L’ultimo Berlinguer:
rinnovare il Pci nel passaggio d’epoca della globalizzazione*
Guido Liguori
Già critico degli esempi esistenti di «socialismo realizzato», negli ultimi anni della sua vita
Enrico Berlinguer tentò una rifondazione del Partito comunista italiano e dell’idea di società
socialista per cui battersi mediante la messa a punto di un «programma fondamentale», non
organico, ma molto ben ravvisabile nei suoi scritti e discorsi. Al centro di esso, oltre al recupero della centralità dei lavoratori, i temi di un nuovo modello di produzione, di lavoro
e di società, l’ambientalismo, il femminismo, l’importanza politica della vita quotidiana, la
rivoluzione informatica, il pacifismo.
Parole chiave: Pci, Enrico Berlinguer, Eurocomunismo, Democrazia informatica, Femminismo
The last phase of Berlinguer’s leadership: ushering the Pci into the age of globalisation
During the last years of his life, already critical of existing examples of «actualised
socialism», Enrico Berlinguer attempted a re-foundation of the Italian Communist Party and
of the very idea of a socialist society. This was an aim worth fighting for, and was shaped by
a «fundamental program»: it was unsystematic, although clearly recognizable in his writings
and speeches. At the core of it, besides reclaiming the centrality of workers, there were
themes such as a new model of production, work and society; environmentalism; feminism;
the political relevance of everyday life; the computer revolution; and pacifism.
Key words: Pci, Enrico Berlinguer, Eurocommunism, Cyber democracy, Feminism
1. Quello di Enrico Berlinguer continua a essere un nome presente nella memoria di massa del nostro Paese, anche in questi ultimi anni di crisi
drammatica della conoscenza storica e anche della memoria. Si torna periodicamente a parlare di Enrico Berlinguer, sia pure in modi inevitabilmente
parziali e a volte distorti. È una immagine – quella più diffusa – che tende
soprattutto a sottolineare l’onestà di Berlinguer, la sua dirittura morale, la sua
* Il saggio rappresenta la rielaborazione dell’intervento svolto nel corso del convegno
«Il Partito comunista italiano nella storia del Novecento. Nel centenario della nascita»,
organizzato da Claudio Natoli per iniziativa dell’IFSML e svoltosi online il 25 ottobre 2021.
«Storia contemporanea in Friuli», 2021, n. 51, a. L
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battaglia contro un modo corrotto o affaristico di fare politica, soprattutto
sulla scia della famosa intervista a Eugenio Scalfari del 19811.
È chiaro che le posizioni del comunista sardo che vengono così spesso
ricordate corrispondono a elementi reali, e che la presenza e il ricordo di
Berlinguer nel senso comune di massa sono in ogni caso significativi, almeno
da un punto di vista civile o politico. Ma la pura caratterizzazione etica
– isolata dall’insieme delle convinzioni berlingueriane – non è sufficiente
per restituire pienamente e correttamente il pensiero dell’allora segretario del
Partito comunista italiano.
Il nesso tra la «questione morale» e le sue idee politiche più generali venne posto del resto dallo stesso Berlinguer nella lunga intervista citata. La
«questione morale» per il comunista sardo era parte di una visione più generale di trasformazione della politica e della società, di fuoriuscita dal sistema
capitalistico, su una via che doveva condurre verso una società «più avanzata» (locuzione che appare ripetutamente nei suoi scritti e discorsi), verso
una società socialista fondata su principi di uguaglianza e libertà. È questo
che faceva di Berlinguer un comunista e un rivoluzionario2 – secondo una
accezione peculiare che discende dalla storia dei comunisti italiani, a partire
da Gramsci e dalla valorizzazione che questi fa dell’elemento del consenso.
Era questa volontà di cambiare la società quale condizione necessaria per
realizzare una diversa e più alta concezione della politica il tema sul quale, nella lunga intervista di Scalfari, Berlinguer insiste e che altrove nomina
come «diversità» comunista3. Non vi era e non vi poteva essere, dietro questa
affermazione, la illusione di una diversità antropologica. Per Berlinguer i comunisti erano «diversi», egli affermava, perché non «facevano politica» come
gli altri, ma lottavano per una società nuova e profondamente trasformata
rispetto a quella esistente4. E dunque concepivano la politica come tensione
1 Enrico Berlinguer, Dove va il Pci?, intervista a cura di Eugenio Scalfari, in «la Repubblica»,
28 luglio 1981, ora con il titolo Che cos’è la questione morale, in Id., Un’altra idea del mondo. 1969-1984, a cura di Paolo Ciofi e Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti University Press,
2014, pp. 236-258.
2 Mi si consenta a questo proposito e più in generale di rimandare al mio libro Berlinguer
rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico, Roma, Carocci, 2014.
3 E. Berlinguer, Prospettiva di trasformazione e specificità comunista, intervista pubblicata
su «Critica marxista» 1981, n. 2, e poi col titolo La diversità del Pci, in Id., Un’altra idea del
mondo, cit., pp. 219-235.
4 Cfr. ad esempio ibidem, p. 226.
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verso un mondo ritenuto migliore e più giusto, e non come lotta per conquistare potere, privilegi, prestigio personale.
Il suo giudizio sulla società capitalistica e sulla necessità di un suo superamento è del resto incontrovertibile: «Noi comunisti pensiamo – affermava
nella citata intervista di Scalfari – che il tipo di sviluppo economico e sociale
capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparita sociali,
di enormi sprechi di ricchezza»5. Per Berlinguer era proprio il sistema capitalistico in quanto tale a costituire il terreno sul quale lo spreco, la corruzione e
il degrado prosperavano. Rispetto a questa realtà, e alla volontà di superarla,
la «scelta di vita» compiuta negli anni giovanili restò sempre invariata nel
tempo. Torna alla mente la famosa affermazione resa a Gianni Minoli poco
più di un anno prima della morte, in televisione, il 27 aprile 1983, nel corso
di un programma di largo ascolto: «Mixer». In quella occasione Berlinguer
interruppe il giornalista che lo stava interrogando sui rapporti tra la vita privata e famigliare e la scelta della professione politica affermando: «io non ho
fatto la scelta della politica. Io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione
degli ideali comunisti»6.
Enrico Berlinguer era dunque convintamente comunista, e non smise mai
di esserlo. Non smise mai di riaffermare le sue convinzioni di comunista, fino
agli ultimi anni della sua vita, sorretto da una scelta e da una impostazione
etiche indubitabili. Dire che egli era comunista tuttavia non basta per definirne il pensiero. Bisogna chiedersi cosa intendesse egli per comunismo, o per
«società socialista».
In primo luogo può essere utile – per iniziare a rispondere al quesito –
ricordare quanto ancora detto nella stessa intervista concessa a Scalfari sopra
citata. In essa Berlinguer affermava:
[Noi comunisti italiani] non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora
realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il
mercato possa mantenere una funzione essenziale […] Ma siamo convinti che tutte queste
realtà, dentro le forme capitalistiche […] non funzionano più, e che quindi si possa e si debba
discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché
esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati7.
5 E. Berlinguer, Dove va il Pci?, cit., p. 242.
6 E. Berlinguer, Un ritratto televisivo, intervista a cura di Gianni Minoli nel corso della
trasmissione televisiva «Mixer», 27 aprile 1983, ora in Conversazioni con Berlinguer, a cura
di Antonio Tatò, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 326.
7 E. Berlinguer, Dove va il Pci, cit., p. 242.
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La tensione verso una società socialista, che egli considerava la sola in
grado di dare soluzione ai problemi di fondo della sua epoca, appartiene
all’intero percorso politico del dirigente sardo ed è intrinseca alla «scelta di
vita» compiuta in gioventù8. Il modo peculiare in cui tale società nuova veniva concepita da Berlinguer derivava però da una precisa tradizione politica e
dal percorso che lo stesso Berlinguer aveva compiuto ancora molto giovane
ai vertici delle organizzazioni politiche del suo partito e del movimento comunista internazionale.
2. Come si è accennato, Berlinguer proveniva da una tradizione politica
– quella del comunismo italiano – che si fondava sull’elaborazione matura di
Antonio Gramsci (la riflessione carceraria), in cui era centrale uno specifico
concetto di egemonia basato sulla ricerca del consenso, anche se non si trova
nella sua riflessione dei Quaderni del carcere il riconoscimento pieno ed esplicito della democrazia e del pluralismo politico. Tale riconoscimento si era avuto
invece con Palmiro Togliatti, almeno a partire dal 1944, quando si era trovato
nelle condizioni di agire pienamente come protagonista della politica italiana.
A partire dalla “traduzione” in un contesto inedito di alcune delle fondamentali
idee-forza di Gramsci, Togliatti aveva condotto il Partito comunista da lui guidato a fare scelte che si sarebbero dimostrate irreversibili: i comunisti italiani
avevano accettato la centralità del Parlamento, avevano contribuito da protagonisti a scrivere la Costituzione della Repubblica, avevano dato vita a un partito di massa lontano dai modelli terzinternazionalisti, profondamente radicato
nelle classi popolari, ma anche rispettoso della dialettica politica democratica.
Enrico Berlinguer è stato erede di questa duplice lezione, gramsciana e
togliattiana, era cresciuto nel «partito nuovo» di Togliatti conoscendo da vicino il movimento comunista internazionale9, e aveva maturato una sensibilità
particolare anche riguardo ai limiti pesanti della politica sovietica, basata più
sulla forza che sulla capacità di ottenere consenso. Una prima manifestazione
di questo atteggiamento critico si era palesata nel 1956, con l’attenzione
esplicita per le preoccupazioni espresse da Giuseppe Di Vittorio nei confronti
dell’invasione di Budapest10.
8 Sulla giovinezza e le prime esperienze politiche di Berlinguer cfr. Giuseppe Fiori, Vita di
Enrico Berlinguer, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 40-87 e passim.
9 Cfr. Chiara Valentini, Berlinguer. L’eredità difficile, Roma, Editori Riuniti, 1997.
10 Cfr. Maria Luisa Righi (a cura di), Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista
tra il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci, introduzione di Renzo Martinelli,
Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 235.
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Negli ultimi anni della segreteria Togliatti – la stagione più avanzata del
dirigente comunista, culminata con il Memoriale di Yalta e con la riaffermazione della necessità di una visione policentrica del movimento comunista
internazionale – e in quelli immediatamente successivi alla sua scomparsa,
Berlinguer ebbe ripetutamente a che fare con i dirigenti sovietici, distinguendosi nel compito non facile di difendere la «via italiana al socialismo» di fronte
alle loro pressioni tendenti a negare significativamente l’autonomia del Pci11.
In questo percorso politico di progressiva assunzione della coscienza delle
differenze tra comunisti italiani e comunisti del blocco sovietico, l’invasione
della Cecoslovacchia fu un momento dirimente: Berlinguer fu subito dopo
l’agosto 1968, nell’ambito del gruppo dirigente comunista, colui che si mostrò
maggiormente disposto allo scontro aperto con i comunisti che avevano invaso
Praga, esprimendo in Direzione la convinzione che si fosse entrati «in una fase
nuova – egli disse – anche nella nostra collocazione del movimento comunista»
e non escludendo un vero e proprio scontro coi sovietici, per il quale sosteneva
che bisognasse prepararsi «ideologicamente, politicamente, organizzativamente
e propagandisticamente», indicando al contempo la strada dell’allargamento dei
rapporti del Pci alla sinistra internazionale anche non comunista12.
Negli anni Settanta questo tipo di convinzioni di estrema critica ai sovietici
– sul momento frenate dalle posizioni più caute o anche esplicitamente contrarie presenti nel gruppo dirigente del Pci – furono portate avanti con convinzione da Berlinguer, soprattutto dopo la sua nomina a segretario del partito, nel 1972. Non soltanto Berlinguer, in polemica coi comunisti sovietici,
dichiarò innumerevoli volte che i comunisti italiani intendevano avanzare
verso il socialismo «su una via democratica», affermazione che era già in
Togliatti e nella elaborazione della «via italiana al socialismo». Berlinguer
andò oltre. Pur riconoscendo i meriti storici della Rivoluzione russa del 1917,
del leninismo e del primo paese che aveva tentato la via del socialismo13,
egli affermò – per esempio in un incontro del 1976 coi giovani, organizzato
dalla Fgci al Palazzo dello sport di Milano – che i comunisti italiani avevano
11 Si veda in proposito Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006,
pp. 83 ss.; Adriano Guerra, La solitudine di Berlinguer. Governo, etica e politica. Dal «no» a
Mosca alla «questione morale», Roma, Ediesse, 2009, pp. 68 ss.; e anche il mio Berlinguer
rivoluzionario, cit., pp. 17 ss.
12 G. Liguori, Berlinguer rivoluzionario, cit., pp. 23 ss.
13 Cfr. soprattutto su questo E. Berlinguer, L’identità del Pci, intervista a cura di Eugenio
Scalfari, in «la Repubblica», 2 agosto 1978, ora col titolo Leninismo e «legittimazione democratica» del Pci, in Id., Un’altra idea del mondo, cit., pp. 172 ss.
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«coscienza dei limiti»14 di quella esperienza, poiché essa negava alcune fondamentali libertà politiche. Arrivando a sostenere (proprio a Mosca, nel 1977,
in occasione dei festeggiamenti per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, davanti ai rappresentanti di tutti i partiti comunisti del mondo schierati
con il Pcus) che la democrazia era un «valore storicamente universale»15 e
che dunque una società socialista non poteva essere davvero tale, alla lunga,
ovvero al di là di una limitata contingenza storica, se non era democratica.
Ovviamente la democrazia politica non esiste solo nella forma che è prevalente oggi in Occidente. E del resto si vede come sia essa in crisi, tanto che è
ormai usuale non stupirsi delle sempre più basse percentuali di elettori che si
recano alle urne; o parlare di «post-democrazia» per designare società come le
nostre, per tanti aspetti formalmente democratiche, ma nelle quali l’istituto della
rappresentanza è attraversato da limiti profondi16. Anche per questo appare oggi
più interessante l’affermazione berlingueriana del 198017 per cui della democrazia non esiste un unico «modello» che «vada bene per tutti» e che da tutti deve
essere necessariamente seguito. Il parlamento può essere ed è uno strumento utile
per esercitare la volontà popolare. Ma vi sono anche altri tipi di democrazia. Il
parlamento per esempio – era una suggestione di Pietro Ingrao18 a cui Berlinguer
mostrò di essere vicino negli ultimi anni – potrebbe essere affiancato da altri strumenti di esercizio democratico, più diffusi, più articolati, più capaci di favorire
la partecipazione e di registrare la reale volontà del corpo elettorale, dei cittadini.
Soprattutto si deve aggiungere che in Berlinguer non erano solo e tanto le
forme della rappresentanza a definire una società democratica, poiché esse
possono variare, a seconda delle situazioni, delle tradizioni, dei costumi, delle
esperienze storiche. Quello che era indispensabile secondo Berlinguer per
poter connotare un tipo di società come democratica era piuttosto il riconoscimento delle libertà personali, politiche, sindacali, culturali.
14 Discorso pronunciato all’incontro giovanile organizzato dalla Fgci e dal Pci al Palazzo
dello Sport di Milano il 6 giugno 1976, ora con il titolo Le nuove vie per superare il capitalismo in Occidente, in E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit., p. 132.
15 Cfr. E. Berlinguer, Democrazia, valore universale, intervento pronunciato in occasione
delle celebrazioni del 60° anniversario della Rivoluzione d’ottobre il 3 novembre 1977
a Mosca, ora in Id., Un’altra idea del mondo, cit., p. 170.
16 Cfr. Colin Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.
17 Intervista televisiva a E. Berlinguer a cura di Franco Rinaldini in «Tg2 Studio aperto»,
23 aprile 1980, ora col titolo Il Pci e la Cina, in E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit.,
p. 210.
18 Cfr. Pietro Ingrao, Masse e potere. Crisi e terza via [1977 e 1978], a cura di Guido Liguori,
Roma, Editori Riuniti, 2015.
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In un Comitato centrale già del novembre 1971, per esempio, l’allora
vice-segretario comunista – dopo aver affermato che i problemi dei paesi socialisti erano soprattutto «problemi di democrazia politica», dovuti a cause
storiche e a «errori compiuti per lunghi periodi»19 – aggiungeva, in merito ai
caratteri che avrebbe dovuto avere una società socialista, che erano necessari
l’affermazione del socialismo come sviluppo e attuazione piena della democrazia; il riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia; i principi della laicità
dello Stato, della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti, dell’autonomia
del sindacato, delle libertà religiose, della libertà della cultura, dell’arte, delle scienze; l’idea
di una soluzione socialista che assicuri nel campo economico un alto sviluppo produttivo,
una pianificazione che faccia leva sulla coesistenza di varie forme di iniziativa e di gestione
pubblica e privata20.
Le libertà liberali classiche, dunque, escluso la libertà di intrapresa non sottoposta ai vincoli sociali, che del resto anche la nostra Costituzione prevede.
Queste caratteristiche di costruzione del socialismo nella libertà furono
negli anni successivi il cuore della proposta politica dell’«eurocomunismo»
prima e poi della «terza via» (intesa come una «via diversa» sia dal socialismo autoritario sovietico sia dalla socialdemocrazia che aveva rinunciato a
cambiare il sistema capitalistico). Le espressioni contenute nel brano citato in
merito alle libertà «necessarie» saranno riprese quasi letteralmente nei principali documenti che il Pci sottoscrisse con il Partito comunista francese e con
il Partito comunista spagnolo nella stagione eurocomunista, presto conclusasi
perché il Pci, e Berlinguer in particolare, fu in realtà l’unico a credervi fortemente e a cercare di costruire intorno a quella visione del socialismo, della
democrazia e della libertà uno schieramento internazionale, di comunisti e
non, nei fatti alternativo al blocco sovietico.
3. La tensione verso una società socialista e anticapitalistica si ammantava
inoltre in Berlinguer di una sensibilità nuova, molto moderna, prima contaminata dalla tematica dei rischi dell’alienazione individuale, che non era
un tratto distintivo della precedente tradizione del comunismo italiano, e poi
del dialogo coi movimenti che caratterizzarono l’Italia degli anni Settanta e
Ottanta – dal femminismo all’ecologismo, al movimento per la pace.
19 E. Berlinguer, La nostra lotta per l’affermazione di un’alternativa democratica, relazione
al Comitato centrale dell’11-12 novembre 1971, in Id., La «questione comunista» 1969-1975,
a cura di Antonio Tatò, Roma, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 356-57.
20 Ibidem, p. 359.
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Poco prima delle elezioni del 1976, ancora nel pieno degli anni del «compromesso storico», Berlinguer aveva affermato non solo che il capitalismo
aveva generato la «crisi e decadenza della vita economica» e «della vita sociale», ma che da essa nascevano, oltre a «crescenti disagi materiali», anche
«il malessere, le ansie, le angosce, le frustrazioni, le spinte alla disperazione, le
chiusure individualistiche, le illusorie evasioni», da cui scaturiva – egli affermava – «quella che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»21.
Una società socialista, intesa come «una società superiore», doveva invece
garantire «al tempo stesso la soddisfazione […] dei bisogni materiali degli
uomini» e soprattutto «quello che si è perduto, quello di cui più si sente la
mancanza: una convivenza veramente umana»22.
Sono accenti estremamente innovativi nel discorso politico del tempo, comunista e non, che provano una attenzione e un rapporto crescente tra discorso politico e riflessione filosofica, oltre a confermare l’antieconomicismo
della tradizione nata da Gramsci.
A questa profonda innovazione nella visione del socialismo si sommava
in Berlinguer, soprattutto (ma non solo) nell’ultimo Berlinguer, quello degli
anni 1979-1984, il tema del rinnovamento della politica e del modo stesso di
fare politica. In uno scritto del 1981 intitolato Rinnovamento della politica e
rinnovamento del Pci egli sosteneva infatti che la politica non doveva essere
considerata solo quella propria dei partiti e delle istituzioni, ma anche quella
dei movimenti, delle istanze che nascono e si affermano nella società, soprattutto per merito delle donne e dei giovani, in risposta a bisogni e ad aspirazioni a volte settoriali, ma che incidono in maniera fondamentale sulla vita delle
persone e sulla loro quotidianità. Scriveva Berlinguer:
Questi modi nuovi di pensare e di comportarsi – insieme a questioni decisive per il mondo
di oggi e che grandi masse avvertono ormai in tutta la loro gravità, come quella del pericolo
di una catastrofe atomica – toccano altre questioni umane e sociali importantissime come la
famiglia, la vita di coppia, la sessualità, la maternità, la paternità, i rapporti tra genitori e figli,
la tutela della salute, la serenità della vita quotidiana, lo svago e il tempo libero; e queste sono
questioni alle quali sono sottese e connesse altre questioni non meno importanti come quelle
del tenore di vita e della qualità della vita, dello stato dei servizi sociali e delle attrezzature civili, della possibilità o meno di avere una casa, di far studiare i figli, di assicurare loro un lavoro e un avvenire, di assistere gli anziani, e così via, che sono questioni la cui soluzione dipende
da quali scelte si sanno fare per cambiare gli indirizzi della vita economica e produttiva23.
21 E. Berlinguer, Le nuove vie per superare il capitalismo in Occidente, cit., p. 130.
22 Ibidem.
23 E. Berlinguer, Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci, in «Rinascita»,
4 dicembre 1981, ora in Id., Un’altra idea del mondo, cit., p. 260.
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Berlinguer aveva la convinzione che la lotta dei comunisti dovesse guadagnare dimensioni nuove, con «una maggiore attenzione – egli affermò nella
relazione all’ultimo Congresso al quale prese parte, nel 1983 – per i problemi
non solo della società ma dell’individuo, non solo della quantità, ma della
qualità dello sviluppo, del lavoro e della vita»24.
Temi attualissimi: quante volte oggi si assiste a una errata e sterile contrapposizione tra diritti economico-sociali e diritti civili, tra dimensione di
massa e dimensione individuale, tra libertà collettiva e libertà di ciascuno?
Già allora Berlinguer evitava questa giustapposizione (che oggi spesso torna)
tra diritti civili e diritti individuali.
4. A partire almeno dal famoso discorso sul tema dell’«austerità» nel 197725
Berlinguer sostenne sempre più convintamente la necessità di quella che chiamerei (sulle orme di Gramsci) la proposta di una vera e propria «riforma intellettuale e morale»26. Il cambiamento cui dovevano mirare i comunisti doveva
riguardare sia la fondamentale sfera economico-sociale, sia quella ideologica,
del senso comune diffuso, dei modi di percepire il lavoro e la vita. Berlinguer
partiva infatti dalla convinzione che quella in corso fosse
una crisi che soprattutto chiama in causa il perché dello sviluppo […] il senso stesso dello
sviluppo, […] il che cosa produrre, il perché produrre. Ma ciò vuol dire porsi il problema
di quale intervento [si] deve operare […] nella struttura economica del paese per introdurvi
le risposte ai nuovi perché, cioè le motivazioni nuove capaci di dare un senso al lavoro e le
misure nuove che lo garantiscano a tutti27.
Dunque etica, politica e produzione. Blocco storico, lo avrebbe definito
Gramsci, intreccio inestricabile di problemi strutturali e sovrastrutturali.
24 E. Berlinguer, L’iniziativa e le proposte dei comunisti italiani di fronte ai rischi per
l’economia e per lo Stato e alle gravi minacce alla pace in Europa e nel mondo, relazione
al XVI Congresso nazionale del Pci (Milano, 2-6 marzo 1983), in Da Gramsci a Berlinguer.
La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. V:
1976-1984, a cura di Daniele Pugliese, Orazio Pugliese, Venezia, Edizioni del CalendarioMarsilio, 1985, pp. 204.
25 E. Berlinguer, Conclusioni al Convegno degli intellettuali, in Id., Austerità occasione per
trasformare l’Italia [1977], ora in Id., Un’altra idea del mondo, cit., pp. 154 ss.
26 Per una prima approssimazione al tema cfr. Fabio Frosini, Riforma intellettuale e morale, in Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, Roma,
Carocci, 2009, sub voce.
27 E. Berlinguer, Il compromesso nella fase attuale, in «Rinascita», 24 agosto 1979, ora in
Id., Un’altra idea del mondo, cit., p. 199.
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Ignorando, trascurando uno di questi «fattori» fondamentali non cambia e
non può cambiare la vita delle persone, la politica resta qualcosa di estraneo, il cambiamento rimane superficiale ed esteriore. Cambiare la vita delle
persone, insieme al senso comune, al sistema dei bisogni e dei consumi, è ciò
che per Berlinguer dava senso alla politica.
Era in tale orizzonte di ridefinizione della politica che si situava il dialogo di Berlinguer coi movimenti, dialogo che caratterizza gli ultimi suoi anni
di vita e di attività politica, con la riuscita ricucitura dei rapporti tra Partito
comunista e società, tra Pci e ceti giovanili, che si erano incrinati profondamente negli anni della «solidarietà nazionale».
Del tutto nuovo rispetto alla tradizione dei partiti comunisti fu il dialogo
che Berlinguer seppe intessere con il movimento delle donne, molto forte
a fine anni Settanta, ma non a tutti ben accetto nell’empireo della politica.
Berlinguer seppe dialogare sia con i settori interni o vicini al Partito comunista, sia con i circoli soprattutto intellettuali del tutto indipendenti da esso.
Superati i timori legati a vecchie subalternità verso il mondo cattolico, dopo
i referendum sul divorzio e soprattutto sull’aborto, egli – senza dimenticare
i problemi del lavoro femminile e le tematiche più proprie del femminismo
emancipazionista (aveva affermato per esempio la necessità di una ripartizione del lavoro domestico tra uomini e donne) – arrivava a sostenere che la «liberazione della donna» implicava «una vera e propria rivoluzione degli orientamenti ideali e dei comportamenti pratici nei rapporti fra uomo e donna»28,
assicurando uguale dignità agli esseri umani, a prescindere dal genere.
Di più, Berlinguer dichiarò: «in Occidente la rivoluzione […] può esserci
solo se ci sarà una rivoluzione femminile, […] se non c’è rivoluzione femminile, non ci sarà alcuna reale rivoluzione»29. Erano affermazioni senza precedenti per un leader comunista, per il segretario di un grande partito comunista:
Berlinguer in un certo senso equiparava le donne al soggetto rivoluzionario
per eccellenza della tradizione marxista e comunista, il proletariato, la classe
lavoratrice, sostenendo che le donne «liberando se stesse contribuiscono a
liberare tutta l’umanità e dunque anche i maschi»30.
28 E. Berlinguer, Per la liberazione della donna, discorso tenuto a piazza di Siena, a Roma,
il 13 maggio 1979, ora in Id., Un’altra idea del mondo, cit., p. 189.
29 E. Berlinguer, I comunisti e la rivoluzione delle donne, intervento pronunciato alla
VII Conferenza delle donne comuniste (Roma, 4 marzo 1984), ora in Id., Un’altra idea del
mondo, cit., p. 315.
30 Ibidem.
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5. Ugualmente anticipatore di sensibilità future fu l’interesse di Berlinguer
per l’aspetto ambientale, per l’ecologia. Egli giunse a esprimere preoccupazione per «i fiumi, i laghi, i mari, l’aria che respiriamo, l’atmosfera e la toposfera della Terra. Grava […] sull’umanità – aggiungeva – l’incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari»31. In quegli anni non si trattava
di tematiche largamente diffuse ai vertici dei partiti «tradizionali».
Un altro tema fondamentale di inizio anni Ottanta fu quello della pace e
del rinnovato rischio atomico. Anche il movimento per la pace raggiunse in
quegli anni una dimensione di massa, e la causa della pace – non più schiacciata come un tempo sulla difesa dell’Unione Sovietica – divenne un altro
terreno fondamentale per l’azione del Pci, terreno sul quale esso incontrò
movimenti e correnti rilevanti di opinione pubblica. Nella grande manifestazione del 17 febbraio 1980, svoltasi a Firenze, Berlinguer sottolineò i rischi
della situazione allora creatasi dopo la ripresa della corsa agli armamenti,
ancora maggiori rispetto al passato: le nuove armi nucleari offensive che
stavano per essere installate a Comiso facevano per la prima volta dell’Italia
il possibile bersaglio di un attacco atomico, preventivo o di risposta, e i
comunisti chiamavano a raccolta tutte le forze concordi nel lottare per la
pace, in primo luogo i paesi non allineati e le forze di ispirazione religiosa,
gli Stati meno subalterni alle superpotenze, le forze che credevano in un ruolo autonomo dell’Europa, e tutte le componenti della sinistra, nonché il grande movimento che si sviluppava nelle piazze: nulla doveva restare intentato
per convincere le due superpotenze a «ritrovare, nei loro rapporti, la logica
della distensione»32. Rispetto alla sensibilità togliattiana, al suo tentativo di
dialogo coi cattolici, per esempio nel famoso «discorso di Bergamo», vi era
in Berlinguer una maggiore consapevolezza che entrambe le superpotenze erano da intendere come controparti di quell’ampio arco di forze che si
chiamava a raccolta e che la vittoria della pace non sarebbe passata dalla
sconfitta di una delle due, ma del prevalere delle ragioni del dialogo e della
distensione in entrambi i «campi».
Come si vede, questo ultimo Berlinguer non era, nella sua caparbia ma
rinnovata affermazione delle proprie idealità comuniste, per nulla settario. Se
la situazione italiana era politicamente asfittica, pregiudizialmente chiusa al
31 E. Berlinguer, Orwell sbagliava, il computer apre nuove frontiere, intervista a cura di
Ferdinando Adornato, in «l’Unità», 18 dicembre 1983, ora con il titolo Verso il Duemila,
in E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit., p. 297
32 Cfr. Il discorso di Berlinguer a Firenze, in «l’Unità», 18 febbraio 1980.
L’ultimo Berlinguer: rinnovare il Pci nel passaggio d’epoca della globalizzazione
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dialogo coi comunisti, a livello internazionale gli interlocutori erano cercati,
spesso con successo, in un fronte estremamente ampio.
Si dovette inoltre, in questo quadro, soprattutto a Berlinguer la conversione
europeista del Pci, già iniziata da qualche anno ma completata a fine anni
Settanta anche grazie al rapporto che il segretario del Pci stabilì con Altiero
Spinelli e alla assidua frequentazione – nei limiti della sua attività politica
così densa – della Assemblea di Strasburgo, dove Berlinguer tenne diversi
importanti discorsi33.
Soprattutto Berlinguer aveva posto al centro del suo pensiero e della sua azione di quegli anni anche il tema dello squilibrio tra Nord e Sud del mondo. Una
impostazione che oggi appare profetica, davanti al drammatico acuirsi degli
squilibri: economici, ambientali, energetici, sanitari. Nei paesi in via di sviluppo,
in Africa, in Asia, in America Latina, impegnati nella lotta contro il neocolonialismo, egli divenne uno dei politici occidentali più conosciuti e apprezzati.
Quella Nord-Sud era per Berlinguer una delle contraddizioni fondamentali della nostra epoca. Egli apprezzava il lavoro della Commissione Brandt
(la Commissione per le questioni dello sviluppo internazionale) e interloquì
più volte con il socialdemocratico tedesco, come egualmente operò per spingere il governo italiano a dotarsi di strumenti legislativi per la cooperazione
con i paesi in via di sviluppo.
Il «nuovo internazionalismo» di Berlinguer (come egli lo chiamava) fu soprattutto terzomondista, ma cercava e trovava sponde non solo in alcuni grandi
leader socialdemocratici di sinistra (Brandt, Palme, Kreisky) particolarmente
attivi sul fronte internazionale, ma anche nella vicina Jugoslavia di Tito, uno
dei leader dei «paesi non allineati». Berlinguer era convinto che i problemi
del sottosviluppo e della fame, dello squilibrio crescente tra paesi ricchi e
poveri, fossero dovuti a cause strutturali, economiche e politiche. Il Pci doveva mettere al primo posto tra gli obiettivi da perseguire – egli affermò – la
«risoluzione dei grandi problemi d’oggi, e il primo fra tutti quello del sollevamento delle aree del sottosviluppo, della fame, della sete, della miseria, delle
malattie endemiche, dell’analfabetismo»34.
Al XV Congresso del Pci (nel 1979) Berlinguer propose su questi temi
«una sorta di “Carta” che definisse i principi, le linee e gli obiettivi di una
33 Cfr. su questi temi I fondamenti di un nuovo socialismo, a cura di Paolo Ciofi e
Gennaro Lopez, Roma, Editori Riuniti, 2016; ed E. Berlinguer, Discorsi al Parlamento
europeo, introduzione di Alexander Höbel, Roma, Editori Riuniti, 2014.
34 E. Berlinguer, Conclusioni (al XV Congresso nazionale del Pci), in Da Gramsci a
Berlinguer, vol. V, cit., pp. 108-9.
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Guido Liguori
strategia unitaria della pace e dello sviluppo»35. Il documento vide la luce
nell’ottobre 1981 con il titolo Carta della pace e dello sviluppo36, visione di
un mondo in cui i problemi davvero erano globali e dovevano essere affrontati in modo globale e complessivo.
Di globalizzazione allora non si parlava, ma alcune problematiche erano già
mature, sia pure in termini parzialmente diversi dall’oggi. Già nella relazione
al XIV Congresso del Pci, nel 1975, la riflessione sulla crisi economica, due
anni dopo lo shock petrolifero del 1973, portava a vedere nella cooperazione
internazionale la sola via per evitare le tragedie derivanti dall’aggravamento
degli squilibri economici, dall’«estendersi dei fenomeni di denutrizione, di
carestia e di siccità» e «dal dilagare delle malattie endemiche»37.
Per Berlinguer un «sistema di cooperazione mondiale» sarebbe stato importante per i paesi in via di sviluppo, ma anche per quelli industriali. E per
i problemi di tutti, del mondo nella sua globalità. Sappiamo oggi più che
mai quanto sia vero, anche in riferimento alla situazione sanitaria, che dimostra ancora una volta come l’approccio globale e solidaristico proposto dal
comunista sardo sarebbe stato importante per prevenire i problemi odierni.
Un «governo mondiale» dell’economia appariva allora (e appare oggi) una
utopia, un progetto avveniristico di tipo kantiano (come suggerì poi il fratello
Giovanni, ricordando l’interesse giovanile di Enrico per il filosofo tedesco),
ma le utopie, i sogni – affermava Berlinguer citando Lenin – «possono avere
un valore rivoluzionario»38.
In tema di utopie, e della relatività del concetto, alla fine del 1983 Berlinguer
in una nota intervista mostrava una particolare attenzione alla rivoluzione informatica, allora ai primi passi, almeno a livello di utilizzo nella società e nella cultura diffusa. Il Pci, o meglio il suo gruppo dirigente, era evidentemente
un «intellettuale collettivo», nel cui ambito anche importanti scienziati potevano far giungere al segretario del partito informazioni e input su argomenti
al tempo poco noti. Prendendo spunto dall’anniversario del famoso libro di
35 Ibidem, p. 109.
36 Cfr. l’inserto di «l’Unità», 8 novembre 1981.
37 E. Berlinguer, Intesa e lotta di tutte le forze democratiche e popolari per la salvezza e la rinascita dell’Italia, relazione al XIV Congresso nazionale del Pci (Roma, 18-23 marzo 1975),
in Da Gramsci a Berlinguer, vol. IV, a cura di D. Pugliese, O. Pugliese, Venezia, Edizioni del
Calendario-Marsilio, 1985, p. 375.
38 Ibidem, p. 379. Cfr. anche [Giovanni Berlinguer], «Un conservatore? No, l’opposto: lui
aveva intuito il futuro», intervista a cura di Piero Sansonetti, in Id., Ti ricordi Berlinguer,
edizione fuori commercio riservata ai lettori di «l’Unità», Roma, 2004, pp. 60 e 70.
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Orwell 1984, Berlinguer si soffermava sulla possibile interazione tra la politica e l’informatica, verso cui assumeva un atteggiamento non ostile, attento
alle potenzialità di «diffusione di nuove conoscenze – egli diceva – che poteva portare a un arricchimento di tutta la civiltà»39.
Berlinguer sembrava però addirittura prefigurare scenari attuali, paventando i limiti che una democrazia solo o prevalentemente per via informatica
poteva assumere. Egli affermava:
La «democrazia elettronica» limitata ad alcuni aspetti della vita associata all’uomo può anche
essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della
vita democratica. […] tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la
gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone40.
Berlinguer temeva che avanzassero fenomeni di «passivizzazione» della
società. D’altra parte non rifiutava le nuove scoperte tecnologiche: dirimente
sarebbe stato a suo dire il modo in cui esse sarebbero state usate.
Egli inoltre vedeva bene come l’informatizzazione dei processi produttivi
potesse causare disoccupazione e anche un restringimento della base sociale
del suo partito. In parte era un «dato ineluttabile», riconosceva. Ma bisognava
evitare che tali processi assumessero un «carattere selvaggio», che andassero
esclusivamente a svantaggio dei lavoratori. Berlinguer non credeva nella tesi
della «fine del lavoro» e della «morte» della classe operaia. Ma riteneva si
fosse di fronte a problemi reali, che andavano governati, puntando anche sui
lavoratori destinati ad assumere in questo ambito sempre più importanza: i
tecnici, i ricercatori, gli intellettuali direttamente produttivi, che potevano essere anche loro – affermava il segretario comunista – «una forza di trasformazione»41. La base di massa del Pci non poteva non adeguarsi ai mutamenti in
corso nella società e nella base produttiva, mutamenti che del resto lo stesso
Marx aveva ampiamente previsto.
Sono temi e problemi ancora attuali, che parlano al nostro presente e al
nostro futuro, pur nel mutare delle situazioni storiche. Berlinguer, riflettendo
su tali mutamenti, proponeva il superamento dei limiti delle tradizioni del
movimento operaio, sia della Seconda che della Terza Internazionale.
Vi era infatti in Berlinguer una differenza non spesso sottolineata tra due
espressioni che egli usa: «terza via» e «terza fase». Mentre la prima – che usò
dopo il declino dell’eurocomunismo – stava a indicare la possibilità di una
39 E. Berlinguer, Orwell sbagliava, cit., p. 294.
40 Ibidem, pp. 299-300.
41 Ibidem, p. 298.
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Guido Liguori
compresenza tra diverse «vie» al socialismo, parlare invece di «terza fase»
– espressione che utilizzò negli ultimi anni42 – significava sostenere che le prime due fasi della storia del movimento operaio, quella che ebbe origine nella
Seconda Internazionale e quella che ebbe origine nella Terza Internazionale,
avevano ormai esaurito il loro compito storico: esse erano da considerarsi
superate. La «terza fase» di cui parlava Berlinguer era una nuova fase di lotta
per un nuovo socialismo, il «socialismo del XXI secolo», come è stato detto
in anni recenti43.
In altre parole, Berlinguer stava cercando di scrivere – sia pure in modo
non adeguatamente organico – un nuovo programma fondamentale del Pci.
Era una ricerca reale, non retorica, una ricerca in itinere. Non fece in tempo.
La morte, sopraggiunta drammatica e improvvisa a Padova nel giugno 1984,
glielo impedì.
Il suo partito non seppe e non volle seguirne le indicazioni, continuarne la
ricerca, sviluppare le idee-forza che egli aveva iniziato a elaborare. E anche
per questo si condannò, io credo, al declino, che poi fu una delle cause della
sua scomparsa.
42 Cfr. per esempio E. Berlinguer, La terza fase della lotta per il socialismo, intervista a
«Cambio 16», 19 dicembre 1979, ora in Id., Un’altra idea del mondo, cit., pp. 207 ss.
43 Cfr. su «terza via» e «terza fase» in Berlinguer: G. Liguori, Berlinguer rivoluzionario,
cit., pp. 54 ss.