PAESAGGI DI ROVINE
PAESAGGI
ROVINATI
LANDSCAPES OF RUINS RUINED LANDSCAPES
a cura di edited by
Alessandra Capuano
quodlibet studio
CITTÀ E PAESAGGIO
PAesAGGi dell’ARCHeoloGiA,
ReGioNi e Città MetRoPolitANe
strategie del progetto urbano contemporaneo
per la tutela e la trasformazione
PAesAGGi di RoviNe
PAesAGGi
RoviNAti
LAndSCAPES Of RuInS RuInEd LAndSCAPES
a cura di edited by
Alessandra Capuano
quodlibet
Città e PAesAGGio
collana a cura di Manuel Orazi
Questo volume è stato realizzato con il contributo dei dipartimenti sottoelencati e raccoglie i risultati
di un progetto PRIn 2009 - Programmi di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse nazionale
Comitato scientifico
Sara Marini, università iuav di Venezia
Gabriele Mastrigli, università degli Studi di Camerino
Stefano Catucci, Sapienza università di Roma
Luca Emanueli, università degli Studi di ferrara
PAESAGGI dELL’ARCHEOLOGIA, REGIOnI E CITTÀ METROPOLITAnE
Volume sottoposto a peer review
strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e la trasformazione
Coordinatore scientifico
Alessandra Capuano
Sapienza università di Roma, dipartimento di Architettura e Progetto, Laboratorio Grandi Temi
Collaborazione al coordinamento
federica Morgia
unITÀ OPERATIVE
SAPIEnZA unIVERSITÀ dI ROMA
dIPARTIMEnTO dI ARCHITETTuRA E PROGETTO
il caso-studio del Parco dell’Appia Antica nell’area metropolitana di Roma
Responsabile scientifico
Gruppo di ricerca
Gruppo operativo
Alessandra Capuano
fabrizio Toppetti (coordinamento), Alessandro Lanzetta, federica Morgia
davide Luca, Giulia Pettinelli, Valentina Sales, Eliana Strano, Alessia Zarzani
SAPIEnZA unIVERSITÀ dI ROMA
dIPARTIMEnTO dI SCIEnZE dELL’AnTICHITÀ
dalle rovine archeologiche alla musealizzazione
Responsabile scientifico
Gruppo di ricerca
Gruppo operativo
Marcello Barbanera
Rachele dubbini (coordinamento), Paolo Barresi, Maria Teresa Curcio,
Simone foresta
donato Alagia, Jessica Clementi
unIVERSITÀ dEGLI STudI dI nAPOLI “fEdERICO II”
dIPARTIMEnTO dI PROGETTAZIOnE uRBAnA E uRBAnISTICA
l’archeologia come infrastruttura del paesaggio: i Campi Flegrei
Responsabile scientifico
Gruppo di ricerca
Gruppo operativo
Pasquale Miano,
ferruccio Izzo, Lilia Pagano
Assunta Acone, Giorgia Aquilar, francesca Avitabile, Bruna di Palma,
Alberto Calderoni, Claudio finaldi Russo
unIVERSITÀ dEGLI STudI “MEdITERRAnEA” dI REGGIO CALABRIA
dIPARTIMEnTO dI ARCHITETTuRA E AnALISI dELLA CITTÀ MEdITERRAnEA
Paesaggi dell’archeologia, città e regioni metropolitane: la Magna Grecia
Responsabile scientifico
Gruppo di ricerca
Gruppo operativo
Prima edizione: novembre 2014
ISBn 978-88-7462-651-9
© 2014 Quodlibet s.r.l.
via Santa Maria della Porta, 43 Macerata
www.quodlibet.it
Marcello Sèstito
Angelo Cannizzaro, Antonino Minniti
Giuseppe Enea, Antonio Maisano, Bruno Mezzapica, Tommaso nunnari
unIVERSITÀ dEGLI STudI dI CATAnIA
dIPARTIMEnTO dI ARCHITETTuRA, STORIA, STRuTTuRE, TERRITORIO, RAPPRESEnTAZIOnE,
RESTAuRO E AMBIEnTE
dIPARTIMEnTO dI InGnEGnERIA CIVILE E ARCHITETTuRA
dalla villa Romana del Casale al Parco territoriale del fiume Gela.
strategie per il governo delle trasformazioni territoriali
Responsabile scientifico
Gruppo di ricerca
Gruppo operativo
fausto Carmelo nigrelli
Vito Martelliano (coordinamento), Maurizio Spina
domenico Calabrò, filippo Gagliano
non esiste un passato che si debba
richiamare col desiderio, esiste solo un
perpetuo presente, che si foggia con gli
elementi potenziali del passato.
J.W. Goethe
SOMMARIO
COnTEnTS
10
22
IndICE
50
58
6
64
Scelte difficili e interpretazioni aperte
difficult choices and open interpretations
Lucina Caravaggi
78
La Storia e il Progetto. In memoria di Caterina
Marcenaro
History and design. In memory of Caterina
Marcenaro
francesco Cellini
88
Progetto archeologico e progetto architettonico in
ambiente urbano
Archaeological project and architectural design in an
urban environment
daniele Manacorda
Introduzione
Introduction
Alessandra Capuano
frammenti
fragments
Antonino Terranova
tutelA e ReiNveNZioNe
PRESERVATIOn And REInVEnTIOn
a cura di edited by Alessandra Capuano
36
72
Archeologia e nuovi immaginari
Archaeology and new imaginaries
Alessandra Capuano
96
104
110
Progettare paesaggi postantichi
designing post-ancient landscapes
fabrizio Toppetti
Cercare il paesaggio
Searching for the landscape
Giovanni Azzena e Roberto Busonera
Per la continuità
Towards continuity
Raffaele Panella
ATEnE, dOuGGA, BRASILIA
I paesaggi dell’archeologia: innovazioni e rischi
The landscapes of archaeology: innovations and risks
Yannis Tsiomis
TORInO
Il Parco Archeologico delle Torri Palatine: il
progetto di un accordo
The Palatine Towers Archaeology Park: the design of
an agreement
Giovanni durbiano
Marginal observations on the destiny of ancient
buildings in relation with Modernity
Marcello Barbanera
130
140
146
152
ROMA
Il parco lineare delle Mura: una possibile
infrastruttura “verde”
The linear park of the Walls: a potential “green”
infrastructure
Alessandra Criconia
158
MARGiNi e MARGiNAlità
MARGInS And MARGInALITY
a cura di edited by Marcello Barbanera
118
Osservazioni marginali sul destino degli edifici
antichi in rapporto alla modernità
170
Il bazar archeologico. Scavare e dimenticare:
tecniche di invenzione per un’architettura della città
The archaeological bazaar. digging and forgetting:
invention techniques for a city architecture
Marco navarra
MERIdA
Patrimonio storico e città: un dialogo necessario
Historic heritage and the city: a necessary dialogue
Pedro Mateos Cruz
BEIRuT
dalla sepoltura del passato alla celebrazione
dell’oblio
from the burial of the past to the celebration of
oblivion
Mazen Haidar
discoveries. from memory as an asset to
memory as a relationship
Vito Martelliano
180
190
196
LuBIAnA
urban Heritage connected: il parco archeologico
della antica Emona
urban Heritage connected: the archaeological park
of the ancient Emona
Jerneja Batič
Armature culturali di sviluppo. Rigenerazione
urbana e politiche culturali
Cultural supporting frameworks for development.
urban regeneration and cultural policies
Maurizio Carta
SICILIA
Mitopoiesi del paesaggio archeologico siciliano.
La valorizzazione del patrimonio paesaggistico e
culturale
Mythopoiesis of the Sicilian archaeological
landscape. Enhancement of the landscape and
cultural heritage
Alessandra Badami
EnnA
L’esperienza dei piani paesaggistici nella
provincia di Enna: un bilancio
The Landscape Plans in the province of Enna: to
take stock of the situation
francesco Martinico
RisiGNiFiCARe i luoGHi
REdEfInInG PLACES
a cura di edited by Marcello Sèstito
teRRitoRiAliZZAZioNi
TERRITORIALIZATIOnS
a cura di edited by fausto Carmelo nigrelli
206
Il patrimonio territoriale
The territorial heritage
fausto Carmelo nigrelli
Hyppodamos ha vinto
Hippodamus has won
Marcello Sèstito
214
L’oro della memoria
The gold of memory
Renato nicolini
220
Quale archeologia, quale architettura
Which archaeology, which architecture
Marco dezzi Bardeschi
La riterritorializzazione della scoperta
archeologica. dal bene memoria alla relazione
memoria
The re-territorialization of archaeological
7
228
238
242
Le reti archeologiche territoriali
The territorial archaeological networks
Angelo Cannizzaro
MAGnA GRECIA
Tempo, spazio, luoghi e archeologia
Time, space, places, and archaeology
Antonino Minniti
SQuILLACE
Giocare a dadi con il tempo
Rolling dice with time
Alberto fiz
ARCHitettuRA PeR i PAesAGGi
ARCHeoloGiCi
ARCHITECTuRE fOR ARCHAEOLOGICAL
LAndSCAPES
a cura di edited by Pasquale Miano
252
262
Architettura “quarta natura”
Architecture “fourth nature”
Lilia Pagano
272
Sostenere la civiltà. Contemporaneità e
topografia del tempo
Supporting civilization. Contemporaneity and
topography of time
ferruccio Izzo
IndICE
8
Indagine archeologica e programma architettonico
Archaeological survey and architectural program
Pasquale Miano
278
up-cycling. Morte e vita dei corpi architettonici
up-cycling. death and life of architectural bodies
Pippo Ciorra
290
Segni
Signs
Alberto ferlenga
302
Il dialogo tra antico e contemporaneo
The dialogue between the Ancient and the
Contemporary
Pietro Giovanni Guzzo
362
364
366
310
Archeologia e architettura
Archaeology and Architecture
Joseph Rykwert
368
370
372
nAPOLI
Scavo e recupero del Teatro antico
Excavation and recovery of the Ancient theatre
daniela Giampaola
374
376
320
AtlANte dei PAesAGGi ARCHeoloGiCi
ARCHAEOLOGICAL LAndSCAPES’ ATLAS
a cura di edited by federica Morgia
330
Progetti di rovine
Projects of ruins
federica Morgia
334
336
338
340
Agrigento | Parco della Valle dei Templi
Atene | Acropoli, collina del filopappo e Agorà
Beirut | Piazza dei Martiri e Parco del Perdono
Cairo, Il | Quartiere darb-Al-Ahmar e Parco AlAzhar
Città del Messico | Piazza delle Tre Culture e
quartiere Tlatelolco
Concordia Sagittaria | Centro storico e Agro
concordiese
Coventry | Phoenix Initiative nel centro storico
duisburg | Emscher Park
Hiroshima | Parco della Pace
Istanbul | nodo di scambio a Yenikapi
Lubiana | Emona, Lungofiume e Mura
Mérida | Città monumentale
nantes | L’estuario della Loira
342
344
346
348
350
352
354
356
360
napoli | Metropolitana
nîmes | Centro storico e regione metropolitana
Palma de Maiorca | Camminamento delle Mura e
Castello Belvedere
Pombal | Castello del Cerro
Roma | Parco Lineare Integrato delle Mura Aureliane
Salemi | Recupero dei quartieri Piano Cascio e
Carmine
Saragozza | Itinerario dei musei di Cesaraugusta
Siracusa | Isola di Ortigia
378
SELEZIOnE BIBLIOGRAfICA SuI TEMI
dELL’ARCHEOLOGIA E dEL PROGETTO uRBAnO
SELECTEd BIBLIOGRAPHY On THE SuBJECT Of
ARCHAEOLOGY And uRBAn dESIGn
a cura di edited by R. dubbini e f. Morgia
380
nOTIZIE SuGLI AuTORI
InfORMATIOnS ABOuT THE AuTHORS
9
iNtRoduZioNe
InTROduZIOnE
Alessandra Capuano
10
Questo libro raccoglie alcuni ragionamenti
teorici che sono stati posti a fondamento di
una ricerca che ha come oggetto lo studio
dei paesaggi storici e la loro integrazione
in aree o regioni metropolitane. Il tema è
materia di un recente documento dell’unesco, diffuso nell’agosto 2011, che ha
definito il concetto di Paesaggio storico urbano riconoscendogli un valore innovativo
nella conservazione e gestione delle città
storiche e incoraggiando gli stati membri
ad adottare misure adeguate per adoperare questo strumento nei propri contesti.
Questa nozione è una risposta alla necessità di preservare valori condivisi e di beneficiare dell’eredità del passato e segna il
passaggio da un’enfasi data in primo luogo ai monumenti architettonici verso un
più ampio riconoscimento dell’importanza
dei processi sociali, culturali ed economici
nella conservazione dei valori urbani.
Questo si traduce nella necessità di proteggere il patrimonio storico e naturale
dei nostri territori, esaltando l’integrazione tra strategie di pianificazione e di conservazione, per una tutela attiva dei beni
e per l’applicazione di una filosofia e di un
metodo che mettano al centro il concetto
di paesaggio. In particolare, è posto l’accento sulla ricerca di una compatibilità tra
conservazione e interventi contemporanei
ed è riconosciuta l’importanza di dare una
maggiore attenzione alle questioni ambientali. In questo quadro, il ruolo delle
comunità accademiche è considerato centrale e vengono incoraggiate ricerche che
adottino il concetto di Paesaggio Storico
Urbano per studiare, secondo una metodologia integrata tra le diverse discipline,
i territori metropolitani.
La nostra ricerca parte da questa premessa, quella di uno sguardo trasversale che
cerchi di coniugare le risorse naturali e
storiche dei paesaggi urbani, gli interventi di conservazione con le trasformazioni
contemporanee di qualità, il patrimonio
tangibile e intangibile, lo sviluppo economico e sociale indirizzato non solo a un
uso turistico di queste risorse ma anche a
una loro immissione nella vita quotidiana
delle città.
Il gruppo di lavoro ha preso in considerazione più specificatamente i paesaggi
dell’archeologia perché l’Italia vanta un’impressionante quantità e una diffusa distribuzione di questi beni sul nostro territorio
e la conservazione di questo patrimonio
pone più di un problema alla nostra società. Oltre ai monumenti più importanti e conosciuti, più curati e visitati, vi è una grande quantità di siti antichi dimenticati e di
rovine abbandonate e maltrattate. Questo
è dovuto a una carenza di risorse e alla insostenibilità di una così diffusa tutela, ma
anche alla necessità, come per prima ha
ricordato Andreina Ricci, di ragionare sul
significato che tali preesistenze rivestono.
da qui è partito il nostro ragionamento
che ha visto più direttamente implicati architetti, paesaggisti, urbanisti e archeologi
e in maniera più aperta artisti, operatori
delle pubbliche istituzioni, studiosi di varie
scienze.
Il rapporto tra architettura e archeologia
negli ultimi anni è stato ampiamente trattato, basti ricordare gli interessanti contributi delle ricerche e della didattica che
hanno messo in campo diverse università
italiane con i propri corsi e master espressamente dedicati a tale tema1.
Meno diffuso è invece il tema che riguarda
i paesaggi archeologici e l’interazione tra
i sistemi urbani antichi e contemporanei2,
anche se questi argomenti non sono nati
adesso e gli studi della struttura e della
storia delle città sono un primario esito
della cultura urbana italiana, sia per le discipline architettoniche sia per le scienze
archeologiche3.
C’è tuttavia ancora molta strada da fare,
soprattutto da un punto di vista operativo.
Lavorare nei processi di trasformazione
in modo sinergico, non è a tutt’oggi una
pratica consolidata. S’incontrano tuttora
irrigidimenti su posizioni disciplinari che,
invece di incoraggiare un atteggiamento di
collaborazione, tendono a elevare steccati. Anche se la cultura contemporanea ha
affermato il passaggio da saperi che si occupavano degli oggetti a scienze che s’interessano delle relazioni, gli specialismi e
il frazionamento delle discipline finiscono
fatalmente per prevalere, causando gravi e
dannosi ritardi. Pensiamo sia possibile, invece, studiare e progettare lo spazio urbano in continuità – concettuale e figurativa
– con lo spazio archeologico, promuovere
l’integrazione dell’archeologia con le esigenze della città contemporanea, attualizzando sistemi e spazi urbani, sottraendo
l’archeologia a un esclusivo uso turistico
o specialistico, per incoraggiarne il potenziale uso quotidiano, adatto a mantenere
la vitalità dei luoghi.
non è facile, nello scenario attuale di un’economia mondiale in crisi e di un’Italia in
cui l’arretratezza nel processo di modernizzazione causa perdita di competitività,
marginalizzazione e declino, affrontare
questioni che scommettano sulla trasformazione e valorizzazione del territorio. Le
urgenze sembrano riguardare in primis
modelli economici e di governance che garantiscano una nuova stabilità e potrebbe
apparire non pertinente, e senz’altro non
prioritario, occuparsi della riqualificazione dei paesaggi attraverso la pratica del
progetto. Viceversa, si può agevolmente
sostenere che tra le principali risorse su
cui conta il nostro paese vi è quella del
paesaggio. Essa costituisce però più un
luogo comune, che non un effettivo investimento nella sua valorizzazione, non
solo per mezzo della tutela, ma anche
attraverso l’innovazione delle strutture
che lo supportano. È oramai assodato che
non basta conservare per usufruire delle
risorse storico-ambientali, ma è necessario promuovere uno sviluppo di qualità
che contempli la complessità delle stratificazioni che caratterizzano la contemporaneità. In questo senso la memoria
gioca un ruolo fondamentale. Le teorie
economiche contemporanee, che fanno
riferimento a federico Caffè, ad Amartya
Sen e a Richard florida, non si basano più
solo su indicatori classici (il pil, il reddito
pro-capite, l’occupazione, i consumi ecc.)
per stabilire la ricchezza delle nazioni o
degli individui, ma contemplano categorie
diverse, più idonee a trattare l’economia
del benessere dell’era postindustriale e
la prospettiva di uno “sviluppo umano”
capace di garantire un’adeguata qualità
della vita non ristretta a parametri eco-
nomici ma inclusiva di aspetti sociali e
ambientali.
Il paesaggio è stato fino a non molto tempo fa incorporato in un patrimonio culturale fatto di “beni”, anche se, sin dal 1939,
era evidente la difficoltà ad assimilare le
“bellezze panoramiche” a beni-oggetto e
la conseguente difficoltà a disciplinarne
la tutela con metodi e regole utilizzati per
“cose, immobili e mobili”. non hanno modificato i criteri essenziali della gestione
della salvaguardia gli esiti dei piani paesistici regionali ex legge 431/1985. Si avanza
perciò un’urgente necessità di far fronte ai
cambiamenti che, nella pratica della gestione, sono imposti dal cambiamento di
ottica e dai nuovi valori accreditati per il
paesaggio.
Secondo le prospettive emerse più di recente l’imposizione di limiti e vincoli, infatti, è importante, ma non basta a difendere e mantenere vivo il territorio, perché
– come riconosce anche la Convenzione
Europea del Paesaggio – una sua efficace
tutela può essere attuata soltanto con un
coinvolgimento sociale. La socialità del
paesaggio, in altre parole “l’ininterrotto
processo collettivo di produzione di significati e valori e di costruzione di senso”4,
è costitutivo della vita e dell’identità della
comunità, componente importante per le
11
InTROduZIOnE
12
politiche socioculturali nei prossimi decenni.
Per il paesaggio sta forse avvenendo, in
termini di processo culturale, un passaggio analogo a quel riconoscimento che
negli anni ’70 ha portato ad una diffusa
considerazione nei confronti dei centri
storici5. La tutela dei centri storici però ha
anche contribuito ad affermare un sentimento negativo nei confronti del moderno-contemporaneo portando a preferire
la conservazione passiva ed escludendo
l’intervento contemporaneo nel cuore dei
processi di trasformazione urbana. È necessario predisporre nuove strategie che
puntino alla salvaguardia e valorizzazione
delle aree archeologiche attraverso progetti urbani contemporanei, con la convinzione, come fa notare Tsiomis, che sia
possibile progettare lo spazio urbano e
metropolitano in continuità con lo spazio
archeologico, perché è sulle soglie e sui
limiti che distinguono l’uno dall’altro che
si gioca la potenzialità del progetto che fa
della mescolanza e della contaminazione
il valore da preservare o da perseguire6.
non si può commettere lo stesso errore
che abbiamo fatto per i centri storici nella
conservazione dei paesaggi archeologici. Per il mantenimento vivo dei luoghi, la
conservazione deve essere attiva e inclusiva delle mutate esigenze sociali, economiche e culturali.
Il lavoro, compiuto da cinque unità di ricerca nell’ambito di un finanziamento prin
2009 concesso dal miur, si è articolato in
due indagini principali.
un’esplorazione ha riguardato l’aggiornamento teorico dello status quaestionis
sui temi di ricerca. Questo studio è stato
condotto attraverso l’organizzazione di
cinque seminari (figg. 1-5), che hanno coinvolto esperti di diverse discipline anche
al di fuori del gruppo di ricerca prin 2009,
che si sono confrontati sui diversi aspet-
ti che riguardano il rapporto tra paesaggi
archeologici e aree urbane e periurbane.
Il dibattito che ne è scaturito costituisce il
presente volume.
L’altro approfondimento ha interessato la
scelta di quattro aree di studio, rappresentative di contesti urbani o metropolitani contemporanei, nelle quali ricorre una
densa presenza di tracce storiche e in cui
il contesto naturalistico è una significativa risorsa da proteggere e valorizzare. I
quattro casi sono il Parco dell’Appia Antica
a Roma, i Campi flegrei a napoli, la Villa
del Casale e il corso del fiume Gela a Piazza Armerina e la Magna Grecia attorno a
Reggio Calabria. I primi tre ambiti sono
Parchi Regionali, quindi vaste aree naturali al cui interno risiedono importanti aree
archeologiche, spesso ben conservate e
valorizzate. È presente anche una notevole
quantità di beni culturali sparsi, sia antichi
sia più moderni, non sufficientemente integrati nei contesti urbani o addirittura abbandonati. La Magna Grecia è invece una
costellazione di luoghi, dove vi sono anche
aree naturali protette ma il tema principale riguarda gli insediamenti di Reggio,
Sibari, Crotone e Locri in cui, nonostante il
valore simbolico delle testimonianze storiche, non vi è stretto legame tra aree urbane e aree archeologiche. I casi studio,
indagati parallelamente alle riflessioni
teoriche portate avanti nei seminari, hanno costituito un osservatorio di straordinario interesse che ha permesso di aprire un
dibattito interno su cosa significhi “qualità
urbana”, quali possono essere le soluzioni
da adottare nel concreto per fare interagire
progetto archeologico e progetto urbano,
quali siano i significati contemporanei del
passato e le sue narrazioni nel presente.
Questi studi sono oggetto di altre quattro
pubblicazioni che costituiscono, insieme
al presente volume, l’esito scientifico e la
divulgazione della ricerca.
Questo libro, senza pretese di esaustività,
raccoglie quindi alcuni contributi teorici
che cercano di fare il punto sulle questioni che interessano il rapporto tra progetto
archeologico e progetto urbano e si articola in cinque sezioni, ognuna composta da
testi di carattere più generale e scritti, posti in chiusura delle sezioni, che fanno riferimento a specifici casi-studio urbani. Le
sezioni del libro, cui brevemente accenno
secondo l’ordine in cui sono qui raccolte,
sono state curate dai coordinatori dei diversi gruppi di ricerca.
La prima ha affrontato innanzitutto il rapporto difficile tra Tutela e reinvenzione perché in Italia, dove è presente un complesso di leggi organiche tra le più avanzate
al mondo per la tutela dei beni culturali
e paesaggistici, il paesaggio è il “grande
malato”, vittima dell’intrico normativo e
della segmentazione delle competenze,
delle devastazioni impunite e delle retoriche passatiste inconcludenti. Bisogna
interrogarsi sulla qualità dei luoghi e su
quale ruolo gioca l’uso del passato nella
città contemporanea. Occorre avere visioni strategiche e culturali adeguate al
nostro sentire del presente. Gli studiosi
si sono domandati quali correttivi bisogna introdurre, quale sia il ruolo del bene
e il suo significato nello spazio pubblico,
come conciliare la salvaguardia con i bisogni di trasformazione urbana. Si sono
chiesti, sostanzialmente, come fare interagire maggiormente le dinamiche sociali per la rigenerazione urbana e per il
mantenimento vivo del patrimonio e dei
luoghi. I casi specifici su cui si è ragionato sono quelli di Atene, dougga, Brasilia,
Istanbul, Torino e Roma.
La sezione Margini e marginalità s’interroga sulla maniera di conservare le rovine
nei paesi che sono stati al centro delle
culture antiche con continuità. diversi
sono i problemi che pone un’architettura
1
2
antica storicizzata dal tempo da quelli di
una riportata alla luce di recente: c’è una
questione storico-archeologica e una architettonica e urbanistica. La soluzione
dei problemi non può essere univoca, perché il significato della rovina è polisemico. La conservazione del nostro passato,
fondamentale per la nostra definizione,
non dovrebbe andare contro le esigenze
del presente, a detrimento dello spazio
urbanizzato in cui viviamo. un ripensamento sui modi della conoscenza e della
trasformazione accomuna i testi di questa
sezione tutta articolata attorno al delicato rapporto tra memoria e oblio. I casi
di Mérida, Beirut e Lubiana forniscono
elementi di riflessione sul significato del
passato nel presente e sui modi della città
di metabolizzare tale rapporto.
Territorializzazioni è il processo (da cui la
sezione omonima) che viene proposto
come strumento progettuale di luoghi a
forte densità storico-culturale. Questo
3
processo consente di superare il concetto di sito archeologico e perfino di parco
archeologico e la loro rigidità normativa
che li considera come elementi invariabili
e, in quanto tali, luoghi statici, declinati nell’accezione di musei a cielo aperto.
Questi luoghi costituiscono invece valori
intangibili e, nel contempo, sono luoghi
dinamici, che impongono cambiamenti
quotidiani, in bilico tra ciò che sono stati,
ciò che sono e ciò che saranno. L’oggetto
del processo non è dunque il sito archeologico e neppure il patrimonio culturale
comunemente inteso ma il “patrimonio
territoriale”, ovvero l’insieme di luoghi,
di relazioni, di usi, di simboli coinvolti nel
processo territorializzazione-deterritorializzazione-riterritorializzazione. Pertanto
è il territorio e non il paesaggio, suo epifenomeno, a essere considerato “bene
comune”. Enna e Agrigento sono i casi
che forniscono alcuni elementi di riflessione per un esame sulla valorizzazione
4
5
1-5 locandine dei seminari, frutto della ricerca
Paesaggi dell’Archeologia, Regioni e Città
metropolitane, dedicati rispettivamente a 1. tutela
e reinvenzione; 2. Margini e marginalità;
3. territorializzazioni; 4. Risignificare i luoghi;
5. Architettura per i paesaggi archeologici.
13
InTROduZIOnE
14
del patrimonio paesaggistico e culturale
in Sicilia.
La sezione Risignificare i luoghi raccoglie
una serie di testi che ruotano attorno alla
domanda: “Cosa significa fare museo
nella Magna Grecia?” Gli autori ragionano sul concetto di spazio a partire dai
suoi valori fondativi (qual è il valore dello
spazio per l’uomo?) fino alle sue capacità
comunicative. Il valore semantico dei luoghi e la loro risignificazione nel contemporaneo, a partire dal significato di alcune
entità quali griglia urbana (Ippodamo da
Mileto era cittadino onorario dell’antica
Sibari), museo, architettura, archeologia
che ci spingono a individuare nuovi immaginari e inedite esperienze di senso che
possano com-muoverci attraverso nuove
narrazioni. Le tecnologie contemporanee
e le reti informatiche, le reti infrastrutturali, le nuove parti di città e la loro forma
urbis, la musica e l’arte possono “fornire
– come scrive Renato nicolini – a vecchie
domande nuove risposte”. I casi studio si
riferiscono allo specifico contesto magnogreco attorno a cui ruota il ragionamento
di tutti gli interventi.
La raccolta di saggi del volume si chiude con un ritorno di attenzione al ruolo
dell’architettura nella costruzione delle relazioni urbane, a partire dai ruderi e dagli
scavi archeologici. Ragionare sull’Architettura per i paesaggi archeologici non significa considerare un’architettura specifica
per l’archeologia, bensì riflettere su alcuni
temi che si presentano come rilevanti e
preponderanti: il rapporto alto-basso (tra
la città attuale e il piano archeologico), le
connessioni, i percorsi e le continuità urbane per evitare i recinti, le coperture sono
solo alcune di queste specificità. Joseph
Rykwert chiude la sezione con un testo in
cui afferma che “archeologia e architettura sono due facce della stessa medaglia.
Qualcuno ha definito l’archeologia come
la distruzione sistematica delle vestigia
del passato: l’archeologo scava un livello
dopo l’altro, per raggiungere il suo scopo,
distruggendo tutti quegli strati che intralciano la sua ricerca”7. L’archeologia è stata
in realtà, a partire dagli inizi del xix secolo,
una delle materie alla base della formazione degli architetti moderni ed è possibile seguendo l’oscillazione dei rapporti tra
architetti e archeologi comprendere gli assetti statutari delle due discipline proprio
attraverso le tecniche del cantiere di scavo
e rilievo, che ne costituiscono il punto concreto di incontro-scontro.
Il libro si conclude con un Atlante dei
paesaggi archeologici che raccoglie una
geografia di luoghi in cui progetto urbano e progetto archeologico interagiscono.
Si tratta di 21 casi che si prestano a farci riflettere sull’uso pubblico dei resti del
passato in contesti diversificati e variegati. Gli interventi selezionati sono stati organizzati secondo una tassonomia di sei
diverse famiglie: centri archeologici (aree
circoscritte all’interno dei tessuti urbani
che si configurano come centralità), nodi
(luoghi puntuali all’interno di una rete urbana), parchi (rovine in contesti naturalistici), percorsi (relazioni fisiche e percettive
che valorizzano archeologie), sistemi-città
e territori (ampie trasformazioni urbane
o territoriali a partire dal contesto archeologico). Le schede contengono succinte
informazioni, dati quantitativi e una breve
descrizione dell’intervento con particolare
enfasi sul rapporto progetto archeologico/
progetto urbano. Le planimetrie che illustrano i progetti sono state elaborate appositamente per questa ricerca al fine di
mettere in luce il rapporto dei ruderi con
i sistemi urbani secondo grafiche e scale
dimensionali confrontabili.
Infine un apparto iconografico di immagini
evocative del rapporto architettura/archeologia costituisce l’apertura delle sezioni e
dei testi. La raccolta di questi frontespizi,
curata da federica Morgia, costituisce uno
stimolante racconto parallelo.
Ringraziamenti. Quando nel 2008 Tonino
Terranova mi chiese se volevo proporre
un argomento di ricerca per un prin da fare
insieme, suggerii di lavorare sui paesaggi
archeologici perché mi sembrava interessante prendere in considerazione quei
luoghi in cui l’esistenza di un paesaggio
da salvaguardare o da valorizzare per la
presenza di rovine o di aree abbandonate e dismesse rappresentasse motivo
di sperimentazione di nuove forme del
progetto contemporaneo. nei tanti anni
di collaborazione, nella ricerca e nella didattica, coniugare la storia con il contemporaneo è sempre stato il suo e il nostro
obiettivo. Tonino infatti, membro del consiglio direttivo dell’ancsa, si è impegnato
e ha scritto molto su questo argomento,
pubblicando tra l’altro, e non a caso, un
libro dal titolo Le città e i progetti. Dai centri storici ai paesaggi metropolitani.
Quel primo progetto prin ottenne un alto
punteggio per l’idea ma non fu ammesso al finanziamento, con alcune giuste
critiche relative al fatto che aprivamo il
discorso all’archeologia in senso lato,
dall’antichità all’industriale, e che eravamo un po’ troppo autoreferenti.
Così l’anno successivo, nel 2009, ci riprovammo, cambiando anche la composizione del gruppo di ricerca. Volevamo lavorare a stretto contatto con gli archeologi e
desideravamo rafforzarci includendo casi
più confrontabili con il tema dell’Appia
Antica che desideravamo fosse il nostro
caso-studio. Proponemmo pertanto a
Marcello Barbanera, Pasquale Miano, Renato nicolini e fausto nigrelli di comporre
un gruppo prin. Il progetto uscì irrobustito
avendo scelto quattro aree o regioni metropolitane in cui i temi del paesaggio e
dell’archeologia sono strettamente legati. Inoltre, con Renato nel gruppo, si accentuava ulteriormente quel desiderio di
riflettere su questi luoghi per sottrarli a
quel duplice destino di essere alternativamente fuori dal mondo oppure – come
dice Marc Augé in Rovine e macerie a proposito del patrimonio artistico, culturale
e naturalistico delle nazioni – di essere
oggetto di un’intensa attività mediatica,
“oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o oggetto il cui vero contesto
è il mondo della circolazione planetaria”8.
I colloqui avuti con Tonino e Renato per
costruire il programma di ricerca e subito
dopo, ottenuto il finanziamento, le riflessioni compiute per avviare i lavori, sono
tra i più bei ricordi che mi rimangono.
Purtroppo Tonino è mancato neanche un
mese dopo l’avvio della ricerca e Renato un
anno dopo. Abbiamo incluso due loro testi
nel libro. A loro un sincero ringraziamento
non solo per quello che hanno dato a me,
al gruppo e alla ricerca, ma per quello che
ci hanno lasciato come pensiero sulla città.
Il prin è stata una vera occasione di
scambi di conoscenze sulle discipline e
sui territori, sui diversi contesti universitari e sulle scuole e rammarica pensare
che questa occasione non ci sarà più, falciata dai tagli trasversali ai finanziamenti
per la ricerca e la cultura.
Mancato Tonino, mi è spettato il coordinamento della ricerca e anche per questo ringrazio i colleghi tutti che mi hanno
dato questa fiducia.
Lavorare su questa ricerca è stata un’esperienza interessante e formativa, arricchente sul piano delle conoscenze
strettamente disciplinari e soprattutto
dei riferimenti all’archeologia, all’arte,
alla filosofia. Le critiche e i consigli, le riflessioni sul tema e sui luoghi ci hanno
legato nel corso di questi anni di lavoro
in un rapporto che, penso, rimarrà dura-
turo. Pertanto desidero ringraziare Marcello Barbanera, Pasquale Miano, fausto
nigrelli e Marcello Sèstito per questa sinergia che si è creata.
un particolare ringraziamento va a fabrizio Toppetti, perché l’occasione ha contribuito a rafforzare un comune sentire e
a ulteriormente unirci come gruppo nel
dopo-Terranova. La cadenza delle nostre
frequentazioni e l’intensità di scambio
intellettuale sono state fonte di energia,
stimolo a lavorare e conforto negli immancabili momenti complicati che la vita
ci riserva.
Senza il contributo fondamentale di federica Morgia il lavoro non sarebbe oggi
in stampa e soprattutto non avrebbe gli
stessi connotati. La sua dedizione e soprattutto la sua intelligenza hanno avuto
un ruolo determinante.
Importante è stato anche lo sguardo sul
paesaggio urbano di Alessandro Lanzetta
e il suo occhio critico nei confronti del disegno del progetto.
un sentimento di riconoscenza va a Rachele dubbini che ha avuto la pazienza di
spiegarci metodi e ricerche sull’archeologia e sulle istituzioni che se ne occupano.
un grazie infine a Angelo Cannizzaro e
nino Minniti che hanno collaborato affinché il discorso iniziato con Renato non
svanisse con la sua scomparsa, nonostante i difficili percorsi che la vita accademica ci riserva.
Il gruppo dei più giovani, che ci ha dato
una mano sia nell’organizzazione di seminari teorici che nella elaborazione della
ricerca sui siti, ha costituito una risorsa
fondamentale e uno stimolo a chiarire
sempre di più il nostro pensiero. desidero
qui ringraziarli tutti, senza il loro contributo la ricerca non esisterebbe. Grazie a
Alessia, davide, Eliana, Giulia e Valentina.
Infine, ma non ultimo, un grazie ad Andrea
Carignani, che da archeologo e soprattut-
to da saggio diplomatico ha ascoltato problematiche e aporie e suggerito percorsi
di contaminazione tra le discipline.
1 La Sapienza, l’università di Roma Tre e lo iuav stanno da
anni interessandosi all’argomento attraverso la didattica
(Master Sapienza “Architettura per l’Archeologia. Progetti
di valorizzazione del patrimonio culturale”; Master Roma
Tre “Architettura, Storia, Progetto”), l’organizzazione di
seminari scientifici, convegni e la pubblicazione di alcuni
contributi quali: i volumi A. Capuano, O. Carpenzano,
f. Toppetti, Il Parco e la città. Il territorio storico dell’Appia
nel futuro di Roma, Quodlibet, Macerata 2013 e Allestire
l’antico a cura di G. donini e R. Ottaviani, Quodlibet,
Macerata 2013; i fascicoli “Archeologia e Progetto” di
Gangemi del 2002, 2009 e 2014 che pubblicano le tesi di
laurea di Roma Tre; alcuni numeri del “Giornale iuav”
(81, 2010; 94, 2011; 119, 2012). Iniziative analoghe sono
state avviate dall’università di Catania con il “Laboratorio
estivo di Siracusa”, mentre l’università Mediterranea di
Reggio Calabria ha avviato un Master in “Architettura e
Archeologia della Città Classica”.
2 non sono mancati alcuni interessanti contributi. Cfr. M.
Manieri Elia, Topos e progetto. Temi di archeologia urbana
a Roma, Gangemi 1998; A. Ricci, Attorno alla nuda pietra.
Archeologia e città tra identità e progetto, donzelli 2006; T.
Matteini, Paesaggi del tempo. Documenti archeologici e rovine
artificiali nel disegno di giardini e paesaggi, Alinea, firenze
2009; Via Tiburtina. Space, movement & artefacts in the urban
landscape a cura di H. Bjiur, B. Santillo frizer, 2009.
3 Tra i più importanti contributi si ricordano: A. Rossi,
L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966; d.
Manacorda, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un
paesaggio urbano, Milano 2001; M. M. Segarra Lagunes
(a cura di), “Archeologia urbana e Progetto di Architettura”,
Gangemi, Roma 2002; B. d’Agostino “Napoli e l’archeologia
urbana”, in “Restauro & città”, 1985/2; f. fazzio, Gli spazi
dell’archeologia. Temi per il progetto urbanistico, Officina,
Roma 2005; R. Panella, Roma la città dei Fori. Progetto di
sistemazione dell’area archeologica tra Piazza Venezia e il
Colosseo, Prospettive, Roma 2013; R. Panella, Roma Città
e Foro, questioni di progettazione del centro archeologico
monumentale della Capitale, Officina, Roma 1989; Le
quattro porte del centro archeologico monumentale di Roma,
a cura di O. Carpenzano per la Biblioteca del d.A.A.C.,
Roma 1993.
4 A. Signorelli, Intorno ai criteri ispiratori di una possibile
museografia demologica, in J. Cuisenier, J. Vibaek (a cura
di), Museo e cultura, Sellerio, Palermo 2002.
5 P. Castelnovi, L’abbandono e i piani per il governo del
territorio, “Multiverso”, 2005.
6 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La
disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico
dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, in A.
Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco, L’antico e il nuovo.
Il rapporto tra città antica e architettura contemporanea:
metodi, pratiche e strumenti”, utet, Torino 2002.
7 J. Rykwert, Archeologia e architettura, infra, p. 311.
8 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati
Boringhieri, Torino, p. 52.
15
iNtRoduCtioN
InTROduCTIOn
Alessandra Capuano
16
This book draws together some of the
theoretical arguments that formed the
basis of research that attempted to
study historical landscapes and their integration into metropolitan regions and
areas. The topic is the subject of a recent document issued by unesco in August 2011, which defines the concept of
an historic urban landscape, recognising
its innovative value in the conservation
and management of historic cities, and
encourages member states to adopt the
appropriate measures to apply this instrument in their territories. This concept meets the need to preserve shared
values and benefit from the legacy of
the past, and it marks a change: from
an emphasis that was initially placed
on architectural monuments to a wider
recognition of the importance of social,
cultural and economic processes for the
conservation of urban values.
This translates as a need to protect the
natural and historic heritage of our territories, encouraging integration between
planning and conservation strategies
for the active protection of assets and
the application of a method and a philosophy that can focus on the concept
of landscape. The search for a degree of
compatibility between conservation and
modern development work is considered
particularly key and the importance of
paying greater attention to environmental issues is recognised. In such circumstances, the role of academic communities is considered to be central and research that adopts the concept of historic
urban landscapes in order to study metropolitan territories, in line with an integrated method involving various different
disciplines, is encouraged.
Our research starts with this premise:
an all-encompassing approach that attempts to combine the natural and historical resources of urban landscapes
and conservation work with high quality
contemporary improvements, tangible
and intangible heritage, economic and
social development that isn’t simply
designed to encourage the use of these
resources in the tourist industry but
also looks to their inclusion in a city’s
everyday life.
Our working group particularly took
archaeological landscapes into consideration because Italy boasts a tremendous number of such assets, scattered
throughout the country, and the conservation of this heritage poses several
problems for our society. As well as the
more important and famous monu-
ments that are cared for and visited,
there is an enormous number of forgotten ancient sites, as well as neglected
and badly treated ruins. This is due to
a lack of resources and the unsustainability of such a widespread level of protection, as well as the need – as Andreina Ricci was the first to point out – to
think carefully about the meaning that
such previously existing sites have. This
was the basis of our approach, which
directly involved architects, landscape
architects, town planners and archaeologists, and more loosely drew on artists, members of public institutions and
scholars from various scientific fields.
In recent years, the relationship between architecture and archaeology has
been discussed at length; one need only
consider the interesting contribution
made by the research and tuition provided by many Italian universities with
courses and Masters degrees specifically devoted to this issue1.
In contrast, the issue that concerns
archaeological landscapes and the interaction between ancient and modern
urban systems is less common, even if
these issues have been around for some
time2 and studies on the structure and
history of cities are a primary result of
urban Italian culture, both in architectural disciplines and archaeological sciences3.
nevertheless, there is still a long way
to go, particularly from the operational
point of view and a synergistic approach
to development is still not a well-established practice. We still come across
entrenched positions in different fields
that, instead of encouraging a cooperative attitude, tend to put up barriers.
Even though contemporary culture has
supported the change from a knowledge
that focused on objects to sciences that
study relationships, the specialisation
and the fragmentation of disciplines inevitably end up prevailing, causing serious and damaging delays. Instead, we
believe that it is possible to study and
plan an urban space in continuity – both
conceptually and figuratively – with archaeological space, to promote the integration of archaeology with the needs
of contemporary cities, updating urban
spaces and systems, stopping archaeology from being used only by tourists and
specialists and encouraging its potential everyday use, so as to maintain the
vitality of places.
It’s hard to tackle issues that depend on
territorial development and enhance-
ment at a time like this of global economic crisis and in a country like Italy
where the backwardness of the modernisation process leads to a loss of
competitiveness, marginalisation and
decline. Economic and governance
models that can guarantee new stability
seem to be the main priorities and an
interest in regenerating landscapes using architectural planning may not seem
pertinent, and will no doubt appear to be
secondary in importance. Vice-versa, we
can easily assert that one of the main
resources our country can count on is
its landscape. This is, however, more of
a platitude than a true investment in its
enhancement, not only using protection
measures but also with the innovation of
the systems that support it. It has now
been ascertained that it is not enough to
preserve historical and environmental
resources if we want to take advantage
of them; we need to promote high quality development that takes into account
the complex nature of the layers that
characterise modern life. As regards
this aspect, memory plays a central
role. Contemporary economic theories
that quote federico Caffè, Amartya Sen
or Richard florida are no longer simply
based on the usual indicators (gdp, pro-
capita income, employment, consumption, etc.) used to work out the wealth
of a country or an individual, but rather
include various different categories that
are more suited to treating the economy
of wellbeing in the post-industrial era
and the perspective of “human development” that can guarantee a decent
quality of life that is not limited to economic parameters but includes social
and environmental aspects as well.
until recently, the landscape was part of
a cultural heritage made up of “assets”,
even though the difficulty in equating
“places of scenic beauty” with asset/objects and the ensuing difficulty in legislating their protection employing methods and rules used for “things, buildings and furniture” has been clear since
1939. The results of regional landscape
programmes pursuant to Law 431/85
did not change the essential criteria
for managing protection. Hence, we are
raising the issue of the urgent need to
tackle the changes that have been imposed on management practices by the
change in perspective and by the new
values attributed to landscape.
According to recent points of view, while
the imposition of limitations and protection orders is indeed important, it is not
17
InTROduCTIOn
18
enough to protect the territory and keep
it vibrant because – as the European
Landscape Convention also recognises
– its effective protection can only be implemented with social involvement. The
social nature of landscape – in other
words, the “uninterrupted collective
process of producing meaning and value and constructing significance”4 – is
a constituent part of a community’s life
and identity, an important element for
social and cultural policies in the decades to come.
Castelnovi5 asserts that perhaps the
landscape is undergoing a change, in
cultural process terms, similar to the
recognition that led to a widespread
consideration of historic city centres in
the 1970s. nevertheless, the protection
of historic city centres also helped to
encourage a negative attitude towards
the Modern and Contemporary, leading
to a preference for passive conservation
and ruling out modern enhancement
work as a central part of urban development processes. We need to set up
new strategies that focus on the protection and enhancement of archaeological
areas using contemporary urban planning, with the conviction – as Tsiomis
points out – that it is possible to plan urban and metropolitan space in continuity with archaeological space: it is on the
thresholds and borders that distinguish
one from the other that the potential of a
plan that makes mingling and contamination a value worth preserving or pursuing is tested6. We cannot repeat the
same error that occurred over historic
town centres with the conservation of
archaeological landscapes. In order to
keep places vibrant, conservation must
be proactive and must include changed
social, economic and cultural needs.
This project, developed by five research
units within a 2009 prin (Research Projects of national Interest) grant given by
the Research and university Ministry, is
composed of two main studies.
One study concerned the updating of the
status quaestionis concerning the issues
investigated. This review was carried
out by holding five seminars involving
experts from various different fields,
even those that were not part of the
2009 prin (Research Projects of national Interest) research group. They compared notes on various different aspects
that concern the relationship between
archaeological landscapes and urban
and peri-urban areas. The debate that
resulted led to this book.
The other study involved the choice of
four specific areas, case studies, representing contemporary urban or metropolitan environments where there is a
dense concentration of historical traces
and where the natural surroundings are
an important resource worth protecting
and promoting. These four case studies
were Rome’s Park of the Appia Antica,
the Phlegraean fields of naples, Villa
del Casale and the Gela river in Piazza
Armerina and Reggio Calabria’s Magna
Graecia. The first three areas are designated regional parks and therefore
vast expanses of countryside featuring
important archaeological sites that are
often well preserved and enhanced, as
well as a number of scattered cultural
assets, both ancient and more recent,
that have not been properly integrated
into their urban surroundings, or neglected all together. In contrast, Magna
Graecia is a constellation of locations
including protected natural sites. nevertheless, the area mainly features the
settlements of Reggio, Sibari, Crotone
and Locri where there are no close links
between urban areas and archaeological areas, despite the symbolic value
of historical traces. The case studies,
which were conducted at the same time
as the theoretical work carried out in
seminars, proved to be an extraordinarily fascinating observatory that allowed
us to initiate an in-house debate on
what “urban quality” means, what tangible solutions could be adopted to ensure that archaeological planning and
urban planning could interact and what
is the contemporary meaning of the past
and its narratives in the present. These
studies are the subject of four other
publications that, along with this book,
present the results of this research and
promote its findings.
Without claiming to be exhaustive, this
book is therefore a collection of theoretical contributions that attempt to take
stock of the issues that concern the relationship between archaeological planning and urban planning and is divided
up into five sections, each of which consists of general essays with articles referring to specific urban case studies at
the end of each section. The sections –
which I’ll list briefly in the order in which
they are published – were compiled by
the supervisors of each research group.
The first one tackles the difficult relationship between Preservation and Reinvention because the landscape of Italy
– which boasts some of the most avantgarde laws in the world for protecting
cultural and landscape assets – is ailing,
a victim of this legislative maze and the
fragmentation of responsibilities, of unpunished devastation and inconclusive,
outmoded rhetoric. We need to question
the quality of sites and what role the use
of the past in contemporary cities plays.
We need to have a cultural and strategic
vision that reflects our attitude to the
present. The researchers asked themselves what corrective measures should
be introduced, what the role of an asset is and its meaning in public spaces
and how we can reconcile protection
with the needs of urban development.
In short, they asked themselves how we
can get social mechanisms to interact
more to encourage urban regeneration
and the proactive maintenance of heritage and places. The cases studied were
Athens, dougga, Brasilia, Istanbul, Turin and Rome.
The section entitled Margins and Marginality discusses the way ruins are preserved in countries that have been at the
centre of ancient cultures for a continued period. Ancient architectural sites
that have become part of history over
time pose different problems from those
brought to light more recently. There
are a historical/archaeological issue, as
well as an architectural and town planning issue, involved. The solution to such
problems cannot be uniform because
the meaning of ruins is polysemous. The
conservation of our past, something that
is fundamental to how we define ourselves, should not go against the needs
of the present to the detriment of the
urbanised space we live in. All the articles in this section reconsider study and
development methods as it is entirely focused on the fragile relationship between
memory and oblivion. Mérida, Beirut and
Ljubljana are cases that offer food for
thought on the meaning of the past in the
present and the ways cities metabolise
that relationship.
Territorializations (hence the section of
that name) is the process that is put forward as an architectural planning tool
for sites with a high cultural and historical density. This process allows us
to move past the concept of an archaeological site and even of an archaeological park and the legislative severity that
considers them as unalterable entities
and, as such, static locations treated
as open-air museums. Instead, these
places preserve intangible values and,
at the same time, are dynamic sites that
change and impose change day after
day, poised between what they were,
what they are and what they will be. The
subject of the process is therefore neither the archaeological site nor the cultural heritage as it is generally understood, but rather “territorial heritage”:
i.e. that collection of sites, relationships,
uses and symbols involved in the tdr
(territorialisation-deterritorialisationreterritorialisation) process. Hence it
is the territory, and not the landscape
(its epiphenomenon), that is considered
a “common good”. Enna and Agrigento
are the two cases that offer food for
thought when examining the promotion
and enhancement of landscape and cultural heritage in Sicily.
The section entitled Redefining Places
is a collection of essays that focus on
one particular question: what does running a museum in Magna Graecia involve? The authors consider the concept
of space, starting with its basic values
(what value does space have for human
beings?) and ending with its communicative powers. The semantic value of
places and the action of re-attributing
them with meaning in the modern
world, starting with the interpretation of
terms such as urban grid (Hippodamus
of Miletus was an honorary citizen of
ancient Sybaris), museum, architecture
and archaeology encourage us to iden-
tify new imaginative scenarios and novel
aesthetic experiences that can in some
way lead us towards original solutions
and “move” us with new narratives. new
technologies and information networks,
infrastructure networks, new parts of
cities and their forma urbis, music and
art can all “provide new answers to old
questions”, as Renato nicolini states.
The case studies here refer to the specific area of Magna Graecia, the focus
for all the essays in this section.
The collection of articles in this book
ends with a return to a focus on the role
of architecture in constructing urban
relationships, starting with ruins and
archaeological excavations. Reflecting on Architecture for Archaeological
Landscapes doesn’t mean considering a
specific type of architecture for archaeology; it involves reflecting on some of
the issues that appear to be relevant and
predominant. The relationship between
upper and lower levels (between modern
cities and the archaeological layer below), connections, itineraries and an urban continuity that will avoid fences and
coverings are just some of the specific issues involved. Joseph Rykwert ends the
section with an article where he asserts
that “archaeology and architecture are
two extremes of the same issue: archaeology has been defined as the systematic
destruction of the past; archaeologists
start by digging down from one layer to
another and in order to get to the layer
they want they must destroy previous
ones”7. In actual fact, archaeology has
been one of the basic subjects studied
by modern architects ever since the turn
of the nineteenth century and it is possible, following the fluctuations in the
relationship between architects and archaeologists, to understand the statutory
19
InTROduCTIOn
20
structure of these two disciplines using
those very site excavation and surveying
techniques which constitute a concrete
point where they meet and clash.
The book ends with an Atlas of Archaeological Landscapes, which includes a
geographic survey of sites where urban
planning and archaeological planning
interact. It features 21 cases that help
us reflect on the public use of remains
of the past in different contexts. The projects chosen were listed according to a
taxonomy of six different categories: archaeological centres (limited areas within
an urban fabric that act as city centres),
nodes (specific sites within an urban network), parks (ruins in natural environments), itineraries (physical and perceptive relationships that enhance archaeological sites), city-systems and territories
(large-scale urban or territorial development that takes its cue from the archaeological context). These profiles contain
succinct information and quantitative
data and a brief description of the improvement work done, with a particular
emphasis on the relationship between
archaeological planning and urban planning. The site plans that illustrate the
projects were specially produced for this
research so as to highlight the relationship between these ruins and their urban
systems using comparable graphics and
scales.
Last but not least, a visual insert featuring images exemplifying the relationship between architecture and archaeology illustrates the beginning of the
sections and articles. The collection of
these frontispieces, compiled by federica Morgia, constitutes a fascinating
parallel account.
Acknowledgements. When Tonino Ter-
ranova asked me in 2008 if I would like
to propose a subject for research as part
of a prin Research Project of national
Interest that we could work together on,
I suggested we work on archaeological
landscapes because I felt it was interesting to consider those sites where the
existence of a landscape that needed
protecting or enhancing, due to the
presence of ruins or abandoned and neglected areas, would provide an opportunity for experimenting with new forms
of contemporary architectural planning.
Over these many years of cooperation
in research and education, our aim was
always to combine history with the contemporary world. Indeed, Tonino – a
member of the governing council of the
ancsa (the national Association of Historical-Artistic Centres) – spent a considerable amount of time on this subject
and wrote a great deal about it. It is no
coincidence that he published, among
other things, a book entitled Le Città e
i Progetti: Dai Centri Storici ai Paesaggi
Metropolitani (‘Cities and Architectural
Planning: from Historic City Centres to
Metropolitan Landscapes’).
That initial Project of national Interest
scored highly thanks to the concept,
but was not awarded funding as it was
rightly criticised for having initiated a
discussion on archaeology in general,
from ancient times to the industrial era,
and for having been a little too self-referential.
Hence a year later, in 2009, we tried
again. We also changed the members
of the research group. We wanted to
work closely with archaeologists and
we wanted to strengthen our proposal
by including cases that could be compared more easily with the Appia Antica,
the location we wanted to use as our
case study. We therefore asked Marcello
Barbanera, Pasquale Miano, Renato
nicolini and fausto nigrelli to set up
a prin group. The project ended up all
the stronger for it, having chosen four
metropolitan areas or regions where the
themes of landscape and archaeology
are inextricably linked. Moreover, with
Renato in the group, we had an even
greater desire to concentrate on such
sites in order to save them from the twin
fate of being either isolated from the
world or – as Marc Augé says in Time
in Ruins as regards artistic, cultural and
natural heritage – of being the object of
intense media activity, “an object of consumption that is more or less divorced
from its context, or an object whose real
context is the world of planetary travel”.
The meetings I had with Tonino and
Renato when we were developing the
research plan – and, immediately after
that, the discussions we had in order to
proceed with our work once we had been
awarded funding – are some of my most
cherished memories. unfortunately,
Tonino passed away less than a month
after research work began and Renato
followed a year later. We have decided to
include two of their articles in this book.
My sincerest thanks go to them, not only
for what they gave me, the group and
this research, but for what they left behind: their reflections on cities.
The prin was a real opportunity to exchange knowledge of disciplines and territories, of different university environments and schools and it is sad to think
that this opportunity will never come
round again, as it has been struck down
by the cuts to funding for research and
culture that have been applied in Italy.
When Tonino passed away, I was made
responsible for coordinating the re-
search and that is also why I must thank
my colleagues, all of whom gave me
their support.
Working on this research programme
has been an interesting and formative experience that has been enriching
from a strictly architectural point of view
and, above all, as regards archaeology,
art and philosophy. The criticisms, advice, observations on the topic and on
the locations have bound us together
over these past few years of work in a
relationship that I feel will stand the test
of time. I would therefore like to thank
Marcello Barbanera, Pasquale Miano,
fausto nigrelli and Marcello Sèstito for
the synergy that was created.
Special thanks go to fabrizio Toppetti,
because the opportunity provided by
this research helped strengthen a commonly shared feeling and helped us
come together as a group in the postTerranova phase. The frequency of our
meetings and the intensity of our intellectual exchanges proved to be sources
of energy and enthusiasm for our work
and a comfort in the inevitably difficult
moments that life throws at us.
Without federica Morgia’s essential
contribution, this book would not have
been published and, above all, would
not have had the same characteristics.
Her dedication and, above all, intelligence were crucial.
Alessandro Lanzetta’s look at the urban
landscape and his critical view of the
project’s plan were also key.
Rachele dubbini was patient enough to
explain the archaeological aspects to
us, as well as the institutions responsible for them. We thank her most sincerely.
I’d also like to thank Angelo Cannizzaro and nino Minniti who made ef-
forts to ensure that the approach that
began with Renato did not wither with
his death, despite the difficult situations
that academic life holds in store for us.
The group of young people who helped
organise the theoretical seminars and
compile the website research proved a
fundamental resource and inspired us
to continually clarify our position. I’d
like to thank all of them, as without their
contribution this research would not exist. Thanks to Alessia, davide, Eliana,
Giulia and Valentina.
Last but not least, my thanks go to Andrea Carignani, who as an archaeologist
and, above all, a wise diplomat, lent an
ear to problems and doubts and suggested paths of contaminations among
the disciplines.
1 La Sapienza university, Roma Tre university and
Venice’s IuAV university have been focusing on
this issue for years with courses, seminars and
conferences and the publication of several different
contributions, such as: several issues of Giornale
IUAV (nos. 81/2010; 94/2011; 119/2012); editions of
Archeologia e Progetto printed by Gangemi in 2002,
2009 and 2014 (which publish Roma Tre theses); the
book Il Parco e la Città: Il Territorio Storico Dell’Appia
nel Futuro di Roma, by A. Capuano, O. Carpenzano
and f. Toppetti, published by Quodlibet, 2013; Allestire
l’Antico edited by G. donini and R. Ottaviani, Quodlibet
2013.
2 nevertheless, there has been no lack of interesting
contributions. Cf. M. Manieri Elia’s Topos e Progetto:
Temi di Archeologia Urbana a Roma, Gangemi, 1998;
A. Ricci’s Attorno alla Nuda Pietra: Archeologia e Città
tra Identità e Progetto, donzelli 2006; T. Matteini’s
Paesaggi del Tempo: Documenti Archeologici e Rovine
Artificiali nel Disegno di Giardini e Paesaggi, published
by Alinea, 2009; Via Tiburtina: Space, Movement &
Artefacts in the Urban Landscape by H. Bjiur, B.
Santillo frizer, 2009.
3 d. Manacorda, Crypta Balbi: Archeologia e Storia
di un Paesaggio Urbano, Milan 2001; M. M. Segarra
Lagunes (editor), Archeologia Urbana e Progetto di
Architettura, published by Gangemi Editore, Rome
2002; B. d’Agostino ‘napoli e l’archeologia urbana’
in Restauro & Città 1985/2; f. fazzio, Gli Spazi
Dell’Archeologia: Temi per il Progetto Urbanistico,
Officina Edizioni, Rome, 2005; R. Panella, Roma
la Città dei Fori: Progetto di Sistemazione dell’Area
Archeologica tra Piazza Venezia e il Colosseo,
Prospettive Edizioni, 2013; R. Panella, Roma Città e
Foro, Questioni di Progettazione del Centro Archeologico
Monumentale della Capitale, Officina Edizioni, Rome
1989; Le Quattro Porte del Centro Archeologico
Monumentale di Roma, edited by Orazio Carpenzano
for the Library of Sapienza university’s dAAC (the
department of City Architecture and Analysis), Rome
1993.
4 A. Signorelli, Intorno ai criteri ispiratori di una possibile
museografia demologica, in J. Cuisenier, J. Vibaek (eds.),
Museo e cultura, Sellerio, Palermo 2002.
5 P. Castelnovi, L’abbandono e i piani per il governo del
territorio, “Multiverso”, 2005.
6 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La
disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico
dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, in A.
Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco, L’antico e il nuovo.
Il rapporto tra città antica e architettura contemporanea:
metodi, pratiche e strumenti”, utet, Torino 2002.
7 J. Rykwert, Archeologia e architettura, infra, p. 311.
8 M. Augé, Le temps en ruines, Galilée, Paris 2003.
21
FRAMMeNti
Antonino Terranova
fRAMMEnTI
Il testo raccoglie alcuni contributi di Antonino Terranova liberamente scelti dalla curatrice di questo volume.
Pubblicati tra il 1984 e il 2011 e presentati cronologicamente, i frammenti riguardano il rapporto tra patrimonio e progetto contemporaneo, tra beni culturali e città,
tra memoria e futuro e narrano dell’eterna insistenza di
Terranova sulla necessità di riconfigurare il passato per
metterlo in rapporto dialettico con il presente, all’interno
di nuovi e ritrovati valori. (ac)
22
tra natura e cultura nella storicità
dell’abitare. Si può cercare un Senso
dell’abitare ricorrendo all’antico come
luogo della memoria, come deposito
degli esempi o degli archetipi originari del poeticamente abitare? L’interrogativo è parte di una serie di domande
che riguardano la qualità complessiva,
e profonda, della stessa nostra idea
dell’abitare.
dovremo dunque prendere le mosse da
qui: sembra ci sia qualcosa che non va
nel nostro rapporto con l’ambiente. […]
Il nostro rapporto oggi con la qualità
dell’ambiente è a prima vista sciatto e
distratto. Ma tale apparenza maschera
errori e rimozioni. Ad esempio, quelli di
una conoscenza tecnica, scientifica, utilitaristica. […] Tende a sfuggirci l’insieme dei nessi che costituisce l’essenza
del Paesaggio, a partire da alcune relazioni fondanti tra la forma dello spazio
ed il tempo dello spazio, e poi da alcune coppie dialettiche che costituiscono
i confini del nostro porre domande e
tentare risposte attraverso le forme ed
i tempi del paesaggio: finito ed infinito, naturale ed artificiale, mondano ed
ultramondano, necessità e libertà. Alcuni esempi si possono accennare di
tale disfunzione. […] Il nostro rapporto
con il Passato e con la Storia è separato (non chiediamo alla Storia risposte
circa i destini futuri, cui sembrano deputate scienze e tecniche), è estensivo
ma non profondo, è tanto meno capace
di vera comprensione quanto più diventa grande nell’estensione informativa. Il
nostro rapporto con il Tempo è esorcistico, non accede alla temporalità come
essenza dell’esserci, dell’essere per la
morte, non perviene alla possibilità di
simbolizzare lo scorrere del tempo e la
finitezza dell’esistente, di farsene carico e di porlo sotto dominio attraverso gli espedienti dell’arte, di operare
una scelta, una scommessa tra il mito
dell’infinita progressività della storia ed
il mito dell’eterno ritorno dell’identico.
Tali disfunzioni non sono casuali, dacché è proprio la sostanza espressiva,
connotativa, simbolica dell’Architettura ad essere stata censurata a favore
di nozioni tecnico-strumentali pretese
progressive. E quella censura è parallela alla cancellazione del Paesaggio nella dizione “ricca” che precedeva certe
cadute nell’illustrativo […]. dunque, abbiamo imboccato strade sbagliate. non
solo abbiamo fatto dell’ambiente dell’età della tecnica l’infrastruttura tecnica
delle nostre funzioni d’uso. Abbiamo
anche creduto di poter ridurre il senso
riposto nell’ambiente alla congerie dei
dati analitici risultanti dalle conoscenze
frazionate secondo intenzioni scientifiche che diventano subito strumentali e
grammaticali anche quando intendono
pervenire alla nozione della qualità. […]
Il vero “imbroglio ecologico” consiste
nel “ridurre” l’albero ad un fattore biologico. L’imbroglio dei difensori del paesaggio consiste nella vaporizzazione
funzionalistica dei temi vitali e simbolici
contenuti nel paesaggio. Così ragiona anche la omologazione di tutto nel
concetto astratto di “Bene culturale”;
il quale peraltro ossifica ciò che nella
temporalità della nostra storia ha valore
anzitutto in quanto, piuttosto, “processo culturale”. ne discende l’esigenza di
rimettersi a conoscere profondamente
ciò che generalmente infatti abbiamo
chiamato qualità ambientale. […] forse
dopotutto li abbiamo scacciati, quei temi
e quegli dei, nel nome di un presunto
progresso – igienico-sanitario, organizzativo-funzionale, democratico – dell’insediamento contemporaneo. In realtà, li
abbiamo sostituiti con altri dei.
Li credevamo più efficienti e più laici. Superbi delle nostre conoscenze/
potenze tecnico-scientifiche – ed in-
consapevoli delle nostre ignoranze/
impotenze filosofico-morali – abbiamo
creduto di sostituirci agli dei ponendo
al loro posto gli idola dell’efficienza. […]
Con gli dei è venuta a mancare la tutela
degli dei che presiedeva alla dotazione
di senso, quindi alla amorevole cura,
dei luoghi e degli itinerari. La tutela burocratica dei luoghi in quanto beni culturali non può venire a capo di quella
radicale mancanza. Poiché a nulla valgono vincoli di legge e norme tecniche
quando i luoghi da tutelare siano abbandonati da quella tutela degli dei che
è poi la rappresentazione del nostro
umano dare valore ai luoghi (alle forme
e ai tempi del loro spazio) in quanto depositi di valori che vi abbiamo proiettato
e che ci attendiamo riecheggiarne. È
senza alcun misticismo che possiamo
sostenere che gli uomini attraverso il
numinoso impersonato dagli dei elaborarono costellazioni di Temi i quali ci
parlano ancora dei modi del nostro stare nel mondo. […] dunque annettiamo
al sistema di mitizzazione-formalizzazione originaria e tradizionale il valore
di una sorta di codice espressivo dei
nostri modi problematici di stare nel
mondo, tradotto, sovente in forme divinizzanti, in espressioni tipiche di stati
d’animo, in una gamma molto ricca di
sentimenti. In temi specifici.
È con tutto ciò che intendiamo fare i
conti – in modi molto diversi di volta in
volta – quando poniamo il problema di
un rapporto con l’antico. Anche oggi. […]
forse occorre davvero sospendere ogni
tanto i “saperi” tecnici specializzati, le
“convenzioni” allegate ai nostri ruoli sociali. È la prima ricetta proposta da G.
Bachelard per il libero dispiegamento
della sua “fenomenologia dell’Immaginario”. […] Riproporsi il tema complessivo e profondo del “poeticamente
abitare” nel paesaggio antropico e nella
sua temporalità dovrebbe servire anche
a questo: ritrovare nella intricata dialettica di polarità che nell’ambiente si
instaura (tra natura e artificio, tra artistico ed empirico, tra necessita e libertà
ecc.) i fondamenti veri della disciplina;
piuttosto che vederne solo una parte,
di quella dialettica drammatica, magari allo scopo di usarne i concetti come
“formule” passepartout per imporre nozioni parziali, “ridotte”, della specifica
artisticità dell’architettura. Se “ritrovare
gli dei perduti” e “ritrovare gli archetipi” vuole essere davvero qualcosa di più
che uno slogan per conquistarsi fasce di
mercato effimere (e ricadere nel mec-
canismo iperinnovativo dell’avanguardia che si era rinnegato), deve ritrovare
presto le basi più serie per un ragionamento disciplinare che non si accontenti
della assoluta libertà, ma quindi anche
intercambiabilità e perciò dopotutto indifferenza ed inincidenza, ideologizzata
dai teorici di una “società dei simulacri”
in cui, “dopo la crisi della ragione centrata” tutto e il contrario di tutto siano
ugualmente possibili (o impossibili). […]
È tempo di ricostruire, su quelle basi.
Anzi su basi più ampie. E ciò riguarda
il nostro discorso sul ri-uso del passato. Perché ormai occorre scegliere, tra
le tante posizioni vaganti nella stessa
costellazione, qualche ipotesi di linea
meno indeterminata sulla quale operare scelte e verifiche meno superficiali.
Qualche ipotesi sul ruolo della Storia;
che è a quanto dire una qualche nostra
ipotesi sul senso che diamo alla storia
passata nel nostro essere presentemente soggiornanti, qui ed ora. […] non
è facile ammettere che, contro la cattiva qualità dell’ambiente nel territorio
della modernizzazione, si possa dover
ricorrere al senso che custodivano nei
luoghi gli dei perduti. Eppure alle radici
del cattivo rapporto che abbiamo con il
nostro abitare c’è vistosamente – prima
23
fRAMMEnTI
24
ancora delle difficoltà materiali e delle
disfunzioni sociali – la rappresentazione sintomatica o simbolica del nostro
cattivo stare al mondo, del nostro complessivo disagio di stare al mondo, del
nostro cattivo stare nel mondo in quanto
insediamento fisico. […] Invece proprio
una coscienza radicale della continuità di relazioni tra corpo dell’uomo ed
anima dell’uomo, tra particolarità e totalità, tra naturale ed artificiale, pone
senza scampo l’esigenza di ricostruire
una conoscenza del territorio che prenda le mosse anzitutto dalla fondante
conservazione scambiata tra il corpo
ed i luoghi del corpo, ma arrivi poi alla
risultante significatività che l’anima impone ai luoghi dell’anima, tentando così
di imprimere un senso generale, ultramondano, all’ambiente, mediante la
configurazione di forme del sempre cercato sempre perduto poeticamente abitare. […] Il pensiero scientifico ed il fare
tecnico – un pensare senza affetto ed un
agire con fini empiricamente delimitati
– millantavano di essere i nostri liberatori dagli dei falsi, mentre si sostituivano come nuovi dei agli antichi nel nome
di nuove religioni mondane. Mai come
oggi il rapporto tra uomo e ambiente è
stato così allentato, così privo di tensione culturale. Si parla tanto di battaglie
ecologiche e si trascura poi il fatto fondamentale, e cioè che la nostra cultura
si è come sottratta al suo vero compito,
quello di suscitare tale tensione, che è
poi difesa dell’ambiente, dell’equilibrio
uomo-natura, fondamento di ogni civiltà… Vi è in tal senso come un grande
vuoto culturale che ha la sua immagine
nello spreco del tempo libero, nell’andare della gente con lo sguardo smarrito sulle strade del week end… o anche
nella superficialità e indifferenza dei tu-
risti che oggi volano verso gli angoli terrestri celebrati da fruste letterature turistiche. Ancora il vuoto culturale è alla
base del grande delittuoso spreco di
immagini che si fa in questi anni… Certo
la prima ragione sta nella dissociazione
esistente tra società e cultura, e nella
dissociazione che vi è all’interno della
cultura stessa, tra la scienza e le sue
finalità. […] Allora occorre ritrovare proprio ciò che e stato espulso o rimosso,
censurato. Ciò che riempie la distanza
crescente attualmente arbitrariamente
interposta tra il nostro conoscere scientificamente ed il nostro vivere fenomenicamente le forme, lo spazio, il tempo del
paesaggio. Le forme, lo spazio, il tempo;
le forme e i tempi dello spazio: con questo già abbiamo detto in quali direzioni
dobbiamo cercare. […] Conserviamo,
malamente, lacerti di antichità e brani
di naturalità e spezzoni di tradizionalità
ed exempla di artisticità nelle teche che
sappiamo alienate di parchi archeologici o naturali, di città antiche devitalizzate e strutture museografiche dissociate.
[…] “non esiste un passato che si debba
richiamare col desiderio, esiste solo un
perpetuo presente, che si foggia con gli
elementi potenziali del passato”. C’è già
quasi tutto il nocciolo importante del
tema che intendiamo trattare – dal livello del senso comune a quello disciplinare dell’architettura – in quella intuizione
dell’olimpico Goethe. Sennonché ciò
che appare tranquillamente assodato
nel suo umanesimo, e fiduciosamente
recuperato nella miscela di idealismo
e spiritualismo assodato non è affatto.
non lo è per lo stesso Goethe, il quale
fu tra i primi e migliori ad andarselo a
procacciare, quel ricordo del passato,
nel suo Viaggio in Italia.
Lo è ancor meno per noi, se è vero che
quelli che al problematicismo goethiano
potevano apparire come i sintomi preoccupanti di un incombente spossessamento sono diventati oggi i dati di una
alienazione concreta. dunque il nostro
stesso affannoso ed artificioso ricercare
quella “presenza del passato” che ci è
sfuggita in un qualche “antico come luogo della memoria” è il segno tangibile di
qualcosa che non va tra noi ed il tempo
del nostro abitare. […] “La presenza del
passato” è un argomento che fa parte
del problema più generale della attribuzione di Senso che l’uomo si scambia con l’ambiente da lui abitato; quel
“perpetuo presente” evocato da Goethe
e in realtà un divenire senza scampo,
se si vuole un gioco sull’abisso. Allora,
il tema del passato come memoria, e
quello più generale del senso della qualità dei luoghi abitati, per essere compresi si devono porre a confronto con un
che di ulteriore, il quale in quei temi ed
in quelle qualità viene rappresentato,
espresso, posto in termini di valori. […]
Intorno alle figure dello spazio ed alle
forme del tempo dello spazio si annodano e riannodano di continuo, in un regime complesso di risonanze e di rimandi, di ritorni e di ripercorrimenti, diverse
serie di interessi. Riguardano l’architettura ed il pubblico dell’architettura; si
presentano oggi divise in branche disciplinari ambiguamente ritagliate; fanno
comunque riferimento ad una sorta di
senso comune, di sistema di aspettative
condiviso in ordine ai rapporti tra uomo
ed ambiente. Serve mettere un po’ di
ordine su tale insieme, ciò che significa
soprattutto tre cose.
La prima riguarda più specificamente
il comportamento disciplinare che l’Architettura può adottare, sia in ordine
alle diverse branche e strumentazioni
che si sono costituite (analisi e progetto,
vari livelli e fasi di intervento, specializzazioni tecniche ecc.), sia in ordine alla
questione – fortemente prioritaria – dei
comportamenti linguistici che si possono avere nei confronti del dilemma che
si definisce oggi tra una “tradizione interrotta” ed una “tradizione ritrovata”.
[…] La seconda riguarda in particolare il
problema della Tutela, il quale si è posto
nell’età della modernizzazione in termini di individuazione di oggetti o “beni
culturali” (sottratti a “processi culturali”
dati per interrotti), quindi di loro separazione dall’habitat ordinario mediante
procedure di recintazione e vincolazione; e deve superare le disfunzioni che
tale rozza metodologia ha suscitato,
probabilmente nella direzione di tentativi che ritrovino rapporti vitali tra antico/moderno, natura/artificio, mediante
progettazioni di nuove sintesi.
La terza riguarda un problema più generale dei modi della fruizione, dell’antico
o del passato, e della natura naturale o
rurale, nel quadro dei comportamenti
ludico-culturali, di turismo di vacanza
di tempo libero, che vigono finora nelle
società di massa. Al di qua della radicale critica dell’ideologia di tali comportamenti, e nella consapevolezza di
un irrevocabile spostamento dei termini
materiali del problema, occorre svelare
anche tecnicamente le cattive forme di
conservazione-fruizione della naturapassato, e cioè le forme regressive che
già qualcuno ha definito come afferenti
ad una ideologica “utopia del passato”.
i Monumenti. tempo dell’architettura
e tempo della città. […] Muoiono e nascono, e vivono su cicli variabili, i paesaggi. A frascati il paesaggio di villa
nasce molto prima di quello industriale
di Tivoli, su motivazioni pur retrodatate,
ma in qualche modo più autonome e durevoli. Esso oggi è lì un po’ sgretolato, a
porci i problemi della sua possibile riutilizzazione.
Questa non può essere se non progettuale. deve trovare soluzioni attuali e
specifiche. deve pagare dei prezzi.
Molti esempi stanno lì da decenni a testimoniarci che senza soluzioni progettuali la conservazione è utopia negativa.
da Roma ai Castelli il nobile rettifilo
della via Appia antica da oltre trent’anni
deve essere supporto della realizzazione di un “parco archeologico”. Separato
e sganciato da altri momenti ed istanze della crescita urbana, il parco non
può decidere il dilemma perdurante
tra posizioni di genere tardoromantico
e posizioni classiciste e/o positive. un
dilemma che potrà avere risposte – col
rischio dell’errore – solo dalla pratica
della progettazione. […] Esiste dunque
una lotta contro il tempo che è anche
aspirazione all’eternità; ma attenzione,
non sempre la si può perseguire impunemente come se il tempo non avesse
effetto. Occorre al contrario conoscerlo
quell’effetto, farsene ragione e carico,
per poterlo gestire. Progettualmente. Il
“Progetto di conservazione”, poiché non
è senza conflitto, è ancora “Progetto di
Architettura”.
valori della memoria e società post-industriale. Paradossalmente la conservazione ha sempre lavorato all’interno
della logica dell’avversario, zonizzando
artificiose porzioni da sottrarre alle regole dello sviluppo: univocità del modello
insediativo razionale; rottura del circolo
dell’ecologia umana con la proposta di
una città come “natura seconda” da sostituire alla insostituibile vitalità della natura; rottura della rammemorazione storica e della consapevolezza del “tempo
dello spazio” come supporti antropologici dell’insediamento, a favore di comportamenti di puro spreco e consumo senza residui; esorcizzazione dei caratteri
di variabilità e aleatorietà, conflittualità
e imprevedibilità, propri della città tradizionale, a favore di una ipostasi della
pianificabilità
globale-aprioristica-sequenziale della città moderna.
È lecito presumere che la società postindustriale corregga quelle tendenze?
[…] È possibile, cioè, ricondurre i “valori
della memoria” ad una loro ordinaria attività nella vita quotidiana della città esistente, sottraendoli all’irripetibile idealistico “altrove” nel quale (museo o centro
storico, parco naturale o archeologico,
monile o impianto urbanistico ecc.) sono
sacralizzati-distaccati in un’unica categoria i “beni culturali”?
Qui i sintomi sono ancora contraddittori,
indeterminati. Infatti il post-industriale
sembra anche condurre alle conseguenze più estreme, e disincantate, quel processo di separazione, parcellizzazione,
specializzazione internazionale degli usi
territoriali e culturali.
A. Terranova, Tra natura e cultura nella storicità
dell’abitare, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris, A.
Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra
natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro
editrice, Roma 1984.
A. Terranova, I Monumenti. Tempo dell’architettura e
tempo della città, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris,
A. Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra
natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro
editrice, Roma 1984.
A. Terranova, Valori della memoria e società postindustriale, in Id., Le città & i progetti. Dai centri storici ai
paesaggi metropolitani, Atti del x Convegno-congresso
nazionale ancsa, 1989, a cura di A. Criconia, Gangemi,
Roma 1993, pp. 107, 108.
25
fRAMMEnTI
26
Nell’attesa, risignificazione delle tracce. È la possibilità di tutelare il patrimonio arricchendolo – sì – mediante modifiche e aggiunte, nuovi investimenti.
Il patrimonio dell’economia simbolica,
proprio come quello dell’economica.
Che tali investimenti oggi – in tempo di
palinsesti e tracce (ma, anche, tracce di
Altrove: ad esempio il sentimento della
morte?) – possano essere effettuati con
acume di innesto nei luoghi-non-luoghi
esistenti, interpretandone i caratteri e le
aperture (i temi tematizzabili, i problemi
irrisolti, le suscettività di trasformazione
virtuosa ecc.) significa semplicemente,
di nuovo, che c’è priorità del progetto,
inteso come evento-azione-scelta topico oltreché tipico, e storicamente fragrante, nel qui e ora del “tempo appropriato”.
Ho costeggiato un tratto di Mura tra viale
Trastevere e porta Portese, nel pomeriggio, ritrovando la desolazione dei primi
sopralluoghi, per lo stato inutilmente degradato del sito, per lo squadernamento
palese di occasioni pronte di progettazione di un miglioramento facilmente radicale, per il senso di impotenza che suscita l’inerzia colpevole di questa città. Tutti
avrebbero da guadagnare da un nuovo
assetto capace di legare le mura all’archeologia dei depositi portuali, l’ex gil
di Moretti con i suoi giardinetti lottizzati
malamente alla passeggiata lungomura
ridotta a parcheggio brado del parco automobilistico romano.
Si tratta di una questione di progetto.
un progetto impossibile, piuttosto che il
progetto interrotto cui dedicava una rubrica Controspazio?
Questione inquietante per chi si stia occupando di un parco lineare integrato
delle mura nel quadro dell’ambito strategico mura del prg di Roma. […] Che tra
i Vaghi Paesaggi dell’architettura italiana
contemporanea si diano ed anzi prevalgano quelli modellati da una insistente
ed insistita, a volte ossessiva ed a volte
posticcia, “Conservazione e trasformazione del patrimonio architettonico e dei
paesaggi urbani consolidati” (con una
troppo radicale prevalenza della conservazione più cretina), è circostanza che mi
sembra accertata. […] ll benculturalismo
inflattivo o inflazionato che qualche anno
fa veniva segnalato dalla Choay, il quale
per definizione non seleziona, ma prende tutto moltiplicando anzi le opzioni con
la frenesia del consumo e del desiderio
mai soddisfatto delle agenzie di viaggio,
e dunque difficilmente opera secondo
la lezione di Raboni, e può viceversa indurlo all’amarezza: “… così di fronte alla
realtà intera, non filtrata dalla memoria,
la delusione è quasi inevitabile”. Quasi,
dice prudentemente il poeta, evitando
radicalismi apocalittico-nichilistici. È
dunque ancora possibile malgrado tutto,
mediante un attraversamento poetico di
quel tutto così barbarico e rudimentalmente pulsionale, far lavorare la memoria come “filtro”? […] “Cena con ruderi
e party al curry” titola il “Corriere della
Sera” 17/7/00 a proposito delle mondanità della moda romana: “Cena con vista
sui ruderi romani… stasera per l’estrosa
inglese Vivienne Westwood sulla terrazza
dei Mercati di Traiano”.
Si tratta di una tra le modalità tipiche
dell’italiota parassitismo del passato,
quella che sfottemmo ai suoi albori di
Suoni e Luci al foro romano. Prima della rivoluzione.
una mondalità molto differente da quella primaria dell’italico littorio che riconvocava i fantasmi imperiali nell’archeologia scenografata con il fine non troppo
sottile di replicarli. Cari fantasmi?
Memoria pubblica e Memorie private
sembrano distinguersi necessariamente oggi, anche se non necessariamente
contrapporsi.
È possibile, da un lato, coltivare le tracce della stratificazione archeologica e
architettonica del territorio storico della
città metropolitana per affidare loro obbiettivi identitari locali (le microcittà, la
toponomastica ritrovata, le nuove centralità, la città storica estesa, eccetera),
e dall’altro consentire ad un riuso postidentitario delle persistenze, affidandone la reinterpretazione-risignificazione
alle molteplici stimolazioni di volta in
volta provenienti da segmenti della
post-soggettività?
Essere ingenui come volpi, astuti come
colombe (?), virgolettare tutto all’ennesima potenza predisponendo molteplici
livelli-codici di lettura dell’opera conservata-trasformata, mantenere elementi di
autenticità ed incanto nell’ età del disincanto e dell’inautentico autenticato?
A. Terranova, Nell’attesa, risignificazione delle tracce, in
Id., Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi,
Roma, 2009, pp. 45, 46, 47 e 50, titolo originale:
Discussione per un’attesa produttiva, in L’attesa, numero
monografico della rivista “Topos e progetto”.
questa non è una villa Adriana. Villadriana, infatti è una rappresentazione
di Villa Adriana, come il Centrostorico
è una rappresentazione del Centro Storico, e proprio come non è una pipa, la
pipa che Magritte rappresenta sulla tela
del pittore, in versioni spesso complicate dalla presenza di diversi ordini e tipi
di Cornice. […] C’è un testo in questa
classe? Ovvero, perché noi siamo qui a
Villa Adriana?
Ovvero: come si configura per noi oggi la
questione che Keats identifica nell’urna
greca? Come si configurano i temi della
Verità e della Bellezza, e della loro coincidenza?
dunque, siamo qui come il Palladio per
apprendere gli archetipi, i principi, le regole dell’armonia classica?
Oppure siamo qui – anche, forse simultaneamente – per interrogarci, architettonicamente, intorno al senso che ha
per noi vivere nelle-con-le macerie? Per
interrogarci intorno alla città eterna,
alla stratificazione della realtà, al rapporto nostro con il “drago della realtà”?
[…] Villa Adriana, poi, è un Mostro, come
la villa dei Mostri di Palagonia, come
il Sacro Bosco di Bomarzo popolato di
casette inclinate e facce emergenti dalle rocce, è già l’artefatto artificioso e
ricercante verità e bellezze rovesciate
e di-vertenti, di un personaggio strano,
l’imperatore Adriano, come lo rievoca
la Yourcenar. Raccoglie ricordi architettonici e artistici del suo viaggiare, li
congela in forme stabili, li agglomera in
eterogeneità bizzarre. E tuttavia, e questa e un’altra lezione, proprio così, bizzarramente, egli produce nuova invenzione spaziale. E il tardo-antico come
l’anti-rinascimento – per lunghi periodi
dimenticati e disprezzati – produrranno poi ulteriori fioriture. Oppure, siamo
qui anche per cercare di comprendere
come mettere in scena la conservazione? L’enigmatica ossessione della nostra società, per niente condivisa dal
Gattopardo (… questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e
che ci stanno intorno come bellissimi
fantasmi muti…), ed invece pervasiva, articolatissima e maniacale oggi,
quando Orlando, allievo dell’autore del
Gattopardo, può inventariarne e categorizzarne molteplici manifestazioni in
“Gli oggetti desueti nelle immagini della
letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti”. […] Archelogia come tema, questo
forse è un problema analogo ma non
identico a quello, ossessivamente frequentato e anch’esso poco esercitato,
del “costruire-nel- sul costruito”, e sul
costruito storicamente più stratificato e
artisticamente più perspicuo. […] Infatti
si tratta di mettere a tema la messa in
scena dell’archeologia in quanto fattore
della fruizione culturale, e magari come
componente basico del radicamento
dell’insediamento attuale sul più profondo layer della metropoli. Pieghe allora, non proprio spezzate discontinuità
per la Continuità?
All’indietro “ma anche” in avanti. Oltre
nietzsche, oltre la Archeologia del sapere di Foucault e le sue rotture e conflittualità e pieghe di paradigmi, possiamo
anzi dobbiamo ascoltare Steiner che
ci ricorda come non siamo solo noi a
guardare il passato, ma soprattutto il
passato a guardare noi. nella conservazione, ma anche nell’innovazione.
La durata è importante, anche se deve
essere ri-configurata. In ogni modo la
città nella storia della sua figura – la
cosa più importante da conservare nelle sue processualità viventi, oggi nella
relazionalità dell‘opera collettiva – deve
cambiare per durare davvero, deve assumere nuove configurazioni in rapporto dialettico con quelle esistenti negli
spessori delle stratificazioni. Così la
durata può davvero assumere il Valore
di una Società consapevole e non (solo)
quello già sentito in crisi del Gattopardo.
27
A. Terranova, Questa non è una villa Adriana, in Id.,
Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi,
Roma, 2009 pp. 54, 55, 56, 57, originalmente in
Progetti per Villa Adriana, Premio Piranesi, Liberia
Clup, 2005, pp. 61-70.
A. Terranova, Appunti per nuove priorità: progetto
di trasformazione e armature del periurbano
metropolitano, in Toppetti f. (a cura di), Paesaggi e
città storica. Teorie e politiche del progetto, Alinea,
firenze 2011, p. 78.
FRAGMeNts
Antonino Terranova
fRAGMEnTS
The text brings together parts of the essays of Antonino
Terranova freely chosen by the curator of this volume.
Published between 1984 and 2011 and presented chronologically, the fragments concern the relationship between
heritage and contemporary design, between cultural assets and the city, between past and future and tell of the
eternal insistence of Terranova on the need to reconfigure
the past in order to put it in dialectic relation with the present, through new and rediscovered values. (ac)
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Halfway between nature and culture:
the historical significance of inhabiting
a place. Can we search for the Meaning
of our inhabiting a particular place by resorting to the ancient as a “site of memory”, as a warehouse of original archetypes
or examples of poetically residing somewhere? This problem is part of a series
of questions concerning the deep-rooted,
overall quality of our very idea of inhabiting a place.
We should therefore take our cue from
here: there seems to be a problem in our
relationship with the environment. […] Today, our relationship with the quality of
the environment seems, at first glance,
slovenly and absentminded. But such a
semblance conceals errors and omissions, such as those related to technical, scientific and utilitarian knowledge.
[…] We tend to overlook the combination
of connections that forms the essence of
Landscape, starting with a few basic relationships between the form of space and
the time of space, and then with some
dialectic pairs that constitute the limit to
our attempts to ask questions and find
answers through the forms and times
of landscape: finite and infinite, natural
and artificial, worldly and otherworldly,
necessity and freedom. We can cite a few
examples of this malfunction. […] Our
relationship with the Past and with History is separate (we don’t ask History for
answers regarding future destiny, which
seem to be entirely entrusted to sciences
and techniques), it is vast but not deeprooted, and the more the informative extent of it widens the less we are capable
of true understanding. Our relationship
with Time is exorcistic, it doesn’t grasp
temporality as an essential part of being,
of being for death, it doesn’t attain the
possibility of symbolising the passage of
time and the finite nature of existence, of
accepting that and dominating it through
the expedients of art, of making choices,
a wager halfway between the myth of
history’s infinite progressiveness and the
myth of the eternal reappearance of the
identical. These malfunctions are not coincidental as it is the very expressive, connotative and symbolic nature of Architecture that has been condemned in favour of
technical/instrumental notions that claim
to be progressive. And that condemnation
goes hand-in-hand with the cancellation
of Landscape in the “rich” diction that
has preceded occasional lapses into the
academic […] Hence we have gone down
to wrong roads. not only did we turn the
environment of the age of technical ex-
pertise into the technical infrastructure of
the way we use things. We were also convinced that we could reduce the meaning
of the environment to the jumble of analytical data gathered from knowledge (divided up according to scientific intentions)
that immediately becomes instrumental
and grammatical even when it intends
to achieve a notion of quality. […] The
real “ecological con” involves “reducing”
a tree to being a mere biological factor.
The con perpetrated by those who defend
the landscape consists of the functional
disappearance of the symbolic and vital
themes that landscape possesses. That is
how the standardisation of everything into
the abstract concept of “a cultural asset”
works, which, apart from anything else,
ossifies what had, first and foremost, the
value of a “cultural process” in our history’s temporality. The result is a need to
regain a deep understanding of what we
have generally defined as “environmental quality”. […] Perhaps, all things considered, we dismissed those themes and
those gods in the name of presumed progress – progress in terms of health and
hygiene, organisation and performance,
democracy – in contemporary urban life.
In actual fact, we replaced them with new
gods.
We held them to be more efficient, more
secular. In the hubris of our technicalcum-scientific knowledge and power (and
unaware of our moral-cum-philosophical
weaknesses and ignorance), we thought
we could take the place of our gods, raising idols of efficiency in their place. […]
With the loss of those gods, we lost the
divine protection that presided over the
meaning of (and hence the loving care
for) sites and itineraries. The bureaucratic
safeguarding of sites as cultural assets
cannot get to the bottom of this fundamental lack, since legislative protection
measures and technical regulations are
ineffectual when the places that require
protection are no longer protected by the
gods, which are after all the symbol of our
human need to give value to places (to the
forms and times of their space) as repositories of values that we have projected
onto them and that we expect to hear echoed there. We can state without any hint of
mysticism that human beings elaborate
constellations of Themes that still tell
us about our way of existing in the world
through the divine, personified by gods.
[…] We therefore attach the value of a kind
of expressive code concerning our problematic ways of existing in the world to
an original and traditional mythologising,
formalising system which is translated –
often into divine forms – in expressions
typical of states of mind, in a rich tapestry
of feelings, in specific themes.
We attempt to deal with all of this – in very
different ways depending on the circumstances – when we raise the problem of
our relationship with the ancient, even
now. […] Perhaps we do need to put aside
our specialised technical “knowledge”
every now and then, the “conventions” attached to our social roles. This is the first
solution proposed by Gaston Bachelard
for the unrestricted application of his
“Phenomenology of the Imaginary”. […]
The reconsideration of the overall, profound theme of “poetically inhabiting” the
anthropic landscape and its temporality
should also help us rediscover the true
foundations of this discipline in the intricate dialectics of polarity that imbue the
environment (between the natural and the
artificial, between the artistic and empirical, necessity and freedom, etc.), rather
than only seeing part of that dramatic
dialectic, perhaps with the aim of using its
concepts as universal “formulae” in order
to impose partial, “reduced” notions of
the specific artistic quality of architecture.
If “rediscovering our lost gods” and “rediscovering the archetypes” really aims
to be more than just a slogan for gaining
ephemeral market shares (and ending up
re-embracing the hyper-innovative mechanism of the avantgarde we had rejected),
it needs to find more serious grounds
for an architectural line of reasoning as
soon as possible, a line of reasoning that
doesn’t settle for absolute freedom and
therefore interchangeability which is after all indifference and ineffectuality, ideologised by the theorists of a “society of
idols” where, “after the crisis of perfect
rationality”, everything and its opposite is
equally possible (or impossible). […] It is
time to reconstruct on those foundations,
or rather on broader foundations, and this
concerns our discussion on the re-use of
the past. Because we now have to choose
a possible line of enquiry out of the many
shifting positions found in the same constellation, a line of enquiry that will be less
indeterminate and that can help us make
more informed choices and assessments.
These could be possible hypotheses regarding the role of history, which is as if to
say a hypothesis of ours on the meaning
we attribute to the past of our inhabiting
this place, here and now.
[…] It is difficult to admit that, faced with
the deterioration of the environment in
the world of modernisation, we need to
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resort to the meaning that our lost gods
harboured in particular places. And yet
the symptomatic or symbolic representation of our problematic way of existing in
the world, of our overall unease with existence, of our incapacity to reside happily
in a physical location, is clearly the root of
the negative relationship we have with our
way of inhabiting places, far more than
any material difficulties or social failures.
[…]In contrast, it is this very radical awareness of the continuity of the relationship
between our body and soul, between the
part and the whole, between the natural and artificial that inexorably imposes
the need to reconstruct an understanding of the territory that will take its cue,
first and foremost, from the foundations
of conservation exchanged between
the body and the places of the body, but
that can then achieve the meaningfulness that the mind imposes on places of
the soul, hence attempting to impress a
general, otherworldly meaning to the environment, through the creation of forms
of what has always been sought for and
has always been lost: the poetic inhabiting of a place. […] Scientific thought and
technical action – thought without feeling
and action with limited empirical ends –
boasted that they were liberating us from
false gods, while they put themselves in
their place as new gods in the name of
new, worldly religions. The relationship
between human beings and the environment has never been so distant, so lacking in cultural tension. People go on about
ecological battles and then disregard the
fundamental fact that our culture seems
to have fallen short of its true task: that
of inspiring such tension, which, when
it comes down to it, is the protection of
the environment, of the balance between
Man and nature, the foundation of every
civilisation… When it comes to this, there
seems to be an enormous cultural void
that is mirrored in the wasting of leisure
time, in the glazed look in people’s eyes as
they wander the streets at the weekend…
or even in the superficiality and indifference of tourists who fly to the ends of the
earth, visiting locations praised by hackneyed tourist guides. Again, the cultural
void lies at the heart of the enormous
criminal waste of images seen in the past
few years… no doubt, the main reason
for it is to be found in the disjuncture that
exists between society and culture and
the disjuncture that exists within culture
itself, between science and its aims. […]
We therefore need to find precisely what
was removed, omitted or condemned,
that which fills the growing distance that
has been arbitrarily placed between our
scientific understanding of things and the
way we externally experience the landscape’s forms, space and time. forms,
space, time; the forms and times of
space: this in itself tells us in what direction we should be moving towards. […] We
badly preserve ancient fragments, shreds
of nature, pieces of tradition and exempla
of art in archaeological or national parks,
ancient dead cities and isolated museums, mere display cases we know to be
alienated. […] “There is no such thing as
a past that must be summoned up by our
will; there is only a perpetual present that
takes shape using potential elements of
the past”. This insight by the writer Goethe contains almost the entire fundamental crux of the issue we intend to discuss, from the point of view of commonly
shared meaning to that of the discipline of
architecture. Except for the fact that everything that appears easily ascertained by
his Humanism and confidently recovered
in the mixture of proven spiritualism and
idealism isn’t at all. Even Goethe himself
didn’t think so, as he was one of the first
and best to procure that memory of the
past during his Italian Journey.
It is even less so for us, if it is true that what
may have seemed like worrying symptoms
of a looming dispossession to Goethian
problematicism have now become the
facts of a tangible alienation. Therefore
our own laborious and forced attempts to
search for that “presence of the past” that
has escaped us in some “ancient element
like a site of memory” is a tangible sign
that something is amiss between us and
the temporality of our inhabiting a place.
[…] “The presence of the past’” is a topic
that is part of the more general problem
of the Meaning that human beings attribute to the environment they live in; that
“perpetual present” described by Goethe
is in actual fact a coming into being with
no way out; if you like, a game played on
the edge of an abyss. So if we want to understand the theme of the past as memory
and the more general issue of the sense
of the quality of inhabited places, we need
to compare them with something beyond
that, which in such themes and qualities
is represented by, expressed and posed
in terms of values. […] Several different
interests – characterised by a complex
system of echoes and cross-references,
returns and revisitations – continually
wind round the figures of space and the
forms of temporal space. They concern
architecture and architecture’s audience;
today they appear in branches of science that are vaguely distinct one from
the other; they nevertheless refer back
to a kind of commonly shared meaning, a
system of shared expectations as regards
the relationship between people and their
environment. We need to put this mass of
elements in order, and this means three
things, above all.
The first specifically concerns the behaviour that Architecture as a discipline
can adopt, both as regards the various
different branches and instruments that
have evolved (analysis and design, various levels and phases of work, different
technical specialisations, etc.) and as
regards the priority issue of the linguistic approach that can be adopted when
faced with the dilemma that has arisen
today between an “interrupted tradition”
and a “revived tradition”. […] The second
particularly concerns the problem of Protection, which in the age of modernisation
has been posed in terms of the identification of objects or “cultural assets” (as opposed to “cultural processes”, understood
to be interrupted), hence their separation
from the ordinary habitat using fencing
off and protection measures; and it must
overcome the failures that such a rough
methodology has generated, probably in
the direction of attempts that can recover
vital relationships between ancient and
modern, natural and artificial by planning
new syntheses.
The third concerns the more general
problem of the ways in which the old or
the past and rural or natural countryside
are used in terms of the behaviour that
in culture and entertainment, in tourism,
holiday and leisure time has been typical
in mass society up until now. Irrespective
of the radical criticism of the ideology of
such behaviour – and aware of the irreversible shift seen in the problem’s tangible terms – we need to reveal poor forms
of conservation/usage of nature/the past,
even in technical terms, i.e. regressive
forms that some people have already defined as related to an ideological “utopia
of the past”.
Monuments: architectural time and city
time. […] Landscapes appear and disappear and live in changing cycles.
frascati’s villa landscape appeared far
earlier than the industrial landscape of
Tivoli, based on motivations that, while
backdated, are somehow more independent and lasting. Today it’s there, a
little worse for wear, raising the problematic issue of its possible re-use.
This must involve an architectural plan. It
must find up-to-date, specific solutions.
A price must be paid.
Many examples have sat there for decades, proof that conservation is negative
utopia without architectural solutions.
for over 30 years now, the noble Via Appia
Roman road stretching from Rome to the
Castelli Romani hilltop towns is meant to
sustain the creation of an “archaeological park”. Isolated from, and unconnected to, other instances and examples of
urban expansion, the park cannot solve
the continuing dilemma between lateRomantic positions and Classicist and/
or positive positions. It is a dilemma that
will only be resolved – incurring the risk
of making mistakes – by applying an
architectural plan. […] It is therefore a
race against time, as well as a search
for eternity. However, we cannot always
pursue that goal with impunity, as if
time made no difference. On the contrary, we need to be aware of the difference
it makes and take it on board if we want
to be able to manage it in an architecturally planned approach. “Preservation
Plans” are like “Architectural Plans”, in
that there is always a conflict.
the values of post-industrial memory
and society. Ironically, conservation has
always operated with an adversarial approach, dividing areas up into artificial
zones so as to save them from the rules
of development: the universal application of a rational urban model; an interruption of the cycle of human ecology by
proposing a city that is “second nature”
and replaces the irreplaceable vitality of
nature; a break with the remembrance of
the past and the awareness of “the time
of space” as anthropological urban aids,
encouraging behaviour characterised by
pure waste and consumption that leaves
no trace; the removal of the variables,
random elements, conflicts and unpredictability that have always been typical
of cities in favour of a hypostasis of the
global-a priori-sequential plannability of
modern cities.
Is it fair to assume that post-industrial
society will correct such tendencies? […]
That is to say, is it possible to bring “the
values of memory” back to their usual
role in the daily life of today’s cities,
saving them from the one-off idealistic “elsewhere” where museums, old
town centres, national or archaeological
parks, urban layout and monument etc.
are made sacred and singled out in one
sole category (“cultural assets”)?
The symptoms are still contradictory
and vague here. The post-industrial does
seem to lead to the most extreme and
disappointing consequences, that process of the separation, parcelisation and
international specialisation of territorial
and cultural uses.
A. Terranova, Tra natura e cultura nella storicità
dell’abitare, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris, A.
Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra
natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro
editrice, Roma 1984.
A. Terranova, I Monumenti. Tempo dell’architettura e
tempo della città, in P.P. Balbo, C. d’Amato, T. Paris,
A. Terranova, L’antico come luogo della memoria. Tra
natura e cultura nella storia dell’abitare, Casa del libro
editrice, Roma 1984.
A. Terranova, Valori della memoria e società postindustriale, in Id., Le città & i progetti. Dai centri storici ai
paesaggi metropolitani, Atti del x Convegno-congresso
nazionale ancsa, 1989, edited by A. Criconia, Gangemi,
Roma 1993, pp. 107, 108.
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in the meantime, the attribution of new
meaning to the traces left. This is the
chance to protect our heritage by enriching it – that’s right – with changes and
additions, new investment. The heritage
of the symbolic economy, just like that of
the economy itself.
If such investment can now be made –
at a time of palimpsests and traces (as
well as traces of Elsewhere: for example,
the feeling of death?) – with well-applied
grafting in existing places-non-places,
interpreting their characteristics and
overtures (themes that can be thematically treated, unsolved problems, the
susceptibility of constructive change
etc.), this simply means, again, that architectural plans are being given priority,
plans understood as a topical (as well as
typical) event-action-choice that is historically loaded in the here-and-now of
“appropriate time”.
I walked along a stretch of the Roman
walls between Viale Trastevere and Porta
Portese one afternoon, coming across
the same desolation I saw during my first
visits, due to the needlessly deteriorated
state of the site, the obvious plethora of
ready-made opportunities for immediately improving the current situation,
the sense of impotence that this city’s
guilty inertia inspires. Everyone would
have something to gain from a new system that could connect the Roman walls
to archaeological elements such as the
port warehouses, Moretti’s former gil
building with its badly-allotted gardens,
to the walk along the walls reduced to an
unauthorised roman car park.
What we are talking about here is a question of architectural planning. An impossible plan, or the interrupted plan featured in a column in Controspazio?
It’s a worrying question for those who
are working on an integrated linear park
of the walls as part of Rome’s strategic
Plan for the Aurelian Walls in its prg
urban development plan. […] It seems
obvious that among the Vague Landscapes of contemporary Italian architecture, those that prevail are the ones
modelled on an insistent and insisted, at
times obsessive and at times piecemeal
“conservation and transformation of architectural heritage and consolidated
urban landscapes” (with a far too extreme predominance of the most idiotic
conservation practices). […] It is an inflationary or inflated pseudo-interest in
cultural heritage that was noted by Choay a few years ago, which by definition
doesn’t choose but takes everything,
multiplying the options instead with a
frenzy for consumption and thirst that
is never satisfied by travel agencies and
therefore has difficulty working according to the teachings of Raboni, and can
instead engender bitterness:“…in this
way, when faced with reality, unfiltered
by memory, it is almost inevitable that
disappointment will ensue” (“almost”,
as this poet prudently points out, avoiding apocalyptic-nihilistic radicalism). Is
it still therefore possible, despite everything, to apply memory as a “filter”
using a poetic visitation of all that is so
barbaric and rudimentally compulsive?
[…] “dinner with ruins and curry party”
was the title of an article in the “Corriere della Sera” newspaper published
on 17/7/00 about roman fashion in high
society: “dinner with a view of Roman
ruins… this evening arranged for eccentric British designer Vivienne Westwood
on the terrace of Trajan’s Markets”.
This is one of the typical ways Italians exploit the past, the way we jeered at with
the beginning of the Sounds and Light’s
show at the Roman forum, before the
revolution.
A very different way from the early kind
employed during the fascism, which resuscitated imperial ghosts in stage-set
archaeology with the less-than-subtle
aim of copying them. Well-loved ghosts?
Public memory and private memory necessarily seem to belong to different categories today, even if they don’t necessarily oppose each other.
Can we, on the one hand, cultivate the
traces of archaeological and architectural layers of the metropolitan city’s
historic territory so as to imbue them
with goals of local identity (microcities,
regained place names, new city centres,
the extended historic city etc.) and on
the other hand allow the post-identitygenerating use of remaining heritage,
entrusting its reinterpretatation and the
reattribution of meaning to the many
stimuli that regularly emerge from postsubjective quarters?
Can we be as innocent as foxes, as clever
as doves (?), put everything in quotes to
the “nth” degree, setting up a myriad
levels/codes of interpretation of the object that has been conserved/converted,
maintaining elements of authenticity and
charm at a time of disillusionment and
authenticated “inauthenticness”?
A. Terranova, Nell’attesa, risignificazione delle tracce,
in Id., Dalle figure al reale, a cura di G. Spirito,
Gangemi, Roma, 2009, pp. 45, 46, 47 e 50; first edition:
Discussione per un’attesa produttiva, in L’attesa, “Topos
e progetto”.
this is not a villa Adriana. Hadrian’s
Villa is, indeed, a representation of Hadrian’s Villa, just as the Old Town Centre is
a representation of the Old Town Centre,
and – just as the pipe Magritte painted on
his canvas is not a pipe – in versions that
are often complicated by the presence of
different types of frame. […] Is there a
text in this class? I.e., why have we come
to Hadrian’s Villa?
That is to say: how is the question Keats
raises in his Ode to a Grecian Urn put today? How are the themes of Truth and
Beauty – and how they coincide – put
today?
Are we therefore here, like Palladio, to
learn about the archetypes, the principles and rules of Classical harmony?
Or are we here to question, architecturally, the meaning that living in/with
ruins has for us? Perhaps both? So as
to ask ourselves: what is the eternal
city, what are the layers of reality, what
is our relationship with “the dragon of
reality”? […] Moreover, Villa Adriana is
a Monster (like the Villa of Monsters of
Palagonia, like Bomarzo’s sacred grove
populated by leaning houses and faces peering out from the rocks), a fake
searching for amusing and upturned
truth and beauty, belonging to a strange
character, emperor Hadrian, as evoked
by Yourcenar. It brings together architectural and artistic travel souvenirs, it
freezes them in permanent forms and
collects them in bizarre heterogeneous
conglomerations. And yet (and this is
another lesson), bizarrely, it is in precisely this way that it produces new
spatial invention. And late Classicism
like the anti-Renaissance – forgotten
and scorned for so long – will produce
future fruits. Or are we also here to try
to understand how to stage conserva-
tion? Our society’s enigmatic obsession, not at all shared by Giuseppe Tomasi di Lampedusa’s Leopard (… these
monuments from the past, too, magnificent yet incomprehensible because
they were not built by us and that stand
around us like beautiful silent ghosts…)
and yet pervasive, highly complex and
maniacal today, when Orlando, the pupil of The Leopard’s author, can catalogue and categorise its many manifestations in Obsolete Objects in the Literary Imagination: Ruins, Relics, Rarities,
Rubbish, Uninhabited Places and Hidden
Treasures. […] Archaeology as a theme:
this is perhaps a similar, though not
identical, problem to the one obsessively raised (and also little exercised)
of “building in/on buildings” and building on more layered and more obviously
artistic buildings. […] This does indeed
involve systemising how archaeology
is staged as a factor of cultural access
and perhaps as a basic component of
the way current urban reality is rooted
in the city’s deepest layer. Cracks then,
rather than clear-cut breaks. discontinuity in aid of Continuity?
backwards “but also” forwards. Beyond
nietzsche, beyond foucault’s Archaeology of Knowledge and its departures,
conflicts and paradigm bending, we can
– indeed, we must – pay heed to Steiner
when he reminds us that while we look
to the past, it is above all the past that
looks to us. In preservation, as well as
in innovation. How long something lasts
is important, even it if it needs to be reworked. In any case, the city in the history
of its image – the most important thing
worth preserving during its processes of
change that, over time, are completed as
a collective effort – must change if we
want it to last, it must take on new forms
in a dialectic approach with those in between its layers. Hence duration can
truly take on the Value of an informed
Society and not (only) that felt during the
crisis of the Leopard.
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A. Terranova, Questa non è una villa Adriana, in Id., Dalle
figure al reale, a cura di G. Spirito, Gangemi, Roma,
2009 pp. 54, 55, 56, 57; first edition: Progetti per Villa
Adriana, Premio Piranesi, Liberia Clup, 2005, pp. 61-70.
A. Terranova, Appunti per nuove priorità: progetto di
trasformazione e armature del periurbano metropolitano,
in Toppetti f. (ed. by), Paesaggi e città storica. Teorie e
politiche del progetto, Alinea, firenze 2011, p. 78.
TuTela e reinvenzione
PRESERVATION AND REINVENTION
a cura di edited by alessandra Capuano
ARCHeoloGiA e Nuovi iMMAGiNARi
Alessandra Capuano
una giornata di nuvole, a Minden, / su un taxi che mi porta / in cerca di queste due parole. / Chiedo in
giro e nessuno sa / cosa indichino – esattamente, dico – / che luogo sia, dove, se una fortezza / o una
chiusa. Eppure il nome brilla / sulla carta geografica, un barbaglio, / nel fitto groviglio consonantico,
che lancia / brevi vocali luminose, come l’arma / di un uomo in agguato nel bosco. / Si tradisce, e io
vengo a cercarlo. / Il panorama op-art si squaderna tra alberi / e acque, mentre i cartelli indicano ora
/ una torre di Bismark, ora il mausoleo di Guglielmo, / la statua con la gamba sinistra istoriata / dalla
scritta: “Manuel war da”, / incisa forse con le chiavi di casa, tenue / filo dorato sul verde del bronzo, /
linea sinuosa della firma, fiume / tra fiumi. Lascio la macchina, inizio a camminare. / foglie morte, una
luce mobile, l’aria gelata, / la fitta di una storta alla caviglia, / io, trottola che prilla, io, / vite che si svita.
nient’altro. / Eppure qui sta il segno, qui / si strozza la terra, / qui sta il by-pass, il muro / di una Berlino
idrica in mezzo / a falde freatiche, bacini artificiali, / e la pace e la guerra e la lingua latina. / niente. E
mentre giro nella foresta penso / all’autista che attende perplesso, / all’autista che attende perplesso
/ e ne approfitta per lavare i vetri / mentre nel suo brusìo / sotto il cruscotto scorre sussurrando / il
fiume del tassametro, l’elica del denaro, / diga, condotto, sbocco, chiusa dischiusa, aorta, / emorragia
del tempo e valvola mitralica, / Porta Westafalica della vita mia.
Valerio Magrelli, Porta Westfalica, 1992
Il senso di spaesamento e di profonda necessità, che prova Magrelli nelle sue euristiche deambulazioni mirate a reperire e a identificare un monumento, un “segno”
sperduto nella Renania, traccia del tempo e, al tempo stesso, organo vitale della storia
– della nostra storia – ci colpisce e ci appartiene, perché dipinge quello stato di frammentazione e di panorama op-art – come dice l’autore – dei territori contemporanei che
oggi tutti noi viviamo.
la città contemporanea e gli spazi pubblici. Il declino dello spazio pubblico e il deterioramento delle connessioni fisiche che interessano la città contemporanea, tutta
pp. 34-35 R. Panella, Schizzo di studio per la
sistemazione dell’area tra piazza Venezia e Colosseo
a Roma, 1985.
1 d. Pikionis, Disegno per l’Hotel Xenia a Delfi, 1951
(particolare).
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TUTELA E REINVENZIONE
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fondata sulla sola dimensione economica, devono farci riflettere sui valori che riteniamo possano dare corpo a un ripensamento sul modo di “fare città” che sappia mettere
al centro la qualità dello spazio. L’incontrollata crescita della metropoli globale, i conflitti che la attraversano, il suo essere dominata esclusivamente dalle logiche di mercato, il suo affidarsi sempre più spesso agli “eventi” come motore di una qualsivoglia
modificazione, la mutazione degli stili di vita indotta soprattutto dalla rivoluzione telematica, l’inefficacia della pianificazione moderna, sono alcune delle dinamiche che
hanno determinato la situazione attuale. È evidente la sostanziale incapacità da parte
delle istituzioni di controllare, se non con parametri quantitativi e normativi, gli esiti
delle trasformazioni urbane, tutti incentrate sul soddisfacimento di requisiti funzionali
o legislativi, ma ben raramente attente a costruire spazi di relazione significativi.
Le nostre città, quelle più estese e complesse del piccolo e tranquillo insediamento
a nord del Reno cui si riferisce Magrelli, si assomigliano sempre di più, in particolare nelle aree periferiche e periurbane, presentandosi come un patchwork di edifici
isolati e chiusi nei propri lotti se non addirittura recintati, intervallati da spazi verdi
residuali e spesso abbandonati, frammenti di agricoltura, vaste aree asfaltate per
parcheggi. Gli edifici possono contenere residenze e uffici, funzioni commerciali o
produttive, con una certa indifferenza alla tipologia e anche all’immagine che essi
offrono. La sola vera distinzione che si può fare tra i diversi continenti del nostro
pianeta riguarda la scala e forse anche la densità degli edifici: più alti e fitti nelle
metropoli asiatiche e distribuiti per distinte zone funzionali, maggiormente mescolati tra loro nelle città europee, anche se da una parte e dall’altra del mondo emerge
l’organizzazione spaziale della città americana, lo sprawl urbano e la sua indifferenza agli spazi di relazione.
Anche i centri città soffrono di forme di omologazione, se non proprio nelle sembianze
dei luoghi, poiché ogni città conserva tracce delle proprie stratificazioni che le rendono
diverse l’una dall’altra, senz’altro nei modi d’uso, universalmente orientati alle pedonalizzazioni che si accompagnano alla messa in scena di strip commerciali con artigianato di serie e souvenir annessi, branding stores e ristorazione. Le capitali mondiali
e le città d’arte sono inoltre attrezzate per ricevere i flussi turistici, sia di massa che
appartenenti a un modo più ricercato di compiere il Grand Tour contemporaneo.
Lo spazio che il nostro sistema socio-economico produce può essere anche considerato cinicamente, come alcuni autorevoli architetti e urbanisti sostengono, l’unico
inevitabile e realistico esito. d’altro canto, l’affermarsi di un nuovo interesse nei confronti degli spazi aperti delle città e di alcune più virtuose modificazioni urbane intraprese soprattutto in nord Europa (ma non solo) fa pensare che la domanda di luoghi
di qualità non si sia esaurita con l’avvento dello sprawl e della città telematica. Anzi, la
sociologia ha già segnalato i problemi che l’eccesso d’isolamento nella rete provoca sui
singoli e l’importanza che hanno le relazioni personali e il contatto tra gli individui che
costituiscono la maggiore attrattiva della vita urbana, insieme alla concentrazione di
infrastrutture, istituzioni e servizi.
Già oggi vive nelle città più del 50% della popolazione mondiale. Riflettere quindi sullo
spazio pubblico e sulle forme che esso può assumere non è un esercizio obsoleto ma
un tema significativo non solo per lo specifico campo degli studi urbani. In tutte le epo-
che, la forma della città è sempre stata importante espressione di raffigurazione della
cultura del luogo. I connotati morfologici dell’agglomerato urbano non rivelano solo
principi funzionali, ma comunicano anche visioni del mondo, aspetti simbolici e rappresentativi di una società. La vita non si esaurisce nel solo adempimento di funzioni
pratiche legate alle nostre quotidiane attività, ma ha bisogno di ambiti in cui si possano
sentire rappresentati il volto spirituale e il senso dell’esistenza.
In aggiunta, oggi, proprio perché le città diventano soggetti di un mercato in concorrenza, le capacità attrattive di un territorio concorrono a collocarle nella competizione globale. In questo senso il sistema degli spazi aperti e il rapporto con la memoria
sono due questioni importanti per affrontare il discorso sulla qualità dello spazio
urbano e del territorio. Questi sono stati i temi oggetto della nostra ricerca con particolare riferimento ai paesaggi dell’archeologia in aree e regioni metropolitane. Si
tratta di luoghi, dove la natura e il patrimonio rappresentano importanti risorse da
valorizzare al fine di perseguire quella ricerca di qualità dello spazio urbano necessaria al “fare-città”.
spazi aperti e naturali. da quando Barcellona ha avviato il noto programma d’interventi che ha avuto lo scopo di recuperare il tessuto urbano della città, il tema della
qualità degli spazi aperti è stato messo al centro delle politiche di rinnovo di molte
altri contesti, dando spesso risultati positivi. L’esemplare caso della città catalana si è
realizzato sperimentando nuove strategie d’intervento urbano e di rinnovo dei linguaggi
espressivi, rivitalizzando strade e piazze, valorizzando il patrimonio, trasformando aree
periferiche per un uso pubblico, recuperando aree industriali dismesse e cave abbandonate da restituire alla città dotandola anche di nuove opere, oltre che di moderni
spazi. Il fine era di creare relazioni tra gli insediamenti urbani, connettere tra loro parti
distinte, creare continuità, dando origine a nuove centralità.
uno degli aspetti maggiormente innovativi di questa esperienza è stato il modo di trattare il rapporto con le aree naturali, generando una serie di spazi che non possono
essere annoverati nelle tassonomie classiche di piazze e di giardini e superando quella
distinzione ottocentesca tra parco come spazio salubre e città come luogo dello sviluppo1. Si trattava di aree marginali tra campagna e periferia, spazi residuali in prossimità
di nodi infrastrutturali o di condizioni naturali da rigenerare o valorizzare, spesso di
aree ad ampia scala che hanno indotto a lavorare per sequenze di spazi, di temi e di
elementi. Il tentativo riuscito è stato quello di cercare di risolvere la mancanza d’integrazione funzionale tra le parti che la città moderna, con l’astrattezza dei principi
compositivi ancora più eclatante sul tema del verde, ha prodotto.
La pianificazione della modernità ha infatti mappato le aree anziché disegnare progetti
fatti di edifici, spazi aperti e strade. Si è così persa la concatenazione diretta tra piano
e tessuto urbano. Se il piano diventa solo zoning e non idea di città, viene a mancare la
rappresentazione urbana, la figura simbolica capace di dare riconoscibilità e senso alla
metropoli contemporanea. Con la necessità di riguadagnare un’integrazione tra vuoti e
pieni nella città e con la spinta ambientalista che ha affermato l’esigenza di una estesa
e garantita conservazione degli spazi naturali allargando il sistema dei territori tutelati,
39
1 Cfr. G. Celestini, L‘architettura dei parchi di Barcellona.
Nuovi paesaggi metropolitani, Gangemi, Roma 2002.
TUTELA E REINVENZIONE
sono emersi nuovi valori simbolici della figuratività urbana che diventano ineludibili
strumenti di costruzione di senso della città e di affermazione di nuovi stili di vita.
40
Progetto archeologico e progetto urbano. Il territorio italiano custodisce numerosissime tracce della propria topografia antica e gli studi della struttura e della storia delle
città sono un primario esito della cultura architettonica italiana. Eppure, l’isolamento
delle aree archeologiche, protette in recinti o da ringhiere, oppure chiuse nei parchi
archeologici, causa una separazione fisica e una sconnessione concettuale nella continuità della storia e della città. La successione delle epoche dovrebbe, invece, essere
tenuta insieme, fino ad includere l’epoca in cui viviamo.
Sono ormai alcuni decenni che la cultura architettonica e urbanistica ha denunciato
l’inadeguatezza dello zoning come strumento per la pianificazione delle città, riconoscendo che la suddivisione del suolo in aree omogenee e monofunzionali è espressione
di una concezione sommatoria e analitica incapace di raffigurare le molteplici relazioni
necessarie a “fare città”. Le aree archeologiche, in quanto zone monofunzionali urbane, finiscono dunque per essere definitivamente separate dal contesto e dal tessuto
a cui appartenevano e di cui dovrebbero far parte ancora oggi. La stratificazione delle
epoche e delle funzioni rappresenta, invece, una necessaria complessità delle città,
soprattutto nel contemporaneo. A questa istanza non risponde la cultura del vincolo,
concentrata a ribadire la necessità dell’isolamento. L’idea che debba esistere una separazione fisica tra i frammenti del passato e gli edifici più recenti rispecchia una concezione dell’archeologia come “scienza degli oggetti”, come catalogo, ovvero primato
dell’istanza analitica su quella interpretativa e creativa e prevalenza degli elementi discreti sulla continuità spazio-temporale.
È possibile invece studiare e progettare lo spazio urbano in continuità – concettuale e
figurativa – con lo spazio archeologico, promuovere l’integrazione delle antichità con
le esigenze della città contemporanea, innovando sistemi e spazi urbani, sottraendo
l’archeologia a un esclusivo uso turistico o specialistico, per incoraggiarne il potenziale godimento quotidiano, adatto a promuovere una tutela attiva dei paesaggi. Progetto
archeologico e progetto urbano potrebbero trarre sostegno l’uno dall’altro, interagendo nel cuore dei processi trasformativi.
spazi urbani e memoria. La pubblicazione nello stesso anno – il 1903 – delle riflessioni
di Simmel sulla metropoli contemporanea e di Riegl sul culto moderno dei monumenti
mette in luce l’indissolubile contrasto e l’inseparabile connessione per la modernità –
sancite in seguito anche dalla Carta d’Atene del 1931 e dalla Convenzione dell’unesco
del 1972 – tra città storica e città in attuazione. La storicizzazione della città e il suo
valore come memoria e simbolo si affermano, infatti, quando lo spazio urbano subisce
traumatici sconvolgimenti a causa della rivoluzione industriale. L’attenzione rivolta ai
centri storici produce poi, nel novecento, una pletora di teorie, di pratiche e politiche
mirate alla conservazione di quello che viene denominato patrimonio, ovvero l’eredità
che va trasmessa di generazione in generazione e che françoise Choay chiama l’e-
spansione ecumenica delle pratiche patrimoniali2, volendo indicare il tema socio-politico
che emerge nella preoccupazione degli stati-nazione che diffusamente si pongono
come garanti della specificità e del senso di appartenenza e che conduce a un proliferare di queste politiche della conservazione.
L’eredità dell’antico e la memoria del passato investono, infatti, la sfera della rappresentazione urbana e della monumentalità, della narrazione e dell’identità, in una parola il significato della città, svolgendo una funzione sociale e culturale di massima
importanza per la comunità. da quando Romanticismo e neoclassicismo hanno ripreso dall’esperienza rinascimentale il culto per le rovine dell’antichità si è rafforzato il
valore di fruizione estetica o simbolica nei confronti di architetture e oggetti che hanno
smesso di essere percepiti solo nella loro dimensione funzionale.
Il valore semantico degli spazi urbani è stato evidenziato da Roland Barthes3 che ha
messo in luce come una città non è un tessuto di elementi tutti uguali ma esistono
elementi paradigmatici maggiormente marcati simbolicamente. Questo significa che
lo spazio, al pari del linguaggio, è un’importante modalità di espressione individuale e
collettiva e in quanto tale è oggetto anche di conflitti, come sostiene Tramontana in uno
studio sul ruolo del patrimonio nella nostra cultura4:
Attraverso l’esperienza intersoggettiva dello spazio, il soggetto si muove in zone, territori (sia reali
che metaforici) assiologizzati e investiti di senso dalla propria comunità di riferimento. Alcuni di questi
richiedono un comportamento di deferenza, altri sono investiti di valore estetico e richiedono azioni
concrete di conservazione. Le varie forme di adesione, congiungimento e devozione mostrano una forte
presenza della componente passionale e timica nel rapporto tra un corpo dotato di un habitus e il proprio habitat: tuttavia tale rapporto è tutt’altro che deterministico o facilmente decifrabile a partire da
chiavi di lettura universalmente valide. Al contrario il nesso esistente tra un soggetto, quello che percepisce come suo spazio e quello che percepisce come sue tradizioni è molto complesso ed è terreno di una
continua ricerca, esplorazione e posizionamento strategico, soggetto quindi a continui cambiamenti.
[…] A questi segni, simboli o emblemi va riconosciuta una carica semantica, una performatività non
comune a tutti gli altri. Tale carica semantica del patrimonio in molti casi lo avvicina a quella altrettanto
potente di alcuni elementi considerati sacri5.
Malgrado sia talvolta campo di opposizioni, la rilevanza della memoria per la coesione
sociale e per la definizione dei valori collettivi ha dunque un’importante funzione di
ordine cognitivo, simbolico, normativo e affettivo. La reinterpretazione delle narrazioni
orienta i destini di un popolo, fa riflettere sugli errori commessi, informa sui valori e le
esperienze perseguite. Il modo in cui essa si esprime non può quindi essere stabilito
da decisioni unilaterali, da un unico e rigido codice di regole che tende a evitare commistioni espressive, ma deve potere assumere le svariate e possibili conformazioni e
configurazioni che rappresentano anche la molteplicità dei punti di vista di una società.
Perché i paesaggi dell’archeologia? In questo quadro, il tema dell’archeologia rappresenta un argomento particolare della più generale questione del patrimonio. Il carattere
aperto della rovina, l’aver perduto definitivamente il suo valore d’uso, il suo aspetto attivo
2 f. Choay, L’allegoria del patrimonio, Officina Edizioni,
Roma 1995.
3 R. Barthes, Semiologia e urbanistica, “Op. cit”, 10, sett.
1967.
4 A. Tramontana, Il Patrimonio del’Umanità dell’UNESCO.
Un’analisi di semiotica della cultura, tesi di dottorato,
università di Bologna, 2007 (disponibile in www.
amsdottorato.unibo.it/222/1/Tesi_Tramontana.pdf).
5 A. Tramontana, Il Patrimonio del’Umanità dell’UNESCO,
cit.
6 G. Simmel, La Rovina, in Saggi sul paesaggio, Armando,
Roma 2006.
41
già evidenziato nel noto saggio di Simmel6, rendono necessario, oltre che possibile, riflettere sui modi che l’archeologia può assumere nella società contemporanea. Molte
testimonianze antiche sono imponenti strutture che evocano spazi e vite del passato,
suscitano approfondimenti scientifici ma soprattutto emozioni. Ancora più numerose
sono però le aree archeologiche poco significative sul piano estetico-emotivo e solo rivelative sul piano documentale. I modi della tutela devono pertanto potersi articolare
secondo le diverse necessità e rappresentatività dei luoghi. Come ha ben sottolineato
Andreina Ricci:
TUTELA E REINVENZIONE
al di là del frequente e meccanico ricorso (soprattutto in occasioni ufficiali e accademiche) a concetti
di identità e memoria, i frammenti della città antica manifestano una palese alterità, risultando nella
maggior parte dei casi, indecifrabili o persino invisibili7.
42
7 A. Ricci, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra
identità e progetto, donzelli, Roma 2006, p. 10.
8 Ibid.
9 Ivi, p. 12.
10 Ivi, p. 65.
11 S. Settis, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2004.
Le considerazioni della Ricci muovono, com’è noto, da una riflessione che cerca di
capire se e come “i risultati della ricerca archeologica possano contribuire a migliorare
il rapporto identitario città-cittadini sintonizzandosi con le trame in accelerato movimento della città contemporanea”8. Occorre fare i conti, dice l’archeologa, con l’uso
pubblico della storia per orientare l’immaginario collettivo. Serve riflettere sulle finalità
pedagogiche e sui risultati con cui vengono messe in scena le nostre preesistenze. Il
fine è quello di ricercare una nuova qualità urbana, soprattutto in quei luoghi che sono
ai confini della metropoli e non al centro di Roma. Il tentativo è quello di rivolgere “una
maggiore e diversa attenzione all’archeologia diffusa, oggi preda di occasionali slogan
e di divieti sempre più inefficacemente coercitivi”9. L’obiettivo è quello di rendere familiari agli abitanti dei diversi contesti urbani i resti immobili per promuovere una più
ampia condivisione del valore storico partendo dai luoghi prima che dai musei e dagli
specialismi. Gli oggetti del passato devono poter parlare ed acquistare un senso e una
qualità che li faccia emergere dalla sovrabbondante quantità.
L’Italia è disseminata di una grande quantità di reperti e rovine, spesso abbandonati
e trascurati, non solo perché la loro cura è fuori da un programma sostenibile, ma
anche perché gran parte delle iniziative intraprese nel settore dell’archeologia si concentra principalmente su aspetti conoscitivi e di catalogazione, secondo un principio
che tende a preferire la logica dell’accumulo10 a quella della selezione. L’archeologia
rappresenta un importante luogo della memoria e l’altrove nel tempo è indispensabile
parte della nostra identità. Se, come scrive Settis11, non dobbiamo guardare al classico
come morta eredità, ma come qualcosa da riconquistare ogni giorno, le rovine possono rappresentare un punto di partenza per definire nuovi valori relazionali, fondati
sul riconoscimento di appartenenze e rafforzati dalla condizione di potere fare parte
simultaneamente dei processi culturali ed economici del passato e della contemporaneità. La sovrabbondanza di rovine archeologiche che caratterizza il territorio italiano
permette quindi di intraprendere politiche diversificate di valorizzazione dei beni. Questi paesaggi sono spazi in cui il rapporto tra archeologia, tessuto urbano e aree agricole
rappresenta terreno concettuale e materiale per possibili e articolate sinergie.
Retrospettive e prospettive. È interessante costatare che per i due fondamenti cardine
del nostro “patrimonio” contemporaneo, il paesaggio e i monumenti, il principio sostanziale che ne sancisce la conservazione è il riconoscimento “della funzione cooperativa che il soggetto della fruizione svolge nell’ambito del processo di valorizzazione”12.
Tanto ne Il culto moderno dei monumenti di Riegl, quanto nell’acclamata Convenzione
Europea del Paesaggio l’oggetto cui ci si riferisce non esiste di per sé, ma è un prodotto
che dipende dall’attribuzione di valore che ad esso conferiamo. L’essenza dell’oggetto
“risiede in questo divenire”13 che è anzitutto una temporalità socialmente riconosciuta.
Il paesaggio è dunque “una determinata parte di territorio, così com’è percepita dalle
popolazioni”14 e “il senso e il significato dei monumenti non dipendono dalla loro destinazione originaria, ma siamo piuttosto noi, soggetti moderni, che li attribuiamo ad
essi”15. Tale valore può pertanto mutare nel tempo, non essendo il “noi” un soggetto
stabile, bensì “un rappresentante caduco dell’umanità sul pianeta Terra”16.
Il ruolo della testimonianza e il valore narrativo del passato costituiscono secondo la
visione dell’egittologo Assmann, ripresa da Giuseppe Pucci in un saggio sul tema del
monumento e dell’identità, una fondamentale “retrospettiva” che rende possibile una
“prospettiva” capace di strutturare il futuro. Bisogna dunque interrogarsi su come effettuare la ri-semantizzazione del passato, ossia l’attribuzione di un nuovo senso e
significato alla città storica, perché essa ha un importante capacità di agire sull’immaginario collettivo e sui processi che si stabiliscono fra ambiente urbano e abitanti.
La continuità con la storia caratterizza la città europea che si configura come “manufatto” costruito e stratificato. La città italiana rappresenta un particolare tassello di
questa vicenda, perché l’uso strategico del passato, e in particolare l’uso dell’archeologia, ha sempre giocato un ruolo decisivo, tanto nelle città medioevali e rinascimentali,
quanto nella costruzione dell’identità nazionale17. Il rapporto con l’antico ha generato
particolari forme espressive dell’architettura e interessanti palinsesti urbani che hanno spesso contribuito a conservare il passato in forme non di rado originali e innovative.
L’incontro tra passato e presente non può essere mera riproposizione della funzione
antica del manufatto – anche perché si tratta sempre di luoghi che hanno perso gli
originari modi d’uso – ma si può piuttosto offrire a noi solo come reinvenzione. Anche quando si tratti di una semplice conservazione del patrimonio, sappiamo che essa
rappresenta invece una scelta di azioni operative e culturali. Il manufatto che viene
“conservato” non solo ha smarrito il suo uso, ma ha sovente perso anche la sua forma.
Il dibattito sul restauro ha oramai quasi due secoli da quando Ruskin e Viollet Le duc
proponevano tale discussione e sono ben noti posizioni e punti di vista.
Sebbene le forme di tutela posseggano ormai un quadro legislativo avanzato nella
maggior parte del mondo occidentale occorre tuttavia riflettere sulla presenza del patrimonio nelle nostre aree urbane e suburbane e sui nuovi modi d’uso e di rappresentazione di una tale eredità.
La qualità dello spazio urbano non deve essere ignorata e la sua trasformazione deve
tenere conto di nuove sfide che non possono tralasciare la questione ambientale e
naturale e il tema della risignificazione dell’esistente. La città contemporanea non può
affrontare il rapporto con il passato come semplice mantenimento di situazioni già
date, ma deve poter mettere in campo il rapporto tra passato e innovazione dei con-
12 S. Scarrocchia, La teoria dei valori confliggenti dei
monumenti di Alois Riegl, in A. Riegl, Il culto moderno
dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, a cura di S.
Scarrocchia, Carte d’Artisti, Milano 2011, p. 81.
13 S. Scarrocchia, La teoria dei valori confliggenti dei
monumenti di Alois Riegl, cit., p. 82.
14 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo 1, art.
1 lettera a.
15 A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo
carattere e i suoi inizi, cit. p. 16.
16 S. Scarrocchia, La teoria dei valori confliggenti dei
monumenti di Alois Riegl, cit., p. 81.
17 A. Baddeley, La memoria, Laterza, Roma-Bari 1984;
P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, franco
Angeli, Milano 1989.
43
TUTELA E REINVENZIONE
testi per declinarli secondo le contemporanee aspettative dei soggetti sociali. La forza
evocativa ed espressiva del passato, l’esigenza di consegnare al futuro un patrimonio
etico-culturale di valori suscettibili di condivisione, il possibile recupero di una memoria comune sono quindi tutti principi validi per “promuovere l’attivarsi e il rinnovarsi nel
tempo di un dialogo fecondo e costruttivo tra passato e futuro”18.
dobbiamo però come studiosi trovare soluzioni che vadano oltre le retoriche enunciazioni che quasi quotidianamente leggiamo sulla stampa. Gli scempi che devastano il
nostro patrimonio, le poche risorse che s’investono nei beni culturali, i beni culturali
recentemente invocati come risorsa e salvezza della nostra economia. Sarebbe il momento di passare dalle dichiarazioni ai fatti cercando di capire come uscire dallo stallo
attuale, cui tutti concorrono. La poca o nulla visione strategica, la poca capacità di inventare nuove forme di fruizione, godimento e gestione del patrimonio maggiormente
aperto alla istanze della contemporaneità sono, a mio parere, un argomento da affrontare. Prima ancora però bisogna chiedersi se sia sensato allargare a dismisura i siti
della memoria, il “nostro rapporto feticistico con le cose del passato, la confusione fra
testimonianza storica e spettacolo”. Stefano Catucci ha da poco pubblicato un’interessante riflessione culturale sulla Luna e sulla trasformazione in un parco archeologico
dei siti che conservano la presenza umana nello spazio, museificando le impronte e i
rifiuti terrestri lasciati lì dagli astronauti dei precedenti allunaggi. Catucci ci esorta a
“imparare dalla Luna”, come a suo tempo abbiamo imparato da Las Vegas, e a esaminare i paradossi della postmodernità con una mente più critica19.
44
18 Cfr. G. di Giacomo, “Introduzione”, in Volti della
memoria a cura di G. di Giacomo, “filosofie”, 171, 2012.
19 S. Catucci, Imparare dalla luna, Quodlibet, Macerata
2013.
interrogativi aperti. L’Italia vanta un complesso di leggi organiche tra le più avanzate al
mondo per la tutela dei beni culturali e paesaggistici. L’intrico normativo e la segmentazione delle competenze finiscono tuttavia per creare paradossi ed effetti negativi sul
paesaggio. Quali correttivi bisogna introdurre? La tutela si riferisce al bene materiale in
sé. E il ruolo del bene? La sua parte nella città contemporanea? Il suo significato nello
spazio pubblico? È sufficiente affidare il mantenimento dei beni culturali solo all’intervento di restauro, alla gestione dell’ente preposto, separando il bene dalla vita sociale,
dalle occasioni di vita comune? non sarà necessario affrontare anche un ragionamento
sulle potenzialità trasformative che possono introdurre le dinamiche sociali per la rigenerazione urbana e per il mantenimento vivo del patrimonio e dei luoghi?
Quale immagine ha l’archeologia nella cultura contemporanea? Che rappresentazione
culturale e simbolica diamo di essa? La tutela fotografa una società degli anni ’30:
come possiamo renderla più aderente alla realtà di oggi, senza perdere la capacità di
conservare? Che ruolo gioca l’uso del passato nell’informare il presente? Il delicato
tema dell’identità emerge come rapporto tra chi guarda e il territorio. Ci poniamo il
problema della nostra identità solo quando siamo a confronto con altro, quando vogliamo emergere da un contesto ed essere letti come un “testo”.
Siamo sicuri che alcuni vincoli, quale ad esempio quello che impone una distanza di
50 m dal bene archeologico per l’edificazione di un nuovo intervento, siano sempre importanti? Con questa norma non sarebbe possibile in Italia realizzare interventi come
quello del Museo Archeologico di Mérida di Rafael Moneo. non sarà che in Italia, e so-
prattutto nella gestione dei beni culturali, prevale ancora quel pensiero di derivazione
idealista che tiene l’arte fuori dalle categorie principali della vita? non sarebbe utile
cercare di costruire un senso attorno alla conservazione del patrimonio, una narrazione che generi appartenenze? Luoghi che configurino rinnovati immaginari?
La tutela inoltre si propone come conservazione indifferenziata dei beni. Le cartografie
catalogano i beni sul territorio per simboli, dando lo stesso peso a un piccolo reperto o
a un importante complesso monumentale. non sarà necessario introdurre un sistema
di gerarchie e valutazioni ed esprimere giudizi sulla qualità reale dei luoghi?
Il documento dell’unesco del 2011 definisce il concetto di Paesaggio storico urbano e
mira a integrare il patrimonio storico e la sua vulnerabilità in un contesto più ampio,
che è quello della crescita delle città, mettendo in stretta relazione gli aspetti della
conservazione con quelli dello sviluppo e incoraggiando azioni trasversali tra i diversi
attori che operano sul territorio. Quali sono i diversi modi che può assumere il progetto
urbano in rapporto alle tracce del passato?
Per operare queste risignificazioni, per indagare quale ruolo i resti archeologici possono assumere nella definizione della forma delle città è necessario ragionare su
come restituire alle tracce del passato la possibilità di offrirsi come elementi simbolici
nell’immaginario culturale urbano e come diventare spazio pubblico inserito nell’uso
quotidiano. noi crediamo che solo il progetto possa farsi carico di stabilire, di volta in
volta, l’immaginario di riferimento e le modalità di offrirsi del patrimonio alla società
contemporanea.
ne Il Bosco sacro, uno dei testi maggiormente citati dagli architetti, Eliot sostiene che
la musica di una parola sorge dalla sua relazione con le parole che precedono e che
immediatamente seguono e dalla sua relazione con il rimanente contesto. I frammenti
della realtà sono, anche secondo Gadda, parte di un divenire il cui significato dipende
dalle infinite relazioni, passate e future, reali o possibili che attuano.
E poi, cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini (Spinoza direbbe modi): mi valgono in una aspettazione,
in un’attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati20.
Entrambi osservano che la poesia si costruisce come relazione tra le parole, come
assonanze, corrispondenze o anche disarmonie. Anche per noi, che riflettiamo sulle città, è importante riallacciare relazioni, convinti come siamo che da esse sorgano
nuovi immaginari.
45
tutela e Re-invenzione. Queste sono alcune delle questioni emerse che il seminario ha
voluto indagare. A esso hanno contribuito i diversi relatori con spunti e riflessioni aperte
che attendono nuovi terreni di confronto e soprattutto occasioni di sperimentazione.
Che cosa sono i paesaggi dell’archeologia se non semplicemente paesaggi postantichi? È probabile che sul palinsesto di un’antichità che diviene col tempo archeologia, si
depositino altri sedimenti, lasciti della natura e dell’azione antropica. nell’accumulo di
20 Carlo Emilio Gadda, Un’opinione sul neorealismo, in I
viaggi, la morte, Garzanti, Milano 1958.
TUTELA E REINVENZIONE
46
successivi stadi intermedi, oggi sono anche postmoderni. Come tutti i contesti intercettano progressivamente la dimensione immanente del presente e dunque sono necessariamente sempre contemporanei. dalle osservazioni che precedono deriva, per Fabrizio
Toppetti, un corollario di singolare pregnanza: i paesaggi dell’archeologia o sono contemporanei o non sono. Quest’affermazione, che potrebbe sembrare banale e scontata,
se non addirittura eretica, implica una presa di posizione che comporta conseguenze
precise in termini di politiche, di progetto e di gestione.
Giovanni Azzena e Roberto Busonera si interrogano sulla definizione sfuggente di “Paesaggio” e sulle tassonomie delle strutture normative che cercano di circoscrivere e chiarire
concetti ambigui e spesso fuorvianti, facendo notare come la stessa semantica finisca per
creare aporie. Il “Paesaggio storico” ammette l’esistenza di un paesaggio più storico di altri
fino a riconoscere, per converso, l’esistenza di paesaggi a-storici o non storici. Questa definizione finisce per favorire una perversa graduatoria tra territori intangibili perché densi di
significati ambientali, simbolici, culturali e altri, sacrificabili “al progresso”. Il “Patrimonio”
si riferisce a testimonianze ereditate di particolare pregio il cui obiettivo esplicito è quello
della “messa a reddito”. una condizione che ha rafforzato l’idea di recinto archeologico
determinando la nascita di “non-luoghi della memoria”. nell’ottica di una maggior commistione tra ambiti archeologici, naturali e urbani l’auspicio che gli autori formulano è di ritrovare una visione che racchiuda gli aspetti emozionali e quelli tecnico-scientifici, superando
tassonomie, spingendosi verso un ritorno alla complessità dei sistemi e delle relazioni,
evitando soluzioni univoche e linee guida valide per tutte le occasioni.
Alla contaminazione tra antico e moderno rivolge la sua attenzione Raffaele Panella che,
da circa quarant’anni, si occupa del “progetto fori” a Roma. nell’offrire una riflessione
sul tema della continuità urbana, egli ricorda che ci si trova di fronte a due progetti,
il progetto archeologico e il progetto urbano, dotati entrambi di “una elevata dignità
scientifica” che li spinge a ignorarsi. Integrare progetto archeologico e progetto urbano
significa invece lavorare sulle connessioni e sulla necessità di trovare un senso urbano
alle esplorazioni archeologiche. Questo significa considerare i resti della città antica
come materiali del progetto moderno, in un rapporto di reciproca contaminazione. Questa sovrapposizione è sempre appartenuta alla storia della città di Roma e lo spazio
archeologico è innanzitutto spazio pubblico in connessione con gli altri spazi collettivi
della città. Sebbene la città postmoderna sia divenuta un arcipelago dominato dalle
reti di comunicazione materiali e immateriali che hanno fatto saltare il vecchio sistema
delle centralità urbane, i luoghi collettivi subiscono l’attribuzione di valori simbolici di
intensità prima sconosciuta, a cui ha contribuito non poco il turismo di massa. I valori
della storia e della bellezza finiscono pertanto per sostituire i valori d’uso che tradizionalmente caratterizzavano quei luoghi.
L’indebolimento dell’idea di bene comune e la dimensione del numero dei soggetti che si
occupano di archeologia sono tra le principali cause della distanza che separa ricerca,
tutela e valorizzazione e dello scollamento tra codificazione normativa di un bene culturale e la percezione sociale effettiva dello stesso. Malgrado rimanga forte la connessione tra le discipline archeologiche e quelle dell’architettura, l’intesa tra archeologi e
architetti non è sempre stata lineare. Lucina Caravaggi prova a capire le ragioni di queste
difficoltà di dialogo. I salti di quota che interrompono la continuità rassicurante di un
suolo urbano, i “crateri” recintati, l’impossibilità di condurre campagne di scavo degne
di questo nome per cui i siti rimangono in attesa di raccontare compiutamente le proprie storie, la necessità di introdurre forme di migliore “leggibilità” e comprensione che
possano comunicare il fascino culturale e la storia inscritta in quelle tracce, l’incapacità che talvolta hanno le soluzioni architettoniche di instaurare un dialogo in sintonia
con il carattere euristico e aperto di uno scavo sono alcune delle questioni aperte. La
speranza è di ritrovare connessioni tra ricerca architettonica e ricerca archeologica, tra
tutela e valorizzazione, che possano reintrodurre immaginari positivi rivolti al futuro.
di questo dialogo difficile tra architetti e Soprintendenze offre un quadro surreale e
inesorabile Francesco Cellini, a partire da alcune esperienze professionali che lo hanno
visto coinvolto. Il racconto di una serie di episodi evidenzia l’ardua intesa tra chi esercita
l’applicazione del vincolo e chi si occupa delle trasformazioni architettoniche. I conflitti fanno emergere l’uso non ponderato di aggettivi quali “storicizzato” e “scientifico”,
che vengono adoperati inadeguatamente quasi per eludere l’assunzione di precise responsabilità decisionali da parte delle istituzioni preposte alla tutela e imporre presunti
comportamenti “etici”. Gli aneddoti descrivono il senso di irrealtà e di spreco che alcune di queste occasioni riguardanti la conservazione dei beni culturali hanno comunicato. La mancanza di una strategia d’insieme, di adeguati strumenti sintetici d’informazione, di soldi per il recupero di quei “giacimenti veri” spesso semiabbandonati
e degradati, l’esercizio di certa autorità arrogante, la vacuità e la sciatteria di alcune
pratiche burocratiche, l’inesistenza di un contraddittorio con il pubblico testimoniano
inoltre non solo della conduzione di un potere a volte arbitrario, ma soprattutto della
necessità di avere una visone culturale di insieme che sappia indirizzare in modo meno
schematico l’esigenza di consegnare al futuro il patrimonio del passato e il riattivarsi di
un dialogo positivo e produttivo tra passato e futuro.
Daniele Manacorda ci offre lo sguardo dell’archeologo sostenitore della cultura del
confronto e della necessità di co-progettare insieme agli architetti gli interventi urbani
archeologicamente sensibili. nel rileggere e commentare i tre progetti di Tsiomis ad
Atene, di Cellini a Istanbul21 e di Gabetti, Isola e durbiano a Torino, scelti nell’ambito del seminario come esperienze significative per aprire un ragionamento sul tema
della reinvenzione dei luoghi della memoria, Manacorda sottolinea che il problema di
un progetto per le aree archeologiche non riguarda solo la definizione dei bordi, ma
anche la necessità di definire usi specifici e modi di “abitare” gli spazi archeologici
e di chiarire la trasmissione del loro senso culturale. una declinazione che non è
univoca ma può inverarsi in “mille modi” senza un codice d’uso prestabilito, se non
quello del rispetto. Anche Manacorda affronta il rapporto tra archeologi e architetti,
ricordandoci che si tratta di due professioni sghembe, apparentemente fatte per non
incontrarsi ma consapevoli, oggi, della necessità di una convivenza e di una reciproca
contaminazione.
Yannis Tsiomis approfondisce il tema delle politiche urbane, del patrimonio e dell’ambiente. Tre occasioni professionali che vanno oltre il problema della conservazione, affrontano il rapporto che esiste tra storia e futuro, in altre parole, delle scelte di valori
sui quali si fondano i progetti. Il paesaggio archeologico si presenta come paradigma,
sintomo e metafora dei rischi che incombono sulla civiltà urbana. Stante la quantità di
47
21 Cfr. Atlante dei Paesaggi Archeologici, infra, pp. 336337 (Atene), pp. 352-353 (Istanbul).
TUTELA E REINVENZIONE
48
leggi e documenti normativi che definiscono la conservazione dei territori storici, il problema è quello di capire come tali strumenti vengano applicati. I casi dell’Agorà di Atene, il paesaggio archeologico di dougga e il patrimonio moderno di Brasilia illustrano i
rischi che corre un paesaggio urbano storico sottoposto allo sfruttamento commerciale
del turismo di massa, le difficoltà di operare sulla leggibilità paesaggistica di fronte allo
sviluppo anarchico dei territori e le problematicità di salvaguardare l’impianto originario
della città di fondazione sottoposta alle trasformazioni urbane e sociali dell’economia di
mercato. Per Tsiomis non vi è dubbio che lavorare sulla storia e la memoria del patrimonio urbano significhi modernizzarlo. Ma come tutelare senza “congelare”?
La modificazione dell’area delle torri Palatine a Torino è stata condotta dal Comune attraverso un bando di gara che richiedeva non il progetto di un’opera, bensì il “disegno”
di un’intesa. Giovanni Durbiano, uno degli autori della trasformazione urbana, illustra
l’importanza di questa strategia e i conseguenti esiti fisici di questa scelta, consapevole
della pluralità degli attori coinvolti e della necessità di trovare anzitutto la regia dell’accordo. Obiettivo comune era ritrovare un carattere unitario all’area che non è solo parco
archeologico ma anche parte di città, recuperando il valore strategico avuto in passato.
L’interpretazione delle tracce storiche, l’eterogeneità del paesaggio costruito, le numerose valenze funzionali, figurative e simboliche, la volontà di fare dell’area archeologica
il perno della qualità urbana, assegnandole non solo il ruolo di “giardino archeologico”
ma soprattutto di “figura urbana”, hanno permesso di contrapporre alla logica della
museificazione quella della vita e del ruolo urbano dei monumenti.
Abbiamo voluto chiudere la sezione Tutela e reinvenzione di questo volume introducendo il progetto cui Antonino Terranova aveva dedicato molto tempo negli ultimi anni.
Alessandra Criconia ne approfondisce i principi fondativi e evidenzia il carattere emblematico della proposta. La diversa considerazione data alla cinta muraria della città,
considerata come elemento urbano su cui far leva per attivare processi di riqualificazione sostenibile, è il fondamento del progetto per il Parco lineare delle Mura Aureliane, elaborato nell’ambito di programmazione strategica del nprg di Roma. Eterogeneo
fatto urbano che documenta la dialettica di sviluppo della città e delle sue formae, le
Mura ricompongono in un’azione unitaria la tutela del monumento e l’uso attivo del
patrimonio, come elementi strutturanti la riqualificazione della città. Il Parco lineare si
configura come un nuovo tipo di infrastruttura slow a carattere storico-ambientale con
funzione di riconnessione e ricucitura dei quartieri del centro città. un’articolata rete
di percorsi ciclopedonali organizza un sistema di “isole” ovvero di luoghi significativi
lungo il tragitto, considerati come punti di addensamento del sistema lineare integrato.
Il disegno del Parco lineare ha affrontato tre tematiche principali: il progetto del suolo,
i progetti urbani locali e i progetti esplorativi, intesi come nuovi interventi alla piccola
e media scala.
Infine i casi-studio presenti in questa sezione e i progetti raccolti nell’Atlante dei paesaggi archeologici curato da Federica Morgia rappresentano una prima selezione di temi
e di possibili figure utilizzati per affrontare la questione delle relazioni con l’archeologia
nelle città. L’obiettivo che ci siamo dati nella raccolta dei casi è stato quello di scegliere
solo progetti e realizzazioni che avessero un orizzonte urbano.
The decline of the public space and the deterioration of the physical connections
of the contemporary city, entirely founded on the economic aspect, must make us
reflect on the values we feel can lead to a rethinking of “city making” focusing on the
quality of the space. It is evident that public institutions are substantially unable to
monitor, except with quantitative and regulatory parameters, the results of the urban transformations, all focused in fact on meeting functional or legislative requirements, but very rarely interested in building significant spatial relations.
The system of open spaces and the relationship with memory are two important issues to deal with the quality of the urban space and the territory. These are places
where nature and heritage are important resources to be enhanced for the pursuit
of urban quality.
The semantic value of urban spaces was pointed out by Roland Barthes, who showed
how a city is not a fabric of identical elements, but that there are paradigmatic components that are more pronounced on the symbolic level. This means that space,
like language, is an important means of individual and collective expression.
Indeed, the legacy of the ancient and the memory of the past have an impact on
the sphere of urban representation and monumentality, narration and identity – in
short, on the meaning of the city – and play a social and cultural role of the utmost
importance for the community.
In this framework, archaeology is a particular aspect of the more general question
of heritage. The open nature of ruins, the fact of having definitively lost their value
for use and their active aspect, pointed out in Simmel’s well-known essay, make it
both possible and necessary to reflect on the roles that archaeology can take on in
contemporary society.
Many ancient remains are imposing structures that bring to mind the spaces and
lives of the past, stimulate scientific studies and, above all, arouse emotions. But
even more numerous are the archaeological areas that have little aesthetic-emotional significance, but which are useful for informational and documentary purposes. Therefore their preservation must be organized on the basis of the different
needs and representativeness of the places.
What is archaeology’s image in contemporary culture? What cultural and symbolic
representation do we assign it? Heritage Preservation is a reflection of the society of
the 1930s: how can we bring it to be more in tune with today’s reality, without losing
the capacity for preserving? What role does the use of the past play in shaping the
present?
In order to achieve these resignifications, to study the role that archaeological remains
can play in defining the form of the cities, it is necessary to study how to enable the
traces of the past to serve as symbolic elements in the contemporary urban cultural
imagination, and to become a public space inserted into everyday use. We believe that
the project only can undertake the responsibility for establishing, time by time, the
referential imagery and the ways the heritage can serve contemporary society.
ARCHAeoloGY ANd NeW
iMAGiNARies
ABSTRACT
49
PRoGettARe PAesAGGi PostANtiCHi
fabrizio Toppetti
La locuzione del titolo prende a prestito un neologismo utilizzato da Ludovico Quaroni, quando, dopo la
pubblicazione del progetto per il Teatro dell’Opera a piazza Beniamino Gigli a Roma, ritenne di doversi
difendere dalle accuse di chi lo ricollocava sbrigativamente dentro la corrente di linguaggio dell’architettura postmoderna1. A mio avviso è una definizione chiara e illuminante che però ha avuto poca
fortuna critica. Secondo quella logica transazionale oramai in uso, pericolosa ma al contempo fertile
e generativa, la riprendo e naturalmente come è sempre in questi casi, prescindendo dall’occasione
rivolta eminentemente a una questione interna al linguaggio dell’architettura, ne assumo il valore
semantico mettendolo a reazione con il termine paesaggio e con la questione del progetto.
A valle di un percorso di ricerca, prima ancora di esprimere valutazioni sul prodotto,
è naturale porsi interrogativi che attengono alla formulazione del tema, al suo inquadramento scientifico, alla legittimità della definizione del campo di indagine, alla tenuta
delle ipotesi sottese dal programma iniziale.
Semplificando molto, le questioni centrali attorno alle quali ruota il progetto sono due e
sono entrambe espresse dal titolo: “Paesaggi dell’archeologia, regioni, città metropolitane. Strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e la trasformazione”.
Esse attengono al riconoscimento della dimensione paesaggistica e contemporanea
dell’archeologia e alla definizione di una strategia del progetto tarata sulla specificità
dei contesti archeologici. Si tratta di argomenti affatto nuovi, sui quali negli ultimi anni
si è detto e scritto molto e dunque riprendendoli si corrono rischi: derive, sconfinamenti, e in generale una circolarità di pensiero sterile. nei casi in cui il tema, come spesso
accade, è a cavallo di più discipline il vizio peggiore della ricerca accademica è quello di
ripartire da categorie desuete e da posizioni corporative che si fronteggiano, simulando estremismi strumentali superati, per raccontarne, come si trattasse di una novità,
l’ennesima possibile ricomposizione che spesso percorre vie ampiamente battuta e
condivise dalla comunità scientifica.
Per tentare un bilancio, seppure parziale e provvisorio, è necessario ripartire dallo stato dell’arte, misurando le distanze tra le posizioni più avanzate e il pensiero mediano.
1. l. quaroni, C. vaccaro, Katastilosi del Monumento a
Vittorio Emanuele, 1988 (particolare).
1 Il progetto di Quaroni viene presentato per
la prima volta al convegno “Consulto su Roma.
Laboratorio di progettazione ’83” (Roma, 24/28
ottobre 1983), organizzato dal Comune di Roma,
Assessorato per gli Interventi sul Centro storico
insieme alla A.A.M. Architettura Arte Moderna
e curato da francesco Moschini. La definizione
postantico, poi ripresa più volte, compare in
un articolo-intervista a Quaroni pubblicato dal
“Corriere della Sera”. P. Lanzara (a cura di),
Come una basilica del Palladio il Palazzo del Teatro
dell’Opera, “Corriere della Sera”, 5 novembre 1983.
51
TUTELA E REINVENZIONE
nel caso di specie è fondamentale anche tenere in conto il doppio registro sul quale si
muovono le teorie e le pratiche e, all’interno di queste ultime, è necessario distinguere
le buone pratiche dagli interventi di routine. Le riflessioni che seguono, senza pretesa di
completezza e organicità, affrontano i due temi di carattere generale sopra enunciati,
rimandando a una trattazione specifica gli approfondimenti sul caso studio affrontato
nel corso della ricerca2.
52
2 È in corso di pubblicazione nella stessa collana,
da parte dell’unità operativa del dipartimento di
Architettura e Progetto, Sapienza università di Roma,
un volume che raccoglie gli esiti del lavoro di ricerca
sul Parco dell’Appia Antica.
3 Cfr. O.G.S. Crawford, Man and His Past, London
1921; Id., Topography of Roman Scotland. North of
the Antonine Wall, Cambridge 1949; J.M. Wagstaff
(a cura di), Landscape and Culture: Geographical and
Archaeological Perspectives. Oxford 1987.
4 R. Lanciani, Forma Urbis Romae, Hoepli, Milano
1893-1901.
5 nell’ambito del progetto forma Italiae nel 1987,
con il volume su Atri di Giovanni Azzena, ha inizio
la pubblicazione della collana “Città Antiche in
Italia” diretta da Paolo Sommella. L’iniziativa, con
largo anticipo sul dibattito che seguirà negli anni
successivi, è ispirata ai principi che informeranno la
definizione di paesaggio della Convenzione Europea
del 2000 e in generale la cultura del paesaggio
storico. nella premessa al volume Sommella stesso
chiarisce che la collana è un tentativo di “inquadrare
il fenomeno della città nel suo evolversi, e la carta
archeologica è solo un momento della ricerca, è la
base che permette di leggere il momento urbanistico
iniziale, le trasformazioni, gli adeguamenti, in
altri termini il vivere della città”. P. Sommella,
“Premessa”, in G. Azzena, Atri. Forma e Urbanistica,
L’Erma di Bretshneider, Roma 1987, p. xi.
6 Cfr. G. Pettena (a cura di), Olmsted: l’origine del parco
urbano e del parco naturale contemporaneo, Centro
di, firenze 1996; C.E. Beveridge, P. Rocheleau, d.
Larkin, Frederick Law Olmsted: designing the American
Landscape, universe, new York 1998.
Archeologi e architetti. Per quanto gli architetti più attenti e sensibili lamentino strumentalmente una visione decontestualizzata del reperto da parte dell’archeologo, colpevole genericamente di un’attenzione scientifica e esclusiva alla materialità oggettuale delle evidenze, come è noto, vi è una lunga tradizione di studi che nasce in Inghilterra
nella seconda metà dell’ottocento che dimostra esattamente il contrario. La landscape
archeology3 basata sulla ricognizione diretta e sullo studio delle prime fotografie aeree,
aveva già allora come campo specifico di indagine il territorio storico, con l’obiettivo di
mettere in rete i siti inscrivendo le presenze archeologiche in un sistema insediativo di
scala vasta, in grado di ricostruire la configurazione dei paesaggi dell’antichità. nello
stesso periodo Rodolfo Lanciani, impegnato come direttore di numerose campagne di
scavo a Roma e nel Lazio, aveva avviato un’opera estensiva di rilevazione topografica
che in buona parte confluirà nella Forma Urbis Romae4, un’opera che ancora oggi costituisce un punto di riferimento imprescindibile. Lanciani non solo rappresenta nel dettaglio le strutture insediative sedimentate nei secoli ma ne coglie i rapporti reciproci e
soprattutto restituisce le relazioni di integrazione e alterità delle strutture antropiche
di età romana con il supporto geomorfologico e con i caratteri dell’insediato moderno.
Contemporaneamente, nel 1889 in Italia, per iniziativa della direzione Antichità e Belle
Arti del Ministero dell’Istruzione, parte un ambizioso progetto finalizzato alla realizzazione di una carta archeologica dell’intero territorio nazionale che successivamente
viene ripreso nel 1923 da Giuseppe Lugli con il titolo Forma Italiae, e che, finanziato dal
cnr a partire dal 1965, sotto la guida di Paolo Sommella riprende la sua attività presso
l’università di Roma “Sapienza”5.
È bene sottolineare che anche per l’architettura il paesaggio è una dimensione di pensiero e azione nuova che si apre nello stesso periodo, a testimonianza di un sentire
dell’epoca che pervade la cultura del vecchio e del nuovo continente: nel 1856 a new
York si inaugura il Central Park, contemporaneamente frederick Law Olmsted6 lancia
il termine landscape architect e nel 1899 nasce l’”American Society of Landscape Architects”.
Sebbene si parli di scuole e di specifiche linee di pensiero, la sensibilità per il paesaggio
non è affatto estranea alla cultura dell’archeologo, dunque paradossalmente lo è di più
per la maggioranza degli architetti: almeno a partire dall’inizio degli anni ’90 del secolo
scorso si registra un rinnovato interesse per l’archeologia del paesaggio che disegna
una traiettoria di ricerca oggi in forte espansione. Questo significa che i termini del
dibattito si spostano e probabilmente la centratura slitta sulla necessità di una definizione condivisa e operante del termine paesaggio e della sua estensione temporale. In
altri termini sulla proiezione prospettica delle attenzioni.
Per statuto disciplinare l’archeologo ha un approccio storico retrospettivo, orientato
cioè alla ricostruzione di un determinato paleoambiente in quanto testimonianza della
vita e dell’azione antropica a esso coeva. una condizione che comporta l’assunzione del
paesaggio, in una prospettiva semiologica7, come un deposito di segni e di tracce e prefigura l’ampliamento del registro archeologico che si estende alla copertura dell’intero ambiente antropogeografico. Secondo questa interpretazione, poiché è paesaggio
tutto ciò che è modellato da una cultura del fare delle comunità insediate che ha agito
come risposta alla domanda di abitabilità rispetto alle condizioni ambientali di un preciso spazio geografico, ne consegue che, in linea di principio, tutto è riconducibile alla
dimensione archeologica. Questo dal punto di vista strumentale dello studioso delle
civiltà del passato e di una specifica disciplina che è l’archeologia del paesaggio8.
Lo sguardo dell’architetto è altro poiché è dislocato in una posizione che ne traspone
la visione in un futuro possibile. nella tradizione disciplinare del fare come destino,
almeno retoricamente ineludibile, egli considera il paesaggio uno sfondo al proprio
agire; nelle più recenti formulazioni diviene il soggetto stesso della proiezione prefigurativa del progetto. In entrambi i casi la lettura e la comprensione del palinsesto
della struttura del territorio antropico sono finalizzate all’intervento di trasformazione/
conservazione.
Ciò che accomuna le due posizioni che si fronteggiano a distanza di sicurezza è una
sistematica e simmetrica fuga dal presente, unico tempo storico nel quale è possibile
un incontro tra archeologia e progetto. È necessario dunque un richiamo al principio
di realtà, alle sfide poste dal contemporaneo. Oltre il culto delle origini e la legittima
necessità di conoscenza assicurata dall’indagine scientifica che da sola rischia di trasmettere messaggi criptici riservati agli specialisti, oltre la fenomenologia deselettiva
dell’idolatria dell’esistente9 e della conservazione pervasiva, esito ultimo di una forma
di accanimento terapeutico10, pare necessario riposizionare qui e ora, entro un quadro
di valori condiviso che contempli il perché e per chi conservare, un patrimonio, che l’azione di un tempo che possiamo solo prolungare, trasformerà ineluttabilmente in altro.
Paesaggi dell’archeologia. Se tutto il paesaggio, in una visione inclusiva diacronicoprogressiva, è conformato dalla storia, quello che circoscriviamo con l’aggettivazione ulteriore di archeologico, oltre l’iconografia del paesaggio con rovine, si distingue
per una forte connotazione specifica che può essere esplicita, ovvero marcata dalla
presenza di evidenze materiali, o implicita, demandata cioè alla potenza evocativa di
determinate configurazioni: si tratta in sostanza di paesaggi nei quali gli affioramenti
di un tempo rispetto al quale riconosciamo una discontinuità marcata con il presente
assumono forte persistenza e rilevanza.
Ammesso che sia necessario, è possibile discernere e parzializzare la componente
distintiva che è l’archeologia dal proprio paesaggio di riferimento? Alcuni casi ingenuamente emblematici di Roma. Il Colosseo, pur essendo immerso nei flussi di un
traffico quotidiano che il monumento stesso conforma, è facilmente isolabile per forma
e figura propria, i ruderi di largo Argentina lo sono per quota e per impronta planimetrica definita a posteriori. La questione è già più complessa se ci si riferisce all’insieme
costituito dal Portico d’Ottavia e dal Teatro di Marcello, lo è in misura diversa se si tratta
dello Stadio di domiziano, oggi piazza navona. In quest’ultimo caso, per esempio, il
7 Cfr. E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano,
Longanesi, Milano 1979.
8 Sull’archeologia del paesaggio vi è una vasta
letteratura recente a conferma del fatto che si
tratta di un settore in forte crescita. cfr., tra l’altro,
M. Bernardi (a cura di), Archeologia del paesaggio, iv
ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia,
Certosa di Pontignano, 1991, All’Insegna del Giglio,
firenze 1992; f. Cambi, n. Terrenato, Introduzione
all’archeologia dei paesaggi, Carocci, Roma 2000.
9 V. Gregotti, Dentro l’architettura, Boringhieri, Torino
1991, p. 39.
10 La definizione “terapeutica conservativa” è di Carlo
Aymonino. Cfr. C. Aymonino et al., Per un’idea di città:
la ricerca del gruppo architettura a Venezia 1968/1974,
Cluva, Venezia 1984.
53
TUTELA E REINVENZIONE
contributo dell’impianto romano alla definizione morfologica della piazza è un’evidenza
esplicita, eppure nessuno definirebbe la piazza un paesaggio dell’archeologia: nei vari
passaggi d’epoca che ne hanno ridefinito i caratteri prevale la persistenza dello statuto
di spazio pubblico della città che, mutatis mutandis, conserva ancora oggi.
La prospettiva critica e metodologica espressa dalla lunga durata, dai temi del palinsesto e della sedimentazione, dalla continuità e dalla coerenza dell’azione antropica,
ci guida nel prendere atto della processualità del lento evolversi delle modificazioni
del territorio storico. Se la specificità di un paesaggio storico tout court risiede nella
stratificazione diacronica che ne impedisce la replicabilità – in definitiva nella non sostituibilità – il criterio principale, anche se non dirimente, per distinguere un paesaggio
dell’archeologia (che storico è per definizione) è nell’interruzione di quel processo continuo insito nell’abitare che consiste nel costruire e curare, finalizzati eminentemente
al valore d’uso del bene. non è così lineare, ma si tratta di una buona approssimazione.
Cosa sono i paesaggi dell’archeologia se non semplicemente paesaggi postantichi? È
probabile che essi oggi siano anche altro, ovvero che sul palinsesto di un’antichità che
diviene col tempo archeologia si depositino ulteriori sedimenti più o meno preziosi, più
o meno evidenti, lasciti della natura e della azione antropica. nel loro statuto di paesaggi postantichi, accumulano ulteriori stadi intermedi, dunque in una certa misura e
ineludibilmente oggi sono anche postmoderni. Come tutti i contesti intercettano progressivamente la dimensione immanente del presente e dunque sono necessariamente sempre contemporanei. d’altra parte se paesaggio è l’intreccio di una determinata
configurazione fisica del territorio, sia esso a prevalente carattere naturale o a prevalente carattere antropico, con la percezione individuale dell’abitante e/o dell’osservatore11, esso riveste carattere di immanenza.
dalle osservazioni che precedono deriva un corollario di singolare pregnanza: per
quanto caratterizzati dalla evocazione di un tempo lontano rispetto al quale si è interrotta la sequenzialità, i paesaggi dell’archeologia o sono contemporanei o non sono.
Questa affermazione, che da un lato potrebbe sembrare un’acquisizione scontata,
dall’altro un’eresia, implica una presa di posizione esplicita che comporta conseguenze
precise in termini di politiche, di progetto, di gestione.
54
11 Il riferimento è al noto art. 1 della Convenzione
Europea del Paesaggio, cep, firenze 2000.
Progetto. Sempre ammesso che sia possibile parzializzarla, come reagisce la componente dell’archeologia rispetto al proprio contesto di riferimento? Il paesaggio, come lo
sguardo, non ha confini. Anche un sito archeologico propriamente detto e di dimensioni
vaste è chiamato al dialogo con una configurazione di ordine superiore che lo ingloba.
nella maggioranza dei casi l’archeologia è a diretto contatto con il mondo pulsante
del contemporaneo. L’interferenza continua di uno spazio e di un tempo fermo con uno
spazio dinamico produce reazioni difficilmente controllabili e differenti tra caso e caso.
La paura di queste reazioni è stata generalmente tenuta a bada con i recinti, sottolineando con una discontinuità fisica artificiosa la soluzione di continuità temporale e funzionale. Altro è pensare per progetti. Anche in questo caso, così come è in riferimento
alla nozione di paesaggio sopra esplicitata, vi è una identica relazione tra progetto per
un paesaggio storico e progetto per un paesaggio archeologico. Perché il paesaggio
con rovine, suggerisce una incolmabile distanza dal sogno umanistico di una rinascita
culturale dell’Antichità Classica ma anche da ogni possibilità di uso contemporaneo
che non sia quello del parco a tema.
In definitiva l’archeologia costituisce un’inerzia della città storica, essa si affaccia sulla
scena della città con un forte potenziale evocativo e al contempo distruttivo, capace di
innescare meccanismi di dissoluzione della forma, dal singolo oggetto monumentale
alla intera città12. E dunque lo specifico del progetto, oltre le qualità basiche di un buon
progetto per la città esistente, è quello di farsi carico di questo potenziale, rimettendolo
al centro del sistema di relazioni della società contemporanea e reinventandone di volta in volta il senso e il ruolo.
integrazione. Tra il settembre e il novembre del millenovecentoventicinque Joseph
Roth, allora trentenne, attraversa la Provenza in un viaggio a tema che segna profondamente la sua formazione. ne Le città bianche13, una sorta di diario emozionale
pubblicato postumo nel 1956, lo scrittore raccoglie le impressioni sui luoghi visitati, con
sagace predisposizione all’osservazione e all’ascolto. A proposito di nîmes scrive: “A
nîmes si è addirittura riusciti a incorporare nella città, e perfino nei suoi quartieri più
moderni, i grandi monumenti dell’epoca romana, che certamente non fu un’epoca borghese. nella grande arena romana si è inaugurato un cinema all’aperto. Agli abitanti
di nîmes non viene neanche in mente che a dividere i cinematografi dalle arene non
sono solamente i secoli”14. Più avanti l’autore ritorna sull’argomento osservando come
i templi romani sono stati integrati nella vita della città, ovvero resi borghesi: “del Tempio di diana poco ci mancava che facessero un ufficio municipale, nella Maison Carrée,
già Tempio di Giove, invece del piccolo museo hanno stanziato l’anagrafe, e nel possente anfiteatro una Corte di Giustizia”15. Il giovane Roth non esprime giudizi nel merito, eppure dal testo traspare una valutazione positiva, indirettamente comunicata nei
termini di una piacevolezza dell’attraversare la città e del soggiornarvi. Il commento
riferito agli abitanti della cittadina francese è illuminante: “Vivendo spensieratamente,
essi hanno intrecciato tra loro con compiaciuta e ostinata incoscienza le epoche storiche così come i ciechi intrecciano ceste che non potranno mai vedere. non sanno quel
che fanno, ma forse assolvono a un grande compito. È questa l’innocenza degli uomini
che crescono all’ombra della Storia”16. Solo l’incoscienza e l’innocenza compiaciute e
consapevoli, alle quali nella lettura di Roth sembra essere estranea l’ingenuità stolta,
consentono di trattare alla pari con il patrimonio dell’antichità, con naturalezza e senza
sovrastrutture, evitando di considerare l’antico come luogo esclusivo della memoria
e di celebrarlo in quanto “eredità”, una modalità secondo Benjamin più disastrosa di
quanto potrebbe essere la sua scomparsa17. Questo implica una necessaria quanto fertile ibridazione, che è quanto nîmes e indirettamente i suoi abitanti hanno continuato a
perseguire coinvolgendo la Maison Carrée in un progetto di rinnovamento urbano18 –
firmato da norman foster ma frutto di una lenta e condivisa gestazione – che con il suo
successo, a distanza di venti anni dalla realizzazione, racconta di un luogo riconosciuto
e praticato, di integrazioni possibili, fertili e generative, tra valori d’uso, valori d’arte e
valori di vetustà19, tra archeologia e progetto.
2
2 N. Foster, Nîmes e il Carre d’Art, schema di analisi
urbana,1993.
12 Su questo aspetto si veda la lettura del Campo
Marzio Piranesiano di Manfredo Tafuri. Cfr. M. Tafuri,
La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da
Piranesi agli anni ‘70, Einaudi, Torino 1980.
13 J. Roth, Le città Bianche, Adelphi, Milano 1986.
14 Ivi, p. 81.
15 Ivi, p. 83.
16 Ivi, p. 81.
17 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi,
Torino 1997.
18 Sul progetto di norman foster & Partner per il
Carré d’Art (1984-1993) la bibliografia è vastissima.
Si veda tra l’altro, M. Lupano, Il Foster di Nìmes e
il Carré d’Art, “Lotus”, 79, 1993, pp. 41-59. Per un
inquadramento del progetto nel contesto più ampio
degli interventi di valorizzazione delle preesistenze
archeologiche a nìmes (cfr. la scheda relativa
all’interno dell’Atlante dei paesaggi archeologici, infra,
pp. 364-365).
19 A. Riegel, Il culto moderno dei monumenti. Il suo
carattere i suoi inizi, 1903, Abscondida, Milano 2011.
55
TUTELA E REINVENZIONE
3. l. quaroni, C. vaccaro, Katastilosi del Monumento a
Vittorio Emanuele, 1988.
56
20 L. Quaroni, C. Vaccaro, Una timida proposta per
Piazza Venezia, in Le città Immaginate. Un viaggio in Italia.
Nove progetti per nove città, catalogo della xvii triennale
di Milano, Electa, Milano 1987, pp. 38-39. La definizione
riportata compare come didascalia dell’esposizione
e non nel volume. Successivamente si ritrova nel
catalogo della mostra organizzata a Roma nel 1989
presso le sedi della Cornell university e della A.A.M. /
COOP Architettura Arte Moderna. Cfr. A. Capuano, R.
Einaudi (a cura di), La città politica, il Parlamento e i nuovi
ministeri, A.A.M. / Cornell university / La Sapienza,
Roma 1989, p. 21.
21 Il gruppo romano era composto da f. Purini (coordinatore), G. Accasto. f. Cellini, C. d’Amato, G. d’Ardia, V.
fraticelli, R. nicolini, f. Prati, L. Thermes.
22 Cfr., B. Zevi, Processo al Vittoriano, ora in: www.
fondazionebrunozevi.it.
23 f. Moschini, La città come messa in scena della ”perdita del centro”, in A. Capuano, R. Einaudi (a cura di), La
città politica, il Parlamento e i nuovi ministeri, cit., p. 14.
24 Gli scavi condotti a partire dal 1998 con metodo
stratigrafico dalla Soprintendenza Speciale per i Beni
archeologici di Roma, hanno riportato alla luce a una
quota di circa due-tre metri sopra alla quota archeologica le cantine degli edifici tardo cinquecenteschi,
demoliti tra il 1924 e il 1932 per la realizzazione di via
dei fori Imperiali.
25 I nomi in elenco senza pretesa di completezza
rimandano a progetti che secondo differenti modalità
hanno lavorato su una ibridazione moderna e contemporanea del Centro Archeologico Monumentale (così
lo definisce il Piano Regolatore Generale di Roma del
2008 all’art. 37). dalle visioni di Giuseppe Terragni del
progetto di concorso per il Palazzo Littorio, al Colosso
di Carlo Aymonino, dal viadotto sospeso sui fori di Costantino dardi al Progetto fori di Leonardo Benevolo,
agli studi di Raffaele Panella, la questione meriterebbe
una trattazione specifica e approfondita ben oltre gli
obiettivi di questo scritto. Solo una citazione esemplificativa dalla relazione di progetto di Aymonino per il
Colosso. “L’idea di un progetto sul luogo del Colosso è
nata in uno dei molti incontri non ufficiali con il Sovrintendente archeologico Adriano La Regina. Trovatici più
volte d’accordo sulla possibilità e, in taluni casi, sulla
necessità di nuovi interventi nei fori (per completarne
una più corretta lettura, per dotarli di amenità – una
vota divenuti parte di città – e per suggerire alcuni rapporti originari tra edifici), fu lui a pormi il problema di
pensare a qualcosa di costruito (una statua? un monolite? una torre?) sull’area recuperata delle fondamenta
del Colosso, un quadrato di 15 x 15 m.”. C. Aymonino,
Piazze d’Italia, Electa, Milano 1988, p. 79.
3
Narrazione. “Katastilosi del Monumento a Vittorio Emanuele”20 è il contributo di Ludovico Quaroni al “Progetto Roma: la politica, il Parlamento, i nuovi ministeri”, redatto per
la xvii Triennale di Milano del 1987 da un gruppo di architetti più giovani con il coordinamento di franco Purini21. Il maestro, chiamato come ospite esterno insieme a Peter
Eisenman e Colin Rowe presenta, con Carolina Vaccaro, due disegni che raffigurano
il prospetto e l’assonometria del Vittoriano in avanzato stato di decomposizione, depurato delle principali aggettivazioni retoriche e ridondanti e aggredito dalla vegetazione,
esattamente come le rovine piranesiane. La durezza prevaricatrice e tronfia con la
quale il monumento di Giuseppe Sacconi si era imposto come terminale della via Lata e
testata della Roma Imperiale, distruggendo per sempre l’equilibrio misurato e dinamico caro a Bruno Zevi di una piazza Venezia che oggi possiamo soltanto immaginare22, si
diluisce in un sottile gioco del rovescio nel quale il falso rudere si confonde con la natura
e con il paesaggio monumentale della città storica. La proposta, nella sua utopica dimensione distruttiva, tenta una mediazione tra la città silente dell’archeologia e la città
tumultuosa del quotidiano, ricostruendo una narrazione che tiene insieme la rupe del
Campidoglio, la chiesa dell’Aracoeli, la Colonna Traiana e la Torre Capitolina, con le
prospettive aperte dai tracciati urbani limitrofi.
Si tratta di una visione onirica che si innesta nel luogo simbolo di Roma e della romanità,
una parte di città “oggetto costante di eccessi: dall’immobilismo attuale alle spregiudicate manipolazioni fasciste”23, portatrice, pur in una dimensione ironica e provocatoria,
di un immaginario potente e solido. un immaginario capace di intaccare quell’aura di
rassegnazione espressione del rigore scientista – simbolicamente rappresentata dalla
esposizione en plein air dei pavimenti in maiolica delle cantinole riportate alla luce tra
via Alessandrina e via dei fori Imperiali24 – che agisce come freno per una tutela del
patrimonio che ne contempli anche la reinvenzione. una visione dunque che si incarica
indirettamente di segnare un estremo e che ne tiene in campo infinite altre ulteriori e
forse più praticabili, e che non sarebbe male tenere a mente, tra tante altre – a partire
da quelle di Giuseppe Terragni, Carlo Aymonino, Costantino dardi, Leonardo Benevolo,
Raffaele Panella25 – nel dibattito sulla sorte di via dei fori Imperiali, che certo non troverà esiti convincenti se non nella integrazione delle politiche con il progetto.
The research revolves around two aspects: the recognition of the contemporary
landscape dimension of archaeology, and the definition of the project for archaeological contexts.
What are archaeological landscapes, if not simply post-ancient landscapes? It’s
probable that today they’re something else, that the palimpsest of an antiquity that
has become archaeological over time becomes covered with deposits of other sediments left by nature and human actions. In their status as post-ancient landscapes,
they accumulate other intermediate layers, so to a certain extent today they are also
postmodern. As with all contexts, they intercept the dimension of the present, and
therefore are necessarily always contemporary. On the other hand, while the landscape is an interweaving of a physical configuration of the territory with the inhabitant’s and/or observer’s individual perception, it takes on an aspect of immanence.
The preceding observations lead to a corollary of singular significance: insofar as
they are characterized by the evocation of a distant period of time with which the
sequentiality has been interrupted, archaeological landscapes are either contemporary or they are not. This assertion carries an explicit stance that entails precise
consequences in terms of policies, planning, and management.
Supposing that it is possible to partialize it, how does archaeology react with respect
to its context of reference? Landscape has no boundaries. Even an archaeological site is expected to interact with a higher configuration that encompasses it. In
most cases, the archaeology is in contact with the pulsing contemporary world. The
continuous interference of a static space and time with a dynamic space produces
uncontrollable results that differ from case to case. The fear of these reactions has
generally been kept under control with fences, stressing the temporal and functional interruption with a physical discontinuity. Thinking by projects is something else.
In this case, also, just as it refers to the notion of a landscape, there is an identical
relationship between a project for a historical landscape and a project for an archaeological landscape. Because a landscape with ruins suggests an unbridgeable
distance from the humanistic dream of a cultural rebirth of Classic Antiquity, but
also from all possibilities for a contemporary use that is not a theme park.
ultimately, archaeology is a standstill of a dormant historic city; it looks onto the
scene of the city with a potential that is both strongly evocative and destructive. And
thus the specific task of the project, in addition to the basic qualities of a good plan
for the existing city, is that of taking charge of this potential, putting it back at the
centre of the relationships of contemporary society, and reinventing its meaning and
role time by time.
desiGNiNG Post-ANCieNt
lANdsCAPes
ABSTRACT
57
CeRCARe il PAesAGGio
Giovanni Azzena, Roberto Busonera
definizioni e loro conseguenze. L’esistenza di una definizione unesco riferita
esattamente al “Paesaggio storico”, testimonia la presenza di un contesto culturale che l’ha prodotta e quindi l’esigenza che il tema sia affrontato in ambito
“disciplinare”. Alcune discipline appaiono sollecitate e orientate verso temi legati alla “sostenibilità”, tese verso recuperi “identitari”1, pervase da un improbabile
quanto ineluttabile compromesso tra qualità della vita, basata sull’eccellenza
dei luoghi e quantità della vita che sui medesimi luoghi scompostamente si riversa. Il tema paesaggistico è stato così ridotto ad un’irriducibile complessità
delle proteiformi componenti del territorio e inscatolato in strutture, sistemi,
tassonomie (quadri, unità, classi ecc.) attraverso le quali ciascuna disciplina
consolida il proprio distinto concetto di paesaggio, riferendosi ad un vocabolo
che è rimasto uguale per tutti2.
Appare appropriata al riguardo una nota di Lucina Caravaggi3 sull’ossessione
della definizione. Rarissimamente si trova il Paesaggio andare da solo: comunemente si parla di Paesaggio storico, Paesaggio nuragico, Paesaggio del Chianti,
Paesaggio eccellente…
Accettare una definizione di “Paesaggio storico” ammette l’esistenza di un paesaggio più storico di altri, fino a riconoscere, per converso, l’esistenza di paesaggi
a-storici o non storici favorendo, a cominciare dal secondo dopoguerra, una sorta
di perversa graduatoria tra territori/paesaggi intangibili perché densi di significati
ambientali, simbolici, culturali e altri, figli di un dio minore, sacrificabili “al progresso”4.
una contrapposizione col tempo sempre meno frontale, ma non per questo meno
incisiva, specie se tradotta sul terreno dalle pratiche del centro vs. periferia, della
conservazione in vitro, del recinto, dell’Oasi, dell’Area e del Parco archeologico5,
sempre ritagliati intorno ad aree “meritevoli”. un chiaro esempio è quello dell’Appia, il più grande parco archeologico del mondo, i cui limiti istituzionali implicano
1 J. l. Carrilho de Graça, Schizzo iniziale del progetto
per il recupero delle rovine della chiesa di Sao Paulo a
Macao, 1990.
1 In forme più o meno, ma anche per niente,
retoriche (cfr. L.decandia, Recinti sacri e feste
lunghe in Sardegna. La centralità dei luoghi sacri
nella costruzione della realtà territoriale sarda, in G.
Costa (a cura di), Un campus Teatrale a Sant’Anna
arresi in Sardegna, Contemporanea, firenze 1994;
Id. Dell’identità. Saggio sui luoghi: per una critica
della razionalità urbanistica, Rubbettino, Catanzaro
2000; Id., Anime di luoghi, franco Angeli, Milano
2004; M. fazio (a cura di), Dossier. Paesaggio,
identità perduta. La trasformazione del paesaggio
italiano,“Italia nostra”, 327, 1996; L. Bonesio,
Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997; Id.
Oltre il paesaggio, Arianna Editrice, Bologna 2002;
M. Venturi ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto
del mondo umano, Editori Riuniti, Roma 2002).
2 C. Copeta, Prefazione in d. Cosgrove, Realtà sociali
e paesaggio simbolico, unicopli, Milano 1990, p. 17.
3 L. Caravaggi, Paesaggi di paesaggi, Meltemi, Roma
2002, p. 12.
4 A. Ricci, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra
identità e progetto, donzelli, Roma 2006.
5 P.G. Guzzo, Considerazioni sui parchi archeologici,
Ostraka, “Rivista di antichità“, v, 2, 1996. p. 372.
59
TUTELA E REINVENZIONE
2 barumini, reggia Nuragica.
60
6 Cfr. f. fazzio, Gli spazi dell’archeologia. Temi per il
progetto urbanistico., Officina, Roma 2005.
7 f. farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli
del mondo, Einaudi, Torino 2003, pp. 200-201; L.
decandia, Anime di luoghi, franco Angeli, Milano
2004, pp. 16-24.
8 Raramente si parla di “eredità”, perché
probabilmente andrebbe gestita e lasciata, a sua
volta, in eredità (cfr. G. Azzena, Proposte per un
glossario: quattro lemmi e un neologismo per l’ambito
storico, “Eddyburg”, 29 Ottobre 2007).
uso”9 e dunque aperte a soluzioni gestionali il cui obiettivo principale ed esplicitamente annunciato era rappresentato dalla “messa a reddito”.
una condizione che ha rafforzato l’idea del recinto archeologico e che, pur riconoscendo le buone intenzioni dei Padri costituenti nella redazione della Costituzione
(art. 9)10 ha determinato la nascita di quelli che Longobardi chiama “non luoghi
della memoria”11.
un ultimo spunto, particolarmente pregnante di cui tener conto, perché originato
proprio dall’ambiguità che distingue luoghi “storici” e “a-storici” è relativo al problema della coscienza, anche perché, come dimostrano le direttive unesco i punti
di vista cambiano. Antonio Cederna12, nel 1950, scriveva “in arte tutto teoricamente
si può fare, che il ‘si deve’ e il ‘non si deve’ non c’entrano nulla, ma è solo e sempre
questione di uomini, capaci e geniali o incapaci e mediocri”. Più tardi rifiuterà questa visione sostenendo che “non si può fare nulla, si deve proibire tutto”.
una contraddizione interessante, dimostrabile secondo una prospettiva di “equidistanza storica”, nel riconoscimento cioè di una prospettiva storica in continuo
movimento, non fissata sull’immagine rilevante (cospicua, famosa, evidente ecc.)
di un contesto. (G.A.)
2
necessariamente che quello che c’è intorno sia a-storico o non storico. Si tratta di
una vecchia concezione gerarchica, la stessa che ha prodotto i recinti6, risultato
dei processi di individuazione e riconoscimento di un bene.
Attribuire al Paesaggio una particolare qualità implica necessariamente una componente percettiva che, nonostante la continua ricerca delle discipline delegate,
contribuisce a renderlo sfuggente ad ogni definizione certa e condivisa.
L’intima necessità di ricercare precise definizioni di Paesaggio e, più in generale
dei beni culturali, ha contribuito alla nascita di una struttura normativa a carattere essenzialmente tassonomico con il rischio, non solo semantico, di trascurare
alcune componenti basilari dell’analisi: da una parte il tempo e dall’altra le reti
delle relazioni, siano esse visive, simboliche, religiose, socio-politiche, affettive7.
non sarebbe corretto attribuire la responsabilità della deriva degli strumenti di
controllo e tutela alla sola struttura normativa; sarebbe più opportuno metterne a
fuoco i problemi, per capire se sia possibile migliorare i sistemi di gestione e tutela. Quando si è intravista la possibilità di poter far cassa anche con i beni culturali
è mutata anche la terminologia e si è cominciato a parlare di Giacimento culturale
e Patrimonio8, ad indicare testimonianze di particolare pregio perché “non più in
il progetto archeologico e il territorio. La laboriosa responsabilità di “individuare” paesaggi si dovrà allora fondare anche su criteri più astratti nelle loro formulazioni teoriche, se non analizzabili forse almeno comprensibili in una visione che
ne racchiuda gli aspetti emozionali e quelli tecnico-scientifici, quelli solo percettivi
e quelli classificatori, nel tentativo di restituire da un lato spessore storico, culturale, affettivo ai quadri tassonomici e, dall’altro, di rendere meno labili gli aspetti
“emotivi” del paesaggio.
una lettura integrata e non un’addizione di letture dove alla suggestione esteticosentimentale davanti alla natura (Eindruck, ossia il paesaggio propriamente detto)
si congiunge l’analisi, la misura del mondo (Einsicht) disposta su uno solo dei suoi
aspetti, per pervenire infine al Zusammenhang, cioè al ritorno alla complessità
degli insiemi e dei sistemi delle relazioni su cui si basa il funzionamento del mondo, finalmente chiaro grazie al passaggio attraverso le fasi precedenti13.
È chiaro che sulla base delle specifiche situazioni, gli interventi possano essere
orientati verso un’ottica di conservazione piuttosto che di valorizzazione attraverso operazioni di rinnovamento urbano o territoriale14. Ovviamente l’esame delle
preesistenze e delle condizioni concrete rappresenta un presupposto imprescindibile: il lavoro di analisi deve poter condurre a risposte progettuali che vadano
oltre l’isolamento dei resti dal contesto attraverso recinti protettivi.
non è possibile però definire modelli di intervento validi per tutte le aree archeologiche senza tener conto delle specifiche condizioni: parlare di “linee guida” in
relazione a progetti o interventi relativi alla valorizzazione dei beni archeologici è
assolutamente fuorviante; anche la presenza di situazioni simili e ricorrenti nel
caso di ritrovamenti archeologici, non garantisce la possibilità di trovare soluzioni univoche. Se si sposa l’idea che la riqualificazione di un’area archeologica sia
9 “Ogni opera della mano dell’uomo, solo per il fatto
di essere ‘monumento’ cioè di essere già esistita
per un certo tempo, gode il diritto di protezione”
(A. Riegl, Teoria e prassi della conservazione dei
monumenti, clueb, Bologna 1995, p. 40).
10 “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura
e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio
e il patrimonio storico e artistico della nazione”.
nel corso della discussione sull’articolo 9 del
Progetto di Costituzione, discussione all’Assemblea
del 30 aprile 1947, merita particolare attenzione
l’intervento Emilio Lussu “Ecco perché io che credo
di essere, o di poter essere annoverato, se non
fra i più autorevoli, certo fra i più tenaci assertori
della riforma autonomistica dello Stato, aderisco
totalmente all’emendamento presentato dal collega
onorevole Codignola […] Solo, per evitare confusioni
ed equivoci pregherei l’onorevole Codignola di
sostituire a ‘Stato’, ‘Repubblica’”.
11 La definizione, mutuata dai “non-lieux” di Marc
Augé, è in G. Longobardi, Aree archeologiche: non
luoghi della città contemporanea, in M.M. Segarra
Lagunes (a cura di), Archeologia urbana e progetto di
architettura: seminario di studi, Gangemi, Roma 2002.
12 A. Cederna, Brandelli d’Italia: come distruggere il
bel paese, newton Compton, Roma 1991, p. 288.
13 f. farinelli, La natura del paesaggio, in R. Milani,
A. Morpurgo, Mutazioni di paesaggio, numero
monografico di “Parametro”, 245, 2003, p. 66.
14 A questo proposito è di sicuro interesse
l’interpretazione di “monumento” data in A. Riegl, Il
culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi
inizi, a cura di S.Scarrocchia, Abscondita, Bologna
1990, p.16. Si parla di “monumenti involontari”, il
cui significato non dipende dalla loro destinazione
originaria, ma dal valore attribuito da noi,
osservatori moderni. françoise Choay (L’allegoria
del patrimonio, tr. it. a cura di E. d’Alfonso, Officina,
Roma 1995, p. 30) ragiona in termini di reimpiego,
ma di significati e non di oggetti.
61
TUTELA E REINVENZIONE
62
subordinata al territorio circostante e debba rispondere perciò alle relazioni che
possono generarsi con il contesto, è naturale che le situazioni saranno sempre
differenti e declinabili in diversi modi. In base alle caratteristiche del contesto circostante si impongono dunque forme di intervento distinte a seconda che si tratti
di aree consolidate, piuttosto che aree in fase di scavo o in piena trasformazione.
In questo senso un “progetto per l’archeologia” deve essere inteso e percepito innanzitutto come strumento culturale, definito a partire da una serie di indicazioni
e suggestioni provenienti dal territorio ed espresso dunque tramite progetti che
possano influire ed intervenire, a seconda delle necessità, sia su scala locale che
sovra locale.
non si tratta, è ovvio, di trovare nuove metodologie per la sistematizzazione e
catalogazione dei dati archeologici, ma di nuove modalità di approccio al progetto
archeologico attraverso una differente chiave di lettura ed interpretazione delle
preesistenze, nell’ottica di ridefinire alcune modalità di fruizione dell’area insieme
con il territorio d’appartenenza.
La fruizione del bene, intesa come strumento necessario per la tutela, deve dunque essere ottenuta attraverso strumenti esecutivi necessari per l’attuazione di
progetti specifici che focalizzino l’attenzione sulle modalità di accesso, uso e percezione del bene, al fine di ottenere situazioni di maggiore commistione tra ambito
archeologico, naturale, urbano; si comprende come in questo senso, attraverso
progetti che si orientino verso interventi esterni all’area vincolata e solo apparentemente estranei all’ambito archeologico, possano invece convivere regole e
azioni progettuali.
Trovare soluzioni nuove per i beni archeologici non richiede lo stravolgimento o la
cancellazione del quadro istituzionale esistente; permette invece che archeologia
e territorio vengano visti come ambiti integrati, come del resto sono nella realtà,
parte di contesti disciplinari apparentemente differenti, ma che necessariamente
devono collaborare nel progetto del territorio. (R.B.)
for the identification of new and increasingly effective solutions for revealing the
territorial dimension of an archaeological context, it has become necessary to define several principles for the recognition of the so-called “historic landscapes”,
which are valid for the analytic study of the “chrono-diversity” features of a territory. Thus not so much, or not only, a scientific reconstruction of one or more
historic phases of a context, but an analytic study of what exists for everyone to
perceive and enjoy now: the “historic” peculiarities of a territory.
An approach that seems to be both the cause and the effect of a protection legislation that has considered the historic condition of places as determined only
by the physical presence of “objects” no longer in use, and which seems to tend
often towards a separation of the real research contexts, preventing the definition
of shared solutions that involve an entire territorial system. The ultimate consequences of this cultural attitude are the virtual or real fences cut out around these
“objects” representing history: protective fences as untouchable in theory as they
are fragile in the practice of the indifference “around” them”; fences made impermeable to life and, therefore, for all intents and purposes conceivable as “external”, even (or above all) when they are situated in the centre of our cities.
The clarification of the ambiguous statute of the historicity of places could give rise
not only to a less abstract and thus more shared idea of protection, but also – and
this is the profound sense of the proposed contribution – a planning and design
vision that is no longer dominated by the impediment represented by their cumbersome presence, but a guarantor of the potentials deriving from the suggestiveness
of the fact of their still being present. While it is true that in the perception of the
cultural values of a territory and a context there is an interweaving of natural and
anthropic factors, affective and symbolic elements, different scales of interest and
looks, just the “conservation by choosing” alone, on the basis of a hierarchical
system of values, is not sufficient to run through the profound sense of a system
of collective and individual perceptions. It is thus not a matter of merely deciding
whether or not to dig in an archaeological area, of whether and how to restore
an isolated complex, or even whether and how to equip an ancient route which
has come to light by chance. It is not a matter of “museumifying” a single find in
situ, bringing to a halt every other form of transformation, or of sacrificing it after
having studied it appropriately. It is a matter of dealing with these situations all
together, on dimensions that make necessary not a constraint, but a conditioned
attention, not so much on the basis of the single object or area, but of the idea of
the landscape that one wishes to create with that project.
seARCHiNG FoR
tHe lANdsCAPe
ABSTRACT
63
PeR lA CoNtiNuità
Raffaele Panella
La ricerca di una “continuità” tra la città contemporanea e la città antica, che compare con insistenza nelle parole e nei piani di amministratori pubblici, di architetti
e archeologi, fa parte della famiglia assai più vasta di problemi riconducibili al
dittico pervicacemente e tradizionalmente oppositivo antico/moderno. non vorrei
apparire fuorviante e semplificare in modo eccessivo una questione di così grande
complessità, asserendo che l’unico modo che io personalmente conosco e pratico,
quando posso, è la contaminazione. Mi riferisco al significato letterario del termine, più precisamente a quello usato correntemente nella linguistica, da intendere
quindi come fusione di forme e di stili originata da un tentativo di avvicinamento,
adesione, continuità. Appunto.
Progetto archeologico e progetto urbano. da qui alla definizione di una tassonomia dei possibili modi di stabilire – con il progetto, il progetto urbano in particolare – una continuità tra città antica e città postmoderna, il passaggio è molto
accidentato e non può essere ridotto a una questione puramente funzionale. Anzitutto, siamo dinanzi non a uno ma a due progetti, quello archeologico e quello
urbano, che hanno entrambi una elevata dignità scientifica e una loro tradizione
che li spingono a confliggere o a ignorarsi. Ma il problema non è solo quello di una
integrazione difficile; poiché entrambi si trovano ad operare in un contesto in forte
movimento che tende a cambiare le regole della convivenza, nella fattispecie, di
quella convivenza espressa dagli spazi collettivi urbani.
È del tutto evidente che se che il “progetto archeologico”, ossia l’esplorazione
dei resti della città antica per ricostruirne la storia, ed eventualmente lasciarne
in vista talune componenti, come testimonianza o fonte di godimento estetico, si
muove in completa autonomia da quello urbano, questa continuità, sia che venga
presentata come “un fatto culturale” spesso non sufficientemente circostanziato,
1 C. Aymonino, Schizzo di studio per Il Colosso, 1984.
65
TUTELA E REINVENZIONE
sia che appaia mascherata da una qualche destinazione d’uso moderna, non esiste. Tanto peggio se l’archeologo è convinto con la sua esplorazione – oggi, generalmente lo scavo – di depositare nel tessuto della città un autentico e indiscutibile
valore urbano, ossia un valore con il quale la città moderna deve confrontarsi ed
adattarsi, dalla accessibilità al traffico, dalle funzioni all’assetto edilizio vero e
proprio. Ma non va meglio se il progettista urbano, ignorando il contenuto di quei
resti, li cataloga come “antichità” da conservare, ne “abbellisce” l’intorno, spesso
l’involucro, con piante di sapore antico – l’ulivo, l’acanto, l’edera – magari sullo
sfondo di un bel prato verde, convinto di restituire alla civitas un pezzo di natura di maggior valore perché nobilitato dalla storia, ovvero, un pezzo di storia più
accattivante perché naturalizzato. Sto descrivendo una cattiva musealizzazione,
ma anche una accorta musealizzazione porta allo stesso risultato: la recintazione
dell’area archeologica, magari dotandola di una robusta cancellata. forse in taluni casi non si può fare di più, anche per tutelare dei resti spesso assai fragili. Ma
non è il caso di parlare di continuità.
66
Connessioni e contaminazioni. Lavorare insieme, ossia, integrare il progetto
urbano con quello archeologico, significa ben altra cosa. Significa innanzi tutto
lavorare sulle connessioni, sul sistema delle relazioni ritenute le più idonee a comunicare l’identità del sito con cui abbiamo a che fare, e quindi a trovare un senso
urbano a ciò che è emerso dalla esplorazione. Ed è il problema della soluzione architettonico urbana senz’altro strategica dei “bordi”, come sottolinea Manacorda.
Che a Roma, ma non solo, assume salvo che in alcuni casi eccezionali (la conca
del Colosseo nella quale la quota moderna coincide con quella della sistemazione
flavia), il carattere singolare della risoluzione di un salto di quota che si attesta
normalmente sui 3.5, 4 metri, almeno dell’area centrale ma lo studioso va più
avanti e si domanda “… Ma che cosa accade poi nello spazio archeologico?“
La mia risposta è che se noi non consideriamo i resti della città antica come materiali del progetto moderno, per essere più chiari, se essi non sono declinabili
nello stesso sistema semiologico dell’architettura, è come se lavorassimo ad una
grande tela con dei buchi. Abbiamo fatto un passo avanti notevole nel senso della
continuità risolvendo le connessioni, i bordi (su cui in ogni caso c’è ancora tanto da
dire e da esplorare), ma se dobbiamo entrare nella “polpa”, in quello che Manacorda chiama lo “spazio archeologico”, con l’obiettivo di comunicare attraverso l’uso e
la forma, quale che sia, il senso di quel luogo, non c’è altro modo che considerare
i resti, i pezzi di città antica, come materiali manipolabili dall’architettura, in un
rapporto che non può essere altro che di contaminazione.
d’altra parte, tutte le grandi opere che testimoniano di una continuità realmente
realizzata sono effetto di una contaminazione. Cito due esempi canonici nei quali si
usano materiali diversi per rapporto a due diverse latitudini: S. Maria degli Angeli a
Roma sul frigidarium delle Terme di diocleziano, opera michelangiolesca, poi Vanvitelliana; il duomo di Siracusa a Ortigia sul Tempio di Atena, passato attraverso l’architettura normanna e quella barocca: io rimango sempre impressionato da questi
esempi, ma confesso di provare la stessa emozione in due esempi romani di scala
urbana: piazza navona che riprende le tracce dello stadio di domiziano e piazza della Repubblica che il genio di Gaetano Koch ricalca sulla grande esedra delle terme
sempre del su nominato imperatore. Peccato che questo straordinario esempio di
continuità sfugga ai più. non è una continuità funzionale e di certo neanche morfologica, ma la sua preziosità sta proprio nell’aver colto il “senso del luogo”.
Oggi è impensabile usare l’ottica rinascimentale, ma anche ottocentesca con cui ci
avviciniamo ai resti antichi, ma l’architettura continua a operare solo su materiali
semiologicamente omogenei, che siano moderni o antichi, altrimenti viene meno
il suo statuto. Ossia viene meno l’architettura in quanto tale. Ben inteso, nessuno
mette in discussione la diversità dei materiali antichi, la diversa cultura materiale
da essi incorporata, la loro diversa consistenza, il diverso valore misurato sulla
loro unicità, sul tempo di vita e sulle informazioni che ci danno del passato, infine,
la loro grande, grandissima, fragilità. Ecco perché il progettista urbano, se deve
affrontare un tema simile, cioè se deve costruire un progetto di sistemazione di
un’area archeologica, non può fare a meno di entrare profondamente nella natura
specifica di quella “antichità”, e quindi della vicinanza stretta dell’archeologo in
tutte la fasi del progetto. direi di più: l’Architetto che vuole interagire deve entrare
nel cantiere archeologico.
naturalmente, l’estensione e la pervasività dell’architettura nel cantiere archeologico è funzione dello stato e della consistenza dei manufatti emersi, dei sacrifici
imposti dalla esplorazione stratigrafica, della compiutezza o meno del senso del
luogo che lo scavo si è reso disponibile a trasmettere, oltre che della sua collocazione nel contesto urbano, della sua accessibilità, delle sue dimensioni di parte
di città o di frammento. Ma la sua natura, il suo apporto non cambia, anche se
esso si riduce a indicare soltanto il modo più efficace per leggere i manufatti sopravvissuti, magari indicando un percorso narrativo. Ciò avviene soprattutto se
“lo spazio archeologico” è un dato consolidato nel sistema delle relazioni urbane,
nella stessa storia della città e nella percezione dei cittadini, il Palatino, la villa
di Adriano, Ostia antica. non è una diminutio limitarsi ad articolare il racconto
della vicenda urbana di quel sito o quel monumento, individuare percorsi diversi
– magari a quote diverse – per epoche diverse o per lacerti urbani omogenei, o
percorsi diversi per differenti tipi di visitatori, da chi si ritiene soddisfatto di cogliere l’immagine delle cose alla studioso colto che ha bisogno di toccarle con
mano, di allocarvi i servizi (anche solo informativi), di intervenire con anastilosi o
con linguaggio espressamente moderno per integrare strutture la cui comprensione per gli stessi studiosi appare problematica per l’ingiuria del tempo e per le
effrazioni dell’uomo antiche e moderne (l’architettura ha poco o nulla in comune
con la pittura in tema di restauro). Se lo “spazio archeologico” è il foro romano,
la presenza dell’architettura potrebbe avere un ruolo maggiore se non altro per
costruire registri per comprendere l’eccezionale stratificazione del tutto naturale
per una città che ne ha fatto il suo centro per mille anni.
Se lo spazio archeologico si presenta mescolato con la città e la vita moderna, i fori
Imperiali, la valle dell’Anfiteatro flavio, comprese le pendici del Celio, dell’Oppio e
67
tipo di storicismo. In questo modo è possibile ricomporre l’unità urbana dei fori
Imperiali. Ma abbiamo anche deciso di semplificare la stratificazione sull’impianto
delle antiche piazze, che presa alla lettera oggi impedisce qualsiasi comprensione
della forma delle stesse e della loro formidabile continuità urbanistica. Abbiamo
ritenuto irresolubile la cerniera di largo Corrado Ricci/Templum Pacis, cercando
una impossibile con-presenza tra strade e parterre archeologico che, come si vede
oggi, mortifica la grandiosità del foro della Pace e rende ridicola la viabilità moderna. Qui abbiamo ritenuto che i due livelli dovessero coesistere, in piena autonomia,
utilizzando le due quote diverse, creando l’opportunità di fare del Templum Pacis
il nuovo Antiquarium dei fori. Via i giardinetti dallo slargo che fronteggia da ovest
il Colosseo ed al loro posto un nuovo parterre di pietra e di marmi il cui disegno a
terra riproduce le murazione della Reggia neroniana demolita dai flavi, per restituire l’area al popolo romano, in parole povere, per farne un luogo collettivo. Come
collettivo era l’uso dell’Anfiteatro che i flavi realizzano sul Lacus neronis, che l’imperatore fantasista utilizzava per sé e i suoi ospiti (dopo aver demolito un pezzo di
città repubblicana). Ove possibile, realizzazione di strutture ipogee che valorizzino
gli straordinari ritrovamenti di epoca augustea e regia. Perché poi non ricostruire,
come era e dove era il “piano dei grandi travertini”? Perché non sedimentare un
segnale del perimetro originario dell’Anfiteatro? Perché non ricostruire almeno il
desco della fontana della Meta Sudans e farvi scorrere dell’acqua?
2
TUTELA E REINVENZIONE
2 R. Panella, Progetto di sistemazione dei Fori
Imperiali, vista del portico settentrionale del Foro di
Cesare.
68
del Palatino, l’impegno dell’architettura è più vasto e complesso, iniziando proprio
dai bordi, che insistono sui margini delle strutture archeologiche, ma spesso sono
margini interni essi stessi rispetto alle strutture archeologiche.
Roma e il Foro. L’esperienza che abbiamo conseguito nella ricerca di progettazione, condotta del diap da un gruppo interdisciplinare da me diretto, della sistemazione dell’area che da piazza Venezia si conclude con il Colosseo, oggi in via di
pubblicazione, si colloca esattamente in questa direzione. Quì si tratta di riprogettare strutture moderne anche imponenti, interne alla polpa archeologica, che vengono considerate non più idonee al racconto del luogo. dalla via dei fori Imperiali,
alle sistemazioni anni ’30 e ’40 della Velia, alla piazza del Colosseo e alle pendici
dei colli che vi prospettano. L’impegno dell’architettura qui è più radicale perché
viene chiamata a decidere se demolire o conservare la via dei fori Imperiali, su
come risolvere la compresenza del Templum Pacis con largo Corrado Ricci che è
la cerniera tra la città moderna e quella antica, sul come atteggiarsi dinanzi a un
invaso del monumento tra i più importanti del mondo, per buona parte occupato
da una viabilità eccessiva ed ossessiva, per il resto trattato come un giardinetto
pubblico con piante varie e un green verde, che costringe i 5 milioni di i visitatori a
file stressanti senza una rete di servizi da paese civile.
nella ricerca di progettazione che prima citavo, abbiamo inteso sostituire lo stradone con un viadotto che corre alla stessa quota e sulla stessa traccia, considerandola un margine interno della città moderna sull’antico, lontani comunque da ogni
lo spazio archeologico. Con il richiamo allo spazio collettivo urbano suggerito
da Vespasiano introduciamo l’ultimo tema. Lo “spazio archeologico” è uno spazio
pubblico e quindi con una certa approssimazione anche spazio collettivo che ha
a che fare, comunica con altri spazi collettivi della città. Possiamo asserire che
il collettivo oltre che essere la sostanza è anche il contesto fisico dello spazio
archeologico. Ma siamo proprio certi che il senso – prima che le funzioni – dello
spazio collettivo urbano non abbia subito il riflesso di quelle mutazioni genetiche
che sta subendo la città nel suo farsi e nell’organizzare la vita dell’uomo contemporaneo? La città post moderna è divenuta, infatti, un arcipelago dominato dalla
rete delle comunicazioni materiali e da quella delle comunicazioni immateriali che
hanno fatto saltare il vecchio sistema delle centralità urbane, ossia, dei luoghi del
collettivo urbano organizzati a formare livelli diversi di aggregazione e di servizi,
dal centro-città ai centri di quartiere o di zona, con funzioni che vanno dalle più
nobili, quelle rappresentative della civitas in tutte sue articolazioni, alle più domestiche dei servizi pubblici ad uso della residenza. Le funzioni che caratterizzavano
i luoghi collettivi urbani si sono ecclissate dai luoghi tradizionali per meccanismi
interni che hanno a che fare con la tendenza alla delocalizzazione (la quale non
riguarda solo i luoghi della produzione di beni materiali) o si sono rarefatte per
l’enorme sviluppo della rete immateriale. La delocalizzazione è operante anche
per il commercio, che non abbandona i luoghi d’insediamento tradizionale solo se
la loro immagine è radicata nelle città, quando non sia veicolata dai media di tutto
il mondo e divenuta in questo modo un fattore di attrazione.
69
TUTELA E REINVENZIONE
Eppure il senso del luogo collettivo non è andato irrimediabilmente perduto; esso
ha subito se mai una mutazione che lo spinge – a mio avviso – verso l’attribuzione
di un valore simbolico di intensità sconosciuta, se misurata col metro dei valori
tradizionali legati soprattutto all’uso. A collegare alla storia urbana il senso del
collettivo hanno non poco contribuito i visitatori stranieri. È una storia lunga che
inizia nel ’700, ma assume il carattere di massa nei tempi nostri. Molti luoghi di
alto valore urbano, per via di storia o per via di bellezza, più spesso per via della
bellezza depositata dalla storia, sono stati riconosciuti dagli stranieri prima che
dai romani. Ora sono divenuti luoghi di appartenenza della Civitas romana. Così
storia e bellezza sostituiscono le funzioni tradizionali che caratterizzavano un luogo collettivo.
naturalmente non è tutto così e non lo è sempre, ma questa singolare mutazione
che riguarda i grandi fatti urbani assume via via un carattere più pervasivo, indicando una tendenza, che è in grado di influenzare non poco il ruolo urbano e la
conseguente sistemazione delle aree archeologiche e dei manufatti antichi che
qualificano lo spazio urbano e lo rendono collettivo se riescono a comunicare che
sono portatori di storia e di bellezza.
70
The pursuit of “continuity” between the contemporary city and the ancient city has to do
with the stubbornly and traditionally oppositional Ancient/Modern diptych. The only way I
know, and which is practical, is contamination as a fusion of forms and styles originating
from an attempt at approach, adhesion, continuity.
Two projects operate on this continuity between the ancient city and postmodern city: the
archaeological one and the urban, which have their own high scientific dignity and their
own tradition, which pushes them to enter into conflict or to ignore each other. While
the “archaeological project” moves in total autonomy from the urban one, this continuity
does not exist, whether the archaeological remains are presented as “a cultural fact”
or whether they appear concealed by some modern use. The same thing happens if the
urban planner, ignoring the content of those remains, classifies them as “antiquities” to
be preserved and to “beautify”, convinced to returning to the civitas a piece of nature of
greater value because it is rendered noble by history, that is, a piece of history that is
more appealing because it is naturalized.
Integration of the urban project with the archaeological one means something entirely
different. It means working on the system of relationships deemed most suitable for
communicating the identity of the site with which we are working, and therefore for finding an urban sense for what has emerged from the exploration. It is the problem of the
“edges” which, however, is not exhaustive, since it leaves open the problem of the intervention in the archaeological space. Beyond the “edges”, the only way to approach the
“archaeological space is to consider the ancient remains “materials” of the project, that
is, materials expressible in the same semiotic system of architecture, even if they are
structures that are different in nature, history, and fragility. This means that the architect must enter the “archaeological work site” and take possession of the “urban sense”
of the finds. Of course, the extension and pervasiveness of architecture in the archaeological work site are different if we are working in a consolidated archaeological area or
in areas already strongly contaminated by human intervention, such as the area of the
Imperial fora in Rome. The nature of the architect’s intervention does not change and
cannot move away from facilitating the story of the urban meaning of the archaeological
structures found, working on the margins of the archaeological area. Important is also
implementing measures to protect the ancient remains and improve their understandability through direct intervention both in anastylosis and through modern forms, whence
the admissibility of the contamination. urban archaeological areas are collective areas
par excellence if they communicate with the aid of architecture, history, and beauty.
toWARds CoNtiNuitY
ARSTRACT
71
sCelte diFFiCili e iNteRPRetAZioNi APeRte
Lucina Caravaggi
Ci sono dei momenti, come quello che stiamo vivendo, in cui scarsità di risorse economiche e un generale scoramento nei confronti dell’amministrazione dei beni pubblici
sembrano amplificare, all’interno del variegato universo dei beni culturali, la distanza
che separa ricerca, tutela e valorizzazione (distanza già considerevole, nel nostro paese). E nel caso dei beni archeologici la distanza appare ancora più grande che in altre
famiglie.
In verità le tre parole comunicano ormai pochi significati vitali e stanno diventando
appellativi rituali, spesso vuoti di immagini e concetti effettivamente riconosciuti.
Anche le parole si stancano, a forza di sopportare fardelli troppo pesanti.
Purtuttavia, fino al momento in cui non avremo messo a punto altre parole (altre immagini e altri concetti) credo sia utile provare a riscoprire il potenziale euristico ancora oggi connesso a questi termini, magari rileggendo chi ha riflettuto a lungo su
questo rapporto, come daniele Manacorda, anche a partire da quanto ha esposto in
questo seminario, con l’abituale rigore argomentativo e la capacità di far dialogare
discipline diverse.
Il progressivo scollamento tra codificazione normativa di un valore culturale e la percezione sociale effettiva dello stesso, che è alla base dell’indebolimento dell’idea di
bene comune e dei conseguenti dispositivi di tutela, fa aumentare pericolosamente la
distanza tra i pochi soggetti istituzionali e scientifici (in questo caso Soprintendenti e
archeologi) e il resto della società civile.
Anche il numero dei soggetti culturali che si occupano, a vario titolo, di progetti di
archeologia, si sta assottigliando. In confronto a quanto accadeva anche solo qualche
decennio fa, se si escludono le comunicazioni di natura eminentemente (e spesso eccessivamente) commerciale, sembrano davvero rari gli episodi di mobilitazione culturale riferiti all’archeologia.
Rispetto a questo quadro fanno eccezione gli architetti, a parte gli archeologi ovviamente.
1 l. Franciosini, Progetto di concorso per il centro
culturale “Città Alessandrina”, 2008.
73
La passione nei confronti dell’archeologia si mostra come un profondo solco di ricerca
all’interno dell’architettura, e sarebbe interessante ripercorrerlo nella sua evoluzione
non lineare, soprattutto a partire dalle codificazioni disciplinari otto-novecentesche.
Ma non è questa la sede per indagare le ragioni di questa passione sempre nuova per
l’archeologia da parte degli architetti1.
Solo un cenno ad alcuni temi che più recentemente hanno connesso le due discipline
all’interno di progetti e sfide comuni, concentrati prevalentemente sul terreno della
valorizzazione. Ma anche agli ostacoli che rendono a volte difficile questo dialogo.
scelte difficili. dal fronte dell’archeologia si sta facendo faticosamente strada la consapevolezza che lo scavo è un punto di rottura irreversibile nel rapporto tra spazi
insediati e collettività coinvolte, e che per avviare un dialogo nuovo è necessario, come
afferma Manacorda, operare una scelta di valorizzazione:
TUTELA E REINVENZIONE
nelle sue svariate forme mediante le quali i contenuti culturali, continuamente rivissuti e interpretati, vengono messi in condizione non di sopravvivere, ma di svolgere un ruolo attivo nella
società del momento, che sceglie e reinterpreta continuamente ciò che traghetterà nel futuro2.
74
1 Sarebbe quanto mai interessante tracciare una
sorta di evoluzione parallela tra le trasformazioni
dei metodi di ricerca archeologica e le coeve
interpretazioni degli architetti. Si scoprirebbero
legami molto interessanti, un’interdipendenza
spesso sottovalutata dagli architetti ma più chiara
agli archeologi, in particolare: d. Manacorda,
Prima lezione di archeologia, Editori Laterza,
Roma-Bari 2004; d. Manacorda, Cento anni di
ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul
metodo, “Quaderni di storia”, 16, 1982, pp. 85-119; A.
Carandini, Archeologia, architettura e storia dell’arte,
in R. francovich, R. Parenti (a cura di), Archeologia e
restauro dei monumenti, All’Insegna del Giglio, firenze
1988; A. Carandini, Gli architetti e i parchi archeologici
a Roma, “Groma – Giornale di architettura”, 4, 1999,
pp. 20-21; M. Barbanera, L’archeologia degli italiani:
storia, metodi e orientamenti dell’archeologia classica
in Italia, Editori riuniti, Roma 1998.
2 d. Manacorda, Il sito archeologico tra ricerca e
valorizzazione, Carocci, Roma 2007, pp. 82-92.
Questa impostazione è efficace perché assolutamente trasversale rispetto agli oggetti da valorizzare, che si tratti di ritrovamenti puntuali o scavi che coinvolgono vasti territori aperti, di ritrovamenti dotati di una presenza monumentale o ruderi che
spuntano qua e la in una sterpaglia, di aree recintate o siti vastissimi indagati e rinterrati. Ed è efficace anche rispetto alle infinite possibili forme della loro valorizzazione:
dalle nuove declinazioni della musealizzazione in situ alla loro gestione paesaggistica
all’interno dei parchi naturali, dall’urbanissimo uso pubblico dei parchi archeologici
centrali a forme di presidio innovativo in collaborazione con associazioni di categoria,
soggetti privati, istituzioni culturali ecc.
Ma non sempre gli archeologi riescono ad argomentare, e comunicare all’esterno, il possibile senso culturale dei ritrovamenti in uno specifico contesto (con tutti i
vincoli e le possibilità di quel contesto), cioè cosa comunicare rispetto al continuum
dello scavo stratigrafico, al legame indissolubile che lega i diversi strati tra loro
e tutti al terreno, all’evoluzione degli ambienti in relazione al clima, alla morfologia, all’andamento dei fiumi e alle colture. Molto spesso si tratta di attese dovute
all’impossibilità di condurre campagne di scavo degne di questo nome, per cui i siti,
venuti alla luce per caso (generalmente a seguito di trasformazioni contemporanee)
rimangono in attesa di raccontare compiutamente le loro storie. In altri casi si tratta
di rinuncia consapevole.
Ma i grandi o piccoli cantieri aperti all’infinito, i “crateri” recintati, i salti di quota che
interrompono la continuità rassicurante di un suolo urbano o di un territorio coltivato,
le aree di vincolo senza nome all’interno di un parcheggio o nel recinto di una scuola,
allontanano la ricerca archeologica dalla dimensione culturale collettiva che è un alimento indispensabile per far crescere nuove forme di tutela consapevole.
interpretazioni aperte. dal fronte dell’architettura le tendenze più interessanti
sono caratterizzate da una profonda disponibilità a prendere parte a un processo
di conoscenza complesso come quello archeologico, a cui il progetto di valorizzazione collabora e che contribuisce a delineare, in un percorso non sempre agevole, a volte contraddittorio e anche conflittuale.
L’interpretazione di un testo archeologico attraverso un progetto di architettura
(con implicazioni paesaggistiche sempre più evidenti e diffuse) presuppone il coinvolgimento da una parte degli architetti nelle dinamiche dello scavo, nella sua
storia e nelle differenti interpretazioni succedutesi nel tempo, e dall’altra degli
archeologi nel processo di definizione di una traccia narrativa condivisa da porre
alla base del progetto stesso.
Tra gli obiettivi più diffusi e significativi del dialogo architettura-archeologia all’oggi, metterei infatti la ricerca di una qualche forma di “leggibilità”, capace di riattivare il dialogo tra un testo archeologico e il suo pubblico contemporaneo3.
Quelli che abbiamo visto in questa sede sono progetti consapevoli della responsabilità che viene loro affidata rispetto al lascito del passato, ma altrettanto chiaramente ancorati al presente, con una tenace disponibilità ad accettare i vincoli
derivanti dalla tutela dei ritrovamenti ma capaci di comunicare anche il fascino
culturale e la storia inscritta in quelle tracce attraverso dispositivi spaziali contemporanei che, ci auguriamo, saranno in grado di ri-attivare il dialogo interrotto
con le comunità coinvolte, locali e sovra-locali.
Anche tra gli architetti però, sebbene le sintesi frettolose e l’ansia di lasciare segni
siano ormai considerati atteggiamenti del passato (finalmente), il dialogo con l’altra disciplina è a volte ridotto al minimo, o banalizzato. In molti progetti il dialogo
tra esigenze contemporanee e complessità di un contesto archeologico appare
piuttosto superficiale, quasi un pretesto per arrivare ad una qualche “formalizzazione”. La ricerca di geometrie rassicuranti, o l’allestimento di giardini “compiuti”,
sembra stridere con la natura euristica e aperta dell’interpretazione di un testo
archeologico, che deve poter essere continuamente riletto e “reintegrato”, attraverso processi di immaginazione guidati dalla conoscenza.
Anche il rapporto con la vegetazione, tema classico della volontà di sistemazione archeologica4, appare spesso privo di una strategia interpretativa del contesto
(dal punto di vista delle trasformazione del suolo, della biodiversità quale esito
e prospettiva evolutiva ecc.) a favore di sistemazioni rassicuranti, forse troppo
compiaciute per contribuire efficacemente al dialogo tra soggetti sociali e siti archeologici.
Ricerche recenti. All’interno di ricerche recenti abbiamo cominciato a riflettere
sul senso di possibili narrazioni storiche all’interno di differenti contesti paesistici
regionali.
L’archeologia diventa una sorta di matrice dotata di senso rispetto al presente, capace
cioè di comunicare dinamiche evolutive specifiche di un territorio (insediative, ambientali, agricole). Il progetto di valorizzazione muove da sequenze evolutive ritenute parti5
3 In particolare: il progetto di sistemazione dell’area
archeologica attorno all’Acropoli di Atene di dimitris
Pikionis; il progetto del Yenikapi Transfer Point
and Archaeo-Park Area ad Istanbul di francesco
Cellini; il progetto del Parco della battaglia di Varo a
Bramsche-Kalkriese di Annette Gigon e Mike Goyer;
il progetto di ristrutturazione paesaggistica e nuovi
accessi all’Alcazaba e al Teatro romano di Malaga
del gruppo oam.
4 L. Caravaggi, Architettura e natura. Le reintegrazioni
archeologiche, in V. Cazzato (a cura di), Tutela dei
giardini storici: bilanci e prospettive, Ministero per
i Beni culturali e ambientali, Roma 1989, pp. 452-466.
5 Il termine narrazione riferito al progetto
archeologico abbiamo cominciato ad utilizzarlo
all’interno della ricerca in corso Territori protetti.
Spazi dell’archeologia contemporanea (diap –
Regione Lazio) proprio per comunicare in modo
un po’ provocatorio la selezione di alcuni assetti
archeologici giudicati significativi da punti di
vista diversi: comprensione dell’evoluzione di un
territorio, comprensione di permanenze e tracce
ancora evidenti e in qualche caso “vitali”, leggibilità
di assetti ambientali del passato o di trasformazioni
geo-biologiche significative, attitudini agricole,
infrastrutturali, insediative di lunga durata ecc.
75
TUTELA E REINVENZIONE
colarmente significative, capaci di rendere più interessante la percezione di un territorio
(anche vasto), di siti archeologici differenti, molti dei quali in attesa di essere scavati, e
di altri in cui i ritrovamenti sono stati re-interrati, superando la dittatura degli oggetti e
delle proprietà a favore di assetti in continua trasformazione (a partire dalla biodiversità,
concetto ancora poco esplorato nelle sue potenzialità interpretative).
In questo tipo di ricerca il confine che separa la narrazione storica dalla favola è ben
delineato, a mio avviso, anche se il rischio di sconfinare esiste sempre (ma non è peggio il vuoto che si apre per l’assenza di qualsiasi narrazione? Il silenzio delle pietre non
conduce forse alla loro inesorabile dispersione?).
una delle sfide estreme di questa volontà di comunicazione del patrimonio archeologico è quella che si confronta con i siti indagati e completamente rinterrati, che sono
sempre più numerosi sia per il procedere di campagne di scavo a carattere estensivo
(soprattutto a seguito di grandi trasformazioni territoriali), sia per la mancanza di modelli di tutela adeguati alla natura di questi ritrovamenti.
E non mi sembra il caso di seguire il coro di quelli (molti, moltissimi) che ci invitano a
lasciare perdere: “con tutte le cose che già abbiamo in Italia andate a perdere tempo
dietro a questi mucchi di sassi rinterrati? Ma che significato hanno?”
La sfida che ci lancia l’archeologia invisibile6 è proprio quella di cercare una risposta a
questa domanda: che significato possono avere? Per chi? E come comunicarlo questo
significato?
76
6 L. Caravaggi, C. Morelli, Paesaggi dell’archeologia
invisibile. Il caso del distretto Portuense, Quodlibet,
Macerata (in corso di pubblicazione); L. Caravaggi,
O. Carpenzano (a cura di), Interporto Roma Fiumicino,
prove di dialogo tra archeologia, architettura e
paesaggio, Alinea, firenze 2008.
7 La sostenibilità in questo caso è un riferimento
“culturale ed economico nello stesso tempo”,
non banalmente monetario, e allude ad un nuovo
possibile rapporto tra ritrovamenti archeologici e
forme di vita contemporanee, attraverso la messa a
punto di significati argomentabili, connessi a qualche
forma di verifica sociale (esito cioè di un confronto
aperto con la pluralità dei soggetti coinvolti), cfr.
d. Manacorda, Il sito archeologico tra ricerca e
valorizzazione cit., pp. 84-86.
Rispetto a questo sfondo tratteggiato rapidamente, molti di noi – architetti coinvolti nel
progetto di archeologia – hanno sperimentato esperienze di connessione tra ricerca
archeologica e ricerca architettonica, tra tutela archeologica e altre forme di tutela
(del paesaggio, delle morfologie stratificate, delle memorie collettive ecc.), tra progetti di architettura e valorizzazione sostenibile dei ritrovamenti archeologici7. Perché
sembra evidente che i tre termini, indagati da Manacorda nelle reciproche correlazioni, non possono essere separati, ma neanche settorializzati in singoli spazi disciplinari
(da una parte l’architettura e dall’altra l’archeologia) e recinti amministrativi differenti
(da una parte il paesaggio dall’altra l’archeologia!), e mi sembra che mai in passato
lo siano stati, quando si ripercorra il solco eroico tracciato dal dialogo archeologiaarchitettura, soprattutto in quei momenti in cui questo rapporto riuscì a creare immaginari positivi, rivolti al futuro, persistenti.
There are moments, like the one in which we are presently living, when the scarcity of economic resources and a general feeling of discouragement with regard to
the administration of public goods seem to amplify, within the variegated cultural
heritage universe, the distance separating research, protection, and enhancement
(a distance which is already considerable in our country). And in the case of the
archaeological heritage, the distance appears even greater than in other families.
The progressive detachment between the regulatory coding of a cultural value and
the actual social perception of that value, which is at the basis of the weakening of
the idea of the common good and the resulting protection devices, causes a dangerous increase in the distance between the few institutional and scientific actors (in
this case superintendents and archaeologists) and the rest of civil society. And this
is happening while archaeology is enjoying, instead, a renewed passion and interest
within architecture.
On the archaeology front, the awareness is slowly and laboriously making headway
that a dig is an irreversible point of fracture in the relationship between settled spaces and the communities involved, and that to start up a new dialogue, it is necessary,
as Manacorda states, to make a decision concerning enhancement.
But not always do archaeologists manage to argue, and communicate to the outside,
the possible cultural sense of the finds in a specific context (with all the constraints
and possibilities of that context).
On the architectural front, the most interesting trends are characterized by a profound willingness to take part in a process of complex knowledge such as the archaeological process, in a path that is not always easy, sometimes contradictory and
even ridden wit conflict.
Among the most widespread and significant aims of the architecture-archaeology
dialogue today, I would put, in fact, the pursuit of some kind of legibility, capable
of reactivating the dialogue between an archaeological text and its contemporary
public.
Within recent research we have begun to reflect on the sense of possible historical narrations within different regional landscape contexts. Archaeology becomes a
sort of matrix endowed with sense in relation to the present, that is, capable of communicating specific evolution dynamics of a territory (settlement, environmental,
agricultural).
diFFiCult CHoiCes ANd oPeN
iNteRPRetAtioNs
ABSTRACT
77
lA stoRiA e il PRoGetto
In MEMORIA dI CATERInA MARCEnARO
francesco Cellini
Scrivo queste note, che utilizzano con qualche impudicizia episodi della mia vita
professionale, pensando con rimpianto a tutti i grandi Soprintendenti italiani degli
anni del dopoguerra (come Caterina Marcenaro a Genova) che hanno salvato e
valorizzato il patrimonio culturale del nostro paese in un momento difficile e con
ammirazione a quei pochi che adesso, in un momento forse più difficile, tentano
ancora di farlo.
1 F. Cellini, Disegno per il Concorso per la
riqualificazione di piazza Augusto Imperatore e del
Mausoleo di Augusto a Roma, 2006.
oggetti storicizzati e strategie scientifiche. 1980. Biennale di Venezia, Corderie
dell’Arsenale, antivigilia della prima mostra di architettura; sono alle prese col problematico ed affannoso allestimento della sala centrale, un coacervo di mostre mal
assortite, e sto aspettando l’arrivo di quella su Philip Johnson, disegnata da Massimo
Vignelli; ad essa è dedicata la parete principale, proprio in asse colla Strada Novissima.
Dalle casse emergono però solo poche e piccole fotografie in bianco e nero, inquadrate
in eleganti cornici bianche: una cosa pensata, forse, per una galleria minimalista, ma
certo non per l’immensa ed arcigna superficie coperta di vecchi intonaci lerci che mi
sta di fronte. Di corsa e da solo traccio su di essa la grande sagoma del coronamento
mistilineo dell’Itt building e, coll’aiuto di un operaio, la campisco sempre di bianco, col
Ducotone; così, allineate in basso, le foto non sfigurano, sembrano finestre.
1986. Ancora Corderie ed ancora un allestimento, per la mostra “Arte e scienza”, con
Enrico Valeriani. Disponiamo adesso non solo di poche sale, ma di tutto il monumento,
che è ancora nello stato di abbandono e degrado di prima, se non peggio. Bisogna ripulirlo e dotarlo di qualche uscita di sicurezza, i pompieri lo impongono; proponiamo
quindi di imbiancare le pareti (quelle novecentesche) e di rimuovere un parapetto di
una finestrina, trasformandola in porta. La Sovrintendenza ci vieta la prima operazione,
proprio perché essa avrebbe cancellato la sagoma dell’Itt (proprio quella pensata da
79
TUTELA E REINVENZIONE
80
me e fatta, solo sei anni prima, colle mie mani) che viene vincolata in quanto “storicizzata”; ci permette invece di demolire il parapetto, previa la “scientifica” numerazione di
tutti i mattoni, e l’impegno al loro deposito in luogo sicuro ed alla loro esatta ricollocazione a mostra conclusa.
poi li ha rimontati a caso, lasciando parecchi numeri in vista, e tutti sono rimasti
contenti così. non dico però del senso di irrealtà e spreco provato nell’occasione:
lo stesso ancora avvertito poi, molte volte negli anni, come, per esempio, nel 2007
a Pompei.
Si tratta, come è chiaro, di un episodio lieve, e per me, che vedo vincolata una mia
pur mediocre opera, quasi gratificante. Ma è la prima volta che nella mia vita professionale subisco l’impatto di due aggettivi, che ascolterò poi infinitamente ripetuti con
ossessiva certezza e corrispondente imperatività: storicizzato e scientifico.
Storicizzato? Atteso che tutti gli oggetti che vengono prodotti e che non siano subito
rimossi poi si invecchino, quale di loro diviene tale? E come? E perché? E dopo quanto tempo? E chi lo decide? non è questa una questione da poco, anche perché la nostra attenzione e la nostra sensibilità si sono estese dai prodotti cosiddetti artistici
a quelli della cultura materiale, cioè in fondo a tutto. Ma in questo tutto è compresa
anche la pittura murale di Cellini? E lo sono anche tutte le altre cose (porcherie) che
ho visto negli anni successivi venir vincolate, perché appunto storicizzate, quali la
caldaia istallata nel dopoguerra per bollire le trippe nel Mattatoio di Roma, o i catenacci arrugginiti dei suoi cancelli, o tutti i suoi ventimila ganci da macelleria ecc.?
Certo è che l’uso di questo aggettivo (sempre che esso abbia un senso) e dei conseguenti provvedimenti conservativi dovrebbe almeno comportare una particolare prudenza, una cauta discriminazione culturale e l’assunzione di una precisa
responsabilità personale; se non altro per poter dedicare più risorse possibili all’immenso e notoriamente assai mal messo patrimonio degli accertati beni
culturali del nostro paese. Ma allargare il campo è per chi vincola (individuo o
istituzione che sia) una pulsione irresistibile: è cosa facile, quasi automatica, che
appare quasi sempre condivisa dall’opinione pubblica (proprio in quanto ostacola
ogni trasformazione) e soprattutto che incrementa progressivamente gli spazi del
potere interdittivo; che è forse, come si potrebbe dedurre, assai meno infruttuoso
di quanto appaia.
Scientifico? nell’aggettivo si sostanzia quello che sembra un imperativo universale della nostra società: esso non definisce soltanto un metodo o un comportamento, ma implica un dovere rituale, quasi un’etica. Come si potrà infatti smontare una
parte di un monumento storico, senza numerarne gli elementi, poi religiosamente
riporli e poi accuratamente ricomporli? Eppure c’è, clamorosa, una questione di
proporzioni. La strategia che, per esempio, è stata adottata (e che era obbligatorio
adottare) per lo smontaggio ed il rimontaggio del tempietto di Athena nike all’Acropoli, potrà mai essere la stessa da usare per poche decine di mattoni, fra loro
del tutto uguali, di un edificio, l’Arsenale, composto da alcune centinaia di milioni
di mattoni ad essi ancora identici? Potremmo mai confrontare, in termini economici ed operativi, un lavoro che chiede l’intervento di procedure, attrezzature
speciali e tecnici iper-qualificati con un altro che, con ogni evidenza, richiede solo
poche ore di lavoro di un capomastro?
nei fatti noi abbiamo doverosamente ordinato all’impresa di adempiere alla prescrizione: il capomastro ha smontato i mattoni, poi li ha numerati nel mucchio,
2007. Era una visita organizzata dal Master che coordino; eravamo reduci da una lezione sui terribili numeri del luogo (migliaia di metri quadri di affreschi e mosaici in
dissesto, centinaia di essi che vanno perduti per anno, centinaia di case non più visitabili) e siamo stati condotti in una domus affrescata con delle belle decorazioni murali,
a grandi campi colorati, quasi senza figure. C’era al lavoro uno stuolo di restauratrici,
impeccabilmente in camice, con le mascherine sul volto, guanti di lattice, lenti, microscopi, bisturi, laser, pennellini di martora, pinzette e batuffolini di solventi. Io, figlio
di un restauratore, sono rimasto subito colpito dalla meticolosità del loro approccio,
centimetro per centimetro, e dal loro impegno lento e paziente, degno del risarcimento
di una tavola di Raffaello, applicato però ad un lavoro estensivo, che il decoratore pompeiano avrà all’epoca realizzato in due giorni. Può davvero la scienza chiedere un’opera
così frustrante? Ha senso restaurare così bene e così costosamente una cosa, mentre
se ne stanno contemporaneamente perdendo cento altre simili?
L’irrealismo e la sproporzione del fatto ha assunto un carattere del tutto paradossale
appena mi sono reso conto che l’intera casa (tetto, colonne del peristilio, sommità degli
stessi muri affrescati), ricostruita in cemento da Amedeo Maiuri, era completamente
ed irreversibilmente pericolante e che di ciò nessuno si preoccupava.
Così, fuor dell’episodio, accade sempre; o quasi. Sembra che la progressiva incapacità di occuparci efficacemente dei nostri beni debba necessariamente accompagnarsi alla farsesca esibizione di metodologie operative impeccabili: l’imperativo è l’ostentazione della scienza; la realtà svanisce.
Prospezioni e ricerche. La scienza e la ricerca giocano un ruolo particolare nel
caso dell’archeologia, disciplina che si occupa spesso, come si sa, del sottosuolo e che quindi proprio lì frequentemente impatta con i progetti di architettura
che, appunto, proprio lì spesso si fondano. Entrambe lavorano generalmente
nell’ignoranza di quel che c’è davvero sotto terra e da questo incontro, in genere
casuale, nasce necessariamente l’occasione e soprattutto la possibilità economica di un’esplorazione, di una nuova conoscenza. Così è stato sempre: così, per
esempio, la forma urbis di Lanciani è stata costruita; basterebbe però ora darsi,
reciprocamente, dei ragionevoli limiti.
2005. Ufficio del comune di Roma: una squallida stanza affacciata sull’area sacra di
Sant’Omobono, la più importante testimonianza della Roma pre-repubblicana. Si discute della realizzazione di una scuola media, nella periferia della città, di cui (con Andrea1 ed altri) abbiamo vinto il concorso; l’amministrazione ha pomposamente definito
l’obiettivo, come “la scuola più bella del mondo” e dato grande risalto politico alla fac-
81
1 [L’autore fa riferimento ad Andrea Savioni e al
concorso 3 nuove scuole a Roma, progettisti arch. A.
Salvioni, arch. J. Kuhnle, arch. C. Rogai.–ndc]
cenda. Il progetto è semplice, carino, razionalista, dimessamente adattato al suolo. Ci
hanno garantito che numerose prospezioni hanno previamente escluso ogni presenza
archeologica; d’altra parte il quartiere tutt’attorno è già costruito, senza nessun ritrovamento, nemmeno sotto la chiesa, lì accanto: poi la scuola è assolutamente necessaria ed urgente, gli abitanti sono per lo più coppie giovani. La funzionaria archeologica
di zona, una giovane decisa e tosta, nondimeno insiste: c’è bisogno di un’approfondita
campagna di scavi da affidare a ditte di fiducia; ci sono nel terreno limitrofo tracce
profonde di lavorazioni agricole (leggi segni di aratri), che sono state oggetto di una sua
recente pubblicazione; il comune deve mettere a disposizione molti fondi. La discussione con lei, già molto accesa, degenera in insulti quando, indicandole dalla finestra i
bandoni arrugginiti, la mondezza, i gatti ed il marciume di Sant’Omobono, mi permetto
di osservare che forse il comune dovrebbe impiegare meglio i suoi soldi.
Finisce che lo scavo dura due anni e costa 600.000 euro, col premio di un graffio di
aratro sul tufo, lungo 50 centimetri; altrettanto tempo e denaro pubblico costa il risarcimento del terreno, passato da dolce declivio a voragine. Il resto lo fa la procedura
d’appalto integrato: la scuola, che sarà forse inaugurata nel prossimo settembre, resta, molto mediocremente e assai più poveramente del previsto, razionalista.
TUTELA E REINVENZIONE
non è ovviamente un caso isolato, la periferia romana è piena di inutili trincee, di
prospezioni occasionali, avventate ed insulse, affidate ad una legione di operatori
dedicati e protetti; manca una strategia d’assieme; manca una carta che valga
quella, centenaria, di Lanciani; mancano i soldi per gli immensi giacimenti veri,
quelli noti, tutti o quasi abbandonati e degradati; mancano i soldi persino per Villa
Adriana.
82
Autoritarietà e approssimazione. 1986. Venezia, fasi iniziali della preparazione della
mostra “Arte e scienza”, rotonda del padiglione Italia. Lo spazio prende il nome dall’allestimento novecentesco di Giò Ponti, appunto uno spazio circolare con cupola sferica,
di legno, gesso e camera a canna, che ora è arrivato al suo ultimo periodo di vita: cade
a pezzi, uno dei quali, pochi giorni prima, ha sfiorato Cossiga in visita. Maurizio Calvesi,
sapendo che sotto di esso potrebbero esserci alcuni residui delle vecchie decorazioni di
Galileo Chini, mi chiede di indagare sul posto. Con un qualche rischio, mi insinuo dentro le strutture interne e riesco sbirciarne una parte, apparentemente in buono stato:
capisco poi che i dipinti stanno su un cupola a spicchi, che corona un ambiente ottagonale; comprendo anche che il tutto, a sua volta in legno, gesso e camera a canna, sta
precariamente all’interno del vecchio volume murario della cavallerizza ottocentesca.
Si tratta insomma di allestimenti successivi, uno dentro l’altro, come le matriosche.
Una volta demolito con cautela quello di Ponti, appare l’altro, molto malridotto, quasi nudo:
gran parte delle pitture di Chini, che sono frettolose tempere un po’ secessioniste ed un po’
classiciste, manca o è gravemente danneggiata. Nondimeno il tutto viene restaurato da un
bravo scenografo (poco scientifico, per fortuna) e da noi allestitori, che ricostruiamo ex novo
tutte le decorazioni architettoniche, le cornici e gli specchi del vano inferiore.
1988. Ristorante di Venezia, pranzo con Francesco Dal Cò e la Soprintendente, pochi
giorni dopo la vincita (mia con Nicoletta Cosentino e Paolo Simonetti) del concorso per
il Padiglione Italia.
La discussione indugia a lungo su una questione: quale architettura contemporanea è
ammissibile in un centro storico? Quali caratteri, aspetti, cautele essa deve avere? Può
essere innovativa oppure tradizionalista e in che misura?
Alla fine la risposta della Soprintendente è chiarissima ed inequivocabile: non è possibile definire caratteri, aspetti, modalità o cautele, sarebbe uno forzo vano e significherebbe vincolare la libera ricerca degli architetti. Non è nemmeno il caso, in un campo di
soggettività quale è il giudizio sull’architettura, di avanzare criteri oggettivi o tentare di
trasmetterli. L’architettura che si può fare è quella che la Soprintendente ritiene possa
esser fatta, e basta.
Impressionato, cerco di portare il discorso sul nostro progetto, essendo abbastanza
sicuro di me: so infatti che la stessa Soprintendente, seppure per motivi estranei, ha
votato per noi e so pure che siamo stati gli unici progettisti ad aver trattato bene l’unica
cosa antica del padiglione, cioè la cupola di Chini. Gli altri l’hanno variamente tagliata, dimezzata, dislocata, demolita ecc.; noi, se non altro perché mi ritengo quasi un
suo scopritore e restauratore, l’abbiamo fatta diventare uno dei fuochi del progetto,
aggiungendovi soltanto una delicata scala a spirale. E infatti la Soprintendente loda
molto il progetto; si sofferma poi in particolare sulla questione della cupola con elogi
sempre più esaltanti e però progressivamente sempre più inesplicabili ed impropri;
improvvisamente mi rendo conto che sta equivocando, crede di aver di fronte Gianugo
Polesello, l’autore di un altro progetto, con una davvero bizzarra soluzione del tema: la
cupola appesa come un ombrello al soffitto e priva delle sue pareti.
Il pranzo finisce con un po’ di imbarazzo, ma ne esco confortato, convinto dell’appoggio
delle istituzioni al nostro lavoro, che invece si concretizza l’anno dopo con un decreto di
vincolo della cupola e dell’ambiente sottostante (descritti come se fossero murari, invece che di camera a canna), per le pitture (definite affreschi, quando invece sono tempere), per le decorazioni architettoniche (definite originali dei primi del secolo, quando
invece le avevamo fatte noi, io ed Enrico Valeriani, quattro anni prima, inventando malamente ed in fretta sagome improbabili) e per gli specchi (nuovi).
E qui mi trovo, per la prima volta, di fronte a due fatti, che poi scoprirò tendere ad
andar sempre congiunti; uno è l’autoritarietà indiscutibile, e spesso anche offensiva nei confronti dei progettisti, del decreto di vincolo, l’altro è la superficialità e
l’imprecisione, per non dire la cialtroneria, delle motivazioni e perfino della stessa
descrizione delle cose in oggetto. di questo purtroppo ho negli anni avuto varie e
spiacevoli prove.
Per quanto riguarda il tono arrogante ed insultante, valga come esempio il parere
delle Soprintendenze romane congiunte sulle sistemazioni delle aree delle basiliche romane in occasione del Giubileo (progetti preliminari del 1998 di Anselmi per
San Giovanni, Rossi e Cordeschi per San Pietro, Balbo per Santa Maria Maggiore,
mio per San Paolo) che si conclude così: … La Soprintendenza si dissocia comunque
fin d’ora da qualunque responsabilità connessa […] ad opere assolutamente incongrue
83
perché oggetto di un impegno politico della Presidenza del Consiglio nei confronti
del Vaticano.
Per quanto riguarda la sciattezza, vale ancora il caso del mio progetto per San
Paolo, dove sono riuscito a sostituire una vecchia e oscena copertura di ruderi, dimostrando, documenti d’archivio alla mano, che essa era il prodotto recente di un
affrettato ibrido di materiali incongrui riciclati, seppure nello stesso parere istituzionale (negativo su tutto) essa venisse definita come “un esempio di sistemazione
con l’impiego di materiali e secondo le tipologie architettoniche tradizionali della
campagna romana”.
E vale ancora il caso del parere negativo della stessa Soprintendenza che, sempre
nel 1998, ha azzerato (dopo averlo inizialmente voluto proprio in quel luogo e proprio con quelle forme) un mio progetto di ponte pedonale in via di San Gregorio: il
suo testo è un noioso excursus di storia romana, che per pagine e pagine dettaglia
l’intollerabile impatto visuale che il mio progetto avrebbe avuto sull’arco di Tito.
Manco a dirlo: l’arco di Tito è altrove, lì c’è quello di Costantino.
Con questo non voglio dire che i Soprintendenti siano ignoranti (nel mio caso poi
non lo erano affatto, semmai lo erano alcuni dei loro funzionari) ma certo è che si
coglie, leggendo queste cose, un’apparentemente inspiegabile contraddizione fra
la sostanziale durezza delle decisioni e dei confronti politici che hanno condotto al
parere o al vincolo e la vacuità del loro supporto burocratico scritto. Le motivazioni
vere, magari legittime, magari condivisibili, stanno in realtà altrove, hanno altre
logiche, stanno in altri contesti e sono quelle che contano. Poi servono motivazioni
di facciata: le scriverà, magari con i piedi, chiunque nell’ufficio sia in quel momento disponibile.
TUTELA E REINVENZIONE
2
84
2 F. Cellini, Progetto di valorizzazione del Teatro
romano di Spoleto, 2005.
con i caratteri storici dei luoghi interessati, inutili dal punto di vista funzionale, dispendiose per la volgarità dei materiali pregiati inopportunamente introdotti e dettate sostanzialmente dall’esigenza di dover spendere i soldi attribuiti…
Inutile aggiungere, perché basta visitare oggi i luoghi, che si tratta solo di restauri,
spesso filologici o quasi, che hanno prodotto vaste zone pedonali pubbliche; che
i materiali erano travertino, basalto, sampietrini e prati e che i costi furono assai
contenuti. Inutile anche dire che i lavori poi furono in buona parte eseguiti, solo
Autorevolezza e Potere. 2010. Roma, complesso del San Michele: i Comitati di settore
congiunti (archeologico e beni culturali) si accingono a deliberare sul progetto per piazza
Augusto Imperatore (di cui sono il coordinatore), su richiesta di una funzionaria archeologa che lo ritiene dannoso alla tutela del monumento, applicando la finora da me inaudita
teoria della modificabilità nel tempo del pareri dati. Infatti il suo stesso Soprintendente
(ora ex) era stato delegato ufficialmente dal Ministero a partecipare alla giuria del concorso e aveva, unanime cogli altri, nominato vincitore il nostro progetto senza alcuna
riserva e molte lodi.
Sono ammesso, come anche la funzionaria, a spiegare le mie ragioni; poi decideranno fra
loro. Mi accorgo che quasi nessuno conosce il progetto e pochissimi l’Augusteo e quindi
ingenuamente mi perdo in un’ampia descrizione dei ritrovamenti recenti e delle nostre
attente (credo) soluzioni. Alla fine, con un sorriso quasi di ringraziamento (o di derisione),
il Direttore Generale mi comunica che non è affatto d’accordo con me e mi fa uscire.
Vari amici presenti, professori e funzionari insigni, poi, a cose fatte, mi telefonano spiegandomi che tutto sommato il progetto è andato bene: basta cambiare qualcosa, un po’
lì, un po’ qua. Penso che, curiosamente, nemmeno loro hanno chiaro che un progetto
non è, in genere, un minestrone.
85
TUTELA E REINVENZIONE
2011. Roma, Conferenza dei Servizi sullo stesso progetto, redatto in fase definitiva con
mille aggiustamenti e compromessi; ci sono tutti i rappresentanti degli uffici, comunali
e non; mancano stranamente tutti i rappresentanti delle Soprintendenze di Stato, quella regionale, quella archeologica e quella dei beni culturali. Veniamo a sapere che non
verranno affatto e si riuniranno nei prossimi giorni, ma non in pubblico. Da ora, così
apprendiamo, le loro deliberazioni verranno prese a porte chiuse, negli uffici.
86
Questi ultimi episodi sono accomunati in parte dall’oggetto e dalla mia profondissima irritazione personale, ma soprattutto da una logica interna, intrinsecamente
sequenziale, che è più o meno, la seguente.
L’imperatività del parere è, ed era, assoluta (lo impone, credo giustamente, la legge); però poi essa viene progressivamente esercitata con arroganza e con motivazioni sempre più sciatte; poi ancora, evolvendosi, diventa aleatoria, imprevedibile, può modificarsi nel tempo (un funzionario si dà, come succede ora a me nel
progetto del Mattatoio di Roma, la libertà di approvare, poi di ripensarci e poi di
ricambiare idea ancora e per sempre).
Infine essa ora sembra non avere più la necessità di essere motivata razionalmente e rifugge da ogni forma di contraddittorio pubblico.
E questo non avviene in genere, come certo non è avvenuto nei casi citati, per motivi venali, ma per motivi per così dire di ruolo civile, o meglio politico.
Il fatto è che l’esercizio della propria legittima autorità, nei limiti, nei tempi e
nelle procedure concesse, non dà alcun potere aggiuntivo; semmai dà credito,
autorevolezza culturale, stima ed infine, quando sei morto o andato in pensione,
rimpianto. Quel che serve per contare veramente nella società contemporanea,
per accumulare prestigio ed estenderlo, per essere veramente un protagonista,
è invece la possibilità di esercitare un potere sostanzialmente deregolato, non
limitato, inaspettato ed arbitrario.
The use of the adjective historicalised and the conservation measures that it determines should involve a particular level of caution and the assumption of a specific
level of personal responsibility. Given that all the objects we produce (and that aren’t
immediately removed) will age over time, we have to ask ourselves which ones will
become historicalised, after how long and who decides whether they do or not. It
is no trivial matter because our interest in, and awareness of, what art produces has expanded to include the products of material culture as well and therefore
everything, when it comes down to it. for the institutions or individuals who apply
conservation legislation, widening the field is a natural reaction, something that is
almost always approved of by public opinion, in that it blocks any kind of change
and progressively increases the areas subject to restrictions, which are not at all as
unprofitable as might appear at first glance.
The adjective scientific embodies what seems to be a universal imperative in our
society. It not only defines a method or a way of behaving; it implies a ritual duty,
a code of ethics. Can science really apply the meticulous precision of restoration
work, worthy of the repair of a panel painting by Raphael, to an extensive project? Is
there any sense in restoring one thing well (and at enormous expense) when we’re
losing a hundred other similar objects in the meantime?
Our growing inability to take proper care of our cultural assets seems to go handin-hand with the display of impeccable working methodologies: the main thing is to
parade their scientific clout.
Science and research play a special role in the field of archaeology, a field that
works with the subsoil and that frequently clashes with architectural projects there,
where the two merge. Both generally work without knowing what is actually underground and this (usually coincidental) encounter inevitably results in an opportunity
and an economic possibility for gaining new knowledge.
With the rejections issued by the government’s archaeological superintendencies,
which often cancel many projects involving long historical enquiries (and which often lack the exact name of the monument requiring conservation), what becomes
apparent is a seemingly inexplicable contradiction between the essentially harsh
nature of the decisions that led to the ruling or the conservation order and the vacuousness of their bureaucratic dossier. The real motivations – perhaps legitimate and
justified – follow a different rationale, they are found in other contexts and they are
the ones that count.
The exercise of our own legitimate authority – within the limitations, timescales
and procedures allowed – does not bring with it any additional power; if anything it
brings with it kudos, cultural prestige, admiration and finally (once we’re either dead
or retired) nostalgia. Instead, if we really want to count in contemporary society, gain
prestige, extend such prestige and truly play a leading role, then what we need is the
chance to exercise powers that are essentially deregulated, unlimited, unexpected
and arbitrary.
HistoRY ANd desiGN
In MEMORY Of CATERInA
MARCEnARO
ABSTRACT
87
PRoGetto ARCHeoloGiCo e PRoGetto ARCHitettoNiCo
iN AMbieNte uRbANo
daniele Manacorda
Il rapporto fra progetto archeologico e progetto architettonico in area urbana si
sostanzia da un lato di riflessioni teoriche che in questi anni non sono certo mancate, dall’altro della concretezza di realtà progettuali prefigurate o realizzate che
hanno tentato di trasferire sul terreno, nel corpo vivo delle città, alcune premesse.
Per un archeologo in genere non è facile entrare nel merito di singoli progetti di
architettura, dei quali è necessario cogliere gli aspetti d’insieme e al tempo stesso
di dettaglio, che convivono in prodotti ricchi, il più delle volte, di molte implicazioni. L’osservazione curiosa di singoli contributi permette però di trar fuori da essi
qualche tema o aspetto problematico che possa fare da cornice all’insieme, dove
i confini delle discipline si allentano, gli orizzonti si ampliano e quindi anche un
archeologo possa sentirsi legittimato a portare un secchiello d’acqua al mulino
comune.
Quel che posso proporre sarà quindi qualche spunto di riflessioni episodiche nate
dalla lettura dei materiali di presentazione di alcuni progetti – così come sono
illustrati nella rete – integrati da esposizioni e discussioni in sede seminariale
alla luce di alcuni temi nodali del rapporto tra progetto archeologico e progetto
architettonico in ambiente urbano. Se partiamo dalla antica domanda su quale sia
il ruolo dei resti archeologici nel contesto urbano, sarà forse utile rispondersi che
questo è centrale e al tempo stesso nullo, dal momento che le rovine (uso apposta
un termine ambiguo) possono essere, non da ora, elementi ordinatori della restituzione di senso, la cui conservazione occupa il centro della scena, tanto quanto
elementi di disturbo, di cui sarebbe bene evitare con cura la riesumazione.
Atene. Progetto urbano per l’Agorà. Gli interventi di Yannis Tsiomis a proposito dei
progetti urbani per l’Agorà di Atene e per dougga, in Tunisia1, partono dal tentativo
di verificare coerenza e operatività di un principio: e cioè che progetto urbano e
1 Y. tsiomis, Schizzo del progetto per la sistemazione
dei percorsi dell’area archeologica di Atene, 2009.
89
1 Cfr. A. Massarente, Yannis Tsiomis: progetto
urbano per I’Agorà, in www.archinfo.it/yannistsiomis-progetto-urbano-per-i-agora/0,1254,53_
ART_173118,00.html; Progetto urbano per il sito
archeologico di Dougga, Tunisia: www.yannistsiomis.
com/02_Projets/03_urba/18_dougga/P18_dougga.
html.
progetto archeologico possono trarre sostegno uno dall’altro, interagire strettamente – qui è il punto – non solo a livello teorico. ne sono profondamente convinto,
e non da ora. E anzi direi sempre più. Mi pare che i problemi nascano, semmai,
quando dal livello teorico si passa appunto alla concretezza dei singoli progetti.
Il mio atteggiamento verso il problema è duplice, e forse contraddittorio. da un
lato credo di dovermi fermare davanti alla critica puntuale delle scelte progettuali,
per ovvio senso del pudore e del rispetto delle competenze; dall’altro, credo che
tutti ci dovremmo sporcare un po’ più le mani, cercando di contribuire – senza
arroganza e senza timidezze – a una discussione comune, che comporta anche
qualche rischio di invasione reciproca. Ma la contaminazione (non mi stanco di
dirlo2) è una condizione tanto rischiosa quanto fruttuosa. Magari anche per non
trovarsi d’accordo.
Scrive, ad esempio, Tsiomis:
TUTELA E REINVENZIONE
Le attenzioni prestate dalla cultura architettonica alle questioni dell’archeologia e del progetto
urbano costituiscono indubbiamente un patrimonio culturale italiano che non deve andare disperso, ma che si confronta con un’archeologia che è sempre più luogo per specialisti3.
90
2 d. Manacorda, Archeologia in città: funzione,
comunicazione, progetto, in AA.VV., arch.it.arch. dialoghi
di Archeologia e Architettura seminari 2005-2006,
Quasar, Roma 2009, pp. 3-15.
3 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La
disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico
dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente,
in A. Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco (a
cura di), L’antico e il nuovo. Il rapporto tra città antica
e architettura contemporanea: metodi, pratiche e
strumenti, utet, Torino 2002.
Come dire: gli architetti avrebbero voglia di operare insieme, ma gli archeologi
sono indecifrabili… (non dò a questo termine un valore negativo, perché non credo
che Tsiomis voglia essere particolarmente critico nella sua affermazione). non
posso essere d’accordo, tuttavia, e non per carità di patria. detesto le appartenenze, e quindi non amo la mia appartenenza alla consorteria degli archeologi (della
quale tuttavia non mi vergogno). C’è – c’è sempre stata – un’archeologia per specialisti, più o meno soddisfatta di sé e timorosa del confronto, che riesce appena
a guardare in faccia se stessa (è quella che si è prestata ai più diversi usi pubblici
della storia ampiamente praticati in passato e non solo da noi), un’archeologia difficile da decodificare (perché forse priva di idee chiare) quasi quanto sono difficili
da leggere, a volte, i progetti degli architetti…
Ma c’è anche un’archeologia viva e vitale che qui in Italia preme non da oggi per
alimentare la cultura del confronto (anche al di là del confronto archeologia/architettura): si tratta di volerla conoscere e incontrare, dall’abc della lettura archeologica delle vicende dei manufatti dell’edilizia storica (quanti francesco doglioni o
Carlo Tosco ci sono tra gli storici dell’architettura per non dire tra i progettisti?),
alla coprogettazione degli interventi urbani archeologicamente sensibili, nei quali
la parte dell’archeologo non è certo quella del guardiano quanto piuttosto quella
della persona informata dei fatti, e creativa.
Tsiomis conosce quindi una faccia dell’archeologia. forse non ha avuto la fortuna
di conoscere l’altra. Scrive infatti che, “contrariamente a quanto non si riesce ad
attuare nelle città italiane, è possibile studiare e progettare lo spazio urbano in
continuità – concettuale e figurativa – con lo spazio archeologico”. Ed io ne sono
– lo ripeto – convinto. Interrogandomi semmai sui contenuti da dare a questa continuità concettuale e figurativa. dal momento che questa può essere ricercata, in
senso lato, sul piano funzionale (sto pensando, esempio banale, a tanti teatri o altri
edifici di spettacolo) oppure può presentarsi sghemba, fortemente disassata rispetto all’antico (o ai tanti successivi passati), ma non per questo meno collegata,
meno – come dice Tsiomis – mescolata.
Vedo che il progetto di Atene, anche per la sua scala urbana, è un progetto minimalista, “privo di segni eclatanti, di ricerche formali compiutamente espresse”4.
non mi interessano tanto le prese di distanza dagli urbanisti che fanno gli architetti o dai minimalisti che possono fare esercizi di stile. Mi basta sapere che la
proposta parte da “un’impostazione progettuale che fa della mescolanza e della
contaminazione – sociale e spaziale – un valore da perseguire, un carattere da
preservare”. Mi pare che sia un approccio che misura un ribaltamento di 180°
della prassi attuata ad Atene dall’indipendenza in poi. E questo mi conforta. Lo
sento (non so se sbaglio) in sintonia con alcune belle pagine di Yannis Hamilakis
sul paesaggio dell’acropoli di Atene nelle quali mi sono ritrovato con naturalezza5.
E chissà che non ci siano qui le premesse per far uscire il lungo periodo di dominazione ottomana della Grecia moderna da quella condizione di “età maledetta”
(Tsiomis) che colloca l’archeologia di quei secoli al gradino gerarchico più basso.
C’è un punto della trattazione di Tsiomis che mi sembra descrivere il nocciolo duro
del progetto.
Se lo spazio archeologico non deve diventare il luogo del consumo turistico di massa, né
tantomeno rimanere uno scavo inaccessibile, un “buco” nel suolo della città, è proprio sui
modi di una possibile continuità tra spazio pubblico e spazio archeologico, sulle soglie e i
limiti che distinguono l’uno dall’altro, che si giocano i destini della città contemporanea e
delle sue parti più antiche6.
Sono – se intendo bene – i “bordi” delle antiche riflessioni di Lello Panella a proposito dell’area dei fori di Roma7. Ad Atene o a Roma – per quanto sia grande la
diversità dei contesti urbani – il problema metodologico si pone infatti in termini
analoghi. La progettazione dei bordi, dei punti di sutura, della risoluzione dei dislivelli, fisici e concettuali, è un tema centrale, indubbiamente. direi che sia quasi la
premessa per il superamento di ogni scelta “separatista”. So bene che non è atteggiamento estraneo a certi archeologi quello di trincerarsi nei propri buchi, per
quanto a volte prestigiosi, dove affermare il proprio limitato potere rinunciando al
confronto con gli altri poteri e con gli altri saperi.
Ma che cosa accade poi nello spazio archeologico? Personalmente, da archeologo
sento questo problema almeno tanto quanto quello dei margini e della loro pervietà.
Vorrei che gli architetti si sentissero autorizzati ad entrare in questo sancta sanctorum degli archeologi, in queste aree archeologiche che il Codice urbani definisce
utilizzando concetti del tutto arcaici8, magari per desacralizzarle, per umanizzarle:
la riflessione su come vivere gli spazi archeologici è tanto delicata e problematica
quanto quella sul come accedervi. Gli archeologi queste domande ormai provano a
porsele, anche se penso che le risposte non debbano venire solo da loro.
Tsiomis tenta anche un recupero del termine “topografia” inteso come “scrittura dei luoghi”. Io direi piuttosto “descrizione”, e non so se questa diversa tradu-
4 Ibid.
5 Y. Hamilakis, Trasformare in monumento: archeologi,
fotografi e l’Acropoli di Atene dal Settecento a oggi, in M.
Barbanera (a cura di), Relitti riletti. Metamorfosi delle
rovine e identità culturale, Bollati Boringhieri, Torino
2009, pp. 179-194.
6 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico. La
disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico
dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente, cit.
7 R. Panella, Roma Città e Foro. Questioni di
progettazione del centro archeologico monumentale della
capitale, Officina, Roma 1989.
8 L’area archeologica nel Codice urbani del 2004 è
inspiegabilmente definita come “un sito caratterizzato
dalla presenza di resti di natura fossile o di manufatti
o strutture preistorici o di età antica” (art. 101, comma
2, lettera d).
91
TUTELA E REINVENZIONE
zione rifletta i due atteggiamenti (creativo-poetico o critico-storico) delle diverse
professioni. La descrizione svela il palinsesto, ma deve fermarsi davanti alla sua
esposizione ossessiva: occorre disvelarlo in ogni sua piega per afferrare il senso
del luogo, ma non ogni sua piega occorre poi sempre mostrare per sentirci in pace
con la parte più superficiale della coscienza.
La descrizione è anche narrazione. Si narra, anche, attraverso semplici didascalie.
Ho sempre apprezzato la giusta insistenza di Andrea Carandini per la didascalizzazione del foro romano (e penso, a volte, a quelle targhe della Zona archeologica
monumentale di Roma che, sia pur fantasiosamente, cercavano di dare un nome
ai luoghi o, qualche volta, di ricordare i luoghi scomparsi con l’eternizzazione del
loro nome; perfino alla marrana di Callisto ii: targhe, certo, di tradizione antiquaria, a volte di pura erudizione, eppure quanto efficaci).
92
9 G. durbiano, A. Isola, Valorizzazione delle Porte
Palatine e realizzazione del Parco archeologico a Torino,
in www.europaconcorsi.com/projects/9191.
10 Mi si perdoni la pedanteria, ma quando nella
presentazione del progetto fra le essenze vegetali
si elencano lauri e allori, come se fossero specie
diverse, sorge il timore che queste approssimazioni
dalla botanica possano trasmettersi al senso storico
dei luoghi.
11 G. durbiano, A. Isola, Valorizzazione delle Porte
Palatine e realizzazione del Parco archeologico a
Torino, cit.
il Parco archeologico delle Porte Palatine a torino. nell’intervento di Giovanni
durbiano e Aimaro Isola9 l’enfasi è posta sul tentativo di restituire – grazie proprio
all’archeologia – una conclusione unitaria ad un grande spazio urbano irrisolto, ricomponendo le relazioni tra le parti, reintroducendo i resti archeologici all’interno
del paesaggio urbano sottraendo le rovine all’attuale marginalità.
In questa “prospettiva ambiziosa” dalla separatezza all’integrazione, il problema
è sempre quello della gamma diversificata dei possibili usi sociali degli spazi archeologici. Che non sono necessariamente solo quelli antichi: si pensi all’idea di
adibire a rimessa dei carri del vicino mercato di Porta Palazzo un bastione eretto
ex novo sulla traccia del perimetro delle fortificazioni demolite nel xix secolo.
A proposito del progetto torinese durbiano parla più volte di “favola” (“alla forma
fisica attribuiamo un valore simbolico di cui possediamo noi le chiavi: di qui la
favola”); ma le favole hanno dietro di sé, simbolizzata, una storia radicata, che le
distingue dai falsi e dalle approssimazioni10. Le favole agiscono all’interno di contesti urbani storicamente determinati: Se “la stratificazione e la complessità dei
segni che attraversano piazza San Giovanni ha costituito, nel dopoguerra, occasione di riflessione su un possibile assetto in grado di ricomporre una relazione tra le
parti”11, questa relazione può essere infatti risolta sul piano formale e funzionale,
ma non può non essere anche, e innanzitutto, di carattere contestuale. E anche
quando il progetto nega il sistema precedente, questa negazione deve essere leggibile e ricostruibile.
Va bene dunque la continuità tra spazio pubblico e spazio archeologico, ma resta
il problema dell’uso specifico di questo spazio, della trasmissione del suo senso
culturale e quindi della sua giustificazione sociale.
Personalmente ho sempre pensato che – quando discutiamo delle forme attraverso cui conciliare la vita urbana con la vitalità del patrimonio archeologico –
possa esserci un disaccordo radicale fra quanti preferiscano evitare ogni riconnessione organica fra città antica e moderna e quanti invece considerino intollerabile questa frattura. un codice dell’uso urbano delle rovine antiche non esiste
ed è bene che sia così: possiamo incontrarle “chiuse in riserve” o animate come
luoghi di passeggio, riagganciate ai ritmi della città circostante o abbandonate ad
una lenta distruzione da turismo di massa, esposte come oggetti reticenti di un
museo urbano12. Ma è certo che la risposta non possano essere le erbacce. non
sto parlando delle grandi aree archeologiche ben tenute, curate, visitate da orde
di turisti. Parlo delle aree archeologiche dietro l’angolo, di quelle che ci sono, ma
è come se non ci fossero, dove le erbacce, vere o metaforiche, sono il primo indicatore di ogni piccola o grande crisi organizzativa e/o finanziaria; e soprattutto
della cronica o progressiva perdita di consenso sociale, che si risolve inevitabilmente nella fuga di responsabilità da parte degli enti pubblici e della relativa
capacità di investimento13.
Penso anche che l’integrazione tra archeologia e sistemi urbani – per riprendere
il tema esposto da Alessandra Capuano nella introduzione a questo volume – non
si limiti alla morsa tra conoscenza specialistica e turismo di massa, ma possa declinarsi in mille modi, attraverso usi sociali che riproducano le funzioni degli spazi
antichi superstiti o le alterino, che strumentalizzino i luoghi della storia o li ammirino, che li proteggano coccolandoli o li vivano senza un codice d’uso prestabilito,
che non sia quello del rispetto.
Nodo di scambio di Yenikapi a istanbul. Il progetto di francesco Cellini sulla
grande area di Yenikapı a Istanbul14, affronta il tema della “convivenza”, in questo
caso tra un nodo infrastrutturale metropolitano e il porto antico di Costantinopoli.
La parola convivenza è un po’ ambigua: la usiamo per descrivere le tensioni tra
due separati in casa, ma anche le aspirazioni di chi vorrebbe un dico15 che la certificasse. Convivenze imposte, convivenze desiderate; è chiaro che in questo caso
parliamo della seconda, sia pur motivata dalla prima.
L’archeologia impatta ormai su scale assai grandi, non solo su episodi puntuali e
di dettaglio. non è la prima volta (dalla Roma di napoleone, all’Atene ottocentesca,
alla Zona Archeologica Monumentale), ma le consapevolezze sono altre: di mezzo
c’è la modernità e i punti di crisi che il pensiero critico ha illuminato in questo
campo, il senso di frattura fra presente e passato che solo da poche generazioni
percepiamo in modo così acuto e, a volte, irrigidito dalle ideologie.
Ventotto ettari di centro storico pluristratificato sono una porzione di città enorme,
dell’ordine di grandezza di quella che fu l’impresa della Zona archeologica monumentale di Roma, cento anni fa. Su 28 ettari si possono fare davvero un sacco di
cose: riqualificazione di spazi pubblici, realizzazione di nuovi parchi, risanamenti
di interi quartieri. Yenikapı non è fener e la zona delle Blacherne, ma ha comunque
un problema di riqualificazione e al tempo stesso di salvaguardia del carattere
proprio di quel pezzo di città storica: di quel pittoresco degrado che la nostra cultura occidentale, non da oggi venata di decadentismo, vorrebbe far convivere con
l’ordine urbano e la coscienza storica.
Il progetto di Cellini parla di “stretta integrazione non solo funzionale ma soprattutto culturale”. Il concetto di integrazione funzionale è abbastanza chiaro (e rappresenta già un bel passo avanti rispetto al danno reciproco!). Ma che cosa si in-
12 d. Manacorda, Archeologia in città, cit., p. 14.
13 M. Montella, Le scienze aziendali per la valorizzazione
del capitale culturale, storico, “Il capitale culturale.
Studies on the Value of Cultural Heritage”, I, 2010, pp.
11-22.
14 Cfr. P. Pierotti, Firme italiane per la riconversione di
28 ettari nel cuore di Istanbul, in www.ediliziaeterritorio.
ilsole24ore.com/art/progetti-e-concorsi/2012-04-11/
insula-cellini-sbarcano-istanbul-124346.
php?uuid=AbMHdnMf.
15 dico è una sigla che significa “diritti e doveri delle
persone stabilmente Conviventi” e viene riferita
comunemente al disegno di legge, presentato dal
Governo Prodi ii nel febbraio 2007, finalizzato al
riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano
di taluni diritti e doveri discendenti dai rapporti di
“convivenza” registrati all’anagrafe.
93
TUTELA E REINVENZIONE
94
tenda per integrazione culturale è meno facile da definirsi. Ci si può riferire alle
attività previste o prevedibili in quegli spazi recuperati, o piuttosto al significato
culturale dei resti restituiti nell’organicità del progetto e alla possibilità di ridotarli di un senso comprensibile e condivisibile. E questo è assai più problematico,
perché richiede una sintonia di fatto tra chi quei resti trova, studia e trasforma in
nuova conoscenza, chi quei resti riprogetta in un contesto che vuole magari metterli al centro dell’attenzione ma a partire da una motivazione (in questo caso un
hub infrastrutturale) che è esterna ad essi, chi quei resti valuta degni di investimento di risorse pubbliche e di pratiche gestionali ed amministrative sicuramente
onerose, e chi infine quei resti userà come “utilizzatore finale” di un bene, sulle cui
sorti non sarà mai stato chiamato a dire la sua.
Il progetto afferma che i partner hanno già dimostrato in passato la loro sensibilità
nell’operare in contesti archeologici. Questo è certamente vero per un collega e
un professionista del valore di francesco Cellini. Ma se la sensibilità in questi casi
è necessaria, è anche sufficiente? Che significa sensibilità? Per esempio, tenere
basso il segno quantitativo dell’architettura, tenere basso il fare rispetto al nonfare, il costruire rispetto al non-costruire e anzi al demolire. Capisco che questa
impostazione (che mi pare di percepire, se non mi sono ingannato, nelle parole di
Cellini) sembrerebbe la negazione del lavoro dell’architetto, ma è come per l’archeologo tenere bassa l’intensità dello scavo per valutare senza scavare, fare diagnostica non distruttiva, lavorare per campionature, e abbassare – alla fine della
filiera – la religione dell’antico.
Ma fin dove è valido questo paragone tra noi e gli architetti? L’archeologo fa ricerca
storica, accumula dati, elabora conoscenze, sviluppa scenari passati e, solo da
poco tempo, ha sempre più chiaro che in realtà crea anche scenari futuri, quasi un
“sottoprodotto” dell’opera di conoscenza scientifica, che sta diventando finalmente un co-prodotto. L’architetto produce oggetti e relazioni tra oggetti, in funzione
del loro uso, per abitarvi o viverci; fa un’attività poetica ma non fine a se stessa, fa
cose che vorrebbe belle, che però funzionino, e solo da poco tempo ha più chiaro
che in realtà per creare scenari futuri ha bisogno di maggiore conoscenza scientifica, cioè anche storica, ha bisogno di impossessarsi del senso dei luoghi ove
interviene. Per questo il progetto è mediazione – come sottolinea Cellini – è sintesi
colta e laica, per gli architetti come per gli archeologi.
Sono due professioni sghembe, le nostre, apparentemente fatte per non incontrarsi, eppure consapevoli oggi della necessità della loro convivenza, se ciascuno
fa la sua parte e un po’ della parte dell’altro: l’archeologo progettando nell’atto
della ricerca gli spazi del suo intervento, l’architetto conoscendo fin dalle fasi iniziali del progetto l’identità stratificata dei luoghi.
Abbiamo bisogno di impossessarci gli uni almeno un po’ delle tecniche degli altri, ma
quello che ci serve veramente è contaminarci culturalmente. Insieme possiamo raccontare storie molto belle e permetterci il lusso di invitare a scriverle con noi anche
l’utilizzatore finale, un utilizzatore dai mille volti che siamo poco abituati a considerare
come uno degli interlocutori indispensabili delle nostre distinte progettualità.
The text reflects on several themes of the relationship between archaeological project and architectural project in an urban setting, and on the role of archaeological
remains, functioning either as orderly elements contributing to the restoration of
the sense, whose preservation occupies centre stage, or as disturbing elements,
which it would be best to avoid digging up.
for an urban project and archaeological project to draw support from each other, it
is necessary to contribute – without arrogance and without shyness – to a common
discussion, which also entails some risk of mutual invasion. But contamination is a
condition as risky as it is profitable.
There is an archaeology for specialists, more or less satisfied with itself, but there is
also a vital archaeology that here in Italy is pressing to fuel the culture of confrontation: it is a matter of wanting to know and meet it, for a co-planning of archaeologically sensitive urban interventions, in which the archaeologist’s role is not that of a
watchman, but rather that of the person informed of the facts, and creative.
It is thus necessary to have a mutual curiosity and solidary sensitivity, which helps
keep the quantitative sign of architecture low, doing as opposed to not doing, building as opposed to tearing down, just as the archaeologist can keep the intensity of
the intervention low in order to evaluate without digging, use non-destructive diagnostic systems, work by samplings, and lower – at the end of the chain – the religion
of the ancient.
The archaeologist does historical research, accumulates data, processes knowledge, develops past scenarios, and it’s only been for a short time that it’s clear to
him that in reality he also creates future scenarios, as co-products of the knowledge
work. The architect produces relationships among objects, on the basis of their use,
so they can be lived in or with, and it’s only been for a short time that it’s clear to
him that in reality, to create future scenarios, he needs greater scientific, historical,
knowledge; he needs to acquire the sense of the places where he intervenes. for
this reason the project is mediation, a cultured and lay synthesis, for both architects
and archaeologists, who are aware today of the necessity to coexist, if each does
his own part and a bit of the other’s part: the archaeologist by planning, during his
research, the spaces of his intervention, and the architect by knowing, since the very
first phases of the project, the stratified identity of the places.
ARCHAeoloGiCAl PRoJeCt ANd
ARCHiteCtuRAl desiGN iN AN
uRbAN eNviRoNMeNt
ABSTRACT
95
cento su alcuni punti che mi sembrano
di un’ importanza cruciale e che riguardano i valori del progetto:
ATEnE, dOuGGA, BRASILIA
i PAesAGGi dell’ARCHeoloGiA: iNNovAZioNi e RisCHi
TUTELA E REINVENZIONE
Yannis Tsiomis
96
La mia esperienza professionale come
architetto e ricercatore mi ha consentito di analizzare diverse situazioni in
francia, in Grecia, in Italia e in Brasile,
e di conseguenza mi è stato possibile
osservare le similitudini esistenti, ma
anche le differenze tra le politiche pubbliche urbane, il patrimonio, l’ambiente
ecc. nel corso del mio lavoro ho potuto
studiare soprattutto i progetti urbani in
rapporto ai siti archeologici e i rischi
che corrono questi ultimi.
Queste esperienze mi hanno consentito
di cogliere la dimensione di un lavoro
che non si limita alla “salvaguardia”,
ma riguarda il rapporto che esiste con
la storia e il nostro futuro, ovverosia il
progetto. non si tratta quindi semplicemente di teorie e di ideologie, bensì
di questioni pratiche, di politiche da
applicare per la creazione dello spazio
pubblico. E gli spazi dell’archeologia, “i
paesaggi dell’archeologia” sono spazi
pubblici. In greco “pubblico” si traduce
con “demos”, e “demos” è la radice della parola “democrazia”. Il rapporto con
il passato parla del futuro della collet-
tività, del “demos”, e in questo senso
i nostri interventi sui siti archeologici
si occupano sicuramente del rapporto
che abbiamo con le vestigia del nostro
passato, ma anche della civiltà del futuro che vogliamo. In altre parole, i valori sui quali si fondano i nostri progetti.
Ho fatto riferimento alle mie esperienze
perché mi hanno consentito di valutare
i rischi che corrono le politiche patrimoniali e, attraverso qualche esempio,
svilupperò le mie osservazioni per illustrare tali rischi, non tanto per fare
un discorso “catastrofistico”, bensì per
mostrare cosa succede quando i “valori” sono assenti oppure sono rivolti
altrove. Poiché trattando degli spazi
archeologici si esprimono sempre dei
“valori”, viene da domandarsi se tali
valori ci rappresentino o meno. Quando
si discute del patrimonio urbano, archeologico e moderno, si tratta quindi
di un quesito che ci poniamo sul futuro
della civiltà urbana. E il paesaggio archeologico mi serve così da paradigma
e da sintomo, ma costituisce anche una
metafora per poter esporre i rischi che
incombono sulla civiltà urbana, quella
che poi sarà trasmessa ai nostri discendenti, ai nostri figli.
In tutti i paesi del mondo, ad iniziare
dall’Italia e dalla Grecia, oggi esiste una
pletora di leggi e di raccomandazioni
riguardanti i paesaggi e i siti archeologici, e spesso tutti questi regolamenti
sono in contraddizione tra di loro oppure sono percepiti come delle restrizioni
inutili. Eppure si ha l’impressione che
sia stato detto tutto sul modo di conservare e allo stesso tempo di innovare. A tale proposito la raccomandazione dell’unesco su “il paesaggio urbano
storico” (2011) rappresenta un buon
esempio. In tale documento è scritto
che “il patrimonio urbano” costituisce
per l’umanità una conquista sociale,
culturale ed economica definita da una
stratificazione storica di valori che si
sono formati attraverso il susseguirsi
delle varie culture antiche e contemporanee.
Partendo da questa considerazione e in
base alla mia esperienza, porrei l’ac-
1. Oggi abbiamo un numero sufficiente di documenti normativi (convenzioni, raccomandazioni, atti, ecc)
relativi alla conservazione dei territori storici (per quanto riguarda sia i
paesaggi naturali sia quelli urbani e
soprattutto archeologici).
2. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un rinnovamento delle
teorie e degli approcci disciplinari
che riguardano patrimoni materiali
e immateriali. Pertanto il problema
non è quello di chiedersi se esista
o meno un apparato teorico e pratico, ma il modo in cui tale strumento
viene rispettato e applicato.
3. Osserviamo tuttavia diversi casi in
tutto il mondo, e notiamo delle differenze tra quanto viene dichiarato
e quanto è messo in pratica non soltanto da parte dei poteri centrali, ma
anche da parte delle collettività locali
oppure da chi ha interessi privati.
4. d’altro canto non si tratta di limitarsi a seguire delle raccomandazioni, ma soprattutto di innovare.
Se da una parte le raccomandazioni
di carattere generali sono utili, nel
contempo ogni sito archeologico,
ogni città che possegga un patrimonio, ogni programma è differente e
le regole generali devono adattarsi
alle varie situazioni specifiche.
Esaminando casi molto diversi tra di
loro come il sito archeologico dell’Agorà di Atene e il quartiere storico che lo
circonda, il sito e il paesaggio archeologico e storico di dougga (Tunisia) e la
città di Brasilia (patrimonio mondiale
contemporaneo), parlerei quindi di tali
situazioni diverse e dei rischi legati sia
all’immobilismo sia al “lassismo”.
l’Agorà di Atene. Il primo esempio
dunque è quello dell’Agorà di Atene
e del quartiere circostante in seguito
all’assetto del sito archeologico e dello spazio urbano del quale sono stato
incaricato insieme ad altri colleghi dal
1997 al 2005. Ho scelto questo esempio per illustrare i rischi che corre un
paesaggio urbano storico a causa del
“turismo di massa”, dello sfruttamento
commerciale del patrimonio, come fa
notare la raccomandazione dell’unesco, e soprattutto del patrimonio immateriale. In tale progetto si trattava di
prendere in considerazione non soltanto il valore archeologico e storico, ma
altresì gli usi tradizionali dello spazio
pubblico che fanno parte del patrimonio immateriale e che quindi non sono
predeterminati. dunque si trattava di
due tipi di progetto su due spazi diversi, da una parte lo spazio archeologico
e dall’altra lo spazio urbano, ma legati
tra di loro per la loro vicinanza.
La prima parte del lavoro consisteva nel
sistemare il sito archeologico dell’Agorà. Tale sito costituisce un esempio unico di stratificazione di secoli di
storia che va dal periodo paleolitico ai
nostri giorni. Ma nonostante tale stratificazione, l’Agorà è innanzitutto il sito
simbolico più importante della nascita
della democrazia. È il luogo della prima
assemblea delle istituzioni democratiche. Sono stati compiuti degli scavi sul
sito dell’Agorà ad iniziare dagli anni
1930 da parte della scuola archeologica americana, e dagli anni 1950 in poi il
sito non è più stato sistemato.
La stratificazione è una caratteristica
banale di qualunque sito archeologico perché nessuno spazio resta fossilizzato. Lo spazio appartiene al tempo. Tuttavia, per quanto riguarda i siti
archeologici e il paesaggio, il lavoro
dell’architetto insieme a quello degli
archeologici consiste nel privilegiare
taluni periodi più significativi rispetto
ad altri. Il nostro lavoro è stato essenzialmente quello di rendere leggibili
la struttura urbana del sito e gli edifici pubblici dell’Atene democratica. Ma
abbiamo anche operato per rendere
leggibile la storia del sito nella diacronia. Il progetto è stato il risultato di un
processo storico, archeologico, architettonico e che riguardava l’assetto del
sito archeologico che abbiamo voluto
minimalista.
A tale riguardo devo far notare che abbiamo dovuto lottare per convincere le
autorità, ma anche alcuni archeologi,
che su un sito come l’Agorà la risposta
architettonica avrebbe dovuto essere
minimalista per la storia stessa del
sito e del mito ad esso legato. L’argomento in discussione era il seguente:
si trattava di scegliere i rivestimenti
dei percorsi dei visitatori/turisti, percorsi che secondo alcuni archeologi e
colleghi architetti dovevano essere in
pietra e staccati dal suolo (percorsi in
lastre di cemento o di legno) per proteggere le antichità. da un certo punto
di vista quest’opzione era giustificata
poiché, come è ben noto, il turismo di
massa deteriora i siti. Ma d’altro canto
gli storici ci insegnano che in ogni epoca l’Agorà è stata lasciata in terra battuta perché sulle origini degli ateniesi esisteva il mito della “autoctonia”,
mito secondo cui gli ateniesi sarebbero nati dalla terra. Così d’altronde
97
1
TUTELA E REINVENZIONE
1 Y. tsiomis, Schizzo del progetto per la sistemazione
dell’Agorà di Atene, 2009.
98
possiamo spiegarci la presenza del
Tempio di Efesto (Vulcano) e, nelle vicinanze, quella del quartiere dei ceramisti, degli artigiani del vasellame.
non era quindi per modestia da parte
dell’architetto che ha sostenuto che
occorreva riprodurre la pavimentazione antica, bensì per le conoscenze
storiche che permettevano la scelta di
un materiale che rispettasse il significato del luogo. Per questo motivo abbiamo optato per la terra stabilizzata.
La riproduzione del suolo antico era
un progetto che comportava dei rischi,
perché è stato necessario scegliere la
densità del suolo, i livelli dei passaggi alterati dal tempo e il colore della
terra. Alla fine nelle nostre scelte ha
avuto il sopravvento la discrezione in
quanto a volte l’architetto deve anche
saper tacere, e saper tacere è un dono.
In un secondo tempo abbiamo lavorato
sul progetto urbano del quartiere circostante. La caratteristica di questo
quartiere era un misto di funzionalità
esemplari dove lavoro, turismo e svaghi coesistevano.
nonostante la vicinanza all’Acropoli il
quartiere non era soltanto turistico. È
lavorando sui suoi spazi pubblici che
ci siamo resi conto concretamente del
suo patrimonio immateriale: fin dall’epoca ottomana artigiani e commercianti lavoravano il legno e riparavano
i mobili antichi in strada, accanto a
botteghe di libri antichi, a ristoranti popolari e ad abitazioni. Questo quartiere
è un esempio tipico di coesistenza tra
patrimonio materiale e immateriale,
tra valore storico e memoria vivente dei
luoghi. d’altra parte occorre insistere
sul valore economico di un mercato
molto animato destinato non soltanto ai
turisti, ma anche agli abitanti di Atene.
Il valore di questo quartiere non era
essenzialmente architettonico, poiché
sono stati conservati pochi edifici del
xix secolo, e quelli del xx secolo sono
piuttosto dei baraccamenti privi di una
tipologia particolare. Tale valore era
dovuto soprattutto al mantenimento di queste funzioni miste antiche e
moderne. In questo senso la posta in
gioco di tale progetto urbano consisteva nell’assetto dello spazio pubblico (strade, piazze), nel modernizzare
le reti di comunicazione e permettere
una migliore accessibilità e mobilità e
nel rinnovare gli arredi urbani mantenendone nello stesso tempo le funzioni
e il carattere di patrimonio immateriale, economico e sociologico. La nostra
scommessa in qualità di architetti–urbanisti era quindi quella di conservare ed innovare. Il progetto urbano era
quindi imperniato sulla trasformazione
dello spazio pubblico, ma anche sul
rinnovamento economico: un’analisi
accurata dei commerci e degli artigia-
nati ci ha permesso di individuare locali
e immobili in cui potevano avere sede
nuove attività (uffici, piccole imprese)
per rinnovare il tessuto economico. In
tal senso si potevano prevedere, accanto all’Agorà, architetture moderne che
non imitavano lo stile del passato. Lavorare sulla storia e sulla memoria del
patrimonio urbano significa modernizzarlo. Laddove era possibile, studiando
le disponibilità immobiliari, abbiamo
proposto di introdurre nuove attività e
quindi nuove forme architettoniche.
Infine una terza fase è stata quella di
lavorare sui limiti dello spazio archeologico e di studiare in che modo tale
spazio si concilia con lo spazio pubblico
del quartiere partendo dal presupposto
che un progetto archeologico situato
in un centro cittadino storico ma vivo
è un progetto urbano. Quindi abbiamo
sistemato le piazze e le strade che si
trovano intorno al sito dell’Agorà con
l’intento di permettere il passaggio dagli scavi alla città.
In che cosa consisteva questo progetto
globale? nel rendere leggibile il passato (valore archeologico), ma anche nel
permettere al quartiere storico di continuare a vivere in una dinamica futura
(valore economico e sociale). Si tratta
di una duplice missione del progetto urbano e del progetto archeologico
che, in un certo senso, costituisce un
progetto urbano.
detto ciò occorre tener conto dei rischi
che corre ogni progetto urbano di questo tipo. I giochi olimpici, una delle cause del crollo economico della Grecia di
oggi, la fretta di prepararli e la speculazione hanno sconvolto numerosi dati.
È ben noto che qualunque progetto influisce sull’economia di un quartiere,
pertanto è necessario usare delle pre-
2 Y. tsiomis, Fotomontaggio del progetto per la
sistemazione dell’Agorà di Atene, 2009.
2
cauzioni per mantenere ciò che è valido
e apportare i cambiamenti auspicabili.
Ma nel nostro caso né i politici né l’amministrazione hanno osato adottare misure per controllare il settore fondiario
e mantenere le attività valide. I prezzi
degli affitti dei negozi sono aumentati
e tantissime attività, sebbene economicamente solide, si sono spostate
altrove ad Atene, facendo così perdere
al quartiere parte della sua memoria.
dopo aver realizzato questo progetto il
turismo ha invaso tutto e la mancanza di controllo del settore fondiario ha
causato la scomparsa degli artigiani
e delle attività. Tale patrimonio immateriale sta per scomparire e nascono
negozi per turisti con merce di cattiva
qualità. Ecco quindi che se scompaiono
le attività scompare anche la memoria
dei luoghi.
dougga. un paesaggio archeologico. Il
secondo esempio proviene da uno studio effettuato per la sistemazione dei
siti archeologici della regione di dougga in Tunisia. Questa esperienza commissionata dall’Agenzia francese dello
Sviluppo e dal Ministero della Cultura
tunisino risale al periodo dell’ancien
régime (anni 2006-07) e tale precisazione, come vedremo, non è priva di
significato.
Per quanto riguarda questo tipo di paesaggio ancora una volta è interessante
citare le raccomandazioni dell’unesco
in cui si fa notare che il paesaggio storico naturale viene “concepito come la
risultanza di una stratificazione storica
di valori e di caratteristiche culturali e
naturali che vanno oltre il concetto di
centro storico per comprendere il contesto urbano più ampio e il suo ambiente geografico”. Tuttavia, se le collettività regionali non stanno attente, a causa
dell’ampliamento della scala, i rischi
che corre un territorio composto da un
complesso di centri storici urbani e di
siti archeologici sparsi qua e là risultano evidenti.
Questo studio riguardava lo sviluppo
del turismo culturale e lo sviluppo generale del nord-ovest della Tunisia. Si
tratta di un vasto programma che comprendeva siti archeologici, patrimonio
architettonico, turismo e sviluppo economico della regione (assi principali
Teboursouk-dougga e Jendouba-Bulla
Regia-Chemtou). Tenuto conto della
scala, il numero degli attori coinvolti
era considerevole come si può immaginare, la questione non riguarda soltanto
archeologi, architetti, amministrazioni
comunali o alcuni servizi amministrativi, ma interessa anche attori politici ed
economici (stato, regione, amministrazioni comunali, agricoltori, albergatori,
costruttori privati ecc.).
nell’epoca romana al centro della regione di dougga c’era una città che
portava lo stesso nome; era un centro rurale e commerciale, una delle
numerose città romane dell’Africa del
nord, che si sviluppano attorno al I secolo prima e dopo Cristo. Caratteristica comune di tutte queste città è che
sono costruite su delle colline e su dei
siti che possono essere difesi. La loro
posizione nel paesaggio permette di
comprendere il rapporto della città con
i terreni agricoli della pianura.
dunque la nozione di paesaggio archeologico assume qui tutto il suo senso e
diventa un valore fondamentale. Le vestigia di queste città non possono essere separate dal loro ambiente, dal loro
99
TUTELA E REINVENZIONE
100
paesaggio, dal loro “orizzonte”, che
costituisce un altro concetto operativo
per un architetto paesaggista. dougga
in questo senso è esemplare: il sito è
posto sulla collina e la topografia, la
sua dinamica con i colli, le montagne
che si profilano sullo sfondo e le valli
coltivate, tutto mette in evidenza un’immagine che proviene dalla storia.
Ma la situazione che abbiamo constatato nella regione era paradossale. da
un lato uno sviluppo agricolo sempre
vivace e intenso e dall’altro una situazione deplorevole, poiché i siti sono
rimasti nello stato in cui erano al tempo degli scavi e non si è provveduto a
sistemarli per i visitatori; mancano le
infrastrutture alberghiere, non esiste
nessun tipo di accoglienza turistica e
mancano i musei (i pochi esistenti sono
sistemati male). Ma soprattutto ci siamo resi conto che c’è anarchia nello
sviluppo dei villaggi, e che i paesaggi
sono rovinati da costruzioni abusive. La
sfida di tale progetto di territorio che
superava la scala del sito archeologico
propriamente detto era quella di riuscire a far coesistere lo sviluppo agricolo,
economico e turistico pur mantenendo
il valore storico ed estetico di tale paesaggio.
Con questo studio non si trattava soltanto di valorizzare e segnalare i percorsi all’interno del sito archeologico,
bensì di fare in modo che la città avesse una miglior visione del paesaggio,
poiché quest’ultimo rappresenta un valore archeologico alla stessa stregua
dei monumenti. Il paesaggio e il sito diventano così un tutt’uno. Ma, come ho
già affermato in precedenza, le culture
agricole attuali costituiscono un valore
economico indiscutibile, pertanto non
si trattava di ricreare l’immagine della
città che avevano gli abitanti di dougga
nell’antichità. noi dovevamo mantenere la sensazione, cioè la leggibilità di un
paesaggio coltivato su un orizzonte di
montagne. Gli elementi di sedimentazione del paesaggio che costituiscono
il luogo e l’orizzonte (come sottolinea il
paesaggista francese Michel Corajoud)
possono fungere da nozioni operative
per l’architetto, l’urbanista e il paesaggista, poiché il paesaggio è come un archivio e permette di comprendere nella
diacronia i sistemi agrari. Così il valore
archeologico, il valore storico, il valore
economico dell’agricoltura attuale e il
valore estetico si fondono. Lavorare sui
siti archeologici nel paesaggio consiste
quindi nel lavorare su punti di vista che
vanno dal sito verso il paesaggio e dal
paesaggio verso il sito, permettendo
allo sguardo di comprendere come era
prima il paesaggio e come è cambiato
nel corso del tempo. È un andirivieni
tra il sito e il paesaggio e dal paesaggio al sito. In altri termini il paesaggio
costituisce la ragion d’essere del sito
archeologico.
Veniamo adesso ai rischi. A dougga e
in tutti i siti oggetto del nostro studio, il
paesaggio inizia a essere rovinato dalle brutte costruzioni frutto dell’anarchia, da alberghi e costruzioni rurali di
cattiva qualità e, anche su siti protetti
dall’unesco come Boulla Regia, da miniere a cielo aperto (latomie). Occorre
far presente che tali miniere a cielo
aperto appartengono ai parenti di chi
comandava in passato, e funzionano
ancora.
Se vogliamo riassumere, i molteplici
rischi della valorizzazione del sito archeologico sono il turismo come unica
funzione, la lottizzazione selvaggia con
gli ampliamenti periferici e le costru-
zioni rurali di cattiva qualità realizzate nell’anarchia. E la posta in gioco è
come permettere lo sviluppo economico, agricolo, turistico senza impedire la
leggibilità del paesaggio storico. Ma in
questo caso si tratta di una questione
politica più che architettonica.
brasilia: il tradimento della modernità. Ora passo all’ultimo esempio che
rientra nell’ambito dell’archeologia del
xx secolo, poiché possiamo considerare
che Brasilia ne faccia parte. Intorno allo
sviluppo di Brasilia curiosamente si concentrano tutti i problemi relativi al paesaggio archeologico, soprattutto perché
si tratta di una città contemporanea
classificata come patrimonio mondiale
dall’unesco. Quest’ultima pone d’altronde il problema dei rischi che corre un
“paesaggio urbano storico” a causa dello sviluppo demografico e della liberalizzazione degli scambi. Aggiungerei anche
la speculazione. È il caso di ricordare
che d’altra parte la raccomandazione
dell’unesco pone l’accento su “i rischi
che si corrono a causa dell’alterazione
del significato di un’opera costruita sulle
percezioni e le relazioni visive” o, in altre
parole, quando vengono travisate le intenzioni di un progetto realizzato che annoverava tra i suoi valori più importanti il
paesaggio urbano.
Valutiamo questi rischi nel caso concreto di Brasilia, opera di Lucio Costa
e di Oscar niemeyer. La plasticità del
piano di Brasilia è ben nota. Brasilia è
un sistema composto da sottosistemi:
il sistema monumentale, che mette in
risalto gli strumenti del potere; il sistema abitativo (le superquadras), con misure e altezze degli edifici ben definite;
il sistema basato sul funzionalismo ri-
guardante mobilità, lavoro, relax ecc. e,
infine, il sistema degli spazi verdi.
Tutto ciò appare chiaro dalla forma urbana, dalle forme e dai tipi architettonici previsti fin dall’origine. È certamente
un piano funzionalista che, grazie al
suo messaggio simbolico (nuova capitale dello Stato-nazione), ma anche
grazie a questo sistema rigoroso e poetico al tempo stesso, è divenuto uno
degli ultimi emblemi dell’urbanistica e
dell’architettura moderna della metà
del xx secolo. Possiamo considerare
Brasilia come l’ultima capitale dei tempi moderni.
Certamente qualunque città si evolve e
cambia. La stratificazione è una delle
caratteristiche fondamentali di Brasilia. Tuttavia si annuncia una svolta nel
corso degli anni a partire dagli inizi
degli anni 1980. Essendo proibito l’ampliamento, complice la speculazione,
sono sorte costruzioni nuove, torri ed
edifici fuori scala e di qualità mediocre nel perimetro del piano iniziale. Il
centro di alcune superquadras è stato
invaso da supermercati o da costruzioni di complessi edilizi che non rispettavano il piano originale. In breve, è stato totalmente alterato lo spirito degli
ideatori del piano. Così assistiamo ad
un’alterazione della struttura urbana
e dell’aspetto fisico della città. nonostante la “tutela”, in quanto patrimonio
mondiale, vengono erette dappertutto
costruzioni mostruose di architettura commerciale e sorgono favelas in
prossimità della città. Tutto ciò con il
beneplacito dei politici e dell’amministrazione. Ma bisogna ammettere che
le favelas danno meno fastidio.
Lo stesso dicasi sul rapporto della città
con il paesaggio. Lucio Costa ha concepito Brasilia non come un oggetto posto
su un terreno piano, ma in comunicazione con il paesaggio. fin dall’origine
la prospettiva della piazza dei Tre Poteri è concepita per essere aperta all’orizzonte. Lucio Costa ha descritto in
maniera esplicita questo sorprendente
rapporto voluto con il paesaggio lontano. Ora, questo paesaggio comincia ad
essere chiuso, certamente non nell’asse, ma lateralmente. È stato consentito
a promotori e architetti di nascondere
l’orizzonte con delle costruzioni nuove.
L’evoluzione di Brasilia degli ultimi anni
mostra come questa sia diventata una
“città banale” nel senso peggiore del
termine, in balia della speculazione e
invasa da opere architettoniche discutibili. non è possibile sostenere che
Brasilia dovrebbe essere intoccabile,
ma la difficoltà di classificare un’intera
città “patrimonio dell’umanità” in parte riguarda l’ideologia o la politica più
che la scienza o i valori del patrimonio
urbano.
Conclusione. dopo questi esempi, terminerei con qualche osservazione. Può
sembrare banale, ma è bene ricordare che, in seguito, il concetto stesso di
patrimonio e di paesaggio archeologico
si è esteso e che esistono moltissime
interpretazioni di termini quali complessi urbani, paesaggio urbano, ambiente. Tali estensioni del concetto e la
sovrabbondanza delle definizioni sono
dovute a differenti approcci filosofici,
sociologici, storici, normativi, artistici,
architettonici ecc. Ad occuparsi di ciò
non sono soltanto l’architetto, l’urbanista, lo storico della città o dell’arte, ma
un complesso di discipline o di settori
di conoscenze. un’altra constatazione
è che d’ora in poi abbiamo, sia a livello
nazionale sia internazionale, strumenti sufficienti per trattare il patrimonio
materiale e immateriale antico e contemporaneo.
d’altra parte constatiamo oggi un cambiamento di terminologia, cambiamento questo che sta a significare non soltanto l’estensione dei concetti espressi
dai termini, bensì anche un ampliamento di scala. Esistono degli slittamenti
semantici i quali stanno ad indicare che
alla conoscenza che riceviamo dalle
diverse discipline si aggiunge una coscienza politica. Il fenomeno urbano
non si riduce più al valore dell’antico,
ma comprende qualunque produzione
spaziale, da quella più localizzata alla
più estesa, in una problematica: quale
civiltà futura vogliamo?
Analogamente, ci rendiamo conto che
la storia da un lato e la memoria vivente dall’altro si intrecciano. un sito
archeologico nella città non è un buco
nella città. un “monumento” nella città
e la città “storica” stessa non sono oggetti situati nel mezzo di un vuoto che
sarebbe il paesaggio. d’altronde quale
città non è “storica”? Che cosa intendiamo per “storica”? Ciò non vuol dire
che tutte le storie urbane, che tutti i paesaggi abbiano lo stesso significato. Se
così fosse bisognerebbe classificare il
mondo intero per terminare le classificazioni. Significa semplicemente che
qualunque “paesaggio urbano” e qualsiasi paesaggio archeologico è nella
storia, cioè si iscrive nella complessità
che fa la storia.
una volta ammesso ciò, successivamente arriva il momento della valutazione, cioè dell’esplorazione dei significati e del senso che attribuiamo ai
differenti luoghi di progetti. non si tratta di valori ideologici imposti dall’alto.
101
3
3 o. Niemeyer, Brasilia, 1960.
tHe lANdsCAPes oF
ARCHAeoloGY: iNNovAtioNs
ANd RisKs
TUTELA E REINVENZIONE
ABSTRACT
102
Roland Barthes diceva che non si lavora con dei valori, ma si costruiscono
delle validità. non si tratta di un’assiologia di valori ideologici ma, nella misura del possibile, di un’assiologia di
valenze scientifiche, architettoniche e
dei valori dell’uso.
nel nostro caso quindi si tratta di trasformare in azione efficace gli elementi
convalidati dalle differenti letture analitiche del patrimonio: valenze storiche,
sociologiche, culturali, antropologiche,
architettoniche, economiche ecc., per
arrivare ad emanare norme nonostante tutto necessarie.
Il problema oggi non sono le definizioni
e le conoscenze del patrimonio. Abbiamo conoscenze sufficienti che continueremo ad accrescere. Il vero problema
per l’azione è la gestione dell’urbano e
del paesaggio archeologico.
La questione riguarda i rischi e le possibilità di andare fuori strada che oggi
incontra il patrimonio in senso lato. E,
a parte casi estremi (l’Afghanistan ieri,
il nord del Mali oggi), non sono i monumenti o i siti archeologici a rischiare di
più, bensì soprattutto le città, i paesaggi, l’ambiente, tutti iscritti nella storia
indipendentemente dai valori che sono
diversi in funzione degli approcci delle
discipline. Infatti i valori dello storico
della città non sono gli stessi rispetto
a quelli del sociologo, dell’architetto,
dell’urbanista e del geografo. Invece
ciò che li avvicina sono i rischi di annullare le valenze instaurate da ciascuna
delle discipline. Come tutelare senza
congelare? Questo è il problema più
importante al quale dobbiamo dare risposte sempre nuove.
The various different situations analysed in france, Greece, Italy and Brazil
highlight the differences between public policies and urban plans as regards
archaeological sites and provide an outline of the extent of an approach that
doesn’t limit itself to “conservation”, but
concerns the relationship that exists between history and our future, or, in other
words, the plan.
We aren’t dealing with theories or ideologies here. These are practical issues,
policies that must be applied in order
to create public spaces. Archaeological
spaces – the “landscapes of archaeology” – are public spaces. The Greek word
for “public” is demos and it is the root of
the word “democracy”. Our relationship
with the past indicates the future of the
collective community – the “demos” –
and as far as this aspect is concerned,
our work on archaeological sites is certainly focused on the relationship we
have with the past as well as the civilisation we hope to see in the future. In other
words, it involves working with the values
that lie at the heart of our plans, because
when we consider archaeological spaces
we are always expressing “values” and
asking ourselves if these values represent what we are or not.
When we discuss urban, archaeological
and modern heritage, we question ourselves about the future of contemporary
society. The archaeological landscape
serves as a paradigm and a symptom,
but it is also a metaphor that helps us expose the risks that loom over the society
we wish to leave to our children.
Today, all over the world, starting with
Italy and Greece, there is a plethora of
laws and recommendations concerning
archaeological sites and landscapes and
often all these regulations either contra-
dict each other or are seen as useless restrictions. And yet we seem to be under
the impression that everything that can
be said regarding methods of conservation and, at the same time, methods of
innovation has been said.
As regards this aspect, unesco’s Recommendation on the Historic urban
Landscape of 2011 is a good example.
This document states that “urban heritage is for humanity” a social, cultural and economic conquest “defined by
an historic layering of values that have
been produced by successive and existing cultures”, both Ancient and Contemporary. In the past few years, we have
seen a revival of archaeological theories
and approaches regarding tangible and
intangible heritage. Therefore, it is not
a question of asking whether or not a
theoretical and practical apparatus exists, but rather how such an instrument
should be adhered to and applied.
nevertheless, we see different cases all
over the world and we can note the differences between what is declared and
what is put into practice, not only by central authorities but also by local communities or those with private interests.
On the other hand, it’s not a question of
limiting oneself to following recommendations but, above all, of innovating. While
general recommendations are useful, we
all know that where any plan affecting
the economy of a district is concerned it
is necessary to take precautions in order
to preserve what is worthwhile and make
beneficial changes where possible.
urban plans should focus on the regeneration of public space as well as economic renewal, hence working on the
history and memory of urban heritage
also means modernising it.
103
TORInO
il PARCo ARCHeoloGiCo delle toRRi PAlAtiNe:
il PRoGetto di uN ACCoRdo
TUTELA E REINVENZIONE
Giovanni durbiano
104
L’intervento, progettato e costruito insieme ad Aimaro Isola e Luca Reineirio,
tra il 2003 e il 2009, ha un suo specifico
interesse dovuto alla peculiare strategia
adottata nella gestione della commessa.
Il Parco archeologico è l’esito di un incarico – ottenuto in seguito ad un concorso
pubblico – di regia, e non direttamente di
progetto. Il Committente – il Comune di
Torino – consapevole della pluralità di
attori coinvolti nella trasformazione di
questa grande (70.000mq), centralissima
e culturalmente strategica area urbana,
non richiede infatti, nel bando di gara,
il disegno di un opera autoriale, ma innanzi tutto il disegno di un accordo. Tutta
la strategia progettuale e i conseguenti
esiti fisici sono conseguenza di questa
scelta. La regia dell’accordo ha specifici
strumenti e disegni, che vengono utilizzati al fine di trovare punti di convergenza
tra le tante figure più o meno istituzionali
coinvolte nella trasformazione (dalle Soprintendenze archeologiche e architettoniche al Vescovo, dagli esperti di viabilità,
ai mercatali che occupavano l’area extra
muros). Il progetto è dunque progetto di
relazione. una relazione utile a evitare
che singoli elementi, pur nella propria
rilevanza individuale si dispongano come
frammenti isolati, slegati dall’orizzonte
complessivo di una intelligibilità. Il progetto ha quindi come obiettivo principale
quello di restituire all’area un carattere
unitario: come giardino archeologico, ma
anche come parte di città, recuperando il
valore strategico che storicamente questo luogo ha sempre avuto.
stratigrafie. La realizzazione del Parco
archeologico si inserisce in un quadro
di generale ripensamento dell’immagine cittadina. Torino, con l’elezione della nuova Amministrazione Comunale e
l’approvazione del Piano Regolatore negli anni ’90, sviluppa un ambizioso programma di riqualificazione del proprio
centro storico, in cui la ricomposizione
della smagliatura urbana tra le Porte
Palatine e il duomo svolge un ruolo strategico.
La questione dell’area archeologica e del
suo sfrangiato contorno si presenta so-
prattutto come un problema d’ordine tra
valori differenti. un ordine che il progetto
di valorizzazione ha tentato di ricomporre, a partire dalla lettura delle valenze
esistenti, dalla comprensione delle gerarchie simboliche, dall’interpretazione
dei segni – ora deboli ora forti – delle
tracce storiche. un ordine che deve restituire l’eccezionale stratigrafia del sito,
ricostituendo una qualità dell’abitare il
luogo.
nella storia della città, l’area delle Porte Palatine ha sempre costituito un nodo
irrisolto, per la cui soluzione si sono confrontati – senza esiti – molteplici studi
progettuali, non solo recenti. Il carattere anomalo e incompiuto di quest’area
ha origini lontane. nella città romana il
tratto irregolare era dato dalla vicinanza delle mura, dalle differenze di quote
del terreno, oltre che dalla presenza
dell’edificio teatrale che introduceva la
forma semi circolare della cavea nell’ordinata ortogonalità delle insulae. Cuore
religioso della città medioevale, l’area
ospitò le tre basiliche paleocristiane di
San Salvatore, San Giovanni e Santa
Maria, sul cui sedime è stato edificato il
nuovo duomo e successivamente i palazzi vescovili e gli spazi annessi al contiguo Palazzo Reale.
Con i Savoia, l’area diventò parte integrante della cosiddetta zona di Comando, centro di governo e di rappresentanza
della corte e, come tale, luogo di demolizioni e di nuove costruzioni, che registrano il progressivo affermarsi dell’autorità
ducale sull’autorità dei vescovi.
La sovrapposizione delle vicende storiche si riflette nelle pietre costruite. Gli
edifici sono cambiati, si sono succeduti
senza però uniformarsi alla regola ordinata degli isolati del “quadrato” romano:
al contrario, contraddicendo la trama
densa e rimarcando quindi una diversità
che tuttora risulta fortemente riconoscibile. Con questo carattere straordinario
si sono confrontati, nei secoli, i progetti
di sistemazione monumentale di Carlo
Castellamonte, di Benedetto Alfieri, di
Luigi Canina, di Alessandro Antonelli:
ognuno tentando, senza riuscirvi però, di
dare conclusione unitaria al grande spazio irrisolto. Così, nel tempo, la forma
del luogo è rimasta questione aperta: da
ordinare con l’aggiunta di nuovi inserti e
nuove interpretazioni.
La condizione irrisolta è determinata dalla presenza di una molteplicità di
fabbricati e di terreni liberi, ciascuno
con storie e funzioni diverse: quella nascosta del Teatro romano, i resti museificati delle Porte Palatine (I secolo d.c.),
il duomo (1491-98) voluto dal Cardinal
della Rovere (dove è stata messa in luce
la chiesa inferiore al piano seminterrato
con l’intervento di Maurizio Momo, 19982005), il campanile romanico con la conclusione juvarriana, il Palazzo Reale e la
sua Manica nuova (sito della sede della
Galleria Sabauda), il Seminario vesco-
vile, il Palazzo Chiablese, l’edificio degli
uffici Tecnici del Comune (di Mario Passanti, Paolo Perona e Giovanni Garbaccio, 1956-1966), l’antico isolato di Santa
Croce, con i resti del vecchio ospedale
Mauriziano e frammenti di aulici palazzi,
la ricomposizione dell’isolato medioevale di Santo Stefano (con l’albergo nh progettato da Gabetti, Isola e franco fusari),
il Museo d’Arte antica (Gabetti & Isola,
1982-1998), nonché margini smembrati
della città quadrata e porzioni recenti di
un’ edilizia senza qualità.
valore dell’unità ambientale. La straordinaria stratificazione del sito, l’eterogeneità del paesaggio costruito, la densità
dei manufatti monumentali confusi con
edifici modesti, impongono all’azione di
progetto attenzioni particolari: né gesti
poetici, né volontà d’arte autonome, potranno in questo caso risolvere quanto si
presenta come denso intreccio incompiuto. La valorizzazione dell’area delle
Porte Palatine muove dall’obiettivo di
tenere assieme i tanti e differenti valori
in gioco; e orientare la forma in relazione
alle parti, ricomporre in una trama unitaria l’evidenza della stessa natura complessa dell’area.
In realtà, non sono gli edifici nuovi ad essere al centro del problema da risolvere;
il vero “oggetto” dell’azione progettuale
è, piuttosto, lo spazio intercluso all’interno del grande invaso urbano: uno spazio
attraversato da innumerevoli relazioni
fisico-funzionali, figurative e simboliche.
Lo spazio posto “tra” gli edifici – tra il
duomo e gli uffici Comunali, tra piazza
San Giovanni e l’area archeologica, tra
dentro e fuori le mura… – è il tema della
valorizzazione. Il progetto, infatti, si occupa degli edifici esistenti soprattutto
nella misura in cui essi stabiliscono relazioni con lo spazio urbano: lavorando,
più che sul volume dei pieni, sulla forma
del vuoto. Il progetto del Parco archeologico, in questo senso, non solo risponde
a una legittima attesa di valorizzazione
dei reperti esistenti, ma permette di considerare la materia del parco, le rovine e
la natura, come trait-d’union fra le singole parti: in grado di unire, in un insieme
coerente, l’episodicità delle attuali presenze. Gli alberi, le colonne, il prato, il
selciato, i resti emersi dagli scavi, le possibili ricostruzioni, se trattati in relazione
al disegno di un unico paesaggio, sono
eletti ad elementi discreti di un’opera di
ricucitura delle tracce fisiche e dei nessi
simbolici esistenti.
Rovine e lo spazio urbano. Per la valorizzazione dell’area delle Porte Palatine
è decisivo il ruolo che s’intende attribuire ai resti archeologici romani. un ruolo
così importante per i destini dell’area,
che non deve venir stabilito esclusivamente in base a parametri “scientifici”,
ovvero in relazione alla sola conoscenza
storico archeologica; ma che, al contrario, va assunto nel progetto di riqualificazione complessiva anche come specifico
problema di qualità urbana. La strategia
perseguita è dunque quella di reintrodurre i resti archeologici all’interno del
paesaggio urbano, in modo da sottrarre
le rovine all’attuale stato di marginalità.
Assegnare all’antichità romana non solo
l’atteso ruolo di “giardino archeologico”,
ma anche quella di “figura” urbana consente di ridefinire, in maniera unitaria, i
caratteri dell’intera area. Le Porte Palatine possono tornare ad essere porte.
Il Teatro: teatro. I percorsi: strade coerenti con la spazialità antica. Il signifi-
105
TUTELA E REINVENZIONE
cato dell’azione progettuale non si riduce semplicemente a “restituire” reperti
antichi ai visitatori: sono molte invece le
scelte che occorre prendere in merito a
valori tra loro anche molto differenti: dal
concetto di antichità a quello di funzionalità (viabilistica); da quello di urbanità a
quello di monumentalità.
Per questo motivo, è stato necessario un
certo empirismo critico per poter mettere d’accordo i numerosi attori che, con
ruoli diversi, partecipano al destino di
quest’area; così come, si è subito rinunciato al pensiero di poter risolvere il problema dell’area con un solo e imperioso
gesto architettonico. Al contrario, è stato
indispensabile rivolgersi agli studi esistenti, cercando di carpirne le possibili
fecondità, e di lì si è partiti per avanzare
soluzioni propositive e concrete.
106
valorizzazione delle torri Palatine e
Parco archeologico. nel progetto di
architettura, il ruolo di un edificio, nei
confronti della città, non dipende esclusivamente dal valore dell’oggetto in sé,
ma dalla complessa rete di relazioni che
l’oggetto stesso stabilisce con gli altri
oggetti, in sostanza dalla sua dimensione ambientale. Questo è il caso dei resti
romani della città, il cui valore archeologico – se confrontato con casi vicini,
quale quello di Aosta – forse potrà non
essere eccezionale (non fosse altro che
per le continue aggressioni e rifaciture
della Porta, che ne hanno minato l’integrità originaria). Al contrario però, i
reperti antichi assumono un significato
determinante se considerati in relazione
al valore strategico della loro posizione
nella maglia urbana. L’area contenente
il Teatro, la Porta e l’insula prospiciente,
occupa uno spazio preciso – geometrica-
mente tracciato tra le mura di cinta e il
primo decumano nord – posto a conclusione della zona di Comando, di cui la Manica nuova costituisce l’ultimo tassello
monumentale. Posizione evidentemente
decisiva per qualunque trasformazione
si intenda immaginare. Poiché l’area appare frantumata in tante specie di spazi,
incongruenti tra loro (piazzali inerbati e a
parcheggio, frammenti di rovine, strade
e stradine), l’orientamento progettuale
ha puntato, al contrario, a una dimensione unitaria, che ricomponga la presenza
dell’antico attraverso un’immagine forte,
riconoscibile. Questa strada ha richiesto
una modificazione profonda del sedime
attuale: la rimozione di tutti i trattamenti di superficie presenti, lo scavo di una
parte del suolo fino alla quota romana,
in modo da far riaffiorare i reperti presenti e il disegno unitario dei suoi confini
su via.
La ricerca di una dimensione unitaria, in
grado di ricomporre la frammentazione
esistente in un’unica immagine dotata
d’identità definita è stata discussa con
le molteplici competenze coinvolte a vario titolo nell’area, mettendo in relazione
valori storici e ragioni funzionali, aspetti
simbolici ed esigenze sociali. Il confronto
con gli uffici tecnici (e, in particolare, con
il responsabile di procedimento, l’architetto Egidio Cupolillo, che ha svolto un
ruolo decisivo per la riuscita del progetto) e con gli uffici dell’urbanistica, la
viabilità, gli assetti proprietari, come con
le Soprintendenze ai Beni architettonici
e ambientali e ai Beni archeologici, ha
permesso di avanzare un’ipotesi di configurazione in grado di offrire un assetto
unitario pur mantenendo le singole specificità dei manufatti.
È stata così individuata un’immagine
condivisa per il Parco archeologico e lo
spazio urbano connesso, che ha permesso di poter procedere successivamente alla definizione progettuale degli
interventi nei singoli ambiti mantenendo
quell’unità di paesaggio che si è inteso
come il valore prioritario da affermare
in questo luogo. La definizione dei confini dell’area del Parco archeologico ha
costituito il primo passo necessario di
una complessa strategia progettuale. La
scelta di estendere i limiti fisici del Parco
archeologico all’intero ambiente compreso tra la Manica nuova di Palazzo
Reale, gli edifici moderni dell’isolato di
Santa Croce, via della Basilica e le mura
seicentesche, risponde all’obiettivo prioritario dell’unità dell’area e della sua
valorizzazione ambientale.
Il progetto, redatto in collaborazione con
l’architetto Paola Giordano del Comune
di Torino, muove dalla considerazione
del dislivello, attualmente di circa quattro metri, esistente tra le quote di piazza
San Giovanni e quelle di corso Regina
Margherita. dislivello che ha il proprio
punto medio alla quota romana di 236,50
m. Scavando fino alla quota romana nel
quadrilatero compreso tra via Porte Palatine, mura romane, vie xx settembre
e della Basilica e, all’inverso, rialzando
la quota di una porzione dell’area tra
le mura romane e il corso, si è ottenuto un unico piano orizzontale che, verso
la città, presenta le tracce riemerse del
sedime romano, mentre fuori le mura
riprende il disegno del preesistente bastione di San Lorenzo e contiene uno
spazio per parcheggi o deposito dei carretti del mercato.
La definizione del nuovo perimetro del
Parco archeologico, che prescinde dal
sedime delle strade esistenti, modifica
sensibilmente il sistema della viabilità
interna ed esterna all’area. I limiti fisici
1
2
3
1, 2, 3 Gabetti e isola, G. durbiano, Parco Archeologico delle torri Palatine, torino, 2003-06.
del Parco sono segnati da quinte naturali
e artificiali che definiscono percettivamente l’intero ambiente. Quinte composte da filari di carpini piramidali e da un
sistema colonnato che, con passi e altezze differenti, circondano l’intera area
archeologica.
Piazza e via. Il disegno della pavimentazione di piazza San Giovanni riprende ed
estende a tutto l’invaso la maglia regolare precedentemente esistente, realizzata
nel 1995, su progetto dell’ufficio Tecnico
Municipale della Città di Torino, sul lato
orientale della piazza, intorno al duomo.
L’estensione del disegno regolare della
pavimentazione esistente, composta da
riquadrature geometriche, contribuisce
così a dare definizione compiuta all’invaso castellamontiano, segnando con
chiarezza il limite tra lo spazio aulico e
concluso della piazza e quello aperto e
naturale del parco archeologico. Via xx
settembre, invece, depotenziata quale
asse viario e ridotta nella sezione stradale, è resa pedonale e percorsa dalle
sole linee tramviarie, assumendo il carattere di “strada delle romanità”, ossia
strada panoramica al di sopra delle rovine e dei resti archeologici.
nel progetto di disegno complessivo per
l’area archeologica, a segnare il filtro
spaziale tra i due differenti ambienti di
piazza San Giovanni e del Parco archeologico, è prevista una quinta alberata giustapposta ad un colonnato che funge anche da recinzione al parco e che riprende
le dimensioni della recinzione del teatro.
Superata la quinta e proseguendo da
piazza San Giovanni verso via xx settembre si rende riconoscibile – esattamente
al contrario di quanto accadeva prima –
l’atto di lasciare alle spalle uno spazio
raccolto, confinato, per inoltrarsi invece
in una spazialità altra: luogo del dialogo a
distanza delle emergenze monumentali.
La via xx settembre mette così in relazione visiva i due invasi archeologici: quello
del teatro e quello della nuova area a lato
delle Porte Palatine, mentre la relazione
fisica tra le due parti avviene tramite un
passaggio trasversale al di sotto della via
stessa.
bastione e mura. All’interno di questo
quadro urbano, il progetto di riproposizione dell’antico bastione svolge un
ruolo strategico. Presentando una suddivisione geometrica precisa del terreno
tra le mura barocche e il corso Regina,
il bastione definisce un’area bassa, alla
107
4
TUTELA E REINVENZIONE
4 Gabetti e isola, G. durbiano, Parco Archeologico
delle torri Palatine, torino, 2003-06.
108
medesima quota del corso, che si pone
in diretta relazione con i giardini sotto le
mura, e un’ area più alta, alla quota archeologica intra moenia, che è costituita
dal bastione stesso.
nella parte bassa viene a costituire un
unico imponente ambiente naturale, di
nuova configurazione. La fascia verde
ai margini delle mura barocche unisce
tutto il sistema monumentale che dalla
Cavallerizza arriva alle Porte Palatine,
restituendo chiarezza alla lettura morfologica dell’insieme. una chiarezza che
è, in primo luogo, percettiva come dimostra la rinomata Veduta di Torino del Bernardo Bellotto dal lato del Bastion Verde
del 1745.
nella parte alta, invece, la cinta muraria
della città barocca esistente viene estesa
anche nell’area rettangolare delimitata
tra la nuova via xx settembre e l’estensione del Cardo Maximus oltre le Porte
Palatine. In questo modo si viene a configurare un grande bastione, della forma
di quello che in quel luogo è esistito fino
alla demolizione avvenuta sotto l’occupazione napoleonica: una presenza fisica
che, anche simbolicamente, evidenzia
il limite tra città antica e moderna, cresciuta oltre il boulevard di corso Regina, a partire dalla fine dell’Ottocento. Il
disegno del bastione riprende il sedime
di quello antico di San Lorenzo, apparte-
nente alla cerchia fortificata seicentesca
e già rappresentato da Amedeo Castellamonte nel suo Progetto del completamento del complesso dei palazzi ducali.
L’antica giacitura contenuta ad occidente
dall’attuale via Porte Palatine si sovrappone oggi all’asse di via xx settembre:
rendendo ancora più evidente la straordinaria stratigrafia di epoche e costruzioni diverse.
entrare in città dalle Porte Palatine. Le
Porte hanno subito nei secoli complesse
stratificazioni, sofferti e discussi interventi di “liberazione” di parti sovrapposte
(1872-1947), integrazioni cospicue, fino a
veder ridotta la forma originaria della
costruzione al semplice diaframma del
fronte attuale.
nonostante ciò, la presenza delle Porte
Palatine, per chi arrivi da nord, è pressoché ancora la stessa immagine del fronte
che, in epoca romana, funzionava come
emblema politico e culturale, come proiezione scenografica sul territorio dei valori della civiltà augustea: come segnale,
strumentalmente intimidatorio, nei confronti delle genti “pacificate”.
Le Porte Palatine rappresentano dunque un’immagine di grande fascino: soprattutto per il loro indiscutibile valore
simbolico, prima ancora che documentale. La qualificazione dell’area ruota,
evidentemente, attorno alla loro presenza. Per questa ragione, il progetto ha
avuto come principale compito quello di
liberarle dalla loro figura di “rotatoria”
aprendole invece all’uso ordinario, libero da parte dei cittadini. In questo senso,
sarebbe stato auspicabile trasformare
la via Porta Palatina da veicolare a pedonale, così da consentire un attraversamento diretto dell’antica Porta. Tuttavia,
ragioni di viabilità generale, hanno sconsigliato questa soluzione, essendo la via
in oggetto l’unico effettivo canale di ingresso veicolare alla città antica.
Oltrepassata la Porta, la strada, sempre pedonale e lastricata alla maniera
romana, prosegue verso mezzogiorno seguendo l’inclinazione altimetrica
dell’attuale via: che, gradualmente, si
solleva dal sedime dell’antica strada romana, fino a raggiungere la quota relativa a piazza iv marzo. due filari continui di
carpini piramidali, posti ai margini della
strada e alternati alle colonne, delimitano la larghezza di quella che era l’antico
Cardo Maximus: da un lato, configurando
l’affaccio verso il giardino archeologico;
dall’altro, ridisegnando il confine orientale del complesso isolato di Santa Croce.
Le Porte Palatine, in tal modo, tornano
a essere ciò che furono: ovvero porte di
accesso. un ritorno allo stato originario,
se così si può dire, che ha soprattutto il
significato di aprire alla frequentazione
dei cittadini uno dei monumenti più mortificati e trascurati; di contrapporre alla
logica della museificazione quella della
vita e del ruolo urbano dei monumenti.
tHe PAlAtiNe toWeRs
ARCHAeoloGY PARK: tHe desiGN
oF AN AGReeMeNt
ABSTRACT
The creation of the Archaeological Park
is part of a general rethinking of the
city’s image. With the election of its new
municipal government and the approval
of the general zoning plan in the 1990s,
Turin is developing an ambitious plan
for the renewal of its historic centre, in
which the recomposition of the urban
sprawl between the Porte Palatine and
the duomo plays a strategic role.
The question of the archaeological area
and its frayed environs stands most of
all as a problem of order among different values: an order that the renewal
project has attempted to recompose
starting from the reading of the existing
structures, from the understanding of
the symbolic hierarchies, and from the
interpretation of the signs – some weak,
some strong – of the historic traces; an
order that must restore the exceptional
stratigraphy of the site, recomposing a
quality of living the place.
The project, planned and built together with Aimaro Isola and Luca Reinerio between 2003 and 2009, is of specific interest because of the particular
strategy adopted in the management of
the project. The Archaeological Park is
the result of an assignment – obtained
through a public competition – for direction, and not for directly planning.
In fact, in its request for proposals, the
Principal – the City of Turin – aware of
the multiplicity of the actors involved in
the transformation of this large (70.000
mq), centrally located, and culturally
strategic urban area, does not request
the drafting of a designer’s work, but
first of all the drafting of an agreement.
The entire planning and design strategy
and the resulting physical outcomes all
stem from this decision. The direction of
the agreement has specific instruments
and specific drawings, which are used
to find points of convergence among the
numerous, more or less institutional,
figures involved in the transformation
(from the archaeological and architectural superintendencies to the bishop,
from the road system experts to the
markets that occupied the area outside
the walls). The project is thus a project
of relationship: a relationship useful for
preventing single elements, albeit in
their own specific relevance, from becoming isolated fragments, detached
from the overall horizon of an understandability. The main goal of the project is thus that of giving the area back
a unitary nature, as an archaeological
garden, but also as a part of the city,
recovering the strategic value that this
place has always had.
109
ROMA
il PARCo liNeARe delle MuRA:
uNA Possibile iNFRAstRuttuRA “veRde”
TUTELA E REINVENZIONE
Alessandra Criconia
110
le Mura: testimonianza urbana e non
soltanto monumento. Il giardino che
corre ai piedi delle Mura Aureliane tra
porta Metronia e porta Latina nel quartiere Appio Latino di Roma costituisce il
primo tratto realizzato del Parco Lineare Integrato delle Mura. Il parco è uno
dei progetti elaborati per gli ambiti di
programmazione strategica del nuovo
Piano Regolatore di Roma, firmato da
Paola falini e Antonino Terranova che
ne hanno curato lo studio insieme ad
un gruppo di ricerca di cui ho fatto parte, tra gli altri, anche io.
Il dato di partenza dello studio, e quindi
del progetto, è stato una diversa considerazione dell’antica cinta delle Mura di
Roma, che nel contesto di una città che
ha raggiunto dimensioni metropolitane,
è stata vista come un elemento urbano
su cui far leva per attivare dei processi
di riqualificazione sostenibile, e non più
soltanto come monumento da preservare e porre sotto tutela. Il prestigio e il
valore simbolico delle Mura sono fuori
di dubbio. Composto da tre parti distinte databili variamente tra l’Età tardo
antica, il Medioevo e il Barocco, l’anello difensivo di Roma, come emerge nei
disegni dell’iconografia antica(figg. 1-4), è
una figura dell’immaginario collettivo
che per secoli ha rappresentato il recinto e il limite di separazione tra città e
campagna. Quando si parla delle Mura
di Roma bisogna precisare che non si fa
riferimento solo alle mura Aureliane (iii
secolo d.C.), ma anche a quelle Vaticane (erette da Papa Leone iv tra l’848 e
l’852 per difendere la Civitas Leoniana) e
a quelle Gianicolensi (costruite da Papa
urbano viii nel 1643 a completamento di
quelle Vaticane).
Con l’espansione urbana, però, le Mura,
che sono tra i pochi manufatti difensivi
antichi a essere sopravvissuti alle demolizioni di fine Ottocento, hanno cambiato statuto e da luogo della frontiera
sono diventate una centralità in stretta
relazione tanto con le strutture primarie della città: sia quelle ambientali del
fiume Tevere, dei parchi archeologici
dell’area centrale e delle ville storiche (villa Borghese, villa Sciarra, villa
Pamphili), sia quelle infrastrutturali
dei tre anelli – ferrovia, circonvallazione tangenziale e gra – e delle antiche
vie consolari), sia infine con i quartieri e
i tessuti urbani di prossimità. Ma il pregio delle Mura di Roma non è soltanto
il valore urbano acquisito. La cinta muraria è anche un enorme manufatto architettonico di circa 19 km che ingloba
nel suo perimetro altri manufatti come
la Piramide di Caio Cestio, il bastione
di Sangallo, l’anfiteatro Castrense, un
pezzo dell’acquedotto Claudio, le caserme del Castro Pretorio, i giardini di
Villa Medici. Essa lambisce lungo il suo
percorso dei luoghi straordinari come
il mercato di porta Portese, il foro Boario e il monte Testaccio, le terme di
Caracalla e numerosi altri.
In tal senso le Mura di Roma hanno
assunto un nuovo e diverso significato:
oltre ad essere un monumento da conservare, esse sono un fatto urbano che
documenta la dialettica dello sviluppo
della città, rivelando la co-esistenza di
diverse formae urbis, da quelle ordinate e compatte dei quartieri post-unitari
dell’arco nord, a quelle più eteroge-
nee degli insediamenti dell’arco sud,
segnato dal passaggio dell’anello ferroviario e dal grande cuneo del parco
dell’Appia Antica che costituiscono due
fattori di forte discontinuità. Alla luce
di queste considerazioni, il progetto
del Parco Lineare Integrato delle Mura
ha inteso combinare la tutela del monumento storico con l’uso attivo della
preesistenza in una prospettiva di valorizzazione e riqualificazione sostenibile
della città. Ripristinando la continuità
delle Mura con un percorso pedonale
e ciclabile anulare, quei luoghi antichi
e moderni che rivestono un forte significato per l’identità della città ma che
ora sono dispersi, tornano a essere
riuniti in una stessa geografia urbana,
diventando fruibili alla cittadinanza. Il
Parco Lineare Integrato delle Mura si
configura cioè come una nuova infrastruttura di tipo lento – slow – a carattere storico-ambientale con funzione di
riconnessione e ricucitura dei quartieri
del centro della città (fig. 5).
invaso e ambito di programmazione strategica delle Mura. Cambiando
dunque il punto di vista e assumendo
l’anello delle Mura di Roma come elemento strutturante di una “passeggiata
lungomura” interna alla città, lo studio
dell’ambito strategico della Mura si
è dato tre obiettivi: 1. restituire nuove
funzioni e identità ad un manufatto eccezionale con valore storico e specifiche qualità architettoniche, ma trascurato; 2. recuperare le aree degradate
e i manufatti dismessi adiacenti alle
Mura per costituire un pomerio moderno; 3. valorizzare la permeabilità della
cinta muraria nei punti delle porte urbiche per favorire gli attraversamenti e
gli accessi alle aree archeologiche, ai
parchi e ville storiche e ai quartieri che
gravitano intorno alle Mura. In sostanza la passeggiata lungomura acquista
lo spessore di un’articolata rete di percorsi ciclopedonali intra-extra moenia
che integra l’armatura esistente con
una mobilità alternativa nel centro città
e organizza un sistema di “isole” cioè di
luoghi significativi lungo il tragitto che
diventano i punti di addensamento delle
attività del Parco Lineare Integrato.
1
Processo e metodologia progettuali.
fatte queste premesse, presupposto
imprescindibile del progetto è stata la
definizione dell’invaso delle Mura, a
cui si è giunti attraverso l’elaborazione
di due carte: la carta delle risorse che
è servita a identificare i vuoti, gli spazi
inedificati e di risulta, gli insediamenti abbandonati e dismessi insieme alle
aree in uso e ai regimi proprietari; la
carta degli obiettivi che, facendo fede
sulle informazioni scaturite dalle risorse, ha definito le potenzialità e il grado
di trasformazione dei luoghi ai fini di un
potenziamento funzionale delle Mura e
di un innalzamento della fruibilità percettiva e abitativa del complesso degli
spazi e dei quartieri circostanti.
La definizione dell’invaso ha permesso
di perimetrare l’ambito di programmazione strategica delle Mura e dunque
di identificare l’ordine degli interventi, quello unitario dell’intera cintura e
delle aree di pertinenza per ripristinare la continuità interrotta della Mura
e quello dei progetti localizzati nelle
situazioni urbane complesse per una
trasformazione guidata dei contesti
circostanti alle Mura. È a questo punto
2
3
111
TUTELA E REINVENZIONE
4
112
5
1, 2, 3. 4 iconografia delle Mura di Roma nelle
miniature e nelle carte del Medioevo e del
Rinascimento.
5. Parco lineare integrato delle Mura e progetti
urbani esplorativi.
6 P. Falini, A. terranova, L’invaso delle Mura e
l’individuazione del pomerio moderno. la carta
rappresenta le relazioni tra i sistemi morfologici
primari e l’anello delle Mura.
7 P. Falini, A. terranova, Schema direttore
dell’Ambito strategico Mura.
che sono state poste le basi del progetto del Parco Lineare Integrato nei
termini di un sistema discreto di luoghiprogetto da trasformarsi secondo una
strategia multiscalare articolata in tre
livelli “tematici”. Lo scopo della strategia multiscalare – strategia multilayer
– non è stato quello di dare una forma
prestabilita al parco né di ingessarlo in
un progetto concluso, quanto quello di
individuare gli elementi e le dimensioni degli interventi insieme alle opere
architettoniche necessarie a configurare usi dell’esistente compatibili con
la valorizzazione del manufatto e con
la fruibilità effettiva del parco. Questi
tre livelli non sono un elenco delle fasi
cronologiche del progetto, quanto una
individuazione delle scale dei progetti e
dunque del loro grado di complessità e
trasformabilità dei contesti.
6
Il livello 1 riguarda il progetto del suolo
cioè il “basamento a cubatura zero” delle Mura. È il livello a scala urbana costituito dal progetto unitario di un parterre verde disteso ai piedi del manufatto
come una sorta di tappeto, affiancato o
attraversato, a seconda dei casi, da una
rete di percorsi pedonali, piste ciclabili, punteggiato da aree attrezzate per la
sosta, il gioco e lo sport e da giardini di
quartiere. Si tratta del livello dell’opera
pubblica integrato di recupero e valorizzazione del monumento: il tappeto verde
ai piedi della cinta muraria ha anche lo
scopo di creare una fascia di salvaguardia a spessore variabile.
Il livello 2 è quello dei progetti urbani
locali riferiti alle aree ad alto tasso di
criticità ma con un’elevata potenzialità
di trasformazione che si trovano lungo
il percorso, lì dove si trovano altri ma-
7
nufatti inglobati o in prossimità degli
accessi ai parchi, alle ville storiche, al
fiume o ai quartieri della movida romana e nei quali si prevede un programma di sviluppo locale per innescare un
cambiamento degli usi e delle pratiche
alla portata dei cittadini.
Il livello 3 infine è quello dei progetti
esplorativi di architettura relativi a interventi di piccola e media scala, circoscritti ad alcuni temi specifici come la
sistemazione di aree per attività legate
al tempo libero e allo spettacolo, la realizzazione di piattaforme multifunzionali per attrezzature di servizio urbano e turistico e il miglioramento delle
condizioni di accesso, di sosta e di informazione, la creazione di strutture di
protezione degli scavi e di spazi per la
raccolta e la conservazione dei reperti
archeologici recuperati, la progettazione di superfici vegetali necessaria alla
riqualificazione degli spazi aperti e alla
riconnessione fra le mura e i contesti
paesistici dei parchi archeologici e delle ville storiche.
I tre livelli della strategia multiscalare
costituiscono la matrice del vero e proprio progetto urbano del Parco Lineare
Integrato che sulla base dell’armatura
della passeggiata lungomura identifica
nelle porte urbane i luoghi-chiave del
progetto. Le porte sono infatti i punti di
maggiore permeabilità del sistema ma
sono anche i punti dove la concentrazione dei flussi e la pressione viabilistica sono maggiori. I nodi delle porte
urbane sono in sostanza i luoghi da cui
partire per rendere possibile il funzionamento di un’infrastruttura “debole”
come quella del parco. Ora, l’analisi dei
contesti urbani ha mostrato un doppio
grado di complessità delle porte: da
una parte ci sono quelle come porta
113
San Paolo, porta San Giovanni, porta
Maggiore, porta del Popolo dove l’intreccio dei flussi è complicato dalla
corrispondenza con stazioni ferroviarie
e della metropolitana e altri dove gli attraversamenti sono lineari e di superficie come nel caso di porta Metronia,
porta san Sebastiano, porta Pia, porta
Pinciana. nei due casi la soluzione delle problematiche urbane è ben diversa,
fatto salvo che il miglioramento delle
connessioni e la collocazione di funzioni centrali, culturali, commerciali e
ricettive in una prospettiva di sostenibilità sociale e economica, vanno di pari
passo.
TUTELA E REINVENZIONE
8
114
8 P. Falini, A. terranova, il tratto del Parco lineare
delle mura Aureliane, realizzato tra Porta latina
e Porta Metronia.
A distanza di anni dagli studi per l’Ambito Strategico delle Mura (ne sono passati ormai più di dieci), il Parco Lineare
Integrato delle Mura appare ancora
ciò che a Roma non c’è ma dovrebbe
esserci. Anzi, con il passare del tempo e di fronte alle sfide ambientali che
è sempre più urgente raccogliere, la
speranza è quella che il tratto realizzato tra porta Metronia e porta Latina
possa essere il primo tassello del progetto di richiusura dell’anello e della
passeggiata lungomura, magari arricchita della possibilità di un camminamento in quota, lì dove possibile, per
godere di nuovi punti di vista della città
e del parco dell’Appia Antica sullo sfondo del vulcano laziale.
tHe liNeAR PARK oF tHe
WAlls: A PoteNtiAl “GReeN”
iNFRAstRuCtuRe
ABSTRACT
In Rome’s new Piano Regolatore urban
development plan, the Aurelian Walls
are a sphere of strategic planning aimed
at creating a “green belt” inside the city.
With the expansion of the urban area,
the Aurelian Walls are no longer simply
a monument worth preserving and protecting; they have now acquired the value of an urban object that should be focused on in order to activate processes
involving sustainable regeneration. As
regards this aspect, the creation of the
Aurelian Walls Linear Park, featuring a
20-km footpath and cycle path, would
help build a new relationship between
the city and the districts that lie in the
vicinity of the Walls and, at the same
time, would allow us to link up ancient
and modern sites such as the forum
Boarium and Monte Testaccio, the Sangallo Bastion, the Amphitheatrum Castrense, the aqueducts of Porta Maggiore and the Baths of Caracalla gardens,
currently scattered throughout the area.
Given such considerations, the strategic plans for the Walls as indicated in
Rome’s urban development plan have
two objectives: 1) to restore a function
and a new identity to an artefact of enormous symbolic value that has, however,
been neglected and forgotten; 2) to define a layout for the Walls in line with a
plan conceived on three levels:
– a level featuring a linear park, made
up of a green belt of varying width based
on the particular building involved, within or outside of the walls, flanked or
crossed by a network of footpaths, cycle paths and areas specially equipped
as car parks, playgrounds and sports
facilities;
– a level featuring local urban plans focusing on complex and highly symbolic
junctions that offer enormous potential
for change, despite their particularly
challenging nature;
– a level of exploratory architectural projects involving small- to medium-scale
improvements to leisure areas, cultural
centres and theatres, urban and tourism
services, protective barriers put in place
around stratigraphic excavations and
venues set up to collect and preserve
any archaeological artefacts discovered.
On the basis of this rationale, the stretch
of linear park that includes the walls
between Porta Metronia and Via numidia is the first part of a more complicated and complex project that should
run along the entire length of the Walls,
closing the circle, in order to become a
true linear park.
115
MARGINI E MARGINALITÀ
116
Margini e MarginaliTà
MARGINS AND MARGINALITY
a cura di edited by Marcello Barbanera
117
osseRvAZioNi MARGiNAli sul destiNo deGli ediFiCi
ANtiCHi iN RAPPoRto AllA ModeRNità
Marcello Barbanera
Memoria e progresso. Il 7 dicembre 1835, una locomotiva Adler conduceva a 35 km
orari alcuni vagoni sulla prima linea ferroviaria aperta in Germania tra norinberga e
fürth. A bordo c’erano duecento fortunati passeggeri, tra cui il poeta e scrittore Joseph von Eichendorff. Von Eichendorff fissò quell’esperienza in alcune pagine autobiografiche1. Guardando fuori dal finestrino, lo scrittore scorse una rovina nel bosco
e si informò presso i compagni di viaggio a cosa essa appartenesse. nessuno seppe
spiegarglielo, ma una emancipata signora berlinese commentò che per interessarsi
alle rovine avrebbe senz’altro dovuto essere l’ultimo dei romantici, che di fronte al
progresso preferirebbe rifugiarsi nella foresta vergine. Von Eichendorff scese alla
stazione più vicina e subito si precipitò a chiedere informazioni per raggiungere la
rovina: nel clima concitato della stazione, avrebbe potuto essere facilmente ragguagliato sull’ora in cui giungere a Parigi o Trieste, ma nessuno gli seppe dare la benché
minima informazione su come ritrovare la strada che conduceva all’edificio diroccato, scorto dal finestrino. nell’epoca dell’industrializzazione, il capostazione conosce
a memoria l’orario dei treni, è padrone del tempo presente ma non è responsabile
per il tempo della storia2. Eichendorff comprende che il sorgere di una nuova consapevolezza del tempo, legata al progresso scientifico e tecnologico, contribuisce
a scalzare il ricordo locale e la memoria storica, tuttavia la sua reazione dimostra
anche che la rovina, proprio in virtù di questa accelerazione temporale, diventa l’ancora della memoria e perciò suscita un rinnovato interesse per il passato. Eichendorff vive in piena età romantica, quando le rovine escono dalla loro dimensione
oracolare. Ispiratrici di riflessioni sui mali della tirannide per Volney3, ad esempio, o
evocatrici di potente visionarietà nelle incisioni di Piranesi, fanno ora il loro ingresso
nell’ambito della scienza archeologica: il paesaggio di rovine è destinato a cambiare,
perché gli scavi spezzano l’incanto dell’edificio delabré che aveva alimentato tante
rêveries romantiche.
pp. 116-117 M. barosso, Resti di elefante preistorico
rinvenuti durante lo scavo della collina della velia,
1932.
1 A. Rossi, Studio per Mantova, 1981.
(© Eredi Aldo Rossi, courtesy fondazione Aldo Rossi)
119
1 J. von Eichendorff, Aus dem Leben eines
Taugenichts, Vereinsbuchhandlung, Berlin 1826.
2 A. Assmann, M. Gomille, G. Rippl (a cura di),
Ruinenbilder, fink, München 2002, p. 8.
3 C.-f. Volney, Les ruines: ou méditations sur les
révolutions des empires, Bossange frères, Paris
1826.
Paesaggi con rovine e rovina del paesaggio. negli anni ’20 del xx secolo, lo scrittore Louis Bertrand si lanciò in una requisitoria contro i mali causati dagli archeologi
a Atene, Eleusi, Micene, responsabili di aver cancellato le ragioni stesse del viaggio
in Grecia:
MARGINI E MARGINALITÀ
Perché la scienza è come le cavallette. dovunque essa passi non lascia che uno scheletro. Vuota le tombe, distacca i bassorilievi, imballa le statue per inviarli in musei lontani,
deteriora gli affreschi con reagenti chimici, per disegnarli o fotografarli più agevolmente.
non resta nulla da spigolare dietro […] la triste carcassa che essa abbandona, dopo aver
fatto il suo bottino. […] È un brutto scherzo di invitarci davanti a frammenti di mattoni o di
calcinacci, radici di muri, fossati e buchi con il pretesto che vi era, in questo posto, una città
o un monumento illustre4.
120
4 L. Bertrand, La Grèce du soleil et du paysage, fayard,
Paris 1927 p. 182.
5 Sullo sviluppo che poi il concetto di paesaggio
e l’osservazione estetica della natura hanno da
questo momento cfr. J. Piepmeier, Das Ende der
ästhetischen Kategorie “Landschaft”, “Westfalische
forschungen”, 30, 1980, pp. 1-46.
6 R. dubbini, Geografie dello sguardo. Visione e
paesaggio in età moderna, Einaudi, Torino 1994, pp.
66-89.
7 L. Trepl, Ökologie als konservative Naturwissenschaft.
Von der schönen Landschaft zum funktionierenden
Ökosystem, “urbs et regio”, 65, pp. 467-492.
8 Tra l’abbondante bibliografia indichiamo un
recente volume eccellentemente documentato: R.
Zimmermann, Künstliche Ruinen: Studien zu ihrer
Bedeutung und Form, Reichert, Wiesbaden 1989;
cfr. anche A. Siegmund, Die romantische Ruine im
Landschaftgarten. Ein Beitrag zum Verhältnis der
Romantik zu Barock und Klassik, Königshausen &
neumann, Würzburg 2002.
9 una delle più suggestive ricreazioni di questo spirito
nell’arte contemporanea si può vedere nel film Barry
Lindon di Stanley Kubrick.
10 T. Whately, L’art de former les jardins modernes, ou
l’art des jardins anglois, Paris 1771, pp. 172-179.
11 Ivi, p. 173.
12 Vasari, nelle Vite, menziona quella che sarebbe la
prima rovina artificiale, fatta costruire da Bartolomeo
Genga per il duca di urbino all’inizio del xvi secolo; cfr.
A. Pinelli, O. Rossi, Genga architetto: aspetti della
cultura urbinate del primo ’500, Bulzoni, Roma 1971.
di queste “nuove rovine” create artificialmente dagli scavi archeologici ci occuperemo in seguito. dovendoci occupare di paesaggi però, vorrei prima richiamare
l’attenzione su un fenomeno che si manifesta nel xviii secolo: le rovine iniziano a
scendere dalle tele per concretizzarsi nello spazio dove ora si intrecciano le flâneries
philosophiques: il giardino. Questo fatto non si sarebbe verificato senza la disposizione che l’uomo del ’700 ebbe verso la natura, dovuta alla maggiore capacità di comprenderne le leggi e che consentì anche di sviluppare una diversa attitudine estetica
verso di essa e nei confronti del paesaggio5. Il sorgere di uno “sguardo paesaggistico” è un fenomeno che si può comprendere soltanto in relazione al cambiamento del
rapporto uomo-natura, ora fortemente determinato sia dalle nuove condizioni del
lavoro sia dalle osservazioni scientifiche che vanno smantellando il concetto di natura come creazione divina e quindi come totalità6. Paradossalmente però il vecchio
concetto di natura come totalità andava ricostituendosi sotto una nuova immagine,
quella di oggetto estetico7. In questo contesto si crearono le condizioni perché le
rovine divenissero elemento ornamentale nei parchi8. Il giardino del xviii secolo è un
microcosmo geografico, storico e culturale inserito nella natura9, in cui la flanêrie
è una vera e propria arte e l’artificio è ovunque, ma dissimulato. nel 1770, sir Thomas Whately, già Segretario di Stato dell’Inghilterra, pubblicò un trattato sull’arte
dei giardini, dove volle codificare le esperienze di questa attività. Whately dedicò
un’attenzione particolare alle rovine come elementi architettonici da inserire nel paesaggio10, affermando che il loro effetto è proprio stimolare l’immaginazione al di là
di ciò che si vede, cosa che non accadrebbe se gli edifici fossero interi, quindi non si
tratta di un godimento immediato ma di un piacere che scaturisce da una relazione
che solo l’intelligenza è in grado di stabilire11. nasce o rinasce12 la rovina artificiale,
espressione di un gusto raffinato, lontano dalla volgarità, che l’architetto dei giardini
dispone lungo percorsi immaginati da committenti aristocratici e amanti del bello
per stimolare la loro immaginazione, la loro riflessione filosofica.
La rovina artificiale è una contraddizione in termini. normalmente si costruiscono edifici per durare, mentre le rovine sono costruzioni che rivelano il passaggio
del tempo, trasformato così in artista: l’architetto imita il lavoro della natura, ma
questa deve completare il processo di decadenza. Passato, futuro, presente sono
ormai concetti illusori perché le rovine artificiali rappresentano allo stesso tempo
monumenti al passato e una complessa e ironica meditazione su di esso. Si comprende pertanto come presto l’urgenza estetica poté scivolare nella moda con la
conseguenza che la rovina divenne un mero oggetto di arredo. Si cominciò con il
distinguere tra “paysages philosophiques” che servono a ispirare l’animo e “paysages pittoresques” concepiti per il puro piacere dell’occhio, come consigliava René
de Girardin nel suo trattato De la composition des paysages sur le terrain13 (1777).
Costui mise in pratica i suoi propositi, facendo costruire il parco d’Ermenonville14:
su un’isoletta di pioppi, al centro del lago, Hubert Robert eresse un Temple de la
Philosophie, sul modello del tempietto di Tivoli. Sei colonne superstiti sono dedicate
a altrettanti filosofi, con una parola simbolica: lucem per newton, nil in rebus inane
per Cartesio, ridiculum per Voltaire, naturam per Rousseau, humanitatem per William
Penn e justitiam per Montesquieu. L’edificio fu lasciato appositamente incompiuto,
nell’attesa di un nuovo filosofo, simbolizzato dalla colonna mancante che infatti poggia su una base, ove è apposta l’iscrizione qui hoc perficiet “chi lo completerà?”15.
Sotto auspici diversi fu concepito invece il parco che il conte franz zu Erbach si
fece costruire a Eulbach(fig. 2), nell’Assia, all’inzio del xix secolo16. nel giardino non
furono allestite rovine artificiali, ma resti autentici di un accampamento romano,
il cui insediamento parzialmente era compreso nell’area del parco. L’aristocratico
ne avrebbe voluto fare l’attrazione principale del giardino, ma i resti erano esigui.
fece quindi ricostruire una delle porte dell’accampamento con frammenti presi da
altri settori della costruzione romana. Questa anastilosi ante litteram non fu casuale,
come il conte si premurò di documentare in una pubblicazione dedicata a Eulbach,
né basata su vuote supposizioni ma su indizi comprovati. Lo scopo era fornire una
testimonianza dei resti romani in quest’area, in grado di documentare la storia della
Germania e appagare il gusto di ogni appassionato delle antichità. Il conte di Eulbach
elaborò con questa iniziativa i corretti fondamenti della ricostruzione architettonica
di un edificio antico, con il proposito non solo di offrire un godimento estetico, ma di
saldare la storia moderna del paese a quella passata attraverso la documentazione
tangibile acquisita con metodi archeologici.
L’esempio di Eulbach è utile per riflettere sull’uso e sull’interpretazione delle rovine
in contesti culturali diversi e sul concetto stesso di parco archeologico, che si presenta necessariamente secondo varianti direttamente dipendenti dalla cultura del
paese in cui si trovano. Oltre le Alpi, a parte casi eccezionali, non ci sono esempi
diffusi di edifici antichi, come si possono trovare in Italia, Grecia, Turchia, Libia e altri
paesi del Mediterraneo. Parchi archeologici come quello di Xanten, Carnuntum o
Kempten sono esempi molto distanti da quelli immaginabili per il contesto italiano17.
La documentazione archeologica visibile è esigua, il pubblico non è abituato a vivere
tra e con le rovine come nei paesi sopra menzionati, quindi l’aspetto ricostruttivo,
a scopo didattico, è preponderante e quello di salvaguardia dei resti, presente ma
marginale. Si punta, in questi casi, soprattutto sull’aspetto didattico, immaginando
un viaggio nel passato per una famiglia della middle class. In Italia, al contrario, l’aspetto didattico dei siti archeologici è per lo più carente oppure concepito per addetti
ai lavori, perciò non raggiunge lo scopo di informare.
2
2 Ricostruzione della porta di un posto di difesa
romano nel parco di Eulbach, da A. Rieche, Von
Rom nach Las Vegas. Rekonstruktionen antiker
römischer Architektur, Reimer, berlin 2012.
13 R. de Girardin, in M.H. Conan (a cura di), De la
composition des paysages sur le terrain ou Des moyens
d’embellir la nature près des habitations en joignant
l’agréable à l’utile (1777), Paris 1979.
14 C. Thacker, Die Geschichte der Gärten, Orell fussli,
Zürich 1979. p. 207.
15 M. niedermeier, Die Gärten von Ermenonville,
Pückler-Gesellschaft, Berlin 2007; V. Klein, Der
Temple de la Philosophie moderne in Ermenonville,
Peter Lang, frankfurt a. M. 1996
16 A. Rieche, Von Rom nach Las Vegas.
Rekonstruktionen antiker römischer Architektur, Reimer,
Berlin 2012. pp. 19-24.
17 Su questi tre parchi si veda A. Rieche, Von Rom
nach Las Vegas. RekonstruktionenantikerrömischerAr
chitektur, cit., pp. 133-141.
121
3
MARGINI E MARGINALITÀ
4
122
3 Amelia, stato attuale del crollo di un tratto di
mura.
4 istanbul, resti della curva est dell’ippodromo.
5 Progetto del piano regolatore eseguito da
H. Prost e adottato nel 1938, con zona di protezione
da Haghia sophia ai ss. sergio e bacco (1937 ca.).
Come si è detto, la presenza delle rovine nella cultura dei paesi che sono stati al
centro delle culture antiche con continuità – l’Italia non ha paragoni in questo senso
– pone problemi differenti. Oltre alla salvaguardia degli edifici antichi che sono sempre stati parte dell’iconografia del paesaggio monumentale italiano, vi sono spesso
le rovine riportate alla luce dagli scavi, spesso meno appariscenti ma storicamente significative. diversi sono i problemi che pone un’architettura antica storicizzata
dal tempo da quelli di una riportata alla luce di recente; c’è una questione storicoarcheologica e una architettonica e urbanistica. La soluzione dei problemi non può
essere univoca, perché univoco non è il significato della rovina. È vero che essa è
come una sentinella al confine del tempo, e come tale diventa un’ancora culturale,
custode delle memorie, ma anche essa stessa memoria da custodire e conservare, nel tentativo di opporsi al passaggio del tempo e al senso della fine imminente.
Tuttavia, per quanto riguarda le rovine recenti, non tutte devono e possono essere
conservate. Scelgo un esempio tra innumerevoli, perché mi accade di averlo sotto
gli occhi con continuità. Cinque anni fa circa, nella cittadina umbra di Amelia(fig. 3), si
aprì una breccia nelle mura risalenti al iv secolo a.C. a causa di infiltrazioni idriche.
Il crollo ha messo in luce tracce di un’altra cinta muraria interna e di un’antropizzazione non monumentale di età precedenti. A mio parere, in casi analoghi un bravo
amministratore del patrimonio deve saper subito valutare l’intervento più idoneo
nel contesto specifico. Il responsabile che propone la conservazione a vista dei resti
rinvenuti non agisce necessariamente bene dal punto di vista culturale, se non è in
grado di prevedere e garantire il restauro e la conservazione delle testimonianze
materiali rinvenute, restituendole alla comunità. Per la copertura dell’area del crollo delle mura amerine, è stata eretta una struttura elefantiaca che deturpa le mura
stesse e la percezione della città, per di più a costi elevatissimi. nel frattempo, gli
elementi antichi messi in luce, ricoperti dalle erbacce, non sono accessibili e non
sono stati oggetto di pubblicazione scientifica. Tutt’intorno restano i tubi arrugginiti delle impalcature. Lo scopo era musealizzare i nuovi ritrovamenti, ma non si è
tenuto conto che non sempre lo si può fare e non sempre è necessario. nel caso di
Amelia si sarebbe dovuto indagare, pubblicare presto i dati e ricostruire le mura,
lasciando un segno dell’accaduto. Questo esempio, ripeto uno dei molteplici che si
possono registrare sul territorio del nostro paese, dimostra come la conservazione
delle testimonianze antiche in un tessuto urbano moderno non è di per sé un’azione
virtuosa, anzi si può trasformare in un intervento deleterio per il paesaggio e per la
cultura del luogo. La conservazione del nostro passato, fondamentale per la nostra
definizione, non dovrebbe andare contro le esigenze del presente, a detrimento dello
spazio urbanizzato in cui viviamo. nel momento in cui viene imposta una gerarchia
culturale in cui le testimonianze del passato vengono usate per esercitare violenza
sul presente, credo che il rapporto tra antico e moderno sia posto in maniera errata.
due casi esemplari: Roma e istanbul. Consideriamo ora casi più complessi. Paragoniamo il destino delle rovine di Roma e di Istanbul. Quando oggi si arriva a Istanbul e, superato lo stordimento iniziale del caos della città, si comincia a cercare le
tracce del passato, si ha la stessa sensazione che in Italia si prova a Palermo, o
napoli per esempio: città regali, la cui magnificenza dobbiamo immaginare dai resti
imponenti, isolati nel panorama della triviale architettura moderna. Paragonata a
Roma, Costantinopoli è povera di vestigia antiche conservate: un acquedotto, alcune
colonne onorarie, l’ippodromo. Con la chiesa di Haghia Sophia e i palazzi imperiali
bizantini, l’ippodromo – di cui restano elementi della spina e la forma generale – costituisce l’elemento più coerente, nella Punta del Serraglio.
Sarebbe vano cercare le tracce del cuore della capitale di Costantino sulla spianata dell’ippodromo. Bisogna spingersi oltre, allontanarsi dall’obelisco di Teodosio e
scendere giù per una scarpata, dove in genere, tra i rifiuti, razzolano cani randagi(fig.
4)
. Alzando lo sguardo, improvvisamente si eleva l’immensa curva dell’ippodromo.
Sono i resti di una città imperiale che si immagina grandiosa e magnifica. Le rovine
di Istanbul sono potenti, soverchianti, perché, come quelle di Roma fino a due secoli
fa, esistono in simbiosi con la città. La loro condizione racchiude un’ambivalenza:
l’assenza di protezione le rende presenze vitali, non mummificate, ma ne determina
anche un rapido deterioramento. Per esempio, dov’era un tempo la spina dell’ippodromo c’è una piccola buca, un margine – inconsistente tentativo di protezione – ove
è conservato un frammento di bronzo di valore straordinario. È ciò che resta di una
delle spire serpentiformi che reggevano un calderone eretto a delfi per la vittoria
di Platea del 479 a.C. Sembra che nessuno vi faccia caso. In un paese europeo si
sarebbe certi di trovarsi di fronte a una copia, e l’originale sarebbe custodito nel locale museo archeologico. A Istanbul no, si trova al centro di una buca cui i visitatori
danno un’occhiata distratta. Eppure quell’apparentemente anonimo frammento di
bronzo ci riconduce a uno degli immaginari più suggestivi connesso con uno scontro
bellico: il conflitto tra Greci e Persiani a Salamina (480 a.C.) e Platea. negli anni ’30
del secolo scorso la municipalità di Istanbul aveva tentato di dare un piano regolatore alla città18. Contattò l’urbanista Alfred Agache, che, ponendosi il problema di una
città moderna dal grande passato storico, volle definire le zone archeologiche scavate e non scavate per conservarle e valorizzarle nell’interesse del turista e dello
studioso. Previde l’apertura di passeggiate archeologiche e di un’area archeologica
tra la Punta del Serraglio, l’ippodromo e i Santi Sergio e Bacco, integrando i palazzi
imperiali. Concepì una prima zona di protezione storica, estesa fino alla moschea
del Sultano Selim, completata da una seconda che avrebbe compreso il Corno d’Oro e il mar di Marmara (fig. 5). Il progetto non fu mai portato a termine. Il municipio
della città e le autorità archeologiche permisero di ricostruire sull’area dei palazzi
bizantini, nonostante fosse stata già dichiarata zona archeologica. A Roma furono
messe in atto misure di conservazione dei monumenti antichi fin dal xvi secolo19. I
primi scavi significativi si datano però all’inizio del xix secolo, con l’intervento nel
Colosseo durante l’occupazione francese. Alla metà del secolo Luigi Canina portò
parzialmente alla luce la basilica Giulia e fece saggi attorno alla colonna di foca e
alle tre colonne del Tempio dei Castori. Quando i Piemontesi arrivarono a Roma nel
1870, il foro romano si presentava come era apparso per secoli ai viaggiatori: con le
file degli alberi tra l’arco di Settimio Severo e quello di Tito che erano stati piantati
per l’ingresso trionfale di Carlo v nel 1536; vi erano poi granai, mulini, chiese, case
5
123
18 Sull’argomento si veda P. Pinon, Il progetto di Henri
Prost e Albert Gabriel per un parco archeologico sul sito
dei palazzi imperiali e dell’ippodromo di Costantinopoli
(1936-1950), in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti.
Metamorfosi delle rovine e identità culturale, Bollati
Boringhieri, Torino 2009.
19 M. Barbanera, Metamorfosi delle rovine, Electa,
Milano 2013.
MARGINI E MARGINALITÀ
124
20 M. Barbanera, L’antichità reinventata. Le rovine di
Roma come immagine del regno d’Italia, in A. Capoferro,
L. d’Amelio, S. Renzetti (a cura di), Dall’Italia. Omaggio
a Barbro Santillo Frizell, Polistampa, firenze 2013.
21 Sul tema, in senso ampio, A. Ricci, Attorno alla nuda
pietra, donzelli, Roma 2006.
22 Il tema è stato adeguatamente trattato in T. Kirk,
Ritagliare un margine: siti archeologici e città che vivono,
in M. Barbanera (a cura di), Relitti riletti, cit.
e giardini. dopo la presa di Roma, il nuovo governo ebbe il compito di gestire il corpo
maestoso delle rovine già visibili e lo scavo di complessi monumentali antichi nel
cuore della città20.
Il recupero dei monumenti, attraverso il restauro e gli scavi, avrebbe fornito un modello per il paese unificato, pronto a farsi moderno sulla base della tradizione, sbarazzandosi dell’ingombrante eredità dello Stato pontificio. Sembrò opportuno isolare i resti dell’antica Roma – tangibili artefatti di un’epoca gloriosa – dalle aggiunte
posteriori, considerate prive di valore, riportandoli alla loro presunta forma originale. una tale procedura nei confronti dei monumenti antichi non era nuova, ricalcava
i progetti dell’età napoleonica di Luigi Valadier secondo i quali si intendeva isolare il
Pantheon, la fontana di Trevi, l’arco di Tito e la colonna di Traiano: questi ultimi due
progetti furono poi realizzati sotto Pio vii. Isolando i monumenti dai loro contesti, gli
archeologi volevano equipararli a oggetti esposti in “un vasto e pubblico museo che
ognuno arriverà ad ammirare”21. Gli scavi nel foro furono iniziati. Con tre campagne, svolte nell’arco di un trentennio, l’area venne scavata e i monumenti restaurati,
dando al complesso monumentale l’aspetto che in gran parte ancora presenta. Alla
fine, l’area scavata del foro romano fu più che raddoppiata e la sua connessione con
le rovine antiche sul Palatino ripristinata. L’immagine attuale della Roma imperiale
fu completata dai brutali interventi voluti da Mussolini a partire dalla fine degli anni
’20. Le rovine furono utilizzate come significativi punti focali e fondali simbolici. La
conseguenza fu l’irreparabile distruzione di tanti dati archeologici, testimonianze
e addirittura interi edifici, causata in parte dalla concentrazione ideologica sull’età imperiale, ma soprattutto dalle enormi pressioni esercitate sugli archeologi per
accelerare i lavori. nel dopoguerra, l’isolamento fisico e ideologico dei monumenti
antichi rispetto al più ampio contesto urbano è ormai completo. Lo sviluppo dell’archeologia stratigrafica e il conseguente interesse per la più ampia documentazione
degli strati della storia di Roma hanno ampliato e complicato il problema. Gli scavi
recenti in occasione del Giubileo hanno fatto emergere alcuni ritrovamenti preziosi
e altri di scarso interesse visivo.
Concepiti come un work in progress, in continuo mutamento, numerosi margini nella
città ci conducono attraverso le varie stratificazioni, più o meno leggibili, più o meno
interessanti22: “Il margine di uno scavo archeologico è un segno denso di significati.
delimita il campo di indagine e lo isola perché possa essere esaminato con attenzione. I limiti prescelti forniscono una cornice spaziale che dà forma al sito con un
contorno coerente, come la cornice di un quadro, adeguato alle esigenze dell’oggetto investigato o ai vincoli dell’ambiente circostante. Il margine stabilisce un rapporto
tra osservatore e oggetto osservato, circoscrivendo allo stesso tempo una distanza
da rispettare. Stabilisce un rapporto tra sotto e sopra, tra il passato ricostruito e
l’attuale contesto urbano circostante, in evoluzione, come una soglia attraverso cui
possiamo scendere dal presente verso il passato. da questo punto di vista si tratta
di una demarcazione ponderata e particolarmente moderna della nozione di tempo
costruito nello spazio. Può essere una grande scalinata o un rozzo muro di contenimento con una scala a pioli, un pendio erboso o un’orribile inferriata metallica:
il margine di un sito archeologico ritagliato nella città viva implicherà sempre un
rapporto, vuoi coltivato con cura, vuoi ignorato con irresponsabilità. Proprio come
un’interfaccia, il tipo di margine scelto per un sito archeologico in una città viva coinvolgerà sempre la società, al di là dei semplici confini della disciplina scientifica. Per
l’archeologia la sfida consiste nel fare i conti con le discipline vicine, per ridefinirsi in
rapporto alle problematiche della città contemporanea e dar voce a questo rapporto
con un margine adeguato e significativo”23. Il margine non è un recinto, ma comunica
il concetto di una delimitazione dovuta anche a un semplice cambiamento di livello.
Il mausoleo di Augusto(fig. 6), privato delle stratificazioni architettoniche che nel corso
del tempo ne avevano fatto un eccellente Auditorium, venne ridotto a una misera
carcassa e isolato dalla città: un’operazione cui ancora oggi si sta tentando di porre
rimedio. Ritagliare un margine suggerisce l’idea dell’incisione, di tipo chirurgico.
Il tessuto urbano delle città storiche è un corpo vivo in cui si affonda spesso di necessità il bisturi: per una conduttura, le linee della metro, operazioni necessarie al
funzionamento del corpo, tuttavia non meno importante è il corpo come deposito
dei resti fisici del passato, complicato e fragile. L’azione dell’archeologia è invasiva:
incidiamo, estraiamo e tentiamo, con un trapianto, di rimettere in funzione organi
vitali, ossia la memoria culturale collettiva. La pratica archeologica consiste nella
ricerca di artefatti e immagini attorno ai quali far coagulare nozioni che riguardano
la nostra eredità culturale. Questo comporta di necessità l’eliminazione di altri artefatti e immagini, la selezione e la cura delle memorie.
nell’ultimo decennio a Roma sono state condotte intense campagne di scavo che
hanno mutato il volto dell’area tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci; altre, collegate alla linea C della metro, hanno riportato alla luce resti di edifici di importanza
primaria. Sarebbe opportuno, prima di rendere definitivi questi segni nel paesaggio
urbano, affrontare alcuni problemi: quale rapporto si vuole stabilire tra l’archeologia e il pubblico contemporaneo ai margini dell’area scavata? Come organizzare
il margine tra passato e presente e preservare memoria e funzionalità della città
contemporanea? Il margine va sempre mantenuto anche in presenza di testimonianze marginali? Penso di no. La pratica di scavare gli edifici antichi, per riportarli
al loro livello originario, comune nell’Ottocento e rafforzata durante gli sventramenti del ventennio fascista, è basata su un equivoco: far diventare il monumento
fulcro dell’azione e dell’osservazione e non considerarlo parte di una pluristratificazione storica, architettonica e urbanistica. La separazione del monumento dal
suo contesto lo priva dei suoi gangli vitali, come un albero cui fossero tagliati i rami,
lasciandolo con le sembianze di un tronco. Ho già accennato al Mausoleo di Augusto, letteralmente strappato dalle sue radici architettoniche e dal tessuto urbano
sviluppatosi nel corso del tempo, sprofondato in un limbo astorico e proiettato su un
fondale di arrogante retorica24.
Superata la fase della romanità imposta a colpi di piccone e restauri magniloquenti,
dal dopoguerra si impose un rapporto dialettico tra i resti romani e il tessuto urbano
moderno. Può trattarsi di monumenti preesistenti, di cui si indaga il nesso con il
tessuto urbano antico tramite sondaggi limitati, oppure di edifici riportati alla luce in
seguito a scavi più estesi, talvolta casuali, talvolta mirati, all’interno delle città. I casi
sono innumerevoli, ma presentano problemi analoghi.
6
6 Roma, lavori di smantellamento dell’Auditorium
nel Mausoleo di Augusto.
125
23 Ivi, p. 217.
24 f. Betti, A.M. d’Amelio, R. Leone, A. Margiotta
(a cura di), Mausoleo di Augusto. Demolizioni e scavi.
Fotografie 1928/1941, Electa, Milano 2012.
MARGINI E MARGINALITÀ
126
25 M. Barbanera, Architetture romane in Italia nel
contesto delle città moderne, in P. Zanker, H. von
Hesberg (a cura di), Architettura romana. Le città in
Italia, Electa, Milano 2012, pp. 154-172.
26 Ibid.
le cicatrici nel corpo della città. A Verona, per esempio, accanto alla c.d. Porta dei
Leoni, sotto via dei Leoni, sono venuti alla luce altri resti del monumento25: parte del
muro laterale (con l’attacco alle mura cittadine), frammenti della pavimentazione della corte interna e i basamenti delle grandi torri (uno lasciato a cielo aperto, l’altro
conservato nelle cantine di un edificio nei pressi). I resti dei torrioni, artisticamente
allestiti, sono visibili attraverso un taglio nel lastricato stradale. L’intento nasce come
reazione agli interventi archeologici prebellici, in cui si imponeva una visione unica
del monumento, privato del proprio contesto e della continuità e complessità storica.
Scendere nelle viscere della città moderna, per conoscere le radici di un monumento, è operazione giustificabile, ma bisogna chiedersi se lasciare in bella vista queste
viscere sia necessario. Gli squarci che si aprono nelle città danno l’impressione di un
corpo aperto da un taglio di bisturi e non richiuso, con gli organi visibili. Vi è un problema di manutenzione delle strutture lasciate in vista, quando non sono protette, si
pone una questione di estetica architettonica. La stratificazione storica che si legge
nella sovrapposizione dei diversi stili architettonici, nella giustapposizione degli edifici
e nella sovrapposizione dei livelli, è un processo lento, al quale si devono i magnifici
e incomparabili palinsesti architettonici e urbanistici che solo in Italia sono visibili. Le
differenze di livello sono anch’esse un contesto: il fatto che il livello di calpestio attuale
presso la Porta dei Leoni, parta da mezzo fornice, è naturalmente il risultato di una
stratificazione definibile come un contesto e come tale conservabile.
Ho accennato alla protezione dei lacerti di edifici riportati alla luce con gli scavi. In
taluni casi il tema è stato posto e il rudere è stato collocato in vetrina.
La cittadina di Atri, in Abruzzo, ha una magnifica cattedrale, costruita tra la seconda
metà del xiii e i primi anni del xiv secolo26. durante gli anni ’80, nella piazza antistante
la cattedrale, furono messi in luce i resti di un impianto termale. La Soprintendenza
decise allora di musealizzare le rovine piuttosto modeste, anche se scientificamente
rilevanti, su un’area di circa 100 mq. In un contesto monumentale pregevole si volle
raccordare la piazza alla quota minima antica tramite una rampa ortogonale rispetto alla facciata. Le strutture antiche, perduta ogni sorta di protezione, furono poste
entro teche di vetro, aperte su una pavimentazione in pietra serena e raccordate con
un muro continuo che circonda l’intera area.
Le teche sono un oggetto invasivo e richiedono una manutenzione continua: l’interno,
sottoposto a irraggiamento solare, produce l’effetto serra, in cui è favorita la crescita
di vegetazione che, fatalmente, attacca e danneggia le strutture esposte. dal punto di
vista estetico, l’effetto è palese: le teche, così come il resto dell’intervento, risentono del gusto architettonico dell’epoca che, osservato oggi, appare irrimediabilmente
datato e stridente. Circa un decennio fa, la Soprintendenza archeologica ha deciso di
eliminare l’intervento, basilarmente per problemi di manutenzione e di ripristinare la
pavimentazione così com’era. Qual è il problema? La presentazione degli scavi recenti
è una questione di opportunità oppure di segno architettonico, come nei musei con
gli interventi di Carlo Scarpa o di franco Albini, per rimanere tra i casi esemplari? La
stratificazione delle architetture, qualora non visibile naturalmente, deve essere per
forza mostrata, mutando il secolare intreccio spontaneo degli insiemi architettonici
e delle trame urbanistiche delle città moderne? E qualora si decida di presentarla,
come raccordarla al presente? È una controversia insanabile: non ci può essere una
soluzione generale, piuttosto proposte caso per caso. In Italia più che altrove, si pone
continuamente l’urgenza di ricucire un tessuto urbano attorno al corpo maestoso, ma
anche ingombrante, delle rovine storicizzate e degli edifici che vengono riportati alla
luce dagli scavi. La soluzione non può naturalmente risiedere completamente nelle
ragioni di coloro che pongono le questioni dell’archeologia davanti a tutto: le rovine
come l’inconscio – per usare la celebre similitudine di freud – è bene siano riportate
in superficie; la città e l’uomo ne acquisiscono in conoscenza, ma è altresì opportuno
che ciò avvenga in corpi sani – fuori di metafora, il tessuto moderno della città funzionante e un essere umano alla ricerca del proprio equilibrio – altrimenti si avrà l’effetto
di aver scatenato spettri da cui non si è più capaci di liberarsi. Per la città l’acquisizione
di un corpo sano si può soltanto perseguire nel riconoscere le diverse ragioni che il
più delle volte separano invece di unire urbanisti, architetti, archeologi, amministratori, storici dell’arte e del paesaggio. Per altro verso, l’ignoranza dei contesti, siano
essi geografici, storici, archeologici e architettonici, può generare mostruosità come
la nuova copertura della Villa del Casale di Piazza Armerina27 (fig. 7). Il nuovo intervento,
oltre a eliminare il progetto di franco Minissi, inadeguato dal punto di vista tecnico ma
elegante e appropriato come segno architettonico, ha imposto sulla fragile struttura
romana una grottesca struttura di legno e metallo che si caratterizza per la sciattezza
dell’esecuzione e soluzioni spaziali e di illuminazione al limite del ridicolo. forse ancora più grave è il fatto che l’intervento ha oscurato la percezione dell’edificio come
tale per creare una passerella da cui gettare un’occhiata sui mosaici, ormai carne
disossata e separata dal corpo architettonico. La separazione concettuale tra decorazione e spazi è un errore basilare che denota l’ignoranza del monumento su cui si è
intervenuto. Ammetto che di fronte a simili interventi, di fatto irreversibili, ho la tentazione di abbracciare la posizione di John Ruskin, cioè non disturbare il ritmo naturale
del monumento, con la convinzione che il restauro equivale a distruzione, poiché con
l’intervento dell’uomo si rompe l’equilibrio che fa di un oggetto una rovina: “Il vero
significato della parola restauro non è compreso né dal pubblico né da coloro che
sono incaricati di prendersi cura dei monumenti. Ciò significa la più totale distruzione
che gli edifici possono subire: una distruzione di cui non rimangono che resti da poter
rimettere insieme; una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione dell’oggetto
distrutto”28.
Riflessioni sul margine che divide e unisce*. I saggi sono accomunati dal tema del
margine nelle città moderne. Il margine è ambivalente, divide e unisce, rappresentando
il diaframma tramite cui cittadini e visitatori devono rapportarsi ai resti materiali del
passato.
Marco Navarra parte dalla scoperta dell’antichità classica da parte degli architetti del
Rinascimento, che dal mondo antico estrassero un linguaggio nuovo con cui rivitalizzare
l’architettura del loro tempo. Andrea Palladio (1508-1580) tramite la scomposizione e ricomposizione degli elementi architettonici antichi arrivò all’elaborazione di quel linguaggio originale che garantì il successo internazionale del palladianesimo. Similmente, Robert Adam (1728-1792) fece tesoro del suo soggiorno a Spalato, dove riuscì a estrapolare
dalla città contemporanea le strutture dell’antico Palazzo di diocleziano, riproponendone
7
7 Piazza Armerina, villa del Casale, un esempio
della nuova copertura lignea delle strutture
romane.
127
27 Su dibattito si veda A. White, Interpretation and
display of ruins and sites, in J.Ashurst (a cura di),
Conservation of Ruins, Elsevier, Oxford 2007, pp.
247-263.
28 J. Ruskin, The Lamp of Memory, in d.J Rosenberg
(a cura di), The Genius of J.R., Braziller, Boston 1963,
pp. 134-35.
* Testo di Marcello Barbanera e Rachele dubbini.
MARGINI E MARGINALITÀ
128
poi il principio urbanistico nel progetto dell’Adelphi Terrace a Londra. In entrambi i casi lo
studio dei monumenti antichi non servì per riproporre mere ricostruzioni del passato, ma
piuttosto per interrogare il presente e trovare risposte originali a nuovi problemi.
una soluzione univoca al conflitto che per lo più si genera tra le testimonianze del passato, congelate nel tempo, e le città contemporanee, propense allo sviluppo, non esiste.
In una serie di casi esemplari specialisti e amministratori si sono interrogati su questa
relazione difficile, proponendo diverse strategie nel rapporto da stabilire con il passato e
dei metodi da utilizzare per raccontarne la storia. Pedro Mateos Cruz propone di leggere
siti pluristratificati quali Mérida come città patrimonio, in cui passato e futuro si uniscono in un continuum privo di traumi. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria una
vera pianificazione territoriale anche dei territori circostanti l’area urbana, conciliando
la tutela e la bellezza della città con il suo sviluppo. L’idea su cui si basa la pianificazione
territoriale di Mérida è quella dell’integrazione tra il patrimonio archeologico e il tessuto
urbano e sociale di cui fa parte.
A Lubiana il patrimonio archeologico diffuso è ricontestualizzato nell’ambito di un sistema territoriale che permette una comprensione olistica della città, seguendone le principali fasi insediative. Jerneja Batič sottolinea l’importanza della ritrovata accessibilità al
pubblico di tale patrimonio culturale per lo sviluppo sostenibile del centro cittadino, tale
da innescare un processo di rigenerazione urbana e di coesione sociale. Per raggiungere questo scopo fondamentale è stata la costruzione di una rete di moduli informativi
interattivi per la divulgazione dei contenuti culturali al grande pubblico. In tal modo non
solo il patrimonio archeologico di Lubiana è stato integrato nella vita quotidiana della
città, ma si è impiegato al meglio il potenziale turistico del luogo.
diverso è il caso della ricostruzione del centro di Beirut e il problema dell’integrazione
delle testimonianze archeologiche all’interno della nuova città in seguito alla guerra
civile (1975-1990). Mazen Haidar evidenzia come nel progetto ricostruttivo abbia prevalso
una visione museologica del patrimonio storico con uno sfruttamento dell’antichità in
senso ideologico quale unica testimonianza valida della storia locale, come se la stessa
si riducesse a un favoloso passato in nome del quale si è ritenuto lecito sacrificare i
resti delle epoche più recenti. La distanza temporale e affettiva ha permesso infatti al
passato remoto di tornare in auge a scapito di quello recente, più doloroso, così che solo
recentemente i resti della Beirut prebellica, unici veri depositari della storia moderna
del paese, hanno iniziato a partecipare alla ricostruzione del tessuto urbano.
nell’indagine del delicato ruolo dei margini nel rapporto tra archeologia e città moderne
tutti i saggi suggeriscono come al di là del successo dei progetti archeologici, fondamentale nella riappropriazione del passato all’interno di un tessuto urbanizzato è il fattore
sociale, ovvero la necessità sentita da una comunità di conoscere, vivere e tutelare il
proprio patrimonio storico. Così è stato per alcuni grandi architetti del passato, ma funziona ancora oggi nei siti di Merida e Lubiana e lo stesso caso delicato di Beirut conferma
l’importanza di questo fattore. Si è detto che per riportare in superficie le rovine – come
l’inconscio – è necessario un corpo in equilibrio – un tessuto urbano funzionante e un
progetto territoriale intelligente –, ma questa operazione non potrebbe mai avvenire senza il desiderio primario di conoscere sé stessi, condizione necessaria per poter affrontare
al meglio il presente e, ovviamente, il futuro.
The presence of ruins in the culture of countries that were at the centre of ancient
cultures with a certain continuity – and Italy has no peers in this sense – poses
different problems. In addition to protecting the ancient buildings that have always been a part of the iconography of the Italian monumental landscape, there
are often ruins brought to light by excavations, which are often less conspicuous,
but historically significant. The problems posed by an ancient architecture historicized by time are different from those of one recently brought to light; there is a
historical-archaeological question, and an architectural and urban planning one.
The solution of the problems cannot be univocal, because the meaning of the ruin
is not univocal. It’s true that it is like a sentinel at the limit of time, and as such
it becomes a cultural anchor, the holder of memories, itself being a memory to
be kept and protected, in an attempt to resist against the passing of time and the
sense of the end. nevertheless, as far as recent ruins are concerned, not all of
them must or can be preserved.
The preservation of the ancient remains in a modern urban fabric is not, in itself,
a virtuous action; indeed, it may turn into an operation that is deleterious for the
landscape and for the local culture. The preservation of our past, which is fundamental for defining us, should not go against the needs of the present, to the detriment of the urbanized space in which we live. When a cultural hierarchy in which
the remains of the past are used to exercise violence on the present is imposed,
I believe that the relationship between ancient and modern is posed in the wrong
way. Some examples are considered: the so-called Megalithic Walls of Amelia in
umbria, the excavations of the 1930s around the Mausoleum of Augustus, the socalled Porta dei Leoni (Gate of the Lions) in Verona, the piazza of the Cathedral of
Atri in Abruzzo, and the recent roofing of the Villa del Casale in Piazza Armerina.
Where is the problem? Is the presentation of the recent excavations a question
of opportuneness or of architectural sign, like in the museums with the work by
Carlo Scarpa or franco Albini, just to remain among the exemplary cases? Must
the stratification of the architectural structures, if they are not naturally visible,
necessarily be shown, modifying the centuries-old spontaneous interweaving of
the architectural complexes and the urban patterns of the modern cities? And if
one decides to present it, how should it be connected to the present? The controversy is irreconcilable: there can be no general solution, but rather only proposals
made case by case.
MARGiNAl obseRvAtioNs oN tHe
destiNY oF ANCieNt buildiNGs iN
RelAtioN WitH ModeRNitY
ABSTRACT
129
il bAZAR ARCHeoloGiCo1
SCAVARE E dIMEnTICARE: TECnICHE dI InVEnZIOnE PER un’ARCHITETTuRA dELLA CITTÀ
Marco navarra
Il titolo, ripreso da un saggio di Gianni Celati per il primo numero della rivista “Alì Babà”,
vuole suggerire contemporaneamente una condizione e una chiave interpretativa.
Tra il 1968 e il 1972 Italo Calvino, Gianni Celati e Carlo Ginzburg, nel tentativo poi fallito
di dare vita alla rivista, indagano in modo trasversale il legame tra archeologia, cultura e contemporaneità. Il lavorio di preparazione del numero zero, alla ricerca di quel
“qualcosa di più” al di là dei saperi settoriali, si rivela oggi molto fruttuoso e utile per
delineare alcuni segmenti di una genealogia che ricostruisce i modi in cui l’archeologia
è stata usata dagli architetti come uno strumento di invenzione.
Robert Adam e lo scavo archeologico. nel 1754, all’età di ventisei anni, Adam lascia
Edimburgo per dedicare dieci anni al Gran Tour in Italia e all’elaborazione del libro che
viene pubblicato nel 1764 in coincidenza con l’apertura di un nuovo studio a Londra2.
Le tappe fondamentali del suo viaggio sono: firenze, dove conosce Charles-Louis
Clérisseau; Roma, dove lavora a fianco di Giambattista Piranesi, e Spalato, dove compie il suo saggio di ricerca autonoma.
Piranesi insegna ad Adam non solo il disegno, ma soprattutto lo scavo come strumento
di indagine archeologica e un metodo indiziario che si sviluppa nell’esercizio della reinvenzione di architetture immaginate a partire dai frammenti dell’antico.
una volta giunto a Spalato la sorpresa di Adam è molto forte, perché scopre una città
viva in cui i resti del Palazzo di diocleziano si compongono con la vita quotidiana. Adam
descrive con molto interesse i dettagli di costume legati alla vita sociale del tempo e gli
innesti delle architetture contemporanee sull’antico. In queste rappresentazioni, riportate nella pubblicazione, si legge con molta evidenza la meraviglia di veder trasformato
un edificio singolo in un’intera città.
Adam utilizza l’archeologia per vivisezionare ed estrarre dal corpo vivo della città
il Palazzo di diocleziano(fig. 2). Il metodo si fonda sull’osservazione attenta degli
1 A. Rizzo, Sovrapposizioni e trascrizioni. sezioni e
prospetti del tempio di Giove intrecciate a quelle del
Palazzo da Porto Festa.
1 “Tra il 1968 e il 1972 Italo Calvino, Gianni Celati e
Guido neri pensano di realizzare una rivista. La loro
idea, che comunicarono a Enzo Melandri e Carlo
Ginzburg, era di uscire dai confini della letteratura,
di cercare oltre gli steccati delle discipline e dei
saperi settoriali qualcosa ‘di più’, per questa ragione
i tre promotori – letterati di formazione – cercano
il contributo di un filosofo e di uno storico”, M.
Barenghi, M. Belpoliti (a cura di), Alì Babà. Progetto di
una rivista 1968-1972, “Riga”, 14, 1998, p. 6.
Gli intellettuali coinvolti scrivono dei saggi che
vedranno la luce non sulla rivista ma molti anni dopo
su loro libri. In particolare ritengo preziosi per la
nostra riflessione tre saggi: uno di Calvino Lo sguardo
dell’archeologo del 1972 (pubblicato in I. Calvino, Una
pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi,
Torino 1980), uno di Celati Il bazar archeologico del
1971-72 (pubblicato in G. Celati, Finzioni Occidentali.
Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino 1986),
un altro di Carlo Ginzburg Spie. Radici di un paradigma
indiziario del 1979 (pubblicato in C. Ginzburg, Miti
Emblemi Spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino
1986).
2 M.navarra (a cura di), Robert Adam Ruins of
the Palace of the Emperor Diocletian at Spalatro in
Dalmatia, Biblioteca del Cenide, Cannitello 2001.
131
MARGINI E MARGINALITÀ
2
132
3
2 Frontespizio del libro di Robert Adam, Ruins of
the Palace of the Emperor Diocletian at Spalatro in
Dalmatia, london 1764.
3 In alto a sinistra: J.b. Fischer von erlach, Veduta del
Palazzo di Diocleziano (da: J.b. Fischer von erlach,
Entwurf einer historischen Architektur, Wien 1721).
In alto a destra: d. Farlati, Veduta del Palazzo di
Diocleziano (da: d. Farlati, Illyricum Sacrum, 5 voll,
venezia 1751-1757).
In basso: R. Adam, Sezione generale del Palazzo da
sud a nord tavola XVIII (da: R. Adam, Ruins of the Palace
of the Emperor Diocletian at Spalatro in Dalmatia,
london 1764).
spazi urbani, la ricerca indiziaria, lo scavo, il rilievo e il disegno. dalle vedute si
passa al ridisegno delle parti residuali dell’antico edificio e alla ricostruzione di
ipotetiche configurazioni. dalle mappe stratigrafiche, in cui si legge con precisione
la pianta del Palazzo di diocleziano incastonata nella città, si arriva al ridisegno
dei dettagli. I resti dell’antico appaiono quasi inscindibili dal pulsare della vita urbana di Spalato.
La scoperta più significativa di Adam, però, è rivelata da una sezione longitudinale
che svela gli spazi ipogei del palazzo e mostra l’idea insediativa fino ad allora non
descritta da altri. Infatti nelle vedute precedenti di fischer von Erlach, daniele farlati e Andrea Palladio il palazzo veniva rappresentato su un piano orizzontale(fig. 3).
Adam, usando gli strumenti dell’archeologia, dopo alcune settimane di scavo, riesce
a portare alla luce gli spazi ipogei facendo affiorare per la prima volta le sostruzioni
del palazzo che erano fino allora sconosciute.
Grazie a questa scoperta si capisce come la precisione e la regolarità dell’impianto
geometrico da un lato abbia trasformato il piano inclinato della topografia sagomandolo in tre piani orizzontali che scendono al mare e dall’altro sia stata modificata
dall’inserimento degli spazi sotterranei affacciati direttamente sul porto(fig. 4).
Palladio oltre l’antico. Andrea Palladio unisce l’occhio dell’architetto a quello dell’archeologo non solo negli anni della sua formazione ma anche nella maturità delle realizzazioni più complesse. L’esperienza fondamentale è costituita dai viaggi a Roma,
dove si reca più volte (viaggi a Roma 1541 con Trissino, 1545, 1546-47, 1549, 1554) per
studiare le rovine dell’antichità classica.
L’intero corpus di disegni palladiani relativi all’antichità costituisce un materiale prezioso dove questo esercizio di analisi, smontaggio in parti e rimontaggio, si accompagna a
un continuo aggiustamento e reinvenzione delle forme di rappresentazione.
da questo punto di vista sono emblematici i disegni che illustrano la traduzione di Vitruvio curata e commentata da daniele Barbaro nel 1567.
nell’immagine del Tempio Ipetro(fig. 5), possiamo notare come due pagine affiancate
tengano insieme, sull’asse di simmetria coincidente con la cucitura del libro, due tipidiversi di disegno: una facciata e una sezione. In particolare si possono osservare tre
espedienti che ricorrono anche in altri disegni:
1. Al centro del disegno la porta e una colonna sono rappresentate solo con linee di
contorno e appaiono trasparenti per mostrare la sezione interna e la parete di fondo
dell’edificio;
2. Il muro sezionato sulla sinistra è disegnato in modo simile a quello del prospetto
sullo sfondo cosicché le colonne dell’ordine maggiore sembrano comporre con quelle
interne dell’ordine minore un’unica partitura;
3. Sull’asse di simmetria, dalla parte della sezione, la linea che definisce l’architrave
della porta trasparente ad un certo punto scompare dietro la colonna, che in realtà si
trova sul piano di fondo del tempio. In questo modo, con una certa ambiguità, la colonna
si percepisce come un elemento complanare al colonnato di facciata.
Ritroviamo lo stesso procedimento nel disegno del Tempio di Giove presentato nei
Quattro libri dell’architettura(fig. 6). Palladio proietta sullo stesso piano contemporaneamente le immagini dei prospetti e delle sezioni degli interni attraverso una ripetuta
operazione di traslazione dei piani lungo un asse ortogonale alla linea di sezionamento.
Il disegno di Palladio mette in evidenza le parti resistenti, cancella quelle inconsistenti,
individua i punti in cui gli elementi dell’architettura sono stati composti e quindi sono
ancora suscettibili di ricomposizione o sono disponibili ad ulteriori variazioni. Questi
disegni di rilievo sono precisi, rigorosi ma non mimetici, non illustrativi, stabiliscono,
con il minor numero di segni possibili, il carattere di ciascun elemento, la loro posizione, i loro vincoli le loro regole. Mostrano attraverso delle cancellature o delle reticenze
i punti indefiniti dove esiste un margine per la variazione. Registrano i diversi livelli di
consistenza delle varie parti: quelle più solide necessarie; quelle più labili meno necessarie. nella misura della densità di materia i disegni precisano regole, vincoli e possibilità portando alla luce le ragioni di necessità che hanno costruito la forma. Questa
pratica che utilizza:
4
5
4 Rielaborazione dei disegni di Robert Adam sul
Palazzo di diocleziano a spalato, sovrapposizione
della sezione longitudinale alla pianta.
5 tempio ipetro, disegno di Andrea Palladio. I
Dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio tradotti e
commentati da daniele barbaro, libro terzo, Cap. II.
di cinque specie di tempi, venezia 1567.
l’espediente figurativo di proiettare frontalmente un oggetto tridimensionale su di una superficie
bidimensionale, diede a Palladio un distacco critico dall’edificio storico rappresentato. Questo
metodo di astrazione fa si che il disegno sia visto come un oggetto valido in se stesso, che, se
reinterpretato tridimensionalmente, potrebbe dare dei risultati totalmente diversi dall’oggetto
originale3.
Le rappresentazioni di Palladio, come abbiamo visto nel caso del Tempio Ipetro o del
Tempio di Giove, non cercano mai di ricostruire l’integrità dell’edificio, ma mantengono
visibile l’articolazione delle parti in cui i frammenti conservano il loro carattere parziale
133
3 C. Constant, Guida a Palladio, Lidiarte, Berlin 1989,
p. 3.
6
7
MARGINI E MARGINALITÀ
6 smontaggio per sezioni del disegno di Palladio
dedicato al tempio di Giove. I quattro libri
dell’architettura, libro quarto, cap. XII. del tempio di
Giove, venezia 1570.
134
e disarticolato così da poter essere interpretati in tanti modi diversi. In questo tipo di
rappresentazioni Palladio mette in pratica l’idea di Alberti secondo cui il disegno utile
per l’architetto non ha “in sé istinto di seguitare la materia: ma è tale che noi conosciamo, che il medesimo disegno è in infiniti edifici”4.
Questi passaggi e metamorfosi sono molto evidenti se proviamo ad esaminare i disegni
del Tempio di Augusto a Pola. Il prospetto del Tempio viene rappresentato con le due
colonne centrali trasparenti in modo da mostrare la muratura isodoma della facciata
interna.
Palladio, reinterpretando nel disegno del Tempio di Augusto a Pola il rapporto di distanza e vicinanza tra le quattro colonne e la parete retrostante, realizza tre progetti
diversi: la Villa Emo in cui le colonne stanno sulla facciate e viene scavato lo spazio
della loggia dentro il volume compatto dell’edificio, la Villa Chiericati in cui la loggia
viene portata fuori dal volume dell’edificio e la Villa Barbaro dove le quattro colonne si
trasformano in paraste aderenti alla parete di facciata5.
Questo procedimento è molto presente in tutti i progetti di Palladio dai disegni di elaborazione alla costruzione ed è alla base del successo internazionale del palladianesimo.
un altro esempio emblematico, generato dai disegni di ricostruzione del Tempio Ipetro,
è il progetto per il Palazzo Porto6, in cui lo spostamento dei piani della rappresentazione raggiunge potenza e forza con l’inversione della posizione tra sezione interna
e facciata. Palladio sposta sul prospetto principale la partitura interna e organizza la
corte interna su un ordine gigante di colonne che sorreggono un solaio. L’ordine minore, sul fronte principale, viene utilizzatocome espediente per definire una partitura più
proporzionata alla dimensione della strada urbana.
l’Adelphi terrace le mappe stratigrafiche. Le mappe stratigrafiche del Palazzo di
diocleziano realizzate da Robert Adam, come i disegni di Palladio, tengono insieme
sullo stesso piano materiali diversi: i frammenti dell’antico, le nuove architetture, la
forma della città con la sua vitalità e i suoi conflitti.
Adam trasferisce e riutilizza i materiali delle mappe di rilievo del palazzo in un grande
progetto urbano che realizza a Londra nel 1774 dandogli il nome di Adelphi Terrace7.
L’edificio era posizionato nel punto in cui il Tamigi si piega a formare una curva e dalle
sue terrazze era possibile vedere contemporaneamente St. Paul Cathedral e Westiminster Abbey.
Anche in questo caso ci interessa analizzare gli strumenti che utilizza Adam per mettere a punto il progetto. Egli non si preoccupa di imitare nei suoi aspetti formali il Palazzo di diocleziano piuttosto è interessato a mettere in opera il principio insediativo
scoperto a Spalato grazie alla sezione longitudinale che ha rivelato questo stretto
rapporto tra la topografia, l’impianto dell’edificio e il mare. Il luogo su cui viene costruito l’Adelphi era caratterizzato da un reticolo di strade appoggiate su un piano
inclinato che scendeva dallo Strand al fiume.
Adam compie due operazioni fondamentali: da un lato ridisegna l’impianto urbano preesistente conservandolo negli spazi ipogei direttamente collegati al fiume, dall’altro
immagina un nuovo suolo urbano con un piano orizzontale che sposta la quota interna
dello Strand nelle terrazze urbane sospese sul Tamigi.
Il passaggio rivoluzionario di Adam è quello di progettare e pensare un edificio che traduce le mappe stratigrafiche in strumenti per immaginare la città moderna composta
da un’architettura urbana complessa8.
7 smontaggio per sezioni del disegno di Palladio
dedicato al tempio di Giove. I quattro libri
dell’architettura, libro quarto, cap. XII. del tempio di
Giove, venezia 1570.
135
4 L.B. Alberti, De re aedificatoria, ed. in lingua
fiorentina a cura di Cosimo Bartoli, Venezia 1565, ed.
anast. Sala Bolognese, Bologna 1985, p. 9.
5 J.S. Ackerman, Palladio, Einaudi, Torino 1972.
6 Ora Palazzo festa. Cfr. G. Zorzi, Le opere pubbliche
e i palazzi privati di Andrea Palladio, neri Pozza,
Venezia 1965.
7 A.T. Bolton, The Architecture of Robert and James
Adam, Officies of Country Life, London 1922.
8
9
11
MARGINI E MARGINALITÀ
10
136
8 disegno di Palladio del tempio di Augusto a
Pola (da: G. Zorzi, I Disegni delle antichità di Andrea
Palladio, venezia 1959).
9 villa a emo a Fanzolo di vedelago, al centro villa
Chiericati a vancimuglio, a destra villa barbaro a
Maser (da: C. Constant, Guida a Palladio, berlin 1989).
10 sezione longitudinale dell’Adelphi terrace (da:
A.t. bolton, The Architecture of Robert and James
Adam 1758-1794, vol. II, london 1922).
8 Sia Aldo Rossi che Carlo Aymonino nei loro libri,
L’architettura della città e Il significato della città, fanno
riferimento al progetto di Robert Adam per l’Adelphi
come un passaggio innovativo e fondamentale nella
relazione tra architettura e città.
9 A. T. Bolton, The Architecture of Robert and James
Adam, cit., p. 20.
10 Ci riferiamo a un frammento di Walter Benjamin che
si intitola proprio “Scavare e ricordare”: Il linguaggio
ci ha fatto capire, senza possibilità di equivoci, che la
memoria non è uno strumento, bensì il medium stesso,
per la ricognizione del passato. È il medium di ciò
che si è esperito, allo stesso modo in cui la terra è il
medium in cui sono sepolte le città antiche. Chi cerca di
accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi
come un individuo che scava. Soprattutto non deve
temere di tornare continuamente a uno stesso identico
stato di cose – di disperderlo come si disperde la terra,
di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa. Giacché gli
“stati di cose” non sono altro che strati che consegnano,
solo dopo la ricognizione più accurata, ciò che giustifica
Se confrontiamo il prospetto sul fiume dell’Adelphi con quello del Palazzo di
diocleziano appaiono chiare le differenze: mentre nel primo caso il basamento
è scavato al piano terra, nell’altro la loggia incide la parte superiore lasciando
compatta la massa sottostante.
Come è evidente da questo confronto, Adam non ricerca un’imitazione formale o
stilistica del Palazzo quanto piuttosto la riproposizione del principio insediativo
che trova ragion d’essere proprio nel punto in cui si colloca l’edificio. La forma
dell’Adelphi è la materializzazione di un embankment-abitato contrapposto alla
forza delle acque che erodono il suolo urbano con maggior forza nel punto dove il
fiume si piega a gomito9. È interessante notare come sia Palladio che Adam lavorino a trasformare gli strumenti di conoscenza in strumenti di progetto trovando
nel disegno la forma privilegiata di sperimentazione.
la sfinge e il bazar. Il frontespizio del libro di Robert Adam, con la presenza della
Sfinge che sovrasta i due architetti intenti a disegnare i frammenti di antiche architetture, suggerisce uno sguardo diagonale. Lo stesso sguardo che è presente
sia in Adam che in Palladio come volontà di procedere interrogandosi continuamente senza accontentarsi di risposte risolutive ma cercando di avere di fronte
sempre l’enigma come chiave per procedere.
Lo sguardo della Sfinge non vuole ricostruire l’antico così come è stato ma si
serve delle sue vestigia per interrogare il presente e trovare risposte necessarie
a nuovi problemi. Scavare e dimenticare10, come il battito delle palpebre, sono
due movimenti indissolubilmente legati e inscindibili per ogni progetto capace di
12
13
affrontare il bazar archeologico che contraddistingue la città contemporanea11.
Questa condizione, come ha evidenziato Calvino ne Lo sguardo dell’archeologo da
un lato ha scardinato le categorie tradizionali utilizzate per progettare il mondo,
dall’altro richiede un ripensamento sui modi della conoscenza e della trasformazione nella convinzione “che gli strumenti per cambiarlo [il mondo] non si dànno
se non insieme a quelli per capirlo”12.
Il saggio di Gianni Celati Il bazar archeologico propone una riflessione sugli scarti
del progresso e della modernizzazione utilizzando la figura del bazar come chiave
interpretativa in cui “gli insiemi di oggetti si organizzano secondo una tassonomia
fluttuante, non consegnata alla logica di una classificazione che funga da autorità
impersonale”13. Questa interpretazione spinge Celati a prefigurare un’altra storia
critica capace di andare oltre le letture tradizionali per “risalire al di là delle selezioni di rilevanza compiute dalla tradizione, rimettere in gioco l’oggetto enfoui,
l’oggetto parziale e frammentario, e studiarlo al pari del monumento insigne”14.
Adam e Palladio scoprono le potenzialità del frammentario e del discontinuo ed
elaborano strumenti specifici per far in modo che, in tutti i passaggi successivi
di ricostruzione, non vada perduta l’indeterminazione e l’apertura al futuro. Il
frammento, come il torso monco di una statua, suggerisce con precisione una
configurazione originaria, ma lascia libera l’immaginazione di completare la figura in forme e affezioni diverse15.
Adam e Palladio sembrano suggerirci che il rapporto con le architetture degli
antichi deve nutrirsi dello sguardo della Sfinge, procedendo come l’incessante
ricerca della soluzione a un enigma.
L’enigma dell’Antico indica all’architettura una condizione di ricerca fondata sul
pericolo. Quel pericolo che porta inesorabilmente verso il necessario e l’indispensabile16 senza perdere la potenza dell’invenzione.
11 disegni di studio con la posizione dell’Adelphi
terrace sul tamigi.
12 t. Malton, Veduta dell’Adelphi Terrace dal fiume con
Westminster Abbey sul fondo, 1795.
13 R. Adam, Veduta dell’Adelphi Terrace dal fiume con
la cattedrale di S. Paul.
tale scavo. […] E s’inganna sui lati migliori chi fa solo
l’inventario degli oggetti ritrovati e non sa indicare
nel terreno attuale esattamente il luogo in cui era
conservato l’antico.
Così i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo,
quanto piuttosto designare esattamente il luogo nel quale
colui che ricerca si è impadronito di loro. In maniera
epica e rapsodica nel senso più stretto del termine, il
ricordo reale deve dunque offrire anche un’immagine
di colui che si sovviene, allo stesso modo in cui un buon
resoconto archeologico non deve limitarsi a indicare
gli strati da cui provengono i propri reperti, ma anche e
soprattutto quelli che è stato necessario attraversare in
precedenza”, W. Benjamin, Opere complete. Scritti 19321933, Einaudi, Torino 2003, vol. V, p. 112.
11 Tra i saggi in preparazione per il primo numero della
rivista Ali Babà ne troviamo alcuni che propongono una
riflessione precisa sull’archeologia. In particolare quello
di Italo Calvino Lo sguardo dell’archeologo che sottolinea
come “tutti i parametri, le categorie, le antitesi che
erano serviti per immaginare e classificare e progettare
il mondo sono in discussione: il razionale e il mitico, il
lavorare e l’esistere, il maschile e il femminile, ma pure
i poli di topologie ancor più elementari: l’affermare e il
negare, l’alto e il basso, il vivente e la cosa. Insoddisfatti
come siamo del nostro mondo sempre meno abitabile
e persuasi che gli strumenti per cambiarlo non si danno
se non insieme a quelli per capirlo, ogni occasione per
ripensare qualcosa da capo ci rallegra. […] Vorremmo far
nostro lo sguardo dell’archeologo e del paleoetnografo,
così sul passato come su questo spaccato stratigrafico
che è il nostro presente, disseminato di produzioni
umane frammentarie e mal classificabili: industrie
metalliche, megaliti, veneri steatopigie, scheletri di
ecatombi, feticci”, I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo,
in M. Barenghi, M. Belpoliti (a cura di), Alì Babà. Progetto
di una rivista 1968-1972, cit. pp.197-198.
137
MARGINI E MARGINALITÀ
14
138
12 Ibid.
13 G. Celati, Il bazar archeologico, in M. Barenghi, M.
Belpoliti (a cura di), Alì Babà. Progetto di una rivista 19681972, cit., p. 201. “È ancora una volta il bazar: questa
vocazione tutta moderna alla raccolta di oggetti e di
citazioni dimenticati e inservibili, che non ha nulla a che
fare con la vocazione dei cabinets de curiosités, perché
non tende a organizzare e classificare, bensì tende,
come indicava Benjamin, ad una ‘testarda protesta
sovversiva contro il tipico e il classificabile’”, ivi, p. 202.
14 Ibid. “A voler ribaltare l’immagine è il tempo non
omogeneo, discontinuo e tutto pieno, pieno di rovine e di
oggetti di scarto e di emergenze dimenticate, l’ipotesi di
una storia alternativa”. ivi, p. 203.
“Ed è il senso di una storia critica: … Al frammentario e
al discontinuo, all’escluso e al dimenticato è affidato il
compito di contestare l’illusione d’uno sviluppo lineare
continuo della storia umana”, ivi, p. 204.
15 “Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla
bellezza come l’ha voluta un cervello umano, un’epoca,
una particolare forma di società, aggiungono una
bellezza involontaria, associata ai casi della Storia,
dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo.
Statue spezzate così bene che dal rudere nasce un’opera
nuova, perfetta nella sua stessa segmentazione: un
piede nudo che non si dimentica, poggiato su una
lastra, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui
si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che
nessun volto ci impedisce di amare, un seno o un sesso
di cui riconosciamo più che mai la forma del fiore o del
frutto, un profilo ove la bellezza sopravvive in un’assenza
assoluta di aneddoto umano o divino, un busto dai tratti
corrosi, sospeso a mezzo tra il ritratto e il teschio. Così
un corpo scabro somiglia a un blocco sgrossato dalle
onde; un frammento mutilo si differenzia appena dal
sasso o dal ciottolo raccolto su una spiaggia dell’Egeo.
Ma l’esperto non ha dubbi: quella linea cancellata, quella
curva ora perduta ora ritrovata non può provenire se non
da una mano umana, e da una mano greca, attiva in un
certo luogo e nel corso di un certo secolo. Qui è tutto
l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo,
la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo
spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono
pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in
fondo nella rovina delle cose”, M. Yourcenar, Il Tempo,
grande scultore (1954), in Ead., Il tempo, grande scultore,
Einaudi, Torino 1994, p. 51.
16 “Articolare storicamente il passato non significa
conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa
impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante
di un pericolo”, W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia
(1940), in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it. di
R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, pp. 77-78.
14 disegno studio NOWA, un teatro
archeologico per spoleto. L’invito
nel 2005 a un concorso ristretto
sull’antico Teatro romano di
Spoleto è stata l’occasione per
sperimentare alcuni strumenti di
progetto con un atteggiamento
e una consapevolezza acquisiti
grazie alle ricerche sugli architettiarcheologi.
Il Teatro romano è stato scoperto
negli anni ’60 all’interno di
un convento di cui lo scavo
archeologico ha cancellato il
chiostro.Il concorso chiedeva di
riconfigurare questi resti spaesati
in un nuovo organismo museale
integrato con il teatro, da riattivare
come luogo urbano utilizzabile
durante il festival dei due mondi
per concerti o spettacoli teatrali.
nel suo impianto originario il Teatro
romano era un edificio composito,
formato da tanti spazi tra loro
correlati: cavea, orchestra, scena
fissa, frons scaenae, peristilio
e l’ambulacrum, il principale
elemento distributivo e connettivo.
L’insieme di questi elementi
garantiva al Teatro romano un
forte carattere urbano, derivato
dalla sua massa volumetrica che
si imponeva sul resto del tessuto
edilizio. Oggi il teatro di Spoleto è
come un frammento spaesato tra
altri frammenti che hanno smarrito
il campo che li teneva insieme.
Il susseguirsi di stratificazioni e
addizioni unite alle campagne di
scavo, avvenute in tempi diversi, ha
da un lato obliato alcune parti del
teatro, ma dall’altro ha generato un
potenziale “edificio città”.
Il teatro può svolgere un ruolo
di ri-connessione a partire
dall’ambulacrum, che si è
conservato per buona parte integro.
Il progetto rilegge ed estende
questo elemento realizzando
un percorso che attraversa
tutti gli edifici oggi esistenti in
nuovo movimento circolare che
riconnette, in un nuova storia, i
frammenti e gli spazi residui.
Il progetto agisce su due elementi:
la riconfigurazione del tamburo per
riconquistare la presenza nella città
e l’estensione dell’ambulacrumin
un anello che collega tutti i
segmenti attraverso il movimento.
L’ambulacrum riordina i frammenti
spaesati in una nuova logica in cui
la condizione del bazar diventa
produttiva se permette di leggere
i frammenti nelle loro relazioni.
In questo caso il movimento
si trasforma in un vettore che,
attraverso la lettura delle differenze
di materia, spazi e configurazioni,
esplora i salti del tempo.
Questa operazione elementare
ha permesso di riutilizzare quello
che c’era già, semplicemente
cambiandone il senso e le relazioni
in un accelerazione capace di
rimettere insieme gli elementi
esistenti in una nuova forma.
The text proposes a reflection on archaeology as a fundamental and crucial instrument of the project that occupies itself with architecture and the city. In particular,
two segments are shown on a genealogy that reconstructs the exchanges and interweaving between the two disciplines. Andrea Palladio and Robert Adam are two
significant examples of the use of archaeology as an instrument of invention.
Palladio’s work on Roman antiquities is rigorous and meticulous: the drawing brings
to light the resistant parts, erases the unsubstantial ones, identifies the points where the elements of the architecture have been composed and are therefore still susceptible of recomposition, or they are available for further variations. The relief
drawings are precise but not mimetic or illustrational; they establish, with the smallest possible number of marks, the nature of each element, their position, their constraints, and their rules. Through the erasures or reticence, they show the indefinite
points where there is a margin for variation.
Paradoxically, Palladio draws to forget. In this way an imagination is produced
which, starting from several objective data, renders small shifts fertile and shows
the generative force of the archaeological fragment.
Adam devotes ten years to the Gran Tour and to the preparation of the book on the
Palace of diocletian in Split (1764).
Adam’s method, learned in Rome from Piranesi, is based on the careful observation of the living city, the search for hints, the dig, the survey, and the drawing. His
attention is not focused only on the building as an object, but is concentrated on
the description of its start as a settlement. This exercise, which matured in Split,
re-emerged in 1768 in the design for the Adelphi Building on the banks of the River
Thames.
The Adelphi transforms a building into a part of the city through a stratigraphic section that recomposes the pre-existing urban fragments into a new configuration
counter to the force of the river.
The palace of diocletian re-emerges in this building, not due to a voluntary act of formal or stylistic imitation, but to the careful reinvention of the start of the settlement,
like a memory flash in a moment of danger.
The frontispiece of Adam’s book suggests a reading approach indicated by the mysterious presence of the Sphinx, which looms over the two architects intend on redrawing the ancient buildings.
The expression of the Sphinx does not mean to rebuild the ancient as it was, but
makes use of its remains to question the present and find the necessary answers to
new problems. Adam and Palladio seem to suggest to us that the relationship with
the architectural structures of the ancients must draw its nourishment from the
expression of the Sphinx, proceeding as the unceasing search for the solution to an
enigma. The enigma of the Ancient indicates to architecture a condition of research
based on danger, that danger that inexorably leads toward the necessary and indispensable.
tHe ARCHAeoloGiCAl bAZAAR
dIGGInG And fORGETTInG:
InVEnTIOn TECHnIQuES fOR A CITY
ARCHITECTuRE
ABSTRACT
139
MERIdA
1
PAtRiMoNio stoRiCo e Città: uN diAloGo NeCessARio
MARGINI E MARGINALITÀ
Pedro Mateos Cruz
140
la città patrimonio. non molto tempo
fa ho letto le conclusioni di un progetto
di ricerca relativo al centro storico di
Siviglia realizzato nell’ambito del progetto di pianificazione del Programma
urban. Il libro si intitolava La ciudad
silenciada. Gli autori si proponevano di
dare nuovamente voce a questa zona
centrale e storica attraverso elementi urbanistici articolati tra loro che le
permettessero di riappropriarsi del
ruolo di protagonista all’interno della
città. La città costretta al silenzio: un
argomento che racchiude una molteplicità di aspetti in contrapposizione tra
loro.
nell’ambito del Seminario ho svolto
alcune considerazioni di carattere generale relative alle problematiche della
conservazione delle città storiche, presentando l’esempio di una città come
Mérida che, grazie al fatto di essere
sorta su un’area archeologica con la
quale intrattiene un dialogo costante,
può offrirsi come caso esemplare per
una riflessione su molte altre città sto-
1 R. Moneo, Schizzo progettuale per il Museo di Arte
romana a Mérida, 1980.
riche.
una città patrimonio deve essere tale
innanzitutto per i suoi abitanti. non può
essere altrimenti perché è proprio la
città, in quanto patrimonio domestico,
a fungere da elemento di compensazione, per quanto possibile, alle carenze
della qualità urbana rilevate dai suoi
abitanti: infatti, se il titolo di patrimonio
dipende dal passato storico della città,
la sua continuità è legata all’uso che ne
fanno gli abitanti di oggi. dal dualismo
utilizzo-servizio dipende una conservazione coerente con il fatto che anche
una città patrimonio deve affrontare gli
stessi problemi di qualsiasi altra città.
Il concetto di patrimonio è di fondamentale importanza in ambito urbano
e non devono farsene carico solo gli
organismi preposti al settore culturale,
bensì anche tutti quelli che si occupano delle infrastrutture, delle abitazioni,
dei servizi e di tutti gli altri aspetti legati all’esistenza stessa di una città.
La città patrimonio deve rappresentare
il luogo in cui passato e futuro si uniscono in un continuum privo di traumi.
Puntare alla sola conservazione significa negare lo scorrere stesso del tempo ed è quindi una vana illusione.
Anche per i centri storici, come per
qualsiasi altro bene di interesse culturale, ci troviamo di fronte allo stesso quesito: la conservazione deve essere finalizzata all’utilizzo o alla mera
contemplazione? In alcuni casi sembra chiaro che l’utilizzo del verbo “restaurare” abbia senso solo quando fa
riferimento a un ripristino del bene in
questione da un punto di vista funzionale. Tuttavia, si prospettano così due
concezioni di conservazione del patrimonio completamente diverse tra loro
e, oserei dire, due modi completamente
diversi di considerare la pianificazione
di una città storica.
uno degli aspetti che gioca un ruolo
chiave nella conservazione delle città storiche è proprio la progettazione
urbana. Infatti, non è possibile tutelare una città basandosi unicamente su
progetti architettonici, per quanto validi. La progettazione rappresenta solo
la fase finale. Prima bisogna prendere
in considerazione la pianificazione e,
prima ancora, l’idea stessa di città che
si vuole perseguire. Modificare questi
fattori non porta ad altro se non a un
utilizzo inadeguato del nostro patrimonio e a un conseguente abbandono in
massa dei centri storici.Il traffico è un
altro aspetto da tenere in considerazione. de Carlo diceva che l’automobile
umilia la città storica. Questa è forse
un’esagerazione, ma quel che è certo è
che le automobili, con la loro lucentezza metallica, l’inquinamento e la loro
quantità, sono motivo di inquietudine.
Se l’obiettivo è far sì che l’uomo possa riappropriarsi del territorio che gli
compete, è necessario rendere i centri
storici più a misura di pedone. Questo
non significa riempire la città di spazi
verdi, ma renderla più umana attraverso progetti che ne garantiscano un utilizzo condiviso.
Per la maggior parte dei centri storici
credo che in questo senso manchino
volontà e capacità di comprensione. I
problemi di bilancio sono importanti,
ma ancora più importante è la volontà
di considerare la città come testimonianza del nostro futuro. non molto
tempo fa John Eliott, rivolgendosi a un
settimanale spagnolo, si lamentava di
uno dei risultati del recente quanto innegabile progresso della Spagna in vari
ambiti, vale a dire il mancato rispetto
del suo passato storico, come si poteva
chiaramente notare passeggiando per i
suoi paesi e le sue città e osservando le
trasformazioni che avevano subito nel
corso degli anni.
È curioso come a volte la pianificazione
e la conservazione riguardino unicamente i centri storici. Si utilizza ancora
oggi il termine “sito storico” per fare
riferimento ai sistemi urbani da tutelare: una definizione del tutto inadeguata
in quanto comporta una serie di limiti
pericolosi tanto quanto quelli insiti nella definizione di monumento. In questo
modo si rischia infatti di limitare il valore del patrimonio di una città al suo
centro storico senza tutelare le aree
circostanti, anch’esse risultato di una
“storia” che oggi però è incolpata delle
principali distruzioni. un contesto urbano meritevole di essere considerato
quale patrimonio, ma che non viene per
niente tutelato – conosciamo tutti degli
esempi a riguardo – ci obbliga a riconsiderare il rapporto esistente tra questi
due spazi all’interno di una stessa città.
Si potrebbe arrivare a considerarlo non
come un contesto in cui si inserisce la
città, quanto piuttosto un nuovo nucleo
che la inghiotte, impedendo qualsiasi
forma di dialogo.
La conservazione quindi, in quanto
principio di tutela e salvaguardia delle
testimonianze storiche, non conosce
limiti a livello territoriale.
Concentrarsi solo sulla salvaguardia
di monumenti isolati senza curarsi di
ciò che li circonda comporta un’alterazione non solo degli aspetti formali e
simbolici di una città, ma anche della
possibilità di comprendere le caratteristiche tipiche della civiltà che li ha
realizzati.
Gli obiettivi che ogni città storica deve
raggiungere sono: cercare di creare
una città incantevole e non ostacolarne
lo sviluppo. dobbiamo quindi conciliare
la crescita della città con la tutela del
suo patrimonio, affrontando entrambi
gli aspetti.
il caso di Mérida. Ovviamente ogni
città storica presenta problematiche
specifiche determinate dalle sue stesse caratteristiche a livello urbano. Esistono tuttavia degli elementi comuni a
tutte, come ad esempio l’armonia tra
le amministrazioni competenti, il finanziamento di progetti per il restauro del
patrimonio o la presenza di leggi urbanistiche che tengano in considerazione
la tutela del patrimonio sia a livello materiale che concettuale.
un aspetto imprescindibile è un modello di città a cui fare riferimento, cioè
sapere come vogliamo che sia la nostra
città in futuro. Vorrei descrivervi l’idea
di città su cui ci siamo basati per Mérida, una città che si è sviluppata su un’area archeologica e che, in questi ultimi
anni, sta puntando su criteri finalizzati
all’integrazione del patrimonio storico
all’interno dell’attuale pianificazione
urbana. Vedremo come sono stati affrontati all’interno dei vari progetti i
problemi che abbiamo trattato fino ad
ora.
Il patrimonio storico della città ha una
connotazione fortemente archeologica.
non mancano tuttavia esempi di pro-
141
MARGINI E MARGINALITÀ
getti di restauro pensati per far sì che il
patrimonio architettonico possa essere
utilizzato nel contesto attuale, come le
sedi del parlamento e della presidenza
del governo della regione autonoma, il
convento di Santa Chiara ecc.
Passando a trattare le problematiche
relative al patrimonio archeologico,
credo che siano molto simili a quelle
che devono affrontare anche le altre
città storiche. forse le problematiche
relative al patrimonio archeologico
sono addirittura molto simili anche a
quelle che riguardano quello architettonico.
Tutte le città devono far fronte agli
stessi problemi:
142
– Le difficoltà legate al proprio sviluppo;
– Il traffico;
– La presenza o meno di zone pedonali
nel centro storico e il loro rapporto
con il contesto urbano circostante;
– L’accoglienza dei turisti, i servizi offerti;
– I parcheggi;
– La realizzazione di piani di tutela, sia
generali che speciali, accusati, a volte, di bloccare lo sviluppo e, in altri
casi, di favorirlo;
– La suddivisione delle competenze tra
la Comunità Autonoma e il Comune
alla luce delle implicazioni che la
conservazione del patrimonio logicamente comporta per la pianificazione
urbana delle città;
– La conservazione delle abitazioni in
cattivo stato che vengono abbandonate, causando lo svuotamento del
centro storico che finisce per essere
città morta;
– Il finanziamento dei progetti di restauro.
Per quel che riguarda Mérida, stiamo puntando su un progetto che, pur
presentando alcune problematiche,
sta iniziando a dare i primi risultati. Il
“Consorcio de la Ciudad Monumental
de Mérida”1 è nato dallo sforzo congiunto di tutte le istituzioni responsabili
a vario titolo del patrimonio e si basa
sulla loro collaborazione con le istituzioni del mondo scientifico (l’università,
il museo ecc.) coinvolte nel progetto.
La tutela di un’area archeologica sulla
quale sorge una città moderna è ancora
una delle questioni irrisolte nell’ambito della conservazione del patrimonio
storico. L’archeologia urbana si occupa
della documentazione, tutela e valorizzazione dei resti rinvenuti attraverso gli
scavi. Il fatto che gli scavi vengano realizzati all’interno di un nucleo urbano
comporta tuttavia non pochi problemi
di tipo pratico in merito al rapporto che
si intende stabilire tra i resti archeologici e lo sviluppo della città.
Per quanto possa sembrare ovvio, va
sottolineato che la Mérida in cui viviamo oggi è il risultato, sotto il profilo
urbanistico, di diverse fasi determinate
dalle varie culture che si sono succedute sul nostro territorio nel corso della storia. Questa considerazione deve
rappresentare il punto di partenza di
una riflessione diacronica sul futuro
della città in quanto costituisce la caratteristica essenziale di tutte le città
storiche.
tutela e integrazione. di fronte a questo dualismo tra città antica e città attuale abbiamo due possibilità dal punto
di vista archeologico: possiamo puntare alla mera conservazione, con la tutela dei resti archeologici come unico
obiettivo, oppure alla loro integrazione
nel tessuto urbano, facendoli divenire
parte dell’attuale pianificazione urbana.
La prima opzione ci porta a isolare i resti archeologici rispetto al tessuto urbano contemporaneo, utilizzando quelli
che vengono definiti parchi archeologici
che, nella maggior parte dei casi, altro
non sono che aree archeologiche in cui
sono stati inseriti dei giardini. non solo
è necessario conservare tutti i resti,
ma devono anche essere isolati fisicamente rispetto all’ambiente che li circonda e l’area va poi adeguata affinché
possa essere visitabile. La creazione di
queste isole archeologiche all’interno
della città quale unica soluzione alla
conservazione del patrimonio pone non
pochi problemi sotto il profilo urbanistico, economico e sociale.
Ci sono ovviamente resti archeologici che per la loro importanza storica
e monumentale e per il buono stato di
conservazione in cui si trovano devono essere trattati in modo particolare,
come è stato il caso del teatro, del circo
e del Tempio di diana. Il loro restauro e
adeguamento per l’accoglienza dei visitatori rappresentano un incentivo, a livello culturale, turistico ed economico,
importante per qualsiasi città. Tuttavia,
nella stragrande maggioranza dei casi
gli scavi archeologici portano alla luce
strutture archeologiche parziali, di cui
restano solo le fondamenta. Se l’area
di Mérida fosse stata abbandonata nel
ii secolo, i suoi resti verrebbero forse
conservati come avviene per Pompei o
Ercolano. Mérida però è stata occupata
da varie civiltà durante gli ultimi duemila anni, civiltà che si sono sovrapposte le une alle altre, distruggendo la
maggior parte delle strutture urbane
2
3
2 Arco di traiano.
3 Ponte romano sul fiume Guardiana.
precedenti. Se il nostro obiettivo fosse quello di isolare fisicamente questi
resti all’interno della città, il risultato
sarebbe un puzzle di isole difficili da
tutelare e da comprendere da parte dei
visitatori. Priveremmo inoltre la città di
contenuto con le conseguenti ripercussioni a livello economico e urbanistico.
La seconda opzione pone invece questioni legate alla convivenza tra i resti
della città antica e le strutture urbane
presenti attualmente. Anche in questo
caso la conservazione ha senza dubbio
la priorità, ma è orientata al raggiungimento di una compatibilità e un’integrazione tra la tutela dei resti archeologici e lo sviluppo della città. Vero è
che questa integrazione non è sempre
facile, che in un modo o nell’altro i costi previsti dal progetto originale aumentano e che, a volte, c’è un prezzo
da pagare per raggiungere l’obiettivo
finale. In fin dei conti conciliare tutela e
sviluppo significa creare un equilibrio,
una simbiosi da cui entrambe le realtà possano trarre beneficio e che non
comporti per una delle due la perdita
della propria identità o che non subordini una all’altra. È chiaramente un
equilibrio difficile da raggiungere. L’inconveniente principale è rappresentato
dall’adozione di misure individuali che
non si inseriscono in una prospettiva
globale, ma che considerano ciascun
progetto come un’area a sé stante invece che parte di una stessa città.
la città monumentale. Il Consorzio
per la Città Monumentale di Mérida ha
preferito seguire questa seconda opzione, integrando le varie città che nel
tempo si sono sovrapposte le une alle
altre all’interno dell’attuale pianificazione urbana.
Per quel che riguarda l’aspetto archeologico, stiamo portando avanti un progetto di archeologia urbana che prevede la documentazione approfondita
dei resti rinvenuti durante gli scavi, la
conservazione del nostro patrimonio
archeologico e la sua valorizzazione a
livello sociale.
Secondo i criteri di conservazione sui
quali si basa la Comisión Ejecutiva2 del
Consorzio per la Città Monumentale di
Mérida, la città rappresenta un’unica
area e il diverso trattamento riserva-
to ai resti archeologici dipende unicamente dalle loro caratteristiche e dalla
loro situazione a livello urbano.
nella stragrande maggioranza dei
casi i resti sono in pessime condizioni, ne rimangono solo le fondamenta
e risultano così di difficile comprensione da parte del pubblico. Tuttavia,
le informazioni che scopriamo grazie
al rinvenimento di questi resti sono di
fondamentale importanza per capire
l’evoluzione della città dal punto di vista urbanistico. dobbiamo quindi procedere a una corretta documentazione di tutte queste informazioni e alla
conservazione di tutte le strutture. Per
questo motivo tutti i resti vengono protetti attraverso un’adeguata copertura
che li isola dalle nuove costruzioni.
Altre volte gli scavi rivelano resti che
si trovano in buono stato di conservazione e con un’unità dal punto di vista
costruttivo tale da permettere ai cittadini di comprendere alcune delle caratteristiche della città nelle epoche
precedenti. In questi casi il Comitato
Esecutivo, basandosi sul principio che
prevede l’integrazione dei resti archeologici, indica alcune norme in merito
143
MARGINI E MARGINALITÀ
144
all’edificazione dell’area in modo che,
da un lato, i resti siano visibili al pubblico e, dall’altro, soddisfino una finalità a
livello sociale, trasformando lo spazio
in un’area visitabile o in modo che possa accogliere sale espositive e centri
culturali.
Infine ci sono i resti che per la loro monumentalità e importanza storica e per
lo stato di conservazione in cui si trovano meritano un trattamento a parte.
Ho citato prima alcuni esempi, come il
teatro, il Tempio di diana o la Casa del
Mitreo. In questi casi l’amministrazione deve farsi carico dal punto di vista
economico del restauro di queste aree,
della loro valorizzazione e del loro adeguamento alla visita. La priorità va comunque data all’integrazione di quanto
rinvenuto all’interno delle strutture urbane presenti in modo che si stabilisca
un rapporto tra l’edificio antico e il contesto in cui è inserito e non si trasformi in un monumento isolato, ma che si
relazioni con il tessuto urbano e sociale
di cui fa parte.
nel recuperare questi spazi della città
antica bisogna tenere a mente che non
esiste un vuoto tra il periodo a cui appartiene l’area archeologica romana e
quello attuale, ma esiste un continuum
fatto di strutture e di edifici che appartengono all’epoca medievale, a quella
moderna e a quella contemporanea e
che fanno tutti parte della storia della
città, della sua memoria e, per questo,
vanno rispettati. dobbiamo quindi puntare, ad esempio, al recupero per intero
del foro romano di Emerita Augusta a
costo di demolire edifici risalenti al xvi,
xvii o xviii secolo, uniche testimonianze dell’assetto urbano di quell’epoca?
Molto probabilmente verranno conservate solamente le pavimentazioni in
marmo e le fondamenta di alcuni edifici del foro e non varrà quindi la pena
demolire diversi isolati per recuperare
uno spazio vuoto, il cui utilizzo all’interno dell’attuale pianificazione urbana risulterebbe anacronistico. Ricorreremo
piuttosto a singoli progetti di recupero
degli edifici antichi e, utilizzando l’immaginazione, li inseriremo nel tessuto
urbano attuale, delimitando, ad esempio, l’area del foro per mezzo di una
pavimentazione con struttura e colori
diversi rispetto al resto della città.
Questi presupposti teorici si concretizzano ogni giorno in progetti presi in
considerazione dallo stesso Consorzio
e attraverso il coordinamento tra le varie istituzioni, progetti che definiscono
le linee guida fondamentali per la conservazione del patrimonio delle città
storiche che abbiamo precedentemente indicato.
HistoRiC HeRitAGe ANd tHe CitY:
A NeCessARY diAloGue
ABSTRACT
In this contribution the problem of conservation of historic cities is addressed,
through the study case of Mérida. This is
a paradigmatic example of a living town
superimposed to an archaeological site.
The heritage city should be the place
where the conjunction and no traumatic
continuity between past and future are
achieved. On the one hand we try to get a
friendly city. On the other we can’t hinder
its urban and economical development.
We must therefore reconcile the growth
of the city with the protection of its historical heritage.
Above all, we need a model, in order
to imagine the kind of place we want
for the future. In this paper we will define the concept of city we are planning for Mérida, with a criterion based
in the integration of historical heritage
in present urban planning policies. As
the main agent for the implementation
of this project, the Consortium for the
Monumental City of Mérida was created.
This is an organization for the management of the archaeological site through
the development of recording, research,
preservation and diffusion projects for
the Emeritan heritage.
145
1 Consorzio per la Città Monumentale di Mérida.
2 Comitato esecutivo: Gobex Goberno de
Extremadura, www.gobex.es/web.
BEIRuT
1
dAllA sePoltuRA del PAssAto AllA CelebRAZioNe dell’oblio
Mazen Haidar
MARGINI E MARGINALITÀ
1 Zawiyat ibn iraq, uno dei rari edifici che risalgono
al periodo Mamelouk sfuggito alle demolizioni,
estirpato dal contesto originale.
146
il passato dei luoghi. dipingere l’immagine di una città a volte può sembrare un’operazione semplice, addirittura
elementare. Se anche per un istante
crediamo a questa affermazione, dovremmo riconoscere l’impatto decisivo
dell’interpretazione della storia di un
luogo in qualunque progetto di ristrutturazione, di riassetto o di restauro su
scala urbana. un luogo viene definito
semanticamente dal suo ultimo strato.
La demolizione parziale di un quartiere
considerato di modesto valore patrimoniale, la condanna a morte di un isolato
di immobili moderni per la rivalorizzazione delle vestigia nascoste nel suolo,
una ricostruzione che sia identica ad un
monumento perduto da decenni oppure
mettere in mostra dei reperti archeologici al centro dei nuovi siti contemporanei sono tutte operazioni che pongono
un solo interrogativo: quale rapporto
stabilire con il passato del luogo e come
raccontarne la storia. La nostra tesi iniziale potrebbe essere giustificata in un
quadro simile agli esempi appena citati.
Il carattere di una città viene definito per
così dire dalla visione attuale che tale
città offre del suo passato. Ma quali sarebbero dunque le diverse reazioni che
si possono osservare nei confronti della
storia di un luogo? Le differenti visioni
non sarebbero influenzate o anche dettate dalle vicissitudini di una città, di un
paese o di una regione? Se la città di Beirut figura in ottima posizione nella battaglia allegorica e della memoria per la
riconquista o, come vedremo, per l’abbandono del passato, le risposte a queste domande basilari, molto evidenti su
un piano deduttivo, rimandano a loro volta a diversi ragionamenti. Innanzitutto,
alla prima domanda in cui ci si interroga
sulla natura dei rapporti intercorsi con il
passato, se ne aggiungono molte altre.
Per esempio, quali sono gli attori pubblici o privati che decidono o amministrano
questo dialogo tra la città di oggi e la sua
storia, e in che modo lo gestiscono? Tale
dialogo è veramente frutto di un’azione
volontaria o pianificata? dalla seconda
domanda, che apre l’indagine sui fattori che hanno determinato le strategie di
gestione della storia, emerge la tematica primordiale del tempo e della maturità storica. Tale distanza o oggettivazione
del passato è quindi una linea di demarcazione tra le conseguenze emotive di un
capovolgimento o di un cambiamento su
una determinata società e la traduzione
attiva di tali emozioni. un’espressione
che può assumere la forma, tra l’altro,
di un rifiuto totale di un periodo vissuto
come nefasto o anche dei suoi punti di riferimento fisici, o ancora della rivendicazione e della valorizzazione di un capitolo storico tramite la restituzione dei suoi
monumenti. un’introspezione metodica
proporrebbe già delle risposte a ciascuna delle domande rilevate. I problemi
che abbiamo posto fanno pensare ad un
rapporto di causa/effetto tra il modo in
cui si manifesta l’atteggiamento verso il
passato e il contesto storico e temporale
che lo determina. Anzitutto ci accorderemo sulla lettura diretta della città del
dopoguerra mettendo parallelamente
l’accento sul contesto geopolitico che ha
portato a queste scelte nella definizione
della storia. Per apprezzare in maniera
più precisa il ruolo della storia nella città contemporanea sarebbe necessario
rievocare l’illustrazione materiale delle
rotture, delle continuità o della coesi-
stenza con la città del passato, soffermandoci su parecchi periodi storici. In
questo articolo la nostra attenzione non
è rivolta ad un’epoca remota, anche se
l’accumulo degli strati della città meriterebbe di essere trattato.
beirut moderna e contemporanea. dedicheremo invece la nostra lettura alla
città moderna e contemporanea per dilungarci in seguito sul capitolo drammaticamente eloquente della ricostruzione
del dopoguerra del centro di Beirut, un
capitolo che, a quanto pare, ha segnato
per sempre la storia moderna del paese.
L’estensione territoriale che si scorgeva
alla seconda metà del xix secolo inaugura una sequenza di riconfigurazioni
del volto della città che vedrà moltiplicare la sua dimensione di oltre dieci volte
in qualche decennio. dall’afflusso dei
migranti rurali verso le terre agricole
adiacenti, dal centro della città ottomana all’urbanizzazione e alla creazione
delle periferie alla fine del xix secolo,
fino ad arrivare alla fusione dei quartieri
periferici con il centro della città sotto il
mandato francese, la modernizzazione si
coniuga con l’introduzione di nuove tipologie residenziali e di nuove reti viarie che
progressivamente andranno a sostituirsi
al tessuto urbano del passato fino ad eliminare per sempre i riferimenti più noti
come le antiche mura e la fortezza del
porto1. Lo studio comparativo dei diversi cliché fotografici della fine del xix secolo in cui figurano i contorni della città
in evoluzione diventa una delle chiavi di
comprensione storica dell’agglomerato.
Le descrizioni della città fatte dai visitatori occidentali ripercorrono così lo spazio urbano in via di trasformazione continua dove vengono prese le distanze dallo
strato delle epoche antecedenti. A tale
proposito indaghiamo su due resoconti
di viaggio di tre diversi autori francesi i
quali hanno descritto, spesso con un po’
di fantasia, l’immagine della Beirut che
hanno conosciuto visitandola intorno alla
metà del xix secolo. Jean Charles Louis
Reynaud scriveva nel 1844:
L’interno della città ha un aspetto cupo e triste, le case somigliano a delle prigioni, e le
finestre si aprono sui cortili interni in maniera tale che soltanto le porte tagliano le parti
di muro che costeggiano la strada2.
facendo riferimento all’addensamento
della città vecchia e alla diminuzione degli spazi liberi intra-muros, Reynaud si è
quindi soffermato sull’aspetto introverso di Beirut che non tarderà ad essere
dimenticato negli anni a venire con la
creazione di città giardino nella periferia
vicina. Quindi un’immagine nuova, libera
e molto più radiosa che caratterizzerà
il complesso urbano della città portuale in pieno sviluppo economico. ne La
Siria di oggi, viaggi nella Fenicia, il Libano e la Giudea Louis Lortet, nel 1884, si
sofferma sul cambiamento dell’aspetto
dell’agglomerato e indirettamente descrive una città nuova che si sovrappone
a quella antica:
L’aspetto di Beirut oggi è molto diverso rispetto a quello che era alcuni anni fa. un magnifico quartiere è stato costruito in mezzo ai
giardini che dominano la rada, e sulle colline
intorno vaste costruzioni ad opera di associazioni religiose francesi, inglesi, americane, tedesche, conferiscono alla città nuova
un aspetto davvero imponente3.
La trasformazione quindi lascia poco
spazio alla linea di demarcazione tra
l’insieme esistente e le nuove costruzioni. Il cambiamento, l’espansione e la
modernizzazione iniziate dalle autorità
ottomane si coniugano con l’importazione di nuove tecnologie di costruzione,
con nuovi schemi di assetto urbano e
con una nuova architettura privata che
insieme si sovrappongono al tessuto
antico. Il modello della città nuova elevato al rango di valore tuttavia si fisserà
in modo permanente nello spirito della
città come un preponderante e intenso
sentimento di bramosia. È giocoforza
constatare che questo ritmo ben serrato dei cambiamenti alla scala urbana e
anche la portata di ciascuna delle fasi di
transizione hanno lasciato poco spazio
per oggettivare il passato prossimo. Ci
sono state riforme urbane e nuove realizzazioni architettoniche ottomane in
opera nella città francese fino al periodo dell’indipendenza che ha preceduto il
grande conflitto civile, ma una sensibilità pubblica per un patrimonio moderno è lungi dall’essere un fatto acquisito.
I punti di riferimento fisici del periodo
antecedente, al contrario, saranno visti
con diffidenza dai loro stessi utenti che
non si lasceranno sfuggire l’occasione
per sostituirli. L’antichità del costruito,
147
MARGINI E MARGINALITÀ
148
sopraffatta dalla portata innovativa delle politiche urbane, farà nascere sentimenti di perplessità nei confronti dell’eredità architettonica del passato. In un
paesaggio urbano regolarmente rimaneggiato spesso un valore patrimoniale non viene attribuito all’edificio in sé,
bensì al simbolo morale che tale edificio
rappresenta per una certa comunità.
non sarà sorprendente veder mettere
in risalto la data di fondazione di un’istituzione o di un semplice edificio, religioso o altro, pubblico o privato, anche
quando la costruzione d’origine è stata
sconvolta o addirittura demolita. nella nuova nazione libanese promotrice
della Modernità sin dalla sua creazione
nel 1920, il concetto di patrimonio fu sin
dall’inizio “strumentalizzato per mettere in evidenza le differenze più che per
sottolineare un’eredità comune a tutti i
Libanesi”. Come fa notare quindi May
davie, “le tracce materiali del passato
hanno avuto poca importanza, poiché
l’obiettivo fondamentale non era quello
di unire i cittadini, bensì di tutelare i diritti acquisiti.”4 In modo molto insidioso il
passato materiale, per così dire lo stato
d’origine di un edificio, diventa incongruo
nella nuova narrazione di quanto è stato
edificato, e quindi viene abilmente rinnegato. Il presente materiale e morale invece dovrà incorporare tutto sostituendosi all’antico. un edificio moderno potrà consolidare il legame con il contesto
geografico appropriandosi della storia
del luogo, ma anche disconoscendo o disprezzando la sua condizione precedente valorizzerà il proprio stato attuale, la
sua forza innovativa.
Il valore storico del costruito sembra
quindi completamente liberato dalla
sua dimensione fisica per ridursi al diritto di insediamento e di appartenenza
a un certo sito, in questo caso a quello
di una città profondamente legata alla
storia che rivendica infaticabilmente la
propria modernità. Se inquadriamo il
soggetto da un’altra prospettiva possiamo dire che l’astrazione dal patrimonio
costruito è emersa con la sua vulnerabilità. da un punto di vista funzionale,
il predominio del presente sul passato
mette in risalto in tutti i punti di riferimento fisici di quest’ultimo, qualunque
sia la loro vocazione originale, anche
la più simbolica, numerosi difetti. Per
molto tempo la questione se l’edificio risponda o meno alle nuove esigenze della
vita moderna pare non abbia dato adito
ad un vero dibattito né presso gli specialisti né presso gli utenti. In mancanza di
ciò, la totalità dell’edificato deve essere
ricostituita allorché la sua conservazione e la sua potenzialità di adattamento
siano prevedibili o anche molto fattibili. È
così che l’esistente diventa un semplice
residuo di un’epoca antecedente obsoleta o superata da una nuova modernità
e che potrebbe evocare di conseguenza
soltanto una situazione di inferiorità o di
mancanza di adattamento. Le molteplici
ridefinizioni dei modelli estetici e della
forme della socializzazione, l’aumento
della popolazione e anche il rapido progresso delle tecniche di costruzione accelerano i motivi dell’evoluzione. Il cambiamento, la volontà stessa di cambiare
acquista una connotazione sempre più
positiva. Parallelamente, tale rivendicazione unanime del nuovo, manifestata
in maniera esplicita dagli inizi del xx secolo, portava avanti un’idea anche molto precisa: la modernità non si realizza
sconvolgendo vecchi parametri culturali, ma anche sradicandoli materialmente
come se la loro espressione diventasse
una testimonianza ingombrante di un
momento obsoleto. Qualora la giustapposizione delle nuove costruzioni alle
antiche potesse diventare un’illustrazione materiale dell’evoluzione di una
società, tale coesistenza non tarderebbe ad essere rifiutata a vantaggio di una
visione unitaria dominante, volutamente
atemporale. Con il sostegno dei diversi
gestori culturali la nozione dell’esistente,
del patrimonio urbano, sarà privata della propria accettazione materiale e, nel
migliore dei casi, sarà canonizzata come
riferimento didattico, fonte di ispirazione
per i progetti futuri.
la costruzione del patrimonio. nel momento in cui incontra apprezzamento, il
costruito antico, spogliato della propria
dimensione materiale, farà da supporto nel presente a nuove idee che devono migliorarlo e anche superarlo. Se
necessario, però, l’antico dovrà essere
visibilmente smantellato per lasciare
posto a progetti innovativi che ne celebreranno orgogliosamente l’assenza.
Si crea quindi una netta separazione tra
l’oggetto visto nella sua potenza materiale da un lato e nel suo significato ideologico o nazionalista dall’altro5. Il campo
della semantica di un sito si mette quindi
a servizio degli operatori che si appropriano della storia: la valorizzazione di
un complesso costruito, ammirato per
la sua vocazione e non per l’interesse
estetico, si realizzerà necessariamente
secondo questo meccanismo di smantellamento e di ricostruzione. La pratica
della ridefinizione contemporanea di un
sito religioso o civile, pubblico o privato,
che si preoccupa poco delle sue forme
originarie e ancor meno della sua autenticità materiale si affermerà solidamente nello spirito collettivo come una forma
di rispetto e di perpetuazione della storia
fino ai nostri giorni.
Constateremo persino che tale sentimento di distacco, addirittura di rigetto
della materialità dell’opera della storia
moderna è favorita indirettamente da
un procedimento ufficiale: l’istituzione
del passato nel presente che si formalizzava a partire dalla prima metà del
xix secolo6 nella legge ottomana non
fa che ristabilirsi, senza affinarsi molto, durante tutto il periodo del mandato
francese e dell’indipendenza del paese.
Avendo limitato il valore storico alle vestigia archeologiche, la genesi del concetto di patrimonio nella dimensione
moderna è lungi dall’essere realizzata.
Il diritto alla sopravvivenza viene quindi
fatalmente negato alle costruzioni delle epoche più moderne tra cui il lungo
periodo ottomano, innegabilmente il più
coerente sull’insieme del territorio. Sottoposte a questa visione museologica
del patrimonio, le iniziative istituzionali
manifestano solo raramente un interesse per i prodotti architettonici e urbani
degli ultimi quattro secoli. fatta eccezione per qualche opera grandiosa come
i palazzi suburbani e il “Grand Sérail”,
il complesso degli edifici costruiti viene
privato di qualunque significato materiale o anche morale. Sotto l’impulso di
un settarismo culturale creato durante
il mandato francese e perpetuato dopo
l’indipendenza, l’eredità architettonica
è regolarmente sottoposta a una distruzione di matrice talvolta nazionalista, in
cui l’abolizione del passato recente si
unisce ad una ricostruzione identitaria, e
altre volte collegata più semplicemente
ad un disconoscimento dell’utilità delle
vestigia antiche nella vita di oggi.
La cultura delle vestigia archeologiche
percepite come l’unica garante della tra-
smissione della storia si sviluppa quindi
nell’ambito di questo schema stravolto. Il
passato recente, pervaso da sentimenti
opposti e incerti, si trova privato delle sue frontiere e viene costantemente
trasformato a vantaggio della giovane
nazione libanese. Al moltiplicarsi delle
tensioni contro il “moderno superato”
si oppone un sentimento piuttosto isolato nei confronti dell’antichità cui si è
affettivamente meno legati, facilmente
raccolta in un’entità temporale distinta.
Tuttavia proprio questa distanza focale
nei confronti dell’archeologia ha aperto
la strada ad uno sfruttamento semantico del passato. Alle vestigia liberate di
epoche lontane che contengono significati reconditi e soprattutto inaccessibili spetterà la funzione di incarnare
in modo totalizzante e assoluto tutta la
storia della nazione e di erigere un’ossatura culturale estranea alla popolazione.
Sull’argomento della malleabilità e della
costruzione ideologica del patrimonio riprendiamo le idee riformulate da Michael
davie sulla reinvenzione occidentale della storia nella regione del Vicino Oriente.
Il lavoro di esplorazione della regione (in Siria, nella catena montuosa del Libano, in Palestina) è stato effettuato da missionari, archeologici e militari. Tale lavoro si unisce alla
logica dell’appropriazione dello spazio del
nord Africa, identificando edifici e siti emblematici che giustificano la colonizzazione.
non poteva quindi interessarsi seriamente,
nel caso preciso dell’attuale spazio libanese, ai monumenti islamici del periodo venuto
prima delle crociate, né alle vestigia bizantine. Questi monumenti fanno riferimento a
mondi e civiltà che secondo l’Europa erano
culturalmente troppo remoti o troppo ostili al
loro progetto: effettivamente l’Islam e Bisanzio avevano limitato le ambizioni europee nel
Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Il fascino
dei siti delle crociate in cui si erano imbattuti
rinvia quindi a logiche articolate alla Storia
particolare della Chiesa Cattolica7.
L’irruzione del passato nel presente
in base alla logica coloniale sarebbe
dunque organizzata da una legge egemonica in cui i riferimenti antichi sono
presentati in maniera arbitraria e disorganica. non possiamo esimerci dal constatare che l’appropriazione del passato
in tale processo privilegia un repertorio
manifestamente inoffensivo a discapito
degli edifici moderni ancor più ricchi di
significati per la popolazione. Impadronendosi di segnali poco comunicativi
presi sotto forma di strumento di propaganda ed eliminando quelli che dicono
qualcosa di più, verrà data la definizione
nuova della storia nella città moderna.
Allora quali sarebbero le chiavi di lettura dei siti archeologici liberati nel loro
contesto in pieno sviluppo? Il contrasto
tra un tempo fossilizzato incarnato dalle rovine messe in prospettiva nel paesaggio urbano e l’attività incessante del
costruire che caratterizza il paese può
permettere di veicolare un senso di storicità in chiunque?
Per rispondere a queste domande prenderemo in esame il caso oramai paradigmatico della ricostruzione del dopoguerra del centro di Beirut. All’indomani
dell’indipendenza i princìpi coloniali –
uniti alla visione museologica del patrimonio radicata da un secolo – vengono
anche canonizzati da apparati amministrativi di salvaguardia e di gestione del
patrimonio. La direzione generale delle
antichità, unico dispositivo presente sul
territorio, si limiterà a ricondurre questa strategia relativa al patrimonio delimitando in maniera cronologica l’epoca
149
MARGINI E MARGINALITÀ
150
di interesse pubblico all’anno 1700. Ma,
soprattutto, il momento solenne della
ricostruzione in seguito ai lunghi anni di
guerra civile (1975-1990) farà proliferare
gli appelli alla salvaguardia della memoria del vecchio cuore palpitante della
capitale; una presa di posizione che non
può conciliarsi con il progetto di riassetto
urbano affidato alla società immobiliare
privata Solidere e che, in misura minore,
rimetterà in discussione le logiche del
settarismo patrimoniale. In uno studio
pubblicato nel 20118 ci siamo soffermati
sulla trasformazione radicale subita dal
centro a partire dagli anni ’90 e sull’evoluzione dello spirito del luogo nella nuova
generazione. Il settarismo storico a lungo descritto in tale saggio in sintesi assume un’ampiezza significativa chiaramente illustrata dallo slogan stesso della società privata discussa. Beirut “città
antica per il futuro” si prefigurava come
l’arma decisiva per riesumare la capitale dalla sua lunga agonia occultando le
tracce giudicate ingombranti per la sua
storia. Il futuro della città diventava allora la “ragion d’essere” fondamentale che
doveva liberare il vecchio centro della
città, idealmente e materialmente verso
un tempo nuovo9: una proiezione continua nel futuro. Il contrasto combinato tra
l’antico e il futuro mirerebbe dopo tutto a
liberare il presente dalle restrizioni storiche, associandolo a riferimenti temporali ben definiti. La storia della città,
messa in stretta relazione con il suo futuro, si riduceva in particolare a qualche
vestigia della città antica e all’eredità architettonica dell’epoca coloniale francese. Mentre gli assi e gli edifici di Place de
l’Etoile erano restaurati con meticolosità
e rimessi in prospettiva nel paesaggio
urbano10, abbiamo assistito a una rottura
brutale con le vestigia del lungo periodo
ottomano proprio come con il periodo di
fervore modernista legato intimamente
al periodo dell’indipendenza del paese.
A seguito delle demolizioni di Place des
Martyrs, il centro del centro, farà seguito ovviamente il momento solenne della
scoperta avida della città antica, la quale
in futuro dovrà far dimenticare il ricordo
della guerra e in più giustificare la demolizione stessa degli edifici moderni.
Senza essere veramente in contraddizione con lo slogan di propaganda mediatica, la rivelazione selettiva dell’Antichità non mira a tessere un legame
tra lo spazio urbano ricostruito e la sua
storia. In questa ricerca del passato in
cui si intrecciano diverse poste in gioco,
il ruolo museale rimane di gran lunga
quello dominante. In questa ricerca di un
piacere estetico si inserisce la rivelazione del patrimonio nascosto: addossati ai
nuovi edifici commerciali di quello che
fu il vecchio centro della capitale, i pochi
riferimenti risparmiati alle distruzioni e
preservati in situ11 vengono nascosti nei
sottosuoli o fanno da ornamento agli
spazi residui non utilizzati.
Risparmiati dalle demolizioni degli anni
1990, edifici d’epoca moderna da cui si
vedono sempre le tracce del conflitto12
restano ancora in piedi nello spazio urbano drasticamente alterato. Ovviamente l’eventualità della loro demolizione o
modifica rimane sempre attuale. Inizia a
farsi sentire un interesse pubblico per la
salvaguardia dei resti di Beirut di prima
della guerra: gli unici depositari della
memoria del lungo conflitto e del paese
di prima della guerra partecipano necessariamente alla ricostruzione molto
tardiva di una identità nazionale. Il confronto tra questa ricchezza moderna,
sempre incompresa, e l’altra più assimilata dell’archeologia, anche se tenuta
in scarsa considerazione, diventano il
punto di partenza di tante indagini attuali sul valore e sul ruolo del passato nel
presente. Abbattuta dalla demarcazione
museale della città storica, la gestione
pubblica del patrimonio antico non può
essere elaborata senza esprimere una
riflessione critica sul posto importante,
direi primordiale, del passato recente
della città moderna a lungo colpita da
conflitti.
1 Per un approfondimento su questo argomento cfr.
R. Saliba, Beyrouth architectures. Aux sources de la
modernité 1920-1940, Parenthèses, Marseille 2009.
2 Cfr. J.C.L. Reynaud, D’Athènes à Baalbeck, furne et
Cie, Paris 1844, pp. 143-144.
3 Cfr. L. Lortet, La Syrie d’aujourd’hui, Voyages Dans
La Phénicie, Le Liban et La Judée 1875-1880, Librairie
Hachette et Cie, Paris 1884.
4 Cfr. M. davie, La construction nationale et l’héritage
ottoman au Liban, in J.-C. david, S. Müller Celka (a cura
di), Patrimoines culturels en Méditerranée Orientale:
recherche scientifique et enjeux identitaires, université
Lumière Lyon 2, Lyon 2009.
5 M.davie, La construction nationale et l’héritage
ottoman au Liban, cit.
6 Cfr. M. davie, Enjeux et identités dans la genèse du
patrimoine libanais, in Z. Akl, M. f. davie (a cura di),
Questions sur le patrimoine architectural et urbain au
Liban, Beyrouth et Tours, Beyrouth 1999, pp. 51-76.
7 Cfr. Michael f. davie, Le patrimoine architectural
et urbain au Liban: des pistes de recherche in Z. Akl,
M. f. davie (a cura di), Questions sur le patrimoine
architectural et urbain au Liban, cit., p. 12.
8 M. Haidar, Beyrouth et la nouvelle mémoire, in C.
forget (a cura di), Penser et pratiquer l’esprit du lieu,
pul, Laval 2011.
9 Cfr. f. dahdah, On Solidere’s Motto “Beirut: Ancient
City of the Future”, in P. Rowe, H. Sarkis (a cura di),
Projecting Beirut, Prestel, München-London-new York
1998, p. 68.
10 Sull’argomento della restaurazione stilistica: Cfr.
M. Haidar (a cura di), Città e memoria Beirut, Berlino,
Sarajevo, Mondadori, Milano 2006, pp. 27-89.
11 Per una bibliografia esaustiva sull’attività
archeologica nel centro di Berirut si rimanda al sito:
www.almashriq.hiof.no/lebanon/900/930/930.1/
beirut/reconstruction/.
12 Alludiamo all’illustre cinema dell’ex complesso del
City Center noto come “l’œuf” o “le savon”, e ad altri
edifici sfuggiti alle demolizioni di Solidere come gli
ex-locali del quotidiano francofono L’Orient.
FRoM tHe buRiAl oF tHe PAst to
tHe CelebRAtioN oF oblivioN
ABSTRACT
Altered beyond recognition by war damage and what is euphemistically known
as “post-war reconstruction” and shaken by the last conquests of its ancient
history to the detriment of its modern
urban legacy, Beirut assumes the paradigmatic rank of a freudian city, where
the overlapping layers resemble those
of the human soul, weighty and complex.
from its continually declared Modernity,
proclaimed ever since the fall of the Ottoman Empire, to the flaunted removal
of physical references reminiscent of
the civil war, co-existence with the past
has merged with the process of building
the national identity of the young Lebanese republic. How should we interpret
the various different reactions we can
observe to a country’s history and how
should we redefine the concept of time in
an environment that sees continual social and cultural transformation? When
the end of the war solemnly cleared the
way for the reinstatement of the Lebanese state’s institutions in 1990, the
opening of Beirut’s line of demarcation
and its city centre, isolated from daily
life for so long, was obviously the first
essential step towards restoring national unity. Over two decades after the start
of the city centre’s reconstruction, and
given a tendency for temporary conditions to become permanent in several
parts of the city, there seems to be an
overlapping of different remnants of the
past: the image of a golden age stands
out amidst the many signs of the long
armed conflict, interweaving with the
post-war era’s “timelessness”. Amidst
the resurrection of its ancient past, the
cancelling of its recent past and a brash
projection towards the future, places today seem to be building new meanings
for themselves that are almost at odds
with those that existed before the war.
When we are now asked to debate the
memory of places in the third decade of
reunification, not only do we need to take
stock of the fragmentary nature of remnants attesting the city’s division, but we
must also consider, first and foremost,
the processual nature of what we call
“the past”, its actual completeness in
time and its objectification, tackling the
way the reconstruction process itself
endows transience with official status.
The following article retraces the common theme that runs through the succession of conflicts, rifts and reconciliations and the many re-definitions of
architectural heritage. In analysing the
fully-fledged awareness of its history in
the collective consciousness, our approach draws on a museological view of
cultural and ancient assets that is rooted in the country’s culture and was put
forward afresh during the reconstruction process of the 1990s.
151
LuBIAnA
1
uRbAN HeRitAGe CoNNeCted:
il PARCo ARCHeoloGiCo dellA ANtiCA eMoNA
Jerneja Batič
MARGINI E MARGINALITÀ
1 G. Plecnik, Studi per il piano regolatore di Lubiana,
1929.
152
Gestione del patrimonio culturale. Lubiana si trova ad un crocevia della storia
e della cultura europea che ha visto la
fusione, nel corso dei secoli, di influenze
provenienti da ovest e da est, da nord e
da sud. Rappresenta un punto d’incontro e congiunzione dei mondi romano,
germanico e slavo. Si può dire che proprio questa posizione strategica ha permesso la nascita, attraverso i secoli, di
un ricchissimo patrimonio culturale che
risale alla preistoria e che oggi si riflette nel dinamismo e nella vita culturale
della città1.
In tale contesto le istituzioni si sono date
il compito molto importante di portare il
patrimonio culturale più vicino alla gente, di connetterlo con il ritmo urbano di
tutti i giorni.
Questo intento è stato formalizzato nella “Strategia per lo sviluppo culturale di
Lubiana”, uno dei cui obiettivi principali
è promuovere una gestione del patrimonio che consenta uno sviluppo sostenibile del centro cittadino. Presentando il
patrimonio al pubblico vengono create
le condizioni per la sua conservazione
e per una migliore tutela, evidenziando
anche il vasto potenziale didattico e turistico. Tale valorizzazione innesca un
processo di rigenerazione urbana e di
coesione sociale di parti trascurate della città.
In questo contesto, e all’interno di un più
vasto piano strategico, la Città di Lubiana persegue un obiettivo primario: istituire un sistema di politiche di gestione
del patrimonio culturale e sviluppare
metodi contemporanei di divulgazione
nella sfera pubblica. Attraverso l’uso
di tecnologie all’avanguardia e design
innovativo, il contenuto reinterpretato
del patrimonio aiuterà gli utenti a comprendere meglio la città e il suo sviluppo
urbanistico. Le tecniche interpretative
contemporanee (in loco, ricostruzioni
virtuali multimediali, applicazioni mobili) forniscono nuove possibilità a vari
programmi culturali, didattici e turistici. Gli interventi che abbiamo intrapreso
mirano a istituire punti di informazione
dedicati a ogni importante fase insediativa delle città. Al momento il programma si pone tre obiettivi:
– Istituzione di punti di informazione per
la presentazione e la promozione del
patrimonio preistorico di Lubiana, con
la presentazione dell’insediamento
antico e della palude con le sue palafitte, dichiarate patrimonio culturale
unesco2;
– Istituzione di punti di informazione sul
patrimonio archeologico dell’Emona
romana per garantire una gestione e
presentazione adeguate dei resti archeologici in loco;
– Istituzione di punti di informazione per
la presentazione dello sviluppo della
Lubiana medievale e dei suoi monumenti culturali.
Il primo passo verso la realizzazione
di questi obiettivi è un progetto in loco
sui siti archeologici. forse il patrimonio
più significativo è rappresentato dai siti
archeologici del periodo dell’Emona romana3.
Il patrimonio culturale presente nel sito
romano di Emona è il risultato di oltre
un secolo di lavoro ambizioso di conservatori, architetti e altri operatori, di lun-
ghi sforzi e di numerosi interventi che
hanno reso fruibile numerosi reperti
romani4.
L’ultimo grande scavo è stato effettuato
negli ultimi cinque anni, quando il comune di Lubiana ha deciso di ristrutturare
piazza del Congresso con la costruzione
di un parcheggio sotterraneo. Piazza del
Congresso rappresenta il più importante
intervento urbanistico nel centro di Lubiana connesso con uno scavo archeologico. La sua ultima grande ristrutturazione era stata realizzata su progetto del
famoso architetto sloveno Jože Plečnik
nel 1928, a circa cento anni dalla costruzione della piazza. negli anni ’70 piazza
del Congresso è stata pavimentata con
asfalto e trasformata in parcheggio. Il
progetto vincitore ha conservato l’intervento di Plečnik come monumento di valore nazionale e si appropria con grande
rispetto del ricco patrimonio culturale
svelando le stratificazioni storiche di
questo luogo, molto caro alla memoria
dei cittadini di Lubiana.
La nuova illuminazione e la riqualifica-
zione attraverso la creazione di una zona
pedonale aggiornano il progetto originale di Plečnik conferendogli un’ambizione
moderna e promuovendo l’articolazione
programmatica dell’idea architettonica originaria: una monumentale piazza
principale per i grandi eventi pubblici.
I lavori di riqualificazione di piazza del
Congresso e di costruzione del parcheggio sotterraneo hanno consentito
importantissime scoperte archeologiche in questo sito.
Tuttavia negli ultimi dieci anni ci siamo
resi conto che il patrimonio culturale di
Emona non era più attraente per i cittadini o per i turisti, era diventato impercettibile e sempre più inaccessibile.
In particolare, le modalità di presentazione in loco e la loro integrazione
nell’ambiente edificato sono sempre
state operazioni difficili sia per i professionisti delle scienze archeologiche e
museali che per la comunità residente.
Pur offrendo un grande potenziale culturale e turistico, i siti purtroppo risultano spesso trascurati, soprattutto a causa di una strategia di gestione olistica.
Inoltre la maggior parte dei monumenti
archeologici mancavano di contenuti interpretativi concisi e di programmi museali.
Considerando la condizione dei parchi
archeologici esistenti e di altri reperti
archeologici sparsi per la città che risultavano difficili da individuare, e i concomitanti vasti scavi archeologici nel cantiere del nuovo parcheggio sotto piazza
del Congresso, eravamo alla ricerca di
opportunità per la loro rivitalizzazione.
nel 2011 abbiamo ottenuto dei fondi europei con i quali è stato avviato un progetto di rivitalizzazione della gestione
dei parchi archeologici. Tutti gli obiettivi
fissati sono stati realizzati: la costru-
zione di strutture per la presentazione
degli scavi di Emona, la conservazione
e la rivitalizzazione dei parchi archeologici e il restauro di singoli monumenti5.
In tutti gli interventi abbiamo seguito un
approccio di conservazione sostenibile
del patrimonio culturale, favorendone
l’integrazione con la vita moderna attraverso programmi mirati per diversi
gruppi di utenti. Il nostro obiettivo era
collegare fra loro i monumenti archeologici in un sistema articolato e aggiungere valore al patrimonio mediante
moderni contenuti interpretativi. Questo
difficile compito è stato affidato al narodni Muzej Slovenije, un preminente
museo sloveno noto per l’approccio fortemente innovativo nella divulgazione e
presentazione del patrimonio culturale.
Piazza del Congresso e i-emona. Tre
uscite del parcheggio sotterraneo ospitano una mostra permanente dei reperti
provenienti principalmente dal romano
“Castrum Iulia Emona”, poi monastero
dei cappuccini. La parte più importante di questo sistema è un collegamento
sotterraneo al parcheggio che integra
l’atrio della porta nord di Emona, dove si
trovano le vestigia della strada romana
originale e delle porte della città. Insieme ai resti rinvenuti della statua d’oro
romana dell’“Emonec” (il cittadino di
Emona) e delle pietre di un “ipocausto”
romano, questo collegamento è diventato parte di una più vasta passeggiata
archeologica sotterranea.
Quello che altrimenti sarebbe un anonimo passaggio sotterraneo ora è diventato lo spazio di un’organica esperienza interattiva. Caratterizzata dai
resti della strada romana originale,
la mostra permanente è dedicata alla
153
MARGINI E MARGINALITÀ
154
presentazione della strada con un’interpretazione museale virtuale della
vita che vi si conduceva. Il contenuto
informativo è fornito attraverso un modulo interattivo che comprende pannelli touch-screen e un modello tridimensionale in scala di Emona inserito
nel contesto della città moderna. La
mostra lungo la passeggiata funge anche da punto informativo che rimanda
ad altri parchi archeologici esistenti e
ristrutturati della città.
La rete di moduli informativi interattivi
su scala cittadina offre ai visitatori una
presentazione completa del patrimonio
dell’Emona romana disperso nell’ampio
territorio del centro della città. I parchi
includono una casa restaurata dell’antica Emona, un battistero paleocristiano
e cospicui tratti delle mura di terrapieno di Emona. Le presentazioni vengono
aggiornate con il codice qr e con i programmi di eventi diretti a diversi gruppi
di utenti (cittadini, scolaresche, turisti,
utenti disabili, famiglie con bambini).
La riqualificazione di piazza Congresso e la rivitalizzazione dei parchi archeologici sono state due operazioni
molto impegnative e complesse per
Lubiana. Il successo di tali progetti
è dovuto sicuramente in larga parte
alla sensibilità degli architetti e alla
loro comprensione dello spazio urbano, alla loro capacità di trasformare
strutture esistenti in nuovi ambienti e,
attraverso l’interpretazione di passate
concezioni urbanistiche, adeguarli con
abilità alle esigenze della vita moderna. Gli obiettivi principali del nostro
progetto sono:
– Integrazione del patrimonio culturale
nella vita quotidiana della città e dei
suoi abitanti;
– Inclusione dei parchi geologici nella
struttura urbana: patrimonio culturale + architettura contemporanea =
rigenerazione dello spazio urbano;
– Piano gestionale del Parco archeologico di Emona che includa lo sviluppo
sostenibile;
– Programmi museali per tutte le generazioni;
– nuovi prodotti turistici.
1 Attualmente Lubiana, 260.000 abitanti, vanta
14 musei e 33 gallerie d’arte, 10 teatri e 47
organizzazioni culturali non governative. In un
anno Lubiana ospita più di 10.000 eventi culturali,
10 festival internazionali e nel 2010 l’unesco le ha
conferito il prestigioso titolo di Capitale mondiale
del libro.
2 Per il lancio di questo progetto, il Museo Civico di
Lubiana ha organizzato la mostra “La Ruota – 5200
anni”, che collega il patrimonio antico, lo sviluppo
tecnologico-scientifico con la cultura e l’arte. La
più antica ruota in legno ad asse, costruita 5.200
anni fa, è stata scoperta nella palude di Lubiana.
3 dopo avere occupato l’area su cui sorge l’attuale
Lubiana, intorno al 14 d.C. i Romani fondarono un
insediamento chiamato Colonia Iulia Emona in una
piana tra due colline. dal i al vi secolo Emona fu un
importante presidio strategico. Venne fortificato
su tutti i lati con robuste mura munite di oltre
venti torri. Al suo interno però presentava tutti gli
elementi tipici dell’architettura urbana romana,
come grandi bastioni e la pianta a scacchiera
che divideva la città in isolati quadrati occupati
da unità abitative chiamate insulae. Sotto il livello
stradale era stata costruita una rete fognaria le cui
condutture portavano al fiume Ljubljanica. Il centro
della città era occupato da uno spazio aperto – il
forum – circondato da edifici religiosi, commerciali
e amministrativi.
nel corso dello sviluppo urbanistico della città di
Lubiana sono venute alla luce numerose vestigia
romane.
4 Le mura di terrapieno a Mirje rappresentano il
più grande complesso di resti dell’Emona romana.
All’interno della città moderna si conserva ancora
una grande porzione delle mura meridionali con
elementi originali delle torri della porta sud.
nella fase di rapido sviluppo della città
all’indomani della Seconda guerra mondiale furono
forti le tentazioni di demolire le mura. Promossa
dal conservatore franc Stele e dall’architetto
uRbAN HeRitAGe CoNNeCted: tHe
ARCHAeoloGiCAl PARK oF tHe
ANCieNt eMoNA
ABSTRACT
Jože Plečnik, un’iniziativa pubblica impedì la
demolizione e le mura furono restaurate su
progetto del Plečnik.
5. nel 1966 furono scoperti i resti di una
costruzione romana di fine iv secolo – inizi v
secolo, la Casa emonica. A giudicare dalle finiture
e dai servizi di alta qualità (pavimenti, mosaici,
riscaldamento), l’edificio ospitava una famiglia
romana ricca e rispettabile.
Lo spazio abitativo centrale era occupato da
quella che viene definita una stanza estiva con il
pavimento decorato da un mosaico geometrico
bicromatico. Sul lato opposto c’era la stanza
invernale, dotata di ipocausto, un sistema di
riscaldamento sotterraneo, che si è conservato.
Per consentire la conducibilità termica, le pareti
furono costruite con mattoni forati. L’edificio inoltre
era collegato alla rete fognaria, la cloaca.
Gli scavi archeologici condotti negli anni ’70 hanno
portato alla luce un edificio residenziale romano, il
Centro paleocristiano. Come la maggior parte delle
case emoniche, fu costruito agli inizi del I secolo
d.C. nei quasi 500 anni della sua esistenza fu
ricostruito più volte. La prima grande ricostruzione
risale all’inizio del iv secolo, quando furono rifatti
i pavimenti, realizzato l’ipocausto e aggiunte tre
piccole piscine, il che fa pensare a una possibile
trasformazione dell’edificio in bagni privati.
nella seconda metà del iv secolo una parte
della casa fu ricostruita in forma di cappella
paleocristiana. È però dell’inizio del v secolo una
modifica più radicale che vide la costruzione
di un battistero rettangolare con una piccola
vasca battesimale a fianco del cortile centrale. Il
pavimento del battistero è rivestito da un mosaico
policromo con iscrizioni che riportano i nomi dei
cittadini di Emona che avevano donato i fondi per la
sua realizzazione. Questo dimostra che all’epoca
viveva in città una forte comunità di primi cristiani.
La sua esistenza è confermata anche da documenti
scritti che fanno riferimento ai vescovi di Emona.
In last ten years we have realized that
Emona cultural heritage is no more interesting for the citizens or tourists, it
become imperceptible and more and
more an accessible.
Especially the in situ methods of presentation and its integration in the built environment has always proved a
challenge both for the professionals of
archaeological and museums sciences
and the community. Whilst offering a
great cultural and tourism potential
the sites unfortunately often remain
neglected, mostly due to holistic management strategy. for the most part
archaeological monuments so far were
also lacking concise interpretative contents and museum programs.
Considering the present condition of
the existing archaeological parks and
other archaeological findings scattered
around the city, which were very difficult
to discern, and the concurrent extensive
archaeological excavations on the construction site of the new car-park under
Congress Square, we were looking for
opportunities for their revitalization.
The goals of our project:
– Intergation of cultural heritage in a
daily life of the city and its ihabitants;
– Inclusion of archaeological parcs in
the city urban structure: cultural heritage + contemporary achitecture =
regeneration of urban space;
– Menagement plan of Archaeological
parc of Emona which include sostenible development;
– Museum programmes for all generations;
– new tourist products.
155
TERRITORIALIZZAZIONI
156
TerriTorializzazioni
TERRITORIALIZATIONS
a cura di edited by Fausto Carmelo nigrelli
157
il PAtRiMoNio teRRitoRiAle
fausto Carmelo nigrelli
una premessa teorica. L’approccio scelto per affrontare il tema di una lettura
paesaggistica dell’archeologia è quello del processo tdr Territorializzazione –
deterritorializzazione – Riterritorializzazione qui interpretato anche come strumento progettuale di luoghi in bilico tra ciò che sono stati, ciò che sono e ciò che
saranno.
Tale approccio ha avuto la sua definizione filosofica grazie alle riflessioni di Gilles
deleuze e félix Guattari1 per i quali la territorializzazione è l’azione di “presa di
possesso” di uno spazio geografico da parte di una comunità, cioè la nascita di
“relazione con la terra”, e il processo – mai concluso – si articola in fasi di deterritorializzazione, cioè perdita o sottrazione della relazione, e riterritorializzazione,
normalmente intesa come creazione di una nuova territorializzazione altrove.
In precedenza la fase dr aveva assunto un altro connotato più interessante per
la disciplina della pianificazione: la deterritorializzazione, oltre che abbandono
del territorio, ha assunto anche il significato di perdita o scomparsa dei limiti, dei
confini, ma anche dei ritmi, dei cicli2. Allo stesso modo la riterritorializzazione,
ossia la fase che interviene attraverso una nuova “presa di possesso”, spesso
solo parziale, di luoghi già precedentemente oggetto di fenomeni td.
Il processo potrebbe anche essere, più genericamente, definito di valorizzazionedevalorizzazione-rivalorizzazione poiché la fase di “presa di possesso” non è altro
che un riconoscimento/assegnazione di valori agli elementi che costituiscono lo
spazio geografico, non solo in termini economici, ma giuridici (confini), simbolici,
religiosi, linguistici (toponimi) e una loro evoluzione in risorse. Gli eventi storici
determinano un cambiamento di tali valori o di parti di essi, sia in modo definitivo,
(anche se nulla in questo campo può essere inteso come definitivo), che in modo
parziale: per sostituzioni, per sovrapposizioni, per inseminazioni culturali oppure
una perdita della loro funzione di risorsa. In particolare il valore cessa di essere
risorsa quando viene meno il sistema economico, culturale, sociale, simbolico
p. 155-156 v. latina, Schizzo del padiglione di
accesso agli scavi dell’ Artemision di Siracusa, 2010.
1 e. torres tur e J.A. Martínez lapeña, Acquarello
della prima proposta progettuale per il restauro delle
mura a Palma di Maiorca, 1983 (particolare).
159
1 G. deleuze, f. Guattari, Géophilosophie, in Qu’est-ce
que la philosophie?, Les Éditions de Minuit, Paris 1991;
tr. it. di A. de Lorenzis, Geofilosofia, in Millepiani, a. 0, n.
1, Mimesis, Milano 1993, pp. 9-34.
2 C. Raffestin, Territorializzazione, deterritorializzazione,
riterritorializzazione e informazione, in A. Turco (a cura
di), Regione e regionalizzazione, franco Angeli, Milano
1984.
TERRITORIALIZZAZIONI
160
3 f. Choay, L’allegorie du patrimoine, Seuil, Paris 1992;
tr. it. di E. d’Alfonso, L’allegoria del patrimonio, Officina,
Roma 1995, p. 119. Sul concetto di valore, nella stessa
opera, cfr. pp. 78-82.
4 A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri,
Torino 2000, p. 82.
5 Ivi, p. 89.
6 Enciclopedia Italiana, www.treccani.it/enciclopedia/
patrimonio, “I beni demaniali e i beni patrimoniali
indisponibili sono le due categorie nelle quali
si distinguono i beni pubblici, ossia i beni che
costituiscono il patrimonio pubblico. Questi beni sono
pubblici non semplicemente perché sono di pertinenza
di un ente pubblico, ma perché sono dall’ente destinati
a finalità di natura pubblica, finalità che può essere o
l’uso diretto e immediato del bene da parte dei singoli
(beni di uso pubblico) o l’uso di essi da parte dell’ente
stesso per l’esplicazione di attività pubblica”.
7 Il patrimonio comune sta al bene comune nello
stesso rapporto in cui il concetto di bene sta a
quello di patrimonio o quello di bene culturale sta a
quello di patrimonio culturale. un testo molto utile
sull’argomento è: u. Mattei, Beni comuni: un manifesto,
Laterza, Roma-Bari 2011.
8 I beni comuni “sono quelli funzionali all’esercizio
di diritti fondamentali e al libero sviluppo della
personalità, che devono essere salvaguardati
sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo,
proiettando la loro tutela nel mondo più lontano,
abitato dalle generazioni future” Cfr. S. Rodotà, Il
valore dei beni comuni, “La Repubblica”, 5 gennaio 2012.
Più avanti: “ciò di cui si parla è un nuovo rapporto tra
mondo delle persone e mondo dei beni, da tempo
sostanzialmente affidato alla logica del mercato,
dunque alla mediazione della proprietà, pubblica
o privata che fosse. Ora l’accento non è più posto
sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un
bene deve svolgere nella società”. Sul tema specifico
cfr. V. fedeli, Introduzione. Il progetto di territorio e
paesaggio: appunti sui contributi presentati e discussi alla
VII Conferenza SIU, in A. Lanzani e V. fedeli (a cura di),
Il progetto di territorio e paesaggio. Cronache e appunti
sui paesaggi/territori in trasformazione, Atti della vii
Conferenza siu, franco Angeli, Milano 2004, pp. 12-25.
Si veda in particolare il paragrafo “La natura di bene
pubblico del paesaggio”.
9 Se si convenisse sul considerare il paesaggio
epifenomeno del territorio, il disagio già registrato
da fedeli e verificabile in tutta la letteratura su
territorio e paesaggio dell’ultimo quindicennio
e dimostrato da soluzioni pilatesche come l’uso
dell’espressione paesaggigo/territorio, potrebbe dirsi
superato. Il valore paesaggistico, pertanto, sarebbe
un componente di ulteriore qualificazione del valore
territoriale applicabile a parti di territorio esito
particolarmente significativo dell’opera umana.
che ha determinato una specifica forma di uso del valore stesso e si innesca un
processo di perdita che può anche coinvolgere il valore stesso. Questo è quello
che accade, ad esempio, se e quando la comunità o l’istituzione non riconoscono
un paesaggio come valore: esso rimane alla mercé di modificazioni non controllate che possono anche distruggerlo, perdendolo per sempre.
La declinazione del processo come creazione-dissipazione-riattribuzione di valore
consente di spostare la riflessione sul concetto di patrimonio ampliando ulteriormente l’accezione estesa, elaborata una ventina d’anni fa da françoise Choay:
La nozione di patrimonio urbano storico […] costituisce il punto d’arrivo di una dialettica
della storia e della storicità che si gioca tra tre figure (o approcci) successivi, alla città
antica. Chiamerò queste figure, rispettivamente, memorizzante, storica e storicizzante3.
In questo caso non ci si limita al patrimonio culturale come definito dal Codice
dei beni culturali e del paesaggio, ma al “patrimonio territoriale”, a quell’insieme,
cioè, di luoghi, di relazioni, di usi, di simboli coinvolti nel processo tdr, ovvero, per
dirla con Alberto Magnagni, “il prodotto del processo storico di territorializzazione”4.
In altre parole è il territorio in sé a essere patrimonio “da cui attingere per produrre ricchezza attribuendogli sempre nuovi valori come risorsa e continuando,
attraverso nuovi atti territorializzanti, ad aumentarne il valore”5.
L’utilizzazione delle tre triadi descrittive del fenomeno si presta a un ulteriore
approfondimento poiché non si tratta di perfetti sinonimi, ma di cicli fenomenici
ciascuno dei quali rappresenta uno slittamento semantico rispetto agli altri, in
particolare in ambiti antropizzati da tempi immemori.
La questione si gioca attorno al rapporto tra patrimonio e valore.
Il patrimonio territoriale è concetto più esteso di quello di patrimonio pubblico,
almeno nell’accezione di “complesso dei beni pubblici che appartengono a una
persona giuridica pubblica”6. Esso infatti fa riferimento al territorio e, dunque,
all’azione della/delle comunità sul suolo, che avviene indipendentemente dalla
natura pubblica dell’attore e dell’uso pubblico del bene. In questo senso il territorio come esito del processo di territorializzazione si configura come patrimonio
pubblico, o meglio della comunità o ancora, estendendo un’espressione che sta
avendo un grande successo, come “patrimonio comune”7, in questo superando
il concetto di “paesaggio come bene comune”8, in considerazione del fatto che il
paesaggio deve essere considerato un epifenomeno del territorio9.
Esso ha un valore “di accantonamento” nelle fasi storiche in cui non vi è un sistema in grado di utilizzarlo come risorsa che coincide con la fase di deterritorializzazione nella quale si affievolisce o si estingue il legame tra comunità e luogo. Si
tratta della fase più delicata, per certi versi, poiché può accadere che la perdita
della risorsa possa condurre a un completo disconoscimento di quel territorio
come patrimonio tout court, premessa della sua dissipazione.
Se, dunque, la cessazione di un sistema che utilizza quel patrimonio territoriale
come risorsa costituisce una devalorizzazione e dà l’avvio alla successiva fase di
deterritorializzazione, non è detto che quest’ultima necessariamente conduca alla
sua completa dissipazione che ne costituisce, invece, la deriva patologica.
Può essere utile, a questo punto della riflessione, fare riferimento a un caso concreto: la Sicilia centrale, l’altopiano gessoso-zolfifero esteso tra le attuali province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, è stato il luogo di produzione massiccia
dello zolfo dall’inizio del xix secolo fino alla metà del xx. Poi l’impossibilità di
concorrere con lo zolfo prodotto altrove con sistemi molto più economici non applicabili nel sottosuolo siciliano ha decretato l’abbandono dei giacimenti e la fine
di una cultura legata alle miniere che aveva avuto un ruolo centrale nella società
siciliana. dopo decenni di abbandono le miniere dismesse, le valli minerarie con
le loro infrastrutture, gli edifici, le discenderie e i calcheroni cominciano ad essere riconosciuti come beni culturali e protetti da parchi o altre forme di tutela.
La fase di deterritorializzazione viene dunque seguita da una nuova fase di presa
di possesso delle comunità, riterritorializzazione, che viene avviata dagli intellettuali e attuata dalle istituzioni attraverso la istituzione dei perimetri di tutela e
degli organismi incaricati della gestione.
Ciò è stato possibile perché il patrimonio non è stato distrutto, è rimasto, appunto, accantonato, dunque potenzialmente disponibile.
La fase di riterritorializzazione è conseguenza del riconoscimento a quel territorio di un valore nuovo, etnoantropologico, culturale, paesaggistico e, dunque,
è innescata da una riattribuzione di valore. da qui ha inizio un processo di valorizzazione che è possibile perché a quel bene patrimoniale – che è patrimonio
territoriale e non solo culturale – è stato attribuito un valore che può essere accresciuto e che può dare origine ad altri valori. Tra questi, un valore legato all’economia del tempo libero che lo utilizza come risorsa. Le miniere tornano, così,
a produrre economia, lavoro, identità.
Ciò è stato possibile – o sarà possibile poiché si tratta di una fase ancora in embrione – perché un patrimonio che, se non riconosciuto come tale, avrebbe potuto essere dissipato invece si è conservato (magari involontariamente e pure
in condizioni di degrado) rimanendo a disposizione delle generazioni successive,
rendendosi disponibile per nuovi atti di valorizzazione, attraverso la produzione
di “nuovi atti territorializzanti che aumentano il valore del patrimonio territoriale
attraverso la creazione aggiuntiva di risorse”10.
Questo approccio, sul quale si è cominciato a riflettere nella metà degli anni ’70
del xx secolo, ma che è giunto a maturazione nel torno di fine secolo, non prescinde dalla valorizzazione delle identità locali e consente di perseguire un modello
di sviluppo alternativo a quello, dominante, fortemente dissipativo e in genere,
eterodiretto, usualmente definito “sviluppo locale”11.
In particolare, l’approccio dal basso verso l’alto basa lo sviluppo locale sulla valorizzazione del patrimonio territoriale assumendo i valori locali (culturali, sociali, produttivi, territoriali, ambientali, artistici) come elemento principale dell’attivazione di uno sviluppo durevole.
Il processo tdr così definito viene riferito sia alla longue durée per leggere, interpretare, comprendere gli esiti di millenni di uso del territorio studiato, sia alla
10 A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri,
Torino 2000, p. 89.
11 “L’elemento essenziale che lo contraddistingue
è costituito dalla capacità dei soggetti locali
di collaborare per produrre beni collettivi che
arricchiscono le economie esterne, ma anche
per valorizzare beni comuni, come il patrimonio
ambientale e storico-artistico. La qualificazione
del territorio è il presupposto per sostenere o far
emergere iniziative locali, ma anche per attirare
attività esterne che non si localizzino in una
determinata area solo per vantaggi di costo, oggi
sempre meno difendibili nei paesi più sviluppati”, C.
Trigilia, Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Laterza,
Roma-Bari 2006, p. ix.
161
2
3
TERRITORIALIZZAZIONI
2 la villa del Casale in rapporto con il fiume Gela.
162
12 W. Kandisky, Point et ligne sur plan, folio Essais,
Gallimard, Paris 2000, p. 35.
courte durée per analizzare i fatti contemporanei e progettare nuovi processi di
valorizzazione.
Punto, linea, piano e costellazione ovvero bene, tracciato, territorio e sistema.
“Il punto è un piccolo mondo a parte – isolato più o meno da tutti lati, e quasi
estraneo al suo ambiente. L’integrazione al suo intorno è minima”12.
Questa frase presa a prestito da Kandinsky fotografa l’estraneità al contesto in
cui si è trovata la Villa Romana del Casale all’indomani della sua “scoperta”.
Questo paradosso ha prodotto una immagine della Villa Romana del Casale di
Piazza Armerina come valore puntuale, riconosciuto da sistemi esterni ed eterodiretti, di un entroterra siciliano debole privo di altri valori territoriali. Così, se da
un lato la semplificazione per la quale si tende a spiegare la Sicilia a partire dalla
dicotomia tra un territorio forte costituito dall’anello costiero e un territorio debole costituito dall’entroterra isolano ha alimentato l’incapacità di leggere la Villa
Romana del Casale quale eccellenza di un territorio punteggiato di valori, intessuto da tracciati storici e naturali e denso di aree rilevanti, dall’altro la stessa società
locale non è stata capace di ampliare il proprio sistema identitario ed economico a
partire da quella eccellenza. Il valore non è diventato fino in fondo risorsa.
Eppure essa è intimamente connessa con il fiume Gela che è stato una delle
“autostrade di civiltà”13 che hanno consentito, in Sicilia, nelle diverse epoche storiche, o l’accesso alle civiltà giunte via mare verso l’interno, ovvero il contrario:
4
la discesa verso la costa di civiltà che, occupata la Sicilia, si sono insediate sui
crinali. Ed è anche connessa con il sistema viabilistico romano e, in particolare,
con l’itinerarium Antonini.
dunque, un bene eccezionale (punto), che riappare dal passato in un territorio
contemporaneo (piano), pensato e riscritto non tenendone conto. Rileggere le relazioni nascoste o quasi scomparse che, incomprensibili secondo logiche contemporanee, riacquistano senso all’indomani della “scoperta” è la sfida che si
pone la ricerca.
Centrale in questo processo è la presenza di tracciati (linee) che attraversando il
territorio, lo dividono, ne collegano punti, vi determinano relazioni, vi creano punti
di vista privilegiati. Queste linee, “…traccia[e] del punto in movimento e quindi suo
prodotto”, nascono dal movimento e si oppongono “all’immobilità suprema del
punto”14. Esse – naturali o antropiche, strutturanti o qualificanti, antiche o contemporanee, esistenti o di progetto –, innervano il territorio definendo i caratteri
del processo di riterritorializzazione che viene avviato da una lettura della Villa
Romana del Casale in integrazione, ovvero come parte integrante, del territorio
che la contiene, un punto che da “piccolo mondo a parte” diventa parte importante
di quel territorio, innervato dal fiume Gela, in cui convivono sistemi lineari – tracciati storici, fiumi, crinali, percorsi panoramici – e complessi (costellazioni) – mulini, masserie, sorgenti, abbeveratoi ecc. – fortemente strutturanti e qualificanti.
3 il fiume Gela.
4 la villa del Casale nel suo contesto territoriale
degli anni ’50.
163
13 f.C. nigrelli, La villa Romana del Casale: il segno di
una svolta, in C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a
cura di), I piani territoriali paesaggistici nella provincia di
Enna, “urbanistica Quaderni”, 53, xi, pp. 137-139.
14 W. Kandisky, Point et ligne sur plan, cit., p. 67.
TERRITORIALIZZAZIONI
“decodificare” [questo territorio] vuol dire identificare i segni dello spazio fisico, estrarli
dalle loro stratificazioni, ordinarli e ricomporli in sistemi che siano oggi significativi. nel
corso di questo processo è necessario “comprendere”, ma anche “immaginare” sul filo di
ipotesi immaginate plausibili: ciò è progettare15.
164
15 G. de Carlo, L’isola di Sant’Elena nella Laguna di
Venezia, in Territory and Identity, Maggioli, Rimini 1998.
La chiave di lettura attraverso queste quattro figure geometriche, individuata
nell’ambito delle riflessioni interne al gruppo di ricerca prin consente, dunque,
di ricostruire le fasi di territorializzazione della valle del Gela, individuando gli
esiti delle crisi e gli indizi delle nuove fasi di presa di possesso come presa di
coscienza e riconoscimento di valore, successiva riterritorializzazione e creazione di nuovi valori: dalla fondazione della città greca al suo abbandono sulla
costa; dalla centralità del latifondo romano innervato sull’itinerarium Antonini alla decadenza postimperiale; dalla stasi altomedievale alla ricolonizzazione
bassomedievale succeduta alla pulizia etnica subita dalle popolazioni islamiche
a opera dei normanni dell’xi secolo, via via fino al xx secolo e alla proiezione nel
futuro come luogo culturale dell’eccellenza riconosciuto dall’unesco.
Tale chiave si rivela utile anche per comprendere le fasi succedutesi in un lasso
di tempo molto più breve – diciamo gli ultimi sessanta anni o, al più gli ultimi centoventi, che definiscono rispettivamente la fase storica che inizia con la definitiva
messa in luce della Villa Romana del Casale e la sua crescente visibilità come
meta turistica, ovvero la fase in cui, a seguito di parziali scoperte, inizia la riflessione sul valore dei rinvenimenti.
Ma c’è di più: la Villa-punto ha modificato il sistema gerarchico dell’area-piano, ha già
deformato il sistema infrastrutturale-linee preesistente in maniera non pianificata e
può essere inserita, finalmente in maniera consapevole, all’interno di un sistemacostellazione, quello costituito dal patrimonio territoriale della Valle del Gela e, più
in generale, della Sicilia centro meridionale diventando origine e occasione di un
progetto locale che sia anche un progetto di territorio a scala vasta, con una serie di
approfondimenti alla scala del progetto urbano o del progetto di architettura.
Così il Parco territoriale del fiume Gela, non previsto nella normativa regionale
siciliana, estensione concettuale, prima che di superficie, del Parco archeologico della Villa del Casale, recentemente oggetto di ripensamenti, tentennamenti,
ambiguità da parte dell’Amministrazione regionale, diventa proposta di un nuovo
assetto territoriale in cui la già importante infrastrutturazione “pesante”, viene
affiancata da una infrastrutturazione “dolce”, che consente una risalita dalla costa alla sorgente e una discesa dalle colline al mare, anabasi/catabasi, come
mezzo per una nuova territorializzazione che ha inizio dalla riscoperta del fiume
come unità, la sua acquisizione come patrimonio identitario delle comunità insediate lungo il corso, da Piazza a Gela, passando per Mazzarino.
Il nuovo progetto di identità e la visione richiedono interventi puntuali in ambito
urbano e non, coerenti con le strategie di attuazione della visione stessa e che
rendano concreto il processo di riterritorializzazione/riattribuzione di valore che
vede la comunità locale aprirsi alla comunità internazionale, forte di una nuova
consapevolezza di sé e del suo patrimonio territoriale, ma aperta.
Così i sistemi di accesso ai centri storici di crinale, la interpretazione dell’area
archeologica come luogo del welfare ben al di là dell’uso turistico, la rifunzionalizzazione di mulini e altri beni isolati, devono essere accompagnati dalla valorizzazione delle attività agricole, ma, soprattutto, da una costante attività di
animazione culturale volta agli abitanti prima ancora che agli ospiti.
Si tratta, dunque, di una visione che immagina un nuovo ruolo per questa parte
del territorio siciliano attribuendole una funzione trainante nello sviluppo dell’intera Sicilia centro meridionale, in cui il Parco non è più il luogo della tutela/conservazione dei beni archeologici, ma l’individuazione di una unità territoriale la
cui definizione deriva proprio dal riconoscimento del processo tdr e dalla volontà
consapevole di procedere attraverso una nuova fase R in cui la Villa, le altre aree
archeologiche, i centri storici, i beni isolati, ma anche le aree agricole e le piccole
città sono trattati come costellazione di risorse e non solo come valori astratti.
uno sguardo obliquo. All’interno della ricerca: Paesaggi dell’Archeologia, Regioni e Città Metropolitane. Strategie del progetto urbano contemporaneo per la tutela e
la trasformazione, il tema dell’unità di ricerca di Catania: “dalla Villa Romana del
Casale al Parco territoriale del fiume Gela. Strategie per il governo delle trasformazioni territoriali”, costituisce una specificità da diversi punti di vista.
Il primo: l’area non è interna o prossima a contesti metropolitani e non è soggetta
a particolari pressioni trasformative.
Il secondo: il bene archeologico che innesca la riflessione non è noto o disponibile
da tempi lunghissimi (come l’Appia o i Campi flegrei), ma è venuto sistematicamente alla luce solo nel secondo dopoguerra.
Il terzo: all’interno dell’area oggetto di studio, la maggior parte delle aree archeologiche o d’interesse archeologico è stata individuata, ma non scavata, dunque
non se ne conoscono esattamente limiti e consistenza.
Vi è poi una ulteriore specificità: l’unità di ricerca non è costituita da compositivi
o archeologi, ma da urbanisti e pianificatori che con i temi dell’archeologia e dei
parchi si sono confrontati, sia dal punto di vista scientifico che da quello operativo,
nel quadro della pianificazione comunale o di area vasta.
Queste specificità consentono di offrire alla ricerca un contributo laterale, obliquo rispetto a quello dichiarato nel titolo della ricerca che è quello del progetto
urbano come strumento per garantire la tutela e consentire la trasformazione
controllata. La scala di riflessione, quella territoriale in un territorio a bassa densità di antropizzazione, consente di avventurarsi in un campo, quello dello sviluppo locale, a partire da un nuovo disegno interscalare basato sul patrimonio territoriale, che può configurarsi come proposta metodologicamente generalizzabile.
In origine l’obiettivo assegnato è stato quello del superamento della lettura urbanistica del sito archeologico, a vantaggio di una lettura paesaggistica che, andando oltre la nozione di vincolo e di recinto archeologico, potesse individuare nuovi percorsi
di contestualizzazione dell’area archeologica della Villa Romana del Casale all’interno di un ipotizzato Parco territoriale e archeologico della Villa del Casale e dell’alto
165
5
TERRITORIALIZZAZIONI
5 Carta delle permanenze storico culturali del
territorio di Piazza Armerina.
166
corso del fiume Gela. Quella scelta è resa oggi ancora più attuale dall’intervenuta
riforma amministrativa che pone all’ordine del giorno il superamento degli enti intermedi (le province) titolari della pianificazione di area vasta e potrebbe portare,
finalmente, alla unificazione degli atti di pianificazione sovracomunale, superando
l’assurda dicotomia tra pianificazione territoriale e pianificazione paesaggistica.
Il seminario tenuto a Piazza dal 6 al 9 settembre 2012, intitolato Territorializzazioni ha coinvolto alcuni ricercatori che hanno messo a disposizione del gruppo di
ricerca le loro riflessioni su temi di carattere generale connessi con gli obiettivi
assegnati all’unità di ricerca, ma utili alla più generale riflessione all’interno del
gruppo prin.
Maurizio Carta, da parte sua, sviluppa una riflessione sulle nuove frontiere delle creative cities, le città, cioè, che hanno fatto della creatività, della cultura, lo strumento
per rigenerarsi e per conquistare nuovi ruoli e nuovo rango nelle gerarchie urbane
nazionali e internazionali. Egli individua una nuova fase che chiama “città creAttiva”
o città creativa 3.0 nella quale alla creatività urbana viene affidato il compito di generare nuove economie e nuova città e non semplicemente di attrare risorse intellettuali. La riflessione di Carta rappresenta un punto di fuga assai proficuo per ragionare anche su territori a bassa urbanizzazione e “saltati” dallo sviluppo fordista. Se,
infatti, in ambito urbano cresce il ruolo delle città medie come nodi dell’armatura
di città dell’innovazione culturale che tende a coprire a rete l’intero pianeta, allora
lo stesso ruolo possono svolgere territori con una forte identità, anche se gli insediamenti urbani hanno dimensioni modeste, purché con una forte predisposizione
a costruire e ampliare il loro milieu creativo. un tale processo, parallelo e duale a
quello eminentemente urbano e incentrato su grandi e medie città costituirebbe,
peraltro, un contributo essenziale a politiche di riequilibrio volte e ridurre la sempre
forte polarizzazione urbana e metropolitana.
Alessandra Badami, collocando correttamente la nascita del paesaggio siciliano
come topos culturale nel quadro del Grand Tour, dunque della percezione dell’isola da parte di viaggiatori esterni dotati di un’ampia cultura classica, ripercorre
le tappe degli strumenti creati nel corso del tempo per la sua tutela, riferendosi,
in special modo, al paesaggio archeologico. Riflette poi sullo strumento del parco
archeologico e sulle sue diverse interpretazioni e declinazioni ribadendo come,
qualunque sia lo strumento normativo, organizzativo e di governance utilizzato, la
valorizzazione del patrimonio culturale non coincide con la massimizzazione turistica,
[ma] coincide con la massima diffusione della loro conoscenza che si realizza quando dalla ricerca si passa alla divulgazione, quando dall’informazione si passa alla formazione.
Lo strumento normativo e di tutela del territorio come quello del Parco diventa
uno degli strumenti che consentono o facilitano la riterritorializzazione, ma, ancora di più, la creazione di nuovo valore concorrendo a implementare il percorso
di sviluppo locale. Si tratta di una riflessione che viene utilmente integrata da
quella, derivata da esperienze militanti, che a scala più ampia propone Francesco
Martinico.
6
Egli racconta un’esperienza di pianificazione paesaggistica che riguarda ampie
parti del territorio siciliano, una delle quali comprende anche la valle del fiume
Gela e l’area della Villa del Casale, con lo scopo di contribuire, operativamente,
alla costruzione di un nuovo apparato normativo che dovrà tenere conto dell’evoluzione del concetto di paesaggio.
Con questa visione strategica l’elaborazione dei piani paesaggistici ha avuto
come obiettivo anche quello del superamento dell’idea tradizionale di vincolo
attraverso la individuazione di parametri di tutela come “regole destinate a sovraintendere ad una trasformazione territoriale che contemperi l’idea di sviluppo
con quella di sostenibilità, tenendo in adeguata considerazione anche le fragilità
di un territorio”.
In questo caso un’avanzata elaborazione di uno strumento di pianificazione poco
utilizzato in Italia, potrebbe rappresentare una chiave di volta per individuare percorsi canonici di riattribuzione di valori come avvio di nuove forme di sviluppo locale basate proprio sul patrimonio territoriale. Gli esiti, tuttavia, al momento mostrano un ritardo delle istituzioni e delle élite politiche rispetto a questi percorsi.
nasce proprio dalle riflessioni ingenerate dal seminario di Piazza Armerina il
saggio di Vito Martelliano che coraggiosamente propone un salto di qualità nel
rapporto archeologia-paesaggio-territorio a partire da una parte colpevolmente incompiuta della scavo archeologico: la socializzazione e l’appropriazione da
parte delle comunità dell’esito della scoperta e dello scavo.
Il superamento delle logiche e delle visioni settoriali viene proposto attraverso
6 F. Minissi, Progetto delle opere di protezione dei
mosaici della Villa Romana del Casale di Piazza
Armerina.
167
TERRITORIALIZZAZIONI
l’individuazione di tre componenti del “territorio dell’archeologia”: il divenire memoria; il bene memoria; la relazione memoria. E attraverso quest’ultima, in particolare, si prendono in considerazione le connessioni che legano un bene memoria
agli altri beni memoria e ai possibili usi attuali oltre che al territorio che li ha
prodotti.
nell’articolazione delle relazioni memoria, identificata in prima approssimazione nel saggio, sta la chiave per quello che viene definito il “progetto olistico del
territorio dell’archeologia” e, in ultima analisi l’ipotesi di utilizzare la cifra del
territorio come Key Factor del processo di riterritorializzazione della scoperta
archeologica.
168
The tdr process of territorialisation, deterritorialisation and reterritorialisation is put
forward as a planning instrument in places characterised by high historical and cultural density. It allows us to go beyond the concept of an archaeological site and even
beyond the concept of an archaeological park. until now, both have been considered
invariable elements and, as such, static places, set up in line with the concept of openair museums, while in actual fact they are intangible values and, at the same time,
dynamic places that change and impose change day after day, poised between what
they have been in the past, what they are now and what they will become in future.
The article proposes the application of the tdr approach in a process of enhancement
– de-enhancement – re-enhancement that seems to make the relationship between
method, object and objectives clearer and a process of value creation-dissipation-reattribution that allows us to shift our attention to the concept of heritage, expanding
the idea of “cultural heritage” until it becomes “territorial heritage”.
‘Taking possession’ is understood as a phase that assigns value to the features that
make up the geographic space involved, in intangible rather than economic terms,
starting with symbolic values. This phase is followed by a phase where values are
turned into resources, a phase that occurs when an economic, cultural, social and
symbolic system is constructed on the basis of that value.
The focus of the project is not an archaeological site, nor cultural heritage as generally understood, but rather “territorial heritage”, i.e. the combination of the places,
relationships, uses and symbols involved in the tdr process. ultimately, the territory
itself is heritage and is the depository of values and resources that should be used in
local development processes.
This wider concept is the central feature of this analysis, as the work done by a community on the land occurs irrespective of the public nature of the player involved and
the public use of the asset involved. Thus it is the territory – and not the landscape, its
epiphenomenon – that should be considered “a common good” in the wider meaning
that this concept has today.
The Villa Romana del Casale case study is analysed using the interpretation perfected
as part of the prin (Research Projects of national Interest) research project, which
identified the geometric shapes of Point, Line, Plane and Constellation as a possible
key to interpretation, used here to reconstruct the tdr process’s phases in the Gela
valley.
On the basis of these observations, we go beyond the concept of an archaeological
park, replacing it with the concept of a Gela river territorial park, as a proposal for
a new territorial arrangement where “heavy infrastructurisation” – which is already
present to a significant degree – is flanked by “light infrastructurisation” that will allow us to travel up from the coast to the river’s source and travel down from the hills to
the sea, encouraging a new territorialisation, starting with the rediscovery of the river
as a single geographic entity, the basis for all the rest.
This is identified as an instrument that can aid the realisation of a vision that sees a
new role for this part of Sicily, seeing it as a driver for the development of the whole of
central-southern Sicily, starting with the values/resources that make up its territorial
heritage.
tHe teRRitoRiAl HeRitAGe
ABSTRACT
169
lA RiteRRitoRiAliZZAZioNe dellA sCoPeRtA ARCHeoloGiCA
dAL BENE MEMORIA ALLA RELAZIONE MEMORIA
Vito Martelliano
L’archeologia è scienza che cerca le tracce dell’antico nel palinsesto contemporaneo. L’archeologo, scavando nel supporto fisico della terra, va a ritroso nel nostro
passato “disegnando” ciò che è stato, fissa nello spazio alcuni frammenti e li proietta nel futuro.
In questo guardare all’antico proiettandosi nel futuro, se la presenza archeologica
rappresenta il significante e lo scavo lo strumento d’indagine più evidente, la scoperta è l’atto fondativo della ricerca archeologica. La scoperta, fortemente cercata
o casualmente verificatasi, è innanzitutto l’atto di grande generosità con cui alcuni
uomini portano a conoscenza dell’intera società manufatti, fatti, aspetti e pratiche
che il tempo aveva contribuito a velare facendone perdere il ricordo. Scoprire significa disvelare una verità, significa riappropriarsi di qualcosa fino a quel momento
negata, significa concorrere a ridefinire l’identità di una comunità, significa aggiungere e modificare la sostanza culturale di una società.
La scoperta determina uno spaesamento che Mario Manieri Elia chiama estraneazione di tipo archeologico “nel senso del rapporto con l’oggetto di scavo, riemerso da
interramento che era oblio reale, e perentoriamente presente a intercettare la continuità delle relazioni ambientali”1 e Aldo Schiavone “rapporto archeologico” inteso
come distanza difficilmente colmabile2.
dopo la scoperta niente è come prima. Ogni scoperta è un “rauma”, marca una
discontinuità all’interno del territorio in cui avviene, impone una riflessione sui
cambiamenti possibili, induce a rimettere in gioco strategie e obiettivi spesso consolidati e stimola una innovazione nel palinsesto territoriale, se non fisica, perlomeno di senso.
Il “trauma” diventa ancora più evidente quando la scoperta è casuale, quando il valore ritrovato impone di ridefinire scelte e priorità, quando la necessità della tutela
del bene si incontra/scontra con pratiche d’uso del suolo consolidate o ampiamente
pianificate. La storia è piena di casi in cui la scoperta archeologica viene avversata e
1 F. venezia, Schizzo di studio del Teatrino all’aperto di
Salemi, 1986.
171
1 M. Manieri Elia, Topos e progetto – temi di
archeologia urbana a Roma, Gangemi, Roma 1998,
p. 20.
2 A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e
occidente moderno, Laterza, Roma-Bari 1999.
2
3
TERRITORIALIZZAZIONI
osteggiata e i valori culturali e identitari ritrovati vengono contrapposti ai potenziali
valori economici e innovatori negati.
L’atto “rivoluzionario” della scoperta archeologica travalica l’ambito del valore culturale. Se per la ricerca archeologica la scoperta è il fine ultimo della necessaria
trasformazione del contesto attraverso il lavoro di scavo, per l’urbanistica essa è
l’inizio per una necessaria modifica del palinsesto territoriale. Essa ha una carica
innovativa che è capace di generare una mutazione “genetica” del territorio che è al
contempo culturale, urbanistica, economica e sociale.
172
Governare il territorio dell’archeologia. Amministrare e gestire la sequenza di
scoperte archeologiche, vuol dire governare e pianificare il territorio dell’archeologia individuando strategie per un prima, un durante e un dopo.
Se la gestione di un sito archeologico è legata alla definizione di campagne d’indagine programmate dipendenti da logiche tutte interne alla disciplina archeologica e
la logica interventuale in un territorio potenzialmente archeologico è strettamente
legata alla pratica dell’archeologia preventiva quale prassi consolidata per la definizione di nuovi interventi, allora la strategia di gestione del post “trauma” si declina
nella tutela e valorizzazione delle evidenze archeologiche fisicamente ritrovate, nel
governo dei territori ancora presumibilmente portatori di ulteriori scoperte e nel
controllo delle relazioni che si innescano e danno senso culturale, territoriale e paesaggistico, al ritrovamento archeologico.
Questo approccio ci permette di individuare nel territorio dell’archeologia tre componenti:
– il divenire memoria;
4
– il bene memoria;
– la relazione memoria.
2 Jean Houel, teatro greco di taormina, 1776-1779.
3 teatro greco di taormina, 1934.
4 teatro greco di taormina, 2004.
Con divenire memoria s’intende quel territorio potenzialmente e probabilmente contenitore di beni archeologici che attendono solo di essere scoperti e restituiti al presente.
Con bene memoria si intende quella presenza archeologica restituitaci dal passato
attraverso lo scavo archeologico, indipendentemente dal livello di riconoscimento e
dal valore culturale che la società le attribuisce.
Con relazione memoria si intende quella connessione che lega un bene memoria agli
altri beni memoria, ai suoi fruitori, ai modi d’uso e alle funzioni dello stesso, agli elementi del paesaggio, alla cultura e alla società che lo ha generato.
Il primo sistema tratteggia il potenziale – troppo spesso erroneamente interpretato
in termine di rischio archeologico –, il secondo sistema rappresenta il reale – ossia il
materiale archeologico –, il terzo sistema individua l’intangibile – ossia l’immateriale
archeologico.
Ed è proprio questa commistione tra potenziale, reale e intangibile che caratterizza
il territorio dell’archeologia e lo rende culturalmente stimolante e progettualmente
difficile.
Se la mappatura in carte archeologiche della sostanza archeologica, e in alcuni casi
delle potenzialità archeologiche, è prassi codificata – anche se non ampiamente diffusa – la rappresentazione dell’intangibile è del tutto aleatoria e spesso declinata in
termini di sola narrazione.
Ciò che è evidente è il differente grado di percezione di questi tre elementi. Mentre
la presenza archeologica è visibile a tutti e la potenzialità archeologica è conoscen-
173
5
TERRITORIALIZZAZIONI
5 estratto da: tav. IV, Topografia Archeologica
di Siracusa ordinata dal Ministero della Pubblica
Istruzione ed eseguita nel 1880-81 dal Dr. Ing.
Francesco Saverio Cavallari con l’assistenza
dell’ingegnere Cristoforo Cavallari, Palermo 1883.
174
3 M.A. Teti, Il futuro della ricerca archeologica e della
tutela in ambito urbano e territoriale nel bacino del
Mediterraneo, in M. Giovannini, d. Colistra (a cura di),
Le città del Mediterraneo, Kappa, Roma 2002, p. 395.
4 Per quanto riguarda la nozione di paesaggio
si rimanda a A. Roger, Court traité du paysage,
Gallimard, Paris 1997.
za ultraspecialistica per pochi, l’immateriale archeologico è relegato al sottinteso,
all’involontario, all’inconsapevole e, per questo, spesso ignorato.
L’intangibilità del territorio archeologico ci sembra materia complessa, non perché
difficile da comprendere, ma in quanto ardua da gestire. Ciò, indipendentemente dai
valori in gioco, ne rende difficile la tutela.
un esempio può aiutare a chiarire il concetto proposto. Il Teatro greco di Taormina,
il cui valore è universalmente riconosciuto, ha nel panorama che si staglia oltre la
scena un chiaro esempio di relazione memoria. Il Teatro, in gran parte ricostruito,
ha nella permanenza delle originarie connessioni percettive con il mare, la costa
e l’Etna un valore assoluto che lo rende unico e irripetibile. Cosa accadrebbe se la
costa subisse una imponente alterazione antropica, quale ad esempio la costruzione di un insediamento industriale? La relazione memoria sarebbe irrimediabilmente
compromessa e il bene memoria pur conservato nel migliore dei modi vedrebbe irrimediabilmente ridurre il suo valore.
nasce quindi il bisogno di definire percorsi possibili che tengano in debita considerazione non solo l’evidenza archeologica ma anche l’intangibile archeologico.
L’affermarsi dell’approccio “paesaggistico” verso gli spazi aperti nell’ambito urbanistico, geologico, naturalistico e il sempre maggior interesse degli archeologi verso
la relazione tra sito e contesto ha fatto sì che “le trame e le strutture storiche vengano recepite, da queste e da altre categorie di studiosi, come interconnesse con
le trame ambientali e quindi sempre più spesso il ragionamento sulla fisicità del
territorio viene correlato a quello relativo alla storicità del territorio”3. La nozione di
paesaggio4 permette quindi l’avvicinamento dei due punti di vista e implicitamente
sancisce il superamento del concetto di limite del recinto archeologico e la sua non
riducibilità alla solo realtà fisica.
Proprio quest’ultimo aspetto allarga i contorni della riflessione inserendo il tema
della gestione del territorio dell’archeologia in un contesto paesaggistico che non
può limitarsi alla sola tutela archeologica, ma deve imporre il superamento delle
obsolete categorie interpretative dell’archeologia urbana – estraniazione, alterità, museificazione, musealizzazione – a vantaggio di un agire olistico che guardi
alla“presa di possesso” culturale del bene memoria come azione inserita in un più
ampio processo di riterritorializzazione.
le relazioni memoria. Centrale nel processo di gestione del territorio dell’archeologia è il sistema delle relazioni memoria, in quanto rete di connessioni nello spazio e
nel tempo tra beni memoria, territorio e fruitori.
Le relazioni memoria non sono corollario del territorio dell’archeologia. Esse sono
quei fattori che gli danno senso, che fanno si che l’insieme dei beni memoria non sia
percepito come congerie di frammenti del passato. Senza l’attenzione dovuta a questo sistema non è possibile attuare quel processo di presa di coscienza, che risulta
indispensabile per il riconoscimento dei valori archeologici da parte della società.
Come è possibile riconoscere un valore identitario al Teatro greco di Siracusa quando ne è negata perfino la vista con alte recinzioni opache che hanno solo il preciso
scopo di imporre il pagamento di un biglietto. È questo il modo di attuare la tutela di
un bene archeologico e di trasformarlo in valore condiviso di una città?
Per queste ragioni è opportuno approfondire questa riflessione. In essa vi è la possibilità d’innescare il processo di riterritorializzazione dell’evidenza archeologica.
Il sistema di relazioni memoria intesse la propria rete di connessione in quattro distinti ambiti individuando i seguenti gruppi:
–
–
–
–
relazioni memoria di tipo spaziale;
relazioni memoria di tipo temporale;
relazioni memoria di tipo percettivo;
relazioni memoria di tipo culturale.
All’interno di ciascun gruppo è, a sua volta, possibile individuare in funzione degli
elementi che determinano la connessione tre possibili caratterizzazioni:
– il nesso bene memoria – bene memoria;
– il nesso bene memoria – fruitore;
– il nesso bene memoria – territorio.
Questa schematizzazione ci permette di individuare la maglia di relazioni memoria e
quindi proporre il disegno di diagrammi relazionali e mappe selettive del territorio
dell’archeologia che facciano emergere l’intangibile archeologico.
Le carte archeologiche ci restituiscono la disposizione nello spazio dei beni memoria
ma niente ci dicono sulla rete di relazioni memoria. L’utilizzo di diagrammi relazionali di tipo dinamico, che ben si adattano a rappresentare sistemi complessi, e la
realizzazione di mappe selettive che evidenziano singole relazioni memoria, rappresentando questo sistema aggiungono un tassello alla conoscenza dell’archeologia e
definiscono continui rimandi alla dimensione territoriale, imponendo una riflessione
sul concetto di limite del territorio dell’archeologia.
nella definizione del limite è individuabile la maggiore criticità dell’agire archeologico. Infatti, se è relativamente chiaro individuare il margine del sito che racchiude
l’insieme dei beni memoria, se è ipotizzabile determinare tramite indagini d’archivio, introspezioni puntuali o il censimento dei ritrovamenti superficiali, i confini del
territorio in divenire memoria, la definizione dei limiti delle relazioni memoria sfugge
a qualsiasi strumento attualmente utilizzato in quanto, per propria natura, queste
sono in grado di travalicare qualsiasi limite fisico, temporale, percettivo e culturale.
Questa difficoltà è maggiormente evidente per siti archeologici che si trovano in
contesti non urbanizzati. un caso esemplare è l’area archeologica di Morgantina.
È inimmaginabile separare la tutela dell’imponente sistema urbano di Morgantina
da quella del sistema di relazioni che intesse con il territorio circostante e che ne
giustifica l’originaria scelta localizzativa e ne testimonia il ruolo predominante in
ambito territoriale e culturale. Ciononostante, il sito archeologico ha un limite che
seppur esteso non è certo capace di “tenere assieme” questo complesso sistema di
relazioni memoria.
Queste considerazioni ci impongono la necessità di riflettere sul senso di limite di
un sito archeologico e sugli strumenti che materialmente disegnano questi limiti.
175
6
TERRITORIALIZZAZIONI
6 Area archeologica di Morgantina.
176
5 A. Carandini, Urbanistica, architettura, archeologia,
“urbanistica”, 88, 1987, pp. 10-12.
6 Ibid.
Approccio olistico e territorio dell’archeologia. L’archeologia, ricercando i segni
dell’antico, e l’urbanistica, pianificandone il futuro utilizzo, pur operando da sempre
sul medesimo campo d’azione hanno concepito autonome riflessioni sulla presenza
archeologica all’interno del palinsesto territoriale. Trovare una sintesi tra queste
logiche è stato spesso complicato e ha richiesto la messa a punto e l’utilizzo di strumenti specifici tra cui emerge la carta archeologica quale strumento di conoscenza,
il vincolo archeologico quale strumento di tutela e salvaguardia, il parco archeologico
quale strumento di valorizzazione.
Questi tre strumenti hanno assunto il ruolo di mediatore tra il punto di vista dell’archeologo e quello dell’urbanista, prestandosi a slittamenti e forzature che spesso
hanno acuito i problemi e trasformato il “territorio dell’archeologia”, in un mondo
a parte, sottraendolo al contesto d’appartenenza. un processo di estraniazione
che troppo spesso si è trasformato in decontestualizzazione fisica e mancanza
di riconoscimento identitario da parte di quella stessa società che secoli prima
l’aveva prodotto.
All’approccio archeologico ultraspecialistico ed elitario, spesso autoreferenziale, è
mancata l’interpretazione del territorio (anche quello con archeologia) come risultato di una stratificazione in cui il valore risiede nella totalità del processo stesso e
non solo in un singolo strato per quanto importante. Il rischio, usando le parole di
Andrea Carandini, è che “le nostre rovine sono nella stragrande maggioranza del
tutto incomprensibili per il pubblico”5 e ciò perché “l’archeologo opera su un corpo
che conosce da un punto di vista fisico, ma che ignora dal punto di vista sociale e
culturale, specie per quanto attiene al presente. Ciò comporta che egli non tenga in
debito conto che l’aspetto distruttivo inerente lo scavo deve essere compensato da
un risarcimento che possa essere apprezzato come un vantaggio dalla comunità dei
viventi”6.
La visione olistica propria delle discipline territorialiste è il valore aggiunto che deve
impregnare l’agire nei territori dell’archeologia e permettere il superamento della
dicotomia tra strumenti e termini dell’archeologia e dell’urbanistica.
Alla base di questo progetto olistico del territorio dell’archeologia vi è il progetto
del sistema delle relazioni memoria inteso quale progetto culturale che sottende al
progetto di valorizzazione del sito. Esso è l’essenza stessa del processo di riterritorializzazione della scoperta archeologica.
una buona pratica di progetto delle relazioni memoria è quella attuata per le Domus
romane di Palazzo Valentini a Roma curato da Piero Angela e da un gruppo di tecnici
ed esperti quali Paco Lanciano e Gaetano Capasso. La sovrapposizione e interazione tra usi attuali – l’edificio è la sede della provincia di Roma – e bene memoria ha
innescato una virtuosa strategia d’intervento che attraverso il sapiente uso delle
tecnologie informatiche permette al visitatore non soltanto di guardare le evidenze
archeologiche ma di comprendere a pieno le relazioni memoria spaziali, temporali,
percettive e culturali tra i frammenti visibili, disvelando pratiche, usi e atmosfere
antiche con un approccio didattico scientifico e rigoroso.
Il pericolo connesso a questa pratica può essere legato all’(ab)uso delle tecniche di
realtà virtuali tale da “creare una sorta di ‘Jurassic Park’ dell’archeologia”7, ossia
di trasformare questi luoghi della memoria in meri parchi tematici che tendono a
“consumare” l’archeologia. Il pericolo che si corre è che queste tecniche vengano usate non per comprendere meglio l’evidenza archeologica riportata alla luce,
ma diventino esse stesse prodotto culturale autonomo rispetto al bene memoria. In
questi anni abbiamo visto proliferare iniziative in cui attraverso l’utilizzo della realtà virtuale vengono offerte ricostruzioni di contesti archeologici, tra cui ricordiamo
Roma, Pompei e ultimamente Siracusa. Ciò che preoccupa è che attraverso queste
tecniche possa essere messo in discussione il concetto di finitezza e irriproducibilità
del bene memoria e allontanata la necessità dell’esperienza diretta e del contatto
fisico con le “pietre” dell’archeologia.
Il progetto per Palazzo Valentini a Roma non rientra in questi casi, ma il rischio che
tali comportamenti possano innescarsi è forte.
Può la relazione memoria, che dà senso e valore al bene memoria, essere considerata
bene archeologico e in quanto tale soggetta a vincolo archeologico?
Le relazioni memoria danno forma all’intrinseca matrice relazionale del territorio
archeologico in cui il tangibile archeologico è spesso frammentario ma non sono,
in quanto tali, archeologia. Esse appartengono a una dimensione sovraordinata a
quella archeologica.
Esse appartengono alla più inclusiva e aggregante dimensione paesaggistica e rivestono un ruolo essenziale per leggere il territorio dell’archeologia. Questo vuol
dire che forse riflettere sulle relazioni memoria nei soli termini archeologici è insufficiente per operare nei territori dell’archeologia. Quindi se ha senso parlare di
vincolo archeologico per tutelare un’area con preminenza di evidenze archeologiche
è altrettanto chiaro che non ha senso parlare di parco archeologico8 tout-court, perché in tale strumento è affermata una specializzazione che nei fatti non può esserci
a meno di non svuotare il territorio dell’archeologia dalle relazioni memoria.
un sito che si confronta positivamente con questo tema è la Valle dei Templi di Agrigento. Infatti, l’istituzione nel 2000 del Parco Archeologico e Paesaggistico della
Valle dei Templi di Agrigento9 – che già nel nome autorizza a ben sperare – inquadra
alla giusta scala la valenza archeologica estendendosi per circa 1300 ettari, trova
7
7 Area archeologica di Morgantina.
7 R. nicolini, I parchi archeologici: L’oro della memoria,
in A. Bianchi (a cura di), Le città del Mediterraneo,
Jason Editrice, Reggio Calabria 2001, p. 127.
8 In ambito nazionale il Testo unico 29 ottobre
1999, n. 490, ha proposto all’articolo 94 la seguente
definizione: “si intende per parco archeologico
l’ambito territoriale caratterizzato da importanti
evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori
storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come
museo all’aperto in modo da facilitarne la lettura
attraverso itinerari ragionati e sussidi didattici”.
Come correttamente osservato all’interno delle
Linee Guida dei Parchi Archeologici Siciliani. Il sistema
dei parchi archeologici: “Questa definizione di parco
archeologico sembra rispecchiare anche l’enunciato
di cui all’articolo 134 del decreto legislativo 112/1998,
secondo cui “sono beni ambientali, quelli individuati
in base alla legge quale testimonianza significativa
dell’ambiente nei suoi valori naturali o culturali”.
In pratica il legislatore tende a accomunare i due
concetti di parco come bene culturale e parco come
bene ambientale in un’unica definizione di “patrimonio
culturale” che racchiude in sé la duplice esigenza
della conservazione e della pubblica fruizione del
bene stesso e fa emergere la sua funzione sociale e
culturale.”
9 La Regione Siciliana con la legge regionale 20/2000
ha istituito il Parco Archeologico e Paesaggistico
della Valle dei Templi di Agrigento.
177
capacità innovatrice, creativa ed economica nella definizione di una struttura organizzativa dotata di autonomia gestionale e amministrativa, e alimenta la “presa di
possesso” culturale e identitaria dell’archeologia e il continuo dialogo con il territorio10.
In tale logica risulta interessante riflettere su una nozione di “territorio dell’archeologia” che interpreti i beni memoria a partire dalle relazioni memoria e quindi dai corsi dei
fiumi – che da semplici elementi naturali hanno rappresentato nella storia corridoi di
civilizzazione –, dalla orografia dei territori – fattore determinante per la scelta insediativa –, dalle sovrapposizioni/interazioni di usi e pratiche nello spazio e nel tempo –
che determinano adattamenti del bene memoria –, dai legami tra colonie e sub-colonie
– che spiegano rimandi tecnologici e culturali –, dall’evoluzione del quadro percettivo
“dell’archeologia” e “dall’archeologia” –11 che più di altri tratteggia il cambiamento
nell’approccio sociale e culturale all’archeologia –, dai percorsi storici – che, nati
come sistemi infrastrutturali, hanno sedimentato e stratificato lungo i margini sistemi insediativi compatti e isolati diventando, in taluni casi, essi stessi beni memoria12.
8
TERRITORIALIZZAZIONI
8 il tempio della Concordia nel Parco Archeologico e
Paesaggistico della valle dei templi di Agrigento.
178
10 Si veda, P. Meli, Ente Parco Archeologico e
Paesaggistico della Valle dei Templi, in AA.VV.,
Antichi sotto il cielo del Mondo. La gestione dei parchi
archeologici. Problemi e tendenze, Atti del Colloquio
internazionale promosso dalla Quinta commissione
consiliare “Attività culturali e Turismo” del Consiglio
Regionale della Toscana, Impruneta (firenze), 25 – 26
ottobre 2007, Tipografia Consiglio Regionale della
Toscana, firenze 2008.
11 Si veda, V. Martelliano, Il Castello Eurialo. Dall’assedio cartaginese all’assedio siracusano, in G. dato
(a cura di), Da Beirut a Noto. Patrimonio archeologico
e pianificazione urbanistica. Studi e ricerche nei paesi
del Mediterraneo, Biblioteca del Cenide, Cannitello
2005, pp. 218-243.
12 L’elenco delle possibili piste d’indagine è solo
indicativo e certamente non esaustivo, ma esplicita
le possibili relazioni memorie di tipo spaziale,
temporale, percettivo e culturale.
13 E. Morin, La sfida della complessità, Le Lettere,
firenze 2011.
Il progetto del territorio dell’archeologia deve saper decodificare, attuare procedure selettive e riterritorializzare ciò che appare estraneo, instabile e contradditorio;
come sottolinea Edgar Morin “la complessità ci richiede di pensare senza mai chiudere i concetti”13 attraverso un processo organizzativo piuttosto che aggiuntivo.
Il progetto di riterritorializzazione è declinato in termini di processo nel quale la definizione delle trasformazioni fisiche non è un dato concluso, ma piuttosto il risultato
di un divenire, le cui tracce permangono come elementi aperti. Il processo produce
possibili configurazioni piuttosto che forme concluse. A questo scopo il diagramma
delle relazioni memoria non si utilizza solo come mezzo di rappresentazione della
conoscenza archeologica, ma anche come strumento generativo del piano/progetto
in grado di accogliere slittamenti di senso e ibridazioni culturali concorrendo alla
definizione del processo progettuale. L’opportunità che ci si prospetta è pertanto
quella di indagare le possibilità offerte dallo strumento diagrammatico come generatore del progetto olistico attraverso un processo non lineare, ma piuttosto di tipo
relazionale e sistemico.
Archaeology is a science that searches for the traces of the ancient in the contemporary palimpsest, The archaeologist, digging into the physical support of the ground,
goes back into the past, “drawing” what once was, fixes some fragments in space,
and projects them into the future.
In this act of looking at the ancient while projecting into the future, the archaeological presence represents the significance, the excavation is the study instrument,
and the discovery is the founding act of the archaeological research.
After the discovery, nothing is as it was before. Every discovery is a “trauma”, it
marks a discontinuity within the territory where it occurs, imposes a reflection on
the possible changes, brings back into play strategies and consolidated objectives,
and stimulates an innovation in the territorial layout, at least of sense if not physical.
The “revolutionary” act of the archaeological discovery goes beyond the sphere of
cultural value. While for archaeological research the discovery is the ultimate end of
the transformation of the context by means of the excavation, for urban planning it is
the beginning for a necessary change of the territorial layout.
Management of the sequence of archaeological discoveries means the governance
and planning of the territory of the archaeology, identifying strategies for a before,
during, and after.
While the management of an archaeological site is connected with the definition of
planned study campaigns and the intervention logic in a potentially archaeological
territory is closely tied to the practice of preventive archaeology, the “post-trauma”
management strategy consists of the protection and enhancement of the archaeological structures physically found, the governance of the territories bearing further
discoveries, and the control of the relationships which are triggered and give a cultural, territorial, and landscape sense to the archaeological find.
This approach allow us to identify three components in the archaeological territory:
the memory “becoming”, the memory “asset”, and the memory “relationship”.
The first system outlines the potential, the second represents the real, and the third
identifies the intangible.
It is this mixture of potential, real, and intangible that characterizes the territory of
archaeology; the need arises to define new paths that consider the archaeological
intangible.
Of central importance in the process of managing the archaeological territory is
the system of memory relationships, as a network of connections in space and time
among memory assets, territory, and users.
Memory relationships are not a corollary of the archaeological territory. They are
those factors that give it meaning, that ensure that the memory assets as a whole
are not perceived as a jumble of fragments of the past. Without the necessary attention to this system, it is not possible to implement the system of awareness raising
that is indispensable for recognizing archaeological values by society and the startup of the process of reterritorialization of the archaeological remains.
tHe Re-teRRitoRiAliZAtioN oF
ARCHAeoloGiCAl disCoveRies
fROM MEMORY AS An ASSET TO
MEMORY AS A RELATIOnSHIP
ABSTRACT
179
ARMAtuRe CultuRAli di sviluPPo
RIGEnERAZIOnE uRBAnA E POLITICHE CuLTuRALI
Maurizio Carta
Pianificare un pianeta urbano. Abitiamo un “pianeta urbano” in cui più della metà
della popolazione vive nelle città, con valori che in Europa raggiungono l’80%. Il
consolidamento della città come forma prevalente dell’abitare il mondo ne assegna sempre più il ruolo di growth machine dello sviluppo, motore dell’evoluzione
e del dinamismo delle comunità, generatrice di stili di vita innovativi1. Le città si
propongono come potenti attrattrici della popolazione non solo dalle zone rurali,
ma sempre più dalle altre città ed un poderoso flusso di “classe creativa” le attraversa e ne alimenta la rigenerazione e la competitività2.
Tuttavia, esaurita la prima fase in cui il dinamismo si identificava con la presenza
della classe creativa – con un fin troppo facile sillogismo – oggi appare necessaria l’evoluzione del concetto, individuando i fattori che permettono alla creatività
urbana di diventare generatrice di nuove economie e creatrice di nuova città e non
semplice attrattrice di risorse intellettuali3.
La città creativa diventa icona della contemporaneità, retorica ricorrente per disegnare visioni, definire politiche e guidare progetti e sono sempre più numerose
le città – con una rapida crescita nei paesi emergenti – che mirano a dotarsi di
cultural hub in grado di renderla più vivibile e maggiormente attrattiva e dinamica.
nell’attuale situazione di crisi – ormai non più solo finanziaria – con il pil mondiale
in calo e con il ripensamento dei modelli di sviluppo e dei profili di welfare, anche la
città soffre di crescenti spinte antiurbane che ne frammentano la configurazione
e ne dissipano l’energia, indebolendone il ruolo4. Anche i poderosi flussi di capitali finanziari, sociali e relazionali che hanno alimentato la rigenerazione urbana
nell’ultimo quindicennio non sono più disponibili ad essere intercettati in maniera
indiscriminata, come sembrava fino a solo pochi anni fa. La rigenerazione delle
città non è più facile mercato delle plusvalenze finanziarie delle multinazionali
o dei fondi sovrani, ma la stessa città creativa dovrà essere motore di sviluppo
sostenibile, offrendo preziose occasioni di sviluppo non solo quantitativo, ma sem-
1 R. Collovà, Schizzi di ambientamento e di studio,
salemi 1982.
181
1 urban Age Group, Towards an Urban Age, Lse,
London 2006.
2 R. florida, I. Tinagli, Europe in the Creative Age,
demos, London 2004.
3 M. Carta, Creative City. Dynamics, Innovations,
Actions, List, Barcelona 2007.
4 S. Boeri, Anticittà, “Abitare”, 513, 2011.
2
3
TERRITORIALIZZAZIONI
2 Grafico 3t + 3C Creative City.
3 Grafico Città CreAttiva.
182
5 I. Begg (a cura di), Urban Competitiveness. Policies
for Dynamic Cities, Policy Press, Bristol 2002.
6 Oecd, Your Better Life Index, Oecd, Paris 2011.
7 M. Carta, Creative City 3.0. New scenarios and
projects, “Monograph.it”, 1, 2009.
8 A. Bonomi, La città che sente e che pensa. Creatività
e piattaforme produttive nella città infinita, Electa,
Milano 2010.
pre più qualitativo, producendo effetti sia nel dominio dei beni collettivi che nel
dominio dei capitali privati, offrendo un campo di sperimentazione all’innovazione.
Le città più dinamiche del futuro prossimo, tuttavia, non saranno solo le megalopoli capaci di attrarre iconici progetti urbani alimentati dal mercato immobiliare
e “decorati” dalla cultura, ma saranno quelle città medie, detentrici di poderose
risorse culturali e identitarie e capaci di metterle a base non solo della creazione
di nuova cultura, ma soprattutto della generazione di nuovi valori urbani. Il recente rapporto sulle City 600 del McKinsey Global Institute (2011), cioè sulle città
mondiali che più contribuiscono alla crescita del pil globale, ospitando un quinto della popolazione e generando il 60% dell’economia, mostra l’emergere di un
fenomeno interessante: le 23 megalopoli produrranno solo il 10% della crescita
globale, mentre il 50% della propulsione sarà prodotto dalle 577 middlecities, le
piccole capitali globali che si alimentano della loro cultura e creatività. Il secolo
urbano non è abitato solo dalle hypercities, ma mostra anche l’emergere di metropoli intermedie, di conurbazioni diffuse e di reti di mesopoli: soprattutto in Europa,
all’armatura delle “città globali” si sta affiancando quella delle città di secondo
livello produttrici di visioni alternative – qualitativamente fondate e culturalmente
alimentate – rispetto alle patologie delle megalopoli5.
Oggi il paradigma della città creativa chiede un ulteriore salto evolutivo – il terzo
– perché sia capace di continuare a produrre gli effetti moltiplicativi e rigenerativi
sullo sviluppo urbano. La Città Creativa 3.0 non si limita ad essere una categoria
interpretativa degli economisti e dei sociologi (la prima generazione), o una retorica del progetto urbano (la seconda generazione), ma chiama all’azione i decisori
e chiede un vigoroso impegno politico e progettuale poiché solo sulle città che affronteranno creativamente il global change finanziario si misurerà lo sviluppo delle
nazioni e il benessere delle comunità. Secondo il nuovo Better Life Index elaborato
dall’ocse, nei prossimi 20 anni i settori dominanti dell’economia non saranno le
automobili, le navi o l’acciaio, ma l’industria del benessere6. un impegno indifferibile per governanti e gestori, pianificatori e progettisti, promotori e comunicatori,
imprenditori ed investitori sarà quello di creare città che siano luoghi desiderabili
dove vivere, lavorare, formarsi e conoscere, luoghi produttivi ed attrattivi per gli
investimenti. nella terza generazione della città creativa nuovi fattori competitivi sono la Cultura capace di attivare le risorse sia identitarie che innovative, la
Comunicazione come potente strumento strategico e la Cooperazione in grado di
stimolare la comunità ad un processo di corresponsabilizzazione7.
In tale scenario di città fondate sulla loro armatura culturale e capaci di interpretare le dinamiche del mutamento, diventa necessario non solo comprendere
come esse stiano cambiando, ma soprattutto riconoscere il ruolo degli “agenti di
creatività” nel loro sviluppo, e della stessa creatività urbana come fattore primario
dell’evoluzione delle comunità e dello sviluppo economico. La città deve tornare a
“generare valore” a partire dai propri capitali territoriali, culturali, sociali e relazionali, riattivando il rapporto tra creatività e capitalismo manifatturiero8.
In opposizione alla spinta proveniente dagli scenari globali sopra descritti nelle
regioni europee in ritardo di sviluppo agiscono alcune ulteriori criticità locali, che
nell’attuale periodo di crisi si trasformano in gravi emergenze. Tali criticità possono essere riassunte in quattro zeri che nella loro estrema sintesi sono un’efficace
rappresentazione della questione:
– il primo zero riguarda l’assenza di risorse pubbliche strutturali disponibili nei
bilanci delle amministrazioni locali per interventi di rigenerazione urbana, di
recupero di aree dismesse e per sostenere la riqualificazione ambientale e la
conservazione dei suoli agricoli;
– il secondo zero riguarda l’attuale moltiplicatore degli investimenti per gli interventi in qualità degli edifici e degli spazi pubblici il quale è drammaticamente
inesistente, inefficace o anestetizzato;
– il terzo zero è relativo al mancato utilizzo degli incentivi fiscali o amministrativi
messi in atto dalle amministrazioni locali per facilitare l’intervento dei privati o
per incentivare gli insediamenti in aree di recupero piuttosto che nuovo consumo
di suolo;
– il quarto zero mostra la redditività integrata della filiera degli interventi realmente prodotta dalla valorizzazione delle risorse ecologiche e culturali.
Il quadro analitico ci mostra una sconsolante somma di zeri, portando molti amministratori, pianificatori, attuatori ed imprenditori a sostenere che non sia più
possibile ottenere dalle politiche urbane culture-based gli effetti rigenerativi che
hanno accompagnato gli anni pre-crisi9.
Le politiche culturali europee sono prossime ad un vero e proprio “infarto”10: l’offerta cresce sempre di più, mentre la domanda effettiva diminuisce ed i costi lievitano. Si è prosciugato il fiume di denaro pubblico che per decenni è stato riversato
su musei e teatri, su fondazioni e convegni, su rassegne e associazioni anche per
alimentarne la capacità di generare e sostenere la creative city11. E in tempi di bilanci pubblici in pre-default occorre trovare soluzioni prima che l’aridità prenda il
sopravvento trasformando le nostre città nel deserto culturale. Abbiamo l’obbligo
di ripensare il modello di sviluppo delle politiche urbane culture-driven, ricordando che il sistema della produzione culturale e delle creative industries è un vero e
proprio meta-settore nella “terza rivoluzione industriale”, capace di concorrere al
7% del pil mondiale e del 2,6 di quello europeo, con un elevato moltiplicatore degli
investimenti12.
La soluzione deve essere drastica e lungimirante al tempo stesso, riportando la
questione nell’arena pubblica: ridurre gli interventi dall’alto per ridistribuirli secondo nuovi criteri non assistenziali e ridurre i sussidi, affidandosi a metodi più
seri e rigorosi. diventa indispensabile quindi una adeguata ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato, non limitandosi a spostare la soglia di separazione tra
l’uno e l’altro a favore ora del pubblico ora del privato, nei fatti chiudendoli entro
confini impermeabili che concorrono alla deresponsabilizzazione. Occorre invece
sperimentare nuove forme di politiche culturali condivise in cui il pubblico si impegni in ambiti che non garantiscono sicuri margini di profitto, ma che siano indispensabili per garantire i diritti di accesso e per alimentare l’innovazione; mentre
9 G.A. Carlino, A. Saiz, Beautiful city: Leisure
amenities and urban growth, federal Reserve Bank of
Philadelphia Working Paper, 08-22, September 2008.
10 d. Haselbach, A. Klein, P. Knüsel, S. Opitz,
Kulturinfarkt. Azzerare i fondi pubblici per far
rinascere la cultura, Marsilio, Venezia 2012.
11 urban Affairs, V. Patteeuw (a cura di), City
Branding: Image Building and Building Images,
Rotterdam, nai Publishers, Rotterdam 2002.
12 European Commission, kea , The Economy of
Culture in Europe, 2006.
183
TERRITORIALIZZAZIONI
il privato deve sostenere attività affini ai suoi settori d’intervento rendendo disponibile know-how e fornendo capitali per lo sviluppo di segmenti culturali strategici, capaci di incrementare il rendimento sociale delle politiche culturali. Significa
anche non guardare solo al privato imprenditore, ma sempre più spesso al privato
cittadino, indispensabile arcipelago di valorizzazione, sostegno e controllo.
184
13 R. Lloyd, Neo-Bohemia. Art and Commerce in the
Postindustrial City, Routledge, new York 2006.
14 C. Landry, The Art of City Making, Earthscan,
London 2007.
15 M. Carta, Città creativa 3.0. Rigenerazione
urbana e politiche di valorizzazione delle armature
culturali, in M. Cammelli e P.A. Valentino (a cura
di), Citymorphosis. Politiche culturali per città che
cambiano, Giunti, firenze 2011.
la creatività come progetto urbano. L’impegno per il progetto della nuova città
creativa è chiaro: passare dalla città passiva “attrattrice” dei lavoratori della conoscenza13 alla città creativa “produttrice” di nuova identità, di nuove economie della
conoscenza ma anche di nuove geografie sociali. Occorre passare da una visione
della città creativa essenzialmente finanziaria in cui si attraggono investimenti da
capitali prodotti altrove ad una visione progettuale in cui la creatività genera nuovi
assetti, morfologie ed attività produttive alimentate dalla neo-borghesia dei flussi e delle reti. Potremmo definirla la Città CreAttiva per sottolinearne le capacità
generatrici di soluzioni, catalizzatrici di culture e motrici di economie. Tuttavia la
creatività urbana non può essere solo un comodo mantra, ma occorre chiedersi se
tutte le città possono utilizzare efficacemente i suoi fattori, se tutte possono ambire ad essere un nodo dell’armatura di città dell’innovazione culturale che reticola
il pianeta14. Solo una rigorosa individuazione e valutazione del milieu creativo può
consentire di attivarne le risorse, utilizzandone il codice genetico per generare la
Città CreAttiva.
L’impegno è quindi quello di “attivare la città” attraverso strategie, politiche e progetti che sappiano interagire moltiplicando gli effetti e producendo dinamismo,
innovazione e trasformazione urbana. Possiamo individuare sei assi strategici da
perseguire perché la creatività si trasformi in un necessario moltiplicatore delle
risorse urbane15.
Il primo asse richiede di adottare un approccio transcalare capace di combinare
un ambizioso approccio olistico e globale con un necessario approccio operativo
e locale in grado di selezionare gli strumenti più efficaci per conseguire risultati
concreti: l’integrazione tra visioni di futuro e risposte ai problemi è oggi l’arena più
importante e la frequente adozione di piani strategici integrati con progetti urbani
è una delle soluzioni che sta producendo risultati di maggiore interesse.
In secondo luogo una città creativa deve attivare ed alimentare la sua funzione di
commutatore territoriale intercettando le energie di flussi, di persone, di know-how
e di capitali che attraversano il pianeta e di trasformarle in risorse locali. A maggior ragione nell’attuale periodo di crisi e a fronte della riduzione di tali flussi, il
rafforzamento della funzione commutativa delle città deve avvenire sempre di più
attraverso la stipula di patti, accordi strategici e processi di co-pianificazione in
grado di far interagire le diverse risorse urbane, soprattutto quelle fondate sui caratteri distintivi, connettendo l’economia dei flussi con la produttività dei distretti.
Terzo, le città creative, per la loro intrinseca matrice culturale, devono garantire
l’equilibrio tra la conservazione dell’identità e la promozione dell’innovazione attraverso l’uso di piani d’interpretazione e di piani strutturali che sappiano caratte-
rizzare la competitività con un sapiente gioco di “invarianti” e “condizionanti” che
siano in grado di alimentare un progetto urbano non solo efficace e di qualità, ma
soprattutto in empatia con il palinsesto storico e con la ricchezza e la specificità
del capitale culturale.
Il quarto asse di creatività consiste nell’incentivazione di soluzioni progettuali capaci di alimentare la diversità urbana – culturale, sociale, etnica e funzionale – in
un mix fecondo di linguaggi, usi e stili di vita, che sfugga alla ripetizione manierista
dei progetti delle “archi-star” e che invece produca soluzioni creative alimentate
dal talento dei luoghi piuttosto che da quello dei progettisti. Anche il ricorso a politiche di genere o generazionali deve tendere a ridurre la conflittualità sociale e
generare il necessario senso di cooperazione, potenziando, ad esempio, l’utilizzo
di politiche dei tempi e degli orari e di pratiche di community planning che sfuggano alla pura retorica della partecipazione per attivare nuovi stili di vita. un ruolo
fondamentale è oggi giocato dagli urban center e dai laboratori di quartiere e dalla
connessione del progetto urbano con il sistema formativo e della ricerca, il quale
deve sempre più assumere il ruolo di agente creativo della città.
Il quinto asse riguarda la promozione di processi decisionali multiattore e multilivello
(multilevel governance), capaci di essere sia razionali, organizzando le risorse materiali, che istintivi, mobilitando le risorse umane e relazionali. Occorrono sempre
più processi capaci di far interagire competitività e coesione sociale, attraverso un
equilibrio dell’operatività del “piano del sindaco” con la cooperazione delle Agende 21 Locali. numerose città, ad esempio, hanno saputo catalizzare in maniera
vincente i grandi eventi attraverso la capacità di realizzare in tempi brevi aree di
riqualificazione urbana utilizzate come “attivatori creativi” delle qualità locali.
Infine, l’ultimo asse del progetto di creatività urbana chiede che le trasformazioni avvengano alimentando la cooperazione, integrando le diverse comunità sociali
distribuite nella città nei processi di valorizzazione in un vero e proprio processo
strategico e cooperativo, ma anche mettendo insieme ottiche e settori di intervento solitamente separati. un campo di sperimentazione di crescente interesse
è quello rivolto alla sostenibilità ambientale, in cui la creatività diventa un potente
strumento per riattivare il “metabolismo urbano” in cui input e output delle città
trovino un nuovo equilibrio tra efficienza energetica e qualità ambientale, tra riduzione dei consumi e aumento del benessere.
L’impegno progettuale verso la città creativa richiede di non limitarsi alla identificazione dei caratteri del milieu creativo, ma ci sfida a ricercarne declinazioni locali
utili ad estrarre buone pratiche da utilizzare come metodologie o da trasformare in componenti per forgiare i nuovi strumenti di rigenerazione urbana fondata
sull’armatura culturale.
In tale ottica, le aree di trasformazione urbana, oltre al recupero della qualità fisica, ambiscono a diventare veri e propri “cluster creativi”, in cui le iniziative economiche, sociali ed infrastrutturali, a partire dalle attività preesistenti, siano in grado di realizzare progetti innovatori16, implementati all’interno di adeguate strategie pianificate di sviluppo locale fondate sulla soft and experience economy prodotta
dalle qualità territoriali e dalle eccellenze locali17. E nell’attuale ricerca di concrete
185
16 M. G. Caroli (a cura di), I cluster urbani, Il Sole24Ore,
Milano 2004.
17 B.J. Pine ii, J.H. Gilmore, The Experience Economy,
Harvard Business School Press, Boston 1999.
4
TERRITORIALIZZAZIONI
4 Île de Nantes, immagine ortografica.
186
18 Institute for Metropolitan and International
development Studies, Accommodating Creative
Knowledge – Competitiveness of European Metropolitan
Regions within the Enlarged Union, university of
Amsterdam, Amsterdam 2006.
19 Société d’Aménagement de la Métropole Ouest
Atlantique.
politiche di impulso per uscire dalla crisi, gli investimenti in creatività dovranno
essere più efficaci, perdendo alcune connotazioni troppo immateriali o puramente
speculative ed acquistando la solidità degli effetti sul sistema socio-economico locale, perché sappia trasferirle al contesto globale. L’economia impantanata nella
palude di una crisi senza fine potrà utilizzare lo swing power della città creativa:
quel valore aggiunto che produce un effetto di accelerazione della sua potenza
inerziale e che è in grado di utilizzarla come una cultural growth machine capace di
agire contemporaneamente lungo le reti globali e sui territori locali.
È soprattutto necessario agire sul capitale sociale, non solo in termini di miglioramento della qualificazione del mercato del lavoro ma soprattutto incentivando
l’autoimprenditorialità e i reticoli associativi, in modo da facilitare la trasformazione verso i settori delle creative industries. Anche l’intensità e la prossimità delle
relazioni tra i soggetti istituzionali e i portatori di interessi che agiscono nel cluster sono un fattore del suo successo, che richiede un’offerta adeguata di “luoghi”
e “condizioni” che facilitino il manifestarsi di tali occasioni. In questo senso, lo
sviluppo di luoghi di prossimità e di relazione, e la promozione di eventi culturali,
sportivi o di loisir rappresentano una condizione importante per il rafforzamento
del capitale sociale tra gli attori che costituiscono il distretto18.
Nantes, una metropoli eco-creativa. nel panorama europeo delle città medie in
competizione virtuosa per sperimentare il nuovo paradigma della Città CreAttiva
emerge nantes per chiarezza di visione, qualità degli esiti e lungimiranza delle
prospettive che nel 2013 le hanno valso il titolo di European Green Capital. nantes
si distingue per l’innovazione delle politiche pubbliche integrate e partecipative: la
mobilità, le azioni per il clima, la gestione dell’acqua e la valorizzazione delle aree
naturali attivano e alimentano un costante e dinamico dialogo con la cittadinanza
dei 24 comuni dell’area metropolitana.
Il percorso non è recente, perché negli ultimi anni la capitale della Loira ha lanciato, attraverso Nantes Métropole, una grande sfida per il ripensamento del modello
di sviluppo attraverso l’avvio di numerose iniziative nel segno della sostenibilità
ecologica, della innovazione digitale e della valorizzazione culturale, ma soprattutto investendo nella dimensione culturale ed ecologica per generare nuova
forza-lavoro e nuovi luoghi del lavoro, e proponendosi come strumento per una
“terza via” dell’economia tra statalizzazione e privatizzazione incontrollata.
Più rilevante ai fini delle riflessioni precedenti è il grande programma di rinnovamento urbano dell’Île de Nantes: un’isola di 337 ettari nel cuore della città, una ex
zona industriale e portuale un tempo molto vitale e propulsiva e poi destinata al
declino. dagli inizi del xxi secolo questo territorio è oggetto di uno dei più grandi
progetti urbani in Europa per costituire una nuova centralità urbana contenente
un mix di abitazioni e servizi pubblici, ma soprattutto nuove attività produttive e
commerciali caratterizzate dalla innovazione tecnologica, dalla creatività e dalla
sostenibilità e capaci di alimentare le politiche pubbliche. Per l’attuazione del progetto nel 2003 è stata creata la samoa19, una società mista per la redazione di un
masterplan fondato su tre assi principali: la priorità degli spazi pubblici, la valorizzazione della Loira e soprattutto la valorizzazione dell’eredità culturale, integrata
nella stessa sostanza dei nuovi spazi pubblici e dei nuovi edifici.
L’intervento è caratterizzato da alcuni dati dimensionali che ne testimoniano la
rilevanza: 337 ettari nel centro della città di nantes per una lunghezza massima
di 5 Km immersi nella Loira; 13.000 abitanti e 15.000 lavoratori coinvolti; una potenzialità edificatoria di circa 850.000 mq, divisi tra alloggi (550.000 mq), attività e
servizi (300.000 mq) che arriveranno a 1.500.000 mq nel 2030; 150.000 mq di infrastrutture locali e metropolitane e 160 ettari di nuovi spazi pubblici o recuperati;
3 linee di trasporto pubblico dedicate e 12 km di passeggiata lungo la Loira; infine
una mixité di funzioni urbane: residenza (di cui il 20% di social housing), attività economiche, istituti di ricerca e accademie, negozi, trasporti pubblici, servizi sociali,
attività culturali e per il tempo libero.
Entro il grande progetto di rigenerazione dell’Isola, il vero propulsore per la città
eco-creativa è il Quartier de la Création: 9 ettari dedicati alle industrie culturali
e creative, fusione di cultura, formazione, arte, tecnologia, ricerca e imprese. Il
progetto prende avvio nel 2009 nella punta occidentale dell’isola di nantes, ed è
basato su una visione chiara: concentrare nello stesso luogo istituzioni educative e
di ricerca ed imprese agevolandone le spinte di innovazione e di creazione.
Le parole chiave dell’intervento sono “formazione”, “cultura” e “impresa”, concretizzate dalla presenza dell’università attraverso la nuova Ecole Nationale Supérieure d’Architecture, e di numerosi istituti di formazione come l’Ecole des Beaux Arts,
Sciences Com, l’Ecole de Design e l’Ecole des Métiers de l’imprimerie. Anche la configurazione architettonica degli edifici concretizza il carattere aperto e condiviso del
quartiere: la nuova sede della facoltà di Architettura, progettata dagli architetti
Lacaton e Vassal recuperando un edificio industriale in vetro, cemento e acciaio
grezzo, è uno spazio aperto e flessibile circondato da una rampa che conduce ad
un ampio terrazzo con vista sulla Loira. Anche il Pôle des Arts offre, su una superficie di 11.000 mp, uno spazio per liberare la creatività degli allievi delle scuole di
arti applicate, offrendola permanentemente alla città e contribuendo alla “perturbazione culturale” della metropoli.
Elemento di rilievo del distretto è l’edificio Eurêka, ai margini dell’area, agente
come un potente motore economico. L’edificio, ormai un’icona del quartiere, è
sede della samoa e contiene un incubatore d’impresa dedicato allo sviluppo delle
industrie innovative e creative. Infine, nella punta occidentale dell’Isola, i numerosi capannoni industriali e i grandi magazzini per lo stoccaggio sono stati trasformati in un parco urbano di 13 ettari: con spiaggia, solarium, prati digradanti verso
il fiume, giardini e luoghi del loisir.
Editoria, creazione di contenuti digitali, design, multimedia, architettura, comunicazione, arte, media, arti visive: numerose sono le industrie culturali e creative
già presenti sull’isola a cui presto se ne affiancheranno altre, attratte dalla forza
magnetica del luogo e dalle economie di scala prodotte dalla presenza del cluster.
La combinazione di numerosi creative player sullo stesso sito si propone di sviluppare nuove attività, favorendo la nascita di nuovi progetti nati dall’incontro tra
5
5 Nantes, quartier de la Création.
187
artisti, operatori culturali, studenti, ricercatori e imprenditori. Riuniti in un cluster
saranno in grado di scoprire, condividere, costruire relazioni e sviluppare nuove
idee, combinando competenze e approcci diversi. Hub tra istruzione, ricerca, sviluppo economico e attività culturali, il distretto della Creatività di nantes è il risultato di una politica culturale ventennale, ma è anche un nuovo punto di partenza
per la nuova era. nantes ambisce infatti a diventare una delle capitali europee
dell’industria culturale e creativa e l’ambizione del Quartier de la Création è quello
di mantenere il territorio in uno stato di costante perturbazione creativa e di proiezione internazionale attraverso la forza propulsiva generata dalla cooperazione
tra imprenditori e titolari di progetti creativi. Attraverso una costante tensione a
costruire ponti tra le arti, la cultura, la scienza e la tecnologia, l’economia e l’educazione, una integrazione tra i talenti e gli abitanti, nantes vuole diventare una
metropoli creativa e sostenibile: un esempio concreto di eco-creative city, dove il
prefisso “eco” fa riferimento al contributo integrato dell’ecologia e dell’economia.
TERRITORIALIZZAZIONI
In conclusione, città creativa ed identità dei luoghi, economia dell’esperienza e
qualità della vita, pianificazione strategica ed efficace governance non sono solo
nuove parole chiave per guidare i processi di sviluppo delle città, ma si propongono come strumenti integrati per riattivare l’organismo urbano e ricodificarne il
dna culturale, mettendo in gioco risorse concrete e procedure innovative nel governo delle città, ma al contempo alimentando le visioni di futuro del pianeta urbano. Per parafrasare Antoine de Saint-Exupéry: se devi costruire una città creativa,
non radunare uomini per raccogliere pietre e distribuire compiti e non usare l’oro
per comprare l’equipaggio. Ma trasmetti loro l’irresistibile seduzione e la potente
energia della creatività.
188
We live on an “urban planet” where more than half the population lives in cities, with
values arriving up to 80% in Europe. The consolidation of cities as the prevailing form
of living in the world attributes it more and more the role of a development growth
machine, an engine of the evolution and dynamism of the communities, a generator
of innovative lifestyles. Cities propose themselves as powerful attractors of population not only from rural areas, but more and more frequently from other cities, and
a huge “creative class” flow crosses through them and fuels their regeneration and
competitiveness. The creative city becomes an icon of contemporariness, a recurrent rhetoric for drawing visions, defining policies, and guiding projects; and there is
an continuing increase in the number of cities – growing rapidly in emerging countries – that aim to endow themselves with cultural hubs capable of making them
more liveable, attractive, and dynamic.
Today the paradigm of the creative city requires another evolutionary leap – the third
– for it to be able to continue to produce multiplicative and regenerative effects on
urban development. The Creative City 3.0 does not limit itself to being an interpretative category of the economists and sociologists (the first generation), or a rhetoric of
the urban plan (the second generation), but calls to action the decision makers and
asks for a vigorous political and planning commitment, because only on the cities
that will creatively tackle financial global change will the development of the nations and prosperity of communities be measured. An unpostponable commitment
for rulers and operators, planners and designers, promoters and communicators,
entrepreneurs and investors will be that of creating cities that are desirable places
to live, work, train, and learn in, productive and attractive places for investments. In
the third generation of the creative city, new competitive actors are Culture, capable of activating both identity-related and innovative resources, Communication as
a powerful strategic instrument, and Cooperation capable of stimulating the community toward a process of co-empowerment.
The commitment for the project of the creative new city is clear: to pass from the
passive city that “attracts” knowledge workers to the creative city that “produces”
a new identity, new economies of knowledge, but also new social geographies. It is
necessary to go from an essentially financial vision of the creative city in which investments from capital produced elsewhere are attracted, to a forward-thinking vision in which creativity generates new arrangements, morphologies, and production
activities fuelled by the neo-bourgeoisie of the flows and networks. We might call it
the CreActive City, to stress its capacity to generate solutions, culture catalysts, and
economy motors.
CultuRAl suPPoRtiNG
FRAMeWoRKs FoR develoPMeNt.
uRbAN ReGeNeRAtioN ANd
CultuRAl PoliCies
ABSTRACT
189
SICILIA
1
MitoPoiesi del PAesAGGio ARCHeoloGiCo siCiliANo
LA VALORIZZAZIOnE dEL PATRIMOnIO PAESAGGISTICO E CuLTuRALE
Alessandra Badami
1 veduta della valle dei templi, Agrigento.
TERRITORIALIZZAZIONI
La parte più a sud d’Italia, che gode di un clima più mite che il resto di essa, e trovandosi
molto vicino a quella parte del cielo sotto il
quale si trova anche la Grecia, è popolata da
uomini di forme superbe e vigorosamente
progettate, che sembrano essere stati fatti,
per così dire, ai fini della scultura1
190
la nascita del paesaggio in sicilia. La
Sicilia si trova molto vicina “a quella parte del cielo sotto il quale si trova anche
la Grecia”2.
un’immagine dell’isola scolpita da Winckelmann che sintetizza in modo straordinariamente efficace i caratteri del
paesaggio siciliano. un paesaggio mediterraneo, solare, ferace, ma anche
aspro, violento, remoto.
un paesaggio costruito nell’immaginario e celebrato attraverso le descrizioni
e le rappresentazioni dei viaggiatori del
Grand Tour, attratti in Sicilia proprio dai
testi di Winckelmann. Mentre fino alla
fine del xvii secolo i viaggiatori non trovarono interesse a spingersi oltre napoli3,
preferendo mete come Roma, firenze,
Milano, Torino, che offrivano la possibilità di approfondire interessi scientifici
specializzati sulla Cultura romana imperiale e il Rinascimento italiano, considerate come vette di un’evoluzione culturale e artistica, con la pubblicazione
nel 1764 di Storia dell’arte dell’antichità
Winkelmann storicizza l’opera d’arte e
la contestualizza come esito di evoluzioni stilistiche al cui vertice egli colloca, in
modo assiomatico, l’arte greca.
Winckelmann progettò il suo viaggio in
Sicilia per studiare dal vero le architetture e le opere d’arte di matrice greca,
viaggio che non riuscì mai a realizzare.
Il suo allievo Johann Hermann von Riedesel intraprese il viaggio nell’isola nel
1767 per poi pubblicare nel 1771 il suo
Viaggio attraverso la Sicilia e la magna
Grecia, con la prefazione del maestro:
all’interesse suscitato dalla pubblicazione seguì l’estensione dell’itinerario del
Grand Tour al meridione d’Italia e alla
Sicilia4.
I luoghi più visitati dell’isola furono Messina (non ancora distrutta dal terremoto
del 1908), l’Etna e le Isole Eolie (l’ascesa
al cratere come esperienza dell’orrido
e del sublime), Siracusa, Segesta, Selinunte e Agrigento (la fruizione diretta
delle architetture elleniche), Mothia e
Lilybaeum (la presenza fenicia) e Palermo5.
Gli scritti dei primi viaggiatori settecenteschi che raggiunsero la Sicilia produssero itinerari, immagini6 e stereotipi destinati ad essere moltiplicati dai
viaggiatori successivi: attraverso questo
meccanismo di moltiplicazione si costruì
il percorso classico dell’isola che divenne uno degli strumenti guida per la conoscenza e la lettura del territorio7.
I viaggiatori del Grand Tour rappresentarono il Sud riproponendo molti dei caratteri rilevati per il paesaggio italiano in
generale, ma restituendoli amplificati,
quasi esasperati. Il paesaggio del Sud
non era solo il costrutto di una diversa
cultura, veniva percepito come lontano
dal presente, una zona spazio/temporale
di confine tra l’Europa e il mondo antico:
si è spesso pensato di possedere qualità associate con tutta Italia, ma in misura maggio-
re. Il Sud è stato da una parte più arretrato
e incivile, dall’altro più naturale e pittoresco
[…]. Più a sud si viaggia, più lontano ci si muove dall’età contemporanea8.
Il paesaggio della Sicilia affascinava per
i suoi eccessi e i suoi contrasti. Tra i topoi classici della letteratura odeporica
emergono tre temi ricorrenti: il contrasto tra la bellezza e la rigogliosità di una
natura generosa e la rozzezza primitiva
degli uomini, che esprimeva anche il
crescente divario tra la cultura dell’Europa nord-occidentale più avanzata e
l’arretratezza del Sud; un presente misero e decadente in contrasto con la
memoria ancora viva e pulsante della
cultura greca, una presenza attorno alla
quale Winkelmann costruì quell’aura
attraente attraverso il parallelismo tra
la possenza dello stile architettonico
del dorico insulare e le forme massicce
ed energiche dei corpi dei siciliani; e il
terzo topos, la presenza inquietante dei
vulcani, che evocavano la forza prorompente della natura creatrice e distruttrice, simbolica metafora degli inferi e dei
caratteri violenti, oscuri, incontrollabili –
eppure misteriosamente attraenti – del
Sud.
dalla potenza mitopoietica del paesaggio siciliano sono nati i miti legati alla
morfologia dell’isola (la Trinacria con
la testa della gorgone Medusa e delle
sorelle Steno “la forte” ed Euriale “la
spaziosa”), al mare (i vortici prodotti dai
mostri Scilla e Cariddi nello stretto di
Messina), all’idrografia (i fiumi generati
da Aretusa, Ciane e Aci), alla forza tellurica (la dea Etna e il gigante Polifemo),
alla morfogenesi (la sconfitta di Encelado nella gigantomachia), alla genealogia
(i miti di discendenza), ai culti misterici (il
ratto di Persefone), ai processi insulari
di ellenizzazione (il ciclo di Eracle).
Terra di vulcani e di frumento, di dispute
tra Efesto e demetra, la Sicilia tuttora
affascina con la sua ricchezza di contrasti, le infinite formule con le quali l’uomo ha trasformato la natura venendo a
sua volta plasmato da essa; un paesaggio che rivela la sua costruzione tra le
discontinuità degli eventi storici, tra le
tracce dei differenti insediamenti umani
sul territorio e le tracce dei codici genetici di etnie diverse che si sono mescolati
nel sangue dei suoi abitanti.
tutela e valorizzazione del paesaggio
archeologico in sicilia. La forte impronta del patrimonio archeologico sul paesaggio siciliano e il ruolo identitario che
riveste per la cultura insulare hanno caratterizzato sin dal xviii secolo la politica
siciliana per il patrimonio culturale, sia
dal punto di vista istituzionale che legislativo.
Tra le più antiche istituzioni d’Italia, in
Sicilia venne creato nel 1778 il Servizio
di Tutela Monumentale con due Soprin-
tendenti, uno per la Sicilia occidentale
ed uno per la Sicilia orientale; il Servizio sarà trasformato nel 1976 nelle due
Soprintendenze per i Beni Artistici e Storici
della Sicilia con competenza territoriale
per la Sicilia occidentale l’una, per l’orientale l’altra, a loro volta trasformate
con legge regionale 116/1980 in Soprintendenze Regionali per i Beni culturali e
ambientali con competenze unificate sui
beni culturali e distribuite territorialmente su base provinciale.
Come regione a statuto speciale, la Sicilia si appropria formalmente della
gestione e della valorizzazione del patrimonio culturale con legge regionale
80/1977 Norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali
e ambientali nel territorio della Regione
Siciliana. A partire dagli anni ’90 la legislazione regionale, con significativo anticipo rispetto alla legislazione nazionale
ed europea, affronta il tema dell’archeologia non più in termini vincolistici ma
sperimentando una valorizzazione sistemica: il primo riferimento normativo è
contenuto nella legge regionale 25/1993
(art. 107), abrogato e sostituito dalla legge regionale 20/2000 Istituzione del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle
dei Templi di Agrigento. Norme sull’istituzione del sistema dei parchi archeologici
in Sicilia, che definisce contenuti, finalità, modalità di istituzione e gestione dei
Parchi archeologici in una visione non
più puntuale ma di sistema. La legge è
suddivisa in due titoli, il primo dedicato all’istituzione del Parco Archeologico
e Paesaggistico della Valle dei Templi di
Agrigento, con specifiche finalità di tutela
e valorizzazione non solo del patrimonio
archeologico, ma anche dei beni ambientali e paesaggistici; per la gestione
del parco è prevista la redazione di un
191
TERRITORIALIZZAZIONI
192
Piano, all’interno del quale un sistema
di norme differenziate per le zone in cui
è articolato il parco (zona archeologica,
zona ambientale e paesaggistica, zona
naturale attrezzata e relative sottozone)
dispone sia divieti che misure di promozione e incentivi per attività culturali ed
economiche. Il secondo titolo è dedicato
all’istituzione di un Sistema regionale di
parchi archeologici, cogliendo l’importanza di una valorizzazione intergrata e
relazionata per più di 2.600 siti archeologici9 ad oggi censiti nel territorio e lungo
le coste della Sicilia.
Le indicazioni della legge sono state recepite in sede di pianificazione paesaggistica dalle Linee-Guida del Piano Territoriale Paesistico Regionale10 che hanno
individuato un primo elenco di aree archeologiche (aree archeologiche complesse, suddivise in tre tipologie: “parchi
in contesto con forte urbanizzazione”11;
“parchi in contesto ampio con compenetrazione di urbanizzazione e fatti naturali
notevoli”12; “parchi in contesto naturale
abbastanza integro con urbanizzazione
rada o parziale”13 da cui partire per la
costituzione del sistema dei parchi. Le
Linee-Guida hanno condiviso l’approccio
sistemico sottolineando in particolare
la necessità di coniugare la tutela delle
aree archeologiche, negli attributi propri
della disciplina archeologica, al sistema
di relazioni storiche, culturali e geografiche intessute con il contesto paesaggistico sul quale insistono.
un successivo decreto dell’Assessorato per i Beni culturali e ambientali (d.A.
6263/2001) ha approfondito gli studi preliminari approdando ad una seconda
selezione di 16 aree archeologiche14 in
cui avviare interventi prioritari per l’istituzione del sistema di Parchi; con d.P.R.
370/2010 l’elenco delle aree archeologiche da istituire a Parco è stato esteso
su 26 località15, una moltiplicazione che
rischia di pesare eccessivamente sulle
effettive risorse della regione, tenuto
conto che la trasformazione di un’area
archeologica in un parco archeologico
richiede un notevole impegno economico, istituzionale e gestionale16.
il sistema regionale dei parchi archeologici della sicilia. L’orientamento della
politica regionale per la valorizzazione
del patrimonio archeologico prevede
dunque di istituire come parco le aree
archeologiche di maggiore importanza
e di organizzare un sistema funzionale
e relazionale sia tra i parchi stessi che
con il patrimonio archeologico, culturale, paesaggistico e ambientale della
regione. Se da un lato la messa a sistema delle aree archeologiche permette
di dispiegare il palinsesto territoriale e
la trasversalità dei processi storici che
mostrano le forme e le regole costitutive del paesaggio attuale, dall’altro un
approccio integrato di valorizzazione del
patrimonio culturale offre l’opportunità
di fruire del territorio nella sua complessità, intrecciando la rete delle aree
naturali protette, delle vie enogastronomiche, dei corridoi ecologici, delle città
d’arte e delle altre valenze culturali territoriali.
I temi sollevati si inseriscono all’interno dell’attuale dibattito sul paesaggio,
cogliendo i rapporti che legano archeologia, natura e presenza umana sul
territorio, ricercando nuovi contenuti e
obiettivi per una politica integrata per le
aree archeologiche correlate al contesto
territoriale. La legge regionale 20/2000,
con l’istituzione del sistema di parchi
archeologici, definisce come finalità “la
salvaguardia, la gestione, la conservazione e la difesa del patrimonio arche-
ologico regionale, al fine di consentire
migliori condizioni di fruibilità, lettura
e godimento, nell’ambito dello sviluppo
dell’economia e di un corretto assetto
dei territori interessati, per l’uso sociale e pubblico dei beni, nonché per scopi
scientifici e turistici”.
Contestualmente alla ricerca di una
nuova definizione di parco archeologico, la legge introduce alcune importanti
modifiche rispetto alle norme precedenti
per definire nuove modalità di intervento
sui territori con forte valenza storico-archeologica, valorizzando in primo luogo
il rapporto tra i reperti archeologici e le
componenti ambientali e paesaggistiche
più generali di contesto, quali le singolarità e le emergenze morfologiche, paleontologiche, naturali e naturalistiche ed
il tessuto socioculturale locale.
da questa nuova definizione di parco
ne deriva che i confini dei parchi non
possono essere limitati all’area gravata dal vincolo archeologico, ma devono
interessare un territorio più vasto. A tal
fine la legge prevede l’articolazione del
parco in tre zone rispettivamente riferite
all’area archeologica (zona A), alla zona
di rispetto (zona B) e all’eventuale area di
interesse paesaggistico (zona C). diretta
conseguenza è la difficoltà, già riscontrata per la pianificazione e soprattutto
per la gestione dei parchi naturalistici
da cui la legge 20/2000 trae origine, di
una azione coordinata di apposizione di
vincolo e di gestione di aree vincolate
di vasta estensione: l’esperienza della
grande quantità di aree in tutto il territorio nazionale immesse in realtà definite “parco” ma che non sono riuscite a
consolidarsi e diventare vitali, e quindi
capaci di resistere alle spinte riduttive
esterne e di avere un forte radicamento
sociale e locale, propone come azione
prioritaria la definizione dei tempi e dei
modi della gestione e, conseguentemente, dei soggetti responsabili di tale
gestione.
Per la gestione del parco, a cui è assegnata autonomia scientifica e di ricerca,
organizzativa, amministrativa e finanziaria, sono previsti per legge appositi
organi, il Direttore e il Comitato tecnicoscientifico; la composizione di quest’ultimo prevede, accanto alle figure di tecnici
esperti e della Pubblica Amministrazione, la partecipazione di rappresentanti
delle comunità locali a garanzia del principio di partecipazione democratica ai
processi di pianificazione del territorio.
sperimentazioni, limiti, potenzialità, ricadute. Anche altre regioni d’Italia stanno portando avanti interessanti
esperienze relative all’istituzione di parchi archeologici, sperimentando diverse
soluzioni di gestione attraverso organi
come Enti parco o Comitati di gestione,
articolando il regime vincolistico in aree
a tutela differenziata, finalizzando esplicitamente la tutela alla ricerca scientifica, alla promozione dei valori storici,
ambientali e paesaggistici, stimolando
la partecipazione delle comunità locali
e dei soggetti privati attraverso accordi di programma; tutte sperimentazioni
accomunate da una lettura sistemica del
patrimonio culturale, alla ricerca di un
maggiore radicamento delle operazioni
di valorizzazione all’interno delle dinamiche socio-economiche.
nonostante l’apparato normativo innovativo, la politica di valorizzazione
del patrimonio archeologico in Sicilia si
muove lentamente e con difficoltà, dovendosi confrontare con la complessità
del territorio regionale, con la pluralità dei soggetti pubblici coinvolti, con la
concorrenza di diversi strumenti di pia-
nificazione territoriale, con la mancata
ricerca della partecipazione culturale
delle popolazioni locali ed economica
dell’imprenditoria locale e soprattutto
con una ancora non raggiunta cooperazione interistituzionale.
Il sistema di parchi archeologici, spesso
ancora percepito come un limite costituito da una sommatoria di dinieghi e di
vincoli ambientali, architettonici e archeologici, ha effettive potenzialità per
divenire uno dei motori più potenti dello
sviluppo sostenibile siciliano, non solo in
termini di valorizzazione del patrimonio
culturale, ma anche di miglioramento
della qualità dell’offerta turistico-culturale, di salvaguardia, rigenerazione e
valorizzazione del paesaggio, di ampliamento dell’occupazione, di incentivo alla
capacità imprenditoriale nel territorio,
di crescita delle condizioni culturali e di
miglioramento della qualità dell’istruzione e della formazione della popolazione.
Perché il sistema diventi efficace, occorre definire provvedimenti attivi per la
valorizzazione e la rifunzionalizzazione
didattica dei parchi archeologici; individuare processi di inserimento delle
dinamiche correlate al settore turistico
nel tessuto economico, sociale e imprenditoriale; incentivare il recupero del
patrimonio architettonico e monumentale che insiste all’interno dei parchi;
promuovere la realizzazione di attività
culturali in grado di completare l’offerta
formativa, didattica e ricreativa e dare
ad essa continuità nel tempo; consentire l’intersezione del sistema dei parchi
archeologici con altre reti, esistenti o da
realizzare, finalizzata alla partecipazione alla vita culturale dei luoghi sia da
parte dei turisti sia, in maniera più continua e pregnante, da parte delle popolazioni locali; istituire un sistema integrato
di servizi informativi, di connessioni in
rete, di infrastrutture di collegamento
per consentire e potenziare in maniera
sistematica l’accessibilità e la fruizione
del patrimonio archeologico.
Le importanti ricadute dell’istituzione
del sistema regionale di parchi archeologici si distribuiscono su molteplici
ambiti e interessando diversi aspetti, tra
cui, oltre a quelli culturali, aspetti istituzionali ed economici:
– In termini culturali, il sistema potrebbe essere funzionale alla creazione
di basi per una più ampia conoscenza
del patrimonio archeologico, consentendo una fruizione più diretta e culturalmente consapevole delle testimonianze storiche dell’identità locale
per ricomporre la frattura tra antico
e moderno; costituirebbe la premessa per innescare il processo che dalla
conoscenza del patrimonio porta alla
responsabilizzazione nei confronti della sua conservazione e salvaguardia; offrirebbe una serie di proposte progettuali per la fruizione del
patrimonio archeologico territoriale
nel suo complesso definite secondo i
principi di una museografia flessibile,
articolata e differenziata.
– In termini istituzionali, potrebbe promuovere una più stretta collaborazione tra ricerca scientifica e Pubblica
Amministrazione per la gestione delle risorse del territorio; elaborare un
quadro di riferimento rivolto agli Enti
locali, alle Istituzioni, alle associazioni
interessate e all’imprenditoria locale
per l’attivazione di iniziative per lo sviluppo economico, sociale e culturale
compatibili con la tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico e
del paesaggio; proporre la sperimentazione di nuovi modelli di partena-
193
TERRITORIALIZZAZIONI
riato tra soggetti istituzionalmente
competenti e altri soggetti pubblici e
privati.
– In termini economici, potrebbe proporre formule innovative di partecipazione del capitale privato nella gestione e valorizzazione del patrimonio
culturale; fornire una serie di provvedimenti attivi rivolti alla creazione di
nuova occupazione e di nuovi settori di
investimento diretti a dinamizzare l’economia locale; creare condizioni per
un innalzamento della qualità dell’offerta turistica e per una migliore valorizzazione del patrimonio culturale e
ambientale.
194
dimensioni transfrontaliere di valorizzazione del patrimonio archeologico
Occorre tuttavia tenere presente che
una reale e piena valorizzazione del
patrimonio culturale non coincide con
la massimizzazione turistica, né tantomeno si deve misurare esclusivamente attraverso l’indicatore dell’indotto
turistico; in qualità di beni culturali, la
massimizzazione del loro utilizzo coincide con la massima diffusione della
loro conoscenza che si realizza quando
dalla ricerca si passa alla divulgazione,
quando dall’informazione si passa alla
formazione. Questione rilevante quando
si tratta di parchi archeologici, poiché ne
condiziona non soltanto strutture e servizi, quanto principalmente la funzione
sociale e le connesse finalità: il parco
archeologico deve divenire il parco della
conoscenza, della fruizione colta e consapevole, dell’accostamento ai temi della storia, della civiltà, dell’identità, delle
origini.
Il parco deve essere concepito come un
laboratorio vivente di analisi, di interpre-
tazione, di conoscenza e di sviluppo culturale basato sui reperti e sul loro nesso
con il territorio; deve diventare un parco
maieutico e didattico, destinato prima
ancora che ai turisti alle popolazioni locali, prima che agli specialisti ai giovani,
dissolvendo concettualmente i recinti e
realizzando quell’unità con il suo territorio che emerge dal racconto storicizzato
e stratificato della storia delle culture.
Come emerge dalla topografia antica dei
siti archeologici dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono presenti
caratteri ricorrenti, reperti complementari, storie in comune che legano luoghi
diversi e anche molto lontani, tracce di
una antica koinè culturale. Ciò suggerisce che, per poter individuare e ricostruire il processo di tali evoluzioni culturali
condivise, diventa necessario andare
oltre il perimetro del singolo sito archeologico, oltre i confini regionali, oltre la
dimensione nazionale: diventa necessario adottare una visione internazionale.
un singolo parco archeologico, preso
isolatamente, mai potrebbe ricostruire
tutto il complesso delle relazioni e dei
flussi che animavano i territori e il “mare
di mezzo” nell’antichità; un approccio
sistemico, adottato alla necessaria scala internazionale, potrebbe consentire
di costruire una efficace interfaccia di
comunicazione – non solo culturale ma
anche politica, in una prospettiva di pace
e comunanza degli obiettivi di sviluppo
sostenibile – tra i paesi mediterranei,
per una ricomposizione di quella antica,
latente ma presente, koinè delle culture
che sono nate sotto quella stessa “parte
del cielo”.
1 J.J. Winckelmann, Geschichte der Kunst des Alterthums,
G.C. Walther, dresden 1764.
2 Ibid.
3 L. Rustico, Il paesaggio siciliano, in V. Consolo, Retablo,
tesi di laurea, rel. prof. E. dell’Agnese, università
Bicocca di Milano, a.a. 2005/06.
4 La Sicilia veniva raggiunta dai viaggiatori da mare via
napoli per evitare il passaggio dalla Calabria, regione in
cui imperversava il brigantaggio.
5 dopo i primi due pionieri del viaggio in Sicilia Joseph
Hermann von Riedesel (1767) e Patrick Brydone (1770),
sono stati in Sicilia, tra gli altri, Guy de Maupassant,
Edmondo de Amicis, Jean-Pierre Houël, Jakob
Philipp Hackert, Algernon Swinburne, dominique
Vivant denon, Charles-Emmanuel nicolas didier,
francis Elliot, Wolfang Goethe, friedrich Maximilian
Hessemer, Richard Payne Knight, Claude de Marcellus,
friedrich Münter, Alexis de Tocqueville, Josef Widmann
accompagnato da Johannes Brahms, Anton norov,
Joseph de foresta, Pierre Henri de Valenciennes.
Alcuni viaggiatori preferirono percorsi alternativi, come
Alexandre dumas (padre) che si limitò ad eseguire
il periplo dell’isola in barca, o Emily Lowe con il suo
attraversamento dell’isola in carrozza.
6 Tra i viaggi in Sicilia, uno dei più interessanti è stato
quello intrapreso nel 1777 dal pittore di paesaggi Jakob
Philipp Hackert in compagnia degli inglesi Knight e
Gore, documentato da numerose immagini attraverso
le quali ha cominciato a prendere forma il paesaggio
idealizzato del Sud Italia.
7 L. Rustico, Il paesaggio siciliano , cit.
8 n. Moe, The view from Vesuvius. Italian culture and
the southern question, university of California Press,
Berkley-Los Angeles 2002, p. 37.
9 fonte: Regione Siciliana, 2009.
10 Ibid.
11 Akragas, Menaion, Syrakussai, naxos e
Tauromenion, Mylai.
12 Mothia e Lilybaion, Akrai e Kasmenai, Ispicae
fundus, Leontinoi.
13 Grotte di S. Vito Lo Capo, Segesta, Selinunte, Grotte
di Monte Pellegrino e Capo Gallo, Himera, Morgantina,
Paliké, netum.
14 Gela, Sabucina, Morgantina, Isole Eolie, naxos,
Himera, Iato, Solunto, Kamarina, Cava d’Ispica, Lentini,
Eloro e Villa del Tellaro, Siracusa, Pantelleria, Selinunte
e Cave di Cusa, Segesta.
15 Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei
Templi ad Agrigento, Gela, Sabucina e Capodarso,
Catania, Ceramica del calatino, Valle del Simeto,
Valle dell’Aci, Villa Romana del Casale, Morgantina,
floristella-Grottacalda, Isole Eolie, naxos – Giardini
naxos – aree archeologiche di Taormina e francavilla,
nebrodi occidentali, Himera, Monte Iato, Solunto,
Zolfara di Lercara friddi, Kamarina, Cava d’Ispica,
Lentini, Eloro e Villa del Tellaro, Siracusa, Stagnone –
Mozia – Lilibeo, Pantelleria, Segesta, Selinunte – Cave
di Cusa.
16 A. Badami, Metamorfosi urbane. Politiche culturali in
Francia e mutamenti nel paradigma urbanistico, Alinea,
firenze 2012.
MYtHoPoiesis oF tHe siCiliAN
ARCHAeoloGiCAl lANdsCAPe
EnHAnCEMEnT Of THE
LAndSCAPE And CuLTuRAL
HERITAGE
ABSTRACT
The richness and complexity of the territorial archaeological heritage of Sicily constitutes one of the elements that
most characterizes the island. from
the days of the Grand Tour on, it has
attracted the interest first of travellers, and later of tourists. It has also
aroused the attention of the administrators and legislators of the regional
territory, who have set up a special
protection system defined on the basis
of the characteristics of the Sicilian archaeological heritage.
In Italy, the first regulatory policies
on the enhancement of territorial archaeological assets were issued by the
Region of Sicily which, in the year 2000,
with Regional Law no. 20, equipped itself with an innovative legal instrument
aiming to set up Archaeological Parks.
In addition to being a total novelty in
the national legal panorama, the law
proposes a systemic vision for the integrated enhancement of the regional
archaeological heritage and management solutions that can guarantee its
administrative and economic sustainability.
The vast territorial dimensions of many
of the most important archaeological
areas present in Sicily are of interest
also from the standpoint of territorial
planning; in order to avoid the overlapping of the planning and management responsibilities, Law 20/2000
intervenes to set up the Plan for the
Archaeological Park as a sectorial urban planning instrument superordinate
over ordinary urban planning instruments; at the same time, to guarantee
a more effective protection of the assets, among the management bodies it
is planned for there to be representatives of the local population, in order
to raise the residents’ awareness, first
of all, of the importance of participating in the protection and enhancement
processes.
Together with the protection and enhancement aims, the law presents
numerous opportunities for local development in cultural and economic
terms, through the investment by private parties in the creation and running
of additional services, the activation of
cultural activities starting from the archaeological resources, promotion of
the territory through the interception
of super-local systems and networks,
and opportunities for dialogue with other national and cross-border systems
for the enhancement of the heritage
and cultural identities.
195
EnnA
1
l’esPeRieNZA dellA CostRuZioNe dei PiANi PAesAGGistiCi:
uN bilANCio
francesco Martinico
TERRITORIALIZZAZIONI
1 Paesaggio ennese.
196
L’esperienza di collaborazione con la
Soprintendenza ai Beni culturali di
Enna nella costruzione del piano paesaggistico ha rappresentato l’occasione per mettere a punto un metodo di
tutela dei valori paesaggistici conforme alle norme vigenti ma allo stesso
tempo ispirato a criteri che tengono in
conto l’evoluzione del concetto di tutela
dl paesaggio che emerge dal dibattito
nazionale e da recenti esperienze di ricerca. L’obbiettivo era quello di provare a superare, attraverso le indicazioni
del piano, quella modalità di controllo
del paesaggio che si è consolidata in
decenni di applicazione della complessa normativa vigente e che appare oggi
fortemente dirigista ma anche distante
dalle dinamiche socio economiche che
caratterizzano le comunità locali e pertanto molto spesso inefficace. L’esperienza ha costituito la seconda fase di
una collaborazione avviata inizialmente
con la Soprintendenza di Siracusa per
la redazione degli analoghi piani degli
ambiti ricadenti nel territorio di quella
provincia.
Lo svolgimento dell’incarico comportava la definizione di un metodo di lavoro che consentisse di utilizzare, in
modo speditivo, una notevole mole di
dati territoriali, nella prospettiva delineata dal Codice dei beni culturali e dagli strumenti di indirizzo definiti, in Sicilia, dalla Amministrazione Regionale
con le Linee guida approvate da quasi
un quindicennio1. Il lavoro condotto
era finalizzato alla definizione di uno
strumento normativo per un territorio
caratterizzato da una forte contraddizione tra la marginalità economica e
modalità insediative. Queste assumono
le forme di una campagna urbanizzata
che si estende su un territorio di ampie
dimensioni2.
In questo contributo, si propongono
alcuni spunti di riflessione sull’esperienza condotta che, sebbene gli esiti
del piano non siano ancora definiti, ha
consentito non solo di approfondire la
conoscenza di alcuni fenomeni presenti
nel territorio ennese ma anche di comprendere alcuni punti critici dei meccanismi di tutela in atto, per proporre
delle strategie di azione che si auspica
possano essere maggiormente efficaci. Queste brevi considerazioni sono
finalizzate a fare in modo che la conoscenza accumulata possa contribuire,
operativamente, alla costruzione di un
apparato normativo che dovrà necessariamente tenere in considerazione
l’evoluzione del concetto di paesaggio
che si è affermata non solo nelle impostazioni teoriche ma anche nei principi
generali contenuti nelle norme internazionali e nazionali.
i presupposti del piano. La richiesta
dell’ente committente era finalizzata
ad ottemperare ad un obbligo normativo che risente dell’impostazione culturale avviata con la redazione e approvazione, avvenuta nel maggio del 1999
da parte dell’Assessorato Regionale
ai Beni culturali, delle Linee guida del
Piano territoriale paesistico Regionale. Le Linee guida costituivano il primo
tentativo strutturato di coordinamento
delle conoscenze sul patrimonio am-
bientale e culturale, condotto dall’Amministrazione regionale, per farne la
base di una futura pianificazione del
paesaggio. Il documento si basa sulla
prima banca dati georeferenziata del
patrimonio culturale e paesaggistico
realizzata nel territorio siciliano. Esso
è dotato di una rigorosa impostazione
classificatoria non priva tuttavia di alcune rigidezze concettuali.
Gli obiettivi strategici erano i seguenti:
1. stabilizzazione ecologica del contesto ambientale regionale, difesa del
suolo e della bio-diversità, con particolare attenzione per le situazioni di
rischio e di criticità;
2. valorizzazione dell’identità e della peculiarità del paesaggio regionale, sia
nel suo insieme unitario che nelle sue
diverse specifiche configurazioni;
3. miglioramento della fruibilità sociale
del patrimonio ambientale regionale,
sia per le attuali che per le future generazioni.
Il documento di indirizzo contiene quindi principi di valenza generale allineati
con i contenuti del dibattito più avanzato sui concetti moderni di paesaggio 3.
A fronte di questa impostazione culturalmente avanzata che traspare dal documento di indirizzo esistono tuttavia
alcuni elementi di contraddizione che è
opportuno evidenziare in quanto alcuni
di essi hanno giocato un ruolo negativo
nel corretto svolgersi della formazione
e approvazione degli strumenti di pianificazione.
In Sicilia, a seguito dei complessi processi di trasferimento di competenze
tra Stato e Regioni e con la peculiarità
che discende dalla condizione di Regione a Statuto Speciale, non vi sono
competenze degli organi nazionali sugli
aspetti di tutela del paesaggio.
Anche qui tuttavia si verifica quella dicotomia tra urbanistica e tutela
del paesaggio conseguenza del lungo
e complesso processo di involuzione dell’apparato normativo nazionale4. La pianificazione del paesaggio
spetta all’Assessorato Regionale dei
Beni culturali e dell’Identità siciliana5,
mentre all’Assessorato del Territorio e
dell’ambiente compete l’approvazione
di tutti i piani territoriali e urbanistici.
L’Assessorato ai Beni culturali è articolato in nove uffici periferici (uno per
ogni provincia), le Soprintendenze ai
Beni culturali e ambientali, all’interno
di ciascuna delle quali è strutturato un
Servizio beni paesaggistici.
Alle Soprintendenze è quindi affidato il
compito di redigere il Piano paesaggistico, per ciascuna porzione degli ambiti definiti nelle Linee guida, ricadenti
all’interno della provincia di competenza.
La completa separazione nelle procedure di formazione degli strumenti
di pianificazione territoriale e di quelli
paesaggistici, limite riscontrabile nel
sistema normativo nazionale, è accentuata nell’impostazione istituzionale del governo del territorio siciliano,
dove non sono mai stati redatti i “piani
urbanistico-territoriali con specifica
considerazione dei valori paesaggistici”, previsti dall’art. 135 del Codice
dei beni culturali. La principale conseguenza è una pressoché totale assenza
di dialogo tra piani generali e settoriali
e le scelte di tutela del paesaggio. Questo limite si aggiunge all’estrema debolezza del livello di pianificazione di
area vasta che in Sicilia è scarsamente
praticato6.
Il quadro della pianificazione paesaggistica siciliana non presenta quindi
elementi di particolare eccellenza. È
prevalsa un’impostazione della tutela
che appare preoccupata soprattutto
di affermare astratti principi di competenza che sembrano diventare l’aspetto prevalente rispetto ai contenuti
degli strumenti stessi. I continui conflitti, non solo tra lo Stato e la Regione
ma anche all’interno della struttura
amministrativa regionale, rispecchiano quanto avviene a livello nazionale e
sembrano avere il principale risultato
di rendere le vicende della pianificazione territoriale inutilmente complesse,
distogliendo l’attenzione dai veri problemi del territorio7.
Questa mancanza strutturale di dialogo tra i soggetti competenti rende
difficile l’applicazione dell’impostazione basata sulla visione ecologica del
concetto di paesaggio, dichiarata nelle
citate Linee Guida. Alla luce di questa
inutile complessità normativa e delle
difficoltà a perseguire efficaci modalità
di gestione, le dichiarazioni di principio
delle Linee Guida rischiano di diventare
197
TERRITORIALIZZAZIONI
198
un inutile sfoggio di buone intenzioni.
un ulteriore elemento di difficoltà è
quello legato all’evidente incoerenza
tra gli ambiti territoriali paesaggistici
e la suddivisione territoriale delle competenze degli uffici periferici dell’Assessorato ai Beni culturali. nelle Linee
Guida del 1999, il territorio regionale
viene suddiviso in diciotto ambiti territoriali che si intersecano con le nove
province. La fase di redazione dei piani
per ciascun ambito è stata invece affidata alle Soprintendenze la cui competenza è strettamente limitata al territorio provinciale. Il risultato di questa
rigida interpretazione della suddivisione delle competenze, assieme alla
mancanza di dialogo tra le Soprintendenze che operavano sullo stesso ambito paesaggistico, ha sostanzialmente
vanificato la funzione degli ambiti paesaggistici.
Ciascuna Soprintendenza provinciale ha affrontato in modo autonomo le
fasi di analisi e sintesi della coscienza e quelle della redazione delle norme, affidandosi a soggetti diversi per
il supporto tecnico e scientifico e producendo quindi dei frammenti di piano
tra loro incoerenti per ciascuna porzione degli ambiti paesaggistici che
ricadevano nel territorio provinciale di
propria competenza. I confini amministrativi provinciali sono definiti in base
a criteri che poco o nulla hanno a che
fare con la struttura del paesaggio e
questo ha provocato delle gravi carenze nei contenuti dei piani. non è infrequente ad esempio il caso di fiumi che
costituiscono il confine tra due province il cui bacino è assoggettato quindi a
due piani diversi e non coordinati che
interessano le due sponde8.
le specificità del territorio ennese. Il
territorio della provincia di Enna rappresenta un luogo di grande valore
paesaggistico, a partire dalla specificità di un’area interna, priva di affaccio
sul mare che contraddice lo stereotipo
della dimensione isolana della Sicilia.
La varietà dei paesaggi è strettamente
legata all’articolazione delle caratteristiche geomorfologiche che vedono
susseguirsi, nel settore meridionale, i
rilievi ondulati di tipo argilloso assieme
ai calcari di base e ai gessi e, nella parte centrale, le successioni areniticosabbioso-argillose9.
L’elemento maggiormente caratterizzante è senza dubbio quello dell’uso
agricolo del territorio. Le aree agricole
rappresentano il 59% circa del territorio provinciale. L’87% è rappresentato
da colture a basso reddito (in prevalenza seminativi asciutti). La coltura
prevalente è quella del grano duro ma
sono presenti in maniera considerevole
i seminativi arborati e sistemi colturali
complessi. L’agricoltura ad alto reddito
interessa il 13% della superficie agricola
utilizzata e si caratterizza per la presenza di oliveti, agrumeti vigneti e frutteti.
Il paesaggio agricolo è quindi variegato
seppure nella prevalenza dell’immagine
delle colture cerealicole estensive10.
Anche l’ecosistema naturale si caratterizza per una notevole ricchezza, come
testimonia l’elevato numero di Siti di
Interesse Comunitario, ben quindici
con una estensione di 27.000 ettari pari
a circa 10% del territorio provinciale.
Pur non essendo presente alcun parco
regionale, sei riserve naturali ricadono
interamente nel territorio provinciale e
altre due interessano anche le provincie limitrofe.
Il sistema dell’insediamento antropico
riflette la condizione di isolamento che
rappresenta un tratto prevalente del
fascino di questo parte dell’isola, ma
allo stesso tempo ne testimonia la condizione di arretratezza.
La Provincia di Enna, con una popolazione residente di 173.377 (al primo
gennaio 2012), è la meno popolata della
Sicilia, con una densità di popolazione
media di 69 ab/kmq, tre volte meno
della media regionale e quattro meno
della provincia di Catania che è quella con la densità più alta. Il territorio
comprende 20 comuni che hanno una
popolazione compresa tra 900 e 28.000
abitanti circa. di questi solo cinque superano i 10.000 abitanti.
Il documento Espon del 200811 sulle tendenze demografiche in Europa indica la
provincia di Enna come l’unica del territorio regionale in cui si verifica un fenomeno di doppia decrescita, relativa ad
entrambi i saldi, naturale e migratorio
(dati riferiti al periodo 2001-2005). Il fenomeno, iniziato già negli anni 1980, è
continuato negli anni successivi con una
lieve ma costante decrescita nella popolazione residente, come dimostrano i
dati Istat più recenti (tab. 1). La situazione
Tab. 1. Evoluzione della popolazione residente
01-01-2012
01-01-2009
01-01-2006
01-01-2002
1991 (*)
1982 (*)
Popolazione
residente
173.377
173.515
174.199
176.959
186.975
190.778
(*) dati ricostruiti
(fonte: Istat Geodemo)
diff.
percentuale
-0,08
-0,39
-1,56
-5,36
-1,99
-
economica si caratterizza per una condizione di ritardo che vede la provincia agli
ultimi posti nelle classifiche relative agli
indicatori economici principali12.
Il sistema insediativo ennese vede oggi
la contrapposizione tra la concentrazione della popolazione in pochi centri
urbani, di formazione antica o riconducibili alla lunga stagione delle città di
fondazione13, e una forma di urbanizzazione del territorio agricolo che rappresenta quantitativamente un fenomeno di notevole ampiezza.
Lo studio dettagliato di questo fenomeno,
effettuato in occasione della redazione
del Piano paesaggistico, ha consentito di stimarne alcuni aspetti quantitativi
con particolare riferimento al patrimonio
edilizio esistente al di fuori dei centri urbani14. Questo sistema insediativo comprende oltre 16.000 edifici con superficie
maggiore o uguale di 100 mq, localizzati
al di fuori sia degli insediamenti compatti
che di quelli a bassa densità. Questi edifici consentirebbero l’insediamento di
una quota ulteriore di popolazione pari
a quella attualmente residente. L’approfondimento effettuato su un campione ha
rivelato una percentuale pari al 75% di
alloggi vuoti e la presenza di una popolazione residente impegnata in agricoltura
pari appena al 10%.
La peculiarità di questo sistema insediativo è quindi la compresenza di due
tendenze contrapposte: la contrazione
demografica (Espon, 2008) e la crescita
del patrimonio edilizio e, in particolare,
della forma insediativa di una campagna urbanizzata non più funzionale alle
esigenze della produzione agricola.
Questo modo d’uso del territorio produce non solo degli insediamenti che
richiamano le classiche lottizzazioni
della diffusione urbana, seppure in for-
ma minima, con una diffusione capillare di edifici residenziali che punteggiano il territorio agricolo compreso tra i
centri urbani compatti e che ne condizionano in modo rilevante il paesaggio.
È questa una modalità d’uso del territorio che affonda le sue radici anche
nella tradizionale abitudine siciliana di
trascorrere una parte lunga dell’anno
nell’abitazione di campagna, abitudine
descritta anche in romanzi come Storia di una capinera di Giovanni Verga o
Un bellissimo novembre di Ercole Patti.
un’altra ragione alla base della diffusione del fenomeno è la nuova disponibilità di capitali, che non riescono a
trovare una collocazione diversa da
quella di un investimento immobiliare di bassa qualità ma che, per lungo
tempo, ha costituito una rassicurante
forma di accumulazione del risparmio
per vasti strati di popolazione, anche a
reddito medio basso.
È quello ennese un fenomeno che appare ancora meritevole di ulteriori studi in quanto la pur vasta letteratura sul
tema della città dispersa si concentra
sull’analisi del fenomeno nelle zone ad
elevato reddito o, al contrario, in zone
ancor più marginali. Anche recenti
analisi sull’armatura urbana siciliana
complessiva15 non identificano la diffusione urbana nelle aree interne come
fenomeno rilevante.
La diffusione urbana ennese non sembra rispondere ad esigenze primarie,
ad esempio la necessità di risolvere
il problema delle penuria di alloggi,
come avviene nei territori dei paesi
meno sviluppati. Essa può considerarsi
piuttosto come espressione di forme di
neoliberismo economico e del connesso collasso delle politiche territoriali16,
e non sembra avere alcuna somiglian-
za con quelle forme di organizzazione
urbana policentrica dove la diffusione
urbana ha giocato un ruolo importante
nella formazione delle struttura produttiva. La diffusione ennese nulla ha
che vedere con quella tipica dei distretti industriali del nord-est e del Centro
ma neppure con quella degli epigoni
meridionali campani, lucani e pugliesi.
Sembra piuttosto una duplicazione, a
basso costo, dei centri urbani esistenti
destinata a soddisfare una molteplicità
di esigenze non risolvibili all’interno di
questi sistemi, dalla struttura elementare, che costituiscono la residua testimonianza della storica povertà che
discendeva dall’economia contadina
della cerealicoltura estensiva17 e che
oggi appare inadeguata alle esigenze
dell’abitare contemporaneo.
dall’analisi alle regole. Le condizioni
specifiche del territorio ennese hanno
costituito la base per elaborare i principi di una proposta che ha assunto la
forma di un piano di area vasta con una
normativa che riguarda l’intero territorio provinciale. La tutela, intesa come
controllo delle trasformazioni, è una
categoria che riguardava il 56% circa
del territorio oggetto del piano. Questa categoria era tuttavia da intendersi in una prospettiva di superamento
dell’idea tradizionale di vincolo. Essa
doveva diventare invece il presupposto
per la definizione di regole destinate a
sovraintendere ad una trasformazione territoriale che contemperi l’idea
di sviluppo con quella di sostenibilità,
tenendo in adeguata considerazione
anche le fragilità di un territorio il cui
assetto idrogeologico appariva estremamente complesso e delicato.
199
2
3
TERRITORIALIZZAZIONI
2 diffusione urbana nel territorio ennese.
3 il centro storico di sperlinga.
4 il centro storico di Nicosia.
200
4
In questa prospettiva, la proposta di
piano non si limitava a collazionare i
vincoli preesistenti, cartografandoli in
modo unitario, ma si proponeva come
vero e proprio piano territoriale di area
vasta, finalizzato ad affrontare in modo
dialogico ma aperto le prospettive di
sviluppo del territorio esaminato. Si è
ritenuto che questo fosse l’unico approccio che potesse correttamente
interpretare le esigenze di tutela di un
paesaggio dove il senso della vastità e
la dimensione del latifondo sono ancora la chiave dominante.
Le possibilità di trasformazione erano
pertanto piuttosto ampie all’interno del
sistema di regole definito dalle norme di
piano. A conferma di ciò, solo il 12% del
territorio era sottoposto a vincolo assoluto di inedificazione18, una quantità sostanzialmente corrispondente alle zone
di massima tutela discendenti da vincoli
preesistenti alla redazione del piano, in
particolare le zone A delle riserve naturali e le zone di vincolo archeologico.
Il principio che si intendeva affermare
era quello di assumere una strategia
di tipo “protettivo”19 per ampie parti del
territorio agricolo, individuate in base
alla metodologia utilizzata, al fine di
garantire il mantenimento di alcuni ele-
menti strutturali quali la continuità ecologica e l’integrità della rete idrologica.
La dimensione “manifesto” della proposta non è stata tuttavia colta dagli
organi preposti alla tutela che hanno
preferito attenersi ad una visione fortemente condizionata dalla percezione
consolidata del concetto di vincolo20.
un’osservazione critica alla proposta
presentata è stata quella di avere redatto “un piano urbanistico”. Questa
posizione sembra emblematica non
solo della mancata composizione dello
storico dissidio tra i concetti di tutela
e le norme urbanistiche, mirabilmente evidenziata da Settis nel volume del
2010, ma anche della distanza tra l’azione di tutela dei beni culturali e gli
avanzamenti disciplinari21, nonostante
questi facciano parte del documento di
indirizzo approvato nel 1999 dalla stessa Amministrazione regionale.
Ancora oggi la tutela è interpretata
come un processo di imposizione di
vincoli, definiti sulla base di un percorso di lettura dei valori territoriali effettuato da una élite di esperti che emettono giudizi di merito. È un processo
che appare quasi sempre distante dalle
esigenze delle comunità insediata. La
distanza tra le dichiarazioni di principio
e le prassi gestionali, ancora profondamente arretrate, è conseguenza di una
visione legalistica della tutela, che rischia di far diventare il rispetto astratto della norma più importante dei suoi
contenuti22. dalla parte opposta rispetto alla tutela operano nel territorio un
insieme di strumenti urbanistici che,
tranne rare e quasi casuali eccezioni,
non fanno alcun tentativo di integrare
nelle scelte di piano la considerazione
del valore del paesaggio.
Il risultato è una costante separazione
tra due categorie di beni territoriali:
i luoghi della trasformazione inesorabilmente “normati” da un contorto
apparato di regole banalmente quantitative, spesso definite in modo tale da
garantirne un’interpretazione ampia e
flessibile, e quelli del vincolo, che “cala
dall’alto” e si concretizza nell’apposizione di un perimetro all’interno del
quale esercitare un forma di controllo il
cui esito probabile è quello di innescare
contenziosi amministrativi, più che auspicabili buone pratiche progettuali.
Questo regime di controllo viene infatti
spesso percepito dalle comunità locali
come una imposizione burocratico-poliziesca, da subire passivamente oppure
da contrastare ricorrendo alle vie legali.
Ancora peggiore è la condizione in cui
il perimetro della tutela è quello che
deriva da una regola normativa astrattamente geografica, come nel caso dei
“Galassini”, che includono, ad esempio,
le fasce di 150 metri dai fiumi o dai laghi.
Le regole che presiedono all’individuazione di questi beni tutelati per legge diventano allora un mero esercizio burocratico. nel caso dei fiumi ad esempio,
l’obbligo normativo si limita ad applicare la fascia ai corsi d’acqua elencati in
un regio provvedimento del 1933, la cui
interpretazione geografica individua
dei segni che astrattamente enucleano
corridoi dalle forme avulse dall’effettiva
conformazione del territorio. Su questi
aspetti la proposta di piano ha provato a
fare un piccolo passo avanti, ridefinendo
in modo sensato i perimetri dei “Galassini”, appoggiandoli a segni territoriali
concreti e individuabili come le strade o
le recinzioni23.
La dicotomia tra piani urbanistici e
norme di tutela, cristallizzata in decenni di gestione più o meno rigorosa
delle trasformazioni territoriali, unita
al progressivo allontanarsi delle prassi costruttive dai saperi e dalle culture
tradizionali, ha prodotto, anche in contesti marginali come quello ennese,
paesaggi urbani di scadente qualità
sia alle periferie dei centri storici che
soprattutto nelle zone della campagna
urbanizzata.
La prospettiva delineata dalla proposta
di piano paesaggistico provava a definire per grandi linee il destino di questo
sistema di diffusione urbana. Le finalità erano molteplici e non necessariamente corrispondevano ad indicazioni
normativamente dettagliate poiché, in
alcuni casi, costituivano solo un’indicazione di strategia complessiva che sottendeva alle scelte di piano di dettaglio
da condurre attraverso piani particolareggiati di iniziativa comunale.
Il territorio della diffusione urbana ennese si trova oggi di fronte alla prospettiva di due destini profondamente
divergenti. Il primo, da evitare con forza, è quello di assumere la forma di una
shanty-town, a bassa intensità e poco
vitale, che richiama nella progressiva
riduzione qualitativa – seppure con differenze nelle motivazioni, nell’ampiezza
e nella morfologia – gli scenari della
diffusione urbana che caratterizzano i
paesi in via di sviluppo, dove alla marginalità economica si associa una cospicua crescita degli insediamenti urbani24.
Il secondo scenario è quello che vede
invece questo sistema insediativo come
uno spazio per nuove forme di rilancio
dell’agricoltura. È una prospettiva complessa, ma allo stesso tempo l’unica,
che può garantire un auspicabile scenario di sviluppo economico e quindi di
sostenibilità. Essa richiede il perseguimento di approcci innovativi25 che possono trovare analogie con quelle forme
di knowledge economy declinate in modi
molto differenziati e dove la diffusione urbana ha costituito uno dei motori
dello sviluppo economico. un rapporto
sempre complesso quello tra diffusione
urbana e sviluppo, come dimostra la vicenda dei distretti industriali italiani26.
Il difficile equilibrio tra controllo delle
trasformazioni e soddisfacimento delle
esigenze di innovazione e sviluppo non
poteva essere risolto nella fase del piano che infatti rinvia a strumenti di dettaglio, all’interno dei quali è possibile
trovare meccanismi di garanzia della
qualità del paesaggio differenziati ma
capaci di consentire forme di sviluppo
prevalentemente orientate alla filiera
dell’agricoltura sostenibile27.
Questi elementi che non esauriscono certamente il complesso tema del
supporto all’economia locale, rappresentano solo un punto di partenza per
percorrere la sfida di una tutela del
paesaggio più avanzata che consenta di
coniugare lo sviluppo con la difesa del
territorio.
201
TERRITORIALIZZAZIONI
202
1 Per la metodologia utilizzata e maggiori dettagli
sul quadro normativo di riferimento si rinvia a C.
Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura di), I
piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna,
“urbanistica Quaderni”, 53, 2009.
2 f. Martinico, d. La Rosa, The Use of GIS in
Landscape Protection Plan in Sicily, in A. Krek et al.,
Urban and Regional Data Management. UDMS, Taylor &
francis, London 2009.
3 Sull’argomento si veda Z. naveh, What is holistic
landscape ecology? A conceptual introduction,
“Landscape and urban Planning”, 50, 2000 e f.
Steiner, Costruire il paesaggio. Un approccio ecologico
alla pianificazione, McGraw-Hill, Milano 2004.
4 S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La
battaglia per l’ambiente contro il degrado civile,
Einaudi, Torino 2010.
5 nuova denominazione a seguito della legge
regionale 19/2008.
6 Sulla vicenda dei piani provinciali cfr. f. Martinico,
La difficile innovazione. Lo schema di massima del
piano territoriale provinciale di Siracusa, in Regione
Siciliana, Assessorato Territorio Ambiente,
Argomenti di Pianificazione, Contributi per la
Riforma Urbanistica in Sicilia. fondazione federico ii,
Palermo 2009.
7 Si ricordano a tal proposito le vicende del piano
provinciale di Ragusa, e quella dell’istituzione
del parco nazionale degli Iblei. nel caso del piano
di Ragusa, l’unico approvato in Sicilia, in sede di
approvazione fu stralciata la previsione di un parco
provinciale con la motivazione che la previsione
di un vincolo di tipo ambientale era esclusiva
competenza dell’Amministrazione regionale. Per
quanto riguarda invece il parco nazionale degli
Iblei, la Regione Sicilia presentò nel 2008 un
ricorso alla corte Costituzionale al fine di ribadire
la competenza esclusiva della Regione ad istituire
parchi naturali. Il ricorso fu respinto (sentenza n.
9/2009).
8 È, ad esempio, il caso del confine tra le province
di Siracusa e Ragusa che seguono il confine dei
corsi d’acqua che hanno inciso profondamente
l’altopiano ibleo e costituiscono un sistema
paesaggistico fortemente unitario.
9 Per un approfondimento sulla geologia del
territorio si veda il contributo di C. Amore et al.
in C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura
di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di
Enna, cit.
10 A. Pecora, Enna e gli Erei: ambiente e vita
economica. Un’estate quasi Sahariana, in Tuttitalia,
Enciclopedia dell’Italia Antica e Moderna Sicilia,
Sansoni-de Agostini, firenze-novara 1962, vol ii.
11 Espon, Territorial Dynamics in Europe Trends in
Population Development, “Territorial Observation”,
1, november 2008 (www.espon.eu/main/Menu_
Publications/Menu_TerritorialObservations/).
12 nello scenario di previsione per il 2012,
elaborato da unioncamere, Enna era al
novantanovesimo posto, nella classifica delle 102
province per il Valore Aggiunto pro Capite, seguita
da foggia, Agrigento, Crotone e Caserta.
13 M. Giuffrè (a cura di), Città Nuove di Sicilia XV-XIX
Secolo, Vittorietti Editore, Palermo 1979.
14 Per maggiori dettagli cfr. f. Martinico,
Diffusione Urbana: Una minaccia per il paesaggio,
in C. Mancuso, f. Martinico, f.C. nigrelli (a cura
di), I piani territoriali paesaggistici della provincia
di Enna, cit.
15 Ad esempio cfr. V. Ruggero, L. Scrofani, L.
Ruggero, Una nuova geografia urbana della Sicilia, in
L. Viganoni (a cura di), Il mezzogiorno delle città: tra
Europa e Mediterraneo, franco Angeli, Milano 2007.
16 P. Bonora, Consumo di suolo e collasso delle
politiche territoriali, “Quaderni del Territorio”,
Laboratorio di storia del dipartimento di Storia
Cultura e Civiltà dell’università degli Studi di
Bologna (www.storicamente.org), 2, 2012.
17 A. Pecora, Enna e gli Erei: ambiente e vita
economica. Un’estate quasi Sahariana, cit.; C.
Muscarà, La geografia dello sviluppo. Sviluppo
industriale e politica geografica nell’Italia del secondo
dopoguerra, Comunità, Milano 1967.
18 Livello 3 della tutela.
19 J. Ahern, Theories, methods and strategies for
sustainable landscape planning, in B. Tress, G.
Tres, G. fry, P. Opdam (a cura di), From Landscape
Research to Landscape Planning, Springer, Berlin
2006.
20 Per una disamina dettagliata delle vicende
normative nazionali sulla tutela del paesaggio
si rimanda al fondamentale volume di S. Settis,
Paesaggio Costituzione cemento, cit.
21 f. Steiner, Costruire il paesaggio, cit.
22 P. La Greca, La pianificazione paesaggistica
tra opportunità e minacce, in f. Pinto (a cura di), Il
paesaggio nel governo del territorio, Maggioli, Rimini
2012.
23 Anche questo tentativo si è però arenato su
un’interpretazione normativa che ha portato a
riproporre, nel piano di Siracusa ad oggi approvato,
i vecchi perimetri dei beni tutelati per legge,
vanificando così ogni tentativo di innovazione.
24 Su alcuni aspetti dei fenomeni di diffusione
nei paesi in via di sviluppo cfr. J. Briggs, L.A.E.
Yeboah, Structural adjustment and the contemporary
sub-Sahran African City, “Area”, 33, 2001; f. Steiner,
Costruire il paesaggio, cit; S. Angel, An Arterial Grid
of Dirty Roads, “Cities”, 25, 2008. In particolare
il saggio di Briggs e Yeboah evidenzia alcune
analogie come il forte attaccamento alla proprietà
fondiaria o il desiderio degli emigranti a realizzare
un’abitazione da usare durante la vecchiaia.
25 A. Magnaghi, Il Progetto Locale, Bollati
Boringhieri, Torino 2001.
26 A. Bagnasco, Fatti sociali formati nello spazio,
franco Angeli, Milano 1994.
27 Ad esempio attraverso meccanismi di
incentivazione volumetrica da garantire in cambio
di miglioramento qualitativo degli edifici esistenti
anche attraverso demolizioni e ricostruzioni o
trasferimenti di volumetrie.
tHe lANdsCAPe PlANs iN tHe
PRoviNCe oF eNNA: to tAKe
stoCK oF tHe situAtioN
ABSTRACT
The collaborative experience that
helped draft the pp landscape plan (Piano paesaggistico) of the province of
Enna permitted the development of a
methodology for understanding the territory, designed to identify a body of regulations that would comply with complicated national landscape protection
legislation. Conservation regulations in
Sicily – even more than national ones –
are characterised by certain strengths,
as well as several weaknesses and
contradictions that have contributed to
making the conservation procedure a
rigid bureaucratic exercise, where conflicts between spheres of responsibility
prevail, as do abstract and inefficient
forms of supervision.
The analytical study of the landscape in
its various parts, completed in compliance with what was highlighted in the
guidelines of 1999, helped highlight the
structural characteristics of a territory
with strengths such as the image of
extensive agriculture and the unspoilt
nature typical of its mountainous areas.
The network of human settlements,
which is still primarily characterised by
the concentration of people in a small
number of urban centres, seems less
consistent with the state of its biotic
and abiotic features. Indeed, the state of
economic marginality and phenomena
linked to negative population growth
have not hindered the emergence of the
phenomenon of urban sprawl that takes
on specific characteristics, determined
– among other things – by the settlement traditions of resident communities.
The draft plans attempt to outline a
scenario in line with the analytical studies that saw the involvement of experts
from various fields, who contributed to
defining the value of the landscape as
well as the risk factors and weaknesses
that affect it. The draft plans identify a
collection of rules that take into account
the obvious weaknesses in the regulatory system. The result was the systematic organisation and differentiation
of regulations safeguarding valuable
landscape features, limiting the parts of
the territory subject to greater restrictions to the absolute minimum while
extending a less rigid level of protection, more oriented towards dialogue,
to vast stretches of the territory. The
draft plans identify a body of regulations
that should overcome the dichotomy
between protected areas (where often
inefficient supervision systems are in
place) and those where no rules are in
force. The premise for this new way of
considering landscape protection must
be a dialogue with council planning
strategies, which are still far from taking into consideration landscape aspects adequately. Today this prospect
seems inevitable if we wish to avoid the
growing marginalisation of a territory
that must focus on relaunching of innovative forms of agriculture, the only way
to avoid territorial risks and economic
and social decline.
203
RISIGNIFICARE I LUOGHI
204
riSigniFiCare i luogHi
REDEFINING PLACES
a cura di edited by Marcello Sèstito
205
HYPPodAMos HA viNto
Marcello Sèstito
la maglia ordinatrice. Ippodamo di Mileto prende cittadinanza onoraria a Thurii
dopo aver costruito il porto del Pireo e stabilito con il suo impianto miletiano una
ortogonalizzazione del mondo ellenico e non solo, che troverà riverbero nelle intere città del mondo come riflesso di una strategia urbana che intendeva non solo
ordinare lo spazio ancora precartesiano ma persino il tempo. La griglia basica che
troverà conferma nella centuriazione romana, nella salma siciliana, nella quadricola ispano-americana, fino alla centuriazione jeffersoniana per il nord America,
o la quadricola delle città precolombiane individuata da Graziano Gasperini, furono
non solo una delle strategie insediative più persistenti nella storia dell’umanità ma
anche il riflesso di una politica ellenica che intravedeva nella distribuzione paritetica delle insule lo spettro della democrazia contro i poteri oligarchici e le tirannidi
che serpeggiavano nel Mediterraneo. da questa griglia basica non si allontanano
nemmeno le città cinesi, che come ci ricorda Gregotti, con la città europea “hanno
comunque in comune” i principi insediativi del recinto e della struttura a griglia ortogonale orientata con la presenza, in quanto eccezione, dello spazio monumentale
e civile, precisamente limitata nel disegno dei suoi bordi1.
Ippodamo decide di questa cittadinanza, si destina a divenire cittadino di una colonia
seppur superba come Thurii (l’antica Sibari) quasi a confermare come spesso accade, lo fu per la colonizzazione americana, che fuori dalla patria di origine si può
generare del nuovo, vi si può proiettare, come su una landa desolata, un lenzuolo
rigido e lasciarne le impronte di questa scacchiera che non avrà più limiti, estesa e
infinita come la nuova globalizzazione.
Già prima di lui altri greci avevano compiuto il loro viaggio ricognitivo, ulisse con
il suo periplo nell’infinite coste del mediterraneo, ma ulisse non era stanziale e
quindi non fu fondatore di città, ma contribuì con il mito alla trasposizione omerica
fino a sublimare i luoghi del racconto, a creare una urbanistica fantasmagorica
potente come quella di pietra e di filari e di insule. nemmeno Eracle vi riuscì per-
pp. 204-205 M. sèstito, Archeologia del presente,
ogni architettura produce il suo Campo Marzio, 1987.
1 P. benoit , Città della Plata, planimetria, 1880.
207
1. V. Gregotti, Il sublime al tempo del contemporaneo,
Einaudi, Torino 2013, pp. 151-152.
RISIGNIFICARE I LUOGHI
ché anche egli peregrinante, trascinava i suoi buoi lasciando tracce del suo cammino e della sua forza nei toponimi delle città, da Torino a Taormina, da Taurianova
ad Antonimina… Era piuttosto il culto del toro che si andava mescolando ad una
urbanistica che da esso prendeva il nome in una forma apotropaica e protettiva.
E mentre ulisse si volgeva al suo nostos dopo aver conquistato con la sua nave
le terre dell’immaginario, la moglie devota, Penelope, tesseva la sua vela nel
telaio che riproduceva nelle trame intrecciate lo stesso schema della città ippodamea in una circolarità esemplare. due domini si confrontarono già allora:
quello femminile, stanziale e quello maschile errante e combattivo. Hippodamos pacifica con il suo schema ambedue le tensioni, risolve persino l’aratura
del campo poiché i buoi di Ercole, bustrofedicamente e pertanto razionalmente,
erano costretti ad ararlo.
Lo schema si impose, come una mano che solca e che graffia il suolo, una forma
simbolica e rappresentativa di una tensione filosofica e avrebbe indotto tutta l’architettura di tutte le città magno-greche a venire, tranne rarissimi casi, a dipendere
da essa.
Ippodamo ha vinto, (anche se in molti sono convinti che non sia lui l’inventore dell’impianto ortogonalista) ha vinto sulle asperità collinari sui dossi e gli avvallamenti, sulle sporgenze e le depressioni di un suolo che si è visto catturato da una rete spaziale
almeno quanto i pesci in acqua.
Ippodamo ha vinto costringendo l’umanità intera a costruire opere, attrezzi, arredi,
profili tavole e legnami con la razionalità di una sega che seppur circolare produceva ad infinitum aste parallele, linee rette all’infinito, opere capaci di assoggettarsi
alla quadratura dell’insula, ad interagire con essa.
208
Paesaggio e tracciati. In questa città infinita e illimitata, oggi postmetropoli (Gregotti), postcittà (Purini) globopoli (Sèstito), lo schema appare sempre a suggerire
come alla rotondità dell’essere platonico che poi sfocerà in tutte le rappresentazioni cosmologiche nella figura del cerchio perfetto, cupole comprese, si potesse
affiancare la misura dell’umano, la mano dell’agrimensore, dell’arpedonapta. A tale
misticismo dell’impianto Pitagora e la sua scuola, nella città avversaria di Crotone,
anteponeva il numero e la tabellina espressione anch’essa di un’incasellatura ordinatrice.
La nave ulissiana troverà il suo approdo in terra ferma, si tramuterà in tempio e
si moltiplicherà all’infinito. Persino le sue dimensioni saranno confrontabili con lo
scafo assimilato, come un’arca di deucalione e Pirra, la nave di pietra si arresta,
ritorna alla sua precostruzione quando era albero sbozzato, come lo era la pietra del
tempio di provenienza arborea. Marcello fagiolo ci ricorda l’analogia:
se è stata definitivamente dimostrata l’associazione ideale, linguistica e strutturale che
lega il tempio alla nave, l’ulteriore affinità esistente, a mio avviso, tra navi e isolati è dimostrabile non solo sillogisticamente in rapporto all’equazione “isolato=tempio”.
2
3
Bisognerà ricordare che la nave, strumento materiale (quasi chiglia di trasmissione) di trasporto dell’intera popolazione dalla metropoli al sito della colonia,
poteva considerarsi in tale ottica come piccola comunità posta sotto la protezione di Apollo delfico e anche dell’immagine apotropaica di eroe o dio scolpito
nella poppa.
L’“isolato” galleggiante, (quasi un’anticipazione della cassa arca di Buteo) tra i canali
strade, ha proporzioni che si possono accostare appunto a quelle navi (si calcola che
quelle navi di trasporto avessero un rapporto di 4:1, e quelle da guerra di 7:1), mentre
le dimensioni erano ovviamente maggiori (corrispondendo la larghezza dell’isolato
alla lunghezza delle navi, valutabile a 25-35 m)2.
Se così fosse allora il suolo di approdo scelto per la fondazione della nuova città altro non sarebbe per metonimia che un lembo di mare solcato dalla prua della nave
che ne determina il tracciato come l’aratro nel campo anch’esso munito di una sorta
di prua. L’analogia risulta evidente quando osserviamo le grandi navi fendi-ghiaccio
incastrate nelle lande gelate. C’è, caso mai da chiedersi come mai non risulta nessuna punta-prua nei templi che assumono piuttosto la condizione di zattera, anche
se resiste la navata a ricordarci l’analogia sfruttata indiscriminatamente in seguito
nelle basiliche cristiane.
Così ora non vi è sito della Magna Grecia colonizzata, la Megale Hellas come la battezzò Timeo di Locri, che nel suolo, sopra in luce o nascosto nelle viscere della terra,
o da qualche siepe o fiume deviato, o da detriti e dilavamenti, non rilevi la presenza
2 Mileto, la città di Hyppodamos, planimetria.
3 olinto, pianta della città.
209
2 Cfr. M. fagiolo, I greci nel Mediterraneo storia e
leggenda, “Psicon”,1, dicembre 1974, p.25.
RISIGNIFICARE I LUOGHI
4
210
dell’allineamento dell’organizzazione ortogonale, la traccia dell’angolo retto ordinatore, della geometrizzazione dello spazio come forma di possesso e di dominio,
ma anche come forma esplicita, lo abbiamo detto di democraticità.
Gli impianti, da Sibari-Thurii a Crotone, da Capo Lacinio a Skilletion, da Caulonia a
Locri Epizephiri, fino a Reggio costituiscono un mare di tracciati come se la navigazione nelle acque del Mediterraneo avesse colpito persino le terre emerse, solcate
secondo regole e misure precise.
Alla successiva triangolazione del mondo imposta con il metodo da Cesare francesco, figlio di Giacomo Cassini, neanche a dirlo detto di Thury, dalla località ove
nacque, Hippodamos aveva imposto sui due assi cartesiani la quadricola e il telaio.
Qualunque ricognizione nel territorio degli insediamenti colonizzati non può prescindere dalla considerazione dell’angolo retto, il famigerato angolo retto, quello
che avrebbe odiato un artista come undertwasser celebrandolo persino in un manifesto negativo. Ma questa quadrettatura per ragioni economiche e perché il tracciato è tra due punti, è più facilmente raggiungibile per via retta, ricordandoci il vecchio
adagio lecorbusieriano sulla strada degli uomini e quella degli asini, che avrebbe
investito qualsiasi ordine organizzativo dalle linee telefoniche ai tracciati idrici.
il modello insediativo della Magna Grecia. una ricognizione nel modo insediativo magno-greco che sostituitì quello dei natii arroccati sulle colline, gli Ausoni, gli
Enotri, i Siculi, i Messapi, o i Lapigi, finisce sempre con l’esaltare la scientificità
dell’impianto su cui si aggregano delle difformità comunque previste, come l’agorà
o il teatro, che sceglievano quasi sempre delle pareti scoscese per economizzare
sulla costruzione.
Così da Sibari a Caulonia, da Reggio a Squillace, emerge il tracciato, a volte in negativo o in positivo, a ricordarci che nel sottosuolo sonnecchia, pronta al riveglio della
vanga, meno del piccone, l’orditura mentale prima che fisica come una quadricola
di san Lorenzo che arrostisce sul suo scheletro arroventato qualunque ipotesi di
restaurazione di una naturalità ormai infranta.
Ma le condizioni in cui versano i parchi archeologici sono ormai a tutti noti, e ci
vengono in mente quanto suggerisce in una splendida poesia dal titolo eloquente:
Archeologia di Wilsława Szymborska:
E allora, poveruomo, / nel mio campo c’è stato un progresso. / Sono trascorsi millenni / da
quando mi chiamasti archeologia. / non mi servono più / dèi di pietra / e rovine con iscrizioni chiare. // Mostrami di te il tuo non importa che, / e ti dirò chi eri. / di qualcosa il fondo /
e per qualcosa il coperchio. / un frammento di motore. Il collo d’un cinescopio. / un pezzetto di cavo. dita sparse. / Può bastare anche meno, ancora meno. // Con un metodo che
non potevi conoscere allora, / so destare la memoria / in innumerevoli elementi. / Le tracce
di sangue restano per sempre. / La menzogna riluce. / Si schiudono i codici segreti. / Si
palesano dubbi e intenzioni. / Se solo lo vorrò / (perché non puoi avere la certezza / Che lo
vorrò davvero), / guarderò in gola al tuo silenzio, / leggerò nella tua occhiaia / quali erano i
tuoi panorami, / ti ricorderò in ogni dettaglio / che cosa ti aspettavi della vita oltre la morte.
// Mostrami il tuo nulla / che ti sei lasciato dietro, / e ne farò un bosco e un autostrada, /
un aeroporto, bassezza, tenerezza / e la casa perduta. / Mostrami la tua penisola / e ti dirò
perché / non fu scritta né prima né dopo. // Ah, no, mi fraintendi. / Riprenditi quel ridicolo
foglio / scribacchiato. / A me serve soltanto / Il tuo strato di terra / e l’odore di bruciato /
evaporato dalla notte dei tempi3.
L’immagine di Arata Isozaki realizzata negli anni ’70 fa vedere un architettura che
sorge dal passato, sopra dei ruderi di colonne classiche, anche scanalate, mentre
si erge maestosa la nuova architettura che da essi prende vigore, ricordando allo
spettatore che vi è una sorta di continuità logica tra il passato che può essere vissuto
in vari modi ed un presente che a esso si ispira.
L’immagine assomiglia molto, per noi, operando una traslazione, quasi illecita alla
figura di San Cristoforo reggente il Cristo. In tale immagine, presa a caso nel vasto
repertorio iconografico, il santo sorregge il Cristo mentre guada il fiume, lo regge
sulle spalle come la figura precedente di Isozaki faceva capire la colonna reggente
il peso dell’architettura moderna, anch’essa sulle spalle della storia per così dire.
Ora crediamo che si possa ribaltare il concetto, a cui noi stessi abbiamo lavorato
nella figura di una colonna reggente una città4: si potrebbe in sostanza far reggere
il reperto archeologico contemporaneo. Esistono quindi diversi modi di leggere e interpretare la storia: quando il metodo è diretto, consequenziale, da un passato a un
presente, sembra poter scaturire dal reperto una sua traduzione e trasformazione,
questo ha portato ad un certo storicismo, spesso al postmoderno. Quando invece si
capovolgono i termini, cioè si legge il passato a partire da un progetto dell’oggi, ci si
accorge che la continuità storica perde di valore essendo l’arte priva di progresso e
che, come vuole Kierkegaard, è ovunque alla meta. In tale senso avremo un progetto, in basso che legge il passato ma non lo copia, lo assimila entro il percorso compositivo o progettuale elevandolo ad un livello più alto di sublimazione, rivendicando
l’autonomia dell’atto creativo rispetto al conseguenzialismo tipico di un certo comportamento che vorrebbe il progetto come traduzione di prescrizioni preconcette o
summa delle trascrizioni del passato.
un equivoco che sfugge spesso agli stessi archeologi è che noi operiamo per costruire, e nel migliore dei casi, esattamente ciò che si ritiene degno di interesse culturale,
altrimenti il nostro lavoro apparirebbe inconsistente. Ma quando l’obiettivo è raggiunto ci si dimentica spesso che siamo operatori nel contemporaneo di ciò che, forse, la
storia, recupererà come reperto, in futuro. Questo pone alcune questioni, fortemente
dibattute in più direzioni e che hanno riempito interi testi ma che non hanno chiarito
fino in fondo l’idea che il progetto di architettura assimilando entro sé il paradosso
storico, del reperto e della scoria di senso, è investito di una responsabilità contemporanea a cui non ci si può sottrarre. Per questo suonano allarmanti le parole di Auden
che in coda alla sua poesia dal titolo anch’esso Archeologia così si esprime:
dall’Archeologia / possiamo trarre almeno una morale: / cioè che tutti i nostri / libri di
scuola mentono. / Ciò che chiamiamo Storia non è nulla / di cui poter vantarsi, / in quanto è
stata fatta / dal criminale che è in noi: / la bontà è senza tempo5.
5
4 M. sèstito, La colonna di Era – Era la colonna, disegno
in carta di pane.
5 A. isozaki, La città del futuro (da: “Architectural
Review”).
211
3 La poesia Archeologia si trova in W. Szymborska,
Vista con granello di sabbia, Adelphi, Milano 2012, pp.
145-146.
4 Che abbiamo adoperato come manifesto per il
convegno.
5 W.H. Auden, Grazie, Nebbia, Adelphi, Milano 2011,
pp.29-33.
6
RISIGNIFICARE I LUOGHI
6 H. bosch, San Cristoforo, 1496 circa, Museo
boijmans, van beuningen, Rotterdam.
212
Risignificare i luoghi è il titolo di questa sezione curata, dopo la scomparsa di Renato nicolini, con la collaborazione di Angelo Cannizzaro e Antonino Minniti.
Renato Nicolini sottolinea che per apprezzare un museo, un’area archeologica, bisogna “dimorarvi”. Progettare e organizzare la “dimora” significa ricercare e riconquistare il tempo dell’esperienza estetica, attraverso un ragionamento sulla dimensione
ontologica fondativa dello spazio. Poco ci può soccorrere la memoria analitica, la memoria come serbatoio di fatti e di cifre. Torna dunque d’attualità l’anamnesi, torna a
essere importante interrogarsi su questa disciplina della memoria che congiunge il
pensiero greco da Pitagora a Platone. In Magna Grecia questo interrogarsi può diventare ispiratore di una prassi museale innovativa, efficace e corretta.
Marco Dezzi Bardeschi riferisce invece della progressiva moltiplicazione dei settori
all’interno della disciplina archeologica e la relativa contaminazione dei più svariati
contesti. L’autore mette in contrapposizione tale vivacità con la crisi concettuale che
in Italia investe la creazione del nuovo.
L’equilibrio del rapporto tra identità e memoria nei luoghi della Magna Grecia è
l’obiettivo indicato da Angelo Cannizzaro al quale far tendere il progetto del paesaggio archeologico. Lo studio delle reti archeologiche territoriali può fornire in primo
luogo una chiave di lettura in contesti narrativi o divulgativi, un potente veicolo di risignificazione e interpretazione dello spazio pubblico in ambito urbano e anche uno
strumento di riqualificazione del paesaggio rurale e suburbano.
Alberto Fiz racconta la storia di Intersezioni, un progetto che ha creato una nuova fruizione dell’arte uscendo da ogni convenzione. un luogo in cui importanti artisti hanno
saputo agire in sinergia con la storia in un processo di rigenerazione della memoria
dove il patrimonio archeologico sviluppa la propria energia vitalistica diventando esso
stesso parte integrante di un nuovo percorso. Affermando che la caratteristica intrinseca della contemporaneità è quella di assorbire tutti i tempi.
Antonino Minniti segnala che, nel contesto territoriale calabrese, lo “stato di necessità” non è mai venuto meno, anzi si è ripresentato sotto diverse forme, diventando
di fatto, l’unico strumento per affrontare le scelte di risanamento e sviluppo. La memoria è stata invece “re-interrata”. Il trend negativo può essere invertito attraverso
una rilettura delle tracce dei percorsi della memoria, la valorizzazione del paesaggio
naturale e archeologico, la ri-funzionalizzazione delle infrastrutture, l’integrazione e
il dialogo funzionale tra le città del passato e le città del presente.
Hippodamus of Miletus was made an honorary citizen of Thurii after having built the
port of Piraeus and established – with his Miletan urban layout – the “orthogonalisation” of the Hellenic world and beyond, a system that was to be emulated throughout the world’s cities as the reflection of an urban strategy that not only attempted
to order pre-Carthesian space but even time itself. The basic grid that would find
its validation in Roman centuriation, the Sicilian salma, in the Hispanic-American
chequerboard grid, right up to Jefferson’s centuriation of north America, or the
chequerboard grid of the pre-Columbian cities identified by Graziano Gasperini is
not only one of the most entrenched settlement strategies in the history of humanity; it is also the reflection of a Greek policy that saw in the fair distribution of these
housing blocks the spirit of democracy vanquishing the power of the oligarchy and
the tyrannical regimes that infested the Mediterranean. not even Chinese cities
stray from this basic grid, as they nevertheless share, as Gregotti reminds us, “the
settlement principles of the fenced-off area and the orthogonal grid” with European
cities, “oriented around the presence, by way of an exception, of civic and monumental spaces, precisely limited by their drawn borders”. Hippodamus decided in favour
of this citizenship and prepared to become the citizen of a colony, albeit a proud one
like Thurii (ancient Sibari), almost as if to confirm, as often happens (as in the case
of American colonisation), that when one leaves one’s country of origin one has the
chance to create something new, one can project a rigid sheet (as if over a desolate
land) and leave the signs of this chessboard there, which from now on will have no
limit and be as vast and infinite as today’s new globalisation.
The layout established itself like a hand ploughing and scratching the ground, a
symbolic shape that represented a philosophical tension and that was to prompt
the architecture of all Magna Graecia’s cities, with very few exceptions, to rely on it.
Hippodamus had won (even though many people are convinced that he was not the
inventor of the orthogonal grid); he had conquered the steep hills and hollows, the
protrusions and dips of a land that found itself trapped in a spatial net. Hippodamus
had won, forcing mankind to construct buildings, equipment, furnishings, outlines,
boards and timber using the rationale of a saw that, though circular, produced an
infinite number of parallel boards, limitless straight lines and creations that could
be subjected to the chequerboard shape of the city block and could interact with it.
In this infinite and limitless city – what is now a post-metropolis (Gregotti), post-city
(Purini) or a globopolis (our current position) – this layout seems to suggest how
the circularity of Platonic existence that was to influence all cosmological representations in the shape of the perfect circle, including domes, could be flanked by a
human measurement, the hand of the surveyor or the harpedonapta. The mysticism
of such a scheme was countered by Pythagoras and his school in the rival city of
Kroton (modern-day Crotone) with numbers and the multiplication table, another
kind of organisational matrix.
HiPPodAMus HAs WoN
ABSTRACT
213
l’oRo dellA MeMoRiA
Renato nicolini
il valore dei beni culturali. I beni culturali in Italia? Si potrebbe ricordare Il Gattopardo. È necessario che molte cose cambino, perché nulla cambi. Perché non
cambi il nostro curioso intreccio di mali antichi (centralismo, burocratismo, privilegi per i “colti” e disprezzo per gli “incolti”) e nuovi (estraiamo dai giacimenti
culturali il petrolio d’Italia) – di logiche imprenditoriali e manageriali sovrapposte
alquanto meccanicamente e fideisticamente al vecchio corpo.
La trasformazione ha prodotto legislazioni sempre più complesse – burocrazie
napoleoniche – ma per procedere ancora, dopo tanto rullare di tamburi, schizofrenicamente, per atti esemplari, spesso tardiva riparazione di torti decennali, che
certo non rivelano una strategia forte.
Ci sono voluti dieci anni per riaprire al pubblico la Galleria Borghese. Si è conclusa, dopo un tempo ancora maggiore, la sistemazione delle collezioni del Museo nazionale Romano – a Palazzo Massimo – al Planetario – nella nuova sede di
Palazzo Altemps destinata all’esposizione della collezione Ludovisi. Resta però
ancora irrisolta la questione della collezione Torlonia – non più visibile dopo che il
Museo di via della Lungara è stato distrutto – uno scandalo di oltre vent’anni fa –
per trasformarlo in mini appartamenti da affittare a canone vip. La stessa storia si
potrebbe raccontare in altri modi ancora – con infiniti esempi.
A molti anni dall’approvazione della legge Ronchey il bilancio dei bar, ristoranti,
punti vendita di libri e di souvenir aperti nei nostri Musei non è certo esaltante. La
sbandierata qualità della cucina del nuovo ristorante aperto alla Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma si rivela a chi indaga niente più che un buon esempio
di catering.
C’è soprattutto da domandarsi quanto l’ultima competenza che il privato ha finito
per annettere alle previsioni della legge Ronchey, passando dalla stampa dei cata-
1 d. libeskind, Diagramma matrice della stella di
David deformata, 1989.
215
Il testo è estratto dal volume: R. nicolini, P. Lo Sardo,
L'oro della memoria, Rubettino, Soveria Mannelli 2011.
RISIGNIFICARE I LUOGHI
loghi all’organizzazione di mostre1, aiuti a superare il “mostrismo” – fenomeno che
a parole tutti deprecano – recuperando l’antica tradizione del valore “scientifico”
delle mostre.
L’impressione è che non si sia compresa la specificità di questo settore. È, più che
semplicistico, ridicolo, pensare al rapporto pubblico-privato come una specie di
“arrivano i nostri” in cui gli imprenditori – quattrini in pugno – salvano il Ministero
voluto da Spadolini investendo non più soltanto nei bar, nei ristoranti, nel merchandising e nel bookshop, ma nella gestione tout court dei nostri musei. Il valore
principale del “bene culturale” non è, infatti, un valore “economico”. Il suo valore è
formativo2; e di “identità” (ovviamente mobile, e in continuo confronto con l’”altro”
da sé). Riconoscere il valore dei “beni culturali” (e attraverso questi della cultura),
significa riconoscere i fondamenti dell’essere sociale; ritrovare per questa via l’aner politikon zoon di Aristotele.
216
1 L’esempio più clamoroso è i Centouno capolavori
dell’Hermitage, scelti personalmente da Leonardo
Mondadori e record di presenze con oltre mezzo
milione di visitatori alle Scuderie del Quirinale.
2 Efficace quanto più ci si allontana da rigidità
“educazionali” e velleità “pedagogiche”.
3 Peraltro in Italia sotto la media delle grandi nazioni
europee, francia, Germania, Inghilterra, dunque ancora marginali.
4 dalla trasformazione degli Enti lirici in fondazioni,
alla Biennale di Venezia divenuta “società di cultura”,
al “city manager” per Pompei.
5 Ovviamente articolata in spesa del Governo, delle
Regioni, delle Province e dei Comuni.
6 Capace di “fondare” culture e consolidare identità
proprio in quanto è soggettività – dunque irriducibile
alla norma preesistente.
Per sostenerne i costi3, non si possono prevedere soltanto leggi e meccanismi di
mercato. non è bastato l’escamotage del cambiamento di stato giuridico 4. Il modo
migliore per incentivare i privati a investire in cultura resta infatti quello di dare il
buon esempio, non diminuendo ma aumentando – e di molto – la spesa pubblica
nel settore5. E far sviluppare contemporaneamente una moderna industria della
cultura – questa sì da non sorreggere con le stampelle dell’intervento pubblico,
non più limitata allo spettacolo e alla discografia, all’editoria e all’intrattenimento,
ma incardinata sulla comunicazione – fino alla realtà virtuale e ad internet – e
sulla multimedialità.
non vogliamo e (non possiamo) descrivere nel dettaglio la trasformazione che sta
per avvenire – che è già più visibile nei paesi anglosassoni, in particolare negli usa.
Realizzandosi, la nuova configurazione della cultura nel mondo non ha nulla delle profezie ingenuamente utopistiche e inguaribilmente ottocentesche che sono
state fatte in suo nome. Gli aspetti di concentrazione monopolistica, di riduzione
dei “pubblici” a un solo pubblico, di impoverimento della qualità della ricezione
estetica e della creatività denunciati da autori oggi semidimenticati come Adorno e
la “scuola di francoforte” di fronte al manifestarsi della cultura di massa, ci sono
ancora tutti. Ma non ci basta più non volere “abitare nel Grand Hotel sugli Abissi”.
dobbiamo comprendere che la trasformazione di cui parliamo è già in corso, in
continuo e tumultuoso mutamento; e che, prima di irrigidirci nel pessimismo delle
analisi (ma senza dimenticarle), possiamo ancora intervenire per modificare.
Se dai boulevard hausmanniani, e dalla costruzione di “Parigi Capitale del xx secolo” sono sbocciati teatri e ristoranti, passages commerciali e industria dello spettacolo, la vita borghese per eccellenza che prima non si era ancora pienamente
manifestata: cosa potrà venire fuori dalla rivoluzione informatica, che molti paragonano all’invenzione gutenberghiana della stampa nei suoi effetti soprattutto
futuri?
Perché da questo processo si possano sviluppare effetti positivi di arricchimento
(e non di impoverimento) della complessità delle esperienze di vita dell’uomo, e in
particolare della sua (oggi schizofrenica e impalpabile nel mondo dei rumori e delle immagini aggressivamente sfacciate) esperienza estetica, non bisogna smarrire questa duplicità del mondo dei beni culturali, sospeso tra mondo delle merci e
del mercato e soggettività estrema6. Se oggi si discute soprattutto di city manager,
di società di cultura, di ingresso dei privati nella gestione dei servizi che possono e
debbono accompagnare l’offerta dei beni culturali, di grandi esposizioni e del rinnovamento dell’offerta di servizi dei musei: cioè, in una parola, di economia – noi
vorremmo piuttosto discutere del significato, del valore del “museo”. Estendendone il concetto fino a quella sua forma costituita in nuce dalle aree archeologiche
– e comprese le connessioni delle aree archeologiche con i musei e con i sistemi
di musei, con le città e le loro culture, con il territorio e con l’ambiente.
2
3
i luoghi della memoria. Per molto tempo il vero museo delle città è stato costituito
dalle grandi chiese. non a caso Adolf Loos, un uomo dal gusto sicuro, riconosceva
nello Stephendohm l’edificio “più bello” di Vienna, e lo paragonava a una pagina di
pietra aperta sulla storia della città. In questi “musei” la definizione architettonica
cresceva insieme alle opere d’arte che accoglieva; e in molti casi la realizzazione di un’opera (in forma di affresco, di pala d’altare, di pulpito) contribuiva alla
definizione architettonica dello spazio. Oggi questa unità si è perduta; e il rischio
del museo “moderno”, passata la fase dei grandi musei nazionali-imperiali, dal
Louvre al British Museum, alla national Gallery, è di diventare un “museo di oggetti”, spazio neutro, indifferente a cosa ospita, semplice contenitore.
Per apprezzare un museo, un’area archeologica, bisogna “dimorarvi”, anche se
solo il tempo della visita: è questa la risposta che diamo. La “dimora” nel museo
è qualcosa di diverso, ad esempio, dall’”altro stato” di cui parla Musil nell’ultima
parte de L’uomo senza qualità. non è un termine tendenzialmente mistico, che pretende una qualità diversa dell’esperienza. Progettare e organizzare la “dimora”
dei visitatori in un museo significa ricercare e riconquistare il tempo dell’esperienza estetica. un proponimento rispetto al quale non esistono, ovviamente, ricette già pronte, tanto meno “buone a tutto fare”.
Ci pare che cercare di restaurare la dimensione temporale propria alle esperienze
estetiche sia possibile solo ragionando sullo spazio. non soltanto sui valori comunicativi, linguistici dello spazio: ma sulla sua dimensione ontologica fondativa.
Qual è il “valore” dell’esperienza dello spazio per l’uomo? non è tanto un’ispirazione neo-neo-kantiana a muoverci; quanto il confronto con la grande cultura europea del ventesimo secolo, con la linea accidentata e contradditoria che partendo
da Rilke e passando per Heidegger – ma anche partendo da Walter Benjamin o
da Elias Canetti o da Albert Camus – possiamo fare arrivare fino, per proseguire
nel nostro gusto della commistione e dell’eterogeneità, a Peter Handke e Wim
Wenders.
Ma non sono tanto le esperienze teoriche, quanto un’esperienza e una domanda
pratica – cosa significa fare museo nella Magna Grecia? – che ci ha aiutato, spe-
4
2 G. vasi, Palazzo Altemps, Riario e basilica di Sant’Apollinare, Roma.
3 stephendohm, vienna, dettaglio della facciata.
4 A. Kalach, biblioteca José vasconcelos, Città del
Messico.
217
riamo, a non cozzare contro l’iceberg del nichilismo. Il chiederci come possiamo
rappresentare in termini museali la matematica pitagorica o l’astronomia, come
raccontare le città, i templi, la musica, la poesia, il paesaggio, i luoghi dei Greci,
ci ha posto di fronte agli antichi in modo “nuovo”, in qualche misura ingenuo. Ma
almeno sapevamo che cosa stavamo loro chiedendo. nel nostro confronto con gli
antichi un ruolo fondamentale hanno avuto le nuove tecnologie, per la loro capacità di fornire a vecchie domande nuove risposte, di collocarci all’interno di una
memoria che grazie a loro è rappresentabile attraverso immagini, racconti, narrazioni.
RISIGNIFICARE I LUOGHI
Ma come ricordare e cosa ricordare in un mondo che sempre più sembra diventare simile alla borgesiana biblioteca di Babele? In questo smarrirsi dell’intelletto
nei meandri di una conoscenza che allarga a dismisura i suoi confini orizzontali,
poco ci può soccorrere la memoria analitica, la memoria come serbatoio di fatti e
di cifre. Tornano d’attualità antiche pratiche o teorie famose nell’antichità, come
l’anamnesi: la ricerca di una memoria che sia pratica attiva ed autoplasmantesi.
Torna a essere importante interrogarsi su questa disciplina della memoria che
congiunge il pensiero greco da Pitagora a Platone. In Magna Grecia questo interrogarsi può diventare ispiratore di una prassi museale che sa riconoscere fino in
fondo il valore dei segni lasciati dall’uomo sul territorio.
Solo da un’idea più piena e più ricca dell’esperienza (e dunque della vita), può
nascere un’economia virtuosa della cultura, un ruolo per l’Italia adeguato, nella
società della comunicazione e dei non “luoghi”, alla ricchezza dei luoghi dall’identità forte, ancoraggi necessari di fronte al rischio di smarrirci, tanti individui isolati
nella realtà virtuale.
218
Questo discorso interessa particolarmente il Mezzogiorno d’Italia. E il Mezzogiorno d’Italia, tra la Calabria e napoli, è il territorio delle nostre ricerche. Quando le
grandi città europee stanno riconvertendosi dall’industrializzazione, non essere
mai stato territorio pienamente industrializzato, può rappresentare un vantaggio.
for a long time the true museum of cities was the large churches. In fact, Adolf
Loos acknowledged the Stephendohm as Vienna’s “most beautiful” building, and
compared it to a stone page open to the city’s history. In these “museums”, the architectural definition grew together with the works of art it held; and in many cases
the creation of a work (in the form of a fresco, altarpiece, or pulpit) contributed to
the architectural definition of the space. Today this unity has been lost; and the risk
of the “modern” museum, after the phase of the major national-imperial museums,
from the Louvre to the British Museum to the national Gallery, is that of becoming
a “museum of objects”, indifferent as to what it holds, a simple container. In order to
appreciate a museum, an archaeological area, it is necessary to “dwell in it”, even
if for only the time of the visit. The “dwelling” in the museum is something different,
for example, from the “other state” of which Musil speaks in the last part of The Man
Without Qualities. It is not a term that tends toward the mystic, one that expects a different quality of experience. designing and organizing the “dwelling” of the visitors in
a museum means seeking and reconquering the time of the aesthetic experience: a
resolution for which there are no ready recipes, let alone ones “good for everything”.
It seems to us that seeking to restore the proper temporal dimension to aesthetic
experiences is possible only by reasoning on the space. not just on the communication, linguistic values of the space, but on its founding ontological dimension. What is
the “value” of the experience of space for man? It is not so much a neo-neo-Kantian
inspiration that moves us, as the encounter with the great European culture of the
20th century, with the accidental and contradictory line which, starting from Rilke
and passing through Heidegger, we can make arrive up to Peter Handke and Wim
Wenders. In our encounter with the ancients, a fundamental role is played by the new
technologies, thanks to their capacity to provide new answers to old questions, to
place us within a memory that, thanks to them, can be represented through images,
stories, and narrations. But how and what to remember, in a world that seems to be
becoming similar to Borges’ Library of Babel? In this getting lost of the intellect in
the meanders of a knowledge that disproportionately broadens the horizon limits,
the analytical memory, the memory as a reservoir of facts and figures, can do little
to help us. Ancient practices or theories famous in antiquity come back into vogue,
such as anamnesis, the search for a memory that is practical, active, and self-modelling. Only from a richer idea of experience (and thus of life), can a virtuous economy
of culture, a role for Italy that is adequate, in the society of communication and the
non-“places”, for the richness of the places with a strong identity, necessary anchors
before the risk of getting lost, so many isolated individuals in the virtual reality.
tHe Gold oF MeMoRY
ABSTRACT
219
quAle ARCHeoloGiA, quAle ARCHitettuRA
Marco dezzi Bardeschi
definizioni. nei nostri dizionari storici è la voce “Architettura” quella che tiene
la scena da almeno due millenni (dal testo di Vitruvio alle fondamentali voci dei
Vocabolari moderni). L’architettura è la grande arte del costruire: architectura nascitur ex fabrica et ratiocinatione. È un processo che unisce pensiero e/a cantiere.
Il verbo fabbricare, alla lettera, si applica alla fabbrica. nota è la frase che segue
la fondamentale definizione di Vitruvio e che lo accredita come il primo semiologo
della storia: l’architettura è tutto ciò che unisce il significato (ciò che mi propongo
di trattare o di progettare) con il significante (la dimostrazione e la rispondenza alle
regole della comunicazione).
La voce “Architettura” invece per Tucidide, nel primo libro delle Storie, è il discorso
o indagine sulle cose del passato (che poi, per lui, non possono essere che quelle,
per noi lontane, precedenti alle “storiche” guerre del Peloponneso). È scarsa la
presenza della voce sia nel vasto movimento còlto degli umanisti (da Petrarca ad
Alberti), sia nel lungo periodo successivo del Classicismo (sia il Dizionario della
Crusca che il Vocabolario del Baldinucci le preferiranno la nozione di scienza antiquaria). Per fondare l’archeologia come disciplina autonoma ci vorrà la grande
rivoluzione delle scienze dell’uomo nell’età (laica) dell’Encyclopédie, delle Arti e
Mestieri, dell’illuminismo riformatore e poi con il rilancio della sua fortuna critica
nel grande secolo della Storia (l’Ottocento). È infatti con lo storicismo romantico
che l’Archeologia sale alla ribalta da nuovo grande protagonista: sarà Pietro Selvatico (Le Monnier, firenze 1852) nel suo Corso di estetica ad esaltare la “sacra”
archeologia che “si fa guida dell’arte e (che) ne lumeggia la storia”. Sono stati
1 t. Cole, Il sogno dell’architetto, 1840 (particolare).
221
Le immagini che corredano il contributo
documentano il progetto di inserimento del nuovo
Museo Archelogico nazionale di Crotone all’interno
del Castello di Carlo v, elaborato dall’autore,
illustrato al Convegno e in seguito presentato al
Salone del Restauro di ferrara 2014 e pubblicato
in M.d, Bardeschi, Il navigar pittorico per terre, cieli,
mari, ferrara 2014.
2
RISIGNIFICARE I LUOGHI
2 il Castello di Carlo V a Crotone, foto area prima
dell’intervento.
3 il Castello di Carlo V a Crotone, prima
dell’intervento.
222
infatti i francesi a siglare – come sappiamo – nei primi anni della Restaurazione il
grande ritorno, dal collezionismo antiquario delle Wunderkammern e dalla scienza
classificatoria dell’antichità (Winckelmann), all’archeologia appunto come sedimentata presenza/accumulazione di cultura materiale, storica e preistorica, con
la scoperta della dimensione nascosta di un’inedita storia urbana matrice del fare
collettivo. È Arcisse de Caumont che infatti, nel 1824, dà vita alla Societé des Antiquaires e qualche anno più tardi (1833) appunto alla Societé francaise d’Archeologie.
E gli farà subito puntuale riscontro Adolph didron (dal 1839) a segnare il passaggio
agli ufficiali Annales Archeologiques (1845).
È al giovane Cesare Cantù (prima del 1848) che si deve la prima distinzione (poi
ripresa da Giovannoni nel 1912) tra monumenti vivi e monumenti morti, questi ultimi
ormai abbandonati e privi di uso: una tesi che lo stesso ormai maturo Cantù rilancerà ancora nel 1872 (al Congresso degli Scienziati italiani) e nel 1880 (a Torino),
influenzando l’ancora indeciso Boito autore della grande svolta metodologica sul
restauro al successivo Congresso di Roma degli Ingegneri e Architetti (1883) che
dà vita alla prima Carta italiana del Restauro con l’elogio del documento-monumento
e la rivendicazione del carattere autonomo e del valore di novità di ogni eventuale
aggiunta.
Così che cento anni dopo (nel 1976) Bianchi Bandinelli potrà già distinguere,
nell’ancor giovane storia della disciplina archeologica, ben quattro consolidate
fasi distinte: una prima, pionieristica, winckelmanniana ed estetica (nel Settecento),
una seconda filologica (nell’Ottocento), una terza storico-artistica (nel ventennio:
1920-40) ed infine una propriamente storica nei suoi stessi anni d’esordio (19391959) nei quali, dopo aver decisamente contribuito (con Argan e Longhi) alla nascita dell’Istituto Centrale del Restauro (icr) romano, proprio nel nome (marxista)
della storia e della cultura materiale prendeva decisamente le distanze dalla deriva estetica impostale nella sua Teoria del restauro (1963) da Cesare Brandi, tutta
condotta e sviluppata all’interno dell’ambito ristretto (che esige, come giudizio di
valore, il suo specifico riconoscimento) della teoria dell’opera d’arte.
sinergie. Oggi, presa consapevolezza dell’unicità, autenticità e irriproducibilità
delle risorse materiali esistenti, anche l’archeologia , un’attività per definizione
altamente distruttiva (perché, per raggiungere l’oggetto del proprio studio, presuppone la irreversibile rimozione di ogni sovrapposta sedimentazione storica
successiva), sta da tempo facendo la propria radicale quanto necessaria autocritica disciplinare. L’ha già fatta da tempo e sta continuando a farla il restauro
architettonico, una disciplina che, dopo più di un secolo di distruzioni e libere transvalutazioni del patrimonio monumentale sul quale si applica, pare seriamente
finalizzata al rispetto ed alla cura del documento/monumento materiale oggetto
del proprio intervento. È solo ora infatti, dopo oltre cinquant’anni di pratica incerta ed approssimativa, che, con il Codice dei beni culturali (2004), il restauro
ha iniziato a ridefinire correttamente i propri obiettivi: l’art. 29 infatti lo identifica
con la conservazione dell’integrità materiale del patrimonio costruito, come Bene
3
comune, e con la sua trasmissione in efficienza all’uso rispettoso ed alla fruizione
delle future generazioni.
E il discorso sull’archeologia , come disciplina autonoma, oggi si arricchisce di
nuove aree di approfondimento specialistico, sottoarticolandosi a ventaglio su
molteplici settori specifici di analisi, di ricerca e di progetto. Ed ecco, infatti, l’archeometria, che applica i metodi delle scienze sperimentali ai beni culturali e non
solo alla conoscenza dei suoi rispettivi dati quantitativi di “misura”: dalla fine degli anni ’50 la rivista internazionale omonima, ad Oxford, approfondisce lo studio
della datazione dei componenti materiali di uno scavo. E almeno dal 1962, anno di
inizio della pubblicazione di Archaeology and Anthropology di Lewis Binford debutta
la New Archaeology che si affianca, all’Archeologia Classica della storica Scuola
archeologica italiana d Atene, l’Archeologia Medioevale (la benemerita rivista fondata e diretta da Riccardo francovich e dalla sua Scuola senese) che fa ampio e
sistematico ricorso all’Archeologia dell’elevato a saldare e raccordare il plurisecolare braccio di storia silenziosa che ancora separava, come trascurata terra
di nessuno, l’archeologia del mondo antico dall’architettura dell’Alto Medioevo e
del cantiere di costruzione dell’età di mezzo. E tra conoscenza storica d’archivio e
indagini chimico-fisiche dirette della fabbrica si sono fatti metodologicamente riconoscere ed apprezzare in questi ultimi trent’anni i lavori di approfondimento sul
campo della Scuola genovese di Tiziano Mannoni e di quella padovana di Brogiolo.
Così che tra archeologia medioevale e nuova cultura della conservazione ora si
intreccia un efficace dialogo strutturale di ricerca e di continuo approfondimento
e scambio interdisciplinare. Gli archivi del suolo diventano il terreno privilegiato
della nuova ricerca comune dell’archeologo, dello storico e dell’architetto cui si
associano gli scienziati (i chimico-fisici) e gli specialisti delle analisi non distruttive
(Carbonio 14, dendrocronologia, georadar ecc.). L’obiettivo della conoscenza, del
rispetto e della cura si è da tempo fatto impegno comune. E si aprono oggi sempre
inediti ulteriori spazi di collaborazione e di lavoro comune tra discipline fino a cinquant’anni fa tradizionalmente considerate autonome e magari tenute orgogliosamente separate. negli ultimi trent’anni la nozione e gli orizzonti dell’archeologia si
sono straordinariamente dilatati. Le storie della terra (Carandini) coinvolgono con
223
RISIGNIFICARE I LUOGHI
4
224
4 il Castello di Carlo V a Crotone, planimetria di
progetto dell’area espositiva.
5 il Castello di Carlo V a Crotone, rilievo fotografico
dei profili e planimetria dell’area di intervento.
5
la convergenza di crescenti settori specialistici e, soprattutto, affascinano i media
ed un pubblico sempre maggiore. dallo scavo al contesto urbano, all’archeologia
del paesaggio e all’archeologia degli insediamenti abbandonati (field archaeology).
All’archeologia ambientale (che studia il contesto e l’ecosistema: K. Butzer), all’archeologia dei giardini e dei parchi storici, all’archeobotanica (The Palinology of Archeological Sites di G.W. dimbleby, 1985), alla bioarcheologia, alla archeozologia, alla
ricerca (e alla misura qualitativa) delle stratificazioni, all’archeologia industriale
nata nel Regno unito nell’immediato dopoguerra e subito declinata in Italia come
attività di ricerca e di salvaguardia per assicurare un nuovo futuro collettivo al
grade patrimonio industriale diffuso delle fabbriche oggi dismesse.
Metodologie. Come si vede le maggiori innovazioni, per estensione e specificità dei
settori e delle tematiche di ricerca e di progetto, segnano un rinnovamento senza
precedenti delle due storiche discipline (archeologia e architettura). E non è un
caso che ad un crescente fronte di critica del cosiddetto “restauro” come peggior
forma di distruzione, accompagnata dalla falsa descrizione dell’opera distrutta”
(la definizione è di Ruskin che la lanciò come un anatema alla disciplina nel lontano
1949 nelle sue Seven Lamps) si accompagni oggi una consapevole critica analoga
dello scavo tradizionale, nel nome di un crescente impegno per la salvaguardia e
la permanenza delle risorse materiali stratificate, considerate come irrinunciabile
patrimonio comune complessivo a rischio della nostra comunità urbana. A questa
auspicata e convergente unità di pensiero, che oggi sembra sovrintendere e guidare l’intervento consapevole comune dell’archeologo e dell’architetto-conservatore hanno sicuramente contribuito, oltre alle ormai storiche Carte del Restauro
del 1964 e del 1972 (quest’ultima con i noti allegati paralleli sulla conservazione
del patrimonio archeologico e architettonico-urbano), il recente Codice dei beni
culturali (2004), appunto, con la prima chiara definizione del complessivo processo virtuoso che dallo studio e dalla salvaguardia attiva prevede il rispetto, la cura,
la manutenzione e la valorizzazione dell’eredità materiale che abbiamo ricevuta in
consegna dalla storia e dalle generazioni che ci hanno preceduto.
Perché c’è, e dobbiamo averne piena consapevolezza di utenti e fruitori, una archeologia dell’architettura. Archeologia come status progressivo, ma non terminale,
sul lungo tempo, dell’arte del costruire e dell’abitare, non appena la possibilità di
abitare viene meno. Archeologia come prodotto della progressiva decostruzione
dell’architettura prodotta dal tempo e dalla mano volontaria dell’uomo. Archeologia della fabbrica che – senza interventi –, una volta disertata dalla vita, tende
fatalmente a farsi rudere, ruina. Chiedersi quando nasce questa constatazione (di
una società successiva nei riguardi dell’opera materiale delle società precedenti)
non è affatto un ozioso interrogativo accademico, ma aiuta a comprendere alla
225
RISIGNIFICARE I LUOGHI
radice l’insorgere e l’affermarsi di una nozione e del riconoscimento di valore che
ciò comporta (i riegliani “valore storico” e “valore d’antichità”, ad esempio, legati
alla perdita del “valore d’uso”). E a rendersi conto dunque della necessità dell’attiva e tempestiva salvaguardia di tali valori per mano di un necessario intervento
progettuale che oltre a garatirne di quel patrimonio la sopravvivenza materiale
porti con sé anche un plus-valore legato all’uso, una auspicabile crescita di valore
aggiunto come autentico, autonomo “valore di novità”.
Considerati i due paralleli ma intrecciati fronti (mobili) del progetto di conservazione del patrimonio archeologico e architettonico-paesaggistico, resterebbe ora da
chiedersi cosa stia succedendo oggi sul fronte (altrettanto mobile) della cultura
del progetto del nuovo. In altre parole: qual è stata e quale sia oggi l’attesa e più efficace risposta culturale e professionale sul fronte del progetto, quali i suoi attuali
contenuti, modi e coinvolgimenti ed, insomma, quale debba essere la ritrovata
qualità e credibilità del progetto architettonico contemporaneo e quale il suo specifico contributo positivo nei riguardi del contesto urbano e territoriale del costruito esistente. Ma questo è appunto, con evidenza, il tema di un nuovo stimolante e
auspicabile prossimo incontro-confronto.
226
This article considers the specific characteristics of these two fields (Archaeology
and Architecture), going over the salient events in their reciprocal history. Compared
to the thousand-year critical popularity of the term Architecture in the great treatises of all eras (starting with Vitruvius), we have to await the first great revolution in
Human Sciences in the Era of the Reforming Enlightenment, Encyclopaedism and
Arts and Crafts, and later the romantic historicism of History’s great century, for
the foundation of Archaeology as a separate discipline. Today, when we are aware of
the unique, authentic and irreproducible nature of buildings both above and below
ground, Archaeology is also engaged in its own positive, radical self-criticism, just
as architectural restoration has continued to do, for example, for some time now, a
field that after having caused over a century of useless and unjustified demolitions,
now finally seems to be moving in the direction of the right aim: to respect, care for
and enhance material document/monuments, a commitment confirmed by Article
29 of the recent Code of Cultural Heritage (2004) which indeed identifies restoration
as the conservation of the material integrity of buildings and the need to pass on its
use as an inalienable common good.
Today, New Archaeology is a parent field that is gaining further sectors of specialisation such as Archaeometry, Building Archaeology, Landscape Archaeology, field
Archaeology, Archaeobotany, Bioarchaeology and Archaeozoology, all of which include Industrial Archaeology as well, which today is a vast area of research and
study, interest and collective participation. It is a vast sphere of activity that aims,
as we can see, to prioritise the conservation (and complete transmission) of autographed material, where the opportunities for joint research and working exchanges
between different fields (involving archaeologists, historians, architecture students,
scientists and specialised experts) are increasing, creating a growing, common
commitment to research, planning and managing existing material heritage.
The images included in this article document the plan to set up Crotone’s new national Archaeological Museum in the Castle of Charles v, developed by the author
and illustrated at the conference.
WHiCH ARCHAeoloGY,
WHiCH ARCHiteCtuRe
ABSTRACT
227
le Reti ARCHeoloGiCHe teRRitoRiAli
Angelo Cannizzaro
identità e memoria. In ambiti stratificati, rispondenti a disegni urbanistici diacronici, eterogenei quindi per concezione, tecniche costruttive e uso, gli interventi di
trasformazione urbana o del paesaggio hanno in primo luogo il compito di ristabilire un equilibrio nel rapporto tra identità e memoria che passa necessariamente
attraverso la mediazione simbolica dei manufatti storici e dei beni culturali, nella
misura in cui essi sono legati all’immaginario collettivo.
1 Modello ispirato alla mappa di
internet elaborata da bill Cheswick.
Il rapporto tra identità e memoria si stabilisce in una comunità attraverso due canali fondamentali, uno è la tradizione, ovvero tutto il patrimonio materiale e immateriale che le
generazioni si trasmettono direttamente, l’altro è la partecipazione, ossia quell’esperienza
in comune che troviamo come motivo fondante l’origine di tutte le culture, e come condizione
dei messaggi che all’interno vi si scambiano, e che risultano intelligibili perché iscritti nella
medesima simbolica originata dalla comune esperienza1.
un bene culturale è tale poiché conserva una qualche memoria, una testimonianza e una prova tangibile dello scorrere del tempo e dell’evoluzione della civiltà,
una finestra sul passato.
Questo valore evocativo è il più efficace strumento di tutela dello stesso bene, in
quanto lo rende luogo dell’identità e forma di resistenza alle forme di destrutturazione psico-sociale dello spazio di cui già nel 1969 scriveva Emanuele Severino:
se qualcosa non è technicon – se cioè non produce o non è prodotto, o non rientra nel
processo del produrre-essere prodotto – allora non è, ossia è un niente […] ma il senso
dell’essere rimane ancor oggi identico a quello stabilito da Platone una volta per tutte
229
1 u. Galimberti, Psiche e Tecnè, L’uomo nell’età della
tecnica, feltrinelli, Milano 1999.
nella storia dell’occidente. dio e la tecnica moderna sono le due fondamentali espressioni
del nichilismo metafisico2.
2 M.Gargiulo, La colonizzazione greca e gli empori
fenici (da: Atlante di Archeologia).
nel Meridione d’Italia, la valorizzazione dei beni archeologici è uno degli obiettivi
strategici delle politiche regionali e locali in ambito Mediterraneo, ma se escludiamo alcune aree particolarmente significative, le difficoltà che oggi si riscontrano in questa direzione sono dovute anche alla bassa qualità degli interventi o a
una errata e disarticolata attività di gestione.
Soprattutto la frammentazione delle energie spese dai singoli soggetti nei campi
della ricerca, della tutela e della promozione del territorio costituisce un punto
debole, in quanto non va a favore della coesione sociale, alimenta inutili campanilismi, una lotta tra poveri che difficilmente attira l’attenzione del mondo della
comunicazione e dell’informazione.
Per intervenire efficacemente a favore della valorizzazione in questo contesto è
necessario individuare strategie animate dalla sincronizzazione delle attività e
dalla condivisione delle informazioni.
Lo studio di un modello a rete, elaborato attraverso l’osservazione della connettività esistente tra componenti diffuse sul territorio (città, siti archeologici, musei, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e private, biblioteche ecc.) che possono
essere in qualche modo legate a uno specifico sistema concettuale, puo’ essere il
sistema che è necessario costruire.
RISIGNIFICARE I LUOGHI
2
230
Questo sistema di valorizzazione lo abbiamo definito “rete archeologica territoriale” e altro non è che la definizione di un campo d’azione su cui è possibile
connettere la comunità scientifica e gli attori locali sulla base di un progetto culturale condiviso, un filo narrativo basato sul dato archeologico, una sorta di idea
guida. definita questa, le fonti storiche e letterarie, la cultura immateriale (tradizioni culturali, la sensibilità e la memoria della gente, la storia del territorio)
disegnano una nuvola di elementi puntuali diffusi sul territorio e interconnessi al
paesaggio.
Questi possono essere rappresentati come nodi connessi tra loro, nel territorio
dagli elementi del paesaggio archeologico, nello spazio della cultura e nel campo
degli studi dagli organismi di ricerca, di tutela e di valorizzazione.
Perché la rete risulti efficiente è necessario che le connessioni tra questi nodi
assumano una configurazione territoriale con un grado di complessità capace di
sostenere la struttura culturale e concettuale costitutiva. Indagare la forma di
una rete complessa non è certo impresa facile. In effetti soltanto negli ultimi anni
la matematica ha raggiunto dei risultati interessanti, a volte imprevisti, soprattutto se ottenuti attraverso percorsi interdisciplinari. Scrive Strogatz:
ciò che conta è la configurazione, l’architettura delle relazioni, non l’identità dei punti.
Viste da queste grandi altezze, molte reti apparentemente indipendenti cominciano ad assumere lo stesso aspetto – assunto che ci consente di supporre che anche la rete che ci
proponiamo di studiare si comporti allo stesso modo 3.
Incuriositi da questo assunto abbiamo pensato di adattare alcuni dei modelli teorico-matematici che Strogatz e altri studiosi della scienza delle reti complesse hanno elaborato negli ultimi anni ottenendo risultati sorprendenti, come la scoperta
di un nuovo principio che sembra poter finalmente svelare il segreto dell’efficienza
delle reti complesse, e cioè le dinamiche collettive delle reti di piccolo mondo. un
concetto prestato dalla sociologia, sulla base del quale funzionano il web, internet
e i social network. Si tratta di una scienza ancora in embrione, ma sufficiente a
fare un po’ di luce sulla materia in termini matematici e soprattutto in grado di ben
rappresentare un modello utilizzabile nelle diverse applicazioni dei sistemi a rete.
Esso afferma in primo luogo che l’efficienza di una rete è determinata dalla configurazione delle sue connessioni e prescinde dalla qualità dei nodi che la costituiscono.
Sulla base di questo principio, analizzare gli ambiti territoriali inclusi nella rete
archeologica, prestando particolare attenzione ai fenomeni di degrado urbano e
ambientale, a volte favorito anche dall’insistenza degli stessi vincoli archeologici,
confrontare le analisi con i modelli teorici di configurazione efficiente consente di
individuarne i punti deboli e i punti di forza del sistema e di strutturare dunque un
ipotetico programma di interventi mirati all’implementazione della rete territoriale, fino a portarla a efficienti livelli di accessibilità e connettività.
Ad esempio confrontando la rete della ricerca archeologica, che è connessa attraverso i canali di scambio delle informazioni archeologiche tra i ricercatori, al mo-
231
2 E. Severino, Essenza del Nichilismo. Saggi, Adelphi,
Milano 1982.
3 S.H. Strogatz, Sync. Collective Dinamics of “Small
World” networks, “nature”, 393, pp. 440-442.
dello dinamico estrapolato dagli studi su Internet e sul Web, che sembrano rappresentare lo stato più efficiente di un sistema a rete, osserviamo un comportamento
molto diverso, e cioè un sistema statico e quasi perfettamente ordinato. I ricercatori
si dividono infatti il campo degli studi in settori molto ristretti e pur condividendo
fondamentalmente i metodi di ricerca, finiscono per comunicare solo con i colleghi
vicini, ovvero che si occupano perlopiù dello stesso argomento ristretto.
Il risultato è un sistema fortemente aggregato e basato su legami forti, pochissimi ponti apparirebbero, poiché ogni settore specifico è praticamente autonomo.
Ancora più rigido apparirebbe il sistema se allargassimo il campo di applicazione
della rete a tutti gli altri soggetti coinvolti da un eventuale processo di valorizzazione, enti locali, organismi di tutela, operatori culturali, e in generale gli abitanti
stessi dei territori interessati. Ogni categoria di soggetti utilizza contenuti, canali
e linguaggi di comunicazione diversi, costituendo una serie di nuclei fortemente
aggregati di nodi, che comunicano molto tra loro, ma molto poco con gli altri aggregati.
In termini teorici, a una prima osservazione la rete appare molto ordinata e poco
connettiva. Eppure l’archeologia è una scienza che ha ottenuto risultati importanti nel Mediterraneo, ha messo in luce parecchie civiltà antiche, evidenziandone la
stratificazione e i rapporti che intercorrono tra esse ed è anche stata utilizzata a
più riprese nei vari sforzi di costruire un immaginario identitario collettivo. Risultati che farebbero pensare invece a un sistema efficiente.
Sicuramente l’efficienza del sistema passa attraverso la storiografia. Riformulando infatti il modello, includendone il ruolo in termini di guida interpretativa, ci
accorgemmo che fornisce al sistema generale i ponti o legami deboli che ci aspettavamo di trovare in un sistema efficiente. Abbiamo dunque tentato di applicarlo
ai reperti archeologici in ambito Mediterraneo, individuando alcuni sottoinsiemi
di elementi ordinati secondo il criterio di un’idea guida, che siamo stati in grado
di scoprire attraverso l’interpretazione storica del fenomeno urbano e dei sistemi
insediativi. un processo che abbiamo chiamato archeologia del sistema territoriale, una sorta d’indagine sulla genesi del paesaggio culturale.
Come è noto la stratificazione del tessuto antropico mediterraneo implica senza
dubbio la coesistenza sullo stesso territorio di tracce storiche ascrivibili a civiltà
cronologicamente differenziate; se poniamo come presupposto della rete l’interrelazione di siti testimoni di una particolare fase storica del territorio, otterremo
senz’altro una sovrapposizione di queste in molti punti.
RISIGNIFICARE I LUOGHI
3
232
3 i diagrammi sopra utilizzano la logica formale
dei grafi per rappresentare la struttura delle reti di
piccolo mondo definite da steven strogatz.
In sequenza dall’alto:
– lo schema semplice di una rete sociale;
– il dettaglio di tre elementi legati da “legami forti”;
– l’introduzione di legami deboli o “ponti” tra sistemi
compatti;
– una rete perfettamente ordinata;
– una rete di piccolo mondo.
Reti archeologiche. La disciplina archeologica divide i suoi interessi su campi a
volte molto ristretti e spesso perde di vista gli ambiti più generali, che invece costituiscono il terreno di studio degli storici. Per questo il nostro criterio ordinatore
dovrà essere di natura sostanzialmente storica. Stabilitane la natura, per semplificare ancora il modello, possiamo ulteriormente restringere il campo delle
possibilità fissando nella storia del territorio l’ambito in cui ricercare il criterio
ordinatore della rete.
Considerando che in qualche modo il processo storico degli eventi nell’area del
Mediterraneo va di pari passo con la storia urbana e che nella fondazione delle
città, insieme alla rivoluzione agricola, è possibile individuare il momento stesso
del passaggio dalla proto-storia alla storia vera e propria nei differenti ambiti
territoriali, si può quindi individuare l’intervallo temporale in cui i territori si sono
storicizzati e hanno quindi accolto la civiltà urbana per la prima volta.
Il criterio ordinatore che utilizzeremo quindi per determinare gli ambiti territoriali di una rete sarà costituito fondamentalmente dal periodo e dalla civiltà di
fondazione delle diverse città mediterranee. Come vedremo il sistema si semplifica parecchio. un’ulteriore riflessione ci suggerisce che questo passaggio dalla
proto-storia alla storia si è attuato raramente come fenomeno endogeno di un
territorio, ma quasi sempre il progresso irrompe nel territorio sotto forma di colonizzazione pacifica, o di politica espansionistica supportata dallo sforzo bellico,
di una civiltà esogena. Ciò vale senz’altro per la storia del Mediterraneo antico
(civiltà mesopotamiche, egizia, fenicia, punica, greca e romana). Ma anche nella
storia medievale (civiltà dei comuni e delle signorie, civiltà arabo-islamica), fino
all’epoca moderna con il colonialismo degli stati europei negli altri continenti e
addirittura per l’epoca contemporanea (con la formazione dello stato d’Israele).
Esistono dunque momenti di trapianto territoriale di civiltà esterne che determinano dei punti di discontinuità nella storia dei luoghi. In questi particolari momenti della loro storia le civiltà si sono spesso impegnate in uno sforzo intellettuale
e fisico determinato alla definizione e alla sperimentazione di nuovi modi e forme
di gestione dello spazio. Attraverso questi eventi si realizza la stratificazione e la
sedimentazione di paesaggi diversi e diacronici, un’immagine che ben rappresenta i caratteri strutturali ed estetici del paesaggio storico contemporaneo in
Italia. Il caso specifico su cui ci siamo prefissi di applicare il modello di Strogatz
è la campagna di colonizzazione greca in Italia Meridionale del viii-v secolo a.C. I
siti archeologici interessati da questo fenomeno insediativo, definiti storicamente
con la locuzione di Magna Grecia, hanno raggiunto nell’antichità livelli culturali,
economici e tecnologici molto elevati per l’epoca, in alcuni casi hanno conservato
monumenti rilevanti, ma quasi tutti sono poco fruibili, non sono integrati al sistema economico, convivono con preoccupanti fenomeni di degrado.
La prima cosa da fare è definire un campo di ricerca e una famiglia di nodi che
è necessario includere nella rete territoriale. nel caso della Magna Grecia, o di
un qualsiasi altro insieme di luoghi che sia definito da un concetto astratto e non
da una locuzione geografica, il tentativo di segnare dei confini sul territorio che
includano completamente il fenomeno oggetto di studio è destinato a ottenere
scarsi risultati. L’enorme patrimonio di fonti storiche e letterarie che la civiltà
greca, e in particolare quella delle polis d’Occidente, ci ha tramandato consente
di tracciare un quadro molto dettagliato della vita e della cultura dell’epoca.
Eppure non sempre è facile interpretare la geografia degli antichi, perché lungi
dall’essere un sistema pienamente razionale, raccoglie miti, leggende, superstizioni, credenze. Ma non è forse racchiuso in questo immaginario fantastico
233
RISIGNIFICARE I LUOGHI
234
4 A. Carandini, Archeologia del mito: emozione e
ragione fra primitivi e moderni, Einaudi, Torino 2002.
il fascino del mondo antico? Scoprire che gli antichi in fondo avevano gli stessi
problemi quotidiani che abbiamo noi, da un lato ci può forse rassicurare, ma da
un altro ci priva di uno strato fondamentale del nostro essere, di un importante
canale di comunicazione aperto tra noi e gli antichi che non segue le leggi della
razionalità e non ha il rigore della storia, ma che usa il magma del subconscio e
attraverso simboli e suggestioni ci tiene legati alle nostre radici.
La disamina delle fonti antiche e dei dati archeologici, filtrata dall’interpretazione
del pensiero storico, ci ha portato a pensare che delineare un quadro chiaro del sistema territoriale nel suo complesso avrebbe richiesto l’utilizzo di una logica diversa da quella materialistico – razionale pura utilizzata dagli archeologi, il cui risultato
era spesso molto frammentato e discontinuo. Tanto nel racconto della geografia
antica, quanto nelle cronache della gestione del territorio, le fonti antiche sembrano adoperare una doppia logica, a volte razionale e astratta, altre volte irrazionale
e simmetrica, una bi-logica. La bi-logica secondo Andrea Carandini è la capacità
della nostra mente di utilizzare contemporaneamente due logiche dotate di regole
diverse, una razionale ed astratta, l’altra inconscia e simmetrica. Secondo Carandini il mito è tuttora vivo ed è il prodotto costante di questa seconda logica, una logica
capace di trovare collegamenti e simmetrie che con la logica razionale resterebbero invisibili4. Il mito nell’ultimo secolo era stato ridotto dal metodo scientifico degli
archeologi, improntato sul riscontro certo delle fonti, a credenza popolare senza
neanche il rango di religione. Secondo Carandini il mito è molto di più. Il mito ha
avuto in epoca preistorica il ruolo che la storiografia ha occupato dal momento in cui
è apparsa la scrittura. La necessità di trasmettere le esperienze passate alle generazioni più giovani è da considerarsi probabilmente la causa principale della nascita
del linguaggio, la narrazione e il racconto sono il passo successivo. Per millenni gli
uomini preistorici si sono tramandati oralmente un corpus di storie vissute degne
di essere ricordate. In millenni di tradizione orale le informazioni si sono alterate,
la fantasia le ha arricchite, sicuramente molti aspetti sono stati dimenticati, alcune informazioni sono andate perdute, ma se una parte minima di questi racconti si
è conservata nell’immaginario della cultura fino ad arrivare alle epoche storiche,
quando è stata trascritta, attraverso la selezione durissima della memoria orale,
non possiamo certo trascurarne l’importanza.
Il mito, in questa interpretazione, rappresenta a nostro modo di vedere una delle attività umane più stupefacenti, un canale di comunicazione che utilizza un linguaggio
antico. In effetti se pensiamo che nell’opinione di molti studiosi i racconti Omerici
erano da considerarsi opere dell’immaginazione letteraria, anche quando Schliemann con l’Iliade in mano scopriva la civiltà micenea, ci accorgiamo che probabilmente il mito resta tale solo fino a quando non se ne trova il riscontro nella realtà dei
dati archeologici. Provando a banalizzare il concetto, il mito si potrebbe assimilare
a quelle bonarie bugie che gli anziani propinano ai piccoli per distoglierli da un’attività che essi considerano pericolosa. Esso si fonda quindi e trae la sua forza non da
una comunicazione razionale e dettagliata del pericolo, ma facendo leva sull’istinto
primordiale di sopravvivenza che accomuna tutti gli esseri viventi. Il messaggio è
semplice e chiaro: attento! Perché potresti morire! un messaggio che punta dritto
4 Mappe archeologiche di: Poseidonia-Paestum,
Agrigento, eraclea e Metaponto, Partenope-Neapolis,
taranto ed elea-velia (da: e. Greco, Archeologia della
Magna Grecia, laterza, Roma-bari 2000).
4
235
RISIGNIFICARE I LUOGHI
236
al subconscio fissandosi nella memoria di chi lo riceve. È come se spontaneamente
questa attività si sia stratificata nel corso della preistoria, complicandosi progressivamente e sfaccettandosi in mille storie ammonitrici, fino a essere codificata nella
scrittura. Abbiamo così provato a costruire un modello bi-logico del sistema territoriale della civiltà greca e, osservandolo nel suo processo di espansione spaziale,
abbiamo riscontrato dinamiche di rete facilmente interpretabili attraverso i modelli
di rete di piccolo mondo. In termini geografici, nell’insieme delle rotte navali che
ne hanno consentito l’espansione nel Mediterraneo e nella rete di vie istmiche che
collegavano le colonie magno-greche, in termini culturali, attraverso il racconto dei
miti fondativi in rapporto all’Oracolo di delfi. Attraverso un uso bi-logico dell’immaginario storico e mitico siamo stati quindi in grado di configurare un modello di connessioni concettuali tra gli elementi del sistema territoriale. Se osserviamo invece i
potenziali nodi della rete, questi appaiono organizzati in gerarchie che agiscono sul
territorio con finalità diverse e con strategie inintellegibili agli altri, sovrappongono
spesso le loro competenze, comunicano con grande sforzo e senza grandi risultati.
È proprio dall’interruzione di questo stato d’incomunicabilità che, a nostro avviso,
debba partire un’efficace strategia di valorizzazione. È necessario quindi individuare
una serie di interventi sullo spazio e sull’immaginario che realizzino spazi di comunicazione, traduzione e condivisione delle informazioni che facciano da ponti. Ad
esempio negli ultimi anni l’unesco ha adottato nuovi criteri di selezione che mirano
all’inclusione dei paesaggi culturali, questi nuovi criteri hanno aperto interessanti
sviluppi in materia di reti di valorizzazione. Questo nuovo indirizzo ha sortito a nostro
parere, ottimi risultati, non tanto per i fondi che ha messo a disposizione dei soggetti preposti alla tutela e alla gestione dei beni, quanto per il ruolo che ha svolto il
concetto di paesaggio culturale. Questo oltre a portare un contesto territoriale alla
ribalta globale è entrato di forza soprattutto nell’immaginario locale e ha introdotto
nel sistema quell’idea guida capace di attivare tutti gli attori territoriali, coinvolgendoli direttamente nel processo di valorizzazione del territorio. Il provvedimento ha
avuto anche il merito di attivare la comunità scientifica, che grazie alla sua struttura di rete precedentemente evidenziata, ha attivato una dinamica collaborazione
tra gli organismi di tutela al fine di redigere un piano di gestione dei beni culturali,
da un lato capace di assegnare a ognuno dei beni il suo rapporto con il patrimonio
immateriale, ovvero l’idea di paesaggio culturale individuata e segnalata all’unesco,
dall’altro in grado di venire incontro alle esigenze del territorio nella sua condizione
attuale. Le ricadute sul territorio del Piano di Gestione sono prodotte fondamentalmente attraverso due categorie d’intervento, una attuata attraverso un programma
di riqualificazione urbana e del paesaggio, l’altra costituita da un nuovo Piano per
le infrastrutture e per il turismo. La ri-scoperta di questo sistema territoriale potrebbe costituire quell’idea guida su cui puntare per valorizzare un insieme di tracce
che, se lette nel giusto modo, possono raccontare una storia molto interessante. La
storia della scoperta di un nuovo mondo, della nascita di splendide città in cui sono
nate, cresciute e hanno prosperato le prime generazioni di Greci d’Occidente, radice
culturale di un’Italia Meridionale che troppo velocemente sta dimenticando il suo
passato e le sue origini più profonde.
In stratified spheres, the urban or landscape transformation operations have, first
of all, the task of re-establishing an equilibrium in the relationship between identity
and memory. This necessarily passes through the symbolic mediation of Historic
Objects and Cultural Assets, to the extent that they are tied to the collective imagination. The strategy for enhancing archaeological assets, which we have called the
“territorial archaeological network”, is nothing more than the definition of a field
of action on which it is possible to connect the scientific community and the local
actors on the basis of a shared cultural project, a narrative thread based on the
archaeological datum, a sort of guiding idea. The network reading of the system
makes it possible to adapt some of the theoretical-mathematical models typical of
the science of complex networks – and in particular of a new principle highlighted by
the studies of Steven Strogatz – which seems to be able to finally reveal the secret
of the efficiency of complex networks, i.e. the collective dynamics of the small world
networks. It is a concept borrowed from sociology, on the basis of which the Web,
Internet, and social networks all work.
The study of the network model has been elaborated through the observation of the
connectivity existing among the components scattered around the territory (cities,
archaeological sites, museums, research centres, public and private institutions,
libraries, etc.) which may in some way be connected with a specific conceptual system. Applying the model to the archaeological sites in the Mediterranean area,
we have identified several subsystems of elements ordered through the historic
interpretation of the urban phenomenon and the settlement systems. It is a process which we have called “archaeology of the territorial system”, a sort of study on
the genesis of the historic-cultural landscape. But both in the story of ancient geography and in the chronicles of territorial management, the ancient sources seem
to use a dual logic, a bi-logic which, according to Andrea Carandini, is the capacity
of our mind to use two logics with different rules at the same time, one rational and
abstract, the other unconscious and symmetrical. The bi-logical use of the historic
and mythical imagination is the key for configuring, even today, a model of efficient
conceptual connections among the elements of the archaeological territorial system. These elements appear, instead, to be organized in rigid hierarchies, act on
the territory with different aims and strategies, often overlap their spheres of action,
and communicate with great effort and without particularly good results. It is precisely from the interruption of this state of incommunicability that, in our opinion, an
effective enhancement strategy must start. This can be accomplished by means of
management plans and intervention programmes aiming precisely to design and
create efficient configurations of the territorial archaeological networks.
tHe teRRitoRiAl
ARCHAeoloGiCAl NetWoRKs
ABSTRACT
237
MAGnA GRECIA
teMPo, sPAZio, luoGHi e ARCHeoloGiA
RISIGNIFICARE I LUOGHI
Antonino Minniti
238
Patrimonio e risorse. Innanzi tutto, porsi una domanda è d’obbligo: l’archeologia nel suo insieme può rappresentare
una risorsa per il Meridione d’Italia?
Probabilmente no, non quella classica
per lo meno, comunque non adesso,
sicuramente non con le sue sole forze.
Allo stato dell’arte, infatti, è impossibile
considerare il patrimonio archeologico
greco/romano del Meridione un volano
di sviluppo per due precisi motivi: primo per la mancanza di capacità evocativa dei reperti, dovuta ad una presenza
sul territorio frazionata e spesso sommersa e secondo, per l’evidente scarsa
monumentalità dei siti stessi, che tranne in rari casi, vedi Sibari e Locri, contengono flebili tracce di un passato più
da raccontare che da osservare.
Eppure il valore simbolico che le preesistenze storiche tramandano costituisce un bene inestimabile, il presupposto della cultura di un popolo ed è
per questa ragione che attribuire alla
forza delle idee una concreta possibilità di cambiamento non risulta del tutto
vano. L’obiettivo è quello di recuperare
interesse ed attenzione per un patrimonio che è bene comune, ma che soggiace lontano da un rapporto concreto
con il vivere quotidiano.
In effetti bisogna ricordare che il modo
di intendere l’archeologia a cui fa riferimento questo programma di ricerca,
nella misura e negli intendimenti, è di
recentissimi natali e, anche alla luce
della particolare congiuntura economica, rischia di porre questioni di difficile
soluzione. Eppure proveniamo da una
storia recente di ben altro spessore.
Per alcuni ancora riecheggiano le sofisticate note prodotte dai Pink floyd
nella loro memorabile performance
al teatro di Pompei. Rumori, forse per
alcuni, ma comunque memorie sonore, sicuramente più gradevoli dei colpi
sordi provocati dagli ultimi crolli. Se
non ricordo male eravamo agli inizi
degli anni ’70 e l’archeologia, a quanto
pare, era parte integrante della cultura
più sperimentale. E come dimenticare
gli anni ’80, con la splendida intuizione
di restituire dignità e vita ai centri storici attraverso attività culturali ed artistiche, come se l’energia prodotta dalle
arti fosse la panacea di tutti i mali. una
parte di verità e di concretezza appartiene a tutte queste storie e risiede
nella capacità di soddisfare un’istanza
inconscia per l’intera società moderna, la necessità di memorie per potersi
confrontare con il presente.
In tutto questo l’ambiente archeologico
potrebbe ritrovare una sua centralità
solo ed esclusivamente attraverso un
processo osmotico in cui le componenti della modernità si uniscono a quelle
del passato fino a creare una zona di
concreta mediazione tra il significato
dell’antico e il ruolo di questo nel contemporaneo.
Magna Grecia. nel caso specifico della
Calabria definire le necessarie strategie utili ad un produttivo e corretto uso
delle aree archeologiche ha il sapore di
un’impresa ancor più titanica di quelle
narrate dai miti fondativi delle stesse
città della Magna Grecia. Il tempo dei
Gran Tour è finito e la visione romantica di una terra aspra e selvaggia, ricca
di antiche vestigia oggi non è più tale.
È tramontata anche l’era delle grandi
infrastrutturazioni e dell’espansione
edilizia, che avrebbero dovuto modernizzare e riunificare il paese nel grande
sogno del benessere comune. Le conseguenze di questo processo si possono facilmente comprendere in Calabria
più che altrove. Ciò che era bene materiale o monumentale si è ridotto a simbolo o peggio ancora a sterile materiale
di studio per pochi eletti.
La memoria è stata “reinterrata” sottraendosi di fatto al confronto con l’epoca moderna e le sue contraddizioni.
Se altrove la forza del passato è riuscita a sopravvivere, nel territorio calabrese il rapporto tra passato e presente ha manifestato aspetti conflittuali.
Lo “stato di necessità”, sembra essere
il presupposto fondativo di tutte le politiche locali. nel corso del tempo non è
mai venuto meno, anzi si è ripresentato
sotto diverse forme, diventando di fatto, l’unico strumento per affrontare le
scelte di risanamento e sviluppo.
La logica conseguenza a questa atavica mancanza di strategia nel breve,
medio o lungo periodo, ha prodotto una
serie di distorsioni dell’intero sistema
territoriale tanto da generare fenomeni che hanno assunto lo status di tratti
distintivi del territorio stesso. Mi riferisco in particolare all’abusivismo edilizio, ormai immagine prevalente del
paesaggio, piuttosto che al degrado del
panorama costiero, violentato e compromesso da una indiscriminata politica di gestione delle risorse idriche e dei
bacini fluviali che, a valle dei fenomeni
di erosione, ha determinato una miriade di interventi di protezione delle coste
altrettanto invasivi, quanto non sempre
utili.
Alcuni dati parlano di circa un abuso
edilizio accertato ogni 100 metri di costa, quindi siamo in presenza di un fenomeno che ha saturato fisicamente lo
spazio tra mare e fascia collinare. La
collocazione degli insediamenti sulla
costa calabrese assume a volte l’aspetto di una città continua, addensatasi ai margini delle uniche vie di comunicazione che collegano i diversi centri
urbani e che ricalcano ancora i tracciati
realizzati all’inizio del secolo scorso,
se non addirittura di traccia Borbonica.
Questa stretta striscia di terra, che solo
in rari casi si apre in pianure alluvionali
consolidate di grande estensione, ha da
sempre rappresentato l’unica via di accesso per i popoli dal mare, così come
nella modernità ha rappresentato l’unico spazio disponibile alla creazione di
nuovi insediamenti. L’immagine che ci
riporta questa situazione è il risultato
di una sovrapposizione irregolare, caotica, nella quale il presente ed il passato configgono. L’archeologia a volte è
considerata un bene privato, altre volte
un ostacolo all’utilizzo delle esigue risorse territoriali. Se nel nostro paese
la stratificazione delle città ha da sempre rappresentato un prezioso bacino
di informazioni ed i monumenti sono
una risorsa riconosciuta, in Calabria
invece abbiamo assistito alla progressiva cancellazione di gran parte delle
tracce tangibili e concrete dell’evoluzione storica delle città. Laddove la natura con le sue calamità non è riuscita
ad arrivare vi è riuscita l’opera dell’uomo. A tal proposito basta citare gli
esempi di Reggio Calabria e Crotone,
dove le attività di pianificazione e sviluppo urbano hanno irrimediabilmente
compromesso la visibilità dei tracciati
delle città di fondazione magno-greca.
In questo panorama, il processo di
reinterpretazione delle aree archeologiche in Calabria passa necessariamente attraverso un processo di
relazione ed interazione tra le diverse
componenti territoriali, ricercando le
possibili soluzioni all’interno di equilibri più complessi.
La questione urbana, la dimensione
ambientale, i problemi infrastrutturali,
le capacità gestionali, le competenze
amministrative, le dimensioni fisiche
dei siti concorrono, in maniera percentualmente diversa, a generare una
moltitudine di realtà locali che rendono complesso ed arduo individuare una
soluzione se non attraverso una strategia univoca.
È necessaria una visione di insieme,
che riesca a coniugare le peculiarità
locali con i sistemi territoriali di riferimento al fine di attivare processi
realmente efficaci e concretamente
realizzabili. Ed è appunto lo stato di
abbandono dei sistemi infrastrutturali
e di trasporto, l’irrisolta gestione dello sviluppo urbano, la pessima qualità
edilizia che possono essere affrontati
grazie ad una strategia di interazione
con la risorsa archeologica.
La scelta del settore jonico della costa
calabrese come luogo di sperimentazione e verifica di un programma di
valorizzazione delle aree archeologiche non è casuale. nasce da alcune
considerazioni circa le risorse presenti sul territorio. Queste si soffermano
sulle caratteristiche delle singole aree
archeologiche, sugli aspetti funzionali e tipologici dei tessuti urbani di ri-
239
1
tiMe, sPACe, PlACes,
ANd ARCHAeoloGY
3
2
ABSTRACT
RISIGNIFICARE I LUOGHI
4
240
5
6
1 Reggio Calabria, terme romane.
2 segesta, teatro greco.
3 Agrigento valle dei templi, allestimento i. Mitoraj.
4 Rodi, area archeologica.
5 locri, teatro greco.
6 isola di Creta.
ferimento, sul paesaggio circostante
e sulle sue specificità, sui sistemi di
trasporto. Ma nasce anche dalla convinzione che è possibile correggere il
trend negativo dell’abbandono e del degrado di questi territori attraverso una
rilettura di alcune realtà, che al momento appaiono compromesse, e che
invece, coniugate al percorso della memoria, dettato dalla rete archeologica,
potrebbero ritrovare nuova linfa vitale.
Innanzi tutto il rapporto tra le caratteristiche del paesaggio naturale e la
fondazione delle città magno-greche
risulta essere assolutamente condizionato da precisi requisiti di carattere
morfologico. I luoghi adatti ad insediare
le nuove città furono scelti per la presenza di acqua, per la vicinanza di aree
coltivabili, da cui ricavare fonti di so-
stentamento e dalle necessità militari
di dare una difesa efficace alle nuove
colonie. Ed è in questi luoghi che oggi
possiamo rilevare favorevoli congiunture, utili a supportare la possibilità di
far rivivere il mito (rappresentato dalle
città di Reggio, Locri, Crotone e Sibari)
accanto agli elementi della recente antropizzazione.
La linea ferrata, ad esempio, ad oggi
rappresenta uno dei “rami” da tagliare
all’interno delle politiche aziendali nazionali, invece potrebbe rappresentare
il vettore di spostamento tra le grandi
città della Magna Grecia. L’obiettivo?
Trasformare un settore in crisi in un
comparto economicamente rivitalizzato dal rapporto con l’archeologia.
Il medesimo contesto territoriale ci
offre inoltre indiscutibili elementi di
pregio paesaggistico, quali il mare che
costituisce la persistenza visiva più importante, il sistema collinare delle falde dell’Aspromonte, che conserva l’intero patrimonio identitario e culturale
della fascia jonica calabrese assieme
ad un alto valore paesaggistico ed ambientale.
E non possiamo dimenticare certo il
rapporto che intercorre tra tessuti urbanizzati e aree archeologiche, laddove
a poche decine di metri dal medesimo
mare, attraversate dalla medesima
ferrovia, le città del passato non riescono a dialogare con la città del presente senza rendersi conto che solo
una integrazione di funzioni e di dialogo
funzionale le salverà entrambe.
In stratified spheres, the urban or landscape transformation operations have,
first of all, the task of re-establishing an
equilibrium in the relationship between
identity and memory. This necessarily
passes through the symbolic mediation
of Historic Objects and Cultural Assets, to
the extent that they are tied to the collective imagination. The strategy for enhancing archaeological assets, which we have
called the “territorial archaeological network”, is nothing more than the definition
of a field of action on which it is possible
to connect the scientific community and
the local actors on the basis of a shared
cultural project, a narrative thread based
on the archaeological datum, a sort of
guiding idea. The network reading of the
system makes it possible to adapt some
of the theoretical-mathematical models
typical of the science of complex networks
– and in particular of a new principle highlighted by the studies of Steven Strogatz
– which seems to be able to finally reveal
the secret of the efficiency of complex
networks, i.e. the collective dynamics of
the small world networks. It is a concept
borrowed from sociology, on the basis of
which the Web, Internet, and social networks all work.
The study of the network model has been
elaborated through the observation of
the connectivity existing among the components scattered around the territory
(cities, archaeological sites, museums,
research centres, public and private institutions, libraries, etc.) which may in
some way be connected with a specific
conceptual system. Applying the model
to the archaeological sites in the Mediterranean area, we have identified several subsystems of elements ordered
through the historic interpretation of the
urban phenomenon and the settlement
systems. It is a process which we have
called “archaeology of the territorial system”, a sort of study on the genesis of the
historic-cultural landscape. But both in
the story of ancient geography and in the
chronicles of territorial management, the
ancient sources seem to use a dual logic, a bi-logic which, according to Andrea
Carandini, is the capacity of our mind to
use two logics with different rules at the
same time, one rational and abstract, the
other unconscious and symmetrical. The
bi-logical use of the historic and mythical imagination is the key for configuring,
even today, a model of efficient conceptual connections among the elements
of the archaeological territorial system.
These elements appear, instead, to be
organized in rigid hierarchies, act on the
territory with different aims and strategies, often overlap their spheres of action,
and communicate with great effort and
without particularly good results. It is precisely from the interruption of this state
of incommunicability that, in our opinion,
an effective enhancement strategy must
start. This can be accomplished by means
of management plans and intervention
programmes aiming precisely to design
and create efficient configurations of the
territorial archaeological networks.
241
SQuILLACE
GioCARe A dAdi CoN il teMPo
RISIGNIFICARE I LUOGHI
Alberto fiz
242
Arte e archeologia. Intersezioni è un
progetto particolarmente importante
che si svolge a Scolacium, uno dei siti
archeologici più affascinanti della Calabria. All’interno di questo luogo così
carico di memoria, fondato dai Greci,
trasformato dai Romani e tornato in
auge nel periodo normanno, si è innestata l’arte contemporanea. dal 2005
a oggi sono state sette le edizioni di
Intersezioni organizzate a Scolacium
e hanno coinvolto alcuni dei maggiori
esponenti dell’arte plastica contemporanea: Stephan Balkenhol, daniel
Buren, Tony Cragg, Wim delvoye, Jan
fabre, Antony Gormley, dennis Oppeheim, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Marc Quinn, Mauro
Staccioli. Prima di entrare nel merito
del progetto e delle sue specifiche caratteristiche, vorrei analizzarne una
componente distintiva che lo ha reso
unico. Ovvero il fatto che dalle mostre
organizzate ogni estate a Scolacium,
ne è emersa una collezione permanente tra le più importanti del Mezzo-
giorno. Ogni edizione, infatti, prevede
un acquisto a prezzi particolarmente
favorevoli di una o più opere da collocare all’interno del Parco della Biodiversità di Catanzaro, diventato, così, il
Parco Internazionale della Scultura.
Attualmente sono ventitré le opere
custodite in quel contesto con tutti gli
artisti rappresentati. Si tratta di un
vero e proprio fiore all’occhiello per la
città di Catanzaro, che intorno a quelle
opere si è riconosciuta. Va sottolineato
come tutto ciò, Intersezioni e il Parco
Internazionale della Scultura, rappresenti un esempio di buona politica in
base ad un progetto sostenuto con forza dalla Provincia di Catanzaro guidata dal presidente Wanda ferro (ad iniziarlo era stato Michele Traversa) che,
in tal modo, ha saputo incrementare il
patrimonio culturale e artistico della
città lasciando un segno indelebile. Al
contrario di quanto sovente accade, la
politica ha saputo essere lungimirante
non lasciandosi sedurre dall’effimero.
Il progetto non sarebbe stato possibile
senza la fondamentale collaborazione
di francesco Prosperetti, direttore
Regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Calabria e di Maurizio
Rubino, responsabile dell’ufficio Cultura della Provincia di Catanzaro.
fatte queste considerazioni, vorrei
sottolineare il valore culturale di Intersezioni che ha saputo rimettere in gioco la relazione tra antico e moderno.
Ciò che è avvenuto a Scolacium va considerato come un processo di sincretismo dove l’archeologia non rappresenta il contesto esotico o straniante
che fa da cornice all’arte contemporanea. Al contrario, siamo di fronte ad
una rigenerazione della memoria dove
il patrimonio archeologico sviluppa la
propria energia vitalistica diventando esso stesso parte integrante di un
nuovo percorso. Sappiamo bene che il
passato non passa; nello stesso tempo la caratteristica intrinseca della
contemporaneità è quella di assorbire
tutti i tempi. Come ha affermato Jacques derrida, “il nostro tempo è forse
il tempo in cui non si può dire ‘il nostro
tempo’”; l’arte contemporanea ha la
peculiarità di sapersi muovere intorno
al tempo, e sembra recitare le parole
di Amleto “time is out of joint”.
Questa idea di un tempo disarticolato,
come l’acqua di un fiume che esce dal
proprio letto, è, a mio avviso, l’esatta
immagine della situazione in cui stiamo vivendo. Basti pensare che con le
dimissioni di Papa Ratzinger è tornato
di attualità un avvenimento di oltre 700
anni fa, dal momento che le cronache
hanno rispolverato un episodio che
sembrava seppellito come le dimissioni di Celestino v. Se da un lato il tempo
recupera il tempo, dall’altra ciò che è
accaduto qualche mese fa, magari in
relazione con le roboanti dichiarazioni che hanno animato la campagna
elettorale, sembra lontanissimo e del
tutto inefficace. Anche l’accelerazione
tecnologica ci ha messo di fronte alla
precarietà e un arazzo del 1600 sembra più contemporaneo rispetto ad un
obsoleto pc di soli dieci anni fa che appare totalmente analfabeta, non più in
grado di leggere i programmi.
Il tempo, dunque, si riavvolge in maniera disordinata prendendo strade
impreviste. dimenticare a memoria,
espressione utilizzata per la prima
volta da Vincenzo Agnetti, è, oramai,
un nostro vizio di forma. Così il contemporaneo si trova in mezzo al crocevia creando continue interferenze.
l’esperienza di scolacium. A Scolacium
è avvenuto tutto questo, nel senso che
i luoghi già di per sé contaminati dalla
storia, sono diventati per gli artisti elementi processuali e quello che poteva
essere un tempo congelato è diventato
un tempo attivo. Si trasforma il rapporto
con il luogo, anche con le sue rovine. A
proposito di rovine, ho avuto un divertente dialogo con daniel Buren che ha
realizzato l’edizione 2012 di Intersezioni.
L’artista francese voleva intitolare la sua
mostra Construire sur des ruines, d’un
éphémère à l’autre. Travaux in situ. Buren
insisteva su questo concetto di rovine;
io, invece, ero assai più cauto e cercavo
di spiegargli che il suo progetto sarebbe
stato letto in chiave negativa. Alla fine
di questa discussione siamo arrivati,
con qualche resistenze da parte sua,
a intitolare la mostra Construire su des
vestiges, d’un éphémère à l’autre. Travaux
in situ. una disputa dialettica non inutile
dal momento che ruines, in francese, ha
un valore differente rispetto all’italiano
che ne dà una connotazione dispregiativa lasciando presagire non solo un luogo precario, ma anche incolto e disfatto.
A ben vedere, la rovina, nel suo significato etimologico, assume per l’arte
contemporanea un ruolo assolutamente determinante. Alfredo Pirri
sostiene che la rovina è la parte di un
tutto che va in qualche modo riempita,
che va ricontestualizzata; non è, quindi, un reperto morto, ma luogo integrante del nostro modo di guardare al
passato.
In tal senso, l’antico si modifica in relazione al nostro sguardo. Probabilmente, se la nike di Samotracia fosse
stata una figura completa, non avrebbe avuto lo stesso fascino tanto da diventare, persino per i futuristi, un simbolo. Chissà, forse, come ha affermato
Marc Augé, il problema della storia
futura sarà quello che non produrrà
più rovine perché non ne avrà il tempo.
La contemporaneità, nella sua azione
orizzontale, ingloba stili e linguaggi
differenti in un presente dov’è facile
perdere la bussola. E questo aspetto
potrebbe avere ampi risvolti sul sistema culturale. In Italia e, a maggior
ragione nel Sud, si può tranquillamente lavorare su luoghi contaminati evitando il mito del White Cube, il Cubo
Bianco, il contenitore asettico di candida purezza, assai poco indicato per
situazioni dove la storia è dappertutto.
Meglio, dunque, creare luoghi d’intervento ibridi, attivi in più direzioni e,
non a caso, tutta la programmazione
che ho realizzato parte dall’idea di una
naturale contaminazione. Il museo
marca di Catanzaro, per esempio, realizza mostre di arte contemporanea
in un contesto dove viene presentata
permanentemente una collezione che
spazia dal ’400 all’800 con opere provenienti dalla raccolta della Provincia
di Catanzaro. La contaminazione domina il parco di Scolacium, così come
il Parco della Biodiversità di Catanzaro
su cui, come vi ho spiegato, è stata innestata la collezione internazionale di
scultura contemporanea.
Gli artisti che sono intervenuti a Scolacium l’hanno fatto sempre in maniera
molto personale raggiungendo risultati di assoluto interesse con risvolti
talvolta inediti anche rispetto alla loro
ricerca. Ecco alcune considerazioni.
La prima edizione ha coinvolto Tony
Cragg, Jan fabre e Mimmo Paladino,
tre artisti che lavorano sulle immagini
recondite portando alla luce un’archeologia sotterranea.
Cragg, per esempio, ha creato un progetto all’interno del foro romano collocando le sue Early forms in bronzo.
Si tratta di forme archetipali primare,
che contengono la storia, la memoria
del loro essere: “Io cerco associazioni,
243
1
2
RISIGNIFICARE I LUOGHI
1 t. Cragg, Cast Glances , 2002, riprodotta
accanto a un particolare di seven times di Antony
Gormley, esposte al Parco internazionale della
scultura.
2 J. Fabre, L’uomo che misura le nuvole, 1998, esposta al Parco internazionale della scultura.
3 d. buren, Ponctuer l’espace, 55 tambours pour
le Forum, 2012, travail in situ.
4 M. staccioli, Catanzaro ’11, attualmente al Parco
internazionale della scultura.
5 Mimmo Paladino, I Dormienti, 1998.
6 A. Gormley, Seven Times, 2006, opera esposta al
Parco internazionale della scultura.
244
3
immagini e simboli che possono arricchire e allargare il mio vocabolario
di risposte al mondo che vedo e che
potrebbero anche fungere da modelli
mentali”, ha affermato Cragg.
Jan fabre, invece, è intervenuto all’interno della Basilica normanna dove
ha collocato “Questa pazzia è fantastica!” un’installazione che raffigura
sette grandi vasche in vetro che ricordano i bagni romani. Tali oggetti,
tuttavia, sono stati trasformati dalla
colorazione blu ottenuta con l’inchiostro, una sorta di scrittura automatica
che rappresenta il marchio di fabbrica
dell’artista belga in grado di modificare la natura stessa degli oggetti. Sono
presenze di un viaggio nell’inconscio
dove la scultura perde la sua connotazione originaria, tattile e materica, per
trasformarsi in un processo visivo, a
tratti fantastico e irreale.
Quanto a Mimmo Paladino, l’artista
forse più vicino antropologicamente
al contesto del parco archeologico,
da alchimista inconsapevole sviluppa la forma segnica e ancestrale del
linguaggio riproponendo il significato
4
primario in una spettacolarizzazione
della storia che giunge sino alla catarsi. L’artista ha inserito all’interno
del Teatro romano Dormienti che appaiono come spettatori inconsci, come
simualcri misteriosi, custodi di un’immagine latente e segreta.
Particolarmente emblematico è stato l’intervento di Antony Gormley che
ha caratterizzato la seconda edizione
di Intersezioni. L’artista inglese ha realizzato Time Horizon, un’installazione
con cento sculture in ferro collocate in
maniera tale da creare un’unica linea
dell’orizzonte. Per questa ragione il
progetto ha come punto di riferimento il foro romano, la piazza principale
della colonia Minervia Scolacium e da
qui l’artista traccia la sua linea immaginaria che va a coinvolgere ogni
angolo del parco. Il foro, che originariamente era collocato tra i due assi
viari della città, diventa vincolante per
l’intera installazione trovandosi a una
quota più bassa rispetto al resto del
parco. Questo comporta una dinamica
interna all’installazione e, a seconda
della collocazione, le sculture emer-
6
5
gono e s’inabissano proprio come la
monumentalità del parco con le sue
infinite diramazioni venose sopra e
sotto la superficie. Gormley sceglie di
affidare ai calchi del suo corpo il compito di partecipare in maniera panteistica all’estensione fisica del mondo.
E questo avviene attraverso la materializzazione dello spazio interno che
si esplica nel gesto inconscio dell’espirazione e dell’inspirazione. Corpo,
natura e storia, dunque, s’integrano
alla perfezione nel lavoro di Gormley.
Intersezioni 3 ha come protagonisti
Stephan Balkenol, Wim delvoye e Marc
Quinn, tre artisti che lavorano sugli
stili e ripropongono i segni in base ad
una logica rinnovata: Balkenol colloca
Das Boot, un’antica imbarcazione in legno di otto metri all’interno della Basilica normanna che assume l’aspetto di
un porto ancestrale. Sui lati del veliero
sono intagliate, in senso opposto, due
immagini, una femminile e una maschile, che sembrano distendersi nello
spazio. Das Boot appare come un relitto che, sorprendentemente, torna alla
luce in un contesto che gli è estraneo.
Ebbene, tutta l’indagine di Balkenhol
gioca sull’ambivalenza tra l’apparenza
monumentale e la negazione del pathos, tra l’essere e il divenire.
Wim delvoye va incontro all’utopia del
paradosso e compie la sua operazione espropriando gli oggetti dalla loro
sede e dalla loro funzione. nel caso
di Intersezioni sono stati depositati nel
foro romano due caterpillar in ferro
larghi tre metri e mezzo e alti nove
creando un evidente spaesamento. Le
macchine inutili dell’artista belga, in
stile neogotico, sono approdate nella città sommersa dove si conducono
gli scavi. un cortocircuito della storia
dove il segno diventa totalizzante e
delvoye impone all’oggetto una precisa volontà perturbante rimettendo
in gioco le categorie del tempo e dello
spazio.
L’intervento di Marc Quinn ha come
scenario il Teatro romano. Qui ha collocato una serie di opere della serie
Flesh dove quarti di animali sono stati
disposti come fossero guerrieri o figure eroiche. Le carni, fuse in bronzo,
dall’aspetto sorprendentemente an-
tropomorfo, rappresentano il soggetto di un’opera dove l’immagine va a
coincidere con la sua essenza. Quinn
celebra le Flesh come fossero personaggi della mitologia o della leggenda
in una sorta di putrefazione metaforica del monumento che entra nella nostra sfera del quotidiano. Ma l’artista
inglese interviene anche all’interno
del Museo Archeologico del parco e in
questo caso cerca il confronto con le
statue romane acefale che entrano in
relazione con le sue figure menomate, dove il frammento non è più metonimico, bensì diventa l’elemento che
sta alla base di un nuovo principio di
unitarietà.
Proseguendo in questa breve carrellata, la quarta edizione di Intersezioni
è stata dedicata all’artista americano
dennis Oppenheim che s’impadronisce del parco creando situazioni totalmente imprevedibili che modificano radicalmente il paesaggio. Ciò che
appariva stabile, entra definitivamente in crisi sviluppando una precarietà consustanziale al suo stato. nel
foro romano, per esempio, colloca
245
7
RISIGNIFICARE I LUOGHI
7 M. quinn, Peter Hull, 1999, all’interno del Museo
Archeologico di scolacium.
8 s. balkenhol, senza titolo (uomo e ballerina),
2005, opera esposta al Parco internazionale della
scultura.
9 W. delvoye, Dump Truck, 2006, esposta al Parco
internazionale della scultura.
10 M. Pistoletto, I Temp(l)i cambiano, Terzo
Paradiso, 2010, attualmente al Parco
internazionale della scultura.
11 d. oppenheim, electric Kisses , 2009,
attualmente al Parco internazionale della
scultura.
246
8
i Tumbling Mirage, miraggi che fanno venire in mente navicelle spaziali,
mentre all’ingresso del parco vengono collocati i Safety Cones dove tre
immensi coni stradali, come quelli che
fiancheggiano i lavori in corso, sono
contrappuntati da una serie di finestrelle a forma di oblò che deviano il
senso dell’oggetto personalizzandolo
attraverso la simulazione dell’habitat.
Splashbuilding, poi, sono grandi sculture in plastica trasparente che simulano l’esplosione delle gocce d’acqua
o gli Electric Kisses appaiono come due
grandi installazioni dove la forma dei
cioccolatini americani diventa l’occasione per realizzare un’unità abitativa.
Insomma, la geometria instabile, la
disarticolazione delle forme, la trasformazione d’uso e il perenne stato
di alterità, sono alcuni degli aspetti
essenziali che hanno caratterizzato la
ricerca di Oppenheim e hanno consentito di trasformare drasticamente la
visione del parco di Scolacium.
dopo Oppenheim, è giunto Michelangelo Pistoletto, un artista che ha fatto
del tempo un elemento fondamenta-
le della sua indagine. Basti pensare
ai suoi quadri specchianti che hanno
fatto il loro ingresso sul palcoscenico
dell’arte nel 1962 sconvolgendo il sistema visivo. Lo specchio, infatti, apre
una prospettiva multipla che, come
l’artista afferma, “ci costringe a considerare lo spazio e il tempo che si
estendono dietro di noi riconfigurando
il passato e il presente come parti integranti di una prospettiva futura.” In tal
senso appare emblematica la Venere
degli stracci in cui la Venere viene vista
di spalle, come se fosse allo specchio,
immersa nei cenci colorati. La statua
classica entra nella vita e, nello stesso tempo, la bellezza attrae a sé gli
stracci. La relazione tra passato e futuro, poi, trova il suo pieno compimento nelle due grandi installazioni realizzate specificatamente per Intersezioni,
in particolare I Temp(l)i cambiano-Terzo
Paradiso e Il DNA del Terzo Paradiso. nel
primo caso il tempio dalla forma classica si specchia in Chronos: quando i
tempi cambiano, i templi cambiano di
significato, sembra dirci Pistoletto.
L’artista innesca un processo di cam-
9
10
biamento dove il simbolo per eccellenza dell’epoca classica determina un
rapporto dinamico e sinergico con la
trasformazione del presente. L’opera è
creata con materiali di riciclo a dimostrazione di un reciproco scambio con
l’industria e in questo caso le colonne del tempio vengono realizzate con
i cestelli di lavatrici, mentre le serpentine di frigoriferi diventano il basamento e il timpano facendo scoccare
un processo di contaminazione e di
ibridazione dei materiali che assume
su di sé la responsabilità di una nuova
ritualità ecologica della bellezza. La
storia è una forma di eterno riciclo che
contiene il dna e, non a caso, proprio a
questo concetto si è ispirato il grande
lavoro concepito appositamente per il
foro romano con i tubi colorati utilizzati per coprire i cavi pericolosi sulle
strade.
Il dna , che contiene il tracciato ereditario e indica il cammino del nostro
domani si concretizza nel Terzo Paradiso, il nuovo segno dell’infinito formato da tre cerchi. Il cerchio centrale è
la fusione dei due paradisi precedenti,
11
quello naturale e quello artificiale tanto da diventare il grembo generativo di
una nuova fase evolutiva.
La storia di Intersezioni prosegue con
Cerchio imperfetto di Mauro Staccioli,
un altro grande progetto che ha occupato l’intera superficie del parco. L’indagine si colloca nell’ambito dell’arte
ambientale e le sue sculture hanno
la caratteristica di essere opere che
abitano lo spazio. Staccioli è intervenuto sulla memoria immanente del
luogo ispirando una nuova fruizione
della storia non più legata alla contemplazione ma alla sua rigenerazione, come emerge da Catanzaro ’11, la
grande scultura in acciaio corten di
otto metri d’altezza, così come da Sinistra a destra, il grande arco collocato
all’interno del Teatro romano. L’antica
Minervia Scolacium crea un rapporto
osmotico con le opere di Staccioli che
partecipano al processo di sedimentazione e respirano all’unisono con
l’ambiente. Talvolta, poi, gli equilibri
precari della storia vengono alterati,
come accade per Diagonale rossa, un
plinto di 25 metri che taglia la navata
della Basilica normanna sino a conficcarsi nell’oculo costruito sulla facciata. Si ha l’impressione che l’artista,
con il suo gesto, metta il dito nell’occhio del ciclope che si affaccia all’ingresso del parco. A questo proposito
può essere utile ricordare le parole
scritte da Staccioli nel 1976 ma ancora
attuali per comprendere il suo approccio linguistico: “Le mie sculture non
sono pensate come oggetti di abbellimento stabile, come monumenti, non
illustrano o celebrano un evento; sono
strumenti di provocazione di coinvolgimento e di rilevamento critico, richiamo e condizione esistenziale presente,
occasione di una discussione pubblica
collettiva”.
nel 2012 a Scolacium è approdato daniel Buren che, nonostante la sua lunga e gloriosa carriera, non aveva mai
realizzato, prima di allora, un intervento così ampio e articolato in un parco archeologico. L’artista francese ha
costruito una nuova narrazione senza
mai prevaricare l’architettura del luogo. dietro alle sue installazioni c’è un
gioco sottile che gli ha consentito di
247
RISIGNIFICARE I LUOGHI
248
accentuare linee di forza già esistenti,
di riempire dei vuoti, di sdoppiare forme geometriche semplici, disegnare
linee nello spazio e rivelare altezze
o, ancora, reinterpretare l’archeologia ritrovando colonne che non sono
mai esistite. Che la costruzione si sviluppi intorno a un paesaggio mentale
lo dimostra, in primo luogo, l’azione
condotta sulla Basilica di Santa Maria
della Roccella dove Buren crea due
finestre colorate rosse e gialle, riempiendo una fenditura e l’oculo ellittico
sulla facciata. Il Foro, invece, è oggetto di una fantastica ricostruzione dove
l’artista reinventa un colonnato formato da 53 elementi in legno partendo dai frammenti esistenti. In questo
caso il luogo dell’archeologia appare
come l’elemento ispiratore di un progetto architettonico che sfida il tempo
e lo spazio. di natura del tutto eccezionale è, poi, l’intervento ideato per il Teatro romano dove Buren ha concepito
una struttura specchiante di oltre 30
metri di lunghezza e di oltre tre metri d’altezza che, collocata al centro,
permette di raddoppiare l’immagine
dell’antica costruzione sviluppando
un contesto visivo dove la percezione
del luogo subisce una progressiva trasformazione riflettendo e nello stesso
tempo occultando lo spazio.
A tutto ciò si aggiunge Cabane éclatée
aux 4 couleurs: travail in situ, una struttura esplosa che si apre al vuoto e assorbe il luogo che la circonda condividendone l’esistenza.
Ecco, in breve, la storia di Intersezioni,
un progetto che ha creato una nuova
fruizione dell’arte uscendo da ogni
convenzione. Gli artisti hanno saputo
agire in sinergia con la storia sapendo
bene che, come diceva Eraclito, il tem-
po è un fanciullo che gioca spostando
i dadi. Sono convinto che Scolacium
porterà con sé, per sempre, le tracce
di Intersezioni.
RolliNG diCe WitH tiMe
ABSTRACT
In stratified spheres, the urban or landscape transformation operations have,
first of all, the task of re-establishing an
equilibrium in the relationship between
identity and memory. This necessarily
passes through the symbolic mediation
of Historic Objects and Cultural Assets,
to the extent that they are tied to the collective imagination. The strategy for enhancing archaeological assets, which we
have called the “territorial archaeological network”, is nothing more than the
definition of a field of action on which it
is possible to connect the scientific community and the local actors on the basis
of a shared cultural project, a narrative
thread based on the archaeological datum, a sort of guiding idea. The network
reading of the system makes it possible
to adapt some of the theoretical-mathematical models typical of the science of
complex networks – and in particular of
a new principle highlighted by the studies of Steven Strogatz – which seems to
be able to finally reveal the secret of the
efficiency of complex networks, i.e. the
collective dynamics of the small world
networks. It is a concept borrowed from
sociology, on the basis of which the Web,
Internet, and social networks all work.
The study of the network model has been
elaborated through the observation of
the connectivity existing among the components scattered around the territory
(cities, archaeological sites, museums,
research centres, public and private institutions, libraries, etc.) which may in
some way be connected with a specific
conceptual system. Applying the model
to the archaeological sites in the Mediterranean area, we have identified several subsystems of elements ordered
through the historic interpretation of the
urban phenomenon and the settlement
systems. It is a process which we have
called “archaeology of the territorial system”, a sort of study on the genesis of the
historic-cultural landscape. But both in
the story of ancient geography and in the
chronicles of territorial management, the
ancient sources seem to use a dual logic,
a bi-logic which, according to Andrea
Carandini, is the capacity of our mind to
use two logics with different rules at the
same time, one rational and abstract, the
other unconscious and symmetrical. The
bi-logical use of the historic and mythical imagination is the key for configuring,
even today, a model of efficient conceptual connections among the elements
of the archaeological territorial system.
These elements appear, instead, to be
organized in rigid hierarchies, act on the
territory with different aims and strategies, often overlap their spheres of action, and communicate with great effort
and without particularly good results.
It is precisely from the interruption of
this state of incommunicability that, in
our opinion, an effective enhancement
strategy must start. This can be accomplished by means of management plans
and intervention programmes aiming
precisely to design and create efficient
configurations of the territorial archaeological networks.
249
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
250
arCHiTeTTura Per i PaeSaggi arCHeologiCi
ARCHITECTURE FOR ARCHAEOLOGICAL LANDSCAPES
a cura di edited by Pasquale Miano
251
iNdAGiNe ARCHeoloGiCA e PRoGRAMMA ARCHitettoNiCo
Pasquale Miano
Architettura e archeologia. Sul rapporto tra architettura e archeologia negli ultimi
anni si è discusso in convegni, studiato in specifiche ricerche e i progetti che hanno
affrontato questo tema si sono moltiplicati.
Questa accumulazione di materiali e di esperienze ha sicuramente consentito di
evidenziare la legittimità e l’importanza del contributo dell’architettura nella configurazione dei siti archeologici, ma rimane aperto un interrogativo fondamentale:
sono rintracciabili caratteri distintivi del progetto di architettura nelle aree archeologiche?
A questo interrogativo risponde indirettamente Giovanni Guzzo allorché sostiene che:
pp. 250-251 l. Kahn, L’Acropoli di Atene, 1951 (da:
Louis I. Kahn 1901-1974, “Rassegna”, 21/1, 1985).
1 le Corbusier, Vista del del Tempio di Giove
ricostruito, Pompei 1911.
(©flc, by siae 2014)
L’antico e il moderno si incontrano, dialogano tra di loro e l’esito di questo dialogo nel corso
del tempo può produrre una gamma vastissima di risultati che vanno dall’interferenza, al
rifiuto, alla distruzione, al riadattamento. La varietà di questa gamma cambia e si può sintetizzare nel cosiddetto caso per caso che non segue una costante1.
Ma se la variabilità e l’eterogeneità delle situazioni rende già di per sé difficile una
risposta univoca all’interrogativo posto, dal versante dell’architettura Pippo Ciorra
sottolinea:
non credo alla possibilità che esista un’architettura specifica per l’archeologia, penso che un
bravo architetto con una buona dose di cultura messo davanti ad un problema archeologico lo
affronti con la migliore qualità possibile, sapendo seguire “sapienza” e “bellezza”2.
Ancora francesco Cellini, proprio partendo dai risultati di alcune sperimentazioni,
aveva considerato che:
non ha più senso (se mai l’ha avuto in passato) impegnarsi in una battaglia ideologica per
253
1 P. G. Guzzo, Il dialogo tra antico e contemporaneo, infra,
p. 303.
2 P. Ciorra, Up-cycling, morte e vita dei corpi
architettonici, infra, p. 279-280.
3
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
2
2 trama archeologica nel territorio di Pozzuoli.
3 Cento Camerella a villa Adriana.
affermare il primato della contemporaneità, è invece la contemporaneità che prende senso
proprio nel dialogo con l’antico, nel raccogliere le sue tracce, riordinarle, conoscerle3.
Come sottolinea Alberto Ferlenga:
nei confronti di aree di scavo o recinti archeologici l’architettura contemporanea svolge prevalentemente un compito di servizio. Il suo campo d’azione è quello delle coperture, dei musei,
dell’accoglienza, all’interno del quale il suo ruolo si sviluppa in termini prevalentemente tecnologici o funzionali, rispondendo spesso ad una sorta di stile che rende gli interventi in questo
settore molto simili tra loro per uso di materiali e di forme4.
È quindi sbagliato considerare un’architettura per l’archeologia come un approccio
precostituito, specializzato su alcuni temi, ai quali rispondere con uno “stile contemporaneo” predeterminato, privo di ogni impronta sperimentale. È utile invece impostare il ragionamento sul rapporto architettura-archeologia, a partire dalla specificità di
due discipline che si sono spesso intrecciate e per cui si è determinato un terreno di
dialogo e di confronto continuo.
Joseph Rykwert dice che:
254
3 f. Cellini, Prefazione a AA.VV., Archeologia e Progetto,
tesi di laurea nella facoltà di Architettura, università
degli Studi Roma Tre, Roma 2002.
4 A. ferlenga, Il dialogo interrotto delle rovine di ogni
tempo, “iuav. Giornale dell’università – Archeologia e
Contemporaneo”, 81, settembre 2010, p. 2.
5 J. Rykwert, Archeologia e architettura, infra, p. 311.
archeologia e architettura sono due facce della stessa medaglia. Qualcuno ha definito l’archeologia come la distruzione sistematica delle vestigia del passato: l’archeologo scava un livello dopo
l’altro, per raggiungere il suo scopo, distruggendo tutti quegli strati che intralciano la sua ricerca5.
indagine archeologica e programma di architettura. L’archeologia è stata in realtà
una delle materie alla base della formazione degli architetti moderni, a partire dagli
inizi del xix secolo ed è possibile “seguendo l’oscillazione dei rapporti tra architetti e
archeologi […] comprendere gli assetti statuari delle due discipline proprio attraverso
le tecniche del cantiere di scavo e rilievo, che ne costituiscono il punto concreto di
incontro-scontro”6. Ma l’intreccio più significativo emerge allorché l’indagine archeologica diventa vero e proprio programma di architettura:
il mio interesse per l’archeologia è sempre stato più forte dell’interesse per la storia. L’archeologia presenta sempre una ricostruzione, nel senso che ci spinge ad una ricostruzione. di fronte
ad una serie di elementi archeologici il disegno della ricomposizione è opera di invenzione che
utilizza un materiale. naturalmente questo materiale è straordinario, esso stesso è memoria7.
A proposito del progetto di valorizzazione del Teatro romano di napoli, Daniela Giampaola evidenzia infatti che, in relazione alle operazioni preliminari conoscitive, sono
state ripercorse “le trasformazioni dell’area in una dimensione diacronica molto
estesa: dalle fasi precedenti al monumento, a quelle del suo impianto e, poi, del suo
abbandono, alla formazione di un nuovo tessuto edilizio che, attraverso numerose
modifiche, ha generato la forma dell’isolato moderno”8.
Probabilmente la ricostruzione archeologica, o più in generale la ricerca archeologica, è in realtà solo un elemento di un più articolato discorso, che si incentra sulla
centralità dell’aspetto conoscitivo e che non riguarda semplicemente l’antico. In molti
casi alle strutture antiche si sono sovrapposti, intrecciati, avvicinati insediamenti suc-
6 C. d’Amato, Prefazione a T. Culotta (a cura di),
Progetto di architettura e archeologia, L’Epos, Palermo
2009, p. 13.
7 A. Rossi, Architettura, architettura analitica, città
analoga (1972), 5 novembre 1972-31 dicembre 1972, in
A. Rossi, I Quaderni Azzurri: 1968-1992, a cura di f. dal
Co, Electa, Milano 1999.
8 d. Giampaola, Scavo e recupero del teatro antico, infra,
p. 321.
255
cessivi, di varie epoche, determinando situazioni urbane molto articolate ma estremamente interessanti. Le molteplici compresenze di architetture diverse in uno stesso
sito confermano sempre di più la necessità per la disciplina dell’archeologia di non
rincorrere una presunta scientificità rispetto alla realtà, assumendo una posizione
irrigidita e di aprirsi ad altri contributi, in grado di introdurre punti di vista e letture diverse. Tra queste assumono una particolare rilevanza quelle impostazioni che
non si configurano solo come ricostruzioni dell’antico, ma come conoscenza e interpretazione di territori e di paesaggi contrassegnati dalla presenza archeologica, fino
alla messa in evidenza di trame nascoste. un luogo può essere raccontato attraverso
mappe, che ne restituiscono le diverse versioni, dalle quali emerge un sistema di permanenze, di cui i reperti archeologici possono rappresentare un’espressione fisica
tangibile. Lilia Pagano sottolinea che:
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
la verifica progettuale di tutto questo presuppone un nuovo realismo e la compresenza di diverse scale, spazia dalla dimensione territoriale dei paesaggi urbani/quartieri alla risignificazione
di testimonianze archeologiche del passato anche minimali, dall’idea di una città geografica
ad una ricerca compositiva attenta al dettaglio che ridefinisce lo stesso concetto di storia e
tradizione9.
In questa ottica diventa di particolare importanza l’integrazione delle mappe con le
sezioni, nelle quali spesso risulta più chiaro il rapporto tra archeologia e architettura.
Eleonora Mantese parla di “disamina anatomica”: “questa volontà quasi ossessiva per
un architetto di guardare alle parti è legata alla volontà di riportare l’edificio a unità”.
nel disegno, questa unità viene ricercata attraverso il rovesciamento del piano rappresentato:
la sezione di ogni edificio concorre alla costruzione di un corpo urbano, alla complessità della città. Mentre alcune città trovano nell’impianto planimetrico la loro chiarezza dichiaratoria
oppure, all’opposto, la loro indeterminatezza di metropoli senza limiti che si espande senza
forma, ci sono città la cui conoscenza resta superficiale senza una lettura in sezione10.
256
9 L. Pagano, Architettura quarta natura, infra, p. 270.
10 E. Mantese, La sezione, “firenze Architettura”,
università degli Studi di firenze, 1, 2009.
11 L. franciosini, Archeologia e progetto, in M.M.
Segarra Lagunes, (a cura di), Archeologia urbana e
progetto di architettura: seminario di studi, Gangemi,
Roma 2002.
nel caso della “sezione archeologica” queste considerazioni assumono un’assoluta
peculiarità. Il “disegno della ricomposizione” prefigurato da Aldo Rossi, infatti, si attua attraverso la scomposizione e la ricomposizione degli elementi che costituiscono i paesaggi archeologici, spesso come ricostruzione della dinamica trasformativa
stessa. da strumento analitico di rappresentazione di uno stato presente, il disegno
diviene elemento di comprensione di un processo e in questo senso assume un ruolo
fondamentale dal punto di vista progettuale. Per certi versi, al pari del disegno e della restituzione cartografica, nei luoghi archeologici si sviluppa un “lento processo di
acquisizione degli elementi della realtà che induce a percorrere a ritroso l’accaduto,
strato dopo strato, frammento dopo frammento, tracciato dopo tracciato, nell’obiettivo di intuire e ri-conoscere le analogie, le corrispondenze, soffermandosi sulle discontinuità, sulle permanenze e le variazioni, le resistenze e le fragilità”11.
Ragionando su altri piani, le considerazioni di Aldo Rossi trovano conferme inattese
4
nelle riflessioni di Andreina Ricci sul senso dell’indagine archeologica nel territorio
contemporaneo:
4 P. Zumthor, Kolumbia Museum, Colonia.
nessun elemento in sé appare determinante per la comprensione della storia dei luoghi. Significative sono invece le relazioni tra gli oggetti […] fra oggetti e monumenti, fra presenze
monumentali diverse, fra gli edifici, stratigrafie di terra e stratigrafie degli elevati. Solo attraverso relazioni molteplici è possibile ricostruire ambienti, interrelazioni fra uomini e natura e
reimmaginare assetti complessi di città e campagna12.
la ricerca di nuove relazioni. L’archeologia e l’architettura lavorano dunque parimenti dentro il meccanismo della conoscenza, con il compito di esplicitare “valori
relazionali che essi sottendono, da ciò che è materialmente presente a ciò che, pur
essendo presente, non si vede”13, “una ricerca di nessi che deve farsi progetto”14 sottolinea Ferruccio Izzo.
Risulta allora interessante focalizzare l’attenzione sul ruolo dell’architettura e
del progetto urbano nella costruzione di relazioni a partire dai ruderi e dagli scavi
archeologici(fig. 2): è un compito interessante per l’architettura, che non ne limita in
alcun modo la specificità. Molteplici sono le declinazioni di questo lavoro, ma è possibile, per semplicità e per chiarezza, ricondurre gli innumerevoli casi ad alcuni temi,
ben identificabili e precisi.
nell’ottica della costruzione di relazioni può essere in primo luogo affrontato il difficile e dibattuto tema del “completamento” o della “ricostruzione” di un rudere, una
questione che non può essere affrontata in termini ideologici, contrapponendo astrattamente la “bellezza della rovina” alla leggibilità didascalica di un’architettura ricostruita e rifunzionalizzata. In realtà possono emergere interpretazioni convincenti, se
l’azione intrapresa si lega alla necessità di “confermare” la presenza dell’architettura
antica all’interno di una città o di un territorio, nel senso della “riscoperta” e della
riproposizione “dell’originaria ingegnosa pluralità”, volendo utilizzare la definizione
di Mario Manieri Elia, a proposito dell’intervento di restauro delle Cento Camerelle a
257
12 A. Ricci, Archeologia fra passato e futuro dei luoghi, in
A. Clementi (a cura di), Il senso delle memorie in architettura e urbanistica, Laterza, Roma-Bari 1990.
13 A. ferlenga, Segni, infra, p. 291.
14 f. Izzo, Sostenere la civiltà. Contemporaneità e
topografia del tempo, infra, p. 276.
5
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
6
7
Villa Adriana15 (fig. 3). Proprio in riferimento a questa conferma può essere sviluppata la
risposta architettonica finalizzata ad un nuovo radicamento del rudere in senso urbano, anche attraverso la ricostituzione di elementi volumetrici. d’altra parte questa
linea di intervento acquista maggior forza se la riarticolazione volumetrica è messa in
relazione con la riconfigurazione degli spazi interni, con la realizzazione di un meccanismo di “attraversamento interno”, che assuma esso stesso rilevanza urbana.
Si apre in questo modo un campo di sperimentazione molto ampio e articolato, dalla
ricostituzione delle volumetrie originarie alla proposizione di un nuovo volume che
ingloba i ruderi. In tutti i casi assume forte rilevanza la questione della riconoscibilità dell’intervento contemporaneo. Alcuni anni fa Ignasi de Solà Morales ha bene
espresso il concetto che, accanto a questa inderogabile esigenza di autenticità, possa
stabilirsi un rapporto nel quale:
il progetto di una nuova architettura non solo si avvicina fisicamente a quella già esistente […]
ma stabilisce una vera e propria interpretazione del materiale storico con cui si misura […]
lavorando attraverso una contrapposizione che traduce differenze di tessitura, di materiali, di
geometria e di densità della trama urbana16.
258
Questi concetti si ritrovano con chiarezza nel Kolumbia Museum di Colonia di
Zumthor(fig. 4), che ha costruito una situazione di rarefazione, una smaterializzazione
che genera all’interno del grande ambiente archeologico, una suggestiva “atmosfera”.
15 M. Manieri Elia, Progetto archeologico/progetto
architettonico, Gangemi, Roma 2007, p. 104.
16 I. de Solà Morales, Interpretazione del passato,
“Lotus”, 46, Electa, Milano 1985.
le sezioni “archeologico-architettoniche”. Emerge allora un secondo tema che si
incentra, schematicamente, sulla costruzione di un nuovo rapporto basso-alto, inteso
come risultato di un lavoro conoscitivo e progettuale, secondo l’orientamento seguito
molti anni fa da Carlo Scarpa, nel paradigmatico progetto non realizzato per la copertura degli scavi archeologici di piazza duomo a feltre(fig. 5).
Le relazioni tra il piano della città attuale e il piano archeologico possono essere ridefinite, anche in situazioni più articolate, soprattutto attraverso calibrati piani di transizione, che diventano la spina dorsale di una logica di “riuso” delle rovine.
Questo tema può essere declinato attraverso composizioni di piani/strati, livelli che
segnano la presenza di resti, mettendo in comunicazione spazi pubblici e spazi archeologici, luoghi urbani che contengono i testi stessi.
L’antico viene messo in gioco attraverso meccanismi di connessioni, che coinvolgono
diversi strati e livelli della città, puntando a costruire spazi e luoghi di riferimento urbano, anche completamente nuovi.
In questa ottica, e da qui un altro tema significativo, il gioco delle connessioni consente
di rompere e smentire completamente l’idea dell’archeologia in città come recinto,
come parco archeologico inteso come luogo monofunzionale e specializzato, sottratto
alla dinamica urbana.
Con la rottura del recinto il margine dell’area archeologica diventa un sistema di transizione con spessori variabili, muri, percorsi, accessi, spazi pubblici, ancora una volta
direttamente relazionati ai ruderi.
Come ha sottolineato daniele Manacorda, a proposito del progetto di Mario Manieri
Elia per largo Argentina a Roma(fig. 6), si tratta di “sottrarre alcune aree archeologiche
alla loro condizione di luoghi separati dalla città per ripristinare un più ampio uso
urbano”17.
L’idea della connessione, del supporto, volendo ancora usare un termine legato al carattere di infrastruttura che assume l’archeologia in questi contesti, può essere ancor
5 C. scarpa, Copertura degli scavi archeologici a
Feltre.
6 M. Manieri elia, Progetto per largo Argentina a
Roma.
7 R. Moneo, Progetto di valorizzazione del Teatro
romano di Cartagena, 2001-2008.
259
17 d. Manacorda, Archeologia in città tra ricerca,
tutela e valorizzazione in M.T. Guaitoli (a cura
di), Emergenza sostenibile. Metodi e strategie
dell’archeologia urbana, Atti della Giornata di Studi,
BradypuS Communicating Cultural Heritage,
Bologna 2011.
di più ampliata, diventando una trama, una spina dorsale, che si costruisce attraverso un lavoro sulle tracce18. Il progetto urbano diventa allora costruzione di continuità
urbane anche parziali, in grado di mettere a sistema i frammenti archeologici appartenenti a diversi tempi della città e di relazionarli a altri luoghi e emergenze urbane.
Si può citare, a questo proposito, il caso del progetto del museo del Teatro romano di
Cartagena di Rafael Moneo(fig. 7), che incorpora e collega vuoti e edifici costruiti nella
trama urbana, introducendo un percorso museale concepito come un itinerario dal
mare alla quota alta della città, che culmina nella inaspettata visione dell’imponente
area del teatro antico. Questo progetto consente di aprire una riflessione, che si collega ad una considerazione più generale di Andreina Ricci sullo sprawl archeologico:
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
ciascun frammento residuale, sparso nell’attuale abitato non rimanda che a se stesso. Eppure,
come se si trattasse di frasi slegate e apparentemente prive di senso […] tali unità a sé stanti
attendono di essere combinate in percorsi e in sequenze19.
260
18 V. Quilici, Lavorare sulle tracce, in M.M.
Segarra Lagunes, Archeologia urbana e Progetto di
architettura, cit.
19 A. Ricci, Attorno alla nuda pietra, donzelli, Roma
2006, p. 148.
20 Y. Tsiomis, Progetto urbano e progetto archeologico.
La disposizione dello spazio pubblico del sito archeologico
dell’Agorà di Atene e del quartiere storico adiacente,
in A. Massarente, M. Trisciuoglio, C. franco (a
cura di), L’antico e il nuovo. Il rapporto tra città antica
e architettura contemporanea: metodi, pratiche e
strumenti, utet, Torino 2002, p. 182.
21 A. Branzi, L’allestimento come metafora di una nuova
modernità, “Lotus”, n 115, Electa, Milano 2002, pp.
96-101.
I frammenti archeologici sono compresi spesso nei paesaggi “rovinati” dagli insediamenti contemporanei, ma vi è la necessità di guardare in maniera architettonica a
queste situazioni, capire i meccanismi di continuità, aggiornare le mappe delle presenze, entrare in una logica in cui gli scarti si possono reimpiegare, ragionando sulla
questione del riuso, che inteso in senso ampio riprende tutti i temi prima considerati.
In questo senso si può parlare di architettura per i paesaggi archeologici, come esito di un articolato processo di costruzione di una trama di relazioni, a partire dalla
comprensione della topografia storica “non solo come valore archeologico ma anche
come valore urbano, che assicuri una relazione tra realtà transtoriche”20.
L’architettura delle connessioni, che sia lo strato di un edificio antico a cui si sono sovrapposti altri edifici o i reperti disseminati in un paesaggio archeologico, è architettura concentrata su alcune strategie fondamentali per le aree archeologiche.
Attraverso l’architettura delle connessioni, spazi e luoghi archeologici diversi sono
tenuti insieme dalla trama dei percorsi e degli attraversamenti degli spazi interni, che
si rianimano e diventano nuovi riferimenti, luoghi di conoscenza del passato, ma anche
luoghi attivi, dove si svolgono azioni e funzioni contemporanee.
L’intervento architettonico può assumere allora caratteri riconoscibili e reversibili,
attraverso caratterizzazioni prossime a quelle dell’installazione, che diventa interpretazione della spazialità in cui si colloca, commento critico della realtà stessa, suo
veicolo di conoscenza e non certamente architettura convenzionale, con forme e tecniche precostituite. L’interpretazione avanzata è proposta da Andrea Branzi, allorché
afferma che:
proprio perché sovrastrutturale e transitorio, l’allestimento non è una sottocategoria dell’architettura, ma al contrario oggi occupa una nuova centralità nelle trasformazioni urbane, in
altre parole […] quando si allestisce […] si costruisce un pezzo di città. un pezzo di città che va a
collocarsi nella sua frangia più evoluta, che è quella che risponde alla logica di reversibilità, di
adeguamento, di rifunzionalizzazione del mondo costruito21.
In classical archaeology, the past and present represent two extremes that are unable to engage in dialogue either within the urban fabrics, or with the territory surrounding them. The different problems are always related to different geographic
conditions. Although the Italian archaeological heritage is considered a heritage of
humanity, its evocative strength has died out over the past 30 years. The large urban centre such as, for example, Rome and naples, and the medieval villages in
the centre and north manage to survive. In these places, thanks to the visibility of
the architectural stratifications, it is still possible to perceive the historic evolution
of the cities and their culture, up to our day. unfortunately, these situations, too,
are not extraneous to the problems connected with the management of the urban
systems and its resources, since it is increasingly difficult to attribute to the preexisting archaeological structures a ductility of use that can keep up with the needs
of the economy and the market. Another aspect of the problem of archaeology and
its relationship with the territory stems from the particular case history found in the
southernmost part of Italy. Here, after the catastrophic natural events followed by
reconstruction errors, very little has remained of the huge heritage left us by the
ancient Greek colonies. Today it is possible to observe a fragile, discontinuous presence of monuments, threatened, when not destroyed, by the phenomenon of the expansion of building, both legal and illegal. In this context, the most important aspect
is the relationship between archaeology and the anthropized landscape, and in order
to have a proper reading of the reality, it is necessary to refer to a geographic, rather
than an urban, dimension. It is not a question of enhancing the single archaeological
sites, but of recreating a concrete relationship between the potential the archaeological system can express and the entire surrounding territory. I do not believe it’s
merely by chance that the highest number of cities founded by the Magna Graecians
are concentrated in the heavily degraded areas of the lower Ionian, because of a
logical proximity to the mother land, a morphological matter; it certainly isn’t because of the environmental resources these territories offered the colonists. Today,
the most important urban settlements stand in the same areas where the Greek
colonies were founded, the mobility and transport systems skirt or pass through the
same places, the protected areas and large nature parks are close by and easy to
reach, and the sea is a constant and matchless presence. In light of the urgency of
intervention as radical as it is necessary, it would be advisable to rethink these territories, considering the archaeology not as an added value but as a new “centrality”,
a sort of “deus ex machina”, for an idea of development that promotes the principles
of cultural identity and reappropriation of the memory as crucial elements for any
governance action over the territory.
ARCHAeoloGiCAl suRveY ANd
ARCHiteCtuRAl PRoGRAM
ABSTRACT
261
ARCHitettuRA “quARtA NAtuRA”
Lilia Pagano
Architettura-natura. Se si assume come premessa l’Eupalinos di Paul Valéry, non
è strano iniziare una riflessione su “quale architettura per i paesaggi archeologici” dal rapporto architettura-natura. La dialettica tra mondo naturale e archetipo
architettonico rivela il limite ambiguo tra storia e natura affiancando ad una “storia intellettuale”, pura sfera conoscitiva e interpretativa dei “prodotti” del pensiero dell’umanità, la materialità del ruolo attivo del Tempo nella storia, ovvero di
quell’opera continua della natura esaltata dalle interruzioni dell’azione dell’uomo, esso stesso agente della natura.
L’uomo – scrive Valéry – crea una “seconda natura opposta alla natura prima e immediata” che svela la “natura prima sotto mille maschere”. Possiamo aggiungere
che il Tempo, cioè la natura, trasforma a sua volta le opere che l’uomo abbandona.
Le forze costruttrici della natura e dell’umanità si alternano cioè in successione nella
realizzazione di opere che soprattutto dalla espressione di questo avvicendamento
traggono la loro inedita e ineffabile bellezza. Se la natura prima è il prodotto dell’azione creatrice della natura universale e l’Architettura seconda natura è il prodotto
dell’azione creatrice e cognitiva dell’uomo che ne svela l’immaginario archetipico, si
può allora parlare di una terza natura determinata dalla profondità storica della forza
della natura, cioè dal Tempo.
Anche questa terza natura è percepita come il risultato di un’arte che tende a ri-naturalizzare l’artificio modificandone i significati e aggiungendo nuovi significati che
caricano l’architettura seconda natura dei simboli che costruiscono l’immaginario
contemporaneo della memoria.
Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l’ha voluta il cervello umano,
un’epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata
ai casi della storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo… Statue spezzate così
bene che dal rudere nasce un’opera nuova, perfetta nella sua segmentazione: un piede nudo
2
263
1 K.F. schinkel, Taormina, Selinunte, Girgenti.
2 le Corbusier, I propilei dell’Acropoli di Atene;
K.A. doxiatis, Assi visuali dell’acropoli
di Atene, da The discovery of the ancient greek system
of achitectural spacing, 1937.
che non si dimentica, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la
velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare1.
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
3
3, 4 Mostra Cuma 4000, istallazioni artistiche.
(foto Peppe Maisto)
264
1 M. Yourcenar, Il tempo grande scultore, Gallimard,
Paris 1954.
Le rovine archeologiche, prodotto dell’azione creatrice della “storia-tempo-natura” conferiscono nuovi valori simbolici alla sospensione e alla frattura dell’operare umano e costruiscono il mito dei rapporti più profondi tra seconda natura e natura prima, esaltandone le strutture essenziali, creando nuove relazioni stranianti
tra il particolare e l’unità.
L’immaginario dei miti contemporanei dell’antico è tutto generato dalla maestria
di quest’opera, dalla sua raffinatezza nello svelare un’idea originaria, archetipica
della costruzione che è ben altro dalla realtà delle opere originarie.
da questa riflessione, solo apparentemente scontata, sull’archeologia come
estrema manifestazione artistica della “natura-storia” su creazioni umane legate
ad un tempo passato, deriva che un nuovo intervento dell’uomo sui resti archeologici, incluse le stesse operazioni di scavo, si configura come creazione di un’intrinseca “quarta natura”.
Prendere atto di questo status di quarto grado dell’architettura significa reinterrogarsi sul senso più profondo dell’operare su realtà frammentarie che sono testimonianze dell’antico e del suo rapporto con il mito e la natura, ma anche e
soprattutto dei più inafferrabili significati contemporanei del mito dell’antico congiuntamente costruiti da una secolare progressiva opera di semplificazione “naturale” e dalle stratificazioni lentamente prodotte dall’avvicendarsi delle culture
e degli usi del territorio. La consapevolezza di questo elevato e sfuggente valore
aggiunto sulla ragione strutturale dell’opera originaria suggerita dalla natura prima suggerisce in primo luogo una rispettosa rivisitazione dei simboli poetici del
“non finito” creati dall’arte della storia-tempo-natura.
L’architettura quarta natura non crede dunque ad una ricostruzione scientifica tout
court. Misurandosi con le logiche strutturali e simboliche interrotte messe in luce
dall’azione del Tempo, con l’immaginario culturale contemporaneo innescato da
opere create a fasi alterne dall’uomo e dalla natura, punta piuttosto a riscoprirne i
miti, a re-inventare ordini di corrispondenze relazionali che innestino nuovi significati, a loro volta non definitivi ma aperti e in attesa di reinterpretazioni future. Per
affinare strumenti sensibili in grado di confrontarsi con il Tempo, riparte dall’idea
stessa di natura, ricolloca in un’unitaria dimensione materiale e semantica frammenti archeologici stratificati e forme geomorfologiche del territorio, riferendosi
ad un più ampio concetto geografico di Parco, coerente e interno ai campi relazionali dei paesaggi urbani.
L’obiettivo, cioè la strada dell’operare, è suggerita proprio da quel limite sfocato
e denso di significati tra architettura e natura prima espresso a pieno dal mondo
archeologico. È ancora Paul Valéry ad evocare il fascino di questo immaginario
ambiguo attraverso le parole pronunciate da Socrate alludendo a una spiaggia:
Proprio là trovai una di quelle cose rigettate dal mare, una cosa bianca, d’incorrotta bianchezza. Polita, dura, dolce, leggera, brillava al sole, sulla sabbia levigata, oscura e co-
sparsa di scintille; la presi, vi soffiai sopra, la strofinai sul mio mantello, e la sua forma
singolare arrestò tutti gli altri miei pensieri. Chi ti ha fatto? Pensai. diversa da ogni altra,
eppure non informe, sei tu il gioco della natura, o cosa senza nome, a me giunta per invio
degli dei fra le immondizie ripudiate stanotte dal mare?
4
E a fedro che gli chiedeva di quale materia fosse costituito l’oggetto, Socrate risponde:
della materia stessa della sua forma: materia di incertezza. Era forse un osso di pesce bizzarramente consumato dallo scorrere della sabbia fine sotto le acque; o avorio tagliato per
non so che uso da un artigiano d’oltremare?… Ma forse, non era se non il frutto d’un tempo
infinito… Per l’eterno lavorio dell’onde marine, un frammento di roccia, rotolato fra urti
da ogni parte, …forse può assumere col tempo un’apparenza inconfondibile. né è del tutto
impossibile che un pezzo di marmo o di pietra informe affidata all’agitazione perenne delle
acque, ne sia un giorno ritratto per caso d’altra specie, ed acquisti allora un’assomiglianza
con Apollo. Voglio dire che se il pescatore ha un’idea di quella faccia divina, la ricorderà sul
marmo raccolto nelle acque2.
L’ambiguità tra ciò che è nato e ciò che è creato ha a che fare con il mistero del
mito e dell’origine stessa dell’architettura. Ma al tempo stesso diventa un fattore
secondario rispetto al significato in sé che la forma evoca e esprime. In questa
chiave, nel suo libro “natura e Architettura”, Paolo Portoghesi costruisce il suo
ragionamento teorico e per immagini alla ricerca dei perduti legami tra architettura e natura attraverso l’ars analogica e l’ars omologica:
Questa corrispondenza di forme ha sempre interessato i poeti e trovato spazio nell’uso della metafora e del simbolo. Ovidio per esempio – nel iii libro delle Metamorfosi – descrivendo
la Valle Gargafia consacrata a diana, ricca di cipressi e di pini, parla di un antro boscoso e
osserva che in esso “la natura aveva imitato l’arte con il suo ingegno; aveva infatti costruito con la viva pomice e il tenero tufo un arco non costruito ma nato […]”. A Ovidio fa eco a
distanza di secoli Giorgio Vasari che nella vita di Baldassarre Peruzzi, volendo lodare la
“bella grazia” architettonica alla villa farnesina, scrisse che l’edificio sembrava “non murato ma veramente nato”. natura e architettura c’è da chiedersi innanzitutto se è lecito contrapporre una parte (l’architettura) al tutto (la natura) cui essa indubbiamente appartiene3.
Se tutto ciò svela possibili corrispondenze tra archetipi e natura, chiarendo alcuni
meccanismi logici, analogici e simbolici propri della conoscenza dell’architettura,
i concetti di genius loci e di “storicità del paesaggio” rilevano la fertilità del valore
semantico intrinseco alla materialità delle forme geografiche e naturali della natura vergine come della natura antropizzata4. La dialettica tra matrice geografica e
frammento genera e suggerisce nuovi simboli, nuove corrispondenze analogiche
che rivelano la forza di ciò che, nonostante tutto, permane, la validità di alcuni
archetipi che sfidano il tempo evocando un inizio, la loro origine nella natura prima.
265
2 P. Valéry, Eupalino o dell’architettura, Barabba,
Lanciano 1932.
3 P. Portoghesi, Architettura e natura, Skira, Milano
1999, p. 9.
4 Cfr. C. nocherg Shulz, Genius loci, Mondadori Electa,
Milano 1979; E. Sereni, Storia del paesaggio agrario
italiano, Laterza, Roma-Bari 1996.
il quarto grado dell’architettura. Senza azzardare alcuna conclusione e facendo
leva su quegli aspetti che Marcello Barbanera ha ricordato come “la rivoluzione
di Piranesi nella maniera di osservare il monumento”5, sembrano potersi delineare almeno alcuni primi punti base di un decalogo di principi di un’architettura
chiamata a misurarsi con quei paesaggi-parco, definiti archeologici, appunto, e
oggi tutelati da vincoli assoluti, schematici quanto inefficaci:
5
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
– la valorizzazione della sua contestualizzazione attuale e lo studio meticoloso
della topografia;
– la ridefinizione di percorsi come le modalità di fruizione e di osservazione del
paesaggio attraverso successioni di “quadri” (il pittoresco greco di Choisy e
doxiadis) che possono ricostruire “scene visionarie”;
– la rappresentazione del passaggio della storia sul monumento attraverso l’interesse anatomista per la tecnica e le regole di costruzione;
– la chiarezza dell’archetipo e della sua origine naturale, il suo fondamento nella
terra, come formalizzazione di un mito originario che può innervare linfa vitale
ai miti della contemporaneità.
266
nei paesaggi archeologici l’architettura quarta natura ricerca la bellezza rincorrendo l’immaginario di un museo diffuso, lavorando per innesti, talvolta per ribaltamenti di significato, sulla valenza estetica e relazionale di eterogenei frammenti puntuali antichi e recenti. Innesti di varia scala e natura che spaziano dal
restauro al nuovo, dall’istallazione artistica al landscape, da allestimenti e coperture tecniche ai manufatti delle nuove energie alternative e di infrastrutture di
vario genere. utilizza cioè a tutto campo lo strumentario storicamente articolato
e complesso dell’architettura, oggi comunemente settorializzato6.
Torna come sempre il pensiero illuminante di Aldo Rossi:
5 s. bisogni, A. Renna, Interpretazioni del territorio
napoletano, 1964.
5 M. Barbanera, Dal testo all’immagine: autopsia delle
antichità nella cultura antiquaria del Settecento in C.
Brook, V. Curzi (a cura di), Roma e l’antico. Realtà e
visione nel ’700 (catalogo della mostra, Roma, 20102011), Skira, Milano 2010.
6 Cfr. A. Aymonino, V.P. Mosco, Spazi pubblici
contemporanei. Architettura a volume zero, Skira,
Ginevra-Milano 2006.
7 A. Rossi, Autobiografia scientifica, Pratiche, Parma
1990, p. 17.
8 Cfr. M. Emmer, Mathland. Dalla topologia
all’architettura virtuale, in M. Emmer (a cura di),
Matematica e cultura 2005, Springer Verlag Italia,
Milano 2005.
9 M. Cacciari, I frantumi del tutto, “Casabella”, n.684685, 2000-2001, p. 6.
Solo le distruzioni esprimono compiutamente un fatto […] poter usare pezzi di meccanismi
il cui senso originale è andato perduto. Penso ad un’unità o ad un sistema fatto di frammenti ricomposti7
Se la certezza dei rapporti proporzionali rappresenta la visione mitologica
dell’uomo classico, la metamorfosi, il non finito, il frammento, la conflittualità e
l’atomizzazione dei saperi, la sovrapposizione dei diversi ordini della razionalità
del caos, sembrano poter definire l’essenza della contemporaneità in una nuova
visione del mondo e della natura8.
Lavorare sull’estetica delle relazioni significa intendere l’opera di architettura
come rivelazione puntuale, parziale e non finita di una realtà fisica naturaleartificiale in continuo movimento ma al tempo stesso atemporale, in cui passato
e presente, sempre incisi sullo stesso piano, manifestano l’universale come infinite sequenze di “particolarità concrete”, come “carattere delle differenze individuali”9.
“L’arte, l’atto poetico non mostra la realtà, rende visibile la realtà” (P. Klee). Il
progetto di architettura può creare nuove unità di “frammenti ricomposti”, può
restituire visibilità estetica ad una realtà più profonda che riappare, nelle distanze, nello spazio tra le cose. Può “restituire l’immagine di un’armonia nel tumulto
composta con i suoi stessi materiali”10.
Può dunque rivelare nessi strutturali, l’identità composita di nuovi paesaggi, i
miti della contemporaneità.
Paesaggi e archeologia. nell’ambito fisico e culturale del “parco”, paesaggio e
sguardo archeologico diventano gli estremi di una stessa sequenza interpretativa
che presuppone diversi livelli di conoscenza visionaria11.
due sguardi contrapposti che presuppongono diversi livelli di immaginazione e
che innescano nuove rivisitazioni nelle teorie di analisi urbana alla luce di quelle
tecniche percettive in grado “di comporre l’infinitamente grande e l’infinitamente
piccolo”12, natura e frammenti, geografia e mescolanze.
L’uno mira alla ricomposizione dell’unità, di unità estetiche inclusive, di paesaggi
urbani, di misure e coordinate intermedie che riconoscano nei palinsesti territoriali le direttrici e le pause dei nuovi ordini geografici, i nuovi valori strutturanti
dell’urbano.
L’altro riconosce e lavora sui molteplici significati del non finito, del frammento,
delle tracce, delle fratture. In un mondo di elementi che sembrano porsi tutti sullo stesso piano il nuovo grande problema culturale diventa la risignificazione di
quel che c’è, la rivelazione del potenziale estetico innescato da relazioni formali e
scalari inedite tra compresenze eterogenee che rimandano a storie e razionalità
autonome e incompiute.
Il paesaggio è altro dalla natura e dalla esistenza reale in quanto appartiene alla
descrizione culturale. Rosario Assunto parla di porzione di territorio che può costituire un potenziale oggetto di rappresentazione pittorica13. M. Block afferma: “il
paesaggio come unità esiste solo nella mia coscienza”. I “campi” suggeriti dalle
relazioni percettive possono fornire la chiave per comprendere a fondo la valenza
semantica della struttura14. “una veduta che certo non è quel-che-si-vede, una
realtà anzi che, a quella maniera, non si può in alcun modo vedere, ma che si vuole
rendere visibile, definire e descrivere”15.
forse è più giusto parlare più che di descrizione, di conoscenza visionaria, percezione per sottolineare la capacità di trasfigurare di questo tipo di lettura che può
rivelare e ricostruire la mitologia di luoghi che oggi esprimono l’ormai avvenuto
processo di unificazione culturale tra città e territorio, due mondi storicamente
distinti. Il sistema mitologico con i suoi luoghi, i suoi paesaggi è ciò che ha sempre
reso possibile vivere e trasformare i luoghi, creare bellezza.
André Corboz rileva la nuova consapevolezza archeologica della contemporaneità
riguardo al territorio, non più considerato campo operativo astratto ma il risultato
di una lunghissima e lentissima stratificazione. “Il territorio assomiglia piuttosto
ad un palinsesto, per cui è necessario grattare una volta di più e con la massima
cura il vecchio testo che gli uomini hanno scritto sull’insostituibile materiale del
suolo prima di deporvene uno nuovo”, alla luce di un nuovo rapporto con “l’ogget-
6
6 Analisi geografica dell’area Cuma Averno nei
Campi Flegrei, elaborazioni da laser scanner di A.
Acone (Guapark/Lupt).
10 A. Renna, Quale è l’architettura del nostro tempo,
L’illusione e i cristalli, Clear, Roma 1980, p. 215.
11 Cfr. A. ferlenga, Che cos’è una città, lezione
dottorato in Progettazione urbana, napoli 1997
(inedito).
12 f. Purini, Comporre l’architettura, Laterza, RomaBari 2000.
13 Cfr. R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Guerini,
napoli 1973.
14 Cfr. S. Bisogni, A. Renna, Il disegno della città,
Cooperativa Editrice di Economia e Commercio,
napoli 1974 e Introduzione ai problemi di disegno urbano
dell’area napoletana, “Edilizia moderna”, 85-86, 1966,
numero monografico su La forma del territorio, a cura
di V. Gregotti.
15 G. Briganti, Il Vedutismo a Napoli, in G. Briganti,
n. Spinosa (a cura di), All’ombra del Vesuvio, Electa,
napoli 1990.
267
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
7
9
to-soggetto che resterà tuttavia sempre parziale e intermittente, cioè aperto”. A
conclusione scrive:
8
La sua doppia manifestazione di ambiente segnato dall’uomo e di luogo di relazione psichica privilegiata lascia supporre che la natura, considerata sempre in occidente come una
forza esterna e indipendente dovrebbe piuttosto essere definita come il campo della nostra
immaginazione. Ciò non significa ch’essa sia stata infine addomesticata, ma più semplicemente che, in ogni civiltà, la natura è ciò che la cultura designa come tale. È ovvio che tale
definizione si applica anche alla natura umana16.
Viene a questo punto da chiedersi: “Che cos’è oggi natura?”
Come per l’originario abitante era la natura ignota e ostile, così oggi è la metropoli. Resta
immutato il problema dell’essere in un mondo le cui leggi sfuggono17.
268
16 A. Corboz, Il territorio come palinsesto (1983), in A.
Corboz, Ordine sparso. Saggi sull’arte il metodo la città
e il territorio, a cura di P. Viganò, franco Angeli, Milano
1998, p. 177.
17 A. Renna, Quale è l’architettura del nostro tempo?,
cit, p. 214.
Questo bellissimo pensiero di Agostino Renna rimanda ad una condizione originaria, ad un bisogno di comprensione e rifondazione degli strumenti in un mondo
profondamente mutato. Rimanda ad una condizione originaria in cui l’uomo riuscì
a ritrovare l’illusione di un equilibrio con le forze naturali attraverso il mito e la
sua rappresentazione nella bellezza delle forme dell’architettura.
In termini sia esistenziali che fisici riporta l’urbano alla natura. In altra forma e
con una nuova urgente inquietudine, si ripropone l’eterno problema dell’uomo che
modifica e costruisce la natura.
L’angoscia provocata dalla città commerciale, natura ignota, somma di elementi
grezzi ingabbiati dalla funzionalità delle maglie infrastrutturali, è ormai comunemente avvertita come monito di una natura che ribadisce l’unità di destino con
l’uomo che ne sta determinando la catastrofe. La metropoli, condizione culturale
omologante della modernità in cui si è compiuto il conflitto scienza-tradizione, ha
frammentato al loro interno le costruzioni tradizionali rendendo libere, indipendenti, svincolate anche tra loro.
Si delinea però anche un nuovo punto di partenza, una nuova vitalità dell’operare
dell’architettura all’interno di frammenti di un passato antico e recente che, indipendentemente dai canoni artistici consolidati, acquistano un nuovo valore estetico di compresenze conflittuali, di monumenti “poietici” “di tipo nuovo alla scala
dell’umanità (posturbana)”18. Così come la dissolvenza dei confini della città, il
definitivo superamento del dualismo città-territorio e una diffusa, inedita contaminazione tra artificio-natura, lasciano intravedere gli orizzonti di una nuova dimensione naturale dell’urbano, dove l’ordine geografico-topologico sembra prevalere
sulla razionalità artificiale della città.
È in questo nuovo sentire diffuso che va ricercata l’illusione del mito contemporaneo e forse l’origine di quel significato, onnicomprensivo affascinante e ambiguo,
della definizione moderna di parco come centralità geografica19. Oggi divenuto finanche categoria urbanistica, il parco cerca di tutelare la bellezza di parte dei nostri territori, ma, analogamente, “un senso geografico nuovo” riaffiora sempre più
spesso anche nelle reinterpretazioni strutturali dei luoghi di quella città antica e
7, 8 Nuove / antiche porte dei parchi territoriali di
Napoli, dipartimento di Architettura Napoli Federico
II, laboratorio – tesi di laurea, l. Pagano (coord.),
l. bellia, F. Forte, C. Finaldi Russo, studenti: P.
d’Agosto, R. Fulco, G. iengo, A. iudici, M. Mascolo.
9 Museo diffuso sul fronte romano di Cuma, tesi di
laurea di M. Parisi, relatore l. Pagano, correlatore
A. Acone.
269
18 f. Choay, L’orizzonte del post-urbano, Officina, Roma
1992.
19 Cfr. L. Pagano, Architettura e centralità geografiche,
Aracne, Roma 2012.
compatta, storicamente altro rispetto al suo territorio naturale. La bellezza di spazi
prettamente urbani sembra doversi misurare nuovamente dalla loro forza di costruire paesaggi, di valorizzare panorami, di rivelare quei complessi e affascinanti
sistemi di relazioni infine riconducibili ad antichi legami con il sostrato naturale
originario. Il paesaggio torna ad essere teatro “superando quei minimi e irrilevanti
palcoscenici elementi base della nostra percezione passata, della geografia frammentata in tante minuscole centralità”20.
Se si pensa che la convivenza tra mondi culturali e fisici differenti è sicuramente
il valore più profondo della contemporaneità, il segreto della bellezza dell’architettura quarta natura può essere ricercato nella sua capacità di rappresentare e
fissare in un cristallo il mito della coesistenza atemporale tra miti, spesso tra loro
conflittuali, che nel corso della storia si sono depositati nelle forme e nelle tracce
di uno stesso luogo. La verifica progettuale di tutto questo presuppone un nuovo
realismo e la compresenza di diverse scale, spazia dalla dimensione territoriale
dei paesaggi urbani/quartieri alla risignificazione di testimonianze archeologiche
del passato anche minimali, dall’idea di una città geografica ad una ricerca compositiva attenta al dettaglio che ridefinisce lo stesso concetto di storia e tradizione.
Architetture puntuali, grandi o minimali, possono condensare e rivelare i campi relazionali della grande scala e del paesaggio. Tracce di antiche murazioni e
manufatti bellici, corsi d’acqua, anche scomparsi, residui agrari come industriali
o infrastrutturali, anche modesti, possono suggerire il segreto della bellezza ad
opere che soddisfano e rappresentano i ritmi della civiltà attuale(fig. 5).
Il sostrato geografico, palinsesto di forme e segni a grande e piccola scala, antichi
e recenti è spesso il custode più certo di quella tela di relazioni dimenticate, sospese e spesso nascoste che identificano i miti originari di un luogo. E di frequente
è l’innesto con il mito originario la chiave che consente di dare linfa vitale ai nuovi
miti della contemporaneità.
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
10
270
10 Infrastrutture della Seconda guerra sull’Acropoli di
Cuma. Nuovo percorso museale, tesi di laurea di M.
Mascolo, relatore l. Pagano, l. bellia, P. Caputo.
20 E. Turri, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Venezia
1998, p. 130.
Along the lines of Eupalinos, with “Architecture, fourth nature” the intention is to
highlight a way of working that is measured with Time, i.e. which sees archaeology
as an expression of the “materiality” of a creative art of nature on human works.
The ambiguous limit between history and nature is the basis for a reflection on the
relationship between architecture and nature in contemporary times. The “natural” simplification and, together with it, the stratifications, the omission, sometimes
the overturnings of meaning, slowly produced by the alternation of the cultures and
customs of the territory build the contemporary myth of the ancient and, more in
general, give added value as “poietic monuments” to structures that bring to mind
interrupted behaviours and traditions.
The thesis is that, in the architectural function, the fragmentary symbols of interrupted times find a necessary dialectic correspondence in the visionary knowledge
of the landscape, capable of focusing on the relational fields of the urban area starting from the semantic value of the geographic forms. The geographic substrate, a
palimpsest of ancient and recent, large- and small-scale forms and signs is often
the most certain keeper of that fabric of forgotten, suspended and often hidden relationships that identify the original myths of a place. And frequently it is the grafting
with the original myth that is the key that makes it possible to give vital lymph to the
new, contemporary myths.
This all redefines the very idea of a “park” as a “geographic centrality”, consistent
with the illusion of the contemporary myth that, in the topological order of a dilated
city, glimpses the horizon of a new natural dimension of the urban area within which
different cultural and physical worlds all coexist. The dialectics between the natural
world and the architectural archetype expressed by the poetics of the unfinished,
the “anatomist” interest for technique, the meticulous study of topography and the
perceptive logics of paths may guide a work on the aesthetics of latent but hidden
relationships.
In the “archaeological landscapes”, the “fourth nature” architecture seeks “beauty”,
pursuing the imaginary idea of a “scattered museum”, working by grafts, sometimes
by overturnings of meaning, on the aesthetic and relational value and significance
of ancient and recent intermittent heterogeneous fragments. Grafts of various scale
and nature that range from restoration to the new, from the artistic installation to
landscape, from technical set-ups and coverings, to the structures of the new alternative energies and infrastructure of various kinds. That is, it uses, across the
board, the historically structured and complex instruments of architecture, which
today are commonly split up by sector.
ARCHiteCtuRe “FouRtH NAtuRe”
ABSTRACT
271
sosteNeRe lA Civilità
COnTEMPORAnEITÀ E TOPOGRAfIA dEL TEMPO
ferruccio Izzo
Memoria e futuro. In tutte le epoche il rapporto con il passato e con le sue vestigia è
sempre stato una questione difficile e controversa ma, allo stesso tempo, qualcosa di
necessario al progresso dell’umanità ed allo stesso svolgersi dell’esistenza dell’uomo.
Cicerone ha con grande sintesi ed efficacia esplicitato questo concetto nel suo aforisma
sulla memoria:
1 e. souto de Moura, Schizzo di studio per la fermata
Municipio della metropolitana di Napoli, 2005.
ignorare ciò che è accaduto prima della nostra nascita equivale a rimanere per sempre bambini1.
È essenziale riconoscere che la memoria è la madre di tutte le idee proprio per la sua
capacità di determinare forme di continuità temporali e spaziali. Ma per la realizzazione
di una qualunque idea va tenuto in conto che un’azione si svolge sempre in un preciso
istante del presente ed in uno specifico luogo, richiedendo l’onere di una decisione.
Infatti, qualunque azione, soprattutto se attinente al campo della cultura, necessita
della capacità di discernere ciò che ha valore da ciò che è vano, il significativo dall’irrilevante. In questo processo il peso del presente risulta ineludibile, come anche l’indeterminatezza del futuro e l’inerzia del passato. Ci si trova, quindi, dinanzi ad un’inestricabile complessità, ovvero alla presenza simultanea di elementi, i più eterogenei, che
concorrono a determinare l’azione; infinite relazioni passate, presenti e future, reali o
possibili, convergono in essa.
Il più significativo degli obblighi verso le generazioni future è quello di trasmettere loro
un ambiente che possa essere consono alle loro vite e le possa anche stimolare ed
ispirare. Oggi, la cura dell’ambiente ci pone, più che in qualunque epoca precedente,
di fronte alla doppia responsabilità di preservare la terra, le sue risorse e quanto di ciò
che è arrivato a noi dal passato potrà continuare ad avere in futuro importanza e senso,
soprattutto al fine di garantire continuità alla nostra civiltà, ma allo stesso tempo di
dare forma al mondo fisico pensando anche al futuro.
Per quanto concerne la tutela del patrimonio storico la profonda consapevolezza oggi
maturata sembra, comunque, essere resa vana dall’attuale incapacità di formulare un
273
1 Cicerone, Marco Tullio Philosophia, ix, 5, 10.
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
1
274
2 Aldo Rossi, L’Architettura della Città, Marsilio, Padova
1966.
3 Il termine “Memoria Collettiva” è stato coniato da
Maurice Halbwachs nell’opera Les Cadres sociaus
de la mémoire, Libraire Alcan, Paris 1925 (tr. it. La
Memoria Collettiva, unicopli, Milano 1987) ed è stato
ampliato più recentemente in “Memoria Culturale”
dall’egittologo Jan Assmann (cfr. J. Assmann, La
memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica
nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997).
singolo unificante approccio teorico e di tenere insieme e governare la molteplicità dei
saperi coinvolti e coinvolgibili, nonché dall’estrema frammentazione e dall’isolamento dei diversi ambiti disciplinari e dall’assenza di un linguaggio architettonico comune.
Promuovere una consapevole e rinnovata centralità dell’azione di tutela richiede, innanzitutto, una capacità di interrogare il patrimonio sostenuta da una profonda conoscenza
della storia, da una continua apertura mentale e da un profondo spirito critico, alimentata da una cultura viva e motivata da una profonda coscienza del presente in divenire.
Valutare la memoria costituisce comunque una questione complessa, dato che essa richiede allo stesso tempo identificazione e distanza. Quello con il passato è sempre stato
un rapporto contraddittorio e fatto di frizioni, che implica allo stesso tempo ostilità e coesione. Tutto ciò risulta evidente se consideriamo che il passato è qualcosa che, avendo
a che fare sempre e comunque con la vita ed anche con il tempo presente, comporta
conflitti e problemi come anche un’appartenenza alle vicende umane. E di questa appartenenza Aldo Rossi, più e meglio di ogni altro studioso o architetto del secolo scorso, ha
dato evidenza nel suo libro “L’Architettura della città”2.
Rossi ci ha insegnato a leggere la città come un immenso archivio di “Memoria Collettiva”3 ed attraverso essa ad acquisire coscienza di quel terreno comune dell’umanità, che
unifica la nostra storia e dà vita alla cultura e, quindi, alla civiltà.
È proprio questa manifestazione dell’umanità, fatta di valori universali ed eterni, a permettere di mantenere ancora aperte quelle linee di comunicazione che ci consentono
di capire la nostra appartenenza e di essere ancora capaci di dare senso alle attuali
imprese collettive.
una comprensione che comporta una coscienza in grado di superare le nostre singolarità e perfino, per quanto possibile, il nostro tempo al fine di ritrovare legami con le radici
della civiltà e trarre da loro alimento per costruire il futuro. Se perdiamo interamente
questi legami ci avventuriamo in un distacco, che lambisce il vuoto e si approssima al
gratuito inducendoci ad una completa assenza di cognizione del presente.
E per questo oggi, più che in ogni altra epoca precedente, siamo di fronte all’angoscia
della scelta, dobbiamo prendere posizione ed interagire con il nostro patrimonio storico
e stabilire per esso priorità, strategie e livelli di tutela, intervenendo per arrestare il
degrado dei nostri paesaggi e l’indecenza delle nostre città.
È necessaria una nuova consapevolezza che sia connessa ad un agire concreto per fermare il degrado e l’abbandono del nostro patrimonio e, quindi, quella conseguente perdita di legami con la civiltà.
non è più possibile sostenere quello sterile indugiare nella contemplazione del nostro
patrimonio che risulta del tutto incapace di generare conoscenza generalizzata e azioni responsabili – ovvero sapere che ci renda consapevoli della nostra cultura e della
nostra civiltà e, quindi, in grado di scoprire finalità e significati comuni ed agire consapevolmente – né tantomeno nutrire l’impossibile e delittuosa aspirazione ad un’indiscriminata azione di tutela per qualunque reperto del passato.
la tutela come processo culturale. L’auspicata rinnovata azione di tutela potrebbe sostanziarsi soltanto se si riuscisse a promuovere un processo collettivo costruito su un’esperienza graduale, un dialogo ed una pratica concentrati su obiettivi concreti e condi-
visi, affrontati con un approccio olistico e sistemico, supportato da un sapere rinnovato
che, superando isolati specialismi, costruisca ponti tra diverse discipline e le renda disponibili a capire valori, rilevanze, problematicità e potenzialità del nostro patrimonio
storico e della sua rilevanza per il dare forma ad un ambiente più consono alle comunità
attuali e future.
un lavoro corale che non può prescindere da un coinvolgimento delle comunità, delle
loro strutture sociali, economiche e politiche, delle istituzioni, dei sistemi culturali, con
un chiaro riconoscimento della loro appartenenza ad una tradizione, ad una storia, a dei
luoghi con i loro caratteri identitari, materiali ed immateriali.
un’azione che si sostanzi e si realizzi nell’ambito di un più complessivo disegno per sostenere e continuare la nostra civiltà, promuoverne una piena coscienza nella nostra
società e contribuire al processo di crescita e cambiamento dell’ambiente urbano.
Si tratta, quindi, di avviare un processo più culturale che scientifico, che sappia utilizzare
e coniugare il progresso scientifico e l’immaginazione umana facendoli interagire con le
condizioni della vita di edifici e città, con le loro storie, il loro presente e le innumerevoli
e contraddittorie tracce e testimonianze di tempi diversi che coesistono al loro interno
e nei luoghi.
un processo che abbia come fondamento il significativo valore culturale che le strutture
provenienti dal passato possiedono anche quando si presentano in contrasto con il presente, come realtà da esso avulse o come ostacoli al suo sviluppo.
un lavoro che deve individuare obiettivi concreti da perseguire e verificare attraverso
sperimentazioni fatte di tanti piccoli progetti, sviluppati a partire dalle tematiche dei singoli manufatti e dalla specificità dei territori, dalle loro storie, vocazioni, potenzialità e
problematiche, innescando le più ampie interrelazioni possibili.
un disegno che, sviluppato accuratamente, tenga insieme le diverse scale in rapporto
sia alle singole parti sia alla totalità del territorio, ed assicuri alle preesistenze dinamicità e continuità di significato all’interno della città contemporanea, con una piena
integrazione nella struttura e nella vita delle città.
un disegno che, aperto a modifiche e revisioni in risposta ai risultati della implementazione dei singoli progetti, renda complementari e sedimenti i risultati della pratica e
della ricerca, mostrandosi flessibile ed adattabile alla resilienza delle preesistenze ed
alla loro capacità di continuare a restituire condizioni e valori determinanti per la città
e per suoi nuovi scenari, e sappia, inoltre, preservare anche la loro futura integrazione.
Integrazione da realizzare rendendo pregnanti la presenza ed il ruolo dei manufatti nella
contemporaneità, attraverso l’evocazione di quanto, dei loro organismi e dei contesti a
cui appartenevano, è oggi compromesso o andato perduto. Se risultano ancora presenti
le loro caratteristiche costitutive, è essenziale che queste siano messe il più possibile in
evidenza al fine di impedire che i manufatti si riducano alla condizione di oggetti isolati e
venga, invece, sostenuta la loro rilevanza come insieme di condizioni e relazioni.
È, quindi, essenziale che si mettano in evidenza di un edificio, di una struttura, di uno
spazio aperto, di un interno o di ciò che è sopravvissuto come rovina, tutti quegli elementi, quelle condizioni e quelle relazioni che ne hanno caratterizzato la vita nel tempo,
la sua appartenenza ad un luogo ed ad una comunità e ne hanno garantito la vitalità pur
nel mutare degli usi, delle funzioni e dei significati loro attribuiti.
Assume a questo proposito importanza fondamentale la comprensione dell’intera sto-
2
3
1 i. Mitoraij, valle dei templi, Agrigento.
2 F. izzo, Parco archeologico ed Antiquarium, Nola
2014, vista d’insieme.
3 F. izzo, Parco archeologico ed Antiquarium, Nola
2014, vista verso l’Antiquarium.
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ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
4
ria di una preesistenza, senza limitarsi a considerare solo la sua origine ed evitando così
di appiattirsi su un qualcosa che, se assunto autonomamente, pur essendo significativo,
risulta ormai disconnesso, superato e, quindi, alquanto artificiale.
Infatti, dovremmo piuttosto guardare al senso delle trasformazioni passate e di quelle
ancora possibili, ben sapendo che un edificio non cessa mai di subirne anche quando è
allo stato di rovina.
La rovina, in quanto architettura che ha perso parti attraverso un processo di disfacimento, acquisisce carattere di universalità proprio grazie a questo suo essere una costruzione privata di tutto ciò che ne conformava la rispondenza alle esigenze dell’abitare
di uno specifico tempo.
Per questo dobbiamo attentamente guardare agli orientamenti che la rovina è in grado
di offrirci, inoltre, essendo la sua universalità frutto di un’espressione fondamentale,
finché rimarrà partecipe della continuità della vita seguiterà ad infondere attraverso la
sua sostanza costruttiva linfa vitale all’ambiente e ad esserne fonte di rinnovamento.
È evidente che se la sua tutela si esaurisse in un’azione di protezione tutta tesa al suo
isolamento ed alla sua sottrazione dalla continuità della vita, la rovina perderà qualsiasi
capacità di rinnovamento e diventerà infeconda.
4 d. Chipperfield, Neues Museum,
berlino, 1997-2009.
(foto © Helene Binet)
276
4 M. Manieri Elia, Topos e Progetto. Temi di
archeologia urbana a Roma, Gangemi, Roma
1998, p. 45. Mario Manieri Elia ha in questo libro
ragionato su alcuni casi concreti di Roma e di
altri centri storici italiani, illustrando la possibile
messa a punto di un percorso ermeneutico che
assuma i reperti archeologici come una portentosa
opportunità di rilancio dell’identità culturale e di
risignificazione urbana.
il progetto come ricerca di nessi. Il passato non giunge mai a noi nella sua assolutezza
e purezza ma sempre come evidenza ricostruita e molteplicità di tensioni. Il costruito,
l’ambiente urbano, il paesaggio sono un intreccio complesso di tempi diversi, divergenti,
convergenti e paralleli, che si ripropongono e si dischiudono nel presente, che li determina e ne è determinato, come un insieme di universi possibili e di potenzialità infinite,
di cui è indispensabile riconoscere un nucleo comune e fare il punto sulla complessità
e sulle persistenze, consolidandole come esperienze e base di appoggio per un’azione
di tutela che faccia del nostro patrimonio storico la vera e grande ricchezza delle nostre
città e del nostro paesaggio.
Questo significa, innanzitutto, trovare di volta in volta un equilibrio stabile, instabile, possibile, dando senso alle azioni e rintracciandone le ragioni attraverso un lavoro che permetta di affrontare la tutela, di trovarne i modi e le misure, di elaborarne il linguaggio,
rispondendo a ciò che è necessario, rinforzando reciprocamente antico e nuovo in una
continuità che non abbia contrasti e preservi le preesistenze come evidenza fisica della
storia ed allo stesso tempo le esalti come evidenza fisica della reinterpretazione.
È dunque essenziale riconoscere la topografia del tempo, che significa identificare quelle testimonianze che nel costruito rendono il tempo visibile e leggerle ed interpretarle
per conferire attraverso loro ed in rapporto al presente ed al possibile futuro un ordine
nuovo alla città ed al paesaggio.
Si tratta di una ricerca di nessi che deve farsi progetto “capace di assumere gli elementi
di complementarità come fattori strutturanti; ma anche di cogliere gli elementi di contrasto e di conflitto come significative e caratterizzanti peculiarità”4.
un ordine che permetta di ritrovare quella necessaria continuità in grado di superare
forme uniche, legate alla contingenza effimera, recuperando un rapporto dialettico tra
la città storica e quella contemporanea, tra il passato, il presente ed il futuro, ed assicurare una sana nutrizione della vita e della nostra civiltà.
Our relationship with the past and its remains has always been a difficult and controversial issue, however it is also a necessary part of human progress and intrinsic to the continuing existence of mankind. We must recognise that memory is the
mother of all ideas, thanks to its very ability to determine forms of temporal and
spatial continuity. However, in order to turn any idea into reality, we must take into
account the fact that an action always takes place at a precise moment in the present and in a specific place, involving the responsibility of a decision. Indeed, any
action, especially when it pertains to the field of culture, requires an ability to tell
the difference between what is worth and what is worthless, between meaning and
irrelevance. In such a process, the weight of the present proves inescapable, as does
the ambiguity of the future and the inertia of the past. Hence we find ourselves faced
with inextricable complexity – i.e. the simultaneous presence of the most disparate
elements that contribute to determining an action – and infinite past, present and
future relationships, real or possible, all converge there. The greatest obligation we
have with regard to future generations is to pass on an environment that will prove
beneficial to their lives and that can also stimulate and inspire them. Today, care
for the environment confronts us, now more than at any other time, with the twin
responsibility of preserving the land, its resources and what, of all that has reached
us from the past, could continue to have importance and meaning in the future, so
as to guarantee, above all, the continuity of our civilisation while at the same time
shaping our physical world, with a thought for the future as well.
As far as the conservation of historical heritage is concerned, the great awareness
we now have seems, however, to be rendered useless by our current inability to
formulate a single, unifying theoretical approach and by our inability to merge the
many different fields of expertise involved, or that could be involved, and to govern
them, not to mention the extreme fragmentation and isolation of the various different fields of expertise and the absence of a common architectural language. Any
attempt to promote an informed and renewed focus on conservation work requires,
first and foremost, the ability to examine our heritage with the help of a thorough
understanding of history, a constantly open mind and a deeply critical spirit, fostered by a vibrant cultural life that is motivated by a deep awareness of the present
as it takes shape. What is required is a new awareness linked to concrete action in
order to halt the deterioration and neglect of our heritage and the subsequent loss
of links to civilisation that follows. The renewed conservation efforts we hope for
can only materialise if we manage to promote a collective process built on gradually gained experience, dialogue and work that focus on concrete, generally agreed
objectives, tackled with a holistic and systemic approach, supported by fresh knowledge that will transcend isolated fields of expertise, build bridges between different disciplines and that will render them open to understanding values, important
aspects, problems and the potential of our historical heritage and its important role
in shaping an environment that will be more beneficial to the communities of today
and tomorrow.
suPPoRtiNG CiviliZAtioN.
CoNteMPoRANeitY ANd
toPoGRAPHY oF tiMe
ABSTRACT
277
uP-CYCliNG, MoRte e vitA dei CoRPi ARCHitettoNiCi
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Pippo Ciorra
278
un senso diverso per l’archeologia. Per me la questione dell’archeologia ha oggi
un senso un po’ diverso, che cercherò di delineare lungo un percorso concettuale
lievemente spostato, o almeno complementare, rispetto agli altri contributi qui
raccolti. E che ha anche a che fare con un lavoro che faccio in questo periodo,
accanto a quello solito di docente e a quello ormai trascurato di architetto, e che
consiste nell’ideazione e realizzazione di mostre di architettura, prevalentemente
contemporanea.
Prima di tutto per me, che non vengo da studi specifici, fare il curatore di architettura vuol dire porsi il problema di tentare una definizione di questo ruolo. Che
cosa fa un curatore in un museo? Certo, in tempi di “espansione” architettonica e
vitalità progettuale non è troppo difficile, seleziona i progettisti più interessanti e
dedica loro mostre immediate e stupefacenti. non so, una monografica su Gehry, una su Piano, una su Sejima e via dicendo, puntando tutto sullo stupore e la
bellezza. Ma oggi da un lato siamo un po’ stanchi di celebrare le star del nostro
firmamento architettonico, dall’altro siamo anche a corto di risorse da investire in
progetti espositivi così impegnativi, costosi e tutto sommato sterili. Bisogna quindi
lavorare di ingegno e trovare un’alternativa.
Per me lavorare in un museo vuol dire sostanzialmente prolungare un’attività di
tipo critico (attività che certamente è la somma di tutte le altre – insegnare, studiare, lavorare, scrivere), nonché allo stesso tempo continuare a riflettere su che
cos’è l’architettura, quali sono i suoi compiti, che cosa può fare l’architettura per
trovare un posto decente in una società decisamente in crisi. La nostra crisi – professionale ed espressiva – dura forse da più tempo di quella economica e sociale,
ma non importa molto: a questo punto la crisi riguarda tutti.
Quindi, quando Lilia Pagano mi ha proposto di parlare di “archeologia”, sostanzialmente ho cercato di mettere in relazione quello che sto facendo col tema assegnato.
1 X. vytuleva, e. Cadava, Music on Bones, 2011
(particolare).
(Courtesy fondazione maxxi)
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ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
2 lastra radiografica usata come supporto per
incidere Hey Joe di Jimi Hendrix, 1967.
(Courtesy fondazione maxxi)
3 Re-cycle. Strategie per l’architettura della città e il
pianeta, allestimento, 2011.
(Courtesy fondazione maxxi)
280
Certamente, ma questo per me è un punto di partenza, io non credo alla possibilità
che esista un’architettura specifica per l’archeologia; penso che un bravo architetto con una buona dose di cultura, messo davanti ad un problema archeologico,
lo affronti con la miglior qualità possibile, sapendo inseguire “sapienza” e “bellezza”. Proprio a napoli ci sono ottimi esempi in questo campo. non credo cioè che si
possa positivamente costruire un architetto che abbia una specifica vocazione per
il tema archeologico. Anzi credo che provarci rappresenti un errore, perché finisce
per svuotare di senso il dialogo necessario tra due categorie – architetti e archeologi – che hanno disperato bisogno di confrontarsi da posizioni chiare e distinte.
Che l’archeologo faccia l’archeologo, insomma, e l’architetto faccia l’architetto.
Mi sono quindi chiesto quale potesse essere un’angolazione interessante per guardare al tema dell’archeologia nello spazio contemporaneo. Ho cercato insomma di
trovare un’archeologia diversa nello spazio delle nostre città e dei nostri paesaggi.
Per introdurre il concetto su cui vorrei basare il mio testo vorrei ricorrere a uno
strano reperto archeologico. Si chiama, “Hey Joe” ed è una registrazione clandestina di un disco di di frankie Laine (nome d’arte di francesco Paolo Lo Vecchio)
che era esposto in apertura della mostra Recycle al maxxi. L’aspetto rilevante del
disco, a parte la sua importanza musicale, è che non è registrato sul tradizionale
vinile ma su lastre radiografiche riciclate in ospedali russi in anni nei quali in ussr
non era permesso importare musica occidentale. Si portavano le macchine per
stampare il vinile negli ospedali e si producevano i dischi di rock ’n’ roll e di jazz
direttamente sulle lastre usate, grazie al fatto che sono fatte di un materiale con
proprietà simili a quelle del vinile.
nonostante in questo caso si tratti dello stesso “Hey Joe” portato più tardi al successo da Jimi Hendrix la nostra attenzione non va allora alla musica quanto al
senso archeologico di quel reperto ospedaliero. Viene sottoposto a un’azione di
riciclo (oggi diremmo up-cycle) e quindi diventa oggetto di design e infine arte
(involontaria), oggetto dell’attenzione di collezionisti e saggisti. Grazie a “Hey Joe”
definiamo quindi un nuovo genere di archeologia contemporanea “non monumentale”, ampiamente rappresentata anche in architettura, che potrà forse aiutarci a
individuare un approccio virtuoso alla nostra sempre più vessata disciplina.
nell’attenzione che poniamo a ciò che già c’è – la nostra nuova archeologia – c’entra ovviamente il fatto che viviamo in un paese occidentale, vale a dire in una zona
del mondo dove di questi tempi il pil cresce poco, e dove la crisi dell’architettura
corrisponde e soggiace a una più generale e inevitabile ridistribuzione delle risorse economiche. Insomma nel futuro immediato continueremo a diventare un
po’ più poveri e a non riuscire a comprendere l’architettura all’interno del welfare
che lo stato ci fornisce. E se pensiamo che gli architetti in Italia si sentono poveri
da almeno tre/quattro generazioni allora dobbiamo probabilmente fare due cose.
Prima di tutto abituarci a una crescita diversa, meno generalizzata (lascerei stare la decrescita), soprattutto nei paesi occidentali. Poi interrogarci su come può
cambiare il ruolo dell’architettura perché possiamo continuare a considerarla utile e necessaria alla qualità della vita delle persone.
Autonomia, politica, comunicazione, paesaggio. Parlo di Italia perché l’Italia è
per molti versi un caso-limite. Quello italiano è un sistema architettonico che non
ha mai completamente metabolizzato la modernità (o meglio, koolhaasianamente,
la modernizzazione), che fin dai primi decenni del secolo è abituato a convivere con
complessità e contraddizioni lancinanti. Ha vissuto spesso lontano o “controcorrente” rispetto alla direzione di crescita della società e solo in alcune fasi brevi e
precise del secolo scorso – penso per esempio alla ricostruzione e forse ai primi
anni ’60 – ha marciato sulla stessa lunghezza d’onda del paese reale. Abbiamo
sempre vissuto questo elegantissimo ma sofferente iato con la società, il fatto di
essere un po’ fuori posto, elegantemente arroccati “dalla parte del torto”.
Quello che impariamo da un posto “di frontiera” dell’architettura come l’Italia è
che da noi le città non crescono praticamente più; che per pochissima dell’edilizia
che si costruisce viene richiesta la prestazione dell’architetto, che tra questi pochi
progetti quelli ambiziosi o “di qualità” sono rarissimi; che l’appeal del progetto
“firmato” ormai non basta più a reperire finanziamenti e ottimismo necessario,
nemmeno da noi. Sembra in qualche modo delinearsi una specie di strana multipolarizzazione: in Asia e nei paesi dell’Est Europa una specie di riserva di caccia
per l’architettura di lusso e di stupore, anche se ormai i serbatoi dell’invenzione
cominciano ad essere un po’ scarichi; in Sudamerica e in Africa, in modi diversi, un
uso più oculato delle risorse architettoniche, considerate come un agente estetico
e sociale tutto sommato tradizionale in America Latina e più inserite in una visione
nuova della questione ambientale e politica in Africa; in Europa infine una fase più
incerta, certamente non più in grado di permettersi i capolavori dell’hypermodernismo ma ancora indecisa se tornare a ruoli sociali già svolti (la buona vecchia
utopia) o cercare nuove strade.
In questo quadro europeo le possibili vie d’uscita non sono in fondo molte, e possiamo passarle rapidamente in rassegna. C’è chi propone di salvarci attraverso
un rappel a l’ordre piuttosto radicale, con una riconduzione veloce della disciplina
architettonica all’interno dei terreni dell’Autonomia espressiva e politica (l’utopia
di cui sopra?!). È una profezia che ha una sua piccola bibbia, “The Project of Autonomy” di Pier Vittorio Aureli e una schiera crescente – anche se non so quanto
consapevole – di adepti in tutto lo scacchiere occidentale. Col rischio però, in assenza di un dialogo fertile con il presente, di dover motivare scelte e approcci con
ragioni soprattutto ideologiche, in una fase in cui le ideologie non sembrano trovar
molto radicamento né convincere molte persone. È un percorso disciplinarmente
praticabile, insomma, ma tutt’altro che privo di rischi.
L’altra faccia di questa stessa medaglia, quella cioè di un’architettura molto autoreferenziale, molto incline a rafforzare le proprie certezze disciplinari, è proprio
un’architettura che cade nelle braccia del proprio demone, finisce cioè per assimilarsi all’arte. Ci sono infatti due modi di rendere sempre più vicine architettura e
arte: il primo è quello più immediato, in cui le due tecniche si scambiano e si confondono, e nel quale la zona grigia in cui agiscono gli Acconci e i Roche, i Rahm e i
Kapoor si ingrossa sempre più rapidamente. L’altro è quello più sibillino e rischioso nel quale una piazza non ha valore se funziona o meno come spazio pubblico
2
3
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ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
4
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4 bernard tschumi Architects, le Fresnoy.
(Courtesy fondazione maxxi)
5 stARTT, WHATAMI.
(Courtesy fondazione maxxi)
5
ma piuttosto come proposizione architettonica autonoma, simbolica e archetipica.
una specie di monumento all’architettura come arte civica, a prescindere se i cives apprezzino o no (e si che ne abbiamo di brutti ricordi in questo settore). non si
tratta quindi di divertirsi a spingere l’architettura verso l’arte quanto di registrare
come la separazione tra architettura e vita renda l’architettura (a volte pericolosamente) vicina all’arte, e al suo potenziale esclusivamente critico. Quando un
progetto si relaziona al suo contesto non più per cambiarlo o per dargli nuova
forma ma per commentarlo, per annotarlo, per esaltarlo, allora è arte, è automaticamente arte, anche se usa tecniche specifiche dell’architettura. Certo questa
zona come si è detto è grigia, e non priva di sorprese. Il mitico Transformer di Rem
Koolhaas per Prada (realizzato a Seul) è un edificio che per cambiare funzione viene “rivoltato”, ruotato da una gru in quattro differenti posizioni. È quindi un edificio
privo di alcuni connotati essenziali dell’architettura – la stabilità, il rapporto tra
alto e basso ecc. – ma pur sempre un progetto architettonico terribilmente innovativo, libero come un’opera d’arte, funzionale come un capannone.
un’altra direzione possibile per i giovani che si affacciano oggi alla loro vita di
architetti è quella che riconosce molta importanza al potenziale politico del gesto
architettonico. Alla Biennale Architettura del 2012 il padiglione americano esponeva 140 urban actions. Affidava cioè il compito di rappresentare l’architettura nazionale a 140 gruppi di architetti attivisti, impegnati di volta in volta nel recupero di
aree asfaltate per l’agricoltura urbana, nella riattivazione di edifici dismessi, nella
battaglia per questo o quello spazio pubblico. Rinunciando (quasi?) completamente agli aspetti autoriali e creativi della loro professione. Con lo strano risultato di
avere in architettura un’idea scissa della politica: da una lato la sua forma, ideologicamente determinata ma difficilmente accompagnata dai contenuti, dall’altro
il suo contenuto, avverato però non in un edificio o in uno spazio pubblico ma in
un evento, in una azione collettiva, in una forma organizzata di partecipazione.
Ovviamente l’arte ci insegna come la politica sia spesso un metodo sofisticato
di marketing, un modo più intelligente di altri di produrre il branding del proprio
lavoro creativo. Quindi attenzione, e vigilanza sempre molto alta.
Quando non è autonoma (o parametrica), politica o arte, l’architettura è oggi molto spesso comunicazione. È un concetto ben chiaro fin dai tempi di Le Corbusier
(per non parlare di Michelangelo o di autori anche più vecchi), ma oggi ci assale
con una forza e una pervasività ovvie e dominanti. Vorrei renderlo evidente attraverso alcuni esempi del nostro progetto yap (Young Architects Program), che
viene realizzato al moma , al maxxi, e in altri musei a Istanbul, Santiago del Cile e
Seul. Ma forse proprio un progetto italiano, quello del gruppo startt realizzato al
maxxi nell’estate del 2011 incarna meglio di tutti la più sana anima comunicativa dell’architettura contemporanea. Il progetto consisteva in una grande aiuolacollina artificiale e di una serie di aiuole mobili più piccole, di una piccola piscina e
di una quindicina di spettacolari papaveri artificiali alti 6 metri, distribuiti ai piedi
dell’edificio di Zaha Hadid. Grazie a quei segnali, marginalmente utili come lampade quando scendeva la sera, il potenziale di spazio pubblico del piazzale del
museo veniva automoltiplicato; la comunicazione su come fosse possibile stare
(al fresco, in relax, al limite bagnati) nello spazio del museo grazie al lavoro di un
gruppo di architetti giovanissimi arrivava lontana. Indecisi tra paesaggio, design,
architettura e arte i fiori degli startt, oggi un prodotto industriale rinomato, erano
soprattutto un progetto di comunicazione, così come gran parte dei lavori dei loro
colleghi nelle altre quattro sedi di yap.
un ultimo paradigma salvifico che si offre oggi agli architetti è poi naturalmente
quello del paesaggio, dove per paesaggio si intende un calderone enorme che tiene dentro la pianificazione e il design dello spazio pubblico, l’agricoltura urbana
283
e quella “rurale” (ormai un’eccezione), i giardini e le infrastrutture, i gipponi a
idrogeno e le bike cities. Insomma più che un paradigma un mantra, che ci fa l’impressione di espandere il campo dell’architettura ma che a volte – mi vengono in
mente i giardini verticali di Patrick Blanc e non solo – finisce per produrre progetti
verdi più insostenibili dei grattacieli di Taipei.
Abbiamo quindi quattro direzioni possibili – l’autonomia, la politica, la comunicazione e il paesaggio – che sembrano offrirci vie di sopravvivenza più o meno praticabili per la nostra disciplina, ma che tutte insieme non sembrano configurare
una direzione forte per un movimento professionale e culturale.
6
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
6 P. Portaluppi, Wagristoratore.
(Courtesy fondazione maxxi)
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Rovine moderne. Per me – quando penso a un soggetto progettante – l’architettura è un composto bilanciato di tre valori: storia e disciplina (tutto quello che
un tempo andava in manuali e trattati), tecnica e tecnologia (non proprio all’avanguardia nel nostro paese) e il contesto, inteso come somma di contesti che
dai luoghi norberg-shulziani si espandono fino a includere il tempo e lo spazio,
la società e la cultura, il gusto e le inclinazioni dell’arte. Insomma, lo zeitgeist,
come avrebbero detto i nostri docenti di storia una trentina di anni fa. Qual è allora il modo migliore, oggi, per armonizzare queste tre forze, quelle provenienti
dalla pancia della disciplina, dai suoi muscoli, dalla sua capacità di recepire dal
mondo? Ed è qui che mi piacerebbe reintrodurre il concetto di archeologia di cui
abbiamo parlato prima. Per traslarlo dall’ambito della Music on Bones a quello
dell’architettura intendo ricorrere a dei reperti archeologici un po’ particolari,
certamente per noi dolorosi, in gran parte legati a una specifica stagione dell’architettura italiana recente. Partirei per esempio da una rovina molto famosa, vale
a dire quella del teatro di Sciacca di Giuseppe e Alberto Samonà, una splendida
struttura vagamente tardocorbusiana che fu completata nel 1984 (e come tale
pubblicata su “Casabella”) e che da allora è rimasta inutilizzata sulla collina di
fronte al mare nella cittadina siciliana. da lì mi sposterei poco più a nord, a Gibellina nuova, per verificare lo stato (per trent’anni di rovina-rovina oggi di “rovina
utilizzata”) della chiesa progettata dopo il terremoto del Belice del 1968 dal mio
maestro Quaroni. Tralascerei per amor di patria le altre opere “firmate” di Gibellina per risalire rapidamente in pieno centro-sud e trovare il rudere dolorosissimo
della Karlsruhe grassiana costruita trent’anni fa per gli studenti di Chieti. L’edificio fu praticamente completato, mai utilizzato, poi sottoposto a uno strano e lento
processo di spolio, che fa si che ne venga demolito un pezzo per volta. Con una
perversa operazione ancora in corso. La lista è lunga e l’operazione certamente
masochistica, visto che comprende opere “realizzate” più o meno da tutti gli eroi
della nostra epopea architettonica, Gregotti, Rossi, de Carlo, Gresleri, Viganò,
Pellegrin e molti altri. Quando abbiamo cominciato a studiare e mappare questo
fenomeno all’interno di alcune ricerche di dottorato pensavamo fosse localizzato
nel tempo, legato a una fase precisa del rapporto tra architettura e politica in
Italia. Ma purtroppo non è così, la vicenda è durata almeno fino a quando sono
durati i soldi, e forse va avanti ancora. Basta farsi un giro alla piscina olimpica di
Calatrava a Roma, alle strutture del famigerato G8 alla Maddalena e in molti altri
posti, per capire che ancora non è finita.
Insomma tutto questo per capire che viviamo in un’epoca strana, nella quale produciamo direttamente ruderi, frammenti di archeologia del presente che non siamo attrezzati ad affrontare come “temi di progetto”. Gli esempi “d’autore”, che
ovviamente meriterebbero ben altra indagine e riflessione (compiuta in alcune
ricerche di dottorato), ci servono qui soprattutto per rendere chiaro come il valore
archeologico si produce oggi molto spesso a prescindere dalla datazione della
“rovina”. Il tema di “cosa fare” di edifici dismessi, abbandonati, non più adeguati,
tecnicamente inadatti, resi inutili dalla crisi, ci si presenta quotidianamente in forma ossessiva e onnipresente: dai centri storici alle zone industriali, dai quartieri
residenziali invenduti alle torri per uffici vuote, dalle scuole in disuso agli edifici
storici abbandonati da decenni.
da un punto di vista simbolico questo sconfinato patrimonio è lì per ricordarci
come gli strumenti che abbiamo sviluppato in tutto il secolo moderno per il progetto architettonico e urbano siano oggi in buona parte poco utilizzabili, focalizzati
come sono sulla presunzione di crescita illimitata della città. Che non c’è più. O
meglio, non c’è nei modi in cui la conoscevamo. L’epoca che viviamo sembra essere caratterizzata da uno strano paradosso: la popolazione urbana continua a
crescere, non solo in Asia e nei paesi emergenti ma anche in molte aree europee e
occidentali, ma questo non corrisponde a una “crescita urbanistica” lineare, così
come possono immaginarsela gli architetti. In occidente le città tendono a crescere ormai su se stesse, per la scarsità di spazi nuovi da occupare e per la pressione (anche economicamente) insostenibile delle aree di scarto interne al tessuto
urbano; in oriente crescono a strappi violenti e smisurati, che però non seguono
le regole della buona progettazione urbana occidentale, alla quale sostituiscono
da un lato una specie di anarchia auto-organizzata e dall’altro i più nudi e crudeli
meccanismi di mercato. Manca insomma proprio quel ruolo di mediazione socio
spaziale che siamo abituati a localizzare proprio in quello spazio intermedio tra
spazio fisico e società dove in genere agisce l’architettura.
Riciclo. Ci sembra allora appropriato orientare i nostri sforzi proprio verso
quell’area di raccordo tra economia, urbanistica, architettura e costume sociale. Il
dispositivo che abbiamo identificato per occupare in modo virtuoso questo spazio
è quello del riciclo, inteso nell’accezione più ampia e multidisciplinare possibile,
dalle succitate lastre radiografiche fino a interi paesaggi urbani e posturbani. Il
senso della ricerca e della mostra che abbiamo fatto al maxxi è tutto in quest’affermazione, tesa sia a rovesciare in positivo il senso di una non-crescita che a definire un concetto di contesto nuovo, una specie di tabula non rasa. Il riciclo per noi
non è semplicemente una buona pratica sociale e di “recupero architettonico”, ma
il territorio di una ricerca continua, capace di tenere insieme concetti e tecniche
molto diverse: dall’eredità di una modalità di costruzione storicamente consolidata all’arte, alla politica, al paesaggio, alla comunicazione eccetera. L’obiettivo
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7 Jiakun Architects, Rebirth Brick.
(Courtesy fondazione maxxi)
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ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
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non è tanto definire una teoria dell’architettura quanto lo spazio operativo per un
linguaggio efficiente per lo scambio tra architetti e società.
A costo di ripetermi mi sembra importante sottolineare la natura duttile e trasversale del concetto di riciclo, che poi è ciò che la rende urgente. I primi passi in
questo territorio concettuale per me risalgono all’osservazione di fenomeni architettonici ipernoti, come la città di Spalato o la chiesa di san nicola in Carcere a
Roma, frutto di continue stratificazioni di forme e significati architettonici diversi.
Ma il senso che cerchiamo adesso diviene chiaro solo se mettiamo tutto questo
“patrimonio” insieme all’uso concettuale e semantico che del riciclo fanno l’arte
(da duchamp in poi) e le altre forme espressive (basti pensare alla musica degli
ultmi 25 anni). Gli architetti hanno ben chiaro questo potenziale espressivo già nel
secolo scorso e sanno anche usarlo, a cominciare dal ristorante alpino di Portaluppi per arrivare fino al progetto per Cannaregio di Eisenman o alla Villette di
Tschumi. Il passo in più che proponiamo di fare è rompere l’antitesi novecentesca
tra fenomenologico e concettuale, mettendo a reagire insieme quelle esperienze
“linguistiche” con le situazioni in cui il riciclo assume un valore più immediato e
utilitaristico, non estraneo alla sensibilità sociale contemporanea. Penso ovviamente alla High Line di new York ma anche al Palais de Tokyo di Lacaton & Vassal,
esperimento più border line, ai progetti mnestici di Wang Shu, o ai parchi ricavati
dalle discariche di Staten Island o di Barcellona.
uno dei primi numeri doppi della Casabella di Gregotti, realizzato insieme a Bernardo Secchi, era dedicato al passaggio dall’era della pianificazione a quella della
“modificazione”. Affermato con la massima chiarezza ideologica quel passaggio
non si era però proceduto ad investigare le modalità progettuali con le quali la
modificazione avrebbe preso il posto della tabula rasa moderna e modernista.
È quello che abbiamo cercato di fare con Recycle, un dispositivo concettuale ad
ampio raggio, capace di surrogare il concetto stesso di linguaggio. Il significato,
come ogni volta che abbiamo a che fare con un sito archeologico, nascerà a questo
punto dalla frizione tra la preesistenza e l’intervento attuale.
La mostra esposta al maxxi nel 2011 (e più tardi in altre sedi) comprendeva una
serie davvero ampia di materiali espositivi, nel tentativo di mettere bene in chiaro il
genere di riciclo che avevamo in mente. C’erano progetti urbanistici e di paesaggio
(detroit, fresh Kills, la discarica di Barcellona, Monaco), c’erano progetti di riciclo
infrastrutturale a tutte le scale, dal citato recupero-capolavoro della High Line, alle
gallerie autostradali di Trento a moli olandesi, bunker tedeschi e fabbriche francesi.
C’erano ricicli letterali di materiali edilizi, come nei mattoni prodotti con materiali
di demolizione in Cina o nella splendida biblioteca realizzata dai Karo attraverso il
recupero degli elementi di facciata di un centro commerciale demolito. C’erano però
opere d’arte e di design, video, oggetti d’uso trasformati in opere degne di interesse
attraverso il programma di riciclo (come nel caso delle lastre radiografiche).
Mi piace sottolineare che tra i progetti possiamo scorrere nel catalogo della
mostra quelli degli architetti italiani sono quelli che mostrano la sensibilità più
vicina al genere di “archeologia” cui abbiamo dedicato questo testo. Il progetto
di Giulia Andi e dei lin per il recupero della base di sommergibili a Lorient evoca
sensazioni quasi romane, fa pensare ai piccoli gesti che servono per rendere
utilizzabili spazi smisurati come le Terme di diocleziano. Il progetto di recupero
delle gallerie autostradali di Trento di Elisabetta Terragni si muove sulla stessa
linea di un quasi niente iperproduttivo. Ancor più sottile il lavoro che fa Maria
Giuseppina Grasso Cannizzo trasformando la brutta villetta abusiva della periferia siciliana in una rovina e poi riciclandola direttamente in un edificio pieno di
bellezza e di senso. Lo stesso vale per le cave cagliaritane trasformate in Parco
dei Suoni da Perra e Loche.
8 tunnel di trento, prima.
(Courtesy fondazione maxxi)
9 elisabetta terragni-studio terragni, Museo
storico del trentino.
(Courtesy fondazione maxxi)
10 Recupero paesaggistico della discarica di vall
d’en Joan, battle i Roig Arquitectes.
(Courtesy fondazione maxxi)
11 P. Perra, A. Antico loche, Parco dei suoni.
(Courtesy fondazione maxxi)
287
12
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
12 M.G. Grasso Cannizzo, sPR.
(Courtesy fondazione maxxi)
288
Insomma è difficile immaginare per i prossimi vent’anni in Europa un’architettura basata sull’azzardo e sul lusso come è stato per gli ultimi venti. Allo stesso
tempo, per motivi economici, politici e sociali, è difficile anche pensare a un ritorno a un’architettura/città archetipica e di puro servizio sostenuta dal welfare. Ma
questo non vuol dire che la nostra architettura debba essere poco interessante,
o limitata a decidere dove mettere i pannelli solari, o comunque di puro supporto
tecnico. Recycle per noi è l’antidoto all’emarginazione (definitiva?) dell’architettura e il dispositivo per inserirla nei meccanismi di produzione del pensiero e del
senso contemporaneo, in un terreno dove può incontrarsi facilmente con la società, l’arte, i linguaggi contemporanei.
Per tornare alla natura (anche) archeologica di queste operazioni torno a citare
un progetto specifico presente nella mostra Recycle. Si tratta di un lavoro di un
gruppo di giovani architetti di Spalato, Platforma 9,81. Il tema è il riuso di un enorme “palazzo della gioventù” di età sovietica. nessuno in città ha risorse (e idee
sull’uso) sufficienti per un progetto organico di trasformazione. Allora i due architetti (dinko Peracic, Miranda Eljacic) hanno proposto una strategia alternativa,
mutuata direttamente dalle nostre procedure di recupero archeologico. Il rudere
resta là, come rudere, e il recupero procede un segmento per volta, mano a mano
che si presenta la necessità di trovare uno spazio “pubblico” per la città e si trovano i fondi per intervenire. Il testo originale non è quindi ristrutturato attraverso
un intervento unitario, ma grazie a una serie di interventi/alterazioni successivi e
apparentemente scollegati, utili anche a ridurre concettualmente la differenza di
scala tra un edificio decisamente xxl, ipermonumentale, e gli spazi necessari alle
attività praticabili in città.
In sostanza ripartiamo dall’idea di considerare come un unico strato archeologico
l’enorme patrimonio di costruito e di scarto che questa società ci lascia a disposizione, non sapendo come gestire il suo ciclo di vita. Ovviamente non tutto può
o deve essere conservato ma preferiamo comunque pensare complessivamente
alla città con lo stesso atteggiamento di Jane Jakobs, che ha intitolato il suo libro
“Morte e vita delle grandi città americane”, pensando quindi a un nuovo ciclo e non
alla deprimente sentenza di “vita e morte” della traduzione italiana del titolo.
Before introducing the concept I would like to base my article on, I’d like to refer to
a strange archaeological find. It is called “Hey Joe” and it is a bootleg recording of a
song by frankie Laine (the stage name of francesco Paolo Lo Vecchio), which was put
on display at the inauguration of the Recycle exhibition I curated in 2011 at the maxxi
national museum of twenty-first century arts. Apart from its musical importance, the
significant aspect of this recording is that it is not recorded on vinyl, as is usually the
case, but on recycled Russian hospital x-ray radiographs instead, in the days when
importing Western music into the ussr was illegal. Vinyl record pressing machines
were smuggled into hospitals and rock ’n’ roll and jazz records were secretly produced from old x-rays, thanks to the fact that they are made from a material with
properties similar to those of vinyl.
Of course, we are more interested in the archaeological significance of this hospital
artefact than in the music itself. It was subject to a recycling operation (what we would
now call “upcycling”) and thus became a design object and finally (and involuntarily)
art, an item that interests collectors and essayists. Thanks to “Hey Joe”, we therefore
can define a new kind of “non-monumental” contemporary archaeology, widely found
in architecture as well, which could perhaps help us identify a positive approach to
our increasingly besieged field.
The attention we pay to what already exists – this new archaeology of ours – obviously
involves the fact that we live in a Western country, where gdp and cities grow slowly
and strangely. We are particularly referring to Italy because Italy is, in many ways, a
borderline case where the conflict between the culture of modernisation and the culture of anti-modernisation produced an infinite number of ruins during the twentieth
century, infinite examples of the “new archaeology” to which we are referring.
There aren’t many possible ways out of this crisis in Europe. There are those who
believe they can save us through a rather radical rappel a l’ordre, overlapping the archaeology of thought with that of artefacts. There are those who attribute enormous
importance to the political potential of architectural projects, those who believe that
architecture today is only event and communication and those who use the landscape
(which has always been a suitable setting for ruins) as a passepartout of unstoppable
effectiveness.
We therefore have four different possible directions before us – independence, politics, communication and the landscape – which seem to offer our field paths to survival of varying degrees of feasibility, but that taken as a whole do not seem to amount
to a strong direction for a professional and cultural movement.
How can we find a synthesis? What is now the best way to merge the strengths that
come from this field’s stomach, its muscles, its ability to take in aspects of this world?
And it is here that I’d like to re-introduce the lesson we learned from Music on Bones
and apply it to the world of architecture, where we are continually producing ruins and
falling in love with them. The act of focusing our attention on contemporary archaeology therefore means this: developing tools that allow us to produce social space and
architecture, as many are already doing, making the most of these ruins. This is what
we call Recycling.
uP-CYCliNG. deAtH ANd liFe oF
ARCHiteCtuRAl bodies
ABSTRACT
289
seGNi
Alberto ferlenga
Cercherò di proporvi alcuni spunti che derivano da una serie di riflessioni e da
poche certezze. L’intento è sostenere la convinzione che parlare oggi del rapporto
tra architettura e archeologia non voglia dire necessariamente parlare del passato ma affrontare alcune questioni fondamentali che riguardano il presente. È
importante però premettere che perché questa riflessione risulti proficua è necessario sottrarsi al peso delle culture che tradizionalmente appartengono alle
due discipline messe in gioco. La cosa non è facile e la creazione di una “cultura
intermedia”, d’altra parte, non avrebbe alcun senso. Ha senso, però, riflettere,
senza pregiudizi, su alcuni temi comuni e questo è l’obiettivo del mio intervento che ruoterà soprattutto attorno alla necessità di spostare l’attenzione di ogni
azione, pratica e teorica, che riguardi questo campo, dagli oggetti in sé ai valori
relazionali che essi sottendono, da ciò che è materialmente presente a ciò che, pur
essendo presente, non si vede.
Ciò ci porta a verificare molte cose che davamo per acquisite e per prima la nostra
capacità di apprendere dai luoghi che ci circondano, capacità che anni di convenzioni e ideologismi potrebbero aver appannato. da questo punto di vista alcune
esperienze possono risultare rivelatrici. Per me, ad esempio, dopo un apprendistato di studi incentrato sui rapporti che presiedono allo sviluppo urbano, conoscere, sia pur da ospite, napoli e il territorio flegreo è stato molto importante. Mi
ha aiutato a percepire “dal vero” una condizione che mi era poco nota: la sopravvivenza, difficile da descrivere ma evidente, di qualcosa che in altri luoghi si era
ormai definitivamente staccato dal mondo reale per rintanarsi nelle sale dei musei
o nei libri. Questa condizione riguarda il modo in cui il rapporto tra usi, architetture, storia produce un movimento costante e salvifico per la vita di un luogo e non è
comprensibile attraverso la misurazione dei monumenti o il rilievo dei tessuti urbani. Tra le sue componenti prevalgono presenze invisibili, fenomeni immateriali,
come i miti o i ricordi, ma che influiscono profondamente sui dati materiali. L’in-
1 C. scarpa, F. Franzoia, Rilievo della stratificazione
dei manufatti rinvenuti nell’area degli scavi di fronte al
Duomo di Feltre, 1972 (da: G. Calandra di Roccolino,
Attraverso la storia. Le “architetture archeologiche” di
Carlo Scarpa, “engramma”, 118, luglio/agosto 2014).
291
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
tensità della loro incidenza determina l’affermarsi o l’appannarsi delle differenze
che sempre contraddistinguono una città dalle altre. di questo vorrei parlare.
Mi riferisco ad un intreccio che moltiplica la sua influenza dove i segni della storia
sono più presenti e che, pur toccando le competenze di molte discipline non può
essere affrontato a partire da una sola di esse e rende quindi complesso il rapporto tra chi, come architetti o archeologi, si occupa spesso delle stesse cose, negli
stessi luoghi.
Se guardiamo ad una città o ad un territorio densi di storia ci sono molti nodi che
sfuggono alle interpretazioni “disciplinari”, pur avendo un’importanza fondamentale. Ad esempio, che cosa può essere considerato come “originale” all’interno di
paesaggi plasmati dal tempo? E come possiamo definire questo stesso tempo che
non è circoscrivibile dentro mere successioni cronologiche? Qual è il tempo di una
città? È corretto parlare di passato e presente in condizioni in cui il passato e il
presente sono entrambi contemporanei e sono, per lo più, ancora in uso?
domande di questo tipo non sono esercitazioni accademiche ma hanno direttamente a che vedere con le modalità attraverso cui si interviene in un paesaggio
come quello Italiano la cui qualità è stata determinata da un insieme articolato di
relazioni. Hanno anche a che vedere con l’affermarsi delle identità che ne sono derivate e che vanno intese come fenomeni multipli, intrecciati, spesso contrapposti,
mai univoci. Insomma, domande di questo tipo riportano ad una complessità che
è stata spesso semplificata o rimossa a favore dell’attenzione rivolta alle singole
manifestazioni della nostra storia.
Questa è la questione che più mi interessa sviluppare e che può essere riassunta
nella convinzione che quando le discipline tradizionalmente legate all’intervento
fisico sui lasciti della storia perdono la capacità di scambiarsi esperienze e di confrontarsi, rischiano di trasformarsi in ostacoli non solo rispetto alla difesa dell’aspetto estetico dei luoghi ma anche al dispiegarsi della loro vitalità. A partire da
questa premessa affronterò alcuni aspetti della presenza dell’immateriale nei nostri possibili campi di intervento con particolare attenzione ad una questione che
si pone al limite delle relazioni tra archeologia, architettura e paesaggio e cioè il
momento in cui l’oggetto archeologico, l’area archeologica, il monumento, il tratto
di mura, la rovina stessa, perdono il proprio significato per trasformarsi semplicemente in segni. Il momento, in altri termini, in cui il frammento archeologico,
nella sua lenta marcia di ritorno alla natura, si confronta con il mondo generale
delle forme architettoniche e con un tempo più ampio di quello storico a cui deve
la sua origine.
Mi possono servire come introduzione il bellissimo disegno di Carlo Scarpa che
raffigura la sezione dei resti archeologici di feltre(fig. 1) in cui la rovina come segno
torna ad appartenere al presente, e una bella frase di Ernst Jünger:
292
1 E. Junger, Sulle scogliere di marmo, Mondadori, Milano
1942, p. 104.
non una casa viene costruita, non una architettura progettata ove la ruina non sia implicita,
posta quale pietra di fondamento, ciò che in noi vive immortale, non trova pace nelle nostre
opere.1
2
origini. Proviamo a considerare le città. Ognuna di esse ha un’origine che permane nel corso del tempo e ciò non vale solo per le città antiche, ma anche per le
contemporanee. Questa sorta di “identità originaria”, funziona come un imprinting
e continua ad affermarsi anche quando tutto sembra cambiare. In un recente intervento, Saskia Sassen, parlando di new York e di Chicago, ha spiegato come, ad
uno sguardo attento, anche luoghi apparentemente simili lascino trapelare identità molto diverse – l’identità industriale a Chicago, quella finanziaria a new York
– che nel corso del tempo tendono comunque a manifestarsi declinando in forme
diverse la differenza di quelle città rispetto ad altre.
In alcuni grandi campi archeologici questo è particolarmente evidente. La natura
di Palmira, città carovaniera della Siria, non sarebbe, ad esempio, comprensibile
se non si considerasse la presenza nel suo impianto del Tempio di Bel, divinità babilonese in seguito assorbita dai Romani. La sua centralità, mantenuta all’interno
di tutte le successive vicende conosciute dalla città, ha funzionato come segno
identitario. Venuta meno la pratica di quell’antica religione, è rimasta come il segno, gelosamente conservato, di una differenza, di qualcosa che pre-esisteva alla
città e ne aveva sempre “patrocinato” la fortuna. un ruolo simile hanno avuto le
fonti d’acqua in città famose come Cirene il cui percorso fondativo è esemplare
per raccontare come da una città ne possa derivare un’altra. Cirene è una sorta di
“doppio” di delfi che nasce ad opera dei profughi di Thera come omaggio alla “capitale” della divinità Apollinea. dal santuario di Apollo(fig. 2) provengono le indica-
2 basamento del tempio di Apollo a delfi.
293
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
zioni per l’insediamento della colonia che riprende le forme della sua matrice e in
questo processo di clonazione, proprio alla fonte e trovata dai coloni sull’altipiano
libico e dedicata ad Apollo, spetta il compito di evidenziare il rapporto con delfi e
la sua fonte Castalia.
È difficile interpretare correttamente la complessità di queste relazioni, ma la
possibilità di entrare in contatto con quei nessi che nel corso del tempo mantengono la loro capacità di esprimere identità rappresenta l’unica garanzia perché, in
alcuni luoghi, non solo le loro forme ma anche la loro essenza profonda si mantenga in vita(fig. 3). Senza di ciò le città antiche si trasformano in asettici modelli
o musei, in tipologie urbane simili a molte altre, prive di qualunque capacità di
esprimere le differenze che contengono. Ma il tema delle differenze, come quello
dell’identità, non riguarda solo la storia. Quanto più la globalizzazione rischia di
omologare le città, tanto più diventa importante riflettere su questa questione ben
sapendo che l’architettura, con il suo meccanismo di riproduzione, più analogico
che logico, è sempre stata ciò che in questo processo relazionale ha avuto un
ruolo fondamentale.
294
Riusi. C’è poi un’altra questione importantissima che riguarda la vita dei resti
archeologici e che può riassumersi nella domanda: quando ha termine quella vita?
Sappiamo che il fatto che i monumenti del passato siano giunti sino a noi si deve
ad un loro continuo cambiamento di funzione. Il Colosseo, i templi di Agrigento, lo
stesso Partenone sono sopravvissuti al tempo perché nei secoli il riconoscimento
del loro valore materiale e simbolico si è accostato al continuo adeguamento a
funzioni che, via via, venivano ospitate al loro interno.
Questo tipo di riuso non ha riguardato solo i monumenti più importanti ma anche
tutto ciò che stabiliva connessioni e che assicurava il funzionamento dei territori.
I grandi acquedotti romani, ad esempio, che hanno mantenuto, trasformandosi,
la forza di elementi di organizzazione del paesaggio. Si potrebbe citare, a questo
riguardo, la trasformazione, da acquedotto a ponte, del Pont du Gard in Provenza
oppure il riutilizzo dell’acquedotto di Evora tra le cui campate si colloca una parte
della città storica. Le trasformazioni, dunque, sono state, da sempre, il modo attraverso cui le principali testimonianze archeologiche hanno potuto salvarsi.
E anche in questo caso si pone un problema nel rapporto odierno tra architettura
e archeologia. Sappiamo, infatti, che le discipline dell’archeologia e del restauro
tendono, al contrario, a interrompere questa possibilità di sviluppo affermando
come unico destino compatibile con il resto archeologico quello museale o conservativo legato ad un suo aspetto bloccato nel tempo e ad una sola delle sue
funzioni. Tuttavia, la vita di gran parte di questi resti è stata solo per un tempo
molto breve legata alla propria origine. Marguerite Yourcenar ce lo ricorda parlando delle statue antiche, rimaste statue per un tempo brevissimo, dopo essere
state pietra e prima di tramutarsi in frammento. Anche in questo caso ci possiamo
porre una domanda: la conservazione così come l’abbiamo praticata sino ad oggi,
è l’unica scelta possibile per la salvaguardia dei resti del passato? non sarebbe
3
il caso di distinguere gli interventi rispetto all’entità e al valore estetico dei resti
e, specie nel caso dei lasciti più “ordinari”, sperimentare forme di conservazione
basate sul riuso compatibile e su di un rapporto dialettico tra archeologia e architettura contemporanea?
3 interno scoperchiato di una chiesa nelle missioni
gesuitiche del Paraguay.
essenza. un’altra questione legata al tema generale della rovina riguarda il suo
mettere in evidenza qualcosa di essenziale perdendo il superfluo, qualcosa che
può essere definita come l’essenza dell’architettura.
Hanna Arendt, parlando di come Walter Benjamin produceva le sue idee, sembra
descrivere quello che avviene con il deterioramento che il tempo impone alle rovine:
Ciò che guida questo pensiero [quello di W.B] è la convinzione che, benché i viventi siano
soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione, che sul fondo degli abissi, ove affonda e si dissolve ciò che un
tempo era vivo, certe cose subiscono un “sortilegio del mare” e sopravvivono in nuove forme cristallizzate immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle che
un giorno scenderà da loro per ricondurle al mondo dei vivi quali “frammenti di pensiero”,
“cose ricche e strane”2.
295
2 H. Arendt, Il pescatore di perle: Walter Benjamin (18921940), “Merkur”, xxii, 1968, p. 92.
4
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
4 J. Plečnik, Ricostruzione immaginaria delle mura
romane, lubiana, 1920.
Anche se il riferimento è alle idee e non alle cose la frase chiarisce bene ciò che
avviene nel corso del tempo ad un certo tipo di architetture. La lenta usura evidenzia le cose essenziali e instaura un rapporto con tutto ciò che le circonda che non
è necessariamente quello originario. Gli architetti hanno spesso rappresentato
questa condizione, questo “livello 0” dell’architettura. Se ne può trovare traccia
in alcuni bellissimi disegni (1798-99) di friedrich Gilly, prove di prospettiva, prive
di connotazioni stilistiche, utilizzate come esercizio propedeutico per progetti veri
e propri, anche se ciò è avvenuto con maggior frequenza in altri contesti artistici.
Penso agli “Spazi ritmici” (1909) di Adolphe Appia per la scuola di Hellerau o alle
danze al Partenone (1920) di Isadora duncan la cui arte, rivolta alla ricerca dell’essenza dei gesti, l’aveva portata ad incontrare la Grecia e a cercare di intercettare,
tra le colonne dell’Acropoli, quello che lei chiamava il “ritmo del paesaggio”. Ritmo
percepito, da un altro punto di vista, anche da Auguste Choisy che in una famosa
pagina della sua Storia dell’Architettura (1899) parla dei movimenti fisici e visivi e
dei ritmi che rendono “mobile” e cangiante l’Acropoli attraverso la sua capacità di
costruire relazioni attorno a sé, con la città e il paesaggio.
La necessità di cogliere l’essenza è fondamentale nei luoghi in cui la storia ha
lasciato un segno, penso a Cuma, penso ai Campi flegrei e alla grande ricchezza
che essi esprimono. Qui la parte visibile è sicuramente meno importante rispetto
a tutto quanto è rimasto “in sospensione” nell’aria: storie, tradizioni, miti che non
scompaiono mai del tutto e possono sempre essere evocati, purché se ne riconosca la presenza.
Ma qual’è il sapere che può rendere possibile questo riconoscimento che non può
essere, se non parzialmente, favorito dai libri di storia? È il sapere degli architetti,
quello degli archeologi? forse nessuno dei due o entrambi purché siano coinvolti
in un processo di ricostruzione di sé stessi e arricchiti nello scambio reciproco.
Macerie. Ci sono altri momenti in cui un’altra parte della vita “segreta” dei luoghi
e delle forme diventa evidente. Momenti legati a distruzioni traumatiche: guerre,
terremoti, inondazioni che rivelano una sorta di atemporalità insita nell’architettura e rappresentata, spesso, da cumuli di macerie.
un testo di Marc Augé parla di rovine e macerie:
La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui
parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro,
non databile, assente da questo mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni.3
296
3 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati
Boringhieri, Torino 2003.
È qualcosa di non molto diverso da quanto si diceva poco fa e cioè la percezione
dell’esistenza di un tempo le cui dinamiche non possono essere comprese leggendo
i manuali di storia o di restauro, che non può essere ingabbiato in tecniche o interpretazioni univoche e che attraversa la vicenda del mondo. Allo stato ultimo, per collasso o usura, questo mondo produce solo macerie ma anch’esse possono trovare
una ricollocazione. Alcuni architetti, più di altri l’hanno dimostrato. Io mi sono per
molto tempo appassionato all’opera di Jože Plečnik, architetto sloveno che ricostruisce la sua città, Lubiana(fig. 4), a partire dalle macerie reali del terremoto che l’aveva
colpita e da quelle metaforiche della sua storia, riuscendo, in tal modo e attraverso
i suoi progetti, a rendere comprensibili e utili anche tracce di per sé insignificanti.
Ma questo è avvenuto anche altrove, nelle città tedesche dopo la Seconda guerra,
dove le macerie diventano parchi senza nascondere che anche la distruzione è
stata un momento fondamentale nella loro vita, o nel qt 8, a Milano, dove “la montagnola” costruita da Piero Bottoni utilizza simbolicamente le macerie prodotte
dalla medesima guerra con un’attitudine di assorbimento del disastro che non implica dispersione della memoria; cosa non molto diversa da quanto, sperimentato,
a Gibellina, da Alberto Burri con il suo “Cretto” costruito utilizzando le macerie
della vecchia città distrutta dal terremoto del 1968.
Pietre migranti. Se dovessi sviluppare una ricerca, legata a questi temi, mi piacerebbe costruire una mappa, anche solo del Mediterraneo, in cui fossero mostrate
le migrazioni di architetture, pietre, forme: marmi riutilizzati, tipologie riprese,
gemme ricollocate in una continua “confusione” di forme e culture che è la vera
caratteristica della nostra civiltà.
Sappiamo che le grandi moschee di Siria o Tunisia derivano dal riuso non solo
di tipologie ma anche di materiali precedenti: templi e colonne romane spostate
e riutilizzate. Ma la migrazione ha coperto distanze ben più grandi. Se qualcuno
ha visitato Leptis Magna avrà osservato sulla sua spiaggia tre colonne allineate.
È ciò che rimane in situ di un furto perpetrato da un console francese alla fine
del ’700, che aveva incominciato a trasferire i reperti romani in uno dei luoghi più
importanti dell’identità francese, la chiesa di Saint Germain des Prés, a Parigi,
dove tuttora si trovano. Ma i trasferimenti furono innumerevoli e arrivarono fino al
punto di prevedere lo spostamento di interi edifici come l’Arena di Pola, una delle
grandi arene del mondo romano, che, dopo essere stata progressivamente svuotata dai veneziani, per recuperare la preziosa pietra d’Istria di cui era fatta, diventa
oggetto, nel 1583, di un’ipotesi di trasferimento integrale a Venezia per dotare la
città della testimonianza di una romanità sempre conclamata ma di cui non erano
rimaste tracce in laguna. fortunatamente per Pola lo smontaggio viene impedito
da un nobile veneziano, Gabriele Emo, come ancora oggi attesta una lapide di ringraziamento per questo salvataggio in extremis.
I trasferimenti di architetture, statue, marmi, nel Mediterraneo, per esempio tra
Venezia e Bisanzio, costituiscono una vicenda di grandissimo interesse. non riguardano soltanto il riuso di oggetti e materiali preziosi ma, anche di forme e
costumi assunti consapevolmente dalla città ad arricchimento di un’immagine debole e precaria come i suoi edifici.
il senso delle cose. Mi sono lungamente interessato anche a dimitris Pikionis,
architetto greco che dell’archeologia si è occupato da vicino, ma solo con il tempo
297
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
5
298
5 d. Pikionis, Parco dell’Acropoli ad Atene, 1960.
ho capito la sua importanza dentro la questione generale di cui stiamo parlando.
una vera illuminazione su quanto imprevedibili possano essere le connessioni nel
mondo delle forme architettoniche mi è stata procurata dalla lettura del libro di
níkos Kazantzákis, Le roman des rochers. Il libro esce nel 1957 ma è stato scritto
nel 1934 a Egina dove Kazantzákis, come Pikionis di cui era amico, passava le
sue vacanze. Parla del Giappone e della Cina e in alcuni passi ricorda la capacità
dell’architettura giapponese di dare significato alle cose rinunciando a qualsiasi
forma di ridondanza.
negli stessi anni in cui il volume esce Pikionis costruisce la sua opera più importante: il Parco dell’Acropoli ad Atene(fig. 5) la cui singolarità viene riconosciuta,
prima di tutti, da Lewis Mumford, che in The City in History (siamo nel 1961 a pochi
mesi dal termine dell’intervento) dedica una paginetta a questo architetto sconosciuto che ha avuto, a suo dire, la grande capacità, di “resuscitare i significati”, attraverso un gesto architettonico quasi astratto senza citare direttamente nessuna
forma del passato. Pikionis, in effetti, non usa la cultura archeologica o storica del
suo tempo, che pure conosce molto bene, ma piuttosto Klee e Kandinskij, evoca
altre culture lontane come quella orientale. Più che sulla ripetizione di ciò che
non può più essere resuscitato Pikionis ragiona sull’astrattezza, sul rapporto tra
frammenti (di architetture o di paesaggi) riprendendo uno dei caratteri che le rovine maggiormente esprimono. Per farlo, rompe barriere temporali e spaziali. La
sua opera dimostra come forme differenti, in luoghi differenti, possano declinare
gli stessi temi e come per questo l’intreccio sia non solo lecito ma anche auspicabile e necessario. La sua opera e i suoi scritti parlano dell’esistenza di una sorta di
“vita universale” delle forme che rende l’accostamento di esperienze lontane non
velleità o riferimento da architetti, ma parte di un meccanismo attraverso il quale
i luoghi del mondo affermano somiglianze e differenze allo stesso tempo.
segni. Gli architetti, gli archeologi o semplicemente il tempo tendono, anche non
volendo, quando si occupano del passato a sottrarre i luoghi, le architetture o le
rovine a tutto ciò che li aveva generati, a trasformarli in “oggetti”, e questo è un
altro tema importante. A Machu Picchu o ad Ollantaytambo, in Perù, l’architettura
incaica, afferma una propria vita sottratta agli usi, ci appare semplicemente come
segno, architettonico o territoriale. E, come segno, instaura relazioni che la storia
non può spiegare, con meccanismi simili appartenenti ad altre epoche, sperimentati in altre parti del mondo. A Moray, sempre in Perù, c’è un luogo che ricorda un
anfiteatro romano, ed era invece una macchina per la coltivazione creata dagli Incas per sfruttare la differenza di clima dei diversi gradoni scavati nel terreno. nei
pressi di Bacoli, per converso, c’era un piccolo anfiteatro i cui gradoni reggevano
l’impianto di filari continui di vigne. In entrambi i casi la forma si è sottratta al rapporto con l’origine e oggi ci appaiono talmente simili che un attento osservatore
come Bernard Rudofsky attribuisce anche al primo esempio un’origine teatrale. In
ogni caso il rapporto a distanza delle loro forme è evidente. Chan Chan, città preincaica del Perù settentrionale, è fatta da nove colossali recinti autonomi tra loro
che costruivano una capitale senza strade o tessuto connettivo. La sua origine
costruttiva deriva dai sistemi agricoli usati nel territorio e quella insediativa dal
rapporto con la montagna sacra che sorge alle sue spalle, ma di tutto ciò rimane
ben poco. Solo camminando tra vasti spazi percorsi dal vento e guardando con attenzione si può cogliere ancora tutta una gamma di rapporti visivi che legano a distanza i recinti alla vetta della montagna regolandone le altezze, tecniche semplici
che determinano effetti eccezionali. Se tutto ciò sparisse del tutto, per eccesso di
conservazione o per incuria, rimarrebbero solo dei lunghi muri di terra destinati
a sciogliersi nel corso del tempo e si perderebbe la percezione dell’eccezionalità
di questo luogo. I segni del passato, dunque, che il tempo rende simili a quelli del
presente, non perdono per questo la loro differenza che un buon progetto può
sempre evocare.
6
Ferite. Gadda narrando la sua esperienza nella Prima guerra mondiale scrive:
Crateri infernali divelsero la foresta funebre, la fucileria era un boato unico e fuso nella
notte dallo Zovetto all’Emerle. Verdi o bianchissimi o rossi, i razzi illividivano i pini divelti,
strane voci risuonavano da presso come radunate minacce […]. E il monte e il colle divennero una cava di ghiaia, e nient’altro che una cava di ghiaia4.
nelle sue parole possiamo cogliere l’esaurimento per distruzione non di una città
o di un’architettura ma di una geografia. Ancora oggi sono testimonianza di questo
stravolgimento i segni delle trincee o delle fortificazioni legati alle molte guerre
che hanno cambiato la faccia del nostro paese finendo con il diventare, essi stessi, geografia(fig. 6). Ad essi è legato un sistema di punti di vista che nel corso del
tempo ha perso i suoi obiettivi militari ma ha mantenuto, invece, la sua capacità
di delineare, di inquadrare i punti principali del paesaggio contribuendo, spesso,
a trasformare aspetti comuni della topografia in componenti mitiche dentro la
retorica della guerra. In uno dei suoi progetti più belli, il monumento per il giovane
Sarfatti (1935), morto diciannovenne sull’Altipiano di Asiago, Giuseppe Terragni ha
interpretato tutto questo. Ma i bombardamenti e le mine hanno anche creato una
forma di rovina del territorio sotto forma di crateri e spaccature che, come si può
vedere in normandia o nel Montello sono diventati segni identitari legati alla vita
attuale di questi luoghi. forse Gadda intendeva questo con la sua frase: quando un
paesaggio viene trasformato in pietraia dalle bombe perde le sue caratteristiche
originarie e ne assume altre. Anche Andrea Zanzotto, uno dei grandi poeti italiani,
parla di quanto le tracce delle rovine di guerra, pur materialmente quasi esaurite
siano ancora fortemente presenti in alcuni luoghi e in uno scritto illuminante (The
Necessity for Ruins, 1980) J.B. Jackson, geografo americano che fu soldato in Europa durante la Seconda guerra mondiale, parla della necessità delle rovine nel
nostro tempo, riferendosi soprattutto a quella condizione di indefinitezza e di non
finitezza che caratterizza le architetture quando, una volta esaurito il loro compito
primario, iniziano un’altra vita.
6 tracce di trincee della Prima guerra mondiale
sugli altipiani veneto-trentini, 1917.
299
4 C. E. Gadda, Il castello di Udine, Edizioni di Solaria,
firenze 1934.
le nostre rovine. L’ultima questione riguarda una condizione e allo stesso tempo,
potremmo dire, una prospettiva di lavoro. una frase di daniele del Giudice ci può
essere utile per introdurla:
7
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Ogni secolo ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio:
le nostre rovine hanno questo di particolare, sono rovine del presente, non custodiscono
memoria né portano tradizione non hanno fatto in tempo ad accumulare tempo, alcune
sono già rovine alla nascita, implose all’improvviso o ruderi da subito, sopravvissuti ironicamente, se per rovina si intende non soltanto lo sbriciolarsi delle pietre ma anche dell’anima che potrebbe abitarle5.
7 A. Ferlenga e MAoMI, sistemazione delle piazze di
Castiglione delle stiviere, 2011.
300
La frase sostiene che la condizione di rovina o la condizione di esaurimento di
un’architettura si manifesta quando l’anima che la abitava viene meno, ma quali
sono le nostre rovine prevalenti?
È abbastanza evidente che le principali rovine del nostro tempo riguardino l’enorme quantità di infrastrutture dismesse che giacciono sul territorio senza che
possano essere, per motivi differenti, distrutte. Le case, i monumenti, si fanno,
si ricostruiscono, si riaggiustano; per le infrastrutture è tutto più complesso. Alcune sono troppo costose da abbattere, altre appartengono ancora a istituzioni
che non esistono più. Questa enorme quantità di frammenti e di oggetti in rovina
rappresenta oggi una grandissima occasione di progetto che se fosse rimessa in
relazione con i luoghi di cui fa parte potrebbe costituire un’enorme risorsa per il
paesaggio italiano considerando che la sua maggior caratteristica non è la qualità
architettonica ma la capacità di connettere(fig. 7). Perché ciò avvenga dovremmo
però invertire quella pratica che vede gli architetti oggi più attenti ai nuovi paesaggi interni delle loro architetture che a quelli esistenti che le attorniano. C’è un
grande intreccio di relazioni che oggi richiede di essere interpretato perché i luoghi riprendano ad esprimere qualità e significati. Abbiamo un grande patrimonio
paesaggistico e monumentale connotato da una grande diversità. una grande ricchezza rispetto alla quale la logica dilatata della conservazione non può più essere considerata l’unica via percorribile. Quello che servirebbe è la messa in atto di
una grande opera di sperimentazione che affidi all’architettura contemporanea il
compito della salvaguardia di vitalità e della riattivazione di relazioni e servirebbe
una nuova cultura perché ciò possa avvenire, una cultura che metta al centro dei
suoi interessi le relazioni e non solo gli oggetti.
The text deals with the theme of the relationship among archaeology, architecture, and landscape from a particular standpoint. The intention is to back up the
belief that to speak today of this subject does not necessarily mean to refer to the
past, but to tackle several fundamental questions that concern the present and,
specifically, the ways through which, in the present, the physical territory in which
we live is built. The idea is that, since this reflection is profitable, it is necessary
to escape the weight of those cultures which are in part worn out, and which traditionally belong to the two disciplines in play. The considerations made concern
the difficulty of a comparison between disciplines like architecture and archaeology which, once united, have become more and more separated and, on the other
hand, the uselessness of the creation of an “intermediate culture”. Examples and
arguments are used to assert the necessity to rebuild a dialogue starting from
the reflection and the “design” practice on common themes, as well as from an
encounter without prejudice of any kind. Attention will be focused mainly on the
importance of reflecting not so much and not only on the preservation of the single
structures left to us by the past or on their “museumification”, but on the recomposition of these relationships among architecture, history, and landscape that
were at the basis of the creation of a territory as unique as Italy, but which acquire
a particular sense in all places dense with history. Today, perhaps, archaeology,
like architecture, should shift attention from the protection or creation of “objects”
to the rebuilding of the ties with those fabrics and contexts that constitute the main
reason for the quality of a piece of architecture as well as of a place.
siGNs
ABSTRACT
301
5 d. del Giudice, Prefazione a W. Wenders, Una volta,
Socrates, Roma 1993.
il diAloGo tRA ANtiCo e CoNteMPoRANeo
Pier Giovanni Guzzo
un dialogo sempre esistito. Vorrei cominciare da un fatto di cronaca: a Roma,
comunica la stampa quotidiana che si è trasformata un’antica cisterna romana, sita nel parco archeologico della Caffarella(fig. 2), in una grande baraccopoli
all’interno della quale vivono una trentina di persone fra cui alcuni rom. Quindi
i militari hanno proceduto allo sgombero, come di frequente accade. Possiamo
forse considerare questo episodio come un estremo, ma forse neanche tanto
estremo, riuso, nel dialogo tra l’antico e il moderno.
L’antico e il moderno si incontrano, dialogano tra di loro e l’esito di questo dialogo nel corso del tempo può produrre una gamma vastissima di risultati che
vanno dall’interferenza, al rifiuto, alla distruzione, al riadattamento. La varietà
di questa gamma cambia e si può sintetizzare nel cosiddetto caso per caso che
non segue una costante. Questo dialogo, questa interferenza non è una caratteristica contemporanea. Il dialogo, nei suoi diversi esiti, c’è sempre stato, da
quando c’è registrazione e memoria di attività umana.
Quella che risulta come la più antica registrazione, la più antica memoria di
un esempio del genere, è conservata nelle cronache di un regno babilonese
della fine dell’viii secolo a.C. Vi è registrato che un re di Babilonia, nel costruire un tempio per le divinità, trovò durante lo scavo per le fondazioni del nuovo
tempio i resti di un tempio precedente nel tempo. da questo ritrovamento, quel
re trasse autorità, ancora maggiore legittimazione per la costruzione del suo
nuovo tempio. Si è molto discusso, fra i moderni, se il ritrovamento fosse reale
oppure sia stato un’invenzione: l’importante, per il nostro argomento, è che in
questo caso piuttosto antico ci rimanga una registrazione scritta che evidenzia
una relazione tra un fatto antico e un fatto contemporaneo. d’altra parte questa
situazione babilonese è più o meno contemporanea a quanto la nostra generazione di archeologi ha registrato archeologicamente, e quindi materialmente,
a Megara Iblea(fig. 3), fondazione greca dell’viii secolo a.C. nel territorio di Augu-
1 Christo, Le Mura, progetto per la copertura delle
mura della città, Roma, 1974 (da: da: Christo, Der
Reichstag und urban Projekte, Prestel-verlag,
München 1993).
303
3
4
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
2
304
sta, nella provincia di Siracusa. L’episodio è, quindi, più o meno contemporaneo
all’esempio babilonese.
I Greci, provenienti da Megara nisea, arrivati in Sicilia per impiantare la loro nuova città, nel sito che avevano identificato come il più favorevole per la loro nuova
città, trovano i resti di un villaggio neolitico, cioè di un insediamento del v millennio a.C. Questo insediamento era circondato da un grosso fossato che serviva a
proteggere il villaggio stesso: in tal modo questo veniva a trovarsi sicuro come
se si fosse trovato su un’isola. Abbandonato il villaggio già nel v millennio a.C.,
il fossato si è riempito nel corso del tempo: ma il riempimento non compattato
ha creato un avvallamento rispetto al piano di campagna. Inoltre, i Greci appena
arrivati hanno proceduto con i lavori da questa terra di riempimento e sono venuti
fuori cocci, strumenti ed altri oggetti del periodo neolitico che hanno evidentemente creato un problema di comprensione, di interpretazione per coloro che li
ritrovavano. Ciò venne a costituire un fatto straordinario, eccezionale, visto che
nel resto del pianoro, esteso per circa 80 ettari, non furono trovati altri resti del
genere: i Greci decisero allora di estrapolare questo settore dalla rete stradale
prevista nel piano regolatore da loro elaborato per organizzare al meglio la loro
nuova città e di utilizzarlo come un’area destinata ai culti. Gli si da cioè uno sta-
tuto particolare, che non sembra abbia rispondenze con la partizione funzionale
della città di fine viii secolo a.C.
Evidentemente questo ritrovamento eccezionale, questo impatto tra un moderno
dei fondatori e un antico del v millennio a.C. ha modificato le linee programmatiche
e progettuali di sviluppo della nuova città, individuando una funzione di ruolo non
secondario, come è quello della funzione sacra.
A questo caso, a dimostrazione della varietà di esiti del dialogo tra antico e moderno, si oppone quanto registriamo archeologicamente a Metaponto (fine vii secolo
a.C.)(fig. 4), e a Taranto (fine viii secolo a.C.). nei siti in cui sono state impiantate queste città greche, preesistevano insediamenti, ma i nuovi fondatori hanno rasato
al suolo le strutture trovate per costruire le loro città al di sopra di esse, senza
curarsene affatto.
i cambiamenti del paesaggio. d’altra parte non è solo una questione di dialogo tra
elementi puntuali più antichi ed elementi puntuali più moderni. Il dialogo tra antico
e moderno interessa anche il paesaggio: cambia nel tempo anche la composizione
di elementi costruiti all’interno del quadro ambientale, le caratteristiche del quale,
2 il paesaggio del Parco archeologico della
Caffarella a Roma.
3 Megara iblea, resti archeologici.
4 Resti archeologici dell’antica città greca di
Metaponto.
305
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
5
306
5 Resti archeologici dell’antico insediamento greco
di velia.
combinandosi con le caratteristiche dei fatti costruiti, vanno a formare il paesaggio. Ci sono cambi di paesaggio di grande estensione.
Tucidide nel vi libro delle sue storie, composte nella seconda metà del v secolo
a.C., traccia un profilo delle vicende avvenute in Sicilia prima che nel 426 a.C. gli
Ateniesi iniziassero una guerra contro Siracusa. Lo storico scrive che prima che
arrivassero i Greci in Sicilia, tutte le isolette costiere e tutti i promontori dell’isola
erano occupati da insediamenti di fenici. Man mano che arrivarono i Greci, i fenici lasciarono i loro precedenti insediamenti e si concentrarono nel settore nordoccidentale dell’isola, nel quale abitarono le città di Palermo, Mozia e Solunto.
ne derivò un radicale cambio del paesaggio: ai bordi delle coste siciliane si avevano
fino all’arrivo dei Greci presenze di stanziamenti fenici, mentre successivamente
questa costellazione di punti costieri viene abbandonata e gli stanziamenti fenici
si concentrano a nord-est. un altro esempio che potremmo ricondurre ancora a
questa categoria, è il caso di Velia(fig. 5). Velia, che si trova poco a sud di Paestum,
deriva da una fondazione focea avvenuta intorno al 530 a.C. Secondo le notizie tramandate e raccolte da Erodoto, i focei emigrarono dalla loro madrepatria, focea,
che si trovava sulla costa dell’Asia Minore, per sfuggire al dominio dei Persiani;
giunti sulla riva tirrenica, trovarono il luogo confacente alle proprie esigenze e
quindi comprarono dagli Enotri, che occupavano tutta quella zona, il sito sul quale
costruire la loro nuova città. Al contrario di quello che è successo in Sicilia, il paesaggio di questo tratto di costa tirrenica, fin allora privo di insediamenti costruiti,
si modifica verso la presenza di insediamenti costruiti, strutturati da genti greche
con case dai muri di pietra e mura di difesa tutt’intorno.
revole, dunque, il cadavere di Romolo non fu mai stato trovato. Su queste vicende
controverse nella stessa tradizione antica, si costruisce un particolare rapporto
tra elementi materiali e l’immaginario.
nel foro romano, che è stato il centro della vita politica della repubblica romana,
sappiamo dalle fonti letterarie che si trovava un cippo di tufo con le facce iscritte.
nessuno era in grado di leggere e comprendere quel testo, così che il cippo fu
identificato come pietra sepolcrale della tomba di Romolo: posta al centro del
foro, a costituire “l’ombelico” della città, come si addiceva al suo fondatore. Le
due versioni tradizionali, come si è appena detto, per quanto opposte tra di loro
non contemplano il ritrovamento del cadavere di Romolo, ma i Romani identificarono lo stesso il cippo sepolcrale e l’iscrizione, ritenuta sepolcrale, del loro
primo re.
nel 1895 è stata ritrovata, durante gli scavi archeologici condotti da Giacomo Boni,
questa pietra inscritta(fig. 6) in latino arcaico (di vii-vi secolo a.C.): il suo testo contiene le norme per una cerimonia sacra, anche se non tutti i moderni sono d’accordo su questa interpretazione. Ma già Varrone (che scrive nel i secolo a.C. e
che identifica questa pietra come epitaffio di Romolo) non riusciva più a leggerlo.
Ma perché Varrone identifica questa iscrizione come epitaffio di Romolo se, non
essendo stato rinvenuto il corpo, la relativa tomba con il suo cippo non avrebbe
dovuto esistere?
Abbiamo finora cercato di rappresentare, nel dialogo tra antico e moderno, due
categorie: gli interventi puntuali e gli interventi che con maggiore pesantezza modificano l’apprezzamento del paesaggio. A queste due possiamo aggiungere una
terza categoria: quella ideologica e non solamente materiale.
Infatti, sappiamo da molte fonti storiche antiche che il i secolo a.C. è stato un
periodo assai turbolento per la Repubblica, a causa della guerra civile tra Mario
e Silla, ad esempio. ne consegue la necessità di fare riferimento una figura,
dotata di autorità e che, per ciò stesso, non si presti ad essere strumentalizzata
da una delle fazioni in lotta, che rafforzi l’identità di Roma. Inoltre la tradizione
architettonica di cultura greca prevedeva di costruire un cenotafio (cioè una tomba, anche se priva del corpo) al fondatore della città, posta al centro della piazza
maggiore, e cioè al centro della intera vita pubblica: a Roma questo sito centrale
si identifica nel foro. Il rapporto tra una realtà antica della quale non si è più in
grado di comprendere il perfetto significato originario (nel nostro esempio: il
testo inciso sul cippo di tufo) ed esigenze invece ideologiche moderne (identificare una figura autorevole di riferimento) viene esemplificato in questo caso di
rilevante importanza.
Romolo continuava, infatti, a costituire un riferimento importante: oltre alla sua figura di fondatore, si mostravano in cima al colle del Palatino i resti di una capanna
identificata come quella di Romolo stesso. Periodicamente si provvedeva a curare
la manutenzione e la sostituzione di quegli elementi che si fossero deteriorati a
cura dello Stato. Accanto alla presunta capanna di Romolo, Augusto costruì la
propria casa. Quindi di nuovo c’è il dialogo tra un antico ipotizzato e un moderno
documentato.
nella storia di Roma antica, troviamo elementi per identificare questa terza categoria. E gli elementi che sostanziano questa categoria ideologica si riferiscono
a Romolo. Romolo è il simbolo della potenza di Roma ed è quella personalità
mitica o reale, a seconda delle versioni, alla quale si riferiscono i diversi successivi uomini di Stato, che prendono in mano il controllo prima della Repubblica e
poi dell’Impero. Secondo la tradizione più ampiamente diffusa, riportata nelle
narrazioni della storia antica di Roma da Plutarco e da altri storici, si registra
che Romolo, quando morì, fu assunto in cielo durante un temporale: così che i
primi Romani, che non riuscirono a trovarne il corpo, vennero alla convinzione
che il loro fondatore era destinato a divenire un dio. Ma a fronte di questa versione laudatoria è conservata anche un’alternativa più modesta, secondo la quale
Romolo era divenuto tanto nemico dei senatori che questi lo uccisero, ma poi ne
nascosero il cadavere, per paura che il popolo li ritenesse colpevoli di omicidio.
Per spiegare la mancanza del corpo, gli stessi senatori dissero che era stato
assunto in cielo. Secondo ambedue le tradizioni, quella favorevole e quella sfavo-
È qui che si innesta con forza la terza categoria del dialogo tra antico e moderno:
quella ideologica.
6
6 Pietra in tufo con le facce inscritte in latino arcaico
rinvenuta durante gli scavi archeologici condotti da
Giacomo boni nel 1895.
307
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
308
Questo dialogo tra antico e moderno è anche descritto in Aristotele che scrive
nella seconda metà del iv secolo a.C. Il filosofo si riferisce all’impostazione della
forma, della figura con la quale la città viene costruita o si sviluppa.
A quanto scrive, ci sono due tipi di città: uno antico ed uno moderno, cioè contemporanei ai propri tempi. La città moderna è quella che noi definiamo, con strade
larghe e rettilinee con incroci ortogonali: come esempio si può citare il caso del
centro storico dell’attuale napoli. una città considerata da Aristotele come moderna è ben funzionante, in quanto l’acqua scorre via bene, il vento passa tra gli
isolati mantenendoli salubri e così via. Ma se una città moderna viene conquistata
dai nemici, essi sono in grado di percorrerne velocemente le larghe strade, e in più
diritte, e arrivano così a conquistarne il centro molto facilmente. Al contrario, le
città considerate antiche hanno viuzze storte e curve delle quali non si capisce la
direzione: e, quindi, chi non le conosce non sa come dirigersi al centro della città.
Magari le città antiche hanno problemi di igiene, però se vi penetrassero i nemici,
essi non saprebbero dove andare e sarebbe più facile difendersi. nella tradizione
letteraria ci sono almeno due esempi successivi a questa considerazione di Aristotele che ne confermano il concetto. La più antica risale alla prima metà del iii
secolo a.C., anni nei quali Pirro, re dell’Epiro, assedia Argo, riesce ad entrare nella
città, ma nei vicoli stretti si crea una calca tale che gli arcieri riescono a difendere
la città. nel 212 a.C., invece, Annibale durante la Seconda guerra punica stringe
accordi con i congiurati tarantini, i quali fanno entrare dalla porta principale l’esercito cartaginese che arriva rapidamente fino al centro della città e la conquista
ai Romani che fino allora la tenevano.
Anche in questi esempi di rapporto tra antico e moderno c’è un antico che ha svantaggi ma anche vantaggi, e una costruzione urbanistica moderna che ha vantaggi
e svantaggi di segno opposto. L’interessante, per noi, è che di questo aspetto si è
occupato Aristotele, che è stato uno dei maggiori pensatori del mondo occidentale.
Aristotele, a quanto si conserva dei suoi scritti, non ha espresso una sua preferenza al riguardo dell’esempio che tratta. E, di certo, una sua eventuale preferenza al
riguardo troverebbe, oggi, sia fautori sia detrattori.
In ogni periodo storico, e quindi culturale, le esigenze contemporanee dettano,
per gran parte, le linee di azione e i comportamenti concreti. Ma la convivenza tra
antico e moderno, l’esigenza di non distruggere tutto quanto realizzato dall’uomo
prima di noi, è un imperativo culturale: in quanto noi, oggi, siamo quello che siamo
in quanto che, prima di noi, ci sono stati i nostri predecessori.
The ancient and modern meet, converse, and the outcome of this dialogue over time
may produce an extremely vast range of results spanning from interference, to rejection, to destruction, to readaptation, The variety of this range changes and may be
summarized in the so-called case by-case that does not follow a constant.
furthermore, this dialogue, this interference, is not a contemporary characteristic.
The dialogue, in its different outcomes, has always existed, ever since there has
been a recording and memory of human activity. In particular, the most ancient account of a concrete case of ancient-new relationship is found in the chronicles of a
Babylonian kingdom of the late 8th century BC, and is contemporary with what was
archaeologically recorded in Megara Iblea, in the province of Syracuse, where the
Greeks, already in the 8th century, adapted the building of their colony to the finds of
a neolithic village dating from the 5th millennium BC.
It is not only a question of dialogue among intermittent ancient and modern architectural elements, since the dialogue between ancient and modern also concerns
the transformations of the landscape: over time there is a change in the composition
of the elements built within the environmental framework, the characteristics of
which, combining with the characteristics of the structures already built, together
form the landscape. There are extremely extensive landscape changes that can be
found, for example, in the case of the transformations of the Sicilian coast during the
transition from the Phoenician to the Greek period, or in the case of the settlement
of Velia, just south of Paestum, along the Tyrrhenian coast.
Thus two categories of interferences can be identified (the operations here and
there and the operations which, with a greater heaviness, modify the appreciation
of the landscape), to which a third category may be added: the ideological, and not
merely material, particularly characteristic of the events connected with the history
of Rome and the figure of Romulus.
To clarify the importance of this theme of the bringing together of the ancient and
the modern, suffice it to remember that even Aristotle, who was one of the Western
world’s greatest thinkers, discussed it, referring explicitly to two types of city: one
Ancient and one Modern, i.e. Contemporary for those times.
In every historic, and therefore cultural, period, the Contemporary needs dictate, for
a large part, the lines of action and the concrete behaviours. But the coexistence of
ancient and modern, the need to avoid destroying everything created by man before
us, is a cultural imperative, since we, today, are what we are because of what our
predecessors were before us.
tHe diAloGue betWeeN tHe
ANCieNt ANd tHe CoNteMPoRARY
ABSTRACT
309
ARCHeoloGiA e ARCHitettuRA
Joseph Rykwert
Che cos’è il patrimonio? Archeologia e architettura sono due facce della stessa
medaglia. Qualcuno ha definito l’archeologia come la distruzione sistematica delle
vestigia del passato: l’archeologo scava un livello dopo l’altro, per raggiungere il
suo scopo, distruggendo tutti quegli strati che intralciano la sua ricerca. Il problema dell’archeologo risiede sempre nel decidere cosa e come conservare – e
che valore deve avere questa sua azione di tutela. In Italia, purtroppo, un grande
maestro ha lasciato un forte condizionamento sul pensiero di quelli che si occupano del patrimonio storico: Gustavo Giovannoni, il quale ha ricoperto la cattedra
di Rilievo e Restauro dei monumenti all’università di Roma per anni. Giovannoni
aveva una fede molto positivista ed era fermamente convinto della possibilità di ritornare, restaurando un edificio, sempre alla sua idea originaria. Il restauro, nella
sua concezione, era la ricerca del progetto originale. Il restauratore ha, quindi, la
licenza di rimuovere quelle stratificazioni lasciate dai periodi intermedi, offuscanti
l’originaria concezione dell’edificio ovvero il patrimonio autentico.
Cosa è dunque il patrimonio? Questa è una domanda che un architetto si deve
porre ogni volta che lavora su un sito storico.
La storia degli Orti farnesiani(fig. 2) è emblematica per introdurre la questione: questo disegno, raffigurante gli Orti farnesiani con il sottostante Campo Vaccino, è
stato eseguito nel 1800 da francesco Panini, figlio del più celebre Giovanni Paolo,
ed inciso da un altro autore all’incirca nel 1800. Sullo sfondo si intravede il retro
del Campidoglio. Gli scavi sporadici saranno ampliati verso il 1800, per essere poi
continuati in modo episodico fino a diventare una vera campagna di scavi durante
il Pontificato di Benedetto xv e subire poi una profonda trasfigurazione ad opera
di Giacomo Boni.
Questo è lo stesso sito nel 1950(fig. 3), il Campidoglio ovvero gli Orti sono scomparsi, i
padiglioni sono coperti da alberi; il Campo Vaccino è diventato un parco archeologico.
2
3
1 Herzog & de Meuron, Paglione Serpentine Gallery,
london, 2012.
2 orti Farnesiani, rappresentazione del 1800.
3 orti Farnesiani nel 1950.
Il testo è la trascrizione della conferenza tenuta
da Joseph Rykwert il 4 giugno 2012 presso il
dipartimento di Architettura dell’università degli
Studi di napoli federico ii.
311
4
6
7
8
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
5
312
4 Herzog & de Meuron, Spaccato del padiglione della
Serpentine Gallery del 2012.
5 Herzog & de Meuron, Sezioni del padiglione della
Serpentine Gallery del 2012.
6 vista aerea del padiglione della serpentine
Gallery realizzato da Herzog & de Meuron nel 2012.
Cosa era dunque patrimonio essenziale? Il patrimonio dell’immagine iniziale o la
sua trasformazione nella seconda?
il paradosso della serpentine Gallery. Per indagare questa questione vi presento come paradosso un progetto di un edificio che è stato realizzato a Londra nel
mese di giugno 2012(fig. 4), il padiglione sul prato antistante la Serpentine Gallery, su
progetto di Ai Wei Wei, artista e architetto cinese, e degli architetti svizzeri Herzog
e de Meuron.
La Serpentine Gallery è un piccolo edificio degli anni ’20 del secolo scorso – una
architettura che può essere considerata minore – costruita per ospitare un caffè,
e più tardi trasformata in galleria d’arte. Ogni anno d’estate – da dodici anni – questa galleria commissiona a un noto architetto che non ha mai realizzato un suo
progetto a Londra – tra questi si annoverano frank Gehry, Peter Zumthor, Jean
nouvel, Zaha Hadid – un padiglione temporaneo che viene smontato dopo tre mesi.
Quando hanno chiesto a Wei e ad Herzog e de Meuron di costruire un padiglione,
loro hanno risposto: “no, a noi non interessa realizzare capricci, noi raccontiamo
una storia”.
La vista aerea (fig. 6) mostra a sinistra il caffè della galleria e i due cerchi – non concentrici – del padiglione. Questa forma è il risultato di uno studio delle tracce degli
undici padiglioni che hanno preceduto il loro progetto, che si caratterizza come un
riassunto di questa sovrapposizione.
Il prodotto di tale operazione risulta essere una superficie molto movimentata,
come se ci fosse stato realmente uno scavo, ma invece la verità è che sotto il prato
non c’era un bel niente, perché ogni precedente padiglione temporaneo era stato
completamente rimosso, come esigono i regolamenti del parco, che vietano la
conservazione di qualsiasi frammento anche di una piccola fondazione.
Ai Wei Wei, Herzog e de Meuron hanno, quindi, ricostruito una specie di sovrapposizione degli undici padiglioni precedenti. ne è risultato un piano molto sconnesso
e molto difficile da praticare, che è stato caratterizzato dall’applicazione di un rivestimento unitario, utilizzando un materiale solido ma allo stesso tempo confortevole, il sughero, che è anche tale da offrire una certa compattezza.
La sezione(fig. 5) mostra come il tetto, molto basso, sia in realtà un bacino profondo
solo 30 cm, sostenuto da pilastri di acciaio e capace di offrire una superficie di
acqua riflettente. Si entra, dunque, in questa caverna molle al di sotto di un strato
di acciaio, come se si trattasse di un monumento preistorico: infatti fa pensare
ad un dolmen. Questo gioco è stato possibile per gli architetti che si sono serviti
dell’archeologia immaginata. un archeologo invece è sempre condannato a mettere ordine a ritrovamenti. Sono resti, quelli delle archeologie reali, che hanno
una loro autentica storia da raccontare. L’archeologo è sempre costretto a imporre un suo ordine violento e aggressivo sia sul suolo sia sui relitti sepolti di
un passato ignoto. I luoghi archeologici sono fortemente caratterizzati dall’ordine
imposto dall’archeologo durante il corso dello scavo: i pochi resti, appena visibili,
del vi millennio(fig. 7) sono sopraffatti dall’ordine arbitrario che non ha niente a che
fare con quello che esiste sotto terra, ordine necessario per poter procedere con
metodo.
7 luoghi dell’archeologia.
8 scavo del boni di un edificio del tempo di
Augusto.
313
9
abitazioni: importante però è che si è riuscito a produrre materiale sufficiente dai
suoi primi scavi prima che la sua sorte cambiasse, poiché fu espulso dalla Turchia, con il divieto di effettuare ulteriori scavi.
Le case(fig. 10) di questo insediamento non sono divise da strade e si suppone che i
camminamenti fossero al livello dei tetti: l’entrata alle case ed ai cosiddetti santuari
avveniva attraverso una scala dal tetto. un altro elemento che costruiva tale insediamento erano la serie di cortili attraverso cui le case potevano prendere luce ed
aria. Le abitazioni presentavano un’articolazione spaziale abbastanza complessa.
Gli archeologi scopritori di tale insediamento sono stati particolarmente sorpresi sia dalla complessità architettonica che dall’elaborato sistema di decorazione
presente in queste costruzioni del vi millennio a.C. In una sala sono stati rinvenuti
graffiti di grossi buoi(fig. 11), sculture raffiguranti teschi bovini e capre poste sulle
pareti come altorilievi, ed anche gli arredi lapidei, come ad esempio una panca che
funge oltre che da seduta anche da elemento separatore dello spazio, è definita da
quattro colonne interamente modellate su figure bovine con corna sporgenti. non
si conosce l’origine né la fine delle popolazioni che hanno abitato questo villaggio,
ma si suppone che questo insediamento faccia parte di una catena di insediamenti
scavati nell’est che, ad oggi, si continuano a scoprire.
I nostri antenati non si curavano del patrimonio artistico, infatti la poesia epica
è piena di racconti delle distruzioni di città: fu rasa al suolo Troia ed arsa Atene,
come fu distrutta Cartagine. In sintesi si può affermare che la storia epica sia
una storia di distruzioni. Le rovine frutto di tali distruzioni giacciono coperte dalle
nuove costruzioni, poiché le popolazioni, attaccate al luogo malgrado le sofferenze
subite, tornavano e ricostruivano nuovi spazi da abitare.
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9 scavi nella pianura di Catal Huyuk.
10 Case dell’insediamento ritrovato durante gli
scavi nel Catal Huyuk.
11 Graffiti rinvenuti all’interno di una sala
durante gli scavi nel Catal Huyuk.
12 Hagia sophia.
13 Colonna napoleonica nella Place vendome di
Parigi.
la selezione tra gli strati. un caso emblematico della sovrapposizione di differenti ordini in uno stesso luogo è quanto accade in un scavo del Boni di un edificio
del tempo di Augusto(fig. 8): un sistema di pavimentazione a mosaico è stata rinvenuta sotto un grande edificio neroniano. Le giaciture dell’edificio nulla hanno in comune con l’orientamento dei pavimenti: c’è sovrapposizione di due ordini, ovvero
un normale contrasto di una sequenza archeologica. L’archeologo si trova, come
dicevo in precedenza, a dover affrontare ogni volta una selezione critica, sancendo
una personale interpretazione del passato e dello stato dei luoghi.
La vita professionale degli archeologi si intreccia con le loro sorti biografiche: è
noto, ad esempio, il tragico destino di Howard Carter, il quale scoprì la tomba di
Tutankhamon, e, invece, James Mellaart, celebre per la propria fortuna, camminando per un prato e osservando il terreno, ebbe a rintracciare una importantissima statua, così come, viaggiando attraverso la Turchia orientale, deciso a scavare
una delle tante colline disabitate nella pianura del Catal Huyuk(fig. 9), trovò un insediamento datato tra il v e il vi millennio a.C. non si sa nulla della vita o della natura
etnica degli abitanti di tale insediamento, come si sa poco dell’architettura delle
Hagia Sophia è uno dei grandi monumenti della storia dell’umanità(fig. 12). Attraverso un disegno dell’architetto italiano Gaspare fossati è possibile osservare l’impianto (pressoché corrispondente all’attuale) della moschea ad opera dei turchi,
arrivati successivamente alla prima grande distruzione dell’interno da parte degli
iconoclasti del settimo secolo. Hagia Sophia è un monumento che porta i segni di
molteplici distruzioni. Sulla grande porta principale di San Petronio a Bologna,
Michelangelo nel 1508 fece una gigantesca statua bronzea, tre volte la dimensione
reale di Papa Giulio ii; tre anni dopo i Bolognesi l’abbatterono per fondere il metallo per la realizzazione di cannoni; decapitarono la statua e la testa rimase un
frammento le cui tracce sono state seguite per un paio di secoli, ma nel ’700 andò
perduta. È inimmaginabile, con l’idea di patrimonio storico-artistico contemporanea, che un ritratto michelangiolesco sia andato perduto: ma il rispetto per il
patrimonio artistico, nel passato, fu spesso casuale e molto arbitrario.
Intanto come i Bolognesi con Giulio ii, le istituzioni politiche hanno sempre fatto i
loro conti con il patrimonio del passato brutalmente.
nel 1871 durante la Comune di Parigi nella Place Royale (ora Vendôme), al centro della città, vi era una grande colonna napoleonica che venne coronata con
l’emblema reale. Restaurato l’impero fu ripristinata nell’originaria versione; alla
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14 Parchi urbani usati come deposito di statue
dimenticate a Mosca.
15 Federal Plaza di New York con la scultura di
Richard serra.
16 Rimozione della piastra in acciaio che
componeva l’opera d’arte di Richard serra a New
York.
17 Altare della Patria a Roma.
18 terme di diocleziano ritratte allo stato di
rudere.
19 basilica di santa Maria degli Angeli a Roma.
16
caduta di napoleone iii fu abbattuta, definitivamente, per ordine di una commissione artistica(fig. 13). Bisognerà aspettare l’insediamento di un governo repubblicano
perché la colonna fosse rifatta e per più di un secolo la colonna di Place Vendome
rappresentò una icona urbana sino alla costruzione della Torre Eiffel.
Le distruzioni del patrimonio artistico dei tempi più vicini a noi sono state, per certi
versi, anche più gravi e dolorose. Il monumento commemorativo della rivoluzione
di ottobre, nella piazza centrale di Kiev, fu costruito nel 1976, dominato dalla grande statua di Lenin. nel 1992 la statua fu sostituita con un cartellone pubblicitario.
Il declino dei paesi sovietici ha provocato la trasformazione di grandi spazi pubblici, ovvero dei grandi parchi urbani, in depositi di statue ormai inutili, dimenticate,
denudate di elogi e onori; a Mosca, in un parco della città, è riposto per terra un
grande monumento di Stalin con altri funzionari dell’unione Sovietica, emblema
dei reperti di un passato ormai liquidato(fig. 14).
la rimozione dei reperti. La questione problematica della rimozione dei reperti
“politici” dalla scena urbana si rispecchia nella contemporaneità in episodi che
riguardano le opere di noti artisti che si scontrano con l’opinione pubblica: un
esempio clamoroso è la scultura di Richard Serra nella federal Plaza di new
York(fig. 15). Tilted Arc, una grande lastra di acciaio messa trasversalmente nella
piazza, tra il Palazzo di giustizia e un edificio di uffici formando un angolo retto tra i
due, fu scelta e posizionata lì da un comitato di artisti. Era il 1981: iniziarono subito
proteste e mobilitazioni.
Iniziò un procedimento legale terminato con la sentenza che obbligava alla rimozione dell’opera. nè l’accusa, ma nemmeno la difesa, furono molto chiare nell’espressione delle proprie posizioni: per cui la questione si ridusse ad un appello alla libertà
di parola (da parte di Richard Serra), cioè quella piastra di acciaio rappresentava
una dichiarazione dell’artista e un’aggressione al monumento avrebbe rappresentato un’offesa contro il diritto di parola dello scultore. La corte non ha riconosciuto
questo diritto e nel 1989, otto anni dopo la sua messa in posa, la piastra fu tagliata in
tre pezzi e rimossa(fig. 16). Così come fu per i generali del bolscevismo e per la statua
di Lenin. Ovviamente anche Serra non ha più amato la sua opera, poiché la ragion
d’essere della scultura risiedeva proprio nell’essere lì, in quello specifico luogo.
Tagliata in tre pezzi, quella piastra di acciaio non ha più giustificazione.
nella contemporaneità esiste un problema molto pressante: il nostro patrimonio
è fatto non soltanto di reperti facilmente venerabili, ma anche di memorie di un
passato vergognoso, non glorioso, che ci pone domande sul valore da attribuire
alla storia.
Tornando a Roma da dove è iniziato questo discorso: l’Altare della Patria(fig. 17), opera degli inizi del secolo scorso, si trova tra il foro romano con i resti degli Orti farnesiani e il foro Traiano, scavato in grande parte già nell’800. La ricostruzione del
foro Traiano figura su tutti i libri di storia dell’architettura come il più imponente
monumento dell’età Imperiale con le sue due biblioteche, la colonna trionfale e
la statua equestre al centro della piazza. Secondo i più recenti scavi dell’ultimo
decennio, si è capito che dove gli archeologi del passato avevano collocato il tempio c’era invece un grande porticato d’entrata, e che la statua imperiale non era
affatto al centro della piazza ma era molto spostata così che il luogo non appariva
affatto come ci è stato presentato nei libri di storia dell’architettura sui quali tutti
abbiamo studiato. È tutto sbagliato ed è impossibile ricostruire un’immagine ideale neanche del lato est del foro, travolto dalla via dei fori. Sappiamo quindi che
quello che ci hanno insegnato è falso. Questo nostro fare i conti con il passato è
dunque un continuo processo di indagine e non dobbiamo smettere di porci domande su quali valori incarni il patrimonio che oggi possediamo.
Le terme di diocleziano sono un chiaro esempio dell’interrogativo che si pone nei
confronti di un’architettura della stratificazione. un’immagine delle terme di diocleziano, pubblicata su un libro di Roma Antica da un incisore ed editore francese
– Etienne dupérac – nel 1575, ritrae le terme allo stato di rudere(fig. 18) presentandole come una parte essenziale del patrimonio della Roma Classica, ma già quando
dupérac fece l’incisione le cose stavano diversamente perché Michelangelo aveva
messo mano alla struttura, realizzando la basilica di Santa Maria degli Angeli(fig. 19).
Ora qual è il patrimonio che dobbiamo rispettare? dobbiamo rimuovere tutto quello
che ha fatto Michelangelo e tornare al rudere come ci ha insegnato duperac o – per
absurdum – tornare a una ricostruzione delle Terme tali e quali diocleziano le aveva costruite? Oppure accettiamo che il patrimonio sia una cosa mutevole, che deve
contemplare anche il passaggio della storia? In un certo senso il patrimonio si arricchisce con il tempo trovando spesso elementi capaci di renderlo più interessante,
più onorevole attraverso i differenti usi comuni che si susseguono, traducendo le
modificazioni necessarie in valore aggiunto all’architettura come, ad esempio, ha
fatto Michelangelo per le terme.
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ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Quale diritto abbiamo noi di manomettere il passato? non c’è un diritto, non c’è
una legge, non c’è neppure un esempio positivo in materia. Chi interviene, con una
certa cognizione di causa non é né l’archeologo, né l’architetto, bensì lo storico, il
quale ha il compito di insegnare a selezionare quello che è di valore essenziale e
quello che può essere eliminato. forse solo uno storico può insegnare come mettersi di fronte alle reliquie del passato ed onorarle, ma anche renderle parte della
nostra vita quotidiana.
I parchi dei gerarchi sovietici sono dei luoghi abbastanza tristi, e non vi consiglio
di costruire dei parchi per statue fuori Roma (ce n’è uno già sul Gianicolo), però
un parco, sia di statue, sia di ruderi – il cosiddetto parco archeologico – è anche
un problema dell’urbanistica, ovvero un problema di architettura. Ovviamente,
dobbiamo avere rispetto del patrimonio, ma dobbiamo anche munirci di un po’ di
coraggio quando ci mettiamo di fronte ad esso.
318
Archaeology and architecture are two poles of a single question. Archaeology has
been defined as the systematic destruction of the elements of the past, considering
the fact that the archaeologist, with his excavation work, layer after layer, to reach
the level desired, has to destroy the preceding ones. The archaeologist constantly
finds himself faced with the problem of selecting the elements to be preserved, the
preservation methods and, in general, the validity of the preservation action. This
also goes for the architect who, working on a historic site, must consider the question of what the heritage with which he is working really means.
Considering that the overlappings of different historic elements are always present,
a critical definition of the past is necessary, This process may be undertaken by architects, but also by archaeologists, who are condemned to impose a certain order,
arbitrary and sometimes violent and aggressive, in the excavation, on the soil and
on the remains, with their stories to be told, with respect to which the order is totally
extraneous.
It is also necessary to consider that we find ourselves faced with a heritage that has
been extremely transformed by our ancestors, who did not take care of it, as it is evident from the signs of all the destruction wreaked on the monuments. As a result,
our respect for the heritage appears to be a very arbitrary one.
Architects find themselves very frequently faced with these problems, where, alongside finds from the past, considered venerable and of value, there are also sizable
finds of an inglorious past, which, in a certain sense, is in any case part of the heritage and thus poses a very tough problem of legacy. This process leads architects to
continuously deal with the past, and to ask themselves what really constitutes the
heritage we share.
Another reflection concerns the question concerning the respect of the heritage in
terms of legitimacy of the removals, transformations, and tampering in uncovering
a hypothetical original condition of an archaeological ruin. There is no right, no law,
no positive teaching that can explain the right to tamper with the past. The person
who intervenes is neither the archaeologist, nor the architect, but the historian who
teaches and distinguishes what constitutes essential value, and who explains how to
arrange the relics of the past, so as to honour them and at the same time make them
a part of our everyday lives. In a delicate balance between the dual necessity for
respect for the heritage and courage in dealing with it, emblematically asking: is it
necessary to remove the most recent work and return to the ruin, or accept the fact
that the heritage is in a process of continuous change, accepting this historic transition and rediscovering in it something more interesting, more honourable, precisely
in its past, through common use?
ARCHAeoloGY ANd ARCHiteCtuRe
ABSTRACT
319
nAPOLI
sCAvo e ReCuPeRo del teAtRo ANtiCo
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
daniela Giampaola
320
il progetto e la sua realizzazione. L’invito rivolto dagli organizzatori del convegno ad illustrare esperienze significative dell’attività archeologica svolta nel
centro storico di napoli, mi ha indotto,
piuttosto che a presentare un resoconto
complessivo, a privilegiare l’intervento
di conoscenza e recupero del teatro antico di napoli. All’interno del tema del
rapporto fra archeologia, architettura
ed urbanistica, esso appare assumere
particolare rilievo a causa dei suoi presupposti metodologici e operativi: per il
rapporto stretto fra le procedure strettamente archeologiche e la specifica
pianificazione urbanistica della variante
al prg della città di napoli, per la logica
interna al progetto di scavo e valorizzazione del monumento.
È ben nota la straordinaria vicenda insediativa del centro storico di napoli, che
ingloba sul colle di Pizzofalcone il primo
insediamento di Parthenope, della metà
del vii secolo a.C., e sul pianoro delimitato
da via foria, corso umberto, via Costantinopoli, via Carbonara, la città di Neapolis, fondata fra fine vi inizi del v secolo a.C.
In questo ultimo settore è pregnante la
continuità fra lo schema urbano attuale
e quello di età greca e la sovrapposizione del patrimonio edilizio e monumentale emergente sul giacimento culturale
sommerso. Tali caratteri distintivi connotano napoli come uno dei più importanti campi di applicazione della branca
della disciplina archeologica nota come
archeologia urbana, secondo la quale l’interesse della ricerca e degli interventi
non risiede tanto nei singoli monumenti, ma nella complessiva stratificazione
dell’insediamento storico, costituita in
eguale misura dai resti del sottosuolo e
dal tessuto soprastante. Tale procedura concettuale ed operativa, attuata sin
dagli anni ’80 dalla Soprindendenza Archeologica, in collaborazione con gli altri
organi del mibac e gli enti locali, in primo
luogo il Comune, ha portato a importanti
interventi di tutela e valorizzazione, quali, per citare solo i principali, quelli condotti nell’edificio di Palazzo Corigliano,
nell’ex asilo filangieri, nei complessi di
S. Marcellino, di S. Chiara, di S. Lorenzo
Maggiore. In questi ultimi due casi l’at-
tenzione rivolta, durante i restauri e le
indagini, alla complessiva storia urbana e culturale dei siti ha contribuito con
la realizzazione di Musei dell’opera, ad
arricchire la parte più antica del centro
storico di nuovi poli espositivi, incardinati
strettamente al patrimonio urbanistico e
monumentale di cui sono parte.
L’archeologia urbana impone un approccio
di tipo progettuale richiedendo che in un
piano unitario venga trattato il patrimonio del sottosuolo e quello del soprasuolo. da questa premessa sono derivate la
tutela archeologica, inserita nelle norme
di attuazione della Variante del prg del
2004 e l’individuazione di Piani urbanistici Attuativi (pua) in aree di particolare
rilievo archeologico del centro storico1.
Il pua relativo al teatro – il primo ad essere stato redatto – si muove in evidente
discontinuità rispetto alle ipotesi di messa in luce del monumento presenti nella
pianificazione urbanistica precedente.
Sintetizzando brevemente, basti ricordare che il prg del 1939 ne prevedeva l’isolamento al fine della realizzazione di un
parco archeologico, attraverso le demo-
lizioni degli edifici soprastanti, soluzione
che sarà ripresa nelle proposte sul centro antico di Roberto Pane del 1971 e ancora in quelle del Regno del Possibile nel
19882. diversamente il vigente prg, considera la valorizzazione del teatro all’interno dell’edilizia storica, che è integralmente conservata, ed il mantenimento di
larga parte delle destinazioni residenziali
degli immobili. Tali principi traggono origine dagli studi e dai rilievi, effettuati nel
1985 dall’allora Soprintendenza di Collegamento per la Campania e la Basilicata e dall’Istituto universitario Orientale, i quali rivelarono che le strutture
del teatro erano spesso integre almeno
sino ai livelli di primo piano delle unità
immobiliari che le inglobavano e che in
alcuni settori erano gli elevati moderni a
riprodurre le strutture antiche conservate al di sotto dei piani pavimentali ancora
in uso3 (fig. 1). Le ipotesi di isolamento del
teatro, attraverso le demolizioni del tessuto urbano soprastante, quindi non solo
avrebbero negato la stratificazione storica della città, ma anche la possibilità di
una lettura di insieme della volumetria
del monumento, restituita dai resti antichi emergenti ma anche dagli elevati di
epoca successiva.
All’elaborazione del pua è stato correlato
il progetto di intervento sul teatro, eseguito con risorse comunali e comunitarie
negli anni 2003-2009, che ha portato alla
messa in luce ed al restauro di un settore
compiuto del monumento4 (fig. 2). Lo scavo e la documentazione del teatro hanno
ripercorso le trasformazioni dell’area in
una dimensione diacronica molto estesa: dalle fasi precedenti al monumento,
a quelle del suo impianto e, poi, del suo
abbandono, alla formazione di un nuovo
tessuto edilizio che, attraverso numerose modifiche, ha generato la forma dell’i-
solato moderno. L’analisi stratigrafica
del teatro integrata a quella del suo contesto urbano, si è rivelata come l’unica
scelta perseguibile in relazione alla complessità del sito, anche se la comprensione dei dati emersi è stata condizionata
dalla dimensione delle esplorazioni che,
seppure estese, hanno rappresentato
un campione parziale rispetto all’intero
comparto occupato dal monumento.
Il progetto sinora realizzato ha interessato il settore occidentale di tale comparto, definito da via S. Paolo, via Anticaglia, vico Cinquesanti, e si è sviluppato in
massima parte negli edifici di via S. Paolo
4, 5b, via Anticaglia 28-325. In tale settore
erano conservati cospicui resti del monumento, il più importante forse della
napoli romana: gli archi contrafforti che
scavalcano via Anticaglia, segnando da
tempo immemorabile l’immagine di tale
parte della città, il retro della scena del
teatro visibile in una vanella del complesso monastico di S. Paolo Maggiore, i resti
della cavea scavati fra il 1881 ed il 1889 e
sistemati a vista solo in parte all’interno
del giardino di via S. Paolo 4, ripristinato
dopo le indagini agli inizi del ’900.
L’esplorazione archeologica condotta
negli anni 2000 ha costituito il più rilevante intervento della parte antica del
centro storico, a causa della dimensione
dell’area, del forte intreccio fra il tessuto
urbano moderno ed il monumento antico in esso inserito, delle ricadute che la
procedura archeologica stratigrafica ha
determinato, oltre che sul piano conoscitivo, sul restauro edilizio e sul recupero
urbano.
Lo scavo ha costituito l’elemento base
dell’intervento, imponendo al gruppo di
archeologi ed architetti in esso impegnati un approccio graduale e progressivo,
fondato sull’integrazione fra le esigenze
di comprensione del monumento antico
e quelle di conservazione e valorizzazione. Esso è stato avviato negli ambienti dei
fabbricati di via S. Paolo 4 e via Anticaglia
28, dove era stata riconosciuta un’ampia
porzione dell’ambulacro interno e di alcuni cunei delle sostruzioni della media
cavea, parzialmente interrati e distinti in
due settori dalle fondazioni degli edifici
soprastanti(figg. 3-4). Con le esplorazioni si è
proceduto dai piani di calpestio contemporanei, attraverso i livelli moderni, medievali e tardo antichi, fino a quelli di età
imperiale e tardo repubblicani. Il monumento costituisce il nucleo su cui si è organizzato l’isolato moderno soprastante,
con rapporti di continuità nei tratti in cui
le strutture antiche coincidono con i muri
degli edifici successivi e di evidente discontinuità nei settori in cui questi ultimi
ne ignorano l’originario impianto planimetrico.
La scelta del contesto da indagare è derivata non solo dall’entità dei finanziamenti
e dall’acquisizione delle aree al demanio
statale e comunale, ma anche dalle valutazioni sulla consistenza e sulla qualità
dei settori del teatro e degli immobili moderni, scaturite dal lungo studio progettuale avviato negli anni ’80 e dai risultati
di saggi preliminari eseguiti negli anni
1997-1999.
La pratica di frazionare aree più vaste
attraverso saggi, sezionando una stratigrafia più estesa e complessa, rappresenta una delle criticità delle indagini archeologiche, ma risulta pressoché inevitabile negli interventi condotti nelle città
storiche, a causa di vincoli esterni, quali
i diversificati e fitti assetti proprietari e i
condizionamenti strutturali e logistici.
nel caso del teatro i saggi degli anni
1997-99 hanno costituito l’approfondimento conoscitivo intermedio fra la fase
321
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
322
della ricognizione e della documentazione preliminare e quella dell’indagine
estesa avviata nel 2003, che si è potuto
così pianificare più compiutamente. I
saggi preliminari hanno fornito dati utili
sulle quote dei piani pavimentali del monumento antico, sulla potenza e caratterizzazione della stratigrafia, sulla entità
dei numerosi disturbi di epoca moderna,
dalle trincee frutto degli interventi per il
ripristino del giardino di via S. Paolo 4,
ai tagli per le infrastrutture idrauliche e
fognarie, molte delle quali ancora funzionanti in rapporto all’utilizzo attuale degli
immobili. L’articolazione della situazione
ha inoltre richiesto carotaggi geoarcheologici, che non era stato possibile effettuare preliminarmente, ma sono stati
eseguiti, nella fase delle indagini estese,
per la verifica delle sequenze stratigrafiche di alcuni settori particolarmente
complessi. I saggi di scavo sono stati
accompagnati da analisi delle stratigrafie degli elevati del monumento antico
e degli edifici moderni, entrambi rimaneggiati da rifacimenti, superfetazioni o
asportazioni che, modificando gli apparati originari, hanno spesso determinato
situazioni di forte degrado strutturale. In
tali condizioni i consolidamenti, necessari spesso sino ai livelli fondali, sono stati
preceduti da scavi che seppur parziali,
fossero adeguati all’obiettivo di recuperare gli elementi conoscitivi utili al restauro delle strutture.
Il dimensionamento delle aree di intervento all’interno delle due unità edilizie
principali di via S. Paolo 4 e via Anticaglia
28, 29 ha privilegiato la scelta di settori
unitari dell’edificio moderno: ad es., nel
caso di via S. Paolo 4, il livello di piano
terra prospettante sul lato orientale del
cortile, che ingloba la sezione meglio
conservata del monumento, dall’ambu-
lacro esterno a quello interno. Il progetto
teorico di scavo ha dovuto misurarsi con
le condizioni statiche del monumento e
degli edifici che lo inglobano occupati dai
residenti. Queste presentavano una casistica varia, che ha reso necessario verifiche puntuali anche attraverso un monitoraggio strumentale delle strutture.
In tale prospettiva le linee guida stesse
del progetto di recupero e valorizzazione,
che prevedevano la conservazione totale
dell’edilizia di età moderna e l’utilizzo di
tecniche tradizionali di consolidamento,
hanno reso più complesse e articolate le
operazioni. Si sono rese indispensabili,
durante l’avanzamento dei lavori, modifiche e sospensioni parziali delle attività di
scavo che si sono dovute intercalare agli
adeguamenti strutturali ed ai restauri.
Anche nell’ampio settore del giardino di
via S. Paolo 4, i cui margini settentrionali
ed orientali sono occupati da edifici di varia cronologia con elevati di diversa consistenza, impiantati su piani di fondazione non omogenei, le istanze di uno scavo
il più possibile esteso si sono intrecciate
con quelle di carattere statico. In questo
settore l’indagine, oltre a rivelare i riempimenti dei saggi archeologici tardo ottocenteschi, ha rivelato grandi trincee realizzate agli inizi del ’900 per la costruzione dei muri di contenimento-recinzione
del giardino connessi al ripristino dello
spazio6; ma diversamente da quanto era
stato ipotizzato, tali interventi avevano
risparmiato il settore nord-orientale del
giardino, nel quale l’attenta analisi stratigrafica ha consentito il recupero di una
sequenza archeologica integra, dal xx secolo sino alle obliterazioni tardoantiche
della cavea e dell’orchestra, sulle quali
ad oggi le esplorazioni si sono arrestate.
Le soluzioni conservative e strutturali
adottate sono state analizzate in rappor-
to alle specificità dei vari casi riscontrati,
anche se all’interno di criteri di ordine
generale. In alcune situazioni è stato realizzato il restauro e la ricostruzione di
porzioni di murature antiche fortemente
lacunose, utilizzando materiali e sistemi costruttivi analoghi, che sono stati
opportunamente evidenziati(fig. 5). In altri
casi si è fatto ricorso a materiali marcatamente diversi, quali gli elementi metallici utilizzati per il miglioramento delle
strutture esistenti o per la realizzazione
di varchi nelle fondazioni degli edifici soprastanti il teatro, al fine di consentire il
collegamento fra le parti antiche intercluse da queste. A causa dei condizionamenti esposti, le esplorazioni all’interno
dell’area di intervento hanno conosciuto
ampiezze e approfondimenti diversificati:
in via Anticaglia 28 e nell’area della cavea, l’indagine non ha interessato l’intera
superficie e non ha raggiunto ovunque i
piani in fase con il monumento antico, diversamente nel settore di via S. Paolo 4,
che si offre più compiutamente alla fruizione, essa è stata condotta in estensione, dai vani prospettanti la corte interna
al giardino, illustrando l’intera sequenza
stratigrafica. In ogni caso l’intervento
ad oggi attuato ha conseguito l’obiettivo
di comprendere e rendere fruibile una
sezione completa del monumento attraverso il collegamento delle due parti
comprese fra via S. Paolo e via Anticaglia: si sono raggiunti i piani pavimentali
dell’ambulacro esterno e dell’ambulacro
interno che possono essere percorsi,
dei cunei di sostegno delle gradinate e
dei vomitoria mediano ed occidentale, da
dove ci si inoltra alla cavea di cui sono
stati disvelati dodici gradoni del settore
mediano(fig. 6). Alcuni accessi e percorrenze sono oggi possibili solo mediante
opere temporanee e reversibili, utili a ga-
1
3
2
4
rantire visite guidate al cantiere che sono
state promosse con un grande afflusso
di pubblico. La prosecuzione dell’intervento discende dall’avvio dei nuovi lotti, a
cominciare da quello inserito nel Grande
Progetto “Centro storico di napoli. Valorizzazione del sito unesco”7. Con questo andrà affrontato lo scavo degli ambienti corrispondenti alla parte centrale
del monumento, della rimanente parte
delle gradinate della cavea, l’intervento nell’area dell’edificio scenico situato
fra il complesso conventuale di S. Paolo
Maggiore e l’edificio di via S. Paolo 5. devono inoltre essere completati i servizi
e gli impianti per consentire la fruizione
del monumento antico ed il suo utilizzo
come struttura culturale e di spettacolo,
5
in modo da perseguire un modello attivo
di tutela e valorizzazione, che partendo
dagli antichi resti renda pienamente vitale il contenitore urbano che li accoglie.
Principali fasi edilizie. L’inquadramento
topografico del teatro rientra nella più
vasta problematica dell’organizzazione
dell’area pubblica di Neapolis di cui costituisce una parte8 (fig. 7). Il monumento si
sviluppa fra via S. Paolo ad ovest, la plateia di via Anticaglia a nord, vico Giganti
ad est ed il complesso dei padri Teatini a
sud. L’attuale via S. Paolo separa il teatro
dall’odeion, che come suggerisce il poeta
Stazio, costituivano un unico complesso
monumentale e funzionale, ubicato nel
1, 2 studio einaudi srl, Progetto di recupero del teatro,
planimetria e sezioni.
3 Ambulacro interno del teatro dopo lo scavo.
4 sottoscala prospiciente l’ambulacro esterno.
5 Arco in corso di restauro del vomitorio fra
ambulacro esterno ed interno.
323
6
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
7
324
6 la cavea del teatro dopo lo scavo.
7 strutture di età tardo repubblicana conservate
nei vani di fondazione del teatro tardo flavio.
(foto R. Giordano)
8 via Anticaglia 28. il piedritto meridionale
dell’arco dell’Anticaglia emerso dopo la
stonacatura.
(foto R. Giordano)
9 l’ingresso del palazzo di via s. Paolo 4.
10 l’area del foro di Neapolis con i principali
monumenti.
settore nord-occidentale della città antica, fra l’acropoli di S. Aniello a Caponapoli e il mercato indagato al di sotto di S.
Lorenzo Maggiore.
Già la tradizione antiquaria con l’Historia neapolitana di fabio Giordano dedica
un’ampia descrizione all’area pubblica di
Neapolis, ipotizzando due piazze adiacenti: la prima, nella zona vicina al monastero di S. Patrizia, con i resti del teatro e
il Tempio dei dioscuri, la seconda, fra la
via Capuana e nolana, coincidente con il
foro venale, dove sorge il complesso monastico di S. Lorenzo Maggiore.
In una fase successiva allo scavo del teatro della fine del secolo scorso, si sono
susseguiti vari contributi topografici generali sulla dimensione e sui limiti dell’area forense e sulla ricostruzione della
planimetria del monumento.
Il problema topografico è stato affrontato
compiutamente da E. Gabrici, W. Johannowsky e M. napoli: a questi ultimi si
deve il primo studio specifico del teatro e
dell’odeion di cui propongono una nuova
pianta, fornendo elementi sulle fasi costruttive.
Più di recente il sistema di tali studi è
stato ripreso e inserito da E. Greco in un
quadro organico, in cui chiarisce nelle linee generali l’assetto del foro di Neapolis,
ipotizzando che ricalchi l’area pubblica
pianificata all’atto della fondazione della
città, sottoposta nel corso del tempo ad
interventi di progressiva definizione monumentale e a un processo di articolazione funzionale9. Il foro risulta delimitato
a nord da via Anticaglia e a sud da via S.
Biagio dei Librai, corrisponde in larghezza a sei interassi, per un totale di ca. 228
m, in lunghezza a due isolati di 185 m,
ed è scandito in due settori dalla plateia
di via Tribunali: quello a monte è definito da via Purgatorio ad Arco ad ovest, da
vico Giganti ad est; quello a valle, da vico
fico Purgatorio e dallo stenopos rinvenuto nello scavo di S. Lorenzo Maggiore. A
tale articolazione topografica è fatta corrispondere una distinzione funzionale: al
settore a nord, con il teatro ed il Tempio
dei dioscuri, è riservata una destinazione
religiosa e di rappresentanza politica; al
settore meridionale, caratterizzato dal
mercato, quella commerciale. Le linee
complessive di tale studio costituiscono
la più recente e condivisibile ricostruzione, anche se lasciano aperte alcune questioni di ordine topografico e cronologico,
che non è stato ancora possibile risolvere, nonostante gli scavi e le riflessioni
scientifiche recenti.
L’impianto monumentale del teatro può
collocarsi grazie all’analisi stratigrafica
delle indagini condotte nell’ambito del
progetto qui presentato in tarda età tardo
flavia, momento per il quale si è restituito
un grande edificio (diametro delle strutture in elevato 86 m, diametro delle fondazioni 100 m) costruito interamente in
plano10. Lo scavo non ha, invece, risolto il
problema dell’esistenza della fase di età
greca, dal momento che i più antichi resti
rinvenuti, sicuramente non attribuibili ad
un edificio di tipo teatrale, sono databili
fra fine ii inizi del i secolo a.C.11 (fig. 8).
un generale riassetto monumentale
dell’area pubblica di Neapolis in prima età
imperiale è testimoniato oltre che dalla
fase di età tiberiana del Tempio dei dioscuri, da alcune delle strutture del mercato emerse nel complesso di S. Lorenzo
Maggiore e da resti dell’odeion in via S.
Paolo 42, ed è stato riconnesso ad un più
diffuso intervento urbano scaturito dalla
istituzione dei Giochi Isolimpici in onore
di Augusto, materializzato nella realizzazione o nel rifacimento di edifici, primi
fra tutti quelli funzionali agli agoni, fra i
8
9
quali sicuramente anche i teatri. Ma se le
antiche fonti ricordano l’esistenza di un
edificio teatrale in cui era stata rappresentata una commedia dell’imperatore
Claudio e si esibiva nerone al momento
del terremoto del 64 d.C.12, lo scavo ad
oggi non ha arrecato elementi dirimenti,
indicando che gli elevati del monumento
tardo flavio non insistono su strutture di
età augustea, ma si legano ad un sistema
fondale coevo. Solo nelle parti profonde
dei vani di fondazione si sono rinvenuti
pochi esigui resti, per i quali si rendono
necessari futuri approfondimenti: essi
per posizione stratigrafica, potrebbero
forse essere attribuiti alla fase di prima
età imperiale di un edificio di dimensioni
inferiori e di orientamento divergente13.
Le testimonianze delle indagini del teatro ad oggi documentano dunque per la
piazza superiore, in modo non dissimile
rispetto all’area del mercato, soprattutto
una consistente trasformazione dopo i
terremoti del 62 e 64 e l’eruzione plinia-
10
na del 79 d.C. Restauri e rafforzamenti,
quali gli archi contrafforti in laterizio che
cavalcano ancora oggi via Anticaglia,
sono attestati per le strutture del teatro
almeno sino agli inizi del iii secolo d.C.14
(fig. 9)
. Le esplorazioni attestano che l’ultima frequentazione dell’edificio risale
alla metà del iv secolo d.C., anche se
non è possibile stabilire il momento della
sua defunzionalizzazione. Ai primi livelli di abbandono, databili alla fine del iv
inizi del v secolo d.C., segue dalla prima
metà del v secolo agli inizi del vii secolo
un progressivo fenomeno di obliterazione del monumento attraverso discariche
di materiali vari. Questo evento sembra
assumere una maggiore e più sistematica dimensione alla fine del v inizi del vi
secolo, quando si può ipotizzare che parti
ampie della summa cavea fossero crollate, mentre si conservava la media cavea. Le colmate interessano la zona delle
sostruzioni interne e provocano il riempimento dell’invaso della cavea, segna-
lando una trasformazione delle modalità
insediative del settore settentrionale del
foro di Neapolis attuata, contestualmente alle demolizioni di precedenti edifici
ormai in degrado, al fine di recuperare
spazi da destinare a nuove funzioni: orti
nell’area della cavea e nuclei sepolcrali,
dislocati prevalentamente nell’area delle
sostruzioni15. Al xiii secolo risale il riutilizzo del monumento antico per una nuova
fase edilizia che si modella sulle sostruzioni del teatro integrandone le strutture:
a tale fase sono anche collegati livelli di
giardino impiantati sulla cavea, databili
al xiii e al xiv secolo16. Altri elementi edilizi genericamente databili in questo periodo sono stati individuati nell’immobile
di via Anticaglia 29. Le indagini e l’analisi
degli elevati, integrate allo studio della
cartografia, hanno contribuito infine a ricostruire le fasi moderne del settore oggetto di intervento. L’edificio di età basso
medievale è messo fuori uso dall’immobile di via S. Paolo 4, attribuito alla fami-
325
ARCHITETTURA PER I PAESAGGI ARCHEOLOGICI
326
glia Confalone. Il bel palazzo, provvisto di
un portale di ingresso “durazzesco catalano” di carattere evoluto, rientra in una
tipologia architettonica che si afferma in
Campania tra la prima metà e lo scorcio
del xv secolo (fig. 10). I dati stratigrafici inducono a datare l’edificio allo scorcio del xv
secolo, correlandolo agli interventi edilizi
successivi ai ben noti eventi sismici che
hanno arrecato gravi dissesti al tessuto
urbano di più antico impianto17. Il palazzo continua ad annettere il giardino sulla
cavea, inglobando nell’ala occidentale
ed in quella settentrionale le sostruzioni
del teatro, ma, rispetto alla precedente
fase basso medievale, si sviluppa su un
ampia superficie e, oltrepassando il perimetro del monumento, amplia lo spazio
edificato sino a disegnare l’allineamento
dell’isolato su via S. Paolo e via Anticaglia. Tale assetto edilizio marca una soluzione di continuità rispetto all’impianto
del teatro, evidente anche nei nuovi allineamenti murari che contraddistinguono l’articolazione interna dell’edificio. La
realizzazione di vico Cinquesanti, intorno
alla metà del xvi secolo, ha segnato infine la divisione dell’originaria unica insula
del teatro in due distinti isolati e, comportando la distruzione di parte dei fabbricati precedenti e la loro ricostruzione,
ha riportato in luce per la prima volta i
resti del monumento18.
eXCAvAtioN ANd ReCoveRY oF tHe
ANCieNt tHeAtRe
ABSTRACT
1 Ambito 25: i teatri, ambito 26: acropoli e piazza
Cavour, ambito 29: S. Lorenzo Maggiore, ambito 24:
Carminiello ai Mannesi.
2 Per le vicende della strumentazione urbanistica
dell’area dei teatri cfr. G. ferulano, Tutela della
stratificazione edilizia nella disciplina urbanistica
dell’area dei teatri, in I. Baldassarre, d. Giampaola,
f. Longobardo, A. Lupia, G. ferulano, R. Einaudi,
f. Zeli, Il teatro di Neapolis. Scavo e recupero urbano,
aionarchStAnt Quad. 19, napoli 2010, pp. 151-156.
3 La ricerca diede luogo ad uno studio di fattibilità
elaborato dall’architetto Roberto Einaudi. Allo stesso
si deve una prima presentazione di proposte sui più
rilevanti siti archeologici del centro antico di napoli:
R. Einaudi, Un’ipotesi progettuale sul centro antico di
Napoli, “Neapolis”, Atti del xxv Convegno di Studi della
Magna Grecia, Taranto 1985, napoli 1986, pp. 165-175.
4 Per il resoconto puntuale sulla sequenza degli
interventi cfr. Progetti ed interventi, in I. Baldassarre et
al., Il teatro di Neapolis, cit. p. 174.
5 Il progetto è stato illustrato da R. Einaudi, f. Zeli in I.
Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 156-166;
cfr. anche d. Giampaola, f. Zeli, Il Teatro romano di
Neapolis e la sua relazione con la città, in A. Centroni,
M.G. filetici (a cura di), Progetti d’eccellenza per il
restauro italiano, Atti dei convegni arco a Made Expo
(2008-2010), Roma 2011, pp. 83-96.
6 Sulle vicende dello scavo tardo ottocentesco e
degli espropri, illustrate dalle piante conservate
presso l’Archivio dello Stato di Roma, cfr. E. Romeo,
Un anticipazione ottocentesca sull’area partenopea del
teatro antico, “napoli nobilissima”, 38, i-vi, gennaiodicembre 1999, pp. 61-68; I. Baldassarre et al., Il teatro
di Neapolis, cit., pp.17-18, con bibliografia precedente.
7 finanziato con i fondi por fesr Campania
2007/2013.
8 Cfr. d. Giampaola, Il teatro e la città: storia
delle trasformazioni di un comparto urbano, in I.
Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 21-26,
con discussione dei principali studi riguardanti
l’area del foro.
9 E. Greco, Forum duplex. Appunti per lo studio
delle agorai di Neapolis in Campania, “Annali del
dipartimento di Studi del mondo classico e del
Mediterraneo antico. Archeologia e Storia antica”, vii,
1985, pp. 125-135; Id., L’impianto urbano di Neapolis
greca, Atti del xxv Convegno di Studi della Magna
Grecia, Taranto 1985, napoli 1986, pp. 208-213.
10 f. Longobardo, f. Zeli, Considerazioni sulla
tipologia architettonica del monumento, in I.
Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis, cit., pp. 35-46;
f. Longobardo, La costruzione del teatro, ivi, pp.
52-64.
11 Cfr. A. Lupia, Gli edifici anteriori all’impianto del
teatro, ivi, pp. 50-52.
12 Per la citazione delle principali fonti antiche
relative al teatro cfr. I. Baldassarre, La riscoperta del
teatro di Napoli, ivi.
13 Cfr. f. Longobardo, f. Zeli, Considerazioni sulla
tipologia architettonica del monumento, cit., p. 36.
14 Cfr. Longobardo, Interventi di manutenzione e
restauro, in I. Baldassarre et al., Il teatro di Neapolis,
cit., pp. 65-66.
15 Cfr. A. Lupia, Periodo tardo antico, Periodo Alto
Medievale, ivi, pp. 67-75.
16 Cfr. A. Lupia, Periodo Basso Medievale, ivi, pp.
84-87.
17 Cfr. f. Longobardo, Periodo Moderno, ivi, pp.
88-92.
18 Per la scoperta del teatro nella seconda metà
del ‘500 cfr. I. Baldassarre, La riscoperta del teatro di
Napoli, cit., pp. 16-17.
naples is one of the most important
fields of application of the branch of
the archaeological discipline known as
urban archaeology, according to which
the interest of the research and intervention operations does not reside so
much in the single monuments, but in
the overall stratification of the historic
settlement, composed in equal measure of the underground remains and the
fabric above. This conceptual and operational procedure, implemented since
the 1980s by the Archaeological Superintendency, in collaboration with the
other bodies of the Ministry and local
authorities, has made it possible to build
a broad and important panorama of examples of archaeological protection
and enhancement. urban archaeology
imposes a forward-thinking approach,
requiring that the underground heritage and that above ground be treated
in a unitary plan. from this basis have
derived the archaeological protection,
inserted into the implementation provisions of the Zoning Plan Variation of
2004, and the identification in it of Implementation urban Plans (pua) in areas
of particular archaeological importance
of the historic centre (area 25: theatres,
area 26: acropolis and Piazza Cavour,
area 29: S. Lorenzo Maggiore, area 24:
Carminiello ai Mannesi).
The drafting of the specific pua was correlated with the intervention project
on the theatre, carried out in the years
2003-2009, which led to the bringing to
light and restoration of a finished sector
of the monument. The excavation and the
documentation on the theatre reviewed
the transformations of the area in a very
extensive diachronic dimension.
The archaeological exploration conducted in the 2000s constituted the most
significant operation on the ancient part
of the historic centre, because of the
size of the area, the strong interweaving of the modern urban fabric with the
ancient monument, and the effects the
stratigraphic archaeological procedure
caused in the building restoration and to
the urban redevelopment.
The excavation was the basis element
of the operation, forcing the group of
archaeologists and architects working on it to use a gradual, progressive
approach, based on the integration between the needs for understanding the
ancient monument and those for preserving and enhancing it.
The explorations proceeded from the
contemporary treading levels, through
the modern, medieval, and late ancient
levels, until those of the Imperial and
late Republican ages.
The continuation of this important operation carried out is connected with the
start-up of new lots, starting with that
included in the major project “Historic
Centre of naples – Enhancement of the
unesco Site”. With this, the excavation
and the areas corresponding to the central part of the monument and the remaining part of the cavea tiers.
327
CeNtRi ARCHeoloGiCi
Nodi
PARCHi
PeRCoRsi
sisteMi-Città
teRRitoRi
CENTRI ARCHEOLOGICI
AGRiGeNto Parco della valle dei templi
AteNe Acropoli, collina del Filopappo e Agorà
beiRut Piazza dei Martiri e Parco del Perdono
CAiRo, il quartiere darb-Al-Ahmar e Parco Al-Azhar
Città del MessiCo Piazza delle tre Culture e quartiere tlatelolco
NODI
CoNCoRdiA sAGittARiA Centro storico e Agro concordiese
CoveNtRY Phoenix initiative nel centro storico
duisbuRG emscher Park
HiRosHiMA Parco della Pace
PARCHI
istANbul Nodo di scambio a Yenikapi
lubiANA emona, lungofiume e Mura
MeRidA Città Monumentale
NANtes l’estuario della loira
PERCORSI
NAPoli Metropolitana
NiMes Centro storico e regione metropolitana
PAlMA di MAioRCA Camminamento delle Mura e Castello belvedere
PoMbAl Castello del Cerro
RoMA Parco lineare integrato delle Mura Aureliane
SISTEMI-CITTÀ
sAleMi Recupero dei quartieri Piano Cascio e Carmine
sARAGoZZA itinerario dei musei di Caesaraugusta
siRACusA isola di ortigia
TERRITORI
aTlanTe Dei PaeSaggi arCHeologiCi
ARCHAEOLOGICAL LANDSCAPES’ ATLAS
a cura di edited by Federica Morgia
PRoGetti di RoviNe
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
federica Morgia
330
L’atlante dei paesaggi archeologici raccoglie ventuno buone pratiche in cui la
tutela del bene storico-monumentale e
l’intervento di architettura vengono realizzati in sinergia, instaurando un rapporto di continuità con la storia del sito e
allacciando nuove relazioni tra le aree
archeologiche e i propri contesti. La settorializzazione delle competenze disciplinari ha, in molti casi, portato alla realizzazione di interventi puntuali non coordinati,
i cui esiti hanno ottenuto risultati parzialmente soddisfacenti. Soltanto attraverso
un progetto multidisciplinare, in grado di
restituire leggibilità e comprensione alle
tracce della storia, è possibile reinserire le rovine nel naturale processo di sedimentazione che restituisca continuità
d’uso al paesaggio nel tempo.
I casi selezionati riguardano prevalentemente pratiche di archeologia urbana, disciplina che vede come punti di interesse
il tessuto urbano e il paesaggio letti nel
loro complesso, senza privilegiare un periodo storico o un singolo monumento1.
La conservazione di un palinsesto complesso dovrebbe evitare l’isolamento del
reperto dal contesto storico-geografico
in cui esso è situato viceversa la modalità di recintare i beni crea discontinuità
nel tessuto urbano e separazione del reperto dall’uso quotidiano che ne fanno i
cittadini, principali destinatari dell’opera
di salvaguardia2. Gli strumenti che l’architettura mette in campo sono quelli
del progetto urbano, considerato come
processo attraverso il quale si lavora
sulla geografia e sulla complessità del
territorio e non sulla sua semplificazione
tipo-morfologica. Attraverso un sistema
di relazioni in grado di definire invarianti,
flessibilità, priorità temporali il progetto
controlla la qualità e l’efficacia degli esiti
formali3.
L‘atlante raggruppa progetti, realizzazioni
o azioni programmatiche che, come avviene per i componenti di una famiglia, si
assomigliano, non soltanto per le caratteristiche somatiche ma anche per tratti
caratteriali. Interventi lontani per dimensioni, geografia, rapporto con il contesto
nel quale sorgono, connotazioni storiche
e morfogenesi sono, in questo lavoro, accostati tra loro perché manifestano attitudini simili. I reperti considerati nei casi
studio consistono in luoghi sacri e monumenti, brani di città e antichi tracciati,
infrastrutture e fortificazioni ma anche
luoghi dell’archeologia industriale o invenzioni di rovine legate all‘immaginario
collettivo. I ventuno casi selezionati, appartenengono prevalentemente all’area
del bacino del Mediterraneo ma tuttavia
sono stati inclusi nella selezione anche
due casi che esulano quest’area geografica e riguardano rovine di tipo diverso
rispetto all’archeologia classica. Gli interventi, realizzati dal secondo dopoguerra ad oggi, sono spesso il risultato di un
insieme di progetti relazionati l’uno all’altro, ad opera di progettisti diversi e la cui
committenza è, di solito, quasi esclusivamente pubblica.
nell’atlante i casi sono descritti in ordine alfabetico e sono raggruppati in una
tassonomia che prevede sei categorie:
centri archeologici, nodi, parchi, percorsi,
sistemi-città e territorio. Le schede sono
costituite da testi e immagini. I testi raccolgono dati relativi agli interventi e una
breve descrizione delle opere in rapporto
al contesto e alle trasformazioni da esse
innescate. Per ogni caso, oltre a una selezione di foto e disegni esplicativi dei
progetti, sono state elaborate due carte:
la prima colloca l‘area di intervento, attraverso una sorta di navigatore geografico, nel contesto territoriale e la mette
in relazione alle principali infrastrutture
esistenti e ai sistemi morfologici (acqua,
aree urbane, vuoti); l‘altra è una planimetria, il cui rapporto di scala varia in base
alle dimensioni degli interventi, che inserisce le opere nel contesto evidenziando i
rapporti tra i nuovi interventi, le aree archeologiche, i tessuti urbani e il paesaggio. Le sei categorie sono state scelte in
quanto rappresentative di trasformazioni
urbane generate a partire dalla valorizzazione dei reperti nel loro contesto territoriale e paesaggistico.
Centri archeologici. Per centri archeologici si intendono aree circoscritte all’interno di tessuti urbani che per consistenza e importanza si configurano come
vere e proprie centralità, a vocazione
prevalentemente archeologica, attorno
alle quali il processo di trasformazione
urbana innesca una operazione di epifania della rovina ma anche di ibridazione delle vestigia stesse attraverso altre
componenti che entrano in gioco: sistemi infrastrutturali e vegetazionali, spazi
pubblici attrezzati, servizi e nuove funzioni. A Beirut la progettazione del nuovo
parco consente di recuperare il rapporto
tra il cantiere di scavo e la città, a Istanbul la costruzione di un nuovo nodo di
scambio disvela la presenza di ulteriori
stratificazioni che troveranno adeguata
collocazione in forza del progetto stesso
mentre, la sistemazione degli scavi nella
piazza delle Tre Culture, a Città del Messico, ristabilisce gli equilibri tra il quartiere di nuova fondazione e il sistema della
grande scacchiera metropolitana.
Nodi. In questa categoria sono compresi progetti puntuali realizzati nel tessuto
urbano o nel paesaggio che, però, sono
messi a sistema tra loro attraverso una
rete di relazioni che li connette gli uni agli
altri e li lega al costesto in cui sorgono. Gli
interventi selezionati lavorano per assonanza di risultati più che per metodologie
di intervento. nel caso dell’ampliamento della rete metropolitana di napoli la
grande operazione di archeologia urbana
avviata per punti durante gli scavi preventivi per la realizzazione delle stazioni della metropolitana ha costituito l’occasione
per ridefinire il rapporto complessivo tra il
centro storico e il mare come nel caso del
ritrovamento del Porto romano presso la
fermata Municipio progettata da Álvaro
Siza e Eduardo Souto de Moura. Strategicamente opposti i casi di Siracusa e Mérida. I progetti che nascono nell’ambito di
un insieme organico d’interventi previsti
dal Piano particolareggiato di Ortigia individuano nelle discontinuità del tessuto
urbano gli ambiti nei quali intervenire
con azioni specifiche, in continuità con la
trasformazione e rigenerazione della città. nel progetto di Vincenzo Latina per il
giardino di Artemide, infatti, le potenzialità dell’area vengono recuperate attraverso l‘eliminazione delle superfetazioni e la
risignificazione delle rovine determinando un palinsesto condiviso in cui operare
tra preesistenze e nuovo, viceversa gli
interventi realizzati a Mérida negli ultimi
trentacinque anni, pur essendo svincolati
gli uni dagli altri, agiscono all’interno del
tessuto contemporaneo sovrapposto alla
città di fondazione romana, in sinergia tra
loro. I progetti di navarro Baldeweg, Mo-
neo, Paredes-Pedrosa e Sanchez Garcia
riutilizzano le tracce esistenti per collocare i nuovi interventi in dialogo con le
vestigia romane subordinando le scelte
progettuali al recupero dei rapporti tra
pieni e vuoti, agli allineamenti e alle assialità per far rileggere le rovine romane
nel contesto urbano.
Parchi. La selezione di buone pratiche riguardanti i parchi individua la modalità di
conservazione e integrazione delle rovine
negli ambienti naturalistici. Il binomio natura-archeologia in questo contesto è declinato in accezioni meno convenzionali. Il
Parco Archeologico e Paesaggistico della
Valle dei Templi interpreta il paesaggio
agrigentino composto da incredibili rovine ma anche da manufatti agricoli e macchia mediterranea come un sistema di
risorse in cui il paesaggio archeologico e
quello rurale del mediterraneo convivono
e generano un sistema di risorse che rappresenta la vera ricchezza del territorio.
Il parco Al-Azhar al Cairo è un esempio di
recupero ambientale che determina una
ricomposizione nella quale si innesca, attraverso il rinvenimento di un intero sistema infrastrutturale, quello delle mura,
un processo virtuoso di trasformazione
urbana realizzato con il coinvolgimento
diretto delle maestranze locali e della
società civile. Allo stesso modo il Peace
Memorial Park a Hiroshima, pur rappresentando il luogo di risarcimento fisico e
morale di una ferita indelebile, costituisce l’occasione per Kenzo Tange di sperimentare i principi di trasformazione urbana elaborati dal Movimento Moderno e
progettare, muovendo dalla valorizzazione emotiva e paesaggistica della rovina,
un nuovo organismo in cui natura, infrastrutture, servizi e abitare restituiscano nuova vita al paesaggio raso al suolo
dal bombardamento atomico. A Pombal
il recupero della collina e il restauro del
Castello medioevale reintegrano un’area
che, abbandonata e inaccessibile, si trasforma nel parco urbano della città costituito da luoghi della memoria, aree verdi
di pregio recuperate, nuove funzioni, spazi pubblici e servizi.
Percorsi. La risignificazione di un luogo,
pure denso di segni come può essere un
sito archeologico, si stabilisce a partire
da un insieme di relazioni fisiche e percettive che lo ricollocano all’interno di
un contesto che è andato trasformandosi nel tempo. I luoghi centrali e simbolici
per la vita della città nel corso dei secoli
hanno in molti casi perso di senso svuotandosi delle funzioni originarie, sostituiti
da altre centralità rimanendo al margine
dei nuovi sistemi urbani. Attraverso la
ricostituzione di una trama di percorsi,
che ridisegnano la geografia delle pendici dell’Acropoli, ristabiliscono i pesi
percettivi delle sequenze monumentinatura e la collegano all’area archeologica centrale, dimitri Pikionis e Yannis
Tsiomis, a distanza di mezzo secolo l’uno
dall’altro, reintroducono la componente
archeologico-monumentale nella Atene contemporanea. Pikionis costruisce
il nuovo sistema di percorsi attraverso
una topografia estetica, basata sul riuso
di frammenti esistenti e sulle immagini
che lo sguardo coglie durante l’attraversamento. Tsiomis svelando la topografia
storica della città, stabilisce una scrittura
del luogo che diventa elemento ordinatore, tramite il quale è possibile leggere le
tracce delle storie percepibili nella città.
Così come nel progetto per il Camminamento delle Mura a Palma di Maiorca
Torres e Lapeña ripristinano un percorso
innanzitutto percettivo rispetto al quale il
monumento viene valorizzato in quanto
tale ma anche come dispositivo attraverso
331
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
il quale osservare i paesaggi. Il progetto
di falini e Terranova per il Parco Lineare
delle Mura Aureliane, attraverso la riconfigurazione dell’infrastruttura muraria,
inventa un sistema di collegamento lento,
una passeggiata lungomura che inanella
gli episodi più significativi: aree archeologiche, parchi, ville ed edifici.
332
sistemi-città. nella costruzione e trasformazione della città-palinsesto la
memoria delle vicende passate e la sovrapposizione del nuovo intervento si
compongono come in una stratigrafia
archeologica. I progetti qui raccolti comprendono interventi che riconfigurano
interi brani di città e paesaggi nei quali
la valorizzazione del patrimonio archeologico corrisponde all’uso quotidiano dei
luoghi. L’Amministrazione Comunale di
Lubiana promuove un sistema di fruizione del patrimonio archeologico diffuso
nella città attraverso un sistema di parchi
archeologici che valorizza in situ i reperti
delle diverse epoche seguendo l’esempio
di Jože Plečnik che, come Luigi Canina a
Roma sull‘Appia Antica, ricreava un sistema attrezzato attorno al fiume realizzato con frammenti di elementi urbani al
posto dei monumenti funebri che, come
reperti rifunzionalizzati, dotano la città
di servizi e spazi pubblici attrezzati. Così
come Plečnik utilizza i frammenti del terremoto per comporre le facciate dei nuovi
edifici di Lubiana e riconfigura, da archeologo della città, brani di mura di Emona
– città di fondazione romana su cui sorge
quella attuale – realizzando un intervento a metà tra memoria e invenzione, anche gli interventi di Aprile, Collovà, Siza
e Venezia per il centro storico di Salemi,
nella Sicilia provata dal sisma del 1968 e
dall’abbandono, convertono gli effetti negativi del terremoto in elementi di rifondazione della città scegliendo di ricostruire
le sequenze degli spazi ricollocandovi le
rovine. Il progetto ridisegna la geografia
dell’urbano utilizzandola come naturale
risorsa per la sua trasformazione, come
grande cava di materiali da spolio, realizzando un sistema di demolizioni e di tagli
che consente di riconfigurarne i limiti e
gli ambiti. A Saragozza la coincidenza tra
la tra città romana e il tessuto del centro
storico fa sì che sia possibile restituire
alla città contemporanea, attraverso una
sorta di carotaggio archeologico, la lettura
immediata dei nuclei principali di quella
romana. un itinerario connette a una rete
di spazi museali i luoghi più significativi
dell’antico, fruiti all’interno dello spazio
vitale della città. Allo stesso modo, a Coventry, assistiamo alla valorizzazione di
una rovina che si percepisce nella lettura stratigrafica del paesaggio. Il progetto
di riqualificazione media i salti di quota
tra le vestigia e la città contemporanea
includendo i luoghi della storia nei nuovi
spazi pubblici attrezzati, nei quali il verde,
i percorsi museali, le piazze e le rovine
medioevali costituiscono il patrimonio
identitario del paesaggio urbano.
territori. I progetti raccolti in questo raggruppamento si riferiscono a trasformazioni che interessano un vasto ambito territoriale. L’intervento o la serie di interventi
messi in coerenza tra loro sono in grado
di modificare, al di là della dimensione
dell’area interessata, i rapporti tra le città
e il loro territorio attivando nuove relazioni e creando nuove centralità geografiche
e culturali. Attraverso la prefigurazione
di un sistema di infrastrutture culturali,
il comune di Concordia Sagittaria viene
messo in relazione al territorio agricolo e
lagunare per proporsi come nucleo strategico di un sistema artistico-ambientale
diffuso. Percorsi che intrecciano gli itinerari archeologici, paesaggistici, artistici
e culturali già attivi, diventano artefici di
una nuova forma che interpreta il pae-
saggio nella sua dimensione agraria e archeologica come motore di uno sviluppo
economico e turistico sostenibile. Il caso
di nantes, analogo nelle strategie, si riferisce a un territorio ancora più vasto. La
città riesce a superare un periodo di crisi
economica data dalla dismissione delle
aree industriali puntando sull’innovazione delle politiche pubbliche e ricoprendo
in breve tempo un ruolo baricentrico nel
territorio del bacino della Loira tra nantes e Saint-nazaire. Gli elementi chiave
di questa rinascita economica e sociale
sono individuati nella valorizzazione del
patrimonio culturale e nella tutela del
patrimonio ambientale. Tra gli interventi
più significativi il Giardino del Terzo Paesaggio di Gilles Clement che riutilizza
come reperto della memoria una base
sottomarina del Vallo Atlantico. Gli interventi di valorizzazzione dello straodinario
patrimonio culturale di nîmes e della sua
regione metropolitana stabiliscono nuove relazioni tra fruizione e archeologia e
tra paesaggio e infrastruttura. nel centro
storico il progetto di norman foster per
la nuova Mediateca, stabilisce un nuovo
equilibrio tra la città contemporanea e la
città di fondazione romana, il progetto di
Bernard Lassus attraverso la territorializzazione di una rovina ricollocata ridetermina il rapporto tra città, paesaggio e
infrastruttura, mentre, con il restauro del
Pont du Gard e la valorizzazione del paesaggio circostante, l’area metropolitana
guadagna un parco regionale attrezzato
con spazi culturali, informativi, didattici,
oltre che per lo sport e il loisir.
1 G.P. Brogiolo, Archeologia urbana, in R. francovich,
d. Manacorda, Dizionario di Archeologia, Laterza,
Roma-Bari 2000, pp. 350-355.
2 A. Ricci, Roma: una carta per la qualità urbana. La
memoria remota, in A. Ricci (a cura di), Archeologia e
Urbanistica, All’Insegna del Giglio, firenze 2003.
3 M. de Sola Morales, Un’altra tradizione moderna.
Dalla rottura dell’anno trenta al progetto urbano
moderno, “Lotus International”, 64, 1989.
PRoJeCts oF RuiNs
ABSTRACT
The atlas of archaeological landscapes is
a compendium of twenty-one best practices in which the conservation of the
historic-monumental asset and the intervention of architecture are accomplished
synergistically, establishing a relationship
of continuity with the history of the site and
creating new relationships between the
archaeological areas and their contexts.
The cases selected mainly concern urban
archaeology practices, a discipline that focuses on the urban fabric and landscape
interpreted as a whole, without privileging one historic period or monument over
another. The instruments employed by
architecture are those of urban planning,
considered as a process through which to
work on the geography and complexity of
the territory, and not on a simplification of
its type or morphology. Through a system
of relationships capable of defining invariants, flexibility, and temporal priorities,
the plan controls the quality and effectiveness of the formal results. In the atlas, the
cases are described in alphabetical order,
and are grouped together in a taxonomy
that encompasses six categories: archaeological centres, nodes, parks, itineraries,
city-systems, and territory. for each case
selected, in addition to a selection of photos and drawings describing the projects,
two maps have been drawn up: the first
places the area of intervention into the
territorial context, while the other is a layout showing the structures inserted into
the context, highlighting the relationships
among the new work, the archaeological
areas, the urban fabrics, and the landscape.
Archaeological centres. The term “archaeological centres” refers to limited areas which, in size and importance, appear
as actual hubs, of a prevalently archaeological nature, around which the urban
transformation process triggers an operation of discovery of the ruins, but also of
hybridization of the remains themselves
through other components that come into
play: infrastructure systems, equipped
public spaces, services and new urban
functions, or vegetation systems. nodes.
The selected projects, which have been
grouped together by project categories,
operate more by harmony of the results
than by intervention methods. Starting
from a core or hub, a series of new relationships are created in the surrounding territory. Parks. The selection of best
practices concerning parks identifies the
ways of preserving and integrating ruins
into natural environments. In this context,
the nature-archaeology combination is
expressed in less conventional terms. Itineraries. The resignification of a place full
of signs, such as an archaeological site,
is established starting from a series of
physical and perceptive relationships that
return it into a context that has evolved
and transformed over time. In many cases
the places that were central to and symbolic for the city’s life down through the
centuries have lost their meaning, having
been stripped of their original functions,
replaced by other hubs, and relegated to
the margins of the new urban systems;
the replanning of this system and its reallocation in the city are the focus of the
selected projects. City-systems. In the
building and transformation of the palimpsest-city, the memory of past events
and the overlapping of the new work are
composed as in an archaeological stratigraphy in which the new adheres to the
old. Territories. The genesis of these projects starts from a broader intervention
context that comprises the entire territorial framework in which the transformation takes place. The project or series of
mutually consistent operations modify the
relationships between the cities and their
territory, creating new relationships and
new geographic and cultural hubs.
333
PARCHi
AGRiGeNto, itAliA
Parco della valle dei templi
A Piano del Parco Archeologico e Paesaggistico
della Valle dei Templi di Agrigento, politecnica
Ingegneria e Architettura, ferrara Associati
Studio di Progettazione, Geo, Esosfera, Praxis,
Studio Associato Silva, V. Cotecchia, E. de Miro, G.
Harrison, G. Imbesi, coord.: G. Giacobazzi, 2005
A
b Passerella pedonale, J. Pujgcorbé,
Cottone+Indelicato coll. S. Montalbano,
strutture: abgroup Ingegneri, 2012 (figg. 1, 2)
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
C Architettura per i siti archeologici, jia-Japan
facoltà di Architettura dell’università di Tokyo:
S. J. Liotta e Y. Ito, Ente parco: G. Amico, C.
Liotta, M. Bevilacqua, A. La Gaipa, Politecnico di
Milano e università di Palermo M. Imperadori
e A. Vanossi, resp. scientifico: K. Kuma, 2013
(figg. 3, 4)
334
C
b
Committente: Ente Parco della Valle dei Templi di
Agrigento
Estensione: 1300 ettari
Bibliografia
G. ferrara, G. Campioni, Paesaggi di idee. Uno sguardo
al futuro della Valle dei Templi di Agrigento, Alinea,
firenze 2005.
G. ferrara, G. Campioni, Il Parco della Valle dei Templi
di Agrigento: dal Piano al Progetto di Paesaggio, “Arte,
Architettura, Ambiente”, 7, 2004.
R. franciosi, Architecture x Archeology, “domusweb”, 9
gennaio 2014.
Il piano del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi promuove gli indirizzi per la tutela e per lo sviluppo del sito
iscritto nella lista del patrimonio mondiale
unesco dal 1997. Per più di mezzo secolo,
l‘area compresa tra la città di Agrigento e la
costa ha rappresentato terreno su cui sono
stati costruiti infrastrutture, servizi, impianti
tecnologici e nuclei residenziali in netto contrasto con le caratteristiche naturali e archeologiche del luogo. Il precedente piano del
1964 ignorava i rapporti funzionali e percettivi
con la città storica e la costa, non censiva i
fabbricati rurali storici e d’interesse culturale, non considerava le aree archeologiche
esterne alla via Sacra né i problemi della
viabilità nazionale e regionale e aveva come
unico obiettivo il dettaglio delle cubature edilizie, attribuendo prevalentemente ad esse le
prospettive di sviluppo dell’area. Per arginare
le conseguenze di tali scelte viene approvato,
dopo la frana del 1966, il decreto legge GuiMancini che, in maniera simmetricamente
opposta, ha sottoposto a vincolo tutto il terri-
torio, senza affrontare il problema dell’assetto
paesistico della Valle e senza considerare che
un approccio unicamente vincolistico può rallentare il degrado ma non garantisce da solo
fruizione e conservazione dei beni.
Il Piano attuale, coordinato da Guido ferrara
e adottato nel 2008, si pone come obiettivo di
tutelare e valorizzare i beni archeologici nel
contesto paesaggistico e ambientale in cui
sorgono, di promuovere la ricerca archeologica curandone l’aspetto divulgativo, di potenziare la fruizione sociale e turistica delle
risorse territoriali per incrementare il turismo culturale. Il parco viene inteso come un
sistema di risorse che preserva le ricchezze
del territorio per farle evolvere in un processo di sviluppo sostenibile. La prima risorsa è
costituita dal patrimonio dei beni culturali e
archeologici che la Valle dei Templi conserva,
la seconda dal contesto geografico mediterraneo e dalle caratteristiche geomorfologiche
in cui sorgono le rovine e la terza consiste nel
paesaggio antropizzato, di tipo agricolo e rurale, sviluppatosi a integrazione delle prime
due.
All’interno di questo quadro sono stati realizzati una serie di interventi puntuali. L’ente
parco, in collaborazione con il Japan Institute
of Architecture, ha organizzato dei workshop
per dotare il sito di coperture modulari e flessibili a protezione delle vestigia e adattabili
alle diverse esigenze dei contesti archeologici. Tre dei progetti più interessanti sono stati
realizzati.
un altro intervento in corso di realizzazione,
risultato di un concorso internazionale vinto
dagli architetti Cottone-Indelicato, è una passerella pedonale di collegamento tra le due
aree archeologiche principali separate dalla
strada statale che attraversa il parco.
1
2
3
4
335
PeRCoRsi
AteNe, GReCiA
Acropoli, collina del Filopappo e Agorà
A Sistemazione dell’area archeologica attorno
all’Acropoli ed al colle di Filopappo, d. Pikionis,
1954-57 (figg. 1, 2)
b
b Progetto per l’Agorà di Atene, Y. Tsiomis Y.
Andreadis; H. Tsigarida, K. Yannopulos, A.
Pangalos, S. Linder, con A. doligé, J. Coulon,
M. Crali e G. Lagakis, landscape: n. Simos,
1997-2001 (figg. 3, 4)
Committente: Ministero della Cultura Ellenica e
Ministero Lavori Pubblici
Estensione: 140 ettari
Bibliografia
AA.VV., Other ways. 1 Homage to Pikionis, Colegio Oficial
Arquitectos Castilla y Leon Este demarcacion de Avila,
2005.
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
A. ferlenga, Dimitris Pikionis 1887-1968, Electa, Milano
1999.
336
A
K. frampton, Dimitris Pikionis, Architect, 1887-1968:
A Sentimental Topography. Architectural Association
Publications, Londra, giugno 1989.
A. Massarente, Yannis Tsiomis. Progetto urbano per
l’Agorà di Atene, Area 62, Motta editore, firenze 2002.
I due interventi della sistemazione dell’area
archeologica di Atene, lontani per concezione ed epoca storica, affrontano il tema della fruizione e della integrazione tra rovine
e città contemporanea. Mentre il progetto
di Pikionis riconsegna alla città un’area archeologica monumentale mitica attraverso un progetto romantico e avanguardista,
Tsiomis invece lavora sull’archeologia degli
spazi pubblici di Atene attraverso una metodologia in cui il paesaggio contemporaneo è
considerato allo stesso tempo contenitore e
scenario delle tracce geografiche, storiche e
sociali della contemporaneità.
Tra il 1954-57 Pikionis costruisce il nuovo sistema di percorsi sull’Acropoli attraverso una
nuova topografia estetica, basata sul riuso di
frammenti esistenti e sulle immagini che lo
sguardo coglie durante l’attraversamento,
stabilendo così una nuova categoria del progetto che prelude alla Land Art. Attraverso
un lavoro ricomposto per parti Pikionis da un
lato ricostituisce e rinnova le relazioni fisiche
e percettive tra i monumenti, i tracciati e le
masse verdi esistenti, dall’altro ricostruisce
la trama delle connessioni visive e funzionali
tra vestigia e città andate perdute, ottenendo
così la sensazione di unità indissolubile tra
Acropoli e contesto. frammenti archeologici
si mischiano, nella pavimentazione dei tracciati o nei muri dei sentieri, con frammenti di
macerie, lastre di marmo, placche di cemento, sassi e scarti di cava. Il paesaggio attico
viene restaurato attraverso il rafforzamento
della vegetazione bassa e la piantumazione
di quelle stesse essenze che gli antichi utilizzavano nei luoghi sacri.
Il progetto di Yannis Tsiomis, passando dall’epoca classica a quella ellenistica e romana,
connette l’area archeologica al tessuto urbano ottomano e a quello della città contemporanea. Superando la cesura della linea ferroviaria costruita al nord dell’area nel 1897, egli
indaga la possibile continuità tra spazio pubblico e spazio archeologico, le soglie e i limiti
che distinguono l’uno dall’altro, attraverso
la concezione di uno strumento che chiama
topografia storica della città, intesa etimologicamente come scrittura del luogo, elemento
ordinatore, tramite il quale è possibile leggere i diversi tempi della città, la diacronia e la
sincronia delle tracce e delle storie percepibili
in essa. Il risultato è la costruzione di una promenade archéologique che mette in relazione
tra loro i principali siti archeologici di Atene: il
quartiere Ceramico, l’Agorà classica, l’Agorà
romana, la salita all’Acropoli, la collina di filopappo e l’Olympieion e la serie di aree verdi ad
esse connesse. Il sistema dei percorsi rilegge
il palinsesto della città esistente, formato dagli intrecci e dalle stratificazioni del periodo
greco, ellenistico-romano, bizantino, ottomano, neoclassico e moderno e rileva la mescolanza e la contaminazione – sociale e spaziale
– della città stessa che diventa un valore da
perseguire e un carattere da preservare.
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3
4
337
CeNtRi ARCHeoloGiCi
beiRut, libANo
Piazza dei Martiri e Parco del Perdono
A Progetto preliminare per il sito del Tell e il
Museo storico della città di Beirut, M. Macary,
1998
b Progettazione dei percorsi e della Piazza del
Museo storico della città di Beirut, R. Piano, 1998
C Parco del Perdono, Gustafson-Porter
Landscape Architects, strutture: arup,
consulenti: Imad Gemayel Architects, dar AlHandasah Engineers, d. Langdon, archeologia:
arup e Y. Abun-nasr, 1999-2006 (figg. 1-4)
A b
Committente: Solidere (Società libanese per lo sviluppo e
la ricostruzione di Beirut)
Estensione: 5 ettari
C
Bibliografia
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
J. Amidon, Moving Orizon. Les Paysages de Kathryn
Gustafson et Associes, Birkhauser, Basel 2005.
338
H. Badawi, Beirut: l’integrazione archeologica nel progetto
urbano, in G. dato (a cura di), Da Beirut a Noto. Patrimonio
archeologico e pianificazione urbanistica, Studi e ricerche nei
paesi del Mediterraneo, Biblioteca del cenide, Cannitello
(rc) 2005.
M. Haidar, Città e memoria. Beirut, Sarajevo, Berlino, Bruno
Mondadori, Milano 2006.
T. Matteini, Paesaggi nel tempo. Documenti archeologici e
rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi. Alinea,
firenze 2009.
L’evoluzione del tessuto urbano della città
di Beirut è strettamente legata alle vicende storiche caratterizzate da dominazioni,
guerre e lotte civili che, nel corso delle diverse epoche, hanno attraversato la storia del
paese. nel 1994, alla fine del conflitto durato
dal 1975 al 1991, Rafic Hariri, Primo Ministro
in carica, fonda la Solidere (Società Libanese
per lo sviluppo e la ricostruzione del centro
storico di Beirut) allo scopo di risarcire la
collettività delle perdite provocate dal conflitto sia attraverso la ricostruzione della
città dal punto di vista fisico che attraverso
la ricomposizione metaforica dell’identità
culturale libanese. I reperti archeologici diventano quindi l’elemento fondativo di questa
ricostruzione identitaria. Attraverso gli scavi
preliminari ai lavori di ricostruzione viene riproposta, per parti, la trama urbana originaria della città. Vengono investiti negli scavi,
oltre quattro miliardi di dollari e, nel 1995,
Beirut diventa, per ricchezza di reperti e per
complessità culturale, il più grande cantiere
archeologico del mondo. Il limite dell’opera-
zione, anche a causa dell’instabilità politica,
è la mancanza di una visione progettuale
complessiva che coordini gli interventi e che
valorizzi i reperti in un contesto urbano adeguato.
La volontà di Solidere di reintegrare in un
paesaggio unitario l’eterogeneità dei sistemi
archeologici e storico-culturali che caratterizzano il centro storico di Beirut si esprime,
in particolar modo, in una serie di interventi
che riguardano l’area compresa tra il Parco
del Perdono e il Museo della Storia, a nord
della piazza dei Martiri. Gli scavi del 1995
hanno portato alla luce una straordinaria
quantità di reperti eterogenei appartenenti a epoche storiche diverse (un sito fenicio, mura dell’età del bronzo, resti di epoca
persiana, ellenistica, bizantina medievale e
ottomana) che mettono in risalto la natura
multiculturale della città. Solidere incarica
l’architetto francese Michel Macary della
progettazione del Museo che dovrà essere
integrato alla piazza dei Martiri e al Parco del Perdono. Il progetto della piazza dei
Martiri e delle sue connessioni urbane viene
affidato a Renzo Piano ma l’intervento più significativo è quello per il Parco del Perdono,
risultato di un concorso internazionale vinto
dagli inglesi Gustafson e Porter. Il progetto del parco mira a stabilire una trama che
restituisca un sistema di nuove relazioni tra
le vestigia archeologiche e il tessuto urbano
attraverso connessioni fisiche e percettive. Il
nodo della piazza centrale, alla quota della
città, connette le aree a nord e a sud del sito
ma si relaziona anche verticalmente con le
stratigrafie sottostanti che arrivano a una
profondità di oltre cinque metri. Il sistema
dei percorsi e la trama vegetale, che evoca
i terrazzamenti e le colture tipiche libanesi,
entrano in contatto diretto con le rovine che
diventano anch’esse parte del linguaggio
compositivo. La realizzazione dei progetti, a
causa delle instabili condizioni politiche, è
attualmente sospesa.
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4
339
PARCHi
CAiRo, il, eGitto
quartiere darb-Al-Ahmar e
Parco Al-Azhar
Coord. aktc-Aga Khan Trust for Culture,
hcsp-Historic Cities Support Programme,
L. Monreal, direzione generale: S. Bianca,
restauro mura e quartiere di darb Al-Ahmar:
f. Siravo, programmi socio economici: J. Van
der Tas, 1997-2006
A Restauro delle Mura, coord. scientifico:
f. Matero, coord. restauro: E. del Bono-n.
Ahmed, architettura: M. fouda e R. Pilbeam,
G. devreux, J. d’Ilario, A. Lanza, H. M.
Mohamed, C. Piffaut, G. Santo, A. Labib, A.
nasser, S. Ali, restauro: L. Tamborero (fig. 1)
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
b Quartiere di Darb Al-Ahmar, coord.: K.
Ibrahim, J. Allen, S. el Rashidi, A. el Gohary,
H. al Biblawi, n. George, M. Qotb, M.A. Satar
Sayed (fig. 3)
340
b
C
C Parco di Al-Azhar, d. Olson, Sasaki
Associates Inc., M. Stino-L. Elmasry (figg. 2, 4)
A
Committente: Municipalità di Il Cairo
Estensione: parco 33 ettari, quartiere 110 ettari
Bibliografia
Bartolone R., Dai siti archeologici al paesaggio attraverso
l’architettura, “Rivista Engramma”, 110, 2013.
Il Cairo: il parco, le mura, intervista a francesco Siravo di
Rita Capezzuto,“domus”, 904, 2007.
La riscoperta di un lungo segmento di mura
medievali, durante i lavori per la creazione
di un parco, ha rappresentato l’occasione per
avviare un ampio progetto di trasformazione
urbana a partire dalla integrazione e dalla
rifunzionalizzazione del patrimonio storicoarcheologico. nel 1997 l’Aga Kahn Trust of
Culture intraprende i lavori per la creazione
di un nuovo spazio verde adeguato alle dimensioni e alla densità di uno dei più grandi
bacini metropolitani del Mediterraneo. Per
la realizzazione del Parco Al-Azhar viene in-
dividuata un’area di 33 ettari confinante con
le mura utilizzata come discarica e che, per
l’accumulo dei detriti, si era trasformata,
nei secoli, in una zona collinosa. In seguito
ai lavori di movimentazione di terra per la
realizzazione del parco viene riportata alla
luce una porzione della cinta muraria eretta
da Saladino, lunga 1,3 km comprensiva di 15
torri difensive e 3 porte urbane, ripristinate
come collegamenti urbani fra il quartiere e
il parco. La costruzione delle mura, iniziata
nel 1176 e protratta fino a metà del secolo
successivo, costituiva il limite della città consolidata. nel corso dei secoli successivi, pur
mantenendosi come margine all’espansione
urbana verso est, le mura andarono perdendo la funzione difensiva e furono gradualmente inglobate nell’edificazione urbana,
dal xv secolo, l’area diviene una discarica e
le mura stesse vengono progressivamente ricoperte dal materiale di scarto. nel xix
secolo l’altezza dei detriti raggiunge circa
i 30 metri rappresentando quindi un ostacolo all’espansione urbana ma anche una
garanzia per la conservazione del tratto di
fortificazioni in questione. nel progetto per
il parco di Al-Azhar l’andamento collinosodella topografia artificiale si trasforma in un
osservatorio interno alla città storica. Il progetto, coordinato dall’Historic Cities Support
Programme, inizialmente limitato alla sola
sistemazione dell’area circostante le mura,
ha generato un più ampio programma di
riqualificazione urbana che ha investito tutto il sistema delle fortificazioni attraverso il
ripristino di un percorso parallelo alle mura
e il recupero urbano del quartiere di darb
Al-Ahmar, sviluppatosi a ridosso dell’infrastruttura stessa. Il quartiere – 110 ettari di
estensione, 1400 abitanti per ettaro e una
popolazione complessiva di 160.000 persone
– presenta un elevato numero di edifici storici
e di pregio architettonico. Analisi dettagliate
hanno permesso di raccogliere informazioni
sulla consistenza fisica, gli usi e lo stato di
conservazione degli edifici localizzati lungo
il percorso delle mura. L’insieme di queste
indagini e una verifica sulle condizioni abitative e sociali del quartiere, ha permesso di
mettere a punto un programma di interventi
che ha coinvolto attivamente le maestranze
locali e ha determinato la partecipazione
degli abitanti al processo di trasformazione
urbana, migliorando la qualità dell’abitare e
rendendo il quartiere stesso una meta di attrazione turistica.
1
2
3
4
341
CeNtRi ARCHeoloGiCi
Città del MessiCo, MessiCo
Piazza delle tre Culture e quartiere
tlatelolco
1
4
A, b Piazza delle Tre Culture (figg. 1-4) e
Quartiere Tlatelolco, M. Pani, con: L. Ramos
e R. de Robina, 1949-64
C Torre di Tlatelolco, P. Ramírez Vázquez,
sculture: f. Silva, 1949-64
Committente: Municipalità di Città del Messico
b
Estensione: 4 ettari
Bibliografia
2
G. de Garay Arellano, Mario Pani: vida y obra,
universidad nacional Autónoma de México, facultad
de Arquitectura, 2004.
C
A
R. Gutiérrez, Architettura latinoamericana del
Novecento, Jaca Book, Milano 1995.
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
H. Stierlin, Architettura Messicana antica, Istituto
Editoriale Italiano, Editoriale del Parnaso, Milano
1968.
342
3
Le tracce lasciate dalla storia della città dalla
sua fondazione all’epoca moderna sono leggibili nelle complesse stratificazioni della piazza
delle Tre Culture a Città del Messico. nel 1950
Mario Pani, che completa la sua formazione
architettonica in Europa in particolare in Italia
e in francia dove approfondisce lo studio dei
principi del Movimento Moderno e dell’insegnamento di Le Corbusier, viene incaricato dal
Governo federale della realizzazione di una
Città Radiosa per settantamila abitanti nel centro della capitale. La prima azione di proget-
to consiste nella demolizione di un quartiere
sorto senza pianificazione attorno alla chiesa
barocca di Santiago Tlatelolco e al Collegio
della Santa Cruz, dove vengono intrapresi i
primi scavi per le fondazioni. Il lavoro di scavo
rivela un incredibile complesso monumentale
che si sviluppa attorno a una piramide risalente all’ultimo periodo azteco. La realizzazione
del complesso residenziale lecorbusieriano,
che sorgerà nell’area limitrofa alla piazza, ha
rappresentato l’occasione per verificare l’ampiezza e la disposizione generale di questo
complesso sacro e ha contribuito ad ampliare
le conoscenze nel campo dell’urbanistica azteca. I lavori di scavo intrapresi nel 1963 portano
alla luce i resti di una grande piramide, costituita da quattordici sovrapposizioni, attorno alla quale erano disposti una serie di altri
edifici: piramidi secondarie, altari, piattaforme
gladiatorie, terrazze e rampe di raccordo tra le
diverse quote. L’intervento di Pani recupera il
rapporto tra l’architettura coloniale spagnola,
rappresentata dal convento e dalla chiesa, e le
vestigia azteche attraverso l’inserimento della
terza cultura, quella moderna. Il margine sud è
segnato dalla Torre di Tlatelolco, realizzata da
Pedro Ramírez Vázquez nel 1960, sede della
Cancelleria nazionale. Il grande intervento di
riqualificazione urbana di Pani, detto anche l’utopia del Messico, ha avviato il risanamento di
una parte della periferia della città attraverso
la demolizione delle abitazioni fatiscenti sorte
spontaneamente ai margini del tessuto urbano
e la ricostruzione di un intero quartiere residenziale di edilizia convenzionata (12.000 appartamenti, 2.300 servizi, 700 locali commerciali, 22 scuole, 6 ospedali, 3 centri sportivi, 12
edifici per uffici, 1 centrale telefonica, 4 teatri e
1 cinema). Il quartiere di Tlatelolco, con la sua
dotazione di servizi e infrastrutture rappresenta il tentativo di realizzare un’utopia moderna al
centro della città, il cui valore aggiunto corrisponde proprio allo straordinario spazio pubblico realizzato dopo gli scavi nel quale ancora
oggi Città del Messico trova uno dei suoi più
significativi luoghi dell’identità urbana. La piazza, nel cuore del centro storico della città, sito
unesco dal 1987, è la prima tappa di uno degli
itinerari archeologici messicani, con 12 milioni
di turisti l’anno, la più frequentata del pianeta.
343
teRRitoRi
CoNCoRdiA sAGittARiA, itAliA
Centro storico e Agro concordiese
A, b Studio di fattibilità per Concordia
Sagittaria e l’Agro concordiese, università iuav
di Venezia. Convenzione tra università iuav
di Venezia e Comune di Concordia Sagittaria
2007/2008, nell’ambito del programma
Antiqui: testimonianze del Quanta fuit, resp.
scientifici: M. Centanni, S. Maffioletti e
M. Vanore, gruppo di ricerca: M. Bassani,
S. Grispan, M. Lazzaretto, M. Marzo, K.
Mazzucco e S. noventa, Centro studi
Classica, Architettura Civiltà Tradizione del
Classico, supporto cartografico: circe, Centro
di rilievo e cartografia, supporto informatico:
lar, Laboratorio di ricerca in Progettazione
Architettonica, 2007-08 (figg. 1-3)
A
Committente: Comune di Concordia Sagittaria
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Estensione: 3500 ettari
344
Bibliografia
b
M. Vanore, M. Marzo (a cura di), Luoghi dell’archeologia
e usi contemporanei, iuav, Venezia 2010.
M. Vanore, (a cura di), Archaeology’s spaces and
contemporary uses. Erasmus Intensive Programme
2010-11 design workshop 2, iuav, Venezia 2011.
M. Vanore, (a cura di), Archaeology’s spaces and
contemporary uses. Erasmus Intensive Programme
2011-12 design workshop 3, iuav, Venezia 2012.
Lo studio di fattibilità per Concordia Sagittaria e il suo territorio verte sulla necessità di
superare l’isolamento geografico e culturale
di un importante centro di fondazione romana Iulia Concordia, fondata nel 42 a.C. presso
l’incrocio della via Annia con la via Postumia,
oggigiorno tagliato fuori dai flussi turistici
dell’area veneziana. Attraverso la prefigurazione di un sistema di infrastrutture culturali
Concordia viene messa in relazione a Portogruaro, all’Agro sud e alla Laguna di Caorle
per proporsi quale nucleo strategico di un
sistema artistico-ambientale fitto e diffuso. I
nuovi percorsi che intrecciano gli itinerari archeologici, paesaggistici, artistici e culturali
già attivi, costituiscono una forma di fruizione
del territorio che interpreta il paesaggio nella
sua dimensione agraria e archeologica come
motore di uno sviluppo economico e turistico
sostenibile. Lo studio sceglie di evidenziare
in situ il patrimonio archeologico, evitandone
la musealizzazione, come un sistema di elementi culturali e paesaggistici dell’Agro costituito dalle stratificazioni prodotte dalle bo-
nifiche e dai tracciati infrastrutturali nell’area
concordiese. Lo studio, inoltre, definisce degli
scenari d’intervento dai quali emerge un nuovo potenziale ruolo di Concordia come centro
di un sistema di reti archeologiche e paesaggistiche, a diverse scale di possibile fruizione.
Vengono individuate le più significative aree
archeologiche di terra e vengono messe in
relazione con gli itinerari archeologici d’acqua, che interessano sia il litorale della via
Annia che le coste e gli ambiti lagunari del
nord-Adriatico. nell’intento di indirizzare il
territorio a fare sistema e far emergere le
sue potenzialità latenti, lo studio traccia un
possibile percorso per la qualificazione del
distretto culturale e individua luoghi di interscambio significativi tra i due principali sistemi di percorrenza di terra e d’acqua. I nuovi
tratti di strade-argine riconnettono i percorsi
tra diversi bacini idrografici e contribuiscono
alla messa in sicurezza di ambiti specifici. In
continuità con quanto definito dalla proposta
progettuale per il territorio dell’Agro concordiese si è prefigurato uno scenario specifico
per il territorio comunale di Concordia. Tra
Concordia e Sindacale, si delinea un ambito
a forte valenza paesaggistica, un’area di connessione tra i nuclei urbani e il fronte lagunare, fatta di successive transizioni, dall’edificato urbano a quello diffuso, alla tessitura
dei campi, al parco agricolo, fino al bosco, al
parco umido e alle valli da pesca. Si propone una strategia di intervento che definisce
l’aggancio della città al fiume Lemene attraverso spazi urbani qualificati, l’estensione
dei percorsi archeologici come elementi di
riqualificazione urbana e la percezione e la
nuova fruizione del paesaggio dell’Agro lungo percorsi che collegano luoghi di interesse
archeologico, storico e culturale, ma anche
ambientale e turistico.
1
2
3
345
sisteMi-Città
CoveNtRY, iNGHilteRRA
Phoenix initiative nel centro storico
2
1
A Priory Garden
b Priory Cloister
C Centro accoglienza turisti
d Millenium Place
e
e Lady Herbert’s Garden
MacCormac Jamieson Prichard-mjp, artisti:
A. Beleschenko, C. Browne, J. Gerz, S.
Heron, f. Schein, d. Ward, K. Whiteford
e d. Morley, illuminazione: Speirs and
Major Associates, consulenti: Ashgate
development Consultants, strutture:
Babties and Harris + Sutherland, Wt
Partnership, Whitby, 1997-2004 (figg. 1-3)
d
3
Committente: Municipalità di Coventry
b
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Estensione: 3 ettari
346
C
Bibliografia
R. MacCormac et al., Phoenix: Architecture/Art/
Regeneration, Black dog Publishing, London 2004.
A
A. Tricoli, I siti archeologici urbani in Mostrare
l’archeologia. Per un manuale/atlante degli interventi di
valorizzazione, a cura di M. Vaudetti, V. Minucciani, S.
Canepa, Allemandi, Torino 2013.
Il progetto urbano Phoenix Initiative, primo
intervento di ricostruzione urbana dopo il
bombardamento tedesco del 1940 che rase
al suolo la città, si articola a partire dalla
creazione di una sequenza di piazze e spazi pubblici che intendono unire in un unico
sistema l’architettura contemporanea e i
siti archeologici, superando l’ormai datata
sistemazione delle “aree verdi con rovine”.
Il masterplan ha previsto infatti, la creazione di una nuova centralità a partire da due
focus principali: il Complesso Monumenta-
le che si sviluppa attorno alla Cattedrale di
San Michele, fondata accanto ai resti ancora visibili dell’Abazia benedettina del 1043,
e le aree verdi ad esso connesse. In questa
area, che si estende nel centro della città
per tre ettari, vengono create nuove relazioni
tra elementi preesistenti, alcuni dei quali di
notevole pregio storico-artistico, e vengono
realizzati servizi, attrezzature per il tempo libero, spazi commerciali e abitazioni. Il
motivo di interesse dell’intervento però non
consiste solo nella creazione di nuovi spazi
pubblici ma nella individuazione di una strategia di intervento progettuale che recupera
le aree monumentali della città, visitate da
una grande quantità di turisti ma fino ad ora
avulse dalla vita cittadina e quindi poco utilizzate dagli abitanti di Coventry, e, a partire
da queste, individua un programma di azioni
di recupero su un’area urbana ben più vasta,
priva identità e funzionalità, all’interno della
città contemporanea.
Vengono realizzate due piazze pedonali, la
Milllenium Place e la Priory Place, tre giardini il Priory Garden, il Priory Cloister e il Lady
Herbert’s Garden, ottantaquattro alloggi,
spazi per l’informazione turistica, bar, caffè e
negozi. Per incrementare la qualità dello spazio pubblico sono state realizzate una serie di
installazioni di arte urbana (il Ponte di Vetro,
la Zona dell’Orologio, la finestra d’Acqua). Gli
interventi architettonici che meglio approfondiscono i temi di integrazione tra le preesistenze e la città espressi dal mastrerplan
sono il Centro accoglienza turisti e il Priory
Garden. Il primo, è situato lungo il percorso
pedonale principale fiancheggiato dai due
nuovi spazi verdi ed è realizzato in continuità con i resti del muro perimetrale nord della
navata principale della Cattedrale Benedettina dell’xi secolo. L’edificio realizzato in vetro,
acciaio e mattoni permette una buona permeabilità percettiva consentendo continuità
allo spazio della navata e il chiostro adiacente. un sistema di rampe, ribassato rispetto al
livello della strada, connette alla quota della
città il chiostro e il giardino. nel Priory Garden i resti della Basilica medioevale vengono
integrati nello spazio pubblico, la loro tutela
e museificazione non avvengono attraverso un
recinto ma sei teche di vetro retroilluminate, e
accompagnate da pannelli illustrativi, posizionate a protezione delle colonne della Basilica
medievale, ridefiniscono lo spazio dell’edificio
anticamente presente nell’area e consentono
al visitatore la fruizione del bene storico.
347
teRRitoRi
duisbuRG, GeRMANiA
emscher Park
A Landschftspark Duisburg Nord, Latz +
Partner, Latz-Riehl, C. Rupp-Stoppel, K.-H.
danielzik, G. Lipkowsky, J. dettmar, J. Park,
con la collaborazione delle associazioni dei
cittadini, illuminazione: fischer Park, 19902002 (figg. 1-5)
b Restauro del gasometro a Coberhausenm,
Babcock Anlagen, 1993
C Riqualificazione area antica miniera a
Herne, Jourda & Perraudin, Hegger &
Hegger, M. desvigne & C. dalnoky, 1990-99
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
d Miniera Zolleverein a Hessen, H. Boll
e H. Krabel, n. foster, Paner Gruppe
Oberhausen, 1992-97
348
Committente: Società di sviluppo dello Stato del
nord-Reno Wesfalia, Città di duisburg, unione delle
Amministrazioni locali
Estensione: 230 ettari di 32.000 ettari complessivi
C
b
A
d
Bibliografia
T. Matteini, Paesaggi nel tempo. Documenti
archeologici e rovine artificiali nel disegno di giardini e
paesaggi, Alinea, firenze 2009.
u. Weilacher, Syntax of Landscape. The Landscape
Architecture of Peter Latz and Partners, Birkhäuser,
Basel Boston-Berlin, 2008.
Il Parco paesaggistico regionale della Ruhr
ricopre un’area di 32000 ha che rappresenta più di un terzo della superficie regionale
comprensiva. nasce dal coordinamento della iba, International Bauaustellung Emscher
Park, società di consulenza creata per coordinare la progettazione partecipata di paesaggisti, cittadini e imprenditori, per la trasformazione di un paesaggio post industriale
in un grande parco naturalistico, riutilizzando gran parte delle attrezzature in disuso.
Il distretto della Ruhr, dalla metà del 1800,
diviene una delle più importanti aree produttive d’Europa, specializzata nell’attività
estrattiva e siderurgica. Tra il 1960 e il 1980
l’area ha subito un rovinoso declino lasciando dietro di sé una profonda crisi sociale,
un elevatissimo tasso di disoccupazione, un
grave inquinamento della terra e delle falde
acquifere e centinaia di metri cubi di edifici industriali dismessi. Il programma per la
riqualificazione, realizzato attraverso il coordinamento di oltre 100 progetti, ha previsto:
la creazione di un sistema di parchi (ricrea-
tivi, culturali, riserve ecc.) e spazi pubblici
attrezzati collegati da una rete di percorsi
ciclopedonali, il riassetto del sistema idrogeologico del bacino dell’Emscher e dei corsi
d’acqua che in esso confluiscono, il recupero
del canale Rhein-Hern che rifornisce i territori settentrionali poveri d’acqua, la creazione di attrezzature per lo sport e il tempo
libero lungo le sponde, un piano di recupero
per l’archeologia industriale e il recupero e
la realizzazione di complessi residenziali.
Peter Latz descrive la strategia del progetto per il Parco di duisburg nord, nei luoghi
delle ex acciaierie di Thyssen, a partire dalla
creazione di una nuova sintassi del paesaggio.
La selezione degli elementi preesistenti recuperati, funzionalizzati e messi per la prima
volta in relazione tra loro genera degli scenari completamente diversi dai precedenti.
L’intervento si sviluppa a partire da una serie di azioni fondative: integrare, sviluppare
e connettere i frammenti che costituivano il
distretto industriale in disuso per la costruzione di un nuovo paesaggio e individua una
serie di sistemi di fruizione indipendenti l’uno dall’altro che, come in una stratificazione
archeologica, si sviluppano per livelli sovrapposti sintatticamente l’uno all’altro. Questi
quattro layers, che connettono punti e intercettano visuali sono: il parco dell’acqua, il
sistema del verde, le promenades relazionate
alla rete stradale esistente che riconnettono
sistemi urbani separati per decenni e il parco
della ferrovia che utilizza i tracciati sopraelevati originari per il trasporto dei materiali. Il
progetto disegna i sistemi di comunicazione
tra un’area e l’altra ma Latz utilizza come
elementi di questa nuova sintassi i luoghi
dell’abbandono che, riprogettati, sono utilizzati dal progettista e dai fruitori come una
opportunità di riconciliazione con il paesaggio rovinato.
1
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4
5
349
PARCHi
HiRosHiMA, GiAPPoNe
Parco della Pace
1
2
A Museo della pace
b Municipio
C Auditorium
d Memoriale
K. Tange con T. Asada, S. Otani-Planning
Research Group in Peace City, artisti: H.
noguchi, 1949-56 (figg. 1-4)
3
Committente: Municipalità di Hiroshima
Estensione: 0,40 e 43 ettari complessivi
Bibliografia
d
C
A
b
Kenzo Tange. 1946-1969. Architecture and Urban Design, Veral fur Architectur Artemis, Zurich 1970.
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
I. norioki, Changes in plannig zone of Hiroshima Peace
Memorial Park proposed by Kenzo Tange and their significance, www.usp.br.
350
K. Tange et al., Japan: Hiroshima, in CIAM 8: The Heart
of the City: towards the humanization of urban life,
Kraus Reprint, 1979, pp.136-138.
nel 1946, a Hiroshima, sul sito in cui il 6 agosto 1945 era stata sganciata la bomba atomica,
viene indetto un concorso per la costruzione di
un Centro per la Pace. Il programma del concorso prevedeva la costruzione di un centro
civico, un memoriale e un museo. La ricostruzione della città rasa al suolo dall’esplosione
doveva riprendere vita proprio a partire dal
punto della detonazione che sarebbe divenuto
un luogo rappresentativo, celebrativo ma anche una nuova centralità urbana. Il concorso
viene vinto da Kenzo Tange che, per la prima
volta, si misura con un progetto alla scala urbana. Egli propone di utilizzare una superficie
più ampia dell’isola sul fiume Motoyasu e di
integrare al programma del progetto una serie
di servizi per la città. Il luogo, sito unesco dal
1996, si estende per 0,40 ettari ma coinvolge
un’area di 43 ettari. L’intera operazione di recupero e di ricostruzione si sviluppa a partire
dall’unica preesistenza che ha resistito all’esplosione: la cupola di Genbaku, realizzata nel
1915 dall’architetto ceco Jan Letzel, e divenuta il simbolo della pace nel mondo. La rovina
dell’edificio costituisce la traccia sulla quale
rifondare la città distrutta dall’esplosione, una
landmark della memoria che viene oggi utilizzato come monito a favore dell’eliminazione di
ogni arsenale nucleare e simbolo di speranza
e pace. Kenzo Tange, propone una strategia
progettuale basata su quattro elementi principali: un Museo su pilotis, un Memoriale per le
vittime, la creazione di un Asse (fig. 4) che dal
memoriale stesso traguardi il fiume per inquadrare la rovina e, di conseguenza, l’inclusione
nell’area di progetto del parco retrostante di
Chuo Koen. Proprio questi ultimi due elementi cambieranno il rapporto del sito con la città
condizionandone lo sviluppo futuro.
Tange intraprende una lunga e infaticabile
campagna politica e culturale per motivare le
ragioni del suo progetto, scrive lettere all’amministrazione giapponese, progetta numerose
varianti e partecipa con il progetto ai lavori dell’viii ciam del 1951 The Heart of the City: towards
the humanization of urban life con un intervento
dal titolo Peace City Hiroshima. Il masterplan
definitivo dell’area include l’ampliamento
nord-est, posizionando a nord del Monumento
costituito dal reperto le strutture per i bambini, la biblioteca e il centro di accoglienza e, a
nord-est, i servizi culturali per la città. Il lavoro
suscita un enorme interesse poiché il recupero dell’area bombardata rappresenta una
occasione per l’intera città e per tutto il paese. Purtroppo la risposta dell’Amministrazione giapponese è stata contraddittoria perché
nonostante l’ufficio urbanistica avesse approvato, seppure con alcune revisioni, il progetto,
l’inclusione nel Parco della Pace dell’area di
Chuo Koen non venne mai ufficializzata. Il piano di Tange fu piuttosto utilizzato come linea
guida venendo adottato ma solo all’occorrenza
e puntualmente. Tale atteggiamento ha favorito l’edificazione di edifici, residenze in buona
parte, realizzati al di fuori delle prescrizioni di
piano e più della metà dei 70 ettari di parco
sono stati edificati in mancanza di un progetto
che li mettesse in coerenza tra loro.
4
351
CeNtRi ARCHeoloGiCi
istANbul, tuRCHiA
Nodo di scambio a Yenikapi
A Archivio (figg. 2-3)
b Nodo di scambio (figg. 2-3)
C Parco Archeologico (fig. 4)
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
d Quartiere Armeno
352
f. Cellini, Atelye 70 H. Kaptan-d. Kaptan, M.
Lombardini, G. Colacicco Murat-er, Insula
Architettura e Ingegneria srl: P. Orsini, E.
Cipollone e R. Lorenzotti con P. diglio, G.
Ravaglioli, G. Colucci, n. Marzetti e A. Giuffrida,
strutture: Bollinger + Grohmann Consulting
Gmbh, Techn, K. Bollinger, M. Grohmann e
S. Ruppert, sostenibilità: L. Messari-Becker,
consulenti: d. Pfanner, Agnieszka Gut, H.
Murat Celik, restauro: M. M. Segarra Lagunes
e A. Emrah Ünlü, museologia: G. Longobardi,
archeologia: f. d’Andria e G. Semeraro,
agronomia: L. Catalano, 2012-in corso
d
Committente: Municipalità di Istanbul
Estensione: 28 ettari
A
C
b
Bibliografia
f. Cellini f., Yenikapi Transfer Point and Archaeo-Park
Area, www.europaconcorsi.com.
A. furuto, Yenikapı Transfer Point and Archaeo-Park,.
www.archdaily.com
Pierotti P., Firme italiane per la riconversione di 28 ettari nel
cuore di Istanbul, “Edilizia e Territorio”, 13 aprile 2012.
Il progetto per il nodo di scambio nell’area
di Yenikapi-Aksaray affronta alcuni dei temi
urbani più complessi della città contemporanea: la mobilità, la sostenibilità e la conservazione e valorizzazione del patrimonio
culturale rinvenuto nel luogo. L’area era sede
di uno dei più fiorenti porti del Mediterraneo,
il porto di Teodosio, segnato da una fervida
attività commerciale, dimostrata dal rinvenimento di trenta navi – riempite con i loro
carichi – per molto tempo custodite dall’insabbiamento che ha interessato la zona nei
secoli successivi. Tale insabbiamento, avvenuto in periodo tardo bizantino, ha favorito lo
sviluppo di piccoli agglomerati urbani come il
minuto quartiere armeno che ha mantenuto
la sua identità originale, alcuni tracciati urbani antichi quali la via Egnatia, un tessuto
urbano caratterizzato da case lignee ottomane e numerosi monumenti (moschee, mura,
colonne onorarie, caratteristiche della capitale dell’Impero ottomano). In seguito ad un
incendio avvenuto alla fine dell’Ottocento, la
zona compresa tra l’antico porto e il nodo ur-
bano di Aksaray subisce una drastica trasformazione. Ai resti delle strade antiche viene
via via sovrapposta una struttura a scacchiera
che se da un lato migliora le connessioni e lo
sviluppo della città contemporanea, dall’altro
favorisce l’incremento di un’edilizia priva di
qualità architettonica.
Il concorso per la sistemazione del nodo infrastrutturale di Yenikapi prevede di risolvere
il problema della mobilità di un’area urbana
abitata da oltre 14 milioni di abitanti, collocando nella distesa centrale di Aksaray una
serie di nuove infrastrutture per dare vita a
un laboratorio culturale che custodisca al
suo interno brani della storia urbana, in tutte
le fasi del suo sviluppo: dalle preesistenze
antichissime, risalenti al neolitico, alla valorizzazione dell’antico Porto di Teodosio e del
patrimonio archeologico ad esso connesso –
tra cui 35 navi di epoca bizantina – fino ai progetti della città attuale. Il progetto affronta il
problema lavorando contemporaneamente
alla scala territoriale e alla scala architettonica. A livello urbano persegue la ricucitura
dei tessuti circostanti l’area di progetto, prevedendo l’interramento delle arterie a grande scorrimento, e si propone di riorganizzare
le relazioni e i percorsi tra tessuti e funzioni,
di ricalibrarne i pieni e i vuoti, gli spazi privati
e quelli pubblici riattivando antichi tracciati,
redisponendo nuove connessioni alle reti in
corso di realizzazione, liberando le corti degli
edifici esistenti e includendole in una rete di
nuovi spazi pubblici. Alla scala architettonica l’intervento si configura come un edificio
contenitore che catalizza in sé sia la funzione del Transfer Point, spazio funzionale di
smistamento di passeggeri, che l’Istanbul
City Archive, laboratorio culturale a disposizione della città per la valorizzazione dei
ritrovamenti archeologici, nuovo elemento
identitario dell’area urbana, che restituisce
e rappresenta, proprio sul sito originario, la
vitalità e la ricchezza di un porto che è stato il
principale legame commerciale tra Istanbul
e il Mediterraneo.
1
2
3
4
353
sisteMi-Città
lubiANA, sloveNiA
emona, lungofiume e Mura
1
2
A, Mura romane, J. Plečnik, 1953-56 (fig. 1)
b Lungofiume, J. Plečnik, 1932-38 (figg. 3-4)
C Piazza del Congresso, A. Prelovšek, d.
Gašparic, M. Juvanek, 2010-12 (fig. 2)
Committente: Municipalità di Lubiana
Estensione: 120 ettari
Bibliografia
A. ferlenga, S. Polano, Jože Plečnik. Progetti e città,
Electa, Milano 1990.
d. Prelovcek, Jože Plečnik (1872-1957), Electa, Milano
2005.
d. Prelovsek, Note sulla costruzione del lungofiume
dalla sistemazione austriaca agli interventi di Plečnik,
“Lotus International”, 59, 1989.
b
3
4
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
C
354
A
La città di Lubiana, situata al centro della Slovenia, sorge in una posizione baricentrica tra
Austria, Italia e ungheria. La sua fondazione, di
origini antichissime risale all’epoca Quaternaria ma l’insediamento a partire dal quale la città si è sviluppata nei secoli fino ad oggi è stato
realizzato dai Romani che nel 14 a.C., fondarono in questi luoghi il Castrum di Iulia Aemona,
importante presidio militare dell’impero. La
città, proprio per la sua collocazione geografica, diventa un importante crocevia culturale e
questo grande patrimonio, di origini antichis-
sime, rappresenta ancora oggi la caratteristica
principale della capitale slovena. Per ben due
volte, nei secoli, Lubiana ristruttura la sua immagine attraverso la valorizzazione del patrimonio archeologico e culturale. La prima volta
attraverso una serie di interventi progettati da
Joze Plečnik che, restaurando i reperti archeologici romani, li rende non soltanto visibili e fruibili all’interno del tessuto urbano ma consente
la loro valorizzazione all’interno dei luoghi più
rappresentativi della città facendo di Lubiana
uno degli esempi più interessanti di archeologia
diffusa in aree urbane. La seconda volta, in epoca più recente, attraverso iniziative promosse
dalla Pubblica Amministrazione, la città di Lubiana si è distinta nel panorama europeo per il
ruolo di capitale culturale. È stato avviato, attraverso il finanziamento della Comunità Europea,
un progetto di sviluppo culturale per istituire un
sistema di politiche di gestione del patrimonio
archeologico e per sviluppare metodi all’avanguardia per la divulgazione e la fruizione del
patrimonio preistorico, archeologico romano e
medievale diffuso nella città. Attraverso nuove
campagne di scavo vengono individuati, dentro
la città, nuovi siti che costituiscono un sistema
di parchi archeologici messi in collegamento fi-
sico e virtuale tra loro. Tramite percorsi guidati
è possibile visitare le rovine di Lubiana e partecipare ad ateliers didattici passando attraverso
l’epoca preistorica o medioevale. Gli interventi
di Plečnik, realizzati in un momento di passaggio della città dal suo assetto moderno a quello contemporaneo, si fondano su due principi
fondamentali: la ricostruzione delle vestigia
in rapporto al contesto e la sovrapposizione
del nuovo intervento al tessuto esistente con
il sistema della stratigrafia archeologica. nel
progetto per il Lungofiume egli articola nuove
connessioni con la città attraverso attrezzature collettive e percorsi pedonali. Il lungofiume
diventa una grande calamita che attrae edifi-
ci e funzioni relazionate alla città e all’acqua
attraverso il disegno di rampe e portici lungo
la sponda. Influenzato dalla costruzione della
flora monumentale di Giacomo Boni al foro
romano e lungo l’Appia Antica, egli preserva la
componente naturale utilizzando gli elementi
di paesaggio come fossero frammenti di città. Crea nuovi viali alberati, inserisce porzioni
di paesaggio rurale, disegna parchi contenuti
e grandi spazi verdi. L’intervento più significativo di Plečnik è stato la riqualificazione della
piazza del Congresso in seguito al quale sono
emersi consistenti reperti archeologici che
sono stati musealizzati attraverso un sistema
di promenades multimediali.
355
Nodi
MeRidA, sPAGNA
Città monumentale
A Ponte Lusitania, S. Calatrava, 1988-91 (fig. 5)
b Sede Consiliare Regionale dell’Estremadura, J.
navarro Baldeweg, 1988-95 (figg. 1-4)
C Museo d’Arte Romana, R. Moneo, 1980-85 (figg.
6-9)
d Museo Visigoto, Paredes y Pedrosa Arquitectos,
con: Á. Rábano, C. Eichner, L. Guadalajara, G.
Martín, B. Leal, J. J. Payeras e R. Lebrero, strutture: gogaite S.L., impianti: jg S.A., archeologia: d.
fernández e G. Ruiz, 2010 (progetto) (figg. 10-12)
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
e Piazza del Tempio di Diana, J.M. Sanchez Garcia, con: E. García-Margallo, S. de Zaldivar, R.
fernández Caparros, M. Torres Gómez, L. Rojo
Valdivielso, f. Sánchez García, J. García-Margallo,
M. Cabezón López, M. Ambrósio, C. L. Huerta,
M. Sánchez García e J. Ternström, strutture: cde
ingenieros e gogaite, 2011 (figg. 13-16)
356
b
Committente: Municipalità di Mérida, Regione Estremadura,
Ministero Beni culturali di Spagna, Ministero di Infrastrutture
e Trasporti, Città Monumentale Storico-Artistica e Acheologica di Mérida
Estensione: 355 ettari
C
e
A
Bibliografia
d
Paredes Pedrosa Arquitectos, fundacion coam, ea! Ediciones
de arquitectura, Madrid 2006.
Rafael Moneo 1990-94, “El Croquis”, 64, 1994.
J.M. Sanchez Garcia, Intervento di riqualificazione attorno al
Tempio di Diana a Mérida, Spagna, “Industria delle Costruzioni”, 429, 2013
M. Zardini (a cura di), Juan Navarro Baldeweg. Opere progetti,
Electa, Milano 1990.
La città di Mérida, dall’inizio degli anni ’80
ad oggi ha trasformato, attraverso interventi puntuali ma coerenti tra loro, il rapporto
tra tessuto urbano, paesaggio e preesistenze archeologiche. La città contemporanea
vive sovrapposta e in costante dialogo con
la preesistenza archeologica. Gli organi di
governo e di tutela del territorio, partendo
dal presupposto che il patrimonio per essere
tale deve esser condiviso e fruito dai cittadini, hanno intrapreso, attraverso l’operato del
Consorzio per la Città Monumentale, una po-
litica di conservazione attiva che ha coinvolto
anche quella di gestione e pianificazione, che
persegue l’integrazione nella città contemporanea dei beni storici e artistici. Oltre alle
azioni di conservazione e fruizione delle aree
archeologiche all’interno del tessuto urbano
sono stati realizzati interventi più consistenti
dal punto di vista architettonico che hanno
contribuito a dotare la città di servizi e spazi
pubblici all’avanguardia.
Il primo intervento in ordine temporale ha
riguardato la dotazione di infrastrutture. Il
ponte Lusitania sulla Guardiania di Santiago
Calatrava, infatti, raddoppia il segno del ponte romano e connette due parti discontinue
di città, quella della produzione e dell’abitare contemporaneo e il centro storico. I due
interventi successivi costituiti dagli edifici di
Rafael Moneo e di Juan navarro Baldeweg
lavorano, al contempo, come contenitori di
spazi e di funzioni per la collettività, museo e
centro civico, e come protezione delle rovine
romane sottostanti.
Il progetto di navarro Baldeweg per la nuova
Sede Consigliare Regionale si colloca all’interno del margine sud-ovest del centro storico, sulla sponda della Guardiania e stabilisce
le relazioni tra parti di città e rovine romane.
Alla scala urbana costituisce la porta di ingresso al centro storico dalla città moderna
e determina la piazza a cui si collega il ponte
di Calatrava. Alla scala architettonica l’edificio rompe la stereometria del volume creando un sistema di patii sopraelevati che scandiscono il fronte sul fiume mentre il rapporto
con le rovine sottostanti è risolto sollevando
il basamento su pilotis e creando un sistema
di rampe e passerelle che distribuiscono i
flussi dei visitatori e degli utenti dall’esterno
all’interno dell’edificio.
una delle ragioni principali che ha fatto di
Mérida un esempio architettonico emblematico nel rapporto tra antico e contemporaneo
è rappresentata dal Museo romano di Rafael
Moneo. Il progetto concilia i principali temi
compositivi dei tardi anni ’70 – classicismo,
contesto, tipologia, leggibilità e ornamento
– in una opera in costante equilibrio tra l’astratto e il rappresentativo. L’edificio sorge in
continuità con il teatro e l’anfiteatro sopra le
rovine di un insediamento romano completo
di mura di fortificazione. Il progetto ha quindi
una duplice funzione: espositiva e conservativa del patrimonio archeologico esistente.
Lo spazio museale è scandito da una serie
fitta e ritmata di setti trasversali in cemento armato e mattoni, evocativi del linguaggio costruttivo romano che costituiscono le
navate trasversali. Questi setti sono svuotati
1
3
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4
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Nodi
6
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12
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
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13
14
15
16
7
longitudinalmente con motivi ad arco che articolano lo spazio interno gerarchizzandolo
in una ampia navata centrale stretta e lunga e in una serie di gallerie sovrapposte sul
lato destro. La scansione dei setti trasversali
consente l’entrata della luce dall’alto e determina l’articolazione del percorso distributivo al livello interrato delle rovine romane
disposte su una giacitura ruotata rispetto
alla maglia strutturale dei setti. L’edificio
alla grande scala si colloca come una quinta
urbana che ricuce il tessuto esistente integrandosi negli antichi tracciati preesistenti.
nel sistema dei percorsi pedonali che
dall’interno dell’edificio si proiettano verso
lo spazio archeologico si inseriscono i due
progetti più recenti di Ángela García de Paredes e Ignacio Pedrosa e José María Sánchez
García che completano i margini slabbrati
del tessuto storico valorizzando il rapporto
con le rovine, il primo ospitando il nuovo Museo Visigoto, collocato sopra le vestigia preesistenti e, il secondo, ridefinendo lo spazio
pubblico circostante il Tempio di diana.
Il progetto per il Museo Visigoto di Paredes
e Pedrosa, vincitore di un concorso e non
ancora realizzato, lavora nel contesto urbano attraverso una strategia progettuale
che potremmo chiamare paesaggio museale. L’edificio funziona come un osservatorio
privilegiato dal quale leggere le stratificazioni archeologiche dall’interno della città. Il
museo è progettato esso stesso attraverso la
sovrapposizione di livelli spaziali e temporali
organizzati a partire da un percorso urbano
che dalle rovine conduce all’interno dell’edificio percorrendolo dal basso all’alto.
Sanchez Garcia affronta il problema dell’inserimento di un nuovo elemento architettonico all’interno di un sito archeologico attraverso un approccio narrativo.
Il progetto riutilizza le tracce esistenti per
collocarsi e dialogare con le vestigia romane
subordinando le scelte progettuali al recupero dei rapporti tra pieni e vuoti, agli allineamenti e alle assialità dei tracciati esistenti
per far rileggere nella città contemporanea le
strutture romane costruite intorno al Tempio
di diana. La costruzione dell’edificio viene realizzata contemporaneamente alla campagna
di scavo archeologico per il restauro del sito
e attraverso questa esperienza il progetto si
modifica e si adatta in funzione dei ritrovamenti messi in luce dagli scavi.
L’edifico a L definisce il bordo della città e
libera uno spazio ad uso pubblico attorno al
tempio. una piattaforma collocata all’altezza del podio del Tempio stesso costituisce
il punto di vista privilegiato per poterlo osservare e, attraverso l’incorporazione nella
piazza del criptoportico e dei resti delle mura
romane, consente la fruizione dello spazio
sacro nel suo complesso. Tra l’edificio e la
città una serie di volumi che colmano gli interstizi ospitano le funzioni di servizio per il
turismo.
359
teRRitoRi
NANtes, FRANCiA
l’estuario della loira
A Parc des Chantiers, A. Chemetoff, 2000-10 e
Restauro della Stazione, J. Prouvé, 2009 (fig. 1)
b Ristrutturazione e ampliamento del Museo
Dobrée, d. Perrault, 2010 (progetto) (fig. 3)
C Facoltà di Architettura, Lacaton e Vassalle,
2010 (fig. 2)
d Piano per l’area del porto di Saint-Nazaire, M.
de Solà-Morales, 1996-02,
e Giardino del Terzo paesaggio, Saint-nazaire
G. Clement, con Atelier coloco, 2010-12 (fig. 4)
d
e
Committente: samoa (Società di pianificazione per la
Metropoli atlantica occidentale), Municipalità di nantes,
Regione della Loira, dipartimento della Loira Atlantica,
Comune di Saint-nazaire, Consorzio dei Municipi
dell’Estuario della Loira
b
C
A
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Estensione: 350 ettari e 8,5 km dalla città all‘estuario
360
Bibliografia
M. Carta, Reload: riattivare il capitale territoriale per
re-immaginare lo sviluppo, in S. Marini, A. Bertagna, f.
Gastaldi (a cura di), L’architettura degli spazi del lavoro,
Quodlibet, Macerata 2012.
G. Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet,
Macerata 2005.
de Solà Morales, Sostare nell’interscambio,
Trasformazione della ex base militare Vilee Port, Saint
Nazarre, Francia, 1996-2001,“Lotus navigator” 8, 2003.
Lacaton&Vassal, “2G”, 60, 2012.
La città di nantes, che ricopre un ruolo baricentrico nel territorio del bacino della Loira e
costituisce un agglomerato urbano di oltre un
milione di abitanti attorno al quale gravitano
più di 25 comuni, ha iniziato negli ultimi venti
anni un sistematico processo di capitalizzazione delle proprie risorse, in partenza piuttosto
limitate e ordinarie, che ha condotto la capitale della Loira a ricoprire un posto di eccellenza in Europa come esempio di città creativa,
ecologica e sostenibile. nantes ha superato un
periodo di crisi economica strutturale causata
dalla dismissione delle aree industriali puntando sull’innovazione delle politiche pubbliche che si sono servite di metodologie partecipative e della presenza di investitori privati. Gli
elementi chiave di questa rinascita economica e sociale sono stati la rifunzionalizzazione
delle aree di archeologia industriale, la valorizzazione del patrimonio culturale e la tutela
del patrimonio ambientale. Gli interventi sono
stati progettati per essere messi a sistema tra
loro attraverso una serie di percorsi tematici
di tipo artistico, culturale e naturalistico fru-
ibili attraverso piste ciclabili e sentieri pedonali o una rete di trasporti pubblici. I luoghi,
rifunzionalizzati, ospitano ogni anno eventi
culturali e festival internazionali. Gli interventi
hanno riguardato i restauri degli edifici storici
della città come la Cattedrale di Saint-Pierre,
il Castello dei duchi di Bretagna e il progetto per l’ampliamento del Museo di dobrée di
dominique Perrault che, in particolare, ridefinisce i rapporti con il contesto, l’ampliamento
ipogeo, costituisce il pretesto per progettare
un nuovo paesaggio che coniuga gli aspetti
regionalisti della architettura francese con la
città contemporanea. L’iniziativa più rilevante,
dal punto di vista della trasformazione urbana,
a partire dalle archeologia industriale, è quella
intrapresa dalla samoa nell’Île de nantes. L’area, 337 ettari, oggetto di un concorso internazionale vinto da Alexander Chemetoff, viene
ridisegnata con un masterplan che mette al
centro della riqualificazione gli spazi pubblici,
la valorizzazione dell‘eredità culturale, come
il padiglione di Jean Prouvé, e il rapporto con
il fiume. Il programma prevede una mixité di
funzioni urbane: residenze, attività culturali e
per il tempo libero, attività commerciali, una
nuova rete di trasporti pubblici e servizi. Particolarmente rilevanti la sede della facoltà di
Architettura di Lacaton e Vassal che riutilizza
una struttura industriale dismessa e la trasformazione di 13 ettari di manufatti per lo
stoccaggio in un parco urbano fluviale. Il binomio valorizzazione culturale-tutela paesaggistica caratterizza il sistema delle trasformazioni del bacino della Loira. A Saint-nazaire il
progetto urbano di Manuel de Solà-Morales
ristabilisce la connessione geografica e culturale tra la zona portuale, sede del Vallo Atlantico e la città. L’archeologia industriale delle ex
basi sottomarine costituisce il terreno di sperimentazione del Giardino del Terzo paesaggio
di Gilles Clement. Il parco è uno spazio in cui le
specie sono lasciate libere di installarsi e svilupparsi, un incolto addomesticato, che garantisce una grande ricchezza e densità di specie.
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3
4
361
Nodi
NAPoli, itAliA
Metropolitana
A Fermata Municipio, A. Siza e E. Souto de
Moura, 2005-in corso (figg. 1-4)
b
b Fermata Duomo, M. fuksas, 2005-in corso
(figg. 5-8)
Committente: Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, Comune di napoli, Società MetropolitanaMetronapoli spa
Estensione: 6 km
Bibliografia
M. fuksas, Estación de metro, Nápoles: stazione
duomo, “Arquitectura Viva”, S.A., 2008
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
d. Giampaola, Archeologia e città: la ricostruzione della
linea di costa, “TeMA”, Trimestrale del Laboratorio
Territorio Mobilità e Ambiente-TeMALab, Vol. 2, 3,
napoli, 2009.
362
G. Marinoni, Infrastrutture nel progetto urbano, franco
Angeli, Milano 2006.
A
M. Santangelo (a cura di), Álvaro Siza e Napoli, Electa,
napoli, 2005.
Il progetto di ampliamento e integrazione
della rete della metropolitana di napoli diventa l’occasione per ridefinire il rapporto tra
il centro storico e una parte consistente del
patrimonio archeologico della città. È stata a
questo scopo avviata una grande operazione
di archeologia urbana, una delle più imponenti
intraprese in Europa, che attraverso lo scavo
sistematico di tutte le stazioni (Toledo in via
diaz, Municipio in piazza Municipio, università
in piazza G. Bovio, duomo in piazza n. Amore,
Garibaldi in piazza Garibaldi) ha incrementa-
to la conoscenza dell’evoluzione storica del
paesaggio napoletano rendendo possibile
la ricostruzione della linea di costa in epoca
romana. Attraverso la procedura dello scavo
archeologico è stato possibile ricostruire la
storia del paesaggio costiero antistante Parthenope e Neapolis, nucleo più antico della
città di napoli. L’intervento archeologico, infatti, si è sviluppato in un comparto unitario
corrispondente a una ampia dimensione del
waterfront urbano. Il processo metodologicoprocedurale della archeologia preventiva ha
consentito l‘integrazione del reperto, spesso
di notevole rilevanza, al progetto infrastrutturale. Le stazioni della linea metropolitana urbana diventano i luoghi dello scambio
dei flussi della mobilità ma anche quelli del
mostrare, fruire e divulgare l’archeologia. Gli
scavi preventivi effettuati lungo il tracciato
della rete infrastrutturale rivelano alcuni manufatti di notevole rilevanza, come il ritrovamento di un tempio presso la fermata duomo
progettata da Massimiliano fuksas o addirittura riscrivono il rapporto tra la città e il mare
come nel caso del Porto romano presso la
fermata Municipio progettata da Alvaro Siza e
Eduardo Souto de Moura.
Il progetto di fuksas per la stazione duomo
mette in atto una strategia mutuata dallo scavo. Scendere nel sottosuolo diviene un’azione
necessaria alla scoperta e alla comprensione
e alla creazione di una aspettativa emotiva che
prelude alla vista dei rilevamenti archeologici. I reperti, la pista d’atletica, il porticato e il
tempio sono ricollocati in situ, nel primo livello
interrato e alla quota urbana emergono tre lucernari attraverso i quali è possibile affacciarsi
stabilendo un rapporto percettivo in continuità
con il livello della città.
Il progetto di Siza e Souto de Moura – generato da una attenta rilettura del territorio attraverso lo studio del materiale iconografico,
incisioni, vedute e cartografie del Porto e di
piazza Municipio – è un sistema che lavora
per strati nell’intento di rafforzare il rapporto
tra la città e il mare. durante gli scavi sono
state ritrovate le strutture portuali di epoca
romana e tre imbarcazioni romane, in ottimo
stato di conservazione che, con i numerosi
reperti rinvenuti durante la campagna degli
scavi archeologici, saranno conservati all’interno di Castel nuovo. Il progetto della stazione prevede l’allargamento del fossato attorno
al Maschio Angioino, che diventa l‘accesso
principale alla metropolitana e la creazione di
una piazza sotterranea con annessa galleria
che si relaziona con i ritrovamenti di Neapolis
e le fortificazioni angioine emerse dagli scavi.
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8
363
teRRitoRi
NÎMes, FRANCiA
Centro storico e regione
metropolitana
A Carré d’Art, foster + Partners, 1984-93
(figg. 1-2)
C
b Area di sosta Nîmes-Caissargues, Salon de
Provence, B. Lassus, 1989-92 (fig. 3)
C Museo di Pont du Gard, J.P. Viguier et
Associés, 1991-2001 (fig. 4)
Committente: Municipalità di nîmes, Autostrada del
Sud della francia
Estensione: Carré d’Art 2,4 ettari, area di sosta
nîmes-Cassargues, A54 35 ettari, Pont du Gard 180
ettari
Bibliografia
d. Jenkins (a cura di), Norman Foster. Works 2,
Prestel, London 2006
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
J.P. Jodidio (a cura di), Jean-Paul Viguier: Architecture
1992-2002, Birkhauser, Basel 2002.
364
A
T. Matteini, Paesaggi nel tempo. Documenti archeologici
e rovine artificiali nel disegno di giardini e paesaggi,
Alinea, firenze 2009.
M. Venturi ferriolo, Passeggiare con Bernard Lassus,
Guerini e Associati, Milano 2006.
b
All’inizio degli anni ’90 la città di nîmes avvia
un processo di trasformazione urbana mirato
alla valorizzazione del partimonio archeologico
e paesaggistico e al miglioramento delle infrastrutture dell’area metropolitana. nîmes – sorta
sul sito dell’antica Nemausus – si trova lungo
la via di Eracle che metteva in comunicazione
il Rodano e i Pirenei, alla quale successe la via
domitia. La città è detta la Roma francese per
la presenza di straordinari monumenti e grandi
opere d’ingegneria romane: l’anfiteatro, il tempio corinzio detto la Maison Carrée, la Torre Magna, la Porta di Augusto e il Santuario della fon-
tana trasformato in Augusteum comprendente
ninfei, portici, un teatro e il Tempio di diana. Gli
interventi di valorizzazione di questo territorio
più significativi sono l’edificio del Carré d’Art di
norman foster, risultato di un concorso internazionale che stabilisce un nuovo equilibrio tra
la città contemporanea e la città di fondazione
romana, il progetto di Bernard Lassus per l’area
di sosta lungo l’autostrada A54 che ridetermina
il rapporto tra memoria, città, paesaggio e infrastruttura e la trasformazione dell’area del Pont
du Gard che, con un programma caratterizzato
da una grande mixité funzionale (spazi culturali,
informativi e didattici, di accoglienza turistica e
per il loisir) dota la città di nîmes di un parco
metropolitano. Il Carré d’Art di foster costituisce uno dei risultati più riusciti di affermazione
del linguaggio contemporaneo in un contesto
archeologico. L’edificio è un museo di arte contemporanea e una mediateca e dialoga con la
Maison Carrée (19-16 a.C. costruita da Agrippa
nel foro) senza dissimulare le sue caratteristiche
tecniche e strutturali utilizza le tecnologie contemporanee per produrre trasparenze e visuali
che lo rendono una macchina per l’osservazione
del contesto. L’edificio, completamente vetrato,
introietta la piazza antistante proiettandola verso una grande scala anch’essa in vetro dando
luogo alla creazione dello spazio pubblico tra
l’edificio e la preesistenza, parte integrante del
progetto e fulcro della vita collettiva della città.
L’area di sosta di nîmes-Caissargues, progettata da Lassus, situata lungo l’autostrada A54,
è costruita sul sedime della via domiziana che
collegava l’Italia alla Spagna. Il progetto disegna
uno spazio intermedio che costruisce relazioni tra realtà diverse e contrapposte. nel sito di
progetto le nuove relazioni vengono stabilite a
partire da diversi elementi che vi confluiscono:
l’infrastruttura, la città della quale costituisce
un avamposto percettivo e il paesaggio della
macchia mediterranea. Lassus progetta un
giardino archeologico suburbano dal quale è
possibile osservare la città prima di entrarvi,
collocandovi il colonnato del teatro ottocentesco di nîmes, utilizzando il “falso archeologico”
come dispositivo per evocare un ambiente culturale specifico.
Il progetto di Jean-Paul Vigier per la sistemazione dell’area di Pont du Gard e del museo,
sito unesco dal 1985, contribuisce a rigenerare
e salvaguardare il paesaggio naturale e rende
fruibile un territorio di 180 ettari attorno all’acquedotto romano di Pont du Gard. Il ponte, le
preesistenze archeologiche, i percorsi pedonali attrezzati, il museo, il centro informativo e la
spiaggia lungo il fiume, sono stati gli elementi di
una vasta operazione di riqualificazione territoriale che ha generato effetti immediati attraendo più di 1.200.000 visitatori l’anno.
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PeRCoRsi
PAlMA di MAioRCA, sPAGNA
Camminamento delle Mura e Castello
belvedere
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A Camminamento delle Mura, E. Torres Tur e
J. A. Martínez Lapeña, strutture: J. Llorenc,
A. Soldevila e G. Rodriguez, f. Climent, A.
Pérez de Eulate, G. Julià, archeologia: M.
Riera, impianti: A. de Bobes, T. Tribo, 19832003 (figg. 1-3)
b Castello Belvedere, E. Torres Tur e J. A.
Martínez Lapeña, con J. Gallastegui, G.
Julià, strutture: R. Brufau e G. Rodriguez,
impianti: A. de Bobes e T. Tribo, 1984-93
(figg. 4-5)
4
A
Committente: Ministero delle Opere Pubbliche,
Ministero della Cultura, Comune di Palma di Maiorca
Estensione: 20 ettari
b
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Bibliografia
366
d. Cohn (a cura di), Young Spanish Architects,
Birkhäuser, Basel 2000.
Elías Torres Tur/José Antonio Martínez Lapeña, 19831993, “El Coquis”, 61, 1993.
J. Krauel (a cura di), New Urban Elements, Links
International, Barcelona 2006.
A. Pizza, Architettura Contemporanea Spagna, 24ore
Motta Cultura, Milano 2006.
Entrambi gli interventi progettuali di Torres e Lapeña, la sistemazione del camminamento delle Mura e gli spazi esterni del
Castello Belvedere, lavorano sul tema della
rivitalizzazione di un’area storico-artistica
di pregio ristabilendo una connessione forte
con il tessuto urbano circostante. La città di
Palma di Maiorca, sorta nel 123 a.C. come
colonia romana, passò in seguito ai Bizantini, agli Arabi, ai Pisani, venne conquistata dai
musulmani e riconquistata dagli Aragonesi
che la dotarono di fortificazioni e architetture
rappresentative. Il centro storico, tutto proiettato verso l’acqua, mantiene oggi invariata
la sua forma dell’epoca tardo gotica. La sistemazione delle fortificazioni lungo la linea
di costa nel progetto di Martínez Lapeña e
Torres costituisce l’occasione per riguadagnare il rapporto tra la città e il mare per
molto tempo divenuto inaccessibile mentre,
il restauro dello spazio aperto del medioevale Castello Belvedere, ripristina la percezione delle visuali dall’alto che reinseriscono
il centro storico nel contesto paesaggistico
della baia. Gli interventi di restauro combinano gli elementi del paesaggio e della storia
delle Isole Baleari, quelli di progetto e quelli
propri del tessuto urbano prediligendo un linguaggio mutuato dalla tradizione marinara e
mercantile del luogo. Il progetto di ristrutturazione del Camminamento delle Mura risolve il sistema delle relazioni alla scala urbana
inserendo nello scenario esistente il nuovo
spazio pubblico a partire dalla riqualificazione della preesistenza. Vengono rimodellati i
bordi che delimitano le diverse quote del sito
e, attraverso un sistema di scale e rampe,
sono messi in connessione il livello del mare
con quello della città. La disposizione della
pavimentazione sottolinea la giacitura della
infrastruttura muraria. Come in un collage
surrealista vengono messi in scena la vegetazione e alcuni elementi scultorei: un tronco
di colonna, un lacerto di muro, uno specchio
d’acqua, la sezione ogivale della galleria pedonale. Il percorso ospita una serie di funzioni culturali legate allo spazio pubblico, luoghi
ombreggiati per la sosta e per gli spettacoli
all’aperto e un nuovo spazio pedonale che si
articola in cinque ambiti principali: lo spazio
di accesso dalla piazza della cattedrale, la
passeggiata superiore, la quota del bastione,
la passeggiata inferiore e quella del parco. I
primi due sono connessi attraverso un sistema di scale e rampe mentre la connessione
con il parco al di là delle mura avviene attraverso un percorso che riutilizza un vecchio
tracciato ferroviario. Il restauro del Castello
Belvedere, in stile gotico catalano a pianta
circolare, ha ripristinato le caratteristiche
originarie per la raccolta dell’acqua piovana
e un percorso che dal lungomare penetra
all’interno del castello da dove, sulla sommità dell’edificio, si gode il panorama sulla
Baia e sul resto dell’isola.
5
367
PARCHi
PoMbAl, PoRtoGAllo
Castello del Cerro
A Percorso attrezzato
b Restauro del castello
C Cappella di Santa Maria
comoco arquitectos:
L. M. Correia, n.
Mota, S. Constantino, coll.: V. Maldonado
e I. Stoffel, con: abl-Gabinete de Projectos
Lda, L. Ribeiro e J. Gonçalves Madeira da
Silva, paesaggio: L. Guedes de Carvalho,
L. Miguel Correia, n. Mota, S. Constantino,
jrsf J. Rodrigues, S. Lda, Ibersilva,
Argoconstrutora, Construção Civil Lda e
fg+sg-fotografia de Arquitectura, 2004-11
(figg. 1-7)
Committente: Municipalità di Pombal
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Estensione: 49 ettari
368
A
Bibliografia
Pombal Castle By Comoco Architects, www.
designyoutrust.com
b
Reorganization of Pombal Castle’s hill. Pathway and
facilities, www.europaconcorsi.com
Reorganization of Pombal Castle’s Hill by Comoco, www.
architecturelover.com
C
A. Seller, Pombal Caslte Hill by Comoco Architects,
www.ilikearchitecture.net
L. Tafline, Pombal Castle’s Striking Upgrade Forges a
Connection to Portuguese History, www.inhabitat.com.
Il caso della sistemazione della collina del
Cerro e del Castello rappresenta un esempio
paradigmatico di buona pratica in un paesaggio ordinario, sia per caratteristiche oggettive
che connotano l’area di progetto (estensione,
tipo di preesistenza, contesto paesaggistico,
tessuto urbano), sia per dinamiche relazionali
tra sito e città (area naturalistica in abbandono, rovina inaccessibile e in pessimo stato di
conservazione, committenza pubblica dalle
risorse limitate). nell’area sorgono le rovine
di una cittadella medievale fortificata (lacerti
di mura, il castello e la cappella di Santa Maria) che faceva parte del sistema difensivo del
distretto di Leiria.
negli ultimi decenni del xx secolo il Castello
e Pombal perdono qualunque legame l’uno
rispetto all’altra. L’intera area della collina,
e le altre preesistenze che vi sorgono e il
verde che le circonda vengono relegate sullo sfondo del contesto urbano senza poter
essere fruiti nè utilizzati. L‘Amministrazione
comunale ha intrapreso un progetto di riorganizzazione della città con l’obiettivo di pro-
muovere la ri-centralizzazione di quest’area.
Il progetto lavora nell’intenzione di operare
una netta distinzione tra i nuovi elementi del
progetto (percorsi e padiglioni) e quelli preesistenti (il paesaggio e il castello). Il progetto
adotta una strategia chiara ed efficace che
accoglie non soltanto le richieste della committenza di tutela e valorizzazione dei beni
storico-archeologici e consente il recupero
del rapporto tra rovine e città, rafforzandone i legami fisici e identitari tanto da rendere
questo sito riqualificato (con funzioni, servizi
e attrezzature per i turisti e per gli abitanti)
il principale spazio pubblico dell’area metropolitana.
L’intervento definisce tre aree ognuna delle
quali con un differente approccio progettuale.
nella prima area, a sud-ovest delle pendici
della collina, l’approccio è focalizzato sull’idea
di flusso continuo. un sistema di connessioni
tra l’area urbana e la cima della collina definisce i percorsi lungo i quali sono collocati
padiglioni per la sosta e di servizio a contatto con la natura. nella seconda area, attorno
alla Cappella di Santa Maria e all‘attiguo cimitero, la riconnessione tra queste due emergenze storico-archeologiche avviene attraverso la modellazione del suolo. un sistema di
setti e di terrazzamenti, dove sono collocati
il parcheggio e compensano il passaggio da
un livello all’altro. La terza, dominata dalla
presenza del castello, è l’area principale. Il
progetto ridisegna l’ingresso ovest in corrispondenza del portale del xii secolo e la piattaforma più a valle. Anche l’area della chiesa
di Santa Maria è stata ridefinita come spazio
pubblico per accogliere funzioni culturali e
performance artistiche.
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PeRCoRsi
RoMA, itAliA
Parco lineare integrato delle Mura
Aureliane
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3
A Parco Lineare delle Mura tra Porta Latina e
Porta Metronia (figg. 2, 3)
b Parco Lineare delle Mura a Porta San Paolo
(figg. 1, 4, 5)
P. falini e A. Terranova, con A. Criconia e C.
Scoppetta, coll: M.E. Cattaruzza, G. Gatto. R.
Germani, A. Ottaviani, S. Pieretti, d. Serretti e
C. Valorani, 2003-09
Committente: Comune di Roma, Assessorato alle
Politiche della Programmazione Pianificazione del
Territorio e Roma Capitale, Assessore R. Morassut,
ufficio per la Città Storica direttore G. farina con d.
fuina e R. Cossu
Estensione: 18 km
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
Bibliografia
370
A
5° Rassegna Urbanistica Nazionale, Corderie
dell’Arsenale, Venezia 10-20 novembre 2004, catalogo
della mostra.
P. falini, A. Terranova, Ambito di programmazione
strategica Mura, “urbanistica”, 116, 2001.
b
Minima Muralia, servizio monografico sulle Mura di
Roma, “Capitolium”, 1, 2003.
A. Terranova, Le porte della città antica. Porta San
Paolo e le doppie piazze di porta. Le Mura Aureliane e
le trasformazioni nelle forme della mobilità urbana di
Roma, in R. Panella, Piazze e nuovi luoghi di Roma,
Palombi, Roma 1997.
Il nuovo Piano Regolatore di Roma, Sistemi e
Regole (2003-2008), viene concepito in stretto
rapporto con la valorizzazione dei grandi sistemi archeologici urbani. Il piano individua
cinque ambiti di programmazione strategica,
che contribuiscono a determinare gli scenari preliminari rispetto ai quali predisporre e
valutare i programmi all’interno della città:
Il Tevere, il Parco dell’Appia Antica, le Mura,
l‘asse flaminio fori eur e la Cintura ferroviaria. Obiettivi dell’Ambito Mura sono quelli di
restituire nuove funzioni e identità ad un ma-
nufatto di alto valore simbolico ma oggi avulso
dalla vita quotidiana della città e di proporre
lungo l’infrastruttura archeologica una nuova
connessione “verde” a carattere storico-paesaggistico nel centro storico di Roma, recuperando manufatti dismessi, aree degradate
e verde non attrezzato. Il progetto per il Parco
Lineare Integrato di falini e Terranova, costruisce una grande occasione per inventare,
attraverso la rilettura del Manufatto, una continuità fisica e di percorso con la città ossia
una infrastruttura di collegamento anulare
di tipo lento, adibita esclusivamente agli spostamenti ciclo pedonali. Il progetto disegna
uno spessore variabile ancorato al tracciato
delle Mura che assorbe nella sua sezione le
aree archeologiche, i parchi e le ville storiche,
eventi urbani e i quartieri di rilevanza storica
che vi si attestano. Il baricentro di questa infrastruttura è una passeggiata lungomura che
si intreccia fuori e dentro l’asse murario, anche lungo i camminamenti in quota.
Il progetto definisce l’ambito di intervento attraverso l’elaborazione di due carte: la Carta
delle Risorse, attraverso la quale vengono
selezionati gli elementi da considerare nel
processo di trasformazione e la Carta degli
Obiettivi che ha definito le nuove funzioni degli
elementi individuati. Il programma di progetto
è stato definito attraverso una serie di livelli
tematici differenti: il livello del parco lineare
vero e proprio che si configura sia come ambito relativo alle preesistenze archeologiche
che a parco urbano di quartiere, quello dei
progetti urbani locali afferenti all’infrastruttura
anulare e quello dei progetti esplorativi necessari alla riqualificazione delle aree dismesse
e delle aree verdi recuperate dalla riconnessione con le Mura. Lungo il tratto tra Porta
Metronia e Porta Latina, individuato come
nodo privilegiato per le relazioni con i siti
dell’area archeologica centrale e con il Parco
Regionale dell’Appia Antica, è stato realizzato
l’ampliamento dello spazio pubblico attrezzato e la sistemazione delle aree verdi esistenti
e di nuova concezione. È stato riprogettato
l’asse carrabile di viale Metronio, destinato a
viabilità locale, slittato verso il fronte del tessuto urbano e allestito a boulevard pedonale
verso le Mura, con i suoi spazi aperti, i percorsi pedonali, l’illuminazione, le pavimentazioni
e le attrezzature per la sosta e il tempo libero.
4
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371
sisteMi-Città
sAleMi, itAliA
Recupero dei quartieri Piano Cascio
e Carmine
A Piazza Alicia, strade e aree adiacenti, e
ricostruzione della Chiesa Madre, Á. Siza e R.
Collovà, coll.: O. Marrone, V. Trapani, E. Tocco,
G. Ruggeri, f. Tramonte, G. Malventano, A.
d’amico, P. Traballi, A. Argento, M. Ciaccio, A.
Lo Sardo e K. Muscarella, 1984-97 (fig. 3, 4, 5)
b Quartiere del Carmine e Teatro all’aperto,
f. Venezia, M. Aprile e R. Collovà, con: O.
Marrone, A. Alì e S. de Cola, 1982-86 (figg. 1, 2)
A
Committente: Comune di Salemi, Regione Sicilia,
diocesi di Mazzara del Vallo
Estensione: 32 ettari
b
Bibliografia
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
R. Collovà, Alvaro Siza Vieira e Roberto Collovà. Piazza
Alicia e Chiesa Madre a Salemi, “Il frammento”, x, 1, 2006
372
f. Venezia, Il trasporto di un frammento, “Il frammento”,
x, 1, 2006.
R. Collovà, A. Siza Vieira, Recupero nel centro storico di
Salemi, in Catalogo Premio Medaglia d’Oro all’Architettura
Italiana della Triennale di Milano, The Plan–Art &
Architecture Editions, Milano 2003.
f. Mancuso (a cura di), La piazza nella città europea.
Luoghi, paradigmi, buone pratiche di progettazione, Il
Poligrafo, Padova 2012.
dal 1984 a Salemi, città arabo-medievale
della Valle del Belice gravemente danneggiata dal terremoto del 1968, è in corso
una lenta operazione di recupero del centro storico. Essa riguarda la piazza Alicia
attorno alla quale si insedia la città araba
e i quartieri adiacenti di Piano Cascio e del
Carmine. Sulla piazza si affaccia la Chiesa
Madre ricostruita e ampliata sull’originario
nucleo normanno. Il progetto per il recupero di questi tessuti storici è il primo vero
intervento trasformazione urbana alla scala
della città, dopo quelle realizzate in epoca
tardo medievale.
Gli interventi, pur essendo separati tra loro
concorrono alla creazione un unico progetto
urbano che investe per estensione tutto il
centro storico. La scala di progetto varia in
continuazione dalla sistemazione urbana al
dettaglio puntuale. Il percorso principale si
snoda dalla piazza bassa fuori le mura alla
piazza alta della Chiesa ed è costituito da
un sistema di nodi che mediano i rapporti
con le vie trasversali e gli spazi pubblici esi-
stenti. Il progetto consiste nella reciproca
trasformazione della piazza e della chiesa.
Il disegno della piazza si configura attraverso la conversione degli effetti negativi
del terremoto in elementi di rifondazione
della città scegliendo di ricostruire la Chiesa solo per sottrazione, liberandola dalle
superfetazioni e facendo leggere lo spazio
originario attraverso l’orma lasciata dalle
rovine. Gli elementi di spolio della chiesa
sono ricollocati lungo le due direttrici del
colonnato, in posizioni esterne nello spazio
laico, mentre lo spazio della piazza civica si
estende dentro il recinto della chiesa e trova
il suo nuovo sfondo nella sezione del transetto e dell’abside. Il quartiere del Carmine già gravemente danneggiato prima del
terremoto poiché aveva subito, negli anni,
un graduale processo di abbandono, all’indomani del sisma viene perimetrato e reso
inagibile per questioni di sicurezza. Questo
evento traumatico, conduce l’Amministrazione Comunale e i progettisti incaricati del
recupero a formulare un progetto di radicale rifondazione del luogo. Il risanamento del
quartiere viene concepito in funzione della
creazione di un parco urbano nella città, a
partire dalla rivitalizzazione di un frammento di tessuto storico. L’Amministrazione
propone, infatti, di trasformare il Carmine
nel giardino comunale di Salemi, spazio di
cui la città è completamente carente. Il progetto, a partire da questa richiesta, ridisegna la geografia del quartiere utilizzando il
tessuto esistente come naturale risorsa per
la sua trasformazione, cioè come grande
cava di materiali da spolio. Il progetto mette
a punto un sistema di demolizioni puntuali che consente di trasformare il sito in un
unico grande spazio pubblico convertendo
i muri diruti delle case in bastioni di giardino, in balaustre di terrazze, in recinti. Il
frammento e la rovina che facevano parte
di un sistema che si è modificato nel tempo
costruiscono gli elementi di partenza per
comporre un’opera nuova.
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sisteMi-Città
sARAGoZZA, sPAGNA
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itinerario dei musei di Cesaraugusta
A Museo del Foro romano, J.M. Pérez
Latorre, 1995-98 (figg. 1-3)
b Teatro di Cesaraugusta e Museo,
Soprintendenza dei Beni archeologici, 19992003 (figg. 4-6)
C Museo del Porto fluviale
d Museo delle Terme
A
Committente: Municipalità di Saragozza
C
Estensione: 120 ettari
Bibliografia
b
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
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La città di Saragozza è cresciuta sovrapponendosi nei secoli a Caesaraugusta, città di fondazione romana. una campagna di scavo, intrapresa a partire dal 1988 e durata più di dieci anni
ha reso necessaria la sistemazione delle rovine.
L’archeologia diffusa emersa dagli scavi viene
valorizzata in situ attraverso la creazione di manufatti di protezione e spazi espositivi. I luoghi
degli scavi vengono messi a sistema costituendo un percorso archeologico intrecciato agli
spazi pubblici della città. L’itinerario chiamato
la Ruta de Caesaraugusta, è scandito da quattro
tappe principali: il foro, le Terme pubbliche, il
Porto fluviale e il Teatro.
Tra il 1995 e il 2003 vengono aperti al pubblico
questi quattro luoghi espositivi che nel complesso documentano un notevole patrimonio archeologico. Al di là del linguaggio architettonico
utilizzato nella realizzazione dei singoli musei,
che come nel caso del Museo delle Terme riutilizzano edifici esistenti o in quello del Teatro
costituiscono un sistema di copertura protettiva
delle rovine, i quattro edifici sono concepiti in
maniera coerente e unitaria dal punto di vista
della fruizione e della integrazione relazionale
con la città.
In tutti e quattro i casi vengono infatti utilizzati
gli stessi criteri di musealizzazione, la stessa
impostazione scientifica e divulgativa delle
informazioni e lo stesso grado di accessibilità
urbana. Vengono utilizzati brani di città contemporanea allestiti in maniera coerente per
spostarsi da un Museo all’altro secondo un
unico processo conoscitivo, che consente la
comprensione della città romana spostandosi
e utilizzando gli edifici della città moderna che
ne svelano e ne tutelano le tracce.
L’intervento più significativo dal punto di vista
architettonico è costituito dal Museo del foro.
L’area, scavata tra il 1988 e il 1991, rivela la costruzione di due fasi sovrapposte. Alla prima
corrispondono i resti delle strutture del mercato, alla seconda appartengono le strutture del
foro e del suo ampliamento. Il progetto di Peréz-Latorre prevede la realizzazione di un edificio che, collocandosi sulla piazza principale,
convogli i visitatori nel livello ipogeo. L’edificio è
composto da un grande volume che, con struttura in acciaio rivestito parzialmente in lastre
di onice poggiato su un basamento, raggiunge
l’altezza complessiva di 10 metri dal piano di
calpestio della piazza. L’accesso a questa quota sopraelevata permette di iniziare il tragitto
verso la rovina, la cui visita è strutturata in più
livelli, seguendo la stratigrafia propria del sito
dalla quota della città a quella che accoglie i
resti del foro dell’età augustea.
6
375
Nodi
siRACusA, itAliA
isola di ortigia
Piano Particolareggiato di Ortigia. Tutela dei
centri storici e norme speciali per il quartiere
di Ortigia e per il centro storico di Agrigento, G.
Pagnano, 1990
A
A Basilica Paleocristiana di San Pietro, E. fidone
con: A. Troia e S. nastas, archeologia: L. Guzzardi e E.f. Castagnino Berlinghieri
C
b Giardino di Artemide e Padiglione accesso scavi
Artemision (figg. 1-4)
ATLANTE DEI PAESAGGI ARCHEOLOGICI
C Corte dei Bottari, V. Latina, con: S. Sgariglia,
coll.: V. Mangione, L. Sipala, C. Speranza, A.
forte, u. Caniglia e f. Tantillo, archeologia: G.
Voza, strutture: n. Impollonia, impianti: studio
associato di progettazione igen, geologia: M.
Giompapa (fig. 5)
376
b
Committente: Comune di Siracusa, Assessorato al Centro
storico, Curia Arcivescovile di Siracusa, Programma
Legge 433/1991 Regione Siciliana, dipartimento Protezione Civile
Estensione: 45 ettari
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f. Venezia, 21 febbraio 2012, “Casabella”, 814, 2012.
La città di Siracusa, nel suo nucleo originario
continuativamente abitato dal xiv secolo a.C.,
occupa l’isola di Ortigia (alla quale l’insediamento si ridusse e rimase circoscritto fino alla
fine dell’800) che, unita alla terraferma da due
ponti, è la sintesi di straordinari eventi millenari sedimentati nel tempo. La città fu fondata nel 734-33 a.C. da coloni greci e dall’isola
si espanse sulla terraferma con i quartieri di
Acradina, Tyche e neapoli, circoscritti dalle
mura di dionisio ii. dopo la conquista romana
nel 212 a.C. furono abbandonate le mura dioni-
giane, ma gli altri quartieri, sopravvissero e, nei
secoli, il tessuto urbano continuò a ricalcare
quello greco. Sulla archeologia classica (rovine di templi, acropoli, teatri, fortificazioni) sono
stati costruiti i monumenti normanni, bizantini
e barocchi (come nel caso del Tempio di Apollo
trasformato in moschea e poi in chiesa o del
Tempio di Atena trasformato in epoca bizantina
nell’attuale duomo). In epoca moderna la città
si sviluppa verso i comuni limitrofi mentre nel
centro storico inizia un processo di abbandono
e degrado fisico e sociale. negli anni ‘80 viene
elaborato un Piano Particolareggiato di Recupero per Ortigia per invertire questo processo
a partire dalle potenzialità del patrimonio storico-archeologico diffuso, da riconvertire e per
favorire lo sviluppo del turismo, del commercio
e della cultura. Il piano di Giuseppe Pagnano
avvia una azione di rivitalizzazione capillare del
centro sia dal punto di vista metodologico, gli
interventi sono individuati sulla base di analisi
dettagliatissime, sia rispetto al recupero degli edifici individuati come nuovi contenitori. Il
piano avvia un processo che, con l’Assessorato
al Centro storico, realizzerà gli interventi previsti e consentirà l’accesso a sistemi di finanziamento per opere complesse (urban). dal
2000 l’Amministrazione lavora all’aggiornamento del piano particolareggiato, approvato
nel 2008 e coordinato da Claudio Mastriani. In
questo contesto si inseriscono interventi puntuali ma in grado di innescare un processo di
tutela e fruizione del patrimonio. Il progetto di
Emanuele fidone nella Basilica di San Pietro,
ripristina il rapporto tra il monumento e la città attraverso un intervento nel quale le nuove
relazioni sono evidenziate da soluzioni progettuali che distinguono il restauro dagli elementi
di nuova concezione. Il sistema di micro interventi realizzati da Vincenzo Latina, che nasce
da un insieme di progetti previsti dal piano,
cerca di individuare nelle faglie di discontinuità
del tessuto urbano gli ambiti di degrado su cui
intervenire con azioni minimali, in continuità
con la trasformazione e rigenerazione della
città. nel giardino di Artemide si recuperano
le potenzialità dell’area con la demolizione
delle superfetazioni e il riuso di frammenti
come materiale per la nuova costruzione, determinando un palinsesto in cui operare tra
preesistenze e nuovo. Il padiglione di accesso
agli scavi del Tempio Ionico, concepito come
un monolite di calcare duro sospeso sulle vestigia sotterranee del Tempio Ionico e posto in
adiacenza all’Athenaion realizza, mediante lo
scavo archeologico, il collegamento con l’area
dei sotterranei e ricostruisce il fronte urbano
su via Minerva.
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seleZioNe biblioGRAFiCA
sui teMi dell’ARCHeoloGiA
e del PRoGetto uRbANo
SELECTEd BIBLIOGRAPHY
On THE SuBJECT Of
ARCHAEOLOGY And uRBAn
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379
NotiZie suGli AutoRi
Contributi di
InfORMATIOnS ABOuT THE AuTHORS
Giovanni Azzena (Sassari, 1958). Archeologo,
professore associato di Topografia Antica e
cofondatore del Laboratorio gis per la Pianificazione
ambientale e la Storia del territorio presso il
dipartimento di Architettura, design urbanistica
dell’università di Sassari, è stato Soprintendente della
Sardegna nel 2007-08. Sviluppa indagini scientifiche
definendo sintesi cartografiche storico-archeologiche
funzionali alla tutela dei beni culturali. Consulente
per gli scavi giubilari dei fori Imperiali; membro della
commissione per il Progetto del sit Archeologico della
Provincia di Roma; coordinatore del gruppo del Piano
di gestione del sito unesco del Su nuraxi di Barumini;
componente della commissione Stato/Regione per
l’adeguamento dei Piani urbanistici Comunali al ppr
della Sardegna; della commissione per la realizzazione
del Sistema Informativo Archeologico delle città
italiane e dei loro territori e del gruppo di lavoro
interministeriale per l’archeologia preventiva.
nOTIZIE SuGLI AuTORI
Sezioni e testi
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Alessandra Capuano (Milano,1958). Architetto, ha
studiato a Roma (università Sapienza Laurea, phd e
Postdoc) e a new York, dove è stata fulbright fellow per
un md in Historic Preservation (Columbia university).
Insegna Progettazione architettonica e urbana alla
Sapienza università di Roma, dove dirige il Laboratorio
di Ricerca “LaGraTe – unità di Ricerca Paesaggi. Città,
natura, infrastrutture” nel dipartimento di Architettura
e Progetto (diap). È coordinatrice e responsabile
scientifico di ricerche nazionali e membro della Chaire
unesco en environnement et paysage dell’università di
Montréal. È membro della Giunta del diap e delegata
per la Ricerca. È coordinatrice del Corso di lm in
Progettazione Architettonica e urbana e membro del
collegio docenti del dottorato in “Paesaggio e Ambiente”
e del Master “Architettura per l’archeologia. Progetti
di valorizzazione del patrimonio culturale”. È stata cofondatrice dello studio di architettura urbanlab di Roma.
Tra le sue pubblicazioni: Temi e figure dell’architettura
romana 1944-2004, 2005; Iconologia della facciata
nell’architettura italiana, 1995; co-autrice dei volumi Il
Parco e la Città. Il territorio storico dell’Appia nel futuro di
Roma, 2013; Roma città mediterranea, 2007; Il “realismo
costruttivo” per una banca moderna, 1996; Italia gli ultimi
trent’anni. Guida all’architettura moderna, 1988.
Marcello barbanera (Montegabbione, 1961).
Archeologo, insegna Archeologia e Storia dell’arte
greca e romana all’università di Roma Sapienza.
Studi a Parigi (La Sorbonne), Berlino (fondazione
von Humboldt, freie universität) e a new York
(Columbia university). Visiting professor all’Ecole des
Hautes Etudes e Institut d’Histoire de l’Art di Parigi.
È stato Kress Lecturer per l’Archaeological Institute
of America nel 2008 e Fellow del Morphomata
Kolleg di Colonia nel 2012-13. Si occupa di storia
dell’archeologia, scultura greca, metodologia della
storia dell’arte, storia del collezionismo, archeologia
della Magna Grecia, museografia, ricezione
dell’antico e definizione di arte nella società greca.
Tra le sue pubblicazioni: Il Guerriero di Agrigento,
1995; L’Archeologia degli Italiani, 1998; Ranuccio Bianchi
Bandinelli, 2003; Original und Kopie, 2006; Collezione di
antichità di Palazzo Lancellotti ai Coronari, 2008; Relitti
riletti, 2009; Originale e copia nell’arte antica, 2011; Il
Museo impossibile, 2012; The Envy of Daedalus, 2013.
Pasquale Miano (napoli, 1957). Architetto, insegna
Progettazione Architettonica e urbana presso la
facoltà di Architettura dell’università degli Studi
di napoli federico ii. dal 2004 fa parte del Collegio
dei docenti del dottorato di Ricerca in Progettazione
urbana e urbanistica. È docente al Master msc
design of Steel Structures presso la facoltà di
Ingegneria, al Master Internazionale Progettazione
d’eccellenza per la città storica presso la facoltà di
Architettura e alla Scuola di Specializzazione in Beni
Architettonici e del Paesaggio, nonché coordinatore
di diversi progetti di ricerca. È autore di numerose
pubblicazioni riguardanti i temi del progetto
urbano e di diversi progetti e realizzazioni di opere
pubbliche.
Federica Morgia (Roma, 1969). Architetto e
phd in composizione architettonica, dal 1998
al 2000 svolge un periodo di perfezionamento
in Spagna presso la etsam di Madrid con Juan
navarro Baldeweg. nel 2000 costituisce lo studio
Officina5_Architetti Associati nel quale svolge
attività di ricerca professionale. Tra i principali
concorsi di architettura la nuova Sede iuav, la nuova
Sede asi con Enric Miralles, il Prototipo per una
Scuola Mobile in Argentina, il Parco della memoria
a San Giuliano di Puglia, il Padiglione Italia expo
2015 Milano. nel 2008 è curatrice della mostra
internazionale peacebuilding, Casa dell’Architettura,
Roma. dal 2012 lavora, come assegnista di ricerca,
presso il dipartimento di Architettura e Progetto,
facoltà di Architettura Sapienza di Roma. È autrice
di numerosi saggi, articoli su riviste e libri tra i quali:
Catastrofe: istruzioni per l’uso, 2007; Enric Miralles
Benedetta Tagliabue, 2010.
Fausto Carmelo Nigrelli (1962). Specializzato in
Architettura urbana all’Ecole d’Architecture de Paris
Belleville, dottore di ricerca in Pianificazione urbana
e Territoriale, è professore ordinario di Tecnica e
Pianificazione urbanistica presso l’università di
Catania, Struttura didattica Speciale di Architettura
con sede in Siracusa. È stato componente del Comitato
Tecnico Scientifico del Parco fluviale dell’Alcantara
e, fino a giugno 2013, vicepresidente nazionale
dell’Associazione Beni italiani patrimonio unesco. È
giornalista pubblicista. Tra le attività sperimentali
ha coordinato il Gruppo di Consulenza Scientifica
dell’università di Catania per la redazione dei Piani
paesaggistici del territorio della provincia di Siracusa
e ha fatto parte di quello per la redazione dei Piani
paesaggistici del territorio della provincia di Enna.
dal 2009 è componente del comitato scientifico della
collana Millepiani/urban. urbanesimo, Architettura,
Estetica della casa editrice Eterotopia, Milano. La
sua attività di ricerca riguarda di progetto urbano,
paesaggio e patrimonio territoriale, piccole città,
governance dei territori, pianificazione e turismo.
Ha pubblicato, tra l’altro, i volumi: Piazza Armerina.
Dalla Villa al Parco. Studi e ricerche sulla Villa romana
del Casale e l’alto corso del fiume Gela, 2010; I piani
paesaggistici della provincia di Enna, 2009; Il senso del
vuoto. Demolizioni nella città contemporanea, 2005;
Metropoli immaginate, 2001; Percorsi del progetto
urbano in Francia e in Italia 1960 - 1997, 1999.
Marcello sèstito (Catanzaro Lido, 1956).
Architetto, insegna Composizione architettonica
e urbana nella facoltà di Architettura di Reggio
Calabria. Collabora alla domus Accademy
con Pierre Restany, conseguendo il Master
in Car design. È redattore di “d’ars” dal 1986.
I suoi interessi vertono sull’esplorazione di
strutture mentali e aspetti precognitivi legati alla
formulazione d’Arte e d’Architettura. È impegnato
alla realizzazione della Biennale del Mediterraneo,
baam, a Reggio Calabria di cui è direttore del
settore architettura. Tra le realizzazioni: la sede
della fondazione Mimmo Rotella a Catanzaro, il
recupero dell’ex casa circondariale di Cittanova
come nuova sede del Museo dell’ulivo, e la nuova
piazza a Taurianova. Progetta il Masterplan per
l’area del Centro direzionale del Ponte sullo Stretto
di Messina. È ideatore e curatore della Mostra:
nostos, Il ritorno, dedicata ai Bronzi di Riace 2014,
per il Museo Archeologico nazionale di Reggio
Calabria. Tra le pubblicazioni, Alfabeti d’Architettura,
1994; Il Gorgo e la Rocca, tra Scilla e Cariddi territori
della mente, 1995; Colonne Stilate, 1995; Architetture
Globali, Solidi Fluidi o del comporre retto e curvo,
2002; Architettura & Jason, 2004; L’architettata mano,
Pentedattilo palmo di pietra, 2004; Saul Greco, Lo
Scatto angolare, 2007.
Alessandra badami (Palermo, 1967). Architetto, phd
in Pianificazione urbana e Territoriale, è Ricercatore
in urbanistica presso il dipartimento di Architettura
della Scuola Politecnica dell’Ateneo di Palermo.
Coordinatore del Master di ii livello in Marketing
Territoriale. Coordinatore scientifico e componente di
gruppi di ricerca in progetti cofinanziati dalla ue, dal
cnr, dal miur e dall’Ateneo di Palermo. È progettista
del Progetto Creative lab Alcamo, per la promozione
del patrimonio culturale, dell’identità locale e
delle arti conteporanee. È coordinatore scientifico
e componente di gruppi di ricerca in progetti
cofinanziati dalla ue, dal cnr, dal miur e dall’Ateneo
di Palermo. Tra le recenti pubblicazioni: Polirisk.
Politiques comparèes: patrimoine, aménagement et
risques naturels, 2008; Città nell’emergenza, 2008;
Metamorfosi urbane, 2012.
Jerneja batič (Lubiana, 1957). Si occupa di tutela
del patrimonio culturale, presso l’Istituto per la
Protezione dei beni culturali della Slovenia. Ha
istituito un sistema per la promozione del patrimonio
culturale e ha lavorato presso il Ministero della
Cultura della Slovenia sulle questioni sistemiche e
legislative in materia di beni culturali. Ha lavorato
sull’attuazione della Convenzione del traffico illecito
di beni culturali, e alla Convenzione sulla protezione
del patrimonio culturale subacqueo. Presso il
Comune di Lubiana ha diretto l’Assessorato alla
Cultura. Recentemente si è dedicata a progetti quali
la creazione e la gestione di un nuovo Centro dell’Arte
nell’ex fabbrica Rog a Lubiana, il restauro del
museo nella Casa di Plečnik, la rivitalizzazione di siti
archeologici a Lubiana. da dieci anni è membro attivo
di icom Slovenia e del relativo comitato esecutivo.
Roberto busonera (Sassari,1985). Architetto,
assegnista di ricerca per il progetto Creazione
e attivazione del polo sardo della rete informatica
nazionale per la costruzione collettiva del WEB GIS del
patrimonio archeologico italiano presso il dipartimento
di Architettura, design e urbanistica dell’università
di Sassari. dal 2011 è iscritto alla scuola di dottorato
in Architettura e Pianificazione e all’albo dei cultori
della materia in Topografia Antica. Collabora con il
laboratorio Prosit, affrontando temi di ricerca relativi
alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali
e paesaggistici, all’architettura del paesaggio e
alla pianificazione territoriale. Ha partecipato a
numerosi workshop tra cui, nel 2011, il workshop
internazionale dell’unesco Il parco e la città, Il territorio
storico dell’Appia nel futuro di Roma e approfondito le
tematiche di ricerca presso il laboratorio Architecture,
Culture, Société dell’Ecole nationale Supérieure
d’Srchitecture Paris-Malaquais di Parigi.
Angelo Cannizzaro (Modica,1974). Architetto e urban
Manager, phd in Pianificazione e Progettazione
della Città Mediterranea, esperto in Analisi e
Progettazione del Paesaggio Archeologico e dei
Musei e in Management degli Enti Locali. Con
Renato nicolini ha svolto attività di ricerca in ambito
nazionale ed internazionale nei campi del recupero
del patrimonio storico, della riqualificazione urbana
e della valorizzazione del paesaggio. Ha insegnato
Progettazione urbana alla facoltà di Architettura
di Reggio Calabria. nel 2008 insieme ad alcuni
colleghi ha fondato Mediterranean Planners, rete di
urban Thinkers di nuova generazione finalizzata
alla promozione di una nuova cultura urbanistica
mediterranea.
lucina Caravaggi (Roma,1957). Architetto, docente
di Architettura del Paesaggio presso la facoltà di
Architettura, Sapienza università di Roma, fa parte
del dipartimento Architettura e Progetto, Laboratorio
Architettura e Contesti; ha svolto con continuità
attività di ricerca e di progettazione muovendo
dalla centralità dei temi ambientali e paesistici e
coordinando ricerche nazionali e internazionali, piani
e progetti di rilevanza territoriale e paesaggistica. Tre
le pubblicazioni recenti: Lo svincolo e la Biodiversità,
2012; Ricostruzione di territori – Progetti a supporto dei
Comuni di Ovindoli, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio,
Lucoli nella Provincia di L’Aquila, 2011; Interporto Roma
Fiumicino, prove di dialogo tra archeologia, architettura e
paesaggio (con O. Carpenzano), 2008; Linee guida per la
progettazione integrata delle strade nel paesaggio della
Regione Emilia-Romagna (con S. Menichini), 2007.
Maurizio Carta (Palermo, 1967). Ingegnere,
professore ordinario di urbanistica presso il
dipartimento di Architettura di Palermo, dove insegna
progettazione urbanistica e pianificazione territoriale.
È Presidente vicario della Scuola Politecnica e
direttore vicario del dipartimento di Architettura.
Esperto di pianificazione urbana e territoriale,
pianificazione strategica e rigenerazione urbana, ha
redatto piani urbanistici, piani paesaggistici e piani
strategici. Per le sue ricerche è invitato a tenere
lezioni e conferenze in numerose università ed
istituzioni italiane ed estere. È autore di più di 200
pubblicazioni, tra le più recenti: Creative City, 2007;
Governare l’evoluzione, 2009; Reimagining Urbanism,
2013. dirige la collana di pianificazione territoriale,
urbanistica e paesaggistica Città e Territorio
pubblicata da Alinea.
Francesco Cellini (Roma, 1944). Architetto,
professore ordinario di Composizione Architettonica
presso la Terza università di Roma dove è stato
Preside della facoltà di Architettura. Redattore della
rivista “Controspazio”, ha collaborato come allestitore
e come curatore con il settore di architettura della
Biennale di Venezia e con i settori arti visive e cinema.
Attualmente fa parte del comitato di redazione
della rivista “Casabella”. È membro dell’Accademia
nazionale di San Luca dal 1993. Ha ricevuto nel
1996 il Premio dal Presidente della Repubblica per
l’Architettura. È autore di numerosi progetti condivisi
prevalentemente con nicoletta Cosentino intesi come
monito di sintesi di tematiche diverse quali storia,
figuratività, impiantistica, struttura ecc.
Pippo Ciorra (formia, 1955). Architetto, critico e
professore, dopo la curatela della mostra di apertura
Spazio, nel maggio del 2009, è Senior Curator per il
maxxi Architettura di Roma. È adviser per il premio
Medaglia d’oro dell’architettura italiana della
Triennale di Milano e per il Mies van der Rohe Award
della fondazione mvdr. Collaboratore di recensioni
e stampa è membro del comitato di redazione di
“Casabella”. Autore di numerosi libri, tra i quali:
Ludovico Quaroni 1911-1987, 1989; Botta, Eisenman,
Gregotti, Hollein: Musei, 1991; Peter Eisenman, 1993;
Nuova architettura Italiana, 2000; La metropoli dopo,
2002; I musei dell’Iperconsumo, 2004; Musei, Next
Generation, 2006. Ha curato e progettato mostre in
Italia e all’estero. Tra le principali, Re-cycle. Strategie
per l’architettura della città e il pianeta; Energy.
architettura e reti del petrolio e del post-petroli; Erasmus
Effect e YAP MAXXI, un programma internazionale per
giovani architetti.
Alessandra Criconia (Roma, 1963). Architetto,
phd in Composizione Architettonica, ricercatore
universitario, membro del Collegio dei docenti del
dottorato Architettura Teorie e Progetto, svolge
attività didattica e di ricerca nel settore della
Progettazione Architettonica e urbana. Campo di
studio è la città diffusa e le strategie del progetto
complesso con specifico interesse per Roma e le
sue periferie. Ha partecipato a progetti di ricerca
nazionali e di ateneo con ruoli di coordinamento
scientifico. Attualmente è responsabile scientifico
della ricerca surfas 2030 (Strategie urbane, Reti,
forme dell’abitare sostenibile) sui modi in cui i luoghi
della mobilità costruiscono nuovi spazi pubblici ad
381
alta qualità urbana. È autrice e curatrice dei libri tra
cui L’architettura dei musei, 2011; La qualità dell’urbano,
2010; Architetture dello Shopping; Modelli del consumo
a Roma, 2007; Corpi dell’architettura e della città.
Mutazioni, 2003.
nOTIZIE SuGLI AuTORI
Marco dezzi bardeschi (firenze, 1934). Professore
ordinario di Restauro Architettonico alla facoltà di
Architettura Civile al Politecnico di Milano, dove ha
fondato e diretto il dipartimento per la Conservazione
delle Risorse architettoniche e ambientali. Si laurea in
Ingegneria Edile a Bologna nel 1957 e in Architettura
a firenze nel 1962. Allievo e collaboratore di Giovanni
Michelucci e di Piero Sanpaolesi. È stato presidente
del Comitato italiano icomos dal 2003 al 2007, ha
promosso e organizzato la Terza Mostra Internazionale
del restauro monumentale, (dal Restauro alla
Conservazione). Accademico delle Arti del disegno
a firenze, ha fondato e diretto le riviste: “necropoli”
(1969-71), “Psicon” (con Eugenio Battisti e Marcello
fagiolo, (1974-76) e “Ananke, cultura, storia e tecniche
della conservazione per il progetto”.
382
Giovanni durbiano (Torino,1966). Architetto e
urbanista, è professore ordinario di Progettazione
architettonica al Politecnico di Torino. I suoi ambiti
di ricerca riguardano Storia e Teoria, Progettazione
urbana, Restauro Architettonico.
Molti dei suoi progetti riguardano gli spazi pubblici
come il Parco archeologico di Torino e la piazza
centrale di nichelino. Tra i progetti di Restauro, la
Certosa di San francesco ad Avigliana del xvi secolo.
Tra i Piani urbani, quello per la città di Pino Torinese.
Molti di questi progetti sono stati pubblicati nelle
maggiori riviste di architettura italiane (Casabella,
Abitare, Controspazio, Il giornale dell’Architettura, Aion).
Tra le sue pubblicazioni: I Nuovi Maestri. Architetti
tra politica e cultura nell’Italia del dopoguerra, 1999;
Paesaggio e Architettura nell’Italia contemporanea,
2002; Etiche dell’intenzione. Ideologia e linguaggi
dell’architettura, 2014.
Alberto Ferlenga (Castiglione delle Stiviere, 1954).
Architetto, è stato redattore di Lotus International
e di Casabella. nel 1985 ottiene il Leone di Pietra
della Biennale di Venezia. Professore ordinario
di Progettazione a napoli e poi presso lo iuav di
Venezia, dirige la Scuola di dottorato. È ideatore
del seminario e del dottorato Villard. Ha insegnato
in numerose università straniere. nel 2000 fonda
il raggruppamento di progettazione naomi. che
ha attualmente in corso di esecuzione il Piano di
Riqualificazione del Comune di Castiglione delle
Stiviere e la Scuola elementare di Mirandola. Tra
le sue pubblicazioni: le monografie su Aldo Rossi e
Dimitri Pikionis, e l’Architettura del Novecento (con
M. Biraghi). Ha vinto concorsi e realizzato opere
pubblicate sulle principali riviste di architettura. nel
2012 ha curato la mostra L’architettura del mondo,
per la Triennale di Milano di cui è responsabile per il
settore architettura.
Alberto Fiz (Torino, 1963). Giornalista, direttore
artistico del museo marca di Catanzaro. Critico d’arte,
curatore di mostre e giornalista specializzato in arte
e mercato dell’arte. È art advisor di Intesa Sanpaolo
Private Banking. fa parte del comitato scientifico
della fondazione Mimmo Rotella. dal 1999 al 2002 è
direttore della fondazione Bandera per l’Arte di Busto
Arsizio. dal 2002 al 2004 è consulente della Regione
Valle d’Aosta dove ha gestito gli spazi del Museo
Archeologico Regionale e del Centro Saint-Bénin. nel
2005 collabora con la Provincia di Catanzaro ideando
e realizzando il progetto di scultura Intersezioni nel
Parco Archeologico di Scolacium. dal 1994 si occupa
delle pagine di arte del settimanale Milano finanza.
Collabora per i mensili Capital, Gentleman e per il
Giornale dell’Arte.
daniela Gianpaola (napoli,1963). Archeologa, è
direttrice della Soprintendenza Speciale per i Beni
archeologici di napoli e Pompei con particolare
riferimento al centro storico di napoli. dirige gli
scavi archeologici preliminari alla realizzazione delle
stazioni università, dante, diaz, duomo, Garibaldi,
Municipio, della Linea 1 della Metropolitana di napoli.
Cura l’allestimento di numerose mostre sui temi
dell’archeologia. Ha insegnato presso l’università
Orientale di napoli e l’università degli Studi di napoli
federico ii. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli su
scoperte archeologiche a napoli e in Campania.
Pietro Giovanni Guzzo (Weihsien,1944). Archeologo,
laureato a Roma e specializzato ad Atene, è studioso
di fama internazionale. È stato Soprintendente
Archeologo della Soprintendenza Speciale di Pompei
e successivamente di napoli e Pompei, Calabria,
Roma, Taranto, Bologna. docente presso primarie
università italiane, ha collaborato alla ricostruzione del
terremoto del 1980 in Campania e Basilicata, ha diretto
gli scavi archeologici di Sibari, il Museo nazionale
Romano, il Colosseo. Il suo interesse è rivolto alla
storia delle istituzioni di tutela intese come matrice
non solo della protezione dei monumenti, ma anche
come sede iniziale di elaborazione critica per la storia
dell’antichità nel nostro Paese. È stato Presidente del
Comitato di settore per i Beni archeologici. nel 2009 ha
vinto il prestigioso Premio dei Lincei all’Archeologia.
Ha pubblicato numerosi saggi su scoperte
archeologiche e interpretazione storica.
Mazen Haidar (Beirut,1979). Architetto, si occupa
di restauro dei monumenti e di patrimonio, si è
laureato all’università Sapienza di Roma. Tra i
suoi progetti il Museo di Beit Beirut, il Museo della
Memoria e gli ex locali del quotidiano “L’Orient”.
docente presso la American university of Beirut e la
Lebanese American university, dal 2013 è direttore
associato della Scuola d’Architettura alla Académie
Libanaise des Beaux Arts (alba). Ha scritto numerosi
articoli pubblicati in diverse lingue e su vari giornali
specialistici. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana:
Città e memoria, Beyrouth, Sarajevo, Berlino.
Ferruccio izzo (Losanna, 1960). Architetto,
professore associato di Composizione architettonica
e coordinatore del Master di ii livello in Progettazione
per la Città Storica presso l’università degli Studi
di napoli federico ii. Ha lavorato negli studi di
W.Blurock, E.Catalano, R.Meier e d.Chipperfield.
Ha insegnato alla London Metropolitan university
’92/96, alla Cambridge university ’95/96, alla facoltà
di Architettura di Alghero ’02/03, alla Technische
universitat di Vienna ’10/12. nel 1994 fonda lo
Studio Alberto Izzo & Partners. L’attività di ricerca
ha interessato i temi del progetto urbano e della
rigenerazione della città storica europea. Tra le
architetture realizzate si menzionano l’Albergo
a Gricignano d’Aversa 2006; la Scuola Materna a
Vicenza 2004; la Cittadella Giudiziaria a Salerno 1999,
con david Chipperfield.
daniele Manacorda (Roma, 1949). Archeologo,
insegna Metodologia della ricerca archeologica
presso l’università Roma Tre ed è attualmente
distaccato presso il Centro interdisciplinare
Beniamino Segre dell’Accademia dei Lincei. Ha
diretto per molti anni gli scavi della Crypta Balbi
a Roma e dell’acropoli di Populonia in Toscana,
coordinando il progetto dei relativi Musei. Le
sue ricerche riguardano gli aspetti metodologici
dell’indagine archeologica, in particolare nei
contesti urbani e nei rapporti fra l’archeologia e
le altre discipline. Tra le pubblicazioni più recenti
si ricordano: Dizionario di archeologia, 2000; Il
sito archeologico fra ricerca e valorizzazione, 2007;
Lezioni di archeologia, 2008; arch.it.arch. Dialoghi di
archeologia e architettura 2005-2006, 2009; Il primo
miglio della via Appia a Roma, 2010; Le fornaci di
Giancola a Brindisi, 2012.
vito Martelliano (Siracusa, 1969). Ingegnere edile, è
dottore di Ricerca in Progetto e recupero architettonico,
urbano e ambientale presso l’università degli Studi di
Catania e docteur en Architecture presso l’université
de Paris viii. Ha svolto attività di ricerca presso il
laboratorio acs, Architecture, Culture, Sociétés xix-xxi
siècles dell’Ecole d’Architecture de Paris-Malaquais,
francia. Già titolare di assegno di ricerca biennale
sul tema della pianificazione paesaggistica, dal 2005
è docente a contratto presso l’università degli Studi
di Catania dove attualmente tiene l’insegnamento
di Progettazione urbana. È autore di pubblicazioni
inerenti la storia urbana, la progettazione urbanistica
e la pianificazione del paesaggio. Quale esito di una
ricerca interdisciplinare sugli spazi del welfare ha
curato, con S. Munarin, la pubblicazione del libro
Spazi, storie e soggetti del welfare, 2012.
Francesco Martinico (Palermo, 1962). Ingegnere
edile, professore associato di Tecnica e Pianificazione
urbanistica nell’università degli Studi di Catania, vice
presidente della Scuola di Architettura a Siracusa. fa
parte del gruppo di promotori del dottorato di Analisi,
Pianificazione e Gestione integrate del territorio,
avviato dal xix ciclo nell’università di Catania, nel
quale è stato componente del Collegio docenti. I suoi
interessi di ricerca comprendono la pianificazione
degli insediamenti produttivi, le aree metropolitane
la pianificazione strategica e paesaggistica. È stato
responsabile scientifico delle convenzioni di ricerca
per il Piano Provinciale di Siracusa e per il prg di
Catania. È responsabile della Convenzione per il
prg di Avola. Ha coordinato i gruppi di lavoro del
Piano paesaggistico Regionale Siracusa ed Enna. È
autore e curatore di pubblicazioni internazionali e di
monografie tra le quali Il Territorio dell’industria.
Pedro Mateos Cruz (Mérida,1962). Archeologo,
laureato presso l’università Rovira i Virgili di
Tarragona. Svolge la sua tesi di dottorato sul tema
dell’ubanistica Tardoantica di Augusta Emerita.
nel 1993 ricopre il ruolo di Coordinatore degli Scavi
Archeologici di Mérida, è direttore Generale e
Responsabile Scientifico del Consorzio di Mérida.
dal 2000 è Ricercatore di ruolo nel Consiglio
Superiore di Ricerca Spagnolo (csic) e nello stesso
anno entra a far parte dell’Istituto di Archeologia
di Mérida di cui diventa direttore. Attualmente
svolge attività di ricerca sul tema della architettura
pubblica in epoca romana come Responsabile
Scientifico di numerosi progetti come quello
sull’Arco Quadrifronte del foro Boario di Roma o
sugli scavi archeologici della città di Contributa
Iulia e partecipa a un progetto finanziato dall’unione
Europea per lo studio dei Teatri romani nel
Mediterraneo. È autore di numerosi libri e articoli in
riviste di settore.
Antonino Minniti (Motta San Giovanni, 1964).
Architetto, ha usufruito nel 2004 di una Borsa di
studio Regionale dal titolo: Da aree archeologiche a
realtà: i rapporti territoriali tra paesaggio e archeologia.
Ha collaborato per più di dieci anni con il professor
Renato nicolini come assistente alla didattica ed
è stato correlatore di diverse tesi di laurea sul
tema della progettazione urbana e sui rapporti tra
l’architettura e gli spazi dell’archeologia classica e
industriale. Ha lavorato in Tunisia (nefta) nell’ambito
di un programma di cooperazione culturale e presso
lo iuav di Venezia come assistente alla didattica.
Attualmente lavora presso uno studio professionale
e si divide tra l’esperienze di scenografo, ricerca
artistica e piccoli interventi di riqualificazione e
ristrutturazione.
Marco Navarra (Caltagirone, 1963). Architetto,
insegna progettazione architettonica presso
l’università di Catania. fondatore dello studio
noWa, ha esposto progetti e ricerche alla Biennale
di Venezia, alla Triennale di Milano, alla fondazione
Mies van der Rohe, al cccb di Barcellona, al cca di
Montreal. finalista di numerosi premi (European
Prize for urban Public Space nel 2006 e al bsi Swiss
Architectural Award nel 2008), ha vinto la medaglia
d’oro per l’opera prima della Triennale di Milano nel
2003 e il Premio Gubbio 2006. I progetti dello studio
noWa sono stati pubblicati su riviste di architettura
italiane e internazionali (“Lotus”, “domus”, “Abitare”,
“A+u”, “C3”, “Paiseia”, “A10”). Tra le pubblicazioni:
Robert Adam, Ruins of the Palace of the Emperor
Diocletian at Spalato in Dalmatia, 1754, 2002;
Repairingcities, 2008, Lo-fi: Architecture as curatorial
practice, 2010.
Renato Nicolini (Roma, 1942-2012). Architetto, è stato
docente presso La Sapienza di Roma e professore
ordinario di Progettazione Architettonica alla facoltà
di Architettura di Reggio Calabria. dal ’76 all’85 è
stato Assessore alla Cultura a Roma e dal ’94 al
’97 Assessore all’Identità a napoli; parlamentare
Italiano e Presidente del Pala Expò di Roma. nel 1985
Jack Lang, per il merito di aver inventato nel 1979
l’Estate romana, lo nomina Officier de l’Ordre des
Arts et des Lettres della Repubblica francese. Il suo
campo di ricerca, critico, progettuale ed espressivo
ha incluso – oltre l’architettura e la città – la storia,
l’arte, la letteratura, il teatro, ma anche il cinema, la
televisione e i fumetti. Tra le principali pubblicazioni:
Estate romana 1976-85. Un effimero lungo nove anni,
2011, PeramareNapoli, 2011, L’oro della memoria, 2011,
Rottamare il degrado. Calabria da rigenerare, 2006.
lilia Pagano (napoli,1959). Architetto, borsista nel
1988 presso il Laboratorio di urbanismo della etsab
di Barcellona, nel 1990 è tra i vincitori del premio
Cosenza. nel 1992 consegue il titolo di dottore di
ricerca in Composizione Architettonica. Professore
associato di progettazione e docente del dottorato
in Architettura a napoli, dirige il Centro studiLaboratorio guaparc del lupt ed è coordinatore
per napoli del Seminario internazionale Villard.
Ha svolto attività di consulenza scientifica per Enti
pubblici per importanti progetti di trasformazione
di napoli (Zona industriale e periferie nella Variante
al prg, Bagnoli-Coroglio, Manifattura Tabacchi).
Tra le sue pubblicazioni: Architettura e centralità
geografiche, 2012; Periferie di Napoli. La geografia
il quartiere l’edilizia pubblica, 2001, 2012; Agostino
Renna. Rimontaggio di un pensiero sulla conoscenza
dell’architettura, 2012.
Raffaele Panella (foggia, 1937). Architetto,
professore ordinario di Progettazione Architettonica
e urbana, ha insegnato presso lo iuav di Venezia e la
facoltà di Architettura Sapienza di Roma. È fondatore
con Aymonino e Canella del Gruppo Architettura.
durante l’assessorato di Aymonino a Roma ha diretto
quattro laboratori sulle problematiche del centro
storico. Ha diretto il dipartimento di Architettura
e Analisi della Città promuovendo lo sviluppo di
ricerche di progettazione architettonica e urbana. È
autore di saggi e monografie su Roma e il recupero
dei centri storici, tra cui Roma Città e Foro, 1989,
e Roma la città dei Fori, 2013. Ha realizzato opere
di architettura a Pesaro, Matera, Abano, Città di
Castello, Roma. Si occupa del progetto Sapienza di
un Centro di Biotecnologie e Tecnologie avanzate a
Pietralata e ha redatto il complesso universitario del
navile di Bologna.
Joseph Rikwert (Varsavia, 1926). Critico
dell’architettura, storico e scrittore inglese, è docente
di Architettura presso l’università della Pennsylvania.
Ha insegnato in molte scuole di architettura del
mondo, dall’università di Princeton a quella di
Harvard fino all’Istituto di urbanistica di Parigi e
all’università di Sydney. È autore di libri che hanno
condizionato il pensiero mondiale sull’architettura,
L’idea di città, 1963; La casa di Adamo in Paradiso, 1991;
La seduzione del luogo. Storia e futuro della città, 2008;
La colonna danzante. Sull’ordine in architettura, 2010.
nel 2013 è stato insignito della Royal Gold Metal,
premio annuale assegnato dal Royal Institute of
British Architects (ribe).
Fabrizio toppetti (Todi, 1964). Architetto, insegna
Composizione Architettonica e urbana nella facoltà
di Architettura dell’università “Sapienza” di Roma,
svolge attività di ricerca presso il Laboratorio Grandi
Temi del dipartimento di Architettura e Progetto
della stessa università. È direttore del Master di ii
livello in Progettazione Architettonica per il Recupero
dell’Edilizia Storica e degli Spazi Pubblici e membro
del Collegio dei docenti del dottorato di Ricerca interateneo in Paesaggio e Ambiente. dal 2005 è membro
del Consiglio direttivo nazionale dell’Associazione
nazionale Centri Storico-Artistici (ancsa). dal
2008 è nel Comitato di Redazione di “Rassegna di
Architettura e urbanistica”. Tra le pubblicazioni
recenti si segnalano: Non è un Paese per architetti,
2012, Il Parco e la Città. Il territorio storico dell’Appia nel
futuro di Roma (in coll.), 2013.
Yannis tsiomis (Atene 1944). Architetto, di nazionalità
francese e greca, vive e lavora a Parigi dal 1967. dal
1993 è professore ordinario presso l’Ecole nationale
Supérieure d’Architecture de Paris La Villette
dove si occupa di Teoria e pratica della concezione
architettonica e urbana. dal 1995 è professore invitato
all’università federale di Rio de Janeiro. dal 1998 è
Visiting Professor alla Scuola Politecnica di Atene
e dal 2004 è ricercatore invitato presso l’università
La Sapienza di Roma dove è coinvolto in Progetti di
Ricerca di Interesse nazionale (prin). È membro del
consiglio scientifico della fondazione Le Corbusier
(Paris). Ha redatto il progetto per la sistemazione
dell’area archeologica di Atene. Tra le pubblicazioni:
Villes, Cités. Des Patrimoines européens, 1998;
Echelle et temporalité des projets urbains, 2007.
383
finito di stampare nel mese di novembre 2014
presso Industria Grafica Bieffe, Recanati (mc)
per conto delle edizioni Quodlibet.
STRATEGIE DEL PROGETTO URBANO CONTEMPORANEO
PER LA TUTELA E LA TRASFORMAZIONE
Il documento dell’UNESCO che ha definito il concetto di
Paesaggio storico urbano mira a integrare il patrimonio e
la sua vulnerabilità in un contesto più ampio, che è quello
della crescita delle città, mettendo in stretta relazione
gli aspetti della conservazione con quelli dello sviluppo
e incoraggiando azioni trasversali tra i diversi attori che
operano sul territorio.
Il paesaggio, infatti, sta percorrendo, in termini di
processo culturale, un cammino analogo a quel
riconoscimento che negli anni ’70 ha portato a una diffusa
considerazione nei confronti dei centri storici. La tutela
dei centri storici però ha anche contribuito ad affermare
un sentimento negativo nei confronti del modernocontemporaneo portando a preferire la conservazione
passiva ed escludendo l’intervento contemporaneo
nel cuore dei processi di trasformazione urbana. È
necessario predisporre nuove strategie che puntino alla
salvaguardia e valorizzazione delle aree archeologiche
attraverso progetti urbani contemporanei, con la
convinzione che sia possibile progettare lo spazio urbano
e metropolitano in continuità con lo spazio archeologico.
Il presente volume raccoglie contributi che rilevano le
numerose aporie e resistenze ancora presenti in Italia,
che ostacolano uno sguardo trasversale e integrato.
I testi forniscono un quadro teorico di riferimento per
lo studio di quattro casi (che sono oggetto di specifiche
pubblicazioni) su cui si è studiato come operare queste
risignificazioni: il Parco dell’Appia Antica, il Parco dei
Campi Flegrei, la Magna Grecia e il Parco della Villa del
Casale e del fiume Gela.
Cinque diverse sezioni del volume - Tutela e
reinvenzione, Margini e marginalità, Territorializzazioni,
Risignificare i luoghi e Architettura per i paesaggi
archeologici - rispondono secondo diversi punti di vista
al tema di come restituire alle tracce del passato un
ruolo nell’immaginario culturale urbano della città
contemporanea. L’Atlante dei paesaggi archeologici
fornisce attraverso una selezione di progetti significativi
ulteriori possibili risposte al tema.
L’Italia è disseminata di paesaggi in cui il rapporto tra
archeologia, spazio urbano e natura, rappresenta un
terreno materiale e concettuale per possibili sinergie
fisiche e culturali. Se non dobbiamo guardare al classico
come morta eredità, ma come qualcosa da riconquistare
ogni giorno, l’archeologia può rappresentare un punto
di partenza per definire nuovi valori relazionali, fondati
sul riconoscimento di appartenenze e avvalorati dalla
condizione di poter far parte simultaneamente dei
processi culturali ed economici del passato e della
contemporaneità. Il valore simbolico della storia e la
coscienza del passato – che ricoprono un ruolo così
importante nella cultura mediterranea – hanno invece
spesso determinato una preoccupante e schizofrenica
rigidità nei confronti della trasformazione dei luoghi,
producendo un’anacronistica cesura spazio-temporale tra
passato e futuro, tra conservazione e innovazione.
ISBN 978-88-7462-651-9
euro 40,00
PAESAGGI DELL’ARCHEOLOGIA,
REGIONI E CITTÀ METROPOLITANE