Etica & Politica / Ethics & Politics, XI, 2009, 2, pp. 142−161
Naturalismo e soggettività
Alfredo Paternoster
Università di Bergamo
alfredo.paternoster@unibg.it
ABSTRACT
Metaphysical naturalism (in the philosophy of mind) is the thesis according to which mental
states can be reduced to, and thereby explained by, neurophysiological states. In this paper I
discuss whether this thesis is plausible taking into consideration different kinds of mental
states: propositional attitudes, on the one hand, and phenomenal states, on the other. I shall
argue that, while metaphysical naturalism is false for standard propositional attitudes (beliefs, desires etc.), it can be defended in the case of low-level phenomenal states, or raw feelings. As a consequence, since the instantiation of high-order mental states requires the neurophysiological mechanisms that constitute raw feelings, the notion of self has a biological
basis, and in this sense, we can speak of a “natural self”.
The structure of the paper is the following. In the first paragraph I shall focus
on the naturalization of paradigmatic intentional states (beliefs and desires). In
the second paragraph I move to the discussion of raw feelings and show the consequences of my view for the notion of self.
0. Introduzione
Come è stato sottolineato da diversi autori (cfr. ad es. Koppelberg 1999; De Caro e McArthur 2005; Papineau 2007), il naturalismo può essere inteso in diversi
modi. In questo articolo mi occuperò esclusivamente di naturalismo metafisico
in riferimento ai fenomeni mentali. Rientra sotto questa descrizione qualsiasi
dottrina secondo cui i fatti mentali possono essere spiegati senza residui da fatti
fisici1. Ciò che mi propongo di far vedere è che, da un lato, il naturalismo metafisico è falso riguardo agli stati mentali dotati di contenuto proposizionale, paradigmaticamente credenze e desideri; ma, dall’altro, una sua versione è difendibile riguardo a una certa classe di stati mentali “di basso livello” che, in prima
approssimazione, chiamerò “sensazioni grezze”. Dico “in prima approssimazione” perché un’individuazione più precisa di quali siano gli stati mentali a cui mi
riferisco è uno degli scogli della mia analisi.
Si noti quindi come per me il naturalismo metafisico sia una posizione filosofica che ha una
valenza non solo ontologica ma anche esplicativa. Per esempio, una tesi come il celebre monismo anomalo di Davidson, che identifica eventi mentali con eventi fisici escludendo al contempo la possibilità di istituire connessioni legiformi tra i due domini, per me non è un naturalismo metafisico autentico. Chiamare ‘naturalismo’ una posizione che non ha alcun rilievo
epistemologico mi sembra infatti una cospicua forzatura.
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Questa posizione rovescia il punto di vista, che è andato via via affermandosi
nella filosofia della mente contemporanea, secondo il quale l’intenzionalità è naturalizzabile, ma la coscienza fenomenica no. Un corollario della tesi da me difesa è che la nozione di io, pur non essendo completamente naturalizzabile, ha un
solido fondamento biologico. In questo senso si può parlare, con una certa approssimazione, di “io naturale”.
L’articolo è organizzato nel modo seguente. Nel primo paragrafo discuto della possibilità di naturalizzare gli stati paradigmaticamente intenzionali (credenze e desideri); nel secondo difendo il naturalismo metafisico riguardo alle sensazioni grezze, illustrando le conseguenze di questa impostazione per il concetto di
io.
1. Naturalizzare la credenza?
Credere che P è una proprietà naturale, ovvero è − o è necessariamente implicata da − una proprietà fisica. Così, in modi diversi, argomentavano negli anni Ottanta del secolo scorso fior di filosofi, in testa Dretske, Fodor, Millikan. Più precisamente, questi autori ritenevano naturalizzabile l’intenzionalità, cioè la proprietà degli stati mentali di vertere su stati di cose e oggetti (eventualmente inesistenti); ma, nella misura in cui l’intenzionalità veniva considerata la proprietà
individuativa, e secondo alcuni essenzialmente costitutiva, degli stati mentali,
ciò comportava ipso facto anche la naturalizzazione degli stati mentali.
Contro questo progetto, che ha alimentato un decennio abbondante di appassionata discussione, si è levata una minoranza (almeno, così ad occhio) assai
agguerrita. Gli argomenti addotti contro la naturalizzazione erano tipicamente
tre (cfr. ad es. Putnam 1988): olismo, normatività, esternismo. Li richiamo molto brevemente:
(O) Le credenze non sopravvengono agli (e a fortiori non sono identificabili con)
stati fisici perché non possono esistere singole credenze, credenze isolate.
(N) Le credenze non sopravvengono agli (e a fortiori non sono identificabili con)
stati fisici perché quale sia il contenuto di una credenza dipende almeno in parte
da un fattore normativo.
(E) Le credenze non sopravvengono agli (e a fortiori non sono identificabili con)
stati fisici perché il contenuto di uno stato mentale è determinato almeno in
parte da fattori ambientali, esterni alla testa delle persone.
(ovviamente si suppone che O, N e E si applichino agli stati intenzionali in generale).
A questi argomenti i naturalizzatori hanno replicato altrettanto vigorosamente, a volte “prendendo il toro per le corna”, cioè accettando la premessa
dell’oppositore e cercando di renderla compatibile con la loro prospettiva. Vorrei allora affrontare il problema da un’angolatura un po’ diversa, spostando il
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fuoco dell’attenzione dall’intenzionalità al ruolo esplicativo degli stati mentali
nella psicologia del senso comune. Sulla base di un’analisi del ruolo che svolgono
i concetti mentalistici del senso comune nel discorso ordinario – una sorta di metafisica descrittiva degli atteggiamenti – cercherò di valutare se le spiegazioni
mentalistiche siano giustificabili da una psicologia scientifica, ovvero se ci sia
una corrispondenza di qualche tipo tra atteggiamenti e stati subpersonali. È
possibile che le considerazioni che sto per proporre non siano altro che modi un
po’ diversi di esprimere O, N ed E; e che l’intenzionalità di cui non farò esplicitamente menzione sia tacitamente presupposta dal mio discorso. Nondimeno
mi sembra che questo cambiamento di punto di vista giovi almeno alla chiarificazione del problema. Per semplicità espositiva, condurrò la mia discussione sul
concetto di credenza; la generalizzazione agli altri atteggiamenti proposizionali
non dovrebbe sollevare problemi.
1.1. Sulla natura della credenza
Il concetto di credenza è sfaccettato e assai sfuggente. Si osservi, in primo luogo,
che nella maggior parte dei casi noi usiamo il concetto di credenza in modo disposizionale. Infatti facciamo riferimento a stati o condizioni persistenti e ai
quali non abbiamo necessariamente un accesso cosciente: posso attribuire a X la
credenza che Obama perderà le prossime elezioni anche se X sta dormendo o sta
pensando a tutt’altro; e quando sento la pioggia cadere, posso (momentaneamente) smettere di pensare che sta piovendo, ma non posso smettere di credere
che sta piovendo (l’esempio è di Engel 1995). Ma allora almeno un aspetto rilevante del concetto di credere che P è più o meno equivalente al tener per vero P,
cioè a essere disposto ad asserire P o ad assentire a P (in entrambi i casi, eventualmente in modo silente, tra sé e sé).
Ora, il concetto di disposizione non è dei più semplici, ma certamente le disposizioni non sono né oggetti né eventi − non sono enti particolari. Questo preclude la possibilità di identificare le credenze, nell’accezione che stiamo considerando, con stati fisici; al massimo si può sostenere che per avere credenze in generale serve una certa struttura fisica, ma questa è una tesi debole, non in grado
di sostenere il naturalismo metafisico. Inoltre, come già osservava Ryle, le credenze non sono disposizioni semplici o “ad attualizzazione uniforme”, come la
fragilità o la solubilità, che possono essere spiegate da proprietà fisiche sottostanti ben circoscritte. Al contrario, esse sono attualizzabili “in una varietà di
forme ampia e forse illimitata”; possono cioè essere esercitate “in maniere indefinitamente eterogenee.” (cfr. Ryle 1949: 39-40). È difficile credere, quindi, che
possa esserci una base fisica comune a tutte queste attualizzazioni.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’analisi funzionalista si applica precisamente alle credenze intese come disposizioni o, meglio, che l’analisi funzionalista
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consente di dar conto dell’apparente natura disposizionale della credenze ridescrivendola in termini di ruolo causale: viene mantenuta l’idea che
l’attribuzione di credenza rimanda a una molteplicità aperta di circostanze possibili, ma in ognuna di queste circostanze ha luogo una transizione causale nella
quale c’è uno specifico stato – un token mentale − che occupa la posizione di
causa o di effetto, e questo stato è uno stato fisico, non può che avere una realizzazione fisica determinata. È qui che si annida una differenza cruciale rispetto
all’analisi disposizionale: mentre nell’interpretazione funzionalista credere che P
è il tipo comune sotto cui sono sussunti singoli eventi di credenza, nell’analisi disposizionale non esistono affatto singoli eventi di credenza; l’uso stesso della parola
‘stato mentalÈ è in questo senso fuorviante, se riferito agli atteggiamenti proposizionali2. Mentre per una macchina a stati finiti, quale può essere ad esempio
un’emettitrice di biglietti, ha senso dire che in istanti diversi essa si può trovare
in un certo (token di) stato Si – per esempio lo stato in cui si trova quando il suo
contatore di denaro inserito è pari a 50 centesimi3 − quando noi diciamo che X
crede che P (nell’uso di ‘credÈ fin qui discusso) non implichiamo affatto che ci
sia una collezione discreta di istanti in cui X esemplifica quello stato di credenza. In effetti X non smette mai di credere che P, almeno fino a quando non
cambia opinione. Le attualizzazioni di cui parla Ryle sono circostanze che possono essere sfruttate come criteri per attribuire la credenza che P, ma non sono
esemplificazioni del credere che P. In questo senso potremmo anche dire che
l’analisi disposizionale elimina, o “spiega via” le credenze. L’analisi funzionalista
non cattura il modo in cui funziona l’attribuzione di credenza del senso comune,
quella che Wittgenstein avrebbe chiamato la “grammatica” di ‘crederÈ.
È bene precisare che non sto affatto attaccando il funzionalismo computazionale – che è quello più direttamente pertinente per la nostra discussione −
come modello di spiegazione di processi cognitivi; al contrario, le spiegazioni
funzionali sono probabilmente indispensabili nelle scienze cognitive. Quello che
sto mettendo in discussione è soltanto l’idea che l’analisi funzionale degli atteggiamenti sia quella più aderente alla caratterizzazione implicita nel senso comune. L’unica ragione che abbiamo di pensare che l’analisi funzionale rifletta meglio il senso comune origina probabilmente nel fatto che il disporre di un termine grammaticalmente predicativo (in questo caso ‘credenza’) ci porta istintivamente a contrarre impegni ontologici: se parliamo di credenze, prima facie esistono cose che sono credenze. D’altra parte è ovvio che la mera esistenza di
Non mi sembra che la distinzione tra funzionalismo del ruolo e funzionalismo del realizzatore – cioè la distinzione tra stato mentale come proprietà di secondo piuttosto che di primo ordine – faccia da questo punto di vista una differenza.
3 In circostanze diverse la macchina è arrivata in quello stato attraverso sequenze di input
diverse (moneta da 50; 20+20+10; 10+10+10+20 ecc.). Ciò che questi tokens hanno in comune
– ciò che definisce quello stato inteso come type − è ovviamente la disposizione ad andare in
stati successivi (o a produrre output di un certo tipo) a fronte di ciascun input possibile.
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un’espressione linguistica non crea di per sé la cosa: in diversi casi l’impegno ontologico è solo apparente. Pertanto, quali che siano i (cospicui) pregi del funzionalismo, sostengo che, quando attribuiamo a qualcuno la credenza (non occorrente) che P, non gli stiamo con ciò attribuendo una molteplicità di eventi mentali e in ultima analisi fisici sussunti sotto un ruolo o funzione comune. Il funzionalismo è meglio caratterizzabile come un modello delle capacità e dei processi mentali che, come tutti i modelli, cattura alcuni aspetti a detrimento di altri e
comporta un certo grado di idealizzazione. Nel caso degli atteggiamenti proposizionali, l’idealizzazione mi pare tuttavia eccessiva perché non si limita a semplificare o ad astrarre bensì introduce nuovi enti. In questo senso il funzionalismo
incorpora una metafisica parzialmente correttiva, o revisionista, della mente
del senso comune.
Ci sono però anche usi non disposizionali del concetto di credenza. Quelli a
cui si fa riferimento quando si chiede “a che cosa stai pensando (ora)”? Insomma
i pensieri occorrenti. Qui le prospettive almeno per una tesi di sopravvenienza
diventano prima facie più concrete. Non è inverosimile che ciò che sto pensando
qui ed ora, ciò che fenomenologicamente parlando spesso assume la forma di
un’immagine acustica di un enunciato, sia in qualche modo contestualmente
codificato nel cervello. La fodoriana teoria computazional-rappresentativa, per
quanto controversa essa sia sotto diversi aspetti, costituisce una spiegazione
molto chiara di come le credenze (occorrenti, non sto più a ripeterlo) potrebbero
essere identificate con − o almeno realizzate da − stati fisici.
Si possono nondimeno sollevare dei dubbi anche qui. In primo luogo è difficile individuare un singolo pensiero occorrente; forse possiamo parlare di pensieri
occorrenti solo con un certo grado di astrazione, operando dei “tagli”, scattando
delle istantanee che congelano artificialmente il flusso di coscienza. Ci sembra
di poter individuare singoli episodi di credenza soltanto perché modelliamo
l’articolazione del pensiero su quella del discorso, assimilando in tal modo i pensieri alle unità discorsive, gli enunciati. Del resto, l’idea che pensare sia parlare
con se stessi è stata avanzata più di una volta nella riflessione filosofica. Ammettiamo che sia così; che, tramite il linguaggio, si possano individuare singoli
episodi di pensiero esprimibili tramite enunciati. Resta nondimeno un problema. Individuare i pensieri comporta di saper specificarne le condizioni di identità: in base a quali criteri possiamo dire che X e Y stanno pensando la stessa cosa
(o hanno pensato, in istanti diversi, la stessa cosa), ovvero hanno due credenze
occorrenti dello stesso tipo? Poiché l’unico senso plausibile in cui si può parlare di
identità è che le due credenze occorrenti abbiano lo stesso contenuto, il problema è come individuiamo il contenuto. L’attribuzione di contenuti è spesso dipendente dal punto di vista; altrimenti detto, a seconda del punto di vista che
vogliamo assumere – quello di un osservatore neutrale idealmente onnisciente,
piuttosto che quello di un osservatore in carne ed ossa, piuttosto che quello del
soggetto nei cui riguardi viene compiuta l’attribuzione – saremo indotti ad at146
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tribuire contenuti diversi. Per esempio, non c’è un fatto che consenta di stabilire
se il pensiero di A (intrattenuto, poniamo, alle 20,00,00 del 31/12/2008) esprimibile dicendo “Credo che tra mezz’ora guarderò il discorso di fine anno del Capo
dello Stato”) sia lo stesso pensiero che intrattiene B (poniamo, nello stesso istante) esprimibile dicendo “credo che tra mezz’ora guarderò il discorso di fine
anno del capo delle Forze armate” − lo stesso vale se si sostituisce a “Capo delle
Forze armate” “Giorgio Napolitano”).
È esattamente per questa ragione che alcuni, incluso l’autore di questo articolo, ritengono difficile piegare a scopi scientifici la nozione di contenuto, almeno se essa è caratterizzata nel modo standard. Come paradigmaticamente sosteneva Stich (1983), il principio di individuazione più appropriato per una psicologia scientifica è quello sintattico, ma se è così non c’è una corrispondenza sufficientemente sistematica tra stati mentali del senso comune e stati psicologici
di una teoria scientifica, con buona pace del naturalismo metafisico.
La conclusione di questa analisi del concetto di credenza è che si tratta di
una nozione non univoca il cui uso centrale, quello più frequente ed ordinario, è
disposizionale. In particolare, l’accezione disposizionale è quella tipicamente
coinvolta nella spiegazione psicologica, cioè nella spiegazione e previsione del
comportamento (cfr. infra). Di conseguenza l’ipotesi che le credenze siano identiche o anche solo sopravvengano a proprietà fisiche è molto problematica.
1.2. Le spiegazioni mentalistiche sono spiegazioni causali?
È un luogo comune che le proprietà mentali figurino in regolarità psicologiche
esemplificabili da asserti del tipo “Se X crede che P e desidera (che) Q, allora, ceteris paribus, farà R” (o, nella direzione opposta, “X ha fatto R e desiderava Q,
quindi crede che P”). Come si debbano interpretare queste regolarità, tuttavia,
è una questione assai controversa. I naturalisti metafisici che prendono sul serio
la psicologia del senso comune ritengono che esse siano vere e proprie leggi che
esprimono relazioni causali tra stati mentali e comportamento, e ciò a sua volta
comporta che ci siano altre leggi o almeno meccanismi neurofisiologici sottostanti che le realizzano. In base a questa posizione le proprietà mentali devono
sopravvenire in senso forte alle proprietà fisiche, altrimenti non sarebbe loro attribuibile efficacia causale.
Ora, se le mie considerazioni sul carattere disposizionale della nozione di credenza (nel suo uso più tipico) sono convincenti, è chiaro che le credenze non possono svolgere alcun ruolo causale: condizione necessaria affinché qualcosa sia
una causa è che essa sia un evento fisico. La possibilità che le credenze siano
cause è ristretta al caso, come abbiamo visto, marginale delle credenze occorrenti. Si può forse concedere, per esempio, che il pensiero che “mi attraversa la testa” in questo istante che è ora di andare a lezione sia la causa del fatto che mi
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alzo dalla sedia e abbandono l’ufficio. Anche qui, tuttavia, per poter spiegare il
mio comportamento sembra necessario invocare altre credenze (disposizionali)
di sfondo. Dunque non ha senso alcuno parlare di relazioni causali tra “stati
mentali” (lo metto tra virgolette, visto che, come spiegato sopra, è
un’espressione infelice) e comportamento.
C’è tuttavia almeno un modo alternativo di dar conto dell’apparente natura
causale della psicologia del senso comune. Secondo Lynne Rudder Baker (1995),
ad esempio, le regolarità sopra citate che nutrono la spiegazione mentalistica
non sono affatto leggi e nondimeno è del tutto legittimo dire che le spiegazioni
mentalistiche del comportamento sono spiegazioni causali. Affinché qualcosa sia
una spiegazione causale, secondo Baker, è sufficiente che vengano rispettati tre
requisiti: (i) la spiegazione deve sostenere controfattuali (se A è causa di B, allora ove A non avesse avuto luogo, B non avrebbe avuto luogo); (ii) le proprietà
esplicative menzionate dalla spiegazione devono essere esemplificate prima
dell’evento explanandum e non devono far parte del concetto explanandum (ad
esempio il fatto che X non sia sposato non è una spiegazione del suo essere scapolo); (iii) Una spiegazione causale deve essere informativa, ovvero deve rispondere a una domanda ‘perché?’.
Baker sostituisce in tal modo una nozione epistemologica di causa a una metafisica. Tipicamente, e certamente nel caso della spiegazione mentalistica,
quando diciamo che A è causa di B non ci stiamo impegnando sull’esistenza di
una relazione metafisica tra due eventi; stiamo bensì istituendo una correlazione
di natura esplicativa tra due descrizioni di proprietà o eventi4. Questi contesti
esplicativi sono intensionali. Ciò consente di dar conto del fatto che, tipicamente, la spiegazione mentalistica ha carattere causale proprio quando la nozione di
atteggiamento in gioco è disposizionale: quando diciamo, per esempio, che X ha
assassinato Y perché credeva che fosse responsabile del suo licenziamento, non è
alle credenze occorrenti che ci stiamo riferendo. Nella grande maggioranza dei
casi, il supposto ruolo causale degli stati mentali è riferito alle credenze intese
come disposizioni o come proprietà.
Sembrerebbe perciò che ci sia spazio per salvare la natura causale della spiegazione mentalistica in un quadro teorico imperniato sulla natura disposizionale
della credenza; e infatti la metafisica della credenza di Baker è abbastanza simile a quella di Ryle: la filosofa di Amherst afferma ad esempio che una persona
ha la credenza che P se e solo se c’è un insieme di circostanze nelle quali, dati
vari atteggiamenti, quella persona farebbe un insieme di azioni intenzionali, alla
grossa caratterizzate in modo tale da includere atti linguistici espliciti (cfr. Baker 1995: 21). La differenza con Ryle è che questi rifiuterebbe la tesi secondo cui
gli stati mentali causano il comportamento, precisamente perché le credenze
Su una linea non dissimile Davidson (1970), che distingue le relazioni causali dalle spiegazioni causali.
4
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non sono stati fisici (convertendo in tal modo l’argomento a favore della natura
fisica delle credenze in un modus tollens); invece per Baker non c’è bisogno di reificare gli atteggiamenti per dar conto della natura causale della spiegazione
mentalistica. Siamo perfettamente legittimati a dire che gli atteggiamenti proposizionali sono cause (ivi: 27).
Questa posizione ha indubbiamente un grande pregio: ci consente di salvare
l’intuizione della natura causale dei fenomeni mentali senza fare della metafisica
revisionista. Ma essa solleva almeno un paio di perplessità. La prima è che, a dispetto dello sforzo di Baker di sostenere il contrario, dare una spiegazione causale sembra inevitabilmente implicare un riferimento all’esistenza oggettiva di
una relazione causale tra eventi o proprietà; mentre le credenze intese come disposizioni non sono eventi né proprietà genuine. Come osserva, per esempio,
Bermudez, “La causazione è una relazione metafisica, non una relazione esplicativa. Se ha senso pensare che un dato evento ammetta spiegazioni differenti in
contesti differenti, niente di comparabile vale per la causazione. Se un evento ha
una data causa, o un insieme di cause, non può averne altre.” (2005: 152). Ad
esempio, il requisito (ii) proposto da Baker richiede un determinato ordine temporale tra causa ed effetto, ma come potrebbe esserci una siffatta relazione
d’ordine se non ci stessimo riferendo ad eventi?
Il secondo problema è che non è del tutto ovvio che nella spiegazione mentalistica la seconda parte del requisito ii – che non ci deve essere una connessione
logica tra causa ed effetto – sia rispettata: l’impressione che quelle mentalistiche
siano vere spiegazioni (causali) deriva dal fatto che le usiamo anche per fare
predizioni, ma almeno in alcuni casi il nesso tra concetti come quelli di credenza
o intenzione e quello di azione sembra essere di natura logica: se un agente ha
agito in un certo modo, normalmente non riteniamo necessario verificare che egli aveva l’intenzione (o desiderio) di agire in quel modo; che egli avesse
quell’intenzione lo assumiamo cioè a priori, assunzione che certamente non può
essere fatta riguardo a una vera causa (questo argomento si deve a von Wright
1971: 132 sgg.). Sebbene dal nostro atteggiamento epistemico nei riguardi della
relazione tra intenzione e azione non si possa dedurre alcuna conclusione sulla
natura effettiva di tale relazione, mi sembra che l’argomento verificazionista di
von Wright abbia un certo peso, considerato che ciò che stiamo indagando è
proprio una struttura epistemica, i cui costituenti sono concetti del senso comune5.
Perché non concedere, allora, che le spiegazioni mentalistiche del senso comune non sono causali? Sebbene, soprattutto per l’influenza di Davidson (1963),
oggi si tenda a pensare che non c’è una distinzione sufficientemente chiara tra
Secondo Bermudez (2005) la posizione di Baker si espone a un terzo e più serio problema: è
difficile dare un senso chiaro alle analisi che menzionano controfattuali. Pur concedendo a
Bermudez che il problema è serio, mi sembra difficile negare che i controfattuali abbiano un
ruolo in qualsiasi resoconto della causalità.
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ragioni e cause, l’idea che le spiegazioni psicologiche del senso comune vadano
considerate più come interpretazioni o razionalizzazioni del comportamento che
come vere e proprie spiegazioni causali mantiene, alla luce della discussione fatta in questo paragrafo, una certa attrattiva. Quello che Davidson ha fatto vedere è che c’è un uso di ‘causa’ che non è ben distinto da quello di ‘ragionÈ, non
che tra stati mentali e azioni ci sono relazioni causali oggettive; e infatti Davidson non crede che esistano leggi psicologiche6.
La questione della supposta natura causale della psicologia del senso comune
è certo di grande interesse; tuttavia, ai fini del tema centrale di questo articolo −
il naturalismo metafisico – l’opposizione tra un’opzione causalista alla Baker e
una anticausalista alla Ryle dopotutto non fa una differenza significativa: in
ambedue i casi il naturalismo metafisico riguardo alle credenze è falso. Potremmo riassumere il risultato di questa analisi nel modo seguente: nella maggior
parte dei casi le credenze vanno intese come disposizioni/proprietà, ma in quanto tali non possono essere vere cause (cause in senso metafisico); d’altra parte,
nei casi in cui le credenze sono intese come pensieri occorrenti (tokens), esse potrebbero essere vere cause, ma non sono il tipo giusto di causa, quello usualmente in gioco nella spiegazione psicologica del senso comune. Pertanto il progetto
di proiettare la trama esplicativa della psicologia del senso comune su una teoria
neurofisiologica e in ultima analisi fisica non appare praticabile.
Ciò significa che è impossibile fornire una teoria naturalistica del pensiero?
No, per due ragioni. La prima è che la psicologia del senso comune può avere un
fondamento anche se non ci sono eventi interni subpersonali causalmente efficaci che corrispondono alle credenze (è facile riconoscere in questa affermazione la
posizione di Dennett, che meglio di tutti ha saputo esprimere questo punto. Cfr.
Dennett 1981 e, con sfumature diverse, 1991). La seconda ragione è che non
dobbiamo sopravvalutare l’importanza della psicologia del senso comune per il
funzionamento del pensiero in generale (cfr. Bermudez 2005: Cap. 7 e passim).
Se la trama della psicologia del senso comune, presa così com’è, non è ricostruibile da una teoria di livello inferiore, perde un certo naturalismo – quello metafisico − non il naturalismo tout court.
Stando così le cose, il naturalismo metafisico riguardo agli atteggiamenti
proposizionali, per quanto sia da intendersi più come una tesi programmatica,
un ideale che ispira un programma di ricerca, piuttosto che come una tesi almeno in parte empirica sostenibile alla luce di dati, sembra essere espressione di un
dogmatismo ideologico che ha proprio poco di quello che dovrebbe essere lo spirito del naturalismo. Insomma il naturalismo metafisico è, almeno sotto un aCfr. Tripodi (2009: cap. 10). Sono pertanto d’accordo con Paolo Tripodi quando afferma che
“la rivoluzione di Davidson era soltanto fittizia, perché nella sostanza egli era d’accordo con
le idee principali degli intenzionalisti” (ivi, p. 247) e che “il significato della parola ‘causalÈ
che Davidson attribuiva alle spiegazioni razionali era così ampio da perdere la specificità del
riferimento alle relazioni causali. “ (ivi, p. 251).
6
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spetto, poco… naturalistico! È, allo stato attuale, una tesi a priori che nasce da
un atteggiamento più ideologico che improntato ad un seria riflessione a partire
dai dati disponibili7. Questo non significa, beninteso, che tutto è meravigliosamente in ordine così com’è: da un lato, anche se “deflazioniamo” la spiegazione
psicologica del senso comune, pochi sarebbero disposti a rinunciare completamente all’idea che i fenomeni mentali hanno un ruolo causale di qualche genere;
ed è difficile, più difficile di quanto Dennett sembri supporre, tenere insieme
questo ruolo causale del mentale e una forma di antirealismo riguardo agli atteggiamenti; dall’altro lato, se rinunciamo totalmente, come qui abbiamo suggerito, all’idea che la spiegazione mentalistica sia una spiegazione causale, si apre una forbice ancora più ampia tra il livello di spiegazione personale e quello
subpersonale. Rischiamo seriamente di trovarci in mezzo a un guado, tra una
psicologia del senso comune priva di fondamento, e una psicologia scientifica
che spiega molto poco di quello che a noi più interessa.
2. La riduzione del fenomenico e l’io biologico
Nel primo paragrafo ho sostenuto che la psicologia del senso comune non è
proiettabile sulle spiegazioni di livello subpersonale caratteristiche della scienza
cognitiva. Quello che ora intendo far vedere è che questa impossibilità non rende inafferrabile il concetto di coscienza e quello ad esso strettamente legato di
io. La mia strategia argomentativa a sostegno di questo punto di vista può essere schematicamente descritta nel modo seguente:
(i)
Si propone un concetto di coscienza fenomenica di tipo graduale.
L’idea è, da un lato, che non esiste coscienza che non sia fenomenica – qualunque stato cosciente “fa un effetto” di qualche tipo al soggetto che lo intrattiene
– e, dall’altro, che ci sono diversi gradi o livelli di coscienza.
(ii)
Alla base di questa gerarchia di livelli di coscienza ci sono stati fenomenici di “ordine inferiore”, caratterizzati da una fenomenologia con accesso
“minimale”. Questi stati di coscienza ad accesso minimale sono necessariamente
implicati da stati fisici (e sono quindi spiegabili scientificamente).
(iii) Nella misura in cui il possesso di questi stati di coscienza di ordine inferiore può essere considerato la manifestazione di una sorta di “io primario”, ovvero di un proto-io (cfr. Damasio 1999; Metzinger 2003), si può sostenere che c’è
un fondamento biologico alla base della nozione di io.
L’io nell’accezione comune dell’espressione non è un’entità puramente biologica, perché il suo costituirsi richiede relazioni interpersonali e capacità di autoSi noti che più o meno su questa linea si colloca uno dei più autorevoli naturalisti contemporanei, Noam Chomsky, che si è spinto a sostenere, con argomenti differenti da quelli qui discussi, che il naturalismo metafisico è insensato (Chomsky 2000). Non ho lo spazio per discutere l’interessante, ma forse non del tutto perspicua, posizione di Chomsky.
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7
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narrazione, ma ha alla sua base, come condizione tanto logica quanto empiricamente costitutiva, questo (proto)io primario o biologico. Esclusivamente in
questo senso ed entro questi limiti possiamo parlare di un io naturale.
(i) La coscienza è una ma ha tanti gradi
Per rendere più concreta la mia analisi, farò riferimento a un caso specifico di
stati di coscienza: uno stato di dolore nel bambino di età inferiore ai 12 mesi – si
pensi alle cosiddette coliche gassose che spesso affliggono il bambino attorno ai
due-tre mesi.
È chiaro che in casi come questi il concetto di coscienza in gioco è, in modo assai
preponderante, fenomenico: c’è un effetto che fa al bambino avere le coliche, ma
certamente non è il caso di scomodare il concetto di autocoscienza. Altrimenti
detto, il bambino prova un disagio fisico, diciamo pure un dolore, ma non è in
grado di concettualizzare questa condizione, né di prestarvi attenzione, almeno
in senso attivo; il bambino subisce completamente il dolore, e l’unico modo che
ha di esprimere il proprio stato è quello di piangere.
In riferimento alla nota distinzione di Block (1995) tra coscienza fenomenica e
coscienza d’accesso, possiamo dire che il dolore in questione è uno stato di coscienza puramente fenomenica, cioè uno stato “conscio-F” ma non “conscio-A”?
Confrontiamolo con gli stati di coscienza fenomenica senza accesso che ha in
mente Block. Uno dei casi descritti da Block è quello di una persona completamente assorta in un’attività cognitiva (riflessiva) che, improvvisamente, percepisce un forte rumore, rendendosi conto che il rumore era presente già da un po’.
La tesi di Block è che nell’intervallo temporale in cui è assorta la persona sente
il rumore ma solo sotto l’aspetto fenomenico: l’informazione rilevata dal sistema
uditivo è in qualche modo presente alla coscienza − in base alla testimonianza
fornita successivamente − ma non è accessibile ai sistemi linguistici e di pensiero.
C’è un’indubbia analogia tra il caso descritto da Block e il nostro infante sofferente: in ambedue i casi l’informazione sensoriale (somatosensoriale, nel caso del
bambino) non viene elaborata dai centri linguistici e cognitivi, anche se per ragioni diverse nei due casi. Tanto nell’adulto quanto nel bambino l’informazione
sensoriale non è sotto il fuoco dell’attenzione, nel primo caso perché l’attenzione
è rivolta altrove; nel secondo caso perché – semplificando − i sistemi cognitivi
pertinenti non sono ancora compiutamente sviluppati.
Come argomentato estesamente in Paternoster (2009), tuttavia, la dicotomia
blockiana tra coscienza fenomenica e coscienza d’accesso è da respingere, in favore di un unico concetto di coscienza con gradazioni o “intensità” diverse. Nella nozione di coscienza che propongo sono sempre presenti sia l’aspetto fenomenico – il fatto che ci sia un effetto di qualche genere, che ci sia insomma un “sen152
Naturalismo e soggettività
tire” – sia qualcosa di simile a quello che Block chiama ‘accesso’, e che a mio parere è tuttavia da connotare in modo diverso, come la manifestazione a livello
globale, dell’intera persona, dell’informazione sensoriale in questione. In altri
termini, si potrebbe dire che l’intera persona ha un accesso a questa informazione, proprio in quanto l’informazione sensoriale è a lei disponibile come un tutto.
L’idea è che non ha senso parlare di coscienza fenomenica come qualcosa di
completamente separato da un accesso di qualche tipo da parte del soggetto.
Una coscienza senza accesso non è affatto una coscienza, perché dire che un soggetto ha un’esperienza, per quanto questa sia poco intensa e non sia oggetto di
riflessione, è ipso facto dire che ha un accesso di qualche tipo; diversamente ci
sarebbe uno stato fenomenico che “fluttua” liberamente, in modo indipendente
dal soggetto che ne è portatore. Così, nel caso che stiamo discutendo, anche se il
bambino non è in grado di prestare attenzione e concettualizzare la propria condizione, né tantomeno di esprimerla linguisticamente, nondimeno l’avverte, a livello, appunto, personale. Si tratta di un livello di coscienza che potremmo dire
“depotenziata”, “minimale”, nel senso che l’accesso è labile – cioè con effetti cognitivo-comportamentali deboli o assenti del tutto − e fondamentalmente passivo.
È evidente il nesso che sussiste tra questa prospettiva e la tesi secondo cui ci
sono stati di coscienza aventi contenuto non concettuale. L’idea, simile a quella
avanzata in Dretske (1997), è che gli stati in questione sono fenomenicamente
coscienti in quanto hanno un contenuto non concettuale, cioè possono essere intrattenuti senza che il soggetto disponga dei concetti corrispondenti, e di fatto
nei casi citati sono intrattenuti senza l’esercizio dei concetti pertinenti.
La focalizzazione dell’attenzione modifica il grado di accesso, ma resta il fatto che ci sono gradi diversi con cui io posso “ispezionare”, accedere a un “contenuto” di coscienza. È noto a tutti come le persone abbiano capacità molto diverse di dar conto delle proprie emozioni e sensazioni. Almeno in alcuni casi,
questa differenza di capacità corrisponde a una differenza di finezza di discriminazioni di un contenuto: a un bambino un vino sembra uguale all’altro – sono
tutti amari allo stesso modo −, io colgo certe differenze ma non altre, un
sommelier ne coglie tantissime. Insomma posso avere discriminazioni semiconcettuali o pienamente concettuali che corrispondono a stati di coscienza/consapevolezza più o meno “ricchi”.
Nella coscienza ad accesso minimale i soggetti provano un “effetto in prima
persona”, ma non dispongono o non sfruttano nessuna risorsa concettuale per
scandagliare questo stato. La percezione che hanno della loro esperienza è vaga
e confusa. Non sono in grado di comunicare nulla riguardo alla loro esperienza
intrinseca, ma soltanto di produrre il comportamento “appropriato” a
quell’esperienza e alla sua origine causale, per esempio, a un eventuale danno fisico che ha provocato la sensazione dolorosa. E tuttavia si può dire che hanno
una sorta di accesso a qualcosa che capita loro, che capita al loro corpo, una ca153
ALFREDO PATERNOSTER
pacità di accesso che, adeguatamente raffinata attraverso l’interazione col
mondo e soprattutto con gli altri (mi sto ovviamente riferendo al caso umano),
porta i soggetti a sviluppare gradualmente gradi superiori di accesso, fino a ciò
che siamo soliti chiamare ‘autocoscienza’ o ‘senso dell’io’.
La mia proposta consiste dunque nel sostituire alla netta dicotomia di Block
tra due tipi di coscienza una distinzione fuzzy tra una pluralità di stati fenomenici ai quali abbiamo un accesso più o meno “nitido”; tutti questi stati sono, pur
nelle loro differenze di “rendimento fenomenico”, a pari titolo stati di coscienza.
Il concetto di gerarchia di gradi di accesso si sposa bene con le teorie che cercano di spiegare in termini di evoluzione, sia filogenetica sia ontogenetica, la coscienza (ad es. Damasio 1999). La coscienza non è una questione tutto/niente,
ma una questione di gradi. La comparsa dei gradi superiori richiede la presenza
dei gradi inferiori. Il sé, l’io autocosciente è proprio solo dell’essere umano adulto, ma per avere un io bisogna avere un proto-io, sia ontogeneticamente sia filogeneticamente. Il proto-io è fondamentalmente il vivere emozioni/sensazioni.
Riassumendo, non esiste una coscienza che non sia fenomenica in un certo
grado, vale a dire che non implichi l’esercizio di una certa capacità di sentire.
Essere coscienti è in prima istanza avere sentience, provare piacere, dolore e altre
sensazioni “qualitative”. Tuttavia, avere la capacità di sentire, nella mia ricostruzione, è avere un accesso di qualche tipo (“in prima persona”) a certi stati
dell’organismo, per esempio avere accesso a stati di certi recettori; non necessariamente un accesso mediato da ragionamento, verbalizzazione ecc., ma comunque un accesso. Quando l’accesso in questione non si accompagna ad alcun processo “superiore” e non coinvolge l’attenzione volontaria, possiamo parlare di
un grado minimo di coscienza. Neonati e animali superiori sono tipici portatori
di questi stati di coscienza “minimale”, ma anche gli esseri umani adulti possono trovarsi in stati di questo tipo.
Ora si tratta di far vedere che questi stati fenomenici ad accesso minimale, o
di ordine inferiore, sono necessariamente implicati da stati fisici. Ciò significa
che gli stati di coscienza di ordine inferiore sono perfettamente spiegabili scientificamente. Spiegare uno stato di coscienza di ordine inferiore non richiede nulla
di più del determinare la (eventualmente complessa) condizione neurofisiologica
che determina quello stato. In questo senso la coscienza nella sua accezione più
basilare non ha nulla di misterioso, rientra perfettamente nell’ordine dei fatti di
natura.
(ii) Un argomento per la natura fisica della sensazione
Nel primo paragrafo ho argomentato che le credenze, e in generale gli atteggiamenti proposizionali, non sopravvengono agli stati fisici. Si può ammettere, al
più, che le descrizioni funzional-computazionali – queste sì sopravvenienti agli
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Naturalismo e soggettività
stati fisici – siano un’approssimazione molto grossolana delle proprietà mentali
del senso comune. Qui, al contrario, intendo sostenere che gli stati di coscienza
di ordine inferiore sopravvengono agli stati fisici.
Si noti, per cominciare, che non ho remore in questo caso a parlare di stati:
mentre, come ho fatto vedere nel primo paragrafo, non esistono eventi di credenza, sembra del tutto ragionevole sostenere che esistono eventi di dolore. I dolori possono essere istantanei, oppure possono prolungarsi nel tempo, ma, in generale, hanno un inizio e una fine. Insomma, i dolori sono localizzabili nello spazio-tempo (cfr. infra). Questa è una prima condizione minima necessaria per poter ipotizzare relazioni di identità (di token) con stati fisici. Peraltro, non mi
sembra che la tesi della natura fisica della sensazione richieda di postulare alcun
genere di identità tra stati fenomenici e stati fisici. È sufficiente che ci sia
un’implicazione necessaria dai secondi ai primi, il tipo di relazione catturato
dalla nozione di sopravvenienza forte8.
Ora, c’è qualcosa di sorprendente nel fatto che il dolore sia considerato il caso
paradigmatico di sensazione non riducibile. Il dolore non è forse, nella nostra
percezione preteorica, qualcosa di dannatamente fisico? Che cosa ha di mentale il
dolore? Che cosa rende una sensazione dolorosa uno stato mentale? Intuitivamente parlando, il dolore è qualcosa che riguarda una parte del nostro corpo; esso
è cioè strettamente legato, almeno in una grande maggioranza di casi, alla presenza di un danno che ha, verosimilmente, la funzione di segnalare. Inoltre, almeno da un punto di vista fenomenologico, il dolore è collocato nello spaziotempo: non solo provo dolore ora, ma provo dolore qui. Il dolore ci si impone
spontaneamente, anche se possiamo più meno volontariamente focalizzare o defocalizzare l’attenzione su di esso. Queste sono caratteristiche tipiche degli oggetti o degli eventi fisici.
Da dove arriva, allora, l’idea che il dolore sia uno stato (o un processo) mentale? Per quanto posso vedere, le ragioni sono essenzialmente due. La prima è
che elaboriamo cognitivamente ed affettivamente il dolore e questa elaborazione modifica in qualche modo il dolore stesso, ce lo fa sentire di più o di meno, e
in modo diverso. In altri termini, il dolore è qualcosa che entra a far parte del
nostro “flusso di coscienza”, come il pensiero, andando in tal modo al di là di
quelle caratteristiche di pura fisicità che possedeva se considerato, per così dire,
nella sua nuda e primitiva presenza (si pensi, come sempre, al nostro infante affetto dalle coliche). La seconda ragione è che il dolore presenta delle analogie
con forme di sofferenza psichica quali l’angoscia, la tristezza, la depressione, a
loro volta casi paradigmatici di condizioni mentali. Si deve inoltre considerare
che qualunque processo neurofisiologico altamente complesso e sofisticato, quaInfatti i cosiddetti argomenti sui qualia
sono intesi mostrare l’impossibilità
dell’implicazione necessaria non meno che dell’identità; come dire che le due tesi sono del tutto equivalenti dal punto di vista che qui ci interessa, quello della possibilità di una spiegazione scientifica della coscienza (cfr. Chalmers 2003).
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8
ALFREDO PATERNOSTER
le è quello sottostante all’esperienza di dolore (cfr. Aydede 2000), tende a indurre effetti mentali; o forse, più semplicemente, il mero fatto di imporsi alla nostra
coscienza rende mentale il dolore.
Se tuttavia limitiamo la nostra analisi al caso degli stati di coscienza di ordine inferiore, nulla in queste giustificazioni della natura mentale del dolore ne
pregiudica una caratterizzazione fisica: il nostro infante sofferente non elabora
cognitivamente il dolore, e non è né triste né angosciato; semplicemente, ha male (senza “sapere” di avere male). Cerchiamo di dare una veste più rigorosa a
queste intuizioni.
L’idea è che una sensazione grezza di dolore non sia nient’altro che la manifestazione globale (= a livello dell’agente preso nella sua interezza) della codifica, da parte del sistema nervoso centrale, di uno stato fisico di una parte
dell’organismo. O, come si usa dire nella letteratura filosofica, il dolore è il modo
in cui è dato al soggetto un danno fisico all’organismo. Il danno fisico viene codificato, rappresentato dal cervello, e la controparte sistemica di questa codifica
o rappresentazione è la sensazione di dolore. Quando i recettori del dolore (i
“nocicettori”) sono stimolati dalla presenza di un danno, nel sistema nervoso ha
luogo una serie di operazioni il cui scopo può essere identificato in una sorta di
mappatura delle proprietà associate al danno: localizzazione, intensità, genere
(p. es., schiacciamento, puntura, lacerazione). Localizzazione, intensità e genere
sono proprietà che l’esperienza ci comunica, anche se, naturalmente, bisogna
sviluppare certe capacità concettuali per saper “leggere” queste informazioni.
Anche quando questa capacità di lettura non c’è, nondimeno le informazioni
sono già lì, disponibili per elaborazioni ulteriori.
In modo analogo una sensazione visiva è il modo in cui è data a un soggetto
una parte o una proprietà del mondo esterno. Tanto l’esperienza visiva quanto
la sensazione dolorosa sono l’esito di un complesso processo di codifica da parte
del sistema nervoso centrale di un evento rilevato dai recettori sensoriali, evidentemente diversi nei due casi. Questa codifica è a sua volta un processo fisico.
Beninteso, nel parlare di stati o processi fisici, sto usando ‘fisico’ non come sinonimo di “qualcosa di indagato dalla (scienza) fisica”, bensì nell’accezione
grossolana del senso comune, in base alla quale esso è più o meno sinonimo di
‘materialÈ, ‘corporeo’. Volendo dare una veste un po’ più rigorosa alla nozione,
si potrebbe dire che uno stato fisico è uno stato di un organismo identificabile
con i mezzi empirici ordinari delle scienze biologiche. In questo senso più che di
fisico sarebbe meglio parlare di cerebrale o neurofisiologico, ma è chiaro che, dal
punto di vista della questione in gioco, che è la questione epistemologica del
rapporto tra descrizioni fenomenologiche e spiegazioni scientifiche in generale, è
sostanzialmente irrilevante distinguere tra biologico e fisico.
L’analogia tra il caso percettivo e il caso del dolore è significativa, perché,
contro l’opinione prevalente, apre la strada alla possibilità di tracciare una distinzione tra apparenza e realtà anche nel caso di stati come il dolore. Questo è
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Naturalismo e soggettività
importante perché se neghiamo la tesi intuitiva secondo cui qualcosa che sembra dolore è dolore, con ciò stesso rimuoviamo una premessa cruciale di quello
che può essere considerato l’Ur-argument contro l’identità fisico-fenomenica,
quello di Kripke (1980): il collasso della distinzione tra apparenza e realtà è la
ragione fondamentale che conduce Kripke a negare che le presunte identità fisico-fenomeniche siano identità genuine come ‘acqua=H2O’.
L’analogia tra il caso percettivo, specificamente quello della percezione tattile, e il caso della sensazione dolorosa è ben suffragata da prove neurofisiologiche
(cfr. ad es. Aydede 2000; Hill 2005). In breve, in ambedue i casi sono all’opera
sistemi neurofisiologici localizzati in aree ben circoscrivibili ai quali può essere
attribuita la funzione di rilevare e rappresentare certe classi di stimoli, informando l’agente della variazione di certi parametri fisici. Come osserva Hill,
“nella misura in cui si prescinde dai fenomeni emotivi e comportamentali associati
alla consapevolezza del dolore e pensiamo a quest’ultima come alla consapevolezza di uno stato puramente sensoriale, si scopre che anche la consapevolezza del
dolore deve il suo carattere e il suo essere a rappresentazioni nella corteccia somatosensoriale.” (2005, p. 79, corsivo mio). La precisazione espressa dalla parte
in corsivo è cruciale: l’esperienza dolorosa considerata in tutti i suoi aspetti è
una faccenda piuttosto complessa, ma di essa possiamo isolare un aspetto, quello fenomenologicamente cruciale, che può essere certamente descritto nei termini di un’operazione di codifica/rappresentazione di un danno fisico. Come sottolinea Aydede (2000), infatti, l’identificazione di una certa esperienza come
un’esperienza dolorosa è indipendente dal suo aspetto affettivo. Gli stimoli nocicettivi sono elaborati nella corteccia somatosensoriale (oltre che nei percorsi
neurali che dalla “periferia” giungono a questa) da meccanismi altamente specializzati, dedicati all’elaborazione di tali stimoli. Da un punto di vista fisiologico il dolore è fondamentalmente una (sub)modalità sensoriale – come il tatto e
la propriocezione. In questo senso sembra del tutto ragionevole dire che il danno
fisico in questione – per esempio, uno strappo muscolare – è parte costitutiva di
un’esperienza di dolore, nello stesso senso in cui la superficie visibile di un oggetto è parte costitutiva di un’esperienza visiva. In entrambi i casi nell’esperienza
ci sono date alcune proprietà che sono riferite, “agganciate”, a un oggetto o evento che è localizzato: come un oggetto di visione, anche il dolore è sempre “da
qualche parte”, e come un’esperienza visiva può avere più o meno “risoluzione”,
un’esperienza di dolore può essere più o meno intensa. Ne segue che l’esperienza
dolorosa non ha fantomatici contenuti intrinseci, e che si può legittimamente
parlare di un “vero” dolore in quanto opposto a una mera apparenza di dolore.
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ALFREDO PATERNOSTER
Come una percezione falsa assomiglia a una percezione vera, analogamente
un’apparenza di dolore sembra proprio un dolore9.
C’è, beninteso, qualche difficoltà. L’identità (di tipo) tra sensazioni e stati fisici, ma anche la più moderata tesi dell’implicazione necessaria che sto difendendo qui, richiedono un’individuazione sufficientemente precisa dello stato fisico in questione. È ovvio che non è possibile identificare in modo puro e semplice la sensazione di dolore col danno; il candidato all’identificazione è piuttosto il pattern di attivazione nella corteccia somatosensoriale. Ma allo stato attuale individuare questo pattern è molto complicato. A ciò si potrebbe tuttavia
replicare che la tesi della natura fisica della sensazione richiede meramente di
sostenere che l’insieme delle condizioni fisiche che si producono in seguito a un
danno al corpo (ivi incluso il danno medesimo) determinano necessariamente
quella sensazione di dolore S e non un’altra. Contra Kripke, non si dà il caso che,
a parità di condizione fisica, sia possibile provare esperienze dolorose differenti.
Possiamo pertanto asserire che l’ipotesi secondo cui certi stati fisici implicano necessariamente gli stati fenomenici sia quantomeno da prendere in seria
considerazione, con due caveat. Il primo è che spesso parliamo di stati o proprietà fenomenici con un certo grado di idealizzazione; in realtà abbiamo a che fare
tipicamente con processi, cioè con flussi continui di sensazioni spesso complesse.
Il secondo è che i tipi fenomenici necessariamente implicati dagli stati fisici devono essere sufficientemente specifici. Per esempio, bruciore al dito e non dolore
(è chiaro che non possiamo pretendere di identificare il dolore in generale con
uno stato fisico). Peraltro, la natura non concettuale, di “basso livello”, di questi stati rende del tutto plausibile questa assunzione – in generale irrinunciabile
se quello che si vuole è raccordare le categorie del senso comune a quelle di una
teoria scientifica.
(iii) Conclusione: l’io ha una base biologica
Gli stati di coscienza di ordine inferiore sono cruciali per la formazione dell’io.
Essi sono infatti la base su cui vengono costruiti gli stati di coscienza di ordine
superiore, ivi inclusi percezioni e atteggiamenti proposizionali. Senza i meccanismi che danno luogo agli stati di coscienza di ordine inferiore non potremmo avere nemmeno la coscienza di ordine superiore (cfr. Damasio 1999; Metzinger
2003). Più specificamente, ha sostenuto per esempio Damasio (1994, pp. 354
sgg.) i meccanismi fondamentali per la costituzione dell’io sono basati sulle sensazioni di piacere e dolore.
Non intendo spingermi a sostenere che l’esperienza dolorosa si identifichi in modo puro e
semplice con la componente puramente sensoriale del dolore. Questa tesi, del resto, non è necessaria ai fini di difendere il naturalismo metafisico riguardo alle sensazioni “grezze”.
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Naturalismo e soggettività
Un agente capace di questo genere di stati di coscienza può a buon diritto essere definito un io biologico. L’io a cui si fa tipicamente riferimento è ovviamente qualcosa di più, forse anche molto di più; la sua formazione richiede relazioni
interpersonali, teoria della mente, linguaggio, auto narrazione. Tuttavia nulla di
tutto questo sarebbe possibile senza l’io biologico che lo sostiene. In questo senso si può parlare di un io naturale, o di una base naturale dell’io. Il naturalismo
metafisico può essere difeso limitatamente a una classe di stati mentali forse
molto circoscritta ma certamente di assoluta centralità.
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