Il presente contributo propone un commento critico all'opera di G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz (1998) prendendo essenzialmente le mosse dalla personale lettura di P. Levi, utilizzata per verificare l'orizzonte teorico del cosiddetto “paradigma biopolitico” che aveva tracciato in Homo sacer (1995). Dopo una breve digressione circa la misura e il modo in cui Agamben abbia ricavato da Foucault il concetto di “biopolitica”, la cui differenza sostanziale è l’origine genealogica di questo concetto che per Agamben risale all'epoca antica, in un momento in cui lo «spazio della nuda vita, situato al margine dell'ordinamento, viene progressivamente a coincidere con lo spazio politico» e in un modo in cui «esclusione e inclusione [...], bios e zoon, diritto e fatto entrano in una zona di irriducibile indistinzione» (Agamben,1995, p. 12), si giunge al cuore del problema: il Lager è la rappresentazione più compiuta del sistema biopolitico il cui prodotto archetipo dovrebbe essere il “mussulmano”, il “Muselmann”, la forma più compiuta dell'homo sacer, di una “nuda vita” completamente abbandonata a se stessa. In questo contesto, entra in gioco la testimonianza di Levi, che però è utilizzata quasi ad un uso e consumo piuttosto forzato pur di dimostrare la cogenza della tesi biopolitica. Con un accenno al puntuale articolo di Levi della Torre (Una nota critica a "Quel che resta di Auschwitz":
http://www.morasha.it/zehut/sl02_quelcheresta.html), secondo il quale «ciò che resta, è questo modo di Agamben di utilizzare le testimonianze forzandole e falsificandole, piegandole ad un proprio protagonismo di interprete audace, che svelerebbe cose nuove che altri non avrebbero il coraggio di vedere», ci si soffermerà proprio sulla figura del Muselmann, la cui denominazione per il filosofo nasconderebbe radici etimologiche maggiormente compromesse con la storia degli odi fra le religioni piuttosto che quelle fondate sulla corporeità, come Levi stesso argomenta. Con l'aggancio al Muselmann, Agamben sperimenta una filosofia della testimonianza prendendo le mosse da quella leviana presupponendo però una discrepanza fra testimoni perfetti e integrali e introducendo così una semantica squisitamente moraleggiante per un approccio che era iniziato come un’indagine epistemologica, la cui conclusione però tradisce il testimone stesso con l’affermazione che «l'uomo è il non-uomo, veramente umano è colui la cui umanità è stata integralmente distrutta» (Agamben 1998, p. 125). In conclusione, si tenterà con i seguenti mezzi di dimostrare la fallacia dell'interpretazione di Agamben seguendo la filosofia testimoniale di Levi e il suo concetto di “zona grigia”:
1. un approfondimento della dimensione della vergogna, che non può né ridursi né risolversi esclusivamente in una dimensione inglobante della colpa, bensì è un sentimento che nasce dalla consapevolezza di aver assimilato un codice ben preciso, quello di Auschwitz
2. una breve semantica della testimonianza poiché il testes non può e non deve testimoniare tutto perché e nonostante non ha compreso tutto
3. un breve profilo epistemologico del testimone che, una volta presa consapevolezza dei limiti della propria testimonianza, deve iniziare a definire se stesso -- in questo senso sarà molto utile l'appodo di Derrida ne L'istante della mia morte, in cui si sancisce definitivamente come la testimonianza sia un agire che sottende un intenzione esistenziale, etica, politica
4. una critica dell’assunto agambiano secondo cui il mussulmano sia il simbolo assoluto dell'esperienza del lager, non solo perché ciò getterebbe discredito sui testimoni sopravvissuti, alimentando la fucina del negazionismo, ma anche perché si equivocherebbe la figura del musulmano che deve essere assunto come il risultato del processo concentrazionario.