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Paesaggi di rovine paesaggi rovinati

2014

PAESAGGI DI ROVINE PAESAGGI ROVINATI LANDSCAPES OF RUINS RUINED LANDSCAPES a cura di edited by Alessandra Capuano quodlibet studio CITTÀ E PAESAGGIO PAesAGGi dell’ARCHeoloGiA, ReGioNi e Città MetRoPolitANe strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e la trasformazione PAesAGGi di RoviNe PAesAGGi RoviNAti LAndSCAPES Of RuInS RuInEd LAndSCAPES a cura di edited by Alessandra Capuano quodlibet Città e PAesAGGio collana a cura di Manuel Orazi Questo volume è stato realizzato con il contributo dei dipartimenti sottoelencati e raccoglie i risultati di un progetto PRIn 2009 - Programmi di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse nazionale Comitato scientifico Sara Marini, università iuav di Venezia Gabriele Mastrigli, università degli Studi di Camerino Stefano Catucci, Sapienza università di Roma Luca Emanueli, università degli Studi di ferrara PAESAGGI dELL’ARCHEOLOGIA, REGIOnI E CITTÀ METROPOLITAnE Volume sottoposto a peer review strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e la trasformazione Coordinatore scientifico Alessandra Capuano Sapienza università di Roma, dipartimento di Architettura e Progetto, Laboratorio Grandi Temi Collaborazione al coordinamento federica Morgia unITÀ OPERATIVE SAPIEnZA unIVERSITÀ dI ROMA dIPARTIMEnTO dI ARCHITETTuRA E PROGETTO il caso-studio del Parco dell’Appia Antica nell’area metropolitana di Roma Responsabile scientifico Gruppo di ricerca Gruppo operativo Alessandra Capuano fabrizio Toppetti (coordinamento), Alessandro Lanzetta, federica Morgia davide Luca, Giulia Pettinelli, Valentina Sales, Eliana Strano, Alessia Zarzani SAPIEnZA unIVERSITÀ dI ROMA dIPARTIMEnTO dI SCIEnZE dELL’AnTICHITÀ dalle rovine archeologiche alla musealizzazione Responsabile scientifico Gruppo di ricerca Gruppo operativo Marcello Barbanera Rachele dubbini (coordinamento), Paolo Barresi, Maria Teresa Curcio, Simone foresta donato Alagia, Jessica Clementi unIVERSITÀ dEGLI STudI dI nAPOLI “fEdERICO II” dIPARTIMEnTO dI PROGETTAZIOnE uRBAnA E uRBAnISTICA l’archeologia come infrastruttura del paesaggio: i Campi Flegrei Responsabile scientifico Gruppo di ricerca Gruppo operativo Pasquale Miano, ferruccio Izzo, Lilia Pagano Assunta Acone, Giorgia Aquilar, francesca Avitabile, Bruna di Palma, Alberto Calderoni, Claudio finaldi Russo unIVERSITÀ dEGLI STudI “MEdITERRAnEA” dI REGGIO CALABRIA dIPARTIMEnTO dI ARCHITETTuRA E AnALISI dELLA CITTÀ MEdITERRAnEA Paesaggi dell’archeologia, città e regioni metropolitane: la Magna Grecia Responsabile scientifico Gruppo di ricerca Gruppo operativo Prima edizione: novembre 2014 ISBn 978-88-7462-651-9 © 2014 Quodlibet s.r.l. via Santa Maria della Porta, 43 Macerata www.quodlibet.it Marcello Sèstito Angelo Cannizzaro, Antonino Minniti Giuseppe Enea, Antonio Maisano, Bruno Mezzapica, Tommaso nunnari unIVERSITÀ dEGLI STudI dI CATAnIA dIPARTIMEnTO dI ARCHITETTuRA, STORIA, STRuTTuRE, TERRITORIO, RAPPRESEnTAZIOnE, RESTAuRO E AMBIEnTE dIPARTIMEnTO dI InGnEGnERIA CIVILE E ARCHITETTuRA dalla villa Romana del Casale al Parco territoriale del fiume Gela. strategie per il governo delle trasformazioni territoriali Responsabile scientifico Gruppo di ricerca Gruppo operativo fausto Carmelo nigrelli Vito Martelliano (coordinamento), Maurizio Spina domenico Calabrò, filippo Gagliano non esiste un passato che si debba richiamare col desiderio, esiste solo un perpetuo presente, che si foggia con gli elementi potenziali del passato. J.W. Goethe SOMMARIO COnTEnTS 10 22 IndICE 50 58 6 64 Scelte difficili e interpretazioni aperte difficult choices and open interpretations Lucina Caravaggi 78 La Storia e il Progetto. In memoria di Caterina Marcenaro History and design. In memory of Caterina Marcenaro francesco Cellini 88 Progetto archeologico e progetto architettonico in ambiente urbano Archaeological project and architectural design in an urban environment daniele Manacorda Introduzione Introduction Alessandra Capuano frammenti fragments Antonino Terranova tutelA e ReiNveNZioNe PRESERVATIOn And REInVEnTIOn a cura di edited by Alessandra Capuano 36 72 Archeologia e nuovi immaginari Archaeology and new imaginaries Alessandra Capuano 96 104 110 Progettare paesaggi postantichi designing post-ancient landscapes fabrizio Toppetti Cercare il paesaggio Searching for the landscape Giovanni Azzena e Roberto Busonera Per la continuità Towards continuity Raffaele Panella ATEnE, dOuGGA, BRASILIA I paesaggi dell’archeologia: innovazioni e rischi The landscapes of archaeology: innovations and risks Yannis Tsiomis TORInO Il Parco Archeologico delle Torri Palatine: il progetto di un accordo The Palatine Towers Archaeology Park: the design of an agreement Giovanni durbiano Marginal observations on the destiny of ancient buildings in relation with Modernity Marcello Barbanera 130 140 146 152 ROMA Il parco lineare delle Mura: una possibile infrastruttura “verde” The linear park of the Walls: a potential “green” infrastructure Alessandra Criconia 158 MARGiNi e MARGiNAlità MARGInS And MARGInALITY a cura di edited by Marcello Barbanera 118 Osservazioni marginali sul destino degli edifici antichi in rapporto alla modernità 170 Il bazar archeologico. Scavare e dimenticare: tecniche di invenzione per un’architettura della città The archaeological bazaar. digging and forgetting: invention techniques for a city architecture Marco navarra MERIdA Patrimonio storico e città: un dialogo necessario Historic heritage and the city: a necessary dialogue Pedro Mateos Cruz BEIRuT dalla sepoltura del passato alla celebrazione dell’oblio from the burial of the past to the celebration of oblivion Mazen Haidar discoveries. from memory as an asset to memory as a relationship Vito Martelliano 180 190 196 LuBIAnA urban Heritage connected: il parco archeologico della antica Emona urban Heritage connected: the archaeological park of the ancient Emona Jerneja Batič Armature culturali di sviluppo. Rigenerazione urbana e politiche culturali Cultural supporting frameworks for development. urban regeneration and cultural policies Maurizio Carta SICILIA Mitopoiesi del paesaggio archeologico siciliano. La valorizzazione del patrimonio paesaggistico e culturale Mythopoiesis of the Sicilian archaeological landscape. Enhancement of the landscape and cultural heritage Alessandra Badami EnnA L’esperienza dei piani paesaggistici nella provincia di Enna: un bilancio The Landscape Plans in the province of Enna: to take stock of the situation francesco Martinico RisiGNiFiCARe i luoGHi REdEfInInG PLACES a cura di edited by Marcello Sèstito teRRitoRiAliZZAZioNi TERRITORIALIZATIOnS a cura di edited by fausto Carmelo nigrelli 206 Il patrimonio territoriale The territorial heritage fausto Carmelo nigrelli Hyppodamos ha vinto Hippodamus has won Marcello Sèstito 214 L’oro della memoria The gold of memory Renato nicolini 220 Quale archeologia, quale architettura Which archaeology, which architecture Marco dezzi Bardeschi La riterritorializzazione della scoperta archeologica. dal bene memoria alla relazione memoria The re-territorialization of archaeological 7 228 238 242 Le reti archeologiche territoriali The territorial archaeological networks Angelo Cannizzaro MAGnA GRECIA Tempo, spazio, luoghi e archeologia Time, space, places, and archaeology Antonino Minniti SQuILLACE Giocare a dadi con il tempo Rolling dice with time Alberto fiz ARCHitettuRA PeR i PAesAGGi ARCHeoloGiCi ARCHITECTuRE fOR ARCHAEOLOGICAL LAndSCAPES a cura di edited by Pasquale Miano 252 262 Architettura “quarta natura” Architecture “fourth nature” Lilia Pagano 272 Sostenere la civiltà. Contemporaneità e topografia del tempo Supporting civilization. Contemporaneity and topography of time ferruccio Izzo IndICE 8 Indagine archeologica e programma architettonico Archaeological survey and architectural program Pasquale Miano 278 up-cycling. Morte e vita dei corpi architettonici up-cycling. death and life of architectural bodies Pippo Ciorra 290 Segni Signs Alberto ferlenga 302 Il dialogo tra antico e contemporaneo The dialogue between the Ancient and the Contemporary Pietro Giovanni Guzzo 362 364 366 310 Archeologia e architettura Archaeology and Architecture Joseph Rykwert 368 370 372 nAPOLI Scavo e recupero del Teatro antico Excavation and recovery of the Ancient theatre daniela Giampaola 374 376 320 AtlANte dei PAesAGGi ARCHeoloGiCi ARCHAEOLOGICAL LAndSCAPES’ ATLAS a cura di edited by federica Morgia 330 Progetti di rovine Projects of ruins federica Morgia 334 336 338 340 Agrigento | Parco della Valle dei Templi Atene | Acropoli, collina del filopappo e Agorà Beirut | Piazza dei Martiri e Parco del Perdono Cairo, Il | Quartiere darb-Al-Ahmar e Parco AlAzhar Città del Messico | Piazza delle Tre Culture e quartiere Tlatelolco Concordia Sagittaria | Centro storico e Agro concordiese Coventry | Phoenix Initiative nel centro storico duisburg | Emscher Park Hiroshima | Parco della Pace Istanbul | nodo di scambio a Yenikapi Lubiana | Emona, Lungofiume e Mura Mérida | Città monumentale nantes | L’estuario della Loira 342 344 346 348 350 352 354 356 360 napoli | Metropolitana nîmes | Centro storico e regione metropolitana Palma de Maiorca | Camminamento delle Mura e Castello Belvedere Pombal | Castello del Cerro Roma | Parco Lineare Integrato delle Mura Aureliane Salemi | Recupero dei quartieri Piano Cascio e Carmine Saragozza | Itinerario dei musei di Cesaraugusta Siracusa | Isola di Ortigia 378 SELEZIOnE BIBLIOGRAfICA SuI TEMI dELL’ARCHEOLOGIA E dEL PROGETTO uRBAnO SELECTEd BIBLIOGRAPHY On THE SuBJECT Of ARCHAEOLOGY And uRBAn dESIGn a cura di edited by R. dubbini e f. Morgia 380 nOTIZIE SuGLI AuTORI InfORMATIOnS ABOuT THE AuTHORS 9 iNtRoduZioNe InTROduZIOnE Alessandra Capuano 10 Questo libro raccoglie alcuni ragionamenti teorici che sono stati posti a fondamento di una ricerca che ha come oggetto lo studio dei paesaggi storici e la loro integrazione in aree o regioni metropolitane. Il tema è materia di un recente documento dell’unesco, diffuso nell’agosto 2011, che ha definito il concetto di Paesaggio storico urbano riconoscendogli un valore innovativo nella conservazione e gestione delle città storiche e incoraggiando gli stati membri ad adottare misure adeguate per adoperare questo strumento nei propri contesti. Questa nozione è una risposta alla necessità di preservare valori condivisi e di beneficiare dell’eredità del passato e segna il passaggio da un’enfasi data in primo luogo ai monumenti architettonici verso un più ampio riconoscimento dell’importanza dei processi sociali, culturali ed economici nella conservazione dei valori urbani. Questo si traduce nella necessità di proteggere il patrimonio storico e naturale dei nostri territori, esaltando l’integrazione tra strategie di pianificazione e di conservazione, per una tutela attiva dei beni e per l’applicazione di una filosofia e di un metodo che mettano al centro il concetto di paesaggio. In particolare, è posto l’accento sulla ricerca di una compatibilità tra conservazione e interventi contemporanei ed è riconosciuta l’importanza di dare una maggiore attenzione alle questioni ambientali. In questo quadro, il ruolo delle comunità accademiche è considerato centrale e vengono incoraggiate ricerche che adottino il concetto di Paesaggio Storico Urbano per studiare, secondo una metodologia integrata tra le diverse discipline, i territori metropolitani. La nostra ricerca parte da questa premessa, quella di uno sguardo trasversale che cerchi di coniugare le risorse naturali e storiche dei paesaggi urbani, gli interventi di conservazione con le trasformazioni contemporanee di qualità, il patrimonio tangibile e intangibile, lo sviluppo economico e sociale indirizzato non solo a un uso turistico di queste risorse ma anche a una loro immissione nella vita quotidiana delle città. Il gruppo di lavoro ha preso in considerazione più specificatamente i paesaggi dell’archeologia perché l’Italia vanta un’impressionante quantità e una diffusa distribuzione di questi beni sul nostro territorio e la conservazione di questo patrimonio pone più di un problema alla nostra società. Oltre ai monumenti più importanti e conosciuti, più curati e visitati, vi è una grande quantità di siti antichi dimenticati e di rovine abbandonate e maltrattate. Questo è dovuto a una carenza di risorse e alla insostenibilità di una così diffusa tutela, ma anche alla necessità, come per prima ha ricordato Andreina Ricci, di ragionare sul significato che tali preesistenze rivestono. da qui è partito il nostro ragionamento che ha visto più direttamente implicati architetti, paesaggisti, urbanisti e archeologi e in maniera più aperta artisti, operatori delle pubbliche istituzioni, studiosi di varie scienze. Il rapporto tra architettura e archeologia negli ultimi anni è stato ampiamente trattato, basti ricordare gli interessanti contributi delle ricerche e della didattica che hanno messo in campo diverse università italiane con i propri corsi e master espressamente dedicati a tale tema1. Meno diffuso è invece il tema che riguarda i paesaggi archeologici e l’interazione tra i sistemi urbani antichi e contemporanei2, anche se questi argomenti non sono nati adesso e gli studi della struttura e della storia delle città sono un primario esito della cultura urbana italiana, sia per le discipline architettoniche sia per le scienze archeologiche3. C’è tuttavia ancora molta strada da fare, soprattutto da un punto di vista operativo. Lavorare nei processi di trasformazione in modo sinergico, non è a tutt’oggi una pratica consolidata. S’incontrano tuttora irrigidimenti su posizioni disciplinari che, invece di incoraggiare un atteggiamento di collaborazione, tendono a elevare steccati. Anche se la cultura contemporanea ha affermato il passaggio da saperi che si occupavano degli oggetti a scienze che s’interessano delle relazioni, gli specialismi e il frazionamento delle discipline finiscono fatalmente per prevalere, causando gravi e dannosi ritardi. Pensiamo sia possibile, invece, studiare e progettare lo spazio urbano in continuità – concettuale e figurativa – con lo spazio archeologico, promuovere l’integrazione dell’archeologia con le esigenze della città contemporanea, attualizzando sistemi e spazi urbani, sottraendo l’archeologia a un esclusivo uso turistico o specialistico, per incoraggiarne il potenziale uso quotidiano, adatto a mantenere la vitalità dei luoghi. non è facile, nello scenario attuale di un’economia mondiale in crisi e di un’Italia in cui l’arretratezza nel processo di modernizzazione causa perdita di competitività, marginalizzazione e declino, affrontare questioni che scommettano sulla trasformazione e valorizzazione del territorio. Le urgenze sembrano riguardare in primis modelli economici e di governance che garantiscano una nuova stabilità e potrebbe apparire non pertinente, e senz’altro non prioritario, occuparsi della riqualificazione dei paesaggi attraverso la pratica del progetto. Viceversa, si può agevolmente sostenere che tra le principali risorse su cui conta il nostro paese vi è quella del paesaggio. Essa costituisce però più un luogo comune, che non un effettivo investimento nella sua valorizzazione, non solo per mezzo della tutela, ma anche attraverso l’innovazione delle strutture che lo supportano. È oramai assodato che non basta conservare per usufruire delle risorse storico-ambientali, ma è necessario promuovere uno sviluppo di qualità che contempli la complessità delle stratificazioni che caratterizzano la contemporaneità. In questo senso la memoria gioca un ruolo fondamentale. Le teorie economiche contemporanee, che fanno riferimento a federico Caffè, ad Amartya Sen e a Richard florida, non si basano più solo su indicatori classici (il pil, il reddito pro-capite, l’occupazione, i consumi ecc.) per stabilire la ricchezza delle nazioni o degli individui, ma contemplano categorie diverse, più idonee a trattare l’economia del benessere dell’era postindustriale e la prospettiva di uno “sviluppo umano” capace di garantire un’adeguata qualità della vita non ristretta a parametri eco- nomici ma inclusiva di aspetti sociali e ambientali. Il paesaggio è stato fino a non molto tempo fa incorporato in un patrimonio culturale fatto di “beni”, anche se, sin dal 1939, era evidente la difficoltà ad assimilare le “bellezze panoramiche” a beni-oggetto e la conseguente difficoltà a disciplinarne la tutela con metodi e regole utilizzati per “cose, immobili e mobili”. non hanno modificato i criteri essenziali della gestione della salvaguardia gli esiti dei piani paesistici regionali ex legge 431/1985. Si avanza perciò un’urgente necessità di far fronte ai cambiamenti che, nella pratica della gestione, sono imposti dal cambiamento di ottica e dai nuovi valori accreditati per il paesaggio. Secondo le prospettive emerse più di recente l’imposizione di limiti e vincoli, infatti, è importante, ma non basta a difendere e mantenere vivo il territorio, perché – come riconosce anche la Convenzione Europea del Paesaggio – una sua efficace tutela può essere attuata soltanto con un coinvolgimento sociale. La socialità del paesaggio, in altre parole “l’ininterrotto processo collettivo di produzione di significati e valori e di costruzione di senso”4, è costitutivo della vita e dell’identità della comunità, componente importante per le 11 InTROduZIOnE 12 politiche socioculturali nei prossimi decenni. Per il paesaggio sta forse avvenendo, in termini di processo culturale, un passaggio analogo a quel riconoscimento che negli anni ’70 ha portato ad una diffusa considerazione nei confronti dei centri storici5. La tutela dei centri storici però ha anche contribuito ad affermare un sentimento negativo nei confronti del moderno-contemporaneo portando a preferire la conservazione passiva ed escludendo l’intervento contemporaneo nel cuore dei processi di trasformazione urbana. È necessario predisporre nuove strategie che puntino alla salvaguardia e valorizzazione delle aree archeologiche attraverso progetti urbani contemporanei, con la convinzione, come fa notare Tsiomis, che sia possibile progettare lo spazio urbano e metropolitano in continuità con lo spazio archeologico, perché è sulle soglie e sui limiti che distinguono l’uno dall’altro che si gioca la potenzialità del progetto che fa della mescolanza e della contaminazione il valore da preservare o da perseguire6. non si può commettere lo stesso errore che abbiamo fatto per i centri storici nella conservazione dei paesaggi archeologici. Per il mantenimento vivo dei luoghi, la conservazione deve essere attiva e inclusiva delle mutate esigenze sociali, economiche e culturali. Il lavoro, compiuto da cinque unità di ricerca nell’ambito di un finanziamento prin 2009 concesso dal miur, si è articolato in due indagini principali. un’esplorazione ha riguardato l’aggiornamento teorico dello status quaestionis sui temi di ricerca. Questo studio è stato condotto attraverso l’organizzazione di cinque seminari (figg. 1-5), che hanno coinvolto esperti di diverse discipline anche al di fuori del gruppo di ricerca prin 2009, che si sono confrontati sui diversi aspet- ti che riguardano il rapporto tra paesaggi archeologici e aree urbane e periurbane. Il dibattito che ne è scaturito costituisce il presente volume. L’altro approfondimento ha interessato la scelta di quattro aree di studio, rappresentative di contesti urbani o metropolitani contemporanei, nelle quali ricorre una densa presenza di tracce storiche e in cui il contesto naturalistico è una significativa risorsa da proteggere e valorizzare. I quattro casi sono il Parco dell’Appia Antica a Roma, i Campi flegrei a napoli, la Villa del Casale e il corso del fiume Gela a Piazza Armerina e la Magna Grecia attorno a Reggio Calabria. I primi tre ambiti sono Parchi Regionali, quindi vaste aree naturali al cui interno risiedono importanti aree archeologiche, spesso ben conservate e valorizzate. È presente anche una notevole quantità di beni culturali sparsi, sia antichi sia più moderni, non sufficientemente integrati nei contesti urbani o addirittura abbandonati. La Magna Grecia è invece una costellazione di luoghi, dove vi sono anche aree naturali protette ma il tema principale riguarda gli insediamenti di Reggio, Sibari, Crotone e Locri in cui, nonostante il valore simbolico delle testimonianze storiche, non vi è stretto legame tra aree urbane e aree archeologiche. I casi studio, indagati parallelamente alle riflessioni teoriche portate avanti nei seminari, hanno costituito un osservatorio di straordinario interesse che ha permesso di aprire un dibattito interno su cosa significhi “qualità urbana”, quali possono essere le soluzioni da adottare nel concreto per fare interagire progetto archeologico e progetto urbano, quali siano i significati contemporanei del passato e le sue narrazioni nel presente. Questi studi sono oggetto di altre quattro pubblicazioni che costituiscono, insieme al presente volume, l’esito scientifico e la divulgazione della ricerca. Questo libro, senza pretese di esaustività, raccoglie quindi alcuni contributi teorici che cercano di fare il punto sulle questioni che interessano il rapporto tra progetto archeologico e progetto urbano e si articola in cinque sezioni, ognuna composta da testi di carattere più generale e scritti, posti in chiusura delle sezioni, che fanno riferimento a specifici casi-studio urbani. Le sezioni del libro, cui brevemente accenno secondo l’ordine in cui sono qui raccolte, sono state curate dai coordinatori dei diversi gruppi di ricerca. La prima ha affrontato innanzitutto il rapporto difficile tra Tutela e reinvenzione perché in Italia, dove è presente un complesso di leggi organiche tra le più avanzate al mondo per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, il paesaggio è il “grande malato”, vittima dell’intrico normativo e della segmentazione delle competenze, delle devastazioni impunite e delle retoriche passatiste inconcludenti. Bisogna interrogarsi sulla qualità dei luoghi e su quale ruolo gioca l’uso del passato nella città contemporanea. Occorre avere visioni strategiche e culturali adeguate al nostro sentire del presente. Gli studiosi si sono domandati quali correttivi bisogna introdurre, quale sia il ruolo del bene e il suo significato nello spazio pubblico, come conciliare la salvaguardia con i bisogni di trasformazione urbana. Si sono chiesti, sostanzialmente, come fare interagire maggiormente le dinamiche sociali per la rigenerazione urbana e per il mantenimento vivo del patrimonio e dei luoghi. I casi specifici su cui si è ragionato sono quelli di Atene, dougga, Brasilia, Istanbul, Torino e Roma. La sezione Margini e marginalità s’interroga sulla maniera di conservare le rovine nei paesi che sono stati al centro delle culture antiche con continuità. diversi sono i problemi che pone un’architettura 1 2 antica storicizzata dal tempo da quelli di una riportata alla luce di recente: c’è una questione storico-archeologica e una architettonica e urbanistica. La soluzione dei problemi non può essere univoca, perché il significato della rovina è polisemico. La conservazione del nostro passato, fondamentale per la nostra definizione, non dovrebbe andare contro le esigenze del presente, a detrimento dello spazio urbanizzato in cui viviamo. un ripensamento sui modi della conoscenza e della trasformazione accomuna i testi di questa sezione tutta articolata attorno al delicato rapporto tra memoria e oblio. I casi di Mérida, Beirut e Lubiana forniscono elementi di riflessione sul significato del passato nel presente e sui modi della città di metabolizzare tale rapporto. Territorializzazioni è il processo (da cui la sezione omonima) che viene proposto come strumento progettuale di luoghi a forte densità storico-culturale. Questo 3 processo consente di superare il concetto di sito archeologico e perfino di parco archeologico e la loro rigidità normativa che li considera come elementi invariabili e, in quanto tali, luoghi statici, declinati nell’accezione di musei a cielo aperto. Questi luoghi costituiscono invece valori intangibili e, nel contempo, sono luoghi dinamici, che impongono cambiamenti quotidiani, in bilico tra ciò che sono stati, ciò che sono e ciò che saranno. L’oggetto del processo non è dunque il sito archeologico e neppure il patrimonio culturale comunemente inteso ma il “patrimonio territoriale”, ovvero l’insieme di luoghi, di relazioni, di usi, di simboli coinvolti nel processo territorializzazione-deterritorializzazione-riterritorializzazione. Pertanto è il territorio e non il paesaggio, suo epifenomeno, a essere considerato “bene comune”. Enna e Agrigento sono i casi che forniscono alcuni elementi di riflessione per un esame sulla valorizzazione 4 5 1-5 locandine dei seminari, frutto della ricerca Paesaggi dell’Archeologia, Regioni e Città metropolitane, dedicati rispettivamente a 1. tutela e reinvenzione; 2. Margini e marginalità; 3. territorializzazioni; 4. Risignificare i luoghi; 5. Architettura per i paesaggi archeologici. 13 InTROduZIOnE 14 del patrimonio paesaggistico e culturale in Sicilia. La sezione Risignificare i luoghi raccoglie una serie di testi che ruotano attorno alla domanda: “Cosa significa fare museo nella Magna Grecia?” Gli autori ragionano sul concetto di spazio a partire dai suoi valori fondativi (qual è il valore dello spazio per l’uomo?) fino alle sue capacità comunicative. Il valore semantico dei luoghi e la loro risignificazione nel contemporaneo, a partire dal significato di alcune entità quali griglia urbana (Ippodamo da Mileto era cittadino onorario dell’antica Sibari), museo, architettura, archeologia che ci spingono a individuare nuovi immaginari e inedite esperienze di senso che possano com-muoverci attraverso nuove narrazioni. Le tecnologie contemporanee e le reti informatiche, le reti infrastrutturali, le nuove parti di città e la loro forma urbis, la musica e l’arte possono “fornire – come scrive Renato nicolini – a vecchie domande nuove risposte”. I casi studio si riferiscono allo specifico contesto magnogreco attorno a cui ruota il ragionamento di tutti gli interventi. La raccolta di saggi del volume si chiude con un ritorno di attenzione al ruolo dell’architettura nella costruzione delle relazioni urbane, a partire dai ruderi e dagli scavi archeologici. Ragionare sull’Architettura per i paesaggi archeologici non significa considerare un’architettura specifica per l’archeologia, bensì riflettere su alcuni temi che si presentano come rilevanti e preponderanti: il rapporto alto-basso (tra la città attuale e il piano archeologico), le connessioni, i percorsi e le continuità urbane per evitare i recinti, le coperture sono solo alcune di queste specificità. Joseph Rykwert chiude la sezione con un testo in cui afferma che “archeologia e architettura sono due facce della stessa medaglia. Qualcuno ha definito l’archeologia come la distruzione sistematica delle vestigia del passato: l’archeologo scava un livello dopo l’altro, per raggiungere il suo scopo, distruggendo tutti quegli strati che intralciano la sua ricerca”7. L’archeologia è stata in realtà, a partire dagli inizi del xix secolo, una delle materie alla base della formazione degli architetti moderni ed è possibile seguendo l’oscillazione dei rapporti tra architetti e archeologi comprendere gli assetti statutari delle due discipline proprio attraverso le tecniche del cantiere di scavo e rilievo, che ne costituiscono il punto concreto di incontro-scontro. Il libro si conclude con un Atlante dei paesaggi archeologici che raccoglie una geografia di luoghi in cui progetto urbano e progetto archeologico interagiscono. Si tratta di 21 casi che si prestano a farci riflettere sull’uso pubblico dei resti del passato in contesti diversificati e variegati. Gli interventi selezionati sono stati organizzati secondo una tassonomia di sei diverse famiglie: centri archeologici (aree circoscritte all’interno dei tessuti urbani che si configurano come centralità), nodi (luoghi puntuali all’interno di una rete urbana), parchi (rovine in contesti naturalistici), percorsi (relazioni fisiche e percettive che valorizzano archeologie), sistemi-città e territori (ampie trasformazioni urbane o territoriali a partire dal contesto archeologico). Le schede contengono succinte informazioni, dati quantitativi e una breve descrizione dell’intervento con particolare enfasi sul rapporto progetto archeologico/ progetto urbano. Le planimetrie che illustrano i progetti sono state elaborate appositamente per questa ricerca al fine di mettere in luce il rapporto dei ruderi con i sistemi urbani secondo grafiche e scale dimensionali confrontabili. Infine un apparto iconografico di immagini evocative del rapporto architettura/archeologia costituisce l’apertura delle sezioni e dei testi. La raccolta di questi frontespizi, curata da federica Morgia, costituisce uno stimolante racconto parallelo. Ringraziamenti. Quando nel 2008 Tonino Terranova mi chiese se volevo proporre un argomento di ricerca per un prin da fare insieme, suggerii di lavorare sui paesaggi archeologici perché mi sembrava interessante prendere in considerazione quei luoghi in cui l’esistenza di un paesaggio da salvaguardare o da valorizzare per la presenza di rovine o di aree abbandonate e dismesse rappresentasse motivo di sperimentazione di nuove forme del progetto contemporaneo. nei tanti anni di collaborazione, nella ricerca e nella didattica, coniugare la storia con il contemporaneo è sempre stato il suo e il nostro obiettivo. Tonino infatti, membro del consiglio direttivo dell’ancsa, si è impegnato e ha scritto molto su questo argomento, pubblicando tra l’altro, e non a caso, un libro dal titolo Le città e i progetti. Dai centri storici ai paesaggi metropolitani. Quel primo progetto prin ottenne un alto punteggio per l’idea ma non fu ammesso al finanziamento, con alcune giuste critiche relative al fatto che aprivamo il discorso all’archeologia in senso lato, dall’antichità all’industriale, e che eravamo un po’ troppo autoreferenti. Così l’anno successivo, nel 2009, ci riprovammo, cambiando anche la composizione del gruppo di ricerca. Volevamo lavorare a stretto contatto con gli archeologi e desideravamo rafforzarci includendo casi più confrontabili con il tema dell’Appia Antica che desideravamo fosse il nostro caso-studio. Proponemmo pertanto a Marcello Barbanera, Pasquale Miano, Renato nicolini e fausto nigrelli di comporre un gruppo prin. Il progetto uscì irrobustito avendo scelto quattro aree o regioni metropolitane in cui i temi del paesaggio e dell’archeologia sono strettamente legati. Inoltre, con Renato nel gruppo, si accentuava ulteriormente quel desiderio di riflettere su questi luoghi per sottrarli a quel duplice destino di essere alternativamente fuori dal mondo oppure – come dice Marc Augé in Rovine e macerie a proposito del patrimonio artistico, culturale e naturalistico delle nazioni – di essere oggetto di un’intensa attività mediatica, “oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o oggetto il cui vero contesto è il mondo della circolazione planetaria”8. I colloqui avuti con Tonino e Renato per costruire il programma di ricerca e subito dopo, ottenuto il finanziamento, le riflessioni compiute per avviare i lavori, sono tra i più bei ricordi che mi rimangono. Purtroppo Tonino è mancato neanche un mese dopo l’avvio della ricerca e Renato un anno dopo. Abbiamo incluso due loro testi nel libro. A loro un sincero ringraziamento non solo per quello che hanno dato a me, al gruppo e alla ricerca, ma per quello che ci hanno lasciato come pensiero sulla città. Il prin è stata una vera occasione di scambi di conoscenze sulle discipline e sui territori, sui diversi contesti universitari e sulle scuole e rammarica pensare che questa occasione non ci sarà più, falciata dai tagli trasversali ai finanziamenti per la ricerca e la cultura. Mancato Tonino, mi è spettato il coordinamento della ricerca e anche per questo ringrazio i colleghi tutti che mi hanno dato questa fiducia. Lavorare su questa ricerca è stata un’esperienza interessante e formativa, arricchente sul piano delle conoscenze strettamente disciplinari e soprattutto dei riferimenti all’archeologia, all’arte, alla filosofia. Le critiche e i consigli, le riflessioni sul tema e sui luoghi ci hanno legato nel corso di questi anni di lavoro in un rapporto che, penso, rimarrà dura- turo. Pertanto desidero ringraziare Marcello Barbanera, Pasquale Miano, fausto nigrelli e Marcello Sèstito per questa sinergia che si è creata. un particolare ringraziamento va a fabrizio Toppetti, perché l’occasione ha contribuito a rafforzare un comune sentire e a ulteriormente unirci come gruppo nel dopo-Terranova. La cadenza delle nostre frequentazioni e l’intensità di scambio intellettuale sono state fonte di energia, stimolo a lavorare e conforto negli immancabili momenti complicati che la vita ci riserva. Senza il contributo fondamentale di federica Morgia il lavoro non sarebbe oggi in stampa e soprattutto non avrebbe gli stessi connotati. La sua dedizione e soprattutto la sua intelligenza hanno avuto un ruolo determinante. Importante è stato anche lo sguardo sul paesaggio urbano di Alessandro Lanzetta e il suo occhio critico nei confronti del disegno del progetto. un sentimento di riconoscenza va a Rachele dubbini che ha avuto la pazienza di spiegarci metodi e ricerche sull’archeologia e sulle istituzioni che se ne occupano. un grazie infine a Angelo Cannizzaro e nino Minniti che hanno collaborato affinché il discorso iniziato con Renato non svanisse con la sua scomparsa, nonostante i difficili percorsi che la vita accademica ci riserva. Il gruppo dei più giovani, che ci ha dato una mano sia nell’organizzazione di seminari teorici che nella elaborazione della ricerca sui siti, ha costituito una risorsa fondamentale e uno stimolo a chiarire sempre di più il nostro pensiero. desidero qui ringraziarli tutti, senza il loro contributo la ricerca non esisterebbe. Grazie a Alessia, davide, Eliana, Giulia e Valentina. Infine, ma non ultimo, un grazie ad Andrea Carignani, che da archeologo e soprattut- to da saggio diplomatico ha ascoltato problematiche e aporie e suggerito percorsi di contaminazione tra le discipline. 1 La Sapienza, l’università di Roma Tre e lo iuav stanno da anni interessandosi all’argomento attraverso la didattica (Master Sapienza “Architettura per l’Archeologia. Progetti di valorizzazione del patrimonio culturale”; Master Roma Tre “Architettura, Storia, Progetto”), l’organizzazione di seminari scientifici, convegni e la pubblicazione di alcuni contributi quali: i volumi A. Capuano, O. Carpenzano, f. Toppetti, Il Parco e la città. Il territorio storico dell’Appia nel futuro di Roma, Quodlibet, Macerata 2013 e Allestire l’antico a cura di G. donini e R. Ottaviani, Quodlibet, Macerata 2013; i fascicoli “Archeologia e Progetto” di Gangemi del 2002, 2009 e 2014 che pubblicano le tesi di laurea di Roma Tre; alcuni numeri del “Giornale iuav” (81, 2010; 94, 2011; 119, 2012). Iniziative analoghe sono state avviate dall’università di Catania con il “Laboratorio estivo di Siracusa”, mentre l’università Mediterranea di Reggio Calabria ha avviato un Master in “Architettura e Archeologia della Città Classica”. 2 non sono mancati alcuni interessanti contributi. Cfr. M. Manieri Elia, Topos e progetto. Temi di archeologia urbana a Roma, Gangemi 1998; A. Ricci, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, donzelli 2006; T. Matteini, Paesaggi del tempo. Documenti archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi, Alinea, firenze 2009; Via Tiburtina. Space, movement & artefacts in the urban landscape a cura di H. Bjiur, B. Santillo frizer, 2009. 3 Tra i più importanti contributi si ricordano: A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966; d. Manacorda, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Milano 2001; M. M. Segarra Lagunes (a cura di), “Archeologia urbana e Progetto di Architettura”, Gangemi, Roma 2002; B. d’Agostino “Napoli e l’archeologia urbana”, in “Restauro & città”, 1985/2; f. fazzio, Gli spazi dell’archeologia. Temi per il progetto urbanistico, Officina, Roma 2005; R. Panella, Roma la città dei Fori. Progetto di sistemazione dell’area archeologica tra Piazza Venezia e il Colosseo, Prospettive, Roma 2013; R. Panella, Roma Città e Foro, questioni di progettazione del centro archeologico monumentale della Capitale, Officina, Roma 1989; Le quattro porte del centro archeologico monumentale di Roma, a cura di O. Carpenzano per la Biblioteca del d.A.A.C., Roma 1993. 4 A. Signorelli, Intorno ai criteri ispiratori di una possibile museografia demologica, in J. Cuisenier, J. Vibaek (a cura di), Museo e cultura, Sellerio, Palermo 2002. 5 P. Castelnovi, L’abbandono e i piani per il governo del territorio, “Multiverso”, 2005. 6 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, in A. Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco, L’antico e il nuovo. Il rapporto tra città antica e architettura contemporanea: metodi, pratiche e strumenti”, utet, Torino 2002. 7 J. Rykwert, Archeologia e architettura, infra, p. 311. 8 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, p. 52. 15 iNtRoduCtioN InTROduCTIOn Alessandra Capuano 16 This book draws together some of the theoretical arguments that formed the basis of research that attempted to study historical landscapes and their integration into metropolitan regions and areas. The topic is the subject of a recent document issued by unesco in August 2011, which defines the concept of an historic urban landscape, recognising its innovative value in the conservation and management of historic cities, and encourages member states to adopt the appropriate measures to apply this instrument in their territories. This concept meets the need to preserve shared values and benefit from the legacy of the past, and it marks a change: from an emphasis that was initially placed on architectural monuments to a wider recognition of the importance of social, cultural and economic processes for the conservation of urban values. This translates as a need to protect the natural and historic heritage of our territories, encouraging integration between planning and conservation strategies for the active protection of assets and the application of a method and a philosophy that can focus on the concept of landscape. The search for a degree of compatibility between conservation and modern development work is considered particularly key and the importance of paying greater attention to environmental issues is recognised. In such circumstances, the role of academic communities is considered to be central and research that adopts the concept of historic urban landscapes in order to study metropolitan territories, in line with an integrated method involving various different disciplines, is encouraged. Our research starts with this premise: an all-encompassing approach that attempts to combine the natural and historical resources of urban landscapes and conservation work with high quality contemporary improvements, tangible and intangible heritage, economic and social development that isn’t simply designed to encourage the use of these resources in the tourist industry but also looks to their inclusion in a city’s everyday life. Our working group particularly took archaeological landscapes into consideration because Italy boasts a tremendous number of such assets, scattered throughout the country, and the conservation of this heritage poses several problems for our society. As well as the more important and famous monu- ments that are cared for and visited, there is an enormous number of forgotten ancient sites, as well as neglected and badly treated ruins. This is due to a lack of resources and the unsustainability of such a widespread level of protection, as well as the need – as Andreina Ricci was the first to point out – to think carefully about the meaning that such previously existing sites have. This was the basis of our approach, which directly involved architects, landscape architects, town planners and archaeologists, and more loosely drew on artists, members of public institutions and scholars from various scientific fields. In recent years, the relationship between architecture and archaeology has been discussed at length; one need only consider the interesting contribution made by the research and tuition provided by many Italian universities with courses and Masters degrees specifically devoted to this issue1. In contrast, the issue that concerns archaeological landscapes and the interaction between ancient and modern urban systems is less common, even if these issues have been around for some time2 and studies on the structure and history of cities are a primary result of urban Italian culture, both in architectural disciplines and archaeological sciences3. nevertheless, there is still a long way to go, particularly from the operational point of view and a synergistic approach to development is still not a well-established practice. We still come across entrenched positions in different fields that, instead of encouraging a cooperative attitude, tend to put up barriers. Even though contemporary culture has supported the change from a knowledge that focused on objects to sciences that study relationships, the specialisation and the fragmentation of disciplines inevitably end up prevailing, causing serious and damaging delays. Instead, we believe that it is possible to study and plan an urban space in continuity – both conceptually and figuratively – with archaeological space, to promote the integration of archaeology with the needs of contemporary cities, updating urban spaces and systems, stopping archaeology from being used only by tourists and specialists and encouraging its potential everyday use, so as to maintain the vitality of places. It’s hard to tackle issues that depend on territorial development and enhance- ment at a time like this of global economic crisis and in a country like Italy where the backwardness of the modernisation process leads to a loss of competitiveness, marginalisation and decline. Economic and governance models that can guarantee new stability seem to be the main priorities and an interest in regenerating landscapes using architectural planning may not seem pertinent, and will no doubt appear to be secondary in importance. Vice-versa, we can easily assert that one of the main resources our country can count on is its landscape. This is, however, more of a platitude than a true investment in its enhancement, not only using protection measures but also with the innovation of the systems that support it. It has now been ascertained that it is not enough to preserve historical and environmental resources if we want to take advantage of them; we need to promote high quality development that takes into account the complex nature of the layers that characterise modern life. As regards this aspect, memory plays a central role. Contemporary economic theories that quote federico Caffè, Amartya Sen or Richard florida are no longer simply based on the usual indicators (gdp, pro- capita income, employment, consumption, etc.) used to work out the wealth of a country or an individual, but rather include various different categories that are more suited to treating the economy of wellbeing in the post-industrial era and the perspective of “human development” that can guarantee a decent quality of life that is not limited to economic parameters but includes social and environmental aspects as well. until recently, the landscape was part of a cultural heritage made up of “assets”, even though the difficulty in equating “places of scenic beauty” with asset/objects and the ensuing difficulty in legislating their protection employing methods and rules used for “things, buildings and furniture” has been clear since 1939. The results of regional landscape programmes pursuant to Law 431/85 did not change the essential criteria for managing protection. Hence, we are raising the issue of the urgent need to tackle the changes that have been imposed on management practices by the change in perspective and by the new values attributed to landscape. According to recent points of view, while the imposition of limitations and protection orders is indeed important, it is not 17 InTROduCTIOn 18 enough to protect the territory and keep it vibrant because – as the European Landscape Convention also recognises – its effective protection can only be implemented with social involvement. The social nature of landscape – in other words, the “uninterrupted collective process of producing meaning and value and constructing significance”4 – is a constituent part of a community’s life and identity, an important element for social and cultural policies in the decades to come. Castelnovi5 asserts that perhaps the landscape is undergoing a change, in cultural process terms, similar to the recognition that led to a widespread consideration of historic city centres in the 1970s. nevertheless, the protection of historic city centres also helped to encourage a negative attitude towards the Modern and Contemporary, leading to a preference for passive conservation and ruling out modern enhancement work as a central part of urban development processes. We need to set up new strategies that focus on the protection and enhancement of archaeological areas using contemporary urban planning, with the conviction – as Tsiomis points out – that it is possible to plan urban and metropolitan space in continuity with archaeological space: it is on the thresholds and borders that distinguish one from the other that the potential of a plan that makes mingling and contamination a value worth preserving or pursuing is tested6. We cannot repeat the same error that occurred over historic town centres with the conservation of archaeological landscapes. In order to keep places vibrant, conservation must be proactive and must include changed social, economic and cultural needs. This project, developed by five research units within a 2009 prin (Research Projects of national Interest) grant given by the Research and university Ministry, is composed of two main studies. One study concerned the updating of the status quaestionis concerning the issues investigated. This review was carried out by holding five seminars involving experts from various different fields, even those that were not part of the 2009 prin (Research Projects of national Interest) research group. They compared notes on various different aspects that concern the relationship between archaeological landscapes and urban and peri-urban areas. The debate that resulted led to this book. The other study involved the choice of four specific areas, case studies, representing contemporary urban or metropolitan environments where there is a dense concentration of historical traces and where the natural surroundings are an important resource worth protecting and promoting. These four case studies were Rome’s Park of the Appia Antica, the Phlegraean fields of naples, Villa del Casale and the Gela river in Piazza Armerina and Reggio Calabria’s Magna Graecia. The first three areas are designated regional parks and therefore vast expanses of countryside featuring important archaeological sites that are often well preserved and enhanced, as well as a number of scattered cultural assets, both ancient and more recent, that have not been properly integrated into their urban surroundings, or neglected all together. In contrast, Magna Graecia is a constellation of locations including protected natural sites. nevertheless, the area mainly features the settlements of Reggio, Sibari, Crotone and Locri where there are no close links between urban areas and archaeological areas, despite the symbolic value of historical traces. The case studies, which were conducted at the same time as the theoretical work carried out in seminars, proved to be an extraordinarily fascinating observatory that allowed us to initiate an in-house debate on what “urban quality” means, what tangible solutions could be adopted to ensure that archaeological planning and urban planning could interact and what is the contemporary meaning of the past and its narratives in the present. These studies are the subject of four other publications that, along with this book, present the results of this research and promote its findings. Without claiming to be exhaustive, this book is therefore a collection of theoretical contributions that attempt to take stock of the issues that concern the relationship between archaeological planning and urban planning and is divided up into five sections, each of which consists of general essays with articles referring to specific urban case studies at the end of each section. The sections – which I’ll list briefly in the order in which they are published – were compiled by the supervisors of each research group. The first one tackles the difficult relationship between Preservation and Reinvention because the landscape of Italy – which boasts some of the most avantgarde laws in the world for protecting cultural and landscape assets – is ailing, a victim of this legislative maze and the fragmentation of responsibilities, of unpunished devastation and inconclusive, outmoded rhetoric. We need to question the quality of sites and what role the use of the past in contemporary cities plays. We need to have a cultural and strategic vision that reflects our attitude to the present. The researchers asked themselves what corrective measures should be introduced, what the role of an asset is and its meaning in public spaces and how we can reconcile protection with the needs of urban development. In short, they asked themselves how we can get social mechanisms to interact more to encourage urban regeneration and the proactive maintenance of heritage and places. The cases studied were Athens, dougga, Brasilia, Istanbul, Turin and Rome. The section entitled Margins and Marginality discusses the way ruins are preserved in countries that have been at the centre of ancient cultures for a continued period. Ancient architectural sites that have become part of history over time pose different problems from those brought to light more recently. There are a historical/archaeological issue, as well as an architectural and town planning issue, involved. The solution to such problems cannot be uniform because the meaning of ruins is polysemous. The conservation of our past, something that is fundamental to how we define ourselves, should not go against the needs of the present to the detriment of the urbanised space we live in. All the articles in this section reconsider study and development methods as it is entirely focused on the fragile relationship between memory and oblivion. Mérida, Beirut and Ljubljana are cases that offer food for thought on the meaning of the past in the present and the ways cities metabolise that relationship. Territorializations (hence the section of that name) is the process that is put forward as an architectural planning tool for sites with a high cultural and historical density. This process allows us to move past the concept of an archaeological site and even of an archaeological park and the legislative severity that considers them as unalterable entities and, as such, static locations treated as open-air museums. Instead, these places preserve intangible values and, at the same time, are dynamic sites that change and impose change day after day, poised between what they were, what they are and what they will be. The subject of the process is therefore neither the archaeological site nor the cultural heritage as it is generally understood, but rather “territorial heritage”: i.e. that collection of sites, relationships, uses and symbols involved in the tdr (territorialisation-deterritorialisationreterritorialisation) process. Hence it is the territory, and not the landscape (its epiphenomenon), that is considered a “common good”. Enna and Agrigento are the two cases that offer food for thought when examining the promotion and enhancement of landscape and cultural heritage in Sicily. The section entitled Redefining Places is a collection of essays that focus on one particular question: what does running a museum in Magna Graecia involve? The authors consider the concept of space, starting with its basic values (what value does space have for human beings?) and ending with its communicative powers. The semantic value of places and the action of re-attributing them with meaning in the modern world, starting with the interpretation of terms such as urban grid (Hippodamus of Miletus was an honorary citizen of ancient Sybaris), museum, architecture and archaeology encourage us to iden- tify new imaginative scenarios and novel aesthetic experiences that can in some way lead us towards original solutions and “move” us with new narratives. new technologies and information networks, infrastructure networks, new parts of cities and their forma urbis, music and art can all “provide new answers to old questions”, as Renato nicolini states. The case studies here refer to the specific area of Magna Graecia, the focus for all the essays in this section. The collection of articles in this book ends with a return to a focus on the role of architecture in constructing urban relationships, starting with ruins and archaeological excavations. Reflecting on Architecture for Archaeological Landscapes doesn’t mean considering a specific type of architecture for archaeology; it involves reflecting on some of the issues that appear to be relevant and predominant. The relationship between upper and lower levels (between modern cities and the archaeological layer below), connections, itineraries and an urban continuity that will avoid fences and coverings are just some of the specific issues involved. Joseph Rykwert ends the section with an article where he asserts that “archaeology and architecture are two extremes of the same issue: archaeology has been defined as the systematic destruction of the past; archaeologists start by digging down from one layer to another and in order to get to the layer they want they must destroy previous ones”7. In actual fact, archaeology has been one of the basic subjects studied by modern architects ever since the turn of the nineteenth century and it is possible, following the fluctuations in the relationship between architects and archaeologists, to understand the statutory 19 InTROduCTIOn 20 structure of these two disciplines using those very site excavation and surveying techniques which constitute a concrete point where they meet and clash. The book ends with an Atlas of Archaeological Landscapes, which includes a geographic survey of sites where urban planning and archaeological planning interact. It features 21 cases that help us reflect on the public use of remains of the past in different contexts. The projects chosen were listed according to a taxonomy of six different categories: archaeological centres (limited areas within an urban fabric that act as city centres), nodes (specific sites within an urban network), parks (ruins in natural environments), itineraries (physical and perceptive relationships that enhance archaeological sites), city-systems and territories (large-scale urban or territorial development that takes its cue from the archaeological context). These profiles contain succinct information and quantitative data and a brief description of the improvement work done, with a particular emphasis on the relationship between archaeological planning and urban planning. The site plans that illustrate the projects were specially produced for this research so as to highlight the relationship between these ruins and their urban systems using comparable graphics and scales. Last but not least, a visual insert featuring images exemplifying the relationship between architecture and archaeology illustrates the beginning of the sections and articles. The collection of these frontispieces, compiled by federica Morgia, constitutes a fascinating parallel account. Acknowledgements. When Tonino Ter- ranova asked me in 2008 if I would like to propose a subject for research as part of a prin Research Project of national Interest that we could work together on, I suggested we work on archaeological landscapes because I felt it was interesting to consider those sites where the existence of a landscape that needed protecting or enhancing, due to the presence of ruins or abandoned and neglected areas, would provide an opportunity for experimenting with new forms of contemporary architectural planning. Over these many years of cooperation in research and education, our aim was always to combine history with the contemporary world. Indeed, Tonino – a member of the governing council of the ancsa (the national Association of Historical-Artistic Centres) – spent a considerable amount of time on this subject and wrote a great deal about it. It is no coincidence that he published, among other things, a book entitled Le Città e i Progetti: Dai Centri Storici ai Paesaggi Metropolitani (‘Cities and Architectural Planning: from Historic City Centres to Metropolitan Landscapes’). That initial Project of national Interest scored highly thanks to the concept, but was not awarded funding as it was rightly criticised for having initiated a discussion on archaeology in general, from ancient times to the industrial era, and for having been a little too self-referential. Hence a year later, in 2009, we tried again. We also changed the members of the research group. We wanted to work closely with archaeologists and we wanted to strengthen our proposal by including cases that could be compared more easily with the Appia Antica, the location we wanted to use as our case study. We therefore asked Marcello Barbanera, Pasquale Miano, Renato nicolini and fausto nigrelli to set up a prin group. The project ended up all the stronger for it, having chosen four metropolitan areas or regions where the themes of landscape and archaeology are inextricably linked. Moreover, with Renato in the group, we had an even greater desire to concentrate on such sites in order to save them from the twin fate of being either isolated from the world or – as Marc Augé says in Time in Ruins as regards artistic, cultural and natural heritage – of being the object of intense media activity, “an object of consumption that is more or less divorced from its context, or an object whose real context is the world of planetary travel”. The meetings I had with Tonino and Renato when we were developing the research plan – and, immediately after that, the discussions we had in order to proceed with our work once we had been awarded funding – are some of my most cherished memories. unfortunately, Tonino passed away less than a month after research work began and Renato followed a year later. We have decided to include two of their articles in this book. My sincerest thanks go to them, not only for what they gave me, the group and this research, but for what they left behind: their reflections on cities. The prin was a real opportunity to exchange knowledge of disciplines and territories, of different university environments and schools and it is sad to think that this opportunity will never come round again, as it has been struck down by the cuts to funding for research and culture that have been applied in Italy. When Tonino passed away, I was made responsible for coordinating the re- search and that is also why I must thank my colleagues, all of whom gave me their support. Working on this research programme has been an interesting and formative experience that has been enriching from a strictly architectural point of view and, above all, as regards archaeology, art and philosophy. The criticisms, advice, observations on the topic and on the locations have bound us together over these past few years of work in a relationship that I feel will stand the test of time. I would therefore like to thank Marcello Barbanera, Pasquale Miano, fausto nigrelli and Marcello Sèstito for the synergy that was created. Special thanks go to fabrizio Toppetti, because the opportunity provided by this research helped strengthen a commonly shared feeling and helped us come together as a group in the postTerranova phase. The frequency of our meetings and the intensity of our intellectual exchanges proved to be sources of energy and enthusiasm for our work and a comfort in the inevitably difficult moments that life throws at us. Without federica Morgia’s essential contribution, this book would not have been published and, above all, would not have had the same characteristics. Her dedication and, above all, intelligence were crucial. Alessandro Lanzetta’s look at the urban landscape and his critical view of the project’s plan were also key. Rachele dubbini was patient enough to explain the archaeological aspects to us, as well as the institutions responsible for them. We thank her most sincerely. I’d also like to thank Angelo Cannizzaro and nino Minniti who made ef- forts to ensure that the approach that began with Renato did not wither with his death, despite the difficult situations that academic life holds in store for us. The group of young people who helped organise the theoretical seminars and compile the website research proved a fundamental resource and inspired us to continually clarify our position. I’d like to thank all of them, as without their contribution this research would not exist. Thanks to Alessia, davide, Eliana, Giulia and Valentina. Last but not least, my thanks go to Andrea Carignani, who as an archaeologist and, above all, a wise diplomat, lent an ear to problems and doubts and suggested paths of contaminations among the disciplines. 1 La Sapienza university, Roma Tre university and Venice’s IuAV university have been focusing on this issue for years with courses, seminars and conferences and the publication of several different contributions, such as: several issues of Giornale IUAV (nos. 81/2010; 94/2011; 119/2012); editions of Archeologia e Progetto printed by Gangemi in 2002, 2009 and 2014 (which publish Roma Tre theses); the book Il Parco e la Città: Il Territorio Storico Dell’Appia nel Futuro di Roma, by A. Capuano, O. Carpenzano and f. Toppetti, published by Quodlibet, 2013; Allestire l’Antico edited by G. donini and R. Ottaviani, Quodlibet 2013. 2 nevertheless, there has been no lack of interesting contributions. Cf. M. Manieri Elia’s Topos e Progetto: Temi di Archeologia Urbana a Roma, Gangemi, 1998; A. Ricci’s Attorno alla Nuda Pietra: Archeologia e Città tra Identità e Progetto, donzelli 2006; T. Matteini’s Paesaggi del Tempo: Documenti Archeologici e Rovine Artificiali nel Disegno di Giardini e Paesaggi, published by Alinea, 2009; Via Tiburtina: Space, Movement & Artefacts in the Urban Landscape by H. Bjiur, B. Santillo frizer, 2009. 3 d. Manacorda, Crypta Balbi: Archeologia e Storia di un Paesaggio Urbano, Milan 2001; M. M. Segarra Lagunes (editor), Archeologia Urbana e Progetto di Architettura, published by Gangemi Editore, Rome 2002; B. d’Agostino ‘napoli e l’archeologia urbana’ in Restauro & Città 1985/2; f. fazzio, Gli Spazi Dell’Archeologia: Temi per il Progetto Urbanistico, Officina Edizioni, Rome, 2005; R. Panella, Roma la Città dei Fori: Progetto di Sistemazione dell’Area Archeologica tra Piazza Venezia e il Colosseo, Prospettive Edizioni, 2013; R. Panella, Roma Città e Foro, Questioni di Progettazione del Centro Archeologico Monumentale della Capitale, Officina Edizioni, Rome 1989; Le Quattro Porte del Centro Archeologico Monumentale di Roma, edited by Orazio Carpenzano for the Library of Sapienza university’s dAAC (the department of City Architecture and Analysis), Rome 1993. 4 A. Signorelli, Intorno ai criteri ispiratori di una possibile museografia demologica, in J. Cuisenier, J. Vibaek (eds.), Museo e cultura, Sellerio, Palermo 2002. 5 P. Castelnovi, L’abbandono e i piani per il governo del territorio, “Multiverso”, 2005. 6 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, in A. Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco, L’antico e il nuovo. Il rapporto tra città antica e architettura contemporanea: metodi, pratiche e strumenti”, utet, Torino 2002. 7 J. Rykwert, Archeologia e architettura, infra, p. 311. 8 M. Augé, Le temps en ruines, Galilée, Paris 2003. 21 FRAMMeNti Antonino Terranova fRAMMEnTI Il testo raccoglie alcuni contributi di Antonino Terranova liberamente scelti dalla curatrice di questo volume. Pubblicati tra il 1984 e il 2011 e presentati cronologicamente, i frammenti riguardano il rapporto tra patrimonio e progetto contemporaneo, tra beni culturali e città, tra memoria e futuro e narrano dell’eterna insistenza di Terranova sulla necessità di riconfigurare il passato per metterlo in rapporto dialettico con il presente, all’interno di nuovi e ritrovati valori. (ac) 22 tra natura e cultura nella storicità dell’abitare. Si può cercare un Senso dell’abitare ricorrendo all’antico come luogo della memoria, come deposito degli esempi o degli archetipi originari del poeticamente abitare? L’interrogativo è parte di una serie di domande che riguardano la qualità complessiva, e profonda, della stessa nostra idea dell’abitare. dovremo dunque prendere le mosse da qui: sembra ci sia qualcosa che non va nel nostro rapporto con l’ambiente. […] Il nostro rapporto oggi con la qualità dell’ambiente è a prima vista sciatto e distratto. Ma tale apparenza maschera errori e rimozioni. Ad esempio, quelli di una conoscenza tecnica, scientifica, utilitaristica. […] Tende a sfuggirci l’insieme dei nessi che costituisce l’essenza del Paesaggio, a partire da alcune relazioni fondanti tra la forma dello spazio ed il tempo dello spazio, e poi da alcune coppie dialettiche che costituiscono i confini del nostro porre domande e tentare risposte attraverso le forme ed i tempi del paesaggio: finito ed infinito, naturale ed artificiale, mondano ed ultramondano, necessità e libertà. Alcuni esempi si possono accennare di tale disfunzione. […] Il nostro rapporto con il Passato e con la Storia è separato (non chiediamo alla Storia risposte circa i destini futuri, cui sembrano deputate scienze e tecniche), è estensivo ma non profondo, è tanto meno capace di vera comprensione quanto più diventa grande nell’estensione informativa. Il nostro rapporto con il Tempo è esorcistico, non accede alla temporalità come essenza dell’esserci, dell’essere per la morte, non perviene alla possibilità di simbolizzare lo scorrere del tempo e la finitezza dell’esistente, di farsene carico e di porlo sotto dominio attraverso gli espedienti dell’arte, di operare una scelta, una scommessa tra il mito dell’infinita progressività della storia ed il mito dell’eterno ritorno dell’identico. Tali disfunzioni non sono casuali, dacché è proprio la sostanza espressiva, connotativa, simbolica dell’Architettura ad essere stata censurata a favore di nozioni tecnico-strumentali pretese progressive. E quella censura è parallela alla cancellazione del Paesaggio nella dizione “ricca” che precedeva certe cadute nell’illustrativo […]. dunque, abbiamo imboccato strade sbagliate. non solo abbiamo fatto dell’ambiente dell’età della tecnica l’infrastruttura tecnica delle nostre funzioni d’uso. Abbiamo anche creduto di poter ridurre il senso riposto nell’ambiente alla congerie dei dati analitici risultanti dalle conoscenze frazionate secondo intenzioni scientifiche che diventano subito strumentali e grammaticali anche quando intendono pervenire alla nozione della qualità. […] Il vero “imbroglio ecologico” consiste nel “ridurre” l’albero ad un fattore biologico. L’imbroglio dei difensori del paesaggio consiste nella vaporizzazione funzionalistica dei temi vitali e simbolici contenuti nel paesaggio. Così ragiona anche la omologazione di tutto nel concetto astratto di “Bene culturale”; il quale peraltro ossifica ciò che nella temporalità della nostra storia ha valore anzitutto in quanto, piuttosto, “processo culturale”. ne discende l’esigenza di rimettersi a conoscere profondamente ciò che generalmente infatti abbiamo chiamato qualità ambientale. […] forse dopotutto li abbiamo scacciati, quei temi e quegli dei, nel nome di un presunto progresso – igienico-sanitario, organizzativo-funzionale, democratico – dell’insediamento contemporaneo. In realtà, li abbiamo sostituiti con altri dei. Li credevamo più efficienti e più laici. Superbi delle nostre conoscenze/ potenze tecnico-scientifiche – ed in- consapevoli delle nostre ignoranze/ impotenze filosofico-morali – abbiamo creduto di sostituirci agli dei ponendo al loro posto gli idola dell’efficienza. […] Con gli dei è venuta a mancare la tutela degli dei che presiedeva alla dotazione di senso, quindi alla amorevole cura, dei luoghi e degli itinerari. La tutela burocratica dei luoghi in quanto beni culturali non può venire a capo di quella radicale mancanza. Poiché a nulla valgono vincoli di legge e norme tecniche quando i luoghi da tutelare siano abbandonati da quella tutela degli dei che è poi la rappresentazione del nostro umano dare valore ai luoghi (alle forme e ai tempi del loro spazio) in quanto depositi di valori che vi abbiamo proiettato e che ci attendiamo riecheggiarne. È senza alcun misticismo che possiamo sostenere che gli uomini attraverso il numinoso impersonato dagli dei elaborarono costellazioni di Temi i quali ci parlano ancora dei modi del nostro stare nel mondo. […] dunque annettiamo al sistema di mitizzazione-formalizzazione originaria e tradizionale il valore di una sorta di codice espressivo dei nostri modi problematici di stare nel mondo, tradotto, sovente in forme divinizzanti, in espressioni tipiche di stati d’animo, in una gamma molto ricca di sentimenti. In temi specifici. È con tutto ciò che intendiamo fare i conti – in modi molto diversi di volta in volta – quando poniamo il problema di un rapporto con l’antico. Anche oggi. […] forse occorre davvero sospendere ogni tanto i “saperi” tecnici specializzati, le “convenzioni” allegate ai nostri ruoli sociali. È la prima ricetta proposta da G. Bachelard per il libero dispiegamento della sua “fenomenologia dell’Immaginario”. […] Riproporsi il tema complessivo e profondo del “poeticamente abitare” nel paesaggio antropico e nella sua temporalità dovrebbe servire anche a questo: ritrovare nella intricata dialettica di polarità che nell’ambiente si instaura (tra natura e artificio, tra artistico ed empirico, tra necessita e libertà ecc.) i fondamenti veri della disciplina; piuttosto che vederne solo una parte, di quella dialettica drammatica, magari allo scopo di usarne i concetti come “formule” passepartout per imporre nozioni parziali, “ridotte”, della specifica artisticità dell’architettura. Se “ritrovare gli dei perduti” e “ritrovare gli archetipi” vuole essere davvero qualcosa di più che uno slogan per conquistarsi fasce di mercato effimere (e ricadere nel mec- canismo iperinnovativo dell’avanguardia che si era rinnegato), deve ritrovare presto le basi più serie per un ragionamento disciplinare che non si accontenti della assoluta libertà, ma quindi anche intercambiabilità e perciò dopotutto indifferenza ed inincidenza, ideologizzata dai teorici di una “società dei simulacri” in cui, “dopo la crisi della ragione centrata” tutto e il contrario di tutto siano ugualmente possibili (o impossibili). […] È tempo di ricostruire, su quelle basi. Anzi su basi più ampie. E ciò riguarda il nostro discorso sul ri-uso del passato. Perché ormai occorre scegliere, tra le tante posizioni vaganti nella stessa costellazione, qualche ipotesi di linea meno indeterminata sulla quale operare scelte e verifiche meno superficiali. Qualche ipotesi sul ruolo della Storia; che è a quanto dire una qualche nostra ipotesi sul senso che diamo alla storia passata nel nostro essere presentemente soggiornanti, qui ed ora. […] non è facile ammettere che, contro la cattiva qualità dell’ambiente nel territorio della modernizzazione, si possa dover ricorrere al senso che custodivano nei luoghi gli dei perduti. Eppure alle radici del cattivo rapporto che abbiamo con il nostro abitare c’è vistosamente – prima 23 fRAMMEnTI 24 ancora delle difficoltà materiali e delle disfunzioni sociali – la rappresentazione sintomatica o simbolica del nostro cattivo stare al mondo, del nostro complessivo disagio di stare al mondo, del nostro cattivo stare nel mondo in quanto insediamento fisico. […] Invece proprio una coscienza radicale della continuità di relazioni tra corpo dell’uomo ed anima dell’uomo, tra particolarità e totalità, tra naturale ed artificiale, pone senza scampo l’esigenza di ricostruire una conoscenza del territorio che prenda le mosse anzitutto dalla fondante conservazione scambiata tra il corpo ed i luoghi del corpo, ma arrivi poi alla risultante significatività che l’anima impone ai luoghi dell’anima, tentando così di imprimere un senso generale, ultramondano, all’ambiente, mediante la configurazione di forme del sempre cercato sempre perduto poeticamente abitare. […] Il pensiero scientifico ed il fare tecnico – un pensare senza affetto ed un agire con fini empiricamente delimitati – millantavano di essere i nostri liberatori dagli dei falsi, mentre si sostituivano come nuovi dei agli antichi nel nome di nuove religioni mondane. Mai come oggi il rapporto tra uomo e ambiente è stato così allentato, così privo di tensione culturale. Si parla tanto di battaglie ecologiche e si trascura poi il fatto fondamentale, e cioè che la nostra cultura si è come sottratta al suo vero compito, quello di suscitare tale tensione, che è poi difesa dell’ambiente, dell’equilibrio uomo-natura, fondamento di ogni civiltà… Vi è in tal senso come un grande vuoto culturale che ha la sua immagine nello spreco del tempo libero, nell’andare della gente con lo sguardo smarrito sulle strade del week end… o anche nella superficialità e indifferenza dei tu- risti che oggi volano verso gli angoli terrestri celebrati da fruste letterature turistiche. Ancora il vuoto culturale è alla base del grande delittuoso spreco di immagini che si fa in questi anni… Certo la prima ragione sta nella dissociazione esistente tra società e cultura, e nella dissociazione che vi è all’interno della cultura stessa, tra la scienza e le sue finalità. […] Allora occorre ritrovare proprio ciò che e stato espulso o rimosso, censurato. Ciò che riempie la distanza crescente attualmente arbitrariamente interposta tra il nostro conoscere scientificamente ed il nostro vivere fenomenicamente le forme, lo spazio, il tempo del paesaggio. Le forme, lo spazio, il tempo; le forme e i tempi dello spazio: con questo già abbiamo detto in quali direzioni dobbiamo cercare. […] Conserviamo, malamente, lacerti di antichità e brani di naturalità e spezzoni di tradizionalità ed exempla di artisticità nelle teche che sappiamo alienate di parchi archeologici o naturali, di città antiche devitalizzate e strutture museografiche dissociate. […] “non esiste un passato che si debba richiamare col desiderio, esiste solo un perpetuo presente, che si foggia con gli elementi potenziali del passato”. C’è già quasi tutto il nocciolo importante del tema che intendiamo trattare – dal livello del senso comune a quello disciplinare dell’architettura – in quella intuizione dell’olimpico Goethe. Sennonché ciò che appare tranquillamente assodato nel suo umanesimo, e fiduciosamente recuperato nella miscela di idealismo e spiritualismo assodato non è affatto. non lo è per lo stesso Goethe, il quale fu tra i primi e migliori ad andarselo a procacciare, quel ricordo del passato, nel suo Viaggio in Italia. Lo è ancor meno per noi, se è vero che quelli che al problematicismo goethiano potevano apparire come i sintomi preoccupanti di un incombente spossessamento sono diventati oggi i dati di una alienazione concreta. dunque il nostro stesso affannoso ed artificioso ricercare quella “presenza del passato” che ci è sfuggita in un qualche “antico come luogo della memoria” è il segno tangibile di qualcosa che non va tra noi ed il tempo del nostro abitare. […] “La presenza del passato” è un argomento che fa parte del problema più generale della attribuzione di Senso che l’uomo si scambia con l’ambiente da lui abitato; quel “perpetuo presente” evocato da Goethe e in realtà un divenire senza scampo, se si vuole un gioco sull’abisso. Allora, il tema del passato come memoria, e quello più generale del senso della qualità dei luoghi abitati, per essere compresi si devono porre a confronto con un che di ulteriore, il quale in quei temi ed in quelle qualità viene rappresentato, espresso, posto in termini di valori. […] Intorno alle figure dello spazio ed alle forme del tempo dello spazio si annodano e riannodano di continuo, in un regime complesso di risonanze e di rimandi, di ritorni e di ripercorrimenti, diverse serie di interessi. Riguardano l’architettura ed il pubblico dell’architettura; si presentano oggi divise in branche disciplinari ambiguamente ritagliate; fanno comunque riferimento ad una sorta di senso comune, di sistema di aspettative condiviso in ordine ai rapporti tra uomo ed ambiente. Serve mettere un po’ di ordine su tale insieme, ciò che significa soprattutto tre cose. La prima riguarda più specificamente il comportamento disciplinare che l’Architettura può adottare, sia in ordine alle diverse branche e strumentazioni che si sono costituite (analisi e progetto, vari livelli e fasi di intervento, specializzazioni tecniche ecc.), sia in ordine alla questione – fortemente prioritaria – dei comportamenti linguistici che si possono avere nei confronti del dilemma che si definisce oggi tra una “tradizione interrotta” ed una “tradizione ritrovata”. […] La seconda riguarda in particolare il problema della Tutela, il quale si è posto nell’età della modernizzazione in termini di individuazione di oggetti o “beni culturali” (sottratti a “processi culturali” dati per interrotti), quindi di loro separazione dall’habitat ordinario mediante procedure di recintazione e vincolazione; e deve superare le disfunzioni che tale rozza metodologia ha suscitato, probabilmente nella direzione di tentativi che ritrovino rapporti vitali tra antico/moderno, natura/artificio, mediante progettazioni di nuove sintesi. La terza riguarda un problema più generale dei modi della fruizione, dell’antico o del passato, e della natura naturale o rurale, nel quadro dei comportamenti ludico-culturali, di turismo di vacanza di tempo libero, che vigono finora nelle società di massa. Al di qua della radicale critica dell’ideologia di tali comportamenti, e nella consapevolezza di un irrevocabile spostamento dei termini materiali del problema, occorre svelare anche tecnicamente le cattive forme di conservazione-fruizione della naturapassato, e cioè le forme regressive che già qualcuno ha definito come afferenti ad una ideologica “utopia del passato”. i Monumenti. tempo dell’architettura e tempo della città. […] Muoiono e nascono, e vivono su cicli variabili, i paesaggi. A frascati il paesaggio di villa nasce molto prima di quello industriale di Tivoli, su motivazioni pur retrodatate, ma in qualche modo più autonome e durevoli. Esso oggi è lì un po’ sgretolato, a porci i problemi della sua possibile riutilizzazione. Questa non può essere se non progettuale. deve trovare soluzioni attuali e specifiche. deve pagare dei prezzi. Molti esempi stanno lì da decenni a testimoniarci che senza soluzioni progettuali la conservazione è utopia negativa. da Roma ai Castelli il nobile rettifilo della via Appia antica da oltre trent’anni deve essere supporto della realizzazione di un “parco archeologico”. Separato e sganciato da altri momenti ed istanze della crescita urbana, il parco non può decidere il dilemma perdurante tra posizioni di genere tardoromantico e posizioni classiciste e/o positive. un dilemma che potrà avere risposte – col rischio dell’errore – solo dalla pratica della progettazione. […] Esiste dunque una lotta contro il tempo che è anche aspirazione all’eternità; ma attenzione, non sempre la si può perseguire impunemente come se il tempo non avesse effetto. Occorre al contrario conoscerlo quell’effetto, farsene ragione e carico, per poterlo gestire. Progettualmente. Il “Progetto di conservazione”, poiché non è senza conflitto, è ancora “Progetto di Architettura”. valori della memoria e società post-industriale. Paradossalmente la conservazione ha sempre lavorato all’interno della logica dell’avversario, zonizzando artificiose porzioni da sottrarre alle regole dello sviluppo: univocità del modello insediativo razionale; rottura del circolo dell’ecologia umana con la proposta di una città come “natura seconda” da sostituire alla insostituibile vitalità della natura; rottura della rammemorazione storica e della consapevolezza del “tempo dello spazio” come supporti antropologici dell’insediamento, a favore di comportamenti di puro spreco e consumo senza residui; esorcizzazione dei caratteri di variabilità e aleatorietà, conflittualità e imprevedibilità, propri della città tradizionale, a favore di una ipostasi della pianificabilità globale-aprioristica-sequenziale della città moderna. È lecito presumere che la società postindustriale corregga quelle tendenze? […] È possibile, cioè, ricondurre i “valori della memoria” ad una loro ordinaria attività nella vita quotidiana della città esistente, sottraendoli all’irripetibile idealistico “altrove” nel quale (museo o centro storico, parco naturale o archeologico, monile o impianto urbanistico ecc.) sono sacralizzati-distaccati in un’unica categoria i “beni culturali”? Qui i sintomi sono ancora contraddittori, indeterminati. Infatti il post-industriale sembra anche condurre alle conseguenze più estreme, e disincantate, quel processo di separazione, parcellizzazione, specializzazione internazionale degli usi territoriali e culturali. A. Terranova, Tra natura e cultura nella storicità dell’abitare, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris, A. Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro editrice, Roma 1984. A. Terranova, I Monumenti. Tempo dell’architettura e tempo della città, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris, A. Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro editrice, Roma 1984. A. Terranova, Valori della memoria e società postindustriale, in Id., Le città & i progetti. Dai centri storici ai paesaggi metropolitani, Atti del x Convegno-congresso nazionale ancsa, 1989, a cura di A. Criconia, Gangemi, Roma 1993, pp. 107, 108. 25 fRAMMEnTI 26 Nell’attesa, risignificazione delle tracce. È la possibilità di tutelare il patrimonio arricchendolo – sì – mediante modifiche e aggiunte, nuovi investimenti. Il patrimonio dell’economia simbolica, proprio come quello dell’economica. Che tali investimenti oggi – in tempo di palinsesti e tracce (ma, anche, tracce di Altrove: ad esempio il sentimento della morte?) – possano essere effettuati con acume di innesto nei luoghi-non-luoghi esistenti, interpretandone i caratteri e le aperture (i temi tematizzabili, i problemi irrisolti, le suscettività di trasformazione virtuosa ecc.) significa semplicemente, di nuovo, che c’è priorità del progetto, inteso come evento-azione-scelta topico oltreché tipico, e storicamente fragrante, nel qui e ora del “tempo appropriato”. Ho costeggiato un tratto di Mura tra viale Trastevere e porta Portese, nel pomeriggio, ritrovando la desolazione dei primi sopralluoghi, per lo stato inutilmente degradato del sito, per lo squadernamento palese di occasioni pronte di progettazione di un miglioramento facilmente radicale, per il senso di impotenza che suscita l’inerzia colpevole di questa città. Tutti avrebbero da guadagnare da un nuovo assetto capace di legare le mura all’archeologia dei depositi portuali, l’ex gil di Moretti con i suoi giardinetti lottizzati malamente alla passeggiata lungomura ridotta a parcheggio brado del parco automobilistico romano. Si tratta di una questione di progetto. un progetto impossibile, piuttosto che il progetto interrotto cui dedicava una rubrica Controspazio? Questione inquietante per chi si stia occupando di un parco lineare integrato delle mura nel quadro dell’ambito strategico mura del prg di Roma. […] Che tra i Vaghi Paesaggi dell’architettura italiana contemporanea si diano ed anzi prevalgano quelli modellati da una insistente ed insistita, a volte ossessiva ed a volte posticcia, “Conservazione e trasformazione del patrimonio architettonico e dei paesaggi urbani consolidati” (con una troppo radicale prevalenza della conservazione più cretina), è circostanza che mi sembra accertata. […] ll benculturalismo inflattivo o inflazionato che qualche anno fa veniva segnalato dalla Choay, il quale per definizione non seleziona, ma prende tutto moltiplicando anzi le opzioni con la frenesia del consumo e del desiderio mai soddisfatto delle agenzie di viaggio, e dunque difficilmente opera secondo la lezione di Raboni, e può viceversa indurlo all’amarezza: “… così di fronte alla realtà intera, non filtrata dalla memoria, la delusione è quasi inevitabile”. Quasi, dice prudentemente il poeta, evitando radicalismi apocalittico-nichilistici. È dunque ancora possibile malgrado tutto, mediante un attraversamento poetico di quel tutto così barbarico e rudimentalmente pulsionale, far lavorare la memoria come “filtro”? […] “Cena con ruderi e party al curry” titola il “Corriere della Sera” 17/7/00 a proposito delle mondanità della moda romana: “Cena con vista sui ruderi romani… stasera per l’estrosa inglese Vivienne Westwood sulla terrazza dei Mercati di Traiano”. Si tratta di una tra le modalità tipiche dell’italiota parassitismo del passato, quella che sfottemmo ai suoi albori di Suoni e Luci al foro romano. Prima della rivoluzione. una mondalità molto differente da quella primaria dell’italico littorio che riconvocava i fantasmi imperiali nell’archeologia scenografata con il fine non troppo sottile di replicarli. Cari fantasmi? Memoria pubblica e Memorie private sembrano distinguersi necessariamente oggi, anche se non necessariamente contrapporsi. È possibile, da un lato, coltivare le tracce della stratificazione archeologica e architettonica del territorio storico della città metropolitana per affidare loro obbiettivi identitari locali (le microcittà, la toponomastica ritrovata, le nuove centralità, la città storica estesa, eccetera), e dall’altro consentire ad un riuso postidentitario delle persistenze, affidandone la reinterpretazione-risignificazione alle molteplici stimolazioni di volta in volta provenienti da segmenti della post-soggettività? Essere ingenui come volpi, astuti come colombe (?), virgolettare tutto all’ennesima potenza predisponendo molteplici livelli-codici di lettura dell’opera conservata-trasformata, mantenere elementi di autenticità ed incanto nell’ età del disincanto e dell’inautentico autenticato? A. Terranova, Nell’attesa, risignificazione delle tracce, in Id., Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi, Roma, 2009, pp. 45, 46, 47 e 50, titolo originale: Discussione per un’attesa produttiva, in L’attesa, numero monografico della rivista “Topos e progetto”. questa non è una villa Adriana. Villadriana, infatti è una rappresentazione di Villa Adriana, come il Centrostorico è una rappresentazione del Centro Storico, e proprio come non è una pipa, la pipa che Magritte rappresenta sulla tela del pittore, in versioni spesso complicate dalla presenza di diversi ordini e tipi di Cornice. […] C’è un testo in questa classe? Ovvero, perché noi siamo qui a Villa Adriana? Ovvero: come si configura per noi oggi la questione che Keats identifica nell’urna greca? Come si configurano i temi della Verità e della Bellezza, e della loro coincidenza? dunque, siamo qui come il Palladio per apprendere gli archetipi, i principi, le regole dell’armonia classica? Oppure siamo qui – anche, forse simultaneamente – per interrogarci, architettonicamente, intorno al senso che ha per noi vivere nelle-con-le macerie? Per interrogarci intorno alla città eterna, alla stratificazione della realtà, al rapporto nostro con il “drago della realtà”? […] Villa Adriana, poi, è un Mostro, come la villa dei Mostri di Palagonia, come il Sacro Bosco di Bomarzo popolato di casette inclinate e facce emergenti dalle rocce, è già l’artefatto artificioso e ricercante verità e bellezze rovesciate e di-vertenti, di un personaggio strano, l’imperatore Adriano, come lo rievoca la Yourcenar. Raccoglie ricordi architettonici e artistici del suo viaggiare, li congela in forme stabili, li agglomera in eterogeneità bizzarre. E tuttavia, e questa e un’altra lezione, proprio così, bizzarramente, egli produce nuova invenzione spaziale. E il tardo-antico come l’anti-rinascimento – per lunghi periodi dimenticati e disprezzati – produrranno poi ulteriori fioriture. Oppure, siamo qui anche per cercare di comprendere come mettere in scena la conservazione? L’enigmatica ossessione della nostra società, per niente condivisa dal Gattopardo (… questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti…), ed invece pervasiva, articolatissima e maniacale oggi, quando Orlando, allievo dell’autore del Gattopardo, può inventariarne e categorizzarne molteplici manifestazioni in “Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti”. […] Archelogia come tema, questo forse è un problema analogo ma non identico a quello, ossessivamente frequentato e anch’esso poco esercitato, del “costruire-nel- sul costruito”, e sul costruito storicamente più stratificato e artisticamente più perspicuo. […] Infatti si tratta di mettere a tema la messa in scena dell’archeologia in quanto fattore della fruizione culturale, e magari come componente basico del radicamento dell’insediamento attuale sul più profondo layer della metropoli. Pieghe allora, non proprio spezzate discontinuità per la Continuità? All’indietro “ma anche” in avanti. Oltre nietzsche, oltre la Archeologia del sapere di Foucault e le sue rotture e conflittualità e pieghe di paradigmi, possiamo anzi dobbiamo ascoltare Steiner che ci ricorda come non siamo solo noi a guardare il passato, ma soprattutto il passato a guardare noi. nella conservazione, ma anche nell’innovazione. La durata è importante, anche se deve essere ri-configurata. In ogni modo la città nella storia della sua figura – la cosa più importante da conservare nelle sue processualità viventi, oggi nella relazionalità dell‘opera collettiva – deve cambiare per durare davvero, deve assumere nuove configurazioni in rapporto dialettico con quelle esistenti negli spessori delle stratificazioni. Così la durata può davvero assumere il Valore di una Società consapevole e non (solo) quello già sentito in crisi del Gattopardo. 27 A. Terranova, Questa non è una villa Adriana, in Id., Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi, Roma, 2009 pp. 54, 55, 56, 57, originalmente in Progetti per Villa Adriana, Premio Piranesi, Liberia Clup, 2005, pp. 61-70. A. Terranova, Appunti per nuove priorità: progetto di trasformazione e armature del periurbano metropolitano, in Toppetti f. (a cura di), Paesaggi e città storica. Teorie e politiche del progetto, Alinea, firenze 2011, p. 78. FRAGMeNts Antonino Terranova fRAGMEnTS The text brings together parts of the essays of Antonino Terranova freely chosen by the curator of this volume. Published between 1984 and 2011 and presented chronologically, the fragments concern the relationship between heritage and contemporary design, between cultural assets and the city, between past and future and tell of the eternal insistence of Terranova on the need to reconfigure the past in order to put it in dialectic relation with the present, through new and rediscovered values. (ac) 28 Halfway between nature and culture: the historical significance of inhabiting a place. Can we search for the Meaning of our inhabiting a particular place by resorting to the ancient as a “site of memory”, as a warehouse of original archetypes or examples of poetically residing somewhere? This problem is part of a series of questions concerning the deep-rooted, overall quality of our very idea of inhabiting a place. We should therefore take our cue from here: there seems to be a problem in our relationship with the environment. […] Today, our relationship with the quality of the environment seems, at first glance, slovenly and absentminded. But such a semblance conceals errors and omissions, such as those related to technical, scientific and utilitarian knowledge. […] We tend to overlook the combination of connections that forms the essence of Landscape, starting with a few basic relationships between the form of space and the time of space, and then with some dialectic pairs that constitute the limit to our attempts to ask questions and find answers through the forms and times of landscape: finite and infinite, natural and artificial, worldly and otherworldly, necessity and freedom. We can cite a few examples of this malfunction. […] Our relationship with the Past and with History is separate (we don’t ask History for answers regarding future destiny, which seem to be entirely entrusted to sciences and techniques), it is vast but not deeprooted, and the more the informative extent of it widens the less we are capable of true understanding. Our relationship with Time is exorcistic, it doesn’t grasp temporality as an essential part of being, of being for death, it doesn’t attain the possibility of symbolising the passage of time and the finite nature of existence, of accepting that and dominating it through the expedients of art, of making choices, a wager halfway between the myth of history’s infinite progressiveness and the myth of the eternal reappearance of the identical. These malfunctions are not coincidental as it is the very expressive, connotative and symbolic nature of Architecture that has been condemned in favour of technical/instrumental notions that claim to be progressive. And that condemnation goes hand-in-hand with the cancellation of Landscape in the “rich” diction that has preceded occasional lapses into the academic […] Hence we have gone down to wrong roads. not only did we turn the environment of the age of technical ex- pertise into the technical infrastructure of the way we use things. We were also convinced that we could reduce the meaning of the environment to the jumble of analytical data gathered from knowledge (divided up according to scientific intentions) that immediately becomes instrumental and grammatical even when it intends to achieve a notion of quality. […] The real “ecological con” involves “reducing” a tree to being a mere biological factor. The con perpetrated by those who defend the landscape consists of the functional disappearance of the symbolic and vital themes that landscape possesses. That is how the standardisation of everything into the abstract concept of “a cultural asset” works, which, apart from anything else, ossifies what had, first and foremost, the value of a “cultural process” in our history’s temporality. The result is a need to regain a deep understanding of what we have generally defined as “environmental quality”. […] Perhaps, all things considered, we dismissed those themes and those gods in the name of presumed progress – progress in terms of health and hygiene, organisation and performance, democracy – in contemporary urban life. In actual fact, we replaced them with new gods. We held them to be more efficient, more secular. In the hubris of our technicalcum-scientific knowledge and power (and unaware of our moral-cum-philosophical weaknesses and ignorance), we thought we could take the place of our gods, raising idols of efficiency in their place. […] With the loss of those gods, we lost the divine protection that presided over the meaning of (and hence the loving care for) sites and itineraries. The bureaucratic safeguarding of sites as cultural assets cannot get to the bottom of this fundamental lack, since legislative protection measures and technical regulations are ineffectual when the places that require protection are no longer protected by the gods, which are after all the symbol of our human need to give value to places (to the forms and times of their space) as repositories of values that we have projected onto them and that we expect to hear echoed there. We can state without any hint of mysticism that human beings elaborate constellations of Themes that still tell us about our way of existing in the world through the divine, personified by gods. […] We therefore attach the value of a kind of expressive code concerning our problematic ways of existing in the world to an original and traditional mythologising, formalising system which is translated – often into divine forms – in expressions typical of states of mind, in a rich tapestry of feelings, in specific themes. We attempt to deal with all of this – in very different ways depending on the circumstances – when we raise the problem of our relationship with the ancient, even now. […] Perhaps we do need to put aside our specialised technical “knowledge” every now and then, the “conventions” attached to our social roles. This is the first solution proposed by Gaston Bachelard for the unrestricted application of his “Phenomenology of the Imaginary”. […] The reconsideration of the overall, profound theme of “poetically inhabiting” the anthropic landscape and its temporality should also help us rediscover the true foundations of this discipline in the intricate dialectics of polarity that imbue the environment (between the natural and the artificial, between the artistic and empirical, necessity and freedom, etc.), rather than only seeing part of that dramatic dialectic, perhaps with the aim of using its concepts as universal “formulae” in order to impose partial, “reduced” notions of the specific artistic quality of architecture. If “rediscovering our lost gods” and “rediscovering the archetypes” really aims to be more than just a slogan for gaining ephemeral market shares (and ending up re-embracing the hyper-innovative mechanism of the avantgarde we had rejected), it needs to find more serious grounds for an architectural line of reasoning as soon as possible, a line of reasoning that doesn’t settle for absolute freedom and therefore interchangeability which is after all indifference and ineffectuality, ideologised by the theorists of a “society of idols” where, “after the crisis of perfect rationality”, everything and its opposite is equally possible (or impossible). […] It is time to reconstruct on those foundations, or rather on broader foundations, and this concerns our discussion on the re-use of the past. Because we now have to choose a possible line of enquiry out of the many shifting positions found in the same constellation, a line of enquiry that will be less indeterminate and that can help us make more informed choices and assessments. These could be possible hypotheses regarding the role of history, which is as if to say a hypothesis of ours on the meaning we attribute to the past of our inhabiting this place, here and now. […] It is difficult to admit that, faced with the deterioration of the environment in the world of modernisation, we need to 29 fRAGMEnTS 30 resort to the meaning that our lost gods harboured in particular places. And yet the symptomatic or symbolic representation of our problematic way of existing in the world, of our overall unease with existence, of our incapacity to reside happily in a physical location, is clearly the root of the negative relationship we have with our way of inhabiting places, far more than any material difficulties or social failures. […]In contrast, it is this very radical awareness of the continuity of the relationship between our body and soul, between the part and the whole, between the natural and artificial that inexorably imposes the need to reconstruct an understanding of the territory that will take its cue, first and foremost, from the foundations of conservation exchanged between the body and the places of the body, but that can then achieve the meaningfulness that the mind imposes on places of the soul, hence attempting to impress a general, otherworldly meaning to the environment, through the creation of forms of what has always been sought for and has always been lost: the poetic inhabiting of a place. […] Scientific thought and technical action – thought without feeling and action with limited empirical ends – boasted that they were liberating us from false gods, while they put themselves in their place as new gods in the name of new, worldly religions. The relationship between human beings and the environment has never been so distant, so lacking in cultural tension. People go on about ecological battles and then disregard the fundamental fact that our culture seems to have fallen short of its true task: that of inspiring such tension, which, when it comes down to it, is the protection of the environment, of the balance between Man and nature, the foundation of every civilisation… When it comes to this, there seems to be an enormous cultural void that is mirrored in the wasting of leisure time, in the glazed look in people’s eyes as they wander the streets at the weekend… or even in the superficiality and indifference of tourists who fly to the ends of the earth, visiting locations praised by hackneyed tourist guides. Again, the cultural void lies at the heart of the enormous criminal waste of images seen in the past few years… no doubt, the main reason for it is to be found in the disjuncture that exists between society and culture and the disjuncture that exists within culture itself, between science and its aims. […] We therefore need to find precisely what was removed, omitted or condemned, that which fills the growing distance that has been arbitrarily placed between our scientific understanding of things and the way we externally experience the landscape’s forms, space and time. forms, space, time; the forms and times of space: this in itself tells us in what direction we should be moving towards. […] We badly preserve ancient fragments, shreds of nature, pieces of tradition and exempla of art in archaeological or national parks, ancient dead cities and isolated museums, mere display cases we know to be alienated. […] “There is no such thing as a past that must be summoned up by our will; there is only a perpetual present that takes shape using potential elements of the past”. This insight by the writer Goethe contains almost the entire fundamental crux of the issue we intend to discuss, from the point of view of commonly shared meaning to that of the discipline of architecture. Except for the fact that everything that appears easily ascertained by his Humanism and confidently recovered in the mixture of proven spiritualism and idealism isn’t at all. Even Goethe himself didn’t think so, as he was one of the first and best to procure that memory of the past during his Italian Journey. It is even less so for us, if it is true that what may have seemed like worrying symptoms of a looming dispossession to Goethian problematicism have now become the facts of a tangible alienation. Therefore our own laborious and forced attempts to search for that “presence of the past” that has escaped us in some “ancient element like a site of memory” is a tangible sign that something is amiss between us and the temporality of our inhabiting a place. […] “The presence of the past’” is a topic that is part of the more general problem of the Meaning that human beings attribute to the environment they live in; that “perpetual present” described by Goethe is in actual fact a coming into being with no way out; if you like, a game played on the edge of an abyss. So if we want to understand the theme of the past as memory and the more general issue of the sense of the quality of inhabited places, we need to compare them with something beyond that, which in such themes and qualities is represented by, expressed and posed in terms of values. […] Several different interests – characterised by a complex system of echoes and cross-references, returns and revisitations – continually wind round the figures of space and the forms of temporal space. They concern architecture and architecture’s audience; today they appear in branches of science that are vaguely distinct one from the other; they nevertheless refer back to a kind of commonly shared meaning, a system of shared expectations as regards the relationship between people and their environment. We need to put this mass of elements in order, and this means three things, above all. The first specifically concerns the behaviour that Architecture as a discipline can adopt, both as regards the various different branches and instruments that have evolved (analysis and design, various levels and phases of work, different technical specialisations, etc.) and as regards the priority issue of the linguistic approach that can be adopted when faced with the dilemma that has arisen today between an “interrupted tradition” and a “revived tradition”. […] The second particularly concerns the problem of Protection, which in the age of modernisation has been posed in terms of the identification of objects or “cultural assets” (as opposed to “cultural processes”, understood to be interrupted), hence their separation from the ordinary habitat using fencing off and protection measures; and it must overcome the failures that such a rough methodology has generated, probably in the direction of attempts that can recover vital relationships between ancient and modern, natural and artificial by planning new syntheses. The third concerns the more general problem of the ways in which the old or the past and rural or natural countryside are used in terms of the behaviour that in culture and entertainment, in tourism, holiday and leisure time has been typical in mass society up until now. Irrespective of the radical criticism of the ideology of such behaviour – and aware of the irreversible shift seen in the problem’s tangible terms – we need to reveal poor forms of conservation/usage of nature/the past, even in technical terms, i.e. regressive forms that some people have already defined as related to an ideological “utopia of the past”. Monuments: architectural time and city time. […] Landscapes appear and disappear and live in changing cycles. frascati’s villa landscape appeared far earlier than the industrial landscape of Tivoli, based on motivations that, while backdated, are somehow more independent and lasting. Today it’s there, a little worse for wear, raising the problematic issue of its possible re-use. This must involve an architectural plan. It must find up-to-date, specific solutions. A price must be paid. Many examples have sat there for decades, proof that conservation is negative utopia without architectural solutions. for over 30 years now, the noble Via Appia Roman road stretching from Rome to the Castelli Romani hilltop towns is meant to sustain the creation of an “archaeological park”. Isolated from, and unconnected to, other instances and examples of urban expansion, the park cannot solve the continuing dilemma between lateRomantic positions and Classicist and/ or positive positions. It is a dilemma that will only be resolved – incurring the risk of making mistakes – by applying an architectural plan. […] It is therefore a race against time, as well as a search for eternity. However, we cannot always pursue that goal with impunity, as if time made no difference. On the contrary, we need to be aware of the difference it makes and take it on board if we want to be able to manage it in an architecturally planned approach. “Preservation Plans” are like “Architectural Plans”, in that there is always a conflict. the values of post-industrial memory and society. Ironically, conservation has always operated with an adversarial approach, dividing areas up into artificial zones so as to save them from the rules of development: the universal application of a rational urban model; an interruption of the cycle of human ecology by proposing a city that is “second nature” and replaces the irreplaceable vitality of nature; a break with the remembrance of the past and the awareness of “the time of space” as anthropological urban aids, encouraging behaviour characterised by pure waste and consumption that leaves no trace; the removal of the variables, random elements, conflicts and unpredictability that have always been typical of cities in favour of a hypostasis of the global-a priori-sequential plannability of modern cities. Is it fair to assume that post-industrial society will correct such tendencies? […] That is to say, is it possible to bring “the values of memory” back to their usual role in the daily life of today’s cities, saving them from the one-off idealistic “elsewhere” where museums, old town centres, national or archaeological parks, urban layout and monument etc. are made sacred and singled out in one sole category (“cultural assets”)? The symptoms are still contradictory and vague here. The post-industrial does seem to lead to the most extreme and disappointing consequences, that process of the separation, parcelisation and international specialisation of territorial and cultural uses. A. Terranova, Tra natura e cultura nella storicità dell’abitare, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris, A. Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro editrice, Roma 1984. A. Terranova, I Monumenti. Tempo dell’architettura e tempo della città, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris, A. Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro editrice, Roma 1984. A. Terranova, Valori della memoria e società postindustriale, in Id., Le città & i progetti. Dai centri storici ai paesaggi metropolitani, Atti del x Convegno-congresso nazionale ancsa, 1989, edited by A. Criconia, Gangemi, Roma 1993, pp. 107, 108. 31 fRAGMEnTS 32 in the meantime, the attribution of new meaning to the traces left. This is the chance to protect our heritage by enriching it – that’s right – with changes and additions, new investment. The heritage of the symbolic economy, just like that of the economy itself. If such investment can now be made – at a time of palimpsests and traces (as well as traces of Elsewhere: for example, the feeling of death?) – with well-applied grafting in existing places-non-places, interpreting their characteristics and overtures (themes that can be thematically treated, unsolved problems, the susceptibility of constructive change etc.), this simply means, again, that architectural plans are being given priority, plans understood as a topical (as well as typical) event-action-choice that is historically loaded in the here-and-now of “appropriate time”. I walked along a stretch of the Roman walls between Viale Trastevere and Porta Portese one afternoon, coming across the same desolation I saw during my first visits, due to the needlessly deteriorated state of the site, the obvious plethora of ready-made opportunities for immediately improving the current situation, the sense of impotence that this city’s guilty inertia inspires. Everyone would have something to gain from a new system that could connect the Roman walls to archaeological elements such as the port warehouses, Moretti’s former gil building with its badly-allotted gardens, to the walk along the walls reduced to an unauthorised roman car park. What we are talking about here is a question of architectural planning. An impossible plan, or the interrupted plan featured in a column in Controspazio? It’s a worrying question for those who are working on an integrated linear park of the walls as part of Rome’s strategic Plan for the Aurelian Walls in its prg urban development plan. […] It seems obvious that among the Vague Landscapes of contemporary Italian architecture, those that prevail are the ones modelled on an insistent and insisted, at times obsessive and at times piecemeal “conservation and transformation of architectural heritage and consolidated urban landscapes” (with a far too extreme predominance of the most idiotic conservation practices). […] It is an inflationary or inflated pseudo-interest in cultural heritage that was noted by Choay a few years ago, which by definition doesn’t choose but takes everything, multiplying the options instead with a frenzy for consumption and thirst that is never satisfied by travel agencies and therefore has difficulty working according to the teachings of Raboni, and can instead engender bitterness:“…in this way, when faced with reality, unfiltered by memory, it is almost inevitable that disappointment will ensue” (“almost”, as this poet prudently points out, avoiding apocalyptic-nihilistic radicalism). Is it still therefore possible, despite everything, to apply memory as a “filter” using a poetic visitation of all that is so barbaric and rudimentally compulsive? […] “dinner with ruins and curry party” was the title of an article in the “Corriere della Sera” newspaper published on 17/7/00 about roman fashion in high society: “dinner with a view of Roman ruins… this evening arranged for eccentric British designer Vivienne Westwood on the terrace of Trajan’s Markets”. This is one of the typical ways Italians exploit the past, the way we jeered at with the beginning of the Sounds and Light’s show at the Roman forum, before the revolution. A very different way from the early kind employed during the fascism, which resuscitated imperial ghosts in stage-set archaeology with the less-than-subtle aim of copying them. Well-loved ghosts? Public memory and private memory necessarily seem to belong to different categories today, even if they don’t necessarily oppose each other. Can we, on the one hand, cultivate the traces of archaeological and architectural layers of the metropolitan city’s historic territory so as to imbue them with goals of local identity (microcities, regained place names, new city centres, the extended historic city etc.) and on the other hand allow the post-identitygenerating use of remaining heritage, entrusting its reinterpretatation and the reattribution of meaning to the many stimuli that regularly emerge from postsubjective quarters? Can we be as innocent as foxes, as clever as doves (?), put everything in quotes to the “nth” degree, setting up a myriad levels/codes of interpretation of the object that has been conserved/converted, maintaining elements of authenticity and charm at a time of disillusionment and authenticated “inauthenticness”? A. Terranova, Nell’attesa, risignificazione delle tracce, in Id., Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi, Roma, 2009, pp. 45, 46, 47 e 50; first edition: Discussione per un’attesa produttiva, in L’attesa, “Topos e progetto”. this is not a villa Adriana. Hadrian’s Villa is, indeed, a representation of Hadrian’s Villa, just as the Old Town Centre is a representation of the Old Town Centre, and – just as the pipe Magritte painted on his canvas is not a pipe – in versions that are often complicated by the presence of different types of frame. […] Is there a text in this class? I.e., why have we come to Hadrian’s Villa? That is to say: how is the question Keats raises in his Ode to a Grecian Urn put today? How are the themes of Truth and Beauty – and how they coincide – put today? Are we therefore here, like Palladio, to learn about the archetypes, the principles and rules of Classical harmony? Or are we here to question, architecturally, the meaning that living in/with ruins has for us? Perhaps both? So as to ask ourselves: what is the eternal city, what are the layers of reality, what is our relationship with “the dragon of reality”? […] Moreover, Villa Adriana is a Monster (like the Villa of Monsters of Palagonia, like Bomarzo’s sacred grove populated by leaning houses and faces peering out from the rocks), a fake searching for amusing and upturned truth and beauty, belonging to a strange character, emperor Hadrian, as evoked by Yourcenar. It brings together architectural and artistic travel souvenirs, it freezes them in permanent forms and collects them in bizarre heterogeneous conglomerations. And yet (and this is another lesson), bizarrely, it is in precisely this way that it produces new spatial invention. And late Classicism like the anti-Renaissance – forgotten and scorned for so long – will produce future fruits. Or are we also here to try to understand how to stage conserva- tion? Our society’s enigmatic obsession, not at all shared by Giuseppe Tomasi di Lampedusa’s Leopard (… these monuments from the past, too, magnificent yet incomprehensible because they were not built by us and that stand around us like beautiful silent ghosts…) and yet pervasive, highly complex and maniacal today, when Orlando, the pupil of The Leopard’s author, can catalogue and categorise its many manifestations in Obsolete Objects in the Literary Imagination: Ruins, Relics, Rarities, Rubbish, Uninhabited Places and Hidden Treasures. […] Archaeology as a theme: this is perhaps a similar, though not identical, problem to the one obsessively raised (and also little exercised) of “building in/on buildings” and building on more layered and more obviously artistic buildings. […] This does indeed involve systemising how archaeology is staged as a factor of cultural access and perhaps as a basic component of the way current urban reality is rooted in the city’s deepest layer. Cracks then, rather than clear-cut breaks. discontinuity in aid of Continuity? backwards “but also” forwards. Beyond nietzsche, beyond foucault’s Archaeology of Knowledge and its departures, conflicts and paradigm bending, we can – indeed, we must – pay heed to Steiner when he reminds us that while we look to the past, it is above all the past that looks to us. In preservation, as well as in innovation. How long something lasts is important, even it if it needs to be reworked. In any case, the city in the history of its image – the most important thing worth preserving during its processes of change that, over time, are completed as a collective effort – must change if we want it to last, it must take on new forms in a dialectic approach with those in between its layers. Hence duration can truly take on the Value of an informed Society and not (only) that felt during the crisis of the Leopard. 33 A. Terranova, Questa non è una villa Adriana, in Id., Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi, Roma, 2009 pp. 54, 55, 56, 57; first edition: Progetti per Villa Adriana, Premio Piranesi, Liberia Clup, 2005, pp. 61-70. A. Terranova, Appunti per nuove priorità: progetto di trasformazione e armature del periurbano metropolitano, in Toppetti f. (ed. by), Paesaggi e città storica. Teorie e politiche del progetto, Alinea, firenze 2011, p. 78. TuTela e reinvenzione PRESERVATION AND REINVENTION a cura di edited by alessandra Capuano ARCHeoloGiA e Nuovi iMMAGiNARi Alessandra Capuano una giornata di nuvole, a Minden, / su un taxi che mi porta / in cerca di queste due parole. / Chiedo in giro e nessuno sa / cosa indichino – esattamente, dico – / che luogo sia, dove, se una fortezza / o una chiusa. Eppure il nome brilla / sulla carta geografica, un barbaglio, / nel fitto groviglio consonantico, che lancia / brevi vocali luminose, come l’arma / di un uomo in agguato nel bosco. / Si tradisce, e io vengo a cercarlo. / Il panorama op-art si squaderna tra alberi / e acque, mentre i cartelli indicano ora / una torre di Bismark, ora il mausoleo di Guglielmo, / la statua con la gamba sinistra istoriata / dalla scritta: “Manuel war da”, / incisa forse con le chiavi di casa, tenue / filo dorato sul verde del bronzo, / linea sinuosa della firma, fiume / tra fiumi. Lascio la macchina, inizio a camminare. / foglie morte, una luce mobile, l’aria gelata, / la fitta di una storta alla caviglia, / io, trottola che prilla, io, / vite che si svita. nient’altro. / Eppure qui sta il segno, qui / si strozza la terra, / qui sta il by-pass, il muro / di una Berlino idrica in mezzo / a falde freatiche, bacini artificiali, / e la pace e la guerra e la lingua latina. / niente. E mentre giro nella foresta penso / all’autista che attende perplesso, / all’autista che attende perplesso / e ne approfitta per lavare i vetri / mentre nel suo brusìo / sotto il cruscotto scorre sussurrando / il fiume del tassametro, l’elica del denaro, / diga, condotto, sbocco, chiusa dischiusa, aorta, / emorragia del tempo e valvola mitralica, / Porta Westafalica della vita mia. Valerio Magrelli, Porta Westfalica, 1992 Il senso di spaesamento e di profonda necessità, che prova Magrelli nelle sue euristiche deambulazioni mirate a reperire e a identificare un monumento, un “segno” sperduto nella Renania, traccia del tempo e, al tempo stesso, organo vitale della storia – della nostra storia – ci colpisce e ci appartiene, perché dipinge quello stato di frammentazione e di panorama op-art – come dice l’autore – dei territori contemporanei che oggi tutti noi viviamo. la città contemporanea e gli spazi pubblici. Il declino dello spazio pubblico e il deterioramento delle connessioni fisiche che interessano la città contemporanea, tutta pp. 34-35 R. Panella, Schizzo di studio per la sistemazione dell’area tra piazza Venezia e Colosseo a Roma, 1985. 1 d. Pikionis, Disegno per l’Hotel Xenia a Delfi, 1951 (particolare). 37 TUTELA E REINVENZIONE 38 fondata sulla sola dimensione economica, devono farci riflettere sui valori che riteniamo possano dare corpo a un ripensamento sul modo di “fare città” che sappia mettere al centro la qualità dello spazio. L’incontrollata crescita della metropoli globale, i conflitti che la attraversano, il suo essere dominata esclusivamente dalle logiche di mercato, il suo affidarsi sempre più spesso agli “eventi” come motore di una qualsivoglia modificazione, la mutazione degli stili di vita indotta soprattutto dalla rivoluzione telematica, l’inefficacia della pianificazione moderna, sono alcune delle dinamiche che hanno determinato la situazione attuale. È evidente la sostanziale incapacità da parte delle istituzioni di controllare, se non con parametri quantitativi e normativi, gli esiti delle trasformazioni urbane, tutti incentrate sul soddisfacimento di requisiti funzionali o legislativi, ma ben raramente attente a costruire spazi di relazione significativi. Le nostre città, quelle più estese e complesse del piccolo e tranquillo insediamento a nord del Reno cui si riferisce Magrelli, si assomigliano sempre di più, in particolare nelle aree periferiche e periurbane, presentandosi come un patchwork di edifici isolati e chiusi nei propri lotti se non addirittura recintati, intervallati da spazi verdi residuali e spesso abbandonati, frammenti di agricoltura, vaste aree asfaltate per parcheggi. Gli edifici possono contenere residenze e uffici, funzioni commerciali o produttive, con una certa indifferenza alla tipologia e anche all’immagine che essi offrono. La sola vera distinzione che si può fare tra i diversi continenti del nostro pianeta riguarda la scala e forse anche la densità degli edifici: più alti e fitti nelle metropoli asiatiche e distribuiti per distinte zone funzionali, maggiormente mescolati tra loro nelle città europee, anche se da una parte e dall’altra del mondo emerge l’organizzazione spaziale della città americana, lo sprawl urbano e la sua indifferenza agli spazi di relazione. Anche i centri città soffrono di forme di omologazione, se non proprio nelle sembianze dei luoghi, poiché ogni città conserva tracce delle proprie stratificazioni che le rendono diverse l’una dall’altra, senz’altro nei modi d’uso, universalmente orientati alle pedonalizzazioni che si accompagnano alla messa in scena di strip commerciali con artigianato di serie e souvenir annessi, branding stores e ristorazione. Le capitali mondiali e le città d’arte sono inoltre attrezzate per ricevere i flussi turistici, sia di massa che appartenenti a un modo più ricercato di compiere il Grand Tour contemporaneo. Lo spazio che il nostro sistema socio-economico produce può essere anche considerato cinicamente, come alcuni autorevoli architetti e urbanisti sostengono, l’unico inevitabile e realistico esito. d’altro canto, l’affermarsi di un nuovo interesse nei confronti degli spazi aperti delle città e di alcune più virtuose modificazioni urbane intraprese soprattutto in nord Europa (ma non solo) fa pensare che la domanda di luoghi di qualità non si sia esaurita con l’avvento dello sprawl e della città telematica. Anzi, la sociologia ha già segnalato i problemi che l’eccesso d’isolamento nella rete provoca sui singoli e l’importanza che hanno le relazioni personali e il contatto tra gli individui che costituiscono la maggiore attrattiva della vita urbana, insieme alla concentrazione di infrastrutture, istituzioni e servizi. Già oggi vive nelle città più del 50% della popolazione mondiale. Riflettere quindi sullo spazio pubblico e sulle forme che esso può assumere non è un esercizio obsoleto ma un tema significativo non solo per lo specifico campo degli studi urbani. In tutte le epo- che, la forma della città è sempre stata importante espressione di raffigurazione della cultura del luogo. I connotati morfologici dell’agglomerato urbano non rivelano solo principi funzionali, ma comunicano anche visioni del mondo, aspetti simbolici e rappresentativi di una società. La vita non si esaurisce nel solo adempimento di funzioni pratiche legate alle nostre quotidiane attività, ma ha bisogno di ambiti in cui si possano sentire rappresentati il volto spirituale e il senso dell’esistenza. In aggiunta, oggi, proprio perché le città diventano soggetti di un mercato in concorrenza, le capacità attrattive di un territorio concorrono a collocarle nella competizione globale. In questo senso il sistema degli spazi aperti e il rapporto con la memoria sono due questioni importanti per affrontare il discorso sulla qualità dello spazio urbano e del territorio. Questi sono stati i temi oggetto della nostra ricerca con particolare riferimento ai paesaggi dell’archeologia in aree e regioni metropolitane. Si tratta di luoghi, dove la natura e il patrimonio rappresentano importanti risorse da valorizzare al fine di perseguire quella ricerca di qualità dello spazio urbano necessaria al “fare-città”. spazi aperti e naturali. da quando Barcellona ha avviato il noto programma d’interventi che ha avuto lo scopo di recuperare il tessuto urbano della città, il tema della qualità degli spazi aperti è stato messo al centro delle politiche di rinnovo di molte altri contesti, dando spesso risultati positivi. L’esemplare caso della città catalana si è realizzato sperimentando nuove strategie d’intervento urbano e di rinnovo dei linguaggi espressivi, rivitalizzando strade e piazze, valorizzando il patrimonio, trasformando aree periferiche per un uso pubblico, recuperando aree industriali dismesse e cave abbandonate da restituire alla città dotandola anche di nuove opere, oltre che di moderni spazi. Il fine era di creare relazioni tra gli insediamenti urbani, connettere tra loro parti distinte, creare continuità, dando origine a nuove centralità. uno degli aspetti maggiormente innovativi di questa esperienza è stato il modo di trattare il rapporto con le aree naturali, generando una serie di spazi che non possono essere annoverati nelle tassonomie classiche di piazze e di giardini e superando quella distinzione ottocentesca tra parco come spazio salubre e città come luogo dello sviluppo1. Si trattava di aree marginali tra campagna e periferia, spazi residuali in prossimità di nodi infrastrutturali o di condizioni naturali da rigenerare o valorizzare, spesso di aree ad ampia scala che hanno indotto a lavorare per sequenze di spazi, di temi e di elementi. Il tentativo riuscito è stato quello di cercare di risolvere la mancanza d’integrazione funzionale tra le parti che la città moderna, con l’astrattezza dei principi compositivi ancora più eclatante sul tema del verde, ha prodotto. La pianificazione della modernità ha infatti mappato le aree anziché disegnare progetti fatti di edifici, spazi aperti e strade. Si è così persa la concatenazione diretta tra piano e tessuto urbano. Se il piano diventa solo zoning e non idea di città, viene a mancare la rappresentazione urbana, la figura simbolica capace di dare riconoscibilità e senso alla metropoli contemporanea. Con la necessità di riguadagnare un’integrazione tra vuoti e pieni nella città e con la spinta ambientalista che ha affermato l’esigenza di una estesa e garantita conservazione degli spazi naturali allargando il sistema dei territori tutelati, 39 1 Cfr. G. Celestini, L‘architettura dei parchi di Barcellona. Nuovi paesaggi metropolitani, Gangemi, Roma 2002. TUTELA E REINVENZIONE sono emersi nuovi valori simbolici della figuratività urbana che diventano ineludibili strumenti di costruzione di senso della città e di affermazione di nuovi stili di vita. 40 Progetto archeologico e progetto urbano. Il territorio italiano custodisce numerosissime tracce della propria topografia antica e gli studi della struttura e della storia delle città sono un primario esito della cultura architettonica italiana. Eppure, l’isolamento delle aree archeologiche, protette in recinti o da ringhiere, oppure chiuse nei parchi archeologici, causa una separazione fisica e una sconnessione concettuale nella continuità della storia e della città. La successione delle epoche dovrebbe, invece, essere tenuta insieme, fino ad includere l’epoca in cui viviamo. Sono ormai alcuni decenni che la cultura architettonica e urbanistica ha denunciato l’inadeguatezza dello zoning come strumento per la pianificazione delle città, riconoscendo che la suddivisione del suolo in aree omogenee e monofunzionali è espressione di una concezione sommatoria e analitica incapace di raffigurare le molteplici relazioni necessarie a “fare città”. Le aree archeologiche, in quanto zone monofunzionali urbane, finiscono dunque per essere definitivamente separate dal contesto e dal tessuto a cui appartenevano e di cui dovrebbero far parte ancora oggi. La stratificazione delle epoche e delle funzioni rappresenta, invece, una necessaria complessità delle città, soprattutto nel contemporaneo. A questa istanza non risponde la cultura del vincolo, concentrata a ribadire la necessità dell’isolamento. L’idea che debba esistere una separazione fisica tra i frammenti del passato e gli edifici più recenti rispecchia una concezione dell’archeologia come “scienza degli oggetti”, come catalogo, ovvero primato dell’istanza analitica su quella interpretativa e creativa e prevalenza degli elementi discreti sulla continuità spazio-temporale. È possibile invece studiare e progettare lo spazio urbano in continuità – concettuale e figurativa – con lo spazio archeologico, promuovere l’integrazione delle antichità con le esigenze della città contemporanea, innovando sistemi e spazi urbani, sottraendo l’archeologia a un esclusivo uso turistico o specialistico, per incoraggiarne il potenziale godimento quotidiano, adatto a promuovere una tutela attiva dei paesaggi. Progetto archeologico e progetto urbano potrebbero trarre sostegno l’uno dall’altro, interagendo nel cuore dei processi trasformativi. spazi urbani e memoria. La pubblicazione nello stesso anno – il 1903 – delle riflessioni di Simmel sulla metropoli contemporanea e di Riegl sul culto moderno dei monumenti mette in luce l’indissolubile contrasto e l’inseparabile connessione per la modernità – sancite in seguito anche dalla Carta d’Atene del 1931 e dalla Convenzione dell’unesco del 1972 – tra città storica e città in attuazione. La storicizzazione della città e il suo valore come memoria e simbolo si affermano, infatti, quando lo spazio urbano subisce traumatici sconvolgimenti a causa della rivoluzione industriale. L’attenzione rivolta ai centri storici produce poi, nel novecento, una pletora di teorie, di pratiche e politiche mirate alla conservazione di quello che viene denominato patrimonio, ovvero l’eredità che va trasmessa di generazione in generazione e che françoise Choay chiama l’e- spansione ecumenica delle pratiche patrimoniali2, volendo indicare il tema socio-politico che emerge nella preoccupazione degli stati-nazione che diffusamente si pongono come garanti della specificità e del senso di appartenenza e che conduce a un proliferare di queste politiche della conservazione. L’eredità dell’antico e la memoria del passato investono, infatti, la sfera della rappresentazione urbana e della monumentalità, della narrazione e dell’identità, in una parola il significato della città, svolgendo una funzione sociale e culturale di massima importanza per la comunità. da quando Romanticismo e neoclassicismo hanno ripreso dall’esperienza rinascimentale il culto per le rovine dell’antichità si è rafforzato il valore di fruizione estetica o simbolica nei confronti di architetture e oggetti che hanno smesso di essere percepiti solo nella loro dimensione funzionale. Il valore semantico degli spazi urbani è stato evidenziato da Roland Barthes3 che ha messo in luce come una città non è un tessuto di elementi tutti uguali ma esistono elementi paradigmatici maggiormente marcati simbolicamente. Questo significa che lo spazio, al pari del linguaggio, è un’importante modalità di espressione individuale e collettiva e in quanto tale è oggetto anche di conflitti, come sostiene Tramontana in uno studio sul ruolo del patrimonio nella nostra cultura4: Attraverso l’esperienza intersoggettiva dello spazio, il soggetto si muove in zone, territori (sia reali che metaforici) assiologizzati e investiti di senso dalla propria comunità di riferimento. Alcuni di questi richiedono un comportamento di deferenza, altri sono investiti di valore estetico e richiedono azioni concrete di conservazione. Le varie forme di adesione, congiungimento e devozione mostrano una forte presenza della componente passionale e timica nel rapporto tra un corpo dotato di un habitus e il proprio habitat: tuttavia tale rapporto è tutt’altro che deterministico o facilmente decifrabile a partire da chiavi di lettura universalmente valide. Al contrario il nesso esistente tra un soggetto, quello che percepisce come suo spazio e quello che percepisce come sue tradizioni è molto complesso ed è terreno di una continua ricerca, esplorazione e posizionamento strategico, soggetto quindi a continui cambiamenti. […] A questi segni, simboli o emblemi va riconosciuta una carica semantica, una performatività non comune a tutti gli altri. Tale carica semantica del patrimonio in molti casi lo avvicina a quella altrettanto potente di alcuni elementi considerati sacri5. Malgrado sia talvolta campo di opposizioni, la rilevanza della memoria per la coesione sociale e per la definizione dei valori collettivi ha dunque un’importante funzione di ordine cognitivo, simbolico, normativo e affettivo. La reinterpretazione delle narrazioni orienta i destini di un popolo, fa riflettere sugli errori commessi, informa sui valori e le esperienze perseguite. Il modo in cui essa si esprime non può quindi essere stabilito da decisioni unilaterali, da un unico e rigido codice di regole che tende a evitare commistioni espressive, ma deve potere assumere le svariate e possibili conformazioni e configurazioni che rappresentano anche la molteplicità dei punti di vista di una società. Perché i paesaggi dell’archeologia? In questo quadro, il tema dell’archeologia rappresenta un argomento particolare della più generale questione del patrimonio. Il carattere aperto della rovina, l’aver perduto definitivamente il suo valore d’uso, il suo aspetto attivo 2 f. Choay, L’allegoria del patrimonio, Officina Edizioni, Roma 1995. 3 R. Barthes, Semiologia e urbanistica, “Op. cit”, 10, sett. 1967. 4 A. Tramontana, Il Patrimonio del’Umanità dell’UNESCO. Un’analisi di semiotica della cultura, tesi di dottorato, università di Bologna, 2007 (disponibile in www. amsdottorato.unibo.it/222/1/Tesi_Tramontana.pdf). 5 A. Tramontana, Il Patrimonio del’Umanità dell’UNESCO, cit. 6 G. Simmel, La Rovina, in Saggi sul paesaggio, Armando, Roma 2006. 41 già evidenziato nel noto saggio di Simmel6, rendono necessario, oltre che possibile, riflettere sui modi che l’archeologia può assumere nella società contemporanea. Molte testimonianze antiche sono imponenti strutture che evocano spazi e vite del passato, suscitano approfondimenti scientifici ma soprattutto emozioni. Ancora più numerose sono però le aree archeologiche poco significative sul piano estetico-emotivo e solo rivelative sul piano documentale. I modi della tutela devono pertanto potersi articolare secondo le diverse necessità e rappresentatività dei luoghi. Come ha ben sottolineato Andreina Ricci: TUTELA E REINVENZIONE al di là del frequente e meccanico ricorso (soprattutto in occasioni ufficiali e accademiche) a concetti di identità e memoria, i frammenti della città antica manifestano una palese alterità, risultando nella maggior parte dei casi, indecifrabili o persino invisibili7. 42 7 A. Ricci, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, donzelli, Roma 2006, p. 10. 8 Ibid. 9 Ivi, p. 12. 10 Ivi, p. 65. 11 S. Settis, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2004. Le considerazioni della Ricci muovono, com’è noto, da una riflessione che cerca di capire se e come “i risultati della ricerca archeologica possano contribuire a migliorare il rapporto identitario città-cittadini sintonizzandosi con le trame in accelerato movimento della città contemporanea”8. Occorre fare i conti, dice l’archeologa, con l’uso pubblico della storia per orientare l’immaginario collettivo. Serve riflettere sulle finalità pedagogiche e sui risultati con cui vengono messe in scena le nostre preesistenze. Il fine è quello di ricercare una nuova qualità urbana, soprattutto in quei luoghi che sono ai confini della metropoli e non al centro di Roma. Il tentativo è quello di rivolgere “una maggiore e diversa attenzione all’archeologia diffusa, oggi preda di occasionali slogan e di divieti sempre più inefficacemente coercitivi”9. L’obiettivo è quello di rendere familiari agli abitanti dei diversi contesti urbani i resti immobili per promuovere una più ampia condivisione del valore storico partendo dai luoghi prima che dai musei e dagli specialismi. Gli oggetti del passato devono poter parlare ed acquistare un senso e una qualità che li faccia emergere dalla sovrabbondante quantità. L’Italia è disseminata di una grande quantità di reperti e rovine, spesso abbandonati e trascurati, non solo perché la loro cura è fuori da un programma sostenibile, ma anche perché gran parte delle iniziative intraprese nel settore dell’archeologia si concentra principalmente su aspetti conoscitivi e di catalogazione, secondo un principio che tende a preferire la logica dell’accumulo10 a quella della selezione. L’archeologia rappresenta un importante luogo della memoria e l’altrove nel tempo è indispensabile parte della nostra identità. Se, come scrive Settis11, non dobbiamo guardare al classico come morta eredità, ma come qualcosa da riconquistare ogni giorno, le rovine possono rappresentare un punto di partenza per definire nuovi valori relazionali, fondati sul riconoscimento di appartenenze e rafforzati dalla condizione di potere fare parte simultaneamente dei processi culturali ed economici del passato e della contemporaneità. La sovrabbondanza di rovine archeologiche che caratterizza il territorio italiano permette quindi di intraprendere politiche diversificate di valorizzazione dei beni. Questi paesaggi sono spazi in cui il rapporto tra archeologia, tessuto urbano e aree agricole rappresenta terreno concettuale e materiale per possibili e articolate sinergie. Retrospettive e prospettive. È interessante costatare che per i due fondamenti cardine del nostro “patrimonio” contemporaneo, il paesaggio e i monumenti, il principio sostanziale che ne sancisce la conservazione è il riconoscimento “della funzione cooperativa che il soggetto della fruizione svolge nell’ambito del processo di valorizzazione”12. Tanto ne Il culto moderno dei monumenti di Riegl, quanto nell’acclamata Convenzione Europea del Paesaggio l’oggetto cui ci si riferisce non esiste di per sé, ma è un prodotto che dipende dall’attribuzione di valore che ad esso conferiamo. L’essenza dell’oggetto “risiede in questo divenire”13 che è anzitutto una temporalità socialmente riconosciuta. Il paesaggio è dunque “una determinata parte di territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”14 e “il senso e il significato dei monumenti non dipendono dalla loro destinazione originaria, ma siamo piuttosto noi, soggetti moderni, che li attribuiamo ad essi”15. Tale valore può pertanto mutare nel tempo, non essendo il “noi” un soggetto stabile, bensì “un rappresentante caduco dell’umanità sul pianeta Terra”16. Il ruolo della testimonianza e il valore narrativo del passato costituiscono secondo la visione dell’egittologo Assmann, ripresa da Giuseppe Pucci in un saggio sul tema del monumento e dell’identità, una fondamentale “retrospettiva” che rende possibile una “prospettiva” capace di strutturare il futuro. Bisogna dunque interrogarsi su come effettuare la ri-semantizzazione del passato, ossia l’attribuzione di un nuovo senso e significato alla città storica, perché essa ha un importante capacità di agire sull’immaginario collettivo e sui processi che si stabiliscono fra ambiente urbano e abitanti. La continuità con la storia caratterizza la città europea che si configura come “manufatto” costruito e stratificato. La città italiana rappresenta un particolare tassello di questa vicenda, perché l’uso strategico del passato, e in particolare l’uso dell’archeologia, ha sempre giocato un ruolo decisivo, tanto nelle città medioevali e rinascimentali, quanto nella costruzione dell’identità nazionale17. Il rapporto con l’antico ha generato particolari forme espressive dell’architettura e interessanti palinsesti urbani che hanno spesso contribuito a conservare il passato in forme non di rado originali e innovative. L’incontro tra passato e presente non può essere mera riproposizione della funzione antica del manufatto – anche perché si tratta sempre di luoghi che hanno perso gli originari modi d’uso – ma si può piuttosto offrire a noi solo come reinvenzione. Anche quando si tratti di una semplice conservazione del patrimonio, sappiamo che essa rappresenta invece una scelta di azioni operative e culturali. Il manufatto che viene “conservato” non solo ha smarrito il suo uso, ma ha sovente perso anche la sua forma. Il dibattito sul restauro ha oramai quasi due secoli da quando Ruskin e Viollet Le duc proponevano tale discussione e sono ben noti posizioni e punti di vista. Sebbene le forme di tutela posseggano ormai un quadro legislativo avanzato nella maggior parte del mondo occidentale occorre tuttavia riflettere sulla presenza del patrimonio nelle nostre aree urbane e suburbane e sui nuovi modi d’uso e di rappresentazione di una tale eredità. La qualità dello spazio urbano non deve essere ignorata e la sua trasformazione deve tenere conto di nuove sfide che non possono tralasciare la questione ambientale e naturale e il tema della risignificazione dell’esistente. La città contemporanea non può affrontare il rapporto con il passato come semplice mantenimento di situazioni già date, ma deve poter mettere in campo il rapporto tra passato e innovazione dei con- 12 S. Scarrocchia, La teoria dei valori confliggenti dei monumenti di Alois Riegl, in A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di S. Scarrocchia, Carte d’Artisti, Milano 2011, p. 81. 13 S. Scarrocchia, La teoria dei valori confliggenti dei monumenti di Alois Riegl, cit., p. 82. 14 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo 1, art. 1 lettera a. 15 A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, cit. p. 16. 16 S. Scarrocchia, La teoria dei valori confliggenti dei monumenti di Alois Riegl, cit., p. 81. 17 A. Baddeley, La memoria, Laterza, Roma-Bari 1984; P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, franco Angeli, Milano 1989. 43 TUTELA E REINVENZIONE testi per declinarli secondo le contemporanee aspettative dei soggetti sociali. La forza evocativa ed espressiva del passato, l’esigenza di consegnare al futuro un patrimonio etico-culturale di valori suscettibili di condivisione, il possibile recupero di una memoria comune sono quindi tutti principi validi per “promuovere l’attivarsi e il rinnovarsi nel tempo di un dialogo fecondo e costruttivo tra passato e futuro”18. dobbiamo però come studiosi trovare soluzioni che vadano oltre le retoriche enunciazioni che quasi quotidianamente leggiamo sulla stampa. Gli scempi che devastano il nostro patrimonio, le poche risorse che s’investono nei beni culturali, i beni culturali recentemente invocati come risorsa e salvezza della nostra economia. Sarebbe il momento di passare dalle dichiarazioni ai fatti cercando di capire come uscire dallo stallo attuale, cui tutti concorrono. La poca o nulla visione strategica, la poca capacità di inventare nuove forme di fruizione, godimento e gestione del patrimonio maggiormente aperto alla istanze della contemporaneità sono, a mio parere, un argomento da affrontare. Prima ancora però bisogna chiedersi se sia sensato allargare a dismisura i siti della memoria, il “nostro rapporto feticistico con le cose del passato, la confusione fra testimonianza storica e spettacolo”. Stefano Catucci ha da poco pubblicato un’interessante riflessione culturale sulla Luna e sulla trasformazione in un parco archeologico dei siti che conservano la presenza umana nello spazio, museificando le impronte e i rifiuti terrestri lasciati lì dagli astronauti dei precedenti allunaggi. Catucci ci esorta a “imparare dalla Luna”, come a suo tempo abbiamo imparato da Las Vegas, e a esaminare i paradossi della postmodernità con una mente più critica19. 44 18 Cfr. G. di Giacomo, “Introduzione”, in Volti della memoria a cura di G. di Giacomo, “filosofie”, 171, 2012. 19 S. Catucci, Imparare dalla luna, Quodlibet, Macerata 2013. interrogativi aperti. L’Italia vanta un complesso di leggi organiche tra le più avanzate al mondo per la tutela dei beni culturali e paesaggistici. L’intrico normativo e la segmentazione delle competenze finiscono tuttavia per creare paradossi ed effetti negativi sul paesaggio. Quali correttivi bisogna introdurre? La tutela si riferisce al bene materiale in sé. E il ruolo del bene? La sua parte nella città contemporanea? Il suo significato nello spazio pubblico? È sufficiente affidare il mantenimento dei beni culturali solo all’intervento di restauro, alla gestione dell’ente preposto, separando il bene dalla vita sociale, dalle occasioni di vita comune? non sarà necessario affrontare anche un ragionamento sulle potenzialità trasformative che possono introdurre le dinamiche sociali per la rigenerazione urbana e per il mantenimento vivo del patrimonio e dei luoghi? Quale immagine ha l’archeologia nella cultura contemporanea? Che rappresentazione culturale e simbolica diamo di essa? La tutela fotografa una società degli anni ’30: come possiamo renderla più aderente alla realtà di oggi, senza perdere la capacità di conservare? Che ruolo gioca l’uso del passato nell’informare il presente? Il delicato tema dell’identità emerge come rapporto tra chi guarda e il territorio. Ci poniamo il problema della nostra identità solo quando siamo a confronto con altro, quando vogliamo emergere da un contesto ed essere letti come un “testo”. Siamo sicuri che alcuni vincoli, quale ad esempio quello che impone una distanza di 50 m dal bene archeologico per l’edificazione di un nuovo intervento, siano sempre importanti? Con questa norma non sarebbe possibile in Italia realizzare interventi come quello del Museo Archeologico di Mérida di Rafael Moneo. non sarà che in Italia, e so- prattutto nella gestione dei beni culturali, prevale ancora quel pensiero di derivazione idealista che tiene l’arte fuori dalle categorie principali della vita? non sarebbe utile cercare di costruire un senso attorno alla conservazione del patrimonio, una narrazione che generi appartenenze? Luoghi che configurino rinnovati immaginari? La tutela inoltre si propone come conservazione indifferenziata dei beni. Le cartografie catalogano i beni sul territorio per simboli, dando lo stesso peso a un piccolo reperto o a un importante complesso monumentale. non sarà necessario introdurre un sistema di gerarchie e valutazioni ed esprimere giudizi sulla qualità reale dei luoghi? Il documento dell’unesco del 2011 definisce il concetto di Paesaggio storico urbano e mira a integrare il patrimonio storico e la sua vulnerabilità in un contesto più ampio, che è quello della crescita delle città, mettendo in stretta relazione gli aspetti della conservazione con quelli dello sviluppo e incoraggiando azioni trasversali tra i diversi attori che operano sul territorio. Quali sono i diversi modi che può assumere il progetto urbano in rapporto alle tracce del passato? Per operare queste risignificazioni, per indagare quale ruolo i resti archeologici possono assumere nella definizione della forma delle città è necessario ragionare su come restituire alle tracce del passato la possibilità di offrirsi come elementi simbolici nell’immaginario culturale urbano e come diventare spazio pubblico inserito nell’uso quotidiano. noi crediamo che solo il progetto possa farsi carico di stabilire, di volta in volta, l’immaginario di riferimento e le modalità di offrirsi del patrimonio alla società contemporanea. ne Il Bosco sacro, uno dei testi maggiormente citati dagli architetti, Eliot sostiene che la musica di una parola sorge dalla sua relazione con le parole che precedono e che immediatamente seguono e dalla sua relazione con il rimanente contesto. I frammenti della realtà sono, anche secondo Gadda, parte di un divenire il cui significato dipende dalle infinite relazioni, passate e future, reali o possibili che attuano. E poi, cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini (Spinoza direbbe modi): mi valgono in una aspettazione, in un’attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati20. Entrambi osservano che la poesia si costruisce come relazione tra le parole, come assonanze, corrispondenze o anche disarmonie. Anche per noi, che riflettiamo sulle città, è importante riallacciare relazioni, convinti come siamo che da esse sorgano nuovi immaginari. 45 tutela e Re-invenzione. Queste sono alcune delle questioni emerse che il seminario ha voluto indagare. A esso hanno contribuito i diversi relatori con spunti e riflessioni aperte che attendono nuovi terreni di confronto e soprattutto occasioni di sperimentazione. Che cosa sono i paesaggi dell’archeologia se non semplicemente paesaggi postantichi? È probabile che sul palinsesto di un’antichità che diviene col tempo archeologia, si depositino altri sedimenti, lasciti della natura e dell’azione antropica. nell’accumulo di 20 Carlo Emilio Gadda, Un’opinione sul neorealismo, in I viaggi, la morte, Garzanti, Milano 1958. TUTELA E REINVENZIONE 46 successivi stadi intermedi, oggi sono anche postmoderni. Come tutti i contesti intercettano progressivamente la dimensione immanente del presente e dunque sono necessariamente sempre contemporanei. dalle osservazioni che precedono deriva, per Fabrizio Toppetti, un corollario di singolare pregnanza: i paesaggi dell’archeologia o sono contemporanei o non sono. Quest’affermazione, che potrebbe sembrare banale e scontata, se non addirittura eretica, implica una presa di posizione che comporta conseguenze precise in termini di politiche, di progetto e di gestione. Giovanni Azzena e Roberto Busonera si interrogano sulla definizione sfuggente di “Paesaggio” e sulle tassonomie delle strutture normative che cercano di circoscrivere e chiarire concetti ambigui e spesso fuorvianti, facendo notare come la stessa semantica finisca per creare aporie. Il “Paesaggio storico” ammette l’esistenza di un paesaggio più storico di altri fino a riconoscere, per converso, l’esistenza di paesaggi a-storici o non storici. Questa definizione finisce per favorire una perversa graduatoria tra territori intangibili perché densi di significati ambientali, simbolici, culturali e altri, sacrificabili “al progresso”. Il “Patrimonio” si riferisce a testimonianze ereditate di particolare pregio il cui obiettivo esplicito è quello della “messa a reddito”. una condizione che ha rafforzato l’idea di recinto archeologico determinando la nascita di “non-luoghi della memoria”. nell’ottica di una maggior commistione tra ambiti archeologici, naturali e urbani l’auspicio che gli autori formulano è di ritrovare una visione che racchiuda gli aspetti emozionali e quelli tecnico-scientifici, superando tassonomie, spingendosi verso un ritorno alla complessità dei sistemi e delle relazioni, evitando soluzioni univoche e linee guida valide per tutte le occasioni. Alla contaminazione tra antico e moderno rivolge la sua attenzione Raffaele Panella che, da circa quarant’anni, si occupa del “progetto fori” a Roma. nell’offrire una riflessione sul tema della continuità urbana, egli ricorda che ci si trova di fronte a due progetti, il progetto archeologico e il progetto urbano, dotati entrambi di “una elevata dignità scientifica” che li spinge a ignorarsi. Integrare progetto archeologico e progetto urbano significa invece lavorare sulle connessioni e sulla necessità di trovare un senso urbano alle esplorazioni archeologiche. Questo significa considerare i resti della città antica come materiali del progetto moderno, in un rapporto di reciproca contaminazione. Questa sovrapposizione è sempre appartenuta alla storia della città di Roma e lo spazio archeologico è innanzitutto spazio pubblico in connessione con gli altri spazi collettivi della città. Sebbene la città postmoderna sia divenuta un arcipelago dominato dalle reti di comunicazione materiali e immateriali che hanno fatto saltare il vecchio sistema delle centralità urbane, i luoghi collettivi subiscono l’attribuzione di valori simbolici di intensità prima sconosciuta, a cui ha contribuito non poco il turismo di massa. I valori della storia e della bellezza finiscono pertanto per sostituire i valori d’uso che tradizionalmente caratterizzavano quei luoghi. L’indebolimento dell’idea di bene comune e la dimensione del numero dei soggetti che si occupano di archeologia sono tra le principali cause della distanza che separa ricerca, tutela e valorizzazione e dello scollamento tra codificazione normativa di un bene culturale e la percezione sociale effettiva dello stesso. Malgrado rimanga forte la connessione tra le discipline archeologiche e quelle dell’architettura, l’intesa tra archeologi e architetti non è sempre stata lineare. Lucina Caravaggi prova a capire le ragioni di queste difficoltà di dialogo. I salti di quota che interrompono la continuità rassicurante di un suolo urbano, i “crateri” recintati, l’impossibilità di condurre campagne di scavo degne di questo nome per cui i siti rimangono in attesa di raccontare compiutamente le proprie storie, la necessità di introdurre forme di migliore “leggibilità” e comprensione che possano comunicare il fascino culturale e la storia inscritta in quelle tracce, l’incapacità che talvolta hanno le soluzioni architettoniche di instaurare un dialogo in sintonia con il carattere euristico e aperto di uno scavo sono alcune delle questioni aperte. La speranza è di ritrovare connessioni tra ricerca architettonica e ricerca archeologica, tra tutela e valorizzazione, che possano reintrodurre immaginari positivi rivolti al futuro. di questo dialogo difficile tra architetti e Soprintendenze offre un quadro surreale e inesorabile Francesco Cellini, a partire da alcune esperienze professionali che lo hanno visto coinvolto. Il racconto di una serie di episodi evidenzia l’ardua intesa tra chi esercita l’applicazione del vincolo e chi si occupa delle trasformazioni architettoniche. I conflitti fanno emergere l’uso non ponderato di aggettivi quali “storicizzato” e “scientifico”, che vengono adoperati inadeguatamente quasi per eludere l’assunzione di precise responsabilità decisionali da parte delle istituzioni preposte alla tutela e imporre presunti comportamenti “etici”. Gli aneddoti descrivono il senso di irrealtà e di spreco che alcune di queste occasioni riguardanti la conservazione dei beni culturali hanno comunicato. La mancanza di una strategia d’insieme, di adeguati strumenti sintetici d’informazione, di soldi per il recupero di quei “giacimenti veri” spesso semiabbandonati e degradati, l’esercizio di certa autorità arrogante, la vacuità e la sciatteria di alcune pratiche burocratiche, l’inesistenza di un contraddittorio con il pubblico testimoniano inoltre non solo della conduzione di un potere a volte arbitrario, ma soprattutto della necessità di avere una visone culturale di insieme che sappia indirizzare in modo meno schematico l’esigenza di consegnare al futuro il patrimonio del passato e il riattivarsi di un dialogo positivo e produttivo tra passato e futuro. Daniele Manacorda ci offre lo sguardo dell’archeologo sostenitore della cultura del confronto e della necessità di co-progettare insieme agli architetti gli interventi urbani archeologicamente sensibili. nel rileggere e commentare i tre progetti di Tsiomis ad Atene, di Cellini a Istanbul21 e di Gabetti, Isola e durbiano a Torino, scelti nell’ambito del seminario come esperienze significative per aprire un ragionamento sul tema della reinvenzione dei luoghi della memoria, Manacorda sottolinea che il problema di un progetto per le aree archeologiche non riguarda solo la definizione dei bordi, ma anche la necessità di definire usi specifici e modi di “abitare” gli spazi archeologici e di chiarire la trasmissione del loro senso culturale. una declinazione che non è univoca ma può inverarsi in “mille modi” senza un codice d’uso prestabilito, se non quello del rispetto. Anche Manacorda affronta il rapporto tra archeologi e architetti, ricordandoci che si tratta di due professioni sghembe, apparentemente fatte per non incontrarsi ma consapevoli, oggi, della necessità di una convivenza e di una reciproca contaminazione. Yannis Tsiomis approfondisce il tema delle politiche urbane, del patrimonio e dell’ambiente. Tre occasioni professionali che vanno oltre il problema della conservazione, affrontano il rapporto che esiste tra storia e futuro, in altre parole, delle scelte di valori sui quali si fondano i progetti. Il paesaggio archeologico si presenta come paradigma, sintomo e metafora dei rischi che incombono sulla civiltà urbana. Stante la quantità di 47 21 Cfr. Atlante dei Paesaggi Archeologici, infra, pp. 336337 (Atene), pp. 352-353 (Istanbul). TUTELA E REINVENZIONE 48 leggi e documenti normativi che definiscono la conservazione dei territori storici, il problema è quello di capire come tali strumenti vengano applicati. I casi dell’Agorà di Atene, il paesaggio archeologico di dougga e il patrimonio moderno di Brasilia illustrano i rischi che corre un paesaggio urbano storico sottoposto allo sfruttamento commerciale del turismo di massa, le difficoltà di operare sulla leggibilità paesaggistica di fronte allo sviluppo anarchico dei territori e le problematicità di salvaguardare l’impianto originario della città di fondazione sottoposta alle trasformazioni urbane e sociali dell’economia di mercato. Per Tsiomis non vi è dubbio che lavorare sulla storia e la memoria del patrimonio urbano significhi modernizzarlo. Ma come tutelare senza “congelare”? La modificazione dell’area delle torri Palatine a Torino è stata condotta dal Comune attraverso un bando di gara che richiedeva non il progetto di un’opera, bensì il “disegno” di un’intesa. Giovanni Durbiano, uno degli autori della trasformazione urbana, illustra l’importanza di questa strategia e i conseguenti esiti fisici di questa scelta, consapevole della pluralità degli attori coinvolti e della necessità di trovare anzitutto la regia dell’accordo. Obiettivo comune era ritrovare un carattere unitario all’area che non è solo parco archeologico ma anche parte di città, recuperando il valore strategico avuto in passato. L’interpretazione delle tracce storiche, l’eterogeneità del paesaggio costruito, le numerose valenze funzionali, figurative e simboliche, la volontà di fare dell’area archeologica il perno della qualità urbana, assegnandole non solo il ruolo di “giardino archeologico” ma soprattutto di “figura urbana”, hanno permesso di contrapporre alla logica della museificazione quella della vita e del ruolo urbano dei monumenti. Abbiamo voluto chiudere la sezione Tutela e reinvenzione di questo volume introducendo il progetto cui Antonino Terranova aveva dedicato molto tempo negli ultimi anni. Alessandra Criconia ne approfondisce i principi fondativi e evidenzia il carattere emblematico della proposta. La diversa considerazione data alla cinta muraria della città, considerata come elemento urbano su cui far leva per attivare processi di riqualificazione sostenibile, è il fondamento del progetto per il Parco lineare delle Mura Aureliane, elaborato nell’ambito di programmazione strategica del nprg di Roma. Eterogeneo fatto urbano che documenta la dialettica di sviluppo della città e delle sue formae, le Mura ricompongono in un’azione unitaria la tutela del monumento e l’uso attivo del patrimonio, come elementi strutturanti la riqualificazione della città. Il Parco lineare si configura come un nuovo tipo di infrastruttura slow a carattere storico-ambientale con funzione di riconnessione e ricucitura dei quartieri del centro città. un’articolata rete di percorsi ciclopedonali organizza un sistema di “isole” ovvero di luoghi significativi lungo il tragitto, considerati come punti di addensamento del sistema lineare integrato. Il disegno del Parco lineare ha affrontato tre tematiche principali: il progetto del suolo, i progetti urbani locali e i progetti esplorativi, intesi come nuovi interventi alla piccola e media scala. Infine i casi-studio presenti in questa sezione e i progetti raccolti nell’Atlante dei paesaggi archeologici curato da Federica Morgia rappresentano una prima selezione di temi e di possibili figure utilizzati per affrontare la questione delle relazioni con l’archeologia nelle città. L’obiettivo che ci siamo dati nella raccolta dei casi è stato quello di scegliere solo progetti e realizzazioni che avessero un orizzonte urbano. The decline of the public space and the deterioration of the physical connections of the contemporary city, entirely founded on the economic aspect, must make us reflect on the values we feel can lead to a rethinking of “city making” focusing on the quality of the space. It is evident that public institutions are substantially unable to monitor, except with quantitative and regulatory parameters, the results of the urban transformations, all focused in fact on meeting functional or legislative requirements, but very rarely interested in building significant spatial relations. The system of open spaces and the relationship with memory are two important issues to deal with the quality of the urban space and the territory. These are places where nature and heritage are important resources to be enhanced for the pursuit of urban quality. The semantic value of urban spaces was pointed out by Roland Barthes, who showed how a city is not a fabric of identical elements, but that there are paradigmatic components that are more pronounced on the symbolic level. This means that space, like language, is an important means of individual and collective expression. Indeed, the legacy of the ancient and the memory of the past have an impact on the sphere of urban representation and monumentality, narration and identity – in short, on the meaning of the city – and play a social and cultural role of the utmost importance for the community. In this framework, archaeology is a particular aspect of the more general question of heritage. The open nature of ruins, the fact of having definitively lost their value for use and their active aspect, pointed out in Simmel’s well-known essay, make it both possible and necessary to reflect on the roles that archaeology can take on in contemporary society. Many ancient remains are imposing structures that bring to mind the spaces and lives of the past, stimulate scientific studies and, above all, arouse emotions. But even more numerous are the archaeological areas that have little aesthetic-emotional significance, but which are useful for informational and documentary purposes. Therefore their preservation must be organized on the basis of the different needs and representativeness of the places. What is archaeology’s image in contemporary culture? What cultural and symbolic representation do we assign it? Heritage Preservation is a reflection of the society of the 1930s: how can we bring it to be more in tune with today’s reality, without losing the capacity for preserving? What role does the use of the past play in shaping the present? In order to achieve these resignifications, to study the role that archaeological remains can play in defining the form of the cities, it is necessary to study how to enable the traces of the past to serve as symbolic elements in the contemporary urban cultural imagination, and to become a public space inserted into everyday use. We believe that the project only can undertake the responsibility for establishing, time by time, the referential imagery and the ways the heritage can serve contemporary society. ARCHAeoloGY ANd NeW iMAGiNARies ABSTRACT 49 PRoGettARe PAesAGGi PostANtiCHi fabrizio Toppetti La locuzione del titolo prende a prestito un neologismo utilizzato da Ludovico Quaroni, quando, dopo la pubblicazione del progetto per il Teatro dell’Opera a piazza Beniamino Gigli a Roma, ritenne di doversi difendere dalle accuse di chi lo ricollocava sbrigativamente dentro la corrente di linguaggio dell’architettura postmoderna1. A mio avviso è una definizione chiara e illuminante che però ha avuto poca fortuna critica. Secondo quella logica transazionale oramai in uso, pericolosa ma al contempo fertile e generativa, la riprendo e naturalmente come è sempre in questi casi, prescindendo dall’occasione rivolta eminentemente a una questione interna al linguaggio dell’architettura, ne assumo il valore semantico mettendolo a reazione con il termine paesaggio e con la questione del progetto. A valle di un percorso di ricerca, prima ancora di esprimere valutazioni sul prodotto, è naturale porsi interrogativi che attengono alla formulazione del tema, al suo inquadramento scientifico, alla legittimità della definizione del campo di indagine, alla tenuta delle ipotesi sottese dal programma iniziale. Semplificando molto, le questioni centrali attorno alle quali ruota il progetto sono due e sono entrambe espresse dal titolo: “Paesaggi dell’archeologia, regioni, città metropolitane. Strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e la trasformazione”. Esse attengono al riconoscimento della dimensione paesaggistica e contemporanea dell’archeologia e alla definizione di una strategia del progetto tarata sulla specificità dei contesti archeologici. Si tratta di argomenti affatto nuovi, sui quali negli ultimi anni si è detto e scritto molto e dunque riprendendoli si corrono rischi: derive, sconfinamenti, e in generale una circolarità di pensiero sterile. nei casi in cui il tema, come spesso accade, è a cavallo di più discipline il vizio peggiore della ricerca accademica è quello di ripartire da categorie desuete e da posizioni corporative che si fronteggiano, simulando estremismi strumentali superati, per raccontarne, come si trattasse di una novità, l’ennesima possibile ricomposizione che spesso percorre vie ampiamente battuta e condivise dalla comunità scientifica. Per tentare un bilancio, seppure parziale e provvisorio, è necessario ripartire dallo stato dell’arte, misurando le distanze tra le posizioni più avanzate e il pensiero mediano. 1. l. quaroni, C. vaccaro, Katastilosi del Monumento a Vittorio Emanuele, 1988 (particolare). 1 Il progetto di Quaroni viene presentato per la prima volta al convegno “Consulto su Roma. Laboratorio di progettazione ’83” (Roma, 24/28 ottobre 1983), organizzato dal Comune di Roma, Assessorato per gli Interventi sul Centro storico insieme alla A.A.M. Architettura Arte Moderna e curato da francesco Moschini. La definizione postantico, poi ripresa più volte, compare in un articolo-intervista a Quaroni pubblicato dal “Corriere della Sera”. P. Lanzara (a cura di), Come una basilica del Palladio il Palazzo del Teatro dell’Opera, “Corriere della Sera”, 5 novembre 1983. 51 TUTELA E REINVENZIONE nel caso di specie è fondamentale anche tenere in conto il doppio registro sul quale si muovono le teorie e le pratiche e, all’interno di queste ultime, è necessario distinguere le buone pratiche dagli interventi di routine. Le riflessioni che seguono, senza pretesa di completezza e organicità, affrontano i due temi di carattere generale sopra enunciati, rimandando a una trattazione specifica gli approfondimenti sul caso studio affrontato nel corso della ricerca2. 52 2 È in corso di pubblicazione nella stessa collana, da parte dell’unità operativa del dipartimento di Architettura e Progetto, Sapienza università di Roma, un volume che raccoglie gli esiti del lavoro di ricerca sul Parco dell’Appia Antica. 3 Cfr. O.G.S. Crawford, Man and His Past, London 1921; Id., Topography of Roman Scotland. North of the Antonine Wall, Cambridge 1949; J.M. Wagstaff (a cura di), Landscape and Culture: Geographical and Archaeological Perspectives. Oxford 1987. 4 R. Lanciani, Forma Urbis Romae, Hoepli, Milano 1893-1901. 5 nell’ambito del progetto forma Italiae nel 1987, con il volume su Atri di Giovanni Azzena, ha inizio la pubblicazione della collana “Città Antiche in Italia” diretta da Paolo Sommella. L’iniziativa, con largo anticipo sul dibattito che seguirà negli anni successivi, è ispirata ai principi che informeranno la definizione di paesaggio della Convenzione Europea del 2000 e in generale la cultura del paesaggio storico. nella premessa al volume Sommella stesso chiarisce che la collana è un tentativo di “inquadrare il fenomeno della città nel suo evolversi, e la carta archeologica è solo un momento della ricerca, è la base che permette di leggere il momento urbanistico iniziale, le trasformazioni, gli adeguamenti, in altri termini il vivere della città”. P. Sommella, “Premessa”, in G. Azzena, Atri. Forma e Urbanistica, L’Erma di Bretshneider, Roma 1987, p. xi. 6 Cfr. G. Pettena (a cura di), Olmsted: l’origine del parco urbano e del parco naturale contemporaneo, Centro di, firenze 1996; C.E. Beveridge, P. Rocheleau, d. Larkin, Frederick Law Olmsted: designing the American Landscape, universe, new York 1998. Archeologi e architetti. Per quanto gli architetti più attenti e sensibili lamentino strumentalmente una visione decontestualizzata del reperto da parte dell’archeologo, colpevole genericamente di un’attenzione scientifica e esclusiva alla materialità oggettuale delle evidenze, come è noto, vi è una lunga tradizione di studi che nasce in Inghilterra nella seconda metà dell’ottocento che dimostra esattamente il contrario. La landscape archeology3 basata sulla ricognizione diretta e sullo studio delle prime fotografie aeree, aveva già allora come campo specifico di indagine il territorio storico, con l’obiettivo di mettere in rete i siti inscrivendo le presenze archeologiche in un sistema insediativo di scala vasta, in grado di ricostruire la configurazione dei paesaggi dell’antichità. nello stesso periodo Rodolfo Lanciani, impegnato come direttore di numerose campagne di scavo a Roma e nel Lazio, aveva avviato un’opera estensiva di rilevazione topografica che in buona parte confluirà nella Forma Urbis Romae4, un’opera che ancora oggi costituisce un punto di riferimento imprescindibile. Lanciani non solo rappresenta nel dettaglio le strutture insediative sedimentate nei secoli ma ne coglie i rapporti reciproci e soprattutto restituisce le relazioni di integrazione e alterità delle strutture antropiche di età romana con il supporto geomorfologico e con i caratteri dell’insediato moderno. Contemporaneamente, nel 1889 in Italia, per iniziativa della direzione Antichità e Belle Arti del Ministero dell’Istruzione, parte un ambizioso progetto finalizzato alla realizzazione di una carta archeologica dell’intero territorio nazionale che successivamente viene ripreso nel 1923 da Giuseppe Lugli con il titolo Forma Italiae, e che, finanziato dal cnr a partire dal 1965, sotto la guida di Paolo Sommella riprende la sua attività presso l’università di Roma “Sapienza”5. È bene sottolineare che anche per l’architettura il paesaggio è una dimensione di pensiero e azione nuova che si apre nello stesso periodo, a testimonianza di un sentire dell’epoca che pervade la cultura del vecchio e del nuovo continente: nel 1856 a new York si inaugura il Central Park, contemporaneamente frederick Law Olmsted6 lancia il termine landscape architect e nel 1899 nasce l’”American Society of Landscape Architects”. Sebbene si parli di scuole e di specifiche linee di pensiero, la sensibilità per il paesaggio non è affatto estranea alla cultura dell’archeologo, dunque paradossalmente lo è di più per la maggioranza degli architetti: almeno a partire dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso si registra un rinnovato interesse per l’archeologia del paesaggio che disegna una traiettoria di ricerca oggi in forte espansione. Questo significa che i termini del dibattito si spostano e probabilmente la centratura slitta sulla necessità di una definizione condivisa e operante del termine paesaggio e della sua estensione temporale. In altri termini sulla proiezione prospettica delle attenzioni. Per statuto disciplinare l’archeologo ha un approccio storico retrospettivo, orientato cioè alla ricostruzione di un determinato paleoambiente in quanto testimonianza della vita e dell’azione antropica a esso coeva. una condizione che comporta l’assunzione del paesaggio, in una prospettiva semiologica7, come un deposito di segni e di tracce e prefigura l’ampliamento del registro archeologico che si estende alla copertura dell’intero ambiente antropogeografico. Secondo questa interpretazione, poiché è paesaggio tutto ciò che è modellato da una cultura del fare delle comunità insediate che ha agito come risposta alla domanda di abitabilità rispetto alle condizioni ambientali di un preciso spazio geografico, ne consegue che, in linea di principio, tutto è riconducibile alla dimensione archeologica. Questo dal punto di vista strumentale dello studioso delle civiltà del passato e di una specifica disciplina che è l’archeologia del paesaggio8. Lo sguardo dell’architetto è altro poiché è dislocato in una posizione che ne traspone la visione in un futuro possibile. nella tradizione disciplinare del fare come destino, almeno retoricamente ineludibile, egli considera il paesaggio uno sfondo al proprio agire; nelle più recenti formulazioni diviene il soggetto stesso della proiezione prefigurativa del progetto. In entrambi i casi la lettura e la comprensione del palinsesto della struttura del territorio antropico sono finalizzate all’intervento di trasformazione/ conservazione. Ciò che accomuna le due posizioni che si fronteggiano a distanza di sicurezza è una sistematica e simmetrica fuga dal presente, unico tempo storico nel quale è possibile un incontro tra archeologia e progetto. È necessario dunque un richiamo al principio di realtà, alle sfide poste dal contemporaneo. Oltre il culto delle origini e la legittima necessità di conoscenza assicurata dall’indagine scientifica che da sola rischia di trasmettere messaggi criptici riservati agli specialisti, oltre la fenomenologia deselettiva dell’idolatria dell’esistente9 e della conservazione pervasiva, esito ultimo di una forma di accanimento terapeutico10, pare necessario riposizionare qui e ora, entro un quadro di valori condiviso che contempli il perché e per chi conservare, un patrimonio, che l’azione di un tempo che possiamo solo prolungare, trasformerà ineluttabilmente in altro. Paesaggi dell’archeologia. Se tutto il paesaggio, in una visione inclusiva diacronicoprogressiva, è conformato dalla storia, quello che circoscriviamo con l’aggettivazione ulteriore di archeologico, oltre l’iconografia del paesaggio con rovine, si distingue per una forte connotazione specifica che può essere esplicita, ovvero marcata dalla presenza di evidenze materiali, o implicita, demandata cioè alla potenza evocativa di determinate configurazioni: si tratta in sostanza di paesaggi nei quali gli affioramenti di un tempo rispetto al quale riconosciamo una discontinuità marcata con il presente assumono forte persistenza e rilevanza. Ammesso che sia necessario, è possibile discernere e parzializzare la componente distintiva che è l’archeologia dal proprio paesaggio di riferimento? Alcuni casi ingenuamente emblematici di Roma. Il Colosseo, pur essendo immerso nei flussi di un traffico quotidiano che il monumento stesso conforma, è facilmente isolabile per forma e figura propria, i ruderi di largo Argentina lo sono per quota e per impronta planimetrica definita a posteriori. La questione è già più complessa se ci si riferisce all’insieme costituito dal Portico d’Ottavia e dal Teatro di Marcello, lo è in misura diversa se si tratta dello Stadio di domiziano, oggi piazza navona. In quest’ultimo caso, per esempio, il 7 Cfr. E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano 1979. 8 Sull’archeologia del paesaggio vi è una vasta letteratura recente a conferma del fatto che si tratta di un settore in forte crescita. cfr., tra l’altro, M. Bernardi (a cura di), Archeologia del paesaggio, iv ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia, Certosa di Pontignano, 1991, All’Insegna del Giglio, firenze 1992; f. Cambi, n. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, Carocci, Roma 2000. 9 V. Gregotti, Dentro l’architettura, Boringhieri, Torino 1991, p. 39. 10 La definizione “terapeutica conservativa” è di Carlo Aymonino. Cfr. C. Aymonino et al., Per un’idea di città: la ricerca del gruppo architettura a Venezia 1968/1974, Cluva, Venezia 1984. 53 TUTELA E REINVENZIONE contributo dell’impianto romano alla definizione morfologica della piazza è un’evidenza esplicita, eppure nessuno definirebbe la piazza un paesaggio dell’archeologia: nei vari passaggi d’epoca che ne hanno ridefinito i caratteri prevale la persistenza dello statuto di spazio pubblico della città che, mutatis mutandis, conserva ancora oggi. La prospettiva critica e metodologica espressa dalla lunga durata, dai temi del palinsesto e della sedimentazione, dalla continuità e dalla coerenza dell’azione antropica, ci guida nel prendere atto della processualità del lento evolversi delle modificazioni del territorio storico. Se la specificità di un paesaggio storico tout court risiede nella stratificazione diacronica che ne impedisce la replicabilità – in definitiva nella non sostituibilità – il criterio principale, anche se non dirimente, per distinguere un paesaggio dell’archeologia (che storico è per definizione) è nell’interruzione di quel processo continuo insito nell’abitare che consiste nel costruire e curare, finalizzati eminentemente al valore d’uso del bene. non è così lineare, ma si tratta di una buona approssimazione. Cosa sono i paesaggi dell’archeologia se non semplicemente paesaggi postantichi? È probabile che essi oggi siano anche altro, ovvero che sul palinsesto di un’antichità che diviene col tempo archeologia si depositino ulteriori sedimenti più o meno preziosi, più o meno evidenti, lasciti della natura e della azione antropica. nel loro statuto di paesaggi postantichi, accumulano ulteriori stadi intermedi, dunque in una certa misura e ineludibilmente oggi sono anche postmoderni. Come tutti i contesti intercettano progressivamente la dimensione immanente del presente e dunque sono necessariamente sempre contemporanei. d’altra parte se paesaggio è l’intreccio di una determinata configurazione fisica del territorio, sia esso a prevalente carattere naturale o a prevalente carattere antropico, con la percezione individuale dell’abitante e/o dell’osservatore11, esso riveste carattere di immanenza. dalle osservazioni che precedono deriva un corollario di singolare pregnanza: per quanto caratterizzati dalla evocazione di un tempo lontano rispetto al quale si è interrotta la sequenzialità, i paesaggi dell’archeologia o sono contemporanei o non sono. Questa affermazione, che da un lato potrebbe sembrare un’acquisizione scontata, dall’altro un’eresia, implica una presa di posizione esplicita che comporta conseguenze precise in termini di politiche, di progetto, di gestione. 54 11 Il riferimento è al noto art. 1 della Convenzione Europea del Paesaggio, cep, firenze 2000. Progetto. Sempre ammesso che sia possibile parzializzarla, come reagisce la componente dell’archeologia rispetto al proprio contesto di riferimento? Il paesaggio, come lo sguardo, non ha confini. Anche un sito archeologico propriamente detto e di dimensioni vaste è chiamato al dialogo con una configurazione di ordine superiore che lo ingloba. nella maggioranza dei casi l’archeologia è a diretto contatto con il mondo pulsante del contemporaneo. L’interferenza continua di uno spazio e di un tempo fermo con uno spazio dinamico produce reazioni difficilmente controllabili e differenti tra caso e caso. La paura di queste reazioni è stata generalmente tenuta a bada con i recinti, sottolineando con una discontinuità fisica artificiosa la soluzione di continuità temporale e funzionale. Altro è pensare per progetti. Anche in questo caso, così come è in riferimento alla nozione di paesaggio sopra esplicitata, vi è una identica relazione tra progetto per un paesaggio storico e progetto per un paesaggio archeologico. Perché il paesaggio con rovine, suggerisce una incolmabile distanza dal sogno umanistico di una rinascita culturale dell’Antichità Classica ma anche da ogni possibilità di uso contemporaneo che non sia quello del parco a tema. In definitiva l’archeologia costituisce un’inerzia della città storica, essa si affaccia sulla scena della città con un forte potenziale evocativo e al contempo distruttivo, capace di innescare meccanismi di dissoluzione della forma, dal singolo oggetto monumentale alla intera città12. E dunque lo specifico del progetto, oltre le qualità basiche di un buon progetto per la città esistente, è quello di farsi carico di questo potenziale, rimettendolo al centro del sistema di relazioni della società contemporanea e reinventandone di volta in volta il senso e il ruolo. integrazione. Tra il settembre e il novembre del millenovecentoventicinque Joseph Roth, allora trentenne, attraversa la Provenza in un viaggio a tema che segna profondamente la sua formazione. ne Le città bianche13, una sorta di diario emozionale pubblicato postumo nel 1956, lo scrittore raccoglie le impressioni sui luoghi visitati, con sagace predisposizione all’osservazione e all’ascolto. A proposito di nîmes scrive: “A nîmes si è addirittura riusciti a incorporare nella città, e perfino nei suoi quartieri più moderni, i grandi monumenti dell’epoca romana, che certamente non fu un’epoca borghese. nella grande arena romana si è inaugurato un cinema all’aperto. Agli abitanti di nîmes non viene neanche in mente che a dividere i cinematografi dalle arene non sono solamente i secoli”14. Più avanti l’autore ritorna sull’argomento osservando come i templi romani sono stati integrati nella vita della città, ovvero resi borghesi: “del Tempio di diana poco ci mancava che facessero un ufficio municipale, nella Maison Carrée, già Tempio di Giove, invece del piccolo museo hanno stanziato l’anagrafe, e nel possente anfiteatro una Corte di Giustizia”15. Il giovane Roth non esprime giudizi nel merito, eppure dal testo traspare una valutazione positiva, indirettamente comunicata nei termini di una piacevolezza dell’attraversare la città e del soggiornarvi. Il commento riferito agli abitanti della cittadina francese è illuminante: “Vivendo spensieratamente, essi hanno intrecciato tra loro con compiaciuta e ostinata incoscienza le epoche storiche così come i ciechi intrecciano ceste che non potranno mai vedere. non sanno quel che fanno, ma forse assolvono a un grande compito. È questa l’innocenza degli uomini che crescono all’ombra della Storia”16. Solo l’incoscienza e l’innocenza compiaciute e consapevoli, alle quali nella lettura di Roth sembra essere estranea l’ingenuità stolta, consentono di trattare alla pari con il patrimonio dell’antichità, con naturalezza e senza sovrastrutture, evitando di considerare l’antico come luogo esclusivo della memoria e di celebrarlo in quanto “eredità”, una modalità secondo Benjamin più disastrosa di quanto potrebbe essere la sua scomparsa17. Questo implica una necessaria quanto fertile ibridazione, che è quanto nîmes e indirettamente i suoi abitanti hanno continuato a perseguire coinvolgendo la Maison Carrée in un progetto di rinnovamento urbano18 – firmato da norman foster ma frutto di una lenta e condivisa gestazione – che con il suo successo, a distanza di venti anni dalla realizzazione, racconta di un luogo riconosciuto e praticato, di integrazioni possibili, fertili e generative, tra valori d’uso, valori d’arte e valori di vetustà19, tra archeologia e progetto. 2 2 N. Foster, Nîmes e il Carre d’Art, schema di analisi urbana,1993. 12 Su questo aspetto si veda la lettura del Campo Marzio Piranesiano di Manfredo Tafuri. Cfr. M. Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ‘70, Einaudi, Torino 1980. 13 J. Roth, Le città Bianche, Adelphi, Milano 1986. 14 Ivi, p. 81. 15 Ivi, p. 83. 16 Ivi, p. 81. 17 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997. 18 Sul progetto di norman foster & Partner per il Carré d’Art (1984-1993) la bibliografia è vastissima. Si veda tra l’altro, M. Lupano, Il Foster di Nìmes e il Carré d’Art, “Lotus”, 79, 1993, pp. 41-59. Per un inquadramento del progetto nel contesto più ampio degli interventi di valorizzazione delle preesistenze archeologiche a nìmes (cfr. la scheda relativa all’interno dell’Atlante dei paesaggi archeologici, infra, pp. 364-365). 19 A. Riegel, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere i suoi inizi, 1903, Abscondida, Milano 2011. 55 TUTELA E REINVENZIONE 3. l. quaroni, C. vaccaro, Katastilosi del Monumento a Vittorio Emanuele, 1988. 56 20 L. Quaroni, C. Vaccaro, Una timida proposta per Piazza Venezia, in Le città Immaginate. Un viaggio in Italia. Nove progetti per nove città, catalogo della xvii triennale di Milano, Electa, Milano 1987, pp. 38-39. La definizione riportata compare come didascalia dell’esposizione e non nel volume. Successivamente si ritrova nel catalogo della mostra organizzata a Roma nel 1989 presso le sedi della Cornell university e della A.A.M. / COOP Architettura Arte Moderna. Cfr. A. Capuano, R. Einaudi (a cura di), La città politica, il Parlamento e i nuovi ministeri, A.A.M. / Cornell university / La Sapienza, Roma 1989, p. 21. 21 Il gruppo romano era composto da f. Purini (coordinatore), G. Accasto. f. Cellini, C. d’Amato, G. d’Ardia, V. fraticelli, R. nicolini, f. Prati, L. Thermes. 22 Cfr., B. Zevi, Processo al Vittoriano, ora in: www. fondazionebrunozevi.it. 23 f. Moschini, La città come messa in scena della ”perdita del centro”, in A. Capuano, R. Einaudi (a cura di), La città politica, il Parlamento e i nuovi ministeri, cit., p. 14. 24 Gli scavi condotti a partire dal 1998 con metodo stratigrafico dalla Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma, hanno riportato alla luce a una quota di circa due-tre metri sopra alla quota archeologica le cantine degli edifici tardo cinquecenteschi, demoliti tra il 1924 e il 1932 per la realizzazione di via dei fori Imperiali. 25 I nomi in elenco senza pretesa di completezza rimandano a progetti che secondo differenti modalità hanno lavorato su una ibridazione moderna e contemporanea del Centro Archeologico Monumentale (così lo definisce il Piano Regolatore Generale di Roma del 2008 all’art. 37). dalle visioni di Giuseppe Terragni del progetto di concorso per il Palazzo Littorio, al Colosso di Carlo Aymonino, dal viadotto sospeso sui fori di Costantino dardi al Progetto fori di Leonardo Benevolo, agli studi di Raffaele Panella, la questione meriterebbe una trattazione specifica e approfondita ben oltre gli obiettivi di questo scritto. Solo una citazione esemplificativa dalla relazione di progetto di Aymonino per il Colosso. “L’idea di un progetto sul luogo del Colosso è nata in uno dei molti incontri non ufficiali con il Sovrintendente archeologico Adriano La Regina. Trovatici più volte d’accordo sulla possibilità e, in taluni casi, sulla necessità di nuovi interventi nei fori (per completarne una più corretta lettura, per dotarli di amenità – una vota divenuti parte di città – e per suggerire alcuni rapporti originari tra edifici), fu lui a pormi il problema di pensare a qualcosa di costruito (una statua? un monolite? una torre?) sull’area recuperata delle fondamenta del Colosso, un quadrato di 15 x 15 m.”. C. Aymonino, Piazze d’Italia, Electa, Milano 1988, p. 79. 3 Narrazione. “Katastilosi del Monumento a Vittorio Emanuele”20 è il contributo di Ludovico Quaroni al “Progetto Roma: la politica, il Parlamento, i nuovi ministeri”, redatto per la xvii Triennale di Milano del 1987 da un gruppo di architetti più giovani con il coordinamento di franco Purini21. Il maestro, chiamato come ospite esterno insieme a Peter Eisenman e Colin Rowe presenta, con Carolina Vaccaro, due disegni che raffigurano il prospetto e l’assonometria del Vittoriano in avanzato stato di decomposizione, depurato delle principali aggettivazioni retoriche e ridondanti e aggredito dalla vegetazione, esattamente come le rovine piranesiane. La durezza prevaricatrice e tronfia con la quale il monumento di Giuseppe Sacconi si era imposto come terminale della via Lata e testata della Roma Imperiale, distruggendo per sempre l’equilibrio misurato e dinamico caro a Bruno Zevi di una piazza Venezia che oggi possiamo soltanto immaginare22, si diluisce in un sottile gioco del rovescio nel quale il falso rudere si confonde con la natura e con il paesaggio monumentale della città storica. La proposta, nella sua utopica dimensione distruttiva, tenta una mediazione tra la città silente dell’archeologia e la città tumultuosa del quotidiano, ricostruendo una narrazione che tiene insieme la rupe del Campidoglio, la chiesa dell’Aracoeli, la Colonna Traiana e la Torre Capitolina, con le prospettive aperte dai tracciati urbani limitrofi. Si tratta di una visione onirica che si innesta nel luogo simbolo di Roma e della romanità, una parte di città “oggetto costante di eccessi: dall’immobilismo attuale alle spregiudicate manipolazioni fasciste”23, portatrice, pur in una dimensione ironica e provocatoria, di un immaginario potente e solido. un immaginario capace di intaccare quell’aura di rassegnazione espressione del rigore scientista – simbolicamente rappresentata dalla esposizione en plein air dei pavimenti in maiolica delle cantinole riportate alla luce tra via Alessandrina e via dei fori Imperiali24 – che agisce come freno per una tutela del patrimonio che ne contempli anche la reinvenzione. una visione dunque che si incarica indirettamente di segnare un estremo e che ne tiene in campo infinite altre ulteriori e forse più praticabili, e che non sarebbe male tenere a mente, tra tante altre – a partire da quelle di Giuseppe Terragni, Carlo Aymonino, Costantino dardi, Leonardo Benevolo, Raffaele Panella25 – nel dibattito sulla sorte di via dei fori Imperiali, che certo non troverà esiti convincenti se non nella integrazione delle politiche con il progetto. The research revolves around two aspects: the recognition of the contemporary landscape dimension of archaeology, and the definition of the project for archaeological contexts. What are archaeological landscapes, if not simply post-ancient landscapes? It’s probable that today they’re something else, that the palimpsest of an antiquity that has become archaeological over time becomes covered with deposits of other sediments left by nature and human actions. In their status as post-ancient landscapes, they accumulate other intermediate layers, so to a certain extent today they are also postmodern. As with all contexts, they intercept the dimension of the present, and therefore are necessarily always contemporary. On the other hand, while the landscape is an interweaving of a physical configuration of the territory with the inhabitant’s and/or observer’s individual perception, it takes on an aspect of immanence. The preceding observations lead to a corollary of singular significance: insofar as they are characterized by the evocation of a distant period of time with which the sequentiality has been interrupted, archaeological landscapes are either contemporary or they are not. This assertion carries an explicit stance that entails precise consequences in terms of policies, planning, and management. Supposing that it is possible to partialize it, how does archaeology react with respect to its context of reference? Landscape has no boundaries. Even an archaeological site is expected to interact with a higher configuration that encompasses it. In most cases, the archaeology is in contact with the pulsing contemporary world. The continuous interference of a static space and time with a dynamic space produces uncontrollable results that differ from case to case. The fear of these reactions has generally been kept under control with fences, stressing the temporal and functional interruption with a physical discontinuity. Thinking by projects is something else. In this case, also, just as it refers to the notion of a landscape, there is an identical relationship between a project for a historical landscape and a project for an archaeological landscape. Because a landscape with ruins suggests an unbridgeable distance from the humanistic dream of a cultural rebirth of Classic Antiquity, but also from all possibilities for a contemporary use that is not a theme park. ultimately, archaeology is a standstill of a dormant historic city; it looks onto the scene of the city with a potential that is both strongly evocative and destructive. And thus the specific task of the project, in addition to the basic qualities of a good plan for the existing city, is that of taking charge of this potential, putting it back at the centre of the relationships of contemporary society, and reinventing its meaning and role time by time. desiGNiNG Post-ANCieNt lANdsCAPes ABSTRACT 57 CeRCARe il PAesAGGio Giovanni Azzena, Roberto Busonera definizioni e loro conseguenze. L’esistenza di una definizione unesco riferita esattamente al “Paesaggio storico”, testimonia la presenza di un contesto culturale che l’ha prodotta e quindi l’esigenza che il tema sia affrontato in ambito “disciplinare”. Alcune discipline appaiono sollecitate e orientate verso temi legati alla “sostenibilità”, tese verso recuperi “identitari”1, pervase da un improbabile quanto ineluttabile compromesso tra qualità della vita, basata sull’eccellenza dei luoghi e quantità della vita che sui medesimi luoghi scompostamente si riversa. Il tema paesaggistico è stato così ridotto ad un’irriducibile complessità delle proteiformi componenti del territorio e inscatolato in strutture, sistemi, tassonomie (quadri, unità, classi ecc.) attraverso le quali ciascuna disciplina consolida il proprio distinto concetto di paesaggio, riferendosi ad un vocabolo che è rimasto uguale per tutti2. Appare appropriata al riguardo una nota di Lucina Caravaggi3 sull’ossessione della definizione. Rarissimamente si trova il Paesaggio andare da solo: comunemente si parla di Paesaggio storico, Paesaggio nuragico, Paesaggio del Chianti, Paesaggio eccellente… Accettare una definizione di “Paesaggio storico” ammette l’esistenza di un paesaggio più storico di altri, fino a riconoscere, per converso, l’esistenza di paesaggi a-storici o non storici favorendo, a cominciare dal secondo dopoguerra, una sorta di perversa graduatoria tra territori/paesaggi intangibili perché densi di significati ambientali, simbolici, culturali e altri, figli di un dio minore, sacrificabili “al progresso”4. una contrapposizione col tempo sempre meno frontale, ma non per questo meno incisiva, specie se tradotta sul terreno dalle pratiche del centro vs. periferia, della conservazione in vitro, del recinto, dell’Oasi, dell’Area e del Parco archeologico5, sempre ritagliati intorno ad aree “meritevoli”. un chiaro esempio è quello dell’Appia, il più grande parco archeologico del mondo, i cui limiti istituzionali implicano 1 J. l. Carrilho de Graça, Schizzo iniziale del progetto per il recupero delle rovine della chiesa di Sao Paulo a Macao, 1990. 1 In forme più o meno, ma anche per niente, retoriche (cfr. L.decandia, Recinti sacri e feste lunghe in Sardegna. La centralità dei luoghi sacri nella costruzione della realtà territoriale sarda, in G. Costa (a cura di), Un campus Teatrale a Sant’Anna arresi in Sardegna, Contemporanea, firenze 1994; Id. Dell’identità. Saggio sui luoghi: per una critica della razionalità urbanistica, Rubbettino, Catanzaro 2000; Id., Anime di luoghi, franco Angeli, Milano 2004; M. fazio (a cura di), Dossier. Paesaggio, identità perduta. La trasformazione del paesaggio italiano,“Italia nostra”, 327, 1996; L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997; Id. Oltre il paesaggio, Arianna Editrice, Bologna 2002; M. Venturi ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Editori Riuniti, Roma 2002). 2 C. Copeta, Prefazione in d. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, unicopli, Milano 1990, p. 17. 3 L. Caravaggi, Paesaggi di paesaggi, Meltemi, Roma 2002, p. 12. 4 A. Ricci, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, donzelli, Roma 2006. 5 P.G. Guzzo, Considerazioni sui parchi archeologici, Ostraka, “Rivista di antichità“, v, 2, 1996. p. 372. 59 TUTELA E REINVENZIONE 2 barumini, reggia Nuragica. 60 6 Cfr. f. fazzio, Gli spazi dell’archeologia. Temi per il progetto urbanistico., Officina, Roma 2005. 7 f. farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003, pp. 200-201; L. decandia, Anime di luoghi, franco Angeli, Milano 2004, pp. 16-24. 8 Raramente si parla di “eredità”, perché probabilmente andrebbe gestita e lasciata, a sua volta, in eredità (cfr. G. Azzena, Proposte per un glossario: quattro lemmi e un neologismo per l’ambito storico, “Eddyburg”, 29 Ottobre 2007). uso”9 e dunque aperte a soluzioni gestionali il cui obiettivo principale ed esplicitamente annunciato era rappresentato dalla “messa a reddito”. una condizione che ha rafforzato l’idea del recinto archeologico e che, pur riconoscendo le buone intenzioni dei Padri costituenti nella redazione della Costituzione (art. 9)10 ha determinato la nascita di quelli che Longobardi chiama “non luoghi della memoria”11. un ultimo spunto, particolarmente pregnante di cui tener conto, perché originato proprio dall’ambiguità che distingue luoghi “storici” e “a-storici” è relativo al problema della coscienza, anche perché, come dimostrano le direttive unesco i punti di vista cambiano. Antonio Cederna12, nel 1950, scriveva “in arte tutto teoricamente si può fare, che il ‘si deve’ e il ‘non si deve’ non c’entrano nulla, ma è solo e sempre questione di uomini, capaci e geniali o incapaci e mediocri”. Più tardi rifiuterà questa visione sostenendo che “non si può fare nulla, si deve proibire tutto”. una contraddizione interessante, dimostrabile secondo una prospettiva di “equidistanza storica”, nel riconoscimento cioè di una prospettiva storica in continuo movimento, non fissata sull’immagine rilevante (cospicua, famosa, evidente ecc.) di un contesto. (G.A.) 2 necessariamente che quello che c’è intorno sia a-storico o non storico. Si tratta di una vecchia concezione gerarchica, la stessa che ha prodotto i recinti6, risultato dei processi di individuazione e riconoscimento di un bene. Attribuire al Paesaggio una particolare qualità implica necessariamente una componente percettiva che, nonostante la continua ricerca delle discipline delegate, contribuisce a renderlo sfuggente ad ogni definizione certa e condivisa. L’intima necessità di ricercare precise definizioni di Paesaggio e, più in generale dei beni culturali, ha contribuito alla nascita di una struttura normativa a carattere essenzialmente tassonomico con il rischio, non solo semantico, di trascurare alcune componenti basilari dell’analisi: da una parte il tempo e dall’altra le reti delle relazioni, siano esse visive, simboliche, religiose, socio-politiche, affettive7. non sarebbe corretto attribuire la responsabilità della deriva degli strumenti di controllo e tutela alla sola struttura normativa; sarebbe più opportuno metterne a fuoco i problemi, per capire se sia possibile migliorare i sistemi di gestione e tutela. Quando si è intravista la possibilità di poter far cassa anche con i beni culturali è mutata anche la terminologia e si è cominciato a parlare di Giacimento culturale e Patrimonio8, ad indicare testimonianze di particolare pregio perché “non più in il progetto archeologico e il territorio. La laboriosa responsabilità di “individuare” paesaggi si dovrà allora fondare anche su criteri più astratti nelle loro formulazioni teoriche, se non analizzabili forse almeno comprensibili in una visione che ne racchiuda gli aspetti emozionali e quelli tecnico-scientifici, quelli solo percettivi e quelli classificatori, nel tentativo di restituire da un lato spessore storico, culturale, affettivo ai quadri tassonomici e, dall’altro, di rendere meno labili gli aspetti “emotivi” del paesaggio. una lettura integrata e non un’addizione di letture dove alla suggestione esteticosentimentale davanti alla natura (Eindruck, ossia il paesaggio propriamente detto) si congiunge l’analisi, la misura del mondo (Einsicht) disposta su uno solo dei suoi aspetti, per pervenire infine al Zusammenhang, cioè al ritorno alla complessità degli insiemi e dei sistemi delle relazioni su cui si basa il funzionamento del mondo, finalmente chiaro grazie al passaggio attraverso le fasi precedenti13. È chiaro che sulla base delle specifiche situazioni, gli interventi possano essere orientati verso un’ottica di conservazione piuttosto che di valorizzazione attraverso operazioni di rinnovamento urbano o territoriale14. Ovviamente l’esame delle preesistenze e delle condizioni concrete rappresenta un presupposto imprescindibile: il lavoro di analisi deve poter condurre a risposte progettuali che vadano oltre l’isolamento dei resti dal contesto attraverso recinti protettivi. non è possibile però definire modelli di intervento validi per tutte le aree archeologiche senza tener conto delle specifiche condizioni: parlare di “linee guida” in relazione a progetti o interventi relativi alla valorizzazione dei beni archeologici è assolutamente fuorviante; anche la presenza di situazioni simili e ricorrenti nel caso di ritrovamenti archeologici, non garantisce la possibilità di trovare soluzioni univoche. Se si sposa l’idea che la riqualificazione di un’area archeologica sia 9 “Ogni opera della mano dell’uomo, solo per il fatto di essere ‘monumento’ cioè di essere già esistita per un certo tempo, gode il diritto di protezione” (A. Riegl, Teoria e prassi della conservazione dei monumenti, clueb, Bologna 1995, p. 40). 10 “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. nel corso della discussione sull’articolo 9 del Progetto di Costituzione, discussione all’Assemblea del 30 aprile 1947, merita particolare attenzione l’intervento Emilio Lussu “Ecco perché io che credo di essere, o di poter essere annoverato, se non fra i più autorevoli, certo fra i più tenaci assertori della riforma autonomistica dello Stato, aderisco totalmente all’emendamento presentato dal collega onorevole Codignola […] Solo, per evitare confusioni ed equivoci pregherei l’onorevole Codignola di sostituire a ‘Stato’, ‘Repubblica’”. 11 La definizione, mutuata dai “non-lieux” di Marc Augé, è in G. Longobardi, Aree archeologiche: non luoghi della città contemporanea, in M.M. Segarra Lagunes (a cura di), Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi, Gangemi, Roma 2002. 12 A. Cederna, Brandelli d’Italia: come distruggere il bel paese, newton Compton, Roma 1991, p. 288. 13 f. farinelli, La natura del paesaggio, in R. Milani, A. Morpurgo, Mutazioni di paesaggio, numero monografico di “Parametro”, 245, 2003, p. 66. 14 A questo proposito è di sicuro interesse l’interpretazione di “monumento” data in A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di S.Scarrocchia, Abscondita, Bologna 1990, p.16. Si parla di “monumenti involontari”, il cui significato non dipende dalla loro destinazione originaria, ma dal valore attribuito da noi, osservatori moderni. françoise Choay (L’allegoria del patrimonio, tr. it. a cura di E. d’Alfonso, Officina, Roma 1995, p. 30) ragiona in termini di reimpiego, ma di significati e non di oggetti. 61 TUTELA E REINVENZIONE 62 subordinata al territorio circostante e debba rispondere perciò alle relazioni che possono generarsi con il contesto, è naturale che le situazioni saranno sempre differenti e declinabili in diversi modi. In base alle caratteristiche del contesto circostante si impongono dunque forme di intervento distinte a seconda che si tratti di aree consolidate, piuttosto che aree in fase di scavo o in piena trasformazione. In questo senso un “progetto per l’archeologia” deve essere inteso e percepito innanzitutto come strumento culturale, definito a partire da una serie di indicazioni e suggestioni provenienti dal territorio ed espresso dunque tramite progetti che possano influire ed intervenire, a seconda delle necessità, sia su scala locale che sovra locale. non si tratta, è ovvio, di trovare nuove metodologie per la sistematizzazione e catalogazione dei dati archeologici, ma di nuove modalità di approccio al progetto archeologico attraverso una differente chiave di lettura ed interpretazione delle preesistenze, nell’ottica di ridefinire alcune modalità di fruizione dell’area insieme con il territorio d’appartenenza. La fruizione del bene, intesa come strumento necessario per la tutela, deve dunque essere ottenuta attraverso strumenti esecutivi necessari per l’attuazione di progetti specifici che focalizzino l’attenzione sulle modalità di accesso, uso e percezione del bene, al fine di ottenere situazioni di maggiore commistione tra ambito archeologico, naturale, urbano; si comprende come in questo senso, attraverso progetti che si orientino verso interventi esterni all’area vincolata e solo apparentemente estranei all’ambito archeologico, possano invece convivere regole e azioni progettuali. Trovare soluzioni nuove per i beni archeologici non richiede lo stravolgimento o la cancellazione del quadro istituzionale esistente; permette invece che archeologia e territorio vengano visti come ambiti integrati, come del resto sono nella realtà, parte di contesti disciplinari apparentemente differenti, ma che necessariamente devono collaborare nel progetto del territorio. (R.B.) for the identification of new and increasingly effective solutions for revealing the territorial dimension of an archaeological context, it has become necessary to define several principles for the recognition of the so-called “historic landscapes”, which are valid for the analytic study of the “chrono-diversity” features of a territory. Thus not so much, or not only, a scientific reconstruction of one or more historic phases of a context, but an analytic study of what exists for everyone to perceive and enjoy now: the “historic” peculiarities of a territory. An approach that seems to be both the cause and the effect of a protection legislation that has considered the historic condition of places as determined only by the physical presence of “objects” no longer in use, and which seems to tend often towards a separation of the real research contexts, preventing the definition of shared solutions that involve an entire territorial system. The ultimate consequences of this cultural attitude are the virtual or real fences cut out around these “objects” representing history: protective fences as untouchable in theory as they are fragile in the practice of the indifference “around” them”; fences made impermeable to life and, therefore, for all intents and purposes conceivable as “external”, even (or above all) when they are situated in the centre of our cities. The clarification of the ambiguous statute of the historicity of places could give rise not only to a less abstract and thus more shared idea of protection, but also – and this is the profound sense of the proposed contribution – a planning and design vision that is no longer dominated by the impediment represented by their cumbersome presence, but a guarantor of the potentials deriving from the suggestiveness of the fact of their still being present. While it is true that in the perception of the cultural values of a territory and a context there is an interweaving of natural and anthropic factors, affective and symbolic elements, different scales of interest and looks, just the “conservation by choosing” alone, on the basis of a hierarchical system of values, is not sufficient to run through the profound sense of a system of collective and individual perceptions. It is thus not a matter of merely deciding whether or not to dig in an archaeological area, of whether and how to restore an isolated complex, or even whether and how to equip an ancient route which has come to light by chance. It is not a matter of “museumifying” a single find in situ, bringing to a halt every other form of transformation, or of sacrificing it after having studied it appropriately. It is a matter of dealing with these situations all together, on dimensions that make necessary not a constraint, but a conditioned attention, not so much on the basis of the single object or area, but of the idea of the landscape that one wishes to create with that project. seARCHiNG FoR tHe lANdsCAPe ABSTRACT 63 PeR lA CoNtiNuità Raffaele Panella La ricerca di una “continuità” tra la città contemporanea e la città antica, che compare con insistenza nelle parole e nei piani di amministratori pubblici, di architetti e archeologi, fa parte della famiglia assai più vasta di problemi riconducibili al dittico pervicacemente e tradizionalmente oppositivo antico/moderno. non vorrei apparire fuorviante e semplificare in modo eccessivo una questione di così grande complessità, asserendo che l’unico modo che io personalmente conosco e pratico, quando posso, è la contaminazione. Mi riferisco al significato letterario del termine, più precisamente a quello usato correntemente nella linguistica, da intendere quindi come fusione di forme e di stili originata da un tentativo di avvicinamento, adesione, continuità. Appunto. Progetto archeologico e progetto urbano. da qui alla definizione di una tassonomia dei possibili modi di stabilire – con il progetto, il progetto urbano in particolare – una continuità tra città antica e città postmoderna, il passaggio è molto accidentato e non può essere ridotto a una questione puramente funzionale. Anzitutto, siamo dinanzi non a uno ma a due progetti, quello archeologico e quello urbano, che hanno entrambi una elevata dignità scientifica e una loro tradizione che li spingono a confliggere o a ignorarsi. Ma il problema non è solo quello di una integrazione difficile; poiché entrambi si trovano ad operare in un contesto in forte movimento che tende a cambiare le regole della convivenza, nella fattispecie, di quella convivenza espressa dagli spazi collettivi urbani. È del tutto evidente che se che il “progetto archeologico”, ossia l’esplorazione dei resti della città antica per ricostruirne la storia, ed eventualmente lasciarne in vista talune componenti, come testimonianza o fonte di godimento estetico, si muove in completa autonomia da quello urbano, questa continuità, sia che venga presentata come “un fatto culturale” spesso non sufficientemente circostanziato, 1 C. Aymonino, Schizzo di studio per Il Colosso, 1984. 65 TUTELA E REINVENZIONE sia che appaia mascherata da una qualche destinazione d’uso moderna, non esiste. Tanto peggio se l’archeologo è convinto con la sua esplorazione – oggi, generalmente lo scavo – di depositare nel tessuto della città un autentico e indiscutibile valore urbano, ossia un valore con il quale la città moderna deve confrontarsi ed adattarsi, dalla accessibilità al traffico, dalle funzioni all’assetto edilizio vero e proprio. Ma non va meglio se il progettista urbano, ignorando il contenuto di quei resti, li cataloga come “antichità” da conservare, ne “abbellisce” l’intorno, spesso l’involucro, con piante di sapore antico – l’ulivo, l’acanto, l’edera – magari sullo sfondo di un bel prato verde, convinto di restituire alla civitas un pezzo di natura di maggior valore perché nobilitato dalla storia, ovvero, un pezzo di storia più accattivante perché naturalizzato. Sto descrivendo una cattiva musealizzazione, ma anche una accorta musealizzazione porta allo stesso risultato: la recintazione dell’area archeologica, magari dotandola di una robusta cancellata. forse in taluni casi non si può fare di più, anche per tutelare dei resti spesso assai fragili. Ma non è il caso di parlare di continuità. 66 Connessioni e contaminazioni. Lavorare insieme, ossia, integrare il progetto urbano con quello archeologico, significa ben altra cosa. Significa innanzi tutto lavorare sulle connessioni, sul sistema delle relazioni ritenute le più idonee a comunicare l’identità del sito con cui abbiamo a che fare, e quindi a trovare un senso urbano a ciò che è emerso dalla esplorazione. Ed è il problema della soluzione architettonico urbana senz’altro strategica dei “bordi”, come sottolinea Manacorda. Che a Roma, ma non solo, assume salvo che in alcuni casi eccezionali (la conca del Colosseo nella quale la quota moderna coincide con quella della sistemazione flavia), il carattere singolare della risoluzione di un salto di quota che si attesta normalmente sui 3.5, 4 metri, almeno dell’area centrale ma lo studioso va più avanti e si domanda “… Ma che cosa accade poi nello spazio archeologico?“ La mia risposta è che se noi non consideriamo i resti della città antica come materiali del progetto moderno, per essere più chiari, se essi non sono declinabili nello stesso sistema semiologico dell’architettura, è come se lavorassimo ad una grande tela con dei buchi. Abbiamo fatto un passo avanti notevole nel senso della continuità risolvendo le connessioni, i bordi (su cui in ogni caso c’è ancora tanto da dire e da esplorare), ma se dobbiamo entrare nella “polpa”, in quello che Manacorda chiama lo “spazio archeologico”, con l’obiettivo di comunicare attraverso l’uso e la forma, quale che sia, il senso di quel luogo, non c’è altro modo che considerare i resti, i pezzi di città antica, come materiali manipolabili dall’architettura, in un rapporto che non può essere altro che di contaminazione. d’altra parte, tutte le grandi opere che testimoniano di una continuità realmente realizzata sono effetto di una contaminazione. Cito due esempi canonici nei quali si usano materiali diversi per rapporto a due diverse latitudini: S. Maria degli Angeli a Roma sul frigidarium delle Terme di diocleziano, opera michelangiolesca, poi Vanvitelliana; il duomo di Siracusa a Ortigia sul Tempio di Atena, passato attraverso l’architettura normanna e quella barocca: io rimango sempre impressionato da questi esempi, ma confesso di provare la stessa emozione in due esempi romani di scala urbana: piazza navona che riprende le tracce dello stadio di domiziano e piazza della Repubblica che il genio di Gaetano Koch ricalca sulla grande esedra delle terme sempre del su nominato imperatore. Peccato che questo straordinario esempio di continuità sfugga ai più. non è una continuità funzionale e di certo neanche morfologica, ma la sua preziosità sta proprio nell’aver colto il “senso del luogo”. Oggi è impensabile usare l’ottica rinascimentale, ma anche ottocentesca con cui ci avviciniamo ai resti antichi, ma l’architettura continua a operare solo su materiali semiologicamente omogenei, che siano moderni o antichi, altrimenti viene meno il suo statuto. Ossia viene meno l’architettura in quanto tale. Ben inteso, nessuno mette in discussione la diversità dei materiali antichi, la diversa cultura materiale da essi incorporata, la loro diversa consistenza, il diverso valore misurato sulla loro unicità, sul tempo di vita e sulle informazioni che ci danno del passato, infine, la loro grande, grandissima, fragilità. Ecco perché il progettista urbano, se deve affrontare un tema simile, cioè se deve costruire un progetto di sistemazione di un’area archeologica, non può fare a meno di entrare profondamente nella natura specifica di quella “antichità”, e quindi della vicinanza stretta dell’archeologo in tutte la fasi del progetto. direi di più: l’Architetto che vuole interagire deve entrare nel cantiere archeologico. naturalmente, l’estensione e la pervasività dell’architettura nel cantiere archeologico è funzione dello stato e della consistenza dei manufatti emersi, dei sacrifici imposti dalla esplorazione stratigrafica, della compiutezza o meno del senso del luogo che lo scavo si è reso disponibile a trasmettere, oltre che della sua collocazione nel contesto urbano, della sua accessibilità, delle sue dimensioni di parte di città o di frammento. Ma la sua natura, il suo apporto non cambia, anche se esso si riduce a indicare soltanto il modo più efficace per leggere i manufatti sopravvissuti, magari indicando un percorso narrativo. Ciò avviene soprattutto se “lo spazio archeologico” è un dato consolidato nel sistema delle relazioni urbane, nella stessa storia della città e nella percezione dei cittadini, il Palatino, la villa di Adriano, Ostia antica. non è una diminutio limitarsi ad articolare il racconto della vicenda urbana di quel sito o quel monumento, individuare percorsi diversi – magari a quote diverse – per epoche diverse o per lacerti urbani omogenei, o percorsi diversi per differenti tipi di visitatori, da chi si ritiene soddisfatto di cogliere l’immagine delle cose alla studioso colto che ha bisogno di toccarle con mano, di allocarvi i servizi (anche solo informativi), di intervenire con anastilosi o con linguaggio espressamente moderno per integrare strutture la cui comprensione per gli stessi studiosi appare problematica per l’ingiuria del tempo e per le effrazioni dell’uomo antiche e moderne (l’architettura ha poco o nulla in comune con la pittura in tema di restauro). Se lo “spazio archeologico” è il foro romano, la presenza dell’architettura potrebbe avere un ruolo maggiore se non altro per costruire registri per comprendere l’eccezionale stratificazione del tutto naturale per una città che ne ha fatto il suo centro per mille anni. Se lo spazio archeologico si presenta mescolato con la città e la vita moderna, i fori Imperiali, la valle dell’Anfiteatro flavio, comprese le pendici del Celio, dell’Oppio e 67 tipo di storicismo. In questo modo è possibile ricomporre l’unità urbana dei fori Imperiali. Ma abbiamo anche deciso di semplificare la stratificazione sull’impianto delle antiche piazze, che presa alla lettera oggi impedisce qualsiasi comprensione della forma delle stesse e della loro formidabile continuità urbanistica. Abbiamo ritenuto irresolubile la cerniera di largo Corrado Ricci/Templum Pacis, cercando una impossibile con-presenza tra strade e parterre archeologico che, come si vede oggi, mortifica la grandiosità del foro della Pace e rende ridicola la viabilità moderna. Qui abbiamo ritenuto che i due livelli dovessero coesistere, in piena autonomia, utilizzando le due quote diverse, creando l’opportunità di fare del Templum Pacis il nuovo Antiquarium dei fori. Via i giardinetti dallo slargo che fronteggia da ovest il Colosseo ed al loro posto un nuovo parterre di pietra e di marmi il cui disegno a terra riproduce le murazione della Reggia neroniana demolita dai flavi, per restituire l’area al popolo romano, in parole povere, per farne un luogo collettivo. Come collettivo era l’uso dell’Anfiteatro che i flavi realizzano sul Lacus neronis, che l’imperatore fantasista utilizzava per sé e i suoi ospiti (dopo aver demolito un pezzo di città repubblicana). Ove possibile, realizzazione di strutture ipogee che valorizzino gli straordinari ritrovamenti di epoca augustea e regia. Perché poi non ricostruire, come era e dove era il “piano dei grandi travertini”? Perché non sedimentare un segnale del perimetro originario dell’Anfiteatro? Perché non ricostruire almeno il desco della fontana della Meta Sudans e farvi scorrere dell’acqua? 2 TUTELA E REINVENZIONE 2 R. Panella, Progetto di sistemazione dei Fori Imperiali, vista del portico settentrionale del Foro di Cesare. 68 del Palatino, l’impegno dell’architettura è più vasto e complesso, iniziando proprio dai bordi, che insistono sui margini delle strutture archeologiche, ma spesso sono margini interni essi stessi rispetto alle strutture archeologiche. Roma e il Foro. L’esperienza che abbiamo conseguito nella ricerca di progettazione, condotta del diap da un gruppo interdisciplinare da me diretto, della sistemazione dell’area che da piazza Venezia si conclude con il Colosseo, oggi in via di pubblicazione, si colloca esattamente in questa direzione. Quì si tratta di riprogettare strutture moderne anche imponenti, interne alla polpa archeologica, che vengono considerate non più idonee al racconto del luogo. dalla via dei fori Imperiali, alle sistemazioni anni ’30 e ’40 della Velia, alla piazza del Colosseo e alle pendici dei colli che vi prospettano. L’impegno dell’architettura qui è più radicale perché viene chiamata a decidere se demolire o conservare la via dei fori Imperiali, su come risolvere la compresenza del Templum Pacis con largo Corrado Ricci che è la cerniera tra la città moderna e quella antica, sul come atteggiarsi dinanzi a un invaso del monumento tra i più importanti del mondo, per buona parte occupato da una viabilità eccessiva ed ossessiva, per il resto trattato come un giardinetto pubblico con piante varie e un green verde, che costringe i 5 milioni di i visitatori a file stressanti senza una rete di servizi da paese civile. nella ricerca di progettazione che prima citavo, abbiamo inteso sostituire lo stradone con un viadotto che corre alla stessa quota e sulla stessa traccia, considerandola un margine interno della città moderna sull’antico, lontani comunque da ogni lo spazio archeologico. Con il richiamo allo spazio collettivo urbano suggerito da Vespasiano introduciamo l’ultimo tema. Lo “spazio archeologico” è uno spazio pubblico e quindi con una certa approssimazione anche spazio collettivo che ha a che fare, comunica con altri spazi collettivi della città. Possiamo asserire che il collettivo oltre che essere la sostanza è anche il contesto fisico dello spazio archeologico. Ma siamo proprio certi che il senso – prima che le funzioni – dello spazio collettivo urbano non abbia subito il riflesso di quelle mutazioni genetiche che sta subendo la città nel suo farsi e nell’organizzare la vita dell’uomo contemporaneo? La città post moderna è divenuta, infatti, un arcipelago dominato dalla rete delle comunicazioni materiali e da quella delle comunicazioni immateriali che hanno fatto saltare il vecchio sistema delle centralità urbane, ossia, dei luoghi del collettivo urbano organizzati a formare livelli diversi di aggregazione e di servizi, dal centro-città ai centri di quartiere o di zona, con funzioni che vanno dalle più nobili, quelle rappresentative della civitas in tutte sue articolazioni, alle più domestiche dei servizi pubblici ad uso della residenza. Le funzioni che caratterizzavano i luoghi collettivi urbani si sono ecclissate dai luoghi tradizionali per meccanismi interni che hanno a che fare con la tendenza alla delocalizzazione (la quale non riguarda solo i luoghi della produzione di beni materiali) o si sono rarefatte per l’enorme sviluppo della rete immateriale. La delocalizzazione è operante anche per il commercio, che non abbandona i luoghi d’insediamento tradizionale solo se la loro immagine è radicata nelle città, quando non sia veicolata dai media di tutto il mondo e divenuta in questo modo un fattore di attrazione. 69 TUTELA E REINVENZIONE Eppure il senso del luogo collettivo non è andato irrimediabilmente perduto; esso ha subito se mai una mutazione che lo spinge – a mio avviso – verso l’attribuzione di un valore simbolico di intensità sconosciuta, se misurata col metro dei valori tradizionali legati soprattutto all’uso. A collegare alla storia urbana il senso del collettivo hanno non poco contribuito i visitatori stranieri. È una storia lunga che inizia nel ’700, ma assume il carattere di massa nei tempi nostri. Molti luoghi di alto valore urbano, per via di storia o per via di bellezza, più spesso per via della bellezza depositata dalla storia, sono stati riconosciuti dagli stranieri prima che dai romani. Ora sono divenuti luoghi di appartenenza della Civitas romana. Così storia e bellezza sostituiscono le funzioni tradizionali che caratterizzavano un luogo collettivo. naturalmente non è tutto così e non lo è sempre, ma questa singolare mutazione che riguarda i grandi fatti urbani assume via via un carattere più pervasivo, indicando una tendenza, che è in grado di influenzare non poco il ruolo urbano e la conseguente sistemazione delle aree archeologiche e dei manufatti antichi che qualificano lo spazio urbano e lo rendono collettivo se riescono a comunicare che sono portatori di storia e di bellezza. 70 The pursuit of “continuity” between the contemporary city and the ancient city has to do with the stubbornly and traditionally oppositional Ancient/Modern diptych. The only way I know, and which is practical, is contamination as a fusion of forms and styles originating from an attempt at approach, adhesion, continuity. Two projects operate on this continuity between the ancient city and postmodern city: the archaeological one and the urban, which have their own high scientific dignity and their own tradition, which pushes them to enter into conflict or to ignore each other. While the “archaeological project” moves in total autonomy from the urban one, this continuity does not exist, whether the archaeological remains are presented as “a cultural fact” or whether they appear concealed by some modern use. The same thing happens if the urban planner, ignoring the content of those remains, classifies them as “antiquities” to be preserved and to “beautify”, convinced to returning to the civitas a piece of nature of greater value because it is rendered noble by history, that is, a piece of history that is more appealing because it is naturalized. Integration of the urban project with the archaeological one means something entirely different. It means working on the system of relationships deemed most suitable for communicating the identity of the site with which we are working, and therefore for finding an urban sense for what has emerged from the exploration. It is the problem of the “edges” which, however, is not exhaustive, since it leaves open the problem of the intervention in the archaeological space. Beyond the “edges”, the only way to approach the “archaeological space is to consider the ancient remains “materials” of the project, that is, materials expressible in the same semiotic system of architecture, even if they are structures that are different in nature, history, and fragility. This means that the architect must enter the “archaeological work site” and take possession of the “urban sense” of the finds. Of course, the extension and pervasiveness of architecture in the archaeological work site are different if we are working in a consolidated archaeological area or in areas already strongly contaminated by human intervention, such as the area of the Imperial fora in Rome. The nature of the architect’s intervention does not change and cannot move away from facilitating the story of the urban meaning of the archaeological structures found, working on the margins of the archaeological area. Important is also implementing measures to protect the ancient remains and improve their understandability through direct intervention both in anastylosis and through modern forms, whence the admissibility of the contamination. urban archaeological areas are collective areas par excellence if they communicate with the aid of architecture, history, and beauty. toWARds CoNtiNuitY ARSTRACT 71 sCelte diFFiCili e iNteRPRetAZioNi APeRte Lucina Caravaggi Ci sono dei momenti, come quello che stiamo vivendo, in cui scarsità di risorse economiche e un generale scoramento nei confronti dell’amministrazione dei beni pubblici sembrano amplificare, all’interno del variegato universo dei beni culturali, la distanza che separa ricerca, tutela e valorizzazione (distanza già considerevole, nel nostro paese). E nel caso dei beni archeologici la distanza appare ancora più grande che in altre famiglie. In verità le tre parole comunicano ormai pochi significati vitali e stanno diventando appellativi rituali, spesso vuoti di immagini e concetti effettivamente riconosciuti. Anche le parole si stancano, a forza di sopportare fardelli troppo pesanti. Purtuttavia, fino al momento in cui non avremo messo a punto altre parole (altre immagini e altri concetti) credo sia utile provare a riscoprire il potenziale euristico ancora oggi connesso a questi termini, magari rileggendo chi ha riflettuto a lungo su questo rapporto, come daniele Manacorda, anche a partire da quanto ha esposto in questo seminario, con l’abituale rigore argomentativo e la capacità di far dialogare discipline diverse. Il progressivo scollamento tra codificazione normativa di un valore culturale e la percezione sociale effettiva dello stesso, che è alla base dell’indebolimento dell’idea di bene comune e dei conseguenti dispositivi di tutela, fa aumentare pericolosamente la distanza tra i pochi soggetti istituzionali e scientifici (in questo caso Soprintendenti e archeologi) e il resto della società civile. Anche il numero dei soggetti culturali che si occupano, a vario titolo, di progetti di archeologia, si sta assottigliando. In confronto a quanto accadeva anche solo qualche decennio fa, se si escludono le comunicazioni di natura eminentemente (e spesso eccessivamente) commerciale, sembrano davvero rari gli episodi di mobilitazione culturale riferiti all’archeologia. Rispetto a questo quadro fanno eccezione gli architetti, a parte gli archeologi ovviamente. 1 l. Franciosini, Progetto di concorso per il centro culturale “Città Alessandrina”, 2008. 73 La passione nei confronti dell’archeologia si mostra come un profondo solco di ricerca all’interno dell’architettura, e sarebbe interessante ripercorrerlo nella sua evoluzione non lineare, soprattutto a partire dalle codificazioni disciplinari otto-novecentesche. Ma non è questa la sede per indagare le ragioni di questa passione sempre nuova per l’archeologia da parte degli architetti1. Solo un cenno ad alcuni temi che più recentemente hanno connesso le due discipline all’interno di progetti e sfide comuni, concentrati prevalentemente sul terreno della valorizzazione. Ma anche agli ostacoli che rendono a volte difficile questo dialogo. scelte difficili. dal fronte dell’archeologia si sta facendo faticosamente strada la consapevolezza che lo scavo è un punto di rottura irreversibile nel rapporto tra spazi insediati e collettività coinvolte, e che per avviare un dialogo nuovo è necessario, come afferma Manacorda, operare una scelta di valorizzazione: TUTELA E REINVENZIONE nelle sue svariate forme mediante le quali i contenuti culturali, continuamente rivissuti e interpretati, vengono messi in condizione non di sopravvivere, ma di svolgere un ruolo attivo nella società del momento, che sceglie e reinterpreta continuamente ciò che traghetterà nel futuro2. 74 1 Sarebbe quanto mai interessante tracciare una sorta di evoluzione parallela tra le trasformazioni dei metodi di ricerca archeologica e le coeve interpretazioni degli architetti. Si scoprirebbero legami molto interessanti, un’interdipendenza spesso sottovalutata dagli architetti ma più chiara agli archeologi, in particolare: d. Manacorda, Prima lezione di archeologia, Editori Laterza, Roma-Bari 2004; d. Manacorda, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo, “Quaderni di storia”, 16, 1982, pp. 85-119; A. Carandini, Archeologia, architettura e storia dell’arte, in R. francovich, R. Parenti (a cura di), Archeologia e restauro dei monumenti, All’Insegna del Giglio, firenze 1988; A. Carandini, Gli architetti e i parchi archeologici a Roma, “Groma – Giornale di architettura”, 4, 1999, pp. 20-21; M. Barbanera, L’archeologia degli italiani: storia, metodi e orientamenti dell’archeologia classica in Italia, Editori riuniti, Roma 1998. 2 d. Manacorda, Il sito archeologico tra ricerca e valorizzazione, Carocci, Roma 2007, pp. 82-92. Questa impostazione è efficace perché assolutamente trasversale rispetto agli oggetti da valorizzare, che si tratti di ritrovamenti puntuali o scavi che coinvolgono vasti territori aperti, di ritrovamenti dotati di una presenza monumentale o ruderi che spuntano qua e la in una sterpaglia, di aree recintate o siti vastissimi indagati e rinterrati. Ed è efficace anche rispetto alle infinite possibili forme della loro valorizzazione: dalle nuove declinazioni della musealizzazione in situ alla loro gestione paesaggistica all’interno dei parchi naturali, dall’urbanissimo uso pubblico dei parchi archeologici centrali a forme di presidio innovativo in collaborazione con associazioni di categoria, soggetti privati, istituzioni culturali ecc. Ma non sempre gli archeologi riescono ad argomentare, e comunicare all’esterno, il possibile senso culturale dei ritrovamenti in uno specifico contesto (con tutti i vincoli e le possibilità di quel contesto), cioè cosa comunicare rispetto al continuum dello scavo stratigrafico, al legame indissolubile che lega i diversi strati tra loro e tutti al terreno, all’evoluzione degli ambienti in relazione al clima, alla morfologia, all’andamento dei fiumi e alle colture. Molto spesso si tratta di attese dovute all’impossibilità di condurre campagne di scavo degne di questo nome, per cui i siti, venuti alla luce per caso (generalmente a seguito di trasformazioni contemporanee) rimangono in attesa di raccontare compiutamente le loro storie. In altri casi si tratta di rinuncia consapevole. Ma i grandi o piccoli cantieri aperti all’infinito, i “crateri” recintati, i salti di quota che interrompono la continuità rassicurante di un suolo urbano o di un territorio coltivato, le aree di vincolo senza nome all’interno di un parcheggio o nel recinto di una scuola, allontanano la ricerca archeologica dalla dimensione culturale collettiva che è un alimento indispensabile per far crescere nuove forme di tutela consapevole. interpretazioni aperte. dal fronte dell’architettura le tendenze più interessanti sono caratterizzate da una profonda disponibilità a prendere parte a un processo di conoscenza complesso come quello archeologico, a cui il progetto di valorizzazione collabora e che contribuisce a delineare, in un percorso non sempre agevole, a volte contraddittorio e anche conflittuale. L’interpretazione di un testo archeologico attraverso un progetto di architettura (con implicazioni paesaggistiche sempre più evidenti e diffuse) presuppone il coinvolgimento da una parte degli architetti nelle dinamiche dello scavo, nella sua storia e nelle differenti interpretazioni succedutesi nel tempo, e dall’altra degli archeologi nel processo di definizione di una traccia narrativa condivisa da porre alla base del progetto stesso. Tra gli obiettivi più diffusi e significativi del dialogo architettura-archeologia all’oggi, metterei infatti la ricerca di una qualche forma di “leggibilità”, capace di riattivare il dialogo tra un testo archeologico e il suo pubblico contemporaneo3. Quelli che abbiamo visto in questa sede sono progetti consapevoli della responsabilità che viene loro affidata rispetto al lascito del passato, ma altrettanto chiaramente ancorati al presente, con una tenace disponibilità ad accettare i vincoli derivanti dalla tutela dei ritrovamenti ma capaci di comunicare anche il fascino culturale e la storia inscritta in quelle tracce attraverso dispositivi spaziali contemporanei che, ci auguriamo, saranno in grado di ri-attivare il dialogo interrotto con le comunità coinvolte, locali e sovra-locali. Anche tra gli architetti però, sebbene le sintesi frettolose e l’ansia di lasciare segni siano ormai considerati atteggiamenti del passato (finalmente), il dialogo con l’altra disciplina è a volte ridotto al minimo, o banalizzato. In molti progetti il dialogo tra esigenze contemporanee e complessità di un contesto archeologico appare piuttosto superficiale, quasi un pretesto per arrivare ad una qualche “formalizzazione”. La ricerca di geometrie rassicuranti, o l’allestimento di giardini “compiuti”, sembra stridere con la natura euristica e aperta dell’interpretazione di un testo archeologico, che deve poter essere continuamente riletto e “reintegrato”, attraverso processi di immaginazione guidati dalla conoscenza. Anche il rapporto con la vegetazione, tema classico della volontà di sistemazione archeologica4, appare spesso privo di una strategia interpretativa del contesto (dal punto di vista delle trasformazione del suolo, della biodiversità quale esito e prospettiva evolutiva ecc.) a favore di sistemazioni rassicuranti, forse troppo compiaciute per contribuire efficacemente al dialogo tra soggetti sociali e siti archeologici. Ricerche recenti. All’interno di ricerche recenti abbiamo cominciato a riflettere sul senso di possibili narrazioni storiche all’interno di differenti contesti paesistici regionali. L’archeologia diventa una sorta di matrice dotata di senso rispetto al presente, capace cioè di comunicare dinamiche evolutive specifiche di un territorio (insediative, ambientali, agricole). Il progetto di valorizzazione muove da sequenze evolutive ritenute parti5 3 In particolare: il progetto di sistemazione dell’area archeologica attorno all’Acropoli di Atene di dimitris Pikionis; il progetto del Yenikapi Transfer Point and Archaeo-Park Area ad Istanbul di francesco Cellini; il progetto del Parco della battaglia di Varo a Bramsche-Kalkriese di Annette Gigon e Mike Goyer; il progetto di ristrutturazione paesaggistica e nuovi accessi all’Alcazaba e al Teatro romano di Malaga del gruppo oam. 4 L. Caravaggi, Architettura e natura. Le reintegrazioni archeologiche, in V. Cazzato (a cura di), Tutela dei giardini storici: bilanci e prospettive, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Roma 1989, pp. 452-466. 5 Il termine narrazione riferito al progetto archeologico abbiamo cominciato ad utilizzarlo all’interno della ricerca in corso Territori protetti. Spazi dell’archeologia contemporanea (diap – Regione Lazio) proprio per comunicare in modo un po’ provocatorio la selezione di alcuni assetti archeologici giudicati significativi da punti di vista diversi: comprensione dell’evoluzione di un territorio, comprensione di permanenze e tracce ancora evidenti e in qualche caso “vitali”, leggibilità di assetti ambientali del passato o di trasformazioni geo-biologiche significative, attitudini agricole, infrastrutturali, insediative di lunga durata ecc. 75 TUTELA E REINVENZIONE colarmente significative, capaci di rendere più interessante la percezione di un territorio (anche vasto), di siti archeologici differenti, molti dei quali in attesa di essere scavati, e di altri in cui i ritrovamenti sono stati re-interrati, superando la dittatura degli oggetti e delle proprietà a favore di assetti in continua trasformazione (a partire dalla biodiversità, concetto ancora poco esplorato nelle sue potenzialità interpretative). In questo tipo di ricerca il confine che separa la narrazione storica dalla favola è ben delineato, a mio avviso, anche se il rischio di sconfinare esiste sempre (ma non è peggio il vuoto che si apre per l’assenza di qualsiasi narrazione? Il silenzio delle pietre non conduce forse alla loro inesorabile dispersione?). una delle sfide estreme di questa volontà di comunicazione del patrimonio archeologico è quella che si confronta con i siti indagati e completamente rinterrati, che sono sempre più numerosi sia per il procedere di campagne di scavo a carattere estensivo (soprattutto a seguito di grandi trasformazioni territoriali), sia per la mancanza di modelli di tutela adeguati alla natura di questi ritrovamenti. E non mi sembra il caso di seguire il coro di quelli (molti, moltissimi) che ci invitano a lasciare perdere: “con tutte le cose che già abbiamo in Italia andate a perdere tempo dietro a questi mucchi di sassi rinterrati? Ma che significato hanno?” La sfida che ci lancia l’archeologia invisibile6 è proprio quella di cercare una risposta a questa domanda: che significato possono avere? Per chi? E come comunicarlo questo significato? 76 6 L. Caravaggi, C. Morelli, Paesaggi dell’archeologia invisibile. Il caso del distretto Portuense, Quodlibet, Macerata (in corso di pubblicazione); L. Caravaggi, O. Carpenzano (a cura di), Interporto Roma Fiumicino, prove di dialogo tra archeologia, architettura e paesaggio, Alinea, firenze 2008. 7 La sostenibilità in questo caso è un riferimento “culturale ed economico nello stesso tempo”, non banalmente monetario, e allude ad un nuovo possibile rapporto tra ritrovamenti archeologici e forme di vita contemporanee, attraverso la messa a punto di significati argomentabili, connessi a qualche forma di verifica sociale (esito cioè di un confronto aperto con la pluralità dei soggetti coinvolti), cfr. d. Manacorda, Il sito archeologico tra ricerca e valorizzazione cit., pp. 84-86. Rispetto a questo sfondo tratteggiato rapidamente, molti di noi – architetti coinvolti nel progetto di archeologia – hanno sperimentato esperienze di connessione tra ricerca archeologica e ricerca architettonica, tra tutela archeologica e altre forme di tutela (del paesaggio, delle morfologie stratificate, delle memorie collettive ecc.), tra progetti di architettura e valorizzazione sostenibile dei ritrovamenti archeologici7. Perché sembra evidente che i tre termini, indagati da Manacorda nelle reciproche correlazioni, non possono essere separati, ma neanche settorializzati in singoli spazi disciplinari (da una parte l’architettura e dall’altra l’archeologia) e recinti amministrativi differenti (da una parte il paesaggio dall’altra l’archeologia!), e mi sembra che mai in passato lo siano stati, quando si ripercorra il solco eroico tracciato dal dialogo archeologiaarchitettura, soprattutto in quei momenti in cui questo rapporto riuscì a creare immaginari positivi, rivolti al futuro, persistenti. There are moments, like the one in which we are presently living, when the scarcity of economic resources and a general feeling of discouragement with regard to the administration of public goods seem to amplify, within the variegated cultural heritage universe, the distance separating research, protection, and enhancement (a distance which is already considerable in our country). And in the case of the archaeological heritage, the distance appears even greater than in other families. The progressive detachment between the regulatory coding of a cultural value and the actual social perception of that value, which is at the basis of the weakening of the idea of the common good and the resulting protection devices, causes a dangerous increase in the distance between the few institutional and scientific actors (in this case superintendents and archaeologists) and the rest of civil society. And this is happening while archaeology is enjoying, instead, a renewed passion and interest within architecture. On the archaeology front, the awareness is slowly and laboriously making headway that a dig is an irreversible point of fracture in the relationship between settled spaces and the communities involved, and that to start up a new dialogue, it is necessary, as Manacorda states, to make a decision concerning enhancement. But not always do archaeologists manage to argue, and communicate to the outside, the possible cultural sense of the finds in a specific context (with all the constraints and possibilities of that context). On the architectural front, the most interesting trends are characterized by a profound willingness to take part in a process of complex knowledge such as the archaeological process, in a path that is not always easy, sometimes contradictory and even ridden wit conflict. Among the most widespread and significant aims of the architecture-archaeology dialogue today, I would put, in fact, the pursuit of some kind of legibility, capable of reactivating the dialogue between an archaeological text and its contemporary public. Within recent research we have begun to reflect on the sense of possible historical narrations within different regional landscape contexts. Archaeology becomes a sort of matrix endowed with sense in relation to the present, that is, capable of communicating specific evolution dynamics of a territory (settlement, environmental, agricultural). diFFiCult CHoiCes ANd oPeN iNteRPRetAtioNs ABSTRACT 77 lA stoRiA e il PRoGetto In MEMORIA dI CATERInA MARCEnARO francesco Cellini Scrivo queste note, che utilizzano con qualche impudicizia episodi della mia vita professionale, pensando con rimpianto a tutti i grandi Soprintendenti italiani degli anni del dopoguerra (come Caterina Marcenaro a Genova) che hanno salvato e valorizzato il patrimonio culturale del nostro paese in un momento difficile e con ammirazione a quei pochi che adesso, in un momento forse più difficile, tentano ancora di farlo. 1 F. Cellini, Disegno per il Concorso per la riqualificazione di piazza Augusto Imperatore e del Mausoleo di Augusto a Roma, 2006. oggetti storicizzati e strategie scientifiche. 1980. Biennale di Venezia, Corderie dell’Arsenale, antivigilia della prima mostra di architettura; sono alle prese col problematico ed affannoso allestimento della sala centrale, un coacervo di mostre mal assortite, e sto aspettando l’arrivo di quella su Philip Johnson, disegnata da Massimo Vignelli; ad essa è dedicata la parete principale, proprio in asse colla Strada Novissima. Dalle casse emergono però solo poche e piccole fotografie in bianco e nero, inquadrate in eleganti cornici bianche: una cosa pensata, forse, per una galleria minimalista, ma certo non per l’immensa ed arcigna superficie coperta di vecchi intonaci lerci che mi sta di fronte. Di corsa e da solo traccio su di essa la grande sagoma del coronamento mistilineo dell’Itt building e, coll’aiuto di un operaio, la campisco sempre di bianco, col Ducotone; così, allineate in basso, le foto non sfigurano, sembrano finestre. 1986. Ancora Corderie ed ancora un allestimento, per la mostra “Arte e scienza”, con Enrico Valeriani. Disponiamo adesso non solo di poche sale, ma di tutto il monumento, che è ancora nello stato di abbandono e degrado di prima, se non peggio. Bisogna ripulirlo e dotarlo di qualche uscita di sicurezza, i pompieri lo impongono; proponiamo quindi di imbiancare le pareti (quelle novecentesche) e di rimuovere un parapetto di una finestrina, trasformandola in porta. La Sovrintendenza ci vieta la prima operazione, proprio perché essa avrebbe cancellato la sagoma dell’Itt (proprio quella pensata da 79 TUTELA E REINVENZIONE 80 me e fatta, solo sei anni prima, colle mie mani) che viene vincolata in quanto “storicizzata”; ci permette invece di demolire il parapetto, previa la “scientifica” numerazione di tutti i mattoni, e l’impegno al loro deposito in luogo sicuro ed alla loro esatta ricollocazione a mostra conclusa. poi li ha rimontati a caso, lasciando parecchi numeri in vista, e tutti sono rimasti contenti così. non dico però del senso di irrealtà e spreco provato nell’occasione: lo stesso ancora avvertito poi, molte volte negli anni, come, per esempio, nel 2007 a Pompei. Si tratta, come è chiaro, di un episodio lieve, e per me, che vedo vincolata una mia pur mediocre opera, quasi gratificante. Ma è la prima volta che nella mia vita professionale subisco l’impatto di due aggettivi, che ascolterò poi infinitamente ripetuti con ossessiva certezza e corrispondente imperatività: storicizzato e scientifico. Storicizzato? Atteso che tutti gli oggetti che vengono prodotti e che non siano subito rimossi poi si invecchino, quale di loro diviene tale? E come? E perché? E dopo quanto tempo? E chi lo decide? non è questa una questione da poco, anche perché la nostra attenzione e la nostra sensibilità si sono estese dai prodotti cosiddetti artistici a quelli della cultura materiale, cioè in fondo a tutto. Ma in questo tutto è compresa anche la pittura murale di Cellini? E lo sono anche tutte le altre cose (porcherie) che ho visto negli anni successivi venir vincolate, perché appunto storicizzate, quali la caldaia istallata nel dopoguerra per bollire le trippe nel Mattatoio di Roma, o i catenacci arrugginiti dei suoi cancelli, o tutti i suoi ventimila ganci da macelleria ecc.? Certo è che l’uso di questo aggettivo (sempre che esso abbia un senso) e dei conseguenti provvedimenti conservativi dovrebbe almeno comportare una particolare prudenza, una cauta discriminazione culturale e l’assunzione di una precisa responsabilità personale; se non altro per poter dedicare più risorse possibili all’immenso e notoriamente assai mal messo patrimonio degli accertati beni culturali del nostro paese. Ma allargare il campo è per chi vincola (individuo o istituzione che sia) una pulsione irresistibile: è cosa facile, quasi automatica, che appare quasi sempre condivisa dall’opinione pubblica (proprio in quanto ostacola ogni trasformazione) e soprattutto che incrementa progressivamente gli spazi del potere interdittivo; che è forse, come si potrebbe dedurre, assai meno infruttuoso di quanto appaia. Scientifico? nell’aggettivo si sostanzia quello che sembra un imperativo universale della nostra società: esso non definisce soltanto un metodo o un comportamento, ma implica un dovere rituale, quasi un’etica. Come si potrà infatti smontare una parte di un monumento storico, senza numerarne gli elementi, poi religiosamente riporli e poi accuratamente ricomporli? Eppure c’è, clamorosa, una questione di proporzioni. La strategia che, per esempio, è stata adottata (e che era obbligatorio adottare) per lo smontaggio ed il rimontaggio del tempietto di Athena nike all’Acropoli, potrà mai essere la stessa da usare per poche decine di mattoni, fra loro del tutto uguali, di un edificio, l’Arsenale, composto da alcune centinaia di milioni di mattoni ad essi ancora identici? Potremmo mai confrontare, in termini economici ed operativi, un lavoro che chiede l’intervento di procedure, attrezzature speciali e tecnici iper-qualificati con un altro che, con ogni evidenza, richiede solo poche ore di lavoro di un capomastro? nei fatti noi abbiamo doverosamente ordinato all’impresa di adempiere alla prescrizione: il capomastro ha smontato i mattoni, poi li ha numerati nel mucchio, 2007. Era una visita organizzata dal Master che coordino; eravamo reduci da una lezione sui terribili numeri del luogo (migliaia di metri quadri di affreschi e mosaici in dissesto, centinaia di essi che vanno perduti per anno, centinaia di case non più visitabili) e siamo stati condotti in una domus affrescata con delle belle decorazioni murali, a grandi campi colorati, quasi senza figure. C’era al lavoro uno stuolo di restauratrici, impeccabilmente in camice, con le mascherine sul volto, guanti di lattice, lenti, microscopi, bisturi, laser, pennellini di martora, pinzette e batuffolini di solventi. Io, figlio di un restauratore, sono rimasto subito colpito dalla meticolosità del loro approccio, centimetro per centimetro, e dal loro impegno lento e paziente, degno del risarcimento di una tavola di Raffaello, applicato però ad un lavoro estensivo, che il decoratore pompeiano avrà all’epoca realizzato in due giorni. Può davvero la scienza chiedere un’opera così frustrante? Ha senso restaurare così bene e così costosamente una cosa, mentre se ne stanno contemporaneamente perdendo cento altre simili? L’irrealismo e la sproporzione del fatto ha assunto un carattere del tutto paradossale appena mi sono reso conto che l’intera casa (tetto, colonne del peristilio, sommità degli stessi muri affrescati), ricostruita in cemento da Amedeo Maiuri, era completamente ed irreversibilmente pericolante e che di ciò nessuno si preoccupava. Così, fuor dell’episodio, accade sempre; o quasi. Sembra che la progressiva incapacità di occuparci efficacemente dei nostri beni debba necessariamente accompagnarsi alla farsesca esibizione di metodologie operative impeccabili: l’imperativo è l’ostentazione della scienza; la realtà svanisce. Prospezioni e ricerche. La scienza e la ricerca giocano un ruolo particolare nel caso dell’archeologia, disciplina che si occupa spesso, come si sa, del sottosuolo e che quindi proprio lì frequentemente impatta con i progetti di architettura che, appunto, proprio lì spesso si fondano. Entrambe lavorano generalmente nell’ignoranza di quel che c’è davvero sotto terra e da questo incontro, in genere casuale, nasce necessariamente l’occasione e soprattutto la possibilità economica di un’esplorazione, di una nuova conoscenza. Così è stato sempre: così, per esempio, la forma urbis di Lanciani è stata costruita; basterebbe però ora darsi, reciprocamente, dei ragionevoli limiti. 2005. Ufficio del comune di Roma: una squallida stanza affacciata sull’area sacra di Sant’Omobono, la più importante testimonianza della Roma pre-repubblicana. Si discute della realizzazione di una scuola media, nella periferia della città, di cui (con Andrea1 ed altri) abbiamo vinto il concorso; l’amministrazione ha pomposamente definito l’obiettivo, come “la scuola più bella del mondo” e dato grande risalto politico alla fac- 81 1 [L’autore fa riferimento ad Andrea Savioni e al concorso 3 nuove scuole a Roma, progettisti arch. A. Salvioni, arch. J. Kuhnle, arch. C. Rogai.–ndc] cenda. Il progetto è semplice, carino, razionalista, dimessamente adattato al suolo. Ci hanno garantito che numerose prospezioni hanno previamente escluso ogni presenza archeologica; d’altra parte il quartiere tutt’attorno è già costruito, senza nessun ritrovamento, nemmeno sotto la chiesa, lì accanto: poi la scuola è assolutamente necessaria ed urgente, gli abitanti sono per lo più coppie giovani. La funzionaria archeologica di zona, una giovane decisa e tosta, nondimeno insiste: c’è bisogno di un’approfondita campagna di scavi da affidare a ditte di fiducia; ci sono nel terreno limitrofo tracce profonde di lavorazioni agricole (leggi segni di aratri), che sono state oggetto di una sua recente pubblicazione; il comune deve mettere a disposizione molti fondi. La discussione con lei, già molto accesa, degenera in insulti quando, indicandole dalla finestra i bandoni arrugginiti, la mondezza, i gatti ed il marciume di Sant’Omobono, mi permetto di osservare che forse il comune dovrebbe impiegare meglio i suoi soldi. Finisce che lo scavo dura due anni e costa 600.000 euro, col premio di un graffio di aratro sul tufo, lungo 50 centimetri; altrettanto tempo e denaro pubblico costa il risarcimento del terreno, passato da dolce declivio a voragine. Il resto lo fa la procedura d’appalto integrato: la scuola, che sarà forse inaugurata nel prossimo settembre, resta, molto mediocremente e assai più poveramente del previsto, razionalista. TUTELA E REINVENZIONE non è ovviamente un caso isolato, la periferia romana è piena di inutili trincee, di prospezioni occasionali, avventate ed insulse, affidate ad una legione di operatori dedicati e protetti; manca una strategia d’assieme; manca una carta che valga quella, centenaria, di Lanciani; mancano i soldi per gli immensi giacimenti veri, quelli noti, tutti o quasi abbandonati e degradati; mancano i soldi persino per Villa Adriana. 82 Autoritarietà e approssimazione. 1986. Venezia, fasi iniziali della preparazione della mostra “Arte e scienza”, rotonda del padiglione Italia. Lo spazio prende il nome dall’allestimento novecentesco di Giò Ponti, appunto uno spazio circolare con cupola sferica, di legno, gesso e camera a canna, che ora è arrivato al suo ultimo periodo di vita: cade a pezzi, uno dei quali, pochi giorni prima, ha sfiorato Cossiga in visita. Maurizio Calvesi, sapendo che sotto di esso potrebbero esserci alcuni residui delle vecchie decorazioni di Galileo Chini, mi chiede di indagare sul posto. Con un qualche rischio, mi insinuo dentro le strutture interne e riesco sbirciarne una parte, apparentemente in buono stato: capisco poi che i dipinti stanno su un cupola a spicchi, che corona un ambiente ottagonale; comprendo anche che il tutto, a sua volta in legno, gesso e camera a canna, sta precariamente all’interno del vecchio volume murario della cavallerizza ottocentesca. Si tratta insomma di allestimenti successivi, uno dentro l’altro, come le matriosche. Una volta demolito con cautela quello di Ponti, appare l’altro, molto malridotto, quasi nudo: gran parte delle pitture di Chini, che sono frettolose tempere un po’ secessioniste ed un po’ classiciste, manca o è gravemente danneggiata. Nondimeno il tutto viene restaurato da un bravo scenografo (poco scientifico, per fortuna) e da noi allestitori, che ricostruiamo ex novo tutte le decorazioni architettoniche, le cornici e gli specchi del vano inferiore. 1988. Ristorante di Venezia, pranzo con Francesco Dal Cò e la Soprintendente, pochi giorni dopo la vincita (mia con Nicoletta Cosentino e Paolo Simonetti) del concorso per il Padiglione Italia. La discussione indugia a lungo su una questione: quale architettura contemporanea è ammissibile in un centro storico? Quali caratteri, aspetti, cautele essa deve avere? Può essere innovativa oppure tradizionalista e in che misura? Alla fine la risposta della Soprintendente è chiarissima ed inequivocabile: non è possibile definire caratteri, aspetti, modalità o cautele, sarebbe uno forzo vano e significherebbe vincolare la libera ricerca degli architetti. Non è nemmeno il caso, in un campo di soggettività quale è il giudizio sull’architettura, di avanzare criteri oggettivi o tentare di trasmetterli. L’architettura che si può fare è quella che la Soprintendente ritiene possa esser fatta, e basta. Impressionato, cerco di portare il discorso sul nostro progetto, essendo abbastanza sicuro di me: so infatti che la stessa Soprintendente, seppure per motivi estranei, ha votato per noi e so pure che siamo stati gli unici progettisti ad aver trattato bene l’unica cosa antica del padiglione, cioè la cupola di Chini. Gli altri l’hanno variamente tagliata, dimezzata, dislocata, demolita ecc.; noi, se non altro perché mi ritengo quasi un suo scopritore e restauratore, l’abbiamo fatta diventare uno dei fuochi del progetto, aggiungendovi soltanto una delicata scala a spirale. E infatti la Soprintendente loda molto il progetto; si sofferma poi in particolare sulla questione della cupola con elogi sempre più esaltanti e però progressivamente sempre più inesplicabili ed impropri; improvvisamente mi rendo conto che sta equivocando, crede di aver di fronte Gianugo Polesello, l’autore di un altro progetto, con una davvero bizzarra soluzione del tema: la cupola appesa come un ombrello al soffitto e priva delle sue pareti. Il pranzo finisce con un po’ di imbarazzo, ma ne esco confortato, convinto dell’appoggio delle istituzioni al nostro lavoro, che invece si concretizza l’anno dopo con un decreto di vincolo della cupola e dell’ambiente sottostante (descritti come se fossero murari, invece che di camera a canna), per le pitture (definite affreschi, quando invece sono tempere), per le decorazioni architettoniche (definite originali dei primi del secolo, quando invece le avevamo fatte noi, io ed Enrico Valeriani, quattro anni prima, inventando malamente ed in fretta sagome improbabili) e per gli specchi (nuovi). E qui mi trovo, per la prima volta, di fronte a due fatti, che poi scoprirò tendere ad andar sempre congiunti; uno è l’autoritarietà indiscutibile, e spesso anche offensiva nei confronti dei progettisti, del decreto di vincolo, l’altro è la superficialità e l’imprecisione, per non dire la cialtroneria, delle motivazioni e perfino della stessa descrizione delle cose in oggetto. di questo purtroppo ho negli anni avuto varie e spiacevoli prove. Per quanto riguarda il tono arrogante ed insultante, valga come esempio il parere delle Soprintendenze romane congiunte sulle sistemazioni delle aree delle basiliche romane in occasione del Giubileo (progetti preliminari del 1998 di Anselmi per San Giovanni, Rossi e Cordeschi per San Pietro, Balbo per Santa Maria Maggiore, mio per San Paolo) che si conclude così: … La Soprintendenza si dissocia comunque fin d’ora da qualunque responsabilità connessa […] ad opere assolutamente incongrue 83 perché oggetto di un impegno politico della Presidenza del Consiglio nei confronti del Vaticano. Per quanto riguarda la sciattezza, vale ancora il caso del mio progetto per San Paolo, dove sono riuscito a sostituire una vecchia e oscena copertura di ruderi, dimostrando, documenti d’archivio alla mano, che essa era il prodotto recente di un affrettato ibrido di materiali incongrui riciclati, seppure nello stesso parere istituzionale (negativo su tutto) essa venisse definita come “un esempio di sistemazione con l’impiego di materiali e secondo le tipologie architettoniche tradizionali della campagna romana”. E vale ancora il caso del parere negativo della stessa Soprintendenza che, sempre nel 1998, ha azzerato (dopo averlo inizialmente voluto proprio in quel luogo e proprio con quelle forme) un mio progetto di ponte pedonale in via di San Gregorio: il suo testo è un noioso excursus di storia romana, che per pagine e pagine dettaglia l’intollerabile impatto visuale che il mio progetto avrebbe avuto sull’arco di Tito. Manco a dirlo: l’arco di Tito è altrove, lì c’è quello di Costantino. Con questo non voglio dire che i Soprintendenti siano ignoranti (nel mio caso poi non lo erano affatto, semmai lo erano alcuni dei loro funzionari) ma certo è che si coglie, leggendo queste cose, un’apparentemente inspiegabile contraddizione fra la sostanziale durezza delle decisioni e dei confronti politici che hanno condotto al parere o al vincolo e la vacuità del loro supporto burocratico scritto. Le motivazioni vere, magari legittime, magari condivisibili, stanno in realtà altrove, hanno altre logiche, stanno in altri contesti e sono quelle che contano. Poi servono motivazioni di facciata: le scriverà, magari con i piedi, chiunque nell’ufficio sia in quel momento disponibile. TUTELA E REINVENZIONE 2 84 2 F. Cellini, Progetto di valorizzazione del Teatro romano di Spoleto, 2005. con i caratteri storici dei luoghi interessati, inutili dal punto di vista funzionale, dispendiose per la volgarità dei materiali pregiati inopportunamente introdotti e dettate sostanzialmente dall’esigenza di dover spendere i soldi attribuiti… Inutile aggiungere, perché basta visitare oggi i luoghi, che si tratta solo di restauri, spesso filologici o quasi, che hanno prodotto vaste zone pedonali pubbliche; che i materiali erano travertino, basalto, sampietrini e prati e che i costi furono assai contenuti. Inutile anche dire che i lavori poi furono in buona parte eseguiti, solo Autorevolezza e Potere. 2010. Roma, complesso del San Michele: i Comitati di settore congiunti (archeologico e beni culturali) si accingono a deliberare sul progetto per piazza Augusto Imperatore (di cui sono il coordinatore), su richiesta di una funzionaria archeologa che lo ritiene dannoso alla tutela del monumento, applicando la finora da me inaudita teoria della modificabilità nel tempo del pareri dati. Infatti il suo stesso Soprintendente (ora ex) era stato delegato ufficialmente dal Ministero a partecipare alla giuria del concorso e aveva, unanime cogli altri, nominato vincitore il nostro progetto senza alcuna riserva e molte lodi. Sono ammesso, come anche la funzionaria, a spiegare le mie ragioni; poi decideranno fra loro. Mi accorgo che quasi nessuno conosce il progetto e pochissimi l’Augusteo e quindi ingenuamente mi perdo in un’ampia descrizione dei ritrovamenti recenti e delle nostre attente (credo) soluzioni. Alla fine, con un sorriso quasi di ringraziamento (o di derisione), il Direttore Generale mi comunica che non è affatto d’accordo con me e mi fa uscire. Vari amici presenti, professori e funzionari insigni, poi, a cose fatte, mi telefonano spiegandomi che tutto sommato il progetto è andato bene: basta cambiare qualcosa, un po’ lì, un po’ qua. Penso che, curiosamente, nemmeno loro hanno chiaro che un progetto non è, in genere, un minestrone. 85 TUTELA E REINVENZIONE 2011. Roma, Conferenza dei Servizi sullo stesso progetto, redatto in fase definitiva con mille aggiustamenti e compromessi; ci sono tutti i rappresentanti degli uffici, comunali e non; mancano stranamente tutti i rappresentanti delle Soprintendenze di Stato, quella regionale, quella archeologica e quella dei beni culturali. Veniamo a sapere che non verranno affatto e si riuniranno nei prossimi giorni, ma non in pubblico. Da ora, così apprendiamo, le loro deliberazioni verranno prese a porte chiuse, negli uffici. 86 Questi ultimi episodi sono accomunati in parte dall’oggetto e dalla mia profondissima irritazione personale, ma soprattutto da una logica interna, intrinsecamente sequenziale, che è più o meno, la seguente. L’imperatività del parere è, ed era, assoluta (lo impone, credo giustamente, la legge); però poi essa viene progressivamente esercitata con arroganza e con motivazioni sempre più sciatte; poi ancora, evolvendosi, diventa aleatoria, imprevedibile, può modificarsi nel tempo (un funzionario si dà, come succede ora a me nel progetto del Mattatoio di Roma, la libertà di approvare, poi di ripensarci e poi di ricambiare idea ancora e per sempre). Infine essa ora sembra non avere più la necessità di essere motivata razionalmente e rifugge da ogni forma di contraddittorio pubblico. E questo non avviene in genere, come certo non è avvenuto nei casi citati, per motivi venali, ma per motivi per così dire di ruolo civile, o meglio politico. Il fatto è che l’esercizio della propria legittima autorità, nei limiti, nei tempi e nelle procedure concesse, non dà alcun potere aggiuntivo; semmai dà credito, autorevolezza culturale, stima ed infine, quando sei morto o andato in pensione, rimpianto. Quel che serve per contare veramente nella società contemporanea, per accumulare prestigio ed estenderlo, per essere veramente un protagonista, è invece la possibilità di esercitare un potere sostanzialmente deregolato, non limitato, inaspettato ed arbitrario. The use of the adjective historicalised and the conservation measures that it determines should involve a particular level of caution and the assumption of a specific level of personal responsibility. Given that all the objects we produce (and that aren’t immediately removed) will age over time, we have to ask ourselves which ones will become historicalised, after how long and who decides whether they do or not. It is no trivial matter because our interest in, and awareness of, what art produces has expanded to include the products of material culture as well and therefore everything, when it comes down to it. for the institutions or individuals who apply conservation legislation, widening the field is a natural reaction, something that is almost always approved of by public opinion, in that it blocks any kind of change and progressively increases the areas subject to restrictions, which are not at all as unprofitable as might appear at first glance. The adjective scientific embodies what seems to be a universal imperative in our society. It not only defines a method or a way of behaving; it implies a ritual duty, a code of ethics. Can science really apply the meticulous precision of restoration work, worthy of the repair of a panel painting by Raphael, to an extensive project? Is there any sense in restoring one thing well (and at enormous expense) when we’re losing a hundred other similar objects in the meantime? Our growing inability to take proper care of our cultural assets seems to go handin-hand with the display of impeccable working methodologies: the main thing is to parade their scientific clout. Science and research play a special role in the field of archaeology, a field that works with the subsoil and that frequently clashes with architectural projects there, where the two merge. Both generally work without knowing what is actually underground and this (usually coincidental) encounter inevitably results in an opportunity and an economic possibility for gaining new knowledge. With the rejections issued by the government’s archaeological superintendencies, which often cancel many projects involving long historical enquiries (and which often lack the exact name of the monument requiring conservation), what becomes apparent is a seemingly inexplicable contradiction between the essentially harsh nature of the decisions that led to the ruling or the conservation order and the vacuousness of their bureaucratic dossier. The real motivations – perhaps legitimate and justified – follow a different rationale, they are found in other contexts and they are the ones that count. The exercise of our own legitimate authority – within the limitations, timescales and procedures allowed – does not bring with it any additional power; if anything it brings with it kudos, cultural prestige, admiration and finally (once we’re either dead or retired) nostalgia. Instead, if we really want to count in contemporary society, gain prestige, extend such prestige and truly play a leading role, then what we need is the chance to exercise powers that are essentially deregulated, unlimited, unexpected and arbitrary. HistoRY ANd desiGN In MEMORY Of CATERInA MARCEnARO ABSTRACT 87 PRoGetto ARCHeoloGiCo e PRoGetto ARCHitettoNiCo iN AMbieNte uRbANo daniele Manacorda Il rapporto fra progetto archeologico e progetto architettonico in area urbana si sostanzia da un lato di riflessioni teoriche che in questi anni non sono certo mancate, dall’altro della concretezza di realtà progettuali prefigurate o realizzate che hanno tentato di trasferire sul terreno, nel corpo vivo delle città, alcune premesse. Per un archeologo in genere non è facile entrare nel merito di singoli progetti di architettura, dei quali è necessario cogliere gli aspetti d’insieme e al tempo stesso di dettaglio, che convivono in prodotti ricchi, il più delle volte, di molte implicazioni. L’osservazione curiosa di singoli contributi permette però di trar fuori da essi qualche tema o aspetto problematico che possa fare da cornice all’insieme, dove i confini delle discipline si allentano, gli orizzonti si ampliano e quindi anche un archeologo possa sentirsi legittimato a portare un secchiello d’acqua al mulino comune. Quel che posso proporre sarà quindi qualche spunto di riflessioni episodiche nate dalla lettura dei materiali di presentazione di alcuni progetti – così come sono illustrati nella rete – integrati da esposizioni e discussioni in sede seminariale alla luce di alcuni temi nodali del rapporto tra progetto archeologico e progetto architettonico in ambiente urbano. Se partiamo dalla antica domanda su quale sia il ruolo dei resti archeologici nel contesto urbano, sarà forse utile rispondersi che questo è centrale e al tempo stesso nullo, dal momento che le rovine (uso apposta un termine ambiguo) possono essere, non da ora, elementi ordinatori della restituzione di senso, la cui conservazione occupa il centro della scena, tanto quanto elementi di disturbo, di cui sarebbe bene evitare con cura la riesumazione. Atene. Progetto urbano per l’Agorà. Gli interventi di Yannis Tsiomis a proposito dei progetti urbani per l’Agorà di Atene e per dougga, in Tunisia1, partono dal tentativo di verificare coerenza e operatività di un principio: e cioè che progetto urbano e 1 Y. tsiomis, Schizzo del progetto per la sistemazione dei percorsi dell’area archeologica di Atene, 2009. 89 1 Cfr. A. Massarente, Yannis Tsiomis: progetto urbano per I’Agorà, in www.archinfo.it/yannistsiomis-progetto-urbano-per-i-agora/0,1254,53_ ART_173118,00.html; Progetto urbano per il sito archeologico di Dougga, Tunisia: www.yannistsiomis. com/02_Projets/03_urba/18_dougga/P18_dougga. html. progetto archeologico possono trarre sostegno uno dall’altro, interagire strettamente – qui è il punto – non solo a livello teorico. ne sono profondamente convinto, e non da ora. E anzi direi sempre più. Mi pare che i problemi nascano, semmai, quando dal livello teorico si passa appunto alla concretezza dei singoli progetti. Il mio atteggiamento verso il problema è duplice, e forse contraddittorio. da un lato credo di dovermi fermare davanti alla critica puntuale delle scelte progettuali, per ovvio senso del pudore e del rispetto delle competenze; dall’altro, credo che tutti ci dovremmo sporcare un po’ più le mani, cercando di contribuire – senza arroganza e senza timidezze – a una discussione comune, che comporta anche qualche rischio di invasione reciproca. Ma la contaminazione (non mi stanco di dirlo2) è una condizione tanto rischiosa quanto fruttuosa. Magari anche per non trovarsi d’accordo. Scrive, ad esempio, Tsiomis: TUTELA E REINVENZIONE Le attenzioni prestate dalla cultura architettonica alle questioni dell’archeologia e del progetto urbano costituiscono indubbiamente un patrimonio culturale italiano che non deve andare disperso, ma che si confronta con un’archeologia che è sempre più luogo per specialisti3. 90 2 d. Manacorda, Archeologia in città: funzione, comunicazione, progetto, in AA.VV., arch.it.arch. dialoghi di Archeologia e Architettura seminari 2005-2006, Quasar, Roma 2009, pp. 3-15. 3 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, in A. Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco (a cura di), L’antico e il nuovo. Il rapporto tra città antica e architettura contemporanea: metodi, pratiche e strumenti, utet, Torino 2002. Come dire: gli architetti avrebbero voglia di operare insieme, ma gli archeologi sono indecifrabili… (non dò a questo termine un valore negativo, perché non credo che Tsiomis voglia essere particolarmente critico nella sua affermazione). non posso essere d’accordo, tuttavia, e non per carità di patria. detesto le appartenenze, e quindi non amo la mia appartenenza alla consorteria degli archeologi (della quale tuttavia non mi vergogno). C’è – c’è sempre stata – un’archeologia per specialisti, più o meno soddisfatta di sé e timorosa del confronto, che riesce appena a guardare in faccia se stessa (è quella che si è prestata ai più diversi usi pubblici della storia ampiamente praticati in passato e non solo da noi), un’archeologia difficile da decodificare (perché forse priva di idee chiare) quasi quanto sono difficili da leggere, a volte, i progetti degli architetti… Ma c’è anche un’archeologia viva e vitale che qui in Italia preme non da oggi per alimentare la cultura del confronto (anche al di là del confronto archeologia/architettura): si tratta di volerla conoscere e incontrare, dall’abc della lettura archeologica delle vicende dei manufatti dell’edilizia storica (quanti francesco doglioni o Carlo Tosco ci sono tra gli storici dell’architettura per non dire tra i progettisti?), alla coprogettazione degli interventi urbani archeologicamente sensibili, nei quali la parte dell’archeologo non è certo quella del guardiano quanto piuttosto quella della persona informata dei fatti, e creativa. Tsiomis conosce quindi una faccia dell’archeologia. forse non ha avuto la fortuna di conoscere l’altra. Scrive infatti che, “contrariamente a quanto non si riesce ad attuare nelle città italiane, è possibile studiare e progettare lo spazio urbano in continuità – concettuale e figurativa – con lo spazio archeologico”. Ed io ne sono – lo ripeto – convinto. Interrogandomi semmai sui contenuti da dare a questa continuità concettuale e figurativa. dal momento che questa può essere ricercata, in senso lato, sul piano funzionale (sto pensando, esempio banale, a tanti teatri o altri edifici di spettacolo) oppure può presentarsi sghemba, fortemente disassata rispetto all’antico (o ai tanti successivi passati), ma non per questo meno collegata, meno – come dice Tsiomis – mescolata. Vedo che il progetto di Atene, anche per la sua scala urbana, è un progetto minimalista, “privo di segni eclatanti, di ricerche formali compiutamente espresse”4. non mi interessano tanto le prese di distanza dagli urbanisti che fanno gli architetti o dai minimalisti che possono fare esercizi di stile. Mi basta sapere che la proposta parte da “un’impostazione progettuale che fa della mescolanza e della contaminazione – sociale e spaziale – un valore da perseguire, un carattere da preservare”. Mi pare che sia un approccio che misura un ribaltamento di 180° della prassi attuata ad Atene dall’indipendenza in poi. E questo mi conforta. Lo sento (non so se sbaglio) in sintonia con alcune belle pagine di Yannis Hamilakis sul paesaggio dell’acropoli di Atene nelle quali mi sono ritrovato con naturalezza5. E chissà che non ci siano qui le premesse per far uscire il lungo periodo di dominazione ottomana della Grecia moderna da quella condizione di “età maledetta” (Tsiomis) che colloca l’archeologia di quei secoli al gradino gerarchico più basso. C’è un punto della trattazione di Tsiomis che mi sembra descrivere il nocciolo duro del progetto. Se lo spazio archeologico non deve diventare il luogo del consumo turistico di massa, né tantomeno rimanere uno scavo inaccessibile, un “buco” nel suolo della città, è proprio sui modi di una possibile continuità tra spazio pubblico e spazio archeologico, sulle soglie e i limiti che distinguono l’uno dall’altro, che si giocano i destini della città contemporanea e delle sue parti più antiche6. Sono – se intendo bene – i “bordi” delle antiche riflessioni di Lello Panella a proposito dell’area dei fori di Roma7. Ad Atene o a Roma – per quanto sia grande la diversità dei contesti urbani – il problema metodologico si pone infatti in termini analoghi. La progettazione dei bordi, dei punti di sutura, della risoluzione dei dislivelli, fisici e concettuali, è un tema centrale, indubbiamente. direi che sia quasi la premessa per il superamento di ogni scelta “separatista”. So bene che non è atteggiamento estraneo a certi archeologi quello di trincerarsi nei propri buchi, per quanto a volte prestigiosi, dove affermare il proprio limitato potere rinunciando al confronto con gli altri poteri e con gli altri saperi. Ma che cosa accade poi nello spazio archeologico? Personalmente, da archeologo sento questo problema almeno tanto quanto quello dei margini e della loro pervietà. Vorrei che gli architetti si sentissero autorizzati ad entrare in questo sancta sanctorum degli archeologi, in queste aree archeologiche che il Codice urbani definisce utilizzando concetti del tutto arcaici8, magari per desacralizzarle, per umanizzarle: la riflessione su come vivere gli spazi archeologici è tanto delicata e problematica quanto quella sul come accedervi. Gli archeologi queste domande ormai provano a porsele, anche se penso che le risposte non debbano venire solo da loro. Tsiomis tenta anche un recupero del termine “topografia” inteso come “scrittura dei luoghi”. Io direi piuttosto “descrizione”, e non so se questa diversa tradu- 4 Ibid. 5 Y. Hamilakis, Trasformare in monumento: archeologi, fotografi e l’Acropoli di Atene dal Settecento a oggi, in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 179-194. 6 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, cit. 7 R. Panella, Roma Città e Foro. Questioni di progettazione del centro archeologico monumentale della capitale, Officina, Roma 1989. 8 L’area archeologica nel Codice urbani del 2004 è inspiegabilmente definita come “un sito caratterizzato dalla presenza di resti di natura fossile o di manufatti o strutture preistorici o di età antica” (art. 101, comma 2, lettera d). 91 TUTELA E REINVENZIONE zione rifletta i due atteggiamenti (creativo-poetico o critico-storico) delle diverse professioni. La descrizione svela il palinsesto, ma deve fermarsi davanti alla sua esposizione ossessiva: occorre disvelarlo in ogni sua piega per afferrare il senso del luogo, ma non ogni sua piega occorre poi sempre mostrare per sentirci in pace con la parte più superficiale della coscienza. La descrizione è anche narrazione. Si narra, anche, attraverso semplici didascalie. Ho sempre apprezzato la giusta insistenza di Andrea Carandini per la didascalizzazione del foro romano (e penso, a volte, a quelle targhe della Zona archeologica monumentale di Roma che, sia pur fantasiosamente, cercavano di dare un nome ai luoghi o, qualche volta, di ricordare i luoghi scomparsi con l’eternizzazione del loro nome; perfino alla marrana di Callisto ii: targhe, certo, di tradizione antiquaria, a volte di pura erudizione, eppure quanto efficaci). 92 9 G. durbiano, A. Isola, Valorizzazione delle Porte Palatine e realizzazione del Parco archeologico a Torino, in www.europaconcorsi.com/projects/9191. 10 Mi si perdoni la pedanteria, ma quando nella presentazione del progetto fra le essenze vegetali si elencano lauri e allori, come se fossero specie diverse, sorge il timore che queste approssimazioni dalla botanica possano trasmettersi al senso storico dei luoghi. 11 G. durbiano, A. Isola, Valorizzazione delle Porte Palatine e realizzazione del Parco archeologico a Torino, cit. il Parco archeologico delle Porte Palatine a torino. nell’intervento di Giovanni durbiano e Aimaro Isola9 l’enfasi è posta sul tentativo di restituire – grazie proprio all’archeologia – una conclusione unitaria ad un grande spazio urbano irrisolto, ricomponendo le relazioni tra le parti, reintroducendo i resti archeologici all’interno del paesaggio urbano sottraendo le rovine all’attuale marginalità. In questa “prospettiva ambiziosa” dalla separatezza all’integrazione, il problema è sempre quello della gamma diversificata dei possibili usi sociali degli spazi archeologici. Che non sono necessariamente solo quelli antichi: si pensi all’idea di adibire a rimessa dei carri del vicino mercato di Porta Palazzo un bastione eretto ex novo sulla traccia del perimetro delle fortificazioni demolite nel xix secolo. A proposito del progetto torinese durbiano parla più volte di “favola” (“alla forma fisica attribuiamo un valore simbolico di cui possediamo noi le chiavi: di qui la favola”); ma le favole hanno dietro di sé, simbolizzata, una storia radicata, che le distingue dai falsi e dalle approssimazioni10. Le favole agiscono all’interno di contesti urbani storicamente determinati: Se “la stratificazione e la complessità dei segni che attraversano piazza San Giovanni ha costituito, nel dopoguerra, occasione di riflessione su un possibile assetto in grado di ricomporre una relazione tra le parti”11, questa relazione può essere infatti risolta sul piano formale e funzionale, ma non può non essere anche, e innanzitutto, di carattere contestuale. E anche quando il progetto nega il sistema precedente, questa negazione deve essere leggibile e ricostruibile. Va bene dunque la continuità tra spazio pubblico e spazio archeologico, ma resta il problema dell’uso specifico di questo spazio, della trasmissione del suo senso culturale e quindi della sua giustificazione sociale. Personalmente ho sempre pensato che – quando discutiamo delle forme attraverso cui conciliare la vita urbana con la vitalità del patrimonio archeologico – possa esserci un disaccordo radicale fra quanti preferiscano evitare ogni riconnessione organica fra città antica e moderna e quanti invece considerino intollerabile questa frattura. un codice dell’uso urbano delle rovine antiche non esiste ed è bene che sia così: possiamo incontrarle “chiuse in riserve” o animate come luoghi di passeggio, riagganciate ai ritmi della città circostante o abbandonate ad una lenta distruzione da turismo di massa, esposte come oggetti reticenti di un museo urbano12. Ma è certo che la risposta non possano essere le erbacce. non sto parlando delle grandi aree archeologiche ben tenute, curate, visitate da orde di turisti. Parlo delle aree archeologiche dietro l’angolo, di quelle che ci sono, ma è come se non ci fossero, dove le erbacce, vere o metaforiche, sono il primo indicatore di ogni piccola o grande crisi organizzativa e/o finanziaria; e soprattutto della cronica o progressiva perdita di consenso sociale, che si risolve inevitabilmente nella fuga di responsabilità da parte degli enti pubblici e della relativa capacità di investimento13. Penso anche che l’integrazione tra archeologia e sistemi urbani – per riprendere il tema esposto da Alessandra Capuano nella introduzione a questo volume – non si limiti alla morsa tra conoscenza specialistica e turismo di massa, ma possa declinarsi in mille modi, attraverso usi sociali che riproducano le funzioni degli spazi antichi superstiti o le alterino, che strumentalizzino i luoghi della storia o li ammirino, che li proteggano coccolandoli o li vivano senza un codice d’uso prestabilito, che non sia quello del rispetto. Nodo di scambio di Yenikapi a istanbul. Il progetto di francesco Cellini sulla grande area di Yenikapı a Istanbul14, affronta il tema della “convivenza”, in questo caso tra un nodo infrastrutturale metropolitano e il porto antico di Costantinopoli. La parola convivenza è un po’ ambigua: la usiamo per descrivere le tensioni tra due separati in casa, ma anche le aspirazioni di chi vorrebbe un dico15 che la certificasse. Convivenze imposte, convivenze desiderate; è chiaro che in questo caso parliamo della seconda, sia pur motivata dalla prima. L’archeologia impatta ormai su scale assai grandi, non solo su episodi puntuali e di dettaglio. non è la prima volta (dalla Roma di napoleone, all’Atene ottocentesca, alla Zona Archeologica Monumentale), ma le consapevolezze sono altre: di mezzo c’è la modernità e i punti di crisi che il pensiero critico ha illuminato in questo campo, il senso di frattura fra presente e passato che solo da poche generazioni percepiamo in modo così acuto e, a volte, irrigidito dalle ideologie. Ventotto ettari di centro storico pluristratificato sono una porzione di città enorme, dell’ordine di grandezza di quella che fu l’impresa della Zona archeologica monumentale di Roma, cento anni fa. Su 28 ettari si possono fare davvero un sacco di cose: riqualificazione di spazi pubblici, realizzazione di nuovi parchi, risanamenti di interi quartieri. Yenikapı non è fener e la zona delle Blacherne, ma ha comunque un problema di riqualificazione e al tempo stesso di salvaguardia del carattere proprio di quel pezzo di città storica: di quel pittoresco degrado che la nostra cultura occidentale, non da oggi venata di decadentismo, vorrebbe far convivere con l’ordine urbano e la coscienza storica. Il progetto di Cellini parla di “stretta integrazione non solo funzionale ma soprattutto culturale”. Il concetto di integrazione funzionale è abbastanza chiaro (e rappresenta già un bel passo avanti rispetto al danno reciproco!). Ma che cosa si in- 12 d. Manacorda, Archeologia in città, cit., p. 14. 13 M. Montella, Le scienze aziendali per la valorizzazione del capitale culturale, storico, “Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage”, I, 2010, pp. 11-22. 14 Cfr. P. Pierotti, Firme italiane per la riconversione di 28 ettari nel cuore di Istanbul, in www.ediliziaeterritorio. ilsole24ore.com/art/progetti-e-concorsi/2012-04-11/ insula-cellini-sbarcano-istanbul-124346. php?uuid=AbMHdnMf. 15 dico è una sigla che significa “diritti e doveri delle persone stabilmente Conviventi” e viene riferita comunemente al disegno di legge, presentato dal Governo Prodi ii nel febbraio 2007, finalizzato al riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano di taluni diritti e doveri discendenti dai rapporti di “convivenza” registrati all’anagrafe. 93 TUTELA E REINVENZIONE 94 tenda per integrazione culturale è meno facile da definirsi. Ci si può riferire alle attività previste o prevedibili in quegli spazi recuperati, o piuttosto al significato culturale dei resti restituiti nell’organicità del progetto e alla possibilità di ridotarli di un senso comprensibile e condivisibile. E questo è assai più problematico, perché richiede una sintonia di fatto tra chi quei resti trova, studia e trasforma in nuova conoscenza, chi quei resti riprogetta in un contesto che vuole magari metterli al centro dell’attenzione ma a partire da una motivazione (in questo caso un hub infrastrutturale) che è esterna ad essi, chi quei resti valuta degni di investimento di risorse pubbliche e di pratiche gestionali ed amministrative sicuramente onerose, e chi infine quei resti userà come “utilizzatore finale” di un bene, sulle cui sorti non sarà mai stato chiamato a dire la sua. Il progetto afferma che i partner hanno già dimostrato in passato la loro sensibilità nell’operare in contesti archeologici. Questo è certamente vero per un collega e un professionista del valore di francesco Cellini. Ma se la sensibilità in questi casi è necessaria, è anche sufficiente? Che significa sensibilità? Per esempio, tenere basso il segno quantitativo dell’architettura, tenere basso il fare rispetto al nonfare, il costruire rispetto al non-costruire e anzi al demolire. Capisco che questa impostazione (che mi pare di percepire, se non mi sono ingannato, nelle parole di Cellini) sembrerebbe la negazione del lavoro dell’architetto, ma è come per l’archeologo tenere bassa l’intensità dello scavo per valutare senza scavare, fare diagnostica non distruttiva, lavorare per campionature, e abbassare – alla fine della filiera – la religione dell’antico. Ma fin dove è valido questo paragone tra noi e gli architetti? L’archeologo fa ricerca storica, accumula dati, elabora conoscenze, sviluppa scenari passati e, solo da poco tempo, ha sempre più chiaro che in realtà crea anche scenari futuri, quasi un “sottoprodotto” dell’opera di conoscenza scientifica, che sta diventando finalmente un co-prodotto. L’architetto produce oggetti e relazioni tra oggetti, in funzione del loro uso, per abitarvi o viverci; fa un’attività poetica ma non fine a se stessa, fa cose che vorrebbe belle, che però funzionino, e solo da poco tempo ha più chiaro che in realtà per creare scenari futuri ha bisogno di maggiore conoscenza scientifica, cioè anche storica, ha bisogno di impossessarsi del senso dei luoghi ove interviene. Per questo il progetto è mediazione – come sottolinea Cellini – è sintesi colta e laica, per gli architetti come per gli archeologi. Sono due professioni sghembe, le nostre, apparentemente fatte per non incontrarsi, eppure consapevoli oggi della necessità della loro convivenza, se ciascuno fa la sua parte e un po’ della parte dell’altro: l’archeologo progettando nell’atto della ricerca gli spazi del suo intervento, l’architetto conoscendo fin dalle fasi iniziali del progetto l’identità stratificata dei luoghi. Abbiamo bisogno di impossessarci gli uni almeno un po’ delle tecniche degli altri, ma quello che ci serve veramente è contaminarci culturalmente. Insieme possiamo raccontare storie molto belle e permetterci il lusso di invitare a scriverle con noi anche l’utilizzatore finale, un utilizzatore dai mille volti che siamo poco abituati a considerare come uno degli interlocutori indispensabili delle nostre distinte progettualità. The text reflects on several themes of the relationship between archaeological project and architectural project in an urban setting, and on the role of archaeological remains, functioning either as orderly elements contributing to the restoration of the sense, whose preservation occupies centre stage, or as disturbing elements, which it would be best to avoid digging up. for an urban project and archaeological project to draw support from each other, it is necessary to contribute – without arrogance and without shyness – to a common discussion, which also entails some risk of mutual invasion. But contamination is a condition as risky as it is profitable. There is an archaeology for specialists, more or less satisfied with itself, but there is also a vital archaeology that here in Italy is pressing to fuel the culture of confrontation: it is a matter of wanting to know and meet it, for a co-planning of archaeologically sensitive urban interventions, in which the archaeologist’s role is not that of a watchman, but rather that of the person informed of the facts, and creative. It is thus necessary to have a mutual curiosity and solidary sensitivity, which helps keep the quantitative sign of architecture low, doing as opposed to not doing, building as opposed to tearing down, just as the archaeologist can keep the intensity of the intervention low in order to evaluate without digging, use non-destructive diagnostic systems, work by samplings, and lower – at the end of the chain – the religion of the ancient. The archaeologist does historical research, accumulates data, processes knowledge, develops past scenarios, and it’s only been for a short time that it’s clear to him that in reality he also creates future scenarios, as co-products of the knowledge work. The architect produces relationships among objects, on the basis of their use, so they can be lived in or with, and it’s only been for a short time that it’s clear to him that in reality, to create future scenarios, he needs greater scientific, historical, knowledge; he needs to acquire the sense of the places where he intervenes. for this reason the project is mediation, a cultured and lay synthesis, for both architects and archaeologists, who are aware today of the necessity to coexist, if each does his own part and a bit of the other’s part: the archaeologist by planning, during his research, the spaces of his intervention, and the architect by knowing, since the very first phases of the project, the stratified identity of the places. ARCHAeoloGiCAl PRoJeCt ANd ARCHiteCtuRAl desiGN iN AN uRbAN eNviRoNMeNt ABSTRACT 95 cento su alcuni punti che mi sembrano di un’ importanza cruciale e che riguardano i valori del progetto: ATEnE, dOuGGA, BRASILIA i PAesAGGi dell’ARCHeoloGiA: iNNovAZioNi e RisCHi TUTELA E REINVENZIONE Yannis Tsiomis 96 La mia esperienza professionale come architetto e ricercatore mi ha consentito di analizzare diverse situazioni in francia, in Grecia, in Italia e in Brasile, e di conseguenza mi è stato possibile osservare le similitudini esistenti, ma anche le differenze tra le politiche pubbliche urbane, il patrimonio, l’ambiente ecc. nel corso del mio lavoro ho potuto studiare soprattutto i progetti urbani in rapporto ai siti archeologici e i rischi che corrono questi ultimi. Queste esperienze mi hanno consentito di cogliere la dimensione di un lavoro che non si limita alla “salvaguardia”, ma riguarda il rapporto che esiste con la storia e il nostro futuro, ovverosia il progetto. non si tratta quindi semplicemente di teorie e di ideologie, bensì di questioni pratiche, di politiche da applicare per la creazione dello spazio pubblico. E gli spazi dell’archeologia, “i paesaggi dell’archeologia” sono spazi pubblici. In greco “pubblico” si traduce con “demos”, e “demos” è la radice della parola “democrazia”. Il rapporto con il passato parla del futuro della collet- tività, del “demos”, e in questo senso i nostri interventi sui siti archeologici si occupano sicuramente del rapporto che abbiamo con le vestigia del nostro passato, ma anche della civiltà del futuro che vogliamo. In altre parole, i valori sui quali si fondano i nostri progetti. Ho fatto riferimento alle mie esperienze perché mi hanno consentito di valutare i rischi che corrono le politiche patrimoniali e, attraverso qualche esempio, svilupperò le mie osservazioni per illustrare tali rischi, non tanto per fare un discorso “catastrofistico”, bensì per mostrare cosa succede quando i “valori” sono assenti oppure sono rivolti altrove. Poiché trattando degli spazi archeologici si esprimono sempre dei “valori”, viene da domandarsi se tali valori ci rappresentino o meno. Quando si discute del patrimonio urbano, archeologico e moderno, si tratta quindi di un quesito che ci poniamo sul futuro della civiltà urbana. E il paesaggio archeologico mi serve così da paradigma e da sintomo, ma costituisce anche una metafora per poter esporre i rischi che incombono sulla civiltà urbana, quella che poi sarà trasmessa ai nostri discendenti, ai nostri figli. In tutti i paesi del mondo, ad iniziare dall’Italia e dalla Grecia, oggi esiste una pletora di leggi e di raccomandazioni riguardanti i paesaggi e i siti archeologici, e spesso tutti questi regolamenti sono in contraddizione tra di loro oppure sono percepiti come delle restrizioni inutili. Eppure si ha l’impressione che sia stato detto tutto sul modo di conservare e allo stesso tempo di innovare. A tale proposito la raccomandazione dell’unesco su “il paesaggio urbano storico” (2011) rappresenta un buon esempio. In tale documento è scritto che “il patrimonio urbano” costituisce per l’umanità una conquista sociale, culturale ed economica definita da una stratificazione storica di valori che si sono formati attraverso il susseguirsi delle varie culture antiche e contemporanee. Partendo da questa considerazione e in base alla mia esperienza, porrei l’ac- 1. Oggi abbiamo un numero sufficiente di documenti normativi (convenzioni, raccomandazioni, atti, ecc) relativi alla conservazione dei territori storici (per quanto riguarda sia i paesaggi naturali sia quelli urbani e soprattutto archeologici). 2. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un rinnovamento delle teorie e degli approcci disciplinari che riguardano patrimoni materiali e immateriali. Pertanto il problema non è quello di chiedersi se esista o meno un apparato teorico e pratico, ma il modo in cui tale strumento viene rispettato e applicato. 3. Osserviamo tuttavia diversi casi in tutto il mondo, e notiamo delle differenze tra quanto viene dichiarato e quanto è messo in pratica non soltanto da parte dei poteri centrali, ma anche da parte delle collettività locali oppure da chi ha interessi privati. 4. d’altro canto non si tratta di limitarsi a seguire delle raccomandazioni, ma soprattutto di innovare. Se da una parte le raccomandazioni di carattere generali sono utili, nel contempo ogni sito archeologico, ogni città che possegga un patrimonio, ogni programma è differente e le regole generali devono adattarsi alle varie situazioni specifiche. Esaminando casi molto diversi tra di loro come il sito archeologico dell’Agorà di Atene e il quartiere storico che lo circonda, il sito e il paesaggio archeologico e storico di dougga (Tunisia) e la città di Brasilia (patrimonio mondiale contemporaneo), parlerei quindi di tali situazioni diverse e dei rischi legati sia all’immobilismo sia al “lassismo”. l’Agorà di Atene. Il primo esempio dunque è quello dell’Agorà di Atene e del quartiere circostante in seguito all’assetto del sito archeologico e dello spazio urbano del quale sono stato incaricato insieme ad altri colleghi dal 1997 al 2005. Ho scelto questo esempio per illustrare i rischi che corre un paesaggio urbano storico a causa del “turismo di massa”, dello sfruttamento commerciale del patrimonio, come fa notare la raccomandazione dell’unesco, e soprattutto del patrimonio immateriale. In tale progetto si trattava di prendere in considerazione non soltanto il valore archeologico e storico, ma altresì gli usi tradizionali dello spazio pubblico che fanno parte del patrimonio immateriale e che quindi non sono predeterminati. dunque si trattava di due tipi di progetto su due spazi diversi, da una parte lo spazio archeologico e dall’altra lo spazio urbano, ma legati tra di loro per la loro vicinanza. La prima parte del lavoro consisteva nel sistemare il sito archeologico dell’Agorà. Tale sito costituisce un esempio unico di stratificazione di secoli di storia che va dal periodo paleolitico ai nostri giorni. Ma nonostante tale stratificazione, l’Agorà è innanzitutto il sito simbolico più importante della nascita della democrazia. È il luogo della prima assemblea delle istituzioni democratiche. Sono stati compiuti degli scavi sul sito dell’Agorà ad iniziare dagli anni 1930 da parte della scuola archeologica americana, e dagli anni 1950 in poi il sito non è più stato sistemato. La stratificazione è una caratteristica banale di qualunque sito archeologico perché nessuno spazio resta fossilizzato. Lo spazio appartiene al tempo. Tuttavia, per quanto riguarda i siti archeologici e il paesaggio, il lavoro dell’architetto insieme a quello degli archeologici consiste nel privilegiare taluni periodi più significativi rispetto ad altri. Il nostro lavoro è stato essenzialmente quello di rendere leggibili la struttura urbana del sito e gli edifici pubblici dell’Atene democratica. Ma abbiamo anche operato per rendere leggibile la storia del sito nella diacronia. Il progetto è stato il risultato di un processo storico, archeologico, architettonico e che riguardava l’assetto del sito archeologico che abbiamo voluto minimalista. A tale riguardo devo far notare che abbiamo dovuto lottare per convincere le autorità, ma anche alcuni archeologi, che su un sito come l’Agorà la risposta architettonica avrebbe dovuto essere minimalista per la storia stessa del sito e del mito ad esso legato. L’argomento in discussione era il seguente: si trattava di scegliere i rivestimenti dei percorsi dei visitatori/turisti, percorsi che secondo alcuni archeologi e colleghi architetti dovevano essere in pietra e staccati dal suolo (percorsi in lastre di cemento o di legno) per proteggere le antichità. da un certo punto di vista quest’opzione era giustificata poiché, come è ben noto, il turismo di massa deteriora i siti. Ma d’altro canto gli storici ci insegnano che in ogni epoca l’Agorà è stata lasciata in terra battuta perché sulle origini degli ateniesi esisteva il mito della “autoctonia”, mito secondo cui gli ateniesi sarebbero nati dalla terra. Così d’altronde 97 1 TUTELA E REINVENZIONE 1 Y. tsiomis, Schizzo del progetto per la sistemazione dell’Agorà di Atene, 2009. 98 possiamo spiegarci la presenza del Tempio di Efesto (Vulcano) e, nelle vicinanze, quella del quartiere dei ceramisti, degli artigiani del vasellame. non era quindi per modestia da parte dell’architetto che ha sostenuto che occorreva riprodurre la pavimentazione antica, bensì per le conoscenze storiche che permettevano la scelta di un materiale che rispettasse il significato del luogo. Per questo motivo abbiamo optato per la terra stabilizzata. La riproduzione del suolo antico era un progetto che comportava dei rischi, perché è stato necessario scegliere la densità del suolo, i livelli dei passaggi alterati dal tempo e il colore della terra. Alla fine nelle nostre scelte ha avuto il sopravvento la discrezione in quanto a volte l’architetto deve anche saper tacere, e saper tacere è un dono. In un secondo tempo abbiamo lavorato sul progetto urbano del quartiere circostante. La caratteristica di questo quartiere era un misto di funzionalità esemplari dove lavoro, turismo e svaghi coesistevano. nonostante la vicinanza all’Acropoli il quartiere non era soltanto turistico. È lavorando sui suoi spazi pubblici che ci siamo resi conto concretamente del suo patrimonio immateriale: fin dall’epoca ottomana artigiani e commercianti lavoravano il legno e riparavano i mobili antichi in strada, accanto a botteghe di libri antichi, a ristoranti popolari e ad abitazioni. Questo quartiere è un esempio tipico di coesistenza tra patrimonio materiale e immateriale, tra valore storico e memoria vivente dei luoghi. d’altra parte occorre insistere sul valore economico di un mercato molto animato destinato non soltanto ai turisti, ma anche agli abitanti di Atene. Il valore di questo quartiere non era essenzialmente architettonico, poiché sono stati conservati pochi edifici del xix secolo, e quelli del xx secolo sono piuttosto dei baraccamenti privi di una tipologia particolare. Tale valore era dovuto soprattutto al mantenimento di queste funzioni miste antiche e moderne. In questo senso la posta in gioco di tale progetto urbano consisteva nell’assetto dello spazio pubblico (strade, piazze), nel modernizzare le reti di comunicazione e permettere una migliore accessibilità e mobilità e nel rinnovare gli arredi urbani mantenendone nello stesso tempo le funzioni e il carattere di patrimonio immateriale, economico e sociologico. La nostra scommessa in qualità di architetti–urbanisti era quindi quella di conservare ed innovare. Il progetto urbano era quindi imperniato sulla trasformazione dello spazio pubblico, ma anche sul rinnovamento economico: un’analisi accurata dei commerci e degli artigia- nati ci ha permesso di individuare locali e immobili in cui potevano avere sede nuove attività (uffici, piccole imprese) per rinnovare il tessuto economico. In tal senso si potevano prevedere, accanto all’Agorà, architetture moderne che non imitavano lo stile del passato. Lavorare sulla storia e sulla memoria del patrimonio urbano significa modernizzarlo. Laddove era possibile, studiando le disponibilità immobiliari, abbiamo proposto di introdurre nuove attività e quindi nuove forme architettoniche. Infine una terza fase è stata quella di lavorare sui limiti dello spazio archeologico e di studiare in che modo tale spazio si concilia con lo spazio pubblico del quartiere partendo dal presupposto che un progetto archeologico situato in un centro cittadino storico ma vivo è un progetto urbano. Quindi abbiamo sistemato le piazze e le strade che si trovano intorno al sito dell’Agorà con l’intento di permettere il passaggio dagli scavi alla città. In che cosa consisteva questo progetto globale? nel rendere leggibile il passato (valore archeologico), ma anche nel permettere al quartiere storico di continuare a vivere in una dinamica futura (valore economico e sociale). Si tratta di una duplice missione del progetto urbano e del progetto archeologico che, in un certo senso, costituisce un progetto urbano. detto ciò occorre tener conto dei rischi che corre ogni progetto urbano di questo tipo. I giochi olimpici, una delle cause del crollo economico della Grecia di oggi, la fretta di prepararli e la speculazione hanno sconvolto numerosi dati. È ben noto che qualunque progetto influisce sull’economia di un quartiere, pertanto è necessario usare delle pre- 2 Y. tsiomis, Fotomontaggio del progetto per la sistemazione dell’Agorà di Atene, 2009. 2 cauzioni per mantenere ciò che è valido e apportare i cambiamenti auspicabili. Ma nel nostro caso né i politici né l’amministrazione hanno osato adottare misure per controllare il settore fondiario e mantenere le attività valide. I prezzi degli affitti dei negozi sono aumentati e tantissime attività, sebbene economicamente solide, si sono spostate altrove ad Atene, facendo così perdere al quartiere parte della sua memoria. dopo aver realizzato questo progetto il turismo ha invaso tutto e la mancanza di controllo del settore fondiario ha causato la scomparsa degli artigiani e delle attività. Tale patrimonio immateriale sta per scomparire e nascono negozi per turisti con merce di cattiva qualità. Ecco quindi che se scompaiono le attività scompare anche la memoria dei luoghi. dougga. un paesaggio archeologico. Il secondo esempio proviene da uno studio effettuato per la sistemazione dei siti archeologici della regione di dougga in Tunisia. Questa esperienza commissionata dall’Agenzia francese dello Sviluppo e dal Ministero della Cultura tunisino risale al periodo dell’ancien régime (anni 2006-07) e tale precisazione, come vedremo, non è priva di significato. Per quanto riguarda questo tipo di paesaggio ancora una volta è interessante citare le raccomandazioni dell’unesco in cui si fa notare che il paesaggio storico naturale viene “concepito come la risultanza di una stratificazione storica di valori e di caratteristiche culturali e naturali che vanno oltre il concetto di centro storico per comprendere il contesto urbano più ampio e il suo ambiente geografico”. Tuttavia, se le collettività regionali non stanno attente, a causa dell’ampliamento della scala, i rischi che corre un territorio composto da un complesso di centri storici urbani e di siti archeologici sparsi qua e là risultano evidenti. Questo studio riguardava lo sviluppo del turismo culturale e lo sviluppo generale del nord-ovest della Tunisia. Si tratta di un vasto programma che comprendeva siti archeologici, patrimonio architettonico, turismo e sviluppo economico della regione (assi principali Teboursouk-dougga e Jendouba-Bulla Regia-Chemtou). Tenuto conto della scala, il numero degli attori coinvolti era considerevole come si può immaginare, la questione non riguarda soltanto archeologi, architetti, amministrazioni comunali o alcuni servizi amministrativi, ma interessa anche attori politici ed economici (stato, regione, amministrazioni comunali, agricoltori, albergatori, costruttori privati ecc.). nell’epoca romana al centro della regione di dougga c’era una città che portava lo stesso nome; era un centro rurale e commerciale, una delle numerose città romane dell’Africa del nord, che si sviluppano attorno al I secolo prima e dopo Cristo. Caratteristica comune di tutte queste città è che sono costruite su delle colline e su dei siti che possono essere difesi. La loro posizione nel paesaggio permette di comprendere il rapporto della città con i terreni agricoli della pianura. dunque la nozione di paesaggio archeologico assume qui tutto il suo senso e diventa un valore fondamentale. Le vestigia di queste città non possono essere separate dal loro ambiente, dal loro 99 TUTELA E REINVENZIONE 100 paesaggio, dal loro “orizzonte”, che costituisce un altro concetto operativo per un architetto paesaggista. dougga in questo senso è esemplare: il sito è posto sulla collina e la topografia, la sua dinamica con i colli, le montagne che si profilano sullo sfondo e le valli coltivate, tutto mette in evidenza un’immagine che proviene dalla storia. Ma la situazione che abbiamo constatato nella regione era paradossale. da un lato uno sviluppo agricolo sempre vivace e intenso e dall’altro una situazione deplorevole, poiché i siti sono rimasti nello stato in cui erano al tempo degli scavi e non si è provveduto a sistemarli per i visitatori; mancano le infrastrutture alberghiere, non esiste nessun tipo di accoglienza turistica e mancano i musei (i pochi esistenti sono sistemati male). Ma soprattutto ci siamo resi conto che c’è anarchia nello sviluppo dei villaggi, e che i paesaggi sono rovinati da costruzioni abusive. La sfida di tale progetto di territorio che superava la scala del sito archeologico propriamente detto era quella di riuscire a far coesistere lo sviluppo agricolo, economico e turistico pur mantenendo il valore storico ed estetico di tale paesaggio. Con questo studio non si trattava soltanto di valorizzare e segnalare i percorsi all’interno del sito archeologico, bensì di fare in modo che la città avesse una miglior visione del paesaggio, poiché quest’ultimo rappresenta un valore archeologico alla stessa stregua dei monumenti. Il paesaggio e il sito diventano così un tutt’uno. Ma, come ho già affermato in precedenza, le culture agricole attuali costituiscono un valore economico indiscutibile, pertanto non si trattava di ricreare l’immagine della città che avevano gli abitanti di dougga nell’antichità. noi dovevamo mantenere la sensazione, cioè la leggibilità di un paesaggio coltivato su un orizzonte di montagne. Gli elementi di sedimentazione del paesaggio che costituiscono il luogo e l’orizzonte (come sottolinea il paesaggista francese Michel Corajoud) possono fungere da nozioni operative per l’architetto, l’urbanista e il paesaggista, poiché il paesaggio è come un archivio e permette di comprendere nella diacronia i sistemi agrari. Così il valore archeologico, il valore storico, il valore economico dell’agricoltura attuale e il valore estetico si fondono. Lavorare sui siti archeologici nel paesaggio consiste quindi nel lavorare su punti di vista che vanno dal sito verso il paesaggio e dal paesaggio verso il sito, permettendo allo sguardo di comprendere come era prima il paesaggio e come è cambiato nel corso del tempo. È un andirivieni tra il sito e il paesaggio e dal paesaggio al sito. In altri termini il paesaggio costituisce la ragion d’essere del sito archeologico. Veniamo adesso ai rischi. A dougga e in tutti i siti oggetto del nostro studio, il paesaggio inizia a essere rovinato dalle brutte costruzioni frutto dell’anarchia, da alberghi e costruzioni rurali di cattiva qualità e, anche su siti protetti dall’unesco come Boulla Regia, da miniere a cielo aperto (latomie). Occorre far presente che tali miniere a cielo aperto appartengono ai parenti di chi comandava in passato, e funzionano ancora. Se vogliamo riassumere, i molteplici rischi della valorizzazione del sito archeologico sono il turismo come unica funzione, la lottizzazione selvaggia con gli ampliamenti periferici e le costru- zioni rurali di cattiva qualità realizzate nell’anarchia. E la posta in gioco è come permettere lo sviluppo economico, agricolo, turistico senza impedire la leggibilità del paesaggio storico. Ma in questo caso si tratta di una questione politica più che architettonica. brasilia: il tradimento della modernità. Ora passo all’ultimo esempio che rientra nell’ambito dell’archeologia del xx secolo, poiché possiamo considerare che Brasilia ne faccia parte. Intorno allo sviluppo di Brasilia curiosamente si concentrano tutti i problemi relativi al paesaggio archeologico, soprattutto perché si tratta di una città contemporanea classificata come patrimonio mondiale dall’unesco. Quest’ultima pone d’altronde il problema dei rischi che corre un “paesaggio urbano storico” a causa dello sviluppo demografico e della liberalizzazione degli scambi. Aggiungerei anche la speculazione. È il caso di ricordare che d’altra parte la raccomandazione dell’unesco pone l’accento su “i rischi che si corrono a causa dell’alterazione del significato di un’opera costruita sulle percezioni e le relazioni visive” o, in altre parole, quando vengono travisate le intenzioni di un progetto realizzato che annoverava tra i suoi valori più importanti il paesaggio urbano. Valutiamo questi rischi nel caso concreto di Brasilia, opera di Lucio Costa e di Oscar niemeyer. La plasticità del piano di Brasilia è ben nota. Brasilia è un sistema composto da sottosistemi: il sistema monumentale, che mette in risalto gli strumenti del potere; il sistema abitativo (le superquadras), con misure e altezze degli edifici ben definite; il sistema basato sul funzionalismo ri- guardante mobilità, lavoro, relax ecc. e, infine, il sistema degli spazi verdi. Tutto ciò appare chiaro dalla forma urbana, dalle forme e dai tipi architettonici previsti fin dall’origine. È certamente un piano funzionalista che, grazie al suo messaggio simbolico (nuova capitale dello Stato-nazione), ma anche grazie a questo sistema rigoroso e poetico al tempo stesso, è divenuto uno degli ultimi emblemi dell’urbanistica e dell’architettura moderna della metà del xx secolo. Possiamo considerare Brasilia come l’ultima capitale dei tempi moderni. Certamente qualunque città si evolve e cambia. La stratificazione è una delle caratteristiche fondamentali di Brasilia. Tuttavia si annuncia una svolta nel corso degli anni a partire dagli inizi degli anni 1980. Essendo proibito l’ampliamento, complice la speculazione, sono sorte costruzioni nuove, torri ed edifici fuori scala e di qualità mediocre nel perimetro del piano iniziale. Il centro di alcune superquadras è stato invaso da supermercati o da costruzioni di complessi edilizi che non rispettavano il piano originale. In breve, è stato totalmente alterato lo spirito degli ideatori del piano. Così assistiamo ad un’alterazione della struttura urbana e dell’aspetto fisico della città. nonostante la “tutela”, in quanto patrimonio mondiale, vengono erette dappertutto costruzioni mostruose di architettura commerciale e sorgono favelas in prossimità della città. Tutto ciò con il beneplacito dei politici e dell’amministrazione. Ma bisogna ammettere che le favelas danno meno fastidio. Lo stesso dicasi sul rapporto della città con il paesaggio. Lucio Costa ha concepito Brasilia non come un oggetto posto su un terreno piano, ma in comunicazione con il paesaggio. fin dall’origine la prospettiva della piazza dei Tre Poteri è concepita per essere aperta all’orizzonte. Lucio Costa ha descritto in maniera esplicita questo sorprendente rapporto voluto con il paesaggio lontano. Ora, questo paesaggio comincia ad essere chiuso, certamente non nell’asse, ma lateralmente. È stato consentito a promotori e architetti di nascondere l’orizzonte con delle costruzioni nuove. L’evoluzione di Brasilia degli ultimi anni mostra come questa sia diventata una “città banale” nel senso peggiore del termine, in balia della speculazione e invasa da opere architettoniche discutibili. non è possibile sostenere che Brasilia dovrebbe essere intoccabile, ma la difficoltà di classificare un’intera città “patrimonio dell’umanità” in parte riguarda l’ideologia o la politica più che la scienza o i valori del patrimonio urbano. Conclusione. dopo questi esempi, terminerei con qualche osservazione. Può sembrare banale, ma è bene ricordare che, in seguito, il concetto stesso di patrimonio e di paesaggio archeologico si è esteso e che esistono moltissime interpretazioni di termini quali complessi urbani, paesaggio urbano, ambiente. Tali estensioni del concetto e la sovrabbondanza delle definizioni sono dovute a differenti approcci filosofici, sociologici, storici, normativi, artistici, architettonici ecc. Ad occuparsi di ciò non sono soltanto l’architetto, l’urbanista, lo storico della città o dell’arte, ma un complesso di discipline o di settori di conoscenze. un’altra constatazione è che d’ora in poi abbiamo, sia a livello nazionale sia internazionale, strumenti sufficienti per trattare il patrimonio materiale e immateriale antico e contemporaneo. d’altra parte constatiamo oggi un cambiamento di terminologia, cambiamento questo che sta a significare non soltanto l’estensione dei concetti espressi dai termini, bensì anche un ampliamento di scala. Esistono degli slittamenti semantici i quali stanno ad indicare che alla conoscenza che riceviamo dalle diverse discipline si aggiunge una coscienza politica. Il fenomeno urbano non si riduce più al valore dell’antico, ma comprende qualunque produzione spaziale, da quella più localizzata alla più estesa, in una problematica: quale civiltà futura vogliamo? Analogamente, ci rendiamo conto che la storia da un lato e la memoria vivente dall’altro si intrecciano. un sito archeologico nella città non è un buco nella città. un “monumento” nella città e la città “storica” stessa non sono oggetti situati nel mezzo di un vuoto che sarebbe il paesaggio. d’altronde quale città non è “storica”? Che cosa intendiamo per “storica”? Ciò non vuol dire che tutte le storie urbane, che tutti i paesaggi abbiano lo stesso significato. Se così fosse bisognerebbe classificare il mondo intero per terminare le classificazioni. Significa semplicemente che qualunque “paesaggio urbano” e qualsiasi paesaggio archeologico è nella storia, cioè si iscrive nella complessità che fa la storia. una volta ammesso ciò, successivamente arriva il momento della valutazione, cioè dell’esplorazione dei significati e del senso che attribuiamo ai differenti luoghi di progetti. non si tratta di valori ideologici imposti dall’alto. 101 3 3 o. Niemeyer, Brasilia, 1960. tHe lANdsCAPes oF ARCHAeoloGY: iNNovAtioNs ANd RisKs TUTELA E REINVENZIONE ABSTRACT 102 Roland Barthes diceva che non si lavora con dei valori, ma si costruiscono delle validità. non si tratta di un’assiologia di valori ideologici ma, nella misura del possibile, di un’assiologia di valenze scientifiche, architettoniche e dei valori dell’uso. nel nostro caso quindi si tratta di trasformare in azione efficace gli elementi convalidati dalle differenti letture analitiche del patrimonio: valenze storiche, sociologiche, culturali, antropologiche, architettoniche, economiche ecc., per arrivare ad emanare norme nonostante tutto necessarie. Il problema oggi non sono le definizioni e le conoscenze del patrimonio. Abbiamo conoscenze sufficienti che continueremo ad accrescere. Il vero problema per l’azione è la gestione dell’urbano e del paesaggio archeologico. La questione riguarda i rischi e le possibilità di andare fuori strada che oggi incontra il patrimonio in senso lato. E, a parte casi estremi (l’Afghanistan ieri, il nord del Mali oggi), non sono i monumenti o i siti archeologici a rischiare di più, bensì soprattutto le città, i paesaggi, l’ambiente, tutti iscritti nella storia indipendentemente dai valori che sono diversi in funzione degli approcci delle discipline. Infatti i valori dello storico della città non sono gli stessi rispetto a quelli del sociologo, dell’architetto, dell’urbanista e del geografo. Invece ciò che li avvicina sono i rischi di annullare le valenze instaurate da ciascuna delle discipline. Come tutelare senza congelare? Questo è il problema più importante al quale dobbiamo dare risposte sempre nuove. The various different situations analysed in france, Greece, Italy and Brazil highlight the differences between public policies and urban plans as regards archaeological sites and provide an outline of the extent of an approach that doesn’t limit itself to “conservation”, but concerns the relationship that exists between history and our future, or, in other words, the plan. We aren’t dealing with theories or ideologies here. These are practical issues, policies that must be applied in order to create public spaces. Archaeological spaces – the “landscapes of archaeology” – are public spaces. The Greek word for “public” is demos and it is the root of the word “democracy”. Our relationship with the past indicates the future of the collective community – the “demos” – and as far as this aspect is concerned, our work on archaeological sites is certainly focused on the relationship we have with the past as well as the civilisation we hope to see in the future. In other words, it involves working with the values that lie at the heart of our plans, because when we consider archaeological spaces we are always expressing “values” and asking ourselves if these values represent what we are or not. When we discuss urban, archaeological and modern heritage, we question ourselves about the future of contemporary society. The archaeological landscape serves as a paradigm and a symptom, but it is also a metaphor that helps us expose the risks that loom over the society we wish to leave to our children. Today, all over the world, starting with Italy and Greece, there is a plethora of laws and recommendations concerning archaeological sites and landscapes and often all these regulations either contra- dict each other or are seen as useless restrictions. And yet we seem to be under the impression that everything that can be said regarding methods of conservation and, at the same time, methods of innovation has been said. As regards this aspect, unesco’s Recommendation on the Historic urban Landscape of 2011 is a good example. This document states that “urban heritage is for humanity” a social, cultural and economic conquest “defined by an historic layering of values that have been produced by successive and existing cultures”, both Ancient and Contemporary. In the past few years, we have seen a revival of archaeological theories and approaches regarding tangible and intangible heritage. Therefore, it is not a question of asking whether or not a theoretical and practical apparatus exists, but rather how such an instrument should be adhered to and applied. nevertheless, we see different cases all over the world and we can note the differences between what is declared and what is put into practice, not only by central authorities but also by local communities or those with private interests. On the other hand, it’s not a question of limiting oneself to following recommendations but, above all, of innovating. While general recommendations are useful, we all know that where any plan affecting the economy of a district is concerned it is necessary to take precautions in order to preserve what is worthwhile and make beneficial changes where possible. urban plans should focus on the regeneration of public space as well as economic renewal, hence working on the history and memory of urban heritage also means modernising it. 103 TORInO il PARCo ARCHeoloGiCo delle toRRi PAlAtiNe: il PRoGetto di uN ACCoRdo TUTELA E REINVENZIONE Giovanni durbiano 104 L’intervento, progettato e costruito insieme ad Aimaro Isola e Luca Reineirio, tra il 2003 e il 2009, ha un suo specifico interesse dovuto alla peculiare strategia adottata nella gestione della commessa. Il Parco archeologico è l’esito di un incarico – ottenuto in seguito ad un concorso pubblico – di regia, e non direttamente di progetto. Il Committente – il Comune di Torino – consapevole della pluralità di attori coinvolti nella trasformazione di questa grande (70.000mq), centralissima e culturalmente strategica area urbana, non richiede infatti, nel bando di gara, il disegno di un opera autoriale, ma innanzi tutto il disegno di un accordo. Tutta la strategia progettuale e i conseguenti esiti fisici sono conseguenza di questa scelta. La regia dell’accordo ha specifici strumenti e disegni, che vengono utilizzati al fine di trovare punti di convergenza tra le tante figure più o meno istituzionali coinvolte nella trasformazione (dalle Soprintendenze archeologiche e architettoniche al Vescovo, dagli esperti di viabilità, ai mercatali che occupavano l’area extra muros). Il progetto è dunque progetto di relazione. una relazione utile a evitare che singoli elementi, pur nella propria rilevanza individuale si dispongano come frammenti isolati, slegati dall’orizzonte complessivo di una intelligibilità. Il progetto ha quindi come obiettivo principale quello di restituire all’area un carattere unitario: come giardino archeologico, ma anche come parte di città, recuperando il valore strategico che storicamente questo luogo ha sempre avuto. stratigrafie. La realizzazione del Parco archeologico si inserisce in un quadro di generale ripensamento dell’immagine cittadina. Torino, con l’elezione della nuova Amministrazione Comunale e l’approvazione del Piano Regolatore negli anni ’90, sviluppa un ambizioso programma di riqualificazione del proprio centro storico, in cui la ricomposizione della smagliatura urbana tra le Porte Palatine e il duomo svolge un ruolo strategico. La questione dell’area archeologica e del suo sfrangiato contorno si presenta so- prattutto come un problema d’ordine tra valori differenti. un ordine che il progetto di valorizzazione ha tentato di ricomporre, a partire dalla lettura delle valenze esistenti, dalla comprensione delle gerarchie simboliche, dall’interpretazione dei segni – ora deboli ora forti – delle tracce storiche. un ordine che deve restituire l’eccezionale stratigrafia del sito, ricostituendo una qualità dell’abitare il luogo. nella storia della città, l’area delle Porte Palatine ha sempre costituito un nodo irrisolto, per la cui soluzione si sono confrontati – senza esiti – molteplici studi progettuali, non solo recenti. Il carattere anomalo e incompiuto di quest’area ha origini lontane. nella città romana il tratto irregolare era dato dalla vicinanza delle mura, dalle differenze di quote del terreno, oltre che dalla presenza dell’edificio teatrale che introduceva la forma semi circolare della cavea nell’ordinata ortogonalità delle insulae. Cuore religioso della città medioevale, l’area ospitò le tre basiliche paleocristiane di San Salvatore, San Giovanni e Santa Maria, sul cui sedime è stato edificato il nuovo duomo e successivamente i palazzi vescovili e gli spazi annessi al contiguo Palazzo Reale. Con i Savoia, l’area diventò parte integrante della cosiddetta zona di Comando, centro di governo e di rappresentanza della corte e, come tale, luogo di demolizioni e di nuove costruzioni, che registrano il progressivo affermarsi dell’autorità ducale sull’autorità dei vescovi. La sovrapposizione delle vicende storiche si riflette nelle pietre costruite. Gli edifici sono cambiati, si sono succeduti senza però uniformarsi alla regola ordinata degli isolati del “quadrato” romano: al contrario, contraddicendo la trama densa e rimarcando quindi una diversità che tuttora risulta fortemente riconoscibile. Con questo carattere straordinario si sono confrontati, nei secoli, i progetti di sistemazione monumentale di Carlo Castellamonte, di Benedetto Alfieri, di Luigi Canina, di Alessandro Antonelli: ognuno tentando, senza riuscirvi però, di dare conclusione unitaria al grande spazio irrisolto. Così, nel tempo, la forma del luogo è rimasta questione aperta: da ordinare con l’aggiunta di nuovi inserti e nuove interpretazioni. La condizione irrisolta è determinata dalla presenza di una molteplicità di fabbricati e di terreni liberi, ciascuno con storie e funzioni diverse: quella nascosta del Teatro romano, i resti museificati delle Porte Palatine (I secolo d.c.), il duomo (1491-98) voluto dal Cardinal della Rovere (dove è stata messa in luce la chiesa inferiore al piano seminterrato con l’intervento di Maurizio Momo, 19982005), il campanile romanico con la conclusione juvarriana, il Palazzo Reale e la sua Manica nuova (sito della sede della Galleria Sabauda), il Seminario vesco- vile, il Palazzo Chiablese, l’edificio degli uffici Tecnici del Comune (di Mario Passanti, Paolo Perona e Giovanni Garbaccio, 1956-1966), l’antico isolato di Santa Croce, con i resti del vecchio ospedale Mauriziano e frammenti di aulici palazzi, la ricomposizione dell’isolato medioevale di Santo Stefano (con l’albergo nh progettato da Gabetti, Isola e franco fusari), il Museo d’Arte antica (Gabetti & Isola, 1982-1998), nonché margini smembrati della città quadrata e porzioni recenti di un’ edilizia senza qualità. valore dell’unità ambientale. La straordinaria stratificazione del sito, l’eterogeneità del paesaggio costruito, la densità dei manufatti monumentali confusi con edifici modesti, impongono all’azione di progetto attenzioni particolari: né gesti poetici, né volontà d’arte autonome, potranno in questo caso risolvere quanto si presenta come denso intreccio incompiuto. La valorizzazione dell’area delle Porte Palatine muove dall’obiettivo di tenere assieme i tanti e differenti valori in gioco; e orientare la forma in relazione alle parti, ricomporre in una trama unitaria l’evidenza della stessa natura complessa dell’area. In realtà, non sono gli edifici nuovi ad essere al centro del problema da risolvere; il vero “oggetto” dell’azione progettuale è, piuttosto, lo spazio intercluso all’interno del grande invaso urbano: uno spazio attraversato da innumerevoli relazioni fisico-funzionali, figurative e simboliche. Lo spazio posto “tra” gli edifici – tra il duomo e gli uffici Comunali, tra piazza San Giovanni e l’area archeologica, tra dentro e fuori le mura… – è il tema della valorizzazione. Il progetto, infatti, si occupa degli edifici esistenti soprattutto nella misura in cui essi stabiliscono relazioni con lo spazio urbano: lavorando, più che sul volume dei pieni, sulla forma del vuoto. Il progetto del Parco archeologico, in questo senso, non solo risponde a una legittima attesa di valorizzazione dei reperti esistenti, ma permette di considerare la materia del parco, le rovine e la natura, come trait-d’union fra le singole parti: in grado di unire, in un insieme coerente, l’episodicità delle attuali presenze. Gli alberi, le colonne, il prato, il selciato, i resti emersi dagli scavi, le possibili ricostruzioni, se trattati in relazione al disegno di un unico paesaggio, sono eletti ad elementi discreti di un’opera di ricucitura delle tracce fisiche e dei nessi simbolici esistenti. Rovine e lo spazio urbano. Per la valorizzazione dell’area delle Porte Palatine è decisivo il ruolo che s’intende attribuire ai resti archeologici romani. un ruolo così importante per i destini dell’area, che non deve venir stabilito esclusivamente in base a parametri “scientifici”, ovvero in relazione alla sola conoscenza storico archeologica; ma che, al contrario, va assunto nel progetto di riqualificazione complessiva anche come specifico problema di qualità urbana. La strategia perseguita è dunque quella di reintrodurre i resti archeologici all’interno del paesaggio urbano, in modo da sottrarre le rovine all’attuale stato di marginalità. Assegnare all’antichità romana non solo l’atteso ruolo di “giardino archeologico”, ma anche quella di “figura” urbana consente di ridefinire, in maniera unitaria, i caratteri dell’intera area. Le Porte Palatine possono tornare ad essere porte. Il Teatro: teatro. I percorsi: strade coerenti con la spazialità antica. Il signifi- 105 TUTELA E REINVENZIONE cato dell’azione progettuale non si riduce semplicemente a “restituire” reperti antichi ai visitatori: sono molte invece le scelte che occorre prendere in merito a valori tra loro anche molto differenti: dal concetto di antichità a quello di funzionalità (viabilistica); da quello di urbanità a quello di monumentalità. Per questo motivo, è stato necessario un certo empirismo critico per poter mettere d’accordo i numerosi attori che, con ruoli diversi, partecipano al destino di quest’area; così come, si è subito rinunciato al pensiero di poter risolvere il problema dell’area con un solo e imperioso gesto architettonico. Al contrario, è stato indispensabile rivolgersi agli studi esistenti, cercando di carpirne le possibili fecondità, e di lì si è partiti per avanzare soluzioni propositive e concrete. 106 valorizzazione delle torri Palatine e Parco archeologico. nel progetto di architettura, il ruolo di un edificio, nei confronti della città, non dipende esclusivamente dal valore dell’oggetto in sé, ma dalla complessa rete di relazioni che l’oggetto stesso stabilisce con gli altri oggetti, in sostanza dalla sua dimensione ambientale. Questo è il caso dei resti romani della città, il cui valore archeologico – se confrontato con casi vicini, quale quello di Aosta – forse potrà non essere eccezionale (non fosse altro che per le continue aggressioni e rifaciture della Porta, che ne hanno minato l’integrità originaria). Al contrario però, i reperti antichi assumono un significato determinante se considerati in relazione al valore strategico della loro posizione nella maglia urbana. L’area contenente il Teatro, la Porta e l’insula prospiciente, occupa uno spazio preciso – geometrica- mente tracciato tra le mura di cinta e il primo decumano nord – posto a conclusione della zona di Comando, di cui la Manica nuova costituisce l’ultimo tassello monumentale. Posizione evidentemente decisiva per qualunque trasformazione si intenda immaginare. Poiché l’area appare frantumata in tante specie di spazi, incongruenti tra loro (piazzali inerbati e a parcheggio, frammenti di rovine, strade e stradine), l’orientamento progettuale ha puntato, al contrario, a una dimensione unitaria, che ricomponga la presenza dell’antico attraverso un’immagine forte, riconoscibile. Questa strada ha richiesto una modificazione profonda del sedime attuale: la rimozione di tutti i trattamenti di superficie presenti, lo scavo di una parte del suolo fino alla quota romana, in modo da far riaffiorare i reperti presenti e il disegno unitario dei suoi confini su via. La ricerca di una dimensione unitaria, in grado di ricomporre la frammentazione esistente in un’unica immagine dotata d’identità definita è stata discussa con le molteplici competenze coinvolte a vario titolo nell’area, mettendo in relazione valori storici e ragioni funzionali, aspetti simbolici ed esigenze sociali. Il confronto con gli uffici tecnici (e, in particolare, con il responsabile di procedimento, l’architetto Egidio Cupolillo, che ha svolto un ruolo decisivo per la riuscita del progetto) e con gli uffici dell’urbanistica, la viabilità, gli assetti proprietari, come con le Soprintendenze ai Beni architettonici e ambientali e ai Beni archeologici, ha permesso di avanzare un’ipotesi di configurazione in grado di offrire un assetto unitario pur mantenendo le singole specificità dei manufatti. È stata così individuata un’immagine condivisa per il Parco archeologico e lo spazio urbano connesso, che ha permesso di poter procedere successivamente alla definizione progettuale degli interventi nei singoli ambiti mantenendo quell’unità di paesaggio che si è inteso come il valore prioritario da affermare in questo luogo. La definizione dei confini dell’area del Parco archeologico ha costituito il primo passo necessario di una complessa strategia progettuale. La scelta di estendere i limiti fisici del Parco archeologico all’intero ambiente compreso tra la Manica nuova di Palazzo Reale, gli edifici moderni dell’isolato di Santa Croce, via della Basilica e le mura seicentesche, risponde all’obiettivo prioritario dell’unità dell’area e della sua valorizzazione ambientale. Il progetto, redatto in collaborazione con l’architetto Paola Giordano del Comune di Torino, muove dalla considerazione del dislivello, attualmente di circa quattro metri, esistente tra le quote di piazza San Giovanni e quelle di corso Regina Margherita. dislivello che ha il proprio punto medio alla quota romana di 236,50 m. Scavando fino alla quota romana nel quadrilatero compreso tra via Porte Palatine, mura romane, vie xx settembre e della Basilica e, all’inverso, rialzando la quota di una porzione dell’area tra le mura romane e il corso, si è ottenuto un unico piano orizzontale che, verso la città, presenta le tracce riemerse del sedime romano, mentre fuori le mura riprende il disegno del preesistente bastione di San Lorenzo e contiene uno spazio per parcheggi o deposito dei carretti del mercato. La definizione del nuovo perimetro del Parco archeologico, che prescinde dal sedime delle strade esistenti, modifica sensibilmente il sistema della viabilità interna ed esterna all’area. I limiti fisici 1 2 3 1, 2, 3 Gabetti e isola, G. durbiano, Parco Archeologico delle torri Palatine, torino, 2003-06. del Parco sono segnati da quinte naturali e artificiali che definiscono percettivamente l’intero ambiente. Quinte composte da filari di carpini piramidali e da un sistema colonnato che, con passi e altezze differenti, circondano l’intera area archeologica. Piazza e via. Il disegno della pavimentazione di piazza San Giovanni riprende ed estende a tutto l’invaso la maglia regolare precedentemente esistente, realizzata nel 1995, su progetto dell’ufficio Tecnico Municipale della Città di Torino, sul lato orientale della piazza, intorno al duomo. L’estensione del disegno regolare della pavimentazione esistente, composta da riquadrature geometriche, contribuisce così a dare definizione compiuta all’invaso castellamontiano, segnando con chiarezza il limite tra lo spazio aulico e concluso della piazza e quello aperto e naturale del parco archeologico. Via xx settembre, invece, depotenziata quale asse viario e ridotta nella sezione stradale, è resa pedonale e percorsa dalle sole linee tramviarie, assumendo il carattere di “strada delle romanità”, ossia strada panoramica al di sopra delle rovine e dei resti archeologici. nel progetto di disegno complessivo per l’area archeologica, a segnare il filtro spaziale tra i due differenti ambienti di piazza San Giovanni e del Parco archeologico, è prevista una quinta alberata giustapposta ad un colonnato che funge anche da recinzione al parco e che riprende le dimensioni della recinzione del teatro. Superata la quinta e proseguendo da piazza San Giovanni verso via xx settembre si rende riconoscibile – esattamente al contrario di quanto accadeva prima – l’atto di lasciare alle spalle uno spazio raccolto, confinato, per inoltrarsi invece in una spazialità altra: luogo del dialogo a distanza delle emergenze monumentali. La via xx settembre mette così in relazione visiva i due invasi archeologici: quello del teatro e quello della nuova area a lato delle Porte Palatine, mentre la relazione fisica tra le due parti avviene tramite un passaggio trasversale al di sotto della via stessa. bastione e mura. All’interno di questo quadro urbano, il progetto di riproposizione dell’antico bastione svolge un ruolo strategico. Presentando una suddivisione geometrica precisa del terreno tra le mura barocche e il corso Regina, il bastione definisce un’area bassa, alla 107 4 TUTELA E REINVENZIONE 4 Gabetti e isola, G. durbiano, Parco Archeologico delle torri Palatine, torino, 2003-06. 108 medesima quota del corso, che si pone in diretta relazione con i giardini sotto le mura, e un’ area più alta, alla quota archeologica intra moenia, che è costituita dal bastione stesso. nella parte bassa viene a costituire un unico imponente ambiente naturale, di nuova configurazione. La fascia verde ai margini delle mura barocche unisce tutto il sistema monumentale che dalla Cavallerizza arriva alle Porte Palatine, restituendo chiarezza alla lettura morfologica dell’insieme. una chiarezza che è, in primo luogo, percettiva come dimostra la rinomata Veduta di Torino del Bernardo Bellotto dal lato del Bastion Verde del 1745. nella parte alta, invece, la cinta muraria della città barocca esistente viene estesa anche nell’area rettangolare delimitata tra la nuova via xx settembre e l’estensione del Cardo Maximus oltre le Porte Palatine. In questo modo si viene a configurare un grande bastione, della forma di quello che in quel luogo è esistito fino alla demolizione avvenuta sotto l’occupazione napoleonica: una presenza fisica che, anche simbolicamente, evidenzia il limite tra città antica e moderna, cresciuta oltre il boulevard di corso Regina, a partire dalla fine dell’Ottocento. Il disegno del bastione riprende il sedime di quello antico di San Lorenzo, apparte- nente alla cerchia fortificata seicentesca e già rappresentato da Amedeo Castellamonte nel suo Progetto del completamento del complesso dei palazzi ducali. L’antica giacitura contenuta ad occidente dall’attuale via Porte Palatine si sovrappone oggi all’asse di via xx settembre: rendendo ancora più evidente la straordinaria stratigrafia di epoche e costruzioni diverse. entrare in città dalle Porte Palatine. Le Porte hanno subito nei secoli complesse stratificazioni, sofferti e discussi interventi di “liberazione” di parti sovrapposte (1872-1947), integrazioni cospicue, fino a veder ridotta la forma originaria della costruzione al semplice diaframma del fronte attuale. nonostante ciò, la presenza delle Porte Palatine, per chi arrivi da nord, è pressoché ancora la stessa immagine del fronte che, in epoca romana, funzionava come emblema politico e culturale, come proiezione scenografica sul territorio dei valori della civiltà augustea: come segnale, strumentalmente intimidatorio, nei confronti delle genti “pacificate”. Le Porte Palatine rappresentano dunque un’immagine di grande fascino: soprattutto per il loro indiscutibile valore simbolico, prima ancora che documentale. La qualificazione dell’area ruota, evidentemente, attorno alla loro presenza. Per questa ragione, il progetto ha avuto come principale compito quello di liberarle dalla loro figura di “rotatoria” aprendole invece all’uso ordinario, libero da parte dei cittadini. In questo senso, sarebbe stato auspicabile trasformare la via Porta Palatina da veicolare a pedonale, così da consentire un attraversamento diretto dell’antica Porta. Tuttavia, ragioni di viabilità generale, hanno sconsigliato questa soluzione, essendo la via in oggetto l’unico effettivo canale di ingresso veicolare alla città antica. Oltrepassata la Porta, la strada, sempre pedonale e lastricata alla maniera romana, prosegue verso mezzogiorno seguendo l’inclinazione altimetrica dell’attuale via: che, gradualmente, si solleva dal sedime dell’antica strada romana, fino a raggiungere la quota relativa a piazza iv marzo. due filari continui di carpini piramidali, posti ai margini della strada e alternati alle colonne, delimitano la larghezza di quella che era l’antico Cardo Maximus: da un lato, configurando l’affaccio verso il giardino archeologico; dall’altro, ridisegnando il confine orientale del complesso isolato di Santa Croce. Le Porte Palatine, in tal modo, tornano a essere ciò che furono: ovvero porte di accesso. un ritorno allo stato originario, se così si può dire, che ha soprattutto il significato di aprire alla frequentazione dei cittadini uno dei monumenti più mortificati e trascurati; di contrapporre alla logica della museificazione quella della vita e del ruolo urbano dei monumenti. tHe PAlAtiNe toWeRs ARCHAeoloGY PARK: tHe desiGN oF AN AGReeMeNt ABSTRACT The creation of the Archaeological Park is part of a general rethinking of the city’s image. With the election of its new municipal government and the approval of the general zoning plan in the 1990s, Turin is developing an ambitious plan for the renewal of its historic centre, in which the recomposition of the urban sprawl between the Porte Palatine and the duomo plays a strategic role. The question of the archaeological area and its frayed environs stands most of all as a problem of order among different values: an order that the renewal project has attempted to recompose starting from the reading of the existing structures, from the understanding of the symbolic hierarchies, and from the interpretation of the signs – some weak, some strong – of the historic traces; an order that must restore the exceptional stratigraphy of the site, recomposing a quality of living the place. The project, planned and built together with Aimaro Isola and Luca Reinerio between 2003 and 2009, is of specific interest because of the particular strategy adopted in the management of the project. The Archaeological Park is the result of an assignment – obtained through a public competition – for direction, and not for directly planning. In fact, in its request for proposals, the Principal – the City of Turin – aware of the multiplicity of the actors involved in the transformation of this large (70.000 mq), centrally located, and culturally strategic urban area, does not request the drafting of a designer’s work, but first of all the drafting of an agreement. The entire planning and design strategy and the resulting physical outcomes all stem from this decision. The direction of the agreement has specific instruments and specific drawings, which are used to find points of convergence among the numerous, more or less institutional, figures involved in the transformation (from the archaeological and architectural superintendencies to the bishop, from the road system experts to the markets that occupied the area outside the walls). The project is thus a project of relationship: a relationship useful for preventing single elements, albeit in their own specific relevance, from becoming isolated fragments, detached from the overall horizon of an understandability. The main goal of the project is thus that of giving the area back a unitary nature, as an archaeological garden, but also as a part of the city, recovering the strategic value that this place has always had. 109 ROMA il PARCo liNeARe delle MuRA: uNA Possibile iNFRAstRuttuRA “veRde” TUTELA E REINVENZIONE Alessandra Criconia 110 le Mura: testimonianza urbana e non soltanto monumento. Il giardino che corre ai piedi delle Mura Aureliane tra porta Metronia e porta Latina nel quartiere Appio Latino di Roma costituisce il primo tratto realizzato del Parco Lineare Integrato delle Mura. Il parco è uno dei progetti elaborati per gli ambiti di programmazione strategica del nuovo Piano Regolatore di Roma, firmato da Paola falini e Antonino Terranova che ne hanno curato lo studio insieme ad un gruppo di ricerca di cui ho fatto parte, tra gli altri, anche io. Il dato di partenza dello studio, e quindi del progetto, è stato una diversa considerazione dell’antica cinta delle Mura di Roma, che nel contesto di una città che ha raggiunto dimensioni metropolitane, è stata vista come un elemento urbano su cui far leva per attivare dei processi di riqualificazione sostenibile, e non più soltanto come monumento da preservare e porre sotto tutela. Il prestigio e il valore simbolico delle Mura sono fuori di dubbio. Composto da tre parti distinte databili variamente tra l’Età tardo antica, il Medioevo e il Barocco, l’anello difensivo di Roma, come emerge nei disegni dell’iconografia antica(figg. 1-4), è una figura dell’immaginario collettivo che per secoli ha rappresentato il recinto e il limite di separazione tra città e campagna. Quando si parla delle Mura di Roma bisogna precisare che non si fa riferimento solo alle mura Aureliane (iii secolo d.C.), ma anche a quelle Vaticane (erette da Papa Leone iv tra l’848 e l’852 per difendere la Civitas Leoniana) e a quelle Gianicolensi (costruite da Papa urbano viii nel 1643 a completamento di quelle Vaticane). Con l’espansione urbana, però, le Mura, che sono tra i pochi manufatti difensivi antichi a essere sopravvissuti alle demolizioni di fine Ottocento, hanno cambiato statuto e da luogo della frontiera sono diventate una centralità in stretta relazione tanto con le strutture primarie della città: sia quelle ambientali del fiume Tevere, dei parchi archeologici dell’area centrale e delle ville storiche (villa Borghese, villa Sciarra, villa Pamphili), sia quelle infrastrutturali dei tre anelli – ferrovia, circonvallazione tangenziale e gra – e delle antiche vie consolari), sia infine con i quartieri e i tessuti urbani di prossimità. Ma il pregio delle Mura di Roma non è soltanto il valore urbano acquisito. La cinta muraria è anche un enorme manufatto architettonico di circa 19 km che ingloba nel suo perimetro altri manufatti come la Piramide di Caio Cestio, il bastione di Sangallo, l’anfiteatro Castrense, un pezzo dell’acquedotto Claudio, le caserme del Castro Pretorio, i giardini di Villa Medici. Essa lambisce lungo il suo percorso dei luoghi straordinari come il mercato di porta Portese, il foro Boario e il monte Testaccio, le terme di Caracalla e numerosi altri. In tal senso le Mura di Roma hanno assunto un nuovo e diverso significato: oltre ad essere un monumento da conservare, esse sono un fatto urbano che documenta la dialettica dello sviluppo della città, rivelando la co-esistenza di diverse formae urbis, da quelle ordinate e compatte dei quartieri post-unitari dell’arco nord, a quelle più eteroge- nee degli insediamenti dell’arco sud, segnato dal passaggio dell’anello ferroviario e dal grande cuneo del parco dell’Appia Antica che costituiscono due fattori di forte discontinuità. Alla luce di queste considerazioni, il progetto del Parco Lineare Integrato delle Mura ha inteso combinare la tutela del monumento storico con l’uso attivo della preesistenza in una prospettiva di valorizzazione e riqualificazione sostenibile della città. Ripristinando la continuità delle Mura con un percorso pedonale e ciclabile anulare, quei luoghi antichi e moderni che rivestono un forte significato per l’identità della città ma che ora sono dispersi, tornano a essere riuniti in una stessa geografia urbana, diventando fruibili alla cittadinanza. Il Parco Lineare Integrato delle Mura si configura cioè come una nuova infrastruttura di tipo lento – slow – a carattere storico-ambientale con funzione di riconnessione e ricucitura dei quartieri del centro della città (fig. 5). invaso e ambito di programmazione strategica delle Mura. Cambiando dunque il punto di vista e assumendo l’anello delle Mura di Roma come elemento strutturante di una “passeggiata lungomura” interna alla città, lo studio dell’ambito strategico della Mura si è dato tre obiettivi: 1. restituire nuove funzioni e identità ad un manufatto eccezionale con valore storico e specifiche qualità architettoniche, ma trascurato; 2. recuperare le aree degradate e i manufatti dismessi adiacenti alle Mura per costituire un pomerio moderno; 3. valorizzare la permeabilità della cinta muraria nei punti delle porte urbiche per favorire gli attraversamenti e gli accessi alle aree archeologiche, ai parchi e ville storiche e ai quartieri che gravitano intorno alle Mura. In sostanza la passeggiata lungomura acquista lo spessore di un’articolata rete di percorsi ciclopedonali intra-extra moenia che integra l’armatura esistente con una mobilità alternativa nel centro città e organizza un sistema di “isole” cioè di luoghi significativi lungo il tragitto che diventano i punti di addensamento delle attività del Parco Lineare Integrato. 1 Processo e metodologia progettuali. fatte queste premesse, presupposto imprescindibile del progetto è stata la definizione dell’invaso delle Mura, a cui si è giunti attraverso l’elaborazione di due carte: la carta delle risorse che è servita a identificare i vuoti, gli spazi inedificati e di risulta, gli insediamenti abbandonati e dismessi insieme alle aree in uso e ai regimi proprietari; la carta degli obiettivi che, facendo fede sulle informazioni scaturite dalle risorse, ha definito le potenzialità e il grado di trasformazione dei luoghi ai fini di un potenziamento funzionale delle Mura e di un innalzamento della fruibilità percettiva e abitativa del complesso degli spazi e dei quartieri circostanti. La definizione dell’invaso ha permesso di perimetrare l’ambito di programmazione strategica delle Mura e dunque di identificare l’ordine degli interventi, quello unitario dell’intera cintura e delle aree di pertinenza per ripristinare la continuità interrotta della Mura e quello dei progetti localizzati nelle situazioni urbane complesse per una trasformazione guidata dei contesti circostanti alle Mura. È a questo punto 2 3 111 TUTELA E REINVENZIONE 4 112 5 1, 2, 3. 4 iconografia delle Mura di Roma nelle miniature e nelle carte del Medioevo e del Rinascimento. 5. Parco lineare integrato delle Mura e progetti urbani esplorativi. 6 P. Falini, A. terranova, L’invaso delle Mura e l’individuazione del pomerio moderno. la carta rappresenta le relazioni tra i sistemi morfologici primari e l’anello delle Mura. 7 P. Falini, A. terranova, Schema direttore dell’Ambito strategico Mura. che sono state poste le basi del progetto del Parco Lineare Integrato nei termini di un sistema discreto di luoghiprogetto da trasformarsi secondo una strategia multiscalare articolata in tre livelli “tematici”. Lo scopo della strategia multiscalare – strategia multilayer – non è stato quello di dare una forma prestabilita al parco né di ingessarlo in un progetto concluso, quanto quello di individuare gli elementi e le dimensioni degli interventi insieme alle opere architettoniche necessarie a configurare usi dell’esistente compatibili con la valorizzazione del manufatto e con la fruibilità effettiva del parco. Questi tre livelli non sono un elenco delle fasi cronologiche del progetto, quanto una individuazione delle scale dei progetti e dunque del loro grado di complessità e trasformabilità dei contesti. 6 Il livello 1 riguarda il progetto del suolo cioè il “basamento a cubatura zero” delle Mura. È il livello a scala urbana costituito dal progetto unitario di un parterre verde disteso ai piedi del manufatto come una sorta di tappeto, affiancato o attraversato, a seconda dei casi, da una rete di percorsi pedonali, piste ciclabili, punteggiato da aree attrezzate per la sosta, il gioco e lo sport e da giardini di quartiere. Si tratta del livello dell’opera pubblica integrato di recupero e valorizzazione del monumento: il tappeto verde ai piedi della cinta muraria ha anche lo scopo di creare una fascia di salvaguardia a spessore variabile. Il livello 2 è quello dei progetti urbani locali riferiti alle aree ad alto tasso di criticità ma con un’elevata potenzialità di trasformazione che si trovano lungo il percorso, lì dove si trovano altri ma- 7 nufatti inglobati o in prossimità degli accessi ai parchi, alle ville storiche, al fiume o ai quartieri della movida romana e nei quali si prevede un programma di sviluppo locale per innescare un cambiamento degli usi e delle pratiche alla portata dei cittadini. Il livello 3 infine è quello dei progetti esplorativi di architettura relativi a interventi di piccola e media scala, circoscritti ad alcuni temi specifici come la sistemazione di aree per attività legate al tempo libero e allo spettacolo, la realizzazione di piattaforme multifunzionali per attrezzature di servizio urbano e turistico e il miglioramento delle condizioni di accesso, di sosta e di informazione, la creazione di strutture di protezione degli scavi e di spazi per la raccolta e la conservazione dei reperti archeologici recuperati, la progettazione di superfici vegetali necessaria alla riqualificazione degli spazi aperti e alla riconnessione fra le mura e i contesti paesistici dei parchi archeologici e delle ville storiche. I tre livelli della strategia multiscalare costituiscono la matrice del vero e proprio progetto urbano del Parco Lineare Integrato che sulla base dell’armatura della passeggiata lungomura identifica nelle porte urbane i luoghi-chiave del progetto. Le porte sono infatti i punti di maggiore permeabilità del sistema ma sono anche i punti dove la concentrazione dei flussi e la pressione viabilistica sono maggiori. I nodi delle porte urbane sono in sostanza i luoghi da cui partire per rendere possibile il funzionamento di un’infrastruttura “debole” come quella del parco. Ora, l’analisi dei contesti urbani ha mostrato un doppio grado di complessità delle porte: da una parte ci sono quelle come porta 113 San Paolo, porta San Giovanni, porta Maggiore, porta del Popolo dove l’intreccio dei flussi è complicato dalla corrispondenza con stazioni ferroviarie e della metropolitana e altri dove gli attraversamenti sono lineari e di superficie come nel caso di porta Metronia, porta san Sebastiano, porta Pia, porta Pinciana. nei due casi la soluzione delle problematiche urbane è ben diversa, fatto salvo che il miglioramento delle connessioni e la collocazione di funzioni centrali, culturali, commerciali e ricettive in una prospettiva di sostenibilità sociale e economica, vanno di pari passo. TUTELA E REINVENZIONE 8 114 8 P. Falini, A. terranova, il tratto del Parco lineare delle mura Aureliane, realizzato tra Porta latina e Porta Metronia. A distanza di anni dagli studi per l’Ambito Strategico delle Mura (ne sono passati ormai più di dieci), il Parco Lineare Integrato delle Mura appare ancora ciò che a Roma non c’è ma dovrebbe esserci. Anzi, con il passare del tempo e di fronte alle sfide ambientali che è sempre più urgente raccogliere, la speranza è quella che il tratto realizzato tra porta Metronia e porta Latina possa essere il primo tassello del progetto di richiusura dell’anello e della passeggiata lungomura, magari arricchita della possibilità di un camminamento in quota, lì dove possibile, per godere di nuovi punti di vista della città e del parco dell’Appia Antica sullo sfondo del vulcano laziale. tHe liNeAR PARK oF tHe WAlls: A PoteNtiAl “GReeN” iNFRAstRuCtuRe ABSTRACT In Rome’s new Piano Regolatore urban development plan, the Aurelian Walls are a sphere of strategic planning aimed at creating a “green belt” inside the city. With the expansion of the urban area, the Aurelian Walls are no longer simply a monument worth preserving and protecting; they have now acquired the value of an urban object that should be focused on in order to activate processes involving sustainable regeneration. As regards this aspect, the creation of the Aurelian Walls Linear Park, featuring a 20-km footpath and cycle path, would help build a new relationship between the city and the districts that lie in the vicinity of the Walls and, at the same time, would allow us to link up ancient and modern sites such as the forum Boarium and Monte Testaccio, the Sangallo Bastion, the Amphitheatrum Castrense, the aqueducts of Porta Maggiore and the Baths of Caracalla gardens, currently scattered throughout the area. Given such considerations, the strategic plans for the Walls as indicated in Rome’s urban development plan have two objectives: 1) to restore a function and a new identity to an artefact of enormous symbolic value that has, however, been neglected and forgotten; 2) to define a layout for the Walls in line with a plan conceived on three levels: – a level featuring a linear park, made up of a green belt of varying width based on the particular building involved, within or outside of the walls, flanked or crossed by a network of footpaths, cycle paths and areas specially equipped as car parks, playgrounds and sports facilities; – a level featuring local urban plans focusing on complex and highly symbolic junctions that offer enormous potential for change, despite their particularly challenging nature; – a level of exploratory architectural projects involving small- to medium-scale improvements to leisure areas, cultural centres and theatres, urban and tourism services, protective barriers put in place around stratigraphic excavations and venues set up to collect and preserve any archaeological artefacts discovered. On the basis of this rationale, the stretch of linear park that includes the walls between Porta Metronia and Via numidia is the first part of a more complicated and complex project that should run along the entire length of the Walls, closing the circle, in order to become a true linear park. 115 MARGINI E MARGINALITÀ 116 Margini e MarginaliTà MARGINS AND MARGINALITY a cura di edited by Marcello Barbanera 117 osseRvAZioNi MARGiNAli sul destiNo deGli ediFiCi ANtiCHi iN RAPPoRto AllA ModeRNità Marcello Barbanera Memoria e progresso. Il 7 dicembre 1835, una locomotiva Adler conduceva a 35 km orari alcuni vagoni sulla prima linea ferroviaria aperta in Germania tra norinberga e fürth. A bordo c’erano duecento fortunati passeggeri, tra cui il poeta e scrittore Joseph von Eichendorff. Von Eichendorff fissò quell’esperienza in alcune pagine autobiografiche1. Guardando fuori dal finestrino, lo scrittore scorse una rovina nel bosco e si informò presso i compagni di viaggio a cosa essa appartenesse. nessuno seppe spiegarglielo, ma una emancipata signora berlinese commentò che per interessarsi alle rovine avrebbe senz’altro dovuto essere l’ultimo dei romantici, che di fronte al progresso preferirebbe rifugiarsi nella foresta vergine. Von Eichendorff scese alla stazione più vicina e subito si precipitò a chiedere informazioni per raggiungere la rovina: nel clima concitato della stazione, avrebbe potuto essere facilmente ragguagliato sull’ora in cui giungere a Parigi o Trieste, ma nessuno gli seppe dare la benché minima informazione su come ritrovare la strada che conduceva all’edificio diroccato, scorto dal finestrino. nell’epoca dell’industrializzazione, il capostazione conosce a memoria l’orario dei treni, è padrone del tempo presente ma non è responsabile per il tempo della storia2. Eichendorff comprende che il sorgere di una nuova consapevolezza del tempo, legata al progresso scientifico e tecnologico, contribuisce a scalzare il ricordo locale e la memoria storica, tuttavia la sua reazione dimostra anche che la rovina, proprio in virtù di questa accelerazione temporale, diventa l’ancora della memoria e perciò suscita un rinnovato interesse per il passato. Eichendorff vive in piena età romantica, quando le rovine escono dalla loro dimensione oracolare. Ispiratrici di riflessioni sui mali della tirannide per Volney3, ad esempio, o evocatrici di potente visionarietà nelle incisioni di Piranesi, fanno ora il loro ingresso nell’ambito della scienza archeologica: il paesaggio di rovine è destinato a cambiare, perché gli scavi spezzano l’incanto dell’edificio delabré che aveva alimentato tante rêveries romantiche. pp. 116-117 M. barosso, Resti di elefante preistorico rinvenuti durante lo scavo della collina della velia, 1932. 1 A. Rossi, Studio per Mantova, 1981. (© Eredi Aldo Rossi, courtesy fondazione Aldo Rossi) 119 1 J. von Eichendorff, Aus dem Leben eines Taugenichts, Vereinsbuchhandlung, Berlin 1826. 2 A. Assmann, M. Gomille, G. Rippl (a cura di), Ruinenbilder, fink, München 2002, p. 8. 3 C.-f. Volney, Les ruines: ou méditations sur les révolutions des empires, Bossange frères, Paris 1826. Paesaggi con rovine e rovina del paesaggio. negli anni ’20 del xx secolo, lo scrittore Louis Bertrand si lanciò in una requisitoria contro i mali causati dagli archeologi a Atene, Eleusi, Micene, responsabili di aver cancellato le ragioni stesse del viaggio in Grecia: MARGINI E MARGINALITÀ Perché la scienza è come le cavallette. dovunque essa passi non lascia che uno scheletro. Vuota le tombe, distacca i bassorilievi, imballa le statue per inviarli in musei lontani, deteriora gli affreschi con reagenti chimici, per disegnarli o fotografarli più agevolmente. non resta nulla da spigolare dietro […] la triste carcassa che essa abbandona, dopo aver fatto il suo bottino. […] È un brutto scherzo di invitarci davanti a frammenti di mattoni o di calcinacci, radici di muri, fossati e buchi con il pretesto che vi era, in questo posto, una città o un monumento illustre4. 120 4 L. Bertrand, La Grèce du soleil et du paysage, fayard, Paris 1927 p. 182. 5 Sullo sviluppo che poi il concetto di paesaggio e l’osservazione estetica della natura hanno da questo momento cfr. J. Piepmeier, Das Ende der ästhetischen Kategorie “Landschaft”, “Westfalische forschungen”, 30, 1980, pp. 1-46. 6 R. dubbini, Geografie dello sguardo. Visione e paesaggio in età moderna, Einaudi, Torino 1994, pp. 66-89. 7 L. Trepl, Ökologie als konservative Naturwissenschaft. Von der schönen Landschaft zum funktionierenden Ökosystem, “urbs et regio”, 65, pp. 467-492. 8 Tra l’abbondante bibliografia indichiamo un recente volume eccellentemente documentato: R. Zimmermann, Künstliche Ruinen: Studien zu ihrer Bedeutung und Form, Reichert, Wiesbaden 1989; cfr. anche A. Siegmund, Die romantische Ruine im Landschaftgarten. Ein Beitrag zum Verhältnis der Romantik zu Barock und Klassik, Königshausen & neumann, Würzburg 2002. 9 una delle più suggestive ricreazioni di questo spirito nell’arte contemporanea si può vedere nel film Barry Lindon di Stanley Kubrick. 10 T. Whately, L’art de former les jardins modernes, ou l’art des jardins anglois, Paris 1771, pp. 172-179. 11 Ivi, p. 173. 12 Vasari, nelle Vite, menziona quella che sarebbe la prima rovina artificiale, fatta costruire da Bartolomeo Genga per il duca di urbino all’inizio del xvi secolo; cfr. A. Pinelli, O. Rossi, Genga architetto: aspetti della cultura urbinate del primo ’500, Bulzoni, Roma 1971. di queste “nuove rovine” create artificialmente dagli scavi archeologici ci occuperemo in seguito. dovendoci occupare di paesaggi però, vorrei prima richiamare l’attenzione su un fenomeno che si manifesta nel xviii secolo: le rovine iniziano a scendere dalle tele per concretizzarsi nello spazio dove ora si intrecciano le flâneries philosophiques: il giardino. Questo fatto non si sarebbe verificato senza la disposizione che l’uomo del ’700 ebbe verso la natura, dovuta alla maggiore capacità di comprenderne le leggi e che consentì anche di sviluppare una diversa attitudine estetica verso di essa e nei confronti del paesaggio5. Il sorgere di uno “sguardo paesaggistico” è un fenomeno che si può comprendere soltanto in relazione al cambiamento del rapporto uomo-natura, ora fortemente determinato sia dalle nuove condizioni del lavoro sia dalle osservazioni scientifiche che vanno smantellando il concetto di natura come creazione divina e quindi come totalità6. Paradossalmente però il vecchio concetto di natura come totalità andava ricostituendosi sotto una nuova immagine, quella di oggetto estetico7. In questo contesto si crearono le condizioni perché le rovine divenissero elemento ornamentale nei parchi8. Il giardino del xviii secolo è un microcosmo geografico, storico e culturale inserito nella natura9, in cui la flanêrie è una vera e propria arte e l’artificio è ovunque, ma dissimulato. nel 1770, sir Thomas Whately, già Segretario di Stato dell’Inghilterra, pubblicò un trattato sull’arte dei giardini, dove volle codificare le esperienze di questa attività. Whately dedicò un’attenzione particolare alle rovine come elementi architettonici da inserire nel paesaggio10, affermando che il loro effetto è proprio stimolare l’immaginazione al di là di ciò che si vede, cosa che non accadrebbe se gli edifici fossero interi, quindi non si tratta di un godimento immediato ma di un piacere che scaturisce da una relazione che solo l’intelligenza è in grado di stabilire11. nasce o rinasce12 la rovina artificiale, espressione di un gusto raffinato, lontano dalla volgarità, che l’architetto dei giardini dispone lungo percorsi immaginati da committenti aristocratici e amanti del bello per stimolare la loro immaginazione, la loro riflessione filosofica. La rovina artificiale è una contraddizione in termini. normalmente si costruiscono edifici per durare, mentre le rovine sono costruzioni che rivelano il passaggio del tempo, trasformato così in artista: l’architetto imita il lavoro della natura, ma questa deve completare il processo di decadenza. Passato, futuro, presente sono ormai concetti illusori perché le rovine artificiali rappresentano allo stesso tempo monumenti al passato e una complessa e ironica meditazione su di esso. Si comprende pertanto come presto l’urgenza estetica poté scivolare nella moda con la conseguenza che la rovina divenne un mero oggetto di arredo. Si cominciò con il distinguere tra “paysages philosophiques” che servono a ispirare l’animo e “paysages pittoresques” concepiti per il puro piacere dell’occhio, come consigliava René de Girardin nel suo trattato De la composition des paysages sur le terrain13 (1777). Costui mise in pratica i suoi propositi, facendo costruire il parco d’Ermenonville14: su un’isoletta di pioppi, al centro del lago, Hubert Robert eresse un Temple de la Philosophie, sul modello del tempietto di Tivoli. Sei colonne superstiti sono dedicate a altrettanti filosofi, con una parola simbolica: lucem per newton, nil in rebus inane per Cartesio, ridiculum per Voltaire, naturam per Rousseau, humanitatem per William Penn e justitiam per Montesquieu. L’edificio fu lasciato appositamente incompiuto, nell’attesa di un nuovo filosofo, simbolizzato dalla colonna mancante che infatti poggia su una base, ove è apposta l’iscrizione qui hoc perficiet “chi lo completerà?”15. Sotto auspici diversi fu concepito invece il parco che il conte franz zu Erbach si fece costruire a Eulbach(fig. 2), nell’Assia, all’inzio del xix secolo16. nel giardino non furono allestite rovine artificiali, ma resti autentici di un accampamento romano, il cui insediamento parzialmente era compreso nell’area del parco. L’aristocratico ne avrebbe voluto fare l’attrazione principale del giardino, ma i resti erano esigui. fece quindi ricostruire una delle porte dell’accampamento con frammenti presi da altri settori della costruzione romana. Questa anastilosi ante litteram non fu casuale, come il conte si premurò di documentare in una pubblicazione dedicata a Eulbach, né basata su vuote supposizioni ma su indizi comprovati. Lo scopo era fornire una testimonianza dei resti romani in quest’area, in grado di documentare la storia della Germania e appagare il gusto di ogni appassionato delle antichità. Il conte di Eulbach elaborò con questa iniziativa i corretti fondamenti della ricostruzione architettonica di un edificio antico, con il proposito non solo di offrire un godimento estetico, ma di saldare la storia moderna del paese a quella passata attraverso la documentazione tangibile acquisita con metodi archeologici. L’esempio di Eulbach è utile per riflettere sull’uso e sull’interpretazione delle rovine in contesti culturali diversi e sul concetto stesso di parco archeologico, che si presenta necessariamente secondo varianti direttamente dipendenti dalla cultura del paese in cui si trovano. Oltre le Alpi, a parte casi eccezionali, non ci sono esempi diffusi di edifici antichi, come si possono trovare in Italia, Grecia, Turchia, Libia e altri paesi del Mediterraneo. Parchi archeologici come quello di Xanten, Carnuntum o Kempten sono esempi molto distanti da quelli immaginabili per il contesto italiano17. La documentazione archeologica visibile è esigua, il pubblico non è abituato a vivere tra e con le rovine come nei paesi sopra menzionati, quindi l’aspetto ricostruttivo, a scopo didattico, è preponderante e quello di salvaguardia dei resti, presente ma marginale. Si punta, in questi casi, soprattutto sull’aspetto didattico, immaginando un viaggio nel passato per una famiglia della middle class. In Italia, al contrario, l’aspetto didattico dei siti archeologici è per lo più carente oppure concepito per addetti ai lavori, perciò non raggiunge lo scopo di informare. 2 2 Ricostruzione della porta di un posto di difesa romano nel parco di Eulbach, da A. Rieche, Von Rom nach Las Vegas. Rekonstruktionen antiker römischer Architektur, Reimer, berlin 2012. 13 R. de Girardin, in M.H. Conan (a cura di), De la composition des paysages sur le terrain ou Des moyens d’embellir la nature près des habitations en joignant l’agréable à l’utile (1777), Paris 1979. 14 C. Thacker, Die Geschichte der Gärten, Orell fussli, Zürich 1979. p. 207. 15 M. niedermeier, Die Gärten von Ermenonville, Pückler-Gesellschaft, Berlin 2007; V. Klein, Der Temple de la Philosophie moderne in Ermenonville, Peter Lang, frankfurt a. M. 1996 16 A. Rieche, Von Rom nach Las Vegas. Rekonstruktionen antiker römischer Architektur, Reimer, Berlin 2012. pp. 19-24. 17 Su questi tre parchi si veda A. Rieche, Von Rom nach Las Vegas. RekonstruktionenantikerrömischerAr chitektur, cit., pp. 133-141. 121 3 MARGINI E MARGINALITÀ 4 122 3 Amelia, stato attuale del crollo di un tratto di mura. 4 istanbul, resti della curva est dell’ippodromo. 5 Progetto del piano regolatore eseguito da H. Prost e adottato nel 1938, con zona di protezione da Haghia sophia ai ss. sergio e bacco (1937 ca.). Come si è detto, la presenza delle rovine nella cultura dei paesi che sono stati al centro delle culture antiche con continuità – l’Italia non ha paragoni in questo senso – pone problemi differenti. Oltre alla salvaguardia degli edifici antichi che sono sempre stati parte dell’iconografia del paesaggio monumentale italiano, vi sono spesso le rovine riportate alla luce dagli scavi, spesso meno appariscenti ma storicamente significative. diversi sono i problemi che pone un’architettura antica storicizzata dal tempo da quelli di una riportata alla luce di recente; c’è una questione storicoarcheologica e una architettonica e urbanistica. La soluzione dei problemi non può essere univoca, perché univoco non è il significato della rovina. È vero che essa è come una sentinella al confine del tempo, e come tale diventa un’ancora culturale, custode delle memorie, ma anche essa stessa memoria da custodire e conservare, nel tentativo di opporsi al passaggio del tempo e al senso della fine imminente. Tuttavia, per quanto riguarda le rovine recenti, non tutte devono e possono essere conservate. Scelgo un esempio tra innumerevoli, perché mi accade di averlo sotto gli occhi con continuità. Cinque anni fa circa, nella cittadina umbra di Amelia(fig. 3), si aprì una breccia nelle mura risalenti al iv secolo a.C. a causa di infiltrazioni idriche. Il crollo ha messo in luce tracce di un’altra cinta muraria interna e di un’antropizzazione non monumentale di età precedenti. A mio parere, in casi analoghi un bravo amministratore del patrimonio deve saper subito valutare l’intervento più idoneo nel contesto specifico. Il responsabile che propone la conservazione a vista dei resti rinvenuti non agisce necessariamente bene dal punto di vista culturale, se non è in grado di prevedere e garantire il restauro e la conservazione delle testimonianze materiali rinvenute, restituendole alla comunità. Per la copertura dell’area del crollo delle mura amerine, è stata eretta una struttura elefantiaca che deturpa le mura stesse e la percezione della città, per di più a costi elevatissimi. nel frattempo, gli elementi antichi messi in luce, ricoperti dalle erbacce, non sono accessibili e non sono stati oggetto di pubblicazione scientifica. Tutt’intorno restano i tubi arrugginiti delle impalcature. Lo scopo era musealizzare i nuovi ritrovamenti, ma non si è tenuto conto che non sempre lo si può fare e non sempre è necessario. nel caso di Amelia si sarebbe dovuto indagare, pubblicare presto i dati e ricostruire le mura, lasciando un segno dell’accaduto. Questo esempio, ripeto uno dei molteplici che si possono registrare sul territorio del nostro paese, dimostra come la conservazione delle testimonianze antiche in un tessuto urbano moderno non è di per sé un’azione virtuosa, anzi si può trasformare in un intervento deleterio per il paesaggio e per la cultura del luogo. La conservazione del nostro passato, fondamentale per la nostra definizione, non dovrebbe andare contro le esigenze del presente, a detrimento dello spazio urbanizzato in cui viviamo. nel momento in cui viene imposta una gerarchia culturale in cui le testimonianze del passato vengono usate per esercitare violenza sul presente, credo che il rapporto tra antico e moderno sia posto in maniera errata. due casi esemplari: Roma e istanbul. Consideriamo ora casi più complessi. Paragoniamo il destino delle rovine di Roma e di Istanbul. Quando oggi si arriva a Istanbul e, superato lo stordimento iniziale del caos della città, si comincia a cercare le tracce del passato, si ha la stessa sensazione che in Italia si prova a Palermo, o napoli per esempio: città regali, la cui magnificenza dobbiamo immaginare dai resti imponenti, isolati nel panorama della triviale architettura moderna. Paragonata a Roma, Costantinopoli è povera di vestigia antiche conservate: un acquedotto, alcune colonne onorarie, l’ippodromo. Con la chiesa di Haghia Sophia e i palazzi imperiali bizantini, l’ippodromo – di cui restano elementi della spina e la forma generale – costituisce l’elemento più coerente, nella Punta del Serraglio. Sarebbe vano cercare le tracce del cuore della capitale di Costantino sulla spianata dell’ippodromo. Bisogna spingersi oltre, allontanarsi dall’obelisco di Teodosio e scendere giù per una scarpata, dove in genere, tra i rifiuti, razzolano cani randagi(fig. 4) . Alzando lo sguardo, improvvisamente si eleva l’immensa curva dell’ippodromo. Sono i resti di una città imperiale che si immagina grandiosa e magnifica. Le rovine di Istanbul sono potenti, soverchianti, perché, come quelle di Roma fino a due secoli fa, esistono in simbiosi con la città. La loro condizione racchiude un’ambivalenza: l’assenza di protezione le rende presenze vitali, non mummificate, ma ne determina anche un rapido deterioramento. Per esempio, dov’era un tempo la spina dell’ippodromo c’è una piccola buca, un margine – inconsistente tentativo di protezione – ove è conservato un frammento di bronzo di valore straordinario. È ciò che resta di una delle spire serpentiformi che reggevano un calderone eretto a delfi per la vittoria di Platea del 479 a.C. Sembra che nessuno vi faccia caso. In un paese europeo si sarebbe certi di trovarsi di fronte a una copia, e l’originale sarebbe custodito nel locale museo archeologico. A Istanbul no, si trova al centro di una buca cui i visitatori danno un’occhiata distratta. Eppure quell’apparentemente anonimo frammento di bronzo ci riconduce a uno degli immaginari più suggestivi connesso con uno scontro bellico: il conflitto tra Greci e Persiani a Salamina (480 a.C.) e Platea. negli anni ’30 del secolo scorso la municipalità di Istanbul aveva tentato di dare un piano regolatore alla città18. Contattò l’urbanista Alfred Agache, che, ponendosi il problema di una città moderna dal grande passato storico, volle definire le zone archeologiche scavate e non scavate per conservarle e valorizzarle nell’interesse del turista e dello studioso. Previde l’apertura di passeggiate archeologiche e di un’area archeologica tra la Punta del Serraglio, l’ippodromo e i Santi Sergio e Bacco, integrando i palazzi imperiali. Concepì una prima zona di protezione storica, estesa fino alla moschea del Sultano Selim, completata da una seconda che avrebbe compreso il Corno d’Oro e il mar di Marmara (fig. 5). Il progetto non fu mai portato a termine. Il municipio della città e le autorità archeologiche permisero di ricostruire sull’area dei palazzi bizantini, nonostante fosse stata già dichiarata zona archeologica. A Roma furono messe in atto misure di conservazione dei monumenti antichi fin dal xvi secolo19. I primi scavi significativi si datano però all’inizio del xix secolo, con l’intervento nel Colosseo durante l’occupazione francese. Alla metà del secolo Luigi Canina portò parzialmente alla luce la basilica Giulia e fece saggi attorno alla colonna di foca e alle tre colonne del Tempio dei Castori. Quando i Piemontesi arrivarono a Roma nel 1870, il foro romano si presentava come era apparso per secoli ai viaggiatori: con le file degli alberi tra l’arco di Settimio Severo e quello di Tito che erano stati piantati per l’ingresso trionfale di Carlo v nel 1536; vi erano poi granai, mulini, chiese, case 5 123 18 Sull’argomento si veda P. Pinon, Il progetto di Henri Prost e Albert Gabriel per un parco archeologico sul sito dei palazzi imperiali e dell’ippodromo di Costantinopoli (1936-1950), in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale, Bollati Boringhieri, Torino 2009. 19 M. Barbanera, Metamorfosi delle rovine, Electa, Milano 2013. MARGINI E MARGINALITÀ 124 20 M. Barbanera, L’antichità reinventata. Le rovine di Roma come immagine del regno d’Italia, in A. Capoferro, L. d’Amelio, S. Renzetti (a cura di), Dall’Italia. Omaggio a Barbro Santillo Frizell, Polistampa, firenze 2013. 21 Sul tema, in senso ampio, A. Ricci, Attorno alla nuda pietra, donzelli, Roma 2006. 22 Il tema è stato adeguatamente trattato in T. Kirk, Ritagliare un margine: siti archeologici e città che vivono, in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti, cit. e giardini. dopo la presa di Roma, il nuovo governo ebbe il compito di gestire il corpo maestoso delle rovine già visibili e lo scavo di complessi monumentali antichi nel cuore della città20. Il recupero dei monumenti, attraverso il restauro e gli scavi, avrebbe fornito un modello per il paese unificato, pronto a farsi moderno sulla base della tradizione, sbarazzandosi dell’ingombrante eredità dello Stato pontificio. Sembrò opportuno isolare i resti dell’antica Roma – tangibili artefatti di un’epoca gloriosa – dalle aggiunte posteriori, considerate prive di valore, riportandoli alla loro presunta forma originale. una tale procedura nei confronti dei monumenti antichi non era nuova, ricalcava i progetti dell’età napoleonica di Luigi Valadier secondo i quali si intendeva isolare il Pantheon, la fontana di Trevi, l’arco di Tito e la colonna di Traiano: questi ultimi due progetti furono poi realizzati sotto Pio vii. Isolando i monumenti dai loro contesti, gli archeologi volevano equipararli a oggetti esposti in “un vasto e pubblico museo che ognuno arriverà ad ammirare”21. Gli scavi nel foro furono iniziati. Con tre campagne, svolte nell’arco di un trentennio, l’area venne scavata e i monumenti restaurati, dando al complesso monumentale l’aspetto che in gran parte ancora presenta. Alla fine, l’area scavata del foro romano fu più che raddoppiata e la sua connessione con le rovine antiche sul Palatino ripristinata. L’immagine attuale della Roma imperiale fu completata dai brutali interventi voluti da Mussolini a partire dalla fine degli anni ’20. Le rovine furono utilizzate come significativi punti focali e fondali simbolici. La conseguenza fu l’irreparabile distruzione di tanti dati archeologici, testimonianze e addirittura interi edifici, causata in parte dalla concentrazione ideologica sull’età imperiale, ma soprattutto dalle enormi pressioni esercitate sugli archeologi per accelerare i lavori. nel dopoguerra, l’isolamento fisico e ideologico dei monumenti antichi rispetto al più ampio contesto urbano è ormai completo. Lo sviluppo dell’archeologia stratigrafica e il conseguente interesse per la più ampia documentazione degli strati della storia di Roma hanno ampliato e complicato il problema. Gli scavi recenti in occasione del Giubileo hanno fatto emergere alcuni ritrovamenti preziosi e altri di scarso interesse visivo. Concepiti come un work in progress, in continuo mutamento, numerosi margini nella città ci conducono attraverso le varie stratificazioni, più o meno leggibili, più o meno interessanti22: “Il margine di uno scavo archeologico è un segno denso di significati. delimita il campo di indagine e lo isola perché possa essere esaminato con attenzione. I limiti prescelti forniscono una cornice spaziale che dà forma al sito con un contorno coerente, come la cornice di un quadro, adeguato alle esigenze dell’oggetto investigato o ai vincoli dell’ambiente circostante. Il margine stabilisce un rapporto tra osservatore e oggetto osservato, circoscrivendo allo stesso tempo una distanza da rispettare. Stabilisce un rapporto tra sotto e sopra, tra il passato ricostruito e l’attuale contesto urbano circostante, in evoluzione, come una soglia attraverso cui possiamo scendere dal presente verso il passato. da questo punto di vista si tratta di una demarcazione ponderata e particolarmente moderna della nozione di tempo costruito nello spazio. Può essere una grande scalinata o un rozzo muro di contenimento con una scala a pioli, un pendio erboso o un’orribile inferriata metallica: il margine di un sito archeologico ritagliato nella città viva implicherà sempre un rapporto, vuoi coltivato con cura, vuoi ignorato con irresponsabilità. Proprio come un’interfaccia, il tipo di margine scelto per un sito archeologico in una città viva coinvolgerà sempre la società, al di là dei semplici confini della disciplina scientifica. Per l’archeologia la sfida consiste nel fare i conti con le discipline vicine, per ridefinirsi in rapporto alle problematiche della città contemporanea e dar voce a questo rapporto con un margine adeguato e significativo”23. Il margine non è un recinto, ma comunica il concetto di una delimitazione dovuta anche a un semplice cambiamento di livello. Il mausoleo di Augusto(fig. 6), privato delle stratificazioni architettoniche che nel corso del tempo ne avevano fatto un eccellente Auditorium, venne ridotto a una misera carcassa e isolato dalla città: un’operazione cui ancora oggi si sta tentando di porre rimedio. Ritagliare un margine suggerisce l’idea dell’incisione, di tipo chirurgico. Il tessuto urbano delle città storiche è un corpo vivo in cui si affonda spesso di necessità il bisturi: per una conduttura, le linee della metro, operazioni necessarie al funzionamento del corpo, tuttavia non meno importante è il corpo come deposito dei resti fisici del passato, complicato e fragile. L’azione dell’archeologia è invasiva: incidiamo, estraiamo e tentiamo, con un trapianto, di rimettere in funzione organi vitali, ossia la memoria culturale collettiva. La pratica archeologica consiste nella ricerca di artefatti e immagini attorno ai quali far coagulare nozioni che riguardano la nostra eredità culturale. Questo comporta di necessità l’eliminazione di altri artefatti e immagini, la selezione e la cura delle memorie. nell’ultimo decennio a Roma sono state condotte intense campagne di scavo che hanno mutato il volto dell’area tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci; altre, collegate alla linea C della metro, hanno riportato alla luce resti di edifici di importanza primaria. Sarebbe opportuno, prima di rendere definitivi questi segni nel paesaggio urbano, affrontare alcuni problemi: quale rapporto si vuole stabilire tra l’archeologia e il pubblico contemporaneo ai margini dell’area scavata? Come organizzare il margine tra passato e presente e preservare memoria e funzionalità della città contemporanea? Il margine va sempre mantenuto anche in presenza di testimonianze marginali? Penso di no. La pratica di scavare gli edifici antichi, per riportarli al loro livello originario, comune nell’Ottocento e rafforzata durante gli sventramenti del ventennio fascista, è basata su un equivoco: far diventare il monumento fulcro dell’azione e dell’osservazione e non considerarlo parte di una pluristratificazione storica, architettonica e urbanistica. La separazione del monumento dal suo contesto lo priva dei suoi gangli vitali, come un albero cui fossero tagliati i rami, lasciandolo con le sembianze di un tronco. Ho già accennato al Mausoleo di Augusto, letteralmente strappato dalle sue radici architettoniche e dal tessuto urbano sviluppatosi nel corso del tempo, sprofondato in un limbo astorico e proiettato su un fondale di arrogante retorica24. Superata la fase della romanità imposta a colpi di piccone e restauri magniloquenti, dal dopoguerra si impose un rapporto dialettico tra i resti romani e il tessuto urbano moderno. Può trattarsi di monumenti preesistenti, di cui si indaga il nesso con il tessuto urbano antico tramite sondaggi limitati, oppure di edifici riportati alla luce in seguito a scavi più estesi, talvolta casuali, talvolta mirati, all’interno delle città. I casi sono innumerevoli, ma presentano problemi analoghi. 6 6 Roma, lavori di smantellamento dell’Auditorium nel Mausoleo di Augusto. 125 23 Ivi, p. 217. 24 f. Betti, A.M. d’Amelio, R. Leone, A. Margiotta (a cura di), Mausoleo di Augusto. Demolizioni e scavi. Fotografie 1928/1941, Electa, Milano 2012. MARGINI E MARGINALITÀ 126 25 M. Barbanera, Architetture romane in Italia nel contesto delle città moderne, in P. Zanker, H. von Hesberg (a cura di), Architettura romana. Le città in Italia, Electa, Milano 2012, pp. 154-172. 26 Ibid. le cicatrici nel corpo della città. A Verona, per esempio, accanto alla c.d. Porta dei Leoni, sotto via dei Leoni, sono venuti alla luce altri resti del monumento25: parte del muro laterale (con l’attacco alle mura cittadine), frammenti della pavimentazione della corte interna e i basamenti delle grandi torri (uno lasciato a cielo aperto, l’altro conservato nelle cantine di un edificio nei pressi). I resti dei torrioni, artisticamente allestiti, sono visibili attraverso un taglio nel lastricato stradale. L’intento nasce come reazione agli interventi archeologici prebellici, in cui si imponeva una visione unica del monumento, privato del proprio contesto e della continuità e complessità storica. Scendere nelle viscere della città moderna, per conoscere le radici di un monumento, è operazione giustificabile, ma bisogna chiedersi se lasciare in bella vista queste viscere sia necessario. Gli squarci che si aprono nelle città danno l’impressione di un corpo aperto da un taglio di bisturi e non richiuso, con gli organi visibili. Vi è un problema di manutenzione delle strutture lasciate in vista, quando non sono protette, si pone una questione di estetica architettonica. La stratificazione storica che si legge nella sovrapposizione dei diversi stili architettonici, nella giustapposizione degli edifici e nella sovrapposizione dei livelli, è un processo lento, al quale si devono i magnifici e incomparabili palinsesti architettonici e urbanistici che solo in Italia sono visibili. Le differenze di livello sono anch’esse un contesto: il fatto che il livello di calpestio attuale presso la Porta dei Leoni, parta da mezzo fornice, è naturalmente il risultato di una stratificazione definibile come un contesto e come tale conservabile. Ho accennato alla protezione dei lacerti di edifici riportati alla luce con gli scavi. In taluni casi il tema è stato posto e il rudere è stato collocato in vetrina. La cittadina di Atri, in Abruzzo, ha una magnifica cattedrale, costruita tra la seconda metà del xiii e i primi anni del xiv secolo26. durante gli anni ’80, nella piazza antistante la cattedrale, furono messi in luce i resti di un impianto termale. La Soprintendenza decise allora di musealizzare le rovine piuttosto modeste, anche se scientificamente rilevanti, su un’area di circa 100 mq. In un contesto monumentale pregevole si volle raccordare la piazza alla quota minima antica tramite una rampa ortogonale rispetto alla facciata. Le strutture antiche, perduta ogni sorta di protezione, furono poste entro teche di vetro, aperte su una pavimentazione in pietra serena e raccordate con un muro continuo che circonda l’intera area. Le teche sono un oggetto invasivo e richiedono una manutenzione continua: l’interno, sottoposto a irraggiamento solare, produce l’effetto serra, in cui è favorita la crescita di vegetazione che, fatalmente, attacca e danneggia le strutture esposte. dal punto di vista estetico, l’effetto è palese: le teche, così come il resto dell’intervento, risentono del gusto architettonico dell’epoca che, osservato oggi, appare irrimediabilmente datato e stridente. Circa un decennio fa, la Soprintendenza archeologica ha deciso di eliminare l’intervento, basilarmente per problemi di manutenzione e di ripristinare la pavimentazione così com’era. Qual è il problema? La presentazione degli scavi recenti è una questione di opportunità oppure di segno architettonico, come nei musei con gli interventi di Carlo Scarpa o di franco Albini, per rimanere tra i casi esemplari? La stratificazione delle architetture, qualora non visibile naturalmente, deve essere per forza mostrata, mutando il secolare intreccio spontaneo degli insiemi architettonici e delle trame urbanistiche delle città moderne? E qualora si decida di presentarla, come raccordarla al presente? È una controversia insanabile: non ci può essere una soluzione generale, piuttosto proposte caso per caso. In Italia più che altrove, si pone continuamente l’urgenza di ricucire un tessuto urbano attorno al corpo maestoso, ma anche ingombrante, delle rovine storicizzate e degli edifici che vengono riportati alla luce dagli scavi. La soluzione non può naturalmente risiedere completamente nelle ragioni di coloro che pongono le questioni dell’archeologia davanti a tutto: le rovine come l’inconscio – per usare la celebre similitudine di freud – è bene siano riportate in superficie; la città e l’uomo ne acquisiscono in conoscenza, ma è altresì opportuno che ciò avvenga in corpi sani – fuori di metafora, il tessuto moderno della città funzionante e un essere umano alla ricerca del proprio equilibrio – altrimenti si avrà l’effetto di aver scatenato spettri da cui non si è più capaci di liberarsi. Per la città l’acquisizione di un corpo sano si può soltanto perseguire nel riconoscere le diverse ragioni che il più delle volte separano invece di unire urbanisti, architetti, archeologi, amministratori, storici dell’arte e del paesaggio. Per altro verso, l’ignoranza dei contesti, siano essi geografici, storici, archeologici e architettonici, può generare mostruosità come la nuova copertura della Villa del Casale di Piazza Armerina27 (fig. 7). Il nuovo intervento, oltre a eliminare il progetto di franco Minissi, inadeguato dal punto di vista tecnico ma elegante e appropriato come segno architettonico, ha imposto sulla fragile struttura romana una grottesca struttura di legno e metallo che si caratterizza per la sciattezza dell’esecuzione e soluzioni spaziali e di illuminazione al limite del ridicolo. forse ancora più grave è il fatto che l’intervento ha oscurato la percezione dell’edificio come tale per creare una passerella da cui gettare un’occhiata sui mosaici, ormai carne disossata e separata dal corpo architettonico. La separazione concettuale tra decorazione e spazi è un errore basilare che denota l’ignoranza del monumento su cui si è intervenuto. Ammetto che di fronte a simili interventi, di fatto irreversibili, ho la tentazione di abbracciare la posizione di John Ruskin, cioè non disturbare il ritmo naturale del monumento, con la convinzione che il restauro equivale a distruzione, poiché con l’intervento dell’uomo si rompe l’equilibrio che fa di un oggetto una rovina: “Il vero significato della parola restauro non è compreso né dal pubblico né da coloro che sono incaricati di prendersi cura dei monumenti. Ciò significa la più totale distruzione che gli edifici possono subire: una distruzione di cui non rimangono che resti da poter rimettere insieme; una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione dell’oggetto distrutto”28. Riflessioni sul margine che divide e unisce*. I saggi sono accomunati dal tema del margine nelle città moderne. Il margine è ambivalente, divide e unisce, rappresentando il diaframma tramite cui cittadini e visitatori devono rapportarsi ai resti materiali del passato. Marco Navarra parte dalla scoperta dell’antichità classica da parte degli architetti del Rinascimento, che dal mondo antico estrassero un linguaggio nuovo con cui rivitalizzare l’architettura del loro tempo. Andrea Palladio (1508-1580) tramite la scomposizione e ricomposizione degli elementi architettonici antichi arrivò all’elaborazione di quel linguaggio originale che garantì il successo internazionale del palladianesimo. Similmente, Robert Adam (1728-1792) fece tesoro del suo soggiorno a Spalato, dove riuscì a estrapolare dalla città contemporanea le strutture dell’antico Palazzo di diocleziano, riproponendone 7 7 Piazza Armerina, villa del Casale, un esempio della nuova copertura lignea delle strutture romane. 127 27 Su dibattito si veda A. White, Interpretation and display of ruins and sites, in J.Ashurst (a cura di), Conservation of Ruins, Elsevier, Oxford 2007, pp. 247-263. 28 J. Ruskin, The Lamp of Memory, in d.J Rosenberg (a cura di), The Genius of J.R., Braziller, Boston 1963, pp. 134-35. * Testo di Marcello Barbanera e Rachele dubbini. MARGINI E MARGINALITÀ 128 poi il principio urbanistico nel progetto dell’Adelphi Terrace a Londra. In entrambi i casi lo studio dei monumenti antichi non servì per riproporre mere ricostruzioni del passato, ma piuttosto per interrogare il presente e trovare risposte originali a nuovi problemi. una soluzione univoca al conflitto che per lo più si genera tra le testimonianze del passato, congelate nel tempo, e le città contemporanee, propense allo sviluppo, non esiste. In una serie di casi esemplari specialisti e amministratori si sono interrogati su questa relazione difficile, proponendo diverse strategie nel rapporto da stabilire con il passato e dei metodi da utilizzare per raccontarne la storia. Pedro Mateos Cruz propone di leggere siti pluristratificati quali Mérida come città patrimonio, in cui passato e futuro si uniscono in un continuum privo di traumi. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria una vera pianificazione territoriale anche dei territori circostanti l’area urbana, conciliando la tutela e la bellezza della città con il suo sviluppo. L’idea su cui si basa la pianificazione territoriale di Mérida è quella dell’integrazione tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano e sociale di cui fa parte. A Lubiana il patrimonio archeologico diffuso è ricontestualizzato nell’ambito di un sistema territoriale che permette una comprensione olistica della città, seguendone le principali fasi insediative. Jerneja Batič sottolinea l’importanza della ritrovata accessibilità al pubblico di tale patrimonio culturale per lo sviluppo sostenibile del centro cittadino, tale da innescare un processo di rigenerazione urbana e di coesione sociale. Per raggiungere questo scopo fondamentale è stata la costruzione di una rete di moduli informativi interattivi per la divulgazione dei contenuti culturali al grande pubblico. In tal modo non solo il patrimonio archeologico di Lubiana è stato integrato nella vita quotidiana della città, ma si è impiegato al meglio il potenziale turistico del luogo. diverso è il caso della ricostruzione del centro di Beirut e il problema dell’integrazione delle testimonianze archeologiche all’interno della nuova città in seguito alla guerra civile (1975-1990). Mazen Haidar evidenzia come nel progetto ricostruttivo abbia prevalso una visione museologica del patrimonio storico con uno sfruttamento dell’antichità in senso ideologico quale unica testimonianza valida della storia locale, come se la stessa si riducesse a un favoloso passato in nome del quale si è ritenuto lecito sacrificare i resti delle epoche più recenti. La distanza temporale e affettiva ha permesso infatti al passato remoto di tornare in auge a scapito di quello recente, più doloroso, così che solo recentemente i resti della Beirut prebellica, unici veri depositari della storia moderna del paese, hanno iniziato a partecipare alla ricostruzione del tessuto urbano. nell’indagine del delicato ruolo dei margini nel rapporto tra archeologia e città moderne tutti i saggi suggeriscono come al di là del successo dei progetti archeologici, fondamentale nella riappropriazione del passato all’interno di un tessuto urbanizzato è il fattore sociale, ovvero la necessità sentita da una comunità di conoscere, vivere e tutelare il proprio patrimonio storico. Così è stato per alcuni grandi architetti del passato, ma funziona ancora oggi nei siti di Merida e Lubiana e lo stesso caso delicato di Beirut conferma l’importanza di questo fattore. Si è detto che per riportare in superficie le rovine – come l’inconscio – è necessario un corpo in equilibrio – un tessuto urbano funzionante e un progetto territoriale intelligente –, ma questa operazione non potrebbe mai avvenire senza il desiderio primario di conoscere sé stessi, condizione necessaria per poter affrontare al meglio il presente e, ovviamente, il futuro. The presence of ruins in the culture of countries that were at the centre of ancient cultures with a certain continuity – and Italy has no peers in this sense – poses different problems. In addition to protecting the ancient buildings that have always been a part of the iconography of the Italian monumental landscape, there are often ruins brought to light by excavations, which are often less conspicuous, but historically significant. The problems posed by an ancient architecture historicized by time are different from those of one recently brought to light; there is a historical-archaeological question, and an architectural and urban planning one. The solution of the problems cannot be univocal, because the meaning of the ruin is not univocal. It’s true that it is like a sentinel at the limit of time, and as such it becomes a cultural anchor, the holder of memories, itself being a memory to be kept and protected, in an attempt to resist against the passing of time and the sense of the end. nevertheless, as far as recent ruins are concerned, not all of them must or can be preserved. The preservation of the ancient remains in a modern urban fabric is not, in itself, a virtuous action; indeed, it may turn into an operation that is deleterious for the landscape and for the local culture. The preservation of our past, which is fundamental for defining us, should not go against the needs of the present, to the detriment of the urbanized space in which we live. When a cultural hierarchy in which the remains of the past are used to exercise violence on the present is imposed, I believe that the relationship between ancient and modern is posed in the wrong way. Some examples are considered: the so-called Megalithic Walls of Amelia in umbria, the excavations of the 1930s around the Mausoleum of Augustus, the socalled Porta dei Leoni (Gate of the Lions) in Verona, the piazza of the Cathedral of Atri in Abruzzo, and the recent roofing of the Villa del Casale in Piazza Armerina. Where is the problem? Is the presentation of the recent excavations a question of opportuneness or of architectural sign, like in the museums with the work by Carlo Scarpa or franco Albini, just to remain among the exemplary cases? Must the stratification of the architectural structures, if they are not naturally visible, necessarily be shown, modifying the centuries-old spontaneous interweaving of the architectural complexes and the urban patterns of the modern cities? And if one decides to present it, how should it be connected to the present? The controversy is irreconcilable: there can be no general solution, but rather only proposals made case by case. MARGiNAl obseRvAtioNs oN tHe destiNY oF ANCieNt buildiNGs iN RelAtioN WitH ModeRNitY ABSTRACT 129 il bAZAR ARCHeoloGiCo1 SCAVARE E dIMEnTICARE: TECnICHE dI InVEnZIOnE PER un’ARCHITETTuRA dELLA CITTÀ Marco navarra Il titolo, ripreso da un saggio di Gianni Celati per il primo numero della rivista “Alì Babà”, vuole suggerire contemporaneamente una condizione e una chiave interpretativa. Tra il 1968 e il 1972 Italo Calvino, Gianni Celati e Carlo Ginzburg, nel tentativo poi fallito di dare vita alla rivista, indagano in modo trasversale il legame tra archeologia, cultura e contemporaneità. Il lavorio di preparazione del numero zero, alla ricerca di quel “qualcosa di più” al di là dei saperi settoriali, si rivela oggi molto fruttuoso e utile per delineare alcuni segmenti di una genealogia che ricostruisce i modi in cui l’archeologia è stata usata dagli architetti come uno strumento di invenzione. Robert Adam e lo scavo archeologico. nel 1754, all’età di ventisei anni, Adam lascia Edimburgo per dedicare dieci anni al Gran Tour in Italia e all’elaborazione del libro che viene pubblicato nel 1764 in coincidenza con l’apertura di un nuovo studio a Londra2. Le tappe fondamentali del suo viaggio sono: firenze, dove conosce Charles-Louis Clérisseau; Roma, dove lavora a fianco di Giambattista Piranesi, e Spalato, dove compie il suo saggio di ricerca autonoma. Piranesi insegna ad Adam non solo il disegno, ma soprattutto lo scavo come strumento di indagine archeologica e un metodo indiziario che si sviluppa nell’esercizio della reinvenzione di architetture immaginate a partire dai frammenti dell’antico. una volta giunto a Spalato la sorpresa di Adam è molto forte, perché scopre una città viva in cui i resti del Palazzo di diocleziano si compongono con la vita quotidiana. Adam descrive con molto interesse i dettagli di costume legati alla vita sociale del tempo e gli innesti delle architetture contemporanee sull’antico. In queste rappresentazioni, riportate nella pubblicazione, si legge con molta evidenza la meraviglia di veder trasformato un edificio singolo in un’intera città. Adam utilizza l’archeologia per vivisezionare ed estrarre dal corpo vivo della città il Palazzo di diocleziano(fig. 2). Il metodo si fonda sull’osservazione attenta degli 1 A. Rizzo, Sovrapposizioni e trascrizioni. sezioni e prospetti del tempio di Giove intrecciate a quelle del Palazzo da Porto Festa. 1 “Tra il 1968 e il 1972 Italo Calvino, Gianni Celati e Guido neri pensano di realizzare una rivista. La loro idea, che comunicarono a Enzo Melandri e Carlo Ginzburg, era di uscire dai confini della letteratura, di cercare oltre gli steccati delle discipline e dei saperi settoriali qualcosa ‘di più’, per questa ragione i tre promotori – letterati di formazione – cercano il contributo di un filosofo e di uno storico”, M. Barenghi, M. Belpoliti (a cura di), Alì Babà. Progetto di una rivista 1968-1972, “Riga”, 14, 1998, p. 6. Gli intellettuali coinvolti scrivono dei saggi che vedranno la luce non sulla rivista ma molti anni dopo su loro libri. In particolare ritengo preziosi per la nostra riflessione tre saggi: uno di Calvino Lo sguardo dell’archeologo del 1972 (pubblicato in I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980), uno di Celati Il bazar archeologico del 1971-72 (pubblicato in G. Celati, Finzioni Occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino 1986), un altro di Carlo Ginzburg Spie. Radici di un paradigma indiziario del 1979 (pubblicato in C. Ginzburg, Miti Emblemi Spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986). 2 M.navarra (a cura di), Robert Adam Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian at Spalatro in Dalmatia, Biblioteca del Cenide, Cannitello 2001. 131 MARGINI E MARGINALITÀ 2 132 3 2 Frontespizio del libro di Robert Adam, Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian at Spalatro in Dalmatia, london 1764. 3 In alto a sinistra: J.b. Fischer von erlach, Veduta del Palazzo di Diocleziano (da: J.b. Fischer von erlach, Entwurf einer historischen Architektur, Wien 1721). In alto a destra: d. Farlati, Veduta del Palazzo di Diocleziano (da: d. Farlati, Illyricum Sacrum, 5 voll, venezia 1751-1757). In basso: R. Adam, Sezione generale del Palazzo da sud a nord tavola XVIII (da: R. Adam, Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian at Spalatro in Dalmatia, london 1764). spazi urbani, la ricerca indiziaria, lo scavo, il rilievo e il disegno. dalle vedute si passa al ridisegno delle parti residuali dell’antico edificio e alla ricostruzione di ipotetiche configurazioni. dalle mappe stratigrafiche, in cui si legge con precisione la pianta del Palazzo di diocleziano incastonata nella città, si arriva al ridisegno dei dettagli. I resti dell’antico appaiono quasi inscindibili dal pulsare della vita urbana di Spalato. La scoperta più significativa di Adam, però, è rivelata da una sezione longitudinale che svela gli spazi ipogei del palazzo e mostra l’idea insediativa fino ad allora non descritta da altri. Infatti nelle vedute precedenti di fischer von Erlach, daniele farlati e Andrea Palladio il palazzo veniva rappresentato su un piano orizzontale(fig. 3). Adam, usando gli strumenti dell’archeologia, dopo alcune settimane di scavo, riesce a portare alla luce gli spazi ipogei facendo affiorare per la prima volta le sostruzioni del palazzo che erano fino allora sconosciute. Grazie a questa scoperta si capisce come la precisione e la regolarità dell’impianto geometrico da un lato abbia trasformato il piano inclinato della topografia sagomandolo in tre piani orizzontali che scendono al mare e dall’altro sia stata modificata dall’inserimento degli spazi sotterranei affacciati direttamente sul porto(fig. 4). Palladio oltre l’antico. Andrea Palladio unisce l’occhio dell’architetto a quello dell’archeologo non solo negli anni della sua formazione ma anche nella maturità delle realizzazioni più complesse. L’esperienza fondamentale è costituita dai viaggi a Roma, dove si reca più volte (viaggi a Roma 1541 con Trissino, 1545, 1546-47, 1549, 1554) per studiare le rovine dell’antichità classica. L’intero corpus di disegni palladiani relativi all’antichità costituisce un materiale prezioso dove questo esercizio di analisi, smontaggio in parti e rimontaggio, si accompagna a un continuo aggiustamento e reinvenzione delle forme di rappresentazione. da questo punto di vista sono emblematici i disegni che illustrano la traduzione di Vitruvio curata e commentata da daniele Barbaro nel 1567. nell’immagine del Tempio Ipetro(fig. 5), possiamo notare come due pagine affiancate tengano insieme, sull’asse di simmetria coincidente con la cucitura del libro, due tipidiversi di disegno: una facciata e una sezione. In particolare si possono osservare tre espedienti che ricorrono anche in altri disegni: 1. Al centro del disegno la porta e una colonna sono rappresentate solo con linee di contorno e appaiono trasparenti per mostrare la sezione interna e la parete di fondo dell’edificio; 2. Il muro sezionato sulla sinistra è disegnato in modo simile a quello del prospetto sullo sfondo cosicché le colonne dell’ordine maggiore sembrano comporre con quelle interne dell’ordine minore un’unica partitura; 3. Sull’asse di simmetria, dalla parte della sezione, la linea che definisce l’architrave della porta trasparente ad un certo punto scompare dietro la colonna, che in realtà si trova sul piano di fondo del tempio. In questo modo, con una certa ambiguità, la colonna si percepisce come un elemento complanare al colonnato di facciata. Ritroviamo lo stesso procedimento nel disegno del Tempio di Giove presentato nei Quattro libri dell’architettura(fig. 6). Palladio proietta sullo stesso piano contemporaneamente le immagini dei prospetti e delle sezioni degli interni attraverso una ripetuta operazione di traslazione dei piani lungo un asse ortogonale alla linea di sezionamento. Il disegno di Palladio mette in evidenza le parti resistenti, cancella quelle inconsistenti, individua i punti in cui gli elementi dell’architettura sono stati composti e quindi sono ancora suscettibili di ricomposizione o sono disponibili ad ulteriori variazioni. Questi disegni di rilievo sono precisi, rigorosi ma non mimetici, non illustrativi, stabiliscono, con il minor numero di segni possibili, il carattere di ciascun elemento, la loro posizione, i loro vincoli le loro regole. Mostrano attraverso delle cancellature o delle reticenze i punti indefiniti dove esiste un margine per la variazione. Registrano i diversi livelli di consistenza delle varie parti: quelle più solide necessarie; quelle più labili meno necessarie. nella misura della densità di materia i disegni precisano regole, vincoli e possibilità portando alla luce le ragioni di necessità che hanno costruito la forma. Questa pratica che utilizza: 4 5 4 Rielaborazione dei disegni di Robert Adam sul Palazzo di diocleziano a spalato, sovrapposizione della sezione longitudinale alla pianta. 5 tempio ipetro, disegno di Andrea Palladio. I Dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio tradotti e commentati da daniele barbaro, libro terzo, Cap. II. di cinque specie di tempi, venezia 1567. l’espediente figurativo di proiettare frontalmente un oggetto tridimensionale su di una superficie bidimensionale, diede a Palladio un distacco critico dall’edificio storico rappresentato. Questo metodo di astrazione fa si che il disegno sia visto come un oggetto valido in se stesso, che, se reinterpretato tridimensionalmente, potrebbe dare dei risultati totalmente diversi dall’oggetto originale3. Le rappresentazioni di Palladio, come abbiamo visto nel caso del Tempio Ipetro o del Tempio di Giove, non cercano mai di ricostruire l’integrità dell’edificio, ma mantengono visibile l’articolazione delle parti in cui i frammenti conservano il loro carattere parziale 133 3 C. Constant, Guida a Palladio, Lidiarte, Berlin 1989, p. 3. 6 7 MARGINI E MARGINALITÀ 6 smontaggio per sezioni del disegno di Palladio dedicato al tempio di Giove. I quattro libri dell’architettura, libro quarto, cap. XII. del tempio di Giove, venezia 1570. 134 e disarticolato così da poter essere interpretati in tanti modi diversi. In questo tipo di rappresentazioni Palladio mette in pratica l’idea di Alberti secondo cui il disegno utile per l’architetto non ha “in sé istinto di seguitare la materia: ma è tale che noi conosciamo, che il medesimo disegno è in infiniti edifici”4. Questi passaggi e metamorfosi sono molto evidenti se proviamo ad esaminare i disegni del Tempio di Augusto a Pola. Il prospetto del Tempio viene rappresentato con le due colonne centrali trasparenti in modo da mostrare la muratura isodoma della facciata interna. Palladio, reinterpretando nel disegno del Tempio di Augusto a Pola il rapporto di distanza e vicinanza tra le quattro colonne e la parete retrostante, realizza tre progetti diversi: la Villa Emo in cui le colonne stanno sulla facciate e viene scavato lo spazio della loggia dentro il volume compatto dell’edificio, la Villa Chiericati in cui la loggia viene portata fuori dal volume dell’edificio e la Villa Barbaro dove le quattro colonne si trasformano in paraste aderenti alla parete di facciata5. Questo procedimento è molto presente in tutti i progetti di Palladio dai disegni di elaborazione alla costruzione ed è alla base del successo internazionale del palladianesimo. un altro esempio emblematico, generato dai disegni di ricostruzione del Tempio Ipetro, è il progetto per il Palazzo Porto6, in cui lo spostamento dei piani della rappresentazione raggiunge potenza e forza con l’inversione della posizione tra sezione interna e facciata. Palladio sposta sul prospetto principale la partitura interna e organizza la corte interna su un ordine gigante di colonne che sorreggono un solaio. L’ordine minore, sul fronte principale, viene utilizzatocome espediente per definire una partitura più proporzionata alla dimensione della strada urbana. l’Adelphi terrace le mappe stratigrafiche. Le mappe stratigrafiche del Palazzo di diocleziano realizzate da Robert Adam, come i disegni di Palladio, tengono insieme sullo stesso piano materiali diversi: i frammenti dell’antico, le nuove architetture, la forma della città con la sua vitalità e i suoi conflitti. Adam trasferisce e riutilizza i materiali delle mappe di rilievo del palazzo in un grande progetto urbano che realizza a Londra nel 1774 dandogli il nome di Adelphi Terrace7. L’edificio era posizionato nel punto in cui il Tamigi si piega a formare una curva e dalle sue terrazze era possibile vedere contemporaneamente St. Paul Cathedral e Westiminster Abbey. Anche in questo caso ci interessa analizzare gli strumenti che utilizza Adam per mettere a punto il progetto. Egli non si preoccupa di imitare nei suoi aspetti formali il Palazzo di diocleziano piuttosto è interessato a mettere in opera il principio insediativo scoperto a Spalato grazie alla sezione longitudinale che ha rivelato questo stretto rapporto tra la topografia, l’impianto dell’edificio e il mare. Il luogo su cui viene costruito l’Adelphi era caratterizzato da un reticolo di strade appoggiate su un piano inclinato che scendeva dallo Strand al fiume. Adam compie due operazioni fondamentali: da un lato ridisegna l’impianto urbano preesistente conservandolo negli spazi ipogei direttamente collegati al fiume, dall’altro immagina un nuovo suolo urbano con un piano orizzontale che sposta la quota interna dello Strand nelle terrazze urbane sospese sul Tamigi. Il passaggio rivoluzionario di Adam è quello di progettare e pensare un edificio che traduce le mappe stratigrafiche in strumenti per immaginare la città moderna composta da un’architettura urbana complessa8. 7 smontaggio per sezioni del disegno di Palladio dedicato al tempio di Giove. I quattro libri dell’architettura, libro quarto, cap. XII. del tempio di Giove, venezia 1570. 135 4 L.B. Alberti, De re aedificatoria, ed. in lingua fiorentina a cura di Cosimo Bartoli, Venezia 1565, ed. anast. Sala Bolognese, Bologna 1985, p. 9. 5 J.S. Ackerman, Palladio, Einaudi, Torino 1972. 6 Ora Palazzo festa. Cfr. G. Zorzi, Le opere pubbliche e i palazzi privati di Andrea Palladio, neri Pozza, Venezia 1965. 7 A.T. Bolton, The Architecture of Robert and James Adam, Officies of Country Life, London 1922. 8 9 11 MARGINI E MARGINALITÀ 10 136 8 disegno di Palladio del tempio di Augusto a Pola (da: G. Zorzi, I Disegni delle antichità di Andrea Palladio, venezia 1959). 9 villa a emo a Fanzolo di vedelago, al centro villa Chiericati a vancimuglio, a destra villa barbaro a Maser (da: C. Constant, Guida a Palladio, berlin 1989). 10 sezione longitudinale dell’Adelphi terrace (da: A.t. bolton, The Architecture of Robert and James Adam 1758-1794, vol. II, london 1922). 8 Sia Aldo Rossi che Carlo Aymonino nei loro libri, L’architettura della città e Il significato della città, fanno riferimento al progetto di Robert Adam per l’Adelphi come un passaggio innovativo e fondamentale nella relazione tra architettura e città. 9 A. T. Bolton, The Architecture of Robert and James Adam, cit., p. 20. 10 Ci riferiamo a un frammento di Walter Benjamin che si intitola proprio “Scavare e ricordare”: Il linguaggio ci ha fatto capire, senza possibilità di equivoci, che la memoria non è uno strumento, bensì il medium stesso, per la ricognizione del passato. È il medium di ciò che si è esperito, allo stesso modo in cui la terra è il medium in cui sono sepolte le città antiche. Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente a uno stesso identico stato di cose – di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa. Giacché gli “stati di cose” non sono altro che strati che consegnano, solo dopo la ricognizione più accurata, ciò che giustifica Se confrontiamo il prospetto sul fiume dell’Adelphi con quello del Palazzo di diocleziano appaiono chiare le differenze: mentre nel primo caso il basamento è scavato al piano terra, nell’altro la loggia incide la parte superiore lasciando compatta la massa sottostante. Come è evidente da questo confronto, Adam non ricerca un’imitazione formale o stilistica del Palazzo quanto piuttosto la riproposizione del principio insediativo che trova ragion d’essere proprio nel punto in cui si colloca l’edificio. La forma dell’Adelphi è la materializzazione di un embankment-abitato contrapposto alla forza delle acque che erodono il suolo urbano con maggior forza nel punto dove il fiume si piega a gomito9. È interessante notare come sia Palladio che Adam lavorino a trasformare gli strumenti di conoscenza in strumenti di progetto trovando nel disegno la forma privilegiata di sperimentazione. la sfinge e il bazar. Il frontespizio del libro di Robert Adam, con la presenza della Sfinge che sovrasta i due architetti intenti a disegnare i frammenti di antiche architetture, suggerisce uno sguardo diagonale. Lo stesso sguardo che è presente sia in Adam che in Palladio come volontà di procedere interrogandosi continuamente senza accontentarsi di risposte risolutive ma cercando di avere di fronte sempre l’enigma come chiave per procedere. Lo sguardo della Sfinge non vuole ricostruire l’antico così come è stato ma si serve delle sue vestigia per interrogare il presente e trovare risposte necessarie a nuovi problemi. Scavare e dimenticare10, come il battito delle palpebre, sono due movimenti indissolubilmente legati e inscindibili per ogni progetto capace di 12 13 affrontare il bazar archeologico che contraddistingue la città contemporanea11. Questa condizione, come ha evidenziato Calvino ne Lo sguardo dell’archeologo da un lato ha scardinato le categorie tradizionali utilizzate per progettare il mondo, dall’altro richiede un ripensamento sui modi della conoscenza e della trasformazione nella convinzione “che gli strumenti per cambiarlo [il mondo] non si dànno se non insieme a quelli per capirlo”12. Il saggio di Gianni Celati Il bazar archeologico propone una riflessione sugli scarti del progresso e della modernizzazione utilizzando la figura del bazar come chiave interpretativa in cui “gli insiemi di oggetti si organizzano secondo una tassonomia fluttuante, non consegnata alla logica di una classificazione che funga da autorità impersonale”13. Questa interpretazione spinge Celati a prefigurare un’altra storia critica capace di andare oltre le letture tradizionali per “risalire al di là delle selezioni di rilevanza compiute dalla tradizione, rimettere in gioco l’oggetto enfoui, l’oggetto parziale e frammentario, e studiarlo al pari del monumento insigne”14. Adam e Palladio scoprono le potenzialità del frammentario e del discontinuo ed elaborano strumenti specifici per far in modo che, in tutti i passaggi successivi di ricostruzione, non vada perduta l’indeterminazione e l’apertura al futuro. Il frammento, come il torso monco di una statua, suggerisce con precisione una configurazione originaria, ma lascia libera l’immaginazione di completare la figura in forme e affezioni diverse15. Adam e Palladio sembrano suggerirci che il rapporto con le architetture degli antichi deve nutrirsi dello sguardo della Sfinge, procedendo come l’incessante ricerca della soluzione a un enigma. L’enigma dell’Antico indica all’architettura una condizione di ricerca fondata sul pericolo. Quel pericolo che porta inesorabilmente verso il necessario e l’indispensabile16 senza perdere la potenza dell’invenzione. 11 disegni di studio con la posizione dell’Adelphi terrace sul tamigi. 12 t. Malton, Veduta dell’Adelphi Terrace dal fiume con Westminster Abbey sul fondo, 1795. 13 R. Adam, Veduta dell’Adelphi Terrace dal fiume con la cattedrale di S. Paul. tale scavo. […] E s’inganna sui lati migliori chi fa solo l’inventario degli oggetti ritrovati e non sa indicare nel terreno attuale esattamente il luogo in cui era conservato l’antico. Così i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il luogo nel quale colui che ricerca si è impadronito di loro. In maniera epica e rapsodica nel senso più stretto del termine, il ricordo reale deve dunque offrire anche un’immagine di colui che si sovviene, allo stesso modo in cui un buon resoconto archeologico non deve limitarsi a indicare gli strati da cui provengono i propri reperti, ma anche e soprattutto quelli che è stato necessario attraversare in precedenza”, W. Benjamin, Opere complete. Scritti 19321933, Einaudi, Torino 2003, vol. V, p. 112. 11 Tra i saggi in preparazione per il primo numero della rivista Ali Babà ne troviamo alcuni che propongono una riflessione precisa sull’archeologia. In particolare quello di Italo Calvino Lo sguardo dell’archeologo che sottolinea come “tutti i parametri, le categorie, le antitesi che erano serviti per immaginare e classificare e progettare il mondo sono in discussione: il razionale e il mitico, il lavorare e l’esistere, il maschile e il femminile, ma pure i poli di topologie ancor più elementari: l’affermare e il negare, l’alto e il basso, il vivente e la cosa. Insoddisfatti come siamo del nostro mondo sempre meno abitabile e persuasi che gli strumenti per cambiarlo non si danno se non insieme a quelli per capirlo, ogni occasione per ripensare qualcosa da capo ci rallegra. […] Vorremmo far nostro lo sguardo dell’archeologo e del paleoetnografo, così sul passato come su questo spaccato stratigrafico che è il nostro presente, disseminato di produzioni umane frammentarie e mal classificabili: industrie metalliche, megaliti, veneri steatopigie, scheletri di ecatombi, feticci”, I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in M. Barenghi, M. Belpoliti (a cura di), Alì Babà. Progetto di una rivista 1968-1972, cit. pp.197-198. 137 MARGINI E MARGINALITÀ 14 138 12 Ibid. 13 G. Celati, Il bazar archeologico, in M. Barenghi, M. Belpoliti (a cura di), Alì Babà. Progetto di una rivista 19681972, cit., p. 201. “È ancora una volta il bazar: questa vocazione tutta moderna alla raccolta di oggetti e di citazioni dimenticati e inservibili, che non ha nulla a che fare con la vocazione dei cabinets de curiosités, perché non tende a organizzare e classificare, bensì tende, come indicava Benjamin, ad una ‘testarda protesta sovversiva contro il tipico e il classificabile’”, ivi, p. 202. 14 Ibid. “A voler ribaltare l’immagine è il tempo non omogeneo, discontinuo e tutto pieno, pieno di rovine e di oggetti di scarto e di emergenze dimenticate, l’ipotesi di una storia alternativa”. ivi, p. 203. “Ed è il senso di una storia critica: … Al frammentario e al discontinuo, all’escluso e al dimenticato è affidato il compito di contestare l’illusione d’uno sviluppo lineare continuo della storia umana”, ivi, p. 204. 15 “Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l’ha voluta un cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata ai casi della Storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo. Statue spezzate così bene che dal rudere nasce un’opera nuova, perfetta nella sua stessa segmentazione: un piede nudo che non si dimentica, poggiato su una lastra, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare, un seno o un sesso di cui riconosciamo più che mai la forma del fiore o del frutto, un profilo ove la bellezza sopravvive in un’assenza assoluta di aneddoto umano o divino, un busto dai tratti corrosi, sospeso a mezzo tra il ritratto e il teschio. Così un corpo scabro somiglia a un blocco sgrossato dalle onde; un frammento mutilo si differenzia appena dal sasso o dal ciottolo raccolto su una spiaggia dell’Egeo. Ma l’esperto non ha dubbi: quella linea cancellata, quella curva ora perduta ora ritrovata non può provenire se non da una mano umana, e da una mano greca, attiva in un certo luogo e nel corso di un certo secolo. Qui è tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose”, M. Yourcenar, Il Tempo, grande scultore (1954), in Ead., Il tempo, grande scultore, Einaudi, Torino 1994, p. 51. 16 “Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo”, W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, pp. 77-78. 14 disegno studio NOWA, un teatro archeologico per spoleto. L’invito nel 2005 a un concorso ristretto sull’antico Teatro romano di Spoleto è stata l’occasione per sperimentare alcuni strumenti di progetto con un atteggiamento e una consapevolezza acquisiti grazie alle ricerche sugli architettiarcheologi. Il Teatro romano è stato scoperto negli anni ’60 all’interno di un convento di cui lo scavo archeologico ha cancellato il chiostro.Il concorso chiedeva di riconfigurare questi resti spaesati in un nuovo organismo museale integrato con il teatro, da riattivare come luogo urbano utilizzabile durante il festival dei due mondi per concerti o spettacoli teatrali. nel suo impianto originario il Teatro romano era un edificio composito, formato da tanti spazi tra loro correlati: cavea, orchestra, scena fissa, frons scaenae, peristilio e l’ambulacrum, il principale elemento distributivo e connettivo. L’insieme di questi elementi garantiva al Teatro romano un forte carattere urbano, derivato dalla sua massa volumetrica che si imponeva sul resto del tessuto edilizio. Oggi il teatro di Spoleto è come un frammento spaesato tra altri frammenti che hanno smarrito il campo che li teneva insieme. Il susseguirsi di stratificazioni e addizioni unite alle campagne di scavo, avvenute in tempi diversi, ha da un lato obliato alcune parti del teatro, ma dall’altro ha generato un potenziale “edificio città”. Il teatro può svolgere un ruolo di ri-connessione a partire dall’ambulacrum, che si è conservato per buona parte integro. Il progetto rilegge ed estende questo elemento realizzando un percorso che attraversa tutti gli edifici oggi esistenti in nuovo movimento circolare che riconnette, in un nuova storia, i frammenti e gli spazi residui. Il progetto agisce su due elementi: la riconfigurazione del tamburo per riconquistare la presenza nella città e l’estensione dell’ambulacrumin un anello che collega tutti i segmenti attraverso il movimento. L’ambulacrum riordina i frammenti spaesati in una nuova logica in cui la condizione del bazar diventa produttiva se permette di leggere i frammenti nelle loro relazioni. In questo caso il movimento si trasforma in un vettore che, attraverso la lettura delle differenze di materia, spazi e configurazioni, esplora i salti del tempo. Questa operazione elementare ha permesso di riutilizzare quello che c’era già, semplicemente cambiandone il senso e le relazioni in un accelerazione capace di rimettere insieme gli elementi esistenti in una nuova forma. The text proposes a reflection on archaeology as a fundamental and crucial instrument of the project that occupies itself with architecture and the city. In particular, two segments are shown on a genealogy that reconstructs the exchanges and interweaving between the two disciplines. Andrea Palladio and Robert Adam are two significant examples of the use of archaeology as an instrument of invention. Palladio’s work on Roman antiquities is rigorous and meticulous: the drawing brings to light the resistant parts, erases the unsubstantial ones, identifies the points where the elements of the architecture have been composed and are therefore still susceptible of recomposition, or they are available for further variations. The relief drawings are precise but not mimetic or illustrational; they establish, with the smallest possible number of marks, the nature of each element, their position, their constraints, and their rules. Through the erasures or reticence, they show the indefinite points where there is a margin for variation. Paradoxically, Palladio draws to forget. In this way an imagination is produced which, starting from several objective data, renders small shifts fertile and shows the generative force of the archaeological fragment. Adam devotes ten years to the Gran Tour and to the preparation of the book on the Palace of diocletian in Split (1764). Adam’s method, learned in Rome from Piranesi, is based on the careful observation of the living city, the search for hints, the dig, the survey, and the drawing. His attention is not focused only on the building as an object, but is concentrated on the description of its start as a settlement. This exercise, which matured in Split, re-emerged in 1768 in the design for the Adelphi Building on the banks of the River Thames. The Adelphi transforms a building into a part of the city through a stratigraphic section that recomposes the pre-existing urban fragments into a new configuration counter to the force of the river. The palace of diocletian re-emerges in this building, not due to a voluntary act of formal or stylistic imitation, but to the careful reinvention of the start of the settlement, like a memory flash in a moment of danger. The frontispiece of Adam’s book suggests a reading approach indicated by the mysterious presence of the Sphinx, which looms over the two architects intend on redrawing the ancient buildings. The expression of the Sphinx does not mean to rebuild the ancient as it was, but makes use of its remains to question the present and find the necessary answers to new problems. Adam and Palladio seem to suggest to us that the relationship with the architectural structures of the ancients must draw its nourishment from the expression of the Sphinx, proceeding as the unceasing search for the solution to an enigma. The enigma of the Ancient indicates to architecture a condition of research based on danger, that danger that inexorably leads toward the necessary and indispensable. tHe ARCHAeoloGiCAl bAZAAR dIGGInG And fORGETTInG: InVEnTIOn TECHnIQuES fOR A CITY ARCHITECTuRE ABSTRACT 139 MERIdA 1 PAtRiMoNio stoRiCo e Città: uN diAloGo NeCessARio MARGINI E MARGINALITÀ Pedro Mateos Cruz 140 la città patrimonio. non molto tempo fa ho letto le conclusioni di un progetto di ricerca relativo al centro storico di Siviglia realizzato nell’ambito del progetto di pianificazione del Programma urban. Il libro si intitolava La ciudad silenciada. Gli autori si proponevano di dare nuovamente voce a questa zona centrale e storica attraverso elementi urbanistici articolati tra loro che le permettessero di riappropriarsi del ruolo di protagonista all’interno della città. La città costretta al silenzio: un argomento che racchiude una molteplicità di aspetti in contrapposizione tra loro. nell’ambito del Seminario ho svolto alcune considerazioni di carattere generale relative alle problematiche della conservazione delle città storiche, presentando l’esempio di una città come Mérida che, grazie al fatto di essere sorta su un’area archeologica con la quale intrattiene un dialogo costante, può offrirsi come caso esemplare per una riflessione su molte altre città sto- 1 R. Moneo, Schizzo progettuale per il Museo di Arte romana a Mérida, 1980. riche. una città patrimonio deve essere tale innanzitutto per i suoi abitanti. non può essere altrimenti perché è proprio la città, in quanto patrimonio domestico, a fungere da elemento di compensazione, per quanto possibile, alle carenze della qualità urbana rilevate dai suoi abitanti: infatti, se il titolo di patrimonio dipende dal passato storico della città, la sua continuità è legata all’uso che ne fanno gli abitanti di oggi. dal dualismo utilizzo-servizio dipende una conservazione coerente con il fatto che anche una città patrimonio deve affrontare gli stessi problemi di qualsiasi altra città. Il concetto di patrimonio è di fondamentale importanza in ambito urbano e non devono farsene carico solo gli organismi preposti al settore culturale, bensì anche tutti quelli che si occupano delle infrastrutture, delle abitazioni, dei servizi e di tutti gli altri aspetti legati all’esistenza stessa di una città. La città patrimonio deve rappresentare il luogo in cui passato e futuro si uniscono in un continuum privo di traumi. Puntare alla sola conservazione significa negare lo scorrere stesso del tempo ed è quindi una vana illusione. Anche per i centri storici, come per qualsiasi altro bene di interesse culturale, ci troviamo di fronte allo stesso quesito: la conservazione deve essere finalizzata all’utilizzo o alla mera contemplazione? In alcuni casi sembra chiaro che l’utilizzo del verbo “restaurare” abbia senso solo quando fa riferimento a un ripristino del bene in questione da un punto di vista funzionale. Tuttavia, si prospettano così due concezioni di conservazione del patrimonio completamente diverse tra loro e, oserei dire, due modi completamente diversi di considerare la pianificazione di una città storica. uno degli aspetti che gioca un ruolo chiave nella conservazione delle città storiche è proprio la progettazione urbana. Infatti, non è possibile tutelare una città basandosi unicamente su progetti architettonici, per quanto validi. La progettazione rappresenta solo la fase finale. Prima bisogna prendere in considerazione la pianificazione e, prima ancora, l’idea stessa di città che si vuole perseguire. Modificare questi fattori non porta ad altro se non a un utilizzo inadeguato del nostro patrimonio e a un conseguente abbandono in massa dei centri storici.Il traffico è un altro aspetto da tenere in considerazione. de Carlo diceva che l’automobile umilia la città storica. Questa è forse un’esagerazione, ma quel che è certo è che le automobili, con la loro lucentezza metallica, l’inquinamento e la loro quantità, sono motivo di inquietudine. Se l’obiettivo è far sì che l’uomo possa riappropriarsi del territorio che gli compete, è necessario rendere i centri storici più a misura di pedone. Questo non significa riempire la città di spazi verdi, ma renderla più umana attraverso progetti che ne garantiscano un utilizzo condiviso. Per la maggior parte dei centri storici credo che in questo senso manchino volontà e capacità di comprensione. I problemi di bilancio sono importanti, ma ancora più importante è la volontà di considerare la città come testimonianza del nostro futuro. non molto tempo fa John Eliott, rivolgendosi a un settimanale spagnolo, si lamentava di uno dei risultati del recente quanto innegabile progresso della Spagna in vari ambiti, vale a dire il mancato rispetto del suo passato storico, come si poteva chiaramente notare passeggiando per i suoi paesi e le sue città e osservando le trasformazioni che avevano subito nel corso degli anni. È curioso come a volte la pianificazione e la conservazione riguardino unicamente i centri storici. Si utilizza ancora oggi il termine “sito storico” per fare riferimento ai sistemi urbani da tutelare: una definizione del tutto inadeguata in quanto comporta una serie di limiti pericolosi tanto quanto quelli insiti nella definizione di monumento. In questo modo si rischia infatti di limitare il valore del patrimonio di una città al suo centro storico senza tutelare le aree circostanti, anch’esse risultato di una “storia” che oggi però è incolpata delle principali distruzioni. un contesto urbano meritevole di essere considerato quale patrimonio, ma che non viene per niente tutelato – conosciamo tutti degli esempi a riguardo – ci obbliga a riconsiderare il rapporto esistente tra questi due spazi all’interno di una stessa città. Si potrebbe arrivare a considerarlo non come un contesto in cui si inserisce la città, quanto piuttosto un nuovo nucleo che la inghiotte, impedendo qualsiasi forma di dialogo. La conservazione quindi, in quanto principio di tutela e salvaguardia delle testimonianze storiche, non conosce limiti a livello territoriale. Concentrarsi solo sulla salvaguardia di monumenti isolati senza curarsi di ciò che li circonda comporta un’alterazione non solo degli aspetti formali e simbolici di una città, ma anche della possibilità di comprendere le caratteristiche tipiche della civiltà che li ha realizzati. Gli obiettivi che ogni città storica deve raggiungere sono: cercare di creare una città incantevole e non ostacolarne lo sviluppo. dobbiamo quindi conciliare la crescita della città con la tutela del suo patrimonio, affrontando entrambi gli aspetti. il caso di Mérida. Ovviamente ogni città storica presenta problematiche specifiche determinate dalle sue stesse caratteristiche a livello urbano. Esistono tuttavia degli elementi comuni a tutte, come ad esempio l’armonia tra le amministrazioni competenti, il finanziamento di progetti per il restauro del patrimonio o la presenza di leggi urbanistiche che tengano in considerazione la tutela del patrimonio sia a livello materiale che concettuale. un aspetto imprescindibile è un modello di città a cui fare riferimento, cioè sapere come vogliamo che sia la nostra città in futuro. Vorrei descrivervi l’idea di città su cui ci siamo basati per Mérida, una città che si è sviluppata su un’area archeologica e che, in questi ultimi anni, sta puntando su criteri finalizzati all’integrazione del patrimonio storico all’interno dell’attuale pianificazione urbana. Vedremo come sono stati affrontati all’interno dei vari progetti i problemi che abbiamo trattato fino ad ora. Il patrimonio storico della città ha una connotazione fortemente archeologica. non mancano tuttavia esempi di pro- 141 MARGINI E MARGINALITÀ getti di restauro pensati per far sì che il patrimonio architettonico possa essere utilizzato nel contesto attuale, come le sedi del parlamento e della presidenza del governo della regione autonoma, il convento di Santa Chiara ecc. Passando a trattare le problematiche relative al patrimonio archeologico, credo che siano molto simili a quelle che devono affrontare anche le altre città storiche. forse le problematiche relative al patrimonio archeologico sono addirittura molto simili anche a quelle che riguardano quello architettonico. Tutte le città devono far fronte agli stessi problemi: 142 – Le difficoltà legate al proprio sviluppo; – Il traffico; – La presenza o meno di zone pedonali nel centro storico e il loro rapporto con il contesto urbano circostante; – L’accoglienza dei turisti, i servizi offerti; – I parcheggi; – La realizzazione di piani di tutela, sia generali che speciali, accusati, a volte, di bloccare lo sviluppo e, in altri casi, di favorirlo; – La suddivisione delle competenze tra la Comunità Autonoma e il Comune alla luce delle implicazioni che la conservazione del patrimonio logicamente comporta per la pianificazione urbana delle città; – La conservazione delle abitazioni in cattivo stato che vengono abbandonate, causando lo svuotamento del centro storico che finisce per essere città morta; – Il finanziamento dei progetti di restauro. Per quel che riguarda Mérida, stiamo puntando su un progetto che, pur presentando alcune problematiche, sta iniziando a dare i primi risultati. Il “Consorcio de la Ciudad Monumental de Mérida”1 è nato dallo sforzo congiunto di tutte le istituzioni responsabili a vario titolo del patrimonio e si basa sulla loro collaborazione con le istituzioni del mondo scientifico (l’università, il museo ecc.) coinvolte nel progetto. La tutela di un’area archeologica sulla quale sorge una città moderna è ancora una delle questioni irrisolte nell’ambito della conservazione del patrimonio storico. L’archeologia urbana si occupa della documentazione, tutela e valorizzazione dei resti rinvenuti attraverso gli scavi. Il fatto che gli scavi vengano realizzati all’interno di un nucleo urbano comporta tuttavia non pochi problemi di tipo pratico in merito al rapporto che si intende stabilire tra i resti archeologici e lo sviluppo della città. Per quanto possa sembrare ovvio, va sottolineato che la Mérida in cui viviamo oggi è il risultato, sotto il profilo urbanistico, di diverse fasi determinate dalle varie culture che si sono succedute sul nostro territorio nel corso della storia. Questa considerazione deve rappresentare il punto di partenza di una riflessione diacronica sul futuro della città in quanto costituisce la caratteristica essenziale di tutte le città storiche. tutela e integrazione. di fronte a questo dualismo tra città antica e città attuale abbiamo due possibilità dal punto di vista archeologico: possiamo puntare alla mera conservazione, con la tutela dei resti archeologici come unico obiettivo, oppure alla loro integrazione nel tessuto urbano, facendoli divenire parte dell’attuale pianificazione urbana. La prima opzione ci porta a isolare i resti archeologici rispetto al tessuto urbano contemporaneo, utilizzando quelli che vengono definiti parchi archeologici che, nella maggior parte dei casi, altro non sono che aree archeologiche in cui sono stati inseriti dei giardini. non solo è necessario conservare tutti i resti, ma devono anche essere isolati fisicamente rispetto all’ambiente che li circonda e l’area va poi adeguata affinché possa essere visitabile. La creazione di queste isole archeologiche all’interno della città quale unica soluzione alla conservazione del patrimonio pone non pochi problemi sotto il profilo urbanistico, economico e sociale. Ci sono ovviamente resti archeologici che per la loro importanza storica e monumentale e per il buono stato di conservazione in cui si trovano devono essere trattati in modo particolare, come è stato il caso del teatro, del circo e del Tempio di diana. Il loro restauro e adeguamento per l’accoglienza dei visitatori rappresentano un incentivo, a livello culturale, turistico ed economico, importante per qualsiasi città. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi gli scavi archeologici portano alla luce strutture archeologiche parziali, di cui restano solo le fondamenta. Se l’area di Mérida fosse stata abbandonata nel ii secolo, i suoi resti verrebbero forse conservati come avviene per Pompei o Ercolano. Mérida però è stata occupata da varie civiltà durante gli ultimi duemila anni, civiltà che si sono sovrapposte le une alle altre, distruggendo la maggior parte delle strutture urbane 2 3 2 Arco di traiano. 3 Ponte romano sul fiume Guardiana. precedenti. Se il nostro obiettivo fosse quello di isolare fisicamente questi resti all’interno della città, il risultato sarebbe un puzzle di isole difficili da tutelare e da comprendere da parte dei visitatori. Priveremmo inoltre la città di contenuto con le conseguenti ripercussioni a livello economico e urbanistico. La seconda opzione pone invece questioni legate alla convivenza tra i resti della città antica e le strutture urbane presenti attualmente. Anche in questo caso la conservazione ha senza dubbio la priorità, ma è orientata al raggiungimento di una compatibilità e un’integrazione tra la tutela dei resti archeologici e lo sviluppo della città. Vero è che questa integrazione non è sempre facile, che in un modo o nell’altro i costi previsti dal progetto originale aumentano e che, a volte, c’è un prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo finale. In fin dei conti conciliare tutela e sviluppo significa creare un equilibrio, una simbiosi da cui entrambe le realtà possano trarre beneficio e che non comporti per una delle due la perdita della propria identità o che non subordini una all’altra. È chiaramente un equilibrio difficile da raggiungere. L’inconveniente principale è rappresentato dall’adozione di misure individuali che non si inseriscono in una prospettiva globale, ma che considerano ciascun progetto come un’area a sé stante invece che parte di una stessa città. la città monumentale. Il Consorzio per la Città Monumentale di Mérida ha preferito seguire questa seconda opzione, integrando le varie città che nel tempo si sono sovrapposte le une alle altre all’interno dell’attuale pianificazione urbana. Per quel che riguarda l’aspetto archeologico, stiamo portando avanti un progetto di archeologia urbana che prevede la documentazione approfondita dei resti rinvenuti durante gli scavi, la conservazione del nostro patrimonio archeologico e la sua valorizzazione a livello sociale. Secondo i criteri di conservazione sui quali si basa la Comisión Ejecutiva2 del Consorzio per la Città Monumentale di Mérida, la città rappresenta un’unica area e il diverso trattamento riserva- to ai resti archeologici dipende unicamente dalle loro caratteristiche e dalla loro situazione a livello urbano. nella stragrande maggioranza dei casi i resti sono in pessime condizioni, ne rimangono solo le fondamenta e risultano così di difficile comprensione da parte del pubblico. Tuttavia, le informazioni che scopriamo grazie al rinvenimento di questi resti sono di fondamentale importanza per capire l’evoluzione della città dal punto di vista urbanistico. dobbiamo quindi procedere a una corretta documentazione di tutte queste informazioni e alla conservazione di tutte le strutture. Per questo motivo tutti i resti vengono protetti attraverso un’adeguata copertura che li isola dalle nuove costruzioni. Altre volte gli scavi rivelano resti che si trovano in buono stato di conservazione e con un’unità dal punto di vista costruttivo tale da permettere ai cittadini di comprendere alcune delle caratteristiche della città nelle epoche precedenti. In questi casi il Comitato Esecutivo, basandosi sul principio che prevede l’integrazione dei resti archeologici, indica alcune norme in merito 143 MARGINI E MARGINALITÀ 144 all’edificazione dell’area in modo che, da un lato, i resti siano visibili al pubblico e, dall’altro, soddisfino una finalità a livello sociale, trasformando lo spazio in un’area visitabile o in modo che possa accogliere sale espositive e centri culturali. Infine ci sono i resti che per la loro monumentalità e importanza storica e per lo stato di conservazione in cui si trovano meritano un trattamento a parte. Ho citato prima alcuni esempi, come il teatro, il Tempio di diana o la Casa del Mitreo. In questi casi l’amministrazione deve farsi carico dal punto di vista economico del restauro di queste aree, della loro valorizzazione e del loro adeguamento alla visita. La priorità va comunque data all’integrazione di quanto rinvenuto all’interno delle strutture urbane presenti in modo che si stabilisca un rapporto tra l’edificio antico e il contesto in cui è inserito e non si trasformi in un monumento isolato, ma che si relazioni con il tessuto urbano e sociale di cui fa parte. nel recuperare questi spazi della città antica bisogna tenere a mente che non esiste un vuoto tra il periodo a cui appartiene l’area archeologica romana e quello attuale, ma esiste un continuum fatto di strutture e di edifici che appartengono all’epoca medievale, a quella moderna e a quella contemporanea e che fanno tutti parte della storia della città, della sua memoria e, per questo, vanno rispettati. dobbiamo quindi puntare, ad esempio, al recupero per intero del foro romano di Emerita Augusta a costo di demolire edifici risalenti al xvi, xvii o xviii secolo, uniche testimonianze dell’assetto urbano di quell’epoca? Molto probabilmente verranno conservate solamente le pavimentazioni in marmo e le fondamenta di alcuni edifici del foro e non varrà quindi la pena demolire diversi isolati per recuperare uno spazio vuoto, il cui utilizzo all’interno dell’attuale pianificazione urbana risulterebbe anacronistico. Ricorreremo piuttosto a singoli progetti di recupero degli edifici antichi e, utilizzando l’immaginazione, li inseriremo nel tessuto urbano attuale, delimitando, ad esempio, l’area del foro per mezzo di una pavimentazione con struttura e colori diversi rispetto al resto della città. Questi presupposti teorici si concretizzano ogni giorno in progetti presi in considerazione dallo stesso Consorzio e attraverso il coordinamento tra le varie istituzioni, progetti che definiscono le linee guida fondamentali per la conservazione del patrimonio delle città storiche che abbiamo precedentemente indicato. HistoRiC HeRitAGe ANd tHe CitY: A NeCessARY diAloGue ABSTRACT In this contribution the problem of conservation of historic cities is addressed, through the study case of Mérida. This is a paradigmatic example of a living town superimposed to an archaeological site. The heritage city should be the place where the conjunction and no traumatic continuity between past and future are achieved. On the one hand we try to get a friendly city. On the other we can’t hinder its urban and economical development. We must therefore reconcile the growth of the city with the protection of its historical heritage. Above all, we need a model, in order to imagine the kind of place we want for the future. In this paper we will define the concept of city we are planning for Mérida, with a criterion based in the integration of historical heritage in present urban planning policies. As the main agent for the implementation of this project, the Consortium for the Monumental City of Mérida was created. This is an organization for the management of the archaeological site through the development of recording, research, preservation and diffusion projects for the Emeritan heritage. 145 1 Consorzio per la Città Monumentale di Mérida. 2 Comitato esecutivo: Gobex Goberno de Extremadura, www.gobex.es/web. BEIRuT 1 dAllA sePoltuRA del PAssAto AllA CelebRAZioNe dell’oblio Mazen Haidar MARGINI E MARGINALITÀ 1 Zawiyat ibn iraq, uno dei rari edifici che risalgono al periodo Mamelouk sfuggito alle demolizioni, estirpato dal contesto originale. 146 il passato dei luoghi. dipingere l’immagine di una città a volte può sembrare un’operazione semplice, addirittura elementare. Se anche per un istante crediamo a questa affermazione, dovremmo riconoscere l’impatto decisivo dell’interpretazione della storia di un luogo in qualunque progetto di ristrutturazione, di riassetto o di restauro su scala urbana. un luogo viene definito semanticamente dal suo ultimo strato. La demolizione parziale di un quartiere considerato di modesto valore patrimoniale, la condanna a morte di un isolato di immobili moderni per la rivalorizzazione delle vestigia nascoste nel suolo, una ricostruzione che sia identica ad un monumento perduto da decenni oppure mettere in mostra dei reperti archeologici al centro dei nuovi siti contemporanei sono tutte operazioni che pongono un solo interrogativo: quale rapporto stabilire con il passato del luogo e come raccontarne la storia. La nostra tesi iniziale potrebbe essere giustificata in un quadro simile agli esempi appena citati. Il carattere di una città viene definito per così dire dalla visione attuale che tale città offre del suo passato. Ma quali sarebbero dunque le diverse reazioni che si possono osservare nei confronti della storia di un luogo? Le differenti visioni non sarebbero influenzate o anche dettate dalle vicissitudini di una città, di un paese o di una regione? Se la città di Beirut figura in ottima posizione nella battaglia allegorica e della memoria per la riconquista o, come vedremo, per l’abbandono del passato, le risposte a queste domande basilari, molto evidenti su un piano deduttivo, rimandano a loro volta a diversi ragionamenti. Innanzitutto, alla prima domanda in cui ci si interroga sulla natura dei rapporti intercorsi con il passato, se ne aggiungono molte altre. Per esempio, quali sono gli attori pubblici o privati che decidono o amministrano questo dialogo tra la città di oggi e la sua storia, e in che modo lo gestiscono? Tale dialogo è veramente frutto di un’azione volontaria o pianificata? dalla seconda domanda, che apre l’indagine sui fattori che hanno determinato le strategie di gestione della storia, emerge la tematica primordiale del tempo e della maturità storica. Tale distanza o oggettivazione del passato è quindi una linea di demarcazione tra le conseguenze emotive di un capovolgimento o di un cambiamento su una determinata società e la traduzione attiva di tali emozioni. un’espressione che può assumere la forma, tra l’altro, di un rifiuto totale di un periodo vissuto come nefasto o anche dei suoi punti di riferimento fisici, o ancora della rivendicazione e della valorizzazione di un capitolo storico tramite la restituzione dei suoi monumenti. un’introspezione metodica proporrebbe già delle risposte a ciascuna delle domande rilevate. I problemi che abbiamo posto fanno pensare ad un rapporto di causa/effetto tra il modo in cui si manifesta l’atteggiamento verso il passato e il contesto storico e temporale che lo determina. Anzitutto ci accorderemo sulla lettura diretta della città del dopoguerra mettendo parallelamente l’accento sul contesto geopolitico che ha portato a queste scelte nella definizione della storia. Per apprezzare in maniera più precisa il ruolo della storia nella città contemporanea sarebbe necessario rievocare l’illustrazione materiale delle rotture, delle continuità o della coesi- stenza con la città del passato, soffermandoci su parecchi periodi storici. In questo articolo la nostra attenzione non è rivolta ad un’epoca remota, anche se l’accumulo degli strati della città meriterebbe di essere trattato. beirut moderna e contemporanea. dedicheremo invece la nostra lettura alla città moderna e contemporanea per dilungarci in seguito sul capitolo drammaticamente eloquente della ricostruzione del dopoguerra del centro di Beirut, un capitolo che, a quanto pare, ha segnato per sempre la storia moderna del paese. L’estensione territoriale che si scorgeva alla seconda metà del xix secolo inaugura una sequenza di riconfigurazioni del volto della città che vedrà moltiplicare la sua dimensione di oltre dieci volte in qualche decennio. dall’afflusso dei migranti rurali verso le terre agricole adiacenti, dal centro della città ottomana all’urbanizzazione e alla creazione delle periferie alla fine del xix secolo, fino ad arrivare alla fusione dei quartieri periferici con il centro della città sotto il mandato francese, la modernizzazione si coniuga con l’introduzione di nuove tipologie residenziali e di nuove reti viarie che progressivamente andranno a sostituirsi al tessuto urbano del passato fino ad eliminare per sempre i riferimenti più noti come le antiche mura e la fortezza del porto1. Lo studio comparativo dei diversi cliché fotografici della fine del xix secolo in cui figurano i contorni della città in evoluzione diventa una delle chiavi di comprensione storica dell’agglomerato. Le descrizioni della città fatte dai visitatori occidentali ripercorrono così lo spazio urbano in via di trasformazione continua dove vengono prese le distanze dallo strato delle epoche antecedenti. A tale proposito indaghiamo su due resoconti di viaggio di tre diversi autori francesi i quali hanno descritto, spesso con un po’ di fantasia, l’immagine della Beirut che hanno conosciuto visitandola intorno alla metà del xix secolo. Jean Charles Louis Reynaud scriveva nel 1844: L’interno della città ha un aspetto cupo e triste, le case somigliano a delle prigioni, e le finestre si aprono sui cortili interni in maniera tale che soltanto le porte tagliano le parti di muro che costeggiano la strada2. facendo riferimento all’addensamento della città vecchia e alla diminuzione degli spazi liberi intra-muros, Reynaud si è quindi soffermato sull’aspetto introverso di Beirut che non tarderà ad essere dimenticato negli anni a venire con la creazione di città giardino nella periferia vicina. Quindi un’immagine nuova, libera e molto più radiosa che caratterizzerà il complesso urbano della città portuale in pieno sviluppo economico. ne La Siria di oggi, viaggi nella Fenicia, il Libano e la Giudea Louis Lortet, nel 1884, si sofferma sul cambiamento dell’aspetto dell’agglomerato e indirettamente descrive una città nuova che si sovrappone a quella antica: L’aspetto di Beirut oggi è molto diverso rispetto a quello che era alcuni anni fa. un magnifico quartiere è stato costruito in mezzo ai giardini che dominano la rada, e sulle colline intorno vaste costruzioni ad opera di associazioni religiose francesi, inglesi, americane, tedesche, conferiscono alla città nuova un aspetto davvero imponente3. La trasformazione quindi lascia poco spazio alla linea di demarcazione tra l’insieme esistente e le nuove costruzioni. Il cambiamento, l’espansione e la modernizzazione iniziate dalle autorità ottomane si coniugano con l’importazione di nuove tecnologie di costruzione, con nuovi schemi di assetto urbano e con una nuova architettura privata che insieme si sovrappongono al tessuto antico. Il modello della città nuova elevato al rango di valore tuttavia si fisserà in modo permanente nello spirito della città come un preponderante e intenso sentimento di bramosia. È giocoforza constatare che questo ritmo ben serrato dei cambiamenti alla scala urbana e anche la portata di ciascuna delle fasi di transizione hanno lasciato poco spazio per oggettivare il passato prossimo. Ci sono state riforme urbane e nuove realizzazioni architettoniche ottomane in opera nella città francese fino al periodo dell’indipendenza che ha preceduto il grande conflitto civile, ma una sensibilità pubblica per un patrimonio moderno è lungi dall’essere un fatto acquisito. I punti di riferimento fisici del periodo antecedente, al contrario, saranno visti con diffidenza dai loro stessi utenti che non si lasceranno sfuggire l’occasione per sostituirli. L’antichità del costruito, 147 MARGINI E MARGINALITÀ 148 sopraffatta dalla portata innovativa delle politiche urbane, farà nascere sentimenti di perplessità nei confronti dell’eredità architettonica del passato. In un paesaggio urbano regolarmente rimaneggiato spesso un valore patrimoniale non viene attribuito all’edificio in sé, bensì al simbolo morale che tale edificio rappresenta per una certa comunità. non sarà sorprendente veder mettere in risalto la data di fondazione di un’istituzione o di un semplice edificio, religioso o altro, pubblico o privato, anche quando la costruzione d’origine è stata sconvolta o addirittura demolita. nella nuova nazione libanese promotrice della Modernità sin dalla sua creazione nel 1920, il concetto di patrimonio fu sin dall’inizio “strumentalizzato per mettere in evidenza le differenze più che per sottolineare un’eredità comune a tutti i Libanesi”. Come fa notare quindi May davie, “le tracce materiali del passato hanno avuto poca importanza, poiché l’obiettivo fondamentale non era quello di unire i cittadini, bensì di tutelare i diritti acquisiti.”4 In modo molto insidioso il passato materiale, per così dire lo stato d’origine di un edificio, diventa incongruo nella nuova narrazione di quanto è stato edificato, e quindi viene abilmente rinnegato. Il presente materiale e morale invece dovrà incorporare tutto sostituendosi all’antico. un edificio moderno potrà consolidare il legame con il contesto geografico appropriandosi della storia del luogo, ma anche disconoscendo o disprezzando la sua condizione precedente valorizzerà il proprio stato attuale, la sua forza innovativa. Il valore storico del costruito sembra quindi completamente liberato dalla sua dimensione fisica per ridursi al diritto di insediamento e di appartenenza a un certo sito, in questo caso a quello di una città profondamente legata alla storia che rivendica infaticabilmente la propria modernità. Se inquadriamo il soggetto da un’altra prospettiva possiamo dire che l’astrazione dal patrimonio costruito è emersa con la sua vulnerabilità. da un punto di vista funzionale, il predominio del presente sul passato mette in risalto in tutti i punti di riferimento fisici di quest’ultimo, qualunque sia la loro vocazione originale, anche la più simbolica, numerosi difetti. Per molto tempo la questione se l’edificio risponda o meno alle nuove esigenze della vita moderna pare non abbia dato adito ad un vero dibattito né presso gli specialisti né presso gli utenti. In mancanza di ciò, la totalità dell’edificato deve essere ricostituita allorché la sua conservazione e la sua potenzialità di adattamento siano prevedibili o anche molto fattibili. È così che l’esistente diventa un semplice residuo di un’epoca antecedente obsoleta o superata da una nuova modernità e che potrebbe evocare di conseguenza soltanto una situazione di inferiorità o di mancanza di adattamento. Le molteplici ridefinizioni dei modelli estetici e della forme della socializzazione, l’aumento della popolazione e anche il rapido progresso delle tecniche di costruzione accelerano i motivi dell’evoluzione. Il cambiamento, la volontà stessa di cambiare acquista una connotazione sempre più positiva. Parallelamente, tale rivendicazione unanime del nuovo, manifestata in maniera esplicita dagli inizi del xx secolo, portava avanti un’idea anche molto precisa: la modernità non si realizza sconvolgendo vecchi parametri culturali, ma anche sradicandoli materialmente come se la loro espressione diventasse una testimonianza ingombrante di un momento obsoleto. Qualora la giustapposizione delle nuove costruzioni alle antiche potesse diventare un’illustrazione materiale dell’evoluzione di una società, tale coesistenza non tarderebbe ad essere rifiutata a vantaggio di una visione unitaria dominante, volutamente atemporale. Con il sostegno dei diversi gestori culturali la nozione dell’esistente, del patrimonio urbano, sarà privata della propria accettazione materiale e, nel migliore dei casi, sarà canonizzata come riferimento didattico, fonte di ispirazione per i progetti futuri. la costruzione del patrimonio. nel momento in cui incontra apprezzamento, il costruito antico, spogliato della propria dimensione materiale, farà da supporto nel presente a nuove idee che devono migliorarlo e anche superarlo. Se necessario, però, l’antico dovrà essere visibilmente smantellato per lasciare posto a progetti innovativi che ne celebreranno orgogliosamente l’assenza. Si crea quindi una netta separazione tra l’oggetto visto nella sua potenza materiale da un lato e nel suo significato ideologico o nazionalista dall’altro5. Il campo della semantica di un sito si mette quindi a servizio degli operatori che si appropriano della storia: la valorizzazione di un complesso costruito, ammirato per la sua vocazione e non per l’interesse estetico, si realizzerà necessariamente secondo questo meccanismo di smantellamento e di ricostruzione. La pratica della ridefinizione contemporanea di un sito religioso o civile, pubblico o privato, che si preoccupa poco delle sue forme originarie e ancor meno della sua autenticità materiale si affermerà solidamente nello spirito collettivo come una forma di rispetto e di perpetuazione della storia fino ai nostri giorni. Constateremo persino che tale sentimento di distacco, addirittura di rigetto della materialità dell’opera della storia moderna è favorita indirettamente da un procedimento ufficiale: l’istituzione del passato nel presente che si formalizzava a partire dalla prima metà del xix secolo6 nella legge ottomana non fa che ristabilirsi, senza affinarsi molto, durante tutto il periodo del mandato francese e dell’indipendenza del paese. Avendo limitato il valore storico alle vestigia archeologiche, la genesi del concetto di patrimonio nella dimensione moderna è lungi dall’essere realizzata. Il diritto alla sopravvivenza viene quindi fatalmente negato alle costruzioni delle epoche più moderne tra cui il lungo periodo ottomano, innegabilmente il più coerente sull’insieme del territorio. Sottoposte a questa visione museologica del patrimonio, le iniziative istituzionali manifestano solo raramente un interesse per i prodotti architettonici e urbani degli ultimi quattro secoli. fatta eccezione per qualche opera grandiosa come i palazzi suburbani e il “Grand Sérail”, il complesso degli edifici costruiti viene privato di qualunque significato materiale o anche morale. Sotto l’impulso di un settarismo culturale creato durante il mandato francese e perpetuato dopo l’indipendenza, l’eredità architettonica è regolarmente sottoposta a una distruzione di matrice talvolta nazionalista, in cui l’abolizione del passato recente si unisce ad una ricostruzione identitaria, e altre volte collegata più semplicemente ad un disconoscimento dell’utilità delle vestigia antiche nella vita di oggi. La cultura delle vestigia archeologiche percepite come l’unica garante della tra- smissione della storia si sviluppa quindi nell’ambito di questo schema stravolto. Il passato recente, pervaso da sentimenti opposti e incerti, si trova privato delle sue frontiere e viene costantemente trasformato a vantaggio della giovane nazione libanese. Al moltiplicarsi delle tensioni contro il “moderno superato” si oppone un sentimento piuttosto isolato nei confronti dell’antichità cui si è affettivamente meno legati, facilmente raccolta in un’entità temporale distinta. Tuttavia proprio questa distanza focale nei confronti dell’archeologia ha aperto la strada ad uno sfruttamento semantico del passato. Alle vestigia liberate di epoche lontane che contengono significati reconditi e soprattutto inaccessibili spetterà la funzione di incarnare in modo totalizzante e assoluto tutta la storia della nazione e di erigere un’ossatura culturale estranea alla popolazione. Sull’argomento della malleabilità e della costruzione ideologica del patrimonio riprendiamo le idee riformulate da Michael davie sulla reinvenzione occidentale della storia nella regione del Vicino Oriente. Il lavoro di esplorazione della regione (in Siria, nella catena montuosa del Libano, in Palestina) è stato effettuato da missionari, archeologici e militari. Tale lavoro si unisce alla logica dell’appropriazione dello spazio del nord Africa, identificando edifici e siti emblematici che giustificano la colonizzazione. non poteva quindi interessarsi seriamente, nel caso preciso dell’attuale spazio libanese, ai monumenti islamici del periodo venuto prima delle crociate, né alle vestigia bizantine. Questi monumenti fanno riferimento a mondi e civiltà che secondo l’Europa erano culturalmente troppo remoti o troppo ostili al loro progetto: effettivamente l’Islam e Bisanzio avevano limitato le ambizioni europee nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Il fascino dei siti delle crociate in cui si erano imbattuti rinvia quindi a logiche articolate alla Storia particolare della Chiesa Cattolica7. L’irruzione del passato nel presente in base alla logica coloniale sarebbe dunque organizzata da una legge egemonica in cui i riferimenti antichi sono presentati in maniera arbitraria e disorganica. non possiamo esimerci dal constatare che l’appropriazione del passato in tale processo privilegia un repertorio manifestamente inoffensivo a discapito degli edifici moderni ancor più ricchi di significati per la popolazione. Impadronendosi di segnali poco comunicativi presi sotto forma di strumento di propaganda ed eliminando quelli che dicono qualcosa di più, verrà data la definizione nuova della storia nella città moderna. Allora quali sarebbero le chiavi di lettura dei siti archeologici liberati nel loro contesto in pieno sviluppo? Il contrasto tra un tempo fossilizzato incarnato dalle rovine messe in prospettiva nel paesaggio urbano e l’attività incessante del costruire che caratterizza il paese può permettere di veicolare un senso di storicità in chiunque? Per rispondere a queste domande prenderemo in esame il caso oramai paradigmatico della ricostruzione del dopoguerra del centro di Beirut. All’indomani dell’indipendenza i princìpi coloniali – uniti alla visione museologica del patrimonio radicata da un secolo – vengono anche canonizzati da apparati amministrativi di salvaguardia e di gestione del patrimonio. La direzione generale delle antichità, unico dispositivo presente sul territorio, si limiterà a ricondurre questa strategia relativa al patrimonio delimitando in maniera cronologica l’epoca 149 MARGINI E MARGINALITÀ 150 di interesse pubblico all’anno 1700. Ma, soprattutto, il momento solenne della ricostruzione in seguito ai lunghi anni di guerra civile (1975-1990) farà proliferare gli appelli alla salvaguardia della memoria del vecchio cuore palpitante della capitale; una presa di posizione che non può conciliarsi con il progetto di riassetto urbano affidato alla società immobiliare privata Solidere e che, in misura minore, rimetterà in discussione le logiche del settarismo patrimoniale. In uno studio pubblicato nel 20118 ci siamo soffermati sulla trasformazione radicale subita dal centro a partire dagli anni ’90 e sull’evoluzione dello spirito del luogo nella nuova generazione. Il settarismo storico a lungo descritto in tale saggio in sintesi assume un’ampiezza significativa chiaramente illustrata dallo slogan stesso della società privata discussa. Beirut “città antica per il futuro” si prefigurava come l’arma decisiva per riesumare la capitale dalla sua lunga agonia occultando le tracce giudicate ingombranti per la sua storia. Il futuro della città diventava allora la “ragion d’essere” fondamentale che doveva liberare il vecchio centro della città, idealmente e materialmente verso un tempo nuovo9: una proiezione continua nel futuro. Il contrasto combinato tra l’antico e il futuro mirerebbe dopo tutto a liberare il presente dalle restrizioni storiche, associandolo a riferimenti temporali ben definiti. La storia della città, messa in stretta relazione con il suo futuro, si riduceva in particolare a qualche vestigia della città antica e all’eredità architettonica dell’epoca coloniale francese. Mentre gli assi e gli edifici di Place de l’Etoile erano restaurati con meticolosità e rimessi in prospettiva nel paesaggio urbano10, abbiamo assistito a una rottura brutale con le vestigia del lungo periodo ottomano proprio come con il periodo di fervore modernista legato intimamente al periodo dell’indipendenza del paese. A seguito delle demolizioni di Place des Martyrs, il centro del centro, farà seguito ovviamente il momento solenne della scoperta avida della città antica, la quale in futuro dovrà far dimenticare il ricordo della guerra e in più giustificare la demolizione stessa degli edifici moderni. Senza essere veramente in contraddizione con lo slogan di propaganda mediatica, la rivelazione selettiva dell’Antichità non mira a tessere un legame tra lo spazio urbano ricostruito e la sua storia. In questa ricerca del passato in cui si intrecciano diverse poste in gioco, il ruolo museale rimane di gran lunga quello dominante. In questa ricerca di un piacere estetico si inserisce la rivelazione del patrimonio nascosto: addossati ai nuovi edifici commerciali di quello che fu il vecchio centro della capitale, i pochi riferimenti risparmiati alle distruzioni e preservati in situ11 vengono nascosti nei sottosuoli o fanno da ornamento agli spazi residui non utilizzati. Risparmiati dalle demolizioni degli anni 1990, edifici d’epoca moderna da cui si vedono sempre le tracce del conflitto12 restano ancora in piedi nello spazio urbano drasticamente alterato. Ovviamente l’eventualità della loro demolizione o modifica rimane sempre attuale. Inizia a farsi sentire un interesse pubblico per la salvaguardia dei resti di Beirut di prima della guerra: gli unici depositari della memoria del lungo conflitto e del paese di prima della guerra partecipano necessariamente alla ricostruzione molto tardiva di una identità nazionale. Il confronto tra questa ricchezza moderna, sempre incompresa, e l’altra più assimilata dell’archeologia, anche se tenuta in scarsa considerazione, diventano il punto di partenza di tante indagini attuali sul valore e sul ruolo del passato nel presente. Abbattuta dalla demarcazione museale della città storica, la gestione pubblica del patrimonio antico non può essere elaborata senza esprimere una riflessione critica sul posto importante, direi primordiale, del passato recente della città moderna a lungo colpita da conflitti. 1 Per un approfondimento su questo argomento cfr. R. Saliba, Beyrouth architectures. Aux sources de la modernité 1920-1940, Parenthèses, Marseille 2009. 2 Cfr. J.C.L. Reynaud, D’Athènes à Baalbeck, furne et Cie, Paris 1844, pp. 143-144. 3 Cfr. L. Lortet, La Syrie d’aujourd’hui, Voyages Dans La Phénicie, Le Liban et La Judée 1875-1880, Librairie Hachette et Cie, Paris 1884. 4 Cfr. M. davie, La construction nationale et l’héritage ottoman au Liban, in J.-C. david, S. Müller Celka (a cura di), Patrimoines culturels en Méditerranée Orientale: recherche scientifique et enjeux identitaires, université Lumière Lyon 2, Lyon 2009. 5 M.davie, La construction nationale et l’héritage ottoman au Liban, cit. 6 Cfr. M. davie, Enjeux et identités dans la genèse du patrimoine libanais, in Z. Akl, M. f. davie (a cura di), Questions sur le patrimoine architectural et urbain au Liban, Beyrouth et Tours, Beyrouth 1999, pp. 51-76. 7 Cfr. Michael f. davie, Le patrimoine architectural et urbain au Liban: des pistes de recherche in Z. Akl, M. f. davie (a cura di), Questions sur le patrimoine architectural et urbain au Liban, cit., p. 12. 8 M. Haidar, Beyrouth et la nouvelle mémoire, in C. forget (a cura di), Penser et pratiquer l’esprit du lieu, pul, Laval 2011. 9 Cfr. f. dahdah, On Solidere’s Motto “Beirut: Ancient City of the Future”, in P. Rowe, H. Sarkis (a cura di), Projecting Beirut, Prestel, München-London-new York 1998, p. 68. 10 Sull’argomento della restaurazione stilistica: Cfr. M. Haidar (a cura di), Città e memoria Beirut, Berlino, Sarajevo, Mondadori, Milano 2006, pp. 27-89. 11 Per una bibliografia esaustiva sull’attività archeologica nel centro di Berirut si rimanda al sito: www.almashriq.hiof.no/lebanon/900/930/930.1/ beirut/reconstruction/. 12 Alludiamo all’illustre cinema dell’ex complesso del City Center noto come “l’œuf” o “le savon”, e ad altri edifici sfuggiti alle demolizioni di Solidere come gli ex-locali del quotidiano francofono L’Orient. FRoM tHe buRiAl oF tHe PAst to tHe CelebRAtioN oF oblivioN ABSTRACT Altered beyond recognition by war damage and what is euphemistically known as “post-war reconstruction” and shaken by the last conquests of its ancient history to the detriment of its modern urban legacy, Beirut assumes the paradigmatic rank of a freudian city, where the overlapping layers resemble those of the human soul, weighty and complex. from its continually declared Modernity, proclaimed ever since the fall of the Ottoman Empire, to the flaunted removal of physical references reminiscent of the civil war, co-existence with the past has merged with the process of building the national identity of the young Lebanese republic. How should we interpret the various different reactions we can observe to a country’s history and how should we redefine the concept of time in an environment that sees continual social and cultural transformation? When the end of the war solemnly cleared the way for the reinstatement of the Lebanese state’s institutions in 1990, the opening of Beirut’s line of demarcation and its city centre, isolated from daily life for so long, was obviously the first essential step towards restoring national unity. Over two decades after the start of the city centre’s reconstruction, and given a tendency for temporary conditions to become permanent in several parts of the city, there seems to be an overlapping of different remnants of the past: the image of a golden age stands out amidst the many signs of the long armed conflict, interweaving with the post-war era’s “timelessness”. Amidst the resurrection of its ancient past, the cancelling of its recent past and a brash projection towards the future, places today seem to be building new meanings for themselves that are almost at odds with those that existed before the war. When we are now asked to debate the memory of places in the third decade of reunification, not only do we need to take stock of the fragmentary nature of remnants attesting the city’s division, but we must also consider, first and foremost, the processual nature of what we call “the past”, its actual completeness in time and its objectification, tackling the way the reconstruction process itself endows transience with official status. The following article retraces the common theme that runs through the succession of conflicts, rifts and reconciliations and the many re-definitions of architectural heritage. In analysing the fully-fledged awareness of its history in the collective consciousness, our approach draws on a museological view of cultural and ancient assets that is rooted in the country’s culture and was put forward afresh during the reconstruction process of the 1990s. 151 LuBIAnA 1 uRbAN HeRitAGe CoNNeCted: il PARCo ARCHeoloGiCo dellA ANtiCA eMoNA Jerneja Batič MARGINI E MARGINALITÀ 1 G. Plecnik, Studi per il piano regolatore di Lubiana, 1929. 152 Gestione del patrimonio culturale. Lubiana si trova ad un crocevia della storia e della cultura europea che ha visto la fusione, nel corso dei secoli, di influenze provenienti da ovest e da est, da nord e da sud. Rappresenta un punto d’incontro e congiunzione dei mondi romano, germanico e slavo. Si può dire che proprio questa posizione strategica ha permesso la nascita, attraverso i secoli, di un ricchissimo patrimonio culturale che risale alla preistoria e che oggi si riflette nel dinamismo e nella vita culturale della città1. In tale contesto le istituzioni si sono date il compito molto importante di portare il patrimonio culturale più vicino alla gente, di connetterlo con il ritmo urbano di tutti i giorni. Questo intento è stato formalizzato nella “Strategia per lo sviluppo culturale di Lubiana”, uno dei cui obiettivi principali è promuovere una gestione del patrimonio che consenta uno sviluppo sostenibile del centro cittadino. Presentando il patrimonio al pubblico vengono create le condizioni per la sua conservazione e per una migliore tutela, evidenziando anche il vasto potenziale didattico e turistico. Tale valorizzazione innesca un processo di rigenerazione urbana e di coesione sociale di parti trascurate della città. In questo contesto, e all’interno di un più vasto piano strategico, la Città di Lubiana persegue un obiettivo primario: istituire un sistema di politiche di gestione del patrimonio culturale e sviluppare metodi contemporanei di divulgazione nella sfera pubblica. Attraverso l’uso di tecnologie all’avanguardia e design innovativo, il contenuto reinterpretato del patrimonio aiuterà gli utenti a comprendere meglio la città e il suo sviluppo urbanistico. Le tecniche interpretative contemporanee (in loco, ricostruzioni virtuali multimediali, applicazioni mobili) forniscono nuove possibilità a vari programmi culturali, didattici e turistici. Gli interventi che abbiamo intrapreso mirano a istituire punti di informazione dedicati a ogni importante fase insediativa delle città. Al momento il programma si pone tre obiettivi: – Istituzione di punti di informazione per la presentazione e la promozione del patrimonio preistorico di Lubiana, con la presentazione dell’insediamento antico e della palude con le sue palafitte, dichiarate patrimonio culturale unesco2; – Istituzione di punti di informazione sul patrimonio archeologico dell’Emona romana per garantire una gestione e presentazione adeguate dei resti archeologici in loco; – Istituzione di punti di informazione per la presentazione dello sviluppo della Lubiana medievale e dei suoi monumenti culturali. Il primo passo verso la realizzazione di questi obiettivi è un progetto in loco sui siti archeologici. forse il patrimonio più significativo è rappresentato dai siti archeologici del periodo dell’Emona romana3. Il patrimonio culturale presente nel sito romano di Emona è il risultato di oltre un secolo di lavoro ambizioso di conservatori, architetti e altri operatori, di lun- ghi sforzi e di numerosi interventi che hanno reso fruibile numerosi reperti romani4. L’ultimo grande scavo è stato effettuato negli ultimi cinque anni, quando il comune di Lubiana ha deciso di ristrutturare piazza del Congresso con la costruzione di un parcheggio sotterraneo. Piazza del Congresso rappresenta il più importante intervento urbanistico nel centro di Lubiana connesso con uno scavo archeologico. La sua ultima grande ristrutturazione era stata realizzata su progetto del famoso architetto sloveno Jože Plečnik nel 1928, a circa cento anni dalla costruzione della piazza. negli anni ’70 piazza del Congresso è stata pavimentata con asfalto e trasformata in parcheggio. Il progetto vincitore ha conservato l’intervento di Plečnik come monumento di valore nazionale e si appropria con grande rispetto del ricco patrimonio culturale svelando le stratificazioni storiche di questo luogo, molto caro alla memoria dei cittadini di Lubiana. La nuova illuminazione e la riqualifica- zione attraverso la creazione di una zona pedonale aggiornano il progetto originale di Plečnik conferendogli un’ambizione moderna e promuovendo l’articolazione programmatica dell’idea architettonica originaria: una monumentale piazza principale per i grandi eventi pubblici. I lavori di riqualificazione di piazza del Congresso e di costruzione del parcheggio sotterraneo hanno consentito importantissime scoperte archeologiche in questo sito. Tuttavia negli ultimi dieci anni ci siamo resi conto che il patrimonio culturale di Emona non era più attraente per i cittadini o per i turisti, era diventato impercettibile e sempre più inaccessibile. In particolare, le modalità di presentazione in loco e la loro integrazione nell’ambiente edificato sono sempre state operazioni difficili sia per i professionisti delle scienze archeologiche e museali che per la comunità residente. Pur offrendo un grande potenziale culturale e turistico, i siti purtroppo risultano spesso trascurati, soprattutto a causa di una strategia di gestione olistica. Inoltre la maggior parte dei monumenti archeologici mancavano di contenuti interpretativi concisi e di programmi museali. Considerando la condizione dei parchi archeologici esistenti e di altri reperti archeologici sparsi per la città che risultavano difficili da individuare, e i concomitanti vasti scavi archeologici nel cantiere del nuovo parcheggio sotto piazza del Congresso, eravamo alla ricerca di opportunità per la loro rivitalizzazione. nel 2011 abbiamo ottenuto dei fondi europei con i quali è stato avviato un progetto di rivitalizzazione della gestione dei parchi archeologici. Tutti gli obiettivi fissati sono stati realizzati: la costru- zione di strutture per la presentazione degli scavi di Emona, la conservazione e la rivitalizzazione dei parchi archeologici e il restauro di singoli monumenti5. In tutti gli interventi abbiamo seguito un approccio di conservazione sostenibile del patrimonio culturale, favorendone l’integrazione con la vita moderna attraverso programmi mirati per diversi gruppi di utenti. Il nostro obiettivo era collegare fra loro i monumenti archeologici in un sistema articolato e aggiungere valore al patrimonio mediante moderni contenuti interpretativi. Questo difficile compito è stato affidato al narodni Muzej Slovenije, un preminente museo sloveno noto per l’approccio fortemente innovativo nella divulgazione e presentazione del patrimonio culturale. Piazza del Congresso e i-emona. Tre uscite del parcheggio sotterraneo ospitano una mostra permanente dei reperti provenienti principalmente dal romano “Castrum Iulia Emona”, poi monastero dei cappuccini. La parte più importante di questo sistema è un collegamento sotterraneo al parcheggio che integra l’atrio della porta nord di Emona, dove si trovano le vestigia della strada romana originale e delle porte della città. Insieme ai resti rinvenuti della statua d’oro romana dell’“Emonec” (il cittadino di Emona) e delle pietre di un “ipocausto” romano, questo collegamento è diventato parte di una più vasta passeggiata archeologica sotterranea. Quello che altrimenti sarebbe un anonimo passaggio sotterraneo ora è diventato lo spazio di un’organica esperienza interattiva. Caratterizzata dai resti della strada romana originale, la mostra permanente è dedicata alla 153 MARGINI E MARGINALITÀ 154 presentazione della strada con un’interpretazione museale virtuale della vita che vi si conduceva. Il contenuto informativo è fornito attraverso un modulo interattivo che comprende pannelli touch-screen e un modello tridimensionale in scala di Emona inserito nel contesto della città moderna. La mostra lungo la passeggiata funge anche da punto informativo che rimanda ad altri parchi archeologici esistenti e ristrutturati della città. La rete di moduli informativi interattivi su scala cittadina offre ai visitatori una presentazione completa del patrimonio dell’Emona romana disperso nell’ampio territorio del centro della città. I parchi includono una casa restaurata dell’antica Emona, un battistero paleocristiano e cospicui tratti delle mura di terrapieno di Emona. Le presentazioni vengono aggiornate con il codice qr e con i programmi di eventi diretti a diversi gruppi di utenti (cittadini, scolaresche, turisti, utenti disabili, famiglie con bambini). La riqualificazione di piazza Congresso e la rivitalizzazione dei parchi archeologici sono state due operazioni molto impegnative e complesse per Lubiana. Il successo di tali progetti è dovuto sicuramente in larga parte alla sensibilità degli architetti e alla loro comprensione dello spazio urbano, alla loro capacità di trasformare strutture esistenti in nuovi ambienti e, attraverso l’interpretazione di passate concezioni urbanistiche, adeguarli con abilità alle esigenze della vita moderna. Gli obiettivi principali del nostro progetto sono: – Integrazione del patrimonio culturale nella vita quotidiana della città e dei suoi abitanti; – Inclusione dei parchi geologici nella struttura urbana: patrimonio culturale + architettura contemporanea = rigenerazione dello spazio urbano; – Piano gestionale del Parco archeologico di Emona che includa lo sviluppo sostenibile; – Programmi museali per tutte le generazioni; – nuovi prodotti turistici. 1 Attualmente Lubiana, 260.000 abitanti, vanta 14 musei e 33 gallerie d’arte, 10 teatri e 47 organizzazioni culturali non governative. In un anno Lubiana ospita più di 10.000 eventi culturali, 10 festival internazionali e nel 2010 l’unesco le ha conferito il prestigioso titolo di Capitale mondiale del libro. 2 Per il lancio di questo progetto, il Museo Civico di Lubiana ha organizzato la mostra “La Ruota – 5200 anni”, che collega il patrimonio antico, lo sviluppo tecnologico-scientifico con la cultura e l’arte. La più antica ruota in legno ad asse, costruita 5.200 anni fa, è stata scoperta nella palude di Lubiana. 3 dopo avere occupato l’area su cui sorge l’attuale Lubiana, intorno al 14 d.C. i Romani fondarono un insediamento chiamato Colonia Iulia Emona in una piana tra due colline. dal i al vi secolo Emona fu un importante presidio strategico. Venne fortificato su tutti i lati con robuste mura munite di oltre venti torri. Al suo interno però presentava tutti gli elementi tipici dell’architettura urbana romana, come grandi bastioni e la pianta a scacchiera che divideva la città in isolati quadrati occupati da unità abitative chiamate insulae. Sotto il livello stradale era stata costruita una rete fognaria le cui condutture portavano al fiume Ljubljanica. Il centro della città era occupato da uno spazio aperto – il forum – circondato da edifici religiosi, commerciali e amministrativi. nel corso dello sviluppo urbanistico della città di Lubiana sono venute alla luce numerose vestigia romane. 4 Le mura di terrapieno a Mirje rappresentano il più grande complesso di resti dell’Emona romana. All’interno della città moderna si conserva ancora una grande porzione delle mura meridionali con elementi originali delle torri della porta sud. nella fase di rapido sviluppo della città all’indomani della Seconda guerra mondiale furono forti le tentazioni di demolire le mura. Promossa dal conservatore franc Stele e dall’architetto uRbAN HeRitAGe CoNNeCted: tHe ARCHAeoloGiCAl PARK oF tHe ANCieNt eMoNA ABSTRACT Jože Plečnik, un’iniziativa pubblica impedì la demolizione e le mura furono restaurate su progetto del Plečnik. 5. nel 1966 furono scoperti i resti di una costruzione romana di fine iv secolo – inizi v secolo, la Casa emonica. A giudicare dalle finiture e dai servizi di alta qualità (pavimenti, mosaici, riscaldamento), l’edificio ospitava una famiglia romana ricca e rispettabile. Lo spazio abitativo centrale era occupato da quella che viene definita una stanza estiva con il pavimento decorato da un mosaico geometrico bicromatico. Sul lato opposto c’era la stanza invernale, dotata di ipocausto, un sistema di riscaldamento sotterraneo, che si è conservato. Per consentire la conducibilità termica, le pareti furono costruite con mattoni forati. L’edificio inoltre era collegato alla rete fognaria, la cloaca. Gli scavi archeologici condotti negli anni ’70 hanno portato alla luce un edificio residenziale romano, il Centro paleocristiano. Come la maggior parte delle case emoniche, fu costruito agli inizi del I secolo d.C. nei quasi 500 anni della sua esistenza fu ricostruito più volte. La prima grande ricostruzione risale all’inizio del iv secolo, quando furono rifatti i pavimenti, realizzato l’ipocausto e aggiunte tre piccole piscine, il che fa pensare a una possibile trasformazione dell’edificio in bagni privati. nella seconda metà del iv secolo una parte della casa fu ricostruita in forma di cappella paleocristiana. È però dell’inizio del v secolo una modifica più radicale che vide la costruzione di un battistero rettangolare con una piccola vasca battesimale a fianco del cortile centrale. Il pavimento del battistero è rivestito da un mosaico policromo con iscrizioni che riportano i nomi dei cittadini di Emona che avevano donato i fondi per la sua realizzazione. Questo dimostra che all’epoca viveva in città una forte comunità di primi cristiani. La sua esistenza è confermata anche da documenti scritti che fanno riferimento ai vescovi di Emona. In last ten years we have realized that Emona cultural heritage is no more interesting for the citizens or tourists, it become imperceptible and more and more an accessible. Especially the in situ methods of presentation and its integration in the built environment has always proved a challenge both for the professionals of archaeological and museums sciences and the community. Whilst offering a great cultural and tourism potential the sites unfortunately often remain neglected, mostly due to holistic management strategy. for the most part archaeological monuments so far were also lacking concise interpretative contents and museum programs. Considering the present condition of the existing archaeological parks and other archaeological findings scattered around the city, which were very difficult to discern, and the concurrent extensive archaeological excavations on the construction site of the new car-park under Congress Square, we were looking for opportunities for their revitalization. The goals of our project: – Intergation of cultural heritage in a daily life of the city and its ihabitants; – Inclusion of archaeological parcs in the city urban structure: cultural heritage + contemporary achitecture = regeneration of urban space; – Menagement plan of Archaeological parc of Emona which include sostenible development; – Museum programmes for all generations; – new tourist products. 155 TERRITORIALIZZAZIONI 156 TerriTorializzazioni TERRITORIALIZATIONS a cura di edited by Fausto Carmelo nigrelli 157 il PAtRiMoNio teRRitoRiAle fausto Carmelo nigrelli una premessa teorica. L’approccio scelto per affrontare il tema di una lettura paesaggistica dell’archeologia è quello del processo tdr Territorializzazione – deterritorializzazione – Riterritorializzazione qui interpretato anche come strumento progettuale di luoghi in bilico tra ciò che sono stati, ciò che sono e ciò che saranno. Tale approccio ha avuto la sua definizione filosofica grazie alle riflessioni di Gilles deleuze e félix Guattari1 per i quali la territorializzazione è l’azione di “presa di possesso” di uno spazio geografico da parte di una comunità, cioè la nascita di “relazione con la terra”, e il processo – mai concluso – si articola in fasi di deterritorializzazione, cioè perdita o sottrazione della relazione, e riterritorializzazione, normalmente intesa come creazione di una nuova territorializzazione altrove. In precedenza la fase dr aveva assunto un altro connotato più interessante per la disciplina della pianificazione: la deterritorializzazione, oltre che abbandono del territorio, ha assunto anche il significato di perdita o scomparsa dei limiti, dei confini, ma anche dei ritmi, dei cicli2. Allo stesso modo la riterritorializzazione, ossia la fase che interviene attraverso una nuova “presa di possesso”, spesso solo parziale, di luoghi già precedentemente oggetto di fenomeni td. Il processo potrebbe anche essere, più genericamente, definito di valorizzazionedevalorizzazione-rivalorizzazione poiché la fase di “presa di possesso” non è altro che un riconoscimento/assegnazione di valori agli elementi che costituiscono lo spazio geografico, non solo in termini economici, ma giuridici (confini), simbolici, religiosi, linguistici (toponimi) e una loro evoluzione in risorse. Gli eventi storici determinano un cambiamento di tali valori o di parti di essi, sia in modo definitivo, (anche se nulla in questo campo può essere inteso come definitivo), che in modo parziale: per sostituzioni, per sovrapposizioni, per inseminazioni culturali oppure una perdita della loro funzione di risorsa. In particolare il valore cessa di essere risorsa quando viene meno il sistema economico, culturale, sociale, simbolico p. 155-156 v. latina, Schizzo del padiglione di accesso agli scavi dell’ Artemision di Siracusa, 2010. 1 e. torres tur e J.A. Martínez lapeña, Acquarello della prima proposta progettuale per il restauro delle mura a Palma di Maiorca, 1983 (particolare). 159 1 G. deleuze, f. Guattari, Géophilosophie, in Qu’est-ce que la philosophie?, Les Éditions de Minuit, Paris 1991; tr. it. di A. de Lorenzis, Geofilosofia, in Millepiani, a. 0, n. 1, Mimesis, Milano 1993, pp. 9-34. 2 C. Raffestin, Territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione e informazione, in A. Turco (a cura di), Regione e regionalizzazione, franco Angeli, Milano 1984. TERRITORIALIZZAZIONI 160 3 f. Choay, L’allegorie du patrimoine, Seuil, Paris 1992; tr. it. di E. d’Alfonso, L’allegoria del patrimonio, Officina, Roma 1995, p. 119. Sul concetto di valore, nella stessa opera, cfr. pp. 78-82. 4 A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 82. 5 Ivi, p. 89. 6 Enciclopedia Italiana, www.treccani.it/enciclopedia/ patrimonio, “I beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili sono le due categorie nelle quali si distinguono i beni pubblici, ossia i beni che costituiscono il patrimonio pubblico. Questi beni sono pubblici non semplicemente perché sono di pertinenza di un ente pubblico, ma perché sono dall’ente destinati a finalità di natura pubblica, finalità che può essere o l’uso diretto e immediato del bene da parte dei singoli (beni di uso pubblico) o l’uso di essi da parte dell’ente stesso per l’esplicazione di attività pubblica”. 7 Il patrimonio comune sta al bene comune nello stesso rapporto in cui il concetto di bene sta a quello di patrimonio o quello di bene culturale sta a quello di patrimonio culturale. un testo molto utile sull’argomento è: u. Mattei, Beni comuni: un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011. 8 I beni comuni “sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future” Cfr. S. Rodotà, Il valore dei beni comuni, “La Repubblica”, 5 gennaio 2012. Più avanti: “ciò di cui si parla è un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, da tempo sostanzialmente affidato alla logica del mercato, dunque alla mediazione della proprietà, pubblica o privata che fosse. Ora l’accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società”. Sul tema specifico cfr. V. fedeli, Introduzione. Il progetto di territorio e paesaggio: appunti sui contributi presentati e discussi alla VII Conferenza SIU, in A. Lanzani e V. fedeli (a cura di), Il progetto di territorio e paesaggio. Cronache e appunti sui paesaggi/territori in trasformazione, Atti della vii Conferenza siu, franco Angeli, Milano 2004, pp. 12-25. Si veda in particolare il paragrafo “La natura di bene pubblico del paesaggio”. 9 Se si convenisse sul considerare il paesaggio epifenomeno del territorio, il disagio già registrato da fedeli e verificabile in tutta la letteratura su territorio e paesaggio dell’ultimo quindicennio e dimostrato da soluzioni pilatesche come l’uso dell’espressione paesaggigo/territorio, potrebbe dirsi superato. Il valore paesaggistico, pertanto, sarebbe un componente di ulteriore qualificazione del valore territoriale applicabile a parti di territorio esito particolarmente significativo dell’opera umana. che ha determinato una specifica forma di uso del valore stesso e si innesca un processo di perdita che può anche coinvolgere il valore stesso. Questo è quello che accade, ad esempio, se e quando la comunità o l’istituzione non riconoscono un paesaggio come valore: esso rimane alla mercé di modificazioni non controllate che possono anche distruggerlo, perdendolo per sempre. La declinazione del processo come creazione-dissipazione-riattribuzione di valore consente di spostare la riflessione sul concetto di patrimonio ampliando ulteriormente l’accezione estesa, elaborata una ventina d’anni fa da françoise Choay: La nozione di patrimonio urbano storico […] costituisce il punto d’arrivo di una dialettica della storia e della storicità che si gioca tra tre figure (o approcci) successivi, alla città antica. Chiamerò queste figure, rispettivamente, memorizzante, storica e storicizzante3. In questo caso non ci si limita al patrimonio culturale come definito dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma al “patrimonio territoriale”, a quell’insieme, cioè, di luoghi, di relazioni, di usi, di simboli coinvolti nel processo tdr, ovvero, per dirla con Alberto Magnagni, “il prodotto del processo storico di territorializzazione”4. In altre parole è il territorio in sé a essere patrimonio “da cui attingere per produrre ricchezza attribuendogli sempre nuovi valori come risorsa e continuando, attraverso nuovi atti territorializzanti, ad aumentarne il valore”5. L’utilizzazione delle tre triadi descrittive del fenomeno si presta a un ulteriore approfondimento poiché non si tratta di perfetti sinonimi, ma di cicli fenomenici ciascuno dei quali rappresenta uno slittamento semantico rispetto agli altri, in particolare in ambiti antropizzati da tempi immemori. La questione si gioca attorno al rapporto tra patrimonio e valore. Il patrimonio territoriale è concetto più esteso di quello di patrimonio pubblico, almeno nell’accezione di “complesso dei beni pubblici che appartengono a una persona giuridica pubblica”6. Esso infatti fa riferimento al territorio e, dunque, all’azione della/delle comunità sul suolo, che avviene indipendentemente dalla natura pubblica dell’attore e dell’uso pubblico del bene. In questo senso il territorio come esito del processo di territorializzazione si configura come patrimonio pubblico, o meglio della comunità o ancora, estendendo un’espressione che sta avendo un grande successo, come “patrimonio comune”7, in questo superando il concetto di “paesaggio come bene comune”8, in considerazione del fatto che il paesaggio deve essere considerato un epifenomeno del territorio9. Esso ha un valore “di accantonamento” nelle fasi storiche in cui non vi è un sistema in grado di utilizzarlo come risorsa che coincide con la fase di deterritorializzazione nella quale si affievolisce o si estingue il legame tra comunità e luogo. Si tratta della fase più delicata, per certi versi, poiché può accadere che la perdita della risorsa possa condurre a un completo disconoscimento di quel territorio come patrimonio tout court, premessa della sua dissipazione. Se, dunque, la cessazione di un sistema che utilizza quel patrimonio territoriale come risorsa costituisce una devalorizzazione e dà l’avvio alla successiva fase di deterritorializzazione, non è detto che quest’ultima necessariamente conduca alla sua completa dissipazione che ne costituisce, invece, la deriva patologica. Può essere utile, a questo punto della riflessione, fare riferimento a un caso concreto: la Sicilia centrale, l’altopiano gessoso-zolfifero esteso tra le attuali province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, è stato il luogo di produzione massiccia dello zolfo dall’inizio del xix secolo fino alla metà del xx. Poi l’impossibilità di concorrere con lo zolfo prodotto altrove con sistemi molto più economici non applicabili nel sottosuolo siciliano ha decretato l’abbandono dei giacimenti e la fine di una cultura legata alle miniere che aveva avuto un ruolo centrale nella società siciliana. dopo decenni di abbandono le miniere dismesse, le valli minerarie con le loro infrastrutture, gli edifici, le discenderie e i calcheroni cominciano ad essere riconosciuti come beni culturali e protetti da parchi o altre forme di tutela. La fase di deterritorializzazione viene dunque seguita da una nuova fase di presa di possesso delle comunità, riterritorializzazione, che viene avviata dagli intellettuali e attuata dalle istituzioni attraverso la istituzione dei perimetri di tutela e degli organismi incaricati della gestione. Ciò è stato possibile perché il patrimonio non è stato distrutto, è rimasto, appunto, accantonato, dunque potenzialmente disponibile. La fase di riterritorializzazione è conseguenza del riconoscimento a quel territorio di un valore nuovo, etnoantropologico, culturale, paesaggistico e, dunque, è innescata da una riattribuzione di valore. da qui ha inizio un processo di valorizzazione che è possibile perché a quel bene patrimoniale – che è patrimonio territoriale e non solo culturale – è stato attribuito un valore che può essere accresciuto e che può dare origine ad altri valori. Tra questi, un valore legato all’economia del tempo libero che lo utilizza come risorsa. Le miniere tornano, così, a produrre economia, lavoro, identità. Ciò è stato possibile – o sarà possibile poiché si tratta di una fase ancora in embrione – perché un patrimonio che, se non riconosciuto come tale, avrebbe potuto essere dissipato invece si è conservato (magari involontariamente e pure in condizioni di degrado) rimanendo a disposizione delle generazioni successive, rendendosi disponibile per nuovi atti di valorizzazione, attraverso la produzione di “nuovi atti territorializzanti che aumentano il valore del patrimonio territoriale attraverso la creazione aggiuntiva di risorse”10. Questo approccio, sul quale si è cominciato a riflettere nella metà degli anni ’70 del xx secolo, ma che è giunto a maturazione nel torno di fine secolo, non prescinde dalla valorizzazione delle identità locali e consente di perseguire un modello di sviluppo alternativo a quello, dominante, fortemente dissipativo e in genere, eterodiretto, usualmente definito “sviluppo locale”11. In particolare, l’approccio dal basso verso l’alto basa lo sviluppo locale sulla valorizzazione del patrimonio territoriale assumendo i valori locali (culturali, sociali, produttivi, territoriali, ambientali, artistici) come elemento principale dell’attivazione di uno sviluppo durevole. Il processo tdr così definito viene riferito sia alla longue durée per leggere, interpretare, comprendere gli esiti di millenni di uso del territorio studiato, sia alla 10 A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 89. 11 “L’elemento essenziale che lo contraddistingue è costituito dalla capacità dei soggetti locali di collaborare per produrre beni collettivi che arricchiscono le economie esterne, ma anche per valorizzare beni comuni, come il patrimonio ambientale e storico-artistico. La qualificazione del territorio è il presupposto per sostenere o far emergere iniziative locali, ma anche per attirare attività esterne che non si localizzino in una determinata area solo per vantaggi di costo, oggi sempre meno difendibili nei paesi più sviluppati”, C. Trigilia, Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. ix. 161 2 3 TERRITORIALIZZAZIONI 2 la villa del Casale in rapporto con il fiume Gela. 162 12 W. Kandisky, Point et ligne sur plan, folio Essais, Gallimard, Paris 2000, p. 35. courte durée per analizzare i fatti contemporanei e progettare nuovi processi di valorizzazione. Punto, linea, piano e costellazione ovvero bene, tracciato, territorio e sistema. “Il punto è un piccolo mondo a parte – isolato più o meno da tutti lati, e quasi estraneo al suo ambiente. L’integrazione al suo intorno è minima”12. Questa frase presa a prestito da Kandinsky fotografa l’estraneità al contesto in cui si è trovata la Villa Romana del Casale all’indomani della sua “scoperta”. Questo paradosso ha prodotto una immagine della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina come valore puntuale, riconosciuto da sistemi esterni ed eterodiretti, di un entroterra siciliano debole privo di altri valori territoriali. Così, se da un lato la semplificazione per la quale si tende a spiegare la Sicilia a partire dalla dicotomia tra un territorio forte costituito dall’anello costiero e un territorio debole costituito dall’entroterra isolano ha alimentato l’incapacità di leggere la Villa Romana del Casale quale eccellenza di un territorio punteggiato di valori, intessuto da tracciati storici e naturali e denso di aree rilevanti, dall’altro la stessa società locale non è stata capace di ampliare il proprio sistema identitario ed economico a partire da quella eccellenza. Il valore non è diventato fino in fondo risorsa. Eppure essa è intimamente connessa con il fiume Gela che è stato una delle “autostrade di civiltà”13 che hanno consentito, in Sicilia, nelle diverse epoche storiche, o l’accesso alle civiltà giunte via mare verso l’interno, ovvero il contrario: 4 la discesa verso la costa di civiltà che, occupata la Sicilia, si sono insediate sui crinali. Ed è anche connessa con il sistema viabilistico romano e, in particolare, con l’itinerarium Antonini. dunque, un bene eccezionale (punto), che riappare dal passato in un territorio contemporaneo (piano), pensato e riscritto non tenendone conto. Rileggere le relazioni nascoste o quasi scomparse che, incomprensibili secondo logiche contemporanee, riacquistano senso all’indomani della “scoperta” è la sfida che si pone la ricerca. Centrale in questo processo è la presenza di tracciati (linee) che attraversando il territorio, lo dividono, ne collegano punti, vi determinano relazioni, vi creano punti di vista privilegiati. Queste linee, “…traccia[e] del punto in movimento e quindi suo prodotto”, nascono dal movimento e si oppongono “all’immobilità suprema del punto”14. Esse – naturali o antropiche, strutturanti o qualificanti, antiche o contemporanee, esistenti o di progetto –, innervano il territorio definendo i caratteri del processo di riterritorializzazione che viene avviato da una lettura della Villa Romana del Casale in integrazione, ovvero come parte integrante, del territorio che la contiene, un punto che da “piccolo mondo a parte” diventa parte importante di quel territorio, innervato dal fiume Gela, in cui convivono sistemi lineari – tracciati storici, fiumi, crinali, percorsi panoramici – e complessi (costellazioni) – mulini, masserie, sorgenti, abbeveratoi ecc. – fortemente strutturanti e qualificanti. 3 il fiume Gela. 4 la villa del Casale nel suo contesto territoriale degli anni ’50. 163 13 f.C. nigrelli, La villa Romana del Casale: il segno di una svolta, in C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura di), I piani territoriali paesaggistici nella provincia di Enna, “urbanistica Quaderni”, 53, xi, pp. 137-139. 14 W. Kandisky, Point et ligne sur plan, cit., p. 67. TERRITORIALIZZAZIONI “decodificare” [questo territorio] vuol dire identificare i segni dello spazio fisico, estrarli dalle loro stratificazioni, ordinarli e ricomporli in sistemi che siano oggi significativi. nel corso di questo processo è necessario “comprendere”, ma anche “immaginare” sul filo di ipotesi immaginate plausibili: ciò è progettare15. 164 15 G. de Carlo, L’isola di Sant’Elena nella Laguna di Venezia, in Territory and Identity, Maggioli, Rimini 1998. La chiave di lettura attraverso queste quattro figure geometriche, individuata nell’ambito delle riflessioni interne al gruppo di ricerca prin consente, dunque, di ricostruire le fasi di territorializzazione della valle del Gela, individuando gli esiti delle crisi e gli indizi delle nuove fasi di presa di possesso come presa di coscienza e riconoscimento di valore, successiva riterritorializzazione e creazione di nuovi valori: dalla fondazione della città greca al suo abbandono sulla costa; dalla centralità del latifondo romano innervato sull’itinerarium Antonini alla decadenza postimperiale; dalla stasi altomedievale alla ricolonizzazione bassomedievale succeduta alla pulizia etnica subita dalle popolazioni islamiche a opera dei normanni dell’xi secolo, via via fino al xx secolo e alla proiezione nel futuro come luogo culturale dell’eccellenza riconosciuto dall’unesco. Tale chiave si rivela utile anche per comprendere le fasi succedutesi in un lasso di tempo molto più breve – diciamo gli ultimi sessanta anni o, al più gli ultimi centoventi, che definiscono rispettivamente la fase storica che inizia con la definitiva messa in luce della Villa Romana del Casale e la sua crescente visibilità come meta turistica, ovvero la fase in cui, a seguito di parziali scoperte, inizia la riflessione sul valore dei rinvenimenti. Ma c’è di più: la Villa-punto ha modificato il sistema gerarchico dell’area-piano, ha già deformato il sistema infrastrutturale-linee preesistente in maniera non pianificata e può essere inserita, finalmente in maniera consapevole, all’interno di un sistemacostellazione, quello costituito dal patrimonio territoriale della Valle del Gela e, più in generale, della Sicilia centro meridionale diventando origine e occasione di un progetto locale che sia anche un progetto di territorio a scala vasta, con una serie di approfondimenti alla scala del progetto urbano o del progetto di architettura. Così il Parco territoriale del fiume Gela, non previsto nella normativa regionale siciliana, estensione concettuale, prima che di superficie, del Parco archeologico della Villa del Casale, recentemente oggetto di ripensamenti, tentennamenti, ambiguità da parte dell’Amministrazione regionale, diventa proposta di un nuovo assetto territoriale in cui la già importante infrastrutturazione “pesante”, viene affiancata da una infrastrutturazione “dolce”, che consente una risalita dalla costa alla sorgente e una discesa dalle colline al mare, anabasi/catabasi, come mezzo per una nuova territorializzazione che ha inizio dalla riscoperta del fiume come unità, la sua acquisizione come patrimonio identitario delle comunità insediate lungo il corso, da Piazza a Gela, passando per Mazzarino. Il nuovo progetto di identità e la visione richiedono interventi puntuali in ambito urbano e non, coerenti con le strategie di attuazione della visione stessa e che rendano concreto il processo di riterritorializzazione/riattribuzione di valore che vede la comunità locale aprirsi alla comunità internazionale, forte di una nuova consapevolezza di sé e del suo patrimonio territoriale, ma aperta. Così i sistemi di accesso ai centri storici di crinale, la interpretazione dell’area archeologica come luogo del welfare ben al di là dell’uso turistico, la rifunzionalizzazione di mulini e altri beni isolati, devono essere accompagnati dalla valorizzazione delle attività agricole, ma, soprattutto, da una costante attività di animazione culturale volta agli abitanti prima ancora che agli ospiti. Si tratta, dunque, di una visione che immagina un nuovo ruolo per questa parte del territorio siciliano attribuendole una funzione trainante nello sviluppo dell’intera Sicilia centro meridionale, in cui il Parco non è più il luogo della tutela/conservazione dei beni archeologici, ma l’individuazione di una unità territoriale la cui definizione deriva proprio dal riconoscimento del processo tdr e dalla volontà consapevole di procedere attraverso una nuova fase R in cui la Villa, le altre aree archeologiche, i centri storici, i beni isolati, ma anche le aree agricole e le piccole città sono trattati come costellazione di risorse e non solo come valori astratti. uno sguardo obliquo. All’interno della ricerca: Paesaggi dell’Archeologia, Regioni e Città Metropolitane. Strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e la trasformazione, il tema dell’unità di ricerca di Catania: “dalla Villa Romana del Casale al Parco territoriale del fiume Gela. Strategie per il governo delle trasformazioni territoriali”, costituisce una specificità da diversi punti di vista. Il primo: l’area non è interna o prossima a contesti metropolitani e non è soggetta a particolari pressioni trasformative. Il secondo: il bene archeologico che innesca la riflessione non è noto o disponibile da tempi lunghissimi (come l’Appia o i Campi flegrei), ma è venuto sistematicamente alla luce solo nel secondo dopoguerra. Il terzo: all’interno dell’area oggetto di studio, la maggior parte delle aree archeologiche o d’interesse archeologico è stata individuata, ma non scavata, dunque non se ne conoscono esattamente limiti e consistenza. Vi è poi una ulteriore specificità: l’unità di ricerca non è costituita da compositivi o archeologi, ma da urbanisti e pianificatori che con i temi dell’archeologia e dei parchi si sono confrontati, sia dal punto di vista scientifico che da quello operativo, nel quadro della pianificazione comunale o di area vasta. Queste specificità consentono di offrire alla ricerca un contributo laterale, obliquo rispetto a quello dichiarato nel titolo della ricerca che è quello del progetto urbano come strumento per garantire la tutela e consentire la trasformazione controllata. La scala di riflessione, quella territoriale in un territorio a bassa densità di antropizzazione, consente di avventurarsi in un campo, quello dello sviluppo locale, a partire da un nuovo disegno interscalare basato sul patrimonio territoriale, che può configurarsi come proposta metodologicamente generalizzabile. In origine l’obiettivo assegnato è stato quello del superamento della lettura urbanistica del sito archeologico, a vantaggio di una lettura paesaggistica che, andando oltre la nozione di vincolo e di recinto archeologico, potesse individuare nuovi percorsi di contestualizzazione dell’area archeologica della Villa Romana del Casale all’interno di un ipotizzato Parco territoriale e archeologico della Villa del Casale e dell’alto 165 5 TERRITORIALIZZAZIONI 5 Carta delle permanenze storico culturali del territorio di Piazza Armerina. 166 corso del fiume Gela. Quella scelta è resa oggi ancora più attuale dall’intervenuta riforma amministrativa che pone all’ordine del giorno il superamento degli enti intermedi (le province) titolari della pianificazione di area vasta e potrebbe portare, finalmente, alla unificazione degli atti di pianificazione sovracomunale, superando l’assurda dicotomia tra pianificazione territoriale e pianificazione paesaggistica. Il seminario tenuto a Piazza dal 6 al 9 settembre 2012, intitolato Territorializzazioni ha coinvolto alcuni ricercatori che hanno messo a disposizione del gruppo di ricerca le loro riflessioni su temi di carattere generale connessi con gli obiettivi assegnati all’unità di ricerca, ma utili alla più generale riflessione all’interno del gruppo prin. Maurizio Carta, da parte sua, sviluppa una riflessione sulle nuove frontiere delle creative cities, le città, cioè, che hanno fatto della creatività, della cultura, lo strumento per rigenerarsi e per conquistare nuovi ruoli e nuovo rango nelle gerarchie urbane nazionali e internazionali. Egli individua una nuova fase che chiama “città creAttiva” o città creativa 3.0 nella quale alla creatività urbana viene affidato il compito di generare nuove economie e nuova città e non semplicemente di attrare risorse intellettuali. La riflessione di Carta rappresenta un punto di fuga assai proficuo per ragionare anche su territori a bassa urbanizzazione e “saltati” dallo sviluppo fordista. Se, infatti, in ambito urbano cresce il ruolo delle città medie come nodi dell’armatura di città dell’innovazione culturale che tende a coprire a rete l’intero pianeta, allora lo stesso ruolo possono svolgere territori con una forte identità, anche se gli insediamenti urbani hanno dimensioni modeste, purché con una forte predisposizione a costruire e ampliare il loro milieu creativo. un tale processo, parallelo e duale a quello eminentemente urbano e incentrato su grandi e medie città costituirebbe, peraltro, un contributo essenziale a politiche di riequilibrio volte e ridurre la sempre forte polarizzazione urbana e metropolitana. Alessandra Badami, collocando correttamente la nascita del paesaggio siciliano come topos culturale nel quadro del Grand Tour, dunque della percezione dell’isola da parte di viaggiatori esterni dotati di un’ampia cultura classica, ripercorre le tappe degli strumenti creati nel corso del tempo per la sua tutela, riferendosi, in special modo, al paesaggio archeologico. Riflette poi sullo strumento del parco archeologico e sulle sue diverse interpretazioni e declinazioni ribadendo come, qualunque sia lo strumento normativo, organizzativo e di governance utilizzato, la valorizzazione del patrimonio culturale non coincide con la massimizzazione turistica, [ma] coincide con la massima diffusione della loro conoscenza che si realizza quando dalla ricerca si passa alla divulgazione, quando dall’informazione si passa alla formazione. Lo strumento normativo e di tutela del territorio come quello del Parco diventa uno degli strumenti che consentono o facilitano la riterritorializzazione, ma, ancora di più, la creazione di nuovo valore concorrendo a implementare il percorso di sviluppo locale. Si tratta di una riflessione che viene utilmente integrata da quella, derivata da esperienze militanti, che a scala più ampia propone Francesco Martinico. 6 Egli racconta un’esperienza di pianificazione paesaggistica che riguarda ampie parti del territorio siciliano, una delle quali comprende anche la valle del fiume Gela e l’area della Villa del Casale, con lo scopo di contribuire, operativamente, alla costruzione di un nuovo apparato normativo che dovrà tenere conto dell’evoluzione del concetto di paesaggio. Con questa visione strategica l’elaborazione dei piani paesaggistici ha avuto come obiettivo anche quello del superamento dell’idea tradizionale di vincolo attraverso la individuazione di parametri di tutela come “regole destinate a sovraintendere ad una trasformazione territoriale che contemperi l’idea di sviluppo con quella di sostenibilità, tenendo in adeguata considerazione anche le fragilità di un territorio”. In questo caso un’avanzata elaborazione di uno strumento di pianificazione poco utilizzato in Italia, potrebbe rappresentare una chiave di volta per individuare percorsi canonici di riattribuzione di valori come avvio di nuove forme di sviluppo locale basate proprio sul patrimonio territoriale. Gli esiti, tuttavia, al momento mostrano un ritardo delle istituzioni e delle élite politiche rispetto a questi percorsi. nasce proprio dalle riflessioni ingenerate dal seminario di Piazza Armerina il saggio di Vito Martelliano che coraggiosamente propone un salto di qualità nel rapporto archeologia-paesaggio-territorio a partire da una parte colpevolmente incompiuta della scavo archeologico: la socializzazione e l’appropriazione da parte delle comunità dell’esito della scoperta e dello scavo. Il superamento delle logiche e delle visioni settoriali viene proposto attraverso 6 F. Minissi, Progetto delle opere di protezione dei mosaici della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina. 167 TERRITORIALIZZAZIONI l’individuazione di tre componenti del “territorio dell’archeologia”: il divenire memoria; il bene memoria; la relazione memoria. E attraverso quest’ultima, in particolare, si prendono in considerazione le connessioni che legano un bene memoria agli altri beni memoria e ai possibili usi attuali oltre che al territorio che li ha prodotti. nell’articolazione delle relazioni memoria, identificata in prima approssimazione nel saggio, sta la chiave per quello che viene definito il “progetto olistico del territorio dell’archeologia” e, in ultima analisi l’ipotesi di utilizzare la cifra del territorio come Key Factor del processo di riterritorializzazione della scoperta archeologica. 168 The tdr process of territorialisation, deterritorialisation and reterritorialisation is put forward as a planning instrument in places characterised by high historical and cultural density. It allows us to go beyond the concept of an archaeological site and even beyond the concept of an archaeological park. until now, both have been considered invariable elements and, as such, static places, set up in line with the concept of openair museums, while in actual fact they are intangible values and, at the same time, dynamic places that change and impose change day after day, poised between what they have been in the past, what they are now and what they will become in future. The article proposes the application of the tdr approach in a process of enhancement – de-enhancement – re-enhancement that seems to make the relationship between method, object and objectives clearer and a process of value creation-dissipation-reattribution that allows us to shift our attention to the concept of heritage, expanding the idea of “cultural heritage” until it becomes “territorial heritage”. ‘Taking possession’ is understood as a phase that assigns value to the features that make up the geographic space involved, in intangible rather than economic terms, starting with symbolic values. This phase is followed by a phase where values are turned into resources, a phase that occurs when an economic, cultural, social and symbolic system is constructed on the basis of that value. The focus of the project is not an archaeological site, nor cultural heritage as generally understood, but rather “territorial heritage”, i.e. the combination of the places, relationships, uses and symbols involved in the tdr process. ultimately, the territory itself is heritage and is the depository of values and resources that should be used in local development processes. This wider concept is the central feature of this analysis, as the work done by a community on the land occurs irrespective of the public nature of the player involved and the public use of the asset involved. Thus it is the territory – and not the landscape, its epiphenomenon – that should be considered “a common good” in the wider meaning that this concept has today. The Villa Romana del Casale case study is analysed using the interpretation perfected as part of the prin (Research Projects of national Interest) research project, which identified the geometric shapes of Point, Line, Plane and Constellation as a possible key to interpretation, used here to reconstruct the tdr process’s phases in the Gela valley. On the basis of these observations, we go beyond the concept of an archaeological park, replacing it with the concept of a Gela river territorial park, as a proposal for a new territorial arrangement where “heavy infrastructurisation” – which is already present to a significant degree – is flanked by “light infrastructurisation” that will allow us to travel up from the coast to the river’s source and travel down from the hills to the sea, encouraging a new territorialisation, starting with the rediscovery of the river as a single geographic entity, the basis for all the rest. This is identified as an instrument that can aid the realisation of a vision that sees a new role for this part of Sicily, seeing it as a driver for the development of the whole of central-southern Sicily, starting with the values/resources that make up its territorial heritage. tHe teRRitoRiAl HeRitAGe ABSTRACT 169 lA RiteRRitoRiAliZZAZioNe dellA sCoPeRtA ARCHeoloGiCA dAL BENE MEMORIA ALLA RELAZIONE MEMORIA Vito Martelliano L’archeologia è scienza che cerca le tracce dell’antico nel palinsesto contemporaneo. L’archeologo, scavando nel supporto fisico della terra, va a ritroso nel nostro passato “disegnando” ciò che è stato, fissa nello spazio alcuni frammenti e li proietta nel futuro. In questo guardare all’antico proiettandosi nel futuro, se la presenza archeologica rappresenta il significante e lo scavo lo strumento d’indagine più evidente, la scoperta è l’atto fondativo della ricerca archeologica. La scoperta, fortemente cercata o casualmente verificatasi, è innanzitutto l’atto di grande generosità con cui alcuni uomini portano a conoscenza dell’intera società manufatti, fatti, aspetti e pratiche che il tempo aveva contribuito a velare facendone perdere il ricordo. Scoprire significa disvelare una verità, significa riappropriarsi di qualcosa fino a quel momento negata, significa concorrere a ridefinire l’identità di una comunità, significa aggiungere e modificare la sostanza culturale di una società. La scoperta determina uno spaesamento che Mario Manieri Elia chiama estraneazione di tipo archeologico “nel senso del rapporto con l’oggetto di scavo, riemerso da interramento che era oblio reale, e perentoriamente presente a intercettare la continuità delle relazioni ambientali”1 e Aldo Schiavone “rapporto archeologico” inteso come distanza difficilmente colmabile2. dopo la scoperta niente è come prima. Ogni scoperta è un “rauma”, marca una discontinuità all’interno del territorio in cui avviene, impone una riflessione sui cambiamenti possibili, induce a rimettere in gioco strategie e obiettivi spesso consolidati e stimola una innovazione nel palinsesto territoriale, se non fisica, perlomeno di senso. Il “trauma” diventa ancora più evidente quando la scoperta è casuale, quando il valore ritrovato impone di ridefinire scelte e priorità, quando la necessità della tutela del bene si incontra/scontra con pratiche d’uso del suolo consolidate o ampiamente pianificate. La storia è piena di casi in cui la scoperta archeologica viene avversata e 1 F. venezia, Schizzo di studio del Teatrino all’aperto di Salemi, 1986. 171 1 M. Manieri Elia, Topos e progetto – temi di archeologia urbana a Roma, Gangemi, Roma 1998, p. 20. 2 A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e occidente moderno, Laterza, Roma-Bari 1999. 2 3 TERRITORIALIZZAZIONI osteggiata e i valori culturali e identitari ritrovati vengono contrapposti ai potenziali valori economici e innovatori negati. L’atto “rivoluzionario” della scoperta archeologica travalica l’ambito del valore culturale. Se per la ricerca archeologica la scoperta è il fine ultimo della necessaria trasformazione del contesto attraverso il lavoro di scavo, per l’urbanistica essa è l’inizio per una necessaria modifica del palinsesto territoriale. Essa ha una carica innovativa che è capace di generare una mutazione “genetica” del territorio che è al contempo culturale, urbanistica, economica e sociale. 172 Governare il territorio dell’archeologia. Amministrare e gestire la sequenza di scoperte archeologiche, vuol dire governare e pianificare il territorio dell’archeologia individuando strategie per un prima, un durante e un dopo. Se la gestione di un sito archeologico è legata alla definizione di campagne d’indagine programmate dipendenti da logiche tutte interne alla disciplina archeologica e la logica interventuale in un territorio potenzialmente archeologico è strettamente legata alla pratica dell’archeologia preventiva quale prassi consolidata per la definizione di nuovi interventi, allora la strategia di gestione del post “trauma” si declina nella tutela e valorizzazione delle evidenze archeologiche fisicamente ritrovate, nel governo dei territori ancora presumibilmente portatori di ulteriori scoperte e nel controllo delle relazioni che si innescano e danno senso culturale, territoriale e paesaggistico, al ritrovamento archeologico. Questo approccio ci permette di individuare nel territorio dell’archeologia tre componenti: – il divenire memoria; 4 – il bene memoria; – la relazione memoria. 2 Jean Houel, teatro greco di taormina, 1776-1779. 3 teatro greco di taormina, 1934. 4 teatro greco di taormina, 2004. Con divenire memoria s’intende quel territorio potenzialmente e probabilmente contenitore di beni archeologici che attendono solo di essere scoperti e restituiti al presente. Con bene memoria si intende quella presenza archeologica restituitaci dal passato attraverso lo scavo archeologico, indipendentemente dal livello di riconoscimento e dal valore culturale che la società le attribuisce. Con relazione memoria si intende quella connessione che lega un bene memoria agli altri beni memoria, ai suoi fruitori, ai modi d’uso e alle funzioni dello stesso, agli elementi del paesaggio, alla cultura e alla società che lo ha generato. Il primo sistema tratteggia il potenziale – troppo spesso erroneamente interpretato in termine di rischio archeologico –, il secondo sistema rappresenta il reale – ossia il materiale archeologico –, il terzo sistema individua l’intangibile – ossia l’immateriale archeologico. Ed è proprio questa commistione tra potenziale, reale e intangibile che caratterizza il territorio dell’archeologia e lo rende culturalmente stimolante e progettualmente difficile. Se la mappatura in carte archeologiche della sostanza archeologica, e in alcuni casi delle potenzialità archeologiche, è prassi codificata – anche se non ampiamente diffusa – la rappresentazione dell’intangibile è del tutto aleatoria e spesso declinata in termini di sola narrazione. Ciò che è evidente è il differente grado di percezione di questi tre elementi. Mentre la presenza archeologica è visibile a tutti e la potenzialità archeologica è conoscen- 173 5 TERRITORIALIZZAZIONI 5 estratto da: tav. IV, Topografia Archeologica di Siracusa ordinata dal Ministero della Pubblica Istruzione ed eseguita nel 1880-81 dal Dr. Ing. Francesco Saverio Cavallari con l’assistenza dell’ingegnere Cristoforo Cavallari, Palermo 1883. 174 3 M.A. Teti, Il futuro della ricerca archeologica e della tutela in ambito urbano e territoriale nel bacino del Mediterraneo, in M. Giovannini, d. Colistra (a cura di), Le città del Mediterraneo, Kappa, Roma 2002, p. 395. 4 Per quanto riguarda la nozione di paesaggio si rimanda a A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997. za ultraspecialistica per pochi, l’immateriale archeologico è relegato al sottinteso, all’involontario, all’inconsapevole e, per questo, spesso ignorato. L’intangibilità del territorio archeologico ci sembra materia complessa, non perché difficile da comprendere, ma in quanto ardua da gestire. Ciò, indipendentemente dai valori in gioco, ne rende difficile la tutela. un esempio può aiutare a chiarire il concetto proposto. Il Teatro greco di Taormina, il cui valore è universalmente riconosciuto, ha nel panorama che si staglia oltre la scena un chiaro esempio di relazione memoria. Il Teatro, in gran parte ricostruito, ha nella permanenza delle originarie connessioni percettive con il mare, la costa e l’Etna un valore assoluto che lo rende unico e irripetibile. Cosa accadrebbe se la costa subisse una imponente alterazione antropica, quale ad esempio la costruzione di un insediamento industriale? La relazione memoria sarebbe irrimediabilmente compromessa e il bene memoria pur conservato nel migliore dei modi vedrebbe irrimediabilmente ridurre il suo valore. nasce quindi il bisogno di definire percorsi possibili che tengano in debita considerazione non solo l’evidenza archeologica ma anche l’intangibile archeologico. L’affermarsi dell’approccio “paesaggistico” verso gli spazi aperti nell’ambito urbanistico, geologico, naturalistico e il sempre maggior interesse degli archeologi verso la relazione tra sito e contesto ha fatto sì che “le trame e le strutture storiche vengano recepite, da queste e da altre categorie di studiosi, come interconnesse con le trame ambientali e quindi sempre più spesso il ragionamento sulla fisicità del territorio viene correlato a quello relativo alla storicità del territorio”3. La nozione di paesaggio4 permette quindi l’avvicinamento dei due punti di vista e implicitamente sancisce il superamento del concetto di limite del recinto archeologico e la sua non riducibilità alla solo realtà fisica. Proprio quest’ultimo aspetto allarga i contorni della riflessione inserendo il tema della gestione del territorio dell’archeologia in un contesto paesaggistico che non può limitarsi alla sola tutela archeologica, ma deve imporre il superamento delle obsolete categorie interpretative dell’archeologia urbana – estraniazione, alterità, museificazione, musealizzazione – a vantaggio di un agire olistico che guardi alla“presa di possesso” culturale del bene memoria come azione inserita in un più ampio processo di riterritorializzazione. le relazioni memoria. Centrale nel processo di gestione del territorio dell’archeologia è il sistema delle relazioni memoria, in quanto rete di connessioni nello spazio e nel tempo tra beni memoria, territorio e fruitori. Le relazioni memoria non sono corollario del territorio dell’archeologia. Esse sono quei fattori che gli danno senso, che fanno si che l’insieme dei beni memoria non sia percepito come congerie di frammenti del passato. Senza l’attenzione dovuta a questo sistema non è possibile attuare quel processo di presa di coscienza, che risulta indispensabile per il riconoscimento dei valori archeologici da parte della società. Come è possibile riconoscere un valore identitario al Teatro greco di Siracusa quando ne è negata perfino la vista con alte recinzioni opache che hanno solo il preciso scopo di imporre il pagamento di un biglietto. È questo il modo di attuare la tutela di un bene archeologico e di trasformarlo in valore condiviso di una città? Per queste ragioni è opportuno approfondire questa riflessione. In essa vi è la possibilità d’innescare il processo di riterritorializzazione dell’evidenza archeologica. Il sistema di relazioni memoria intesse la propria rete di connessione in quattro distinti ambiti individuando i seguenti gruppi: – – – – relazioni memoria di tipo spaziale; relazioni memoria di tipo temporale; relazioni memoria di tipo percettivo; relazioni memoria di tipo culturale. All’interno di ciascun gruppo è, a sua volta, possibile individuare in funzione degli elementi che determinano la connessione tre possibili caratterizzazioni: – il nesso bene memoria – bene memoria; – il nesso bene memoria – fruitore; – il nesso bene memoria – territorio. Questa schematizzazione ci permette di individuare la maglia di relazioni memoria e quindi proporre il disegno di diagrammi relazionali e mappe selettive del territorio dell’archeologia che facciano emergere l’intangibile archeologico. Le carte archeologiche ci restituiscono la disposizione nello spazio dei beni memoria ma niente ci dicono sulla rete di relazioni memoria. L’utilizzo di diagrammi relazionali di tipo dinamico, che ben si adattano a rappresentare sistemi complessi, e la realizzazione di mappe selettive che evidenziano singole relazioni memoria, rappresentando questo sistema aggiungono un tassello alla conoscenza dell’archeologia e definiscono continui rimandi alla dimensione territoriale, imponendo una riflessione sul concetto di limite del territorio dell’archeologia. nella definizione del limite è individuabile la maggiore criticità dell’agire archeologico. Infatti, se è relativamente chiaro individuare il margine del sito che racchiude l’insieme dei beni memoria, se è ipotizzabile determinare tramite indagini d’archivio, introspezioni puntuali o il censimento dei ritrovamenti superficiali, i confini del territorio in divenire memoria, la definizione dei limiti delle relazioni memoria sfugge a qualsiasi strumento attualmente utilizzato in quanto, per propria natura, queste sono in grado di travalicare qualsiasi limite fisico, temporale, percettivo e culturale. Questa difficoltà è maggiormente evidente per siti archeologici che si trovano in contesti non urbanizzati. un caso esemplare è l’area archeologica di Morgantina. È inimmaginabile separare la tutela dell’imponente sistema urbano di Morgantina da quella del sistema di relazioni che intesse con il territorio circostante e che ne giustifica l’originaria scelta localizzativa e ne testimonia il ruolo predominante in ambito territoriale e culturale. Ciononostante, il sito archeologico ha un limite che seppur esteso non è certo capace di “tenere assieme” questo complesso sistema di relazioni memoria. Queste considerazioni ci impongono la necessità di riflettere sul senso di limite di un sito archeologico e sugli strumenti che materialmente disegnano questi limiti. 175 6 TERRITORIALIZZAZIONI 6 Area archeologica di Morgantina. 176 5 A. Carandini, Urbanistica, architettura, archeologia, “urbanistica”, 88, 1987, pp. 10-12. 6 Ibid. Approccio olistico e territorio dell’archeologia. L’archeologia, ricercando i segni dell’antico, e l’urbanistica, pianificandone il futuro utilizzo, pur operando da sempre sul medesimo campo d’azione hanno concepito autonome riflessioni sulla presenza archeologica all’interno del palinsesto territoriale. Trovare una sintesi tra queste logiche è stato spesso complicato e ha richiesto la messa a punto e l’utilizzo di strumenti specifici tra cui emerge la carta archeologica quale strumento di conoscenza, il vincolo archeologico quale strumento di tutela e salvaguardia, il parco archeologico quale strumento di valorizzazione. Questi tre strumenti hanno assunto il ruolo di mediatore tra il punto di vista dell’archeologo e quello dell’urbanista, prestandosi a slittamenti e forzature che spesso hanno acuito i problemi e trasformato il “territorio dell’archeologia”, in un mondo a parte, sottraendolo al contesto d’appartenenza. un processo di estraniazione che troppo spesso si è trasformato in decontestualizzazione fisica e mancanza di riconoscimento identitario da parte di quella stessa società che secoli prima l’aveva prodotto. All’approccio archeologico ultraspecialistico ed elitario, spesso autoreferenziale, è mancata l’interpretazione del territorio (anche quello con archeologia) come risultato di una stratificazione in cui il valore risiede nella totalità del processo stesso e non solo in un singolo strato per quanto importante. Il rischio, usando le parole di Andrea Carandini, è che “le nostre rovine sono nella stragrande maggioranza del tutto incomprensibili per il pubblico”5 e ciò perché “l’archeologo opera su un corpo che conosce da un punto di vista fisico, ma che ignora dal punto di vista sociale e culturale, specie per quanto attiene al presente. Ciò comporta che egli non tenga in debito conto che l’aspetto distruttivo inerente lo scavo deve essere compensato da un risarcimento che possa essere apprezzato come un vantaggio dalla comunità dei viventi”6. La visione olistica propria delle discipline territorialiste è il valore aggiunto che deve impregnare l’agire nei territori dell’archeologia e permettere il superamento della dicotomia tra strumenti e termini dell’archeologia e dell’urbanistica. Alla base di questo progetto olistico del territorio dell’archeologia vi è il progetto del sistema delle relazioni memoria inteso quale progetto culturale che sottende al progetto di valorizzazione del sito. Esso è l’essenza stessa del processo di riterritorializzazione della scoperta archeologica. una buona pratica di progetto delle relazioni memoria è quella attuata per le Domus romane di Palazzo Valentini a Roma curato da Piero Angela e da un gruppo di tecnici ed esperti quali Paco Lanciano e Gaetano Capasso. La sovrapposizione e interazione tra usi attuali – l’edificio è la sede della provincia di Roma – e bene memoria ha innescato una virtuosa strategia d’intervento che attraverso il sapiente uso delle tecnologie informatiche permette al visitatore non soltanto di guardare le evidenze archeologiche ma di comprendere a pieno le relazioni memoria spaziali, temporali, percettive e culturali tra i frammenti visibili, disvelando pratiche, usi e atmosfere antiche con un approccio didattico scientifico e rigoroso. Il pericolo connesso a questa pratica può essere legato all’(ab)uso delle tecniche di realtà virtuali tale da “creare una sorta di ‘Jurassic Park’ dell’archeologia”7, ossia di trasformare questi luoghi della memoria in meri parchi tematici che tendono a “consumare” l’archeologia. Il pericolo che si corre è che queste tecniche vengano usate non per comprendere meglio l’evidenza archeologica riportata alla luce, ma diventino esse stesse prodotto culturale autonomo rispetto al bene memoria. In questi anni abbiamo visto proliferare iniziative in cui attraverso l’utilizzo della realtà virtuale vengono offerte ricostruzioni di contesti archeologici, tra cui ricordiamo Roma, Pompei e ultimamente Siracusa. Ciò che preoccupa è che attraverso queste tecniche possa essere messo in discussione il concetto di finitezza e irriproducibilità del bene memoria e allontanata la necessità dell’esperienza diretta e del contatto fisico con le “pietre” dell’archeologia. Il progetto per Palazzo Valentini a Roma non rientra in questi casi, ma il rischio che tali comportamenti possano innescarsi è forte. Può la relazione memoria, che dà senso e valore al bene memoria, essere considerata bene archeologico e in quanto tale soggetta a vincolo archeologico? Le relazioni memoria danno forma all’intrinseca matrice relazionale del territorio archeologico in cui il tangibile archeologico è spesso frammentario ma non sono, in quanto tali, archeologia. Esse appartengono a una dimensione sovraordinata a quella archeologica. Esse appartengono alla più inclusiva e aggregante dimensione paesaggistica e rivestono un ruolo essenziale per leggere il territorio dell’archeologia. Questo vuol dire che forse riflettere sulle relazioni memoria nei soli termini archeologici è insufficiente per operare nei territori dell’archeologia. Quindi se ha senso parlare di vincolo archeologico per tutelare un’area con preminenza di evidenze archeologiche è altrettanto chiaro che non ha senso parlare di parco archeologico8 tout-court, perché in tale strumento è affermata una specializzazione che nei fatti non può esserci a meno di non svuotare il territorio dell’archeologia dalle relazioni memoria. un sito che si confronta positivamente con questo tema è la Valle dei Templi di Agrigento. Infatti, l’istituzione nel 2000 del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento9 – che già nel nome autorizza a ben sperare – inquadra alla giusta scala la valenza archeologica estendendosi per circa 1300 ettari, trova 7 7 Area archeologica di Morgantina. 7 R. nicolini, I parchi archeologici: L’oro della memoria, in A. Bianchi (a cura di), Le città del Mediterraneo, Jason Editrice, Reggio Calabria 2001, p. 127. 8 In ambito nazionale il Testo unico 29 ottobre 1999, n. 490, ha proposto all’articolo 94 la seguente definizione: “si intende per parco archeologico l’ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come museo all’aperto in modo da facilitarne la lettura attraverso itinerari ragionati e sussidi didattici”. Come correttamente osservato all’interno delle Linee Guida dei Parchi Archeologici Siciliani. Il sistema dei parchi archeologici: “Questa definizione di parco archeologico sembra rispecchiare anche l’enunciato di cui all’articolo 134 del decreto legislativo 112/1998, secondo cui “sono beni ambientali, quelli individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell’ambiente nei suoi valori naturali o culturali”. In pratica il legislatore tende a accomunare i due concetti di parco come bene culturale e parco come bene ambientale in un’unica definizione di “patrimonio culturale” che racchiude in sé la duplice esigenza della conservazione e della pubblica fruizione del bene stesso e fa emergere la sua funzione sociale e culturale.” 9 La Regione Siciliana con la legge regionale 20/2000 ha istituito il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento. 177 capacità innovatrice, creativa ed economica nella definizione di una struttura organizzativa dotata di autonomia gestionale e amministrativa, e alimenta la “presa di possesso” culturale e identitaria dell’archeologia e il continuo dialogo con il territorio10. In tale logica risulta interessante riflettere su una nozione di “territorio dell’archeologia” che interpreti i beni memoria a partire dalle relazioni memoria e quindi dai corsi dei fiumi – che da semplici elementi naturali hanno rappresentato nella storia corridoi di civilizzazione –, dalla orografia dei territori – fattore determinante per la scelta insediativa –, dalle sovrapposizioni/interazioni di usi e pratiche nello spazio e nel tempo – che determinano adattamenti del bene memoria –, dai legami tra colonie e sub-colonie – che spiegano rimandi tecnologici e culturali –, dall’evoluzione del quadro percettivo “dell’archeologia” e “dall’archeologia” –11 che più di altri tratteggia il cambiamento nell’approccio sociale e culturale all’archeologia –, dai percorsi storici – che, nati come sistemi infrastrutturali, hanno sedimentato e stratificato lungo i margini sistemi insediativi compatti e isolati diventando, in taluni casi, essi stessi beni memoria12. 8 TERRITORIALIZZAZIONI 8 il tempio della Concordia nel Parco Archeologico e Paesaggistico della valle dei templi di Agrigento. 178 10 Si veda, P. Meli, Ente Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi, in AA.VV., Antichi sotto il cielo del Mondo. La gestione dei parchi archeologici. Problemi e tendenze, Atti del Colloquio internazionale promosso dalla Quinta commissione consiliare “Attività culturali e Turismo” del Consiglio Regionale della Toscana, Impruneta (firenze), 25 – 26 ottobre 2007, Tipografia Consiglio Regionale della Toscana, firenze 2008. 11 Si veda, V. Martelliano, Il Castello Eurialo. Dall’assedio cartaginese all’assedio siracusano, in G. dato (a cura di), Da Beirut a Noto. Patrimonio archeologico e pianificazione urbanistica. Studi e ricerche nei paesi del Mediterraneo, Biblioteca del Cenide, Cannitello 2005, pp. 218-243. 12 L’elenco delle possibili piste d’indagine è solo indicativo e certamente non esaustivo, ma esplicita le possibili relazioni memorie di tipo spaziale, temporale, percettivo e culturale. 13 E. Morin, La sfida della complessità, Le Lettere, firenze 2011. Il progetto del territorio dell’archeologia deve saper decodificare, attuare procedure selettive e riterritorializzare ciò che appare estraneo, instabile e contradditorio; come sottolinea Edgar Morin “la complessità ci richiede di pensare senza mai chiudere i concetti”13 attraverso un processo organizzativo piuttosto che aggiuntivo. Il progetto di riterritorializzazione è declinato in termini di processo nel quale la definizione delle trasformazioni fisiche non è un dato concluso, ma piuttosto il risultato di un divenire, le cui tracce permangono come elementi aperti. Il processo produce possibili configurazioni piuttosto che forme concluse. A questo scopo il diagramma delle relazioni memoria non si utilizza solo come mezzo di rappresentazione della conoscenza archeologica, ma anche come strumento generativo del piano/progetto in grado di accogliere slittamenti di senso e ibridazioni culturali concorrendo alla definizione del processo progettuale. L’opportunità che ci si prospetta è pertanto quella di indagare le possibilità offerte dallo strumento diagrammatico come generatore del progetto olistico attraverso un processo non lineare, ma piuttosto di tipo relazionale e sistemico. Archaeology is a science that searches for the traces of the ancient in the contemporary palimpsest, The archaeologist, digging into the physical support of the ground, goes back into the past, “drawing” what once was, fixes some fragments in space, and projects them into the future. In this act of looking at the ancient while projecting into the future, the archaeological presence represents the significance, the excavation is the study instrument, and the discovery is the founding act of the archaeological research. After the discovery, nothing is as it was before. Every discovery is a “trauma”, it marks a discontinuity within the territory where it occurs, imposes a reflection on the possible changes, brings back into play strategies and consolidated objectives, and stimulates an innovation in the territorial layout, at least of sense if not physical. The “revolutionary” act of the archaeological discovery goes beyond the sphere of cultural value. While for archaeological research the discovery is the ultimate end of the transformation of the context by means of the excavation, for urban planning it is the beginning for a necessary change of the territorial layout. Management of the sequence of archaeological discoveries means the governance and planning of the territory of the archaeology, identifying strategies for a before, during, and after. While the management of an archaeological site is connected with the definition of planned study campaigns and the intervention logic in a potentially archaeological territory is closely tied to the practice of preventive archaeology, the “post-trauma” management strategy consists of the protection and enhancement of the archaeological structures physically found, the governance of the territories bearing further discoveries, and the control of the relationships which are triggered and give a cultural, territorial, and landscape sense to the archaeological find. This approach allow us to identify three components in the archaeological territory: the memory “becoming”, the memory “asset”, and the memory “relationship”. The first system outlines the potential, the second represents the real, and the third identifies the intangible. It is this mixture of potential, real, and intangible that characterizes the territory of archaeology; the need arises to define new paths that consider the archaeological intangible. Of central importance in the process of managing the archaeological territory is the system of memory relationships, as a network of connections in space and time among memory assets, territory, and users. Memory relationships are not a corollary of the archaeological territory. They are those factors that give it meaning, that ensure that the memory assets as a whole are not perceived as a jumble of fragments of the past. Without the necessary attention to this system, it is not possible to implement the system of awareness raising that is indispensable for recognizing archaeological values by society and the startup of the process of reterritorialization of the archaeological remains. tHe Re-teRRitoRiAliZAtioN oF ARCHAeoloGiCAl disCoveRies fROM MEMORY AS An ASSET TO MEMORY AS A RELATIOnSHIP ABSTRACT 179 ARMAtuRe CultuRAli di sviluPPo RIGEnERAZIOnE uRBAnA E POLITICHE CuLTuRALI Maurizio Carta Pianificare un pianeta urbano. Abitiamo un “pianeta urbano” in cui più della metà della popolazione vive nelle città, con valori che in Europa raggiungono l’80%. Il consolidamento della città come forma prevalente dell’abitare il mondo ne assegna sempre più il ruolo di growth machine dello sviluppo, motore dell’evoluzione e del dinamismo delle comunità, generatrice di stili di vita innovativi1. Le città si propongono come potenti attrattrici della popolazione non solo dalle zone rurali, ma sempre più dalle altre città ed un poderoso flusso di “classe creativa” le attraversa e ne alimenta la rigenerazione e la competitività2. Tuttavia, esaurita la prima fase in cui il dinamismo si identificava con la presenza della classe creativa – con un fin troppo facile sillogismo – oggi appare necessaria l’evoluzione del concetto, individuando i fattori che permettono alla creatività urbana di diventare generatrice di nuove economie e creatrice di nuova città e non semplice attrattrice di risorse intellettuali3. La città creativa diventa icona della contemporaneità, retorica ricorrente per disegnare visioni, definire politiche e guidare progetti e sono sempre più numerose le città – con una rapida crescita nei paesi emergenti – che mirano a dotarsi di cultural hub in grado di renderla più vivibile e maggiormente attrattiva e dinamica. nell’attuale situazione di crisi – ormai non più solo finanziaria – con il pil mondiale in calo e con il ripensamento dei modelli di sviluppo e dei profili di welfare, anche la città soffre di crescenti spinte antiurbane che ne frammentano la configurazione e ne dissipano l’energia, indebolendone il ruolo4. Anche i poderosi flussi di capitali finanziari, sociali e relazionali che hanno alimentato la rigenerazione urbana nell’ultimo quindicennio non sono più disponibili ad essere intercettati in maniera indiscriminata, come sembrava fino a solo pochi anni fa. La rigenerazione delle città non è più facile mercato delle plusvalenze finanziarie delle multinazionali o dei fondi sovrani, ma la stessa città creativa dovrà essere motore di sviluppo sostenibile, offrendo preziose occasioni di sviluppo non solo quantitativo, ma sem- 1 R. Collovà, Schizzi di ambientamento e di studio, salemi 1982. 181 1 urban Age Group, Towards an Urban Age, Lse, London 2006. 2 R. florida, I. Tinagli, Europe in the Creative Age, demos, London 2004. 3 M. Carta, Creative City. Dynamics, Innovations, Actions, List, Barcelona 2007. 4 S. Boeri, Anticittà, “Abitare”, 513, 2011. 2 3 TERRITORIALIZZAZIONI 2 Grafico 3t + 3C Creative City. 3 Grafico Città CreAttiva. 182 5 I. Begg (a cura di), Urban Competitiveness. Policies for Dynamic Cities, Policy Press, Bristol 2002. 6 Oecd, Your Better Life Index, Oecd, Paris 2011. 7 M. Carta, Creative City 3.0. New scenarios and projects, “Monograph.it”, 1, 2009. 8 A. Bonomi, La città che sente e che pensa. Creatività e piattaforme produttive nella città infinita, Electa, Milano 2010. pre più qualitativo, producendo effetti sia nel dominio dei beni collettivi che nel dominio dei capitali privati, offrendo un campo di sperimentazione all’innovazione. Le città più dinamiche del futuro prossimo, tuttavia, non saranno solo le megalopoli capaci di attrarre iconici progetti urbani alimentati dal mercato immobiliare e “decorati” dalla cultura, ma saranno quelle città medie, detentrici di poderose risorse culturali e identitarie e capaci di metterle a base non solo della creazione di nuova cultura, ma soprattutto della generazione di nuovi valori urbani. Il recente rapporto sulle City 600 del McKinsey Global Institute (2011), cioè sulle città mondiali che più contribuiscono alla crescita del pil globale, ospitando un quinto della popolazione e generando il 60% dell’economia, mostra l’emergere di un fenomeno interessante: le 23 megalopoli produrranno solo il 10% della crescita globale, mentre il 50% della propulsione sarà prodotto dalle 577 middlecities, le piccole capitali globali che si alimentano della loro cultura e creatività. Il secolo urbano non è abitato solo dalle hypercities, ma mostra anche l’emergere di metropoli intermedie, di conurbazioni diffuse e di reti di mesopoli: soprattutto in Europa, all’armatura delle “città globali” si sta affiancando quella delle città di secondo livello produttrici di visioni alternative – qualitativamente fondate e culturalmente alimentate – rispetto alle patologie delle megalopoli5. Oggi il paradigma della città creativa chiede un ulteriore salto evolutivo – il terzo – perché sia capace di continuare a produrre gli effetti moltiplicativi e rigenerativi sullo sviluppo urbano. La Città Creativa 3.0 non si limita ad essere una categoria interpretativa degli economisti e dei sociologi (la prima generazione), o una retorica del progetto urbano (la seconda generazione), ma chiama all’azione i decisori e chiede un vigoroso impegno politico e progettuale poiché solo sulle città che affronteranno creativamente il global change finanziario si misurerà lo sviluppo delle nazioni e il benessere delle comunità. Secondo il nuovo Better Life Index elaborato dall’ocse, nei prossimi 20 anni i settori dominanti dell’economia non saranno le automobili, le navi o l’acciaio, ma l’industria del benessere6. un impegno indifferibile per governanti e gestori, pianificatori e progettisti, promotori e comunicatori, imprenditori ed investitori sarà quello di creare città che siano luoghi desiderabili dove vivere, lavorare, formarsi e conoscere, luoghi produttivi ed attrattivi per gli investimenti. nella terza generazione della città creativa nuovi fattori competitivi sono la Cultura capace di attivare le risorse sia identitarie che innovative, la Comunicazione come potente strumento strategico e la Cooperazione in grado di stimolare la comunità ad un processo di corresponsabilizzazione7. In tale scenario di città fondate sulla loro armatura culturale e capaci di interpretare le dinamiche del mutamento, diventa necessario non solo comprendere come esse stiano cambiando, ma soprattutto riconoscere il ruolo degli “agenti di creatività” nel loro sviluppo, e della stessa creatività urbana come fattore primario dell’evoluzione delle comunità e dello sviluppo economico. La città deve tornare a “generare valore” a partire dai propri capitali territoriali, culturali, sociali e relazionali, riattivando il rapporto tra creatività e capitalismo manifatturiero8. In opposizione alla spinta proveniente dagli scenari globali sopra descritti nelle regioni europee in ritardo di sviluppo agiscono alcune ulteriori criticità locali, che nell’attuale periodo di crisi si trasformano in gravi emergenze. Tali criticità possono essere riassunte in quattro zeri che nella loro estrema sintesi sono un’efficace rappresentazione della questione: – il primo zero riguarda l’assenza di risorse pubbliche strutturali disponibili nei bilanci delle amministrazioni locali per interventi di rigenerazione urbana, di recupero di aree dismesse e per sostenere la riqualificazione ambientale e la conservazione dei suoli agricoli; – il secondo zero riguarda l’attuale moltiplicatore degli investimenti per gli interventi in qualità degli edifici e degli spazi pubblici il quale è drammaticamente inesistente, inefficace o anestetizzato; – il terzo zero è relativo al mancato utilizzo degli incentivi fiscali o amministrativi messi in atto dalle amministrazioni locali per facilitare l’intervento dei privati o per incentivare gli insediamenti in aree di recupero piuttosto che nuovo consumo di suolo; – il quarto zero mostra la redditività integrata della filiera degli interventi realmente prodotta dalla valorizzazione delle risorse ecologiche e culturali. Il quadro analitico ci mostra una sconsolante somma di zeri, portando molti amministratori, pianificatori, attuatori ed imprenditori a sostenere che non sia più possibile ottenere dalle politiche urbane culture-based gli effetti rigenerativi che hanno accompagnato gli anni pre-crisi9. Le politiche culturali europee sono prossime ad un vero e proprio “infarto”10: l’offerta cresce sempre di più, mentre la domanda effettiva diminuisce ed i costi lievitano. Si è prosciugato il fiume di denaro pubblico che per decenni è stato riversato su musei e teatri, su fondazioni e convegni, su rassegne e associazioni anche per alimentarne la capacità di generare e sostenere la creative city11. E in tempi di bilanci pubblici in pre-default occorre trovare soluzioni prima che l’aridità prenda il sopravvento trasformando le nostre città nel deserto culturale. Abbiamo l’obbligo di ripensare il modello di sviluppo delle politiche urbane culture-driven, ricordando che il sistema della produzione culturale e delle creative industries è un vero e proprio meta-settore nella “terza rivoluzione industriale”, capace di concorrere al 7% del pil mondiale e del 2,6 di quello europeo, con un elevato moltiplicatore degli investimenti12. La soluzione deve essere drastica e lungimirante al tempo stesso, riportando la questione nell’arena pubblica: ridurre gli interventi dall’alto per ridistribuirli secondo nuovi criteri non assistenziali e ridurre i sussidi, affidandosi a metodi più seri e rigorosi. diventa indispensabile quindi una adeguata ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato, non limitandosi a spostare la soglia di separazione tra l’uno e l’altro a favore ora del pubblico ora del privato, nei fatti chiudendoli entro confini impermeabili che concorrono alla deresponsabilizzazione. Occorre invece sperimentare nuove forme di politiche culturali condivise in cui il pubblico si impegni in ambiti che non garantiscono sicuri margini di profitto, ma che siano indispensabili per garantire i diritti di accesso e per alimentare l’innovazione; mentre 9 G.A. Carlino, A. Saiz, Beautiful city: Leisure amenities and urban growth, federal Reserve Bank of Philadelphia Working Paper, 08-22, September 2008. 10 d. Haselbach, A. Klein, P. Knüsel, S. Opitz, Kulturinfarkt. Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura, Marsilio, Venezia 2012. 11 urban Affairs, V. Patteeuw (a cura di), City Branding: Image Building and Building Images, Rotterdam, nai Publishers, Rotterdam 2002. 12 European Commission, kea , The Economy of Culture in Europe, 2006. 183 TERRITORIALIZZAZIONI il privato deve sostenere attività affini ai suoi settori d’intervento rendendo disponibile know-how e fornendo capitali per lo sviluppo di segmenti culturali strategici, capaci di incrementare il rendimento sociale delle politiche culturali. Significa anche non guardare solo al privato imprenditore, ma sempre più spesso al privato cittadino, indispensabile arcipelago di valorizzazione, sostegno e controllo. 184 13 R. Lloyd, Neo-Bohemia. Art and Commerce in the Postindustrial City, Routledge, new York 2006. 14 C. Landry, The Art of City Making, Earthscan, London 2007. 15 M. Carta, Città creativa 3.0. Rigenerazione urbana e politiche di valorizzazione delle armature culturali, in M. Cammelli e P.A. Valentino (a cura di), Citymorphosis. Politiche culturali per città che cambiano, Giunti, firenze 2011. la creatività come progetto urbano. L’impegno per il progetto della nuova città creativa è chiaro: passare dalla città passiva “attrattrice” dei lavoratori della conoscenza13 alla città creativa “produttrice” di nuova identità, di nuove economie della conoscenza ma anche di nuove geografie sociali. Occorre passare da una visione della città creativa essenzialmente finanziaria in cui si attraggono investimenti da capitali prodotti altrove ad una visione progettuale in cui la creatività genera nuovi assetti, morfologie ed attività produttive alimentate dalla neo-borghesia dei flussi e delle reti. Potremmo definirla la Città CreAttiva per sottolinearne le capacità generatrici di soluzioni, catalizzatrici di culture e motrici di economie. Tuttavia la creatività urbana non può essere solo un comodo mantra, ma occorre chiedersi se tutte le città possono utilizzare efficacemente i suoi fattori, se tutte possono ambire ad essere un nodo dell’armatura di città dell’innovazione culturale che reticola il pianeta14. Solo una rigorosa individuazione e valutazione del milieu creativo può consentire di attivarne le risorse, utilizzandone il codice genetico per generare la Città CreAttiva. L’impegno è quindi quello di “attivare la città” attraverso strategie, politiche e progetti che sappiano interagire moltiplicando gli effetti e producendo dinamismo, innovazione e trasformazione urbana. Possiamo individuare sei assi strategici da perseguire perché la creatività si trasformi in un necessario moltiplicatore delle risorse urbane15. Il primo asse richiede di adottare un approccio transcalare capace di combinare un ambizioso approccio olistico e globale con un necessario approccio operativo e locale in grado di selezionare gli strumenti più efficaci per conseguire risultati concreti: l’integrazione tra visioni di futuro e risposte ai problemi è oggi l’arena più importante e la frequente adozione di piani strategici integrati con progetti urbani è una delle soluzioni che sta producendo risultati di maggiore interesse. In secondo luogo una città creativa deve attivare ed alimentare la sua funzione di commutatore territoriale intercettando le energie di flussi, di persone, di know-how e di capitali che attraversano il pianeta e di trasformarle in risorse locali. A maggior ragione nell’attuale periodo di crisi e a fronte della riduzione di tali flussi, il rafforzamento della funzione commutativa delle città deve avvenire sempre di più attraverso la stipula di patti, accordi strategici e processi di co-pianificazione in grado di far interagire le diverse risorse urbane, soprattutto quelle fondate sui caratteri distintivi, connettendo l’economia dei flussi con la produttività dei distretti. Terzo, le città creative, per la loro intrinseca matrice culturale, devono garantire l’equilibrio tra la conservazione dell’identità e la promozione dell’innovazione attraverso l’uso di piani d’interpretazione e di piani strutturali che sappiano caratte- rizzare la competitività con un sapiente gioco di “invarianti” e “condizionanti” che siano in grado di alimentare un progetto urbano non solo efficace e di qualità, ma soprattutto in empatia con il palinsesto storico e con la ricchezza e la specificità del capitale culturale. Il quarto asse di creatività consiste nell’incentivazione di soluzioni progettuali capaci di alimentare la diversità urbana – culturale, sociale, etnica e funzionale – in un mix fecondo di linguaggi, usi e stili di vita, che sfugga alla ripetizione manierista dei progetti delle “archi-star” e che invece produca soluzioni creative alimentate dal talento dei luoghi piuttosto che da quello dei progettisti. Anche il ricorso a politiche di genere o generazionali deve tendere a ridurre la conflittualità sociale e generare il necessario senso di cooperazione, potenziando, ad esempio, l’utilizzo di politiche dei tempi e degli orari e di pratiche di community planning che sfuggano alla pura retorica della partecipazione per attivare nuovi stili di vita. un ruolo fondamentale è oggi giocato dagli urban center e dai laboratori di quartiere e dalla connessione del progetto urbano con il sistema formativo e della ricerca, il quale deve sempre più assumere il ruolo di agente creativo della città. Il quinto asse riguarda la promozione di processi decisionali multiattore e multilivello (multilevel governance), capaci di essere sia razionali, organizzando le risorse materiali, che istintivi, mobilitando le risorse umane e relazionali. Occorrono sempre più processi capaci di far interagire competitività e coesione sociale, attraverso un equilibrio dell’operatività del “piano del sindaco” con la cooperazione delle Agende 21 Locali. numerose città, ad esempio, hanno saputo catalizzare in maniera vincente i grandi eventi attraverso la capacità di realizzare in tempi brevi aree di riqualificazione urbana utilizzate come “attivatori creativi” delle qualità locali. Infine, l’ultimo asse del progetto di creatività urbana chiede che le trasformazioni avvengano alimentando la cooperazione, integrando le diverse comunità sociali distribuite nella città nei processi di valorizzazione in un vero e proprio processo strategico e cooperativo, ma anche mettendo insieme ottiche e settori di intervento solitamente separati. un campo di sperimentazione di crescente interesse è quello rivolto alla sostenibilità ambientale, in cui la creatività diventa un potente strumento per riattivare il “metabolismo urbano” in cui input e output delle città trovino un nuovo equilibrio tra efficienza energetica e qualità ambientale, tra riduzione dei consumi e aumento del benessere. L’impegno progettuale verso la città creativa richiede di non limitarsi alla identificazione dei caratteri del milieu creativo, ma ci sfida a ricercarne declinazioni locali utili ad estrarre buone pratiche da utilizzare come metodologie o da trasformare in componenti per forgiare i nuovi strumenti di rigenerazione urbana fondata sull’armatura culturale. In tale ottica, le aree di trasformazione urbana, oltre al recupero della qualità fisica, ambiscono a diventare veri e propri “cluster creativi”, in cui le iniziative economiche, sociali ed infrastrutturali, a partire dalle attività preesistenti, siano in grado di realizzare progetti innovatori16, implementati all’interno di adeguate strategie pianificate di sviluppo locale fondate sulla soft and experience economy prodotta dalle qualità territoriali e dalle eccellenze locali17. E nell’attuale ricerca di concrete 185 16 M. G. Caroli (a cura di), I cluster urbani, Il Sole24Ore, Milano 2004. 17 B.J. Pine ii, J.H. Gilmore, The Experience Economy, Harvard Business School Press, Boston 1999. 4 TERRITORIALIZZAZIONI 4 Île de Nantes, immagine ortografica. 186 18 Institute for Metropolitan and International development Studies, Accommodating Creative Knowledge – Competitiveness of European Metropolitan Regions within the Enlarged Union, university of Amsterdam, Amsterdam 2006. 19 Société d’Aménagement de la Métropole Ouest Atlantique. politiche di impulso per uscire dalla crisi, gli investimenti in creatività dovranno essere più efficaci, perdendo alcune connotazioni troppo immateriali o puramente speculative ed acquistando la solidità degli effetti sul sistema socio-economico locale, perché sappia trasferirle al contesto globale. L’economia impantanata nella palude di una crisi senza fine potrà utilizzare lo swing power della città creativa: quel valore aggiunto che produce un effetto di accelerazione della sua potenza inerziale e che è in grado di utilizzarla come una cultural growth machine capace di agire contemporaneamente lungo le reti globali e sui territori locali. È soprattutto necessario agire sul capitale sociale, non solo in termini di miglioramento della qualificazione del mercato del lavoro ma soprattutto incentivando l’autoimprenditorialità e i reticoli associativi, in modo da facilitare la trasformazione verso i settori delle creative industries. Anche l’intensità e la prossimità delle relazioni tra i soggetti istituzionali e i portatori di interessi che agiscono nel cluster sono un fattore del suo successo, che richiede un’offerta adeguata di “luoghi” e “condizioni” che facilitino il manifestarsi di tali occasioni. In questo senso, lo sviluppo di luoghi di prossimità e di relazione, e la promozione di eventi culturali, sportivi o di loisir rappresentano una condizione importante per il rafforzamento del capitale sociale tra gli attori che costituiscono il distretto18. Nantes, una metropoli eco-creativa. nel panorama europeo delle città medie in competizione virtuosa per sperimentare il nuovo paradigma della Città CreAttiva emerge nantes per chiarezza di visione, qualità degli esiti e lungimiranza delle prospettive che nel 2013 le hanno valso il titolo di European Green Capital. nantes si distingue per l’innovazione delle politiche pubbliche integrate e partecipative: la mobilità, le azioni per il clima, la gestione dell’acqua e la valorizzazione delle aree naturali attivano e alimentano un costante e dinamico dialogo con la cittadinanza dei 24 comuni dell’area metropolitana. Il percorso non è recente, perché negli ultimi anni la capitale della Loira ha lanciato, attraverso Nantes Métropole, una grande sfida per il ripensamento del modello di sviluppo attraverso l’avvio di numerose iniziative nel segno della sostenibilità ecologica, della innovazione digitale e della valorizzazione culturale, ma soprattutto investendo nella dimensione culturale ed ecologica per generare nuova forza-lavoro e nuovi luoghi del lavoro, e proponendosi come strumento per una “terza via” dell’economia tra statalizzazione e privatizzazione incontrollata. Più rilevante ai fini delle riflessioni precedenti è il grande programma di rinnovamento urbano dell’Île de Nantes: un’isola di 337 ettari nel cuore della città, una ex zona industriale e portuale un tempo molto vitale e propulsiva e poi destinata al declino. dagli inizi del xxi secolo questo territorio è oggetto di uno dei più grandi progetti urbani in Europa per costituire una nuova centralità urbana contenente un mix di abitazioni e servizi pubblici, ma soprattutto nuove attività produttive e commerciali caratterizzate dalla innovazione tecnologica, dalla creatività e dalla sostenibilità e capaci di alimentare le politiche pubbliche. Per l’attuazione del progetto nel 2003 è stata creata la samoa19, una società mista per la redazione di un masterplan fondato su tre assi principali: la priorità degli spazi pubblici, la valorizzazione della Loira e soprattutto la valorizzazione dell’eredità culturale, integrata nella stessa sostanza dei nuovi spazi pubblici e dei nuovi edifici. L’intervento è caratterizzato da alcuni dati dimensionali che ne testimoniano la rilevanza: 337 ettari nel centro della città di nantes per una lunghezza massima di 5 Km immersi nella Loira; 13.000 abitanti e 15.000 lavoratori coinvolti; una potenzialità edificatoria di circa 850.000 mq, divisi tra alloggi (550.000 mq), attività e servizi (300.000 mq) che arriveranno a 1.500.000 mq nel 2030; 150.000 mq di infrastrutture locali e metropolitane e 160 ettari di nuovi spazi pubblici o recuperati; 3 linee di trasporto pubblico dedicate e 12 km di passeggiata lungo la Loira; infine una mixité di funzioni urbane: residenza (di cui il 20% di social housing), attività economiche, istituti di ricerca e accademie, negozi, trasporti pubblici, servizi sociali, attività culturali e per il tempo libero. Entro il grande progetto di rigenerazione dell’Isola, il vero propulsore per la città eco-creativa è il Quartier de la Création: 9 ettari dedicati alle industrie culturali e creative, fusione di cultura, formazione, arte, tecnologia, ricerca e imprese. Il progetto prende avvio nel 2009 nella punta occidentale dell’isola di nantes, ed è basato su una visione chiara: concentrare nello stesso luogo istituzioni educative e di ricerca ed imprese agevolandone le spinte di innovazione e di creazione. Le parole chiave dell’intervento sono “formazione”, “cultura” e “impresa”, concretizzate dalla presenza dell’università attraverso la nuova Ecole Nationale Supérieure d’Architecture, e di numerosi istituti di formazione come l’Ecole des Beaux Arts, Sciences Com, l’Ecole de Design e l’Ecole des Métiers de l’imprimerie. Anche la configurazione architettonica degli edifici concretizza il carattere aperto e condiviso del quartiere: la nuova sede della facoltà di Architettura, progettata dagli architetti Lacaton e Vassal recuperando un edificio industriale in vetro, cemento e acciaio grezzo, è uno spazio aperto e flessibile circondato da una rampa che conduce ad un ampio terrazzo con vista sulla Loira. Anche il Pôle des Arts offre, su una superficie di 11.000 mp, uno spazio per liberare la creatività degli allievi delle scuole di arti applicate, offrendola permanentemente alla città e contribuendo alla “perturbazione culturale” della metropoli. Elemento di rilievo del distretto è l’edificio Eurêka, ai margini dell’area, agente come un potente motore economico. L’edificio, ormai un’icona del quartiere, è sede della samoa e contiene un incubatore d’impresa dedicato allo sviluppo delle industrie innovative e creative. Infine, nella punta occidentale dell’Isola, i numerosi capannoni industriali e i grandi magazzini per lo stoccaggio sono stati trasformati in un parco urbano di 13 ettari: con spiaggia, solarium, prati digradanti verso il fiume, giardini e luoghi del loisir. Editoria, creazione di contenuti digitali, design, multimedia, architettura, comunicazione, arte, media, arti visive: numerose sono le industrie culturali e creative già presenti sull’isola a cui presto se ne affiancheranno altre, attratte dalla forza magnetica del luogo e dalle economie di scala prodotte dalla presenza del cluster. La combinazione di numerosi creative player sullo stesso sito si propone di sviluppare nuove attività, favorendo la nascita di nuovi progetti nati dall’incontro tra 5 5 Nantes, quartier de la Création. 187 artisti, operatori culturali, studenti, ricercatori e imprenditori. Riuniti in un cluster saranno in grado di scoprire, condividere, costruire relazioni e sviluppare nuove idee, combinando competenze e approcci diversi. Hub tra istruzione, ricerca, sviluppo economico e attività culturali, il distretto della Creatività di nantes è il risultato di una politica culturale ventennale, ma è anche un nuovo punto di partenza per la nuova era. nantes ambisce infatti a diventare una delle capitali europee dell’industria culturale e creativa e l’ambizione del Quartier de la Création è quello di mantenere il territorio in uno stato di costante perturbazione creativa e di proiezione internazionale attraverso la forza propulsiva generata dalla cooperazione tra imprenditori e titolari di progetti creativi. Attraverso una costante tensione a costruire ponti tra le arti, la cultura, la scienza e la tecnologia, l’economia e l’educazione, una integrazione tra i talenti e gli abitanti, nantes vuole diventare una metropoli creativa e sostenibile: un esempio concreto di eco-creative city, dove il prefisso “eco” fa riferimento al contributo integrato dell’ecologia e dell’economia. TERRITORIALIZZAZIONI In conclusione, città creativa ed identità dei luoghi, economia dell’esperienza e qualità della vita, pianificazione strategica ed efficace governance non sono solo nuove parole chiave per guidare i processi di sviluppo delle città, ma si propongono come strumenti integrati per riattivare l’organismo urbano e ricodificarne il dna culturale, mettendo in gioco risorse concrete e procedure innovative nel governo delle città, ma al contempo alimentando le visioni di futuro del pianeta urbano. Per parafrasare Antoine de Saint-Exupéry: se devi costruire una città creativa, non radunare uomini per raccogliere pietre e distribuire compiti e non usare l’oro per comprare l’equipaggio. Ma trasmetti loro l’irresistibile seduzione e la potente energia della creatività. 188 We live on an “urban planet” where more than half the population lives in cities, with values arriving up to 80% in Europe. The consolidation of cities as the prevailing form of living in the world attributes it more and more the role of a development growth machine, an engine of the evolution and dynamism of the communities, a generator of innovative lifestyles. Cities propose themselves as powerful attractors of population not only from rural areas, but more and more frequently from other cities, and a huge “creative class” flow crosses through them and fuels their regeneration and competitiveness. The creative city becomes an icon of contemporariness, a recurrent rhetoric for drawing visions, defining policies, and guiding projects; and there is an continuing increase in the number of cities – growing rapidly in emerging countries – that aim to endow themselves with cultural hubs capable of making them more liveable, attractive, and dynamic. Today the paradigm of the creative city requires another evolutionary leap – the third – for it to be able to continue to produce multiplicative and regenerative effects on urban development. The Creative City 3.0 does not limit itself to being an interpretative category of the economists and sociologists (the first generation), or a rhetoric of the urban plan (the second generation), but calls to action the decision makers and asks for a vigorous political and planning commitment, because only on the cities that will creatively tackle financial global change will the development of the nations and prosperity of communities be measured. An unpostponable commitment for rulers and operators, planners and designers, promoters and communicators, entrepreneurs and investors will be that of creating cities that are desirable places to live, work, train, and learn in, productive and attractive places for investments. In the third generation of the creative city, new competitive actors are Culture, capable of activating both identity-related and innovative resources, Communication as a powerful strategic instrument, and Cooperation capable of stimulating the community toward a process of co-empowerment. The commitment for the project of the creative new city is clear: to pass from the passive city that “attracts” knowledge workers to the creative city that “produces” a new identity, new economies of knowledge, but also new social geographies. It is necessary to go from an essentially financial vision of the creative city in which investments from capital produced elsewhere are attracted, to a forward-thinking vision in which creativity generates new arrangements, morphologies, and production activities fuelled by the neo-bourgeoisie of the flows and networks. We might call it the CreActive City, to stress its capacity to generate solutions, culture catalysts, and economy motors. CultuRAl suPPoRtiNG FRAMeWoRKs FoR develoPMeNt. uRbAN ReGeNeRAtioN ANd CultuRAl PoliCies ABSTRACT 189 SICILIA 1 MitoPoiesi del PAesAGGio ARCHeoloGiCo siCiliANo LA VALORIZZAZIOnE dEL PATRIMOnIO PAESAGGISTICO E CuLTuRALE Alessandra Badami 1 veduta della valle dei templi, Agrigento. TERRITORIALIZZAZIONI La parte più a sud d’Italia, che gode di un clima più mite che il resto di essa, e trovandosi molto vicino a quella parte del cielo sotto il quale si trova anche la Grecia, è popolata da uomini di forme superbe e vigorosamente progettate, che sembrano essere stati fatti, per così dire, ai fini della scultura1 190 la nascita del paesaggio in sicilia. La Sicilia si trova molto vicina “a quella parte del cielo sotto il quale si trova anche la Grecia”2. un’immagine dell’isola scolpita da Winckelmann che sintetizza in modo straordinariamente efficace i caratteri del paesaggio siciliano. un paesaggio mediterraneo, solare, ferace, ma anche aspro, violento, remoto. un paesaggio costruito nell’immaginario e celebrato attraverso le descrizioni e le rappresentazioni dei viaggiatori del Grand Tour, attratti in Sicilia proprio dai testi di Winckelmann. Mentre fino alla fine del xvii secolo i viaggiatori non trovarono interesse a spingersi oltre napoli3, preferendo mete come Roma, firenze, Milano, Torino, che offrivano la possibilità di approfondire interessi scientifici specializzati sulla Cultura romana imperiale e il Rinascimento italiano, considerate come vette di un’evoluzione culturale e artistica, con la pubblicazione nel 1764 di Storia dell’arte dell’antichità Winkelmann storicizza l’opera d’arte e la contestualizza come esito di evoluzioni stilistiche al cui vertice egli colloca, in modo assiomatico, l’arte greca. Winckelmann progettò il suo viaggio in Sicilia per studiare dal vero le architetture e le opere d’arte di matrice greca, viaggio che non riuscì mai a realizzare. Il suo allievo Johann Hermann von Riedesel intraprese il viaggio nell’isola nel 1767 per poi pubblicare nel 1771 il suo Viaggio attraverso la Sicilia e la magna Grecia, con la prefazione del maestro: all’interesse suscitato dalla pubblicazione seguì l’estensione dell’itinerario del Grand Tour al meridione d’Italia e alla Sicilia4. I luoghi più visitati dell’isola furono Messina (non ancora distrutta dal terremoto del 1908), l’Etna e le Isole Eolie (l’ascesa al cratere come esperienza dell’orrido e del sublime), Siracusa, Segesta, Selinunte e Agrigento (la fruizione diretta delle architetture elleniche), Mothia e Lilybaeum (la presenza fenicia) e Palermo5. Gli scritti dei primi viaggiatori settecenteschi che raggiunsero la Sicilia produssero itinerari, immagini6 e stereotipi destinati ad essere moltiplicati dai viaggiatori successivi: attraverso questo meccanismo di moltiplicazione si costruì il percorso classico dell’isola che divenne uno degli strumenti guida per la conoscenza e la lettura del territorio7. I viaggiatori del Grand Tour rappresentarono il Sud riproponendo molti dei caratteri rilevati per il paesaggio italiano in generale, ma restituendoli amplificati, quasi esasperati. Il paesaggio del Sud non era solo il costrutto di una diversa cultura, veniva percepito come lontano dal presente, una zona spazio/temporale di confine tra l’Europa e il mondo antico: si è spesso pensato di possedere qualità associate con tutta Italia, ma in misura maggio- re. Il Sud è stato da una parte più arretrato e incivile, dall’altro più naturale e pittoresco […]. Più a sud si viaggia, più lontano ci si muove dall’età contemporanea8. Il paesaggio della Sicilia affascinava per i suoi eccessi e i suoi contrasti. Tra i topoi classici della letteratura odeporica emergono tre temi ricorrenti: il contrasto tra la bellezza e la rigogliosità di una natura generosa e la rozzezza primitiva degli uomini, che esprimeva anche il crescente divario tra la cultura dell’Europa nord-occidentale più avanzata e l’arretratezza del Sud; un presente misero e decadente in contrasto con la memoria ancora viva e pulsante della cultura greca, una presenza attorno alla quale Winkelmann costruì quell’aura attraente attraverso il parallelismo tra la possenza dello stile architettonico del dorico insulare e le forme massicce ed energiche dei corpi dei siciliani; e il terzo topos, la presenza inquietante dei vulcani, che evocavano la forza prorompente della natura creatrice e distruttrice, simbolica metafora degli inferi e dei caratteri violenti, oscuri, incontrollabili – eppure misteriosamente attraenti – del Sud. dalla potenza mitopoietica del paesaggio siciliano sono nati i miti legati alla morfologia dell’isola (la Trinacria con la testa della gorgone Medusa e delle sorelle Steno “la forte” ed Euriale “la spaziosa”), al mare (i vortici prodotti dai mostri Scilla e Cariddi nello stretto di Messina), all’idrografia (i fiumi generati da Aretusa, Ciane e Aci), alla forza tellurica (la dea Etna e il gigante Polifemo), alla morfogenesi (la sconfitta di Encelado nella gigantomachia), alla genealogia (i miti di discendenza), ai culti misterici (il ratto di Persefone), ai processi insulari di ellenizzazione (il ciclo di Eracle). Terra di vulcani e di frumento, di dispute tra Efesto e demetra, la Sicilia tuttora affascina con la sua ricchezza di contrasti, le infinite formule con le quali l’uomo ha trasformato la natura venendo a sua volta plasmato da essa; un paesaggio che rivela la sua costruzione tra le discontinuità degli eventi storici, tra le tracce dei differenti insediamenti umani sul territorio e le tracce dei codici genetici di etnie diverse che si sono mescolati nel sangue dei suoi abitanti. tutela e valorizzazione del paesaggio archeologico in sicilia. La forte impronta del patrimonio archeologico sul paesaggio siciliano e il ruolo identitario che riveste per la cultura insulare hanno caratterizzato sin dal xviii secolo la politica siciliana per il patrimonio culturale, sia dal punto di vista istituzionale che legislativo. Tra le più antiche istituzioni d’Italia, in Sicilia venne creato nel 1778 il Servizio di Tutela Monumentale con due Soprin- tendenti, uno per la Sicilia occidentale ed uno per la Sicilia orientale; il Servizio sarà trasformato nel 1976 nelle due Soprintendenze per i Beni Artistici e Storici della Sicilia con competenza territoriale per la Sicilia occidentale l’una, per l’orientale l’altra, a loro volta trasformate con legge regionale 116/1980 in Soprintendenze Regionali per i Beni culturali e ambientali con competenze unificate sui beni culturali e distribuite territorialmente su base provinciale. Come regione a statuto speciale, la Sicilia si appropria formalmente della gestione e della valorizzazione del patrimonio culturale con legge regionale 80/1977 Norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali e ambientali nel territorio della Regione Siciliana. A partire dagli anni ’90 la legislazione regionale, con significativo anticipo rispetto alla legislazione nazionale ed europea, affronta il tema dell’archeologia non più in termini vincolistici ma sperimentando una valorizzazione sistemica: il primo riferimento normativo è contenuto nella legge regionale 25/1993 (art. 107), abrogato e sostituito dalla legge regionale 20/2000 Istituzione del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento. Norme sull’istituzione del sistema dei parchi archeologici in Sicilia, che definisce contenuti, finalità, modalità di istituzione e gestione dei Parchi archeologici in una visione non più puntuale ma di sistema. La legge è suddivisa in due titoli, il primo dedicato all’istituzione del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, con specifiche finalità di tutela e valorizzazione non solo del patrimonio archeologico, ma anche dei beni ambientali e paesaggistici; per la gestione del parco è prevista la redazione di un 191 TERRITORIALIZZAZIONI 192 Piano, all’interno del quale un sistema di norme differenziate per le zone in cui è articolato il parco (zona archeologica, zona ambientale e paesaggistica, zona naturale attrezzata e relative sottozone) dispone sia divieti che misure di promozione e incentivi per attività culturali ed economiche. Il secondo titolo è dedicato all’istituzione di un Sistema regionale di parchi archeologici, cogliendo l’importanza di una valorizzazione intergrata e relazionata per più di 2.600 siti archeologici9 ad oggi censiti nel territorio e lungo le coste della Sicilia. Le indicazioni della legge sono state recepite in sede di pianificazione paesaggistica dalle Linee-Guida del Piano Territoriale Paesistico Regionale10 che hanno individuato un primo elenco di aree archeologiche (aree archeologiche complesse, suddivise in tre tipologie: “parchi in contesto con forte urbanizzazione”11; “parchi in contesto ampio con compenetrazione di urbanizzazione e fatti naturali notevoli”12; “parchi in contesto naturale abbastanza integro con urbanizzazione rada o parziale”13 da cui partire per la costituzione del sistema dei parchi. Le Linee-Guida hanno condiviso l’approccio sistemico sottolineando in particolare la necessità di coniugare la tutela delle aree archeologiche, negli attributi propri della disciplina archeologica, al sistema di relazioni storiche, culturali e geografiche intessute con il contesto paesaggistico sul quale insistono. un successivo decreto dell’Assessorato per i Beni culturali e ambientali (d.A. 6263/2001) ha approfondito gli studi preliminari approdando ad una seconda selezione di 16 aree archeologiche14 in cui avviare interventi prioritari per l’istituzione del sistema di Parchi; con d.P.R. 370/2010 l’elenco delle aree archeologiche da istituire a Parco è stato esteso su 26 località15, una moltiplicazione che rischia di pesare eccessivamente sulle effettive risorse della regione, tenuto conto che la trasformazione di un’area archeologica in un parco archeologico richiede un notevole impegno economico, istituzionale e gestionale16. il sistema regionale dei parchi archeologici della sicilia. L’orientamento della politica regionale per la valorizzazione del patrimonio archeologico prevede dunque di istituire come parco le aree archeologiche di maggiore importanza e di organizzare un sistema funzionale e relazionale sia tra i parchi stessi che con il patrimonio archeologico, culturale, paesaggistico e ambientale della regione. Se da un lato la messa a sistema delle aree archeologiche permette di dispiegare il palinsesto territoriale e la trasversalità dei processi storici che mostrano le forme e le regole costitutive del paesaggio attuale, dall’altro un approccio integrato di valorizzazione del patrimonio culturale offre l’opportunità di fruire del territorio nella sua complessità, intrecciando la rete delle aree naturali protette, delle vie enogastronomiche, dei corridoi ecologici, delle città d’arte e delle altre valenze culturali territoriali. I temi sollevati si inseriscono all’interno dell’attuale dibattito sul paesaggio, cogliendo i rapporti che legano archeologia, natura e presenza umana sul territorio, ricercando nuovi contenuti e obiettivi per una politica integrata per le aree archeologiche correlate al contesto territoriale. La legge regionale 20/2000, con l’istituzione del sistema di parchi archeologici, definisce come finalità “la salvaguardia, la gestione, la conservazione e la difesa del patrimonio arche- ologico regionale, al fine di consentire migliori condizioni di fruibilità, lettura e godimento, nell’ambito dello sviluppo dell’economia e di un corretto assetto dei territori interessati, per l’uso sociale e pubblico dei beni, nonché per scopi scientifici e turistici”. Contestualmente alla ricerca di una nuova definizione di parco archeologico, la legge introduce alcune importanti modifiche rispetto alle norme precedenti per definire nuove modalità di intervento sui territori con forte valenza storico-archeologica, valorizzando in primo luogo il rapporto tra i reperti archeologici e le componenti ambientali e paesaggistiche più generali di contesto, quali le singolarità e le emergenze morfologiche, paleontologiche, naturali e naturalistiche ed il tessuto socioculturale locale. da questa nuova definizione di parco ne deriva che i confini dei parchi non possono essere limitati all’area gravata dal vincolo archeologico, ma devono interessare un territorio più vasto. A tal fine la legge prevede l’articolazione del parco in tre zone rispettivamente riferite all’area archeologica (zona A), alla zona di rispetto (zona B) e all’eventuale area di interesse paesaggistico (zona C). diretta conseguenza è la difficoltà, già riscontrata per la pianificazione e soprattutto per la gestione dei parchi naturalistici da cui la legge 20/2000 trae origine, di una azione coordinata di apposizione di vincolo e di gestione di aree vincolate di vasta estensione: l’esperienza della grande quantità di aree in tutto il territorio nazionale immesse in realtà definite “parco” ma che non sono riuscite a consolidarsi e diventare vitali, e quindi capaci di resistere alle spinte riduttive esterne e di avere un forte radicamento sociale e locale, propone come azione prioritaria la definizione dei tempi e dei modi della gestione e, conseguentemente, dei soggetti responsabili di tale gestione. Per la gestione del parco, a cui è assegnata autonomia scientifica e di ricerca, organizzativa, amministrativa e finanziaria, sono previsti per legge appositi organi, il Direttore e il Comitato tecnicoscientifico; la composizione di quest’ultimo prevede, accanto alle figure di tecnici esperti e della Pubblica Amministrazione, la partecipazione di rappresentanti delle comunità locali a garanzia del principio di partecipazione democratica ai processi di pianificazione del territorio. sperimentazioni, limiti, potenzialità, ricadute. Anche altre regioni d’Italia stanno portando avanti interessanti esperienze relative all’istituzione di parchi archeologici, sperimentando diverse soluzioni di gestione attraverso organi come Enti parco o Comitati di gestione, articolando il regime vincolistico in aree a tutela differenziata, finalizzando esplicitamente la tutela alla ricerca scientifica, alla promozione dei valori storici, ambientali e paesaggistici, stimolando la partecipazione delle comunità locali e dei soggetti privati attraverso accordi di programma; tutte sperimentazioni accomunate da una lettura sistemica del patrimonio culturale, alla ricerca di un maggiore radicamento delle operazioni di valorizzazione all’interno delle dinamiche socio-economiche. nonostante l’apparato normativo innovativo, la politica di valorizzazione del patrimonio archeologico in Sicilia si muove lentamente e con difficoltà, dovendosi confrontare con la complessità del territorio regionale, con la pluralità dei soggetti pubblici coinvolti, con la concorrenza di diversi strumenti di pia- nificazione territoriale, con la mancata ricerca della partecipazione culturale delle popolazioni locali ed economica dell’imprenditoria locale e soprattutto con una ancora non raggiunta cooperazione interistituzionale. Il sistema di parchi archeologici, spesso ancora percepito come un limite costituito da una sommatoria di dinieghi e di vincoli ambientali, architettonici e archeologici, ha effettive potenzialità per divenire uno dei motori più potenti dello sviluppo sostenibile siciliano, non solo in termini di valorizzazione del patrimonio culturale, ma anche di miglioramento della qualità dell’offerta turistico-culturale, di salvaguardia, rigenerazione e valorizzazione del paesaggio, di ampliamento dell’occupazione, di incentivo alla capacità imprenditoriale nel territorio, di crescita delle condizioni culturali e di miglioramento della qualità dell’istruzione e della formazione della popolazione. Perché il sistema diventi efficace, occorre definire provvedimenti attivi per la valorizzazione e la rifunzionalizzazione didattica dei parchi archeologici; individuare processi di inserimento delle dinamiche correlate al settore turistico nel tessuto economico, sociale e imprenditoriale; incentivare il recupero del patrimonio architettonico e monumentale che insiste all’interno dei parchi; promuovere la realizzazione di attività culturali in grado di completare l’offerta formativa, didattica e ricreativa e dare ad essa continuità nel tempo; consentire l’intersezione del sistema dei parchi archeologici con altre reti, esistenti o da realizzare, finalizzata alla partecipazione alla vita culturale dei luoghi sia da parte dei turisti sia, in maniera più continua e pregnante, da parte delle popolazioni locali; istituire un sistema integrato di servizi informativi, di connessioni in rete, di infrastrutture di collegamento per consentire e potenziare in maniera sistematica l’accessibilità e la fruizione del patrimonio archeologico. Le importanti ricadute dell’istituzione del sistema regionale di parchi archeologici si distribuiscono su molteplici ambiti e interessando diversi aspetti, tra cui, oltre a quelli culturali, aspetti istituzionali ed economici: – In termini culturali, il sistema potrebbe essere funzionale alla creazione di basi per una più ampia conoscenza del patrimonio archeologico, consentendo una fruizione più diretta e culturalmente consapevole delle testimonianze storiche dell’identità locale per ricomporre la frattura tra antico e moderno; costituirebbe la premessa per innescare il processo che dalla conoscenza del patrimonio porta alla responsabilizzazione nei confronti della sua conservazione e salvaguardia; offrirebbe una serie di proposte progettuali per la fruizione del patrimonio archeologico territoriale nel suo complesso definite secondo i principi di una museografia flessibile, articolata e differenziata. – In termini istituzionali, potrebbe promuovere una più stretta collaborazione tra ricerca scientifica e Pubblica Amministrazione per la gestione delle risorse del territorio; elaborare un quadro di riferimento rivolto agli Enti locali, alle Istituzioni, alle associazioni interessate e all’imprenditoria locale per l’attivazione di iniziative per lo sviluppo economico, sociale e culturale compatibili con la tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico e del paesaggio; proporre la sperimentazione di nuovi modelli di partena- 193 TERRITORIALIZZAZIONI riato tra soggetti istituzionalmente competenti e altri soggetti pubblici e privati. – In termini economici, potrebbe proporre formule innovative di partecipazione del capitale privato nella gestione e valorizzazione del patrimonio culturale; fornire una serie di provvedimenti attivi rivolti alla creazione di nuova occupazione e di nuovi settori di investimento diretti a dinamizzare l’economia locale; creare condizioni per un innalzamento della qualità dell’offerta turistica e per una migliore valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale. 194 dimensioni transfrontaliere di valorizzazione del patrimonio archeologico Occorre tuttavia tenere presente che una reale e piena valorizzazione del patrimonio culturale non coincide con la massimizzazione turistica, né tantomeno si deve misurare esclusivamente attraverso l’indicatore dell’indotto turistico; in qualità di beni culturali, la massimizzazione del loro utilizzo coincide con la massima diffusione della loro conoscenza che si realizza quando dalla ricerca si passa alla divulgazione, quando dall’informazione si passa alla formazione. Questione rilevante quando si tratta di parchi archeologici, poiché ne condiziona non soltanto strutture e servizi, quanto principalmente la funzione sociale e le connesse finalità: il parco archeologico deve divenire il parco della conoscenza, della fruizione colta e consapevole, dell’accostamento ai temi della storia, della civiltà, dell’identità, delle origini. Il parco deve essere concepito come un laboratorio vivente di analisi, di interpre- tazione, di conoscenza e di sviluppo culturale basato sui reperti e sul loro nesso con il territorio; deve diventare un parco maieutico e didattico, destinato prima ancora che ai turisti alle popolazioni locali, prima che agli specialisti ai giovani, dissolvendo concettualmente i recinti e realizzando quell’unità con il suo territorio che emerge dal racconto storicizzato e stratificato della storia delle culture. Come emerge dalla topografia antica dei siti archeologici dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono presenti caratteri ricorrenti, reperti complementari, storie in comune che legano luoghi diversi e anche molto lontani, tracce di una antica koinè culturale. Ciò suggerisce che, per poter individuare e ricostruire il processo di tali evoluzioni culturali condivise, diventa necessario andare oltre il perimetro del singolo sito archeologico, oltre i confini regionali, oltre la dimensione nazionale: diventa necessario adottare una visione internazionale. un singolo parco archeologico, preso isolatamente, mai potrebbe ricostruire tutto il complesso delle relazioni e dei flussi che animavano i territori e il “mare di mezzo” nell’antichità; un approccio sistemico, adottato alla necessaria scala internazionale, potrebbe consentire di costruire una efficace interfaccia di comunicazione – non solo culturale ma anche politica, in una prospettiva di pace e comunanza degli obiettivi di sviluppo sostenibile – tra i paesi mediterranei, per una ricomposizione di quella antica, latente ma presente, koinè delle culture che sono nate sotto quella stessa “parte del cielo”. 1 J.J. Winckelmann, Geschichte der Kunst des Alterthums, G.C. Walther, dresden 1764. 2 Ibid. 3 L. Rustico, Il paesaggio siciliano, in V. Consolo, Retablo, tesi di laurea, rel. prof. E. dell’Agnese, università Bicocca di Milano, a.a. 2005/06. 4 La Sicilia veniva raggiunta dai viaggiatori da mare via napoli per evitare il passaggio dalla Calabria, regione in cui imperversava il brigantaggio. 5 dopo i primi due pionieri del viaggio in Sicilia Joseph Hermann von Riedesel (1767) e Patrick Brydone (1770), sono stati in Sicilia, tra gli altri, Guy de Maupassant, Edmondo de Amicis, Jean-Pierre Houël, Jakob Philipp Hackert, Algernon Swinburne, dominique Vivant denon, Charles-Emmanuel nicolas didier, francis Elliot, Wolfang Goethe, friedrich Maximilian Hessemer, Richard Payne Knight, Claude de Marcellus, friedrich Münter, Alexis de Tocqueville, Josef Widmann accompagnato da Johannes Brahms, Anton norov, Joseph de foresta, Pierre Henri de Valenciennes. Alcuni viaggiatori preferirono percorsi alternativi, come Alexandre dumas (padre) che si limitò ad eseguire il periplo dell’isola in barca, o Emily Lowe con il suo attraversamento dell’isola in carrozza. 6 Tra i viaggi in Sicilia, uno dei più interessanti è stato quello intrapreso nel 1777 dal pittore di paesaggi Jakob Philipp Hackert in compagnia degli inglesi Knight e Gore, documentato da numerose immagini attraverso le quali ha cominciato a prendere forma il paesaggio idealizzato del Sud Italia. 7 L. Rustico, Il paesaggio siciliano , cit. 8 n. Moe, The view from Vesuvius. Italian culture and the southern question, university of California Press, Berkley-Los Angeles 2002, p. 37. 9 fonte: Regione Siciliana, 2009. 10 Ibid. 11 Akragas, Menaion, Syrakussai, naxos e Tauromenion, Mylai. 12 Mothia e Lilybaion, Akrai e Kasmenai, Ispicae fundus, Leontinoi. 13 Grotte di S. Vito Lo Capo, Segesta, Selinunte, Grotte di Monte Pellegrino e Capo Gallo, Himera, Morgantina, Paliké, netum. 14 Gela, Sabucina, Morgantina, Isole Eolie, naxos, Himera, Iato, Solunto, Kamarina, Cava d’Ispica, Lentini, Eloro e Villa del Tellaro, Siracusa, Pantelleria, Selinunte e Cave di Cusa, Segesta. 15 Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi ad Agrigento, Gela, Sabucina e Capodarso, Catania, Ceramica del calatino, Valle del Simeto, Valle dell’Aci, Villa Romana del Casale, Morgantina, floristella-Grottacalda, Isole Eolie, naxos – Giardini naxos – aree archeologiche di Taormina e francavilla, nebrodi occidentali, Himera, Monte Iato, Solunto, Zolfara di Lercara friddi, Kamarina, Cava d’Ispica, Lentini, Eloro e Villa del Tellaro, Siracusa, Stagnone – Mozia – Lilibeo, Pantelleria, Segesta, Selinunte – Cave di Cusa. 16 A. Badami, Metamorfosi urbane. Politiche culturali in Francia e mutamenti nel paradigma urbanistico, Alinea, firenze 2012. MYtHoPoiesis oF tHe siCiliAN ARCHAeoloGiCAl lANdsCAPe EnHAnCEMEnT Of THE LAndSCAPE And CuLTuRAL HERITAGE ABSTRACT The richness and complexity of the territorial archaeological heritage of Sicily constitutes one of the elements that most characterizes the island. from the days of the Grand Tour on, it has attracted the interest first of travellers, and later of tourists. It has also aroused the attention of the administrators and legislators of the regional territory, who have set up a special protection system defined on the basis of the characteristics of the Sicilian archaeological heritage. In Italy, the first regulatory policies on the enhancement of territorial archaeological assets were issued by the Region of Sicily which, in the year 2000, with Regional Law no. 20, equipped itself with an innovative legal instrument aiming to set up Archaeological Parks. In addition to being a total novelty in the national legal panorama, the law proposes a systemic vision for the integrated enhancement of the regional archaeological heritage and management solutions that can guarantee its administrative and economic sustainability. The vast territorial dimensions of many of the most important archaeological areas present in Sicily are of interest also from the standpoint of territorial planning; in order to avoid the overlapping of the planning and management responsibilities, Law 20/2000 intervenes to set up the Plan for the Archaeological Park as a sectorial urban planning instrument superordinate over ordinary urban planning instruments; at the same time, to guarantee a more effective protection of the assets, among the management bodies it is planned for there to be representatives of the local population, in order to raise the residents’ awareness, first of all, of the importance of participating in the protection and enhancement processes. Together with the protection and enhancement aims, the law presents numerous opportunities for local development in cultural and economic terms, through the investment by private parties in the creation and running of additional services, the activation of cultural activities starting from the archaeological resources, promotion of the territory through the interception of super-local systems and networks, and opportunities for dialogue with other national and cross-border systems for the enhancement of the heritage and cultural identities. 195 EnnA 1 l’esPeRieNZA dellA CostRuZioNe dei PiANi PAesAGGistiCi: uN bilANCio francesco Martinico TERRITORIALIZZAZIONI 1 Paesaggio ennese. 196 L’esperienza di collaborazione con la Soprintendenza ai Beni culturali di Enna nella costruzione del piano paesaggistico ha rappresentato l’occasione per mettere a punto un metodo di tutela dei valori paesaggistici conforme alle norme vigenti ma allo stesso tempo ispirato a criteri che tengono in conto l’evoluzione del concetto di tutela dl paesaggio che emerge dal dibattito nazionale e da recenti esperienze di ricerca. L’obbiettivo era quello di provare a superare, attraverso le indicazioni del piano, quella modalità di controllo del paesaggio che si è consolidata in decenni di applicazione della complessa normativa vigente e che appare oggi fortemente dirigista ma anche distante dalle dinamiche socio economiche che caratterizzano le comunità locali e pertanto molto spesso inefficace. L’esperienza ha costituito la seconda fase di una collaborazione avviata inizialmente con la Soprintendenza di Siracusa per la redazione degli analoghi piani degli ambiti ricadenti nel territorio di quella provincia. Lo svolgimento dell’incarico comportava la definizione di un metodo di lavoro che consentisse di utilizzare, in modo speditivo, una notevole mole di dati territoriali, nella prospettiva delineata dal Codice dei beni culturali e dagli strumenti di indirizzo definiti, in Sicilia, dalla Amministrazione Regionale con le Linee guida approvate da quasi un quindicennio1. Il lavoro condotto era finalizzato alla definizione di uno strumento normativo per un territorio caratterizzato da una forte contraddizione tra la marginalità economica e modalità insediative. Queste assumono le forme di una campagna urbanizzata che si estende su un territorio di ampie dimensioni2. In questo contributo, si propongono alcuni spunti di riflessione sull’esperienza condotta che, sebbene gli esiti del piano non siano ancora definiti, ha consentito non solo di approfondire la conoscenza di alcuni fenomeni presenti nel territorio ennese ma anche di comprendere alcuni punti critici dei meccanismi di tutela in atto, per proporre delle strategie di azione che si auspica possano essere maggiormente efficaci. Queste brevi considerazioni sono finalizzate a fare in modo che la conoscenza accumulata possa contribuire, operativamente, alla costruzione di un apparato normativo che dovrà necessariamente tenere in considerazione l’evoluzione del concetto di paesaggio che si è affermata non solo nelle impostazioni teoriche ma anche nei principi generali contenuti nelle norme internazionali e nazionali. i presupposti del piano. La richiesta dell’ente committente era finalizzata ad ottemperare ad un obbligo normativo che risente dell’impostazione culturale avviata con la redazione e approvazione, avvenuta nel maggio del 1999 da parte dell’Assessorato Regionale ai Beni culturali, delle Linee guida del Piano territoriale paesistico Regionale. Le Linee guida costituivano il primo tentativo strutturato di coordinamento delle conoscenze sul patrimonio am- bientale e culturale, condotto dall’Amministrazione regionale, per farne la base di una futura pianificazione del paesaggio. Il documento si basa sulla prima banca dati georeferenziata del patrimonio culturale e paesaggistico realizzata nel territorio siciliano. Esso è dotato di una rigorosa impostazione classificatoria non priva tuttavia di alcune rigidezze concettuali. Gli obiettivi strategici erano i seguenti: 1. stabilizzazione ecologica del contesto ambientale regionale, difesa del suolo e della bio-diversità, con particolare attenzione per le situazioni di rischio e di criticità; 2. valorizzazione dell’identità e della peculiarità del paesaggio regionale, sia nel suo insieme unitario che nelle sue diverse specifiche configurazioni; 3. miglioramento della fruibilità sociale del patrimonio ambientale regionale, sia per le attuali che per le future generazioni. Il documento di indirizzo contiene quindi principi di valenza generale allineati con i contenuti del dibattito più avanzato sui concetti moderni di paesaggio 3. A fronte di questa impostazione culturalmente avanzata che traspare dal documento di indirizzo esistono tuttavia alcuni elementi di contraddizione che è opportuno evidenziare in quanto alcuni di essi hanno giocato un ruolo negativo nel corretto svolgersi della formazione e approvazione degli strumenti di pianificazione. In Sicilia, a seguito dei complessi processi di trasferimento di competenze tra Stato e Regioni e con la peculiarità che discende dalla condizione di Regione a Statuto Speciale, non vi sono competenze degli organi nazionali sugli aspetti di tutela del paesaggio. Anche qui tuttavia si verifica quella dicotomia tra urbanistica e tutela del paesaggio conseguenza del lungo e complesso processo di involuzione dell’apparato normativo nazionale4. La pianificazione del paesaggio spetta all’Assessorato Regionale dei Beni culturali e dell’Identità siciliana5, mentre all’Assessorato del Territorio e dell’ambiente compete l’approvazione di tutti i piani territoriali e urbanistici. L’Assessorato ai Beni culturali è articolato in nove uffici periferici (uno per ogni provincia), le Soprintendenze ai Beni culturali e ambientali, all’interno di ciascuna delle quali è strutturato un Servizio beni paesaggistici. Alle Soprintendenze è quindi affidato il compito di redigere il Piano paesaggistico, per ciascuna porzione degli ambiti definiti nelle Linee guida, ricadenti all’interno della provincia di competenza. La completa separazione nelle procedure di formazione degli strumenti di pianificazione territoriale e di quelli paesaggistici, limite riscontrabile nel sistema normativo nazionale, è accentuata nell’impostazione istituzionale del governo del territorio siciliano, dove non sono mai stati redatti i “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, previsti dall’art. 135 del Codice dei beni culturali. La principale conseguenza è una pressoché totale assenza di dialogo tra piani generali e settoriali e le scelte di tutela del paesaggio. Questo limite si aggiunge all’estrema debolezza del livello di pianificazione di area vasta che in Sicilia è scarsamente praticato6. Il quadro della pianificazione paesaggistica siciliana non presenta quindi elementi di particolare eccellenza. È prevalsa un’impostazione della tutela che appare preoccupata soprattutto di affermare astratti principi di competenza che sembrano diventare l’aspetto prevalente rispetto ai contenuti degli strumenti stessi. I continui conflitti, non solo tra lo Stato e la Regione ma anche all’interno della struttura amministrativa regionale, rispecchiano quanto avviene a livello nazionale e sembrano avere il principale risultato di rendere le vicende della pianificazione territoriale inutilmente complesse, distogliendo l’attenzione dai veri problemi del territorio7. Questa mancanza strutturale di dialogo tra i soggetti competenti rende difficile l’applicazione dell’impostazione basata sulla visione ecologica del concetto di paesaggio, dichiarata nelle citate Linee Guida. Alla luce di questa inutile complessità normativa e delle difficoltà a perseguire efficaci modalità di gestione, le dichiarazioni di principio delle Linee Guida rischiano di diventare 197 TERRITORIALIZZAZIONI 198 un inutile sfoggio di buone intenzioni. un ulteriore elemento di difficoltà è quello legato all’evidente incoerenza tra gli ambiti territoriali paesaggistici e la suddivisione territoriale delle competenze degli uffici periferici dell’Assessorato ai Beni culturali. nelle Linee Guida del 1999, il territorio regionale viene suddiviso in diciotto ambiti territoriali che si intersecano con le nove province. La fase di redazione dei piani per ciascun ambito è stata invece affidata alle Soprintendenze la cui competenza è strettamente limitata al territorio provinciale. Il risultato di questa rigida interpretazione della suddivisione delle competenze, assieme alla mancanza di dialogo tra le Soprintendenze che operavano sullo stesso ambito paesaggistico, ha sostanzialmente vanificato la funzione degli ambiti paesaggistici. Ciascuna Soprintendenza provinciale ha affrontato in modo autonomo le fasi di analisi e sintesi della coscienza e quelle della redazione delle norme, affidandosi a soggetti diversi per il supporto tecnico e scientifico e producendo quindi dei frammenti di piano tra loro incoerenti per ciascuna porzione degli ambiti paesaggistici che ricadevano nel territorio provinciale di propria competenza. I confini amministrativi provinciali sono definiti in base a criteri che poco o nulla hanno a che fare con la struttura del paesaggio e questo ha provocato delle gravi carenze nei contenuti dei piani. non è infrequente ad esempio il caso di fiumi che costituiscono il confine tra due province il cui bacino è assoggettato quindi a due piani diversi e non coordinati che interessano le due sponde8. le specificità del territorio ennese. Il territorio della provincia di Enna rappresenta un luogo di grande valore paesaggistico, a partire dalla specificità di un’area interna, priva di affaccio sul mare che contraddice lo stereotipo della dimensione isolana della Sicilia. La varietà dei paesaggi è strettamente legata all’articolazione delle caratteristiche geomorfologiche che vedono susseguirsi, nel settore meridionale, i rilievi ondulati di tipo argilloso assieme ai calcari di base e ai gessi e, nella parte centrale, le successioni areniticosabbioso-argillose9. L’elemento maggiormente caratterizzante è senza dubbio quello dell’uso agricolo del territorio. Le aree agricole rappresentano il 59% circa del territorio provinciale. L’87% è rappresentato da colture a basso reddito (in prevalenza seminativi asciutti). La coltura prevalente è quella del grano duro ma sono presenti in maniera considerevole i seminativi arborati e sistemi colturali complessi. L’agricoltura ad alto reddito interessa il 13% della superficie agricola utilizzata e si caratterizza per la presenza di oliveti, agrumeti vigneti e frutteti. Il paesaggio agricolo è quindi variegato seppure nella prevalenza dell’immagine delle colture cerealicole estensive10. Anche l’ecosistema naturale si caratterizza per una notevole ricchezza, come testimonia l’elevato numero di Siti di Interesse Comunitario, ben quindici con una estensione di 27.000 ettari pari a circa 10% del territorio provinciale. Pur non essendo presente alcun parco regionale, sei riserve naturali ricadono interamente nel territorio provinciale e altre due interessano anche le provincie limitrofe. Il sistema dell’insediamento antropico riflette la condizione di isolamento che rappresenta un tratto prevalente del fascino di questo parte dell’isola, ma allo stesso tempo ne testimonia la condizione di arretratezza. La Provincia di Enna, con una popolazione residente di 173.377 (al primo gennaio 2012), è la meno popolata della Sicilia, con una densità di popolazione media di 69 ab/kmq, tre volte meno della media regionale e quattro meno della provincia di Catania che è quella con la densità più alta. Il territorio comprende 20 comuni che hanno una popolazione compresa tra 900 e 28.000 abitanti circa. di questi solo cinque superano i 10.000 abitanti. Il documento Espon del 200811 sulle tendenze demografiche in Europa indica la provincia di Enna come l’unica del territorio regionale in cui si verifica un fenomeno di doppia decrescita, relativa ad entrambi i saldi, naturale e migratorio (dati riferiti al periodo 2001-2005). Il fenomeno, iniziato già negli anni 1980, è continuato negli anni successivi con una lieve ma costante decrescita nella popolazione residente, come dimostrano i dati Istat più recenti (tab. 1). La situazione Tab. 1. Evoluzione della popolazione residente 01-01-2012 01-01-2009 01-01-2006 01-01-2002 1991 (*) 1982 (*) Popolazione residente 173.377 173.515 174.199 176.959 186.975 190.778 (*) dati ricostruiti (fonte: Istat Geodemo) diff. percentuale -0,08 -0,39 -1,56 -5,36 -1,99 - economica si caratterizza per una condizione di ritardo che vede la provincia agli ultimi posti nelle classifiche relative agli indicatori economici principali12. Il sistema insediativo ennese vede oggi la contrapposizione tra la concentrazione della popolazione in pochi centri urbani, di formazione antica o riconducibili alla lunga stagione delle città di fondazione13, e una forma di urbanizzazione del territorio agricolo che rappresenta quantitativamente un fenomeno di notevole ampiezza. Lo studio dettagliato di questo fenomeno, effettuato in occasione della redazione del Piano paesaggistico, ha consentito di stimarne alcuni aspetti quantitativi con particolare riferimento al patrimonio edilizio esistente al di fuori dei centri urbani14. Questo sistema insediativo comprende oltre 16.000 edifici con superficie maggiore o uguale di 100 mq, localizzati al di fuori sia degli insediamenti compatti che di quelli a bassa densità. Questi edifici consentirebbero l’insediamento di una quota ulteriore di popolazione pari a quella attualmente residente. L’approfondimento effettuato su un campione ha rivelato una percentuale pari al 75% di alloggi vuoti e la presenza di una popolazione residente impegnata in agricoltura pari appena al 10%. La peculiarità di questo sistema insediativo è quindi la compresenza di due tendenze contrapposte: la contrazione demografica (Espon, 2008) e la crescita del patrimonio edilizio e, in particolare, della forma insediativa di una campagna urbanizzata non più funzionale alle esigenze della produzione agricola. Questo modo d’uso del territorio produce non solo degli insediamenti che richiamano le classiche lottizzazioni della diffusione urbana, seppure in for- ma minima, con una diffusione capillare di edifici residenziali che punteggiano il territorio agricolo compreso tra i centri urbani compatti e che ne condizionano in modo rilevante il paesaggio. È questa una modalità d’uso del territorio che affonda le sue radici anche nella tradizionale abitudine siciliana di trascorrere una parte lunga dell’anno nell’abitazione di campagna, abitudine descritta anche in romanzi come Storia di una capinera di Giovanni Verga o Un bellissimo novembre di Ercole Patti. un’altra ragione alla base della diffusione del fenomeno è la nuova disponibilità di capitali, che non riescono a trovare una collocazione diversa da quella di un investimento immobiliare di bassa qualità ma che, per lungo tempo, ha costituito una rassicurante forma di accumulazione del risparmio per vasti strati di popolazione, anche a reddito medio basso. È quello ennese un fenomeno che appare ancora meritevole di ulteriori studi in quanto la pur vasta letteratura sul tema della città dispersa si concentra sull’analisi del fenomeno nelle zone ad elevato reddito o, al contrario, in zone ancor più marginali. Anche recenti analisi sull’armatura urbana siciliana complessiva15 non identificano la diffusione urbana nelle aree interne come fenomeno rilevante. La diffusione urbana ennese non sembra rispondere ad esigenze primarie, ad esempio la necessità di risolvere il problema delle penuria di alloggi, come avviene nei territori dei paesi meno sviluppati. Essa può considerarsi piuttosto come espressione di forme di neoliberismo economico e del connesso collasso delle politiche territoriali16, e non sembra avere alcuna somiglian- za con quelle forme di organizzazione urbana policentrica dove la diffusione urbana ha giocato un ruolo importante nella formazione delle struttura produttiva. La diffusione ennese nulla ha che vedere con quella tipica dei distretti industriali del nord-est e del Centro ma neppure con quella degli epigoni meridionali campani, lucani e pugliesi. Sembra piuttosto una duplicazione, a basso costo, dei centri urbani esistenti destinata a soddisfare una molteplicità di esigenze non risolvibili all’interno di questi sistemi, dalla struttura elementare, che costituiscono la residua testimonianza della storica povertà che discendeva dall’economia contadina della cerealicoltura estensiva17 e che oggi appare inadeguata alle esigenze dell’abitare contemporaneo. dall’analisi alle regole. Le condizioni specifiche del territorio ennese hanno costituito la base per elaborare i principi di una proposta che ha assunto la forma di un piano di area vasta con una normativa che riguarda l’intero territorio provinciale. La tutela, intesa come controllo delle trasformazioni, è una categoria che riguardava il 56% circa del territorio oggetto del piano. Questa categoria era tuttavia da intendersi in una prospettiva di superamento dell’idea tradizionale di vincolo. Essa doveva diventare invece il presupposto per la definizione di regole destinate a sovraintendere ad una trasformazione territoriale che contemperi l’idea di sviluppo con quella di sostenibilità, tenendo in adeguata considerazione anche le fragilità di un territorio il cui assetto idrogeologico appariva estremamente complesso e delicato. 199 2 3 TERRITORIALIZZAZIONI 2 diffusione urbana nel territorio ennese. 3 il centro storico di sperlinga. 4 il centro storico di Nicosia. 200 4 In questa prospettiva, la proposta di piano non si limitava a collazionare i vincoli preesistenti, cartografandoli in modo unitario, ma si proponeva come vero e proprio piano territoriale di area vasta, finalizzato ad affrontare in modo dialogico ma aperto le prospettive di sviluppo del territorio esaminato. Si è ritenuto che questo fosse l’unico approccio che potesse correttamente interpretare le esigenze di tutela di un paesaggio dove il senso della vastità e la dimensione del latifondo sono ancora la chiave dominante. Le possibilità di trasformazione erano pertanto piuttosto ampie all’interno del sistema di regole definito dalle norme di piano. A conferma di ciò, solo il 12% del territorio era sottoposto a vincolo assoluto di inedificazione18, una quantità sostanzialmente corrispondente alle zone di massima tutela discendenti da vincoli preesistenti alla redazione del piano, in particolare le zone A delle riserve naturali e le zone di vincolo archeologico. Il principio che si intendeva affermare era quello di assumere una strategia di tipo “protettivo”19 per ampie parti del territorio agricolo, individuate in base alla metodologia utilizzata, al fine di garantire il mantenimento di alcuni ele- menti strutturali quali la continuità ecologica e l’integrità della rete idrologica. La dimensione “manifesto” della proposta non è stata tuttavia colta dagli organi preposti alla tutela che hanno preferito attenersi ad una visione fortemente condizionata dalla percezione consolidata del concetto di vincolo20. un’osservazione critica alla proposta presentata è stata quella di avere redatto “un piano urbanistico”. Questa posizione sembra emblematica non solo della mancata composizione dello storico dissidio tra i concetti di tutela e le norme urbanistiche, mirabilmente evidenziata da Settis nel volume del 2010, ma anche della distanza tra l’azione di tutela dei beni culturali e gli avanzamenti disciplinari21, nonostante questi facciano parte del documento di indirizzo approvato nel 1999 dalla stessa Amministrazione regionale. Ancora oggi la tutela è interpretata come un processo di imposizione di vincoli, definiti sulla base di un percorso di lettura dei valori territoriali effettuato da una élite di esperti che emettono giudizi di merito. È un processo che appare quasi sempre distante dalle esigenze delle comunità insediata. La distanza tra le dichiarazioni di principio e le prassi gestionali, ancora profondamente arretrate, è conseguenza di una visione legalistica della tutela, che rischia di far diventare il rispetto astratto della norma più importante dei suoi contenuti22. dalla parte opposta rispetto alla tutela operano nel territorio un insieme di strumenti urbanistici che, tranne rare e quasi casuali eccezioni, non fanno alcun tentativo di integrare nelle scelte di piano la considerazione del valore del paesaggio. Il risultato è una costante separazione tra due categorie di beni territoriali: i luoghi della trasformazione inesorabilmente “normati” da un contorto apparato di regole banalmente quantitative, spesso definite in modo tale da garantirne un’interpretazione ampia e flessibile, e quelli del vincolo, che “cala dall’alto” e si concretizza nell’apposizione di un perimetro all’interno del quale esercitare un forma di controllo il cui esito probabile è quello di innescare contenziosi amministrativi, più che auspicabili buone pratiche progettuali. Questo regime di controllo viene infatti spesso percepito dalle comunità locali come una imposizione burocratico-poliziesca, da subire passivamente oppure da contrastare ricorrendo alle vie legali. Ancora peggiore è la condizione in cui il perimetro della tutela è quello che deriva da una regola normativa astrattamente geografica, come nel caso dei “Galassini”, che includono, ad esempio, le fasce di 150 metri dai fiumi o dai laghi. Le regole che presiedono all’individuazione di questi beni tutelati per legge diventano allora un mero esercizio burocratico. nel caso dei fiumi ad esempio, l’obbligo normativo si limita ad applicare la fascia ai corsi d’acqua elencati in un regio provvedimento del 1933, la cui interpretazione geografica individua dei segni che astrattamente enucleano corridoi dalle forme avulse dall’effettiva conformazione del territorio. Su questi aspetti la proposta di piano ha provato a fare un piccolo passo avanti, ridefinendo in modo sensato i perimetri dei “Galassini”, appoggiandoli a segni territoriali concreti e individuabili come le strade o le recinzioni23. La dicotomia tra piani urbanistici e norme di tutela, cristallizzata in decenni di gestione più o meno rigorosa delle trasformazioni territoriali, unita al progressivo allontanarsi delle prassi costruttive dai saperi e dalle culture tradizionali, ha prodotto, anche in contesti marginali come quello ennese, paesaggi urbani di scadente qualità sia alle periferie dei centri storici che soprattutto nelle zone della campagna urbanizzata. La prospettiva delineata dalla proposta di piano paesaggistico provava a definire per grandi linee il destino di questo sistema di diffusione urbana. Le finalità erano molteplici e non necessariamente corrispondevano ad indicazioni normativamente dettagliate poiché, in alcuni casi, costituivano solo un’indicazione di strategia complessiva che sottendeva alle scelte di piano di dettaglio da condurre attraverso piani particolareggiati di iniziativa comunale. Il territorio della diffusione urbana ennese si trova oggi di fronte alla prospettiva di due destini profondamente divergenti. Il primo, da evitare con forza, è quello di assumere la forma di una shanty-town, a bassa intensità e poco vitale, che richiama nella progressiva riduzione qualitativa – seppure con differenze nelle motivazioni, nell’ampiezza e nella morfologia – gli scenari della diffusione urbana che caratterizzano i paesi in via di sviluppo, dove alla marginalità economica si associa una cospicua crescita degli insediamenti urbani24. Il secondo scenario è quello che vede invece questo sistema insediativo come uno spazio per nuove forme di rilancio dell’agricoltura. È una prospettiva complessa, ma allo stesso tempo l’unica, che può garantire un auspicabile scenario di sviluppo economico e quindi di sostenibilità. Essa richiede il perseguimento di approcci innovativi25 che possono trovare analogie con quelle forme di knowledge economy declinate in modi molto differenziati e dove la diffusione urbana ha costituito uno dei motori dello sviluppo economico. un rapporto sempre complesso quello tra diffusione urbana e sviluppo, come dimostra la vicenda dei distretti industriali italiani26. Il difficile equilibrio tra controllo delle trasformazioni e soddisfacimento delle esigenze di innovazione e sviluppo non poteva essere risolto nella fase del piano che infatti rinvia a strumenti di dettaglio, all’interno dei quali è possibile trovare meccanismi di garanzia della qualità del paesaggio differenziati ma capaci di consentire forme di sviluppo prevalentemente orientate alla filiera dell’agricoltura sostenibile27. Questi elementi che non esauriscono certamente il complesso tema del supporto all’economia locale, rappresentano solo un punto di partenza per percorrere la sfida di una tutela del paesaggio più avanzata che consenta di coniugare lo sviluppo con la difesa del territorio. 201 TERRITORIALIZZAZIONI 202 1 Per la metodologia utilizzata e maggiori dettagli sul quadro normativo di riferimento si rinvia a C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna, “urbanistica Quaderni”, 53, 2009. 2 f. Martinico, d. La Rosa, The Use of GIS in Landscape Protection Plan in Sicily, in A. Krek et al., Urban and Regional Data Management. UDMS, Taylor & francis, London 2009. 3 Sull’argomento si veda Z. naveh, What is holistic landscape ecology? A conceptual introduction, “Landscape and urban Planning”, 50, 2000 e f. Steiner, Costruire il paesaggio. Un approccio ecologico alla pianificazione, McGraw-Hill, Milano 2004. 4 S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010. 5 nuova denominazione a seguito della legge regionale 19/2008. 6 Sulla vicenda dei piani provinciali cfr. f. Martinico, La difficile innovazione. Lo schema di massima del piano territoriale provinciale di Siracusa, in Regione Siciliana, Assessorato Territorio Ambiente, Argomenti di Pianificazione, Contributi per la Riforma Urbanistica in Sicilia. fondazione federico ii, Palermo 2009. 7 Si ricordano a tal proposito le vicende del piano provinciale di Ragusa, e quella dell’istituzione del parco nazionale degli Iblei. nel caso del piano di Ragusa, l’unico approvato in Sicilia, in sede di approvazione fu stralciata la previsione di un parco provinciale con la motivazione che la previsione di un vincolo di tipo ambientale era esclusiva competenza dell’Amministrazione regionale. Per quanto riguarda invece il parco nazionale degli Iblei, la Regione Sicilia presentò nel 2008 un ricorso alla corte Costituzionale al fine di ribadire la competenza esclusiva della Regione ad istituire parchi naturali. Il ricorso fu respinto (sentenza n. 9/2009). 8 È, ad esempio, il caso del confine tra le province di Siracusa e Ragusa che seguono il confine dei corsi d’acqua che hanno inciso profondamente l’altopiano ibleo e costituiscono un sistema paesaggistico fortemente unitario. 9 Per un approfondimento sulla geologia del territorio si veda il contributo di C. Amore et al. in C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna, cit. 10 A. Pecora, Enna e gli Erei: ambiente e vita economica. Un’estate quasi Sahariana, in Tuttitalia, Enciclopedia dell’Italia Antica e Moderna Sicilia, Sansoni-de Agostini, firenze-novara 1962, vol ii. 11 Espon, Territorial Dynamics in Europe Trends in Population Development, “Territorial Observation”, 1, november 2008 (www.espon.eu/main/Menu_ Publications/Menu_TerritorialObservations/). 12 nello scenario di previsione per il 2012, elaborato da unioncamere, Enna era al novantanovesimo posto, nella classifica delle 102 province per il Valore Aggiunto pro Capite, seguita da foggia, Agrigento, Crotone e Caserta. 13 M. Giuffrè (a cura di), Città Nuove di Sicilia XV-XIX Secolo, Vittorietti Editore, Palermo 1979. 14 Per maggiori dettagli cfr. f. Martinico, Diffusione Urbana: Una minaccia per il paesaggio, in C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna, cit. 15 Ad esempio cfr. V. Ruggero, L. Scrofani, L. Ruggero, Una nuova geografia urbana della Sicilia, in L. Viganoni (a cura di), Il mezzogiorno delle città: tra Europa e Mediterraneo, franco Angeli, Milano 2007. 16 P. Bonora, Consumo di suolo e collasso delle politiche territoriali, “Quaderni del Territorio”, Laboratorio di storia del dipartimento di Storia Cultura e Civiltà dell’università degli Studi di Bologna (www.storicamente.org), 2, 2012. 17 A. Pecora, Enna e gli Erei: ambiente e vita economica. Un’estate quasi Sahariana, cit.; C. Muscarà, La geografia dello sviluppo. Sviluppo industriale e politica geografica nell’Italia del secondo dopoguerra, Comunità, Milano 1967. 18 Livello 3 della tutela. 19 J. Ahern, Theories, methods and strategies for sustainable landscape planning, in B. Tress, G. Tres, G. fry, P. Opdam (a cura di), From Landscape Research to Landscape Planning, Springer, Berlin 2006. 20 Per una disamina dettagliata delle vicende normative nazionali sulla tutela del paesaggio si rimanda al fondamentale volume di S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento, cit. 21 f. Steiner, Costruire il paesaggio, cit. 22 P. La Greca, La pianificazione paesaggistica tra opportunità e minacce, in f. Pinto (a cura di), Il paesaggio nel governo del territorio, Maggioli, Rimini 2012. 23 Anche questo tentativo si è però arenato su un’interpretazione normativa che ha portato a riproporre, nel piano di Siracusa ad oggi approvato, i vecchi perimetri dei beni tutelati per legge, vanificando così ogni tentativo di innovazione. 24 Su alcuni aspetti dei fenomeni di diffusione nei paesi in via di sviluppo cfr. J. Briggs, L.A.E. Yeboah, Structural adjustment and the contemporary sub-Sahran African City, “Area”, 33, 2001; f. Steiner, Costruire il paesaggio, cit; S. Angel, An Arterial Grid of Dirty Roads, “Cities”, 25, 2008. In particolare il saggio di Briggs e Yeboah evidenzia alcune analogie come il forte attaccamento alla proprietà fondiaria o il desiderio degli emigranti a realizzare un’abitazione da usare durante la vecchiaia. 25 A. Magnaghi, Il Progetto Locale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 26 A. Bagnasco, Fatti sociali formati nello spazio, franco Angeli, Milano 1994. 27 Ad esempio attraverso meccanismi di incentivazione volumetrica da garantire in cambio di miglioramento qualitativo degli edifici esistenti anche attraverso demolizioni e ricostruzioni o trasferimenti di volumetrie. tHe lANdsCAPe PlANs iN tHe PRoviNCe oF eNNA: to tAKe stoCK oF tHe situAtioN ABSTRACT The collaborative experience that helped draft the pp landscape plan (Piano paesaggistico) of the province of Enna permitted the development of a methodology for understanding the territory, designed to identify a body of regulations that would comply with complicated national landscape protection legislation. Conservation regulations in Sicily – even more than national ones – are characterised by certain strengths, as well as several weaknesses and contradictions that have contributed to making the conservation procedure a rigid bureaucratic exercise, where conflicts between spheres of responsibility prevail, as do abstract and inefficient forms of supervision. The analytical study of the landscape in its various parts, completed in compliance with what was highlighted in the guidelines of 1999, helped highlight the structural characteristics of a territory with strengths such as the image of extensive agriculture and the unspoilt nature typical of its mountainous areas. The network of human settlements, which is still primarily characterised by the concentration of people in a small number of urban centres, seems less consistent with the state of its biotic and abiotic features. Indeed, the state of economic marginality and phenomena linked to negative population growth have not hindered the emergence of the phenomenon of urban sprawl that takes on specific characteristics, determined – among other things – by the settlement traditions of resident communities. The draft plans attempt to outline a scenario in line with the analytical studies that saw the involvement of experts from various fields, who contributed to defining the value of the landscape as well as the risk factors and weaknesses that affect it. The draft plans identify a collection of rules that take into account the obvious weaknesses in the regulatory system. The result was the systematic organisation and differentiation of regulations safeguarding valuable landscape features, limiting the parts of the territory subject to greater restrictions to the absolute minimum while extending a less rigid level of protection, more oriented towards dialogue, to vast stretches of the territory. The draft plans identify a body of regulations that should overcome the dichotomy between protected areas (where often inefficient supervision systems are in place) and those where no rules are in force. The premise for this new way of considering landscape protection must be a dialogue with council planning strategies, which are still far from taking into consideration landscape aspects adequately. Today this prospect seems inevitable if we wish to avoid the growing marginalisation of a territory that must focus on relaunching of innovative forms of agriculture, the only way to avoid territorial risks and economic and social decline. 203 RISIGNIFICARE I LUOGHI 204 riSigniFiCare i luogHi REDEFINING PLACES a cura di edited by Marcello Sèstito 205 HYPPodAMos HA viNto Marcello Sèstito la maglia ordinatrice. Ippodamo di Mileto prende cittadinanza onoraria a Thurii dopo aver costruito il porto del Pireo e stabilito con il suo impianto miletiano una ortogonalizzazione del mondo ellenico e non solo, che troverà riverbero nelle intere città del mondo come riflesso di una strategia urbana che intendeva non solo ordinare lo spazio ancora precartesiano ma persino il tempo. La griglia basica che troverà conferma nella centuriazione romana, nella salma siciliana, nella quadricola ispano-americana, fino alla centuriazione jeffersoniana per il nord America, o la quadricola delle città precolombiane individuata da Graziano Gasperini, furono non solo una delle strategie insediative più persistenti nella storia dell’umanità ma anche il riflesso di una politica ellenica che intravedeva nella distribuzione paritetica delle insule lo spettro della democrazia contro i poteri oligarchici e le tirannidi che serpeggiavano nel Mediterraneo. da questa griglia basica non si allontanano nemmeno le città cinesi, che come ci ricorda Gregotti, con la città europea “hanno comunque in comune” i principi insediativi del recinto e della struttura a griglia ortogonale orientata con la presenza, in quanto eccezione, dello spazio monumentale e civile, precisamente limitata nel disegno dei suoi bordi1. Ippodamo decide di questa cittadinanza, si destina a divenire cittadino di una colonia seppur superba come Thurii (l’antica Sibari) quasi a confermare come spesso accade, lo fu per la colonizzazione americana, che fuori dalla patria di origine si può generare del nuovo, vi si può proiettare, come su una landa desolata, un lenzuolo rigido e lasciarne le impronte di questa scacchiera che non avrà più limiti, estesa e infinita come la nuova globalizzazione. Già prima di lui altri greci avevano compiuto il loro viaggio ricognitivo, ulisse con il suo periplo nell’infinite coste del mediterraneo, ma ulisse non era stanziale e quindi non fu fondatore di città, ma contribuì con il mito alla trasposizione omerica fino a sublimare i luoghi del racconto, a creare una urbanistica fantasmagorica potente come quella di pietra e di filari e di insule. nemmeno Eracle vi riuscì per- pp. 204-205 M. sèstito, Archeologia del presente, ogni architettura produce il suo Campo Marzio, 1987. 1 P. benoit , Città della Plata, planimetria, 1880. 207 1. V. Gregotti, Il sublime al tempo del contemporaneo, Einaudi, Torino 2013, pp. 151-152. RISIGNIFICARE I LUOGHI ché anche egli peregrinante, trascinava i suoi buoi lasciando tracce del suo cammino e della sua forza nei toponimi delle città, da Torino a Taormina, da Taurianova ad Antonimina… Era piuttosto il culto del toro che si andava mescolando ad una urbanistica che da esso prendeva il nome in una forma apotropaica e protettiva. E mentre ulisse si volgeva al suo nostos dopo aver conquistato con la sua nave le terre dell’immaginario, la moglie devota, Penelope, tesseva la sua vela nel telaio che riproduceva nelle trame intrecciate lo stesso schema della città ippodamea in una circolarità esemplare. due domini si confrontarono già allora: quello femminile, stanziale e quello maschile errante e combattivo. Hippodamos pacifica con il suo schema ambedue le tensioni, risolve persino l’aratura del campo poiché i buoi di Ercole, bustrofedicamente e pertanto razionalmente, erano costretti ad ararlo. Lo schema si impose, come una mano che solca e che graffia il suolo, una forma simbolica e rappresentativa di una tensione filosofica e avrebbe indotto tutta l’architettura di tutte le città magno-greche a venire, tranne rarissimi casi, a dipendere da essa. Ippodamo ha vinto, (anche se in molti sono convinti che non sia lui l’inventore dell’impianto ortogonalista) ha vinto sulle asperità collinari sui dossi e gli avvallamenti, sulle sporgenze e le depressioni di un suolo che si è visto catturato da una rete spaziale almeno quanto i pesci in acqua. Ippodamo ha vinto costringendo l’umanità intera a costruire opere, attrezzi, arredi, profili tavole e legnami con la razionalità di una sega che seppur circolare produceva ad infinitum aste parallele, linee rette all’infinito, opere capaci di assoggettarsi alla quadratura dell’insula, ad interagire con essa. 208 Paesaggio e tracciati. In questa città infinita e illimitata, oggi postmetropoli (Gregotti), postcittà (Purini) globopoli (Sèstito), lo schema appare sempre a suggerire come alla rotondità dell’essere platonico che poi sfocerà in tutte le rappresentazioni cosmologiche nella figura del cerchio perfetto, cupole comprese, si potesse affiancare la misura dell’umano, la mano dell’agrimensore, dell’arpedonapta. A tale misticismo dell’impianto Pitagora e la sua scuola, nella città avversaria di Crotone, anteponeva il numero e la tabellina espressione anch’essa di un’incasellatura ordinatrice. La nave ulissiana troverà il suo approdo in terra ferma, si tramuterà in tempio e si moltiplicherà all’infinito. Persino le sue dimensioni saranno confrontabili con lo scafo assimilato, come un’arca di deucalione e Pirra, la nave di pietra si arresta, ritorna alla sua precostruzione quando era albero sbozzato, come lo era la pietra del tempio di provenienza arborea. Marcello fagiolo ci ricorda l’analogia: se è stata definitivamente dimostrata l’associazione ideale, linguistica e strutturale che lega il tempio alla nave, l’ulteriore affinità esistente, a mio avviso, tra navi e isolati è dimostrabile non solo sillogisticamente in rapporto all’equazione “isolato=tempio”. 2 3 Bisognerà ricordare che la nave, strumento materiale (quasi chiglia di trasmissione) di trasporto dell’intera popolazione dalla metropoli al sito della colonia, poteva considerarsi in tale ottica come piccola comunità posta sotto la protezione di Apollo delfico e anche dell’immagine apotropaica di eroe o dio scolpito nella poppa. L’“isolato” galleggiante, (quasi un’anticipazione della cassa arca di Buteo) tra i canali strade, ha proporzioni che si possono accostare appunto a quelle navi (si calcola che quelle navi di trasporto avessero un rapporto di 4:1, e quelle da guerra di 7:1), mentre le dimensioni erano ovviamente maggiori (corrispondendo la larghezza dell’isolato alla lunghezza delle navi, valutabile a 25-35 m)2. Se così fosse allora il suolo di approdo scelto per la fondazione della nuova città altro non sarebbe per metonimia che un lembo di mare solcato dalla prua della nave che ne determina il tracciato come l’aratro nel campo anch’esso munito di una sorta di prua. L’analogia risulta evidente quando osserviamo le grandi navi fendi-ghiaccio incastrate nelle lande gelate. C’è, caso mai da chiedersi come mai non risulta nessuna punta-prua nei templi che assumono piuttosto la condizione di zattera, anche se resiste la navata a ricordarci l’analogia sfruttata indiscriminatamente in seguito nelle basiliche cristiane. Così ora non vi è sito della Magna Grecia colonizzata, la Megale Hellas come la battezzò Timeo di Locri, che nel suolo, sopra in luce o nascosto nelle viscere della terra, o da qualche siepe o fiume deviato, o da detriti e dilavamenti, non rilevi la presenza 2 Mileto, la città di Hyppodamos, planimetria. 3 olinto, pianta della città. 209 2 Cfr. M. fagiolo, I greci nel Mediterraneo storia e leggenda, “Psicon”,1, dicembre 1974, p.25. RISIGNIFICARE I LUOGHI 4 210 dell’allineamento dell’organizzazione ortogonale, la traccia dell’angolo retto ordinatore, della geometrizzazione dello spazio come forma di possesso e di dominio, ma anche come forma esplicita, lo abbiamo detto di democraticità. Gli impianti, da Sibari-Thurii a Crotone, da Capo Lacinio a Skilletion, da Caulonia a Locri Epizephiri, fino a Reggio costituiscono un mare di tracciati come se la navigazione nelle acque del Mediterraneo avesse colpito persino le terre emerse, solcate secondo regole e misure precise. Alla successiva triangolazione del mondo imposta con il metodo da Cesare francesco, figlio di Giacomo Cassini, neanche a dirlo detto di Thury, dalla località ove nacque, Hippodamos aveva imposto sui due assi cartesiani la quadricola e il telaio. Qualunque ricognizione nel territorio degli insediamenti colonizzati non può prescindere dalla considerazione dell’angolo retto, il famigerato angolo retto, quello che avrebbe odiato un artista come undertwasser celebrandolo persino in un manifesto negativo. Ma questa quadrettatura per ragioni economiche e perché il tracciato è tra due punti, è più facilmente raggiungibile per via retta, ricordandoci il vecchio adagio lecorbusieriano sulla strada degli uomini e quella degli asini, che avrebbe investito qualsiasi ordine organizzativo dalle linee telefoniche ai tracciati idrici. il modello insediativo della Magna Grecia. una ricognizione nel modo insediativo magno-greco che sostituitì quello dei natii arroccati sulle colline, gli Ausoni, gli Enotri, i Siculi, i Messapi, o i Lapigi, finisce sempre con l’esaltare la scientificità dell’impianto su cui si aggregano delle difformità comunque previste, come l’agorà o il teatro, che sceglievano quasi sempre delle pareti scoscese per economizzare sulla costruzione. Così da Sibari a Caulonia, da Reggio a Squillace, emerge il tracciato, a volte in negativo o in positivo, a ricordarci che nel sottosuolo sonnecchia, pronta al riveglio della vanga, meno del piccone, l’orditura mentale prima che fisica come una quadricola di san Lorenzo che arrostisce sul suo scheletro arroventato qualunque ipotesi di restaurazione di una naturalità ormai infranta. Ma le condizioni in cui versano i parchi archeologici sono ormai a tutti noti, e ci vengono in mente quanto suggerisce in una splendida poesia dal titolo eloquente: Archeologia di Wilsława Szymborska: E allora, poveruomo, / nel mio campo c’è stato un progresso. / Sono trascorsi millenni / da quando mi chiamasti archeologia. / non mi servono più / dèi di pietra / e rovine con iscrizioni chiare. // Mostrami di te il tuo non importa che, / e ti dirò chi eri. / di qualcosa il fondo / e per qualcosa il coperchio. / un frammento di motore. Il collo d’un cinescopio. / un pezzetto di cavo. dita sparse. / Può bastare anche meno, ancora meno. // Con un metodo che non potevi conoscere allora, / so destare la memoria / in innumerevoli elementi. / Le tracce di sangue restano per sempre. / La menzogna riluce. / Si schiudono i codici segreti. / Si palesano dubbi e intenzioni. / Se solo lo vorrò / (perché non puoi avere la certezza / Che lo vorrò davvero), / guarderò in gola al tuo silenzio, / leggerò nella tua occhiaia / quali erano i tuoi panorami, / ti ricorderò in ogni dettaglio / che cosa ti aspettavi della vita oltre la morte. // Mostrami il tuo nulla / che ti sei lasciato dietro, / e ne farò un bosco e un autostrada, / un aeroporto, bassezza, tenerezza / e la casa perduta. / Mostrami la tua penisola / e ti dirò perché / non fu scritta né prima né dopo. // Ah, no, mi fraintendi. / Riprenditi quel ridicolo foglio / scribacchiato. / A me serve soltanto / Il tuo strato di terra / e l’odore di bruciato / evaporato dalla notte dei tempi3. L’immagine di Arata Isozaki realizzata negli anni ’70 fa vedere un architettura che sorge dal passato, sopra dei ruderi di colonne classiche, anche scanalate, mentre si erge maestosa la nuova architettura che da essi prende vigore, ricordando allo spettatore che vi è una sorta di continuità logica tra il passato che può essere vissuto in vari modi ed un presente che a esso si ispira. L’immagine assomiglia molto, per noi, operando una traslazione, quasi illecita alla figura di San Cristoforo reggente il Cristo. In tale immagine, presa a caso nel vasto repertorio iconografico, il santo sorregge il Cristo mentre guada il fiume, lo regge sulle spalle come la figura precedente di Isozaki faceva capire la colonna reggente il peso dell’architettura moderna, anch’essa sulle spalle della storia per così dire. Ora crediamo che si possa ribaltare il concetto, a cui noi stessi abbiamo lavorato nella figura di una colonna reggente una città4: si potrebbe in sostanza far reggere il reperto archeologico contemporaneo. Esistono quindi diversi modi di leggere e interpretare la storia: quando il metodo è diretto, consequenziale, da un passato a un presente, sembra poter scaturire dal reperto una sua traduzione e trasformazione, questo ha portato ad un certo storicismo, spesso al postmoderno. Quando invece si capovolgono i termini, cioè si legge il passato a partire da un progetto dell’oggi, ci si accorge che la continuità storica perde di valore essendo l’arte priva di progresso e che, come vuole Kierkegaard, è ovunque alla meta. In tale senso avremo un progetto, in basso che legge il passato ma non lo copia, lo assimila entro il percorso compositivo o progettuale elevandolo ad un livello più alto di sublimazione, rivendicando l’autonomia dell’atto creativo rispetto al conseguenzialismo tipico di un certo comportamento che vorrebbe il progetto come traduzione di prescrizioni preconcette o summa delle trascrizioni del passato. un equivoco che sfugge spesso agli stessi archeologi è che noi operiamo per costruire, e nel migliore dei casi, esattamente ciò che si ritiene degno di interesse culturale, altrimenti il nostro lavoro apparirebbe inconsistente. Ma quando l’obiettivo è raggiunto ci si dimentica spesso che siamo operatori nel contemporaneo di ciò che, forse, la storia, recupererà come reperto, in futuro. Questo pone alcune questioni, fortemente dibattute in più direzioni e che hanno riempito interi testi ma che non hanno chiarito fino in fondo l’idea che il progetto di architettura assimilando entro sé il paradosso storico, del reperto e della scoria di senso, è investito di una responsabilità contemporanea a cui non ci si può sottrarre. Per questo suonano allarmanti le parole di Auden che in coda alla sua poesia dal titolo anch’esso Archeologia così si esprime: dall’Archeologia / possiamo trarre almeno una morale: / cioè che tutti i nostri / libri di scuola mentono. / Ciò che chiamiamo Storia non è nulla / di cui poter vantarsi, / in quanto è stata fatta / dal criminale che è in noi: / la bontà è senza tempo5. 5 4 M. sèstito, La colonna di Era – Era la colonna, disegno in carta di pane. 5 A. isozaki, La città del futuro (da: “Architectural Review”). 211 3 La poesia Archeologia si trova in W. Szymborska, Vista con granello di sabbia, Adelphi, Milano 2012, pp. 145-146. 4 Che abbiamo adoperato come manifesto per il convegno. 5 W.H. Auden, Grazie, Nebbia, Adelphi, Milano 2011, pp.29-33. 6 RISIGNIFICARE I LUOGHI 6 H. bosch, San Cristoforo, 1496 circa, Museo boijmans, van beuningen, Rotterdam. 212 Risignificare i luoghi è il titolo di questa sezione curata, dopo la scomparsa di Renato nicolini, con la collaborazione di Angelo Cannizzaro e Antonino Minniti. Renato Nicolini sottolinea che per apprezzare un museo, un’area archeologica, bisogna “dimorarvi”. Progettare e organizzare la “dimora” significa ricercare e riconquistare il tempo dell’esperienza estetica, attraverso un ragionamento sulla dimensione ontologica fondativa dello spazio. Poco ci può soccorrere la memoria analitica, la memoria come serbatoio di fatti e di cifre. Torna dunque d’attualità l’anamnesi, torna a essere importante interrogarsi su questa disciplina della memoria che congiunge il pensiero greco da Pitagora a Platone. In Magna Grecia questo interrogarsi può diventare ispiratore di una prassi museale innovativa, efficace e corretta. Marco Dezzi Bardeschi riferisce invece della progressiva moltiplicazione dei settori all’interno della disciplina archeologica e la relativa contaminazione dei più svariati contesti. L’autore mette in contrapposizione tale vivacità con la crisi concettuale che in Italia investe la creazione del nuovo. L’equilibrio del rapporto tra identità e memoria nei luoghi della Magna Grecia è l’obiettivo indicato da Angelo Cannizzaro al quale far tendere il progetto del paesaggio archeologico. Lo studio delle reti archeologiche territoriali può fornire in primo luogo una chiave di lettura in contesti narrativi o divulgativi, un potente veicolo di risignificazione e interpretazione dello spazio pubblico in ambito urbano e anche uno strumento di riqualificazione del paesaggio rurale e suburbano. Alberto Fiz racconta la storia di Intersezioni, un progetto che ha creato una nuova fruizione dell’arte uscendo da ogni convenzione. un luogo in cui importanti artisti hanno saputo agire in sinergia con la storia in un processo di rigenerazione della memoria dove il patrimonio archeologico sviluppa la propria energia vitalistica diventando esso stesso parte integrante di un nuovo percorso. Affermando che la caratteristica intrinseca della contemporaneità è quella di assorbire tutti i tempi. Antonino Minniti segnala che, nel contesto territoriale calabrese, lo “stato di necessità” non è mai venuto meno, anzi si è ripresentato sotto diverse forme, diventando di fatto, l’unico strumento per affrontare le scelte di risanamento e sviluppo. La memoria è stata invece “re-interrata”. Il trend negativo può essere invertito attraverso una rilettura delle tracce dei percorsi della memoria, la valorizzazione del paesaggio naturale e archeologico, la ri-funzionalizzazione delle infrastrutture, l’integrazione e il dialogo funzionale tra le città del passato e le città del presente. Hippodamus of Miletus was made an honorary citizen of Thurii after having built the port of Piraeus and established – with his Miletan urban layout – the “orthogonalisation” of the Hellenic world and beyond, a system that was to be emulated throughout the world’s cities as the reflection of an urban strategy that not only attempted to order pre-Carthesian space but even time itself. The basic grid that would find its validation in Roman centuriation, the Sicilian salma, in the Hispanic-American chequerboard grid, right up to Jefferson’s centuriation of north America, or the chequerboard grid of the pre-Columbian cities identified by Graziano Gasperini is not only one of the most entrenched settlement strategies in the history of humanity; it is also the reflection of a Greek policy that saw in the fair distribution of these housing blocks the spirit of democracy vanquishing the power of the oligarchy and the tyrannical regimes that infested the Mediterranean. not even Chinese cities stray from this basic grid, as they nevertheless share, as Gregotti reminds us, “the settlement principles of the fenced-off area and the orthogonal grid” with European cities, “oriented around the presence, by way of an exception, of civic and monumental spaces, precisely limited by their drawn borders”. Hippodamus decided in favour of this citizenship and prepared to become the citizen of a colony, albeit a proud one like Thurii (ancient Sibari), almost as if to confirm, as often happens (as in the case of American colonisation), that when one leaves one’s country of origin one has the chance to create something new, one can project a rigid sheet (as if over a desolate land) and leave the signs of this chessboard there, which from now on will have no limit and be as vast and infinite as today’s new globalisation. The layout established itself like a hand ploughing and scratching the ground, a symbolic shape that represented a philosophical tension and that was to prompt the architecture of all Magna Graecia’s cities, with very few exceptions, to rely on it. Hippodamus had won (even though many people are convinced that he was not the inventor of the orthogonal grid); he had conquered the steep hills and hollows, the protrusions and dips of a land that found itself trapped in a spatial net. Hippodamus had won, forcing mankind to construct buildings, equipment, furnishings, outlines, boards and timber using the rationale of a saw that, though circular, produced an infinite number of parallel boards, limitless straight lines and creations that could be subjected to the chequerboard shape of the city block and could interact with it. In this infinite and limitless city – what is now a post-metropolis (Gregotti), post-city (Purini) or a globopolis (our current position) – this layout seems to suggest how the circularity of Platonic existence that was to influence all cosmological representations in the shape of the perfect circle, including domes, could be flanked by a human measurement, the hand of the surveyor or the harpedonapta. The mysticism of such a scheme was countered by Pythagoras and his school in the rival city of Kroton (modern-day Crotone) with numbers and the multiplication table, another kind of organisational matrix. HiPPodAMus HAs WoN ABSTRACT 213 l’oRo dellA MeMoRiA Renato nicolini il valore dei beni culturali. I beni culturali in Italia? Si potrebbe ricordare Il Gattopardo. È necessario che molte cose cambino, perché nulla cambi. Perché non cambi il nostro curioso intreccio di mali antichi (centralismo, burocratismo, privilegi per i “colti” e disprezzo per gli “incolti”) e nuovi (estraiamo dai giacimenti culturali il petrolio d’Italia) – di logiche imprenditoriali e manageriali sovrapposte alquanto meccanicamente e fideisticamente al vecchio corpo. La trasformazione ha prodotto legislazioni sempre più complesse – burocrazie napoleoniche – ma per procedere ancora, dopo tanto rullare di tamburi, schizofrenicamente, per atti esemplari, spesso tardiva riparazione di torti decennali, che certo non rivelano una strategia forte. Ci sono voluti dieci anni per riaprire al pubblico la Galleria Borghese. Si è conclusa, dopo un tempo ancora maggiore, la sistemazione delle collezioni del Museo nazionale Romano – a Palazzo Massimo – al Planetario – nella nuova sede di Palazzo Altemps destinata all’esposizione della collezione Ludovisi. Resta però ancora irrisolta la questione della collezione Torlonia – non più visibile dopo che il Museo di via della Lungara è stato distrutto – uno scandalo di oltre vent’anni fa – per trasformarlo in mini appartamenti da affittare a canone vip. La stessa storia si potrebbe raccontare in altri modi ancora – con infiniti esempi. A molti anni dall’approvazione della legge Ronchey il bilancio dei bar, ristoranti, punti vendita di libri e di souvenir aperti nei nostri Musei non è certo esaltante. La sbandierata qualità della cucina del nuovo ristorante aperto alla Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma si rivela a chi indaga niente più che un buon esempio di catering. C’è soprattutto da domandarsi quanto l’ultima competenza che il privato ha finito per annettere alle previsioni della legge Ronchey, passando dalla stampa dei cata- 1 d. libeskind, Diagramma matrice della stella di David deformata, 1989. 215 Il testo è estratto dal volume: R. nicolini, P. Lo Sardo, L'oro della memoria, Rubettino, Soveria Mannelli 2011. RISIGNIFICARE I LUOGHI loghi all’organizzazione di mostre1, aiuti a superare il “mostrismo” – fenomeno che a parole tutti deprecano – recuperando l’antica tradizione del valore “scientifico” delle mostre. L’impressione è che non si sia compresa la specificità di questo settore. È, più che semplicistico, ridicolo, pensare al rapporto pubblico-privato come una specie di “arrivano i nostri” in cui gli imprenditori – quattrini in pugno – salvano il Ministero voluto da Spadolini investendo non più soltanto nei bar, nei ristoranti, nel merchandising e nel bookshop, ma nella gestione tout court dei nostri musei. Il valore principale del “bene culturale” non è, infatti, un valore “economico”. Il suo valore è formativo2; e di “identità” (ovviamente mobile, e in continuo confronto con l’”altro” da sé). Riconoscere il valore dei “beni culturali” (e attraverso questi della cultura), significa riconoscere i fondamenti dell’essere sociale; ritrovare per questa via l’aner politikon zoon di Aristotele. 216 1 L’esempio più clamoroso è i Centouno capolavori dell’Hermitage, scelti personalmente da Leonardo Mondadori e record di presenze con oltre mezzo milione di visitatori alle Scuderie del Quirinale. 2 Efficace quanto più ci si allontana da rigidità “educazionali” e velleità “pedagogiche”. 3 Peraltro in Italia sotto la media delle grandi nazioni europee, francia, Germania, Inghilterra, dunque ancora marginali. 4 dalla trasformazione degli Enti lirici in fondazioni, alla Biennale di Venezia divenuta “società di cultura”, al “city manager” per Pompei. 5 Ovviamente articolata in spesa del Governo, delle Regioni, delle Province e dei Comuni. 6 Capace di “fondare” culture e consolidare identità proprio in quanto è soggettività – dunque irriducibile alla norma preesistente. Per sostenerne i costi3, non si possono prevedere soltanto leggi e meccanismi di mercato. non è bastato l’escamotage del cambiamento di stato giuridico 4. Il modo migliore per incentivare i privati a investire in cultura resta infatti quello di dare il buon esempio, non diminuendo ma aumentando – e di molto – la spesa pubblica nel settore5. E far sviluppare contemporaneamente una moderna industria della cultura – questa sì da non sorreggere con le stampelle dell’intervento pubblico, non più limitata allo spettacolo e alla discografia, all’editoria e all’intrattenimento, ma incardinata sulla comunicazione – fino alla realtà virtuale e ad internet – e sulla multimedialità. non vogliamo e (non possiamo) descrivere nel dettaglio la trasformazione che sta per avvenire – che è già più visibile nei paesi anglosassoni, in particolare negli usa. Realizzandosi, la nuova configurazione della cultura nel mondo non ha nulla delle profezie ingenuamente utopistiche e inguaribilmente ottocentesche che sono state fatte in suo nome. Gli aspetti di concentrazione monopolistica, di riduzione dei “pubblici” a un solo pubblico, di impoverimento della qualità della ricezione estetica e della creatività denunciati da autori oggi semidimenticati come Adorno e la “scuola di francoforte” di fronte al manifestarsi della cultura di massa, ci sono ancora tutti. Ma non ci basta più non volere “abitare nel Grand Hotel sugli Abissi”. dobbiamo comprendere che la trasformazione di cui parliamo è già in corso, in continuo e tumultuoso mutamento; e che, prima di irrigidirci nel pessimismo delle analisi (ma senza dimenticarle), possiamo ancora intervenire per modificare. Se dai boulevard hausmanniani, e dalla costruzione di “Parigi Capitale del xx secolo” sono sbocciati teatri e ristoranti, passages commerciali e industria dello spettacolo, la vita borghese per eccellenza che prima non si era ancora pienamente manifestata: cosa potrà venire fuori dalla rivoluzione informatica, che molti paragonano all’invenzione gutenberghiana della stampa nei suoi effetti soprattutto futuri? Perché da questo processo si possano sviluppare effetti positivi di arricchimento (e non di impoverimento) della complessità delle esperienze di vita dell’uomo, e in particolare della sua (oggi schizofrenica e impalpabile nel mondo dei rumori e delle immagini aggressivamente sfacciate) esperienza estetica, non bisogna smarrire questa duplicità del mondo dei beni culturali, sospeso tra mondo delle merci e del mercato e soggettività estrema6. Se oggi si discute soprattutto di city manager, di società di cultura, di ingresso dei privati nella gestione dei servizi che possono e debbono accompagnare l’offerta dei beni culturali, di grandi esposizioni e del rinnovamento dell’offerta di servizi dei musei: cioè, in una parola, di economia – noi vorremmo piuttosto discutere del significato, del valore del “museo”. Estendendone il concetto fino a quella sua forma costituita in nuce dalle aree archeologiche – e comprese le connessioni delle aree archeologiche con i musei e con i sistemi di musei, con le città e le loro culture, con il territorio e con l’ambiente. 2 3 i luoghi della memoria. Per molto tempo il vero museo delle città è stato costituito dalle grandi chiese. non a caso Adolf Loos, un uomo dal gusto sicuro, riconosceva nello Stephendohm l’edificio “più bello” di Vienna, e lo paragonava a una pagina di pietra aperta sulla storia della città. In questi “musei” la definizione architettonica cresceva insieme alle opere d’arte che accoglieva; e in molti casi la realizzazione di un’opera (in forma di affresco, di pala d’altare, di pulpito) contribuiva alla definizione architettonica dello spazio. Oggi questa unità si è perduta; e il rischio del museo “moderno”, passata la fase dei grandi musei nazionali-imperiali, dal Louvre al British Museum, alla national Gallery, è di diventare un “museo di oggetti”, spazio neutro, indifferente a cosa ospita, semplice contenitore. Per apprezzare un museo, un’area archeologica, bisogna “dimorarvi”, anche se solo il tempo della visita: è questa la risposta che diamo. La “dimora” nel museo è qualcosa di diverso, ad esempio, dall’”altro stato” di cui parla Musil nell’ultima parte de L’uomo senza qualità. non è un termine tendenzialmente mistico, che pretende una qualità diversa dell’esperienza. Progettare e organizzare la “dimora” dei visitatori in un museo significa ricercare e riconquistare il tempo dell’esperienza estetica. un proponimento rispetto al quale non esistono, ovviamente, ricette già pronte, tanto meno “buone a tutto fare”. Ci pare che cercare di restaurare la dimensione temporale propria alle esperienze estetiche sia possibile solo ragionando sullo spazio. non soltanto sui valori comunicativi, linguistici dello spazio: ma sulla sua dimensione ontologica fondativa. Qual è il “valore” dell’esperienza dello spazio per l’uomo? non è tanto un’ispirazione neo-neo-kantiana a muoverci; quanto il confronto con la grande cultura europea del ventesimo secolo, con la linea accidentata e contradditoria che partendo da Rilke e passando per Heidegger – ma anche partendo da Walter Benjamin o da Elias Canetti o da Albert Camus – possiamo fare arrivare fino, per proseguire nel nostro gusto della commistione e dell’eterogeneità, a Peter Handke e Wim Wenders. Ma non sono tanto le esperienze teoriche, quanto un’esperienza e una domanda pratica – cosa significa fare museo nella Magna Grecia? – che ci ha aiutato, spe- 4 2 G. vasi, Palazzo Altemps, Riario e basilica di Sant’Apollinare, Roma. 3 stephendohm, vienna, dettaglio della facciata. 4 A. Kalach, biblioteca José vasconcelos, Città del Messico. 217 riamo, a non cozzare contro l’iceberg del nichilismo. Il chiederci come possiamo rappresentare in termini museali la matematica pitagorica o l’astronomia, come raccontare le città, i templi, la musica, la poesia, il paesaggio, i luoghi dei Greci, ci ha posto di fronte agli antichi in modo “nuovo”, in qualche misura ingenuo. Ma almeno sapevamo che cosa stavamo loro chiedendo. nel nostro confronto con gli antichi un ruolo fondamentale hanno avuto le nuove tecnologie, per la loro capacità di fornire a vecchie domande nuove risposte, di collocarci all’interno di una memoria che grazie a loro è rappresentabile attraverso immagini, racconti, narrazioni. RISIGNIFICARE I LUOGHI Ma come ricordare e cosa ricordare in un mondo che sempre più sembra diventare simile alla borgesiana biblioteca di Babele? In questo smarrirsi dell’intelletto nei meandri di una conoscenza che allarga a dismisura i suoi confini orizzontali, poco ci può soccorrere la memoria analitica, la memoria come serbatoio di fatti e di cifre. Tornano d’attualità antiche pratiche o teorie famose nell’antichità, come l’anamnesi: la ricerca di una memoria che sia pratica attiva ed autoplasmantesi. Torna a essere importante interrogarsi su questa disciplina della memoria che congiunge il pensiero greco da Pitagora a Platone. In Magna Grecia questo interrogarsi può diventare ispiratore di una prassi museale che sa riconoscere fino in fondo il valore dei segni lasciati dall’uomo sul territorio. Solo da un’idea più piena e più ricca dell’esperienza (e dunque della vita), può nascere un’economia virtuosa della cultura, un ruolo per l’Italia adeguato, nella società della comunicazione e dei non “luoghi”, alla ricchezza dei luoghi dall’identità forte, ancoraggi necessari di fronte al rischio di smarrirci, tanti individui isolati nella realtà virtuale. 218 Questo discorso interessa particolarmente il Mezzogiorno d’Italia. E il Mezzogiorno d’Italia, tra la Calabria e napoli, è il territorio delle nostre ricerche. Quando le grandi città europee stanno riconvertendosi dall’industrializzazione, non essere mai stato territorio pienamente industrializzato, può rappresentare un vantaggio. for a long time the true museum of cities was the large churches. In fact, Adolf Loos acknowledged the Stephendohm as Vienna’s “most beautiful” building, and compared it to a stone page open to the city’s history. In these “museums”, the architectural definition grew together with the works of art it held; and in many cases the creation of a work (in the form of a fresco, altarpiece, or pulpit) contributed to the architectural definition of the space. Today this unity has been lost; and the risk of the “modern” museum, after the phase of the major national-imperial museums, from the Louvre to the British Museum to the national Gallery, is that of becoming a “museum of objects”, indifferent as to what it holds, a simple container. In order to appreciate a museum, an archaeological area, it is necessary to “dwell in it”, even if for only the time of the visit. The “dwelling” in the museum is something different, for example, from the “other state” of which Musil speaks in the last part of The Man Without Qualities. It is not a term that tends toward the mystic, one that expects a different quality of experience. designing and organizing the “dwelling” of the visitors in a museum means seeking and reconquering the time of the aesthetic experience: a resolution for which there are no ready recipes, let alone ones “good for everything”. It seems to us that seeking to restore the proper temporal dimension to aesthetic experiences is possible only by reasoning on the space. not just on the communication, linguistic values of the space, but on its founding ontological dimension. What is the “value” of the experience of space for man? It is not so much a neo-neo-Kantian inspiration that moves us, as the encounter with the great European culture of the 20th century, with the accidental and contradictory line which, starting from Rilke and passing through Heidegger, we can make arrive up to Peter Handke and Wim Wenders. In our encounter with the ancients, a fundamental role is played by the new technologies, thanks to their capacity to provide new answers to old questions, to place us within a memory that, thanks to them, can be represented through images, stories, and narrations. But how and what to remember, in a world that seems to be becoming similar to Borges’ Library of Babel? In this getting lost of the intellect in the meanders of a knowledge that disproportionately broadens the horizon limits, the analytical memory, the memory as a reservoir of facts and figures, can do little to help us. Ancient practices or theories famous in antiquity come back into vogue, such as anamnesis, the search for a memory that is practical, active, and self-modelling. Only from a richer idea of experience (and thus of life), can a virtuous economy of culture, a role for Italy that is adequate, in the society of communication and the non-“places”, for the richness of the places with a strong identity, necessary anchors before the risk of getting lost, so many isolated individuals in the virtual reality. tHe Gold oF MeMoRY ABSTRACT 219 quAle ARCHeoloGiA, quAle ARCHitettuRA Marco dezzi Bardeschi definizioni. nei nostri dizionari storici è la voce “Architettura” quella che tiene la scena da almeno due millenni (dal testo di Vitruvio alle fondamentali voci dei Vocabolari moderni). L’architettura è la grande arte del costruire: architectura nascitur ex fabrica et ratiocinatione. È un processo che unisce pensiero e/a cantiere. Il verbo fabbricare, alla lettera, si applica alla fabbrica. nota è la frase che segue la fondamentale definizione di Vitruvio e che lo accredita come il primo semiologo della storia: l’architettura è tutto ciò che unisce il significato (ciò che mi propongo di trattare o di progettare) con il significante (la dimostrazione e la rispondenza alle regole della comunicazione). La voce “Architettura” invece per Tucidide, nel primo libro delle Storie, è il discorso o indagine sulle cose del passato (che poi, per lui, non possono essere che quelle, per noi lontane, precedenti alle “storiche” guerre del Peloponneso). È scarsa la presenza della voce sia nel vasto movimento còlto degli umanisti (da Petrarca ad Alberti), sia nel lungo periodo successivo del Classicismo (sia il Dizionario della Crusca che il Vocabolario del Baldinucci le preferiranno la nozione di scienza antiquaria). Per fondare l’archeologia come disciplina autonoma ci vorrà la grande rivoluzione delle scienze dell’uomo nell’età (laica) dell’Encyclopédie, delle Arti e Mestieri, dell’illuminismo riformatore e poi con il rilancio della sua fortuna critica nel grande secolo della Storia (l’Ottocento). È infatti con lo storicismo romantico che l’Archeologia sale alla ribalta da nuovo grande protagonista: sarà Pietro Selvatico (Le Monnier, firenze 1852) nel suo Corso di estetica ad esaltare la “sacra” archeologia che “si fa guida dell’arte e (che) ne lumeggia la storia”. Sono stati 1 t. Cole, Il sogno dell’architetto, 1840 (particolare). 221 Le immagini che corredano il contributo documentano il progetto di inserimento del nuovo Museo Archelogico nazionale di Crotone all’interno del Castello di Carlo v, elaborato dall’autore, illustrato al Convegno e in seguito presentato al Salone del Restauro di ferrara 2014 e pubblicato in M.d, Bardeschi, Il navigar pittorico per terre, cieli, mari, ferrara 2014. 2 RISIGNIFICARE I LUOGHI 2 il Castello di Carlo V a Crotone, foto area prima dell’intervento. 3 il Castello di Carlo V a Crotone, prima dell’intervento. 222 infatti i francesi a siglare – come sappiamo – nei primi anni della Restaurazione il grande ritorno, dal collezionismo antiquario delle Wunderkammern e dalla scienza classificatoria dell’antichità (Winckelmann), all’archeologia appunto come sedimentata presenza/accumulazione di cultura materiale, storica e preistorica, con la scoperta della dimensione nascosta di un’inedita storia urbana matrice del fare collettivo. È Arcisse de Caumont che infatti, nel 1824, dà vita alla Societé des Antiquaires e qualche anno più tardi (1833) appunto alla Societé francaise d’Archeologie. E gli farà subito puntuale riscontro Adolph didron (dal 1839) a segnare il passaggio agli ufficiali Annales Archeologiques (1845). È al giovane Cesare Cantù (prima del 1848) che si deve la prima distinzione (poi ripresa da Giovannoni nel 1912) tra monumenti vivi e monumenti morti, questi ultimi ormai abbandonati e privi di uso: una tesi che lo stesso ormai maturo Cantù rilancerà ancora nel 1872 (al Congresso degli Scienziati italiani) e nel 1880 (a Torino), influenzando l’ancora indeciso Boito autore della grande svolta metodologica sul restauro al successivo Congresso di Roma degli Ingegneri e Architetti (1883) che dà vita alla prima Carta italiana del Restauro con l’elogio del documento-monumento e la rivendicazione del carattere autonomo e del valore di novità di ogni eventuale aggiunta. Così che cento anni dopo (nel 1976) Bianchi Bandinelli potrà già distinguere, nell’ancor giovane storia della disciplina archeologica, ben quattro consolidate fasi distinte: una prima, pionieristica, winckelmanniana ed estetica (nel Settecento), una seconda filologica (nell’Ottocento), una terza storico-artistica (nel ventennio: 1920-40) ed infine una propriamente storica nei suoi stessi anni d’esordio (19391959) nei quali, dopo aver decisamente contribuito (con Argan e Longhi) alla nascita dell’Istituto Centrale del Restauro (icr) romano, proprio nel nome (marxista) della storia e della cultura materiale prendeva decisamente le distanze dalla deriva estetica impostale nella sua Teoria del restauro (1963) da Cesare Brandi, tutta condotta e sviluppata all’interno dell’ambito ristretto (che esige, come giudizio di valore, il suo specifico riconoscimento) della teoria dell’opera d’arte. sinergie. Oggi, presa consapevolezza dell’unicità, autenticità e irriproducibilità delle risorse materiali esistenti, anche l’archeologia , un’attività per definizione altamente distruttiva (perché, per raggiungere l’oggetto del proprio studio, presuppone la irreversibile rimozione di ogni sovrapposta sedimentazione storica successiva), sta da tempo facendo la propria radicale quanto necessaria autocritica disciplinare. L’ha già fatta da tempo e sta continuando a farla il restauro architettonico, una disciplina che, dopo più di un secolo di distruzioni e libere transvalutazioni del patrimonio monumentale sul quale si applica, pare seriamente finalizzata al rispetto ed alla cura del documento/monumento materiale oggetto del proprio intervento. È solo ora infatti, dopo oltre cinquant’anni di pratica incerta ed approssimativa, che, con il Codice dei beni culturali (2004), il restauro ha iniziato a ridefinire correttamente i propri obiettivi: l’art. 29 infatti lo identifica con la conservazione dell’integrità materiale del patrimonio costruito, come Bene 3 comune, e con la sua trasmissione in efficienza all’uso rispettoso ed alla fruizione delle future generazioni. E il discorso sull’archeologia , come disciplina autonoma, oggi si arricchisce di nuove aree di approfondimento specialistico, sottoarticolandosi a ventaglio su molteplici settori specifici di analisi, di ricerca e di progetto. Ed ecco, infatti, l’archeometria, che applica i metodi delle scienze sperimentali ai beni culturali e non solo alla conoscenza dei suoi rispettivi dati quantitativi di “misura”: dalla fine degli anni ’50 la rivista internazionale omonima, ad Oxford, approfondisce lo studio della datazione dei componenti materiali di uno scavo. E almeno dal 1962, anno di inizio della pubblicazione di Archaeology and Anthropology di Lewis Binford debutta la New Archaeology che si affianca, all’Archeologia Classica della storica Scuola archeologica italiana d Atene, l’Archeologia Medioevale (la benemerita rivista fondata e diretta da Riccardo francovich e dalla sua Scuola senese) che fa ampio e sistematico ricorso all’Archeologia dell’elevato a saldare e raccordare il plurisecolare braccio di storia silenziosa che ancora separava, come trascurata terra di nessuno, l’archeologia del mondo antico dall’architettura dell’Alto Medioevo e del cantiere di costruzione dell’età di mezzo. E tra conoscenza storica d’archivio e indagini chimico-fisiche dirette della fabbrica si sono fatti metodologicamente riconoscere ed apprezzare in questi ultimi trent’anni i lavori di approfondimento sul campo della Scuola genovese di Tiziano Mannoni e di quella padovana di Brogiolo. Così che tra archeologia medioevale e nuova cultura della conservazione ora si intreccia un efficace dialogo strutturale di ricerca e di continuo approfondimento e scambio interdisciplinare. Gli archivi del suolo diventano il terreno privilegiato della nuova ricerca comune dell’archeologo, dello storico e dell’architetto cui si associano gli scienziati (i chimico-fisici) e gli specialisti delle analisi non distruttive (Carbonio 14, dendrocronologia, georadar ecc.). L’obiettivo della conoscenza, del rispetto e della cura si è da tempo fatto impegno comune. E si aprono oggi sempre inediti ulteriori spazi di collaborazione e di lavoro comune tra discipline fino a cinquant’anni fa tradizionalmente considerate autonome e magari tenute orgogliosamente separate. negli ultimi trent’anni la nozione e gli orizzonti dell’archeologia si sono straordinariamente dilatati. Le storie della terra (Carandini) coinvolgono con 223 RISIGNIFICARE I LUOGHI 4 224 4 il Castello di Carlo V a Crotone, planimetria di progetto dell’area espositiva. 5 il Castello di Carlo V a Crotone, rilievo fotografico dei profili e planimetria dell’area di intervento. 5 la convergenza di crescenti settori specialistici e, soprattutto, affascinano i media ed un pubblico sempre maggiore. dallo scavo al contesto urbano, all’archeologia del paesaggio e all’archeologia degli insediamenti abbandonati (field archaeology). All’archeologia ambientale (che studia il contesto e l’ecosistema: K. Butzer), all’archeologia dei giardini e dei parchi storici, all’archeobotanica (The Palinology of Archeological Sites di G.W. dimbleby, 1985), alla bioarcheologia, alla archeozologia, alla ricerca (e alla misura qualitativa) delle stratificazioni, all’archeologia industriale nata nel Regno unito nell’immediato dopoguerra e subito declinata in Italia come attività di ricerca e di salvaguardia per assicurare un nuovo futuro collettivo al grade patrimonio industriale diffuso delle fabbriche oggi dismesse. Metodologie. Come si vede le maggiori innovazioni, per estensione e specificità dei settori e delle tematiche di ricerca e di progetto, segnano un rinnovamento senza precedenti delle due storiche discipline (archeologia e architettura). E non è un caso che ad un crescente fronte di critica del cosiddetto “restauro” come peggior forma di distruzione, accompagnata dalla falsa descrizione dell’opera distrutta” (la definizione è di Ruskin che la lanciò come un anatema alla disciplina nel lontano 1949 nelle sue Seven Lamps) si accompagni oggi una consapevole critica analoga dello scavo tradizionale, nel nome di un crescente impegno per la salvaguardia e la permanenza delle risorse materiali stratificate, considerate come irrinunciabile patrimonio comune complessivo a rischio della nostra comunità urbana. A questa auspicata e convergente unità di pensiero, che oggi sembra sovrintendere e guidare l’intervento consapevole comune dell’archeologo e dell’architetto-conservatore hanno sicuramente contribuito, oltre alle ormai storiche Carte del Restauro del 1964 e del 1972 (quest’ultima con i noti allegati paralleli sulla conservazione del patrimonio archeologico e architettonico-urbano), il recente Codice dei beni culturali (2004), appunto, con la prima chiara definizione del complessivo processo virtuoso che dallo studio e dalla salvaguardia attiva prevede il rispetto, la cura, la manutenzione e la valorizzazione dell’eredità materiale che abbiamo ricevuta in consegna dalla storia e dalle generazioni che ci hanno preceduto. Perché c’è, e dobbiamo averne piena consapevolezza di utenti e fruitori, una archeologia dell’architettura. Archeologia come status progressivo, ma non terminale, sul lungo tempo, dell’arte del costruire e dell’abitare, non appena la possibilità di abitare viene meno. Archeologia come prodotto della progressiva decostruzione dell’architettura prodotta dal tempo e dalla mano volontaria dell’uomo. Archeologia della fabbrica che – senza interventi –, una volta disertata dalla vita, tende fatalmente a farsi rudere, ruina. Chiedersi quando nasce questa constatazione (di una società successiva nei riguardi dell’opera materiale delle società precedenti) non è affatto un ozioso interrogativo accademico, ma aiuta a comprendere alla 225 RISIGNIFICARE I LUOGHI radice l’insorgere e l’affermarsi di una nozione e del riconoscimento di valore che ciò comporta (i riegliani “valore storico” e “valore d’antichità”, ad esempio, legati alla perdita del “valore d’uso”). E a rendersi conto dunque della necessità dell’attiva e tempestiva salvaguardia di tali valori per mano di un necessario intervento progettuale che oltre a garatirne di quel patrimonio la sopravvivenza materiale porti con sé anche un plus-valore legato all’uso, una auspicabile crescita di valore aggiunto come autentico, autonomo “valore di novità”. Considerati i due paralleli ma intrecciati fronti (mobili) del progetto di conservazione del patrimonio archeologico e architettonico-paesaggistico, resterebbe ora da chiedersi cosa stia succedendo oggi sul fronte (altrettanto mobile) della cultura del progetto del nuovo. In altre parole: qual è stata e quale sia oggi l’attesa e più efficace risposta culturale e professionale sul fronte del progetto, quali i suoi attuali contenuti, modi e coinvolgimenti ed, insomma, quale debba essere la ritrovata qualità e credibilità del progetto architettonico contemporaneo e quale il suo specifico contributo positivo nei riguardi del contesto urbano e territoriale del costruito esistente. Ma questo è appunto, con evidenza, il tema di un nuovo stimolante e auspicabile prossimo incontro-confronto. 226 This article considers the specific characteristics of these two fields (Archaeology and Architecture), going over the salient events in their reciprocal history. Compared to the thousand-year critical popularity of the term Architecture in the great treatises of all eras (starting with Vitruvius), we have to await the first great revolution in Human Sciences in the Era of the Reforming Enlightenment, Encyclopaedism and Arts and Crafts, and later the romantic historicism of History’s great century, for the foundation of Archaeology as a separate discipline. Today, when we are aware of the unique, authentic and irreproducible nature of buildings both above and below ground, Archaeology is also engaged in its own positive, radical self-criticism, just as architectural restoration has continued to do, for example, for some time now, a field that after having caused over a century of useless and unjustified demolitions, now finally seems to be moving in the direction of the right aim: to respect, care for and enhance material document/monuments, a commitment confirmed by Article 29 of the recent Code of Cultural Heritage (2004) which indeed identifies restoration as the conservation of the material integrity of buildings and the need to pass on its use as an inalienable common good. Today, New Archaeology is a parent field that is gaining further sectors of specialisation such as Archaeometry, Building Archaeology, Landscape Archaeology, field Archaeology, Archaeobotany, Bioarchaeology and Archaeozoology, all of which include Industrial Archaeology as well, which today is a vast area of research and study, interest and collective participation. It is a vast sphere of activity that aims, as we can see, to prioritise the conservation (and complete transmission) of autographed material, where the opportunities for joint research and working exchanges between different fields (involving archaeologists, historians, architecture students, scientists and specialised experts) are increasing, creating a growing, common commitment to research, planning and managing existing material heritage. The images included in this article document the plan to set up Crotone’s new national Archaeological Museum in the Castle of Charles v, developed by the author and illustrated at the conference. WHiCH ARCHAeoloGY, WHiCH ARCHiteCtuRe ABSTRACT 227 le Reti ARCHeoloGiCHe teRRitoRiAli Angelo Cannizzaro identità e memoria. In ambiti stratificati, rispondenti a disegni urbanistici diacronici, eterogenei quindi per concezione, tecniche costruttive e uso, gli interventi di trasformazione urbana o del paesaggio hanno in primo luogo il compito di ristabilire un equilibrio nel rapporto tra identità e memoria che passa necessariamente attraverso la mediazione simbolica dei manufatti storici e dei beni culturali, nella misura in cui essi sono legati all’immaginario collettivo. 1 Modello ispirato alla mappa di internet elaborata da bill Cheswick. Il rapporto tra identità e memoria si stabilisce in una comunità attraverso due canali fondamentali, uno è la tradizione, ovvero tutto il patrimonio materiale e immateriale che le generazioni si trasmettono direttamente, l’altro è la partecipazione, ossia quell’esperienza in comune che troviamo come motivo fondante l’origine di tutte le culture, e come condizione dei messaggi che all’interno vi si scambiano, e che risultano intelligibili perché iscritti nella medesima simbolica originata dalla comune esperienza1. un bene culturale è tale poiché conserva una qualche memoria, una testimonianza e una prova tangibile dello scorrere del tempo e dell’evoluzione della civiltà, una finestra sul passato. Questo valore evocativo è il più efficace strumento di tutela dello stesso bene, in quanto lo rende luogo dell’identità e forma di resistenza alle forme di destrutturazione psico-sociale dello spazio di cui già nel 1969 scriveva Emanuele Severino: se qualcosa non è technicon – se cioè non produce o non è prodotto, o non rientra nel processo del produrre-essere prodotto – allora non è, ossia è un niente […] ma il senso dell’essere rimane ancor oggi identico a quello stabilito da Platone una volta per tutte 229 1 u. Galimberti, Psiche e Tecnè, L’uomo nell’età della tecnica, feltrinelli, Milano 1999. nella storia dell’occidente. dio e la tecnica moderna sono le due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico2. 2 M.Gargiulo, La colonizzazione greca e gli empori fenici (da: Atlante di Archeologia). nel Meridione d’Italia, la valorizzazione dei beni archeologici è uno degli obiettivi strategici delle politiche regionali e locali in ambito Mediterraneo, ma se escludiamo alcune aree particolarmente significative, le difficoltà che oggi si riscontrano in questa direzione sono dovute anche alla bassa qualità degli interventi o a una errata e disarticolata attività di gestione. Soprattutto la frammentazione delle energie spese dai singoli soggetti nei campi della ricerca, della tutela e della promozione del territorio costituisce un punto debole, in quanto non va a favore della coesione sociale, alimenta inutili campanilismi, una lotta tra poveri che difficilmente attira l’attenzione del mondo della comunicazione e dell’informazione. Per intervenire efficacemente a favore della valorizzazione in questo contesto è necessario individuare strategie animate dalla sincronizzazione delle attività e dalla condivisione delle informazioni. Lo studio di un modello a rete, elaborato attraverso l’osservazione della connettività esistente tra componenti diffuse sul territorio (città, siti archeologici, musei, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e private, biblioteche ecc.) che possono essere in qualche modo legate a uno specifico sistema concettuale, puo’ essere il sistema che è necessario costruire. RISIGNIFICARE I LUOGHI 2 230 Questo sistema di valorizzazione lo abbiamo definito “rete archeologica territoriale” e altro non è che la definizione di un campo d’azione su cui è possibile connettere la comunità scientifica e gli attori locali sulla base di un progetto culturale condiviso, un filo narrativo basato sul dato archeologico, una sorta di idea guida. definita questa, le fonti storiche e letterarie, la cultura immateriale (tradizioni culturali, la sensibilità e la memoria della gente, la storia del territorio) disegnano una nuvola di elementi puntuali diffusi sul territorio e interconnessi al paesaggio. Questi possono essere rappresentati come nodi connessi tra loro, nel territorio dagli elementi del paesaggio archeologico, nello spazio della cultura e nel campo degli studi dagli organismi di ricerca, di tutela e di valorizzazione. Perché la rete risulti efficiente è necessario che le connessioni tra questi nodi assumano una configurazione territoriale con un grado di complessità capace di sostenere la struttura culturale e concettuale costitutiva. Indagare la forma di una rete complessa non è certo impresa facile. In effetti soltanto negli ultimi anni la matematica ha raggiunto dei risultati interessanti, a volte imprevisti, soprattutto se ottenuti attraverso percorsi interdisciplinari. Scrive Strogatz: ciò che conta è la configurazione, l’architettura delle relazioni, non l’identità dei punti. Viste da queste grandi altezze, molte reti apparentemente indipendenti cominciano ad assumere lo stesso aspetto – assunto che ci consente di supporre che anche la rete che ci proponiamo di studiare si comporti allo stesso modo 3. Incuriositi da questo assunto abbiamo pensato di adattare alcuni dei modelli teorico-matematici che Strogatz e altri studiosi della scienza delle reti complesse hanno elaborato negli ultimi anni ottenendo risultati sorprendenti, come la scoperta di un nuovo principio che sembra poter finalmente svelare il segreto dell’efficienza delle reti complesse, e cioè le dinamiche collettive delle reti di piccolo mondo. un concetto prestato dalla sociologia, sulla base del quale funzionano il web, internet e i social network. Si tratta di una scienza ancora in embrione, ma sufficiente a fare un po’ di luce sulla materia in termini matematici e soprattutto in grado di ben rappresentare un modello utilizzabile nelle diverse applicazioni dei sistemi a rete. Esso afferma in primo luogo che l’efficienza di una rete è determinata dalla configurazione delle sue connessioni e prescinde dalla qualità dei nodi che la costituiscono. Sulla base di questo principio, analizzare gli ambiti territoriali inclusi nella rete archeologica, prestando particolare attenzione ai fenomeni di degrado urbano e ambientale, a volte favorito anche dall’insistenza degli stessi vincoli archeologici, confrontare le analisi con i modelli teorici di configurazione efficiente consente di individuarne i punti deboli e i punti di forza del sistema e di strutturare dunque un ipotetico programma di interventi mirati all’implementazione della rete territoriale, fino a portarla a efficienti livelli di accessibilità e connettività. Ad esempio confrontando la rete della ricerca archeologica, che è connessa attraverso i canali di scambio delle informazioni archeologiche tra i ricercatori, al mo- 231 2 E. Severino, Essenza del Nichilismo. Saggi, Adelphi, Milano 1982. 3 S.H. Strogatz, Sync. Collective Dinamics of “Small World” networks, “nature”, 393, pp. 440-442. dello dinamico estrapolato dagli studi su Internet e sul Web, che sembrano rappresentare lo stato più efficiente di un sistema a rete, osserviamo un comportamento molto diverso, e cioè un sistema statico e quasi perfettamente ordinato. I ricercatori si dividono infatti il campo degli studi in settori molto ristretti e pur condividendo fondamentalmente i metodi di ricerca, finiscono per comunicare solo con i colleghi vicini, ovvero che si occupano perlopiù dello stesso argomento ristretto. Il risultato è un sistema fortemente aggregato e basato su legami forti, pochissimi ponti apparirebbero, poiché ogni settore specifico è praticamente autonomo. Ancora più rigido apparirebbe il sistema se allargassimo il campo di applicazione della rete a tutti gli altri soggetti coinvolti da un eventuale processo di valorizzazione, enti locali, organismi di tutela, operatori culturali, e in generale gli abitanti stessi dei territori interessati. Ogni categoria di soggetti utilizza contenuti, canali e linguaggi di comunicazione diversi, costituendo una serie di nuclei fortemente aggregati di nodi, che comunicano molto tra loro, ma molto poco con gli altri aggregati. In termini teorici, a una prima osservazione la rete appare molto ordinata e poco connettiva. Eppure l’archeologia è una scienza che ha ottenuto risultati importanti nel Mediterraneo, ha messo in luce parecchie civiltà antiche, evidenziandone la stratificazione e i rapporti che intercorrono tra esse ed è anche stata utilizzata a più riprese nei vari sforzi di costruire un immaginario identitario collettivo. Risultati che farebbero pensare invece a un sistema efficiente. Sicuramente l’efficienza del sistema passa attraverso la storiografia. Riformulando infatti il modello, includendone il ruolo in termini di guida interpretativa, ci accorgemmo che fornisce al sistema generale i ponti o legami deboli che ci aspettavamo di trovare in un sistema efficiente. Abbiamo dunque tentato di applicarlo ai reperti archeologici in ambito Mediterraneo, individuando alcuni sottoinsiemi di elementi ordinati secondo il criterio di un’idea guida, che siamo stati in grado di scoprire attraverso l’interpretazione storica del fenomeno urbano e dei sistemi insediativi. un processo che abbiamo chiamato archeologia del sistema territoriale, una sorta d’indagine sulla genesi del paesaggio culturale. Come è noto la stratificazione del tessuto antropico mediterraneo implica senza dubbio la coesistenza sullo stesso territorio di tracce storiche ascrivibili a civiltà cronologicamente differenziate; se poniamo come presupposto della rete l’interrelazione di siti testimoni di una particolare fase storica del territorio, otterremo senz’altro una sovrapposizione di queste in molti punti. RISIGNIFICARE I LUOGHI 3 232 3 i diagrammi sopra utilizzano la logica formale dei grafi per rappresentare la struttura delle reti di piccolo mondo definite da steven strogatz. In sequenza dall’alto: – lo schema semplice di una rete sociale; – il dettaglio di tre elementi legati da “legami forti”; – l’introduzione di legami deboli o “ponti” tra sistemi compatti; – una rete perfettamente ordinata; – una rete di piccolo mondo. Reti archeologiche. La disciplina archeologica divide i suoi interessi su campi a volte molto ristretti e spesso perde di vista gli ambiti più generali, che invece costituiscono il terreno di studio degli storici. Per questo il nostro criterio ordinatore dovrà essere di natura sostanzialmente storica. Stabilitane la natura, per semplificare ancora il modello, possiamo ulteriormente restringere il campo delle possibilità fissando nella storia del territorio l’ambito in cui ricercare il criterio ordinatore della rete. Considerando che in qualche modo il processo storico degli eventi nell’area del Mediterraneo va di pari passo con la storia urbana e che nella fondazione delle città, insieme alla rivoluzione agricola, è possibile individuare il momento stesso del passaggio dalla proto-storia alla storia vera e propria nei differenti ambiti territoriali, si può quindi individuare l’intervallo temporale in cui i territori si sono storicizzati e hanno quindi accolto la civiltà urbana per la prima volta. Il criterio ordinatore che utilizzeremo quindi per determinare gli ambiti territoriali di una rete sarà costituito fondamentalmente dal periodo e dalla civiltà di fondazione delle diverse città mediterranee. Come vedremo il sistema si semplifica parecchio. un’ulteriore riflessione ci suggerisce che questo passaggio dalla proto-storia alla storia si è attuato raramente come fenomeno endogeno di un territorio, ma quasi sempre il progresso irrompe nel territorio sotto forma di colonizzazione pacifica, o di politica espansionistica supportata dallo sforzo bellico, di una civiltà esogena. Ciò vale senz’altro per la storia del Mediterraneo antico (civiltà mesopotamiche, egizia, fenicia, punica, greca e romana). Ma anche nella storia medievale (civiltà dei comuni e delle signorie, civiltà arabo-islamica), fino all’epoca moderna con il colonialismo degli stati europei negli altri continenti e addirittura per l’epoca contemporanea (con la formazione dello stato d’Israele). Esistono dunque momenti di trapianto territoriale di civiltà esterne che determinano dei punti di discontinuità nella storia dei luoghi. In questi particolari momenti della loro storia le civiltà si sono spesso impegnate in uno sforzo intellettuale e fisico determinato alla definizione e alla sperimentazione di nuovi modi e forme di gestione dello spazio. Attraverso questi eventi si realizza la stratificazione e la sedimentazione di paesaggi diversi e diacronici, un’immagine che ben rappresenta i caratteri strutturali ed estetici del paesaggio storico contemporaneo in Italia. Il caso specifico su cui ci siamo prefissi di applicare il modello di Strogatz è la campagna di colonizzazione greca in Italia Meridionale del viii-v secolo a.C. I siti archeologici interessati da questo fenomeno insediativo, definiti storicamente con la locuzione di Magna Grecia, hanno raggiunto nell’antichità livelli culturali, economici e tecnologici molto elevati per l’epoca, in alcuni casi hanno conservato monumenti rilevanti, ma quasi tutti sono poco fruibili, non sono integrati al sistema economico, convivono con preoccupanti fenomeni di degrado. La prima cosa da fare è definire un campo di ricerca e una famiglia di nodi che è necessario includere nella rete territoriale. nel caso della Magna Grecia, o di un qualsiasi altro insieme di luoghi che sia definito da un concetto astratto e non da una locuzione geografica, il tentativo di segnare dei confini sul territorio che includano completamente il fenomeno oggetto di studio è destinato a ottenere scarsi risultati. L’enorme patrimonio di fonti storiche e letterarie che la civiltà greca, e in particolare quella delle polis d’Occidente, ci ha tramandato consente di tracciare un quadro molto dettagliato della vita e della cultura dell’epoca. Eppure non sempre è facile interpretare la geografia degli antichi, perché lungi dall’essere un sistema pienamente razionale, raccoglie miti, leggende, superstizioni, credenze. Ma non è forse racchiuso in questo immaginario fantastico 233 RISIGNIFICARE I LUOGHI 234 4 A. Carandini, Archeologia del mito: emozione e ragione fra primitivi e moderni, Einaudi, Torino 2002. il fascino del mondo antico? Scoprire che gli antichi in fondo avevano gli stessi problemi quotidiani che abbiamo noi, da un lato ci può forse rassicurare, ma da un altro ci priva di uno strato fondamentale del nostro essere, di un importante canale di comunicazione aperto tra noi e gli antichi che non segue le leggi della razionalità e non ha il rigore della storia, ma che usa il magma del subconscio e attraverso simboli e suggestioni ci tiene legati alle nostre radici. La disamina delle fonti antiche e dei dati archeologici, filtrata dall’interpretazione del pensiero storico, ci ha portato a pensare che delineare un quadro chiaro del sistema territoriale nel suo complesso avrebbe richiesto l’utilizzo di una logica diversa da quella materialistico – razionale pura utilizzata dagli archeologi, il cui risultato era spesso molto frammentato e discontinuo. Tanto nel racconto della geografia antica, quanto nelle cronache della gestione del territorio, le fonti antiche sembrano adoperare una doppia logica, a volte razionale e astratta, altre volte irrazionale e simmetrica, una bi-logica. La bi-logica secondo Andrea Carandini è la capacità della nostra mente di utilizzare contemporaneamente due logiche dotate di regole diverse, una razionale ed astratta, l’altra inconscia e simmetrica. Secondo Carandini il mito è tuttora vivo ed è il prodotto costante di questa seconda logica, una logica capace di trovare collegamenti e simmetrie che con la logica razionale resterebbero invisibili4. Il mito nell’ultimo secolo era stato ridotto dal metodo scientifico degli archeologi, improntato sul riscontro certo delle fonti, a credenza popolare senza neanche il rango di religione. Secondo Carandini il mito è molto di più. Il mito ha avuto in epoca preistorica il ruolo che la storiografia ha occupato dal momento in cui è apparsa la scrittura. La necessità di trasmettere le esperienze passate alle generazioni più giovani è da considerarsi probabilmente la causa principale della nascita del linguaggio, la narrazione e il racconto sono il passo successivo. Per millenni gli uomini preistorici si sono tramandati oralmente un corpus di storie vissute degne di essere ricordate. In millenni di tradizione orale le informazioni si sono alterate, la fantasia le ha arricchite, sicuramente molti aspetti sono stati dimenticati, alcune informazioni sono andate perdute, ma se una parte minima di questi racconti si è conservata nell’immaginario della cultura fino ad arrivare alle epoche storiche, quando è stata trascritta, attraverso la selezione durissima della memoria orale, non possiamo certo trascurarne l’importanza. Il mito, in questa interpretazione, rappresenta a nostro modo di vedere una delle attività umane più stupefacenti, un canale di comunicazione che utilizza un linguaggio antico. In effetti se pensiamo che nell’opinione di molti studiosi i racconti Omerici erano da considerarsi opere dell’immaginazione letteraria, anche quando Schliemann con l’Iliade in mano scopriva la civiltà micenea, ci accorgiamo che probabilmente il mito resta tale solo fino a quando non se ne trova il riscontro nella realtà dei dati archeologici. Provando a banalizzare il concetto, il mito si potrebbe assimilare a quelle bonarie bugie che gli anziani propinano ai piccoli per distoglierli da un’attività che essi considerano pericolosa. Esso si fonda quindi e trae la sua forza non da una comunicazione razionale e dettagliata del pericolo, ma facendo leva sull’istinto primordiale di sopravvivenza che accomuna tutti gli esseri viventi. Il messaggio è semplice e chiaro: attento! Perché potresti morire! un messaggio che punta dritto 4 Mappe archeologiche di: Poseidonia-Paestum, Agrigento, eraclea e Metaponto, Partenope-Neapolis, taranto ed elea-velia (da: e. Greco, Archeologia della Magna Grecia, laterza, Roma-bari 2000). 4 235 RISIGNIFICARE I LUOGHI 236 al subconscio fissandosi nella memoria di chi lo riceve. È come se spontaneamente questa attività si sia stratificata nel corso della preistoria, complicandosi progressivamente e sfaccettandosi in mille storie ammonitrici, fino a essere codificata nella scrittura. Abbiamo così provato a costruire un modello bi-logico del sistema territoriale della civiltà greca e, osservandolo nel suo processo di espansione spaziale, abbiamo riscontrato dinamiche di rete facilmente interpretabili attraverso i modelli di rete di piccolo mondo. In termini geografici, nell’insieme delle rotte navali che ne hanno consentito l’espansione nel Mediterraneo e nella rete di vie istmiche che collegavano le colonie magno-greche, in termini culturali, attraverso il racconto dei miti fondativi in rapporto all’Oracolo di delfi. Attraverso un uso bi-logico dell’immaginario storico e mitico siamo stati quindi in grado di configurare un modello di connessioni concettuali tra gli elementi del sistema territoriale. Se osserviamo invece i potenziali nodi della rete, questi appaiono organizzati in gerarchie che agiscono sul territorio con finalità diverse e con strategie inintellegibili agli altri, sovrappongono spesso le loro competenze, comunicano con grande sforzo e senza grandi risultati. È proprio dall’interruzione di questo stato d’incomunicabilità che, a nostro avviso, debba partire un’efficace strategia di valorizzazione. È necessario quindi individuare una serie di interventi sullo spazio e sull’immaginario che realizzino spazi di comunicazione, traduzione e condivisione delle informazioni che facciano da ponti. Ad esempio negli ultimi anni l’unesco ha adottato nuovi criteri di selezione che mirano all’inclusione dei paesaggi culturali, questi nuovi criteri hanno aperto interessanti sviluppi in materia di reti di valorizzazione. Questo nuovo indirizzo ha sortito a nostro parere, ottimi risultati, non tanto per i fondi che ha messo a disposizione dei soggetti preposti alla tutela e alla gestione dei beni, quanto per il ruolo che ha svolto il concetto di paesaggio culturale. Questo oltre a portare un contesto territoriale alla ribalta globale è entrato di forza soprattutto nell’immaginario locale e ha introdotto nel sistema quell’idea guida capace di attivare tutti gli attori territoriali, coinvolgendoli direttamente nel processo di valorizzazione del territorio. Il provvedimento ha avuto anche il merito di attivare la comunità scientifica, che grazie alla sua struttura di rete precedentemente evidenziata, ha attivato una dinamica collaborazione tra gli organismi di tutela al fine di redigere un piano di gestione dei beni culturali, da un lato capace di assegnare a ognuno dei beni il suo rapporto con il patrimonio immateriale, ovvero l’idea di paesaggio culturale individuata e segnalata all’unesco, dall’altro in grado di venire incontro alle esigenze del territorio nella sua condizione attuale. Le ricadute sul territorio del Piano di Gestione sono prodotte fondamentalmente attraverso due categorie d’intervento, una attuata attraverso un programma di riqualificazione urbana e del paesaggio, l’altra costituita da un nuovo Piano per le infrastrutture e per il turismo. La ri-scoperta di questo sistema territoriale potrebbe costituire quell’idea guida su cui puntare per valorizzare un insieme di tracce che, se lette nel giusto modo, possono raccontare una storia molto interessante. La storia della scoperta di un nuovo mondo, della nascita di splendide città in cui sono nate, cresciute e hanno prosperato le prime generazioni di Greci d’Occidente, radice culturale di un’Italia Meridionale che troppo velocemente sta dimenticando il suo passato e le sue origini più profonde. In stratified spheres, the urban or landscape transformation operations have, first of all, the task of re-establishing an equilibrium in the relationship between identity and memory. This necessarily passes through the symbolic mediation of Historic Objects and Cultural Assets, to the extent that they are tied to the collective imagination. The strategy for enhancing archaeological assets, which we have called the “territorial archaeological network”, is nothing more than the definition of a field of action on which it is possible to connect the scientific community and the local actors on the basis of a shared cultural project, a narrative thread based on the archaeological datum, a sort of guiding idea. The network reading of the system makes it possible to adapt some of the theoretical-mathematical models typical of the science of complex networks – and in particular of a new principle highlighted by the studies of Steven Strogatz – which seems to be able to finally reveal the secret of the efficiency of complex networks, i.e. the collective dynamics of the small world networks. It is a concept borrowed from sociology, on the basis of which the Web, Internet, and social networks all work. The study of the network model has been elaborated through the observation of the connectivity existing among the components scattered around the territory (cities, archaeological sites, museums, research centres, public and private institutions, libraries, etc.) which may in some way be connected with a specific conceptual system. Applying the model to the archaeological sites in the Mediterranean area, we have identified several subsystems of elements ordered through the historic interpretation of the urban phenomenon and the settlement systems. It is a process which we have called “archaeology of the territorial system”, a sort of study on the genesis of the historic-cultural landscape. But both in the story of ancient geography and in the chronicles of territorial management, the ancient sources seem to use a dual logic, a bi-logic which, according to Andrea Carandini, is the capacity of our mind to use two logics with different rules at the same time, one rational and abstract, the other unconscious and symmetrical. The bi-logical use of the historic and mythical imagination is the key for configuring, even today, a model of efficient conceptual connections among the elements of the archaeological territorial system. These elements appear, instead, to be organized in rigid hierarchies, act on the territory with different aims and strategies, often overlap their spheres of action, and communicate with great effort and without particularly good results. It is precisely from the interruption of this state of incommunicability that, in our opinion, an effective enhancement strategy must start. This can be accomplished by means of management plans and intervention programmes aiming precisely to design and create efficient configurations of the territorial archaeological networks. tHe teRRitoRiAl ARCHAeoloGiCAl NetWoRKs ABSTRACT 237 MAGnA GRECIA teMPo, sPAZio, luoGHi e ARCHeoloGiA RISIGNIFICARE I LUOGHI Antonino Minniti 238 Patrimonio e risorse. Innanzi tutto, porsi una domanda è d’obbligo: l’archeologia nel suo insieme può rappresentare una risorsa per il Meridione d’Italia? Probabilmente no, non quella classica per lo meno, comunque non adesso, sicuramente non con le sue sole forze. Allo stato dell’arte, infatti, è impossibile considerare il patrimonio archeologico greco/romano del Meridione un volano di sviluppo per due precisi motivi: primo per la mancanza di capacità evocativa dei reperti, dovuta ad una presenza sul territorio frazionata e spesso sommersa e secondo, per l’evidente scarsa monumentalità dei siti stessi, che tranne in rari casi, vedi Sibari e Locri, contengono flebili tracce di un passato più da raccontare che da osservare. Eppure il valore simbolico che le preesistenze storiche tramandano costituisce un bene inestimabile, il presupposto della cultura di un popolo ed è per questa ragione che attribuire alla forza delle idee una concreta possibilità di cambiamento non risulta del tutto vano. L’obiettivo è quello di recuperare interesse ed attenzione per un patrimonio che è bene comune, ma che soggiace lontano da un rapporto concreto con il vivere quotidiano. In effetti bisogna ricordare che il modo di intendere l’archeologia a cui fa riferimento questo programma di ricerca, nella misura e negli intendimenti, è di recentissimi natali e, anche alla luce della particolare congiuntura economica, rischia di porre questioni di difficile soluzione. Eppure proveniamo da una storia recente di ben altro spessore. Per alcuni ancora riecheggiano le sofisticate note prodotte dai Pink floyd nella loro memorabile performance al teatro di Pompei. Rumori, forse per alcuni, ma comunque memorie sonore, sicuramente più gradevoli dei colpi sordi provocati dagli ultimi crolli. Se non ricordo male eravamo agli inizi degli anni ’70 e l’archeologia, a quanto pare, era parte integrante della cultura più sperimentale. E come dimenticare gli anni ’80, con la splendida intuizione di restituire dignità e vita ai centri storici attraverso attività culturali ed artistiche, come se l’energia prodotta dalle arti fosse la panacea di tutti i mali. una parte di verità e di concretezza appartiene a tutte queste storie e risiede nella capacità di soddisfare un’istanza inconscia per l’intera società moderna, la necessità di memorie per potersi confrontare con il presente. In tutto questo l’ambiente archeologico potrebbe ritrovare una sua centralità solo ed esclusivamente attraverso un processo osmotico in cui le componenti della modernità si uniscono a quelle del passato fino a creare una zona di concreta mediazione tra il significato dell’antico e il ruolo di questo nel contemporaneo. Magna Grecia. nel caso specifico della Calabria definire le necessarie strategie utili ad un produttivo e corretto uso delle aree archeologiche ha il sapore di un’impresa ancor più titanica di quelle narrate dai miti fondativi delle stesse città della Magna Grecia. Il tempo dei Gran Tour è finito e la visione romantica di una terra aspra e selvaggia, ricca di antiche vestigia oggi non è più tale. È tramontata anche l’era delle grandi infrastrutturazioni e dell’espansione edilizia, che avrebbero dovuto modernizzare e riunificare il paese nel grande sogno del benessere comune. Le conseguenze di questo processo si possono facilmente comprendere in Calabria più che altrove. Ciò che era bene materiale o monumentale si è ridotto a simbolo o peggio ancora a sterile materiale di studio per pochi eletti. La memoria è stata “reinterrata” sottraendosi di fatto al confronto con l’epoca moderna e le sue contraddizioni. Se altrove la forza del passato è riuscita a sopravvivere, nel territorio calabrese il rapporto tra passato e presente ha manifestato aspetti conflittuali. Lo “stato di necessità”, sembra essere il presupposto fondativo di tutte le politiche locali. nel corso del tempo non è mai venuto meno, anzi si è ripresentato sotto diverse forme, diventando di fatto, l’unico strumento per affrontare le scelte di risanamento e sviluppo. La logica conseguenza a questa atavica mancanza di strategia nel breve, medio o lungo periodo, ha prodotto una serie di distorsioni dell’intero sistema territoriale tanto da generare fenomeni che hanno assunto lo status di tratti distintivi del territorio stesso. Mi riferisco in particolare all’abusivismo edilizio, ormai immagine prevalente del paesaggio, piuttosto che al degrado del panorama costiero, violentato e compromesso da una indiscriminata politica di gestione delle risorse idriche e dei bacini fluviali che, a valle dei fenomeni di erosione, ha determinato una miriade di interventi di protezione delle coste altrettanto invasivi, quanto non sempre utili. Alcuni dati parlano di circa un abuso edilizio accertato ogni 100 metri di costa, quindi siamo in presenza di un fenomeno che ha saturato fisicamente lo spazio tra mare e fascia collinare. La collocazione degli insediamenti sulla costa calabrese assume a volte l’aspetto di una città continua, addensatasi ai margini delle uniche vie di comunicazione che collegano i diversi centri urbani e che ricalcano ancora i tracciati realizzati all’inizio del secolo scorso, se non addirittura di traccia Borbonica. Questa stretta striscia di terra, che solo in rari casi si apre in pianure alluvionali consolidate di grande estensione, ha da sempre rappresentato l’unica via di accesso per i popoli dal mare, così come nella modernità ha rappresentato l’unico spazio disponibile alla creazione di nuovi insediamenti. L’immagine che ci riporta questa situazione è il risultato di una sovrapposizione irregolare, caotica, nella quale il presente ed il passato configgono. L’archeologia a volte è considerata un bene privato, altre volte un ostacolo all’utilizzo delle esigue risorse territoriali. Se nel nostro paese la stratificazione delle città ha da sempre rappresentato un prezioso bacino di informazioni ed i monumenti sono una risorsa riconosciuta, in Calabria invece abbiamo assistito alla progressiva cancellazione di gran parte delle tracce tangibili e concrete dell’evoluzione storica delle città. Laddove la natura con le sue calamità non è riuscita ad arrivare vi è riuscita l’opera dell’uomo. A tal proposito basta citare gli esempi di Reggio Calabria e Crotone, dove le attività di pianificazione e sviluppo urbano hanno irrimediabilmente compromesso la visibilità dei tracciati delle città di fondazione magno-greca. In questo panorama, il processo di reinterpretazione delle aree archeologiche in Calabria passa necessariamente attraverso un processo di relazione ed interazione tra le diverse componenti territoriali, ricercando le possibili soluzioni all’interno di equilibri più complessi. La questione urbana, la dimensione ambientale, i problemi infrastrutturali, le capacità gestionali, le competenze amministrative, le dimensioni fisiche dei siti concorrono, in maniera percentualmente diversa, a generare una moltitudine di realtà locali che rendono complesso ed arduo individuare una soluzione se non attraverso una strategia univoca. È necessaria una visione di insieme, che riesca a coniugare le peculiarità locali con i sistemi territoriali di riferimento al fine di attivare processi realmente efficaci e concretamente realizzabili. Ed è appunto lo stato di abbandono dei sistemi infrastrutturali e di trasporto, l’irrisolta gestione dello sviluppo urbano, la pessima qualità edilizia che possono essere affrontati grazie ad una strategia di interazione con la risorsa archeologica. La scelta del settore jonico della costa calabrese come luogo di sperimentazione e verifica di un programma di valorizzazione delle aree archeologiche non è casuale. nasce da alcune considerazioni circa le risorse presenti sul territorio. Queste si soffermano sulle caratteristiche delle singole aree archeologiche, sugli aspetti funzionali e tipologici dei tessuti urbani di ri- 239 1 tiMe, sPACe, PlACes, ANd ARCHAeoloGY 3 2 ABSTRACT RISIGNIFICARE I LUOGHI 4 240 5 6 1 Reggio Calabria, terme romane. 2 segesta, teatro greco. 3 Agrigento valle dei templi, allestimento i. Mitoraj. 4 Rodi, area archeologica. 5 locri, teatro greco. 6 isola di Creta. ferimento, sul paesaggio circostante e sulle sue specificità, sui sistemi di trasporto. Ma nasce anche dalla convinzione che è possibile correggere il trend negativo dell’abbandono e del degrado di questi territori attraverso una rilettura di alcune realtà, che al momento appaiono compromesse, e che invece, coniugate al percorso della memoria, dettato dalla rete archeologica, potrebbero ritrovare nuova linfa vitale. Innanzi tutto il rapporto tra le caratteristiche del paesaggio naturale e la fondazione delle città magno-greche risulta essere assolutamente condizionato da precisi requisiti di carattere morfologico. I luoghi adatti ad insediare le nuove città furono scelti per la presenza di acqua, per la vicinanza di aree coltivabili, da cui ricavare fonti di so- stentamento e dalle necessità militari di dare una difesa efficace alle nuove colonie. Ed è in questi luoghi che oggi possiamo rilevare favorevoli congiunture, utili a supportare la possibilità di far rivivere il mito (rappresentato dalle città di Reggio, Locri, Crotone e Sibari) accanto agli elementi della recente antropizzazione. La linea ferrata, ad esempio, ad oggi rappresenta uno dei “rami” da tagliare all’interno delle politiche aziendali nazionali, invece potrebbe rappresentare il vettore di spostamento tra le grandi città della Magna Grecia. L’obiettivo? Trasformare un settore in crisi in un comparto economicamente rivitalizzato dal rapporto con l’archeologia. Il medesimo contesto territoriale ci offre inoltre indiscutibili elementi di pregio paesaggistico, quali il mare che costituisce la persistenza visiva più importante, il sistema collinare delle falde dell’Aspromonte, che conserva l’intero patrimonio identitario e culturale della fascia jonica calabrese assieme ad un alto valore paesaggistico ed ambientale. E non possiamo dimenticare certo il rapporto che intercorre tra tessuti urbanizzati e aree archeologiche, laddove a poche decine di metri dal medesimo mare, attraversate dalla medesima ferrovia, le città del passato non riescono a dialogare con la città del presente senza rendersi conto che solo una integrazione di funzioni e di dialogo funzionale le salverà entrambe. In stratified spheres, the urban or landscape transformation operations have, first of all, the task of re-establishing an equilibrium in the relationship between identity and memory. This necessarily passes through the symbolic mediation of Historic Objects and Cultural Assets, to the extent that they are tied to the collective imagination. The strategy for enhancing archaeological assets, which we have called the “territorial archaeological network”, is nothing more than the definition of a field of action on which it is possible to connect the scientific community and the local actors on the basis of a shared cultural project, a narrative thread based on the archaeological datum, a sort of guiding idea. The network reading of the system makes it possible to adapt some of the theoretical-mathematical models typical of the science of complex networks – and in particular of a new principle highlighted by the studies of Steven Strogatz – which seems to be able to finally reveal the secret of the efficiency of complex networks, i.e. the collective dynamics of the small world networks. It is a concept borrowed from sociology, on the basis of which the Web, Internet, and social networks all work. The study of the network model has been elaborated through the observation of the connectivity existing among the components scattered around the territory (cities, archaeological sites, museums, research centres, public and private institutions, libraries, etc.) which may in some way be connected with a specific conceptual system. Applying the model to the archaeological sites in the Mediterranean area, we have identified several subsystems of elements ordered through the historic interpretation of the urban phenomenon and the settlement systems. It is a process which we have called “archaeology of the territorial system”, a sort of study on the genesis of the historic-cultural landscape. But both in the story of ancient geography and in the chronicles of territorial management, the ancient sources seem to use a dual logic, a bi-logic which, according to Andrea Carandini, is the capacity of our mind to use two logics with different rules at the same time, one rational and abstract, the other unconscious and symmetrical. The bi-logical use of the historic and mythical imagination is the key for configuring, even today, a model of efficient conceptual connections among the elements of the archaeological territorial system. These elements appear, instead, to be organized in rigid hierarchies, act on the territory with different aims and strategies, often overlap their spheres of action, and communicate with great effort and without particularly good results. It is precisely from the interruption of this state of incommunicability that, in our opinion, an effective enhancement strategy must start. This can be accomplished by means of management plans and intervention programmes aiming precisely to design and create efficient configurations of the territorial archaeological networks. 241 SQuILLACE GioCARe A dAdi CoN il teMPo RISIGNIFICARE I LUOGHI Alberto fiz 242 Arte e archeologia. Intersezioni è un progetto particolarmente importante che si svolge a Scolacium, uno dei siti archeologici più affascinanti della Calabria. All’interno di questo luogo così carico di memoria, fondato dai Greci, trasformato dai Romani e tornato in auge nel periodo normanno, si è innestata l’arte contemporanea. dal 2005 a oggi sono state sette le edizioni di Intersezioni organizzate a Scolacium e hanno coinvolto alcuni dei maggiori esponenti dell’arte plastica contemporanea: Stephan Balkenhol, daniel Buren, Tony Cragg, Wim delvoye, Jan fabre, Antony Gormley, dennis Oppeheim, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Marc Quinn, Mauro Staccioli. Prima di entrare nel merito del progetto e delle sue specifiche caratteristiche, vorrei analizzarne una componente distintiva che lo ha reso unico. Ovvero il fatto che dalle mostre organizzate ogni estate a Scolacium, ne è emersa una collezione permanente tra le più importanti del Mezzo- giorno. Ogni edizione, infatti, prevede un acquisto a prezzi particolarmente favorevoli di una o più opere da collocare all’interno del Parco della Biodiversità di Catanzaro, diventato, così, il Parco Internazionale della Scultura. Attualmente sono ventitré le opere custodite in quel contesto con tutti gli artisti rappresentati. Si tratta di un vero e proprio fiore all’occhiello per la città di Catanzaro, che intorno a quelle opere si è riconosciuta. Va sottolineato come tutto ciò, Intersezioni e il Parco Internazionale della Scultura, rappresenti un esempio di buona politica in base ad un progetto sostenuto con forza dalla Provincia di Catanzaro guidata dal presidente Wanda ferro (ad iniziarlo era stato Michele Traversa) che, in tal modo, ha saputo incrementare il patrimonio culturale e artistico della città lasciando un segno indelebile. Al contrario di quanto sovente accade, la politica ha saputo essere lungimirante non lasciandosi sedurre dall’effimero. Il progetto non sarebbe stato possibile senza la fondamentale collaborazione di francesco Prosperetti, direttore Regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Calabria e di Maurizio Rubino, responsabile dell’ufficio Cultura della Provincia di Catanzaro. fatte queste considerazioni, vorrei sottolineare il valore culturale di Intersezioni che ha saputo rimettere in gioco la relazione tra antico e moderno. Ciò che è avvenuto a Scolacium va considerato come un processo di sincretismo dove l’archeologia non rappresenta il contesto esotico o straniante che fa da cornice all’arte contemporanea. Al contrario, siamo di fronte ad una rigenerazione della memoria dove il patrimonio archeologico sviluppa la propria energia vitalistica diventando esso stesso parte integrante di un nuovo percorso. Sappiamo bene che il passato non passa; nello stesso tempo la caratteristica intrinseca della contemporaneità è quella di assorbire tutti i tempi. Come ha affermato Jacques derrida, “il nostro tempo è forse il tempo in cui non si può dire ‘il nostro tempo’”; l’arte contemporanea ha la peculiarità di sapersi muovere intorno al tempo, e sembra recitare le parole di Amleto “time is out of joint”. Questa idea di un tempo disarticolato, come l’acqua di un fiume che esce dal proprio letto, è, a mio avviso, l’esatta immagine della situazione in cui stiamo vivendo. Basti pensare che con le dimissioni di Papa Ratzinger è tornato di attualità un avvenimento di oltre 700 anni fa, dal momento che le cronache hanno rispolverato un episodio che sembrava seppellito come le dimissioni di Celestino v. Se da un lato il tempo recupera il tempo, dall’altra ciò che è accaduto qualche mese fa, magari in relazione con le roboanti dichiarazioni che hanno animato la campagna elettorale, sembra lontanissimo e del tutto inefficace. Anche l’accelerazione tecnologica ci ha messo di fronte alla precarietà e un arazzo del 1600 sembra più contemporaneo rispetto ad un obsoleto pc di soli dieci anni fa che appare totalmente analfabeta, non più in grado di leggere i programmi. Il tempo, dunque, si riavvolge in maniera disordinata prendendo strade impreviste. dimenticare a memoria, espressione utilizzata per la prima volta da Vincenzo Agnetti, è, oramai, un nostro vizio di forma. Così il contemporaneo si trova in mezzo al crocevia creando continue interferenze. l’esperienza di scolacium. A Scolacium è avvenuto tutto questo, nel senso che i luoghi già di per sé contaminati dalla storia, sono diventati per gli artisti elementi processuali e quello che poteva essere un tempo congelato è diventato un tempo attivo. Si trasforma il rapporto con il luogo, anche con le sue rovine. A proposito di rovine, ho avuto un divertente dialogo con daniel Buren che ha realizzato l’edizione 2012 di Intersezioni. L’artista francese voleva intitolare la sua mostra Construire sur des ruines, d’un éphémère à l’autre. Travaux in situ. Buren insisteva su questo concetto di rovine; io, invece, ero assai più cauto e cercavo di spiegargli che il suo progetto sarebbe stato letto in chiave negativa. Alla fine di questa discussione siamo arrivati, con qualche resistenze da parte sua, a intitolare la mostra Construire su des vestiges, d’un éphémère à l’autre. Travaux in situ. una disputa dialettica non inutile dal momento che ruines, in francese, ha un valore differente rispetto all’italiano che ne dà una connotazione dispregiativa lasciando presagire non solo un luogo precario, ma anche incolto e disfatto. A ben vedere, la rovina, nel suo significato etimologico, assume per l’arte contemporanea un ruolo assolutamente determinante. Alfredo Pirri sostiene che la rovina è la parte di un tutto che va in qualche modo riempita, che va ricontestualizzata; non è, quindi, un reperto morto, ma luogo integrante del nostro modo di guardare al passato. In tal senso, l’antico si modifica in relazione al nostro sguardo. Probabilmente, se la nike di Samotracia fosse stata una figura completa, non avrebbe avuto lo stesso fascino tanto da diventare, persino per i futuristi, un simbolo. Chissà, forse, come ha affermato Marc Augé, il problema della storia futura sarà quello che non produrrà più rovine perché non ne avrà il tempo. La contemporaneità, nella sua azione orizzontale, ingloba stili e linguaggi differenti in un presente dov’è facile perdere la bussola. E questo aspetto potrebbe avere ampi risvolti sul sistema culturale. In Italia e, a maggior ragione nel Sud, si può tranquillamente lavorare su luoghi contaminati evitando il mito del White Cube, il Cubo Bianco, il contenitore asettico di candida purezza, assai poco indicato per situazioni dove la storia è dappertutto. Meglio, dunque, creare luoghi d’intervento ibridi, attivi in più direzioni e, non a caso, tutta la programmazione che ho realizzato parte dall’idea di una naturale contaminazione. Il museo marca di Catanzaro, per esempio, realizza mostre di arte contemporanea in un contesto dove viene presentata permanentemente una collezione che spazia dal ’400 all’800 con opere provenienti dalla raccolta della Provincia di Catanzaro. La contaminazione domina il parco di Scolacium, così come il Parco della Biodiversità di Catanzaro su cui, come vi ho spiegato, è stata innestata la collezione internazionale di scultura contemporanea. Gli artisti che sono intervenuti a Scolacium l’hanno fatto sempre in maniera molto personale raggiungendo risultati di assoluto interesse con risvolti talvolta inediti anche rispetto alla loro ricerca. Ecco alcune considerazioni. La prima edizione ha coinvolto Tony Cragg, Jan fabre e Mimmo Paladino, tre artisti che lavorano sulle immagini recondite portando alla luce un’archeologia sotterranea. Cragg, per esempio, ha creato un progetto all’interno del foro romano collocando le sue Early forms in bronzo. Si tratta di forme archetipali primare, che contengono la storia, la memoria del loro essere: “Io cerco associazioni, 243 1 2 RISIGNIFICARE I LUOGHI 1 t. Cragg, Cast Glances , 2002, riprodotta accanto a un particolare di seven times di Antony Gormley, esposte al Parco internazionale della scultura. 2 J. Fabre, L’uomo che misura le nuvole, 1998, esposta al Parco internazionale della scultura. 3 d. buren, Ponctuer l’espace, 55 tambours pour le Forum, 2012, travail in situ. 4 M. staccioli, Catanzaro ’11, attualmente al Parco internazionale della scultura. 5 Mimmo Paladino, I Dormienti, 1998. 6 A. Gormley, Seven Times, 2006, opera esposta al Parco internazionale della scultura. 244 3 immagini e simboli che possono arricchire e allargare il mio vocabolario di risposte al mondo che vedo e che potrebbero anche fungere da modelli mentali”, ha affermato Cragg. Jan fabre, invece, è intervenuto all’interno della Basilica normanna dove ha collocato “Questa pazzia è fantastica!” un’installazione che raffigura sette grandi vasche in vetro che ricordano i bagni romani. Tali oggetti, tuttavia, sono stati trasformati dalla colorazione blu ottenuta con l’inchiostro, una sorta di scrittura automatica che rappresenta il marchio di fabbrica dell’artista belga in grado di modificare la natura stessa degli oggetti. Sono presenze di un viaggio nell’inconscio dove la scultura perde la sua connotazione originaria, tattile e materica, per trasformarsi in un processo visivo, a tratti fantastico e irreale. Quanto a Mimmo Paladino, l’artista forse più vicino antropologicamente al contesto del parco archeologico, da alchimista inconsapevole sviluppa la forma segnica e ancestrale del linguaggio riproponendo il significato 4 primario in una spettacolarizzazione della storia che giunge sino alla catarsi. L’artista ha inserito all’interno del Teatro romano Dormienti che appaiono come spettatori inconsci, come simualcri misteriosi, custodi di un’immagine latente e segreta. Particolarmente emblematico è stato l’intervento di Antony Gormley che ha caratterizzato la seconda edizione di Intersezioni. L’artista inglese ha realizzato Time Horizon, un’installazione con cento sculture in ferro collocate in maniera tale da creare un’unica linea dell’orizzonte. Per questa ragione il progetto ha come punto di riferimento il foro romano, la piazza principale della colonia Minervia Scolacium e da qui l’artista traccia la sua linea immaginaria che va a coinvolgere ogni angolo del parco. Il foro, che originariamente era collocato tra i due assi viari della città, diventa vincolante per l’intera installazione trovandosi a una quota più bassa rispetto al resto del parco. Questo comporta una dinamica interna all’installazione e, a seconda della collocazione, le sculture emer- 6 5 gono e s’inabissano proprio come la monumentalità del parco con le sue infinite diramazioni venose sopra e sotto la superficie. Gormley sceglie di affidare ai calchi del suo corpo il compito di partecipare in maniera panteistica all’estensione fisica del mondo. E questo avviene attraverso la materializzazione dello spazio interno che si esplica nel gesto inconscio dell’espirazione e dell’inspirazione. Corpo, natura e storia, dunque, s’integrano alla perfezione nel lavoro di Gormley. Intersezioni 3 ha come protagonisti Stephan Balkenol, Wim delvoye e Marc Quinn, tre artisti che lavorano sugli stili e ripropongono i segni in base ad una logica rinnovata: Balkenol colloca Das Boot, un’antica imbarcazione in legno di otto metri all’interno della Basilica normanna che assume l’aspetto di un porto ancestrale. Sui lati del veliero sono intagliate, in senso opposto, due immagini, una femminile e una maschile, che sembrano distendersi nello spazio. Das Boot appare come un relitto che, sorprendentemente, torna alla luce in un contesto che gli è estraneo. Ebbene, tutta l’indagine di Balkenhol gioca sull’ambivalenza tra l’apparenza monumentale e la negazione del pathos, tra l’essere e il divenire. Wim delvoye va incontro all’utopia del paradosso e compie la sua operazione espropriando gli oggetti dalla loro sede e dalla loro funzione. nel caso di Intersezioni sono stati depositati nel foro romano due caterpillar in ferro larghi tre metri e mezzo e alti nove creando un evidente spaesamento. Le macchine inutili dell’artista belga, in stile neogotico, sono approdate nella città sommersa dove si conducono gli scavi. un cortocircuito della storia dove il segno diventa totalizzante e delvoye impone all’oggetto una precisa volontà perturbante rimettendo in gioco le categorie del tempo e dello spazio. L’intervento di Marc Quinn ha come scenario il Teatro romano. Qui ha collocato una serie di opere della serie Flesh dove quarti di animali sono stati disposti come fossero guerrieri o figure eroiche. Le carni, fuse in bronzo, dall’aspetto sorprendentemente an- tropomorfo, rappresentano il soggetto di un’opera dove l’immagine va a coincidere con la sua essenza. Quinn celebra le Flesh come fossero personaggi della mitologia o della leggenda in una sorta di putrefazione metaforica del monumento che entra nella nostra sfera del quotidiano. Ma l’artista inglese interviene anche all’interno del Museo Archeologico del parco e in questo caso cerca il confronto con le statue romane acefale che entrano in relazione con le sue figure menomate, dove il frammento non è più metonimico, bensì diventa l’elemento che sta alla base di un nuovo principio di unitarietà. Proseguendo in questa breve carrellata, la quarta edizione di Intersezioni è stata dedicata all’artista americano dennis Oppenheim che s’impadronisce del parco creando situazioni totalmente imprevedibili che modificano radicalmente il paesaggio. Ciò che appariva stabile, entra definitivamente in crisi sviluppando una precarietà consustanziale al suo stato. nel foro romano, per esempio, colloca 245 7 RISIGNIFICARE I LUOGHI 7 M. quinn, Peter Hull, 1999, all’interno del Museo Archeologico di scolacium. 8 s. balkenhol, senza titolo (uomo e ballerina), 2005, opera esposta al Parco internazionale della scultura. 9 W. delvoye, Dump Truck, 2006, esposta al Parco internazionale della scultura. 10 M. Pistoletto, I Temp(l)i cambiano, Terzo Paradiso, 2010, attualmente al Parco internazionale della scultura. 11 d. oppenheim, electric Kisses , 2009, attualmente al Parco internazionale della scultura. 246 8 i Tumbling Mirage, miraggi che fanno venire in mente navicelle spaziali, mentre all’ingresso del parco vengono collocati i Safety Cones dove tre immensi coni stradali, come quelli che fiancheggiano i lavori in corso, sono contrappuntati da una serie di finestrelle a forma di oblò che deviano il senso dell’oggetto personalizzandolo attraverso la simulazione dell’habitat. Splashbuilding, poi, sono grandi sculture in plastica trasparente che simulano l’esplosione delle gocce d’acqua o gli Electric Kisses appaiono come due grandi installazioni dove la forma dei cioccolatini americani diventa l’occasione per realizzare un’unità abitativa. Insomma, la geometria instabile, la disarticolazione delle forme, la trasformazione d’uso e il perenne stato di alterità, sono alcuni degli aspetti essenziali che hanno caratterizzato la ricerca di Oppenheim e hanno consentito di trasformare drasticamente la visione del parco di Scolacium. dopo Oppenheim, è giunto Michelangelo Pistoletto, un artista che ha fatto del tempo un elemento fondamenta- le della sua indagine. Basti pensare ai suoi quadri specchianti che hanno fatto il loro ingresso sul palcoscenico dell’arte nel 1962 sconvolgendo il sistema visivo. Lo specchio, infatti, apre una prospettiva multipla che, come l’artista afferma, “ci costringe a considerare lo spazio e il tempo che si estendono dietro di noi riconfigurando il passato e il presente come parti integranti di una prospettiva futura.” In tal senso appare emblematica la Venere degli stracci in cui la Venere viene vista di spalle, come se fosse allo specchio, immersa nei cenci colorati. La statua classica entra nella vita e, nello stesso tempo, la bellezza attrae a sé gli stracci. La relazione tra passato e futuro, poi, trova il suo pieno compimento nelle due grandi installazioni realizzate specificatamente per Intersezioni, in particolare I Temp(l)i cambiano-Terzo Paradiso e Il DNA del Terzo Paradiso. nel primo caso il tempio dalla forma classica si specchia in Chronos: quando i tempi cambiano, i templi cambiano di significato, sembra dirci Pistoletto. L’artista innesca un processo di cam- 9 10 biamento dove il simbolo per eccellenza dell’epoca classica determina un rapporto dinamico e sinergico con la trasformazione del presente. L’opera è creata con materiali di riciclo a dimostrazione di un reciproco scambio con l’industria e in questo caso le colonne del tempio vengono realizzate con i cestelli di lavatrici, mentre le serpentine di frigoriferi diventano il basamento e il timpano facendo scoccare un processo di contaminazione e di ibridazione dei materiali che assume su di sé la responsabilità di una nuova ritualità ecologica della bellezza. La storia è una forma di eterno riciclo che contiene il dna e, non a caso, proprio a questo concetto si è ispirato il grande lavoro concepito appositamente per il foro romano con i tubi colorati utilizzati per coprire i cavi pericolosi sulle strade. Il dna , che contiene il tracciato ereditario e indica il cammino del nostro domani si concretizza nel Terzo Paradiso, il nuovo segno dell’infinito formato da tre cerchi. Il cerchio centrale è la fusione dei due paradisi precedenti, 11 quello naturale e quello artificiale tanto da diventare il grembo generativo di una nuova fase evolutiva. La storia di Intersezioni prosegue con Cerchio imperfetto di Mauro Staccioli, un altro grande progetto che ha occupato l’intera superficie del parco. L’indagine si colloca nell’ambito dell’arte ambientale e le sue sculture hanno la caratteristica di essere opere che abitano lo spazio. Staccioli è intervenuto sulla memoria immanente del luogo ispirando una nuova fruizione della storia non più legata alla contemplazione ma alla sua rigenerazione, come emerge da Catanzaro ’11, la grande scultura in acciaio corten di otto metri d’altezza, così come da Sinistra a destra, il grande arco collocato all’interno del Teatro romano. L’antica Minervia Scolacium crea un rapporto osmotico con le opere di Staccioli che partecipano al processo di sedimentazione e respirano all’unisono con l’ambiente. Talvolta, poi, gli equilibri precari della storia vengono alterati, come accade per Diagonale rossa, un plinto di 25 metri che taglia la navata della Basilica normanna sino a conficcarsi nell’oculo costruito sulla facciata. Si ha l’impressione che l’artista, con il suo gesto, metta il dito nell’occhio del ciclope che si affaccia all’ingresso del parco. A questo proposito può essere utile ricordare le parole scritte da Staccioli nel 1976 ma ancora attuali per comprendere il suo approccio linguistico: “Le mie sculture non sono pensate come oggetti di abbellimento stabile, come monumenti, non illustrano o celebrano un evento; sono strumenti di provocazione di coinvolgimento e di rilevamento critico, richiamo e condizione esistenziale presente, occasione di una discussione pubblica collettiva”. nel 2012 a Scolacium è approdato daniel Buren che, nonostante la sua lunga e gloriosa carriera, non aveva mai realizzato, prima di allora, un intervento così ampio e articolato in un parco archeologico. L’artista francese ha costruito una nuova narrazione senza mai prevaricare l’architettura del luogo. dietro alle sue installazioni c’è un gioco sottile che gli ha consentito di 247 RISIGNIFICARE I LUOGHI 248 accentuare linee di forza già esistenti, di riempire dei vuoti, di sdoppiare forme geometriche semplici, disegnare linee nello spazio e rivelare altezze o, ancora, reinterpretare l’archeologia ritrovando colonne che non sono mai esistite. Che la costruzione si sviluppi intorno a un paesaggio mentale lo dimostra, in primo luogo, l’azione condotta sulla Basilica di Santa Maria della Roccella dove Buren crea due finestre colorate rosse e gialle, riempiendo una fenditura e l’oculo ellittico sulla facciata. Il Foro, invece, è oggetto di una fantastica ricostruzione dove l’artista reinventa un colonnato formato da 53 elementi in legno partendo dai frammenti esistenti. In questo caso il luogo dell’archeologia appare come l’elemento ispiratore di un progetto architettonico che sfida il tempo e lo spazio. di natura del tutto eccezionale è, poi, l’intervento ideato per il Teatro romano dove Buren ha concepito una struttura specchiante di oltre 30 metri di lunghezza e di oltre tre metri d’altezza che, collocata al centro, permette di raddoppiare l’immagine dell’antica costruzione sviluppando un contesto visivo dove la percezione del luogo subisce una progressiva trasformazione riflettendo e nello stesso tempo occultando lo spazio. A tutto ciò si aggiunge Cabane éclatée aux 4 couleurs: travail in situ, una struttura esplosa che si apre al vuoto e assorbe il luogo che la circonda condividendone l’esistenza. Ecco, in breve, la storia di Intersezioni, un progetto che ha creato una nuova fruizione dell’arte uscendo da ogni convenzione. Gli artisti hanno saputo agire in sinergia con la storia sapendo bene che, come diceva Eraclito, il tem- po è un fanciullo che gioca spostando i dadi. Sono convinto che Scolacium porterà con sé, per sempre, le tracce di Intersezioni. RolliNG diCe WitH tiMe ABSTRACT In stratified spheres, the urban or landscape transformation operations have, first of all, the task of re-establishing an equilibrium in the relationship between identity and memory. This necessarily passes through the symbolic mediation of Historic Objects and Cultural Assets, to the extent that they are tied to the collective imagination. The strategy for enhancing archaeological assets, which we have called the “territorial archaeological network”, is nothing more than the definition of a field of action on which it is possible to connect the scientific community and the local actors on the basis of a shared cultural project, a narrative thread based on the archaeological datum, a sort of guiding idea. The network reading of the system makes it possible to adapt some of the theoretical-mathematical models typical of the science of complex networks – and in particular of a new principle highlighted by the studies of Steven Strogatz – which seems to be able to finally reveal the secret of the efficiency of complex networks, i.e. the collective dynamics of the small world networks. It is a concept borrowed from sociology, on the basis of which the Web, Internet, and social networks all work. The study of the network model has been elaborated through the observation of the connectivity existing among the components scattered around the territory (cities, archaeological sites, museums, research centres, public and private institutions, libraries, etc.) which may in some way be connected with a specific conceptual system. Applying the model to the archaeological sites in the Mediterranean area, we have identified several subsystems of elements ordered through the historic interpretation of the urban phenomenon and the settlement systems. It is a process which we have called “archaeology of the territorial system”, a sort of study on the genesis of the historic-cultural landscape. But both in the story of ancient geography and in the chronicles of territorial management, the ancient sources seem to use a dual logic, a bi-logic which, according to Andrea Carandini, is the capacity of our mind to use two logics with different rules at the same time, one rational and abstract, the other unconscious and symmetrical. The bi-logical use of the historic and mythical imagination is the key for configuring, even today, a model of efficient conceptual connections among the elements of the archaeological territorial system. These elements appear, instead, to be organized in rigid hierarchies, act on the territory with different aims and strategies, often overlap their spheres of action, and communicate with great effort and without particularly good results. It is precisely from the interruption of this state of incommunicability that, in our opinion, an effective enhancement strategy must start. This can be accomplished by means of management plans and intervention programmes aiming precisely to design and create efficient configurations of the territorial archaeological networks. 249 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 250 arCHiTeTTura Per i PaeSaggi arCHeologiCi ARCHITECTURE FOR ARCHAEOLOGICAL LANDSCAPES a cura di edited by Pasquale Miano 251 iNdAGiNe ARCHeoloGiCA e PRoGRAMMA ARCHitettoNiCo Pasquale Miano Architettura e archeologia. Sul rapporto tra architettura e archeologia negli ultimi anni si è discusso in convegni, studiato in specifiche ricerche e i progetti che hanno affrontato questo tema si sono moltiplicati. Questa accumulazione di materiali e di esperienze ha sicuramente consentito di evidenziare la legittimità e l’importanza del contributo dell’architettura nella configurazione dei siti archeologici, ma rimane aperto un interrogativo fondamentale: sono rintracciabili caratteri distintivi del progetto di architettura nelle aree archeologiche? A questo interrogativo risponde indirettamente Giovanni Guzzo allorché sostiene che: pp. 250-251 l. Kahn, L’Acropoli di Atene, 1951 (da: Louis I. Kahn 1901-1974, “Rassegna”, 21/1, 1985). 1 le Corbusier, Vista del del Tempio di Giove ricostruito, Pompei 1911. (©flc, by siae 2014) L’antico e il moderno si incontrano, dialogano tra di loro e l’esito di questo dialogo nel corso del tempo può produrre una gamma vastissima di risultati che vanno dall’interferenza, al rifiuto, alla distruzione, al riadattamento. La varietà di questa gamma cambia e si può sintetizzare nel cosiddetto caso per caso che non segue una costante1. Ma se la variabilità e l’eterogeneità delle situazioni rende già di per sé difficile una risposta univoca all’interrogativo posto, dal versante dell’architettura Pippo Ciorra sottolinea: non credo alla possibilità che esista un’architettura specifica per l’archeologia, penso che un bravo architetto con una buona dose di cultura messo davanti ad un problema archeologico lo affronti con la migliore qualità possibile, sapendo seguire “sapienza” e “bellezza”2. Ancora francesco Cellini, proprio partendo dai risultati di alcune sperimentazioni, aveva considerato che: non ha più senso (se mai l’ha avuto in passato) impegnarsi in una battaglia ideologica per 253 1 P. G. Guzzo, Il dialogo tra antico e contemporaneo, infra, p. 303. 2 P. Ciorra, Up-cycling, morte e vita dei corpi architettonici, infra, p. 279-280. 3 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 2 2 trama archeologica nel territorio di Pozzuoli. 3 Cento Camerella a villa Adriana. affermare il primato della contemporaneità, è invece la contemporaneità che prende senso proprio nel dialogo con l’antico, nel raccogliere le sue tracce, riordinarle, conoscerle3. Come sottolinea Alberto Ferlenga: nei confronti di aree di scavo o recinti archeologici l’architettura contemporanea svolge prevalentemente un compito di servizio. Il suo campo d’azione è quello delle coperture, dei musei, dell’accoglienza, all’interno del quale il suo ruolo si sviluppa in termini prevalentemente tecnologici o funzionali, rispondendo spesso ad una sorta di stile che rende gli interventi in questo settore molto simili tra loro per uso di materiali e di forme4. È quindi sbagliato considerare un’architettura per l’archeologia come un approccio precostituito, specializzato su alcuni temi, ai quali rispondere con uno “stile contemporaneo” predeterminato, privo di ogni impronta sperimentale. È utile invece impostare il ragionamento sul rapporto architettura-archeologia, a partire dalla specificità di due discipline che si sono spesso intrecciate e per cui si è determinato un terreno di dialogo e di confronto continuo. Joseph Rykwert dice che: 254 3 f. Cellini, Prefazione a AA.VV., Archeologia e Progetto, tesi di laurea nella facoltà di Architettura, università degli Studi Roma Tre, Roma 2002. 4 A. ferlenga, Il dialogo interrotto delle rovine di ogni tempo, “iuav. Giornale dell’università – Archeologia e Contemporaneo”, 81, settembre 2010, p. 2. 5 J. Rykwert, Archeologia e architettura, infra, p. 311. archeologia e architettura sono due facce della stessa medaglia. Qualcuno ha definito l’archeologia come la distruzione sistematica delle vestigia del passato: l’archeologo scava un livello dopo l’altro, per raggiungere il suo scopo, distruggendo tutti quegli strati che intralciano la sua ricerca5. indagine archeologica e programma di architettura. L’archeologia è stata in realtà una delle materie alla base della formazione degli architetti moderni, a partire dagli inizi del xix secolo ed è possibile “seguendo l’oscillazione dei rapporti tra architetti e archeologi […] comprendere gli assetti statuari delle due discipline proprio attraverso le tecniche del cantiere di scavo e rilievo, che ne costituiscono il punto concreto di incontro-scontro”6. Ma l’intreccio più significativo emerge allorché l’indagine archeologica diventa vero e proprio programma di architettura: il mio interesse per l’archeologia è sempre stato più forte dell’interesse per la storia. L’archeologia presenta sempre una ricostruzione, nel senso che ci spinge ad una ricostruzione. di fronte ad una serie di elementi archeologici il disegno della ricomposizione è opera di invenzione che utilizza un materiale. naturalmente questo materiale è straordinario, esso stesso è memoria7. A proposito del progetto di valorizzazione del Teatro romano di napoli, Daniela Giampaola evidenzia infatti che, in relazione alle operazioni preliminari conoscitive, sono state ripercorse “le trasformazioni dell’area in una dimensione diacronica molto estesa: dalle fasi precedenti al monumento, a quelle del suo impianto e, poi, del suo abbandono, alla formazione di un nuovo tessuto edilizio che, attraverso numerose modifiche, ha generato la forma dell’isolato moderno”8. Probabilmente la ricostruzione archeologica, o più in generale la ricerca archeologica, è in realtà solo un elemento di un più articolato discorso, che si incentra sulla centralità dell’aspetto conoscitivo e che non riguarda semplicemente l’antico. In molti casi alle strutture antiche si sono sovrapposti, intrecciati, avvicinati insediamenti suc- 6 C. d’Amato, Prefazione a T. Culotta (a cura di), Progetto di architettura e archeologia, L’Epos, Palermo 2009, p. 13. 7 A. Rossi, Architettura, architettura analitica, città analoga (1972), 5 novembre 1972-31 dicembre 1972, in A. Rossi, I Quaderni Azzurri: 1968-1992, a cura di f. dal Co, Electa, Milano 1999. 8 d. Giampaola, Scavo e recupero del teatro antico, infra, p. 321. 255 cessivi, di varie epoche, determinando situazioni urbane molto articolate ma estremamente interessanti. Le molteplici compresenze di architetture diverse in uno stesso sito confermano sempre di più la necessità per la disciplina dell’archeologia di non rincorrere una presunta scientificità rispetto alla realtà, assumendo una posizione irrigidita e di aprirsi ad altri contributi, in grado di introdurre punti di vista e letture diverse. Tra queste assumono una particolare rilevanza quelle impostazioni che non si configurano solo come ricostruzioni dell’antico, ma come conoscenza e interpretazione di territori e di paesaggi contrassegnati dalla presenza archeologica, fino alla messa in evidenza di trame nascoste. un luogo può essere raccontato attraverso mappe, che ne restituiscono le diverse versioni, dalle quali emerge un sistema di permanenze, di cui i reperti archeologici possono rappresentare un’espressione fisica tangibile. Lilia Pagano sottolinea che: ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI la verifica progettuale di tutto questo presuppone un nuovo realismo e la compresenza di diverse scale, spazia dalla dimensione territoriale dei paesaggi urbani/quartieri alla risignificazione di testimonianze archeologiche del passato anche minimali, dall’idea di una città geografica ad una ricerca compositiva attenta al dettaglio che ridefinisce lo stesso concetto di storia e tradizione9. In questa ottica diventa di particolare importanza l’integrazione delle mappe con le sezioni, nelle quali spesso risulta più chiaro il rapporto tra archeologia e architettura. Eleonora Mantese parla di “disamina anatomica”: “questa volontà quasi ossessiva per un architetto di guardare alle parti è legata alla volontà di riportare l’edificio a unità”. nel disegno, questa unità viene ricercata attraverso il rovesciamento del piano rappresentato: la sezione di ogni edificio concorre alla costruzione di un corpo urbano, alla complessità della città. Mentre alcune città trovano nell’impianto planimetrico la loro chiarezza dichiaratoria oppure, all’opposto, la loro indeterminatezza di metropoli senza limiti che si espande senza forma, ci sono città la cui conoscenza resta superficiale senza una lettura in sezione10. 256 9 L. Pagano, Architettura quarta natura, infra, p. 270. 10 E. Mantese, La sezione, “firenze Architettura”, università degli Studi di firenze, 1, 2009. 11 L. franciosini, Archeologia e progetto, in M.M. Segarra Lagunes, (a cura di), Archeologia urbana e progetto di architettura: seminario di studi, Gangemi, Roma 2002. nel caso della “sezione archeologica” queste considerazioni assumono un’assoluta peculiarità. Il “disegno della ricomposizione” prefigurato da Aldo Rossi, infatti, si attua attraverso la scomposizione e la ricomposizione degli elementi che costituiscono i paesaggi archeologici, spesso come ricostruzione della dinamica trasformativa stessa. da strumento analitico di rappresentazione di uno stato presente, il disegno diviene elemento di comprensione di un processo e in questo senso assume un ruolo fondamentale dal punto di vista progettuale. Per certi versi, al pari del disegno e della restituzione cartografica, nei luoghi archeologici si sviluppa un “lento processo di acquisizione degli elementi della realtà che induce a percorrere a ritroso l’accaduto, strato dopo strato, frammento dopo frammento, tracciato dopo tracciato, nell’obiettivo di intuire e ri-conoscere le analogie, le corrispondenze, soffermandosi sulle discontinuità, sulle permanenze e le variazioni, le resistenze e le fragilità”11. Ragionando su altri piani, le considerazioni di Aldo Rossi trovano conferme inattese 4 nelle riflessioni di Andreina Ricci sul senso dell’indagine archeologica nel territorio contemporaneo: 4 P. Zumthor, Kolumbia Museum, Colonia. nessun elemento in sé appare determinante per la comprensione della storia dei luoghi. Significative sono invece le relazioni tra gli oggetti […] fra oggetti e monumenti, fra presenze monumentali diverse, fra gli edifici, stratigrafie di terra e stratigrafie degli elevati. Solo attraverso relazioni molteplici è possibile ricostruire ambienti, interrelazioni fra uomini e natura e reimmaginare assetti complessi di città e campagna12. la ricerca di nuove relazioni. L’archeologia e l’architettura lavorano dunque parimenti dentro il meccanismo della conoscenza, con il compito di esplicitare “valori relazionali che essi sottendono, da ciò che è materialmente presente a ciò che, pur essendo presente, non si vede”13, “una ricerca di nessi che deve farsi progetto”14 sottolinea Ferruccio Izzo. Risulta allora interessante focalizzare l’attenzione sul ruolo dell’architettura e del progetto urbano nella costruzione di relazioni a partire dai ruderi e dagli scavi archeologici(fig. 2): è un compito interessante per l’architettura, che non ne limita in alcun modo la specificità. Molteplici sono le declinazioni di questo lavoro, ma è possibile, per semplicità e per chiarezza, ricondurre gli innumerevoli casi ad alcuni temi, ben identificabili e precisi. nell’ottica della costruzione di relazioni può essere in primo luogo affrontato il difficile e dibattuto tema del “completamento” o della “ricostruzione” di un rudere, una questione che non può essere affrontata in termini ideologici, contrapponendo astrattamente la “bellezza della rovina” alla leggibilità didascalica di un’architettura ricostruita e rifunzionalizzata. In realtà possono emergere interpretazioni convincenti, se l’azione intrapresa si lega alla necessità di “confermare” la presenza dell’architettura antica all’interno di una città o di un territorio, nel senso della “riscoperta” e della riproposizione “dell’originaria ingegnosa pluralità”, volendo utilizzare la definizione di Mario Manieri Elia, a proposito dell’intervento di restauro delle Cento Camerelle a 257 12 A. Ricci, Archeologia fra passato e futuro dei luoghi, in A. Clementi (a cura di), Il senso delle memorie in architettura e urbanistica, Laterza, Roma-Bari 1990. 13 A. ferlenga, Segni, infra, p. 291. 14 f. Izzo, Sostenere la civiltà. Contemporaneità e topografia del tempo, infra, p. 276. 5 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 6 7 Villa Adriana15 (fig. 3). Proprio in riferimento a questa conferma può essere sviluppata la risposta architettonica finalizzata ad un nuovo radicamento del rudere in senso urbano, anche attraverso la ricostituzione di elementi volumetrici. d’altra parte questa linea di intervento acquista maggior forza se la riarticolazione volumetrica è messa in relazione con la riconfigurazione degli spazi interni, con la realizzazione di un meccanismo di “attraversamento interno”, che assuma esso stesso rilevanza urbana. Si apre in questo modo un campo di sperimentazione molto ampio e articolato, dalla ricostituzione delle volumetrie originarie alla proposizione di un nuovo volume che ingloba i ruderi. In tutti i casi assume forte rilevanza la questione della riconoscibilità dell’intervento contemporaneo. Alcuni anni fa Ignasi de Solà Morales ha bene espresso il concetto che, accanto a questa inderogabile esigenza di autenticità, possa stabilirsi un rapporto nel quale: il progetto di una nuova architettura non solo si avvicina fisicamente a quella già esistente […] ma stabilisce una vera e propria interpretazione del materiale storico con cui si misura […] lavorando attraverso una contrapposizione che traduce differenze di tessitura, di materiali, di geometria e di densità della trama urbana16. 258 Questi concetti si ritrovano con chiarezza nel Kolumbia Museum di Colonia di Zumthor(fig. 4), che ha costruito una situazione di rarefazione, una smaterializzazione che genera all’interno del grande ambiente archeologico, una suggestiva “atmosfera”. 15 M. Manieri Elia, Progetto archeologico/progetto architettonico, Gangemi, Roma 2007, p. 104. 16 I. de Solà Morales, Interpretazione del passato, “Lotus”, 46, Electa, Milano 1985. le sezioni “archeologico-architettoniche”. Emerge allora un secondo tema che si incentra, schematicamente, sulla costruzione di un nuovo rapporto basso-alto, inteso come risultato di un lavoro conoscitivo e progettuale, secondo l’orientamento seguito molti anni fa da Carlo Scarpa, nel paradigmatico progetto non realizzato per la copertura degli scavi archeologici di piazza duomo a feltre(fig. 5). Le relazioni tra il piano della città attuale e il piano archeologico possono essere ridefinite, anche in situazioni più articolate, soprattutto attraverso calibrati piani di transizione, che diventano la spina dorsale di una logica di “riuso” delle rovine. Questo tema può essere declinato attraverso composizioni di piani/strati, livelli che segnano la presenza di resti, mettendo in comunicazione spazi pubblici e spazi archeologici, luoghi urbani che contengono i testi stessi. L’antico viene messo in gioco attraverso meccanismi di connessioni, che coinvolgono diversi strati e livelli della città, puntando a costruire spazi e luoghi di riferimento urbano, anche completamente nuovi. In questa ottica, e da qui un altro tema significativo, il gioco delle connessioni consente di rompere e smentire completamente l’idea dell’archeologia in città come recinto, come parco archeologico inteso come luogo monofunzionale e specializzato, sottratto alla dinamica urbana. Con la rottura del recinto il margine dell’area archeologica diventa un sistema di transizione con spessori variabili, muri, percorsi, accessi, spazi pubblici, ancora una volta direttamente relazionati ai ruderi. Come ha sottolineato daniele Manacorda, a proposito del progetto di Mario Manieri Elia per largo Argentina a Roma(fig. 6), si tratta di “sottrarre alcune aree archeologiche alla loro condizione di luoghi separati dalla città per ripristinare un più ampio uso urbano”17. L’idea della connessione, del supporto, volendo ancora usare un termine legato al carattere di infrastruttura che assume l’archeologia in questi contesti, può essere ancor 5 C. scarpa, Copertura degli scavi archeologici a Feltre. 6 M. Manieri elia, Progetto per largo Argentina a Roma. 7 R. Moneo, Progetto di valorizzazione del Teatro romano di Cartagena, 2001-2008. 259 17 d. Manacorda, Archeologia in città tra ricerca, tutela e valorizzazione in M.T. Guaitoli (a cura di), Emergenza sostenibile. Metodi e strategie dell’archeologia urbana, Atti della Giornata di Studi, BradypuS Communicating Cultural Heritage, Bologna 2011. di più ampliata, diventando una trama, una spina dorsale, che si costruisce attraverso un lavoro sulle tracce18. Il progetto urbano diventa allora costruzione di continuità urbane anche parziali, in grado di mettere a sistema i frammenti archeologici appartenenti a diversi tempi della città e di relazionarli a altri luoghi e emergenze urbane. Si può citare, a questo proposito, il caso del progetto del museo del Teatro romano di Cartagena di Rafael Moneo(fig. 7), che incorpora e collega vuoti e edifici costruiti nella trama urbana, introducendo un percorso museale concepito come un itinerario dal mare alla quota alta della città, che culmina nella inaspettata visione dell’imponente area del teatro antico. Questo progetto consente di aprire una riflessione, che si collega ad una considerazione più generale di Andreina Ricci sullo sprawl archeologico: ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI ciascun frammento residuale, sparso nell’attuale abitato non rimanda che a se stesso. Eppure, come se si trattasse di frasi slegate e apparentemente prive di senso […] tali unità a sé stanti attendono di essere combinate in percorsi e in sequenze19. 260 18 V. Quilici, Lavorare sulle tracce, in M.M. Segarra Lagunes, Archeologia urbana e Progetto di architettura, cit. 19 A. Ricci, Attorno alla nuda pietra, donzelli, Roma 2006, p. 148. 20 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, in A. Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco (a cura di), L’antico e il nuovo. Il rapporto tra città antica e architettura contemporanea: metodi, pratiche e strumenti, utet, Torino 2002, p. 182. 21 A. Branzi, L’allestimento come metafora di una nuova modernità, “Lotus”, n 115, Electa, Milano 2002, pp. 96-101. I frammenti archeologici sono compresi spesso nei paesaggi “rovinati” dagli insediamenti contemporanei, ma vi è la necessità di guardare in maniera architettonica a queste situazioni, capire i meccanismi di continuità, aggiornare le mappe delle presenze, entrare in una logica in cui gli scarti si possono reimpiegare, ragionando sulla questione del riuso, che inteso in senso ampio riprende tutti i temi prima considerati. In questo senso si può parlare di architettura per i paesaggi archeologici, come esito di un articolato processo di costruzione di una trama di relazioni, a partire dalla comprensione della topografia storica “non solo come valore archeologico ma anche come valore urbano, che assicuri una relazione tra realtà transtoriche”20. L’architettura delle connessioni, che sia lo strato di un edificio antico a cui si sono sovrapposti altri edifici o i reperti disseminati in un paesaggio archeologico, è architettura concentrata su alcune strategie fondamentali per le aree archeologiche. Attraverso l’architettura delle connessioni, spazi e luoghi archeologici diversi sono tenuti insieme dalla trama dei percorsi e degli attraversamenti degli spazi interni, che si rianimano e diventano nuovi riferimenti, luoghi di conoscenza del passato, ma anche luoghi attivi, dove si svolgono azioni e funzioni contemporanee. L’intervento architettonico può assumere allora caratteri riconoscibili e reversibili, attraverso caratterizzazioni prossime a quelle dell’installazione, che diventa interpretazione della spazialità in cui si colloca, commento critico della realtà stessa, suo veicolo di conoscenza e non certamente architettura convenzionale, con forme e tecniche precostituite. L’interpretazione avanzata è proposta da Andrea Branzi, allorché afferma che: proprio perché sovrastrutturale e transitorio, l’allestimento non è una sottocategoria dell’architettura, ma al contrario oggi occupa una nuova centralità nelle trasformazioni urbane, in altre parole […] quando si allestisce […] si costruisce un pezzo di città. un pezzo di città che va a collocarsi nella sua frangia più evoluta, che è quella che risponde alla logica di reversibilità, di adeguamento, di rifunzionalizzazione del mondo costruito21. In classical archaeology, the past and present represent two extremes that are unable to engage in dialogue either within the urban fabrics, or with the territory surrounding them. The different problems are always related to different geographic conditions. Although the Italian archaeological heritage is considered a heritage of humanity, its evocative strength has died out over the past 30 years. The large urban centre such as, for example, Rome and naples, and the medieval villages in the centre and north manage to survive. In these places, thanks to the visibility of the architectural stratifications, it is still possible to perceive the historic evolution of the cities and their culture, up to our day. unfortunately, these situations, too, are not extraneous to the problems connected with the management of the urban systems and its resources, since it is increasingly difficult to attribute to the preexisting archaeological structures a ductility of use that can keep up with the needs of the economy and the market. Another aspect of the problem of archaeology and its relationship with the territory stems from the particular case history found in the southernmost part of Italy. Here, after the catastrophic natural events followed by reconstruction errors, very little has remained of the huge heritage left us by the ancient Greek colonies. Today it is possible to observe a fragile, discontinuous presence of monuments, threatened, when not destroyed, by the phenomenon of the expansion of building, both legal and illegal. In this context, the most important aspect is the relationship between archaeology and the anthropized landscape, and in order to have a proper reading of the reality, it is necessary to refer to a geographic, rather than an urban, dimension. It is not a question of enhancing the single archaeological sites, but of recreating a concrete relationship between the potential the archaeological system can express and the entire surrounding territory. I do not believe it’s merely by chance that the highest number of cities founded by the Magna Graecians are concentrated in the heavily degraded areas of the lower Ionian, because of a logical proximity to the mother land, a morphological matter; it certainly isn’t because of the environmental resources these territories offered the colonists. Today, the most important urban settlements stand in the same areas where the Greek colonies were founded, the mobility and transport systems skirt or pass through the same places, the protected areas and large nature parks are close by and easy to reach, and the sea is a constant and matchless presence. In light of the urgency of intervention as radical as it is necessary, it would be advisable to rethink these territories, considering the archaeology not as an added value but as a new “centrality”, a sort of “deus ex machina”, for an idea of development that promotes the principles of cultural identity and reappropriation of the memory as crucial elements for any governance action over the territory. ARCHAeoloGiCAl suRveY ANd ARCHiteCtuRAl PRoGRAM ABSTRACT 261 ARCHitettuRA “quARtA NAtuRA” Lilia Pagano Architettura-natura. Se si assume come premessa l’Eupalinos di Paul Valéry, non è strano iniziare una riflessione su “quale architettura per i paesaggi archeologici” dal rapporto architettura-natura. La dialettica tra mondo naturale e archetipo architettonico rivela il limite ambiguo tra storia e natura affiancando ad una “storia intellettuale”, pura sfera conoscitiva e interpretativa dei “prodotti” del pensiero dell’umanità, la materialità del ruolo attivo del Tempo nella storia, ovvero di quell’opera continua della natura esaltata dalle interruzioni dell’azione dell’uomo, esso stesso agente della natura. L’uomo – scrive Valéry – crea una “seconda natura opposta alla natura prima e immediata” che svela la “natura prima sotto mille maschere”. Possiamo aggiungere che il Tempo, cioè la natura, trasforma a sua volta le opere che l’uomo abbandona. Le forze costruttrici della natura e dell’umanità si alternano cioè in successione nella realizzazione di opere che soprattutto dalla espressione di questo avvicendamento traggono la loro inedita e ineffabile bellezza. Se la natura prima è il prodotto dell’azione creatrice della natura universale e l’Architettura seconda natura è il prodotto dell’azione creatrice e cognitiva dell’uomo che ne svela l’immaginario archetipico, si può allora parlare di una terza natura determinata dalla profondità storica della forza della natura, cioè dal Tempo. Anche questa terza natura è percepita come il risultato di un’arte che tende a ri-naturalizzare l’artificio modificandone i significati e aggiungendo nuovi significati che caricano l’architettura seconda natura dei simboli che costruiscono l’immaginario contemporaneo della memoria. Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l’ha voluta il cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata ai casi della storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo… Statue spezzate così bene che dal rudere nasce un’opera nuova, perfetta nella sua segmentazione: un piede nudo 2 263 1 K.F. schinkel, Taormina, Selinunte, Girgenti. 2 le Corbusier, I propilei dell’Acropoli di Atene; K.A. doxiatis, Assi visuali dell’acropoli di Atene, da The discovery of the ancient greek system of achitectural spacing, 1937. che non si dimentica, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare1. ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 3 3, 4 Mostra Cuma 4000, istallazioni artistiche. (foto Peppe Maisto) 264 1 M. Yourcenar, Il tempo grande scultore, Gallimard, Paris 1954. Le rovine archeologiche, prodotto dell’azione creatrice della “storia-tempo-natura” conferiscono nuovi valori simbolici alla sospensione e alla frattura dell’operare umano e costruiscono il mito dei rapporti più profondi tra seconda natura e natura prima, esaltandone le strutture essenziali, creando nuove relazioni stranianti tra il particolare e l’unità. L’immaginario dei miti contemporanei dell’antico è tutto generato dalla maestria di quest’opera, dalla sua raffinatezza nello svelare un’idea originaria, archetipica della costruzione che è ben altro dalla realtà delle opere originarie. da questa riflessione, solo apparentemente scontata, sull’archeologia come estrema manifestazione artistica della “natura-storia” su creazioni umane legate ad un tempo passato, deriva che un nuovo intervento dell’uomo sui resti archeologici, incluse le stesse operazioni di scavo, si configura come creazione di un’intrinseca “quarta natura”. Prendere atto di questo status di quarto grado dell’architettura significa reinterrogarsi sul senso più profondo dell’operare su realtà frammentarie che sono testimonianze dell’antico e del suo rapporto con il mito e la natura, ma anche e soprattutto dei più inafferrabili significati contemporanei del mito dell’antico congiuntamente costruiti da una secolare progressiva opera di semplificazione “naturale” e dalle stratificazioni lentamente prodotte dall’avvicendarsi delle culture e degli usi del territorio. La consapevolezza di questo elevato e sfuggente valore aggiunto sulla ragione strutturale dell’opera originaria suggerita dalla natura prima suggerisce in primo luogo una rispettosa rivisitazione dei simboli poetici del “non finito” creati dall’arte della storia-tempo-natura. L’architettura quarta natura non crede dunque ad una ricostruzione scientifica tout court. Misurandosi con le logiche strutturali e simboliche interrotte messe in luce dall’azione del Tempo, con l’immaginario culturale contemporaneo innescato da opere create a fasi alterne dall’uomo e dalla natura, punta piuttosto a riscoprirne i miti, a re-inventare ordini di corrispondenze relazionali che innestino nuovi significati, a loro volta non definitivi ma aperti e in attesa di reinterpretazioni future. Per affinare strumenti sensibili in grado di confrontarsi con il Tempo, riparte dall’idea stessa di natura, ricolloca in un’unitaria dimensione materiale e semantica frammenti archeologici stratificati e forme geomorfologiche del territorio, riferendosi ad un più ampio concetto geografico di Parco, coerente e interno ai campi relazionali dei paesaggi urbani. L’obiettivo, cioè la strada dell’operare, è suggerita proprio da quel limite sfocato e denso di significati tra architettura e natura prima espresso a pieno dal mondo archeologico. È ancora Paul Valéry ad evocare il fascino di questo immaginario ambiguo attraverso le parole pronunciate da Socrate alludendo a una spiaggia: Proprio là trovai una di quelle cose rigettate dal mare, una cosa bianca, d’incorrotta bianchezza. Polita, dura, dolce, leggera, brillava al sole, sulla sabbia levigata, oscura e co- sparsa di scintille; la presi, vi soffiai sopra, la strofinai sul mio mantello, e la sua forma singolare arrestò tutti gli altri miei pensieri. Chi ti ha fatto? Pensai. diversa da ogni altra, eppure non informe, sei tu il gioco della natura, o cosa senza nome, a me giunta per invio degli dei fra le immondizie ripudiate stanotte dal mare? 4 E a fedro che gli chiedeva di quale materia fosse costituito l’oggetto, Socrate risponde: della materia stessa della sua forma: materia di incertezza. Era forse un osso di pesce bizzarramente consumato dallo scorrere della sabbia fine sotto le acque; o avorio tagliato per non so che uso da un artigiano d’oltremare?… Ma forse, non era se non il frutto d’un tempo infinito… Per l’eterno lavorio dell’onde marine, un frammento di roccia, rotolato fra urti da ogni parte, …forse può assumere col tempo un’apparenza inconfondibile. né è del tutto impossibile che un pezzo di marmo o di pietra informe affidata all’agitazione perenne delle acque, ne sia un giorno ritratto per caso d’altra specie, ed acquisti allora un’assomiglianza con Apollo. Voglio dire che se il pescatore ha un’idea di quella faccia divina, la ricorderà sul marmo raccolto nelle acque2. L’ambiguità tra ciò che è nato e ciò che è creato ha a che fare con il mistero del mito e dell’origine stessa dell’architettura. Ma al tempo stesso diventa un fattore secondario rispetto al significato in sé che la forma evoca e esprime. In questa chiave, nel suo libro “natura e Architettura”, Paolo Portoghesi costruisce il suo ragionamento teorico e per immagini alla ricerca dei perduti legami tra architettura e natura attraverso l’ars analogica e l’ars omologica: Questa corrispondenza di forme ha sempre interessato i poeti e trovato spazio nell’uso della metafora e del simbolo. Ovidio per esempio – nel iii libro delle Metamorfosi – descrivendo la Valle Gargafia consacrata a diana, ricca di cipressi e di pini, parla di un antro boscoso e osserva che in esso “la natura aveva imitato l’arte con il suo ingegno; aveva infatti costruito con la viva pomice e il tenero tufo un arco non costruito ma nato […]”. A Ovidio fa eco a distanza di secoli Giorgio Vasari che nella vita di Baldassarre Peruzzi, volendo lodare la “bella grazia” architettonica alla villa farnesina, scrisse che l’edificio sembrava “non murato ma veramente nato”. natura e architettura c’è da chiedersi innanzitutto se è lecito contrapporre una parte (l’architettura) al tutto (la natura) cui essa indubbiamente appartiene3. Se tutto ciò svela possibili corrispondenze tra archetipi e natura, chiarendo alcuni meccanismi logici, analogici e simbolici propri della conoscenza dell’architettura, i concetti di genius loci e di “storicità del paesaggio” rilevano la fertilità del valore semantico intrinseco alla materialità delle forme geografiche e naturali della natura vergine come della natura antropizzata4. La dialettica tra matrice geografica e frammento genera e suggerisce nuovi simboli, nuove corrispondenze analogiche che rivelano la forza di ciò che, nonostante tutto, permane, la validità di alcuni archetipi che sfidano il tempo evocando un inizio, la loro origine nella natura prima. 265 2 P. Valéry, Eupalino o dell’architettura, Barabba, Lanciano 1932. 3 P. Portoghesi, Architettura e natura, Skira, Milano 1999, p. 9. 4 Cfr. C. nocherg Shulz, Genius loci, Mondadori Electa, Milano 1979; E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1996. il quarto grado dell’architettura. Senza azzardare alcuna conclusione e facendo leva su quegli aspetti che Marcello Barbanera ha ricordato come “la rivoluzione di Piranesi nella maniera di osservare il monumento”5, sembrano potersi delineare almeno alcuni primi punti base di un decalogo di principi di un’architettura chiamata a misurarsi con quei paesaggi-parco, definiti archeologici, appunto, e oggi tutelati da vincoli assoluti, schematici quanto inefficaci: 5 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI – la valorizzazione della sua contestualizzazione attuale e lo studio meticoloso della topografia; – la ridefinizione di percorsi come le modalità di fruizione e di osservazione del paesaggio attraverso successioni di “quadri” (il pittoresco greco di Choisy e doxiadis) che possono ricostruire “scene visionarie”; – la rappresentazione del passaggio della storia sul monumento attraverso l’interesse anatomista per la tecnica e le regole di costruzione; – la chiarezza dell’archetipo e della sua origine naturale, il suo fondamento nella terra, come formalizzazione di un mito originario che può innervare linfa vitale ai miti della contemporaneità. 266 nei paesaggi archeologici l’architettura quarta natura ricerca la bellezza rincorrendo l’immaginario di un museo diffuso, lavorando per innesti, talvolta per ribaltamenti di significato, sulla valenza estetica e relazionale di eterogenei frammenti puntuali antichi e recenti. Innesti di varia scala e natura che spaziano dal restauro al nuovo, dall’istallazione artistica al landscape, da allestimenti e coperture tecniche ai manufatti delle nuove energie alternative e di infrastrutture di vario genere. utilizza cioè a tutto campo lo strumentario storicamente articolato e complesso dell’architettura, oggi comunemente settorializzato6. Torna come sempre il pensiero illuminante di Aldo Rossi: 5 s. bisogni, A. Renna, Interpretazioni del territorio napoletano, 1964. 5 M. Barbanera, Dal testo all’immagine: autopsia delle antichità nella cultura antiquaria del Settecento in C. Brook, V. Curzi (a cura di), Roma e l’antico. Realtà e visione nel ’700 (catalogo della mostra, Roma, 20102011), Skira, Milano 2010. 6 Cfr. A. Aymonino, V.P. Mosco, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, Skira, Ginevra-Milano 2006. 7 A. Rossi, Autobiografia scientifica, Pratiche, Parma 1990, p. 17. 8 Cfr. M. Emmer, Mathland. Dalla topologia all’architettura virtuale, in M. Emmer (a cura di), Matematica e cultura 2005, Springer Verlag Italia, Milano 2005. 9 M. Cacciari, I frantumi del tutto, “Casabella”, n.684685, 2000-2001, p. 6. Solo le distruzioni esprimono compiutamente un fatto […] poter usare pezzi di meccanismi il cui senso originale è andato perduto. Penso ad un’unità o ad un sistema fatto di frammenti ricomposti7 Se la certezza dei rapporti proporzionali rappresenta la visione mitologica dell’uomo classico, la metamorfosi, il non finito, il frammento, la conflittualità e l’atomizzazione dei saperi, la sovrapposizione dei diversi ordini della razionalità del caos, sembrano poter definire l’essenza della contemporaneità in una nuova visione del mondo e della natura8. Lavorare sull’estetica delle relazioni significa intendere l’opera di architettura come rivelazione puntuale, parziale e non finita di una realtà fisica naturaleartificiale in continuo movimento ma al tempo stesso atemporale, in cui passato e presente, sempre incisi sullo stesso piano, manifestano l’universale come infinite sequenze di “particolarità concrete”, come “carattere delle differenze individuali”9. “L’arte, l’atto poetico non mostra la realtà, rende visibile la realtà” (P. Klee). Il progetto di architettura può creare nuove unità di “frammenti ricomposti”, può restituire visibilità estetica ad una realtà più profonda che riappare, nelle distanze, nello spazio tra le cose. Può “restituire l’immagine di un’armonia nel tumulto composta con i suoi stessi materiali”10. Può dunque rivelare nessi strutturali, l’identità composita di nuovi paesaggi, i miti della contemporaneità. Paesaggi e archeologia. nell’ambito fisico e culturale del “parco”, paesaggio e sguardo archeologico diventano gli estremi di una stessa sequenza interpretativa che presuppone diversi livelli di conoscenza visionaria11. due sguardi contrapposti che presuppongono diversi livelli di immaginazione e che innescano nuove rivisitazioni nelle teorie di analisi urbana alla luce di quelle tecniche percettive in grado “di comporre l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo”12, natura e frammenti, geografia e mescolanze. L’uno mira alla ricomposizione dell’unità, di unità estetiche inclusive, di paesaggi urbani, di misure e coordinate intermedie che riconoscano nei palinsesti territoriali le direttrici e le pause dei nuovi ordini geografici, i nuovi valori strutturanti dell’urbano. L’altro riconosce e lavora sui molteplici significati del non finito, del frammento, delle tracce, delle fratture. In un mondo di elementi che sembrano porsi tutti sullo stesso piano il nuovo grande problema culturale diventa la risignificazione di quel che c’è, la rivelazione del potenziale estetico innescato da relazioni formali e scalari inedite tra compresenze eterogenee che rimandano a storie e razionalità autonome e incompiute. Il paesaggio è altro dalla natura e dalla esistenza reale in quanto appartiene alla descrizione culturale. Rosario Assunto parla di porzione di territorio che può costituire un potenziale oggetto di rappresentazione pittorica13. M. Block afferma: “il paesaggio come unità esiste solo nella mia coscienza”. I “campi” suggeriti dalle relazioni percettive possono fornire la chiave per comprendere a fondo la valenza semantica della struttura14. “una veduta che certo non è quel-che-si-vede, una realtà anzi che, a quella maniera, non si può in alcun modo vedere, ma che si vuole rendere visibile, definire e descrivere”15. forse è più giusto parlare più che di descrizione, di conoscenza visionaria, percezione per sottolineare la capacità di trasfigurare di questo tipo di lettura che può rivelare e ricostruire la mitologia di luoghi che oggi esprimono l’ormai avvenuto processo di unificazione culturale tra città e territorio, due mondi storicamente distinti. Il sistema mitologico con i suoi luoghi, i suoi paesaggi è ciò che ha sempre reso possibile vivere e trasformare i luoghi, creare bellezza. André Corboz rileva la nuova consapevolezza archeologica della contemporaneità riguardo al territorio, non più considerato campo operativo astratto ma il risultato di una lunghissima e lentissima stratificazione. “Il territorio assomiglia piuttosto ad un palinsesto, per cui è necessario grattare una volta di più e con la massima cura il vecchio testo che gli uomini hanno scritto sull’insostituibile materiale del suolo prima di deporvene uno nuovo”, alla luce di un nuovo rapporto con “l’ogget- 6 6 Analisi geografica dell’area Cuma Averno nei Campi Flegrei, elaborazioni da laser scanner di A. Acone (Guapark/Lupt). 10 A. Renna, Quale è l’architettura del nostro tempo, L’illusione e i cristalli, Clear, Roma 1980, p. 215. 11 Cfr. A. ferlenga, Che cos’è una città, lezione dottorato in Progettazione urbana, napoli 1997 (inedito). 12 f. Purini, Comporre l’architettura, Laterza, RomaBari 2000. 13 Cfr. R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Guerini, napoli 1973. 14 Cfr. S. Bisogni, A. Renna, Il disegno della città, Cooperativa Editrice di Economia e Commercio, napoli 1974 e Introduzione ai problemi di disegno urbano dell’area napoletana, “Edilizia moderna”, 85-86, 1966, numero monografico su La forma del territorio, a cura di V. Gregotti. 15 G. Briganti, Il Vedutismo a Napoli, in G. Briganti, n. Spinosa (a cura di), All’ombra del Vesuvio, Electa, napoli 1990. 267 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 7 9 to-soggetto che resterà tuttavia sempre parziale e intermittente, cioè aperto”. A conclusione scrive: 8 La sua doppia manifestazione di ambiente segnato dall’uomo e di luogo di relazione psichica privilegiata lascia supporre che la natura, considerata sempre in occidente come una forza esterna e indipendente dovrebbe piuttosto essere definita come il campo della nostra immaginazione. Ciò non significa ch’essa sia stata infine addomesticata, ma più semplicemente che, in ogni civiltà, la natura è ciò che la cultura designa come tale. È ovvio che tale definizione si applica anche alla natura umana16. Viene a questo punto da chiedersi: “Che cos’è oggi natura?” Come per l’originario abitante era la natura ignota e ostile, così oggi è la metropoli. Resta immutato il problema dell’essere in un mondo le cui leggi sfuggono17. 268 16 A. Corboz, Il territorio come palinsesto (1983), in A. Corboz, Ordine sparso. Saggi sull’arte il metodo la città e il territorio, a cura di P. Viganò, franco Angeli, Milano 1998, p. 177. 17 A. Renna, Quale è l’architettura del nostro tempo?, cit, p. 214. Questo bellissimo pensiero di Agostino Renna rimanda ad una condizione originaria, ad un bisogno di comprensione e rifondazione degli strumenti in un mondo profondamente mutato. Rimanda ad una condizione originaria in cui l’uomo riuscì a ritrovare l’illusione di un equilibrio con le forze naturali attraverso il mito e la sua rappresentazione nella bellezza delle forme dell’architettura. In termini sia esistenziali che fisici riporta l’urbano alla natura. In altra forma e con una nuova urgente inquietudine, si ripropone l’eterno problema dell’uomo che modifica e costruisce la natura. L’angoscia provocata dalla città commerciale, natura ignota, somma di elementi grezzi ingabbiati dalla funzionalità delle maglie infrastrutturali, è ormai comunemente avvertita come monito di una natura che ribadisce l’unità di destino con l’uomo che ne sta determinando la catastrofe. La metropoli, condizione culturale omologante della modernità in cui si è compiuto il conflitto scienza-tradizione, ha frammentato al loro interno le costruzioni tradizionali rendendo libere, indipendenti, svincolate anche tra loro. Si delinea però anche un nuovo punto di partenza, una nuova vitalità dell’operare dell’architettura all’interno di frammenti di un passato antico e recente che, indipendentemente dai canoni artistici consolidati, acquistano un nuovo valore estetico di compresenze conflittuali, di monumenti “poietici” “di tipo nuovo alla scala dell’umanità (posturbana)”18. Così come la dissolvenza dei confini della città, il definitivo superamento del dualismo città-territorio e una diffusa, inedita contaminazione tra artificio-natura, lasciano intravedere gli orizzonti di una nuova dimensione naturale dell’urbano, dove l’ordine geografico-topologico sembra prevalere sulla razionalità artificiale della città. È in questo nuovo sentire diffuso che va ricercata l’illusione del mito contemporaneo e forse l’origine di quel significato, onnicomprensivo affascinante e ambiguo, della definizione moderna di parco come centralità geografica19. Oggi divenuto finanche categoria urbanistica, il parco cerca di tutelare la bellezza di parte dei nostri territori, ma, analogamente, “un senso geografico nuovo” riaffiora sempre più spesso anche nelle reinterpretazioni strutturali dei luoghi di quella città antica e 7, 8 Nuove / antiche porte dei parchi territoriali di Napoli, dipartimento di Architettura Napoli Federico II, laboratorio – tesi di laurea, l. Pagano (coord.), l. bellia, F. Forte, C. Finaldi Russo, studenti: P. d’Agosto, R. Fulco, G. iengo, A. iudici, M. Mascolo. 9 Museo diffuso sul fronte romano di Cuma, tesi di laurea di M. Parisi, relatore l. Pagano, correlatore A. Acone. 269 18 f. Choay, L’orizzonte del post-urbano, Officina, Roma 1992. 19 Cfr. L. Pagano, Architettura e centralità geografiche, Aracne, Roma 2012. compatta, storicamente altro rispetto al suo territorio naturale. La bellezza di spazi prettamente urbani sembra doversi misurare nuovamente dalla loro forza di costruire paesaggi, di valorizzare panorami, di rivelare quei complessi e affascinanti sistemi di relazioni infine riconducibili ad antichi legami con il sostrato naturale originario. Il paesaggio torna ad essere teatro “superando quei minimi e irrilevanti palcoscenici elementi base della nostra percezione passata, della geografia frammentata in tante minuscole centralità”20. Se si pensa che la convivenza tra mondi culturali e fisici differenti è sicuramente il valore più profondo della contemporaneità, il segreto della bellezza dell’architettura quarta natura può essere ricercato nella sua capacità di rappresentare e fissare in un cristallo il mito della coesistenza atemporale tra miti, spesso tra loro conflittuali, che nel corso della storia si sono depositati nelle forme e nelle tracce di uno stesso luogo. La verifica progettuale di tutto questo presuppone un nuovo realismo e la compresenza di diverse scale, spazia dalla dimensione territoriale dei paesaggi urbani/quartieri alla risignificazione di testimonianze archeologiche del passato anche minimali, dall’idea di una città geografica ad una ricerca compositiva attenta al dettaglio che ridefinisce lo stesso concetto di storia e tradizione. Architetture puntuali, grandi o minimali, possono condensare e rivelare i campi relazionali della grande scala e del paesaggio. Tracce di antiche murazioni e manufatti bellici, corsi d’acqua, anche scomparsi, residui agrari come industriali o infrastrutturali, anche modesti, possono suggerire il segreto della bellezza ad opere che soddisfano e rappresentano i ritmi della civiltà attuale(fig. 5). Il sostrato geografico, palinsesto di forme e segni a grande e piccola scala, antichi e recenti è spesso il custode più certo di quella tela di relazioni dimenticate, sospese e spesso nascoste che identificano i miti originari di un luogo. E di frequente è l’innesto con il mito originario la chiave che consente di dare linfa vitale ai nuovi miti della contemporaneità. ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 10 270 10 Infrastrutture della Seconda guerra sull’Acropoli di Cuma. Nuovo percorso museale, tesi di laurea di M. Mascolo, relatore l. Pagano, l. bellia, P. Caputo. 20 E. Turri, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Venezia 1998, p. 130. Along the lines of Eupalinos, with “Architecture, fourth nature” the intention is to highlight a way of working that is measured with Time, i.e. which sees archaeology as an expression of the “materiality” of a creative art of nature on human works. The ambiguous limit between history and nature is the basis for a reflection on the relationship between architecture and nature in contemporary times. The “natural” simplification and, together with it, the stratifications, the omission, sometimes the overturnings of meaning, slowly produced by the alternation of the cultures and customs of the territory build the contemporary myth of the ancient and, more in general, give added value as “poietic monuments” to structures that bring to mind interrupted behaviours and traditions. The thesis is that, in the architectural function, the fragmentary symbols of interrupted times find a necessary dialectic correspondence in the visionary knowledge of the landscape, capable of focusing on the relational fields of the urban area starting from the semantic value of the geographic forms. The geographic substrate, a palimpsest of ancient and recent, large- and small-scale forms and signs is often the most certain keeper of that fabric of forgotten, suspended and often hidden relationships that identify the original myths of a place. And frequently it is the grafting with the original myth that is the key that makes it possible to give vital lymph to the new, contemporary myths. This all redefines the very idea of a “park” as a “geographic centrality”, consistent with the illusion of the contemporary myth that, in the topological order of a dilated city, glimpses the horizon of a new natural dimension of the urban area within which different cultural and physical worlds all coexist. The dialectics between the natural world and the architectural archetype expressed by the poetics of the unfinished, the “anatomist” interest for technique, the meticulous study of topography and the perceptive logics of paths may guide a work on the aesthetics of latent but hidden relationships. In the “archaeological landscapes”, the “fourth nature” architecture seeks “beauty”, pursuing the imaginary idea of a “scattered museum”, working by grafts, sometimes by overturnings of meaning, on the aesthetic and relational value and significance of ancient and recent intermittent heterogeneous fragments. Grafts of various scale and nature that range from restoration to the new, from the artistic installation to landscape, from technical set-ups and coverings, to the structures of the new alternative energies and infrastructure of various kinds. That is, it uses, across the board, the historically structured and complex instruments of architecture, which today are commonly split up by sector. ARCHiteCtuRe “FouRtH NAtuRe” ABSTRACT 271 sosteNeRe lA Civilità COnTEMPORAnEITÀ E TOPOGRAfIA dEL TEMPO ferruccio Izzo Memoria e futuro. In tutte le epoche il rapporto con il passato e con le sue vestigia è sempre stato una questione difficile e controversa ma, allo stesso tempo, qualcosa di necessario al progresso dell’umanità ed allo stesso svolgersi dell’esistenza dell’uomo. Cicerone ha con grande sintesi ed efficacia esplicitato questo concetto nel suo aforisma sulla memoria: 1 e. souto de Moura, Schizzo di studio per la fermata Municipio della metropolitana di Napoli, 2005. ignorare ciò che è accaduto prima della nostra nascita equivale a rimanere per sempre bambini1. È essenziale riconoscere che la memoria è la madre di tutte le idee proprio per la sua capacità di determinare forme di continuità temporali e spaziali. Ma per la realizzazione di una qualunque idea va tenuto in conto che un’azione si svolge sempre in un preciso istante del presente ed in uno specifico luogo, richiedendo l’onere di una decisione. Infatti, qualunque azione, soprattutto se attinente al campo della cultura, necessita della capacità di discernere ciò che ha valore da ciò che è vano, il significativo dall’irrilevante. In questo processo il peso del presente risulta ineludibile, come anche l’indeterminatezza del futuro e l’inerzia del passato. Ci si trova, quindi, dinanzi ad un’inestricabile complessità, ovvero alla presenza simultanea di elementi, i più eterogenei, che concorrono a determinare l’azione; infinite relazioni passate, presenti e future, reali o possibili, convergono in essa. Il più significativo degli obblighi verso le generazioni future è quello di trasmettere loro un ambiente che possa essere consono alle loro vite e le possa anche stimolare ed ispirare. Oggi, la cura dell’ambiente ci pone, più che in qualunque epoca precedente, di fronte alla doppia responsabilità di preservare la terra, le sue risorse e quanto di ciò che è arrivato a noi dal passato potrà continuare ad avere in futuro importanza e senso, soprattutto al fine di garantire continuità alla nostra civiltà, ma allo stesso tempo di dare forma al mondo fisico pensando anche al futuro. Per quanto concerne la tutela del patrimonio storico la profonda consapevolezza oggi maturata sembra, comunque, essere resa vana dall’attuale incapacità di formulare un 273 1 Cicerone, Marco Tullio Philosophia, ix, 5, 10. ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 1 274 2 Aldo Rossi, L’Architettura della Città, Marsilio, Padova 1966. 3 Il termine “Memoria Collettiva” è stato coniato da Maurice Halbwachs nell’opera Les Cadres sociaus de la mémoire, Libraire Alcan, Paris 1925 (tr. it. La Memoria Collettiva, unicopli, Milano 1987) ed è stato ampliato più recentemente in “Memoria Culturale” dall’egittologo Jan Assmann (cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997). singolo unificante approccio teorico e di tenere insieme e governare la molteplicità dei saperi coinvolti e coinvolgibili, nonché dall’estrema frammentazione e dall’isolamento dei diversi ambiti disciplinari e dall’assenza di un linguaggio architettonico comune. Promuovere una consapevole e rinnovata centralità dell’azione di tutela richiede, innanzitutto, una capacità di interrogare il patrimonio sostenuta da una profonda conoscenza della storia, da una continua apertura mentale e da un profondo spirito critico, alimentata da una cultura viva e motivata da una profonda coscienza del presente in divenire. Valutare la memoria costituisce comunque una questione complessa, dato che essa richiede allo stesso tempo identificazione e distanza. Quello con il passato è sempre stato un rapporto contraddittorio e fatto di frizioni, che implica allo stesso tempo ostilità e coesione. Tutto ciò risulta evidente se consideriamo che il passato è qualcosa che, avendo a che fare sempre e comunque con la vita ed anche con il tempo presente, comporta conflitti e problemi come anche un’appartenenza alle vicende umane. E di questa appartenenza Aldo Rossi, più e meglio di ogni altro studioso o architetto del secolo scorso, ha dato evidenza nel suo libro “L’Architettura della città”2. Rossi ci ha insegnato a leggere la città come un immenso archivio di “Memoria Collettiva”3 ed attraverso essa ad acquisire coscienza di quel terreno comune dell’umanità, che unifica la nostra storia e dà vita alla cultura e, quindi, alla civiltà. È proprio questa manifestazione dell’umanità, fatta di valori universali ed eterni, a permettere di mantenere ancora aperte quelle linee di comunicazione che ci consentono di capire la nostra appartenenza e di essere ancora capaci di dare senso alle attuali imprese collettive. una comprensione che comporta una coscienza in grado di superare le nostre singolarità e perfino, per quanto possibile, il nostro tempo al fine di ritrovare legami con le radici della civiltà e trarre da loro alimento per costruire il futuro. Se perdiamo interamente questi legami ci avventuriamo in un distacco, che lambisce il vuoto e si approssima al gratuito inducendoci ad una completa assenza di cognizione del presente. E per questo oggi, più che in ogni altra epoca precedente, siamo di fronte all’angoscia della scelta, dobbiamo prendere posizione ed interagire con il nostro patrimonio storico e stabilire per esso priorità, strategie e livelli di tutela, intervenendo per arrestare il degrado dei nostri paesaggi e l’indecenza delle nostre città. È necessaria una nuova consapevolezza che sia connessa ad un agire concreto per fermare il degrado e l’abbandono del nostro patrimonio e, quindi, quella conseguente perdita di legami con la civiltà. non è più possibile sostenere quello sterile indugiare nella contemplazione del nostro patrimonio che risulta del tutto incapace di generare conoscenza generalizzata e azioni responsabili – ovvero sapere che ci renda consapevoli della nostra cultura e della nostra civiltà e, quindi, in grado di scoprire finalità e significati comuni ed agire consapevolmente – né tantomeno nutrire l’impossibile e delittuosa aspirazione ad un’indiscriminata azione di tutela per qualunque reperto del passato. la tutela come processo culturale. L’auspicata rinnovata azione di tutela potrebbe sostanziarsi soltanto se si riuscisse a promuovere un processo collettivo costruito su un’esperienza graduale, un dialogo ed una pratica concentrati su obiettivi concreti e condi- visi, affrontati con un approccio olistico e sistemico, supportato da un sapere rinnovato che, superando isolati specialismi, costruisca ponti tra diverse discipline e le renda disponibili a capire valori, rilevanze, problematicità e potenzialità del nostro patrimonio storico e della sua rilevanza per il dare forma ad un ambiente più consono alle comunità attuali e future. un lavoro corale che non può prescindere da un coinvolgimento delle comunità, delle loro strutture sociali, economiche e politiche, delle istituzioni, dei sistemi culturali, con un chiaro riconoscimento della loro appartenenza ad una tradizione, ad una storia, a dei luoghi con i loro caratteri identitari, materiali ed immateriali. un’azione che si sostanzi e si realizzi nell’ambito di un più complessivo disegno per sostenere e continuare la nostra civiltà, promuoverne una piena coscienza nella nostra società e contribuire al processo di crescita e cambiamento dell’ambiente urbano. Si tratta, quindi, di avviare un processo più culturale che scientifico, che sappia utilizzare e coniugare il progresso scientifico e l’immaginazione umana facendoli interagire con le condizioni della vita di edifici e città, con le loro storie, il loro presente e le innumerevoli e contraddittorie tracce e testimonianze di tempi diversi che coesistono al loro interno e nei luoghi. un processo che abbia come fondamento il significativo valore culturale che le strutture provenienti dal passato possiedono anche quando si presentano in contrasto con il presente, come realtà da esso avulse o come ostacoli al suo sviluppo. un lavoro che deve individuare obiettivi concreti da perseguire e verificare attraverso sperimentazioni fatte di tanti piccoli progetti, sviluppati a partire dalle tematiche dei singoli manufatti e dalla specificità dei territori, dalle loro storie, vocazioni, potenzialità e problematiche, innescando le più ampie interrelazioni possibili. un disegno che, sviluppato accuratamente, tenga insieme le diverse scale in rapporto sia alle singole parti sia alla totalità del territorio, ed assicuri alle preesistenze dinamicità e continuità di significato all’interno della città contemporanea, con una piena integrazione nella struttura e nella vita delle città. un disegno che, aperto a modifiche e revisioni in risposta ai risultati della implementazione dei singoli progetti, renda complementari e sedimenti i risultati della pratica e della ricerca, mostrandosi flessibile ed adattabile alla resilienza delle preesistenze ed alla loro capacità di continuare a restituire condizioni e valori determinanti per la città e per suoi nuovi scenari, e sappia, inoltre, preservare anche la loro futura integrazione. Integrazione da realizzare rendendo pregnanti la presenza ed il ruolo dei manufatti nella contemporaneità, attraverso l’evocazione di quanto, dei loro organismi e dei contesti a cui appartenevano, è oggi compromesso o andato perduto. Se risultano ancora presenti le loro caratteristiche costitutive, è essenziale che queste siano messe il più possibile in evidenza al fine di impedire che i manufatti si riducano alla condizione di oggetti isolati e venga, invece, sostenuta la loro rilevanza come insieme di condizioni e relazioni. È, quindi, essenziale che si mettano in evidenza di un edificio, di una struttura, di uno spazio aperto, di un interno o di ciò che è sopravvissuto come rovina, tutti quegli elementi, quelle condizioni e quelle relazioni che ne hanno caratterizzato la vita nel tempo, la sua appartenenza ad un luogo ed ad una comunità e ne hanno garantito la vitalità pur nel mutare degli usi, delle funzioni e dei significati loro attribuiti. Assume a questo proposito importanza fondamentale la comprensione dell’intera sto- 2 3 1 i. Mitoraij, valle dei templi, Agrigento. 2 F. izzo, Parco archeologico ed Antiquarium, Nola 2014, vista d’insieme. 3 F. izzo, Parco archeologico ed Antiquarium, Nola 2014, vista verso l’Antiquarium. 275 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 4 ria di una preesistenza, senza limitarsi a considerare solo la sua origine ed evitando così di appiattirsi su un qualcosa che, se assunto autonomamente, pur essendo significativo, risulta ormai disconnesso, superato e, quindi, alquanto artificiale. Infatti, dovremmo piuttosto guardare al senso delle trasformazioni passate e di quelle ancora possibili, ben sapendo che un edificio non cessa mai di subirne anche quando è allo stato di rovina. La rovina, in quanto architettura che ha perso parti attraverso un processo di disfacimento, acquisisce carattere di universalità proprio grazie a questo suo essere una costruzione privata di tutto ciò che ne conformava la rispondenza alle esigenze dell’abitare di uno specifico tempo. Per questo dobbiamo attentamente guardare agli orientamenti che la rovina è in grado di offrirci, inoltre, essendo la sua universalità frutto di un’espressione fondamentale, finché rimarrà partecipe della continuità della vita seguiterà ad infondere attraverso la sua sostanza costruttiva linfa vitale all’ambiente e ad esserne fonte di rinnovamento. È evidente che se la sua tutela si esaurisse in un’azione di protezione tutta tesa al suo isolamento ed alla sua sottrazione dalla continuità della vita, la rovina perderà qualsiasi capacità di rinnovamento e diventerà infeconda. 4 d. Chipperfield, Neues Museum, berlino, 1997-2009. (foto © Helene Binet) 276 4 M. Manieri Elia, Topos e Progetto. Temi di archeologia urbana a Roma, Gangemi, Roma 1998, p. 45. Mario Manieri Elia ha in questo libro ragionato su alcuni casi concreti di Roma e di altri centri storici italiani, illustrando la possibile messa a punto di un percorso ermeneutico che assuma i reperti archeologici come una portentosa opportunità di rilancio dell’identità culturale e di risignificazione urbana. il progetto come ricerca di nessi. Il passato non giunge mai a noi nella sua assolutezza e purezza ma sempre come evidenza ricostruita e molteplicità di tensioni. Il costruito, l’ambiente urbano, il paesaggio sono un intreccio complesso di tempi diversi, divergenti, convergenti e paralleli, che si ripropongono e si dischiudono nel presente, che li determina e ne è determinato, come un insieme di universi possibili e di potenzialità infinite, di cui è indispensabile riconoscere un nucleo comune e fare il punto sulla complessità e sulle persistenze, consolidandole come esperienze e base di appoggio per un’azione di tutela che faccia del nostro patrimonio storico la vera e grande ricchezza delle nostre città e del nostro paesaggio. Questo significa, innanzitutto, trovare di volta in volta un equilibrio stabile, instabile, possibile, dando senso alle azioni e rintracciandone le ragioni attraverso un lavoro che permetta di affrontare la tutela, di trovarne i modi e le misure, di elaborarne il linguaggio, rispondendo a ciò che è necessario, rinforzando reciprocamente antico e nuovo in una continuità che non abbia contrasti e preservi le preesistenze come evidenza fisica della storia ed allo stesso tempo le esalti come evidenza fisica della reinterpretazione. È dunque essenziale riconoscere la topografia del tempo, che significa identificare quelle testimonianze che nel costruito rendono il tempo visibile e leggerle ed interpretarle per conferire attraverso loro ed in rapporto al presente ed al possibile futuro un ordine nuovo alla città ed al paesaggio. Si tratta di una ricerca di nessi che deve farsi progetto “capace di assumere gli elementi di complementarità come fattori strutturanti; ma anche di cogliere gli elementi di contrasto e di conflitto come significative e caratterizzanti peculiarità”4. un ordine che permetta di ritrovare quella necessaria continuità in grado di superare forme uniche, legate alla contingenza effimera, recuperando un rapporto dialettico tra la città storica e quella contemporanea, tra il passato, il presente ed il futuro, ed assicurare una sana nutrizione della vita e della nostra civiltà. Our relationship with the past and its remains has always been a difficult and controversial issue, however it is also a necessary part of human progress and intrinsic to the continuing existence of mankind. We must recognise that memory is the mother of all ideas, thanks to its very ability to determine forms of temporal and spatial continuity. However, in order to turn any idea into reality, we must take into account the fact that an action always takes place at a precise moment in the present and in a specific place, involving the responsibility of a decision. Indeed, any action, especially when it pertains to the field of culture, requires an ability to tell the difference between what is worth and what is worthless, between meaning and irrelevance. In such a process, the weight of the present proves inescapable, as does the ambiguity of the future and the inertia of the past. Hence we find ourselves faced with inextricable complexity – i.e. the simultaneous presence of the most disparate elements that contribute to determining an action – and infinite past, present and future relationships, real or possible, all converge there. The greatest obligation we have with regard to future generations is to pass on an environment that will prove beneficial to their lives and that can also stimulate and inspire them. Today, care for the environment confronts us, now more than at any other time, with the twin responsibility of preserving the land, its resources and what, of all that has reached us from the past, could continue to have importance and meaning in the future, so as to guarantee, above all, the continuity of our civilisation while at the same time shaping our physical world, with a thought for the future as well. As far as the conservation of historical heritage is concerned, the great awareness we now have seems, however, to be rendered useless by our current inability to formulate a single, unifying theoretical approach and by our inability to merge the many different fields of expertise involved, or that could be involved, and to govern them, not to mention the extreme fragmentation and isolation of the various different fields of expertise and the absence of a common architectural language. Any attempt to promote an informed and renewed focus on conservation work requires, first and foremost, the ability to examine our heritage with the help of a thorough understanding of history, a constantly open mind and a deeply critical spirit, fostered by a vibrant cultural life that is motivated by a deep awareness of the present as it takes shape. What is required is a new awareness linked to concrete action in order to halt the deterioration and neglect of our heritage and the subsequent loss of links to civilisation that follows. The renewed conservation efforts we hope for can only materialise if we manage to promote a collective process built on gradually gained experience, dialogue and work that focus on concrete, generally agreed objectives, tackled with a holistic and systemic approach, supported by fresh knowledge that will transcend isolated fields of expertise, build bridges between different disciplines and that will render them open to understanding values, important aspects, problems and the potential of our historical heritage and its important role in shaping an environment that will be more beneficial to the communities of today and tomorrow. suPPoRtiNG CiviliZAtioN. CoNteMPoRANeitY ANd toPoGRAPHY oF tiMe ABSTRACT 277 uP-CYCliNG, MoRte e vitA dei CoRPi ARCHitettoNiCi ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI Pippo Ciorra 278 un senso diverso per l’archeologia. Per me la questione dell’archeologia ha oggi un senso un po’ diverso, che cercherò di delineare lungo un percorso concettuale lievemente spostato, o almeno complementare, rispetto agli altri contributi qui raccolti. E che ha anche a che fare con un lavoro che faccio in questo periodo, accanto a quello solito di docente e a quello ormai trascurato di architetto, e che consiste nell’ideazione e realizzazione di mostre di architettura, prevalentemente contemporanea. Prima di tutto per me, che non vengo da studi specifici, fare il curatore di architettura vuol dire porsi il problema di tentare una definizione di questo ruolo. Che cosa fa un curatore in un museo? Certo, in tempi di “espansione” architettonica e vitalità progettuale non è troppo difficile, seleziona i progettisti più interessanti e dedica loro mostre immediate e stupefacenti. non so, una monografica su Gehry, una su Piano, una su Sejima e via dicendo, puntando tutto sullo stupore e la bellezza. Ma oggi da un lato siamo un po’ stanchi di celebrare le star del nostro firmamento architettonico, dall’altro siamo anche a corto di risorse da investire in progetti espositivi così impegnativi, costosi e tutto sommato sterili. Bisogna quindi lavorare di ingegno e trovare un’alternativa. Per me lavorare in un museo vuol dire sostanzialmente prolungare un’attività di tipo critico (attività che certamente è la somma di tutte le altre – insegnare, studiare, lavorare, scrivere), nonché allo stesso tempo continuare a riflettere su che cos’è l’architettura, quali sono i suoi compiti, che cosa può fare l’architettura per trovare un posto decente in una società decisamente in crisi. La nostra crisi – professionale ed espressiva – dura forse da più tempo di quella economica e sociale, ma non importa molto: a questo punto la crisi riguarda tutti. Quindi, quando Lilia Pagano mi ha proposto di parlare di “archeologia”, sostanzialmente ho cercato di mettere in relazione quello che sto facendo col tema assegnato. 1 X. vytuleva, e. Cadava, Music on Bones, 2011 (particolare). (Courtesy fondazione maxxi) 279 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 2 lastra radiografica usata come supporto per incidere Hey Joe di Jimi Hendrix, 1967. (Courtesy fondazione maxxi) 3 Re-cycle. Strategie per l’architettura della città e il pianeta, allestimento, 2011. (Courtesy fondazione maxxi) 280 Certamente, ma questo per me è un punto di partenza, io non credo alla possibilità che esista un’architettura specifica per l’archeologia; penso che un bravo architetto con una buona dose di cultura, messo davanti ad un problema archeologico, lo affronti con la miglior qualità possibile, sapendo inseguire “sapienza” e “bellezza”. Proprio a napoli ci sono ottimi esempi in questo campo. non credo cioè che si possa positivamente costruire un architetto che abbia una specifica vocazione per il tema archeologico. Anzi credo che provarci rappresenti un errore, perché finisce per svuotare di senso il dialogo necessario tra due categorie – architetti e archeologi – che hanno disperato bisogno di confrontarsi da posizioni chiare e distinte. Che l’archeologo faccia l’archeologo, insomma, e l’architetto faccia l’architetto. Mi sono quindi chiesto quale potesse essere un’angolazione interessante per guardare al tema dell’archeologia nello spazio contemporaneo. Ho cercato insomma di trovare un’archeologia diversa nello spazio delle nostre città e dei nostri paesaggi. Per introdurre il concetto su cui vorrei basare il mio testo vorrei ricorrere a uno strano reperto archeologico. Si chiama, “Hey Joe” ed è una registrazione clandestina di un disco di di frankie Laine (nome d’arte di francesco Paolo Lo Vecchio) che era esposto in apertura della mostra Recycle al maxxi. L’aspetto rilevante del disco, a parte la sua importanza musicale, è che non è registrato sul tradizionale vinile ma su lastre radiografiche riciclate in ospedali russi in anni nei quali in ussr non era permesso importare musica occidentale. Si portavano le macchine per stampare il vinile negli ospedali e si producevano i dischi di rock ’n’ roll e di jazz direttamente sulle lastre usate, grazie al fatto che sono fatte di un materiale con proprietà simili a quelle del vinile. nonostante in questo caso si tratti dello stesso “Hey Joe” portato più tardi al successo da Jimi Hendrix la nostra attenzione non va allora alla musica quanto al senso archeologico di quel reperto ospedaliero. Viene sottoposto a un’azione di riciclo (oggi diremmo up-cycle) e quindi diventa oggetto di design e infine arte (involontaria), oggetto dell’attenzione di collezionisti e saggisti. Grazie a “Hey Joe” definiamo quindi un nuovo genere di archeologia contemporanea “non monumentale”, ampiamente rappresentata anche in architettura, che potrà forse aiutarci a individuare un approccio virtuoso alla nostra sempre più vessata disciplina. nell’attenzione che poniamo a ciò che già c’è – la nostra nuova archeologia – c’entra ovviamente il fatto che viviamo in un paese occidentale, vale a dire in una zona del mondo dove di questi tempi il pil cresce poco, e dove la crisi dell’architettura corrisponde e soggiace a una più generale e inevitabile ridistribuzione delle risorse economiche. Insomma nel futuro immediato continueremo a diventare un po’ più poveri e a non riuscire a comprendere l’architettura all’interno del welfare che lo stato ci fornisce. E se pensiamo che gli architetti in Italia si sentono poveri da almeno tre/quattro generazioni allora dobbiamo probabilmente fare due cose. Prima di tutto abituarci a una crescita diversa, meno generalizzata (lascerei stare la decrescita), soprattutto nei paesi occidentali. Poi interrogarci su come può cambiare il ruolo dell’architettura perché possiamo continuare a considerarla utile e necessaria alla qualità della vita delle persone. Autonomia, politica, comunicazione, paesaggio. Parlo di Italia perché l’Italia è per molti versi un caso-limite. Quello italiano è un sistema architettonico che non ha mai completamente metabolizzato la modernità (o meglio, koolhaasianamente, la modernizzazione), che fin dai primi decenni del secolo è abituato a convivere con complessità e contraddizioni lancinanti. Ha vissuto spesso lontano o “controcorrente” rispetto alla direzione di crescita della società e solo in alcune fasi brevi e precise del secolo scorso – penso per esempio alla ricostruzione e forse ai primi anni ’60 – ha marciato sulla stessa lunghezza d’onda del paese reale. Abbiamo sempre vissuto questo elegantissimo ma sofferente iato con la società, il fatto di essere un po’ fuori posto, elegantemente arroccati “dalla parte del torto”. Quello che impariamo da un posto “di frontiera” dell’architettura come l’Italia è che da noi le città non crescono praticamente più; che per pochissima dell’edilizia che si costruisce viene richiesta la prestazione dell’architetto, che tra questi pochi progetti quelli ambiziosi o “di qualità” sono rarissimi; che l’appeal del progetto “firmato” ormai non basta più a reperire finanziamenti e ottimismo necessario, nemmeno da noi. Sembra in qualche modo delinearsi una specie di strana multipolarizzazione: in Asia e nei paesi dell’Est Europa una specie di riserva di caccia per l’architettura di lusso e di stupore, anche se ormai i serbatoi dell’invenzione cominciano ad essere un po’ scarichi; in Sudamerica e in Africa, in modi diversi, un uso più oculato delle risorse architettoniche, considerate come un agente estetico e sociale tutto sommato tradizionale in America Latina e più inserite in una visione nuova della questione ambientale e politica in Africa; in Europa infine una fase più incerta, certamente non più in grado di permettersi i capolavori dell’hypermodernismo ma ancora indecisa se tornare a ruoli sociali già svolti (la buona vecchia utopia) o cercare nuove strade. In questo quadro europeo le possibili vie d’uscita non sono in fondo molte, e possiamo passarle rapidamente in rassegna. C’è chi propone di salvarci attraverso un rappel a l’ordre piuttosto radicale, con una riconduzione veloce della disciplina architettonica all’interno dei terreni dell’Autonomia espressiva e politica (l’utopia di cui sopra?!). È una profezia che ha una sua piccola bibbia, “The Project of Autonomy” di Pier Vittorio Aureli e una schiera crescente – anche se non so quanto consapevole – di adepti in tutto lo scacchiere occidentale. Col rischio però, in assenza di un dialogo fertile con il presente, di dover motivare scelte e approcci con ragioni soprattutto ideologiche, in una fase in cui le ideologie non sembrano trovar molto radicamento né convincere molte persone. È un percorso disciplinarmente praticabile, insomma, ma tutt’altro che privo di rischi. L’altra faccia di questa stessa medaglia, quella cioè di un’architettura molto autoreferenziale, molto incline a rafforzare le proprie certezze disciplinari, è proprio un’architettura che cade nelle braccia del proprio demone, finisce cioè per assimilarsi all’arte. Ci sono infatti due modi di rendere sempre più vicine architettura e arte: il primo è quello più immediato, in cui le due tecniche si scambiano e si confondono, e nel quale la zona grigia in cui agiscono gli Acconci e i Roche, i Rahm e i Kapoor si ingrossa sempre più rapidamente. L’altro è quello più sibillino e rischioso nel quale una piazza non ha valore se funziona o meno come spazio pubblico 2 3 281 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 4 282 4 bernard tschumi Architects, le Fresnoy. (Courtesy fondazione maxxi) 5 stARTT, WHATAMI. (Courtesy fondazione maxxi) 5 ma piuttosto come proposizione architettonica autonoma, simbolica e archetipica. una specie di monumento all’architettura come arte civica, a prescindere se i cives apprezzino o no (e si che ne abbiamo di brutti ricordi in questo settore). non si tratta quindi di divertirsi a spingere l’architettura verso l’arte quanto di registrare come la separazione tra architettura e vita renda l’architettura (a volte pericolosamente) vicina all’arte, e al suo potenziale esclusivamente critico. Quando un progetto si relaziona al suo contesto non più per cambiarlo o per dargli nuova forma ma per commentarlo, per annotarlo, per esaltarlo, allora è arte, è automaticamente arte, anche se usa tecniche specifiche dell’architettura. Certo questa zona come si è detto è grigia, e non priva di sorprese. Il mitico Transformer di Rem Koolhaas per Prada (realizzato a Seul) è un edificio che per cambiare funzione viene “rivoltato”, ruotato da una gru in quattro differenti posizioni. È quindi un edificio privo di alcuni connotati essenziali dell’architettura – la stabilità, il rapporto tra alto e basso ecc. – ma pur sempre un progetto architettonico terribilmente innovativo, libero come un’opera d’arte, funzionale come un capannone. un’altra direzione possibile per i giovani che si affacciano oggi alla loro vita di architetti è quella che riconosce molta importanza al potenziale politico del gesto architettonico. Alla Biennale Architettura del 2012 il padiglione americano esponeva 140 urban actions. Affidava cioè il compito di rappresentare l’architettura nazionale a 140 gruppi di architetti attivisti, impegnati di volta in volta nel recupero di aree asfaltate per l’agricoltura urbana, nella riattivazione di edifici dismessi, nella battaglia per questo o quello spazio pubblico. Rinunciando (quasi?) completamente agli aspetti autoriali e creativi della loro professione. Con lo strano risultato di avere in architettura un’idea scissa della politica: da una lato la sua forma, ideologicamente determinata ma difficilmente accompagnata dai contenuti, dall’altro il suo contenuto, avverato però non in un edificio o in uno spazio pubblico ma in un evento, in una azione collettiva, in una forma organizzata di partecipazione. Ovviamente l’arte ci insegna come la politica sia spesso un metodo sofisticato di marketing, un modo più intelligente di altri di produrre il branding del proprio lavoro creativo. Quindi attenzione, e vigilanza sempre molto alta. Quando non è autonoma (o parametrica), politica o arte, l’architettura è oggi molto spesso comunicazione. È un concetto ben chiaro fin dai tempi di Le Corbusier (per non parlare di Michelangelo o di autori anche più vecchi), ma oggi ci assale con una forza e una pervasività ovvie e dominanti. Vorrei renderlo evidente attraverso alcuni esempi del nostro progetto yap (Young Architects Program), che viene realizzato al moma , al maxxi, e in altri musei a Istanbul, Santiago del Cile e Seul. Ma forse proprio un progetto italiano, quello del gruppo startt realizzato al maxxi nell’estate del 2011 incarna meglio di tutti la più sana anima comunicativa dell’architettura contemporanea. Il progetto consisteva in una grande aiuolacollina artificiale e di una serie di aiuole mobili più piccole, di una piccola piscina e di una quindicina di spettacolari papaveri artificiali alti 6 metri, distribuiti ai piedi dell’edificio di Zaha Hadid. Grazie a quei segnali, marginalmente utili come lampade quando scendeva la sera, il potenziale di spazio pubblico del piazzale del museo veniva automoltiplicato; la comunicazione su come fosse possibile stare (al fresco, in relax, al limite bagnati) nello spazio del museo grazie al lavoro di un gruppo di architetti giovanissimi arrivava lontana. Indecisi tra paesaggio, design, architettura e arte i fiori degli startt, oggi un prodotto industriale rinomato, erano soprattutto un progetto di comunicazione, così come gran parte dei lavori dei loro colleghi nelle altre quattro sedi di yap. un ultimo paradigma salvifico che si offre oggi agli architetti è poi naturalmente quello del paesaggio, dove per paesaggio si intende un calderone enorme che tiene dentro la pianificazione e il design dello spazio pubblico, l’agricoltura urbana 283 e quella “rurale” (ormai un’eccezione), i giardini e le infrastrutture, i gipponi a idrogeno e le bike cities. Insomma più che un paradigma un mantra, che ci fa l’impressione di espandere il campo dell’architettura ma che a volte – mi vengono in mente i giardini verticali di Patrick Blanc e non solo – finisce per produrre progetti verdi più insostenibili dei grattacieli di Taipei. Abbiamo quindi quattro direzioni possibili – l’autonomia, la politica, la comunicazione e il paesaggio – che sembrano offrirci vie di sopravvivenza più o meno praticabili per la nostra disciplina, ma che tutte insieme non sembrano configurare una direzione forte per un movimento professionale e culturale. 6 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 6 P. Portaluppi, Wagristoratore. (Courtesy fondazione maxxi) 284 Rovine moderne. Per me – quando penso a un soggetto progettante – l’architettura è un composto bilanciato di tre valori: storia e disciplina (tutto quello che un tempo andava in manuali e trattati), tecnica e tecnologia (non proprio all’avanguardia nel nostro paese) e il contesto, inteso come somma di contesti che dai luoghi norberg-shulziani si espandono fino a includere il tempo e lo spazio, la società e la cultura, il gusto e le inclinazioni dell’arte. Insomma, lo zeitgeist, come avrebbero detto i nostri docenti di storia una trentina di anni fa. Qual è allora il modo migliore, oggi, per armonizzare queste tre forze, quelle provenienti dalla pancia della disciplina, dai suoi muscoli, dalla sua capacità di recepire dal mondo? Ed è qui che mi piacerebbe reintrodurre il concetto di archeologia di cui abbiamo parlato prima. Per traslarlo dall’ambito della Music on Bones a quello dell’architettura intendo ricorrere a dei reperti archeologici un po’ particolari, certamente per noi dolorosi, in gran parte legati a una specifica stagione dell’architettura italiana recente. Partirei per esempio da una rovina molto famosa, vale a dire quella del teatro di Sciacca di Giuseppe e Alberto Samonà, una splendida struttura vagamente tardocorbusiana che fu completata nel 1984 (e come tale pubblicata su “Casabella”) e che da allora è rimasta inutilizzata sulla collina di fronte al mare nella cittadina siciliana. da lì mi sposterei poco più a nord, a Gibellina nuova, per verificare lo stato (per trent’anni di rovina-rovina oggi di “rovina utilizzata”) della chiesa progettata dopo il terremoto del Belice del 1968 dal mio maestro Quaroni. Tralascerei per amor di patria le altre opere “firmate” di Gibellina per risalire rapidamente in pieno centro-sud e trovare il rudere dolorosissimo della Karlsruhe grassiana costruita trent’anni fa per gli studenti di Chieti. L’edificio fu praticamente completato, mai utilizzato, poi sottoposto a uno strano e lento processo di spolio, che fa si che ne venga demolito un pezzo per volta. Con una perversa operazione ancora in corso. La lista è lunga e l’operazione certamente masochistica, visto che comprende opere “realizzate” più o meno da tutti gli eroi della nostra epopea architettonica, Gregotti, Rossi, de Carlo, Gresleri, Viganò, Pellegrin e molti altri. Quando abbiamo cominciato a studiare e mappare questo fenomeno all’interno di alcune ricerche di dottorato pensavamo fosse localizzato nel tempo, legato a una fase precisa del rapporto tra architettura e politica in Italia. Ma purtroppo non è così, la vicenda è durata almeno fino a quando sono durati i soldi, e forse va avanti ancora. Basta farsi un giro alla piscina olimpica di Calatrava a Roma, alle strutture del famigerato G8 alla Maddalena e in molti altri posti, per capire che ancora non è finita. Insomma tutto questo per capire che viviamo in un’epoca strana, nella quale produciamo direttamente ruderi, frammenti di archeologia del presente che non siamo attrezzati ad affrontare come “temi di progetto”. Gli esempi “d’autore”, che ovviamente meriterebbero ben altra indagine e riflessione (compiuta in alcune ricerche di dottorato), ci servono qui soprattutto per rendere chiaro come il valore archeologico si produce oggi molto spesso a prescindere dalla datazione della “rovina”. Il tema di “cosa fare” di edifici dismessi, abbandonati, non più adeguati, tecnicamente inadatti, resi inutili dalla crisi, ci si presenta quotidianamente in forma ossessiva e onnipresente: dai centri storici alle zone industriali, dai quartieri residenziali invenduti alle torri per uffici vuote, dalle scuole in disuso agli edifici storici abbandonati da decenni. da un punto di vista simbolico questo sconfinato patrimonio è lì per ricordarci come gli strumenti che abbiamo sviluppato in tutto il secolo moderno per il progetto architettonico e urbano siano oggi in buona parte poco utilizzabili, focalizzati come sono sulla presunzione di crescita illimitata della città. Che non c’è più. O meglio, non c’è nei modi in cui la conoscevamo. L’epoca che viviamo sembra essere caratterizzata da uno strano paradosso: la popolazione urbana continua a crescere, non solo in Asia e nei paesi emergenti ma anche in molte aree europee e occidentali, ma questo non corrisponde a una “crescita urbanistica” lineare, così come possono immaginarsela gli architetti. In occidente le città tendono a crescere ormai su se stesse, per la scarsità di spazi nuovi da occupare e per la pressione (anche economicamente) insostenibile delle aree di scarto interne al tessuto urbano; in oriente crescono a strappi violenti e smisurati, che però non seguono le regole della buona progettazione urbana occidentale, alla quale sostituiscono da un lato una specie di anarchia auto-organizzata e dall’altro i più nudi e crudeli meccanismi di mercato. Manca insomma proprio quel ruolo di mediazione socio spaziale che siamo abituati a localizzare proprio in quello spazio intermedio tra spazio fisico e società dove in genere agisce l’architettura. Riciclo. Ci sembra allora appropriato orientare i nostri sforzi proprio verso quell’area di raccordo tra economia, urbanistica, architettura e costume sociale. Il dispositivo che abbiamo identificato per occupare in modo virtuoso questo spazio è quello del riciclo, inteso nell’accezione più ampia e multidisciplinare possibile, dalle succitate lastre radiografiche fino a interi paesaggi urbani e posturbani. Il senso della ricerca e della mostra che abbiamo fatto al maxxi è tutto in quest’affermazione, tesa sia a rovesciare in positivo il senso di una non-crescita che a definire un concetto di contesto nuovo, una specie di tabula non rasa. Il riciclo per noi non è semplicemente una buona pratica sociale e di “recupero architettonico”, ma il territorio di una ricerca continua, capace di tenere insieme concetti e tecniche molto diverse: dall’eredità di una modalità di costruzione storicamente consolidata all’arte, alla politica, al paesaggio, alla comunicazione eccetera. L’obiettivo 7 7 Jiakun Architects, Rebirth Brick. (Courtesy fondazione maxxi) 285 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 8 286 9 11 10 non è tanto definire una teoria dell’architettura quanto lo spazio operativo per un linguaggio efficiente per lo scambio tra architetti e società. A costo di ripetermi mi sembra importante sottolineare la natura duttile e trasversale del concetto di riciclo, che poi è ciò che la rende urgente. I primi passi in questo territorio concettuale per me risalgono all’osservazione di fenomeni architettonici ipernoti, come la città di Spalato o la chiesa di san nicola in Carcere a Roma, frutto di continue stratificazioni di forme e significati architettonici diversi. Ma il senso che cerchiamo adesso diviene chiaro solo se mettiamo tutto questo “patrimonio” insieme all’uso concettuale e semantico che del riciclo fanno l’arte (da duchamp in poi) e le altre forme espressive (basti pensare alla musica degli ultmi 25 anni). Gli architetti hanno ben chiaro questo potenziale espressivo già nel secolo scorso e sanno anche usarlo, a cominciare dal ristorante alpino di Portaluppi per arrivare fino al progetto per Cannaregio di Eisenman o alla Villette di Tschumi. Il passo in più che proponiamo di fare è rompere l’antitesi novecentesca tra fenomenologico e concettuale, mettendo a reagire insieme quelle esperienze “linguistiche” con le situazioni in cui il riciclo assume un valore più immediato e utilitaristico, non estraneo alla sensibilità sociale contemporanea. Penso ovviamente alla High Line di new York ma anche al Palais de Tokyo di Lacaton & Vassal, esperimento più border line, ai progetti mnestici di Wang Shu, o ai parchi ricavati dalle discariche di Staten Island o di Barcellona. uno dei primi numeri doppi della Casabella di Gregotti, realizzato insieme a Bernardo Secchi, era dedicato al passaggio dall’era della pianificazione a quella della “modificazione”. Affermato con la massima chiarezza ideologica quel passaggio non si era però proceduto ad investigare le modalità progettuali con le quali la modificazione avrebbe preso il posto della tabula rasa moderna e modernista. È quello che abbiamo cercato di fare con Recycle, un dispositivo concettuale ad ampio raggio, capace di surrogare il concetto stesso di linguaggio. Il significato, come ogni volta che abbiamo a che fare con un sito archeologico, nascerà a questo punto dalla frizione tra la preesistenza e l’intervento attuale. La mostra esposta al maxxi nel 2011 (e più tardi in altre sedi) comprendeva una serie davvero ampia di materiali espositivi, nel tentativo di mettere bene in chiaro il genere di riciclo che avevamo in mente. C’erano progetti urbanistici e di paesaggio (detroit, fresh Kills, la discarica di Barcellona, Monaco), c’erano progetti di riciclo infrastrutturale a tutte le scale, dal citato recupero-capolavoro della High Line, alle gallerie autostradali di Trento a moli olandesi, bunker tedeschi e fabbriche francesi. C’erano ricicli letterali di materiali edilizi, come nei mattoni prodotti con materiali di demolizione in Cina o nella splendida biblioteca realizzata dai Karo attraverso il recupero degli elementi di facciata di un centro commerciale demolito. C’erano però opere d’arte e di design, video, oggetti d’uso trasformati in opere degne di interesse attraverso il programma di riciclo (come nel caso delle lastre radiografiche). Mi piace sottolineare che tra i progetti possiamo scorrere nel catalogo della mostra quelli degli architetti italiani sono quelli che mostrano la sensibilità più vicina al genere di “archeologia” cui abbiamo dedicato questo testo. Il progetto di Giulia Andi e dei lin per il recupero della base di sommergibili a Lorient evoca sensazioni quasi romane, fa pensare ai piccoli gesti che servono per rendere utilizzabili spazi smisurati come le Terme di diocleziano. Il progetto di recupero delle gallerie autostradali di Trento di Elisabetta Terragni si muove sulla stessa linea di un quasi niente iperproduttivo. Ancor più sottile il lavoro che fa Maria Giuseppina Grasso Cannizzo trasformando la brutta villetta abusiva della periferia siciliana in una rovina e poi riciclandola direttamente in un edificio pieno di bellezza e di senso. Lo stesso vale per le cave cagliaritane trasformate in Parco dei Suoni da Perra e Loche. 8 tunnel di trento, prima. (Courtesy fondazione maxxi) 9 elisabetta terragni-studio terragni, Museo storico del trentino. (Courtesy fondazione maxxi) 10 Recupero paesaggistico della discarica di vall d’en Joan, battle i Roig Arquitectes. (Courtesy fondazione maxxi) 11 P. Perra, A. Antico loche, Parco dei suoni. (Courtesy fondazione maxxi) 287 12 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 12 M.G. Grasso Cannizzo, sPR. (Courtesy fondazione maxxi) 288 Insomma è difficile immaginare per i prossimi vent’anni in Europa un’architettura basata sull’azzardo e sul lusso come è stato per gli ultimi venti. Allo stesso tempo, per motivi economici, politici e sociali, è difficile anche pensare a un ritorno a un’architettura/città archetipica e di puro servizio sostenuta dal welfare. Ma questo non vuol dire che la nostra architettura debba essere poco interessante, o limitata a decidere dove mettere i pannelli solari, o comunque di puro supporto tecnico. Recycle per noi è l’antidoto all’emarginazione (definitiva?) dell’architettura e il dispositivo per inserirla nei meccanismi di produzione del pensiero e del senso contemporaneo, in un terreno dove può incontrarsi facilmente con la società, l’arte, i linguaggi contemporanei. Per tornare alla natura (anche) archeologica di queste operazioni torno a citare un progetto specifico presente nella mostra Recycle. Si tratta di un lavoro di un gruppo di giovani architetti di Spalato, Platforma 9,81. Il tema è il riuso di un enorme “palazzo della gioventù” di età sovietica. nessuno in città ha risorse (e idee sull’uso) sufficienti per un progetto organico di trasformazione. Allora i due architetti (dinko Peracic, Miranda Eljacic) hanno proposto una strategia alternativa, mutuata direttamente dalle nostre procedure di recupero archeologico. Il rudere resta là, come rudere, e il recupero procede un segmento per volta, mano a mano che si presenta la necessità di trovare uno spazio “pubblico” per la città e si trovano i fondi per intervenire. Il testo originale non è quindi ristrutturato attraverso un intervento unitario, ma grazie a una serie di interventi/alterazioni successivi e apparentemente scollegati, utili anche a ridurre concettualmente la differenza di scala tra un edificio decisamente xxl, ipermonumentale, e gli spazi necessari alle attività praticabili in città. In sostanza ripartiamo dall’idea di considerare come un unico strato archeologico l’enorme patrimonio di costruito e di scarto che questa società ci lascia a disposizione, non sapendo come gestire il suo ciclo di vita. Ovviamente non tutto può o deve essere conservato ma preferiamo comunque pensare complessivamente alla città con lo stesso atteggiamento di Jane Jakobs, che ha intitolato il suo libro “Morte e vita delle grandi città americane”, pensando quindi a un nuovo ciclo e non alla deprimente sentenza di “vita e morte” della traduzione italiana del titolo. Before introducing the concept I would like to base my article on, I’d like to refer to a strange archaeological find. It is called “Hey Joe” and it is a bootleg recording of a song by frankie Laine (the stage name of francesco Paolo Lo Vecchio), which was put on display at the inauguration of the Recycle exhibition I curated in 2011 at the maxxi national museum of twenty-first century arts. Apart from its musical importance, the significant aspect of this recording is that it is not recorded on vinyl, as is usually the case, but on recycled Russian hospital x-ray radiographs instead, in the days when importing Western music into the ussr was illegal. Vinyl record pressing machines were smuggled into hospitals and rock ’n’ roll and jazz records were secretly produced from old x-rays, thanks to the fact that they are made from a material with properties similar to those of vinyl. Of course, we are more interested in the archaeological significance of this hospital artefact than in the music itself. It was subject to a recycling operation (what we would now call “upcycling”) and thus became a design object and finally (and involuntarily) art, an item that interests collectors and essayists. Thanks to “Hey Joe”, we therefore can define a new kind of “non-monumental” contemporary archaeology, widely found in architecture as well, which could perhaps help us identify a positive approach to our increasingly besieged field. The attention we pay to what already exists – this new archaeology of ours – obviously involves the fact that we live in a Western country, where gdp and cities grow slowly and strangely. We are particularly referring to Italy because Italy is, in many ways, a borderline case where the conflict between the culture of modernisation and the culture of anti-modernisation produced an infinite number of ruins during the twentieth century, infinite examples of the “new archaeology” to which we are referring. There aren’t many possible ways out of this crisis in Europe. There are those who believe they can save us through a rather radical rappel a l’ordre, overlapping the archaeology of thought with that of artefacts. There are those who attribute enormous importance to the political potential of architectural projects, those who believe that architecture today is only event and communication and those who use the landscape (which has always been a suitable setting for ruins) as a passepartout of unstoppable effectiveness. We therefore have four different possible directions before us – independence, politics, communication and the landscape – which seem to offer our field paths to survival of varying degrees of feasibility, but that taken as a whole do not seem to amount to a strong direction for a professional and cultural movement. How can we find a synthesis? What is now the best way to merge the strengths that come from this field’s stomach, its muscles, its ability to take in aspects of this world? And it is here that I’d like to re-introduce the lesson we learned from Music on Bones and apply it to the world of architecture, where we are continually producing ruins and falling in love with them. The act of focusing our attention on contemporary archaeology therefore means this: developing tools that allow us to produce social space and architecture, as many are already doing, making the most of these ruins. This is what we call Recycling. uP-CYCliNG. deAtH ANd liFe oF ARCHiteCtuRAl bodies ABSTRACT 289 seGNi Alberto ferlenga Cercherò di proporvi alcuni spunti che derivano da una serie di riflessioni e da poche certezze. L’intento è sostenere la convinzione che parlare oggi del rapporto tra architettura e archeologia non voglia dire necessariamente parlare del passato ma affrontare alcune questioni fondamentali che riguardano il presente. È importante però premettere che perché questa riflessione risulti proficua è necessario sottrarsi al peso delle culture che tradizionalmente appartengono alle due discipline messe in gioco. La cosa non è facile e la creazione di una “cultura intermedia”, d’altra parte, non avrebbe alcun senso. Ha senso, però, riflettere, senza pregiudizi, su alcuni temi comuni e questo è l’obiettivo del mio intervento che ruoterà soprattutto attorno alla necessità di spostare l’attenzione di ogni azione, pratica e teorica, che riguardi questo campo, dagli oggetti in sé ai valori relazionali che essi sottendono, da ciò che è materialmente presente a ciò che, pur essendo presente, non si vede. Ciò ci porta a verificare molte cose che davamo per acquisite e per prima la nostra capacità di apprendere dai luoghi che ci circondano, capacità che anni di convenzioni e ideologismi potrebbero aver appannato. da questo punto di vista alcune esperienze possono risultare rivelatrici. Per me, ad esempio, dopo un apprendistato di studi incentrato sui rapporti che presiedono allo sviluppo urbano, conoscere, sia pur da ospite, napoli e il territorio flegreo è stato molto importante. Mi ha aiutato a percepire “dal vero” una condizione che mi era poco nota: la sopravvivenza, difficile da descrivere ma evidente, di qualcosa che in altri luoghi si era ormai definitivamente staccato dal mondo reale per rintanarsi nelle sale dei musei o nei libri. Questa condizione riguarda il modo in cui il rapporto tra usi, architetture, storia produce un movimento costante e salvifico per la vita di un luogo e non è comprensibile attraverso la misurazione dei monumenti o il rilievo dei tessuti urbani. Tra le sue componenti prevalgono presenze invisibili, fenomeni immateriali, come i miti o i ricordi, ma che influiscono profondamente sui dati materiali. L’in- 1 C. scarpa, F. Franzoia, Rilievo della stratificazione dei manufatti rinvenuti nell’area degli scavi di fronte al Duomo di Feltre, 1972 (da: G. Calandra di Roccolino, Attraverso la storia. Le “architetture archeologiche” di Carlo Scarpa, “engramma”, 118, luglio/agosto 2014). 291 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI tensità della loro incidenza determina l’affermarsi o l’appannarsi delle differenze che sempre contraddistinguono una città dalle altre. di questo vorrei parlare. Mi riferisco ad un intreccio che moltiplica la sua influenza dove i segni della storia sono più presenti e che, pur toccando le competenze di molte discipline non può essere affrontato a partire da una sola di esse e rende quindi complesso il rapporto tra chi, come architetti o archeologi, si occupa spesso delle stesse cose, negli stessi luoghi. Se guardiamo ad una città o ad un territorio densi di storia ci sono molti nodi che sfuggono alle interpretazioni “disciplinari”, pur avendo un’importanza fondamentale. Ad esempio, che cosa può essere considerato come “originale” all’interno di paesaggi plasmati dal tempo? E come possiamo definire questo stesso tempo che non è circoscrivibile dentro mere successioni cronologiche? Qual è il tempo di una città? È corretto parlare di passato e presente in condizioni in cui il passato e il presente sono entrambi contemporanei e sono, per lo più, ancora in uso? domande di questo tipo non sono esercitazioni accademiche ma hanno direttamente a che vedere con le modalità attraverso cui si interviene in un paesaggio come quello Italiano la cui qualità è stata determinata da un insieme articolato di relazioni. Hanno anche a che vedere con l’affermarsi delle identità che ne sono derivate e che vanno intese come fenomeni multipli, intrecciati, spesso contrapposti, mai univoci. Insomma, domande di questo tipo riportano ad una complessità che è stata spesso semplificata o rimossa a favore dell’attenzione rivolta alle singole manifestazioni della nostra storia. Questa è la questione che più mi interessa sviluppare e che può essere riassunta nella convinzione che quando le discipline tradizionalmente legate all’intervento fisico sui lasciti della storia perdono la capacità di scambiarsi esperienze e di confrontarsi, rischiano di trasformarsi in ostacoli non solo rispetto alla difesa dell’aspetto estetico dei luoghi ma anche al dispiegarsi della loro vitalità. A partire da questa premessa affronterò alcuni aspetti della presenza dell’immateriale nei nostri possibili campi di intervento con particolare attenzione ad una questione che si pone al limite delle relazioni tra archeologia, architettura e paesaggio e cioè il momento in cui l’oggetto archeologico, l’area archeologica, il monumento, il tratto di mura, la rovina stessa, perdono il proprio significato per trasformarsi semplicemente in segni. Il momento, in altri termini, in cui il frammento archeologico, nella sua lenta marcia di ritorno alla natura, si confronta con il mondo generale delle forme architettoniche e con un tempo più ampio di quello storico a cui deve la sua origine. Mi possono servire come introduzione il bellissimo disegno di Carlo Scarpa che raffigura la sezione dei resti archeologici di feltre(fig. 1) in cui la rovina come segno torna ad appartenere al presente, e una bella frase di Ernst Jünger: 292 1 E. Junger, Sulle scogliere di marmo, Mondadori, Milano 1942, p. 104. non una casa viene costruita, non una architettura progettata ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento, ciò che in noi vive immortale, non trova pace nelle nostre opere.1 2 origini. Proviamo a considerare le città. Ognuna di esse ha un’origine che permane nel corso del tempo e ciò non vale solo per le città antiche, ma anche per le contemporanee. Questa sorta di “identità originaria”, funziona come un imprinting e continua ad affermarsi anche quando tutto sembra cambiare. In un recente intervento, Saskia Sassen, parlando di new York e di Chicago, ha spiegato come, ad uno sguardo attento, anche luoghi apparentemente simili lascino trapelare identità molto diverse – l’identità industriale a Chicago, quella finanziaria a new York – che nel corso del tempo tendono comunque a manifestarsi declinando in forme diverse la differenza di quelle città rispetto ad altre. In alcuni grandi campi archeologici questo è particolarmente evidente. La natura di Palmira, città carovaniera della Siria, non sarebbe, ad esempio, comprensibile se non si considerasse la presenza nel suo impianto del Tempio di Bel, divinità babilonese in seguito assorbita dai Romani. La sua centralità, mantenuta all’interno di tutte le successive vicende conosciute dalla città, ha funzionato come segno identitario. Venuta meno la pratica di quell’antica religione, è rimasta come il segno, gelosamente conservato, di una differenza, di qualcosa che pre-esisteva alla città e ne aveva sempre “patrocinato” la fortuna. un ruolo simile hanno avuto le fonti d’acqua in città famose come Cirene il cui percorso fondativo è esemplare per raccontare come da una città ne possa derivare un’altra. Cirene è una sorta di “doppio” di delfi che nasce ad opera dei profughi di Thera come omaggio alla “capitale” della divinità Apollinea. dal santuario di Apollo(fig. 2) provengono le indica- 2 basamento del tempio di Apollo a delfi. 293 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI zioni per l’insediamento della colonia che riprende le forme della sua matrice e in questo processo di clonazione, proprio alla fonte e trovata dai coloni sull’altipiano libico e dedicata ad Apollo, spetta il compito di evidenziare il rapporto con delfi e la sua fonte Castalia. È difficile interpretare correttamente la complessità di queste relazioni, ma la possibilità di entrare in contatto con quei nessi che nel corso del tempo mantengono la loro capacità di esprimere identità rappresenta l’unica garanzia perché, in alcuni luoghi, non solo le loro forme ma anche la loro essenza profonda si mantenga in vita(fig. 3). Senza di ciò le città antiche si trasformano in asettici modelli o musei, in tipologie urbane simili a molte altre, prive di qualunque capacità di esprimere le differenze che contengono. Ma il tema delle differenze, come quello dell’identità, non riguarda solo la storia. Quanto più la globalizzazione rischia di omologare le città, tanto più diventa importante riflettere su questa questione ben sapendo che l’architettura, con il suo meccanismo di riproduzione, più analogico che logico, è sempre stata ciò che in questo processo relazionale ha avuto un ruolo fondamentale. 294 Riusi. C’è poi un’altra questione importantissima che riguarda la vita dei resti archeologici e che può riassumersi nella domanda: quando ha termine quella vita? Sappiamo che il fatto che i monumenti del passato siano giunti sino a noi si deve ad un loro continuo cambiamento di funzione. Il Colosseo, i templi di Agrigento, lo stesso Partenone sono sopravvissuti al tempo perché nei secoli il riconoscimento del loro valore materiale e simbolico si è accostato al continuo adeguamento a funzioni che, via via, venivano ospitate al loro interno. Questo tipo di riuso non ha riguardato solo i monumenti più importanti ma anche tutto ciò che stabiliva connessioni e che assicurava il funzionamento dei territori. I grandi acquedotti romani, ad esempio, che hanno mantenuto, trasformandosi, la forza di elementi di organizzazione del paesaggio. Si potrebbe citare, a questo riguardo, la trasformazione, da acquedotto a ponte, del Pont du Gard in Provenza oppure il riutilizzo dell’acquedotto di Evora tra le cui campate si colloca una parte della città storica. Le trasformazioni, dunque, sono state, da sempre, il modo attraverso cui le principali testimonianze archeologiche hanno potuto salvarsi. E anche in questo caso si pone un problema nel rapporto odierno tra architettura e archeologia. Sappiamo, infatti, che le discipline dell’archeologia e del restauro tendono, al contrario, a interrompere questa possibilità di sviluppo affermando come unico destino compatibile con il resto archeologico quello museale o conservativo legato ad un suo aspetto bloccato nel tempo e ad una sola delle sue funzioni. Tuttavia, la vita di gran parte di questi resti è stata solo per un tempo molto breve legata alla propria origine. Marguerite Yourcenar ce lo ricorda parlando delle statue antiche, rimaste statue per un tempo brevissimo, dopo essere state pietra e prima di tramutarsi in frammento. Anche in questo caso ci possiamo porre una domanda: la conservazione così come l’abbiamo praticata sino ad oggi, è l’unica scelta possibile per la salvaguardia dei resti del passato? non sarebbe 3 il caso di distinguere gli interventi rispetto all’entità e al valore estetico dei resti e, specie nel caso dei lasciti più “ordinari”, sperimentare forme di conservazione basate sul riuso compatibile e su di un rapporto dialettico tra archeologia e architettura contemporanea? 3 interno scoperchiato di una chiesa nelle missioni gesuitiche del Paraguay. essenza. un’altra questione legata al tema generale della rovina riguarda il suo mettere in evidenza qualcosa di essenziale perdendo il superfluo, qualcosa che può essere definita come l’essenza dell’architettura. Hanna Arendt, parlando di come Walter Benjamin produceva le sue idee, sembra descrivere quello che avviene con il deterioramento che il tempo impone alle rovine: Ciò che guida questo pensiero [quello di W.B] è la convinzione che, benché i viventi siano soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione, che sul fondo degli abissi, ove affonda e si dissolve ciò che un tempo era vivo, certe cose subiscono un “sortilegio del mare” e sopravvivono in nuove forme cristallizzate immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle che un giorno scenderà da loro per ricondurle al mondo dei vivi quali “frammenti di pensiero”, “cose ricche e strane”2. 295 2 H. Arendt, Il pescatore di perle: Walter Benjamin (18921940), “Merkur”, xxii, 1968, p. 92. 4 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 4 J. Plečnik, Ricostruzione immaginaria delle mura romane, lubiana, 1920. Anche se il riferimento è alle idee e non alle cose la frase chiarisce bene ciò che avviene nel corso del tempo ad un certo tipo di architetture. La lenta usura evidenzia le cose essenziali e instaura un rapporto con tutto ciò che le circonda che non è necessariamente quello originario. Gli architetti hanno spesso rappresentato questa condizione, questo “livello 0” dell’architettura. Se ne può trovare traccia in alcuni bellissimi disegni (1798-99) di friedrich Gilly, prove di prospettiva, prive di connotazioni stilistiche, utilizzate come esercizio propedeutico per progetti veri e propri, anche se ciò è avvenuto con maggior frequenza in altri contesti artistici. Penso agli “Spazi ritmici” (1909) di Adolphe Appia per la scuola di Hellerau o alle danze al Partenone (1920) di Isadora duncan la cui arte, rivolta alla ricerca dell’essenza dei gesti, l’aveva portata ad incontrare la Grecia e a cercare di intercettare, tra le colonne dell’Acropoli, quello che lei chiamava il “ritmo del paesaggio”. Ritmo percepito, da un altro punto di vista, anche da Auguste Choisy che in una famosa pagina della sua Storia dell’Architettura (1899) parla dei movimenti fisici e visivi e dei ritmi che rendono “mobile” e cangiante l’Acropoli attraverso la sua capacità di costruire relazioni attorno a sé, con la città e il paesaggio. La necessità di cogliere l’essenza è fondamentale nei luoghi in cui la storia ha lasciato un segno, penso a Cuma, penso ai Campi flegrei e alla grande ricchezza che essi esprimono. Qui la parte visibile è sicuramente meno importante rispetto a tutto quanto è rimasto “in sospensione” nell’aria: storie, tradizioni, miti che non scompaiono mai del tutto e possono sempre essere evocati, purché se ne riconosca la presenza. Ma qual’è il sapere che può rendere possibile questo riconoscimento che non può essere, se non parzialmente, favorito dai libri di storia? È il sapere degli architetti, quello degli archeologi? forse nessuno dei due o entrambi purché siano coinvolti in un processo di ricostruzione di sé stessi e arricchiti nello scambio reciproco. Macerie. Ci sono altri momenti in cui un’altra parte della vita “segreta” dei luoghi e delle forme diventa evidente. Momenti legati a distruzioni traumatiche: guerre, terremoti, inondazioni che rivelano una sorta di atemporalità insita nell’architettura e rappresentata, spesso, da cumuli di macerie. un testo di Marc Augé parla di rovine e macerie: La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni.3 296 3 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. È qualcosa di non molto diverso da quanto si diceva poco fa e cioè la percezione dell’esistenza di un tempo le cui dinamiche non possono essere comprese leggendo i manuali di storia o di restauro, che non può essere ingabbiato in tecniche o interpretazioni univoche e che attraversa la vicenda del mondo. Allo stato ultimo, per collasso o usura, questo mondo produce solo macerie ma anch’esse possono trovare una ricollocazione. Alcuni architetti, più di altri l’hanno dimostrato. Io mi sono per molto tempo appassionato all’opera di Jože Plečnik, architetto sloveno che ricostruisce la sua città, Lubiana(fig. 4), a partire dalle macerie reali del terremoto che l’aveva colpita e da quelle metaforiche della sua storia, riuscendo, in tal modo e attraverso i suoi progetti, a rendere comprensibili e utili anche tracce di per sé insignificanti. Ma questo è avvenuto anche altrove, nelle città tedesche dopo la Seconda guerra, dove le macerie diventano parchi senza nascondere che anche la distruzione è stata un momento fondamentale nella loro vita, o nel qt 8, a Milano, dove “la montagnola” costruita da Piero Bottoni utilizza simbolicamente le macerie prodotte dalla medesima guerra con un’attitudine di assorbimento del disastro che non implica dispersione della memoria; cosa non molto diversa da quanto, sperimentato, a Gibellina, da Alberto Burri con il suo “Cretto” costruito utilizzando le macerie della vecchia città distrutta dal terremoto del 1968. Pietre migranti. Se dovessi sviluppare una ricerca, legata a questi temi, mi piacerebbe costruire una mappa, anche solo del Mediterraneo, in cui fossero mostrate le migrazioni di architetture, pietre, forme: marmi riutilizzati, tipologie riprese, gemme ricollocate in una continua “confusione” di forme e culture che è la vera caratteristica della nostra civiltà. Sappiamo che le grandi moschee di Siria o Tunisia derivano dal riuso non solo di tipologie ma anche di materiali precedenti: templi e colonne romane spostate e riutilizzate. Ma la migrazione ha coperto distanze ben più grandi. Se qualcuno ha visitato Leptis Magna avrà osservato sulla sua spiaggia tre colonne allineate. È ciò che rimane in situ di un furto perpetrato da un console francese alla fine del ’700, che aveva incominciato a trasferire i reperti romani in uno dei luoghi più importanti dell’identità francese, la chiesa di Saint Germain des Prés, a Parigi, dove tuttora si trovano. Ma i trasferimenti furono innumerevoli e arrivarono fino al punto di prevedere lo spostamento di interi edifici come l’Arena di Pola, una delle grandi arene del mondo romano, che, dopo essere stata progressivamente svuotata dai veneziani, per recuperare la preziosa pietra d’Istria di cui era fatta, diventa oggetto, nel 1583, di un’ipotesi di trasferimento integrale a Venezia per dotare la città della testimonianza di una romanità sempre conclamata ma di cui non erano rimaste tracce in laguna. fortunatamente per Pola lo smontaggio viene impedito da un nobile veneziano, Gabriele Emo, come ancora oggi attesta una lapide di ringraziamento per questo salvataggio in extremis. I trasferimenti di architetture, statue, marmi, nel Mediterraneo, per esempio tra Venezia e Bisanzio, costituiscono una vicenda di grandissimo interesse. non riguardano soltanto il riuso di oggetti e materiali preziosi ma, anche di forme e costumi assunti consapevolmente dalla città ad arricchimento di un’immagine debole e precaria come i suoi edifici. il senso delle cose. Mi sono lungamente interessato anche a dimitris Pikionis, architetto greco che dell’archeologia si è occupato da vicino, ma solo con il tempo 297 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 5 298 5 d. Pikionis, Parco dell’Acropoli ad Atene, 1960. ho capito la sua importanza dentro la questione generale di cui stiamo parlando. una vera illuminazione su quanto imprevedibili possano essere le connessioni nel mondo delle forme architettoniche mi è stata procurata dalla lettura del libro di níkos Kazantzákis, Le roman des rochers. Il libro esce nel 1957 ma è stato scritto nel 1934 a Egina dove Kazantzákis, come Pikionis di cui era amico, passava le sue vacanze. Parla del Giappone e della Cina e in alcuni passi ricorda la capacità dell’architettura giapponese di dare significato alle cose rinunciando a qualsiasi forma di ridondanza. negli stessi anni in cui il volume esce Pikionis costruisce la sua opera più importante: il Parco dell’Acropoli ad Atene(fig. 5) la cui singolarità viene riconosciuta, prima di tutti, da Lewis Mumford, che in The City in History (siamo nel 1961 a pochi mesi dal termine dell’intervento) dedica una paginetta a questo architetto sconosciuto che ha avuto, a suo dire, la grande capacità, di “resuscitare i significati”, attraverso un gesto architettonico quasi astratto senza citare direttamente nessuna forma del passato. Pikionis, in effetti, non usa la cultura archeologica o storica del suo tempo, che pure conosce molto bene, ma piuttosto Klee e Kandinskij, evoca altre culture lontane come quella orientale. Più che sulla ripetizione di ciò che non può più essere resuscitato Pikionis ragiona sull’astrattezza, sul rapporto tra frammenti (di architetture o di paesaggi) riprendendo uno dei caratteri che le rovine maggiormente esprimono. Per farlo, rompe barriere temporali e spaziali. La sua opera dimostra come forme differenti, in luoghi differenti, possano declinare gli stessi temi e come per questo l’intreccio sia non solo lecito ma anche auspicabile e necessario. La sua opera e i suoi scritti parlano dell’esistenza di una sorta di “vita universale” delle forme che rende l’accostamento di esperienze lontane non velleità o riferimento da architetti, ma parte di un meccanismo attraverso il quale i luoghi del mondo affermano somiglianze e differenze allo stesso tempo. segni. Gli architetti, gli archeologi o semplicemente il tempo tendono, anche non volendo, quando si occupano del passato a sottrarre i luoghi, le architetture o le rovine a tutto ciò che li aveva generati, a trasformarli in “oggetti”, e questo è un altro tema importante. A Machu Picchu o ad Ollantaytambo, in Perù, l’architettura incaica, afferma una propria vita sottratta agli usi, ci appare semplicemente come segno, architettonico o territoriale. E, come segno, instaura relazioni che la storia non può spiegare, con meccanismi simili appartenenti ad altre epoche, sperimentati in altre parti del mondo. A Moray, sempre in Perù, c’è un luogo che ricorda un anfiteatro romano, ed era invece una macchina per la coltivazione creata dagli Incas per sfruttare la differenza di clima dei diversi gradoni scavati nel terreno. nei pressi di Bacoli, per converso, c’era un piccolo anfiteatro i cui gradoni reggevano l’impianto di filari continui di vigne. In entrambi i casi la forma si è sottratta al rapporto con l’origine e oggi ci appaiono talmente simili che un attento osservatore come Bernard Rudofsky attribuisce anche al primo esempio un’origine teatrale. In ogni caso il rapporto a distanza delle loro forme è evidente. Chan Chan, città preincaica del Perù settentrionale, è fatta da nove colossali recinti autonomi tra loro che costruivano una capitale senza strade o tessuto connettivo. La sua origine costruttiva deriva dai sistemi agricoli usati nel territorio e quella insediativa dal rapporto con la montagna sacra che sorge alle sue spalle, ma di tutto ciò rimane ben poco. Solo camminando tra vasti spazi percorsi dal vento e guardando con attenzione si può cogliere ancora tutta una gamma di rapporti visivi che legano a distanza i recinti alla vetta della montagna regolandone le altezze, tecniche semplici che determinano effetti eccezionali. Se tutto ciò sparisse del tutto, per eccesso di conservazione o per incuria, rimarrebbero solo dei lunghi muri di terra destinati a sciogliersi nel corso del tempo e si perderebbe la percezione dell’eccezionalità di questo luogo. I segni del passato, dunque, che il tempo rende simili a quelli del presente, non perdono per questo la loro differenza che un buon progetto può sempre evocare. 6 Ferite. Gadda narrando la sua esperienza nella Prima guerra mondiale scrive: Crateri infernali divelsero la foresta funebre, la fucileria era un boato unico e fuso nella notte dallo Zovetto all’Emerle. Verdi o bianchissimi o rossi, i razzi illividivano i pini divelti, strane voci risuonavano da presso come radunate minacce […]. E il monte e il colle divennero una cava di ghiaia, e nient’altro che una cava di ghiaia4. nelle sue parole possiamo cogliere l’esaurimento per distruzione non di una città o di un’architettura ma di una geografia. Ancora oggi sono testimonianza di questo stravolgimento i segni delle trincee o delle fortificazioni legati alle molte guerre che hanno cambiato la faccia del nostro paese finendo con il diventare, essi stessi, geografia(fig. 6). Ad essi è legato un sistema di punti di vista che nel corso del tempo ha perso i suoi obiettivi militari ma ha mantenuto, invece, la sua capacità di delineare, di inquadrare i punti principali del paesaggio contribuendo, spesso, a trasformare aspetti comuni della topografia in componenti mitiche dentro la retorica della guerra. In uno dei suoi progetti più belli, il monumento per il giovane Sarfatti (1935), morto diciannovenne sull’Altipiano di Asiago, Giuseppe Terragni ha interpretato tutto questo. Ma i bombardamenti e le mine hanno anche creato una forma di rovina del territorio sotto forma di crateri e spaccature che, come si può vedere in normandia o nel Montello sono diventati segni identitari legati alla vita attuale di questi luoghi. forse Gadda intendeva questo con la sua frase: quando un paesaggio viene trasformato in pietraia dalle bombe perde le sue caratteristiche originarie e ne assume altre. Anche Andrea Zanzotto, uno dei grandi poeti italiani, parla di quanto le tracce delle rovine di guerra, pur materialmente quasi esaurite siano ancora fortemente presenti in alcuni luoghi e in uno scritto illuminante (The Necessity for Ruins, 1980) J.B. Jackson, geografo americano che fu soldato in Europa durante la Seconda guerra mondiale, parla della necessità delle rovine nel nostro tempo, riferendosi soprattutto a quella condizione di indefinitezza e di non finitezza che caratterizza le architetture quando, una volta esaurito il loro compito primario, iniziano un’altra vita. 6 tracce di trincee della Prima guerra mondiale sugli altipiani veneto-trentini, 1917. 299 4 C. E. Gadda, Il castello di Udine, Edizioni di Solaria, firenze 1934. le nostre rovine. L’ultima questione riguarda una condizione e allo stesso tempo, potremmo dire, una prospettiva di lavoro. una frase di daniele del Giudice ci può essere utile per introdurla: 7 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI Ogni secolo ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio: le nostre rovine hanno questo di particolare, sono rovine del presente, non custodiscono memoria né portano tradizione non hanno fatto in tempo ad accumulare tempo, alcune sono già rovine alla nascita, implose all’improvviso o ruderi da subito, sopravvissuti ironicamente, se per rovina si intende non soltanto lo sbriciolarsi delle pietre ma anche dell’anima che potrebbe abitarle5. 7 A. Ferlenga e MAoMI, sistemazione delle piazze di Castiglione delle stiviere, 2011. 300 La frase sostiene che la condizione di rovina o la condizione di esaurimento di un’architettura si manifesta quando l’anima che la abitava viene meno, ma quali sono le nostre rovine prevalenti? È abbastanza evidente che le principali rovine del nostro tempo riguardino l’enorme quantità di infrastrutture dismesse che giacciono sul territorio senza che possano essere, per motivi differenti, distrutte. Le case, i monumenti, si fanno, si ricostruiscono, si riaggiustano; per le infrastrutture è tutto più complesso. Alcune sono troppo costose da abbattere, altre appartengono ancora a istituzioni che non esistono più. Questa enorme quantità di frammenti e di oggetti in rovina rappresenta oggi una grandissima occasione di progetto che se fosse rimessa in relazione con i luoghi di cui fa parte potrebbe costituire un’enorme risorsa per il paesaggio italiano considerando che la sua maggior caratteristica non è la qualità architettonica ma la capacità di connettere(fig. 7). Perché ciò avvenga dovremmo però invertire quella pratica che vede gli architetti oggi più attenti ai nuovi paesaggi interni delle loro architetture che a quelli esistenti che le attorniano. C’è un grande intreccio di relazioni che oggi richiede di essere interpretato perché i luoghi riprendano ad esprimere qualità e significati. Abbiamo un grande patrimonio paesaggistico e monumentale connotato da una grande diversità. una grande ricchezza rispetto alla quale la logica dilatata della conservazione non può più essere considerata l’unica via percorribile. Quello che servirebbe è la messa in atto di una grande opera di sperimentazione che affidi all’architettura contemporanea il compito della salvaguardia di vitalità e della riattivazione di relazioni e servirebbe una nuova cultura perché ciò possa avvenire, una cultura che metta al centro dei suoi interessi le relazioni e non solo gli oggetti. The text deals with the theme of the relationship among archaeology, architecture, and landscape from a particular standpoint. The intention is to back up the belief that to speak today of this subject does not necessarily mean to refer to the past, but to tackle several fundamental questions that concern the present and, specifically, the ways through which, in the present, the physical territory in which we live is built. The idea is that, since this reflection is profitable, it is necessary to escape the weight of those cultures which are in part worn out, and which traditionally belong to the two disciplines in play. The considerations made concern the difficulty of a comparison between disciplines like architecture and archaeology which, once united, have become more and more separated and, on the other hand, the uselessness of the creation of an “intermediate culture”. Examples and arguments are used to assert the necessity to rebuild a dialogue starting from the reflection and the “design” practice on common themes, as well as from an encounter without prejudice of any kind. Attention will be focused mainly on the importance of reflecting not so much and not only on the preservation of the single structures left to us by the past or on their “museumification”, but on the recomposition of these relationships among architecture, history, and landscape that were at the basis of the creation of a territory as unique as Italy, but which acquire a particular sense in all places dense with history. Today, perhaps, archaeology, like architecture, should shift attention from the protection or creation of “objects” to the rebuilding of the ties with those fabrics and contexts that constitute the main reason for the quality of a piece of architecture as well as of a place. siGNs ABSTRACT 301 5 d. del Giudice, Prefazione a W. Wenders, Una volta, Socrates, Roma 1993. il diAloGo tRA ANtiCo e CoNteMPoRANeo Pier Giovanni Guzzo un dialogo sempre esistito. Vorrei cominciare da un fatto di cronaca: a Roma, comunica la stampa quotidiana che si è trasformata un’antica cisterna romana, sita nel parco archeologico della Caffarella(fig. 2), in una grande baraccopoli all’interno della quale vivono una trentina di persone fra cui alcuni rom. Quindi i militari hanno proceduto allo sgombero, come di frequente accade. Possiamo forse considerare questo episodio come un estremo, ma forse neanche tanto estremo, riuso, nel dialogo tra l’antico e il moderno. L’antico e il moderno si incontrano, dialogano tra di loro e l’esito di questo dialogo nel corso del tempo può produrre una gamma vastissima di risultati che vanno dall’interferenza, al rifiuto, alla distruzione, al riadattamento. La varietà di questa gamma cambia e si può sintetizzare nel cosiddetto caso per caso che non segue una costante. Questo dialogo, questa interferenza non è una caratteristica contemporanea. Il dialogo, nei suoi diversi esiti, c’è sempre stato, da quando c’è registrazione e memoria di attività umana. Quella che risulta come la più antica registrazione, la più antica memoria di un esempio del genere, è conservata nelle cronache di un regno babilonese della fine dell’viii secolo a.C. Vi è registrato che un re di Babilonia, nel costruire un tempio per le divinità, trovò durante lo scavo per le fondazioni del nuovo tempio i resti di un tempio precedente nel tempo. da questo ritrovamento, quel re trasse autorità, ancora maggiore legittimazione per la costruzione del suo nuovo tempio. Si è molto discusso, fra i moderni, se il ritrovamento fosse reale oppure sia stato un’invenzione: l’importante, per il nostro argomento, è che in questo caso piuttosto antico ci rimanga una registrazione scritta che evidenzia una relazione tra un fatto antico e un fatto contemporaneo. d’altra parte questa situazione babilonese è più o meno contemporanea a quanto la nostra generazione di archeologi ha registrato archeologicamente, e quindi materialmente, a Megara Iblea(fig. 3), fondazione greca dell’viii secolo a.C. nel territorio di Augu- 1 Christo, Le Mura, progetto per la copertura delle mura della città, Roma, 1974 (da: da: Christo, Der Reichstag und urban Projekte, Prestel-verlag, München 1993). 303 3 4 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 2 304 sta, nella provincia di Siracusa. L’episodio è, quindi, più o meno contemporaneo all’esempio babilonese. I Greci, provenienti da Megara nisea, arrivati in Sicilia per impiantare la loro nuova città, nel sito che avevano identificato come il più favorevole per la loro nuova città, trovano i resti di un villaggio neolitico, cioè di un insediamento del v millennio a.C. Questo insediamento era circondato da un grosso fossato che serviva a proteggere il villaggio stesso: in tal modo questo veniva a trovarsi sicuro come se si fosse trovato su un’isola. Abbandonato il villaggio già nel v millennio a.C., il fossato si è riempito nel corso del tempo: ma il riempimento non compattato ha creato un avvallamento rispetto al piano di campagna. Inoltre, i Greci appena arrivati hanno proceduto con i lavori da questa terra di riempimento e sono venuti fuori cocci, strumenti ed altri oggetti del periodo neolitico che hanno evidentemente creato un problema di comprensione, di interpretazione per coloro che li ritrovavano. Ciò venne a costituire un fatto straordinario, eccezionale, visto che nel resto del pianoro, esteso per circa 80 ettari, non furono trovati altri resti del genere: i Greci decisero allora di estrapolare questo settore dalla rete stradale prevista nel piano regolatore da loro elaborato per organizzare al meglio la loro nuova città e di utilizzarlo come un’area destinata ai culti. Gli si da cioè uno sta- tuto particolare, che non sembra abbia rispondenze con la partizione funzionale della città di fine viii secolo a.C. Evidentemente questo ritrovamento eccezionale, questo impatto tra un moderno dei fondatori e un antico del v millennio a.C. ha modificato le linee programmatiche e progettuali di sviluppo della nuova città, individuando una funzione di ruolo non secondario, come è quello della funzione sacra. A questo caso, a dimostrazione della varietà di esiti del dialogo tra antico e moderno, si oppone quanto registriamo archeologicamente a Metaponto (fine vii secolo a.C.)(fig. 4), e a Taranto (fine viii secolo a.C.). nei siti in cui sono state impiantate queste città greche, preesistevano insediamenti, ma i nuovi fondatori hanno rasato al suolo le strutture trovate per costruire le loro città al di sopra di esse, senza curarsene affatto. i cambiamenti del paesaggio. d’altra parte non è solo una questione di dialogo tra elementi puntuali più antichi ed elementi puntuali più moderni. Il dialogo tra antico e moderno interessa anche il paesaggio: cambia nel tempo anche la composizione di elementi costruiti all’interno del quadro ambientale, le caratteristiche del quale, 2 il paesaggio del Parco archeologico della Caffarella a Roma. 3 Megara iblea, resti archeologici. 4 Resti archeologici dell’antica città greca di Metaponto. 305 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 5 306 5 Resti archeologici dell’antico insediamento greco di velia. combinandosi con le caratteristiche dei fatti costruiti, vanno a formare il paesaggio. Ci sono cambi di paesaggio di grande estensione. Tucidide nel vi libro delle sue storie, composte nella seconda metà del v secolo a.C., traccia un profilo delle vicende avvenute in Sicilia prima che nel 426 a.C. gli Ateniesi iniziassero una guerra contro Siracusa. Lo storico scrive che prima che arrivassero i Greci in Sicilia, tutte le isolette costiere e tutti i promontori dell’isola erano occupati da insediamenti di fenici. Man mano che arrivarono i Greci, i fenici lasciarono i loro precedenti insediamenti e si concentrarono nel settore nordoccidentale dell’isola, nel quale abitarono le città di Palermo, Mozia e Solunto. ne derivò un radicale cambio del paesaggio: ai bordi delle coste siciliane si avevano fino all’arrivo dei Greci presenze di stanziamenti fenici, mentre successivamente questa costellazione di punti costieri viene abbandonata e gli stanziamenti fenici si concentrano a nord-est. un altro esempio che potremmo ricondurre ancora a questa categoria, è il caso di Velia(fig. 5). Velia, che si trova poco a sud di Paestum, deriva da una fondazione focea avvenuta intorno al 530 a.C. Secondo le notizie tramandate e raccolte da Erodoto, i focei emigrarono dalla loro madrepatria, focea, che si trovava sulla costa dell’Asia Minore, per sfuggire al dominio dei Persiani; giunti sulla riva tirrenica, trovarono il luogo confacente alle proprie esigenze e quindi comprarono dagli Enotri, che occupavano tutta quella zona, il sito sul quale costruire la loro nuova città. Al contrario di quello che è successo in Sicilia, il paesaggio di questo tratto di costa tirrenica, fin allora privo di insediamenti costruiti, si modifica verso la presenza di insediamenti costruiti, strutturati da genti greche con case dai muri di pietra e mura di difesa tutt’intorno. revole, dunque, il cadavere di Romolo non fu mai stato trovato. Su queste vicende controverse nella stessa tradizione antica, si costruisce un particolare rapporto tra elementi materiali e l’immaginario. nel foro romano, che è stato il centro della vita politica della repubblica romana, sappiamo dalle fonti letterarie che si trovava un cippo di tufo con le facce iscritte. nessuno era in grado di leggere e comprendere quel testo, così che il cippo fu identificato come pietra sepolcrale della tomba di Romolo: posta al centro del foro, a costituire “l’ombelico” della città, come si addiceva al suo fondatore. Le due versioni tradizionali, come si è appena detto, per quanto opposte tra di loro non contemplano il ritrovamento del cadavere di Romolo, ma i Romani identificarono lo stesso il cippo sepolcrale e l’iscrizione, ritenuta sepolcrale, del loro primo re. nel 1895 è stata ritrovata, durante gli scavi archeologici condotti da Giacomo Boni, questa pietra inscritta(fig. 6) in latino arcaico (di vii-vi secolo a.C.): il suo testo contiene le norme per una cerimonia sacra, anche se non tutti i moderni sono d’accordo su questa interpretazione. Ma già Varrone (che scrive nel i secolo a.C. e che identifica questa pietra come epitaffio di Romolo) non riusciva più a leggerlo. Ma perché Varrone identifica questa iscrizione come epitaffio di Romolo se, non essendo stato rinvenuto il corpo, la relativa tomba con il suo cippo non avrebbe dovuto esistere? Abbiamo finora cercato di rappresentare, nel dialogo tra antico e moderno, due categorie: gli interventi puntuali e gli interventi che con maggiore pesantezza modificano l’apprezzamento del paesaggio. A queste due possiamo aggiungere una terza categoria: quella ideologica e non solamente materiale. Infatti, sappiamo da molte fonti storiche antiche che il i secolo a.C. è stato un periodo assai turbolento per la Repubblica, a causa della guerra civile tra Mario e Silla, ad esempio. ne consegue la necessità di fare riferimento una figura, dotata di autorità e che, per ciò stesso, non si presti ad essere strumentalizzata da una delle fazioni in lotta, che rafforzi l’identità di Roma. Inoltre la tradizione architettonica di cultura greca prevedeva di costruire un cenotafio (cioè una tomba, anche se priva del corpo) al fondatore della città, posta al centro della piazza maggiore, e cioè al centro della intera vita pubblica: a Roma questo sito centrale si identifica nel foro. Il rapporto tra una realtà antica della quale non si è più in grado di comprendere il perfetto significato originario (nel nostro esempio: il testo inciso sul cippo di tufo) ed esigenze invece ideologiche moderne (identificare una figura autorevole di riferimento) viene esemplificato in questo caso di rilevante importanza. Romolo continuava, infatti, a costituire un riferimento importante: oltre alla sua figura di fondatore, si mostravano in cima al colle del Palatino i resti di una capanna identificata come quella di Romolo stesso. Periodicamente si provvedeva a curare la manutenzione e la sostituzione di quegli elementi che si fossero deteriorati a cura dello Stato. Accanto alla presunta capanna di Romolo, Augusto costruì la propria casa. Quindi di nuovo c’è il dialogo tra un antico ipotizzato e un moderno documentato. nella storia di Roma antica, troviamo elementi per identificare questa terza categoria. E gli elementi che sostanziano questa categoria ideologica si riferiscono a Romolo. Romolo è il simbolo della potenza di Roma ed è quella personalità mitica o reale, a seconda delle versioni, alla quale si riferiscono i diversi successivi uomini di Stato, che prendono in mano il controllo prima della Repubblica e poi dell’Impero. Secondo la tradizione più ampiamente diffusa, riportata nelle narrazioni della storia antica di Roma da Plutarco e da altri storici, si registra che Romolo, quando morì, fu assunto in cielo durante un temporale: così che i primi Romani, che non riuscirono a trovarne il corpo, vennero alla convinzione che il loro fondatore era destinato a divenire un dio. Ma a fronte di questa versione laudatoria è conservata anche un’alternativa più modesta, secondo la quale Romolo era divenuto tanto nemico dei senatori che questi lo uccisero, ma poi ne nascosero il cadavere, per paura che il popolo li ritenesse colpevoli di omicidio. Per spiegare la mancanza del corpo, gli stessi senatori dissero che era stato assunto in cielo. Secondo ambedue le tradizioni, quella favorevole e quella sfavo- È qui che si innesta con forza la terza categoria del dialogo tra antico e moderno: quella ideologica. 6 6 Pietra in tufo con le facce inscritte in latino arcaico rinvenuta durante gli scavi archeologici condotti da Giacomo boni nel 1895. 307 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 308 Questo dialogo tra antico e moderno è anche descritto in Aristotele che scrive nella seconda metà del iv secolo a.C. Il filosofo si riferisce all’impostazione della forma, della figura con la quale la città viene costruita o si sviluppa. A quanto scrive, ci sono due tipi di città: uno antico ed uno moderno, cioè contemporanei ai propri tempi. La città moderna è quella che noi definiamo, con strade larghe e rettilinee con incroci ortogonali: come esempio si può citare il caso del centro storico dell’attuale napoli. una città considerata da Aristotele come moderna è ben funzionante, in quanto l’acqua scorre via bene, il vento passa tra gli isolati mantenendoli salubri e così via. Ma se una città moderna viene conquistata dai nemici, essi sono in grado di percorrerne velocemente le larghe strade, e in più diritte, e arrivano così a conquistarne il centro molto facilmente. Al contrario, le città considerate antiche hanno viuzze storte e curve delle quali non si capisce la direzione: e, quindi, chi non le conosce non sa come dirigersi al centro della città. Magari le città antiche hanno problemi di igiene, però se vi penetrassero i nemici, essi non saprebbero dove andare e sarebbe più facile difendersi. nella tradizione letteraria ci sono almeno due esempi successivi a questa considerazione di Aristotele che ne confermano il concetto. La più antica risale alla prima metà del iii secolo a.C., anni nei quali Pirro, re dell’Epiro, assedia Argo, riesce ad entrare nella città, ma nei vicoli stretti si crea una calca tale che gli arcieri riescono a difendere la città. nel 212 a.C., invece, Annibale durante la Seconda guerra punica stringe accordi con i congiurati tarantini, i quali fanno entrare dalla porta principale l’esercito cartaginese che arriva rapidamente fino al centro della città e la conquista ai Romani che fino allora la tenevano. Anche in questi esempi di rapporto tra antico e moderno c’è un antico che ha svantaggi ma anche vantaggi, e una costruzione urbanistica moderna che ha vantaggi e svantaggi di segno opposto. L’interessante, per noi, è che di questo aspetto si è occupato Aristotele, che è stato uno dei maggiori pensatori del mondo occidentale. Aristotele, a quanto si conserva dei suoi scritti, non ha espresso una sua preferenza al riguardo dell’esempio che tratta. E, di certo, una sua eventuale preferenza al riguardo troverebbe, oggi, sia fautori sia detrattori. In ogni periodo storico, e quindi culturale, le esigenze contemporanee dettano, per gran parte, le linee di azione e i comportamenti concreti. Ma la convivenza tra antico e moderno, l’esigenza di non distruggere tutto quanto realizzato dall’uomo prima di noi, è un imperativo culturale: in quanto noi, oggi, siamo quello che siamo in quanto che, prima di noi, ci sono stati i nostri predecessori. The ancient and modern meet, converse, and the outcome of this dialogue over time may produce an extremely vast range of results spanning from interference, to rejection, to destruction, to readaptation, The variety of this range changes and may be summarized in the so-called case by-case that does not follow a constant. furthermore, this dialogue, this interference, is not a contemporary characteristic. The dialogue, in its different outcomes, has always existed, ever since there has been a recording and memory of human activity. In particular, the most ancient account of a concrete case of ancient-new relationship is found in the chronicles of a Babylonian kingdom of the late 8th century BC, and is contemporary with what was archaeologically recorded in Megara Iblea, in the province of Syracuse, where the Greeks, already in the 8th century, adapted the building of their colony to the finds of a neolithic village dating from the 5th millennium BC. It is not only a question of dialogue among intermittent ancient and modern architectural elements, since the dialogue between ancient and modern also concerns the transformations of the landscape: over time there is a change in the composition of the elements built within the environmental framework, the characteristics of which, combining with the characteristics of the structures already built, together form the landscape. There are extremely extensive landscape changes that can be found, for example, in the case of the transformations of the Sicilian coast during the transition from the Phoenician to the Greek period, or in the case of the settlement of Velia, just south of Paestum, along the Tyrrhenian coast. Thus two categories of interferences can be identified (the operations here and there and the operations which, with a greater heaviness, modify the appreciation of the landscape), to which a third category may be added: the ideological, and not merely material, particularly characteristic of the events connected with the history of Rome and the figure of Romulus. To clarify the importance of this theme of the bringing together of the ancient and the modern, suffice it to remember that even Aristotle, who was one of the Western world’s greatest thinkers, discussed it, referring explicitly to two types of city: one Ancient and one Modern, i.e. Contemporary for those times. In every historic, and therefore cultural, period, the Contemporary needs dictate, for a large part, the lines of action and the concrete behaviours. But the coexistence of ancient and modern, the need to avoid destroying everything created by man before us, is a cultural imperative, since we, today, are what we are because of what our predecessors were before us. tHe diAloGue betWeeN tHe ANCieNt ANd tHe CoNteMPoRARY ABSTRACT 309 ARCHeoloGiA e ARCHitettuRA Joseph Rykwert Che cos’è il patrimonio? Archeologia e architettura sono due facce della stessa medaglia. Qualcuno ha definito l’archeologia come la distruzione sistematica delle vestigia del passato: l’archeologo scava un livello dopo l’altro, per raggiungere il suo scopo, distruggendo tutti quegli strati che intralciano la sua ricerca. Il problema dell’archeologo risiede sempre nel decidere cosa e come conservare – e che valore deve avere questa sua azione di tutela. In Italia, purtroppo, un grande maestro ha lasciato un forte condizionamento sul pensiero di quelli che si occupano del patrimonio storico: Gustavo Giovannoni, il quale ha ricoperto la cattedra di Rilievo e Restauro dei monumenti all’università di Roma per anni. Giovannoni aveva una fede molto positivista ed era fermamente convinto della possibilità di ritornare, restaurando un edificio, sempre alla sua idea originaria. Il restauro, nella sua concezione, era la ricerca del progetto originale. Il restauratore ha, quindi, la licenza di rimuovere quelle stratificazioni lasciate dai periodi intermedi, offuscanti l’originaria concezione dell’edificio ovvero il patrimonio autentico. Cosa è dunque il patrimonio? Questa è una domanda che un architetto si deve porre ogni volta che lavora su un sito storico. La storia degli Orti farnesiani(fig. 2) è emblematica per introdurre la questione: questo disegno, raffigurante gli Orti farnesiani con il sottostante Campo Vaccino, è stato eseguito nel 1800 da francesco Panini, figlio del più celebre Giovanni Paolo, ed inciso da un altro autore all’incirca nel 1800. Sullo sfondo si intravede il retro del Campidoglio. Gli scavi sporadici saranno ampliati verso il 1800, per essere poi continuati in modo episodico fino a diventare una vera campagna di scavi durante il Pontificato di Benedetto xv e subire poi una profonda trasfigurazione ad opera di Giacomo Boni. Questo è lo stesso sito nel 1950(fig. 3), il Campidoglio ovvero gli Orti sono scomparsi, i padiglioni sono coperti da alberi; il Campo Vaccino è diventato un parco archeologico. 2 3 1 Herzog & de Meuron, Paglione Serpentine Gallery, london, 2012. 2 orti Farnesiani, rappresentazione del 1800. 3 orti Farnesiani nel 1950. Il testo è la trascrizione della conferenza tenuta da Joseph Rykwert il 4 giugno 2012 presso il dipartimento di Architettura dell’università degli Studi di napoli federico ii. 311 4 6 7 8 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 5 312 4 Herzog & de Meuron, Spaccato del padiglione della Serpentine Gallery del 2012. 5 Herzog & de Meuron, Sezioni del padiglione della Serpentine Gallery del 2012. 6 vista aerea del padiglione della serpentine Gallery realizzato da Herzog & de Meuron nel 2012. Cosa era dunque patrimonio essenziale? Il patrimonio dell’immagine iniziale o la sua trasformazione nella seconda? il paradosso della serpentine Gallery. Per indagare questa questione vi presento come paradosso un progetto di un edificio che è stato realizzato a Londra nel mese di giugno 2012(fig. 4), il padiglione sul prato antistante la Serpentine Gallery, su progetto di Ai Wei Wei, artista e architetto cinese, e degli architetti svizzeri Herzog e de Meuron. La Serpentine Gallery è un piccolo edificio degli anni ’20 del secolo scorso – una architettura che può essere considerata minore – costruita per ospitare un caffè, e più tardi trasformata in galleria d’arte. Ogni anno d’estate – da dodici anni – questa galleria commissiona a un noto architetto che non ha mai realizzato un suo progetto a Londra – tra questi si annoverano frank Gehry, Peter Zumthor, Jean nouvel, Zaha Hadid – un padiglione temporaneo che viene smontato dopo tre mesi. Quando hanno chiesto a Wei e ad Herzog e de Meuron di costruire un padiglione, loro hanno risposto: “no, a noi non interessa realizzare capricci, noi raccontiamo una storia”. La vista aerea (fig. 6) mostra a sinistra il caffè della galleria e i due cerchi – non concentrici – del padiglione. Questa forma è il risultato di uno studio delle tracce degli undici padiglioni che hanno preceduto il loro progetto, che si caratterizza come un riassunto di questa sovrapposizione. Il prodotto di tale operazione risulta essere una superficie molto movimentata, come se ci fosse stato realmente uno scavo, ma invece la verità è che sotto il prato non c’era un bel niente, perché ogni precedente padiglione temporaneo era stato completamente rimosso, come esigono i regolamenti del parco, che vietano la conservazione di qualsiasi frammento anche di una piccola fondazione. Ai Wei Wei, Herzog e de Meuron hanno, quindi, ricostruito una specie di sovrapposizione degli undici padiglioni precedenti. ne è risultato un piano molto sconnesso e molto difficile da praticare, che è stato caratterizzato dall’applicazione di un rivestimento unitario, utilizzando un materiale solido ma allo stesso tempo confortevole, il sughero, che è anche tale da offrire una certa compattezza. La sezione(fig. 5) mostra come il tetto, molto basso, sia in realtà un bacino profondo solo 30 cm, sostenuto da pilastri di acciaio e capace di offrire una superficie di acqua riflettente. Si entra, dunque, in questa caverna molle al di sotto di un strato di acciaio, come se si trattasse di un monumento preistorico: infatti fa pensare ad un dolmen. Questo gioco è stato possibile per gli architetti che si sono serviti dell’archeologia immaginata. un archeologo invece è sempre condannato a mettere ordine a ritrovamenti. Sono resti, quelli delle archeologie reali, che hanno una loro autentica storia da raccontare. L’archeologo è sempre costretto a imporre un suo ordine violento e aggressivo sia sul suolo sia sui relitti sepolti di un passato ignoto. I luoghi archeologici sono fortemente caratterizzati dall’ordine imposto dall’archeologo durante il corso dello scavo: i pochi resti, appena visibili, del vi millennio(fig. 7) sono sopraffatti dall’ordine arbitrario che non ha niente a che fare con quello che esiste sotto terra, ordine necessario per poter procedere con metodo. 7 luoghi dell’archeologia. 8 scavo del boni di un edificio del tempo di Augusto. 313 9 abitazioni: importante però è che si è riuscito a produrre materiale sufficiente dai suoi primi scavi prima che la sua sorte cambiasse, poiché fu espulso dalla Turchia, con il divieto di effettuare ulteriori scavi. Le case(fig. 10) di questo insediamento non sono divise da strade e si suppone che i camminamenti fossero al livello dei tetti: l’entrata alle case ed ai cosiddetti santuari avveniva attraverso una scala dal tetto. un altro elemento che costruiva tale insediamento erano la serie di cortili attraverso cui le case potevano prendere luce ed aria. Le abitazioni presentavano un’articolazione spaziale abbastanza complessa. Gli archeologi scopritori di tale insediamento sono stati particolarmente sorpresi sia dalla complessità architettonica che dall’elaborato sistema di decorazione presente in queste costruzioni del vi millennio a.C. In una sala sono stati rinvenuti graffiti di grossi buoi(fig. 11), sculture raffiguranti teschi bovini e capre poste sulle pareti come altorilievi, ed anche gli arredi lapidei, come ad esempio una panca che funge oltre che da seduta anche da elemento separatore dello spazio, è definita da quattro colonne interamente modellate su figure bovine con corna sporgenti. non si conosce l’origine né la fine delle popolazioni che hanno abitato questo villaggio, ma si suppone che questo insediamento faccia parte di una catena di insediamenti scavati nell’est che, ad oggi, si continuano a scoprire. I nostri antenati non si curavano del patrimonio artistico, infatti la poesia epica è piena di racconti delle distruzioni di città: fu rasa al suolo Troia ed arsa Atene, come fu distrutta Cartagine. In sintesi si può affermare che la storia epica sia una storia di distruzioni. Le rovine frutto di tali distruzioni giacciono coperte dalle nuove costruzioni, poiché le popolazioni, attaccate al luogo malgrado le sofferenze subite, tornavano e ricostruivano nuovi spazi da abitare. 10 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 11 314 9 scavi nella pianura di Catal Huyuk. 10 Case dell’insediamento ritrovato durante gli scavi nel Catal Huyuk. 11 Graffiti rinvenuti all’interno di una sala durante gli scavi nel Catal Huyuk. 12 Hagia sophia. 13 Colonna napoleonica nella Place vendome di Parigi. la selezione tra gli strati. un caso emblematico della sovrapposizione di differenti ordini in uno stesso luogo è quanto accade in un scavo del Boni di un edificio del tempo di Augusto(fig. 8): un sistema di pavimentazione a mosaico è stata rinvenuta sotto un grande edificio neroniano. Le giaciture dell’edificio nulla hanno in comune con l’orientamento dei pavimenti: c’è sovrapposizione di due ordini, ovvero un normale contrasto di una sequenza archeologica. L’archeologo si trova, come dicevo in precedenza, a dover affrontare ogni volta una selezione critica, sancendo una personale interpretazione del passato e dello stato dei luoghi. La vita professionale degli archeologi si intreccia con le loro sorti biografiche: è noto, ad esempio, il tragico destino di Howard Carter, il quale scoprì la tomba di Tutankhamon, e, invece, James Mellaart, celebre per la propria fortuna, camminando per un prato e osservando il terreno, ebbe a rintracciare una importantissima statua, così come, viaggiando attraverso la Turchia orientale, deciso a scavare una delle tante colline disabitate nella pianura del Catal Huyuk(fig. 9), trovò un insediamento datato tra il v e il vi millennio a.C. non si sa nulla della vita o della natura etnica degli abitanti di tale insediamento, come si sa poco dell’architettura delle Hagia Sophia è uno dei grandi monumenti della storia dell’umanità(fig. 12). Attraverso un disegno dell’architetto italiano Gaspare fossati è possibile osservare l’impianto (pressoché corrispondente all’attuale) della moschea ad opera dei turchi, arrivati successivamente alla prima grande distruzione dell’interno da parte degli iconoclasti del settimo secolo. Hagia Sophia è un monumento che porta i segni di molteplici distruzioni. Sulla grande porta principale di San Petronio a Bologna, Michelangelo nel 1508 fece una gigantesca statua bronzea, tre volte la dimensione reale di Papa Giulio ii; tre anni dopo i Bolognesi l’abbatterono per fondere il metallo per la realizzazione di cannoni; decapitarono la statua e la testa rimase un frammento le cui tracce sono state seguite per un paio di secoli, ma nel ’700 andò perduta. È inimmaginabile, con l’idea di patrimonio storico-artistico contemporanea, che un ritratto michelangiolesco sia andato perduto: ma il rispetto per il patrimonio artistico, nel passato, fu spesso casuale e molto arbitrario. Intanto come i Bolognesi con Giulio ii, le istituzioni politiche hanno sempre fatto i loro conti con il patrimonio del passato brutalmente. nel 1871 durante la Comune di Parigi nella Place Royale (ora Vendôme), al centro della città, vi era una grande colonna napoleonica che venne coronata con l’emblema reale. Restaurato l’impero fu ripristinata nell’originaria versione; alla 12 13 315 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 14 316 15 14 Parchi urbani usati come deposito di statue dimenticate a Mosca. 15 Federal Plaza di New York con la scultura di Richard serra. 16 Rimozione della piastra in acciaio che componeva l’opera d’arte di Richard serra a New York. 17 Altare della Patria a Roma. 18 terme di diocleziano ritratte allo stato di rudere. 19 basilica di santa Maria degli Angeli a Roma. 16 caduta di napoleone iii fu abbattuta, definitivamente, per ordine di una commissione artistica(fig. 13). Bisognerà aspettare l’insediamento di un governo repubblicano perché la colonna fosse rifatta e per più di un secolo la colonna di Place Vendome rappresentò una icona urbana sino alla costruzione della Torre Eiffel. Le distruzioni del patrimonio artistico dei tempi più vicini a noi sono state, per certi versi, anche più gravi e dolorose. Il monumento commemorativo della rivoluzione di ottobre, nella piazza centrale di Kiev, fu costruito nel 1976, dominato dalla grande statua di Lenin. nel 1992 la statua fu sostituita con un cartellone pubblicitario. Il declino dei paesi sovietici ha provocato la trasformazione di grandi spazi pubblici, ovvero dei grandi parchi urbani, in depositi di statue ormai inutili, dimenticate, denudate di elogi e onori; a Mosca, in un parco della città, è riposto per terra un grande monumento di Stalin con altri funzionari dell’unione Sovietica, emblema dei reperti di un passato ormai liquidato(fig. 14). la rimozione dei reperti. La questione problematica della rimozione dei reperti “politici” dalla scena urbana si rispecchia nella contemporaneità in episodi che riguardano le opere di noti artisti che si scontrano con l’opinione pubblica: un esempio clamoroso è la scultura di Richard Serra nella federal Plaza di new York(fig. 15). Tilted Arc, una grande lastra di acciaio messa trasversalmente nella piazza, tra il Palazzo di giustizia e un edificio di uffici formando un angolo retto tra i due, fu scelta e posizionata lì da un comitato di artisti. Era il 1981: iniziarono subito proteste e mobilitazioni. Iniziò un procedimento legale terminato con la sentenza che obbligava alla rimozione dell’opera. nè l’accusa, ma nemmeno la difesa, furono molto chiare nell’espressione delle proprie posizioni: per cui la questione si ridusse ad un appello alla libertà di parola (da parte di Richard Serra), cioè quella piastra di acciaio rappresentava una dichiarazione dell’artista e un’aggressione al monumento avrebbe rappresentato un’offesa contro il diritto di parola dello scultore. La corte non ha riconosciuto questo diritto e nel 1989, otto anni dopo la sua messa in posa, la piastra fu tagliata in tre pezzi e rimossa(fig. 16). Così come fu per i generali del bolscevismo e per la statua di Lenin. Ovviamente anche Serra non ha più amato la sua opera, poiché la ragion d’essere della scultura risiedeva proprio nell’essere lì, in quello specifico luogo. Tagliata in tre pezzi, quella piastra di acciaio non ha più giustificazione. nella contemporaneità esiste un problema molto pressante: il nostro patrimonio è fatto non soltanto di reperti facilmente venerabili, ma anche di memorie di un passato vergognoso, non glorioso, che ci pone domande sul valore da attribuire alla storia. Tornando a Roma da dove è iniziato questo discorso: l’Altare della Patria(fig. 17), opera degli inizi del secolo scorso, si trova tra il foro romano con i resti degli Orti farnesiani e il foro Traiano, scavato in grande parte già nell’800. La ricostruzione del foro Traiano figura su tutti i libri di storia dell’architettura come il più imponente monumento dell’età Imperiale con le sue due biblioteche, la colonna trionfale e la statua equestre al centro della piazza. Secondo i più recenti scavi dell’ultimo decennio, si è capito che dove gli archeologi del passato avevano collocato il tempio c’era invece un grande porticato d’entrata, e che la statua imperiale non era affatto al centro della piazza ma era molto spostata così che il luogo non appariva affatto come ci è stato presentato nei libri di storia dell’architettura sui quali tutti abbiamo studiato. È tutto sbagliato ed è impossibile ricostruire un’immagine ideale neanche del lato est del foro, travolto dalla via dei fori. Sappiamo quindi che quello che ci hanno insegnato è falso. Questo nostro fare i conti con il passato è dunque un continuo processo di indagine e non dobbiamo smettere di porci domande su quali valori incarni il patrimonio che oggi possediamo. Le terme di diocleziano sono un chiaro esempio dell’interrogativo che si pone nei confronti di un’architettura della stratificazione. un’immagine delle terme di diocleziano, pubblicata su un libro di Roma Antica da un incisore ed editore francese – Etienne dupérac – nel 1575, ritrae le terme allo stato di rudere(fig. 18) presentandole come una parte essenziale del patrimonio della Roma Classica, ma già quando dupérac fece l’incisione le cose stavano diversamente perché Michelangelo aveva messo mano alla struttura, realizzando la basilica di Santa Maria degli Angeli(fig. 19). Ora qual è il patrimonio che dobbiamo rispettare? dobbiamo rimuovere tutto quello che ha fatto Michelangelo e tornare al rudere come ci ha insegnato duperac o – per absurdum – tornare a una ricostruzione delle Terme tali e quali diocleziano le aveva costruite? Oppure accettiamo che il patrimonio sia una cosa mutevole, che deve contemplare anche il passaggio della storia? In un certo senso il patrimonio si arricchisce con il tempo trovando spesso elementi capaci di renderlo più interessante, più onorevole attraverso i differenti usi comuni che si susseguono, traducendo le modificazioni necessarie in valore aggiunto all’architettura come, ad esempio, ha fatto Michelangelo per le terme. 17 18 19 317 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI Quale diritto abbiamo noi di manomettere il passato? non c’è un diritto, non c’è una legge, non c’è neppure un esempio positivo in materia. Chi interviene, con una certa cognizione di causa non é né l’archeologo, né l’architetto, bensì lo storico, il quale ha il compito di insegnare a selezionare quello che è di valore essenziale e quello che può essere eliminato. forse solo uno storico può insegnare come mettersi di fronte alle reliquie del passato ed onorarle, ma anche renderle parte della nostra vita quotidiana. I parchi dei gerarchi sovietici sono dei luoghi abbastanza tristi, e non vi consiglio di costruire dei parchi per statue fuori Roma (ce n’è uno già sul Gianicolo), però un parco, sia di statue, sia di ruderi – il cosiddetto parco archeologico – è anche un problema dell’urbanistica, ovvero un problema di architettura. Ovviamente, dobbiamo avere rispetto del patrimonio, ma dobbiamo anche munirci di un po’ di coraggio quando ci mettiamo di fronte ad esso. 318 Archaeology and architecture are two poles of a single question. Archaeology has been defined as the systematic destruction of the elements of the past, considering the fact that the archaeologist, with his excavation work, layer after layer, to reach the level desired, has to destroy the preceding ones. The archaeologist constantly finds himself faced with the problem of selecting the elements to be preserved, the preservation methods and, in general, the validity of the preservation action. This also goes for the architect who, working on a historic site, must consider the question of what the heritage with which he is working really means. Considering that the overlappings of different historic elements are always present, a critical definition of the past is necessary, This process may be undertaken by architects, but also by archaeologists, who are condemned to impose a certain order, arbitrary and sometimes violent and aggressive, in the excavation, on the soil and on the remains, with their stories to be told, with respect to which the order is totally extraneous. It is also necessary to consider that we find ourselves faced with a heritage that has been extremely transformed by our ancestors, who did not take care of it, as it is evident from the signs of all the destruction wreaked on the monuments. As a result, our respect for the heritage appears to be a very arbitrary one. Architects find themselves very frequently faced with these problems, where, alongside finds from the past, considered venerable and of value, there are also sizable finds of an inglorious past, which, in a certain sense, is in any case part of the heritage and thus poses a very tough problem of legacy. This process leads architects to continuously deal with the past, and to ask themselves what really constitutes the heritage we share. Another reflection concerns the question concerning the respect of the heritage in terms of legitimacy of the removals, transformations, and tampering in uncovering a hypothetical original condition of an archaeological ruin. There is no right, no law, no positive teaching that can explain the right to tamper with the past. The person who intervenes is neither the archaeologist, nor the architect, but the historian who teaches and distinguishes what constitutes essential value, and who explains how to arrange the relics of the past, so as to honour them and at the same time make them a part of our everyday lives. In a delicate balance between the dual necessity for respect for the heritage and courage in dealing with it, emblematically asking: is it necessary to remove the most recent work and return to the ruin, or accept the fact that the heritage is in a process of continuous change, accepting this historic transition and rediscovering in it something more interesting, more honourable, precisely in its past, through common use? ARCHAeoloGY ANd ARCHiteCtuRe ABSTRACT 319 nAPOLI sCAvo e ReCuPeRo del teAtRo ANtiCo ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI daniela Giampaola 320 il progetto e la sua realizzazione. L’invito rivolto dagli organizzatori del convegno ad illustrare esperienze significative dell’attività archeologica svolta nel centro storico di napoli, mi ha indotto, piuttosto che a presentare un resoconto complessivo, a privilegiare l’intervento di conoscenza e recupero del teatro antico di napoli. All’interno del tema del rapporto fra archeologia, architettura ed urbanistica, esso appare assumere particolare rilievo a causa dei suoi presupposti metodologici e operativi: per il rapporto stretto fra le procedure strettamente archeologiche e la specifica pianificazione urbanistica della variante al prg della città di napoli, per la logica interna al progetto di scavo e valorizzazione del monumento. È ben nota la straordinaria vicenda insediativa del centro storico di napoli, che ingloba sul colle di Pizzofalcone il primo insediamento di Parthenope, della metà del vii secolo a.C., e sul pianoro delimitato da via foria, corso umberto, via Costantinopoli, via Carbonara, la città di Neapolis, fondata fra fine vi inizi del v secolo a.C. In questo ultimo settore è pregnante la continuità fra lo schema urbano attuale e quello di età greca e la sovrapposizione del patrimonio edilizio e monumentale emergente sul giacimento culturale sommerso. Tali caratteri distintivi connotano napoli come uno dei più importanti campi di applicazione della branca della disciplina archeologica nota come archeologia urbana, secondo la quale l’interesse della ricerca e degli interventi non risiede tanto nei singoli monumenti, ma nella complessiva stratificazione dell’insediamento storico, costituita in eguale misura dai resti del sottosuolo e dal tessuto soprastante. Tale procedura concettuale ed operativa, attuata sin dagli anni ’80 dalla Soprindendenza Archeologica, in collaborazione con gli altri organi del mibac e gli enti locali, in primo luogo il Comune, ha portato a importanti interventi di tutela e valorizzazione, quali, per citare solo i principali, quelli condotti nell’edificio di Palazzo Corigliano, nell’ex asilo filangieri, nei complessi di S. Marcellino, di S. Chiara, di S. Lorenzo Maggiore. In questi ultimi due casi l’at- tenzione rivolta, durante i restauri e le indagini, alla complessiva storia urbana e culturale dei siti ha contribuito con la realizzazione di Musei dell’opera, ad arricchire la parte più antica del centro storico di nuovi poli espositivi, incardinati strettamente al patrimonio urbanistico e monumentale di cui sono parte. L’archeologia urbana impone un approccio di tipo progettuale richiedendo che in un piano unitario venga trattato il patrimonio del sottosuolo e quello del soprasuolo. da questa premessa sono derivate la tutela archeologica, inserita nelle norme di attuazione della Variante del prg del 2004 e l’individuazione di Piani urbanistici Attuativi (pua) in aree di particolare rilievo archeologico del centro storico1. Il pua relativo al teatro – il primo ad essere stato redatto – si muove in evidente discontinuità rispetto alle ipotesi di messa in luce del monumento presenti nella pianificazione urbanistica precedente. Sintetizzando brevemente, basti ricordare che il prg del 1939 ne prevedeva l’isolamento al fine della realizzazione di un parco archeologico, attraverso le demo- lizioni degli edifici soprastanti, soluzione che sarà ripresa nelle proposte sul centro antico di Roberto Pane del 1971 e ancora in quelle del Regno del Possibile nel 19882. diversamente il vigente prg, considera la valorizzazione del teatro all’interno dell’edilizia storica, che è integralmente conservata, ed il mantenimento di larga parte delle destinazioni residenziali degli immobili. Tali principi traggono origine dagli studi e dai rilievi, effettuati nel 1985 dall’allora Soprintendenza di Collegamento per la Campania e la Basilicata e dall’Istituto universitario Orientale, i quali rivelarono che le strutture del teatro erano spesso integre almeno sino ai livelli di primo piano delle unità immobiliari che le inglobavano e che in alcuni settori erano gli elevati moderni a riprodurre le strutture antiche conservate al di sotto dei piani pavimentali ancora in uso3 (fig. 1). Le ipotesi di isolamento del teatro, attraverso le demolizioni del tessuto urbano soprastante, quindi non solo avrebbero negato la stratificazione storica della città, ma anche la possibilità di una lettura di insieme della volumetria del monumento, restituita dai resti antichi emergenti ma anche dagli elevati di epoca successiva. All’elaborazione del pua è stato correlato il progetto di intervento sul teatro, eseguito con risorse comunali e comunitarie negli anni 2003-2009, che ha portato alla messa in luce ed al restauro di un settore compiuto del monumento4 (fig. 2). Lo scavo e la documentazione del teatro hanno ripercorso le trasformazioni dell’area in una dimensione diacronica molto estesa: dalle fasi precedenti al monumento, a quelle del suo impianto e, poi, del suo abbandono, alla formazione di un nuovo tessuto edilizio che, attraverso numerose modifiche, ha generato la forma dell’i- solato moderno. L’analisi stratigrafica del teatro integrata a quella del suo contesto urbano, si è rivelata come l’unica scelta perseguibile in relazione alla complessità del sito, anche se la comprensione dei dati emersi è stata condizionata dalla dimensione delle esplorazioni che, seppure estese, hanno rappresentato un campione parziale rispetto all’intero comparto occupato dal monumento. Il progetto sinora realizzato ha interessato il settore occidentale di tale comparto, definito da via S. Paolo, via Anticaglia, vico Cinquesanti, e si è sviluppato in massima parte negli edifici di via S. Paolo 4, 5b, via Anticaglia 28-325. In tale settore erano conservati cospicui resti del monumento, il più importante forse della napoli romana: gli archi contrafforti che scavalcano via Anticaglia, segnando da tempo immemorabile l’immagine di tale parte della città, il retro della scena del teatro visibile in una vanella del complesso monastico di S. Paolo Maggiore, i resti della cavea scavati fra il 1881 ed il 1889 e sistemati a vista solo in parte all’interno del giardino di via S. Paolo 4, ripristinato dopo le indagini agli inizi del ’900. L’esplorazione archeologica condotta negli anni 2000 ha costituito il più rilevante intervento della parte antica del centro storico, a causa della dimensione dell’area, del forte intreccio fra il tessuto urbano moderno ed il monumento antico in esso inserito, delle ricadute che la procedura archeologica stratigrafica ha determinato, oltre che sul piano conoscitivo, sul restauro edilizio e sul recupero urbano. Lo scavo ha costituito l’elemento base dell’intervento, imponendo al gruppo di archeologi ed architetti in esso impegnati un approccio graduale e progressivo, fondato sull’integrazione fra le esigenze di comprensione del monumento antico e quelle di conservazione e valorizzazione. Esso è stato avviato negli ambienti dei fabbricati di via S. Paolo 4 e via Anticaglia 28, dove era stata riconosciuta un’ampia porzione dell’ambulacro interno e di alcuni cunei delle sostruzioni della media cavea, parzialmente interrati e distinti in due settori dalle fondazioni degli edifici soprastanti(figg. 3-4). Con le esplorazioni si è proceduto dai piani di calpestio contemporanei, attraverso i livelli moderni, medievali e tardo antichi, fino a quelli di età imperiale e tardo repubblicani. Il monumento costituisce il nucleo su cui si è organizzato l’isolato moderno soprastante, con rapporti di continuità nei tratti in cui le strutture antiche coincidono con i muri degli edifici successivi e di evidente discontinuità nei settori in cui questi ultimi ne ignorano l’originario impianto planimetrico. La scelta del contesto da indagare è derivata non solo dall’entità dei finanziamenti e dall’acquisizione delle aree al demanio statale e comunale, ma anche dalle valutazioni sulla consistenza e sulla qualità dei settori del teatro e degli immobili moderni, scaturite dal lungo studio progettuale avviato negli anni ’80 e dai risultati di saggi preliminari eseguiti negli anni 1997-1999. La pratica di frazionare aree più vaste attraverso saggi, sezionando una stratigrafia più estesa e complessa, rappresenta una delle criticità delle indagini archeologiche, ma risulta pressoché inevitabile negli interventi condotti nelle città storiche, a causa di vincoli esterni, quali i diversificati e fitti assetti proprietari e i condizionamenti strutturali e logistici. nel caso del teatro i saggi degli anni 1997-99 hanno costituito l’approfondimento conoscitivo intermedio fra la fase 321 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 322 della ricognizione e della documentazione preliminare e quella dell’indagine estesa avviata nel 2003, che si è potuto così pianificare più compiutamente. I saggi preliminari hanno fornito dati utili sulle quote dei piani pavimentali del monumento antico, sulla potenza e caratterizzazione della stratigrafia, sulla entità dei numerosi disturbi di epoca moderna, dalle trincee frutto degli interventi per il ripristino del giardino di via S. Paolo 4, ai tagli per le infrastrutture idrauliche e fognarie, molte delle quali ancora funzionanti in rapporto all’utilizzo attuale degli immobili. L’articolazione della situazione ha inoltre richiesto carotaggi geoarcheologici, che non era stato possibile effettuare preliminarmente, ma sono stati eseguiti, nella fase delle indagini estese, per la verifica delle sequenze stratigrafiche di alcuni settori particolarmente complessi. I saggi di scavo sono stati accompagnati da analisi delle stratigrafie degli elevati del monumento antico e degli edifici moderni, entrambi rimaneggiati da rifacimenti, superfetazioni o asportazioni che, modificando gli apparati originari, hanno spesso determinato situazioni di forte degrado strutturale. In tali condizioni i consolidamenti, necessari spesso sino ai livelli fondali, sono stati preceduti da scavi che seppur parziali, fossero adeguati all’obiettivo di recuperare gli elementi conoscitivi utili al restauro delle strutture. Il dimensionamento delle aree di intervento all’interno delle due unità edilizie principali di via S. Paolo 4 e via Anticaglia 28, 29 ha privilegiato la scelta di settori unitari dell’edificio moderno: ad es., nel caso di via S. Paolo 4, il livello di piano terra prospettante sul lato orientale del cortile, che ingloba la sezione meglio conservata del monumento, dall’ambu- lacro esterno a quello interno. Il progetto teorico di scavo ha dovuto misurarsi con le condizioni statiche del monumento e degli edifici che lo inglobano occupati dai residenti. Queste presentavano una casistica varia, che ha reso necessario verifiche puntuali anche attraverso un monitoraggio strumentale delle strutture. In tale prospettiva le linee guida stesse del progetto di recupero e valorizzazione, che prevedevano la conservazione totale dell’edilizia di età moderna e l’utilizzo di tecniche tradizionali di consolidamento, hanno reso più complesse e articolate le operazioni. Si sono rese indispensabili, durante l’avanzamento dei lavori, modifiche e sospensioni parziali delle attività di scavo che si sono dovute intercalare agli adeguamenti strutturali ed ai restauri. Anche nell’ampio settore del giardino di via S. Paolo 4, i cui margini settentrionali ed orientali sono occupati da edifici di varia cronologia con elevati di diversa consistenza, impiantati su piani di fondazione non omogenei, le istanze di uno scavo il più possibile esteso si sono intrecciate con quelle di carattere statico. In questo settore l’indagine, oltre a rivelare i riempimenti dei saggi archeologici tardo ottocenteschi, ha rivelato grandi trincee realizzate agli inizi del ’900 per la costruzione dei muri di contenimento-recinzione del giardino connessi al ripristino dello spazio6; ma diversamente da quanto era stato ipotizzato, tali interventi avevano risparmiato il settore nord-orientale del giardino, nel quale l’attenta analisi stratigrafica ha consentito il recupero di una sequenza archeologica integra, dal xx secolo sino alle obliterazioni tardoantiche della cavea e dell’orchestra, sulle quali ad oggi le esplorazioni si sono arrestate. Le soluzioni conservative e strutturali adottate sono state analizzate in rappor- to alle specificità dei vari casi riscontrati, anche se all’interno di criteri di ordine generale. In alcune situazioni è stato realizzato il restauro e la ricostruzione di porzioni di murature antiche fortemente lacunose, utilizzando materiali e sistemi costruttivi analoghi, che sono stati opportunamente evidenziati(fig. 5). In altri casi si è fatto ricorso a materiali marcatamente diversi, quali gli elementi metallici utilizzati per il miglioramento delle strutture esistenti o per la realizzazione di varchi nelle fondazioni degli edifici soprastanti il teatro, al fine di consentire il collegamento fra le parti antiche intercluse da queste. A causa dei condizionamenti esposti, le esplorazioni all’interno dell’area di intervento hanno conosciuto ampiezze e approfondimenti diversificati: in via Anticaglia 28 e nell’area della cavea, l’indagine non ha interessato l’intera superficie e non ha raggiunto ovunque i piani in fase con il monumento antico, diversamente nel settore di via S. Paolo 4, che si offre più compiutamente alla fruizione, essa è stata condotta in estensione, dai vani prospettanti la corte interna al giardino, illustrando l’intera sequenza stratigrafica. In ogni caso l’intervento ad oggi attuato ha conseguito l’obiettivo di comprendere e rendere fruibile una sezione completa del monumento attraverso il collegamento delle due parti comprese fra via S. Paolo e via Anticaglia: si sono raggiunti i piani pavimentali dell’ambulacro esterno e dell’ambulacro interno che possono essere percorsi, dei cunei di sostegno delle gradinate e dei vomitoria mediano ed occidentale, da dove ci si inoltra alla cavea di cui sono stati disvelati dodici gradoni del settore mediano(fig. 6). Alcuni accessi e percorrenze sono oggi possibili solo mediante opere temporanee e reversibili, utili a ga- 1 3 2 4 rantire visite guidate al cantiere che sono state promosse con un grande afflusso di pubblico. La prosecuzione dell’intervento discende dall’avvio dei nuovi lotti, a cominciare da quello inserito nel Grande Progetto “Centro storico di napoli. Valorizzazione del sito unesco”7. Con questo andrà affrontato lo scavo degli ambienti corrispondenti alla parte centrale del monumento, della rimanente parte delle gradinate della cavea, l’intervento nell’area dell’edificio scenico situato fra il complesso conventuale di S. Paolo Maggiore e l’edificio di via S. Paolo 5. devono inoltre essere completati i servizi e gli impianti per consentire la fruizione del monumento antico ed il suo utilizzo come struttura culturale e di spettacolo, 5 in modo da perseguire un modello attivo di tutela e valorizzazione, che partendo dagli antichi resti renda pienamente vitale il contenitore urbano che li accoglie. Principali fasi edilizie. L’inquadramento topografico del teatro rientra nella più vasta problematica dell’organizzazione dell’area pubblica di Neapolis di cui costituisce una parte8 (fig. 7). Il monumento si sviluppa fra via S. Paolo ad ovest, la plateia di via Anticaglia a nord, vico Giganti ad est ed il complesso dei padri Teatini a sud. L’attuale via S. Paolo separa il teatro dall’odeion, che come suggerisce il poeta Stazio, costituivano un unico complesso monumentale e funzionale, ubicato nel 1, 2 studio einaudi srl, Progetto di recupero del teatro, planimetria e sezioni. 3 Ambulacro interno del teatro dopo lo scavo. 4 sottoscala prospiciente l’ambulacro esterno. 5 Arco in corso di restauro del vomitorio fra ambulacro esterno ed interno. 323 6 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 7 324 6 la cavea del teatro dopo lo scavo. 7 strutture di età tardo repubblicana conservate nei vani di fondazione del teatro tardo flavio. (foto R. Giordano) 8 via Anticaglia 28. il piedritto meridionale dell’arco dell’Anticaglia emerso dopo la stonacatura. (foto R. Giordano) 9 l’ingresso del palazzo di via s. Paolo 4. 10 l’area del foro di Neapolis con i principali monumenti. settore nord-occidentale della città antica, fra l’acropoli di S. Aniello a Caponapoli e il mercato indagato al di sotto di S. Lorenzo Maggiore. Già la tradizione antiquaria con l’Historia neapolitana di fabio Giordano dedica un’ampia descrizione all’area pubblica di Neapolis, ipotizzando due piazze adiacenti: la prima, nella zona vicina al monastero di S. Patrizia, con i resti del teatro e il Tempio dei dioscuri, la seconda, fra la via Capuana e nolana, coincidente con il foro venale, dove sorge il complesso monastico di S. Lorenzo Maggiore. In una fase successiva allo scavo del teatro della fine del secolo scorso, si sono susseguiti vari contributi topografici generali sulla dimensione e sui limiti dell’area forense e sulla ricostruzione della planimetria del monumento. Il problema topografico è stato affrontato compiutamente da E. Gabrici, W. Johannowsky e M. napoli: a questi ultimi si deve il primo studio specifico del teatro e dell’odeion di cui propongono una nuova pianta, fornendo elementi sulle fasi costruttive. Più di recente il sistema di tali studi è stato ripreso e inserito da E. Greco in un quadro organico, in cui chiarisce nelle linee generali l’assetto del foro di Neapolis, ipotizzando che ricalchi l’area pubblica pianificata all’atto della fondazione della città, sottoposta nel corso del tempo ad interventi di progressiva definizione monumentale e a un processo di articolazione funzionale9. Il foro risulta delimitato a nord da via Anticaglia e a sud da via S. Biagio dei Librai, corrisponde in larghezza a sei interassi, per un totale di ca. 228 m, in lunghezza a due isolati di 185 m, ed è scandito in due settori dalla plateia di via Tribunali: quello a monte è definito da via Purgatorio ad Arco ad ovest, da vico Giganti ad est; quello a valle, da vico fico Purgatorio e dallo stenopos rinvenuto nello scavo di S. Lorenzo Maggiore. A tale articolazione topografica è fatta corrispondere una distinzione funzionale: al settore a nord, con il teatro ed il Tempio dei dioscuri, è riservata una destinazione religiosa e di rappresentanza politica; al settore meridionale, caratterizzato dal mercato, quella commerciale. Le linee complessive di tale studio costituiscono la più recente e condivisibile ricostruzione, anche se lasciano aperte alcune questioni di ordine topografico e cronologico, che non è stato ancora possibile risolvere, nonostante gli scavi e le riflessioni scientifiche recenti. L’impianto monumentale del teatro può collocarsi grazie all’analisi stratigrafica delle indagini condotte nell’ambito del progetto qui presentato in tarda età tardo flavia, momento per il quale si è restituito un grande edificio (diametro delle strutture in elevato 86 m, diametro delle fondazioni 100 m) costruito interamente in plano10. Lo scavo non ha, invece, risolto il problema dell’esistenza della fase di età greca, dal momento che i più antichi resti rinvenuti, sicuramente non attribuibili ad un edificio di tipo teatrale, sono databili fra fine ii inizi del i secolo a.C.11 (fig. 8). un generale riassetto monumentale dell’area pubblica di Neapolis in prima età imperiale è testimoniato oltre che dalla fase di età tiberiana del Tempio dei dioscuri, da alcune delle strutture del mercato emerse nel complesso di S. Lorenzo Maggiore e da resti dell’odeion in via S. Paolo 42, ed è stato riconnesso ad un più diffuso intervento urbano scaturito dalla istituzione dei Giochi Isolimpici in onore di Augusto, materializzato nella realizzazione o nel rifacimento di edifici, primi fra tutti quelli funzionali agli agoni, fra i 8 9 quali sicuramente anche i teatri. Ma se le antiche fonti ricordano l’esistenza di un edificio teatrale in cui era stata rappresentata una commedia dell’imperatore Claudio e si esibiva nerone al momento del terremoto del 64 d.C.12, lo scavo ad oggi non ha arrecato elementi dirimenti, indicando che gli elevati del monumento tardo flavio non insistono su strutture di età augustea, ma si legano ad un sistema fondale coevo. Solo nelle parti profonde dei vani di fondazione si sono rinvenuti pochi esigui resti, per i quali si rendono necessari futuri approfondimenti: essi per posizione stratigrafica, potrebbero forse essere attribuiti alla fase di prima età imperiale di un edificio di dimensioni inferiori e di orientamento divergente13. Le testimonianze delle indagini del teatro ad oggi documentano dunque per la piazza superiore, in modo non dissimile rispetto all’area del mercato, soprattutto una consistente trasformazione dopo i terremoti del 62 e 64 e l’eruzione plinia- 10 na del 79 d.C. Restauri e rafforzamenti, quali gli archi contrafforti in laterizio che cavalcano ancora oggi via Anticaglia, sono attestati per le strutture del teatro almeno sino agli inizi del iii secolo d.C.14 (fig. 9) . Le esplorazioni attestano che l’ultima frequentazione dell’edificio risale alla metà del iv secolo d.C., anche se non è possibile stabilire il momento della sua defunzionalizzazione. Ai primi livelli di abbandono, databili alla fine del iv inizi del v secolo d.C., segue dalla prima metà del v secolo agli inizi del vii secolo un progressivo fenomeno di obliterazione del monumento attraverso discariche di materiali vari. Questo evento sembra assumere una maggiore e più sistematica dimensione alla fine del v inizi del vi secolo, quando si può ipotizzare che parti ampie della summa cavea fossero crollate, mentre si conservava la media cavea. Le colmate interessano la zona delle sostruzioni interne e provocano il riempimento dell’invaso della cavea, segna- lando una trasformazione delle modalità insediative del settore settentrionale del foro di Neapolis attuata, contestualmente alle demolizioni di precedenti edifici ormai in degrado, al fine di recuperare spazi da destinare a nuove funzioni: orti nell’area della cavea e nuclei sepolcrali, dislocati prevalentamente nell’area delle sostruzioni15. Al xiii secolo risale il riutilizzo del monumento antico per una nuova fase edilizia che si modella sulle sostruzioni del teatro integrandone le strutture: a tale fase sono anche collegati livelli di giardino impiantati sulla cavea, databili al xiii e al xiv secolo16. Altri elementi edilizi genericamente databili in questo periodo sono stati individuati nell’immobile di via Anticaglia 29. Le indagini e l’analisi degli elevati, integrate allo studio della cartografia, hanno contribuito infine a ricostruire le fasi moderne del settore oggetto di intervento. L’edificio di età basso medievale è messo fuori uso dall’immobile di via S. Paolo 4, attribuito alla fami- 325 ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI 326 glia Confalone. Il bel palazzo, provvisto di un portale di ingresso “durazzesco catalano” di carattere evoluto, rientra in una tipologia architettonica che si afferma in Campania tra la prima metà e lo scorcio del xv secolo (fig. 10). I dati stratigrafici inducono a datare l’edificio allo scorcio del xv secolo, correlandolo agli interventi edilizi successivi ai ben noti eventi sismici che hanno arrecato gravi dissesti al tessuto urbano di più antico impianto17. Il palazzo continua ad annettere il giardino sulla cavea, inglobando nell’ala occidentale ed in quella settentrionale le sostruzioni del teatro, ma, rispetto alla precedente fase basso medievale, si sviluppa su un ampia superficie e, oltrepassando il perimetro del monumento, amplia lo spazio edificato sino a disegnare l’allineamento dell’isolato su via S. Paolo e via Anticaglia. Tale assetto edilizio marca una soluzione di continuità rispetto all’impianto del teatro, evidente anche nei nuovi allineamenti murari che contraddistinguono l’articolazione interna dell’edificio. La realizzazione di vico Cinquesanti, intorno alla metà del xvi secolo, ha segnato infine la divisione dell’originaria unica insula del teatro in due distinti isolati e, comportando la distruzione di parte dei fabbricati precedenti e la loro ricostruzione, ha riportato in luce per la prima volta i resti del monumento18. eXCAvAtioN ANd ReCoveRY oF tHe ANCieNt tHeAtRe ABSTRACT 1 Ambito 25: i teatri, ambito 26: acropoli e piazza Cavour, ambito 29: S. Lorenzo Maggiore, ambito 24: Carminiello ai Mannesi. 2 Per le vicende della strumentazione urbanistica dell’area dei teatri cfr. G. ferulano, Tutela della stratificazione edilizia nella disciplina urbanistica dell’area dei teatri, in I. Baldassarre, d. Giampaola, f. Longobardo, A. Lupia, G. ferulano, R. Einaudi, f. Zeli, Il teatro di Neapolis. Scavo e recupero urbano, aionarchStAnt Quad. 19, napoli 2010, pp. 151-156. 3 La ricerca diede luogo ad uno studio di fattibilità elaborato dall’architetto Roberto Einaudi. Allo stesso si deve una prima presentazione di proposte sui più rilevanti siti archeologici del centro antico di napoli: R. Einaudi, Un’ipotesi progettuale sul centro antico di Napoli, “Neapolis”, Atti del xxv Convegno di Studi della Magna Grecia, Taranto 1985, napoli 1986, pp. 165-175. 4 Per il resoconto puntuale sulla sequenza degli interventi cfr. Progetti ed interventi, in I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit. p. 174. 5 Il progetto è stato illustrato da R. Einaudi, f. Zeli in I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 156-166; cfr. anche d. Giampaola, f. Zeli, Il Teatro romano di Neapolis e la sua relazione con la città, in A. Centroni, M.G. filetici (a cura di), Progetti d’eccellenza per il restauro italiano, Atti dei convegni arco a Made Expo (2008-2010), Roma 2011, pp. 83-96. 6 Sulle vicende dello scavo tardo ottocentesco e degli espropri, illustrate dalle piante conservate presso l’Archivio dello Stato di Roma, cfr. E. Romeo, Un anticipazione ottocentesca sull’area partenopea del teatro antico, “napoli nobilissima”, 38, i-vi, gennaiodicembre 1999, pp. 61-68; I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp.17-18, con bibliografia precedente. 7 finanziato con i fondi por fesr Campania 2007/2013. 8 Cfr. d. Giampaola, Il teatro e la città: storia delle trasformazioni di un comparto urbano, in I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 21-26, con discussione dei principali studi riguardanti l’area del foro. 9 E. Greco, Forum duplex. Appunti per lo studio delle agorai di Neapolis in Campania, “Annali del dipartimento di Studi del mondo classico e del Mediterraneo antico. Archeologia e Storia antica”, vii, 1985, pp. 125-135; Id., L’impianto urbano di Neapolis greca, Atti del xxv Convegno di Studi della Magna Grecia, Taranto 1985, napoli 1986, pp. 208-213. 10 f. Longobardo, f. Zeli, Considerazioni sulla tipologia architettonica del monumento, in I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 35-46; f. Longobardo, La costruzione del teatro, ivi, pp. 52-64. 11 Cfr. A. Lupia, Gli edifici anteriori all’impianto del teatro, ivi, pp. 50-52. 12 Per la citazione delle principali fonti antiche relative al teatro cfr. I. Baldassarre, La riscoperta del teatro di Napoli, ivi. 13 Cfr. f. Longobardo, f. Zeli, Considerazioni sulla tipologia architettonica del monumento, cit., p. 36. 14 Cfr. Longobardo, Interventi di manutenzione e restauro, in I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 65-66. 15 Cfr. A. Lupia, Periodo tardo antico, Periodo Alto Medievale, ivi, pp. 67-75. 16 Cfr. A. Lupia, Periodo Basso Medievale, ivi, pp. 84-87. 17 Cfr. f. Longobardo, Periodo Moderno, ivi, pp. 88-92. 18 Per la scoperta del teatro nella seconda metà del ‘500 cfr. I. Baldassarre, La riscoperta del teatro di Napoli, cit., pp. 16-17. naples is one of the most important fields of application of the branch of the archaeological discipline known as urban archaeology, according to which the interest of the research and intervention operations does not reside so much in the single monuments, but in the overall stratification of the historic settlement, composed in equal measure of the underground remains and the fabric above. This conceptual and operational procedure, implemented since the 1980s by the Archaeological Superintendency, in collaboration with the other bodies of the Ministry and local authorities, has made it possible to build a broad and important panorama of examples of archaeological protection and enhancement. urban archaeology imposes a forward-thinking approach, requiring that the underground heritage and that above ground be treated in a unitary plan. from this basis have derived the archaeological protection, inserted into the implementation provisions of the Zoning Plan Variation of 2004, and the identification in it of Implementation urban Plans (pua) in areas of particular archaeological importance of the historic centre (area 25: theatres, area 26: acropolis and Piazza Cavour, area 29: S. Lorenzo Maggiore, area 24: Carminiello ai Mannesi). The drafting of the specific pua was correlated with the intervention project on the theatre, carried out in the years 2003-2009, which led to the bringing to light and restoration of a finished sector of the monument. The excavation and the documentation on the theatre reviewed the transformations of the area in a very extensive diachronic dimension. The archaeological exploration conducted in the 2000s constituted the most significant operation on the ancient part of the historic centre, because of the size of the area, the strong interweaving of the modern urban fabric with the ancient monument, and the effects the stratigraphic archaeological procedure caused in the building restoration and to the urban redevelopment. The excavation was the basis element of the operation, forcing the group of archaeologists and architects working on it to use a gradual, progressive approach, based on the integration between the needs for understanding the ancient monument and those for preserving and enhancing it. The explorations proceeded from the contemporary treading levels, through the modern, medieval, and late ancient levels, until those of the Imperial and late Republican ages. The continuation of this important operation carried out is connected with the start-up of new lots, starting with that included in the major project “Historic Centre of naples – Enhancement of the unesco Site”. With this, the excavation and the areas corresponding to the central part of the monument and the remaining part of the cavea tiers. 327 CeNtRi ARCHeoloGiCi Nodi PARCHi PeRCoRsi sisteMi-Città teRRitoRi CENTRI ARCHEOLOGICI AGRiGeNto Parco della valle dei templi AteNe Acropoli, collina del Filopappo e Agorà beiRut Piazza dei Martiri e Parco del Perdono CAiRo, il quartiere darb-Al-Ahmar e Parco Al-Azhar Città del MessiCo Piazza delle tre Culture e quartiere tlatelolco NODI CoNCoRdiA sAGittARiA Centro storico e Agro concordiese CoveNtRY Phoenix initiative nel centro storico duisbuRG emscher Park HiRosHiMA Parco della Pace PARCHI istANbul Nodo di scambio a Yenikapi lubiANA emona, lungofiume e Mura MeRidA Città Monumentale NANtes l’estuario della loira PERCORSI NAPoli Metropolitana NiMes Centro storico e regione metropolitana PAlMA di MAioRCA Camminamento delle Mura e Castello belvedere PoMbAl Castello del Cerro RoMA Parco lineare integrato delle Mura Aureliane SISTEMI-CITTÀ sAleMi Recupero dei quartieri Piano Cascio e Carmine sARAGoZZA itinerario dei musei di Caesaraugusta siRACusA isola di ortigia TERRITORI aTlanTe Dei PaeSaggi arCHeologiCi ARCHAEOLOGICAL LANDSCAPES’ ATLAS a cura di edited by Federica Morgia PRoGetti di RoviNe ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI federica Morgia 330 L’atlante dei paesaggi archeologici raccoglie ventuno buone pratiche in cui la tutela del bene storico-monumentale e l’intervento di architettura vengono realizzati in sinergia, instaurando un rapporto di continuità con la storia del sito e allacciando nuove relazioni tra le aree archeologiche e i propri contesti. La settorializzazione delle competenze disciplinari ha, in molti casi, portato alla realizzazione di interventi puntuali non coordinati, i cui esiti hanno ottenuto risultati parzialmente soddisfacenti. Soltanto attraverso un progetto multidisciplinare, in grado di restituire leggibilità e comprensione alle tracce della storia, è possibile reinserire le rovine nel naturale processo di sedimentazione che restituisca continuità d’uso al paesaggio nel tempo. I casi selezionati riguardano prevalentemente pratiche di archeologia urbana, disciplina che vede come punti di interesse il tessuto urbano e il paesaggio letti nel loro complesso, senza privilegiare un periodo storico o un singolo monumento1. La conservazione di un palinsesto complesso dovrebbe evitare l’isolamento del reperto dal contesto storico-geografico in cui esso è situato viceversa la modalità di recintare i beni crea discontinuità nel tessuto urbano e separazione del reperto dall’uso quotidiano che ne fanno i cittadini, principali destinatari dell’opera di salvaguardia2. Gli strumenti che l’architettura mette in campo sono quelli del progetto urbano, considerato come processo attraverso il quale si lavora sulla geografia e sulla complessità del territorio e non sulla sua semplificazione tipo-morfologica. Attraverso un sistema di relazioni in grado di definire invarianti, flessibilità, priorità temporali il progetto controlla la qualità e l’efficacia degli esiti formali3. L‘atlante raggruppa progetti, realizzazioni o azioni programmatiche che, come avviene per i componenti di una famiglia, si assomigliano, non soltanto per le caratteristiche somatiche ma anche per tratti caratteriali. Interventi lontani per dimensioni, geografia, rapporto con il contesto nel quale sorgono, connotazioni storiche e morfogenesi sono, in questo lavoro, accostati tra loro perché manifestano attitudini simili. I reperti considerati nei casi studio consistono in luoghi sacri e monumenti, brani di città e antichi tracciati, infrastrutture e fortificazioni ma anche luoghi dell’archeologia industriale o invenzioni di rovine legate all‘immaginario collettivo. I ventuno casi selezionati, appartenengono prevalentemente all’area del bacino del Mediterraneo ma tuttavia sono stati inclusi nella selezione anche due casi che esulano quest’area geografica e riguardano rovine di tipo diverso rispetto all’archeologia classica. Gli interventi, realizzati dal secondo dopoguerra ad oggi, sono spesso il risultato di un insieme di progetti relazionati l’uno all’altro, ad opera di progettisti diversi e la cui committenza è, di solito, quasi esclusivamente pubblica. nell’atlante i casi sono descritti in ordine alfabetico e sono raggruppati in una tassonomia che prevede sei categorie: centri archeologici, nodi, parchi, percorsi, sistemi-città e territorio. Le schede sono costituite da testi e immagini. I testi raccolgono dati relativi agli interventi e una breve descrizione delle opere in rapporto al contesto e alle trasformazioni da esse innescate. Per ogni caso, oltre a una selezione di foto e disegni esplicativi dei progetti, sono state elaborate due carte: la prima colloca l‘area di intervento, attraverso una sorta di navigatore geografico, nel contesto territoriale e la mette in relazione alle principali infrastrutture esistenti e ai sistemi morfologici (acqua, aree urbane, vuoti); l‘altra è una planimetria, il cui rapporto di scala varia in base alle dimensioni degli interventi, che inserisce le opere nel contesto evidenziando i rapporti tra i nuovi interventi, le aree archeologiche, i tessuti urbani e il paesaggio. Le sei categorie sono state scelte in quanto rappresentative di trasformazioni urbane generate a partire dalla valorizzazione dei reperti nel loro contesto territoriale e paesaggistico. Centri archeologici. Per centri archeologici si intendono aree circoscritte all’interno di tessuti urbani che per consistenza e importanza si configurano come vere e proprie centralità, a vocazione prevalentemente archeologica, attorno alle quali il processo di trasformazione urbana innesca una operazione di epifania della rovina ma anche di ibridazione delle vestigia stesse attraverso altre componenti che entrano in gioco: sistemi infrastrutturali e vegetazionali, spazi pubblici attrezzati, servizi e nuove funzioni. A Beirut la progettazione del nuovo parco consente di recuperare il rapporto tra il cantiere di scavo e la città, a Istanbul la costruzione di un nuovo nodo di scambio disvela la presenza di ulteriori stratificazioni che troveranno adeguata collocazione in forza del progetto stesso mentre, la sistemazione degli scavi nella piazza delle Tre Culture, a Città del Messico, ristabilisce gli equilibri tra il quartiere di nuova fondazione e il sistema della grande scacchiera metropolitana. Nodi. In questa categoria sono compresi progetti puntuali realizzati nel tessuto urbano o nel paesaggio che, però, sono messi a sistema tra loro attraverso una rete di relazioni che li connette gli uni agli altri e li lega al costesto in cui sorgono. Gli interventi selezionati lavorano per assonanza di risultati più che per metodologie di intervento. nel caso dell’ampliamento della rete metropolitana di napoli la grande operazione di archeologia urbana avviata per punti durante gli scavi preventivi per la realizzazione delle stazioni della metropolitana ha costituito l’occasione per ridefinire il rapporto complessivo tra il centro storico e il mare come nel caso del ritrovamento del Porto romano presso la fermata Municipio progettata da Álvaro Siza e Eduardo Souto de Moura. Strategicamente opposti i casi di Siracusa e Mérida. I progetti che nascono nell’ambito di un insieme organico d’interventi previsti dal Piano particolareggiato di Ortigia individuano nelle discontinuità del tessuto urbano gli ambiti nei quali intervenire con azioni specifiche, in continuità con la trasformazione e rigenerazione della città. nel progetto di Vincenzo Latina per il giardino di Artemide, infatti, le potenzialità dell’area vengono recuperate attraverso l‘eliminazione delle superfetazioni e la risignificazione delle rovine determinando un palinsesto condiviso in cui operare tra preesistenze e nuovo, viceversa gli interventi realizzati a Mérida negli ultimi trentacinque anni, pur essendo svincolati gli uni dagli altri, agiscono all’interno del tessuto contemporaneo sovrapposto alla città di fondazione romana, in sinergia tra loro. I progetti di navarro Baldeweg, Mo- neo, Paredes-Pedrosa e Sanchez Garcia riutilizzano le tracce esistenti per collocare i nuovi interventi in dialogo con le vestigia romane subordinando le scelte progettuali al recupero dei rapporti tra pieni e vuoti, agli allineamenti e alle assialità per far rileggere le rovine romane nel contesto urbano. Parchi. La selezione di buone pratiche riguardanti i parchi individua la modalità di conservazione e integrazione delle rovine negli ambienti naturalistici. Il binomio natura-archeologia in questo contesto è declinato in accezioni meno convenzionali. Il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi interpreta il paesaggio agrigentino composto da incredibili rovine ma anche da manufatti agricoli e macchia mediterranea come un sistema di risorse in cui il paesaggio archeologico e quello rurale del mediterraneo convivono e generano un sistema di risorse che rappresenta la vera ricchezza del territorio. Il parco Al-Azhar al Cairo è un esempio di recupero ambientale che determina una ricomposizione nella quale si innesca, attraverso il rinvenimento di un intero sistema infrastrutturale, quello delle mura, un processo virtuoso di trasformazione urbana realizzato con il coinvolgimento diretto delle maestranze locali e della società civile. Allo stesso modo il Peace Memorial Park a Hiroshima, pur rappresentando il luogo di risarcimento fisico e morale di una ferita indelebile, costituisce l’occasione per Kenzo Tange di sperimentare i principi di trasformazione urbana elaborati dal Movimento Moderno e progettare, muovendo dalla valorizzazione emotiva e paesaggistica della rovina, un nuovo organismo in cui natura, infrastrutture, servizi e abitare restituiscano nuova vita al paesaggio raso al suolo dal bombardamento atomico. A Pombal il recupero della collina e il restauro del Castello medioevale reintegrano un’area che, abbandonata e inaccessibile, si trasforma nel parco urbano della città costituito da luoghi della memoria, aree verdi di pregio recuperate, nuove funzioni, spazi pubblici e servizi. Percorsi. La risignificazione di un luogo, pure denso di segni come può essere un sito archeologico, si stabilisce a partire da un insieme di relazioni fisiche e percettive che lo ricollocano all’interno di un contesto che è andato trasformandosi nel tempo. I luoghi centrali e simbolici per la vita della città nel corso dei secoli hanno in molti casi perso di senso svuotandosi delle funzioni originarie, sostituiti da altre centralità rimanendo al margine dei nuovi sistemi urbani. Attraverso la ricostituzione di una trama di percorsi, che ridisegnano la geografia delle pendici dell’Acropoli, ristabiliscono i pesi percettivi delle sequenze monumentinatura e la collegano all’area archeologica centrale, dimitri Pikionis e Yannis Tsiomis, a distanza di mezzo secolo l’uno dall’altro, reintroducono la componente archeologico-monumentale nella Atene contemporanea. Pikionis costruisce il nuovo sistema di percorsi attraverso una topografia estetica, basata sul riuso di frammenti esistenti e sulle immagini che lo sguardo coglie durante l’attraversamento. Tsiomis svelando la topografia storica della città, stabilisce una scrittura del luogo che diventa elemento ordinatore, tramite il quale è possibile leggere le tracce delle storie percepibili nella città. Così come nel progetto per il Camminamento delle Mura a Palma di Maiorca Torres e Lapeña ripristinano un percorso innanzitutto percettivo rispetto al quale il monumento viene valorizzato in quanto tale ma anche come dispositivo attraverso 331 ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI il quale osservare i paesaggi. Il progetto di falini e Terranova per il Parco Lineare delle Mura Aureliane, attraverso la riconfigurazione dell’infrastruttura muraria, inventa un sistema di collegamento lento, una passeggiata lungomura che inanella gli episodi più significativi: aree archeologiche, parchi, ville ed edifici. 332 sistemi-città. nella costruzione e trasformazione della città-palinsesto la memoria delle vicende passate e la sovrapposizione del nuovo intervento si compongono come in una stratigrafia archeologica. I progetti qui raccolti comprendono interventi che riconfigurano interi brani di città e paesaggi nei quali la valorizzazione del patrimonio archeologico corrisponde all’uso quotidiano dei luoghi. L’Amministrazione Comunale di Lubiana promuove un sistema di fruizione del patrimonio archeologico diffuso nella città attraverso un sistema di parchi archeologici che valorizza in situ i reperti delle diverse epoche seguendo l’esempio di Jože Plečnik che, come Luigi Canina a Roma sull‘Appia Antica, ricreava un sistema attrezzato attorno al fiume realizzato con frammenti di elementi urbani al posto dei monumenti funebri che, come reperti rifunzionalizzati, dotano la città di servizi e spazi pubblici attrezzati. Così come Plečnik utilizza i frammenti del terremoto per comporre le facciate dei nuovi edifici di Lubiana e riconfigura, da archeologo della città, brani di mura di Emona – città di fondazione romana su cui sorge quella attuale – realizzando un intervento a metà tra memoria e invenzione, anche gli interventi di Aprile, Collovà, Siza e Venezia per il centro storico di Salemi, nella Sicilia provata dal sisma del 1968 e dall’abbandono, convertono gli effetti negativi del terremoto in elementi di rifondazione della città scegliendo di ricostruire le sequenze degli spazi ricollocandovi le rovine. Il progetto ridisegna la geografia dell’urbano utilizzandola come naturale risorsa per la sua trasformazione, come grande cava di materiali da spolio, realizzando un sistema di demolizioni e di tagli che consente di riconfigurarne i limiti e gli ambiti. A Saragozza la coincidenza tra la tra città romana e il tessuto del centro storico fa sì che sia possibile restituire alla città contemporanea, attraverso una sorta di carotaggio archeologico, la lettura immediata dei nuclei principali di quella romana. un itinerario connette a una rete di spazi museali i luoghi più significativi dell’antico, fruiti all’interno dello spazio vitale della città. Allo stesso modo, a Coventry, assistiamo alla valorizzazione di una rovina che si percepisce nella lettura stratigrafica del paesaggio. Il progetto di riqualificazione media i salti di quota tra le vestigia e la città contemporanea includendo i luoghi della storia nei nuovi spazi pubblici attrezzati, nei quali il verde, i percorsi museali, le piazze e le rovine medioevali costituiscono il patrimonio identitario del paesaggio urbano. territori. I progetti raccolti in questo raggruppamento si riferiscono a trasformazioni che interessano un vasto ambito territoriale. L’intervento o la serie di interventi messi in coerenza tra loro sono in grado di modificare, al di là della dimensione dell’area interessata, i rapporti tra le città e il loro territorio attivando nuove relazioni e creando nuove centralità geografiche e culturali. Attraverso la prefigurazione di un sistema di infrastrutture culturali, il comune di Concordia Sagittaria viene messo in relazione al territorio agricolo e lagunare per proporsi come nucleo strategico di un sistema artistico-ambientale diffuso. Percorsi che intrecciano gli itinerari archeologici, paesaggistici, artistici e culturali già attivi, diventano artefici di una nuova forma che interpreta il pae- saggio nella sua dimensione agraria e archeologica come motore di uno sviluppo economico e turistico sostenibile. Il caso di nantes, analogo nelle strategie, si riferisce a un territorio ancora più vasto. La città riesce a superare un periodo di crisi economica data dalla dismissione delle aree industriali puntando sull’innovazione delle politiche pubbliche e ricoprendo in breve tempo un ruolo baricentrico nel territorio del bacino della Loira tra nantes e Saint-nazaire. Gli elementi chiave di questa rinascita economica e sociale sono individuati nella valorizzazione del patrimonio culturale e nella tutela del patrimonio ambientale. Tra gli interventi più significativi il Giardino del Terzo Paesaggio di Gilles Clement che riutilizza come reperto della memoria una base sottomarina del Vallo Atlantico. Gli interventi di valorizzazzione dello straodinario patrimonio culturale di nîmes e della sua regione metropolitana stabiliscono nuove relazioni tra fruizione e archeologia e tra paesaggio e infrastruttura. nel centro storico il progetto di norman foster per la nuova Mediateca, stabilisce un nuovo equilibrio tra la città contemporanea e la città di fondazione romana, il progetto di Bernard Lassus attraverso la territorializzazione di una rovina ricollocata ridetermina il rapporto tra città, paesaggio e infrastruttura, mentre, con il restauro del Pont du Gard e la valorizzazione del paesaggio circostante, l’area metropolitana guadagna un parco regionale attrezzato con spazi culturali, informativi, didattici, oltre che per lo sport e il loisir. 1 G.P. Brogiolo, Archeologia urbana, in R. francovich, d. Manacorda, Dizionario di Archeologia, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 350-355. 2 A. Ricci, Roma: una carta per la qualità urbana. La memoria remota, in A. Ricci (a cura di), Archeologia e Urbanistica, All’Insegna del Giglio, firenze 2003. 3 M. de Sola Morales, Un’altra tradizione moderna. Dalla rottura dell’anno trenta al progetto urbano moderno, “Lotus International”, 64, 1989. PRoJeCts oF RuiNs ABSTRACT The atlas of archaeological landscapes is a compendium of twenty-one best practices in which the conservation of the historic-monumental asset and the intervention of architecture are accomplished synergistically, establishing a relationship of continuity with the history of the site and creating new relationships between the archaeological areas and their contexts. The cases selected mainly concern urban archaeology practices, a discipline that focuses on the urban fabric and landscape interpreted as a whole, without privileging one historic period or monument over another. The instruments employed by architecture are those of urban planning, considered as a process through which to work on the geography and complexity of the territory, and not on a simplification of its type or morphology. Through a system of relationships capable of defining invariants, flexibility, and temporal priorities, the plan controls the quality and effectiveness of the formal results. In the atlas, the cases are described in alphabetical order, and are grouped together in a taxonomy that encompasses six categories: archaeological centres, nodes, parks, itineraries, city-systems, and territory. for each case selected, in addition to a selection of photos and drawings describing the projects, two maps have been drawn up: the first places the area of intervention into the territorial context, while the other is a layout showing the structures inserted into the context, highlighting the relationships among the new work, the archaeological areas, the urban fabrics, and the landscape. Archaeological centres. The term “archaeological centres” refers to limited areas which, in size and importance, appear as actual hubs, of a prevalently archaeological nature, around which the urban transformation process triggers an operation of discovery of the ruins, but also of hybridization of the remains themselves through other components that come into play: infrastructure systems, equipped public spaces, services and new urban functions, or vegetation systems. nodes. The selected projects, which have been grouped together by project categories, operate more by harmony of the results than by intervention methods. Starting from a core or hub, a series of new relationships are created in the surrounding territory. Parks. The selection of best practices concerning parks identifies the ways of preserving and integrating ruins into natural environments. In this context, the nature-archaeology combination is expressed in less conventional terms. Itineraries. The resignification of a place full of signs, such as an archaeological site, is established starting from a series of physical and perceptive relationships that return it into a context that has evolved and transformed over time. In many cases the places that were central to and symbolic for the city’s life down through the centuries have lost their meaning, having been stripped of their original functions, replaced by other hubs, and relegated to the margins of the new urban systems; the replanning of this system and its reallocation in the city are the focus of the selected projects. City-systems. In the building and transformation of the palimpsest-city, the memory of past events and the overlapping of the new work are composed as in an archaeological stratigraphy in which the new adheres to the old. Territories. The genesis of these projects starts from a broader intervention context that comprises the entire territorial framework in which the transformation takes place. The project or series of mutually consistent operations modify the relationships between the cities and their territory, creating new relationships and new geographic and cultural hubs. 333 PARCHi AGRiGeNto, itAliA Parco della valle dei templi A Piano del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, politecnica Ingegneria e Architettura, ferrara Associati Studio di Progettazione, Geo, Esosfera, Praxis, Studio Associato Silva, V. Cotecchia, E. de Miro, G. Harrison, G. Imbesi, coord.: G. Giacobazzi, 2005 A b Passerella pedonale, J. Pujgcorbé, Cottone+Indelicato coll. S. Montalbano, strutture: abgroup Ingegneri, 2012 (figg. 1, 2) ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI C Architettura per i siti archeologici, jia-Japan facoltà di Architettura dell’università di Tokyo: S. J. Liotta e Y. Ito, Ente parco: G. Amico, C. Liotta, M. Bevilacqua, A. La Gaipa, Politecnico di Milano e università di Palermo M. Imperadori e A. Vanossi, resp. scientifico: K. Kuma, 2013 (figg. 3, 4) 334 C b Committente: Ente Parco della Valle dei Templi di Agrigento Estensione: 1300 ettari Bibliografia G. ferrara, G. Campioni, Paesaggi di idee. Uno sguardo al futuro della Valle dei Templi di Agrigento, Alinea, firenze 2005. G. ferrara, G. Campioni, Il Parco della Valle dei Templi di Agrigento: dal Piano al Progetto di Paesaggio, “Arte, Architettura, Ambiente”, 7, 2004. R. franciosi, Architecture x Archeology, “domusweb”, 9 gennaio 2014. Il piano del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi promuove gli indirizzi per la tutela e per lo sviluppo del sito iscritto nella lista del patrimonio mondiale unesco dal 1997. Per più di mezzo secolo, l‘area compresa tra la città di Agrigento e la costa ha rappresentato terreno su cui sono stati costruiti infrastrutture, servizi, impianti tecnologici e nuclei residenziali in netto contrasto con le caratteristiche naturali e archeologiche del luogo. Il precedente piano del 1964 ignorava i rapporti funzionali e percettivi con la città storica e la costa, non censiva i fabbricati rurali storici e d’interesse culturale, non considerava le aree archeologiche esterne alla via Sacra né i problemi della viabilità nazionale e regionale e aveva come unico obiettivo il dettaglio delle cubature edilizie, attribuendo prevalentemente ad esse le prospettive di sviluppo dell’area. Per arginare le conseguenze di tali scelte viene approvato, dopo la frana del 1966, il decreto legge GuiMancini che, in maniera simmetricamente opposta, ha sottoposto a vincolo tutto il terri- torio, senza affrontare il problema dell’assetto paesistico della Valle e senza considerare che un approccio unicamente vincolistico può rallentare il degrado ma non garantisce da solo fruizione e conservazione dei beni. Il Piano attuale, coordinato da Guido ferrara e adottato nel 2008, si pone come obiettivo di tutelare e valorizzare i beni archeologici nel contesto paesaggistico e ambientale in cui sorgono, di promuovere la ricerca archeologica curandone l’aspetto divulgativo, di potenziare la fruizione sociale e turistica delle risorse territoriali per incrementare il turismo culturale. Il parco viene inteso come un sistema di risorse che preserva le ricchezze del territorio per farle evolvere in un processo di sviluppo sostenibile. La prima risorsa è costituita dal patrimonio dei beni culturali e archeologici che la Valle dei Templi conserva, la seconda dal contesto geografico mediterraneo e dalle caratteristiche geomorfologiche in cui sorgono le rovine e la terza consiste nel paesaggio antropizzato, di tipo agricolo e rurale, sviluppatosi a integrazione delle prime due. All’interno di questo quadro sono stati realizzati una serie di interventi puntuali. L’ente parco, in collaborazione con il Japan Institute of Architecture, ha organizzato dei workshop per dotare il sito di coperture modulari e flessibili a protezione delle vestigia e adattabili alle diverse esigenze dei contesti archeologici. Tre dei progetti più interessanti sono stati realizzati. un altro intervento in corso di realizzazione, risultato di un concorso internazionale vinto dagli architetti Cottone-Indelicato, è una passerella pedonale di collegamento tra le due aree archeologiche principali separate dalla strada statale che attraversa il parco. 1 2 3 4 335 PeRCoRsi AteNe, GReCiA Acropoli, collina del Filopappo e Agorà A Sistemazione dell’area archeologica attorno all’Acropoli ed al colle di Filopappo, d. Pikionis, 1954-57 (figg. 1, 2) b b Progetto per l’Agorà di Atene, Y. Tsiomis Y. Andreadis; H. Tsigarida, K. Yannopulos, A. Pangalos, S. Linder, con A. doligé, J. Coulon, M. Crali e G. Lagakis, landscape: n. Simos, 1997-2001 (figg. 3, 4) Committente: Ministero della Cultura Ellenica e Ministero Lavori Pubblici Estensione: 140 ettari Bibliografia AA.VV., Other ways. 1 Homage to Pikionis, Colegio Oficial Arquitectos Castilla y Leon Este demarcacion de Avila, 2005. ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI A. ferlenga, Dimitris Pikionis 1887-1968, Electa, Milano 1999. 336 A K. frampton, Dimitris Pikionis, Architect, 1887-1968: A Sentimental Topography. Architectural Association Publications, Londra, giugno 1989. A. Massarente, Yannis Tsiomis. Progetto urbano per l’Agorà di Atene, Area 62, Motta editore, firenze 2002. I due interventi della sistemazione dell’area archeologica di Atene, lontani per concezione ed epoca storica, affrontano il tema della fruizione e della integrazione tra rovine e città contemporanea. Mentre il progetto di Pikionis riconsegna alla città un’area archeologica monumentale mitica attraverso un progetto romantico e avanguardista, Tsiomis invece lavora sull’archeologia degli spazi pubblici di Atene attraverso una metodologia in cui il paesaggio contemporaneo è considerato allo stesso tempo contenitore e scenario delle tracce geografiche, storiche e sociali della contemporaneità. Tra il 1954-57 Pikionis costruisce il nuovo sistema di percorsi sull’Acropoli attraverso una nuova topografia estetica, basata sul riuso di frammenti esistenti e sulle immagini che lo sguardo coglie durante l’attraversamento, stabilendo così una nuova categoria del progetto che prelude alla Land Art. Attraverso un lavoro ricomposto per parti Pikionis da un lato ricostituisce e rinnova le relazioni fisiche e percettive tra i monumenti, i tracciati e le masse verdi esistenti, dall’altro ricostruisce la trama delle connessioni visive e funzionali tra vestigia e città andate perdute, ottenendo così la sensazione di unità indissolubile tra Acropoli e contesto. frammenti archeologici si mischiano, nella pavimentazione dei tracciati o nei muri dei sentieri, con frammenti di macerie, lastre di marmo, placche di cemento, sassi e scarti di cava. Il paesaggio attico viene restaurato attraverso il rafforzamento della vegetazione bassa e la piantumazione di quelle stesse essenze che gli antichi utilizzavano nei luoghi sacri. Il progetto di Yannis Tsiomis, passando dall’epoca classica a quella ellenistica e romana, connette l’area archeologica al tessuto urbano ottomano e a quello della città contemporanea. Superando la cesura della linea ferroviaria costruita al nord dell’area nel 1897, egli indaga la possibile continuità tra spazio pubblico e spazio archeologico, le soglie e i limiti che distinguono l’uno dall’altro, attraverso la concezione di uno strumento che chiama topografia storica della città, intesa etimologicamente come scrittura del luogo, elemento ordinatore, tramite il quale è possibile leggere i diversi tempi della città, la diacronia e la sincronia delle tracce e delle storie percepibili in essa. Il risultato è la costruzione di una promenade archéologique che mette in relazione tra loro i principali siti archeologici di Atene: il quartiere Ceramico, l’Agorà classica, l’Agorà romana, la salita all’Acropoli, la collina di filopappo e l’Olympieion e la serie di aree verdi ad esse connesse. Il sistema dei percorsi rilegge il palinsesto della città esistente, formato dagli intrecci e dalle stratificazioni del periodo greco, ellenistico-romano, bizantino, ottomano, neoclassico e moderno e rileva la mescolanza e la contaminazione – sociale e spaziale – della città stessa che diventa un valore da perseguire e un carattere da preservare. 1 2 3 4 337 CeNtRi ARCHeoloGiCi beiRut, libANo Piazza dei Martiri e Parco del Perdono A Progetto preliminare per il sito del Tell e il Museo storico della città di Beirut, M. Macary, 1998 b Progettazione dei percorsi e della Piazza del Museo storico della città di Beirut, R. Piano, 1998 C Parco del Perdono, Gustafson-Porter Landscape Architects, strutture: arup, consulenti: Imad Gemayel Architects, dar AlHandasah Engineers, d. Langdon, archeologia: arup e Y. Abun-nasr, 1999-2006 (figg. 1-4) A b Committente: Solidere (Società libanese per lo sviluppo e la ricostruzione di Beirut) Estensione: 5 ettari C Bibliografia ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI J. Amidon, Moving Orizon. Les Paysages de Kathryn Gustafson et Associes, Birkhauser, Basel 2005. 338 H. Badawi, Beirut: l’integrazione archeologica nel progetto urbano, in G. dato (a cura di), Da Beirut a Noto. Patrimonio archeologico e pianificazione urbanistica, Studi e ricerche nei paesi del Mediterraneo, Biblioteca del cenide, Cannitello (rc) 2005. M. Haidar, Città e memoria. Beirut, Sarajevo, Berlino, Bruno Mondadori, Milano 2006. T. Matteini, Paesaggi nel tempo. Documenti archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi. Alinea, firenze 2009. L’evoluzione del tessuto urbano della città di Beirut è strettamente legata alle vicende storiche caratterizzate da dominazioni, guerre e lotte civili che, nel corso delle diverse epoche, hanno attraversato la storia del paese. nel 1994, alla fine del conflitto durato dal 1975 al 1991, Rafic Hariri, Primo Ministro in carica, fonda la Solidere (Società Libanese per lo sviluppo e la ricostruzione del centro storico di Beirut) allo scopo di risarcire la collettività delle perdite provocate dal conflitto sia attraverso la ricostruzione della città dal punto di vista fisico che attraverso la ricomposizione metaforica dell’identità culturale libanese. I reperti archeologici diventano quindi l’elemento fondativo di questa ricostruzione identitaria. Attraverso gli scavi preliminari ai lavori di ricostruzione viene riproposta, per parti, la trama urbana originaria della città. Vengono investiti negli scavi, oltre quattro miliardi di dollari e, nel 1995, Beirut diventa, per ricchezza di reperti e per complessità culturale, il più grande cantiere archeologico del mondo. Il limite dell’opera- zione, anche a causa dell’instabilità politica, è la mancanza di una visione progettuale complessiva che coordini gli interventi e che valorizzi i reperti in un contesto urbano adeguato. La volontà di Solidere di reintegrare in un paesaggio unitario l’eterogeneità dei sistemi archeologici e storico-culturali che caratterizzano il centro storico di Beirut si esprime, in particolar modo, in una serie di interventi che riguardano l’area compresa tra il Parco del Perdono e il Museo della Storia, a nord della piazza dei Martiri. Gli scavi del 1995 hanno portato alla luce una straordinaria quantità di reperti eterogenei appartenenti a epoche storiche diverse (un sito fenicio, mura dell’età del bronzo, resti di epoca persiana, ellenistica, bizantina medievale e ottomana) che mettono in risalto la natura multiculturale della città. Solidere incarica l’architetto francese Michel Macary della progettazione del Museo che dovrà essere integrato alla piazza dei Martiri e al Parco del Perdono. Il progetto della piazza dei Martiri e delle sue connessioni urbane viene affidato a Renzo Piano ma l’intervento più significativo è quello per il Parco del Perdono, risultato di un concorso internazionale vinto dagli inglesi Gustafson e Porter. Il progetto del parco mira a stabilire una trama che restituisca un sistema di nuove relazioni tra le vestigia archeologiche e il tessuto urbano attraverso connessioni fisiche e percettive. Il nodo della piazza centrale, alla quota della città, connette le aree a nord e a sud del sito ma si relaziona anche verticalmente con le stratigrafie sottostanti che arrivano a una profondità di oltre cinque metri. Il sistema dei percorsi e la trama vegetale, che evoca i terrazzamenti e le colture tipiche libanesi, entrano in contatto diretto con le rovine che diventano anch’esse parte del linguaggio compositivo. La realizzazione dei progetti, a causa delle instabili condizioni politiche, è attualmente sospesa. 1 2 3 4 339 PARCHi CAiRo, il, eGitto quartiere darb-Al-Ahmar e Parco Al-Azhar Coord. aktc-Aga Khan Trust for Culture, hcsp-Historic Cities Support Programme, L. Monreal, direzione generale: S. Bianca, restauro mura e quartiere di darb Al-Ahmar: f. Siravo, programmi socio economici: J. Van der Tas, 1997-2006 A Restauro delle Mura, coord. scientifico: f. Matero, coord. restauro: E. del Bono-n. Ahmed, architettura: M. fouda e R. Pilbeam, G. devreux, J. d’Ilario, A. Lanza, H. M. Mohamed, C. Piffaut, G. Santo, A. Labib, A. nasser, S. Ali, restauro: L. Tamborero (fig. 1) ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI b Quartiere di Darb Al-Ahmar, coord.: K. Ibrahim, J. Allen, S. el Rashidi, A. el Gohary, H. al Biblawi, n. George, M. Qotb, M.A. Satar Sayed (fig. 3) 340 b C C Parco di Al-Azhar, d. Olson, Sasaki Associates Inc., M. Stino-L. Elmasry (figg. 2, 4) A Committente: Municipalità di Il Cairo Estensione: parco 33 ettari, quartiere 110 ettari Bibliografia Bartolone R., Dai siti archeologici al paesaggio attraverso l’architettura, “Rivista Engramma”, 110, 2013. Il Cairo: il parco, le mura, intervista a francesco Siravo di Rita Capezzuto,“domus”, 904, 2007. La riscoperta di un lungo segmento di mura medievali, durante i lavori per la creazione di un parco, ha rappresentato l’occasione per avviare un ampio progetto di trasformazione urbana a partire dalla integrazione e dalla rifunzionalizzazione del patrimonio storicoarcheologico. nel 1997 l’Aga Kahn Trust of Culture intraprende i lavori per la creazione di un nuovo spazio verde adeguato alle dimensioni e alla densità di uno dei più grandi bacini metropolitani del Mediterraneo. Per la realizzazione del Parco Al-Azhar viene in- dividuata un’area di 33 ettari confinante con le mura utilizzata come discarica e che, per l’accumulo dei detriti, si era trasformata, nei secoli, in una zona collinosa. In seguito ai lavori di movimentazione di terra per la realizzazione del parco viene riportata alla luce una porzione della cinta muraria eretta da Saladino, lunga 1,3 km comprensiva di 15 torri difensive e 3 porte urbane, ripristinate come collegamenti urbani fra il quartiere e il parco. La costruzione delle mura, iniziata nel 1176 e protratta fino a metà del secolo successivo, costituiva il limite della città consolidata. nel corso dei secoli successivi, pur mantenendosi come margine all’espansione urbana verso est, le mura andarono perdendo la funzione difensiva e furono gradualmente inglobate nell’edificazione urbana, dal xv secolo, l’area diviene una discarica e le mura stesse vengono progressivamente ricoperte dal materiale di scarto. nel xix secolo l’altezza dei detriti raggiunge circa i 30 metri rappresentando quindi un ostacolo all’espansione urbana ma anche una garanzia per la conservazione del tratto di fortificazioni in questione. nel progetto per il parco di Al-Azhar l’andamento collinosodella topografia artificiale si trasforma in un osservatorio interno alla città storica. Il progetto, coordinato dall’Historic Cities Support Programme, inizialmente limitato alla sola sistemazione dell’area circostante le mura, ha generato un più ampio programma di riqualificazione urbana che ha investito tutto il sistema delle fortificazioni attraverso il ripristino di un percorso parallelo alle mura e il recupero urbano del quartiere di darb Al-Ahmar, sviluppatosi a ridosso dell’infrastruttura stessa. Il quartiere – 110 ettari di estensione, 1400 abitanti per ettaro e una popolazione complessiva di 160.000 persone – presenta un elevato numero di edifici storici e di pregio architettonico. Analisi dettagliate hanno permesso di raccogliere informazioni sulla consistenza fisica, gli usi e lo stato di conservazione degli edifici localizzati lungo il percorso delle mura. L’insieme di queste indagini e una verifica sulle condizioni abitative e sociali del quartiere, ha permesso di mettere a punto un programma di interventi che ha coinvolto attivamente le maestranze locali e ha determinato la partecipazione degli abitanti al processo di trasformazione urbana, migliorando la qualità dell’abitare e rendendo il quartiere stesso una meta di attrazione turistica. 1 2 3 4 341 CeNtRi ARCHeoloGiCi Città del MessiCo, MessiCo Piazza delle tre Culture e quartiere tlatelolco 1 4 A, b Piazza delle Tre Culture (figg. 1-4) e Quartiere Tlatelolco, M. Pani, con: L. Ramos e R. de Robina, 1949-64 C Torre di Tlatelolco, P. Ramírez Vázquez, sculture: f. Silva, 1949-64 Committente: Municipalità di Città del Messico b Estensione: 4 ettari Bibliografia 2 G. de Garay Arellano, Mario Pani: vida y obra, universidad nacional Autónoma de México, facultad de Arquitectura, 2004. C A R. Gutiérrez, Architettura latinoamericana del Novecento, Jaca Book, Milano 1995. ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI H. Stierlin, Architettura Messicana antica, Istituto Editoriale Italiano, Editoriale del Parnaso, Milano 1968. 342 3 Le tracce lasciate dalla storia della città dalla sua fondazione all’epoca moderna sono leggibili nelle complesse stratificazioni della piazza delle Tre Culture a Città del Messico. nel 1950 Mario Pani, che completa la sua formazione architettonica in Europa in particolare in Italia e in francia dove approfondisce lo studio dei principi del Movimento Moderno e dell’insegnamento di Le Corbusier, viene incaricato dal Governo federale della realizzazione di una Città Radiosa per settantamila abitanti nel centro della capitale. La prima azione di proget- to consiste nella demolizione di un quartiere sorto senza pianificazione attorno alla chiesa barocca di Santiago Tlatelolco e al Collegio della Santa Cruz, dove vengono intrapresi i primi scavi per le fondazioni. Il lavoro di scavo rivela un incredibile complesso monumentale che si sviluppa attorno a una piramide risalente all’ultimo periodo azteco. La realizzazione del complesso residenziale lecorbusieriano, che sorgerà nell’area limitrofa alla piazza, ha rappresentato l’occasione per verificare l’ampiezza e la disposizione generale di questo complesso sacro e ha contribuito ad ampliare le conoscenze nel campo dell’urbanistica azteca. I lavori di scavo intrapresi nel 1963 portano alla luce i resti di una grande piramide, costituita da quattordici sovrapposizioni, attorno alla quale erano disposti una serie di altri edifici: piramidi secondarie, altari, piattaforme gladiatorie, terrazze e rampe di raccordo tra le diverse quote. L’intervento di Pani recupera il rapporto tra l’architettura coloniale spagnola, rappresentata dal convento e dalla chiesa, e le vestigia azteche attraverso l’inserimento della terza cultura, quella moderna. Il margine sud è segnato dalla Torre di Tlatelolco, realizzata da Pedro Ramírez Vázquez nel 1960, sede della Cancelleria nazionale. Il grande intervento di riqualificazione urbana di Pani, detto anche l’utopia del Messico, ha avviato il risanamento di una parte della periferia della città attraverso la demolizione delle abitazioni fatiscenti sorte spontaneamente ai margini del tessuto urbano e la ricostruzione di un intero quartiere residenziale di edilizia convenzionata (12.000 appartamenti, 2.300 servizi, 700 locali commerciali, 22 scuole, 6 ospedali, 3 centri sportivi, 12 edifici per uffici, 1 centrale telefonica, 4 teatri e 1 cinema). Il quartiere di Tlatelolco, con la sua dotazione di servizi e infrastrutture rappresenta il tentativo di realizzare un’utopia moderna al centro della città, il cui valore aggiunto corrisponde proprio allo straordinario spazio pubblico realizzato dopo gli scavi nel quale ancora oggi Città del Messico trova uno dei suoi più significativi luoghi dell’identità urbana. La piazza, nel cuore del centro storico della città, sito unesco dal 1987, è la prima tappa di uno degli itinerari archeologici messicani, con 12 milioni di turisti l’anno, la più frequentata del pianeta. 343 teRRitoRi CoNCoRdiA sAGittARiA, itAliA Centro storico e Agro concordiese A, b Studio di fattibilità per Concordia Sagittaria e l’Agro concordiese, università iuav di Venezia. Convenzione tra università iuav di Venezia e Comune di Concordia Sagittaria 2007/2008, nell’ambito del programma Antiqui: testimonianze del Quanta fuit, resp. scientifici: M. Centanni, S. Maffioletti e M. Vanore, gruppo di ricerca: M. Bassani, S. Grispan, M. Lazzaretto, M. Marzo, K. Mazzucco e S. noventa, Centro studi Classica, Architettura Civiltà Tradizione del Classico, supporto cartografico: circe, Centro di rilievo e cartografia, supporto informatico: lar, Laboratorio di ricerca in Progettazione Architettonica, 2007-08 (figg. 1-3) A Committente: Comune di Concordia Sagittaria ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI Estensione: 3500 ettari 344 Bibliografia b M. Vanore, M. Marzo (a cura di), Luoghi dell’archeologia e usi contemporanei, iuav, Venezia 2010. M. Vanore, (a cura di), Archaeology’s spaces and contemporary uses. Erasmus Intensive Programme 2010-11 design workshop 2, iuav, Venezia 2011. M. Vanore, (a cura di), Archaeology’s spaces and contemporary uses. Erasmus Intensive Programme 2011-12 design workshop 3, iuav, Venezia 2012. Lo studio di fattibilità per Concordia Sagittaria e il suo territorio verte sulla necessità di superare l’isolamento geografico e culturale di un importante centro di fondazione romana Iulia Concordia, fondata nel 42 a.C. presso l’incrocio della via Annia con la via Postumia, oggigiorno tagliato fuori dai flussi turistici dell’area veneziana. Attraverso la prefigurazione di un sistema di infrastrutture culturali Concordia viene messa in relazione a Portogruaro, all’Agro sud e alla Laguna di Caorle per proporsi quale nucleo strategico di un sistema artistico-ambientale fitto e diffuso. I nuovi percorsi che intrecciano gli itinerari archeologici, paesaggistici, artistici e culturali già attivi, costituiscono una forma di fruizione del territorio che interpreta il paesaggio nella sua dimensione agraria e archeologica come motore di uno sviluppo economico e turistico sostenibile. Lo studio sceglie di evidenziare in situ il patrimonio archeologico, evitandone la musealizzazione, come un sistema di elementi culturali e paesaggistici dell’Agro costituito dalle stratificazioni prodotte dalle bo- nifiche e dai tracciati infrastrutturali nell’area concordiese. Lo studio, inoltre, definisce degli scenari d’intervento dai quali emerge un nuovo potenziale ruolo di Concordia come centro di un sistema di reti archeologiche e paesaggistiche, a diverse scale di possibile fruizione. Vengono individuate le più significative aree archeologiche di terra e vengono messe in relazione con gli itinerari archeologici d’acqua, che interessano sia il litorale della via Annia che le coste e gli ambiti lagunari del nord-Adriatico. nell’intento di indirizzare il territorio a fare sistema e far emergere le sue potenzialità latenti, lo studio traccia un possibile percorso per la qualificazione del distretto culturale e individua luoghi di interscambio significativi tra i due principali sistemi di percorrenza di terra e d’acqua. I nuovi tratti di strade-argine riconnettono i percorsi tra diversi bacini idrografici e contribuiscono alla messa in sicurezza di ambiti specifici. In continuità con quanto definito dalla proposta progettuale per il territorio dell’Agro concordiese si è prefigurato uno scenario specifico per il territorio comunale di Concordia. Tra Concordia e Sindacale, si delinea un ambito a forte valenza paesaggistica, un’area di connessione tra i nuclei urbani e il fronte lagunare, fatta di successive transizioni, dall’edificato urbano a quello diffuso, alla tessitura dei campi, al parco agricolo, fino al bosco, al parco umido e alle valli da pesca. Si propone una strategia di intervento che definisce l’aggancio della città al fiume Lemene attraverso spazi urbani qualificati, l’estensione dei percorsi archeologici come elementi di riqualificazione urbana e la percezione e la nuova fruizione del paesaggio dell’Agro lungo percorsi che collegano luoghi di interesse archeologico, storico e culturale, ma anche ambientale e turistico. 1 2 3 345 sisteMi-Città CoveNtRY, iNGHilteRRA Phoenix initiative nel centro storico 2 1 A Priory Garden b Priory Cloister C Centro accoglienza turisti d Millenium Place e e Lady Herbert’s Garden MacCormac Jamieson Prichard-mjp, artisti: A. Beleschenko, C. Browne, J. Gerz, S. Heron, f. Schein, d. Ward, K. Whiteford e d. Morley, illuminazione: Speirs and Major Associates, consulenti: Ashgate development Consultants, strutture: Babties and Harris + Sutherland, Wt Partnership, Whitby, 1997-2004 (figg. 1-3) d 3 Committente: Municipalità di Coventry b ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI Estensione: 3 ettari 346 C Bibliografia R. MacCormac et al., Phoenix: Architecture/Art/ Regeneration, Black dog Publishing, London 2004. A A. Tricoli, I siti archeologici urbani in Mostrare l’archeologia. Per un manuale/atlante degli interventi di valorizzazione, a cura di M. Vaudetti, V. Minucciani, S. Canepa, Allemandi, Torino 2013. Il progetto urbano Phoenix Initiative, primo intervento di ricostruzione urbana dopo il bombardamento tedesco del 1940 che rase al suolo la città, si articola a partire dalla creazione di una sequenza di piazze e spazi pubblici che intendono unire in un unico sistema l’architettura contemporanea e i siti archeologici, superando l’ormai datata sistemazione delle “aree verdi con rovine”. Il masterplan ha previsto infatti, la creazione di una nuova centralità a partire da due focus principali: il Complesso Monumenta- le che si sviluppa attorno alla Cattedrale di San Michele, fondata accanto ai resti ancora visibili dell’Abazia benedettina del 1043, e le aree verdi ad esso connesse. In questa area, che si estende nel centro della città per tre ettari, vengono create nuove relazioni tra elementi preesistenti, alcuni dei quali di notevole pregio storico-artistico, e vengono realizzati servizi, attrezzature per il tempo libero, spazi commerciali e abitazioni. Il motivo di interesse dell’intervento però non consiste solo nella creazione di nuovi spazi pubblici ma nella individuazione di una strategia di intervento progettuale che recupera le aree monumentali della città, visitate da una grande quantità di turisti ma fino ad ora avulse dalla vita cittadina e quindi poco utilizzate dagli abitanti di Coventry, e, a partire da queste, individua un programma di azioni di recupero su un’area urbana ben più vasta, priva identità e funzionalità, all’interno della città contemporanea. Vengono realizzate due piazze pedonali, la Milllenium Place e la Priory Place, tre giardini il Priory Garden, il Priory Cloister e il Lady Herbert’s Garden, ottantaquattro alloggi, spazi per l’informazione turistica, bar, caffè e negozi. Per incrementare la qualità dello spazio pubblico sono state realizzate una serie di installazioni di arte urbana (il Ponte di Vetro, la Zona dell’Orologio, la finestra d’Acqua). Gli interventi architettonici che meglio approfondiscono i temi di integrazione tra le preesistenze e la città espressi dal mastrerplan sono il Centro accoglienza turisti e il Priory Garden. Il primo, è situato lungo il percorso pedonale principale fiancheggiato dai due nuovi spazi verdi ed è realizzato in continuità con i resti del muro perimetrale nord della navata principale della Cattedrale Benedettina dell’xi secolo. L’edificio realizzato in vetro, acciaio e mattoni permette una buona permeabilità percettiva consentendo continuità allo spazio della navata e il chiostro adiacente. un sistema di rampe, ribassato rispetto al livello della strada, connette alla quota della città il chiostro e il giardino. nel Priory Garden i resti della Basilica medioevale vengono integrati nello spazio pubblico, la loro tutela e museificazione non avvengono attraverso un recinto ma sei teche di vetro retroilluminate, e accompagnate da pannelli illustrativi, posizionate a protezione delle colonne della Basilica medievale, ridefiniscono lo spazio dell’edificio anticamente presente nell’area e consentono al visitatore la fruizione del bene storico. 347 teRRitoRi duisbuRG, GeRMANiA emscher Park A Landschftspark Duisburg Nord, Latz + Partner, Latz-Riehl, C. Rupp-Stoppel, K.-H. danielzik, G. Lipkowsky, J. dettmar, J. Park, con la collaborazione delle associazioni dei cittadini, illuminazione: fischer Park, 19902002 (figg. 1-5) b Restauro del gasometro a Coberhausenm, Babcock Anlagen, 1993 C Riqualificazione area antica miniera a Herne, Jourda & Perraudin, Hegger & Hegger, M. desvigne & C. dalnoky, 1990-99 ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI d Miniera Zolleverein a Hessen, H. Boll e H. Krabel, n. foster, Paner Gruppe Oberhausen, 1992-97 348 Committente: Società di sviluppo dello Stato del nord-Reno Wesfalia, Città di duisburg, unione delle Amministrazioni locali Estensione: 230 ettari di 32.000 ettari complessivi C b A d Bibliografia T. Matteini, Paesaggi nel tempo. Documenti archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi, Alinea, firenze 2009. u. Weilacher, Syntax of Landscape. The Landscape Architecture of Peter Latz and Partners, Birkhäuser, Basel Boston-Berlin, 2008. Il Parco paesaggistico regionale della Ruhr ricopre un’area di 32000 ha che rappresenta più di un terzo della superficie regionale comprensiva. nasce dal coordinamento della iba, International Bauaustellung Emscher Park, società di consulenza creata per coordinare la progettazione partecipata di paesaggisti, cittadini e imprenditori, per la trasformazione di un paesaggio post industriale in un grande parco naturalistico, riutilizzando gran parte delle attrezzature in disuso. Il distretto della Ruhr, dalla metà del 1800, diviene una delle più importanti aree produttive d’Europa, specializzata nell’attività estrattiva e siderurgica. Tra il 1960 e il 1980 l’area ha subito un rovinoso declino lasciando dietro di sé una profonda crisi sociale, un elevatissimo tasso di disoccupazione, un grave inquinamento della terra e delle falde acquifere e centinaia di metri cubi di edifici industriali dismessi. Il programma per la riqualificazione, realizzato attraverso il coordinamento di oltre 100 progetti, ha previsto: la creazione di un sistema di parchi (ricrea- tivi, culturali, riserve ecc.) e spazi pubblici attrezzati collegati da una rete di percorsi ciclopedonali, il riassetto del sistema idrogeologico del bacino dell’Emscher e dei corsi d’acqua che in esso confluiscono, il recupero del canale Rhein-Hern che rifornisce i territori settentrionali poveri d’acqua, la creazione di attrezzature per lo sport e il tempo libero lungo le sponde, un piano di recupero per l’archeologia industriale e il recupero e la realizzazione di complessi residenziali. Peter Latz descrive la strategia del progetto per il Parco di duisburg nord, nei luoghi delle ex acciaierie di Thyssen, a partire dalla creazione di una nuova sintassi del paesaggio. La selezione degli elementi preesistenti recuperati, funzionalizzati e messi per la prima volta in relazione tra loro genera degli scenari completamente diversi dai precedenti. L’intervento si sviluppa a partire da una serie di azioni fondative: integrare, sviluppare e connettere i frammenti che costituivano il distretto industriale in disuso per la costruzione di un nuovo paesaggio e individua una serie di sistemi di fruizione indipendenti l’uno dall’altro che, come in una stratificazione archeologica, si sviluppano per livelli sovrapposti sintatticamente l’uno all’altro. Questi quattro layers, che connettono punti e intercettano visuali sono: il parco dell’acqua, il sistema del verde, le promenades relazionate alla rete stradale esistente che riconnettono sistemi urbani separati per decenni e il parco della ferrovia che utilizza i tracciati sopraelevati originari per il trasporto dei materiali. Il progetto disegna i sistemi di comunicazione tra un’area e l’altra ma Latz utilizza come elementi di questa nuova sintassi i luoghi dell’abbandono che, riprogettati, sono utilizzati dal progettista e dai fruitori come una opportunità di riconciliazione con il paesaggio rovinato. 1 2 3 4 5 349 PARCHi HiRosHiMA, GiAPPoNe Parco della Pace 1 2 A Museo della pace b Municipio C Auditorium d Memoriale K. Tange con T. Asada, S. Otani-Planning Research Group in Peace City, artisti: H. noguchi, 1949-56 (figg. 1-4) 3 Committente: Municipalità di Hiroshima Estensione: 0,40 e 43 ettari complessivi Bibliografia d C A b Kenzo Tange. 1946-1969. Architecture and Urban Design, Veral fur Architectur Artemis, Zurich 1970. ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI I. norioki, Changes in plannig zone of Hiroshima Peace Memorial Park proposed by Kenzo Tange and their significance, www.usp.br. 350 K. Tange et al., Japan: Hiroshima, in CIAM 8: The Heart of the City: towards the humanization of urban life, Kraus Reprint, 1979, pp.136-138. nel 1946, a Hiroshima, sul sito in cui il 6 agosto 1945 era stata sganciata la bomba atomica, viene indetto un concorso per la costruzione di un Centro per la Pace. Il programma del concorso prevedeva la costruzione di un centro civico, un memoriale e un museo. La ricostruzione della città rasa al suolo dall’esplosione doveva riprendere vita proprio a partire dal punto della detonazione che sarebbe divenuto un luogo rappresentativo, celebrativo ma anche una nuova centralità urbana. Il concorso viene vinto da Kenzo Tange che, per la prima volta, si misura con un progetto alla scala urbana. Egli propone di utilizzare una superficie più ampia dell’isola sul fiume Motoyasu e di integrare al programma del progetto una serie di servizi per la città. Il luogo, sito unesco dal 1996, si estende per 0,40 ettari ma coinvolge un’area di 43 ettari. L’intera operazione di recupero e di ricostruzione si sviluppa a partire dall’unica preesistenza che ha resistito all’esplosione: la cupola di Genbaku, realizzata nel 1915 dall’architetto ceco Jan Letzel, e divenuta il simbolo della pace nel mondo. La rovina dell’edificio costituisce la traccia sulla quale rifondare la città distrutta dall’esplosione, una landmark della memoria che viene oggi utilizzato come monito a favore dell’eliminazione di ogni arsenale nucleare e simbolo di speranza e pace. Kenzo Tange, propone una strategia progettuale basata su quattro elementi principali: un Museo su pilotis, un Memoriale per le vittime, la creazione di un Asse (fig. 4) che dal memoriale stesso traguardi il fiume per inquadrare la rovina e, di conseguenza, l’inclusione nell’area di progetto del parco retrostante di Chuo Koen. Proprio questi ultimi due elementi cambieranno il rapporto del sito con la città condizionandone lo sviluppo futuro. Tange intraprende una lunga e infaticabile campagna politica e culturale per motivare le ragioni del suo progetto, scrive lettere all’amministrazione giapponese, progetta numerose varianti e partecipa con il progetto ai lavori dell’viii ciam del 1951 The Heart of the City: towards the humanization of urban life con un intervento dal titolo Peace City Hiroshima. Il masterplan definitivo dell’area include l’ampliamento nord-est, posizionando a nord del Monumento costituito dal reperto le strutture per i bambini, la biblioteca e il centro di accoglienza e, a nord-est, i servizi culturali per la città. Il lavoro suscita un enorme interesse poiché il recupero dell’area bombardata rappresenta una occasione per l’intera città e per tutto il paese. Purtroppo la risposta dell’Amministrazione giapponese è stata contraddittoria perché nonostante l’ufficio urbanistica avesse approvato, seppure con alcune revisioni, il progetto, l’inclusione nel Parco della Pace dell’area di Chuo Koen non venne mai ufficializzata. Il piano di Tange fu piuttosto utilizzato come linea guida venendo adottato ma solo all’occorrenza e puntualmente. Tale atteggiamento ha favorito l’edificazione di edifici, residenze in buona parte, realizzati al di fuori delle prescrizioni di piano e più della metà dei 70 ettari di parco sono stati edificati in mancanza di un progetto che li mettesse in coerenza tra loro. 4 351 CeNtRi ARCHeoloGiCi istANbul, tuRCHiA Nodo di scambio a Yenikapi A Archivio (figg. 2-3) b Nodo di scambio (figg. 2-3) C Parco Archeologico (fig. 4) ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI d Quartiere Armeno 352 f. Cellini, Atelye 70 H. Kaptan-d. Kaptan, M. Lombardini, G. Colacicco Murat-er, Insula Architettura e Ingegneria srl: P. Orsini, E. Cipollone e R. Lorenzotti con P. diglio, G. Ravaglioli, G. Colucci, n. Marzetti e A. Giuffrida, strutture: Bollinger + Grohmann Consulting Gmbh, Techn, K. Bollinger, M. Grohmann e S. Ruppert, sostenibilità: L. Messari-Becker, consulenti: d. Pfanner, Agnieszka Gut, H. Murat Celik, restauro: M. M. Segarra Lagunes e A. Emrah Ünlü, museologia: G. Longobardi, archeologia: f. d’Andria e G. Semeraro, agronomia: L. Catalano, 2012-in corso d Committente: Municipalità di Istanbul Estensione: 28 ettari A C b Bibliografia f. Cellini f., Yenikapi Transfer Point and Archaeo-Park Area, www.europaconcorsi.com. A. furuto, Yenikapı Transfer Point and Archaeo-Park,. www.archdaily.com Pierotti P., Firme italiane per la riconversione di 28 ettari nel cuore di Istanbul, “Edilizia e Territorio”, 13 aprile 2012. Il progetto per il nodo di scambio nell’area di Yenikapi-Aksaray affronta alcuni dei temi urbani più complessi della città contemporanea: la mobilità, la sostenibilità e la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale rinvenuto nel luogo. L’area era sede di uno dei più fiorenti porti del Mediterraneo, il porto di Teodosio, segnato da una fervida attività commerciale, dimostrata dal rinvenimento di trenta navi – riempite con i loro carichi – per molto tempo custodite dall’insabbiamento che ha interessato la zona nei secoli successivi. Tale insabbiamento, avvenuto in periodo tardo bizantino, ha favorito lo sviluppo di piccoli agglomerati urbani come il minuto quartiere armeno che ha mantenuto la sua identità originale, alcuni tracciati urbani antichi quali la via Egnatia, un tessuto urbano caratterizzato da case lignee ottomane e numerosi monumenti (moschee, mura, colonne onorarie, caratteristiche della capitale dell’Impero ottomano). In seguito ad un incendio avvenuto alla fine dell’Ottocento, la zona compresa tra l’antico porto e il nodo ur- bano di Aksaray subisce una drastica trasformazione. Ai resti delle strade antiche viene via via sovrapposta una struttura a scacchiera che se da un lato migliora le connessioni e lo sviluppo della città contemporanea, dall’altro favorisce l’incremento di un’edilizia priva di qualità architettonica. Il concorso per la sistemazione del nodo infrastrutturale di Yenikapi prevede di risolvere il problema della mobilità di un’area urbana abitata da oltre 14 milioni di abitanti, collocando nella distesa centrale di Aksaray una serie di nuove infrastrutture per dare vita a un laboratorio culturale che custodisca al suo interno brani della storia urbana, in tutte le fasi del suo sviluppo: dalle preesistenze antichissime, risalenti al neolitico, alla valorizzazione dell’antico Porto di Teodosio e del patrimonio archeologico ad esso connesso – tra cui 35 navi di epoca bizantina – fino ai progetti della città attuale. Il progetto affronta il problema lavorando contemporaneamente alla scala territoriale e alla scala architettonica. A livello urbano persegue la ricucitura dei tessuti circostanti l’area di progetto, prevedendo l’interramento delle arterie a grande scorrimento, e si propone di riorganizzare le relazioni e i percorsi tra tessuti e funzioni, di ricalibrarne i pieni e i vuoti, gli spazi privati e quelli pubblici riattivando antichi tracciati, redisponendo nuove connessioni alle reti in corso di realizzazione, liberando le corti degli edifici esistenti e includendole in una rete di nuovi spazi pubblici. Alla scala architettonica l’intervento si configura come un edificio contenitore che catalizza in sé sia la funzione del Transfer Point, spazio funzionale di smistamento di passeggeri, che l’Istanbul City Archive, laboratorio culturale a disposizione della città per la valorizzazione dei ritrovamenti archeologici, nuovo elemento identitario dell’area urbana, che restituisce e rappresenta, proprio sul sito originario, la vitalità e la ricchezza di un porto che è stato il principale legame commerciale tra Istanbul e il Mediterraneo. 1 2 3 4 353 sisteMi-Città lubiANA, sloveNiA emona, lungofiume e Mura 1 2 A, Mura romane, J. Plečnik, 1953-56 (fig. 1) b Lungofiume, J. Plečnik, 1932-38 (figg. 3-4) C Piazza del Congresso, A. Prelovšek, d. Gašparic, M. Juvanek, 2010-12 (fig. 2) Committente: Municipalità di Lubiana Estensione: 120 ettari Bibliografia A. ferlenga, S. Polano, Jože Plečnik. Progetti e città, Electa, Milano 1990. d. Prelovcek, Jože Plečnik (1872-1957), Electa, Milano 2005. d. Prelovsek, Note sulla costruzione del lungofiume dalla sistemazione austriaca agli interventi di Plečnik, “Lotus International”, 59, 1989. b 3 4 ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI C 354 A La città di Lubiana, situata al centro della Slovenia, sorge in una posizione baricentrica tra Austria, Italia e ungheria. La sua fondazione, di origini antichissime risale all’epoca Quaternaria ma l’insediamento a partire dal quale la città si è sviluppata nei secoli fino ad oggi è stato realizzato dai Romani che nel 14 a.C., fondarono in questi luoghi il Castrum di Iulia Aemona, importante presidio militare dell’impero. La città, proprio per la sua collocazione geografica, diventa un importante crocevia culturale e questo grande patrimonio, di origini antichis- sime, rappresenta ancora oggi la caratteristica principale della capitale slovena. Per ben due volte, nei secoli, Lubiana ristruttura la sua immagine attraverso la valorizzazione del patrimonio archeologico e culturale. La prima volta attraverso una serie di interventi progettati da Joze Plečnik che, restaurando i reperti archeologici romani, li rende non soltanto visibili e fruibili all’interno del tessuto urbano ma consente la loro valorizzazione all’interno dei luoghi più rappresentativi della città facendo di Lubiana uno degli esempi più interessanti di archeologia diffusa in aree urbane. La seconda volta, in epoca più recente, attraverso iniziative promosse dalla Pubblica Amministrazione, la città di Lubiana si è distinta nel panorama europeo per il ruolo di capitale culturale. È stato avviato, attraverso il finanziamento della Comunità Europea, un progetto di sviluppo culturale per istituire un sistema di politiche di gestione del patrimonio archeologico e per sviluppare metodi all’avanguardia per la divulgazione e la fruizione del patrimonio preistorico, archeologico romano e medievale diffuso nella città. Attraverso nuove campagne di scavo vengono individuati, dentro la città, nuovi siti che costituiscono un sistema di parchi archeologici messi in collegamento fi- sico e virtuale tra loro. Tramite percorsi guidati è possibile visitare le rovine di Lubiana e partecipare ad ateliers didattici passando attraverso l’epoca preistorica o medioevale. Gli interventi di Plečnik, realizzati in un momento di passaggio della città dal suo assetto moderno a quello contemporaneo, si fondano su due principi fondamentali: la ricostruzione delle vestigia in rapporto al contesto e la sovrapposizione del nuovo intervento al tessuto esistente con il sistema della stratigrafia archeologica. nel progetto per il Lungofiume egli articola nuove connessioni con la città attraverso attrezzature collettive e percorsi pedonali. Il lungofiume diventa una grande calamita che attrae edifi- ci e funzioni relazionate alla città e all’acqua attraverso il disegno di rampe e portici lungo la sponda. Influenzato dalla costruzione della flora monumentale di Giacomo Boni al foro romano e lungo l’Appia Antica, egli preserva la componente naturale utilizzando gli elementi di paesaggio come fossero frammenti di città. Crea nuovi viali alberati, inserisce porzioni di paesaggio rurale, disegna parchi contenuti e grandi spazi verdi. L’intervento più significativo di Plečnik è stato la riqualificazione della piazza del Congresso in seguito al quale sono emersi consistenti reperti archeologici che sono stati musealizzati attraverso un sistema di promenades multimediali. 355 Nodi MeRidA, sPAGNA Città monumentale A Ponte Lusitania, S. Calatrava, 1988-91 (fig. 5) b Sede Consiliare Regionale dell’Estremadura, J. navarro Baldeweg, 1988-95 (figg. 1-4) C Museo d’Arte Romana, R. Moneo, 1980-85 (figg. 6-9) d Museo Visigoto, Paredes y Pedrosa Arquitectos, con: Á. Rábano, C. Eichner, L. Guadalajara, G. Martín, B. Leal, J. J. Payeras e R. Lebrero, strutture: gogaite S.L., impianti: jg S.A., archeologia: d. fernández e G. Ruiz, 2010 (progetto) (figg. 10-12) ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI e Piazza del Tempio di Diana, J.M. Sanchez Garcia, con: E. García-Margallo, S. de Zaldivar, R. fernández Caparros, M. Torres Gómez, L. Rojo Valdivielso, f. Sánchez García, J. García-Margallo, M. Cabezón López, M. Ambrósio, C. L. Huerta, M. Sánchez García e J. Ternström, strutture: cde ingenieros e gogaite, 2011 (figg. 13-16) 356 b Committente: Municipalità di Mérida, Regione Estremadura, Ministero Beni culturali di Spagna, Ministero di Infrastrutture e Trasporti, Città Monumentale Storico-Artistica e Acheologica di Mérida Estensione: 355 ettari C e A Bibliografia d Paredes Pedrosa Arquitectos, fundacion coam, ea! Ediciones de arquitectura, Madrid 2006. Rafael Moneo 1990-94, “El Croquis”, 64, 1994. J.M. Sanchez Garcia, Intervento di riqualificazione attorno al Tempio di Diana a Mérida, Spagna, “Industria delle Costruzioni”, 429, 2013 M. Zardini (a cura di), Juan Navarro Baldeweg. Opere progetti, Electa, Milano 1990. La città di Mérida, dall’inizio degli anni ’80 ad oggi ha trasformato, attraverso interventi puntuali ma coerenti tra loro, il rapporto tra tessuto urbano, paesaggio e preesistenze archeologiche. La città contemporanea vive sovrapposta e in costante dialogo con la preesistenza archeologica. Gli organi di governo e di tutela del territorio, partendo dal presupposto che il patrimonio per essere tale deve esser condiviso e fruito dai cittadini, hanno intrapreso, attraverso l’operato del Consorzio per la Città Monumentale, una po- litica di conservazione attiva che ha coinvolto anche quella di gestione e pianificazione, che persegue l’integrazione nella città contemporanea dei beni storici e artistici. Oltre alle azioni di conservazione e fruizione delle aree archeologiche all’interno del tessuto urbano sono stati realizzati interventi più consistenti dal punto di vista architettonico che hanno contribuito a dotare la città di servizi e spazi pubblici all’avanguardia. Il primo intervento in ordine temporale ha riguardato la dotazione di infrastrutture. Il ponte Lusitania sulla Guardiania di Santiago Calatrava, infatti, raddoppia il segno del ponte romano e connette due parti discontinue di città, quella della produzione e dell’abitare contemporaneo e il centro storico. I due interventi successivi costituiti dagli edifici di Rafael Moneo e di Juan navarro Baldeweg lavorano, al contempo, come contenitori di spazi e di funzioni per la collettività, museo e centro civico, e come protezione delle rovine romane sottostanti. Il progetto di navarro Baldeweg per la nuova Sede Consigliare Regionale si colloca all’interno del margine sud-ovest del centro storico, sulla sponda della Guardiania e stabilisce le relazioni tra parti di città e rovine romane. Alla scala urbana costituisce la porta di ingresso al centro storico dalla città moderna e determina la piazza a cui si collega il ponte di Calatrava. Alla scala architettonica l’edificio rompe la stereometria del volume creando un sistema di patii sopraelevati che scandiscono il fronte sul fiume mentre il rapporto con le rovine sottostanti è risolto sollevando il basamento su pilotis e creando un sistema di rampe e passerelle che distribuiscono i flussi dei visitatori e degli utenti dall’esterno all’interno dell’edificio. una delle ragioni principali che ha fatto di Mérida un esempio architettonico emblematico nel rapporto tra antico e contemporaneo è rappresentata dal Museo romano di Rafael Moneo. Il progetto concilia i principali temi compositivi dei tardi anni ’70 – classicismo, contesto, tipologia, leggibilità e ornamento – in una opera in costante equilibrio tra l’astratto e il rappresentativo. L’edificio sorge in continuità con il teatro e l’anfiteatro sopra le rovine di un insediamento romano completo di mura di fortificazione. Il progetto ha quindi una duplice funzione: espositiva e conservativa del patrimonio archeologico esistente. Lo spazio museale è scandito da una serie fitta e ritmata di setti trasversali in cemento armato e mattoni, evocativi del linguaggio costruttivo romano che costituiscono le navate trasversali. Questi setti sono svuotati 1 3 2 4 5 357 Nodi 6 8 10 11 12 ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI 9 358 13 14 15 16 7 longitudinalmente con motivi ad arco che articolano lo spazio interno gerarchizzandolo in una ampia navata centrale stretta e lunga e in una serie di gallerie sovrapposte sul lato destro. La scansione dei setti trasversali consente l’entrata della luce dall’alto e determina l’articolazione del percorso distributivo al livello interrato delle rovine romane disposte su una giacitura ruotata rispetto alla maglia strutturale dei setti. L’edificio alla grande scala si colloca come una quinta urbana che ricuce il tessuto esistente integrandosi negli antichi tracciati preesistenti. nel sistema dei percorsi pedonali che dall’interno dell’edificio si proiettano verso lo spazio archeologico si inseriscono i due progetti più recenti di Ángela García de Paredes e Ignacio Pedrosa e José María Sánchez García che completano i margini slabbrati del tessuto storico valorizzando il rapporto con le rovine, il primo ospitando il nuovo Museo Visigoto, collocato sopra le vestigia preesistenti e, il secondo, ridefinendo lo spazio pubblico circostante il Tempio di diana. Il progetto per il Museo Visigoto di Paredes e Pedrosa, vincitore di un concorso e non ancora realizzato, lavora nel contesto urbano attraverso una strategia progettuale che potremmo chiamare paesaggio museale. L’edificio funziona come un osservatorio privilegiato dal quale leggere le stratificazioni archeologiche dall’interno della città. Il museo è progettato esso stesso attraverso la sovrapposizione di livelli spaziali e temporali organizzati a partire da un percorso urbano che dalle rovine conduce all’interno dell’edificio percorrendolo dal basso all’alto. Sanchez Garcia affronta il problema dell’inserimento di un nuovo elemento architettonico all’interno di un sito archeologico attraverso un approccio narrativo. Il progetto riutilizza le tracce esistenti per collocarsi e dialogare con le vestigia romane subordinando le scelte progettuali al recupero dei rapporti tra pieni e vuoti, agli allineamenti e alle assialità dei tracciati esistenti per far rileggere nella città contemporanea le strutture romane costruite intorno al Tempio di diana. La costruzione dell’edificio viene realizzata contemporaneamente alla campagna di scavo archeologico per il restauro del sito e attraverso questa esperienza il progetto si modifica e si adatta in funzione dei ritrovamenti messi in luce dagli scavi. L’edifico a L definisce il bordo della città e libera uno spazio ad uso pubblico attorno al tempio. una piattaforma collocata all’altezza del podio del Tempio stesso costituisce il punto di vista privilegiato per poterlo osservare e, attraverso l’incorporazione nella piazza del criptoportico e dei resti delle mura romane, consente la fruizione dello spazio sacro nel suo complesso. Tra l’edificio e la città una serie di volumi che colmano gli interstizi ospitano le funzioni di servizio per il turismo. 359 teRRitoRi NANtes, FRANCiA l’estuario della loira A Parc des Chantiers, A. Chemetoff, 2000-10 e Restauro della Stazione, J. Prouvé, 2009 (fig. 1) b Ristrutturazione e ampliamento del Museo Dobrée, d. Perrault, 2010 (progetto) (fig. 3) C Facoltà di Architettura, Lacaton e Vassalle, 2010 (fig. 2) d Piano per l’area del porto di Saint-Nazaire, M. de Solà-Morales, 1996-02, e Giardino del Terzo paesaggio, Saint-nazaire G. Clement, con Atelier coloco, 2010-12 (fig. 4) d e Committente: samoa (Società di pianificazione per la Metropoli atlantica occidentale), Municipalità di nantes, Regione della Loira, dipartimento della Loira Atlantica, Comune di Saint-nazaire, Consorzio dei Municipi dell’Estuario della Loira b C A ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI Estensione: 350 ettari e 8,5 km dalla città all‘estuario 360 Bibliografia M. Carta, Reload: riattivare il capitale territoriale per re-immaginare lo sviluppo, in S. Marini, A. Bertagna, f. Gastaldi (a cura di), L’architettura degli spazi del lavoro, Quodlibet, Macerata 2012. G. Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005. de Solà Morales, Sostare nell’interscambio, Trasformazione della ex base militare Vilee Port, Saint Nazarre, Francia, 1996-2001,“Lotus navigator” 8, 2003. Lacaton&Vassal, “2G”, 60, 2012. La città di nantes, che ricopre un ruolo baricentrico nel territorio del bacino della Loira e costituisce un agglomerato urbano di oltre un milione di abitanti attorno al quale gravitano più di 25 comuni, ha iniziato negli ultimi venti anni un sistematico processo di capitalizzazione delle proprie risorse, in partenza piuttosto limitate e ordinarie, che ha condotto la capitale della Loira a ricoprire un posto di eccellenza in Europa come esempio di città creativa, ecologica e sostenibile. nantes ha superato un periodo di crisi economica strutturale causata dalla dismissione delle aree industriali puntando sull’innovazione delle politiche pubbliche che si sono servite di metodologie partecipative e della presenza di investitori privati. Gli elementi chiave di questa rinascita economica e sociale sono stati la rifunzionalizzazione delle aree di archeologia industriale, la valorizzazione del patrimonio culturale e la tutela del patrimonio ambientale. Gli interventi sono stati progettati per essere messi a sistema tra loro attraverso una serie di percorsi tematici di tipo artistico, culturale e naturalistico fru- ibili attraverso piste ciclabili e sentieri pedonali o una rete di trasporti pubblici. I luoghi, rifunzionalizzati, ospitano ogni anno eventi culturali e festival internazionali. Gli interventi hanno riguardato i restauri degli edifici storici della città come la Cattedrale di Saint-Pierre, il Castello dei duchi di Bretagna e il progetto per l’ampliamento del Museo di dobrée di dominique Perrault che, in particolare, ridefinisce i rapporti con il contesto, l’ampliamento ipogeo, costituisce il pretesto per progettare un nuovo paesaggio che coniuga gli aspetti regionalisti della architettura francese con la città contemporanea. L’iniziativa più rilevante, dal punto di vista della trasformazione urbana, a partire dalle archeologia industriale, è quella intrapresa dalla samoa nell’Île de nantes. L’area, 337 ettari, oggetto di un concorso internazionale vinto da Alexander Chemetoff, viene ridisegnata con un masterplan che mette al centro della riqualificazione gli spazi pubblici, la valorizzazione dell‘eredità culturale, come il padiglione di Jean Prouvé, e il rapporto con il fiume. Il programma prevede una mixité di funzioni urbane: residenze, attività culturali e per il tempo libero, attività commerciali, una nuova rete di trasporti pubblici e servizi. Particolarmente rilevanti la sede della facoltà di Architettura di Lacaton e Vassal che riutilizza una struttura industriale dismessa e la trasformazione di 13 ettari di manufatti per lo stoccaggio in un parco urbano fluviale. Il binomio valorizzazione culturale-tutela paesaggistica caratterizza il sistema delle trasformazioni del bacino della Loira. A Saint-nazaire il progetto urbano di Manuel de Solà-Morales ristabilisce la connessione geografica e culturale tra la zona portuale, sede del Vallo Atlantico e la città. L’archeologia industriale delle ex basi sottomarine costituisce il terreno di sperimentazione del Giardino del Terzo paesaggio di Gilles Clement. Il parco è uno spazio in cui le specie sono lasciate libere di installarsi e svilupparsi, un incolto addomesticato, che garantisce una grande ricchezza e densità di specie. 1 2 3 4 361 Nodi NAPoli, itAliA Metropolitana A Fermata Municipio, A. Siza e E. Souto de Moura, 2005-in corso (figg. 1-4) b b Fermata Duomo, M. fuksas, 2005-in corso (figg. 5-8) Committente: Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Comune di napoli, Società MetropolitanaMetronapoli spa Estensione: 6 km Bibliografia M. fuksas, Estación de metro, Nápoles: stazione duomo, “Arquitectura Viva”, S.A., 2008 ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI d. Giampaola, Archeologia e città: la ricostruzione della linea di costa, “TeMA”, Trimestrale del Laboratorio Territorio Mobilità e Ambiente-TeMALab, Vol. 2, 3, napoli, 2009. 362 G. Marinoni, Infrastrutture nel progetto urbano, franco Angeli, Milano 2006. A M. Santangelo (a cura di), Álvaro Siza e Napoli, Electa, napoli, 2005. Il progetto di ampliamento e integrazione della rete della metropolitana di napoli diventa l’occasione per ridefinire il rapporto tra il centro storico e una parte consistente del patrimonio archeologico della città. È stata a questo scopo avviata una grande operazione di archeologia urbana, una delle più imponenti intraprese in Europa, che attraverso lo scavo sistematico di tutte le stazioni (Toledo in via diaz, Municipio in piazza Municipio, università in piazza G. Bovio, duomo in piazza n. Amore, Garibaldi in piazza Garibaldi) ha incrementa- to la conoscenza dell’evoluzione storica del paesaggio napoletano rendendo possibile la ricostruzione della linea di costa in epoca romana. Attraverso la procedura dello scavo archeologico è stato possibile ricostruire la storia del paesaggio costiero antistante Parthenope e Neapolis, nucleo più antico della città di napoli. L’intervento archeologico, infatti, si è sviluppato in un comparto unitario corrispondente a una ampia dimensione del waterfront urbano. Il processo metodologicoprocedurale della archeologia preventiva ha consentito l‘integrazione del reperto, spesso di notevole rilevanza, al progetto infrastrutturale. Le stazioni della linea metropolitana urbana diventano i luoghi dello scambio dei flussi della mobilità ma anche quelli del mostrare, fruire e divulgare l’archeologia. Gli scavi preventivi effettuati lungo il tracciato della rete infrastrutturale rivelano alcuni manufatti di notevole rilevanza, come il ritrovamento di un tempio presso la fermata duomo progettata da Massimiliano fuksas o addirittura riscrivono il rapporto tra la città e il mare come nel caso del Porto romano presso la fermata Municipio progettata da Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura. Il progetto di fuksas per la stazione duomo mette in atto una strategia mutuata dallo scavo. Scendere nel sottosuolo diviene un’azione necessaria alla scoperta e alla comprensione e alla creazione di una aspettativa emotiva che prelude alla vista dei rilevamenti archeologici. I reperti, la pista d’atletica, il porticato e il tempio sono ricollocati in situ, nel primo livello interrato e alla quota urbana emergono tre lucernari attraverso i quali è possibile affacciarsi stabilendo un rapporto percettivo in continuità con il livello della città. Il progetto di Siza e Souto de Moura – generato da una attenta rilettura del territorio attraverso lo studio del materiale iconografico, incisioni, vedute e cartografie del Porto e di piazza Municipio – è un sistema che lavora per strati nell’intento di rafforzare il rapporto tra la città e il mare. durante gli scavi sono state ritrovate le strutture portuali di epoca romana e tre imbarcazioni romane, in ottimo stato di conservazione che, con i numerosi reperti rinvenuti durante la campagna degli scavi archeologici, saranno conservati all’interno di Castel nuovo. Il progetto della stazione prevede l’allargamento del fossato attorno al Maschio Angioino, che diventa l‘accesso principale alla metropolitana e la creazione di una piazza sotterranea con annessa galleria che si relaziona con i ritrovamenti di Neapolis e le fortificazioni angioine emerse dagli scavi. 1 2 3 4 5 6 7 8 363 teRRitoRi NÎMes, FRANCiA Centro storico e regione metropolitana A Carré d’Art, foster + Partners, 1984-93 (figg. 1-2) C b Area di sosta Nîmes-Caissargues, Salon de Provence, B. Lassus, 1989-92 (fig. 3) C Museo di Pont du Gard, J.P. Viguier et Associés, 1991-2001 (fig. 4) Committente: Municipalità di nîmes, Autostrada del Sud della francia Estensione: Carré d’Art 2,4 ettari, area di sosta nîmes-Cassargues, A54 35 ettari, Pont du Gard 180 ettari Bibliografia d. Jenkins (a cura di), Norman Foster. Works 2, Prestel, London 2006 ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI J.P. Jodidio (a cura di), Jean-Paul Viguier: Architecture 1992-2002, Birkhauser, Basel 2002. 364 A T. Matteini, Paesaggi nel tempo. Documenti archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi, Alinea, firenze 2009. M. Venturi ferriolo, Passeggiare con Bernard Lassus, Guerini e Associati, Milano 2006. b All’inizio degli anni ’90 la città di nîmes avvia un processo di trasformazione urbana mirato alla valorizzazione del partimonio archeologico e paesaggistico e al miglioramento delle infrastrutture dell’area metropolitana. nîmes – sorta sul sito dell’antica Nemausus – si trova lungo la via di Eracle che metteva in comunicazione il Rodano e i Pirenei, alla quale successe la via domitia. La città è detta la Roma francese per la presenza di straordinari monumenti e grandi opere d’ingegneria romane: l’anfiteatro, il tempio corinzio detto la Maison Carrée, la Torre Magna, la Porta di Augusto e il Santuario della fon- tana trasformato in Augusteum comprendente ninfei, portici, un teatro e il Tempio di diana. Gli interventi di valorizzazione di questo territorio più significativi sono l’edificio del Carré d’Art di norman foster, risultato di un concorso internazionale che stabilisce un nuovo equilibrio tra la città contemporanea e la città di fondazione romana, il progetto di Bernard Lassus per l’area di sosta lungo l’autostrada A54 che ridetermina il rapporto tra memoria, città, paesaggio e infrastruttura e la trasformazione dell’area del Pont du Gard che, con un programma caratterizzato da una grande mixité funzionale (spazi culturali, informativi e didattici, di accoglienza turistica e per il loisir) dota la città di nîmes di un parco metropolitano. Il Carré d’Art di foster costituisce uno dei risultati più riusciti di affermazione del linguaggio contemporaneo in un contesto archeologico. L’edificio è un museo di arte contemporanea e una mediateca e dialoga con la Maison Carrée (19-16 a.C. costruita da Agrippa nel foro) senza dissimulare le sue caratteristiche tecniche e strutturali utilizza le tecnologie contemporanee per produrre trasparenze e visuali che lo rendono una macchina per l’osservazione del contesto. L’edificio, completamente vetrato, introietta la piazza antistante proiettandola verso una grande scala anch’essa in vetro dando luogo alla creazione dello spazio pubblico tra l’edificio e la preesistenza, parte integrante del progetto e fulcro della vita collettiva della città. L’area di sosta di nîmes-Caissargues, progettata da Lassus, situata lungo l’autostrada A54, è costruita sul sedime della via domiziana che collegava l’Italia alla Spagna. Il progetto disegna uno spazio intermedio che costruisce relazioni tra realtà diverse e contrapposte. nel sito di progetto le nuove relazioni vengono stabilite a partire da diversi elementi che vi confluiscono: l’infrastruttura, la città della quale costituisce un avamposto percettivo e il paesaggio della macchia mediterranea. Lassus progetta un giardino archeologico suburbano dal quale è possibile osservare la città prima di entrarvi, collocandovi il colonnato del teatro ottocentesco di nîmes, utilizzando il “falso archeologico” come dispositivo per evocare un ambiente culturale specifico. Il progetto di Jean-Paul Vigier per la sistemazione dell’area di Pont du Gard e del museo, sito unesco dal 1985, contribuisce a rigenerare e salvaguardare il paesaggio naturale e rende fruibile un territorio di 180 ettari attorno all’acquedotto romano di Pont du Gard. Il ponte, le preesistenze archeologiche, i percorsi pedonali attrezzati, il museo, il centro informativo e la spiaggia lungo il fiume, sono stati gli elementi di una vasta operazione di riqualificazione territoriale che ha generato effetti immediati attraendo più di 1.200.000 visitatori l’anno. 1 2 3 4 365 PeRCoRsi PAlMA di MAioRCA, sPAGNA Camminamento delle Mura e Castello belvedere 3 2 1 A Camminamento delle Mura, E. Torres Tur e J. A. Martínez Lapeña, strutture: J. Llorenc, A. Soldevila e G. Rodriguez, f. Climent, A. Pérez de Eulate, G. Julià, archeologia: M. Riera, impianti: A. de Bobes, T. Tribo, 19832003 (figg. 1-3) b Castello Belvedere, E. Torres Tur e J. A. Martínez Lapeña, con J. Gallastegui, G. Julià, strutture: R. Brufau e G. Rodriguez, impianti: A. de Bobes e T. Tribo, 1984-93 (figg. 4-5) 4 A Committente: Ministero delle Opere Pubbliche, Ministero della Cultura, Comune di Palma di Maiorca Estensione: 20 ettari b ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI Bibliografia 366 d. Cohn (a cura di), Young Spanish Architects, Birkhäuser, Basel 2000. Elías Torres Tur/José Antonio Martínez Lapeña, 19831993, “El Coquis”, 61, 1993. J. Krauel (a cura di), New Urban Elements, Links International, Barcelona 2006. A. Pizza, Architettura Contemporanea Spagna, 24ore Motta Cultura, Milano 2006. Entrambi gli interventi progettuali di Torres e Lapeña, la sistemazione del camminamento delle Mura e gli spazi esterni del Castello Belvedere, lavorano sul tema della rivitalizzazione di un’area storico-artistica di pregio ristabilendo una connessione forte con il tessuto urbano circostante. La città di Palma di Maiorca, sorta nel 123 a.C. come colonia romana, passò in seguito ai Bizantini, agli Arabi, ai Pisani, venne conquistata dai musulmani e riconquistata dagli Aragonesi che la dotarono di fortificazioni e architetture rappresentative. Il centro storico, tutto proiettato verso l’acqua, mantiene oggi invariata la sua forma dell’epoca tardo gotica. La sistemazione delle fortificazioni lungo la linea di costa nel progetto di Martínez Lapeña e Torres costituisce l’occasione per riguadagnare il rapporto tra la città e il mare per molto tempo divenuto inaccessibile mentre, il restauro dello spazio aperto del medioevale Castello Belvedere, ripristina la percezione delle visuali dall’alto che reinseriscono il centro storico nel contesto paesaggistico della baia. Gli interventi di restauro combinano gli elementi del paesaggio e della storia delle Isole Baleari, quelli di progetto e quelli propri del tessuto urbano prediligendo un linguaggio mutuato dalla tradizione marinara e mercantile del luogo. Il progetto di ristrutturazione del Camminamento delle Mura risolve il sistema delle relazioni alla scala urbana inserendo nello scenario esistente il nuovo spazio pubblico a partire dalla riqualificazione della preesistenza. Vengono rimodellati i bordi che delimitano le diverse quote del sito e, attraverso un sistema di scale e rampe, sono messi in connessione il livello del mare con quello della città. La disposizione della pavimentazione sottolinea la giacitura della infrastruttura muraria. Come in un collage surrealista vengono messi in scena la vegetazione e alcuni elementi scultorei: un tronco di colonna, un lacerto di muro, uno specchio d’acqua, la sezione ogivale della galleria pedonale. Il percorso ospita una serie di funzioni culturali legate allo spazio pubblico, luoghi ombreggiati per la sosta e per gli spettacoli all’aperto e un nuovo spazio pedonale che si articola in cinque ambiti principali: lo spazio di accesso dalla piazza della cattedrale, la passeggiata superiore, la quota del bastione, la passeggiata inferiore e quella del parco. I primi due sono connessi attraverso un sistema di scale e rampe mentre la connessione con il parco al di là delle mura avviene attraverso un percorso che riutilizza un vecchio tracciato ferroviario. Il restauro del Castello Belvedere, in stile gotico catalano a pianta circolare, ha ripristinato le caratteristiche originarie per la raccolta dell’acqua piovana e un percorso che dal lungomare penetra all’interno del castello da dove, sulla sommità dell’edificio, si gode il panorama sulla Baia e sul resto dell’isola. 5 367 PARCHi PoMbAl, PoRtoGAllo Castello del Cerro A Percorso attrezzato b Restauro del castello C Cappella di Santa Maria comoco arquitectos: L. M. Correia, n. Mota, S. Constantino, coll.: V. Maldonado e I. Stoffel, con: abl-Gabinete de Projectos Lda, L. Ribeiro e J. Gonçalves Madeira da Silva, paesaggio: L. Guedes de Carvalho, L. Miguel Correia, n. Mota, S. Constantino, jrsf J. Rodrigues, S. Lda, Ibersilva, Argoconstrutora, Construção Civil Lda e fg+sg-fotografia de Arquitectura, 2004-11 (figg. 1-7) Committente: Municipalità di Pombal ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI Estensione: 49 ettari 368 A Bibliografia Pombal Castle By Comoco Architects, www. designyoutrust.com b Reorganization of Pombal Castle’s hill. Pathway and facilities, www.europaconcorsi.com Reorganization of Pombal Castle’s Hill by Comoco, www. architecturelover.com C A. Seller, Pombal Caslte Hill by Comoco Architects, www.ilikearchitecture.net L. Tafline, Pombal Castle’s Striking Upgrade Forges a Connection to Portuguese History, www.inhabitat.com. Il caso della sistemazione della collina del Cerro e del Castello rappresenta un esempio paradigmatico di buona pratica in un paesaggio ordinario, sia per caratteristiche oggettive che connotano l’area di progetto (estensione, tipo di preesistenza, contesto paesaggistico, tessuto urbano), sia per dinamiche relazionali tra sito e città (area naturalistica in abbandono, rovina inaccessibile e in pessimo stato di conservazione, committenza pubblica dalle risorse limitate). nell’area sorgono le rovine di una cittadella medievale fortificata (lacerti di mura, il castello e la cappella di Santa Maria) che faceva parte del sistema difensivo del distretto di Leiria. negli ultimi decenni del xx secolo il Castello e Pombal perdono qualunque legame l’uno rispetto all’altra. L’intera area della collina, e le altre preesistenze che vi sorgono e il verde che le circonda vengono relegate sullo sfondo del contesto urbano senza poter essere fruiti nè utilizzati. L‘Amministrazione comunale ha intrapreso un progetto di riorganizzazione della città con l’obiettivo di pro- muovere la ri-centralizzazione di quest’area. Il progetto lavora nell’intenzione di operare una netta distinzione tra i nuovi elementi del progetto (percorsi e padiglioni) e quelli preesistenti (il paesaggio e il castello). Il progetto adotta una strategia chiara ed efficace che accoglie non soltanto le richieste della committenza di tutela e valorizzazione dei beni storico-archeologici e consente il recupero del rapporto tra rovine e città, rafforzandone i legami fisici e identitari tanto da rendere questo sito riqualificato (con funzioni, servizi e attrezzature per i turisti e per gli abitanti) il principale spazio pubblico dell’area metropolitana. L’intervento definisce tre aree ognuna delle quali con un differente approccio progettuale. nella prima area, a sud-ovest delle pendici della collina, l’approccio è focalizzato sull’idea di flusso continuo. un sistema di connessioni tra l’area urbana e la cima della collina definisce i percorsi lungo i quali sono collocati padiglioni per la sosta e di servizio a contatto con la natura. nella seconda area, attorno alla Cappella di Santa Maria e all‘attiguo cimitero, la riconnessione tra queste due emergenze storico-archeologiche avviene attraverso la modellazione del suolo. un sistema di setti e di terrazzamenti, dove sono collocati il parcheggio e compensano il passaggio da un livello all’altro. La terza, dominata dalla presenza del castello, è l’area principale. Il progetto ridisegna l’ingresso ovest in corrispondenza del portale del xii secolo e la piattaforma più a valle. Anche l’area della chiesa di Santa Maria è stata ridefinita come spazio pubblico per accogliere funzioni culturali e performance artistiche. 1 2 3 4 5 6 7 369 PeRCoRsi RoMA, itAliA Parco lineare integrato delle Mura Aureliane 1 2 3 A Parco Lineare delle Mura tra Porta Latina e Porta Metronia (figg. 2, 3) b Parco Lineare delle Mura a Porta San Paolo (figg. 1, 4, 5) P. falini e A. Terranova, con A. Criconia e C. Scoppetta, coll: M.E. Cattaruzza, G. Gatto. R. Germani, A. Ottaviani, S. Pieretti, d. Serretti e C. Valorani, 2003-09 Committente: Comune di Roma, Assessorato alle Politiche della Programmazione Pianificazione del Territorio e Roma Capitale, Assessore R. Morassut, ufficio per la Città Storica direttore G. farina con d. fuina e R. Cossu Estensione: 18 km ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI Bibliografia 370 A 5° Rassegna Urbanistica Nazionale, Corderie dell’Arsenale, Venezia 10-20 novembre 2004, catalogo della mostra. P. falini, A. Terranova, Ambito di programmazione strategica Mura, “urbanistica”, 116, 2001. b Minima Muralia, servizio monografico sulle Mura di Roma, “Capitolium”, 1, 2003. A. Terranova, Le porte della città antica. Porta San Paolo e le doppie piazze di porta. Le Mura Aureliane e le trasformazioni nelle forme della mobilità urbana di Roma, in R. Panella, Piazze e nuovi luoghi di Roma, Palombi, Roma 1997. Il nuovo Piano Regolatore di Roma, Sistemi e Regole (2003-2008), viene concepito in stretto rapporto con la valorizzazione dei grandi sistemi archeologici urbani. Il piano individua cinque ambiti di programmazione strategica, che contribuiscono a determinare gli scenari preliminari rispetto ai quali predisporre e valutare i programmi all’interno della città: Il Tevere, il Parco dell’Appia Antica, le Mura, l‘asse flaminio fori eur e la Cintura ferroviaria. Obiettivi dell’Ambito Mura sono quelli di restituire nuove funzioni e identità ad un ma- nufatto di alto valore simbolico ma oggi avulso dalla vita quotidiana della città e di proporre lungo l’infrastruttura archeologica una nuova connessione “verde” a carattere storico-paesaggistico nel centro storico di Roma, recuperando manufatti dismessi, aree degradate e verde non attrezzato. Il progetto per il Parco Lineare Integrato di falini e Terranova, costruisce una grande occasione per inventare, attraverso la rilettura del Manufatto, una continuità fisica e di percorso con la città ossia una infrastruttura di collegamento anulare di tipo lento, adibita esclusivamente agli spostamenti ciclo pedonali. Il progetto disegna uno spessore variabile ancorato al tracciato delle Mura che assorbe nella sua sezione le aree archeologiche, i parchi e le ville storiche, eventi urbani e i quartieri di rilevanza storica che vi si attestano. Il baricentro di questa infrastruttura è una passeggiata lungomura che si intreccia fuori e dentro l’asse murario, anche lungo i camminamenti in quota. Il progetto definisce l’ambito di intervento attraverso l’elaborazione di due carte: la Carta delle Risorse, attraverso la quale vengono selezionati gli elementi da considerare nel processo di trasformazione e la Carta degli Obiettivi che ha definito le nuove funzioni degli elementi individuati. Il programma di progetto è stato definito attraverso una serie di livelli tematici differenti: il livello del parco lineare vero e proprio che si configura sia come ambito relativo alle preesistenze archeologiche che a parco urbano di quartiere, quello dei progetti urbani locali afferenti all’infrastruttura anulare e quello dei progetti esplorativi necessari alla riqualificazione delle aree dismesse e delle aree verdi recuperate dalla riconnessione con le Mura. Lungo il tratto tra Porta Metronia e Porta Latina, individuato come nodo privilegiato per le relazioni con i siti dell’area archeologica centrale e con il Parco Regionale dell’Appia Antica, è stato realizzato l’ampliamento dello spazio pubblico attrezzato e la sistemazione delle aree verdi esistenti e di nuova concezione. È stato riprogettato l’asse carrabile di viale Metronio, destinato a viabilità locale, slittato verso il fronte del tessuto urbano e allestito a boulevard pedonale verso le Mura, con i suoi spazi aperti, i percorsi pedonali, l’illuminazione, le pavimentazioni e le attrezzature per la sosta e il tempo libero. 4 5 371 sisteMi-Città sAleMi, itAliA Recupero dei quartieri Piano Cascio e Carmine A Piazza Alicia, strade e aree adiacenti, e ricostruzione della Chiesa Madre, Á. Siza e R. Collovà, coll.: O. Marrone, V. Trapani, E. Tocco, G. Ruggeri, f. Tramonte, G. Malventano, A. d’amico, P. Traballi, A. Argento, M. Ciaccio, A. Lo Sardo e K. Muscarella, 1984-97 (fig. 3, 4, 5) b Quartiere del Carmine e Teatro all’aperto, f. Venezia, M. Aprile e R. Collovà, con: O. Marrone, A. Alì e S. de Cola, 1982-86 (figg. 1, 2) A Committente: Comune di Salemi, Regione Sicilia, diocesi di Mazzara del Vallo Estensione: 32 ettari b Bibliografia ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI R. Collovà, Alvaro Siza Vieira e Roberto Collovà. Piazza Alicia e Chiesa Madre a Salemi, “Il frammento”, x, 1, 2006 372 f. Venezia, Il trasporto di un frammento, “Il frammento”, x, 1, 2006. R. Collovà, A. Siza Vieira, Recupero nel centro storico di Salemi, in Catalogo Premio Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana della Triennale di Milano, The Plan–Art & Architecture Editions, Milano 2003. f. Mancuso (a cura di), La piazza nella città europea. Luoghi, paradigmi, buone pratiche di progettazione, Il Poligrafo, Padova 2012. dal 1984 a Salemi, città arabo-medievale della Valle del Belice gravemente danneggiata dal terremoto del 1968, è in corso una lenta operazione di recupero del centro storico. Essa riguarda la piazza Alicia attorno alla quale si insedia la città araba e i quartieri adiacenti di Piano Cascio e del Carmine. Sulla piazza si affaccia la Chiesa Madre ricostruita e ampliata sull’originario nucleo normanno. Il progetto per il recupero di questi tessuti storici è il primo vero intervento trasformazione urbana alla scala della città, dopo quelle realizzate in epoca tardo medievale. Gli interventi, pur essendo separati tra loro concorrono alla creazione un unico progetto urbano che investe per estensione tutto il centro storico. La scala di progetto varia in continuazione dalla sistemazione urbana al dettaglio puntuale. Il percorso principale si snoda dalla piazza bassa fuori le mura alla piazza alta della Chiesa ed è costituito da un sistema di nodi che mediano i rapporti con le vie trasversali e gli spazi pubblici esi- stenti. Il progetto consiste nella reciproca trasformazione della piazza e della chiesa. Il disegno della piazza si configura attraverso la conversione degli effetti negativi del terremoto in elementi di rifondazione della città scegliendo di ricostruire la Chiesa solo per sottrazione, liberandola dalle superfetazioni e facendo leggere lo spazio originario attraverso l’orma lasciata dalle rovine. Gli elementi di spolio della chiesa sono ricollocati lungo le due direttrici del colonnato, in posizioni esterne nello spazio laico, mentre lo spazio della piazza civica si estende dentro il recinto della chiesa e trova il suo nuovo sfondo nella sezione del transetto e dell’abside. Il quartiere del Carmine già gravemente danneggiato prima del terremoto poiché aveva subito, negli anni, un graduale processo di abbandono, all’indomani del sisma viene perimetrato e reso inagibile per questioni di sicurezza. Questo evento traumatico, conduce l’Amministrazione Comunale e i progettisti incaricati del recupero a formulare un progetto di radicale rifondazione del luogo. Il risanamento del quartiere viene concepito in funzione della creazione di un parco urbano nella città, a partire dalla rivitalizzazione di un frammento di tessuto storico. L’Amministrazione propone, infatti, di trasformare il Carmine nel giardino comunale di Salemi, spazio di cui la città è completamente carente. Il progetto, a partire da questa richiesta, ridisegna la geografia del quartiere utilizzando il tessuto esistente come naturale risorsa per la sua trasformazione, cioè come grande cava di materiali da spolio. Il progetto mette a punto un sistema di demolizioni puntuali che consente di trasformare il sito in un unico grande spazio pubblico convertendo i muri diruti delle case in bastioni di giardino, in balaustre di terrazze, in recinti. Il frammento e la rovina che facevano parte di un sistema che si è modificato nel tempo costruiscono gli elementi di partenza per comporre un’opera nuova. 1 2 4 3 5 373 sisteMi-Città sARAGoZZA, sPAGNA 1 2 3 4 5 itinerario dei musei di Cesaraugusta A Museo del Foro romano, J.M. Pérez Latorre, 1995-98 (figg. 1-3) b Teatro di Cesaraugusta e Museo, Soprintendenza dei Beni archeologici, 19992003 (figg. 4-6) C Museo del Porto fluviale d Museo delle Terme A Committente: Municipalità di Saragozza C Estensione: 120 ettari Bibliografia b ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI C. Aguarod, R. Erice, Caesaraugusta, cuatro temas para un solo contexto urbano, iii Congreso Internacional sobre Musealización de Yacimientos Arqueológicos, Zaragoza 2004. 374 d S. García, R. 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I luoghi degli scavi vengono messi a sistema costituendo un percorso archeologico intrecciato agli spazi pubblici della città. L’itinerario chiamato la Ruta de Caesaraugusta, è scandito da quattro tappe principali: il foro, le Terme pubbliche, il Porto fluviale e il Teatro. Tra il 1995 e il 2003 vengono aperti al pubblico questi quattro luoghi espositivi che nel complesso documentano un notevole patrimonio archeologico. Al di là del linguaggio architettonico utilizzato nella realizzazione dei singoli musei, che come nel caso del Museo delle Terme riutilizzano edifici esistenti o in quello del Teatro costituiscono un sistema di copertura protettiva delle rovine, i quattro edifici sono concepiti in maniera coerente e unitaria dal punto di vista della fruizione e della integrazione relazionale con la città. In tutti e quattro i casi vengono infatti utilizzati gli stessi criteri di musealizzazione, la stessa impostazione scientifica e divulgativa delle informazioni e lo stesso grado di accessibilità urbana. Vengono utilizzati brani di città contemporanea allestiti in maniera coerente per spostarsi da un Museo all’altro secondo un unico processo conoscitivo, che consente la comprensione della città romana spostandosi e utilizzando gli edifici della città moderna che ne svelano e ne tutelano le tracce. L’intervento più significativo dal punto di vista architettonico è costituito dal Museo del foro. L’area, scavata tra il 1988 e il 1991, rivela la costruzione di due fasi sovrapposte. Alla prima corrispondono i resti delle strutture del mercato, alla seconda appartengono le strutture del foro e del suo ampliamento. Il progetto di Peréz-Latorre prevede la realizzazione di un edificio che, collocandosi sulla piazza principale, convogli i visitatori nel livello ipogeo. L’edificio è composto da un grande volume che, con struttura in acciaio rivestito parzialmente in lastre di onice poggiato su un basamento, raggiunge l’altezza complessiva di 10 metri dal piano di calpestio della piazza. L’accesso a questa quota sopraelevata permette di iniziare il tragitto verso la rovina, la cui visita è strutturata in più livelli, seguendo la stratigrafia propria del sito dalla quota della città a quella che accoglie i resti del foro dell’età augustea. 6 375 Nodi siRACusA, itAliA isola di ortigia Piano Particolareggiato di Ortigia. Tutela dei centri storici e norme speciali per il quartiere di Ortigia e per il centro storico di Agrigento, G. Pagnano, 1990 A A Basilica Paleocristiana di San Pietro, E. fidone con: A. Troia e S. nastas, archeologia: L. Guzzardi e E.f. Castagnino Berlinghieri C b Giardino di Artemide e Padiglione accesso scavi Artemision (figg. 1-4) ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI C Corte dei Bottari, V. Latina, con: S. Sgariglia, coll.: V. Mangione, L. Sipala, C. Speranza, A. forte, u. Caniglia e f. Tantillo, archeologia: G. Voza, strutture: n. Impollonia, impianti: studio associato di progettazione igen, geologia: M. Giompapa (fig. 5) 376 b Committente: Comune di Siracusa, Assessorato al Centro storico, Curia Arcivescovile di Siracusa, Programma Legge 433/1991 Regione Siciliana, dipartimento Protezione Civile Estensione: 45 ettari Bibliografia E. fidone, Basilica paleocristiana di San Pietro, “Casabella”, 780, 2009. V. Latina, Siracusa. Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision, in G. Ciotta (a cura di), Archeologia e Architettura, Aión, Genova 2009 M. Orlando, Il ruolo dei sistemi informativi territoriali nel processo di recupero dei centri storici, franco Angeli, Milano, 2007 f. Venezia, 21 febbraio 2012, “Casabella”, 814, 2012. La città di Siracusa, nel suo nucleo originario continuativamente abitato dal xiv secolo a.C., occupa l’isola di Ortigia (alla quale l’insediamento si ridusse e rimase circoscritto fino alla fine dell’800) che, unita alla terraferma da due ponti, è la sintesi di straordinari eventi millenari sedimentati nel tempo. La città fu fondata nel 734-33 a.C. da coloni greci e dall’isola si espanse sulla terraferma con i quartieri di Acradina, Tyche e neapoli, circoscritti dalle mura di dionisio ii. dopo la conquista romana nel 212 a.C. furono abbandonate le mura dioni- giane, ma gli altri quartieri, sopravvissero e, nei secoli, il tessuto urbano continuò a ricalcare quello greco. Sulla archeologia classica (rovine di templi, acropoli, teatri, fortificazioni) sono stati costruiti i monumenti normanni, bizantini e barocchi (come nel caso del Tempio di Apollo trasformato in moschea e poi in chiesa o del Tempio di Atena trasformato in epoca bizantina nell’attuale duomo). In epoca moderna la città si sviluppa verso i comuni limitrofi mentre nel centro storico inizia un processo di abbandono e degrado fisico e sociale. negli anni ‘80 viene elaborato un Piano Particolareggiato di Recupero per Ortigia per invertire questo processo a partire dalle potenzialità del patrimonio storico-archeologico diffuso, da riconvertire e per favorire lo sviluppo del turismo, del commercio e della cultura. Il piano di Giuseppe Pagnano avvia una azione di rivitalizzazione capillare del centro sia dal punto di vista metodologico, gli interventi sono individuati sulla base di analisi dettagliatissime, sia rispetto al recupero degli edifici individuati come nuovi contenitori. Il piano avvia un processo che, con l’Assessorato al Centro storico, realizzerà gli interventi previsti e consentirà l’accesso a sistemi di finanziamento per opere complesse (urban). dal 2000 l’Amministrazione lavora all’aggiornamento del piano particolareggiato, approvato nel 2008 e coordinato da Claudio Mastriani. In questo contesto si inseriscono interventi puntuali ma in grado di innescare un processo di tutela e fruizione del patrimonio. Il progetto di Emanuele fidone nella Basilica di San Pietro, ripristina il rapporto tra il monumento e la città attraverso un intervento nel quale le nuove relazioni sono evidenziate da soluzioni progettuali che distinguono il restauro dagli elementi di nuova concezione. Il sistema di micro interventi realizzati da Vincenzo Latina, che nasce da un insieme di progetti previsti dal piano, cerca di individuare nelle faglie di discontinuità del tessuto urbano gli ambiti di degrado su cui intervenire con azioni minimali, in continuità con la trasformazione e rigenerazione della città. nel giardino di Artemide si recuperano le potenzialità dell’area con la demolizione delle superfetazioni e il riuso di frammenti come materiale per la nuova costruzione, determinando un palinsesto in cui operare tra preesistenze e nuovo. Il padiglione di accesso agli scavi del Tempio Ionico, concepito come un monolite di calcare duro sospeso sulle vestigia sotterranee del Tempio Ionico e posto in adiacenza all’Athenaion realizza, mediante lo scavo archeologico, il collegamento con l’area dei sotterranei e ricostruisce il fronte urbano su via Minerva. 1 2 3 4 5 377 seleZioNe biblioGRAFiCA sui teMi dell’ARCHeoloGiA e del PRoGetto uRbANo SELECTEd BIBLIOGRAPHY On THE SuBJECT Of ARCHAEOLOGY And uRBAn dESIGn SELEZIOnE BIBLIOGRAfICA a cura di edited by R. dubbini e f. Morgia 378 AA.VV., Archeologia urbana e progetto di architettura, Gangemi, Roma 2002. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. C. Aymonino, L’antico come materiale di progettazione, in f. Perego (a cura di), Anastilosi. L’antico, il restauro, la città, Laterza, Roma-Bari 1986. G. Azzena, Il territorio. Sistemi di comunicazione e infrastrutture, in P. 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Archeologo, professore associato di Topografia Antica e cofondatore del Laboratorio gis per la Pianificazione ambientale e la Storia del territorio presso il dipartimento di Architettura, design urbanistica dell’università di Sassari, è stato Soprintendente della Sardegna nel 2007-08. Sviluppa indagini scientifiche definendo sintesi cartografiche storico-archeologiche funzionali alla tutela dei beni culturali. Consulente per gli scavi giubilari dei fori Imperiali; membro della commissione per il Progetto del sit Archeologico della Provincia di Roma; coordinatore del gruppo del Piano di gestione del sito unesco del Su nuraxi di Barumini; componente della commissione Stato/Regione per l’adeguamento dei Piani urbanistici Comunali al ppr della Sardegna; della commissione per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori e del gruppo di lavoro interministeriale per l’archeologia preventiva. nOTIZIE SuGLI AuTORI Sezioni e testi 380 Alessandra Capuano (Milano,1958). Architetto, ha studiato a Roma (università Sapienza Laurea, phd e Postdoc) e a new York, dove è stata fulbright fellow per un md in Historic Preservation (Columbia university). Insegna Progettazione architettonica e urbana alla Sapienza università di Roma, dove dirige il Laboratorio di Ricerca “LaGraTe – unità di Ricerca Paesaggi. Città, natura, infrastrutture” nel dipartimento di Architettura e Progetto (diap). È coordinatrice e responsabile scientifico di ricerche nazionali e membro della Chaire unesco en environnement et paysage dell’università di Montréal. È membro della Giunta del diap e delegata per la Ricerca. È coordinatrice del Corso di lm in Progettazione Architettonica e urbana e membro del collegio docenti del dottorato in “Paesaggio e Ambiente” e del Master “Architettura per l’archeologia. Progetti di valorizzazione del patrimonio culturale”. È stata cofondatrice dello studio di architettura urbanlab di Roma. Tra le sue pubblicazioni: Temi e figure dell’architettura romana 1944-2004, 2005; Iconologia della facciata nell’architettura italiana, 1995; co-autrice dei volumi Il Parco e la Città. Il territorio storico dell’Appia nel futuro di Roma, 2013; Roma città mediterranea, 2007; Il “realismo costruttivo” per una banca moderna, 1996; Italia gli ultimi trent’anni. Guida all’architettura moderna, 1988. Marcello barbanera (Montegabbione, 1961). Archeologo, insegna Archeologia e Storia dell’arte greca e romana all’università di Roma Sapienza. Studi a Parigi (La Sorbonne), Berlino (fondazione von Humboldt, freie universität) e a new York (Columbia university). Visiting professor all’Ecole des Hautes Etudes e Institut d’Histoire de l’Art di Parigi. È stato Kress Lecturer per l’Archaeological Institute of America nel 2008 e Fellow del Morphomata Kolleg di Colonia nel 2012-13. Si occupa di storia dell’archeologia, scultura greca, metodologia della storia dell’arte, storia del collezionismo, archeologia della Magna Grecia, museografia, ricezione dell’antico e definizione di arte nella società greca. Tra le sue pubblicazioni: Il Guerriero di Agrigento, 1995; L’Archeologia degli Italiani, 1998; Ranuccio Bianchi Bandinelli, 2003; Original und Kopie, 2006; Collezione di antichità di Palazzo Lancellotti ai Coronari, 2008; Relitti riletti, 2009; Originale e copia nell’arte antica, 2011; Il Museo impossibile, 2012; The Envy of Daedalus, 2013. Pasquale Miano (napoli, 1957). Architetto, insegna Progettazione Architettonica e urbana presso la facoltà di Architettura dell’università degli Studi di napoli federico ii. dal 2004 fa parte del Collegio dei docenti del dottorato di Ricerca in Progettazione urbana e urbanistica. È docente al Master msc design of Steel Structures presso la facoltà di Ingegneria, al Master Internazionale Progettazione d’eccellenza per la città storica presso la facoltà di Architettura e alla Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, nonché coordinatore di diversi progetti di ricerca. È autore di numerose pubblicazioni riguardanti i temi del progetto urbano e di diversi progetti e realizzazioni di opere pubbliche. Federica Morgia (Roma, 1969). Architetto e phd in composizione architettonica, dal 1998 al 2000 svolge un periodo di perfezionamento in Spagna presso la etsam di Madrid con Juan navarro Baldeweg. nel 2000 costituisce lo studio Officina5_Architetti Associati nel quale svolge attività di ricerca professionale. Tra i principali concorsi di architettura la nuova Sede iuav, la nuova Sede asi con Enric Miralles, il Prototipo per una Scuola Mobile in Argentina, il Parco della memoria a San Giuliano di Puglia, il Padiglione Italia expo 2015 Milano. nel 2008 è curatrice della mostra internazionale peacebuilding, Casa dell’Architettura, Roma. dal 2012 lavora, come assegnista di ricerca, presso il dipartimento di Architettura e Progetto, facoltà di Architettura Sapienza di Roma. È autrice di numerosi saggi, articoli su riviste e libri tra i quali: Catastrofe: istruzioni per l’uso, 2007; Enric Miralles Benedetta Tagliabue, 2010. Fausto Carmelo Nigrelli (1962). Specializzato in Architettura urbana all’Ecole d’Architecture de Paris Belleville, dottore di ricerca in Pianificazione urbana e Territoriale, è professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica presso l’università di Catania, Struttura didattica Speciale di Architettura con sede in Siracusa. È stato componente del Comitato Tecnico Scientifico del Parco fluviale dell’Alcantara e, fino a giugno 2013, vicepresidente nazionale dell’Associazione Beni italiani patrimonio unesco. È giornalista pubblicista. Tra le attività sperimentali ha coordinato il Gruppo di Consulenza Scientifica dell’università di Catania per la redazione dei Piani paesaggistici del territorio della provincia di Siracusa e ha fatto parte di quello per la redazione dei Piani paesaggistici del territorio della provincia di Enna. dal 2009 è componente del comitato scientifico della collana Millepiani/urban. urbanesimo, Architettura, Estetica della casa editrice Eterotopia, Milano. La sua attività di ricerca riguarda di progetto urbano, paesaggio e patrimonio territoriale, piccole città, governance dei territori, pianificazione e turismo. Ha pubblicato, tra l’altro, i volumi: Piazza Armerina. Dalla Villa al Parco. Studi e ricerche sulla Villa romana del Casale e l’alto corso del fiume Gela, 2010; I piani paesaggistici della provincia di Enna, 2009; Il senso del vuoto. Demolizioni nella città contemporanea, 2005; Metropoli immaginate, 2001; Percorsi del progetto urbano in Francia e in Italia 1960 - 1997, 1999. Marcello sèstito (Catanzaro Lido, 1956). Architetto, insegna Composizione architettonica e urbana nella facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Collabora alla domus Accademy con Pierre Restany, conseguendo il Master in Car design. È redattore di “d’ars” dal 1986. I suoi interessi vertono sull’esplorazione di strutture mentali e aspetti precognitivi legati alla formulazione d’Arte e d’Architettura. È impegnato alla realizzazione della Biennale del Mediterraneo, baam, a Reggio Calabria di cui è direttore del settore architettura. Tra le realizzazioni: la sede della fondazione Mimmo Rotella a Catanzaro, il recupero dell’ex casa circondariale di Cittanova come nuova sede del Museo dell’ulivo, e la nuova piazza a Taurianova. Progetta il Masterplan per l’area del Centro direzionale del Ponte sullo Stretto di Messina. È ideatore e curatore della Mostra: nostos, Il ritorno, dedicata ai Bronzi di Riace 2014, per il Museo Archeologico nazionale di Reggio Calabria. Tra le pubblicazioni, Alfabeti d’Architettura, 1994; Il Gorgo e la Rocca, tra Scilla e Cariddi territori della mente, 1995; Colonne Stilate, 1995; Architetture Globali, Solidi Fluidi o del comporre retto e curvo, 2002; Architettura & Jason, 2004; L’architettata mano, Pentedattilo palmo di pietra, 2004; Saul Greco, Lo Scatto angolare, 2007. Alessandra badami (Palermo, 1967). Architetto, phd in Pianificazione urbana e Territoriale, è Ricercatore in urbanistica presso il dipartimento di Architettura della Scuola Politecnica dell’Ateneo di Palermo. Coordinatore del Master di ii livello in Marketing Territoriale. Coordinatore scientifico e componente di gruppi di ricerca in progetti cofinanziati dalla ue, dal cnr, dal miur e dall’Ateneo di Palermo. È progettista del Progetto Creative lab Alcamo, per la promozione del patrimonio culturale, dell’identità locale e delle arti conteporanee. È coordinatore scientifico e componente di gruppi di ricerca in progetti cofinanziati dalla ue, dal cnr, dal miur e dall’Ateneo di Palermo. Tra le recenti pubblicazioni: Polirisk. Politiques comparèes: patrimoine, aménagement et risques naturels, 2008; Città nell’emergenza, 2008; Metamorfosi urbane, 2012. Jerneja batič (Lubiana, 1957). Si occupa di tutela del patrimonio culturale, presso l’Istituto per la Protezione dei beni culturali della Slovenia. Ha istituito un sistema per la promozione del patrimonio culturale e ha lavorato presso il Ministero della Cultura della Slovenia sulle questioni sistemiche e legislative in materia di beni culturali. Ha lavorato sull’attuazione della Convenzione del traffico illecito di beni culturali, e alla Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo. Presso il Comune di Lubiana ha diretto l’Assessorato alla Cultura. Recentemente si è dedicata a progetti quali la creazione e la gestione di un nuovo Centro dell’Arte nell’ex fabbrica Rog a Lubiana, il restauro del museo nella Casa di Plečnik, la rivitalizzazione di siti archeologici a Lubiana. da dieci anni è membro attivo di icom Slovenia e del relativo comitato esecutivo. Roberto busonera (Sassari,1985). Architetto, assegnista di ricerca per il progetto Creazione e attivazione del polo sardo della rete informatica nazionale per la costruzione collettiva del WEB GIS del patrimonio archeologico italiano presso il dipartimento di Architettura, design e urbanistica dell’università di Sassari. dal 2011 è iscritto alla scuola di dottorato in Architettura e Pianificazione e all’albo dei cultori della materia in Topografia Antica. Collabora con il laboratorio Prosit, affrontando temi di ricerca relativi alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, all’architettura del paesaggio e alla pianificazione territoriale. Ha partecipato a numerosi workshop tra cui, nel 2011, il workshop internazionale dell’unesco Il parco e la città, Il territorio storico dell’Appia nel futuro di Roma e approfondito le tematiche di ricerca presso il laboratorio Architecture, Culture, Société dell’Ecole nationale Supérieure d’Srchitecture Paris-Malaquais di Parigi. Angelo Cannizzaro (Modica,1974). Architetto e urban Manager, phd in Pianificazione e Progettazione della Città Mediterranea, esperto in Analisi e Progettazione del Paesaggio Archeologico e dei Musei e in Management degli Enti Locali. Con Renato nicolini ha svolto attività di ricerca in ambito nazionale ed internazionale nei campi del recupero del patrimonio storico, della riqualificazione urbana e della valorizzazione del paesaggio. Ha insegnato Progettazione urbana alla facoltà di Architettura di Reggio Calabria. nel 2008 insieme ad alcuni colleghi ha fondato Mediterranean Planners, rete di urban Thinkers di nuova generazione finalizzata alla promozione di una nuova cultura urbanistica mediterranea. lucina Caravaggi (Roma,1957). Architetto, docente di Architettura del Paesaggio presso la facoltà di Architettura, Sapienza università di Roma, fa parte del dipartimento Architettura e Progetto, Laboratorio Architettura e Contesti; ha svolto con continuità attività di ricerca e di progettazione muovendo dalla centralità dei temi ambientali e paesistici e coordinando ricerche nazionali e internazionali, piani e progetti di rilevanza territoriale e paesaggistica. Tre le pubblicazioni recenti: Lo svincolo e la Biodiversità, 2012; Ricostruzione di territori – Progetti a supporto dei Comuni di Ovindoli, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio, Lucoli nella Provincia di L’Aquila, 2011; Interporto Roma Fiumicino, prove di dialogo tra archeologia, architettura e paesaggio (con O. Carpenzano), 2008; Linee guida per la progettazione integrata delle strade nel paesaggio della Regione Emilia-Romagna (con S. Menichini), 2007. Maurizio Carta (Palermo, 1967). Ingegnere, professore ordinario di urbanistica presso il dipartimento di Architettura di Palermo, dove insegna progettazione urbanistica e pianificazione territoriale. È Presidente vicario della Scuola Politecnica e direttore vicario del dipartimento di Architettura. Esperto di pianificazione urbana e territoriale, pianificazione strategica e rigenerazione urbana, ha redatto piani urbanistici, piani paesaggistici e piani strategici. Per le sue ricerche è invitato a tenere lezioni e conferenze in numerose università ed istituzioni italiane ed estere. È autore di più di 200 pubblicazioni, tra le più recenti: Creative City, 2007; Governare l’evoluzione, 2009; Reimagining Urbanism, 2013. dirige la collana di pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica Città e Territorio pubblicata da Alinea. Francesco Cellini (Roma, 1944). Architetto, professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Terza università di Roma dove è stato Preside della facoltà di Architettura. Redattore della rivista “Controspazio”, ha collaborato come allestitore e come curatore con il settore di architettura della Biennale di Venezia e con i settori arti visive e cinema. Attualmente fa parte del comitato di redazione della rivista “Casabella”. È membro dell’Accademia nazionale di San Luca dal 1993. Ha ricevuto nel 1996 il Premio dal Presidente della Repubblica per l’Architettura. È autore di numerosi progetti condivisi prevalentemente con nicoletta Cosentino intesi come monito di sintesi di tematiche diverse quali storia, figuratività, impiantistica, struttura ecc. Pippo Ciorra (formia, 1955). Architetto, critico e professore, dopo la curatela della mostra di apertura Spazio, nel maggio del 2009, è Senior Curator per il maxxi Architettura di Roma. È adviser per il premio Medaglia d’oro dell’architettura italiana della Triennale di Milano e per il Mies van der Rohe Award della fondazione mvdr. Collaboratore di recensioni e stampa è membro del comitato di redazione di “Casabella”. Autore di numerosi libri, tra i quali: Ludovico Quaroni 1911-1987, 1989; Botta, Eisenman, Gregotti, Hollein: Musei, 1991; Peter Eisenman, 1993; Nuova architettura Italiana, 2000; La metropoli dopo, 2002; I musei dell’Iperconsumo, 2004; Musei, Next Generation, 2006. Ha curato e progettato mostre in Italia e all’estero. Tra le principali, Re-cycle. Strategie per l’architettura della città e il pianeta; Energy. architettura e reti del petrolio e del post-petroli; Erasmus Effect e YAP MAXXI, un programma internazionale per giovani architetti. Alessandra Criconia (Roma, 1963). Architetto, phd in Composizione Architettonica, ricercatore universitario, membro del Collegio dei docenti del dottorato Architettura Teorie e Progetto, svolge attività didattica e di ricerca nel settore della Progettazione Architettonica e urbana. Campo di studio è la città diffusa e le strategie del progetto complesso con specifico interesse per Roma e le sue periferie. Ha partecipato a progetti di ricerca nazionali e di ateneo con ruoli di coordinamento scientifico. Attualmente è responsabile scientifico della ricerca surfas 2030 (Strategie urbane, Reti, forme dell’abitare sostenibile) sui modi in cui i luoghi della mobilità costruiscono nuovi spazi pubblici ad 381 alta qualità urbana. È autrice e curatrice dei libri tra cui L’architettura dei musei, 2011; La qualità dell’urbano, 2010; Architetture dello Shopping; Modelli del consumo a Roma, 2007; Corpi dell’architettura e della città. Mutazioni, 2003. nOTIZIE SuGLI AuTORI Marco dezzi bardeschi (firenze, 1934). Professore ordinario di Restauro Architettonico alla facoltà di Architettura Civile al Politecnico di Milano, dove ha fondato e diretto il dipartimento per la Conservazione delle Risorse architettoniche e ambientali. Si laurea in Ingegneria Edile a Bologna nel 1957 e in Architettura a firenze nel 1962. Allievo e collaboratore di Giovanni Michelucci e di Piero Sanpaolesi. È stato presidente del Comitato italiano icomos dal 2003 al 2007, ha promosso e organizzato la Terza Mostra Internazionale del restauro monumentale, (dal Restauro alla Conservazione). Accademico delle Arti del disegno a firenze, ha fondato e diretto le riviste: “necropoli” (1969-71), “Psicon” (con Eugenio Battisti e Marcello fagiolo, (1974-76) e “Ananke, cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto”. 382 Giovanni durbiano (Torino,1966). Architetto e urbanista, è professore ordinario di Progettazione architettonica al Politecnico di Torino. I suoi ambiti di ricerca riguardano Storia e Teoria, Progettazione urbana, Restauro Architettonico. Molti dei suoi progetti riguardano gli spazi pubblici come il Parco archeologico di Torino e la piazza centrale di nichelino. Tra i progetti di Restauro, la Certosa di San francesco ad Avigliana del xvi secolo. Tra i Piani urbani, quello per la città di Pino Torinese. Molti di questi progetti sono stati pubblicati nelle maggiori riviste di architettura italiane (Casabella, Abitare, Controspazio, Il giornale dell’Architettura, Aion). Tra le sue pubblicazioni: I Nuovi Maestri. Architetti tra politica e cultura nell’Italia del dopoguerra, 1999; Paesaggio e Architettura nell’Italia contemporanea, 2002; Etiche dell’intenzione. Ideologia e linguaggi dell’architettura, 2014. Alberto Ferlenga (Castiglione delle Stiviere, 1954). Architetto, è stato redattore di Lotus International e di Casabella. nel 1985 ottiene il Leone di Pietra della Biennale di Venezia. Professore ordinario di Progettazione a napoli e poi presso lo iuav di Venezia, dirige la Scuola di dottorato. È ideatore del seminario e del dottorato Villard. Ha insegnato in numerose università straniere. nel 2000 fonda il raggruppamento di progettazione naomi. che ha attualmente in corso di esecuzione il Piano di Riqualificazione del Comune di Castiglione delle Stiviere e la Scuola elementare di Mirandola. Tra le sue pubblicazioni: le monografie su Aldo Rossi e Dimitri Pikionis, e l’Architettura del Novecento (con M. Biraghi). Ha vinto concorsi e realizzato opere pubblicate sulle principali riviste di architettura. nel 2012 ha curato la mostra L’architettura del mondo, per la Triennale di Milano di cui è responsabile per il settore architettura. Alberto Fiz (Torino, 1963). Giornalista, direttore artistico del museo marca di Catanzaro. Critico d’arte, curatore di mostre e giornalista specializzato in arte e mercato dell’arte. È art advisor di Intesa Sanpaolo Private Banking. fa parte del comitato scientifico della fondazione Mimmo Rotella. dal 1999 al 2002 è direttore della fondazione Bandera per l’Arte di Busto Arsizio. dal 2002 al 2004 è consulente della Regione Valle d’Aosta dove ha gestito gli spazi del Museo Archeologico Regionale e del Centro Saint-Bénin. nel 2005 collabora con la Provincia di Catanzaro ideando e realizzando il progetto di scultura Intersezioni nel Parco Archeologico di Scolacium. dal 1994 si occupa delle pagine di arte del settimanale Milano finanza. Collabora per i mensili Capital, Gentleman e per il Giornale dell’Arte. daniela Gianpaola (napoli,1963). Archeologa, è direttrice della Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di napoli e Pompei con particolare riferimento al centro storico di napoli. dirige gli scavi archeologici preliminari alla realizzazione delle stazioni università, dante, diaz, duomo, Garibaldi, Municipio, della Linea 1 della Metropolitana di napoli. Cura l’allestimento di numerose mostre sui temi dell’archeologia. Ha insegnato presso l’università Orientale di napoli e l’università degli Studi di napoli federico ii. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli su scoperte archeologiche a napoli e in Campania. Pietro Giovanni Guzzo (Weihsien,1944). Archeologo, laureato a Roma e specializzato ad Atene, è studioso di fama internazionale. È stato Soprintendente Archeologo della Soprintendenza Speciale di Pompei e successivamente di napoli e Pompei, Calabria, Roma, Taranto, Bologna. docente presso primarie università italiane, ha collaborato alla ricostruzione del terremoto del 1980 in Campania e Basilicata, ha diretto gli scavi archeologici di Sibari, il Museo nazionale Romano, il Colosseo. Il suo interesse è rivolto alla storia delle istituzioni di tutela intese come matrice non solo della protezione dei monumenti, ma anche come sede iniziale di elaborazione critica per la storia dell’antichità nel nostro Paese. È stato Presidente del Comitato di settore per i Beni archeologici. nel 2009 ha vinto il prestigioso Premio dei Lincei all’Archeologia. Ha pubblicato numerosi saggi su scoperte archeologiche e interpretazione storica. Mazen Haidar (Beirut,1979). Architetto, si occupa di restauro dei monumenti e di patrimonio, si è laureato all’università Sapienza di Roma. Tra i suoi progetti il Museo di Beit Beirut, il Museo della Memoria e gli ex locali del quotidiano “L’Orient”. docente presso la American university of Beirut e la Lebanese American university, dal 2013 è direttore associato della Scuola d’Architettura alla Académie Libanaise des Beaux Arts (alba). Ha scritto numerosi articoli pubblicati in diverse lingue e su vari giornali specialistici. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: Città e memoria, Beyrouth, Sarajevo, Berlino. Ferruccio izzo (Losanna, 1960). Architetto, professore associato di Composizione architettonica e coordinatore del Master di ii livello in Progettazione per la Città Storica presso l’università degli Studi di napoli federico ii. Ha lavorato negli studi di W.Blurock, E.Catalano, R.Meier e d.Chipperfield. Ha insegnato alla London Metropolitan university ’92/96, alla Cambridge university ’95/96, alla facoltà di Architettura di Alghero ’02/03, alla Technische universitat di Vienna ’10/12. nel 1994 fonda lo Studio Alberto Izzo & Partners. L’attività di ricerca ha interessato i temi del progetto urbano e della rigenerazione della città storica europea. Tra le architetture realizzate si menzionano l’Albergo a Gricignano d’Aversa 2006; la Scuola Materna a Vicenza 2004; la Cittadella Giudiziaria a Salerno 1999, con david Chipperfield. daniele Manacorda (Roma, 1949). Archeologo, insegna Metodologia della ricerca archeologica presso l’università Roma Tre ed è attualmente distaccato presso il Centro interdisciplinare Beniamino Segre dell’Accademia dei Lincei. Ha diretto per molti anni gli scavi della Crypta Balbi a Roma e dell’acropoli di Populonia in Toscana, coordinando il progetto dei relativi Musei. Le sue ricerche riguardano gli aspetti metodologici dell’indagine archeologica, in particolare nei contesti urbani e nei rapporti fra l’archeologia e le altre discipline. Tra le pubblicazioni più recenti si ricordano: Dizionario di archeologia, 2000; Il sito archeologico fra ricerca e valorizzazione, 2007; Lezioni di archeologia, 2008; arch.it.arch. Dialoghi di archeologia e architettura 2005-2006, 2009; Il primo miglio della via Appia a Roma, 2010; Le fornaci di Giancola a Brindisi, 2012. vito Martelliano (Siracusa, 1969). Ingegnere edile, è dottore di Ricerca in Progetto e recupero architettonico, urbano e ambientale presso l’università degli Studi di Catania e docteur en Architecture presso l’université de Paris viii. Ha svolto attività di ricerca presso il laboratorio acs, Architecture, Culture, Sociétés xix-xxi siècles dell’Ecole d’Architecture de Paris-Malaquais, francia. Già titolare di assegno di ricerca biennale sul tema della pianificazione paesaggistica, dal 2005 è docente a contratto presso l’università degli Studi di Catania dove attualmente tiene l’insegnamento di Progettazione urbana. È autore di pubblicazioni inerenti la storia urbana, la progettazione urbanistica e la pianificazione del paesaggio. Quale esito di una ricerca interdisciplinare sugli spazi del welfare ha curato, con S. Munarin, la pubblicazione del libro Spazi, storie e soggetti del welfare, 2012. Francesco Martinico (Palermo, 1962). Ingegnere edile, professore associato di Tecnica e Pianificazione urbanistica nell’università degli Studi di Catania, vice presidente della Scuola di Architettura a Siracusa. fa parte del gruppo di promotori del dottorato di Analisi, Pianificazione e Gestione integrate del territorio, avviato dal xix ciclo nell’università di Catania, nel quale è stato componente del Collegio docenti. I suoi interessi di ricerca comprendono la pianificazione degli insediamenti produttivi, le aree metropolitane la pianificazione strategica e paesaggistica. È stato responsabile scientifico delle convenzioni di ricerca per il Piano Provinciale di Siracusa e per il prg di Catania. È responsabile della Convenzione per il prg di Avola. Ha coordinato i gruppi di lavoro del Piano paesaggistico Regionale Siracusa ed Enna. È autore e curatore di pubblicazioni internazionali e di monografie tra le quali Il Territorio dell’industria. Pedro Mateos Cruz (Mérida,1962). Archeologo, laureato presso l’università Rovira i Virgili di Tarragona. Svolge la sua tesi di dottorato sul tema dell’ubanistica Tardoantica di Augusta Emerita. nel 1993 ricopre il ruolo di Coordinatore degli Scavi Archeologici di Mérida, è direttore Generale e Responsabile Scientifico del Consorzio di Mérida. dal 2000 è Ricercatore di ruolo nel Consiglio Superiore di Ricerca Spagnolo (csic) e nello stesso anno entra a far parte dell’Istituto di Archeologia di Mérida di cui diventa direttore. Attualmente svolge attività di ricerca sul tema della architettura pubblica in epoca romana come Responsabile Scientifico di numerosi progetti come quello sull’Arco Quadrifronte del foro Boario di Roma o sugli scavi archeologici della città di Contributa Iulia e partecipa a un progetto finanziato dall’unione Europea per lo studio dei Teatri romani nel Mediterraneo. È autore di numerosi libri e articoli in riviste di settore. Antonino Minniti (Motta San Giovanni, 1964). Architetto, ha usufruito nel 2004 di una Borsa di studio Regionale dal titolo: Da aree archeologiche a realtà: i rapporti territoriali tra paesaggio e archeologia. Ha collaborato per più di dieci anni con il professor Renato nicolini come assistente alla didattica ed è stato correlatore di diverse tesi di laurea sul tema della progettazione urbana e sui rapporti tra l’architettura e gli spazi dell’archeologia classica e industriale. Ha lavorato in Tunisia (nefta) nell’ambito di un programma di cooperazione culturale e presso lo iuav di Venezia come assistente alla didattica. Attualmente lavora presso uno studio professionale e si divide tra l’esperienze di scenografo, ricerca artistica e piccoli interventi di riqualificazione e ristrutturazione. Marco Navarra (Caltagirone, 1963). Architetto, insegna progettazione architettonica presso l’università di Catania. fondatore dello studio noWa, ha esposto progetti e ricerche alla Biennale di Venezia, alla Triennale di Milano, alla fondazione Mies van der Rohe, al cccb di Barcellona, al cca di Montreal. finalista di numerosi premi (European Prize for urban Public Space nel 2006 e al bsi Swiss Architectural Award nel 2008), ha vinto la medaglia d’oro per l’opera prima della Triennale di Milano nel 2003 e il Premio Gubbio 2006. I progetti dello studio noWa sono stati pubblicati su riviste di architettura italiane e internazionali (“Lotus”, “domus”, “Abitare”, “A+u”, “C3”, “Paiseia”, “A10”). Tra le pubblicazioni: Robert Adam, Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian at Spalato in Dalmatia, 1754, 2002; Repairingcities, 2008, Lo-fi: Architecture as curatorial practice, 2010. Renato Nicolini (Roma, 1942-2012). Architetto, è stato docente presso La Sapienza di Roma e professore ordinario di Progettazione Architettonica alla facoltà di Architettura di Reggio Calabria. dal ’76 all’85 è stato Assessore alla Cultura a Roma e dal ’94 al ’97 Assessore all’Identità a napoli; parlamentare Italiano e Presidente del Pala Expò di Roma. nel 1985 Jack Lang, per il merito di aver inventato nel 1979 l’Estate romana, lo nomina Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres della Repubblica francese. Il suo campo di ricerca, critico, progettuale ed espressivo ha incluso – oltre l’architettura e la città – la storia, l’arte, la letteratura, il teatro, ma anche il cinema, la televisione e i fumetti. Tra le principali pubblicazioni: Estate romana 1976-85. Un effimero lungo nove anni, 2011, PeramareNapoli, 2011, L’oro della memoria, 2011, Rottamare il degrado. Calabria da rigenerare, 2006. lilia Pagano (napoli,1959). Architetto, borsista nel 1988 presso il Laboratorio di urbanismo della etsab di Barcellona, nel 1990 è tra i vincitori del premio Cosenza. nel 1992 consegue il titolo di dottore di ricerca in Composizione Architettonica. Professore associato di progettazione e docente del dottorato in Architettura a napoli, dirige il Centro studiLaboratorio guaparc del lupt ed è coordinatore per napoli del Seminario internazionale Villard. Ha svolto attività di consulenza scientifica per Enti pubblici per importanti progetti di trasformazione di napoli (Zona industriale e periferie nella Variante al prg, Bagnoli-Coroglio, Manifattura Tabacchi). Tra le sue pubblicazioni: Architettura e centralità geografiche, 2012; Periferie di Napoli. La geografia il quartiere l’edilizia pubblica, 2001, 2012; Agostino Renna. Rimontaggio di un pensiero sulla conoscenza dell’architettura, 2012. Raffaele Panella (foggia, 1937). Architetto, professore ordinario di Progettazione Architettonica e urbana, ha insegnato presso lo iuav di Venezia e la facoltà di Architettura Sapienza di Roma. È fondatore con Aymonino e Canella del Gruppo Architettura. durante l’assessorato di Aymonino a Roma ha diretto quattro laboratori sulle problematiche del centro storico. Ha diretto il dipartimento di Architettura e Analisi della Città promuovendo lo sviluppo di ricerche di progettazione architettonica e urbana. È autore di saggi e monografie su Roma e il recupero dei centri storici, tra cui Roma Città e Foro, 1989, e Roma la città dei Fori, 2013. Ha realizzato opere di architettura a Pesaro, Matera, Abano, Città di Castello, Roma. Si occupa del progetto Sapienza di un Centro di Biotecnologie e Tecnologie avanzate a Pietralata e ha redatto il complesso universitario del navile di Bologna. Joseph Rikwert (Varsavia, 1926). Critico dell’architettura, storico e scrittore inglese, è docente di Architettura presso l’università della Pennsylvania. Ha insegnato in molte scuole di architettura del mondo, dall’università di Princeton a quella di Harvard fino all’Istituto di urbanistica di Parigi e all’università di Sydney. È autore di libri che hanno condizionato il pensiero mondiale sull’architettura, L’idea di città, 1963; La casa di Adamo in Paradiso, 1991; La seduzione del luogo. Storia e futuro della città, 2008; La colonna danzante. Sull’ordine in architettura, 2010. nel 2013 è stato insignito della Royal Gold Metal, premio annuale assegnato dal Royal Institute of British Architects (ribe). Fabrizio toppetti (Todi, 1964). Architetto, insegna Composizione Architettonica e urbana nella facoltà di Architettura dell’università “Sapienza” di Roma, svolge attività di ricerca presso il Laboratorio Grandi Temi del dipartimento di Architettura e Progetto della stessa università. È direttore del Master di ii livello in Progettazione Architettonica per il Recupero dell’Edilizia Storica e degli Spazi Pubblici e membro del Collegio dei docenti del dottorato di Ricerca interateneo in Paesaggio e Ambiente. dal 2005 è membro del Consiglio direttivo nazionale dell’Associazione nazionale Centri Storico-Artistici (ancsa). dal 2008 è nel Comitato di Redazione di “Rassegna di Architettura e urbanistica”. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Non è un Paese per architetti, 2012, Il Parco e la Città. Il territorio storico dell’Appia nel futuro di Roma (in coll.), 2013. Yannis tsiomis (Atene 1944). Architetto, di nazionalità francese e greca, vive e lavora a Parigi dal 1967. dal 1993 è professore ordinario presso l’Ecole nationale Supérieure d’Architecture de Paris La Villette dove si occupa di Teoria e pratica della concezione architettonica e urbana. dal 1995 è professore invitato all’università federale di Rio de Janeiro. dal 1998 è Visiting Professor alla Scuola Politecnica di Atene e dal 2004 è ricercatore invitato presso l’università La Sapienza di Roma dove è coinvolto in Progetti di Ricerca di Interesse nazionale (prin). È membro del consiglio scientifico della fondazione Le Corbusier (Paris). Ha redatto il progetto per la sistemazione dell’area archeologica di Atene. Tra le pubblicazioni: Villes, Cités. Des Patrimoines européens, 1998; Echelle et temporalité des projets urbains, 2007. 383 finito di stampare nel mese di novembre 2014 presso Industria Grafica Bieffe, Recanati (mc) per conto delle edizioni Quodlibet. STRATEGIE DEL PROGETTO URBANO CONTEMPORANEO PER LA TUTELA E LA TRASFORMAZIONE Il documento dell’UNESCO che ha definito il concetto di Paesaggio storico urbano mira a integrare il patrimonio e la sua vulnerabilità in un contesto più ampio, che è quello della crescita delle città, mettendo in stretta relazione gli aspetti della conservazione con quelli dello sviluppo e incoraggiando azioni trasversali tra i diversi attori che operano sul territorio. Il paesaggio, infatti, sta percorrendo, in termini di processo culturale, un cammino analogo a quel riconoscimento che negli anni ’70 ha portato a una diffusa considerazione nei confronti dei centri storici. La tutela dei centri storici però ha anche contribuito ad affermare un sentimento negativo nei confronti del modernocontemporaneo portando a preferire la conservazione passiva ed escludendo l’intervento contemporaneo nel cuore dei processi di trasformazione urbana. È necessario predisporre nuove strategie che puntino alla salvaguardia e valorizzazione delle aree archeologiche attraverso progetti urbani contemporanei, con la convinzione che sia possibile progettare lo spazio urbano e metropolitano in continuità con lo spazio archeologico. Il presente volume raccoglie contributi che rilevano le numerose aporie e resistenze ancora presenti in Italia, che ostacolano uno sguardo trasversale e integrato. I testi forniscono un quadro teorico di riferimento per lo studio di quattro casi (che sono oggetto di specifiche pubblicazioni) su cui si è studiato come operare queste risignificazioni: il Parco dell’Appia Antica, il Parco dei Campi Flegrei, la Magna Grecia e il Parco della Villa del Casale e del fiume Gela. Cinque diverse sezioni del volume - Tutela e reinvenzione, Margini e marginalità, Territorializzazioni, Risignificare i luoghi e Architettura per i paesaggi archeologici - rispondono secondo diversi punti di vista al tema di come restituire alle tracce del passato un ruolo nell’immaginario culturale urbano della città contemporanea. L’Atlante dei paesaggi archeologici fornisce attraverso una selezione di progetti significativi ulteriori possibili risposte al tema. L’Italia è disseminata di paesaggi in cui il rapporto tra archeologia, spazio urbano e natura, rappresenta un terreno materiale e concettuale per possibili sinergie fisiche e culturali. Se non dobbiamo guardare al classico come morta eredità, ma come qualcosa da riconquistare ogni giorno, l’archeologia può rappresentare un punto di partenza per definire nuovi valori relazionali, fondati sul riconoscimento di appartenenze e avvalorati dalla condizione di poter far parte simultaneamente dei processi culturali ed economici del passato e della contemporaneità. Il valore simbolico della storia e la coscienza del passato – che ricoprono un ruolo così importante nella cultura mediterranea – hanno invece spesso determinato una preoccupante e schizofrenica rigidità nei confronti della trasformazione dei luoghi, producendo un’anacronistica cesura spazio-temporale tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione. ISBN 978-88-7462-651-9 euro 40,00 PAESAGGI DELL’ARCHEOLOGIA, REGIONI E CITTÀ METROPOLITANE