GIULIO VACCARO
LA STORIA MANCANTE: I DIZIONARI (STORICI) DEL ROMANESCO
Il romanesco è rimasto escluso dalla produzione di vocabolari dialettali nell’Ottocento. Ciò – come ha notato Luigi Matt1 – si deve a due ragioni opposte e concorrenti: da un lato la scarsa considerazione di cui ha goduto il dialetto («lingua abbietta
e buffona», «favella non di Roma ma del rozzo e spropositato suo volgo», semplice
«storpiatura» della lingua italiana: così la dirà Giuseppe Gioachino Belli nella lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861). Dall’altro, come emerge già
dalla considerazione belliana, il romanesco è percepito dai parlanti come semplice
varietà bassa dell’italiano, dunque come variazione non diatopica ma diastratica: «in
Roma non si usa se non il puro linguaggio italiano» fu risposto a Attilio Zuccagni
Orlandini quando cercava a Roma un traduttore per il suo dialogo tra un servitore e
il padrone2. Un ruolo minore lo ha giocato l’assenza, fino all’Ottocento inoltrato, di
una solida tradizione dialettale: nonostante gli studi compiuti nell’ultimo decennio
su quell’arcipelago letterario “intorno al Belli” mostrino come la produzione romanesca fosse abbondante quantitativamente e soprattutto diffusa all’interno di varie
tipologie testuali, fu infatti solo con la pubblicazione integrale dei Sonetti belliani da
parte di Luigi Morandi (1886-1889) che divenne evidente l’assenza di un dizionario
dialettale. Proprio per ovviare a questa mancanza lo studioso todino si rivolse a vari
amici romani, il principale dei quali fu Filippo Chiappini: la collaborazione è ben
documentata nell’Epistolario tra i due3.
1
LUIGI MATT, Osservazioni sulla lessicografia romanesca, in «Studi di lessicografia
italiana», XXVII (2010), pp. 153-184, cui rimando anche per una bibliografia dettagliata sui
singoli dizionari; alcune considerazioni sulla lessicografia romanesca in prospettiva storica
sono in GIULIO VACCARO, Posso fare un unico vocabolarione romanesco? Per un Dizionario del
romanesco letterario, in «il 996», 2012, 3, pp. 65-85.
2
Per i giudizi sul romanesco e per il percepito rapporto con l’italiano si veda LUCA
SERIANNI, Sull’immagine del romanesco negli ultimi due secoli, in Roma e il suo territorio. Lingua,
dialetto e società, a cura di MAURIZIO DARDANO et al., Roma, Bulzoni, 1999, pp. 115-134 (ora
in ID., Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, 2002).
3
AIDA SPOTTI, GIULIO VACCARO, Il dialettologo e il letterato. Il carteggio Chiappini-Morandi
e l’edizione dei sonetti di Belli, Foligno, il Formichiere, 2022.
413
Giulio Vaccaro
Chiappini fu un infaticabile raccoglitore di lessico romanesco, come testimoniano le oltre 5300 schede che egli compilò, cercando di organizzarle in
modo per quanto possibile sistematico, e che rimasero a lungo inedite; nel 1930
la pubblicazione fu affidata a Bruno Migliorini, che fu tuttavia autore di massicci interventi sul testo e sulla struttura delle schede, su cui erano in precedenza
intervenuti anche un non altrimenti noto Tommasoni, che fornisce a Chiappini
gli equivalenti italiani e toscani e propone alcune annotazioni; una anonima maestra di Grosseto, con cui Chiappini discute alcune schede; il fratello di Filippo,
Michele (che ne aveva ereditato le carte), il quale preparò il testo per un’edizione poi non realizzata.
Per dare un’idea della stratificazione, questa è la situazione delle voci della
famiglia di pappa4:
Pappina. Sorbetto che si vende nell’estate; per trasl., Busse
CHIAPPINI: in senso traslato significa busse.
TOMMASONI: Sorbetto che si vende nell’estate, per le strade di Roma
Pappinaro. Colui che vende la pappina.
[Voce interamente aggiunta da Migliorini in calce alla scheda di pappina]
Pappo. Pappatoria, Mangiare. Bisogna pensà ar pappo. Si dice pure pappéggio.
CHIAPPINI: Il mangiare. Bisogna pensà ar pappo. Si dice pure il pappéggio.
TOMMASONI add. in fine: Pappo in lingua è voce fanciullesca per pane
Pappóso-a. Che ha consistenza e forma della pappa.
CHIAPPINI: [solo il lemma]
TOMMASONI: In lingua è termine botanico
MIGLIORINI: Che ha consistenza e forma della pappa.
La prospettiva adottata da Chiappini è decisamente sincronica. La gran parte degli esempi è tratta dall’uso e solo rarissimamente vengono inseriti brani
d’autore, sempre con lo scopo di fornire un esempio d’uso di un significato di
un termine, non quello di tracciarne la storia. Il punto di forza del Vocabolario
del Chiappini, come nota Matt, è l’elaborazione, che rivela un’osservazione del
dialetto tutt’altro che ingenua, di un sistema di marche d’uso per le parole dialettali: borghese, civile, semicivile, plebeo, volgare.
Per quanto riguarda il Novecento e il Duemila, oltre alla serie delle giunte
a Chiappini (inaugurate dall’ostetrico romano Ulderico Rolandi già nella prima
4
Nel primo rigo indico il testo come compare nell’edizione a stampa; nelle righe successive
indico la lezione originale e le successive aggiunte fatte a penna sulle schede cartacee; pongo tra
quadre indicazioni editoriali.
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La storia mancante: i dizionari (storici) del romanesco
ristampa chiappiniana del 1945 e riprese poi da Mario dell’Arco nei supplementi lessicali nella rivista «Poesia romanesca» e infine da Pietro Belloni e da Hans
Nilsson-Ehle nel 1957), sono state pubblicate moltissime opere amatoriali che
si qualificano come “dizionari”: il Vocabolario & rimario romanesco di Cencio
Galli (1982); le Voci romanesche di Adriano Bernoni (1986); A Roma si dice così
di Peppe Demonti (1994); il Dizionario romanesco di Fernando Ravaro (1994);
il Piccolo dizionario romanesco di Giuliano Malizia (1999; poi rifuso nel 2002 nei
Proverbi, modi di dire e dizionario romanesco); Er vocabbolarietto romanesco di
Arnaldo Marini (realizzato tra gli anni Ottanta-Novanta); il Dizionario italiano
romanesco di Giorgio Carpaneto e Luigi Torini (2003); l’appendice al Rimario
del dialetto romanesco d.o.c. di Peppe Renzi (2003); A Roma oggi se dice così
di Patrizio Cacciari (2016); il Piccolo vocabolario romanesco-italiano di Gianni Tomassini (2017). A questi si possono aggiugere i due vocabolari d’autore
realizzati da Gennaro Vaccaro: il vocabolario del lessico belliano (1969) e trilussiano (1971). Tutti i dizionari “generali” sono, per un motivo o per un altro,
largamente insufficienti a una descrizione dettagliata del romanesco. In realtà,
il Vocabolario romanesco trilussiano5 contiene in nuce almeno un tentativo di dizionario storico, fornendo riscontri tanto con autori sei e settecenteschi, quanto
col Belli, quanto con i quattro grandi scrittori moderni (Pascarella, Zanazzo,
Chiappini e dell’Arco), quanto – ancorché occasionalmente – altri riscontri con
autori otto e novecenteschi: scorrendo la lettera A si incontrano citazioni da
Leo Alberini, Alessandro Barbosi, Piero Dupont de Saint Pierre, Luigi Ferretti, Adone Finardi, Edoardo Franciati, Attilio Ilardi, Augusto Jandolo, Augusto
Marini, Giggi Pizzirani, Giulio Cesare Santini (il più citato), Augusto Sindici. Ovviamente il riscontro vale con la ovvia limitazione del lemmario raccolto
nell’opera, ossia quello (invero non molto ampio e non molto vario) dell’opera
poetica di Trilussa.
L’unico dizionario che tenta una prospettiva di analisi storica e si propone
di dettagliare non solo uno stato sincronico del romanesco (oppure il lessico di
un autore) è il Dizionario romanesco di Fernando Ravaro6, divenuto (pur con
tutti i suoi limiti) il punto di riferimento lessicografico per il romanesco, a tacer
d’altro per l’ampiezza del lemmario (sono dichiarati circa 11.000 lemmi). Il dizionario del Ravaro, tuttavia, mostra bene quali sono i tre problemi principali
che si possono individuare per la mancanza di un dizionario storico del dialetto
romanesco, tutti strettamente collegati: il problema dell’identificazione dell’oggetto (cos’è il romanesco?); il problema della delimitazione dell’oggetto (dove
5
GENNARO VACCARO, Vocabolario romanesco trilussiano e italiano-romanesco, Roma,
Romana Libri Alfabeto, 1971 [rist. Roma, il Cubo, 1995].
6
FERNANDO RAVARO, Dizionario romanesco. Da abbacchià a zurugnone i vocaboli noti
e meno noti del linguaggio popolare di Roma, introduzione di MARCELLO TEODONIO, Roma,
Newton Compton, 1994 (più volte ristampato).
415
Giulio Vaccaro
finisce il romanesco e dove inizia invece l’italiano?); il problema della descrizione
dell’oggetto (su quale documentazione fondarsi?)7.
1. Quasi tutti i dizionari generali che abbiamo visto (con l’eccezione di quello del Chiappini) sono caratterizzati dall’identificazione sic et simpliciter del lessico romanesco con quello del Belli. Un lessico che, più che evolversi e cambiare, sembra cristallizzarsi nelle immagini de li tempi belli che Pinelli immortalò o
in quel chimerico «romanesco doc» teorizzato da Peppe Renzi:
il linguaggio, cioè, di un mondo composto prevalentemente da ecclesiastici non troppo scrupolosi, da plebei, minenti, paini, da operai addetti ai
lavori più umili, da artigiani, da piccoli commercianti, da bravacci pronti
a sostenere, coltello alla mano, ogni prevaricazione… tutta una popolazione, insomma, i cui unici diversivi consistevano nelle bevute all’osteria, con
conseguenti ubriacature, e nelle passeggiate domenicali fuor di porta, un
mondo nel quale le donne, spesso di moralità piuttosto elastica, univano
alla pratica della religione pregiudizi e superstizioni di ogni sorta, quel
mondo, infine, tramandatoci, in maniera quasi fotografica, da Bartolomeo
Pinelli con le sue incisioni8.
Si finisce così per identificare la lingua parlata dagli strati popolari con la
lingua belliana e viceversa, senza considerare minimamente la mediazione culturale e letteraria operata dal Belli. Si annulla, in definitiva, la percezione che
Belli è non il “padre del romanesco” ma, semmai, un “padre del romanesco
letterario”. È un padre, però, che piega il dialetto con una geniale creatività
linguistica, dando vita a parole nuove o dando nuovi significati alle vecchie:
non è un dunque un passivo stenografo. Le conseguenze di questa opzione
sono paradossali, per cui parole che sono oggi a tutti gli effetti “bandiere”
della romanità, come borgataro o coatto, si cercherebbero vanamente nei dizionari romaneschi.
7
Si tratta di tre problemi difficilmente superabili, tanto che l’unico progetto organico
di vocabolario storico del dialetto romanesco, il Vocabolario storico e sociolinguistico del
romanesco (VSSR), proposto nel 1996 dal Gruppo di lavoro sulla lessicografia di Roma e del
Lazio (Paolo D’Achille, Claudio Giovanardi, Antonia G. Mocciaro e Ugo Vignuzzi) prevedeva
una struttura modulare che partisse da singoli lessici mirati (“di prima generazione”) per
autori o testi, attraverso opere più complesse destinate a periodi o generi (lessici di “seconda
generazione”), per arrivare al terzo livello o “generazione”, il VSSR complessivo vero e proprio,
che coordinasse e raccogliesse i precedenti. Il «pilastro terminale», per usare l’espressione di
Vignuzzi, è il Vocabolario del romanesco contemporaneo (VRC), curato da Paolo D’Achille e
Claudio Giovanardi, che sta per essere pubblicato nella sua interezza.
8
RAVARO, Dizionario romanesco, cit., p. 16. Per il «romanesco doc», cfr. PEPPE RENZI,
Elementi essenziali di grammatica romanesca: compendio delle regole grammaticali del dialetto de
“noantri” aggiornato agli anni duemila, Roma, Diogene Nuovo, 1998.
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La storia mancante: i dizionari (storici) del romanesco
Non singolarmente, date le premesse, una questione che nessuno sembra
essersi posto è questa: se il romanesco ha conosciuto nella sua storia tre fasi o due
fasi e mezzo, un dizionario che affrontasse l’intera storia del romanesco potrebbe
essere uno solamente? oppure dovrebbero essere due? È evidente, infatti, che
un vocabolario romanesco che copra l’intera storia del dialetto, dalle Miracole de
Roma a Mauro Marè, finisca per racchiudere sotto di sé di fatto due sistemi linguistici, che si distinguono non solo per ragioni di variazioni in diacronia ma che
divergono nettamente dal punto di vista delle strutture fonologiche e morfologiche. La questione non è squisitamente teorica ma ha anche ricadute pratiche, di
cui cito almeno la più evidente: la forma tipizzata di un lemma quale sarebbe? la
più antica? la più moderna? diversa a seconda dell’attestazione del lessema (per
cui avremo, per esempio baccajjà ma abafare)? E ancora, per esempio, le forme
callo e cardo andranno raccolte sotto uno stesso lemma o andranno poste sotto
lemmi distinti? e se andassero sotto uno stesso lemma, quale? e che fare di alcune
serie come altro/antro/artro (e eventualmente anche aitro) o recchia/orecchia?9
2. Il secondo punto da affrontare è quello della continuità e della contiguità
– assai maggiori che per altri dialetti – con l’italiano e della porosità del confine. Questo, ovviamente, pone un problema di tipo generale di delimitazione
della percezione del confine tra lingua e dialetto e di penetrazione del dialetto
all’interno degli strumenti lessicografici dell’italiano. Ai casi di vocabolari bilingui come quello italo-spagnolo di Lorenzo Franciosini o quello italo-francese
di Antoine Oudin10, e al caso del purista romano Tommaso Azzocchi11, si può
aggiungere – grazie a un recente lavoro di Giulia Virgilio – un ulteriore interessante tassello: quello del Dizionario universale critico-enciclopedico del D’Alberti, che registra, per esempio, molteplici ittionimi attribuiti all’area romana: alice
(s.v. acciuga), aquilone (s.v. aquilone), cefalo (s.v. cefalo), capogrosso e marzone
(s.v. ghiozzo), pesce colombo (s.v. colombo), pesce forca (s.v. cornetta), fiatola (s.v.
fiatola), mesora (s.v. fratessa), scorzone (s.v. gattuccio), spigola (s.v. spigola), pesce
fico (s.v. tinca). Anche per altri termini di ambito domestico D’Alberti aggiunge
alla denominazione toscana quella romanesca (es. zinale ‘grembiule’, s.v. grembiale, e ritreppio ‘imbastitura’ s.v. sessitura); sono inoltre presenti anche alcune
locuzioni o espressioni proverbiali, come giocare a bocce (s.v. boccia) o Egli è una
quaglia raffinata ‘è una persona astuta’ (s.v. quaglia)12.
Per alcuni aspetti della questione, si veda GIULIO VACCARO, Concordia discors. In margine
a due recenti pubblicazioni, in «il 996», 2009, 1, pp. 99-110.
10
Sul Franciosini si veda EMILIANO PICCHIORRI, Roma e il romanesco nel Vocabolario
italiano e spagnolo di Lorenzo Franciosini, in «Carte di viaggio», VIII (2015), pp. 33-41.
11
Si veda LUCA SERIANNI, Norma dei puristi e lingua d’uso nell’Ottocento, Firenze,
Accademia della Crusca, 1981.
12
GIULIA VIRGILIO, Nuove prospettive dell’etimologia e della lessicologia romanesca. Note di
lettura su «’E parole de Roma», 2020, 2, pp. 129-137, a p. 135 e EAD., Voci romane nel ‘Dizionario
9
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Giulio Vaccaro
Se la compresenza, in prospettiva storica, ha una rilevanza, il problema del
lessico “di frontiera” tra italiano e romanesco è ancor più vivo nella lingua contemporanea, per la quale Roma funge da centro propulsore, quantomeno sul
piano lessicale (come mostra già il Dizionario moderno di Alfredo Panzini13). È,
innanzitutto, un problema di percezione: pensiamo a una parola come sciapo
‘privo o carente di sale’. Si tratta di una parola di sicura irradiazione romana,
concorrente del toscano (e, di fatto, almeno fino all’Ottocento inoltrato italiano)
sciocco. Ma se prendiamo il Vocabolario del fiorentino contemporaneo alla voce
sciocco è assai significativa la glossa di uno dei due informatori «Sciapo vuol dire
sciòcco. Ma è italiano»14.
D’altronde come sia grande la confusione sotto il cielo dei romaneschismi è
stato plasticamente dimostrato da Francesco Sestito, che – riprendendo un contributo di Paolo D’Achille dedicato proprio al rapporto lessicografico italianoromanesco – ha investigato i lessemi che presentano una marca diatopica che riconduce a Roma registrati in alcuni dizionari dell’uso, e segnatamente GRADIT,
Devoto Oli (2013), Zingarelli (2009 e 2013)15. Nel complesso Sestito individua
446 lessemi, ma quelli per cui tutti i dizionari sono concordi nell’indicazione di
una provenienza romanesca sono appena 19: a ricasco di, beccaccione ‘marito cornuto’, burino, caciara, caciarone, capoccia ‘testa’, capoccione ‘potente’, cascherino,
focone, friccico (con due significati distinti, ‘piccola quantità’ e ‘brivido’), fusaglia, giannetta, intorcinare, intorcinarsi, intruppare, pagnottella ‘panino’, piotta,
sbreccare e vaccinaro ‘conciapelli’, cui si potrebbe aggiungere schicchera, che però
risulta nell’edizione 2013 dello Zingarelli ma non in quella del 2009. In tutti gli
altri casi la designazione non pare rispondere a un criterio preciso: mondezza e
mondezzaro, per esempio, sono marcati come romaneschi nello Zingarelli e nel
Devoto Oli, mentre De Mauro li marca genericamente come regionali centromeridionali. Abbastanza comune è anche il caso di «incertezze all’interno della dimensione diatopica, o fra la dimensione diatopica e quella diafasica o diastratica,
per cui ciò che è romanesco per l’uno può essere centrale, centromeridionale o
universale critico-enciclopedico della lingua italiana’ di Francesco d’Alberti di Villanuova, in
«Studi di lessicografia italiana», XXXIX (2022), in corso di stampa.
13
Per cui si veda ANDREA TOBIA ZEVI, Il romanesco nel «Dizionario moderno» di Alfredo
Panzini, in «Studi di lessicografia italiana», XXV (2008), pp. 219-252.
14
Cfr. Parole di Firenze dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo, a cura di TERESA
POGGI SALANI, NERI BINAZZI, MATILDE PAOLI e MARIA CRISTINA TORCHIA, Firenze, Accademia
della Crusca, 2017, s.v. sciocco.
15
Cfr. FRANCESCO SESTITO, Osservazioni sui dialettismi romaneschi registrati dai dizionari
dell’uso, in Parallelismi linguistici, letterari e culturali. 55 anni di studi italiani. Atti del Convegno
internazionale (Ohrid, 13-14 settembre), a cura di RADICA NIKODINOVSKA, Skopje, Facoltà di
filologia Blaže Koneski, , 2015, pp. 513-530; PAOLO D’ACHILLE, Interscambi tra italiano e romanesco
e problemi di lessicografia, in Dialetto. Uso, funzioni, forma. Atti del Convegno (Sappada-Plodn,
25-29 giugno 2008), a cura di GIANNA MARCATO, Padova, Unipress, 2009, pp. 101-111.
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La storia mancante: i dizionari (storici) del romanesco
centrosettentrionale per altri, o eventualmente volgare, gergale, scherzoso e via
dicendo»16. Anche qui l’esemplificazione portata da Sestito è illuminante, tanto
più che investe non solo un caso come pomiciare (romanesco per lo Zingarelli,
centrosettentrionale per il GRADIT e solamente popolare, ma senza caratterizzazioni diatopiche, per il Devoto Oli), ma addrittura realia tratti dalla gastronomia:
è il caso, per esempio, di bruschetta, che è romanesco per il Devoto Oli, ma comune per il GRADIT e per lo Zingarelli (che però in definizione ne marca l’origine genericamente centrale). Inoltre, almeno per quel che riguarda il GRADIT,
si riscontra una certa sovrabbondanza di termini inclusi con la marca romanesco
in ossequio a quella che è, però, più una tradizione letteraria: tipicamente si tratta
di termini attestati in Pasolini, come sicuramente panfia ‘sorveglianza speciale’
e svampa ‘sigaretta’, oggi privi di una vera realtà linguistica. In generale, Sestito
individua cinque grandi categorie di termini che appaiono marcati come romaneschi: varianti fonetiche e fonomorfologiche, fra cui sono molto rappresentati
i suffissati in -aro e -arolo; termini che sembrano registrati per inerzia ma la cui
presenza in dizionari dell’uso appare piuttosto discutibile, come per esempio acquacetosaro, barrozza o barrozzaro; termini di uso ridotto, anzi al limite dell’inesistenza nella stessa Roma, come ambasciata ‘mandria di bestiame’, camilla ‘zitella’,
donguanella17: a conferma dell’affermazione di Sestito si noti che le due voci con
la i citate (imbrillare e intorcolare) non sono registrate nel volume del VRC18.
3. L’ultimo problema è quello della qualità della documentazione usabile.
La questione non si può, in buona parte, scindere dalle considerazioni che abbiamo fatto sul primo dei punti che ci siamo trovati ad analizzare: il romanesco
conosce in generale pochissima documentazione fino all’Ottocento inoltrato e,
dall’Ottocento in poi, conosce una documentazione che è non solo essenzialmente letteraria, ma affetta da un sostanziale immobilismo nei temi, nel metro
e nella lingua usata. Per chi si ponga a un’analisi storica del lessico ciò provoca
una deformazione dell’attestazione: da un lato si ha infatti un inevitabile effetto di arcaicizzazione del lessico, dall’altro una tarda o nulla registrazione di
parole abbondantemente diffuse a Roma (basti pensare che le attestazioni di
piatti come matriciana o gricia sono molto più tarde nei testi in dialetto che nei
testi in lingua) e soprattutto una grandissima sottorappresentazione del lessico
materiale. Per di più i dizionari prodotti fino a oggi (con l’eccezione del VRC)
hanno largamente sottovalutato tanto il valore di quelle fonti extravaganti (per
esempio manuali di cucina, gialli di ambientazione romana, ecc.) su cui hanno
SESTITO, Ossservazioni, cit., p. 515.
Ivi, p. 516.
18
PAOLO D’ACHILLE, CLAUDIO GIOVANARDI, Vocabolario del romanesco contemporaneo.
Lettera I, J, sezione etimologica a cura di VINCENZO FARAONI e MICHELE LOPORCARO, Roma,
Aracne, 2016.
16
17
419
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più volte richiamato l’attenzione Ugo Vignuzzi e Patrizia Bertini Malgarini19,
quanto di quelle fonti di lingua letteraria ancora di ambientazione romana (si
pensi a Moravia, Pasolini, Siti, Veronesi, Affinati).
Per questi problemi di documentazione faccio qui un solo caso, quello del
lessico medico-botanico. Per la gran parte, infatti, la nostra conoscenza di questa quota tutt’altro che trascurabile di lessico è debitrice alla Medicina popolare
di Giggi Zanazzo20. In quest’opera si trovano, per esempio, le prime attestazioni
in un contesto d’uso dialettale di forme come radicette ‘ravanelli’ o rebbarbero
‘rabarbaro’. Naturalmente la scarsità della documentazione in questi settori del
lessico (che si riduce di fatto molto spesso al solo riscontro con le schede di
Filippo Chiappini) si riflette anche sulla possibilità di individuare con certezza i casi in cui Zanazzo usi effettivamente una denominazione dialettale. Non
esistono dubbi, per esempio, riguardo alla dialettalità di voci come capomilla
‘camomilla’, attestata a partire da Belli e confermata dal Chiappini, o palatana
‘paretaria’, anch’esso già in Belli e in Chiappini o di tutero ‘ciò che rimane della
pannocchia una volta sgranata’ (§ 9: «bbullitura dé capélli de tútero»), che risulta invece attestato solamente nel dizionario di Raffaele Giacomelli. È invece
più problematico pronunciarsi sulla dialettalità del crescione: pur comparendo
in altri autori del secondo Ottocento (per esempio Adone Finardi e Augusto
Sindici), la non dialettalità del termine (e dunque la sua qualità di italianismo)
parrebbe provata dal Chiappini, che attesta la sola forma cannèi. Più complesso
ancora è comprendere se si sia in presenza di un uso effettivamente dialettale
nei casi in cui un lessema compaia solamente in Belli e in Zanazzo. In molti casi,
ovviamente, che un termine appaia solo in questi due autori è da attribuire alla
distribuzione casuale della documentazione: è il caso di canipuccia ‘seme della
canapa’, di corallina ‘euforbia’ o di frussione ‘stato infiammatorio dell’occhio
caratterizzato dalla secrezione di umori’. In altri casi, invece, la presenza di un
determinato lessema sembra dipendere esclusivamente dalla fonte belliana: è il
caso, per esempio, delle bbrugne de Cesanelli: «Le Bbrugne de Cesanélli ereno
certe bbrugne purgative inventate dar sor Cesanèlli, un bravo spezziale che anticamente ciaveva la fermacia a la Ripresa de Bbarberi» (§ 32). Il testo di Zanazzo
deriva in modo decisivo dalla nota belliana al v. 11 del son. 1126: «Questo farmacista Cesanelli, notissimo per le sue prugne purgative (chiamate volgarmente
le bbruggne de’ Scesanelli), ha il suo laboratorio al punto della ripresa de’ barberi» (ossia a Piazza Venezia).
19
Rimando da ultimo a UGO VIGNUZZI, PATRIZIA BERTINI MALGARINI, Fonti extravaganti della
lessicografia romanesca, in «’E parole de Roma». Studi di etimologia e lessicologia romanesche, a
cura di VINCENZO FARAONI e MICHELE LOPORCARO, Berlin-Boston, de Gruyter, 2020, pp. 286-298.
20
Per il testo, cfr. GIGGI ZANAZZO, Medicina popolare, in ID., Tradizioni popolari romane, I.
Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, Torino, Società Tipografico Editrice Nazionale, 1908
[rist. anast.: Bologna, Forni, 1967], pp. 5-86: le citazioni sono indicate con il numero della ricetta.
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La storia mancante: i dizionari (storici) del romanesco
Un ulteriore problema è che la sostanziale assenza di documentazione rende
spesso difficile o impossibile individuare il diretto referente. È, per esempio,
il caso di erba minchiona (§ 28: «Se compra da ’na cicoriara un sòrdo d’erba
minchiona»), per cui mancano attestazioni nei repertori botanici come il Penzig
o Dryades21, nei dizionari dialettali e nella letteratura romanesca. La locuzione,
per di più, è un hapax anche in Zanazzo; o di occhio de grancio (§ 14: «hanno
da mettetece drento un sordo d’occhio de grancio»). Il significato qui è particolarmente incerto: già Zanazzo chiosa dubitativamente «Forse: bicarbonato di
calce (?)» (quindi il carapace pestato del granchio); tuttavia la locuzione indica
anche un ‘arbusto della famiglia delle Leguminose, abro’, che è però di elevata
tossicità.
In generale i testi zanazziani in prosa dispiegano tutte i problemi dello studio lessicale (e, conseguentemente, lessicografico): quello del generale “carsismo” del romanesco, per cui termini apparentemente caduti in disuso riemergono dopo un certo periodo di tempo. È il caso per esempio di una voce come
baccajjà ‘discutere animosamente’, che compare in Chiappini (con marca pleb.)
e Ravaro, s.v. baccajà, con prima attestazione in Augusto Marini (1876). Le attestazioni parrebbero mostrare una progressiva restrizione nell’uso a partire dagli
anni Cinquanta-Sessanta (e infatti il lessema non s’incontra nei due volumetti
della serie Come t’antitoli? del 1999 e del 2000, ottimi termometri del linguaggio
giovanile), e parrebbe ritornato in auge in anni più recenti (si vedano per esempio i fumetti di Zerocalcare), come testimonia anche il VRC. Dall’altro Zanazzo
mostra il rapporto complesso con la lingua tetto, con la conseguente difficoltà di
discernere, anche solo a grandi linee una segmentazione nel continuum. Mostra,
infine, la tendenza al “bellismo” nella scrittura; con una scelta che si riverbera
tal quale anche sulla lessicografia. Sicché per tutta la lessicografia romanesca di
impianto storico vale l’efficace immagine data da Claudio Giovanardi proprio
per il dialetto di Zanazzo: un romanesco che «guarda continuamente negli specchietti retrovisori e inquadra immancabilmente il dialetto belliano»22.
21
Rispettivamente OTTO PENZIG, Flora popolare italiana. Raccolta dei nomi dialettali delle
principali piante indigene e coltivate in Italia, I-II, Genova, Orto Botanico della R.a Università,
1924, e Dryades. Portale della Flora d’Italia, dryades.units.it/floritaly.
22
CLAUDIO GIOVANARDI, Che ne è del romanesco di Giggi Zanazzo?, in GIGGI ZANAZZO, Il
teatro, a cura di LAURA BIANCINI e PAOLA PAESANO, Napoli, Loffredo, 2013, pp. 11-19, a p. 19.
421