in cui, analogamente con quanto previsto per il lavoratore a domicilio, il legislatore ‹‹deroga alla disciplina degli effetti negoziali proprio in ragione della specialità del rapporto››; Vidiri, Profili giuslavoristici dell’impresa familiare, cit., c. 299 ss., sostiene che siano applicabili, in quanto compatibili, le
norme in materia di lavoro subordinato. Contra Gottardi, Le scelte professionali e il lavoro del minore
nella famiglia, cit., p. 621, secondo la quale ‹‹la nozione di subordinazione, derivante dalla stipulazione
di un contratto di lavoro, sia troppo rigida per ricomprendere la fattispecie del lavoro familiare››; la stessa A. afferma che ‹‹si tratta invece di un’ipotesi specifica volta a regolamentare il lavoro familiare
(…)››, p. 622.
63
Panuccio, voce Impresa familiare, cit., p. 668; Cass., 22 agosto 1991, n. 9025, cit., p. 478; Cass., 27
giugno 1990, n. 6559, cit., cc. 432 e 435.
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A. Gabriele
In particolare, proprio per il suo carattere spiccatamente derogatorio con riguardo alla fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato e alle tutele ad esso riferibili, pare più corretto ritenere che in queste ipotesi il legislatore abbia voluto riservarsi ‹‹una competenza normativa “esclusiva”›› negando l’ingresso ‹‹a quella
concorrente competenza ordinatrice che al giudice è in via generale riconosciuta
dall’art. 12, comma 2››64.
Che poi da qui, ovvero dall’elaborazione dottrinale che ne è seguita e dalle motivazioni che ne hanno consolidato l’applicazione, discenda per l’ordinamento
un’ispirazione per la costruzione di principi generali in materia d’impresa familiare, può solo confermare che si tratta sempre di principi generali ricostruiti in dero ga agli schemi giuridici tradizionali, il cui ambito di applicazione è perciò ristretto
alle ipotesi tassativamente previste65.
A ciò si aggiunga che, anche a volere ricomprendere il convivente more uxorio
nell’ambito dei soggetti deboli cui l’ordinamento riconosce la partecipazione
all’impresa familiare, in ossequio ad una mutata percezione valoriale della famiglia
di fatto, diventerebbe difficile superare un’ulteriore obiezione.
Da un esame generale dell’ordinamento, infatti, non è dato individuare un preciso e coerente corpus normativo che dimostri una voluntas legis di parificazione tra
famiglia legittima e famiglia di fatto66.
Anzi, ogni qualvolta il legislatore riconosce specifico rilievo alla posizione del
convivente more uxorio, assegnandogli la titolarità di diritti iure proprio, lo fa
sempre con riferimento alla sua posizione individuale di soggetto titolare di diritti e
di situazioni giuridiche meritevoli di rilievo e di tutela, e non invece assegnando
una rilevanza generalizzata all’aggregato familiare di fatto come destinatario di tutele e diritti67. In questo il legislatore è ancora oggi abbastanza cauto, e se non può
mettersi in dubbio che un simile assetto dei principi generali possa mutare in futuro
64
Belfiore, L’interpretazione della legge. L’analogia, cit., p. 430.
Contra Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 81, secondo cui ‹‹la rilevanza assunta,
oggi, dalla famiglia di fatto e la finalità protettiva perseguita dall’art. 230-bis possono condurre ad
un’applicazione analogica della disciplina sull’impresa familiare, senza che ciò comporti l’automatica
applicazione ai conviventi dell’intera normativa sui rapporti patrimoniali della famiglia››, secondo l’A.,
infatti, la soluzione interpretativa non dovrebbe condurre ad assimilare tutta la normativa sui rapporti
patrimoniali di famiglia anche alla famiglia di fatto ma ‹‹l’interprete si limiterebbe a desumere dalla disciplina della famiglia legittima alcuni principi generali, come tali applicabili a situazioni che presenta no un’identità di ratio››.
66
Per le argomentazioni a sostegno della tesi che nega una lacuna dell’ordinamento ai sensi dell’art. 12,
2° comma, c.c., si rinvia a Di Rosa, Sub art. 230 bis, cit., p. 387. Si veda anche Prosperi, Impresa familiare, cit., p. 163 ss., che nonostante indichi nel dettaglio le disposizioni del legislatore rivolte alla tutela
del convivente more uxorio, riconosce che ciò avviene ‹‹a taluni effetti››.
65
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21
a seguito di una modifica legislativa, non può parimenti negarsi come allo stato attuale l’ordinamento resti indifferente rispetto al fenomeno di enorme rilevanza sociale qual è quello delle convivenze di fatto68.
Da qui, ogni tentativo di ritenere indirettamente mutato l’assetto dei criteri ispiratori dell’ordinamento si scontra in modo inevitabile con quanto emerge dai provvedimenti adottati legislativamente69.
Ogni altra considerazione, da questo punto in poi, sconfina nel terreno dello ius
condendum e delle personali scelte ideologiche degli interpreti 70. Ma, poiché l’analisi giuridica non può prescindere dal dato positivo, a questo primo esame sembra
che si debba concludere per la tesi dell’inestensibilità alla “convivenza more uxorio” del carattere di società naturale fondata sul matrimonio e al termine “convivente” di un significato analogo a quello di coniuge71.
67
E’ il caso, infatti, del riconoscimento del periodo di convivenza per il computo del termine triennale
previsto per i coniugi adottanti, o di altre ipotesi analoghe, in cui il legislatore avalla un orientamento
giurisprudenziale, sul punto si rinvia interamente a Di Rosa, Sub art. 230 bis, cit., p. 388, nt. 86.
68
Così già Ghezzi, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, cit., p. 197 s.; secondo Magnani,
La famiglia nel diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.it, n. 146, 2012, p. 3, ‹‹diverse possono essere le nozioni di famiglia, a seconda delle finalità perseguite dal legislatore››, e ivi un
elenco delle norme di diritto del lavoro che fanno riferimento ora alla famiglia nucleare ora alla famiglia
estesa.
69
L’art. 74, d.lgs. n. 276/2003, con specifico riguardo alle attività agricole, prevede che siano prestazioni al di fuori del mercato del lavoro che non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o
subordinato quelle ‹‹svolte da parenti e affini sino al quarto grado in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza corresponsione di
compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori››. Da ultimo si veda la modifica apportata dall’art. 1, comma 28, l. n. 92/2012 all’art. 2549 c.c. in tema di contratto di associazione in partecipazione in cui è possibile derogare al limite numerico di tre associati impegnati in una medesima attività solo con riferimento agli associati legati all’associante da rapporto di coniugio, di parentela en tro
il terzo grado o di affinità entro il secondo, cioè la medesima area di tutela coperta dall’art. 230 bis c.c.;
in questo modo il legislatore ha voluto disegnare un quadro di riferimento sistematico coerente con la
disciplina dell’impresa familiare, sul punto Russo, Profili teorico-pratici della nuova associazione in
partecipazione con apporto di lavoro, in QFMB Saggi, n. 4/2012, II, p. 6, il quale, dall’esclusione del
convivente, individua dei profili di disparità per i componenti della famiglia legittima; nonché in giurisprudenza, Corte Cost., 27 marzo 2009, n. 86 in Dir. prat. lav., 2009, p. 1024 ss., che ha ritenuto legittima l’esclusione del convivente more uxorio dalla tutela antinfortunistica apprestata invece per il coniuge superstite.
70
Mengoni, La famiglia in una società complessa, cit., p. 6, il quale pone l’accento sul ‹‹carattere ideologico della tendenza alla degiuridicizzazione della famiglia legittima››.
71
Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 2004, p. 195; Protettì, L’impresa familiare tra conviventi more
uxorio, in Soc., 1985, p. 475; Di Rosa, Sub art. 230 bis, cit., p. 388. Si veda anche l’orientamento della
giurisprudenza costituzionale che ha in più occasioni negato l’estensione di istituti propri della famiglia
legittima a quella fondata sulla convivenza more uxorio: tra le tante, Corte Cost., 9 maggio 1997, n.
127, in Dir. lav., 1997, II, p. 486, con nota di Ales; Corte cost., 18 gennaio 1996, n. 8, in Giur. Cost.,
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22
A. Gabriele
4. P ER UNA TUTELA SOSTANZIALE DEL LAVORO DEL CONVIVENTE : I TENTATIVI
DELLA GIURISPRUDENZA E LA RESIDUALITÀ DELL ’ AREA DEL LAVORO
GRATUITO .
Dalla rassegna delle posizioni della dottrina e della giurisprudenza emerge una
sostanziale unanimità nel riconoscere che non si può rinvenire nell’ordinamento
un’autonoma disciplina per la prestazione di lavoro del convivente more uxorio72.
Rispetto a tale evidenza, bisogna osservare che se la legge non dispone nulla di
preciso al riguardo non si tratta di una lacuna dell’ordinamento ed è comunque
compito dell’interprete cercare una soluzione che garantisca una tutela sostanziale
al soggetto più debole del rapporto, anche se ciò è possibile solo mediante il ricor so ad altre branche del diritto73.
Se il quadro di riferimento, infatti, non potrà essere il diritto di famiglia (per i
motivi sopra esposti), si deve concordare con chi ha sostenuto che i modelli di tutela della famiglia di fatto ‹‹vanno cercati (…) nel diritto comune delle persone e dei
rapporti patrimoniali (…)›› ovvero tra gli ordinari strumenti di tutela della prestazione di lavoro74.
Peraltro, rispetto alla tutela approntata per il lavoro subordinato, quella ex art.
230 bis c.c. si colloca palesemente al di sotto perché ancora fondata ‹‹sulla base del
presupposto che la salvaguardia degli interessi del soggetto lavoratore fosse maggiormente garantita dalla particolare natura dei rapporti familiari, piuttosto che dalla
legislazione protettiva dello stato››75. Quando, infatti, la giurisprudenza procede in
tale direzione, non può negarsi che si muova percorrendo un solco stantio, in cerca
di una strada ermeneutica più agevole.
1996, p. 81; in dottrina, Bozzao, La protezione sociale della famiglia, in Lav. dir., 2001, p. 60 s.; per una
rassegna degli orientamenti si rinvia a Segreto, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, in Dir. fam., 1998, p. 1658.
72
Per tutti si vedano le osservazioni di Balestra, L’impresa familiare, cit., p. 170 ss., ma spec. p. 176.
73
Ichino, Vecchi e nuovi problemi nella qualificazione della prestazione lavorativa come autonoma o
subordinata, in Autonomia e subordinazione nelle nuove figure professionali del terziario, cit., p. 77 s.,
secondo il quale, a proposito però della qualificazione del rapporto, ‹‹la lacuna è nella legge, non
nell’ordinamento, che non ammette lacune; l’interprete non può esimersi dal rispondere al quesito››.
74
Mengoni, La famiglia in una società complessa, cit., p. 6.
75
Barbera, Il lavoro nella famiglia, cit., pp. 464, 468, secondo cui ‹‹nel caso dell’impresa familiare, ci
troviamo di fronte ad una tutela del soggetto lavoratore che si situa largamente al di sotto di quella destinata al lavoratore subordinato›› e p. 476. Secondo Costi, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia,
Milano, 1976, p. 118, l’art. 230 bis c.c. rappresenta un caso particolare di intervento del legislatore sulle
modalità di impiego della forza lavoro proprio per il carattere “privato” della prestazione familiare, infatti, sostiene l’A., ‹‹il legislatore non ha quindi potuto operare, come si fa normalmente sul mercato del
lavoro, imponendo certe condizioni allo scambio tra forza lavoro e danaro, e ha dovuto imboccare
un’altra strada: quella della partecipazione del lavoro ai risultati dell’attività alla quale coopera››.
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Lavoro e famiglia di fatto
23
Ma se la ridotta tutela del lavoro familiare si giustifica sia in funzione della
“qualità” soggettiva rivestita dai componenti dell’impresa familiare, sia per la peculiare finalità assegnata all’istituto dall’ordinamento, fuori da queste ipotesi si deve ritenere che torni ad espandersi lo statuto protettivo del diritto del lavoro.
Pertanto, in una logica di tutela del lavoro prestato dal convivente, l’interprete
dovrebbe tentare di rintracciare una soluzione nell’ambito della subordinazione,
piuttosto che forzare il dato normativo attraverso la tecnica dell’analogia per applicare anche qui la disciplina tipica del diritto di famiglia 76. Stella polare di questo
percorso interpretativo deve essere il disposto di cui al I comma dell’art. 35 Cost.,
saldamente ancorato al principio di cui all’art. 1 Cost. 77 In tale prospettiva78 il diritto è chiamato a proteggere il lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni alla stre gua dei valori che ne hanno caratterizzata l’evoluzione storica.
Secondo l’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza, le norme costituzionali e ordinarie che rinviano a una tutela del lavoro e soprattutto alla necess aria onerosità della prestazione (art. 36 Cost. e artt. 2094, 2099, 2113 e 2126 c.c.),
non sono da ostacolo all’ammissibilità di una ristretta area di prestazioni di lavoro
a titolo gratuito79.
76
Solo in questo caso, infatti, si spiega la tutela del lavoro in misura ridotta dovuta all’esistenza di un
particolare status familiae; su flessibilità e subordinazione si rinvia alle riflessioni di Garilli, Flessibilità
e subordinazione, in Dir. lav., 2003, I, p. 393 ss., secondo il quale ‹‹il diritto del lavoro italiano si è caratterizzato, nel corso della sua evoluzione, per una scelta, più o meno consapevole, nel senso della centralità del contratto di lavoro subordinato come strumento per accedere alle forme di protezione approntate dall’ordinamento››.
77
A conferma del generale valore accordato dall’art. 35 Cost. al lavoro ‹‹in tutte le sue forme e applicazioni›› si vedano le osservazioni di Cass., 22 novembre 2011, n. 24619, in Riv. giur. lav., 2012, 3, II, p.
526 ss., con nota di Mignone, Dall’ingerenza dell’associato ‹‹nella gestione›› a quella ‹‹nell’associazione››: la Cassazione corregge il tiro, ma non a sufficienza.
78
Napoli, Le norme costituzionali sul lavoro alla luce dell’evoluzione del diritto del lavoro, cit., p. 13
ss., secondo cui la tutela va accordata a prescindere dallo status contrattuale del destinatario, estendendosi così ‹‹lungo l’arco dell’articolazione tipologica del lavoro subordinato e sulla base dell’esigenza
della flessibilità››, avendo come esclusivo riferimento che il soggetto ponga in essere una qualsiasi forma di attività di lavoro. Si veda in questa direzione Corte Cost., 19 gennaio 1995, n. 28, in Dir. lav.,
1995, II, p. 3, con nota di Assanti, Il lavoro nella famiglia tra economicità e rapporti etico-sociali, che
ha ritenuto legittimo, ai sensi dell’art. 35 Cost., assimilare il lavoro svolto all’interno della famiglia
‹‹per il suo valore sociale ed economico›› alle forme di occupazione professionale propriamente dette
ex l. n. 943/1986 - in tema di collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari - ai fini dell’attivazione dell’istituto del ricongiungimento familiare.
79
Cass., 7 novembre 2003, n. 16774, in Lav. giur., 2004, p. 389; Cass., 12 maggio 1995, n. 5197, in Inf.
prev., 1995, p. 1221; in dottrina è doveroso il rinvio a Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di
lavoro, Milano, 1968, p. 118 ss. sulla possibilità di applicare al rapporto di lavoro gratuito la disciplina
tipica del lavoro subordinato; Menghini, Nuovi valori costituzionali e volontariato. Riflessioni
sull’attualità del lavoro gratuito, Milano, 1989, p. 11; Id., Le novità in tema di lavoro gratuito, in Riv.
volume 5, n. 2 del 2013
24
A. Gabriele
Le parti potranno accordarsi per lo svolgimento di un’attività di lavoro gratuito
fuori dalla disponibilità del contenuto legale tipico e solo nel ristretto ambito residuale dell’autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c., secondo comma, per il perseguimento di interessi ritenuti meritevoli di tutela, che prescindono da controprestazioni obbligatorie e da un corrispettivo (ad es. per interessi di natura altruistica o
per la presenza di un vincolo morale, politico, ideologico o religioso)80.
Ispirata da un’esigenza di protezione sostanziale del lavoro svolto mediante
l’inserimento nell’organizzazione imprenditoriale del convivente, la giurisprudenza
di legittimità ha progressivamente eroso l’area in cui ritiene operativa la presunzione di gratuità della collaborazione resa in favore del partner, ritagliando solo un
margine di gratuità nel caso in cui la prestazione resa possa essere ricompresa tra
quelle definite ‹‹affectionis vel benevolentiae causa›› 81.
Nell’ambito di questa ricostruzione ermeneutica, i giudici hanno mutuato la definizione che di “famiglia di fatto” aveva già indicato una parte della dottrina 82, riconoscendo ancora sussistenti i margini di gratuità ogni qual volta si riscontrino situazioni in cui il legame tra i conviventi realizzi le dinamiche di una comunanza di
vita e di interessi e che, analogamente alle unioni matrimoniali, dia luogo ad
un’effettiva ed equa partecipazione dei conviventi alle risorse materiali ed economiche della famiglia di fatto83.
giur. lav., 2005, I, p. 43 ss., per un ampio excursus sulle posizioni dottrinali che negano la compatibilità
tra lavoro gratuito e subordinazione, spec. p. 46, in cui l’A. invece sostiene la compatibilità tra i due ele menti in ragione della particolare meritevolezza dei fini perseguiti nell’ambito del ‹‹privato sociale››
‹‹in nome dei principi costituzionali››.
80
Pizzoferrato, Gratuità e lavoro subordinato, in Lav. dir., 1995, p. 429 ss., spec. p. 447 s. in cui l’A. ritiene improponibile ‹‹rivendicare l’unitarietà del modello innominato di lavoro subordinato gratuito››
‹‹alla luce dei diversi e confliggenti scopi che animano il medesimo assetto strutturale››; Galantino, Diritto del lavoro, Torino, 2010, p. 34 ss. Sul punto si rinvia alle osservazioni e alla descrizione del panorama giurisprudenziale di Fontana, nota a Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, in Dir. lav., 1991, II, p. 736
ss.
81
Parla di un ‹‹aggiustamento di tiro›› della giurisprudenza, Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 21; si rinvia alle nt. 37 e 38 per la giurisprudenza di merito; sul
punto anche Fontana, nota a Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, cit., p. 375; Mengoni, La famiglia in una
società complessa, cit., p. 6, ritiene che possono essere utilizzati alcuni principi direttivi del diritto di famiglia la cui portata è generalizzabile anche in ambito di convivenze di fatto, come ad esempio ‹‹la direttiva contraria alla presunzione di gratuità del lavoro prestato da un membro del nucleo familiare
nell’impresa gestita da un altro membro››.
82
Balestra, L’impresa familiare, cit., p. 170 ss., spec. p. 175 ss., tra i tratti distintivi ai fini di una confi gurabilità per la famiglia di fatto rileva, tra gli altri, in modo particolare, la stabile convivenza ‹‹in assenza di qualsivoglia formalizzazione›› e l’affectio.
83
Cass., 27 dicembre 1999, n. 14579, in Dir. prat. lav., 2000, p. 1468; Cass. 13 dicembre 1986, n. 7486,
in Mass. Giust. civ., 1986, II, p. 2144; Cass., 16 giugno 1978, n. 3012, in Foro Pad., 1979, I, p. 103.
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Lavoro e famiglia di fatto
25
Ricorrendo tali elementi, ove la parte che invoca la gratuità della prestazione ne
fornisca un’adeguata prova in giudizio, i giudici escludono l’onerosità del rapporto84.
Qui, secondo la giurisprudenza, le ragioni di una tutela del contraente debole
verrebbero meno perché sussisterebbe una condivisione delle risorse materiali ed
economiche e l’onerosità della prestazione sarebbe esclusa in ragione della particolare “relazione personale tra le parti” che vale a identificare la causa del rapporto
‹‹nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici
di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato
(…)››85.
Alla stregua di tale orientamento, pertanto, ogni attività ‹‹oggettivamente configurabile come rapporto di lavoro si presume effettuata a titolo oneroso›› ma, nel
caso in cui ricorrano gli elementi sopra indicati, la medesima attività può essere ricondotta dal giudice - mediante un accertamento non censurabile in sede di legittimità se non per errore di diritto o vizi logici - nell’alveo dei rapporti istituiti affectionis vel benevolentiae causa in cui però deve rigorosamente essere dimostrata
‹‹la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa›› 86.
Fuori da queste ipotesi, la giurisprudenza è ormai orientata a offrire al convivente che abbia contribuito con il suo lavoro all’attività economica del partner una
tutela secondo gli schemi tipici del diritto del lavoro, qualificando il rapporto come
subordinato ovvero, ove non si riesca a rinvenire i requisiti tipici della subordinazione, come parasubordinato, adottando comunque lo schema dell’onerosità87.
84
Pret. Sampierdarena, 26 ottobre 1987, in Dir. lav., 1991, II, p. 373 ss., che esclude il rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i
conviventi; ma anche Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, cit., secondo cui ‹‹del carattere contrattuale del
rapporto deve dar prova chi, per avvantaggiarsene, lo invoca››.
85
Cass., 26 gennaio 2009, n. 1833, in Guida lav., 2009, 8, p. 42, che ha confermato la decisione della
Corte di appello con cui il rapporto era stato qualificato di lavoro subordinato data ‹‹la verifica che la
convivenza non era continuativa ma sovente interrotta, soprattutto il rilievo del difetto di condivisione
di un tenore di vita comune in relazione ai redditi dell’attività commerciale (…)››.
86
Cass., 26 gennaio 2009, n. 1833, cit.; in senso conforme più di recente Cass. 27 aprile - 3 luglio 2012,
n. 11089, in CED Cass., 2012, secondo cui ogni attività lavorativa è presunta a titolo oneroso salvo che
si dimostri l’esistenza di una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa. Così anche Trib. Firenze,
18 giugno 1986, in Toscana lav. giur., 1987, p. 228, secondo cui ‹‹Lo speciale regime dell’impresa familiare previsto dall’art. 230 bis c.c. si applica alle ipotesi tassativamente previste dalla norma (…); dalla
stessa norma si deduce che ogni prestazione lavorativa svolta a favore di altri si presume a titolo oneroso; compete quindi alla parte che se ne è avvantaggiata di dimostrare il contrario (…)››; contra Trib.
Milano, 16 marzo 2001, in Or. giur. lav., 2001, p. 67.
87
Sul punto si rinvia alle sempre attuali osservazioni di Ghezzi, La prestazione di lavoro nella comunità
familiare, cit., p. 198 s. Cass., 2 MAGGIO 1994, N. 4204, cit.; Cass., 22 novembre 1989, n. 5006, in Riv.
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26
A. Gabriele
Inquadrata l’area di legittimità della gratuità entro i confini di un’‹‹effettiva convivenza››, si ripropone il problema di una tutela del convivente lavoratore che, una
volta conclusa la convivenza, non riesca a dimostrare gli elementi tipici della subordinazione o di altre tipologie di rapporto a titolo oneroso.
In queste ipotesi, quando alla prestazione resa dal convivente non corrisponde
una sua effettiva ed equa partecipazione agli incrementi patrimoniali della famiglia, la soluzione rimediale intermedia proposta da una parte della dottrina e condivisa dalla giurisprudenza è stata l’azione per ingiustificato arricchimento senza
causa ex art. 2041 c.c., come unico strumento per compensare il depauperamento
del convivente lavoratore88.
Il rischio però che il contraente debole resti senza tutela, o che la tutela sia minima, rimane alto e comunque resta affidato ad una fase interpretativa di tipo giudiziale il cui esito è rinviato alle risultanze probatorie emerse caso per caso.
I giudici, infatti, attribuiscono ai riscontri giudiziali di una convivenza more
uxorio continuativa ed effettiva, in presenza di un corrispettivo, valore indicativo
di una maggiore rigorosità nella prova della subordinazione89.
5.
C RITICA ALLA TESI GIURISPRUDENZIALE DELLA
PRESTAZIONE DI LAVORO DEL CONVIVENTE DI FATTO .
GRATUITÀ
DELLA
Secondo una parte della dottrina ‹‹(…) in effetti, la subordinazione, come modalità di adempimento della prestazione lavorativa, può ben riscontrarsi anche in
contesti associativi (…)››, quale può essere considerato anche quello del lavoro
nell’impresa familiare90, nel cui ambito si possono individuare delle caratteristiche
it. dir. lav., 1990, II, p. 572 ss., con nota di Filidei, che ha configurato un rapporto di lavoro subordinato
tra soggetti legati tra loro da una relazione affettiva ma non conviventi e appartenenti a nuclei familiari
distinti.
88
In giurisprudenza, Trib. Milano, 5 ottobre 1988, in Lav80, 1989, I, p. 209; e più di recente Cass. 15
maggio 2009, n. 11330, in Guida al dir., 2009, 30, p. 94, con cui la S.C. ha confermato la sentenza di
merito che aveva quantificato l’indennizzo nella misura del 50% del valore degli immobili acquistato
dal partner locupletato durante il periodo della convivenza; in dottrina fanno riferimento a questa solu zione nel caso in cui si rinvengano ragioni di tutela del legittimo affidamento circa l’onerosità del rap porto, Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali: questioni di attualità, cit., p. 151 ss.; Paradiso, La comunità familiare, Milano, 1984, p. 110 ss.; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e
patrimoniali della famiglia di fatto, in Fam. e dir., 1998, p. 195; Di Rosa, Tratti distintivi e aspetto problematici dell’impresa familiare, cit., p. 521; contra, per tutti, Palmeri, Del regime patrimoniale della
famiglia, cit., p. 80 e ivi nt. 16 e 17.
89
CASS., 2 MAGGIO 1994, N. 4204, cit.; CASS., 29 NOVEMBRE 2004, N. 22405, cit.
90
Di recente, Venditti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare anche dopo le recenti riforme, cit.,
p. 16 s.; ma si rinvia anche alle osservazioni di Biagi, Impresa familiare e rito del lavoro, cit., p. 86, setemilavoro.it – internet synopsis of labour law and social security law
Lavoro e famiglia di fatto
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tipiche dello svolgimento di una prestazione di lavoro subordinato ‹‹compatibili
con una condizione di subordinazione tecnica dei familiari coadiuvanti››91.
E’ stato sostenuto che, all’alternativa tra lavoro subordinato e lavoro gratuito,
dovrebbe essersi sostituita l’alternativa ‹‹sostanziale e non formale›› tra lavoro subordinato e lavoro familiare92.
Se in linea teorica il confine tra le due fattispecie è abbastanza chiaro, non altrettanto può dirsi dell’accertamento nel caso concreto. Qui la linea di confine appare abbastanza incerta, soprattutto considerando che la previsione di cui all’art.
230 bis c.c. si applica in via residuale, ove le parti non abbiano espresso una diversa volontà negoziale di regolazione dei rapporti e quando non si sia in presenza di
un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.
La giurisprudenza, in questi casi equivoci, tende comunque a riconoscere il rapporto di lavoro subordinato quando, in una prospettiva di alternanza sostanziale tra
lavoro familiare/subordinato, al di là del nomen iuris del rapporto, si evincano gli
elementi della subordinazione come risultanti da comportamenti concludenti e da
un assetto degli interessi tipici del rapporto di lavoro subordinato, pur se formalmente non dedotto come tale93.
condo cui ‹‹nel lavoro familiare coesistono due rapporti, associativo e di lavoro subordinato (…)›› e p.
87, dove afferma che ‹‹va accolto con favore un orientamento teso, al di là del nomen iuris del rapporto,
ad assicurare una tutela adeguata a chi, a qualunque titolo, svolga un’attività lavorativa››; Olivelli,
L’impresa familiare e la tutela previdenziale, cit., p. 91, secondo la quale l’orientamento giurisprudenziale che ha esteso al lavoro familiare la tutela ex art. 409, n. 3, c.p.c., ha riconosciuto ‹‹con ciò l’esistenza di una forma di subordinazione di fatto, un grave squilibrio socio-economico››. In generale, per
la tesi secondo cui la nozione di ‹‹subordinazione tecnico-funzionale›› (da distinguere con quella di
‹‹subordinazione in senso stretto››) non appartiene solo al lavoro subordinato ma anche ad altri rapporti
come quello del socio di cooperativa di lavoro, del socio d’opera di una società lucrativa di persone o
dell’associato in partecipazione con apporto di lavoro, si veda la magistrale lezione di Corte Cost., 5
febbraio 1996, n. 30, in Mengoni, Il contratto di lavoro, a cura di Napoli, Milano, 2004, p. 149 ss.
91
Da ultimo, Venditti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare anche dopo le recenti riforme, cit.,
p. 16; Barbera, Il lavoro nella famiglia, cit., p. 468, secondo la quale sarebbe arduo individuare una tipicità sociale della prestazione lavorativa resa nell’ambito di un’impresa familiare.
92
Barbera, Il lavoro nella famiglia, cit., p. 481. Secondo Fontana, nota a Cass., 29 maggio 1991, n.
6083, cit., non si tratterebbe di distinguere tra presunzione di onerosità e di gratuità ma piuttosto di
un’operazione di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato in entrambi i casi.
93
Barbera, Il lavoro nella famiglia, cit., p. 480; esempi di elementi tipici sono i seguenti: l’inserimento
continuativo e sistematico nell’organizzazione dell’attività familiare, la percezione di un compenso
mensile periodico, la sottoposizione ad un orario di lavoro ed alle direttive del congiunto titolare
dell’impresa, così Cass. 24 novembre 2005, n. 24700, in Foro it., 2006, I, c. 1082; ma anche Cass., 23
novembre 1984, n. 6069, cit., secondo cui l’impresa familiare è un rapporto associativo preordinato alla
tutela del lavoro familiare; Cass., 9 agosto 1996, n. 7378, in Dir. lav., 1998, II, p. 148, ammette l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra coniugi ma la prova deve essere rigorosa.
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A. Gabriele
Se a proposito del lavoro svolto da un congiunto, che rientra tra i soggetti indicati nell’art. 230 bis c.c. come partecipanti all’impresa familiare, può applicarsi lo
schema tipico della subordinazione ove ne ricorrano gli elementi 94, non si vede perché non si possa procedere con la medesima linearità argomentativa anche nelle
ipotesi in cui a prestare un’attività di lavoro sia il convivente more uxorio95.
Il nodo centrale della questione attiene alla tipologia del lavoro prestato ed alla
necessità che qualunque persona che svolga la sua attività di lavoro venga garantita
e tutelata dall’inderogabilità dello statuto protettivo della subordinazione ove ne ricorrano i presupposti96.
Il problema riguarda in particolare i casi in cui un convivente, che abbia collaborato in modo continuativo ed esclusivo con il partner titolare dell’attività di impresa, condividendo con questi le risorse economiche e materiali dell’attività, si
trovi senza alcun tipo di tutela in una fase - che si potrebbe chiamare patologica del rapporto, dovuta al venir meno del legame affettivo, magari ventennale.
Qui l’esigenza di una tutela del lavoro del convivente è resa ancor più necessaria
che nel rapporto di coniugio (dove esistono gli ordinari strumenti di tutela anche in
sede di separazione e di divorzio per il coniuge più debole economicamente a prescindere dall’esistenza di un’impresa familiare) 97.
Si deve ammettere che in questi casi sussista una disparità di trattamento tra conviventi more uxorio e coniugi, non realizzata però dal legislatore - che come abbia94
Indicativa, in questo senso, è la decisione della Pretura di Palma di Montechiaro, 31 ottobre 1988, in
Riv. it. dir. lav., 1989, II, p. 49 ss., con nota di Poso, Lavoro familiare e presunzione di gratuità, che ha
qualificato lavoro subordinato la prestazione di collaborazione svolta da una figlia nella farmacia paterna, perché soggetti appartenenti a due nuclei familiari distinti.
95
Fontana, nota a Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, cit., p. 377, rileva che ‹‹se la stipulazione di un contratto a titolo oneroso è consentita fra marito e moglie, a maggior ragione lo sarà fra le coppie non unite
in matrimonio››.
96
Si vedano le riflessioni svolte da Menghini, Il lavoro all’interno di enti religiosi: la Cassazione nega
privilegi inesistenti, in Arg. dir. lav., 2012, 1, II, p. 290 ss., il quale, argomentando la tesi della presun zione di gratuità del lavoro dei religiosi, sostiene che a questo non possa estendersi la medesima valutazione negativa che ha condotto ad escludere la gratuità del lavoro del familiare ‹‹che mortificava la posizione dei soggetti deboli della famiglia, moglie e figli››.
97
Secondo Cass., 2 MAGGIO 1994, N. 4204, cit., nella famiglia di fatto l’evenienza, sul piano dei rapporti
personali, che la convivenza abbia una fine sarebbe in qualche modo già messa in conto dalle parti, e
per negare la fondatezza di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis c.c., afferma che
‹‹la convivenza (…) è una situazione di fatto scelta da chi intende sottrarsi ai doveri di carattere pregnante connessi al matrimonio e riservarsi, invece, la possibilità di un commodus discessus in conseguenza dei caratteri di precarietà e revocabilità unilaterale ad nutum propri della convivenza di fatto.››.
Contra v. le osservazioni di Balestra, L’impresa familiare, cit., p. 204, secondo cui ‹‹la convivenza more
uxorio, a parte la sacralità dell’unione, dal punto di vista sostanziale ha contenuti più resistenti del vincolo coniugale››.
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mo visto si disinteressa delle relazioni di fatto -, ma posta in essere nel procedimento di accertamento del giudizio, quando alla convivenza e alla condivisione delle
risorse la giurisprudenza ricollega ancora oggi la gratuità della prestazione resa, lasciando il convivente privo, non solo di una tutela in costanza di convivenza, ma
anche di qualsivoglia tutela legata alla fase patologica del rapporto 98.
Disparità che peraltro non è neanche giustificata da fatti considerati rilevanti secondo i principi generali dell’ordinamento, ma che anzi contrasta con questi quando si guardi all’inderogabilità dello statuto protettivo del diritto del lavoro99.
La prospettiva così adottata dalla giurisprudenza non è quella dell’alternativa sostanziale tra lavoro subordinato o familiare, ma è una prospettiva che lascia ancora,
seppur ridotti, varchi al lavoro gratuito come terza opzione da utilizzare presuntivamente al ricorrere degli elementi della convivenza e della condivisione delle
risorse.
Ed è proprio questo margine di gratuità che l’interprete dovrebbe correggere,
senza lasciarsi distrarre dal pregiudizio ideologico che (forse) continua ad influenzare una parte del ragionamento dei giudici.
La soluzione allora potrebbe essere cercata nell’ambito del lavoro subordinato.
L’ipotesi dell’applicazione della disciplina destinata all’area delle prestazioni
cosiddette parasubordinate (ritenuta in passato una panacea) oggi pare debba escludersi, perché l’introduzione del contratto di collaborazione a progetto esaurisce
l’intero catalogo delle attività riconducibili alle attività di collaborazione coordinata e continuativa, così come confermato anche dall’art. 69 bis, d.lgs. n. 276/2003,
introdotto dall’art. 1, comma 26, l. n. 92/2012, la cui applicazione è stata estesa anche ai contratti di associazione in partecipazione ex art. 1, comma 30, l. n. 92/2012.
In tutti questi casi, infatti, ove non sussista uno specifico progetto stilato per iscritto fin dall’inizio del rapporto, deve essere riconosciuta la sussistenza di un rapporto
98
Così anche Auletta, Collaborazione del familiare nell’attività economica e forme di tutela, cit., p.
272, per il quale la regola della presunzione di onerosità è da escludersi solo ‹‹quando la collaborazione
è occasionale o non è dotata dei caratteri di un’ordinaria prestazione di lavoro (…)››. Ritiene non am missibile l’estensione della presunzione di gratuità ai conviventi more uxorio e riconosce la difficoltà di
ravvisare nei rapporti in esame il ‹‹connotato della subordinazione››, Oberto, Le prestazioni lavorative
del convivente more uxorio, cit., p. 29.
99
Si rinvia alla giurisprudenza citata da Masucci, in Foro it., 1995, I, c. 2112 ss. e alle considerazioni di
Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, cit., p. 36; Oberto, in Giur. it., 1991, I, 2, pp.
577 s., rileva la ‹‹difficoltà di riscontrare nell’opera prestata dal convivente indici affidabili di subordinazione››; sul punto concorda anche Colussi, voce ‹‹Impresa familiare››, in Noviss. Dig. It., Appendice,
vol. IV, Torino, 1983, p. 69. Tesi già sostenuta da Papaleoni, voce Lavoro Familiare, cit., p. 8, con riferimento al rapporto di lavoro subordinato tra familiari.
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A. Gabriele
di lavoro subordinato.
Prima di procedere all’individuazione delle tecniche di qualificazione della prestazione di lavoro subordinato, va destituita di fondamento logico l’argomentazione
adoperata dalla giurisprudenza per qualificare come gratuita la prestazione di lavoro resa dal convivente.
In primo luogo, l’accertamento giudiziale dovrebbe disinteressarsi della situazione affettiva esistita tra le parti e limitarsi a verificare la ricorrenza degli elementi
della subordinazione così come emersi dalle risultanze probatorie. L’interprete, infatti, dovrebbe ignorare il dato interprivato della relazione personale, così come avviene in qualsiasi altra ipotesi contrattuale (l’amicizia, l’affetto, la condivisione di
spazi o una lontana parentela ai fini dell’analisi giuridica non rilevano), e ragionare
in termini di presunzione di onerosità100.
Sarebbe necessario tralasciare l’incidenza che la comunanza di vita e di affetti
della famiglia di fatto assume nell’elaborazione giurisprudenziale e adottare la prospettiva del legislatore che si disinteressa del fenomeno di enorme rilevanza sociale
della convivenza101. Così la giurisprudenza non dovrebbe attribuire alcun valore
alla relazione affettiva al fine di escluderne la compatibilità con la sussistenza di un
rapporto di lavoro subordinato102.
Garantire sotto il profilo sostanziale del metodo questa estraneità dell’elemento
affettivo rispetto al giudizio di valutazione della fattispecie, produce delle conse100
Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 69, negando la tesi dell’applicabilità in via analogica dell’art.
230 bis c.c., conclude per l’assimilazione del lavoro del convivente di fatto al lavoro prestato da un
estraneo, per il quale vige una generale presunzione di onerosità.
101
Valgano qui le osservazioni di Fontana, nota a Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, cit., p. 378 s., secondo cui ‹‹Ignorando i conviventi “in quanto tali”, trattandoli, cioè, alla stregua di qualsiasi altro litigante,
essi sono, evidentemente, tornati a quell’atteggiamento di disinteresse, che tanto piaceva a Napoleone››.
In questo senso l’A. precisa che non si tratta di disprezzo perché questa resta l’unica via per ‹‹giungere
ad una soluzione equilibrata››. Per l’opinione contraria sull’affermazione ‹‹Le concubins se passent de
la loi, la loi se désintéresse d’eux››, Roppo, La famiglia senza matrimonio. Diritto e non-diritto nella
fenomenologia delle libere unioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1980, p. 711, che definisce le parole usate dal legislatore francese due secoli fa come ‹‹sprezzanti››; un rinvio è doveroso anche alle osservazioni di Mengoni, La famiglia in una società complessa, cit., p. 3, secondo il quale le convivenze extramatrimoniali sono per loro natura ‹‹rifuggenti da qualificazioni giuridiche di diritti e obblighi reciproci
(Corte cost. n. 310 del 1989)››.
102
In senso contrario, si vedano le motivazioni di Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit., che per escludere
la subordinazione ha affermato: ‹‹i rapporti personali tra la prestatrice e il datore di lavoro interferiscono
in modo tale da lasciare uno spazio meno definito a una gerarchia sul piano lavorativo, bastando che,
per la resa di una proficua prestazione da parte dell’istante, essa si adeguasse agli interessi dell’azienda,
sospinta dal rapporto affettivo col datore di lavoro››. Conforme anche l’orientamento più risalente che
considerava la prestazione resa dalla convivente come necessariamente gratuita perché esplicata a puro
titolo di beneficenza, Cass., 31 gennaio 1967, n. 276, in Giust. civ., 1967, c. 1320.
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guenze di non poco conto anche sul piano processuale: sia con riguardo all’ambito
oggettivo della prova (che qui verte sulla presenza o meno degli indici della subordinazione); sia per la distribuzione dell’onere probatorio (che grava sull’attore ma
che costringe il convenuto a difendersi tentando di negare la sussistenza degli elementi eventualmente emersi della subordinazione). Solo in questo modo si eviterà
di giungere all’esito paradossale per cui alla difesa del convenuto è sufficiente dimostrare il legame affettivo intercorso tra le parti per scongiurare in apicibus la ricorrenza di un’ipotesi di lavoro subordinato (peraltro il primo evento è molto più
agevole da dimostrare che per l’attore gli elementi indicativi della seconda ipotesi)103.
Il secondo dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per la sussistenza di un
rapporto di lavoro gratuito tra conviventi è dato dall’equa partecipazione alle risorse economiche e materiali della famiglia di fatto.
Sul punto deve rilevarsi come la partecipazione alle risorse economiche e materiali non possa rappresentare un indice facilmente configurabile come parametro di
accertamento minimo e massimo, non si tratta infatti di un elemento predeterminabile a priori potendo consistere nel mero mantenimento corrispondente alla liberazione dai bisogni primari, ovvero in più generose elargizioni, secondo la discrezio nalità del partner titolare dell’attività. Inoltre, non è chiaro se con questa formula i
giudici ritengano che la partecipazione vada intesa come partecipazione al fatturato
di impresa, e quindi ai ricavi, ovvero come partecipazione agli utili (come invece
avviene nel contratto di associazione in partecipazione) 104. E ciò depone ad esclusivo pregiudizio della certezza del diritto.
Peraltro non è detto che la partecipazione alle risorse equivalga ad una partecipazione anche alle decisioni dell’attività d’impresa o alla gestione delle risorse economiche e materiali (con una previsione di rendiconto tra i conviventi ed un controllo di gestione), in questo caso è come se venisse riconosciuto al convivente titolare dell’attività d’impresa un potere analogo a quello che aveva il “capofamiglia”
nelle attività di impresa delle famiglie legittime prima della riforma, in cui tutti i
collaboratori dipendevano dal suo arbitrio, senza che vi fosse un parametro obiettivo di partecipazione.
103
Sul punto funditus Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 23 ss. e giurisprudenza ivi citata.
104
Corte Cost. n. 30 del 1996, cit., p. 152, per escludere la prestazione del socio di cooperativa dall’area
della subordinazione in senso stretto, sostiene che al socio competono ‹‹poteri e diritti di concorrere alla
formazione della volontà della società, di controllo sulla gestione sociale e infine il diritto a una quota
degli utili››. La medesima argomentazione potrebbe valere a contrario per il lavoro prestato dal convivente, ma sul punto si rinvia alle osservazioni del par. 6.
volume 5, n. 2 del 2013
32
A. Gabriele
Se poi si riflette sul dato che una percentuale elevata dei ricorsi per il riconoscimento giudiziale dell’attività prestata nell’ambito dell’impresa del convivente è
presentata da donne, una volta terminata la relazione, la questione assume contorni
ancora più preoccupanti.
Mantenere una sorta di presunzione di gratuità, in questi casi, significa preferire
una soluzione i cui riflessi immediati investono il lavoro delle donne e la loro presenza nel mercato del lavoro, pregiudicando il ruolo da esse rivestito nella partecipazione alle attività economiche del convivente di fatto e relegandole pertanto, anche mediante il diritto vivente, a posizioni da “dietro le quinte”. Si giungerebbe
così a costruire, anziché rimuovere, quegli ostacoli di ordine socio-economico che
‹‹ferendo profondamente l’ideale democratico, impediscono›› alla donna che lavora nell’attività di impresa del convivente ‹‹il pieno sviluppo della sua personalità
umana››105, e ciò non solo in violazione dei precetti costituzionali ma anche in netta
controtendenza rispetto al dibattito interno e europeo in materia di parità di genere106.
6. I L LAVORO PRESTATO DAL CONVIVENTE : UN ’ IPOTESI DI RICONDUZIONE
NELL ’ ALVEO DELLA SUBORDINAZIONE .
Svalutati gli elementi addotti dalla giurisprudenza per configurare una residuale
area di lavoro gratuito tra conviventi, è necessario verificare se alla prestazione di
lavoro resa dal convivente nell’impresa del partner sia possibile assegnare lo statuto protettivo previsto per il prestatore di lavoro subordinato.
105
Bin, Rapporti patrimoniali tra coniugi e principio di eguaglianza, Torino, 1971, pp. 72 e 122; Romagnoli, Il principio d’uguaglianza sostanziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, p. 1289 ss.; Id., Eguaglianza e differenza nel diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1994, p. 544 ss.; Ballestrero, Le discriminazioni di genere sul lavoro. Dall’Italia all’Europa e viceversa, in Le discriminazioni di genere
sul lavoro. Dall’Europa all’Italia, a cura di Smuraglia, Roma, 2005, p. 1 ss.; Id., Eguaglianza e differenze nel diritto del lavoro. Note introduttive, in Lav. dir., 2004, p. 501 ss.; Roccella, La direttiva comunitaria sulla parità di trattamento nelle condizioni di lavoro negli orientamenti della Corte di giustizia:
una giurisprudenza ancora in evoluzione, in Dir. rel. ind., 3, 1996, p. 81 ss.; Rodgers, Labour law and
employment policy in the EU: conflict or consensus?, in Int. jour. comp. lab. law ind. rel., 4, 2011, p.
387 ss.; Garilli, Eguaglianza e mercato del lavoro: un equilibrio difficile, in Riv. giur. lav., 1997, p. 469
ss.; Barbera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, 1991; Izzi, Eguaglianza e
differenze nei rapporti di lavoro, Napoli, 2005; Guaglianone, Le discriminazioni basate sul genere, in Il
Nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, a cura di Barbera, Milano, 2007,
p. 249 ss.
106
Magnani, La famiglia nel diritto del lavoro, cit., p. 4 ss.; Gottardi, Lavoro di cura. Spunti di riflessione, in Lav. dir., 2011, p. 121 ss.; De Simone, I lavoratori domestici come attori della conciliazione, in
Persone, lavori, famiglie. Identità e ruoli di fronte alla crisi economica, a cura di Ballestrero-De Simone, Torino, 2009, p. 71 ss.
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Lavoro e famiglia di fatto
33
Non è questa la sede per un discorso approfondito sui metodi e sulle operazioni
di qualificazione del contratto di lavoro subordinato in generale 107.
Andrebbe forse recuperata la tesi di uno dei più autorevoli fautori del cosiddetto
metodo sussuntivo - caratterizzato da un giudizio di identità tra la fattispecie legale
ex art. 2094 e quella concreta - che rinviene una circoscritta utilità del metodo tipologico quale mezzo più ‹‹idoneo a controllare e a frenare le pretese espansive del
diritto del lavoro››108.
Se la pronuncia giudiziale deve sempre essere strutturata nella forma della logica
sillogistico-deduttiva, il metodo tipologico si pone rispetto a questa come una modalità di argomentazione giuridica che può intervenire soltanto per ‹‹completarla ai
fini della ricerca e della fondazione delle premesse›› 109. Anche nel metodo tipologico, infatti, i due piani del discorso si riferiscono ad un’unica fattispecie, quella legale, ‹‹distinguendo un nucleo comune a tutte le situazioni applicative e varianti di
senso adeguate ai vari contesti››. Il nucleo comune va identificato ‹‹nel concetto di
significato (che è un concetto di relazione)››, mentre le varianti contestuali ‹‹traducono il significato astratto della fattispecie legale in una proposizione applicabile al
caso concreto (regola di decisione)››. Tra i due piani così distinti deve sussistere
un’identità con riferimento al solo ‹‹valore operazionale›› e non al contenuto. E
pertanto al fine di attribuire anche alle varianti di senso il nome di “subordinazione”, è necessario che tra queste e il ‹‹contenuto proposizionale del testo›› sussista
un’equivalenza funzionale110.
107
Per un’approfondita ricognizione delle posizioni in merito al metodo qualificatorio, Garilli, Flessibilità e subordinazione, cit., p. 395, secondo cui ‹‹L’accentramento della tutela dei lavoratori all’interno
del rapporto di lavoro ha enfatizzato il problema della individuazione della nozione di subordinazione,
chiave di accesso per le tutele predisposte dall’ordinamento››, spec. p. 397 ss.; Persiani, Individuazione
delle nuove tipologie tra subordinazione e autonomia, in Arg. dir. lav., 2005, p. 1ss.; Ichino, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Milano, 1989; Nogler, Metodo tipologico e qualificazione dei
rapporti di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 1990, p. 200 ss. Per una dettagliata disamina delle
questioni più attuali, si rinvia a Riccobono, Qualificazione del contratto e controllo della fattispecie nel
diritto del lavoro, Torino, 2011.
108
Mengoni, La questione della subordinazione in due recenti trattazioni, in Mengoni, Il contratto di lavoro, cit., p. 49, secondo il quale ‹‹il momento finale dei processi di qualificazione non può essere che
un giudizio sussuntivo››.
109
Mengoni, Il contratto individuale di lavoro, in Mengoni, Il contratto di lavoro, cit., p. 107 s.; Nogler,
Metodo tipologico e qualificazione dei rapporti di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 1990, 1, p.
208; Id., Ancora su “tipo” e rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, in Arg. dir. lav., 2002, p. 109
ss.; si vedano anche le condivisibili conclusioni di Riccobono, Qualificazione del contratto, cit., p. 99 s.
110
E’ il ragionamento seguito da Mengoni, Il contratto individuale di lavoro, in Mengoni, Il contratto di
lavoro, cit., p. 108, ma si veda anche p. 109 con riferimento al ‹‹contributo significativo anche se circoscritto›› dato dal metodo tipologico.
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34
A. Gabriele
Il metodo tipologico così recuperato nella logica della sussunzione è utile sul
piano ermeneutico perché contribuisce ad ‹‹individuare la sezione della realtà sociale determinata dalla norma come proprio ambito operativo, e quindi i problemi
ai quali la norma intende rispondere; serve anche a mobilitare la funzione correttiva o integrativa delle clausole generali, specialmente della clausola della buona
fede, quando occorra adattare la disciplina tipica a un caso concreto riconducibile
nel suo ambito in via di sussunzione, ma caratterizzato da qualche elemento deviante dal tipo normativo››111.
Adottando questo approccio di inquadramento della fattispecie attraverso un giudizio di identità che sia però preceduto dalla selezione, riservata al momento ermeneutico, di alcuni indici sussidiari, va chiarito che la fattispecie contrattuale di cui
all’art. 2094 c.c. individua l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo nell’eterodirezione - assoggettamento personale - intesa come una ‹‹componente modale (cioè non-descrittiva) esprimente
una modalità personale che la posizione di dipendenza (servizio) del prestatore di
lavoro, determinata dall’inserimento nell’organizzazione creata dal datore, assume
nel modello sottostante alla disciplina legale, impostata sulla figura più frequente
(normale) di lavoratore subordinato (…)››112.
Nell’elemento dell’eterodirezione ‹‹nella sua dimensione di intensità variabile,
morfologicamente instabile, ma comunque percepibile sul piano del dover essere
normativo››113, pertanto, si rinviene il dato imprescindibile di qualsiasi operazione
di qualificazione della prestazione di lavoro subordinato. E’ lo stesso art. 2094 c.c.
che individua nel potere direttivo una caratteristica strutturale del modello legale 114.
Solo mediante l’esercizio del potere direttivo è garantito al datore di lavoro di
gestire l’attività di lavoro in modo funzionale ad ottenere il risultato dedotto in obbligazione e, in una prospettiva più ampia, al perseguimento dei precisi obiettivi
111
Secondo Mengoni, La questione della subordinazione in due recenti trattazioni, in Mengoni, Il contratto di lavoro, cit., p. 50, oltre questa prospettiva, l’adozione del metodo tipologico incontra ostacoli
di ordine strettamente positivo ‹‹quando si propone come tecnica di qualificazione più idonea della sussunzione a selezionare le discipline applicabili››.
112
Mengoni, La questione della subordinazione in due recenti trattazioni, in Mengoni, Il contratto di lavoro, cit., p. 51.
113
Perulli, Il potere direttivo dell’imprenditore, Milano, 1992, p. 346.
114
Napoli, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in Questioni di diritto del lavoro (1992-1996), Torino,
1996, p. 38 s.; Perulli, Il potere direttivo dell’imprenditore. Funzioni e limiti, in Lav. dir., 2002, p. 397
ss.; Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e posttaylorismo, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2004, p. 1 ss.; De Luca Tamajo, Profili di rilevanza del potere direttivo del datore di lavoro, in Arg. dir. lav., 2005, p. 472 ss.; Riccobono, Qualificazione del contratto,
cit., p. 95 ss.
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Lavoro e famiglia di fatto
35
dell’organizzazione dell’impresa115.
‹‹La subordinazione sarebbe perciò un concetto ben definito, ed essa consisterebbe nella “disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento al potere disciplinare ed alle direttive da questo impartite circa le
modalità di esecuzione dell’attività lavorativa”›› 116. L’eterodirezione deve sussistere, anche se in via solo potenziale, e unitamente all’inserimento stabile e continuativo nell’organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro, rappresenta il nucleo
essenziale in cui si riflette la nozione di subordinazione117.
In un’ottica di diversificazione dei modi della subordinazione, determinata dalle
trasformazioni dell’organizzazione del lavoro e dalla realtà socio-economica di cui
i rapporti giuridici sono espressione, la giurisprudenza ammette che in alcuni casi
concreti l’esercizio del potere direttivo possa anche assumere sfumature attenuate
che non ne escludono la sussistenza118.
115
Sulla distinizione tra organizzazione del lavoro e organizzazione di lavoro si rinvia a Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, p. 143; di recente Marazza, Saggio sull’organizzazione
del lavoro, Padova, 2002; per una ricostruzione del profilo storico si rinvia a Magnani, Contratti di lavoro e organizzazione, in Arg. dir. lav., 2005, I, p. 121 ss., e bibliografia ivi citata.
116
Garilli, Flessibilità e subordinazione, cit., p. 398; secondo Persiani, Individuazione delle nuove tipologie tra subordinazione e autonomia, cit., p. 5, spec. nt. 16 e 17, ‹‹l’assoggettamento al potere direttivo
trova, oramai, realizzazione in guise e forme diverse e diventa una “componente modale e, quindi, inessenziale e mutevole”, al tempo stesso di difficile percezione›› che ha indotto a prospettare ‹‹deroghe›› o
‹‹deviazioni›› rispetto al prototipo normativo. Sul punto, si vedano anche le riflessioni di D’Antona, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 1995, 1,
p. 43.
117
Ichino, Vecchi e nuovi problemi nella qualificazione della prestazione lavorativa come autonoma o
subordinata, cit., p. 80 s., secondo il quale, individuare la subordinazione in dati meramente sociologici
quali l’‹‹inferiorità socio-economica›› o il ‹‹bisogno di tutela›› ‹‹o comunque in qualche cosa di diverso
dal dato giuridico della eterodirezione dell’attività lavorativa››, contraddirebbe il dato normativo di cui
all’art. 2094 c.c.; per l’A. l’unica soluzione in questo caso è quella di individuare un’area di subordinazione “debole” intermedia tra subordinazione e autonomia, in cui l’elemento dell’eterodirezione non si
manifesta in modo netto e per la cui concreta individuazione è ‹‹possibile procedere soltanto con il metodo tipologico, cioè con un giudizio di approssimazione della fattispecie concreta al tipo astratto››. Ma
la “debolezza” in questi casi, sostiene l’A., non riguarda il vincolo giuridico dell’eterodirezione che sussiste anche qui, anche se non viene esercitato di fatto o viene esercitato in forma implicita.
118
Da ultimo, per questo filone giurisprudenziale, Cass., 22 novembre 2011, n. 24619, cit., che tra i criteri cui fare riferimento in via sussidiaria annovera la collaborazione, la continuità delle prestazioni,
l’osservanza di un orario di lavoro, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, il
coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, l’assenza in
capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale. La giurisprudenza, quando la subordinazione non è immediatamente rilevabile dal concreto atteggiarsi del rapporto, ha fatto generalmente
ricorso a indici quali la presenza della durevolezza della prestazione (intesa come estensione e permanenza nel tempo dell’obbligazione di lavorare), o la continuità in senso tecnico (nel senso della illimitata divisibilità della prestazione stessa in ragione del tempo); ovvero a dei criteri sussidiari come la preci-
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36
A. Gabriele
In questi casi, quando l’assoggettamento al potere direttivo non sia agevolmente
apprezzabile ‹‹a causa della peculiarità delle mansioni e del relativo atteggiarsi del
rapporto››, la giurisprudenza tende a richiamarsi, secondo una logica sussuntiva, ai
criteri complementari e sussidiari che vengono preliminarmente indicati attraverso
il rinvio a quelle ‹‹varianti di senso adeguate ai vari contesti›› che abbiano il medesimo ‹‹valore operazionale›› del nucleo essenziale 119. In tale prospettiva ermeneutica, questi elementi, privi ciascuno di valore di per sé decisivo, possono essere valutati dal giudice globalmente come indizi probatori della subordinazione120.
Qui l’interprete non può che desumere l’assetto negoziale dal complessivo atteggiarsi della prestazione, e verificare l’assoggettamento - anche se in modo implicito
e non visibile - della prestazione al potere direttivo121.
Di recente, una parte della giurisprudenza ha elaborato una nozione di subordinazione cosiddetta “attenuata”, in cui non si esclude la presenza degli elementi
qualificanti della fattispecie, ma si ammette che, nel caso concreto, possano emergere dati di una sussistenza sfumata dell’eterodirezione in ragione della particolare
natura della prestazione, che potrebbe essere o talmente ripetitiva e predeterminata
da non avere bisogno di indicazioni tecniche 122, ovvero talmente intellettuale da es-
sa individuazione dell’oggetto della prestazione, l’esistenza o meno di un’organizzazione imprenditoriale, e l’incidenza del rischio attinente all’esercizio dell’attività; in questi casi possono anche difettare vincoli visibili e dichiarati come l’orario di lavoro e il potere disciplinare, a condizione che risulti l’effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale: Cass., 7 novembre 1986, n. 5538, in Rep.
Foro It., 1986, voce lavoro, nn. 431; Cass., 14 ottobre 1985, n. 5024, in Inf. prev., 1986, p. 381.
119
In giurisprudenza ritiene necessario indagare sull’orario di lavoro, sulle direttive impartite e le mansioni espletate, Cass., 14 giugno 1990, n. 5803, cit.; secondo Cass., 22 novembre 1989, n. 5006, cit., p.
577, l’elemento della subordinazione ‹‹non va necessariamente desunto dalla ricorrenza di dati estrinseci o visibili, ben potendo essere insito alla struttura stessa del rapporto e subendo la sua manifestazione
esterna l’influsso variabile della posizione del lavoratore nell’organismo produttivo in cui è inserito,
delle particolarità relazionali e delle caratteristiche personali dei soggetti del rapporto››. Napoli, Diversificazione delle tipologie dei rapporti e tecniche unitarie di tutela, in Autonomia e subordinazione nelle nuove figure professionali del terziario, cit., p. 89 ss.
120
Lunardon, L’uso giurisprudenziale degli indici di subordinazione, in Giorn. dir. lav. rel. ind.,1990, p.
403 ss.
121
Ichino, Vecchi e nuovi problemi nella qualificazione della prestazione lavorativa come autonoma o
subordinata, cit., p. 86, afferma che l’essenza della subordinazione risiede nell’accertamento dell’assoggettamento della prestazione al potere direttivo del creditore, ‹‹Anche nella zona intermedia, dove tale
accertamento non può basarsi direttamente sull’osservazione delle modalità concrete di svolgimento del
rapporto, è pur sempre l’elemento giuridico dell’eterodirezione della prestazione - e non altro - a dover
essere individuato, sia pure in via presuntiva››.
122
Cass., 21 gennaio 2009, n. 1536, in Riv. giur. lav., 2009, II, p. 324; Trib. Milano, 25 giugno 2008, in
Orient. giur. lav., 2008, p. 561.
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Lavoro e famiglia di fatto
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cludere l’intervento organizzativo del datore di lavoro 123. In questa direzione si
muove anche una parte della dottrina secondo cui ‹‹la sussistenza del potere direttivo non va valutata in termini assoluti, ma in relazione alla specificità della prestazione, sicché per attività comuni il riconoscimento della subordinazione postula
una eterodeterminazione specifica e capillare, mentre per mansioni caratterizzate
da elevato contenuto professionale o tecnico pure un minimum di direttive permette
di escludere la natura autonoma o parasubordinata del rapporto›› 124.
Secondo un altro orientamento, più conforme alla tesi tradizionale, il potere direttivo non dovrebbe esplicarsi necessariamente ‹‹mediante ordini continui, dettagliati e strettamente vincolanti››, ben potendo anche realizzarsi un’ipotesi di subordinazione nel caso in cui l’assoggettamento del lavoratore si realizzi mediante direttive dettate dal datore di lavoro ‹‹in via programmatica››, lasciando margini più
o meno ampi di autonomia, di iniziativa e di discrezionalità dei quali goda lo stesso
lavoratore125.
Bisogna ora verificare se, alla stregua di quest’ultimo orientamento citato, sia
possibile ricostruire la fattispecie del contratto di lavoro subordinato anche nel caso
della prestazione resa dal convivente di fatto che condivida con il partner imprenditore le risorse materiali ed economiche dell’attività di impresa.
In via preliminare, bisogna sgombrare il campo dai dubbi circa la possibilità di
configurare la prestazione come gratuita perché istituita affectionis vel benevolentiae causa.
Se è vero, infatti, che originariamente la volontà delle parti potrebbe essere volta
a realizzare un assetto di interessi con questo specifico intento, non è altrettanto vero che, in seguito ad un accertamento delle concrete modalità di svolgimento del
rapporto, non emergano degli elementi che conducano a ritenere che le parti stesse
abbiano chiarito, modificato o integrato l’originario e non più attuale assetto di interessi in una modalità che è tipica del lavoro subordinato. Al fine di poter configurare una prestazione di lavoro gratuito è necessario che nell’ambito della ricostruzione della volontà negoziale delle parti assuma rilievo, sul piano giuridico-sociale,
123
Cass., 19 aprile 2010, n. 9252, in CED Cassazione 2010; Cass., 12 agosto 2008, n. 21540, in Riv.
giur. lav., 2009, II, p. 403 ss., con nota di Lanzalonga, Ancora sulla subordinazione attenuata nel rapporto di lavoro giornalistico.
124
De Luca Tamajo, Profili di rilevanza del potere direttivo del datore di lavoro, cit., p. 474. Per una
rassegna delle posizioni che in dottrina sostengono di attenuare come requisito necessario per il configurarsi del lavoro subordinato l’assoggettamento pieno della prestazione al potere direttivo si rinvia a
Ichino, Il contratto di lavoro, I, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da Cicu-Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 2000, p. 321, nt. 120; v. anche Garilli, Flessibilità e subordinazione, cit., p. 398 s.
125
Cass., 22 novembre 2011, n. 24619, cit.
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38
A. Gabriele
l’esistenza di cause giustificatrici quali il perseguimento di finalità ideali o di cortesia e non lucrative.
Non si vede quale possa essere la finalità ideale e non lucrativa che animi il convivente senza occupazione di lavoro a svolgere delle particolari mansioni nell’azienda del partner, coordinando la sua prestazione, in modo continuativo, con quella
degli altri dipendenti. Ma in ogni caso va precisato che l’esistenza di finalità ideali
e non lucrative induce a propendere per la gratuità solo in difetto di elementi in
grado di legittimare una diversa qualificazione del rapporto.
Se pertanto il rapporto di lavoro del convivente di fatto si sia svolto con le caratteristiche e le modalità attuative tipiche della subordinazione, andrebbe esclusa
ogni possibile configurazione della gratuità.
In particolare, nel tentativo di fornire una tutela sostanziale al convivente economicamente più debole, giova la prospettiva della subordinazione cosiddetta “attenuata”, perché anche in questo caso è verosimile che l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile in sede
di accertamento giudiziale. Ma mentre nelle ipotesi prese in esame dalla giurisprudenza tale elemento non è apprezzabile per la particolare natura delle mansioni, nel
caso del convivente l’eterodeterminazione potrebbe non essere apprezzabile per il
concreto atteggiarsi del rapporto e per il peculiare stato di affectio che esiste tra i
contraenti.
In questi casi, infatti, è raro che il potere direttivo e il potere disciplinare trovino
espressione e manifestazione all’esterno secondo le ordinarie vie formali, ma data
l’atipicità e la variabilità dell’assetto di interessi nelle relazioni di fatto è assai più
probabile che il canale di esercizio di questi poteri rimanga relegato all’ambito interprivato dei conviventi.
Cercare in questi casi l’apparenza dell’esercizio del potere disciplinare o del potere direttivo è un inutile esercizio retorico, che non può che condurre a negare la
tutela tipica del rapporto di lavoro subordinato. Un eventuale rimprovero non avverrà mai secondo le previsioni statutarie e collettive, ma non per questo sarà meno
efficace o dissuasivo; e un’indicazione inerente alle modalità di svolgimento della
prestazione, infatti, non avrà rilievo formale ma sicuramente sostanziale, perché efficace sul versante della relazione privata126.
Così si prescinderebbe solo da un accertamento dei concreti modi di apparire
dell’eterodeterminazione, ma non dalla loro astratta e potenziale configurazione;
inoltre, da un apprezzamento globale della ricorrenza degli altri indici (quali la
126
Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 26 s.
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Lavoro e famiglia di fatto
39
continuità della prestazione e l’inserimento nell’organizzazione produttiva
dell’imprenditore), nonché anche attraverso la verifica del criterio della “doppia
alienità” dei mezzi di produzione e del risultato, non si potrebbe che concludere a
favore della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato127.
Pertanto, ove la prestazione lavorativa del convivente sia inserita stabilmente nel
contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio di impresa e
senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nell’ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato ‹‹in ragione di un generale favore accordato dall’art. 35
Cost. che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni››128.
Solo attraverso tale strada è possibile che la prestazione di lavoro del convivente
di fatto generi tutti gli effetti tipici conseguenti all’instaurazione di un rapporto di
lavoro subordinato129, ma soprattutto che lo stesso possa godere degli aspetti più direttamente rivolti a garantirgli un’adeguata remunerazione per il lavoro prestato, le
garanzie economiche per il ricollocamento nel mercato del lavoro (come il T.F.R.)
e l’estensione della legislazione previdenziale e assicurativa130.
127
Mengoni, Lezioni sul contratto di lavoro, Milano, 1971, p. 42; Napoli, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., p. 54 ss.; Corte Cost., 12 febbraio 1996, n. 30, in Not. giur. lav., 1996, p. 504.
128
Cass., 22 novembre 2011, n. 24619, cit.; a proposito del valore e della funzione svolta nell’ordina mento dai principi dell’indisponibilità del tipo e dell’inderogabilità dello statuto protettivo si vedano le
osservazioni di Garilli, Finalizzazione e oggetto degli accordi di prossimità, in Riv. giur. lav., 3, 2012, I,
p. 491. Secondo D’Antona, La metamorfosi della subordinazione, in Opere, III, 1278, ‹‹nel diritto del
lavoro la disponibilità del tipo è esclusa dalla funzione che l’ordinamento assegna alla qualificazione
del rapporto di lavoro subordinato (…)››.
129
Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, cit., p. 1395, a proposito della natura della disciplina da applicare ai rapporti di lavoro nell’ambito dell’impresa familiare, già
avvertiva che ‹‹i concetti di autonomia e subordinazione (…) sono nozioni relative, il cui campo di ap plicazione varia secondo le differenti fasi dello sviluppo sociale e le diverse condizioni dei rapporti so ciali di produzione››; D’Antona, La metamorfosi della subordinazione, cit., p. 1275, sostiene che ‹‹la
natura imperativa e inderogabile degli effetti della qualificazione non consente al giudice alcuna sele zione dei trattamenti astrattamente connessi alla qualità di lavoratore subordinato››; a p. 1276 s., l’A. fa
notare il rilievo costituzionale della subordinazione; secondo Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro. 2, p. 32, ‹‹la disciplina tipica va quindi considerata tendenzialmente, ma non necessariamente (tutta quanta) applicabile al rapporto che pur viene qualificato come di lavoro subordinato››.
130
Così come già avviene per il collaboratore nell’impresa familiare, su cui nel dettaglio si rinvia a Venditti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare anche dopo le recenti riforme, cit., p. 17 ss.; valgano
qui le medesime considerazioni svolte da Olivelli, L’impresa familiare e la tutela previdenziale, cit., p.
93, commentando la sentenza della Corte Costituzionale n. 476/1987 - che ha dichiarato illegittima l’art.
4, 1° comma, n. 6 del D.P.R. n. 1124/1965 (TU delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro
gli infortuni sul lavoro e malattie professionali), nella parte in cui non comprendeva i familiari partecipanti all’impresa familiare tra le persone assicurate -, secondo cui non è coerente con i principi di tutela
del lavoro negli aggregati familiari il diniego di una tutela assicurativa ‹‹per le innegabili esigenze di li berazione dal bisogno, connesse alla presenza di attività lavorativa che comunque serve alla soddisfavolume 5, n. 2 del 2013
40
A. Gabriele
Si tratta di rinvenire nel diritto del lavoro gli strumenti più idonei per assicurare
il rispetto di una tutela sostanziale al convivente contraente debole 131, attraverso un
giudizio di comparazione e prevalenza volto a determinare con sufficiente attendibilità la natura subordinata del rapporto132.
In questo senso elementi utili potrebbero trarsi anche dalla modifica apportata
all’istituto dell’associazione in partecipazione ex art. 2549 c.c. dall’art. 1, comma
28, l. n. 92/2012, che impedisce l’operatività della qualificazione del rapporto di
associazione in rapporto di lavoro subordinato nel caso del superamento della soglia di tre associati per una medesima attività, solo per i familiari così come indivi duati ex art. 230 bis c.c. Nel caso di un convivente more uxorio, invece, opera la
disciplina ordinaria con una presunzione assoluta di subordinazione133.
Contrariamente si rischia di incorrere in un generalizzato riconoscimento di forme di sfruttamento del lavoro, generatrici di ricchezza per chi ne usufruisce che
non troverebbero riscontro nel sistema del lavoro dichiarato o legale 134. Per questa
strada si autorizzano, nell’ambito delle convivenze di fatto, sacche di lavoro sommerso non giustificate dal rilievo delle finalità ideologiche che invece caratterizzano prestazioni di lavoro come quelle nell’ambito del volontariato, rispetto alle quali
è lo stesso legislatore ad assegnare un particolare trattamento in ragione di un bizione di un altrui interesse anche se nascente da una specifica situazione familiare››; per alcune conside razioni sulla sentenza della Corte Costituzionale anche Germano, voce Lavoro familiare, cit., p. 244 s.
Si deve anche ritenere che al familiare di fatto si applichino tutte le disposizioni in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, e ciò a prescindere dalla qualificazione formale in base alla quale prestava
la sua attività, conformemente a quanto statuito da Cass., 13 ottobre 2010, n. 38118, in Fam. e dir.,
2011, 7, p. 708 con nota di Gentile; e da Cass., 1 aprile 2010, n. 17581, in Riv. trim. dir. pen. economia,
2010, 3, p. 717: entrambe si riferiscono ad un’ipotesi di lavoro “saltuario” del figlio nell’impresa familiare paterna.
131
Sul punto si possono adottare le medesime considerazioni svolte da Barbera, Il lavoro nella famiglia,
cit., p. 470, a proposito del lavoro familiare, che mette in luce la realtà del rapporto di lavoro familiare,
date ‹‹le condizioni di debolezza nelle quali si svolge, debolezza nei confronti del mercato esterno e nei
confronti del familiare imprenditore (…)››. Per un precedente risalente nella giurisprudenza di merito,
ma le cui osservazioni restano attuali, si veda Pret. Napoli, 3 marzo 1979, in Dir. e giur., 1979, p. 590
ss., che con riferimento al lavoro domestico svolto dalla convivente ne ha riconosciuto la natura di prestazione di fatto di lavoro subordinato domestico ‹‹sussistendo i requisiti della continuità e della prestazione dell’opera per il funzionamento della vita familiare››.
132
Cass., 6 dicembre 1986, n. 7286, in www.dejure.giuffre.it.
133
Per le riflessioni critiche sulla riforma si rinvia a Carinci, Complimenti, dottor Frankenstein: il diseg no di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2012, p. 542.
134
Bellavista, Il lavoro sommerso2, 2002, Torino; Id., La legge finanziaria per il 2007 e l’emersione del
lavoro nero, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 55, 2007; più di recente, Id., Il lavoro nero e le
imprese fantasma, in Riv. giur. lav., 2, 2012, p. 249 ss.; Bellavista, Garilli, Politiche pubbliche e lavoro
sommerso: realtà e prospettive, ibidem, p. 270, secondo i quali ‹‹il lavoro sommerso rappresenta un
“deserto normativo” o la negazione del diritto del lavoro››.
temilavoro.it – internet synopsis of labour law and social security law
Lavoro e famiglia di fatto
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lanciamento tra valori costituzionali inerenti alla persona e valori delle formazioni
sociali come le cosiddette organizzazioni del terzo settore.
Il convivente di fatto, al contrario del religioso o del volontario, non condivide
con il partner scopi di vita comune ispirata a un’idealità ben determinata, se non
l’affectio. Anzi, il fine dell’attività produttiva del convivente imprenditore è proprio quello del profitto e del perseguimento di un utile. Nulla a che vedere, quindi,
con l’idealità135
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Pizzoferrato, Gratuità e lavoro subordinato, cit., p. 429 ss.
volume 5, n. 2 del 2013